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Lista capitoli: Capitolo 1: *** Capitolo 1: The end of every story *** Capitolo 2: *** Capitolo 2: The voyage of the fallen *** Capitolo 3: *** Capitolo 3: Deceiver of fools *** Capitolo 4: *** Capitolo 4: Poems by God *** Capitolo 5: *** Capitolo 5: No hero *** Capitolo 6: *** Capitolo 6: Our Neverworld *** Capitolo 7: *** Capitolo 7: War paint *** Capitolo 8: *** Capitolo 8: The demons from my dreams *** Capitolo 9: *** Capitolo 9: Cherish my memory *** Capitolo 10: *** Capitolo 10: Who's gonna save us? *** Capitolo 11: *** Capitolo 11: I'll always be here until the end *** Capitolo 12: *** Capitolo 12: Lost *** Capitolo 13: *** Capitolo 13: In Remembrance *** Capitolo 14: *** Capitolo 14: Babylon *** Capitolo 15: *** Capitolo 15: Hand of sorrow *** Capitolo 16: *** Capitolo 16: The dream is still alive ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1: The end of every story ***
SHADOWS AND LIGHTS
Capitolo 1: The end of every story
Do you know we reached somehow the end of every story
Welcome to the final show it’s here in all its glory
You can run but all you flee is a life of sorrow
Time will tell what kind of fate will be waiting for
us now.
(“The end of every story” – Xandria)
All’inizio
aveva pensato che fosse divertente, spassoso.
Terrorizzare
e torturare a morte quel maledetto Principe che si era permesso di portare il
contagio a palazzo e aveva così fatto ammalare Sua Maestà Re Carlo sembrava la
cosa giusta da fare.
Era
stato proprio lui a trascinare il ragazzo nelle segrete e ad affidarlo a un
paio dei suoi uomini perché si divertissero a straziarlo e, in effetti, era
stato spassoso vedere il Principe scoppiare a piangere come un moccioso
qualsiasi.
In
tutta la sua vita aveva visto più massacri di quanti potesse ricordare e non
aveva battuto ciglio quando i suoi soldati avevano sventrato donne e bambini,
perché sarebbe dovuto essere diverso adesso?
Eppure
era stato diverso.
Non
subito, no. Inizialmente era rimasto indifferente come sempre alle urla
disperate del giovane Principe e alle sue richieste di pietà. Si era limitato a
sovrintendere alla faccenda e a controllare che tutto andasse come
prestabilito.
Poi,
però, qualcosa era cambiato. Il ragazzo aveva perso i sensi e lui, il Generale
dei francesi, il comandante in capo dell’esercito di Re Carlo, si era fatto
avanti per dargli il colpo di grazia; il dottore, però, l’aveva fermato.
“Non
potete, mio signore, io… ho l’ordine di rianimarlo” gli aveva detto l’uomo, con
l’espressione di chi avrebbe voluto essere in tutt’altro luogo.
“Rianimarlo?
E perché mai? Sua Maestà desidera che muoia.”
“Sì,
mio signore, ma… ecco… mi ha ordinato personalmente di… insomma, di… prolungare
la tortura il più possibile” era stata la risposta del dottore. Sembrava
devastato, probabilmente perché conosceva il Principe Alfonso da anni, anzi,
magari l’aveva persino visto nascere e adesso…
Il
Generale era rimasto spiacevolmente sorpreso. Non aveva niente contro la
tortura, tutt’altro, la considerava un mezzo infallibile per ottenere
informazioni e confessioni, ma quel Principe che cosa avrebbe mai avuto da
confessare?
Perplesso,
era ritornato al suo posto e aveva lasciato che il dottore facesse quanto gli
era stato ordinato, ma aveva continuato a provare uno strano senso di disagio,
che si era acuito ancora di più quando la tortura era ripresa.
Il
Generale non era affatto turbato dalla crudeltà, ma, generalmente, questa aveva
sempre uno scopo ben preciso.
Togliere
di mezzo nemici e avversari, estorcere confessioni, ricavare informazioni, ottenere
un buon bottino di guerra, ricattare qualcuno… ma quel ragazzo non aveva più
nessuno al mondo, non deteneva il benché minimo potere e aveva perduto il suo
regno. Non c’era motivo di tormentarlo così. Se doveva morire, gli avrebbe dato
lui stesso il colpo fatale, altrimenti…
“Basta
così!” ordinò perentorio. Gli aguzzini del Principe si fermarono, sorpresi. Il
giovane aveva perso i sensi una seconda volta e il Generale chiamò il dottore.
“Invece
di limitarti a rianimarlo, curalo meglio che puoi e poi fallo trasportare nella
mia stanza. Ho avuto un’idea che desidero discutere con Sua Maestà e, per
questo, il ragazzo ci serve vivo” spiegò. Poi, con passo deciso, si avviò verso
il salone dove Re Carlo stava ancora presenziando ai festeggiamenti.
“Che
succede? La festa nelle segrete è già finita?” ribatté il Re, deluso.
“E’
proprio di questo che vorrei parlarvi, ma è una questione delicata e… sarebbe
meglio che tutta questa gente non ascoltasse.”
Il
sovrano si guardò intorno con espressione disgustata.
“Beh,
non avete sentito? Levatevi dai piedi tutti quanti, non voglio più vedervi
qui!” ordinò.
In
pochi minuti il salone si svuotò e rimasero soltanto il Re francese e il suo
Generale.
“Molto
bene. Di cosa volevi parlarmi, Generale?”
“Con
il vostro permesso, mio sovrano, desideravo rivolgervi una domanda: è davvero
necessario che il Principe Alfonso muoia?”
“Direi
proprio di sì” replicò Re Carlo, “e che muoia male, anche. Non vedi come mi ha
ridotto? Ha riempito tutta la città di Napoli e questo castello con la piaga
della pestilenza e adesso la deve pagare!”
“Vi
assicuro che è già stato punito, l’ho visto con i miei occhi e sono certo che
non si azzarderà mai più nemmeno a pensare
di tentare qualcosa contro la vostra persona. Ma mi chiedevo… è pur sempre un
Principe e un discendente della casata aragonese. Non sarebbe per voi più
prudente tenerlo in ostaggio? Gli italiani vi sono nemici, il papa Borgia vi ha
ingannato sperando che il contagio vi uccidesse e, forse, proprio in questo
momento sta organizzando un’alleanza con altri Stati per muovervi guerra.”
“E
allora? Li sconfiggeremo. Il nostro esercito è infinitamente più potente di
qualsiasi loro stupida alleanza!” replicò sdegnato il sovrano.
“Naturalmente,
Vostra Maestà, ma il vostro esercito è anche stanco e avrebbe bisogno di un
periodo tranquillo per godersi il bottino” insinuò abilmente il Generale.
“Cosa
c’entra in tutto questo il Principe Alfonso?”
“Mio
sovrano, è un ostaggio prezioso per assicurarvi pace e tranquillità in questo
Regno: nessuno oserà muovere guerra contro di voi finché avrete tra le mani il
Principe di Napoli” fu la pronta risposta.
“E
se invece fosse il contrario?” obiettò il Re. “Se qualche stupido signore di un
inutile staterello italiano avesse la malaugurata idea di minacciarmi proprio
perché tengo il Principe in ostaggio?”
“Vostra
Maestà, ho detto che il Principe Alfonso sarebbe un ostaggio prezioso dal punto
di vista della diplomazia, non che sarebbe così
prezioso” precisò il Generale, con una punta di malizia. “Ritengo oltremodo
improbabile che qualcuno sia così pazzo da rischiare la vita e i propri uomini
per liberarlo…”
Re
Carlo sembrò pensarci su per qualche istante, poi prese la sua decisione.
“E
sia, tiralo fuori da quelle camere di tortura e teniamolo come ostaggio. Ma, se
dovesse tentare qualche nuova diavoleria, la responsabilità sarà solo e
soltanto tua, questo sia chiaro!” dichiarò.
“Mi
occuperò io stesso di lui in tutto e per tutto e vi assicuro che da lui non
avrete mai più fastidi” giurò il Generale, soddisfatto di aver ottenuto quanto
desiderava.
Il
Generale si recò nella sua stanza, che fino a poco tempo prima era stata
proprio la camera del Principe Alfonso. Il dottore aveva fatto del suo meglio,
lavando personalmente il ragazzo e ripulendo e medicando tutte le sue ferite.
Quando il Generale francese giunse in camera, il Principe era steso sul letto,
con vesti pulite, mentre il medico gli bendava il polso destro; non appena vide
l’uomo, il dottore si inchinò rispettosamente.
“Mio
signore, ho fatto tutto quello che mi avete chiesto” disse. “Ora il Principe ha
bisogno di riposo e tranquillità.”
“Molto
bene. Puoi andare, allora.”
I
due, però, avevano fatto i conti senza il Principe Alfonso che, vedendo chi era entrato nella stanza, aveva
raccolto le pochissime forze che gli rimanevano e aveva tentato di alzarsi dal
letto, per fuggire, buttarsi dalla finestra o chissà che altro. Non aveva
dimenticato che era stato proprio il Generale a condurlo a forza nelle camere
di tortura…
“Principe,
no, non fate così, vi farete del male” tentò di calmarlo il dottore,
prendendolo delicatamente per le spalle e riadagiandolo sui cuscini. “Non
abbiate timore, il Generale mi ha chiesto di curarvi e portarvi qui, non c’è
nulla di cui aver paura.”
“Hai
fatto il tuo dovere, dottore, ora puoi andare, mi occuperò io del Principe”
ripeté il Generale.
Il
dottore, seppure a malincuore, chinò il capo in segno di saluto e uscì
lentamente dalla stanza, cercando di non pensare allo sguardo disperato che gli
rivolgeva il ragazzo, supplicandolo con gli occhi di non lasciarlo solo con il
suo aguzzino.
Quando
la porta si fu chiusa, il Generale si sedette sul bordo del letto e cercò di
avviare una conversazione con il giovane.
“Va
meglio adesso, Principe?”
Sconvolto
e terrorizzato, il ragazzo non trovò di meglio da fare che buttarsi dal letto e
trascinarsi contro la parete opposta, dove si appiattì nel vano tentativo di
scomparirvi dentro.
“Eh,
no, non devi fare così” disse il Generale, rialzandosi e avviandosi verso il
giovane ostaggio. “Se dovrò occuparmi di te, è necessario che impariamo ad
andare d’accordo.”
Ma
più il Generale si avvicinava, più il Principe si trascinava lungo la parete,
con l’inutile speranza di sfuggire a chi lo aveva condotto alle camere di
tortura e lo aveva guardato straziare.
“Lasciatemi
andare, vi prego, lasciatemi andare” gemette il giovane, in un mormorio roco e
ricominciando a piangere. Aveva perso la voce a furia di urlare disperatamente
durante i supplizi subiti… “Non farò niente, vi prego, vi prego…”
Il
francese si inginocchiò accanto al Principe e lo prese per le braccia, con l’intenzione
di rialzarlo da terra, ma la reazione del ragazzo fu ancora più terrorizzata.
“No,
no, basta, basta, per favore, non fatemi più del male, farò il bravo, lo giuro,
vi prego…” supplicò, tentando di divincolarsi.
Finalmente
il Generale sembrò capire che, forzando il Principe a fare qualsiasi cosa,
avrebbe ottenuto il solo risultato di spaventarlo ancora di più; del resto, era
stato proprio lui a trascinarlo verso gli arnesi di tortura e quella situazione
poteva sembrare molto simile. Eppure qualcosa doveva pur fare…
La
soluzione più efficace gli parve quella di prendere il ragazzo tra le braccia,
contenendo il suo frenetico dibattersi, e cercare di parlargli in tono pacato e
tranquillizzante.
“Non
ti farò del male, non sono qui per questo” spiegò. Sentendosi imprigionato, il
Principe Alfonso aveva smesso di dibattersi e si era accasciato a piangere
silenziosamente; il Generale sperò che almeno il senso del suo discorso
arrivasse alla mente sconvolta dall’orrore del ragazzo. “Ho chiesto io al
dottore di curarti, ora sei un ostaggio, un ostaggio importante per Sua Maestà
e nessuno ti farà del male.”
“Cosa?”
mormorò il Principe, lo sguardo stranito, le guance rigate di lacrime. Tuttavia
pareva che le ultime parole avessero sortito un certo qual effetto su di lui.
Il
Generale lo sollevò di peso, senza sforzo, e lo depose a sedere sul letto, poi
gli si mise accanto per chiarire la situazione e dettare le condizioni.
“Sua
Maestà era molto in collera con te per la pestilenza che hai portato nella
città e nel castello e che lo ha fatto ammalare” iniziò il comandante
dell’esercito reale.
“Come?
Ma io non… come avrei potuto…” tentò di difendersi il ragazzo, cadendo dalle
nuvole.
“Adesso
non cominciare con le menzogne, altrimenti mi pentirò di averti salvato” lo rimbeccò
subito il Generale, facendolo sussultare e raggomitolarsi di nuovo su se
stesso, in preda al panico. “No, non voglio spaventarti, Principe, ma vorrei
che tutto fosse chiaro e sgombro da equivoci. Dunque, Sua Altezza ha sfogato in
modo forse eccessivo la sua ira su di te, ma devi ammettere di averlo provocato
non poco.”
Alfonso
di Napoli poteva pure avere tanti difetti, ma non gli mancava uno spiccato
istinto di autoconservazione, perciò valutò in pochi secondi che la cosa
migliore sarebbe stata annuire e lasciar parlare il militare francese.
“Ecco,
bravo, vedo che cominciamo a intenderci. Lo sdegno di Sua Maestà è stato tale
da portarlo a dimenticare la prudenza e la diplomazia e a soddisfare soltanto
la sua sete di vendetta, senza valutare quanto, invece, tu saresti stato
importante per la sua causa” spiegò il Generale.
Sì, la diplomazia
non è sicuramente la dote più spiccata di Sua Maestà, pensò Alfonso, ma
si morse la lingua prima di aprire bocca. La lezione gli era bastata e non
sarebbe stato tanto idiota da rovinarsi con le sue stesse mani. Di nuovo annuì,
docile.
“Sei
un Principe della casata degli Aragona e, secondo le pretese aragonesi al trono
di Napoli, ne saresti anche il legittimo sovrano. Sua Maestà, come discendente
di Maria d’Angiò, rivendica il regno e ha ottenuto l’investitura dal Papa in
persona. Pertanto, averti dalla sua parte porrebbe il definitivo sigillo sulla
sua incoronazione a sovrano di Napoli e nessuno, né in Italia né in Spagna,
potrebbe opporsi. Noi francesi non abbiamo certo paura di combattere, ma in
questa situazione, con il sovrano debole e ammalato e l’esercito bisognoso di
riposo, una guerra contro la Spagna sarebbe deleteria. Ed è qui che entri in
gioco tu, Principe.”
Il
giovane Principe era sfinito, enormemente provato dalle torture subite e faceva
fatica a tenere gli occhi aperti, perciò aveva a malapena seguito le
chiacchiere del Generale. Sentendosi chiamato in causa, però, si sforzò di
stare attento, temendo che anche una minima mancanza da parte sua avrebbe significato
per lui la ripresa di ciò che era stato interrotto.
Avrebbe
accettato qualsiasi cosa pur di evitare di essere riportato nelle camere di
tortura…
“Se
ti dichiarerai disposto a riconoscere la legittimità e la giustezza delle
rivendicazioni di Sua Altezza e ti mostrerai come il Principe sconfitto e
sottomesso, potrai restare a palazzo come ostaggio e sarai trattato come si
conviene a un prigioniero del tuo rango” concluse, soddisfatto, il Generale.
“Qual è la tua risposta, Principe?”
Se volete dire che
non state per torturarmi ancora, per me va bene qualunque cosa…, fu il pensiero
che attraversò la mente esausta di Alfonso. Troppo sfinito per parlare, si
limitò ad un altro cenno di assenso col capo.
“Molto
bene, sapevo che saresti stato ragionevole” commentò il Generale, compiaciuto.
“Ancora una cosa: Sua Altezza mi ha incaricato di occuparmi di te, di tenerti
sotto la mia custodia e di vigilare affinché tu non tenti qualche altro
intrigo, nel qual caso, com’è ovvio, finiresti di nuovo…”
“No!”
esclamò il ragazzo, sbarrando gli occhi atterrito. “Farò tutto quello che
volete, tutto, soltanto non… per favore, non…”
“Non
ce ne sarà bisogno, allora, meglio così per tutti. Ora devi riposare e
domattina starai meglio e potrai presentarti a Sua Maestà per dichiarare la tua
completa disponibilità a riconoscerlo pubblicamente come legittimo sovrano di
Napoli” riepilogò il Generale.
Non vedo l’ora…, disse dentro di
sé il Principe. Ma che importava, ormai? Era prigioniero dei francesi e, se
solo non avesse rigato dritto, sapeva che cosa lo aspettava. Qualsiasi cosa,
qualunque umiliazione era preferibile a quello che gli avevano fatto. Se ne
sarebbe fatto una ragione, pensò raggomitolandosi nel letto che, in fin dei
conti, era sempre stato suo.
Però…
c’era una cosa che non gli tornava.
“Voi…
resterete di guardia qui?” domandò, vedendo che il Generale non accennava a
lasciare la stanza.
“In
un certo senso” rispose l’uomo, sistemandosi a sua volta nel letto del
Principe. “Visto che sei sotto la mia responsabilità, d’ora in poi non dovrai
allontanarti a più di cinque passi da me. Anche questo fa parte dell’accordo.”
“Ah…
sì, va bene” mormorò Alfonso, mostrandosi docile e sottomesso ancora una volta.
Poi, vinto dalla stanchezza e dagli orrori subiti, si lasciò cadere in un benefico
torpore.
Prima
di addormentarsi pensò, confusamente, a che cosa altro esattamente mirasse quel Generale francese con tutti quei discorsi
sul tenerselo a non più di cinque passi…
Che m’importa? Se
significa che non sarò più straziato in quel modo, possono chiedermi quello che
vogliono,
concluse prima di cedere, finalmente, al sonno.
Capitolo 2 *** Capitolo 2: The voyage of the fallen ***
Capitolo 2: The
voyage of the fallen
Come on a voyage with us
Too long we’ve roamed these
waters
We’ve blown our hearts
down
Our homeland we’ve forgotten
All we’ve known is gone now.
(“The voyage of the fallen” – Xandria)
Non
era pensabile che un’esperienza così orribile com’era stata quella del Principe
Alfonso non lasciasse su di lui delle conseguenze. Il ragazzo era riuscito ad
addormentarsi, esausto, ma dopo due ore si svegliò gridando disperato, in preda
a incubi spaventosi nei quali riviveva quegli atroci supplizi.
Il
Generale, che giaceva accanto a lui, si destò di soprassalto e tentò di
calmarlo, posandogli una mano sulla bocca, stringendolo e parlandogli in tono
pacato.
“Calmati,
Principe, è solo un incubo, è tutto finito” gli disse, piano. “Non urlare così
o penseranno che ti stia sgozzando… basta, adesso, calmati. Nessuno ti farà più
del male.”
“Voi…
voi mi avete fatto male, mi avete trascinato laggiù, mi avete picchiato!” gridò
di nuovo Alfonso, divincolandosi e non riuscendo evidentemente a distinguere il
passato dal momento attuale. Tutto era eternamente presente per lui.
“Adesso
basta, quello che ti è successo è stata la giusta punizione per il tuo
misfatto” replicò l’uomo, prendendolo per le spalle e scuotendolo leggermente,
“ma, se d’ora in poi ti comporterai bene, non avrai più niente da temere, mi
hai capito?”
Quelle
parole gelarono il sangue del Principe, ma allo stesso tempo servirono a farlo
tornare in sé. Di nuovo Alfonso annuì, cercando di dominare la paura e
l’angoscia che lo invadevano; si lasciò scivolare sul letto e tentò di
riaddormentarsi, sperando con tutto il cuore di non avere altri incubi… o,
peggio, che i suoi incubi non tornassero a presentarsi nella realtà.
Il
Generale lo guardò mentre riprendeva sonno. Si accorse del polso destro bendato
e rammentò in che modo il Principe si fosse fatto quella ferita: tentando
disperatamente di sfuggire alle torture, aveva cercato di sfilarsi le manette e
il ferro gli aveva tagliato la carne quasi fino all’osso. Ancora una volta si
rese conto di quanto Alfonso fosse giovane e indifeso e un pensiero gli sorse
spontaneo alla mente.
E’ solo un ragazzo
spaventato. Di sicuro l’idea di infestare Napoli con una pestilenza e di
infettare il Re non è venuta da lui. Il Principe si è limitato a mettere in
atto ciò che il papa Borgia gli ha suggerito di fare, perciò ha già pagato per
le sue colpe. Adesso sarà quel maledetto Borgia a pagare, è lui la causa di
tutto!
Il
mattino successivo, il Generale ordinò al dottore di prendersi nuovamente cura
del Principe Alfonso e di medicarlo con attenzione.
“Io
vado a parlare con Sua Maestà e gli anticiperò la tua visita” disse, rivolto al
ragazzo. “Poi tornerò a prenderti e ti accompagnerò al suo cospetto. A quel
punto tu farai atto di sottomissione e chiederai perdono per tutto il male che
gli hai causato, ti dichiarerai disposto a riconoscerlo come legittimo sovrano
di Napoli davanti all’Italia intera, non avrai più nulla da temere e sarai
tenuto a palazzo come un ostaggio di alto rango.”
Chiedergli perdono
di che cosa?, si chiese il
Principe, ma non disse niente e si limitò ad annuire ancora una volta.
Più
tardi, il Principe era stato nuovamente curato e medicato di tutte le sue
ferite, aveva potuto lavarsi e vestirsi con gli abiti adatti alla sua
posizione. Era stato bello sentirsi, almeno in parte, quello di un tempo dopo
la fuga disperata sulle pendici del Vesuvio, la sporcizia, le vesti lacere, la
fame e poi… quelle torture orribili, oscene. Però adesso, solo nella sua stanza
mentre attendeva di essere scortato al cospetto di Re Carlo, Alfonso cominciava
a riflettere sulla sua situazione e capiva che non c’erano speranze per lui,
che non aveva vie di uscita e che si trovava completamente in mano ai francesi.
Il Re francese è
convinto che sia stato io a propagare la peste a Napoli e a farlo ammalare… è
forse pazzo? Se solo avessi un tale potere non sarei certo qui in questo
momento… eppure ne era tanto sicuro che mi ha fatto straziare senza pietà. Chi
mi assicura che, se faccio quello che vogliono, mi lasceranno vivere in pace?
Non c’è un modo sicuro… quello potrebbe alzarsi una mattina e decidere di farmi
morire tra le torture solo perché piove invece di esserci il sole! No, non
posso restare in loro balia… ma che altro posso fare?
Quei
francesi non rispettavano niente, non riconoscevano né il diritto feudale né le
leggi della cavalleria, erano dei barbari venuti dal Nord, brutali e senza
scrupoli. Lo avevano catturato e trattato come un comune malfattore, lui, un
Principe della casata aragonese! Lo avevano trascinato a forza nelle camere di
tortura, senza alcun riguardo per il suo rango o per la sua giovane età, poi lo
avevano messo in mano a degli aguzzini che gli avevano… Alfonso tremava al solo
ricordarlo. Non poteva restare con loro, avrebbero potuto fargli ancora una
cosa simile o anche peggiore per puro divertimento, erano più crudeli delle
bestie… Immerso in questi pensieri angoscianti, il Principe era arrivato senza
nemmeno accorgersene davanti alla finestra della sua stanza e si era sporto
giù.
Perché no? Un salto
nel vuoto e sarebbe finito tutto…, pensò, salendo sul davanzale.
“Principe,
ma che stai facendo?” la voce del Generale, entrato nella camera, lo fece
trasalire, tanto che per poco non cadde giù davvero. “Avanti, scendi di là, Sua
Maestà ti sta aspettando e non è un uomo paziente.”
Il
ragazzo si voltò, pallidissimo e con gli occhi pieni di lacrime.
“Non
voglio venire! Il Re mi ha fatto torturare e voleva farmi morire in mezzo a
mille patimenti! Non mi fido di lui, mi farà di nuovo del male senza motivo” esclamò,
disperato.
Il
Generale sospirò e provò a fare qualche passo avanti: ci voleva davvero una
pazienza infinita con quel ragazzino viziato e arrogante, non gli aveva già
spiegato almeno dieci volte che non gli sarebbe più stato fatto del male?
“Sai
benissimo per quale motivo Sua Altezza ti ha voluto punire. Si è ammalato per
colpa tua, ma adesso…”
“Non
sono stato io, come ve lo devo dire?” gridò il Principe, fuori di sé. “Io non
ho fatto niente e voi invece mi avete
fatto delle cose orribili, oscene, delle cose che non possono nemmeno esistere
nelle leggi di Dio e degli uomini! Siete solo dei barbari!”
“Fingerò
di non averti sentito, Principe, ma adesso scendi da quel davanzale e vieni con
me da Sua Maestà” ripeté il Generale, a metà tra il seccato e il divertito,
muovendo qualche altro passo verso il giovane.
“No,
non vi avvicinate! Mi butto, mi butto giù!” minacciò Alfonso.
Il
comandante francese scosse il capo con un sorrisetto ironico.
“No,
non lo farai” dichiarò, tranquillo.
“Voi
che ne sapete? Non mi conoscete, non sapete niente di me. Io mi butto giù!”
“Se
avessi voluto, l’avresti già fatto” tagliò corto l’uomo, che non voleva far
attendere il suo sovrano per i capricci del Principe. “Va bene, se proprio
insisti ti aiuterò io. Una bella spinta e sarà tutto finito.”
“Cosa?”
trasecolò Alfonso, mentre il Generale si avvicinava e lo afferrava per un
braccio, fingendo di volerlo spingere nel vuoto. L’istinto di conservazione
ebbe la meglio e il giovane si aggrappò convulsamente alle braccia dell’uomo, artigliandogli
la veste, spaventato ora dalla prospettiva di essere buttato giù. “No, no, non
voglio, vi prego…”
Senza
il minimo sforzo, il francese lo trasse a sé, tirandolo giù da quel famigerato
davanzale e scoppiando a ridere.
“Visto?
Lo sapevo che non l’avresti fatto” disse, compiaciuto. “Adesso basta con le
sciocchezze e andiamo da Sua Maestà. Dovrai chiedergli perdono per la
pestilenza che hai scatenato e, a questo punto, anche per averlo fatto
attendere.”
“Io
non ho fatto niente” insisté il Principe, continuando ad aggrapparsi
affannosamente all’uomo.
“Sono
convinto che l’iniziativa non sia stata tua, bensì del papa Borgia:
probabilmente aveva già pianificato tutto fin dall’inizio, ha mostrato di voler
incoronare pubblicamente Sua Maestà come sovrano di Napoli e, nel frattempo,
mandava dei sicari con qualche veleno perché diffondessero la peste nella
città. Quei Borgia sono bravi con i veleni… tu hai solo collaborato al piano di
quel maledetto e sei stato punito per questo. E’ di questa scellerata collaborazione
che dovrai chiedere perdono a Sua Maestà, ma non temere, anche il Borgia avrà
la sua punizione e ben più severa della tua.”
Il
Principe Alfonso non sembrava affatto convinto, tremava ancora e aveva lo
sguardo smarrito al solo pensiero di presentarsi nuovamente di fronte a Re
Carlo, ma aveva capito che non serviva a nulla protestare. Dal canto suo, il
Generale cominciava a provare una sorta di attrazione sempre più intensa nei
confronti di quel giovane che, nonostante le apparenze, in fin dei conti
dimostrava di essere inesperto e spaventato, intrappolato in qualcosa di
enormemente più grande di lui. Quando lo teneva così vicino, come in quel
momento, avvertiva desideri particolari mai provati in precedenza per nessun
altro. Doveva ammettere che era anche per quel motivo che si era dichiarato
disposto a occuparsi di lui e di tenerlo costantemente sotto la sua tutela…
Re
Carlo si trovava nella sala del trono e aveva preso il posto del defunto Re
Ferrante, tanto per chiarire a tutti chi era che comandava adesso. Quando
Alfonso vi giunse, accompagnato dal Generale, rimase avvilito nel vedere il
sovrano francese al posto del padre e ancora peggio fu notare la sedia vuota
alla sua destra: quello era il posto che occupava sempre lui durante le udienze
e ora, invece…
“Chi
si rivede!” commentò Re Carlo in tono sarcastico, rivolgendosi al ragazzo.
“Dobbiamo ammettere che, adesso che ti vediamo ben vestito e ripulito, una
certa qual aria da Principe ce l’hai.”
“Mio
sovrano, il Principe Alfonso è qui per presentarvi le sue scuse e dichiarare la
sua totale disponibilità a riconoscervi quale legittimo e unico Re di Napoli”
affermò il Generale.
“Ne
siamo lieti” replicò il sovrano. “Bene, allora parla, Principe, stiamo
aspettando. Ma forse non sei abbastanza comodo lì dove ti trovi? Preferiresti
accomodarti qui, dove eri solito sedere quando il Re era tuo padre?”
Era
crudele da parte del Re francese insinuare una cosa simile, non solo perché
ricordava al giovane Principe tanti momenti felici ormai finiti per sempre, ma
ancor più perché proprio la sera precedente lo aveva invitato a sedere a tavola
alla sua destra e Alfonso si era illuso che questo fosse un buon segno… salvo
poi scoprire che lo stava soltanto prendendo in giro e che il suo vero intento
era trascinarlo nelle segrete e farlo torturare a morte.
Il
Principe si morse il labbro inferiore per cercare di frenare le lacrime che gli
erano salite agli occhi e, per tutta risposta, scosse il capo.
“Non
vuoi sederti qui? Come preferisci, Principe. In fondo hai ragione, questo non è
più il tuo posto. Anzi, a dire il vero avevamo pensato ad un’altra sistemazione
che sarebbe stata molto più adatta a te, ma poi il nostro Generale ci ha
convinti a cambiare idea. Peccato, perché sarebbe stata perfetta…” continuò il
sovrano, caustico.
“Vostra
Maestà, ne abbiamo già parlato” intervenne il Generale, vedendo che Alfonso era
sempre più pallido e spaventato. “Io ritengo che sia molto più favorevole per
voi e per la vostra tranquillità prendere i giusti accordi con il Principe. Avete
già l’investitura papale e, quando anche l’erede del casato aragonese vi avrà
riconosciuto come legittimo sovrano di Napoli, nessuno potrà discutere in
proposito.”
Il
Re assunse un’espressione annoiata.
“Va
bene, va bene, pensiamo prima ai doveri e poi al divertimento” disse. “Dunque,
Principe, cosa hai da dire in proposito?”
Il
giovane, intimorito dalle allusioni maligne del Re, aveva dimenticato tutto
quello che gli era stato consigliato. Rivolse uno sguardo disperato al Generale
che lo incoraggiò con un cenno del capo.
“Come
prima cosa il Principe desiderava presentarvi le sue scuse, non è così?” suggerì
poi.
“Ah…
sì” mormorò Alfonso, chiedendosi se per caso dovesse essere lui a scusarsi per essere stato
torturato… “Vostra Altezza, domando il vostro perdono per… per aver… perché vi
siete ammalato per… colpa mia…”
“Non
sei affatto convincente, lo sai, vero?” ribatté il Re, divertendosi nel vedere
il terrore suscitato nel Principe dalle sue parole. “Tu hai avvelenato tutta la
tua città, d’accordo con quel papa depravato, con l’intento di far morire noi e
tutto il nostro esercito di peste. E’ questo che volevi dire?”
Ancora con quella
storia… ma crede davvero che io sia in grado di provocare la peste a mio
piacimento? Cosa pensa che sia, uno stregone?, pensò Alfonso, ma poi si affrettò
a rispondere in ben altro modo.
“Sì,
Vostra Altezza Reale” disse, cercando di tenere il più possibile ferma la voce.
“E’ stato un… un piano di papa Alessandro e io… io ho dato il mio consenso.”
“E
adesso sei sinceramente pentito di quello che hai fatto? Ti rendi conto di che
cosa hai provocato? Ti rendi conto di aver tradito il tuo stesso popolo?”
incalzò Re Carlo, sempre più compiaciuto.
“Io…
sì, me ne rendo conto, sono desolato, sono pentito” continuò il Principe,
disposto a dire qualunque idiozia avessero voluto sentire pur di sfuggire al
pericolo sempre più incombente di essere nuovamente punito. “E’ stato un atto
infame, ve ne chiedo perdono.”
“Dunque
ritieni che la punizione sia stata giusta e adeguata ai misfatti che avevi
compiuto?” insisté il sovrano.
No, no, quello è
stato orribile e osceno e non sarebbe stato giusto nemmeno se avessi compiuto
davvero tutti gli atti scellerati di cui mi accusate e anche di più!, avrebbe voluto
gridare il giovane, ma se ne guardò bene e, con le lacrime che gli scendevano
lungo le guance, annuì ripetutamente.
“Sono
stato… giustamente castigato e ho espiato i miei crimini…” mormorò, disperato.
“Molto
bene” sorrise il Re, soddisfatto. “Quindi non dovremo temere da te altri
intrighi contro la nostra persona?”
“Mai
più! Anzi, io… io… sono disposto a dichiararvi pubblicamente legittimo sovrano
del regno di Napoli, dove e quando vorrete” disse in fretta il Principe,
sperando di sembrare convincente almeno in quello.
“Questo
ci compiace alquanto” replicò ironico Re Carlo. Cominciava a pensare che, in
fondo, tenersi accanto quello stupido ragazzino viziato e arrogante per
spaventarlo e umiliarlo sarebbe risultato molto più soddisfacente piuttosto che
straziarlo e ucciderlo una volta per tutte, com’era stata sua intenzione
all’inizio. Il suggerimento del suo Generale si rivelava davvero utile per più
di una ragione… sebbene lui iniziasse a pensare che anche il Generale avesse le
sue motivazioni personali per voler
mantenere in vita il Principe. E se anche fosse stato così? Nessun problema, il
Generale gli era sempre stato leale e meritava una ricompensa: se voleva che la
sua ricompensa fosse il Principe Alfonso, che se lo prendesse pure!
“Adesso
che tutto è stato chiarito e risolto, dobbiamo ammettere che non siamo stati
abbastanza lungimiranti” continuò poi il sovrano, con un ghigno. “Questa
soluzione è molto più vantaggiosa di quella che avevamo progettato noi. Sai,
Principe, la nostra intenzione era quella di metterti ad occupare la sedia
vuota, la sedia del traditore, nella sala da pranzo di tuo padre. Ci sembrava
la punizione più adeguata per un piccolo bastardo come te, tuttavia… come
sempre, il Generale ci ha consigliato per il meglio e ne siamo pienamente
soddisfatti.”
“Sono
molto lieto di esservi stato di aiuto, Vostra Maestà” disse l’uomo, con un
leggero inchino. Sperava che la cosa fosse finalmente risolta e che il Principe
venisse congedato prima che potesse rovinare tutto… L’accenno alla sedia di
Giuda nella sala da pranzo di Re Ferrante era stato chiaramente troppo per il
ragazzo, che adesso era bianco come un lenzuolo, tremava e stava per piangere
di nuovo.
“Sì,
beh, naturalmente, Principe, se ti venisse in mente di crearci qualche altro
fastidio, è bene che tu sappia che quella sedia è sempre lì ad aspettarti…
soltanto che, in quel caso, non ti ci metteremmo da morto, ma ti ci legheremmo
da vivo per qualche giorno e qualche notte, tanto per farti imparare ancora
qualcosa di nuovo” concluse il Re, con un ultima battuta maligna.
Senza
una parola o un gemito, Alfonso piombò sul pavimento privo di sensi.
Mentre
il Generale si affrettava a soccorrerlo, il Re scoppiò in una risata.
“Certo
che il nostro Principe è davvero fin troppo delicato! Come pretendeva di
governare un regno intero, se alle prime difficoltà sviene come una fanciulla?”
commentò, malizioso. “Meno male che ci sei tu ad occuparti di lui, Generale…”
Il
comandante prese in braccio il giovane e, dopo essersi congedato
rispettosamente dal suo sovrano, lo riportò in camera. Strada facendo,
rifletteva sul fatto che il Principe era indebolito e fiaccato dalle torture,
non aveva mangiato quasi niente dalla sera prima ed era molto spaventato: non
c’era da stupirsi che, alla fine di quel doloroso confronto con Re Carlo,
avesse perso i sensi.
Tuttavia,
proprio come aveva detto il sovrano, se ne sarebbe occupato lui…
Una
settimana, era passata solo una settimana da quella notte di follia.
In
certi momenti, il Principe Alfonso credeva di essere ancora nelle camere di
tortura e che quello che viveva fosse in realtà un’allucinazione prodotta dai
supplizi.
In
altri momenti, invece, aveva la sensazione che fossero trascorsi secoli da
quando lui, un ingenuo ragazzo con nessuna esperienza del mondo reale, si era
illuso di poter creare una sorta di complicità con il sovrano francese ed era
stato poi trascinato nelle segrete e torturato nei modi più orrendi.
Se
addirittura pensava alla sua vita prima di quella notte, al suo ruolo di
Principe ereditario, a tutto ciò che poteva permettersi come figlio del Re
Ferrante di Napoli… ah, quello sì che gli pareva frutto di un sogno o, ancora,
la vita vissuta da qualcun altro, qualcuno che lui non riconosceva più.
