I Am Lord Voldemort

di Grim_KingCobra
(/viewuser.php?uid=976605)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 1 ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 2 ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 3 ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO 4 ***



Capitolo 1
*** PROLOGO ***


Little Hangleton era una piccola cittadina strapiena di babbani. Per una delle più importanti famiglie di maghi, la più virtuosa sicuramente, era un insulto abitare in un piccolo villaggio sulle colline inglesi circondati da persone che non avevano neanche una vaga idea dell’importanza del sangue che scorreva nelle loro vene. Marvolo Gaunt e il figlio Morfin sapevano bene cosa volesse dire discendere direttamente da Salazar Serpeverde, uno dei quattro fondatori della scuola di magia e stregoneria più famosa e rinomata al mondo: Hogwarts. La secondogenita Merope, però, non sembrava molto incline alle arti magiche, soprattutto quelle oscure, predilette dalla degna discendenza di Serpeverde. Questa mancata predisposizione trovava motivazione, in parte, nei continui abusi, fisici e psicologici, da parte del padre e del fratello. Nonostante il clima familiare decisamente poco confortevole, la fragile Merope non trovò mai il coraggio di abbandonare la casa paterna e, anziché ribellarsi ai soprusi, soffriva in silenzio vedendo la sua magia lentamente abbandonarla, insensibile e inerme. L’amore, sentimento mai neanche entrato nella casa dei Gaunt, sembrava irraggiungibile fino a quando la giovane Merope non conobbe Tom. Uomo affascinante, di bell’aspetto, alto e sicuro di sé, ma babbano. Innamorarsi di un uomo senza poteri magici non era di sicuro l’alternativa più allettante alla sua situazione ma a lei non importava. Tom doveva essere suo, a qualunque costo. E in effetti lo ebbe, anche se per poco, ma ad un prezzo altissimo, che molte persone, per fortuna, non sarebbero disposte a pagare.
 
Dicembre a Londra era insopportabile. Il freddo gelido nella Gran Bretagna sembrava tutto concentrato in Bond Street, una delle vie più lussuose della città. La gente era tutta riversata in strada, rideva felice e aspettava trepidante la mezzanotte, come se l’ultimo giorno dell’anno avesse più importanza di tutti gli altri. C’era ancora molto traffico, taxi che sfrecciavano in tutte le direzioni per portare i facoltosi signori della Londra bene alle loro feste di elite. Nessuno avrebbe potuto disturbare quell’eccitante frenesia, neanche la neve sembrava turbare più di tanto i londinesi entusiasti. Sullo sfondo di una Bond Street così allegra si intravedeva una giovane ragazza bussare alla porta di un vecchio e cadente palazzo circondato da molti altri edifici in condizioni decisamente migliori. Un’anziana signora le aprì la porta e la invitò ad entrare. La giovane avrà avuto una ventina d’anni ma ne dimostrava cinquanta. Molto magra, pelle spenta quasi grigiastra, viso scavato. Forse per il freddo e la stanchezza, o forse per qualcosa di più, difficile da comprendere per quella signora così gentile che l’aveva accolta, ignara di quello che sarebbe potuto accadere da li a poco. Quella notte a cavallo tra il 1926 e il ’27, la giovane donna dette alla luce un bambino in quel palazzo cadente che sarebbe diventato la sua casa. Poche ore dopo la nascita del suo primo e ultimo figlio, Merope morì: aspettando ancora quell’amore che l’aveva così consumata da succhiarle via tutta la voglia di vivere che un figlio spesso porta con sé. Prima di abbandonarlo per sempre, però, gli diede un nome. Tom Marvolo Riddle. Come quell’uomo che non ricambiò mai il suo amore e come quell’uomo che per anni rese la sua vita un inferno. Nomi strani da dare ad un bambino ancora così innocente.  

