Without you di lady lina 77 (/viewuser.php?uid=18117)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciotto ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannove ***
Capitolo 20: *** Capitolo venti ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventuno ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventidue ***
Capitolo 23: *** Capitolo ventitre ***
Capitolo 24: *** Capitolo ventiquattro ***
Capitolo 25: *** Capitolo venticinque ***
Capitolo 26: *** Capitolo ventisei ***
Capitolo 27: *** Capitolo ventisette ***
Capitolo 28: *** Capitolo ventotto ***
Capitolo 29: *** Capitolo ventinove ***
Capitolo 30: *** Capitolo trenta ***
Capitolo 31: *** Capitolo trentuno ***
Capitolo 32: *** Capitolo trentadue ***
Capitolo 33: *** Capitolo trentatre ***
Capitolo 34: *** Capitolo trentaquattro ***
Capitolo 35: *** Capitolo trentacinque ***
Capitolo 36: *** Capitolo trentasei ***
Capitolo 37: *** Capitolo trentasette ***
Capitolo 38: *** Capitolo trentotto ***
Capitolo 1 *** Capitolo uno ***
"Devi
cercare di capire".
"Non
avevo scelta".
"E'stato
un qualcosa di inspiegabile, una passione incontrollabile".
"Speravo
di contare sulla tua comprensione".
"Il
tuo atteggiamento non ci è di nessun aiuto".
"Per
favore, togliti di mezzo".
Le
frasi di Ross le rimbombavano nella testa come un'emicrania dolorosa.
E facevano male, in un certo senso più del tradimento. Si
arrampicava sugli specchi, trovava giustificazioni
all'ingiustificabile e non aveva la minima considerazione del dolore
che le aveva provocato, quasi fosse invisibile e l'unica cosa che
contasse fossero lui e i suoi desideri. Ma in fondo, di che si
stupiva? Era da tanto che era invisibile, per Ross. Cos'era cambiato,
cosa aveva portato in più quella notte di tradimento vero e
proprio,
che lei non avesse già provato ogni volta che lo vedeva
correre da
Elizabeth e da Geoffrey Charles, ingorando lei e Jeremy, trovando
mille scuse per preferire loro alla sua vera famiglia? Nulla, Ross
l'aveva già tradita mille e più volte, in tanti
modi diversi ma pur
sempre dolorosi. Cosa poteva pretendere da lui, che probabilmente non
l'amava più da tanto? E che, se l'aveva amata, era stato
unicamente
per sopportare meglio il dolore di non aver potuto avere Elizabeth.
"Vado
a Truro!".
Si
certo, a Truro! Demelza si chiese perché Ross sentisse il
bisogno di
mentire circa le sue reali intenzioni. Bastava dirlo, vado da
Elizabeth, voglio stare con lei.
Lo
avrebbe accettato, ne avrebbe pianto, si sarebbe sentita disperata ma
in un certo senso sarebbe stato meglio di quelle menzogne, di quelle
umiliazioni che Ross le infliggeva senza il minimo rimorso.
E
lei, perché avrebbe dovuto stare ad aspettarlo in quella
casa a
Nampara? Non era forse ugualmente umiliante rimanere, attendendo la
carità di un marito che non vedeva l'ora di correre da
un'altra?
Nampara
era di Ross, l'aveva costruita suo padre per sua madre ed era stata
l'eredità per il figlio. E ora che il suo matrimonio era
finito, non
c'era più alcun motivo per rimanere per lei.
Aspettò
che Ross uscisse per andare a... Truro... Dopo la
loro
litigata di poche ore prima, quando lei aveva rovesciato a terra
tutto quello che era sul tavolo, suo marito si era ritirato nella
libreria e non si era più fatto vedere. Poi era uscito a
cavallo, in
compagnia delle sue bugie ed era corso a cavallo a Trenwith, da
Elizabeth, di questo era certa. Osservò la camera da letto
che era
stata sua e di Ross, ricordando quanto si erano amati su quel letto,
fra quelle coperte, e tutte le gioie e i dolori vissuti fra quelle
quattro mura. La nascita dei loro figli, la morte di Julia, le
promesse, le speranze, i fallimenti e i successi che avevano
condiviso insieme.
Non
c'era più nulla, Ross aveva distrutto tutto e sembrava non
curarsene, ormai proiettato al suo futuro con Elizabeth.
Lei,
Jeremy e anche Julia erano il suo passato. Non ce la faceva a
combattere, ad affrontarlo di nuovo, a vivere col fantasma del primo
amore di Ross sempre presente accanto a lei.
Non
c'era motivo per rimanere, Ross presto se ne sarebbe andato e si
sarebbe dimenticato di lei.
Si
mise sul letto, piegò le ginocchia e pianse. I suoi gemiti
spezzavano il silenzio della casa e odiava il fatto che Jeremy
potesse sentirla ma non riusciva a fermarsi.
Era
terribile amare qualcuno che ti aveva fatto tanto male e per il quale
non sei niente.
"Signora,
vi sentite male?".
La
voce di Prudie la fece sobbalzare. La guardò, ricordando
quando era
arrivata in quella casa e lei non la sopportava e le intimava di
tornare da suo padre, ormai dieci anni prima. Prudie era diventata,
negli anni, una specie di mamma per lei, apparentemente distratta ma
in realtà attenta a tutte le dinamiche di quella casa e a
tutto ciò
che riguardava lei e Ross. Le sarebbe mancata, pensò, ormai
convinta
della sua decisione. "Mi dispiace per il macello che ho
combinato nella sala da pranzo stamattina".
Prudie
sospirò. "Certe volte, davanti a certe frasi e a certi
uomini,
spaccare tutto è meglio di una medicina. Ma il signor
Ross...".
"Il
signor Ross è andato a Trenwith e io... ho bisogno che mi
aiuti a
fare le valigie".
Prudie
spalancò gli occhi. "Valigie? Ma... signora? Santo cielo,
aspettate, non dovete precipitare le cose, aspettiamo che il signore
torni almeno".
Demelza
si alzò dal letto, asciugandosi le lacrime. Le si
avvicinò,
poggiandole gentilmente una mano sulla spalla. "Prudie, per
favore, aiutami. Mi serve il giusto indispensabile per me e Jeremy,
non ti chiedo altro".
"Ma
dove andrete? Cosa dirà il signore?".
Demelza
sospirò. In un primo momento aveva pensato di andare da suo
padre ma
poi aveva scartato l'idea. Non voleva che Jeremy crescesse nello
stesso ambiente in cui era cresciuta lei, non voleva che avesse
un'infanzia simile alla sua e Illugan offriva poche
opportunità a un
bambino dolce e vivace come suo figlio. Inoltre, c'era la concreta
possibilità di rincontrare Ross e lei non voleva vederlo mai
più,
voleva sparire dalla sua vita e ricominciare essa stessa una vita.
Londra avrebbe offerto più possibilità di un
nuovo inizio ed era
una città grande e abbastanza lontana dalla Cornovaglia,
l'ideale
per far perdere le proprie tracce. Le spiaceva mentire a Prudie,
sapeva quanto fosse affezionata a lei e a Jeremy ma non poteva fare
altrimenti, il rischio che si tradisse davanti a Ross era troppo
elevato. "Non lo so, dove mi porteranno il caso e il destino. Ma
sta tranquilla, andrà tutto bene, sai che so cavarmela".
"Il
signor Ross che cosa dirà? Si arrabbierà con me
se, tornando, non
dovesse trovarvi".
Demelza
scosse la testa. "Sta tranquilla Prudie, non se ne accorgerà
nemmeno che non ci siamo più. La sua testa ha ben altri
pensieri,
ormai".
"Io
non credo che sia così".
Demelza
la abbracciò. "Per favore, mi puoi aiutare? E' l'ultima cosa
che ti chiedo come signora di Nampara. Ho bisogno di te".
Prudie
annuì, asciugandosi le lacrime dal viso. "Odio il signor
Poldark! Come ha potuto...? Oh, quanto se ne pentirà di
quello che
vi ha fatto".
Demelza
strinse gli abiti che aveva in mano, rabbiosa e allo stesso tempo
triste. "No, non se ne pentirà! Vuole Elizabeth da sempre,
lei
era nel suo destino. E' giusto così, sarà felice
e finalmente potrà
stare accanto alla donna che ama davvero". Mise i vestiti in una
borsa, chiudendola poi energicamente. "Prudie, ti chiedo solo un
favore ancora, se puoi farlo".
"Ditemi".
Demelza
abbassò lo sguardo, ricordando il volto dolce della sua
prima
bambina. "Di tanto in tanto, promettimi che porterai dei fiori
sulla tomba di Julia. Io non potrò farlo, sarò
lontana e dubito che
Ross se ne ricorderebbe".
"Lo
farò, signora. Ma...".
Demelza
non la fece finire. La abbracciò di nuovo, forte, come
cercando il
coraggio di fare quello che aveva già deciso.
Poi
prese la sua borsa da viaggio, scese le scale e prese Jeremy, che
stava giocando sul tappeto in soggiorno, fra le braccia.
Jud
la guardò, perplesso. "Andiamo da qualche parte?".
"Non
tu ma io e il signorino Jeremy sì". Gli diede un veloce
bacio
sulla guancia e poi, stringendo a se suo figlio, prese la porta e
uscì da quella che era stata per tanti anni la sua casa, la
sua
famiglia. Si portava dietro mille e più ricordi di quel
posto,
Nampara sarebbe sempre rimasta nel suo cuore, così come suo
marito,
Jud e Prudie, i minatori con le loro famiglie e Ginny.
Garrick,
scodinzolando, le si affiancò. Era arrivato in quel posto
con lei
dieci anni prima e non l'avrebbe abbandonata per nessun motivo al
mondo, era l'amico più fedele che le fosse rimasto.
"Coraggio
Jeremy e Garrick, si parte per una nuova avventura" –
esclamò,
cercando di essere ottimista e di trasmettere serenità
soprattutto
al suo bambino.
Jeremy
la guardò, incuriosito. Non sapeva ancora parlare bene ma si
stava
evidentemente chiedendo cosa stesse succedendo.
Demelza
lo baciò sulla fronte. "Andiamo in un posto nuovo, in una
casa
nuova! Io, te e Garrick".
Il
bimbo le cinse il collo, stringendola forte. "E papà?".
A
quella domanda, Demelza si morse il labbro. "Papà resta
quì,
ha tante cose da fare e non ha tempo per noi. Ma vedrai, staremo bene
lo stesso". L'unica cosa che la rasserenava, era che Jeremy non
avrebbe sofferto troppo per la distanza da Ross. Suo padre non si era
mai particolarmente occupato di lui da quando era nato e Jeremy era
talmente piccolo che presto si sarebbe dimenticato di lui,
considerando normale la sua assenza.
Mentre
si allontanava da Nampara, diretta alla diligenza che l'avrebbe
portata a Londra, in lontananza sentì la voce di Jud che,
come tante
altre volte, stava lamentandosi.
"Non
è giusto, non è corretto, non è
gentile, non è umano".
Nonostante
il suo cuore fosse in tumulto, a Demelza venne da sorridere al pensiero
che Jud parlasse di lei e Ross, in quel suo modo forse non
elegante ma che aveva imparato ad amare. Gli sarebbe mancato, lui
come tutti gli altri e la vita che si era costruita in Cornovaglia.
Ma
era ora di voltare pagina, come aveva fatto Ross. E per quanto
doloroso, era giusto farlo il prima possibile.
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Capitolo 2 *** Capitolo due ***
Londra
era immensa, le faceva mancare il fiato. Si sentiva piccola e spersa
in quella città così rumorosa, frenetica, piena
di gente e carrozze
che sfrecciavano nei vicoli a tutta velocità.
Era
un mondo variopinto ed eterogeneo, fatto di mille realtà
diverse.
Uomini in smoking, eleganti ed austeri, passeggiavano per le vie
fumando la pipa, mercanti agli angoli della strada urlavano per
vendere la loro merce e bambini scalzi giocavano in mezzo ai
passanti, totalmente lasciati a loro stessi.
Strinse
a se Jeremy che, intimorito, le si era aggrappato al collo. Pure
Garrick, tenuto con un guinzaglio, le stava vicino con la coda fra le
gambe, spaventato da quel mondo così diverso dalla
Cornovaglia.
Demelza
sospirò, decidendo il da farsi. Aveva con se pochissimo
denaro e
nessuna idea su cosa fare, su dove andare. Doveva trovare un lavoro,
un posto dove dormire, un appiglio per iniziare una nuova vita ma non
sapeva dove sbattere la testa.
Per
un attimo si pentì della scelta fatta, per un attimo
l'istinto di
tornare a Nampara parve sconfiggerla ma poi si morse il labbro,
guardò il suo bambino e decise che doveva dargli una vita
migliore
di quella che gli avrebbe riservato la Cornovaglia. Aveva scelto di
lasciare Ross, di lasciarsi dietro alle spalle il suo matrimonio,
Elizabeth e tutto quello che era stato il suo mondo.
Una
strana fitta al ventre e un'improvvisa nausea la assalirono. Si
massaggiò lo stomaco cercando sollievo, chiedendosi se quel
malessere che già l'aveva colta altre volte nel corso degli
ultimi
giorni, fosse dovuto allo stress delle ultime settimane.
La
prima notte, a Londra, l'avevano passata in una locanda di
quart'ordine, non aveva potuto permettersi di meglio di quel tugurio
maleodorante e malfrequentato. Urla e schiamazzi l'avevano tenuta
sveglia e anche Jeremy aveva frignato tutta notte. Purtroppo
però
non aveva avuto altre alternative coi pochi soldi a sua disposizione,
o quel posto o sotto i ponti. Quindi...
Il
giorno dopo aveva bussato a mille porte. Negozi, botteghe, sarti,
qualsiasi tipo di attività che richiedesse l'aiuto di una
donna
disposta a lavorare.
Ma
non ne aveva ricavato nulla, nessuno voleva assumere una giovane
donna sola, forestiera, con un figlio piccolo e un cane al seguito.
Odiò
se stessa e la sua situazione e odiò anche tutta quella
gente che
non le dava una possibilità. Aveva voglia di lavorare,
l'aveva
sempre fatto e un tempo era stata un'ottima sguattera per Ross,
perché nessuno voleva assumerla?
In
realtà sapeva la risposta, immaginava cosa quella gente di
città
pensasse di lei. Una poco di buono, una donna lasciva, una che aveva
un figlio senza avere accanto un marito era per tutti un qualcuno da
tenere lontano.
Una
volta era stata la signora di Nampara, ora era l'ultima degli
ultimi...
Pensò,
camminando per le vie del centro di Londra che aveva pian piano
imparato a conoscere, a quali passi compiere. Quella città,
la
capitale, sembrava non offrirle nulla e forse avrebbe dovuto
spostarsi ancora, tornare nelle campagne o nella brughiera, dove la
gente semplice era più propensa ad aiutare una donna in
difficoltà.
Fu
proprio in quel momento, mentre pensava di ripartire, che una
elegante carrozza la affiancò, fermandosi accanto a lei.
"Signora
Poldark, che sorpresa trovarvi quì!".
Demelza
alzò lo sguardo, rimanendo a bocca aperta. "Caroline
Penvenen?". Sapeva che era tornata a Londra ma mai avrebbe
creduto di rincontrarla.
L'ereditiera
le sorrise, facendo segno al cocchiere di aprire la porticina della
sua carrozza. "Su venite, è davvero un piacere incontrarvi
qui
e da queste parti è così difficile trovare
qualcuno di interessante
con cui fare due chiacchiere".
Demelza
strinse a se Jeremy e poi, dubbiosa, accettò l'invito. In
fondo, che
aveva da fare? L'esuberanza di Caroline le era sempre parsa piacevole
e non poteva dire di non apprezzare quel loro fortuito incontro.
Finalmente, a Londra, aveva a che fare con un viso amico.
"E
allora, signora Poldark, che ci fate a Londra? Vostro marito?".
Demelza
si morse il labbro. Ripensare a Ross le faceva tornare il mal di
stomaco, accidenti a lui. "In Cornovaglia, suppongo. A vivere la
sua vita, mentre io qui tento di vivere la mia".
Caroline
si accigliò. "Vostro marito deve avervela combinata grossa".
"Abbastanza".
Demelza abbassò lo sguardo mentre la carrozza riprendeva
placidamente la sua andatura per le strade del centro.
"Il
problema di vostro marito, sapete qual'era?".
"Non
so a cosa vi riferite, ma potrei farvi un lungo elenco".
"Non
si accorgeva, mentre guardava altro... o altre... che tutta la
Cornovaglia gli invidiava sua moglie".
"Davvero?".
A quelle parole, a Demelza venne da ridere. In realtà, se
davvero
era così, nemmeno lei se n'era accorta. "E voi come state,
signorina Penvenen?" - chiese, per cambiare argomento. Sapeva
che se n'era andata per la fine della storia con Dwight e le piangeva
il cuore al pensiero di quanto lui avesse sofferto nel perderla. Le
sarebbe piaciuto aiutarla, aiutarli, se non fosse stata sommersa di
problemi essa stessa.
Caroline
alzò le spalle. "Così... Come vanno le cose in
Cornovaglia?".
Anche
Demelza alzò le spalle. "Così". La
osservò di sottecchi,
intuendo quello che le premeva sapere. "Dwight sta per partire,
ha deciso di arruolarsi come medico di marina".
A
quelle parole Caroline scostò lo sguardo, fingendo di
guardare un
punto imprecisato della strada. "Oh... Quanto meno saprà
farsi
valere in qualcosa di più consono al suo rango" –
disse,
deglutendo.
Demelza
sospirò. "La guerra è sempre la guerra e nessuno
ci dovrebbe
andare. Spero che vada tutto bene".
Caroline
annuì, stringendo il ventaglio che aveva fra le mani. "Che
cosa
ci fate a Londra, signora Poldark?".
Demelza
sorrise tristemente. "Inizio una nuova vita. Non ho altra
scelta, ormai".
"Vostro
marito vi ha tradita alla fine, non è così?".
Quella
domanda tanto diretta la colpì e la ferì. I
sentimenti di Ross per
Elizabeth, alla fine, erano palesemente evidenti per tutti, si rese
conto. "L'ha sempre voluta e ora che Francis è morto... cosa
poteva separarli?".
"Il
matrimonio con voi, forse?" - obiettò Caroline.
"A
quanto pare no". Demelza sospirò, accarezzando i capelli di
Jeremy che si era addormentato fra le sue braccia. "Me ne sono
andata, ho fatto perdere le mie tracce e non voglio che lui mi trovi.
Dubito che mi cercherà ma se per caso gli venisse in mente
di farlo,
per una pura questione di doveri verso suo figlio, io preferirei
che...".
Caroline
sorrise, bloccandola. "Siete orgogliosa come me, vi capisco.
Nuova vita a Londra, quindi?".
Demelza
sbuffò. "E chi lo sa? Non trovo uno straccio di lavoro".
Caroline
rimase per un attimo in silenzio, pensierosa. Poi la osservò
di
sottecchi, sorridendo maliziosamente. "Forse posso aiutarvi,
signora Poldark". Si voltò verso il cocchiere, chiamandolo.
"James, portaci a Regent Street".
"Si
signora".
Il
cocchiere prese una via laterale e Demelza osservò
incuriosita
Caroline. "Cosa avete in mente?".
"Da
quelle parti la mia famiglia ha un locale commerciale in disuso. In
origine era una locanda con annesso servizio di posta e ristoro
cavalli ma poi un incendio lo ha semidistrutto e dopo qualche lavoro
di ristrutturazione, è stato lasciato vuoto ed inutilizzato.
Al
piano di sopra si trova un appartamento abbastanza grande per voi,
vostro figlio e il cane. Se saprete rimetterlo a nuovo, farlo
fruttare, quel posto potrete considerarlo vostro".
A
Demelza mancò il fiato per quella proposta inaspettata. "Ma
signorina Penvenen, io non posso pagarvi un affitto".
"Chiamatemi
Caroline. E per quanto riguarda l'affitto, ci accorderemo appena
vedrete i primi guadagni. Siete scaltra ed in gamba, so che potrete
far fruttare quel posto che, ad oggi, rappresenta solo un debito per
me. Accettate, signora Poldark?".
"Solo
se mi chiamerete Demelza".
"Accetti,
Demelza?".
"Accetto
volentieri. Grazie".
Caroline
sorrise, chinandosi ad accarezzare Garrick. "Ah, di nulla, vado
d'accordo con le donne in gamba che amano i cani. Saremo buone amiche
e socie".
Giunsero
a Regent Street in una manciata di minuti.
Demelza
scese dalla carrozza, guardandosi attorno, in quel dedalo di vicoli e
botteghe, tanto vicina al centro e allo stesso tempo tanto simile ai
posti semplici in cui aveva vissuto fino a pochi giorni prima. Il
locale commericale era grosso, composto da un ampio negozio e una
stalla a lato, era in rovina ma con un po' di lavoro si poteva
rimettere in piedi.
Sì,
sentiva di potercela fare, che era nelle sue possibilità e
che quel
posto rappresentava un nuovo inizio, per lei.
"Ti
fa paura la mole di lavoro? Ti manderò degli operai ad
aiutarti,
ovviamente non potrai fare da sola e io ho tutto l'interesse a far
funzionare questa cosa, Demelza".
"No,
non mi fa paura lavorare. Ti ringrazio, Caroline".
L'ereditiera
sorrise, tornando ad accarezzare Garrick. "A conti fatti,
sarò
io a ringraziare te. Avremo successo".
Demelza
sorrise. La nausea la attanagliava ancora, non ne capiva il motivo ma
quell'opportunità, quel regalo dal cielo riuscivano a
metterla
talmente di buon umore che per un attimo dimenticò il suo
malessere,
Ross, le lacrime e la disperazione degli ultimi giorni, proiettandosi
verso la sua nuova vita con rinnovato ottimismo.
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Capitolo 3 *** Capitolo tre ***
Avrebbe
dovuto tornare subito a Nampara al suo ritorno da Truro, ma quasi
senza rendersene conto aveva diretto il suo cavallo verso Trenwith.
Da
quella notte Ross non ci era più tornato, se non di sfuggita
per
vedere quella casa da lontano, indeciso sul da farsi, sui suoi
prossimi passi, su tutto.
Aveva
desiderato Elizabeth per tanti anni e fino a quella notte ogni scusa
era stata buona per correre da lei, ma ora che l'aveva avuta,
posseduta, era come se si sentisse il vuoto dentro di se. L'amore
vissuto è diverso da quello ideale, ha mille sfaccettature,
mille
punti di forza e mille punti di debolezza che lo rendono non
più
utopistico ma vero, nel bene e nel male. E di questo, come una doccia
fredda, si era accorto al suo risveglio al mattino, quando l'aveva
vista dormire accanto a se e le era sembrata improvvisamente
un'estranea, tanto da spingerlo ad una fuga precipitosa.
Sapeva
di sbagliare e di comportarsi come un coniglio con Elizabeth, ma non
riusciva a fare nulla. Né a entrare in quella casa per
rimanerci, né
a entrare per dirle che era stato un errore e che il suo posto era da
un'altra parte, con un'altra donna.
Pure
verso Demelza si sentiva in colpa, alla deriva. Non sapeva cosa fare,
cosa dire. Era arrabbiata con lui, ne aveva mille ragioni, ma fino a
quel momento l'aveva sempre perdonato per ogni suo colpo di testa.
E
ora invece non cedeva, non capiva e non voleva vedere la sua
confusione, non provava empatia verso i suoi sentimenti per
Elizabeth, non usava la comprensione che di solito, sempre, gli
riservava. In un certo senso era irritato anche verso di lei, oltre
che verso se stesso. Se solo Demelza avesse avuto pazienza, se solo
fosse stata più accomodante...
Invece,
da quel pugno in poi, fra loro era calato il gelo che solo le parole
taglienti di Demelza nei suoi riguardi, di tanto in tanto,
spezzavano. Parole dure, risentite, che facevano male. Era stata solo
una notte, come poteva Demelza aver perso del tutto stima e fiducia
in lui? Come poteva dire di non provare più orgoglio quando
lo
guardava? Come poteva urlare, reagire con violenza ad ogni tentativo
di comunicazione?
Era
tutto complicato per lui, perché Demelza non lo capiva?
Sospirando,
incitò il cavallo a riprendere il cammino verso casa,
lasciandosi
ancora una volta Trenwith alle spalle, incapace di concludere
qualcosa.
Sarebbe
andato a casa dove avrebbe trovato una moglie ostile, due servi
fannulloni e un figlio per cui non aveva mai tempo. Quanto meno,
qualcosa di positivo c'era, di cui parlare. A Truro aveva ricevuto
buone notizie, c'erano ancora investitori pronti a puntare su di lui
e forse la Wheal Grace sarebbe potuta ripartire con rinnovato
ottimismo, dopo il grave incidente di pochi giorni prima.
Quanto
meno, avrebbe avuto un buon argomento per tentare di intavolare una
discussione civile con sua moglie... Demelza, dopo tutto, si era
sempre dimostrata molto interessata a tutto quello che concerneva il
lavoro nella miniera, con lei aveva discusso ogni tanto, la sera, di
piani di scavo e di possibilità, di costi e benefici.
Spesso, quando
lavorava nella libreria davanti a mappe e piantine, lei era andata da
lui a fargli compagnia con una tazza di the caldo, cincendogli le
spalle con un abbraccio e standogli vicino in silenzio. A quel
ricordo, gli si contorse lo stomaco. Da quella notte, Demelza aveva
smesso di interessarsi a lui e a tutto quello che faceva, lo aveva
lasciato solo davanti a mappe e problemi, lontana e distante. Non si
era mai accorto, come in quegli ultimi giorni, di quanto averla
vicina fosse piacevole, anche e soprattutto nelle piccole cose
quotidiane.
Giunse
a Nampara che era ormai quasi buio, affamato, chiedendosi che
situazione avrebbe trovato in casa. L'ultima volta che aveva visto
sua moglie era stato durante la colazione di tre giorni prima, quando
avevano litigato e lei aveva rovesciato tazze e stoviglie a terra,
urlandogli contro tutta la sua rabbia. Poi era partito, senza dirle
più nulla. Una fuga, in fondo, come quella da Elizabeth.
Pregò
che si fosse calmata in quei tre giorni. Si rese conto che, litigare
con Demelza, era un qualcosa di difficile da gestire e che lo feriva
profondamente. Non si era mai accorto di quanto sapesse leggergli
dentro, di come sapesse prevederlo e capire i suoi pensieri
più
intimi e di come fosse capace di ferirlo a parole, colpendolo proprio
nei punti più dolenti.
Quando
entrò in casa, tutto era stranamente silenzioso ed avvolto
da una
inquietante penombra. Jud era seduto davanti al camino, impegnato a
pulire un vecchio pentolone, mentre Prudie era seduta al tavolo, a
tagliuzzare delle patate. Non c'erano traccia né di Demelza
né di
Jeremy, stranamente. "Buona sera" – disse, entrando ed
appoggiando la sacca da viaggio sul tavolo. "Mia moglie e mio
figlio dove sono?".
Prudie
e Jud si guardarono negli occhi, intimoriti. Poi Prudie si
alzò dal
tavolo, affannandosi per preparargli la tavola. "Buona sera
signore! Se avete un po' di pazienza, vi servo la cena. Non vi
aspettavamo che per domani".
"Prudie,
ti ho chiesto dov'è mia moglie?". Il tono di Ross cominciava
ad
essere seccato.
"La
signora non c'è!" - rispose infine Jud, squadrandolo in viso
con un malcelato rancore.
"Che
significa che non c'è? Dov'è? E mio figlio?".
"Non
c'è nemmeno il signorino Jeremy".
Quel
tono accusatorio e rabbioso di Jud, lo misero ancora più di
cattivo
umore. Che cosa significava? Dov'era a quell'ora della sera Demelza,
con Jeremy? Non era da lei uscire, non la sera, non senza dire dove
sarebbe andata. "Che cos'è questa storia?".
Prudie
sospirò, abbassando lo sguardo. "Se n'è andata
tre giorni fa
subito dopo la vostra partenza, signore. Ha fatto le valigie, preso
il bambino ed è sparita da questa casa e dalla nostra vita".
Gli
occhi di Ross si spalancarono dalla sorpresa, dalla rabbia, dal
terrore. Demelza se n'era andata? Andata per non tornare? Andata
dove? Per quanto? "Spiegati meglio" – mugugnò,
mentre un
groppo fastidioso gli attanagliava la gola.
Prudie
scosse la testa. "Andata via per non tornare, signore. Vi ha
lasciato".
A
Ross parve che il mondo gli crollasse addosso, doveva aver capito
male, non poteva essere... Come poteva averlo fatto? Come poteva
essersene andata senza dire nulla, senza aspettare che le cose si
sistemassero, che lui capisse cosa voleva? Era tornato comunque da
lei, dopo la notte a Trenwith, non le bastava? "Dove diavolo
è
andata?" - urlò, picchiando un pugno sul tavolo.
"Non
lo so, signore" – ammise Prudie, con gli occhi lucidi. "Non
ce lo ha voluto dire".
Jud
prese a passeggiare per la stanza, borbottando. "Non è stata
una cosa giusta, non è stata gentile, non è stata
umana...".
Ross
annuì a quelle parole, rosso d'ira, puntando l'indice verso
di lui.
"Hai ragione, Jud, stavolta non posso che essere d'accordo con
te!".
Il
servo si fermò, guardandolo in viso. Sembrava arrabbiato
pure lui.
"Certo signore! Non è stato giusto andare a Trenwith quella
notte ed abbandonare la signora. E poi, quando siete tornato, non le
avete nemmeno chiesto scusa".
Quelle
parole accesero in lui ancora più ira. Come osava Jud? Cosa
ne
sapeva, come poteva giudicare? Da quando i suoi servi erano diventati
tanto insolenti? E Demelza, come aveva potuto osare? Con che coraggio
se n'era andata? Dannazione, erano sposati, era sua moglie! "Ne
riparleremo domani di questa storia, dovevate impedirglielo,
dannazione!".
"La
signora è libera, come tutti, di uscire da quella porta e
andare
dove vuole, non abbiamo certo il diritto di fermarla" –
rispose a tono, Jud.
"Come
vi ho detto, ne riparleremo domani! Ora vado a letto, non ho fame!"
- disse, trattenendo a stento la rabbia.
Lasciò
i servi, salì velocemente le scale ed entrò nella
stanza da letto
sbattendo la porta dietro di se.
Osservò
quell'ambiente e gli parve cambiato, freddo. Il letto a baldacchino e
i mobili erano ancora al loro posto, ma le candele erano spente, una
pesante oscurità aveva preso possesso della stanza e non
c'era più
nulla che riportasse alla presenza di sua moglie e di suo figlio.
Il
letto e la culla di Jeremy erano vuote, tutto era desolatamente in
ordine e un silenzio opprimente pareva soffocare la camera e la sua
gola.
Si
avvicinò alla parete e sferrò un violento pugno
contro il muro.
Se
n'era andata...
Si
chiese se, quella notte che aveva passato con Elizabeth, Demelza
avesse provato le stesse cose che stava provando lui in quel momento.
Stupore, rabbia, desolazione, solitudine, disperazione...
Osservò
la spinetta accanto al letto, ricordando quanto Demelza amasse
suonare, di tanto in tanto, e di come lui spesso si fosse fermato a
guardarla mentre lo faceva, impalato davanti alla porta, rapito da
quei lunghi capelli rossi ribelli che le ricadevano sulla schiena.
Alzò
il coperchio che copriva la testiera, per poi richiuderlo con
violenza.
Se
n'era andata, al diavolo! Non avrebbe dovuto farlo, non doveva
permettersi! Si rese conto che non aveva mai contemplato una cosa
simile, che non si era minimamente soffermato a pensare a questa
eventualità. Demelza c'era sempre stata per lui, ad ogni suo
ritorno
a casa, ad ogni suo errore era stata capace di perdonare e di stargli
accanto. Perché ora no? Perché lo aveva
abbandonato? Sapeva cosa lo
aveva legato ad Elizabeth, lo aveva sempre accettato e in fondo
entrambi erano consapevoli che prima o poi sarebbe successo, no?
Si
sentiva tradito, rabbioso, pensava a lei ed era come pensare a un
nemico.
L'avrebbe
ritrovata, a costo di mettere a ferro e fuoco tutta la Cornovaglia. E
l'avrebbe riportata a casa, al suo posto, che le piacesse o no! Era
sua moglie, aveva dei doveri, aveva delle responsabilità.
"E
io ho bisogno di te...".
Deglutì,
sedendosi su quel letto freddo e vuoto, stringendo la coperta fra le
mani. Aveva un mal di testa atroce, si sentiva stanco e confuso, alla
deriva.
Demelza
se n'era andata, non era più la signora di Nampara, la sua
signora...
"La
mia stella guida...".
Si
rese conto che quello che le aveva detto quel giorno corrispondeva
alla verità. Era la sua stella guida, colei che le indicava
il
cammino, ed ora si sentiva, oltre che arrabbiato, perso.
E
Nampara, la sua casa, il suo rifugio, per un attimo gli parve uguale
a quello che era stato dieci anni prima, al ritorno dalla guerra. Un
posto freddo, vuoto, atto solo a coprirti la testa durante i
temporali. Ma non una casa...
Lei
l'aveva resa la sua casa...
E
ora che se n'era andata, era come se Nampara avesse perso la sua
anima.
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Capitolo 4 *** Capitolo quattro ***
Nei
giorni seguenti, Ross era partito ed aveva messo a ferro e a fuoco
tutta la Cornovaglia. Era andato a Illugan a cercare Demelza a casa
di suo padre, poi si era spostato da Verity, aveva chiesto
informazioni al villaggio dove vivevano la maggior parte dei suoi
minatori e infine era andato pure a Southempton, per verificare che
non si fosse imbarcata per il nuovo mondo.
Ma
nulla, ogni ricerca era risultata vana ed infruttuosa. La
preoccupazione e la frustrazione per quanto successo con sua moglie
fecero passare in secondo piano i turbamenti per Elizabeth che, Ross
lo sapeva, continuava ad aspettare una sua risposta, un suo cenno.
Ma
non ne aveva tempo, non poteva occuparsi anche di lei, ora che
Demelza se n'era andata. La cosa principale era ritrovare sua moglie
e riportarla a casa, assieme a Jeremy.
Era
furioso, preoccupato, si sentiva in trappola. La gente che lo
frequentava aveva capito che qualcosa non andava, che Demelza non
c'era ma per fortuna nessuno gli aveva ancora fatto domande dirette
circa l'assenza di sua moglie. Ma sapeva che presto avrebbe dovuto
affrontare la questione anche con gli altri, ammettere che sua moglie
lo aveva lasciato e il perché. Provava vergogna, verso se
stesso e
verso l'immagine che avrebbe dato di lui al mondo.
Dopo
due settimane di ricerche forsennate, ormai non sapeva più
dove
sbattere la testa. Doveva parlare con qualcuno o sarebbe impazzito!
Ogni
giorno aveva sperato che Demelza cambiasse idea e tornasse ma era
anche consapevole di quanto lei fosse testarda ed irremovibile quando
prendeva una decisione, difficilmente avrebbe fatto ritorno a Nampara
di sua spontanea volontà.
Bussò
con energia alla porta di Dwight che, dopo pochi istanti
aprì
l'uscio. "Ross, qual buon vento! E' un po' che non ci vediamo.
Tutto bene?".
"No".
Entrò in casa, sedendosi al tavolo. Senza aspettare l'amico,
si
versò del vino in un bicchiere e bevve tutto d'un fiato.
Dwight
gli si avvicinò, preoccupato. "Ross, cosa succede?" -
chiese, sedendosi accanto a lui.
Ross
si portò le mani alla fronte, chiudendo gli occhi. "Demelza
se
n'è andata".
"Cosa?
Che diavolo stai blaterando?".
"Se
n'è andata, mi ha lasciato. Ha preso Jeremy ed è
sparita nel
nulla".
Dwight
spalancò gli occhi, incredulo. "Andata per non tornare? Ma
chi,
Demelza? Perché?".
Ross
scosse la testa, allungando la mano per prendere il bicchiere vuoto
davanti a lui. "L'ho tradita. E' stato solo una volta, una
notte, è stato qualcosa di irrazionale, non avevo scelta,
non potevo
fermarmi...".
Dwight
trattenne il fiato, evidentemente in difficoltà. "Hai
tradito
Demelza? Come hai potuto farlo, Ross? Hai una moglie meravigliosa che
tutti ti invidiano, dannazione! Con chi, perché?".
Ross
sospirò, abbandonandosi sulla sedia. "Con Elizabeth. Mi ha
comunicato per lettera l'intenzione di sposarsi con George Warleggan
e ho perso la testa. Demelza ha cercato di fermarmi ma non ci
è
riuscita. E così sono andato a Trenwith e... Beh Dwight, lo
sai, io
sogno Elizabeth da sempre, è il mio primo amore e non l'ho
mai
dimenticata e...".
"Ross,
che stai dicendo, cosa stai blaterando? Santo cielo hai tradito tua
moglie e stai quì ad accampare scuse? Demelza ti ha sempre
amato più
di ogni altra cosa, ti è sempre stata accanto e solo Dio sa
quanto
possa essere stato duro in certi frangenti vivere con uno come te e
tu... tu nel mentre non avevi mai dimenticato Elizabeth?".
Il
tono di voce acuto di Dwight lo fece sussultare. "So che sembra
terribile detto così, ma io...". Cercò di
prendere la
bottiglia per riempirsi nuovamente il bicchiere, ma Dwight glie lo
impedì. "Ti prego, ne ho bisogno" –
implorò.
Dwight
scosse la testa. "No, non ne hai bisogno! Quello che ti serve
è
essere sobrio e lucido e trovare una soluzione a questo disastro.
Sempre che...".
"Sempre
che, cosa?".
Dwight
si sedette accanto a lui. "Sempre che la partenza di Demelza non
ti sia utile a stare con Elizabeth. Ti faciliterebbe le cose, se
è
lei che vuoi".
A
quelle parole, Ross alzò lo sguardo su di lui, colpito da
quanto
aveva appena detto. Quella di Dwight era evidentemente una
provocazione, ma era vero, se Demelza non c'era più, la
strada per
arrivare ad Elizabeth sarebbe stata in discesa per lui. Ma
stranamente questa era un'ipotesi che non lo allettava per niente,
non ci aveva mai pensato e nemmeno ora gli passava per la mente di
fare una cosa del genere. Da quando Demelza era partita, ogni suo
pensiero era rivolto a lei e alla sua ricerca, era sua moglie e non
concepiva minimamente l'ipotesi che potessero vivere lontani. Gli
mancava, doveva ammetterlo a se stesso! Così come non poteva
non
ammettere che gli sarebbe piaciuto tornare indietro a quella notte e
fare tutto in maniera diversa, rimanere a casa con lei, evitare
Elizabeth e salvare così il suo matrimonio.
Ma
il danno era fatto ed ora si sentiva perso. "Io voglio riportare
a casa mia moglie. Elizabeth è stata... Sai, quelle cose...
quelle
cose che idealizzi e che ti sembrano perfette quando le vedi da
lontano e poi, una volta che le hai provate, non ti attirano
più? Le
vedi per quel che sono da vicino, belle, piacevoli, ma che non
valgono nulla in confronto a chi hai accanto e con cui condividi la
vita. Io rivoglio Demelza a casa, solo questo. L'ho cercata ovunque e
non è da nessuna parte".
"Ross,
sai che è un bel casino, vero?".
"Lo
so, Dwight. Non credevo che sarebbe successa una cosa simile".
Il
dottore sospirò, poggiandogli amichevolmente una mano sulla
spalla.
"Ross, una donna vuole essere unica per il suo uomo. Anche
Caroline, in fondo, sentiva la competizione coi miei pazienti e alla
fine è andata a finire come ben sai".
"Caroline
se n'è andata perché tu, invece che partire con
lei, hai perso
tempo a cercare di salvare il didietro a me. Mi sento terribilmente
in colpa per questa cosa e spero di poterti aiutare a risolverla, un
giorno".
Dwight
sospirò. "Era destino che andasse a finire così,
siamo troppi
diversi, non avrebbe funzionato". Si sedette accanto a lui,
prendendo a sua volta la bottiglia e riempiendo i due bicchieri. "Sai
una cosa? Una bella bevuta ce la meritiamo, in fondo. E per quanto
riguarda Demelza...".
"Cosa?".
"E'
testarda Ross, ma ti ama. Qualsiasi cosa sia successa ed ovunque lei
sia, ti ama. Pensa a questo, se non sai dove sbattere la testa".
"Già".
Entrambi
bevvero, svuotarono la bottiglia e poi rimasero in silenzio seduti al
tavolo ad osservare il soffitto, ognuno col suo peso nel cuore.
Avevano amato due donne che non erano riusciti a tenere ed ora era
come se il mondo attorno a loro si sgretolasse, facendoli sentire
alla deriva.
"Ho
deciso di arruolarmi come medico di marina, Ross".
"Forse
dovrei farlo anch'io, a questo punto. La miniera, anche coi nuovi
fondi ottenuti a Truro, non da garanzie e non ho più una
famiglia di
cui occuparmi".
Dwight
sospirò. "Fallo se senti che è la tua strada. Ma
prima,
accertati di averle tentate tutte con Demelza, per ritrovarla".
"Lo
farò".
...
Rientrò
che era ormai buio, mancava da due settimane da Nampara, da quando
era partito alla ricerca di Demelza, cavalcando per mezza
Inghilterra. Per un attimo sperò che fosse tornata ma quando
entrò
in cucina, le candele spente e il silenzio opprimente gli tolsero
ogni illusione.
Prudie
gli andò incontro, ciabattando e borbottando. "Signore,
siete
tornato! E' piuttosto tardi. Volete mangiare qualcosa?" -
chiese, con scarso entusiasmo.
"No,
andrò subito a letto. Ci sono novità? Lettere,
notizie su
Demelza...".
Prudie
scosse la testa. "Ci sono delle missive per voi. Una arriva da
Trenwith, il matrimonio fra il signor Warleggan e la signora
Elizabeth si terrà fra una settimana".
La
freddezza con cui accolse quella notizia lo stupì. Tre
settimane
prima aveva dato fuori di matto, distruggendo il suo matrimonio con
Demelza all'idea che Elizabeth sposasse George. Ora invece non
provava nulla. "Ci sono altre belle notizie per me o posso
andare a letto?" - chiese, con una punta di ironia nel tono di
voce.
Prudie
annuì. "E' stato quì il vostro socio alla
miniera. Ha detto di
dirvi di correre subito da lui, appena tornato. Pare che abbiano
trovato ingenti quantità di stagno dietro la parete
crollata. Tanto
ingenti da farvi quasi diventare ricco".
"Cosa?".
Era una buona notizia per i suoi uomini, se quello che aveva detto
Prudie corrispondeva a verità, era la realizzazione di un
sogno e il
coronamento di anni di fatica. Ma non riusciva a gioirne. Quanto
avevano faticato, perso, sofferto lui e Demelza negli anni di
povertà
che avevano condiviso insieme, aspettando un momento simile? Ed ora
quel momento era quì e lei non c'era più...
L'amarezza lo invase,
come un veleno. "Grazie Prudie, domani mattina andrò alla
miniera quanto prima".
"Aspettate
ad andare a letto signore, c'è un'altra cosa?".
Ross
alzò gli occhi al cielo. Che diavolo poteva esserci ancora?
"Cos'altro c'è?".
Prudie
rovistò nella tasca del suo grembiule, estraendone una
lettera. "E'
della signora. L'ho trovata sotto il cuscino del letto in cui avete
dormito in libreria, dopo che...".
La
interruppe, mentre il cuore prendeva a galoppargli nel petto. "Di
Demelza?".
"Si
signore, deve averla scritta prima di lasciare questa casa. L'ho
trovata quando ho disfatto il letto, visto che ormai siete tornato a
dormire nella stanza padronale".
Con
le mani tremanti, Ross prese la lettera e senza dire nulla
salì al
piano di sopra, chiudendosi nella sua stanza. Si gettò sul
letto,
con mente e cuore in tumulto. Una lettera, da Demelza... Forse non
tutto era perduto, forse gli aveva lasciato un recapito, una
spiegazione, un qualche appiglio per ritrovarla. La aprì,
speranzoso
e allo stesso tempo terrorizzato. Riconobbe la scrittura elegante,
ordinata e pulita di sua moglie, molto migliore della sua.
"Ross,
ti scrivo questa lettera per informarti che sto partendo con Jeremy.
Non ha importanza né dove andrò, né
quello che farò ma ti
rassicuro che farò di tutto perché nostro figlio
stia bene, su
questo puoi dormire sonni tranquilli. Sono la figlia di un minatore
dopo tutto, una donna del popolo. E le donne del popolo sanno
cavarsela anche senza avere un uomo accanto, sanno lavorare ed
arrangiarsi da sole. Le donne del popolo non hanno bisogno
né di
aiuto né di attenzioni, come giustamente avevi detto ad
Elizabeth
durante una vostra vecchia conversazione che avevo ascoltato per
errore, a Trenwith.
Non
cercarmi, sarebbe una inutile perdita di tempo perché non
tornerò.
Non hai responsabilità verso di me, sentiti libero di vivere
come
vuoi, accanto alla donna che hai sempre desiderato. In fondo ho
sempre saputo che sarebbe successo, che era lei che volevi, che ero
solo una seconda scelta. Non è una bella sensazione vedere,
giorno
dopo giorno, che l'uomo che ami non ti considera abbastanza per lui.
E non voglio che mio figlio provi quello che provo io crescendo,
vedendo suo padre che sogna una vita e una famiglia altrove. Lo so,
l'ho sempre saputo che era Elizabeth che volevi, che né io,
né
Julia, né Jeremy saremmo mai stati alla sua altezza, che
quella
perfetta per te era lei. Non me ne vado per il tradimento di una
notte ma per tutti quelli avvenuti prima, ogni volta che diventavamo
invisibili e tu correvi da lei, senza curarti del fatto che ne
potessimo soffrire. Mi hai tradita in mille modi Ross e forse
l'ultimo non è nemmeno stato il peggiore.
Ora
non avrai più bisogno di accampare scuse, ora potrai vivere
con lei
alla luce del sole. Tu ed Elizabeth.
Il
vostro amore supererà ogni ostacolo, come non è
riuscito a fare il
nostro. Siete perfetti e fatti per stare insieme, come le avevi
detto sempre in quella famosa conversazione che ho sentito, mio
malgrado.
Ora
potrete farlo, potrete vivere il vostro amore, mi faccio da parte e
me ne vado. Ti auguro di essere felice con lei, sul serio. L'unica
cosa che ti chiedo, per me e per Jeremy, è di non cercarci
più.
Vivi la tua vita e permetti a noi di vivere la nostra, serenamente,
senza sentire il peso del confronto con altre persone. Non sentirti
in obbligo, mai, non ne abbiamo bisogno.
Demelza
Gli
sembrò che la stanza gli
collassasse addosso. Cercò di ricordare a quale
conversazione si
riferisse Demelza nella lettera ma i suoi ricordi in quel momento
erano confusi ed incoerenti.
Era una
lettera breve, non
rabbiosa, non accusatoria, una lettera scritta con cuore ferito della
donna che aveva sposato e che aveva giurato di amare sopra ogni altra
cosa.
Facevano
male quelle parole
messe nere su bianco, gli davano la consapevolezza di ogni suo errore
o torto, di quanto l'avesse fatta soffrire, di quanto l'avesse
trascurata, di quanto l'avesse ferita, tanto da farle credere di
essere la seconda scelta, un ripiego. Non era vero che non l'aveva
mai considerata abbastanza per lui, non era vero dannazione!
E ora, che
avrebbe fatto?
Non era il
tradimento di una
notte che aveva spinto Demelza ad andarsene, ma il tradimento di
tutte le promesse che gli aveva fatto e che non si era mai curato di
mantenere, troppo preso da se stesso, dal voler cambiare il mondo,
dal suo antico ed utopistico amore giovanile.
L'aveva
persa, giorno dopo
giorno. E per la prima volta ne aveva la piena consapevolezza.
E ora che
era rimasto solo,
aveva la certezza di capire cosa avesse provato lei per anni. Ed era
qualcosa di terribile.
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Capitolo 5 *** Capitolo cinque ***
I
lavori di ristrutturazione procedevano speditamente. Grazie alla
moltitudine di operai che gli aveva inviato Caroline a pulire,
rassettare, riordinare, rimodernare e riarredare gli ambienti
dell'attività e dell'appartamento, nel giro di poche
settimane la
locanda aveva ripreso vita.
Il
tempo, ormai votato alla primavera e al bello, era stato clemente e
con poca pioggia, il che aveva aiutato non poco il procedere spedito
dei lavori.
"Se
va avanti così Demelza, fra meno di un mese potremo aprire
ufficialmente, di nuovo, questo posto".
Demelza
sorrise. Caroline veniva spesso a controllare il procedere della
ristrutturazione e ormai la considerava un'amica. La guardò,
affascinata dalla sua rara bellezza, da quei capelli così
biondi
raccolti in raffinati boccoli, dai suoi occhi azzurri come il
ghiaccio e dal suo portamento così elegante, raffinato,
impreziosito
da un fisico snello e slanciato. Caroline era giovanissima,
bellissima, una delle più ricche ereditiere di Londra e
sicuramente
uno dei partiti più ambiti. Eppure, sotto la sua scorza di
donna
ricercata e viziata, si nascondeva l'animo di una ragazza ancora
giovanissima che era stata vicina ad abbandonare tutto il suo mondo
per amore di un dottorino squattrinato di campagna. L'ammirava per
questo, soprattutto per questo. Più che per i suoi gioielli
e i suoi
abiti eleganti, si sentiva attratta da quell'animo molto più
puro e
lucente di quello di tanti altri nobili. "Non vedo l'ora di
mettermi all'opera, odio starmene con le mani in mano".
A
quell'esclamazione, Caroline scoppiò a ridere. "Con le mani
in
mano? Demelza, ti ho vista portare assi, usare con maestrìa
un
martello e correre più di tutti questi uomini messi insieme,
o
dietro al lavoro o dietro a tuo figlio! Non mi sembra che il tuo
stile di vita sia così riposante, allo stato attuale, e
credo che
quando l'attività sarà aperta, sarà in
quel momento che potrai
riposarti... Se devo essere onesta comunque, dovresti rallentare un
attimo. Ultimamente sei pallidissima, ti stai stancando troppo. Sei
sicura di sentirti bene?".
A
quella domanda, Demelza si morse il labbro. No, non stava bene e
tutta la frenesia degli ultimi tempi forse non era che un modo per
non pensarci troppo. Ma a Caroline doveva dirlo, con lei doveva
essere sincera e c'era un segreto che ormai si portava dietro da
settimane e che presto sarebbe stato evidente.
Quando
se n'era andata da Nampara quasi non lo sospettava, ma giunta a
Londra, settimana dopo settimana, quel piccolo dubbio era pian piano
diventato una realtà e quando era stata male di stomaco,
più volte,
sentendo l'odore della vernice per imbiancare le pareti, la certezza
era diventata inconfutabile.
Si
massaggiò il ventre, ricordando quante lacrime aveva versato
da
sola, chiusa in una camera al piano di sopra non ancora
ristrutturata, lontano da tutto e tutti, quando aveva capito...
C'era
stato un tempo in cui lei e Ross erano stati amanti appassionati e
lei una moglie innamorata. L'amore per lui, nonostante tutto, c'era e
ci sarebbe sempre stato, ma la passione no, quella era finita in
cenere nell'esatto istante in cui Ross le aveva detto di togliersi di
mezzo ed era corso da Elizabeth.
Ma
prima di allora, dopo la faccenda del contrabbando, lei e Ross si
erano amati, notte dopo notte, facendo l'amore in quel modo
meraviglioso che, in quegli istanti, riusciva ad isolarli dal mondo e
da tutto e tutti. In quei momenti tanto intensi, perfetti, Ross era
suo, solo suo, nemmeno Elizabeth riusciva a mettersi fra di loro. Ed
era in quei momenti che avevano concepito Julia, Jeremy e...
Era
sempre stata felice quando aveva scoperto di aspettare un figlio, ma
stavolta era diverso. Il suo matrimonio era in frantumi, Ross era
ormai di un'altra donna e per lei e i suoi bambini non c'era
più
posto nella sua vita. Era sola, i suoi figli sarebbero stati soli,
senza un padre a guidarli. Sapeva che sarebbe stato difficile per
Jeremy ma quando se n'era andata da Nampara, quasi due mesi prima,
non poteva immaginare che dentro di lei, da poche settimane, stesse
crescendo una nuova vita, un bambino che Ross non avrebbe mai
conosciuto, di cui ignorava l'esistenza, un bimbo che aveva iniziato
a vivere mentre suo padre la tradiva e la abbandonava a se stessa,
incurante del dolore che le aveva provocato e dei suoi sentimenti.
"Aspetto un bambino, Caroline" – sussurrò, con un
filo
di voce.
La
ragazza spalancò gli occhi, a bocca aperta. "Cosa?".
Demelza
guardò Jeremy, a pochi passi da loro, in un angolo del
locale,
intento a giocare con Garrick e Horace, il cane di Caroline. "E'
successo prima che...".
"Prima
che Ross ti tradisse?".
Demelza
sorrise, amaramente. "Su questo puoi starne certa perché poi
non l'ho più nemmeno fatto avvicinare alla camera da letto".
Caroline
scosse la testa e poi le prese la mano, stringendola fra le sue. "Mi
dispiace, non so nemmeno cosa dirti, non ho figli e non ho idea di
come tu possa sentirti".
"Tradita,
umiliata, disperata, sola, in colpa".
"Ti
senti in colpa? Demelza, lui ti ha messa incinta e poi è
corso nel
letto di un'altra! E ti senti in colpa TU?".
Demelza
sentì gli occhi inumidirsi e fece del suo meglio per non
scoppiare a
piangere davanti agli operai che andavano e venivano e soprattutto
davanti a Jeremy. "Mi sento in colpa perché quando ho
scoperto
che questo bimbo esisteva, non ne sono stata felice come per gli
altri. Mi sento in colpa perché lo metterò al
mondo in una
situazione orrenda e non ho idea di che futuro potrò
garantirgli. Mi
sento in colpa perché ho paura, invece che esserne contenta.
Sono
terrorizzata Caroline, io non so se ce la faccio a portare avanti da
sola una gravidanza, a partorire senza avere Ross a fianco, a gestire
tutto senza crollare".
Caroline
le strinse ancora più forte le mani. Poi le
accarezzò una spalla,
cercando di farle coraggio. "Senti, lasciamo un po' da parte la
locanda, che ne dici? Ti trasferisci da me, ti passi la gravidanza
con tranquillità e quando nascerà il bimbo,
riparleremo di aprire
questo posto".
"No".
La
risposta sicura di Demelza, fece sussultare Caroline. "Demelza,
sii ragionevole".
"Non
ho mai accettato di vivere alla spalle di nessuno e poi, se mi fermo
ora, avrò troppo tempo per pensare, Caroline. Devo avere
qualcosa da
fare o impazzirò e il lavoro alla locanda, finita la
ristrutturazione, non sarà così faticoso. Non
sono malata e non ho
mai passato nessuna gravidanza a letto. Non mi sembra il caso di
farlo ora".
"Va
bene. Ma per quanto riguarda Ross, che farai? Glielo dirai?".
Demelza
scosse la testa mentre le lacrime, nuovamente, rischiavano di rigarle
il viso. "No, non posso. Non vuole me, non voleva nemmeno Jeremy
ed ora che la strada verso Elizabeth è spianata per lui,
vedrebbe
questo bambino unicamente come un peso, un errore, come l'ennesimo
intoppo. Non posso fare questo al mio bambino, non posso. Lo
terrò e
lo crescerò da sola, come farò con Jeremy. E
Ross...".
Deglutì, era così difficile ammetterlo... "Lui
starà con la
donna che ama, con Geoffrey Charles e avrà figli con
Elizabeth,
forse, un giorno. E' con lei che desidera diventare padre, una vera
lady gli darà sicuramente figli migliori, ai suoi occhi, di
quelli
che ha avuto con me".
Caroline
abbassò il viso, incerta su cosa dire. "Io credo che Ross
invece se ne pentirà un giorno, di quel che ha fatto".
"Io
credo di no".
"Demelza,
tu sei sconvolta, hai mille ottime ragioni per esserlo e ora vedi
tutto nero ma... sei così sicura che non ti abbia mai amata?
Era
distratto, ha commesso mille passi falsi, ti ha tradita ma... voi
siete stati anche felici, insieme".
Demelza
abbassò lo sguardo, vinta nuovamente dai ricordi. Ricordi
anche
felici di sorrisi, abbracci, di parole sussurrate rivolte solo a lei
e che solo lei poteva sentire, di giornate dure passate a far
quadrare i conti coi pochi soldi a disposizione e nonostante questo
serene, perché erano insieme. I ricordi belli,
più di quelli
orrendi degli ultimi giorni a Nampara, erano quelli che la facevano
soffrire di più. Si sentiva sola, tremendamente sola e
inerme, senza
appigli, senza certezze, senza alcun affetto a parte Jeremy e quel
piccolo che cresceva dentro di lei. "Dovrebbe nascere a
novembre" – sussurrò, per cambiare discorso e
pensare a
qualcosa di bello.
Caroline
sorrise. "Quindi, per Natale, avrai un bel regalo! Sappi che ti
riempirò casa di cose per neonato, a Londra esistono negozi
di moda
infantile meravigliosi. Se sarà una bambina, ti
inonderò di abitini
da principessa".
A
quelle parole, per la prima volta nella giornata, Demelza sorrise.
"In realtà, ho come la sensazione che sarà
femmina. E spero
che questa attività che stiamo per aprire mi permetta di
poter
mantenere i miei figli".
"Andrà
bene!". Caroline frugò nella sua borsa, tirando fuori un
plico
di fogli. "A proposito, è per questo che sono venuta, oggi.
Tieni".
"Cosa
sono?" - rispose Demelza, prendendo i fogli.
Caroline
alzò le spalle. "Scartoffie burocratiche che mi ha preparato
il
mio legale, che devi firmare per iniziare l'attività.
Leggitele con
calma stasera e poi ritornamele firmate appena puoi".
"Lo
farò. Grazie di tutto, Caroline". Quella nuova vita, stava
diventando improvvisamente reale.
"Bene,
allora per oggi posso andare". L'ereditiera si avvicinò alla
porta, salutandola con un cenno della mano. "Demelza, ricordati
che sono tua amica e che potrai contare su di me per qualsiasi cosa".
"Lo
ricorderò".
Caroline
le sorrise, prese Horace fra le braccia, accarezzò la
testolina di
Jeremy e scomparve nella via.
...
Era
ormai sera tardi, Jeremy dormiva nel suo lettino e Demelza non
riusciva a dormire.
Passeggiò
nel corridoio della sua nuova casa, ormai quasi del tutto abitabile
ed ammobigliata grazie alla generosità di Caroline,
accarezzandosi
il ventre ancora piatto.
Ora
che era sola, poteva permettersi di piangere, in silenzio, senza che
il mondo si accorgesse di quanto fosse fragile in quel momento.
Pensò
a Jeremy, al suo nuovo figlio in arrivo, a Ross e un moto di rabbia
la spinse a dare un pugno contro la parete. Era disperata, stanca,
arrabbiata con se stessa. "Ti odio, Ross" –
sussurrò
contro la parete, singhiozzando. Erano solo parole, uno sfogo... Non
era odio vero, non riusciva a farlo, nonostante tutto. Lo amava
ancora, lo avrebbe sempre amato, odiarlo le avrebbe reso le cose
più
semplici ma non le riusciva. Ross era stato il suo amore, colui che
l'aveva salvata da una vita fatta di miseria, colui che l'aveva resa la donna e
la madre che era adesso.
Ma
ora il suo ricordo la rendeva fragile, spezzata e debole. Doveva
lasciarselo indietro, dimenticarlo, riporre i suoi ricordi con lui in
un angolo del cuore il più irraggiungibile possibile o
sarebbe
impazzita. E non poteva permetterselo, lo doveva ai suoi figli, loro
meritavano una madre serena.
Aspettò
di calmarsi, seduta nel buio della notte, nel corridoio. Poi, quando
fu sufficientemente certa che non avrebbe pianto nuovamente e
svegliato Jeremy, tornò nella stanza.
Accese
una candela sul comodino, si sedette alla piccola scrivania al lato
del letto e lesse i documenti che le aveva lasciato Caroline.
Era
quella la sua nuova vita, ora. E doveva lasciarsi alle spalle quella
vecchia, se voleva avere successo ed essere indipendente e in grado
di crescere i suoi figli.
Sfiorò
la fede al suo dito che riposava lì silenziosa, ricordandole
costantemente un grande amore che non c'era più. Non se
l'era mai
tolta, dal giorno del suo matrimonio con Ross quell'anello era
sempre stato il suo orgoglio. E quindi con immensa fatica, dolore, se
la sfilò, chiudendola con un gesto secco nel cassetto della
scrivania, al buio, lontana dai suoi occhi e dal suo cuore, per
sempre.
Poi
prese la penna, la intinse nell'inchiostro e prese a firmare i
documenti in un modo nuovo, mai usato, perché quando
sfoggiava quel
cognome, ancora non sapeva scrivere. Firmò tutto, rimanendo
stupita
di quanto la sua firma ora le apparisse estranea, quasi non sua.
Eppure doveva abituarsi. Non era più Demelza Poldark, ora.
"Demelza
Carne".
Faceva
male leggere quel nome. Ma era quello che era tornata ad essere.
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Capitolo 6 *** Capitolo sei ***
"Signore,
oggi è stato quì un domestico di Trenwith. Vi
ricorda che dovete
ancora rispondere all'invito per il matrimonio fra il signor
Warleggan e miss Elizabeth. Si sposeranno domani".
Ross
alzò gli occhi al cielo. Già, se n'era
dimenticato! O non aveva
voluto stare troppo a pensarci. "Hai ragione Prudie, l'ho
scordato. Il lavoro alla miniera mi ha assorto totalmente in questi
ultimi giorni". In fondo era una bugia a metà
perché era vero,
da quando la parete era crollata il mese prima, quella miniera era
diventata fonte di ricchezza per lui, i suoi soci e i minatori che vi
lavoravano. Si era perso dietro libri contabili, pagamenti, progetti
e non aveva pensato ad altro che al lavoro per giorni, era
più
comodo così, faceva meno male avere un qualcosa a cui
pensare.
"Quindi
signore? Mando Jud a Trenwith con la vostra risposta?".
"No".
Si massaggiò le tempie, incerto sul da farsi ma consapevole
di
quello che sarebbe stato un suo dovere già da diverse
settimane. Non
era come quella sera di un mese prima, non era furente e fuori di se
ma al contrario, di una calma controllata che non gli era mai
appartenuta. Doveva qualcosa ad Elizabeth, sapeva di essere stato
pessimo con lei, tanto quanto lo era stato con Demelza. Ed era ora di
iniziare a riparare ai suoi errori.
Non
poteva cambiare l'ordine delle cose, il passato e tanto meno poteva
modificare un futuro già segnato con promesse che non poteva
mantenere perché lo sapeva, non era Elizabeth nel suo
destino, non
lo era mai stata e mai come in quel momento gli appariva chiaro. Ma
un mese prima si era introdotto a casa sua con la forza, aveva
buttato giù a calci una porta, l'aveva travolta con una
furia quasi
non umana, lui che l'aveva sempre vista come un qualcosa di
utopisticamente inarrivabile, come una bambolina da trattare con la
massima cura.
E
dopo quell'amplesso, dopo quella notte di amore selvaggio con lei,
cosa era rimasto in lui? La fine di un sogno infantile, di un'utopia,
la fine dell'illusione di un amore puro e perfetto, la percezione
della vera realtà che lo circondava, la consapevolezza di
aver
idealizzato come un bambino mai cresciuto qualcuno di distante e non
aver apprezzato il vero amore che aveva costantemente a fianco. Aveva
una moglie che amava più della sua stessa vita, che aveva
ferito e
tradito e che aveva perso assieme a suo figlio. E una donna che aveva
sempre desiderato e che ora, dopo quanto successo, gli appariva
lontana, estranea, diversa da lui in tanti di quei modi che, ora lo
sapeva, non poteva durare fra loro. Elizabeth non era Demelza, non si
sarebbe mai adattata a vivere in povertà, non avrebbe mai
sorriso
davanti alle difficoltà della vita e non si sarebbe
rimboccata le
maniche per sopravvivere, non ne era capace. Elizabeth non lo avrebbe
amato dopo ogni sbaglio, non lo avrebbe accolto con un sorriso anche
se le cose andavano male, non sarebbe stata in grado, totalmente
inadatta, a stare accanto a un uomo complesso e portato all'errore
come lui.
Era
Demelza il suo amore, Demelza che aveva sempre messo da parte, data
per scontata, che aveva lasciato un vuoto in quella casa tanto
assordante che a volte gli faceva mancare il fiato, che era la sua
migliore amica, un'amante tenera ed appassionata che sapeva
soddisfare ogni suo bisogno e soprattutto che era la meravigliosa
madre dei suoi figli. La sua vita l'aveva costruita con lei e con lei
era stato il più felice degli uomini, lei era stata il suo
rifugio,
la sua forza, il suo amore vero, sincero, imperfetto forse ma
talmente forte da superare ogni tempesta che li aveva investiti.
"Signore?".
"Scusa
Prudie, stavo pensando. Lascia stare Jud, a Trenwith ci vado io
stesso".
Prudie
spalancò gli occhi, preoccupata. "Adesso? Ma... Signore, non
è
il caso... L'ultima volta che...".
Ross
sospirò, capendo a cosa alludesse la donna. Era in
imbarazzo,
ecco... "Torno presto, non starò via tutta la notte. Vedi di
prepararmi una cena commestibile per quando sarò tornato,
piuttosto.
Quella di ieri sera mi ha distrutto lo stomaco".
Senza
aspettare una risposta, si rimise il tricorno in testa ed
uscì a
cavallo, diretto a Trenwith.
Il
vento era impetuoso, c'era aria di tempesta e non aveva voglia di
perdere più tempo del necessario. Doveva parlare con
Elizabeth,
chiarire con lei la sua posizione e cercare di dissuaderla, questa
volta con la ragione, da quell'idea malsana di sposarsi con George.
Certo, ormai poteva essere troppo tardi ma doveva comunque provarci.
Non sapeva se Elizabeth lo facesse per vendicarsi di lui o per amore
vero, ma George era il demonio e le avrebbe rovinato la vita.
Giunse
a Trenwith dove, dopo aver bussato alla porta, un cameriere lo fece
entrare nel salone principale.
"Nipote,
qual buon vento".
Ross
sorrise. Zia Agatha stava seduta al solito tavolo a fare i suoi
tarocchi, come sempre. Le si avvicinò, baciandole la mano.
"E'
sempre un piacere vederti, zia".
La
vecchia lo squadrò in viso. "Stavolta sei entrato in questa
casa in modo più consono al tuo rango è, Ross?
L'ultima volta ci
hai scardinato una porta e ci è costato un salasso farla
riparare.
Devi imparare ad essere più discreto".
Ross
deglutì. Quella donna aveva quasi cento anni e l'occhio
più lungo
di una lince. "Ecco...".
Zia
Agatha ridacchiò, prendendo a rigirare le sue carte. "Sei
venuto per Elizabeth?".
"Devo
parlarle un attimo".
La
donna scosse la testa, il volto incupito da foschi pensieri. "Domani
porterà il demonio in questa casa. E quando fai un patto col
diavolo, poi devi essere pronto a pagarne le conseguenze. Ma
purtroppo non sarà l'unica a pagarle, temo".
"A
chi ti riferisci?".
"Al
bambino, a Geoffrey Charles. E' l'ultimo Poldark rimasto in questa
casa e pensi che George lo gradisca?".
Anche
Ross si incupì a quelle parole. Era vero e sapeva
altrettanto bene
che George era spietato e non si sarebbe fermato neanche davanti a un
bambino ancora piccolo, orfano di padre. "Dov'è Elizabeth?".
Zia
Agatha alzò le spalle. "Di sopra, nella sua stanza. Non
c'è
bisogno che ti indichi la strada, vero...?" - disse, con una
punta di malizia nel tono di voce.
Ross
arrossì di nuovo, per la seconda volta nella serata. "No, so
dov'è" – mugugnò.
Fece
per allontanarsi ma la voce di Agatha lo fermò nuovamente.
"Ross?
Dicono cose curiose sulla tua famiglia, ultimamente. Se la tua
graziosa moglie se n'è andata, perché non sei
tornato prima? Lei ha
fatto molto per noi, certo, ma in fondo non è che una
sguattera e ha
capito che il tuo posto era quì. Dovevi tornare prima".
Ross
strinse le mani, rabbioso. Adorava zia Agatha ma nessuno doveva
parlare in quel modo di Demelza. "Quella sguattera... è mia
moglie! E quel bambino per cui sei tanto preoccupata non sarebbe
quì,
VIVO, se non fosse stato per lei. Il mio posto non è mai
stato a
Trenwith".
Non
aggiunse altro, uscì dal salone e salì sulle
scale.
Trovò
Elizabeth sul corridoio, insieme ad un suo servitore che doveva
averla avvertita del suo arrivo. Indossava una vestaglia rosa cipria,
i capelli le ricadevano sciolti sulle spalle ed era così
uguale a
come l'aveva lasciata, frettolosamente, quella mattina di un mese
prima.
"Cosa
ci fai quì, Ross?".
Deglutì.
La sua voce era fredda e poteva capirne la rabbia. "Volevo
vederti".
"Non
ti sembra troppo tardi?" - disse, mentre il servitore si
allontanava.
"Spero
non lo sia proprio del tutto".
Elizabeth
incrociò le braccia al petto, non togliendogli gli occhi di
dosso.
Anche così arrabbiata, i suoi modi erano estremamente
controllati ed
eleganti.
"Mi
dispiace, ho commesso un errore imperdonabile e...".
"Sono
stata un errore?".
"No...
Si... Elizabeth, non sarei dovuto venire quella notte e tu lo sai! E
non doveva succedere quel che è successo".
Elizabeth
gli si avvicinò di alcuni passi, lentamente.
"Perché? Non era
quello che volevamo da sempre?".
"Sono
un uomo sposato".
Un
lieve sorriso, freddo come il ghiaccio, comparve sul viso della
donna. "Sposato ad una donna che, a quel che si dice in giro, ti
ha lasciato".
Quelle
parole risvegliarono in lui rabbia e frustrazione. "Non immagini
perché se n'è andata?".
"Dai
a me la colpa, Ross?".
La
guardò in silenzio per alcuni istanti, ricordando quanto
aveva
insinuato Demelza quella mattina di un mese prima. Elizabeth lo aveva
deliberatamente stuzzicato, provocato, sapeva cosa voleva ottenere
spedendogli quella lettera e lui ci era cascato. No, non era colpa di
Elizabeth ma sua, della sua leggerezza, del suo orgoglio e della sua
stupidità. "Certo che no. La colpa è mia, io sono
il marito di
Demelza e io non avrei dovuto dimenticarlo".
"Perché
non sei tornato da me, dopo che lei se n'è andata?".
Ross
sorrise, la risposta era tanto semplice ed era stata proprio Demelza,
con la sua lettera, ad insegnarglielo. "Perché ho
già commesso
una volta l'errore di far sentire una donna la seconda scelta. Non
intendo farlo di nuovo".
Elizabeth
spalancò gli occhi. "La seconda scelta sarei io?".
"Non
la metterei proprio in questi termini ma... a conti fatti Elizabeth,
non ti amo. Non come credevo, non come un uomo dovrebbe amare la sua
donna".
Elizabeth
parve ferita a quelle parole, ma come al solito incassò il
colpo da
vera signora. "E' stata una notte così terribile per te?".
"Non
è stata terribile, certo che no! Ma non mi ha lasciato
niente. E'
come se con te sia uscito il mio lato peggiore. Con Demelza non
è
mai stato così, io non sono MAI stato così con
lei. Con mia moglie
c'è passione ma anche tenerezza, voglia di abbracciarla,
voglia di
tenerla vicino a me dopo aver fatto l'amore. Non ho provato nulla di
tutto questo con te Elizabeth, solo voglia di scappare da questa
casa, da te e dai miei errori. Demelza se n'è andata ma
questo non
cambia i miei sentimenti per lei. Avrei dovuto dirtelo subito, lo so,
sono un codardo e di questo te ne do atto".
"E
allora perché sei quì stasera?".
Era
meglio non girarci troppo attorno, tanto era inutile tergiversare.
"Non sposare George".
"Perché?
Perché a te non piace?".
"Perché
è un mostro Elizabeth e tu lo sai! Ti rovinerà la
vita e la
rovinerà a Geoffrey Charles".
Elizabeth
sorrise di nuovo, freddamente. "Si è preso cura di me
sempre,
dopo la morte di Francis. Non è mai scappato! E con Geoffrey
Charles
è sempre stato un padrino meraviglioso".
Ross
scosse la testa, cercando di rimanere calmo. "Meraviglioso ora,
perché non ha ancora ottenuto la tua mano".
"Mi
ha sempre dato tutto quello di cui ho bisogno. Cura l'educazione di
mio figlio, paga le governanti e i medici per mia madre e mi vizia in
tutti i modi in cui una donna puo' desiderare di essere viziata".
"Sposi
lui o i suoi soldi?" - sbottò infine, gelido.
Elizabeth
divenne rossa, livida dalla rabbia. "Vattene da questa casa,
Ross! Suppogno che non ti conterò fra i miei ospiti, domani".
Ross
la guardò, gelido. Eccola, era lei il suo primo amore, la
donna
idolatrata per anni per la quale aveva distrutto il suo matrimonio.
Demelza aveva capito tante cose di lei, prima di lui che si era
sempre rifiutato di vedere. "Suppongo di no". Le fece un
inchino. "Tanti auguri, credo che tu ne abbia bisogno, futura
signora Warleggan".
Le
voltò le spalle, scese le scale, imboccò la porta
d'ingresso e
uscì, sbattendola con forza alle sue spalle.
Prese
il suo cavallo e, sotto una pioggia incessante, galoppò fino
a
Nampara. La sua casa, ormai vuota e fredda come la donna che si era
appena lasciato alle spalle.
Sperava
di sbagliarsi su George ma sapeva che non era così e che
Elizabeth
avrebbe pagato cari i suoi errori.
Come,
del resto, li stava pagando lui.
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Capitolo 7 *** Capitolo sette ***
I
mesi erano passati tanto in fretta che non se n'era quasi accorta, se
non fosse stato che la sua gravidanza era ormai tanto evidente che
tutti gli chiedevano, in continuazione, quanto mancasse al parto.
Erano
stati mesi frenetici per Demelza e la sua vita era cambiata
totalmente nel giro di pochissimo tempo.
La
sua nuova attività aveva aperto i battenti a fine primavera
e in
breve il giro d'affari si era fatto talmente florido e profiquo da
esserne stupita essa stessa. Era strano per lei non avere problemi di
denaro, dopo anni passati a centellinare i centesimi e a convivere
con lo spettro della povertà.
Le
piaceva lavorare e avere a che fare con tanta gente e il suo locale
era frequentato da una vasta cerchia di persone di tutti i generi,
tanto che in breve aveva fatto la conoscenza di diplomatici,
politici, lord, conti e duchi, oltre che di gente comune.
Caroline
aveva fatto in modo di farle avere, fra i clienti, persone facoltose
per le quali faceva da tramite per la spedizione di missive anche
importanti, occupandosi personalmente di dazi, tasse di spedizione e
disbrighi burocratici per la posta che doveva raggiungere gli stati
esteri.
Era
stanca, la gravidanza avanzata la spossava, ma non riusciva a
fermarsi. Un po' perché il suo nuovo lavoro le piaceva, un
po'
perché aveva bisogno di una buona stabilità
economica, un po'
perché lavorare le permetteva di non pensare.
Nel
giro di pochi mesi era riuscita a raggiungere un volume d'affari
invidiabile e a saldare a Caroline l'affitto arretrato del locale,
anche se l'ereditiera aveva insistito strenuamente perché
non le
desse dei soldi. Ma Demelza aveva la testa dura e la sua amica aveva
dovuto arrendersi al fatto che lei non voleva avere debiti di
qualunque tipo con nessuno.
Anche
la sua vita casalinga era cambiata. Lavorando per lo più nel
locale,
aveva assunto alle sue dipendenze una povera famiglia che viveva di
stenti a pochi isolati dalla sua attività, gente buona che
aveva
conosciuto per caso, girovagando fra i vicoli attorno alla sua nuova
casa. E così, dopo aver finito la ristrutturazione e aver
arredato
ogni camera della sua nuova dimora, nella sua famiglia erano entrati
a far parte Samuel Logan, un uomo minuto e gentile, completamente
calvo, di circa sessant'anni che la aiutava nei lavori più
pesanti
nel locale e in casa, sua moglie Margareth e la loro figlia trentenne
Mary che non si era mai sposata e viveva ancora coi genitori.
Margareth e Mary erano diventate i suoi angeli custodi. La aiutavano
nelle faccende domestiche tenendo pulita tutta la proprietà,
cucinavano e si prendevano cura di Jeremy, quando lei era troppo
occupata per poterlo fare.
Lei
e il suo bambino si erano affezionati alla famiglia Logan e Demelza
aveva predisposto che due camere da letto della sua casa fossero
destinate a loro.
Cenavano
insieme nella grande cucina padronale, la sera, chiacchierando e
parlando di quanto successo durante la giornata, rendendo piacevole e
famigliare il clima di casa.
Margareth
aveva cucito coperte, abitini e tutto quanto necessario per il nuovo
bimbo in arrivo e si era prodigata, assieme alla figlia, a dare una
mano a Demelza nella gestione del piccolo Jeremy.
Demelza
aveva raccontato loro la sua storia, di aver abbandonato il marito a
causa di un tradimento e loro non l'avevano mai giudicata, avevano
semplicemente assorbito quelle informazioni per conoscerla meglio e
poi avevano continuato a vivere con lei senza fare altre domande.
Erano persone discrete, dai modi gentili, fidate e affezionate a lei
e a Jeremy e per Demelza era stata una grossa fortuna incontrarli,
anche se spesso, paragonandoli a Jud e Prudie, sentiva la mancaza dei
suoi domestici di Nampara, così fannulloni, imperfetti,
brontoloni
ma che le avevano voluto anch'essi bene come a una figlia.
"Signora,
porto in cantina la birra appena consegnata?".
La
voce di Samuel, comparso dalla porta d'ingresso della locanda con in
mano una grossa cassa di birra, la costrinse ad alzare il capo dal
suo lavoro di lucidatura del bancone. "Certo, aspetta che ti do
una mano" – disse, correndogli incontro.
"No
signora, per favore! Con quel pancione, non sarebbe il caso".
Demelza
sbuffò. Odiava essere trattata come una persona malata per
il
semplice fatto di essere incinta. Molto incinta... In
realtà,
secondo i calcoli, il suo bambino sarebbe dovuto nascere già
da una
settimana ma era quasi arrivato dicembre e ancora non c'erano segni
di travaglio imminente. Anche se, lo sapeva, i suoi parti erano
sempre stati molto veloci e quindi tutto poteva succedere da un
momento all'altro. "Samuel, guarda che sto bene".
Dal
fondo del bancone, un suo cliente abituale che si fermava spesso a
bere un bicchiere di brandy prima di rientrare a casa la sera,
scoppiò a ridere. "Signore, questa donna ha più
energia di me
e voi messi insieme. Corre sempre come una trottola".
Demelza
annuì, sorridendo. Quell'uomo, Martin Devrille, era un ricco
finanziere che si era costruito la sua fortuna da solo, partendo da
zero, proprio come lei. Era nato in una famiglia di agricoltori e una
volta sposato, si era trasferito a Londra dove aveva scoperto di
avere un buon fiuto e una discreta fortuna per gli affari e le
speculazioni finanziarie. Una serie di investimenti giusti gli
avevano fruttato una fortuna e ora, a settant'anni, era una delle
persone più ricche di Londra. Era un uomo affabile, gentile,
rimasto
ancorato ancora ai modi di fare semplici e spicci di quando era
giovane e povero e questo a Demelza piaceva.
Lui
e sua moglie Diane vivevano in una grande villa nel centro di Londra.
Non avevano avuto figli e spesso, quando Demelza li aveva visti
insieme, si era fermata ad ammirare la dolcezza e la devozione di
quell'uomo nei confronti della moglie a cui doveva essere
legatissimo. La inteneriva vederli insieme, osservare quei gesti che
potevano essere abitudinari ma che dovevano far parte di loro e della
loro storia insieme, gesti che a lei, quando pensava a Ross,
mancavano ancora tanto.
Martin
era un uomo affabile, di belle maniere e spesso si era intrattenuta
con lui a chiacchierare del più e del meno, quando si era
fermato
alla sua locanda, e non era mancata occasione che, in presenza di
Jeremy, si fosse fermato a giocare con lui.
Samuel
scosse la testa, sconsolato. "Oh signor Devrille, la mia padrona
è la donna più testarda della capitale.
Metterebbe sotto anche il
primo ministro del re, se ne avesse l'occasione".
Martin
annuì, prendendo a guardarla attentamente, stropicciando fra
le mani
il giornale che stava leggendo. "Signora Demelza, venite quì
e
datemi un consiglio! Ho più bisogno io di voi, che
quell'uomo con
quelle birre".
Demelza
lo guardò, incuriosita, avvicinandosi a lui. "Bisogno di me?
Volete altro brandy?".
L'uomo
scosse la testa, poi aprì il giornale che aveva fra le mani,
mostrandole la pagina riservata all'economia. "Devo decidermi se
prendere azioni della Wellington Corporations o della Hope Leisure.
Che ne dite, cosa mi consigliate?".
"Ah,
non saprei. Non me ne intendo di finanza e di azioni, signore".
"Lo
so, non voglio il parere di un'esperto, voglio che mi rispondiate
così, ad intuito. Dicono che le donne incinta abbiano un
sesto senso
sviluppatissimo e che ci si debba sempre fidare della loro parola.
Cosa dite, devo fidarmi della Wellington o della Hope?".
Demelza
dovette trattenersi dal ridere. Era così strano il modo di
concludere affari dei ricconi, pensò. "Scegliete la Hope
Leisure" – disse infine, vagamente divertita.
"Perché?".
Demelza
sorrise. "Mi piace il nome, porta speranza, è romantico a
suo
modo. Per quanto possa essere romantica una miniera".
Martin
scoppiò a ridere poi si alzò in piedi, piegando
nuovamente il
giornale fra le sue mani. "E sia, acquisterò le quote della
Hope Leisure. Mi piace il vostro modo di ragionare, mi ricorda il mio
degli inizi. Sapete come ho iniziato a costruirmi la mia fortuna?".
"No".
"Coi
pochi risparmi fra le mie mani, ho comprato le azioni di una
società
che aveva il nome del cavallo da soma di mio padre. Un gesto
sentimentale, ecco... Un mese dopo quelle azioni avevano centuplicato
il loro valore e io mi sono improvvisamente ritrovato, dal dormire
sotto i ponti, ad essere ricco". Mise delle monete sul bancone,
per pagare il brandy. "Vediamo se con voi sarò altrettanto
fortunato".
Demelza
sospirò. "Lo spero".
"Se
mi frutterete guadagno, sarò vostro fedele cliente per
sempre"
– disse, in modo galante.
"E
se la mia scelta risulterà quella sbagliata?".
Martin
scoppiò a ridere. "Allora, avrete perso un cliente, Demelza"
– esclamò, scherzosamente. Le fece un inchino, in
modo gentile,
poi dopo un cenno di saluto se ne andò.
Demelza
ridacchiò, poi tornò a lucidare il bancone.
Martin Devrille era
l'ultimo cliente della giornata, era ormai buio, aveva preso a
nevicare ed era ora di chiudere la locanda e andare a cenare.
Finì
di pulire poi, stancamente, dopo che Samuel ebbe chiuso le imposte
del locale, salì le scale che portavano all'appartamento al
primo
piano.
Fu
all'ultimo gradino che, improvvisa, la colse una violenta fitta al
ventre. Dovette fermarsi per riprendere fiato, stringendo
convulsamente lo scorrimano. Cercò di regolarizzare il
respiro, ma
un'altra contrazione violentissima la costrinse a lasciarsi andare e
a sedersi sul gradino. Era il suo terzo figlio, conosceva benissimo i
sintomi del parto e non c'erano dubbi, il suo bambino si era deciso a
nascere.
Appoggiò
la schiena alla parete fredda cercando sollievo e le forze per
rialzarsi in piedi. Si rese conto di essere terrorizzata, nonostante
non fosse la prima volta. Quel bambino di cui Ross ignorava
l'esistenza stava per venire al mondo, lo avrebbe partorito da sola e
questo avrebbe reso una volta per tutte la sua separazione dal
marito, ufficiale. "Margareth..." - chiamò, col fiato
corto.
La
donna comparve pochi secondi dopo, trafelata, con la figlia e con
Jeremy. "Mamma..." - sussurrò il bambino, spaventato.
Demelza
si impose di sorridergli, nonostante tutto. "Va tutto bene,
tesoro".
Margareth
si voltò verso la figlia, comprendendo subito quanto stava
per
accadere. "Mary, porta il bambino in cucina e fallo cenare. Poi
dì a tuo padre di correre a chiamare la levatrice, credo che
sia
arrivato il momento".
Mary
ubbidì, sparendo con Jeremy nel corridoio. Margareth la
aiutò a
rialzarsi, la accompagnò in camera e le diede una mano a
spogliarsi
e a mettere una camicia da notte comoda. "Signora, cercate di
non agitarvi, presto la levatrice sarà quì".
Col
fiato corto, devastata da contrazioni fortissime e subito
ravvicinate, Demelza strinse nella mano destra il lenuolo. "Io
ho sempre avuto parti veloci, Margareth. Se la levatrice non fa in
tempo, tu sapresti...".
"Certo
signora, vi aiuterò io, se necessario, state tranquilla".
Tranquilla...
A quella parola, un moto di rabbia prese possesso di lei. Come poteva
essere tranquilla? Era sola, con un figlio piccolo, un altro in
arrivo e con un marito che ormai, probabilmente, viveva felice e
beato con la sua amante. Non era tranquilla, era arrabbiata, furente,
spaventata, si sentiva sola. Per un attimo, in preda a una
contrazione più forte, desiderò che Ross,
nonostante tutto, fosse
lì. Anche solo facendo finta di tenere a lei e al bambino in
arrivo,
a fingere di darle una carezza e un incoraggiamento, anche solo per
un attimo... Aveva bisogno di lui, dannazione! "Lo odio,
Margareth".
"Parlate
di vostro marito?".
"Sì.
Come può averci fatto questo, come può averci
lasciati soli?".
Margareth
scosse la testa, tamponandole la fronte sudata con un panno fresco.
"Signora, io non lo conosco ma conosco voi. E se quell'uomo vi
ha abbandonata, significa che non vi meritava e che non aveva
compreso il vostro valore. Ora su, pensate alle cose belle, al fatto
che presto conoscerete questo bambino e avrete l'onore di vederlo
crescere, potrete tenerlo in braccio, osservarlo scoprire il mondo e
che ogni momento che vivrete insieme sarà per voi un ricordo
prezioso. E vostro marito non avrà niente di tutto questo".
"Già".
Quelle di Margareth volevano essere parole di conforto, ma in
realtà
la rattristavano ancora di più. Era vero, Ross avrebbe perso
ogni
cosa di questo bambino, lui che era stato tanto felice quando era
nata Julia e che per lei si era impegnato a rendere il mondo un posto
migliore.
Fu
l'ultimo pensiero razionale, quello. Il travaglio fu veloce,
più di
quello di Julia e Jeremy. La levatrice fece appena in tempo a varcare
la porta della camera e ad avvicinarsi al letto, che la bimba nacque,
dieci minuti prima della mezzanotte di un giorno nevoso di fine
novembre.
Margareth
le si avvicinò, appoggiandole la bambina a fianco, avvolta
in una
coperta. "Avevate ragione, è una femminuccia bellissima ed
in
salute".
Distrutta,
Demelza aprì gli occhi. L'aveva sentita piangere con vigore
ma non
l'aveva ancora vista. Una bambina... Come Julia... Si chiese se
sarebbe stata uguale alla sorella, bella e dolce come lei. A chiunque
assomigliasse, comunque, non aveva importanza, sentiva già
di amarla
più della sua stessa vita, come era successo coi suoi
fratelli prima
di lei. Era come se con la sua nascita, le sue paure, le sue ansie si
fossero acquietate.
Si
voltò verso sua figlia, stringendola fra le braccia. Era
bellissima,
col viso tondo, i capelli rossi come i suoi e con i suoi stessi occhi
azzurri. E con lo sguardo vispo e attento, ereditato dal padre.
Vederla, la intenerì infinitamente. "Benvenuta, Clowance
Poldark" – sussurrò, imponendole quel nome che,
nei mesi
precedenti, aveva deciso insieme a Jeremy.
Le
accarezzò le guance, le mani, le baciò la punta
del nasino e la
piccola reagì sbadigliando ed osservandola incuriosita. Poi
la
strinse al suo petto, accarezzandole la piccola schiena.
Nonostante
fosse tardi, quando lei e sua figlia furono sistemate con abiti
puliti e letto rifatto, Mary le portò Jeremy che,
preoccupato, non
riusciva a dormire.
Demelza
lo accolse nel lettone stringendolo a se e quando tutti se ne furono
andati rimase in silenzio, cullata dal respiro placido dei suoi
figli.
Jeremy
si voltò verso la sorella, fissandola incuriosito. Demelza
sorrise,
accarezzandogli i capelli. Jeremy era un bambino dolce, pacato,
gentile e con una fervida intelligenza, riflessivo e tranquillo e in
questo non aveva preso decisamente né da lei né
da Ross."Ti
piace, tesoro? E' tua sorella Clowance".
Jeremy
annuì. "Sì, posso toccarla?".
"Certo,
falle una carezza sulla guancia, sarà contenta, sai?".
Jeremy
allungò la manina, accarezzando il viso della sorella.
Demelza gli
accarezzò la testolina, baciandolo sulla fronte. "Lo sai,
ora
sei un fratello maggiore e sei anche l'uomo di casa. Dovrai insegnare
a Clowance tutto quello che sai" – gli sussurrò,
osservando
gli occhi dolci e vivaci di Jeremy, così uguali a quelli del
padre.
Osservò
i suoi bambini, insieme, sentendosi infinitamente fortunata ad averli
accanto. Senza di loro, la sua vita non avrebbe avuto più
alcun
senso... Era per loro che viveva e lottava, perché avessero
un
domani sereno, nonostante tutto. Guardò la piccola Clowance,
che si
era appena affacciata alla vita, talmente bella e perfetta che per un
attimo si chiese se Ross, se l'avesse vista, sarebbe stato capace di
volerle almeno un pochino di bene, nonostante tutto, nonostante
Elizabeth e il suo amore per lei.
Ma
a quel pensiero scosse la testa. Ross non avrebbe voluto Clowance,
così come non era stato felice per l'arrivo di Jeremy. Ross
ora era
di Elizabeth, sicuramente viveva felice con lei e Geoffrey Charles e
magari era in attesa di un figlio da lei, per quel che ne poteva
sapere. Mancava da molti mesi dalla Cornovaglia e sicuramente una
cosa del genere era anche piuttosto probabile, ormai.
Le
venne da piangere di nuovo ma si impose di non farlo, non avrebbe
sprecato altre lacrime per lui e non avrebbe fatto preoccupare i suoi
figli a causa del dolore che le aveva procurato Ross.
Nonostante
tutto però, Jeremy parve capire il suo turbamento.
Allontanò la
manina dalla guancia di Clowance e la abbracciò teneramente,
appoggiando silenziosamente la testa contro la sua spalla.
Demelza
rispose al suo abbraccio, stringendolo a se. Aveva Jeremy e Clowance
accanto e poteva definirsi una donna fortunata per questo, nonostante
tutto. E Ross poteva avere tutti i figli che desiderava da Elizabeth
ma glie ne sarebbero sempre mancati due che, anno dopo anno, si
sarebbero dimenticati persino della sua esistenza.
E
per quanto quel pensiero facesse male, lei non poteva farci niente.
Ross aveva fatto delle scelte e ora ne avrebbe pagato le conseguenze,
per sempre.
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Capitolo 8 *** Capitolo otto ***
"E'
davvero bellissima, fra una quindicina d'anni sarà fra le
ragazze
più ammirate di Londra".
Demelza,
muovendosi dolcemente sulla sedia a dondolo, osservò la sua
bambina
che, placidamente, dormiva fra le sue braccia. "Per ora
Caroline, grazie a te, è la bambina col guardaroba
più fornito
della capitale. Ha più abiti di me".
Caroline
rise. "Ah, non credo, i figli del re forse hanno molti più
vestiti. E comunque è una bambina di classe, Clowance, si
vede a
prima vista! Inoltre, è un piacere comprare vestitini a lei
e a
Jeremy, non credevo che la moda infantile mi potesse dare tante
soddisfazioni".
Demelza
sorrise. "E allora visto che le cose stanno così, che
aspetti a
fare un figlio? Circolano tante voci su di te, che ti vogliono
fidanzata con questo o quell'altro lord, sai? Ti affibbiano un nuovo
fidanzato a settimana".
"Sì,
vero! Settimana scorsa era Lord Corvoy, quella prima ancora il
Visconte di Touregh e questa settimana...". Ci pensò su,
osservando distrattamente il soffitto. "Sai che non ricordo...?
Forse Sir Donald Ziever, il banchiere".
"Questa
settimana ho partorito, mi sono persa un sacco di pettegolezzi a
causa di Clowance e non sono aggiornata sui tuoi presunti
fidanzamenti" – sussurrò Demelza, sorridendo
dolcemente alla
figlia. "E comunque, Caroline, di tutti questi fidanzati, ce
n'è
qualcuno che ti piace davvero?".
"No,
sono tutti noiosissimi e tronfi del loro milionario conto bancario".
Demelza
alzò lo sguardo su di lei, osservandola attentamente. "Pensi
ancora a Dwight?". Ogni tanto si chiedeva cosa avesse fatto il
suo amico, se davvero fosse partito per la guerra come le aveva
confidato prima che lei lasciasse la Cornovaglia.
Caroline
si morse il labbro, quasi fosse in difficoltà. "All'inizio
mi
ha scritto molte lettere che puntualmente gli rimandavo indietro.
Però poi mi sono decisa a mandargli una risposta, gli ho
intimato di
lasciarmi in pace e non ho più avuto sue notizie. Quindi...".
"Quindi
questo non significa che non lo ami più". Demelza era
frustrata
per la situazione fra Dwight e Caroline, era una sua spina nel fianco
ricordare che si erano lasciati a causa di Ross e delle scelte
scellerate durante il periodo in cui faceva contrabbando. "Caroline,
Dwight sarebbe partito con te, voleva farlo, non vedeva l'ora! Quella
sera non si è presentato all'appuntamento perché
si è accorto che
Ross era in pericolo, che stava per cadere in un'imboscata ed
è
rimasto coinvolto negli scontri. Se c'è qualcuno con cui
dovresti
prendertela, quella persona sono io, non lui".
"Tu?
E cosa c'entri, scusa?".
"Non
sono riuscita ad impedire che mio marito proseguisse in
quell'attività, non sono riuscita a fermarlo e alla fine
è stato
Dwight a pagarne il prezzo più alto".
Caroline
scosse la testa. "Non sei responsabile per le azioni di tuo
marito, Demelza. Sei sempre stata molto tollerante con lui, lo hai
seguito e sostenuto con una forza non comune, hai avuto una pazienza
infinita. Ma Ross Poldark, per quel che lo conosco, è uno
scavezzacollo che agisce senza pensare alle conseguenze di quello che
fa e dubito che tu saresti mai riuscita a cambiarlo. Suppongo che
questo, comunque, faccia parte del suo fascino, no?".
Demelza
sorrise, con una punta di amarezza. Era vero, Ross era una persona
che viveva sempre in bilico, una testa calda della peggior specie,
con un codice morale e d'onore che niente e nessuno avrebbe potuto
scalfire e questo e tanti altri aspetti l'avevano fatta innamorare di
lui, così forte, così diverso dagli altri uomini
della sua classe
sociale. "Già, il suo fascino... Che è quello che
purtroppo mi
ha fregata".
"Pensi
ancora a lui?".
Demelza
guardò sua figlia. "Come potrei non farlo? Clowance e Jeremy
sono opera sua".
Caroline
sospirò. "Glielo farai sapere della bambina? Voglio dire,
credo
sia un suo diritto...".
"Sai,
avevo anche pensato di farlo ma...". Demelza abbracciò la
bimba, baciandola sulla fronte. "Poi mi sono chiesta dove avrei
dovuto scrivergli, se a Nampara o a Trenwith... E mi è
passata la
voglia. Ha la sua vita ora e io non ne faccio parte. E di certo non
ne fanno parte i miei bambini".
"Pensi
che ti abbia dimenticato?".
A
quella domanda, Demelza sorrise amaramente. "Mi aveva
dimenticata da ben prima che partissi. Nel suo cuore e nella sua
mente c'erano solo Elizabeth e le sue necessità".
Calò
il silenzio, un silenzio pesante. Nessuna delle due sapeva cosa dire
ed entrambe erano consapevoli che in fondo era inutile parlarne, sia
Dwight che Ross facevano ormai parte del loro passato.
Un
sommesso bussare, seguito dalla voce di Margareth, ruppe quel momento
di stasi. "Signora, avete visite".
Demelza
e Caroline si guardarono in faccia incuriosite.
"Aspetti
qualcuno?".
"No".
Demelza si strinse nello scialle, guardando verso la porta della sua
camera. "Margareth, chi è?".
"Il
signor Devrille con sua moglie".
Caroline
parve incuriosita. "Il finanziere? Lo conosci?".
"E'
uno dei miei clienti abituali alla locanda". Era stupita, cosa
ci faceva lì? "Falli entrare, Margareth".
"Certo
signora".
Demelza
si sistemò i capelli che le ricadevano liberi sul collo e
sulla
schiena. Indossava una veste da camera e di certo non era nelle
condizioni per ricevere una persona di così alto lignaggio,
ma non
aveva il tempo materiale né la voglia di cambiarsi d'abito.
Era
ancora spossata dal parto e tutto quello che desiderava era
rimettersi a letto e dormire.
Martin
Devrille e sua moglie Diane comparvero dopo alcuni istanti, con un
grosso mazzo di rose fra le mani. "Signora Demelza, vogliate
scusarci per l'intrusione, ma ci tenevamo a farvi le congratulazioni
per il lieto evento".
