L'Arte Nera

di Nemainn
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Venezia ***
Capitolo 2: *** Il Carnevale ***
Capitolo 3: *** Il Tradimento ***



Capitolo 1
*** Venezia ***




 

Capitolo 
- 1 -
- Venezia -



«Quindi ti dedicherai agli studi classici...»
Andrea, togliendo gli occhi dalla televisione, annuì verso il padre. Quella sera, a cena, l'uomo tornato dall'ennesimo viaggio di lavoro lungo settimane aveva guardato i fogli di iscrizione alla Cà Foscari, una delle più antiche università di Venezia. Aveva scorso le pagine, guardando la facoltà scelta dal figlio, e aveva storto le labbra.
«Storia.» 
Andrea posò la forchetta, nel piatto c'era ancora un po' di purè. Fissò il cibo e decise che non aveva più fame. «Lo sapevi che non avrei mai scelto economia o cose così. Non mi interessano.»
«All'azienda servirebbe quello, Andrea. Hai già un futuro, così, la famiglia..»
«Possono morire tutti.»
Il padre s'incupì. «Non dirlo mai, Andrea, mai! La famiglia è importante, io sono sempre via per lavoro e ho preferito non farti coinvolgere troppo, siamo, beh... non sono stati molto felici del mio matrimonio.»
«Non ricominciare con questa storia, che ce l'hanno con noi perché non hai sposato chi dicevano loro. Cazzo, dai, non siamo più nel medio evo da un po'!»
Guglielmo sospirò. Se solo avesse potuto parlargli davvero della loro famiglia... lui era tra i pochi che sapevano davvero quello che accadeva a Venezia, dove i Giovanni erano la forza che muoveva meccanismi che suo figlio non poteva neppure immaginare. Anzi, lo avrebbe probabilmente preso per pazzo. Da un lato era lieto di aver perso ogni prestigio, questo aveva risparmiato lui, e suo figlio, da un destino simile a quello di suo padre: servo di creature antiche e spaventose, così assoggettato da vederne solo il fascino e il potere, dimenticando ogni altra cosa mentre inseguiva un sogno che non si era mai realizzato. Il padre di Guglielmo era morto, e tale era rimasto, parecchi anni prima quando Andrea era piccolo. Fortunatamente aveva solo tre anni all'epoca e non aveva memoria delle storie che gli erano state raccontate, anche se sospettava che la naturale tendenza della famiglia verso certe arti avesse messo già da tempo radici nel giovane.
«Posso non ricominciare, ma rimane la verità. Non siamo più andati a una cena di Natale in famiglia da quando il nonno è morto. Tutti della famiglia ci vanno, nella grande casa storica ci sono tutti. O almeno tutti quelli che non hanno portato vergogna o fallimenti sulla famiglia.»
Andrea rimase in silenzio, scoccando un'occhiata piena di scetticismo al padre. L'uomo sbuffò e riprese in mano le carte, prendendo tra le dita la penna e iniziando a firmare in silenzio.
«Andrea, se è questo che vuoi, la vita è la tua. Sei intelligente, magari cambierai idea o prenderai una seconda laurea in qualcosa di utile.» Guglielmo posò la penna e guardò intensamente il figlio, apparentemente annoiato dal discorso. «Sarebbe la scelta migliore.»
«Piacere e dovere, storia per il mio piacere, economia per il dovere? Verso la famiglia?» il tono del giovane gocciolava, letteralmente, ironia. «E se volessi invece insegnare storia?»
«Tu? Con la pazienza che hai a spiegare uccideresti qualunque studente in tre minuti, anche meno! Vedi di essere serio, hai diciott'anni, Andrea, e adesso devi iniziare a smettere di puntare i piedi per il gusto di farlo. La zia Sofia comincia a interessarsi di te.»
«Fino a praticamente ieri non facevi altro che sputare veleno sulla famiglia! Cosa diavolo è successo, papà? Fino a qualche anno fa eri tutto “meglio che non ci invitano, sta lontano dagli zii, sono brutta gente”, adesso ci muori dietro la loro approvazione!»
«Facciamo parte di una famiglia antica, Andrea.» Guglielmo palesò un certo disagio giocando con la forchetta nel piatto. Nella grande cucina erano soli, la donna di servizio che si occupava della casa e dei pasti se n'era andata da tempo, lasciando la cena in caldo per loro. La televisione era ormai solo un sottofondo inascoltato. «Ci sono cose che, beh... insomma, hanno iniziato a volerti conoscere. Io non ero molto d'accordo, ma non ho potuto chiudere le porte in faccia agli zii e ai cugini.»
Non aveva potuto era un eufemismo.
Aveva sperato che Andrea crescendo si rivelasse assolutamente normale, invece la sua passione per la storia, la filosofia, le cose più strane, oltre a un'intelligenza notevole, avevan fatto sì che non passasse inosservato. Certo, amava i videogiochi e ogni altra cosa amassero i suoi coetanei, ma si era accorto troppo tardi della sua passione per le cose oscure che contraddistinguevano i Giovanni. La storia, la filosofia, tutto il resto non era che un contorno e lui era stato l'ultimo ad accorgersene. Se si fosse interessato di economia, di numeri, probabilmente sarebbe stato visto in modo diverso. Temeva per Andrea, eppure era conscio di non poter fare nulla, assolutamente nulla.
Aveva tentato già una volta di non seguire il sentiero tracciato dai Giovanni per lui, aveva sposato la donna che amava. Sembrava che con Clara al suo fianco nessun problema fosse insormontabile, che neppure la felicità fosse un traguardo irraggiungibile. Era una seconda cugina che viveva fuori Venezia, veniva dall'altra parte dell'Italia e nulla sapeva delle ombre che infestavano la famiglia. Era bella, pura, con gli occhi di un azzurro così limpido da rivaleggiare con il cielo e con il mare, occhi che Andrea aveva ereditato.
Ed era stato Andrea a far rimandare la sua morte... che lo sapesse o meno, era solo perché aspettava lui che avevano atteso a eliminarla: nessuno poteva disubbidire. Era stata lei a traviarlo, lei avrebbe pagato e, con la sua morte, anche lui.
Controllò l'odio che gli divorava l'anima, evitò di farlo trapelare, ma la sua mano lo tradì e la forchetta stridette contro il piatto.
Fissò i rebbi con aria trasognata, rivivendo per un istante ancora la gioia di loro due che tenevano tra le braccia Andrea.
Poi lei era stata portata via dalla morte. Una fine decisa da qualcuno della famiglia, da qualcuno che lui non conosceva, almeno direttamente. Un nuovo Giovanni era sempre prezioso e avevano atteso vedesse la luce, lasciandolo in pace mentre lo cresceva; poi anni prima, nella grande villa storica di famiglia tra le calli della città, era stato convocato.
Ogni Giovanni era membro della famiglia, ogni Giovanni era fedele a essa, o era morto.
Lui era un Giovanni, suo figlio anche, avrebbe dato ascolto a ciò che gli veniva detto o sarebbe stato inutile e Andrea sarebbe stato cresciuto da qualcun altro, in modo più affine a ciò che ci aspettava da un membro della famiglia.
Lo sguardo di Andrea si fece chiuso, mentre allungava la mano e raccoglieva le carte firmate.
«Già, sì, come dici tu. Però la vita è mia, no? Quindi per ora studio quello che voglio.»
«Mi pare di aver firmato, Andrea. Ho solo detto che spero cambierai idea, non posso neanche più parlare, adesso?»
Il giovane sbuffò, alzandosi. «Tu vuoi che io faccia economia. Punto. Non ti interessa neanche il perché ho scelto storia, tanto tra qualche giorno partirai di nuovo e starai via quanto, quindici giorni anche stavolta?»
Senza dare tempo di replicare al genitore se ne andò dalla cucina, andando in camera sua e chiudendosi la porta alle spalle si buttò sul letto, la faccia sul cuscino.
Possibile che parlare con il padre fosse così difficile?
A volte gli sembrava ci fosse un muro tra loro, cose non dette. Lui non era certo particolarmente loquace ed era certo il padre non avrebbe apprezzato molte cose che faceva a sua insaputa, ma qualcosa gli diceva che neppure lui era esattamente un libro aperto. I suoi cambi di idee, il continuo silenzio su sua madre, sui parenti... non aveva mai visto praticamente nessuno al di fuori di lui della famiglia Giovanni, solo zia Sofia l'anno prima per Santo Stefano. L'aveva sentita discutere con il padre che le diceva che non era ancora pronto per le cene di famiglia. Non che ci tenesse particolarmente, ma cazzo, erano solo cene di famiglia, no?
Cosa diavolo c'era di così terribile in una cena?
Si alzò, andando alla libreria contro il muro, mentre la luna iniziava a intravedersi dalla finestra che dava sul mare Andrea spostò i libri ammucchiati sullo scaffale più alto, rivelando tomi di altro genere. Erano i suoi tesori; il libro dei morti egizio, alcuni volumi di magia Gadneriana, un volume che aveva trovato in una libreria dell'occulto un giorno che era andato a Milano; era un volume del cinquecento, una sua ristampa per l'esattezza, che si chiamava “Rituali Proibiti”. Scritto in latino, senza traduzione, era pieno dei suoi appunti ed era stato lì che aveva ringraziato il padre per averlo spinto a fare il classico.
Quel libro era il più prezioso della sua piccola collezione dell'occulto. Da un lato diceva a se stesso che erano tutte cazzate, eppure avevano su di lui un fascino, una presa che non riusciva a capire. Si trovava spesso a cercare le cose più strane, affascinato dalla morte e dai suoi misteri, ripetendosi che era tutta una sua fissa malata per via della madre morta.
Aveva iniziato molti anni prima, chiedendosi dove andavano a finire i morti, dov'era sua mamma.
I pensieri di un bambino, di un ragazzino troppo solo che aveva troppo tempo per sé, forse.
Si domandava se lo vedeva, se lo sentiva, e le risposte della cattolicissima tata non erano mai riuscite a soddisfarlo. Un angelo che dal cielo lo guardava era certamente bello e poetico, ma possibile fosse tutto lì? Che i morti andavano all'inferno, o in paradiso o, nel caso si dovesse scontare qualcosa di non troppo grave, in purgatorio?
Allora aveva iniziato a cercare nella mitologia e nelle varie religioni antiche e moderne cosa accadeva ai defunti, scoprendo una quantità di posti più o meno credibili, credenze, teorie, e iniziando a naufragare tra di esse attanagliato da quel fascino dai risvolti macabri che avevano.
Aveva cercato di scavare sempre più a fondo, la sua passione per la storia e, in parte, l'antropologia, nasceva da lì. Il mondo era pieno di misteri antichi che erano ancora irrisolti, come la morte.
Il velo che separava i mondi esisteva? O erano lì, in mezzo a loro, invisibili?
Era come dicevano certe mitologie, in cui il confine esisteva e non esisteva allo stesso tempo, o era come sostenevano altre filosofie, che parlavano di luoghi di riposo più o meno sereni e pacifici, separati dal mondo mortale?
Accarezzò il dorso del libro, era una stampa del 1912, probabilmente fatta appositamente per qualcuno e che era giunta fino a lui più di cent'anni dopo. Ancora si chiedeva come fosse possibile averlo trovato in quel buco pieno di libri e soprattutto averlo pagato quella miseria.
L'idea iniziale di continuare la traduzione, però, lo abbandonò. Lo rimise via, celandolo dietro romanzi e libri di genere decisamente diverso, tra cui fumetti e libri di illustrazioni.
Si mise alla finestra, spalancandola e guardando il mare oltre i pochi tetti che lo separavano da esso, la luce della luna che si rifletteva in frammenti sull'acqua nera e il cielo in cui poche nubi vagavano pigre. L'odore salmastro gli riempì le narici e lui respirò profondamente, mettendosi a canticchiare e prendendo in mano un fumetto continuò la lettura da dove si era fermato per cena.


