Shadowhunters - City of Lies

di Winchester_Morgenstern
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - I believe the children are our future ***
Capitolo 2: *** II - Happy birthday ***
Capitolo 3: *** III - Scrivere il futuro ***
Capitolo 4: *** IV - Ciao, fratellone! ***



Capitolo 1
*** I - I believe the children are our future ***


1
I BELIEVE THE CHILDREN ARE OUR FUTURE (1)
 
— Avanti, fammi vedere! — Isabelle rise nel vedere il bambino trattenere il fiato, facendo quasi diventare le labbra due palloncini, per poi sbattere con tutta la forza che aveva in corpo le sue alucce scure e svolazzare per la stanza. 
Pur senza una richiesta specifica di nessuno, aveva passato gli ultimi giorni a tentare di allungare la distanza che poteva percorrere in aria, anche se non aveva fatto molti progressi se non galleggiare a qualche metro da terra e poi ripiombare a terra, affannato. 
Dopo il terzo tentativo, la Nephilim tese le braccia: — Vieni qui, su! — esclamò, facendolo sedere sulle sue gambe. 
— Ho sete — si lagnò il bambino, indicandole la brocca d'acqua sul comodino nella stanza: — Arriva, principino — gli rispose prontamente Jonathan, sogghignando. 
Okay, forse, e sottolineava forse, poteva aver passato gli ultimi mesi a viziare Ian in qualunque modo possibile, e se avessero continuato così sarebbe diventato il bambino più montato del mondo... ma nessuno dei due avrebbe mai potuto dimenticare la faccetta spaventata che aveva quando l'avevano trovato a casa di Magnus, mezzo avvolto nel tappeto e mezzo intento a stritolare Presidente Miao. Anche lui, alla fin fine, si meritava qualche giorno di puro svago. 
Jonathan si lasciò cadere sul grande letto, prendendo il figlio in braccio ed iniziando a solleticarlo dopo che questo ebbe ritratto le alucce piumate.
Isabelle nemmeno si accorse del sorrisone che le si dipinse in volto, rimase incantata ad osservarli giocare con aria assolutamente spensierata a rilassata. Finalmente, dopo gli ultimi anni passati a vedere tutti proseguire felicemente con la loro vita, sentiva che anche la sua iniziava ad immettersi sui binari giusti, e dopo tutto quello che era successo negli ultimi tempi quella era la cosa più bella che le potesse accadere.
— A cosa pensi? — le chiese il giovane Morgenstern, raddrizzando il bambino che ansimava per le troppe risate.
Isabelle si avvicinò ai due, con l'irrefrenabile impulso di accarezzare il suo novello ragazzo: — A noi tre, in realtà — rispose sinceramente.
Jonathan le sorrise: — Davvero? —
— Certo — La Shadowhunter annuì, piegandosi in avanti per lasciargli un bacio leggero sulle labbra: — Non ho intenzione di cambiare idea né di scappare, stupido Morgenstern. —
— Mai detto che tu stessi per farlo — la rimbeccò lui. 
— Ma l'hai pensato — ribatté lei con nonchalance. 
— Cosa te lo fa credere? Il mondo non gira intorno a te, Lightwood. — Jonathan inarcò un sopracciglio, mentre Ian trascinava Samy e Qua Qua sul letto, inventando strambe conversazioni immaginarie a cui nessuno dei due stava prestando molta attenzione. 
— Be'... Siamo tutti umani. Io ho paura di perderti, di perdere tutti voi, quindi ho pensato che per te fosse lo stesso, considerando che non hai avuto nessuno per anni. — Va bene, tecnicamente non erano nemmeno sei mesi che stavano insieme, ma si conoscevano - approfonditamente, almeno - da più o meno un anno, e dopo tanto girare in tondo Isabelle credeva di essersi conquistata il diritto di dirgli le cose schiettamente e senza tanti giri di parole per indorare la pillola, anche perché farlo non era nel suo stile. 
— In ogni caso — continuò, visto che l'altro aveva lo sguardo fisso su Ian e non sembrava aver ancora elaborato una risposta: — Puoi anche prenderla come una semplice asserizione. Non ho intenzione di andare da nessuna parte, né di lasciarti, credevo che su questo punto fossimo già stati abbastanza chiari. —
— Questo prima che tuo padre andasse fuori di testa nel vederti con me. — le fece notare l'albino, recuperando la paperella di gomma che era caduta a terra e porgendola al figlio.
Isabelle sbuffò e alzò gli occhi al cielo: — 'Fanculo mio padre, Jonathan. Ho passato tutta la vita ad andare contro corrente solo per irritarlo e lui non ha mai fatto una piega, e adesso che davvero tengo a qualcuno viene a mettermi i bastoni fra le ruote. Ma chi se ne frega! È... è questo il mio posto, adesso, con te e con Ian. E non ho nessunissima intenzione di cambiare idea. — Raziel, stava diventando smielata. Com'era possibile che fosse proprio Ghiacciolo Morgenstern a renderla così... così tredicenne alla prima cotta? 
— Quindi Samy va da Qua Qua e dice Qua, hai per caso visto il mio fiocco? E papera risponde No, ma posso aiutare a cercare! E poi Qua Qua e Samy incominciano un'avventura insieme! — continuò a farfugliare Ian, muovendo i due animaletti come se stessero conversando davvero. 
— A proposito dei peluche! — esclamò Isabelle, alzandosi in piedi: —Sappiamo tutti che, dal momento che domani sarà il tuo compleanno, Ian, praticamente tutto l'Istituto ti ricoprirà di regali. Ma visto che non sono brava ad aspettare, voglio darti qualcosa oggi. — spiegò la Cacciatrice, dirigendosi verso il grande armadio antico e iniziando a trafficare con le coperte stipate sul fondo, svelando una busta colorata nascosta fra di esse. 
— Ta da! — Eccitata, praticamente saltellò per tutta la strada di ritorno verso i due Morgenstern e porse il regalo a Ian: — Buon compleanno in anticipo! — 
Sotto lo sguardo divertito dei due adulti - be', almeno di quelli che tentavano di essere gli adulti - il bimbo si tuffò immediatamente sul sacchetto e stracciò senza riguardi il fiocchetto posato sopra, per poi infilare una mano e tirare fuori...
— Oooh! — esclamò estatico il bambino alla vista del pacchetto di plastica con tanti animali di stoffa in versione ridotta stipati dentro. 
— Belli! — continuò, cercando senza successo di aprire anche il secondo involto. 
— Fermo, fermo, prima la cerniera! — tentò di calmarlo Jonathan, prendendogli dalle braccine il dono per aprire la zip. Stava per porgergli il tutto indietro, quando si bloccò a mezz'aria: — Com'è che si dice, Ian? —
Lui aggrottò la fronte: — Com'è che si dice cosa? — domandò, perlpesso.
— A Izzy, cosa devi dire a Izzy? —
Il più piccolo le rivolse un sorriso che andava da un orecchio all'altro e si alzò in piedi sul letto, tuffandosi verso di lei per stringerla in un abbraccio: — Grazie, mamy! — 
Jonathan sogghignò al sussulto della ragazza: ecco, quella era la riprova che non era l'unico ad aver avuto difficoltà a passare così velocemente da un appellativo a un altro! Comunque, fu anche maggiormente soddisfatto da Isabelle che prese il piccolo in braccio sussurrando un Di niente, Ian e accettando di buon grado il nome - non che fosse la prima volta che la chiamava così, ma ancora... 
 Forse non se ne sarebbe andata davvero, dopotutto. 
 
 
— Hai capito quello che ti ho detto? Stammi a sentire, Clarissa! — sbottò Valentine, poggiando malamente il calice di vino rosso che stava bevendo sul tavolo. Il drink quasi strabordò, ma per fortuna non macchiò nessuna delle carte sparpagliate su uno dei grandi tavoli della biblioteca.
— Perfettamente — rispose lei, osservando con occhio critico i molteplici fili rossi che collegavano un avvenimento ad un altro. 
Dopo aver convinto Jace a non posticipare la luna di miele nonostante gli ultimi avvenimenti, quali l'assassinio dell'Inquisitore Scarecrow e gli strambi e criptici messaggi minatori, aveva passato i quindici giorni più belli della sua vita in un tour a tappe delle principali città europee - iniziato tra l'altro con un soggiorno alle Bahamas durante la prima notte di nozze, ma questo era un altro discorso - dandosi alla pazza gioia con quello che ormai era a tutti gli effetti suo marito... Poi i loro permessi erano stati revocati ed erano ripiombati nella dura realtà fatta di omicidi e rapimenti che li circondava. E aveva passato i restanti quattro mesi e mezzo a indagare sul singolo, dannatissimo omicidio dell'ex-nuovo Inquisitore.
Non che la cosa le dispiacesse così tanto, insomma, ormai i terrificanti crimini irrisolti erano il suo pane quotidiano, si sarebbe sentita un po' strana a non trovarsene più davanti, ma certo non si aspettava un bel meeting col suo caro paparino per cercare assurdi nessi logici tra nuovi avvenimenti che, francamente, la inquietavano parecchio. 
Avere una riunione privata con Valentine e pochi altri eletti era come cercare di fronteggiare uno tsunami con mascherina e tubo per respirare sottacqua, ovvero un fallimento in partenza, e il tizio con cui condivideva metà del suo patrimonio genetico quando si trattava di strategie e sotterfugi da programmare era simpatico quasi quanto una randellata nei denti.
— Quindi, cos'è che ho detto? — domandò lui, incrociando le braccia al petto. Sembrava un armadio pronto ad esplodere nel suo completo elegante, quando faceva così - non che Clary lo temesse. Insomma, magari vedendolo solo agli allenamenti, pur avendolo sconfitto una volta, ne sarebbe rimasta terrorizzata. Ma l'aveva anche trovato nudo come un verme affianco a sua madre, entrambi tutti intenti a coprirsi, e sebbene volesse ardentemente cancellare quella visione dalla sua memoria la cosa aveva contribuito enormemente a diminuire qualsiasi timore potesse avere nei suoi confronti. Dopotutto, la miglior tecnica per superare imbarazzo e panico da palcoscenico era immaginare tutti nudi come mamma li ha fatti, o qualcosa del genere che blaterava la sua professoressa di teatro prima che, anni addietro, si ritirasse dalla scuola.
Chissà che pensavano i suoi compagni di lei, della sua sparizione. 
In ogni caso, fissò nuovamente gli occhi sulle linee rosse che collegavano mappe, foto e rapporti: — Che i messaggi non sono ancora stati decrittati, o perlomeno sono stati tradotti ma non risolti, la famiglia dell'Inquisitore è stata uccisa e smembrata post mortem per essere infine portata in luoghi sparpagliati dall'altra parte del globo e... —
Valentine inarcò un sopracciglio: — E? —
Lei guardò ancora i dati raccolti, sperando in un aiuto visivo: — E... Stiamo reclutando bambini? — buttò lì, osservando le foto di neonati e bimbi che non superavano il mezzo decennio. 
Suo padre alzò gli occhi al cielo, esasperato: — No, ma questo potrebbe essere il piano di chi li sta rapendo. — ringhiò, cercando di mantenere la calma, mentre dietro di lui Maryse armeggiava con un plico di fogli di quelli che probabilmente dovevano essere i resoconti delle ultime scene del crimine - Raziel, faceva molto CSI - o delle testimonianze dei genitori dei bambini scomparsi - Sherlock? Dexter? 
— Che tipo di bambini? — domandò quindi la rossa. Okay, di primo acchito sarebbe potuta sembrare una domanda molto idiota, ma c'era differenza tra il prendere dei Nephilim, dei Nascosti o degli Ibridi. Avrebbero potuto portare a scopi diversi, e quindi loro avrebbero seguito una data traccia... 
— Nessuna preferenza, fritto misto — rispose Jocelyn, indicandole delle foto di marmocchi paffutelli e sorridenti: — Per ora non sembrano avere intenzione di escludere nessuno. —
— Come possiamo esserne certi? Tutti nelle stesse aree? — chiese, mordicchiandosi le labbra. L'assassinio di quel montato di Scarecrow era una cosa, quella sottospecie di sms horror anche, ma quello... 
— No. Ma in tutte le camere dei bambini c'era un elemento comune, oltre al fatto che tutti i loro genitori, anche quelli Mondani, conoscevano l'esistenza del Mondo Invisibile. — spiegò ancora sua madre, e questa volta a Clary venne consegnato un pacchetto di bustine di plastica tenute ferme da un elastico. 
Erano... carte da gioco francesi? 
La ragazza aggrottò la fronte: — Mi state prendendo in giro? —
— Ovviamente no, non ne abbiamo il tempo! — le fece notare Valentine, strappandole le bustine dalle mani per stenderle a ventaglio sull'unico angolino di tavolo ancora libero. 
— Fino ad ora sono stati presi quattro bambini. La prima, Hera Ravenscar, ha tre anni ed è una mezza fata. Le hanno trovato in camera un quattro di fiori nero — incominciò, puntando alla prima carta. — Il secondo ha due anni, Adam Firth, il figlio di un licantropo, sul suo lettino c'era un cinque di picche nere — E indicò la seconda, poi la terza, un otto di picche nere: — Jeremiah Ironcrown, quattro anni, la carta era sulla scrivania. — Poi le mostrò l'ultima carta: — Questa qui l'hanno trovata nell'armadio del fratello di Jeremiah. Jesse Ironcrown, due anni, re di quadri rossi. — 
Clary serrò le labbra, cercando di non pensare al fatto che Melchizedeck adesso stava facendo chissà cosa a quei bambini, bensì a quale schema potesse esserci dietro quelle carte, che significato avessero.
Si voltò verso sua madre, facendole cenno di avvicinarsi: — Abbiamo un altro mazzo? — domandò. Magari, vedendole tutte davanti a lei sarebbe riuscita a capirci qualcosa. 
 
 
 
Jace serrò le labbra: — Non passo il mio tempo libero a risolvere indovinelli, Robert — dichiarò, osservando con aria tetra la cameretta del piccolo Jesse. 
Possibile che appena si rilassavano per più di mezzo minuto c'era qualcuno che ne approfittava e portava scompiglio? Che diamine, un po' di decenza!
— Non ho detto questo, Jace — rispose il Console, facendo un cenno ad uno dei Cacciatori accanto a lui: — Va' a tenere i genitori giù. Non ci saranno di nessun aiuto, ormai. — 
Quattro bambini, quattro carte diverse, apparentemente una mezza fata, il figlio di un licantropo e due semplici Shadowhunter. Perché due Nephilim qualunque? E perché assegnare ad uno di loro il Re di Quadri, che tecnicamente aveva più valore di tutte le altre carte lasciate? 
— No — esclamò, trattenendo il Cacciatore che stava per scendere le scale: — Riportali su. Forse c'è qualcosa che non ci hanno detto. —
L'uomo, un quarantenne di nome Louis Saintcroix, si volse verso Robert in attesa di conferma, che giunse con un cenno.
— Che cosa vuoi da loro? — chiese poi al ragazzo che aveva imparato a considerare come un figlio, sebbene di cognome facesse Herondale. 
Stette ad ascoltare con aria attenta la veloce teoria di Jace, e aggrottò la fronte: — E cos'avrebbero mai da nascondere? — chiese: — Teniamo un censimento di tutti gli abitanti di Alicante, sapremmo di qualche incongruenza. — 
Il biondo alzò gli occhi al cielo: — Davvero? Potrebbero avere qualche parentela con dei Nascosti, o con degli Ibridi, e chi ti dice che Valentine fosse l'unico pazzo che faceva esperimenti, visto che ormai sembra che spuntino scienziati folli a destra e a manca? Tutti hanno un segreto. —
Il più grande non ebbe il tempo di ribattere, sebbene credesse fermamente che quell'ipotesi fosse improbabile, poiché proprio in quel momento i coniugi Ironcrown entrarono nella cameretta, esitanti. 
Stavano entrambi ritti e fieri, forse proprio un pelino troppo rigidi, tentando di mascherare il loro dolore, ma entrambi avevano gli occhi rossi di pianto. 
— Console, signor Herondale — esordì il padre dei due bambini scomparsi, David: — C'è qualche altra domanda che desiderate porci? —
Jace si trattenne dallo sbuffare sentendo il tono irritato. Va bene, li avevano torchiati per almeno due ore quasi subito dopo l'accaduto per cercare di raccogliere tutti i dettagli possibili, ma che diavolo, erano lì per aiutarli e avevano anche l'ardire di trattarli con sufficienza. 
Non poteva capire cosa significava perdere un figlio, e quindi avevano tutto il diritto di essere furiosi e nervosi e tante altre brutte cose, ma certo non potevano prendersela con lui che era lì dopo essere stato richiamato in servizio nella capitale mentre stava lavorando ad un altro caso soltanto per aiutarli. 
In più, si trovava dall'altra parte del mondo rispetto all'America, e si sentiva sempre un po' nervoso quando doveva affidarsi ai Portali del Conclave. No, non era paranoico, solo... previdente. 
— A dire il vero sì — rispose, rivolgendo loro lo sguardo più mite che gli riuscisse: — Prego, accomodatevi — invitò, anche se forse era meglio dire ordinò, indicando il lettino di Jesse. 
Dopo che lo ebbero fatto, chiuse la porta dalla quale erano entrati, e vi pose sopra una Runa di blocco.
 Maria Stellanera in Ironcrown sussultò appena. 
— Vedete, signori, ci stavamo chiedendo, senza dubitare della vostra lealtà al Conclave, ovviamente, se... —
Jace interruppe il patrigno: — C'è qualcosa sui vostri figli che dovremmo sapere? E badate bene, sto parlando di qualcosa che avete tenuto nascosto fino a questo momento, non se sono allergici alle carote. — spiegò, asciutto, sperando di non perdere tempo in convenevoli. Quelle informazioni li avrebbero solo aiutati a trovarli, non certo a condannarli. 
Non ci voleva un genio per capire che aveva colpito nel segno: tutti e due gli Shadowhunter sussultarono appena, così impercettibilmente che se Jace fosse stato solo un po' più rilassato nemmeno se ne sarebbe accorto. Quello era abbastanza, secondo lui, per dimostrare che c'era qualcosa sotto la superficie apparentemente tranquilla di quell'allegra famigliola Nephilim. 
Più cresceva e più si rendeva conto che, in quella complicata partita che era la sopravvivenza, nessuno era mai del tutto innocente. Nessuno. 
— Prego — ripeté: — Incominciate a parlare. —  
 