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** CAPITOLO 1 ***


All’inizio Tom sembrava un bambino come tutti gli altri. Uno strano e squadrato taglio di capelli circondava un viso bianco latte, segnato solamente da leggere occhiaie. Gli occhi neri erano quasi inespressivi, vuoti. Solo quando sorrideva gli si illuminavano di una strana luce che spariva in un lampo, quasi nessuno l’aveva vista. Ben presto il suo carattere introverso prese il sopravvento e quella che sembrava un’emozione, si intravedeva sempre più di rado. Si isolava molto facilmente, l’unica persona con cui parlava ogni tanto era Penelope. Un anno più piccola di lui, bassina per la sua età, capelli biondi sempre raccolti in una lunghissima treccia che lei stessa aveva imparato a fare. Si conobbero al suo arrivo. Tom era l’unico bambino nato letteralmente lì dentro, conosceva ogni angolo di quell’edificio. Quando aveva 8 anni, una mattina presto andò a fare il suo solito giro: passò dalla cucina per rubare un pezzo di pane caldo, andò in cortile a salutare i serpenti che aveva catturato ormai da settimane e si diresse verso l’ufficio della direttrice dell’orfanotrofio. Passava spesso da lì per sapere di eventuali nuovi arrivi o se finalmente qualcuno era venuto a prenderlo. Fu proprio spiando da dietro la porta socchiusa che la vide per la prima volta: 7 anni, viso triste, capelli biondissimi quasi bianchi. Era tenuta in braccio da un uomo alto, capelli e barba scurissimi, sembrava arrabbiato. L’uomo e la direttrice discutevano animatamente ma Penelope non se ne accorse neanche, sembrava troppo abituata a persone che litigano per far caso all’argomento di conversazione, ovvero lei. L’attenzione della bambina, invece, si spostò sugli occhi spenti che la fissavano da dietro la porta. Lei e Tom si guardarono senza fare cenni. La loro connessione ottica venne interrotta bruscamente quando l’uomo, lasciata la bambina, aprì violentemente la porta e se ne andò, senza fare il minimo caso al bambino che si ritrovò davanti. La direttrice vide Tom e, invece di sgridarlo come faceva praticamente sempre, lo invitò ad entrare. “Oh santo cielo Tom cosa ci fai lì??”. “Niente” disse Tom pietrificato. “Entra caro, ti presento una persona. Lei è Penelope, starà da noi per un po’”. Tom entrò e continuò a fissare la bambina. Non sembrava spaventata da lui e questo lo sorprese molto. “Ciao” disse lei piano “quella è la coda di un topo?”. Tom si ricordò all’istante di avere un topo in tasca che avrebbe dovuto portare ai suoi serpenti dopo la tappa dell’ufficio; si cacciò di scatto una mano nella tasta e rispose freddo “non sono affari tuoi”. La direttrice, non più inorridita del solito davanti alle stranezze disgustose di quel bambino, disse in fretta “bene tesori, perché non andate di sotto dagli altri? Tom potresti presentare qualcuno a Penelope così inizia ad ambientarsi” si rese conto dell’assurdità di ciò che aveva detto appena le parole le arrivarono all’orecchio. Lui stesso era consapevole che la direttrice non ci credeva davvero, ma ormai sapeva come prenderla. “Va bene, andiamo” disse sempre più freddo. I due bambini scesero le scale che portavano al cortile interno dove si sentivano gli altri bambini giocare. Da quel momento Penelope fu l’unica persona con la quale Tom parlava. Le loro non erano grandi conversazioni ma era la cosa più simile ad un’amicizia che avessero mai avuto entrambi. Forse proprio per la loro estrema diversità si completavano. Dopo un anno dal loro primo incontro Tom le mostrò la cosa più preziosa che avesse. Una mattina la portò dietro la struttura, dove c’era un vecchio campo da tennis da anni abbandonato e pieno di sterpaglie. Sollevò una scatola dietro un cespuglio enorme e le presentò le uniche “persone” che conosceva lì dentro, esclusa lei. Sotto la scatola erano avvolti su loro stessi due serpenti verde brillante con gli occhi giallo intenso. Penelope