 


L'anno accademico era iniziato da pochi giorni in un Ottobre decisamente caldo e che non voleva abbandonare le ultime luminose giornate autunnali.
Andrea aveva scoperto che la biblioteca dell'ateneo chiudeva poco prima di mezzanotte e, ciliegina sulla torta, la parte umanistica era piena di libri che lo interessavano. Aveva impiegato meno di un minuto a capire che studiare in biblioteca era meglio: certo, all'orario di punta un posto per stare tranquilli era difficile da trovare, ma praticamente nessuno rimaneva fino all'orario di chiusura e lui amava quel luogo. La sua aria antica, l'odore dei libri, il silenzio a volte non era proprio il protagonista delle sale, ma quell'aspetto non lo aveva disturbato poi molto. Amava vagare nella sezione dei libri più antichi, tenuti dietro bacheche di vetro, chiusi a chiave, mentre cercava di capire come poteva ottenere i permessi necessari a prendere in mano quelli che gli interessavano. Per il momento si accontentava di guardare ciò che era accessibile e i file ricavati dalla trascrizione digitale dei libri più delicati. Non c'erano tutti, purtroppo. Alcun erano lì come se fossero solo in mostra e la trovava una cosa offensiva. Aveva però trovato sperduta tra le sale dagli alti soffitti una zona che poteva definire affine all'occulto. Libri che parlavano del culto dei morti, riti di popolazioni ormai perdute dai risvolti necromantici, dei piccoli gioielli a cui si dedicava un po' ogni giorno.
Fu lì che iniziò a rendersi conto che non era l'unico che prendeva volumi da quella sezione, per consultarli in un angolo tranquillo. All'inizio pensò a un altro studente, ma guardandolo con attenzione, attraverso i tavoli che li separavano, Andrea si era reso conto che era molto più probabile fosse l'assistente di un professore.
Non gli diede mai peso, pur vedendolo giorno dopo giorno, mentre novembre arrivava e le giornate diventavano più corte e buie quella biblioteca era diventata la sua seconda casa. Frequentava le lezioni, studiava diligentemente e poi arrivava lì.
Era ormai fine novembre quando andò a sbattere, letteralmente, contro lo sconosciuto compagno di biblioteca.
Stava indietreggiando, con il naso puntato verso gli scaffali più alti, quando gli sbatté contro. Non si era assolutamente reso conto che fosse lì, dietro di lui. Era certo fosse seduto al suo solito tavolo.
«Scusa!» disse imbarazzato. Per evitargli di cadere l'altro lo aveva afferrato per un braccio e, per la prima volta, Andrea lo vide da vicino. Dimostrava una trentina d'anni e in quel volto maturo uno sguardo divertito incontrò il suo, con iridi di un colore così scuro da essere quasi indistinguibile dalla pupilla.
«Tranquillo, ero distratto e non ti ho notato neanche io, o mi sarei spostato.» L'uomo mollò la presa e Andrea annuì, guardandosi attorno, ancora in parte imbarazzato. «Ti vedo qua spesso, anzi più che spesso. Ogni giorno.»
«Beh, se mi vedi sei qua anche tu, no?» borbottò con un sorriso storto.
«Touché. Mi chiamo Federico, tu?»
Guardando la mano tesa, Andrea la prese. Era ghiacciata, ma del resto in biblioteca non faceva caldo, quello era poco, ma sicuro.
«Andrea.»
«Che libro volevi?»
Il giovane riportò lo sguardo sulla mensola. «Cercavo la versione che hanno qua del libro dei morti, a quanto ho capito è una delle prime traduzioni ed è un po' diversa dalle più recenti...»
«Non lo trovi lì, lo ho preso io mezz'oretta fa.» Federico indicò il tavolo dove era stato seduto fino a poco tempo prima. «È lì, vieni? Se aspetti che finisco una cosa te lo lascio.»
«Oh, grazie, ma non ho fretta...»
«Sicuro? Trovo che la traduzione, che a posteriori han definito sbagliata, sia in realtà molto più precisa in certi passaggi di quelle più moderne...» Federico sorrise notando gli occhi del giovane illuminarsi.
«Aspetto che hai finito, allora.»
Si diressero al tavolo e Andrea osservò Federico scrivere degli appunti su un quaderno. Una scrittura ordinata, quasi artistica, come quelle che si vedevano nelle lettere del rinascimento. Guardò l'altro prendere appunti con velocità, in quel modo ordinato e preciso, aspettando.
«Ascolta,» Federico alzò gli occhi dal libro, chiudendolo e porgendoglielo. «Non sono in tanti quelli che apprezzano questo genere di letture e io non ho mai nessuno con cui chiacchierare. Ogni tanto prendiamoci una pausa e andiamo al bar della facoltà, che ne dici?»
Andrea aprì la bocca per dire un no deciso. Non lo conosceva e non ci teneva a conoscerlo, ma nel guardarlo quelle iridi magnetiche sembrarono annodargli la lingua.
«Sì, va bene, volentieri.»
«Allora domani ti offro il caffè!»
Federico mise le sue cose in una borsa mentre Andrea lo fissava come instupidito. Perché diavolo aveva detto sì? Lui voleva dire no... ma in fondo era davvero un problema?, si chiese, guardando l'altro andarsene.
Scuotendo la testa andò a raccogliere i libri e metterli via. Spense il portatile, ficcò tutto nella tracolla e se ne andò, sentendosi in un certo qual modo confuso.


 