 
— Che ne dici di questo? — Jean gli sventolò davanti un grosso libro dalle pagine di cartone, per poi aprirlo e mostrare che aveva delle belle figure pop-up che raccontavano la storia di Cappuccetto Rosso.
Si rispose da solo con un — Nah, è orribile, e la nonnina mi sta antipatica — mentre Magnus diceva a sua volta: — Non lo so, è a te che deve piacere. Letteralmente.
Si guardarono mentre il più giovane posava il possibile regalo tra una pila di altri racconti, e poi scoppiarono a ridere. 
— Insomma, abbiamo girato almeno tre negozi di giocattoli e ancora non hai trovato niente. Devi fare un regalo a te stesso, per la miseria! —
— Tu cosa mi regaleresti? — domandò il ragazzo, osservando la sezione Lego del negozio. Certo, Ian stava per compiere tre anni, ma non era del tutto sicuro che non gli venisse lo stesso la bella idea di mangiarseli, quei piccoli blocchetti, piuttosto che di costruirci qualcosa. 
— Ora come ora, una bella scopata con qualcuno — gli rispose con noncuranza lo Stregone, premendo il naso glitterato di un grosso leone di peluche che iniziò a far risuonare nell'aria le note di Jingle Bells Rock. Alla fine di luglio. Appropriato, davvero.
— Magnus! — lo redarguì il Cacciatore, arrossendo e prendendolo per il polso, in modo da uscire da quel negozio. Ci mancava solo che dei giovani genitori bigotti iniziassero a incolparlo di contaminare le pure e innocenti orecchie dei loro preziosi pargoletti. 
— Sì, sì, lo so, non iniziare! Sono impegnato, sono felicemente impegnato, non tradirei mai la persona con cui sto... Ma andiamo, probabilmente questo benedetto qualcuno non è ancora nato, o è in fasce! — si lamentò il Nascosto, sventolandosi una mano davanti alla faccia. Faceva così caldo da fargli desiderare di avere un ventilatore portatile, o un cellulare-refrigeratore... Anche una piccola magia avrebbe potuto andare bene, pensò, mentre le sue dita si illuminavano appena facendo materializzare nell'aria piccole fiammelle blu. 
— Abbiamo avuto questa conversazione circa ventisette volte, ormai, con le stesse identiche modalità e più o meno anche con le medesime parole. Vuoi davvero iniziarne una ventottesima? — sbuffò Jean, non sapendo bene se lanciare un'occhiataccia all'amico o alla giocattoleria dalla quale erano appena usciti. Quella era la sua ultima idea, diamine!
— Non farti vedere dai Mondani! — aggiunse, irritato, mettendosi davanti all'altro per coprire le scintille colorate. 
— E smettila di lamentarti, su! Non ti senti molto più fresco, così? — lo redarguì Magnus: qualche parolina magica, un po' di svolazzi delle dita et voilà, una fantastica cappa di gelo li aveva circondati.
— Fin troppo, in effetti. Mi hai scambiato per un pinguino?! —
Lo Stregone alzò gli occhi al cielo, per poi schioccare le dita ed alzare un po' la temperatura: — Contento? —
— Altroché! Non lo vedi? Sto saltellando dalla gioia! —
— Certe volte mi chiedo come faccia l'altro me a sopportarti. O come tu riesca a fingere così bene di essere carino e gentile. —
Jean trattenne una risata: — Pensa al povero Alec che deve sopportare te, lo compatisco! —
— Ehi, mi hai chiesto tu di accompagnarti in questo giro di spese! —
— Non è un giro di spese, stiamo solo cercando un regalo per un bambino. —
— Allora perché non andiamo da Fao Shwarz? — chiese Magnus, fermandosi di botto. — Non siamo lontani dalla Fifth Avenue, in ogni caso. — 
Jean inarcò un sopracciglio, perplesso: — Fao che? — 
L'immortale di non-si-sa-bene-quanti-anni sgranò gli occhi: — Non ci sei mai stato? — esclamò con aria assolutamente oltraggiata, quasi l'avesse presa sul personale. 
Di cosa si era fatto prima di incontrarsi con lui?, si ritrovò a chiedersi il Cacciatore. Magari avrebbe potuto fargli uno sconto per amicizia, o un'offerta comitiva se si fosse portato dietro anche suo padre e compagnia cantante. 
— Non ho la più pallida idea di cosa tu stia parlando — rispose, scrollando le spalle.
— Fao Shwarz! Il più antico negozio di giocattoli di New York! —
— Senti, io non ho mai abitato nella Grande Mela prima, ma una volta ci sono stato per una faccenda lavorativa e ho imparato la piantina della città. Nessun Fao coso, tantomeno sulla Fifth Avenue, me ne sarei accorto. Te lo posso assicurare! — si difese Jean, svoltando l'angolo della strada. Forse avrebbe dovuto portarsi dietro Jonathan, perlomeno non ci sarebbe stata nessuna conversazione come quella. Vero era che tra loro c'era una orribile barriera insormontabile fatta più che altro di cose ancora non avvenute e delle quali comunque doveva mantenere il segreto, ma lui era troppo timido per fare il primo passo e tentare di instaurare un rapporto civile e sembrava che suo padre non avesse idea di come rapportarsi con suo figlio in versione adulta. 
Quando l'aveva confessato a Magnus, lui era scoppiato a ridere ed aveva esclamato qualcosa di molto simile a "Tu? Timido?! E da quando?". 
Erano state quelle parole a fargli capire che, nonostante tutto, lo Stregone che era lì in quel momento non corrispondeva a quello che avrebbe conosciuto in futuro, quello che gli voleva bene come un padre o un fratello e che lui ricambiava allo stesso modo. 
Era sempre Magnus, ma era come scaricare la versione free di un'app: non avrebbe mai avuto tutte le funzionalità di quella a pagamento. 
— Vuoi dire che davvero, nel futuro, il più fantavoloso negozio di giocattoli al mondo non ci sarà p... Aspetta, hai davvero imparato la piantina di un'intera città per sport? (2) — esclamò in quel momento il Nascosto, trascinandolo verso una gigantesca entrata rossa e trafficata. 
All'ingresso c'era un uomo vestito da guardia inglese. O da schiaccianoci, rettificò tra sé e sé Jean, notando i giganteschi soldatini adesivi sulle vetrine. 
— A quanto pare. E no, non per sport, avevo bisogno di conoscere dove mi muovevo perché si trattava di un affare piuttosto delicato — concluse il finto moro, e poi aggiunse: — E comunque, fantavoloso non è una parola. — 
— Come puoi esserne certo? —
— Non c'è sul vocabolario. —
— Non dirmi che hai imparato a memoria anche il vocabolario! —
— Ovviamente no, ma mi assilav... mi assillerai per anni con questa parola, quindi mi sono documentato. — Meglio non dirgli che in realtà ci aveva provato, solo che poi si era arreso alla lettera C, con la sola conoscenza di una spropositata quantità di parole che iniziavano per A o B. 
 
 
 
— Quindi, no, devi prendere quelli rossi, quelli a forma di triangolo. — rispose Isabelle, mentre teneva il telefono con una mano e con l'altra sfogliava la lista di persone che le aveva passato Jean. 
— Poi, qualche famiglia di Shadowhunter che ti sta particolarmente simpatica? — domandò a Jonathan, che si lamentava dall'altra parte del telefono borbottando qualcosa come "Che diavolo cambia tra i triangoli verdi e quelli rossi?".
— ... I Morgenstern valgono? —
— No, Jonathan, sto parlando di qualcuno che attualmente non soggiorni all'Istituto. — precisò, esasperata, barrando la maggior parte dei nomi con un pennarello rosso. 
— E come mai? —
— Be', ho pensato che sarebbe carino se ci fosse qualche altro bambino domani, sai, dopotutto Ian compie quattro anni. —
— E chi hai preso in considerazione? —
— Be'... In realtà per ora non c'è proprio nessuno, in lista. —
— Ah, bello — Isabelle sentì il ragazzo schioccare la lingua contro il palato, mormorare un'imprecazione e poi domandare: — E Jean non potrebbe darci un aiutino? Tipo... Chi erano i suoi amici da bambino? O se ci sono famiglie Nephilim che non ci vogliono morti? —
— Aspetta, te lo passo — La Cacciatrice porse il telefono al viaggiatore temporale, che sgranò gli occhi: — Cosa?! — chiese, ritraendosi. 
— Non ti mangerà, promesso — La mora gli fece l'occhiolino e poi gli portò il cellulare all'orecchio, allontanandosi per richiamare Clary all'ordine e chiedere a che punto era con la torta. In alto mare, a quanto pareva. 
Comunque, da quando era saltato fuori che Jean era in realtà Ian e tutto il resto, lei ci aveva provato a coinvolgerlo, davvero. Soltanto che ogni volta che tentava di approcciarsi in qualche modo, lui sgusciava via come un'anguilla adducendo questa o quella scusa insensata - era piuttosto certa che una volta avesse detto qualcosa come "Devo portare il mio gerbillo dal veterinario" - indipendentemente da quanto lei - e Jonathan, anche, sebbene lui fosse sfuggente almeno quanto il figlio, o almeno in imbarazzo - fosse assillante. Quindi aveva deciso che metterli faccia a faccia - o telefono a telefono - per farli parlare senza vie di scampo fosse una buona cosa. 
Quindi andò da Clary, considerò l'idea di andare a comprare la torta in una pasticceria o di assumere un cuoco permanente, o anche di fare un sondaggio per scoprire se qualcuno era effettivamente capace di cucinare, e poi ritornò quatta quatta al suo posto, con il chiaro intento di origliare la conversazione tra Jean e Jonathan, o almeno le risposte del primo. 
— Be'... Sai che te ne esci sempre con le domande più strane, tu? — esclamò Jean, trattenendo un sorriso. 
Dal momento in cui l'aveva scorto senza maschere, Isabelle faticava a vederlo con i capelli tinti e le lentine. Come Jonathan quando aveva finto di essere Sebastian Verlac, stava meglio al naturale.
Per di più, si sentiva piuttosto soddisfatta di sé: non solo li aveva finalmente costretti a parlare, ma aveva anche indovinato che, da grande, i capelli di Ian si sarebbero schiariti fino ad arrivare alla tonalità praticamente biancastra del padre.
— Comunque sì, ce ne sono un paio. Mmh, Octavian Blackthorn, Jesse Ironcrown, e poi... Ah, è già stato rapito? Be', quando lo riprenderanno sarà mio amico. E poi, sempre che non mi ricordi male, alla festa di domani ci saranno Jude Crosschest, Herakles Belladonna ed Estella Napier. Cosa? Ah, sì, è un'ibrida, perchè? Be', suppongo che arriverà qui in tempo per domani pomeriggio, sempre se non sto confondendo un compleanno con un altro — spiegò il ragazzo con noncuranza, gesticolando con la mano libera. La muoveva così tanto, in effetti, da farla stupire di non aver mai notato quel dettaglio prima, portandola poi a chiedersi se Ian avesse evitato di fare anche quello per fingere di essere completamente una persona diversa.
Poi si riscosse quando lui stesso le porse il cellulare: — Non chiudere, è ancora in linea — la avvertì, prima di presumibilmente mettersi a segnare sulla lista le famiglie dei bambini che A non erano stati rapiti e B non erano ibridi dalla posizione ignota. Si sarebbe occupato lui dei messaggi di fuoco? 
La ragazza annuì e si volse per controllare un'altra volta il macello che Clary stava combinando: — Hai trovato i triangoli rossi? — domandò quindi a Jonathan, come se la cosa fosse di fondamentale importanza.
— Sì. E dimmi, per un tale raffinatissimo party, c'è differenza tra i piattini con gli orsetti gommosi e quelli con le papere? — rispose lui dall'altra parte, con tono che grondava sarcasmo.
— In realtà, dipende dal colore dai piatti. —
Lo sentì sbuffare: — Sei una pazza! Comunque, i dannati orsetti sono su sfondo rosso e le fottute paperelle su uno blu. E restando in tema animalistico, io mi sento un mulo da soma! — si lamentò, e Isabelle poteva quasi vederlo sventolare le due diverse confezioni come a sottolineare il suo punto. Ah, ecco, Ian aveva preso da lui, sì. 
C'era qualcosa in cui quei due non fossero identici? No, perché più li studiava e più era portata a credere che i Morgenstern venissero creati con lo stampino. Sempre lo stesso stampino. 
Oh, sì, per grazia di Raziel Ian sembrava essere più gentile, anche se forse era un fattore principalmente legato alla timidezza. 
— Comunque — ricominciò lui, con un tono più umano: — Cosa credi che dovremmo prendergli? —
— A chi? — domandò, perplessa.
— A Ian, chi altri? —
— Ma non gli abbiamo già preso i blocchi da costruzione e il libro delle favole e quel dinosauro gigante che vuole da secoli? —
— Ma no, idiota! Ian grande! —
Isabelle si diede mentalmente della stupida, e poi anche dell'insensibile perché pur avendo tutte le informazioni possibili e immaginabili a sua disposizione, non aveva considerato che era sempre lo stesso Ian di cui si parlava - lo stesso che aveva resuscitato Jonathan, tra l'altro, rischiando di diventare un mucchietto di cenere - e che quindi compivano gli anni lo stesso giorno. 
— Oh Raziel — esclamò, boccheggiando: — E io come dovrei saperlo? —
— Questa è stata più o meno la mia reazione quando ci ho pensato — la informò Jonathan. Prese un profondo respiro e lei lo sentì stropicciare delle buste, o degli involti, o qualcosa del genere: — Raziel, sono un padre orribile, non è vero? — domandò, più retoricamente che altro. 
Isabelle alzò gli occhi al cielo: — Non diciamo stronzate, Jonathan. Non è da tutti incontrare il proprio figlio venuto dal futuro, per di più che ce l'ha rivelato da poco... —
— Sono passati quasi cinque mesi e mezzo, e io non ho fatto nessuno sforzo... — 
— L'hai fatto, solo che siete due imbranati che si girano in tondo senza sapere come parlarsi. Comunque, questo problema lo risolviamo quando torni. Nel frattempo, chiama Magnus e fatti consigliare da lui, visto che sembra essere diventato suo amico. — ordinò, cercando di vedere solo il lato pratico della situazione - e non che, per estensione, allora lei era una madre orribile. Ci stava lavorando su quello, okay? Aveva diciotto anni e non sapeva nemmeno bene come prendersi cura di se stessa, quindi era già un miracolo che Ian versione bambino non fosse morto di fame, alla versione formato maxi ci sarebbe arrivata pian pianino. 
Lei stava facendo del suo meglio, che diavolo! 
Con uno sbuffo, ritornò da Clary, osservando con aria scettica il composto marroncino che stava girando: — Credi che ne uscirà qualcosa di commestibile? — chiese, arricciando il naso. Quell'impasto, se così si poteva definire, puzzava almeno quanto l'icore dei demoni. 
— Iz, è solo cioccolato, ed ha un'aria buonissima. Non ci ho ancora messo le mani, se non per scioglierlo!
— Oh.  — Bene, quindi adesso anche i suoi sensi le stavano giocando brutti scherzi. Fantastico. 
Quindi, mentre stava cercando di mettere ordine nei suoi pensieri, di non sentirsi una persona orribile e anche di non incominciare ad urlare, un tornado biondo la travolse. Un tornado biondo estremamente forte, che praticamente la spostò di peso solo per fermarsi in mezzo alla stanza, ansimante. 
— Quindi — incominciò Jace, fissando i tre presenti: — Ero a casa degli Ironwood per indagare sulla loro scomparsa, e indovinate un po' cosa ho scoperto? —
Jean trattenne una risata. Quindi, alla fine, erano arrivati a capire che il problema non era costituito dagli attacchi esterni degli più svariati nemici, ma ovviamente dallo schifoso governo interno. 
— Il Conclave sta facendo esperimenti sui bambini! —
Prima ancora di recepire il messaggio, Isabelle vide il mezzo demone voltarsi per non mostrare il ghigno che gli aveva distorto la faccia.