fece uno scatto indietro terrorizzata. Sapeva che Tom passava le sue giornate a catturare animali ma quelli erano spaventosi. Tom non prese bene la sua reazione. “Che problema c’è?” le chiese infastidito. “Mi fanno paura quei cosi, sono brutti e cattivi” risposte lei indietreggiando. “Ma cosa dici? Sono bellissimi e mordono solo se glielo dico io” ammise Tom, sicuro che questo avrebbe rassicurato la sua (quasi) amica. “Come fai a parlarci? Non è possibile parlare con gli animali, credi ancora alle favole Tom?” disse Penelope ridendo. Tom iniziò a spazientirsi. Odiava la gente che lo prendeva in giro. Strinse i pugni cercando di trattenersi dall’urlare ma questo non bastò a calmarlo. Di colpo i due serpenti nella scatola si sollevarono. Sembravano mirare dritti verso il viso di Penelope che, sempre più spaventata, corse via. Tom rimase lì, immobile. Si pentì di averla portata lì. Non gli importava più di tanto che si fosse spaventa. Piuttosto pensava e sperava di aver trovato finalmente qualcuno che potesse capirlo e invece lei, come tutti gli altri, scappavano inorriditi da quello che gli piaceva. Scappavano da lui.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** CAPITOLO 2 ***


Pioveva ininterrottamente da tre giorni. Il cielo sembrava più triste e più solo di lui. Tom aveva passato tutta la notte a rigirarsi nel letto scomodo e freddo. Stufo, si alzò. La sveglia, rimasta da sola su quel comodino per nove anni, segnava le 5:33. Tom appoggiò la fronte contro il vetro gelido della finestra e guardò Londra attraverso le inferiate. Non era mai stato lì fuori, non sapeva cosa volesse dire stare in mezzo alla gente che freneticamente andava ogni mattina a lavoro e che aveva sempre osservato dalla camerata numero 6. I suoi compagni di stanza dormivano profondamente. Uscì nel corridoio buio senza accendere la luce, l’oscurità lo confortava, si sentiva quasi normale quando nessuno poteva vederlo, giudicarlo o insultarlo. Si affacciò nel cortile e il freddo gli graffiò la faccia arrivandogli fino alle ossa; proseguì e raggiunse la scatola dietro il cespuglio che tanto spaventò Penelope. Andava molto spesso a trovare i suoi serpenti. Il suo strano e insolito rapporto con gli animali non era compreso praticamente da nessuno, gli altri bambini lo avevano preso in giro per giorni quando avevano scoperto che gli portava dei topi. Passò con loro qualche ora e poi tornò indietro, verso la sala grande per fare colazione. Erano già tutti lì. Tom entrò e si sentì inevitabilmente osservato; raggiunse un tavolo quasi vuoto e si sedette in disparte. Sentiva in sottofondo i commenti e le risate dei suoi compagni. Cercò di non esplodere. Sapeva cosa gli altri pensavano di lui, per la maggior parte del tempo non gli importava, ma c’erano dei giorni nei quali non riusciva proprio a passarci sopra. Quello erano uno di quei giorni. Forse per il tempo grigio, forse per le poche ore di sonno, ma quelle parole gli rimbombavano nella testa. “Sei proprio un tipo strano tu” gridò un bambino dall’altro lato della mensa. Gli altri si presero coraggio e iniziarono ad alzare il tono della voce per farsi sentire meglio. “Sei caduto di testa da piccolo?”. “Per forza non hai amici, chi viene a vedere quei serpenti con te di notte?”. Tom strinse i pugni, era il suo modo per provare a calmarsi; ovviamente non ci riuscì. Si alzò in piedi di scatto. Gli altri bambini rimasero paralizzati, aveva gli occhi rosso sangue, sembrava che stesse per scoppiare. Qualcuno continuava a inveire contro lui. Un schianto di colpo e tutti si ammutolirono. Le vetrate enormi della sala si ruppero in mille pezzi, le schegge volarono ovunque e caddero al suolo frantumandosi. I bambini spaventati corsero via. Urlavano tutti, tutti tranne Tom. Lui rimase sconvolto da ciò che era riuscito a fare, fino a quel momento la sua rabbia si era manifestata con al massimo qualche bicchiere rotto, ma questa