Era davanti alla porta della biblioteca, indeciso. Poteva ancora tornare indietro, non farsi trovare, evitarla per qualche giorno e poi declinare il prossimo invito, nel caso ci fosse stato.
Sì, avrebbe fatto così.
«Andrea!» No, lo aveva visto, Federico era comparso da oltre la soglia, con un sorriso sul volto. «Vieni, dai, prendiamoci sto caffè.»
Il ragazzo annuì, seguendo l'altro. «Sì. Tu non sei uno studente, no?»
«Esatto, sono un assistente. Allora, hai dato un'occhiata a quel libro?»
Andrea avrebbe voluto sapere altro di Federico, almeno di chi era l'assistente, ma in pochissimo la conversazione con lui si fece coinvolgente a tal punto da assorbirlo completamente. L'altro era divertente, dissacrante, geniale. Aveva una conoscenza enorme e si trovò presto a pendere dalle sue labbra. Esponeva i suoi pensieri con una libertà mai provata prima, le sue teorie sui collegamenti che le varie usanze avevano, mille cose di cui non aveva mai parlato a nessuno. Quella sua passione era un segreto anche per i suoi amici, in realtà: le poche volte che accennava a certe cose erano prese come la stupidaggine del momento e aveva smesso di parlarne.
Quella libertà d'espressione lo infiammò, mentre discuteva con l'altro che sembrava sinceramente interessato, il tempo passò in un attimo e li buttarono fuori dal bar all'ora di chiusura.
Il giorno seguente si trovarono in biblioteca, ma Federico non gli propose un caffè rimanendo intento alla lettura al suo tavolo. Neppure il giorno seguente, o quello dopo ancora, fin quando non fu Andrea ad andare a cercarlo con una certa timidezza, offrendogli un caffè.
La storia si ripeté e, per i seguenti mesi, i due divennero abituali frequentatori del bar della facoltà almeno una, o due volte la settimana, parlando fino all'ora di chiusura.
Quando le giornate iniziarono ad allungarsi Federico iniziò a presentarsi sempre meno alla biblioteca fino a scomparire. Andrea sentì la sua mancanza, si era abituato ai loro discorsi, a vederlo in biblioteca poco lontano da lui, a un paio di tavoli di distanza, chinato sul suo quaderno. In quei mesi il padre era stato poco a casa e qualche volta aveva pensato di parlargli di Federico, ma ogni volta si bloccava. Come poteva spiegargli di cosa parlavano? In realtà, poi, non sapeva davvero nulla dell'altro, nulla oltre la passione che avevano in comune.
Diede gli ultimi esami, mantenendo la media più che eccellente che lo contraddistingueva, mentre l'anno accademico terminava e lui si trovava a girare con gli amici tra le calli, passando le serate in qualche locale a parlare, ma più spesso a leggere, a casa, studiando gli appunti e le informazioni che aveva raccolto con certosina attenzione. Si trovava sempre più spesso a pensare a Federico, chiedendosi se con il nuovo anno accademico l'avrebbe visto ancora alla biblioteca, quando, una sera, il suo telefono squillò.
Il numero era sconosciuto e perplesso rispose, riconoscendo immediatamente la voce.
«Andrea? Ciao! Sono Federico.»
«Ohi, ciao, ma come fai ad avere il mio numero? Non te l'ho mica dato mi pare...» Andrea si domandò perché mai non li avessero mai scambiati, ma in effetti non ci aveva mai pensato, stupidamente.
«Beh, ho chiesto in segreteria. Mi conoscono, pensavano fosse per cose della facoltà e visto che lo avevano me l'hanno dato. Solitamente non lo hanno, ma credo tu lo abbia dato a qualche docente.»
«Già, non pensavo lo mettessero in segreteria...»
«Un caso, semplice fortuna. Ci ho provato e mi è andata bene. Ma ascolta, se non hai nulla da fare stasera ti va di vederci per quattro chiacchiere?»
«Stasera proprio?»
«Hai da fare?»
«Beh, no, ma sono già le dieci di sera, se vuoi facciamo domani subito dopo cena, così abbiamo più tempo.»
«Cos'è, hai il coprifuoco? Il locale che volevo proporti chiude praticamente all'alba, dai!»
Andrea prese un lungo respiro. Non aveva il coprifuoco, non esattamente visto che il padre, al solito, era all'estero per lavoro. Si erano sentiti già, quindi non avrebbe mai saputo di quell'uscita.
«No, arrivo, dove?»
Federico gli diede le indicazioni per un locale che lui non aveva mai sentito, era in una zona che non aveva mai frequentato e ci mise un attimo a capire come arrivare. Non era lontano, tra piedi e traghetto in meno di mezz'ora sarebbe stato lì.
Si rimise le scarpe, una felpa leggera, e si avviò, infilando le mani nelle tasche mentre tra sé canticchiava. La sera Venezia si svuotava di turisti, le acque finalmente iniziavano a calmarsi e, alla luce di luna e lampioni, i riflessi dei palazzi nei canali creavano l'illusione di un mondo parallelo e magico. Gli piaceva la sua città, l'amava. Nonostante l'odore non sempre buonissimo, le masse di turisti ignoranti e l'ottusità dei concittadini, la trovava stupenda.
Arrivò al locale, trovandolo poco affollato. Sembrava uno di quei pub che ricalcavano un'atmosfera medievaleggiante, con un arredamento a tema. L'insegna recitava “Il dardo e la rosa”, entrando si guardò attorno notando Federico a un tavolo. L'altro nel vederlo si alzò, andandogli incontro.
«Hai fatto in fretta. Vieni, andiamo di sopra, c'è meno casino.»
La musica in effetti era un po' troppo alta per poter parlare tranquillamente e lo seguì lungo delle scale strette, arrivando al piano superiore semi deserto, dove la musica era decisamente meno invadente.
Arrivò una cameriera dagli occhi pesantemente truccati con un sorriso di circostanza sulle labbra e segnò le due birre, tornando poco dopo con l'ordinazione.
Il tempo sembrò non essere mai passato e, dopo poche parole di circostanza, si tuffarono nell'argomento che entrambi amavano.
Andrea parlò senza cognizione del tempo, fino a quando non si rese conto che erano completamente soli nella stanza. Le luci erano basse e solo in quel momento fece caso a come le finestre fossero oscurate. Guardò l'ora sul telefono: erano le due passate.
«È tardi, inizio a essere cotto. Dai, ti saluto.»
«Aspetta, Andrea, prima devo parlarti di una cosa.» Federico gli fece cenno di tornare a sedersi e Andrea ubbidì. «Sai come faccio di cognome?»
«No, in effetti no...» il tono perplesso di Andrea fece sorridere l'altro.
«Mi chiamo Federico di Giovanni.»
«Ah. Cioè, bello... ma perché me lo dici?»
«Ho passato gli ultimi mesi a studiarti per conto della famiglia, tua zia Sofia ha parlato così bene di te che hai attirato l'attenzione di Diego abbastanza da spingerlo a chiedermi di darti un'occhiata e devo ammetterlo, quello che ho visto mi ha piacevolmente soddisfatto. Sei promettente, un fiore raro anche nella nostra famiglia.»
«Tu, tu cosa? Ma cos'è, uno scherzo? E chi è Diego?»
«Diego è... diciamo che è il nostro capo famiglia.» Federico si sporse verso Andrea, quegli occhi così neri da sembrare inchiostro lo catturarono. «Mi hai colpito, Andrea. Mi hai colpito tanto da spingermi a decidere di volerti. Ora, però, lascia che ti racconti la vera storia, quella che solo i migliori della nostra famiglia sanno.
Tu sei un Giovanni, la nostra stirpe è antica, potente, ricca. Ma non è solo questo che ci contraddistingue. La tua passione per ciò che si trova oltre il velo, quello è la nostra peculiarità: siamo necromanti, conoscitori dell'Arte Nera.»
«Me ne vado.» Quella frase costò un enorme sforzo al giovane, deciso ad alzarsi e andarsene, ma quando l'altro parlò, ancora una volta, dovette ubbidire.
«Oh, no, ragazzo. Tu rimarrai qua, ascolterai e infine prenderai la tua decisione.» Federico sorrise, un piegarsi delle labbra predatorio e distante che gelò il sangue al ragazzo. «Vediamo da dove iniziare... ecco. Guardami, guardami bene, non hai mai notato il mio pallore? Le mani fredde? Mi vedi sempre e solo con il buio e questo perché il confine che tu vuoi conoscere a ogni costo io l'ho attraversato e sono tornato. Ma è inutile girarci attorno, sono un vampiro. I migliori della famiglia vengono scelti per ricevere l'abbraccio, così lo chiamiamo, e diventare uno di noi. Tu mi hai colpito così tanto che ti ho voluto. Non passerai del tempo da ghoul, con te sarebbe sprecato. Sei brillante, insaziabile di conoscenza e hai cercato da solo la via della necromanzia. Un ago magnetico che punta verso il suo polo. Sorprendente. Tuo padre ha cercato di proteggerti tenendoti lontano, non pensa che quello che ti offro sia un onore. Non solo la vita eterna, ma la possibilità di apprendere, Andrea. Conoscerai la vera Arte Nera, potrai vedere oltre il velo e conoscere la via che da mortale ti sarebbe preclusa. Certo, qualche piccolo svantaggio c'è, ma lo trovo decisamente inferiore ai vantaggi.»
«Quante stronzate.» Andrea, con uno sforzo di volontà che lo fece sudare copiosamente, si alzò dalla sedia. «Non so che cazzo mi hai fatto, avrai messo qualcosa nella birra. Ma non sono così idiota da credere a queste puttanate!»
La risata di Federico riempì la stanza.
«Sono ammirato, hai una forza di volontà notevole, un umano qualunque sarebbe ancora lì seduto, pendendo dalle mie labbra. Tu, invece, mi stai pure rispondendo. Bene, passiamo a una dimostrazione pratica.»
Come se fosse stato un segnale dalle scale spuntò la cameriera che si avvicinò a Federico, sorridendogli. Lui si alzò in piedi, avendo cura di fare in modo che Andrea vedesse per bene aprì la bocca, dove dei lunghi canini scintillarono. Li affondò nel collo di lei che si irrigidì, trattenendo un grido, mentre il sangue iniziava a macchiarle la pelle. Un sorso, uno solo, poi Federico leccò la ferita, che scomparve.
«Vattene, Chiara.»
La ragazza chinò il capo e se ne andò, mentre Andrea con gli occhi sgranati fissava l'altro, che si leccava le labbra.
«Un trucco, non esistono i vampiri, cazzo...» mormorò con voce che danzava sulle note del panico. Doveva essere stato un trucco. Doveva.
«Cominci a essere irritante, con la tua cocciutaggine, ragazzo. Io ti sto offrendo di essere il mio... apprendista. La vita eterna. Ovviamente è giusto che tu sappia che, nel caso tu declinassi l'offerta, non uscirai mai vivo da qua. Se l'accetterai sarai morto per chiunque. Ho faticato molto a convincere Diego per poterti abbracciare personalmente, troverei estremamente scocciante il tuo rifiuto.»
Una serie di brividi paralizzavano il giovane. L'odore del sangue della ragazza era stato percepibile, ferroso, per un attimo. Non era un trucco, qualcosa dentro di lui lo urlava a pieni polmoni.
La morte o quello che gli veniva offerto? Se era vero, beh... avrebbe rinunciato solo a suo padre. Non che cambiasse molto i loro rapporti, alla fine.
«Non mi stai mentendo.»
«Era ora lo capissi.»
Andrea annuì, mentre l'idea di studiare la necromanzia, di vedere davvero quello che c'era oltre, metteva radici in lui. Aveva voluto quello, da sempre. Così l'avrebbe potuto conoscere...
«Tutto quello che si dice dei vampiri, il sangue, l'aglio, cose così?»
«In gran parte frottole, bugie, stupidaggini. Sì, ci nutriamo di sangue, ma non dobbiamo per forza uccidere. L'aglio, le chiese, in gran parte sciocchezze. Solo i luoghi pieni di vera fede e chi è mosso da essa possono avere qualche potere su di noi e, te lo assicuro, è davvero rara. Tanti blaterano di fede, pochi la hanno. Quindi, Andrea? Accetti?»
Era una cosa stupida, un'idea assurda. Federico era pazzo, oppure era uno scherzo ben architettato.
Doveva andarsene, e subito.
Una parte della sua mente diceva quello, mentre l'altra gli sussurrava, suadente, di accettare. Cosa aveva, davvero, da perdere? Se gli stava mentendo, beh, sarebbe stato lo zimbello per un po', ma se diceva la verità e rifiutava da lì non sarebbe uscito vivo. In nessun caso... solo che in una delle possibilità era meno morto.
«Sì.» 
Federico sorrise, avvicinandosi e scostando con la mano il bordo della felpa gli sussurrò all'orecchio: «Mi sono scordato di avvisarti, il morso di uno di uno della nostra famiglia è maledetto... farà un po' male.»
Con la stessa mano scostò i capelli di un castano scuro, il tocco gelido, mentre Andrea si chiedeva perché non stesse scappando. Perché rimaneva lì, con la paura che gli faceva galoppare il cuore e la mente che gli urlava quanto era stupido, di scappare.
Sentì i denti di Federico affondare nel suo collo e un'ondata di dolore si propagò come fuoco lungo ogni nervo. Non si trattenne, urlò, mentre ogni goccia del suo sangue veniva bevuta dall'altro, prosciugandolo nel tormento, portandolo oltre quel velo che aveva sempre voluto alzare, studiare, conoscere.
Mentre moriva, gridava.
Mentre la vita lo abbandonava dolorosamente, goccia a goccia, riusciva solo a pensare al perché aveva accettato, aggrappandosi a quel desiderio di conoscenza che gli infiammava l'anima.
Poi fu nero.

 

 


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Capitolo 2
*** Il Carnevale ***




 

Capitolo 
- 2 -
- Il Carnevale -


 