 
 
(1) = E' il titolo in lingua originale dell'episodio 5x06 della serie tv Supernatural. 
(2) = Due note in una, tanto per risparmiare spazio. Hai imparato la pianta di una città per sport? è una citazione più o meno letterale del libro Divergent, di Veronica Roth.
 In secondo luogo, Fao Shwarz era davvero il negozio di giocattoli più antico di New York, che ha chiuso nel 2015 per, a quanto si dice, problemi d'affitto. In ogni caso, la timeline di questa storia è ferma per ora a quasi tre anni dopo City of Glass, ovvero quasi nel 2010, quando il negozio era ancora aperto, mentre Ian/Jean afferma che non se lo ricorda proprio perché in futuro sarà chiuso. 

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Capitolo 2
*** II - Happy birthday ***


II - HAPPY BIRTHDAY

Un sole intenso penetrava dall'unica finestra nella stanza, che aveva le imposte aperte e le tendine di lino che frusciavano, mosse dal vento caldo. 
La temperatura era così alta, in effetti, che quasi si sarebbe potuto sentire l'asfalto scricchiolare giù in strada e magari anche cuocere un uovo su di esso, non fosse stato per il vociare intenso che si avvicinava sempre di più alla porta. 

In un riflesso istintivo, Ian aprì gli occhi ed allungò la mano sinistra poco oltre il bordo del letto, sulla sporgenza di legno dove nascondeva un pugnale da quando, quasi un anno prima, era arrivato in quell'Istituto. In quel tempo.
 
Si rilassò appena quando si rese conto che la presenza di una minaccia lì era quantomeno improbabile, mollando la presa e lasciando ricadere l'elsa dell'arma dove si trovava prima. 
Sbadigliando, si stiracchiò alla maniera di un grosso felino da appartamento e gettò un'occhiata al suo riflesso nel grande specchio appeso proprio di fronte al baldacchino. 
I suoi capelli sembravano il nido di una famiglia di piccioni, ma a parte quello erano ancora del consueto marrone smorto che avrebbero dovuto mantenere ancora per un po'. Buono. 

Mentre la porta si apriva, non poté fare a meno di accarezzare col pensiero il sacchetto di velluto scuro nascosto in uno dei cassetti del comodino. Avrebbe voluto portarlo sempre addosso, sempre con sé, ma era una parte di lui che non voleva far conoscere a chi già era al corrente della sua vera identità e che gli altri non potevano assolutamente scoprire. 
Almeno, preferiva tenersi quel piccolo dettaglio privato. Non perché se ne vergognasse o perché fosse qualcosa di orribile, bensì poiché era una cosa soltanto sua, un oggetto che lo cullava in attesa del ritorno a casa. 
Un pensiero che gli faceva continuare a credere che sì, indietro c'era qualcuno che lo stava aspettando, che non importava tutto quello che in quel momento stava cambiando, lui sarebbe stato sempre la sua famiglia. O almeno, questo era quello che continuava a ripetersi. 

— Ehi. 

Il ragazzo alzò lo sguardo per incontrare quello di Isabelle, a pochi passi da lui e con in mano un muffin ai lamponi: — Ti avrei fatto qualcosa io, ma Magnus mi ha fatto gentilmente notare che non sarebbe stato carino avvelenarti il giorno del tuo compleanno. Insensibile. — La Nephilim alzò gli occhi al cielo, e poi gli sorrise: — In ogni caso, tanti auguri! 

Gli piaceva il rapporto che era riuscita ad instaurare con lui. Negli ultimi mesi, sin da dopo il disastroso matrimonio dei novelli coniugi Herondale, era riuscita ad avvicinarlo pian piano, come si fa con un animale selvatico e spaventato. 
Non le era mai parso diffidente, ma di certo molto chiuso. Ed in fondo non poteva biasimarlo, considerando che era stata dura da entrambe le parti, ma stavano facendo progressi. E Ian non scappava più al minimo accenno della sua vita privata, cosa molto positiva, considerando che era riuscita a carpirgli qualche altro dettaglio, anche se allo stesso tempo era stato lui quello che le aveva scucito maggiori informazioni. Sembrava sinceramente curioso e, soprattutto, era molto più incline all'ascolto di quanto avesse potuto sospettare, considerando che lei e Jonathan gareggiavano per il premio Narcisista dell'Anno. 

— Grazie — Lo vide arrossire e poi sorridere lievemente, accettando il dolce e poggiandolo poco lontano, accanto ad un bicchiere d'acqua, un cellulare ed un portatile. Non se ne vedevano molti, lì in mezzo agli Shadowhunter.

— Non è che non mi piace, è che la mattina non ho mai fame — aggiunse l'ibrido, tentando di scusarsi. 

— Figurati. A dire il vero... — Isabelle si sedette sul bordo del letto, lisciando le pieghe delle lenzuola mentre Ian si raddrizzava e le scalciava via per potersi avvicinare, rendendo del tutto vano il suo lavoro: — ... Devo confessare che sono qui con un duplice fine.
 
Il ventiquattrenne inclinò il capo di lato, in un'abitudine che Isabelle aveva imparato a classificare come un va' avanti. 

— Be'... Ecco... Per adesso è più che altro un vago sospetto, ma... 

— Ma? 

— Quid pro quo. — propose infine lei, ricordando per un attimo le lontane serate in cui lei e Jace trascinavano Alec in giro per locali affollati, solo per poi finire sul pavimento del retro a sfidarsi alle venti domande dopo aver ucciso il demone di turno.
Con tutto quello che era successo e che stava ancora accadendo, non uscivano da un po'. Ma c'erano stati tempi peggiori di quello in cui erano comunque riusciti a svagarsi, per cui programmava di riprendere a farlo il più presto possibile. O qualcosa del genere. Circa. C'erano un paio di falle in quel piano.
 
— Comunque, facciamo un'informazione per un'informazione? — concluse, mentre gli occhi le si accendevano di malizia. Aveva un quadro generale piuttosto confuso al momento e, anche se era vero che era andata lì per confidarsi ed avere un parere sincero, poteva sicuramente approfittarne e mettere un po' in imbarazzo il povero Morgenstern atipico. Che cos'era, la pecora bianca del gruppo? 

— Perché ho come l'impressione che presto tutto questo si trasformerà in un interrogatorio a mio danno? — Ian rise, sfogliando i file ordinati nella sua testa e mettendo in fila i fatti non compromettenti da poter confidare. 

— Perché sei un ragazzo intelligente, ovviamente. Comunque, forza, cominci tu. Anzi no, ti faccio una domanda io. Come stai a vita sentimentale? E non dire inesistente, Magnus mi ha detto che ti stai mantenendo casto e puro per qualcuno nel futuro — Isabelle ammiccò eloquentemente, ottenendo il solo effetto di vederlo imporporarsi ancora di più. 
Poi il ragazzo ritrovò una parvenza di contegno e si raddrizzò, esibendosi in un'espressione a metà fra il divertito e l'esasperato: — Uno, non sono né casto né puro, anzi, se proprio ci tieni a saperlo, ho perso la verginità a quindici anni. E due, dopo un dettaglio succoso come questo, di' a quello Stregone da quattro soldi che non verrà mai a sapere il nome della persona con cui sto. — chiarì, scuotendo il capo. 
Non si sentiva particolarmente in imbarazzo a dare via informazioni del genere, a discapito del corrente colore delle sue guance - quella a diventare rosso era più che altro una tendenza naturale, a causa del suo stupido incarnato cadaverico -, per il semplice motivo che nella sua testa era avvenuta una sorta di strana scissione che teneva separati i genitori che ricordava da Isabelle e Jonathan, facendolo in qualche modo arrivare ad un compromesso e ad accettare che no, non avrebbe mai potuto identificarli in quel modo, ma che non c'era niente di male ad averli come amici. 

La Cacciatrice sgranò gli occhi, guardandolo con una faccia fintamente scandalizzata: — E noi che eravamo tutti intenti a crederti il verginello pudico della famiglia! — Stette in silenzio per un attimo e poi sembrò quasi vedere dal vivo il Sacro Graal: — Ma quindi stai con qualcuno! 

Ian scrollò le spalle: — Sì, ma ti ho già dato un'informazione, adesso tocca a te. 

— Andiamo! Di certo non scappo, puoi anche sbottonarti un po' di più. E poi cosa ci sarebbe di male nel dire il suo nome? In questo modo non ti assicureresti di scriverlo nel tempo, così da non perderlo nel futuro? È solo che mi sembra stupido contravvenire il consiglio di Noah per informarci della nostra morte ma non per assicurarti di tenere chi ami al tuo fianco. — osservò quindi Izzy, facendo spallucce. Non faceva una piega. 

— È proprio questo il punto. Potrei farlo, e da una parte sono molto tentato, ma... Non voglio obbligarlo. Voglio che succeda perché tiene a me, non perché una qualche strana legge metafisica l'ha stabilito.
 
Isabelle rimase in silenzio. 
Era una cosa molto dolce, quella, e si chiese più o meno distrattamente se Ian amasse quella persona, per desiderare ciò. Aveva un segreto più grande a cui pensare al momento, ma visto che stava cercando di dimenticarlo, quella conversazione era l'ideale. 
— Non puoi proprio darmi nessun altro dettaglio? 

Per l'ennesima volta da quando si era svegliato, l'ibrido scrollò le spalle: — Sempre inerenti alla mia vita amorosa? 

— Perché no? — gli rispose retoricamente. 
— Mmmh... Non è niente di così eccitante, davvero. Sono stato con una sola persona in tutta la mia vita e ne sono ancora innamorato, siamo insieme da otto anni, non contando quello che sto passando qui. Che sono gay conta? — spiegò, con tutta la noncuranza del mondo. 

Era assurdo avere paura di confessare ad Isabelle Lightwood una cosa simile, ben conoscendo le sue posizioni sull'argomento, e comunque da dove veniva lui non era poi tutto questo grande affare. Non nella società mondana, almeno, nella quale viveva immerso da un po'.
 
Certo, c'erano sempre gli oppositori, ma quelli non scomparivano mai del tutto; in ogni caso, da qualche parte negli anni il mondo aveva smesso di etichettare come etero tutti fino a prova contraria, almeno superficialmente. E poi non è che uno se ne andasse in giro presentandosi più o meno così: "Ciao, sono Tizio e sono eterosessuale, e tu?" o "Ehi, mi chiamo Caio e sono bisex, come va?".
 
Il 2011 era una vergogna, a confronto. Perché facevano della sessualità una questione così importante? Dov'era finita la tolleranza? I diritti uguali per tutti? 
Non era mai stato un problema per lui essere quello che era, anzitutto perché tra i Nephilim era già un freak per ben altri motivi, figurarsi se si preoccupava di quel dettaglio insignificante, e sotto quell'aspetto tra Mondani, Nascosti e Ibridi si era sempre sentito a casa, aveva sempre dato per scontato quelli che considerava diritti e che lì sembravano privilegi. Viva il 2032, insomma. 

— Otto anni, davvero? Wow. — All'aggiunta dell'ultima informazione, Isabelle lo osservò curiosamente: — Non so perché, ma non avevo mai pensato a chi ti potesse piacere. Nel senso, non ti ho mai visto guardare nessuno, probabilmente proprio perché non vuoi tradire il tuo ragazzo, e nella mia testa si era fatta questa strana immagine, non lo so... Semplicemente mi fa strano sapere che sei interessato a qualcuno in generale. 

Ian scoppiò a ridere di cuore: — So che potrebbe essere una notizia scioccante per te, Iz, perciò preparati: sono frustrato esattamente quanto tutte le altre persone che non fanno un po' di sano sesso da qualcosa come dieci mesi. — sussurrò con aria falsamente guardinga, combattendo contro la voglia di continuare a prenderla in giro. 

Passarono ancora qualche minuto a chiacchierare di tutto e di niente, più che altro per cercare di far abbassare la guardia alla ragazza, e poi il maggiore si fece serio e parlò di nuovo: —Allora, mi pareva che dovessi confessarmi qualcosa. 

Isabelle sbiancò tutto d'un colpo: — Ecco, non fraintendermi, è solo una sensazione, ma visto che tu queste cose le dovresti conoscere, dato che sei un po' più avanti di noi, e comunque... Non dovrei nemmeno parlarne a te per primo, ma ho bisogno di fare chiarezza e so che se lo dicessi a Clary non riuscirebbe a tenere il segreto per il tempo che mi serve per riflettere a fondo ed accertarmi della cosa. 
Ian raddrizzò la schiena, coinvolto. Il fatto sembrava preoccupare alquanto la sua futura - o neo, tecnicamente, perché la sua versione junior già la considerava tale, ma ovviamente lei aveva ancora bisogno di un po' di tempo per adattarsi - mamma, e contando anche che nell'arco di ventiquattro anni gliene erano successe più o meno di tutti i colori e che, anche se alle spalle non aveva l'età, di certo poteva vantare una discreta esperienza, sperava di aiutarla in qualche modo. 

— Sì? — domandò quindi, in attesa. 

— Ehm, in un certo qual modo è prendere l'argomento alla larga, ma affrontiamo una cosa alla volta, va bene? Okay. Te l'ho già detto come la penso su... be', su come le cose stanno andando tra me e Jonathan, e Ian, e tutto il resto... — borbottò lei, distogliendo lo sguardo dal suo e fissandolo sulla parete alle sue spalle. Alla fine sospirò e ritornò a guardarlo, più determinata ma ancora silente. 

— Iz, non c'è niente di male in tutto questo. Hai soltanto diciotto anni, e stai affrontando parecchie cose molto più grandi di te. È del tutto normale che tu non riesca ancora ad adattarti alla situazione. 

Quello che Ian non aggiunse era che lui, purtroppo, in una situazione sotto molti aspetti simili non aveva avuto né il tempo né la possibilità, di adattarsi, ma quello era un altro discorso e non vedeva perché demoralizzarla. 

Nel corso delle ultime settimane in special modo, quando si erano ritrovati a parlare tra un allenamento ed una missione e quant'altro, avevano affrontato temi abbastanza delicati. 
All'inizio lei era stata abbastanza reticente, soprattutto nel confessargli che, sotto molti aspetti, era ancora difficile riconoscersi come una madre. E poteva capire perché esitasse, visto che era lui il bambino di cui si stava parlando. 
Ma pur di avere quelle informazioni l'aveva spinta a distinguere lui da Ian junior come fossero due persone diverse, e non si era pentito della scelta. Aveva capito le motivazioni dietro ai pensieri di Isabelle, e non poteva dire di essere arrabbiato. 
Cinque mesi erano troppo pochi per chiunque per poter solo pensare di fronteggiare una situazione simile, specie con un pargoletto che per due anni praticamente non aveva visto la luce del sole, e che aveva oggettivamente più bisogno di aiuto di uno che era stato cresciuto amato e protetto. 

Aveva più volte messo in dubbio il ruolo che aveva accettato di rivestire per Ian, sebbene poi fosse sempre tornata sui suoi passi. Diceva di non essere innamorata di Jonathan, ma qualcosa di fondo doveva pur esserci, se in ogni caso continuava a ricredersi e a restargli accanto, legandosi sempre di più a quello strano e piccolo nucleo familiare disfunzionale. 
In ogni caso, certo passare dal ritrovarsi a ballare sui cubi di una discoteca ad imboccare un bambino era un cambiamento drastico, e non si era stupito né dei momenti di indecisione né delle conseguenti crisi di pianto. 

Sembrava che le cose stessero andando meglio, però, specie da quando lei aveva avuto la forza di confessarlo a Jonathan – meglio, da quando poi era riuscita a convincerlo ad avere un discorso serio e facendogli capire che quello non voleva dire che stava ritornando sui suoi passi e lo stesse mollando. 
Avendolo sempre visto e conosciuto sotto una prospettiva completamente diversa, quasi da eroe, Ian non aveva mai pensato che anche suo padre, legame o non legame con sua zia, avesse delle insicurezze. E una sindrome dell'abbandono, o una terribile paura di esso, o qualcosa del genere. 