Demelza
sorrise, cercando di alzarsi dalla sedia a dondolo. Ma Diane la
fermò. "Oh, non sforzatevi, rimanete comoda". Le si
avvicinò poggiando i fiori sul tavolino e facendole un
inchino.
"Siamo solo di passaggio, una visita di cortesia".
"Vi
ringrazio. E colgo l'occasione per presentarvi una mia cara amica, la
signorina Caroline Penvenen".
Martin
Devrille fece un profondo inchino. "Signorina Penvenen, è un
piacere conoscervi di persona. Siete molto famosa in città".
Caroline
rise. "Più che altro, la gente ama parlare di me".
Demelza
e i coniugi Devrille risero a quella constatazione e poi Diane si
avvicinò per vedere la piccola Clowance. "E' un incanto, una
splendida bambina".
"Vi
ringrazio. E' la mia gioia, assieme a suo fratello".
Diane
accarezzò la guancia della piccola. "Ero così
curiosa di
vederla. Vi somiglia, sapete?".
Demelza
sorrise, dolcemente. "Grazie, siete gentile".
"E
voi una donna davvero speciale ed in gamba, Demelza! A me e a mio
marito piacete molto, siete onesta, gentile e una gran lavoratrice.
Una donna in gamba ed indipendente".
"E
con un ottimo fiuto degli affari!" - la interruppe Martin,
avvicinandosi a loro con una busta fra le mani, che porse a Demelza.
"Cos'è?".
"Un
piccolo dono per i vostri bambini. Una parte delle azioni che ho
acquistato sotto vostro consiglio settimana scorsa. Ricordate la
nostra conversazione?".
In
realtà, Demelza aveva scordato lo strambo modo di concludere
gli
affari di Martin Devrille, dopo il parto era stata concentrata solo
su Clowance e Jeremy e aveva tralasciato tutto il resto. Ma ora che
lui glielo ricordava... "Oh sì, le azioni di quella miniera,
la
Hope Leisure, giusto? Alla fine le avete acquistate?".
"Certo!"
- esclamò Martin, mentre anche Caroline appariva
interessata. "Ho
comprato mille azioni al costo di trenta ghinee l'una. Sapete, quanto
valgono ora, singolarmente, quelle azioni?".
"No".
"Duecento
ghinee, mia cara. Hanno trovato pochi giorni fa un enorme giacimento
di rame sotterraneo e le azioni sono schizzate alle stelle. Mi avete
dato un ottimo consiglio che mi è fruttato ottimi guadagni".
"Cosa?".
Demelza spalancò gli occhi, sorpresa e piacevolmente
compiaciuta di
averlo consigliato per il giusto, pur avendo fatto una scelta
puramente casuale.
"Avete
capito benissimo! Era un piccolo capitale per me, quello investito,
giusto un riempitivo ai miei affari più importanti. Ma
guardate che
risultato! Ve l'ho detto, avete la fortuna e l'occhio lungo che avevo
io da giovane e quindi, sono quì per proporvi un accordo".
"Quale
accordo?".
Martin
indicò la busta che le aveva messo fra le mani. "Quello
è un
mio regalo per voi e per i vostri figli, lì dentro
c'è la metà del
pacchetto azionario della Hope Leisure. E' per voi, quelle azioni
sono vostre. Potrete tenerle o rivenderle, vi frutteranno una fortuna
qualunque cosa farete".
Demelza
scosse la testa. "Ma signore, non posso accettare".
"Dovete
accettare" – intervenne Diane. "Per mio marito è
una
questione d'onore".
Anche
Caroline annuì. "Prendile Demelza, non essere sciocca".
Demelza
sospirò, sentendosi presa in trappola e in contropiede.
"Ma...
Io non ho investito alcun capitale, signore".
"L'ho
fatto io e i guadagni sono stati notevolissimi. E voi meritate la
vostra parte, sono un uomo d'onore che si ricorda degli amici".
"Ma
io non ho fatto nulla, signore" – insistette Demelza.
Martin
le sorrise, poggiandole delicatamente una mano sulla spalla. "Lo
farete in futuro, se accetterete la mia proposta".
"Quale
proposta?".
"Vi
va di entrare in società con me e coi miei due soci?".
"Una
società azionaria? Ma signore, io non mi intendo di finanza"
–
protestò Demelza. "E non ho nemmeno i fondi per poterlo
fare".
Martin
annuì. "Siete intelligente, imparerete e io ho bisogno di
qualcuno di giovane a cui trasmettere il mio sapere. I miei due soci
sono miei fratelli, ormai in la pure loro con gli anni. Non sono
sposati e non abbiamo figli e nipoti a cui insegnare le basi del
nostro lavoro. Non vi chiedo di mettere grossi capitali, solo quello
che potrete giocarvi senza mettere a rischio la stabilità
vostra e
dei vostri figli. Capitali piccoli, insomma, cifre che potete rischiare
di perdere senza grossi drammi. Mi fido del vostro fiuto
Demelza, avete senno e mi ricordate tanto me stesso da giovane, siete
una donna fuori dal comune e io vi stimo molto".
"Accetta,
Demelza! Hai questa attività che ti frutta molto e quindi
guadagni
sicuri. Qualche investimento finanziario, guidato da chi se ne
intende, non ti ruberà né troppo tempo
né troppo denaro" –
insistette Caroline.
"Accettate?
Non vogliamo farvi pressioni, né tanto meno farvi correre
dei
rischi, lo sappiamo che siete sola e con due figli di cui occuparvi".
Demelza
ci pensò su. Era una proposta allettante, pericolosa se non
gestiva
bene le cose, ma che poteva aprirle innumerevoli strade. Aveva
davanti due brave persone, oneste, che si erano davvero affezionate a
lei e ai suoi bambini e con loro avrebbe potuto imparare qualcosa di
quel mondo dietro cui ruotava la fortuna di miniere, minatori e
banchieri, quel mondo contro cui Ross aveva combattuto strenuamente
per sopravvivere e per aiutare i suoi lavoratori e la povera gente
della Cornovaglia. "Piccoli capitali, per ora. Non rischio la
serenità dei miei figli, ora che ho raggiunto un discreto
stile di
vita e ho un lavoro che mi permette di mantenerli".
Martin
sorrise. "Ovviamente". Accarezzò la piccola Clowance e poi
prese la moglie sotto braccio. "Faremo grandi cose insieme,
Demelza. Consideratemi un amico, più che un socio. Non ho
avuto
figli ma se ne avessi avuta una, avrei voluto che somigliasse a voi.
A tal proposito, se non avete impegni, ci farebbe piacere che
trascorresse con noi la notte di Natale, così da conoscere i
miei
fratelli. Niente di grandioso, solo una cena in famiglia. Avervi alla
nostra tavola, coi bambini, renderebbe più piacevoli le
nostre
feste".
Demelza
sorrise. "Grazie, accetto il vostro invito con piacere".
Ancora
non poteva saperlo, ma quella nuova avventura con Mister Devrille, che
in quel momento le faceva un po' paura, l'avrebbe portata molto
lontano, facendola diventare una delle donne più potenti di
Londra
in breve tempo.
...
Prudie
e Jud erano ubriachi già da ben prima della mezzanotte di
Natale e
se non fosse stato per Dwight, in licenza militare per le feste,
avrebbe passato la notte di Natale completamente solo.
Nampara
era avvolta da una fitta nebbia, il gelo aveva incrostato le finestre
e nemmeno il camino sembrava riuscire a scaldare l'ambiente.
Il
dottore era arrivato per una breve visita, dopo mesi passati al
fronte, e avevano scambiato assieme due chiacchiere.
"Come
ti pare la guerra, Dwight?".
L'amico
sorrise. "Un ottimo modo per fare pratica come medico, Ross. E'
qualcosa di disumano".
"Partirai
il due gennaio?".
"Sì,
la mia nave salperà all'alba, direzione Francia".
Ross
giocherellò col bicchiere di vino che aveva fra le mani,
facendo
danzare il liquido rosso in esso contenuto. "Forse faremo il
viaggio insieme, sai?".
Dwight
spalancò gli occhi. "Cosa?".
"Mi
sono arruolato due giorni fa e la mia nave partirà il due
gennaio,
come la tua".
"Ma
Ross... Perché proprio ora? La tua miniera sta fruttando, i
tuoi
minatori, grazie a te, stanno passando un Natale sereno e poi hai una
moglie e un figlio dispersi chissà dove, da ritrovare".
Ross
scosse la testa. Era a pezzi, nonostante gli ottimi guadagni e la
stabilità economica raggiunta negli ultimi mesi. Il suo
mondo era
andato a rotoli, aveva trovato la ricchezza ma aveva perso la donna
della sua vita, per sempre. Erano mesi, tanti mesi che non sapeva
nulla di Demelza e ormai era rassegnato al fatto che non si sarebbero
più rivisti. "I miei soci cureranno gli interessi della
Wheal
Grace e i miei servi mi terranno pulita la casa. Per quanto riguarda
Demelza...". Si alzò, sparì, raggiunse la camera
da letto e
riapparve alcuni istanti dopo, con una lettera fra le mani che diede
all'amico. "Leggi".
Accigliato,
Dwight ubbidì.
Ross
gli si sedette accanto, silenzioso. Era la lettera che gli aveva
lasciato Demelza prima di partire, che ormai conosceva a memoria e
che, ogni volta che la rileggeva, gli faceva male come il primo
giorno in cui ne era entrato in possesso.
"Accidenti,
Ross..." - commentò Dwight, laconico. "E' decisamente la
lettera di una donna ferita. Ma... potete sistemare le cose".
"Ho
deciso che non voglio sistemarle!".
"Cosa?".
Dwight era stupito.
Ross
sospirò. "Sono mesi che ho smesso di cercarla. In quella
lettera, Demelza mi ha detto che si è sempre sentita la
seconda
scelta, non alla mia altezza. Odio averla fatta sentire
così, non
essermene mai accorto e la sai una cosa...? Sono io quello che non
è
alla sua altezza, io che avevo accanto la donna più bella e
in gamba
del mondo e non ho saputo amarla, apprezzarla, starle accanto come
meritava. Non mi ha mai chiesto nulla, se non amore e attenzione. E
io guardavo dall'altra parte, raccontandomi frottole per correre
altrove, invece che stare con lei. Perché dovrei cercarla,
per
offrirle cosa? La vita con un uomo idiota, arrgante, che già
l'ha
fatta soffrire tanto? Non sarebbe un gesto d'amore vero, altruista
per una volta da parte mia, lasciarla andare, lasciarla libera di
vivere la sua vita felice, magari accanto a qualcuno che la meriti
davvero? Perché dovrebbe voler tornare? Perché
dovrei pretendere
che lo faccia? Perché dovrebbe darmi una nuova
possibilità?".
"Ross,
tu la ami e lei ama te! Tornerebbe subito se le parlassi come stai
parlando a me ora. Demelza non ti ha chiesto, per tanto, che questo".
Ross
scosse la testa. "E' giusto così, che lei viva la sua vita
libera, come mi ha chiesto. E che io paghi con la solitudine tutti i
miei errori e la mia arroganza. Partirò per la guerra con
te, magari
in battaglia saprò sentirmi più vivo di come mi
sento ora qui".
Dwight
lo fissò, preoccupato. "Ross, sei sicuro di star bene? Sei
sicuro di voler rinunciare a lei?".
"Tutto
quello che vorrei è riabbracciarla, chiederle scusa e dirle
che non
è mai stata seconda a nessuno, che è lei l'amore
della mia vita. Ma
suppongo che non poterlo fare sia la punizione giusta per me".
Ross
non disse altro. Lasciò che Dwight tornasse a casa, dopo
aver
brindato al Natale, e poi tornò in camera sua, in quella
casa
avvolta da un silenzio spettrale. Si sedette sul letto, sfilandosi la
camicia di dosso, ricordando il Natale di un anno prima, quando aveva
regalato a Demelza quelle calze di seta e avevano passato una
meravigliosa notte insieme, a fare l'amore con una passione e una
tenerezza uniche. Non avrebbe mai più vissuto momenti
simili, non
l'avrebbe più avuta accanto, non l'avrebbe più
vista sorridere o
arrabbiarsi, non avrebbe più provato il calore della sua
vicinanza e
dei suoi abbracci. Accarezzò il lato del letto dove dormiva
sua
moglie, con gli occhi lucidi. "Ovunque tu sia, buon Natale,
amore mio".
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Capitolo 9 *** Capitolo nove ***
Forse
non ce l'avrebbe mai fatta ad abituarsi a quella vita lussuosa che,
senza che l'avesse cercata, l'aveva travolta e aveva cambiato il suo
modo di vivere.
Da
quando era nata Clowance, otto mesi prima, la società
finanziaria in
cui l'aveva coinvolta Martin Devrille le aveva fruttato innumerevoli
guadagni. C'erano state alcune perdite, vero, ma i pacchetti azionari
acquistati, per lo più, si erano rivelati ottimi
investimenti.
La
sua non era più sopravvivenza e volendo avrebbe potuto
chiudere la
locanda e vivere solo di speculazioni finanziarie, ma Demelza non se
la sentiva di dare una svolta del genere alla sua vita. La locanda,
il lavoro manuale erano ciò che le ricordava chi era, da
dove veniva
e perché si alzava ogni mattina per rimboccarsi le maniche.
Aveva
due figli e voleva che crescessero con sani principi, imparando il
valore dell'onesto lavoro. Non voleva due bambini viziati che
credessero che tutto gli fosse dovuto, non voleva che diventassero
come tanti palloni gonfiati della Londra bene. E non voleva esserlo
nemmeno lei.
In
quei mesi, Martin l'aveva introdotta nei salotti 'bene' di Londra,
aveva conosciuto tantissime persone influenti e con alcuni aveva
stretto rapporti di lavoro e amicizia. La guardavano con un misto di
sospetto e curiosità, stupiti e allo stesso tempo incantati
dal
fatto che una donna sola fosse stata capace di arrivare tanto in alto
e in così breve tempo.
Aveva
partecipato a cene, balli, feste facoltose, circondata da gente che,
al suo arrivo a Londra un anno e mezzo prima, le aveva sbattuto la
porta in faccia. Era ironico pensarci, se si soffermava a ricordare
quanto fosse stata disperata, allora...
Accaldata,
sventolò il ventaglio che teneva fra le mani. Indossava un
meraviglioso abito di seta verde, scollato sulla schiena, i suoi
capelli erano racchiusi in una elegante treccia che lasciava
sfuggire, con calcolo, una ciocca di capelli sulla fronte, al collo
portava una collana adornata di uno splendido diamante e per quanto
Caroline si fosse affannata a dirle che era una delle donne
più
ammirate del ballo della contessa McAvery, si sentiva decisamente a
disagio.
Osservò
nobili e nobildonne chiacchierare fra loro, ballare con eleganza al
suono della musica dell'orchestra, tormentando con la mano il
gioiello che portava al collo. "Quanto durerà questa festa,
Caroline?".
L'ereditiera
sbuffò. "Lo so, è un po' noiosa, ma
quì ci sono persone
influenti, sia per i tuoi affari, sia per i miei. Fa buon viso a
cattivo gioco e vedi di divertirti e magari di sorridere un po'.
Entro stasera potresti incrementare, senza fatica, i tuoi guadagni. O
trovarti nuovi soci in affari".
"Ma
i miei bambini... Sono a casa da soli, per l'ennesima volta! E' da
una settimana che non passo la serata con loro".
Caroline
scosse la testa. "Non li hai abbandonati, sono con quei tuoi
servi, giusto? Li adorano come se fossero figli loro, sta
tranquilla".
Demelza
abbassò il viso. Sapeva di non averli abbandonati, ma le
mancavano
lo stesso. Era felice di aver stretto quell'accordo con Sir Devrille
e ogni guadagno e ogni suo sforzo avrebbe aiutato Jeremy e Clowance
in futuro, lo faceva per loro. Ma spesso si fermava a pensare, con
nostalgia, a quando era una semplice locandiera o ancora prima, a
quando era in Cornovaglia e passava la giornata ad occuparsi della
casa e della sua famiglia, senza continui impegni ad allontanarla da
loro. Per quanto ora la sua vita fosse emozionante, intensa, comoda,
erano i momenti coi suoi bambini che preferiva, giocare con loro,
vederli scoprire il mondo, addormentarsi sentendo il loro placido
respiro accanto a lei, nel lettone, quando facevano capolino nella
sua stanza e non volevano dormire da soli.
Sospirando,
si guardò attorno. La festa in giardino era splendida, piena
di
luci, torce accese e tavole riccamente imbandite. Le cadde lo sguardo
su due giovani che, insistentemente, guardavano nella loro direzione.
"Caroline, credo tu abbia degli spasimanti" – le
sussurrò, indicando i due ragazzi col ventaglio che teneva
fra le
mani.
Caroline
ridacchiò. "Non guardano me, mia cara. Guardano te".
"Me?
Perché dovrebbero farlo?".
Caroline
le strizzò l'occhio. "Perché sei una creatura
rara, bella,
intelligente e piuttosto ricca. Adorerebbero mettere le loro manine
sul tuo patrimonio e, tanto che ci sono, pure su di te" –
concluse, maliziosa.
Demelza
rise, a quelle parole. In realtà si sentiva un pesce fuor
d'acqua e
si sentiva tutto fuorché una donna desiderabile. "Figurati".
"Sei
una donna molto bella, Demelza. Non sottovalutarti, hai fascino e
carisma da vendere".
"Sono
una donna sposata".
"Ma
non porti più l'anello al dito da molto tempo".
Demelza
sbuffò. "Stasera, credo tu abbia bevuto. Ti lascio ai TUOI
due
spasimanti e vado a cercare Martin e Diane. Volevano parlarmi, li ho
visti prima, al nostro arrivo, e poi sono come spariti".
Caroline
la guardò, in tralice. "Stai fuggendo... Sicura che i due
giovanotti non ti interessano?".
Demelza
sorrise, scuotendo la testa. "Sono tutti tuoi, ci vediamo dopo".
Si
allontanò, mentre le pareva che mille occhi fossero puntati
su di
lei, ricordadosi del suo primo ballo di alcuni anni prima, a casa dei
Warleggan, con Ross. Anche allora si sentiva spersa e smarrita, con
suo marito assente, preso dal gioco e dalla voglia di smascherare le
manovre di George. Fu il loro primo litigio, quello. Fu la prima
volta che Ross la fece sentire invisibile e sola, ora che ci
pensava... Era cambiato tutto da allora. Si chiese cosa avrebbe
pensato Ross, se l'avesse vista in quel momento. Era una lady adesso,
come Elizabeth, elegante, raffinata ed invitata alle feste
più
esclusive della capitale. Strinse il ventaglio fra le mani, al
pensiero del marito. Faceva male ancora, ricordarlo...
Finalmente,
quando l'ansia stava prendendo il sopravvento, intravide il viso
amico di Diane. "Vi ho cercato dappertutto".
Diane
le si avvicinò, prendendola sotto braccio. "Oh mia cara, vi
stavo cercando anche io. E' una serataccia".
"Come
mai? La festa è un po' noiosa, ma non mi sembra
così male".
Diane
si incupì. "Cattive notizie, Demelza. Martin è
distrutto,
vieni". La condusse dal marito, dribblando con eleganza gli
invitati.
Demelza
la seguì in silenzio, preoccupata, non sapendo cosa
aspettarsi. Era
andato male qualche investimento? Avevano comprato azioni diventate
carta straccia? Che diavolo stava succedendo?
Quando
raggiunsero Martin Devrille, Demelza lo trovò pallido e
smunto.
C'erano con lui due uomini, suoi amici e collaboratori occasionali,
che aveva conosciuto nei mesi precedenti quando era stata invitata
dal suo socio per delle colazioni d'affari.
Fece
un inchino e i due uomini le baciarono la mano.
Martin
le cinse le spalle con un braccio, attirandola a se. "Demelza,
è
successa una disgrazia".
"Martin,
mi sto spaventando. Cosa c'è?".
Diane
sospirò. "Ti ricordi di Sir Benjamin Reeley? Lo avevi
conosciuto al ballo del mese scorso, all'Opera. Un caro, vecchio
amico di Martin".
Demelza
annuì. Ricordava, seppur vagamente, quell'uomo. Una persona
sui
sessant'anni, gioviale, goliardica, dai capelli e dai baffi rossi,
pronta allo scherzo e a bere del buon vino con gli amici, quando se
ne presentava l'occasione. Era un ricco borghese di Londra e Martin
glielo aveva presentato come uno dei suoi più cari amici.
"Sì,
me lo ricordo".
Martin,
con gli occhi rossi, annuì. "Amava la vita, per lui ogni
occasione era buona per far festa".
Demelza
deglutì. Martin stava parlando al passato e il suo sesto
senso le
suggeriva che poteva essere successo qualcosa di grave. Si morse il
labbro, non sapendo cosa dire. "Che cos'è successo?".
"Si
è tolto la vita la notte scorsa, con una pallottola in
testa" –
rispose uno dei due uomini in loro compagnia.
Demelza
spalancò gli occhi. Per quanto poco conoscesse quell'uomo,
non gli
sembrava affatto una persona portata a fare qualcosa di simile.
"Mi... mi dispiace... Era un buon amico per voi, Martin. Sentite
condoglianze".
Martin
scosse la testa. "Era una persona solare, allegra. E per colpa
di quei demoni...". Strinse i pugni delle mani, tremante. "Gli
hanno tolto tutto, persino la voglia di vivere!".
Demelza
guardò Diane, senza capire. "Di chi sta parlando?".
"Di
quei demoni dei Warleggan, della Warleggan Bank!" - disse
Martin rabbioso, scagliando a terra il bicchiere di champagne che
teneva fra le mani. "Aveva dei debiti con loro, ha osato non
appoggiarli in alcune speculazioni finanziarie e loro gli hanno
intimato la restituzione immediata di quanto lui gli doveva. La
vergogna di finire sul lastrico, nella prigione dei debitori, lo
hanno spinto a...".
"A
togliersi la vita". Demelza sbiancò.Warleggan... quel
cognome
che arrivava come un incubo dal suo passato, quando credeva di
esserselo lasciata per sempre dietro alle spalle. A quanto pareva, il
loro modo di operare non era cambiato e continuavano a mietere
vittime fra coloro che avevano creduto ingenuamente in loro e nelle
loro promesse. "Parlate di George Warleggan?" - chiese,
tetra.
Martin
spalancò gli occhi. "Lo conoscete, Demelza?".
"Mio
malgrado...". Alzò gli occhi al cielo, ricordando tutto il
male
che George aveva fatto a lei e a Ross negli anni. "Mio...
marito... ha avuto grossi problemi con lui. Per George Warleggan,
schiacciarlo, era una questione di vita o morte, ne era ossessionato
e ci ha perseguitati per anni". Odiava parlare di Ross davanti a
qualcuno che non fossero i Devrille, che conoscevano la sua storia,
ma non poteva fare altrimenti. "Purtroppo c'è poco da fare,
sono molto potenti" – concluse, sconfitta. Poi
però ci pensò
su, considerando che tutto era cambiato e lei aveva i mezzi per
mettergli i bastoni fra le ruote... "Martin, la nostra
società... Se investissimo una quota considerevole di denaro
nelle
azioni della Warleggan Bank, pensate che riusciremmo ad avere
abbastanza azioni per entrare nel loro consiglio di
amministrazione?".
Martin
spalancò gli occhi. "Potremmo, certo. Ma non voglio avere
niente a che fare con quella gente. La Warleggan Bank ha portato alla
rovina e alla morte uno dei miei migliori amici".
Demelza
annuì. "Ma noi non chiederemo prestiti, saremo loro
creditori.
E se avessimo abbastanza azioni, George Warleggan dovrebbe scendere a
patti con noi, per le sue speculazioni finanziarie. Questo ci darebbe
un grosso potere su di lui".
"Io
non voglio vederlo nemmeno in volto, George Warleggan! Demelza, non
mi siederò mai al consiglio d'amministrazione della banca di
quell'uomo. Nemmeno se siete voi a chiedermelo".
Lo
sguardo di Demelza divenne freddo come ghiaccio. "Non ve lo
chiederò, infatti. Perché ci andrò io".
I
due uomini accanto a loro la squadrarono, stupiti. Poi annuirono.
"Potrebbe essere una bella idea e avete abbastanza capitale per
farlo. La Warleggan Bank è una società sicura,
non rischierete
capitale e potreste tenere George per il collo, se vi mettete insieme
e magari stringete qualche alleanza segreta con qualche altro
azionista che non ha troppo in simpatia quelle persone".
Martin
picchiettò il piede, pensieroso. Poi alzò lo
sguardo, a guardarla
in viso. "Sei sicura di volerlo fare? Sono serpi, Demelza, ma la
tua idea mi stuzzica, potrebbe portare a una sorta di giustizia".
"Lo
so che sono serpi, li conosco bene, mio malgrado. Stabiliamo la somma
da investire, compriamo il pacchetto azionario e poi farò
tutto io,
ormai sono abbastanza esperta per riuscire a portare a termine questa
cosa e a sedermi in un consiglio d'amministrazione per poi uscirne
vincitrice". Prese un profondo respiro, stava giocando col fuoco
e poteva scottarsi ma non voleva fermarsi. George aveva fatto male a
tante persone oneste, ne aveva fatto anche a lei e alla sua famiglia
e ora che aveva i mezzi per contrastarlo, non avrebbe perso la sua
occasione. Non lo faceva solo per Martin e per il suo amico ma anche
per se stessa, per Ross e per tutte le persone che quell'essere aveva
rovinato.
Martin
annuì. "Domani mattina passa a casa mia, daremo inizio
all'affare".
...
Tornò
a casa che era passata da poco la mezzanotte. Faceva ancora caldo,
quell'estate Londra era stata torrida e spesso aveva passato notti
insonni a causa della calura.
Fece
attenzione a non fare rumore, raggiunse la sua camera e finalmente si
tolse quegli abiti tanto eleganti quanto scomodi di dosso e si mise
una camicia da notte. Si sciolse i capelli, li pettinò e
poi, in
punta di piedi, raggiunse la camera dei suoi figli.
Entrò,
guardandoli dormire alla luce di una candela ancora accesa posta sul
comodino. Jeremy si era addormentato con un libro illustrato fra le
mani e Demelza sorrise nel guardarlo dormire. Era così
intelligente
Jeremy, faceva mille domande, aveva modi di fare aggraziati e gentili
ed era tranquillo e pacato. Spesso si chiedeva da chi avesse preso,
perché né lei né Ross erano
così, di carattere. Si chinò,
baciandolo sulla fronte, e il bambino aprì gli occhi.
"Mamma,
sei tornata?".
"Shh,
dormi, è tardi e sveglierai Clowance".
"Ti
sei tolta il vestito da principessa".
"Già,
era così scomodo, sai?". Si sedette accanto a lui,
accarezzandogli i capelli e prendendogli il libro, per metterlo sul
comodino. "Su, lo mettiamo a posto. Continuerai a guardarlo
domani".
Il
bimbo glielo riprese dalle mani, aprendolo. "Guarda mamma, ci
sono i disegni dei cavalli. Uno grande e uno piccolo" –
disse,
indicando due cavalli illustrati sulla pagina. "Sono una mamma
cavallo con il suo bambino?".
Demelza
sorrise. "No, vedi Jeremy, questo più piccolo è
un pony. Un
cavallino che resta piccolo ed è adatto ad essere cavalcato
da dei
bambini come te e Clowance".
Jeremy
si illuminò in viso. "Davvero? Me ne compri uno?".
"Ci
penseremo quando sarà pronta la casa nuova". Presto, prima
dell'inverno, avrebbero traslocato in una grande villa con giardino
nel centro di Londra, che aveva acquistato e stava sistemando ed
arredando. Una casa enorme, su due piani, signorile, con un vialetto
curato e recintata da un'elegante cancellata in ferro battuto,
accanto alla casa dei Devrille, in una delle vie più
esclusive di
Londra. Le spiaceva lasciare quell'appartamento sopra la sua locanda,
lì era nata Clowance e lì c'erano i ricordi di
quel primo periodo
in quella nuova città, tanto difficile e tanto intenso, ma
per il
bene dei bambini aveva deciso di comprare una casa dove potessero
giocare tranquillamente senza fare lo slalom fra i clienti della sua
attività. Certo, per lei sarebbe stato più
complicato fare
avanti-indietro ogni mattina e ogni sera per raggiungere la locanda,
ma quella casa era un buon investimento per il futuro dei suoi figli
e avrebbe offerto comodità e prestigio a quello che era
rimasto
della sua famiglia. Era grande, piena di stanze, con un enorme salone
da ricevimento e tanto spazio per Jeremy e Clowance per giocare.
"Mamma,
e il cavallo grande?".
Demelza
abbassò lo sguardo sull'altra figura illustrata, uno
splendido
cavallo nero e lucente. "Questo è un purosangue, Jeremy. Un
cavallo grande, agile e veloce, che cavalcano le persone adulte. Il
tuo papà ne ha uno uguale". Si morse il labbro, stupita di
quell'ultima frase, maledicendosi. Non voleva farlo, non voleva
parlare di Ross a Jeremy, non voleva turbarlo ma probabilmente quella
sera, sentir parlare di George aveva risvegliato in lei ricordi
sopiti.
Il
bimbo alzò lo sguardo su di lei, incuriosito.
"Papà ha un
cavallo così? E mi portava con lui?".
"Eri
molto piccolo, era pericoloso...". Sentì gli occhi pungerle.
No, Ross non aveva mai portato Jeremy a cavallo, ma ricordava
perfettamente di quando ci aveva portato Geoffrey Charles, in
compagnia di Elizabeth.
"Perché
papà non viene mai a trovarci?".
"E'
molto occupato, Jeremy" – rispose, con una freddezza che non
le era mai appartenuta.
Il
bimbo abbassò lo sguardo. "Lui non è della
famiglia, non ci
vuole bene, non viene mai. Si è dimenticato di noi".
Demelza
si morse il labbro. Dannazione a lei, che le era saltato in mente di
parlare di Ross a Jeremy? E ora, cosa doveva rispondergli? Certo, la
logica le suggeriva di non mentire, di essere franca, ma il suo cuore
si rifiutava di farlo, di arrecare un dolore a suo figlio, ancora
così piccolo. Lo abbracciò, stringendolo a se,
chiudendo il libro
che teneva fra le mani. "Jeremy, tu sei il suo bambino e il tuo
papà potrà dimenticarsi di ogni cosa ma mai di
te. Ne sono sicura.
E' molto occupato, è lontano, ma sono certa che ti pensa
sempre".
"Pensa
anche a te e a Clowance?".
Sorrise,
con amarezza. "Certo, a modo suo...". Si chinò a baciarlo
sulla fronte, rimboccandogli le coperte. "Ora dormi, è
tardi".
"Va
bene, mamma".
Si
alzò dal letto, dopo avergli dato un'ultima carezza,
avvicinandosi
alla culla di Clowance. Era cresciuta un sacco, aveva la testolina
piena di boccoli rossi e una vivacità fuori dal comune,
sembrava
avere l'argento vivo addosso. Gattonava per tutta casa, urlando
contrariata se non otteneva quel che voleva, fissandoti con uno
sguardo buffo e corrucciato. Lei, diversamente da Jeremy, era
decisamente figlia sua e di Ross, stessa testa dura, stesso carattere
ribelle di chi non accetta compromessi e sa già cosa vuole.
Era
incantevole, una bambina splendida che tutti si fermavano ad
ammirare, quando la portava fuori per fare una passeggiata. Si
chinò
a baciarla, chiedendosi se fosse giusto sottrarre tanto tempo ai suoi
figli per dedicarsi agli affari, rimpiangendo il tempo che passava
lontano da loro.
E
ora, con l'affare Warleggan fra le mani, il tempo in loro compagnia
si sarebbe ulteriormente ridotto.
Pensò
a Ross e a come tutto sarebbe stato diverso se l'avesse amata, se
avesse tenuto a lei come teneva ad Elizabeth, se non se ne fosse
andata...
Ma
era inutile pensarci, Ross non era più suo e lei era stata
capace di
ricominciare una nuova vita e di assicurare un futuro ai suoi due
bambini. E questo le costava sacrifici, sofferenza, sensi di colpa,
ma la riempiva anche d'orgoglio.
Baciò
Clowance sulla fronte e decise che il giorno successivo, dopo il
colloquio con Martin Devrille, avrebbe tenuto chiusa la locanda e
passato la giornata coi suoi figli a giocare con loro rotolandosi sul
pavimento o a correre nel parco cittadino, senza abiti di seta o
acconciature raffinate. Come una volta, come in Cornovaglia.
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Capitolo 10 *** Capitolo dieci ***
Prese
un profondo respiro, mentre le gambe le tremavano.
Quella
mattina si era svegliata presto, aveva raccolto i lunghi capelli
rossi in un elegante chignon che lasciava cadere qualche ciocca sul
collo, aveva indossato un meraviglioso vestito di seta blu, come il
suo cappello. Aveva indossato guanti di seta, orecchini e collier
d'oro, al polso un bracciale di perle e si era truccata il viso in
maniera elegante e non troppo marcata. Era una donna d'affari,
giusto? Doveva impressionare i suoi interlocutori, non era questo il
suo scopo? Doveva spiazzare e mettere all'angolo George Warleggan e
non voleva avere nemmeno un capello fuori posto. Doveva essere
perfetta nella sua prima apparizione al consiglio d'amministrazione
della Warleggan Bank.
Nonostante
il suo aspetto fosse fiero ed elegante però, una strana
ansia le
attanagliava lo stomaco. Vedere George significava aprire di nuovo i
conti col suo passato ed era certa che lui avrebbe fatto di tutto per
metterla in difficoltà, parlandogli anche di Ross, se
necessario.
A
suo favore poteva usare il cospicuo potere che le quote azionarie
della banca, acquistate coi suoi soci, le davano, permettendole di
trincerarsi dietro il puro profitto e la conclusione di affari
vantaggiosi per tutti. Era un'azionista della Warleggan Bank ora, non
una loro debitrice. E questo, George, sapeva che doveva tenerlo in
conto.
Arrivò
alla banca poco dopo le nove del mattino, leggermente in ritardo
rispetto all'orario fissato. Anche questo era studiato e rispettava
appieno l'idea che voleva dare di se a quegli uomini: noncuranza,
arroganza e poco rispetto per le loro regole. Doveva e voleva
apparire capricciosa, questo avrebbe aumentato il fascino nei soci
della banca che non la conoscevano e avrebbe fatto indispettire
George che comunque si sarebbe trovato con le mani legate, visto il
peso delle azioni che lei aveva in suo possesso.
Salì
al secondo piano dell'edificio, osservando i dipinti alle pareti e
gli eleganti tappeti che adornavano il corridoio, tutti di ottima
fattura persiana.
E
quando arrivò alla sala del consiglio d'amministrazione,
entrò
senza bussare, imponendosi un passo deciso e sicuro.
Al
centro della sala c'era un enorme tavolo d'ebano scuro e una decina
di uomini vi era seduta attorno. Alcuni erano anziani, altri alle
prime armi, forse ancora più giovani di lei. Tutti
elegantissimi,
tutti ricchi e tutti desiderosi di concludere ottimi affari.
E
a capo tavola, a dominare tutto e tutti, con gli occhi sgranati dalla
sorpresa, George Warleggan, vestito con un elegante soprabito rosso,
pallido come un cencio e senza parole. Era decisamente stupito dal
vedersela davanti... Gli era stata presentata, dai verbali, come
Demelza Carne e non col cognome Poldark. E questo aveva influito non
poco sull'effetto sorpresa. Lui non conosceva il suo nome di
Battesimo, dopo tutto...
Demelza
finse di ignorarlo, si tolse il cappello e prese posto al tavolo,
sedendosi su una delle sedie lasciate libere. "Scusate il
ritardo signori ma sapete, noi donne siamo davvero capricciose e
amiamo perdere tempo nei negozi d'alta moda" – disse,
togliendosi i guanti ed appoggiandoli al tavolo, con una lentezza ed
un'eleganza studiata.
George,
sempre più pallido, tossicchiò. "Che cosa ci fate
quì?".
Demelza
alzò lo sguardo su di lui. "Oh, non ve l'hanno detto?
Demelza
Carne, piacere di incontrarvi, signore! Sono, assieme ai miei soci,
una delle nuove azioniste di maggioranza della Warleggan Bank".
Accavallò le gambe, appoggiò la mano sotto il
mento e sorrise
amabilmente. "Ora che abbiamo fatto le nostre presentazioni,
direi che è il caso di iniziare a parlare d'affari,
è già così
tardi... mio malgrado".
"Certo!"
- asserì uno degli altri soci, un giovane dai capelli dorati
che
stava all'altro lato del tavolo.
"Certo"
– ripeté George, squadrandola gelido. "Volete che
vi presenti
gli altri soci di maggioranza?".
"No,
non è necessario. Sono quì per parlare di denaro,
non per ampliare
il mio giro di conoscenze".
George
incassò, si sedette e annuì, aprendo il verbale
posto davanti a
lui. "Oggi discuteremo della costruzione della nuova sede della
nostra banca a Oxford. Come sapete, il costo d'acquisto del
fabbricato che ci lancerà in questa nuova avventura,
è piuttosto
elevato. Ovviamente dovremo coprire i costi per la ristrutturazione,
l'ampliamento e la messa in sicurezza della banca che, ad oggi,
sarebbe una delle più grandi della città. Questo
ci porterà
profitti innumerevoli, ma altrettanto innumerevoli saranno le spese
iniziali d'investimento. Potremmo utilizzare denaro nostro, privato,
che ammortizzeremmo coi primi proventi, quando la banca
aprirà.
Oppure, usare i profitti derivanti dal pignoramento delle abitazioni
di coloro che hanno debiti con noi non ancora saldati. Ho un elenco
di nomi che vi ho fatto preparare in copia, uno per ciascuno di voi.
Queste persone sono cadute in rovina e, nonostante non si siano
conclusi ancora i termini per la restituzione delle somme che ci
devono, dubito fortemente che potranno saldare i loro debiti con noi.
Se siete d'accordo, inizierei col pignoramento dei loro immobili".
"Io
non sono d'accordo".
La
voce di Demelza ruppe il silenzio che si era generato alle parole di
George, che spalancò gli occhi. "Come?".
"Non
sono d'accordo" – ripeté, lentamente.
"Signora"
– rispose George, con malcelato disprezzo nel tono di voce
–
"Voglio ricordarvi che il pagamento dei propri debiti è un
dovere sia civile che morale, in una società onesta".
Demelza
annuì. "In una società onesta costituita da
uomini onesti, si
rispettano i termini di pagamento accordati. Quanto tempo è
stato
dato, a quelle persone iscritte su quella lista, per il pagamento dei
loro debiti?".
Uno
dei soci prese l'elenco, studiandolo. "Sono persone che hanno il
termine di pagamento fissato a gennaio del prossimo anno".
Demelza
sorrise. "Mi pare che manchi ancora molto, quindi. Siamo ancora
in estate, dopo tutto, e quelle persone potrebbero avere tutto il
tempo per estinguere i propri debiti".
"Sono
persone vicine alla bancarotta, non pagheranno nemmeno con l'avvento
del nuovo anno!" - ribadì George, piccato e rosso d'ira.
"Concedergli questi mesi farebbe di noi persone estremamente
stupide e sognatrici".
"Farebbe
di noi, persone oneste" – ribadì Demelza, non
togliendogli
gli occhi di dosso. "Io non firmerò nulla di quanto
proposto,
se questi sono i termini! Un conto sono i prestiti scaduti, un conto
quelli ancora in essere. Non rovinerò la vita di persone in
difficoltà e non intendo avere nessuno sulla coscienza".
"E
per i costi della nuova banca?" - chiese George, con aria di
sfida.
Demelza
sospirò. "Investiremo i nostri capitali, se necessario, non
mi
pare che questo sia un problema. Oppure chiederemo noi stessi
dilazioni di pagamento alla società costruttrice,
impegnandoci a
saldare coi primi proventi della nuova banca. Questa è la
mia
posizione, signori. Che, a conti fatti, è pure quella che
rispetta
la legge vigente che non consente di cambiare, in corso d'opera,
accordi già presi. Ma se voi pensate il contrario e
possedete
abbastanza azioni della Warleggan per proseguire senza la mia firma,
ovviamente sarete liberi di farlo anche senza il mio benestare".
George
si morse il labbro. I suoi occhi erano fuori dalle orbite e Demelza
avrebbe scommesso che, se avesse potuto, le avrebbe messo le mani al
collo. "Signora... Carne... ovviamente il vosto peso azionario
in questa seduta è piuttosto consistente e non possiamo non
tenerne
conto. Ma vorrei invitarvi ad essere ragionevole".
"Io
vi invito a fare altrettanto!".
Il
socio biondo giovane che aveva davanti, tossicchiò. "Io
credo
che il ragionamento della signora sia giusto, eticamente corretto. E
che possiamo, dopo tutto, trovare altre strade per i fondi che ci
sono necessari".
George
strinse i pugni, contrariato. "Voi altri signori, che ne
pensate?".
La
misero ai voti. E su undici persone presenti, tre gli diedero
ragione. Era ancora poco, avevano tutti paura di George, ma per
Demelza era già un ottimo risultato. Erano quattro contro
sette, con
abbastanza peso azionario per fermare i piani subdoli di quel
demonio.
George
sospirò. "E sia, chiederemo dilazioni di pagamento alla
società
appaltatrice. Ma sia chiaro, appena scatterà il nuovo anno,
pretenderò la restituzione di tutti i crediti non ancora
versati a
mio nome".
"E'
in vostro diritto farlo" – rispose Demelza, alzandosi in
piedi. Sorrise agli altri soci, rimettendosi i guanti e il cappello.
"Signori, è stato davvero un piacere conversare con voi
stamattina. Ma credo che ora tornerò a passatempi
più femminili,
come dello sano shopping per le vie del centro della capitale.
D'altronde, noi donne sappiamo essere così capricciose".
I
soci le fecero un inchino, osservandola stupiti, increduli per quanto
avevano appena visto. Nessuno di loro aveva mai osato contraddire
George prima di quel giorno. Poi, uno ad uno, lasciarono la sala.
Demelza
fece per imitarli ma la voce di George la raggiunse, gelida, alle
spalle. "Signora Carne... volete concedermi il piacere di due
chiacchere prima di dedicarvi ai vostri passatempi? O, dovrei dire,
signora Poldark?" - chiese, appena furono soli.
Demelza
si voltò verso di lui. Bene, erano faccia a faccia ora,
senza nessun
altro attorno. Poteva finire la sua commedia di nobildonna viziata
adesso, e giocare a carte scoperte. "Sono lusingata che vi
ricordiate di me, George".
"In
effetti è strano, i volti di voi sguattere sono tutti
così uguali"
– ribatté lui.
"Già,
puo' darsi" – rispose, a tono.
George
le si avvicinò di alcuni passi, arrivando a pochi centimetri
da lei.
"Come è possibile che siate quì, a questo
tavolo?".
"Città
nuova, vita nuova. Gli affari mi sono andati straordinariamente bene,
quì a Londra".
George
sorrise, freddamente. "Dovrebbero fare una legge che vieta a voi
sguattere e a quelli della vostra stessa specie di sedere ai tavoli
di potere, signora Poldark".
Demelza
rispose al sorriso. "Potrebbero, in effetti... Ma se facessero
una legge simile, ai tavoli di potere non potrebbero sedersi nemmeno
coloro che discendono da un'umile famiglia di fabbri, non credete?".
Sorrise, si voltò e fece per andarsene, ma George la
richiamò.
"Aspettate
un momento, non ho ancora finito con voi. Parliamo e mettiamoci
d'accordo, vorrei evitare problemi simili a quelli di poco fa, alla
prossima riunione di consiglio. E proporvi un piccolo accordo".
Demelza
si voltò verso di lui, seria. "Io non faccio accordi con
voi,
George. Dimostratevi ragionevole e andremo d'accordo, tutto
quì".
"Voi
ed io siamo molto simili, signora Poldark, da quello che vedo.
Potremmo andare d'accordo".
Demelza
si oscurò in viso. "Io non mi ritengo affatto simile a voi,
per
fortuna".
"Non
volete ascoltare cos'ho da dirvi?".
No,
non voleva. In realtà la presenza di George la stava
irritando
terribilmente. "Non ne ho particolarmente voglia. Arrivederci!".
George
non si fece intimorire. "Vostro marito... Lo avete lasciato da
ormai... un anno e mezzo, mi pare".
Gli
occhi di Demelza si assottigliarono. "Non credo siano cose che
vi riguardano. E non credo sia il caso di parlare di Ross
quì, in un
consiglio d'amministrazione della Warleggan Bank. Lui non c'entra
nulla in questo momento".
George
puntò il dito contro di lei, pensieroso. "Lo avete lasciato
e
suppongo ce l'abbiate a morte con lui per qualche motivo a me ignoto.
Vi do la possibilità di vendicarvi, di essere mia complice e
di
togliervi le vostre soddisfazioni. Come sapete, vostro marito
è
sempre stato un grattacapo per me, insieme potremmo distruggerlo".
Demelza
incrociò le braccia alla vita, squadrandolo con espressione
furente.
Come poteva chiederle una cosa del genere? Ma poi, di che si stupiva?
Era con George Warleggan che stava parlando, dopo tutto... "Non
ho alcun interesse a rovinare mio marito ma al contrario, spero che
viva felice, sereno e il più possibile lontano da me e dalla
mia
famiglia. Mi spiace George, se cercate un alleato per fargli la
guerra, cercate altrove".
"La
Wheal Grace si è dimostrata una miniera molto solida, sta
donando
infinite ricchezze a vostro marito e ai suoi soci. Se noi comprassimo
delle azioni...".
Demelza
sussultò. La Wheal Grace... Ricordava quanta fatica, quanti
sacrifici avesse fatto Ross per riaprirla, l'immenso lavoro di lui e
dei suoi uomini in quei cunicoli scuri, il triste destino di Francis,
la sua disperazione dopo il crollo e la morte di due dei suoi uomini.
Credeva che quella miniera fosse ormai chiusa, dopo quell'incidente,
invece Ross probabilmente era riuscito a tenerla in vita. "Se la
Wheal Grace si sta dimostrando un'ottimo investimento, sono felice
per Ross e per le persone che lavorano per lui. Conosco quegli uomini
e le loro famiglie, una ad una, e non intendo muovere un dito contro
di loro. Ross sta facendo la sua vita, io la mia. E mi va bene
così".
George
scosse la testa. "Signora Poldark, vostro marito cosa direbbe se
gli dicessi cosa fate a Londra? Cosa penserebbe se sapesse che siete
una scaltra azionista e giocatrice di borsa? La cosa potrebbe
turbarlo, non pensate?".
Demelza
si morse il labbro. No, George non doveva dire nulla a Ross e c'era
un modo per assicurarsi che stesse zitto circa i loro rapporti. "Io
non credo che sia conveniente, per voi, parlargli di me".
"Perché
mai?".
Demelza
sorrise, con freddezza e distacco. "Perché se lo faceste,
George, dovreste anche ammettere davanti a lui che vi tengo in scacco
nel consiglio d'amministrazione della vostra stessa banca. E credo
che preferiate la morte al dover ammettere uno smacco simile,
giusto?".
"Come
osate? Voi non mi metterete i bastoni fra le ruote" – rispose
George, rosso in viso.
Demelza
lo fissò negli occhi, furente. "E voi non li metterete a me.
Avremo un rapporto di lavoro onesto e rispettoso e ognuno di noi
starà al suo posto, agendo secondo legge ed
onestà verso il
prossimo. Andremo d'accordo, se ognuno rispetterà i patti.
Ross non
deve sapere nulla di me e di quello che faccio quì, intesi?
Se
direte qualcosa, sappiate che ho abbastanza potere per bloccarvi ogni
attività finanziaria della Warleggan Bank".
George
sospirò. "Ebbene non parlerò, ma voi sarete
ragionevole d'ora
in poi, quando ci vedremo alle prossime riunioni".
"Sarò
onesta ed agirò con altrettanta onestà, cercando
di venirvi
incontro dove possibile".
"E
io non parlerò a Ross della vostra attività. E di
voi. Potete stare
tranquilla, anche perché mi sarebbe impossibile comunicare
con lui,
allo stato attuale dei fatti".
Demelza
si oscurò, mentre una strana ansia prendeva possesso di lei.
"Perché?".
"Si
è arruolato ed è partito per la guerra ad inizio
anno, otto mesi
fa. Per quel che ne so, potrebbe anche essere morto".
Demelza
si sentì mancare, tanto che dovette appoggiarsi al muro per
non
cadere a terra. Impallidì, mentre le mani presero a
tremarle. In
guerra? Ross? Come poteva averlo fatto, come poteva aver abbandonato
Elizabeth, Geoffrey Charles e una miniera fiorente? Perché?
"State
bleffando?".
George
alzò le spalle. "Perché dovrei farlo? Non ne
avrei interesse,
non credete?".
Già,
non ne aveva interesse, Demelza questo lo sapeva. "Ross è
sempre stato molto avventato" – commentò, sotto
voce.
"Non
parlerei di avventatezza quanto piuttosto di sconfitta, signora
Poldark".
"Sconfitta?".
Demelza lo guardò, senza capire di cosa parlasse.
George
alzò la mano sinistra dove, all'anulare, brillava una
lucente fede
nuziale. "Mi sono sposato".
"Congratulazioni"
– rispose, in tono piatto.
"Con
la vostra ex cugina, la vedova Poldark. Elizabeth ed io siamo
convolati a nozze poco dopo la vostra partenza e la nostra unione
è
stata benedetta dall'arrivo di un meraviglioso bambino, Valentin".
Le
parve che le si prosciugasse tutta l'aria nei polmoni. George ed
Elizabeth? Come poteva essere? Elizabeth aveva sposato George? E
Ross? Tentò di parlare, ma non riuscì a dire
nulla, improvvisamente
le sembrava di avere il vuoto in testa. Cosa diavolo era successo in
Cornovaglia, nell'anno e mezzo in cui era stata assente?
Notando
la sua sorpresa, George sorrise amabilmente. "Capite signora
Poldark, per Ross è stato un trauma. Ho conquistato la
maggior
tenuta della sua famiglia, sono diventato tutore di suo nipote
Geoffrey Charles e ho sposato la donna che da sempre ama e che ha
sempre sognato, come forse anche voi sapete bene. E questo l'ha
mandato fuori di testa, costringendolo ad arruolarsi per la
disperazione di sapere la sua amata, sposata al suo acerrimo
nemico". Le poggiò famigliarmente una mano sulla spalla.
"Sicura di non voler riconsiderare la mia offerta di acquistare
quote azionarie della Wheal Grace?".
Con
uno strattone, Demelza si allontanò da lui. "Non
colpirò mio
marito alle spalle e non cambierò idea. E ora, se mi
permettete,
vorrei andarmene".
"Non
vi congratulate con me?".
"Congratulazioni
George, per tutto. Arrivederci".
La
voce di George la raggiunse alle spalle, nuovamente. "Mi
invidiate?".
Si
voltò verso di lui, di nuovo. "Perché dovrei
farlo?".
"Perché
io, a differenza di voi, ho un matrimonio felice, con una donna
meravigliosa, innamorata, onesta e raffinata. Un matrimonio perfetto,
a differenza del vostro. Ma vi capisco, comprendo la vostra scelta di
andarvene, essere la moglie di Ross Poldark dev'essere stato
frustrante".
Demelza
sorrise. "Non esistono matrimoni perfetti George e in ogni
coppia ci sono piccoli, inconfessabili segreti, tenetelo a mente".
Avrebbe desiderato urlargli in faccia la verità, che la sua
preziosa
dama era una bugiarda doppiogiochista, una falsa finta dama che lo
aveva tradito prima di sposarlo e che, con tutta
probabilità,
sognava ancora Ross. Ma non lo fece, non c'era più motivo
per farlo,
non c'entrava più nulla con la vita di quelle persone e
voleva
tenerle lontano da lei quanto più possibile. "Vi rinnovo i
miei
auguri, comunque, per il matrimonio e per il bambino. Ora devo
davvero andare".
George
annuì. "Perché ve ne siete andata? Me lo sono
sempre chiesto
con immensa curiosità".
Demelza
gli voltò le spalle, aprì la porta. "Non credo
che vi farebbe
piacere saperlo, George". Uscì dalla stanza, chiuse l'uscio
dietro di se e a passi spediti si avviò verso l'uscita. Gli
occhi le
pungevano, il suo corpo era percorso da brividi di freddo e non ne
capiva il motivo.
Improvvisamente,
fu costretta a fermarsi.
"Signora
Carne" – la chiamò il socio giovane che aveva
presieduto la
riunione con lei, poco prima. Lo riconobbe, era il ragazzo biondino
che era seduto dall'altra parte del tavolo, davanti a lei.
"Volevo
congratularmi con voi, avete davvero stile nel portare avanti le
vostre idee".
Demelza
annuì, disattenta. "Grazie".
"Che
ne dite se ci vedessimo per bere un the?".
"Scusate
ma oggi non sono dell'umore giusto per fare conversazione. Magari
un'altra volta".
Il
ragazzo annuì, cercando di incassare con dignità
il suo rifiuto.
"Ma certo signora, scusate se vi ho disturbato" –
balbettò, arrossendo.
Si
sentì in colpa. Era stata brusca, era fuori di se e quel
ragazzo
così impacciato ne stava pagando le conseguenze. "Scusate,
ma
oggi è una giornata terribile per me. Sono di fretta e non
so
nemmeno il vostro nome".
"Theodor
Garvey, milady. Per servirvi".
Demelza
sorrise. "La prossima volta, se vi andrà ancora di farlo,
berrò
più che volentieri un the con voi. Ma oggi non mi
è davvero
possibile".
Il
volto del ragazzo si illuminò. "Aspetterò la
prossima riunione
con impazienza, allora".
"Certo".
Lo guardò allontanarsi, sentendosi in colpa per quella
promessa che
in fondo non aveva voglia di mantenere, fatta unicamente per
toglierselo di torno quanto prima. Non era d'umore adatto a
sopportare nulla, nemmeno un gesto o una parola gentile.
Uscì
in strada, appoggiandosi al muro, osservando il cielo estivo di
Londra, di un color azzurro pallido. Ross era in guerra da mesi...
"Sei un dannato idiota" – disse, mentre calde lacrime le
rigavano le guance. Le aveva fatto male sentir parlare di lui, per un
anno e mezzo aveva fatto di tutto per non pensarlo e non immaginare
cosa stesse facendo e ora George aveva riaperto vecchie ferite in
maniera dolorosa. "Perché non sei andato da lei?
Perché non
hai lottato per tenertela? Perché hai permesso che George la
sposasse? Ed eri davvero così disperato senza di lei, dal
fatto di
vederla con un altro, da decidere di partire per la guerra?". Le
faceva male immaginare che, probabilmente, era quello che l'aveva
spinto ad andarsene...
Però...
Ross era suo marito e dannazione, non le riusciva proprio di non
preoccuparsi per lui ogni volta che prendeva decisioni azzardate e
pericolose. Lo aveva sempre fatto, in ogni dannata avventura in cui
si era imbarcato suo marito. Anche ora, anche lontani, anche dopo
tanto tempo non riusciva a non essere in ansia per la sua sorte...
Su
due piedi, prese una decisione che mai avrebbe contemplato possibile
fino a dieci minuti prima. Ma se non l'avesse fatto sarebbe morta di
preoccupazione, non ci avrebbe dormito la notte e avrebbe smarrito il
briciolo di serenità che aveva faticosamente raggiunto in
quei mesi.
Doveva andare in Cornovaglia, in incognito, e scoprire cosa fosse
successo a Ross. Doveva sapere come stava, cosa faceva, il
perché di
tante cose. Doveva scoprire se era vivo... Era suo marito dopo tutto,
ancora. E il padre dei suoi figli...
E
quale momento migliore per tornare, se non quello? Lui era lontano,
non correva il rischio di incontrarlo e lei avrebbe fugato tutti i
suoi dubbi e le sue paure e sarebbe potuta andare a fare visita alla
tomba di Julia. Era tanto che non andava dalla sua bambina e si
sentiva terribilmente in colpa per averla abbandonata.
Sarebbe
partita quanto prima, avrebbe affidato i bambini a Martin e Diane e
poi avrebbe raggiunto Nampara. Se c'era qualcuno che poteva
rispondere alle sue domande e mantenere il segreto sulla sua visita,
quella era indubbiamente Prudie. Solo lei poteva aiutarla,
laggiù.
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Capitolo 11 *** Capitolo undici ***
La
carrozza procedeva placidamente nelle lande deserte, battute dal
vento d'autunno della Cornovaglia.
Demelza
si strinse nel mantello, infreddolita. Non ci era più
abituata,
benché Londra fosse umida e nebbiosa, difficilmente l'aveva
vista
ventosa da quando ci viveva.
Martin
e sua moglie Diane avevano accettato con entusiasmo di tenerle i
bambini mentre era via ed era sicura e tranquilla a lasciar loro i
suoi figli. Per Jeremy e Clowance erano diventati come dei nonni e
anzi, Jeremy li chiamava proprio così, nonna Diane e nonno
Martin, e
presto avrebbe imparato anche Clowance a chiamarli a quel modo. E
loro, senza figli e nipoti da accudire e coccolare, riversavano il
loro affetto sui suoi bambini, riempiendoli di attenzioni e regali,
tanto che spesso aveva dovuto frenarli dal viziarli troppo.
Anche
per lei erano diventati, oltre che soci in affari, una specie di
famiglia, quei genitori che le erano mancati da bambina, tanto che si
era confidata con loro circa il suo passato e il motivo del suo
viaggio in Cornovaglia e Martin e Diane erano stati comprensivi e
dolci, nel rassicurarla e nell'incoraggiarla a fare quel viaggio.
"Martin,
credi che io sia patetica a partire? Voglio dire... E' così
stupido
da parte mia preoccuparmi per mio marito ma... preoccuparmi e
dannarmi per lui è sempre stata la cosa che mi riesce
meglio. Non
riesco a farne a meno".
"Io
non vedo nessuna donna patetica davanti ai miei occhi ma al
contrario, una giovane donna in gamba, intelligente e ancora molto
innamorata del padre dei suoi figli. Parti, se senti che è
quello
che devi fare per stare tranquilla, fai quello che devi e poi, alla
fine di tutto, torna quì. Hai una casa laggiù e
una figlia che non
c'è più ma che vuoi andare a visitare al
cimitero. E' tuo diritto
farlo. Non preoccuparti per Clowance e Jeremy, ci penseremo io e
Diane a loro".
Mentre la
carrozza procedeva,
pensò a quanto le aveva detto Martin prima di partire. Era
davvero,
ancora, una donna innamorata? O era partita per una semplice
questione di principio, perché sentiva che lo doveva ai suoi
figli?
Il
colloquio con George
l'aveva sconvolta, aveva scoperto una realtà che credeva
impossibile
e scardinato molte delle certezze che aveva quando era partita.
Elizabeth
aveva sposato George
alla fine... Perché l'aveva fatto? Era stata una scelta
consapevole
sua e di Ross, quella di troncare? O, semplicemente, Elizabeth aveva
scelto il partito migliore? E Ross... quanto era stato d'accordo
–
se lo era stato – con quella scelta?
Dubitava di
essere ancora nei
pensieri di suo marito, non era tanto sciocca e sognatrice da
crederlo possibile e sicuramente dietro alla sua partenza per la
guerra in Francia si nascondeva la delusione per aver perso Elizabeth
ma Ross rimaneva comunque il padre di Jeremy e Clowance e lei aveva
il dovere di scoprire cosa stesse combinando e se si era fatto
ammazzare oltre Manica.
La carrozza
si fermò e
Demelza si affacciò al finestrino. Viaggiava in incognito,
vestita
di eleganti abiti di lana pregiata, coperti da un meraviglioso
mantello di pelliccia che la riparava dal vento della Cornovaglia,
già molto freddo.
Il
cocchiere aprì lo
sportellino, inchinandosi. "Signora, siamo arrivate".
Demelza
prese il mazzo di rose
bianche poggiato sul sedile e scese dalla carrozza, calandosi il
cappuccio in testa. Non c'era in giro nessuno, era quasi mezzogiorno,
ma preferiva non correre il rischio che qualcuno la vedesse e la
riconoscesse.
Si
guardò attorno, provando
una stretta al cuore. Si trovava davanti all'ingresso del cimitero
dove riposava Julia, la sua prima, meravigliosa bambina a cui pensava
sempre, ogni volta che giocava coi suoi fratellini.
Lei era
stata il suo tormento
in quell'anno e mezzo a Londra in cui non era potuta venire a
trovarla.
Pagò
il cocchiere e poi entrò
nel cimitero, raggiungendo a passi veloci la piccola tomba della
figlia. Le cedettero le gambe, quando fu a tu per tu con lei, si
inginocchiò e per molti minuti non fece altro che piangere
in
silenzio. Era così diversa ora dalla mamma che aveva
conosciuto
Julia, era più adulta, sicura di se, elegante, ricca. Ma il
dolore
per la sua perdita era rimasto ugualmente lacerante e impossibile da
superare. Avrebbe donato ogni ricchezza, ogni agio, ogni
comodità
pur di poterla riavere indietro, ma sapeva che non c'era strada di
ritorno per lei, che Julia era persa per sempre e che nulla
gliel'avrebbe restituita. Si chiese se Ross pensasse a lei ogni
tanto, le aveva voluto bene, ricordava quanto fosse commosso il
giorno in cui era nata e quanto fosse disperato quando le aveva
rivelato che era morta. Quella era stata l'unica volta in cui l'aveva
visto piangere...
Si chiese
come sarebbe stata,
se fosse vissuta. Avrebbe avuto sei anni ormai, i capelli lunghi,
avrebbero potuto chiacchierare insieme e avrebbe insegnato a suo
fratello e alla sua sorellina tutto quello che sapeva. Forse, se non
fosse morta, anche le cose fra lei e Ross sarebbero andate
diversamente perché era stato proprio dalla perdita della
loro
bambina che, pian piano, avevano iniziato ad allontanarsi e lui aveva
ricominciato a guardare Elizabeth con occhi innamorati,
dimenticandosi di lei e rifiutando, di fatto, la paternità
di Jeremy
a cui non aveva mai voluto dare il minimo di attenzioni.
Osservò
la tomba, pulita,
ordinata, piena di fiori di campagna. Sorrise, Prudie aveva tenuto
fede alla promessa che le aveva fatto quando era partita e si era
presa cura di Julia, mentre lei era lontana.
Sistemò
le rose in un vaso e
poi sfiorò il marmo, mentre un groppo le stringeva la gola.
"Anche
se non posso più venire quì, tu lo sai che ti
penso sempre, vero
Julia? Ti vorrò sempre bene, ovunque tu sia, non
dimenticarlo mai,
sei la mia bambina, quella che ha fatto di me una mamma".
A
malincuore, dopo alcuni
minuti di raccoglimento, si alzò in piedi. Allontanarsi da
lei
faceva male perché sapeva che non sarebbe potuta tornare per
molto
tempo o forse mai, ma aveva i minuti contati e se si fosse fermata
troppo, avrebbe rischiato di incrociare qualche suo vecchio
conoscente che l'avrebbe potuta riconoscere.
Accarezzò
di nuovo il marmo
freddo, mentre il vento le frustava il viso.
E poi, dopo
un ultimo sguardo,
lasciò il cimitero e si diresse a piedi verso Nampara.
Percorse
sentieri che
conosceva a memoria, stringendosi nel suo mantello. Il cielo era
scuro, prometteva pioggia e questo poteva essere seccante ma quanto
meno non c'era in giro anima viva.
Sorpassò
le miniere che aveva
imparato a conoscere a memoria, la Wheal Leisure e la Wheal Grace,
osservando da lontano il via vai degli uomini che vi lavoravano,
ricordando quando vi si recava per andare a trovare Ross, poi
costeggiò la costa, sferzata dal vento ancora più
violentemente. E
infine, in lontanza, scorse la sua casa, Nampara.
Per un
attimo le mancò il
fiato... Era quella casa sua, il suo rifugio, l'unico posto dove
volesse stare davvero, dove si era sentita accolta, amata, serena e
sicura. Non Londra, non la locanda, non la grande villa dove sarebbe
andata ad abitare di lì a pochi mesi con Jeremy e Clowance.
Nampara
sarebbe sempre stata la sua casa, coi suoi campi e i suoi prati a
circondarla, con il cortile dove faceva giocare Garrick e sistemava
il bucato, con il suo arredamento semplice ma caldo ed accogliente e
che gli risvegliava ricordi ad ogni angolo della casa.
Ma quello
non era più il suo
mondo, il suo posto... Lo aveva lasciato più di un anno e
mezzo
prima per non tornare e quella che stava facendo era solo una breve
visita prima di tornare ai suoi impegni, al suo lavoro e ai suoi
figli.
Si
avvicinò, bloccandosi
quando scorse una figura conosciuta nel cortile, intenta a ritirare
il bucato steso. La sentì borbottare a causa del vento che
disturbava il suo lavoro e, nonostante tutto, le venne da ridere.
"Vuoi una mano, Prudie?" - chiese, appoggiandosi alla
staccionata.
Sentendo la
sua voce, Prudie
spalancò gli occhi e si voltò, rimanendo per
lunghi istanti
impalata e a bocca aperta. I panni le caddero di mano ma parve non
accorgersene. "Giuda! Siete tornata" – esclamò,
andandole incontro correndo.
Demelza le
sorrise,
avvicinandosi ad abbracciarla. "Non sono tornata, sono solo di
passaggio. Fra poche ore ripartirò".
"Oh
signora, signora"
– mormorò Prudie, quasi soffocandola nel suo
abbraccio.
"Come vanno
le cose
quì?".
Prudie si
asciugò le lacrime,
cercando di ricomporsi. "Bene... Sì insomma, viste le
circostanze. Ma voi... Voi che ci fate quì? Di tutte le
persone che
immaginavo di rivedere, voi siete...".
"Quella che
meno ti
aspettavi" – concluse Demelza, per lei. Guardò la
casa, con
nostalgia. "Sei sola?".
"Sì,
Jud è sparito in
città a vendere la lana tre giorni fa e non si è
ancora
ripresentato a casa, probabilmente per paura di prenderle! Quel
dannatissimo scansafatiche che non è altro! Sarà
a bere in qualche
osteria, il signore, appena l'avrò sotto mano lo
scorticherò vivo".
Demelza
scoppiò a ridere. "A
quanto pare, non è cambiato nulla qui".
Prudie
sospirò, prendendola
sotto braccio. "Beh, qualcosa è cambiato. Su, venite dentro,
vi
preparerò del the caldo, dovete essere davvero infreddolita".
Demelza
annuì e si lasciò
condurre in casa. Le mancò il fiato quando fu dentro, quella
casa
risvegliava in lei mille e più ricordi. La cucina, il
salotto, la
scala che portava alla sua camera da letto, tutto le parlava di lei,
di Ross e della famiglia che avevano costruito insieme. Ricordi belli
si mischiavano a ricordi brutti, in un connubio capace di stordirla.
Crollò sulla sedia, esausta, stringendosi nel suo mantello.
"Avete
abiti bellissimi"
– sussurrò Prudie, guardandola con attenzione.
"Sono
più che altro
caldi" – rispose, vaga. Non voleva parlare di lei e della
vita
che si era costruita, meno cose diceva e meglio era. Prudie le voleva
bene come una madre ma il rischio che si tradisse era troppo alto.
"Siete
venuta per il
signore? Ross non c'è, manca da questa casa da inizio anno".
"Lo so".
"Come?".
Prudie
spalancò gli occhi, sorpresa. "In che senso?".
"Lo so
è basta. Qualcuno
mi ha detto che è partito, che si è arruolato
nell'esercito".
Prudie
rimase in silenzio per
lunghi istanti, facendosi mille domande. Non ci stava capendo un
accidenti, era chiaro, e nonostante tutto le spiaceva non essere
totalmente sincera con lei. "E' per questo che sono tornata, per
parlare con te. Che diavolo sta combinando, Ross? Perché
è in
Francia, invece che essere con Elizabeth?".
Prudie le
mise la tazza di the
fumante davanti, sedendosi nella sedia accanto a lei. "Una cosa
per volta, ragazza. Dimmi prima come stai, dove vivi, cosa fai e come
sta il piccolo Jeremy. Per favore". Le parlò in prima
persona,
usando il 'tu', dimenticando il rapporto serva-padrona che si era
instaurato fra loro dopo il suo matrimonio con Ross. Le
parlò come
una volta, quando non era che una ragazzina che faceva la sguattera
per il capitano Poldark e questo le faceva piacere, aveva un sapore
di cose antiche, di famigliarità, di semplicità.
E in fondo, lei
non era più la padrona di Nampara e di Prudie.
Demelza
sospirò. "Sto
bene, vivo lontana da quì, ho un ottimo lavoro che mi
permette di
mantenermi dignitosamente e Jeremy è la mia gioia,
è cresciuto
tantissimo, è intelligente e fa mille domande. E' un bambino
bello,
buono e assennato e a volte mi stupisco di aver messo al mondo un
figlio così diverso da me e da Ross". Guardò
Prudie, seria.
"Nessuno deve sapere di questa mia visita, ti prego di non dirlo
in giro, nemmeno a Jud. Nemmeno a Ross, SOPRATTUTTO a Ross".
"Ross?
Chissà quando
tornerà" – rispose Prudie, sconsolata.
"Che
diavolo sta
succedendo quì?".
Prudie
scosse la testa. "Hai
cercato informazioni su Ross? Cosa sai di preciso?".
"Non ho
cercato
informazioni su di lui, sono venuta a sapere, per caso, alcune cose.
E mi sono un po' preoccupata, è pur sempre il padre dei..."
-
si corresse subito, non voleva parlare di Clowance con Prudie, non
sarebbe riuscita a tenere un segreto del genere. "Di Jeremy".
Prudie si
accigliò, ma non
disse nulla. "Il capitano Poldark si è arruolato ad inizio
anno. La miniera va bene signora, subito dopo la vostra partenza
è
stato scoperto un enorme giacimento e ora che Ross non c'è,
i suoi
soci si prendono cura dei suoi affari, danno a me e a Jud il nostro
stipendio e ci comunicano quanto il signore scrive loro, per lettera,
dalla Francia".
Demelza
inspirò
profondamente, rinfrancata da quelle parole. "Quindi è vivo?
Sta bene?".
"Fino a tre
settimane fa,
data della sua ultima lettera, sì. Non ho idea di quanto
tornerà,
però". Sbuffò, guardandosi attorno. "Devo tenere
pulita
questa casa perché se tornasse all'improvviso e la trovasse
in
disordine, darebbe fuori di matto. Quando è tornato dalla
Virginia,
si era infuriato per un po' di cose qua e la".
Demelza
rise. "Quando è
tornato dalla Virginia, mi aveva raccontato che la casa cadeva a
pezzi".
"Che uomo
esagerato,
oltre che impossibile".
"Già".
Cadde il
silenzio, Demelza abbassò lo sguardo e prese a fissare,
distrattamente, la tazza di the che aveva davanti. "Bene, Ross
è
in salute e gli affari gli vanno bene. Volevo solo sapere questo, ora
credo che sia ora che riparta".
Prudie le
prese le mani nelle
sue, stringendole. "No, resta! Prendi il signorino Jeremy e
torna qui, ne sarebbe così felice".
"Oh
Prudie...". Si
morse il labbro, vinta dalla nostalgia e dall'affetto per lei. "Non
è più il mio posto, questo. E Ross desidera
un'altra donna, che
dovrei tornare a fare?".
"Ma chi?
Quella
gattamorta di Trenwith? Si è sposata quella lì,
col più ricco, con
quel damerino con la puzza sotto il naso che non va d'accordo col
signore".
Demelza
sorrise, tristemente.
"Non importa quello che fa lei, a me importava quello che
pensava lui. E lui voleva lei, la vuole ancora e la vorrà
sempre".
Prudie
scosse la testa. "Ma
cosa dici? Ross non è mai andato a cercarla, credo che del
loro
matrimonio non gliene importasse nulla. E' andato solo una volta a
farle visita, la sera prima che si sposasse".
"Per farle
cambiare idea,
suppongo. Per stare con lei e ricominciare una vita insieme...".
"No. Quella
sera il
signore mi ha detto che andava a Trenwith a portare la risposta
all'invito per la cerimonia di nozze. Non aveva intenzione di
rimanere la, mi aveva detto di preparare la cena che sarebbe tornato
subito e così ha fatto. Tempo un'ora ed era a casa. Da
quella sera,
posso metterci la mano sul fuoco, non si sono più rivisti.
Anche
perché il signor Warleggan ha fatto recintare tutta la zona
di
Trenwith e a guardia ha messo i suoi scagnozzi, armati. Ross non ha
mai tentato di avvicinarsi a quella casa e da quel che so, prima di
partire, l'unico con cui aveva rapporti era il bambino, Geoffrey
Charles. Sgattaiolava fuori da casa e di nascosto correva
quì. Aveva
occhi così tristi, povera creatura. Sua madre è
un'inetta e non ha
mai saputo difenderlo da quell'orco. Alla fine è stato
spedito in
collegio da qualche parte e quì non si è
più visto nemmeno lui".
Le si
strinse il cuore a
pensare a Geoffrey Charles e a come poteva aver vissuto in quella
casa, con George accanto a lui, che spadroneggiava senza che sua
madre dicesse niente per difenderlo. Geoffrey Charles era l'ultimo
Poldark rimasto a Trenwith e di certo George aveva fretta di
liberarsi di lui e di legittimare il suo ruolo all'interno della
tenuta, soprattutto dopo la nascita del figlio avuto da Elizabeth.
"Demelza?".
La voce di
Prudie la fece
sussultare. "Dimmi".
"Il
signore... So che ti
ha fatto soffrire, che ha sbagliato tanto ma... ha bisogno di te.
Torna, ti prego. Questa casa non è più una casa
senza te e il
bambino".
"Non posso,
Prudie. Sono
cambiate tante cose e la mia vita è altrove, adesso".
"C'è
qualcun altro nella
tua vita? Per questo non puoi perdonare Ross?".
Demelza
annuì. Non era una
bugia, in fondo. Non aveva accanto nessun nuovo amore ma era comunque
circondata da amici fidati, aveva una vita stabile e una figlia di
cui Ross ignorava l'esistenza. Non poteva tornare, non più.
"Prudie,
si sta facendo tardi, devo partire, Jeremy mi starà
aspettando".
"Vallo a
prendere e torna
quì. Se Ross sapesse che sei tornata, lascerebbe subito
l'esercito e
correrebbe a Nampara come un forsennato. Ti ha cercata tanto".
Demelza
fece un sorriso amaro.
"Mi ha cercata? Davvero? Perché, per una questione d'onore?
Perché si vergognava a dover ammettere davanti agli altri
che era
stato abbandonato da sua moglie?".
"Ross era
davvero
distrutto, spesso l'ho visto girare per casa con gli occhi lucidi".
Demelza
scosse la testa.
"Prudie, era disperato per lei, perché aveva sposato George.
Gli occhi lucidi erano per Elizabeth, così come la decisione
di
partire per la guerra, non sopportava di averla persa! Non sono io ad
essere nei suoi pensieri, non lo sono mai stata. Tutto quello che so
è che la mia partenza con Jeremy, per lui, è
sicuramente stata un
sollievo, si è tolto di casa due persone che erano solo un
peso".
Prudie si
alzò dalla sedia,
andandole accanto ed inginocchiandosi davanti a lei. "Ma cosa
dici? I suoi occhi brillavano quando eravate insieme. Hai dato gioia
alla sua vita, sei sua moglie e lui questo non l'ha dimenticato".
"E allora
perché era da
lei che correva? Perché era a lei che pensava sempre?
Perché io e
Jeremy eravamo invisibili ai suoi occhi?".
Prudie si
rialzò,
accarezzandole i capelli. "Ha sbagliato molto, ha dato tante
cose per scontate ma ti adorava, ti adora ancora. Sa di aver
sbagliato, dagli una seconda opportunità. Demelza, se tieni
ancora
un po' a lui – e so che è così,
altrimenti non saresti qui –
fallo!".
Sentì
gli occhi pungerle a
quelle parole e di colpo, come un fiume in piena, le lacrime e la
disperazione che aveva represso da quando era partita, strariparono.
Scoppiò a piangere e a singhiozzare come se fosse stata
ancora una
bambina e si aggrappò a Prudie affondando il viso nel suo
collo,
abbracciandola come in cerca di sostegno. "Come puoi
chiedermelo? Tu eri qui, tu hai sempre visto tutto! Non sono mai
stata abbastanza per lui. Non abbastanza bella, non abbastanza
attraente, non abbastanza interessante e non sono mai stata capace di
risvegliare in lui la passione, l'amore che gli suscitava Elizabeth.
Ero solo uno svago, in attesa di avere lei. Ci ho provato ad essere
una brava moglie, a sostenerlo, l'ho amato più di quanto io
abbia
mai amato me stessa ma non era sufficiente per lui. Non mi voleva,
non voleva Jeremy, non sapeva che farsene di noi. Non posso tornare,
non posso fare questo a me stessa e a mio figlio. E Ross... non so
perché non abbia lottato per Elizabeth, avrà
avuto le sue buone
ragioni o forse non c'era motivo di lotta perché lei ha
preferito un
altro, ma non inizierà ad amarmi perché ha perso
lei. L'amore non è
così, non è un qualcosa che nasce per interesse,
è qualcosa che
nasce, spontaneo, dal cuore. E se non ha provato amore per me prima,
non lo farà nemmeno adesso".
"Oh
bambina...".
Prudie le accarezzò le guance, ad asciugarle le lacrime.
"Non
puoi pensare davvero queste cose. Ti adorava, è perso senza
di te.
Lo conosco da tanto tempo, fidati".
Demelza
scosse la testa,
alzandosi dalla sedia. "Non sarei dovuta tornare, sai? Mi fa
male stare quì e sentire... e ricordare... Sono contenta di
averti
vista ma ti prego, lasciami tornare a casa".
Prudie
annuì, sconfitta. "Non
verrai più a Nampara, vero?".
"No. Grazie
per quello
che fai per la tomba di Julia, continua a prenderti cura di lei, te
lo chiedo come favore personale".
"Lo
farò".
Demelza
annuì, asciugandosi
le lacrime. Guardò la casa, un'ultima volta, imprimendosi
nella
memoria ogni particolare, ogni piccolo dettaglio da portarsi dietro,
nei suoi ricordi. "Tieni tutto in ordine, mi raccomando, sai che
ci tiene. Prenditi cura di lui quando tornerà. E per quanto
riguarda
me...".
"Non devo
dire nulla, lo
so".
"Grazie".
Demelza
sorrise. "Buona fortuna, Prudie. Cerca di star bene".
"Anche tu.
E dai un bacio
a Jeremy da parte mia".
"Lo
farò". La
salutò con un cenno del capo, si rimise il mantello e poi
uscì,
sparendo fra le nubi e il vento freddo dell'autunno della
Cornovaglia. Tornare a Nampara era stata la cosa più
difficile che
avesse mai fatto e difficilmente avrebbe ritrovato il coraggio per
farlo di nuovo.
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Capitolo 12 *** Capitolo dodici ***
Era
giunto l'inverno su Londra, freddo ed implacabile. La neve aveva
preso a cadere con notevole anticipo rispetto al solito e questo
aveva complicato le operazioni di trasloco e arredamento della sua
nuova casa.
Per
fortuna però, con la notevole disponibilità
economica di cui ora
disponeva, Demelza era riuscita a pagare un numero sufficiente di
uomini per fare tutto in fretta e il giorno del primo compleanno di
Clowance fu quello che decretò il suo ingresso ufficiale
nella
nuova, lussuosa abitazione.
Camminando
per i corridoi, faticava ancora a credere che quella casa fosse
davvero sua. Osservò gli arredamenti raffinati, i tappeti,
le pareti
finemente imbiancate di colori caldi e armoniosi, il grandissimo
salone da ricevimento dove avrebbe potuto ricevere eventuali ospiti,
la maestosa sala da pranzo, le camere da letto sue, dei suoi figli,
della servitù e dei suoi ospiti, tutte arredate con eleganza
e gusto
e il grande giardino, perfettamente curato e pieno di piante grandi
e rigogliose.
Era
casa sua e mai, se da piccola le avessero detto che avrebbe vissuto a
Londra in un'abitazione simile, ci avrebbe creduto.
Si
era trasferita assieme alla famiglia Logan che, fin dall'inizio, le
era stata accanto nell'appartamento sulla locanda ma aveva dovuto
assumere altro personale, oltre a loro, per tenere in ordine una casa
così grande. E così, alle sue dipendenze, erano
entrate una cuoca,
cinque domestiche, una cameriera personale per lei, due giardinieri e
un maggiordomo. La cura personale di Jeremy e Clowance l'aveva
lasciata a Margareth e Mary Logan, che i bambini adoravano e che
conoscevano ormai bene, mentre Samuel era diventato il suo
portalettere ed era incaricato di portare la sua corrispondenza
personale riguardante l'attività di azionista, ai suoi soci,
mentre
nel tempo libero aiutava il maggiordomo ufficiale della casa.
Anche
alla locanda aveva assunto tre dipendenti che la gestissero quando
era impossibilitata a farlo di persona, in modo da avere tempo per
stare anche coi suoi figli, per quanto possibile.
I
Logan le avevano detto che era davvero una brava donna e che tante
persone, grazie a lei, quell'anno potevano festeggiare serenamente il
Natale perché avevano un lavoro.
Jeremy
guardò la casa e i soffitti finemente decorati, poi prese a
correre
nel corridoio, inseguito da Garrick. Demelza, che teneva per mano
Clowance che stava imparando a fare i primi passi, lo
richiamò.
"Attento, potresti cadere".
Caroline,
giunta in serata assieme a Martin e Diane per un brindisi, rise. "Se
anche cade, finisce sul morbido. Adoro questi tappeti, sono soffici
da morire".
"Si,
ma non voglio che Jeremy corra come un pazzo per tutta la casa!"
- borbottò Demelza, guardando suo figlio che si divertiva
come un
matto, esplorando ogni angolo di quel loro nuovo mondo.
Martin
eruppe in una fragorosa risata. "Ah, lascialo fare! E noi
andiamocene a bere un bel bicchiere di champagne e brindiamo a questo
tuo nuovo inizio".
Demelza
sospirò, lanciando un'ultima occhiata al figlio, inseguito
da Mary
che cercava di calmarlo. Poi si arrese e seguì i suoi ospiti
nel
grande salone principale.
Era
stato arredato con gusto elegante ma sobrio. Le finestre erano
schermate da tende bianche, di pizzo, al centro del locale
troneggiava un lungo tavolo d'ebano e ai lati della stanza c'erano
dei grossi divani di pelle, separati fra loro da uno scrittoio posto
all'angolo. Alle pareti aveva fatto mettere quadri raffiguranti i
paesaggi della Cornovaglia perché voleva che i figli, da
grandi,
sapessero da dove venivano e non lo scordassero.
Si
sedettero sui divani e la cameriera arrivò per servirli.
Demelza si
mise Clowance sulle ginocchia, facendola giocare.
La
bimba rise, rifugiandosi fra le sua braccia, e lei gli accarezzo i
morbidi boccoli rossi racchiusi in due codini, perdendosi nella
bellezza di quel visino. Aveva una figlia stupenda, ne era follemente
innamorata e ancora non riusciva a credere a quanto fosse cambiata la
sua vita dall'anno prima, dalla notte in cui, spaventata e senza
certezze, l'aveva messa al mondo.
"Brindiamo
allora!" - esclamò Diane, alzando il calice. "A questa
casa, ai nostri affari e soprattutto al primo compleanno della nostra
piccola Clowance".
La
bimba rise, divertita, mentre anche Jeremy faceva capolino,
rifugiandosi fra le braccia di sua madre.
"Nonna
Diane, che regali hai fatto a Clowance?".
"Jeremy!".
Demelza gli diede un buffetto sulla fronte.
Martin
gli fece l'occhiolino, attirandolo a se. "Jeremy, alla tua
sorellina abbiamo regalato delle bambole e tanti vestitini. E per
te...".
"Non
è il suo compleanno!" - obiettò Demelza.
Ma
Martin finse di non sentirla. "Per te, domani arriverà un
enorme cavallo a dondolo da tenerti nella tua nuova stanza".
Jeremy
si illuminò. Saltò al collo di Martin, contento,
baciandolo sulla
guancia. "Grazie nonno Martin! A me piacciono i cavalli".
Demelza
scosse la testa. Martin, Diane e Caroline adoravano i suoi bambini,
li viziavano senza ritegno e con generosità. E soprattutto
volevano
loro davvero bene, un tipo d'amore genuino, sincero, che non chiedeva
niente in cambio. Per un attimo pensò a Ross, alla sua
indifferenza
verso Jeremy, al suo rifiuto delle proprie responsabilità di
padre,
chiedendosi come fosse possibile che perfetti sconosciuti amassero
suo figlio più di lui. Guardò Clowance, che Ross
nemmeno conosceva
e che per lui avrebbe rappresentato solo un peso se fosse rimasta a
Nampara e a quei pensieri il suo umore tornò come sempre cupo
e
triste, come quando era arrivata a Londra e non riusciva a darsi
pace.
"Demelza,
va tutto bene? Sei diventata improvvisamente muta" – chiese
Caroline, osservandola.
Si
sforzò di sorridere. "Sì, sto solo pensando a
come corre
veloce il tempo. Sembra ieri che Clowance è nata e
già cammina e sa
chiamarmi 'mamma'. Presto, se va avanti così, mi
presenterà il suo
fidanzato".
Caroline
e Diane sorrisero. "Ah, sicuro! Lei sarà fra i migliori
partiti
di Londra, fra alcuni anni. E Jeremy uno dei ragazzi più
ambiti
dalle gentildonne. Crescili bene, Demelza, hai una grande
responsabilità".
A
dispetto di tutto, rise. "Ci proverò. Ma crescerebbero
meglio
se voi tre non li viziaste".
Caroline
bevve lo champagne. "Come sei antipatica stasera! I bambini
VANNO viziati. Guarda come sono contenti. E sarai contenta anche tu,
ora che hai questa casa e potrai organizzare feste esclusive. A
quando la prima?".
"Non
organizzerò feste esclusive, non sono il tipo".
Caroline
sbuffò. "Sei davvero noiosa, lo sai?".
Martin
scoppiò nuovamente a ridere. "Siete davvero una bella coppia
di
amiche voi due! Comunque signorina Penvenen, Demelza è come
me,
affezionata al suo lavoro. A proposito, mia cara, ho saputo che hai
fatto un investimento curioso, la scorsa settimana".
Demelza
si accigliò. "Di che parli?".
"Hai
comprato il pacchetto azionario della Northern Bank! Perché?
E' un
tipo di banca senza futuro, con una buona e rivoluzionaria idea di
base per partire, ma i tempi non sono ancora maturi. Fallirà
prima
di aprire i battenti".
Demelza
fece un sorriso furbo. Aveva sentito parlare della Northern Bank al
suo ritorno dal viaggio in Cornovaglia, mesi prima. Era una banca
nuova, neonata, che a differenza delle altre offriva fiducia e
crediti a proletari e povera gente che intendeva iniziare
un'attività
o una nuova vita. Conosceva il mondo della finanza, sapeva che le
grandi banche non concedevano prestiti a gente del popolo e la
stuzzicava l'idea che una nuova banca, con nuove idee prese dagli
esiti della rivoluzione in Francia, avesse avuto l'idea di aprire
canali di credito anche alle persone più povere per offrire
a tutti
un'opportunità. Le azioni erano poco più che
carta straccia, nessun
finanziere aveva voluto puntare sulla Northern e lei aveva comprato
il pacchetto azionario di maggioranza per una cifra irrisoria. "Credo
che, se mai ci fosse un consiglio d'amministrazione, sarei l'unica a
presiederlo. Su quella banca ci ho messo gli occhi solo io".
"Certo"
– rispose Martin – "Tu hai ottimo fiuto negli
affari ma temo
che questo sarà il tuo primo buco nell'acqua".
"Non
importa, la cifra che ci ho investito è irrisoria. Mi tengo
le
azioni nel cassetto e sto a vedere che succede".
"Secondo
me non succederà nulla, chiuderà prima di aprire
i battenti" –
disse Caroline, accarezzando i capelli di Clowance.
"Puo'
darsi. Ma puo' darsi di no! Il mondo sta cambiando".
Martin
scosse la testa. "Sei troppo avanti per i nostri tempi, Demelza.
Forse una banca del genere avrà fortuna in futuro, ma non
ora, non
in Inghilterra. Quì c'è il re, comanda lui,
comanda la camera dei
lords e comandano i nobili. Purtroppo per la povera gente è
difficile emergere, non siamo in Francia".
"Ma
noi ci siamo riusciti" – obiettò Demelza. "E
arriviamo
da quel mondo che quella banca vuole aiutare".
"Noi
siamo stati fortunati, Demelza, ma è raro che succeda"
–
rispose Diane. "Certo, sarebbe bello che qualcuno desse fiducia
e un'opportunità alla povera gente tanto che, sai,
nonostante quello
che dice mio marito, spero che tu ci abbia visto giusto. Se
avrà
successo, con te a capo del consiglio d'amministrazione, la gente che
si rivolgerà alla Northern sarà fortunata".
"Vedremo".
Finirono
di brindare e poi, dopo averli salutati e guardati rientrare nelle
loro case, Demelza prese per mano Jeremy che, ancora eccitato
dall'essere nella casa nuova, non aveva alcuna intenzione di prendere
sonno. "E' ora di dormire, tesoro" – gli intimò,
camminando nei corridoi di quella immensa casa.
"Voglio
dormire con te, mamma" – protestò il bambino.
"Jeremy,
hai una camera grande e bella tutta per te, non vuoi dormire nel tuo
nuovo letto?".
"No,
voglio stare con te".
"Mammaaaa"
– urlò Clowance, aggrappandosi al suo collo,
facendole capire che
anche lei desiderava la stessa cosa.
Demelza
sorrise. Forse era normale, era un ambiente nuovo per loro ed erano
ancora molto piccoli. E poi era il compleanno di Clowance, poteva
anche fare uno strappo alla regola e tenerli con lei tutta notte, per
una volta. "Va bene, ma solo per questa volta. Da domani, ognuno
in camera propria e potrete venire da me soltanto al mattino, quando
vi sveglierete. D'accordo?".
"Si".
Jeremy gli strinse la mano, dondolandosi. "Mi canti una
canzone?" - chiese, mentre entravano nella sua stanza. Era
enorme, con un grande letto a baldacchino al centro, grandi armadi a
lato della camera, tappeti morbidi, e una spinetta accanto alla
finestra, che aveva desiderato più di ogni altra cosa. Le
ricordava
Nampara, quanto amasse suonarla e i momenti felici che aveva vissuto
con Ross.
"E'
molto tardi" – obiettò Demelza.
Jeremy
saltò sul letto, contento. "Allora giochiamo".
Non
riuscì a fare la seria davanti alla loro contentezza. Prese
Clowance, la fece rotolare sul materasso e rise, sentendola ridere.
Si lasciò travolgere dall'allegria dei suoi figli, da Jeremy
che,
abbracciandola, cercava di farle il solletico e dalla piccola che
imitava il fratello, ridendo contenta. E si rese conto che era una
cosa stupida quella di star male pensando a Ross. Era lui che aveva
perso momenti simili, non lei.
E
come un anno prima, quando era nata Clowance, si sentì
fortunata ad
averli accanto. Erano loro la sua ricchezza, non quella grande casa,
non le azioni di qualsivoglia banca, non il denaro. Ed erano quelli i
momenti della sua vita che preferiva, quelli semplici, passati con
loro, lontana dal mondo spietato di affari e nobiltà,
sotterfugi e
cattiveria.
Era
fortunata, semplicemente, di essere la loro madre.
Quando
si furono un po' calmati, strinse a se Jeremy e si mise sul petto
Clowance. Il bimbo, dopo qualche mugugno, si addormentò
quasi subito
mentre la piccola la fissò, avvicinandosi finché
le punte dei loro
nasi si toccarono. "Mamma" – mormorò,
strofinandosi gli
occhi, assonnata. Le sorrise, accarezzandole i capelli, intonando per
lei, sotto voce, una canzone per augurarle un buon primo compleanno.
...
“Come
stai, Dwight?”. Ross era preoccupato per il suo amico. La
guerra lo
aveva annientato, con la sua durezza e la sua spietatezza. Dwight era
partito per dimenticare Caroline ma il suo animo era gentile,
altruista e assolutamente non pronto ad affrontare
un’esperienza
del genere. Era nato per curare la gente, non per ucciderla.
Era
stato catturato, assieme ad altri uomini, durante un’uscita
di
pattuglia un mese prima e Ross, assieme a dei compagni
d’arme, era
andato a salvarli con una pericolosa missione segreta.
Ross
era temprato alla guerra, alle battaglie, aveva combattuto per tre
anni in Virginia molto tempo prima, sapeva cosa aspettarsi, come
sopravvivere, come far fronte al carico di morte e dolore che un
conflitto ti sbatteva in faccia senza pietà e il suo animo
era molto
più selvaggio ed iroso di quello dell’amico.
Si
guardò attorno, in quella infermeria da campo improvvisata,
dove per
una volta era Dwight ad essere il paziente. Lo aveva recuperato
stremato, ferito nel corpo e nell’animo e da una settimana
giaceva
senza forze in un letto, con un foglio di congedo già
firmato dal
loro comandante che lo rimandava a casa per problemi di salute.
“Non
voglio tornare in Cornovaglia” – si
lamentò Dwight, mugugnando
fra le coperte.
Ross
sospirò. “E invece ci tornerai e sarai
più utile la che qui.
Scusa la franchezza, come medico sei un talento ma come soldato lasci
molto a desiderare”.
“Perché
pondero i pericoli e non mi lascio in missioni disperate e assurde
come te?”.
Ross
rise. “Sì, anche per quello”.
“Torna
a casa pure tu, Ross”.
“Io
non sono ferito”.
“Magari
lei è tornata e ti sta aspettando con Jeremy”.
Ross
distolse lo sguardo, non aveva voglia di parlarne. “Lei non
tornerà
e la vita militare a me non dispiace”.
“Potrebbe
avere bisogno di te” – insistette Dwight.
“No,
è in gamba, è forte e sa cavarsela benissimo da
sola. Se si fosse
trovata in seria difficoltà, per il bene di Jeremy avrebbe
messo da
parte il suo orgoglio e sarebbe tornata. Non la vedrò
più, Dwight.
Se provo ad immaginarmela, la vedo serena, realizzata e perfettamente
in grado di cavarsela, probabilmente sta meglio di quando viveva con
me”.
Dwight
scosse la testa. "Hai degli affari a cui pensare. La tua
miniera, ad esempio, e gli uomini che ci lavorano dentro".
"I
miei soci si occupano dei miei affari e da quel che mi scrivono, va
tutto bene. Sei tu quello che sta male Dwight ed è a casa
che devi
tornare, a fare il tuo lavoro e a rigenerarti. E magari, quando ti
sarai rimesso in sesto, potresti partire per farti un giretto a
Londra a trovare una certa biondina che ti sta ancora a cuore".
"Finiscila,
sono passati due anni, che ci dovrei andare a fare a Londra? Caroline
ormai si sarà sposata col migliore partito della
città".
Ross
si alzò dallo sgabello, stiracchiandosi. "Beh, a
parte la questione di Caroline,
hai molti pazienti che ti aspettano. E un foglio di congedo
già
firmato, quindi non puoi che tornare. Ci vedremo quando sbatteranno a
casa pure me, che sia per qualche ferita o per insubordinazione".
Dwight
lo fissò, mettendosi a sedere sul letto. "Ross, dico sul
serio,
congedati anche tu. Non riesco a credere che tu ci abbia rinunciato
davvero, a lei. Torna, ricomincia a cercarla e portala a casa, siete
fatti per stare insieme e sono sicuro che anche lei ti ama ancora.
Avete un figlio, hai delle responsabilità verso di lui e per
quanto
lei ti abbia intimato di
non cercarla, tu...".
Ross
lo fermò. "Dwight, conosco le mie responsabilità.
Credi che
non ci abbia mai pensato? Sai, vorrei essere tanto nobile d'animo e
di cuore da dirti che sì,
sono così altruista da desiderare che lei sia felice lontano
da me,
con qualcun altro magari al suo fianco, qualcuno che la ami e che mio
figlio forse chiama papà. La verità
però è che la rivorrei
accanto a me, mi manca, ogni giorno e ogni notte. Voglio sentirla
parlare, cantare, arrabbiarsi, voglio riabbracciarla, vedere come
è
cambiata durante questi due anni, voglio ritrovare mio figlio,
prenderlo per mano e aiutarlo a scoprire il mondo. Ma se ne sono
andati e l'unico con cui posso prendermela sono io stesso. Per loro
sono un estraneo ormai".
"Non
per Demelza!" - obiettò Dwight.
"Ma
lo sono per Jeremy. Era piccolissimo quando se ne sono andati e anche
prima, non mi sono mai curato di lui. Sai, dopo Julia avevo paura ad
affezionarmi e a soffrire ancora nel caso l'avessi perso e
ho sempre trovato mille scuse per affidarlo a qualcun altro.
E il risultato qual'è stato? Che in
ogni caso gli ho voluto
bene,
anche se da lontano e distratto da mille cose. E ora sto soffrendo
comunque perché ho perso anche lui, come sua sorella".
"Credi
che Demelza gli parli di te?".
Ross
scosse la testa. "Non lo so, probabilmente no, non
credo che voglia turbarlo".
Dwight
si accasciò sul cuscino. "Io penso una cosa... Per quanto
tempo
sia passato, voi avete avuto un rapporto
fortissimo ed indissolubile e certi legami non possono essere
spezzati. Avete
superato mille tempeste insieme, avete lottato come due leoni contro
tutto quello che vi è successo, sempre insieme, sempre
pronti a
ricominciare. Se tua
moglie ora sapesse che sei quì, ti spaccherebbe la testa, nonostante
i due anni di lontananza e la sua volontà a non volerne
sapere più
niente di te".
Ross
scoppiò a ridere a quelle parole, mentre nella mente si
affollavano
i ricordi
di quanto
Demelza fosse risoluta, combattiva e testarda, quando si metteva in
testa qualcosa. Si era arrabbiata da morire con lui durante la
faccenda del contrabbando e mille altre volte, facendo quel broncio
che lo faceva impazzire. La adorava, amava. Quando sorrideva, quando
era arrabbiata. Era la sua vita, lei... "Oh,
puoi giurarci, Demelza
sa tirare ottimi pugni, te lo assicuro" – mormorò,
ricordando
l'occhio nero che gli aveva fatto dopo la notte passata con
Elizabeth. A quel pensiero però, la voglia di ridere
scemò in lui.