volta era riuscito a distruggere l’intera sala. Tra la folla impaurita intravide lei. Penelope era immobile, in piedi, dritta davanti a lui, lo fissava con uno sguardo a metà tra la paura e la sorpresa. Conosceva la sua diversità e, a parte l’incontro con i serpenti, questo non l’aveva mai turbata più di tanto. Sentiva che doveva fare qualcosa, che toccava a lei proteggerlo anche da se stesso. Un forte rumore di passi veloci la fece sobbalzare. Si precipitò da Tom, lo prese per un braccio e lo portò via. Corsero lungo i corridoi deserti, non sapendo dove andare. Voltarono l’angolo e si chiusero nello stanzino delle scope, nessuno entrava mai lì, faceva paura quel posto. “Tom?” chiese lei con la voce rotta da un singhiozzo. “Non volevo, lo giuro. Loro. Pen li hai sentiti? Continuavano a dire…”. Non aveva mai parlato così velocemente in vita sua, per la prima volta era davvero spaventato dall’unica cosa che poteva fargli paura, se stesso. “Lo so cosa dicono, ma tu non devi ascoltarli, lasciali stare” non riusciva più a trattenere le lacrime. “Ti sei spaventata?” chiese lui. Gli importava davvero questa volta. “Io no, ma tutti gli altri si” mentì lei “come hai fatto?” “NON LO SO!” in realtà non voleva urlare. Un rumore improvviso li distolse dalla conversazione. All’urlo di Tom due scope caddero per terra. Nessuno le aveva toccate. Penelope indietreggiò. “No Pen aspetta, io, io… non volevo farlo, lo giuro” stava perdendo il controllo e non sapeva il perché. “Lo so che non sei cattivo Tom, ma fai di tutto per sembrarlo” disse lei e uscì. Tom rimase nello stanzino per tutto il giorno. Non voleva uscire. Non voleva vedere e parlare con nessuno. Sperava di addormentarsi e svegliarsi nel suo letto, con la pioggia battente e la sveglia ferma alle 5:33.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** CAPITOLO 3 ***


Alla porta dell’orfanotrofio non bussava quasi mai nessuno. La direttrice aveva sempre paura di trovarsi davanti un altro bambino senza una casa, oppure un genitore che per scelta o per necessità non poteva più occuparsi di suo figlio. Quella mattina era già pronta, a malincuore, ad indicare un altro orfanotrofio perché erano mesi che era al completo, ma quando aprì la porta si trovò davanti una figura inaspettata. L’uomo era incredibilmente alto, sembrava più stanco che anziano, ma aveva il viso dolce, la barba grigia che gli copriva il petto e un insolito lunghissimo capotto. “Salve, sono Albus Percival Silente, è l’Orfanotrofio Wool?” disse Silente gentilmente. “Salve, sì mi dica, come posso aiutarla?” rispose la signora Cole, sollevata di aver aperto la porta ad un adulto. “Cercavo un bambino. Sono un insegnante di una scuola fuori città e Tom risulta iscritto, sono venuto a prenderlo, se per lei va bene” “Aspetti…Tom? Intende Tom Riddle? Ma ne è sicuro?” disse la direttrice incredula, mentre invitava il suo ospite ad entrare. Gli fece strada verso il suo ufficio, aprì la porta e lo fece accomodare su una poltrona difronte ad un piccolo tavolino da thè in legno un po’ traballante. Silente si mise a sedere mentre cercava di spiegare l’esistenza di una scuola che per i babbani non doveva esistere. “Sì esatto è proprio lui. Sa, noi trattiamo casi difficili come questi, abbiamo ricevuto il fascicolo di Tom, siamo in costante contatto con il comune…” non ebbe il tempo di finire la frase che venne interrotto. “Ah sì benissimo, avevo detto che qualcuno doveva preoccuparsi dell’istruzione di questi ragazzi” “Dove ha detto che si trova questa scuola?” riprese senza prendere fiato. “Fuori città, molto fuori” rispose Silente in fretta. “Ah, capisco. Bene, vuole vedere il ragazzo?” Silente annuì e la seguì giù per le scale, verso le camerate. Si fermarono davanti la numero 6. La signora Cole lasciò entrare Silente che riconobbe subito il giovane Tom che sedeva da solo sul suo letto. «Come stai, Tom?» chiese Silente. Tom non si girò a