— Lo so, questo me l'hai già detto, Ian. Volevo solo introdurre così il discorso, non perché si siano presentati altri problemi, anzi, finalmente credevo di aver trovato un equilibrio e penso che alla fine essere una cosa non escluda l'esserne anche un'altra, ma...
 
— Ma? — Il ventiquattrenne inarcò un sopracciglio: — Credevi? 

La corvina serrò le labbra in una linea sottile, per evitare di martoriarsi le mani perfettamente curate: — Qualcosa del genere. Non ho ancora fatto nessun accertamento, ma è difficile che possa essere altro, e in realtà l'ho tipo realizzato quando mi sono svegliata poco fa e me la sono svignata per venire qui, e... — Lo guardò da sotto le lunghe ciglia scure, recuperando ancora una volta la compostezza persa, mentre una strana sensazione si faceva strada nelle viscere del ragazzo: — Penso di essere incinta.
 
Ian sbatté le palpebre.
 
Una, due, tre volte, in rapida sequenza. 

Il suo cervello stava facendo calcoli ad una velocità così elevata da non permettere di comprenderli nemmeno a lui stesso. 

5 marzo 2012. 

Se quel filo della trama era rimasto in alterato, quella doveva per forza essere la data di nascita di Regina e Christopher. 
E a quel giorno mancavano approssimativamente otto mesi. 

Isabelle si avvicinò ulteriormente a lui, alzandogli il volto con due dita in modo che potessero guardarsi negli occhi. Lui non aveva avuto il tempo di mettersi le lenti a contatto, e quindi adesso la Nephilim si ritrovava a fissare due abissi completamente neri, spezzati da una pupilla chiara e verticale: — È possibile, Ian? 

Rimasero a fissarsi ancora, poi il più grande interruppe il contatto e si schiarì la voce, guardando ostinatamente le lenzuola bianche: — Sì. — soffiò infine. 

— Quanto, in termini di percentuali? — C'era una fermezza nella voce della Shadowhunter che non si era aspettato. Era una nota sempre presente nella sua versione più grande, ma che poche volte aveva sentito in quella giovane. Appariva del tutto in controllo della situazione, anche se avrebbe potuto affermare con tranquillità che il suo cuore che batteva forsennatamente la stava tradendo. 

— Matematico. Potrei darti la data precisa, se tu volessi. 

— Quale... quale data? — si ritrovò a chiedere Isabelle, sebbene fosse una domanda stupida ed inutile. Aveva avuto venti minuti passati nel letto e altrettanti sotto la doccia per avvolgere la sua testa attorno a quell'idea, e adesso che il suo presentimento era stato confermato non aveva reagito come si era aspettata. Era stranamente calma. 

— Di nascita, ovviamente. Ricordi... ricordi che cosa ti ho detto al matrimonio, in merito? 

Isabelle chiuse gli occhi, richiamandosi alla mente confessioni che in realtà aveva stampato a fuoco nel suo cervello: — Che... che hai tre fratelli, due... due dei quali sono... — serrò la presa sul materasso, impallidendo ancora: — Gemelli. Sono gemelli. 

Adesso che l'aveva capito, non aveva senso indorarle la pillola, vero? 

— Sì. Regina e Christopher, lui più grande di lei di quasi nove minuti, se non erro. 5 marzo 2012. 






Ian appoggiò i gomiti sulla ringhiera antica del balcone, chiudendo gli occhi per tentare di estraniarsi dalla cacofonia di rumori che lo circondava. O per concentrarsi su quelli e non dare peso a tutto ciò che gli passava per la testa, certo. 

Il Conclave e le sue stupide bravate erano l'ultimo dei suoi problemi, al momento. Certo, non avrebbe voluto essere nei panni di Robert Lightwood, considerata la caterva di insulti che Jace stava sciorinando al suo ologramma, a qualche camera di distanza. E per carità, non avrebbe voluto indossare le sue scarpe nemmeno nel momento in cui i Nephilim in generale fossero venuti a conoscenza degli esperimenti, considerata la loro tolleranza per il diverso praticamente inesistente. 

In ogni caso, non gli dispiaceva: Robert non condivideva una sola goccia di sangue con lui, ma era il nonno dei suoi fratelli, e mai una volta aveva cercato di tendere loro una mano amica. 
Aveva compreso la faida che c'era tra lui e la famiglia Morgenstern - e per questo si era stupito quando, lì nel passato, aveva accettato di combattere al fianco di Valentine, nell'ultima battaglia prima della caduta di Melchizedeck - e non aveva fatto una piega quando in pubblico aveva finto di non avere la più pallida idea di chi fosse, all'inizio, ma dopo l'omicidio dei suoi stessi figli Ian credeva che potesse ricredersi.
 
Ebbene, non l'aveva fatto. 

Passi leggeri si avvicinarono e si fermarono alle sue spalle, poi Alec gli si affiancò e gli porse qualcosa: — Magnus vorrebbe che avessi questo. E no, non riporterò indietro la tua risposta, non sono il vostro piccione viaggiatore. Usa un messaggio di fuoco. Ah, dice anche che non accetta un no. Ci vediamo stasera. 

Non aggiunse altro e si voltò, piuttosto di fretta, per tentare di fermare il suo parabatai dall'insultare l'intero Consiglio, presumibilmente. 

Alec era sempre stato sospettoso nei suoi confronti, da quando era arrivato, come se uno strano sesto senso l'avesse avvertito che stava nascondendo qualcosa. Non poteva dargli torto e non se l'era presa, perché non era un tipo che portava rancore facilmente – no, generalmente viveva nell'indifferenza, se qualcuno non gli pestava il piedi. 

Il suo futuro zio, in fin dei conti, gli stava simpatico. Ricordava tutte le volte in cui, da bambino, era stato ospite nel loft Bane-Lightwood, e di come Magnus lo impegnasse nelle attività più assurde assieme ai suoi fratelli e poi suo marito - non ancora, a quel punto, ma comunque - arrivasse a salvarli dal Malvagio Stregone Brillantinato e portasse loro la merenda. 
Erano bei tempi. 
Con un sospiro, aprì la busta color porpora, passando un dito sui rilievi glitter e ridacchiando. 
Gentile Mr Arsch, 

Lei è invitato all'umile dimora del Magnifico Sommo Stregone di Brooklyn,

il sottoscritto Magnus Fantavoloso Bane,

questa sera alle dieci, 
per festeggiare il compleanno dell'Altissima Signoria Jean.

Cordiali saluti,

Il Suo zio preferito. 

Post scriptum: presenza obbligatoria, abiti adatti all'occasione. Sì, fantavoloso è una parola.
Wow. Due party diversi in un sol giorno – contavano come uno e basta, se erano per la stessa persona che compiva età diverse? 

S'infilò una mano nella tasca dei pantaloni ed estrasse da essa il piccolo sacchetto che si portava sempre dietro, o quasi. C'erano state un paio di volte in cui aveva rischiato di perderlo, in combattimento, e quindi se sapeva in anticipo di dover probabilmente lottare, evitava di tenerlo vicino. 
Con dita tremanti sfiorò il gioiello che nascondeva all'interno di esso, stringendolo come se avesse voluto farlo penetrare oltre la pelle. 
Non era particolarmente prezioso, o meglio, era pur sempre oro ed erano pur sempre diciotto carati, ma Ian aveva avuto e perso e riguadagnato abbastanza soldi nella sua vita da sapere che non era quello l'importante. 

Era un anello semplice, una banda di media larghezza che riluceva alla luce, e tutto ciò che contraddistingueva quella fede matrimoniale da tante altre era l'incisione al suo interno. 

Εμός ήλιος. 
— Emós élios — Se lo ripeteva come un mantra, specie nelle giornate come quella. Giornate in cui credeva che non sarebbe mai riuscito a riordinare tutti i tasselli temporali giusti, giornate in cui credeva che per ogni obiettivo che riusciva a raggiungere la storia stessa si ritorceva contro di lui per non cambiare. 

Mio sole. 

Mi manchi. 

Era anche per quello che non poteva andare alla festa di Magnus. Cosa avrebbe dovuto fare nel caso in cui l'avesse incontrato? Non era un problema di imbarazzo o di paura, ciò che lo spaventava era perdere il controllo e con esso tutta la ragione, decidendo di svelargli tutto in cerca di mero conforto che comunque non avrebbe ricevuto. Lui, dopotutto, ancora nemmeno lo conosceva.
 
Dieci mesi erano un record, per lui, quando si trattava di restare perfettamente calmi e controllati. Sporadici attacchi di panico e alcuni più frequenti di rabbia a parte, certo. Tanto erano in solitaria. 

Gli aveva promesso che, una volta ritornato al suo giusto posto, si sarebbero sposati anche col rito Shadowhunter, sebbene nessuno dei due lo ritenesse particolarmente fondamentale.
 
Tutto quello a cui doveva stare attento era il filone degli eventi: non doveva più andare fuori dal seminato, se non voleva rischiare di perdere suo marito. 

Eventi che rischiavano di cambiare. 
Se Isabelle non fosse riuscita a prendere una vera decisione in breve tempo, o meglio, se avesse preso quella sbagliata, probabilmente Regina e Christopher non sarebbero mai nati. Oppure poteva tenerli, e rischiare una vita infelice col rimorso di non aver tentato altro, se il futuro aveva già iniziato a modificarsi. Se Ian ricordava una versione stereotipata di sua madre, anche, se l'aveva idealizzata al punto da credere che nessun problema albergasse nella sua testa. 
Sperava solo di fare la cosa giusta. 








Octavian si raccolse le ginocchia tra le braccia, sedendosi accanto ad un vaso ricco di fiori che non riusciva a riconoscere. 
Aveva le piccole mani intrecciate e continuava a sospirare, non riuscendo a decidere se volesse essere offeso, triste o irritato. 

— Tutto bene?
 
Il giovane Blackthorn alzò lo sguardo, incontrando un piccolo gruppetto compatto di bambini: il più piccolo era anche il festeggiato, Ian, o almeno Mark gli aveva detto che si chiamava così. I due accanto a lui, però, non li aveva mai visti in vita sua. 

A parlare era stato quello alla destra della piccola fila, praticamente un ammasso di riccioli a cavatappi color cioccolato che rimbalzavano in tutte le direzioni con un sorrisone in volto: — Sono Jude. Jude Crosschest, e questo a fianco a me è Herakles. Il biondo è Ian. — si sporse verso di lui per sussurrargli in un orecchio: — Lo conosciamo da poco, ma è simpatico. Però è piccolo. Io ho già fatto quattro anni, lui ne ha tre! 

Ian arrossì: — Io non sono piccolo! — protestò, attirando l'attenzione dell'unico che ancora non aveva parlato. 
— Cosa? — chiese quindi Herakles, confuso. 

Jude, nel frattempo, si era voltato a sua volta a fissare l'ibrido: — Ho detto anche che sei simpatico. — si difese, scrollando le spalle esili: — Come hai fatto a sentirmi? 

— Stavi parlando! 

— Sì, ma solo a, ehm, come ti chiami?
 
Dall'alto dei suoi sei anni, Tavvy si rimise in piedi, decidendo che non era il caso di stare lì a fare il frignone: — Octavian. — offrì, imbronciandosi: — E sì, tutto bene, ma mio fratello mi ha lasciato qui per andare a parlare con qualcuno e adesso non lo trovo più. 

Herakles aggrottò la fronte, guardandosi intorno. Certo, sarebbe stato più d'aiuto se avesse saputo com'era fatto, il fratello di Octavian. 

— Vedrai che salterà fuori. Puoi restare con noi, adesso.
 
Fu una conoscenza piuttosto breve, comunque, perché ben presto Ian fu catturato dalla pila di regali che iniziava a formarsi su uno dei bassi tavolini che normalmente fungevano da intervallo tra diversi divani. 

Per quel che ne sapeva, di solito quella stanza non veniva usata molto, come tante altre, e ci era stato poche volte, in genere solo quando stava giocando a nascondino. 
Comunque, convinse suo padre ad iniziare a scartarne qualcuno e, una cosa tira l'altra, alla fine iniziarono anche a tagliare la torta, e poi tutti cominciarono a sballottarlo di qua e di là, a fare foto, e alcuni volevano solo guardarlo e allora incominciavano a fissarlo come lui e il gelato – e allora arrivava sempre qualcuno a tirarlo via. 

Alla fine, quando gli invitati iniziarono a scemare e Jude ed Herakles si fermarono a salutarlo, iniziò ad osservare la sala, confuso.
 
— Non eravate con Octavian? — chiese, attirando l'attenzione di suo zio e del ragazzo che si portava dietro. 

— L'avete visto? — domandò Jace, mentre quello accanto a lui si faceva sempre più inquieto: — È mio fratello. Gli avevo detto di aspettarmi sulla poltrona, ma... 

Quindi quello era Mark? 

— Stavamo giocando con lui — sussurrò Jude, abbassando lo sguardo sulla punta delle sue scarpe: — Poi ho detto che dovevo andare in bagno ed Herakles mi ha seguito, e pensavo anche Octavian, ma non c'era, e poi non l'abbiamo più trovato. 

I seguenti furono i cinque minuti più frenetici a cui il piccolo Ian avesse assistito da un po', da quando sua madre era andata a recuperarlo dall'appartamento dello zio Magnus.
 
Alla fine Clary, inginocchiata accanto al vaso dove qualche ora prima si trovava il bambino, richiamò l'attenzione degli altri, proprio mentre anche Jean si schiariva la gola. 
Entrambi avevano qualcosa tra le mani.
 
— Credo che Ian abbia dimenticato di scartare questo — disse quindi il ragazzo, porgendo una busta a Jonathan. Su di essa, c'era scritto solo il nome del bambino. 

— Ne ho una uguale, ma... è per Octavian. — sussurrò Clary, aprendola in fretta, mentre suo fratello faceva lo stesso. 

— Merda — si lasciò sfuggire il maggiore, facendo scattare così velocemente il collo verso destra da sentire uno schiocco. Ian era ancora lì.
 
— Re di quadri — annunciò la Nephilim, funerea. Allo stesso modo, Jonathan rispose all'ultima domanda ancora non posta: — Jolly. 


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Capitolo 3
*** III - Scrivere il futuro ***