Aveva
distrutto tutto, quella notte... Il loro amore, la fiducia, tutto
quello che avevano costruito insieme. Spesso, nei suoi incubi,
riviveva la stessa scena, lui con in mano la lettera di Elizabeth,
lei che cercava di fermarlo e poi il suo sguardo sconfitto, ferito,
gli occhi arrossati quando lui
gli aveva detto, con cattiveria, di togliersi di mezzo. Demelza
sapeva cosa sarebbe successo quella notte, lo sapeva meglio di lui,
lo
conosceva meglio di
quanto lui avesse mai conosciuto se stesso. E ora, suo
malgrado lo aveva imparato,
solo chi ti ama davvero sa conoscerti così profondamente.
"Per
favore, togliti di mezzo".
Lo
aveva fatto Demelza,
davvero e per sempre.
Con
un sospirò, pose la mano sulla spalla di Dwight. "E' tardi
ora,
cerca di dormire e di riprenderti. Così presto sarai pronto
per fare
il viaggio in nave e tornare a casa".
"Ross,
ripensaci. Vieni con me".
"Forse
un giorno lo farò" – rispose, vago. In
realtà non aveva
voglia di tornare, nessuno lo aspettava, a casa. Si guardò
attorno,
notando uno ad uno i commilitoni del suo reggimento. Tutti ricevevano
lettere da casa da genitori, mogli, fidanzate, figli. Quei soldati
desideravano tornare, avevano qualcuno che si preoccupava di loro e
avrebbero avuto, all'arrivo, qualcuno da abbracciare. Non lui...
Per
un istante desiderò che succedesse come aveva detto Dwight,
che
Demelza sapesse che era partito, che si arrabbiasse e corresse
lì, a
prenderlo per i capelli per riportarlo a casa. Lo desiderò
davvero,
con tutto se stesso.
Ma
sapeva che non sarebbe mai successo e quindi tanto valeva rimanere,
all'infuori
di quella
guerra non c'era più niente per lui.
|
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Capitolo 13 *** Capitolo tredici ***
La
primavera era ancora lontana e l’avvento del nuovo anno aveva
portato nebbia e gelo su Londra.
Era
una serata buia dove non si vedeva a un palmo dal naso, talmente
fredda che nemmeno il mantello di pelliccia che indossava riusciva a
scaldarla.
Demelza
si strinse nelle braccia, rabbrividendo. Se c’era una serata
inadatta a una riunione fra gli azionisti della Warleggan Bank, era
decisamente quella.
Ignorò
le frecciatine di George che a fine seduta, vedendola infreddolita,
si era stupito che una ex sguattera potesse non reggere il gelo. Lo
aveva detto mentre, coi suoi seguaci, entrava in una comoda e calda
carrozza che lo avrebbe accompagnato all’albergo dove
alloggiava
durante il suo soggiorno londinese.
Lo
odiava, senza se e senza ma. Al diavolo, era talmente nervosa dopo le
riunioni con lui, che sentiva il bisogno di camminare fino a casa,
anche se il clima le suggeriva di fare come George e cercarsi una
carrozza.
Fece
per incamminarsi nei vicoli bui di Londra, decisa a fare due passi
per sbollire la rabbia, quando una voce la chiamò.
“Demelza,
aspettate. Non aggiratevi da sola per Londra a quest’ora,
potrebbe
essere pericoloso”.
Demelza
si voltò, trovandosi davanti il viso di…
Dannazione, non ricordava
mai il suo nome, sapeva solo che era l’azionista
più giovane della
Warleggan Bank, quello a cui aveva promesso un’uscita alcuni
mesi
prima per bere insieme un the. “Non preoccupatevi
signor…
signor…”. Arrossì. “Scusate,
ho davvero scarsa memoria per i
nomi”
“Theodor
Garvey”.
“Certo,
Theodor”. Demelza sorrise. “State sereno, due passi
al buio,
nella nebbia, non hanno mai ucciso nessuno”.
“Siete
una donna, siete sola e potreste trovare qualche
malintenzionato” –
insistette il ragazzo.
Demelza
lo guardò storto. Odiava quando la gente la trattava come
una
bambolina per il solo fatto di essere una donna. “Il nostro
caro
George Warleggan mi ha talmente innervosita che, se trovassi un
delinquente sulla mia strada, riverserei su di lui tutta la mia
rabbia. Tranquillo, non mi succederà nulla, casa mia
è poco
distante”.
“Permettete
che vi accompagni, almeno”.
Demelza
alzò gli occhi al cielo. Ma quanto era insistente quel
tizio? “Vi
ringrazio della proposta, ma preferirei di no. Ho voglia di fare due
passi da sola. E Londra, di sera, con la nebbia, è perfetta
per il
mio stato d’animo”.
Di
tutta risposta, Theodor le sfiorò il fianco, attirandola a
se.
“Insisto, signora. E’ pericoloso”
– sussurrò, con le labbra
pericolosamente vicine alle sue.
A
quel contatto si irrigidì, scostandosi bruscamente da lui.
Non
voleva essere toccata, non da uno sconosciuto di cui faticava a
ricordare il nome. A dire il vero, non voleva essere toccata da
nessuno. Nella sua vita era stata solo con Ross e ancora faticava a
realizzare che esistevano altri uomini al mondo a cui, prima o poi,
forse avrebbe voluto avvicinarsi. Ma non ora, non era pronta e si
sentiva ancora, nonostante tutto, la donna di Ross. Inoltre, questo
Theodor non risvegliava in lei alcun interesse. Era troppo giovane,
troppo insistente e inoltre era del gruppo della Warleggan, cosa che
la metteva decisamente sul chi va la. “Toglietemi le mani di
dosso”
– disse, minacciosa.
A
quella reazione, quasi non si fosse accorto del suo gesto, il ragazzo
annuì. “Scusatemi, non volevo”.
“Si
che volevate!”. Si allontanò di alcuni passi,
fulminandolo con lo
sguardo. “Theodor, siete giovane e sicuramente animato da
buone
intenzioni. Rivolgete le vostre attenzioni su qualcun altro, ve lo
consiglio. Esistono giovani donne che pagherebbero per avere accanto
un uomo come voi ma io… Io sono sposata, ho due figli
piccoli e
talmente tanti problemi che finirei con il rovinarvi la
vita”.
Poteva anche aggiungere, per essere incisiva, che non gli importava
nulla di lui ma non le andava di spezzargli il cuore.
“Mi
avevate promesso un the” – insistette lui.
Demelza
si guardò attorno, la città era buia e spettrale.
“Ora non ci
sono locali aperti. Un giorno, forse, se avrò
tempo”.
Non
gli diede tempo di rispondere, si stava decisamente facendo tardi e
voleva tornare a casa dai suoi figli. “Buona notte”
– disse
vaga, lasciandolo da solo davanti all’ingresso della banca.
Camminò
a passo spedito fino a casa, in una Londra deserta. Quando
entrò
dall'uscio, dopo aver sorpassato il giardino completamente brinato,
tutto quello che desiderava era mettersi davanti a un caldo camino
acceso. Stava letteralmente congelando!
Una
delle sue cameriere le andò incontro, esibendosi in un
inchino.
"Signora, bentornata. C'è un ospite che vi aspetta nel
salone".
Togliendosi
il mantello, Demelza la fissò, accigliata. "Un ospite? A
quest'ora?".
"Si
signora. Dice di considerarsi un vostro amico, se gli darete questo
onore".
"Di
chi si tratta?". Era curiosa e allo stesso tempo irritata da
quell'intrusione a quell'ora così tarda.
"Si
chiama Walther Smith ed è un azionista di borsa".
"Chi?".
Non aveva proprio idea di chi fosse questo tizio.
La
cameriera alzò le spalle. "Cosa gli dico, signora? Vi
annuncio?".
Demelza
sbuffò, mentre la sua idea di rilassarsi davanti a un camino
evaporava. "Lo riceverò io stessa senza troppe cerimonie,
puoi
andare a dormire ora, è tardi".
Rimasta
sola, di malavoglia raggiunse il salone dove, su uno dei divani,
stava seduto un uomo sulla cinquantina, completamente calvo, molto
sovrappeso, con due occhi piccoli, azzurri ed inespressivi e un viso
che le donava sensazioni sgradevoli. "Walther Smith, immagino".
L'uomo
si alzò in piedi. "Signora Carne, buonasera. Scusate
l'intrusione" – disse, con fare ammiccante.
Con
cautela, Demelza si avvicinò a lui. "A cosa devo l'onore di
questa visita? Non mi sembra di conoscervi".
"Oh,
avete ragione, mi presento subito. Sono
un azionista, ho
una società che lavora in borsa e si occupa di compravendita
di
titoli. Forse ci siamo incrociati a qualche asta".
Demelza
alzò le spalle. "Puo' darsi".
L'uomo
annuì. "Verrò subito al punto, siete reduce da
una riunione
importante e, vista l'ora, sarete davvero stanca".
"D'accordo,
cosa volete da me?".
"Comprare
un pacchetto azionario di vostra proprietà. So che detenete
la
maggioranza delle azioni della Northern Bank e vorrei acquistarle".
Viscido...
Ecco, ora che ci pensava era quella la sensazione che gli risvegliava
quell'uomo. Lo fissò, pensierosa, chiedendosi il
perché di quella
strana visita e quella strana richiesta. Aveva acquistato le azioni
della Northern pochi mesi prima, in autunno. Ricordava quanto
l'avessero presa in giro Martin e Caroline per quella scelta di
puntare denaro su una banca che, sulla carta, era destinata a
fallire. Aveva acquistato quelle azioni per un prezzo irrisorio e ad
oggi valevano ancora meno di quando ne era entrata in possesso. In
pratica, erano carta straccia... Quindi, perché quest'uomo
si
trovava a casa sua, interessato al loro acquisto? "Le azioni
della Northern non valgono nulla, ad oggi sono un investimento
passivo per me. Perché vorreste acquistarle?".
L'uomo
allargò le braccia. "Pura filantropia, signora. Mi spiace
pensare a una bella donna come voi, tanto in gamba, che rischia di
perdere il suo capitale a causa di un investimento sbagliato. Per la
mia società, molto grande, sarebbe una perdita irrilevante
invece.
Consideratelo
un gesto d'amicizia e di stima".
"Negli
affari, signore, difficilmente ci si basa su stima e amicizia"
–
rispose, con freddezza.
L'uomo
annuì, piccato. "Eppure insisto, senza secondi fini.
Vendete".
Demelza
si sedette sul divano, accavallando le gambe. "Ci perderei
comunque se ve le vendessi, perché valgono meno di quando le
ho
comprate".
"Vi
ridarrei interamente la somma che avete speso in autunno, signora".
Se
prima aveva la sensazione che fosse un viscido, ora ne aveva la
certezza. Perché un perfetto sconosciuto voleva comprare,
smenandoci, delle azioni in perdita? Perché tanta
insistenza? Si
morse il labbro, osservandolo di sbieco. "Vi ringrazio per la
vostra gentilezza nei miei confronti, ma non ho mai avuto intenzione
di vendere le azioni della Northern".
"Vi
pregherei di essere ragionevole, per il vostro bene e quello dei
vostri figli".
"I
miei figli stanno benissimo, state tranquillo".
L'uomo
le si avvicinò. "Ripensateci. La mia è un'ottima
offerta".
"Vi
ho detto di no".
"Perché?".
Demelza
sorrise freddamente. "Perché ci sono affezionata, a quelle
azioni. Mi fa dormire serena saperle nel mio cassetto la notte,
quando vado a dormire". Si alzò in piedi, faccia a faccia
con
lui. "Avete altre richieste?".
L'uomo
fece un inchino, lanciandole occhiate tutt'altro che amichevoli.
"Solo una... Pensateci".
"Se
cambierò idea, vi farò sapere" –
rispose, con freddezza.
Lo
accompagnò alla porta e lo guardò uscire dalla
cancellata. Che
diavolo voleva quell'uomo da lei? Il fatto che si fosse presentato a
casa sua di sera tardi, mentre non c'era ed erano presenti i suoi
figli, non la lasciava per niente tranquilla.
Si
chiese cosa ci fosse dietro perché sicuramente qualcosa
che le sfuggiva, c'era!
Pensierosa, si avviò in camera sua, accendendo le candele e
il
camino. Poi aprì un cassetto della cassettiera dove c'erano
dentro i
documenti della sua attività finanziaria, sedendosi sul
letto con il
contratto d'acquisto della Northern fra le mani.
Attorno
a lei c'era un silenzio opprimente...
Lesse
riga per riga rischi e benefici di quell'operazione, pensò a
possibili sviluppi finanziari, a costi e guadagni eventuali. Qualcosa
non tornava, quello era un investimento destinato a fallire...
"Eppure
quell'uomo vuole acquistare
queste azioni...".
Si lasciò andare, sprofondando fra i cuscini e le coperte,
chiedendosi come si fosse ritrovata lì, a Londra, in quella
casa
elegante, a pensare ad investimenti di borsa a mezzanotte.
Non
era quella la vita che aveva immaginato per se stessa e che aveva
voluto, non erano persone
come quel mister Smith che voleva avere vicino. Aveva trovato amici
fidati come Diane e Martin, era vero, ma si stava muovendo in un
mondo spietato, fatto di falchi che aspettavano solo un passo falso
per rovinarti. E
se tanto gli dava tanto, il suo ospite di poco prima era uno di loro.
Tutto
quello che aveva sempre voluto era essere una moglie amata e una
madre. Le mancavano le serate in Cornovaglia, a Nampara, passate a
giocare con Jeremy, a cucire o a parlare con Prudie, ad aspettare
Ross per andare a letto.
Ora
era sola, doveva prendere tutte le decisioni importanti senza nessuno
accanto, senza un confronto, senza una spalla amica su cui
appoggiarsi. Tutti dicevano che aveva fiuto per gli affari, che aveva
carattere, che era una donna coraggiosa e determinata
ma in verità si sentiva così indifesa in serate
come quella che
aveva appena passato.
Fece
scivolare i fogli della Northern sul letto, osservandoli. Cosa
avrebbe fatto Ross al suo posto? Avrebbe venduto, salvando il
salvabile? O avrebbe tenuto duro ed aspettato l'evolversi
degli eventi?
"Le
avrebbe tenute...".
Ross
amava le sfide, gli azzardi, non avrebbe venduto.
E
in quel momento si accorse, o
meglio, si ricordò
di quanto erano sempre stati simili, loro due...
...
La
spalla gli bruciava da morire e la febbre, benché non
particolarmente alta, non lo abbandonava da dieci giorni. Si sentiva
particolarmente imbecille perché mesi prima aveva preso in
giro
Dwight per la sua scarsa resistenza fisica alla guerra e ora lui, per
una semplice pallottola che l'aveva preso di striscio, era a letto da
quasi due settimane.
"Signor
Poldark, riuscite ad alzarvi?" - chiese il medico da campo. "Il
capitano vuole parlarvi".
Con
la spalla fasciata, contro voglia, Ross annuì. "Devo
andare da lui?".
"No,
sta arrivando lui da voi".
Ross
si mise a sedere composto. La testa gli doleva terribilmente a causa
di quella ferita che apparentemente era di poco conto, ma che gli
creava problemi che stentavano a risolversi. Stava
decisamente invecchiando, in Virginia non aveva avuto problemi
simili.
"Signor
Poldark, buona sera. Come state?".
Ross
alzò il viso ad osservare il suo capitano. "Ancora malconcio
ma
conto di essere sui campi di battaglia entro una settimana".
Il
capitano scosse la testa. "Il medico dice che la febbre non
accenna a lasciarvi e credo che sarebbe utile un periodo di riposo
lungo per voi". Si avvicinò, posando un foglio sul letto.
"Cos'è?"
- chiese Ross, mentre sorgeva in lui uno spiacevole presentimento.
"Avete
servito onorevolmente la corona per più di un anno,
è ora di
tornare alla vostra casa e alle vostre attività, Ross
Poldark".
Ross
spalancò gli occhi. Lo stavano congendando? Per una ferita
di
striscio e qualche linea di febbre? "Capitano, io
sto bene". Era assurdo, lo stesso destino toccato a Dwight
qualche mese prima, ora toccava a lui.
Il
capitano rimase impassibile. "Ross Poldark, è quasi
primavera,
la Cornovaglia è splendida in quella stagione e avete affari
e
famiglia di cui occuparvi. Avete combattuto bene e con coraggio ma
non possiamo rischiare a mandare in battaglia persone non
perfettamente in forma. Come vi dicevo, il re è felice per i
servigi
resi e l'esercito ha delle regole. Partirete per l'Inghilterra la
settimana prossima, col vostro foglio di congedo" – disse,
indicando il documento che gli aveva messo sul letto.
A
Ross parve che il mondo gli sprofondasse sotto i piedi. Doveva
tornare a casa, a Nampara? Era davvero finita per lui,
quell'avventura che per tanti mesi lo aveva sottratto al dolore e
alla perdita della sua famiglia? Tornare significava affrontare i
fantasmi del suo passato da cui fuggiva da più di due anni,
significava tornare in una casa che non sentiva più sua, in
una
miniera che gli donava una ricchezza che non avrebbe diviso con
nessuno. Significava affrontare le conseguenze dei suoi errori...
"Ma...".
"Niente
ma! Sono ordini, i miei. Partirete settimana prossima e questo
è
tutto. A casa vostra vi rimetterete in fretta e potrete tornare alla
vostra vita e alle vostre abituali attività. La Cornovaglia
ha
bisogno di chi fa funzionare le miniere, ricordatevelo. E voi ne
avete una in attivo, da quel che so".
"Già".
Quando il capitano se ne fu andato, gettò a terra il foglio
di
congedo. Dwight, tornato a casa due mesi prima, avrebbe riso come un
matto nel vederlo tornare a causa di una ferita e di un po' di
febbre. Ora il suo amico stava bene, gli aveva scritto dicendogli di
aver ripreso la sua attività di medico nel loro villaggio e
che le
cose andavano discretamente
per lui. Gli era sembrato sereno, in quegli scritti...
Ma
lui? Tornare significava ridisegnarsi una vita ed era una cosa che
non gli andava di fare.
Si
massaggiò la spalla ferita, maledicendola. Pregò
di guarire in
fretta, una volta a casa. Quanto meno avrebbe potuto tuffarsi nel
lavoro in miniera e non avrebbe avuto tempo per
pensare.
Si
rese conto, con terrore, che era ora di affrontare le conseguenze dei
suoi gesti ed imparare a conviverci. Per sempre.
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Capitolo 14 *** Capitolo quattordici ***
Non
era stato un viaggio facile per Ross e facendolo, si era accorto di
quanto fosse debole e spossato.
Aveva
combattuto quindici mesi in guerra, affrontando ogni tipo di
situazione o pericolo, aiutando compagni feriti o assistendoli nella
morte che, per alcuni, era arrivata senza pietà cogliendoli
nel
pieno della giovinezza.
Era
partito per sfuggire a una situazione terribile che si era creato con
le sue mani e tornava con l'animo ferito di chi ha visto il peggio
della vita, della loro misera natura di esseri umani che non riescono
a vivere in pace e devono uccidere per affermare un'effimera
supremazia.
Giunto
sulla costa inglese, tormentato da quella febbre che a fasi alterne
lo colpiva, si era dovuto arrendere a prendere una carrozza che lo
portasse fino a Nampara. Aveva osservato il paesaggio, strada
facendo, quasi stupito che fosse tutto come lo aveva lasciato. Stesse
piante, stesse case, stesse persone che, in quella terra sferzata dal
vento, si spaccavano la schiena per sopravvivere e garantire
un'esistenza serena alla propria famiglia.
Quando
finalmente giunse a Nampara, benché non avesse
chissà quale voglia
di tornarci, si sentì sollevato. Non ce la faceva davvero
più, era
fisicamente a pezzi e tutto quello che voleva era andarsene a letto e
dormire per giorni senza pensieri.
La
sua casa era come l'aveva lasciata, per fortuna. Non era come la
volta precedente quando, al suo ritorno dalla Virginia, l'aveva
trovata a pezzi, cadente e in condizioni di totale abbandono. A
quanto sembrava, Jud e Prudie stavolta aveva lavorato quel tanto che
bastava per tenere una parvenza di decoro. La strigliata che aveva
fatto loro prima di partire aveva sortito gli effetti sperati, a
quanto sembrava.
Quando
entrò in casa, entrambi i suoi servi furono sorpresi di
vederlo e in
effetti non se ne stupiva, non aveva comunicato a nessuno il suo
ritorno, anche se avrebbe presto mandato un messaggio a Dwight per
venire a visitarlo. Quella dannata febbre lo stava distruggendo e
voleva risolvere quanto prima il problema.
Prudie
gli aveva subito sistemato il letto e si era messo sotto le coperte
senza dare chissà quali spiegazioni a lei e a Jud,
dicendogli il
minimo indispensabile: era tornato, era stato congedato e dovevano
riabituarsi alla sua presenza quanto prima.
Cadde
in un sonno profondo e per giorni rimase sospeso in uno strano stato
di semi-incoscienza, lontano da tutto e da tutti. Non era solo la
febbre, era la stanchezza accumulata nei lunghi mesi di guerra a
renderlo così debole e non si era mai accorto di essere
così
stanco, fintanto che era rimasto nell'esercito.
Dwight
era stato chiamato da Jud ed era corso a visitarlo subito. Si era
ripreso, aveva ricominciato ad esercitare la sua professione di
medico e dopo averlo preso in giro per essere tornato dalla guerra
più malconcio di lui, aveva preso l'abitudine di venire a
trovarlo
tutti i giorni per una visita. Gli aveva medicato la ferita al
braccio, constatando che si era infettata, gli aveva dato dei
medicinali per la febbre e ordinato riposo assoluto.
Per
giorni non aveva fatto altro che dormire ed oziare nel letto,
circondato dal silenzio assoluto o al massimo dai
borbottìì di
Prudie e dalle sue litigate selvagge con Jud.
Non
era cambiato davvero niente in quella casa, da quando era partito...
E allo stesso tempo era cambiato tutto dai tempi in cui c'era
Demelza.
Per
tutto il tempo in cui era rimasto in battaglia, era riuscito quasi ad
accantonare il ricordo di sua moglie e di suo figlio ma ora, solo con
se stesso, nella casa dove aveva costruito la sua famiglia, la
nostalgia per lei e Jeremy era tornata prepotentemente a tormentarlo.
Erano trascorsi quasi due anni e mezzo da quando se n'era andata e
non poteva non chiedersi se stesse bene, se riuscisse a badare a
Jeremy, se se la cavasse anche da sola, nonostante tutto.
Complice
la febbre, i ricordi per Demelza e Jeremy erano ancora più
dolorosi
rispetto a una volta e non riusciva a fronteggiarli con lo stesso
fervore e lo stesso coraggio di prima. Si sentiva perso, solo, senza
uno scopo nella vita, circondato da gelo perenne e da sensi di colpa
a cui non sapeva fare fronte. Era strano pensare al fatto che stesse
male e che Demelza non si preoccupasse per lui... Faceva male
perché
gli dava l'esatta dimensione di quanto aveva perso.
Certe
notti, a causa della febbre, si svegliava di soprassalto, intontito,
dimenticando per qualche istante che tutto era cambiato e che era
solo. E allora si voltava di lato, nel letto, cercando Demelza e
trovando solo un cuscino e un materasso freddi. E a quel punto
l'illusione finiva, si svegliava e rimaneva in silenzio, stordito, ad
osservare il nulla. Lei non c'era più da tanto e non sarebbe
più
tornata a Nampara, non sarebbe più stata la sua stella.
E
a lui sarebbe mancata per sempre...
La
rivoleva. Lei, coi suoi capelli lunghi, rossi e ribelli, con il suo
sorriso dolce o con il viso imbronciato quando la faceva arrabbiare,
lei che non stava mai ferma e correva tutto il giorno per il bene
della sua famiglia, lei che aveva sopportato povertà e
privazioni
senza mai lamentarsi, che aveva affrontato le mille preoccupazioni
che lui le aveva dato, lei che si interessava a lui e a tutto quello
che faceva perché lo amava ed aveva finito per amare tutto
quello
che lo riguardava, lei che aveva sofferto in silenzio, per tanto,
vedendolo correre da Elizabeth, lei, che lui aveva trascurato e
trattato a volte con disprezzo, dando per scontate mille cose che
scontate non erano, lei che lo aveva reso migliore, lo aveva sposato
e lo aveva reso padre di due meravigliosi bambini, lei che era
diventata la sua ragione di vita, il suo amore e se n'era accorto
solo quando l'aveva persa a causa della sua arroganza e della sua
idiozia.
Perché
quella sera non si era fermato? Perché le aveva inflitto un
dolore
simile, pretendendo poi comprensione? Perché era stato tanto
folle,
sconsiderato? Come aveva potuto farle tanto male, a lei che era
l'unica che non lo meritava?
Per
cosa, poi? Per una notte di piacere effimero che non gli aveva
lasciato nulla, per un sogno infantile che era svanito nell'esatto
istante in cui l'aveva raggiunto. Cosa cercava in Elizabeth?
Ciò che
aveva con Demelza, forse? Che sciocco che era stato, non avrebbe
trovato nulla in lei semplicemente perché non era il suo
vero amore.
Era Demelza che amava, Demelza con cui condivideva
un'intimità tanto
appassionata quanto dolce e sincera, Demelza che gli stava accanto
senza chiedere nulla, che lo amava incondizionatamente
perché è
questo l'amore, donare senza aspettarsi nulla in cambio, lottare
perché il tuo amato o la tua amata siano felici.
Fu
in una di queste notti che, quasi senza accorgersene, i suoi occhi
divennero lucidi. Era da tanto che non piangeva, da quando era morta
Julia. Non lo aveva mai fatto dalla partenza di Demelza ma tutto quel
miscuglio di pensieri, uniti alla spossatezza, ebbero la meglio su di
lui. Appoggiò la testa al cuscino e pianse, maledicendosi e
chiedendosi come avrebbe fatto a vivere un'intera vita senza di lei.
"Torna... Anche solo per un attimo, anche solo per due parole...
Lasciami solo un istante per dirti che niente di quello che hai
scritto in quella lettera che mi hai lasciato è vero, che
non eri
seconda a nessuno, che ti amo e che tutto quello che voglio
è vivere
la mia vita con te. Non con Elizabeth! Torna e permettimi di dirti
che perdere Elizabeth, mentre ero in Virginia, è stata la
mia più
grande fortuna perché mi ha permesso di trovare te. Torna a
casa,
riportami Jeremy e permettimi di essere suo padre e tuo marito".
Il
silenzio fu l'unica risposta che ottenne... E piangendo, in silenzio,
ripiombò in un sonno oscuro ed insidioso, popolato di incubi
e
solitudine.
...
Dopo
un mese di riposo e convalescenza, finalmente poteva dirsi guarito e
pronto per tornare a godere dell'aria aperta e del piacere del suo
lavoro alla miniera. Stare all'aperto, nel pieno della primavera, dei
suoi colori e dei suoi profumi, lontano da Nampara per gran parte del
giorno e impegnato in qualcosa, lo avrebbe aiutato a non pensare.
"Signore,
siete sicuro? Se vi stancate, se vi ferite, se vi...".
"Jud,
basta! Cos'è questo elenco di disgrazie che mi stai
propinando?"
- disse, calandosi il cappello in testa e montando a cavallo.
"Signore,
il riposo è la migliore medicina contro ogni male"
– rispose
il servo, lasciando le redini.
Ross
lo guardò storto. "Scommetto che è il principio
su cui basi la
tua vita di fannullone, è" – commentò,
prima di partire al
galoppo verso la Wheal Grace. Quando la vide, fu invaso da una specie
di eccitazione, come un bambino al primo giorno di scuola.
Fu
accolto da tanti sorrisi colmi di gratitudine e con una sonora pacca
sulla spalla dal Capitano Henshawe, il suo inseparabile amico e
socio. "Capitano Poldark, è una vera gioia rivedervi fra
noi".
"Lo
è anche per me. Dalle lettere che mi avete inviato, sembra
che quì
vada tutto alla grande" – rispose, sedendosi alla sua
scrivania, mentre fuori un via vai di minatori entrava ed usciva
dalla miniera.
Henshawe
sorrise soddisfatto, mettendogli davanti una pila di libri contabili.
"Potete dirlo forte, questa miniera è una fonte di
ricchezza sorprendente. E il filone non accenna a diminuire ma anzi,
è sempre più grande. Sembra incredibile, visto
quanta sfortuna
abbiamo avuto all'inizio. Su quei registri potrete vedere i costi e i
guadagni fin qui ottenuti".
Sorseggiando
un bicchiere di vino, Ross annuì. "Comincio subito. Devo
rientrare nell'ordine di idee e ricominciare a gestire attivamente
questo posto".
"Buon
lavoro allora, capitano".
"Grazie.
Ci vediamo dopo per il pranzo".
Rimasto
solo, Ross prese a spulciare i registri, stupito. La Wheal Grace,
l'antico sogno di suo padre, era diventata una fonte di ricchezza
dall'inestimabile valore. Pensò a Francis, a quanto ci aveva
sperato, a quanto ci fosse andato vicino a quella realizzazione che
aveva solo potuto sfiorare con un dito, pensò a sua madre il
cui
nome era stato scelto per la miniera da suo padre, a Demelza e a
quanto, insieme, ci avessero sperato.
Era
una realizzazione quella, di anni di fatica e sudore, lotte e
privazioni... Per lui era una realtà amara ma era anche
consapevole
di quanto tutto questo significasse per le persone che lavoravano per
lui.
Passò
ore a contare i guadagni, sommando cifre su cifre, accorgendosi che
ora aveva abbastanza capitale per saldare, almeno con un acconto, un
debito contratto da troppo tempo. Alcuni anni prima, quasi sul punto
di finire nella prigione per debitori a causa di George, qualcuno che
era rimasto in incognito aveva anticipato del denaro per lui saldando
un suo debito ed era ora di scoprire chi fosse questo misterioso
benefattore e cominciare a restituirgli tutto.
Nel
pomeriggio si recò da Pascoe, deciso a costringerlo a
rivelargli il
nome che gli era stato celato quel giorno di Natale di oltre due anni
prima.
Il
suo banchiere, quando lo vide arrivare, si esibì in un caldo
sorriso. "Capitano Poldark, rivedervi fra noi è un gran
piacere. Sapevo del vostro ritorno e che avevate avuto problemi di
salute, perciò sono piacevolmente sorpreso di vedervi di
nuovo sano
e attivo, fra noi".
"Sano,
attivo e pronto a saldare un vecchio debito" – rispose Ross,
sedendosi sulla sedia davanti alla scrivania.
"Di
che parlate?".
Ross
intrecciò le mani, deciso a tirargli fuori di bocca quel
dannato
nome, in un modo o nell'altro. "Parlo del mio misterioso
benefattore che mi ha salvato dalla prigione e dalla resa a George
Warleggan. Ho abbastanza capitale per iniziare a restituirgli il
prestito che mi fece allora, quindi avrei bisogno di sapere chi
è".
Pascoe
sbuffò. "Quella persona voleva rimanere in incognito e, allo
stato dei fatti, non credo nemmeno sia interessata alla restituzione
del denaro. Puro gesto di generosità il suo, ve lo assicuro".
"Io
voglio saldare il mio debito, è una questione di principio.
Chi è
quest'uomo? Voglio vederlo e, tanto che ci sono, magari ringraziarlo.
Ha salvato me e la mia famiglia, allora, mi sembra il minimo che io
possa e debba fare".
Pascoe,
in difficoltà, si asciugò il sudore dalla fronte
con un fazzoletto.
"Ah, capitan Poldark... mi state mettendo in una posizione
scomoda".
"Il
nome di quell'uomo! Sappiate che non me ne andrò di qui
finché non
me lo direte".
Il
banchiere sospirò. "Chi vi dice che sia un uomo? Non mi pare
di
avervelo mai detto...".
Ross
spalancò gli occhi, sorpreso. "E' una donna?".
Pascoe
annuì. "Caroline Penvenen. E sappiate che mi avete appena
fatto
infrangere un giuramento a una gentildonna".
Ross,
ancora stupito, sorrise da canaglia. "Questa cosa non mi
farà
dormire la notte, ve lo assicuro. Mi sentirò in colpa a vita
per
voi" – disse, ridendo.
Ignorò
le occhiatacce di Pascoe e, dopo un cenno di saluto, uscì
dal suo
studio.
Era
davvero senza parole. Caroline Penvenen... Era stata lei a saldare i
suoi debiti! Perché? Sicuramente, ai tempi, Dwight le aveva
parlato
dei suoi problemi finanziari e forse, per amore del suo amico che era
in pena per lui, aveva deciso di aiutarlo.
Era
stata gentile e gli aveva salvato la vita. E questo lo faceva sentire
ancora più in colpa per aver causato la rottura fra lei e
Dwight.
Camminando
verso il suo cavallo decise. Non poteva sistemare le cose con
Demelza, l'aveva persa per sempre, ma forse non tutto era perduto e
poteva fare ancora qualcosa per Dwight e Caroline.
Doveva
saldare un debito, giusto? Caroline era la sua creditrice, viveva a
Londra, sapeva come trovarla e con la scusa del denaro, forse
forse...
Decise!
Il tempo di preparare i documenti per il pagamento e una valigia e
poi sarebbe partito per la capitale. Dwight l'amava ancora e se anche
per Caroline le cose non erano cambiate, forse poteva fare in modo di
rimetterli in contatto.
Si
sentì un po' Demelza, in quella situazione. Un tempo l'aveva
sgridata per quella sua voglia di ficcare il naso in questioni che
non la riguardavano ma ora aveva iniziato a pensarla come lei. Sua
moglie aveva ragione, se due persone si amavano, dovevano stare
insieme. E forse lui aveva i mezzi per fare in modo che questo
avvenisse.
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Capitolo 15 *** Capitolo quindici ***
Londra
lo accolse con un tiepido sole primaverile e un cielo di un azzurro
pallido.
La
città era caotica come la ricordava, anche se non ci metteva
piede
da anni. C'era un via vai incessante di persone di ogni genere, tutti
frettolosi in un modo che, a uno che veniva dalla campagna come lui,
pareva fastidioso.
Caroline
Penvenen viveva in una grande villa in centro città, era una
donna
conosciuta e ricercata e non era stato difficile reperire il suo
indirizzo.
Quando
la carrozza giunse davanti a casa sua, rimase a bocca aperta ad
ammirare lo sfarzo di quella grande abitazione su due piani dal color
giallo pastello, circondata da un giardino curato, pieno di grossi
tigli secolari e con il prato puntellato da mille fiori dai
più
svariati colori.
Un
vialetto di ciotoli bianchi accompagnava i visitatori dal grande
cancello in ferro battuto alla maestosa porta d'ingresso della casa.
Quando
il maggiordomo andò ad aprirgli, si sentì un po'
intimorito ad
entrare in una casa simile, tanto diversa dal suo mondo.
"Attendete
qui, vado ad annunciarvi alla signora. Il vostro nome?" - chiese
il maggiordomo, quando furono all'ingresso.
"Ross
Poldark. Io e la vostra padrona ci siamo conosciuti in Cornovaglia
alcuni anni e fa e sono qui per saldare un vecchio debito".
Il
maggiordomo annuì, lo pregò di attendere e
scomparve, inerpicandosi
nell'elegante scala a chiocciola posta a fine del corridoio.
Ross
si guardò attorno, ammirando i quadri alle pareti, tutti di
ottima
fattura, gli eleganti tappeti, i mobili finemente levigati e tutti
gli oggetti di lusso che adornavano l'ambiente. Era decisamente
diversa da Nampara, quella casa... Eppure una donna così
raffinata,
fine e ricca si era innamorata di uno squattrinato dottore di
campagna, arrivando anche a scegliere di sacrificare tutto per lui.
Pensando a loro, si rese conto di quanto fosse potente il sentimento
dell'amore, quanto fosse capace, quando era vero e sincero, di
affrontare e superare ogni problema gli si ponesse davanti.
"Signore,
Miss Penvenen mi ha chiesto di condurvi nel salone principale"
–
disse il maggiordomo, ricomparso in tutta fretta davanti a lui.
Si
lasciò condurre dall'uomo. Superarono corridoi e salotti
finemente
arredati, finché non giunsero in una sala più
grande, con un tavolo
rotondo al centro, un pianoforte nell'angolo, comodi divani e una
grande biblioteca accanto alla finestra che dava sul cortile.
"La
signora arriva subito, mi ha pregato di dirvi di attenderla qui".
"Vi
ringrazio". Si sedette al tavolo, vagamente intimorito da quel
posto. Era abituato alla miniera, ai paesaggi rurali della
Cornovaglia e negli ultimi anni pure ai campi di battaglia, non certo
ai salotti della Londra aristocratica.
Improvvisamente
la porta si aprì e Caroline Penvenen, vestita di un elegante
abito
azzurro confetto, coi capelli pettinati in morbidi boccoli, comparve
davanti a lui, preceduta dal suo inseparabile cane. Era bellissima,
ancora di più di come la ricordava, aveva un aspetto dolce e
allo
stesso tempo etereo.
Horace
gli si avvicinò, annusandolo, poi andò ad
accucciarsi sotto al
tavolo. Caroline gli sorrise, accarezzando il ventaglio che teneva
fra le mani. "Capitano Poldark, è davvero una sorpresa
vedervi
qui. Quanto sarà? Due anni? O forse ancora di
più".
Ross
si alzò in piedi, esibendosi in un inchino. "Forse due anni
e
mezzo, da quando avete lasciato la Cornovaglia l'ultima volta".
Caroline
si avvicinò, sedendosi su una sedia, fronteggiandolo. "Ci
sono
tornata pure l'anno scorso in Cornovaglia, per il funerale di mio
zio".
Ross
annuì. Sapeva della morte dell'uomo, glielo aveva raccontato
Prudie
in una giornata in cui era in vena di fare pettegolezzi. "Ho
saputo e vi porgo le mie condoglianze, eravate molto legata a vostro
zio, da quel che ricordo".
Distrattamente,
dissimulando noncuranza, Caroline si fece aria col ventaglio.
"Sì,
lo ero. La sua morte è stata una dura prova da superare per
me anche
se, il fatto di vivere a Londra e di vederlo di rado, mi ha aiutata a
superare il lutto". Lo guardò di sottecchi, curiosa. "A
cosa devo la vostra visita, capitano? Il mio maggiordomo mi ha
accennato qualcosa che mi è risultata incomprensibile".
Ross
incrociò le braccia al petto. "Beh, sono venuto a restituire
il
mio debito. La mia miniera va a gonfie vele e ormai sono in grado di
darvi almeno un acconto di quello che voi avete anticipato anni fa".
"Non
so di cosa stiate parlando".
Ross
fece un sorrisetto furbo. "Io invece credo di sì. Pascoe, il
mio banchiere, mi ha detto tutto e quindi credo sia inutile girarci
troppo intorno. Sono venuto per restituirvi quanto vi devo e
soprattutto per ringraziarvi della vostra gentilezza. Avete salvato
me, la mia famiglia e la mia compagnia da una fine orrenda".
Caroline
sorrise, prendendo Horace fra le braccia, accarezzandolo. "Quel
Pascoe ha davvero la lingua troppo lunga e non è di parola,
pessima
cosa per un banchiere. Comunque non è stata
generosità, la mia,
quanto piuttosto... Come potrei definirla? Scaltrezza nel saper
riconoscere un buon affare? Se volete complimentarvi con me, fatelo
per la mia intelligenza nell'investire il mio denaro" –
disse,
strizzandogli l'occhio. "Comunque, non avete obblighi nei miei
confronti, capitano".
Ross
scosse la testa, mascherando un sorriso. Prese dalla sua borsa da
viaggio dei documenti, posandoli sul tavolo, fra loro. "Ne va
del mio onore. Ho qui i documenti atti a restituirvi metà
della
cifra, compresa di interessi. L'altra metà ve la
restituirò in
estate, ora non mi è possibile perché vorrei
gratificare i miei
minatori con un pagamento extra, visto quanto si stanno impegnando
nell'estrazione".
Caroline
sorrise. "Capisco! Ottima logica da imprenditore, capitano! Si
gratificano i propri lavoratori, spingendoli a lavorare ancora meglio
e di più. Mi piace. Ma vi ripeto, non è un
obbligo, prendetelo come
un regalo da un'amica a un amico".
"Negli
affari, signorina, l'amicizia va messa da parte. Avrete quello che vi
devo perché è giusto così e
perché sento che è quello che è
giusto fare".
Caroline
sospirò. "Come volete...". Guardò distrattamente
verso la
finestra, continuando ad accarezzare il suo cane. "Ditemi
capitano, come vanno le cose in Cornovaglia?".
"Bene.
Anche se, a onor del vero, sono stato assente per più di un
anno. Ho
combattuto per l'esercito inglese in Francia e sono tornato solo poco
più di un mese fa".
Caroline
lo studiò in viso, apparentemente non sorpresa di quanto gli
aveva
appena detto. "In guerra, è? E ditemi, com'è?".
"Istruttiva.
Ti insegna quali sono le cose vere e importanti della vita, quelle
per cui combattere. Ed è crudele ed implacabile, non
risparmia
nessuno che vi è destinato a morirvi. E' democratica, uccide
in
egual misura poveri e ricchi che si trovano al momento sbagliato, nel
posto sbagliato".
Caroline
annuì. "Beh, visto che siete qui, evidentemente non eravate
destinato alla morte nei campi di battaglia francesi. Anche se..."
- si portò la mano a uno dei boccoli biondi, prendendo a
giocarci –
"immagino che vostra moglie sarà stata molto in ansia per
voi".
A
quella frase per un attimo impallidì e non sapendo che cosa
dire,
scostò lo sguardo da lei, prendendo a guardare un punto
imprecisato
della stanza. "Non proprio".
Caroline
parve decisa ad insistere sull'argomento. "E' una donna così
in
gamba e graziosa, vostra moglie. Mi è piaciuta da subito".
"L'avete
incontrata spesso?". Ne era sorpreso.
Caroline
sorrise. "Qualche volta. Voi non eravate in casa".
Ross
tossicchiò, cercando di cambiare argomento. "E voi, miss
Penvenen, che mi raccontate? Vi trovo ancora più bella e in
forma
dell'ultima volta che vi ho vista".
"Sto
bene, meravigliosamente".
Ross
sorrise. "Vi credevo ormai sposata a qualche nobile lord
londinese. Una donna giovane, bella e..."
"Ricca?".
Ross
rise. "Beh... sì, anche ricca... Avrete schiere di
ammiratori
che ambiranno alla vostra mano, immagino".
Caroline
sbuffò, alzando gli occhi al cielo. "Ah, ogni settimana mi
affibbiano un nuovo amore. Ho un'amica che mi informa sul gossip
settimanale, puntualmente. Mi pare che mi abbia detto che questa
settimana sono fidanzata con un tal lord Balthazar Cooper".
A
quel nome strano, a Ross venne quasi da ridere. "Ed è
così?".
"Non
so nemmeno chi sia" – rispose lei, con un'alzata di spalle.
"Quindi
siete libera, al momento?".
Caroline
sorrise, maliziosa. "State pensando di farmi la corte,
capitano?".
"Sono
un uomo sposato".
"Già,
lo siete...". Caroline si abbandonò contro la spalliera
della
sedia, studiandolo in viso.
Anche
Ross la guardò, pensieroso. Era libera, ancora. E se tanto
gli dava
tanto, Dwight forse era ancora nei suoi pensieri perché una
donna
come Caroline Penvenen non resta troppo a lungo senza un uomo
accanto, se non ce n'è motivo. "Dwight ha combattuto con me
al
fronte per quasi un anno. E' tornato in Cornovaglia pochi mesi prima
di me per motivi di salute".
Al
sentire quel nome Caroline si oscurò, distogliendo lo
sguardo da
lui. "Dwight? Sta bene?" - chiese, fingendo noncuranza.
"Ora
sì. Non è nato per fare la guerra, se fosse
rimasto, quel posto lo
avrebbe ucciso. Ora ha ripreso la sua professione, per la gioia della
mia gente".
"Il
suo vero amore, la professione di medico" –
commentò laconica
e amara.
Ross
alzò lo sguardo su di lei, mentre i sensi di colpa per aver
causato
la rottura fra lei e Dwight tornavano prepotentemente a tormentarlo.
Era tornato per saldare un vecchio debito, non solo di denaro ma di
riconoscenza, verso di lei che lo aveva salvato dalla prigione e
verso Dwight che era sempre stato un amico leale e sincero per lui.
"Sarebbe partito con voi, quella notte. Si è attardato a
causa
mia, per salvarmi da un'imboscata mentre trasportavo merce di
contrabbando".
"Questo
me lo ha scritto, due anni fa, nelle decine di lettere che mi ha
mandato".
"Eppure
non lo avete voluto rivedere".
Caroline
scosse la testa, stringendo a se Horace. "E' passato molto
tempo, non ha più importanza quello che è
successo con lui, è
acqua passata. La mia vita ora è qui, ho una cerchia di
amici fidati
e una vita stabile e agiata. Non avrebbe comunque funzionato con
Dwight, siamo troppo diversi. Alla fine, è meglio che sia
andata
così, fra noi".
"Perché
non vi credo?" - disse Ross, insistendo volutamente.
Caroline
sospirò, vagamente piccata. "Signor Poldark, siete venuto
per
saldare il vostro debito o per perorare la causa del vostro amico? E'
lui che vi manda?".
"Non
sa nemmeno che sono qui".
"Bene!
E allora facciamo che questa conversazione non abbia avuto luogo e
che ci siamo intrattenuti unicamente per parlare di affari".
Ross
strinse i pugni, deciso a non demordere. Era in difficoltà,
si
vedeva chiaramente la battaglia in corso dentro di lei e si capiva
chiaramente che, a differenza di quanto affermava, Dwight era ancora
nei suoi pensieri. "Concedetegli un'ultima possibilità, non
vi
ha mai dimenticata e soffre ancora per voi! Un faccia a faccia,
quanto meno. Potrebbe andar male, ma quanto meno ci avreste provato e
vi mettereste entrambi il cuore in pace. Ma potrebbe andar bene e
sarebbe un nuovo inizio, per voi. In una coppia, spesso, si
commettono errori enormi ma se un amore è vero e sincero,
una
seconda occasione puo' superare ogni ostacolo e ogni frattura. Non
sono gli amori idilliaci, quelli senza sbavature, ad essere reali, ma
quelli imperfetti, che incontrano ostacoli e si impegano per
superarli. Tentate".
"Sono
passati due anni e mezzo, capitano".
"Lui
vi pensa ancora, sta male per voi ogni giorno".
Caroline
strinse a se Horace, appoggiando il ventaglio sul tavolo. "Ma mi
ci vedreste, in Cornovaglia, a vivere mangiando sardine, a contatto
con operai e minatori? Non è il mio mondo".
"Avanti,
non fareste la vita da contadina, avete la tenuta di vostro zio a
disposizione. Non accampate scuse, trovate il coraggio e tentate".
"Come?".
Ross
sorrise. "C'è una carrozza che mi attende, qui fuori. Fatevi
preparare una valigia e partite con me. Entro stasera saremo in
Cornovaglia".
Caroline
deglutì, combattuta. "Da Dwight?".
"Da
Dwight o ad ammirare il paesaggio. Il vento della Cornovaglia, in
primavera, è rigenerante".
Caroline
lo guardò storto. "Il vento della Cornovaglia, in primavera,
è
gelido".
Ross
scosse la testa. "Lo vedete, siete una lady, trovate sempre un
motivo per lagnarvi. La Cornovaglia non vi cambierà".
"Ho
degli impegni, qui" – disse lei, come ultimo tentativo di
resistergli.
"Sarete
di ritorno fra pochi giorni, Dwight non vi rapirà. E pian
piano
ricostruirete la vostra vita, se desidererete farlo". Si
alzò
in piedi, porgendole la mano. "E allora, signorina Penvenen,
venite?".
Caroline
si alzò in piedi. "E sia, tentiamo. Datemi solo qualche
minuto
per preparare i bagagli". Si avviò verso la porta,
tirandogli
un'occhiataccia. "Siete testardo, lo sapete?".
"E
convincente" – rispose Ross, a tono.
Caroline
si morse il labbro con fare malizioso. "Mi auguro per voi che
sappiate essere altrettanto convincente anche per le questioni che
riguardano voi stesso" – commentò vaga, sparendo
dietro
l'uscio.
Ross
rimase perplesso davanti a quella frase ma non si fece domande.
L'aveva convinta a tornare con lui e questa era già di per
se una
vittoria.
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Capitolo 16 *** Capitolo sedici ***
Il
paesaggio della Cornovaglia le era rimasto impresso nella mente e nel
cuore. Era selvaggio, primitivo, spoglio e allo stesso tempo
affascinante. E legato a una persona che, benché non avesse
voluto
ammetterlo per più di due anni, non aveva mai dimenticato.
Si
sentiva strana a fare quel viaggio in carrozza con Ross Poldark ma
accettare, dopo le sue insistenze, era la cosa che gli era riuscita
più naturale perché in fondo aveva sempre sperato
che
sopraggiungesse un qualcosa, una scusante per riportarla in quelle
terre.
Osservò
Ross, silenzioso, accanto a lei. Era il marito della sua migliore
amica e questo pensiero la turbava perché stava mentendo a
lui e per
forza di cose avrebbe dovuto poi mentire a lei. Come avrebbe potuto
prendere Demelza, quell'improvvisata di Ross a Londra? Cosa avrebbe
pensato di quel viaggio? Cosa avrebbe provato sapendo suo marito
tanto vicino? Certo, Demelza sarebbe stata felice per lei, se le cose
con Dwight si fossero sistemate, ma avrebbe avuto il sacro terrore di
ritrovarsi faccia a faccia con Ross.
Lo
guardava, non sapendo se ammirarlo o odiarlo. Sapeva quanto aveva
fatto, come avesse fatto soffrire Demelza, come l'avesse umiliata,
tradita e ignorata per tanto tempo, eppure... non aveva la faccia di
una persona cattiva e ne era rimasta colpita quando, la prima volta,
ne aveva potuto saggiare la fierezza e il coraggio durante quel
processo che poteva costargli una condanna a morte. Aveva davanti il
padre di Jeremy e Clowance, che lei stava vedendo crescere, a cui era
affezionata, era la madrina della piccola e il fatto che Ross ne
fosse totalmente all'oscuro la metteva in seria difficoltà.
Sperò
che il discorso non vertesse su Demelza, perché mentire le
sarebbe
risultato estremamente difficile.
Improvvisamente
la carrozza si fermò e Ross si affacciò alla
finestrella. "Siamo
arrivati".
Venne
colta da un attacco di panico. "Da Dwight?".
"Sì,
siamo davanti a casa sua. Copritevi, il vento oggi pare freddo".
Caroline
gli lanciò un'occhiataccia, calandosi il cappuccio del suo
mantello
azzurro in testa. "Sono ancora indecisa se odiarvi, capitano".
Ross
rise. "Magari mi ringrazierete, stasera o domani".
Caroline
inspirò profondamente per prendere coraggio, scendendo dalla
carrozza. Si guardò attorno. La casa di Dwight era rimasta
esattamente come la ricordava, piccola, modesta, circondata da un
muretto di pietra e dalla campagna da cui, in lontananza, si vedevano
altre piccole dimore di povera gente.
Ross
arrivò all'uscio, bussando. "Dwight?! Sei in casa?".
Dopo
pochi secondi la porta si aprì. Caroline, indietro di alcuni
passi,
nascosta alla visuale, strinse i pugni delle mani, convulsamente. Era
così uguale ai suoi ricordi Dwight, con quell'espressione
buona,
quel viso pulito e gentile, senza la minima traccia di cattiveria o
egoismo a deturparlo. Era però più magro di come
lo ricordava, più
smunto, con gli zigomi vagamente più pronunciati. Dopo la
prima
occhiata si vedeva chiaramente come la guerra avesse lasciato i suoi
segni amari su di lui.
Incurante
di tutto, Dwight osservò Ross. "Hei, che sorpresa! Sono
giorni
che sei introvabile, nemmeno alla miniera sapevano dove ti fossi
cacciato. Dove sei finito?".
Ross
alzò le spalle. "Ho fatto un viaggetto a Londra per affari.
E
ti ho portato un regalo". Annuì e si fece da parte,
facendole
segno con la mano di avvicinarsi.
E
col cuore in tumulto, Caroline si avvicinò.
Vide
Dwight spalancare gli occhi e poi impallidire, quando si fu calata il
cappuccio, liberando i suoi lunghi capelli biondi.
Ross
si grattò la guancia, forse in imbarazzo. "Avevo degli
affari
da concludere con lei e ho pensato che poteva essere una buona idea
rapirla e portartela qui per farvi fare due chiacchiere".
Dwight
lo guardò a bocca aperta. "Rapirla?".
"Più
o meno" – disse Caroline, sorridendo forzatamente.
Ross
sospirò. "Vi lascio adesso, credo di essere davvero di
troppo e
che possiate proseguire da soli, anche perché non amo troppo
intromettermi negli affari degli altri. L'unica cosa che posso dirvi,
la cosa che vi direbbe anche mia moglie che è più
saggia di me, se
fosse qui, è che se due persone si amano, gli ostacoli che
li
tengono divisi devono essere considerevoli, altrimenti vuol dire che
non hanno il coraggio di perseguire le loro convinzioni. Lei direbbe
anche che ci sono pochissime cose che al mondo valga davvero la pena
di possedere e se le possiedi, nient'altro ha importanza. E se non le
possiedi, allora tutto il resto non ha valore".
Caroline
rimase colpita da quelle parole, dal loro significato in se e dalla
dolcezza con cui Ross le aveva pronunciate, ricordando sua moglie. Si
chiese per un attimo quanto di quello che credeva Demelza fosse vero
e quanto Ross fosse cambiato durante la loro separazione, ma gli
occhi magnetici di Dwight la riportarono alla realtà.
"Eppure,
scommettere sull'ignoto... Su questo viaggio, sull'assurda decisione
di venire qui dopo tutto questo tempo...".
Dwight
annuì. "Eppure, non è la vita stessa, una
scommessa? E il
giocatore d'azzardo è sempre quello che ne viene fuori
peggio? Temo
che coloro che soffrono di più sono quelli che ignorano i
desideri
del cuore e passano poi la vita a pentirsene".
Anche
le parole di Dwight la colpirono perché era vero, erano
scappati
entrambi, per quasi tre anni, dai loro sentimenti, per paura di
soffrire, e alla fine avevano sofferto ancora di più a stare
lontani. Si accorse solo di sfuggita che Ross si allontanava,
lasciandoli soli. La paura di poco prima all'idea di star da sola con
Dwight scomparve, stava bene, si sentiva a casa e a posto con se
stessa. "Temo che tu abbia preso ad odiarmi, in tutto questo
tempo. Sono stata orrenda a rimandarti indietro quelle lettere ma ero
mortalmente arrabbiata, ferita... Noi donne ce la leghiamo spesso al
dito, sai?".
Dwight
sorrise, in quel modo dolce, gentile e quasi timido che l'aveva fatta
innamorare. "Non c'è dubbio che ora ti odio" –
disse,
accarezzandogli la guancia. "Ma sono felice che tu sia qui,
più
di tutto il resto". La attirò a se, la abbracciò
ed
improvvisamente non ci fu più bisogno di parole fra loro. Ci
sarebbe
stato tempo per parlare, per raccontarsi di quegli anni di
lontananza, della vita condotta a Londra, della morte di suo zio,
della guerra che lo aveva portato su suolo francese, di quanto
avessero entrambi sofferto e di quante strade si dipanavano loro
davanti per costruire un futuro insieme.
Tutto
si zittì, in un lungo bacio che fece scomparire ogni
divisione,
rancore, conflitto intercorso fra loro. Quando si separarono,
Caroline gli sorrise. "Mi hai davvero rapita, dottor Enys".
"Credo
di si". Le prese la mano e la condusse in casa. Chiusero il
mondo fuori, non esisteva nulla a parte loro, in quel momento.
La
casa era rimasta come la ricordava, modesta, povera ma dignitosa,
piena di libri sparsi ovunque e di oggetti di uso medico. Era
così
diversa dalla sua residenza di Londra ma la sentiva sua, in un modo
intimo che si puo' provare solo quando sei al posto giusto, con la
persona giusta e in pace con te stessa. Si sedettero sul piccolo
sofà
accanto al camino e lei appoggiò la testa alla sua spalla.
"Non
andrai via di nuovo, vero?" - chiese lui, quasi timoroso.
Caroline
sospirò. "Sono partita su due piedi con Ross e ho lasciato
un
sacco di affari in sospeso a Londra che devo sistemare. Il tuo amico
è molto insistente e alla fine ho ceduto e sono contenta di
averlo
fatto".
"Che
ci è venuto a fare da te, Ross?".
Caroline
sospirò. "Saldare un vecchio debito, un prestito che gli
avevo
fatto anni fa. Non era niente di importante, poteva anche non farlo,
ma ha insistito e credo che per lui fosse una questione d'onore. Poi,
da cosa nasce cosa e alla fine ci siamo trovati a parlare di te e
pochi minuti dopo ero su una carrozza diretta qui".
Dwight
la guardò, preoccupato e in ansia. "Quindi, tornerai subito
a
Londra?".
"No,
non subito. Magari domani... O dopo dopodomani, se hai posto qui per
me".
Dwight
sorrise. "Certo".
Caroline
annuì. "Questo è solo l'inizio".
"Di
qualcosa di importante?".
Le
venne da sorridere. "Di qualcosa di importante" –
ripeté.
Dwight
si alzò, prendendo un piccolo laccio di cuoio dal tavolo.
Poi tornò
da lei, prendendole la mano sinistra e legandoglielo attorno
all'anulare. Infine le baciò le dita, guardandola negli
occhi.
"L'inizio di qualcosa di importante, sì".
Caroline
si perse nei suoi occhi, ricordando quanto le fosse mancato quello
sguardo gentile e sincero e quel mondo semplice, pulito,
così
diverso da quello comodo e per molti aspetti falso e perbenista di
Londra. "Hai detto che hai posto per me, giusto? Dov'è la
nostra camera da letto?".
Dwight
spalancò gli occhi, era la prima volta che lei gli faceva
una
proposta così diretta e per un attimo sembrò
smarrito e spaventato.
Ma fu solo un attimo. La prese per mano e la fece alzare e poi le
fece strada verso quello che sarebbe stato, per i giorni successivi,
il loro rifugio d'amore.
...
Ross
passeggiò fino a casa, costeggiando la spiaggia. Il vento
era forte
ma da bravo nativo della Cornovaglia, lo trovava piacevole.
A
dire il vero, in quella giornata tutto gli sembrava piacevole e si
sentiva l'animo leggero, come se aiutare Caroline e Dwight, rendersi
utile per qualcuno e sistemare un guaio che aveva indirettamente
causato anni prima, lo avesse rigenerato nello spirito.
Fischiettò,
entrando nell'uscio di casa, a Nampara, e Prudie lo guardò
sorpresa.
Beh, in effetti era piuttosto musone, per la maggior parte del tempo,
quella reazione ci stava tutta.
"Signore,
il vostro viaggio a Londra dev'essere stato davvero proficuo"
–
disse, armeggiando con due grossi polli che andavano spiumati e
taglianti.
"Puoi
dirlo forte, ho concluso ottimi affari, saldato in parte un debito e
sistemato un guaio di alcuni anni fa che aveva fatto soffrire il mio
più caro amico. Sai, è piacevole rendersi utile a
qualcuno".
Prudie
annuì. "Oh, anche io ho concluso ottimi affari". Prese i
polli, sbattendoli sul tavolo davanti a Ross. "Comprati a prezzi
stracciati! Carne fresca fresca, gli avevano appena tirato il collo".
Si avvicinò alla cucina, prendendo un grosso coltellaccio
che poi,
con un gesto veloce, infilzò nel legno del tavolo, a pochi
centimetri dalle mani del suo padrone. "Amate rendervi utile?
Perfetto, aiutatemi a spennarli e a togliere le interiora, sarete
così felice che dormirete come un bambino, stanotte".
Ross
prima deglutì fissando il coltello che per poco non gli
aveva
mozzato le dita, poi la guardò storto. La malattia della
voglia di
lavorare, a Prudie non sarebbe mai venuta! Così come non le
sarebbe
mai passata la malattia dell'arroganza di chiedere al suo padrone di
lavorare al suo posto. Si alzò dal tavolo, deciso a
togliersi di
torno, divertito nonostante tutto. "Ti ringrazio della tua
premura, ma vedrò di rendermi utile da qualche altra parte".
"Ma
non avete niente da fare!" - obiettò Prudie.
Quella
semplice frase lo fece riflettere. Era vero, non aveva nient'altro da
fare, suo malgrado. Oltre al lavoro in miniera, ai rapporti con
banche e creditori, non c'era nient'altro che lo attendesse.
Osservò
la sua serva che, pur apparentemente distratta, conosceva ogni
aspetto della vita di quella casa. Poco prima aveva citato Demelza,
con Dwight e Caroline, e Prudie la conosceva bene, aveva passato
tanto tempo con lei e forse avrebbe potuto consigliargli qualcosa a
mente serena. "Senti... tu credi che io abbia sbagliato ad
arrendermi e a smettere di cercarla?".
Prudie
alzò lo sguardo su di lui. "Di cosa parlate, signore?".
"Di
mia moglie. Voglio dire... Ho smesso di cercarla da tanto ma sono pur
sempre suo marito e ho dei doveri sia verso di lei che verso mio
figlio".
Prudie
scosse la testa, staccando una manciata di piume dal primo pollo
capitatogli fra le mani. "Ai vostri doveri di marito e padre,
dovevate pensarci quando lei era qui. Farlo ora non è di
nessuna
utilità né a voi, né a lei e nemmeno
al bambino".
Ross
si morse il labbro. Poteva pure arrabbiarsi per quella risposta
diretta e vagamente accusatoria, ma in fondo lei aveva ragione.
"Magari ha bisogno di me ed è in difficoltà da
qualche parte".
Lo
sguardo di Prudie si fece serio. "Non lo è".
Alzò
lo sguardo su di lei, vagamene sorpreso da quella risposta tanto
sicura. "E tu come lo sai?" - chiese, cupo.
Prudie
rimase in silenzio per alcuni istanti, come soppesando le parole da
dire. Poi alzò le spalle. "La signora è in gamba,
sa
rimboccarsi le maniche, lavorare e arrangiarsi anche da sola, se
è
necessario. Lo ha sempre fatto anche qui, quando voi correvate da
quella gattamorta di Trenwith. Spaccava la legna, lavorava come un
somaro e teneva pulita la casa. Credete che una come lei abbia
passato questi anni a piangersi addosso? Io sono sicura di no".
Ross
sorrise amaramente, a quelle parole. Era vero, Demelza era in gamba,
poteva prendersi cura di se stessa e Jeremy anche da sola, come del
resto faceva anche a Nampara, visto che lui non c'era mai. Aveva
mancato in tante cose, nel suo affetto verso di lei e suo figlio,
nelle attenzioni ai loro bisogni, concentrato unicamente su se stesso
e i suoi sentimenti troppo egoistici per accorgersi di chi aveva
vicino e lo amava. "Non credi che sarebbe bello se fosse ancora
qui".
Prudie
annuì. "Questa casa ha perso la sua anima da quando lei se
n'è
andata. Ma sapete... sarebbe bello, se tornasse, per me, per voi. Ma
non per lei, Demelza qui ha sofferto molto e dubito vorrebbe tornare
a vivere in questo posto".
Ross
sorrise, con amarezza. "Sono stato un pessimo marito, vero?".
"Vero!
E lei ne ha sofferto e io spesso ho dovuto consolarla, quando non si
dava pace per non essere la moglie che voi desideravate".
Spalancò
gli occhi a quelle parole, sentendosi in colpa in maniera atroce.
Quanto l'aveva fatta soffrire, sentire piccola e invisibile?
Accidenti a lui, era la donna che amava più di se stesso e
aveva
dovuto perderla per capire i suoi errori, la sofferenza che le aveva
causato e quanto fosse importante per lui... Era perso senza di lei,
era come essere caduto e non essere stato più capace di
rialzarsi.
"Vorrei solo sapere se sta bene come dici tu".
Prudie
si morse il labbro. "Signor Poldark, io solitamente mantengo le
mie promesse ma stavolta, se questa cosa rimane fra noi, magari
potrei infrangerne una...".
"Quale
promessa?".
Prudie
si sedette sulla sedia, davanti a lui. "La signora... Sta bene,
lo so perché l'ho vista. Lo scorso autunno, quando eravate
al
fronte, è stata qui".
Gli
parve che il pavimento gli crollasse sotto i piedi, a quelle parole.
"Cosa?". Per un attimo si sentì confuso, quasi svenne.
Sentiva le guance in fiamme e la gola seccarsi sempre più.
"Perché
non me l'hai detto?".
"Perché
lei mi ha chiesto di non farlo ma visto che siete tanto preoccupato,
preferisco essere sincera. In fondo è stata qui solo pochi
minuti,
il tempo di bere un the e poi è ripartita. Non è
stato nulla di
che".
"Cosa
ti ha detto? C'era anche Jeremy con lei?".
Prudie
scosse la testa. "No, il bambino non c'era ma mi ha raccontato
che sta bene e che la aspettava a casa. Probabilmente lo aveva
affidato a qualcuno. E' passata a trovare vostra figlia al cimitero
ed è venuta a salutarmi, poi se n'è andata. E'
stata dura per lei
tornare qui e non credo che tornerà ancora. Non ha detto
molto, né
su dove vive, né su cosa fa. Ma stava bene, indossava un
abito
meraviglioso, molto più bello di quello che indossano le
gran
signore di qui, e sulle spalle portava un mantello di pelliccia
così
morbido e caldo che per un attimo ho stentato a riconoscerla. Le sue
mani erano liscie e candide, si vede che non fa più lavori
pesanti
come a Nampara".
Nonostante
quelle parole, nonostante le avesse detto che Demelza stava bene, si
odiò per essere partito e per aver perso l'unico appiglio
che aveva
per ritrovarla. "Non ti ha chiesto di me? Non ti ha detto
nient'altro?".
"Era
contrariata dal fatto che voi foste in guerra ma non ha detto molto.
Ve l'ho detto, è stata qui solo per pochi minuti. Ma sta
bene, state
sereno".
Stare
sereno? Come poteva esserlo? Cosa faceva, dove viveva sua moglie?
Come si manteneva, come faceva ad avere abiti tanto belli ed
eleganti, lei che era partita senza un soldo? Gli venne in mente la
soluzione più ovvia, aveva accanto qualcun altro che si
prendeva
cura di lei e di Jeremy, aveva iniziato un'altra vita e questa idea
lo annientava e lo faceva impazzire. Immaginare qualcuno le la
abbracciasse, baciasse, che la stringesse a se di notte, in un
letto... Si sentiva di impazzire, a quei penseri sulla sua Demelza...
Prudie,
quasi presagendo i suoi turbamenti, scosse la testa. "No, non
è
come pensate, dubito ci sia un uomo nella sua vita, soffre ancora per
voi. Ma è in gamba, sa come farsi strada e come mantenersi
da sola.
Se sta bene, lo deve unicamente a se stessa, le donne come Demelza
non hanno bisogno di un uomo per poter vivere, sa cavarsela anche da
sola e se la amate davvero, dovreste convincervene anche voi e essere
fiero di lei".
Ancora
una volta, Prudie aveva ragione. Si guardò attorno,
smarrito,
realizzando che lei era stata lì e che lui non c'era, troppo
lontano, troppo impegnanto a sfuggire ai suoi errori e alle sue
responsabilità.
Ma
decise di non deprimersi. Era stata una buona giornata quella, per
lui, per Caroline e Dwight e dopo tutto, ora sapeva che sua moglie e
suo figlio stavano bene. Era inutile tormentarsi con pensieri
negativi, aveva ricevuto buone notizie e solo su quelle doveva
concentrarsi.
E
se Demelza stava bene, poteva dormire sereno per quella notte.
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Capitolo 17 *** Capitolo diciassette ***
"Demelza,
oggi mi avete stupito. Non credevo che avreste firmato così,
senza
battere ciglio".
La
voce sgradevole di George la raggiunse alle spalle, appena raggiunta
la porta d'uscita della sede della Warleggan Bank. Si chiese
perché
finisse sempre così, perché la inseguisse ad ogni
fine di riunione
e la bloccasse per infiniti minuti, invece che andarsene per la sua
strada. Alzando gli occhi al cielo, di uno splendido e terso azzurro
estivo, si mise in testa il cappello per ripararsi dal calore del
sole. "Perché non avrei dovuto farlo? La vostra era una
proposta ragionevole, ben pensata, non dannosa per i nostri creditori
e soprattutto proficua per me e per i miei soci".
George
le si affiancò. "Certo! Ma era una specie di... trappola!
Ero
convinto che, nonostante tutte queste motivazioni, per il semplice
fatto di farmi dispetto, non avreste firmato".
Demelza
sbuffò con fare annoiato. "Così mi offendete ed
offendete la
mia intelligenza. Stiamo parlando di affari, non siamo bambini".
"Ma
i nostri trascorsi...".
Demelza,
con un amabile sorriso, si voltò verso di lui. "Come vi ho
appena detto, si sta parlando di denaro, non di questioni personali.
Siamo professionisti, George".
Di
tutta risposta, l'uomo divenne rosso di rabbia. "Siete una donna
e il vostro posto dovrebbe essere a casa, a curare le faccende
domestiche e i figli. Ne avete due, se non mi sbaglio, giusto?
Prendetevi cura di loro e mandate alle riunioni i vostri soci, mi
risulta che i fratelli Devrille siano in società con voi e,
in
quanto uomini, hanno più titoli per sedere al consiglio di
amministrazione della Warleggan Bank di quanti ne abbiate voi".
Demelza
picchiettò il piede, nervosa. Odiava i discorsi maschilisti
e George
le faceva venire l'orticaria, quando lo aveva fra i piedi.
Sì,
avrebbe volentieri ceduto il suo posto a Martin o ai suoi fratelli
pur di non vederlo, ma non lo avrebbe mai fatto perché
avrebbe
preferito la tortura piuttosto che dargli quella soddisfazione. "I
fratelli Devrille non vi hanno molto in simpatia, George. Anzi, vi
detestano proprio! Preferiscono lasciare a me l'onore di avere a che
fare con voi e sono assolutamente soddisfatti dei risultati che ho
ottenuto fin'ora. Dovrete sopportarmi ancora, quindi".
George
alzò il dito indice verso di lei, ad indicarla. "Demelza
Poldark, voi siete una donna testarda e assolutamente impossibile.
Credo che non abbiate ancora capito qual'è il vostro posto
nel mondo
e sono convinto che qualcuno dovrebbe insegnarvelo".
"Quale
sarebbe, il mio posto? Cosa dovrei fare per compiacervi?".
"Starvene
a casa, come fa mia moglie. Prendete esempio da Elizabeth, lei
è
perfettamente consapevole di cosa debba o non debba fare e sa stare
al suo posto".
"Bisogna
vedere cosa intenda Elizabeth, per suo posto...". Demelza
sorrise freddamente. Accidenti, ogni volta che George nominava
Elizabeth, le veniva la grandissima voglia di raccontare a quel
pallone gonfiato tutta la verità sulla sua dolce mogliettina
e di
infrangere il suo mondo perfetto. "Elizabeth è Elizabeth e
io
sono io. Non sono nata, come lei, per compiacere un uomo. E nemmeno
per fare la bella statuina da mostrare con orgoglio ai vostri
ricevimenti importanti. Avete sposato la vostra donna perfetta e
avete con lei la vostra perfetta famiglia. Godetevela".
George,
sempre più rosso di rabbia, le si avvicinò viso a
viso. "Io
non vi sopporto".
Demelza
sorrise di nuovo, freddamente. "Nemmeno io. Ma per una volta
voglio venirvi incontro, andandomene da qui subito. Come mi avete
ricordato poco fa, ho due figli a casa che mi aspettano, e ora che
è
arrivata l'estate vorrei passare del tempo con loro all'aperto. Buona
giornata, George".
Si
allontanò a passi lenti, gustando il calore del sole sulla
pelle
scoperta delle braccia. Adorava la moda londinese e quegli abiti
estivi di seta, dalle maniche corte, a sbuffo, eleganti e allo stesso
tempo comodi e freschi da portare. Era d'umore terribilmente buono e
nemmeno le imprecazioni di George, che gli giungevano alle spalle
urlandogli che cominciava a provare compassione per Ross per averla
avuta come moglie, sarebbero riuscite a turbarla. Quasi divertita,
ridendo fra se e se, si allontanò per le strade di Londra,
colorate
e caotiche, che parevano essersi risvegliate dal grigiore invernale
in quei primi giorni di quella piacevolissima estate.
Di
tanto in tanto, strada facendo, si fermò ad osservare le
vetrine dei
negozi più eleganti, quasi stupendosi ancora del fatto che,
se
avesse voluto, sarebbe potuta entrare e comprare senza problemi
qualsiasi cosa lei volesse. Era strano non essersi ancora abituata a
quel tenore di vita e sentirsi invece ancora così legata
alle sue
origini anche se, ripensando alla conversazione con George di poco
prima, questo la salvava dal diventare davvero, un giorno, una donna
come Elizabeth.
Quando
giunse davanti a casa sua, a pochi passi dal cancello, una figura
piuttosto nota che sostava davanti ad esso la bloccò. Bene,
era la
giornata degli scocciatori... "Signor Smith, com'è che vi
trovo
sempre a bighellonare davanti a casa mia?" - chiese,
avvicinandosi di soppiatto.
Il
finanziere, appena la vide, si esibì in un sorriso falso ed
ipocrita, inchinandosi. "Signora, stavo per chiamare la
servitù
per farmi ricevere, ma vedo che non ce n'è bisogno. Sono
passato per
sapere come state e se avete pensato alla mia proposta".
Aprendo
il cancello con le chiavi, sospirando e dandogli le spalle, Demelza
scosse la testa. Stava diventando insistente, troppo per i suoi
gusti. "No, non ci ho pensato per il semplice fatto che non ho
intenzione di vendere quelle azioni".
"D'accordo,
smettiamo di giocare, signora! Quanto volete per le quote della
Northern? E' la cifra che volete concordare, giusto? Ditemela,
smettetela di fare la preziosa e concludiamo l'affare".
Demelza
si voltò verso di lui, infischiandosene di dimostrargli
quanto la
sua presenza la infastidisse. "Come vi ho detto, non voglio
vendere! E ora, se volete scusarmi, vorrei entrare in casa. I miei
figli, insieme a una cara amica che oggi doveva passare a farmi
visita, mi aspettano".
"Siete
una donna davvero testarda, lo sapete?".
Demelza
alzò le spalle. "Siete la seconda persona che me lo dice,
oggi.
Comincerò a prenderlo come un complimento".
Smith
le si avvicinò di alcuni passi. "Sapete, bighellonando qui
davanti, in attesa del vostro arrivo, ho visto i vostri due figli
giocare in giardino. Due gran bei bambini, davvero...".
Una
strana rabbia prese possesso di lei. Come osava stare ad osservare i
suoi figli, quell'uomo? Cosa diavolo voleva insinuare, citandoli,
cosa voleva da lei? "State lontano da casa mia. E soprattutto,
state lontano dai miei figli" – disse, scandendo bene parola
per parola.
"E
invece tornerò, di tanto in tanto. Un giorno cederete".
Demelza
non rispose e, nervosa, lo guardò allontanarsi. Quell'uomo
la
inquietava e le dava l'impressione di essere un tipo senza scrupoli,
come la maggior parte dei finanzieri che conosceva, dopo tutto.
Scosse la testa, sperando di non vederlo per un bel po'. Non gli
avrebbe permesso di rovinargli la giornata, non con quel sole
stupendo, non nel giorno in cui poteva godersi i suoi figli nel loro
giardino, senza altri impegni a separarla da loro, non con Caroline
che le aveva promesso di venire a trovarla, dopo gli ultimi mesi in
cui si erano viste pochissimo.
Quando
arrivò nel retro del giardino, i bambini le corsero
incontro. Jeremy
le saltò al collo, baciandola sulla guancia, e Clowance, che
ormai
correva veloce quanto e più del fratello, si fece prendere
in
braccio. "Ciao bimbi, cosa state facendo?" - gli chiese,
allegra.
Jeremy
corse verso Garrick. "Gli voglio insegnare a riportarci i giochi
che gli lanciamo, ma non ci ascolta".
Demelza
scoppiò a ridere, rimettendo a terra Clowance. "Bambini,
Garrick è anziano ormai e non ha voglia di correre avanti ed
indietro in giardino per riportarvi i vostri giocattoli".
"Ma
io voglio insegnargli lo stesso" – insistette Jeremy.
"Stesso"
– ripeté Clowance.
"Fate
come volete, ma non tormentatelo troppo". Li lasciò ai loro
giochi, sotto lo sguardo attento di Mary che li osservava dalla
scalinata dov'era seduta facendo l'uncinetto. Poi si
avvicinò alle
due altalene in fondo al giardino, su una delle quali aveva scorto la
figura elegante di Caroline che la stava aspettando. "Scusa il
ritardo ma ho avuto delle scocciature, strada facendo" –
disse, abbracciandola.
Caroline
sorrise, risiedendosi sull'altalena. "E' piacevole stare qui a
dondolarsi, sotto l'ombra delle piante del tuo giardino! Hai avuto
una bella idea a comprarle per i bimbi".
Demelza
si sedette sull'altalena a fianco, dondolandosi debolmente. "Non
glie le ho comprate io".
"E
chi è stato?".
"Martin,
chi se non lui?" - rispose, divertita. "Sai com'è fatto,
basta che veda Clowance o Jeremy osservare un gioco e lui glie lo va
a comperare subito".
Caroline
annuì. "Beh, le altalene sono divertenti".
Demelza
rise. "Ma i bimbi ci salgono poco, la uso più io di loro. Da
piccola non avevo giocattoli e credo di averne desiderati, senza mai
essere stata accontentata". Si voltò verso di lei, sembrava
raggiante. "E tu, che mi racconti? Sono mesi che scompari nel
nulla per settimane e poi quando ci vediamo fai tutta la misteriosa.
Che sta succedendo?".
"Guarda!".
Caroline, orgogliosa, le mostrò la mano sinistra, dove
spiccava un
piccolo anello di cuoio all'anulare. "Mi sono fidanzata! La
prossima primavera, fra nemmeno un anno, mi sposo".
"Cosa?".
Demelza spalancò gli occhi. Era senza parole, sorpresa e
allo stesso
tempo infinitamente felice per lei! "Ti sei fidanzata e non mi
hai detto niente? Quando? Come? E con chi?".
Caroline,
con fare malizioso, si morse il labbro. "Due mesi fa, con un
uomo stupendo che mi farà felice. Tu sarai la mia testimone
di
nozze, la mia damigella personale, sappilo e preparati, hai nove mesi
per farlo!".
"Ma
certo, sarà un onore per me. Ma chi è il
fortunato?".
Sospirando,
Caroline distolse lo sguardo da lei. "Non te lo dico, per
adesso".
"Perché?".
"Perché
se lo facessi, tu poi non vorresti venire al matrimonio e io ti
voglio al mio fianco. Meglio metterti davanti al fatto compiuto,
quando non potrai scappare".
Demelza
la guardò storto e poi scoppiò a ridere, senza
capire il senso di
quello strano discorso. Passò in rassegna, mentalmente,
tutti i
partiti della Londra-bene, cercando di capire chi potesse essere
quest'uomo misterioso che a lei poteva non piacere, tanto da
spingerla eventualmente a non partecipare al matrimonio.
Improvvisamente, un sordo terrore prese possesso di lei, unito a un
senso di stupore. "Non mi dire, è uno degli azionisti della
Warleggan Bank? Ti prego, non dirmi che mi troverò tutto il
consiglio di amministrazione al tuo matrimonio, insieme a George e
alla sua perfetta famiglia".
Caroline
scoppiò a ridere. "Ahah, chissà! Non-te-lo-dico".
Clowance,
giunta di corsa, saltò sulle gambe di Demelza, interrompendo
i loro
discorsi. "Mamma, veniiii" – urlò, contenta.
Demelza
la strinse a se, baciandola sulla guancia. Era diventata uno
splendore sua figlia, con dei boccoli rossi e morbidi a colorargli la
testolina e due guance piene a ornarle il visino paffuto e simpatico.
"Un attimo amore, devo capire cosa passa nella testa di zia
Caroline".
Clowance
osservò l'ereditierà poi sospirò,
sciogliendosi dalla testa i due
nastrini che le tenevano legati due codini.
"Ah,
Clowance" – si lamentò Demelza, trovandosi i
nastri fra le
mani. "Non sopporta proprio di avere roba in testa, ma le vanno
i ciuffi negli occhi" – disse, rivolta all'amica.
Caroline
osservò la bimba. "Me la presti, tua figlia, per il
matrimonio?
Per portare gli anelli, intendo".
"Clowance?
Ma è piccola, non credo che ne sarebbe capace, senza
distrarsi".
"Ci
eserciteremo, prestamela per qualche giorno, ogni tanto, me la tengo
a casa tutto il giorno e insieme proveremo e decideremo pure i vostri
abiti. Sarebbe carinissimo se ne aveste due uguali, tu e lei".
Demelza
osservò sua figlia e poi Caroline. In effetti, quella
proposta
poteva tornarle utile per una serie di motivi. "Dimmi solo una
cosa! Non è uno della Warleggan, vero?".
"Non
lo è".
"E
allora d'accordo, ti lascio Clowance. Anzi, mi faresti un piacere a
tenerla, di tanto in tanto. Jeremy vuole imparare a leggere e ho
assunto un istitutore che dovrebbe cominciare a venire qui da
settimana prossima, il martedì e il giovedì.
Senza Clowance e
disturbarli, farebbero lezione con più
tranquillità. Se te la
portassi in quei giorni al mattino, prima di andare alla locanda, e
tornassi a prenderla di sera, a fine lavoro, per te sarebbe un
problema?".
Caroline
annuì, accarezzando i capelli della bimba. "Nessun problema,
io
e la principessina ci divertiremo da matte insieme. Vero Clowance?".
"Vero"
– rispose la piccola, saltando giù dalle gambe
della madre e
correndo verso Garrick e Jeremy.
Caroline
guardò i due bambini giocare contenti, insieme. Poi,
tornando più
seria, si voltò verso Demelza. "Posso chiederti quando glie
lo
dirai di lei, a Ross?".
Stupita
da quel cambio di tono repentino, Demelza si oscurò. "Cosa
c'entra Ross, adesso?".
L'amica
alzò le spalle. "Così... Presto sarò
una donna sposata,
magari avrò figli e mi chiedevo come riuscissi a gestire una
situazione tanto complicata. Con Ross a condividere le
responsabilità, avresti meno preoccupazioni, saresti
più tranquilla
e a posto con la tua coscienza".
"Io,
con la mia coscienza, sono assolutamente a posto".
"Demelza,
Clowance è sua figlia e per quanti errori lui abbia
commesso, credo
che abbia il diritto di sapere che lei esiste. E di vedere anche
Jeremy".
Lo
sguardo di Demelza si perse dietro ai figli, con un velo di tristezza
sul volto. "Non gli è mai importato di noi e ormai abbiamo
vite
separate. Non voleva Jeremy e di certo non vorrebbe Clowance.
Sarebbero un peso per lui, come lo sono stata io".
"Questo
non puoi deciderlo tu, a prescindere. Che ne sai?". Indicò i
due bambini che, contenti, giocavano col loro cane. "Sono
meravigliosi, li adorano tutti quanti e Ross si scioglierebbe, se li
vedesse. Guardali! Jeremy è un ometto, non ha nemmeno cinque
anni e
già vuole imparare a leggere, sarebbe l'orgoglio di ogni
padre. E
Clowance è un amore di bambina, di una bellezza rara e di
una
cocciutaggine e simpatia uniche. Io credo che li amerebbe da morire,
se avesse l'opportunità di incontrarli".
Demelza
scosse la testa. "Succederebbe come dici tu, li adorerebbe se
fosse stata Elizabeth a metterli al mondo. Ma la loro madre sono...
solo...
io... E non
era con me che voleva costruire una famiglia, lui la voleva con
Elizabeth. Io e i bambini siamo stati solo un diversivo per lui,
finché c'era Francis. Dopo la sua morte e con Elizabeth
finalmente
libera, noi a Ross non servivamo più. Era a lei che pensava,
ai suoi
bisogni, era lei che voleva".
"Ha
commesso molti errori ma magari li ha capiti ed è pentito di
quello
che ha fatto. Demelza, pure io farei fatica a perdonare un tradimento
ma è stata una sola notte e magari...".
Demelza
si voltò verso di lei, con aria afflitta. "Non è
stata solo
una notte... Sono state tante notti, tanti giorni in cui per lui non
esistavamo, in cui desiderava solo che scomparissimo per lasciarlo
libero di vivere con chi voleva, come desiderava. Il tradimento di
una notte potevo anche perdonarglielo ma mi feriva di più
pensare
che oltre a me, giorno dopo giorno, tradisse anche Jeremy. Non
contava nulla per lui. Eravamo senza soldi, non sapevamo quasi cosa
mettere sulla tavola per mangiare e lui correva da Elizabeth a
giocare con lei e suo figlio alla famiglia felice, incurante del
fatto che potessimo avere bisogno di lui e che ci stesse facendo
soffrire. Ha venduto, senza dirmelo, le sue quote delle Wheal
Leisure, ne ha ricavato 600 ghinee che ha regalato ad Elizabeth
perché stesse bene, incurante del fatto che suo figlio non
avesse di
che mangiare. E l'ho scoperto per caso, molti mesi dopo,
perché un
conoscente me lo ha riferito. Lui non si era nemmeno degnato di
dirmelo...".
Caroline
abbassò lo sguardo, a corto di parole. "Mi dispiace, non lo
sapevo".
"Quindi"
– proseguì Demelza – "non sto a sperare
in qualcosa che non
succederà mai, non rischio la serenità dei miei
figli andando a
cercare qualcuno che so già che non avrebbe né
cura né amore per
noi. E' inutile che io contatti Ross per dirgli dei bambini
perché
le risposte che potrebbe darmi, io le conosco già. I miei
figli ora
sono sereni, circondati dall'amore di tante persone che per loro sono
una famiglia. E mi va bene così".
"Ma...
non dirai mai nulla a Jeremy e Clowance, di lui? Non hanno diritto di
sapere?".
"Quando
saranno adulti, se lo vorranno, glie ne parlerò. E saranno
liberi di
prendere le decisioni che riterranno più opportune. Ma ora
sono
piccoli, hanno solo me ed è mio il compito di proteggerli e
difenderli da un padre che finirebbe solo per deluderli e farli
soffrire. Io sono adulta, posso sopportare di non contare nulla per
lui, ma loro no. Non sarebbe giusto".
Caroline
abbassò lo sguardo. "E se fosse cambiato? Se avesse capito i
suoi errori? Se ti amasse?".
Demelza
scosse la testa. "E' troppo tardi, ormai".
"Sai
che sei testarda?" - sbottò l'ereditiera.
"Sei
la terza persona che me lo dice, oggi".
Caroline
sbuffò. "Bene, riflettici su questa cosa!".
"Non
sono testarda, sono realista".
"Dimmi
una cosa, non lo ami più?".
"Amo
i miei figli".
"Non
hai risposto alla mia domanda" – insistette Caroline.
Demelza
si dondolò sull'altalena, fissando il vuoto. "Quando penso a
lui, mi sento vuota, inutile, imperfetta, come mi ha fatta sentire
per anni. Non so cosa provo, forse semplicemente odio verso me stessa
perché non riesco a lasciarmelo del tutto dietro le spalle.
Ed è la
cosa più stupida da fare perché lui per me non ha
mai avuto un
briciolo di considerazione o amore, ma non posso farne a meno. Come
ti ho detto, ero solo una consolazione, una che gli scaldava il letto
e gli teneva pulita la casa, finché ne ha avuto bisogno".
Caroline
si alzò dall'altalena, avvicinandosi e abbracciandola. "Non
dire così, tu sei stupenda e Ross avrebbe dovuto baciare il
terreno
dove camminavi".
"Non
pretendevo così tanto,volevo solo che mi amasse. Ma non
è andata
così ed ora è troppo tardi".
Caroline
scosse la testa. "Non volevo intristirti, scusa. Forse dovrei
andare a casa e lasciarti alla compagnia dei bimbi".
"Mi
terrai Clowance, allora?".
"Me
la presti per gli anelli?".
"Certo"
– rispose Demelza, finalmente con un sorriso.
Caroline
annuì, scompigliandole scherzosamente i capelli. "E allora
sarò
la tua bambinaia per tutta l'estate".
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Capitolo 18 *** Capitolo diciotto ***
Era
tornato a Londra, come promesso mesi prima, per saldare il suo
debito. Non aveva annunciato il suo arrivo ma sapeva da Dwight che
Caroline si trovava in città per cominciare a pensare a come
organizzare il loro matrimonio e quindi sapeva per certo che
l'avrebbe trovata. Gli pareva così strano pensare che certe
persone
avessero bisogno di quasi un anno per prepararsi a una cerimonia a
cui, a lui e Demelza, erano serviti solo due giorni, quando si erano
sposati. Ma forse era diverso, lui e sua moglie non si erano
corteggiati, sposarla era stato un qualcosa di irrazionale ed
istintivo, dettato dalla necessità di non farla vivere nello
scandalo, dopo quanto successo fra loro. Nessuno dei due, quel
giorno, pretendeva chissà che dall'altro e solo in seguito,
piano
piano, il loro rapporto era diventato così forte e
indissolubile,
d'amore e passione. Sembravano passati secoli da allora e in un certo
senso era così... Era cambiato tutto, aveva perso tutto e si
sentiva
come invecchiato di colpo di vent'anni, ogni volta che pensava a lei.
Il
maggiordomo lo accompagnò nella consueta saletta dove
Caroline usava
riceverlo.
Ross
si sedette sulla sedia, godendosi la calda brezza estiva che arrivava
dalla finestra aperta che dava sul giardino. Era un'estate splendida
e con un clima meraviglioso, quella. Anche Londra, di solito grigia e
nebbiosa, sembrava aver preso colore e vita, in quei mesi.
Caroline
giunse all'improvviso, vestita di un sobrio abito rosa. Stranamente i
capelli erano lasciati liberi, senza boccoli o fronzoli ad ornarli,
ed era evidente che non aspettasse visite per quella giornata.
"Capitano Poldark, mi riuscite sempre a cogliere di sorpresa"
– commentò, stranamente nervosa.
"Vi
disturbo? Sono solo passato per saldare il mio debito e poi
andrò
via subito, vorrei essere a casa quanto prima possibile".
Caroline
si sedette sulla sedia, sventolando il ventaglio. "Nessun
disturbo, siete il mio salvatore, dopo tutto. Non avete debiti con
me, per quanto mi riguarda, mi avete aiutata a ritrovare il mio uomo
e l'amore e dovrei essere io a essere in debito nei vostri
confronti".
Ross
sorrise, mettendo sul tavolo i documenti relativi al prestito.
"Finanziariamente, sono io il debitore. Ma da oggi, salderemo
ogni cosa e ci dedicheremo solo al vostro matrimonio".
"Dwight
vi vuole come suo testimone, lo sapete?".
Ross
annuì. "Sì, me lo ha chiesto".
Caroline,
firmando i documenti che Ross gli aveva posto, lo guardò di
sottecchi. "Preparatevi, sarà una giornata interessante e
particolare".
Ross
scoppiò a ridere. "Sì, immagino. Li conosco gli
sfarzi dei
vostri matrimoni da ricconi".
Caroline
gli strizzò l'occhio. "Niente di troppo sfarzoso, Dwight
sarebbe in imbarazzo. Sarà una cosa elegante ma sobria".
Piegò
i documenti e poi sospirò, appoggiando il mento alla mano.
"Non
vedo l'ora".
"Lo
immagino".
Improvvisamente
la porta si aprì quasi con violenza e davanti a loro
comparve una
bimbetta di circa un anno e mezzo-due, dai boccoli rossi, che corse
nella stanza lanciandosi verso Horace che, tranquillo, stava dormendo
davanti al camino spento.
Ross
osservò la piccoletta e poi Caroline, sorpeso. "E questa da
dove spunta?" - disse, indicando la piccola che, incurante di
loro, cercava di svegliare il cane.
Caroline
osservò la bambina e poi lui, passando lo sguardo fra loro
più e
più volte. "Lei è Clowance, la figlia di una cara
amica. La
mia migliore amica, a dire il vero. Me la lascia ogni tanto e ne
approfitto per insegnarle a portare gli anelli, sarà la mia
piccola
damigella alla cerimonia e porterà le fedi a me e a Dwight".
Ross
spalancò gli occhi. "Quella bambina? Siete sicura? Mi sembra
così piccola".
Caroline
sorrise. "E' sveglia e avrà tempo di crescere, prima che
arrivi
il giorno del matrimonio. E poi, non la trovate carinissima? Pensate
che amore che sarà, con il suo vestitino da damigella".
Ross
osservò la bimbetta. Era molto graziosa in effetti, con quei
boccoli
lucenti e morbidi, quel visino vispo e furbo, quegli occhi
azzurro-verdi e quelle guance rosse e piene. Indossava un abitino
azzurro di pizzo e fra i capelli aveva un nastrino del medesimo
colore mentre ai piedi aveva delle eleganti scarpine di vernice che
la rendevano simile a una bambolina. Doveva appartenere all'alta
aristocrazia londinese, di certo non era figlia di popolani,
pensò...
"Carina, molto. Ma secondo me troppo piccola per portare gli
anelli, si distrarrà".
Caroline
si voltò verso la bimba. "Clowance, vero che sarai capace di
essere la mia damigella?".
La
bimba si voltò verso di lei, imbronciata e arrabbiata per
essere
stata distratta dai suoi giochi. "Sì" – rispose,
di
malavoglia.
A
Ross venne da ridere. Doveva avere un gran bel caratterino, quella
piccoletta, Caroline si sarebbe pentita presto di averla scelta come
damigella. "Beh, istruitela bene" – disse, alzandosi.
"Ve
ne andate già?" - chiese Caroline, sorpresa.
"Beh,
ho fatto quel che dovevo e non vorrei disturbare oltre. Avete da
fare, a quanto vedo" – disse, indicando la bimba.
L'ereditierà
rimase in silenzio alcuni istanti, pensierosa. Poi si alzò
dalla
sedia. "Vi fermereste due minuti in più? Ho bisogno di un
favore".
"Quale
favore?".
"La
bimba... Devo assentarmi un attimo perché attendo il mio
banchiere
che dovrebbe arrivare a momenti per farmi firmare dei documenti.
Questione di pochi minuti, potete dare un occhio a Clowance mentre
vado a riceverlo?".
Ross
spalancò gli occhi, guardandola come se fosse stata pazza.
"Io?
Ma non la conosco, non ho idea di...".
"E'
una bimba, mica morde".
"Ma
se piange? Se vi cercasse...? Se... Se...".
Caroline
sbuffò. "Perché dovrebbe piangere? Non vorrete
mica trattarla
male, no?".
Ross
arrossì. "Certo che no, ma...".
La
donna scosse la testa, quasi esasperata. "Capitano Poldark,
siete sopravvissuto a un anno sui campi di battaglia e dubito che una
bambinetta vi ucciderà. Gioca col cane, nemmeno vi guarda.
State
seduto, datele un occhio e io sarò subito da voi".
"Ma
non avete domestiche che possano farlo?" - chiese lui,
esasperato.
"No,
hanno il pomeriggio libero, oggi". Si avviò verso la porta,
senza attendere la sua risposta. "A dopo e grazie" –
disse, col più amabile dei sorrisi. "E tu Clowance, fai la
brava".
"Brava..."
- ripeté la bimba, continuando a tormentare il povero Horace.
Ross,
deglutendo, osservò sgomento la porta che si chiudeva. E
adesso?
Santo cielo, lui insieme a una bimbetta da curare, da solo!
Guardò
la piccola, sperando non smettesse di giocare col cane e pregando al
contempo che quell'irresponsabile di Caroline tornasse presto.
La
bimba, nonostante tutto, pareva non far caso a lui, intenta a giocare
col povero Horace che, in silenzio e non troppo felice, subiva la sua
irruenza infantile.
Si
chiese come era stato possibile. Era venuto a Londra per saldare un
vecchio debito e parlare d'affari e si era trovato, senza quasi
accorgersene, a fare da bambinaio a una scalmanata bimbetta dai
capelli rossi. La osservò, senza muoversi, dalla sedia su
cui era
seduto. Stava tormentanto quel povero cane, tirandogli coda e
orecchie, e il povero animale iniziava a dare segni di insofferenza
con delle sommesse ringhiate. Fu però quando la vide
allontanarsi,
prendere la rincorsa e lanciarsi sul cane, che decise di intervenire
prima che l'animale la mordesse. "Hei, no" – disse,
prendendola al volo e sollevandola di peso da terra. Non aveva voglia
di sentirla strillare per un morso di cane che, fra l'altro, si
sarebbe pure meritata.
La
bimba si voltò verso di lui con un'espressione piccata ed
imbronciata, guardandolo con l'eloquente espressione di chi si sta
chiedendo cosa voglia da lei lo sconosciuto che ha davanti.
Rimase
stordito da quel viso, non se n'era accorto fino a quel momento,
finché l'aveva guardata da lontano. Aveva quei capelli rossi
e mossi
così simili a quelli di Demelza e anche quell'espressione
corrucciata le ricordava tanto sua moglie. Probabilmente era un segno
distintivo delle rosse di capelli, pensò.
La
bimba fece per dimenarsi e Ross maledì Caroline che non si
sbrigava
a tornare. "Agitati quanto vuoi ma non ti lascerò tormentare
ancora quel povero cane" – le disse, serio.
Clowance
fece per strillare ma, incurante, la portò al tavolo,
sedendosi
sulla sedia e mettendosela sulle ginocchia. La piccola faceva
resistenza, dimenandosi e dimostrando un caratterino già
notevole,
per la sua età. Guardò il tavolo, cercando
un'idea per tenerla
impegnata nell'attesa che Caroline tornasse . Alla fine la sua
attenzione cadde su una pila di fogli e gli venne in mente che,
quando era piccolo, suo padre gli aveva insegnato a fare forme di
draghi ed animali piegando la carta. "Sai, io so fare i draghi!
Vuoi vedere?".
La
bimba si voltò verso di lui, apparentemente incuriosita e
più
tranquilla. "Si".
Prese
un foglio in mano, lo piegò e ripiegò
finché davvero, non ne uscì
la forma di un drago. "Visto?".
"Bello!".