Il risveglio, la rinascita, il momento in cui di nuovo “vivo” era emerso dalle tenebre per aprire gli occhi era stato unico. Era estasi, era un risveglio che aveva amplificato qualunque percezione in un'esplosione che lo aveva esaltato. Un viaggio che nessuna droga poteva rendere, eppure non era stato solo quello.
Il suo stesso corpo era cambiato: i piccoli difetti erano scomparsi, la pelle liscia come il perfetto e splendido marmo senza vita di una statua del Caravaggio. Così perfetta da simularla, così vicina alla vita eppure priva della scintilla: una qualunque opera del maestro era l'apoteosi della bellezza e lui, ora, era così. Capiva perché aveva trovato così bello Federico e, solo ora, notava che per parlargli in qualche modo si era in imbruttito per non spaventarlo: la scintillante perfezione di un vampiro era una fiamma che attirava le falene, uccidendole in un'unica vampata di gloria.
Più androgino di quanto lo fosse da vivo, quando già spesso lo scambiavano per una ragazza, Andrea seguiva il suo Sire attraverso le calli; così gli aveva detto che si chiamava il vampiro che ti donava la vita eterna. Gli aveva dato del sangue per nutrirlo e gli aveva iniziato a spiegare i dettagli di quel mondo oscuro, del lato nascosto della sua stessa famiglia.
Aveva bevuto, mentre Federico gli parlava della Bestia che viveva in ognuno di loro, sorridendo freddo e distante, osservandolo. Ora lo stava portando per la prima volta a caccia, facendogli scoprire un mondo uguale eppure così diverso da risultargli alieno: il modo stesso in cui vedeva ciò che lo circondava era radicalmente cambiato.
Gli aveva spiegato la maledizione del loro clan, come il loro morso causasse un grande dolore e di come fossero pochi quelli che lo desideravano, al contrario di quello degli altri vampiri che scatenava estasi e piacere. Lì, dove lui l'aveva portato quella notte, la ragazza che aveva prestato il suo collo al morso era una dei pochi che bramava il morso di un Giovanni.
«Bene, Andrea. Guardati in giro, cerca la preda, affascina e ammalia tanto da convincere chi scegli a seguirti in qualche vicoletto, ma ricorda che urlerà.»
«Come faccio a... beh. Racconterà tutto in giro, no?»
Federico scoppiò a ridere, passando una mano tra i capelli del ragazzo in una carezza lenta e si avvicinò al suo orecchio. «A quello ci penserò io e tu, lì, imparerai i rudimenti della dominazione. Le nostri menti sono più forti, tanto da influenzare gli umani, da comandarli, oscurarne i ricordi e seminarne di nuovi e fittizi» la mano del vampiro finì il suo percorso tra i morbidi ricci, posandosi poi sulla spalla. «Vai, io guarderò da qua.»
Andrea annuì, guardando il locale pieno di ragazzi ammassati che ballavano al ritmo della musica ad alto volume. Era praticamente fuori Venezia, una delle pochissime discoteche della città che potevano chiamarsi a quel modo. Si avviò, i suoi sensi più acuti che rendevano quell'esperienza al limite del doloroso, mentre l'odore di tutti quegli umani lo faceva smaniare. Il loro sangue aveva un odore decisamente invitante, molto, molto più di quello che Federico nei giorni precedenti gli aveva dato dai sacchetti sterili della banca del sangue.
Girò, in parte confuso per quell'assordante bombardamento verso i suoi sensi, decidendo di raggiungere un angolo mentre cercava di acclimatarsi. 
«Ehi, ciao, ma io ti conosco?»
Assolutamente perplesso Andrea fissò il ragazzo davanti a lui a petto nudo con un drink in mano. «Come, scusa?»
«Sì, dai, io ti conosco! Una come te la ho vista e se non te una che ti assomiglia molto, sei di Mestre?»
Con un certo shock Andrea realizzò che l'aveva scambiato per una ragazza e ci stava provando con lui. Sì, aveva bevuto e tanto, ma che l'avesse preso per una donna al punto di provarci lo destabilizzava. Però, d'altro canto, così gli rendeva le cose più facili. Gli sorrise, cercando di mantenere la sua attenzione, protendendosi verso di lui in un modo che era ancora istintivo.
«Può essere, vuoi che usciamo a fare due parole? Qua non si sente niente...»
Sorrise; non capì nemmeno lui come mai l'altro acconsentisse, ma con lo sguardo decisamente più opaco lo seguì docilmente fuori, fino al retro del locale, dove Federico lo raggiunse stando nell'ombra, osservandolo.
Il rumore era assordante, nessuno era nei paraggi, e Andrea avvicinò le labbra all'orecchio di lui. 
Il ragazzo rabbrividì, poi Andrea lo schiacciò con il proprio corpo contro il muro e morse, premendo con la mano sulla sua bocca. Il sangue scivolò in gola, era ricco, denso, meraviglioso. L'estasi lo accese e qualcosa cercò di affiorare. 
«Fermati o morirà.»
Quelle parole arrivarono secche al suo orecchio e Andrea riuscì a fermarsi, mentre si staccava Federico gli ordinò di leccare la ferita, rimarginandola, mentre il ragazzo in stato di shock lo fissava tremando, pallido, tenuto ancora fermo contro il muro.
«Osserva, Andrea» Federico si avvicinò all'umano e gli prese il mento tra le dita, obbligandolo a guardarlo negli occhi. «Sei uscito con la ragazza, vi siete baciati, ma non vi siete spinti oltre. Poi lei se n'è andata. È successo solamente questo, solo questo, è chiaro?»
Lo sguardo si fece appannato, il corpo perse rigidità, e l'umano annuì.
«Bene, ora torna dentro, divertiti.»
Andrea guardò l'umano allontanarsi e poi fissò Federico.
«Insegnami.»
«Oh, ti insegnerò tutto, con il tempo. Torniamo indietro, hai iniziato a pensare a dove sarà il tuo rifugio? Non puoi stare con me per sempre.»
«Sì.» Andrea si grattò la testa, guardando il riflesso delle luci sull'acqua, pensieroso. «Però non so davvero dove poter andare...»
«Beh, per ora starai con me. Mi piace averti attorno...» il braccio del suo Sire gli si posò sulle spalle. «Quindi ti ha preso per una ragazza?»
Se avesse potuto, Andrea sarebbe arrossito per l'imbarazzo. «Era ubriaco.» 
In effetti una leggera euforia l'invadeva, si rese conto che era come ubriaco a sua volta, euforico.
La mano libera di Federico salì, il pollice si mosse con lentezza, scivolando sulle labbra di Andrea in una carezza. 
«La bellezza non ha sesso, dicono. Si trova e si vive, si filtra con i sensi, con gli occhi, con la mente. Tu sei di una bellezza unica, puoi essere quello che ti pare. Uomo o donna, non porti limiti, divertiti e gioca. Illudi chi ti sta attorno, muovili con i fili che tu crei, Andrea.»
Il giovane si ritrasse dal tocco del suo Sire, agitato. 
«Sono un maschio, Federico.»
La replica, secca e asciutta, fece sorridere il vampiro che smise di accarezzare la bocca del suo infante e lo strinse maggiormente a sé.
«La cosa è un limite solo se tu la vivi come tale.»
Camminarono, arrivando al rifugio di Federico in silenzio, mentre Andrea sentiva quella specie di ubriacatura ovattare la sua mente, sembrava rifiutarsi di abbandonarlo. Seguì i passi del suo Sire fino alla porta della stanza da letto di lui, intenzionato a proseguire, ma la presa di Federico non si allentò. Lo bloccò davanti a quella soglia e Andrea si trovò tra le sue braccia, confuso, ubriaco, immobile.
«Seguimi.»
Le iridi nere di Federico divennero il suo intero mondo, mentre il giovane non concepiva neppure l'idea di rifiutare.
Il sangue lo riempiva, dandogli un aspetto vivo, roseo, e Federico lo portò al letto, facendolo sdraiare. Nella mente di Andrea c'era solo lui, il suo sguardo, le sue parole. Vagamente un angolo di lui si rendeva conto che Federico gli stava facendo qualcosa, ma non riusciva a opporsi. Non desiderava farlo.
Le mani del vampiro scivolarono sotto gli abiti di Andrea, facendo cadere la maglia e slacciandogli i pantaloni, sussurrandogli di assecondarlo, di ubbidirgli, e così lui fece.
Perso, senza nessun desiderio se non quello di ubbidire, Andrea si spogliò, rimanendo nudo davanti a Federico che lo guardava, sfiorandolo con dita fredde e delicate.
«Quando ero giovane e umano, molte centinaia di anni fa, conoscevo Giambattista Tiepolo. Ti avrebbe voluto, sai? Avrebbe desiderato immortalarti sulla tela, Andrea. Renderti immortale nella tua bellezza imprimendoti nella memoria di chi sarebbe venuto dopo di lui, ammirando le sue opere. Un angelo, forse. Lo ammiravo al tempo, lo amavo. Frequentavo la sua bottega e spesso bevevamo assieme. Da allora sono passati anni, sono cambiati i tempi, i modi di parlare e i costumi. Gli uomini e le donne però sono sempre uguali. Guardami, Andrea.»
Il giovane obbedì, in balia del suo Sire, soggiogato dalla sua voce, dai suoi occhi, incapace di fare altro se non desiderare di assecondarlo con tutto se stesso.
Venne spinto sul letto, dove rimase, mentre Federico continuava a guardarlo come rapito. Infine l'altro gli si avvicinò, posando le mani accanto alla sua testa si puntellò, sovrastandolo.
«Cosa vedi, in me, Andrea?»
«Mi hai creato... sei il mio maestro. Sei tu che mi insegni e mi insegnerai quello che voglio sapere più di ogni altra cosa.» La voce di Andrea era bassa, trasognata, mentre guardava il suo Sire. «Non pensavo fossi così vecchio.»
«Sei fortunato, Andrea. Ci sono membri di questa famiglia che ucciderebbero chiunque per l'onore che hai ricevuto tu. Io e Domenico ci siamo litigati il privilegio di darti il bacio, sai?»
«...Domenico?»
«Lo conoscerai, lo conoscerai... il 4 non è poi lontano e, del resto, voglio sfoggiarti un po'. Il mio infante. Non credo ti tratteranno un granché bene, fino a quando non sarai presentato ufficialmente, beh... si può dire che tu sia una specie di servo per me agli occhi della nostra società, ma non prendertela. Rimani un Giovanni, Andrea, e uno dei più brillanti degli ultimi secoli.»
Sotto Federico, Andrea si mosse, sentendosi a disagio. La sua mente lottava, si rendeva conto dell'influenza che Federico esercitava, ma non riusciva a sfuggire. 
Ancora una volta lo sguardo del suo Sire lo catturò, rafforzando ancora di più quella rete che lo intrappolava a lui, ai suoi desideri, rendendoli anche i desideri del più giovane.
Le mani di Federico erano fredde mentre scorrevano sulla pelle di Andrea, lusingandolo, piegandolo a ciò che desiderava fare, blandendolo.
Il giovane completamente soggiogato si fece trasportare, ubbidendo e desiderando la felicità del suo Sire, donandosi a lui come non aveva mai fatto o pensato di fare. 
Si abbandonò, addormentandosi in quel letto quando l'alba ormai stava per sfiorare la città lacustre, tra le braccia di chi gli aveva dato una nuova vita.

 

Quando si svegliò spalancò gli occhi di colpo, rimanendo però immobile. 
Ciò che era avvenuto la notte prima gli era perfettamente chiaro in testa e assieme alla vergogna provò rabbia. Era chiaro che Federico l'aveva in qualche modo assoggettato al suo volere. Quello che aveva fatto, il sesso, non era  decisamente quello che avrebbe fatto se fosse stato in sé!
Voltò il capo, il suo Sire non si era ancora del tutto destato. Si trovava tra le sue braccia, stretto in un abbraccio rigido e freddo, che gli metteva solo rabbia. Avrebbe voluto urlargli di lasciarlo, ma si impose la calma.
Non era felice di quello che era successo, di essere stato raggirato e costretto. 
Federico, però, era il suo Sire. Poteva farlo, aveva il potere di dominarlo, volendo. Se avesse fato storie avrebbe solo ottenuto di passare più tempo sotto l'influenza dell'altro, costretto ad agire come una bambola e felice di farlo; a quel modo gli avrebbe tolto la possibilità di imparare, di domandare. Così facendo gli spegneva il cervello e quello non poteva accettarlo. Se il suo Sire si sentiva solo a tal punto poteva giocare a suo vantaggio, poteva magari portarlo a insegnarli di più, più in fretta, ad aprirsi rivelandogli le conoscenze che aveva senza centellinarle.
«Ben svegliato» si limitò a dire, cercando di non far trapelare quello che provava, non appena gli occhi neri di Federico si posarono su di lui.
«Credevo che ti avrei trovato furibondo.»
Andrea inclinò un po' il capo. «Non sono particolarmente felice... non mi è piaciuto quello che mi hai fatto. Potevi chiedere.»
«Avresti detto sì?»
«Non lo so.»
Federico rise, passando la mano tra i capelli di Andrea. «Mi sono risparmiato il disturbo.»
«È un tuo diritto farlo. Però la prossima volta, chiedi.»
«E come mi risponderai?»
«Dirò di sì» Andrea storse appena le labbra. «Almeno potrò fingere di poter scegliere. Non mi è affatto piaciuto...»
«Quale parte?» All'espressione seccata di Andrea, Federico rise, districandosi dall'altro e alzandosi. Tornò a guardare il suo infante, senza però piegarlo alla sua volontà.
«Andrea, vai allo studio. Sul tavolo ci sono dei libri, mi aspetto che tu li studi e al mio ritorno ne parleremo. Sono in latino, questo potrebbe prenderti un po' più di tempo, ma ci sono anche dizionari lì, da qualche parte.»
«Vai via?»
«Un paio di notti, il sangue è al solito posto.»
Andrea si sentì smarrito per un lungo minuto, prima di stringersi nelle spalle e scivolare fuori dal letto, rimettendosi gli abiti del giorno prima.
«Andrea...?» al richiamo il giovane si voltò. «Non uscire per nessun motivo e non dire a nessuno i miei affari. Sono stato chiaro?»
Il tono era stato gelido e il giovane annuì.
«Sì... non esco e non parlo, promesso.»
«Allora vai.»
In parte sorpreso e in parte risentito anche per il tono usato, Andrea lasciò la stanza, andando allo studio dove trovò una decina di libri posati sulla scrivania.
Seriamente pensava potesse studiarli in due sole notti?
Scosse il capo, iniziando quel compito, concentrandosi su di esso per non pensare ad altro.