guardare chi era arrivato. Il suo sguardo era fisso su un gruppo di ragazzi, un paio d’anni più grandi di lui, che parlavano a qualche letto di distanza dal suo. Silente notò che lo sguardo non era né d’odio né di rancore, ma d’interesse, un interesse strano, certo, ma non cattivo, almeno non sembrava cattivo. Dopo qualche secondo Tom si girò, guardò quell’uomo alto negli occhi e con aria disinteressata disse “Chi è lei? Come fa a sapere il mio nome?” «[…] Mi chiamo professor Silente e sono venuto a offrirti un posto a Hogwarts, la mia scuola... la tua nuova scuola, se vorrai venire». Tom lo guardò incredulo. In 11 anni non era mai venuto nessuno a trovarlo. In 11 anni nessuno si era mai interessato minimamente a lui, tranne la direttrice: aveva un rapporto di sincero rispetto con lei. In 11 anni, quell’uomo barbuto era l’unica persona estranea all’orfanotrofio con cui avesse parlato, e gli stava offrendo un posto in una scuola? Perché? Perché proprio a lui e non a qualcun altro? “Perché?” chiese alla fine Tom, i pensieri che aveva in testa uscirono praticamente da soli. “Sai, Tom, la mia è una scuola speciale, non possono venirci tutti” “Io sono speciale” ammise “Lo so, per questo sono qui” si interruppe, ma poi riprese “Ad Hogwarts sono tutti ragazzi speciali come te” Gli occhi di Tom si illuminarono. Era la prima volta che sentiva dell’esistenza di altri come lui, iniziò a pensare che forse non sarebbe stato ‘quello strano’ per sempre. “Ma… ma io non sono pazzo, sono diverso ma non pazzo” iniziò a diventare sospettoso. «Lo so che non sei pazzo. Hogwarts non è una scuola per pazzi. È una scuola di magia». Silenzio. Lo sguardo di Tom passò da stupore a eccitazione in meno di due secondi. Magia: quella parola gli rimbombava in testa. Era una possibile spiegazione razionale a tutto? Era un mago? Per questo era diverso, per questo i suoi compagni non lo capivano? E Penelope? Era l’unica che aveva provato a capirlo, anche se non c’era riuscita del tutto. Era una maga anche lei? La testa iniziava a scoppiargli. Ripercorse tutte le cose strane accadute lì dentro, tutti gli avvenimenti che non avrebbero altra spiegazione se non la magia. Forse era vero, forse era davvero un mago, ma come poteva fidarsi di quell’uomo? Una delle poche cose imparate fino a quel momento era il classico e sacrosanto ‘non fidarsi di nessuno’. Ma la curiosità era troppo grande per non dare corda a quel cosiddetto Professore. «È... è magia, quella che so fare?» non riusciva a mascherare la sua eccitazione. Silente se ne accorse, e incuriosito forse più di Tom, chiese: «Che cos'è che sai fare?» «Di tutto» […] «Muovo le cose senza toccarle. Faccio fare agli animali quello che voglio senza addestrarli. Faccio capitare cose brutte a chi mi dà fastidio. So ferirli, se voglio». Calò di nuovo il silenzio. Silente di certo non si aspettava una risposta del genere. Non era la prima volta che un professore di Hogwarts andava a trovare nati babbani per invitarli nel mondo magico. Era un compito noioso in realtà: cercare le parole per spiegare a 11enni e, soprattutto, ai loro genitori l’esistenza di bacchette, pozioni e incantesimi non era semplice. Molto spesso qualche genitore babbano sveniva dallo shock, quindi toccava anche far riprendere i sensi ai deboli di cuore. Non era la prima volta, invece, che un mago veniva ‘scoperto’ in un orfanotrofio: in questo caso era più semplice, andava convinto praticamente solo il ragazzo, quanti orfanotrofi cercano di tenersi i bambini fino a 18 anni? Silente per la prima volta si era offerto volontario, per andare a trovare Tom, perchè voleva conoscere di persona l’erede di Salazar Serpeverde. Sapeva la storia della madre, della ‘nobile’ discendenza, della sua relazione con il giovane babbano Riddle. Era curioso e allo stesso tempo preoccupato di come sarebbe stato quell’incontro, di come avrebbe reagito Tom sapendo di essere un mago, sapendo