La bimba spalancò gli occhi stupita, sfiorando la sua
creazione. Poi
sorrise, finalmente contenta. E anche in questo le parve tanto simile
a Demelza, che gli si contorse lo stomaco. Era identica... Quasi
senza accorgersene, mentre la piccola gli prendeva il drago dalle
mani, le accarezzò quei lucenti boccoli rossi, morbidi come
seta.
"Sai, tu somigli tanto alla mia Demelza" – le
sussurrò.
Clowance,
a quelle parole, alzò lo sguardo su di lui. "Mamma"
–
eclamò.
Ross
tornò a guardarla e sorrise. Doveva essere una bambina molto
amata e
curata, si vedeva da quanto fosse serena, ben vestita con abiti
eleganti e di pregio e dai suoi capelli, tenuti a bada da quel
grazioso nastrino che sua madre, probabilmente, le aveva sistemato
con cura. "Vuoi la mamma? Ah, sta serena, arriverà presto,
credo. O almeno, te lo auguro, altrimenti dovrai sorbirti
quell'irresponsabile di Caroline fino a stasera".
Clowance
lo fissò ancora per alcuni istanti e poi, dopo un'alzata di
spalle,
si sporse verso il tavolo, prendendo gli altri fogli. "Ancora!"
- disse, mettendoglieli in mano e facendogli capire che voleva altri
draghi.
E
suo malgrado dovette ubbidire, davanti al tono perentorio che la
bambina aveva usato. "Tu sei abituata ad avere tutto quello che
vuoi, è?".
"Si".
Gli
venne da sorridere, era piuttosto buffa e sicuramente simpatica nelle
sue espressioni e nei modi di fare. Un po' gli spiaceva che
appartenesse all'aristocrazia, un mondo che, crescendo, avrebbe
finito per rovinarla.
Piegò
altri fogli, perdendo la cognizione del tempo, mentre Clowance, sulle
sue ginocchia, sembrava catturata dai movimenti delle sue mani e
stava ferma e in silenzio ad aspettare che finisse il suo lavoro.
Quando ebbe fatto dieci draghi, decise che forse erano abbastanza.
"Basta?".
"No".
"Ma
guarda, abbiamo una famiglia di draghi, adesso. Ci sono il
papà
drago, la mamma drago e i figli drago... Devi scegliergli dei nomi,
non possiamo farne altri"... Dove diavolo si era cacciata
Caroline???
Clowance
si imbronciò, saltò giù dalle sue
gambe, si mise le mani sui
fianchi e poi batté il piedino per terra. "No, ancora!".
Ross
la guardò, un po' divertito, un po' in
difficoltà. Era dannatamente
cocciuta! "Sai che sei davvero testarda? Però ti dico un
segreto, fai bene! Bisogna sempre affermare le proprie idee e non
farsi schiacchiare da quelle degli altri...". Le accarezzò
la
guancia. "Solo, potresti farmi un favore? Questa tua
affermazione della tua personalità, potresti farla con
qualcun altro
e non con me? Non sono troppo abituato ad avere a che fare con dei
bambini". Già, suo malgrado era così. Julia era
morta prima
che fosse abbastanza grande per costruire un rapporto vero e proprio
con lei e Jeremy... beh, per suo figlio lui non c'era mai stato e si
era perso mille cose di cui ora, che era troppo tardi, si pentiva.
Prese un drago fra le mani, guardandolo e mettendoglielo davanti agli
occhi. "Sai che fanno? Volano?".
"Oh".
Clowance ne prese uno da terra, lo guardò e poi, con uno
scatto che
lo colse di sorpresa, si lanciò di corsa verso la finestra
aperta.
"Nooo".
Ross balzò in piedi, prevedendo le mosse della piccola,
prendendola
al volo prima che, eventualmente, si lanciasse giù dalla
finestra
cercando di volare col suo drago. La prese in braccio, col cuore che
gli balzava nel petto. Aveva perso forse dieci anni di vita, in
quegli ultimi secondi. "Non farlo mai più".
Davanti
al suo tono di voce brusco, la bimba spalancò gli occhi che
poi,
dopo pochi istanti, divennero lucidi.
"No...
Non piangere". Santo cielo, Caroline quando tornava?
Clowance
si stropicciò gli occhi con le manine, frignando. "Vola,
vola..." - ripeté.
Ross
sbuffò, rimettendola a terra. La prese per mano,
accompagnandola
verso il tavolo, ma la bimba fece resistenza. "Noooo, non
vollo...".
"Non
vuoi?".
"No".
Alzando
gli occhi al cielo, cercando un modo per tenerla lontana dalla
finestra, gli venne in mente una storiella che poteva tenerla
occupata. "Sai, non puoi farli volare, sono troppo piccoli
questi draghi, non sanno farlo. Ma sanno sputare fuoco e fare le
battaglie, vuoi vedere?".
Non
troppo convinta, Clowance annuì. "Sì". Lo prese
per mano
e lo tirò fino al camino, facendogli segno di sedersi per
terra
accanto a lei. "Vollo vedere".
Ross
si sedette sul pavimento, sentendosi davvero ridicolo. Se i suoi
minatori l'avessero visto, gli avrebbero riso dietro per anni.
"Prenderemo tutti e dieci i draghi, adesso, poi faremo due
schieramenti da cinque e faremo una guerra fra loro. Ti intendi di
strategie militari?".
Clowance
lo guardò storto, malissimo, grattandosi la guancia,
pensierosa. E
si accorse di essere davvero ridicolo, davanti a quella reazione! Che
diavolo stava facendo, stava raccontando di guerra e strategie
belliche a una bambina di nemmeno due anni? Sospirò,
arrendendosi al
fatto che era davvero goffo... "Lascia stare, facciamo altro, ti
va?".
Clowance
ci pensò un po' su e poi si portò le mani alla
testa, sciogliendo
il nastrino che le teneva in ordine i capelli. "Toh" –
gli disse, mettendoglielo in mano.
A
quel gesto, Ross sorrise. "Ti ringrazio, sei gentile. Ma credo
stia meglio a te".
"No,
non vollo. Tuo!".
"La
tua mamma non si arrabbierà se non te lo vede addosso,
stasera?".
"Sì".
Scoppiò
a ridere, era davvero fenomenale discutere con lei. "E non ti
importa?".
"No".
Pensò
che era davvero fantastica, benché all'inizio non l'avesse
entusiasmato l'idea di prendersene cura. Stranamente stava bene, la
spontaneità di quella bambina lo divertiva e lo faceva
sentire
sereno come non gli capitava da anni. Le accarezzò la
testolina,
piegando il nastrino e mettendoselo in tasca. Lei glielo stava
regalando e forse stare al gioco le avrebbe fatto piacere. Lo avrebbe
restituito più tardi, senza farsi vedere, a Caroline, nel
caso si
fosse decisa a tornare.
Clowance
gli saltò in braccio, ridendo. "Draghi".
Ross
sospirò. "Draghi". Si alzò in piedi, prendendola
in
braccio e tornando con lei al tavolo. Prese altri fogli e
iniziò a
piegarli, costruendo altri draghi di carta. La bimba lo osservava
rapita, canticchiando una canzoncina che gli pareva davvero
incomprensibile, piena di parole ancora sgrammaticate, vista
l'età.
Anche in questo gli ricordava Demelza e stare con lei gli
sembrò
talmente piacevole che il tempo parve dilatarsi piacevolmente, in sua
compagnia, tanto che, quando diversi minuti dopo la porta si
aprì e
ricomparve Caroline, provò uno strano dispiacere. La donna
entrò,
seguita da un uomo un po' in la con gli anni.
"Capitano
Poldark, siete sopravvissuto!".
Ross
sorrise. "Dove diavolo siete stata? Non dovevano essere due
minuti?".
"Le
cose si sono dilungate". Si avvicinò a loro, strizzando un
occhio a Clowance. "Guarda chi è venuto a prenderti?".
La
bimba osservò l'uomo e poi le si illuminò il viso
in uno splendido
sorriso. "Nonno Martin!" - esclamò, correndo incontro
all'uomo che, evidentemente abituato, la prese al volo fra le
braccia.
Ross
sentì una strana fitta al cuore, quando la piccola si
allontanò da
lui. Non ne capì il motivo, non era che una bimbetta come
tante,
eppure l'idea di separarsene lo intristiva. Ma nonostante tutto era
giusto così, era arrivato suo nonno e lei si era dimenticata
subito
di lui e dei draghi, attirata dal calore della sua famiglia.
"Clowance!"
- esclamò l'uomo, baciandola sulla guancia. Poi si rivolse a
lui,
chinando il capo. "Vi ringrazio per esservene preso cura".
"Di
nulla".
Caroline
diede un bacio alla bimba. "E ora, dove vai?".
Nonno
Martin la mise a terra, prendendola per mano. "Prima di andare a
casa, andiamo a comprare le carote e poi andiamo al parco a dare da
mangiare ai pony, vero?".
Clowance
annuì. "Vero!".
L'uomo
sorrise alla piccola. "Saluta Clowance! E ringrazia quel signore
per aver giocato con te".
Clowance
si voltò verso di lui poi, staccando la sua mano da quella
del
nonno, gli corse incontro, gli saltò fra le braccia e gli
diede un
bacio sulla guancia. "Glassie signore" – sussurrò.
Poi
si rialzò in piedi e, dopo un goffo tentativo di inchino,
corse da
suo nonno, lo riprese per mano e scomparve con lui dietro la porta.
Caroline
li osservò uscire e poi, finalmente, tornò a
rivolgergli le sue
attenzioni. "Carina, vero?".
Ancora
stordito da quel bacio, Ross annuì. "Molto! E con un gran
bel
caratterino". Era strano, Clowance era riuscita a scalfire, per
un breve attimo, il ghiaccio che si sentiva addosso dal giorno in cui
aveva perso la sua famiglia. Forse era il candore infantile, la sua
allegria, la sua testardaggine o quanto fosse buffa nei modi di fare
ma, qualunque cosa fosse, lo aveva fatto star bene. Era da tanto che
qualcuno non gli rivolgeva un gesto di affetto spontaneo e sincero
come quel bacio e attraverso Clowance, ancora di più, si
rese conto
di quanto aveva perso. Anche lui aveva un figlio, altrettanto
simpatico e bello, che avrebbe potuto donargli le stesse emozioni di
Clowance, se lui fosse stato meno idiota e superficiale e se non
avesse fatto tanto male alla donna che amava, fino a spingerla ad
andarsene per sempre.
"Somiglia
a sua madre" – disse Caroline, vaga.
A
quelle parole si trovò a pensare, stupidamente, a quanto
fosse
fortunato l'uomo che aveva accanto una donna e una figlia
così
belle, riflettendo sul fatto che probabilmente quell'uomo non sarebbe
mai stato idiota quanto lui e non avrebbe mai permesso a niente e a
nessuno di rovinare la sua famiglia. "Bene, se non ci sono altri
bambini da curare, io me ne andrei. E' ormai tardi".
Caroline
ridacchiò. "No, i bambini sono finiti, per oggi! Ci vediamo
settimana prossima, torno in Cornovaglia per passare alcuni giorni
con Dwight".
Ross
si rimise il cappello in testa. "E allora, a presto".
"A
presto".
Uscì
dalla casa di Caroline e si rimise subito sulla carrozza. Due ore
dopo era già in piena campagna inglese, circondato dal
silenzio dei
pascoli.
Si
mise una mano in tasca per cercare un fazzoletto, quando si accorse
che aveva ancora con se il nastrino di Clowance. "Accidenti, mi
sono dimenticato di darlo a Caroline!".
Lo
prese fra le mani, accarezzandolo, mentre il visino della bimba gli
tornava in mente. Sorrise, ricordandola, realizzando che l'avrebbe
rivista al matrimonio, visto che Dwight lo voleva come testimone.
Chissà se si sarebbe ricordata di lui?
Il
pensiero di Clowance, lo riportò ai suoi figli. Avrebbe
pagato oro
per riavere Jeremy, per essere un padre migliore per lui. Quando lo
aveva visto l'ultima volta, aveva pressapoco l'età di
Clowance e ora
probabilmente nemmeno si ricordava più il suo volto...
E
infine pensò a Julia, la sua piccola, stupenda Julia.
L'aveva amata
più della sua stessa vita, la sua morte lo aveva annientato
e forse
non l'avrebbe mai davvero superata del tutto. Era la paura di
affezionarsi e di soffrire ancora che l'aveva allontanato da Jeremy e
da Demelza, pian piano, era quel mondo perfetto e creduto
indistruttibile e rivelatosi poi fragile che l'aveva fatto impazzire
e lo aveva spinto a cercare nuovamente un amore idealizzato, perfetto
e senza sbavature e problemi, senza rendersi conto che la perfezione
era dovuta solo al fatto che era una fantasia. Il vero amore, quello
reale, era quello con Demelza, quello che affrontava gioie e dolori,
le tempeste della vita vera, trovando in sua moglie un porto sicuro,
un rifugio dove rintanarsi e trovare affetto e sostegno quando tutto
attorno a lui crollava. Aveva perso tutto, la gioia di amare, di
essere uomo, marito e padre a causa di un sogno infantile, a causa
della sua arroganza e di tutti gli errori fatti. Strinse a se il
nastrino di Clowance, alzando gli occhi al soffitto della carrozza,
cercando di scorgere il cielo oltre ad esso. "Julia, ti ho
delusa, vero? Ho trattato male la mamma e tuo fratello e ora se ne
sono andati... Sai, oggi ho conosciuto una bimba che mi ricordava
tanto te... Era da tanto che non stavo con una bambina, da quando
c'eri tu... Mi manchi, mi manca la mamma e mi manca tuo fratello,
vorrei poter tornare indietro, darei via tutto quello che ho per
riavervi. Ma non posso, non si puo'. Perdonami per non essere
riuscito a salvarti e non essere stato capace di evitare alla tua
mamma tanto dolore".
Abbassò
lo sguardo, rilasciando la presa sul nastrino che si
appoggiò contro
la sua gamba. E decise. Sapeva che Demelza, prima di partire, aveva
chiesto a Prudie di prendersi cura della tomba di Julia. Beh, da quel
giorno lo avrebbe fatto lui, era suo padre dopo tutto e prendersi
cura di quella tomba era l'unica cosa che, ormai, potesse fare per
ciò che rimaneva della sua famiglia. Erano anni che non
andava al
cimitero, vedere la tomba di sua figlia lo annientava ancora ma se
era davvero un uomo, se voleva ancora sentirsi un padre degno di
questo nome, doveva sforzarsi e farlo.
Il
ricordo di Julia era tutto quello che gli rimaneva...
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Capitolo 19 *** Capitolo diciannove ***
"Ti
propongo un patto, Dwight!".
"Quale
patto?".
Caroline
si strinse nel suo mantello di lana, mentre il freddo vento autunnale
della Cornovaglia le spettinava i lunghi capelli biondi. "In
estate si vive quì, ma in inverno si torna a Londra. Questa
regione
ha un clima e un vento impossibili da sopportare".
Dwight
scoppiò a ridere, cingendole le spalle e attirandola a se.
"Ah,
quando ci si abitua, questo vento non è poi così
male. La
Cornovaglia ha un clima splendido e un'aria tersa e pulita. Londra
è
nebbiosa ed umida, invece".
"Ma
non c'è tutto questo vento. E pure Londra ha avuto un clima
splendido, questa estate. Una vera favola, né troppo caldo,
né
troppo freddo. E quasi quattro mesi senza la minima traccia di
nebbia".
"Aspetta
a parlare, ora siamo in autunno e a breve non vedrete a un palmo dal
naso, nella capitale!".
Caroline
sbuffò, lasciandosi prendere per mano. Stavano facendo una
passeggiata sulla scogliera, discutendo del più e del meno
mentre si
gustavano il paesaggio che, doveva ammetterlo, era davvero
suggestivo.
Era
una giornata serena, tersa e piuttosto fredda e pareva che l'inverno
fosse deciso ad accelerare i tempi e a presentarsi prima del
previsto, in Cornovaglia. Era arrivata due settimane prima per
passare un po' di tempo con Dwight e la temperatura era scesa
irrimediabilmente, giorno dopo giorno, tanto che era stata costretta
a comparsi abiti invernali per non congelare.
"Passiamo
alla miniera, a salutare Ross? Siamo a due passi dalla Wheal Grace"
– propose Dwight.
Caroline
annuì. "Ci offriranno qualcosa di caldo da bere?".
"Alla
miniera? Dubito!" - rispose lui, ridendo. La strinse a se e
proseguirono per il sentiero che portava alla Wheal Grace, sferzati
dal vento.
Caroline
osservò quel via vai di uomini sporchi di fango e polvere
che
andavano e venivano dalle grotte, chiedendosi come fosse possibile
vivere un'intera esistenza così. Non ci era abituata e
dubitava che
avrebbe mai potuto riuscirci. Attraverso Dwight aveva scoperto un
mondo vicino e allo stesso tempo lontano dal suo, sfarzoso e comodo,
composto da tante persone senza certezze, senza denaro, che si
spaccavano la schiena per paghe misere. All'inizio aveva guardato
quasi sprezzante quelle persone ma, giorno dopo giorno, grazie
all'amore del suo uomo che si prodigava per loro, aveva scoperto
esseri umani con tanti sogni, come tutti, aspirazioni e tanta voglia
di lavorare sodo per amore della loro famiglia. Li rispettava, ora.
Non ne capiva la fatica e la condizione umana fino in fondo ma in un
certo senso quelle persone erano entrate a far parte di lei e della
vita che avrebbe vissuto dopo il matrimonio con Dwight.
In
lontananza scorse Ross che, in maniche di camicia, aiutava a portar
fuori dalla miniera un carrello pieno di rocce. "Santo cielo,
congelerà!" - esclamò, stringendosi ancora di
più nel suo
mantello.
Dwight
scosse la testa, mascherando un sorriso. "Starà bene, ci
è
abituato. Scommetterei che ha addirittura caldo, a furia di correre
come una trottola".
"Io
non capisco perché lo fa! Insomma, ci sono i suoi operai che
lavorano, lui potrebbe starsene a casa al caldo a contare i profitti,
senza muovere un muscolo. Ora la miniera va che è una
meraviglia,
chi glielo fa fare di stare quì a spaccarsi la schiena, al
freddo?
Non ha bisogno di lavorare". Non lo capiva, era come Demelza
che, come lui, continuava a lavorare alla locanda benché
fosse ricca
e potesse benissimo farne a meno e stare a casa a fare la signora.
Erano davvero tanto simili, quei due...
Dwight
la osservò, con una serietà che raramente gli
aveva visto vestire.
"Lo fa per non pensare. Rimanere a casa sua è un tormento
per
lui... Ti sarai accorta, o forse te lo ha raccontato, che le cose per
lui, in famiglia, non sono propriamente idilliache".
Caroline
abbassò lo sguardo. Ahia, il discorso si stava dirigendo su
un
terreno minato. E ora? Si sentiva in colpa, stava mentendo a Ross, a
Demelza e soprattutto a Dwight e questa era la cosa che le pesava di
più, ma si sentiva in un vicolo cieco e prima o poi avrebbe
dovuto
affrontare quel problema in cui si era ritrovata, suo malgrado. "Non
mi ha detto niente ma è abbastanza palese. Sua moglie non
vive più
quì".
"Se
n'è andata due anni e mezzo fa, insieme al figlio. Da
allora, lui
non ne sa più nulla".
Caroline
osservò Ross che, dopo averli visti in lontananza, si stava
avvicinando. "Erano innamorati, peccato... Ma lui, te lo avevo
detto, dava troppe cose per scontate e sembrava non la vedesse
nemmeno".
"Già".
Dwight le strinse la mano, facendole capire di stare in silenzio,
appena in tempo prima che Ross li raggiungesse.
"Dwight,
miss Penvenen, che piacere. Sto cominciando a pensare che voi,
signorina, cominciate ad apprezzare il nostro clima" – disse
Ross, ridendo.
Caroline
lo fulminò con lo sguardo. "Preferirei una seduta dal
medico,
coperta di sanguisughe, al vostro dannato vento".
Ross
e Dwight si guardarono negli occhi, ridendo.
"Sei
sicuro di volerla sposare?".
"Ah,
sì. L'adoro, anche quando borbotta".
Ross
le strizzò l'occhio. "Allora è vero amore! Bravi".
Caroline
sbuffò. "Invece di fare lo spiritoso, mi raccomando,
preparatevi a dovere per il vostro ruolo di testimone".
"E
a cosa dovrei prepararmi? Devo solo fare una firma e vi assicuro che
so scrivere. Quella che potrebbe avere problemi siete voi, con la
vostra mini-damigella".
Caroline
sorrise. Ross si ricordava ancora di Clowance, benché
fossero
passati più di due mesi dal loro incontro. "La mia piccola
damigella sarà istruita a dovere e sarà
bravissima".
Ross
la guardò di rimando, con aria di sfida. "La vostra
mini-damigella ha una notevole testa dura, un linguaggio ancora
limitato ma sa dire benissimo la parola 'no'. E se quel giorno si
sveglierà col piede sbagliato e deciderà di non
fare nulla, dubito
troverete argomentazioni che le faranno cambiare idea".
Dwight,
che non ci stava capendo nulla, la fissò un po' smarrito.
"Abbiamo
una damigella?".
"Sì,
la figlia di una amica, ci porterà gli anelli. Vedrai,
è un amore,
una meraviglia di bambina".
"Di
un anno e mezzo. L'ho conosciuta questa estate, quando sono stato a
Londra per saldare il mio debito con la tua cara fidanzata" –
precisò Ross.
Dwight
spalancò gli occhi. "Avremo una damigella di un anno e
mezzo?".
"Ne
compirà due a novembre, fra poco più di un mese.
E per il nostro
matrimonio ne avrà quasi due e mezzo. Sta tranquillo,
sarà
perfetta".
Dwight
sospirò. "Santo cielo...".
Caroline
guardò i due, ridacchiando. Odiava mentire ma ancor
più odiava che
qualcuno contrastasse le sue idee e la ritenesse una sprovveduta.
"Non commetterei mai un azzardo per il mio matrimonio, che
credete? Ho il mio asso nella manica, nel caso Clowance faccia i
capricci!".
"Che
sarebbe?" - chiese Ross, scettico.
"Il
suo fratellino".
Ross
e Dwight spalancarono gli occhi. "Vuoi far fare a un maschio la
damigella?".
"No!".
Santo cielo, quei due erano esasperanti. "Voglio dire che
Clowance ha una venerazione per suo fratello e fa tutto quello che
lui gli chiede. Lei lo adora e lo segue ovunque, se quel giorno si
mette male, mettiamo lui lì a convincerla".
Ross
sospirò, tornando a volgersi verso la miniera. "State
affidando
le sorti del vostro matrimonio a due bambini. Auguri". Diede una
pacca sulle spalle a Dwight, salutò Caroline e si
allontanò con
un'aria davvero divertita. "Ho molto da fare, ci vediamo presto"
– disse, tornando al suo lavoro.
Dwight
lo osservò andare via, pensieroso. "Era da tanto che non lo
vedevo così di buon umore".
Caroline
si morse il labbro, decisa ad indagare circa i sentimenti del bel
capitano Poldark verso Demelza. E se c'era qualcuno che poteva fugare
i suoi dubbi, quello era di certo Dwight. "Come mai? Soffre per
sua moglie? Non mi sembrava averne così tanta cura, quando
li ho
conosciuti".
Dwight,
prendendola sotto braccio, la condusse nuovamente sul sentiero che
portava a casa sua. "Ross ha commesso mille errori, molto gravi
anche. Ha trascurato la sua famiglia, è stato completamente
assente
per suo figlio e ha tradito Demelza, correndo fra le braccia di
Elizabeth".
"E
allora, direi che lei ha fatto bene ad andarsene" –
sbottò
Caroline.
"Ah,
dal punto di vista di Demelza sì, perché lei ha
davvero sofferto
molto a causa di Ross. Ma lui...". Dwight scosse la testa. "Ross
ha sempre amato sua moglie, il suo problema era che la dava per
scontata. E' perso senza di lei, non ha più nulla per cui
lottare e
vivere, non ha una meta, uno scopo e vive divorato dai rimorsi e dai
sensi di colpa per quanto ha fatto, per averla fatta soffrire, per
averla tradita, per essere stato un pessimo padre e per non avere
più
accanto la sua famiglia. Li conosce i suoi errori, uno ad uno, ha
saputo ammetterli e fare ammenda, ha fatto chiarezza nel suo cuore,
ha definitivamente archiviato quell'amore giovanile idealizzato e ha
capito l'immenso amore e valore che aveva Demelza per lui. Lo so, non
dovrebbe essere così ma spesso ci si accorge di quanto valga
ciò
che abbiamo accanto, quando lo abbiamo perso. Non si darà
mai pace,
senza di lei. Per questo è partito per la guerra, per non
pensare,
per non affrontare quella vita vuota senza di lei e senza il suo
bambino. La verità è che lui e Demelza erano
anime gemelle, fatti
per stare assieme e io sono sicuro, voglio sperare almeno, che anche
lei pensi a lui ogni tanto e che non lo odi".
Giunsero
davanti alla porta di casa e mentre Dwight apriva la porta, Caroline
abbassò lo sguardo. Cosa doveva fare, cosa doveva dire?
Accidenti,
doveva essere sincera, dividere quel peso con qualcuno e le parole di
Dwight le avevano dato la prova certa di qualcosa che forse sapeva
già. Ross amava sua moglie, per quanto Demelza fosse
convinta del
contrario. Lo aveva capito dal loro incontro la primavera prima,
quando per la prima volta Ross era andato a casa sua per saldare il
suo debito e aveva scorto nei suoi occhi un velo di tristezza che non
scompariva mai, nemmeno quando rideva. E ancor più se n'era
accorta
due mesi prima, davanti al suo sguardo pieno di nostalgia e rimpianti
quando aveva dovuto salutare la piccola Clowance. "Dwight, devo
dirti una cosa" – disse, tutto d'un fiato.
Dwight
annuì, chiudendo la porta dietro di loro, dirigendosi verso
il
camino per accendere il fuoco. "Dimmi tesoro".
"Sono
una pessima persona".
Il
dottore spalancò gli occhi, alzandosi in piedi ed
avvicinandosi a
lei. "Amore mio, cosa stai dicendo? Non è vero".
Caroline
deglutì, cercando le parole giuste per iniziare, non sapendo
bene
cosa aspettarsi da Dwight. "Ti ho mentito su una cosa... O
meglio, l'ho omessa...".
"Di
cosa parli?".
Caroline
gli indicò una sedia. "Siediti, è meglio! E' una
storia lunga
e magari ti potrebbe venire da svenire".
Dwight,
peoccupato, fece quanto gli aveva chiesto, sedendosi ed aspettando
che lei facesse altrettanto.
Caroline
si mise accanto a lui, poggiando i gomiti sul tavolo e mettendosi le
mani nei capelli. "Io... che Ross e Demelza non stavano più
insieme, i motivi della loro separazione... ecco, li sapevo
già
prima che me li dicessi tu".
"Te
lo ha raccontato Ross?".
Caroline
scosse la testa.
"Lo
hai capito da sola?".
Ancora,
Caroline scosse la testa.
Dwight
si accigliò. "E allora, come hai...?".
Con
un sospiro si tirò su, mettendosi più composta
sulla sedia. "Me
lo ha detto Demelza".
"Demelza?".
Lo sguardo di Dwight divenne di puro stupore e terrore. "Cosa?".
"Hai
capito benissimo. Io so dove vive, cosa fa, conosco Jeremy e lei
è
la mia migliore amica. Lo so da tanto, lo so da quando ha lasciato la
Cornovaglia e per caso ci siamo incontrate a Londra, dove vive".
"Stai
scherzando?".
Scosse
la testa, non riuscendo a guardarlo in faccia. "Non era mia
intenzione mentirti, quando ho incontrato Demelza, quasi due anni e
mezzo fa, noi due ci eravamo lasciati, io non credevo che avrei
rimesso piede qui e nemmeno sospettavo che avrei avuto a che fare
ancora con Ross Poldark. Demelza e io ci siamo incontrate per caso,
lei aveva lasciato Nampara da pochi giorni ed era arrivata a Londra
col cane e col bambino, senza sapere dove sbattere la testa e da dove
ricominciare. L'ho aiutata, una specie di solidarietà fra
donne,
verso una persona che avevo conosciuto solo sommariamente ma che mi
era piaciuta tanto. Siamo diventate amiche, ci siamo frequentate e
l'ho aiutata ad avviare un'attività a Londra che le ha
permesso di
mantenersi e di stare economicamente tranquilla. Quando Ross
è
ricomparso nella mia vita, la primavera scorsa, quando ho accettato
di venire qui da te per parlare e per ricominciare, sapevo che questa
cosa avrebbe creato problemi ma non riuscivo a trovare il modo di
affrontarla e di parlare con te per di risolverla".
"Santo
cielo...". Dwight si mise le mani nei capelli. "Ross la sa
questa cosa?".
"No,
non tradirei mai la fiducia di Demelza! Nemmeno lei sa che io e te
siamo tornati insieme, sa che mi sono fidanzata e le ho detto che
avrebbe scoperto il nome del mio futuro sposo il giorno del
matrimonio. A dirla tutta, credo che pensi che mi sposo con qualche
grosso azionista londinese".
Dwight
la guardò, pallido in viso. "Quindi, Demelza
verrà al nostro
matrimonio così, alla cieca, senza sapere cosa l'aspetta e
chi
incontrerà?".
"Sì".
Con
un lungo sospiro, Dwight si accasciò sulla sedia. "Per
fortuna
mi hai detto di sedermi...".
"Te
lo dicevo che potevi svenire...".
"Già".
Dwight gli lanciò un'occhiataccia. "Come sta Demelza?".
"Bene".
Caroline si appoggiò nuovamente al tavolo coi gomiti,
prendendo fra
le mani una ciocca di capelli. Gli raccontò di come si erano
incontrate, di come avessero avviato insieme la locanda e di come
Demelza poi, dopo aver incontrato i Devrille, fosse diventata una
vera lady della finanza, di quanto fosse diventata ricca, del suo
ruolo all'interno della Warleggan Bank e di come ormai fosse una
delle donne economicamente più potenti e ammirate di Londra.
Alla
fine del racconto, Dwight aveva la bocca spalancata. "Demelza?
La nostra Demelza? Quella che lavorava come una pazza a Nampara, che
veniva a trovare Ross alla miniera e che non desiderava altro che
essere una buona moglie e madre? E' incredibile immaginarla nelle
vesti di una nobildonna della capitale".
"Ha
fiuto per gli affari ed è una donna in gamba, intelligente e
risoluta, oltre che molto bella. E anche parecchio testarda
perché,
come suo marito, benché ne possa fare volentieri a meno,
continua a
lavorare pure alla locanda. E' incredibile come sia rimasta la stessa
semplice persona che ho incontrato a Londra quel giorno. E' amorevole,
gentile, una donna d'affari ma allo stesso tempo una madre
meravigliosa e incredibilmente dolce".
Dwight
sorrise. "Non me ne stupisco, Demelza è così e
non cambierà
mai. Sono contento che stia bene e che si sia rifatta una vita ma mi
spiace per Ross... Lei merita quel che ha ora ma... lo amava
così
tanto e ora di ciò che erano, non è rimasto
più niente. Hanno
raggiunto la ricchezza e perso l'amore che li univa".
Caroline
scosse la testa. "Lei lo ama ancora, sai? Non lo dice
apertamente ma è così, per quanto lui l'abbia
fatta soffrire, non
riesce a lasciarselo indietro del tutto. Potrebbe avere qualsiasi
uomo desideri, a Londra c'è la fila che spasima per averla
ma per
lei esiste solo Ross".
"E
allora perché non è tornata?" - sbottò
Dwight.
Caroline
gli strinse la mano. "Perché lei è convinta di
essere sempre
stata un peso per Ross, che lui non vedesse l'ora di liberarsi di lei
e del bambino e di essere stata la seconda scelta che andava bene
finché Elizabeth non è tornata libera. Per tanto
ha pensato che lui
si fosse rifatto una vita con il suo primo amore e solo per caso ha
scoperto che lei aveva sposato George Warleggan e che Ross era
partito per la guerra per il dolore di averla persa".
"Pensava
che Ross fosse partito per Elizabeth? Ma non è vero, Ross
è partito
per lei, non sopportava di vivere a Nampara senza la sua famiglia.
Santo cielo, Ross non ha mai pensato che lei fosse un peso, come puo'
aver creduto a una cosa simile?".
Caroline
lo guardò storto. "Beh, chiedilo al tuo amico. Da quello che
mi
ha raccontato lei, avrei pensato la stessa cosa al suo posto. Lui
è
stato davvero pessimo e per tanto si è comportato con
arroganza,
superficialità, trattandola come un oggetto invisibile ed
interessandosi solo del benessere di Elizabeth e di suo figlio. Non
gli importava di lei, del dolore che le arrecava, gli importava solo
di se stesso. E anche con Jeremy... Demelza mi ha raccontato che non
lo ha mai voluto, che non se ne è mai curato, che era con
Elizabeth
e Geoffrey che voleva avere una famiglia. Come poteva tornare?".
Dwight
sospirò, stringedole la mano di rimando. "Ross ha commesso
molti errori e si odia per averla fatta soffrire. La ama da morire,
posso assicurartelo. Darebbe la sua vita, tutto quello che ha per
riabbracciarla e per ritrovare il suo bambino. Sa di essere stato un
marito e un padre pessimo ma ogni suo pensiero ormai è per
lei e per
Jeremy. Non per Elizabeth, non è lei che ama. E non
è lei che
avrebbe potuto renderlo felice e farlo sentire completo come si
è
sentito con Demelza".
"Ne
sei sicuro?".
"Certo,
ci metterei la mano sul fuoco".
"E
allora dobbiamo aiutarli".
Dwight
si grattò la guancia, pensieroso. "Come? Caroline, amore
mio,
farli incontrare al nostro matrimonio, senza dirgli nulla, è
una
pessima idea. Toglitelo dalla testa!".
Caroline,
indispettita, gli strattonò il braccio. "Hanno aiutato noi e
si
amano ancora da morire. Hanno bisogno l'uno dell'altra per essere
davvero felici e ora tocca a noi fare qualcosa per loro".
"Sono
d'accordo! Ma cosa?".
Caroline
picchiettò le dita sul tavolo, pensierosa. "Prima di pensare
al
da farsi, c'è un altro grande problema di cui dobbiamo
parlare".
"Santo
cielo! Che altro c'è ancora?". Era esasperato, pareva
davvero
terrorizzato ormai.
"C'è
il problema della mia damigella".
Dwight
la guardò storto, asciugandosi il sudore dal viso. "La tua
damigella di un anno e mezzo?".
"Quasi
due...".
"Tesoro,
è l'ultimo dei nostri problemi. Se farà i
capricci e non vorrà
portarci gli anelli, ce li porteremo noi".
Caroline
sbuffò. "No, non è l'ultimo dei nostri problemi,
è il primo
dei problemi!".
"Perché?".
"Perché
Clowance, la mia piccola damigella, è figlia di Demelza".
A
questo punto, Dwight sbiancò talmente tanto che parve
davvero sul
punto di svenire. "Di Demelza? La bambina di un anno e mezzo?
Quella di cui parlava poco fa Ross?".
"Sì".
Gli si avvicinò, cercando di spiegarsi prima che il suo
fidanzato
desse in escandescenze. "Quando Ross è venuto la scorsa
estate,
non si era fatto annunciare e mi è capitato a casa di
sorpresa, un
giorno in cui la piccola era da me. Giuro, non ho programmato di
farli incontrare ma la bambina era lì, ci è
piombata nel salotto e
ho dovuto far buon viso a cattivo gioco, dicendo a Ross che era la
figlia di una amica e che sarebbe stata la mia damigella".
Dwight
la guardò. Sembrava stravolto, come se avesse lavorato per
venti ore
di seguito in miniera. "Hai detto che la bimba farà due anni
a
novembre? E' figlia di...".
Caroline
annuì. "Di Ross. Quando Demelza se n'è andata,
era incinta da
pochissimo, nemmeno lo sapeva. Lo ha scoperto a Londra. Clowance
è
nata nella capitale in un giorno di neve e io sono la sua madrina".
A
quel punto, Dwight si accasciò col viso sul tavolo. "Ross ne
morirà, quando saprà questa cosa. Quando
scoprirà che quella notte
in cui è stato con Elizabeth lei aspettava già
sua figlia, quando
realizzerà che a causa dei suoi errori Demelza ha dovuto
affrontare
tutto da sola, sarà divorato dai rimorsi e dai sensi di
colpa, molto
più di quanto già non faccia ora".
"Ma...
Demelza mi ha detto che non voleva altri figli, magari davvero non
gli importa".
Dwight
scosse la testa. "Ross amava da impazzire la loro prima figlia,
Julia. Ha affrontato la sua morte da solo, tenendola fra le braccia,
vedendola spirare davanti ai suoi occhi. E da solo ha portato quella
piccola bara sulle spalle... Non l'ha mai superata del tutto quella
perdita perché amava la sua bambina ed è stata la
paura di soffrire
ancora che lo ha fatto reagire tanto freddamente alla nascita di
Jeremy. Ma ama i suoi figli, TUTTI i suoi figli. E se sapesse che al
mondo esiste una figlia di cui ignora l'esistenza, una bimba come
quella che ha perso, sarebbe l'uomo più felice della terra".
La
guardò, assorto. "Quindi lui non sa che quella bimba
è sua?".
"No.
E nemmeno Demelza sa del loro incontro. Come ti ho detto, è
stato
tutto casuale ma poi... ho forzato un po' le cose e con una scusa, ho
lasciato da solo Ross con la bambina per una mezz'oretta".
Dwight
spalancò gli occhi. "Caroline, tu mi fai paura!".
"E'
andata bene, si sono divertiti come pazzi, sta tranquillo. Clowance
è
meravigliosa, somiglia tanto a Demelza e Ross... credo ne sia rimasto
conquistato. Forse il suo istinto paterno ha riconosciuto quella
bimba come sua figlia, anche se, consciamente, non poteva capirlo".
"Che
si fa? Diciamo la verità ad entrambi?".
Caroline
scosse la testa. "No, Demelza non verrebbe al matrimonio e si
chiuderebbe a riccio, è testarda come un mulo quando si
impunta. Ma
hai ragione, non possiamo aspettare il giorno delle nozze, devono
vedersi prima". Ci pensò su e poi, all'improvviso, sorrise.
"E
se fosse una cosa casuale? Sì, intendo di una
casualità un po'
guidata...".
"Che
hai in mente?".
Caroline
si alzò dalla sedia e gli si avvicinò,
cingendogli le spalle. "La
Wheal Grace è ora fonte di ottimi guadagni e se un anonimo
azionista
proponesse a Ross un incontro nella locanda di Demelza per discutere
di affari...".
"Cioè?".
"Pensaci,
ne usciremmo puliti così e non tradiremmo la loro amicizia!
Quando
torno a Londra, faccio scrivere una lettera per Ross dal mio
maggiordomo personale, persona estremamente fidata e silenziosa e
dall'ottima calligrafia che il caro capitano Poldark non potrebbe
riconoscere. Fingerà di essere un azionista interessato e
gli
scriverà una lettera per proporgli l'acquisto di quote
azionare
della miniera, dichiarando di preferire rimanere nell'anonimato fino
al loro incontro. Gli darà appuntamento nella locanda di
Demelza e
il gioco è fatto. Si troveranno casualmente faccia a faccia
e
poi...".
"Dipenderà
da loro". Dwight sorrise, accarezzandole i capelli e baciandola
sulle labbra. "E' un'ottima idea e tu sei davvero intrigante e
un'ottima stratega".
"Lo
prenderò come un complimento! Però...". Caroline
fece alcuni
passi pensierosa, all'interno della stanza. "C'è un
problema.
Demelza ora è piuttosto impegnata e sarà spesso
fuori Londra per
degli incontri d'affari e rischiamo di dare a Ross un'appuntamento in
un giorno in cui lei non c'è".
"E
quindi, che si fa?".
"Mi
ha detto che rallenterà col lavoro per il compleanno di
Clowance e
che da lì in poi, almeno fin dopo Natale, non si
muoverà più da
Londra. E che passerà la prima parte di dicembre alla
locanda per
chiudere la contabilità annuale".
Dwight
sorrise. "Quindi... spediamo Ross a Londra per inizio
dicembre?".
Caroline
sorrise, furba. "Certo, socio!". Gli prese la mano,
stringendola in segno di fiducia e d'amore, uniti da quel tacito
accordo che doveva rimanere segreto al mondo.
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Capitolo 20 *** Capitolo venti ***
"E'
solo una slogatura".
Ross
osservò di sottecchi Prudie che aveva trovato l'ennesima
scusa per
non lavorare e si voltò verso Dwight che, concentrato sul
suo
lavoro, le stava fasciando il polso. "Ma una slogatura che non
le permetterà di lavorare, o una slogatura leggera e che non
da
grandi problemi a svolgere le normali attività di casa?".
Dwight
sospirò. "Niente di grave, potrà cucinare e fare
lavori
leggeri, pur con moderazione".
Prudie
divenne rossa di rabbia. "Che ne sapete voi dell'immenso dolore
che sto provando? Il braccio mi fa talmente male che me lo farei
staccare a morsi da un cane, per quanto soffro".
"Il
problema non era solo al polso?" - chiese Ross, accigliato.
"Prende
tutto, signore, fino alla spalla. Voi non capite nulla del dolore di
questa povera serva".
Dwight
e Ross si guardarono negli occhi, cercando di non scoppiare a ridere.
Il dottore finì di fasciare il polso e poi, dopo un breve
massaggio
al braccio, la congedò. "Per oggi tenete il braccio a riposo
e
da domani ricominciate ad usarlo con calma".
Prudie
fissò Ross in cagnesco. "Calma... Bella parola, con questo
qua
come padrone" – borbottò, scomparendo dietro la
porta
trascinando i piedi.
Dwight
ridacchiò. "Sei messo bene a servitù, vedo".
"Sono
soli in casa tutto il giorno e si prendono un sacco di
libertà. E
non sono mai dalla mia parte anche se, devo ammetterlo, la casa
è in
condizioni discrete, rispetto a un tempo".
Dwight
si sedette sulla sedia, stiracchiandosi. "Di che ti lamenti?
Almeno tu hai chi ti aiuta, io sono da solo e devo fare tutto".
"Presto
sarai sposato con Caroline e vi trasferirete nella casa di suo zio e
vivrete fra qui e Londra, facendo la spola verso l'altra lussuosa
residenza della tua futura moglie. Avrai talmente tanti servitori da
non ricordarti nemmeno i loro nomi".
Dwight
arrossì. "Chissà se mi abituerò".
"Ci
riuscirai. Caroline è tornata a Londra?".
"Sì,
da dieci giorni. Ha un sacco di faccende da sbrigare laggiù
e non
puo' passare tutto il tempo a fare la turista in Cornovaglia".
Alzò lo sguardo su di lui, accigliato. "A proposito, hai
qualche buon consiglio da darmi per il matrimonio?".
Ross
spalancò gli occhi. "Chiedi consigli a me?".
Scoppiò a
ridere, picchiandogli sulla spalla con la mano. "Caro mio, io
sono proprio l'ultimo a poterti dare consigli in questo campo, visto
com'è andato a finire il mio di matrimonio".
"Avanti,
non buttarti giù così! Demelza ti amava
tantissimo e questo
significava pur qualcosa! Insomma, non dovevi essere così
male, come
marito".
Ross,
soprapensiero, si avvicinò a un cesto di frutta posto sul
tavolo,
prendendo fra le mani una mela e tirandola all'amico. "Vuoi un
consiglio per il tuo matrimonio? Fai l'esatto opposto di quello che
ho fatto io, sarai un marito perfetto e renderai tua moglie una donna
felice".
Dwight
fece per rispondere quando la voce lamentosa di Jud arrivò
alle loro
spalle, interrompendo i loro discorsi.
"E'
arrivato un messo da Londra con una lettera per voi" – disse
il servo, poggiando la busta sul tavolo.
Ross
si accigliò. Una lettera da Londra? "Chi me la manda?".
Jud
sbuffò, scocciato. "Ora a un servo si chiede anche di
rendere
conto della posta privata del proprio padrone... Roba da matti, come
se non bastasse il lavoro da somaro che già si ha sulle
spalle!
Tutto questo è profondamente ingiusto, disumano e
sconveniente"
– si lamentò, allontanandosi dalla sala senza
rispondere alla
domanda che gli era stata posta.
Dwight
scoppiò a ridere. "Ma che hanno oggi i tuoi servi?".
Ross,
prendendo fra le mani la lettera, scosse la testa. "Oggi? Sono
sempre così". Aprì la busta con fare annoiato e
disattento,
leggendo sommariamente quanto vi era scritto.
"E
allora? Qualcosa di importante?" - chiese Dwight, stranamente
curioso.
Ross
alzò le spalle. "Niente di che, un azionista che vorrebbe
comprare qualche quota della Wheal Grace".
Dwight
sorrise. "Oh, ottime notizie allora, incrementerai i tuoi
creditori! Chi è? Londra è piena di ricchissimi
uomini d'affari, la
fortuna sta davvero girando nella tua direzione, Ross".
"Non
si firma con nessun nome" – rispose, facendo cadere la busta
sul tavolo. "Dice che vuole rimanere anonimo fino al nostro
incontro, per questioni di privacy. Mi ha fissato un appuntamento a
Londra, in una locanda a Regent Street nella mattinata del 3
dicembre. Nemmeno so dove diavolo sia, Regent Steet".
"In
centro, Ross. E' una delle vie commerciali principali di Londra, la
finanza della capitale passa tutta da lì. Ci andrai?".
"Non
lo so, le lettere anonime non mi sono mai piaciute".
Dwight
alzò le spalle. "Dai, che ti importa? Li conosci questi
ricconi, sono pieni di concorrenza e preferiscono concludere affari
in anonimato prima che qualcun altro glieli sottragga da sotto il
naso. Fa parte del gioco, non fare il difficile. E questo potrebbe
essere un buon affare anche per te che si tradurrebbe in migliori
condizioni di lavoro per i tuoi minatori. Pensaci, è una
buona
notizia che qualcuno voglia investire sulla tua miniera".
Ross
si sedette sulla sedia, stiracchiandosi. "Ah, non lo so! Non ho
la minima voglia di andare a Londra in pieno inverno. Sarà
umidissima e con un nebbione che non si vedrà a un palmo dal
naso".
Dwight
scoppiò a ridere, a quelle parole. "Santo cielo, in questo
momento sei identico a Caroline quando si lamenta per il vento della
Cornovaglia!".
Divertito,
anche Ross rise. "Finiscila! Dici che devo accettare?".
"Io
accetterei. Quanto meno, andrei a vedere di che si tratta e poi
deciderei il da farsi".
Ross
si accasciò sulla sedia, osservando distrattamente il
soffitto.
"Resta il fatto che Londra, sotto Natale, con questo freddo...".
"Avanti,
non vorrai rinunciare ad un affare per un po' di neve e nebbia! Ross
non è da te, che ne è del tuo spirito d'avventura
che sfoderavi
brillantemente in guerra l'anno scorso?".
Con
un sospiro, Ross annuì. "Hai ragione ma...".
Dwight
divenne serio, prendendo a guardarlo intensamente negli occhi. "Se
Demelza fosse qui, che ti consiglierebbe?".
Rimase
colpito da quella domanda, era da così tanto tempo che lei
non c'era
e gli dava consigli e ormai aveva imparato, per non cedere alla
disperazione, a relegare il ricordo di sua moglie in un angolo
nascosto della mente, il più lontano possibile dal suo
cuore.
Sorrise, tristemente. "Mi consiglierebbe di andare, per i miei
minatori".
Dwight
sospirò, alzandosi dalla sedia e mettendosi il cappello.
"Ecco,
la risposta te la sei data da solo. Prepara la valigia e parti, ci si
rivede nella capitale. A inizio dicembre, non so ancora il giorno
preciso, partirò anch'io per Londra, per passare un mese con
Caroline e festeggiare insieme il Natale. Ci divertiremo, è
una
città che offre molte attrattive".
Ross
rise. "Tu e la vita mondana londinese siete due pianeti lontani?
Non sei tipo da feste e locali notturni".
Anche
Dwight rise. "Ma tu si! E pure Caroline... Mi trascinerete in
qualche birreria alla moda e mi costringerete ad ubriacarmi fino a
farmi vomitare anche le budella, già lo so".
"Dovrei
fare da terzo incomodo?" - chiese, divertito.
Dwight
gli strizzò l'occhio. "A piccole dosi, ogni tanto, ti
vogliamo
con noi. E' grazie a te che siamo tornati insieme e siamo tanto
felici e questo non lo dimenticheremo mai, Ross. E inoltre abbiamo il
matrimonio da organizzare, ci serve il tuo aiuto".
"Cioè,
volete farmi lavorare?".
"Preferisco
pensare che ci divertiremo come pazzi!".
"Perché
no, in fondo l'idea è allettante, mi hai convinto". Ross gli
si
avvicinò, dandogli una pacca sulla spalla. "E sia, passiamo
un
po' di giorni nella capitale, a divertirci come ventenni".
"E
a concludere affari" – puntualizzò Dwight.
"Speriamo"
– rispose Ross, con una punta di scetticismo.
...
Nebbia,
gelo ed umidità... Eccola la splendida Londra di inizio
dicembre, un
incubo!
Quell'anno
non era ancora nevicato ma una coltre di freddo avvolgeva la
città,
resa scura e buia da una nebbia onnipresente che non pareva voler mai
andar via.
Era
giunto a Londra la sera prima, aveva prenotato una stanza in una
locanda e noleggiato un cavallo per girare la città il
giorno
successivo, per andare all'incontro con questo misterioso azionista
interessato alla sua miniera. Benché avesse promesso a
Dwight di
fermarsi nella capitale per passare un po' di tempo insieme, la cosa
non lo allettava per niente, non aveva davvero voglia di fermarsi in
quel posto così rumoroso e pieno di gente, tanto che aveva
deciso di
ripartire al massimo dopo due-tre giorni. In fondo, Dwight e Caroline
avrebbero trovato il modo di divertirsi anche senza di lui.
Soprattutto senza di lui...
Montò
sul suo cavallo, una bestia dal manto color rossiccio nervosa e
ingestibile, diretto a Regent Steet. Si era studiato una mappa della
città perché non aveva la minima idea di dove
fosse questo posto e,
man mano che procedeva al passo, in mezzo a una folla infreddolita e
frettolosa, si accorse che in effetti si stava dirigendo nella parte
della città più commerciale e dedita agli affari.
Botteghe, banche
e grossi negozi adornavano le vie ed era tutto un via vai di uomini
d'affari, viandanti e commercianti che urlavano come pazzi i prezzi
delle loro merci. "Che posto impossibile...".
Si
chiese come potesse, la gente, vivere in mezzo a quella bolgia. La
parte più nobile della città, silenziosa e
berbenista, era molto
vicina ma sembrava lontanissima in mezzo a tutta quella confusione.
Incrociò molte domestiche e bambinaie con piccoli lord e
principessine al seguito, diretti verso i parchi cittadini, pensando
a quanto fosse triste la vita di quelle persone dedite talmente tanto
al lavoro e al denaro da relegare la servitù a crescere i
propri
figli. Era diversa la Cornovaglia, più a misura d'uomo, di
famiglia,
di bambino. Anche i nobili avevano molti servi al loro servizio,
nella sua terra, ma la vita era più semplice rispetto alla
capitale,
anche per loro.
Perso
in quei pensieri svoltò l'angolo che portava a Regent
Street, ancora
più caotica della via che aveva appena lasciato. Il cavallo
si
innervosì ancora di più e faticò non
poco per tenerlo al passo. La
bestia nitrì nervosamente, disturbata dagli schiamazzi di un
gruppo
di bambini di strada che giocavano con le biglie sul selciato.
"Buono...".
Improvvisamente,
una carrozza lanciata a folle velocità fra la folla, fece
scansare
di corsa le persone, spaventate, che si accalcarono ai lati della
strada per non essere investite.
Ross
strinse ancora di più le redini mentre il cavallo diventava
sempre
più nervoso, faticando a tenerla a bada, spostandosi verso
il centro
della strada per non travolgere nessuno. La carrozza lo raggiunse,
sfiorandoli e prendendo di striscio il cavallo sulla coscia.
L'animale
nitrì dal dolore, imbizzarrendosi, sollevandosi sulle due
zampe
posteriori. Fu una delle ultime cose che ricordò.
Tentò di tenerlo
a bada, di riottenere il controllo su di lui e mentre tentava di
riconquistare stabilità, riuscì a deviare
all'ultimo una bambina
che gli si era parata davanti all'improvviso.
Il
cavallo si issò nuovamente, ancora più
spaventato, scalciando sul
selciato mentre la gente si spostava spaventata. Urtarono un qualcosa
dietro di loro, forse il marciapiede, non lo seppe mai con certezza.
La bestia si dimenò e tentò di tenerla a freno
per non schiacciare
nessuno ma nello sforzo perse la prese sulle redini. L'animale
nitrì
ancora, terrorizzato, si risollevò sulle zampe posteriori e
lui,
ormai senza più appigli, perse l'equilibrio.
Cadde
all'indietro, una caduta di schiena da oltre un metro d'altezza.
Sentì la gente urlare e poi un dolore acuto, tanto forte da
togliergli il fiato alla base della testa, all'attaccatura col collo.
E poi più nulla, all'improvviso le urla cessarono e divenne
tutto
nero, lontano, ovattato. Fino a scomparire, insieme alla sua
coscienza.
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Capitolo 21 *** Capitolo ventuno ***
Si
chinò dietro al bancone della locanda, alla ricerca dei
libri
contabili. Non aveva affatto voglia di fare quel lavoro che
considerava noiosissimo, ma supponeva che l'esattore delle tasse
fosse invece di tutt'altro avviso e quindi, volente o nolente, le
prime settimane di dicembre le avrebbe passate a fare conti e denunce
dei redditi.
Faceva
molto freddo quella mattina e nemmeno il caldo abito di lana che
indossava, rosso come i suoi capelli, e la pelliccia attorno al
collo, riuscivano a scaldarla.
Intenta
a cercare i registri, fu però costretta ad alzarsi e a
guardare
verso la porta, quando sentì il vociare dei suoi figli.
Quella
mattina si era alzata molto presto ed era uscita di casa che ancora
dormivano e non li aveva ancora visti. Erano con Margareth e Mary
che, tenendoli per mano, li avevano accompagnati a salutarla prima di
andare a fare la spesa.
Jeremy
le corse incontro, saltandole in braccio, imitato dalla piccola
Clowance. "Mamma, vieni con noi?".
Demelza
sospirò. Sì, sarebbe andata volentieri con loro,
accidenti alle
tasse! Ma, la dura vita... "Tesoro, non posso, devo lavorare. Ma
stasera tornerò presto a casa e...".
Jeremy
sorrise, contento, abbracciandola ancora più forte. "Faremo
l'albero di Natale insieme, vero?".
"Certo,
te l'ho promesso".
Clowance
si mise fra loro, decisa. "Anche io?".
"Ma
sicuro, anche tu!" - disse Demelza, prendendola in braccio. Era
così bella quella mattina, una vera bambolina. Aveva i
capelli
sciolti, tenuti a bada da un cappello di velluto blu, come la
mantellina che indossava e che la riparava dal freddo. Le guance
erano rosse e piene e sembrava immensamente contenta. La
baciò sulla
fronte, rimettendola a terra. "Ora andrete con Mary e Margareth
a comprare il pane e poi, oggi pomeriggio, Martin vi
accompagnerà a
scegliere l'abete e le decorazioni da mettere nel salone grande".
"Un
abete gigantissimo?" - chiese Jeremy, eccitato.
Demelza
sorrise. Era bello vederli tanto contenti e in fin dei conti quello
era il primo Natale che avrebbero festeggiato come si deve, da quando
vivevano a Londra. Due anni prima era appena nata Clowance e la sua
vita era ancora avvolta dall'incertezza e dal dolore, l'anno
precedente aveva appena traslocato e la casa era ancora un cantiere
in fermento ma ora niente le avrebbe impedito di regalare ai suoi
figli un vero Natale. "Un abete gigante, esatto, tanto il nostro
salone è enorme. E stasera lo decoreremo tutto".
"Tutto!
Lo vollo losa" – disse Clowance, prendendole la mano e
mettendosi a giocare col bracciale che aveva al polso.
Jeremy
si imbronciò. "Uffa mamma, Clowance si è fissata
col rosa!
Vuole l'albero tutto di quel colore ma è da femmine".
Demelza
rise. "Clowance, gli abeti sono verdi, ma poi ci metteremo su
tante decorazioni rosse e d'oro. Vedrai, ti piacerà anche se
non
sarà rosa".
La
bimba fece la faccia arrabbiata, battendo il piedino a terra. "No,
losa".
Jeremy,
attento a tutto quello che diceva la sorella, le prese il braccio
libero, tirandola verso di lui. "Ho un'idea mamma!".
"Quale
idea?".
Il
bimbo si fece serio serio, come se stesse preparandosi per un
discorso solenne. A Demelza faceva davvero tenerezza quando faceva
così. Era cresciuto molto Jeremy e aveva quell'espressione
vivace e
allo stesso tempo tenera che la faceva sciogliere. Era cambiato
molto, fisicamente, rispetto a quando vivevano in Cornovaglia. Aveva
i capelli più lunghi ora, a caschetto come era di moda fra i
suoi
amichetti della Londra borghese, che gli arrivavano alle spalle,
castani con sfumature rosse che erano più evidenti in
estate, sotto
il sole, e qualche lentiggine qua e la sul nasino all'insù.
"Mamma,
ho contato il numero delle stanze di casa nostra e sai, sono
venticinque".
"E
allora?".
"E
allora, compriamo venticinque alberi di Natale con venticinque
addobbi diversi, così Clowance, in camera sua, si decora
l'abete con
quel colore da femmina".
Demelza
scoppiò a ridere. "No, scordatelo! Un albero solo, molto
grosso, nel salone principale".
"Ma
io lo vollo losa!" - insistette Clowance, frignando.
Guardò
i suoi figli, indecisa su come renderli comunque contenti non cedendo
però, al contempo, ai loro capricci. "Facciamo
così, oggi con
nonno Martin e nonna Diane, comprerete l'abete e le decorazioni rosse
e d'oro, come si usa a Natale. Ma poi potrete scegliere qualcosa di
piccolo, una decorazione a testa del colore che vorrete, da
aggiungere all'albero insieme alle altre cose".
"Losa?"
- chiese Clowance.
"Rosa,
se ti va!".
Jeremy
ci pensò su, poi annuì. "E allora io voglio una
decorazione
azzurra, da maschio".
Demelza
sorrise, accarezzò loro i capelli e poi si rialzò
in piedi. "Come
la vorrai tu! Allora soci, siete d'accordo?" - chiese divertita,
tendendo la mano destra verso di loro.
Jeremy
annuì, dandole il cinque con una sonora pacca.
"Sì, d'accordo
socia!".
Anche
Clowance lo imitò, picchiando la sua manina sulla loro.
"Sì".
Demelza
strinse le mani di entrambi i figli, ridendo. "E ora su, andate
con Margareth e Mary, devo lavorare" – concluse, indicando ai
bimbi le due domestiche che, divertite, li aspettavano sulla porta.
Era una bella giornata quella, decise, nonostante la nebbia e i
registri contabili da controllare, era talmente serena che in fondo
si sentiva abbastanza grintosa pure per affrontare quel lavoro
così
barboso.
Si
richinò, prese i registri dalla credenza e poi si mise in un
angolo
del salone, seduta a un tavolo, mentre i clienti della locanda
andavano e venivano, serviti dai suoi collaboratori.
Poteva
essere passata forse una mezz'ora quando la porta della locanda si
aprì di colpo e Leslie, una delle sue lavoranti che aveva
mandato
poco prima ad ordinare dei liquori all'emporio, le corse incontro
trafelata. "Signora, c'è un tempo da lupi fuori, fra
freddissimo. E c'è appena stato un incidente a qualche
decina di
metri da qui".
Demelza
alzò gli occhi su di lei. "Un incidente?".
Leslie
annuì, stringendosi nel mantello per scaldarsi.
"Sì, una
carrozza ha urtato un uomo a cavallo, la bestia si è
imbizzarrita e
ha fatto cadere il suo cavaliere sul selciato. Ha picchiato la testa
e ora sembra quasi morto".
Demelza
scosse la testa. "Santo cielo... Ma è morto davvero?".
"No,
ma non si muove ed è privo di conoscenza. Infatti, sono
venuta per
chiedervi se... Ecco, credo abbia bisogno di aiuto e di essere
visitato da un medico ma quì in questa strada, a parte il
vostro
appartamento al piano di sopra e la pensione di mister Ziegler, non
ci sono altre case per dargli un primo soccorso. E...".
"E
mister Zieglier, lo conosciamo, per non urtare la gentile
sensibilità
dei suoi clienti e giocarsi il guadagno della locazione di una
camera, lascerebbe persino sua madre sul selciato". Demelza
sospirò, arrendendosi al fatto che quel noiosissimo lavoro
sui
registri si sarebbe prolungato, suo malgrado, più del
previsto. Si
alzò dalla sedia, mettendosi il mantello sulle spalle. "Su,
andiamo a vedere che è successo".
"Lo
faremo portare qui?" - chiese Leslie, accodandosi.
"Non
abbiamo molta altra scelta" – le rispose, aprendo la porta.
"Spero solo che non sia nulla di particolarmente grave e che
dopo la visita del medico possa essere spostato perché di
notte,
alla locanda, non rimarrebbe nessuno a prendersi cura di lui".
Fece
solo alcuni passi che dovette fermarsi davanti al muro di gente corsa
a vedere cosa fosse successo.
Leslie
si fece largo, intimando alla gente di farla passare. "La mia
padrona puo' ospitare quest'uomo nell'appartamento sulla sua locanda,
fateci spazio!".
La
gente, molta della quale la conosceva, la fece passare e Demelza si
avvicinò al luogo dell'incidente. Due donne erano
inginocchiate
davanti al ferito per prestargli le prime cure e il cavallo dell'uomo
era a pochi metri, ancora molto nervoso. "Qualcuno è andato
a
cercare un medico?" - chiese, avvicinandosi per vedere meglio.
Una
donna annuì. "Sì, ho mandato mio figlio a cercare
il dottor
Carter, signora Carne".
"Ottimo,
quando arriva, mandatelo alla mia locanda e...". Si bloccò e in un attimo fu come se il suo passato, tutto d'un colpo, le
fosse ripiombato sulle spalle con la violenza di un fulmine.
"Ross...". Pronunciò quel nome sottovoce, appena lo vide
bene in viso, diventando di marmo. Ross... Era impossibile, non aveva
senso! Stava sognando? Era per caso impazzita e preda di
allucinazioni? Come poteva essere lui, cosa ci faceva lì, a
pochi
metri da lei, ferito e senza sensi come se fosse morto? Cosa ci
faceva a Londra? Le tremarono le gambe e dovette appoggiarsi a Leslie
per non cadere, mentre si sentiva impallidire e aveva caldo e allo
stesso tempo freddo, come se stesse per svenire essa stessa.
"Signora,
vi sentite bene?".
"No,
Leslie...".
La
ragazza la sorresse, preoccupata. "Volete sedervi? Che vi
succede?".
Demelza
si morse il labbro. Cosa le succedeva? C'era Ross lì davanti
a lei,
quel marito da cui era fuggita quasi tre anni prima e che non era mai
stato capace di amarla, un uomo di cui era innamorata da sempre,
nonostante tutto, il padre dei suoi figli... Ed era lì, come
morto,
davanti a lei. E non provava nulla se non gelo, oppure provava
talmente tanti sentimenti contrastanti che, mischiandosi, avevano
finito per farla cadere in quello strano stato di tranche. "Ross..."
- ripeté, nuovamente.
Leslie
la guardò, accigliata. "Lo conoscete?".
Annuì,
stringendo i pugni delle mani. "Sì, è mio marito".
La
reazione di Leslie, a quelle parole, non tardò ad arrivare.
Spalancò
gli occhi, sorpresa, guardando lei, il ferito e poi ancora lei.
"Vostro marito? Il padre dei bimbi?".
"Si,
il padre dei miei bimbi".
Gli
occhi delle persone presenti si piantarono su di lei, sorpresi e
sospettosi. Leslie la prese sottobraccio con fare protettivo. "Cosa
volete fare?".
Guardò
Ross, senza trovare il coraggio di avvicinarsi, accertarsi delle sue
condizioni e cercare di svegliarlo. Era pallido, sembrava davvero
morto e lontano da tutto ciò che lo circondava e un rivolo
di sangue
gli colava dalla nuca, rigandogli il viso. "Portatelo alla mia
locanda, sbrigatevi! Non puo' rimanere quì, al freddo".
Due
uomini annuirono e lo presero, uno per le spalle e uno per le gambe,
senza che Ross desse cenni di risveglio. Lo portarono velocemente
alla locanda, seguiti da Demelza e Leslie che, silenziose,
camminavano dietro a loro come autome.
Quando
furono nel locale, Demelza intimò loro di portarlo al piano
di
sopra, in quella che era stata la sua stanza. Ancora non capiva, si
sentiva come parte di un sogno – o un incubo – e si
muoveva con
passo meccanico, senza pensare, senza rendersi conto di cosa la
circondasse. Cosa ci faceva Ross lì? Era un caso, un
dannatissimo
scherzo del destino che si trovasse da quelle parti, così
vicino a
lei? Oppure era lì per un motivo per preciso? Aveva scoperto
dove
viveva e la stava cercando? Beh, era inutile pensarci, solo Ross
avrebbe potuto risponderle e al momento era impossibilitato a farlo.
E forse, nemmeno voleva sapere perché si trovasse
lì.
"Signora,
è arrivato il medico".
La
voce di Leslie la riportò alla realtà, anche se i
suoi sensi erano
ancora appannati. "E' al piano di sopra, prima porta a destra
del corridoio".
Il
medico annuì. "Dicono che sia vostro marito. Gradirei che
veniste con me".
Annuì,
senza trovare la forza di opporsi. Era vero, Ross era ancora suo
marito, nonostante tutto, aveva dei doveri e di certo il medico
avrebbe gradito parlare con lei dopo averlo visitato.
Però... allo
stesso tempo non si sentiva più sua moglie, era come avere a
che
fare con uno sconosciuto di cui non sapeva più nulla da
tanto e di
nuovo, al medesimo tempo, quello sconoscito era il padre dei suoi
figli. Era un circolo vizioso, una trappola subdola, uno scherzo
crudele del destino quello...
Salì
le scale, aspettando in corridoio che il medico visitasse Ross. Era
strano, era preoccupata e allo stesso tempo talmente confusa da
sentirsi impermeabile a ogni sentimento verso di lui. Se si fosse
svegliato cosa avrebbe dovuto fare, cosa avrebbe dovuto dirgli, cosa
gli avrebbe chiesto? Non voleva rivederlo mai più,
soprattutto non
così. Era tutto assurdo, nemmeno nelle sue più
sfrenate fantasie
avrebbe creduto possibile una cosa simile.
Il
medico aprì la porta della stanza dopo una visita lunga
più di
mezz'ora. "Signora, entrate. Dobbiamo parlare".
Demelza
deglutì. "Si è svegliato?".
"No".
Preoccupata
per quel tono di voce grave, entrò. Ross era steso in stato
di
incoscienza in quello che era stato il suo letto, dove aveva pianto
tanto per lui anni prima e dove aveva dato alla luce la piccola
Clowance. Era impossibile anche solo pensarci... O il mondo era
troppo piccolo oppure il fato era un qualcosa di estremamente
dispettoso. "Come sta?".
Il
dottore, un uomo grassoccio sulla cinquantina, si sistemò
gli
occhiali sul naso. "E' privo di conoscenza, un sonno profondo e
molto infido. Ha picchiato la testa in un punto molto sensibile e
questo potrebbe aver compromesso le sue funzioni vitali e cognitive".
"Che
volete dire?".
Il
dottore scosse la testa. "Allo stato attuale, è in coma. Non
so
dirvi se e quando si sveglierà e nemmeno in che condizioni
sarà".
Demelza
osservò Ross che, nei suoi ricordi, era sempre pieno di vita
e non
riusciva mai a stare fermo. "Lui è molto forte, una tempra
invincibile. Starà bene, ne uscirà".
"Signora,
vi avverto e vi consiglio di prepararvi al peggio. Se non si sveglia
in pochi giorni e non riprende a nutrirsi e ad idratarsi, il suo
cuore non reggerà a lungo. Non lasciatelo mai da solo e
accertatevi
che non venga spostato. Bagnategli le labbra con un panno bagnato,
tenete pulita la ferita alla testa e curate la sua igiene personale.
Per ora non possiamo che fare questo per lui".
"Va
bene...". Si appoggiò alla parete, incapace di andarsene da
quella stanza e allo stesso tempo incapace di andare vicino a suo
marito. Si limitò ad osservarlo, da lontano, col cuore e la
mente a
pezzi, persa in un turbine di emozioni che non sapeva spiegarsi.
Rimase così per lunghi minuti, con lo sguardo perso nel
vuoto,
finché non sentì la presenza di Leslie dietro di
se.
"Signora,
devo fare qualcosa?".
Annuì.
"Il dottore dice che non va lasciato solo e che non si
sveglierà, almeno nell'immediato" – rispose, con
una voce che
non le sembrava nemmeno la sua, incredibilmente fredda e distante.
"Che
farete?".
Sospirò,
chiudendo gli occhi, non contemplando altra strada se non quella di
rimanere lì e fare quello che aveva sempre fatto ogni volta
che era
insieme a lui: prendersene cura... Nonostante tutto, nonostante
Elizabeth, nonostante fossero ormai due estranei, non aveva altra
scelta. "Resta insieme a lui finché non torno".
"Dove
andrete?".
Sospirò.
"Vado a casa a prendere degli abiti di cambio e ad avvertire che
non tornerò. Devo sistemare i bambini e inventarmi qualcosa
con
loro, per giustificare il fatto che non mi vedranno per un po'. Torno
subito, tu non muoverti da questa stanza e non togliergli gli occhi
di dosso".
"Certo
signora".
Demelza
corse giù e, senza dire null'altro, uscì dalla
locanda, camminando
a grandi falcate verso casa sua. Stranamente non avvertiva
più né
il gelo né la nebbia, era come se il mondo attorno a lei
fosse
ovattato e distante, come se stesse vivendo in un sogno.
Quando
arrivò a casa, i bambini erano nel salone principale, in
compagnia
di Diane e Martin.
Jeremy
le corse incontro, contento. "Mamma, sei già tornata!
Facciamo
l'albero?" - le chiese, indicandole il grosso abete che
troneggiava al centro della sala.
Demelza,
quasi non lo vedesse, mentre Martin e Diane la guardavano con
preoccupazione, scosse la testa. "Devo stare via alcuni giorni,
potete tenermi i bambini?" - chiese al suo socio e alla moglie.
Jeremy
sgranò gli occhi, tirandola per la manica. "Ma mamma,
l'albero?".
"Non
ho tempo per l'albero, ti ho detto che devo andare via" – gli
rispose, con fare assente.
Jeremy
si imbronciò, dandole una pacca sul braccio, rabbioso. "Sei
cattiva, me lo avevi promesso".
Demelza
lo guardò ma era come se non lo vedesse, in quel momento.
"ORA
BASTA, SMETTILA!".
Jeremy
sussultò mentre i suoi occhi diventavano lucidi e Clowance,
a pochi
passi da loro, scoppiò a piangere.
Diane
si avvicinò, cercando di ristabilire la calma. "Bambini,
fate i
bravi con la mamma, sicuramente ha un qualcosa di urgente da fare".
Jeremy
indietreggiò. "Sì, lei ha sempre cose urgenti da
fare lontano
da noi". La guardò un'ultima volta, rabbioso, poi corse via
dal
salone mentre Clowance continuava a piangere.
Demelza
lo guardò sparire alla sua vista, sentendosi impotente e
allo stesso
tempo in colpa per quella reazione avuta con lui. Non aveva mai
alzato la voce coi suoi figli e lo aveva fatto ora, quando Jeremy
aveva tutte le ragioni per essere arrabbiato con lei. Si
chinò,
prendendo Clowance fra le braccia, cercando di calmarla. "Shhh,
scusa, non volevo spaventarti" - le disse, cullandola.
"Demelza,
cosa è successo?" - chiese Martin, avvicinandosi.
"Ho
rivisto Ross" – rispose, semplicemente. "Ha avuto un
incidente davanti alla mia locanda e ora è nel mio vecchio
appartamento, in coma".
L'uomo
spalancò gli occhi. "Ross? Tuo marito? Ma non è
possibile,
come è potuta accadere una cosa simile? Un incidente a lui,
qui a
Londra, davanti alla tua locanda? E' assurdo!".
"Già,
assurdo. Era lì, sul selciato e... non riesco a chiedermi il
perché,
come sia successo, non so niente... Ma il medico dice che non deve
stare solo e io non ho altra scelta se non...".
Diane
le sfiorò la spalla, dandole una carezza. "Cureremo noi i
bambini, sta tranquilla, staranno bene. Fa quel che devi".
Annuì,
stringendo a se Clowance. Già, doveva fare quel che era il
suo
dovere verso Ross ma soprattutto verso suo figlio che aveva ferito
pochi istanti prima. "Vado da Jeremy, adesso. Dite alla mia
cameriera personale di prepararmi una valigia con dei cambi d'abito,
starò via per un po' di giorni, finché la cosa
non si risolverà,
in un modo o nell'altro.
"Va
bene".
Con
la piccola Clowance, salì nella camera dei giochi al primo
piano
dove Jeremy, silenzioso, si era messo a giocare col suo cavallo a
dondolo. Si avvicinò a lui, inginocchiandosi al suo fianco.
"Mi
dispiace, non volevo alzare la voce con te. Ho sbagliato ma oggi
è
stata una giornata tanto difficile e... non sono in me".
"Sei
una bugiarda, mamma" – rispose lui, senza voltarsi.
Abbassò
lo sguardo, ferita da quelle parole che però sapeva di
meritarsi.
"Non volevo mentirti, volevo davvero fare l'albero con te ma
è
successa una cosa grave e devo stare via un po' di giorni. Ma per
Natale sarò a casa, giuro. Niente al mondo potrebbe
impedirmi di
passare quel giorno con voi". Non stava mentendo perché, se
quello che il dottore diceva corrispondeva a verità, se Ross
non si
fosse svegliato a breve, non sarebbe arrivato vivo a Natale. Se si
fosse ripreso, invece, avrebbe organizzato la sua convalescenza
pagando qualcuno per stare con lui.
"Davvero?".
"Certo".
Gli accarezzò la guancia, asciugandogli le lacrime che la
bagnavano.
"Devo fare una cosa importante Jeremy, davvero tanto, tanto
importante".
"Per
il tuo lavoro?".
Sorrise,
tristemente. "No, non per il mio lavoro, ma per me, te e
Clowance". Era vero, anche se Ross era lontano, anche se non
erano più una famiglia, rimaneva il padre dei suoi figli e
aveva
bisogno di sapere che al mondo, benché non vivessero
più insieme e
lui non si prendeva più cura di loro, lui esisteva. Era
importante,
soprattutto per i suoi bimbi.
Clowance
si rannicchiò fra le sue braccia, più tranquilla
e alla fine anche
Jeremy, sceso dal cavallo a dondolo, corse ad abbracciarla. "Giura
che torni, per Natale".
"Lo
giuro!". Non avrebbe mai infranto quella promessa...
Jeremy
si tirò su, guardandola negli occhi. "E allora, vai a fare
la
tua cosa importante. Noi ti aspettiamo qui".
Annuì,
colpita dalla serietà di suo figlio che, forse, aveva capito
molto
più di quanto lei gli aveva detto.
Affidò
i bimbi ai Devrille e, dopo aver finto una serenità che non
possedeva nel salutarli, tornò alla locanda. Prese i libri
contabili
e li portò al piano di sopra per controllarli mentre
vegliava Ross e
poi, dopo aver congedato Leslie, si tolse gli eleganti abiti di lana
che indossava per mettersi addosso qualcosa di più semplice
e
pratico, vestiti tanto simili a quelli che portava una volta in
Cornovaglia. Si legò i capelli in una lunga treccia, accese
una
candela sul comodino e, finalmente, trovò il coraggio per
sedersi
accanto a lui.
Lo
guardò, realizzando che lei e suo marito non erano
così vicini da
quasi tre anni. Scosse la testa, decisa a relegare ogni sentimento in
fondo al cuore, per non farsi sopraffare da rabbia, dolore e
preoccupazione. Doveva rimanere fredda e lucida per occuparsi di lui
al meglio ma era difficile. Era Ross che aveva lì davanti e
lui
stava male, era distante e a un passo dalla morte e questo, anche se
fingeva che non era così, la terrorizzava.
Quasi
con timore gli scostò i ciuffi neri dalla fronte, osservando
il suo
viso pallido, sofferente e allo stesso tempo bello e perfetto come lo
ricordava, scorgendo in lui tratti di Jeremy e di Clowance. Era il
loro padre, era l'uomo che avrebbe sempre amato, dopo tutto... E
ritrovarselo davanti così la annientava e la faceva sentire
impotente sia verso i suoi sentimenti che verso di lui e il suo stato
di salute.
Deglutì,
allontanando la mano da lui, prese un panno, lo immerse nella
bacinella piena d'acqua e poi, delicatamente, gli bagnò le
labbra.
Fuori
imbruniva, faceva freddo e Demelza lo sapeva, sarebbe stata una
lunghissima notte, quella.
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Capitolo 22 *** Capitolo ventidue ***
Era
da due giorni che non chiudeva occhio ed era stravolta, talmente
stanca che si sarebbe potuta addormentare ovunque. Ma purtroppo non
se la sentiva di dormire, di andare a riposare in un'altra stanza e
di lasciare Ross alle cure di qualcun altro, anche se Leslie e gli
altri suoi lavoranti della locanda si erano offerti di darle una mano
per permetterle di riposare.
Andava
avanti, per inerzia, dondolandosi sulla sedia a dondolo accanto al
letto, sfogliando di tanto in tanto, distrattamente, i libri
contabili da controllare e non togliendo gli occhi di dosso a suo
marito.
Il
perché Ross fosse lì a Londra le era ancora
sconosciuto, sapeva
solo che era ferito gravemente e che il suo sonno era talmente
profondo che nessun medico, nemmeno il più grande luminare
di Londra
fatto chiamare il giorno prima, avrebbe saputo spezzare.
Si
prendeva cura di lui, passandogli un panno umido sulla pelle,
bagnandogli le labbra con una spugna, medicandogli la ferita sulla
testa. Nessuno avrebbe potuto mettere in discussione il fatto che era
un'efficente infermiera. Era questo che ci si aspettava da lei,
giusto? Erano questi i suoi doveri di moglie, malgrado tutto, doveva
accudirlo e prendersi cura di lui... E lo stava facendo, con gesti
assenti, meccanici, privi di qualsiasi sentimento o affetto. Si
sentiva svuotata, fredda e lontana da ogni emozione, non c'era amore,
non c'erano sentimenti nei suoi gesti e in quello che faceva per lui,
non c'erano carezze, abbracci, lacrime di preoccupazione, era come se
i suoi occhi si fossero prosciugati e il suo cuore inaridito.
Più di
una volta era stata tentata dall'idea di farlo trasportare
all'ospedale cittadino per farlo seguire da personale medico
qualificato, nessuno avrebbe potuto accusarla di niente, Ross non se
ne sarebbe nemmeno accorto e lei avrebbe potuto far finta che nulla
fosse successo e avrebbe potuto riprendere la sua vita, tornare a
casa, fare l'albero di Natale coi suoi bambini e continuare a seguire
i suoi affari, senza altre preoccupazioni.
Sarebbe
stata la strada più facile... Eppure non se la sentiva di
seguirla e
di abbandonarlo a se stesso, anche se le aveva fatto del male, anche
se non l'aveva mai amata e non aveva avuto cura nemmeno di suo
figlio. Non riusciva ad abbandonarlo a se stesso e lo guardava in
silenzio, dalla sedia a dondolo, trovandolo solo, smarrito, debole e
indifeso... Ed era così strano vederlo così, lui
sempre tanto
forte, coraggioso, testardo, incosciente e indistruttibile...
La
voce di Leslie la raggiunse da dietro la porta, dopo che la ragazza
ebbe bussato. "Signora, ci sono visite per voi".
Stancamente,
Demelza si alzò dalla sedia, dirigendosi verso la porta. Chi
diavolo
poteva essere? Non aspettava nessuno e non aveva certo voglia di fare
conversazione. Aprì la porta con un gesto seccato. "Chi
sarebbe?".
La
ragazza annuì, facendole segno con la testa verso il fondo
del
corridoio. "Miss Penvenen".
Demelza
chiuse gli occhi, stanca, sospirando. "Caroline...". Voleva
stare sola ma stranamente, sentire che l'amica era lì, la
rincuorava. Uscì dalla stanza e corse verso la ragazza che,
nel suo
mantello azzurro, la aspettava all'imbocco delle scale. La
abbracciò,
aggrappandosi a lei come una bambina, lasciandosi andare a un pianto
sommesso e disperato che, si rese conto solo in quell'istante, aveva
bisogno di fare. "Caroline, è successa una cosa..." -
singhiozzò, col viso affondato nel suo collo.
L'ereditiera
la abbracciò, accarezzandole la schiena. "Lo so, si tratta
di
Ross. E' una cosa talmente assurda...".
"L'hai
sentito in giro?".
Caroline,
con sguardo grave, scosse la testa. "No. Lo sapevo già di
mio,
sapevo che Ross sarebbe arrivato a Londra". La lasciò andare
e
si scostò di lato, mostrando a Demelza la persona che era
giunta con
lei.
"Dwight...".
Demelza spalancò gli occhi dalla sorpresa, quasi svenne, era
come se
un altro pezzo del suo passato, dopo Ross, fosse tornato a
tormentarla e a chiederle il conto per le sue scelte.
Osservò il
dottore, dallo sguardo sempre gentile e pulito come lo ricordava, poi
Caroline. "Come puo' essere...?".
Dwight
le si avvicinò e dopo averle lanciato una lunga e penetrante
occhiata, senza dire nulla, la abbracciò. "Demelza..." -
sussurrò, fra i suoi capelli.
"Oh
Dwight". Non capiva cosa stesse succedendo ma l'abbraccio di
Dwight era dolce, confortevole e sapeva di cose antiche che le
mancavano, nonostante tutto. Però, cosa ci faceva
lì anche lui? Era
con Ross a Londra? Aveva incontrato Caroline per caso, cercando
l'amico che aveva avuto un incidente? Sapeva che lui e suo marito
erano tornati dalla guerra molti mesi prima, glielo aveva comunicato
George che per dispetto non mancava mai di tenerla aggiornata sui
movimenti della Cornovaglia, suo malgrado, benché non ne
volesse
sapere nulla. Ma nonostante tutto, era davvero una cosa assurda
quella che stava succedendo. "Cosa ci fai qui anche tu? Con
lei". Diede una penetrante occhiata a Caroline, cercando delle
risposte.
L'amica
guardò Dwight, annuendo. "Glielo dico io".
"Dirmi
cosa?". Ora cominciava ad essere irritata perché avvertiva
di
essere parte di un qualcosa che le sfuggiva.
Caroline
le prese la mano, stringendola. "E' Dwight l'uomo che
sposerò
in primavera".
Demelza
si voltò verso il dottore, stupita. E anche felice che fosse
lui,
ma... Le mancava un pezzo, un qualcosa che le facesse apparire il
quadro completo. Si erano lasciati tre anni prima e Caroline aveva
più volte affermato di non volerne sapere più
niente di lui. Come
si erano rincontrati? E perché non glielo aveva voluto dire?
E
soprattutto, se era da Dwight che Caroline andava, quando passava
settimane lontana da Londra, quanto era stata vicina a Ross che era
il migliore amico del suo fidanzato? "Perché non me lo hai
detto?".
Caroline
guardò Dwight, come in attesa di un aiuto, e Demelza si
oscurò.
"Cosa mi state nascondendo?".
Dwight
poggiò la mano sulla sua spalla, obbligandola a guardarlo
negli
occhi. "E' stato Ross a farci rincontrare, la scorsa primavera".
Demelza
li guardò, stupita. "E' grazie a lui che siete tornati
insieme?".
"Sì".
Caroline la prese sottobraccio, obbligandola a seguirla nella stanza
dove riposava suo marito. Appena entrate, lanciò un'occhiata
preoccupata all'uomo che giaceva privo di sensi nel letto. "Sta
molto male? E' grave?" - chiese, mentre anche il suo fidanzato
entrava nella stanza.
Demelza,
irritata, si morse il labbro. "Sì, sta male! E ora voglio
delle
spiegazioni".
Dwight
si avvicinò a Ross per visitarlo e Caroline si
appoggiò alla parete
della camera. "Il debito che tre anni fa fece rischiare a Ross
la prigione per debitori, fui io a pagarlo. Era il migliore amico di
Dwight ed era una persona che ammiravo e risvegliava in me
curiosità
e così lo feci, pregando Pascoe di mantenere il mio
anonimato".
"Sei
stata tu?". Demelza era sorpresa. Per tutto quel tempo, Caroline
non le aveva detto nulla di quel grande aiuto che aveva dato a lei e
alla sua famiglia, salvando suo marito da due anni di carcere, e
questo era uno di quegli aspetti che facevano di lei la meravigliosa
amica che era da anni.
"Sì,
sono stata io. Poi, dopo la rottura con Dwight, sono tornata a Londra
e ho ripreso la mia vita, cercando di dimenticare tutto quanto della
Cornovaglia, dimenticando anche quel prestito che feci a Ross e che
dopo tutto non mi comprtava problemi finanziari. Ma mesi dopo ho
incontrato te, siamo diventate amiche e tutto è filato via
liscio
fino alla scorsa primavera perché Ross, tornato dal fronte,
aveva
trovato la Wheal Grace attiva, prospera e ricca e aveva i soldi per
ripagare il suo misterioso debitore. Lo conosci meglio di me, sa
essere molto incisivo ed insistente e ha ottenuto da Pascoe il mio
nome. E così è venuto da me, me lo sono ritrovata
davanti casa a
sorpresa e alla fine, dopo che mi ha restituito un acconto del
prestito, ha talmente insistito per farmi incontrare Dwight, che alla
fine ho dovuto cedere e sono partita con lui per la Cornovaglia. Hai
un marito davvero convincente e testardo, sappilo".
A
dispetto di tutto, lanciando un'occhiata al letto dove giaceva Ross,
Demelza sorrise, provando uno strano senso di orgoglio verso di lui e
quello che aveva fatto. "E così hai rivisto Dwight e hai
scoperto che l'idea di dar retta a Ross non era poi così
male".
Caroline
sorrise. "Esatto. Ho poi rivisto Ross in estate, quando è
tornato a Londra per saldare il prestito e alcune volte in
Cornovaglia, quando sono andata a trovare Dwight. Non volevo
tenertelo nascosto ma non sapevo come dirtelo che era ricomparso
nella mia vita, mi trovavo in un vicolo cieco, sia nei suoi confronti
che nei tuoi".
Demelza
annuì, capendo cosa intendesse. In effetti, Caroline si era
trovata
suo malgrado in una situazione davvero infelice. Osservò
Dwight che,
assorto, medicava la ferita di Ross e lo visitava, non capendo
ancora, però, cosa ci facesse a Londra suo marito. "Gli hai
detto di me?".
Caroline
scosse la testa. "No, te lo giuro! Mai il discorso è caduto
su
di te, nelle nostre conversazioni! E sono stata ben attenta a fare in
modo che non succedesse, non ti avrei mai tradita. Solo Dwight sa di
te, gli ho raccontato della tua vita di ora, lui sa tutto. Ma Ross
è
all'oscuro di ogni cosa".
Dwight,
dal letto, alzò gli occhi su di lei. "Sono davvero senza
parole
Demelza, ne hai fatta proprio tanta di strada! Complimenti, Caroline
mi ha detto che ormai sei una fra le donne più potenti e
ricche di
Londra e non me ne stupisco, l'ho sempre saputo che sei in gamba".
"Grazie,
ma al momento ho poca voglia di essere adulata. Ditemi il resto della
storia, perché c'è un resto! Ditemi che diavolo
ci fa Ross qui ora,
visto che mi avete detto che il suo debito era stato saldato in
estate".
Caroline
impallidì, prese un profondo respiro e raccontò
tutto, di come lei
e Dwight avessero deciso di aiutare Ross come lui aveva fatto con
loro, di come avessero ideato il piano per farlo venire a Londra e di
come avessero organizzato un incontro casuale fra loro due, alla
locanda. Incontro mai avvenuto a causa dell'incidente.
Al
termine del racconto, Demelza si mise le mani nei capelli. "Santo
cielo, cosa avete fatto!? Non dovevate, Caroline tu lo sapevi che non
volevo vederlo! E ora, a causa della vostra idea, è fra la
vita e la
morte!".
Caroline
abbassò lo sguardo, stringendosi nel mantello. "Santo cielo,
se
avessimo saputo che sarebbe andata a finire così, non
avremmo mai
ideato un piano simile. Demelza, ti prego, non odiarci".
Demelza
sorrise, amara. "Odiarvi non servirebbe a nulla, ormai il danno
è fatto. Non volevo rivedere Ross ma ormai è qui,
in queste
condizioni, e dobbiamo cercare di farlo stare meglio".
Dwight
annuì. "Vai a riposare, hai una faccia stravolta e hai
bisogno
di dormire. Resto io qui con lui".
Caroline
la prese sottobraccio. "Dai, ti accompagno nella camera di
Jeremy. C'è il suo letto ancora fatto, giusto? Almeno potrai
coricarti un po' e dormire".
Demelza
le lanciò un'occhiataccia, le avrebbe volentieri riempito la
faccia
di schiaffi ma sapeva anche che era sempre stata un'amica sincera,
gentile, altruista e buona, che l'aveva aiutata in mille modi e che
aveva fatto quello che aveva fatto in buona fede. Non riusciva
davvero ad avercela con lei, era la sua migliore amica ed era
soprattutto troppo stanca per litigare sul serio con qualcuno.
Guardò
Ross, sapendo che con Dwight sarebbe stato al sicuro e accudito e si
lasciò condurre nell'altra stanza.
Appena
Caroline chiuse la porta, si buttò sul letto di suo figlio,
stravolta, e l'amica le si sedette a fianco.
"Dormi
quanto vuoi, ci pensiamo noi a lui".
Annuì,
nascondendo il viso nel cuscino. "Avete combinato un grosso
pasticcio, lo sai?".
"Si.
A proposito Demelza, c'è ancora una cosa che devi sapere su
Ross".
Alzò
lo sguardo su di lei, preoccupata dal tono serio della sua amica. Che
altro poteva esserci, ancora? "Dimmi pure, a questo punto non mi
stupisco più di niente".
Caroline
si morse il labbro, prendendo a giocare nervosamente con le mani con
la stoffa del suo abito. "Ross ha visto Clowance".
"Cosa?".
"La
scorsa estate, quando è venuto a casa mia per saldare il
prestito,
Clowance era da me e lui l'ha vista. Giuro che non avevo organizzato
la cosa, Ross era venuto a Londra senza avvertirmi e la bimba ci
è
piombata nel salone e...".
Demelza,
con gli occhi sbarrati, si mise a sedere. "Ross e Clowance?".
Caroline
annuì. "Si, gli ho detto che era la figlia di un'amica e che
sarebbe stata la mia damigella al matrimonio, non ha sospettato
nulla".
Al
pensiero di Ross assieme a Clowance, le si strinse il cuore. Erano
padre e figlia e ignoravano entrambi l'esistenza l'uno dell'altra.
Clowance era stata col suo papà e non sapeva se la cosa la
rendesse
felice o furibonda. "E non è successo nulla di strano?".
Caroline,
con un sorriso, le accarezzò la guancia. "Credo che se ne
sia
perdutamente innamorato. Il modo in cui la guardava era così
tenero,
dolce e malinconico... Ma tranquilla, non ha la minima idea che sia
sua".
Demelza
si oscurò, decisa a chiudere il discorso, era troppo stanca
per
pensare. "Voglio dormire, ora". Si buttò sul letto,
nascondendosi sotto le coperte, sconvolta da quanto aveva appena
sentito.
"Demelza,
dormi ma dopo parla con Dwight. Ha tante cose da dirti su Ross".
"Ti
ho detto che voglio dormire!" - rispose perentoria, chiudendo
ogni discussione fra loro. Non voleva più sentire nulla,
desiderava
solo isolarsi dal mondo e da tutti i problemi che gli erano piombati
addosso come una valanga. Chiuse gli occhi e crollò in un
sonno
profondo, perdendo la cognizione del tempo e di quello che la
circondava.
Si
risvegliò che era ormai buio, rendendosi conto con terrore
che aveva
dormito parecchie ore. Non si era accorta di essere tanto stanca
finché non aveva poggiato la testa sul cuscino.
Dopo
essersi risciacquata il viso e essersi data una sistemata agli abiti
e ai capelli, tornò nella stanza di Ross, col terrore che
gli fosse
successo qualcosa mentre dormiva. Quando entrò, la stanza
era
illuminata da numerose candele e dal camino acceso e Caroline e
Dwight erano al suo capezzale.
Osservò
il marito, ancora perso in quel profondo sonno da cui pareva non si
sarebbe mai risvegliato. Dwight la salutò con un cenno del
capo e
lei fece altettanto, con fare assente. "Come sta?".
Caroline,
seduta su una sedia accanto al fidanzato, sospirò. "Come
prima,
non è cambiato nulla. Dwight lo ha medicato e visitato e gli
ha
cambiato la camicia perché era sudato. Gli è
salita la febbre nelle
ultime ore".
Deglutì.
Ci mancava solo la febbre, a quella situazione già di per se
tragica. "Come mai?".
Dwight
scosse la testa. "Nella sua situazione è normale, il suo
fisico
sta combattendo una dura battaglia".
"Già".
Demelza si avvicinò al letto, appoggiandosi poi alla parete
accanto
ad esso, chiedendosi insistentemente quanto ci fosse di davvero
normale in quella situazione. "I dottori che lo hanno visitato
prima di te, hanno detto che sarà difficile che si svegli".
Dwight,
seduto sul letto accanto a Ross, si alzò. "Ross ha una
tempra
invicibile, sono sicuro che ci stupirà tutti".
"Se
lo dici tu..." - rispose Demelza, in tono piatto.
"Vuoi
metterti quì vicino a lui?".
A
quella domanda di Dwight, Demelza scosse la testa. "No, sto bene
qui".
Il
dottore le sorrise dolcemente, allungando una mano ad accarezzarle la
guancia. "A Ross non servono medicine o luminari, a lui serve
avere vicino la persona che ama".
Demelza
sorrise freddamente. "E allora, dovremmo chiedere a George
Warleggan di prestarci Elizabeth per qualche giorno" –
commentò, sarcastica.
Dwight
e Caroline si guardarono negli occhi e poi l'uomo le si
avvicinò,
poggiando la mano sulla sua spalla. "Demelza, ti prego, so che
ti ha ferita e che sei stanca, ma per favore, prenditi cura di lui".
"Lo
sto facendo da due giorni, mi pare".
Il
medico sospirò. "Certo, sei una bravissima infermiera e non
gli
fai mancare nulla di materiale. Ma... Sai cosa intendo, vero? Stagli
vicino, stagli vicino davvero, fagli sentire il tuo affetto, che sei
accanto a lui. Sii sua moglie, non la sua badante. Demelza, Ross ha
bisogno di te, è un uomo perso, distrutto, da quando te ne
sei
andata".
Demelza
osservò il marito, così pallido, indifeso e
inerme. Era l'uomo che
aveva amato e l'uomo che l'aveva fatta soffrire a lungo, senza
curarsi minimamente del male che le stava facendo. E ora le si
chiedeva di annullarsi nuovamente, per lui? Lo stava facendo, certo,
meglio che poteva. Ma non avrebbe ceduto nuovamente all'amore per
lui, non si sarebbe fatta ancora del male, se lo era lasciato alle
spalle e stava bene adesso, da sola. "Doveva pensarci prima, ora
è troppo tardi".
Dwight
abbassò lo sguardo, forse colpito dalla sua freddezza.
"Ross,
in questi anni, è cambiato tanto Demelza. Non gli importa
nulla di
Elizabeth e di quell'amore che aveva tanto idealizzato. Sei tu la
donna che ama e a cui ha pensato sempre, ogni giorno, sia in
Cornovaglia che in Francia, quando eravamo insieme nell'esercito. E'
solo, smarrito, pentito e disperato per gli errori che ha fatto, per
averti fatta soffrire, per non essere stato capace di essere un buon
padre per Jeremy e per averti fatto talmente male da costringerti ad
andartene. Odia quella notte in cui è stato con Elizabeth e
odia se
stesso per aver tradito te, il vostro matrimonio e il vostro amore.
Sai, ora si dedica anima e corpo alla miniera, non ha altro nella
vita. Lavora come un matto e la sera torna a Nampara, da solo.
Darebbe via tutto ciò che ha per riabbracciarti e per
ritrovare il
suo bambino. E sarebbe l'uomo più felice della terra, se
sapesse che
è padre anche di una bimba. Conosco Ross da tanto,
è poco incline a
mostrare i suoi sentimenti agli altri ma solo quando riguardava te,
l'ho visto fragile e smarrito: quando eri malata ed è morta
Julia e
in questi ultimi anni vissuti senza averti accanto. Ha aiutato molto
me e Caroline, ha lavorato come un pazzo per migliorare le condizioni
di vita dei suoi minatori e non ha mai chiesto nulla in cambio a
nessuno. So che sei arrabbiata con lui, che hai la tua vita ora, ma
ti prego, non voltargli le spalle, tu e i bambini siete l'unica
famiglia che ha e che ama".
Demelza
rimase in silenzio ad ascoltarlo parlare di Ross, quel marito che una
volta conosceva come le sue tasche ma che ora, dopo anni di
lontananza, era come un libro che ancora non aveva sfogliato. Dwight
parlava ed era come riscoprirlo di nuovo, era come colmare un vuoto
lungo quasi tre anni in cui di lui non sapeva niente. Eppure,
benché
fosse bello sentire quelle cose, non riusciva a crederci, non del
tutto. Ross non si era mai curato di lei e di quanto lo amasse,
l'aveva trattata come l'ultima delle sue priorità, non aveva
mai
lottato né per lei né per Jeremy e quindi,
perché avrebbe dovuto
farlo dopo che se n'era andata, quando era troppo tardi? Non era un
controsenso, quello?