Cos’era
adesso? Un ostaggio in mano ai francesi. Un burattino da muovere a piacimento.
Un giovane la cui vita non valeva un soldo bucato. La ricompensa di quel Generale, con tutto ciò che questo poteva
significare. Non era più niente.
Il
ragazzo trascorreva la maggior parte del tempo nella stanza che era stata la
sua e che ora doveva condividere con il Generale. Non era costretto a restarvi
confinato, poiché non avrebbe comunque avuto alcuna occasione per fuggire, ma
lui stesso preferiva rimanere in un luogo che, tutto sommato, conosceva bene e
dove pensava di correre meno pericoli rispetto a qualsiasi altra parte del
castello.
Un
mattino, però, il Generale annunciò ad Alfonso che quel giorno il Re richiedeva
la sua presenza alla sua tavola durante un pranzo ufficiale.
“Ci
sarà un ospite importante e sarà la prima occasione, per te, di mostrarti
pubblicamente al fianco di Sua Maestà e di dichiarare la tua lealtà alla causa
francese” gli spiegò l’uomo.
“Non
è troppo presto? Io… mi sento ancora debole…” tentò di obiettare il Principe.
In
realtà non era quello il problema.
Il
Principe trovava insostenibile anche solo l’idea di sedere un’altra volta al
tavolo di Re Carlo. Ricordava fin troppo bene quella sera maledetta in cui il
sovrano l’aveva catturato e poi invitato alla sua tavola… e lui, ingenuamente,
aveva creduto che quell’invito fosse un’offerta di pace quando, al contrario, era
una beffa atroce: il vero e unico intento del Re era stato quello di straziarlo
a morte nelle camere di tortura. No, non sarebbe riuscito a resistere a quel
tavolo nemmeno per pochi istanti.
“Penso
proprio che tu non abbia possibilità di scelta, Principe Alfonso” replicò il
Generale, in tono brusco. “Sua Maestà ti ordina di partecipare al banchetto e
tu lo farai, se non vuoi subirne le conseguenze. Ah, e vedi di abbigliarti nel
modo più appropriato per un Principe. Il nostro ospite non dovrà pensare nemmeno
per un attimo che ci sia qualcosa di poco chiaro nella tua presenza al fianco
dei francesi.”
In
preda ad un gelido terrore, il giovane non poté fare altro che obbedire. Si
sentiva in trappola ogni istante di più, alla totale mercé degli umori e dei
capricci di un sovrano arrogante e dei suoi uomini.
Più
tardi, Alfonso si presentò al cospetto di Re Carlo che, insieme a tutti i suoi
comandanti e a molti dei suoi uomini, si era sistemato alla tavola che, solo
poche settimane prima, era appartenuta a Re Ferrante. Questo era un nuovo
motivo di sofferenza per il giovane Principe: ogni volta che entrava in una
stanza si faceva più viva la consapevolezza di quanto le cose fossero cambiate
per sempre. Non c’era più niente di quello che una volta apparteneva a lui e a
suo padre, tutto era stato invaso e usurpato dai francesi e restavano solo i
ricordi di un passato luminoso e sereno, un passato che non sarebbe tornato mai
più…
“Benvenuto
tra noi, Principe Alfonso” lo salutò il sovrano, con un tono che voleva
sembrare cordiale ma che in realtà era sarcastico. “Siamo molto lieti di
vederti in tutta la tua eleganza. Vieni a sederti al posto che ti spetta, alla
destra del tuo sovrano.”
Alfonso
esitò. Era una nuova beffa o Re Carlo voleva veramente che si sedesse accanto a
lui?
“Forse…
vorreste avere il Generale al vostro fianco?” domandò, titubante. “Io posso
trovare un altro posto.”
“Il
posto alla destra del Re spetta a te, come sempre” sottolineò il sovrano
francese, a esclusivo beneficio dell’ospite che doveva pensare che Alfonso
fosse trattato in modo adeguato al suo rango.
Avvertendo
un lieve inizio di stizza nella voce del Re, il giovane Principe si avviò
velocemente verso il posto che lo attendeva, senza altre obiezioni. Era
talmente confuso e intimorito da non aver nemmeno visto chi era l’ospite di
riguardo per cui era stata apparecchiata tutta quella messinscena. Una volta
seduto, si guardò intorno e, con sua grande sorpresa, riconobbe la persona
venuta in visita nel Regno di Napoli, qualcuno che vi era già stato quando le
cose erano tutte diverse, quando Re Ferrante sedeva ancora sul trono e lui, il
Principe, si era divertito a scandalizzarlo mostrandogli la sala da pranzo del
padre: il cardinale Giuliano Della Rovere.
Ma…
che cosa gli era accaduto nel frattempo? A quanto pareva, anche lui aveva avuto
un rovescio di fortuna. Alfonso ricordava un cardinale austero ed elegante,
sicuro di sé, ben vestito e adesso… l’uomo che sedeva alla tavola di Re Carlo
pareva invecchiato, forse malato, portava la barba e indossava un grezzo saio
da francescano.
A quanto pare sono
tempi duri per tutti… sembra che il cardinale non se la stia passando tanto
meglio di me!
Il
pranzo ebbe inizio. Alfonso non avrebbe saputo dire, se qualcuno gliel’avesse
chiesto, quali fossero state le portate e di che cosa si fosse parlato. Era in
un tale stato di tensione che riuscì a malapena a buttar giù pochi bocconi e,
pur sforzandosi, non fu in grado di seguire la conversazione per intero, ma
solo a spezzoni.
“Sono
molto dispiaciuto di vedere che Vostra Maestà non sta bene” disse ad un certo
punto Della Rovere, “e mi sembra che anche il Principe non goda di buona
salute.”
“Purtroppo
a Napoli si è diffusa una strana pestilenza” rispose il Re, con un ghigno, “di
cui molti sono caduti vittima. Ma, fortunatamente, sembra che la crisi stia
passando. Non temete, cardinale, non correrete alcun rischio. Vero, mio
Principe?”
“Eh…
cosa?” sussultò il ragazzo, colto alla sprovvista.
“La
pestilenza a Napoli è in fase di remissione!” ripeté il re francese a voce più
alta, quasi Alfonso fosse stato sordo come il padre. Poi si rivolse nuovamente
a Della Rovere. “Il nostro amato Principe è sulle nuvole, oggi.”
Il
banchetto si prolungò per ore, che al Principe Alfonso parvero più simili a
millenni.
“Mio
buon cardinale, sapete bene che dobbiamo ringraziare voi per il Regno del quale
siamo finalmente entrati in possesso” disse Re Carlo, quando il pranzo stava
giungendo al termine. “Voi ci avete incoraggiato a entrare in Italia e a
portarvi la guerra e adesso tutti riconoscono il potere e la sovranità del Re
di Francia! Siamo in debito con voi, dunque, perciò chiedete quello che
desiderate e faremo quanto è in nostro potere per aiutarvi.”
A
quelle parole, il Principe Alfonso trasalì e fissò a lungo Della Rovere che,
dal canto suo, appariva altrettanto a disagio.
E’ stato lui,
dunque? Lo stesso cardinale che venne a chiedere appoggio a mio padre contro il
papa Borgia, in cambio dell’investitura a Re di Napoli, ha poi tramato con i
francesi per farli entrare in Italia e portarmi via tutto?
“Vostra
Altezza, sapete bene che l’unica cosa che ho sempre desiderato è restaurare la
Chiesa di Roma, riportarla alla sua gloria primitiva e ai veri valori del
Cristianesimo. Non ho mai chiesto niente per me stesso, ma solo per il bene
della Chiesa. Desidero che il corrotto papa Borgia venga destituito, con ogni
mezzo… ma non aspiro più a prendere il suo posto” rispose il cardinale,
avvilito. “Credevo di meritarlo, ma i massacri e le uccisioni che sono derivate
dal vostro ingresso in Italia macchiano di sangue anche le mie mani. Dopo la
morte del papa libertino, saranno i cardinali a scegliere, in conclave e
guidati dallo Spirito Santo, l’uomo più adatto per portare a termine questa
missione.”
“Dunque
voi volete solo l’eliminazione del papa” commentò beffardo il sovrano. “Non
sarà un’impresa facile, ma anche noi abbiamo buonimotivi per volere
la sua rovina e vi promettiamo che faremo tutto il possibile per
accontentarvi.”
Della
Rovere chinò il capo in segno di rispetto verso il Re francese, poi il suo
sguardo si posò sul Principe, che non aveva smesso di fissarlo con una strana
espressione dipinta in viso. Pareva quasi sul punto di piangere, ma era forse possibile?, si domandò l’uomo di chiesa. Cos’era accaduto
quando i francesi si erano impossessati del Regno di Napoli? Il giovane
Principe aveva davvero accettato di buon grado la nuova situazione,
riconoscendo la legittimità di Re Carlo, o piuttosto la sua decisione di coinvolgere
la Francia aveva provocato un’altra vittima, dopo gli innocenti cittadini di
Lucca e innumerevoli altri?
“Mio
Principe, saresti così gentile da mostrare al cardinale la stanza che abbiamo
fatto preparare per lui?” chiese il sovrano ad Alfonso.
Il
Principe annuì e si alzò da tavola con evidente sollievo. Della Rovere lo seguì
in silenzio, in attesa del momento buono per potergli fare quelle domande che
le orecchie dei francesi non dovevano udire. Ritenne che fossero abbastanza al
sicuro quando si trovarono davanti alla porta della camera che gli era stata
assegnata, si voltò verso il ragazzo e iniziò la sua indagine.
“Mio
Principe, che cosa vi è accaduto? Avete davvero riconosciuto Re Carlo come
legittimo sovrano di Napoli o questa dichiarazione vi è stata estorta… in
qualche modo?” chiese. “Purtroppo ero presente al massacro di Lucca e so che
non c’è nulla di fronte al quale i francesi indietreggerebbero pur di ottenere
quello che vogliono.”
“Che
v’importa?” mormorò Alfonso con un filo di voce. “Siete stato voi a volere che la Francia muovesse
guerra…”
“E
non passa giorno senza che me ne rimproveri amaramente. Vedete? Ho rinunciato
ai privilegi derivanti dalla porpora cardinalizia e ora sono un umile
francescano che vive di penitenza e preghiera, ma temo che Dio non mi
perdonerà, a meno che non riesca a distruggere quel papa libertino e corrotto.
Tutto ciò che ho fatto tendeva a quel fine ma, se non lo otterrò, sarò
colpevole di tutti i crimini commessi dai francesi e nient’altro. Ma voi… voi
siete forse prigioniero qui?”
“Questa
è la mia patria e non ne conosco altre” fu la risposta piuttosto enigmatica del
Principe.
“Se
vi tengono qui contro la vostra volontà, se vi stanno facendo pressioni, se
siete minacciato, a me potete dirlo” insisté Della Rovere, come se Alfonso non
avesse parlato. “Ho rinunciato ad ogni potere temporale, è vero, ma potrei
comunque aiutarvi a scappare da qui. Vi nascondereste nel mio convento, al
sicuro, in attesa di trovare qualcuno che possa appoggiarvi o, magari, portarvi
in Spagna. Dovete solo dirmi la verità.”
La
verità. La verità era troppo difficile e dolorosa da raccontare. Avrebbe forse
dovuto spiegare al cardinale com’era stato ingannato e in che modo il Re lo
aveva fatto torturare, con l’intento di lasciarlo morire tra i supplizi? O,
forse, gli avrebbe raccontato come il Generale lo avesse salvato dalle camere
di tortura in cambio di… non era ancora ben chiaro che cosa avrebbe preteso in
cambio, ma il Principe cominciava ad avere qualche sospetto. No, certo che no.
E poi… Della Rovere avrebbe veramente potuto nasconderlo? Un convento, la
prospettiva di fuggire in Spagna… impossibile. Re Carlo lo avrebbe catturato di
nuovo e, a quel punto, non ci sarebbe stato più nessuno disposto a intercedere
per lui.
Il
Principe Alfonso drizzò ben alta la testa e piantò gli occhi in quelli del
cardinale, sforzandosi di assumere un tono il più possibile fermo e
convincente.
“Ho
riconosciuto la legittimità…” un attimo di esitazione, poi riprese deciso. “Ho
riconosciuto la legittimità di Sua Maestà Carlo di Francia come sovrano del
Regno di Napoli di mia spontanea volontà, liberamente. Nessuno mi ha costretto
né minacciato in alcun modo. Sua Maestà è stato incoronato solennemente a Roma,
dal papa, ha pertanto ottenuto ciò che a mio padre era stato negato e io non ho
potuto fare altro che riconoscerlo e accettarlo.”
La
risposta del Principe lasciò Della Rovere sconcertato.
“Ma,
mio Principe, siete sicuro che…”
“Non
ho altro da dirvi. Vi auguro un felice soggiorno a Napoli” tagliò corto il
ragazzo, voltando le spalle al cardinale e avviandosi a passo svelto lungo il
corridoio.
Della
Rovere, mestamente, si vide costretto ad arrendersi ed entrò nella stanza che
era stata allestita per lui, in preda a cupi pensieri.
Alfonso
percorreva il corridoio, pensando di tornare a rifugiarsi nella sua camera,
quando venne afferrato per un braccio e tirato dentro un’altra stanza. Rimase
impietrito dalla paura quando si ritrovò faccia a faccia col Generale.
Mi avrà
sicuramente visto parlare con Della Rovere… e forse non ha sentito quello che
gli ho detto! Forse pensa che gli abbia chiesto aiuto ed è arrabbiato con me,
lo dirà al Re e io… e lui…
Ma
il Generale aveva un sorriso compiaciuto dipinto sul viso.
“Bravo,
Principe, era proprio questo che volevamo da te” gli disse, stringendolo per le
spalle. E, siccome il giovane sembrava non capire e continuava a guardarlo
intimorito, si spiegò meglio. “Sua Maestà ha mandato te ad accompagnare il
cardinale per metterti alla prova, voleva accertarsi della tua lealtà. Mi ha
ordinato di seguirvi senza farmi vedere e io ho potuto ascoltare tutto ciò che
vi siete detti: Della Rovere, ancora una volta, fa il doppio gioco, ma tu hai
difeso la tua posizione in modo convincente e devo ammettere che mi hai
favorevolmente stupito.”
“Non…
non siete in collera con me, dunque?” mormorò il Principe, incredulo. Pur
avendo fatto del suo meglio, non riteneva di essere stato poi così convincente,
terrorizzato com’era…
“Più
ti conosco e più mi convinco di aver fatto la cosa giusta salvandoti da quelle
segrete, per il bene del mio sovrano e… e non solo” dichiarò il Generale, in
tono malizioso e sorridendo soddisfatto. Poi si chinò verso Alfonso, lo strinse
e lo baciò, come desiderava fare già da una lunga settimana, a lungo e
profondamente.
Il
Principe rimase a dir poco sconvolto da quella conclusione inattesa, ma
comprese anche che avrebbe fatto bene a tenersi buono e a compiacere il
Generale più che poteva perché, in fin dei conti, era l’unico che sembrava
nutrire interesse per lui… a quale scopo, non aveva molta importanza saperlo.
Così, docile, lasciò che lo stringesse e lo baciasse come e quanto voleva.
In
fondo, poi, era un modo come un altro per sentirsi un po’ meno solo e smarrito…
I’ll never read the
big letters of poems written by God.
(“Poems
by God” – Elisa)
Come
furono surreali i giorni in cui il cardinale Giuliano Della Rovere rimase
ospite al castello di Napoli! La sua presenza metteva ancora di più in crisi il
Principe Alfonso e per più di un motivo. Ovviamente, il giovane ricordava fin
troppo bene la precedente visita del cardinale, quando era venuto a chiedere
l’appoggio del Re Ferrante per deporre il papa Borgia e… rivederlo adesso era
devastante per lui. In quei giorni ormai lontani si era divertito un sacco,
prima a burlarsi di lui e poi a giocare a fare il Principe reggente, portandolo
a visitare la famosa sala da pranzo di suo padre e poi le terme sulfuree,
accennando al fatto che avrebbe discusso
personalmente della cosa con i consiglieri del padre. Quanto si era sentito
importante allora, quasi arbitro dei destini di molte persone! E adesso?
L’unico con un destino quanto mai precario e instabile era lui e lui soltanto…
E
poi, certo, il cardinale non era uno stupido e si era accorto di quanto lui
fosse terrorizzato dai francesi. Non poteva sapere le cose terribili che gli
erano state inflitte nelle camere di tortura (e, con un po’ di fortuna, non
avrebbe dovuto saperle mai…), tuttavia la sua paura di nuovi supplizi era
certamente evidente in ogni suo atto, parola e sguardo e nulla di ciò che
avrebbe potuto dire sarebbe mai stato sufficiente per stornare ogni sospetto.
Alfonso era tuttora convinto di non essere stato affatto credibile nelle sue
proteste di lealtà alla causa francese e ogni pranzo, ogni cena alla tavola di
Re Carlo e alla presenza di Della Rovere era una nuova farsa. Aveva cominciato
a temere e detestare le ore dei pasti, odiava dover sedere alla destra del
sovrano (il posto che era stato suo di diritto per anni adesso gli scottava
sotto, sapeva bene di essere lì solo per mostrare al cardinale un rapporto di
fiducia che era ben lontano dall’esistere), lo stomaco gli si annodava per
l’ansia e il terrore di dire o fare qualcosa di irreparabile e, naturalmente,
il sovrano francese non perdeva occasione per sottolineare il suo disagio e
metterlo, così, ancora più in angoscia. Il giovane Principe trascorreva ogni
interminabile banchetto a fissare il cibo nel piatto, giocherellandoci e
sperando di riuscire a farlo scomparire con la sola forza di volontà, visto che
riusciva a malapena a ingoiare un paio di bocconi, che gli si piantavano in
gola come sassi.
E
Re Carlo celiava sul fatto che evidentemente,
il Principe non godeva di perfetta salute a causa della pestilenza che aveva
colpito Napoli! Ancora e ancora. Sapeva bene dove colpire e, con ogni
accenno a quella stramaledetta pestilenza, rinnovava il ricordo e persino il
dolore atroce delle torture in Alfonso.
Ad
ogni modo, il ragazzo era riuscito a evitare il più possibile di trovarsi di
nuovo a colloquio con Della Rovere e, finalmente, l’uomo di chiesa aveva deciso
di tornare a Roma, sarebbe ripartito l’indomani all’alba ma… eh, purtroppo
c’era un’intera serata, prima, e un’ultima, infinita cena alla quale non
avrebbe potuto esimersi dal partecipare.
“Dunque
ci lasciate, cardinale? La nostra ospitalità non è stata abbastanza gradevole
per voi?” gli chiese il Re quell’ultima sera, con il solito tono sarcastico.
“Il
mio dovere è liberare la Chiesa dalla presenza malefica di Borgia” replicò
Della Rovere, asciutto. “Non ho ormai altro scopo nella mia vita ed era solo
per questo che ero venuto a farvi visita, Vostra Maestà, per implorare il
vostro appoggio, ma posso comprendere che voi siate ancora troppo debilitato
dalla malattia e impegnato nel consolidare il vostro potere come sovrano di
Napoli per impegnarvi in questa missione. Tuttavia io non posso procrastinare
oltre il mio ritorno a Roma.”
“Ma
certo, cardinale, siete impaziente di mettervi all’opera voi stesso contro il
papa” sogghignò il Re. “Sappiate che, qualunque cosa farete, avrete il nostro
consenso: quel Borgia deve pagare anche per ciò che ha ordito contro la nostra
persona. Comunque, avete trovato di vostro gradimento il soggiorno a Napoli? La
nostra ospitalità è stata migliore di quella di Re Ferrante?”
Ecco.
Ancora
una volta, anche quell’ultima sera.
Re
Carlo non poteva perdere l’ultima occasione di divertirsi come un gatto col
topolino.
Il
Principe Alfonso trasalì e s’irrigidì, aspettandosi un nuovo attacco, una nuova
insinuazione.
Anche
il cardinale rimase spiazzato da quella domanda e non rispose subito, così che
il sovrano francese poté piazzare un altro affondo.
“Ci
scusiamo per non avervi potuto condurre anche questa volta alle terme sulfuree,
come aveva cortesemente fatto il nostro caro Principe Alfonso” disse, fingendosi
dispiaciuto. “Tuttavia, come ben saprete, non era possibile recarvisi in questi
giorni, sempre a causa di quella misteriosa
pestilenza. Non avremmo mai voluto che vi ammalaste… non è vero, Principe?”
Sentendosi
interpellato, il giovane si angosciò ancora di più. Si morse il labbro
inferiore, nervoso, prima di trovare voce sufficiente per rispondere.
“La
salute di Sua Eminenza è molto importante per tutti noi” riuscì a dire.
Ma
il Re non aveva ancora finito con lui.
“Tuttavia
non vogliamo privarvi di tutti i divertimenti di cui avete potuto godere nella
visita precedente” riprese. “Sappiamo che il Principe non ha mancato di
mostrarvi la sala da pranzo preferita da suo padre, il compianto Re Ferrante. Forse desiderereste che vi accompagnasse a
visitarla in quest’ultima sera che trascorrerete qui? Sono certo che il
Principe ne sarà oltremodo lieto.”
Era
troppo. Alfonso chiuse gli occhi e si fece cereo in viso, sicuro che sarebbe
svenuto con la faccia nel piatto. Persino il Generale si mosse a disagio sulla
sedia a quella nuova cattiveria del suo sovrano e avrebbe voluto intervenire in
qualche modo, ma Della Rovere lo precedette.
“Non
ho desiderio di vedere ancora uno spettacolo così penoso e già nella mia scorsa
visita feci notare al gentile Principe che tali punizioni erano eccessivamente
severe secondo la mia mentalità di umile uomo di chiesa” tagliò corto, per
chiudere l’argomento una volta per tutte. “Invece… invece sono addolorato di
notare che la salute del Principe non è affatto migliorata in questi giorni e
che stasera appare ancora più sofferente del solito.”
“Voi
dite?” commentò divertito il Re, lanciando un’occhiata al ragazzo sconvolto che
gli sedeva accanto.
“Temo
che la malattia di cui avete parlato sia troppo violenta per la costituzione delicata
del Principe Alfonso” ribatté il cardinale. “Volevo infatti chiedere a Vostra
Maestà il permesso di condurlo con me a Roma per permettergli di cambiare aria.
Ciò gioverebbe senz’altro alla sua salute che tutti noi consideriamo tanto
preziosa.”
L’espressione
di Re Carlo mutò improvvisamente: il cardinale aveva osato sfidarlo in arguzia
e adesso c’era da divertirsi ancora di più!
“Già
una volta vi rimproverai per la vostra impertinenza, cardinale” replicò,
stizzito. “Allora osaste mettere in dubbio la necessità di distruggere Lucca e
massacrarne i cittadini, mentre ora ritenete che non ci prendiamo sufficiente
cura del benessere del Principe
Alfonso. Molto bene, se è questo che pensate allora chiedetelo, chiedete
direttamente al Principe qui presente se ci prendiamo cura di lui con ogni mezzo, se vive serenamente in mezzo ai suoi
nuovi alleati o se, invece, preferirebbe rifugiarsi a Roma. Domandatelo pure al
giovane Principe: è qui davanti a voi ed è abbastanza grande da rispondere per
se stesso.”
Il
cardinale si fece livido e comprese di aver scatenato qualcosa di ancor
peggiore. Come già aveva fatto mille volte, maledisse in cuor suo il momento in
cui aveva deciso di rivolgersi al Re di Francia per ottenerne l’appoggio senza
considerare che, così facendo, avrebbe messo l’Italia intera nelle mani
sanguinarie di un barbaro senza scrupoli. Sarebbe stato meglio se avesse
tentato lui stesso di eliminare Rodrigo Borgia, come infatti intendeva fare
adesso… e quante vite sarebbero state risparmiate, tutte vite che lui aveva sulla coscienza!
Tutti
gli occhi si puntarono sul Principe Alfonso, ma lui sentiva soltanto lo sguardo
fisso del Re accanto a lui che gli bruciava la pelle come avevano fatto le sue
torture. Non poteva fare altro, ancora una volta doveva essere convincente.
Posò le mani sul tavolo, stringendo fino a farsi sbiancare le nocche e,
fingendo una sicurezza che era ben lontano dal provare, si alzò in piedi
guardando bene in faccia Della Rovere. Le gambe gli tremavano, ma nessuno
poteva vederle e si era appoggiato con forza al tavolo proprio per evitare di
vacillare.
“Vi
ho già risposto una volta a proposito di questa questione” dichiarò, tenendo la
voce bassa per non far sentire che tremava. “Napoli è la città in cui sono nato
e cresciuto e non ho alcun motivo per desiderare di abbandonarla, né ora né
mai. Vi sono molto grato per il vostro interessamento, ma vi assicuro che ho chi
si occupa di me nel… nel modo migliore e che guarirò molto più velocemente qui
che in qualunque altro posto.”
Il
Re scoppiò a ridere, compiaciuto e esilarato nel vedere l’espressione
sbigottita e delusa del cardinale.
“Ecco,
cardinale, avete avuto la vostra risposta. Adesso vi ordino di non seccarci più
con richieste inopportune, altrimenti saremo costretti a farvi accompagnare dal
Principe a cenare altrove… magari nella sala da pranzo di Re Ferrante!”
esclamò, con un ghigno.
A
quelle parole Della Rovere chinò il capo, sconfitto, ma anche Alfonso ricadde
seduto di schianto come una marionetta con i fili tagliati. Come? Perché il Re
aveva detto quella cattiveria? Perché gli aveva di nuovo ricordato quella
maledetta sala da pranzo? Non era forse stato abbastanza convincente? Aveva
detto qualcosa di sbagliato? Re Carlo lo avrebbe punito comunque?
In
preda al panico, il Principe si sentì invadere dalla nausea e, pur essendo
seduto, oscillò e parve sul punto di cadere. A quel punto fu il Generale ad
intervenire: francamente, per quella sera ne aveva avuto abbastanza delle
battute del suo Re e riteneva che il Principe si fosse comportato fin troppo
bene e non meritasse un simile trattamento.
“Mio
signore” suggerì rispettosamente, “chiedo il vostro permesso per lasciare la
tavola e accompagnare il Principe Alfonso nelle sue stanze. Credo che questa
sera sia particolarmente debole e stanco e che abbia bisogno di riposo.”
Re
Carlo guardò il suo ufficiale, quindi il cardinale Della Rovere che non aveva
più osato alzare gli occhi dal piatto, infine il giovane accanto a lui che
pareva più morto che vivo. Valutò di essersela goduta abbastanza per quella
sera e che poteva anche acconsentire alla richiesta del suo Generale.
“Avete
il nostro permesso” rispose. “Del resto, la cena è ormai quasi terminata…”
“Vi
ringrazio, Vostra Maestà” disse il Generale. Si alzò dal suo posto e si
avvicinò al Principe che lo guardava con aria stordita. Dovette aiutarlo ad
alzarsi in piedi e praticamente trascinarlo fuori dalla sala, perché il ragazzo
pareva incapace di muovere anche un solo passo. Non appena furono fuori dalla
vista del sovrano, lo prese in braccio e si stupì ancora una volta di quanto
fosse fragile e leggero.
Mentre
lo portava verso la stanza che condividevano, cercò di rincuorarlo con qualche
parola gentile.
“Sua
Maestà voleva soltanto metterti alla prova, lo sai questo, vero? Non intende
farti di nuovo del male, sa bene quanto tu sia importante per la nostra causa”
disse. “Tu ti sei comportato in modo egregio anche stasera e sono certo che
anche Sua Maestà, in fondo, è soddisfatto di te.”
Come no?, pensò stancamente
il Principe. Era talmente sfinito da non avere nemmeno la forza di rispondere e
restò abbandonato tra le braccia dell’uomo, senza credere veramente alle sue
parole ma comunque provando un certo qual sollievo nel sentire che, tutto
sommato, tentava di incoraggiarlo.
Giunti
nella camera, il Generale depose Alfonso sul letto. Cominciava a provare un
certo dispiacere nel vederlo così distrutto e si rendeva conto sempre di più
che avevano esagerato con lui. Non avevano in mano un Cesare Borgia, un giovane
ostinato e deciso da domare con la forza, ma un ragazzo impaurito e fragile che
avrebbe potuto crollare da un momento all’altro.
“Hai
risposto molto bene al cardinale, Principe” insisté allora, per confortarlo. “Della
Rovere ha provato in tutti i modi a farti cadere in contraddizione, ma tu sei
stato arguto. Ritengo che meriti una ricompensa: parlerò a Sua Maestà e
cercherò di convincerlo a non infierire così tanto su di te, a questo punto la
tua lealtà è stata provata più volte e non c’è motivo di esagerare.”
Le
parole del Generale ebbero un effetto sorprendente e inaspettato su Alfonso: il
giovane Principe sollevò sull’uomo uno sguardo incredulo e poi scoppiò a piangere.
Il comandante francese non poté fare altro che stringerlo di nuovo tra le
braccia, non sapendo cosa pensare di quella reazione.
“Principe
Alfonso, cosa ti succede, adesso? Ti ho detto che non hai più nulla da temere…”
“E’
che… è che…” il giovane non riusciva quasi a parlare in mezzo ai singhiozzi.
“Nessuno è mai… voi siete… siete il primo che mi parla con gentilezza… da tanto
tempo, tanto tempo…”
Quelle
frasi disperate, rotte dal pianto, provocarono uno strano effetto sul Generale,
qualcosa che non aveva mai provato prima: lo invase un’insolita tenerezza per
il ragazzo, quel Principe che aveva perduto ogni punto di riferimento nella sua
vita, era stato crudelmente torturato e adesso scoppiava in lacrime soltanto
perché lui gli aveva parlato con una certa gentilezza.
Abbiamo davvero
punito il Principe in modo eccessivo, sarebbe bastato molto meno per metterlo
in riga, è solo un ragazzo fragile e spaventato…
Il
pensiero suscitò in lui altri desideri e, non riuscendo a dominarsi, strinse
più forte a sé Alfonso e lo baciò profondamente. E, ancora una volta, rimase
piacevolmente sorpreso dalla reazione del Principe che, affamato di qualunque
gesto minimamente affettuoso, gli si aggrappò e si lasciò baciare, remissivo.
La
docilità del Principe suscitò ancora maggior eccitazione nel Generale che non
seppe frenarsi. Approfittando dell’unguento che il dottore usava per curare le
ferite provocate al Principe dalle torture e che teneva sopra il comodino,
cercò di prepararlo nel modo migliore che poté, non riuscendo a rinunciare a
lui ma neanche volendo risvegliargli troppo il dolore e il terrore dei
supplizi. Alfonso, tuttavia, pareva stordito e non accennava a ribellarsi,
avrebbe accettato docile e obbediente qualunque cosa il Generale avesse deciso
di fargli, unicamente perché… era stato il solo a trattarlo con gentilezza.
Tanto era potente in lui il senso di perdita, solitudine e terrore…
Alla
fine di tutto, il Principe rimase tra le braccia del comandante francese,
sconvolto e intontito ma anche consapevole che quell’uomo, in qualche suo
strano modo, perlomeno teneva a lui e lo avrebbe protetto dal male. Intenerito
come mai gli era accaduto prima, il Generale lo tenne tra le braccia e gli
parlò di nuovo in tono incoraggiante.
“Non
devi avere più paura, Principe. Io ti prometto che, se continuerai a
comportarti sempre bene, ti proteggerò e ti sarò vicino” gli disse. “Non sarai
mai più solo e intercederò sempre per te presso Sua Maestà. Stai tranquillo,
Principe Alfonso.”
E,
inspiegabilmente, il giovane si sentì davvero più tranquillo e riuscì ad
addormentarsi, pensando per la prima volta dopo tanti giorni che, forse, la sua
vita sarebbe proseguita in un modo meno terribile e spaventoso di ciò che aveva
pensato fino ad allora.
Erano
passati poco più di tre mesi dall’arrivo dei francesi nel Regno di Napoli e adesso,
finalmente, le cose stavano iniziando a procedere per il giusto verso. La
pestilenza che aveva indebolito la città si stava esaurendo e Napoli riprendeva
vita e vivacità; inoltre sembrava che gli altri Stati italiani avessero
accettato la legittimità di Re Carlo come nuovo sovrano di quelle terre. Il
Generale sorrise tra sé pensando che, forse, parte di quell’accettazione la si
doveva al fatto che in tutta Italia si era ormai sparsa la voce che il Principe
Alfonso aveva dato il suo consenso e che si faceva vedere spesso al fianco di
Sua Maestà. Naturalmente gli altri potenti d’Italia non potevano sapere cosa
c’era stato prima di quell’apparente pace ed era bene che non lo sapessero,
visto che adesso era tutto sistemato e le atroci torture inflitte al Principe
erano soltanto un brutto ricordo.
Compiaciuto,
il Generale pensò che se tutto si era risolto per il meglio era merito suo e
del rapporto sempre più stretto che aveva instaurato con il ragazzo: il
Principe si stava fidando di lui e si stava legando sempre di più, si lasciava
fare docilmente qualunque cosa il Generale volesse da lui e seguiva i suoi
consigli e la sua guida. E lui? Stentava ancora a crederlo ma, per la prima
volta in tutta una vita dedicata esclusivamente alle battaglie e alla carriera
militare, adesso provava qualcosa di profondo e importante per il Principe
Alfonso, qualcosa di bello che gli scaldava il cuore.
Certo,
ora si profilava un noioso intralcio: Giovanni Sforza e sua cugina Caterina
erano giunti a Napoli per conferire con Sua Maestà e si erano accampati fuori
città in attesa di comparire alla sua presenza. Re Carlo aveva mandato il suo
Generale a parlare con loro per sentire che cosa volevano prima di decidere se
riceverli o meno ed era per questo che adesso l’uomo si stava dirigendo verso
il loro accampamento. Mentre cavalcava, rifletteva su quanto la sua vita fosse
più serena e quanto prendersi cura del Principe Alfonso lo facesse sentire
bene.
Chissà,
magari gli sarebbe piaciuto restare per sempre nel Regno di Napoli, in quel
luogo ridente e soleggiato, assieme al giovane Principe… Prima, però, doveva
occuparsi della faccenda incresciosa di Giovanni e Caterina Sforza e sperava
proprio di poterli convincere ad andarsene senza incontrare Sua Maestà che si
stava riprendendo ora dalla sua febbre e aveva bisogno di riposo e non di
scocciatori.
Mentre
il Generale si dirigeva all’accampamento degli Sforza, nel castello stava per
svolgersi un dramma in piena regola.
Re
Carlo aveva preso in antipatia il Principe Alfonso ancor prima di conoscerlo e
poi, dopo averlo incontrato, l’aveva detestato sempre di più. Aveva scelto
deliberatamente di incolparlo per la pestilenza che si era scatenata a Napoli e
che aveva contagiato anche lui e il suo desiderio sarebbe stato quello di farlo
ammazzare e imbalsamare per occupare il posto vacante alla tavola di
mostruosità voluta da Re Ferrante. Il sovrano si immaginava il Principe come un
giovane arrogante e combattivo, un po’ come Cesare Borgia che aveva conosciuto
a Roma, e si proponeva di toglierselo dai piedi in una maniera che sarebbe
servita da esempio a chiunque avesse anche solo osato pensare di mettersi
contro di lui. Quando Alfonso era stato catturato, però, il Re si era trovato
davanti un ragazzo spaurito e indifeso, un avversario non certo alla sua
altezza, che per cercare di salvarsi la pelle aveva mostrato verso di lui una
specie di atteggiamento seduttivo. Si
era dichiarato disponibile ad accompagnarlo a visitare la città e aveva cercato
di attirare la sua simpatia, ottenendo l’effetto esattamente opposto. Carlo
VIII di Francia era un Re guerriero, un uomo più avvezzo a vivere negli
accampamenti militari che a Corte; tante moine e smancerie lo avevano incattivito
ancora di più contro il giovane Principe e, di conseguenza, lo avevano spinto a
torturarlo in modo più crudele e brutale di quanto avesse programmato di fare
in principio. L’intervento del Generale in favore di Alfonso era stato
inaspettato e gli aveva tolto buona parte del divertimento che si era aspettato
ma, seppure a malincuore, il sovrano doveva ammettere che il suo ufficiale
aveva avuto ragione: un Principe aragonese sottomesso ai francesi e disposto a
dire qualsiasi bestialità pur di restare al sicuro era un bel guadagno per la
stabilità della sua corona. Aveva perfino tenuto testa a quell’intrigante del
cardinale Della Rovere e dichiarato davanti a tutti di ritenere legittima
l’investitura di Re Carlo come sovrano di Napoli! Il Re non poteva desiderare
di meglio, eppure… eppure i piagnistei e gli atteggiamenti di Alfonso gli
davano la nausea e, in qualche modo, doveva togliersi la voglia di tormentarlo,
senza compromettere l’accordo tra di loro.
Quello
sarebbe stato il giorno adatto: il Generale, che era diventato fin troppo
protettivo nei confronti del Principe, si trovava all’accampamento degli Sforza
per ascoltare le loro richieste e il Principe sarebbe stato solo e
completamente in sua balìa. Re Carlo aveva dato certi ordini ai suoi uomini e
poi era rimasto nella sala del trono a ridersela di gusto, immaginando ciò che
sarebbe successo…
Alfonso
era uscito tardi dalla camera e, sempre guardandosi intorno per il timore di
essere molestato, aveva fatto un timido giretto per i corridoi del castello,
vagando senza una meta. Gli sembrava così ingiusto non potersi muovere
liberamente per quel maniero che fino a poco tempo prima era stato suo! Ogni angolo, ogni stanza
risvegliavano in lui ricordi e nostalgie di un tempo felice e privo di preoccupazioni.