III.
SCRIVERE IL FUTURO
Si era già fatto buio quando la marmaglia di gente che era sciamata come delle api sul miele all’Istituto di New York incominciò a diradarsi. 
Fuori da una delle alte finestre, Isabelle riusciva a scorgere il familiare skyline di Manhattan: era cresciuta con il naso rivolto verso l’alto, verso i grattacieli, tanto quanto alcuni degli altri Nephilim avevano alzato lo sguardo solo per tentare di vedere la cima di una statua di Raziel.
Lei, alla fine, sull’Empire State Building c’era stata, ma loro non avevano certo avuto il privilegio di un posto in prima fila sul capo dell’Angelo.
E quelli che l’avevano visto, erano stati arsi vivi o spazzati via.
Che caritatevole.
— Ian — chiamò, ben sapendo che nella biblioteca c’erano solo loro due: — Lo so che non volevi presenziare, ma devi andare ad avvertire Magnus di quello che è successo. Probabilmente chiederanno anche il suo consiglio, considerando che è accaduto tanto vicino. — spiegò, porgendogli alcuni dei fogli che un rappresentante del Consiglio le aveva lasciato.
Erano solo stupidi protocolli di emergenza - e con tutte quelle che c’erano state ormai le conosceva a memoria -, ma era tenuta a distribuirli, e considerando quanto agitate erano le acque tra la Grande Mela ed Alicante forse era meglio non provocarli più del necessario.
— Ci andrei io, ma devo finire di compilare questi. Dopo quello che è successo con Jocelyn… — Non terminò la frase, limitandosi a passarsi le mani fra i lunghi capelli lisci.
Non c’era un vero e proprio collegamento tra i fatti, se non un labile ponte logico, ma dal momento che la madre di Clary era formalmente il capo dell’Istituto e la supervisione di tutte le attività era una sua responsabilità, anche la sparizione del piccolo Octavian Blackthorn rientrava nella sua lista di colpe.
E tutti sapevano che Idris aspettava soltanto un loro passo falso per privarli di qualsivoglia potere decisionale. Nel migliore dei casi, avrebbero soltanto tolto  a Jocelyn la sua carica. Nel peggiore, avrebbero anche mandato un sostituto da una delle altre sedi, al posto di permettere a chiunque raggiungesse specifici requisiti di fare richiesta per il posto. 
–– Non ti preoccupare, vado e torno in un lampo. L’ultima cosa che voglio è trattenermi. — borbottò l’ibrido, uscendo in fretta dalla stanza. 
La pesante porta a due battenti si richiuse con un tonfo sordo alle sue spalle, più silenziosamente di quanto la Shadowhunter si aspettasse. Quando l’avevano riparata? 
Passò la successiva mezzora a rigirarsi la stilografica fra le mani, in silenzio, e più che cercare di dare un senso al delirio nella sua testa tentava di dimenticarlo, ma senza grandi risultati. 
C’era un chiodo fisso metaforicamente piantato nel suo cranio, e per quanto era grande trovava difficile ignorarlo.
Come poteva? Doveva prendere una decisione, e doveva farlo il più presto possibile.
Lasciò cadere la penna, che rotolò fino ad andare a sbattere contro una tazza sbeccata ricolma di matite e pastelli, molti dei quali senza punta, segno dell’uso di Ian.
Esitante, si portò una mano alla pancia, cercando di realizzare il fatto che sì, c’erano davvero altre due vite lì dentro. Due vite che, al momento, dipendevano unicamente da lei. 
Aveva già esaminato troppe volte, sin da quel mattino, tutte le sue paure più recondite, ed erano sempre le stesse: il passato da cui ancora non si sentiva pronta a distaccarsi, l’aver fatto il passo più lungo della gamba, l’incapacità di assumersi una tale responsabilità, il dimostrarsi essere esattamente come i suoi genitori. Come poteva pretendere di essere una buona madre, se la sua a stento l’aveva vista per qualche mese all’anno, impegnata com’era con i suoi impegni lavorativi, e quando finalmente si erano riunite… le cose non erano finite tanto bene.
Non sapeva nemmeno da che parte cominciare, che diavolo!
Cosa ci si poteva aspettare da una che si era dimenticata un dannatissimo preservativo?!
Sospirò e scosse il capo. Perché era così difficile, per lei?
Aveva avuto un fratellino di cui prendersi cura e altri due più grandi che l’avevano fatta sentire sempre a casa, eppure Jonathan, quello con l’infanzia disastrata e la sensibilità di un pachiderma, aveva accettato con molta più grazia la presenza di Ian e stava facendo anche un discreto lavoro, nell’occuparsi di lui.
Sapeva che il problema non era il suo ragazzo, e a dire il vero sapeva anche che, alla fine, non c’era una vera e propria scelta.
Se avesse voluto, avrebbe potuto mettere la parola fine a quei bambini. Ma era davvero disposta a farlo? Non si trattava del crederlo un omicidio o meno, in quel momento cos’erano, mere cellule?
No, i punti erano ben altri.
Con quale coraggio avrebbe detto a Jonathan di voler abortire? E anche se ce l’avesse fatta, perché in fin dei conti se davvero non li avesse voluti l’ultima scelta sarebbe spettata a lei e di certo il suo primo problema non era comunicarlo a lui, no… Ma con quale coraggio avrebbe detto ad Ian di aver appena cancellato il suo futuro, che i gemelli che conosceva non avrebbero mai visto la luce?
E soprattutto, voleva davvero distruggere l’unica chance che le era rimasta di avere una famiglia? Che cos’altro avrebbe potuto fare, se non quello? 
Isabelle non si era mai ritenuta una stupida e, al di là del fatto che volente o nolente sarebbe stato quantomeno improbabile riuscire a trovare qualcun altro con cui avere una relazione, almeno di quei tempi, voleva davvero continuare a scappare ogni volta che le si presentavano davanti delle difficoltà? Voleva davvero dire ad Ian che non era più sua madre?
Poi ancora, desiderava davvero auto-ingannarsi e preferiva credere che il tumulto nel suo stomaco ogni qual volta vedeva Jonathan fosse solo agitazione che non aveva senso di esistere?
Quello che provava non aveva nessun senso, né probabilmente lo avrebbe mai avuto, ma non poteva cancellare il rossore sulle sue guance ogni volta che i loro occhi si incrociavano e, si rese conto, non voleva vivere con il rimpianto… con tutti quei rimpianti, in realtà, quelle cose non dette e non fatte o sbagliate proprio perché compiute.
Due mani familiari e callose le si poggiarono sulle spalle, facendola sussultare. Perfino mettendo in conto la silenziosità di Jonathan, erano poche le volte in cui non riusciva ad accorgersi del suo arrivo, e questa era evidentemente stata una di quelle.
— Già pensando di fare le scarpe a Jocelyn? — si sentì chiedere, mentre il ragazzo spostava con poca cura i libri che si trovavano sul lato destro della scrivania e ci si sedeva sopra.
Isabelle sgranò gli occhi: — Cosa? — chiese, confusa.
Lui le indicò alcuni dei moduli tenuti in ordine da un fermacarte di bronzo: — Sono richieste per la direzione dell’Istituto, no?
— In realtà avrei dovuto distribuirle nel caso in cui qualcuno fosse stato interessato, ma… — La Cacciatrice si bloccò: — Sai che non hai avuto una brutta idea? 
Da un lato, quello non faceva altro che aggiungere altre preoccupazioni al suo cumulo già grande, portando solo lavoro extra. Ma dall’altro, non soltanto sarebbe potuto servire a farle accettare che no, dal mondo degli adulti non ci si poteva sottrarre, ma era anche un buon progetto.
Insomma, sì, era incinta. E aveva un ragazzo fisso, ed erano mesi che non ballava sotto delle vere luci da discoteca.
Quello, però, non voleva dire che aveva in qualche modo deciso di mettere tutti i sogni di gloria e libertà in un cassetto e passare il fior fiore dei suoi anni a badare ai bambini e imparare ricette. Chiunque lo credeva, era un pazzo da internare. 
E poi, per quanto il Consiglio fosse contro di loro, suo padre era il Console. Dopo tutto quello che aveva combinato, qualcosa di positivo gliela doveva, no?
— Io non ho mai brutte idee.
Isabelle inarcò un sopracciglio e gli rivolse lo sguardo più scettico che le riuscisse, poi si alzò in piedi e lo prese per mano, salendo in fretta la scala che conduceva al piano superiore della biblioteca, ricolmo di scaffali straboccanti di libri e qualche divanetto occasionale verde bottiglia, lì da meno di un anno. Era allo stesso tempo assurdo e fantastico che qualcuno avesse anche trovato il tempo di darsi all’interior design, in quel tran tran.
Guidò Jonathan verso uno dei sofà e si sedette accanto a lui, scalciando via gli stiletti che ancora indossava dalla festa e stiracchiandosi appena nel vestito attillato. 
Non aveva ancora avuto modo di cambiarsi, e tutto quello che desiderava al momento era liberarsi di ogni costrizione, farsi un bel bagno rilassante e andare a letto. Possibilmente nuda e con sulla sua pelle soltanto le lenzuola ed il corpo dello Shadowhunter accanto a lei. Forse una doccia sarebbe stata più indicata, considerato quanto era stanca.
Comunque, si strinse maggiormente a Jonathan e si chiese se ci potesse essere momento migliore per comunicargli… be’, tutto.
Conoscendosi, era uno di quegli attimi da adesso o mai più.
— Jon — incominciò, sbadigliando e catturando l’attenzione dell’altro. C’erano volte in cui stavano semplicemente in silenzio, quando non erano impegnati a rotolarsi fra le lenzuola, stare dietro ad Ian o ad una delle missioni di turno, e non era imbarazzante. Anzi, era rilassante. 
— Mh? — si sentì rispondere, mentre dita straordinariamente leggere incominciavano a giocare con una ciocca dei suoi capelli, arricciandola.
Ecco, io davvero non so da dove cominciare. Cioè, non ne sono ancora del tutto sicura, ma le probabilità sono di cento a uno, e Ian ha confermato, e non ho ancora fatto un test, e non ti so dire quando è successo esattamente, ma… 
— Sono incinta — disse infine, con tono un po’ più alto di quanto avesse voluto. Oh be’.
Per qualcosa che assomigliava più ad un minuto che ad un secondo, tutto fu silente.
Isabelle non riusciva a formulare nessun pensiero coerente, più che altro sentiva le viscere corrodersi per l’ansia e la paura di averglielo detto troppo presto, troppo in fretta, di averglielo detto e basta.
— Incinta — ripeté poi lentamente l’albino, come a voler assaporare le lettere sul palmo della lingua.
— Sì.
— Come, nel senso medico del termine.
— Perché, ne conosci altri? — Non poté impedirsi di domandare lei, sardonicamente.
— Con un bambino nella pancia.
A quel punto la ragazza non sapeva se ridere o piangere: — Regina e Christopher — disse infine, sperando che capisse. Doveva farlo. Insomma, lui era quello intelligente, con quella rivelazione non poteva avergli bruciato l’ultimo neurone che gli era rimasto.
— Cosa? — domandò comunque lui, confuso.
— Con Regina e Christopher nella pancia. — ripeté pazientemente lei, prendendogli il mento tra le mani per potergli voltare il viso e guardarlo negli occhi.
Sembravano senza fondo.
— Regina e Christopher — cantilenò obbedientemente lui, ottenendo così di recitare per la terza volta i loro nomi.
Ad un certo punto si riscosse e si mise a sedere più dritto, la fronte lievemente aggrottata. La osservò, come cercando di cogliere dei segni evidenti sebbene a quel punto non potesse vedersi niente. 
— E tu hai preso una decisione — aggiunse quindi, stropicciandosi gli occhi. Isabelle aveva notato che lo faceva spesso, specie quando ragionava su qualcosa di particolarmente complesso.
— Che intendi? — chiese quindi, suo malgrado.
— Con questo non voglio dire che tu sia egoista o meno, ma… Ci hai riflettuto sopra, no? Ti conosco, almeno un po’, di tempo insieme ne abbiamo passato abbastanza. Non me ne avresti nemmeno parlato, se non fossi stata in qualche modo orientata verso il tenerli.
Wow. Forse erano passati dalla sfera emotiva di un cucchiaino a quella di un bollitore. E non era ironica, anzi. Intendeva essere un complimento.
— Hai pensato che potessi fare altro? — lo interrogò, per poi sospirare: — Lo so che… che ultimamente è stato un po’ una merda, e soprattutto per colpa mia. Certo, ho delle attenuanti, ma il succo resta quello. — Chiuse gli occhi, prese un profondo respiro e poi li riaprì: — E non posso far finta di non provare qualcosa per te, Morgenstern. Proprio non posso più. E se fuggissi adesso… Me ne pentirei per sempre. Non posso giocare a fare la bambina in eterno, e lo so che questi sono tutti bei discorsi e servono i fatti, però… Non voglio solo provarci. Non più. Sono sicura. — disse, e mentre lo faceva si rendeva conto di pensarlo davvero.
Gli sorrise, più tranquilla di quanto fosse da parecchio tempo, e lo baciò.
Aveva imparato a riconoscere il sapore di quelle labbra, il modo in cui le loro lingue si scontravano non in una danza, ma in una lotta alla supremazia. Delizioso in un modo tutto particolare, tutto loro.
— Almeno adesso dimenticare il preservativo non può fare troppi danni, considerando che la frittata l’abbiamo già fatta. — soffiò Jonathan ad un battito di ciglia dal suo volto.
Isabelle scoppiò a ridere e si stese su di lui, riprendendo a baciarlo. 







La pioggia scrosciava incessantemente da qualche minuto quando Ian finalmente arrivò al citofono del palazzo di Magnus, riparandosi sotto la stretta grondaia.
L’acqua aveva incominciato a venire giù da un momento all’altro, senza nemmeno qualche nuvolone scuro a farla presagire, e adesso l’ibrido era zuppo fin dentro le ossa. 
Prese un profondo respiro e si guardò un’ultima volta intorno, chiedendosi se lasciare un telegramma o un post-it o qualunque altra cosa non fosse più indicato. Peccato che non avesse una penna. 
— Ehm — mormorò, quando una voce sconosciuta rispose al citofono dello Stregone: — Sono Jean. 
— Jean chi?
— Arsch. Il festeggiato. 
Il portone si aprì senza l’aggiunta di nessun altra parola, e il ragazzo si rifugiò in fretta all’interno, tentando di scrollarsi qualche goccia di dosso.
Paradossalmente, fece i gradini a due a due, come credendo che se fosse riuscito ad arrivare in fretta dal Nascosto avrebbe potuto fuggire da lui altrettanto in fretta. 
Sfortunatamente, sulla soglia di casa c’era Magnus Bane in persona, avvolto in un luccicante kimono dello stesso colore dell’invito che Alec gli aveva recapitato: — Jean! Finalmente ti sei degnato di mostrarti alla tua stessa festa! Vieni dentro! — esclamò, e uno schiocco di dita dopo Ian era del tutto asciutto.
— Sai, per non rovinare i tappeti persiani.
L’interno del loft era un’accozzaglia di stili stranamente gradevoli: come preannunciato, grandi tappeti ricoprivano il pavimento, e tendaggi più o meno leggeri avevano la stessa funzione sulle pareti, creando dei piccoli cunicoli entro i quali l’ibrido riusciva a scorgere poltroncine di modeste dimensioni.
Il centro dell’appartamento era stato lasciato vuoto e usato come pista da ballo, con di fronte un lungo bancone da bar e camerieri… be’, diciamo solo che erano intenti ad interpretare alcuni nudi piuttosto famosi, mentre uno strano fumo violastro - come quasi tutto lì dentro - permeava l’ambiente.
Ian non aveva idea di cosa si trattasse nello specifico, ma era certo che fosse opera della magia e che, per di più, fosse anche piuttosto potente, visto che aveva già iniziato a dargli alla testa.
— Quello è un David? Pensavo avessi gusti migliori — osservò, lasciandosi trascinare verso i drink: — E come mai se sono solo le nove tutti barcollano come ubriac… Ah. Il fumo. Sì.
Si appoggiò all’amico, raddrizzandosi e cercando di ritrovare un contegno: — Comunque — incominciò, strascicando la o all’inverosimile: — Non posso restare qui. Devo darti dei fogli. Del Clave. Hanno rapito Octavian alla festa di Ian. 
Magnus si fece improvvisamente serio: — Octavian?
— Blackthorn.
— E c’è una spiegazione logica secondo la quale il rapitore è riuscito a farlo in una stanza piena di Shadowhunter fino al soffitto, con dentro due o tre pericolosi killer?
— Vuoi la versione ufficiale o la versione ufficiosa? — si ritrovò a chiedere, suo malgrado, Ian.
Non si sentiva particolarmente in colpa per quello che aveva fatto. O meglio, per quello che non aveva fatto. Stava solo lasciando il tempo fare il suo corso.
— Entrambe. 
Il ventiquattrenne strizzò gli occhi, cercando di combattere contro la nebbia che gli stava annebbiando il cervello, ma senza troppi risultati.
— Quella ufficiale conta sul fatto che nessuno ha visto nulla, senza sapere se qualcuno sia riuscito ad introdursi dentro o abbia attirato il bambino fuori. Quella ufficiosa… — Ian si avvicinò maggiormente a Magnus, arrivando a sussurrargli nell’orecchio: — Ho distratto Jace e Jonathan proprio nel momento in cui l’ibrido arrivava. È riuscito ad entrare perché A, non c’era niente nel suo sangue che glielo impedisse e B, l’ultimo arrivato alla festa, la spia tra i Nephilim, ha lasciato il portone socchiuso. Mi sono assicurato che nessuno se ne accorgesse, e dopo che l’ibrido aveva preso Octavian, l’infiltrato ha piazzato le carte. Pulito e veloce. — Fece una pausa, mordendosi le labbra: — In realtà, è stato più difficile scoprire come volessero mettere in atto il rapimento. Ci ho messo secoli a capire chi fosse la spia, e a farla parlare senza che ricordasse qualcosa.
L’immortale sventolò una mano, attirando l’attenzione di uno dei bronzi di Riace ed ordinando un drink. Un Alexander. Ovviamente.
Ian si chiese se con esso gli avrebbero servito anche Alec e, a quanto pareva, Magnus parve quasi leggergli nel pensiero, perché gli rispose con qualcosa di molto attinente: — Questa storia non mi piace. Non se sono coinvolti i bambini. — incominciò, per poi aggiungere: — Alec è dovuto andare via. Alcuni Eidolon sono misteriosamente comparsi nel cuore di Manhattan, e l’hanno spedito a verificare. Anche in questo caso, c’è una versione ufficiosa: ovvero, smettila di comportarti da perfetto Cacciatore e lasciati andare. 
Il ragazzo lo fissò per qualche secondo, perplesso: — Cosa? 
Sorseggiando dal suo bicchiere da cocktail, Magnus inarcò un sopracciglio ricoperto di brillantini: — Andiamo, Ian. Da come ci cammini, sembra che prima di ultimamente tu non fossi mai stato in un Istituto. Hai un sacco di cicatrici a causa di vecchie rune, e molte delle quali non saprei riconoscerle, cosa ovviamente assurda, mentre le nuove sono solo quelle strettamente indispensabili. Non ti marchiavi da un po’, o comunque sia farlo ti dà fastidio, e sembra quasi che tu rimanga spiazzato ogni dieci minuti, in mezzo ai Nephilim. Da quant’era che non interagivi con loro?
Il finto moro si guardò intorno, sperando che nessuno li stesse ascoltando. Spiattellare in mezzo a tutte quelle persone i suoi più reconditi segreti non era una grande idea.
— Non è che non ero in contatto con loro, io… ero abituato ad un altro tipo. Uno molto div… — si bloccò improvvisamente.
Ad una parte di lui sembrò che, dal nulla, una grossa mano avesse incominciato a strangolarlo. All’altra, apparve invece che finalmente avesse ripreso a respirare.
Era perfettamente conscio di ciò che doveva fare: scusarsi e scappare via il più lontano possibile, anche solo per qualche ora, mettere abbastanza distanza tra loro da non poter correre verso di lui e aggrapparglisi addosso così forte da non poter essere più staccato. 
Magnus trattenne un sibilo quando il suo bicchiere crepitò, mandò qualche scintilla e poi gli si frantumò tra le mani, facendolo scattare indietro.
Era già pronto a esiliare perpetuamente dalla sua casa chiunque gli avesse fatto quello scherzo di cattivo gusto, per poi lasciar cadere lo sguardo su Ian e il modo in cui dalle sue dita si sprigionavano piccole fiammelle viola, arricciandosi in sottili spirali.
Oltrepassò cautamente i vetri rotti e lo affiancò: — Non credevo che una persona con la tua carnagione potesse essere più chiara che al naturale, ma evidentemente puoi sbiancare anche tu. Lo so che è sfiancante, ma eviteresti di svenirmi sul pavimento? Vorrei risparmiarti un trauma cranico. — consigliò, e non venne minimamente ascoltato. 
Alla fine, irritato, seguì gli occhi di Ian fino alla persona che stava osservando. E poi la riportò sull’ibrido, e così via ancora e ancora.
— Starai scherzando — rantolò poi, fissando ostinatamente la punta delle sue scarpe rosso rubino. Erano poche le cose che riuscivano a far abbassare lo sguardo a Magnus Bane, ma Ian ci era riuscito. Eccome.
Si passò le mani sulla faccia, scacciando via un po’ di fumo: — No, cioè, sul serio. Mi stai prendendo in giro! Okay, non lo stai facendo. Lilith, questo è assurdo. Aiuto. Va bene. Ho capito. Che devo fare?!
— Potresti stare zitto, tanto per cominciare — borbottò l’ibrido tra i denti.
— Zitto? Zitto! Così finisci di consumarlo con gli occhi, sì, certo. Che ne dici di uscire fuori? — propose, ma a giudicare dal ringhio più animalesco che umano che gli arrivò in risposta non era esattamente una buona idea.
Ponderò di mandarlo temporaneamente a nanna e di rispedirlo in stile pacco postale all’Istituto, ma poi probabilmente non gli avrebbe parlato fino alla fine dei tempi. 
— Un appuntamento al buio!
— Cosa? — Ian si voltò, curioso: — Che intendi?
— Che è ovviamente più ubriaco di un alcolista in un negozio di vodka, al momento, quindi tu puoi parlarci e lui non si ricorderà niente. Semplice ed efficace. — spiegò innocentemente lo Stregone. 