 

Così cominciò la sua istruzione: Federico andava e veniva e, quando tornava, passavano le notti a parlare di ciò che Andrea studiava, approfondendolo e portando il tutto a un livello superiore. Il suo Sire pareva contento dei suoi studi, dei suoi progressi, della rapidità con cui assimilava concetti e rituali. La volontà di Andrea era forte e determinata eppure Federico rinunciò a sfoggiarlo, tenendolo in disparte e principalmente segregato nella grande casa, dove pur non mancandogli nulla iniziava a sentirsi decisamente stretto.
Doveva sparire per un po' dalla circolazione, gli era stato detto. 
Tutti dovevano crederlo morto. 
Suo padre sapeva la verità, eppure anche lui aveva ricevuto l'ordine di fingere il figlio fosse deceduto. 
Quando il suo Sire tornava dalle sue misteriose uscite, delle volte lo portava fuori, stando ben attento a dirigersi fuori Venezia. Quando poi rientravano, colmi di sangue, lo portava nel suo letto e Andrea ormai aveva accettato quell'aspetto della situazione. Non era una cosa che probabilmente avrebbe cercato, ma si trovava a riconsiderarla: del resto non era affatto spiacevole, se si era in sé.
Inoltre quello alleviava la sua solitudine. Non lo avrebbe mai ammesso, non avrebbe mai detto di desiderare con tutto se stesso un po' di compagnia, di trovarsi sull'orlo di lacrime che non poteva più versare così spesso da vergognarsi di quella sua debolezza. Quando Federico passava la notte con lui a parlare, quando poi rimaneva qualche giorno e apparentemente il prezzo di quella presenza era concedersi, lo faceva di buon grado. Tutto aveva un prezzo, tutto. Anche la compagnia del proprio creatore.
Natale arrivò e la speranza di Andrea di partecipare alla cena di famiglia evaporò come neve al sole. Non era ancora il momento, gli disse Federico mentre usciva dall'antica casa per andare verso la villa. Andrea accettò in silenzio come sempre, chiudendo la porta alle spalle del suo Sire e andavano allo studio, sfogliando annoiato i libri che avrebbe dovuto studiare, guardando le calli fuori dalla finestra, i passanti che si intravedevano dal secondo piano, lo sguardo chiaro perso nei ricordi della sua infanzia.
Passarono altri mesi e una sera, appena svegli, Federico si sedette dall'altra parte del grosso tavolo dove Andrea era solito studiare, osservandolo in silenzio con gli occhi scuri ancora più impenetrabili del solito.
«Domani si terrà una festa per carnevale, al Palazzo Ducale.»
«Andrai?»
Federico sorrise appena al tono neutro di Andrea, che non aveva neppure alzato gli occhi dal tomo che aveva tra le mani. «Andremo.»
Ci volle un lungo attimo, il tempo di un respiro, prima che il giovane assimilasse quella parola.
Sollevò lo sguardo, gli occhi sgranati e increduli, felici.
«Anche io?»
Federico rise, quella manifestazione di gioia trattenuta dalle forti corde dell'autocontrollo che aveva imposto al suo infante erano qualcosa di bello, per lui. «Sì, andremo assieme. Ci saranno membri di famiglia, sia Fratelli che ghoul, e umani. È una festa molto meno formale del Natale, nessuno ti misurerà con particolare interesse. Quella notte ci si lascia andare a vari eccessi, non ti sorprendere di nulla, Andrea.»
Il giovane annuì, un sorriso sulle labbra, mentre le dita si muovevano sulla carta antica del libro davanti a lui in un gesto inconsapevole del suo entusiasmo. Sarebbe uscito, e non per rimanere nell'ombra e cacciare, cosa che non amava particolarmente, ma per parlare. Avrebbe potuto finalmente divertirsi, svagarsi, uscire davvero da quella casa: perché la caccia era un viaggio veloce, si individuava la preda e subito dopo essersi nutriti facevano ritorno. Senza svago, senza nulla che lo distraesse. Federico lo guardava, sembrava divertito.
«Sei così simile a lui...» mormorò.
«A chi?» Andrea inclinò appena il capo e Federico si strinse nelle spalle in un gesto decisamente umano.
«Si chiamava Ludovico, ma è morto circa quattrocento anni fa.» Federico si alzò, dirigendosi alla porta. «Finisci di studiare, non farmi pensare che questo sia in grado di distrarti e quindi pentire della mia scelta.»
Andrea annuì, la porta si chiuse e tornò con lo sguardo sulle pagine vergate in latino, concentrandosi. L'indomani avrebbe finalmente potuto alleviare la sua solitudine; per quanto Federico fosse una piacevole compagnia era più il tempo passato in quell'isolamento che con lui e ormai ammetteva anche a se stesso di patire quella condizione.
La sera seguente si risvegliò con un'eccitazione che non credeva possibile, aprì gli occhi per primo, come al solito, e scese dal letto che aveva condiviso con il suo Sire andando a nutrirsi dalle riserve che avevano in casa. Poco dopo Federico lo raggiunse, gli occhi neri che non lo abbandonavano un solo attimo.
«Vieni.»
Seguendo l'altro salì al piano superiore entrando in una delle camere che non usavano mai e Andrea vide una marea di stoffa distesa su delle sedie. Broccati pesanti e preziosi, ricchi di ricami e pizzi, non sembravano abiti da carnevale, ma autentici abiti settecenteschi.
Federico accarezzò quei tessuti damascati con un'espressione malinconica sul viso.
«Una volta Venezia era diversa... molto. Il carnevale durava mesi e mesi, per il periodo natalizio era sospeso per poi riprendere. Indossavi la bautta ed eri per tutti irriconoscibile, le feste erano ovunque così come l'arte e la musica. Il teatro era una delle mie ragioni di vita, i canti dei più grandi castrati che tutti ascoltavano in silenzio, rapiti, li riempivano assieme a opere di squisita bellezza. Le voci e gli strumenti riempivano case e strade dando alla città una vita mai stanca ed esuberante; poi c'erano le notti passate nei salotti delle cortigiane, a discutere di filosofia o poesia, per poi finire tra le loro lenzuola profumate di sandalo.»
Andrea rimase in silenzio, osservando il suo Sire rapito dai ricordi. Sapeva per caso cosa fosse la bautta, un fitto velo che si metteva sul tricorno che mascherava e rendeva uguali nobili e plebei. Era l'antica usanza del carnevale far sì che mascherasse l'identità di chi l'indossava. Federico prese in mano una giacca di un blu luminoso, damascato, e sorridendo continuò a parlare. «Nei palazzi patrizi non si impediva l'accesso a nessuno che fosse mascherato, i più incredibili eccessi diventavano regola, una volta messo il tabarro, e ricchi e poveri erano uguali. Si vedevano donne di ogni ceto e condizioni, nubili, sposate e vedove, frammischiarsi alle cortigiane. Poiché la maschera rendeva tutti uguali non c'erano impudicizie alle quali non s'abbandonassero con chi le desiderava, giovani o vecchi.»
La voce del suo Sire era cambiata, il tono era divenuto più mellifluo mentre il suo modo di parlare ricalcava il veneziano di più di trecento anni prima. Con uno scrollone Federico sembrò tornare al presente, puntando gli occhi su Andrea che lo guardava a occhi spalancati, affascinato.
«Una vita diversa...»
«Che però è stata l'ultima scintilla di Venezia. Poi i palazzi barocchi non son più stati costruiti, la bellezza è diventata un ricordo così come la vera arte. Ho visto la Vecchia Signora sfiorire e mantenere lo smalto di un passato ricco e meraviglioso solo in superficie, ma qualcosa ancora sopravvive» Federico fece cenno ad Andrea di avvicinarsi. «È ora di vestirsi.»
Con quelle parole le mani pallide del vampiro frugarono tra le stoffe mentre il giovane assottigliava lo sguardo.
«Stai scherzando?»
«È carnevale, Andrea.»
Il giovane fissò l'abito da donna, le ingombranti stoffe, e scosse il capo. «Non ho cambiato sesso mentre non guardavo, sono sicuro di essere un uomo...»
«Quante storie, vuoi venire o no?» 
Andrea storse le labbra. «O così o niente?»
«Esattamente.»
Il giovane fissò il suo Sire con aria afflitta, poi annuì. Le mani di Federico gli riservarono una carezza lungo l'ovale del viso, mentre gli spingeva le ciocche dietro l'orecchio e, pur guardandolo, sembrava vedere altro. Le mani scesero, spogliando Andrea che lo lasciò fare, capendo che qualcosa, in quei gesti, era tanto delicato da non essere davvero rivolto a lui. Accarezzava la sua pelle, ma non lui. 
Chi vedeva, in realtà, il suo sire mentre lo spogliava?
Questa domanda continuava a girare nella mente del giovane, mentre una volta nudo e in piedi davanti a Federico, aspettava.
Come rapito dall'osservazione Federico era immobile e solo quando Andrea si mosse, quasi spaventato da quella fissità, riprese ad armeggiare, facendogli indossare quegli strati di stoffa.
«Gli assomigli terribilmente, sembri un suo figlio... ma non poteva averne.»
Parole mormorate mentre strati venivano indossati e lacci stretti e Andrea si trovava a chiedersi cosa ci fosse in quella mente con sempre più insistenza.
Probabilmente se avesse dovuto respirare quell'abito sarebbe stato un problema, si disse guardandosi all'enorme e antico specchio, macchiato dal tempo, che troneggiava nel corridoio. 
La stoffa pesante, la gonna che sui fianchi era larghissima, tenuta su da un soppalco celato di stecche, il corpetto stretto tanto da far sembrare avesse una vita sottile. Alzò gli occhi al cielo, chiedendosi se davvero voleva uscire così.
Comparve alle sue spalle Federico, entrambi vestivano di blu e nero, con grandi maschere preziose sul volto e bianche parrucche sul capo.
«Carnevale» borbottò con fastidio Andrea, fissando la sua immagine. 
«Sì, andiamo, ora.»
Scesero le scale dell'abitazione antica del vampiro e salirono su una gondola che li attendeva. La manovrava un ghoul silenzioso, mascherato a sua volta, che condusse per portarli a palazzo ducale, mentre la notte di luna piena sembrava rischiarare a giorno, complici i luminari, quelle vie liquide e oscure.
La mano di Federico si mosse, sfiorando il collo nudo di Andrea e scivolando delicata lungo la curva fino alla spalla. Un fiocco di pizzo immacolato circondava delicato la gola del giovane, che girò il capo, fissando in silenzio il suo maestro che ancora una volta guardava lui vedendo qualcun altro.