"Demelza,
a volte le persone sbagliano. Ma la grandezza di un uomo sta nel
riconoscere i propri errori e lottare per migliorarsi. Ross lo ha
fatto e ora sta a te dargli una seconda opportunità"
–
concluse Caroline, chiudendo il discorso di Dwight.
Demelza
guardò Ross, lanciandogli una lunga occhiata. Poi si
staccò dal
muro dove si era appoggiata e, incerta, si mise seduta sul letto,
accanto a lui. "Andate a casa, è molto tardi e io ho
riposato a
sufficienza".
"Demelza,
ti prego, stagli vicino" – la implorò, Dwight.
"Sono
qui con lui e gli starò accanto finché non
starà bene. Per ora non
posso fare che questo".
Dwight
sospirò, avvicinandosi a Caroline a prendendola
sottobraccio.
"Tornerò domani mattina per visitarlo. Pensa alle mie
parole,
per favore, cerca di volergli bene come sapevi fare una volta
nonostante tutti i suoi errori, fallo adesso che ne ha davvero
bisogno".
Demelza
annuì, non troppo convinta. Guardò i due amici
andarsene e sparire
dietro la porta e poi, rimasta sola, finalmente si voltò
verso di
lui, sfiorandogli la guancia con una carezza leggera, decidendo di
rivolgergli la parola per la prima volta da quando lo aveva rivisto.
"Ross Poldark, quello che mi ha detto Dwight io non so se sia
vero, forse lo è ma era dalla tua voce che volevo sentire
quelle
parole, tanto tempo fa. Sappi che sono fiera di te e di quello che
hai fatto per Caroline e Dwight, sei riuscito a fare in modo che
siano felici e questo in fondo è da te, da sempre ti
preoccupi che
le persone che ti stanno attorno stiano bene. Non lo hai fatto per me
e per nostro figlio ma so che hai sempre lottato per tutti gli altri
e in fondo questo fa di te una brava persona. Sono meno orgogliosa
del fatto che tu sia andato in guerra, a mettere a repentaglio la tua
vita. Anzi, sono proprio arrabbiata per questo ma suppongo di non
avere più voce in capitolo nelle scelte della tua vita, come
del
resto tu non ne hai nelle mie. Tanto tempo fa sono stata malata e tu
mi hai preso la mano e mi hai implorato di tornare e ora faccio
altrettanto, ti sprono a tirare fuori la tua grinta e a svegliarti da
questo sonno". Gli strinse la mano, forte, per essere ancora
più
incisiva. "Non importa più quello che provi per Elizabeth,
quella notte e tutto il resto Ross, è passato tanto tempo e
ho
accettato il fatto che amassi lei più di me, non ho
più nulla da
chiederti e nulla da pretendere, eccetto una cosa: sei il padre dei
miei figli e io ho bisogno di sapere che sei vivo, da qualche parte!
E quindi sappi che potrei accettare tutto, dimenticare ogni cosa,
tranne una: azzardati a morire e io non te lo perdonerò mai"
–
concluse, avvicinando il volto al suo.
Rispose
il silenzio, ovviamente, e di certo non si aspettava null'altro.
Però, dopo alcuni istanti, sentì che la mano di
Ross, che stringeva
nella sua, debolmente, ricambiava la sua stretta. Sussultò,
stupita.
"Ross, mi senti?" - chiese, col cuore in gola, spinta ad
insistere. "Apri gli occhi, ce la fai?".
Ross
non riaprì gli occhi ma continuò a stringerle la
mano e si agitò
debolmente, spostando il viso sul cuscino, convulsamente.
"Demelza...".
Le
parve che le si fermasse il cuore, nel sentirlo parlare. La sua voce,
impastata, una voce che non sentiva da tanto, una voce che chiamava
il suo nome e non quello di Elizabeth. Il SUO nome... "Ross!"
- lo chiamò, scuotendolo lievemente.
"Dem...".
La
voce di suo marito si riperse nel sonno profondo in cui era
sprofondato. Per un attimo si era illusa che si stesse svegliando ma
evidentemente, quelli erano i deliri di un uomo che stava molto male.
Eppure... era lei che cercava, a dispetto di tutto, anche se non si
vedevano da anni e non poteva sapere di averla accanto. Vinta da
quelle emozioni e da quel che Dwghit le aveva detto poco prima,
cedette. Sapeva di farsi del male, sapeva che non avrebbe portato a
nulla di buono per lei ma non riuscì a resistere alla
tentazione di
mettersi accanto a lui, abbracciarlo e tenerlo vicino. "Torna
Ross, ti prego..." - gli sussurrò, accarezzandogli la testa
poggiata sulla sua spalla, ripetendo quelle stesse parole che lui le
aveva rivolto anni prima.
Si
addormentò tenendolo fra le braccia, quasi senza
accorgersene, in
una posizione semi-seduta che era forse scomoda ma che non avvertiva
come tale. Sentiva solo il calore del corpo di Ross vicino al suo, il
suo respiro affannato e la grande battaglia che lui stava combattendo
per riemergere dalle tenebre.
La
mattina arrivò anche troppo in fretta, gelida e nebbiosa
come i
giorni precedenti. Demelza si svegliò di soprassalto,
odiandosi per
essersi addormentata di nuovo, invece che vegliare su di lui.
Guardò
Ross che, fra le sue braccia, non si era mosso di un millimetro e gli
accarezzò i capelli delicatamente. Poi fece per alzarsi ma
la presa
del marito, su di lei e sulla sua mano, pareva ancora incredibilmente
forte. "Ross, lasciami, devo alzarmi" – gli intimò
gentilmente, senza aspettarsi che lui la sentisse.
E
proprio per questo il suo cuore quasi si fermò quando, a
quelle
parole dette più a se stessa che a lui, lo vide scuotere la
testa e
riaprire i suoi occhi neri su di lei.
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Capitolo 23 *** Capitolo ventitre ***
"Ross!".
Si sedette davanti a lui, gli prese il viso fra le mani per
costringerlo a guardarla e chiamò più volte il
suo nome. "Mi
senti? Riesci a parlare, a muoverti? Sai chi sei e dove ti trovi? Mi
riconosci?".
Ross
la fissò immobile, con lo sguardo annebbiato, senza
proferire
parola.
"Ross,
riesci a capire quel che ti dico?". Era terrorizzata da quello
sguardo assente, vacuo, perso. E se ciò che aveva detto il
primo
medico che lo aveva curato fosse stato vero? Se quell'incidente
avesse distrutto la persona che lui era?
"Ross,
d'accordo, non parlare ma se riesci, fammi un cenno e dimmi se mi
capisci".
Impercettibilmente,
a fatica, Ross annuì.
"Sai
chi sono?".
Fece
cenno di sì.
"Sai
dove ti trovi?".
Scosse
la testa, smarrito.
"Sai
cosa ti è successo?".
Ancora,
scosse la testa.
Demelza
sospirò, un pochino più rasserenata. A modo suo
Ross comunicava e
non era completamente scollegato dalla realtà che lo
circondava.
L'aveva riconosciuta e non aveva idea di cosa gli passasse nella
mente ad essersela trovata davanti, però il fatto che fosse
mentalmente presente era già un buon segno. Così
com'era un buon
segno che non riconoscesse l'ambiente che lo circondava, la sua casa
alla locanda gli era sconosciuta dopo tutto, e forse era anche
normale che non ricordasse nulla dell'incidente.
Si
alzò di scatto dal letto e corse al piano di sotto dove
Leslie stava
sistemando la locanda per l'apertura mattutina, incitandola ad andare
a chiamare di corsa Dwight a casa di Caroline Penvenen.
Poi
tornò di sopra, non sapendo bene cosa fare e come
comportarsi.
Rientrò nella stanza e, cautamente, gli tornò
vicino. Ross fissava
il soffitto, assorto o forse non del tutto cosciente, non sapeva
stabilirlo con esattezza. Con la mano gli sfiorò la fronte e
si
oscurò quando si accorse che la febbre era ancora molto
alta.
Immerse il panno nella bacinella d'acqua e glielo mise sulla fronte,
scrutandolo preoccupata.
Ross
reagì ruotando gli occhi verso di lei, osservandola in
quell'ostinato silenzio a cui lei non sapeva dare spiegazioni.
"Sta
tranquillo, fra pochi minuti arriverà Dwight".
Ross
non rispose, chiuse gli occhi e risprofondò in un sonno
profondo.
Dwight
arrivò mezz'ora dopo e Demelza rimase in corridoio ad
aspettare che
finisse di visitarlo. L'amico restò a lungo in camera,
chiuso dentro
con Ross, logorandola nell'angoscia di attendere.
Quando
uscì dalla stanza, due ore dopo esservi entrato, Dwight le
sorrise.
"Direi che siamo stati fortunati, starà bene. Certo, non
subito, sarà una cosa lunga ma credo che ne
uscirà indenne".
Demelza
scosse la testa, timorosa che Dwight cercasse di tirarle su il
morale. "Non riesce a parlare, fatica a muoversi, sembra
assente a tratti. Come puoi dire che va bene?".
"Demelza,
Ross è stato in coma per diversi giorni, non puoi pretendere
che si
svegli fresco come dopo un riposino pomeridiano. E' normale che sia
così e vedrai che andrà sempre meglio, giorno
dopo giorno
recupererà tutte le funzioni fisiche. E' cosciente e capisce
cosa
gli diciamo ed è già tanto, per uno nelle sue
condizioni".
"Davvero
capisce?".
Dwight
annuì. "Certo".
Demelza
lo guardò di rimando, con aria di sfida. "Allora spiegagli
dove
si trova, perché è qui e il motivo per cui ci
sono anch'io".
Davanti
al suo tono di voce vagamente irritato, Dwight deglutì.
"Accidenti,
sei cambiata, sai...".
"Non
sono cambiata, sono ancora arrabbiata!". Indicò la porta
della
stanza con la mano, non staccandogli gli occhi di dosso. "Tutto
questo è opera tua e di Caroline, non mia. Io non ho cercato
Ross e
Ross non ha cercato me, quindi ora darai a lui le spiegazioni che hai
dato a me giorni fa. Tu e Caroline siete dei cari amici, vi voglio
bene, ma non voglio essere coinvolta più di quanto sia
già, in
questa storia".
Dwight
annuì, abbassando lo sguardo. "Credo che tu abbia ragione e
che
spetti a me farlo. Ma ti prego, prenditi cura di lui".
"Lo
farò, conosco i miei doveri di moglie. Ma non
darò spiegazioni di
un qualcosa accaduto non per mia volontà".
"Bene
Demelza, tu farai il tuo dovere. E io il mio".
La
ragazza annuì. "E allora potremo tornare ad andare
d'accordo.
Ah, non una parola su di me con lui, né sui miei figli. Non
sa e non
dovrà sapere di Clowance e non voglio nemmeno che si parli
di Jeremy
con lui. Non lo ha voluto quando è nato e ora
resterà fuori dalla
sua vita. E quando starà bene, tornerà in
Cornovaglia e si
dimenticherà di avermi incontrato, specificaglielo bene".
"Demelza,
ti prego...".
"Specificaglielo
bene!" - ripeté perentoria, prima di tornare in camera dal
marito.
Nei
tre giorni seguenti Dwight passò gran parte della giornata
alla
locanda, al capezzale di Ross. Caroline faceva avanti e indietro e
Demelza gestiva la convalescenza del marito come meglio poteva,
dividendosi fra gli impegni di lavoro e la malattia di Ross che,
benché non parlasse, sembrava sempre più attento
e vigile.
Come
d'accordo, al terzo giorno, quando Ross sembrava più in
forma e
iniziava stentatamente di cercare di comunicare, Dwight gli
raccontò
la verità su quel viaggio a Londra e su come avesse saputo
da
Caroline dove vivesse sua moglie. Demelza, appoggiata alla parete, a
fianco della finestra, ascoltò in silenzio quel racconto,
senza
intervenire. Ross si voltò verso di lei, guardandola in
viso, e lei
sostenne il suo sguardo senza mutare l'espressione tirata del viso.
Alle
rivelazioni di Dwight, Ross reagì con sguardo stupito ma non
rabbioso come aveva fatto Demelza e guardava l'amico come se gli
fosse stato grato. La cercò ripetutamente con lo sguardo ma
lei,
finché non rimasero soli e calò la sera, non si
avvicinò al letto.
Sistemò
le lenzuola e la biancheria pulita negli armadi, diede una pulita
veloce alla camera e per tutta la giornata si perse in mille faccende
che le consentivano di non avere rapporti diretti con lui. Sapeva che
ora sarebbe arrivata la parte più difficile e che in fondo,
finché
Ross era stato semi-incosciente, era stato semplice stargli accanto.
Ma ora lui stava tornando alla vita, presto sarebbe stato in grado di
parlare e allora, evitarlo, sarebbe diventato un problema.
Quando
fu buio, approfittando del fatto che sembrava dormire, Demelza
riempì
la bacinella di acqua fresca e gli fece alcuni impacchi sulla fronte
ancora bollente. Si sedette accanto a lui, scrutandolo in viso,
accorgendosi di quanto fosse ancora pallido e sofferente e
chiedendosi cosa provasse dopo il racconto di Dwight. Rimase
lì per
lunghi minuti e poi, quando fece per alzarsi e accomodarsi sulla
sedia a dondolo, la mano di Ross prese la sua, stringendola ed
impedendole di allontanarsi.
"Dem..."
- sussurrò, a fatica.
Spalancò
gli occhi. Dannazione, era sveglio! Con un gesto veloce
scostò la
mano dalla sua, librandosi dalla sua stretta. "Cerca di
riposare, sei molto debole" – disse, col tono in cui si
impartisce un ordine.
Ross
si voltò verso di lei, guardandola con sguardo ferito.
"Demelza...".
Allungò la mano, cercando di riprendere la sua, ma lei fu
più
veloce e si allontanò di scatto dal letto. "No, non mi devi
toccare".
Ross
chiuse gli occhi, annuì e non tentò
più nulla. Pochi istanti dopo
ripiombò in un sonno profondo che durò tutta la
notte.
Demelza
si rintanò sulla sedia a dondolo, rannicchiandosi sotto una
coperta,
sollevata dal fatto che si fosse addormentato ma sentendosi allo
stesso tempo in colpa, anche se non ne capiva il motivo. Stava
facendo fin troppo per lui e non aveva nulla di cui rimproverarsi,
dopo tutto...
Lo
guardò dormire, notando in lui tante cose di Jeremy e
Clowance e
sentendo una fitta al cuore. Non aveva mai desiderato molto dalla
vita, tutto quello che aveva voluto davvero era il suo amore, che
fosse un marito innamorato e un padre devoto per i suoi figli. E
invece... Le tornarono in mente tanti episodi in cui le aveva voltato
le spalle, facendola sentire l'ultima degli ultimi, la sua arroganza
in certi frangenti, le mille preoccupazioni che le aveva fatto vivere
per i suoi trascorsi con la giustizia. Aveva trovato la pace in
quegli ultimi anni, perché Caroline e Dwight avevano voluto
riportarlo nella sua vita?
Persa
in quei pensieri si addormentò, in un miscuglio di ansia,
preoccupazione e rabbia, mentre i ricordi brutti che l'avevano
tormentata fino a pochi minuti prima si mischiavano ad altri ricordi,
dolci, belli, felici, di quando lei e suo marito sembravano una
coppia innamorata, chiedendosi, nel dormiveglia, quale fosse il vero
Ross, se quello dell'inizio del loro matrimonio o quello che aveva
conosciuto dopo la morte di Francis.
Nei
giorni seguenti, come aveva detto Dwight, Ross migliorò
gradatamente. Ricominciò a dire qualche parola, a rispondere
sempre
meglio agli stimoli e a muoversi più agilmente, anche se
ancora non
gli era possibile né stare seduto, né tanto meno
alzarsi per
tentare di camminare. La testa gli faceva ancora molto male ed era
preda di vertigini fortissime quando tentava di tirarsi su, e Demelza
gli aveva intimato di rimanere steso.
Come
promesso a Dwight, non lo aveva abbandonato ed era rimasta sempre
accanto a Ross, prendendosi cura di lui e soddisfando ogni suo
bisogno. Aveva anche ripreso a parlargli, per questioni puramente
pratiche, e Ross ubbidiva a quello che gli diceva senza opporre
resistenza, continuando a scrutarla con quegli occhi neri e profondi.
Dopo
una settimana dal suo risveglio, Ross aveva riacquistato la
facoltà
di parlare, riuscendo, con Dwight, a intavolare qualche breve
conversazione, quando di giorno rimaneva lì a prendersi cura
di lui.
Con
lei invece si limitava ad annuire quando gli parlava di
futilità
come il pranzo, la cena, quando lo aiutava a cambiarsi la camicia e
quando gli dava le medicine, tanto che quella specie di mutismo aveva
iniziato a sembrarle confortevole e ormai non provava più
imbarazzo
a stare da sola in camera assieme a lui.
E
proprio per questo, la sera che sanciva la prima settimana di
risveglio dal coma, Demelza sussultò quando lui le prese di
nuovo la
mano, stringendo talmente forte che lei non riuscì a
sottrarsi a
quel contatto. "Demelza, ti prego, parlami..." - la
implorò.
Col
fiato corto, presa in contropiede, lo guardò. "Lo faccio, mi
pare".
"No,
non lo fai...".
"Non
ho niente da dirti più di quello che ti comunico durante la
giornata, sai tutto quello che c'è da sapere e che ti ha
detto
Dwight e quindi non trovo altri argomenti di conversazione da
intavolare con te".
Ross
scosse la testa. "Ma... non ci vediamo da quasi tre anni...".
"Già,
e avremmo continuato a non vederci, se Dwight e Caroline non si
fossero intromessi".
Ross
le strinse ancora di più il polso, intrecciando poi le dita
con le
sue, come faceva tanto tempo prima, quando facevano l'amore insieme.
"Dimmi qualcosa di te... Dove siamo, cosa fai, come stai...
Parlami di Jeremy...".
Lo
guardò, irritata e allo stesso tempo confusa da quel
contatto che le
faceva quasi bruciare la mano. Sapeva che sarebbe arrivato quel
momento, dannazione! E non ci era preparata. "Ti trovi
nell'appartamento sopra la locanda che gestisco, sto bene, ho un buon
giro d'affari e, grazie a qualche investimento azzeccato, posso
definirmi... benestante...". Beh, era stata molto evasiva, non
aveva accennato alla portata degli affari e del denaro a sua
disposizione e allo stesso tempo lo aveva rassicurato sulle sue
condizioni finanziarie, Ross poteva dirsi soddisfatto,
pensò. Anche
se era strano definirsi 'benestante' perché da due anni a
quella
parte era diventata decisamente ricca, ma non aveva voglia di
metterlo al corrente del giro d'affari che gestiva. "Contento e
soddisfatto, ora?".
"Jeremy?"
- insistette lui.
"Sta
bene" – rispose, secca.
"Dov'è?
Qui non c'è e non ho mai sentito la sua voce".
"Vive
nella mia nuova casa, ad alcuni isolati da qui. Questo dove siamo
ora, è il primo appartamento che ho occupato a Londra dopo
che me ne
sono andata da Nampara, ma adesso posso permettermi una casa
più
grande e lui è la, assieme a persone che si occupano di lui
fintanto
che sono qui con te".
Gli
occhi di Ross divennero lucidi. "E' cresciuto?".
Demelza
sorrise freddamente a quella domanda, mentre una strana rabbia
prendeva possesso di lei. Ross aveva sempre ignorato suo figlio e ora
giocava a fare il padre premuroso? Ora che era troppo tardi? "Certo
che è cresciuto! Sta bene, è un bambino sensibile
ed intelligente e
anche se ha solo cinque anni, sa già leggere e scrivere".
Diede
uno strattone alla sua mano, liberandosi dalla stretta del marito. "E
ora, direi che puoi dormire! Ho necessità che tu guarisca
presto, ho
un sacco di cose da fare".
"E
quando sarò guarito?".
A
quella domanda, uno strano silenzio lungo alcuni istanti si
creò fra
loro. Era irritata, quasi sull'orlo del precipizio, pronta ad
esplodere e a urlargli in faccia tutto il dolore e la delusione che
l'avevano accompagnata per anni. Cosa voleva ora da lei, cosa
pretendeva? Cosa si era messo in testa? "Quanto sarai guarito,
tornerai a casa tua! Mi pare che laggiù tu abbia una miniera
da
mandare avanti".
"Torna
con me".
"Perché?
Prudie non ti tiene abbastanza pulita la casa e hai bisogno di una
sguattera? La Wheal Grace va bene ora, assumi altro personale".
Ross
rimase colpito da quelle parole velenose a cui non era abituato e i
suoi occhi si inumidirono. "Non ho bisogno di una sguattera...
Ho bisogno della mia famiglia".
A
quelle parole, decise che voleva fargli un po' del male che lui aveva
fatto a lei negli anni. "Tu non hai una famiglia, non ce l'hai
più da anni... Ma io sì. A proposito,
resterò qui fino alla
Vigilia, ma poi pagherò qualcuno che resti qui a prendersi
cura di
te. E' Natale e voglio passarlo a casa mia, con le persone che amo e
che mi amano. L'ho promesso a Jeremy e manterrò la mia
parola".
Lo
sguardo di Ross parve ferito ma non disse nulla, forse capendo
finalmente che non c'era nulla che avrebbe potuto ottenere, da lei,
non un discorso tranquillo, non un perdono, non una seconda
opportunità. Si voltò di lato, dandole la schiena
e rannicchiandosi
sotto la coperta.
Demelza
si stupì di se stessa, mai avrebbe creduto di parlargli
così, non a
lui che aveva amato più di se stessa. Eppure, nonostante
avesse
voluto ferirlo, non ne provò gioia. Lo guardò e
gli sembrò
fragile, solo e indifeso e l'istinto di provare a consolarlo e di
chiedergli scusa per quelle parole fu talmente forte che, per evitare
che accadesse, si alzò di scatto dalla sedia,
uscì dalla stanza e
intimò a Leslie, che lavorava fino a tardi, di stare con lui.
Si
rifugiò nella camera di Jeremy, si nascose sotto le coperte
e decise
che non voleva più vederlo fino al mattino successivo. Si
addormentò
di sasso, sfinita da tutto, desiderosa che arrivasse subito il 24
dicembre per tornare alla serenità della sua casa, lontano
da lui
che sapeva ancora risvegliare in lei sentimenti tanto forti e
contrastanti.
Però
non dormì che poche ore. Prima della mezzanotte, Leslie
irruppe
nella stanza, svegliandola. "Signora, vostro marito ha di nuovo
la febbre alta! E io dovrei andare a casa".
Si
tirò su di soprassalto, presa da una forte preoccupazione,
sentendosi in colpa per averlo lasciato solo quando aveva promesso di
non farlo. La febbre? Di nuovo? Saltò giù dal
letto e corse in
camera di Ross che, nell'inscoscienza, si agitava sotto le coperte a
causa dei brividi. E si sentì un verme per avergli detto
quelle
parole, poco prima. Ross doveva rimanere tranquillo e lei lo aveva
provocato di proposito per fargli del male. E ora...
Andò
da lui, gli si sedette accanto e stavolta fu lei a prendergli la
mano. Era inutile, non ce la faceva a voltargli davvero le spalle.
"Va a casa Leslie. Ci penso io a lui".
La
ragazza annuì e, quando furono soli, Demelza gli
accarezzò la
guancia. "Mi dispiace" – sussurrò, dandogli un
leggero
bacio sulla fronte bollente, stupendosi per quel gesto che gli era
venuto fuori spontaneamente. Era vero, gli spiaceva, odiava se stessa
per averlo ferito. "Non volevo che stessi male".
A
fatica, Ross aprì gli occhi. Si guardarono per un lungo
istante e
poi le cinse la vita, attirandola a se. Lo lasciò fare, si
lasciò
abbracciare e crollò con lui fra le coperte, mentre calde
lacrime
presero a rigarle il viso appoggiato al suo petto. Si odiava per la
sua debolezza, per l'incapacità di resistergli e di rimanere
fredda
verso di lui e per la sensazione di benessere che provava a stare fra
le sue braccia, dopo tanto. Non ce la faceva ad allontanarlo
perché
Ross era, nonostante tutto, colui che le aveva cambiato la vita,
colui che l'aveva resa una donna, una moglie e una madre. Se era quel
che era, lo doveva soprattutto a suo marito.
"Dispiace
anche a me. Nemmeno io volevo che stessi male" – le
sussurrò
lui, fra i capelli, accarezzandoli.
Demelza
lo abbracciò. "Sono qui Ross, ora sta tranquillo e riposa.
Cerca di star bene domattina, se davvero vuoi farmi contenta".
"Lo
farò". E con quelle parole dal sapore di una promessa,
calò il
silenzio fra loro.
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Capitolo 24 *** Capitolo ventiquattro ***
Da
quando aveva avuto la febbre, Demelza era diventata più
gentile con
lui e anche le loro conversazioni erano più distese, tanto
che in
certi momenti la sua mente, ancora annebbiata dall'incidente, si
rifugiava nella fantasia che quella lunga separazione non fosse mai
avvenuta e che fossero ancora felici insieme, a Nampara. Ma poi la
guardava muoversi in quella stanza, in quella casa che a lui era
sconosciuta, avvertendo, oltre al forzato muro di cortesia che
Demelza si era imposta di avere con lui, un muro alto e possente
posto fra loro. Era vero, si era fatta abbracciare quella notte e
aveva dormito fra le sue braccia, accanto a lui, ma la
verità era
che Demelza era lontana, persa a causa dei suoi errori e non
più
sua. Non avevano mai parlato, da quando si era svegliato, di quanto
successo fra loro, di come il loro matrimonio fosse naufragato, delle
disastrose conseguenze della sua notte con Elizabeth. Voleva parlarne
ma avvertiva chiaramente che lei non desiderava farlo e allora stava
zitto, la guardava, la osservava cercando di capire cosa facesse, le
sue nuove abitudini e quanto fosse realmente cambiata. "Cosa
stai facendo con quei libri?" - le chiese, mentre lei se ne
stava seduta accanto al letto sulla sedia a dondolo, intenta a
scrivere su dei grossi tomi.
Demelza
sbuffò sconsolata. "Sto sistemando la contabilità
annuale
della locanda e sono già in ritardo con i termini di
consegna. Credo
che prenderò una multa...".
Era
talmente strano vederla in quelle vesti di donna lavoratrice e
dirigente di un'attività, che ne rimase colpito,
affascinato. Era
stata la sua domestica tanti anni prima, ma mai l'aveva immaginata
nei panni di una donna libera, indipendente ed economicamente ricca.
Ma in fondo l'aveva sempre saputo che era in gamba, intelligente e
piena di risorse e che sarebbe stata capace di avere successo in ogni
cosa. "Vuoi una mano? So farlo, i libri contabili della Wheal
Grace li gestisco io".
"Lascia
stare, ti tornerebbe il mal di testa. Sta venendo persino a me".
"E
la multa?". Non riusciva a capire come facesse ad essere
così
tranquilla, aveva ben presente quanto potessero essere salate le
sanzioni degli esattori, con chi non rispettava i termini.
A
Demelza, invece, pareva che la cosa non la tangesse. "La
pagherò" – disse, alzando le spalle. "Comunque ho
ancora
un po' di tempo, magari riesco ad evitarla".
La
guardò senza sapere che cosa risponderle, rendendosi conto
che non
aveva affatto problemi di denaro. Gli aveva detto che aveva azzeccato
degli investimenti e che non aveva problemi di denaro, ma non era
stata troppo chiara a riguardo. Ricordò le parole di Prudie,
quando
gli aveva raccontato che era stata a Nampara l'anno prima, di quanto
l'avesse trovata raffinata ed elegante, curata e tanto simile alle
lady di città. Ora invece sembrava tanto simile alla Demelza
che
ricordava lui a Nampara, vestita con abiti semplici, con capelli
raccolti in una mezza coda come sempre e anche quell'appartamento
benché gradevole e ben tenuto, pareva piuttosto modesto.
Certo, la
sua vera casa era un'altra, glielo aveva detto, ma...
Un
modesto bussare alla porta, interruppe i suoi pensieri.
Leslie,
la lavorante di Demelza che più di tutti la aveva aiutata a
prendersi cura di lui, entrò, esibendosi in un inchino.
"Signora,
alla locanda è arrivato lord Philippe Hidding".
Demelza
alzò gli occhi su di lei. "Oh, ha bisogno espressamente di
me?".
"Non
proprio. Vuole solo sapere se stasera, per la riunione alla borsa,
gradireste un passaggio in carrozza, che tanto deve passare da qui".
Guardò
sua moglie che, confusa, fissava pensierosa il soffitto.
Demelza
si accasciò sulla sedia, sbuffando. "Quale riunione?".
Scosse la testa, mettendosi una mano fra i capelli,
scompigliandoseli. "Ahh accidenti, ora ricordo, la fusione delle
banche...".
"Che
gli dico?" - chiese Leslie, sull'uscio.
Sua
moglie guardò fuori dalla finestra, distrattamente. "Fa
freddo,
troppo persino per i miei gusti. Digli che accetto l'invito, non ho
davvero voglia di uscire a piedi, stasera".
Leslie
sorrise. "Sembra che vi dispiaccia!".
"Certo
che mi dispiace! Avevo dimenticato questa cosa e con questo freddo
sarei rimasta volentieri qui davanti al camino acceso. Invece
dovrò
uscire al buio, al freddo, per mettere una semplice firma".
"Si,
però...".
"Però
cosa, Leslie?".
La
ragazza arrossì. "Lord Philippe è così
giovane, bello ed
affascinante, con quei suoi capelli biondi e quegli occhi azzurri
come ghiaccio... E voi sarete sola soletta con lui su quella carrozza
e credo che ogni donna della capitale vi invidierà per
questo".
Demelza
scoppiò a ridere. "Ah Leslie, se vuoi ti cedo volentieri il
mio
posto".
"Oh
signora, so a malapena leggere, però...".
"Su,
vai a dirgli che accetto l'invito" – concluse sua moglie,
chiudendo i libri che stava sfogliando. "E poi torna qui, devo
prepararmi e ho bisogno che ci sia qualcuno insieme a mio marito, nel
caso avesse bisogno".
"Certo
signora".
Ross
guardò Leslie correre via e poi guardò Demelza,
in un misto fra
stupore, confusione e irritazione. Chi diavolo era questo
affascinante lord tanto impudente da chiedere a sua moglie di uscire
con lui di sera? E perché Demelza aveva accettato
così, su due
piedi? E soprattutto, cosa diavolo c'entrava sua moglie con la borsa
e con una fusione fra banche? Voleva farle mille domande ma la sua
lingua sembrava bloccata.
La
guardò sistemare i registri sul comodino, alzarsi,
stiracchiarsi e
poi avviarsi verso la porta. "Come hai sentito, dovrò uscire
un
paio d'ore. Ti lascio alle cure di Leslie, ormai dovresti conoscerla
e ti troverai bene con lei".
"Non
uscire, non di sera..." - riuscì a mugugnare, sentendosi
ridicolo a dire quelle parole, quando era palese che Demelza ci fosse
abituata.
Lei
sorrise. "E' una cosa breve, sarò di ritorno prima della
mezzanotte. Ed uscire col buio è una cosa che faccio spesso,
l'unica
scocciatura è che stasera non ne avevo voglia. Accidenti,
che cosa
assurda concordare una riunione in borsa a pochi giorni dal Natale!"
- sbottò, prima di uscire dalla stanza.
Ross
rimase lì, in silenzio, senza riuscire a muoversi, senza
avere la
possibilità di alzarsi e di seguirla per chiederle
spiegazioni a cui
sapeva di non aver diritto. Non riusciva a sopportare che uscisse da
sola per andare chissà dove, chissà con chi...
Non lei, che
ricordava sempre a casa ad attenderlo, pronta ad accoglierlo a
braccia aperte. Era come se le posizioni si fossero invertite, era
come realizzare davvero che tutto era cambiato.
Leslie
fu da lui alcuni minuti dopo e per un paio d'ore non vide
più
Demelza. Fuori si fece buio, scese un nebbione fortissimo e i vetri
della stanza si incrostarono di ghiaccio.
L'aiutante
di sua moglie, seduta su una sedia, era tranquilla ed intenta a
lavorare a maglia e forse avrebbe potuto fare due chiacchiere con lei
per scoprire qualcosa, pensò. Era poco più di una
ragazzina,
Leslie, poteva avere forse vent'anni, un viso simpatico cosparso di
lentiggini e dei capelli castani dritti come fusi che le arrivavano
alle spalle. E soprattutto, era molto chiacchierona...
Quando
il campanile rintoccò le otto, quando era convinto che
Demelza fosse
già uscita, a sopresa la vide tornare nella sua stanza. E
rimase
senza fiato, attonito, a bocca aperta... Stentava a riconoscerla...
Della donna di poche ore prima vestita con abiti semplici, coi
capelli un po' spettinati e l'aria tranquilla, non c'era più
traccia. Era bellissima, altera, distante. Indossava un lungo ed
elegantissimo abito blu, ornato di una pelliccia al collo e alle
maniche, i capelli erano pettinati in perfetti boccoli che le
ricadevano sulla schiena, era truccata in modo leggero ma visibile,
indossava orecchini e un ciondolo di diamanti e fra le braccia aveva
un mantello di lana dalle finiture raffinate. Era la sua Demelza,
quella ma era come se non la conoscesse... Non l'aveva mai vista
così, lo lasciava senza fiato. Eppure era proprio quella
bellezza
che lo disturbava, che gliela faceva apparire quasi estranea,
distante, fredda e sconosciuta. Demelza non era così, quel
modo di
essere tanto raffinato, elegante e altero non gli apparteneva, lei
era una persona semplice, solare, gentile, dolce, che non aveva paura
di fare lavori umili e mettersi dalla parte delle persone
più in
difficoltà quando serviva. Cosa ci faceva con quegli abiti,
in mezzo
agli avvoltoi della borsa? Dov'era finita quella ragazzina che
giocava con il suo cane nelle campagne della Cornovaglia?
"Ci
vediamo dopo, Leslie" – disse, alla ragazza. Poi lo
fissò,
senza avvicinarsi. "Cerca di dormire Ross, devi riposare".
Annuì
e rimase in silenzio mentre lei andava via, lasciandolo da solo con
Leslie.
La
ragazza sospirò, ammirata. "La signora è sempre
così bella,
mi lascia senza fiato ogni volta che va a questi incontri
così
importanti".
Prese
la palla al balzo. "Ci va spesso, a questi incontri
importanti?".
"Beh
si, va a questi incontri importanti con gente importante
perché lei
è importante, qui a Londra".
Quel
discorso gli era davvero incomprensibile ma al momento c'era un'altra
faccenda che lo preoccupava. "Ci va sempre con quel lord biondo,
a queste riunioni importanti?".
Leslie
rise. "Lord Philippe? No, non credo. Però lo vede spesso
perché
hanno molti affari in comune. E poi lui ha un grande maneggio di
cavalli da corsa fuori Londra e so che in estate la signora passa
alcuni fine settimana da quelle parti per portare il signorino Jeremy
a vedere le corse, visto che il bambino adora i purosangue. E lord
Philippe ne è ben contento, a lui credo che lei piaccia
molto e io
la invidio per questo".
Ross
alzò gli occhi al cielo, nervosamente. Era strano sentir
parlare di
quella Demelza a lui sconosciuta da altri e ancor più strano
era
sentir raccontare Jeremy da quella ragazzina che conosceva suo figlio
meglio di lui. Il suo bambino amava i cavalli, pensò, come
lui...
"Da quanto lavori per mia moglie?".
"Da
sei mesi. Sapete, mia sorella maggiore è la sua cameriera
personale
nella sua dimora e quando ha saputo che cercava una lavorante per la
locanda gli ha parlato di me e la signora è stata ben felice
di
assumermi. Ha fatto molto per la mia famiglia, permettendo a me e a
Dorys di lavorare. E siamo fortunate ad avere una padrona come lei,
è
sempre così gentile, dolce e non si pone mai come una
persona di
rango superiore, sembra una di noi. Io la ammiro molto
perché non ha
mai avuto paura di lavorare e di sporcarsi le mani, se necessario".
Ross
chiuse gli occhi, felice che Demelza non avesse perso la dolcezza e
l'umiltà che la contraddistingueva da sempre, nonostante
tutto. "Lei
è così...". Però, non capiva comunque
tante cose. "Perché
dici che è una persona importante? Perché doveva
presenziare a
questa riunione? Da che so, lei mi ha detto che ha solo fatto qualche
investimento azzeccato".
Leslie
spalancò gli occhi e per un attimo parve incerta e timorosa
di
avergli raccontato troppo. Poi si morse il labbro, abbassando il
viso. "Beh... Qualche investimento azzeccato? La signora è
in
società con degli importanti azionisti di Londra, i fratelli
Devrille. Gestiscono un giro di denaro immenso, sono tutti molto
ricchi e detengono le quote azionarie di maggioranza di alcune fra le
più importanti banche del paese. Vostra moglie è
una delle donne
più ricche e potenti di Londra, signore".
Spalancò
gli occhi a quell'ammissione, gli sembrò che il terreno gli
crollasse sotto i piedi. Come poteva essere, come ci era riuscita?
Leslie,
rossa in viso, parve andare in panico davanti alla sua espressione.
"Forse non dovevo dirvi queste cose, vi prego non fate parola
con la signora delle mie confidenze".
Annuì,
con fare assente. "Certo, tranquilla".
Leslie
sprofondò sulla sedia. "Grazie".
Ross
chiuse gli occhi, mentre sentiva il mal di testa tornare
prepotentemente. Era annichilito, senza parole... Era strano pensare
a lei, a sua moglie, come a una lady della Londra più
potente e
aristocratica, immaginare il rispetto e il timore che poteva incutere
nelle persone e l'enorme potere nelle sue mani, se quello che Leslie
aveva detto, corrispondeva a verità.
Non
aprì più bocca, nella stanza piombò il
silenzio e per ore nessuno
parlò.
Pensò
che forse doveva dormire, ma non ce la faceva. Doveva vederla, doveva
parlarle, doveva capire... Era pur sempre sua moglie, la madre di suo
figlio e si era messa in affari con quella parte di aristocrazia
contro cui lui aveva sempre combattuto. Faceva parte anche lei,
adesso, di quel ristretto gruppo di persone che si ergono a padroni e
giudici dei più poveri? Era questa la vita che faceva adesso
e che
avrebbe atteso anche suo figlio, una volta diventato adulto?
Demelza
tornò ben dopo la mezzanotte e Leslie, appena la vide, la
salutò
frettolosamente e corse via, come se avesse paura che lui la potesse
tradire.
La
camera era illuminata dal chiarore del camino acceso e da una candela
posta sul comodino accanto al letto.
Sua
moglie si mosse per la stanza piano, in punta di piedi per non
svegliarlo. Per questo sussultò spaventata, quando le
rivolse la
parola, spezzando il silenzio della notte. "Non sto dormendo".
"Dovresti
farlo, è molto tardi" – rispose lei, scrutandolo
in viso.
"E'
molto tardi anche per te".
"Vero,
ma io ci sono abituata e non sono convalescente da un incidente".
Si
voltò verso di lei, terribilmente irritato. "Sei abituata ad
uscire la sera coi lord?".
A
quella domanda, l'espressione di Demelza si incrinò,
diventando
vagamente sospettosa e irritata. "Credo che non siano cose che
ti riguardano".
Non
si sarebbe fatto intimorire da quel tono e si sentiva abbastanza in
forze per affrontare una discussione seria con lei, in quel momento.
"Molte persone comprano qualche azione che poi si rileva un
ottimo affare, proprio come mi hai detto di aver fatto tu. Ma nessuna
di quelle persone viene invitata in Borsa per firmare la fusione di
due banche, sai? Molte persone che hanno fra le mani azioni
fruttuose, non possono permettersi case lussuose o di pagare multe
come se niente fosse, così come non possono permettersi di
avere al
proprio servizio così tanto personale come te.
Così come non
possono permettersi abiti eleganti e amicizie così
altolocate".
Demelza
si appoggiò alla finestra, fissando distrattamente il mondo
fuori di
essa. "Come ti ho detto, la mia vita non è più
affar tuo.
Quasi tre anni fa mi hai detto di togliermi di mezzo e io l'ho fatto,
ora accettane le conseguenze".
Quelle
parole lo ferirono perché a quanto pareva, oltre al muro di
finta
cortesia che Demelza stava usando con lui in quei giorni, la ferita
per quanto successo fra lui ed Elizabeth in quella notte maledetta,
era ancora aperta. "Voglio solo sapere chi è Demelza Poldark
quando è fuori da questa locanda".
Sua
moglie sospirò, si appoggiò con le mani al
davanzale e poi,
scuotendo la testa, roteò il viso verso di lui. "Demelza
Poldark non esiste più, Ross". Gli si avvicinò,
sedendosi sul
letto accanto a lui. "Non esiste più dal giorno in cui ho
tolto
la fede dal mio dito".
Spalancò
gli occhi, con un groppo alla gola, guardandole la mano sinistra. Era
vero, non se n'era accorto, ma Demelza non portava più
nessun anello
all'anulare. "L'hai buttata?".
Gli
indicò il cassetto sotto al comodino. "No, sta lì
da quasi tre
anni, chiusa dentro. Non ho più aperto quel cassetto dalla
sera in
cui ho gettato lì dentro quell'anello". Si alzò,
tornando
verso la finestra, un po' spersa nello sguardo. "Vuoi sapere chi
è ora Demelza Carne? D'accordo, te lo dico...". Come in un
racconto senza interruzioni, gli parlò di come, quasi per
gioco,
Martin Devrille le avesse proposto di entrare in società con
lui,
dopo la prima scommessa azzeccata fatta insieme e di come da allora
le cose fossero andate talmente bene da farla diventare molto ricca e
un'esperta di borsa. Gli raccontò pure di George Warleggan e
del suo
ruolo all'interno della Warleggan Bank, rivelandogli il motivo per
cui il suo acerrimo nemico avesse smesso di perseguitarlo per paura
di ripercussioni all'interno del consiglio d'amministrazione della
sua banca. E infine, di come avesse deciso di tenere pure la locanda
perché amava quel posto, perché gli ricordava le
sue origini e di
come avesse iniziato quella sua nuova vita.
Ross
rimase sbalordito, attonito, in silenzio. Sentirla raccontare quelle
cose era un miscuglio di sentimenti strani dentro di lui: ammirazione
perché era arrivata più in alto di lui e allo
stesso tempo rabbia
perché si era mischiata con persone che lui odiava ed era
entrata a
far parte di un mondo ostile, falso, crudele, che cambiava le persone
in peggio, facendole diventare come avvoltoi verso i più
deboli. E
soprattutto, odiava che fosse stata LEI a proteggerlo da George e dai
suoi giochetti di potere e rivalsa. "Sei diventata amica delle
persone che mi hanno perseguitato" – disse, semplicemente,
alla fine del racconto.
"Pensi
che io sia come George?".
"No,
ma corri il rischio di diventarlo".
Demelza
si appoggiò alla parete, incrociando le braccia al petto.
"Io
non desidero denaro e potere, se faccio quel che faccio è
perché
sono sola e voglio garantire un futuro a nostro figlio. Non ha
nessuno a parte me e voglio che, se mi succedesse qualcosa, possa
avere una vita sicura e stabile, senza dover finire a mendicare
all'angolo di una strada".
Si
sentì in colpa, a quelle parole, riconoscendo tutte le sue
mancanze
verso il figlio. "Jeremy ha un padre".
"Non
hai mai voluto essere suo padre e nemmeno mi sognerò mai di
chiederti di esserlo. Fra poco sarai guarito, tornerai a Nampara e ti
dimenticherai che ci siamo incontrati. Non voglio discutere con te
stasera, ma ricordati che a breve te ne andrai da qui".
Si
sedette di scatto, provocandosi una violenta vertigine. Si
accasciò
con le mani sulla fronte, in cerca di equilibrio, e Demelza in un
attimo fu accanto a lui sul letto. "Accidenti, te lo avevo detto
che dovevi riposare! Perché sei tanto testardo e
perché ti
incaponisci a tornare su un argomento già chiuso? Dormi
Ross!".
Alzò
gli occhi su di lei, il suo sguardo prometteva scintille. Poi le
prese il polso, lo strinse e la attirò a se. "Lascia tutto
questo, prendi Jeremy e torna a casa con me".
"Scordatelo,
io non torno a Nampara! Non tornerò a fare la moglie
invisibile di
un uomo che pensa unicamente al suo amore perduto e non ho davvero
voglia di trovarmi Elizabeth e George come vicini di casa. Vivo qui
ora, la mia vita è a Londra e il nostro matrimonio
è finito".
Sentì
pungergli gli occhi a quelle parole, rendendosi conto ancora una
volta di quanto avesse fallito come marito. "Era davvero
così
terribile essere sposata con me?".
"Si,
lo era" – ammise lei, con sincerità. "Non sempre,
ma lo
è stato di certo dopo la morte di Francis, quando di colpo
io e
Jeremy abbiamo smesso di esistere per te e siamo diventati solo un
peso. E forse anche prima, quando comunque eri costretto ad
accontentarti delle seconde scelte".
"Demelza,
non è così! Ogni volta che ti ho detto che ti
amavo, non mentivo".
Scosse la testa, disperato. "Ti prego, non smettere di lottare
per il nostro matrimonio".
Demelza
abbassò lo sguardo. "Ho smesso di lottare tanto tempo fa per
noi, Ross. Non è paura di ritentare o di riprovarci ma...
semplicemente ci ho messo giù il pensiero. Non
sarò mai come
Elizabeth ai tuoi occhi, perfetta come lei, bella quanto lei... Non
risveglierò mai in te la passione che riesce a risvegliare
lei, non
mi desidererai mai come desideri lei. La verità, Ross,
è che non
avremmo dovuto sposarci, non ero io quella che volevi e amavi, era
per lei che dovevi combattere, era per lei che dovevi fare il pazzo
per riprendertela, quando sei tornato dalla Virginia. Era da lei che
avresti voluto dei figli, non da me".
Abbassò
lo sguardo, colpito da quelle parole non rabbiose, non accusatorie ma
piene di tristezza e dolore che lui le aveva inferto.
Ricordò la
lettera che Demelza gli aveva lasciato prima di andarsene,
altrettanto amara, altrettanto disincantata. Non era vero niente,
dannazione! Con Elizabeth non avrebbe trovato né gioia,
né calore,
né una famiglia. Le strinse la mano, accarezzandole le dita
fra le
sue. "Perdere Elizabeth, quando son tornato dalla Virginia,
è
stata la più grossa fortuna della mia vita perché
mi ha permesso di
trovare te, di conoscerti, di sposarti e di formare una famiglia dove
mi sentivo amato, accettato, a casa. Felice... Ho fatto molti errori,
odio quella notte in cui ti ho tradita e odio tutte le volte in cui
ti ho mancato di rispetto per correre dietro a quella che era la
fantasia romantica idealizzata di un bambino. Quella notte con
Elizabeth...".
A
quella frase, Demelza scattò, punta sul vivo. "Non ne voglio
parlare!".
Scosse
la testa, invece ne dovevano parlare! "Cercavo te, quella notte.
Ma lei non era te, non sarebbe mai stata come te e mi ci è
voluto
quell'errore madornale per capire che ciò che mi univa a te,
non
potevo trovarlo da nessuna parte se non con te. Quello che avevamo
noi, non potevo trovarlo con nessun'altra persona perché
è ciò che
ci unisce solo a chi amiamo davvero. Demelza, non posso tornare
indietro, non posso cancellare quella notte, non posso che chiederti
scusa e sperare in un tuo perdono. Ma sappi che non ho mai detto 'ti
amo' a vanvera, che ti ho sempre amata più della mia stessa
vita e
che Julia e Jeremy sono stati la cosa migliore e più
perfetta che io
abbia mai fatto. Mi mancate, darei tutto quello che ho per riavervi
indietro, per tornare ad averti come moglie e per essere il padre di
nostro figlio".
Demelza
abbassò lo sguardo, con gli occhi lucidi. "Tutte le volte
che
ti dicevo di non andare da lei, tu non mi ascoltavi e partivi al
galoppo. Perché ora dovrei crederti? Perché
dovrei tornare a casa?
Perché dovrei rischiare la serenità che abbiamo
ottenuto a Londra
io e Jeremy? La mia vita ormai è qui. Non volevi altri figli
dopo
Julia, non hai mai voluto Jeremy e ora ne parli come se non essere il
padre dei nostri figli sia il tuo più grande rimpianto".
"Pensi
che non abbia mai amato Jeremy e Julia? Santo cielo, la morte di
nostra figlia è il dolore più grande della mia
vita! Come puoi
credere che...?".
Demelza
scosse la testa. "Amavi Julia, lo so questo. Ma so anche che, se
lei non fosse morta, sarebbe diventata invisibile ai tuoi occhi
esattamente come me e Jeremy. Avresti voltato le spalle pure a lei,
dopo che Elizabeth è diventata la vedova di Francis".
Quelle
parole lo ferirono perché forse potevano anche essere vere,
avrebbe
deluso pure Julia, se fosse rimasta. E quel pensiero lo annientava, a
pensare alla sua piccola, perfetta bimba che avrebbe potuto soffrire
a causa dei suoi errori.
Demelza
abbassò lo sguardo. "Io sono fiera di quel che sono
diventata
qui e ho la consapevolezza di agire per il giusto e di essere
circondata da brave persone. Londra è casa mia adesso, non
Nampara!".
A
quelle parole, ricordando quanto gli aveva detto Leslie poco prima e
il racconto di Demelza circa i suoi affari, gli prese una strana
rabbia. No, lei sbagliava! Lei non era così, la sua vita non
era a
Londra e lì non sarebbe mai stata davvero felice! Con un
gesto
veloce le prese il viso fra le mani, la attirò a se e
piantò i suoi
occhi in quelli di lei. "No, tu non sei così, la tua vita
non è
quella che ti sei costruita qui". Le portò una mano fra i
capelli, scompigliando di proposito i boccoli perfetti che le
ricadevano sulla schiena. "Tu sei sempre coi capelli sciolti,
liberi, spettinati, sei quella che corre per aiutare tutti quelli che
ne hanno bisogno e che lotta come una leonessa nelle battaglie della
vita, per il bene della tua famiglia. Tu non sei una da abiti
eleganti e raffinati, da cene di gala o da serate con uomini
d'affari, tu sei la mamma di Jeremy e sono certo che preferiresti
stare con lui la sera, invece che con Lord e banchieri. Puoi negarlo
ma io so che è così, Demelza Poldark".
Scandì il suo nome da
sposata, perché se lo imprimesse in testa, mentre sua moglie
lo
guardava con occhi sgranati, senza trovare il coraggio e la forza per
allontanarlo. E cedette ad ogni suo proposito di rispettare la
richiesta di Demelza di stargli lontano. Era troppo vicina, troppo
bella, troppo perfetta per resistergli ed erano stati lontani troppo
tempo. La desiderava, impazziva dalla voglia di averla, di amarla, di
tornare ad essere davvero suo marito. Si avvicinò, la
attirò a se
spingendola sulla nuca e la baciò sulle labbra,
disperatamente,
sentendosi finalmente a casa, al suo posto, con l'unica persona che
valeva la pane avere a fianco.
Demelza
rispose per un istante al suo bacio, schiudendo le labbra,
illudendolo che anche per lei fosse così. Ma poi, dopo
alcuni
secondi, si allontanò bruscamente da lui, spingendolo sul
cuscino ed
alzandosi di scatto dal letto. Lo guardò con aria
terrorizzata,
furente, pulendosi le labbra col palmo della mano. "Non farlo
mai più. Non mi bacerai, non mi toccherai, non farai
niente... Non
ho intenzione di stare con un uomo che passerebbe la vita a
paragonarmi col fascino delicato e perfetto del suo primo amore. Ora
farai come dico io, dormirai, guarirai e tornerai a casa! E' finita
Ross, non riprovarci mai più".
Rimase
attonito, allibito, odiandosi per quanto aveva appena fatto. Non
voleva spaventarla, non voleva baciarla contro la sua
volontà e
soprattutto, non voleva che pensasse che sarebbe sempre vissuta
all'ombra del ricordo di Elizabeth. Poteva dirle e ripeterle che la
amava, che Elizabeth non contava più nulla, che era lei la
sua
ragione di vita, ma in quel momento Demelza era troppo sconvolta ed
arrabbiata per credergli, per ascoltarlo, per tentare di sistemare le
cose.
E
per la prima volta da quando l'aveva rivista, in quel momento si rese
conto che forse era davvero tutto perso, per lui... E che Demelza
Poldark forse non sarebbe più esistita e non sarebbe stata
più al
suo fianco.
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Capitolo 25 *** Capitolo venticinque ***
Gli
ultimi due giorni, dopo quel bacio che l'aveva colta di sorpresa,
erano stati strani, silenziosi, carichi di una strana tensione che,
prima di quel fatto, sembrava un po' essersi smorzata rispetto
all'inizio.
Odiava
se stessa, si era fatta cogliere di sorpresa, aveva permesso che lui
si avvicinasse tanto da confonderla e si era fatta baciare. E
dannazione, le era anche piaciuto, tanto che, se non fosse stato per
la sua razionalità, avrebbe ceduto a Ross su tutti i fronti.
C'erano
tante cose che li dividevano, ma non poteva mentire a se stessa, lui
sarebbe sempre stato una parte importante di lei, un amore infelice
ma pur sempre un amore vero. Lo amava e lo avrebbe sempre amato,
anche se le cose fra loro non erano andate come sperava e ormai lo
aveva allontanato dalla sua vita.
Anche
Ross pareva freddo, distante, cortese ma allo stesso tempo molto
formale. Le parlava ma aveva smesso di cercarla, di provare a
sistemare le cose e finalmente, dopo quanto si erano detti due sere
prima, pareva essersi rassegnato al fatto che ormai tutto fosse
finito fra loro.
"Come
mai oggi c'è tutto questo silenzio? Non si sentono le voci
provenire
dal piano di sotto" – chiese, con fare annoiato.
Chiudendo
i registri che aveva finito di compilare, Demelza si avviò
verso la
porta coi libri in mano. "Oggi è il ventitre dicembre, la
locanda è chiusa e lo sarà fino al nuovo anno. Ho
concesso otto
giorni di vacanza ai miei dipendenti per stare con le loro famiglie
durante il Natale, quindi per oggi ci siamo solo tu ed io".
Aprì
la porta, decisa a scendere al piano di sotto per sistemare i libri.
"A proposito, ricordi cosa ti ho detto giorni fa, vero? Domani
torno a casa mia, rimarrai solo e sarai il padrone assoluto di questa
casa. Stai molto meglio ma non sei ancora in grado di essere
completamente autonomo e quindi incaricherò una mia
domestica di
fare avanti e indietro per portarti cibo, cambi d'abito e per
controllare che tu stia bene e che prenda le tue medicine".
"Non
è necessario".
"Si
che lo è, non riesci a stare in piedi per più di
tre secondi senza
avere vertigini".
A
fatica, Ross si mise a sedere. "Posso viaggiare in carrozza e
partirò il giorno dopo Natale per tornare a casa mia. Ho
già
abusato fin troppo della tua ospitalità e del tuo tempo".
Spalancò
gli occhi, sorpresa. "Cosa? Ross, non se ne parla! Non stai
ancora bene, arriveresti a Nampara a pezzi".
"E
allora, una volta lì, mi metterò a letto e mi
farò servire dai
miei servi".
Si
voltò verso di lui, furente, con uno sguardo che prometteva
scintille. "No, non andrai da nessuna parte. Punto, fine del
discorso". Non gli avrebbe permesso di fare una sciocchezza
simile, non voleva che stesse di nuovo male, con tutto quello che
aveva passato dopo l'incidente... Era vero, avrebbe dovuto essere
felice che volesse andarsene ma... stranamente non era così.
"Tu
sei nato per farmi morire d'ansia".
"Non
sono più un tuo problema, quindi puoi dormire sonni
tranquilli.
Tornerò a casa e, come volevi tu, faremo finta che questo
mese non
sia mai esistito. Partirò, che tu lo voglia o no,
perché hai
ragione, la tua vita non è più affar mio e allo
stesso tempo la mia
vita non è affar tuo".
Quelle
parole la colpirono e la irritarono perché,
benché in esse ci fosse
racchiuso il nocciolo di quello che era ormai il loro rapporto, erano
profondamente ingiuste. "No mio caro, non è la stessa cosa.
E'
vero, tu non hai più alcuna voce in capitolo riguardo alla
mia vita
ma io sì, per quel che concerne la tua, visto che per tre
settimane
non ho dormito per vegliarti, son stata lontana da casa e ho
trascurato il mio lavoro. Quindi, tu ora resterai qui finché
Dwight
ti darà il permesso di partire, poi tornerai a casa o
ovunque vorrai
andare". Non aspettò la sua risposta e, irritata, scese al
piano di sotto. Era fuori di se, furibonda. Come diavolo potevano
venirgli in mente quelle parole? Come poteva non pensare all'ansia
che gli procurava ogni volta che si metteva in testa qualche idea
idiota delle sue? Come poteva parlarle con quel distacco che, era
vero, lei aveva cercato e preteso da lui, ma che ora gli faceva male?
Scese
alla locanda, avvolta da silenzio e buio, tirando le tende
perché
entrasse un po' di luce dalla vetrata che dava sulla strada.
Nervosamente,
sistemò i registri nell'archivio e poi prese uno straccio
per
spolverare tavoli e sedie, desiderosa di scaricare la tensione con
qualche lavoro fisico. Aprì i vetri per arieggiare il locale
e
spalancò la porta d'ingresso per fare entrare aria fresca
– o
fredda – sperando di calmarsi e di tornare poi al piano di
sopra
più tranquilla e meno propensa a prenderlo a schiaffi. Era
un
dannatissimo testardo, aveva la testa dura come quella dei muli e non
capiva se questa idea malsana di partire subito fosse dovuta a una
sorta di dispetto che voleva farle o al fatto che davvero volesse
tornare a casa sua. Beh, indipendentemente dal motivo, era rimasto lo
stesso imprudente testone di una volta. Ecco da chi aveva preso
Clowance, da lui! Stessa testa dura e cocciutaggine del padre,
crescendo l'avrebbe fatta dannare pure lei, ne era certa!
Assorta
in quei pensieri, non si accorse dell'ombra apparsa dietro di lei,
entrata furtiva dalla porta aperta.
"Signora
Demelza, è un po' che non ci vediamo e siete diventata
troppo
sfuggente per i miei gusti" – disse il nuovo arrivato,
chiudendo con un gesto secco la porta dietro di lui, girando poi la
chiave e tirando le tende.
Demelza,
presa alla sprovvista, spalancò gli occhi spaventata. Cosa
diavolo
ci faceva lui lì? Le aveva fatto mille improvvisate a casa
ma mai
alla locanda. "Mister Smith... A cosa devo questa
improvvisata?".
L'uomo
si avvicinò a lei, minaccioso. "Sono venuto a porgervi gli
auguri di buon Natale. A casa siete introvabile e alla fine son
dovuto venire qui".
Indietreggiò,
preoccupata. Era sempre stato viscido e infido, ma ora aveva la
strana sensazione che fosse anche aggressivo. "Non dovevate
disturbarvi".
"Chiudete
finestre e tende, dobbiamo parlare in privato".
"No".
Smith
scosse la testa, scocciato. "Io lo farei, se fossi in voi. Avete
due gran bei bambini di cui conosco orari di uscita e abitudini e
sarebbe davvero un peccato che a quei due dolci innocenti succeda
qualcosa a causa della testardaggine della loro madre".
Demelza
guardò fuori dalle finestre, cercando un appiglio, una
figura
conosciuta che potesse aiutarla, senza però trovarla.
"Lasciate
fuori da questa storia i miei figli!".
"E
allora, chiudete le finestre e tirate le tende" –
ripeté di
nuovo.
Demelza
ubbidì, non sapendo cos'altro fare. Chiuse tutte le
finestre,
schernò con le tende l'interno della locanda e poi si
voltò verso
di lui che, davanti alla porta, le precludeva ogni via di fuga. "Cosa
volete?".
"Le
azioni della Northern. Il tempo stringe, firmate l'accordo di vendita
e facciamola finita".
Demelza
scosse la testa. "Il tempo stringe? Per cosa?".
"Non
sono affari vostri!".
"Oh,
si che lo sono, visto che le quote di maggioranza della Northern Bank
sono mie".
Smith
scosse la testa, avvicinandosi a lei a piccoli passi. "Sapete
signora, io ritengo che una donna serva solo per una cosa e quella
cosa non è gestire affari. Vediamo se riesco ad essere
più
esplicito".
Demelza
indietreggiò, finendo con la schiena contro il muro.
"Andatevene".
"Quando
avrò finito. Siamo soli, nessuno ci disturberà e,
a conti fatti,
magari lo troverete anche piacevole". Con un gesto veloce le
prese il polso, stringendolo con violenza, dimostrando una forza che
non gli si sarebbe mai potuta attribuire, a prima vista.
"Lasciatemi!"
- urlò, dimenandosi.
Smith
la prese per la vita, le fece lo sgambetto e la fece cadere a terra.
In un attimo fu sopra di lei, stringendole la vita ed
immobilizzandola. "Volete che prosegua e che vi faccia vedere
come deve essere trattata una donna capricciosa o venderete?".
"Non
vederò niente!" - urlò, tentando inutilmente di
liberarsi
dalla sua stretta, mentre avvertiva le mani di Smith alzarle la gonna
e risalirle le gambe. Il terrore la invase. Cosa doveva fare? Cedere?
Urlare? Che diavolo nascondevano quelle azioni, cosa voleva Smith da
lei, perché era disposto a compromettere la sua reputazione
con un
gesto di violenza su una donna per avere quelle quote?
Quando
la mano di Smith raggiunse il suo seno, chiuse gli occhi,
arrendendosi all'inevitabile, mentre le lacrime le bagnavano il viso.
"Lasciala
stare, maledetto!".
Aprì
gli occhi di colpo, trovando Ross a pochi passi da loro, in piedi,
poggiato con la mano alla parete. Era pallido ma probabilmente,
sentendo le sue urla, era riuscito a scendere le scale per correre in
suo soccorso.
Smith
lo guardò con aria selvaggia, aggressiva. "E voi chi siete?".
Ross
non gli rispose. A grandi falcate lo raggiunse, prendendolo per il
bavero e spingendolo a diversi metri di distanza.
"Chi
siete?" - urlò di nuovo, Smith.
Demelza
si tirò su, massaggiandosi il polso ed asciugandosi poi le
lacrime.
"Lui è mio marito. Ed è molto meno diplomatico di
me".
Ross
gli andò addosso, sembrava non avvertire né
spossatezza né
vertigini. Il suo viso era pura rabbia, gli tirò un calcio
nel
fianco e poi uno sulla schiena. "Prima che ti uccida, esci da
qui e non farti più vedere".
Ancora
col fiato corto, Demelza indietreggiò fino alla parete. E a
quel
punto Smith capì che era meglio andarsene e, dopo essersi
rimesso in
piedi e aver aperto la porta, scappò via.
Quando
furono soli, Demelza si appoggiò al muro, accasciandosi a
terra.
Ross
si avvicinò, fermandosi a pochi passi da lei. "Stai bene?".
"Non
lo so".
"Chi
era quell'uomo? Lo conosci? Cosa voleva da te?".
A
fatica, si rimise in piedi, ancora molto scossa, sentendosi addosso
le mani di quell'uomo. "E' nell'alta finanza di Londra. Il suo
nome di famiglia è Smith e...". Era strano, era spaventata e
le
tremava la voce, tanto che faticava a parlare. "Io non so, in
realtà, cosa voglia da me. Cioé, lo so ma non
capisco".
Credeva
che Ross l'avrebbe sommersa di domande ma, prendendola di sopresa, si
limitò a poche parole. "Beh, lui fa parte di quel mondo
marcio
di cui sei entrata a far parte e di cui ti ho parlato giorni fa. Non
metto in dubbio che ci siano brave persone all'interno di quel mondo,
ma è abbastanza probabile che la maggior parte siano come
questo
mister Smith".
Sussultò.
Ross sembrava così distante, freddo... Aveva rischiato di
subire una
violenza e lui stava lì, senza muoversi, senza preoccuparsi.
Era una
sensazione strana, spiacevole, nonostante comunque fosse corso a
salvarla... "Vuole comprare da me delle azioni di una nuova
banca, la Northern. Sono azioni in mio possesso che valgono
poco-niente, ma lui insiste e spesso me lo sono trovata a casa ad
orari improbabili per convincermi a venderle. E' sempre stato molto
insistente ma mai aggressivo. Fino ad ora, quando me lo sono trovato
qui. Ho aperto la porta per cambiare aria e...".
"Non
mi devi spiegazioni. Fa parte del gioco a cui stai giocando, Demelza.
Prenditi una guardia del corpo e risolverai il problema. Fra quelli
della tua classe, funziona così".
"Fra
quelli della mia classe?". Quella freddezza e quella presa di
distanza la ferivano terribilmente. Gli aveva chiesto di rinunciare a
lei e ora che lo aveva fatto, si sentiva sola e spersa. Che le
prendeva? Era la conseguenza di quanto appena successo con Smith a
farla sentire tanto debole? Oppure, forse, non era quello che davvero
voleva da Ross?
Lui
annuì. "Sì, voi ricchi spesso avete guardie del
corpo. Fa
parte del gioco e del mondo dorato in cui vivete. Limita un po' la
libertà ma dormirai sonni tranquilli. Hai molto denaro,
potrai
assumere una guardia per te, una per casa tua e una per il tuo
bambino, senza alcun problema".
"Il
MIO bambino?". Aveva preso le distanze non solo da lei ma anche
da Jeremy. Beh, non era stata proprio lei a chiedergli di farsi da
parte? Scoppiò a piangere, ancora, come una ragazzina. Era
spaventata, disperata, si sentiva enormemente sola e inerme.
Solo
a quel punto, Ross ebbe una reazione. Si avvicinò,
sfiorandole una
spalla. "Ti senti bene? Quel tizio ti ha fatto qualcosa di male
prima che io arrivassi?".
Scosse
la testa, fra lacrime e singhiozzi. "No, non sto bene. Se tu non
fossi arrivato, lui... lui...".
"Ma
sono arrivato. Avanti, smetti di piangere, mi stai spaventando".
Demelza
scosse la testa, aggrappandosi alla sua camicia. "Non capisci
come mi sento? Non capisci che se non c'eri tu, lui avrebbe...".
"Demelza,
io c'ero. E anche se non vuoi più avermi come marito,
fintanto che
sarò qui credo che, almeno, sia mio dovere proteggerti, se
ce ne
fosse bisogno". Le accarezzò la guancia, piano. "E ora
fammi sedere, credo mi giri terribilmente la testa".
"Oh
Ross". Quasi non l'avesse sentito, si rifugiò fra le sue
braccia, piangendo ancora più forte. "Non avresti dovuto
alzarti, ma sono felice che tu l'abbia fatto". Pianse, a lungo,
fra le sua braccia, cullata dalle sue carezze sulla schiena.
Restarono
così, abbracciati, per lunghi minuti. Poi, quando si fu un
po'
calmata, alzò lo sguardo su di lui, sfinita. "Scusa... Tu
stai
male e io ti sto tenendo qui in piedi".
Ross
si guardò attorno, smarrito. Era la prima volta che scendeva
alla
locanda e quell'ambiente doveva apparirgli sconosciuto. "Non fa
niente. Ti senti meglio?".
"Si".
Le
sorrise. "E allora, per favore, spranga quella porta e
accompagnami di sopra".
"D'accordo".
Chiuse
la porta a chiave, mettendoci un doppio lucchetto. Poi lo
accompagnò
di sopra, aiutandolo a rimettersi a letto. Era terribilmente pallido
e, passato l'effetto dell'adrenalina, il suo fisico stava subendo i
postumi dello sforzo appena fatto. "Va meglio?".
Passandosi
una mano sulla fronte sudata, Ross annuì. "Si, prendere a
calci
qualcuno ogni tanto, è sempre terapeutico. Aiuta a far
passare lo
stress. Tu come stai?".
"Bene"
– mentì. Non era vero però, era ancora
spaventata da quello che
Smith le aveva fatto, da quello che avrebbe potuto fare e da quello
che aveva detto sui suoi figli. Spesso, l'estate precedente, lo aveva
colto sul fatto a spiare Clowance e Jeremy che giocavano nel
giardino, studiandone orari e abitudini, ma fino a quella sera lo
aveva creduto incapace di nuocere a qualcuno. Ma ora lo
sapeva, Smith era senza scrupoli e avrebbe fatto del male anche a due
bambini, per i suoi interessi.
"Demelza?".
Si
accorse che stava tremando e che le sue mani erano scosse da tremiti.
Il suo viso era rigato da lacrime, scese senza che se ne accorgesse.
"Lui mi fa paura".
"Se
n'è andato, hai chiuso la porta a chiave e per un po' di
giorni avrà
mal di schiena. Ti lascerà in pace, soprattutto quando
vedrà che
avrai delle guardie del corpo che vigilano su di te. Demelza, non
è
successo niente, per fortuna".
Lo
guardò, disperata, furente, fuori di se, non riuscendo a
controllare
le sue emozioni. Si sedette sul letto, accanto a lui, stringendo la
coperta fra le mani. "Tu non capisci... Lui non minaccia solo
me. Se... se... non gli darò quel che vuole, lui...".
A
quel punto, Ross ebbe una reazione più forte, lasciando da
parte
l'autocontrollo che si era imposto fino a poco prima. Le strinse le
spalle, costringendola ad alzare il viso su di lui. "Che cosa?
Demelza, cos'è che ti spaventa tanto?".
"Lui
li controlla, sa i loro orari, cosa fanno, dove trovarli".
"Chi?".
"I
bambini... Gli farà del male se non gli vendo quelle azioni
e forse
dovrei farlo, a questo punto".
Ross
si oscurò, guardandola senza capire. "Quali bambini?".
Fra
le lacrime, Demelza abbassò lo sguardo. "I nostri bambini".
Ross
si accigliò mentre lei, distrutta, crollò fra le
sue braccia. La
guardò, con lo sguardo con cui si osserva una persona fuori
di
senno. "Stai parlando di Jeremy? E di Julia? Demelza, Julia non
è più con noi e l'unica cosa positiva
è che ora sta in un posto
dove nessuno puo' farle del male. Cerca di stare tranquilla, stai
iniziando a preoccuparmi".
"Non
sto parlando di Julia!" - sbottò lei, esasperata. Si
tirò su,
a fatica, capendo che ormai, nella disperazione, si era spinta troppo
oltre per continuare a tenere quel segreto. Doveva dirlo, voleva
dirglielo! Era il padre dei suoi figli, Ross, e aveva diritto di
sapere che qualcuno minacciava Jeremy e Clowance. E aveva bisogno di
condividere quel peso con lui, non ce la faceva da sola, non dopo
quanto successo poco prima. Lui l'avrebbe odiata, si sarebbe
arrabbiato, ma ormai era troppo tardi per tornare indietro. E
comunque, nonostante tutto, forse li avrebbe protetti. "Quando
me ne sono andata da Nampara, io non lo sapevo ancora ma poi qui, a
Londra...".
Ross
spalancò gli occhi, capendo dove sarebbe caduto il discorso
ben
prima che lei terminasse la frase. Il suo viso si riempì di
senso di
colpa, dolore, costernazione. "Eri incinta? Santo cielo...".
Demelza
annuì, accarezzando le coperte. "Lei è nata qui,
in questa
stanza, su questo letto..." - disse, con sguardo perso.
Credeva
che Ross si sarebbe arrabbiato, che avrebbe alzato la voce e le
avrebbe urlato contro tutta la rabbia per non esserne stato informato
invece, inaspettatamente, la abbracciò, stringendola
talmente forte
che per un attimo le sembrò di soffocare. La
baciò sulla fronte,
accarezzandole i capelli e i suoi occhi divennero lucidi. "Ho
una figlia?" - chiese, con la voce spezzata dall'emozione.
Annuì.
"Sei arrabbiato?".
"Si.
Con me stesso perché, a causa dei miei errori, tu hai dovuto
affrontare tutto da sola e io mi sono perso tutto. E perché
quella
dannata notte non ho abbandonato solo te e Jeremy ma pure una bambina
che aveva appena iniziato ad esistere e che io avrei dovuto
proteggere. Avevo promesso a Julia che avrei lottato per rendere il
mondo un posto migliore e ho fallito su tutto, rendendo un inferno
persino la mia casa, tanto da spingerti ad andartene".
Rimase
colpita da quelle parole, da quell'atteggiamento. Ross era sempre
stato orgoglioso e poco incline ad ammettere i suoi errori mentre ora
se ne faceva carico, totalmente, senza cercare alibi o scuse. "Avrei
dovuto dirtelo, forse. Ma io credevo che non ti sarebbe importato,
che saresti corso subito da Elizabeth, dopo che me ne ero andata, e
che la bambina l'avresti vista solo come un peso, come me e Jeremy".
Ross
le asciugò le lacrime con la mano, commosso a sua volta,
baciandola
nuovamente sulla fronte. "Mi dispiace che tu abbia creduto una
cosa del genere e mi rendo conto che, se lo hai pensato, è a
causa
mia". Le strinse la mano, accarezzandola piano. "Credimi,
Demelza! Io mi odio per quello che ho fatto, che TI ho fatto. Non
vedo Elizabeth dalla notte prima del suo matrimonio e in
quell'occasione andai da lei solo per parlare e per metterla in
guardia da George. Non ho mai pensato di vivere con lei e subito mi
sono reso conto di quanto avessi idealizzato lei e trascurato te e la
mia vera famiglia. Eravate voi la mia ricchezza, il mio mondo e la
mia ragione di vita e io, stupidamente, l'ho capito solo quando vi ho
perso. Sono stato un idiota e un arrogante senza pari". Le
sfiorò il mento, costringendola a sollevare il viso.
"Guardami!".
"Ross...".
"Ascolta,
credimi per favore! Per me non esiste nulla di più
importante di te
e dei nostri figli. Averti come moglie ed essere il padre dei bambini
che tu mi hai dato, è il mio orgoglio. Sono fiero dei miei
figli e
non avrei voluto averli da nessun'altra donna che non sia tu. Ti
prego, mi conosci meglio di chiunque altro, lo sai bene che non sto
mentendo".
Demelza
chiuse gli occhi, inspirò profondamente e lasciò
che ansia, dolore,
tristezza defluissero da lei. Le aveva detto parole che ogni donna
avrebbe desiderato sentire dal suo uomo e sì, le faceva
piacere, era
tutto quello che aveva sempre desiderato. Che la amasse, che fosse
l'unica scelta per lui, non il ripiego. "Ti credo" –
disse, arrendendosi al fatto che era così. Gli credeva,
VOLEVA
credergli! Aveva bisogno di lui, voleva che ci fosse, accanto a lei e
accanto ai bambini. Ricominciare poteva essere la più grande
sfida
della sua vita ma era anche abbastanza folle da credere che poteva
essere possibile, nonostante le esistenze così diverse che
conducevano. Lasciò che le sfiorasse i capelli, che
l'attirasse a
se. Lasciò che la baciasse, a lungo, sulle labbra. Conosceva
il
sapore dei suoi baci ma per tanto tempo aveva creduto di averlo
dimenticato. Non era così, Ross era la sua casa, il suo
amore, la
sua vita e queste sono cose che non si dimenticano mai.
"Parlami
di lei" – disse Ross, contro le sue labbra.
"Di
chi?".
"Della
mia bambina".
Sorrise,
a quella domanda. "La conosci già".
Ross
si allontanò bruscamente da lei, guardandola nuovamente come
se
fosse stata pazza. "Come posso conoscerla?".
"L'hai
incontrata la scorsa estate, a casa di Caroline".
Ross
spalancò gli occhi, mentre sul suo viso sfilarono
espressioni
diverse che andavano dalla sorpresa, allo stupore, alla
consapevolezza e infine alla gioia. "La bambina dei draghi!
Clowance?!". Scoppiò a ridere come se fosse ubriaco, felice.
"E' mia? Quella splendida, vivacissima e testarda bambina è
mia?" - urlò, prendendole il viso fra le mani.
Anche
lei sorrise, in modo più controllato, quasi avesse paura che
quello
fosse solo un bel sogno. Sembrava così felice Ross, dopo che
per
anni aveva creduto che avrebbe rifiutato ogni responsabilità
verso i
suoi figli. "Si, l'hai descritta bene. E' proprio così,
splendida, testarda e vivace. Una Poldark fatta e finita".
Ross
la abbracciò, trascinandola nel letto, riprendendo a
baciarla con
passione. "Sei sicura che sia solo dai Poldark che ha preso? Io,
in lei, ho visto molti tratti di te".
Demelza
sbuffò. "A modo suo, ha preso il meglio – o il
peggio – da
entrambi. E' un osso duro, mette sotto persino suo fratello quando
litigano".
"E'
bella come te!" - le disse, stavolta più serio. "Ed
è il
mio orgoglio più grande". Le sfiorò i capelli, la
vita, la
abbracciò e la costrinse a rifugiarsi sotto le coperte con
lui.
"Quando l'ho vista, la scorsa estate, ho pensato che l'uomo che
aveva una figlia così, doveva essere davvero fortunato. E
ora,
sapere che quell'uomo sono io... Quante cose mi sono perso, non ci
sono mai stato, né per lei, né per Jeremy... E
questo non me lo
perdonerò mai, non accetterò mai di aver
sacrificato la mia
famiglia per uno stupido ideale infantile che non contava niente".
Demelza
gli sfiorò la guancia. "Non partire, Ross. Resta qui, con
noi".
"Lo
vuoi davvero?".
"Si".
"Solo
a una condizione!".
Demelza
si accigliò. "Quale?".
Ross
le prese la mano sinistra, baciandola con passione. "Che tu ti
rimetta la fede, signora Poldark. E' la sfida più grande
della tua
vita, rimetterti quell'anello. Vuoi farlo?".
"Si".
Deglutì, ricordando quanto fosse stata disperata la sera in
cui se
l'era tolto. Poi si alzò, aprì il cassetto e
riprese fra le mani
quel piccolo anello d'oro che Ross, tanti anni prima, quando era
ancora incredula che la stesse sposando, le aveva messo al dito.
Glielo diede e lui, con un gesto lento, glielo rimise al dito. Poi si
baciarono, con passione, e Ross la attirò nuovamente sul
letto,
baciandola sulle labbra, sul collo, sfiorandole la vita e
accarezzandole la schiena e i lunghi capelli rossi, con gesti lenti e
studiati. "Non chiedermi di fermarmi, perché tanto non ti
darei
ascolto".
Le
punte dei loro nasi si sfiorarono e Demelza, col fiato, corto, gli
baciò il collo, per poi risalire alle sue labbra. "Non mi
pare
di avertelo chiesto".
"Meglio
così, Demelza Poldark".
Pensò
che sentir pronunciare il suo nome da quella voce calda, fosse
l'unica cosa che avesse mai desiderato nella sua vita. "Mi sei
mancato".
"Anche
tu...Voi...". Le sfiorò la mano con la fede, accarezzandola.
"Non togliertela mai più".
"E
tu non dimenticarti mai più di averla al dito" –
disse lei,
in un tono dolce ma fermo.
Si
baciarono a lungo, presi da una frenesia che ben conoscevano
perché
da sempre, fra loro, l'attrazione era stata fortissima. Ross le
sciolse i capelli, l'aiutò a togliersi i vestiti e poi
accarezzò il
suo corpo quasi con terrore, timore di farle male. Anche se, per la
verità, quella più preoccupata era lei. "Sei
sicuro che...".
"Sto
bene".
"Si...
Ma...". Era dannatamente difficile parlare, mentre Ross la
baciava sul ventre e sul petto. "Non dovresti riposare?".
"Questo
non mi ucciderà, sta tranquilla".
Lo
riattirò a se, ricatturò le sue labbra e
lasciò che la baciasse a
lungo. Non aveva fretta, era stata una dura lotta contro se stessa
cedergli ma ora voleva gustarsi ogni attimo col suo uomo, scoprire
cosa si provasse a sapere di essere l'unica per lui, senza segreti,
senza primi amori o sogni infantili che li dividessero.
"Ti
amo, Demelza Poldark. Non ho mai smesso di farlo e la mia vita, senza
di te, è stata inutile e vuota".
"Ti
amo anch'io, Ross".
Mentre
la candela sul comodino pian piano si consumava, rilasciando un alone
dorato attorno a se, fecero l'amore, a lungo, ritrovandosi come
coppia, amici, amanti, genitori, in un modo dolce e allo stesso
appassionato ed intenso, come da sempre era stato il loro rapporto.
Entrambi avevano sbagliato molto, si erano feriti e si erano negati
l'un l'altro a lungo. Ma erano come calamite e prima o poi, e ora lo
sapevano, qualcosa li avrebbe attirati ancora l'uno davanti
all'altro, fondendoli di nuovo.
Non
sarebbe stato facile, lo sapevano bene. Il vero amore non è
quello
perfetto delle fiabe ma quello che, nelle tempeste, sa affrontare i
problemi e uscirne vincitore, più forte di prima. Non si
sarebbero
mai illusi dal 'Vissero felici e contenti', sapevano che la vita,
come l'amore, è una lotta e un qualcosa da coltivare giorno
dopo
giorno e che a volte il sole non sorge ma ti regala giornate buie. Ma
stava proprio nella forza di un rapporto sopportare quelle giornate
buie, per poi gioire insieme quando il sole sarebbe tornato.
Mentre
faceva l'amore con lei, Ross non gli tolse gli occhi di dosso, quasi
che i loro sguardi fossero incatenati l'un l'altro. Era qualcosa di
unico, intimo, profondo, guardarsi negli occhi in quei momenti e
Demelza lo sapeva, solo con lui sarebbe riuscita a vivere qualcosa
di tanto sconvolgentemente intenso e bello, come se fossero davvero
fusi, come se fossero stati davvero una cosa sola.
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Capitolo 26 *** Capitolo ventisei ***
Il
fuoco del camino era spento da ore probabilmente, ma se ne era
accorta solo ora che era ormai mattina. Si strinse a Ross che le
cinse la vita con le braccia, attirandola a se, rabbrividendo. "Sono
una pessima moglie. Non ti ho fatto riposare e ora ti sto facendo
morire di freddo perché non riesco a trovare la forza di
alzarmi per
riaccendere il fuoco".
Ross
sorrise, baciandola sulla fronte. "Credo che le pessime mogli
siano altre".
"Se
lo dici tu...". Demelza chiuse gli occhi, si sentiva strana e
anche imbarazzata, benché fosse una cosa stupida. Era la
moglie di
Ross e tante volte si era svegliata al mattino, nuda, fra le sue
braccia, dopo una notte passata a fare l'amore. Già, una
volta era
normale che fosse così, ma tre anni prima tutto era cambiato
e non
credeva che avrebbe ritrovato un'intimità così
intensa con lui. Era
stato qualcosa di strano, irrazionale, istintivo e allo stesso tempo
carico di sentimenti che entrambi avevano rimosso a lungo. Era stato
impossibile resistersi, stare lontano, cercare una scusante per non
fare l'amore con lui perché voleva Ross, lo aveva sempre
voluto, non
ci poteva girare troppo attorno, lo aveva desiderato anche negli
ultimi tre anni, nonostante tutto. E le parole che le aveva detto il
giorno prima le avevano scaldato il cuore, un cuore che credeva arido
e ormai incapace di provare ancora sentimenti verso di lui. Si erano
amati per tutto il pomeriggio, la sera e la notte appena trascorsa,
affamati e mai sazi l'uno dell'altra. Lui l'aveva desiderata,
guardata, ammirata, come se al mondo non ci fosse che lei, come
sognava da sempre, come credeva non l'avrebbe amata mai. E ora, fra
le sue braccia, avrebbe voluto che il tempo si fermasse,
cristallizzandoli per l'eternità così, insieme,
l'uno fra le
braccia dell'altro. "Comunque, dovresti dormire un po', ora".
"Dormirò
se dormirai anche tu!" - rispose lui, deciso.
Demelza
alzò lo sguardo su di lui, gli prese la mano sinistra nelle
sue e
gli accarezzò le dita e il palmo, piano. "Ormai è
abbastanza
tardi, di solito se sono sveglia a quest'ora, difficilmente mi
riaddormento".
"Perché?
Non sei una lady che puo' fare quello che vuole, adesso? Non potresti
startene a dormire quanto vuoi?".
Sorrise.
"Potrei farlo, se non fosse per i nostri figli". Era
strano, bello, parlare con lui dei bambini.
"Perché?".
"Prima
si sveglia Clowance, all'alba. Scivola giù dal letto,
sceglie il suo
giocattolo preferito della giornata, viene da me nella mia stanza,
sale sul mio letto e poi, per svegliarmi, mi getta sulla fronte il
suo gioco. Mezza intontita la prendo, la abbraccio, la metto sotto le
coperte, lei si addormenta e provo a riaddormentarmi anche io.
Qualche ora dopo arriva anche Jeremy, mi sveglio del tutto e resto
lì
con loro, che non stanno fermi un attimo, finché la mia
domestica
non ci chiama per la colazione".
Il
viso di Ross si addolcì a quelle parole. Le
accarezzò la guancia e
la baciò teneramente sulle labbra, abbracciandola. "Parlami
ancora di loro, ti prego. Dimmi tutto quello che avete fatto insieme,
giorno dopo giorno, in questi tre anni".
"Ci
vorrebbero tre anni per farlo" – commentò lei,
divertita.
"Beh,
fammi un riassunto".
Sospirò.
"Jeremy ama i cavalli, ne è affascinato. Gli piace disegnare
e
quest'estate ha insistito per avere un istitutore che gli insegnasse
a leggere e scrivere e visto che sembrava tenerci tanto, l'ho
assecondato. E anche se ha solo cinque anni, impara talmente in
fretta da lasciarmi stupita... E' tranquillo, sensibile e allo stesso
tempo furbo, quando gli conviene. Clowance è... beh, l'hai
vista,
testarda, vivacissima, piuttosto esigente e quando ti dice che vuole
qualcosa, di solito non la chiede, la pretende! Lei è un
osso duro e
si arrabbia quando viene contrariata, però sa anche essere
dolce,
quando ha la luna giusta. E' buffa quando parla, quando ride, quando
gioca o quando si arrabbia, non riesco mai a fare troppo la seria con
lei. Sono la mia vita, amo stare con loro anche se spesso non posso
farlo a causa del lavoro, ma so che sono con persone che li adorano e
che farebbero di tutto per farli contenti. Li ascoltano, si prendono
cura di loro e, ahimé, li viziano anche. I nostri figli han
più
giocattoli di tutti i bambini della Cornovaglia, hanno una stanza
tutta loro solo per i giochi e spesso, di pomeriggio, ho la casa
invasa dagli amichetti di Jeremy che vengono da lui a giocare. Figli
dei vicini o bambini che incontra al parco, insieme alle loro tate, e
con cui ha stretto amicizia. Loro giocano e Clowance e gli altri
fratellini e sorelline più piccoli, li seguono ovunque".
Ross
sorrise, poi divenne pensieroso, ricordando il frangente il cui aveva
visto Clowance la prima volta, a casa di Caroline. "Chi è
nonno
Martin? Quando ho incontrato nostra figlia, è venuto un uomo
a
prenderla e lei lo ha chiamato così".
Demelza
annuì. "Martin Devrille, il mio principale socio in affari.
E'
mio vicino di casa e ci ha adottati, praticamente. Non ha figli e per
me è diventato come un padre e per i bambini, un nonno. E lo
è
davvero! Ora sono con lui e sua moglie e probabilmente, essendo
rimasta lontana per tanto tempo, avrà comprato ai nostri
figli mezza
Londra".
Ross
prese una ciocca dei suoi capelli rossi, giocandoci. "Sai,
vorrei essere geloso di queste persone che ti son state vicine in
questi anni ma non posso. Dovrei ringraziarli per essere stati la tua
famiglia, un sostegno e un punto di riferimento per te e per i
bambini. Sono stati molto migliori di me".
Demelza
deglutì a quelle parole. Ripensò al dolore
provato dopo la morte di
Francis e a quanto fossero stati in crisi lei e Ross, tentennando per
un istante sul fatto di voler tornare con lui. "Sai che non
sarà
facile, vero? Siamo due persone molto diverse e ci siamo fatti molto
male... Riusciremo a lasciarci davvero tutto alle spalle? In poche
ore è cambiato tutto, ogni mio piano per il futuro
è stato
rivoluzionato e io mi sento... Non lo so, forse solo strana".
Ross
sospirò, capendo bene a cosa alludesse. "Elizabeth non
esiste
più. E credo che non sia mai esistita fin dal momento in cui
ho
capito di amare te. Era una fissazione, una fantasia idiota di un
idiota che faceva i capricci per avere ciò che non aveva
ottenuto da
ragazzo".
"Ma
quel capriccio ci è costato caro, Ross. Saprò
dimenticare?".
Ross
le accarezzò i capelli. "La domanda giusta è SE
vuoi
dimenticare".
Annuì.
Già, tutto si poteva superare ma il punto era se lo si
voleva fare.
Lo guardò, era bello come il sole, affascinante, tutto
quello che
aveva sempre desiderato. E l'amava, dopo che per tanto aveva creduto
di non essere stata abbastanza per lui. Poteva vivere comunque una
vita felice e agiata senza di lui, a Londra, ma sapeva che sarebbe
stata un'esistenza vuota e fredda, priva di aspettative. Era il suo
compagno, suo marito, il suo amante e il suo migliore amico e gli era
mancato come l'aria in ogni dannato giorno di quegli ultimi tre anni.
Era felice di essere madre ma desiderava anche sentirsi una donna e
solo con lui ci riusciva, da sempre. "Lo voglio Ross".
Le
diede un lungo bacio, di quelli che le facevano mancare il respiro.
Poi la abbracciò, stringendola forte fra le sue braccia. "Io
sono un dannato e fortunatissimo uomo perché ho accanto una
donna
come te e so che non ti merito".
"Lo
so" – rispose lei a tono, seria.
Si
guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere dopo quella risposta,
finalmente rilassati, sereni, come se una ventata d'aria nuova e
fresca li avesse investiti.
"Demelza,
credo che tu ora debba andare".
"Andare?".
Ross
annuì. "E' la Vigilia, devi andare dai bambini, ti stanno
aspettando".
A
quelle parole, si sentì persa. Non aveva voglia di lasciarlo
solo e
di andarsene e allo stesso tempo non vedeva l'ora di riabbracciare i
suoi figli che non vedeva da più di tre settimane. "Vieni
con
me".
"Meglio
di no. Non riesco a stare in piedi per più di un minuto
senza avere
giramenti di testa e inoltre non mi conosce nessuno a casa tua,
metterei tutti in difficoltà e in imbarazzo. Soprattutto i
bambini.
Ti rovinerei il Natale, preferisco restare qui a riposare. Ma tu devi
andare, lo hai promesso, no?".
"Si.
Ma...".
"Niente
ma! Ti ho avuta solo per me per tanto tempo, ora va da loro. E'
Natale e vorranno la mamma. E tu vuoi loro".
Demelza
scosse la testa. "Certo che li voglio! Ma odio l'idea di
lasciarti qui da solo".
"Era
la tua idea fino a ieri!" - obiettò lui.
Demelza
lo guardò storto, prendendo un cuscino e picchiandoglielo
sul petto.
"Spiritoso! Da ieri son cambiate molte cose, fra cui le
priorità
della mia vita".
Ross
sorrise, accarezzandogli una guancia. "Starò bene,
riposerò e
non farò alcuno sforzo, giuro. Va tranquilla e non
preoccuparti,
avremo tanti altri Natali da festeggiare insieme".
Tranquilla
era una parola grossa... Si alzò dal letto, si
sistemò per la
giornata, si rivestì e riaccese il fuoco. Poi, una volta
pronta, si
avvicinò al letto, dando un bacio al marito. "Ti
manderò una
domestica con del cibo. Ti lascio una copia delle chiavi sul
comodino, tieni tutto chiuso e vedi di non girare troppo per casa, se
ti venisse un giramento di testa, non ci sarebbe nessuno ad aiutarti
a tornare a letto e io ho bisogno di stare tranquilla, fintanto che
sarò a casa. Me lo puoi promettere?".
"Giuro".
Lo
guardò storto, sapendo che non sarebbe rimasto a letto
troppo, gli
diede un altro bacio e poi, a malincuore, lasciò la locanda.
Fuori
il tempo era gelido, il cielo coperto, ma ancora non c'era traccia di
neve ed era strano, ricordando quanta ce ne fosse stata negli anni
precedenti.
A
passi spediti raggiunse casa e, con un groppo alla gola, vi
entrò.
Era cambiato tutto dall'ultima volta che ci era stata, per lei e per
i bambini.
Dentro
era un via vai di domestiche che correvano avanti e indietro e che,
appena la videro, si esibirono in un inchino e in un sorriso.
"Signora,
siete tornata!" - esclamò Dorothy, una delle sue cuoche che
rientrava nello stesso momento dal mercato.
"Lo
avevo promesso". Diede il mantello al maggiordomo e si diresse
verso il salone principale, quando qualcosa attirò la sua
attenzione. Nello studio accanto all'ingresso, c'era un grosso abete
addobbato e pure in fondo al corridoio ce n'era un altro. Si
accigliò, incrociando le braccia al petto, richiamando a se
il
maggiordomo. "Che ci fanno quegli abeti qui?".
L'uomo
sospirò. "Ce n'è uno in ogni stanza della casa,
signora".
"Cosa?".
"Certo.
Il signorino Jeremy voleva un albero in ogni camera e Sir Devrille e
sua moglie sono stati contenti di assecondare questo suo desiderio".
Demelza
sentì le braccia caderle e le spalle farsi pesanti. "Quanti
abeti ci sono in casa?".
"Venticinque,
signora".
Spalancò
gli occhi, in un miscuglio fra stupore e sconforto. "VENTICINQUE?
Santo cielo, abbiamo degli abeti anche in soffitta?".
"Anche
in cantina, signora".
Alzò
gli occhi al cielo. Jeremy sarebbe stato in castigo per il resto
della sua infanzia e Martin gli avrebbe fatto compagnia. Ovviamente
dopo aver disboscato casa sua che, a conti fatti, aveva ormai
più
abeti delle montagne del Tirolo. Cosa diavolo avevano combinato suo
figlio e il suo socio, mentre lei non c'era? "Dov'è il mio
piccolo, dolce Jeremy?".
"Nel
salone, assieme alla signorina Clowance. Stanno giocando coi regali
che sono arrivati nei giorni scorsi".
"Regali
da parte di chi?".
L'uomo
ci pensò su. "Da parte di tanta gente, signora. Avete molti
amici e conoscenti che dipendono da voi e dalle vostre decisioni
nella finanza e hanno ricambiato con generosità quanto fate
per loro
durante l'anno. Avete il salone invaso da pacchetti e scatole
colorate. Doni per voi e per i bambini".
Alzò
gli occhi al cielo, casa sua era irriconoscibile. "Non posso
crederci...". La maggior parte di quei doni proveniva,
sicuramente, da gente che nemmeno conosceva e che avrebbe dovuto
ringraziare, fingendo magari un rapporto di amicizia che nemmeno
esisteva...
"Demelza!".
La
voce potente di Martin, giunto dalla scalinata principale, la
investì
in pieno. Si imbronciò, i suoi occhi fecero scintille e si
avviò
verso di lui a passi spediti. "Venticinque abeti? Martin, ne
volevo UNO! Come hai potuto cedere alle insistenze di Jeremy?".
L'uomo
si esibì in un grosso sorriso. "Posso spiegarti tutto".
Incrociò
le braccia al petto. "Avanti, sono tutta orecchie".
"I
bambini erano così turbati dal fatto che fossi andata via
così
frettolosamente che ecco, assecondarli era la cosa migliore da fare
per tirar loro su il morale".
"E
gli hai tirato su il morale, permettendogli di fare VENTICINQUE
alberi di Natale!? Dannazione Martin, tu non puoi fargli fare tutto
quel che vogliono, non è così che si educa un
bambino. Che avresti
fatto se, ad esempio, Jeremy ti avesse detto che voleva Buckingham
Palace?".
L'uomo
alzò le spalle con noncuranza. "Che domande! Sarei andato
dal
re e mi sarei messo d'accordo con lui".
Sospirò,
rassegnata al fatto che non ne avrebbe cavato un ragno dal buco. Si
portò la mano alla fronte, accarezzandola, cercando di
evitare che
le venisse mal di testa. "Tu e Jeremy, dopo Natale, sistemerete
tutti gli abeti!".
"Noi?".
"Si,
voi! Non la servitù! Jeremy – e anche tu
– avete bisogno di una
lezione che vi ricorderà a vita cosa succede a disubbidire".
"D'accordo,
sugli abeti POTRESTI avere ragione. Ma non ti dovrai arrabbiare per
il regalo personale che ho fatto ai bambini".
Demelza
lo guardò storto, aspettandosi il peggio. "Gli abeti non
bastavano?".
"Gli
abeti sono addobbi, il regalo di Natale è un'altra cosa. E i
bambini
sono stati così felici per i pony".
Sbiancò,
dovendo appoggiarsi al muro. "QUALI PONY?".
"Quelli
nella tua stalla. A proposito, non ci sei passata, tornando? Non li
hai visti?".
"NO!
Hai comprato due pony ai miei figli? Santo cielo, Martin, sono troppo
piccoli e non saprebbero prendersene cura".
"Impareranno!
Ed erano tanto felici quando li hanno visti". Martin scosse la
testa, quasi divertito dalla sua reazione . "Sei troppo...".
Poi si bloccò, osservandola e prendendole la mano sinistra
fra le
sue. "Hai la fede al dito! Quindi, suppongo che...".
"Non
cambiare discorso!" - obiettò, gelida.
"Demelza!
Ma sono felice!". L'uomo la abbracciò forte, con fare
paterno.
"Suppongo quindi, che le cose fra voi si siano sistemate e che
lui stia meglio".
A
quella dimostrazione d'affetto, sorrise. Martin le voleva bene come
si vuole bene a una figlia e sapeva quanto desiderasse vederla
felice. A dispetto del fatto che in quel momento volesse strozzarlo,
rispose al suo abbraccio. "Sarà una strada lunga ma
sì, tante
cose si sono sistemate".
"E
lui dov'è?".
"Alla
locanda, ancora non è abbastanza in forze per muoversi".
Martin
le accarezzò la guancia. "E tu cosa ci fai qui?".
"Cosa
avrei dovuto fare? I bambini mi aspettavano e non posso lasciarli
soli a Natale. Non voglio...".
"Cosa
dovresti fare?". Le poggiò una mano sulla spalla,
guardandola
con espressione seria. "Lo sai bene dove dovresti essere".