A svegliare Ian fu l’ennesimo trillo insistente del cellulare, che gli stava perforando così tanto la testa da fargli credere che qualcuno si stesse divertendo a torturarlo con un trapano.
Sbatté le palpebre, coprendosi il volto con una mano a causa della luminosità dello smartphone troppo alta.
La abbassò in fretta e controllò le notifiche, confuso.
Quattro chiamate perse da Jonathan.
Due chiamate perse da
Isabelle
Un messaggio da Magnus
Jonathan? L’aveva contattato? Non era nemmeno sicuro che ce l’avesse, il suo numero. Non che fossero in cattivi rapporti, ma ogni volta che dovevano avere una conversazione da soli sembravano due elefanti in una cristalleria.
Sbadigliò, pasticciando col touch-screen fino a quando non riuscì ad inserire correttamente il codice. Dire che ci vedeva poco era parlare per eufemismi. Comunque fosse, controllò per primo l’sms.  
Ti conviene svignartela, se non vuoi che ricordi qualcosa. 
Di che diavolo stava parlando? Chi non doveva ricordare cosa? 
Si rese conto che c’era qualcosa che non andava soltanto quando il suo cuscino lo schiaffeggiò.
No, meglio, un braccio gli piovve sulla faccia a peso morto.
Si scansò in fretta e furia, piombando giù dal materasso, mentre l’altro occupante si rannicchiava meglio nelle lenzuola. 
Mentre raccattava in modo automatico i suoi vestiti ed iniziava ad infilarseli, lampi della notte precedente incominciarono a manifestarsi nella sua memoria, in quel momento paragonabile ad un posto molto vuoto e molto annebbiato. 
Una mano leggera gli stava accarezzando il volto.
Prima le tempie, poi gli zigomi, la mascella, riusciva a sentire lo sfarfallio che scendeva lungo il collo ed il pomo d’Adamo, facendo inarcare tutto il suo corpo contro quello dell’altro uomo.
Sussultò quando una lingua calda ed umida gli avvolse un capezzolo, iniziando a succhiare.
Mancavano almeno dodici anni all’inizio della loro effettiva relazione, eppure senza nemmeno saperlo
lui riusciva sempre a toccare sempre tutte le corde giuste. 
Ian serrò le dita fra i suoi capelli, tirando appena, gemendo con la bocca chiusa fin quando non gli fu impossibile trattenersi, inspirando ed espirando pesantemente l’aria. 
Arrabbiato, questa era l’unica parola che riusciva a trovare per descrivere come si sentiva al momento.
Niente era andato storto, durante quella notte fumosa, assolutamente nulla, eppure non riusciva a fare a meno di pensare che in quel modo aveva appena finito di tradire suo marito. Cosa assurda, perché lui in persona stava in quel momento beatamente dormendo in una coltre di lenzuola scivolose. E allo stesso tempo, era un qualcosa che gli era mancato così tanto che, adesso che l’aveva riprovato, si chiedeva come sarebbe riuscito a farne a meno per tutto il resto del tempo che avrebbe passato lì.
Era come offrire droga a qualcuno che si stava disintossicando: il dolore passava, ma soltanto momentaneamente. E poi… poi ritornava alla carica, sembrando anche più forte di prima. 
S’infilò la camicia scura nei pantaloni e si allacciò la cintura più in fretta di quanto effettivamente volesse, e non del tutto certo di aver fatto un lavoro decente: per quel che ne sapeva, poteva aver indossato tutto al rovescio, perché non ci stava prestando la benché minima attenzione. No, tutto quello che riusciva a vedere era il corpo addormentato a meno di due metri da lui. 
Si abbassò per recuperare gli stivali da sotto al letto ed imprecò sotto voce quando sbatté contro di esso, con buona pace della sua supposta grazia predatoria, almeno quando si ritrovava a condividere la stanza con quella distrazione vivente.
— Sto iniziando a pensare che tu sia una qualche specie di sadomasochista — soffiò l’uomo, artigliando il materasso ai lati del suo corpo.
— Nah — Ian ansimò, strusciando il volto contro il ventre piatto dell’altro, leccandone con decisione le ossa del bacino: — Sono soltanto un grande fan dei preliminari.
Non era vero. Volendo essere del tutto onesti, detestava i preliminari come poche altre cose al mondo, ma era necessario. Non che stesse pensando molto, però sapeva benissimo che quella sarebbe stata la sua prima e ultima volta con lui, e visto che non ci pensava nemmeno ad andare a letto con qualcun altro, voleva assaporarla fino in fondo, centimetro di pelle per centimetro di pelle, anche a costo di metterci tutta la notte.
Insomma, doveva pur avere materiale nuovo per le sue sedute in solitaria. 

Infilò le mani nei boxer dell’immortale, sorridendogli: — Non dirmi che reggi per un solo round, perché stavo pensando di farti un regalino extra. 
Era già sulla porta, ormai, scarpe alla mano - le avrebbe infilate soltanto fuori dalla stanza, non voleva fare altro rumore -, cellulare in tasca e voglia di andarsene praticamente inesistente.
Esitò ed infine mandò a ‘fanculo il destino, gli angeli o chi per loro, decidendo che aveva avuto già abbastanza sfortuna per almeno sette vite. Quindi posò gli stivali accanto all’uscita e ritornò al bordo del letto - non era nemmeno un vero e proprio letto, in realtà, quanto più un grande e spesso materasso foderato e poggiato su un grosso rialzo di legno -, piegandosi su di esso.
Quasi tremava, ma fu capace ugualmente di scostare una ciocca ribelle dal viso del suo élios, lasciargli un bacio sulla fronte e poi, piano, un altro a stampo sulle labbra.
Buona vita, amore. 







Stringendosi meglio nella giacca a vento, la ragazza rabbrividì e si affrettò a varcare l’entrata della struttura.
Come tutte le cose lì, era ben nascosta, invisibile alla quasi totalità dei più, e se pochi riuscivano ad entrare ancor meno potevano uscire. 
Quando aveva detto al suo ex-padrone che si rifiutava di compiere la missione che le aveva assegnato, si aspettava il peggio. Insperabilmente, però, nessuna ritorsione era le era ritornata indietro.
O almeno, così aveva creduto. Si era avvicinata a lui, a Melchizedeck, per motivi così futili e stupidi da farle venire voglia di piangere tutte le sue lacrime per la propria stoltezza e, anche se quella terribile imitazione di uomo adesso non c’era più, qualcun altro aveva preso il suo posto. E, cosa più importante, perfino nella morte l’ibrido era riuscito a ripagarla per il compito mai svolto. Non solo se ne era occupato lui stesso, ma aveva anche fatto di peggio: aveva spazzato via da quel mondo con pochi e abili colpi sia il bersaglio a lei assegnato e mai ucciso sia la persona che, più di tutte - anche se involontariamente - l’aveva spinta ad unirsi alla causa.
Non l’avesse mai fatto.
Adesso si trovava nella stessa posizione dei loro soldati, dei loro prigionieri: raggiungere l’élite era stato quasi impossibile, ma scappare via da essa non era più contemplabile, in nessun modo, a causa del nuovo protagonista che calcava le scene. 
Melchizedeck Junior era enormemente più giovane di suo padre, cosa che gli dava ovviamente anche maggiore inesperienza, ma non era certa di quanto quello giocasse a suo favore, considerato che ciò che gli mancava in anni lo compensava in una genialità così vasta da aver valicato da tempo i confini della follia e una vena sadica piuttosto pronunciata. Ed in ogni caso, restava sempre troppo più grande di lei, e quindi avvantaggiato.
— Il padrone la sta aspettando nell’edificio principale, signora. Sala da pranzo. — si sentì sussurrare da un ibrido, mentre passava il loro controllo. 
Poverino. Sorvegliava l’unica cosa che non avrebbe potuto mai raggiungere: la libertà. 
C’erano momenti come quello in cui si sentiva esattamente come quello stupido carceriere: ancorata a qualcosa di orribile, di cui non avrebbe mai voluto far parte.
Ma visto che era ingenuamente andata a raccogliere limoni, adesso doveva fare la limonata, e sotto quel punto di vista poteva ritenersi abbastanza soddisfatta. 
Erano mesi ormai che Melchizedeck la spediva in ricognizione nel futuro e, sebbene all’inizio si fosse limitata a fare soltanto quello, ben presto si era resa conto che non c’era nessuno a fermarla dal modificare il corso degli eventi.
Era bastata una semplice soffiata, un paio di prigionieri fatti scappare, ed improvvisamente l’unica fazione abbastanza potente da costituire per loro una minaccia era venuta a sapere delle posizioni e degli spostamenti del loro benamato comandante. E così, ovviamente, l’ultimo della stirpe era morto, per fare spazio al suo, di dominio. 
Personalmente, aborriva Ian Morgenstern: non era altro che un presuntuoso, arrogante ibrido sfuggito al loro pugno di ferro per puro miracolo, che si credeva tanto importante solo perché sua madre aveva un certo nome – solo aveva avuto. Non c’era voluto tanto a disfarsi nemmeno di lei, anni avanti. 
Tralasciando le sue opinioni su di lui, però, doveva ammettere che i suoi burattini le avevano reso un buon servizio, ed il tutto senza rendersi conto di nulla: un paio degli anarchici, di quelli che l’albino non potevano nemmeno vederlo, avevano ben pensato di seguire le sue dritte ed ammazzare Melchizedek, aspirando alla gloria più grande.
Inutile dire che erano morti subito dopo, o quasi: tutto quello che sapeva era che i gemelli Herondale erano riusciti a metterci le mani sopra. Ci avrebbe potuto mettere la mano sul fuoco: gli assassini non sarebbero sopravvissuti alle successive ventiquattro ore.
Ma quelle notizie, ovviamente, non sarebbero mai arrivate alle orecchie di Melchizedeck. Sì, stava andando tutto per il meglio. 
 

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Capitolo 4
*** IV - Ciao, fratellone! ***


IV. 
CIAO, FRATELLONE! 
— Jocelyn è in attesa di essere riassegnata. Quel che è certo è che il Consiglio non la vuole indietro all’Istituto di New York, non dopo quello che è successo al piccolo Octavian e soprattutto considerando che aveva avuto la spia sotto il naso tutto il tempo, ma non è mai riuscita a capire che fosse Lucian. Stanno mettendo alla prova la sua sincerità, ho dovuto mandare l’Inquisitore a prendere Mellartach.
Isabelle sospirò. Aveva iniziato quel colloquio a distanza con suo padre da meno di dieci minuti, eppure aveva già più problemi che capelli in testa, e quello era dire tutto.
— Questo non gioca forse a tuo favore? Hai detto di voler essere eletta capo d’Istituto. — le ricordò suo padre, mentre il suo ologramma iniziava a sbiadire e poi ricompariva, più netto di prima.
La Shadowhunter spalancò la bocca, sorpresa: — Non credevo mi appoggiassi. — mormorò, evitando il contatto visivo. Anche se adesso lo vedeva favorevole, probabilmente lo sarebbe stato ancora per poco. Era per questo che aveva pensato di dargli la grande grossa notizia subito dopo la sua nomina ufficiale, qualora ci fosse stata, ma forse avvertirlo in anticipo che non aveva intenzione di andare da nessuna parte l’avrebbe incentivato a buttare l’idea della Spagna nel cestino. 
Robert pareva più stanco di quando l’aveva visto l’ultima volta, forse a causa della paura di essere assassinato a sua volta, o forse perché tentava ancora di arginare la fuga di notizie sugli esperimenti – esperimenti di cui, a quanto sembrava, non era mai stato messo al corrente. 
In ogni caso, lo vide arrotolarsi le maniche della camicia e sospirare: — Anche se non lo pensi, Isabelle, credo di conoscerti almeno un po’. Sei mia figlia, è naturale, e so benissimo che una volta che ti metti in testa qualcosa non mollerai la presa fin quando non sarà tutto come vorrai. — esitò e si appoggiò a qualcosa che lei non poteva vedere: — Spero solo che tu abbia fatto la scelta giusta. 
Wow. Quello era… sorprendentemente giusto, per una persona come suo padre.
— Quindi niente Europa? — domandò, giusto per esserne certa.
— Avrei potuto obbligarti?
La ragazza si morse le labbra: — Be’, in veste di Console… Non che ti stia dando nuove idee, eh. — osservò, abbracciandosi il busto. 
Ci fu qualche attimo di silenzio tra i due, come se entrambi stessero pensando a come mandare avanti la conversazione, poi Robert si schiarì la gola: — Isabelle, c’è… qualcosa che vuoi dirmi? — chiese infine, evidentemente a disagio.
— Forse. In ogni caso, quanti sono favorevoli alla mia elezione? 
— Non troppi, ma non vogliono incontrare il mio sfavore. Se non c’è nessun altro che si propone già da New York, il posto è tuo, soprattutto visto che l’ultima decisione sta a me. Tenendo conto di quanto hanno pressato per riportare Valentine a Idris e tenerlo sotto controllo, e allontanare Jocelyn… Non mi stupirebbe se tentassero di inserire qualche clausola, come un qualche tutore o insegnante che ovviamente non svolgerebbe soltanto quel ruolo.
Isabelle alzò gli occhi al cielo: — Non parlare come se tu non avessi i loro stessi obiettivi. — si lamentò, realizzando dopo che quella era la prima conversazione civile che aveva con suo padre da molto tempo a quella parte.
Quindi, volevano affibbiare loro un burattinaio: non avrebbero osteggiato la sua nomina soltanto perché pensavano di poterla controllare, o almeno questo era quello che si coglieva fra le righe. 
— Hai altro da aggiungere? Devo andare, ho una riunione.
— Certo, tu hai sempre qualcos’altro da fare, piuttosto che passare del tempo con i tuoi figli. — si lasciò sfuggire la Cacciatrice, pentendosene immediatamente. Non era quello che voleva dire, se puntava ad evitare un altro litigio: — Lascia perdere. Come la prenderesti se ti dicessi che Alec e Magnus si sposeranno?
Il Nephilim incrociò le braccia al petto ed inarcò un sopracciglio: — Lo faranno?
— Sto parlando ipoteticamente. Ma sì, sono certa che presto o tardi questo succederà. — rispose, rendendosi conto che la schiettezza ultimamente non era proprio il suo forte. Non che i giochi di parole le venissero bene, ma erano una valida alternativa allo spiattellare la verità nuda e cruda. 
— Non è il momento adatto per perdersi in conversazioni ipotetiche.
— Con quanto ci hai impiegato, avresti potuto benissimo aver già finito di rispondere! Avanti! 
Robert alzò gli occhi al cielo: — Non lo so. Non è esattamente nella mia lista di priorità, al momento. E comunque, è sempre lo stesso discorso. Pur volendolo, non posso impedirlo, se desidero che Alec non mi odi più di quanto non faccia adesso.
— Okay — Isabelle si sedette alla scrivania, quasi credendo che potesse essere utile come scudo contro un’immagine luminescente: — Ho qualcosa di vero da dirti, allora, e sappi che non sono psicologicamente pronta ad una scenata, quindi in quel caso richiuderò la chiamata ancor prima che tu possa finire di pronunciare il mio nome. 
Calò ancora il silenzio. Lo Shadowhunter si umettò le labbra con la lingua, mentre una lista di ipotesi si faceva strada nel suo cervello. Ed ognuna gli piaceva meno della precedente.
Alla fine lasciò scorrere lo sguardo sulla quasi diciannovenne, scartandole velocemente una ad una e rimanendo con le più probabili. 
Chiuse gli occhi ed inspirò profondamente, cercando di scacciare la repulsione che gli stava montando dentro. Poteva non comprendere nessuna delle sue scelte, ma quella era Isabelle: aveva già perso un figlio per non aver accettato le sue azioni, e l’altro praticamente non aveva avuto modo di conoscerlo. 
— Sei incinta — concluse infine, con voce stentorea. Non gli ci vollero altre parole per capire di aver centrato il segno, la faccia di Isabelle parlava da sola. 
— È di Jonathan? 
Ancora una volta, sarebbe bastato lo sguardo indignato di lei a dargli una risposta affermativa, ma ascoltò comunque il resto: — Credi che abbia l’abitudine di dormire in giro con più persone contemporaneamente? 
— Non ho mai detto questo. 
— Era quello che sottintendevi.
— Hai intenzione di tenerlo?
La corvina spalancò le braccia: — Certo, altrimenti perché credi che te l’avrei detto?! 
Robert non si scompose. Meglio, esteriormente non si scompose: — Vuoi sposarlo?
— Cosa?! 
— Jonathan. Lo sposerai? 
Lei lo guardò con tanto d’occhi: — Non lo so, papà! Ho diciannove anni e che diavolo, non siamo più nel ventesimo secolo! 
L’immagine tremolò ancora, ma nessuno dei due avrebbe dimenticato l’espressione dell’altro per molto tempo a venire: — Avrai la tua nomina, Isabelle, ma sposati quello che hai voluto e pedala sulla bicicletta che ti sei scelta, perché da me non avrai altro aiuto. 