Era silenziosa quella notte, né Andrea né Federico dissero nulla. Il giovane a disagio, il più antico semplicemente perso nella propria memoria, fin quando non arrivarono davanti al palazzo ducale. Entrarono, attraversando i corridoi dall'opulenza inaudita, guardie e uscieri in costume, servitù vestita nella moda d'epoca, musica di clavicembali e luci che rendevano le grandi sale accoglienti e sinistre allo stesso tempo.
Un uomo alto, dai corti capelli grigi, vestito di nero e scarlatto si avvicinò loro e Federico accennò un sorriso.
«Domenico, non pensavo saresti venuto.»
«Volevo vedere qualche faccia nuova, pare ce ne siano, stavolta» lo sguardo di iride grigie, con quella stessa aria lontana che avevano quelle del suo Sire, si soffermarono su Andrea. «Somiglianza... notevole. Degna di nota.»
Andrea, in silenzio, accolse il gesto di Federico che lo invitava ad allontanarsi e così fece. Vagò tra le sale immense, piene di Giovanni e pochi altri eletti, osservando gli invitati e rimanendo in disparte. L'opulenza di ori e dipinti, di lusso, era meravigliosa, così come era splendido girare in quel luogo come se fosse stato la sua casa e non un museo. Quanto potere aveva in effetti la sua famiglia, per permettersi tutto quello mettendo a tacere ogni dissenso e ogni voce? Quanto lunghe erano le dita della loro autorità?
Si incamminò ai margini di una grande sala, dove la musica settecentesca era seguita da elaborate danze, osservando quel gioco di colori che l'intreccio dei ballerini offriva.
«Andrea?»
Il tono era incerto, ma la voce era inconfondibile.
Con lentezza enorme si voltò, trovandosi davanti il padre. Sembrava invecchiato enormemente, i ricci scuri e corti striati di grigio dove prima neppure un filo chiaro li intaccava.
«I... papà...»
Gli occhi di Guglielmo si inumidirono di colpo, arrossandosi. Prese la mano del figlio, portandolo in una delle piccole stanze e chiudendo la porta alle loro spalle lo fissò. Con lentezza Andrea si tolse la maschera, facendo cadere la parrucca a terra e sentendo le emozioni offuscargli la vista rimase immobile.
«Mio Dio, Andrea, sei davvero tu... credevo, mi avevano detto che... oddio...»
Per la prima volta in tutta la sua vita, Andrea vide Guglielmo piangere. 
Lacrime silenziose in un viso commosso, incredulo, mentre in uno slancio un abbraccio forte lo stringeva e Andrea spalancò gli occhi.
«Non sapevi?»
«Non si può mai credere a quello che dicono.» 
Guglielmo si sedette, osservando quel figlio che pensava perduto e che in effetti lo era, anche se non come gli avevano lasciato credere.
«Hai scelto di diventare uno di loro» non era una domanda, ma Andrea annuì lo stesso. Il padre sospirò, scuotendo piano il capo. «Ho fallito. Ho fatto di tutto perché non ti notassero, perché tu potessi vivere da uomo, farti magari una famiglia, crescere... ho fallito.»
«Ho fatto la scelta che volevo, papà.»
«Hai scelto il potere della Famiglia. Hai scelto di... non vivere.»
«Ti importa davvero?» con un gesto di stizza Andrea si rivoltò contro il padre. «Mi lasciavi sempre solo, non mi pare proprio che la mia vita di interessasse poi così tanto.»
Fu la trasformazione del viso del padre a straziare il cuore di Andrea.
Vide il volto di un uomo che abbandonava ogni maschera, privo di difese, un uomo improvvisamente vecchio che scuoteva disperatamente il capo.
«Avevo promesso a Clara che non ti avrebbero avuto. Le avevo giurato che saresti stato un uomo, libero...»
«Libero di morire?»
«Libero di vivere, Andrea. Vivere sotto il solo, amare, vedere albe e tramonti, frequentare le ragazze, magari sposarti e avere figli. Libero di guardare le stelle sapendo che potevi arrivarci. Un uomo» Guglielmo sussurrava, disperato, fissando il figlio. «So cosa sei, lo so. Mai avrei voluto che tu... fossi così. Avrei dovuto parlarti, spiegarti,  ma mi avresti creduto pazzo. Vampiri, papà, certo, come no, mi sembra di sentirti mentre lo dici. Mi sembra di vederti mentre mi guardi come se avessi perso una rotella» sospirando, l'uomo continuò, gli occhi rossi per le lacrime trattenute. «Tua mamma è morta perché non ho obbedito e ora sai quanto sia vera quella parte. Non volevano la sposassi, avevano già deciso chi sarebbe stata la mia sposa, ma io amavo lei. Era bellissima, dolce, era libera. Quando sei nato ce l'hanno presa, Andrea, e per evitare prendessero anche te ho stretto un patto. Avrei rimediato ai miei errori, avrei servito la famiglia più fedelmente che mai. Ma tu sei troppo intelligente, e mi faceva paura l'idea se ne accorgessero. Non sai quante volte avrei voluto abbracciarti, dirti che ero orgoglioso di te, dei tuoi voti, quando da piccolo tornavi a casa con le lodi delle maestre, o anche più tardi... ma pensavo che se tu avessi creduto che non avevano importanza avresti abbandonato quella tua passione per lo studio. Ho sbagliato, ti ho solo allontanato. Ti ho solo reso così solo da decidere di fare questo...»
Se avesse potuto tremare per le emozioni che gli rombavano nel petto l'avrebbe fatto. Se avesse potuto urlare e piangere avrebbe permesso a tutto quello di venire a galla, ma non poteva.
«Tu... tu eri orgoglioso?»
«Da morire. Sei, eri...sei...» Guglielmo deglutì, «sei la gioia della mia vita, la sua luce. Pensavi davvero non ti amassi, quindi.»
«Sì.»
In quell'unica parola, sussurrata, c'era una vita di dolore a cui Andrea non aveva mai permesso di emergere.
«È solo colpa mia... è solo colpa mia! Avrei dovuto capirlo che non era il modo giusto.» Sospirò. «Avrei tanto voluto trasferirmi con te dall'altra parte del mondo, ma sarebbe stato inutile, L'unica possibilità era che tu ti rivelassi mediocre. Tu, però, sei tutt'altro. Avrei dovuto capire vedendo certi libri in camera tua che non avevo davvero speranze di tenerti con me.»
«Tu sapevi?»
«Che ti interessava l'occulto e il mondo dei morti?» L'uomo annuì, divertito. «Andrea, sono pur sempre tuo padre, non un idiota. Non del tutto, almeno... perché? Cosa ti ha spinto...?»
«Volevo capire dove fosse la mamma»  Guglielmo spalancò gli occhi, quella risposta era molto diversa da quello che si aspettava. Andrea sorrise, scuotendo piano il capo a quella reazione, e continuò. «Era in cielo? Dove? Esisteva ancora da qualche parte? Così è cominciato tutto.»
Nell'improvviso silenzio di quella saletta i due si guardarono, veramente uniti ora che erano per sempre divisi, mentre per la prima volta il dubbio assaliva Andrea. Aveva avuto davvero scelta, però?
Come un animale aveva imboccato ottusamente la strada che gli avevano preparato, inconsapevole, fino al bivio davanti cui lo aveva posto Federico. La morte, o quella non vita?
Del resto la morte non era davvero una soluzione, così aveva iniziato a imparare cose che aveva solo sognato e la sua sete di sapere diventava ogni giorno più grande, invece che colmarsi dalla fonte a cui attingeva.
La porta si aprì e l'uomo che aveva parlato con Federico entrò, sorridendo a entrambi. 
«Andrea, sei qua, ti cercavo per parlarti.»
Guglielmo strinse le labbra, cogliendo l'invito dell'altro. «Allora vi lascio soli, Domenico. A più tardi, Andrea.»
Il giovane annuì, guardando la porta chiudersi alle spalle del padre mentre Domenico gli girava attorno. Alto e sottile, sembrava quasi una gru dai movimenti eleganti mentre lo studiava, mettendolo sempre più a disagio. Lo guardava annuendo tra sé a scatti, serrando le labbra. 
«Ehm... di cosa mi voleva parlare?»
«In realtà volevo solo studiarti. Sei davvero l'immagine speculare di Ludovico, ci credo che Federico straveda per te. Studia, ragazzo, impegnati. Hai un futuro promettente davanti.»
Con uno svolazzo Domenico se ne andò, lasciando Andrea in silenzio, confuso.
Ancora Ludovico.
Girò e rimase nell'ombra a osservare la festa che prese una piega decisamente diversa, indulgendo in eccessi sfrenati. Il sangue iniziò a scorrere riempiendo le vene dei vampiri, che si concedevano sregolatezze tali da riuscire sia a imbarazzarlo che affascinarlo. Umani drogati venivano prosciugati: venivano portati lì, sotto effetto di alcol o droghe, e il loro sangue rendeva ebbri i vampiri che se ne nutrivano, trasformandoli.
Fu lì che Federico lo raggiunse, cingendogli la vita e iniziando a baciarlo sul collo. Era più vivo di quanto Andrea l'avesse mai visto, mentre l'accarezzava e infilava le mani ovunque. Spinse Andrea contro un tavolo, alzando la gonna e infilandosi tra la stoffa alla ricerca di ciò che desiderava.
In preda all'imbarazzo il giovane cercò di fermarlo.
«Federico, non qua, non qua!»
«Da quando sei così pudico?» 
Ebbro e sconsiderato, ignorando il suo infante, il vampiro proseguì tra le pieghe della seta e del damasco, raggiungendo il suo obbiettivo.
«Basta!» Andrea riuscì a togliersi dalle mani di Federico. Non sapeva che fare, reagire, scappare, arrendersi... qual'era la giusta soluzione?
Si guardò attorno e decise di scappare, di tornare a casa. Tra l'orgia in atto in quella sala, tra sesso e sangue, fuggì il più velocemente possibile. Una volta raggiunto l'esterno si guardò attorno, ma non ebbe tempo di fare un altro passo che la stretta di Federico era di nuovo su di lui.
«Non te ne andrai, non ora» la voce del vampiro si era fatta bassa e roca, suadente eppure imperiosa. «Andiamo a casa, se è quel che vuoi.»
«Sì.»
Ringraziando tra sé ogni Santo, il giovane seguì in una corsa sfrenata il suo sire, vedendo per la prima volta la sua vera forza. Più di una volta Federico lo portò con un solo salto da una parte all'altra di un canale, o di un tetto, e in breve furono alla villa.
La stoffa venne lacerata, gettata a terra, mentre le coltri del grande letto a baldacchino si arrotolavano attorno ai corpi dei due vampiri. Più volte il nome Ludovico danzò sulle labbra di Federico mentre Andrea si chiedeva se il prezzo di quella conoscenza che tanto bramava non fosse troppo alto. La solitudine, i segreti, prestarsi a quelle notti di sesso, sentire il suo corpo riempirsi della presenza dell'altro, fingere di non sentire quel nome e di non vedere come non fosse lui in quel letto per il suo Sire. 
Era l'ombra di quel Ludovico, il ricordo di lui che tornava in vita, evidentemente a causa di quella straordinaria somiglianza.
Quando l'alba giunse e con essa il sonno, il giovane le fu grato: poteva abbandonarsi, morire della piccola morte del giorno, e dimenticare.