Annuì,
capendo cosa intendesse e trovandosi d'accordo con lui. Aveva
promesso ai suoi figli un Natale perfetto ma non poteva esserlo
così,
con una montagna di regali, con venticinque alberi di Natale e
circondati da lusso e servitori pronti a esaudire ogni capriccio.
Sarebbe stato un Natale lussuoso ma non perfetto. Jeremy e Clowance
avevano montagne di giocattoli e non avevano bisogno di averne altri,
erano circondati da persone pronte ad esaudire ogni loro desiderio
ogni giorno dell'anno ma non avevano mai passato del tempo col loro
padre. Il Natale perfetto, per lei e per loro, era un altro, insieme,
con la loro famiglia finalmente riunita. "Non ti dispiace se li
porto via?".
Martin
scosse la testa. "Il tuo posto è con lui, insieme ai
bambini, è
quello che hai sempre desiderato. Portali dal loro papà, io
ho i
miei fratelli e mia moglie e festeggerò con loro e la
servitù, mia
e pure tua se mi dai il permesso, come ogni anno".
"Grazie!".
Lo abbracciò, commossa. Poi si allontanò,
sorridendo furba. "Ma
non sei comunque esentato, quando tornerò, dal sistemare
casa mia!
La voglio com'era prima, senza bosco".
Martin
sospirò, sconfitto. "Ne riparleremo nel nuovo anno".
"Certo".
Corse verso il salone, dai bambini, bloccandosi sull'ingresso della
stanza. Il suo salone era un qualcosa di meraviglioso, un tripudio di
festoni color oro e rossi appesi alle pareti, con tende color porpora
alle finestre e un enorme abete addobbato al centro della stanza,
sotto al quale c'erano almeno un centinaio di pacchi dono incartati
in carta di ogni colore. E in mezzo a tutto questo, i suoi due
bambini giocavano contenti, scuotendo le scatole per capire cosa ci
fosse dentro. "Fate piano, potrebbero contenere roba fragile"
– disse, raggiungendoli.
Jeremy,
al suono della sua voce, alzò il viso di scatto e poi gli
corse
incontro, abbracciandola, seguito dalla piccola Clowance. "Mamma!"
- urlò, contento. "Sei venuta davvero".
I
bimbi le saltarono in braccio, contenti. Jeremy indossava un abitino
blu di lana, elegante, con un colletto bianco e coi pantaloni fino al
ginocchio, chiusi con dei bottoncini che gli conferivano un aspetto
principesco e con ai piedi degli stivaletti di cuoio. Clowance invece
aveva un vestitino di velluto rosso, legato in vita da un nastrino
nero, delle calzine bianche e delle scarpette di vernice del medesimo
colore dell'abito. Erano semplicemente splendidi, tanto perfetti da
sembrare finti.
Dopo
aver dato loro un bacio, Demelza guardò Jeremy negli occhi.
"Certo,
io mantengo la parola data, a differenza di qualcuno".
Il
bimbo sospirò, capendo a cosa alludesse. "Sei arrabbiata per
gli alberi?".
"Molto".
"Li
ha voluti tutti Clowance! Li voleva rosa, piangeva e abbiamo dovuto
accontentarla" – si giustificò, mentre la sorella
si
imbronciava per quella evidente bugia.
"Non
è vero, non li ha voluti Clowance. Lei ne voleva solo uno,
rosa".
"Losa!"
- ripeté la bimba.
Demelza
si sedette per terra, davanti all'albero, facendoli sedere sulle sue
gambe. "Sai che sei in castigo, Jeremy?".
"Ma
mamma, è Natale!".
Demelza
sorrise. "Sarai in castigo da dopo Natale quando dovrai, da solo
con Martin, sistemare tutti gli abeti, togliere le decorazioni e
tagliare la legna".
"Ma
non sono capace!" - obiettò il bambino.
"Imparerai".
Lo baciò sulla nuca, stringendolo a se. Li
guardò... I suoi bimbi,
suoi e di Ross. Lui li avrebbe adorati, li aveva sempre amati, ogni
singolo giorno di quei tre anni in cui lei aveva creduto che li
avesse dimenticati. Era strana, meravigliosa quella sensazione di non
essere più sola con loro, di essere finalmente una famiglia.
"Bimbi,
vi devo dire una cosa importante".
Clowance
e Jeremy si voltarono verso di lei e il bambino sospirò.
"Che
sei arrabbiata per gli alberi e che sono in castigo, giusto?".
Demelza
scosse la testa, piuttosto divertita, nonostante tutto. "Quello
te l'ho già detto ed era sottinteso. Ma no, vi devo dire una
cosa
più importante".
"Pottante...".
Clowance le si arrampicò sul collo, abbracciandola, e
Demelza la
baciò sulla guancia.
"Che
cosa?" - chiese Jeremy, curioso.
Demelza
sospirò, cercando le parole giuste con cui spiegargli quanto
la loro
vita sarebbe cambiata. "Sapete, quando me ne sono andata a
inizio mese, per fare quella cosa importante... Beh, io dovevo fare
una cosa importante davvero".
Jeremy
annuì. "Dovevi lavorare?".
"No".
Accarezzò la guancia del figlio per rassicurarlo. "In tutti
questi giorni sono stata col vostro papà, nella nostra
vecchia casa
sulla locanda".
Jeremy
spalancò gli occhi, sorpreso, talmente scosso da non
respirare
quasi. "Papà? Il papà è venuto a
Londra? E dov'è?".
"Papà"
– ripeté Clowance, guardandola senza capire.
Demelza
strinse a se Jeremy, abbracciandolo forte e percependone il
turbamento. Era normale, lui era ancora molto piccolo per capire, ma
abbastanza grande per comprendere la portata enorme di quanto gli
aveva appena detto. "E' alla locanda perché è
stato molto
male. Ha avuto un brutto incidente e sono stata con lui per tutto
questo tempo per curarlo. Non vi ho detto niente per non
preoccuparvi, ma ora sta meglio per fortuna".
"Ma
lo hai lasciato solo alla locanda?" - chiese Jeremy.
"E'
ancora debole, deve stare a letto". Guardò i bambini negli
occhi, seria. "Lo so che qui ci sono gli abeti, tanti regali, i
vostri pony e le persone a cui volete bene ma... che ne dite se tutte
queste cose le guardassimo dopo Natale e andassimo da papà,
noi tre
insieme?".
Jeremy
parve pensieroso. "Alla locanda?".
"Si,
a passare il Natale con lui. Vorrebbe tanto vedervi. Ma la scelta sta
a voi, vi avevo promesso il Natale più bello del mondo e lo
festeggeremo come vorrete. Pure qui, se vi farà piacere.
Alla
locanda c'è papà ma non ci sono né
regali, né abeti, né oggetti
natalizi. Pensateci bene".
Jeremy
guardò i regali, l'abete, il salone addobbato. "Chi
darà da
mangiare ai pony, se andiamo via?".
"I
nostri domestici".
Jeremy
annuì. "Tanto di giochi ne abbiamo tanti". La
abbracciò,
turbato, vagamente spaventato ma anche emozionato. "Andiamo dal
papà".
"Papà"
– ripeté Clowance.
Demelza
li abbracciò, forte, orgogliosa di quella loro scelta. "Sono
davvero fiera di essere la vostra mamma".
Clowance
si liberò dall'abbraccio, correndo fra i doni sotto l'albero
e
prendendo un grosso sacco di juta rosso. "Lo vollo dal papà".
Jeremy
si illuminò, correndo dalla sorella. "Giusto, brava
Clowance!
Lo portiamo dal papà".
Demelza
si accigliò, guardando il sacchetto nelle mani della figlia.
"Cos'è?".
La
bimba annuì, seria. "La pappa!".
Si
avvicinò loro, sbirciando nel grosso sacchetto rosso. Dentro
era
pieno di caramelle di zucchero, cioccolata, biscotti e altre dolcetti
che qualcuno doveva aver regalato loro. "Buona idea, portiamoli
da papà, ne sarà contento".
Clowance
si fece seria. "E' mio!".
Demelza
rise. "E non vuoi darci niente?".
Clowance
ci pensò su, poi annuì. "Si, vollo... Un pochino".
"Anche
perché i dolci sono pure miei" – aggiunse, Jeremy,
lanciando
un'occhiataccia alla sorella.
Rise,
li prese in braccio e li strinse a se. "D'accordo bambini! Si va
dal papà". Guardò la testolina di Clowance, i
capelli le
cadevano disordinatamente su fronte e spalle e aveva un aspetto
abbastanza buffo. "Mettiamo un nastrino fra i capelli?" -
le propose, sapendo già la risposta.
La
bimba si imbronciò, stringendo il sacco rosso fra le mani.
"No,
non vollo!".
Annuì.
In fondo, che importanza aveva? Ross l'avrebbe adorata anche
così,
vivace e spettinata, come era stata lei tanti anni prima, quando si
erano innamorati l'un l'altro.
Ora
lo sapeva, ne era certa. Sarebbe stato davvero un Natale perfetto,
quello! Per lei, per Ross, per i bambini. Per la loro famiglia
finalmente riunita. Se c'era un regalo che voleva per Natale, era
solo quello. E probabilmente era stata abbastanza buona da essere
esaudita tanto che non avrebbe mai più chiesto nient'altro
che
quello, che la sua famiglia rimanesse unita per sempre.
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Capitolo 27 *** Capitolo ventisette ***
Tutto
era avvolto da un silenzio tranquillo, l'ideale per dormire e
riprendersi in fretta. Voleva guarire, stare bene il prima possibile,
tornare quello che era prima dell'incidente e poter stare accanto a
sua moglie e ai suoi figli come meritavano. Non voleva più
essere
un'ombra, un fantasma nelle loro vite ma una presenza vera, reale, su
cui sentissero di poter sempre contare.
Si
voltò verso il lato del letto vuoto e questa volta, dopo
tanto, non
percepì un senso di solitudine e smarrimento. Poteva sentire
ancora
il profumo di sua moglie, fra quelle lenzuola, della sua pelle, dei
suoi lunghissimi capelli rossi che aveva accarezzato per ore e, se
chiudeva gli occhi, poteva avvertire ancora su di se le sensazioni
che quella notte d'amore e passione con lei gli aveva regalato.
Era
felice, stordito, incredulo. Fino a un mese prima credeva che la sua
vita fosse finita, che non gli avrebbe regalato più nulla e
invece,
grazie a Dwight, Caroline e a un destino amico, aveva ritrovato il
suo amore, l'unica donna che lo facesse sentire completo, felice, la
donna che aveva sposato, che gli aveva regalato i più bei
ricordi
della sua vita e lo aveva reso padre. La donna che, in un momento di
pura follia ed egoismo, aveva fatto soffrire e costretto ad andarsene
lontana, per ritrovare la serenità perduta accanto a lui.
Era
stato difficile, dopo l'incidente a cavallo, aprire gli occhi e
ritrovarsela vicino, tanto che per alcuni istanti aveva pensato di
essere diventato un pazzo visionario, ma poi tutto si era fatto
più
nitido, comprensibile e le parole di Dwight gli avevano fugato ogni
dubbio e mostrato la realtà che lo circondava. L'aveva
guardata per
giorni, in silenzio, cercando di cogliere un gesto d'intesa con lei,
che però ovviamente non era arrivato, sepolto da anni di
lontananza,
rancori e silenzi. Demelza era stata dolorosamente distante e fra
loro aveva frapposto un muro e questo, benché sapesse di
meritarlo,
lo spiazzava, soprattutto in virtù dei ricordi che lo
legavano a
lei, ricordi di giorni felici, complicità, dolcezza, risate
e di
sguardi colmi d'amore che lei riversava su di lui. Aveva distrutto
tutto e forse, se non fosse stato per una serie di eventi fortuiti,
non avrebbe avuto seconde possibilità.
Per
giorni, dopo che lei gli aveva raccontato la sua vita a Londra, aveva
temuto che Demelza fosse cambiata per sempre e che la donna dei suoi
ricordi non esistesse più. Non la riconosceva mentre
lavorava ai
registri contabili e nemmeno in quegli abiti elegantissimi, coi
capelli perfettamente in ordine, da bambolina di porcellana. Non era
lei, quella! Non era Demelza! Era stato solo il giorno prima che
l'aveva ritrovata, che si erano ritrovati in gesti semplici,
complici, solo loro. Aveva ritrovato la dolcezza delle sue carezze,
dei suoi baci, il calore delle sue braccia che lo stringevano a se in
quel modo in cui solo lei riusciva a farlo sentire a casa, in pace
con se stesso e col mondo. Si erano amati senza riserve, come se
quegli anni di lontananza non fossero esistiti, come se al mondo ci
fossero solo loro e tutto il resto non avesse avuto importanza, come
se per tutto quel tempo in cui erano stati divisi, non avessero avuto
che fame e desiderio l'uno dell'altra. E lì, su quel letto
dove lei
gli aveva detto di aver messo al mondo la loro bambina, aveva
ritrovato la donna che amava più di qualsiasi altra cosa al
mondo,
la donna semplice, gentile, tenera e allo stesso tempo decisa che
aveva reso la sua vita qualcosa di bello. Certo, sapeva di non
conoscere quasi nulla della vita che si era costruita a Londra, della
sua rete di amicizie, delle sue abitudini e del mondo sicuramente
ricco e lussuoso in cui ora viveva coi suoi figli, ma la cosa
importante era che quel mondo non l'aveva cambiata e anzi, era
orgoglioso che lo avesse usato per aiutare le persone più in
difficoltà, come faceva anni prima in Cornovaglia.
Era
felice, come non lo era forse mai stato. Felice di essere vivo, di
averla accanto, di poter sperare in una vita lunga e serena con lei,
felice di pensare che poteva riabbracciare suo figlio e che avrebbe
avuto accanto un'altra bimba che amava già tantissimo, anche
se non
l'aveva vista che per pochi minuti, senza sapere di esserne il padre.
Chiuse
gli occhi, colto dal sonno, finalmente sereno. Certo, Demelza se
n'era appena andata e già gli mancava tantissimo ma sapeva
che era a
casa, circondata da persone che l'amavano, coi loro figli. Avrebbe
passato un bel Natale con loro e questo a lui bastava.
Non
seppe nemmeno quanto potesse aver dormito, forse un paio d'ore.
Improvvisamente, nel sonno, qualcosa di umido gli bagnò la
guancia e
si svegliò di colpo, sgranando gli occhi e mettendosi
seduto, per un
attimo preda di vertigini e confusione. Guardò accanto al
letto e
rimase ammutolito dal trovarsi di fianco... "Garrick!" -
esclamò al cane che, muovendo la coda contento, lo guardava
aspettando una carezza. "Santo cielo, che ci fai qui?" -
esclamò ridendo, accarezzandogli il muso. Il cane
reagì con
contentezza, ricordandosi di lui. Saltò con le zampe
anteriori sul
letto e riprese a leccargli il viso, facendogli mille feste. Ross
rise, non capendo che diavolo ci facesse lì Garrick. Lo
accarezzò
con affetto, gli era mancato anche lui che, a onor del vero, era
l'artefice del suo primo incontro con Demelza tanti anni prima e gli
aveva regalato di fatto la sua splendida famiglia.
Guardò
verso la porta della stanza che, ora che ricordava, era rimasta
aperta dopo che sua moglie era andata via. Sentì dei passi
per le
scale e si rimise a sedere, vagamente nervoso. Era la cameriera che
gli aveva mandato Demelza, che doveva portargli il pranzo? Ed era
venuta col cane?
Quando
stava per alzarsi per andare a controllare, lei ricomparve sulla
porta. E a Ross mancò il fiato... "Demelza...". Era
lì,
davanti a lui e... non era sola. Teneva in braccio la loro piccola,
vestita con un'abitino rosso che la faceva sembrare una bambola e
teneva nell'altra mano Jeremy. Rimase attonito, a bocca spalancata,
preda di talmente tanti sentimenti contrastanti e violenti, da
sentirsi il fiato venir meno. I suoi bambini... E sua moglie...
Jeremy,
che aveva immaginato, pensato e rimpianto ogni giorno di quei lunghi
anni... Era così grande ora, coi capelli più
lunghi, il viso tondo
e l'espressione talmente seria da metterlo quasi in soggezione. E la
piccola, era cresciuta anche lei, benché l'avesse vista solo
pochi
mesi prima aveva i capelli più lunghi e sembrava
più alta.
Crescevano in fretta, troppo per un padre come lui che si era perso
tutto. Ed erano i più bei bambini che avesse mai visto in
vita sua.
Demelza
mise a terra la piccola e poi si inginocchiò fra loro,
abbracciandoli. "Bambini, questo è il vostro
papà. Salutatelo,
su".
Guardò
sua moglie, non capendo come mai fosse lì con loro, felice
come non
lo era mai stato ma talmente confuso da sentirsi impacciato e
incapace di fare qualsiasi cosa. Si alzò dal letto e si
avvicinò a
loro, piegandosi sulle ginocchia per essere alla loro altezza. Gli
girava la testa ma dubitava che fosse a causa dei postumi
dell'incidente...
Clowance
lo guardò pensierosa, corrucciata, stringendo fra le manine
un sacco
rosso. Guardò la mamma, avvicinandosi a lei un po'
intimorita, poi
tornò a guardare verso di lui. Infine, dopo qualche istante,
spalancò i suoi occhioni verde-azzurro e sorrise,
correndogli
incontro e saltandogli in braccio. "Draghi!" - esclamò
eccitata, abbracciandolo come se lo conoscesse da sempre.
Restò
ammutolito, sorpreso dal fatto che si ricordasse di lui, nonostante
fosse passato del tempo e lei fosse così piccola.
"Sì
Clowance, draghi...". La strinse a se, affondando il viso in
quella testolina rossa, inspirando il profumo dei suoi capelli,
abbracciandola talmente forte che ebbe quasi paura di farle male. Era
sua figlia e la stava abbracciando per la prima volta con la
consapevolezza di esserne il padre. Fino a pochi giorni prima non
sapeva nemmeno della sua esistenza e Clowance era lì, a
rappresentare tutto quello che aveva perso a causa dei suoi errori e
tutto quello che poteva riservargli un futuro ora di nuovo roseo.
La
bimba restò ferma, tranquilla fra le sue braccia. Ross
alzò lo
sguardo su Jeremy che, sempre serio, si nascose dietro la gonna della
madre appena si accorse che lo stava guardando. Gli si strinse il
cuore pensando a quanto lo aveva trascurato anche quando erano a
Nampara, a quanto fosse stato un pessimo padre e a come tutto fosse
diventato complicato a causa dei suoi errori, per lui. Jeremy era
più
grande di Clowance, sicuramente aveva avvertito di più la
sua
assenza e ora probabilmente era intimidito e spaventato dalla sua
presenza e non poteva dargli torto. Era troppo grande per vivere
quell'incontro con la spensieratezza di Clowance e allo stesso tempo
troppo piccolo per elaborare tutti i sentimenti che si agitavano in
lui. Allungò la mano, limitandosi ad accarezzargli i
capelli, senza
forzarlo a fare nulla. "Ciao ometto" - gli disse,
semplicemente.
"Ciao".
Demelza
gli sfiorò il mento, costringendolo a guardarla. "Jeremy,
è
papà, non vuoi andare da lui come Clowance?".
Il
bimbo scosse la testa, nascondendosi ancora di più dietro la
sua
gonna. "No".
"Non
ti ricordi di lui?" - gli chiese di nuovo, Demelza.
Jeremy
abbassò lo sguardo. "No".
Faceva
male sentirselo dire, ma era consapevole che non poteva essere
altrimenti. Era troppo piccolo quando si erano visti l'ultima volta
ed era passato tanto tempo... Decise di non insistere e, con Clowance
fra le braccia, si rimise in piedi. Guardò Demelza e
d'istinto la
abbracciò. "Cosa ci fai qui?" - sussurrò
dolcemente, al
suo orecchio.
Lei
lo guardò, accarezzandogli la guancia. "Mi sono ricordata di
una cosa, quando sono arrivata a casa. Il vero, perfetto Natale non
è
quello con cibi elaborati e con montagne di doni ma quello che si
passa con chi amiamo. Siamo una famiglia, tu sei la mia casa e
ovunque ci sia tu e ci siamo anche noi, sarà un Natale
perfetto. E
il dove non ha importanza, non ora, non per noi, dopo tutto quello
che abbiamo vissuto. E' vero, avremo tanti altri Natali ma il
più
importante resta questo e io non ti lascerò da solo".
La
baciò sulle labbra, un bacio lungo, dolce e commosso.
"Grazie,
amore mio".
"Non
devi ringraziarmi, in fondo l'ho fatto anche per me. Una volta, tanto
tempo fa, ti avevo detto che per essere felice mi bastava che ci
fossimo io, te, la nostra casa e delle candele accese. Non è
cambiato nulla per me, da allora, semplicemente, a questa lista di
cose, si sono aggiunti i nostri figli".
Ross
si avvicinò, le punte dei loro nasi si sfiorarono, la
strinse a se.
"Ero davvero perso senza di te".
Demelza
sorrise, dandogli una leggera spinta. "Immagino. Però
adesso,
su, rimettiti a letto. Non dovresti stare troppo in piedi".
Ross
ubbidì e Demelza lo raggiunse sul letto, mettendosi Jeremy
sulle
ginocchia.
Clowance,
dopo un primo momento in cui era stata tranquilla, si
divincolò
dalla stretta del padre. Si mise in piedi, osservandolo incuriosita.
"Papà?".
Sentirsi
chiamare 'papà' dopo tanto tempo, da lei, era un qualcosa di
meraviglioso. Era perfetta, una piccola Demelza in miniatura, con un
viso splendido, una vocina adorabile e un modo di fare che poteva
conquistare chiunque. "Dimmi".
Clowance
gli prese una mano, stringendola nella sua. "Più via?".
La
riprese in braccio, stringendola a se, baciandola sulla guancia. "No,
non vado più via".
Demelza
sorrise, prima di tornare a guardare Jeremy che, silenzioso, stava
aggrappato a lei, guardandoli senza parlare. "Tesoro, dì
qualcosa a papà o penserà che non sai parlare.
Sei stato tu a voler
venire qui, giusto?".
Ross
guardò suo figlio, capendo quanto potesse sentirsi in
soggezione
davanti a uno sconosciuto che gli era stato presentato come un padre
e che aveva abbracciato e baciato la sua mamma poco prima. "Davvero
sei voluto venire qui? Mi fai contento, sai?".
"Si,
davvero" – disse il bimbo.
Tentò
di parlargli, per rompere il ghiacchio. Non era tanto bravo coi
bambini, non aveva esperienza e si sentiva impacciato. "Anche se
qui non ci sono alberi di Natale?".
Jeremy
scosse la testa. "Sono stanco di vedere alberi di Natale" –
disse, sospirando.
Demelza
lo fulminò con lo sguardo, guardandolo con aria di
rimprovero.
"Pensa a come sarai stanco quando dovrai disfarli tutti".
Jeremy
finalmente alzò lo sguardo su di lui, come in cerca di aiuto
anche
se, a onor del vero, non capiva di cosa stessero parlando lui e
Demelza. "E' tutta colpa di Clowance e del suo stupido albero di
Natale rosa, da femmine".
Di
tutta risposta, la piccola si imbrociò e con un gesto veloce
si
lanciò verso il fratello, pronta a tirargli i capelli. La
fermò in
tempo, prima che litigassero. "Hei, che succede?".
Imbronciata,
col viso basso e gli occhi puntati su di lui, Clowance
sbuffò. "Io
vollo l'albero losa ma mamma e Jeremy non lo vollono".
Ross
la abbracciò, fissando moglie e figlio, stupito dal fatto
che le
avessero detto di no. Con che coraggio potevano pensare di
contrariare quella splendida e ammagliante bambina?
"Perché?".
"Il
rosa è da femmine, lei vuole tutto rosa! Caroline dice che
Clowance,
da grande, avrà tanti fidanzati ma per me non ne
avrà nemmeno uno,
se non cambia idea su quel colore" – sbottò
Jeremy, guardando
storto la sorella.
Al
sentir pronunciare la parola 'fidanzato' accanto al nome della
figlia, Ross sentì spuntargli il primo capello bianco. "Vuoi
un
fidanzato?" - chiese alla piccola.
"No".
"Vuoi
che sia io il tuo fidanzato?".
Clowance
ci pensò su e poi annuì. "Si".
Le
diede un altro bacio sulla fronte, consapevole di esserne
perdutamente innamorato e di essere felice come non mai per essere
lui suo padre. "Brava, non cambiare mai idea!".
Demelza
scosse la testa. "Ho venticinque alberi di Natale a casa, di cui
uno tutto rosa in camera di Clowance. E li ha voluti Jeremy, ragion
per cui, visto che glielo avevo vietato, è in castigo e
dovrà
smontarseli tutto da solo".
Ross
spalancò gli occhi, incredulo e preoccupato per il figlio.
"Dai,
venticinque alberi di Natale sono belli. Non vorrai davvero che lui,
tutto da solo...?".
Jeremy
lo guardò con rinnovata attenzione, fissando poi la madre,
speranzoso che lei gli desse retta. "Visto che sono belli? Lo
dice anche il papà!".
"Ma
andranno tolti da chi li ha voluti" – rispose lei, gelida.
D'istinto,
Ross poggiò la mano sulla spalla del figlio e quando Jeremy
si
voltò verso di lui, gli strizzò l'occhio. Col
cavolo che lo avrebbe
lasciato da solo a fare quell'immane lavoro, Demelza poteva pure fare
la madre severa ma lui non aveva avuto accanto i suoi figli per tre
anni e li avrebbe assecondati in ogni modo.
Demelza
parve captare lo sguardo d'intesa fra lui e Jeremy e stranamente non
si arrabbiò. Sorrise, capendo tutto e fingendo di stare al
gioco.
Poi spinse il bimbo ad avvicinarsi a lui. "Stai qui con papà
e
Clowance, mentre esco un attimo? Così curi papà e
stai attento che
non faccia sforzi".
"Dove
vai, mamma?".
Anche
Ross era curioso. Dove voleva andare ora, Demelza?
La
donna sospirò, alzandosi dal letto. "Abbiamo un problema,
siamo
senza cibo e se non esco a fare la spesa, stasera digiuneremo".
Ross
scoppiò a ridere, a quelle parole. "Ma come? Una delle donne
più ricche di Londra che rischia di rimanere senza cibo a
Natale?".
"Già"
– rispose lei, ridendo. "Te la senti di stare quì
con loro
un'oretta, da solo?".
Annuì.
Si, se la sentiva, non voleva allontanarsi dai bambini per nessun
motivo al mondo.
Jeremy
parve spaventato e saltò giù dal letto,
svegliando Garrick che si
era appena addormentato sul pavimento e correndo dalla madre. "Vengo
con te".
Demelza
scosse la testa. "No, resta qui con papà. Così
potrai
conoscerlo meglio".
"Ma
mamma!" - si lamentò il bambino – "Chiama
Margareth e
Mary e fai fare a loro la spesa! Che tanto poi, se non ci sono, chi
cucina?".
Ross
parve sorpreso da quella domanda, dal fatto che Jeremy non concepisse
che potesse farlo sua madre, quando lui ricordava invece quanto lei
fosse brava fra i fornelli. Ma forse era normale, era una donna ormai
diversa Demelza, e probabilmente non aveva più tempo di
cucinare e
relegava tutto alla sua servitù.
Demelza
sbuffò, parve offendersi alla domanda di Jeremy. "Lo
farò
io!".
Clowance
e Jeremy spalancarono gli occhi, sorpresi. "Tu?".
"Si,
io!". Si rimise il mantello e Jeremy, preoccupato, le corse
vicino. "Ti prego mamma, portami con te".
"No,
è meglio che tu resti qui". Demelza si avvicinò a
un borsone
che aveva poggiato a terra al suo arrivo, estraendone un libro
illustrato. "Su, torno presto. Perché non fai vedere a
papà
quanto sei bravo a leggere".
Jeremy
parve perso a quell'invito, spaventato dal trovarsi da solo con lui.
In quel momento, se non avesse avuto il dubbio di spaventarlo, si
sarebbe alzato e lo avrebbe preso in braccio per tranquillizzarlo, ma
sapeva che avrebbe ottenuto l'effetto contrario. Jeremy era ancora
scosso dalla sua presenza, imbarazzato e non sapeva cosa fare o cosa
dire. Annuì alla madre e quando lei se ne fu andata, invece
che
raggiungere sul letto lui e Clowance, si sedette tutto solo sulla
sedia a dondolo, aprendo il libro e chiundendosi in un ostinato
silenzio.
Anche
per Ross era difficile capire come gestire la situazione con lui. Per
tre anni aveva sognato di fare il padre, suo padre, rifugiandosi in
fantasie romantiche dove tutto era facile e senza problemi, senza
pensare alle difficoltà pratiche nel rapporto con un figlio
che non
conosceva. Che doveva fare, come poteva avvicinarsi davvero a lui nel
modo giusto?
La
piccola Clowance, sentendosi messa per un attimo in disparte, gli
tirò la manica della camicia. "Papà!".
"Dimmi".
La
bimba aprì il suo sacco rosso, rovistandoci dentro e tirando
fuori
una caramella che gli porse. "Toh!".
Sorrise,
era così dolce e generosa e quel gesto gli ricordava tanto
quello di
alcuni mesi prima, quando gli aveva regalato il suo nastrino per i
capelli. "Grazie, sei gentile".
Jeremy
alzò lo sguardo su di loro, scuotendo la testa. "Non
è
gentile. Sono caramelle al miele e a lei non piacciono, per questo te
le sta regalando. Lei regala a tutti tutto quello che non vuole. Se
provi a prenderle un cioccolatino, si metterà a piangere".
Ross
si sentì davvero idiota e scoppiò a ridere. Era
il padre di una
bambina geniale. La sollevò e la baciò sulla
fronte, giocando con
lei fra le coperte. Era felice, ma mancava qualcosa a quella
felicità
quasi perfetta. Si voltò e guardò Jeremy che,
silenzioso, si era
messo a rileggere il suo libro. E alla fine si alzò dal
letto,
lasciando momentaneamente da sola Clowance. Si inginocchiò
davanti a
lui e diede un'occhiata al libro illustrato che teneva fra le mani.
"Che cosa stai leggendo?".
"Una
favola su un cane che gira l'Inghilterra".
"Cane!
Garrick!" - urlò contenta Clowance, saltando sul letto.
"Jeremy, vieniiii".
Ross
sorrise. "Vieni lì con noi. Lo vedi, ti vuole anche tua
sorella".
Jeremy
scosse la testa. "Sto bene qui".
Sospirò.
Era un osso straordinariamente duro, suo figlio. "Mamma mi ha
detto che sei già molto bravo a leggere e scrivere, anche se
hai
solo cinque anni".
"Non
è vero, non sono tanto bravo come dice lei. Non conosco un
sacco di
lettere, ancora".
"Beh,
ma sei comunque molto bravo, alla tua età i bambini non
conoscono
nessuna lettera e non sanno scrivere nemmeno il loro nome. Io ad
esempio non lo sapevo fare, a cinque anni".
"E
quando hai imparato?".
"A
sette anni sono andato a scuola ma ci ho messo tanto ad imparare
perché scappavo sempre dalla classe, quando mi annoiavo".
Finalmente
Jeremy alzò lo sguardo su di lui, con l'ombra di un sorriso
sul
viso. "Davvero scappavi?".
Suo
figlio sembrava ammirato. "Si, dalla finestra".
"E
adesso che sei grande, hai imparato a leggere e a scrivere il tuo
nome?".
Ross
ci pensò su. "Un pochino me la cavo".
Jeremy
rise. "Mamma scrive e legge tanto. Lei è brava!".
"Lo
so" – rispose, ricordando quando era lui stesso ad insegnare
a
Demelza a leggere e a scrivere tanti anni prima, quando era la sua
domestica.
Improvvisamente,
Clowance corse da loro, tirando il fratello per la stoffa dei
pantaloni. "Se veni ti do questo!" - disse, porgendogli un
cioccolatino che doveva aver preso dalla sua sacca piena di dolci.
Ross
gli strizzò l'occhio, trovando finalmente il coraggio di
prenderlo
in braccio e non incontrando nessuna resistenza in lui, stavolta. "Io
se fossi in te accetterei! Mi sa che è raro vedere tua
sorella
compiere gesti tanto generosi".
Jeremy
annuì, abbracciandolo. Poi con un gesto veloce prese il
cioccolato
dalle mani della sorella, prima che questa cambiasse idea. Prese in
braccio anche lei e coi due bambini si mise sul letto, deciso quanto
meno a leggere loro il libro di suo figlio.
Li
strinse a se e si sentì felice e fortunato per averli
ritrovati, per
sentirsi di nuovo un padre e parte di una famiglia. "Mi spiace
di essere stato via tanto tempo. Giuro che non andrò
più via".
"Lo
giuri davvero?" - chiese Jeremy.
"Certo".
Il
bambino annuì. "E allora fa niente, se non ci sei stato per
tanto. Basta che resti e tratti bene la mamma!".
Rimase
colpito da quelle parole e dallo sguardo serio che entrambi i bimbi
gli lanciarono in quel momento. Adoravano la madre, avevano con lei
un rapporto strettissimo ed erano stati inseparabili, solo loro, per
tre lunghi anni. Era come essere un intruso in quel momento, che si
faceva largo nella loro famiglia e i suoi figli, benché
tanto
piccoli, si sentivano responsabili della felicità di Demelza
che per
loro era tutto. "Io la vostra mamma la amo più della mia
stessa
vita e tutto quello che voglio è che sia felice. Mi
aiuterete in
questo?".
Jeremy
annuì. I bimbi si strinsero a lui, in silenzio, e Ross
decise che in
fondo non volevano che gli leggesse un libro ma semplicemente stare
con lui, senza parlare. Li tenne stretti a se e loro rimasero
lì,
fermi e buoni, abituandosi alla sua presenza.
Fu
una Vigilia bella quella, serena, senza grandi cose, con un pranzo
semplice, senza luci di Natale o doni ma nessuno di loro ne
sentì la
mancanza.
Parlarono,
raccontarono ai figli la loro storia e di come si erano conosciuti
grazie a Garrick, della Cornovaglia, delle miniere, di Jud e Prudie e
di tutto quello che avevano fatto insieme lui e Demelza negli anni.
Lo raccontarono come fosse una favola, tutti e quattro nel lettone, e
i bambini ascoltarono attenti, curiosi, facendo mille domande che,
pian piano, sciolsero il ghiaccio fra loro.
Si
misero a letto che fuori era ormai buio e iniziava a nevicare. Londra
era avvolta da un piacevole, magico silenzio e la notte di Natale
regalava un alone di pace ad ogni cosa.
Permisero
ai bambini di dormire con loro, tutti insieme, in quella prima notte
passata riuniti. Jeremy si mise fra i suoi genitori, abbracciato alla
sua vita mentre Clowance, rannicchiata sul suo petto, a un certo
punto reclamò le attenzioni della madre. Ci rimase un po'
male che
volesse lei ma Demelza, dopo averla presa fra le braccia e stretta a
se, gli sorrise. "E' abituata a me ma sta tranquillo, presto non
avrà occhi che per te".
Annuì.
Era giusto così e Demelza e Clowance, insieme, erano le
donne più
belle che avesse mai visto. Sua moglie era meravigliosa coi bambini,
sapevano divertirsi e stare insieme con un'armonia che lo lasciava
incantato ed era fiero di averla sposata e di aver regalato ai suoi
figli una madre del genere che, pur da sola e fra mille
difficoltà,
li aveva cresciuti con amore e serenità.
"Mamma,
mi canti una canzone di Natale?" - chiese Jeremy, con la voce
impastata dal sonno.
"Non
ne conosco, di canzoni natalizie".
La
guardò, ricordandosi il loro primo Natale da sposati, quando
lei
aspettava Julia e a Trenwith aveva capito di amarla mentre cantava
una canzone. "Ce n'è una che sarebbe perfetta. La nostra
canzone, te la ricordi?".
Pur
senza aggiungere altro, lei capì a cosa si riferiva. "Non la
canto da anni, quella canzone".
"Cantala
adesso!" - insistette, guardandola negli occhi. Voleva
sentirgliela cantare, voleva riappropriarsi di quel qualcosa che era
solo loro.
Dopo
un istante di incertezza, Demelza appoggiò il viso ai
capelli di
Clowance, baciandoli, e poi stentatamente cantò quella che
era stata
un inno al loro amore ma anche un buco nero in quegli anni di
separazione.
"I’d’
pluck a fair
rose for my love;
I’d’ pluck a red rose blowing.
Love’s
in my heart a-trying so to prove
What your heart’s knowing.
I’d’
pluck a finger on a thorn,
I’d’
pluck a finger
bleeding.
Red is my heart a-wounded and forlorn
And your heart
needing.
I’d’ hold a finger to my tongue,
I’d’ hold a
finger waiting.
My heart is sore until it joins in song
Wi’
your heart mating".
Cantò
fissando Clowance fino a metà canzone, ma poi si
voltò verso di lui
e in quel momento capì che aveva smesso di cantare per i
figli e che
ora, ogni parola, come quel giorno a Trenwith, era rivolta a lui.
Era
bella come allora, la amava alla follia forse più che allora
e
nessuna donna gli era mai apparsa tanto seducente come lo era lei in
quel momento.
Non
fiuscì a farla finire di cantare, attirato a lei come da una
calamita. La baciò, con passione, approfittando del fatto
che i
bambini ormai si erano addormentati. "Lo sai, amore mio, tutto
ciò che di bello ho avuto dalla vita, me lo hai dato tu"
–
disse, stringendola a se, baciandole il viso
e le
labbra, con tenerezza e
passione. "La scorsa notte è stata un sogno, soli io e te.
Ma
questa notte, con i nostri figli e la nostra canzone, è
ancora più
perfetta e unica". Aveva temuto che Londra, la ricchezza e la
sua nuova vita l'avessero cambiata ma in quel momento capì
definitivamente che era una paura stupida. Lei era la stessa donna di
Nampara, che sapeva cantare con una voce dolce e melodiosa per lui e
per i suoi figli, che amava le cose semplici e che davvero, per
essere felice, non chiedeva che una casa dove stare e una famiglia da
amare. Era lei, sarebbe sempre stata lei, non se ne sarebbe mai
più
separato, non avrebbe più voltato le spalle al vero dono che
la vita
gli aveva fatto. Era la sua stella e aveva bisogno della sua luce per
vivere. E di quella delle sue due stelline per sentirsi davvero un
padre.
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Capitolo 28 *** Capitolo ventotto ***
Era
stata una settimana bella, di scoperta e riscoperta per lui. Per
sette giorni lui e Demelza avevano chiuso il mondo fuori da quella
locanda, ritrovandosi come coppia, scoprendo di nuovo il piacere di
stare insieme e la gioia di prendersi cura dei propri figli contando
sull'aiuto reciproco.
Avevano
passato giornate intere a giocare coi bambini, godendo della loro
presenza, della loro vivacità e di tutte le emozioni che
solo chi è
molto piccolo sa dare a un adulto capace di scoprire la meraviglia
dell'innocenza della loro tenera età.
Ross
aveva potuto conoscere finalmente, davvero, il piccolo Jeremy,
scoprirne le capacità, chiacchierare con lui delle cose che
gli
piaceva fare e che aveva imparato in quegli anni di lontananza e gli
aveva fatto mille promesse su quello che avrebbero fatto insieme in
futuro. E poi aveva scoperto Clowance, quella figlia di cui ignorava
l'esistenza, una bimba che in un certo senso azzerava i conti col
passato e con la terribile perdita di Julia, restituendogli la voglia
di essere padre. Adorava la sua piccola, ne era davvero innamorato,
lo incantava con quella sua vocina vivace, con le parole ancora
storpiate e con la sua grandissima faccia tosta che le permetteva di
ottenere tutto quello che voleva. Era un uomo fortunato, ora ne era
consapevole, pienamente. Coi bambini aveva un rapporto molto fisico,
con lui si scatenavano, gli si lanciavano sul petto, volevano essere
presi sulle spalle e fare giochi spericolati e lui, con loro, aveva
avuto una ripresa talmente portentosa da ritenersi praticamente
guarito fin dal loro primo incontro.
Se
di giorno apparteneva interamente ai bambini, la notte era quella che
gli aveva restituito il suo ruolo di marito e amante della donna che
aveva sposato. Perché una volta messi a letto i figli,
c'erano solo
loro, lui e Demelza. Avevano tanto da recuperare, tanto da superare e
tanto da riscoprire, di loro due. Demelza gli era mancata ogni
dannato giorno di quei tre anni, gli era mancata la loro
complicità,
la sua vicinanza, le loro risate e quell'intimità tanto
profonda
quanto intensa che li aveva uniti fin da quella loro prima volta,
quando l'aveva vista con il vestito azzurro appartenuto a sua madre.
Da quel momento, lei era stata sua. E dopo anni di sofferenza,
lontananza, aveva capito anche lui di essergli appartenuto da
quell'istante.
Facevano
l'amore, ogni notte, godendo del piacere di ritrovarsi, di stare
insieme, di vivere finalmente come una famiglia unita. Certo, Ross
sapeva che le cose da affrontare sarebbero state tante, che quella
settimana vissuta nella locanda significava stare come in una bolla
di sapone che li isolava dalla vita e dal mondo vero, che sarebbero
arrivati i problemi e che le cose da risolvere sarebbero state tante,
però era felice e per il momento non voleva pensare a nulla
se non a
lei e ai suoi figli. E c'erano momenti dove avrebbe voluto rimanere
sempre così, solo loro quattro, in quella bolla di sapone
tanto
perfetta da sembrargli quasi un bel sogno.
Dopo
il capodanno la locanda si sarebbe riaperta e Demelza aveva deciso
che, dopo la notte di festa per l'arrivo del nuovo anno, era ormai
ora di tornare tutti e quattro nella sua dimora ufficiale. Ross stava
ormai bene ed era arrivato il momento di iniziare a vivere nella vita
vera di tutti i giorni.
Con
un po' di timore e rimpianto, Ross salì sulla carrozza con
sua
moglie e i suoi figli. Guardò la locanda, che gli aveva
restituito
la sua famiglia, rendendosi conto che ora aveva paura. Sarebbe andato
in una casa per lui sconosciuta, lussuosa, circondata da
servitù che
lui non conosceva e che gestiva interamente Demelza e temeva che si
sarebbe sentito un intruso. Quelle persone conoscevano i suoi figli,
si rapportavano con loro in modi a lui sconosciuti, avevano abitudini
che non erano le sue e questo lo sapeva, non era il mondo a cui era
abituato e che aveva condiviso una volta con sua moglie. Aveva paura
perché ora avrebbe vissuto sulla sua pelle la nuova vita di
Demelza,
ne sarebbe stato coinvolto e non sapeva se la cosa gli avrebbe fatto
piacere o meno. E soprattutto, come avrebbero conciliato le esigenze
lavorative di entrambi? Aveva una miniera da gestire, in Cornovaglia,
una miniera a cui tornare con minatori che contavano su di lui. E sua
moglie era una delle più potenti donne d'affari di Londra...
Quando
la carrozza si fermò e scesero davanti alla villa, Ross
spalancò
gli occhi. Si trovavano in una delle zone più lussuose di
Londra,
circondati da dimore di prestigio, e la casa di Demelza era qualcosa
di grandioso, più sfarzosa di Trenwith, enorme, con un
giardino
curatissimo e ampio adornato da piante secolari e chiuso all'esterno
da un elegante cancello in ferro battuto.
Una
donna non più giovane corse loro incontro e i suoi figli si
lanciarono fra le sue braccia. "Margareth!" - urlarono,
eccitati.
Demelza
lo prese sottobraccio, accompagnandolo all'ingresso. "Ti
presento Margareth. Più che una domestica, è
stata il nostro angelo
custode fin dai primi mesi in cui ho vissuto a Londra. Ed è
stata
colei che mi ha aiutata a far nascere Clowance".
La
donna annui e Demelza lo indicò. "E lui e mio marito Ross".
Margareth
fece un inchino, con riverenza. "Signore, benvenuto".
Annuì
in segno di saluto, a disagio. Sommariamente, Demelza e Jeremy gli
avevano raccontato nomi e caratteri della servitù, ma ad
essere
onesto ricordava ben poco.
Entrarono
in casa e Ross si sentì quasi mancare. Se fuori la casa gli
era
sembrata grandiosa, dentro lo era ancora di più. Lussuosa,
elegante,
raffinata ed arredata con gusto, non c'erano mobili o tappeti di
seconda scelta o scarso valore ma nonostante questo l'arredamento non
era pacchiano ma curato con estrema cura dei particolari, senza
fronzoli eccessivi. E in questo ci vedeva la mano di Demelza che da
sempre, anche a Nampara, aveva la capacità di rendere bella
e
accogliente una casa.
Sua
moglie e i bambini gli presentarono ogni persona che lavorava
lì,
dal maggiordomo, alle cameriere, ai cuochi. Si chiese quanto ci
avrebbe messo a ricordare i nomi di tutti e come sarebbe riuscito a
trattare con loro. Era abituato a due servi scansafatiche che lo
trattavano come un loro pari, come poteva fare con della
servitù
vera, che aveva voglia di lavorare e che lo guardava con riverenza?
Quelle persone trattavano Demelza con estrema gentilezza e lei faceva
altrettanto, ma lui? Che ruolo avrebbe avuto in quella casa, in
quella vita? Si sentì sperso e probabilmente sua moglie se
ne
accorse. Gli strinse la mano nella sua, gli strizzò l'occhio
e lo
condusse verso le scale. "Su, ti accompagno nella nostra camera,
così potrai riposare".
Annuì,
ubbidendo come se fosse un bambino, grato di poter rimanere
finalmente da solo con lei. Osservò le stanze, i corridoi,
le scale
di marmo, notando in ogni ambiente gli alberi di Natale di Jeremy.
Questo lo fece sorridere e lo rincuorò un po', facendolo
sentire a
casa, nonostante tutto.
I
bimbi correvano davanti a loro, muovendosi con naturalezza in quegli
ambienti tanto lussuosi. Jeremy lo prese per mano, quando furono al
piano di sopra, tirandolo verso una porta. "Vieni, ti faccio
vedere la nostra stanza dei giochi!".
Demelza
sorrise. "Sei fortunato, hai un'ottima guida! Jeremy conosce
ogni angolo della casa, li ha esplorati tutti!" - disse,
prendendo la piccola Clowance in braccio. "Io e lei vi
aspettiamo in camera. Ci cambieremo di abito e ci faremo belle per la
nostra prima cena tutti insieme, qui".
Annuì,
anche se avrebbe voluto aggiungere che le trovava già belle
così,
vestite con abiti semplici rispetto a quelli sicuramente più
raffinati che avevano in quella casa. Ma supponeva che quello fosse
un'altro degli aspetti a cui si doveva abituare.
"Dai
papà, vieni!".
Seguì
Jeremy che lo portò in una grandissima stanza dalle pareti
azzurro
pastello, più ampia del suo salotto e della sua libreria di
Nampara
messi insieme. Era la stanza da giochi più fantastica che
avesse mai
visto, il sogno di ogni bambino. Ovunque c'erano bambolotti e case
per le bambole, soldatini di latta, due grossi cavalli a dondolo,
peluches, trottole e a lato della finestra un tavolino pieno di
pastelli e libri illustrati o da colorare. "E' tutto tuo e di
Clowance?" - chiese, attonito. "Chi vi compra tutti questi
giocattoli?".
Il
bimbo alzò le spalle. "Caroline, nonno Martin e nonna Diane
e i
soci di mamma. Giù nel salone grande ci sono ancora i regali
di
Natale da aprire e avremo sicuramente altri giochi nuovi. Mi sa che
non riuscirò a ricordarmi tutto quello che ho, sono troppi".
"Già".
Gli dava ragione, in pieno. Era bello che i suoi figli vivessero
nell'agiatezza ma avevano troppo, tanto da non ricordarsi nemmeno
tutti i loro giochi. Pensò ai figli dei suoi minatori, in
Cornovaglia, che giocavano all'aperto usando unicamente sassolini o
legnetti o, semplicemente, la fantasia, lanciandosi in avventure
spericolate fra boschi, spiagge e prati.
Jeremy
lo spinse fino alla finestra, mostrandogli il retro del giardino.
"Guarda, abbiamo anche due altalene, per quando è estate e
giochiamo fuori".
Alzò
gli occhi al cielo. Era decisamente troppo! "Ci salite?".
Jeremy
scosse la testa. "Mica tanto, mi piace di più esplorare il
giardino e trovare i vermetti, in estate. Nemmeno Clowance ci sale,
lei ha paura, una volta è caduta e non ne ha voluto
più sapere. Ci
vanno sopra mamma e Caroline, sulle altalene. E chiacchierano,
chiacchierano e ancora chiacchierano tante ore insieme, quando
Caroline ci viene a trovare".
Sorrise,
immaginando che per Demelza avere un'altalena fosse un sogno
realizzato di quando era piccola. E felice che Jeremy, nonostante i
suoi mille giocattoli, amasse fare le stesse cose che faceva anche
lui da piccolo.
"Mi
fai vedere anche la cameretta tua e di Clowance?".
Jeremy
annuì. "Certo, ma mica dormiamo insieme! Io ho la mia stanza
e
Clowance la sua! E nella sua c'è quel bruttissimo albero di
Natale
rosa, da femmine".
Scoppiò
a ridere. "Ma Jeremy, tua sorella E' una femmina".
Jeremy
sbuffò, sconsolato. "Si, me ne sono accorto! Troppo
femmina...".
Quella
reazione lo divertì, pensando a come avrebbe cambiato idea,
suo
figlio, di lì a dieci anni, circa le donne.
Si
fece accompagnare nella stanza di Jeremy, anche questa grande, con un
letto a baldacchino e una scrivania dove c'erano i libri e gli
scritti che suo figlio faceva col suo istitutore, complimentandosi
con lui per quanto fosse bravo a studiare.
Poi
andarono a vedere la stanza da 'femmine' di Clowance. Sembrava la
stanza di una bambola, con le pareti rosa, l'albero di Natale rosa e
il copriletto ovviamente rosa. In effetti la sua piccola era un po'
fissata con quel colore...
Poi
tornarono da Demelza. Aprì la porta di quella che sarebbe
stata la
sua camera da letto, rimanendo a bocca aperta. Era immensa, con le
pareti blu, decorazioni elaborate sul soffitto, enormi armadi ai lati
della stanza e pregiati tappeti sul pavimento. Ma la cosa che lo
colpì di più fu la spinetta a lato del letto.
Sorrise, felice che
Demelza ne avesse voluta una pure a Londra, ricordando quanto amasse
suonarla a Nampara.
Ma
se la camera lo aveva lasciato a bocca aperta, la sua sorpresa fu
totale quando vide Demelza e Clowance uscire dalla cabina-armadio.
Entrambe avevano i capelli raccolti in una coda di cavallo, legata da
un nastro di seta verde come i loro abiti, elegantissimi, raffinati,
bordati di pizzo. Erano bellissime ma si accorse che, come la sera in
cui Demelza era uscita per la riunione alla borsa, le apparivano
estranee.
Clowance
gli corse incontro, facendosi prendere in braccio. "Hai visto
l'albelo tutto losa? E' mio!".
"Certo
amore, è bellissimo".
Tutta
soddisfatta, Clowance gli cinse il collo. "Poi Jeremy lo mette
via da solo".
"E
tu non lo aiuti?".
"No,
mamma non vole!".
Demelza
rise, Jeremy si imbronciò e lui pensò che aveva
una figlia che
sapeva essere davvero una carognetta. La mise a terra, avvicinandosi
a Demelza, abbracciandola. "Sai che lei ci farà dannare?".
Sua
moglie annuì, baciandolo sulla mascella. "Sono due anni che
ne
sono consapevole".
Le
sfiorò i capelli, baciandola sulla fronte. "Sei bellissima".
"Grazie".
Lo prese per mano. "Su, ora scendiamo, andiamo ad aprire tutti
insieme i regali di Natale e poi ceniamo. I cuochi hanno preparato
una grande cena per noi, per festeggiare il tuo arrivo".
Questa
cosa lo stupì. "Davvero? Dovrò ringraziarli? Come
mi devo
comportare con la tua servitù?".
Demelza
scosse la testa, spingendolo fuori dalla stanza. "Se vuoi
ringraziarli, fa pure. Ma ricordati che non sei un ospite, sei il
padrone qui e loro lavorano per te. Sei il loro signore".
Non
era molto d'accordo su questa cosa, era Demelza la padrona di quella
casa e lui si sentiva decisamente un ospite, al momento. Ma non disse
nulla, annuì e con la sua famiglia andò nel
salone dove li
attendevano un centinaio di regali ancora da scartare.
Spalancò
gli occhi, guardando sua moglie che, come lui, sembrava smarrita
davanti a tutti quei doni. "Ma... ma...?".
Demelza
scosse la testa. "Sai qual'è la cosa buffa? Per la maggior
parte, provengono da sconosciuti". Mise la mano sulla spalla di
Clowance. "Coraggio piccola peste, tu sei bravissima a disfare
le cose, vero?".
"Si!".
"E
allora su, con Jeremy apriteli tutti".
I
bimbi si guardarono negli occhi e poi, felici come non mai, si
lanciarono sui doni.
Lui
e Demelza si sedettero sul divano, guardandoli. Si sentiva a disagio
ma guardare i suoi figli, averli vicini, lo rincuorava. Man mano che
aprivano i doni, i bambini portavano loro i biglietti di auguri
allegati, in modo che poi Demelza potesse scrivere un ringraziamento.
Trascorsero
una piacevole serata, nonostante il suo senso di estraneità.
Cenarono nella sala da pranzo, elegante e apparecchiata con posate
d'oro, serviti da veri domestici che conoscevano a menadito le buone
maniere e che sembravano pendere dalle labbra di sua moglie e dei
suoi figli, a cui parevano molto affezionati. C'era un'atmosfera
famigliare, nonostante la ricchezza che li circondava, e poteva ben
capirne il motivo: Demelza era una padrona di casa gentile, che
ricordava perfettamente le sue origini e trattava con gentilezza le
persone che lavoravano per lei, non ergendosi a padrona dura e
inarrivabile ma al contrario, mettendosi al loro pari, al loro fianco
nel decidere le cose. Era fiero di lei e ora capiva perché,
alla
locanda, anche Leslie le fosse tanto affezionata e si ritenesse
fortunata a lavorare per lei.
Dopo
cena, fecero giocare i bambini e poi li misero a letto nelle loro
stanze, nonostante le insistenze per dormire con loro. Ma Demelza fu
inflessibile e lui si trovò contento della cosa. La voleva,
era
tutto il giorno che la desiderava e non vedeva l'ora di toglierle di
dosso quell'elegantissimo abito verde per ritrovare la sua donna,
quella che amava e che tanto le ricordava i tempi in cui vivevano a
Nampara.
Quando
furono nella loro camera, notò che qualcuno aveva provveduto
ad
accendere il camino e che tutto era avvolto da un piacevole tepore.
"Che
ne farai di tutti quei regali?".
Demelza
sospirò, slacciandosi il vestito. "Ho detto alle domestiche
di
scegliere quel che gli piace e di prenderlo. E per quanto riguarda
Jeremy e Clowance, sceglieranno un gioco a testa fra quelli ricevuti
e gli altri li porteremo ai bambini dell'orfanotrofio cittadino.
Hanno troppa roba, per i miei gusti".
Gli
si avvicinò, baciandola sulle labbra con passione. "Ottima
idea! In effetti ho notato che hanno davvero troppe cose, rispetto a
quelle che gli servono".
"Lo
so! Purtroppo siamo circondati da persone che li viziano e io non
riesco ad impedirlo. I miei soci, i Devrille, soddisfano ogni loro
capriccio".
"Forse
dovremmo mettere un freno a questa cosa".
Demelza
lo guardò con aria di sfida, mascherando un sorriso. "Se
riuscirai a farlo, te ne sarò eternamente grata".
"Beh,
sono i nostri figli e gli altri dovrebbero rispettare le nostre
decisioni a loro riguardo" – obbiettò, seccato che
qualcuno
intervenisse in maniera tanto pesante circa l'educazione di Jeremy e
Clowance.
Demelza
divenne seria, a quelle parole. "I Devrille adorano i bambini e
tutto sommato, mi hanno aiutata molto anche nella loro educazione.
Jeremy e Clowance hanno tante cose, è vero, ma non li
ritengo
viziati. Sono bravi e generosi e credo sia merito anche delle persone
che mi hanno aiutata negli anni".
Ross
annuì. "Non sto dicendo che non sono grato a queste persone,
ma
vorrei che fossimo solo io e te a pensare ai nostri figli, da ora".
Demelza
si mise sul letto, in sottoveste. "Ah, mio caro, sarai esaudito
da domani! Avrai i bambini tutti per te, a tempo pieno, tutto il
giorno!".
"Che
vuoi dire?".
Quasi
in difficoltà, Demelza dondolò le gambe che
penzolavano giù dal
letto. "Domani mattina dovrò alzarmi molto presto per andare
alla locanda. Devo presentare i registri contabili all'esattore delle
tasse e dovrò occuparmi delle ordinazioni di merce per il
magazzino.
Dovrò predisporre il lavoro dei miei dipendenti, domani
apriremo di
nuovo, e poi vorrei iniziare a pensare ai loro salari del mese. Ci
metterò tutto il giorno e in serata ho una riunione alla
sede della
Warleggan Bank. Un consiglio d'amministrazione in cui George mi
farà
saltare i nervi, già lo so... In pratica, uscirò
al mattino che
dormirete ancora tutti e tornerò tardissimo".
Quella
rivelazione, lo irritò. Se ne sarebbe stata via tutto il
giorno?
"Non puoi farlo fare a qualcuno, tutto questo lavoro? Voglio
dire, alla locanda hai molti dipendenti, non possono pensare loro ai
registri e all'ordinazione della merce? E per quanto riguarda la
Warleggan Bank... Santo cielo, non voglio che tu esca la sera, da
sola, con quel tizio che ti ha aggredita a piede libero, per andare a
vedere George Warleggan! Hai dei soci, potrebbero andare loro al tuo
posto, alle riunioni serali! Starai via tutto il giorno e non vedrai
praticamente né me, né i bambini".
"Ross!".
Demelza si oscurò, irritata, scuotendo la testa. "Sapevo che
sarebbe successo e che avremmo discusso di questa cosa. Non sono
abituata a relegare ad altri il mio lavoro, lavoro che, vorrei
ricordarti, mi ha permesso di mantenermi in questi anni senza di te".
Cercò
di ignorare il senso di colpa che quelle parole risvegliarono in lui.
"Ma io ora sono qui! Rallenta, pensa a noi, non ci vediamo da
anni e te ne scappi a fare mille altre cose che non riguardano la tua
famiglia! Abbiamo bisogno di te, IO ho bisogno di te. E i bambini
preferirebbero averti vicino, te lo assicuro".
"Ross,
smettila! Credi che non abbia sensi di colpa a lasciarvi soli tutto
il giorno? Ora ci sei tu coi bambini però, potrò
lavorare più
tranquilla e sapendo che sono col il loro papà!".
"E
io e i bambini che faremo? Aspetteremo che tu trovi tempo per noi,
fra un impegno e l'altro?".
Demelza
si alzò, fronteggiandolo. I suoi occhi lanciavano fiammate e
santo
cielo, era davvero rimasta uguale a una volta, quello sguardo
così
fiero e forte che usava quando era arrabbiata non si era mai spento.
"Sei ingiusto, ora!".
"Tu
sei ingiusta! Potresti delegare il tuo lavoro a qualcun altro, ma
evidentemente non vuoi farlo".
"Ti
da più fastidio la parte della locanda o il fatto che debba
vedere
George?".
"Entrambe
le cose. Perché non ci vanno i tuoi soci, alla Warleggan
Bank?".
Demelza
sospirò. "Fu mia l'idea di entrare nel consiglio
d'amministrazione della Warleggan Bank, Martin non ne voleva sapere.
Insistetti e mi presi la responsabilità di seguire questo
affare
personalmente, per tenere d'occhio George. Non posso tirarmi
indietro, ora!".
Lo
capiva, certo! Ma per lui era troppo difficile da accettare, rivoleva
sua moglie, in toto. E questo sì, era egoista,
irrealizzabile,
troppe cose erano cambiate e doveva accettarle, ma... "Ti rendi
conto di cosa significhi tutto questo, per me?".
Demelza
annuì. "E tu ti rendi conto di cosa significhi per me,
ricostruire da capo la mia vita? Ross, non è stato facile
riaccoglierti, decidere di riaverti a fianco e ora lo so, hai
ragione, dovremo trovare il modo per rinventarci da zero, ma
prendiamoci il tempo per capire come farlo. In un mese è
cambiato
tutto e io non ci sto capendo un accidente, so solo che dalle mie
decisioni e dal mio lavoro, dipendono le vite e la
tranquillità
economica di molte persone di cui mi sento responsabile e voglio fare
il meglio per loro".
Ross
chiuse gli occhi. Capiva cosa volesse dire, era quello che spingeva
lui, in Cornovaglia, a farsi in quattro per le famiglie dei minatori
che lavoravano per lui. Erano simili lui e sua moglie e proprio per
questo capiva perché lei sentisse il suo lavoro come un
dovere da
cui non poteva sottrarsi. E capiva anche che sì, le aveva
sconvolto
la vita e che lei aveva fatto tanto per lui, in quell'ultimo mese,
che aveva già fatto tanti passi per venirgli incontro e che
ora
toccava a lui farne altrettanti. "Scusa, non volevo essere
scortese prima. Hai ragione, devi andare domani e io resterò
qui coi
bambini. Non preoccuparti, staremo bene e io, dopo tutto, ho bisogno
di passare tanto tempo con loro per conoscerli".
Demelza
lo attirò a se, abbracciandolo e baciandolo sulle labbra.
"Ross,
ce la faremo, riusciremo a far funzionare le cose. Abbi pazienza, ti
prego".
Chiuse
gli occhi, affondando il viso fra i suoi capelli. "Certo, amore
mio". La baciò di nuovo, spingendola sul materasso. Demelza
gli
accarezzò il collo e le spalle, gli sbottonò la
camicia e poi prese
a baciarlo sul petto, facendolo impazzire. "Domani non ci
sarò,
ma mentre sono qui, credo di poterti considerare solo mio".
Le
tolse la sottoveste, perdendosi ad ammirare la perfezione del suo
corpo e la bellezza di quei lunghissimi capelli rossi sparsi sul
materasso. "E io per questo, posso ritenermi un uomo fortunato"
– sussurrò, prima di azzittirla con un nuovo
bacio, desideroso di
lasciare tutti i problemi da parte e di fare l'amore con lei.
Si
sentiva smarrito, perso e allo stesso tempo felice. Tutti questi
sentimenti derivavano da lei e sapeva che, nel bene e nel male,
Demelza sarebbe stata la sua forza e il suo tormento. Ci voleva
tempo, lei aveva ragione. Ma insieme ce l'avrebbero fatta.
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Capitolo 29 *** Capitolo ventinove ***
Demelza
era uscita molto presto ed era rimasto a poltrire a letto il
più a
lungo possibile, finché i figli non lo costrinsero ad
alzarsi.
Fecero
colazione insieme nella sala da pranzo, serviti in eleganti tazze di
porcellana, con the, biscotti e pane imburrato. I domestici di
Demelza anticiparono ogni suo desiderio o richiesta, dandogli quello
che desiderava ancor prima che lui potesse eventualmente chiederlo,
cosa a cui non era decisamente abituato. Si sentiva a disagio e non
vedeva l'ora di finire di mangiare per far qualcosa da solo coi
bambini.
Appena
anche Clowance ebbe finito di mangiare, li prese per mano,
costringendoli a raggiungere il piano superiore. "Coraggio, oggi
dobbiamo lavorare!".
"Io
no!" - esclamò Clowance, incrociando le braccia e facendo il
broncio.
Ross
le scompigliò la testolina rossa, sorridendo. "D'accordo, tu
ci
guarderai. Ci penseremo io e Jeremy a disfare gli alberi di Natale.
Mamma ieri sera mi ha ricordato che devi farlo, sai?" - disse,
al figlio.
Il
bambino sospirò. "Me lo immaginavo...".
Anche
Ross sospirò, pensando che in fondo venticinque alberi di
Natale
sarebbero stati un lavoraccio, da disfare, pregando che al figlio non
venisse mai più in mente niente di simile. Anche se,
quell'incombenza, gli sarebbe tornata utile per fare qualcosa insieme
a lui. "Credevo che la mamma se ne sarebbe dimenticata, sai?"
- esclamò, prendendo degli scatoloni vuoti dove riporre gli
addobbi,
che aveva fatto portare da una domestica di cui non ricordava
ovviamente il nome.
Jeremy
spalancò gli occhi. "Mamma che si dimentica di un castigo?
Impossibile! Mi sa che non la conosci molto bene!".
Scoppiò
a ridere a quelle parole, considerando che in effetti, conoscendola,
non poteva che aspettarsi che se ne ricordasse. "Su, basta
parlare! Andiamo a lavorare".
Poco
entusiasta, Jeremy lo seguì, e la piccola Clowance
trotterellò
dietro di loro con una bambola fra le braccia.
Cominciarono
da una delle camere degli ospiti, dove troneggiava un abete molto
grande a lato della stanza.
"Come
facciamo a smontarlo? E' tanto alto, quando io e nonno Martin lo
abbiamo addobbato, abbiamo usato la scala".
Ross
osservò l'albero e poi il figlio. Infine prese il bambino
fra le
braccia, mettendoselo sulle spalle. "Niente scala, così
arriverai alla punta".
Jeremy
spalancò gli occhi, guardandolo dall'alto. "Forte!
Così è
bellissimo, papà!" - esclamò, eccitatissimo di
essere sulle
sue spalle per la prima volta.
"Non
hai paura?".
"No,
mi piace un sacco!". Contento, Jeremy prese le sfere e le
perline colorate e, una dopo l'altra, le lanciò in uno degli
scatoloni posti alla base dell'albero.
Felice
di vederlo così eccitato, Ross prese a togliere gli addobbi
dalla
parte centrale dell'albero mentre Clowance, con la sua bambola, li
guardava incuriosita. E a un certo punto, stanca di guardarli, gli si
avvicinò, tirandolo per la camicia. "Papà?".
"Cosa
c'è?".
La
bimba, stanca di rimanere in disparte, allungò le braccia
verso di
lui. "Anche io vollo tollere l'albero".
Ross
guardò Jeremy, strizzandogli l'occhio, facendogli segno di
assecondarla. Poi si chinò, prendendola in braccio.
"D'accordo,
mi aiuti qui, mentre tuo fratello sistema la parte in alto?".
"Si".
"Hai
deciso di diventare generosa?".
Clowance
annuì, fiera. "Si. E vollo stare in braccio!".
La
baciò sulla fronte, rendendosi conto che era letteralmente
innamorato di quella testolina rossa e del bimbo che teneva sulle
spalle. Lavorarono fino a mezzogiorno inoltrato, divertendosi, tanto
che la lontananza di Demelza non gli pesò particolarmente e
anche i
bambini, sereni e tranquilli, collaborarono senza litigare, in pace
ed armonia. In quattro ore, i venticinque alberi di Natale furono
disfati e quando si stava organizzando per portarli in giardino per
tagliarli, fu fermato dal maggiordomo che glielo impedì.
"Signore,
no! Questo non è lavoro per voi, ci penserà il
giardiniere. E' ora
di pranzo, è già servito in tavola e voi e i
signorini sarete
affamati".
Ross
si grattò la guancia, in imbarazzo. Si sentiva un leone in
gabbia
con tutta quella servitù che faceva tutto e che lo preveniva
in ogni
cosa e non capiva perché non potesse tagliare la legna,
visto che
era una cosa che faceva abitualmente in Cornovaglia. Però in
effetti
era affamato, i bambini pure e aveva ancora tutta la giornata da
organizzare, con loro. Se non poteva tagliare la legna, si sarebbe
dovuto inventare qualcos'altro da fare. Fece coi bambini un giro
nella stalla per vedere i loro pony, spiegò loro cosa fare
per
prendersene cura e alla fine, dopo essere stato chiamato all'ordine
dalla servitù per l'ennesima volta, si decise ad andare a
mangiare.
Pranzarono
in relativo silenzio e per la prima volta nella giornata,
sentì che
Demelza gli mancava. Si chiese come avrebbe potuto abituarsi a quelle
sue abituali assenze e si trovò anche a pensare a come
avesse fatto
lei, a Nampara, a fare altrettanto quando lui era via. I bambini
invece sembravano abituati a quella situazione e non particolarmente
scossi dall'assenza della madre, non quanto lui almeno.
Li
osservò, accorgendosi che Clowance sbadigliava e si sfregava
gli
occhi con la mano e anche Jeremy pareva stanco. In effetti avevano
lavorato come matti per quattro ore e loro non dovevano esserci
abituati. Beh, meglio così, aveva il pomeriggio da
organizzare e un
paio d'ore sarebbero passate facendoli dormire un po'.
Margareth,
la domestica più anziana che osservava l'andamento del
pranzo in un
angolo della sala, però lo prevenì di nuovo.
"Finito di
mangiare, signore, volete che metta a letto i bambini?".
Scosse
la testa, deciso a prendersi cura personalmente di loro. "No, lo
faccio io. Li porto con me in camera mia".
"Come
volete, signore".
Sospirò.
Era davvero seccante avere tanta gente attorno che lo anticipava in
tutto, tanto che per un attimo sentì la nostalgia di quegli
scansafatiche di Jud e Prudie.
Dopo
il dolce, prese i figli in braccio, rifugiandosi in camera sua dove,
a parte loro, per fortuna non aveva accesso nessuno. Mise i piccoli a
letto, stendendosi fra loro, e Clowance ne approfittò per
rannicchiarsi sul suo petto, succhiandosi il pollice e giocando con
l'altra mano con una ciocca dei suoi capelli. Jeremy invece
appoggiò
la testolina contro la sua spalla, sbadigliando. "Sono stanco,
papà".
"Lo
so, dormi ora".
Jeremy
annuì, girandosi verso di lui. "Grazie per avermi aiutato".
"Te
l'avevo promesso, no?".
Il
bimbo ci pensò su. "Lo sai, quando sei arrivato ero
preoccupato".
"Perché?".
Jeremy
arrossì, giocando nervosamente con la stoffa della sua
camicia.
"Credevo che ci rubavi la mamma e che eri cattivo. Sai, quando
non c'eri, se chiedevo di te, la mamma diventava triste e allora
pensavo che eri...". Si bloccò, quasi in
difficoltà, non
sapendo forse che parole usare.
"Io
non vi ruberò mai la vostra mamma, sta tranquillo! Siete i
suoi
bambini e non permetterebbe mai a nessuno, nemmeno a me, di
allontanarla da voi". Ross gli accarezzò la guancia, colpito
dalla sensibilità che Jeremy, nonostante i suoi cinque anni,
stava
dimostrando. Era davvero bello il rapporto che aveva con sua madre,
come se ne preoccupasse e come se ne prendesse cura. "Credevi
che l'avrei fatta soffrire?".
Suo
figlio annuì. "Si. Sai, io e Clowance ci preoccupiamo per
mamma
e non ti conoscevamo. Avevo davvero paura, mica lo potevo sapere se
eri bravo...".
"Hai
ancora paura?".
"No!
Adesso so che sei buono. E mamma è contenta!".
Sorrise,
pensando che se Jeremy diceva che sua madre era contenta, doveva
essere vero. Lo abbracciò, stringendolo a se. "Sono contento
anche io e credo che tu sia stato davvero bravo, mentre non c'ero, a
stare vicino alla mamma. Ora lo faremo insieme, d'accordo?"
"D'accordo!".
"E
ora su, dormi".
"Si
papà".
Nella
stanza calò un silenzio tranquillo e dopo che i figli si
furono
addormentati, anche lui si appisolò con loro, cullato dal
suono dei
loro respiri.
Nella
stanza c'erano un tepore rigenerante e un'atmosfera serena, stava
talmente bene, in beatitudine, che quasi si spaventò quando,
nel
dormiveglia, sentì la leggera carezza di una mano sulla sua
guancia.
Aprì gli occhi, trovandosi davanti il viso di Demelza. "E tu
cosa ci fai qui?" - chiese, sorpreso. Non doveva tornare in
tarda serata?
Demelza
si sedette sul letto accanto a loro e poi si stese, attenta a non
fare rumore e a non svegliare i bimbi. "Ho seguito il tuo
consiglio. Ho fatto quello che non potevo delegare e ho lasciato ai
miei dipendenti della locanda l'incombenza di ordinare la merce
necessaria alla ripresa dell'attività. Sono capacissimi di
farlo e
in fondo, non c'era bisogno che io restassi".
Era
felice che fosse lì, con loro, e allo stesso tempo stupito
che
avesse lasciato un lavoro che adorava fare per tornare a casa. "Lo
hai fatto a causa della nostra discussione di ieri sera?".
Demelza
ci pensò su un attimo. "Si e no. Ci ho pensato e credo che
tu
abbia ragione, non posso starmene fuori casa tutto il giorno,
lasciando te e i bambini da soli".
Si
sentì in colpa, le stava stravolgendo la vita e la stava
costringendo a fare, forse, cose che le potevano pesare. "Demelza,
devi fare quello che ti senti, non quello che voglio io! Sono qui,
sono con te e con i bambini e questo mi basta, non ho il diritto
né
di dettare le regole, né di sconvolgerti vita ed abitudini.
Tu hai
fatto già molto, mi hai perdonato l'imperdonabile e ti sei
presa
cura di me quando stavo male, senza farmi pesare nulla del nostro
passato. Sono io quello che deve adattarsi a questa situazione, non
tu".
Demelza
sorrise, si voltò verso di lui e gli accarezzò
una guancia, piano.
"Non mi pesa essere tornata a casa prima, anzi... Mi piace stare
con voi, siete la mia famiglia e essere una moglie e una madre
è
quello che ho sempre desiderato. Non i soldi, non il potere, solo
l'amore di chi amo!".
"Ma
il tuo lavoro?". Era bello quello che lei aveva appena detto, ne
era felice, ma nonostante le sue parole, temeva che fosse tornata per
le pressioni che le aveva fatto la sera prima.
Quasi
presagendo quello che pensava, Demelza lo baciò sulle
labbra. "Ho
scelto di riaverti nella mia vita, di riprovarci, di trovare il
coraggio per credere che potessimo farcela. E averti qui con me
significa cambiare la mia vita, non in peggio ma in meglio, significa
trovare compromessi fra quello che ero prima e quello che
sarò con
te, ridisegnare le mie abitudini. Non posso vivere come prima
perché
non è fattibile, siamo una famiglia di nuovo e io voglio
farne parte
il più possibile. Ieri sera avevi ragione, non posso ridurmi
a stare
con voi nei ritagli di tempo fra un impegno e l'altro, non posso e
non voglio farlo".
Ross
sorrise, stringendola a se, piano, per non svegliare Jeremy.
"D'accordo, mi basta sapere che sei contenta".
"Lo
sono. Io non ho mai desiderato essere ciò che sono ora,
è successo
quasi senza che me ne accorgessi o potessi evitarlo. Ma adesso ci sei
tu con noi, posso contare su di te e devo fare delle scelte fra
ciò
che è necessario fare e ciò che posso e voglio
delegare a
qualcun'altro, mettendo da parte il mio orgoglio che mi spinge a
voler fare tutto da sola. Sai, da quando sei tornato, certe volte mi
fermo a pensare che vorrei tanto che tutto tornasse ad essere come a
Nampara. Mi manca la nostra casa, quella vita, la Cornovaglia...".
Ross
chiuse gli occhi, pensando che anche a lui mancava Nampara e mancava
il vivere la sua famiglia in maniera più semplice, ma decise
di non
dirlo, di non forzarla a prendere decisioni di cui poi avrebbe potuto
pentirsi. "A Nampara non eri nessuno, qui sei una donna ricca,
potente e importante".
Demelza
sorrise dolcemente, poggiando la testa contro la sua spalla. "Non
è vero che non ero nessuno, a Nampara ero tua moglie, la
madre di
Julia e Jeremy e la padrona di Jud e Prudie. E questo per me voleva
dire tutto".
"Potremo
andarci quando vorrai, ti basta chiederlo".
Demelza
annuì, accarezzando i capelli di Jeremy. "Lo so". La sua
espressione divenne seria, cercò la sua mano e quando la
trovò,
intrecciò le dita con le sue. "Oggi ci ho pensato, sai? Al
fatto che tu fossi preoccupato del fatto che uscire di sera, con
Smith a piede libero, potrebbe essere pericoloso. E hai ragione! Non
posso rischiare la mia incolumità, la tua e quella dei
bambini,
soprattutto. Vuole le azioni della Northern e credo che gliele
venderò, mettendo fine a questa storia".
"E'
quello che vuoi fare davvero?".
Demelza
scosse la testa. "E' quello che devo fare".
Non
era d'accordo, non del tutto. "Lungi da me voler mettere il
becco nei tuoi affari ma ecco... io non venderei!".
"Perché?".
"Perché
non è quello che vuoi e perché non è
giusto vendere e chinare il
capo davanti a minacce e violenza. Ho sentito parlare della Northern
Bank in Cornovaglia, so che è una banca nata per aiutare non
solo i
ricchi ma che concede prestiti anche a persone meno agiate, dando a
tutti le stesse possibilità, seguendo i dettami della
rivoluzione
francese. E' un'idea grandiosa e sono felice che tu abbia acquistato
quelle azioni e che abbia creduto a quello in cui credo io. Tienile,
se è quello che vuoi! Qui ci sono io a proteggervi e non
permetterò
a quel verme di farvi del male".
Demelza
si strinse a lui, grata. "Quelle azioni non valgono nulla, non
valgono il rischio".
"Ti
sbagli! Se quell'uomo le vuole, quelle azioni devono valere molto
invece".
Demelza
annuì. "Sarai davvero la mia guardia del corpo?".
"Se
lo vorrai...".
Sua
moglie sorrise, furba. "E allora stasera verrai con me, assieme
ai bambini!".
"Dove?".
"Alla
riunione alla Warleggan Bank! Quella non posso evitarla ma è
un buon
banco di prova per vedere se riusciamo davvero a trovare una
soluzione per conciliare la nostra nuova vita. E i bambini saranno
curiosi di vedere dove lavoro, quando mi allontano la sera".
Ross
spalancò gli occhi. Era pazza per caso? Voleva portarlo, coi
bambini, a vedere George? "Demelza, credo sia una pessima
idea...".
Sua
moglie, per nulla scoraggiata dalla sua reazione, gli
strizzò
l'occhio. "Io invece, credo sia un'idea ottima e che sarà
divertente. Ci stai, guardia del corpo?".
Lo
guardò con uno sguardo dolce e complice allo stesso tempo,
in quel
modo tanto famigliare per loro e allo stesso tempo nuovo. Era da
tanto che non erano così, sereni, affiatati, capaci di
capirsi con
un solo sguardo che sapeva valere più di mille parole. Si
chinò, la
baciò sulle labbra con passione e poi la strinse a se. "Beh,
potrebbe essere divertente essere un principe azzurro e avere la mia
damigella da salvare. E anche rivedere George, dopo tutto. Ci sto,
questa sera si esce tutti insieme e si va a vedere una mamma che
lavora!" - esclamò, osservando i loro due bambini che,
incuranti, continuavano a dormire accanto a loro.
Demelza
osservò i figli, ancora profondamente addormentati.
"Com'è
andata oggi, con loro?".
"Benissimo!
Hai visto che bravo che è stato Jeremy? Ha disfatto tutti
gli
abeti".
A
quell'affermazione, sua moglie rise. "Si certo, tutto da solo,
magari...".
Finse
di stare al gioco, anche se Demelza sapeva benissimo la
verità. "Io
e la principessina gli abbiamo dato una piccola mano".
"Clowance?".
Demelza allungò la mano ad accarezzare i riccioli della
figlia. "Non
ci credo, LEI che lavora? Incredibile".
Ross
ridacchiò. "E' stata magnanima. Vorrei lavorare anche io, ad
essere onesto, ma i tuoi domestici me lo hanno impedito. Avevo in
mente di tagliare gli abeti in giardino ma il tuo maggiordomo me lo
ha praticamente vietato".
"Certo,
gli ho detto io di farlo, sei reduce da un grave incidente, Ross".
"Ma
ora sto bene" – obbiettò lui. "Da quando sei
così
apprensiva?".
Demelza
gli diede una pacca sulla fronte, spingendolo sul cuscino. "Sono
assennata, non apprensiva. E ora dormi, che stasera rimarremo fuori
fino a tardi".
...
Cenarono
presto e poi uscirono che era ormai buio. Le strade erano deserte e
ai bordi c'era neve ghiacciata che conferiva alla città un
aspetto
quasi magico. I bambini, eccitati dall'uscita serale, correvano
davanti a loro saltando sui mucchi di neve, contenti di vedere per la
prima volta la loro mamma che lavorava.
Ross
e Demelza, invece, camminavano più tranquillamente, mano
nella mano,
non perdendoli d'occhio. Faceva freddo ma era una serata tranquilla,
rilassata, stavano bene e nemmeno l'idea che a breve avrebbero
rivisto George riusciva a turbarli.
"Ogni
quanto si svolgono le riunioni alla Warleggan Bank?".
Demelza
gli strinse la mano, appoggiando la testa alla sua spalla. "A
volte, passano mesi fra una riunione e l'altra. Non troppo spesso, in
pratica".
Annuì,
sollevato. Sua moglie era bellissima quella sera, altera e
irraggiungibile come tutte le volte che l'aveva vista andare a
qualche riunione importante. Ma stranamente, questa volta gli
appariva meno estranea e non si sentiva disturbato dai gioielli e dai
suoi abiti eleganti. Era lei, poteva essere vestita con abiti
semplici o coi vestiti della regina d'Inghilterra ma era Demelza. La
sua Demelza! L'unica che riuscisse a farlo star bene, a farlo sentire
a suo agio e a farlo ridere, ed erano sentimenti e una
predisposizione d'animo che per tanto aveva creduto di non provare
mai più.
Quando
giunsero davanti a un grosso edificio del centro, imponente ed
elegante, Demelza chiamò a se i bambini. "Dovete fare i
bravi e
stare con papà. Qui non vogliono confusione, capito?".
"E
se vollo qualcosa?" - chiese Clowance, succhiandosi il pollice.
Demelza
la guardò, poi diede a Ross uno sguardo d'intesa. "Dovrai
chiedere al signor George Warleggan, quello che siederà a
capo-tavola. E' lui il capo".
"I
capi sono tutti cattivi" – intervenne, Jeremy.
Ross
rise. "Certo, hai ragione! Ed è per questo che veglieremo
sulla
mamma e terremo d'occhio questo George, per vedere che si comporti
bene. E lo chiameremo ogni volta che dovremo dire o fare qualcosa.
Capito?".
"Si".
Entrarono
e Ross si sentì vagamente a disagio. Era un posto molto
elegante e
non riusciva a non ammirare Demelza che si muoveva in quegli ambienti
con la leggerezza di una farfalla. Ci era abituata, era palese! Per
anni lei aveva combattuto e contrattato con quelli che lui
considerava avvoltoi e nemici, aveva ricattato George Warleggan e lo
aveva messo all'angolo, concludendo affari milionari. E lo aveva
protetto, lasciandolo libero di lavorare con calma alla Wheal Grace
senza che quell'avvoltoio cercasse di portargliela via. Era
affascinato da lei, la guardava ed era come vedere una dea, ne era
totalmente, follemente innamorato e ancora una volta si
maledì per
il modo in cui l'aveva trattata, per come l'aveva fatta soffrire e
per non aver capito pienamente quale tesoro rappresentasse per lui.
Salirono
all'ultimo piano e, quando videro un gruppo di uomini davanti a una
grossa porta in legno, prese i figli per mano.
Demelza
si irrigidì, rallentò il passo e gli fece segno
di seguirla.
"Demelza"
– esclamò uno dei finanzieri –
"Benarrivata". L'uomo
fece per parlare, quando notò che non era sola. "E questi
due
bei bambini? I vostri figli, scommetto! Era ora che ce li faceste
conoscere".
Demelza
annuì. "Si, sono i miei figli, Clowance e Jeremy. Stasera ho
voluto mostrar loro dove lavoro". Gli si avvicinò,
prendendolo
sotto braccio. "E lui è mio marito, Ross Poldark".
Al
pronunciare quel nome, bianco come un fantasma, dalla porta aperta
comparve lui... Ross si irrigidì, pensando a quanto lo
odiava, a
quanto aveva cercato di rovinare la sua vita e a quanto quell'uomo
potesse detestare Demelza, per il ruolo che oggi ricopriva e che lo
costringeva, di fatto, a scendere a compromessi con lei. "George
Warleggan... Siamo vicini di casa e alla fine riusciamo ad
incontrarci solo a Londra" – disse, provocatorio.
George,
impallidendo, lo squadrò, prima di lanciare un'occhiataccia
a
Demelza. "Questo che cosa significa?".
Sua
moglie, per nulla intimorita, si sistemò una ciocca di
capelli
dietro le spalle. "Mi ha accompagnata, Londra è piena di
lupi e
falchi famelici pronti ad attaccare, la notte. Ed è dovere
di un
marito proteggere la propria donna, non pensate? Questo non fa parte
del vostro concetto di famiglia perfetta?".
George
si morse il labbro mentre gli altri azionisti, presagendo aria di
tempesta nell'aria, si rifugiarono nella sala delle riunioni. "Questo
è il consiglio d'amministrazione di una banca fra le
più importanti
del paese, non un luogo di scampagnate per famiglie. Il fatto che voi
abbiate portato qui vostro marito e i vostri figli, è
assolutamente
fuori luogo, tanto più che pensavo non foste più
nemmeno una
famiglia ormai da anni".
Demelza
sorrise freddamente. "Vi sbagliavate e non mi pare di ricordare
di avervi mai detto nulla di simile. E per il resto, non
preoccupatevi, Ross e i bambini sanno che non devono interrompere la
riunione".
George
alzò lo sguardo su Ross, furente. "Avete capito, Ross?
Silenzio
totale, non dovrete metter becco in ciò che discuteremo qua
dentro.
E la prossima volta, fate in modo che vostra moglie venga scortata da
una guardia, non voglio più vedere voi e i vostri bambini
qui".
Ross
annuì, divertito dal vederlo tanto fuori di se.
"Sarò muto
come una tomba e per quanto riguarda me e i bambini, non mi pare ci
siano regole che vietino di accompagnare i propri cari ad una
riunione serale. O sbaglio?".
George
scosse la testa, non sapendo cosa rispondere, gli voltò le
spalle e
rientrò nella sala. "Come vi ho detto, pretendo silenzio. E
ora
entrate, diamo inizio all'assemblea".
Ross
prese i figli per mano, entrò nella sala e si mise in un
angolo
appartato ad osservare sua moglie e quegli uomini, alcuni giovani e
alcuni piuttosto anziani, sedersi a quel grosso tavolo dove, poteva
scommetterci, si decidevano i destini di tante povere persone.
George
aprì un grosso tomo, leggendo l'ordine del giorno. "Come vi
ho
anticipato per lettera, stasera approveremo l'esproprio coatto
dell'area di St. Germaine per la costruzione di una nuova sede della
banca. In quell'area ci sono solo baracche e togliendo quel marciume
e i rifiuti umani che vi vivono, ridaremo lustro a tutto il
quartiere. Soprattutto con il nostro arrivo che spingerà
molti
azionisti a guardare a quella zona con rinnovato interesse".
Ross
strinse le mani dei bambini, rendendosi conto che quel verme, negli
anni, non era affatto cambiato. Era arrogante, senza cuore e si
ergeva a giudice e padrone delle vite di chi non riteneva alla sua
altezza, calpestando le persone come fossero formiche.
Demelza
lesse l'ordine del giorno, poi si alzò dalla sedia con un
movimento
veloce. "Dove devo firmare il diniego?".
Gli
altri azionisti la guardarono, forse nemmeno troppo sorpresi da
quella presa di posizione, mentre George tornava a farsi rosso per la
rabbia. "Cosa c'è che non va? Vi siete eletta a paladina dei
baraccati?".
Sua
moglie sostenne lo sguardo di George. "Paladina dei baraccati?
Non direi... Ma paladina del rispetto della legge, si! Quella gente
è
proprietaria di quelle baracche che, per quanto possano valer poco,
rappresentano la loro casa. Ci sono molte aree da bonificare a Londra
in cui costruire nuove sedi della banca, senza andare a distruggere
la vita di gente che non può permettersi nemmeno di pagare
un
avvocato per difendersi".
"Signora,
qui si parla di affari, non di buoni sentimenti!" - urlò
George.
Demelza
sbuffò. "Avete chiesto di riunirci per decidere, giusto
George?
Beh, il mio parere è negativo".
A
quel punto, a sorpresa, George si voltò verso di lui.
"Signor
Poldark, vorreste per favore invitare vostra moglie ad essere
ragionevole?".
Ecco,
lì lo voleva. Lui e Demelza si lanciarono uno sguardo
d'intesa che
valeva più di mille parole, poi si rivolse a George col
più amabile
dei sorrisi. "Non mi permetterei mai di aprire bocca e di
intervenire in una vostra riunione. E' giusto che stia in silenzio,
come mi avete intimato poco fa. Sono solo un ospite, dopo tutto, e
mia moglie è più che capace ad argomentare e
decidere da sola. La
vostra socia è lei, non io". Pensò che era una
situazione
stupenda, quella. Per la prima volta, senza violenza, senza pugni,
senza urla, riusciva ad avere la meglio davvero su George e a
metterlo in difficoltà, usando le armi di sua moglie: gioco
d'astuzia, pazienza nel saper aspettare il momento giusto per
attaccare, furbizia. Era fiero di lei, per come agiva, per come si
poneva con quegli uomini d'affari, per come ragionava usando il cuore
e non la logica del guadagno.
Clowance
si liberò dalla sua stretta e, senza che riuscisse a
fermarla, corse
da George. Gli tirò la stoffa dei pantaloni, si
imbronciò e si mise
le mani sui fianchi. "Tu sei blutto! E guaddi male la mia mamma!
Non-si-fa!".
"I
vostri figli sono dei selvaggi!" - sbottò lui, prima che
Demelza si avvicinasse e prendesse la bimba fra le braccia.
"Avete
ragione. Quindi, visto che disturbano, è tardi e io ho
già espresso
la mia posizione a riguardo, ora vado a casa con la mia famiglia.
Buon proseguimento di seduta George. Spero troviate una soluzione
alternativa ai vostri piani circa la nuova sede, senza il mio voto
favorevole non potete fare altro, temo". Senza aspettare
risposta, Demelza gli volse le spalle, si avvicinò a lui e a
Jeremy
e, dopo avergli strizzato l'occhio, gli fece cenno di seguirla.
Se
ne andarono insieme, percorrendo quegli eleganti corridoi, scoppiando
a ridere come ragazzini quando furono in strada, di gusto, mentre i
bambini li guardavano un po' confusi.
Ross
rise, non aveva forse mai riso a quel modo. Si avvicinò a
sua moglie
e la abbracciò, trascinandola fra le sue braccia, rendendosi
ancora
una volta conto di quanto fosse stato folle quel suo antico amore per
Elizabeth. Ciò di cui aveva bisogno era una donna vera come
Demelza,
non una bambolina da esposizione da mostrare ai ricevimenti. "Io
ti amo! E ti adoro!".
Le
braccia di Demelza gli cinsero la vita. "Visto? Te l'avevo
detto che sarebbe stato divertente!".
"Santo
cielo, lo è stato davvero! Anni passati a prenderlo a pugni
e ad
affrontare processi, quando avrei potuto semplicemente chiedere aiuto
a te per metterlo al muro".
Demelza
gli sorrise in un modo che non poteva che definire seducente. "Sei
stato bravo anche tu, hai capito cosa dire, quando parlare e come
stare al gioco. E la cosa bella è che nemmeno abbiamo dovuto
metterci d'accordo".
Annuì
a quelle parole, baciandola avidamente sulle labbra. Demelza lo
lasciò fare, ma poi lo spinse leggermente indietro,
osservando i
bambini. "Ross, non siamo soli e i nostri figli ci stanno
guardando".
Per
nulla intimidito da ciò, si rivolse ai bimbi. "Posso baciare
la
mamma?".
Jeremy
alzò le spalle. "Fa pure, ma poi andiamo a casa?".
"Certamente".
Vista
la gentile concessione dei piccoli, la baciò ancora, a
lungo,
rendendosi conto che in quel momento si sentiva innamorato come un
ragazzino, che era completamente soggiogato da lei, dal suo fascino,
da ciò che rappresentava, da ciò che era
diventata e da ciò che
sarebbe sempre stata per lui.
Fu
Clowance ad interromperli, stanca di aspettare. Tirò Demelza
per la
gonna, allungò le braccia verso di lei e
sbadigliò. "Mamma,
vollo andare a fare la nanna".
L'espressione
di Demelza si addolcì, tornò ad essere una mamma,
la prese in
braccio e la strinse a se, baciandola sulla fronte. "Hai ragione
piccolina, andiamo a casa".
Ross
sorrise, si avvicinò al piccolo Jeremy e a sua volta lo
prese fra le
braccia. "E' tardi e dovete dormire in effetti". Col
braccio libero, cinse le spalle a Demelza e in silenzio, rilassati e
sereni, si avviarono verso casa costeggiando le placide acque del
Tamigi. Non si parlarono lungo il tragitto, limitandosi a scambiarsi
degli sguardi che volevano dire più di mille parole. C'era
desiderio
in loro, un disperato bisogno di stare insieme, di ritrovare davvero
tutto quello che erano stati e che avevano rischiato di perdere, di
recuperare il tempo perduto, di perdersi l'uno nell'altra per
cancellare tutto il dolore, la solitudine e il male che li aveva
divisi.
I
bambini si addormentarono durante il tragitto e una volta giunti a
casa, immersa ormai nel silenzio e nell'oscurità, li
cambiarono
d'abito e li misero nel loro letto senza che si svegliassero. Era
ormai passata la mezzanotte, erano ancora piccoli, avevano corso come
forsennati e non erano abituati a rimanere svegli tanto a lungo,
erano stravolti.
Demelza
si avviò verso la loro camera da letto, togliendosi di
dosso, strada
facendo, il mantello di pelliccia che aveva indossato per andare alla
riunione.
La
seguì in silenzio, come un cagnolino, ancora una volta
incantato dai
suoi movimenti lenti e forse studiati, dal suo modo di fare sicuro e
dal suo sguardo dolce. In quel momento, si rese conto, era
completamente in suo potere, lei avrebbe potuto chiedergli qualsiasi
cosa e lui l'avrebbe fatta senza battere ciglio.
Una
volta in camera, chiusero la porta a chiave, lui accese il camino e
Demelza, sempre in assoluto silenzio, iniziò a sbottonarsi
l'elegante abito color avorio che indossava.
La
fissò, attratto da lei come da una calamita. "Che te ne
pare?
Sono stato una buona guardia del corpo, stasera?".
Lei
sorrise, togliendosi di dosso una collana. "Si, una guardia del
corpo perfetta!".
"Bene.
Vuol dire che so fare bene il mio lavoro".
Demelza
si sedette sul letto, accavallò le gambe e lo
guardò di sottecchi,
con un modo di fare controllato e allo stesso tempo civettuolo. "E'
l'unico lavoro che hai intenzione di fare, la guardia del corpo?".
A
quella domanda si tirò su, si allontanò dal
camino ormai acceso e
la raggiunse, inginocchiandosi davanti a lei e prendendole le mani
nelle sue. "Dipende da cosa mi chiederai di fare. Ricordi? Sono
il tuo umile servo, te lo dissi tanto tempo fa".
Demelza
ci pensò su. "Si, è vero! Ma poi te ne sei un po'
dimenticato".
Raggiunse
le sue labbra e le baciò avidamente. "Sei autorizzata ad
essere
violenta, se dovesse risuccedere".
"Fa
in modo che non ce ne sia bisogno, Ross".
Si
guardarono negli occhi e improvvisamente l'espressione giocosa
sparì
dai loro volti. Quella di Demelza non era stata una battuta ma un
avvertimento e sapeva che lei aveva bisogno di certezze, che dietro
alla potente donna d'affari che era diventata, c'era una donna piena
di paure, ferita e tradita e che ora toccava a lui darle coraggio,
fiducia in se stessa e in loro. "Non lo dimenticherò. Per
tre
anni non ho vissuto, è stata una non-vita la mia, piena di
sensi di
colpa, solitudine e dolore. Un dolore vero, non quello che posso aver
provato al ritorno dalla Virginia, un dolore che mi toglieva il
respiro ogni volta che pensavo a te e a quello che avevo perso, un
dolore tanto forte da essere quasi fisico".
Demelza
annuì. "Lo capisco cosa vuoi dire. Era così anche
per me, ogni
volta che ti pensavo e credevo che non sarei stata mai abbastanza
bella, abbastanza amabile e che non mi avevi mai amato come amavi
Elizabeth. E' stato così quando ho scoperto di aspettare
Clowance e
quando l'ho partorita e ogni volta che mi sono trovata a decidere
qualcosa di importante riguardante i nostri figli e tu non c'eri per
potermi confrontare. E' stato così ad ogni compleanno di
Jeremy e
Clowance e ogni volta che giocavo con loro e tu non eri qui. A me non
importa della Warleggan Bank, delle azioni della Northern, del
potere, del denaro, di questa casa e di quello che la gente pensa di
me. L'unica cosa di cui mi importa ora siete tu, i bambini... Noi...
Ho scelto di essere nuovamente tua, di fidarmi di me stessa
più che
di te, perché la cosa più difficile è
stata convincermi che non
era vero che ero seconda a qualcuno, che siamo una coppia imperfetta
che ha sbagliato ma che ha saputo migliorarsi, crescere e ritrovarsi.
Ti ho voluto di nuovo al mio fianco e ora mi farò in quattro
perché
le cose vadano bene perché per me, te... per noi...
è l'unica cosa
che conta".
Sorrise,
baciandola sulla fronte. "Hai ragione. Siamo l'unica cosa che
conta".
Demelza
si lasciò abbracciare poi, come se fosse stata scivolosa
come
un'anguilla, si divincolò dal suo abbraccio. In piedi, a
pochi passi
da lui, ricoquistò l'espressione civettuola e divertita di
poco
prima. Lo stava decisamente, piacevolmente provocando... "Guardia
del corpo, ora vorrei finire di cambiarmi d'abito, se permetti...".
Finse
di stare al gioco. "Vuoi una mano?".
"Sono
capace di farlo da sola...".
"Ma
con me faresti prima".
Demelza
si morse il labbro con fare sensuale. Era talmente irresistibile con
quella sottoveste bianca e con quei capelli rossi che le ricadevano
morbidamente sulle spalle, che non avrebbe risposto troppo a lungo
delle sue azioni. "Fammi vedere che sai fare, allora".