— Tu sai dov’è quel bambino.
Il giardino, se tale si poteva definire, era quieto come uno stagno in inverno, come sempre, in realtà. 
Non c’era erba a terra, solo asfalto, fino a quando non si arrivava alle marmoree scale che portavano all’ingresso dell’Istituto, ma quello era un altro discorso. Dopo la battaglia lì avvenuta alcuni mesi prima, nessuno si era davvero preso la briga di rimettere a posto.
Certo, tutto il sangue era stato lavato via e adesso le uniche macchie rosse che si potevano scorgere erano quelle dei fiori nelle aiuole, ma oltre al loro colore di essi colpiva anche un’altra cosa: erano, come dire, spiegazzati. 
Ian non li avrebbe definiti calpestati nel vero senso della parola, perché più che da piedi erano stati investiti da interi corpi, difendendosi solo con delle misere spine.
In ogni caso, anche quelli che non erano stati il luogo di atterraggio di qualche povero malcapitato, non avevano un bell’aspetto. Forse perché ormai soltanto la pioggia provvedeva al loro bisogno di acqua, o forse perché il sole intenso li stava facendo avvizzire più velocemente del normale, ma magari per tutte e due le cose.
I boccioli, così belli e piacevoli ai sensi, stavano morendo per qualcosa di altrettanto positivo e anelato, la luce. Non era assurdo, era più che altro una sorta di implicita e perversa lezione. 
La bellezza, dopotutto, era effimera quanto - se non maggiormente - dei delicati petali, ma non soltanto; per mantenersi, infatti, aveva bisogno di maggior sacrificio e dedizione di quanto un fiore avrebbe mai necessitato. Molto spesso, dietro tutto quel fascino, quel carisma posseduto da persone che ammaliavano al punto da diventare il centro del sistema solare, il sole, veniva posseduto a caro prezzo. Al prezzo del sangue e dell’orrore, e così il ciclo si ripeteva e la persona era sia distruttrice che vittima. 
Ian questo lo sapeva bene, anzi, probabilmente ne era cosciente più di chiunque altro degli abitanti di quella cittadella. L’aveva, no, lo provava sulla sua pelle, in effetti. 
— Che cosa? — chiese, come scendendo dalle nuvole. Non cercava di discolparsi, era semplicemente così assorto nella sua riflessione da aver perso di vista tutto il resto.
— Ho detto, tu sai dove hanno portato Octavian. E tutti gli altri, se è per questo. — ripeté Jonathan, appoggiandosi ad una delle panchine di ferro battuto. Una parte di lui credeva di riuscire ancora a sentire il sangue dei morti che era schizzato sul metallo e, in verità, questo non lo disgustava particolarmente. Era un odore familiare, come potevano esserlo le braccia di una madre per un bambino. Non era forse stato il suo più vecchio compagno di vita, il sangue? Ne aveva imbrattate le mani da che avesse memoria. 
— Vengo dal futuro. È ovvio che io sappia tanto. Ti tiene sveglio la notte? 
— Cosa? 
— La sorte di quei bambini.
Lo Shadowhunter aggrottò la fronte: — Non particolarmente, non più di altro. In ogni caso, so che non moriranno.
Il maggiore si accigliò, distogliendo lo sguardo dalla piccola fontana sbeccata che divideva i cespugli dalla panchina e posandolo sul padre: — Come puoi esserne certo? 
— Riesco a dormire con degli innocenti sulla coscienza, ma non credo che tu lo faccia. C’è qualcos’altro che deve succedere, qualcosa che sai cambierà la vita di qualcuno. È fin troppo generico, vero? Non li lascerai al loro destino, stai tentando di incoraggiarlo.
Dopo un attimo di silenzio l’ibrido estrasse una sigaretta dal pacchetto che teneva nella tasca destra dei jeans, e l’accese con l’accendino che aveva nella sinistra. Prese il primo tiro e poi soffiò fuori il fumo eccedente, sorridendo: — Hai un’alta opinione di me. 
— Non alta. Solo accurata.
— Davvero? Cosa te lo fa dire? 
Jonathan si sarebbe giustificato con una frase simile a “Prendila come una sensazione”, ma non era vero. Non si trattava né di un sesto senso né di uno strano aggrovigliarsi delle viscere, non che negli ultimi tempi non avesse avuto modo di sperimentare quelle sensazioni, però erano del tutto secondarie ed insignificanti.
— Un insieme dei tuoi comportamenti, suppongo. — disse infine, arricciando il naso alla puzza penetrante della nicotina: — Non penso che partecipare ad un funerale in più o in meno ti turberebbe al punto da segnarti, ma hai… una sorta di linea di condotta? O un ponte che non puoi attraversare, vedila come vuoi.
Un codice. Quella era la definizione propria secondo Ian, almeno. 
Aveva diciotto anni.
Quell’età, come per molti altri, era stata densa di tanti, se non troppi, cambiamenti. Era portato a credere, comunque, che questi fossero del tutto diversi da quelli dei suoi coetanei. 

— Hai ucciso il Re — Christopher si era lasciato cadere accanto a lui sul divanetto di pelle grigia, e sembrava del tutto a suo agio.
Considerando ciò che era accaduto alcuni giorni prima, alla fine, aveva tutto il diritto di apparire rilassato. Dopo una cosa del genere, nulla poteva più essere così spaventosa – e poi, Ian era lieto di constatare che, sebbene la sua riservatezza non accennasse ad andare via, la timidezza era invece svanita quasi del tutto. Okay, no. Ma almeno in famiglia facevano progressi.

— Quindi? — chiese in risposta, osservandolo: nessuno avrebbe potuto negare la loro parentela, erano così simili che, se Christopher non fosse stato lievemente più giovane, avrebbero potuto pensare che Ian fosse il terzo gemello, assieme a Regina. L’unica differenza fra loro due era che, a suo tempo, Ian era stato costretto ad uscire fuori dal guscio. Aveva la stessa età di suo fratello quando l’avevano sbattuto a forza fuori dalla sua zona comfort. 
— Dovresti scegliere un titolo. — rispose semplicemente il più piccolo, stiracchiandosi: — Mi piace Bucarest, è un bel posto. Si sta bene. Era in previsione di questo che ci hai fatto studiare il rumeno? 
— Ovviamente. E sei qui per suggerirmene uno? — continuò Ian, domandandosi se fosse davvero quello il motore che spingeva avanti la discussione. 
— Sì — Christopher si rimirò le unghie per qualche attimo, perso in pensieri che l’altro non riusciva a decifrare – né voleva farlo, del resto.
— Allora? 

— Che ne pensi di Princeps? 
Il maggiore dischiuse le labbra e si raddrizzò meglio sulla poltrona, voltandosi per poter guardare l’altro negli occhi: — Come Augusto? 
— Già. Significa “primo fra pari”, no? Non credo che quella marmaglia di sbandati possa essere definita pari, però manda un bel messaggio.
— Non è proprio primo fra pari. È più come primo cittadino e basta, primo fra le genti, al massimo. La tua traduzione va bene, ma è fatta spesso quando ci trovi vicino
senatus. Princeps senatus. 
Christopher alzò gli occhi al cielo: — Hai capito che intendo. È ancora meglio, non trovi? 
— Non lo so. Non mi piacciono i titoli e basta. Sono troppo pomposi.
— Andiamo, a tutti farebbe piacere qualcuno che in modo ossequioso chiede “C’è qualcosa che posso fare per lei, Princeps?”
Ian rise e, senza potersi trattenere, gli scompigliò i capelli: — Hai ragione. È solo questo che volevi dirmi? 

Il quattordicenne si alzò e scrollò le spalle, per poi raggiungere la porta. Prima di varcare la soglia, però, si volse: — Stai facendo tutto questo per sistemare la situazione, Ian. Così speri. Così speriamo tutti, in realtà. Non dimenticartelo, c’è una linea sottilissima che divide te e l’uomo di cui hai preso il posto. Non vorrei essere nei tuoi panni. — sbuffò, irritato con se stesso: — Non ti sto facendo la predica, dico solo di non spingerti al punto da rimpiangere quello che stai facendo. Abbi un codice. 
Parve aver concluso, perché era già arrivato nel corridoio, ma si ricredette ancora: — Ah, Ian?
— Sì?
— Buona fortuna. Sai per cosa. 

Il ventiquattrenne si riscosse soltanto quando avvertì lo sguardo di Jonathan ben fisso su di lui: — Non sei nel torto, ma per forza di cose stai tralasciando parecchi fattori importanti — si costrinse a dire infine, soppesando ogni parola e pronunciandole tutte come se gli venissero strappate a forza. 
Lasciò andare fuori ancora una boccata di fumo e per nessun motivo particolare la guardò fin quando questa non si disperse nell’aria, alzando poi gli occhi verso il cielo.
C’era qualcosa che non andava con il meteo, ultimamente.
In quel momento la temperatura era altissima, abbastanza da fargli venire voglia di strapparsi la maglietta di dosso e buttarsi in acqua – peccato che lì non ci fosse nessun posto dove nuotare.
Altre volte, però, l’azzurro brillante che ora svettava sopra di loro s’incupiva fino a rasentare il colore dell’inchiostro, anche di prima mattina. La temperatura calava, o diveniva afosa, oppure improvvise raffiche di vento scuotevano le cime degli alberi.
Non sembrava qualcosa di naturale, ma Ian non ne sapeva nulla. Era già stato difficile arrivare a mettere le mani sulle informazioni che aveva, dal futuro, figurarsi se si era preoccupato delle condizioni atmosferiche.
Evidentemente, aveva fatto un grosso sbaglio, o quello era l’ennesimo squilibrio provocato dalla sua presenza lì. Ma da chi? 
— Quindi suppongo che ci lascerai tutti a brancolare nel buio. Proprio una bella cosa. — borbottò Jonathan. Aveva le informazioni che gli servivano per riuscire a risolvere quel rompicapo a portata di mano, ma sapeva che non sarebbe riuscito a scucire ad Ian nemmeno una parola di bocca, e la tortura non era un’opzione praticabile.
— Certe volte ti tirerei un pugno in faccia — si lamentò quindi, alzando il capo quando, quasi improvvisamente, una cappa scura sembrò avvolgerli. Grossi nuvoloni scuri e carichi di pioggia si erano fatti inesorabilmente strada verso di loro, e non sembravano presagire nulla di buono.
Ian scrollò le spalle con quella che l’altro poté solo categorizzare come un’irritante faccia da schiaffi, per poi spegnere il mozzicone sotto la suola dei suoi anfibi: — Allenamento a porte chiuse? — propose, voltandosi verso l’ingresso dell’Istituto.
— Paura che gli altri ti vedano perdere?
L’ibrido rise: — Nah, voglio soltanto salvare il tuo povero orgoglio che sarà presto ferito, sai, per esserti fatto stendere. 






Tra tutto ciò che avrebbe potuto accadere, quello era esattamente ciò che aveva cercato di evitare.
— È sedato, mia signora — azzardò un ibrido, accennando col mento al ragazzo accasciato malamente in un angolo della cella, le braccia tenute su da un paio di strette manette.
All’inizio, quando le avevano riferito della cattura di Ian Morgenstern, non aveva potuto non esultare, ed ordinare che venisse portato nel passato. Certo non era la mossa migliore, considerata la presenza di Melchizedeck, ma anche se avesse scoperto l’inganno lei ne sarebbe uscita pulita: si sarebbe giustificata definendo l’omicidio una sorta di offerta o dono per lui, una sorpresa. 
A giudicare dalla psiche perversa di quel pazzo, non solo ci avrebbe creduto, ma ne sarebbe anche stato felice.
— Questa non è la persona che stavamo cercando! — ringhiò, schiaffeggiando il servo davanti a lei con forza tale da voltargli il viso. Bene. 
Avevano messo su una pantomima niente male, i Morgenstern. Nessuno se n’era accorto fino a quando non era… be’, fino a quando non era stato troppo tardi. 
Supponeva non fosse stato difficile far passare un fratello per un altro, considerato quanto si assomigliavano.
Ma il problema non era l’aver incarcerato il ragazzo sbagliato, no… Se loro erano caduto in errore, e se il posto di Ian era stato preso da suo fratello, lui dov’era?
Era lì, ovviamente. Si era unito alla banda di viaggiatori temporali, per quel che ne sapeva, e loro dovevano muoversi e agire prendendo in considerazione sempre la peggiore delle ipotesi. 
E se fosse venuto a sapere di quello che avevano fatto… Dovevano spostarsi in fretta. Cambiare scacchiera, trasferire le pedine. 
— Va’ a chiedere udienza a Melchizedeck. Di’ che è una questione di vita o di morte. — si decise infine, praticamente cacciando l’uomo dalla stanza. 
Prese un profondo respiro e si portò le mani alle tempie, massaggiandosele con delicatezza.
Se quel che temeva era accaduto, presto non ci sarebbe stata più pace fra loro. Nel caso in cui la loro cattura fosse stata una persona qualunque, certo… Ian non avrebbe avuto modo di sapere che qualcuno dal suo presente era stato portato indietro.
Sfortunatamente, avevano preso qualcuno che viaggiava sempre in coppia, come un’offerta due al prezzo di uno. E quindi aveva appena scatenato un effetto valanga di proporzioni gigantesche, e per sfuggirgli doveva mobilitare un’enorme massa di esperimenti non del tutto senzienti, i soldati, le spie e quei pochi membri della famiglia che ancora restavano in piedi, e trasformare quel posto in una città fantasma. 
Non solo questo rallentava enormemente i suoi piani, ma faceva lo stesso anche con quelli di Melchizedeck, e sapeva che sarebbe stata lei a pagare per l’accaduto. 