Senza accorgersene, si era spinto fino al loggiato che dava sul Golfo e,
sospirando tristemente, si era affacciato per ammirare il panorama incantevole
che si poteva godere da lì. Rammentava di quando aveva detto al cardinale Della
Rovere, durante la sua prima visita a Napoli, quando ancora il regno
apparteneva a suo padre, che un luogo tanto bello e pieno di piaceri doveva
essere difeso a tutti i costi. E lui come lo aveva difeso? Era scappato come
uno straccione qualsiasi, senza appoggi, senza amici, senza nessuno che lo
aiutasse e poi era caduto nelle mani dei francesi e…
“Il
principino si gode il panorama, eh?”
aveva ringhiato un armigero, avvicinandosi in modo minaccioso ad Alfonso. Altri
tre compagni gli erano dietro e sghignazzavano soddisfatti.
Alfonso
trasalì: perduto nei suoi ricordi e nelle sue malinconie, non si era nemmeno
reso conto di non essere più da solo.
“Cosa
volete da me? Lasciatemi in pace e andate a fare la guardia, a perlustrare il
perimetro o qualsiasi altra cosa facciano quelli come voi!” aveva reagito,
petulante, cercando di non mostrarsi intimorito. Erano soltanto dei soldati
qualunque e non potevano permettersi di dargli fastidio!
“I
nostri ordini sono diversi” disse uno degli armigeri, avvicinandosi ancora di
più e strattonando Alfonso per un braccio, mentre i suoi compagni ridevano
ancora più forte.
Il
Principe impallidì, ritraendosi.
“Non
potete farmi niente, voi siete solo soldati e io invece sono…”
“Tu
non sei nessuno, ragazzino” lo
interruppe un altro, con un ghigno. “Sei un prigioniero di Sua Maestà e, se Sua
Maestà ordina di farti torturare, noi obbediamo e basta!”
Al
Principe si gelò il sangue nelle vene.
“Tortu… torturarmi? Ma cosa dite? Non potete farmi del male,
io sono sotto la protezione del vostro comandante e…”
“Sì,
sappiamo che sei sotto il nostro
comandante” fece un soldataccio, con una risata
sguaiata, “ma lui non è qui, adesso, e gli ordini di Sua Maestà sono più
importanti dei suoi!”
“Ma
io… io… sono utile a Sua Maestà…” tentò di dire Alfonso, lanciando occhiate
disperate in cerca di una via di fuga. “La mia presenza legittima la sua
corona, gli servo!”
“Beh,
forse Sua Maestà ha cambiato idea” tagliò corto il primo armigero. “Forza,
prendiamolo!”
Così
dicendo, il soldato spintonò bruscamente il Principe, mentre un altro faceva il
gesto di volerlo afferrare. Terrorizzato, il ragazzo scartò velocemente a
destra, infilandosi nella prima porta aperta che vide ma, per sua sfortuna, era
proprio quella della sala del trono, dove sedeva Re Carlo.
“Quale
sorpresa vederti qui, caro Principe” gli disse, con un guizzo di divertimento
maligno negli occhi. “Sei già stato informato dei nostri progetti per il resto
della giornata?”
Fino
a quel momento, Alfonso poteva sempre sperare che la soldataglia volesse burlarsi
di lui, ma a quel punto non poteva più dubitare: il Re, per qualche suo motivo,
aveva deciso di farlo riportare nella camera delle torture. Ma che cosa aveva
fatto di male?
Stupido
a domandarselo… in fondo, cosa aveva fatto di male anche la prima volta in cui
era stato sottoposto a quei supplizi?
Il
Principe sentì le gambe che gli tremavano, ma non poteva permettersi di
crollare, altrimenti gli armigeri lo avrebbero preso e trascinato subito alla culla di Giuda o a qualsiasi altro
strazio fosse venuto in mente al sovrano. I soldati che lo inseguivano erano
ormai alle sue spalle e altre guardie presenti nella sala del trono, ad un
cenno del Re, si erano mosse verso di lui. Alfonso non ci pensò due volte:
attraversò di corsa la sala del trono fino a raggiungere la porta opposta e si
precipitò lungo il corridoio con la forza della disperazione. Non riuscì però a
evitare di sentire l’ultimo sberleffo del Re…
“Sei
veloce, Principino, ma prima o poi ti stancherai, e allora…”
I
soldati alle sue calcagna erano diventati dieci, poi quindici, poi venti. Il
Principe attraversava saloni, sfrecciava lungo corridoi, superava porte,
scostava tendaggi, sempre con gli uomini del Re a tallonarlo. Pensò di
rifugiarsi nella sua stanza e di barricarsi dentro: se fosse riuscito a tenere
lontani i soldati per abbastanza tempo, forse sarebbe tornato il Generale e
magari avrebbe convinto il sovrano a risparmiarlo. Non era stato lui a salvarlo
la prima volta? Non diceva sempre che, se si fosse comportato bene e avesse
sostenuto la Francia, non gli sarebbe accaduto niente di male? Doveva solo
resistere fino al ritorno del Generale, di sicuro non era un caso che quella
sorta di caccia si fosse scatenata
proprio il giorno in cui lui era andato ad incontrare gli Sforza… Sua Maestà
aveva atteso che il suo comandante lasciasse il castello prima di perseguire i
suoi turpi scopi.
Se riesco a
raggiungere le mie stanze, forse posso farcela, mi chiuderò dentro, dovranno
sfondare la porta per prendermi, ma così guadagnerò tempo e quando il Generale
sarà tornato…
Alfonso
si precipitò verso le scale che portavano alle stanze da letto, ma per la
fretta e il terrore mise un piede in fallo e mancò uno dei gradini; scivolò e
cadde, battendo violentemente la testa contro la balaustra di marmo. Il colpo
gli aprì una ferita sopra l’occhio destro che cominciò subito a sanguinare, ma
il giovane non se ne diede pensiero… se fossero riusciti a prenderlo, gli
avrebbero fatto ben di peggio! Stordito, si rialzò e fece per riprendere la
corsa, ma vide altre cinque guardie che venivano proprio dalle stanze di sopra
e che scendevano i gradini, dirigendosi verso di lui. Da quella parte non ci
sarebbe stata salvezza.
I
soldati sembravano ovunque. Alfonso si sentiva debole e smarrito per il colpo
in testa, cominciava ad avere le vertigini e il terrore gli attanagliava lo
stomaco come una morsa. Asciugandosi il sangue che gli colava dal taglio sulla
fronte con la manica dell’abito, scorse un’altra possibile via di fuga, un
corridoio laterale dal quale nessuna guardia sembrava provenire. Disperato, non
poté fare altro che rimettersi a correre in quella direzione, talmente confuso
da non rendersi conto che il corridoio portava proprio alle segrete e alle
camere di tortura. Quando se ne accorse era troppo tardi, gli armigeri gli
erano addosso e bloccavano ogni altra via di uscita. Il Principe non ebbe altra
scelta che entrare in quelle stanze che gli causavano tanto orrore, dove aveva
sofferto pene indicibili e creduto di morire nel modo più tremendo. Esausto,
paralizzato dal terrore e frastornato per il colpo subito, Alfonso scivolò a
terra senza più forze, incapace di continuare quell’inutile fuga. Come un
animale braccato, si rannicchiò in un angolo, stringendosi le ginocchia al
petto e nascondendovi la testa in un patetico tentativo di proteggersi, poi
scoppiò in un pianto dirotto, fuori di sé per la paura.
I
soldati, tuttavia, non lo catturarono. Vedendo che si era cacciato da solo
proprio nel luogo che più temeva e che si era rincantucciato a piangere come un
bambino, si limitarono a sghignazzare soddisfatti e a sbeffeggiarlo, poi se ne
andarono, lasciandolo da solo in quelle stanze umide e spaventose.
Il
Generale rientrò al castello quando il pomeriggio lasciava il posto alla sera.
Aveva parlato con Giovanni e Caterina Sforza ed era piuttosto innervosito con
loro: pretendevano che il sovrano marciasse con i loro eserciti su Roma per
vendicarsi del papa Borgia e, non contenti, volevano anche i cannoni francesi
per difendere la loro fortezza di Forlì. Ma chi diavolo si credevano di essere?
Sua Maestà avrebbe fatto molto meglio a non riceverli, anzi, a dare subito
l’ordine di scacciarli dal regno di Napoli. Si avviò verso la sala del trono,
ansioso di riferire al Re riguardo al colloquio avuto con quegli spocchiosi
Sforza, ma le sue riflessioni si interruppero vedendo che alcuni dei suoi
uomini si davano gomitate e ridacchiavano tra loro.
“Non
avete niente di più utile da fare?” li rimproverò bruscamente. “Che avete da
ridere? Non c’è assolutamente niente di divertente. Anzi, tu, vai subito ad
annunciare a Sua Maestà che sono tornato e che ho urgente bisogno di
parlargli.”
I
soldati smisero subito di ridere; quello che era stato incaricato di annunciare
al Re il suo ritorno partì in tutta fretta mentre gli altri si scambiavano
occhiate avvilite.
“Si
può sapere che sta succedendo qui?” insisté il Generale, spazientito.
“Vi
chiediamo perdono, signore” disse uno dei soldati. “Era solo uno scherzo,
abbiamo pensato che fosse divertente. E Sua Maestà…”
Un
vago sospetto iniziò a farsi strada nella mente dell’uomo.
“Di
che stai parlando? Cosa c’entra Sua Maestà? E’ successo forse qualcosa al Re o
al Principe Alfonso?”
“Sua
Maestà sta bene… e anche il Principe, certo! E’ stato solo… uno scherzo…”
Il
Generale ne aveva abbastanza e comprese che da quei soldati non avrebbe tirato
fuori nient’altro, così si diresse a passo deciso verso la sala del trono per scoprire
ciò che era accaduto in sua assenza. Non era proprio il momento adatto per le
intemperanze di Sua Maestà, quello. Era più che mai necessario mostrare a tutta
l’Italia che il regno di Napoli apparteneva con pieno diritto alla Francia e
che avevano la totale approvazione del Principe Alfonso che, per alcuni, era
ancora il legittimo erede al trono, altrimenti sarebbero arrivati altri
avvoltoi come gli Sforza, pronti a pretendere chissà cosa e ad accampare
assurdi diritti.
“Generale,
aspettavamo con impazienza il vostro ritorno” lo accolse Re Carlo, con un
sorrisetto compiaciuto. “Allora, che cosa desideravano i nostri amici Sforza?”
“Non
sono vostri amici, mio sovrano” ribatté con fermezza il Generale. “Vogliono
soltanto sfruttare la nostra potenza militare a loro vantaggio e osano persino
minacciarvi…”
Il
Re perse subito tutta la sua allegria.
“Minacciarci?
E con quali armi a disposizione, se ci è concesso sapere? Quel Giovanni Sforza
è un pagliaccio, deriso da tutta Italia per l’accusa di impotenza e la cugina…
Caterina, vero? Beh, quella è nota per l’esatto contrario” brontolò il sovrano,
di malumore. “Sono venuti fin qui per insultarci?”
“Gli
Sforza chiedono a Vostra Maestà di concedere loro i cannoni francesi, per vendicarsi
delle offese ricevute dal papa Borgia e per difendere il loro castello di
Forlì. In cambio, vi offrono l’appoggio dei loro eserciti per far ritorno in
Francia.”
“Per
quale motivo dovremmo fare ritorno in Francia proprio adesso? E, soprattutto,
perché mai avremmo bisogno dei loro ridicoli eserciti?”
“Secondo
loro, la vostra posizione qui a Napoli non è sicura” replicò il Generale, in
tono allusivo. “Ritengono che la Spagna potrebbe decidere di muovervi guerra.
Evidentemente ignorano che avete l’appoggio di un Principe della casata
aragonese e che, per questo motivo, la Spagna non oserebbe mettersi contro di
voi.”
Il
Re parve a disagio.
“Eh…
sì, certo, l’appoggio del Principe aragonese” disse, in tono molto meno
convinto. Rifletté un attimo, concluse che, tutto sommato, non era accaduto
niente di irreparabile e, rinfrancato, dichiarò: “Molto bene, dimostreremo loro
quanto si sbagliano e quanto sono avventati nelle loro vuote minacce: domattina
stessa manderemo un messaggero per invitarli al castello e offriremo loro un
banchetto, durante il quale avranno modo di vedere quanto siano saldi i
rapporti tra noi e il Principe e quanto poco abbiamo da temere dalla Spagna. E,
a proposito di questo… sarai tu a occuparti del Principe che, al momento, si
trova nelle segrete…”
“Nelle
segrete?” ripeté il Generale,
incredulo. Possibile che non potesse nemmeno allontanarsi una mezza giornata
senza che succedesse un pandemonio?
“Volevo
solo divertirmi un po’, ma quel Principe Alfonso è davvero troppo suscettibile”
replicò spazientito il Re. “Ad ogni modo non è successo niente, ti occuperai tu
di lui, come al solito, e domani gli Sforza avranno quel che meritano.”
Con
un rapido inchino, il Generale si congedò dal suo sovrano e si diresse in
fretta verso le camere di tortura. Entratovi, accese subito le torce e vide la
figuretta esile e tremante del Principe, ancora rannicchiato nell’angolo in cui
si era rifugiato ore prima. Gli si avvicinò con cautela per non spaventarlo
ulteriormente e si chinò accanto a lui, passandogli un braccio attorno alle
spalle. Alfonso sobbalzò, si guardò intorno con occhi terrorizzati e riprese a
singhiozzare.
“No,
no, vi prego… non fatemi del male, ho fatto il bravo, mi sono comportato bene…
non fatemi del male, per favore, per favore…”
Il
ragazzo sembrava fuori di sé per il terrore, era scarmigliato, stravolto, la
manica del suo abito e il farsetto sporchi di sangue e sul sopracciglio destro
spiccava una ferita. Il Generale non osava nemmeno pensare ai momenti di orrore
che il povero Principe doveva aver trascorso, sebbene nessuno lo avesse
fisicamente molestato.
“Va
tutto bene, Principe, è finita, adesso ti accompagno in camera e… Va tutto bene,
calmati, adesso” tentò di tranquillizzarlo, ma il giovane pareva non sentirlo
nemmeno e continuava a gemere e a piangere.
“No,
per favore, non fatemi male, no, no…”
“Alfonso!”
lo chiamò allora il Generale, in tono calmo ma deciso e stringendo il Principe
a sé. “Ci sono io adesso, nessuno ti farà del male.”
Sentendosi
chiamare per nome, il Principe si riscosse e riprese coscienza di se stesso e
di chi gli stava parlando. Sconvolto, si aggrappò convulsamente all’uomo che lo
stava confortando.
“Volevano…
loro… mi hanno inseguito per tutto il castello… non mi lasciate più da solo, vi
prego… mi odiano, mi odiano tutti!” mormorò, ansimando e singhiozzando.
“Adesso
sono qui e non devi temere più niente” ripeté il militare.
“No…
voi non c’eravate, mi avete lasciato solo, mi avete abbandonato…” protestò
debolmente il ragazzo.
Il
Generale gli prese il viso tra le mani per guardarlo direttamente negli occhi.
“No,
Principe Alfonso, non ti ho abbandonato e mai lo farò, ma io non ho alcun
obbligo nei tuoi confronti, gli unici miei doveri sono verso Sua Maestà”
spiegò, serio. “Tutto quello che faccio per te è perché tu sei importante, per
la causa francese e per me personalmente, ma non hai il diritto di rinfacciarmi
nulla. Io mi occuperò sempre di te e ti starò vicino perché è ciò che voglio, non perché sia un mio obbligo verso di te. Hai capito bene,
Principe?”
Alfonso,
che restava sempre affascinato e irretito dalle parole pacate e rassicuranti
dell’uomo, annuì. Allora il Generale si chinò su di lui e lo baciò a lungo,
stringendo tra le braccia quel corpo esile e delicato, cercando di
trasmettergli calore dopo tutto il freddo e l’umido che aveva patito nelle
segrete.
Infine
lo prese in braccio, sollevandolo da terra e, ancora una volta, si trovò a
riflettere su quanto fosse fragile e sperduto quel povero Principe senza regno
e su quanto male gli avessero fatto. Lo portò nelle loro stanze dove si sarebbe
preso cura di lui lavandolo, ripulendogli e medicandogli la ferita sulla fronte
e procurandogli degli abiti caldi e puliti.
Alfonso
si affidò a lui, lasciandosi portare in braccio e sentendosi finalmente al
caldo e al sicuro. Tutto gli appariva più sopportabile quando il Generale era
con lui e si occupava di lui. Adesso non era più solo.
the closer we are coming now the more it’s getting real
real for you and me
together we can take a
piece of never
bring it back with us
and make this world
our home.
(“OurNeverworld” – Xandria)
Dopo
che il Generale lo ebbe portato in camera, deposto sul letto e medicato,
Alfonso cadde addormentato: quella era stata per lui una giornata terrificante
e l’aveva lasciato sfinito e stravolto. Per qualche tempo il Generale lo guardò
dormire, riflettendo, come aveva già fatto molte volte, su quanto il Principe
fosse giovane e indifeso e su fino a che punto avessero esagerato con lui.
Adesso, però, non avrebbe più permesso che gli accadesse qualcosa di brutto.
Alfonso era sempre più prezioso per lui e, per fortuna, averlo come ostaggio si
era rivelata una scelta vincente sotto tanti punti di vista e questo avrebbe trattenuto
il Re dal prendere decisioni avventate a suo danno. Sua Maestà ne avrebbe avuto
la prova, se ancora ce ne fosse stato bisogno, proprio il giorno successivo:
gli Sforza sarebbero giunti al castello con le loro pretese insensate, sicuri
del fatto loro e forti della minaccia di una possibile guerra con la Spagna…
Chissà che faccia avrebbero fatto trovandosi davanti il Principe Alfonso in
salute, tranquillo e spontaneamente sottomesso al Re di Francia! Allora sarebbe
stato molto difficile, per loro, continuare a sostenere il pericolo di
un’aggressione spagnola e il comandante francese pregustava già quel momento di
trionfo.
Tutto
merito del giovane Principe che adesso dormiva, finalmente sereno e abbandonato
tra le lenzuola; anche Sua Maestà avrebbe dovuto rendersi conto dell’importanza
fondamentale del ragazzo per la loro causa e mettere da parte le proprie
antipatie personali in nome di qualcosa di più grande.
Il
Generale si rese conto che si era fatto tardi, a quell’ora sicuramente il Re
era a tavola con gli altri cortigiani e la sua assenza sarebbe sembrata strana.
Valutò se fosse il caso di svegliare il Principe per condurlo alla tavola del
sovrano, ma poi pensò che il povero giovane ne avesse avuto abbastanza per quel
giorno: sarebbe sceso lui per la cena e, più tardi, gli avrebbe portato
qualcosa in camera. Ora come ora, il Principe Alfonso aveva soltanto bisogno di
riposare per riprendere le forze.
Quando
il Generale tornò in camera, due ore dopo, portando un piatto con carne e frutta
e una coppa di vino per il Principe, Alfonso si era svegliato e lo guardò
entrare nella stanza con gli occhi scuri sgranati.
“MI
avete portato la cena?” chiese, stupito.
Il
francese si sedette sul letto accanto a lui e gli porse il piatto, mettendo la
coppa sul comodino.
“Sì,
perché ti sorprendi tanto?”
Il
Principe si lasciò sfuggire un lieve sorriso che colpì profondamente l’uomo:
era la prima volta, da quando lo conosceva, che lo vedeva sorridere e così
sembrava ancora più giovane e tenero. Era quella, dunque, la parte del ragazzo
che non conosceva?
“No,
è che… mi avete ricordato una cosa…” rispose timidamente il Principe Alfonso.
“Questo lo facevo io per mio padre, ero io a imboccarlo e, quando fu costretto
a rimanere a letto, gli portavo i pasti.”
“Lo
facevi tu? Non un servitore?” si stupì il Generale.
“Perché
no? Era mio padre, in fondo” replicò tranquillo Alfonso, iniziando a mangiare.
Solo in quel momento si rendeva conto di quanto fosse affamato e per lui
occuparsi del padre era stata una cosa normale, perciò considerava chiuso
l’argomento, ma non era così per il Generale. Ecco un altro aspetto
sorprendente della personalità di Alfonso: chi avrebbe mai detto che un
principino viziato, altezzoso e schifiltoso come lui sarebbe stato così
servizievole con l’anziano e infermo padre? Piacevolmente sorpreso, l’uomo gli
accarezzò i capelli.
“Sei
stato un bravo figlio, sono certo che Re Ferrante fosse fiero di te” gli disse.
“Oh,
questo non lo so: negli ultimi tempi non si rendeva più conto di niente e magari
non mi riconosceva neanche” minimizzò il Principe, continuando a mangiare come
se niente fosse e senza capire perché il Generale fosse rimasto così
impressionato da un fatto tanto semplice.
“Ad
ogni modo, è bene che ora mangi e ti riposi, perché domani avrai una giornata
impegnativa e ciò che farai sarà molto importante” riprese il militare,
cambiando argomento. “Ci sarà un grande banchetto con degli ospiti venuti
appositamente per importunare Sua Maestà e vederti al nostro fianco sarà per
loro un’amara sorpresa.”
“Ancora
ospiti?” si lamentò il giovane. Odiava quei banchetti, il sovrano faceva di
tutto per metterlo a disagio e ricordargli i tormenti subiti, invece di
essergli grato per il fatto di mostrargli il suo appoggio!
“Giovanni
Sforza e sua cugina Caterina” spiegò il Generale, notando l’improvviso
rabbuiarsi del Principe. “Non hanno alcun potere effettivo, ma si sentono in
diritto di accampare pretese su Sua Maestà. Quando avranno saputo che tu sei
nostro ospite e che appoggi le
rivendicazioni della Francia sul trono di Napoli, dovranno tornarsene a casa
con la coda tra le gambe e Sua Maestà non potrà fare a meno di riconoscere
quanto sei prezioso per noi.”
Un
sorrisetto malizioso comparve sul viso di Alfonso.
“Giovanni
Sforza? Ma non è quello che…”
“Sì,
è l’uomo che aveva sposato la figlia del papa Borgia e che poi, per annullare
il matrimonio, ha dovuto dichiarare pubblicamente di essere impotente” rispose
l’uomo, anche lui sorridendo divertito. “Ti sembra opportuno che un essere
simile sia tanto arrogante da importunare il Re di Francia?”
Il
Principe Alfonso non riuscì a resistere e scoppiò in una risata, una delle sue,
sonora e liberatoria. Il Generale parve affascinato nel sentirlo ridere così e
vederlo tanto allegro: ecco un altro lato del Principe che non aveva ancora
avuto modo di conoscere…
Il
ragazzo tentò di soffocare la risata mettendosi una mano sulla bocca, ma gli
occhi ridevano ancora.
“Ah,
mi… mi dispiace di essermi lasciato andare così, ma sapete” spiegò, “un tempo,
quando ero ancora il Principe di questo regno, mi divertivo tanto a
sbeffeggiare così i miei ospiti e… sì, lo so che ora tutto è cambiato…”
“Ma
no, Principe, niente affatto” lo incoraggiò il Generale, al quale era piaciuto
moltissimo il riso spontaneo e squillante del Principe e avrebbe voluto vederlo
di nuovo sereno e vivace. “Anzi, credo proprio che faresti bene a lasciarti
andare quanto desideri con questi Sforza: avranno così modo di vedere che sei a
tuo agio con noi e si sentiranno ancora più umiliati.”
Attratto
dai nuovi aspetti della personalità del giovane Principe e, soprattutto, dal
suo lato più allegro e monello, il Generale si avvicinò a lui, lo prese tra le
braccia e cominciò a baciarlo a fondo e lungamente, distendendolo sul letto e accarezzandolo.
Le attenzioni audaci dell’uomo, come sempre, sulle prime sconvolsero Alfonso,
ma poi anche lui sentì che il suo corpo rispondeva inspiegabilmente a ogni
sollecitazione e si abbandonò, lasciando che il Generale facesse di lui tutto
ciò che voleva e dimenticando in quel vortice confuso di sensazioni tutte le
sofferenze e i terrori di quella giornata.
Il
giorno seguente tutto era pronto, alla reggia di Napoli, per accogliere
Giovanni e Caterina Sforza. Il Re e tutto il suo seguito si erano abbigliati
con estrema eleganza e ogni sala del castello risplendeva, per ostentare
appieno il potere dei francesi, che non temevano niente e nessuno.
Alfonso,
felice di potersi ancora una volta mostrare elegante e aggraziato come il
Principe che era, si stupì non poco nel vedere anche il Generale abbigliato in
modo ricercato: quel giorno non sembrava affatto il comandante dell’esercito
francese bensì un vero e proprio uomo di potere, magari un conte o un duca. Non
avrebbe sfigurato affatto di fronte ai nobili italiani venuti a discutere con
Re Carlo!
“Perché
sei tanto sorpreso, Principe?” sorrise l’uomo, notando che Alfonso lo fissava
perplesso e affascinato allo stesso tempo.
“Voi…
non vi avevo mai visto così elegante, non sembrate nemmeno più un guerriero” rispose,
confuso, il giovane.
“Certo,
tu mi hai visto soltanto nelle vesti di Generale dell’esercito, ma in Francia
mi è capitato spesso di abbigliarmi così, vivo anch’io a Corte con Sua Maestà e
partecipo ai suoi banchetti e ricevimenti” disse il comandante francese,
divertito dallo sbigottimento del Principe.
“Beh,
se non lo sapessi… ecco… insomma, sembrate molto più regale voi di Sua Maestà!”
“Mi
fa piacere, ma è meglio che tu non lo ripeta davanti a lui” ribatté il
Generale, stringendo a sé il Principe e baciandolo velocemente, compiaciuto
della complicità che si stava rinforzando sempre di più fra di loro.
A
quanto pareva, anche Alfonso aveva scoperto dei lati della personalità del
Generale che gli piacevano!
Poco
più tardi, nella sala del trono, tutti attendevano l’ingresso di Sua Maestà e,
nel frattempo, Caterina Sforza si era fatta avanti a parlare con il Generale,
mentre suo cugino Giovanni stava in piedi dietro di lei. Nessuno dei due aveva
ancora notato la presenza del Principe Alfonso…
“Non
mi è ancora chiaro per quale motivo Sua Maestà dovrebbe abbandonare il regno
che ha conquistato e tornare in Francia proprio adesso” stava dicendo il
Generale. “La sua posizione è solida qui e, comunque, il nostro esercito non ha
certo bisogno della protezione degli Sforza.”
“Potreste
averne bisogno, invece” replicò Caterina, togliendo di mano all’uomo, in gesto
di sfida, la coppa di vino che si era appena fatto versare, “se la Spagna
decidesse di attaccarvi per riprendersi il regno di Napoli. Allora voi e il
vostro sovrano sareste ben felici di avere la protezione del nostro esercito.”
A
quel punto, con un’encomiabile scelta di tempo, il Principe intervenne per
afferrare il polso della nobildonna e costringerla a rendere al Generale la sua
coppa di vino.
“La
Spagna non muoverà mai guerra contro la Francia, visto che io sono qui e che ho
riconosciuto la legittimità di Sua Maestà come sovrano di Napoli, dopo che è
stato incoronato dal papa” disse con un sorrisetto provocatorio. “Sono desolato di infrangere in questo modo le
vostre speranze, ma le cose stanno così.”
Caterina
Sforza fece un passo indietro, presa alla sprovvista, mentre suo cugino
Giovanni fissava il ragazzo con aria incredula.
“Voi
siete… il Principe Alfonso di Napoli?” domandò la nobildonna, la prima dei due
a riprendersi dalla sorpresa. “E che cosa ci fate qui?”
“Cosa
ci faccio qui? Che domanda assurda!” ribatté Alfonso, scoppiando a ridere. “Io
qui ci abito, mia signora!”
“Ma…
le voci… dicevano che il Re di Francia vi aveva ucciso…” intervenne Giovanni
Sforza sempre più allibito.
“Oh,
le voci! Le voci dicono tante cose, per esempio che voi siate… beh, lo sappiamo
entrambi, no?” replicò soavemente il giovane Principe.
Giovanni
Sforza serrò le mascelle, seccato; Caterina gettò indietro la testa con un gesto
brusco, preparandosi a rispondere a tono; il Generale guardò Alfonso sentendosi
profondamente orgoglioso di lui e anche piuttosto attratto da quel suo modo di
fare ironico e sprezzante… ma poi le porte del salone si aprirono e Re Carlo
fece il suo ingresso, spinto sulla carrozzella da uno dei suoi servitori. Tutti
si inchinarono davanti al sovrano che guardò i due Sforza con un’espressione di
sincero schifo dipinta sul volto prima di parlare.
“Giovanni
Sforza…” disse, come unico saluto.
“Sì,
Vostra Maestà, e questa è mia cugina Caterina Sforza” rispose l’uomo, mentre la
nobildonna si faceva avanti.
“Ah,
vostra cugina” commentò in tono annoiato il Re. “Avete molti cugini, mi hanno
detto. E… sono tutti impotenti come voi?”
Alla
battuta del sovrano, i due Sforza si irrigidirono, nervosi, mentre gli altri
presenti in sala si lasciarono sfuggire delle risatine più o meno trattenute.
Chi non si trattenne affatto fu il Principe Alfonso che scoppiò in una delle
sue sonore risate, facendo diventare ancora più livido di rabbia Giovanni
Sforza.
“Ah,
è così che stanno le cose? Non sapevo che anche l’impotenza fosse ereditaria!” commentò il ragazzo,
sfogando tutta la sua ilarità con grande imbarazzo dei due nobili italiani.
Re
Carlo, colto alla sprovvista dalla risposta sincera e divertita di Alfonso, lo
guardò sorpreso come se lo vedesse per la prima volta, poi anche lui si lasciò
andare a una gran risata.
“Ma
l’avete sentito? Ha spirito, il nostro Principe!” commentò, godendosela un
mondo a osservare le diverse espressioni che attraversavano i volti di Giovanni
e Caterina Sforza. Volevano i suoi cannoni? Beh, lui gli avrebbe volentieri
suggerito dove avrebbero potuto
infilarseli, i cannoni francesi, se ci tenevano così tanto…
“Questa
è solo una calunnia messa in giro dal papa Borgia!” tentò di protestare
Giovanni Sforza, ma era chiaro che nessuno, ormai, lo stava più a sentire. C’era
chi rideva apertamente, sentendosi giustificato dal fatto che anche Sua Maestà
sghignazzava soddisfatto, e chi mormorava ai suoi vicini fissando gli Sforza
senza nemmeno dissimularlo.
Tutti,
però, tacquero quando il Re riprese la parola in tono sarcastico.
“Dunque
voi volevate intimorirci insinuando che la Spagna ci avrebbe attaccati, non è
così? Per questo avremmo dovuto appoggiare le vostre richieste… ma, come
vedete, noi e la Spagna siamo in perfetto accordo, avendo come ospite nel nostro regno un illustre rappresentante
della casata degli Aragona” disse il sovrano.
Caterina
Sforza strinse le labbra, indignata, mentre volgeva lo sguardo verso il
Principe Alfonso che continuava a ridacchiare. Poco distante, il Generale
osservava la scena con un sorriso pieno di soddisfazione dipinto sul volto: il
Principe si stava comportando in modo esemplare e, forse, stava finalmente
conquistando almeno in piccola parte le simpatie di Sua Maestà. Le cose non
sarebbero potute andare meglio di così!
“Ritengo
che dovremmo andarcene” sibilò, invelenita, Caterina Sforza. “Non abbiamo più
niente da fare qui.”
“Oh,
volete già lasciarci?” ribatté il Re, con un vago tono di minaccia. “Non potete
farlo: il banchetto è in vostroonore
e ci riterremo oltremodooffesi se non vi prenderete parte.”
Gli
Sforza non potevano permettersi di arrecare ulteriori offese al Re di Francia.
Dovettero perciò fare buon viso a cattivo gioco e sedersi a tavola con il resto
della Corte, pieni di rabbia e umiliazione.
Ovviamente,
per tutta la durata del banchetto Re Carlo continuò a fare allusioni all’impotenza e a coloro che avevano la
sventura di soffrire di tale incresciosa infermità e, per una volta almeno, il
Principe Alfonso poté godersi il pranzo e la compagnia senza essere preso di
mira, divertendosi e illudendosi di essere ancora, come un tempo, l’erede al
trono di Napoli che se la godeva irridendo i suoi ospiti.
Tuttavia,
la sua posizione alla Corte del sovrano francese quel giorno era diventata più
salda e, forse, le cose sarebbero cambiate in meglio.
We can be beautiful without our war paint, our war
paint
And we can have it all once we let our walls break,
our walls break
Why in the hell do we fight on the front line
When we both know that we’re
here on the same side…
(“War
paint” – Kelly Clarkson)
Gli
Sforza, seccati e amareggiati dopo la deludente e umiliante cena con Re Carlo,
erano ripartiti per Forlì la mattina successiva, alle prime luci dell’alba e,
non appena l’aveva Saputo, il Generale era andato ad annunciarlo con grande
entusiasmo al suo sovrano.
“Sono
certo che ormai questi insulsi nobili italiani avranno capito con chi hanno a
che fare e non verranno mai più a disturbare Vostra Altezza” commentò, molto
soddisfatto. Anche il Re sembrava compiaciuto e fu per questo che il comandante
francese si azzardò a fargli una richiesta particolare.
“Spero
che converrete con me, mio sovrano, che è stato anche merito dell’encomiabile
comportamento del Principe Alfonso se la cosa si è risolta in modo tanto
vantaggioso per voi” iniziò a dire. “Il Principe ha mostrato di condividere le
vostre idee, di essere vostro alleato e, cosa ancora più preziosa, gli Sforza
non hanno potuto minacciarvi di possibili ritorsioni da parte della Spagna
proprio perché un importante rappresentante di quella nazione era accanto a
voi.”
“Ne
siamo consapevoli” ammise il sovrano, con un sorrisetto malizioso, “ma dove
vorresti arrivare con questo discorso, Generale?”
“Vostra
Maestà, io oserei suggerire una piccola ricompensa per il Principe” rispose
l’uomo, che si era preparato proprio per quel momento. “Fargli una concessione
che a voi non costa nulla e che per lui significa moltissimo servirà sia a
legarlo ancora di più alla vostra causa, sia a rallegrarlo e, di conseguenza, a
motivarlo sempre di più in vostro favore.”
“Va
bene, va bene, ho capito. Ci tieni proprio tanto a quel moccioso di un
Principe, eh? Ad ogni modo hai ragione tu, si fa così anche con gli animali per addomesticarli” tagliò corto
Re Carlo. “E quale sarebbe la ricompensa che proponi per lui?”
“Come
vi ho già detto, a voi non costa nulla ma per lui sarebbe una grande gioia:
vorrei portarlo a fare una cavalcata fuori dalla reggia, nei boschi che abbiamo
percorso per arrivare qui” spiegò il Generale. “Il Principe è molto indebolito
per… beh, per tutto quello che ha passato e da molte settimane ormai è
rinchiuso qui. Credo che una breve gita all’aria aperta gli farebbe bene al
fisico e all’umore. Niente di impegnativo, pensavo a un semplice pomeriggio di
svago…”
“Questa
è la scusa che hai trovato per portarti il Principino nei boschi, eh,
Generale?” replicò il Re con una risata. “E chi ci assicura che non tenterà la
fuga?”
“Ve
lo assicuro io, Vostra Altezza, il Principe sarà sotto la mia responsabilità”
rispose compunto il militare. “Non lo lascerò cavalcare, ovviamente, lo porterò
con me sulla mia cavalcatura e lo terrò sempre sotto sorveglianza. E se,
nonostante tutta la mia attenzione, cercasse di fuggire… mio sovrano, vedete me
e sapete com’è il Principe: lo catturerei subito e a quel punto lo punirei. Non
dovete minimamente preoccuparvi.”
“E
sia, avete il nostro permesso” concesse Re Carlo, con un’altra sghignazzata.
“Anche tu meriti una ricompensa, Generale: vai, vai pure a imboscarti col Principino!”
Ottenuto,
in qualche modo, il permesso del sovrano, il Generale si occupò dei preparativi
per quel pomeriggio di libertà con il Principe Alfonso. Al giovane non disse
niente fino all’ultimo momento: voleva che fosse una sorpresa per lui… e poi si
stupì lui stesso del pensiero gentile che aveva avuto nei suoi riguardi. Forse
Sua Maestà aveva ragione e lui si stava davvero legando sempre più
profondamente al ragazzo… ma questo lo faceva sentire bene come mai prima.
Alfonso,
dal canto suo, si sentiva confuso e destabilizzato. La sera precedente era
stata davvero entusiasmante, lui si era divertito moltissimo e, per qualche
ora, aveva dimenticato la sua triste condizione di prigioniero e persino le
orribili torture subite per ritornare ad essere il giovane Principe
provocatorio e malizioso che era sempre stato. Aveva preso in giro gli Sforza,
si era vantato del suo titolo e della sua importanza come discendente degli
Aragona, aveva partecipato al banchetto di Re Carlo come ospite d’onore invece
che come bersaglio delle sue cattiverie e, in certi momenti, gli era parso che
anche il sovrano iniziasse ad apprezzarlo. Quella mattina, però, si era
ritrovato ad essere il solito povero Principe senza regno e senza corona,
disprezzato anche dalla soldataglia francese e soggetto ai capricci del Re… il
suo bel sogno era durato una sera soltanto!