Si
mosse verso di lei, risucchiato da quello strano gioco di sguardi fra
loro nato al termine di una giornata serena in cui si erano
riscoperti amici, complici e inseparabili, una giornata passata a
stuzzicarsi e a scherzare, a sognare che arrivasse sera per rimanere
finalmente da soli. Si desideravano ed il desiderio era palpabile,
forte, quasi tangibile in quella stanza. Le sfiorò le
spalle, fece
scivolare la sottoveste per terra e poi, dopo averle sfiorato i
fianchi, costringendola ad arretrare, la spinse gentilmente sul
letto. Lei lo guardò in attesa, senza dire nulla. La
raggiunse, si
stese sopra di lei e prese a baciarla con passione, costringendola ad
arrendersi alle sue attenzioni. "Non avere paura, non mi
dimenticherò più chi sei e cosa rappresenti per
me" – le
sussurrò, col fiato corto, fra un bacio e l'altro.
Demelza
gli accarezzò con dolcezza i capelli e la nuca. "Lo so, sta
tranquillo".
"Sai,
amore mio, dopo Julia io ho avuto paura di diventare nuovamente padre
e ora, in questo momento, con i nostri figli che dormono nelle stanze
a fianco, mi rendo conto che non esisterebbe notte più
perfetta di
questa, momento più bello e magico di quello che stiamo
vivendo, per
un altro bambino. Ecco, pur con tutte le mie paure, la bellezza di
quello che siamo ora mi farebbe superare ogni timore".
Demelza
lo attirò a se, baciandolo avidamente. "Sai, credo che sia
la
cosa più bella che tu mi abbia mai detto...".
Calò
il silenzio nella stanza e quello sguardo così disperato in
cui si
leggeva il loro bisogno di stare insieme, di ritrovarsi per davvero
dopo aver vissuto un lungo inferno, si acquietò.
Così
come lui aveva l'aveva aiutata a togliersi la sottoveste, lei fece lo
stesso, facendo scivolare i suoi vestiti a terra. Si toccarono a
lungo, si accarezzarono, fecero l'amore in una maniera totalizzante
che annullò ogni pensiero, ogni timore, ogni paura e tutto
il dolore
che li aveva divisi. Era già successo tante volte, da quando
si
erano ritrovati, ma mai in un modo tanto intenso, passionale, dolce e
allo stesso tempo selvaggio. Per la prima volta da quando si erano
rivisti, avevano la convinzione che tutto fosse davvero alle loro
spalle, che erano stati capaci di voltare pagina, capire i propri
errori ed erano nuovamente pronti ad affrontare una vita insieme. Che
non sapevano dove li avrebbe portati ma che sapevano li avrebbe visti
per sempre uniti e capaci di affrontare ogni cosa.
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Capitolo 30 *** Capitolo trenta ***
Nelle
ultime settimane poteva definirsi pigra e scansafatiche. Aveva
promesso tempo a Ross, di rallentare, di scegliere quanto era
necessario fare e quanto poteva essere delegato e onestamente, era
contenta di averlo fatto. Aveva sempre amato lavorare e non starsene
con le mani in mano ma era anche consapevole che tre anni di
separazione, da superare, sono difficili e tormentati e ci vuole
tanto impegno per far funzionare le cose. Ed era piacevole tornare ad
essere semplicemente una moglie, una madre, occuparsi delle persone
che amava e viverle ogni istante del giorno.
Aveva
delegato Leslie nella gestione della locanda, era una ragazza
volenterosa, degna di fiducia e che conosceva bene le dinamiche del
lavoro e il carattere dei clienti, sarebbe stata perfetta in quel
ruolo. Lei si limitava a recarsi alla locanda a volte, nel
pomeriggio, con Ross e coi bambini, per le faccende più
urgenti e
delicate.
Per
quanto riguardava la sua attività finanziaria, invece, gli
impegni
rimanevano e a volte, la sera, doveva recarsi a qualche importante
riunione. Lei e Ross, coi bambini, avevano preso l'abitudine di
andarci insieme di tanto in tanto, quando non nevicava e quando i
bambini non erano troppo stanchi per seguirli. Quando usciva da sola
invece, aveva dovuto cedere alle insistenze di Ross a non recarsi
alle banche a piedi e aveva dovuto sottostare alla sua richiesta di
viaggiare in una comoda, calda e sicura carrozza. Beh, faceva parte
dei compromessi da prendere anche questo, no? E in fondo era tanto
bello il modo in cui lui si preoccupava di lei.
Per
il resto, era tutto bello, felice, finalmente non era più
sola e
aveva ritrovato quell'uomo che tanto l'aveva ferita e fatta soffrire
ma che, lo sapeva, non aveva mai smesso di amare con tutta se stessa.
Ross era gentile, dolce, attento e la guardava con quello sguardo che
era un misto fra ammirazione, amore e profonda attrazione. La
guardava come non credeva avrebbe fatto mai, si erano ritrovati e
avevano saputo voltare pagina e ricominciare, senza dimenticare gli
errori passati. Aveva ritrovato un marito tenero, dolce, innamorato e
un amante appassionato e mai pago, tanto che, forse a causa degli
anni di lontananza, non sapevano resistersi ogni volta che rimanevano
soli.
Coi
bambini invece, Ross era un padre tenerissimo e presente, tanto che
ormai sia Jeremy che Clowance lo cercavano e lo coinvolgevano in
tutto quello che facevano. Ross era, in un certo senso, geloso di
loro e non gradiva troppo l'interferenza dei domestici che si erano
occupati dei bambini fino al suo arrivo. Questo era un aspetto di non
facile gestione, con Ross che metteva il muso se qualcuno 'osava'
vestire i bambini o far loro il bagno al suo posto e con i domestici
che lo guardavano in seria difficoltà e in imbarazzo. Lei ci
rideva
sopra, divertita da questa cosa, felice che Ross non desiderasse
altro che stare coi suoi figli. Lo guardava con loro e si fermava a
pensare a quanto invece avesse creduto, per anni, che non ne avrebbe
voluto mai sapere, che sarebbero stati un peso per lui, che tutto
quello che voleva era Elizabeth. Non era così, Ross
desiderava lei,
voleva i suoi figli e ora lo sapeva, per lui la parola casa e la
parola famiglia corrispondevano a lei, a Jeremy e alla piccola
Clowance.
Era
una mattina nebbiosa, quella, molto fredda. Fecero colazione nel
salone principale, sorseggiando tè e mangiando della
cioccolata
pregiata che un suo socio aveva fatto recapitare loro.
Clowance
allungò la manina verso il vassoio, pronta a prendere
l'ennesimo
dolcetto. "Lo vollo ancora".
Demelza
scosse la testa, le prese il polso e la attirò a
sé. "No, ora
basta. Ne hai già mangiati cinque, di cioccolatini. Ti
verrà mal di
pancia".
Clowance,
di tutta risposta, si voltò verso suo padre che, accanto a
loro e
con Jeremy sulle ginocchia, aiutava il figlio a leggere un libro sui
cavalli. "Papà...".
Demelza
lanciò un'occhiataccia al marito, intimandolo
silenziosamente di non
cedere. Ross aveva un debole per Clowance e ancora non aveva ben
chiaro quanto la sua piccola dolce bimba fosse in realtà
capricciosa
e manipolatrice, quando voleva qualcosa.
Ross
intercettò la sua occhiata e accarezzò la
testolina della bimba.
"Hai sentito? Hai mangiato troppo, ti verrà mal di pancia
con
tutta quella cioccolata".
"Ma
io la vollo!" - sbottò Clowance, battendo il piedino a
terra,
stizzita.
"No,
basta".
La
voce ferma di Ross, che le diceva forse il suo primo 'no', ebbe
l'effetto di un tornado. Gli occhi di Clowance divennero lucidi,
singhiozzò e poi scoppiò a piangere a dirotto,
con fare quasi
isterico.
Demelza
e Jeremy si guardarono, tranquilli e ormai abituati a quel genere di
scenate. Ross invece spalancò gli occhi, terrorizzato dal
vederla
piangere così. "Demelza?".
"Ross,
no. Se cedi ora, sei finito!".
Jeremy
toccò la manica della camicia del padre, attirando la sua
attenzione. "Non devi avere paura, mica piange perché
è malata
o ha male da qualche parte. Non guardarla e vedrai che poi le passa".
Ross
lo guardò e poi guardò lei, con gli occhi
spalancati, come se
fossero stati pazzi, mentre le urla di Clowance facevano tremare i
vetri. "Beh... forse un altro cioccolatino glielo potremmo dare.
Cioé, è sempre meglio che farla piangere
così".
Demelza
lo fulminò con lo sguardo. Dov'era finito il suo integerrimo
capitan
Poldark, quello che non accettava compromessi con nessuno? "No".
"Ma...".
Scosse
la testa, esasperata più da lui che dalle urla della figlia.
"Se
cedi adesso, sarai in suo potere". Si alzò dal divano e si
avvicinò alla figlia. "Clowance, ora basta".
"Nooooo".
Rabbiosa, la piccola le diede una pacca sul braccio. "Blutta!".
A
quel punto, a sorpresa, con fare fermo e deciso, Ross si
alzò sul
divano, si inginocchiò davanti a loro e la guardò
negli occhi.
"Clowance, chiedi scusa alla mamma!".
"Noooo".
"Fallo
subito!".
Clowance
cercò di sostenere il suo sguardo ma Ross rimase fisso ad
osservarla, serio, viso a viso. Alla fine la bimba abbassò
gli occhi
e, piangendo e senza dargli soddisfazioni, si rintanò in un
angolo
del divano, rannicchiandosi a pancia in giù, singhiozzando
sommessamente col viso affondato nei cuscini.
Demelza
prese la mano di Ross, impedendogli ogni movimento. Era stato bravo,
fermo e deciso e Clowance aveva dovuto abbassare la testa. La loro
bimba aveva percepito l'autorità del padre e se lui avesse
ceduto,
ogni suo sforzo sarebbe andato perso. "Lasciala stare" –
sussurrò gentilmente.
Ross
la guardò con sguardo dolorante, facendole capire che vedere
la
figlia piangere da sola così, sul divano, per lui era una
sofferenza
immane. "Non si ammalerà?".
Demelza
rise. "No, sta tranquillo". Ignorando la piccola, si
avvicinò a Jeremy che, curioso, osservava lo scambio di
battute fra
i genitori. "Cosa stai leggendo?".
"Cavalli!
Papà, vero che tu sei bravo a cavalcare? Si, anche se poi
qui a
Londra sei caduto e ti sei fatto male!".
Ross
ridacchiò imbarazzato, arrossendo. "Molto bravo! Sai, una
volta, quando io e la mamma vivevamo in Cornovaglia e tu non eri
ancora nato, io e lei ce ne andavamo al galoppo sulle scogliere a
picco sul mare. La stringevo stretta a me, lei teneva le redini e
lanciavamo il nostro cavallo a grande velocità per i prati".
Jeremy
spalancò gli occhi, sorpreso. "In Cornovaglia, dove
c'è la tua
casa, c'è il mare?".
"Si,
certo! E molto vento, come mi rimarca Caroline ogni volta che ci
viene" – commentò Ross, ricordando divertito
quanto
l'ereditiera faticasse ad abituarsi a quel clima.
Jeremy,
per nulla pago di quelle spiegazioni, gli si arrampicò sul
collo,
abbracciandolo. "Papà, ma ci sono i parchi dove i bambini
possono giocare?".
Ross
scoppiò a ridere. "Parchi? I bambini, in Cornovaglia,
giocano
liberi nei boschi e nei prati! Non ci sono parchi ma ci sono tante
miniere. Io ne ho una".
"Ohhh".
Sempre più estasiato, Jeremy tornò a guardare la
madre. "Davvero?".
Demelza
sorrise, ripensando alla bellezza selvaggia della Cornovaglia, al suo
vento, ai suoi silenzi, alla sua gente semplice e gentile, pronta
sempre ad aiutarsi a vicenda, alle miniere dove lei e Ross avevano
riposto tanti sogni un tempo, alla sua casa, Nampara, tanto modesta
quanto calda e accogliente e a Jud e Prudie, i due servi più
scansafatiche esistenti al mondo. Le mancava tanto quel mondo, quella
vita modesta e allo stesso tempo vera, autentica, lontana dai
fronzoli della Londra aristocratica. "E' così! Abbiamo una
casa
che da sui campi, basta uscire dalla staccionata e si puo' giocare e
correre ovunque senza pericoli. E la miniera di papà
è poco lontana
e ci si puo' andare a piedi".
Il
bimbo ascoltava incuriosito, eccitato da quei racconti su quel mondo
che doveva apparirgli estremamente magico ed avventuroso. "La
tua miniera, papà, ha i tunnel sotto terra?".
"Certo".
"Mi
ci porti?". Si voltò verso la madre, con sguardo implorante.
"Mamma, posso andarci?".
Demelza
guardò Ross negli occhi e poi annuì. "Certo che
puoi". In
quel momento si rese conto che desiderava la Cornovaglia e le miniere
più di suo figlio. Voleva la sua vera casa, i suoi due
servi, la sua
camera da letto dove con Ross era diventata donna e madre, rivoleva
il suo mondo e allo stesso tempo aveva paura ad abbandonare la vita
costruita a Londra. Troppe responsabilità, troppe persone
dipendevano da lei... Come avrebbe potuto fare?
Ross
la guardò negli occhi, non sapendo forse nemmeno lui come
interpretare la sua risposta. In realtà, non sapeva nemmeno
lei cosa
fare...
Improvvisamente
la porta si aprì. "Demelza, quanto tempo!".
Si
voltarono tutti, eccetto Clowance, verso il nuovo arrivato, giunto
nel salone come un tornado, come suo solito. Demelza si
accigliò,
erano settimane che non lo vedeva, dalla Vigilia di Natale. "Martin!
Ti aspettavo tanto tempo fa per togliere gli abeti e invece mi hanno
detto che sei fuggito a lavorare lontano da Londra per evitarlo!"
- commentò, sarcastica.
Martin
Devrille, come se non l'avesse nemmeno sentita, alzò le
spalle.
"Beh, vedo che hai comunque già sistemato il problema".
Demelza
lo guardò storto ma poi decise di glissare sull'argomento.
Era la
prima volta che Martin e Ross si trovavano faccia a faccia, eccetto a
casa di Caroline l'estate prima, ed era giunto il momento di
presentare ufficialmente a suo marito quella persona tanto importante
per lei e per i bambini. "Martin, ti presento mio marito, Ross
Poldark".
Il
suo socio, benché sapesse i loro trascorsi e quanto lei
aveva
passato a causa sua, fece un sorriso bonario e gentile, come suo
solito. "E' un piacere fare la vostra conoscenza".
Ross
annuì, vagamente intimidito. Non era da lui ma essere
davanti a
colui che, insieme alla moglie Diane, era stato la famiglia di
Demelza e il suo principale socio in affari, lo metteva in
difficoltà. "E' un piacere anche per me. Volevo ringraziarvi
per quanto avete fatto per la mia famiglia. Mia moglie mi ha molto
parlato di voi".
Martin
scoppiò a ridere. "Immagino! Soprattutto per la faccenda
degli
abeti". Si avvicinò a Jeremy, dandogli un pizzicotto sulla
guancia. "Piccolo, sei contento che sia tornato papà? Ora
potrà
insegnarti lui ad andare sul pony".
Jeremy
annuì, contento. "Si! Papà sa andare bene a
cavallo, anche se
poi è caduto ed è quasi morto il mese scorso".
Martin
fece violenza a se stesso per non scoppiare a ridere in faccia a Ross
e poi, per togliersi dall'imbarazzo, fissò la piccola
Clowance,
ancora rannicchiata sul divano. "Cos'ha?".
Demelza
alzò le spalle con noncuranza. "Capricci, come al solito".
Martin
annuì senza scomporsi. Beh, ci era abituato, dopo tutto.
Conosceva
Clowance da quando era nata ed era ben consapevole di quanto quella
dolce ed angelica bambina potesse trasformarsi in un demonio urlante,
quando le si diceva di no per qualcosa. Distolse lo sguardo da lei e
poi, con un gesto veloce, si tolse dalla tasca dell'impermeabile il
giornale che portava con se, facendolo cadere sul tavolino davanti a
Demelza. "Leggi".
Demelza
si accigliò. "Non ho voglia di leggere il giornale!".
Martin
alzò gli occhi al cielo. "LEGGI!".
La
donna fece un sorriso maligno e divertito. "Quando avrai finito
di aiutare i miei domestici a tagliare gli abeti in giardino,
leggerò".
Il
suo socio, esasperato, guardò Ross. "Voi avete sposato una
donna impossibile e cocciuta!". Prese di nuovo il giornale e
stavolta lo mise direttamente nelle mani di Demelza. "LEGGI!".
Sbuffando,
controvoglia, Demelza guardò la prima pagina del giornale
per farlo
contento. "Il principe ereditario si è fidanzato. Bene,
manderemo un bigietto d'auguri alla famiglia reale"-
commentò
in tono piatto.
Martin
le prese il giornale dalle mani, aprendolo e sfogliandolo. Poi glielo
rimise in mano. "Leggi qua! Del principe ereditario m'importa
men che niente".
Demelza
guardò dove gli indicava Martin mentre anche Ross, ora
curioso, dava
un'occhiata alla pagina del giornale. Fece scorrere lo sguardo su
quanto scritto, era la pagina finanziaria, un qualcosa che lei e
Martin avevano letto spesso, durante le loro sedute di lavoro. Ma
c'era qualcosa di diverso, in quella pagina, quella mattina. E appena
Demelza la vide, sentì i polmoni prosciugarsi, il fiato
venire meno
e tutto intorno le divenne ovattato, quasi che stesse per svenire. Si
abbandonò contro la spalliera del divano, impallidendo e
ansimando,
guardando Martin con occhi spalancati, senza riuscire a dire nulla.
"Amore
mio, cos'hai?" - chiese Ross, avvicinandosi e prendendole una
mano fra le sue.
Martin
scoppiò a ridere a quella reazione. "Santo cielo, tu tramuti
in
oro tutto ciò che tocchi! Fiuti e punti gli affari con la
stessa
scaltrezza con cui un lupo sceglie la sua preda!".
Demelza
rimase in silenzio, osservando Martin, poi Ross e poi la pagina del
giornale che le stava cambiando nuovamente la vita. Vide quella
scritta, Northern Bank, e quella cifra a fianco, con un valore
nominale azionario alle stelle. Aveva comprato azioni che valevano
poco più di carta straccia e ora si trovava fra le mani
qualcosa di
inestimabile valore. Fino al giorno prima, la Northern non valeva
nulla. In una notte, per qualche assurdo gioco del destino, di borsa
o di chissà quali trame, era diventata una banca su cui
tutti
puntavano, una banca pronta a traghettare l'Inghilterra verso un
nuovo e moderno futuro dove tutti potevano avere le stesse
possibilità.
Martin
la abbracciò, ridendo come se fosse stato ubriaco. "Santo
cielo, ti presi pure in giro quando prendesti quelle azioni! E ora
sei una delle donne più ricche d'Inghilterra, potresti
comprarti un
titolo nobiliare adesso ed essere invitata pure a presenziare alla
festa di fidanzamento del principe ereditario".
Ross
la guardò, anche lui pallido e incredulo. Poi le sorrise,
accarezzandole la guancia. "Demelza, santo cielo ora hai capito
perché quel tizio che ti ha aggredito ci teneva tanto?
Accidenti,
hai fiutato l'affare del decennio".
Annuì,
ancora incapace di parlare. Si, ora capiva perché
quell'avvoltoio di
Smith teneva tanto a quelle azioni, era un demonio della borsa e
sapeva prevedere gli sviluppi economici molto prima che questi
accadessero. Per un puro caso aveva acquistato le azioni della
Northern prima di lui, battendolo sul tempo, e da allora non si era
dato pace perché gli fossero vendute. Guardò
ancora una volta la
pagina di giornale, non sapendo se essere felice oppure no. Era una
cosa meravigliosa, quella, per chi nella Northern avrebbe riposto le
sue speranze. Ma per lei? Essere la socia di maggioranza di una
società finanziaria diventata di colpo tanto potente, le
avrebbe
conferito nuovi incarichi, nuove responsabilità, lunghi
periodi
lontana da casa e dalla sua famiglia, nel nord del paese dove aveva
sede la banca. Lontano da Londra, lontano dalla Cornovaglia...
Martin
si congratulò di nuovo, la abbracciò
calorosamente con quel suo
solito trasporto paterno, pieno di vero orgoglio verso di lei e
quello che era diventata. Poi, dopo aver salutato Ross, aver dato una
carezza a Jeremy e una veloce occhiata a Clowance, se ne
andò.
Per
alcuni istanti calò il silenzio nella stanza. Ross le si
avvicinò,
prendendole le mani, stringendogliele. "Tesoro, ti rendi conto
di quello che hai fatto? Sei... Sei diventata davvero una delle donne
più ricche del paese. Congratulazioni, sono contento per te".
Demelza
sorrise forzatamente. Si sentiva frastornata, confusa, incredula da
quanto era appena successo. Pensò a Martin e al suo sguardo
così
fiero e gli venne in mente che doveva tutto a lui. Se lei era quel
che era, lo doveva solo a lui e alla fiducia che le aveva accordato
quel giorno di due anni prima. "Sai cosa vuol dire questo per
noi, Ross?".
Suo
marito, a quella domanda, si oscurò, capendo il succo del
discorso.
"Lo so, ma non voglio essere un tuo limite. E' il tuo successo
questo, goditelo come meglio credi".
"Dobbiamo
decidere insieme cosa fare, Ross. E' una cosa importante, questa, che
mi porterebbe per molto tempo lontano da voi".
Ross
annuì. Era in corso una lotta interna in lui, fra il voler
lasciarla
scegliere e il desiderarla tutta per se. "Cosa vuoi fare?".
Demelza
sorrise, accarezzandogli la guancia, abbracciandolo e stringendosi a
lui per trovare coraggio. "Voglio cedere le azioni della
Northern".
Ross
spalancò gli occhi. "A quello Smith? Demelza, no!".
"Non
a lui, certo che no. Le voglio donare a Martin e ai suoi fratelli, le
meritano tanto quanto me e sarebbero dei meravigliosi azionisti di
maggioranza al mio posto. Se sono arrivata fin qui, oggi, è
solo
merito loro. Sono stati la mia famiglia, il mio sostegno, coloro che
mi hanno permesso di rimanere a galla e di prendermi cura dei bambini
in questi anni. Io non ho bisogno dei soldi della Northern, ho
già
fin troppo denaro e responsabilità così e il
potere non è mai
stato una mia ambizione. Quindi, se sei d'accordo...".
"Vuoi
davvero coinvolgermi in questo?". Ross era stupito.
"Certo,
sei mio marito e questa è una grandissima decisione che
influirà
sul futuro dei nostri figli. Significa rinunciare a futuri guadagni
molto importanti e forse questo denaro un giorno potrebbe servire a
Jeremy o a Clowance e noi potremmo pentirci di averlo rifiutato".
Ross
le accarezzò la guancia, piano, con quelle sue mani calde e
gentili.
"I bambini hanno tutto quello che gli serve, lo avevano da ben
prima della notizia di questa mattina. Sono fortunati e hanno due
genitori che possono mantenerli senza problemi e garantire loro un
futuro. E, soldi a parte, hanno dalla loro una famiglia unita. So che
forse parlo così per egoismo perché ti vorrei
tutta per me, ma se è
solo questa la tua paura, allora mettila da parte".
Demelza
annuì. "Lo farò! E voglio cedere le quote, se sei
d'accordo
anche tu. Meno problemi, meno minacce, meno responsabilità".
"E
allora donale ai Devrille. Salderai così il debito di
gratitudine
che hai con loro".
Si
abbracciarono e anche Jeremy si strinse alla vita della madre,
contento che un nuovo lavoro non portasse via la sua mamma da lui.
Clowance
alzò il visino dal cuscino, con le guance ancora rigate di
lacrime.
Ross e Demelza la guardarono, aspettando le sue mosse.
La
bimba allungò una manina verso la madre, le strinse la
stoffa della
manica e poi, sotto voce, disse quelle magiche paroline che le erano
state intimate poco prima. "Mamma... scusa".
Il
viso di Demelza si addolcì. La prese in braccio, la
abbracciò e
finalmente decise che era arrivato il momento di coccolarla un po'.
Stringendola a se capì che la sua decisione di cedere le
azioni
della Northern era quella giusta perché non avrebbe
rinunciato per
nulla al mondo agli abbracci di quella piccola testarda bambina, alla
dolcezza di Jeremy e alla vicinanza di Ross. "Farai la brava,
adesso?".
"Sì".
Clowance alzò gli occhi su Ross, studiandolo in viso, quasi
intimidita. Poi, succhiandosi il pollice, si sporse verso di lui.
"Sei rabbiato?".
"No,
non sono più arrabbiato". La prese in braccio, la strinse a
se,
finalmente rasserenato dal fatto che potesse coccolarla e che
quell'assurdo castigo fosse finito.
...
Quella
sera fecero una passeggiata tutti insieme. Nel pomeriggio era
nevicato e uno strato di neve soffice copriva tutti i rumori della
città. Clowance e Jeremy avevano insistito per uscire a
giocare e
Ross e Demelza, dopo quella giornata di grandi emozioni, non se
l'erano sentita di dir loro di no.
Fecero
un giro per il centro, costeggiando il Tamigi, osservando le luci
delle torce che si riflettevano sulla neve, donando riflessi magici.
"Sai
una cosa? Londra è davvero bella".
Demelza
rise, all'esclamazione del marito. "Se ci fosse qui Caroline, ti
rinfaccerebbe questa frase a vita".
"Sono
sincero, Londra con la neve è splendida di sera. Anche se,
nulla a
che vedere con la nostra Cornovaglia".
"Già".
Demelza si perse a pensare alle fredde e ventose serate d'inverno,
quando erano insieme a casa, a Nampara, davanti al camino acceso,
mentre fuori c'era un tempo da lupi che però non faceva
paura perché
era parte del fascino di quella terra.
Quando
i bimbi si furono calmati, Demelza li prese per mano e si decise che
era ora di andare a casa.
Camminarono
fino all'angolo dove svoltava la via dove sorgeva la loro abitazione,
quando furono costretti a fermarsi. Nel marciapiede davanti a loro,
qualcuno sostava, a pochi metri dal cancello d'ingresso della loro
dimora. Aveva un modo di fare sospetto, inquietante, era vestito con
un mantello nero e passeggiava avanti e indietro con fare nervoso.
Demelza
prese il braccio di Ross, mentre un sordo terrore sorgeva in lei. "E'
Smith!". Dannazione, lo avrebbe riconosciuto anche al buio!
Quasi
sentendola, l'uomo si avvicinò loro, facendo scivolare il
cappuccio
sulle sue spalle, mostrando a loro la sua vera identità.
Demelza non
si era sbagliata!
"Signora
Poldark, ci si rivede, alla fine!" - disse, minaccioso. "Dopo
tutto ve lo avevo promesso".
Demelza
strinse le mani dei bambini, avvicinandoli a lei. "Andatevene!
Non ho niente da dirvi".
Smith,
per nulla colpito dalle sue parole, si avvicinò ancora di
alcuni
passi. "Come lo sapevate? Come facevate ad essere al corrente
del vero valore di quelle azioni?".
Non
era certo obbligata a dar spiegazioni a quel tizio, ma forse se lo
avesse fatto, se lo sarebbe tolto di torno. "Non lo sapevo! Ho
seguito semplicemente il cuore, dando fiducia a un qualcosa che non
fosse solo una prerogativa dei ricchi ma che puntasse ad aiutare
anche le fasce più deboli".
Smith
sputò a terra, mentre Ross, scuro in volto, si frapponeva
fra lui e
la moglie. "Negli affari non si usa il cuore ma la logica del
profitto".
Demelza
scosse la testa. "Ognuno ha i suoi metodi. Voi tenetevi i
vostri, io mi tengo i miei".
"Dannata
strega, arrivista e sgualdrina". Con un gesto veloce Smith tolse
dalla tasca del mantello un coltellino a serramanico, lanciandosi
verso di lei.
E
quello fu troppo per Ross, attento come un'aquila alle azioni
dell'uomo. Gli si avventò contro con violenza, spingendolo a
terra.
Smith era di corporatura tozza, non giovane e Ross ebbe l'effetto di
un tornado su di lui. Gli torse il polso, costringendolo a lasciare
il coltello, e poi iniziò a prenderlo a pugni con una furia
quasi
inumana. Uno, due, cinque, dieci pugni in pieno volto che, in breve,
insanguinarono il volto tumefatto di Smith.
Demelza,
spaventata, rimase per alcuni istanti di sasso, stringendo a se i
bambini. Eccolo il suo Ross, quello indomito e temerario che avrebbe
ucciso per la sua famiglia e per lei, chiunque avesse avuto
intenzione di far loro del male. Ma non voleva che succedesse, che
assassinasse Smith a suon di pugni, non voleva vedere Ross di nuovo
sotto processo, voleva solo pace, amore, voleva la sua famiglia.
Clowance
scoppiò a piangere, spaventata, mentre Jeremy prese a
tremare. E a
quel punto, urlando, si avventò sui due uomini, dividendoli.
Abbracciò Ross, lo spinse indietro mentre Smith, quasi
esanime,
giaceva a terra senza muoversi, col fiato affannato. "Ross, ti
prego, basta! Lo ucciderai, ti caccerai nei guai e io... io non
voglio perderti di nuovo" – urlò, quasi in lacrime.
Una
guardia cittadina addetta al controllo notturno delle strade,
sentendo le urla, corse da loro. Guardò Smith e poi Ross e
poi
ancora il coltello a terra. "Cos'è successo?".
Demelza
deglutì, aiutando suo marito a rialzarsi. "Ci ha aggrediti.
E
non è la prima volta. Se mio marito non lo avesse fermato,
mi
avrebbe accoltellata".
La
guardia si chinò verso Smith, prendendolo per il bavero e
costringendolo ad alzarsi. "Venite con me al comando. Vi
medicheremo e poi ci darete delle spiegazioni. Mi auguro che sappiate
essere convincente perché cercare di ferire una nobildonna
di notte,
con un coltello, porta dritti alla prigione".
Smith
tossì sangue e la guardia non gli diede modo di parlare.
Se
ne andarono e, una volta rimasti soli, Ross si avvicinò ai
figli,
prendendoli in braccio. Clowance piangeva disperata, terrorizzata. Un
pianto vero, non come quello capriccioso del mattino, il pianto di
una bimba che aveva appena assistito a una possibile violenza su sua
madre. Ross la strinse a se, accarezzandole i capelli. "Shhh,
è
andato via, tranquilla".
Jeremy
si aggrappò al collo del padre, stringendosi a lui. "Sei
forte,
papà! Hai salvato la mamma".
Ross
sorrise, baciandolo sulla fronte. "I papà servono a
quello!".
Poi osservò Demelza, avvicinandosi a lei. "Tutto bene?".
"Si,
credo". Si abbandonò contro di lui, piangendo
silenziosamente,
in un misto fra paura e sollievo. "Non voglio mai più vivere
niente del genere, Ross".
"Non
succederà più, è finita".
Demelza
deglutì, mentre le lacrime continuavano a rigarle il viso.
"Portaci
a casa, Ross".
"Certo,
ci andremo subito".
Demelza
scosse la testa, rendendosi conto finalmente di quale fosse per lei
l'unica strada da seguire, se voleva essere felice. "No, non
questa, la nostra vera casa. Portaci a Nampara, non avremmo mai
dovuto andarcene".
Ross
spalancò gli occhi, sorrise e la strinse a se, mentre anche
i
singhiozzi di Clowance cessevano. "Certo, hai ragione. Torniamo
a casa".
|
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Capitolo 31 *** Capitolo trentuno ***
Non
sapeva bene come definire il suo stato d'animo mentre la carrozza li
stava portando lontani da Londra, verso casa.
Da
un lato era felice, era come la realizzazione di un sogno tornare a
Nampara, riabbracciare le sue origini e ritrovare quel luogo unico
che aveva sempre sentito come suo rifugio e casa. Meno ricco, meno
lussuoso di Londra ma che sapeva farla sentire al suo posto e al
sicuro, in pace col mondo.
D'altro
canto però era innegabilmente triste. Londra le aveva dato
l'opportunità di ricominciare, di realizzarsi, di scoprirsi
capace
di avere successo senza l'aiuto di nessuno, era stata una donna ricca
ed ammirata e no, non le importava perdere queste cose ma di certo le
sarebbero mancate le abitudini di quei tre anni, l'essere
completamente padrona di se stessa e della sua esistenza, il prendere
decisioni da sola e la vita in quella grande città. Le
sarebbero
mancati i suoi dipendenti della locanda, i suoi domestici, le
amicizie sincere, i Devrille e tutti coloro che, in un modo o
nell'altro, le erano stati vicini.
Lei
e Ross avevano deciso di tenere la grande villa in centro, sarebbe
stata la loro casa di città e ci avrebbero vissuto durante i
loro
ritorni a Londra. Ne aveva lasciato la gestione ai domestici, in modo
da non licenziare nessuno, e anche alla locanda aveva fatto
altrettanto, incaricando Leslie di sovraintendere a tutto quanto
fosse necessario per continuare a mandarla avanti con successo. Si
fidava dei suoi collaboratori, erano stati la sua certezza e il suo
punto fermo durante tutto il periodo londinese. Lei li avrebbe
osservati da lontano, avrebbe comunicato con loro via lettera e
sarebbe stata informata di ogni cosa. Sarebbe andata bene, ne era
certa!
E
poi c'erano i Devrille. Sapeva di aver arrecato un dolore a Martin,
Diane e agli altri fratelli del suo socio, andandosene, sapeva di
essere stata amata come una figlia e che per i suoi bambini erano
stati tutti quanti dei nonni premurosi. Ma era anche consapevole che
erano felici per lei, per quella famiglia ritrovata che aveva sempre
desiderato e ci avrebbe messo la mano sul fuoco, l'affetto fra loro
non sarebbe mai finito nemmeno a tante miglia di distanza. Martin
aveva subito detto che, per l'estate, avrebbe acquistato un cottage
in Cornovaglia e che vi avrebbe soggiornato nei mesi caldi, in modo
da poterla andare a trovare a suo piacimento. E lei avrebbe fatto
altrettanto ad ogni ritorno a Londra, per seguire i suoi affari.
Faceva ancora parte della società coi Devrille e aveva
garantito di
continuare a seguire le assemblee alla Warleggan Bank, ogni volta che
ce ne fosse stata necessità. E anche, dalla Cornovaglia, gli
altri
affari che l'avevano vista direttamente interessata. Avrebbero ancora
lavorato insieme, in modi e tempi diversi, ma non si sarebbero persi
di vista. Per quanto riguardava le azioni della Northern Bank, lei e
Martin erano giunti a un compromesso. Il suo socio si era commosso
quando gli aveva offerto in regalo l'intero pacchetto azionario per
ringraziarlo di quanto fatto per lei ed aveva gentilmente declinato
il dono.
"Demelza,
ciò che ti donai per la nascita di Clowance, non si avvicina
nemmeno
lontanamente al valore di quanto mi vuoi dare. Hai due figli da
crescere e benché tu ormai non abbia più problemi
di denaro, devi
pensare al loro futuro. Con quelle azioni puoi fare grandi cose per
te, per le persone che crederanno in quella banca, per i tuoi bambini
e per rendere il mondo futuro dove vivranno, un po' migliore. Non hai
debiti con me, non ne hai mai avuti. Tieni quelle azioni, sono tue,
tu per prima ci hai creduto e ora hai pieno diritto di usarle per
te".
Alla fine,
dopo le sue
insistenze e supportata da Ross, lei e Martin erano giunti a un
compromesso. Lui avrebbe accettato solo metà delle azioni,
come fece
Demelza quando nacque Clowance e lui gli donò
metà del pacchetto
finanziario di quanto aveva investito su suo suggerimento. Martin si
era impegnato a seguire personalmente i consigli di amministrazione
della Northern in modo da lasciarla libera e lei avrebbe
semplicemente goduto dei frutti del suo lavoro, senza dover lasciare
marito e figli.
Aveva
accettato quel
compromesso e ora si trovava sulla strada per la Cornovaglia, su una
carrozza, decisamente ricca e ancora indecisa su come investire quei
soldi.
I bambini
dormivano sulla
poltrona opposta a quella dove era seduta con Ross. Jeremy stava
rannicchiato sulla destra della carrozza mentre Clowance, di fianco a
lui, dormiva abbracciata a Garrick. Lei e Ross invece, in silenzio,
se ne stavano seduti uno accanto all'altra, pensierosi. Non erano
stati molto locuaci, da quando erano partiti non si erano scambiati
che qualche parola e se ne stavano semplicemente lì, vicini,
con lei
che gli poggiava dolcemente la testa alla spalla, lasciandolo libero
di accarezzarle i capelli con movimenti lenti e gentili.
"A cosa
stai pensando?"
- chiese improvvisamente Ross, forse stanco di quel silenzio. "Sai,
sei così silenziosa che ho quasi paura che tu ti sia pentita
della
scelta di tornare".
Demelza
sorrise a quelle
parole un po' preoccupate. "No, non sono pentita. Sto pensando a
tante cose ma non certo a questo! Sono felice di tornare a Nampara,
sono persino un po' emozionata".
"Di vedere
Jud e Prudie
che, a questo punto, mi avranno prosciugato la cantina dei vini?"
- disse Ross, divertito.
"Sì,
certo! Anche di
vedere Jud e Prudie". Erano anche loro come genitori, per lei. E
ritrovarli era una grande gioia, che mai avrebbe pensato di provare.
"E allora a
cosa pensi?".
Demelza
scosse la testa,
sospirando. "Penso a quando me ne sono andata su una carrozza
come questa, a com'ero a pezzi, spaventata, senza un soldo e con un
cane e un bambino a cui provvedere. E un'altra figlia in arrivo, che
mi procurava terribili dolori di stomaco".
Lo disse
con leggerezza, ma
avvertì il corpo di Ross irrigidirsi a quelle parole. "Mi
dispiace".
"E'
passata, Ross. Ora
non dobbiamo pensare al passato ma al nostro futuro". Si mise
dritta, abbandonando la posizione poggiata contro di lui. "Stavo
pensando al denaro della Northern, a come investirlo. Hai delle
idee?".
"E' denaro
tuo, non mio.
Puoi farne quel che vuoi".
Demelza gli
prese la mano,
stringendola. "Non esiste nulla che sia solo mio o tuo. E'
denaro NOSTRO! E dovremmo decidere insieme cosa farne, soprattutto
perché si tratta di tanti soldi".
Ross
sorrise. "E' così
strano pensare che non abbiamo problemi di denaro e che l'unico
nostro cruccio sia come spenderlo! Non ci è mai capitato".
"Vero".
Anche
Demelza rise, tornando ad appoggiarsi a lui. Guardò i
bambini che
dormivano, rendendosi conto di quanto la loro vita sarebbe cambiata,
del mondo in cui avrebbero vissuto e di come questo li avrebbe resi
migliori e più forti."Sai cosa potremmo fare?".
"Cosa?".
Alzò
lo sguardo su di lui,
colta da improvvisa ispirazione. "Costruire una scuola per i
figli dei tuoi minatori, accanto alla tua miniera. Questo farebbe la
differenza per loro, aprendogli più strade per il futuro".
Ross la
guardò, sorpreso da
quella proposta. "Credo sarebbe un'ottima idea! Cioè, io
odiavo
la scuola ma in effetti, per quei bambini, sarebbe la salvezza da una
vita fatta di lavoro duro e senza aspettative. Pensa a quante cose
potrebbero fare, se sapessero leggere e scrivere".
"Già!
E la potrebbero
frequentare anche Jeremy e Clowance! Onestamente non mi piaceva
troppo avere un precettore privato per nostro figlio, a Londra.
Voglio che cresca con gli altri bambini del posto, come hai fatto
tu".
Ross
sorrise. "Una
scuola...". La baciò sulla fronte, teneramente. "Ottima
idea, amore mio".
Demelza
guardò fuori dalla
finestra. Conosceva quei paesaggi, non mancava molto ormai. "Siamo
quasi arrivati".
Ross la
vide sbadigliare,
abbandonandosi contro di lui. "Sei stanca? Perché non provi
a
dormire un po', come i bambini?".
"Dormirò
stanotte!".
Ross scosse
la testa. "Non
credo...".
"Sei un
marito troppo
esigente". Mascherando un sorriso, Demelza gli baciò la
guancia
con affetto. "Sai, non avrei mai creduto che sarei tornata qui e
che i miei figli sarebbero cresciuti con il loro padre".
"Credi che
si
abitueranno?" - chiese Ross, guardando i due bimbi con una punta
di apprensione.
"La
Cornovaglia ce
l'hanno nel sangue, come me e te. Saranno felici qui".
Improvvisamente,
la carrozza
si fermò e il cocchiere sopraggiunse ad aprire il
portellino. "Siamo
arrivati, signori".
Demelza
sentì il cuore
balzargli nel petto. Erano a Nampara, a casa... Guardò Ross,
tremando lievemente, e lui le strinse la mano. "Andrà tutto
bene" – le sussurrò.
"Si". Ne
era certa,
niente avrebbe potuto rovinare quel momento, né George,
né
Elizabeth, né Trenwith e i tristi ricordi che risvegliava in
lei.
Scesero
dalla carrozza seguiti
da Garrick che, appena vide la sagoma di Nampara, corse come un pazzo
verso la casa, abbaiando. Ross sorrise. "Se la ricorda!".
"Già".
Demelza
guardò quella casa, la SUA vera casa, quella dove avrebbe
voluto
crescere i suoi figli, vederli farsi adulti, invecchiare e diventare
la custode dei suoi ricordi di una vita assieme a Ross. Gli
pizzicarono gli occhi dall'emozione. Non aveva nulla della sua villa
londinese, non si avvicinava nemmeno lontanamente allo sfarzo e al
lusso che si era lasciata indietro ma nessun posto avrebbe potuto
farla sentire al caldo e al sicuro come Nampara.
Improvvisamente,
al suono
dell'abbaiare di Garrick, la porta di casa si aprì con
violenza.
Prudie e Jud, borbottando, uscirono fuori. E appena li videro
lì,
insieme, davanti a loro, rimasero a lungo a bocca aperta senza
proferire parola.
"Giuda, la
signora... E
il signore..." - balbettò Prudie.
Jud, con
gli occhi fuori dalle
orbite, deglutì. "Il signore scoparso è vivo! E
ha trovato la
moglie... E essere sparito così, senza dire niente ai suoi
due servi
non è stato gentile, non è stato umano, non
è stato conveniente".
Demelza
sorrise, gustando
quell'atmosfera di casa fatta anche di quello, di quei due servi
scansafatiche che l'avevano vista crescere. Andò loro
incontro,
travolgendoli con un abbraccio. "Jud, Prudie..." - mormorò,
fra le lacrime.
"Signora,
signora!".
Prudie la strinse fra le braccia talmente forte che le sembrava di
essere bloccata fra due tenaglie. "Siete qui! Con lui, col
cane... Insieme. Ma cos'è successo?".
Ross si
avvicinò loro. "Beh,
Londra è stata piena di sorprese. Sono quasi morto, ma in
cambio ho
ritrovato la mia famiglia e l'ho riportata a casa".
"Santo
cielo!" -
sbottò Jud – "Eravate partito per pochi giorni e
siete
sparito per mesi. Vi credevamo morto, come in Virginia!".
Ross li
guardò storto. "Spero
che, per la disperazione, non abbiate affogato il vostro dolore nel
mio vino".
Prudie e
Jud, in difficoltà,
si guardarono negli occhi. "Signore, un goccetto per affogare i
dispiaceri, non si nega a nessuno".
Demelza
rise e Prudie ne
approfittò per riabbracciarla. "Siete tornata per restare,
questa volta?".
"Si".
"Ma come
è possibile?
Com'è successo che voi due...?".
Ross
sospirò, cingendo le
spalle di Demelza con un braccio. "Te lo racconteremo dopo.
Aiutateci a portare dentro i bagagli ora, siamo stanchi".
Jud si
guardò attorno. "Ma
il bambino? Non c'è?".
"E' nella
carrozza, sta
dormendo" – disse Demelza. "A lui penseremo noi. E anche
a sua sorella".
Jud e
Prudie si guardarono
nuovamente negli occhi. "Sorella?".
Demelza
annuì. "La
nostra bimba. E' nata a Londra pochi mesi dopo che mi ci ero
trasferita".
Il viso di
Prudie si illuminò.
"Due bambini a Nampara? Al posto di uno?".
"Già".
Ross tornò
alla carrozza, vi salì e con delicatezza prese i due bimbi
fra le
braccia. Poi tornò dai servi e dalla moglie.
Demelza
prese la piccola in
braccio, stringendola a se. "Vi presento Clowance Poldark".
Poi guardò il figlio che, stiracchiandosi, si stava
svegliando.
"Jeremy lo conoscete già".
"Santo
cielo, quanto è
cresciuto" – commentò Prudie, accarezzando i
capelli del
piccolo.
Jeremy si
svegliò, si
strofinò gli occhi e poi si guardò attorno.
"Siamo arrivati?".
"Signorino
Jeremy, certo
che sei arrivato!". Prudie, esaltata, lo rapì dalle braccia
del
padre, stringendolo a se e stritolandolo fra le sue braccia. "Ti
ricordi della vecchia e brava Prudie che ti faceva sempre giocare?".
Jeremy la
guardò, un po'
tramortito. Poi cercò conforto negli sguardi dei genitori.
"Non
mi ricordo tanto" – sussurrò, svincolandosi
dall'abbraccio di
Prudie. Poi corse da Ross, affondando il viso contro di lui.
"Papà?".
Lo riprese
in braccio,
stringendolo a se. "Tranquillo, vedrai che ti piacerà qui e
che
magari ti ricorderai qualcosa, pian piano, di quando eri piccolo".
Jeremy
annuì, poi si guardò
attorno con attenzione. "Ma questo è il nostro cortile?".
"Si".
"E io e
Clowance ci
possiamo giocare con gli animali? Vero che mi hai detto che ci sono
le galline e i vitellini?".
"Certo!
Dopo ti porto a
vederli".
Jeremy
sorrise, prima a lui e
poi alla madre e ai servi. "Mi piace qui, anche se non mi
ricordo".
Prudie
sorrise, poi si
avvicinò a Demelza, osservando il visino di Clowance. "E'
una
bambolina incantevole" – sussurrò, accarezzandole
i capelli.
La bimba, a
quel gesto, si
svegliò. Guardò la donna con aria guardinga, si
imbronciò e poi
nascose il viso nel collo della madre. "Non vollo che mi
tocchi".
Prudie
spalancò gli occhi e
Jud scoppiò a ridere. "Santo cielo, una Poldark fatta e
finita!
Bellissimo, sarà davvero bellissimo averla qui".
Demelza
rise, abbracciando la
sua bimba. "Lei morde, appena sveglia. Poi diventa più
simpatica però, se le passa la luna storta".
Prudie
scoppiò a ridere. Poi
aiutò Jud a portare in casa tutti i bagagli e insieme fecero
il
loro ingresso a Nampara.
...
Poche ore
dopo, finita la cena
e raccontato sommariamente quanto successo a Londra in quegli anni e
il modo rocambolesco in cui si erano rincontrati grazie a Caroline e
Dwight, Demelza se ne stava seduta al tavolo, in compagnia di Prudie.
Ross era al piano di sopra a sistemare i bauli e la camera dove
avrebbero dormito i bambini e Jeremy e Clowance, curiosi, lo avevano
seguito, non prima di averlo costretto a fargli vedere gli animali
nella stalla.
Prudie,
asciugando un grosso
pentolone, le sorrise. "Sono felice che tu sia qui. Questa casa
aveva perso la sua anima senza di te e senza Jeremy".
Demelza
annuì. "E forse
io avevo perso la mia, di anima, andandomene".
"Deve
essere stata dura
per te a Londra. E visto la vita che ti sei costruita lì,
dev'essere
stata dura tornare e dare una seconda possibilità al
signore".
Demelza
annuì. "Non c'è
stato niente di facile per noi. E se siamo qui ora, felici, lo
dobbiamo unicamente alle nostre teste dure. Non ci siamo arresi,
benché forse entrambi avremmo preferito farlo per non
rischiare di
farci male di nuovo".
Prudie le
poggiò
famigliarmente una mano sulla spalla. "Quando sei venuta qui un
anno e mezzo fa, credevo che quello fosse un addio. Sono felice che
la vita ti abbia riportato qui. E' questo il tuo posto ed è
qui che
dovranno crescere quei due bellissimi bambini".
"Sei stata
sorpresa di
vedere Clowance, scommetto".
Prudie
scosse la testa. "Non
molto, lo sospettavo. Un anno e mezzo fa, quando sei venuta qui, ti
sei tradita parlando di Ross. Avevi detto, prima di interromperti,
che era il padre dei tuoi figli. E avevo il sospetto che non ti
riferissi a Julia ma a qualcun altro, soprattutto dopo che mi sono
ricordata dei tuoi mal di stomaco prima di partire".
Al sentir
nominare il nome di
Julia, Demelza le prese le mani nelle sue. "Grazie per esserti
presa cura di lei".
"E' stato
un piacere".
Demelza
sospirò, poi si alzò
dalla sedia. "Credo che raggiungerò Ross e i bambini in
camera.
E' tardi e dobbiamo metterli a letto".
"Buona
notte, Demelza".
"Buona
notte, Prudie".
Salì
in camera dove Ross,
travolto dall'eccitazione dei bimbi, cercava di evitare che si
spaccassero qualche osso saltando sul loro letto. Appena la videro, i
bimbi le corsero incontro in camicia da notte. "Mamma, sei
arrivata!".
"Certo! E'
ora di
dormire, vi porto nella vostra camera".
"Ma
così presto?" -
si lamentò Jeremy.
Demelza
sospirò. Erano troppo
emozionati per addormentarsi, sarebbe stata una serata lunga quella.
Si guardò attorno, Ross aveva sistemato ogni cosa e essere
lì,
nella sua stanza da letto con lui e coi bambini, dopo tanto tempo, la
emozionava enormemente. Voleva abbracciare tutti e tre, fondersi con
loro e fare in modo che quel momento durasse per sempre. Era sempre
stato il suo sogno tornare lì, avere l'amore completo di
Ross e
tornare ad essere una famiglia con lui e coi loro figli.
Ross le si
avvicinò, la prese
per mano e, percependone i pensieri, la strinse a se. "Bentornata".
Si
sedettero tutti e quattro
sul letto, facendo giocare i bambini e raccontando loro qualche
favola della Cornovaglia. Poi a Ross venne in mente una cosa... Si
alzò, aprì il cassetto del comodino e, dopo aver
preso qualcosa,
tornò da loro. "Guarda cos'ho qui, Clowance" –
disse
alla figlia.
Demelza
spalancò gli occhi.
Ross le aveva raccontato del loro primo incontro e del 'gentile dono'
che gli aveva fatto la figlia, ma la stupiva il fatto che Ross avesse
conservato quel nastrino quando allora, per lui, Clowance non era che
una bimba sconosciuta. "L'hai tenuto?" - mormorò,
osservando il nastro fra le mani del marito.
Clowance si
imbronciò subito,
guardando storto il padre. "Non lo vollo!" - disse, decisa.
Poi però ci pensò su un attimo, la sua
espressione si fece furba e
prese il nastro. "Papà, è tuo! Adesso te lo
metto" –
disse, alzandosi in piedi ed avvicinandosi pericolosamente ai capelli
di Ross che, capendo le sue intenzioni, mentre Demelza e Jeremy
ridevano divertiti, si scostò bruscamente da lei.
"Il
nastrino fra i miei
capelli, no!".
"Ma io
vollo mettettelo!"
- disse la bimba, con aria di sfida.
Demelza,
ridendo, prese la
bimba fra le braccia. "Si sta vendicando di te per aver tirato
fuori quell'odiato nastro, Ross! Fossi in te, lo rimetterei dove
l'hai preso, lei non si arrenderà".
Mascherando
un sorriso, Ross
le diede retta. Poi tornò da loro, prendendo entrambi i
bambini in
braccio prima che a Clowance venisse qualche altra strana idea. "Ora
su, a nanna! E' davvero tardi".
"Ma..."
Jeremy fece
per protestare ma questa volta ci fu poco da fare. Demelza e Ross li
portarono nella loro camera dove avevano rimediato due lettini di
fortuna per la notte, li misero sotto le coperte e poi, dopo averli
coccolati un po', li lasciarono con la promessa che il giorno dopo
avrebbero esplorato i prati e i boschi circostanti e li avrebbero
portati a vedere la miniera.
Ross prese
Demelza per mano,
una volta che furono addormentati. Ma contrariamente alle aspettative
della donna, non la portò in camera da letto ma al piano di
sotto.
Era ormai tardi, Nampara era avvolta dal silenzio e anche Jud e
Prudie dormivano. "Cosa vuoi fare?" - chiese Demelza.
Ross le
strizzò l'occhio.
"Prendiamo il cavallo e usciamo noi due, da soli".
"E i
bambini?".
"Dormono e
ci sono Jud e
Prudie in casa, tranquilla".
Demelza,
accigliata, lo seguì
nelle stalle. Accarezzò il cavallo di Ross, quel
meraviglioso
stallone su cui spesso, anni prima, avevano cavalcato insieme. Poi,
con gesti famigliari, capendosi all'istante, montarono in groppa.
Prese le redini, mentre Ross le stringeva la vita. "Dove vuoi
andare?" - chiese, al marito.
"Alla Wheal
Grace".
Spalancò
gli occhi, sorpresa.
"A quest'ora?".
"Si".
Non chiese
nulla, forse
desiderosa come Ross di tornare in quel posto. Galopparono da soli,
nel silenzio e nella fredda notte della Cornovaglia, col viso
sferzato da quel vento secco e gelido che tanto gli era mancato,
provando sulla sua pelle una sensazione di liberà che non
sentiva da
tanto. Era su un cavallo, fra le braccia di Ross. Ed era la donna
più
felice del mondo per questo. Portò il cavallo su sentieri
che mai
aveva scordato e che conosceva a memoria, riappropriandosi di quei
luoghi, di quei profumi e delle sensazioni che risvegliavano in lei.
Quando
giunsero davanti alla
Wheal Grace, Ross la aiutò a scendere da cavallo.
"Guardala...
Ricordi quando ci abbiamo lottato, per farla funzionare? Ricordi
quanti sacrifici abbiamo fatto, quanti errori, quanto dolore abbiamo
patito per questo posto?".
Demelza
annuì, ricordando
quel periodo, la mancanza cronica di soldi, la pressione di George e
il sacrificio di Francis. "Lo ricordo! Ma ora questo posto
rappresenta la vita per i tuoi minatori ed è il tuo
successo, Ross"
– disse, prendendogli la mano.
"Il nostro
successo,
Demelza. Ricordi? Non c'è nulla di mio o tuo ma solo nostro.
Se
questa miniera ha ripreso a funzionare, è stato anche grazie
a te e
a come mi sei stata vicina".
Demelza gli
sorrise, lo
abbracciò e rimasero in silenzio, da soli, cullati
unicamente dal
rumore del vento. "Sono contenta di essere venuta qui adesso,
con te".
"Anche io,
ne avevo
bisogno". Ross la abbracciò, affondando il viso fra i suoi
capelli. "Questo posto era il nostro sogno".
"E ora il
sogno si è
avverato" – rispose lei, prima di dargli un lungo e dolce
bacio sulle labbra.
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Capitolo 32 *** Capitolo trentadue ***
Con
la scusa che era il capo e poteva permettersi di non andare a
lavorare e nonostante lei gli avesse ricordato che erano mesi che non
lo vedevano in miniera, Ross era rimasto a casa per un'intera
settimana, dopo il loro ritorno da Londra.
Gli
faceva piacere vedere quanta premura ed attenzioni avesse Ross nei
loro confronti, come si prodigasse per aiutare i bambini ad abituarsi
a quella casa e alle nuove abitudini, adorava come le stesse vicino e
fosse dolce e affettuoso, attento prima a lei che a se stesso. Era
strano, bello essere il suo primo pensiero, dopo che per tanto si era
sentita l'ultima della lista, quella che veniva dopo Elizabeth e
Geoffrey Charles o i minatori della Wheal Grace. E comunque,
nonostante gli ricordasse costantemente che aveva una miniera da
mandare avanti, gli era grata per essergli rimasto accanto, aveva
bisogno di lui, di scoprirsi e riscoprirsi famiglia a Nampara, di
riappropriarsi, insieme a lui e ai bambini, di abitudini vecchie ma
allo stesso tempo nuove.
Jeremy
e Clowance si erano abituati subito alla vita di Nampara. Suo figlio
scorazzava tutto il giorno in cortile, dietro a Prudie, attratto
dalla vita all'aperto, dagli animali nella stalla, dalle corse dei
prati e divertito dai modi di fare poco ortodossi della domestica.
Pian piano, in lui, erano riaffiorati ricordi lontani di Prudie,
così
come l'affetto per lei. La cercava sempre, per giocare o per proporsi
come suo aiutante nelle faccende di casa. Alla partenza da Londra,
lei e Ross avevano stabilito che lui e Clowance portassero con loro
solo tre giochi a testa fra quelli che preferivano ma a Nampara i
giocattoli erano rimasti dimenticati nella stanza e nessuno dei due
bambini li aveva usati, attirati più dalla vita all'aperto
che da
attività da fare al chiuso.
Clowance
era più restìa invece, ad avvicinarsi a Jud e
Prudie. Era nata a
Londra ed era abituata a ben altri tipi di abitudini e domestici e
faticava a conciliare la sua vivacità di bambina con il suo
carattere un po' aristocratico e raffinato che aveva sviluppato nella
capitale. Stava sempre attaccata a lei o a Ross e tendeva a scappare
se Prudie provava a prenderla in braccio. La domestica ne era
divertita, la piccola altamente infastidita. Ross la chiamava
'principessa' e in effetti, come aveva predetto Caroline alla sua
nascita, Clowance era davvero una piccola lady.
Il
mattino dell'ottavo giorno dal loro ritorno, finalmente ma di
controvoglia, Ross tornò alla miniera. Jeremy aveva
insistito per
andare con lui ed era talmente eccitato di vedere per la prima volta
dove lavorava il padre che, senza fare storie, si era alzato all'alba
con lui.
Demelza
era rimasta a letto con la piccola Clowance che, dopo che Jeremy si
era svegliato, l'aveva raggiunta e si era rannicchiata sotto le
coperte con lei. Diede un bacio al figlio, sicura che si sarebbe
divertito tantissimo con Ross e poi, a sua volta, si fece baciare dal
marito. "Stai attento a Jeremy! Non vorrei si cacciasse nei
guai".
Ross,
accarezzandole i capelli, l'aveva stretta a se. "Tranquilla, lo
terrò con me in ufficio e gli farò vedere cose
non pericolose e
sempre in mia presenza. Tu che farai, verrai a trovarci con Clowance,
oggi?".
Annuì,
anche se questa era una cosa che la metteva in imbarazzo. Era stata
separata da Ross per tre anni e sicuramente, vedendola, sarebbe stata
sulla bocca di tutti i minatori. Odiava essere al centro
dell'attenzione e tutti i pettegolezzi che ne sarebbero derivati su
lei e Ross. Questo suo stato d'animo, però, la faceva
sorridere. Si
sentiva così simile alla se stessa appena sposata, che si
vergognava
a farsi vedere alla miniera per paura che le persone pensassero che
una semplice sguattera si desse delle arie... In fondo, nonostante
tutto, non era cambiata molto da allora...
Ma
ci sarebbe andata in giornata, comunque. Ross ci teneva ed era un suo
dovere far parte della vita di suo marito. Una sera, quando ancora
erano a Londra, lui le aveva confidato che i momenti peggiori, quando
erano separati, erano alla miniera a cavallo del mezzogiorno quando
le mogli e i figli dei minatori venivano a portare cibo e compagnia
ai loro cari e lui si trovava lì ad osservare famiglie unite
e
felici, ricordandosi di quanto fosse solo e di cosa avesse perso. Non
voleva che Ross si sentisse ancora così, sapeva quanto
dolore si
provasse a sentirsi soli e odiava il fatto che lui si fosse sentito
così male per così tanto tempo.
Quando
Ross se ne fu andato, si rintanò sotto le coperte con la
piccola
Clowance che, in vena di essere coccolata, non disdegnava di essere
accarezzata ed abbracciata. Questi erano i momenti in cui apprezzava
di più la maternità, quei brevi istanti sola coi
suoi figli, a
giocare con loro, a godersi sorrisi, abbracci e parole ancora
stentate di chi la guardava e la prendeva come modello per diventare
grande. Jeremy ormai era cresciuto per questo genere di cose, ma
Clowance era nell'età perfetta per goderne. "Oggi pomeriggio
andiamo a prendere papà e Jeremy alla miniera,
così la vedrai da
vicino" – le disse, facendole il solletico sul pancino.
"La
minera?".
"Certo!
Faremo una passeggiata sulla spiaggia e poi ci andremo".
Benché
fredda, era una giornata serena, l'ideale per godere di una camminata
sulla sabbia, solo loro due. Clowance aveva visto il mare unicamente
da lontano e ne sarebbe rimasta affascinata.
Rimasero
a letto a poltrire fino alla mattina tardi e poi, dopo essersi
vestite e aver accudito i vitellini nella stalla, pranzarono insieme
a Prudie e Jud.
Clowance
li guardava come si guardano delle strane e sconosciute creature. Era
perplessa dai loro servitori e non poteva darle torto, erano
così
diversi da quelli di Londra, sempre ben vestiti, pettinati, riverenti
e a modo.
Prudie
osservò la bimba, facendole la linguaccia. "Quei vestitini
di
pizzo dureranno poco qui" – sbottò.
Clowance
si imbronciò. "Sono miei!".
Demelza
rise. "Prudie, sono i suoi vestiti e non abbiamo nulla di
più
modesto per ora. E poi dubito che li rovinerebbe, è
attentissima a
non sporcarsi e a non romperli. A Londra abbiamo lasciato
un'infinità
di vestitini di Clowance, se questi si rompessero, ce li faremo
portare".
"Oggi
pomeriggio che farai, Demelza?" - chiese Prudie. "Andrai
alla miniera?".
"Si!
Voi, per favore, non allontanatevi da qui. Come vi abbiamo detto ieri
sera, arriveranno da Londra i pony dei bambini e i miei purosangue".
Il corriere con gli animali sarebbe arrivato nel pomeriggio, finendo
col riempire del tutto la stalla di Nampara. Ross le aveva detto che
intendeva ristrutturare tutta la tenuta, stalla compresa, visto che
la famiglia era cresciuta. Le pareva strano pensare a una Nampara
più
nuova e rimodernata, adorava quel posto così com'era ma in
effetti
coi bambini si stava un po' stretti. E coi nuovi arrivi, sarebbero
stati stretti anche gli animali.
Finito
di mangiare, prese Clowance fra le braccia. "E allora, si va da
papà?".
"Sì!".
Uscirono
nel pallido sole del primo pomeriggio. Demelza prese per mano la
figlia che, attenta, osservava tutto quello che la circondava. Quando
raggiunsero la spiaggia, costeggiarono la riva, ammirando lo
spettacolo di quelle onde mai uguali l'una all'altra che si
infrangevano sulla battigia.
"Pecché
è più grandissimo del Tamigi?".
"Perché
questo è il mare, il Tamigi è un fiume. Ti
piace?".
"Sì".
"Ti
piace vivere qui?".
"Sì".
"Ti
piacciono anche Jud e Prudie?".
La
bimba rimase un attimo in silenzio. "Vollo pensalci!".
Demelza
scoppiò a ridere, inginocchiandosi davanti a lei. La prese
fra le
braccia e si sedette sulla sabbia, con la sua bimba sulle ginocchia.
"Preferisci stare qui o a Londra?".
"Qui
pecché tu ci sei semple e c'è anche il
papà! Plima eri via tanto".
Sentì
una fitta allo stomaco a quelle parole, sicuramente sincere. Si era
sempre sentita in colpa a Londra, verso i suoi figli, per il tempo
che passava lontana da loro a causa del suo lavoro. Jeremy e Clowance
erano sempre stati circondati da persone che li adoravano ma
evidentemente, come tutti i bambini, desideravano solo la loro mamma.
"Ora starò con te molto di più, sai? E anche
papà. Ogni tanto
viaggerò e dovrò stare lontana ma sarà
per poco tempo e succederà
raramente".
Clowance
annuì. "Va bene. Però vollo stare col
papà quando tu via! No
con quelli due blutti a casa".
La
baciò sulla guancia. "Vedrai che imparerai a voler bene a
Jud e
Prudie. Loro te ne vogliono, sai?".
Clowance
non sembrava troppo convinta e sicuramente i due servitori di Nampara
erano molto inferiori agli standard a cui era abituata. Ma si fece
andar bene le rassicurazioni della madre tanto che, chiuso
quell'argomento, la sua attenzione si spostò a qualcosa di
rosato
sulla sabbia. Allungò la manina, prendendo l'oggetto che la
incusiosiva. "Cos'è?".
Demelza
sorrise. "E' una conchiglia. Ce ne sono tante qui". Gliela
prese di mano, mettendogliela vicino all'orecchio. "Viene dal
mare ed è un po' magica, se te la tieni vicino, sentirai il
rumore
delle onde".
Clowance
osservò il suo piccolo tesoro nelle mani della madre.
"Tintiglia...".
"Conchiglia"
– la corresse Demelza, divertita.
Clowance
la riprese fra le mani. "Bella! La vollo portare al papà".
"Gliela
vuoi regalare?".
"Si".
Si
rialzarono dalla sabbia e a piccoli passi, tranquillamente,
raggiunsero la Wheal Grace.
Quando
incrociarono i primi minatori, Demelza si irrigidì. Ma
nessuno le
chiese nulla o fece commenti, tutti si limitarono a salutarla come se
non si vedessero che dal giorno prima, con dei gran sorrisi stampati
sul viso. Erano gli uomini di Ross quelli, a suo marito dovevano
tutto e poteva leggere nei loro volti tanta gratitudine e affetto nei
loro confronti, non certo curiosità o voglia di fare
pettegolezzi.
Anche il capitano Henshawe la accolse calorosamente, senza chiederle
nulla, facendo finta che quei tre anni non fossero mai trascorsi. E
di questo gliene fu grata, anche se sospettava che Ross gli avesse
comunque già raccontato ogni cosa e intimato di non fare
domande
troppo imbarazzanti.
Strinse
la manina di Clowance e andò nella miniera, in quello che
era il
piccolo ufficio di Ross. Erano più di tre anni che non vi si
recava,
dal giorno del crollo. Ricordava quella giornata maledetta, iniziata
male e finita ancor peggio con Ross che, fuori di se, correva da
Elizabeth nel cuore della notte, rischiando di distruggere per sempre
il loro matrimonio. Quanta acqua era passata sotto i ponti, da
allora, quando dolore, quanta sofferenza e quanta strada avevano
fatto per rinascere e ritrovarsi come coppia, lei e Ross... Sembrava
ancora quasi incredibile che ci fossero riusciti.
Persa
in quei pensieri ancora dolorosi raggiunse Ross che, assorto, stava
seduto alla sua scrivania a compilare dei registri.
Appena
la vide, gli sorrise. "Sei venuta davvero, alla fine!".
"Credevi
che non l'avrei fatto?".
"Credevo
che ti sentissi ancora in imbarazzo per farlo".
Clowance,
incurante dei loro discorsi, corse fra le braccia del padre che, con
gli occhi che brillavano, la prese sulle sue ginocchia,
abbracciandola e baciandola sulla testolina rossa. "Cos'hai
fatto oggi, principessa?".
"Ho
vitto il mare! E' grande, lo sai?".
Ross
sorrise. "Lo so".
Demelza
si avvicinò loro, appoggiando la mano alla spalla di
Clowance.
"Nostra figlia ha un regalo per te".
Ross
guardò la bimba, incuriosito. "Davvero?".
Clowance
annuì. "Si guadda, una tintiglia" –
esclamò fiera,
mettendo la conchiglia sulla scrivania.
Lo
sguardo di Ross si addolcì, mentre stringeva a se la
bambina. E a Demelza, ricordando quanto lui gli aveva detto e di come
si fosse
sentito solo in, negli anni, in quel posto, venne semplicemente
voglia di abbracciarlo. Lo conosceva bene, sapeva leggergli nel
pensiero meglio di chiunque altro e poteva ben immaginare quanto in
quel momento fosse felice, commosso ed emozionato dall'averle
lì con
lui. Andrò dietro la sedia, gli cinse la schiena con le
braccia e
appoggiò il viso contro il suo collo.
Ross
non disse nulla, si limitò ad accarezzarle la mano,
rimanendo in
silenzio per lunghi istanti, godendo di quel contatto, di quel legame
di nuovo forte, di quel calore che solo lei poteva dargli.
Fu
Clowance a spezzare quell'attimo magico. "Ti piace la
tintiglia?".
Ross
annuì, prendendo la conchiglia e mettendosela davanti, sulla
scrivania. "Tantissimo! Anzi, sai che faccio? Da oggi in poi la
terrò qui con me e sarà il mio portafortuna".
Gli
occhi di Clowance brillarono. "Siii". Si sporse verso di
lui, appoggiò la fronte contro quella del padre e sorrise.
"Tanta
fottuna".
"Speriamo,
anche perché ne avremo bisogno!" - esclamò Ross,
prendendo una
busta bianca che riposava a lato dei registri. La porse a Demelza,
strizzandole l'occhio. "Questa è per te. Me l'ha portata
oggi
un messo di Pascoe".
Demelza,
senza sciogliere l'abbraccio al marito, osservò incuriosita
la
busta. "Cos'è?".
"Il
tuo progetto per la scuola, con costi e dati tecnici per costruirla.
Ho scritto a Pascoe chiedendogli di farti un preventivo e di inviarti
qualche idea per realizzarla e credo che questa sia la sua risposta".
Demelza,
eccitata, sorrise. "Che dice? Che c'è scritto?".
Ross
sospirò. "Non l'ho aperta! Anche se insisti che è
una cosa
NOSTRA, in realtà il denaro è tuo e credo sia
giusto che la apra
tu".
Demelza
rise, dandogli scherzosamente un leggero pugno sulla testa.
"Clowance, il tuo papà è più testardo
di un mulo!" -
esclamò, baciandolo sul collo. "Potevi aprirla e darci un
occhio, poi l'avremmo guardata insieme questa sera a casa". Era
strano, bello fare progetti con lui, sapere che davanti a loro
avevano l'infinito, un numero di strade da percorrere inimmaginabile.
Ross
scosse la testa. "E allora la apriremo stasera se ti fa piacere,
appena messi a letto i bambini. Comunque ne ho parlato ai minatori e
la cosa ha entusiasmato quasi tutti. Sono felici di
quest'opportunità
che daremo ai loro figli e credo che vedremo arrivare anche qualche
bambino figlio di minatori che lavorano in altre miniere
concorrenti".
"Dovremo
ampliare il progetto, allora!" - esclamò Demelza.
"Questo
costerà molti soldi".
Lei
sorrise, tornando ad abbracciarlo. "A Londra concludevo
unicamente affari dove giravano molti soldi. Sono brava in questo!".
"Lo
so!".
In
quel momento, come una piccola furia, Jeremy comparve nello studio.
Era completamente spettinato, sudato e pieno di polvere, col fiato
corto e le guance arrossate per la corsa.
Demelza
lo guardò, spalancando gli occhi. Dov'era finito il suo
pulitissimo,
perfetto bambino? "Jeremy? Dov'eri?".
"A
giocare con gli altri bambini! I loro papà lavorano per il
mio papà!
Sai che sono simpatici? Abbiamo inseguito i conigli, scavato delle
buche e cercato le lucertole. E papà ci ha fatto vedere un
tunnel,
stamattina!" - disse, eccitato.
Clowance
lo guardò storto, male, rannicchiandosi ancora di
più fra le
braccia di Ross. "Sei spocco!".
Jeremy
scoppiò a ridere. "Si, è vero! E adesso ti
abbraccio" –
rispose, con una nota maligna nel tono di voce.
A
quella 'minaccia', Clowance spalancò gli occhi inorridita.
"NOOOOOOOOO! Papà, non vollo! Mandalo via a lavassi!".
Ross
e Demelza si guardarono negli occhi, scoppiando a ridere. "Tranquilla
tesoro, ti difendo io!" - disse Ross, divertito come forse non
gli capitava da anni.
Clowance,
seria, guardò il fratello. "Devi fare il bagno! Ti pottiamo
al
mare e ti buttiamo dentlo".
Jeremy
le fece la linguaccia. "Ora ti abbraccio davvero, così ti
sporchi anche tu e buttiamo in acqua anche te".
"PAPAAAAAA'".
Demelza
la prese in braccio, mettendola a distanza di sicurezza dal fratello.
"Jeremy, non farla urlare, siamo in una miniera e tua sorella
potrebbe diventare più espolsiva di un carica di dinamite!
Non si
deve urlare nei tunnel o crolla tutto!".
"Mamma
ha ragione!" - disse Ross, alzandosi dalla sedia ed
avvicinandosi al figlio. Lo prese in braccio, incurante di quanto
fosse sporco. "Su, andiamo a casa, ci faremo il bagno nella
nostra vasca, tranquillo! E poi dopo cena, io e mamma guarderemo le
carte per costruirti la scuola che frequenterai".
"Niente
più istitutore?".
Ross
gli sorrise, scompigliandogli i capelli. "No, basta! Studierai
con gli altri bambini".
"Bello!".
Presero
i figli e, dopo aver salutato gli altri, insieme, si diressero verso
Nampara. Si sentivano entrambi più leggeri, sereni. Erano al
loro
posto ora e quella era la vita che avevano sempre sognato insieme. Il
tramonto incombeva sulla spiaggia e il mare, baciato dal sole che
calava, si tingeva sempre più di rosso. Demelza lo
guardò, pensando
che a Londra non aveva mai visto nulla di tanto bello.
...
Elizabeth
se ne stava nel salone, a suonare l'arpa. Suo figlio, il piccolo
Valentin, di controvoglia la ascoltava seduto sul sofà,
evidentemente annoiato.
La
donna lo osservò con una nota di preoccupazione, cosa che
gli
capitava di fare spesso, per tanti motivi, fin dal giorno in cui
l'aveva messo al mondo. Valentin, dai capelli neri e ricci, era un
bambino malaticcio, emaciato e debole, affetto da una forma di
rachitismo che George mal tollerava e accettava. Aveva ormai due anni
e ancora faticava a camminare per lunghi tratti, si stancava subito e
aveva sempre uno sguardo strano e sperso. Spesso ricordava le parole
della vecchia Agatha, dette il giorno della sua nascita.
"E'
cattivo presagio, è nato sotto la luna nera".
Rabbrividì,
ripensandoci. Il suo matrimonio con George era di facciata perfetto
ma dentro quella casa, Trenwith, era come vivere prigionieri delle
sue regole e delle sue lune. George aveva fatto allontanare suo
figlio maggiore che ora, da quasi due anni, studiava a Londra. E
guardava in cagnesco il figlio più piccolo, riflettendo sul
significato di quei riccioli neri che non appartenevano né a
lei né
a lui.
Elizabeth
era turbata, preoccupata per il futuro di Valentin e viveva col
pressante sospetto che, nonostante il cognome Warleggan, il suo
bambino non appartenesse affatto a quella famiglia e che fosse il
frutto di quella notte folle di tre anni prima con Ross. Aveva paura
anche solo ad ammetterlo a se stessa ma Valentin aveva decisamente i
tratti dei Poldark e non certo dei Warleggan. E questo lo aveva
notato anche George, benché lei avesse sempre negato che
fosse
successo qualcosa col suo primo amore.
Dalla
sera prima del matrimonio, non aveva più rivisto Ross. Non
sapeva
più nulla di lui, eccetto che Demelza se n'era andata di
casa col
figlio.
Improvvisamente
la porta si aprì e George entrò nel salone,
adirato. Si tolse i
guanti, li buttò sul tavolino e si sedette sul divano
accanto a
Valentin che, turbato, lo guardava in silenzio. "La piccola
strega è tornata! Pure qui dovrò sopportarla,
ora!".
Elizabeth
lo guardò, senza capire. "Di chi parli?".
"Della
tua ex cugina, la moglie di Ross. Non mi bastava doverla avere nel
consiglio d'amministrazione della Warleggan, mi ci mancava che
tornasse qui e con quel suo dannatissimo marito si mettesse a fare la
samaritana per i figli dei minatori. La scuola vogliono costruire,
quei due... E chi farà la figura del cattivo, in
virtù di ciò? E
chi è che i minatori ameranno e osanneranno ancora di
più?".
Elizabeth
lo guardava con gli occhi spalancati, senza capire. Demelza era
tornata ed era con Ross? E cosa c'entrava la Warleggan? Per anni non
aveva saputo nulla di lei e aveva vissuto la sua partenza con
sentimenti ambivalenti: contentezza di non saperla più con
Ross e
soddisfazione nel saperlo solo a soffrire e allo stesso tempo sensi
di colpa per aver distrutto la famiglia di colei che aveva salvato
suo figlio anni prima. "Non riesco a capire, George" –
disse, cercando di mantenere un certo contegno e di apparire distante
dalle faccende dei Poldark.
"Quella
dannata intrigante si era trasferita a Londra e ha fatto fior di
soldi entrando nell'alta finanza. Devo ammetterlo, con gli affari
è
più scaltra e capace del marito! E' riuscita ad accedere al
consiglio d'amministrazione della Warleggan e aveva talmente tante
azioni da poter manovrare le mie decisioni. Ora è tornata
con Ross,
lei e i marmocchi son di nuovo a Nampara e con tutti i soldi che si
è
portata con se, mi creeranno problemi a non finire, quei due! La
odio!".
"Marmocchi?
Ne hanno solo uno".
George
scosse la testa. "Ne hanno due, lei ha partorito una piccola
Poldark a Londra, la degna figlioletta di Ross e di quella dannata
sguattera. Due bambini selvaggi".
Elizabeth
lo vide picchiare con violenza il pugno sul tavolo. Tentò di
rimanere fredda ed impassibile ma quella sfilza di notizie appena
ricevute la stava facendo andare in confusione. "Mi dispiace ma
sono sicura che ne uscirai sempre vincitore" –
balbettò.
George
la squadrò freddamente. "Oh, lo speri? O parteggi ancora,
magari segretamente, per Ross? Si dice che siate stati intimi, voi
due...".
"Cosa
dici? Io sono sempre stata solo tua, da quando è morto
Francis".
George
fissò il piccolo Valentin che, sempre in silenzio e
spaventato dalla
rabbia del padre, se ne stava rannicchiato sul sofà. "Sei
sempre stata mia? E allora perché questo bambino ha i
capelli sempre
più neri e ricci?" - chiese, prima di alzarsi e allontanarsi
dalla stanza, senza attendere una risposta.
Sbatté
la porta dietro di se ed Elizabeth ripiombò nelle sue paure
e nella
sua solitudine.
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Capitolo 33 *** Capitolo trentatre ***
Era
arrivato giugno e con esso, la data del matrimonio fra Caroline e
Dwight.
Ross,
assieme a Demelza e ai bambini, era tornato a Londra dieci giorni
prima del fatidico sì, per permettere a sua moglie di
sbrigare
alcune pratiche finanziarie che la vedevano occupata nella capitale.
I
bambini, in quei mesi in Cornovaglia, erano cresciuti parecchio,
tanto che i domestici londinesi avevano fatto fatica a riconoscerli.
Jeremy, abbronzato e irrobustito dai lunghi pomeriggi passati a
giocare all'aperto, era diventato un bambino forte, vivace e che
sprizzava energia da ogni poro. Abituato a star fuori tutto il
giorno, si era praticamente stabilito nel giardino della villa,
rientrando solo all'ora di cena e all'ora di andare a letto. Giocava
con Garrick o con qualunque cosa trovasse di interessante fra l'erba,
dimenticando tutti i giochi che aveva in casa e questo a Ross faceva
piacere. Era tanto simile a lui quando era piccolo, pensava mentre lo
osservava...
Clowance
invece si era riabituata subito alla casa di Londra, benché
ormai
anche lei si fosse affezionata a Nampara e alle piccole abitudini che
si erano presi lui e lei. Adorava quando, al ritorno dalla miniera,
la metteva sul suo pony e la portava a passeggiare attorno alla
tenuta e le piaceva anche accarezzare gli animali nella stalla e
prendersene cura con Demelza. La sua bambina era cresciuta molto in
quegli ultimi mesi e diventava sempre più bella ad ogni
giorno che
passava. Ricordava il loro primo incontro, quasi un anno prima, quel
visino tondo e quei boccoli rossi che le arrivavano a malapena alle
spalle che lo avevano fatto innamorare, in un momento della sua vita
in cui si trovava solo e alla deriva. Ora i suoi capelli erano
lunghi, le arrivavano quasi alla vita, erano morbidi e lucenti, pieni
di boccoli come quelli di sua madre. Ancora mal tollerava Jud e
Prudie e in questo era simile a lui che invece non sopportava la
servitù di Londra. La capiva, ecco!
Ross
si guardò allo specchio, cercando di fare un fiocco alla sua
camicia, borbottando e chiedendosi perché la gente adorasse
vestirsi
in maniera tanto pomposa ai matrimoni. Jeremy, al suo fianco, aveva
lo stesso problema.
"Papà,
ma se ci mettiamo una camicia normale?" - chiese il bambino.
Ross
alzò gli occhi al cielo. "Prova a proporlo a tua madre e
senti
che ti risponde!".
"Ross!".
Il tono di voce da rimprovero li raggiunse subito. Demelza, davanti
allo specchio e ancora in sottoveste, stava finendo di sistemare la
piccola Clowance prima di vestirsi e a prima vista era quella
più in
ritardo sulla tabella di marcia, anche se lui sospettava che alla
fine avrebbe finito di sistemarsi prima di tutti loro. Demelza gli si
avvicinò, fronteggiandolo. "Siete due disastri" –
mormorò divertita, sistemandogli il colletto della camicia e
il
fiocco. Poi si chinò, facendo altrettanto con Jeremy. "Lo so
che odiate questi vestiti, ma per oggi dovrete sopportare".
"Perché?"
- si lamentò Jeremy. "Mica li devo portare io gli anelli
agli
sposi, lo deve fare Clowance e quindi è più
giusto che sia lei
quella elegante".
"Jeremy!".
"Ma
mamma...".
Clowance
si avvicinò loro, imbronciata. E come al solito Ross rimase
imbambolato a guardarla. Non c'erano dubbi, sua figlia sapeva
ammaliarlo come un incantatore di serpenti, era talmente bella,
adorabile e testarda che si chiedeva ormai sempre più spesso
se al
mondo fosse mai esistita una bimba meravigliosa quanto lei. A dire il
vero era molto simile a Demelza, si somigliavano moltissimo e questo
lo riempiva d'orgoglio e della consapevolezza di avere accanto due
fra le più belle donne d'Inghilterra.
Clowance
era bellissima, vestita di un abitino di pizzo rosa, scarpine del
medesimo colore e guantini bianchi alle mani. E per ovviare al fatto
che odiasse avere nastri nei capelli, Demelza aveva rimediato
facendole una lunga treccia che la rendeva ancor più simile
a una
bambolina.
"Ma
li devo poltale per fozza gli anelli?" - chiese, un po'
titubante.
Demelza,
finito di sistemare marito e figlio, la prese in braccio. "Certo,
ricordi quanto ti sei esercitata per farlo?".
Clowance
abbassò lo sguardo. "Si ma non lo so se vollo pottarli".
Ross
la prese dalle braccia della madre. "Sono sicuro che sarai
bravissima. E ora lasciamo libera la mamma, deve ancora vestirsi.
Vedi com'è lenta?".
Demelza
lo guardò storto, prima di dargli un buffetto sulla guancia.
"Spiritoso! Come potrei essere pronta, visto che ho dovuto
vestire pure te, oltre ai bambini?".
"Sbrigati!"
- rispose lui, a tono e divertito.
Mezz'ora
dopo, era pronta anche Demelza. Come Clowance, indossava un
meraviglioso abito di color rosa pallido, di seta, legato in vita da
un nastro che le faceva risaltare la figura snella, smanicato e con
una leggera scollatura sulla schiena. Si era agghindata i capelli
come la figlia, facendosi una lunga treccia che, assieme a un leggero
trucco sul viso, la rendeva bellissima ai suoi occhi. Ogni volta che
la guardava si sentiva innamorato come uno scolaretto ai primi
palpiti amorosi, dipendente da lei, totalmente catturato dalla sua
figura.
Raggiunsero
gli sposi con la carrozza, incontrando Dwight nella Sacrestia. Ross
sorrise vedendo l'amico bianco come un cencio, tutto agghindato in un
elegante abito grigio. "Amico, si direbbe che te la stai facendo
sotto".
Dwight
allentò il colletto della camicia. "Sono preoccupato. Mi
sento
una specie di morso alla gola, una tenaglia".
Ross
annuì, battendogli amichevolmente una mano sulla spalla. "Si
chiama ansia, non sei malato!".
"Fai
presto tu a parlare, qui quello che si sposa sono io e Caroline si
aspetta una giornata perfetta! Avrò addosso gli occhi di
tutta la
nobiltà di Londra che si aspetta solo che io faccia un passo
falso
per confutare la loro teoria che un'ereditiera come Caroline non
dovrebbe sposarsi con un medico di campagna come me".
Demelza
gli si avvicinò, abbracciandolo. "Sta tranquillo, la
nobiltà
di Londra non è così terribile come la dipingono.
Sono noiosi ma
innoqui".
Ross
rimase colpito dalle parole sicure di Demelza, rendendosi conto che
lei, probabilmente, conosceva tutte quelle persone facoltose che li
avrebbero circondati durante la giornata. E come nei primi giorni a
Londra con lei, quasi sei mesi prima, si sentì un pesce fuor
d'acqua. La vita di sua moglie nella capitale gli era ancora
estranea, gli pesava, odiava il fatto che dei perfetti sconosciuti,
per quasi tre anni, avessero fatto parte del mondo di Demelza mentre
lui era lontano. Guardò Dwight, sospirando. "Mi sono sposato
anche io e come vedi, sono tutto intero".
"Esatto!"
- ribadì Demelza. "Il nostro matrimonio è stato
meno sfarzoso
ma l'emozione è la stessa. E anche se ti tremano le gambe,
è
qualcosa che ricorderai per tutta la vita. Il matrimonio è
un po'
come un viaggio in mare, navigare sarà bellissimo e ogni
tanto
incontrerai qualche tempesta, ma se saprete guidare la vostra nave
insieme, collaborando e amandovi, la supererete e tornerete a
veleggiare nel sereno".
Ross
avvertì la mano della moglie che, dopo aver pronunciato
quelle
parole, strinse la sua dolcemente. Ricordò il giorno in cui
si erano
sposati in una cerimonia modestissima, la faccia perplessa di
entrambi, lo stupore di trovarsi lì davanti a quel prete a
dirsi
quel sì che, ancora, non sapevano cosa avrebbe potuto
significare
per loro. Non la amava quel giorno, non ancora. Era una persona a cui
voleva bene, una buona domestica e anche un'amica con cui parlare ma
non ne era innamorato, non nel modo in cui dovrebbe esserlo un uomo
che si sposa. Demelza era una sfida, un impegno che si era preso dopo
una notte d'amore esplosa quasi per caso al termine di una giornata
terribile, un cedimento a cui aveva voluto porre riparo per non farla
vivere nello scandalo perché non voleva essere come gli
altri
nobili, non voleva usarla solo per il suo piacere per poi
dimenticarsene durante il giorno. No, non avrebbe potuto farlo, non a
lei. E quella scelta dettata dall'istinto, si era rivelata la
migliore della sua vita. Era diventata il suo amore, era entrata nel
suo cuore pian piano, con dolcezza e affetto sinceri, gli era stata
accanto in tutte le battaglie della sua vita e ora era la sua roccia,
colei che dava un senso alla sua intera esistenza e che mai
più
avrebbe potuto perdere. Quel giorno in cui disse quel si, il suo
istinto aveva agito e deciso per lui. E ora lo sapeva, l'istinto
è
il più saggio degli amici e arriva prima di cuore e ragione
alla
scelta più giusta.
Mentre
si recavano in Chiesa, coi bambini che correvano davanti a loro, le
cinse le spalle. "Sai, se potessi tornare indietro, ti
risposerei altre mille volte".
"Davvero?
Rifaresti tutto uguale?".
"Tutto
tranne una cosa".
Demelza
abbassò lo sguardo, capendo a cosa alludesse. "Sai, forse
quella notte è servita a far luce definitivamente sui tuoi
sentimenti. Per quanto possa averci fatto male...".
"Avrei
dovuto capirlo in altri modi" – la interruppe lui. La strinse
ancora più forte a se, maledicendosi per l'ennesima volta
per la
follia che l'aveva spinto fra le braccia di Elizabeth. "E tu mi
risposeresti, se potessi tornare indietro?".
Demelza
sorrise, maliziosamente. Poi alzò lo sguardo al cielo con
fare
distratto. "Non lo so, ci devo pensare un po' sopra".
La
bloccò, la abbracciò e scoppiò a
ridere. "Davvero?".
"Sì,
ci penserei! E poi ti sposerei comunque". Ridendo anche lei, lo
prese per mano, impedendogli di rispondere. "E ora su, andiamo o
arriveremo tardi alla cerimonia".
"Si,
hai ragione!".
Entrarono
in Chiesa e si sedettero in fondo alla navata, coi bambini fra di
loro.
Come
consuetudine, Caroline arrivò con qualche minuto di ritardo.
E al
suo ingresso lasciò tutti a bocca aperta. La sua,
già di per se,
era una bellezza rara ma l'abito da nozze la risaltava ancora di
più.
Indossava un meraviglioso vestito color avorio che le ricadeva
elegantemente addosso, cucito apposta per far risaltare le sue curve
e la sua femminilità. Un pendaglio di diamanti le ornava il
collo
nudo, i capelli biondi le ricadevano ordinati sulla schiena, tenuti a
bada dal lungo velo che arrivava quasi fino alle caviglie. L'abito
non aveva particolari fronzoli, non era ricco di pizzi e merletti e a
modo suo era semplice ma era proprio questo il suo pregio, era di una
sobrietà che la rendeva bellissima e allo stesso tempo non
ne
offuscava il fascino.
Emozionata,
la sposa raggiunse Dwight e la cerimonia ebbe inizio. Ross si sentiva
commosso a pensare al suo amico, a quanto anch'esso avesse sofferto
per amore proprio come lui e a quanto si meritasse quella
felicità.
Caroline era una donna indubbiamente bellissima, interessante, vivace
e desiderabile da chiunque, ma aveva scelto lui. Con consapevolezza e
con tenacia, aveva deciso di sposare il meno ricco e abbiente ma
sicuramente il più innamorato di lei. Dwight era le persona
più
buona che lui avesse mai conosciuto , un amico leale e sincero e gli
doveva davvero tutto. Se non fosse stato per lui e per Caroline, non
avrebbe mai avuto una seconda possibilità con Demelza e non
avrebbe
potuto riabbracciare i suoi figli. Certo, a sua volta lui l'aveva
aiutato a ritrovare Caroline ma era nulla in confronto a quanto loro
avevano fatto per lui e per la sua famiglia.
Un
paggio venne a portare un cuscinetto con gli anelli e fu chiaro che
era arrivato il momento tanto temuto sia da lui che da Demelza.
Clowance avrebbe collaborato?
La
bimba osservò il cuscinetto e si rannicchiò
contro di lui. "Non
vollo!".
"Clowance,
ti prego" – la implorò Demelza.
Jeremy
tentò di spingerla giù dalla panca. "Devi
portarli!".
"Non
vollo, ho paura!".
Ross
la prese sulle ginocchia, baciandola sulla fronte. "Di cosa?".
"Mi
guaddano tutti e io ho paura".
La
strinse a se, coccolandola. "Ti guardano tutti perché sei
bellissima e molto importante, sai? Devi portare gli anelli a
Caroline e Dwight, altrimenti non potranno sposarsi".
Clowance
affondò il viso contro il suo petto. "Ma io ho paura".
Ross
si alzò, andando con la bimba in fondo alla navata, dopo
aver
strizzato un occhio a sua moglie in segno d'intesa. Una volta in
fondo, mise a terra la bambina e gli diede il cuscino con gli anelli.
"Ci metterai un attimo" – le bisbigliò –
"e non
devi aver paura, io starò qua a guardarti tutto il tempo. E
se
succederà qualcosa, correrò a salvarti e a
portarti via".
"Davvero?
Ma poi posso tonnare da te in braccio?".
"Certo".
Clowance
guardò gli anelli, tutta assorta. Lo inteneriva quello
sguardo di
chi sa che deve fare qualcosa di importante e capiva che,
così
piccola, potesse esserne intimorita, soprattutto perché gli
occhi
sarebbero stati tutti puntati su di lei. "Coraggio, va. Cammina
piano e va sempre dritta, dai loro gli anelli e poi corri di nuovo
qui".
"Si.
Tu mi spetti?".
"Certo".
Clowance
annuì e poi, serissima, percorse tutta la navata. La sua
camminata
era stentata, un po' timorosa, ma non si fermò
finché non fu
davanti agli sposi. Diede loro gli anelli, guardando Caroline
ammirata. E poi, appena il prete riprese la parola, corse a ritroso,
rifugiandosi fra le sue braccia. "Sono stata brava?".
Ross
la strinse a se. "Bravissima! Sei una Poldark e noi sappiamo
sempre portare a termine quel che facciamo". La tenne in
braccio, come le aveva promesso, e tornò a sedersi accanto a
Demelza
e a Jeremy fino alla fine della cerimonia.
Dwight
non svenne, anche se in un paio di occasioni fu sul punto di farlo. E
alla fine, dissero quel si che li avrebbe accompagnati tutta la vita.
Si sentì commosso e strinse a se Demelza che, come lui,
aveva gli
occhi lucidi dall'emozione.
...
Il
rinfresco si tenne nell'elegante giardino della villa londinese di
Caroline. Tavoli riccamente imbanditi ornavano il prato e ovunque era
un tripudio di eleganza e ricchezza. I doni per gli sposi furono
messi dalla servitù sotto il portico, in bella vista,
un'orchestra
suonava sotto i grossi abeti del giardino e servitori e cameriere
spuntavano da ogni dove per offrire da bere agli invitati.
Ross
e Demelza, dopo aver chiacchierato con gli sposi, si ritirarorono in
un angolo del giardino, seduti a un tavolino coi bambini, lasciando
Dwight e Caroline liberi di intrattenersi con gli altri invitati.
Ross
era davvero sorpreso dal fatto che tutti conoscessero Demelza, dal
modo ammirato che avevano di guardarla, dal carisma che sua moglie
sembrava emanare verso quelle persone e dalla sicurezza con cui lei
intratteneva conversazioni con loro. Era come se sua moglie fosse due
persone diverse: una era la Demelza londinese, qualla abile negli
affari, ricca e potente e l'altra era la Demelza di Nampara,
semplice, laboriosa e solo sua. Londra aveva fascino ma non amava
tornarci troppo spesso con lei proprio per quella strana gelosia che
sentiva di provare verso quel mondo in cui si sentiva di non
appartenere. Guardava quegli uomini che la salutavano e parlavano con
lei di affari e si rendeva conto che quel lato della vita di sua
moglie non gli sarebbe mai appartenuto del tutto e si sentiva un
estraneo. Si chiese se quelle persone sentissero una specie di
interesse diverso verso Demelza, oltre a quello strettamente
lavorativo, e gli faceva male avere questo genere di pensieri. Lui e
Demelza erano di nuovo inseparabili ma non gli aveva mai chiesto,
forse per paura, se in quei tre anni di separazione ci fosse stato
qualcun altro nel suo cuore. E lei, di contro, non ne aveva mai fatto
accenno.
Improvvisamente
un uomo giovane, dai capelli biondi, si avvicinò al loro
tavolo
mentre mangiavano la torta. Jeremy, appena lo vide, gli corse
incontro. "Ciao Philippe!".
"Jeremy,
come sei cresciuto!" - disse il nuovo arrivato, inchinandosi poi
davanti a sua moglie. "Siete splendida oggi. Offuscate quasi la
sposa".
Demelza
sorrise. "Grazie Philippe". Si avvicinò al marito,
posandogli la mano sulla spalla. "Vi presento Ross".
Lo
guardò, si guardarono. E Ross, nonostante non lo avesse mai
visto,
lo riconobbe. Quegli occhi azzurri come il ghiaccio non potevano che
appartenere all'uomo con cui era uscita Demelza quando lui stava
male, poche sere prima di Natale, per una riunione in borsa. Non
poteva che essere lui, il damerino che idolatrava Leslie e che, a
quanto sembrava, affascinava tutto il gentil sesso di Londra.
Guardò
sua moglie, chiedendosi cosa avesse provato per lui in quei tre anni
di frequentazione. Poi, pur di controvoglia, strinse la mano al nuovo
venuto. "E' un piacere" – disse, in tono asciutto.
"Philippe
ha un maneggio di purosangue fuori Londra, con Jeremy ci sono andata
spesso per darci un occhio. Ed è un ottimo socio d'affari"
–
disse Demelza.
"Sai
papà, Philippe mi ha fatto salire sui suoi cavalli e mi ha
fatto
tenere le redini" – aggiunse Jeremy, aumentando la sua
frustrazione.
Ross
piantò gli occhi sul bell'imbusto dagli occhi di ghiaccio.
"Oh,
bene...".
Suo
figlio gli saltò in braccio. "Però adesso vado
sul cavallo
tutte le sere con papà. E mi piace tanto, più del
maneggio".
Le
parole di Jeremy assestarono una vittoria a lui e uno schiaffo morale
all'uomo dei purosangue. Ross sorrise trionfante, stringendo a se il
figlio. "Ai bambini piace fare le cose col proprio padre, che
volete farci...".
Philippe
annuì, incassò con eleganza e poi, dopo un saluto
veloce, con la
scusa di dover raggiungere degli amici, si dileguò.
Demelza
poggiò una mano sotto il mento, sorridendo di sottecchi.
"Ross,
penserà che sei un orso".
"Non
mi importa!".
"Sei
geloso, per caso?" - insistette sua moglie, divertita nonostante
tutto.
Ross
mise a terra Jeremy e invitò i figli ad andare a cercare
dell'acqua
da portare a tavola. Quando furono soli, incrociò le braccia
al
petto. "Forse sono un po' geloso. Sei molto ammirata da tutti,
se non te ne fossi accorta".