di essere un Serpeverde di nascita. Ovviamente non gli avrebbe mai rilevato l’origine della sua famiglia in quell’occasione: sarebbe arrivo il momento adatto, anche se non sapeva ancora quando. La chiacchierata con l’erede di Salazar aveva preso una piega non del tutto inaspettata ma comunque strana. Silente guardò Tom senza dire una parola, il suo sguardo era un misto di stupore, curiosità e paura: come può un ragazzo di appena 11 anni pensare di utilizzare i propri poteri magici per fare del male? Rifiutandosi di vedere della cattiveria intrinseca in Tom, spiegò quella reazione come la difesa di un bambino abbandonato alla nascita e isolato dai suoi compagni. L’occasione per lui di andare via dall’orfanotrofio era un assoluto riscatto, aveva la possibilità di ricominciare daccapo, farsi degli amici, avere una famiglia. «A Hogwarts» continuò Silente, «si insegna non solo a usare la magia, ma a controllarla. Tu, di sicuro inavvertitamente, hai usato i tuoi poteri in un modo che non viene né insegnato né ammesso nella nostra scuola. Non sei il primo, e non sarai l'ultimo, che consente alla propria magia di prendere il sopravvento: ma devi sapere che Hogwarts può espellere gli studenti, e che il Ministero della Magia - sì, esiste un Ministero - punisce chi infrange la legge con severità ancora maggiore. Tutti i nuovi maghi devono accettare, entrando nel nostro mondo, di attenersi alle nostre leggi». Alla notizia delle regole da seguire e dell’esistenza di un Ministero Tom non sembrò sorpreso, piuttosto infastidito: si sentiva prigioniero di leggi e comportamenti che avrebbe volentieri abolito all’interno dell’orfanotrofio ed era sicuro che ci sarebbero state regole altrettanto incomprensibili e assurde in quella nuova scuola. Nascondendo ogni tipo di emozione si limitò ad annuire e a cambiare velocemente argomento, passando a una questione che non aveva mai affrontato con nessuno fino a quel momento. «Mio padre era un mago? Si chiamava anche lui Tom Riddle, mi hanno detto». «Temo di non saperlo» rispose Silente con dolcezza. Naturalmente mentiva, ma sapeva benissimo che non era il luogo e il momento adatto per rivelare questo tipo di cose. «Mia madre non può essere stata magica, se no non sarebbe morta» Era come riaprire una vecchia ferita che non si è mei rimarginata completamente. Tom si era sempre sentito abbandonato dalla madre, pur sapendo che era morta poco dopo la sua nascita (dinamica che certamente non dipendeva da lei). Pur sapendo che sua madre non avrebbe voluto lasciarlo, dentro di sé si era sempre sentito ferito da questa morte improvvisa, come se la madre, ai suoi occhi, non avesse lottato abbastanza per rimanere in vita, come se suo figlio non fosse un motivo sufficientemente valido per resistere. A maggior ragione l’idea che la madre fosse una maga sperava fosse impossibile: sarebbe stata la prova inconfutabile che non le importava niente di lui se, pur disponendo di poteri ai più sconosciuti, non era rimasta.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** CAPITOLO 4 ***


“CORVONERO!!!” annunciò il Cappello Parlante. Un applauso fragoroso si alzò dal secondo tavolo a sinistra, la giovane strega si diresse verso la sua Casa entusiasta. Lo Smistamento era uno dei primi e più importanti momenti ad Hogwarts. I giovani 11enni attendevano difronte il tavolo degli insegnati mentre il Cappello Parlante sceglieva la Casa più affine alle loro personalità e potenzialità: i Grifondoro si distinguevano per il coraggio, i Tassorosso per la lealtà, i Corvonero per l’intelletto e i Serpeverde per il desiderio di grandezza. Man mano che la Professoressa Wellton chiamava un nome, lui o lei si avvicinava, gli veniva messo il Cappello sulla testa ed egli esprimeva il suo indiscusso giudizio: era uno degli strumenti magici più affascinanti, dotato di una propria personalità, di un pensiero autonomo. Tom era lì che attendeva il suo