All’ora
di pranzo, il sovrano non lo aveva convocato alla sua tavola e, quindi, il
Principe era rimasto nella sua camera, malinconico e un po’ spaventato, temendo
che, tutto sommato, la serata non fosse andata così bene e che il Re fosse
nuovamente in collera con lui. Più tardi era arrivato il dottore a bussare alla
sua porta, gli aveva portato qualcosa da mangiare e lo aveva visitato,
verificando che le terribili ferite che gli erano state inflitte erano
finalmente in via di guarigione. Aveva cercato di confortarlo, dicendogli che
presto sarebbe guarito completamente, ma Alfonso era rimasto mesto e
silenzioso. Dentro di sé pensava che era inutile guarire… tanto, prima o poi,
il Re avrebbe trovato qualche nuova scusa per prendersela con lui e fargli
ancora del male… non poteva più illudersi.
Il
Generale lo trovò dunque malinconico e abbattuto e ne rimase sorpreso.
“Principe
Alfonso, perché sei così triste? Non dovresti: hai già dimenticato come sei
stato prezioso per Sua Maestà ieri sera? Il sovrano è molto compiaciuto di te,
è stato per gran parte merito tuo se gli Sforza non hanno potuto ottenere ciò
che si ripromettevano” gli disse l’uomo, cercando di tirarlo su di morale. “Stamattina
sono ripartiti prima dell’alba e non credo che torneranno mai più a disturbare
Sua Maestà!”
Il
Principe annuì stancamente.
“Sì,
ieri sera è andata così, ma quanto durerà? Anch’io mi ero illuso, per qualche
ora, di essere di nuovo il Principe di un tempo ma… appunto, era solo
un’illusione” mormorò.
“Ti
sbagli, Principe. Sua Maestà è davvero contento di te e per questo motivo ha
deciso di premiarti: adesso potrai venire con me a fare una passeggiata a
cavallo nei boschi attorno alla città” gli annunciò il Generale, cercando di
strappargli un sorriso. “Sei rinchiuso nella reggia da tanto tempo e una
giornata all’aperto ti farà bene.”
Alfonso
lo fissò, incredulo.
“Davvero
Sua Maestà ha deciso di ricompensarmi? E’ veramente così soddisfatto di me?”
“Ma
certo, Principe” ribatté il comandante francese. Non gli sembrava il caso di
spiegargli che, in realtà, era stato lui a convincere il sovrano a fargli
quella concessione… “Ti ho detto tante volte che, se ti comporti bene e se ti
rendi utile alla causa francese, non hai più niente da temere da parte di Sua
Maestà. Questa è una dimostrazione, ma ne avrai sicuramente molte altre.”
Il
Principe non sapeva se crederci o no. Da un lato avrebbe tanto voluto che le
cose fossero così semplici, che bastasse fare
il bravo e compiacere il Re per sentirsi al sicuro e riavere almeno
qualcuno dei privilegi di un tempo; dall’altro lato, però, rammentava ancora
fin troppo bene la terribile sera in cui si era fidato, in cui aveva creduto
che il sovrano lo avrebbe accolto… e poi si era ritrovato nelle camere di
tortura a soffrire le più atroci pene e urlando disperatamente, sapendo che
nessuno si sarebbe impietosito. Come poteva illudersi ancora?
“Naturalmente
sarò io a portarti con me, sulla mia cavalcatura” dovette ammettere il
Generale, “Sua Maestà non si fida ancora così tanto di te da lasciarti andare
da solo. Tuttavia sarà un pomeriggio di libertà e di svago e potrai mostrarmi
le bellezze di Napoli e dei suoi dintorni, come dicevi di voler fare…”
Uno
sguardo al viso pallido e sconvolto del ragazzo fece capire al Generale di non
aver usato un’espressione molto felice: Alfonso si era offerto di portare Sua
Maestà e la sua Corte alla scoperta delle bellezze di Napoli… e il Re aveva
ribattuto che preferiva cominciare dall’esplorazione delle segrete.
“Ad
ogni modo un pomeriggio all’aperto ti farà bene. Sei pronto? Possiamo partire
subito” tagliò corto l’uomo, per cambiare argomento e distrarre il povero
Principe.
Fu
una lunga galoppata lungo i sentieri boscosi fuori dalla città e, nonostante
tutto, Alfonso si godette il tepore del sole sul viso, la brezza leggera che
gli scompigliava i capelli, il profumo dell’aria pulita e odorosa di mare e
vegetazione e il bellissimo panorama del golfo di Napoli. Il Generale si fermò
in una piccola radura da cui si vedeva il mare e sia lui che il Principe
scesero da cavallo. Mentre l’animale si riposava dopo la corsa, il comandante
francese passò un braccio attorno alle spalle del giovane e lo guidò verso una
grande roccia piatta sulla quale poterono sedersi. Mentre si rilassavano, fissò
il viso del Principe per trovarvi dei segni di miglioramento: sicuramente la
cavalcata gli aveva giovato, aveva ripreso colore e gli occhi sembravano
brillare di una luce nuova… ma c’era sempre un fondo di malinconia in lui,
un’ombra che niente riusciva a dissipare.
“Non
sentivi anche tu il bisogno di uscire dalla reggia?” gli disse, cercando di
distrarlo. “In effetti questi posti sono davvero belli, posso capire perché
siano così importanti per te.”
“Sì,
mio padre ha lottato tanto per difendere il Regno di Napoli” mormorò il
Principe, rattristato. “Con ogni mezzo, in realtà, ma le bellezze del nostro…
cioè, del vostro Regno non meritavano
niente di meno. E adesso…”
“Principe,
non devi essere triste” lo incoraggiò il Generale. “La passeggiata a cavallo di
oggi è stata solo l’inizio, devi stare tranquillo e continuare a mostrarti
compiacente e docile con Sua Maestà. Sono sicuro che, più Sua Maestà si renderà
conto di quanto sei prezioso per lui, più privilegi e ricompense ti accorderà. Hai
perduto il tuo titolo, è vero, posso capire che questo ti rattristi ma, se ti
comporterai sempre bene, otterrai comunque alcuni dei vantaggi che avevi come
Principe ereditario.”
“Finché
Sua Maestà non troverà un altro motivo per infuriarsi con me e mi strazierà di
nuovo” esclamò il ragazzo, scoppiando in lacrime, “e questa volta nessuno lo
fermerà!”
Il
Generale, stupito da quell’improvviso sfogo, lo prese tra le braccia e lo
strinse forte a sé, avvolgendolo come per proteggerlo da tutti i mali e tutti i
terrori.
“No,
Principe, non accadrà più. Io mi prenderò cura di te e non permetterò che ti
venga fatto altro male. Del resto, non lo avrei voluto nemmeno la prima volta…”
ammise.
Quelle
parole sembrarono colpire particolarmente il giovane Principe, che smise di
piangere e puntò lo sguardo in faccia all’uomo.
“Come
dite? Voi non… voi non volevate che mi torturassero?”
“Ti
ho salvato, no? Ti ho portato via di là…” rispose il Generale, tentando di
eludere la domanda; ma Alfonso lo fissava con tanta fiducia e speranza che
l’uomo non poté trattenersi oltre.
“E
va bene, è vero, io non approvavo la decisione di Sua Maestà” confessò,
stringendo il ragazzo al petto per sfuggire al suo sguardo. “Sono il suo uomo
di fiducia e obbedisco a tutti i suoi ordini, ma non sono sempre in totale
accordo con lui, questo è naturale. Quando mi ha ordinato di mandare i miei
uomini a catturarti sapevo quali erano le sue intenzioni e non mi piacevano:
allora non ti conoscevo e pensavo semplicemente che sarebbe stato molto più
utile tenerti come ostaggio piuttosto che ucciderti per un capriccio. Ritenevo,
comunque, che Sua Maestà fosse incollerito e indebolito per la malattia e che,
una volta riflettuto, avrebbe compreso che un Principe prigioniero è sempre più
vantaggioso di un Principe morto.”
Soprattutto per il
Principe in questione,
pensò Alfonso, ma non aprì bocca e ascoltò incuriosito quello che il Generale
aveva da dirgli.
“La
sera in cui ti trascinarono in catene al cospetto di Sua Maestà rimasi ancora
più sconcertato: non eri altro che un ragazzo sperduto e spaventato e volli
convincermi che il Re, vedendoti, avrebbe cambiato idea. Voleva vendicarsi, lo
sapevo, ma sarebbe bastato terrorizzarti un po’, magari chiuderti in una cella
per qualche notte e saresti stato subito docile e arrendevole” continuò l’uomo,
rivivendo le efferatezze di quella notte che, a quanto pareva, avevano lasciato
un profondo segno anche nel suo animo. “Mi sono voluto convincere di questo
anche quando Sua Maestà mi ha ordinato di trascinarti nelle segrete. Non arriverà fino in fondo, mi dicevo, questo è solo un ragazzo, è sconvolto,
piange disperato… vuole solo fargli credere che lo torturerà per spaventarlo a
morte.”
Ricordando
quei momenti terribili, Alfonso cominciò a tremare tra le braccia del Generale
che, allora, lo strinse più forte, facendogli sentire il calore della sua
protezione.
“Nemmeno
quando sono iniziate le torture ho voluto capire… continuavo a ripetermi che
sarebbe finita presto, che Sua Maestà aveva preso una decisione forse non
troppo prudente e che mi sarebbe arrivato l’ordine di darti il colpo di grazia.
Non immaginavo… non avrei mai pensato che… e, comunque, non ho potuto
accettarlo: quando ho compreso che cosa veramente intendesse fare Sua Maestà,
ho fermato le torture e sono andato a parlargli per convincerlo a
risparmiarti.”
Alfonso
non disse niente e continuò a tremare debolmente e a piangere silenziosamente
tra le braccia del Generale.
“Hai
capito bene, quindi? Non potrà mai più accaderti niente di così terribile
perché io non lo permetterò” affermò l’uomo,
prendendo il viso del Principe tra le mani per guardarlo bene in faccia. “Se ti
comporterai sempre bene, farò tutto quello che posso per attirarti i favori di
Sua Maestà, questo già lo sai. Ma ascoltami attentamente, adesso: se, per
qualsiasi motivo, Sua Maestà decidesse di nuovo di farti straziare in quel
modo, io ti prometto, ti giuro che
non lo permetterò. Se sarò costretto, ti ucciderò io, personalmente, con un
colpo di spada, ma non lascerò mai più che tu soffra delle pene tanto atroci e
inumane.”
Non
era stato facile per il Generale ammettere tutto questo e Alfonso lo capì.
Tranquillizzato e commosso, gli rivolse per la prima volta quello che poteva
essere uno sguardo affettuoso.
“Voi
siete gentile e valoroso” gli disse, “siete stato sempre buono con me e io…vi
ringrazio. Mi comporterò bene, farò quello che può essere utile alla Francia,
ma non per Sua Maestà, no. Lo farò per voi,
perché siete stato l’unico a interessarsi alla mia sorte e a volermi aiutare.”
Allora
il Generale lo baciò, lo baciò come mai prima, non soltanto per sfogare un
bisogno ma anche per donare e ricevere qualcosa di grande e bello; lo baciò
accarezzandogli i capelli e avvolgendolo in un abbraccio protettivo; lo baciò
come se quel giovane Principe fosse il tesoro più prezioso che aveva al mondo.
Alfonso si abbandonò a lui provando un sentimento di pace e serenità che, dopo
tante sofferenze, gli riscaldava il cuore: ora sapeva che quell’uomo lo avrebbe
difeso sempre, che sarebbe stato la sua roccia e la sua guida, che le tenebre
dell’orrore non lo avrebbero inghiottito mai più.
Capitolo 8 *** Capitolo 8: The demons from my dreams ***
Capitolo 8: The demons from my dreams
Would you fall give it all
Would you give it all for me
Suckerpunch the demons from
my dreams
Would you fall give it all
Would you give it all for me
Get out of my dreams!
(“Suckerpunch”
– Delain)
La
situazione alla reggia di Napoli sembrava essersi almeno in parte stabilizzata
e, con tutte le dovute cautele del caso, il Principe Alfonso cominciava a
sentirsi un po’ più tranquillo. Si comportava sempre bene, era rispettoso e
condiscendente con Sua Maestà e il Generale gli aveva giurato che non avrebbe
mai più permesso che gli venisse fatto del male. Insomma, non era la vita che
aveva sempre sognato, ma nemmeno l’incubo che aveva vissuto quella notte
terrificante. Forse si sarebbe anche potuto abituare…
Ma
non era destino che il Principe potesse stare in pace, nonostante tutto il suo
impegno. Una sera, durante una cena, Re Carlo disse qualcosa che trasformò in
veleno tutto quello che Alfonso aveva mangiato fino a quel momento.
“Siamo
qui a Napoli ormai da più di cinque mesi” dichiarò, “riteniamo dunque sia
giunto il momento di tornare in Francia almeno per qualche tempo. Dovremo
designare un reggente che governi il Paese in nostra assenza prima di poter
tornare qui.”
L’affermazione
del sovrano lasciò talmente sbalordito il Principe da fargli cadere di mano la
posata, che tintinnò rumorosamente nel piatto. Era vero? Erano passati già
tanti mesi? Alfonso non era certo riuscito a tenerne il conto, con tutte le
cose terribili e sconvolgenti che gli erano accadute: a volte pensava che
fossero trascorsi anni, se ricordava la vita che conduceva prima dell’arrivo
dei Francesi; altre volte tutto sembrava una sorta di incanto, un malvagio
sortilegio che aveva tramutato settimane e mesi in pochi giorni. Ma il Re aveva
ragione: l’atroce notte delle torture era stata quella tra il 25 e il 26 di
giugno e adesso ci si avviava verso dicembre…
Tuttavia
non era stata la consapevolezza dello scorrere del tempo a turbare tanto il
giovane Principe, quanto la dichiarazione del sovrano di voler tornare in
Francia.
Sarebbe
stato da sciocchi sperare che Re Carlo potesse lasciare lui, Alfonso, come
reggente del Regno di Napoli in sua assenza e il ragazzo aveva imparato presto
che non era il caso di illudersi quando si trattava del sovrano di Francia.
Perciò questo cosa significava? Ovvio, che Alfonso, in quanto prigioniero del
Re, avrebbe dovuto seguirli in Francia.
Il
solo pensiero lo agghiacciava.
In
Francia! Come avrebbe mai potuto sopportare di vivere in un Paese straniero, in
mezzo a nemici, prigioniero e ancor più soggetto a ogni capriccio di Sua
Maestà? Certo, sapeva bene che era in sua balìa anche a Napoli, ma quella era
pur sempre la reggia dov’era nato e cresciuto e, pur avendo perso ogni punto di
riferimento, si sentiva a casa, in
una situazione precaria e angosciante, sì, ma a casa, l’unica che avesse mai
conosciuto.
Non
voleva andare in Francia, no!
“Vostra
Altezza, pensate che sia prudente abbandonare in questo momento il Regno di
Napoli? Qualcuno dei vostri nemici, come gli Sforza, potrebbe approfittarne”
intervenne il Generale, che aveva notato il turbamento del Principe ma senza
comprenderne il motivo.
“Naturalmente
il reggente che sceglieremo dovrà essere un uomo di cui potersi fidare
completamente, inoltre lasceremo in difesa della reggia una parte del nostro
esercito e dei nostri cannoni. Nessuno oserà avvicinarsi se ci tiene alla
vita!” rispose il Re con un ghigno.
A
quelle parole, la speranza ritornò nel cuore del Principe Alfonso: se Re Carlo
avesse scelto il Generale come reggente del Regno di Napoli, allora anche lui
sarebbe potuto restarvi come ostaggio, non sarebbe stato costretto ad andare in
Francia!
“Avete
un uomo di cui vi fidate così tanto, Vostra Maestà?” domandò il dottore che, in
cuor suo, sperava che potesse essere proprio il Principe a reggere il Regno in
assenza del sovrano francese. Chissà, magari il Re avrebbe potuto trovare
qualche ostacolo e non ritornare a Napoli per anni e il Principe avrebbe
riottenuto ciò che gli spettava di diritto.
“In
realtà noi ci fidiamo totalmente soltanto del nostro Generale” replicò il Re,
accennando all’uomo che chinò la testa in segno di ringraziamento per quelle
parole. “Tuttavia, è talmente importante per noi che non potremmo mai
privarcene per tutta la durata del nostro viaggio in Francia. Perciò dovremo
trovare qualcun altro, riflettendo bene sulla scelta da compiere.”
“Se
mi è concesso esprimere la mia opinione” esordì, timoroso, il giovane Principe,
con una vocina che si sentiva appena, “ritengo che nessuno valga quanto il Generale
e che meriterebbe questo onore…”
“In
realtà non ti era affatto concesso esprimere la tua opinione, che consideriamo
inutile e sciocca” lo rimbeccò il Re, sogghignando soddisfatto nel vedere
quanto la sua risposta secca avesse terrorizzato il ragazzo. “Comunque ormai
l’hai detta… E’ vero, il Generale meriterebbe questo onore, ma, come abbiamo
appena sottolineato, ci è indispensabile anche come comandante dell’esercito
durante il viaggio di ritorno in Francia. Dov’eri tu quando lo abbiamo
spiegato, dormivi, caro Principe?”
“Purtroppo
è così: i nemici di Sua Maestà potrebbero decidere di attaccarci proprio
durante il viaggio” convenne il Generale.
L’ultima
speranza di Alfonso era svanita. Il povero Principe, disilluso ancora una
volta, parve accasciarsi sul tavolo. L’angoscia che lo invase era talmente
forte da causargli un attacco di nausea e il giovane allontanò da sé il piatto
ancora colmo.
“Oh,
ti è passato l’appetito, mio Principe?” lo schernì il Re francese. “O forse… ma
certo, magari ti eri illuso che noi potessimo scegliere te come reggente? Se è così, sei ancora più sciocco di quanto
sembri!”
Il
ragazzo aveva allungato una mano per prendere la coppa di vino, sperando che un
sorso potesse aiutarlo a sentirsi meglio ma, quando udì l’ultima cattiveria del
sovrano, la mano gli tremò, le dita urtarono la coppa che rotolò sulla tavola,
spargendo vino tutto attorno.
“Ma
insomma!” sbottò Re Carlo, sbattendo il pugno sul tavolo. “Se non sei nemmeno
capace di stare a tavola come si deve, allora alzati e vattene a rinchiuderti
nelle tue stanze… oppure dovresti cenare nella sala da pranzo di tuo padre,
forse?”
Il
Re e tutta la sua corte, esclusi il Generale e il dottore, scoppiarono a ridere
sguaiatamente mentre il povero Alfonso, pallido e tremante e con gli occhi
pieni di lacrime, si alzava velocemente da tavola e si allontanava barcollando.
“Vostra
Maestà, forse il Principe si sente male” osò intervenire il dottore. “Chiedo il
vostro permesso per accompagnarlo in camera.”
“No!
Non hai il nostro permesso!” replicò malignamente il sovrano. “Se quell’idiota
non è capace di arrivare in camera da solo, che si arrangi!”
Il
Generale, dal canto suo, sapeva che non era il caso di infastidire il Re quando
era di quell’umore. Cercò dunque di terminare la sua cena il più velocemente
possibile per poi trovare una scusa per lasciare la tavola e andare in cerca
del ragazzo.
“Mio
sovrano, vi chiedo il permesso di ritirarmi” disse. “Come avete detto voi, è
necessario organizzare una parte dell’esercito affinché rimanga qui a difendere
il Regno in vostra assenza e io vorrei iniziare ad occuparmene fin d’ora.”
“Sì,
e sicuramente andrai anche ad accertarti delle condizioni del tuo Principino…”
commentò il Re, mellifluo. “Ma, finché compi i tuoi doveri in maniera
soddisfacente per noi, non ci occupiamo di quello che puoi fare in camera da
letto… Hai il permesso di ritirarti.”
“Vi
ringrazio, Vostra Maestà” rispose il Generale con un inchino, affrettandosi poi
a uscire dal salone per andare in cerca del Principe Alfonso.
Attraversò
il corridoio e si diresse alle scale che portavano alle stanze del piano
superiore. A guardia delle scale c’era un soldato e il Generale si rivolse a
lui.
“Hai
visto il Principe Alfonso salire in camera? Stava bene?” gli domandò.
La
guardia sembrò sorpresa.
“Sì,
ho visto il Principe, ma non era diretto alle scale” rispose. “Ha attraversato
quel corridoio sulla sinistra e credo che abbia imboccato la scala che scende
nelle segrete.”
Nelle segrete? E
cosa diamine andrebbe a fare il Principe nelle segrete di sua spontanea
volontà? A meno che…
Alfonso
era nato e cresciuto nella reggia di Napoli e, dunque, ne conosceva ogni
segreto. Sapeva che, attraversate le terribili camere di tortura che gli
avevano causato tante sofferenze e tanti incubi, sarebbe giunto ad un cancello
di ferro che dava su un passaggio scavato nella roccia e che conduceva alla
spiaggia; aveva già sfruttato quel passaggio quando era fuggito la prima volta
dal castello alla notizia dell’imminente invasione francese. Il ragazzo evitò
deliberatamente di soffermarsi sul fatto che quel tentativo era già una volta
finito in tragedia: l’unica cosa a cui riusciva a pensare era che non poteva
restare lì, in balìa di quel Re folle e crudele che si ingegnava a escogitare
sempre nuovi metodi per tormentarlo né, tantomeno, farsi portare in Francia
dove non avrebbe avuto più alcuna via d’uscita. Il cancello di ferro era chiuso
a chiave, ovviamente, per impedire l’ingresso a sicari o a briganti, ma la
chiave era nascosta in una nicchia scavata nella pietra, alla destra del
cancello, permettendo così a chiunque lo desiderasse di uscire indisturbato
dalla reggia.
Il
Principe, sicuro, mise la mano nella nicchia e… la trovò vuota.
Non è possibile,
non può essere, la chiave deve essere qui, c’è sempre stata… la volta scorsa
era qui, l’ho usata io stesso!
In
preda all’angoscia, infilò di nuovo la mano nell’apertura, esplorandola più
attentamente, ma non c’era nessuna chiave. Forse era caduta a terra? Il
Principe si inginocchiò sul pavimento umido e gelido e iniziò freneticamente a
cercare tutto intorno, alla fievole luce di una torcia, perlustrando ogni
centimetro del terreno con le mani, mentre un panico gelido si faceva strada
dentro di lui e iniziava ad attanagliargli il cuore.
“Hai
perso qualcosa, Principe?” la voce del Generale, alle sue spalle, lo fece
sobbalzare.
Alfonso
cercò di alzarsi in piedi, ma era tale la sua paura che le gambe non lo ressero
e rimase inginocchiato sulle gelide pietre.
Il
Generale teneva in mano un’altra torcia e lo guardava con una strana
espressione dipinta sul volto.
“Sei
davvero un ragazzino ingenuo, Principe” gli disse, scuotendo il capo. “Pensavi
forse che il comandante dell’esercito francese non avesse esplorato ogni parte
della reggia quando il Re vi si è stabilito? Ho perlustrato il castello da cima
a fondo per accertarmi che non vi fossero nascondigli o passaggi segreti in cui
potessero appostarsi dei nemici e, quando ho trovato questo cancello, ho anche
capito come avevi fatto tu a fuggire senza che nessuno ti vedesse. Immagino che
stessi cercando questa…”
Così
dicendo, scostò un lembo del mantello di pelliccia che indossava, rivelando un
grosso anello di ferro con una chiave appesa che adesso pendeva alla sua
cintura, accanto all’elsa della spada. A quella vista, Alfonso sembrò ritirarsi
ancora di più in se stesso, quasi volesse passare attraverso le sbarre del
cancello ormai inutile.
Il
Generale si sedette su un gradino di pietra e fissò il giovane Principe con
aria delusa.
“Non
ti rendi neanche conto di quello che hai fatto, vero?” gli chiese in tono calmo
e pacato, ma nel quale si poteva udire una punta di preoccupazione. “Hai solo
una vaga idea di ciò che ti sarebbe accaduto se, invece di me, fosse stata una
delle guardie a trovarti mentre tentavi ancora una volta la fuga? Saresti stato
trascinato al cospetto del Re e lui… non so come avrebbe potuto reagire, ma lo
posso immaginare.”
Alfonso,
atterrito al solo pensiero, cominciò a piangere silenziosamente.
“Hai
rischiato grosso e la cosa peggiore è che non riesco nemmeno a capire perché tu
lo abbia fatto” riprese il Generale. “Credevo di averti rassicurato sul fatto
che ti proteggerò sempre e credevo anche di potermi fidare di te… sinceramente
non mi aspettavo che avresti tentato di fuggire ancora una volta.”
Il
tono del Generale e la sua voce non lasciavano trapelare rabbia o indignazione,
bensì una genuina apprensione, quasi fosse stato un padre che rimproverava il
figlio monello. Il Principe cominciò a piangere ancora più forte perché, oltre
a tutto il resto, si rendeva conto di aver scontentato l’unica persona che
tenesse veramente a lui e che gli avesse dimostrato affetto. L’uomo si avvicinò
al giovane, lo aiutò ad alzarsi, lo fece sedere accanto a sé sul gradino e gli
circondò le spalle con un braccio, attirandoselo al petto.
“Non
vuoi dirmi perché stavi cercando di fuggire, Principe Alfonso?” gli chiese,
pazientemente.
“Io…
io… avevo paura di essere portato in Francia!” rispose il ragazzo tra un
singhiozzo e l’altro. “Non ci voglio andare, non voglio!”
Stupito,
il Generale lo prese per le spalle e se lo pose davanti per poterlo vedere bene
in faccia.
“Dici
sul serio? E perché? Per te non cambierebbe niente, saresti nostro ostaggio là
esattamente come lo sei qui, nessuno ti farebbe del male, non saresti
incarcerato…” l’uomo era veramente allibito.
“Ma
qui sono nato e cresciuto, questa è la mia casa!” esclamò il Principe,
disperato. “Cosa potrei mai fare in un Paese sconosciuto, in mezzo a nemici,
dove tutto mi è estraneo…?”
Una
grande e profonda tenerezza invase il cuore del Generale, che strinse forte a
sé il giovane Principe e lo baciò a lungo, accarezzandogli i capelli.
“Sei
davvero un povero piccolo Principe senza Regno…” commentò poi, avvolgendolo in
un abbraccio. “In Francia rimarresti quello che sei ora, il Principe Alfonso II
di Napoli, sconfitto da Sua Maestà Re Carlo e suo ostaggio. Tutti saprebbero
che hai rinunciato al tuo trono e che adesso sei sotto la mia custodia, come
mio protetto… e mio amante.”
“Eh?”
fece il giovane, pensando di aver capito male l’ultima parola.
“In
Francia i costumi sono molto più liberi che da voi” spiegò con noncuranza il Generale,
“anzi la corte francese è considerata una delle più licenziose d’Europa, là
praticamente ogni nobiluomo, nobildonna o sovrano ha dei favoriti e delle
favorite e a nessuno interessa. Non devi preoccuparti per queste cose, anzi,
sono sicuro che la Francia ti piacerà moltissimo e che la corte francese ti
lascerà senza fiato. In confronto alla corte di Napoli è immensa e molto più
sfarzosa!”
Lentamente,
il Generale aiutò Alfonso a rimettersi in piedi e poi, insieme, salirono le
scale, lasciando le segrete per rientrare ai piani nobili della reggia.
“Io…
non sono mai uscito dal Regno di Napoli” ammise il Principe, ancora titubante.
“Appunto.
Sono certo che vedere la Francia sarà un’esperienza molto emozionante per te”
lo incoraggiò il Generale. “Io non ti lascerò mai solo e non dovrai temere
niente.”
Confuso,
il Principe si lasciò condurre nella stanza che condivideva con il Generale e,
ancora una volta, si lasciò docilmente prendere e dominare da lui, consapevole
del fatto che, comunque fosse, quell’uomo rappresentava ormai il suo punto di
riferimento e il suo appoggio solido e sicuro in mezzo alle macerie che
restavano del suo mondo di un tempo.
La
serata era stata estenuante per il giovane Principe, che dunque si addormentò
tra le braccia del Generale subito dopo l’amplesso; l’uomo, invece, rimase a
guardare Alfonso addormentato, indifeso, con i capelli scompigliati e la testa
appoggiata al suo petto.
Non
era la prima volta che si rammaricava di aver lasciato che il suo Re lo facesse
torturare in quel modo atroce, ma più si avvicinava a lui, più sentiva che
diventava importante nella sua vita e più si pentiva di non aver sollevato
qualche obiezione in quella sera maledetta. Certo non avrebbe potuto fare
molto, ma sarebbe stato sufficiente convincere Sua Maestà che il Principe
doveva essere frustato e imprigionato in cella per un giorno o due, tanto per
fargli capire chi comandava, e poi liberato e tenuto in ostaggio… Sarebbe stato
doloroso per il ragazzo, ma mai quanto ciò che gli era stato inflitto e,
soprattutto, l’avrebbe domato e reso malleabile senza terrorizzarlo così tanto.
Dannazione,
era ancora talmente atterrito da ciò che gli era accaduto che, quella sera, per
poco non commetteva una sciocchezza della quale si sarebbe pentito! Non aveva
ragionato nemmeno un secondo su ciò che stava per fare e, ancora peggio, su ciò
che avrebbe fatto il Re alui se lo avesse scoperto. Il Generale
era un uomo tutto d’un pezzo, ma quella notte si sorprese ad angosciarsi al
solo pensiero di quello che sarebbe potuto accadere se Alfonso fosse stato
trovato davanti al cancello da qualcun altro…
Quel
pensiero fece assiepare molti altri ricordi nella mente del Generale, che non
riusciva a prendere sonno: la sera in cui tutto era cominciato, il 25 giugno,
il Principe che era stato catturato e trascinato nella Sala del Trono al
cospetto del Re gli aveva scatenato subito delle sensazioni inaspettate; lui si
era immaginato una persona diversa, un nobile borioso e desideroso di rivalsa,
non certo quel giovane fragile e spaurito che tentava di darsi un contegno
protestando per come era stato trattato, ma che intanto si guardava intorno con
smarrimento, cercando disperatamente un volto amico. Quando gli occhi scuri e
sgranati di Alfonso si erano posati sul viso del Generale, lui aveva provato un
istintivo desiderio di proteggerlo e di metterlo in guardia, ma il Principe non
aveva compreso e il suo sguardo l’aveva solo sfiorato, riprendendo a saettare
in giro con un misto di speranza e timore.
Il
Generale aveva fissato pensieroso il giovane Principe che accoglieva l’invito
del Re e, sollevato, si sedeva a tavola alla sua destra, senza capire che si
trattava solo di una beffa atroce del sovrano che progettava per lui un destino
raccapricciante. E poi… era stato lui a doverlo trascinare nelle segrete, a
strattonarlo piangente e terrorizzato davanti a tutti gli strumenti di tortura
più agghiaccianti; era stato lui a sovrintendere ai supplizi inflitti al
ragazzo, ancora lui a vederlo contorcersi, supplicare pietà e a sentirlo urlare
in quel modo terribile.
Sopraffatto
da ricordi così dolorosi, il Generale sentì la necessità di stringere più forte
a sé il giovane che gli dormiva tra le braccia per avvertire la sua presenza,
il suo calore, la sensazione del suo corpo esile e delicato abbandonato a lui.
Alfonso,
sentendosi stringere così convulsamente, si svegliò di soprassalto e fissò il
Generale con occhi smarriti e confusi.
“Mio
signore… che succede?” mormorò. Nella sua voce si poteva avvertire una punta di
timore e l’uomo si pentì di non essersi saputo controllare e di averlo
svegliato, mettendolo così in allarme.
Gli
accarezzò affettuosamente il viso e i capelli, baciandolo sulla fronte e sulle
labbra socchiuse.
“Non
è niente, piccolo, dormi, dormi pure” gli disse a bassa voce. “Non volevo
svegliarti, stai tranquillo, rimettiti a dormire, piccolo Principe…”
Intontito
dal sonno, Alfonso si lasciò docilmente baciare, abbandonandosi a quel contatto
che, comunque, gli infondeva una sensazione di calma e tranquillità, come se
avesse ormai interiorizzato che accanto al Generale non doveva temere più
niente. Lentamente appoggiò di nuovo la testa al petto dell’uomo e cadde in un
sonno profondo, mentre lui continuava ad accarezzargli i capelli.
Alcune
mattine dopo, giunse alla reggia di Napoli un messaggero: il Duca di Mantova
era arrivato a Napoli e chiedeva urgentemente di poter conferire con Sua Maestà
Re Carlo.
“Cosa
vorrà ora quello scocciatore?” brontolò il Re, subito di malumore.
“Non
lo so, ma ritengo che sia saggio che voi lo riceviate” consigliò il Generale.
“Se avrà un atteggiamento arrogante come gli Sforza verrà cacciato in malo
modo, ma parlare con lui potrebbe rivelarsi utile.”
“Sì,
lo sappiamo” replicò il sovrano, avviandosi stanco e annoiato verso la Sala del
trono, “per questo gli dedicheremo una parte del nostro prezioso tempo questo
stesso pomeriggio. Riferiscilo al messaggero.”
“Obbedisco,
Vostra Maestà” disse l’uomo, ma esitò prima di allontanarsi. “E… se posso
permettermi, suggerirei che il Principe Alfonso presenziasse al colloquio. Come
avete potuto constatare, il semplice fatto di averlo accanto a voi ha messo a
tacere le minacce degli Sforza.”
“Oh,
e va bene!” esclamò il Re, scocciato. “Fai venire il Principe nella Sala del
trono per partecipare all’incontro con il Duca di Mantova… a qualcosa dovrà pur
servire quel moccioso, oltre che a dare piacere a te!”
Con
un inchino, il Generale si ritirò per andare a riferire gli ordini del sovrano
al messaggero del Duca e al Principe.
Il
secondo compito si rivelò più ostico: il giovane si mostrò a disagio e
impaurito all’idea di ricevere un ospite di riguardo nella Sala del trono al
fianco di Re Carlo.
“Non
capisco cosa ti turbi tanto, Principe” si sorprese il Generale. “Ti sei
comportato molto bene con gli Sforza, giorni fa, Sua Maestà è rimasto
compiaciuto e per questo vuole che tu sia presente anche al colloquio con il
Duca di Mantova. Che cosa ti preoccupa?”
Alfonso
si guardava intorno con fare smarrito e non trovò niente da rispondere. Non era
più tranquillo da quando aveva saputo che il Re intendeva far ritorno in
Francia e che anche lui avrebbe dovuto andarvi; inoltre temeva che, in qualche
modo, il sovrano fosse venuto a conoscenza del suo nuovo tentativo di fuga… Non
era nulla di concreto, però, solo brutti pensieri che lo angosciavano e Alfonso
non sapeva come spiegare al Generale che cosa lo spaventasse tanto.
“Voi…
voi sarete lì, con me?” fu l’unica cosa che riuscì a dire.
Quella
domanda incerta intenerì il comandante francese, che sorrise al ragazzo, poi lo
strinse forte tra le braccia e lo baciò a lungo e profondamente.
“Io
non ti lascerò mai da solo, Principe, te l’ho già detto” gli disse, tenendolo
stretto a sé. “Sarò presente nella Sala del trono, anche se non potrò
intervenire a meno che non sia Sua Maestà a darmi il permesso. Tuttavia sarò là
e ti guarderò sempre e sono sicuro che sarai bravissimo anche questa volta.”
Leggermente
tranquillizzato, il Principe si strinse all’uomo, in qualche modo convinto che
niente di male gli sarebbe potuto accadere finché il Generale fosse stato
presente. Anzi, in un qualche punto oscuro e nascosto del suo essere iniziava a
pensare che avrebbe fatto del suo meglio per compiacerlo e non soltanto perché
aveva paura di Re Carlo, no… voleva che il Generale fosse fiero di lui.
Quello
stesso pomeriggio, dunque, il sovrano francese diede udienza al Duca di
Mantova. Re Carlo sedeva sul trono che era stato di Re Ferrante e, con somma
sorpresa del Duca, il Principe Alfonso occupava il suo solito posto, sullo scranno
al fianco del monarca, proprio come tante volte era stato a fianco del padre
durante le sue udienze.
“Vostra
Maestà, sono il Duca Francesco Gonzaga di Mantova” si presentò, inchinandosi.
“Vi ringrazio di avermi ricevuto e sono lieto di vedere Sua Altezza il Principe
Alfonso al vostro fianco. Vi confesso che giravano strane voci nelle corti
italiane… ma ora posso vedere con i miei occhi che si trattava soltanto di
maldicenze.”
“Le
corti sono un focolaio di maldicenze, caro Duca” commentò sarcastico il Re.
“Per quale motivo avete chiesto di vederci con tanta urgenza?”
Il
Duca Francesco Gonzaga era un uomo molto diverso da Giovanni Sforza: sicuro di
sé e delle sue idee, aveva un aspetto nobile e un atteggiamento aperto e
diretto.
“Sarò
franco con voi, Vostra Maestà” spiegò. “Nelle nostre corti serpeggia un grande
malcontento per ciò che è avvenuto nel Regno di Napoli, molti non accettano la
vostra presa di potere e sta prendendo sempre più campo il progetto di unire
gli eserciti di Milano, Venezia e Mantova per marciare su Napoli e liberarla
dallo straniero invasore.”