Isabelle si ritrasse con una risatina, rabbrividendo a causa dei baci che Jonathan le stava posando sulla spalla.
— Smettila! — si lamentò, sorridendo: — Sai che devo andare! Lascia che mi prepari, dai. 
Il Nephilim alzò gli occhi al cielo, procedendo poi a liberarla dall’intrico di lenzuola con cui si era volutamente coperta: — Isabelle, l’incontro è dopo pranzo, e sono le otto del mattino.
— Ma devo andare ad Alicante!
— E ci devi arrivare a nuoto, corsia preferenziale America-Europa? — continuò a prenderla in giro il ragazzo, piegando le labbra in un broncio esagerato. Batté una mano sul materasso accanto a sé, invitandola a sdraiarsi di nuovo: — Il sole splende, gli uccellini cantano, Ian è con Ian, e sì so perfettamente quanto questa frase suoni assurda, e tu non hai nulla da fare per almeno un paio d’ore. Non è come se ci fosse la ressa per prendere in mano le redini di questa banda di pazzi. — 
Con un sospiro, Isabelle si sdraiò di nuovo: per quanto provasse a dimenticarlo, l’ansia per quel colloquio le attanagliava le viscere. Non soltanto perché, volente o nolente, ne andava della sua carriera, ma perché anche tutti gli altri dipendevano da lei, in quel momento. Se non fosse stata scelta, avrebbero mandato qualcuno di esterno, e loro stavano mantenendo troppi segreti, era più che ovvio che prima o poi qualcuno di essi sarebbe saltato fuori, specie se il Consiglio sceglieva qualche bravo ficcanaso che avrebbe riportato loro tutto. E ancora…
— Dovremmo parlarne meglio, sai… Dei… dei, insomma, dei bambini. Definire roba. — borbottò, poggiando la testa sul suo stomaco. Non era comodo quanto il cuscino, ma dato che quello non lo trovava, si sarebbe fatta bastare ciò che aveva a disposizione. 
— Definire roba — le fece il verso Jonathan: — Certo che lo so. Ma non credi di avere fin troppi pensieri per la testa, al momento? Fa’ quello che devi fare, e poi definiremo tutto quello che vuoi. — propose, iniziando ad accarezzarle i capelli. Aveva le dita leggere, e con esse percorse la sua mascella ed il suo collo, scese fino al petto e più giù, ed infine la tirò su in modo che fossero alla stessa altezza, fronte contro fronte.
Isabelle sospirò per l’ennesima volta da quando si era svegliata - ovvero nemmeno un’ora prima - ed annuì, facendo del suo meglio per rilassarsi. Gli sorrise e si sistemò meglio, sedendosi sopra il suo bacino. 
Si sporse verso di lui: sembrava quasi che stesse per prendere d’assalto le sue labbra, ma alla fine si fermò accanto al suo orecchio. Per un attimo fece saettare la lingua, sogghignando: — Non osare ribaltare le posizioni. Giuro che se lo fai ti butto giù dal letto. 
— Tremo! 
La Nephilim lo guardò per un attimo da sotto le lunghe ciglia, muovendosi su di lui come se si stesse stiracchiando, poi trattenne una risata e ritirò prima una gamba e poi l’altra, affrettandosi verso l’angolo più lontano del letto.
Si fermò soltanto quando, precipitosamente, quasi cadde a terra: — Be’? — chiese, inarcando un sopracciglio con aria di sufficienza: — Che stai aspettando? Vieni a prendermi, no? 
Non aveva nemmeno finito di parlare che già era in piedi, e ciondolava svagatamente mantenendosi con una mano ad una delle colonne del baldacchino. Il momento non durò molto, però, perché subito dopo Jonathan scattò verso di lei, costringendola ad arretrare verso la porta del bagno.
Sgusciò via all’ultimo minuto, quando ormai erano a meno di venti centimetri di distanza, ridendo: — È questo il meglio che riesci a fare? — lo canzonò, scappando in direzione dell’unico rifugio rimasto, ovvero sotto il letto. 
Ne uscì altrettanto velocemente, però, per evitare di venire artigliata per le caviglie.
La sua intenzione, be’… Avrebbe voluto prenderlo di sorpresa e buttarsi su di lui in modo da riuscire poi a darsela a gambe, ma non prese in considerazione la forza con cui lui la tenne stretta subito dopo essere riuscito a stringerla in una sorta di strambo abbraccio.
Rotolarono entrambi a terra, infagottandosi nel grosso tappeto bianco. 
— Forse dovremmo farlo sul letto. Sai, per dare il buongiorno ai due colombi che ieri notte si sono dimenticati di disegnare una dannata runa del silenzio. — propose la corvina. 
Un attimo dopo qualcosa di umido e caldo le accarezzava la pelle: riusciva a sentire l’interno delle labbra di Jonathan che scorrevano lungo la sua schiena, la sua lingua che le lambiva le anche: — O forse no — concluse, mentre le mani di lui s’insinuavano più sotto, soltanto per prenderla di peso e capovolgere le posizioni: era lei ad essere di nuovo sopra, adesso. 
Si rese conto che c’era qualcosa che non andava solo quando una strana puzza di bruciato invase l’aria, ovvero all’accumularsi del quarto messaggio di fuoco sul pavimento. 
— ‘Fanculo — borbottò tra i denti l’albino, per poi prendere un profondo respiro, raddrizzarsi e andare a vedere chi era il barbaro che pretendeva una risposta a quell’ora incivile del mattino. 
Quando finalmente lesse le missive, tutte più o meno uguali e vergate in caratteri eleganti, molto simili a quelli stampati, sbuffò platealmente: — Iz, cambio di piani.
— Cosa? — Isabelle aggrottò la fronte e si rimise in piedi, mentre un brutto presentimento si faceva strada in lei.
— Hanno spostato l’orario. Contro tutti i pronostici, ci sono parecchi idioti che vogliono prendere la direzione di questo posto. L’incontro è fissato tra due ore, il Portale lo apriranno qui tra una e mezza. 
Non aveva nemmeno finito di parlare che la ragazza già era corsa verso l’armadio, aveva recuperato qualcosa da esso e si era tuffata per la seconda volta in nemmeno trenta minuti verso il bagno: — Prendi i fogli sulla scrivania e mettili sul comodino, vicino alla mia frusta! — si sentì urlare dietro. 
— Certo, certo. — mormorò lui tra sé e sé, chiedendosi in quale momento esattamente avesse smesso di pensare a come fare le scarpe a tutti lì dentro ed uccidere suo padre, e incominciato a preoccuparsi realmente per le persone con cui viveva da quasi un anno. 
Era stato così graduale che voltarsi indietro e ricordarsi quel che c’era prima era scioccante, come se qualcuno gli avesse improvvisamente tolto la terra da sotto ai piedi. 
Fece come gli era stato detto, si lavò a sua volta cercando di non prestare attenzione ad una Cacciatrice molto nuda intenta a prepararsi davanti allo specchio e si vestì. 
Alla fine, gettò un’occhiata all’orologio sulla parete e calcolò in fretta che Isabelle non sarebbe uscita dal suo rifugio per almeno un’altra mezz’ora, quindi le uniche cose che poteva fare erano tentare di preparare qualcosa di decente da mangiare o andare a svegliare Ian, e visto che lui e i fornelli non andavano proprio d’accordo, decise per la seconda.
In realtà, da quando sia Maryse che Jocelyn erano per ovvi motivi scomparse dalla circolazione e Valentine le aveva poco dopo seguite, i pasti lì dentro erano qualcosa di infernale. Specie perché avevano concordato di cucinare a turno, e perciò molte volte finivano con l’andare a pranzo fuori. Taki’s probabilmente sarebbe stato capace di pagarsi l’affitto anche solo con i loro conti. 
Ma Ian non era difficile da accontentare, almeno al mattino: tutto quello che doveva fare era recuperare dei biscotti e mettere a bollire il latte. Più facile a dirsi che a farsi, visto che l’unica cosa che riusciva a fare era bruciarlo - e il suo caro, carissimo figlioletto lo detestava freddo. 
Perché mai l’aveva abituato alla colazione europea e non ai cari e vecchi cereali americani? Ah, già. Gli Stati Uniti erano una novità anche per lui. 
— Ehi. — disse un attimo dopo, prima ancora di alzare lo sguardo ed osservare il corridoio. Era naturalmente abituato a tenere sempre conto dei rumori intorno a lui, specie dei passi, ma quando si trattava di sua sorella in particolare modo.
Non perché avesse una qualche sorta di predilezione - in realtà, tendevano ad evitarsi per quanto possibile da quando era saltato fuori l’increscioso episodio del bacio a Idris - per lei, bensì poiché la runa che condividevano si accendeva metaforicamente ogni volta che si trovavano ad una certa distanza.
— Buongiorno — si sentì rispondere, e subito dopo Clary sbadigliò: — Dove stai andando? 
Fece spallucce: — Ian. Ti va di fare la protagonista di Hell’s Kitchen, oggi? 
Da quel momento in poi, be’… Quel che c’era di positivo era che tutti avevano imparato una lezione che non avrebbero dimenticato mai: bambini affamati, cuochi inetti e ingredienti vari in bella vista non andavano d’accordo. Per niente. 
E ovviamente, fu ancor più difficile ripulire il tutto prima che Isabelle facesse la sua comparsa, per non rischiare che desse di matto per colpa di un po’ - tanta - farina sul pavimento. Dannata Clarissa e la sua brillante idea di fare i pancake. 
— Sai, dovremmo iniziare ad insegnargli a leggere, almeno. Prima era Hodge che si sarebbe occupato di queste cose, ma visto che fino ad ora non c’era stato nessun bambino… — La rossa distolse per un attimo l’attenzione dal biscotto al cioccolato che stava divorando: — Suppongo sia meglio iniziare ad organizzarci tra noi piuttosto che aspettare che il Conclave mandi qualcuno. O che pretendano di portare Ian lì per tenerlo sotto controllo. 
Non era un’idea malvagia: certo era troppo presto per pensare di iniziare suo figlio all’arte della guerra - specie perché doveva ancora convincerlo che no, la maggior parte delle altre armi non ferivano come le fruste di elettro, o almeno non danneggiavano chi le impugnava -, ma non aveva senso aspettare ancora per illustrargli l’alfabeto. 
— Ovviamente — rispose infine, osservando suo figlio beatamente impegnato ad affogare delle stelline al cacao nella sua scodella di latte: — Potresti chiedere all’angioletto di mostrargli le note del pianoforte. 
Clary inarcò un sopracciglio: — Potrei? Tu la lingua non ce l’hai? 
Per tutta risposta, Jonathan sbuffò e le volse le spalle, iniziando a lavare la sua tazza piuttosto che rispondere.
— Andiamo, ultimamente parlate anche civilmente. Lo so che sotto sotto ti sta simpatico! 
— Non è quello il punto! — sibilò, irritato. Semplicemente odiava il fatto che ci fosse qualcosa che Jace sapesse fare e lui no, visto che mentre il caro fratellino imparava a suonare il piano lui doveva fare altro. 
Va bene, va bene! Oh, ciao, Iz. Cereali o biscotti? 
Isabelle alzò lo sguardo, rivolgendole un cenno del capo: — Nessuno dei due, grazie. Potrei vomitare anche il mio stomaco, per quanto sono nervosa. 
Clary aggrottò la fronte, cercando di fare mente locale. Non aveva avuto modo di interessarsi molto di quello che stava accadendo agli altri, semplicemente perché aveva passato le sue giornate a discutere con il tuttofare - ufficialmente mediatore, ma tutti sapevano leggere tra le righe - del nuovo Inquisitore, tentando di scucirgli qualche informazione in più su dove sua madre sarebbe stata portata. 
Erano mesi ormai che passava attraverso una trafila infinita di processi, e fino ad ora l’unica cosa che sapeva era che non sarebbe stata condannata né alle carceri di Idris né alla Città di Ossa per mancanza di vere prove d’accusa, nonostante parecchi membri del Consiglio avessero tentato qualunque espediente per ottenere il verdetto più duro. Per quel che ne sapeva, era ancora ad Alicante, in attesa di essere riassegnata ad un Istituto molto molto lontano da New York. 
— Oh! È per il colloquio, vero? — esclamò infine, ricordandosi all’ultimo secondo che Jace le aveva parlato di qualcosa di simile, la sera prima: — Izzy, non… non vorrei aggiungere più carne sul fuoco, ma nel caso in cui ti ritrovassi a parlare da sola con tuo padre, potresti chiedergli che cosa hanno intenzione di fare con mia mamma? 
La Cacciatrice annuì con aria assente, per poi voltarsi verso Jonathan: — Quanto manca? 
— Meno di cinque minuti. Ancora non capisco perché vengano perfino a prenderti, ma in ogni caso, non è questo il punto. Rilassati, non stai per essere processata; e te lo dice uno che è stato davvero interrogato con Mellartach. — provò a rassicurarla Jonathan, con ovvi quanto scarsi risultati. 
— No, ma hai detto tu che improvvisamente c’è una marmaglia di gente con un interesse anomalo per questo posto. E sai com’è, dopo gli ultimi avvenimenti non credo che vogliano venire ad ammirare la tappezzeria — borbottò lei tra i denti, lasciando visibilmente scivolare lo sguardo su Ian. 
Il mezzo demone serrò le labbra e le si avvicinò, sotto lo sguardo incuriosito della sorella, e poi si sporse per sussurrarle in un orecchio: — Sai che ci avrebbe avvertito se stesse per accadere qualcosa di serio. E in ogni caso, troveremmo il modo di uscirne fuori. 
— Come, facendo una bella cenetta tutti insieme?! 
— Pensavo a qualcosa di più drastico, in realtà. 
— Sì, così dopo dovremmo nasconderci sotto un sasso. 
Jonathan la guardò allusivamente da sotto le ciglia: — Fidati di me, quella sarebbe l’unica cosa di cui non avremmo da preoccuparci. 
— Continuo a non sentirmi sollevata. — Isabelle si staccò da lui per picchiettare delicatamente sulla spalla di Ian: — Ci vediamo dopo, puffetto.
Il bambino mise su lo stesso broncio che usava sempre ogni volta che si sentiva chiamare così: — Io non sono blu! E nemmeno piccolo! 
La corvina rise: — Certo, certo. — Gli posò un baso sulla fronte e si tirò su, lisciando l’abito per cancellare delle pieghe invisibili e dirigendosi infine verso la biblioteca, dove suo padre le aveva detto che avrebbe aperto il Portale.
Sentì Clary chiedere a Jonathan di cosa avevano confabulato fino a mezzo secondo prima, lui risponderle di badare per un attimo a Ian e dopo i suoi passi che si avvicinavano. 
— Stendili tutti, tigre — le disse ridacchiando e sporgendosi per darle un bacio leggero, mentre una luce azzurrina incominciava ad illuminare la stanza e la sagoma di Robert Lightwood si delineava nel varco appena creatosi.
— Mondanofilo! — Praticamente gli urlò dietro, spingendo allo stesso tempo il nuovo arrivato di nuovo verso il passaggio. Meglio evitare un incontro potenzialmente disastroso tra quei due. 
Quando il muro si richiuse del tutto, Jonathan si stiracchiò per bene: quella giornata era appena cominciata e già non si prospettava delle più leggere. 
— Clary mi ha convinto a partecipare al progetto ABC. — esordì Ian pienamente cresciuto, entrando nella stanza con al seguito sia il clone formato petit che la stessa Nephilim. 
— Progetto ABC?
— Volevo chiamarlo Insegniamo a Leggere ad Ian, ma dice che è troppo lungo — spiegò il ragazzo, sogghignando divertito. 
— Perché lo è! — protestò immediatamente lei, facendolo arrivare a ridacchiare. 
— Papà, la mamma ha dimenticato qualcosa — Jonathan spostò lo sguardo su suo figlio, che veniva trotterellando verso di lui.
— Dovevi darle un disegno? — chiese. 
— No, ma sta tornando indietro. — rispose pazientemente il bambino, come se stesse cercando di spiegare a far di conto ad un babbuino: — Guarda! — esclamò, puntando il dito verso la parete. 
C’era davvero qualcosa che non andava. La carta da parati si stava dissolvendo di nuovo, quasi liquefacendosi in quello che sembrava fumo biancastro, come se qualcuno avesse gettato secchiate di acqua calda su del ghiaccio secco. 
Piccolo problema: la persona che stava uscendo da lì non era Isabelle, proprio per niente. 
Jonathan non ci avrebbe messo la mano sul fuoco, vista la spessa nebbia che ancora circondava il nuovo arrivato, ma era portato a pensare che si trattasse di un ragazzo piuttosto alto, magro come un fuscello e, per quanto potesse sembrare assurdo, in pigiama. 
Quando finalmente riuscì a vederlo meglio sussultò.
Lo sconosciuto, dai tratti e i colori chiaramente inconfondibili, si voltò verso Ian adulto e sorrise a labbra serrate. Sembrava essere appena riemerso dall’inferno. 
— Ciao, fratellone!
 

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