turno, intorno a lui molti ragazzi sapevano a cosa stavano andando incontro. “Mia madre è Grifondoro e mio padre Corvonero, se finisco in Tassorosso non potrò più tornare a casa!” “La mia famiglia è Serpeverde da generazioni, è inutile aspettare un vecchio Cappello”. Dalle parole di quei ragazzi Tom capì che esisteva una certa rivalità, confermata dal discorso del Preside Dippet che preannunciava la Coppa delle Case, vinta alla fine dell’anno da quella più meritevole. Cercando di ignorare il brusio di sottofondo, Tom iniziò a guardarsi intorno: la Sala Grande era maestosa, con soffitti altissimi dei quali non si vedeva la fine perché immersi in un cielo stellato frutto di un incantesimo, le pareti erano adornate di bassirilievi, quadri e sculture; era la Sala più spettacolare di tutto il castello, con inserti d’oro che risplendevano alla luce delle candele sospese a mezz’aria. Le quattro tavolate erano apparecchiate con posate e piatti in bronzo e per tutta la Sala si avvertiva una strana e accogliente magia. “Tom Riddle!” la Professoressa incaricata dello smistamento sollevò il naso dal lungo rotolo di pergamena per cercare il ragazzo appena chiamato, ma nessuno rispose. “TOM RIDDLE!!” “Eccomi, sì, sono io” Tom si risvegliò dal suo incantato torpore e si fece timidamente avanti. “Su forza caro, non abbiamo mica tutta la notte”. Tom si sedette su uno sgabello accanto la Professoressa Wellton che gli posò il Cappello Parlante sulla testa e fece due passi indietro. “Aaah, così presto? Sapevo che saresti arrivato, ma non così presto!!” Tom all’inizio non capiva se si stesse riferendo a lui o a qualcun altro, poi si fece coraggio e con voce monotona chiese “Che vuol dire? Perché mi stava aspettando?”. “Ah niente, niente caro, sto guardando nella tua testa, non mi distrarre” tagliò corto il Cappello, mentre cercava di prendere tempo. Il giorno prima il Professor Silente aveva chiesto di parlare con lui in privato, senza coinvolgere il Preside Dippet. La conversazione era incentrata su un ragazzo che ancora doveva entrare ad Hogwarts. Silente sembrava particolarmente preoccupato sulla Casa destinata al ragazzo. “È della famiglia dei Serpeverde!” “Ne è sicuro Albus?” “Sì, ne sono certo. Per questo sono venuto da te, è possibile collocare il ragazzo in un’altra Casa?” “Un’altra? E dove dovrebbe andare? In Grifondoro forse?” “Stavo solo chiedendo se fosse possibile” “No che non è possibile! Faccio questo mestiere da secoli, non si può collocare un ragazzo in una Casa diversa da quella a cui è destinato. Lui in più è un suo discendente! Dov’ è il problema Albus?” “Sono un po’ preoccupato. Tom ha avuto un’infanzia difficile, sto solo cercando di non peggiorare la situazione, è un ragazzo influenzabile” “Influenzabile dai Serpeverde? Andiamo Professore, lo sa anche lei che nessuno più la pensa come il vecchio Salazar” “Non ne sarei così sicuro” “Gellert? È in Gran Bretagna?” “Non lo so. Ma si stanno diffondendo idee pericolose. Dobbiamo proteggere gli studenti, tutti gli studenti” “Albus non potrà proteggere tutti per sempre” “Già… ad ogni modo, non si può fare niente per Tom” “No, mi dispiace, ho un compito e non posso cambiare il destino di uno studente. Se vedrò un Serpeverde, dirò Serpeverde” “Capisco. Grazie per il suo tempo Parlante” “Prego Albus, quando vuole” Tutta la Sala Grande stava attendendo il verdetto del Cappello Parlante. Dopo qualche minuto di silenzio egli ricominciò. “Sei un ragazzo molto intelligente, ma ti manca a disciplina, hai anche… beh, molta… forza, dentro di te” era palesemente in difficoltà: più che forza aveva visto rabbia in Tom, una rabbia che con il tempo aveva quasi completamente offuscato tutto il resto. Il Cappello Parlante sperava che dopo il suo verdetto quella piccola luce che gli aveva visto dentro non si sarebbe spenta del tutto. “Serpeverde!” sentenziò.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3562149