“Ah,
devo ammettere che il coraggio non vi manca” replicò Re Carlo, che comunque
ammirava il valore nei suoi avversari. “Dunque siete venuto qui per avvertirmi che state per muovermi
guerra?”
“Ho
partecipato a molte battaglie e mi sono macchiato del sangue di molti uomini,
Vostra Maestà” disse Francesco Gonzaga, fissando il sovrano dritto in volto.
“E’ vero che sono stato io a proporre agli altri governanti di unire le nostre
forze contro di voi, ma è anche vero che preferirei giungere ad una risoluzione
pacifica della questione.”
“Cosa
proponete, dunque? Siamo qui appunto per ascoltarvi” il tono del sovrano
francese continuava ad essere sottilmente ironico.
“La
proposta che sono venuto a farvi è questa: fate ritorno in Francia e lasciate
il Regno di Napoli al suo legittimo sovrano” dichiarò il Duca. “Vi saranno
perdonati i saccheggi e i massacri che avete già compiuto nelle nostre belle
terre e io stesso mi impegnerò affinché voi e il vostro esercito possiate fare ritorno
nel vostro Paese senza subire attacchi.”
“Molto
interessante” finse di approvare Re Carlo, “e se… se invece ci rifiutassimo?”
Francesco
Gonzaga scosse il capo, deluso, ma poi tornò a fissare lo sguardo sul Re.
“In
quel caso mi metterò alla guida di una lega di eserciti italiani, un’armata di
più di ventimila uomini, che vi caccerà con la forza dalle terre che avete
usurpato” affermò con decisione. “Ho ritenuto giusto parlare con Vostra Maestà
per tentare di evitare una guerra, ma se sarete voi a volerla, noi non ci
tireremo indietro. Milano e Venezia sono con me ed è mia intenzione chiedere
anche l’appoggio del Papa perché metta a disposizione le sue armate. E’ in
gioco l’onore dell’Italia e nessuno di noi tollererà ancora a lungo il
dispotismo di un invasore straniero!”
Inaspettatamente,
il sovrano francese scoppiò in una risata.
“Che
belle parole, caro Duca… l’onore
dell’Italia, un invasore straniero…
e sicuramente voi credete davvero a ciò che dite!” replicò, beffardo. “Il
problema è, vedete, che sono stati proprio i vostri onorati governanti a dare al nostro esercito il permesso di
passare, primo tra tutti il vostro prezioso alleato Ludovico Sforza che, a
quanto pare, va dove lo porta il vento. E, nel caso vi fosse sfuggito, noi non
abbiamo usurpato un bel niente: è
stato il Papa Borgia, al quale voi vorreste chiedere aiuto, a darci
l’investitura solenne e a incoronarci Re di Napoli. Siete davvero certo di
potervi fidare di simili alleati?”
La
risposta del monarca parve scuotere le certezze di Francesco Gonzaga.
“Ma…
voi non avete alcun diritto legittimo sul trono di Napoli, esso appartiene al
Principe Alfonso in quanto erede diretto del Re Ferrante…” tentò di obiettare.
“Caro
Principe” disse allora Re Carlo, “vuoi essere tu a spiegare a questo gentiluomo
come stanno realmente le cose?”
Detto
questo, il sovrano francese si sistemò più comodamente sul trono, pronto a
godersi una bella scenetta: voleva proprio vedere come si sarebbe tratto
d’impaccio quel ragazzino arrogante di fronte ad un uomo che sapeva cosa
voleva. Questa volta non si trattava di due nobilucci incapaci e prepotenti
come Giovanni e Caterina Sforza…
Se
il Re era divertito e incuriosito, il Generale iniziava ad agitarsi: Sua Maestà
aveva deciso di mettere alla prova il Principe, ma in quel frangente come
avrebbe potuto reagire Alfonso? Si sentiva inquieto e preoccupato e, purtroppo,
sapeva di non poter dire o fare nulla finché non avesse avuto il permesso del
suo sovrano.
Alfonso,
però, appariva più tranquillo e sicuro del solito. Non c’era niente di nuovo
per lui in quella situazione, già molte altre volte era stato incaricato di
parlare a nome del padre infermo e, anzi, ciò lo faceva sentire il Principe che
era stato e che ormai troppo spesso era costretto a dimenticare.
“Ammiro
il coraggio e la determinazione di Vostra Grazia” esordì, rivolgendo un
sorrisetto al Duca di Mantova, “ma temo che la situazione del Regno di Napoli
non sia poi così chiara nella vostra mente. Napoli è ormai da molti anni
contesa tra gli Angioini di Francia e gli Aragonesi di Spagna e l’unico vero
dilemma è scegliere a quale sovrano straniero
consegnare il Regno.”
“Mio
Principe, voi state dunque dicendo che rinunciate spontaneamente alla vostra
eredità?” domandò Francesco Gonzaga, incredulo.
“Io
sono l’unico erede di mio padre, questo è vero” ribatté, pronto, il giovane,
con una nuova luce che gli brillava negli occhi… in quel momento si sentiva
veramente importante e intendeva godersela più che poteva, sapendo che sarebbe
stato fin troppo breve. “Tuttavia mio padre ha atteso inutilmente, per anni,
l’investitura ufficiale da parte del Papa di Roma che, invece, ha preferito incoronare
Sua Maestà Re Carlo di Francia. Si potrebbe dire che, per il Papa Borgia, le
pretese degli Angioini fossero più legittime di quelle degli Aragonesi. In
realtà sono propenso a credere che Sua Santità abbia semplicemente fatto quello
che più gli conveniva, come ha sempre fatto e sempre farà. Temo che per lui
l’onore non abbia lo stesso significato che ha per voi…”
“Cosa
intendete dire? Sua Santità serve Dio e le questioni terrene non hanno alcuna
importanza per lui” obiettò il Duca, e questa volta fu Alfonso a scoppiare in
una delle sue risate squillanti.
“Non
lo avete ancora conosciuto, allora! Parlate di chiedere il suo appoggio ma non
lo avete mai incontrato di persona” disse poi, caustico. “Sappiate allora che
l’unico vero interesse di Rodrigo Borgia è quello di ampliare il proprio
dominio su tutta la penisola e che non avrebbe alcuno scrupolo a ingannarvi,
come ha già fatto con me e con Sua Maestà.”
“Non
capisco cosa vogliate dire, nobile Principe…” mormorò il Gonzaga, piuttosto in
confusione.
“Già,
spiegati meglio” lo incoraggiò Re Carlo, “questa storia interessa anche noi.”
L’intervento
del Re francese parve togliere per un attimo ogni sicurezza al Principe, che si
chiese se quello che stava per dire non avrebbe portato conseguenze nefaste… ma
ormai aveva iniziato e non poteva tirarsi indietro e, poi, aveva sempre avuto
un vero talento per inventarsi complotti e la parlantina non gli mancava di
certo!
“Il
Papa Borgia vuole il Regno di Napoli, così come vuole il vostro Ducato di
Mantova e qualunque altro” iniziò Alfonso, trascinato dalla storia stessa che
andava creando. “Mesi fa ha fatto sposare suo figlio Goffredo alla mia
sorellastra Sancha d’Aragona e avrebbe voluto che io sposassi sua figlia Lucrezia, per
mettere le mani su Napoli tramite la sua solita politica dei matrimoni. Io,
però, mi rifiutai decisamente di unirmi in matrimonio con la figlia illegittima del Papa e con quel rifiuto ho firmato la mia
condanna: da quel giorno, il Papa ha pensato soltanto a come togliermi di mezzo
per mettere sul trono di Napoli il suo figlio bastardo Goffredo, in quanto
marito di una Aragonese.”
“E
in tutto questo cosa c’entriamo noi?” domandò Re Carlo, suo malgrado
affascinato dall’intrigo di cui il Principe stava parlando con tanto fervore.
“Vostra
Maestà, voi siete stato il mezzo con cui Rodrigo Borgia ha cercato di ottenere
il suo fine” rispose Alfonso, intravedendo, in mezzo alle chiacchiere, il modo
per scagionarsi una volta per tutte dall’accusa di aver provocato lui la peste nel Regno di Napoli. “Non
vi ha incoronato perché riconosceva la legittimità di un discendente degli
Angioini, vi ha incoronato per scacciare me dal Regno e sapendo benissimo che
qui a Napoli non sareste rimasto a lungo… Quando vi ha concesso l’investitura
solenne, il Papa Borgia sapeva già benissimo che a Napoli infuriava la peste e
vi ci ha mandato per liberarsi di voi.”
Tanto
il Re quanto Francesco Gonzaga rimasero allibiti di fronte a tanta perfidia. Il
sovrano francese si rivolse per la prima volta al suo Generale come a chiedere
una conferma.
“Certo
sapevamo che il Borgia ci aveva ingannato, ma che avesse programmato
l’incoronazione sapendo della peste a Napoli… Generale, pensi che sia
possibile?”
Il
Generale colse al volo l’opportunità di discolpare il Principe e di gettare
tutta la vergogna su Rodrigo Borgia.
“Non
posso saperlo con certezza, Vostra Maestà, ma tutti sono a conoscenza del fatto
che la famiglia Borgia ha sicari e spie in tutte le corti italiane e, dunque,
poteva sapere prima di chiunque altro della pestilenza” rispose, deciso.
“Inoltre, se ben rammentate, una delle vostre richieste era stata quella di
essere accompagnato a Napoli dal figlio del Papa, il cardinale Cesare Borgia.
Ma Cesare Borgia ha ucciso tre nostri soldati ed è fuggito quasi subito…
potrebbe essere stato avvertito dal padre del pericolo che avrebbe corso se si
fosse avvicinato troppo alla città.”
“Quindi…”
mormorò il Duca Gonzaga, che non era uno sciocco, “Sua Santità avrebbe ordito
una simile trama per eliminare ogni legittimo pretendente al trono di Napoli e
insediarvi invece il suo figlio illegittimo?”
“Ecco,
ora forse capite meglio con chi volevate allearvi, mio caro Duca” lo irrise il
Re.
“Non
è tutto, se posso permettermi, Vostra Maestà” riprese il Principe Alfonso,
ormai lanciato. “Il Papa Borgia avrebbe probabilmente accettato le richieste di
Sua Grazia il Duca di unire le sue armate all’esercito congiunto di Mantova,
Milano e Venezia e poi, nel bel mezzo della battaglia, le armate di Roma si
sarebbero ritirate, consentendo all’esercito francese di sconfiggervi.”
“E
perché mai avrebbe dovuto fare una cosa simile, di grazia?” chiese Francesco
Gonzaga, scandalizzato.
“Mi
sembra ovvio” sorrise il Principe, “con la speranza che i soldati francesi
avrebbero ucciso sia voi che il Duca Ludovico Sforza. In quel caso, il Papa
Borgia avrebbe fatto sposare le vostre vedove ai suoi figli Cesare e Juan,
mettendo così le mani sui vostri Ducati ed estendendo il suo dominio in tutta
la penisola!”
“Ma…
suo figlio Cesare Borgia è un cardinale, non gli sarebbe consentito sposarsi”
fu l’unica obiezione che il Duca riuscì a sollevare.
“Cesare
Borgia è un cardinale quanto lo sono io” ribatté Alfonso in tono petulante.
“Non sarebbe certo difficile per il Papa di Roma concedere al figlio di
lasciare le vesti cardinalizie…”
Francesco
Gonzaga non ebbe altro da aggiungere e restò in silenzio a riflettere su tutto
ciò che il Principe Alfonso aveva raccontato con tanta enfasi.
“Siete
ancora dell’idea di allearvi con un simile personaggio, caro Duca?” lo stuzzicò
il Re.
“Non
chiederò aiuto al Papa Borgia” replicò il Duca di Mantova, brusco, “ma non
abbandonerò il progetto di un’alleanza con Milano e Venezia. Non lascerò il
Regno di Napoli in mano alla Francia e, se dovessi morire nel tentativo di
liberare l’Italia da un invasore straniero, avrò perlomeno la certezza di aver
donato la mia vita per una giusta causa! Vi ringrazio di avermi ascoltato,
Vostra Maestà, ma da questo momento in poi per me siete un avversario.”
“Sono
certo che sarete un avversario degnissimo e che i vostri eserciti si batteranno
con valore” ribatté Re Carlo, “tuttavia i nostri cannoni vi distruggeranno.”
“Come
ho detto, sarò lieto di morire con onore” ripeté Francesco Gonzaga, prima di
congedarsi.
Quando
il Duca ebbe lasciato la Sala del trono, il sovrano francese si rivolse con una
smorfia annoiata al suo Generale.
“Dovremo
dunque prepararci per una battaglia, Generale?” si lamentò. “Era nostra
intenzione far ritorno in Francia per nominare un successore…”
“Non
vi angustiate, Vostra Maestà. Il Duca Gonzaga è un uomo valoroso e leale, ma
dubito che i suoi alleati condividano le sue idee sulla bellezza di una morte
onorevole” rispose l’uomo. “Probabilmente non ci sarà nessuna battaglia, a meno
che il Duca non intenda sfidarci soltanto con il suo esercito e quello non
rappresenterebbe un problema per voi.”
“Molto
bene” disse il Re. “Dunque potrai continuare ad organizzare i preparativi per
la partenza e, al contempo, tenere pronti i soldati in caso di un attacco delle
armate di Mantova. E… portati via il Principe, mi ha fatto venire il mal di
testa con tutte le sue chiacchiere!”
Il
Generale accompagnò Alfonso fuori dalla Sala del trono e, mentre procedevano
lungo il corridoio, si affrettò a tranquillizzarlo.
“Non
temere, Principe, Sua Maestà si è espresso in modo brusco con te, ma io lo
conosco bene e ho visto quanto è rimasto soddisfatto di come hai messo a tacere
il Duca di Mantova” gli disse. “Ma… toglimi una curiosità: come fai a sapere
tutte quelle cose del Papa Borgia e dei suoi intrighi?”
“Ho
ascoltato molte volte i consiglieri di mio padre che ne parlavano, soprattutto
nel periodo in cui fu organizzato il matrimonio tra Sancha
e Goffredo Borgia” rispose Alfonso, con un sorrisetto furbo. “E poi… altre cose
me le sono inventate lì per lì, mi sono sempre piaciute le storie complicate e
i complotti!”
Il
Generale sorrise, incredulo davanti a tanta innocente sfrontatezza.
“Sei
davvero unico, Principe. Sono ogni giorno più contento di averti salvato la
vita e di poterti tenere accanto a me per sempre” mormorò, prima di prenderlo
tra le braccia e baciarlo fin quasi a togliergli il respiro.
Tuttavia
anche Alfonso era soddisfatto di come si era svolta quella giornata e sentiva
che la nuova vita che si stava costruendo sarebbe potuta essere più piacevole
di quanto avesse mai pensato. Inoltre, pur non essendosene ancora accorto, i
suoi sentimenti per il Generale diventavano sempre più profondi e anche per lui
era importante averlo accanto a sé.
Capitolo 10 *** Capitolo 10: Who's gonna save us? ***
Capitolo 10: Who’s gonna save us
Who’s gonna save
Who’s gonna save us tonight tonight
Who’s gonna save
Who’s gonna save us tonight tonight
We’ve been way too cool
for this
But it’s just too
strong to fight
So tell me who’s gonna save
Who’s gonna save us tonight
(“Who’s gonna save us”- Gavin DeGraw)
Alfonso
era soddisfatto della giornata appena trascorsa: si era seduto al fianco del Re
nella Sala del trono e, con le sue chiacchiere e la sua inventive, aveva tenuto
testa a un gentiluomo come Francesco Gonzaga di Mantova, riuscendo forse a
convincerlo a rinunciare al progetto di formare una lega di eserciti per
attaccare i francesi. Si sentiva importante ed era convinto che anche Sua
Maestà avesse finalmente compreso la sua utilità, lasciando perdere i suoi
assurdi propositi di vendetta per qualcosa che, in fin dei conti, non era
dipeso da lui.
Purtroppo
per lui, si sbagliava.
Certo,
Re Carlo aveva apprezzato il modo in cui il Principe si era sbarazzato del Duca
di Mantova ed era stato molto compiaciuto del fatto che non avrebbe dovuto
impiegare il suo esercito in una battaglia dall’esito incerto, potendosi invece
dedicare ai preparativi per il ritorno in Francia. Quella era una questione
urgente, poiché il sovrano francese non aveva figli e, per assicurare una
pacifica successione, avrebbe dovuto scegliere personalmente il suo erede.
Tuttavia
una cosa tra le tante che il giovane Principe aveva detto gli era rimasta in
mente e non se ne voleva andare.
Il
ragazzo aveva spiegato al Duca di Mantova che l’investitura del Re francese
come sovrano di Napoli aveva fatto parte di un piano abominevole per liberarsi
di lui, mandandolo a contrarre la peste, al fine di mettere suo figlio Goffredo
su quel trono.
Aveva
anche specificato che, per fare questo, il Papa Borgia doveva essere a
conoscenza della pestilenza che affliggeva Napoli prima di chiunque altro.
Appariva
dunque chiaro che la peste a Napoli si era diffusa prima che si venisse a sapere che il Re di Francia voleva
conquistare il Regno, pertanto non poteva essere stato il Principe Alfonso a infettare
la città, non ne avrebbe avuto alcun motivo.
Restavano
comunque due domande senza risposta.
Chi aveva informato il
Papa Borgia della pestilenza?
E,
cosa ancora più importante, come aveva fatto quella febbre insidiosa ad
arrivare fino al palazzo reale, se si trattava di una malattia che infuriava
nei sobborghi e nei luoghi più sporchi della città?
Qualcuno
doveva dare una risposta a quelle domande, e Sua Maestà aveva anche una mezza
idea di chi avrebbe potuto farlo…
Quella
sera, mentre il Principe Alfonso si preparava per la cena, due guardie
irruppero improvvisamente nella camera che divideva con il Generale e,
incuranti delle sue proteste e delle sue grida spaventate, lo trascinarono
senza tanti complimenti nella sala da pranzo di Re Ferrante, ancora più tetra e
spaventosa alla fioca luce di poche torce. Gettarono il giovane sull’unica
sedia vuota e, sghignazzando, ce lo legarono saldamente.
“Perché
mi state facendo questo?” gridò angosciato il Principe, sforzandosi di non
scoppiare a piangere. “Oggi sono stato utile a Sua Maestà, non ha ragione di
punirmi!”
“Davvero?
Eppure è stato proprio Sua Maestà a ordinare che questa sera tu cenassi qui”
replicò una delle guardie con un ghigno.
“Di
che ti lamenti, Principe? Non raccontavi a tutti che anche a tuo padre piaceva
cenare qui? Adesso farai come lui” disse l’altra guardia. Poi entrambi se ne
andarono ridendo sguaiatamente, lasciando Alfonso solo nella terribile stanza.
Le
torce erano troppo poche e l’ambiente si faceva ogni istante più spaventoso. Il
Principe, terrorizzato, gridò e chiamò aiuto per lungo tempo, singhiozzando
disperato e strattonando le corde che lo legavano alla sedia di Giuda, ma nessuno accorse, né per soccorrerlo, né per
minacciarlo. Alla fine non poté fare altro che accasciarsi sulla sedia,
continuando a piangere silenziosamente, con la gola che gli bruciava per aver
urlato tanto e con i polsi scorticati dopo tanto sfregare inutilmente contro le
corde.
La
cosa che più lo sconvolgeva era non capire il perché di quella terribile
punizione: cosa aveva fatto per meritare un simile trattamento? Non si era
forse comportato bene con il Duca di Mantova? Aveva offeso il Re in qualche
modo? Ma quale? Poi smise anche di porsi domande, era del tutto inutile, non
aveva già sperimentato più volte che Sua Maestà non aveva bisogno di alcuna
ragione valida per fargli del male? Forse si era soltanto stancato di lui e
voleva lasciarlo lì a morire di fame, di sete e di paura. Sì, di paura perché…
Alfonso
trasalì e alzò la testa di scatto, fissando l’uno dopo l’altro le orribili
figure degli antichi avversari di suo padre, ormai da anni imbalsamati e messi
beffardamente in posa attorno a quel tavolo. Aveva sentito un rumore…
possibile? Forse qualcuno degli armigeri si era nascosto nella sala da pranzo
per giocargli un brutto tiro e spaventarlo a morte o forse… no, era
impossibile.
Ma
lo era davvero?
La
mente offuscata e confusa dal terrore e dalla stanchezza giocava contro il
giovane Principe e gli faceva apparire le cose come non erano; quel cadavere,
quello in fondo a destra, non si era forse mosso? E quell’altro, proprio di
fronte a lui, aveva cambiato posizione, sì, ne era certo, prima teneva il
braccio appoggiato sul tavolo e ora, invece…
Un
gelido panico si impadronì del ragazzo e una folle certezza si fece strada in
lui: quegli uomini, orribilmente assassinati da suo padre, adesso volevano
vendicarsi e, poiché Re Ferrante era morto da tempo, volevano rivalersi sul suo
unico discendente, il figlio che adesso si trovava in loro potere, indifeso,
prigioniero, impossibilitato a muoversi e a scappare!
Sì,
era così, era questo il modo che Re Carlo aveva scelto per sbarazzarsi di lui!
“Vi
prego” cominciò a mormorare il giovane, tra le lacrime e tremando pietosamente,
“vi scongiuro, non fatemi del male. Io… io non vi ho fatto niente, è stato mio
padre a ridurvi così. Per favore, io non c’entro, non vi ho fatto niente…”
Alfonso
continuò a piangere e a supplicare, stringendo forte gli occhi per non vedere
le cose orrende che lo circondavano, per non vedere se davvero si stavano
muovendo, se davvero gli si stavano avvicinando per strangolarlo o peggio. Non
sapeva più quanto tempo fosse passato, minuti, ore o forse addirittura giorni? Il
terrore gli aveva fatto perdere ogni aggancio con la realtà e il povero
Principe vagava con la mente tra allucinazioni e ricordi spaventosi.
All’improvviso
la porta della sala da pranzo si spalancò ed entrò Re Carlo, spinto sulla sua
sedia a rotelle dal Generale e seguito da alcuni servitori che portavano altre
torce. Quando le ebbero sistemate, il sovrano li mandò via tutti per restare da
solo con il Principe e il Generale.
Era
giunto il momento della verità.
“Caro
Principe, sei sconvolto” esordì mellifluo il Re. “Che strano, non ti è piaciuto
trovarti nella sala da pranzo di tuo padre? Eppure tu stesso amavi raccontare
che Re Ferrante si dilettava a cenare qui… dobbiamo pensare che suo figlio non
abbia le stesse abitudini?”
“Vostra
Maestà” intervenne il Generale, serio in volto e chiaramente a disagio, “credo
che dovreste rivolgere le vostre domande al Principe senza ulteriori indugi. Il
ragazzo è esausto e spaventato e potrebbe non darvi risposte sensate se
continuate a tormentarlo.”
“Tu
ti preoccupi troppo per questo stupido ragazzino” borbottò il Re, poi però un
ghigno gli apparve sul viso. “Tuttavia hai ragione, vogliamo delle risposte chiare
e il Principe dovrà fornircele subito!”
Il
Generale guardò con tristezza il viso pallidissimo e bagnato di pianto del
giovane, i suoi polsi graffiati, il suo esile corpo che tremava; avrebbe tanto
desiderato slegarlo e stringerlo tra le braccia, fargli sentire che era lì per
lui e che lo avrebbe protetto da ogni male… ma non poteva. Qualunque sua
debolezza nei confronti di Alfonso sarebbe stata una condanna per entrambi.
Sperava
soltanto che il Principe lo capisse e non si sentisse tradito anche da lui.
“Dunque,
Principe Alfonso” riprese bruscamente Re Carlo, abbandonando ogni falsa
gentilezza, “la prima domanda è: come faceva Rodrigo Borgia a sapere della
pestilenza di Napoli? Al Duca di Mantova hai detto che ci ha incoronato
appositamente perché occupassimo questo Regno e venissimo contagiati, ma chi lo
aveva informato del morbo?”
Ancora con questa
storia!Dovevo immaginarmelo… non avrei dovuto
raccontare quelle storie al Duca, ora mi incolperà di nuovo e io…
Lentamente,
Alfonso rialzò il capo e si sforzò di guardare il Re. Lacrime silenziose
continuavano a solcargli le guance.
“Io
non lo so…” mormorò, stancamente. “Già una volta un sicario dei Borgia era
venuto a Napoli e si era introdotto alle terme sulfuree… forse ce ne sono stati
altri… forse c’erano delle spie… non so altro!”
“Davvero?
O forse sei stato tu, in accordo con il Papa: lo hai informato della pestilenza
e lui ci ha mandato qui a morire” insisté perentorio il sovrano. “Sei stato tu?
Avanti, rispondi e non azzardarti a mentire!”
“Se
davvero fossi stato io” replicò debolmente Alfonso, “se fossi stato complice
del Papa, perché mai sarei fuggito senza che nessuno mi aiutasse? Se fossi
stato suo alleato, il Papa Borgia mi avrebbe trovato un rifugio sicuro…”
Re
Carlo rifletté un istante sulle parole del Principe.
“Forse.
O forse no se, come dicevi al Duca, avesse voluto liberarsi anche di te per
mettere sul trono di Napoli il suo figlio bastardo” insinuò poi.
“Io
non ho mai avuto nessun contatto con il Papa e non ho mai preso accordi con
lui” ribadì il ragazzo, sfinito. Non sapeva quale fosse la risposta giusta o
quella sbagliata o, magari, non c’era né l’una né l’altra e Sua Maestà stava
semplicemente cercando una scusa per condannarlo una volta per tutte.
“Pensi
che dovremmo credergli, Generale?” domandò il Re al suo uomo di fiducia.
“Il
Papa è molto astuto” rispose il militare, continuando a fissare Alfonso con
infinita pena. “Se il Principe fosse stato suo complice avrebbe trovato il modo
di farlo fuggire da qui, magari lo avrebbe fatto rifugiare a Roma. Se avesse
voluto eliminarlo, avrebbe trovato un modo più semplice e sicuro tenendolo
vicino a sé.”
“Probabilmente
hai ragione, quel serpente ne sa una più del Diavolo!” commentò il Re,
sghignazzando per la sua battuta. “Va bene, Principe, dunque tu non eri
complice del Papa. Abbiamo però un’altra domanda da farti: com’è accaduto che
il morbo si sia diffuso nel palazzo reale?”
“Vostra
Maestà, temo che queste pestilenze si propaghino nell’aria e che non ci sia un
luogo sicuro dove rifugiarsi” azzardò il Generale, ma il sovrano lo rimbeccò
subito.
“Non
è la tua opinione che ci interessa, adesso. Vogliamo una risposta dal Principe,
e la vogliamo adesso!”
“Forse
sono stati i servitori… dalla città… per questo sono scappato…” tentò di dire
Alfonso, terrorizzato.
“Dovremmo
credere che tu non abbia cercato di rinchiuderti nella reggia per sfuggire al
contagio? Avresti potuto sbarrare le porte, impedire a chiunque di entrare e
invece tu stesso sei fuggito all’esterno, rischiando di ammalarti. Non è una
scelta molto logica, Principe, vuoi spiegarcela meglio?”
Il
giovane era stremato, confuso dalla paura e voleva solo che
quell’interrogatorio finisse.
“Va
bene, va bene!” gridò, sconfitto. “Ho saputo che voi stavate per arrivare a
Napoli con il vostro esercito e l’investitura solenne del Papa… non sapevo cosa
fare, non avevo nessun posto dove andare e nessuno a cui chiedere aiuto. I
servi parlavano di un morbo letale che si era diffuso in città e io… ho pensato
che, forse, se la peste fosse entrata a palazzo e io fossi riuscito a scappare,
forse…”
“Continua,
Principe” lo incoraggiò il Re, con un terribile ghigno stampato in faccia. “La
cosa si fa interessante, continua pure.”
“Ho
fatto trasportare alla reggia i cadaveri di alcuni appestati, ho lasciato che i
miei servi venissero contagiati e morissero! Volevo che il palazzo diventasse
una trappola mortale e io sono fuggito, sperando di resistere finché non…
pensavo che sarei tornato dopo la vostra morte, ma non sapevo cosa facevo! Non
ho pensato che sarei potuto finire contagiato anch’io, o che sarei potuto
morire di fame sulle pendici del Vesuvio, non avevo un piano, ero disperato e
spaventato!” confessò finalmente Alfonso, scoppiando poi in un pianto dirotto.
Con
un sorriso malignamente soddisfatto, il Re francese si voltò verso il suo
Generale.
“Allora,
Generale, hai sentito anche tu: ha confessato” disse, compiaciuto. “Che cosa
dovremmo fare adesso?”
L’uomo
aveva tentato di restare impassibile, ma il suo volto si era incupito e
manifestava tutto il dolore che provava. Tuttavia non poteva mostrarsi debole
proprio in quel momento, altrimenti sarebbe stata davvero la fine per il
giovane Principe.
“Vostra
Maestà può fare quello che desidera, dopo ciò che ha detto il Principe Alfonso
è indifendibile” rispose dunque, facendo violenza a se stesso. “Se posso
permettermi un consiglio, tuttavia, ritengo che non dovreste privarlo della
vita, nonostante le sue colpe: la sua presenza vi è stata comunque utile fino ad
ora e potrà esserlo ancora di più in futuro, considerato ciò che sappiamo sul
Duca di Mantova e sui suoi tentativi di costituire una lega di eserciti contro
di voi.”
Re
Carlo finse di rifletterci su, ma in realtà aveva già deciso cosa fare, il suo
era solo un modo per mettere alla prova il Generale e per terrorizzare ancora
di più il Principe.
“Hai
ragione, non è nel nostro interesse eliminare il ragazzo” disse poi. “Anzi, per
continuare ad avvalorare la farsa della sua alleanza con noi è anche necessario
che appaia in buona salute, perciò non gli faremo alcun male. Lo rinchiuderai
in una delle stanze del palazzo e lo lascerai là. Un servo sarà incaricato di
portargli i pasti due volte al giorno e, per il resto, non dovrà vedere nessuno
né uscire dalla stanza, a meno che non necessitiamo della sua presenza.”
“Come
desiderate, mio sovrano. Lo porterò subito in una stanza dove rimarrà
prigioniero” rispose il Generale e, dopo un rispettoso inchino, si avvicinò al
giovane Principe per slegare le corde che gli serravano i polsi e le caviglie.
Il ragazzo era semisvenuto e il comandante francese sperò che non avesse udito
ciò che aveva appena ordinato il Re, ma sapeva anche che, molto presto, si
sarebbe accorto che le cose erano cambiate. Desiderava con tutte le sue forze
prendere in braccio il Principe e stringerlo a sé, consolarlo, confortarlo… ma
non poteva farlo o Sua Maestà si sarebbe infuriato e sarebbe stato molto
peggio.
Dal
canto suo, Re Carlo osservava la scena e vedeva chiaramente il dolore dipinto
sul volto del suo Generale, del suo uomo di fiducia, il suo braccio destro.
Attese che l’uomo slegasse il Principe e lo sostenesse per accompagnarlo nella
stanza dove sarebbe rimasto confinato prima di intervenire nuovamente.
“Generale,
abbiamo soltanto voluto metterti alla prova” rivelò, con un sogghigno soddisfatto.
“Ora sappiamo quanto sei fedele e leale e che non ti lasci dominare dai tuoi sentimenti.
Non vogliamo punirti: il Principe ti è stato affidato e così resterà, puoi
tenerlo con te e continuare a tenerlo d’occhio. Questo è il tuo dono.”
Sorpreso
e incredulo, il Generale si inchinò di nuovo, ancora più profondamente per
manifestare la sua gratitudine al sovrano.
“Vostra
Maestà, io… vi ringrazio con tutto il cuore. Voi sapete che la mia lealtà va a
voi e a voi solo e ciò non cambierà mai. Vi sono infinitamente grato per il… dono che mi avete concesso” disse,
cercando di tenere ferma la voce.
Un
servo entrò nella sala per accompagnare il Re nei suoi appartamenti, mentre il
Generale, finalmente, poté prendere in braccio Alfonso e dirigersi con lui
verso la loro stanza. Aveva veramente temuto di perderlo e non si saziava di
contemplarlo e di stringerlo a sé, mentre il giovane pareva ancora frastornato.
Arrivati
nella loro stanza, il Generale depose il Principe sul letto e si distese
accanto a lui, abbracciandolo ancora una volta.
“Principe,
so che hai avuto paura, so che ti sei sentito tradito perché non ti ho difeso”
gli disse piano, accarezzandogli i capelli. “Non potevo farlo, lo capisci? Se
mi fossi schierato dalla tua parte, Sua Maestà sarebbe andato in collera e
forse avrebbe… Non potevo fare altro, Principe Alfonso, riesci a comprenderlo,
vero?”
Inaspettatamente,
Alfonso aprì gli occhi e lo guardò dritto in faccia. Per la prima volta in
quella tragica serata pareva lucido e padrone di sé.
“Sono
io che vi chiedo perdono” ribatté, serio. “Se avessi saputo che tra i francesi
c’eravate voi… un uomo così valoroso, sincero e leale… io non avrei mai tentato
di infettare la reggia. Mi dispiace davvero… ho rischiato di fare del male a
voi che avete soltanto…”
Commosso
da quelle parole sorprendenti, il Generale lo interruppe baciandolo e
avvolgendolo di nuovo in un abbraccio protettivo. Le emozioni di quella sera
avevano infine preso possesso di lui: la paura di perdere il Principe, il
sollievo nell’averlo lì con lui e adesso quella spontanea dichiarazione di
amore e affetto da parte di Alfonso… L’uomo continuò a baciarlo profondamente e
ad accarezzarlo dovunque; dopo il timore di essere per sempre separato da lui
non riusciva a placare il desiderio di sentire la presenza del Principe, il
tepore del suo corpo delicato, il suo sapore, la morbidezza della sua pelle
vellutata. Si spinse lentamente dentro di lui come se non volesse mai più
separarsene e ogni angoscia e tormento si quietarono in quel lungo e intenso
amplesso.
Capitolo 11 *** Capitolo 11: I'll always be here until the end ***
Capitolo 11: I’ll always be here until the end
I’ve seen kingdoms
through ages
Rise and fall I’ve seen it
all
I’ve seen the horror
I’ve seen the wonders
Happening just in front of my eyes.
All our stories and all our glory I held so dear
We won’t be together for ever and ever no more tears
I’ll always be here
until the end…
(“Jillian (I’d give my heart)” – Within Temptation)
La
notte di orrori e torture psicologiche trascorsa nella spaventosa Sala da
pranzo di Re Ferrante lasciò subito il segno sullo sventurato Principe Alfonso.
La mattina seguente, il giovane si svegliò con un forte mal di testa, vertigini
e grandi brividi di freddo che lo scuotevano violentemente.
Alfonso
si sforzò di alzarsi comunque, preso dal terrore che Re Carlo potesse pretendere
la sua presenza fin dal mattino; tuttavia, non appena cercò di alzarsi dal
letto, le gambe gli cedettero e ricadde giù.
“Principe!”
esclamò il Generale, preoccupato. “Ti senti male? Cos’hai?”
Alfonso
tentò di schermirsi, di dire che andava tutto bene, ma si sentiva veramente
troppo male e poté solo scuotere il capo con un sospiro. Il Generale lo prese
tra le braccia per deporlo nuovamente sul letto e lo sentì scottare per la
febbre.
“Principe,
ma tu hai la febbre alta” disse, turbato. “Non devi alzarti, rimani a letto e
riposa, io mando a chiamare il dottore affinché ti visiti.”
“No,
no…” protestò debolmente Alfonso, “Sua Maestà… si infurierà con me…”
Il
Generale lo rimise sotto le coperte e lo abbracciò forte.
“Con
Sua Maestà parlerò io” lo rassicurò, “tu devi solo pensare a stare meglio.
Calmati, ti fa male agitarti così.”
“Tanto
muoio lo stesso…” mormorò il ragazzo.
“Ma
che cosa dici?” replicò il Generale, sorpreso. “Non morirai affatto, ti
riposerai e ti sentirai meglio.”
“No…
adesso tocca a me… la febbre napoletana, me la sono meritata…”
“Non
è quello, non dirlo nemmeno per scherzo!” lo interruppe il comandante francese,
molto preoccupato. “Faccio subito chiamare il dottore e lui ti tranquillizzerà.
Adesso chiudi gli occhi, piccolo Principe, e cerca di dormire.”
Alfonso
si raggomitolò sotto le coperte, cercando di controllare i brividi che lo
tormentavano, ma il freddo che gli si era insinuato dentro era più potente e
gli arrivava fin dentro le ossa. Si sentiva dolere tutte le parti del corpo,
come se qualcuno lo avesse torturato di nuovo con cattiveria, la testa gli
girava e in certi momenti non riusciva nemmeno più a capire se fosse davvero
nella sua stanza, nel tepore del letto, o se invece fosse stato trascinato di
nuovo nelle segrete e appeso a due pali in croce per essere straziato nei modi
più osceni. Il cuore gli batteva impetuoso e se lo sentiva pulsare
dolorosamente nelle tempie, anche la luce della stanza lo tormentava.