 


 

 

 


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Capitolo 3
*** Il Tradimento ***




 

Capitolo 
- 3 -
- Il Tradimento -


 

«Sono stato imperdonabile.»
Andrea fissò il suo Sire da dietro il tavolo dello studio, impassibile.
«Chi è Ludovico? Non... non sono geloso. Non mi interessa per quello, ma pare che sia una presenza che vi ossessiona e il mio aspetto fomenta tutto quello.»
«Sei praticamente identico a lui. Qualcosa ti ho raccontato...» Andrea annuì e Federico proseguì. «Era uno dei tanti talentuosi castrati di Venezia, un giovane del popolo privato della mascolinità da bambino, cresciuto nel conservatorio con la musica come unico scopo di vita. L'amava con la passione del più focoso degli amanti, la sua voce era tra le più meravigliose al mio orecchio e mi innamorai di lui dalla prima volta che lo sentii. Tutto, in lui, mi aveva stregato: il suo passo sul palco, le movenze, il modo in cui sembrava guardare dritto nel cuore di tutti. Era poesia fatta carne, era melodia fatta sangue. Era la bellezza profana di un uomo che uomo non è. Mi innamorai perdutamente, Andrea. Il mio cuore mortale batteva unicamente al ritmo delle musiche su cui la sua voce si librava. Venezia era ricca in molti sensi, oro, argento, arte, ma soprattutto di musica: tra le calli, nei viali tra i palazzi e negli angoli delle piazze, ovunque c'erano canti e lui era sempre lì, in quel piccolo teatro colmo come pochi grazie a lui. Ogni personaggio che sul palco interpretava era un successo, il suo aspetto era tale che nei panni di una fanciulla ingannava anche il più attento e cinico occhio. Lo seguivo, di spettacolo in spettacolo, abbeverandomi della sua arte e divenni un suo patrono. Alla fine degli spettacoli ci intrattenevamo assieme e scoprii il suo amore per ogni arte, la sua mente brillante oltre ogni immaginazione, viva come un fuoco e altrettanto luminosa. Era colto, più di quanto potessi aspettarmi, amava i classici latini e sapeva dissertare di Ovidio e Catullo; aveva mani dotate per la pittura e gli feci conoscere il Tiepolo. Tale era la sua bellezza che anche lui ne rimase abbagliato, usandolo come modello per svariate tele e affreschi, in panni così diversi l'uno dall'altro che talvolta era un santo, altre un demonio, in una persino la vergine Maria... quella volta risi di cuore, dicendogli che perfino la madre di nostro Signore poteva celare il peccato, visto il modello» Federico scosse appena il capo, seduto sulla poltrone di pelle guardava il suo pupillo, notando come fosse diverso, stavolta, da Ludovico. La luce dura negli occhi, il portamento che pur essendo elegante era frutto di un secolo fatto di uomini e gesti rozzi e grezzi. Gli abiti moderni, le labbra strette in un'ombra di cupa irritazione. Era altrettanto brillante, altrettanto geniale, eppure la luce che Ludovico emanava sembrava tingersi di toni cupi sfiorando quel suo infante. Andrea era una versione meno solare e ardente di Ludovico, ma non di meno ne era lo specchio. «Io, come ogni Giovanni, conoscevo gran parte dei segreti della Famiglia, ma il più grande tra essi mi era ancora celato in quei giorni. Conoscevo la nostra potenza, la nostra storia, ero fedele alla nostra Famiglia come chiunque vi appartenesse, eppure decisero di rivelarmi il più grande tra i misteri solo la notte in cui il mio Sire mi diede l'immortalità. La mia abilità nella necromanzia, come umano, era già al di là di quella di alcuni infanti, ma non sarebbe mai aumentata fintanto che la mia carne fosse stata mortale e il Velo così lontano da me. Ero solo un uomo e c'era un limite che mai avrei potuto valicare e così mi scelse: mi tolse il sangue dalle vene, si nutrì, mi diede la sua linfa come io feci con te. Ma non era pietoso: era antico, freddo e calcolatore e, per distogliermi da ogni distrazione, al mio primo risveglio, affamato e con la sete che mi rendeva un animale, l'unica fonte di cibo in quella stanza era Ludovico. Mi nutrii di lui fino a ucciderlo, rendendomi conto solo quando era ormai tardi del fatto. Ho ucciso io stesso chi amavo, Andrea, ed è per questo che rivederlo in te mi causa sia dolore che gioia.»
Andrea rimase in silenzio, mentre le spalle si rilassavano e scivolava un po' di più nella grande e massiccia sedia. Alla fine si alzò, la felpa grigia leggermente lisa che sembrava un po' troppo grande per lui per come le mani spuntavano di poco dalle maniche, e si sedette sul bracciolo della poltrona dove Federico, immobile, lo osservava.
«È la somiglianza che crea problemi, quindi? È solo il mio essere così simile a lui che ti ha portato a desiderare di donarmi tu stesso l'immortalità? Per quello mi hai scelto?»
«Non solo. Diciamo che la somiglianza ha fatto sì che insistessi molto per poter essere io ad abbracciarti, ma è stato il tuo talento il fattore determinante. La tua mente, la tua abilità, sono fuori dal comune.»
Andrea annuì, mentre alzava lo sguardo incontrando quello del suo riflesso nell'antico specchio, occhi duri e pieni di ombre che celavano pensieri profondi che venivano sepolti sempre di più nelle pieghe del suo silenzio. Infine sorrise a Federico e, poggiandosi con il fianco contro lo schienale della poltrona, indicò i volumi che aveva sulla scrivania; così iniziarono a parlare della passione che smuoveva entrambi, mentre quella storia veniva sprofondata dentro la mente di Andrea, al sicuro.

 

Erano passati mesi, Natale era arrivato e dimenticato. Aveva partecipato ai festeggiamenti, per poi vedere il cupo inverno diventare primavera e poi estate ancora più d'una volta. Durante una delle festività del 4 novembre, data importante per i Giovanni, finalmente Federico aveva deciso di presentarlo, facendolo entrare a tutti gli effetti nella società dei Fratelli. Andrea si era ormai abituato agli eccessi di quelle feste: li viveva con un certo distacco, sapendo che al rientro il suo Sire sarebbe stato malinconico come sempre, rivedendo in lui Ludovico, e che avrebbe dovuto assecondarlo. Aveva fatto buon viso a cattivo gioco, mentre Federico guardava lui vedendo il motivo per cui aveva fatto di tutto per abbracciarlo lui stesso, fingeva non gli importasse. Ogni volta che in quegli anni si diceva che non era nulla di che, finché poteva attingere alla vastità della conoscenza del suo Sire, però, sapeva che mentiva.
Guardando fuori dalla finestra dello studio Andrea scosse il capo, obbligandosi a tornare con la mente al presente e smettere di rivangare il passato. Il suo Sire era via da diversi giorni, ormai, ed era raro che mancasse di dargli notizie. Non era preoccupato, non ancora, almeno, era certo sapesse badare a sé, eppure era agitato. Le assenze di lui si erano fatte sempre più lunghe e frequenti, così come i suoi silenzi.
Gli aveva detto di rimanere lì, con lui, che non era necessario si trovasse un altro posto dove vivere e lui aveva accettato di buon grado: la biblioteca di Federico era immensa e più che rifornita e rispondeva a ogni suo desiderio di conoscenza, almeno per il momento.
Chiuse il volume in sanscrito, mentre una specie di brivido lo metteva su chi va là: qualcosa non andava bene. Non aveva sentito rumori, ma era improvvisamente certo di non essere più solo. Prima però di poter fare qualunque cosa tre massicci uomini entrarono in volata nello studio, afferrandolo e iniziando a malmenarlo. 
L'iniziale reazione di Andrea, opporsi e contrattaccare, fu fermata dalla logica. Erano ghoul dei Giovanni, se avesse opposto resistenza avrebbe fatto solo danni: qualcosa non tornava, non aveva il quadro completo della situazione. Sentiva la sua carne aprirsi e lacerarsi sotto i colpi e trattenne il desiderio di sanare le ferite per non liberare la bestia che risiedeva in ogni vampiro, mentre sentiva accuse irate che non capiva. Gli chiedevano di Federico, dov'era, lo accusavano di tradimento, di aver violato i sacri segreti della famiglia, di averli venduti. I colpi piovevano impietosi e la confusione, e la paura, erano tenute a bada solo dalla volontà del giovane che si appellava a essa con tutta la sua forza per non liberare il mostro irrazionale che viveva in lui, come in ogni altro vampiro, per non lasciarsi andare a quelle tenebre e perdersi, giocandosi probabilmente la vita e ogni possibilità di salvezza.
Gli misero un sacco in testa, chiudendolo ben stretto e ovattando il mondo attorno a lui mentre lo trascinavano, pesto e malconcio, per le braccia. Per il giovane ci fu solo buio e dolore, fino a quando non si sentì scaraventare su un pavimento e con uno strattone rude il cappuccio gli fu tolto.
Si trovava in una stanza grande, così opulenta da essere fin troppo piena di elaborati accessori e orpelli, di preziosi, tele antiche di bellezza tale da commuovere una pietra e ogni genere di bellezza che mani mortali, e forse immortali, potevano creare. Andrea si guardò attorno senza riconoscere il luogo notando, davanti a lui, ai lati di un tavolino che ospitava una massiccia scacchiera di madreperla, un uomo e una donna che non riconobbe, mentre poco lontano, su una poltrona, Domenico leggeva un libro. 
La donna fece un'espressione di disgusto vedendo Andrea sul pavimento, osservandolo come si poteva guardare un insetto sgradevole. 
«Vi siete forse bevuti il cervello? Così rovinerà il tappeto!» 
L'uomo alzò gli occhi al cielo e si rivolge ai tre energumeni che avevano ridotto Andrea in quello stato pietoso. 
«Mettetelo su una sedia» ordinò con voce pacata.
Il giovane venne sollevato di peso e messo senza troppe cerimonie su una pregiata sedia in noce. 
La donna guardò l'uomo, stupita, ed esclamò in tono offeso: «Lo fai anche accomodare? Pensavo lo dovessi uccidere!»
A quelle parole Andrea sgranò gli occhi, facendo scorrere lo sguardo sui tre Fratelli davanti a lui. Ucciderlo? Cosa aveva mai fatto per meritarsi ciò? 
«Perché prima non provate a domandargli qualcosa per capire se è coinvolto?»
La voce di Domenico, quasi annoiata, si levò. Con aria distratta girò una pagina, non aveva neppure sollevato gli occhi dal libro.
«Ovvio che è coinvolto» ribatté la donna. «Inutile girarci attorno.» 
L'uomo soppesò tra le mani un pezzo della scacchiera, osservando poi Andrea con attenzione. Non aveva l'aria di qualcuno coinvolto, aveva uno sguardo smarrito, spaventato. Era troppo giovane per aver già assimilato certe doti dei più anziani e decise di dargli una possibilità.
«Hai idea del perché sei qui?» gli chiese, mentre con un gesto automatico si passava la mano tra i corti capelli bianchi. Andrea strinse le labbra, agitato, osservando quel Fratello sconosciuto che dimostrava, all'apparenza, una sessantina d'anni. 
«Gabriele, questa è un'assurdità!» Esclamò la donna, stizzita, per zittirsi non appena l'altro alza una mano in un gesto secco e chiaro. 
«Lascia che parli, Annamaria» il suo sguardo si portò su Andrea. «Allora?»
«Immagino che il mio Sire abbia fatto qualcosa, ma io sono allo scuro di tutto» la mente del giovane lavorava febbrilmente: cosa aveva mai potuto fare, Federico? Si impose di stare calmo, di pensare, mentre si drizzava. Aveva pur sempre un orgoglio e una dignità.
«Certo, lui non sa nulla!» L'ironia gocciolava dalle parole della donna, mentre con il cavallo mangiava l'alfiere di Gabriele.
«Dov'è Federico?» domandò l'uomo, spostando un pedone e facendo così apparire per un istante un sorriso sul volto di Annamaria.
«Non lo so...» Andrea aveva lanciato degli sguardi a quella stanza mai vista, ma quelle ricchezze così ostentate gli facevano pensare a un solo luogo, un posto di cui il suo Sire gli aveva parato: il Mausoleo. Uno dei luoghi più protetti e in un certo senso sacri, della famiglia. «Non ho idea di dove sia o di cosa abbia fatto. O credete abbia fatto.»
«Scacco!» La voce della donna era squillante come la tromba del giudizio universale mentre spostava la torre. A quel punto si alzò, avvicinandosi ad Andrea con aria irritata.
«Non cercare di prenderci in giro, piccola nullità! Fai a malapena parte della famiglia, sei solo un inutile peso!»
Lo sguardo di Andrea si accese di rabbia e la voce di Gabriele interruppe la donna.
«Calma, calma, Annamaria. Non essere così dura. Il ragazzo ha ottime doti, in realtà. La tua è solo invidia perché lui, quasi ai margini della nostra famiglia, destreggia l'Arte Nera molto meglio del tuo pupillo di Unico Sangue, che ha ben due anni più di lui...» l'uomo mosse, mangiando la torre con un piccolo sbuffo. «Vieni qua a finire la partita, anche se perderai in quattro mosse.»
«Quattro mosse...?» Voltandosi e raggiungendo la scacchiera la donna si mise a studiarla con attenzione, mentre Gabriele si alzava, avvicinandosi ad Andrea.
«Se Andrea dice di non sapere dove sia Federico io gli credo, puoi assicurartene tu stesso.» Domenico, in tono deferente, si rivolse a Gabriele che a quelle parole assottigliò lo sguardo, mettendo due dita sotto il mento di Andrea per costringerlo a guardarlo negli occhi.
Quella sensazione gli era conosciuta, Federico aveva usato su di lui quella capacità in passato. Andrea detestava quella forma di obbligo, che dominava la sua mente e lo costringeva ad abbandonare ogni difesa, ubbidendo ciecamente e senza nessun controllo a ciò che gli veniva detto. 
«Raccontami del tuo Sire e di quello che ha fato negli ultimi tempi.»
Costretto a dire tutto quello che sapeva da quegli occhi, da quel potere che odiava e che gli imponeva l'obbedienza, Andrea iniziò a parlare, obbligandosi a mantenere un tono calmo e distaccato.
«È stato via spesso. Fin da subito, capitava che fosse assente per tutta la notte, a volte un paio di notti. Non era molto frequente inizialmente, anche se non si è mai fermata negli anni. Ma negli ultimi mesi la cosa è diventata la normalità. Lo vedo pochissimo e, quando c'è, è distratto. Io... io però non mi sono mai permesso di chiedergli nulla: è il mio Sire, non ne ho certo il diritto...» fermandosi per un istante a pensare, il giovane poi proseguì. «Tornava stanco, con troppa fame, cupo. Mi lasciava compiti di piccola entità da svolgere per lui, conti, cose così, mi dava libri da studiare e poi, la notte successiva, spariva di nuovo. Non ho davvero idea di dove andasse o cosa facesse, anche se me lo sono chiesto... davvero pensate che mi sarei messo a spiare o interrogare Federico?»
Mentre parlava i pensieri del giovane erano sempre più cupi e venati di rabbia. Il suo Sire in quale immenso guaio lo aveva cacciato? Lo aveva abbandonato lì a pagare le conseguenze delle sue colpe, davvero aveva fatto ciò?
Lo aveva tradito fino a quel punto?
Sapeva benissimo che solo l'intervento di Domenico, che aveva spinto Gabriele a indagare, forse l'avrebbe salvato. Eppure non era detto che l'estraneità ai fatti lo mettesse al sicuro.
Non appena lo sguardo di Gabriele lasciò gli occhi di Andrea, il giovane sentì la sua mente e il suo corpo nuovamente liberi.
«Il tuo Sire ha insegnato l'Arte Nera a un esterno della famiglia. Ci ha tradito ed è fuggito, insultando con la sua slealtà tutti noi.»
Andrea spalancò la bocca, sconvolto. 
«Ha fatto cosa...?» disse in un soffio, angosciato. Quella era la prima, più grande e assoluta regola: non si insegnava al di fuori della famiglia e, anche all'interno di essa, solo a chi ne veniva ritenuto meritevole e degno.
«È progenie di un traditore! Che paghi lui, per iniziare!» il sibilo furioso di Annamaria interruppe Gabriele; la voce di Domenico, però, ancora una volta si levò in difesa del giovane.
«Reputo sarebbe un errore. È giovane, promettente. Federico lo ha sempre tenuto in disparte rispetto alla Famiglia, ma sono convinto che se ne avesse la possibilità, Andrea farebbe tutto ciò che è in suo potere per onorarci come si conviene.»
«Quindi dovrei permettere alla progenie di un traditore che merita solo di morire, di calpestare il suolo della nostra amata Venezia? »
«Perdonatemi se mi intrometto...» la rabbia animava Andrea. Il tradimento di Federico, nei suoi confronti e in quelli della Famiglia, aveva acceso in lui l'odio. La sua voce era bassa, decisa, mentre guardava negli occhi Gabriele. «Sono estraneo al delitto del mio Sire, non sono colpevole di un simile tradimento! Quello che ha fatto è giusto sia punito, ma avete avuto ogni prova della mia estraneità... datemi la possibilità di dimostrare la mia fedeltà alla nostra Famiglia! Non vi chiedo il perdono, ma una possibilità, di meritarmi ciò che vi domando.»
«E perché dovrei fidarmi di te?»
«Garantisco io, per lui.» Domenico parlò, posando il libro che aveva tenuto tra le mani fino a quel momento.
«Tu?» Gabriele si voltò, squadrando l'altro con attenzione. «Ti faresti carico di una simile palla al piede?»
«Sono certo che sarà in grado di fare strada.»
«Te lo chiedo ancora una volta, ne sei certo?» Alla domanda, Domenico annuì. «E allora sia. Solo perché sei vicino a Salvatore e durante le sue assenze sei la sua voce qui al Mausoleo. Il neonato è bandito dalla città, vi potrà tornare solo se...» si voltò verso Annamaria, «qual era quel dominio dove gli spiriti sono agitati?»
«Bologna» rispose lei. 
Gabriele si voltò ancora una volta verso Andrea. «Solo se riuscirai a stabilire un'enclave all'interno del dominio di Bologna. A quel punto valuterò nuovamente la tua posizione. Sei d'accordo?»
Andrea annuì, non era una vera scelta. O accettava quella sfida, tutt'altro che semplice, o sarebbe morto lì, probabilmente per mano dello stesso Gabriele.
«Sono onorato della possibilità che mi volete concedere» disse senza abbassare gli occhi, aggrappandosi all'orgoglio per non iniziare a urlare e bestemmiare per quell'idiozia. Come poteva fare una cosa simile? Era un esilio, una punizione che lo tagliava fuori da Venezia e dai suoi studi. Un modo di tenerlo in disparte, probabilmente un'esca per il suo sire. Non era possibile credessero davvero lui fosse in grado di fare ciò e, a essere sinceri, lo dubitava lui stesso. «Farò del mio meglio, e porterò a termine la missione che mi avete affidato.»
Gabriele annuì, facendo poi un gesto brusco con la mano. «Sbattetelo fuori da Venezia.» 
Domenico sgranò gli occhi: «così su due piedi?»
«Se è in gamba come dici se la caverà.» 
Domenico strinse le labbra e sollevò Andrea di peso dalla sedia, rivolgendo uno sguardo ferreo a Gabriele. 
«Me ne occupo io.»
Lo trascinò fuori e recuperando la sua ghoul le ordinò di portargli delle scorte. Il giovane penzolava letteralmente tra le sue braccia, sporco e con gli occhi pieni di rabbia. In breve tempo la ghoul fu di ritorno con delle sacche di sangue che Andrea prosciugò, curandosi e riprendendo le forze.
Domenico valutò per tutto il tempo il giovane: aveva scommesso su di lui, mettendo in gioco la sua reputazione e probabilmente anche di più. Si chiese se Andrea dovesse sapere anche un'ultima cosa e infine decise che dirgliela, lo avrebbe rafforzato nei suoi intenti. O spezzato.
«Sono andati a prendere anche tuo padre, quando sono arrivati da te» Domenico fece una lunga pausa in cui Andrea lo guardò, senza battere ciglio, in attesa. «Dovevano dare un esempio, sembrava fosse coinvolto. A quanto pare aveva prenotato dei viaggi per Federico, svolgendo per lui una serie di pratiche per permettergli di viaggiare. Tuo padre è morto.»
Il silenzio sembrò calare sulla mente di Andrea.
Sapeva che sarebbe sopravvissuto al padre, era ovvio. Logico.
Però era stato ucciso per colpa di Federico, del tradimento del suo Sire.
L'odio che al tradimento subito era nato in lui divampò ferocemente, mentre il suo sguardo diveniva affilato e duro.
«Ucciderò Federico. Lo troverò e lo ucciderò. Ha tradito me, la Famiglia, ha causato tutto questo... il mio è un esilio, chiamalo come vuoi, ma quello è. Non potrò più procedere nello studio dell'Arte Nera, non ho neppure potuto dire addio a mio padre.» 
Quell'ultima frase, quella vestigia di umanità, sembrò quasi scuotere Domenico.
«Riuscirai, tornerai, e allora io stesso ti insegnerò, Andrea.»
Guardando la sua ghoul, Domenico sospirò. «Simona ti porterà a prendere il primo treno per Bologna, rimarrà con te fino a lì. Nutriti di lei e concentrati sulla tua missione. Così su due piedi è tutto quello che posso fare.»
«Grazie.»
«Andate, ora.»
Andrea annuì e infilandosi una maglia pulita portata dalla ghoul la seguì, osservando con occhi nuovi la sua Venezia. 
L'avrebbe rivista, decise.
I Giovanni avevano agito, uccidendo suo padre per complicità.
Non si poteva tradire la famiglia, eppure era certo che ogni atto di tradimento da parte del padre non fosse voluto. Poteva essere stato tratto in inganno.
Dubitava che si fossero sprecati a indagare un minimo per un mortale, soprattutto uno che già aveva disubbidito in passato.
Avrebbe trovato Federico, gli avrebbe estorto la verità e l'avrebbe portato davanti la famiglia, lui o la notizia della sua morte e sarebbe tornato lì, alla sua città.
A qualunque costo.


 
Fine

 
 


 

 

 


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