Nel
frattempo, il Generale aveva spedito un armigero a chiamare il dottore in tutta
fretta. Nonostante non volesse ammetterlo, anche lui era molto in pena per il
giovane Principe e temeva che veramente potesse trattarsi di quella maledetta
pestilenza. Era vero che ormai da qualche settimana non se ne sentiva più
parlare nemmeno nei bassifondi di Napoli, tuttavia Alfonso era tanto fragile e
delicato che poteva anche esserne caduto preda.
Sua Maestà direbbe
che se lo è meritato, ma… no, no, non voglio nemmeno pensarlo! Alfonso non ha
la febbre napoletana, è soltanto la reazione alla paura che ha provato ieri
sera, prigioniero nella Sala da pranzo di suo padre e interrogato dal sovrano.
Forse ha preso freddo e il terrore ha fatto il resto… il dottore si occuperà di
lui e tutto si risolverà.
Il
dottore arrivò in tutta fretta, anche lui molto preoccupato per il giovane
Principe che aveva visto nascere. Lo visitò accuratamente, esaminando ogni
parte del suo corpo con attenzione e serietà. Alla fine della visita sembrava
piuttosto turbato e il Generale si allarmò.
“Dottore,
allora, si tratta della pestilenza che ha infettato Napoli? E’ questo?”
domandò, in tono concitato. “Vi vedo scuro in volto, parlate, dunque!”
Il
dottore guardò a lungo il Principe, di nuovo raggomitolato nel letto, e si
lasciò sfuggire un sospiro prima di rispondere.
“No,
il Principe Alfonso non ha contratto la peste” rispose, a bassa voce. “A parte
la febbre, non ha nessuno degli altri sintomi che contraddistinguono
quell’infezione.”
“Tuttavia
siete inquieto” rilevò il comandante francese. “Di che cosa soffre il
Principe?”
“La
febbre così alta è causata da veleni che si stanno propagando nel suo sangue”
ammise il medico, chinando il capo.
“Veleni?
Volete dire che qualcuno ha avvelenato il Principe? E chi potrebbe averlo
fatto, dannazione?” l’uomo appariva sinceramente sconvolto all’idea che
qualcuno potesse aver fatto del male al ragazzo.
Il
dottore guardò di nuovo il Principe con infinita pena, poi rialzò lo sguardo
verso il francese.
“Siete
stato voi, mio signore” rispose, riluttante.
Il
Generale rimase allibito.
“Come
osate accusarmi? Io sto proteggendo il Principe, non lo avvelenerei mai! Volete
dire che qualcosa è sfuggito al mio controllo, forse?”
“Non
intendevo questo” chiarì il medico. “Il Principe Alfonso non è stato avvelenato
da qualcosa che ha mangiato o bevuto, il veleno nel suo sangue è dovuto alle…
alle torture che gli sono state inflitte, agli strumenti sporchi e infetti che
sono stati usati per causargli quelle lacerazioni… io ho curato le sue ferite
meglio che ho potuto, ma parte di quell’infezione si è propagata nel suo
sangue.”
A
quella spiegazione, il comandante francese impallidì.
“Gli
arnesi per la tortura…” mormorò. “E voi non potete fare niente per guarirlo,
per togliere questo veleno?”
Il
dottore scosse tristemente il capo, senza più osare guardare l’uomo negli
occhi. Se lo avesse fatto, il francese avrebbe potuto leggere nel suo sguardo
il rancore che non era più possibile dissimulare: sì, era stato lui ad
avvelenare il sangue del Principe, obbedendo a quel pazzo vendicativo del suo
Re che lo aveva voluto far torturare in modo atroce nelle segrete, pensando di
liberarlo solo quando era ormai troppo tardi…
“I
veleni fanno ormai parte del suo sangue” rispose, “infetteranno ogni organo del
Principe e io… io potrò soltanto curare i sintomi più evidenti, come la febbre
e i dolori, ma non guarirlo completamente. L’unica cosa che posso, e che mi
impegnerò a fare con tutto me stesso, è tentare di prolungare la sua vita e di
farlo stare il meglio possibile, ma ci saranno altre ricadute, il Principe
Alfonso sarà sempre più fragile e delicato e alla fine… nemmeno io potrò più
aiutarlo.”
“Va
bene. Potete andare” lo liquidò bruscamente il Generale. Era veramente molto
turbato e non voleva che il dottore vedesse quanto le sue parole lo avevano
ferito.
Si
sedette sul letto, accanto al Principe, gli accarezzò i capelli umidi, gli
prese la mano che scottava.
Il dottore ha
ragione, è anche colpa mia. Avrei dovuto parlare subito con Sua Maestà,
insistere sul valore strategico che la vita del Principe avrebbe avuto per la Francia,
convincerlo a punirlo in modo diverso. Quegli strumenti di tortura… pieni di
ruggine, sporco, sangue di altri condannati… hanno lacerato Alfonso nei punti
più delicati e l’infezione si è diffusa e adesso… quanto potrà sopravvivere? Il
dottore non l’ha detto, ma ha fatto capire che potrà trattarsi di qualche anno,
se non addirittura di pochi mesi. Il mio Principe morirà e sarà stata tutta
colpa mia!
In
preda all’angoscia e ad un dolore mai provato prima, il francese prese tra le
braccia la fragile figura che tremava nel letto, lo tenne stretto a sé quasi lo
volesse difendere dall’infezione, dalla febbre, da ciò che glielo avrebbe
presto strappato via. Non riusciva nemmeno più a concepire la sua vita senza
quel ragazzo accanto a sé e giurò che anche lui avrebbe fatto tutto quanto era
in suo potere per facilitare la sua guarigione e impedire che si stancasse
troppo, per prolungare la sua vita il più possibile e fare in modo che fosse
sereno e tranquillo. Non lo aveva aiutato quando ne aveva avuto la possibilità,
ma da ora in avanti avrebbe dedicato la maggior parte delle sue energie a
rendere placida e luminosa l’esistenza del suo piccolo Principe condannato.
Tuttavia,
quella mattina non poteva restare accanto ad Alfonso; il Re avrebbe senza
dubbio reclamato la sua presenza e, se non si fosse presentato subito, avrebbe
potuto infuriarsi ancora di più con il povero Principe. Perciò, seppure a
malincuore, diede un’ultima carezza sulla guancia del ragazzo e poi uscì dalla
stanza per comparire al cospetto del suo sovrano. Impassibile come sempre,
eseguì tutti gli ordini che Re Carlo gli impartì, principalmente riguardanti
l’organizzazione dell’imminente ritorno in Francia. Dentro di sé, però, il
Generale era molto inquieto per la salute del suo Principe e si chiedeva anche
come avrebbe potuto quel povero ragazzo, debole e febbricitante, sopportare un
viaggio tanto lungo e faticoso.
Alfonso,
comunque, non restò solo a lungo. Il dottore si premurò di fargli visita molto
spesso, controllando come procedeva la malattia, portandogli del cibo leggero e
somministrandogli alcuni rimedi per tentare di abbassare la febbre che lo
divorava.
Il
Generale riuscì a liberarsi dai numerosi doveri che lo assillavano solo dopo
cena, una cena per fortuna più rapida del solito. Nemmeno Sua Maestà desiderava
trattenersi a lungo a tavola, poiché doveva riflettere sulla persona che
avrebbe scelto come reggente del Regno di Napoli e pianificare quanta parte
dell’esercito e dei cannoni impiegare per difendere la recente conquista. Non
era una decisione facile: Re Carlo sapeva bene che i nobili italiani avrebbero
approfittato immediatamente della sua assenza per tentare di attaccare Napoli e
lui non aveva nessuna intenzione di perdere il Regno appena occupato; d’altra
parte, le minacce del Duca di Mantova gli risuonavano ancora in testa e non gli
piaceva per niente l’idea di attraversare tutta la penisola italiana con un
esercito sguarnito, che avrebbe potuto essere attaccato da chiunque. Insomma,
anche il sovrano francese aveva i suoi pensieri…
Il
Generale, dunque, fu ben lieto di ritornare nelle sue stanze prima del previsto
e si affrettò a controllare le condizioni di Alfonso. Al suo capezzale c’era
ancora il dottore e il comandante francese gli domandò subito notizie.
“Sono
riuscito a fargli prendere del brodo caldo” spiegò il medico, “poi gli ho
somministrato una pozione di erbe per abbassargli la febbre. Avrei voluto
praticargli un salasso, sarebbe stato più efficace contro la febbre, ma il
Principe è talmente debole che una perdita di sangue potrebbe fargli più male
che bene. Spero che il rimedio che gli ho dato abbia effetto e gli permetta di
riposare tranquillo stanotte, ha molto bisogno di dormire per riprendere le
forze. Tornerò domattina presto per visitarlo di nuovo ma, se stanotte dovesse
avere bisogno di me, non esitate a farmi chiamare, a qualunque ora.”
“Lo
farò. Vi ringrazio, dottore” rispose il Generale, parlando al medico ma tenendo
lo sguardo fisso sulla figuretta esile e febbricitante raggomitolata nel letto.
Quando
il dottore ebbe lasciato la camera, il francese si spogliò e si mise subito a
letto accanto al ragazzo, prendendolo tra le braccia. Sembrava addormentato, ma
di un sonno agitato e il suo corpo scottava ancora.
Farò tutto quello
che posso per farti guarire, mio Principe, mi occuperò di te, ti farò curare
dai migliori dottori… non posso perderti adesso che so quanto sei prezioso per
me.
Tenendolo
stretto tra le braccia, anche il Generale cadde in un sonno leggero: la
preoccupazione per il giovane Principe non gli permetteva di rilassarsi,
nonostante avesse trascorso una giornata stancante e piena di impegni.
Nel
cuore della notte l’uomo fu destato improvvisamente dai lamenti e dai gemiti
del ragazzo.
“Principe
Alfonso, cosa ti succede? Ti senti peggio? Faccio chiamare subito il dottore”
esclamò il Generale, in preda all’inquietudine.
Tuttavia
si accorse ben presto che il giovane non lo sentiva e che stava vivendo in un
incubo provocatogli dalla febbre alta.
“Per
favore… vi prego, no, non portatemi laggiù!” gemeva Alfonso, con voce rotta.
“No, vi scongiuro, non fatemi del male! Abbiate pietà! No, non quella, vi supplico, farò tutto quello
che volete…”
Sconvolto,
il Generale comprese immediatamente che il Principe stava rivivendo la
terribile notte in cui era stato torturato, la notte che aveva segnato l’inizio
di tutte le sue sventure e a causa della quale ora soffriva le conseguenze più
atroci.
Gli strumenti di
tortura gli hanno avvelenato il sangue… il Principe non guarirà mai
completamente per colpa di quelle torture…
“Abbiate
pietà… qualcuno mi aiuti, per favore, per favore…” singhiozzò ancora il
ragazzo, pronunciando le stesse parole che aveva detto ai suoi aguzzini durante
i supplizi. Il Generale, che era presente anche allora, le riconobbe
all’istante e si sentì stringere il cuore in una morsa dolorosa.
Perché
non era intervenuto prima? Perché aveva lasciato che lo straziassero nelle sue
parti più delicate, distruggendolo per sempre?
Profondamente
turbato, l’uomo avvolse il Principe in un abbraccio protettivo, parlandogli con
pacatezza, tentando di risvegliarlo da quell’incubo tremendo che, purtroppo,
era anche un ricordo reale.
“Principe,
va tutto bene, non sei nelle segrete, sei qui con me” mormorò, stringendolo e
accarezzandolo teneramente. “E’ solo un sogno causato dalla febbre, ora è tutto
finito, sei al sicuro.”
A
quelle parole, il Principe aprì gli occhi e parve risvegliarsi dal suo incubo,
ma non era così. Il giovane si era destato da un sogno spaventoso solo per
piombare in un’allucinazione ancora più terrificante. Il suo sguardo si posò
sul volto del Generale e nei suo occhi apparve un lampo di orrore.
“Voi!
Siete voi!” gridò, terrorizzato. “Mi avete trascinato nella sala delle torture,
mi avete consegnato ai miei aguzzini! Perché? Perché volete straziarmi, io non
vi ho fatto niente!”
Il
grido disperato di Alfonso fu come una stilettata nel cuore del Generale perché
il ragazzo, purtroppo, aveva detto il vero. L’uomo non era mai riuscito a
confessarlo nemmeno a se stesso, era troppo doloroso per lui, ma i rimorsi che
lo tormentavano non nascevano solo dall’aver lasciato che il Re si vendicasse
crudelmente sul Principe. No, il senso di colpa che lo lacerava era per ben
altro: il Generale era consapevole del fatto che era stato lui a strattonare e trascinare Alfonso verso tutti gli
orrendi strumenti di tortura. Lui lo
aveva tenuto per le braccia e spintonato, aveva sentito quanto fragile fosse il
suo corpo, aveva visto da vicino il suo viso da bambino terrorizzato e
piangente, ma aveva comunque obbedito al Re e consegnato quel ragazzino in
lacrime ai suoi aguzzini.
Sì,
era stato lui e il Principe, nel delirio della febbre, lo aveva rammentato fin
troppo bene.
Sono stato io. Sì,
sono stato io. Eppure l’avevo così vicino, potevo vedere e sentire quanto fosse
delicato e indifeso… E ora è colpa mia se il suo sangue è avvelenato, io l’ho
doppiamente condannato!
Con
il cuore a pezzi, il francese prese di nuovo tra le braccia il giovane
Principe, facendolo sentire accolto e protetto.
“Perdonami,
Principe” gli sussurrò, stringendolo più forte a sé, “perdonami, Alfonso, per
tutto il male che ti ho fatto. E’ stata colpa mia, è vero, ma adesso ti
prometto che non dovrai soffrire mai più. Ti proteggerò io da ogni male, ti
sarò vicino, ti difenderò da tutto e da tutti. Ci sarò sempre per te, povero
piccolo Principe.”
Il
tono accorato, l’abbraccio tenero e protettivo, l’odore e il calore che Alfonso
aveva ormai imparato ad associare alla figura del Generale ebbero la meglio
sulla sua allucinazione; il ragazzo riacquistò lucidità, si aggrappò all’uomo e
si abbandonò a lui.
“Allora…
non mi lascerete morire da solo?” chiese in un sospiro.
“Tu
non morirai, Alfonso, non morirai affatto. Il dottore ti curerà e guarirai
perfettamente” protestò il Generale.
“Mi
promettete… che non mi lascerete morire da solo?” insisté il Principe, come se
non avesse sentito. La debolezza che provava gli faceva presagire che non
sarebbe vissuto a lungo, ma la presenza del Generale lo confortava.
“Ti
prometto che non ti lascerò mai solo, non sarai solo mai più, piccolo mio”
affermò deciso l’uomo, sorvolando sull’accenno alla morte.
Lo
baciò a lungo, turbandosi nel sentire le sue labbra così calde, così brucianti
per la febbre. Aveva bisogno di sentirlo, di diventare una sola cosa con lui
senza più pensare al pericolo di perderlo. Divaricandogli le gambe, si fece
lentamente strada dentro il Principe, senza smettere di baciarlo intensamente, poi
si staccò dalle sue labbra morbide e iniziò a muoversi piano in lui, con
cautela, temendo di turbarlo; ma Alfonso lo accoglieva docile e tenero,
rispondendo alle sue sollecitazioni e assecondando i suoi movimenti, con gemiti
e sospiri che, come sempre, eccitavano ancor di più il Generale perché
suonavano stupiti e increduli. Ogni volta era come se il giovane Principe rimanesse
sbalordito per il fatto che quell’atto potesse donargli tanto piacere…
Alla
fine dell’amplesso, il ragazzo sembrava pacificato e riuscì a riprendere sonno
tra le braccia del Generale, un sonno finalmente più quieto e riposante.
Io sarò per sempre
con te, mio piccolo Principe, per te ci sarò sempre, promise dentro di
sé il comandante francese, prima di scivolare a sua volta nel sonno.
La
malattia del Principe Alfonso durò più di una settimana e il fatto innervosì
non poco Re Carlo, che avrebbe voluto partire al più presto per la Francia e
invece si ritrovava a dover attendere la guarigione di quell’insopportabile
ragazzino. A volte si pentiva di aver dato retta al suo Generale e pensava che
avrebbe fatto molto meglio a lasciarlo torturare fino alla morte…
“Ma
insomma, quel mezzo bastardo di Principe senza corona non è ancora guarito?”
sbottò il sovrano al terzo giorno di malattia del giovane. “Noi dobbiamo
tornare in Francia, abbiamo uno Stato da rassicurare, un successore da
scegliere… non possiamo certo dipendere dai capricci di un inutile moccioso!”
“Vostra
Maestà, comprendo benissimo le vostre preoccupazioni, ma la salute del Principe
è più preziosa di quanto non crediate” insinuò astutamente il Generale. “Stiamo
organizzando tutto ciò che è necessario per poter partire mantenendo in
sicurezza il potere sul Regno di Napoli e per assicurarci un viaggio tranquillo
fino in Francia; gli uomini sono pronti per affrontare eventuali attacchi da
parte di eserciti italiani, ma non ritenete anche voi più saggio avere un buon
rapporto con la Spagna in un momento tanto delicato? Se al Principe Alfonso
accadesse qualcosa e la famiglia reale Aragonese approfittasse di ciò per
muoverci guerra proprio quando siamo più vulnerabili, oppure per tentare di
riconquistare il Regno di Napoli?”
Il
monarca francese scosse il capo, frustrato. Si domandava fino a che punto il
suo Generale insistesse per proteggere quel ragazzino per motivi suoi personali e quanto per il bene
della Francia e per l’incolumità sua e di tutti i soldati, tuttavia doveva
anche riconoscere che le sue motivazioni erano perfettamente logiche e
giustificate.
“E’
vero, ma se intraprendessimo il viaggio adesso e il Principe non ce la facesse”
tentò di nuovo il Re, “potremmo sempre sostenere che la colpa non è stata
nostra, che abbiamo fatto di tutto per tenerlo al sicuro e che è stata solo una
tragica fatalità.”
“Mio
sovrano, voi stesso sapete quanto corrano velocemente le voci in queste corti
italiane. Gli Sforza e persino il Duca di Mantova hanno dimostrato di sapere
più di quanto desiderassimo riguardo alle torture subite dal Principe e sono
certo che, in questo momento, le spie delle famiglie più potenti d’Italia hanno
già riferito ai loro signori della sua malattia” obiettò il Generale. “Se
accadesse qualcosa al Principe durante il viaggio, tutta la penisola
affermerebbe che siete stato voi a causarne la morte, forzandolo ad un viaggio
faticoso nonostante la febbre. E questa voce arriverebbe in Spagna in men che
non si dica. Come ben sapete il vostro nemico, il Papa Borgia, è spagnolo…”
“E
va bene!” borbottò il sovrano. “Attenderemo la guarigione del Principe Alfonso!
Ma tu fai in modo che il dottore sia più celere nell’occuparsi di lui, abbiamo
molte cose di cui occuparci in patria.”
“Sarà
fatto come comandate, Vostra Maestà” replicò l’uomo, sollevato per aver ancora
una volta convinto il suo Re e protetto il giovane Principe al quale si sentiva
legato ogni giorno di più.
Dopo
una settimana di febbre e malessere, il Principe iniziò a stare meglio, ma era
ancora debolissimo, non mangiava quasi più e al Generale ricordava molto il ragazzo
che aveva tirato fuori dalle segrete. Temeva, adesso, che il dottore avesse
ragione e che Alfonso avesse cominciato un lento declino che, in poco tempo, lo
avrebbe portato alla tomba.
Non
poteva accettarlo, no! Proprio adesso che aveva finalmente trovato qualcuno che
gli scaldava il cuore con la sua sola presenza, qualcuno con cui sperava di
dividere un’esistenza fino ad allora dedicata solo alla guerra e al servizio
della Corona, no. Lui non poteva permettersi di perdere il suo dolce Principe…
Incalzò
il dottore affinché trovasse qualche rimedio, tonici ricostituenti o qualunque
altra cosa aiutasse il giovane a rimettersi e a tornare in salute. Il dottore
si impegnava già con tutto se stesso per curare il povero Principe ma, dopo
tutti quei giorni e vedendolo tanto fragile e privo di forze, ritenne giusto
che anche il ragazzo sapesse come stavano veramente le cose. Fino a quel
momento aveva creduto di poter rimandare, sperava che Alfonso si sarebbe
ripreso più velocemente, invece il Principe non mangiava quasi più e le forze
non gli tornavano, forse sarebbe stato suo dovere spiegare anche a lui che non
sarebbe più stato quello di prima.
Quella
mattina, il decimo giorno che il Principe trascorreva a letto, il dottore
giunse nella camera con un nuovo tonico che aveva preparato perché restituisse
un po’ di vigore al delicato corpicino del giovane. Gli avrebbe somministrato
quello, certo, ma gli avrebbe anche parlato francamente.
“Allora,
dottore, avete portato qualche rimedio utile, finalmente?” esordì il Generale,
sempre più in pena.
“Questo
è un tonico che ho ricavato da miele e erbe selvatiche e dovrebbe avere un
effetto rigenerante sul Principe, tuttavia” replicò il medico, guardando prima
il militare francese e poi il giovane, “mio Principe, ritengo mio dovere
informarvi sulle vostre reali condizioni.”
Alfonso
trasalì e iniziò a tormentare il lenzuolo con le mani, mentre il Generale ebbe
una reazione innervosita.
“Cosa
intendete dire, dottore? Mi sembra perfettamente inutile spaventare il ragazzo,
che è già debole e preoccupato. Fate il vostro dovere e andatevene!”
“Mi
dispiace, mio signore, ma tra i miei doveri c’è anche quello di mettere al
corrente il Principe riguardo alla sua salute, in modo che possa comprendere
come gestire le sue forze e prendere i dovuti provvedimenti. Mio Principe, non
dovete temere di aver contratto la peste, come vi dicevo non è questo il male
che vi affligge, nondimeno si tratta di qualcosa di grave che inciderà sulla
vostra vita futura.”
“Proseguite”
mormorò Alfonso, stringendo a sé il lenzuolo come per proteggersi dalle parole
che avrebbe dovuto ascoltare.
“Purtroppo
ciò che vi ha tormentato in questi lunghi giorni non è stato causato da una
malattia che io, o chiunque altro, possa curare” riprese il dottore, con un sospiro.
“Come immagino sappiate già, le torture che vi hanno inflitto hanno indebolito
le vostre membra e straziato il vostro corpo in modi che nulla hanno di umano e
chiunque altro non sarebbe sopravvissuto a tali orrori, io lo so bene… Voi,
invece, siete giovane e questo vi ha aiutato a riprendervi. Tuttavia… i
supplizi vi sono stati inflitti con strumenti infetti e pieni di ogni sporcizia
e hanno lacerato i vostri… insomma, i punti del vostro corpo dove più
facilmente si espandono le infezioni. Certo gli arnesi di tortura non sono
pensati perché il condannato sopravviva, dunque a nessuno poteva interessare
quanto fossero ricoperti di sudiciume e altro…”
Il
Principe era sempre più spaventato, ma ormai voleva sapere tutto. Annuì per
invitare il dottore a continuare, poiché non aveva la forza di parlare.
“Quegli
arnesi vi hanno lacerato, ma hanno anche avvelenato il vostro sangue e i vostri
organi interni. Io ho curato meglio che ho potuto le ferite esterne, ma nulla
posso fare contro ciò che vi divora dall’interno” mormorò tristemente il
medico. “Potrei salassarvi per togliere un po’ del sangue infetto, ma siete
troppo debole per perderne e, comunque, temo che ben presto l’infezione
colpirebbe ancora.”
Alfonso
aveva stretto tra le mani il lenzuolo, tirandoselo fin sotto il mento, e adesso
si vedeva solo il suo viso pallidissimo e sempre più affilato e i grandi occhi
neri pieni di paura e disperazione che sembravano mangiargli tutto il volto.
“Quindi…
morirò?” chiese, in un soffio.
“Ma
certo che no!” protestò il Generale, attirandolo a sé. Il Principe, però, si
scostò da lui e guardò fisso il dottore, aspettando una riposta sincera.
“Io
farò di tutto per mantenervi in vita il più possibile” promise il medico, “e
voi siete molto giovane e quindi il vostro corpo reagirà sicuramente meglio di
quello di un uomo in là con gli anni. Non morirete certo adesso, no, tuttavia
sarete sempre molto fragile, cadrete spesso ammalato com’è accaduto stavolta e…
e non posso promettervi che avrete una lunga vita. Ne sono addolorato, mio
Principe.”
“Ho
capito” mormorò il ragazzo, mentre negli occhi gli si leggevano tutto il dolore
e la disperazione del mondo. Era condannato. Forse non sarebbe morto subito, ma
chissà quanti anni, o forse mesi, avrebbe avuto ancora da vivere? Ecco, Re Carlo
aveva comunque raggiunto il suo scopo, si era sbarazzato di lui, lo aveva
rovinato e il Generale, che diceva di tenere tanto a lui, aveva fatto ben poco
per impedirlo, era intervenuto soltanto quando era ormai troppo tardi!
“Mio
Principe, adesso prendete il vostro tonico e riposate. Dovreste anche sforzarvi
di mangiare un po’ di più e di fare qualche breve passeggiata, magari sotto il
loggiato” lo incoraggiò il dottore, vedendolo tanto abbattuto. “Sono sicuro che
vi riprenderete e che sarete anche in grado di affrontare il viaggio verso la
Francia. Come vi ho detto, questa infezione lavora contro di voi, ma la vostra
giovane età è dalla vostra parte e, se vi impegnerete per guarire, magari
riuscirete anche a darmi torto e a stare meglio di quanto io abbia previsto.
Perciò ve ne ho voluto parlare, per spronarvi a fare del vostro meglio per
guarire. So che ce la farete, mio Principe. Vostro padre ha affrontato una
malattia altrettanto grave ed è sopravvissuto fino a tarda età, perciò abbiate
fiducia.”
“Seguirò
tutti i vostri consigli, dottore” promise il Principe, abbozzando un mesto
sorriso.
Mentre
il dottore si inchinava e lasciava la stanza, Alfonso pensò che, molto
probabilmente, non sarebbe stato in grado di reagire e che sarebbe morto presto
ma, in fondo, cosa gli rimaneva per cui valesse la pena sopravvivere? Aveva
perso il suo Regno, la sua vita, non sarebbe mai più stato il ragazzino
sbarazzino e insolente che si divertiva ad essere quando era veramente il
Principe di Napoli, era un ostaggio in mano a dei nemici che lo odiavano… per
quale motivo avrebbe dovuto vivere? Certo, la morte nelle segrete sarebbe stata
atroce, ma uno spegnersi così lento e graduale, perdendo le forze a poco a
poco… sarebbe stato poco diverso dall’addormentarsi, solo che non avrebbe più
dovuto svegliarsi in un mondo che ormai gli era sconosciuto ed estraneo.
Il
giovane Principe si voltò sul fianco e si sistemò più comodamente nel letto,
avvolto nelle lenzuola e nelle coperte.
“Principe
Alfonso, non hai sentito cosa ha detto il dottore?” gli disse, premuroso, il
Generale. “Non devi cedere alla malattia, devi reagire. Sforzati di mangiare
qualcosa e poi ti accompagnerò a fare una breve passeggiata, ti sorreggerò io,
non temere. Stamani Sua Maestà non ha bisogno di me e io posso occuparmi di te
per tutto il tempo.”
Lo
sguardo che Alfonso gli rivolse avrebbe potuto raggelare l’Inferno.
“A
voi cosa importa della mia salute?” lo rimbeccò, brusco.
“Certo
che mi importa” replicò il Generale, sorpreso da quell’improvvisa ostilità.
“Sai che appartieni a me, non solo come ostaggio ma come mio amante, ti ho già detto tante volte che
voglio prendermi cura di te, proteggerti e tenerti accanto.”
“Non
l’avete fatto la notte delle segrete, però” fu la fredda risposta del Principe.
“Mi avete trascinato laggiù, pur vedendo che ero solo un ragazzo spaventato. Mi
avete strattonato e picchiato e infine lasciato in balìa degli aguzzini. Vi
siete ricordato di venirmi a salvare solo quando era troppo tardi. Sì, mi avete
risparmiato una morte atroce e di questo vi sono grato, ma quello che mi hanno
fatto mi ha comunque condannato. Non avete detto una parola, non avete nemmeno
tentato di intercedere per me presso il vostro sovrano, avete eseguito
quell’ordine disumano e basta!”
Una
morsa gelida strinse il cuore del Generale, che già da giorni si lacerava
l’animo e si incolpava per non aver almeno tentato di mitigare le pene del
disgraziato Principe.
“So
ciò che ho fatto e, credimi, me ne pento ogni giorno. Non ero d’accordo con Sua
Maestà, eppure ho contribuito alle cose terribili che ti hanno fatto” disse, in
tono amaro. “Avrei potuto parlargli, come ho fatto in altre occasioni e invece…
Non so nemmeno io perché non mi sono opposto subito a qualcosa che offendeva in
tal modo ogni senso dell’onore, ma purtroppo non posso tornare indietro e
cambiare le cose. Posso solo prometterti che sarò con te per il resto della
vita, che mi prenderò cura di te in ogni modo, che cercherò con ogni mezzo di
tenerti al sicuro e, se possibile, di renderti felice.”
“Ah,
credete davvero che potrò mai più essere felice?” ribatté astioso Alfonso. “Mi
avete tolto tutto e ora sono condannato a vivere da infermo e a morire in
giovane età. Di che cosa mai dovrei essere felice?”
Il
volto solitamente impassibile del Generale mostrò per un attimo tutto il dolore
che quelle parole gli avevano causato, parole che andavano a sommarsi a tutto
ciò che già da tempo si ripeteva, tormentandosi per non aver soccorso subito il
suo prezioso Principe.
“Non
lo so” ammise poi l’uomo, avvilito. “Speravo di poterti fornire io stesso dei
motivi per esserlo. Speravo che la mia vicinanza e il mio affetto potessero
significare qualcosa per te.”
Era
la prima volta che quell’uomo coriaceo e austero lasciava spazio ai suoi
sentimenti e li esprimeva liberamente.
“Vicinanza
e affetto? Dov’erano quando mi straziavano nelle segrete?” obiettò caustico il
Principe.
“Vorrei
solo trascorrere il resto della mia vita a cercare di farmi perdonare da te,
Alfonso” replicò il Generale con veemenza, combattuto tra i rimorsi e il senso
di colpa e il desiderio di ritrovare quella pace che provava sempre quando era
vicino al giovane Principe. Si avvicinò al ragazzo e lo strinse per le spalle,
con il viso vicinissimo a quello di lui. “E’ questo che voglio dedicarmi a
fare, se tu me lo concederai. Davvero non puoi perdonarmi per quello che ti ho
fatto?”
Il
giovane Principe non era veramente arrabbiato, solo confuso, spaventato e
tanto, tanto stanco. Aveva aggredito a male parole il Generale per sfogarsi
della rabbia e del terrore provati ma, in fondo al suo cuore, sentiva che solo
accanto a quell’uomo era riuscito a ritrovare un po’ di serenità, che lui lo
faceva sentire protetto e gli scaldava il cuore. Gli occhi gli si riempirono di
lacrime.
“Io…
ho solo voi…” mormorò, per tutta risposta.
“E
io non ti lascerò mai, mai più per niente al mondo, Alfonso” disse il francese,
stringendo il ragazzo in un abbraccio avvolgente e sentendo che il peso delle
sue colpe gli scivolava via dalle spalle. “Sarò sempre vicino a te e farò tutto
ciò che è in mio potere per regalarti una vita felice, piccolo mio.”
Cercò
le sue labbra tenere e morbide per baciarlo a lungo e profondamente, per
sentirlo suo, godere del suo dolce sapore, respirare il suo respiro e sentire
che quel Principe fragile, giovane e indifeso era lì per lui, gli apparteneva e
lui non se ne sarebbe mai più separato, lo avrebbe aiutato a guarire e gli
sarebbe rimasto sempre accanto per donargli serenità e amore. Ancora piangendo
silenziosamente, il Principe si lasciò andare al Generale e nel profondo del
suo intimo sentì rinascere il calore della speranza, la consapevolezza che,
forse, davvero un motivo per reagire e per tornare a vivere l’aveva…
Il
sovrano Carlo di Francia aveva fatto allestire tutto per il ritorno in patria:
aveva nominato un reggente che lo sostituisse sul trono di Napoli in sua
assenza, il barone Julien d’Aiglemort*, assegnandogli un esercito sufficiente a
difendere la reggia in caso di attacco; aveva spedito spie nelle varie corti
italiane per assicurarsi che non ci fosse veramente il pericolo di una lega di
eserciti uniti per tendergli imboscate durante il viaggio verso la Francia e
aveva scoperto che, in effetti, il Duca di Mantova non era riuscito a
convincere altri governanti a schierarsi con lui, ognuno aveva preferito
pensare a custodire il proprio piccolo staterello senza esporsi a rischi e
fastidi.
Tutto
procedeva perfettamente, quindi, ed entro pochi giorni il lungo viaggio avrebbe
avuto inizio.
Re
Carlo non lo aveva ammesso con nessuno e tendeva a non farlo neanche con se
stesso ma, dopo la febbre che lo aveva tormentato per così tanto tempo e che, a
volte, ancora lo aggrediva indebolendolo, aveva cominciato seriamente a pensare
alla morte. Aveva lottato molto per ottenere ciò che aveva, per consolidare il
suo potere in Francia e difenderlo dagli invasori inglesi ed anche per ampliare
i suoi domini annettendo il regno di Napoli e adesso… se fosse morto, avrebbe
perso tutto. Non aveva un figlio suo a cui lasciare tutto quello che aveva conseguito,
i quattro figli che aveva avuto con la consorte Anna di Bretagna erano tutti
morti ancora piccolissimi e la Regina si era ritirata nel castello di Blois,
rifiutando qualsiasi ulteriore contatto con lui. Non avendo un discendente
diretto, si sentiva perlomeno in diritto di scegliere lui stesso chi avrebbe
ereditato il trono di Francia e tutto ciò che lui aveva conquistato a caro
prezzo.
Per
questo motivo era indispensabile rientrare al più presto in Francia.
Eppure,
dentro di sé il monarca francese sentiva che non avrebbe più fatto ritorno a
Napoli.
Aveva
scelto come suo reggente uno dei suoi capitani, d’Aiglemort, ma non era lui che
voleva veramente su quel trono. Potendo scegliere liberamente, avrebbe
desiderato concedere quel privilegio al Generale, che tanto bene e tanto
lealmente lo aveva servito in tutti quegli anni e durante innumerevoli
battaglie. Ma per adesso non poteva ancora farlo: aveva troppo bisogno di lui per
il viaggio di ritorno in patria. E la questione più urgente era scegliere colui
che gli sarebbe succeduto sul trono di Francia.
Una
volta rientrato alla residenza reale di Amboise e sistemata la questione della
successione, tuttavia, chissà…
Nel
frattempo, era già soddisfatto di poter intraprendere il viaggio senza più
dover dipendere dalle debolezze di quell’inutile Principe che il Generale si
ostinava a volere con sé: Alfonso era guarito e, sebbene fosse ancora piuttosto
debole, Re Carlo se ne infischiava allegramente. Era vero che si trattava di un
discendente degli Aragonesi e che la sua incolumità era importante per
mantenere buoni rapporti con la Spagna ma, in fin dei conti, se fosse morto di
fatica o malattia durante il tragitto non avrebbero potuto accusarlo di nulla,
no? Lui aveva disposto affinché il Principe viaggiasse comodo e riposato, se
quell’incapace fosse morto comunque, avrebbe sempre potuto dichiarare di avere
fatto il possibile per impedirlo. Che diamine, aveva persino portato con loro
il dottore, perché si occupasse della salute del ragazzo!
Il
sovrano francese sghignazzò tra sé, molto compiaciuto della sua astuzia.
Se
Re Carlo era impaziente di ritornare in Francia, il Principe Alfonso era invece
atterrito alla sola prospettiva e, più il giorno della partenza si avvicinava,
più si mostrava malinconico e nervoso. La malattia che lo aveva indebolito lo
rendeva ancora più vulnerabile alle emozioni negative e la sua fragilità lo
spaventava.
Il
giorno prima dell’inizio del viaggio il Generale lo trovò nel loggiato che dava
sul Golfo di Napoli, appoggiato ad una delle colonne, che ammirava il paesaggio
a lui tanto caro e familiare con gli occhi gonfi di lacrime a stento
trattenute.
“Principe
Alfonso, cosa ti è accaduto? Perché stai piangendo?” gli domandò subito,
premurosamente, pensando che Sua Maestà lo avesse fatto tormentare in qualche
modo o lo avesse spaventato. “Ti è accaduto qualcosa o forse ti senti di nuovo
male?”
Preso
alla sprovvista, il ragazzo si affrettò ad asciugarsi le lacrime col dorso
della mano e scosse il capo, senza parlare.
“Sua
Maestà ti ha minacciato ancora di legarti alla sedia di Giuda nella sala da pranzo di tuo padre?” insisté il
francese, rammentando il doloroso episodio di due settimane prima quando Re
Carlo aveva imprigionato Alfonso in quella stanza per poi interrogarlo di nuovo
a proposito della pestilenza di Napoli. Il militare era tuttora convinto che lo
spavento e l’orrore provati in quell’occasione avessero creato un terreno
fertile per la febbre che, il giorno successivo, aveva colpito il Principe. “Non
devi temere, Sua Maestà è ben consapevole di quanto la tua presenza sia
importante per la stabilità della corona di Napoli e non ti farà del male, se
continuerai a comportarti sempre bene come hai fatto finora.”
“Non
è questo” mormorò il giovane, talmente piano che il Generale dovette
avvicinarsi a lui per udirlo. “Non ho nemmeno visto Sua Maestà oggi… è che
domani… domattina…”
Il
Generale gli circondò le spalle con un braccio e lo attirò a sé.
“Domattina
partiremo per la Francia, è vero” confermò con un sorriso. A lui, in realtà,
piaceva l’idea di mostrare le terre in cui era nato e cresciuto al suo giovane
amante… “Questo ti preoccupa? Non dovrebbe: sei comunque sotto la mia
protezione e rimani un ostaggio preziosissimo per Sua Maestà. Nessuno oserà
farti del male, né qui né in Francia.”
“Ma
questa è casa mia” gemette il Principe, senza riuscire a trattenere nuove
lacrime. “Io sono nato qui e ho pensato che sarei rimasto sempre qui! Il Regno
di Napoli è un luogo di pace, mio padre ha lottato tanto per consolidare il suo
potere e per impedire ogni ingerenza da parte degli altri Stati italiani e io…
io credevo che sarei stato il suo successore, lui avrebbe voluto questo… io
l’ho deluso e ora verrò strappato dalla mia patria e… e non…”
Il
fiume di parole venne interrotto da uno scoppio di pianto. Intenerito, il
Generale lo abbracciò stretto, facendogli sentire il calore della sua presenza
e del suo affetto. Questa paura irrazionale di aver deluso il padre e di essere
portato prigioniero in un luogo straniero non faceva che dimostrare quanto il
Principe fosse giovane e indifeso e aumentava nel comandante francese il
desiderio di tenerlo stretto e di difenderlo da ogni pericolo e angoscia.
“Non
piangere, Principe” gli disse in tono rassicurante, abbracciandolo e
accarezzandogli il viso e i capelli. “Nessuno vuole trascinarti in catene, sei
un ostaggio di alto rango e sarai trattato con tutti i privilegi che meriti,
sia durante il viaggio sia in Francia. Per tutti sarai il Principe Alfonso di
Napoli, della casata Aragonese, che è stato battuto da Sua Maestà e che ha
accettato di concedergli il regno, riconoscendo cavallerescamente la sconfitta.
Nessuno ti mancherà di rispetto per questo, inoltre Sua Maestà ti ha affidato a
me, adesso sei il mio amante e anche
per questo nessuno avrà l’ardire di arrecarti offesa.”
Il suo che?, pensò il
Principe, sbalordito. Ma non ebbe il tempo di chiedere chiarimenti perché il
Generale lo baciò, dapprima delicatamente e poi con sempre maggior passione e
intensità, tenendolo incollato al suo corpo. Staccatosi da lui, riprese a
parlare in tono tranquillizzante.
“Posso
comprendere che ti addolori allontanarti dalla tua patria” disse, “tuttavia non
sarà un addio definitivo. Sua Maestà è adesso il sovrano del Regno di Napoli e
immagino deciderà di trascorrere una parte del suo tempo in Francia e una parte
qui, magari nei mesi in cui il clima del Nord è più sfavorevole. Nel frattempo,
io sarò lieto di mostrarti le bellezze della nostra terra: attraverserai le
Alpi, potrai ammirare un paesaggio che non hai mai visto prima e poi, quando
giungeremo alla residenza reale, sono certo che ne rimarrai incantato. Ormai ti
conosco, Principe Alfonso, so quanto ti attirino il lusso e l’eleganza e i
castelli che sorgono nella valle della Loira e la corte di Amboise ti
affascineranno senza alcun dubbio.”
“E’
davvero così bello il posto dove andiamo?” domandò timidamente il Principe,
incerto se provare dolore per la reggia che lasciava o curiosità per quella in
cui sarebbe stato condotto.
“Ma
certo, Principe” rispose il Generale, con un sorriso incoraggiante. “Sua Maestà
è nato e cresciuto proprio nel castello di Amboise e ne ha fatto la sua
residenza, contribuendo a renderlo sempre più sfarzoso ed elegante. Anzi, nel
nostro viaggio ci accompagneranno anche alcuni importanti artisti italiani a
cui Sua Maestà ha dato l’incarico di abbellire ulteriormente la reggia e di
progettare dei grandi giardini.”
Le
parole del Generale erano finalmente riuscite ad incantare il giovane Principe,
che adesso lo ascoltava con espressione rapita, cercando di immaginare le
meraviglie di cui avrebbe potuto godere alla corte del Re di Francia. Contento
di averlo rassicurato e intenerito dalla curiosità, tipica dei ragazzini, che
Alfonso dimostrava, l’uomo lo strinse tra le braccia e lo baciò di nuovo,
profondamente e intensamente.
Il
mattino seguente, alle prime luci dell’alba, tutto era pronto per la partenza.
I drappelli francesi sfilarono per le campagne del Regno di Napoli, dirette
verso il Nord. Re Carlo aveva insistito per cavalcare al fianco del suo
Generale pur avendo a disposizione una carrozza in cui viaggiare più
comodamente, per non mostrarsi debole di fronte ai propri uomini; avrebbe
proseguito in carrozza soltanto se fosse stato nuovamente assalito dalla
febbre. Nella carrozza viaggiavano dunque soltanto il Principe Alfonso e il
dottore, che Sua Maestà aveva a tutti i costi voluto portare con sé ufficialmente
per assistere il giovane Principe, ma in realtà perché aveva apprezzato molto
le cure che gli aveva prestato durante la pestilenza.
Alfonso
si sentiva stordito. Nonostante le rassicurazioni del Generale e la curiosità
di ammirare lo sfarzo dei castelli francesi, la tristezza lo aveva invaso di
nuovo e la sua mente era preda di tristi presentimenti, soprattutto adesso che il
comandante francese non era lì con lui a tranquillizzarlo. Mesto, malinconico e
provato dalla recente malattia, non trovò di meglio da fare che raggomitolarsi
sul sedile della carrozza, avvolto da un mantello di pelliccia, e cadere in un
sonno profondo. Il dottore, intanto, lo osservava preoccupato, temendo che la
costituzione delicata del Principe, resa ancor più fragile dalle sevizie subite
e dalla recente febbre, non potesse affrontare un viaggio tanto lungo e
faticoso.
Quando
il Principe si svegliò il sole era già alto nel cielo ed erano trascorse più di
cinque ore di viaggio. La carrozza ebbe un sobbalzo e poi si arrestò e fu questo
a svegliare Alfonso, che udì anche le voci dei soldati francesi tutto attorno.
Ancora frastornato, per un attimo non ricordò dove si trovasse e che cosa ci
facesse lì, poi vide la figura familiare del dottore seduto davanti a lui che
lo tranquillizzò.
“Non
spaventatevi, mio Principe” gli disse. “Avete dormito per tutto il tempo,
dovevate essere molto stanco. Penso sia ora di pranzo e forse i soldati si
stanno accampando. Non vi preoccupate, qualcuno verrà a darci notizie.”
Infatti,
pochi minuti dopo, giunse il Generale a cavallo che scostò la tenda e lanciò
uno sguardo affettuoso al giovane Principe.
“Buongiorno,
Principe” lo salutò. “Spero che tu abbia fatto un buon viaggio finora. Non
preoccuparti per il trambusto qui fuori, c’è stato un imprevisto a cui dobbiamo
far fronte, ma non è nulla che tu debba temere.”
“Ci
attaccano?” chiese subito il ragazzo, spaventato, guardandosi intorno con gli
occhi sgranati per l’apprensione.
“No,
nessuno ci attacca” lo tranquillizzò il Generale. “E’ giunto un messaggero del
Papa Borgia e ha chiesto a Sua Maestà di fermarsi a Roma per questa notte come
suo ospite. Dice che il Papa desidera chiedere perdono a Sua Maestà per averlo
ingannato.”
Lo
sguardo di Alfonso s’incupì. Il giovane non dimenticava che tutto ciò che gli
era accaduto era stato causato proprio da Rodrigo Borgia: era stato lui a
incoronare Carlo VIII Re di Napoli e poi lo aveva mandato a prendere la peste
in città… e di quella pestilenza era stato incolpato lui, lui aveva pagato per
quell’inganno che non aveva ordito!
“Potrebbe
essere una nuova trappola” azzardò il dottore. “Cosa ne pensa Sua Maestà?”
“Sua
Maestà ha deciso di accettare l’ospitalità per stanotte, ma pretenderà di essere
accompagnato da me e dagli altri suoi capitani e anche da te, Principe” rispose
il Generale, notando il turbamento del giovane. “Inoltre l’esercito si
accamperà subito fuori dalle mura di Roma e, se dovesse accadere qualcosa, gli
uomini hanno l’ordine di distruggere la città a cannonate. No, non penso che il
Papa voglia rischiare.”
“Io?
Io non voglio incontrarlo!” reagì Alfonso, irrigidendosi. “E’ stata tutta colpa
sua… tutto quello che mi è successo! Non lo voglio vedere!”
Il
Generale scese da cavallo e salì in carrozza, commosso dai timori
ingiustificati del ragazzo. Si sedette vicino a lui e tentò di convincerlo.
“Non
può farti niente ora che sei ostaggio del Re di Francia e mio protetto” lo
rassicurò. “Anzi, vederti al nostro fianco non potrà che fargli comprendere
quanto il suo piano sia fallito su tutti i fronti. Sua Maestà sta guarendo
dalla peste e la sua supremazia sul Regno di Napoli è consolidata anche dal tuo
appoggio. I suoi intrighi non hanno avuto la meglio né su di noi né su di te.”
“Lo
credete davvero?” domandò Alfonso, con uno sguardo speranzoso rivolto all’uomo.
“Non
lo credo, lo so” ribadì il Generale,
sorridendo. “Sua Maestà ha accettato l’invito proprio per dare una bella
lezione a chi ha cercato di ingannarlo e, come sempre, il tuo appoggio sarà
molto prezioso per noi tutti.”
Il
Principe sembrava allo stesso tempo intimidito, spaurito e allettato da quella
prospettiva.
Il
dottore iniziò a capire che, in quella carrozza, era di troppo.
“Con
il vostro permesso, desidererei andare a visitare Sua Maestà. Il viaggio a
cavallo è stato lungo e voglio accertarmi che non si affatichi eccessivamente”
disse allora, prima di scendere dalla carrozza per recarsi dal sovrano.
Non
appena furono soli, il Generale ne approfittò per stringere a sé il giovane
Principe.
“Sono
certo che saprai comportarti in maniera egregia con il Papa Borgia, così come
hai fatto davanti agli Sforza e al Duca di Mantova” gli disse, in tono pacato e
rassicurante.
“Se
le cose stanno così allora… allora va bene, vi accompagnerò” cedette Alfonso.
Il
Generale, compiaciuto, lo avvolse in un abbraccio e lo baciò a lungo e
profondamente, cercando di infondere fiducia e tranquillità al ragazzo con la
sua presenza affettuosa. Perduto nella sua stretta e nei suoi baci, Alfonso
sentì crescere ancora una volta quella strana pace che solo quell’uomo sapeva
donargli e comprese che, di nuovo, accanto a lui non avrebbe avuto niente da
temere nemmeno in presenza di Rodrigo Borgia.
FINE
*Siccome nella
serie TV non viene detto nemmeno per sbaglio il nome di qualcuno di questi
francesi, eccetto il Re, (e infatti non si sa nemmeno il nome del Generale) io
ho “pescato” questo nome da un libro di Jacqueline Carey, mettendo insieme nome
e cognome di due diversi personaggi! XD
L’invito
di Rodrigo Borgia per quella sera non era certo una forma di cortesia, bensì
una sorta di partita a scacchi in cui sia lui sia re Carlo di Francia avrebbero
tentato di fare le loro mosse per non perdere vantaggi. Il sovrano francese,
perciò, si era voluto muovere con i suoi uomini più fidati e con il Principe
Alfonso come garanzia e aveva lasciato fuori dalle mura di Roma la maggior
parte del suo esercito, pronto a cannoneggiare la città se soltanto ci fosse stato
un minimo accenno di minaccia alla sua persona.
Cesare
Borgia non era affatto d’accordo con il padre per questa sua scelta e non si
fece scrupoli a dirglielo in faccia.
“Santità,
credo che la vostra sia stata un’enorme imprudenza” affermò con decisione. “Re
Carlo sa benissimo che siete stato voi a mandarlo a Napoli sperando che morisse
di peste e non si farà ingannare una seconda volta. Purtroppo neanche il morbo
è bastato per abbatterlo, ma adesso che è qui potreste approfittarne, proprio
durante la cena, come abbiamo già fatto in passato con chi vi contrastava. Gli
Stati italiani vi sarebbero grati per averli liberati dalla minaccia francese e
forse, finalmente, vi riterrebbero degno del seggio che occupate.”
“Dici
a me imprudente e poi mi proponi di
assassinare il Re di Francia alla mia stessa tavola? Dimentichi forse che
appena fuori dalle mura di Roma ci sono centinaia di soldati pronti ad aprire
il fuoco contro la città?” lo rimproverò il Papa.
“I
cannoni potrebbero anche non funzionare” disse Cesare in tono allusivo. “Io e i
miei uomini potremmo andare fuori dopo il tramonto, Michelotto
e i suoi ucciderebbero le guardie e nel frattempo noi potremmo bagnare le
polveri e…”
“Sei
completamente impazzito?” lo interruppe Rodrigo Borgia, fuori di sé. “Questo è
il colmo, ho mandato in Spagna tuo fratello Juan perché prendesse moglie e
mettesse giudizio e ora sei tu che vieni a suggerirmi una simile follia?
Assassinare il Re di Francia nella residenza papale, uccidere i suoi soldati…
ma ti ascolti quando parli? A quel punto sarebbe l’intera nazione francese a
muoverci guerra!”
“Carlo
VIII non ha nemmeno eredi diretti…” tentò ancora il giovane Borgia.
“Questo
non conta niente, il trono andrebbe al suo parente più prossimo e la Francia
avrebbe una scusa incontrovertibile per dichiarare guerra agli Stati italiani e
invadere la nostra terra. Dove sono finite la tua prudenza e la tua astuzia? Ci
sono ben altri modi per ottenere vantaggi dal Re di Francia e l’omicidio non
rientra tra questi!” concluse bruscamente il pontefice, prima di voltare le
spalle al figlio e andare a dare ordini per l’organizzazione del banchetto di
quella sera.
Era
pomeriggio quando Re Carlo, accompagnato dai suoi capitani, dal Generale, dal
Principe Alfonso e dal dottore, con un piccolo drappello di soldati,
attraversava la città di Roma diretto alla residenza di Papa Alessandro VI
Borgia, il Palazzo del Vaticano. Per le strade, la gente si scostava e
mormorava al passaggio dei francesi, facendo sghignazzare Re Carlo che si
compiaceva della paura che incuteva ai cittadini di Roma.
Giunti
alla residenza papale, il Re francese e il suo seguito furono accompagnati da
solerti servitori a rinfrescarsi dopo le fatiche del lungo viaggio. Quando si
furono ristorati, fu il Papa Borgia in persona ad accogliere Sua Maestà,
proponendo a lui e ai suoi uomini di visitare il Palazzo e ammirare le opere
fatte realizzare durante gli anni del suo papato. Ma, prima di accompagnare i
francesi in questa sorta di visita
guidata, il pontefice si rivolse al Principe Alfonso con un’ostentata
gentilezza.
“Mio
Principe, è per me una grande gioia potervi incontrare di persona e vedervi in
salute” gli disse. “Purtroppo erano giunte voci molto infauste nei vostri
confronti, si diceva che l’invasione francese era stata per voi una… beh, non
parliamone nemmeno. Sono lieto di constatare che era tutto falso e che voi
siete sano e salvo. A questo proposito, se vorrete seguire il Cardinale Sforza
nel giardino interno del Palazzo, potrete incontrare una persona che in questi
mesi è stata molto in pena per voi e che non vede l’ora di riabbracciarvi.”
Alfonso
era ancora offeso con il Papa Borgia per tutto ciò che gli aveva causato e non
aveva alcuna intenzione di fidarsi di lui, ma a quelle parole parve dimenticare
tutto.
“Sancha? Mia sorella?” mormorò, incredulo. In realtà Sancha d’Aragona era la sua sorellastra, ma a Napoli non si
erano mai fatti troppi scrupoli su questa faccenda e i due si comportavano come
se fossero stati entrambi figli legittimi.
“Avete
indovinato, Vostra Altezza. Sono certo che anche voi siete ansioso di
rivederla. Il Cardinale vi accompagnerà. Voi non avete nulla in contrario, non
è così, Vostra Maestà?” chiese poi, rivolto a Re Carlo.
Il
sovrano fece una smorfia poco convinta, sentiva che c’era qualcosa che il Papa
non gli diceva, tuttavia concluse che sarebbe stato un modo come un altro per
mettere alla prova il Principe Alfonso e così lasciò che il Cardinale Sforza lo
conducesse nel giardino interno del Palazzo dove Sancha
d’Aragona lo attendeva.
Il
Cardinale Sforza assistette all’incontro tra fratello e sorella e poi finse di
ritirarsi per lasciarli soli; in realtà, però, aveva avuto dal Papa l’incarico
di ascoltare con attenzione tutto ciò che il Principe avrebbe detto alla
sorellastra, auspicando che dalle sue parole si potessero trarre elementi per
provare che Re Carlo si era comportato in maniera indegna nei confronti di un
Principe della casata Aragonese.
“Alfonso,
fratello! Stai bene?” esclamò la giovane donna slanciandosi verso di lui.
“Avevano detto che… arrivavano voci terribili da Napoli, ma non era vero
niente, non era vero, allora.”
Il
giovane Principe abbracciò la sorellastra provando una curiosa sensazione di
straniamento: l’ultima volta in cui i due si erano visti e si erano presi in
giro come solevano fare era stato in occasione della visita di Juan Borgia, il
Gonfaloniere, che era venuto a portare la proposta di matrimonio del fratello
tredicenne Goffredo per Sancha. In quell’occasione
tutto era diverso, Re Ferrante era ancora vivo, Alfonso era sicuro del suo
Regno e convinto che l’alleanza con i Borgia avrebbe portato solo vantaggi e Sancha era interessata principalmente a mostrarsi
provocante con l’affascinante Gonfaloniere.
Chi
avrebbe mai pensato, allora, che sarebbe finita così? Di sicuro non il Principe
Alfonso…
“Sto
bene, certo, sorella, anche se ora come ora le nostre posizioni sono cambiate”
rispose il giovane, con un sorrisetto amaro.
“Cosa
vuoi dire?”
“Non
è ovvio? Tu, la figlia illegittima del Re Ferrante, hai fatto un matrimonio
fortunato e adesso vivi come una Regina in questo lussuoso Palazzo, mentre io,
l’erede al trono, ho perso tutto e sono ostaggio dei francesi” replicò Alfonso,
cercando di mantenere un tono leggero. “Ora il bastardo sono io…”
Sancha si mostrò preoccupata.
“Ma
allora… è vero quello che si dice? I francesi ti hanno fatto del male?”
domandò.
Alfonso
esitò. Per un attimo la voglia di sfogarsi e raccontare tutte le sue paure, i
suoi tormenti, le sofferenze fisiche e psicologiche di quegli interminabili
mesi parve soverchiarlo. Sancha era la sua
sorellastra, la parente più vicina che gli fosse rimasta, con chi mai avrebbe
potuto confidarsi se non con lei?
Ma
poi rammentò: adesso Sancha era una Borgia e, forse,
avrebbe finito per raccontare tutto al giovanissimo marito e al suocero. Non
poteva permettersi la minima debolezza, nemmeno con lei. Drizzò la testa e
fissò la sorellastra dritto negli occhi.
“Non
mi hanno fatto alcun male e, anzi, mi trattano come un ostaggio di riguardo,
com’è giusto che sia” rispose convinto. “Tuttavia non ho più un Regno e adesso
dovrò recarmi in Francia al seguito di Sua Maestà, perciò direi che le cose
sono cambiate un bel po’ per me. Ma lasciamo perdere i lamenti di un Principe
in disgrazia, raccontami di te: questo Goffredo Borgia si è dimostrato un
marito degno delle tue aspettative o è solo un ragazzino imbranato? So bene che
avresti voluto sposare il Gonfaloniere… e ora lui è in Spagna a cercarsi una
moglie. Che disdetta, eh?”
Il
tono ironico e pungente di Alfonso faceva capire bene che qualunque tentazione
avesse avuto di confidarsi, adesso era passata, il discorso si chiudeva lì.
Così anche Sancha ripiegò su argomenti più
superficiali.
“Oh,
ti assicuro che non ho avuto modo di annoiarmi qui” rispose in tono malizioso,
“e Goffredo si sta rivelando un allievo molto diligente anche se, ovviamente,
ho dovuto insegnargli tutto io!”
“Ovviamente”
ripeté Alfonso e, per un felice istante, la risata allegra del Principe risuonò
nel giardino assieme a quella della sorellastra, come accadeva a Napoli in
tempi più lieti.
Quella
sera, al banchetto in onore del Re di Francia, erano presenti tutti i membri
della famiglia Borgia, ad eccezione di Juan che si trovava, appunto, in Spagna.
La conversazione si era mantenuta su argomenti leggeri durante tutta la cena e
soltanto alla fine, quando a tavola erano rimasti soltanto il Papa con suo
figlio Cesare oltre a Re Carlo e al suo seguito, si giunse a ciò che premeva ad
entrambe le parti.
“Dunque,
Vostra Maestà, state facendo ritorno in Francia per nominare il vostro
successore” esordì il Papa.
“Così
dicono” tagliò corto Re Carlo, che non aveva intenzione di parlare dei fatti
suoi a quell’uomo intrigante che già una volta lo aveva ingannato.
“Vedo
che non vi fidate di noi” sorrise Rodrigo Borgia. “So cosa pensate, che abbiamo
messo in scena la vostra investitura per mandarvi a Napoli a morire di peste,
ma le cose non stanno esattamente così.”
“Ah,
no? E come sarebbero andate invece? Volete forse farci credere che non sapevate
della febbre napoletana?”
Quella
domanda fece gelare il sangue al Principe Alfonso: e se il Papa avesse
scaricato tutta la colpa su di lui? Non ci sarebbe stato da stupirsi, visto
l’uomo che era… ma, in quel caso, Re Carlo avrebbe nuovamente preteso la sua
vendetta su di lui! Pieno di orrore, il giovane impallidì mortalmente e fece
per alzarsi da tavola, ma un’occhiata del Generale lo indusse a desistere,
facendogli comprendere che una fuga sarebbe stata una sorta di ammissione di colpevolezza.
“Voi
lo sapevate benissimo e proprio per questo motivo avete avvertito il Cardinale
vostro figlio di scappare appena possibile e di non accompagnarci fino a Napoli”
dichiarò trionfante il Re.
Il
sorriso sul volto dello scaltro pontefice non si alterò.
“E’
vero, avevo udito delle voci su una strana febbre che appestava Napoli” ammise,
tranquillo, “ed è per questo che il Cardinale Borgia è stato avvertito di non
avvicinarsi troppo alla città. Tuttavia non era nostra intenzione farvi
ammalare di peste, vi abbiamo incoronato Re di Napoli perché abbiamo
riconosciuto le vostre pretese su quel trono e il vostro coraggio nel
rivendicarlo a tutti i costi.”
“Dunque?
Chi dovremmo incolpare allora per la nostra malattia?” domandò il sovrano
francese, iniziando a innervosirsi.
Alfonso
chiuse gli occhi e si morse il labbro inferiore, terrorizzato alla sola idea di
udire le parole che sarebbero seguite.
“Nessuno,
Vostra Maestà” rispose inaspettatamente il Papa. “Voi desideravate il Regno di
Napoli a tutti i costi e noi ve lo abbiamo concesso con la nostra investitura
solenne, ma il Regno che volete è quello: un luogo di piaceri e delizie,
tuttavia spesso insalubre e malsano per via di strane esalazioni del terreno.
Non c’è alcun colpevole per le epidemie che molto spesso affliggono la città di
cui voi avete voluto la corona.”
“Allora
sarebbe colpa nostra?” rilanciò Re Carlo.
“Non
è colpa di nessuno” affermò nuovamente Rodrigo Borgia, serafico. “Avete
rivendicato giustamente una corona che vi apparteneva come discendente degli
Angioini e avete rischiato tutto per ottenere quanto vi spettava. Noi ammiriamo
il vostro valore e la vostra determinazione, Vostra Altezza.”
Il
Re sembrò rabbonito, mentre il Principe Alfonso riapriva gli occhi e riprendeva
a respirare. Ma l’astuto Borgia non aveva finito.
“Proprio
perché vi ammiriamo e vogliamo darvi il nostro pieno appoggio vi facciamo una
proposta” riprese, mellifluo. “Sappiamo che Vostra Maestà deve ritornare in
Francia per risolvere la questione della successione al trono, cosa molto più
importante di un piccolo Regno in Italia. Tuttavia, molti governanti attendono
solo il vostro allontanamento per attaccare la reggia e riconquistare Napoli.”
“Oh,
sì, lo sappiamo, quel fanatico del Duca di Mantova con i suoi infami amici…”
brontolò Sua Maestà.
“Noi
vi offriamo la nostra protezione per il Regno di Napoli: invieremo nostro
figlio Goffredo con sua moglie Sancha d’Aragona come
reggenti, in attesa del vostro ritorno; saranno accompagnati da buona parte
dell’esercito di Roma che, così, manterrà al sicuro i vostri domini” propose
allora il Papa.
A
quelle parole, però, la reazione del Re fu molto più violenta del previsto:
batté un pugno sul tavolo e si alzò con un ghigno di trionfo.
“Ah,
ecco a che cosa mirate, Santità!” esclamò con veemenza. “Tanti bei discorsi e
complimenti… ma quello che volete davvero è mettere vostro figlio sul trono di Napoli, approfittando del fatto che sua
moglie è una bastarda di Re Ferrante!”
“Vi
stavo solo offrendo il mio appoggio…”
“Lo
conosciamo il vostro appoggio e non sappiamo cosa farcene!” replicò bruscamente
il Re, sempre più infervorato. “Sappiate che ho lasciato uno dei miei capitani
più fidati come reggente di Napoli e una buona scorta di cannoni… provate a far
avvicinare le vostre truppe alla nostra reggia
e li ridurremo a brandelli. Avete capito bene?”
Rodrigo
Borgia sapeva come prendere una sconfitta evitando di farla passare per tale.
Chinò il capo e parlò in tono calmo.
“Come
desiderate, Vostra Maestà. E’ comprensibile che non vi fidiate di nessuno e
forse è proprio così che si mantiene il potere… noi ne sappiamo qualcosa”
disse. “Dunque è tutto sistemato. Accettate comunque, ve ne prego, la nostra
ospitalità per questa notte, prima di rimettervi in viaggio.”
“Ci
sentiremo più al sicuro nei nostri accampamenti, protetti dai nostri soldati e
dai nostri cannoni, piuttosto che in questa tana di vipere!” fu la risposta di
Re Carlo, mentre si affrettava a lasciare il salone, subito accompagnato dai
suoi uomini.
“Abbiamo
un’ultima richiesta da farvi, se vorrete concederci la vostra benevolenza” tentò
Rodrigo Borgia. “Lasciate che il Principe Alfonso rimanga qui. Sappiamo che è
vostro prigioniero, ma il viaggio verso la Francia sarà lungo e sicuramente
molto faticoso per un giovane di costituzione fragile come lui. Siamo certi che
il Principe sarebbe lieto di rimanere in compagnia dei miei figli, ragazzi
della sua età, e della sorella.”
Re
Carlo non aveva la minima intenzione di lasciare Alfonso nelle grinfie
dell’ambizioso Papa, che lo avrebbe sicuramente usato per i suoi loschi scopi;
tuttavia decise di mettere ancora una volta alla prova il ragazzo.
“Il
Principe Alfonso è nostro ostaggio, è vero, ma è pure un ostaggio di rango,
perciò lasceremo che sia lui stesso a scegliere che cosa fare: se rimanere
sotto la protezione del Papa di Roma fino al nostro ritorno o seguirci in
Francia” concesse, con tono insinuante.
Alfonso
si irrigidì, incerto e confuso. Cosa doveva fare? Sicuramente il Re francese
voleva solo metterlo alla prova ma, se avesse scelto di rimanere a Roma, forse
il Papa Borgia lo avrebbe protetto e Sua Maestà non avrebbe più potuto fargli
del male. Chissà, se avesse concesso la sua alleanza al pontefice, forse lui
avrebbe potuto perfino rimetterlo sul trono di Napoli! E poi lì c’era Sancha, l’unica parente che gli fosse rimasta al mondo…
Il
pensiero di Sancha lo riportò allo strano colloquio
avuto con lei nel pomeriggio. Era stato come se la sorellastra fosse stata
incaricata da qualcuno di fargli ammettere le torture subite e la crudeltà di
Re Carlo… magari era stato lo stesso Rodrigo Borgia a spingerla a farlo, per
avere qualcosa con cui accusare il sovrano francese di fronte alla Spagna, per
provocare una guerra tra le due nazioni.
E
lui era proprio sicuro che il Papa lo avrebbe protetto? O non lo avrebbe
davvero fatto uccidere per mettere suo figlio Goffredo sul trono di Napoli? No,
anche il Principe Alfonso non poteva fidarsi di nessuno, ormai era solo e il
mondo, per lui, era pieno di nemici.
Eppure
no, non era solo…
Il
Principe alzò gli occhi verso il gruppo dei francesi che attendeva la sua
risposta e incontrò lo sguardo sereno e calmo del Generale. No, non era solo,
c’era almeno una persona al mondo a cui importava di lui e non per i vantaggi
che poteva trarne, ma perché era lui, Alfonso.
“Vi
ringrazio di cuore, Santità, per la vostra cortese offerta” rispose allora,
convinto, “ma è mio desiderio seguire Sua Maestà in Francia. Sono tenuto a
farlo come Principe sconfitto, ma sono anche ansioso di visitare quel Paese che
mi hanno detto essere bellissimo.”
Papa
Alessandro rimase sconcertato da quella risposta così sicura, ma dissimulò la
sua sorpresa.
“Molto
bene, se è questo che desiderate, mio Principe” disse, “allora auguro a voi, a
Sua Maestà e al suo seguito un viaggio sicuro e rapido verso la Francia.”
Mentre
i francesi e il Principe Alfonso si allontanavano, Cesare Borgia parlò di nuovo
al padre, indispettito.
“Bene,
cosa avete guadagnato a fare a modo vostro? Sua Maestà non vi ha fatto alcuna
concessione e, al contrario, continua a sospettare di voi!”
“Non
aver fretta, figliolo” ribatté Sua Santità, senza scomporsi. “E’ molto meglio
non inimicarsi i francesi e avere pazienza: Re Carlo non è stato malleabile
come speravo ma, come hai potuto vedere, soffre ancora della febbre napoletana
e il lungo viaggio certo non gli gioverà. Mantenere buoni rapporti con la
Francia potrà esserci utile quando… quando sul trono di Francia siederà il suo
successore!”
Intanto,
il sovrano francese e il suo drappello di uomini stavano uscendo rapidamente
dalla città, con grande sollievo degli abitanti di Roma. Il Re non voleva
trascorrere un minuto in più del necessario vicino alle ali rapaci del Papa
Borgia e, appena fuori le mura, ordinò ai soldati che vi si erano accampati di
ripartire subito verso Nord e di allestire l’accampamento per la notte il più lontano
possibile da Roma.
Quando,
finalmente, Re Carlo e il suo seguito ebbero scelto un luogo adatto per
accamparsi, il Principe Alfonso era esausto. Era molto tardi e le emozioni di
quella lunghissima giornata lo avevano sfinito. Il Generale lo portò nella
tenda fatta allestire per lui e lo depose sul giaciglio, distendendoglisi
accanto e abbracciandolo stretto.
“Sono
veramente fiero di te, Principe” gli disse. “Hai saputo affrontare anche un
uomo astuto e insidioso come il Papa Borgia e non hai ceduto alle sue lusinghe.
Sono certo che anche Sua Maestà sia stato soddisfatto, sebbene a te non lo dirà
mai.”
Il
giovane Principe era stremato e intontito dalla sonnolenza, così quasi non si
rese conto di ciò che diceva.
“Non
è stato quello… io ho pensato che non mi fidavo del Papa e che anche lui era un
mio nemico. Ho pensato che sarei stato al sicuro solo con voi, mio signore, che
solo voi tenete davvero a me e che sarei stato veramente solo al mondo se non
vi avessi seguito…” mormorò.
Commosso
ed emozionato, il Generale strinse più forte il ragazzo che gli aveva
dichiarato così innocentemente il suo affetto.
“Io
ci sarò sempre per te, mio piccolo Principe” gli disse piano, prima di baciarlo
intensamente, perdendosi nella morbidezza delle sue labbra a cuore, nella
dolcezza del suo sapore, nel tepore soave delle sue braccia. Sempre continuando
a baciarlo, lentamente si fece strada dentro di lui, possedendolo con tutta la
pazienza possibile per non spaventarlo e non fargli del male, irretito dalla tenerezza
del suo corpo esile e delicato.
Alfonso,
travolto dall’intenso e al contempo premuroso desiderio del Generale, si
abbandonò a tutte le sue effusioni, lasciando che il suo corpo rispondesse a
ogni sollecitazione e annullandosi in quell’atto d’amore che, ancora e sempre,
gli confermò che aveva preso la decisione migliore scegliendo di rimanere
accanto all’uomo che lo amava e che lui stava imparando ad amare.
So many dreams were broken and so much was sacrificed
Was it worth the ones we loved and had to leave
behind?
So many years have past, who
are the noble and the wise?
Will all our sins be justified?
(“Hand of sorrow” – Within Temptation)
Dopo
la sosta a Roma per il banchetto con i Borgia, il viaggio del Re francese e
della sua scorta era continuato senza ulteriori interruzioni. Il sovrano per
via delle cattive condizioni di salute viaggiava in una carrozza coperta in
compagnia del dottore che lo assisteva, ma più di una volta anche il Principe
Alfonso, apparso troppo debole per cavalcare, si era dovuto adattare allo
stesso mezzo di trasporto.
Non
era affatto facile per lui.
Quando
era lì, Re Carlo continuava a bersagliarlo con frecciate e battute cattive,
spaventandolo a morte, tanto che spesso il giovane Principe preferiva fingersi
addormentato per non doverlo ascoltare e, spesso, era tanto debole e affranto
che finiva per dormire veramente.
Il
viaggio era durato più a lungo del previsto poiché il Generale, consapevole
della salute precaria del Re e della condizione dei suoi uomini, aveva
preferito evitare qualsiasi occasione di conflitto con le truppe italiane e
spostarsi lungo una via più agevole e meno faticosa. Avevano pertanto
attraversato la repubblica di Genova per poi percorrere le strade sicure del
Ducato di Savoia, assoggettato alla corona francese, fino a giungere in
Provenza, cinque mesi dopo la partenza dal Regno di Napoli.
Arrivati
in Provenza, il clima mite e il profumo del mare e dei campi di lavanda avevano
risvegliato il Principe Alfonso dal suo torpore e dalla sua malinconia e il
giovane aveva iniziato a sbirciare curioso dalle tende della carrozza.
“Siamo
lieti di constatare che ti senti meglio, caro Principe” lo aveva sbeffeggiato
Re Carlo, vedendolo più vivace. “A quanto pare l’aria di Francia è benefica
anche per te.”
Alfonso,
che aveva imparato a considerare qualsiasi frase del sovrano francese una
minaccia inespressa, si era rabbuiato; tuttavia l’attrazione per il panorama
che poteva ammirare fuori era stata più forte della sua paura.
“Mi
piacerebbe continuare il viaggio a cavallo, invece che in questa carrozza
chiusa” mormorò, sentendo un grande bisogno di respirare aria fresca e salubre
dopo tanti mesi.
“Mio
Principe, forse non siete ancora in grado di cavalcare” lo ammonì il dottore,
preoccupato. “Siete molto debole…”
“E
noi non vorremmo mai che gli Aragona di Spagna potessero accusarci di aver
fatto qualcosa di male al loro prezioso principino, non è così, dottore?”
domandò, caustico, Sua Maestà.
“Ma
io…” Alfonso avrebbe voluto insistere, ma sapeva ormai per esperienza che
sarebbe stato inutile e, forse, anche dannoso. Chinò il capo tristemente e
scostò ancora un po’ le tende per riuscire a vedere almeno una piccola parte
del paesaggio e dimenticare la triste situazione nella quale si trovava. In
realtà sperava di scorgere anche il Generale: era sicuro che, se lo avesse
chiesto a lui, avrebbe trovato il modo per farlo uscire da quella carrozza. Il
comandante francese procedeva a cavallo in testa alle truppe, mentre la loro
carrozza si trovava nel mezzo, per essere meglio protetta, ma spesso capitava
che il militare si soffermasse accanto a loro per avere notizie del suo
sovrano… e del Principe Alfonso.
Re
Carlo, tuttavia, la sapeva lunga e si accorse ben presto del fatto che il
ragazzo si affacciava alla carrozza non soltanto per ammirare il paesaggio, ma
anche per cercare di vedere il Generale.
“Chi
stai cercando, piccolo guastafeste? Non hai ancora capito che il Generale è al nostro servizio e non certo al tuo?” gli
disse, maligno. “Tu sei soltanto il giocattolo che gli abbiamo regalato per i
servigi che ha sempre reso alla nostra regale persona e troviamo alquanto
fastidiosa la tua presunzione di poter imporre la tua autorità su di lui.
Ricordalo bene, caro Principe, qui tu non hai alcuna autorità. O forse dovremmo
rinfrescarti la memoria in qualche
modo?”
Il
Principe trasalì, spaventato.
“No,
no, vi prego, io non pretendo niente dal vostro Generale!” esclamò, in tono
angosciato. “Speravo soltanto di vederlo per… ma non importa.”
Sconfitto,
Alfonso si rimise seduto al suo posto, con lo sguardo basso e dimenticando
qualsiasi attrattiva per il panorama all’esterno. Il sovrano francese, però,
non era uno sciocco e si rese subito conto del fatto che, almeno questa volta,
l’abbattimento del Principe non era tanto dovuto alle sue minacce, bensì a
qualcosa di più profondo…
Che
diamine, poteva essere che quel mocciosetto insolente
e presuntuoso avesse finito per affezionarsi veramente al suo Generale?
Re
Carlo pensò che questa eventualità avrebbe portato qualcosa di nuovo e
divertente nella sua esistenza ultimamente tanto noiosa e monotona: da quando
era stato costretto a lasciare il Regno di Napoli non aveva più provato il
brivido della sfida, la bramosia dell’azione, della guerra… non che fosse poi
tutta questa emozione osservare il Principe Alfonso e cercare di decifrare i
suoi sentimenti, ma era pur meglio di niente.
Il
viaggio proseguì verso nord-ovest per raggiungere la meta, la residenza reale
di Amboise. Tuttavia, la parte finale di quell’interminabile tragitto riuscì
più piacevole per il giovane Principe e proprio grazie all’intervento del
Generale.
Durante
una sosta per permettere ai cavalli di riposare e agli uomini di rinfrescarsi e
mangiare, il comandante francese si accorse che, se il suo sovrano pareva
essersi ripreso piuttosto bene da quando era rientrato in patria, al contrario
Alfonso appariva ogni giorno più malinconico e fragile. Non mangiava quasi più
niente e trascorreva troppe ore perduto in un torpore che non era certo normale
per un ragazzo come lui. Preoccupato, il Generale gli si sedette accanto.
“Principe,
stai bene? Questo viaggio è forse troppo faticoso per te?” gli domandò.
“Sto
bene, vi ringrazio, non siate in pensiero per me, mio signore” mormorò il
giovane in risposta, ma il suo viso pallidissimo e le profonde occhiaie
raccontavano tutta un’altra storia.
“Devi
farti forza, so che è stato un percorso lungo e spossante per tutti noi, ma
ormai mancano poco più di due settimane e poi giungeremo alla reggia di
Amboise” lo incoraggiò l’uomo.
Alfonso
chinò ancora di più il capo e non rispose: era evidente che non si aspettava
alcun miglioramento dall’arrivo alla residenza reale.
“Temi
forse che Sua Maestà decida di imprigionarti o peggio quando sarà giunto nel
suo castello? Forse ti ha detto qualcosa che ti ha spaventato? Non devi
preoccuparti, Principe. Sua Maestà ti ha posto sotto la mia custodia e io mi
prenderò cura di te: quando arriveremo a corte, dirò davanti a tutti che tu sei
il mio amante, che mi appartieni e che nessuno deve nemmeno pensare di torcerti
un capello” promise il militare, senza accorgersi che Alfonso era rimasto
sconcertato all’idea di essere presentato davanti alla corte francese come amante di quell’uomo. “Il sovrano può
divertirsi a tormentarti a parole, ma in fondo è un uomo astuto e sa che non
gli sarebbe di alcuna utilità nuocere a un membro della casata aragonese.
Ricordi cosa dissero Giovanni e Caterina Sforza? La Spagna ci è nemica e non
attende altro che un pretesto qualunque per muoverci guerra; a quel punto molti
principi italiani sarebbero ben lieti di unire le loro truppe a quelle spagnole
e, in questo momento, la guerra è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno. Sua
Maestà non lo ammetterà mai, ma tu sei un ostaggio molto prezioso per lui.”
Vedendo
che il Principe rimaneva cupo e abbattuto, il Generale gli passò un braccio
attorno alle spalle e lo attirò a sé.
“Non
posso impedire che Sua Maestà ti terrorizzi con le sue minacce, ma posso
prometterti che a corte sarai trattato come si conviene a un Principe e che ti
proteggerò da ogni pericolo” dichiarò solennemente prima di baciarlo e
stringerlo a sé. In quei giorni di viaggio aveva avuto poche occasioni di
vederlo e aveva compreso sempre di più quanto la sua mancanza lo addolorasse e
quanto avesse bisogno della compagnia di quel ragazzo.
“E
cosa te ne pare della Francia, Principe?” chiese poi, cambiando argomento per
distrarlo dai pensieri tristi. “Non credi che sia all’altezza del Regno di
Napoli, se non addirittura ancora più bella?”
“Non
lo so” rispose Alfonso, debolmente. “Non ho avuto occasione di vedere molto,
sono sempre stato chiuso in carrozza e… il dottore pensa che io sia troppo
fragile per cavalcare.”
Il
Generale sorrise e scompigliò affettuosamente i capelli del giovane.
“Allora
il problema è facilmente risolvibile” gli disse, “ti porterò con me sulla mia
cavalcatura, così non ti stancherai e potrai ammirare tutti i bei posti per i
quali passeremo.”
Per
la prima volta dopo tanto tempo una piccola luce parve illuminare lo sguardo
solitamente spento e angosciato del Principe.
“Ma
Sua Maestà vi darebbe il permesso?”
“Non
vedo perché non dovrebbe. Mi assumerò io ogni responsabilità e non credo
proprio che tenterai la fuga o qualche altra sciocchezza del genere” replicò il
Generale, soddisfatto di aver trovato una soluzione che avrebbe reso meno
infelice il suo Principe.
“E
dove volete che vada?” commentò Alfonso, con un tono talmente rassegnato da
apparire involontariamente comico.
Il
comandante francese non perse tempo e si recò subito al padiglione del Re per
domandargli il permesso di portare il Principe a cavallo con sé per il resto
del percorso.
Re
Carlo squadrò attentamente il suo Generale, valutando la richiesta e
sghignazzando tra sé.
“Non
puoi proprio stare lontano da quel ragazzetto insulso, eh?” lo schernì.
“Tuttavia in questi giorni abbiamo avuto modo di notare che, se tu soffri la
mancanza del Principe, il piccolo bastardo non è da meno. E sia, portalo con
te! Così non dovremo sopportare la sua fastidiosa presenza nella nostra
carrozza…”
Il
Generale ringraziò cerimoniosamente il suo Sire, si inchinò per congedarsi e
andò a portare la buona notizia ad Alfonso. Il giovane Principe non aveva osato
sperare che Re Carlo potesse acconsentire, riteneva piuttosto che avrebbe
negato il permesso al Generale anche soltanto per fare un dispetto a lui. Questa
volta il viso gli s’illuminò davvero per il sollievo e la gioia di poter
vedere, finalmente, qualcosa del nuovo mondo che lo circondava… non poteva
saperlo né comprenderlo, ma nel profondo del cuore era felice anche di
ritrovarsi accanto all’uomo che sempre lo difendeva, lo incoraggiava e si
prendeva cura di lui e di cui non sapeva più fare a meno.
Dopo
la sosta, quando la carrozza reale ripartì insieme a tutta la scorta, il
Generale si portò in testa al drappello con Alfonso sul suo cavallo, stretto a
lui, che si guardava intorno con occhi sgranati, godendosi l’aria pulita e fresca
e il fascino di territori che non aveva mai nemmeno immaginato. Del resto, il
giovane Principe non era mai uscito dal Regno di Napoli in tutta la sua vita!
Re
Carlo rimase in carrozza da solo con il dottore, che appariva molto in ansia
per il giovane Principe.
“Non
darti pena, buon dottore” gli disse il sovrano. “Il tuo amato Principe è in
buone mani con il Generale e siamo certi che si riprenderà presto, stando
accanto a lui. Non avremmo mai creduto di doverlo dire ma, a quanto pare, anche
il ragazzino ha perso la testa per il nostro comandante!”
Il
dottore si scandalizzò sentendo il Re che parlava così tranquillamente di
qualcosa che per lui era inimmaginabile.
“Vostra
Maestà, ma… forse c’è un equivoco” mormorò. “Il Principe Alfonso è giovane e
ingenuo e di certo non può avere pensieri simili…”
“Se
non li ha ancora, ci penserà il Generale a farglieli venire!” ribatté ironico
il sovrano, scoppiando in una grassa risata di fronte al volto ancora più
allibito del medico.
In
realtà il rapporto che si stava creando tra il suo Generale e il Principe non
gli dispiaceva. Inizialmente aveva pensato che il ragazzino fosse solo un abile
manipolatore e che usasse il suo fascino per irretire il militare e sfruttarlo
per i suoi scopi; non si fidava di Alfonso dopo l’episodio della febbre
napoletana e gli veniva spontaneo pensare sempre il peggio di lui. Tuttavia in
quei lunghi giorni trascorsi in carrozza a continuo contatto con il Principe
aveva iniziato a vederlo con altri occhi e adesso riteneva che non fosse altro
che uno sciocco, un incapace a cui mai e poi mai il padre Re Ferrante avrebbe
voluto davvero lasciare il Regno di Napoli. Era presuntuoso e insolente, sì, ma
alla resa dei conti era soltanto un ragazzino viziato che non avrebbe saputo
ordire una congiura o tramare un inganno nemmeno se ci avesse messo tutta la
vita. Adesso era compiaciuto del fatto che il suo Generale gli avesse
consigliato di risparmiargli la vita e di tenerlo come ostaggio: ucciderlo
avrebbe scatenato l’ira della casata aragonese mentre, tutto sommato, averlo
come prigioniero di alto rango non comportava alcun fastidio, Alfonso era
troppo inetto per costituire un pericolo e il suo legame così stretto con il
Generale lo rendeva, suo malgrado, ancora più utile alla causa francese. Fra
tanti nemici e incapace di cavarsela da solo, il giovane Principe aragonese
sarebbe diventato sempre più dipendente dal comandante francese e questo, per
Re Carlo, era molto positivo. Sì, era stato saggio frenare il desiderio di
vendetta e approfittare dei vantaggi di avere un ostaggio così prezioso.
Due
settimane dopo, finalmente, il Re e il suo seguito fecero il loro ingresso
trionfale ad Amboise, accompagnati dalle acclamazioni del popolo che si era
riunito per veder passare il sovrano. Re Carlo, tutto sommato, tornava da
vincitore: aveva strappato il Regno di Napoli agli aragonesi, aveva preso
prigioniero l’erede del Re di Napoli e non era mai stato sconfitto in
battaglia. La sua spedizione in Italia aveva, inoltre, dimostrato che quella
era una terra facile da conquistare, divisa in tanti piccoli Stati troppo
impegnati a farsi guerra l’un l’altro per sapersi davvero alleare contro un potente
nemico. Negli anni successivi sarebbe stato un gioco da ragazzi per i francesi
organizzare una nuova spedizione di conquista e, questa volta, ottenere il
dominio dell’intera nazione.
La
corte di Amboise era in festa ed era stato organizzato un fastoso ricevimento
per celebrare il ritorno del Re e le sue conquiste. Alfonso, da sempre
innamorato del lusso e dei piaceri della corte napoletana, rimase incantato
davanti alla bellezza del castello reale, con la sua terrazza panoramica, le
torri gotiche, le sale e le camere riccamente arredate e piene di luce e gli
immensi parchi e giardini. Guardava tutto con occhi pieni di stupore e
ammirazione e il Generale non poteva che sorridere intenerito vedendo il suo
piccolo Principe tanto affascinato.
Alfonso
partecipò al banchetto organizzato per il ritorno del sovrano e, vestito
elegantemente come il suo rango richiedeva, ebbe l’onore di sedere al tavolo
reale al fianco del Generale. Gentiluomini e dame lo fissavano con curiosità,
alcuni anche apertamente ostili, mentre bisbigliavano tra loro senza curarsi
del fatto che il Principe comprendesse benissimo che stavano parlando di lui.
Durante il banchetto, mangiando e bevendo allegramente come sempre, Re Carlo
raccontò gli episodi più divertenti e avventurosi della sua campagna in Italia,
mettendo in ridicolo i nobili e gli esponenti del clero che avevano cercato di
fermarlo o di ingannarlo senza mai riuscirci. Solo verso la fine del banchetto
si degnò di spiegare la presenza di Alfonso a corte e al tavolo reale.
“Il
moccioso che vedete qui, cari amici, è il Principe Alfonso, discendente degli
Aragona e erede al trono di Napoli… che noi, però, gli abbiamo strappato senza
alcuna difficoltà!” iniziò, scoppiando in una risata. “Era nostra intenzione
eliminarlo, ma il Generale qui presente ci consigliò saggiamente che sarebbe
stato importante avere come ostaggio un Principe della casata aragonese, per
tenere in scacco anche quei fastidiosissimi spagnoli.”
Il
sovrano fece scorrere rapidamente lo sguardo sui volti dei suoi invitati e poi,
con un ghigno malizioso, riprese a parlare.
“Il
Generale si dichiarò disposto a prendere il Principe sotto la sua
responsabilità… beh, potevamo forse rifiutare qualcosa al comandante delle
nostre truppe, sempre impavido, valoroso e pronto a morire per noi in qualunque
momento? No di certo, anzi! Dopo tanti anni di onorato servizio presso di noi
abbiamo ritenuto che meritasse una ricompensa e così, nella nostra generosità,
gli abbiamo donato il Principe suddetto. A questo punto, dunque, il Principe
Alfonso non è più soltanto un nostro prigioniero, ma è anche l’amante del comandante in capo delle
truppe francesi. Quale modo migliore per legare per sempre il suo destino alla
nostra causa?”
L’intera
tavolata scoppiò a ridere insieme al sovrano. Alcuni si complimentarono con il
Generale per l’appetibile ricompensa
ottenuta, altri fissarono il giovane Principe con freddezza e sospetto,
pensando che il ragazzo avesse irretito il Generale per poi ottenerne dei
vantaggi… nessuno, comunque, parve scandalizzato o indignato. La corte francese
aveva costumi molto liberi e non era raro che gentiluomini, dame e perfino
rappresentanti del clero avessero favoriti
e favorite anche molto più giovani di
Alfonso.
Anche
il Generale si unì all’allegria dei commensali, onorato dalle parole di elogio
del suo Sire e fiero di avere come amante un giovane Principe tanto elegante e
delicato. Sapeva che molti glielo avrebbero invidiato e provava un’immensa
gratitudine per il sovrano che aveva fatto proprio a lui un dono tanto
prezioso.
Alfonso,
al contrario, si sentì ferocemente umiliato da quella presentazione. Impallidì
e gli occhi gli si riempirono di lacrime. Re Carlo si era fatto beffe di lui
davanti ai nobili più in vista della sua corte, lo aveva ridicolizzato come
Principe dichiarando che strappargli la corona era stato un gioco da ragazzi e
anche umiliato, rivelando apertamente il suo ruolo di favorito del Generale. Non era cambiato niente da quando, a Napoli,
ogni banchetto era per il sovrano francese un’occasione per divertirsi alle sue
spalle, terrorizzarlo, minacciarlo o oltraggiarlo.
Presto
la Francia intera avrebbe saputo che il Principe Alfonso di Napoli altro non
era che un prigioniero dei francesi e il concubino
di un Generale… sarebbe stato la vergogna di tutta la casata degli Aragona! Ma
che altro poteva fare, lui? Doveva anzi essere grato a Re Carlo che lo avesse
risparmiato dalle atroci e strazianti torture a cui lo aveva destinato… Anche
quel banchetto si rivelò un incubo per il giovane Principe, il primo di una
lunga serie di umiliazioni.
Nemmeno
la lussuosa camera che era stata assegnata al Generale e che avrebbe condiviso
con lui servì a rincuorarlo: la mortificazione gli bruciava ancora dentro e
Alfonso si sentiva infinitamente solo e disperato, lontano dal suo mondo e
dalla sua patria, in mezzo a nemici e a gente che rideva di lui.
Il
Generale, tuttavia, si accorse dell’evidente tristezza di Alfonso e si sedette
accanto a lui sul letto, tirandolo verso di sé.
“Cosa
c’è, Principe? Non ti piace la camera che ci hanno assegnato? Non trovi che il
castello reale sia abbastanza lussuoso per i tuoi gusti?” gli chiese.
Il
ragazzo scosse il capo.
“E’
tutto meraviglioso, mio signore, ma io… non è cambiato niente, io sono sempre
terrorizzato, umiliato, ridicolizzato da Sua Maestà e qui… qui sono tutti dalla
sua parte, non c’è nessuno che provi pietà per me!” fu la flebile risposta del
Principe, che si sforzava di non piangere.
Il
Generale comprendeva la mortificazione del giovane, ma allo stesso tempo
desiderava che non ci pensasse e non si angustiasse così: in fondo quello era
ormai il suo destino, era in una terra straniera e in potere di un sovrano che
lo detestava. Doveva imparare a sopportare quegli oltraggi e godersi il fatto
di essere comunque trattato con tutti gli onori, vestito elegantemente,
ospitato in stanze riccamente arredate… invece della fine orribile che Re Carlo
aveva deciso per lui ormai quasi un anno prima. E, ad ogni modo, non era così
importante ciò che il Re pensava: Alfonso era condannato a morire presto per le
torture subite, che lo avevano indebolito e gli avevano avvelenato il sangue e
tutto ciò che il militare francese voleva era che trascorresse il tempo che gli
rimaneva sereno e felice al suo fianco. Lo abbracciò e si distese con lui nel
letto, iniziando a baciarlo e accarezzarlo.
“Non
sei solo, piccolo Principe, io sarò sempre con te e farò di tutto per regalarti
momenti felici” gli disse. Lo baciò sempre più profondamente, sfiorando quel
corpo giovane e delicato, quasi incredulo che tanta perfezione fosse lì per
lui; lo possedette con infinita pazienza e premura, facendo in modo che il
Principe non provasse dolore o spavento ma soltanto il piacere di un amplesso
che li univa non soltanto a livello carnale, ma sempre più come due solitudini
che si erano finalmente trovate.
Dopo
l’amore, il Generale continuò a tenere Alfonso tra le braccia e ad
accarezzargli i capelli, parlandogli con dolcezza.
“Non
so se questo può bastare a consolarti, Alfonso” gli disse, con voce bassa e
affettuosa. “Sappi, però, che io non ti lascerò mai. Ti ho salvato e protetto e
all’inizio mi sono offerto di occuparmi di te perché mi facevi tenerezza, eri
così indifeso e terrorizzato e poi… beh, sì, ero attratto da te. Ma in questi
mesi ho capito una cosa importante, e cioè che io ti amo, Alfonso. Non me ne
sono accorto subito perché non mi era mai capitato, ho dedicato tutta la mia
vita a servire il Re e a combattere e non ho mai lasciato spazio ai sentimenti,
ma da quando ti ho vicino è tutto diverso. Io ti amo davvero, Alfonso, e
l’unica cosa che desidero è averti accanto.”
Il
giovane Principe restò totalmente spiazzato da una simile dichiarazione, un’espressione
così aperta e sincera dei sentimenti che il Generale provava per lui non se la
sarebbe mai aspettata e non si era mai nemmeno posto il problema di che cosa lui provasse per quell’uomo, non ne
aveva avuto il tempo e nemmeno la voglia, con tutte le disgrazie e le
sofferenze che aveva subito. Tuttavia adesso era diverso. Ripensando al lungo
viaggio verso la Francia, ciò che gli tornava alla mente con maggior frequenza
non erano le malignità di Re Carlo o la stanchezza insopportabile, bensì il
vuoto e la desolazione che aveva provato trovandosi per la prima volta lontano
dal Generale, con poche occasioni di vederlo e di parlare con lui.
Il
Generale gli era mancato e si era
sentito più tranquillo soltanto quando lo aveva finalmente preso a cavallo con
lui e avevano proseguito insieme il tragitto.
Era
quell’uomo che lo faceva sentire meglio, che lo consolava quando era triste,
che lo proteggeva e lo incoraggiava quando era spaventato e che c’era ogni
volta che aveva bisogno di lui. Era il Generale la sua stella fissa, l’unico
punto di riferimento che gli era rimasto.
Alfonso
era troppo giovane e inesperto per comprendere davvero i suoi sentimenti. Certo
molti ragazzi alla sua età e ancora più giovani avevano già avuto esperienze
d’amore o erano addirittura sposati, ma lui non si era mai interessato di
queste cose, era stato un eterno ragazzino che si divertiva a prendersi gioco
degli ospiti del padre e a godersi i piaceri della vita di corte. Poi tutto gli
era crollato sotto i piedi e la sua vita si era trasformata in un perpetuo
incubo…
Solo
il Generale era stato la sua luce e la sua sicurezza in quei mesi terribili.
Non
sapendo cosa dire, turbato, confuso e intimidito, il giovane Principe poté
soltanto gettarsi tra le braccia del militare, affidandosi a lui e nascondendo
il viso sul suo petto.
E
quella fu la più dolce, tenera e completa dimostrazione dei suoi sentimenti che
Alfonso poteva fare al Generale. L’uomo lo comprese e, in silenzio, avvolse il
ragazzo in un abbraccio protettivo, finché un sonno tranquillo e ristoratore
non li colse entrambi.
Capitolo 16 *** Capitolo 16: The dream is still alive ***
Capitolo 16: The dream is still alive
A past destined to fall down
The final brick in the wall
Was so hard for me to see
But now I see it all
Now it’s time for the future
We left our past behind
All the battles are over
But the dream is
still alive.
(“The dream is still alive” – Xandria)
Pochi
giorni alla reggia di Amboise bastarono ad Alfonso per imparare a godere delle
bellezze e degli agi che quella nuova vita poteva offrirgli e ad ignorare le
cattiverie di Re Carlo e le occhiate e i sussurri maligni di alcuni cortigiani
e dame che non vedevano di buon occhio la sua presenza al castello. Il
Generale, tuttavia, era quasi sempre al suo fianco e questo lo incoraggiava e
lo rendeva più sicuro. Diversamente da ciò che accadeva a Napoli, non c’erano guerre
da progettare o difese da approntare, pertanto il comandante francese aveva
molto più tempo da dedicare al suo Principe.
Quel
pomeriggio, tuttavia, Alfonso si trovava solo. Sua Maestà aveva convocato il
Generale al suo cospetto per motivi, a quanto pareva, particolarmente
importanti e il ragazzo ne aveva approfittato per curiosare un po’ in giro per
la reggia.
Il
magnifico palazzo lo affascinava veramente. Lui aveva trascorso tutta la sua
vita alla reggia di Napoli, anch’essa luminosa e arredata con gusto, ma i
saloni e le camere di Amboise erano ancora più affascinanti e lussuosi.
L’architettura stessa del castello lo faceva sembrare un complicatissimo ed
elegante ricamo, con le sue grandi finestre, le guglie, i soffitti altissimi,
la delicatezza delle mura e delle colonne che parevano star su per magia. E non
era finita qui, perché il sovrano aveva dedicato anni ad abbellire la sua reggia
e aveva chiamato a corte famosi artisti italiani per dar vita a parchi e
giardini immensi e incantevoli.
Alfonso
si trovava proprio nel cortile interno e passeggiava per il curatissimo parco,
ammirando la magnificenza dei lucernari in stile gotico e rinascimentale e
l’imponenza delle torri, senza mai stancarsi di tanta bellezza così diversa da
ciò a cui era abituato. All’improvviso, però, l’incanto svanì quando una mano
brutale lo afferrò inaspettatamente per un braccio e lo spinse rudemente contro
il muro della facciata. Il Principe sentì il corpo di un uomo che lo
immobilizzava, mentre la sua guancia premeva dolorosamente contro la pietra. Lo
sconosciuto si frugava sotto le vesti e con l’altra mano si insinuava
oscenamente nelle sue calzebrache per toccargli le parti intime.
“No…”
mormorò il ragazzo con un filo di voce, in preda ad un terrore assoluto. “Cosa
volete da me? Vi prego, lasciatemi andare!”
Lacrime
di paura e di vergogna rigavano il volto di Alfonso, mentre l’uomo lo
schiacciava contro il muro con il suo peso e cercava di abbassargli le
calzebrache.
“Non
fare tanto il ritroso con me, ragazzino” lo irrise lo sconosciuto, continuando
a toccarlo in modo sempre più sconveniente. “Sei la puttana del Generale e per
una volta puoi concederti anche a me. Non sarà tanto diverso, in fin dei conti.
E io non sono certo meno nobile e valoroso del tuo amante!”
“Vi
supplico, vi supplico, lasciatemi” implorò il giovane Principe, piangendo e
cercando di divincolarsi, ma l’uomo lo teneva inchiodato contro il muro. Ad
Alfonso non restava altra scelta che rassegnarsi ad una nuova, orribile
violenza. Continuò a singhiozzare e a tremare, sperando che quell’atto brutale
e mortificante fosse almeno breve; inaspettatamente, però, si sentì strappare
di dosso il laido e crudele sconosciuto e, finalmente libero, scivolò in
ginocchio sulla ghiaia, raggomitolandosi su se stesso come a proteggersi.
“Come
osate mancare di rispetto al Principe Alfonso di Napoli?” ruggì la voce del
Generale.
Il
comandante francese afferrò l’uomo per le spalle e lo strattonò lontano dal
ragazzo, con gli occhi che mandavano lampi per la collera.
“E
voi come osate mettere le mani addosso al barone Georges De L’Envers?” reagì l’altro, oltraggiato.
“Vi
potrebbe capitare ben di peggio, se soltanto facessi giungere alle orecchie di
Sua Maestà qualcosa su ciò che cercavate di fare al Principe” lo minacciò il
Generale con severità.
Il
barone De L’Envers scoppiò a ridere.
“Quello
che cercavo di fare non era niente di più di ciò che gli fate voi!” replicò, in
tono viscido. “E dubito che Sua Maestà sia interessato a quello che accade a
questa sgualdrinella che ormai non
conta nulla per nessuno. So bene che lo ha donato a voi, ma ritengo che per una
volta potrei anche…”
“E’
proprio qui che vi sbagliate, barone De L’Envers”
affermò il militare, con una gelida calma. “Il Principe Alfonso è, e rimane, un
membro della famiglia reale spagnola, gli Aragona. Non credo proprio che Sua
Maestà sarebbe felice di sapere che, per soddisfare le vostre sudicie brame,
avete rischiato di provocare una guerra tra la Francia e la Spagna. Inoltre,
come ho appreso solo poco fa dalla regale persona del nostro sovrano, il
Principe tornerà molto presto a governare il Regno di Napoli."
“Mi
prendete in giro… quel ragazzino è soltanto la vostra sgualdrina e…” sogghignò il barone, ma qualcosa nello sguardo del
Generale lo mise a tacere prima che potesse concludere la frase.
“Se
non credete alle mie parole, posso accompagnarvi al cospetto di Sua Maestà e,
dopo che lo avrò messo al corrente di ciò che voi stavate per fare, sarà lui
stesso a illuminarvi al riguardo” ribatté ironico. “Ad ogni modo, questa sera
ci sarà un ricevimento durante il quale il nostro sovrano dichiarerà le sue
intenzioni sul futuro del Regno di Napoli e del suo Principe. Spero che non
vorrete mancare a tale avvenimento.”
Il
barone aveva perso tutta la sua alterigia. Si riassettò le vesti e, con sguardo
sospettoso, si allontanò guardandosi intorno e sperando che nessun altro lo
avesse visto aggredire il giovane Principe.
Il
Generale, invece, si chinò su Alfonso, che continuava a singhiozzare,
raggomitolato su se stesso e con il volto nascosto tra le mani.
“Non
piangere, Alfonso, è tutto finito. Quell’essere spregevole non oserà nemmeno
più avvicinarsi a te” gli disse piano, passandogli un braccio attorno alle
spalle e attirandolo sul suo petto.
Il
ragazzo, però, non sembrava riuscire a calmarsi. Quel tentativo di violenza lo
aveva sconvolto, richiamando alla sua mente i terribili e interminabili momenti
vissuti nella sala delle torture ormai quasi un anno prima… ma non era soltanto
quel ricordo a straziarlo.
“E’
questo che sono…” mormorò tra le lacrime, “una… una cortigiana, qualcuno di cui chiunque può approfittare se ne ha voglia…”
Il
Generale si sentì stringere il cuore e abbracciò ancora più stretto il giovane
Principe.
“Non
è affatto così. Non hai sentito ciò che ho detto a quel viscido barone? Sua
Maestà ha grandi progetti su di te e ne darà l’annuncio proprio al ricevimento
di stasera.”
Alfonso
trasalì e, per il terrore, smise persino di piangere. Ricordava fin troppo bene
quali erano stati i grandi progetti
che Re Carlo aveva avuto su di lui mesi prima…
“Non
hai nulla da temere, te lo assicuro” gli disse l’uomo, leggendo l’orrore nei
suoi occhi sgranati. Comprendeva bene come Alfonso non potesse fidarsi delle
parole del Re di Francia, ma questa volta sapeva che c’era in serbo una bella
sorpresa per il suo piccolo Principe. “Adesso vieni con me, devi prepararti per
il ricevimento. Voglio che ti mostri a tutta la corte per il Principe che sei e
che stai per tornare ad essere.”
Incredulo,
il ragazzo continuò a fissarlo come inebetito, ma poi si lasciò condurre dal
Generale nelle sue stanze dove poté fare un lungo bagno, che gli tolse di dosso
l’impronta disgustosa dell’uomo che lo aveva aggredito. Quindi si abbigliò nel
modo più raffinato ed elegante possibile, sperando contro ogni speranza che ciò
che aveva detto il Generale fosse vero e che, finalmente, la sua lunga e dolorosa
prigionia avesse termine. Una parte di lui non osava nemmeno pensarci, ma il
suo cuore non poteva impedirsi di sognare…
La
sala dei banchetti del palazzo di Amboise era illuminata a giorno e ai tavoli
erano presenti le più alte cariche del regno di Francia. Al Generale era stato
riservato il posto alla destra di Re Carlo e, al suo fianco, sedette Alfonso.
Per buona parte del banchetto Sua Maestà si limitò a godersi l’ottima cena e a
burlarsi dei suoi cortigiani, riservando loro battute provocatorie oppure
vantando le proprie gesta nella campagna d’Italia. Il Principe non riuscì a
mandar giù nemmeno un boccone a causa del nervosismo e della paura che
crescevano in lui di momento in momento. Certo, il Generale lo aveva
incoraggiato e rassicurato, ma il Re non sembrava affatto prenderlo in
considerazione e il suo modo di fare gli ricordava fin troppo il comportamento
che aveva tenuto durante quella terribile, spaventosa cena in cui lo aveva
condannato a morire tra le torture più atroci.
Finalmente,
al momento del brindisi, il sovrano chiese un assoluto silenzio.
“Miei
signori, vi abbiamo invitati questa sera per darvi un annuncio della massima
importanza” dichiarò, improvvisamente serio.
I
gentiluomini e le dame presenti tacquero e gli sguardi di tutti si fissarono
sul monarca, che dopo una pausa ad effetto riprese a parlare.
“Come
ben sapete, il nostro esercito ha riportato delle gloriose vittorie in Italia e
ci ha consentito di ottenere la corona del Regno di Napoli, strappandola agli
Aragonesi” ricordò il Re, compiaciuto. “Tuttavia, i doveri verso la nostra
patria ci hanno imposto di tornare a corte, affidando Napoli ad un reggente. Non
ci sarà possibile far ritorno a Napoli per molto tempo, forse per sempre.
Pertanto, dopo una lunga e ponderata riflessione, abbiamo stabilito che
concederemo la reggenza ad un uomo che gode della nostra assoluta fiducia e
che, dopo tanti anni, si è conquistato il diritto ad una ricompensa.”
Re
Carlo fece una seconda pausa, divertendosi a guardare i volti dei suoi
cortigiani che assumevano le espressioni più disparate: chi era curioso, chi
sperava di essere il prescelto, chi appariva semplicemente invidioso o
disinteressato.
“Ebbene,
questa sera e davanti a tutti voi, noi affidiamo la reggenza del Regno di
Napoli al nostro valoroso Generale, che con la sua abilità strategica e il suo
ardimento ci ha consentito di conquistare quella terra” proclamò il sovrano,
rivolgendo un sorriso al suo braccio destro.
I
gentiluomini presenti apparvero stupiti per la scelta del Re e il barone De L’Envers, in particolare, non riuscì a nascondere una smorfia
di rabbia. Ecco perché, poche ore prima, quell’uomo si era mostrato tanto
arrogante con lui!
Ma
Re Carlo non aveva ancora terminato.
“Il
Generale governerà Napoli come nostro rappresentante e, di fatto, quel Regno
apparterrà alla corona francese. Tuttavia il Principe Alfonso accompagnerà il
suo amante riprendendo, almeno di
nome, il suo posto alla corte napoletana. Non avrà alcun potere, naturalmente…
e del resto non ne aveva nemmeno quando credeva di essere il legittimo erede di
quella corona” celiò il sovrano, facendo ridere di gusto l’intera tavolata.
“Era solo uno sciocco ragazzino viziato che giocava a fare il Re, mentre tutte
le decisioni erano prese dai consiglieri di suo padre Ferrante. Bene, dovrà
semplicemente continuare a fare ciò che faceva tanto bene allora e la sua
semplice presenza dissuaderà la Spagna da qualsiasi pretesa di ostilità. In
fondo, agli occhi del mondo sembrerà che ci sia ancora un Aragonese sul trono
di Napoli!”
L’intera
corte applaudì l’astuzia del monarca francese, mentre il Generale lo
ringraziava dell’onore concessogli e lodava la sua generosità.
Alfonso
era rimasto attonito. Non riusciva ancora a credere a ciò che aveva appena
sentito e temeva che, da un momento all’altro, si sarebbe svegliato da ciò che
gli pareva soltanto un sogno.
Davvero
sarebbe tornato a Napoli e avrebbe vissuto nuovamente come Principe? Davvero
sarebbe sfuggito alla crudeltà di Re Carlo e alle minacce dei suoi cortigiani? Il
ragazzo era incredulo e sentiva il cuore battergli velocissimo per la gioia e
l’emozione. Mormorò qualche parola di ringraziamento al Re francese, che si
divertì ancora di più nel vederlo totalmente confuso.
“Ma
guardatelo, non sa nemmeno mettere due parole in fila!” lo irrise, attirando
l’attenzione di tutti i presenti sull’evidente turbamento del ragazzo. “Come
potete vedere, rappresenterà solo fumo negli occhi per la Spagna, mentre noi
sapremo benissimo che questo povero sciocco non è in grado di governare… con
tutta probabilità avrà bisogno di aiuto anche per trovare le latrine!”
Il
sovrano scoppiò in una fragorosa risata e dame e gentiluomini lo imitarono, ma
il giovane Principe non se ne accorse quasi: che si burlassero pure di lui, non
se ne curava. Ciò che davvero contava era che presto avrebbe fatto ritorno al
suo castello, a Napoli, lontanissimo da tutti loro e finalmente al sicuro!
Le
ore passarono veloci senza che Alfonso se ne rendesse conto. La sua mente era
ormai totalmente proiettata verso il suo Regno, verso il palazzo dov’era nato e
cresciuto e nulla poteva più umiliarlo o offenderlo.
Quella
notte, nelle stanze che condivideva con il Generale, l’atmosfera era serena e
rilassata come il Principe non ricordava nemmeno più che potesse essere. Tutti
i suoi incubi e terrori stavano per trasformarsi in un sogno bellissimo e i
suoi desideri erano sul punto di realizzarsi.
Per
la prima volta in tanti mesi, il ragazzo si fece ardito e prese le mani del
Generale, fissandolo negli occhi con serietà.
“Tutto
questo è solo per merito vostro, lo so bene” gli disse. “Voi mi avete salvato,
aiutato e protetto in tutti i modi e se non ci foste stato voi io…”
L’uomo,
commosso, lo prese tra le braccia.
“Non
devi ringraziarmi, io ho fatto solo quello che ritenevo giusto e, anzi, forse
avrei potuto fare molto di più. Io ti amo, Alfonso, e tutto ciò che voglio è
stare con te e renderti felice.”
“Sono
felice” confessò il giovane, stringendosi al Generale. “Sarò tanto felice
quando tornerò a Napoli… insieme a voi, mio signore.”
Il
militare lo distese sul letto, accarezzandolo e baciandolo con tenerezza. Sentì
il giovane Principe accoglierlo docilmente, abbandonandosi a lui, e lo prese
con lentezza e pazienza, senza spaventarlo, senza fargli male, giungendo con
lui ad una totale fusione di amore e dolcezza.
Dopo
l’amore, il Generale tenne ancora tra le braccia il suo piccolo Principe,
guardandolo con affetto mentre si addormentava al sicuro nel suo abbraccio
protettivo.
Sarebbe
vissuto con lui nel Regno di Napoli e avrebbe dedicato ogni istante della sua
vita a farlo felice, sperando che le infezioni che avevano minato la sua salute
non glielo strappassero troppo presto. Non si curava di se e quando sarebbe mai
ritornato in Francia: tutto ciò che contava era Alfonso tra le sue braccia, Alfonso
accanto a lui.
Qualunque
posto sarebbe stato casa sua finché avesse avuto il giovane Principe al suo
fianco.