"Non
è vero, sono solo gentili. E tu dovresti rilassarti".
Ross
ci pensò su, per niente persuaso a chiudere quel discorso.
"Senti,
nei tre anni in cui sei vissuta qui sola, c'è stato
qualcuno... un
uomo... Si, insomma, sei sempre stata sola o hai pensato o magari
provato a rifarti una vita con... che ne so, con questo Philippe ad
esempio?".
Demelza
divenne improvvisamente seria, a quella domanda. "Ross...".
"Rispondi!".
"Non
c'è stato nessuno, l'unico ometto che è entrato
nel mio letto è
stato Jeremy. Certe volte ci ho pensato al fatto che un giorno forse
qualcun altro sarebbe entrato nella mia vita ma non mi sono mai
sentita davvero pronta per provarci davvero. Amavo te, nonostante
tutto, nonostante per tanto ti abbia creduto felice assieme ad
Elizabeth. Io sentivo di non poter essere di nessun altro".
Quelle
parole gli scaldarono il cuore. In fondo, guardandola, anche elegante
e bellissima, si rese conto che era la sua Demelza quella. E che gli
aveva chiesto qualcosa di davvero stupido che il suo cuore conosceva
già. "Nemmeno di quel lord dagli occhi di ghiaccio?".
Demelza
tornò a ridere, rilasciando la tensione accumulata negli
ultimi
minuti. "Philippe?".
Ross
annuì. "Leslie diceva che tutte le donne di Londra lo amano".
Sua
moglie ci pensò su. "Beh, lui... Fra quelli che mi giravano
attorno era indubbiamente il più piacevole da guardare".
"Vedi
che ti sei guardata in giro?" - rispose lui, stavolta divertito.
"Ross,
Philippe è indubbiamente un bell'uomo, giovane, gentile e
ricco. Il
fatto che ami te, non mi rende cieca al fascino degli altri. Tu non
trovi, ad esempio, che Caroline sia bellissima e assolutamente
desiderabile?".
Si
grattò la guancia, imbarazzato, a quella domanda. "Beh, si.
Ma
questo non significa che io possa provarci con lei".
"Esatto.
E lo stesso vale per me, il fatto che trovi Philippe affascinante non
significa esserne innamorata o desiderare di averlo per una semplice
avventura". Si alzò dal tavolo, allungò una mano
e gliela
porse. "Su Ross, alzati!".
"Cosa
vuoi fare?".
"Che
tu ci creda o no, anche se è pieno di uomini affascinanti
che sono
pure ottimi ballerini, vorrei danzare con te che in queste cose sei
pessimo. Se non è amore questo, che altro puo' esserlo?".
Ross
annuì. Quella di Demelza era una battuta ma in essa era
racchiusa
una grande verità. Fra mille, per mille cose, lei avrebbe
scelto
lui. E per la prima volta in quella giornata, non si sentiva
più lui
l'estraneo. Gli estranei erano gli altri e questa era una sensazione
meravigliosa.
La
prese per mano e la condusse a ballare. E benché odiasse
farlo, per
amore, lo avrebbe fatto fino alla fine del ricevimento. Per lei. E
perché non lo avevano fatto al loro matrimonio, non l'aveva
corteggiata, non l'aveva coccolata, non l'aveva fatta ballare. Ed era
ora di rimediare.
E
mentre le luci della città si spegnevano, una nuova famigia
iniziava
a muovere i primi passi in quel mare di incognite che era un
matrimonio. E un'altra, tramite loro, scopriva e riscopriva il valore
di quel si pronunciato quasi per caso anni prima e che si era
rivelato essere la scelta migliore della loro esistenza.
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Capitolo 34 *** Capitolo trentaquattro ***
L'estate
volgeva al termine e da un mese erano tornati tutti in Cornovaglia
dopo il matrimonio di Caroline e Dwight che, finiti i festeggiamenti
per la cerimonia, erano invece partiti per un romantico viaggio di
nozze nelle Fiandre.
Demelza
e Ross erano tornati alle consuete attività, lui alla
miniera e lei
a casa, a tirare avanti per via epistolare i suoi affari di Londra, a
progettare la nuova scuola e a prendersi cura della tenuta e dei
bambini.
Jeremy
voleva sempre andare col padre alla miniera, era ormai diventato
amico dei figli dei minatori e passava le sue giornate all'aperto a
giocare con loro, oppure nello studio di Ross, catturato dalla
curiosità di imparare da lui.
Clowance
invece rimaneva con la sua mamma che la coinvolgeva nella tranquilla
quotidianità di casa. Al mattino davano una mano a Prudie a
sistemare e a dare da mangiare ai vitellini e poi uscivano a fare una
passeggiata in spiaggia o nei boschi vicino a Nampara. Infine, dopo
pranzo, andavano alla miniera a prendere i loro uomini.
Demelza
trovava rilassante e splendida quella sua ritrovata vita in
Cornovaglia. Forse era meno eccitante di Londra ma era la sua
dimensione quella, era ciò che aveva sempre rimpianto ed era
l'unico
luogo che sentisse davvero suo.
Si
recava di tanto in tanto, con Clowance, al cimitero, da Julia. Le
cambiava i fiori sulla lapide, rimaneva lì in silenzio a
pensare a
quella sua bimba morta così presto che sarebbe rimasta per
sempre
nei suoi ricordi piccola, dal passo stentato, con i primi dentini da
latte che spuntavano e con irresistibili guance piene e rosee.
Pensare a Julia era ancora difficile, faceva male come il giorno in
cui era morta e quella era una ferita che né lei
né Ross sarebbero
mai riusciti a sanare del tutto. Poteva vedere Julia nelle scoperte
dei suoi fratelli, nella loro crescita e in loro, tramite loro,
immaginare come lei avrebbe potuto essere. Avrebbe avuto quasi nove
anni ora, i capelli lunghi, avrebbero potuto chiacchierare di tante
cose e Ross le avrebbe potuto insegnare ad andare a cavallo. Un
cavallo vero, non un pony. Sarebbe stata abbastanza grande per farlo,
ormai...
Quel
giorno era andata al cimitero presto, faceva ancora molto caldo e
Clowance avrebbe fatto i capricci a camminare, se la temperatura
fosse salita troppo.
Erano
uscite da Nampara che il sole non era ancora alto, ognuna con un
cesto di vimini in mano che avevano riempito coi fiori di campo che
avevano raccolto per strada. Demelza indossava un abito rosso,
semplice. Difficilmente si metteva, in Cornovaglia, gli eleganti
abiti che usava a Londra, odiava che la gente del posto la potesse
vedere come una signora, non si sentiva tale, nel suo cuore e nella
sua mente sarebbe rimasta sempre la figlia di un minatore. Clowance
invece indossava un abitino bianco di pizzo, legato in vita da un
nastro verde come i suoi occhi. La bimba faticava ad abituarsi alle
abitudini più semplici della Cornovaglia e non usciva di
casa se non
perfettamente vestita e tirata a lucido.
Dopo
essere state da Julia e aver riempito la sua lapide con fiori di ogni
colore possibile, Demelza aveva ripreso sua figlia per mano e aveva
visitato le altre tombe appartenenti a persone che aveva conosciuto.
Si fermò davanti a quella di Francis, ricordando con un
groppo alla
gola il loro ultimo colloquio e visitò la tomba dei genitori
di Ross
a cui sentiva di voler bene, anche se non li aveva mai conosciuti. E
infine fece tappa davanti alla tomba di zia Agatha, morta un paio di
anni prima, combattiva e infelice, costretta a passare gli ultimi
istanti della sua vita a Trenwith, in quella casa non più
sua,
costretta a subire la presenza ingombrante di George. Demelza si
chiese quanto avesse sopportato quella donna, dopo il matrimonio di
Elizabeth. Agatha aveva carisma, coraggio, faccia tosta e
testardaggine a volontà ma doveva essere stato un inferno
per lei,
vedere la sua casa di famiglia 'colonizzata' dal suo nemico. Era
molto anziana, aveva quasi cent'anni ma sicuramente sarebbe potuta
vivere un altro po', in altre circostanze.
Clowance
la tirò per la gonna, ciondolando la testolina. "Mamma,
andiamo?".
Sorrise.
Beh, cominciava a fare caldo e lei si stava sicuramente annoiando.
"Certo amore, andiamo a casa a pranzare e poi, dopo che avrai
fatto il riposino, andiamo da papà".
"Prudie
ha fatto la pappa?".
"La
aiuteremo a preparare. Mi aiuti?".
La
bimba annuì. "Si. Prudie non è mica tanto blava!".
Demelza
non riuscì a mascherare una risatina. Clowance continuava a
guardare
la loro domestica in cagnesco, ancora non si fidava di lei. "Ma
senti, non ti piace nemmeno un po'?".
"Ma
mamma?! Deve fare di più il bagnetto! E' spocca! E c'ha i
capelli
blutti, mica come i tuoi! Garrick c'ha i capelli più belli
di
Prudie".
Ora,
veramente, sarebbe volentieri scoppiata a ridere. Anche se erano al
cimitero, Clowance era talmente buffa e spontanea che sarebbe stato
impossibile non farlo. "Garrick non ha i capelli!".
"Si,
dappeltutto mamma!".
Demelza
la prese per mano, pensando a quanto le sarebbero mancati quei
discorsi così sconclusionati fra di loro, una volta che
Clowance
fosse diventata grande. "Su, andiamo a casa! Che ne dici,
passiamo dal bosco a raccogliere altri fiori per il salotto e le
stanze da letto?".
"Siii"
– esclamò la bimba, allegra.
Uscirono
dal cimitero e Demelza si voltò ancora una volta in
direzione della
tomba di Julia. Era sempre difficile andarsene e lasciarla
lì,
pensare che non sarebbe mai diventata grande, che non avrebbe potuto
inseguire i suoi sogni, scoprire l'amore, sentire il dolore di una
caduta e la soddisfazione di tirarsi nuovamente in piedi. Il suo viso
si incupì e in quel momento sentì la presa della
manina di Clowance
farsi più forte sulla sua. "Mamma, sei tritte?".
"Amore,
no! Perché dici così?".
Clowance
alzò le spalle e si aggrappò alla sua gamba.
"Pecché si!".
Rimase
stupita ancora una volta da come la osservava, nonostante sia lei che
Jeremy le avessero dimostrato già altre volte quanto fossero
sensibili ai suoi stati d'animo. Non voleva farla preoccupare e
turbarla, era una bellissima giornata di sole e stavano facendo una
passeggiata piacevole. Non avrebbe rotto l'incanto di quel momento,
non avrebbe reso triste pure lei. "Sta tanquilla, sto bene".
"Allola
ridi".
E
Demelza rise, baciandola sulla fronte e benedicendo il fatto che
fosse sua e che le fosse stato donato il privilegio di metterla al
mondo. Lei e Ross desideravano un altro bambino, si sentivano pronti
ma nonostante tutto, nonostante il loro rapporto fosse molto
passionale e intenso dopo la riconciliazione, non era ancora rimasta
incinta. Se ne stupiva, non aveva mai fatto fatica da quel punto di
vista, lei e Ross erano sempre stati una coppia feconda e lei non
aveva che ventotto anni, però stranamente un nuovo bimbo non
arrivava. Il suo istinto le diceva che non si trattava di un qualcosa
di fisico ma si sentiva come se, nonostante lei e Ross fossero
tornati insieme e fossero felici, ci fosse ancora qualcosa da
affrontare, una pagina dolorosa che ancora non avevano girato e con
cui dovevano fare i conti. Solo allora, forse, sarebbe arrivato un
nuovo bambino. Nel frattempo, forse era meglio così
però, per
Clowance e Jeremy. Non avevano avuto il loro papà per tre
anni ed
era giusto che ancora per un po' Ross fosse solo loro.
Strinse
forte la manina della bimba, passeggiando verso il bosco, ammirando i
riflessi dorati del sole sui suoi capelli, le due treccine che le
aveva fatto quella mattina, le guance rosse e paffute e quel visino
perfetto che la rendeva irresistibilmente bella.
Clowance
dondolava il braccio che teneva il cestino, avanti e indietro,
canticchiando una canzoncina.
"Sai
che anche a me piace cantare?" - gli chiese.
"Sì!
Sei blava mamma!".
Demelza
fece per risponderle, mentre si incamminavano nel sentiero
costeggiato dagli alberi, quando due figure che provenivano dalla
direzione opposta la fecero bloccare. Spalancò gli occhi,
stringendo
convulsamente il polso della figlia nella mano. Le sembrò
che il
cuore le balzasse nel petto, che la gola si ristringesse e che il
gelo, improvvisamente, avesse avvolto ogni fibra del suo corpo.
Sapeva che sarebbe potuto accadere quando era tornata, lo sapeva
dannazione! E non ci era preparata! "Elizabeth..." -
sussurrò, guardando in direzione dell'elegantissima donna
che si
trovava a una decina di metri da lei. Non voleva vederla e sapeva
che, se fosse successo, avrebbe potuto desiderare di farle del male,
tanto male! Non aveva mai odiato nessuno, l'odio era un sentimento
deleterio sia per chi lo provava, sia per chi lo subiva, ma con
Elizabeth non riusciva ad essere razionale. Era colei che aveva quasi
distrutto la sua famiglia, il suo mondo, i suoi sogni, colei che
aveva fatto del male anche a Ross, ora che ci pensava, ed era colei
che aveva privato i suoi figli del loro padre per tre anni. Ed ora
era qui davanti a lei, sposa di un uomo subdolo e orribile, arrogante
e senza cuore. Anime affini, pensò fugacemente, mentre anche
Elizabeth si bloccava.
Demelza
deglutì, osservandola. Era bellissima, perfetta come la
ricordava,
con quei morbidi e perfetti boccoli scuri che le ricadevano sulle
spalle. Indossava un elegantissimo abito blu e teneva per mano un
bambino all'incirca dell'età di Clowance, magrolino, pallido
e con
un viso smunto, con occhi scuri e spersi e con una massa di riccioli
neri in testa. Furono soprattutto i capelli a colpirla. Non
appartenevano ad Elizabeth e di certo non erano tipici nemmeno dei
Warleggan. E sapeva anche, dai racconti che suo malgrado le aveva
fatto George a Londra, che il piccolo era nato il giorno di San
Valentino, prematuro di un mese. Guardò quel bambino mentre
il
dubbio che aveva covato in lei per tutti quegli anni diveniva
certezza. Non era nato prematuro probabilmente e anche se nessuno
avrebbe mai potuto provarlo, quel bambino non poteva essere che di
Ross, frutto di quella notte maledetta di tre anni prima. Gli
somigliava come una goccia d'acqua, gli somigliava più di
quanto gli
fossero mai assomigliati Julia, Jeremy e Clowance. Quei capelli e
quegli occhi erano indubbiamente di Ross! Anche se, doveva ammettere,
le somiglianze si fermavano lì. Quel bambino non aveva certo
l'aspetto forte e florido di suo marito ma anzi, sembrava pallido,
sofferente e debole, tanto che camminava aggrappandosi al braccio
della madre quasi avesse paura di non reggersi in piedi, di cadere e
di spezzarsi. Nonostante tutto gli fece pena, benché fosse
un
sentimento ignobile da provare nei confronti di un bambino. Ma non
riusciva a non chiedersi che vita facesse accanto a un uomo freddo e
subdolo come George che sì, era crudele e vendicativo, ma di
certo
non stupido. E come aveva notato lei quella somiglianza con Ross, di
certo lo aveva fatto anche lui, con tutte le conseguenze del caso.
Anche se, sicuramente, Elizabeth non aveva e non avrebbe mai ammesso
quanto successo con Ross, di questo era certa.
Strinse
ancora di più la manina di Clowance e decise che non aveva
motivo di
rimanere lì impalata e in imbarazzo. Se c'era qualcuna fra
loro che
doveva vergognarsi, di certo quella non era lei. L'avrebbe ignorata,
non c'era nemmeno motivo di rivolgerle la parola e rivangare atti
passati che, per quanto la riguardava, si erano risolti. Aveva
ritrovato Ross, erano una coppia e una famiglia felice e lui si era
lasciato Elizabeth alle spalle. Solo questo era importante! E
inoltre, non era il caso di fare scenate a cui avrebbero assistito
loro malgrado i due bambini.
Camminò
con sguardo dritto, mentre Elizabeth, con gli occhi sbarrati, stava
ferma in mezzo al sentiero. Clowance la guardava, vagamente
intimorita dall'improvvisa aria pesante che era piombata su di loro.
Beh, non c'era da preoccuparsi, avrebbe sorpassato la sua antica
rivale, se ne sarebbe andata per la sua strada e per lei e Clowance
sarebbe tornato il sereno.
Ma
i suoi piani si infransero in un soffio perché fu Elizabeth,
contro
ogni logica, a rivolgerle la parola. "Avevo sentito che eri
tornata..." - disse, in tono gelido.
Erano
faccia a faccia, a forse un metro di distanza. "Sì, ma la
Cornovaglia è abbastanza grande per non darci fastidio".
Elizabeth
abbassò lo sguardo verso Clowance e sul suo viso apparve
un'espressione strana, quasi di invidia e rabbia. "E' la bambina
nata a Londra?".
Demelza
sentì la rabbia che la invadeva ed era frustrante non
potersi permettere scenate. Che le importava di Clowance?
Perché voleva
parlarle, cosa voleva da lei? Si voltò verso la figlia,
dandole in
mano anche il suo cestino, desiderosa che si allontanasse un attimo
per poter dire due o tre cosette alla donna che aveva davanti.
"Tesoro, ricordi che dovevamo raccogliere dei fiori? Mi faresti
un favore, mentre parlo con questa signora? Riempiresti anche il mio
cestino con tanti fiori di tutti i colori? Vuoi farlo?".
"Si,
vollo!" - rispose Clowance, guardando prima lei e poi Elizabeth.
La
bimba corse via, contenta, lasciandola finalmente libera – o
quasi
– di parlare con Elizabeth. "Hai qualcosa da dirmi?".
Elizabeth
osservò Clowance fra gli alberi, a debita distanza. "E' di
Ross?".
Le
venne da ridere a quella domanda, era quasi ironico che le chiedesse
una cosa del genere, soprattutto LEI. Osservò il bambino
accanto a
loro che, a differenza di sua figlia, aveva uno sguardo sperso e
occhi opachi e poco attenti. E quei dannati riccioli neri che gli
ricadevano sulla fronte. "E lui, è di George?".
Elizabeth,
a quella domanda, impallidì, spalancando gli occhi. E anche
se non
disse nulla, per Demelza quella reazione fu più di una
confessione,
valeva più di mille parole. "Forse dovremmo cercare di
andare
d'accordo, visto che sei tornata e siamo vicine di casa" –
rispose, cambiando decisamente argomento.
Demelza
sorrise freddamente. "Andare d'accordo? Cosa vuoi Elizabeth,
rinsinuarti nella mia vita perché quella che ti sei scelta
non ti
piace? Da quel che so, hai scelto di tua spontanea volontà
di
sposare George e ora credo che tu dovresti concentrarti solo su di
lui e dimenticare noi".
"Non
avresti dovuto andartene Demelza, il tuo comportamento non è
stato
appropriato. Una moglie non lascia mai la sua casa e sta sempre
accanto al marito, a prescindere".
"Oh,
certo, questo ti avrebbe fatto comodo! Avresti dormito sonni
più
tranquilli se io non avessi insinuato nella gente il sospetto che me
ne fossi andata a causa di quanto successo fra te e Ross, vero?".
Elizabeth
si morse il labbro. "E' passato molto tempo e mi pare che le
cose per te, da allora, siano andate più che bene. Non
potremmo
dimenticare?".
Demelza
guardò sua figlia che, felice e all'oscuro del marasma che
era la
sua mente in quel momento, raccoglieva fiori. Poi tornò a
guardare
Elizabeth. "Il tempo che passa non cancella le colpe ma attenua
la rabbia e fa vedere le cose da altre angolazioni. Non le
giustifica, ma ti da la giusta consapevolezza di capire quali sono le
cose per cui lottare e quelle da lasciarsi alle spalle. Io ho capito
di voler lottare per Ross e di volermi dimenticare di te. Tu cos'hai
deciso Elizabeth?".
La
sua voce era tagliente e in un certo senso azzittì la sua
interlocutrice. "Ross ha la sua parte di colpe..." -
balbettò.
Demelza
annuì. "Sono d'accordo. E le ha pagate!". Diede un ultimo
sguardo al bambino e poi ad Elizabeth, prima di richiamare a se
Clowance. "Ora suppongo che tu debba pagare le tue, di colpe. Fa
in modo che non ricadano su di lui, che non paghi errori commessi da
altri sulla sua pelle..." - disse, senza aggiungere altro,
rendendole palese che aveva capito molto più di quanto lei
non gli
avesse detto.
Prese
la piccola Clowance per mano, sorridendole davanti ai cesti pieni di
fiori che gli aveva portato. "Sei stata bravissima, tesoro".
"Lo
so!".
Elizabeth
guardò ancora una volta la piccola con lo stesso sguardo
pieno di
invidia di poco prima. "Ross deve amarla davvero molto" –
sussurrò, con amarezza.
"Già!"
- rispose Demelza. Non aggiunse altro, prese il cesto nella mano
libera e se ne andò per la sua strada.
...
Il
resto della giornata trascorse in modo strano. Demelza non
aprì
quasi bocca, né con Prudie, né con Ross quando
tornò con Jeremy
dalla miniera. Non era arrabbiata con lui, sapeva che ciò
che aveva
visto corrispondeva esattamente a un dubbio che aveva sempre avuto,
però il viso e i capelli di quel bambino la tormentavano
come un mal
di denti fastidioso.
Cenarono
in silenzio, mentre Ross la guardava senza capire cosa avesse. Pure i
bambini e Garrick parevano smarriti davanti a quel comportamento
tanto inusuale per lei, ma non poteva farci nulla. Fissava suo marito
e si chiedeva se mai, in quegli anni, avesse avuto dei dubbi circa la
paternità di Valentin Warleggan e quel dubbio la faceva
andare fuori
di testa.
Misero
a letto i bambini prima del tempo e Prudie e Jud si ritirarono subito
dopo nella loro stanza.
E
infine, rimasti soli, andarono anche loro in camera da letto.
Ross
si tolse la camicia, osservandola spogliarsi e mettersi la camicia da
notte. "Amore mio, che cos'hai? Sei arrabbiata?".
"No
Ross...".
Gli
si avvicinò, accarezzandole i capelli e scompigliandoglieli.
"Si
che lo sei! Oppure c'è qualcosa che ti turba. Ho fatto
qualcosa di
sbagliato? Non stai bene? Dimmi che cos'hai, ti prego, non è
da te
startene zitta così, erano preoccupati anche i bambini".
Demelza
deglutì. Era ora di affrontare quell'argomento che, per
scelta o
forse inconsciamente, non aveva mai davvero voluto affrontare con
lui. Aveva paura a farlo, era terrorizzata dalle possibili
conseguenze. E capì in quell'istante che era quella la
pagina
dolorosa che lei e Ross non si erano ancora lasciati alle spalle e
che, silenziosamente, continuava a tormentarli. "Oggi ho visto
Elizabeth".
Ross
spalancò gli occhi. "Cosa? Sei stata a Trenwith?".
"No.
L'ho vista per caso, nel bosco, di ritorno dal cimitero. Era col
bambino, Valentin".
"Oh...".
Ross non seppe cosa dire, anche lui a corto di parole. Anche a
distanza di così tanto tempo, Elizabeth continuava ad essere
un
fantasma silenzioso e subdolo fra loro.
Demelza
alzò gli occhi su di lui. "Tu hai mai visto quel bambino?".
"No,
perché? Te l'ho detto, non sono più andato a
Trenwith dalla sera
prima del matrimonio".
Lei
alzò le spalle. Ross sembrava tranquillo e per nulla turbato
dal
fatto che gli stesse parlando di Valentin e questo la rendeva
piuttosto sicura che non si fosse mai posto il problema. "George,
a Londra, amava raccontarmi della sua famigliola perfetta. Credo che
godesse nel farmi sentire inutile e fallita, visto che la mia
famiglia era andata in pezzi, sai? Ci sono state volte che, per
quanto era odioso, avrei voluto urlargli in faccia la
verità, circa
la sua dolce mogliettina perfetta. Ma poi non l'ho fatto
perché
questo avrebbe distrutto molte vite innocenti, riacceso la lotta con
te e in fondo, raccontandoglielo, non ci avrei guadagnato nulla. Ma
sai, quando mi raccontava di Valentin e mi diceva che era nato
prematuro di un mese, io avevo un dubbio...".
Ross
le si sedette accanto sul letto. "Quale dubbio?".
Si
voltò verso di lui, guardandolo in quei suoi occhi scuri
tanto
simili a quelli di Valentin. "Che invece non fosse affatto
prematuro".
A
quell'affermazione, Ross per un attimo parve smarrito. Ma poi, di
colpo, spalancò gli occhi. "Stai per caso dicendo che...".
Si alzò di scatto dal letto, mettendosi la mano sulla fronte
sudata.
"No, non pensarlo neanche!".
"Ho
visto quel bambino oggi, Ross! Non somiglia ad Elizabeth e nemmeno a
George! Ma è decisamente identico a te, stessi capelli,
stessi
occhi... E quando ho fatto una battuta a riguardo, Elizabeth
è
diventata bianca come un cencio. Ora, sicuramente lei non direbbe mai
a George, nemmeno sotto tortura, quello che c'è stato con
te! E
sicuramente è tutto un suo interesse spacciare il figlio per
un
prematuro, ma... non è questo che ora mi interessa".
"E
cos'è che ti interessa, allora?".
"Tu,
Ross! Cosa ne pensi, cosa provi e cosa hai intenzione di fare, nel
caso fosse tuo?".
Ross
scosse la testa. "Demelza, non facciamoci del male, per favore!
Siamo riusciti a ritrovarci, siamo felici e io non voglio nemmeno
pensare a questa cosa".
"DEVI
pensarci!".
"No,
non devo farlo!". Ross si inginocchiò davanti a lei,
poggiandole le mani sulle ginocchia. "Demelza, io non conosco
quel bambino, non mi sono mai nemmeno posto il problema di chi sia e
da dove provenga e di certo, come dici tu, Elizabeth ha fatto in modo
che sia considerato in tutto e per tutto un Warleggan. Non possiamo
tormentarci sulla sua identità perché non
c'è modo di verificare
quanto tu pensi e sospetti e questo servirebbe solo ad avvelenarci la
vita".
"E
se sapessi con certezza che è tuo, Ross, che faresti?". Non
voleva tormentarlo, ma aveva bisogno di sapere, di parlare, di capire
cosa davvero provasse.
Ross
le accarezzò una guancia. "Non ti lascerei mai, se
è questo
che temi. I bambini sono di chi li cresce, io non ho alcun legame con
Valentin e sicuramente mai ne avrò. Porta il cognome dei
Warleggan e
io non voglio nemmeno pensare che un mio figlio sia cresciuto da
quell'uomo, ma se così fosse, non posso comunque farci
niente, se
non aprirgli la porta come feci per Geoffrey Charles qualche anno fa,
quando cercava consigli e conforto". Si sporse verso di lei,
baciandola sulle labbra. "Demelza, i miei figli sono quelli che
dormono nella stanza accanto, quelli che mi hai dato tu. Nessun
altro! Sono il mio orgoglio e la mia ragione di vita e ho sofferto
come un cane a non avervi vicini per tre anni, non potrei mai, per
niente al mondo, lasciarvi ancora. Voglio mia moglie, testarda,
battagliera, dolce e con quei suoi lunghi capelli rossi che mi fanno
impazzire, voglio il mio bambino che ama i cavalli e la miniera e la
mia piccola principessa che sa ammaliarmi e rigirarmi a suo
piacimento con due moine. Nient'altro, nessun altro".
Demelza
sentì le lacrime rigarle le guance, unite a un senso di
sollievo
profondo. Ross aveva scelto, lo aveva fatto già anni prima e
ora,
semplicemente, gli stava ribadendo cose che lei sapeva già
ma che
aveva bisogno di sentirsi dire. E niente, nemmeno Valentin, sarebbe
riuscito a separarli. Lo baciò, dolcemente, sentendo
scivolarle di
dosso la paura e la frustrazione per quella situazione che non
avevano mai affrontato, ringraziando Dio per averle dato il coraggio
di dire cosa la tormentava. "Se George avesse dei sospetti sul
bambino... Hai idea di cosa gli farebbe passare? Non mi importa di
Elizabeth ma lui... chiunque sia, è innocente".
Ross
la abbracciò. "Elizabeth saprà tutelarlo, in
virtù del
cognome che porta saprà difenderlo meglio di quanto abbia
saputo
fare con Geoffrey Charles... O almeno lo spero".
"Che
vuoi dire?".
Ross
sorrise amaramente. "Sono arrabbiato da anni, con Elizabeth, dal
giorno in cui ha mandato Geoffrey Charles in collegio,
sottomettendosi al volere di George. Ha barattato la
serenità di suo
figlio in cambio di una vita comoda, agiata e benestante. E io questo
non potrò mai perdonarglielo! Non potrei mai scegliere lei e
mi odio
per averla idolatrata per anni, senza quasi rendermi conto del valore
della donna che avevo accanto e che avevo sposato".
Demelza
sorrise, abbracciandolo. Era felice per quelle parole ma, nonostante
odiasse Elizabeth, le riteneva un po' ingiuste. "Ross, lei ama i
suoi figli, ne sono sicura".
"Ma
lei non lotterebbe per loro con le unghie e coi denti come hai sempre
fatto tu. E questo ai miei occhi fa una grande differenza. Io sono
fortunato ad averti trovata, sposata e ad avere dei figli che hanno
una madre come te".
Sorrise,
appoggiando la fronte a quella del marito. "Ne avremo mai
altri?".
Ross
le strizzò l'occhio. "Chissà! Non so risponderti,
ma di certo
sarà piacevole provare ad averli. Che ne dici?".
"Dico
che è un'ottima idea".
Calò
il silenzio fra loro, stavolta intimo e sereno. Ross la spinse sul
letto, delicatamente. E poi, dopo aver scacciato problemi e dolore,
mentre la candela sul comodino si spegneva, fece l'amore con lei.
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Capitolo 35 *** Capitolo trentacinque ***
Era
strano come il tempo, per lei, scorresse veloce e allo stesso tempo
le apparisse immobile, nell'immutare del ritmo delle sue giornate.
Elizabeth
era una signora, come tale si comportava e badava sempre di essere
fedele all'etichetta e alle buone maniere, come doveva fare ogni
brava moglie di un ricco uomo d'affari.
Da
quando si era sposata con George Warleggan, non aveva più
avuto
problemi di denaro e ogni abito, ogni gioiello e ogni suo capriccio
erano stati accontentati. Eppure niente le dava davvero gioia,
emozione o soddisfazione, erano tutti effimeri doni atti solo a darle
qualche attimo di compiacimento prima di risprofondare nella noia e
nell'apatia.
Il
suo primo figlio, Geoffrey Charles, viveva ormai lontano da diversi
anni, in collegio. Sentiva di aver fallito con lui, con quel suo
perfetto e bellissimo bambino biondo che aveva gettato in pasto alla
cattiveria di George in cambio di denaro e ricchezza.
E
poi c'era il piccolo, Valentin. Niente e nessuno avrebbe mai potuto
darle la certezza che fosse figlio di quella maledetta notte con Ross
ma in cuor suo lo sapeva perfettamente che non poteva essere figlio
di George. La nascita del bambino non aveva portato gioia in quella
casa. Nato in una notte di luna nera, era apparso subito malaticcio e
debole. George non ci si era affezionato di buon grado, avrebbe
preferito un figlio rigoglioso e forte ma la natura gli aveva donato
quel bambino dai capelli scuri, perennemente malato, rachitico e
tanto simile al suo acerrimo rivale. Da quando Agatha, prima di
morire, gli aveva instillato il sospetto che il bambino non fosse un
Warleggan e che non fosse affatto nato prematuro, George era
diventato improvvisamente freddo, sospettoso e assente con lei. Non
c'era calore in lui, non c'era amore negli sguardi che gli rivolgeva
ma solo un mal celato astio che riversava, oltre che su di lei, sul
bambino, con cui aveva modi di fare freddi. Pareva scocciato dalla
sua presenza, tanto da rivolgergli malvolentieri la parola. Gli aveva
giurato e spergiurato che non c'era stato nulla con Ross, che il
bambino era nato un mese prima e che quei riccioli neri li aveva
presi dalla nonna, ma George non gli aveva mai creduto del tutto.
All'esterno,
davanti agli altri, recitavano il ruolo della famiglia felice, suo
marito non avrebbe mai ammesso che il figlio che portava il suo nome
poteva non essere suo e lei, d'altro canto, per proteggere il bimbo e
la sua reputazione non avrebbe mai confessato, nemmeno in punto di
morte, quanto successo con Ross. No, Valentin era nato nella casa
Warleggan e come tale, per sempre, sarebbe vissuto.
E
c'era un modo per poter convincere George della bontà delle
sue
affermazioni, un modo che poteva dimostrargli che lei partoriva
sempre bambini prematuri. Gli aveva detto che Geoffrey Charles era
nato un mese prima, come Valentin. E ora, che era di nuovo incinta di
un vero Warleggan stavolta, aveva l'occasione per dimostrare a suo
marito che lei metteva sempre al mondo bambini con un mese d'anticipo
sulla data del parto.
Mancavano
ancora molti mesi alla nascita ma Elizabeth, quel giorno, aveva un
appuntamento importante e assolutamente segreto con un erborista di
Truro. Una serva gli aveva detto che quell'uomo aveva qualche
conoscenza di medicina, lavorava in incognito e preparava decotti e
pozioni per ogni tipo di necessità. Era quello che gli
serviva, una
persona schiva che potesse preparare un medicinale che, preso al
momento giusto, poteva provocare il travaglio, anticipando il parto.
Era uscita presto in carrozza, dicendo che voleva comprare un nuovo
mantello per l'inverno, e nessuno aveva sospettato nulla a Trenwith.
Si
accarezzò la pancia ancora quasi piatta, mentre la carrozza
procedeva verso Truro, chiedendosi se il bambino che aspettava
sarebbe stato un altro maschio o una femmina. Desiderava una bambina,
la voleva con tutta se stessa da oltre un anno, dal giorno in cui
aveva incontrato per caso Demelza con sua figlia, nel bosco. Non
l'aveva più rivista da allora e durante quegli ultimi dodici
mesi
aveva fatto di tutto per non incontrarla o sentir parlare di lei. Ma
era stato impossibile. Tutti parlavano dei successi della Wheal
Grace, della scuola che lei e Ross avevano aperto per i figli dei
minatori, di quanto Demelza fosse abile negli affari e di quanto
fosse apprezzata a Londra per questo. Era frustrante saperla di nuovo
tanto vicina a lei, con Ross, e saperli tanto felici.
Quando
l'aveva rivista nel bosco, oltre un anno prima, l'aveva trovata
bellissima nonostante gli abiti modesti, serena e con un carattere
molto più forte e deciso di una volta. E quella bambina, dai
capelli
rossi, bella e sana come Valentin non sarebbe mai stato, che
chiacchierava e giocava con la sua mamma, era diventata un ricordo
tormentato per lei... Non tanto perché fosse figlia
dell'uomo che
aveva amato ma per quel rapporto così forte e profondo che
legava la
bambina a sua madre. C'era complicità fra loro, piacere
nello stare
insieme, gioia nello scoprire il mondo. Forse era normale, una figlia
è diversa da un figlio e trova tanti punti d'incontro con la
madre.
Si accarezzò di nuovo la pancia appena gonfia, pregando che
fosse
una bambina e che potesse spezzare la sua solitudine e la sua apatia,
una figlia con cui costruire quel rapporto che aveva visto quel
giorno fra Demelza e Clowance.
Ci
pensava ancora spesso, ai Poldark. Non aveva mai dimenticato Ross e,
anche se ora l'amore che provava per lui era misto ad odio, rimaneva
sempre l'uomo che aveva sognato di sposare da ragazzina, l'uomo che,
in una lettera disperata, aveva cercato di strappare alla sua
famiglia e che alla fine aveva avuto per una notte senza che fosse
comunque stato davvero suo. L'uomo che, nonostante si fosse ritrovato
solo a causa dei suoi errori, alla fine non aveva scelto lei ed era
vissuto nel rimpianto della moglie che aveva perso.
Quando
Ross era venuto da lei la sera prima del matrimonio con George, non
aveva capito il suo comportamento e il suo modo di pensare, cosa lui
volesse e cosa ci facesse a Trenwith. E per molto tempo, anche dopo,
aveva continuato a non capire le sue azioni e le sue scelte. E
soprattutto, perché avesse scelto lei,
l'ex sguattera che lo
aveva abbandonato...
Anche
dopo aver rivisto Demelza con Clowance, non era riuscita a darsi una
spiegazione... Era una bella donna, indubbiamente, piena di fascino
con quei lunghi capelli rossi, in gamba per quanto era riuscita a
conquistare a Londra da sola e sicuramente ammirata. Sorrise
amaramente, pensandoci... Lei, nelle medesime condizioni, non avrebbe
concluso niente, sola e con un figlio piccolo, in una città
sconosciuta. Demelza invece era diventata qualcuno e la gente la
guardava con ammirazione non perché fosse una lady che un
uomo
esibiva con orgoglio accanto a se, ma per quel che sapeva fare.
Ma
nonostante questo, ancora non capiva perché Ross avesse
scelto lei.
Lo aveva capito due mesi prima, in un caldissimo giorno di luglio,
mentre cavalcava in solitaria sulla scogliera che dava sulla baia dei
Poldark. Aveva appena scoperto di essere incinta ed era talmente
frastornata dalla cosa che aveva voluto uscire da sola per pensare,
riflettere ed accettare quella sua nuova condizione. Solitamente non
c'era nessuno da quelle parti ma quel giorno sentì la sua
voce...
Ross...
Che
non sentiva e vedeva dalla sera prima del suo matrimonio...
Aveva
fermato il cavallo, si era nascosta dietro una siepe e aveva guardato
in direzione della spiaggia. Lui era lì, con la sua
famiglia, con
una camicia con le maniche tirate su fino al gomito, i pantaloni fino
al ginocchio, coi piedi a mollo nell'acqua, intento a giocare coi
suoi figli.
Aveva
passato diversi minuti in tranche, guardandolo mentre giocava col
maschietto, vivacissimo e che tentava di attirare l'attenzione del
padre in tutti i modi, e la bambina che Ross, scherzosamente, a un
certo punto aveva preso in braccio e costretta a bagnarsi. Era
cresciuta Clowance dall'anno prima, ed era ancora più bella
di come
la ricordava. Aveva dei capelli lunghissimi, come quelli della madre,
un fisico snello e sapeva decisamente come far impazzire suo padre
correndogli sempre appresso, nella sottoveste bianca che indossava
per fare il bagno nel mare.
Ross,
in quella spiaggia, era felice. E mentre lo guardava, si rese conto
di non averlo mai visto ridere così. Sembrava vivere in un
mondo a
parte in quegli istanti, concentrato solo sui suoi figli con cui
giocava, che inseguiva di corsa e con cui si rotolava sulla spiaggia
e sul bagnasciuga. Qualcuno avrebbe potuto dire che un vero signore
non si dovrebbe comportare in quel modo ma sapeva che a Ross non
importava cosa diceva la gente. Si viveva i suoi figli, cresceva con
loro ed era felice di averli attorno. E i bambini sembravano
catturati da lui, sereni, contenti. Come non era mai stato Valentin.
George non aveva mai giocato col bambino, non lo aveva mai guardato
con lo sguardo innamorato con cui Ross guardava i suoi figli, non
aveva mai cercato la sua compagnia.
E
poi, vide lei... Demelza, su quella spiaggia, se ne stava seduta
appoggiata a una roccia, con addosso solo una sottoveste, come la
figlia. Leggeva un libro e guardava la sua famiglia che giocava,
serena. A un certo punto Ross era andato da lei, coi bambini,
pregandola di raggiungerli in acqua. Alle sue proteste, Ross l'aveva
presa in braccio, di forza, minacciandola di buttarla in acqua. Li
aveva visti ridere insieme, a quella finta minaccia. E allora aveva
visto quello sguardo fra loro, anche da lontano... Amore
incondizionato, felicità assoluta, cameratismo,
condivisione,
complicità... Ross non l'aveva mai guardata a quel modo,
nemmeno
quando aveva sedici anni e lui non era ancora partito per la
Virginia. Era Demelza che gli aveva dato la vera gioia, lei che era
come lui, che non aveva vergogna di giocare in sottoveste coi suoi
figli su una spiaggia, che amava ridere, sfidare le regole, non
stare con le mani in mano e aiutare chi aveva bisogno. Demelza, che
era stata capace di fare le scelte che invece lei non aveva mai avuto
il coraggio di portare a termine.
Rimase
nascosta a guardarli per lunghi minuti, capendo che non aveva mai
avuto nessuna possibilità di riavere Ross e forse,
sentendosi in
colpa per aver cercato di strapparlo alle persone che amava e che lo
rendevano felice. Lei non ci sarebbe mai riuscita, ora lo sapeva. Lei
non avrebbe mai potuto essere che la damina da mostrare a feste
importanti, quella che aspetta che gli altri decidano per lei... E
Ross non avrebbe saputo cosa farsene di una moglie così.
E
ora che lo sapeva, che conosceva il suo posto e il suo ruolo, doveva
fare in modo che il suo mondo diventasse un luogo piacevole dove
vivere.
Mentre
la carrozza la portava verso Truro, si accarezzò il ventre.
Il parto
sarebbe avvenuto a marzo, come quello di Valentin. E grazie al
decotto che avrebbe acquistato, avrebbe potuto anticipare il parto a
febbraio. Il bambino sarebbe comunque stato abbastanza grande per
sopravvivere e George si sarebbe persuaso una volta per tutte che lei
non riusciva a portare a termine le gravidanze al nono mese. Tutto si
sarebbe sistemato, sarebbero stati felici.
E
se fosse stata una bambina, finalmente non si sarebbe sentita
più
sola...
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Capitolo 36 *** Capitolo trentasei ***
"Papà,
ma com'era l'America?".
Ross,
seduto sulla panca in attesa di fare colazione, guardò suo
figlio
che, grazie alla scuola, era sempre pieno di mille
curiosità. "Molto
verde! C'erano un sacco di boschi".
Jeremy,
che ormai aveva sette anni e non si accontentava di risposte
parziali, sbuffò appoggiando il viso al tavolo. "Solo
boschi? E
allora perché ci sei andato a fare una guerra?".
Ross
si grattò la guancia, in difficoltà.
Perché le domande dei
bambini, all'apparenza tanto semplici, in realtà erano un
rebus
inestricabile da sciogliere? "Beh... Ecco...".
Clowance,
di quattro anni, seduta accanto al fratello ascoltava la
conversazione con sguardo annoiato, dondolando le gambe sotto la
panca. "Ho fame!" - sbottò alla fine, per nulla
interessata alle mirabolanti novità del nuovo mondo.
Ross
sospirò, guardando verso la cucina. Prudie ci stava mettendo
una
vita a cucinare, come sempre. "Ci vuole pazienza!".
Clowance
scosse la testa. "Ci mette tanto e non è neanche buono
quello
che fa! Dov'è la mamma?".
"Già,
dov'è la mamma?". Ross guardò verso la scala che
portava alla
loro camera da letto. Demelza gli aveva detto che si sarebbe vestita
e li avrebbe raggiunti subito per far colazione, ma stranamente
ritardava.
Prudie
entrò nel salone in quel momento, mettendo sulla tavola un
grosso
piatto pieno di quelle che, in teoria, avrebbero dovuto essere
focaccine dolci. "Eccovi la colazione" – disse,
osservando compiaciuta il risultato del suo lavoro.
Clowance
la guardò storto, sfiorando con la manina una delle
focaccine che,
al suo tocco, si sbriciolò in tanti pezzettini. "Sono tutte
rotte, non le voglio! La mamma le fa meglio!".
Prudie
si mise le mani sui fianchi con fare minaccioso. "Anche intere,
nel momento che le metterai in bocca e le masticherai, si
sbriciolerebbero! Zitta e mangia!".
Quel
tono supponente fece imbestialire la bambina. Clowance si
alzò in
piedi e, con il viso imbronciato, imitò Prudie mettendosi a
sua
volta le mani sui fianchi. "Nnnoooo!".
Ross
scoppiò a ridere di gusto guardando la sua piccola
principessina
imbronciarsi con Prudie, con cui dava vita giornalmente a scenette
spassosissime. C'era uno strano rapporto d'amore-odio fra loro, erano
diverse come il giorno e la notte, una grassa, rozza e poco incline
alle buone maniera e l'altra che non usciva dalla sua stanza se non
perfettamente vestita con abiti eleganti, pettinata e con modi di
fare da piccola lady in erba. "Clowance, basta capricci, siediti
e mangia" – le intimò gentilmente, facendole
capire che,
nonostante la trovasse irresistibile, non era il caso che facesse
capricci.
"Ma
io voglio la mamma!" - rispose la bimba. "Lei cucina
meglio".
Una
voce li raggiunse dalle scale. "La mamma sta arrivando e credo
che per oggi non cucinerà, quindi ti conviene mangiare la
focaccia
di Prudie".
Ross
si voltò verso la scala, vedendo finalmente sua moglie. Era
piuttosto pallida quella mattina e già a letto gli era
sembrata poco
in forma. "Tutto bene?".
Demelza
si sedette al tavolo, accanto a Clowance a cui mise in mano un pezzo
di focaccia. "Sì... Ho solo lo stomaco sotto sopra".
Prudie
si imbronciò ancora di più. "Ecco, pure tu
ragazza ora trovi
scuse per non mangiare quello che cucino!".
Demelza
rise. "No Prudie, figurati! E' che non riuscirei a mandar
giù
niente". Si massaggiò lo stomaco, cercando sollievo, pallida
e
sudata.
Ross
le si avvicinò con una strana apprensione nello sguardo. Le
mise la
mano sulla fronte e poi scosse la testa. "Non hai febbre ma sei
comunque bianca come un fantasma. Vuoi che resti a casa con te,
oggi?".
"No,
sta tranquillo. Non sono malata, ora mi passa".
Ross
non sembrava sicuro di questa affermazione. Sua moglie era sempre
piena di energie e l'unica volta in cui l'aveva vista a letto,
malata, risvegliava ancora in lui ricordi terrificanti e un dolore
forte come allora. "Dovresti metterti a letto. Magari vado a
chiamare Dwight per farti visitare".
Demelza
gli prese la mano, stringendola nelle sue. "Sto bene, sta
tranquillo. Non disturbare Dwight, è molto impegnato.
Caroline è a
fine gravidanza ed è irascibile e lui ha un sacco di
pazienti al
villaggio da seguire. Non ho niente, va bene? Sarò in forma
in poche
ore, mi basterà prendere un po' d'aria".
Jeremy
le corse vicino. "Ma mamma, avevi mal di stomaco anche ieri. Me
lo ricordo".
Demelza
abbracciò il bimbo, mettendoselo sulle ginocchia. "Non sono
malata, d'accordo? Ora tu andrai a scuola, papà alla miniera
e io e
Clowance andremo a dar da mangiare a galline e vitellini. Poi
andrò
al villaggio per spedire delle lettere di lavoro a Martin a Londra e
stasera riparleremo del mio mal di stomaco".
"No,
non uscire se non ti senti bene, le lettere te le spedirò
io, se
vuoi. E per sicurezza, chiamerei Dwight comunque" –
ripeté
Ross, come se non l'avesse nemmeno ascoltata.
"Anche
io!" - ribadì Clowance.
E
Dwight, quasi li avesse letti nel pensiero, si materializzò
in casa
loro, battendo rumorosamente il pugno sulla porta e travolgendo quasi
Jud che era andato ad aprirgli.
Demelza
e Ross lo guardarono accigliati, stupiti di trovarselo lì a
quell'ora. Aveva i capelli scompigliati, due occhiaie scure sotto gli
occhi e un'espressione stravolta.
"Dwight,
cosa è successo? Caroline sta male?" - chiese Demelza,
preoccupata di vederlo in quello stato tanto inusuale per lui.
Dwight
guardò Ross, pallido in viso. "No, lei sta bene! Eccetto che
è
isterica ultimamente e io sto contando le ore che ci separano dalla
nascita del bambino e dal ritorno della pace...".
Ross
si accigliò. "E allora cos'è successo? Non
è normale vederti
da queste parti a quest'ora del mattino".
Dwight
scosse la testa. "So che forse è un errore essere qui ma
credo
che dobbiate saperlo. Arrivo ora da Trenwith, ho passato la notte
lì
dopo che un servitore dei Warleggan è venuto a chiamarmi nel
cuore
della notte. Il dottor Choake è fuori città e si
sono rivolti a me
per...".
Demelza
si alzò dalla panca, avvicinandosi a lui e poggiandogli
dolcemente
una mano sul braccio. "Cos'é successo? Chi è
stato male a
Trenwith?".
Dwight
fissò i due bambini e fece cenno di mandarli da Prudie.
Appena li
ebbero mandati con la serva, si sedette sulla panca davanti al
tavolo, mettendosi le mani fra i capelli. "Mi hanno chiamato per
Elizabeth e... E lo so, non dovrei essere qui a parlarvi di lei visto
quanto avete patito a causa sua, Caroline mi ucciderà per
questo ma
credo sia meglio che lo sappiate da me".
Ross
guardò Demelza, senza capire cosa stesse succedendo,
cercando il lei
risposte che ovviamente non poteva dargli. "Dwight, che è
successo?".
"Ha
partorito questa notte una bambina".
Demelza
si sedette al tavolo, picchiettando le dita sul tavolo. "Non
sapevo fosse incinta. Qualcosa è andato storto?" - chiese,
con
una strana ansia nel tono di voce.
Dwight
sospirò. "La bambina sarebbe dovuta nascere a marzo,
è
prematura di oltre un mese ma sta comunque bene. Se la
caverà...
Elizabeth invece...".
"Elizabeth
cosa?". Ross si rese conto, mentre parlava, di quanto la sua
voce fredda tradisse una certa ansia. Era successo qualcosa di grave
se Dwight era lì da loro, tanto sconvolto.
Il
dottore si sedette accanto a Demelza sulla panca, picchiando un pugno
sul tavolo. "Ha preso qualcosa... Ross, Demelza, non mi è
mai
capitato nulla di simile nella mia carriera. Il parto è
andato bene
ma subito dopo ha iniziato ad avere dolori fortissimi e una strana
emoraggia che non riuscivo a fermare. Era come se i suoi organi
interni fossero andati in cancrena, come se si stessero decomponendo.
L'ho implorata di dirmi cos'avesse preso, se avesse assunto qualche
sostanza strana prima dell'inizio del travaglio ma lei lo ha negato.
E mentiva dannazione, lo so per certo! Sono un medico e quello che ho
visto in quella stanza di Trenwith non ha nulla di naturale".
Demelza
si morse il labbro, pallida in volto, ponendo quella domanda che Ross
aveva il terrore di fare. "E' morta?".
Dwight
annuì. "Già, se n'è andata. Non ho
potuto fare niente, è
stato terribile, una morte atroce che non augurerei nemmeno al mio
peggior nemico. Se mi avesse detto la verità, come l'avevo
implorata
di fare, forse... forse sarei riuscito a fare qualcosa, forse avrei
potuto salvarla". Si mise le mani fra i capelli, poggiando il
viso sul tavolo. "Una donna ancora così giovane, con una
figlia
appena nata e un bambino piccolo. E Geoffrey Charles, non posso
pensare a cosa patirà quel ragazzino, ha già
perso suo padre e
ora...".
Ross,
bianco in volto, non disse nulla. Si sentiva come paralizzato,
inerme, come se la sua mente fosse improvvisamente svuotata.
Elizabeth era morta... Per qualche strano, assurdo ed insensato
motivo, era morta... E benché non la vedesse da anni e non
provasse
più nulla per lei, era stata il suo primo amore, colei che
aveva
sognato nelle sue fantasie da ragazzino e che, nel bene e nel male,
aveva influenzato la sua vita per lungo tempo. Non riusciva a
crederci, non poteva essere! "E' assurdo..." - riuscì solo
a farfugliare, ricordando la sua eterea bellezza, la sua classe e la
sua eleganza che presto sarebbero diventate polvere.
Dwight
si alzò in piedi, a testa bassa. "Già, assurdo!
George urlava
come un pazzo con me, diceva che l'aveva uccisa la mia inesperienza.
Ma poi ha dovuto arrendersi anche lui davanti all'evidenza. Il corpo
ha iniziato quasi subito a decomporsi e a diventare azzurrognolo e io
dannazione, devo capire che è successo! Che diavolo ha
fatto, per
quale motivo? E cosa c'era di tanto terribile da nascondere, da
valere la sua vita?".
Demelza
non rispose, abbassò il viso e strinse convulsamente la
stoffa della
sua gonna. "Suppongo che non lo sapremo mai".
"Già".
Dwight si mise il cappello in testa, avviandosi verso la porta.
"Scusate se vi ho disturbato con questa terribile notizia, ma ho
ritenuto che doveste saperlo. Ora andrò a casa a riposare un
po', se
Caroline me lo permette ovviamente, e poi nel pomeriggio
tornerò a
Trenwith per delle verifiche sul corpo di Elizabeth. Voglio andare a
fondo della cosa".
Ross
gli pose una mano sulla spalla. "D'accordo. Grazie per essere
passato, Dwight". Guardò l'amico uscire dalla casa e poi,
come
svuotato da ogni emozione, si appoggiò al muro osservando il
vuoto.
Demelza
gli si avvicinò, posandogli dolcemente una mano sulla vita.
Lo
abbracciò e restò in silenzio accanto a lui per
lunghi istanti.
Ross
la baciò sulla nuca, stringendola convulsamente a se. Non
aveva
pensieri coerenti in quel momento, eccetto uno: la morte di
Elizabeth, giunta così inaspettata da togliergli il fiato,
rifletteva l'ineluttabilità della vita e delle sue infinite
variabili. E questo lo terrorizzava perché bastava un nulla
per
togliergli le persone che amava e senza le quali non avrebbe potuto
vivere. Non riusciva a formulare quel pensiero, quella paura, sapeva
solo che voleva tenere stretta a se Demelza e non lasciarla andare
mai.
Sua
moglie alzò lo sguardo su di lui, turbata. "Ross...".
"Cosa?".
"Dovresti
andare a Trenwith".
Spalancò
gli occhi, davanti a quelle parole. "Cosa?". Era piuttosto
stupito e scosso che proprio lei gli dicesse una cosa del genere...
Erano passati anni da quella notte terribile in cui aveva ceduto ad
Elizabeth e il loro amore ormai era più forte di qualsiasi
cosa,
avevano ricostruito il loro rapporto e la loro famiglia mattone per
mattone, ma Demelza non poteva aver dimenticato quanto successo, non
poteva e mai avrebbe potuto accettarlo davvero. "Che stai
dicendo?".
Sua
moglie si scostò leggermente da lui, guardandolo negli
occhi. "Dico
sul serio, credo che te ne pentiresti, se non lo facessi".
"Demelza,
sei sicura?".
Annuì.
"Viva o morta, Elizabeth non avrebbe mai potuto rimettersi fra
noi. Ma per te è stata importante e lo è stata a
lungo. E anche se
ora ami me, di certo non puoi aver dimenticato il sentimento che una
volta provavi per lei. Se non le dici addio, i rimorsi ti
divorerebbero a vita Ross. Lo devi a te stesso... E a lei..." -
concluse, deglutendo, come se pronunciare quelle parole fosse stata
una fatica immane per lei. E sicuramente lo era stato.
"Vieni
con me" – la implorò. Aveva bisogno di lei, lo
terrorizzava
l'idea di andare a Trenwith da solo in quelle circostanze.
Ma
Demelza scosse la testa. "No, lo devi fare tu. Provo pena per
lei e per quello che è successo e per la disperazione che
puo'
averla spinta a fare qualcosa di pericoloso, mi dispiace per i suoi
figli che hanno perso la loro madre ma io non ho nulla da dire e
nessun saluto da fare ad Elizabeth. Ma tu sì e per quanto
sia
doloroso, lo devi fare. Non preoccuparti per me, io sto bene e
ciò
che c'è stato con lei è acqua passata da tanto.
Ti aspetterò a
casa".
Ross
annuì. Lei aveva ragione, come sempre. Doveva andarci da
solo a
Trenwith, per un ultimo faccia a faccia silenzioso con Elizabeth, con
colei che aveva amato e per la quale aveva quasi distrutto la sua
vita e il suo matrimonio. Doveva vederla, dirle addio e chiudere
davvero per sempre quella parte della sua vita. Accarezzò la
guancia
di Demelza, baciandola sulla fronte. "Va bene! Ma promettimi che
oggi starai in casa a riposare".
"Non
sono malata!" - sbottò lei.
Ross
fece un sorriso triste e colmo di preoccupazione. "Ti prego,
fallo per me se proprio non riesci a farlo per te stessa".
Demelza
annuì, capendo forse più di quanto le sue parole
potevano avergli
trasmesso. Gli diede un veloce bacio sulle labbra, accarezzandogli i
capelli. "Va bene, starò a casa e mi metterò un
po' a letto.
Farò accompagnare a scuola Jeremy da Prudie o da Jud e io
starò quì
tranquilla con Clowance".
"Giura!".
Demelza
sorrise. "Giuro! E ora va...".
Ross
annuì e poi, dopo aver salutato i bambini e aver comunicato
loro che
per quel giorno non sarebbe andato in miniera, uscì di casa.
Andò
nella stalla, prese il suo cavallo e dopo cinque anni in cui aveva
quasi dimenticato la strada che lo portava all'antica dimora della
sua famiglia, si diresse nuovamente verso Trenwith.
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Capitolo 37 *** Capitolo trentasette ***
Tornare
a Trenwith gli faceva uno strano effetto. Le ultime volte che era
stato in quella dimora, la sua vita aveva preso una pericolosa deriva
e aveva perso tutto quello che di caro aveva al mondo.
Si
fece annunciare, c'era un sommesso via vai nel salone. Chi per
affetto, chi per semplici relazioni d'affari, erano tutti lì
a porre
l'ultimo saluto ad Elizabeth Warleggan.
Ross
entrò nel salone principale, deglutendo. Era tutto
così diverso da
come lo ricordava, quella era la casa della sua infanzia, dove
scorazzava con Francis, chiacchierava con lo zio Charles che spesso
rimproverava lui e suo padre per la loro condotta e poteva vedere
ancora, con un po' di immaginazione, zia Agatha seduta al tavolo,
intenta a fare i tarocchi. Era tutto cambiato da allora, c'erano gli
stemmi dei Warleggan alle pareti adesso e l'atmosfera sembrava cupa e
rarefatta. Di ciò che era stata quella casa, dei ricordi
della
famiglia Poldark che si portava appresso, pareva non essere rimasto
più niente.
L'ultimo
Poldark, Geoffrey Charles, era stato allontanato e mandato in
collegio e ora se n'era andata anche Elizabeth che comunque rimaneva
la vedova di Francis e in un certo senso un legame con la famiglia.
Sfiorò
con le dita la superficie fredda del grosso tavolo del salone,
sentendosi a disagio. La morte di Elizabeth, giunta come un fulmine a
ciel sereno, era un'ulteriore chiusura con un passato che non
esisteva più. Era una storia finita già da molto
ma ora trovarsi
lì, in quell'ambiente famigliare e allo stesso tempo
sconosciuto,
gli dava l'ulteriore conferma che i tempi erano cambiati e che la sua
vita, da lì in avanti, avrebbe dovuto essere proiettata su
altro.
Aveva una moglie a casa, che amava più della sua stessa vita
e che
aveva lasciato a malincuore quella mattina, perché
indisposta. E due
bambini meravigliosi che lo rendevano un padre fiero e orgoglioso.
Non chiedeva altro, non voleva altro! Ma Demelza aveva ragione,
doveva fare quell'ultimo passo per chiudere quel capitolo della sua
vita e benché fosse doloroso e penoso, sapeva che andava
fatto.
George
scese le scale, raggiungendolo nel salone. Era pallido, sofferente e
di certo prostrato dalla morte della moglie. Per quanto lo odiasse,
in quel momento avvertiva il suo dolore come qualcosa di autentico.
"Sono venuto a porgere le mie condoglianze, George" –
disse, sforzandosi di essere gentile.
Il
suo acerrimo nemico, annuì. C'era rabbia nel suo sguardo,
astio
mentre lo guardava. "Ross, è molto che non ci si vede!
Ultimamente sono abituato a trattare di più con vostra
moglie mio
malgrado, come ben sapete".
Ross
sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Anche in quelle
circostanze,
George non riusciva a non essere acido. Ma decise di essere
accomodante, non doveva essere un momento per niente facile per lui,
aveva appena perso sua moglie e si era ritrovato solo con due figli
piccoli, di cui una nata da poche ore. "Credo che non sia il
momento di pensare al consiglio d'amministrazione della Warleggan
Bank, giusto?".
George
annuì di nuovo, continuando a guardarlo in cagnesco. "Siete
venuto a fare visita, Ross?".
"Sì".
"Non
è un bello spettacolo, vi avverto".
Ross
scosse la testa, irritato. "Non lo ritengo uno spettacolo ma
piuttosto un qualcosa di pietoso. La morte di una persona giovane
è
sempre una disgrazia".
"Soprattutto
quando quella persona giovane è stata un nostro antico
amore, vero?
O forse non così antico come si vuol far credere...".
Ross
sospirò, deciso a non cogliere la provocazione. "Chiunque
sia
stata, rimane sempre una tragedia".
George
gli indicò le scale. "Andate, la strada immagino che la
sappiate di già. Oggi tornerà anche il vostro
amico dottore che
magari è pure responsabile di quanto successo".
A
quell'accusa non troppo velata, Ross si voltò verso di lui,
piccato.
"Dwight è un ottimo medico e sia io che voi sappiamo che non
ha
colpe di quanto successo. La causa la sa solo Elizabeth e suppongo
che si sia portata il segreto con se e che non lo sapremo mai.
Incolpare persone innocenti non ve la riporterà indietro". E
detto questo, si avviò verso le scale senza aspettare una
risposta.
Gradino
dopo gradino, raggiunse il piano superiore, percorrendo quel
corridoio che aveva visto mille volte e che conosceva a memoria.
Davanti
alla camera matrimoniale, due uomini sostavano parlottando. Li
riconobbe sommariamente, dovevano essere cugini di George. Beh, non
gli importava, li superò ed entrò nella stanza.
Dovette fermarsi a
pochi passi dall'ingresso, però. Un odore nauseabondo, come
di un
cadavere in decomposizione, impermeava l'aria nonostante la finestra
fosse aperta. Non c'era nessuno nella stanza, eccetto lui. Si mise un
fazzoletto sul naso e, a piccoli passi, pieno di angoscia e terrore,
si avvicinò al letto.
Lei
era lì... E non era più lei. "Che cos'hai fatto?"
- le
chiese, sapendo che non avrebbe mai potuto rispondergli. Gli si
strinse il cuore al vederla consumata, con la pelle bluastra, con
quell'espressione sofferente impressa indelebilmente nel suo viso.
Dwight gli aveva detto che era stata una morte atroce e non dubitava
di quanto gli aveva raccontato. Elizabeth era la visione fatta
persona della sofferenza, del dolore, del male che ti fa gridare
senza speranza di sollievo.
Era
la ragazza che aveva amato da giovane, il suo primo idealizzato
amore, quello che per tanti anni aveva tormentato la sua anima e il
suo cuore impedendogli di vedere pienamente il tesoro di moglie che
aveva accanto.
Ricordava
tutto di lei, anche se ormai gli appariva come un'estranea. Ricordava
il loro primo incontro, le innocenti promesse prima che lui partisse
per la Virginia, il dolore provato quando si era sposata con Francis,
il modo in cui si era sentito tradito e nonostante tutto avesse
continuato ad amarla. Ricordava quella notte terribile, dove rancore
e passione si erano fusi nel più grande errore della sua
vita e di
come poi si fosse sentito confuso, alla deriva, senza nessun appiglio
a cui aggrapparsi. Aveva fatto un torto a lei, oltre che a Demelza,
quella volta. E si chiese se, a distanza di anni, quell'errore non
avesse provocato la morte della donna che aveva davanti.
Ma
in fondo era inutile pensarci, darsi delle risposte. Era morta, solo
questo contava. Elizabeth non c'era più e non sarebbero
più
esistiti per lei un futuro, la maternità, giornate belle
intervallate a giornate brutte, il veder crescere i suoi figli,
vederli farsi uomini e donne e realizzarsi nella vita. Era morta e
per sempre, in tutti, sarebbe rimasta immutabile nella sua giovinezza
mai sfiorita.
Non
l'amava più da tanto e forse non l'aveva mai amata di
quell'amore
con la A maiuscola che viveva con Demelza, ma in quel momento non
poteva dire di non provare un sentimento di affetto unito a pena e
rammarico per ciò che era stata e per ciò che non
avrebbe mai più
potuto essere. Si tolse il fazzoletto dal naso e, nonostante la
puzza, si chinò su di lei, baciandola sulla fronte. "Addio
Elizabeth... Buon viaggio" – disse, trattenendo a stento le
lacrime e la sua commozione.
Si
allontanò poi dal letto, le diede un'ultima occhiata ed
uscì a
passi spediti dalla stanza. Era stato difficile, penoso, aveva
bisogno di una boccata d'aria. Ma in un certo senso averlo fatto,
esserci stato, lo faceva sentire più leggero. Sua moglie
aveva
ragione, lo doveva ad Elizabeth e lo doveva a se stesso quell'addio.
In
lontananza, nel corridoio, sentì la neonata piangere.
Incuriosito,
forse desideroso di ritrovare in lei tratti di Elizabeth che in un
certo senso l'avrebbero fatta vivere ancora in un certo senso, si
avvicinò. Ma a un certo punto dovette fermarsi
perché, in una delle
stanze del corridoio, vide qualcosa che attirò negativamente
la sua
attenzione.
Un
bambino dell'età di Clowance, dalla testolina piena di
capelli ricci
e neri, se ne stava tutto solo nella sua stanza, seduto per terra sul
tappeto, intento a ordinare dei soldatini giocattolo. Ross
ricordò
di quanto Demelza gli aveva detto di Valentin, dei suoi dubbi circa
la sua paternità e di quanto lui aveva affermato per
tranquillizzarla. Quel giorno non gli aveva mentito, non sentiva
Valentin come un figlio, nemmeno ora che lo aveva davanti per la
prima volta. Tutto quello che i suoi occhi vedevano era un bambino
piccolo, col cuore a pezzi, lasciato solo nel suo dolore e senza
nessuno accanto a dargli una parola di consolazione. Pensò
ai suoi
bambini e a come sarebbero stati disperati se avessero perso la loro
mamma e gli venne una fitta al cuore a quel pensiero che
scacciò
subito dalla mente. Però avrebbe voluto fare qualcosa per
lui,
nonostante tutto, entrare, cercare di distrarlo, parlargli, magari
giocare un attimo con con quei soldatini. Ma non poteva farlo, per
Valentin lui era uno sconosciuto e di certo avrebbe mal tollerato la
sua presenza in un momento del genere.
Una
cameriera che giungeva dalla camera dove aveva sentito i vagiti della
piccola Ursula, venne in suo aiuto, togliendolo dall'imbarazzo.
Conosceva quella donna, era stata tanti anni al servizio di suo zio
Charles, prima dell'arrivo dei Warleggan in quella dimora. "Signora
Tabb, potete venire per favore?".
La
donna spalancò gli occhi nel vederlo, decisamente sorpresa.
"Signor
Poldark, sono anni che...".
Scosse
la testa, non era tempo di convenevoli. Indicò il bimbo che,
incurante, con fare meccanico allineava e buttava a terra i suoi
soldatini. "Perché quel bambino, in un momento del genere,
è
lasciato solo? Santo cielo, che qualcuno gli dia retta, ha appena
perso la madre!".
La
signora Tabb annuì, intimidita dal suo tono. "Si... Si
signore!
Ma mister Warleggan ha detto di non perdere d'occhio la piccola
Ursula e io non riesco a...".
"Ursula
ha una balia, immagino! Una volta nutrita e pulita, non ha
particolari esigenze, è una neonata. Ma quel bambino capisce
e
soffre, prendetevene cura!". Lo disse come un ordine, senza
ammettere repliche, fregandosene del fatto che quella ormai era la
casa di George e che lui non poteva dettarvi regole. Non poteva fare
altro per Valentin se non quello. Non era suo padre, nonostante
tutto, nonostante forse i legami di sangue, quel bambino era e
sarebbe sempre stato di George. E George avrebbe dovuto prendersene
cura!
Diede
un'ultima occhiata al piccolo, chiedendosi se lo avrebbe rivisto.
Poi, con un sospiro, scese dalle scale, si mise il tricorno in testa
e senza salutare nessuno, lasciò Trenwith. Vedere Elizabeth
in
quello stato gli aveva messo addosso una strana ansia e urgenza di
tornare a casa. Demelza quella mattina non stava bene e lui non
vedeva l'ora di vederla per accertarsi che il suo malessere si fosse
risolto. Galoppando, si rese conto che aveva paura, un terrore folle
che qualcosa di improvviso e sconosciuto potesse portargliela via.
Aveva già provato il dolore di perderla e non era in grado
di
immaginare di sopportarlo di nuovo, soprattutto con la consapevolezza
che forse sarebbe stato per sempre. Non pregava spesso ma mentre
tornava a casa chiese a Dio di proteggere sua moglie e i suoi
bambini. Non gli importava di nient'altro, solo che loro stessero
bene.
Arrivò
a casa che pioveva, l'acqua era ghiacciata e punzecchiava il suo viso
in maniera fastidiosa. Il cielo imbruniva e, nonostante fosse ancora
relativamente presto, sembrava già sera. Quando
entrò in casa,
trovò i bambini che disegnavano nella libreria e Prudie e
Jud in
cucina, a preparare lo stufato. "Dov'è Demelza?" - chiese,
con urgenza.
Prudie
guardò verso le scale, continuando a rimestare il brodo. "Ha
mangiato quasi nulla a pranzo e poi si è messa a letto. Non
si è
ancora svegliata ed è andato Jud a prendere il signorino a
scuola".
Ross
si accigliò, gli si contorse lo stomaco. Non era da Demelza
rifiutare il cibo e soprattutto non era da lei dormire così
tanto.
Era sempre piena di energie, insancabile, infaticabile e sì,
a tutti
poteva capitare una giornata storta ma in quel giorno tutto lo
rimandava a pensieri foschi.
Diede
un bacio ai bambini e poi corse in camera, da lei.
La
loro stanza era avvolta dalla penombra, l'acqua picchiava
furiosamente sulla finestra e il camino scoppiettava senza sosta,
regalando calore all'ambiente.
Si
avvicinò al letto, si sedette accanto a lei che, col viso
sereno,
dormiva avvolta in una coperta di lana. "Demelza?".
La
donna aprì gli occhi, assonnata, gli prese la mano e la
strinse,
incrociando le dita alle sue. "Sei tornato! Com'è andata?".
Ross
alzò le spalle. "Suppongo... nel modo in cui va sempre,
quando
si va a far visita a un morto. Una cosa penosa, non so che altro
dire" – concluse, mentre l'immagine del corpo senza vita di
Elizabeth gli attraversava dolorosamente la mente. "Credo che
Dwight abbia ragione, non è morta di cause naturali e
nemmeno per
complicanze del parto, era così... diversa... Dagli altri
morti che
ho visto, intendo".
Demelza
si mise a sedere e lo abbracciò, cingendogli il collo con le
braccia. "Mi dispiace" – sussurrò, sprofondando il
viso
nel suo petto.
Ross
le accarezzò i capelli, piano, baciandola sulla fronte. "Sto
bene e anzi, avevi ragione! Dovevo farlo, dovevo andare. Ora mi sento
più leggero per quel che riguarda Elizabeth. Ma...".
"Ma
cosa?".
Ross
sospirò. "Sono preoccupato per te. Che cos'hai? Io domani
faccio venire Dwight a visitarti e non voglio obiezioni".
"Non
sono malata, te lo posso assicurare".
"Davvero?
E allora perché hai questi mal di stomaco e queste nausee
ricorrenti? E perché te ne stai a dormire da ore?".
Demelza
rise. "Ross, me lo hai detto tu di riposare".
Scosse
la testa, non aveva davvero voglia di scherzare. "Io domani
chiamo Dwight" – ripeté.
"Non
è necessario".
"Demelza!".
Sua
moglie si appoggiò allo schienale del letto, guardandolo
pensierosa.
Poi, con un sospiro, gli riprese la mano. "Ne parleremo fra
qualche giorno, Ross. Oggi non è il caso".
"Parlare
di cosa?".
"Del
mio malessere".
Ross
le si avvicinò, sfiorandole il fianco con la mano. "Demelza,
dimmi che sta succedendo perché sai, io ho appena visto una
giovane
donna morta e in questo momento vorrei avere la certezza che la donna
che amo sta bene ed è in salute. Sai, guardavo Elizabeth e
attraverso lei io pensavo a te e a come mi potrei sentire se ti
perdessi".
Demelza
impallidì a quelle parole, tremando lievemente. "Che cosa ti
salta in mente?".
"Può
succedere ad ognuno di noi, da un momento all'altro. Come è
successo
per Julia. E io non sono pronto, non lo sarò mai, non posso
affrontarlo di nuovo".
"Ross...".
Demelza sospirò sorridendogli dolcemente. Gli
accarezzò la guancia
solcata dalla cicatrice, gentilmente e lentamente. "Non puoi
aver paura di questo perché ciò che temi un
giorno succederà e noi
non potremo farci niente. E' l'unica certezza che abbiamo, la morte.
Ma non succederà oggi, non qui. Elizabeth è morta
per qualche
assurdo motivo, ben prima che potesse essere la sua ora, lo hai visto
tu stesso. Ma noi siamo qui, siamo vivi e siamo una famiglia unita e
felice e l'unica cosa intelligente e saggia che tu possa fare
è
godere di questo, giorno per giorno, gustandoti le piccole cose che
rendono la nostra vita degna di essere vissuta e che la arricchiscano
di ricordi che ci accompagneranno per tutta la nostra esistenza. Non
puoi cambiare il nostro destino e la nostra condizione di esseri
umani ma una cosa puoi farla, per te stesso e per chi ami: lottare
perché tutti noi siamo sempre felici ed uniti, solo questo
conta.
L'amore".
Ross
sorrise. Era così incredibilmente saggia e sapeva sedare le
sue
paure e il suo animo con poche e semplici parole. Solo lei avrebbe
potuto farlo, solo lei era la donna giusta per stargli accanto tutta
la vita. E aveva ragione, doveva lottare perché fosse sempre
serena,
felice e si sentisse amata. "Credo che tu abbia ragione, forse
oggi sono solo un po' scosso. Ma resta il fatto che, seguendo quello
che hai appena detto, io domani faccio venire qui Dwight".
A
quel punto, mascherando un sorriso, Demelza prese la sua mano,
appoggiandosela sul ventre. "Non sono malata, semplicemente ce
l'abbiamo fatta".
Ross
la guardò e per un attimo non capì più
nulla. Guardò lei, guardò
il suo ventre perfettamente piatto e poi ancora lei. Non ci speravano
nemmeno più, non ci pensava da tanto, era l'ultimo dei suoi
pensieri
e ora... "Sei incinta?" - chiese, spalancando gli occhi.
"Sì.
Volevo dirtelo in un altro momento ma non hai lasciato scelta. Non
devi preoccuparti, è tutto normale, sto bene. E sono felice".
Col
fiato che gli moriva in gola, la guardò. Lei era felice. E
lui era
terrorizzato! Era contento, certo, di una gioia che aveva quasi
timore a far esplodere perché soffocata da mille paure per
lei, per
il bambino, per tutto... Ma le avrebbe messe da parte perché
sapeva
quanto Demelza lo avesse desiderato e quanto ci avesse sofferto, mese
dopo mese, quando le sue speranze si infrangevano senza apparenti
spiegazioni. L'aveva vista piangere per questo e aveva cercato di
consolarla in mille modi, dicendole che in fondo avevano già
due
figli stupendi e che la loro famiglia sarebbe sempre stata completa
così com'era. La baciò sulle labbra, deciso a non
lasciarla un solo
istante. Si era perso tante cose di Jeremy e non aveva vissuto la
gravidanza e la nascita di Clowance. Quel bambino che si stava
facendo strada in loro avrebbe pareggiato i conti col suo senso di
colpa e con le sue mancanze passate. "Avevi ragione poco fa! Non
posso temere la morte o ciò che puo' riservarci il destino,
questa
casa è piena di vita e l'unica cosa intelligente che posso
fare è
esserne contento".
Demelza
sorrise e gli parve bellissima coi capelli sciolti, che le ricadevano
disordinati sulle spalle.
"Sei
felice davvero, Ross?".
"Felice,
terrorizzato, preoccupato. Promettimi che andrà tutto bene,
che
starai bene. E che starà bene anche questo nuovo bambino".
Demelza
rise, abbracciandolo. "Te lo prometto, anche perché non ho
assolutamente intenzione di star male per tutta la gravidanza".
Ross
rispose all'abbraccio, accarezzandole la schiena. "I bambini lo
sanno?".
"No,
non ancora. Volevo dirglielo assieme a te".
A
quelle parole, Ross si alzò di scatto dal letto. "Bene, che
aspettiamo allora?". Corse fuori dalla stanza e poi giù
dalle
scale, arrivando nella libreria come un tornado. Con foga prese i
bambini in braccio e, incurante delle loro proteste, seguito da un
Garrick scondinzolante, li portò in camera. "Bambini, io e
la
mamma dobbiamo dirvi qualcosa" – disse, appena fu davanti al
letto.
Jeremy
lo guardò stranito e poi si sedette sul letto, appoggiando
il capo
sulla spalla di Demelza. "Mamma, ti sei svegliata".
Anche
Clowance saltò sul letto, sedendosi accanto a loro. Ross le
si mise
a fianco, mettendosela sulle ginocchia.
"Cosa
dovete dirci?" - chiese la bimba, incuriosita.
Demelza
si accarezzò il ventre, piano, guardando i suoi figli.
"Presto
avrete un fratellino. O una sorellina. Aspetto un bambino".
"Oh...".
Clowance la guardò pensierosa, poi guardò Ross.
"E dov'è?
Quando arriva?".
Jeremy
rise. "Ma che domande! Sta nella pancia di mamma, non sai
proprio niente".
Ross
accarezzò la testa del figlio, scompigliandogli i capelli.
"Hei,
non litigate o spaventerete questo povero fratellino che è
appena
arrivato fra noi".
"Dovrebbe
nascere a fine anno, più o meno alla stessa data in cui sei
nata tu,
Clowance. Quando compirai cinque anni" – disse Demelza,
rivolgendosi alla piccola.
A
quelle parole, Jeremy scoppiò a ridere. "Ahah, Clowance! Ti
ruberà il compleanno!".
Clowance
si imbronciò e i suoi occhi divennero lucidi. "Io non lo
voglio
un fratellino. E nemmeno una sorellina! E non voglio nessuno che
viene a rubarmi il compleanno. Mamma, papà, rimandatelo
indietro".
Ross
guardò Demelza in viso, trattenendosi dallo scoppiare a
ridere.
Clowance era sempre fantasticamente buffa e crescendo non era
cambiata poi molto dal giorno in cui l'aveva conosciuta. "Beh,
non è detto che nasca il tuo stesso giorno".
La
piccola incrociò le braccia, arrabbiata. "Ma
perché avete
preso un altro bambino? Non vi bastavo io? C'è pure Jeremy,
è
abbastanza. Così adesso quasto qua nasce e io non sono
più la tua
principessa, papà".
Ross
si addolcì a quelle parole. Capiva le sue paure, le sue
perplessità
e il timore di perdere lo scettro di cocca di papà. La prese
fra le
braccia, la strinse a se e la baciò sulla guancia. "Tu sei
nata
per essere la mia principessa e questo non cambierà mai!".
Mise
la mano sulla spalla di Jeremy, invitandolo a guardarlo in viso.
"Sapete, quando ho sposato la vostra mamma, lei aveva solo me da
amare. E se l'avessi pensata come voi, non sareste mai nati. Eppure
abbiamo voluto avere dei bambini e sapete perché?".
"Perché?"
- chiese Jeremy, mentre anche Demelza lo guardava, incuriosita da
quel discorso.
"Perché
sapevo che la mamma mi avrebbe amato lo stesso e che anzi, mi avrebbe
amato ancora di più. Anche con cento bambini, non avevo
paura che mi
mettesse da parte e lei non l'ha fatto, come potete vedere. L'amore
che proviamo per gli altri non si divide, puo' solo crescere e
nascere in nuove forme per chi arriva dopo di noi".
Demelza
annuì, sorridendogli. Accarezzò i lunghi capelli
di Clowance e la
bimba reagì avvicinandosi a lei e abbracciandola. "Ti giuro
che
non lo farò nascere nel giorno del tuo compleanno.
Farò del mio
meglio perché abbiate compleanni distinti, va bene?".
Ross
la guardò scettico, divertito da quella promessa che di
certo,
benché fosse incredibilmente in gamba, non era in grado di
mantenere
con certezza. "Bambini, noi siamo contenti per questo bambino! E
vorrei che lo foste anche voi".
Jeremy
ci pensò su. "Io sono contento. Basta che, se è
un'altra
femmina, non ami il rosa come Clowance. Ne basta una in casa,
così!".
Clowance
gli tirò un'occhiataccia ma poi, con un sospiro non troppo
convinto,
annuì. "Si va beh, sono contenta SE non mi ruba il
compleanno".
Ross
rise, scopigliando i capelli di sua moglie. "Hai sentito? Sei
responsabile del futuro rapporto fra Clowance e questo bimbo, vedi di
impegnarti nel decidere il giorno giusto in cui metterlo al mondo".
"Lo
farò".
Ross
le sorrise, prese i due bambini per mano e li costrinse ad alzarsi
dal letto. "Ora andiamo di sotto, la mamma aspetta un bambino e
deve riposare".
Clowance
annuì e Jeremy sorrise. La salutarono e Ross li
accompagnò di nuovo
sotto, da Prudie. Ma prima di lasciarli alle cure della serva, si
sedette sull'ultimo gradino, fronteggiandoli. "Hei, facciamo un
patto noi tre?".
"Quale
patto?" - chiese Jeremy.
Ross
sorrise. "La mamma ora è in un momento delicato e
avrà bisogno
di tutto il nostro amore e di tutta la nostra vicinanza. Dobbiamo
starle vicino e farle sentire che le vogliamo ancora più
bene,
d'accordo? Avrà bisogno di noi, avere un bambino
è una cosa bella
ma anche tanto faticosa e difficile. Mi aiuterete a farla stare
bene?".
Clowance
annuì. "Sì. Io voglio bene alla mamma".
"Anche
io! Certo che ti aiuto, papà" – ribatté
Jeremy.
Ross
accarezzò loro la nuca. "Sono davvero fiero di voi".
Li
riaffidò a Prudie e poi, dopo aver intimato loro di non fare
baccano, tornò da Demelza. Mentre erano via si era alzata e
si era
tolta gli abiti per una più pratica camicia da notte.
"Hai
intenzione di stare a letto fino a domattina?" - le chiese,
osservandola.
Lei
rise, finendo di sistemarsi i capelli davanti allo specchio. "Potrei
prenderci gusto, e stare a letto con la camicia da notte è
più
comodo".
Ross
si sedette sul bordo del letto, guardandola. Era bellissima, i
capelli le ricadevano morbidi fino alla vita, pieni di riccioli e
boccoli, la sua espressione era serena e il suo colorito roseo. Era
ancora magra ma non vedeva l'ora di vederla col pancione e godere
insieme a lei di quell'attesa che non aveva saputo apprezzare con
Jeremy e aveva perso con Clowance.
"Sei
stato davvero bravo coi bambini, prima. Hai detto loro delle cose
bellissime sull'amore! Non credevo che saresti diventato un tipo
romantico" – gli disse, divertita, mentre si faceva una lunga
treccia.
Ross
rise, imbarazzato. "Non farci troppo l'abitudine".
Demelza
gli si avvicinò e lui le sfiorò i fianchi,
attirandola a se,
affondando il viso contro il suo ventre e baciandolo con dolcezza.
"E'
la prima volta che fai una cosa del genere" –
sussurrò lei,
accarezzandogli i capelli.
"Cosa?".
"Che
baci la mia pancia quando sono incinta. Mi piace".
Alzò
gli occhi su di lei, perdendosi in quel colore verde-azzurro. "E
allora lo farò sempre".
"Ti
amo, Ross. E sai, nonostante tutti gli errori e i difetti, io non ti
cambierei per niente al mondo".
La
attirò a se, baciandola lentamente sulle labbra. "Ti amo
anche
io. E nemmeno io ti cambierei per niente al mondo. Sei perfetta, per
me" – le sussurrò, mentre tutte le angoscie e le
paure di
quella giornata sparivano, lasciando spazio solo alla vita e alle
belle sensazioni che risvegliava in lui. Sarebbe andato tutto bene,
lo sapeva. Avrebbero aspettato quel bambino insieme, godendo di ogni
istante di quell'attesa, e poi lo avrebbero accolto nella loro
famiglia con gioia, amandolo alla follia. La spinse sul cuscino,
ridendo. "Ora dormi, devi riposare" – le intimò.
Demelza
sorrise, rannicchiandosi sotto le coperte accanto a lui.
"Salterò
anche la cena, quindi?".
"No,
cenerai in camera".
Demelza
rise. "Come una gran signora?".
"Come
una gran signora sposata con un marito molto apprensivo. Fattene una
ragione!".
Scoppiarono
a ridere, insieme, sereni. E anche se fuori continuava a piovere, in
quella stanza, dopo una giornata difficile, tornò il sereno.
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Capitolo 38 *** Capitolo trentotto ***
Isabella-Rose
Poldark decise saggiamente di nascere una settimana dopo il
compleanno della sorella. All'alba del tre dicembre Demelza si
sentì
strana e ormai sapeva bene a cosa avrebbero portato quelle sensazioni
fisiche sempre più pressanti.
Svegliò
Ross, scuotendolo lievemente per non fare rumore.
"Che
c'è?".
Sorrise.
Il tre dicembre non era un giorno come gli altri, era la data che,
tre anni prima, aveva segnato la rinascita della sua storia d'amore
con Ross. Ricordava ancora quel giorno, il suo sgomento e il suo
terrore quando aveva visto suo marito ferito, senza sensi in mezzo a
una trafficata strada di Londra. Era ricominciato tutto
così, un po'
per caso, un po' grazie all'aiuto provvidenziale di Caroline e Dwight
che testardamente avevano lottato perché si ritrovassero.
Ecco,
pensandoci non c'era giornata migliore per lei per mettere al mondo
quel bambino che tanto avevano desiderato lei e Ross dopo essersi
ritrovati, amati ed essere ripartiti insieme. "Ross, il
bambino".
Suo
marito spalancò gli occhi. "Adesso? Ma è ancora
buio, nevica!
Gli altri son nati di giorno, perché ora...".
Lo
guardò storto, non aveva né la forza
né la voglia di spiegargli
che i bambini nascono quando ne hanno voglia, infischiandosene
dell'orologio. "Va a chiamare Dwight!".
"Si,
giusto!". Impacciato, inciampando negli stivali sotto il letto e
rischiando di finire con la testa spiaccicata contro l'anta
dell'armadio, Ross si vestì, le diede un veloce bacio e poi
corse
fuori alla velocità della luce.
Lo
guardò uscire, cercando di non scoppiare a ridere. Sembrava
davvero
emozionato, terrorizzato ed impacciato. Difficilmente l'aveva visto
così! Si massaggiò il ventre, cercando di
stabilizzare il suo
respiro, mentre le fitte iniziavano a farsi incessanti. Conosceva
bene i dolori del parto, ci era passata già tre volte, di
cui una da
sola, lontana da casa e senza nessuno accanto a darle forza e ad
accogliere il suo bambino. Ora era diverso, era a Nampara, c'era Ross
ed erano una famiglia felice. Pensò ai suoi primi tre figli,
nati
tutti in modi tanto differenti: Julia era nata in un attimo in una
giornata primaverile in cui era andata a vedere uno spettacolo
teatrale di una compagnia errante. Jeremy aveva deciso di annunciarsi
al mondo mentre era in barca a pescare e, se Ross non fosse arrivato
a prenderla di peso e a riportarla a casa, urlandole contro durante
tutto il tragitto per quanto fosse stata irresponsabile, il suo
bambino sarebbe nato in mare. Clowance era nata a Londra, in un
momento difficilissimo della sua vita, quando credeva che il suo
matrimonio e l'uomo che amava fossero perduti per sempre. E ora
invece era a casa, nella sua camera, nel suo letto. Un parto banale
forse, ma proprio per questo più prezioso per lei e Ross.
Dopo
mezz'ora Ross tornò nella stanza, seguito da un Dwight
buttato giù
dal letto e ancora spettinato.
Il
dottore le sorrise, avvicinandosi e accarezzandole i capelli. "Ci
siamo e sai già cosa fare, vero?".
"Già".
Dwight
si voltò verso Ross. "Su, è ora che i padri
escano dalla
stanza, ci vediamo fra un po'".
Ross
sospirò, non troppo felice di quell'allontanamento. "In
realtà,
vorrei restare...".
"No!".
Demelza si mise a sedere sul letto, a fatica. "Non voglio che tu
mi veda così, ti prego! Va dai bambini, magari si svegliano
e
potrebbero spaventarsi".
"Ma
io...".
"Ti
prego".
"Sei
sicura?".
"Sicura".
Ross
le si avvicinò, sedendosi sul letto. Le accarezzò
la guancia e la
baciò sulle labbra, dolcemente. "Andrà tutto
bene, vero?".
"Certo,
sta tranquillo. C'è Dwight, sono in buone mani".
"Già".
Ross si alzò in piedi, poggiando la mano sulla spalla del
medico.
"Te la affido, mi raccomando".
Demelza
lo guardò uscire e in un certo senso le spiaceva. Lo avrebbe
voluto
accanto, però odiava anche farsi vedere dal suo uomo in
quello
stato. Avrebbe pianto, urlato, sarebbe stata sporca, sudata e
spettinata e sapeva che lui sarebbe morto dalla paura e dalla
preoccupazione. Era meglio che aspettasse fuori e che stesse con i
bambini. Lei e Dwight se la sarebbero cavati da soli.
A
differenza degli altri parti, quello fu più lungo e
difficile. I
suoi figli erano sempre nati in fretta ma stavolta il travaglio fu
lungo, doloroso e il parto complicato e terribilmente faticoso, tanto
che a un certo punto anche la calma di Dwight parve vacillare.
Cercò
di non urlare, di non lamentarsi troppo per non far spaventare
Clowance e Jeremy, ma in certi frangenti era difficilissimo rimanere
lucida.
Prudie
faceva avanti e indietro portando acqua calda e pezze pulite,
cercando di aitare Dwight a darle sollievo, ma in quel momento tutto
le sembrava lontano, ovattato, coperto dal dolore fortissimo del
travaglio.
Immaginava
che Ross fosse molto preoccupato e in un certo senso questo la
divertiva, nonostante tutto. Tre anni prima lui l'aveva quasi fatta
morire di paura, ora lei si stava prendendo in un certo senso la
rivincita...
Finalmente,
dopo terribili sforzi, un travaglio infinito e tanta preoccupazione,
alle quattro in punto del pomeriggio la piccola Isabella-Rose nacque,
annunciandosi al mondo con un pianto acuto e vigoroso.
Dwight
sorrise, prendendo la piccola e mettendogliela sul petto. "E'
una bambina forte e in salute. E molto pesante, per questo abbiamo
tribulato tanto".
Demelza,
sfinita, strinse a se la piccolina. Lacrime di gioia le solcarono il
viso. Era nata, dopo un'attesa infinita la piccola era fra loro...
Quel giorno avrebbe potuto non arrivare mai, lo sapeva... Se lei
c'era, era per merito del meraviglioso dottore che aveva accanto e
della testa dura sua e di suo marito che in fondo non si erano mai
arresi all'essersi persi. La guardò, era bellissima e aveva
le
guance rosse e piene, era il ritratto della salute quella piccolina.
Era mora, come Ross. E aveva gli occhi azzurri come lei... "Dwight,
grazie" – sussurrò, commossa.
Il
dottore sorrise. "E' il mio mestiere, non devi ringraziarmi".
Demelza
scosse la testa. "Non sto parlando solo di oggi... Grazie per
quello che tu e Caroline avete fatto per me e Ross tre anni fa. Se
non fosse stato per voi, io non sarei qui, felice. E non ci sarebbe
nemmeno lei" – concluse, baciando la fronte della piccolina
che, incurante dei loro discorsi, continuava a strillare.
Dwight
rise. "Che caratterino! E che voce. La bambina mia e di Caroline
è sempre debole e piange in modo così sommesso,
questa piccola
Poldark invece potrebbe rompere i vetri di casa".
Demelza
accarezzò il visino della bimba, baciandola ancora sulla
punta del
nasino. "Sì, credo che da grande potrebbe fare la cantante".
Dwight
rise, mentre Prudie si affaccendava a sistemare Demelza e la bambina.
"Come
la chiamerete?" - chiese Dwight.
"Isabella-Rose
Poldark".
"Nome
doppio? Perché?".
"Perché
abbiamo chiesto ai bambini di scegliere il nome e non sapevano
decidersi, continuavano a litigare e alla fine abbiamo deciso che era
giusto accontentare entrambi. Isabella, come desiderava Jeremy. E
Rose, come ha chiesto Clowance".
"Politicamente
corretto!" - disse Dwight, strizzandole l'occhio. Le si
avvicinò
ed aiutò Prudie a lavare lei e la piccola, a vestirle con
abiti
puliti e a sistemare il letto. "Ora vado da Ross, sarà in
preda
all'ansia, lo conosco! Tu, mi raccomando, riposati! E' stato un parto
lungo e difficile, non voglio vederti in piedi prima di settimana
prossima, d'accordo?".
"D'accordo"
– rispose Demelza, abbracciando nuovamente la piccolina.
Prudie
si intromise fra loro. "State tranquillo, starà in questa
stanza piantonata! A costo di legarla al letto!".
Demelza
si rannicchiò sotto le coperte, con la piccola sul suo petto
che si
era addormentata.
Rimase
sola con lei per alcuni minuti, studiando ogni minimo particolare di
quella nuova bambina. Era sfinita ma sapeva che per quella notte non
avrebbe dormito e sarebbe rimasta ore a fissare sua figlia. Era un
amore potente quello che, sentiva, la legava da subito ai suoi figli,
qualcosa di diverso persino da quello che provava per Ross. Per un
fugace momento pensò ad Elizabeth e a quello che poteva aver
provato
nel momento in cui si era accorta di essere destinata a morire e
sentì una fitta al cuore per lei e per la piccola Ursula
che, come
Isabella-Rose, sicuramente aveva avuto bisogno di sentire la sua
mamma vicino. Da donna a donna, da madre a madre, tralasciando tutto
il resto, sentiva empatia con lei in quel momento. E un'infinita
pena.
Strinse
a se la piccola e in quel momento nella stanza entrarono Ross e i
bambini. Suo marito era pallido, preoccupato. A grandi passi le
andò
vicino, sedendosi poi lentamente sul letto. "Amore mio..."
- sussurrò, prendendole una mano fra le sue.
Lo
guardò negli occhi. Quel suo uomo così
coraggioso, incosciente,
gentile, bello e assolutamente fuori dagli schemi... Sembrava sfinito
come se avesse partorito lui! Lo amava da impazzire, lo avrebbe
sempre amato e nessun altro posto sarebbe stato giusto per lei, se
non accanto a lui. "Sto bene, stiamo bene".
Jeremy
e Clowance si avvicinarono al letto. Il bimbo la abbracciò,
delicatamente, quasi avesse timore di farle male. "Mamma, ti ho
sentita piangere prima".
"Ma
ora è passato. Mi faceva solo male la pancia, sta
tranquillo".
Clowance
si appoggiò coi gomiti al letto, sbirciando il fagottino che
teneva
fra le mani. "Dwight dice che è una sorellina!".
Demelza
annuì. "E' vero, una sorellina. E, come ti ho promesso, non
è
nata nel giorno del tuo compleanno". Si sedette sul letto, a
fatica, mostrando ai due bambini la piccola che dormiva fra le sue
braccia.
Ross
si inginocchiò, mettendo le mani sulle spalle dei due figli.
I suoi
occhi si inumidirono, sorrise e rimase semplicemente così,
in
silenzio, a guardare la nuova arrivata.
Clowance
toccò la piccola sulla guancia. "E' abbastanza bella! Ma per
fortuna non è bella come me, quindi va bene, possiamo
tenerla. In
fondo non mi ha nemmeno rubato il compleanno!".
Ross
e Demelza si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere, mentre
Jeremy scuoteva la testa, esasperato.
Ross
strinse a se i figli, baciandoli sulla nuca. "Coraggio, salutate
la mamma e la sorellina, visto che abbiamo deciso che puo' restare in
questa casa. E andate da Prudie ad aiutarla a preparare la cena".
"Ma
voglio stare qui" – si lamentò Clowance.
"Mamma
deve riposare, è stanca".
I
bimbi si guardarono negli occhi, annuirono non troppo felici e poi,
dopo aver baciato la madre e averla abbracciata, corsero fuori dalla
stanza.
E
finalmente soli, Ross si chinò su di lei. La
abbracciò forte e allo
stesso tempo con una delicatezza che la intenerì. La
baciò sulle
labbra e poi appoggiò la fronte su quella della piccolina.
"E'
bellissima, amore mio".
"Già.
Somiglia ad entrambi, è così perfetta...".
"Ho
avuto paura sai? Ti sentivo piangere e urlare e, se non ci fossero
stati i bambini, sarei corso da te. Odio saperti qui da sola e sapere
che stai male".
Demelza
gli accarezzò i capelli. "I parti sono così, poi
passa".
"Ma
sei pallida, sembri così stanca".
"Lo
sono, infatti. Ma come ti dicevo, passerà".
Ross
si sedette accanto a lei, le cinse le spalle con le braccia e la
attirò a se, in un modo quasi uguale a come aveva fatto anni
prima
quando era nata Julia. La baciò sulla fronte, sulle labbra e
la
abbracciò ancora più forte. "Sono un uomo
fortunato e ora,
forse grazie anche ai miei errori e alla sofferenza che ne è
derivata, ne sono pienamente consapevole. Ho una moglie che amo, dei
figli stupendi ed è tutto quasi perfetto".
Demelza
annuì, capendo cosa volesse dire. "Già... Sarebbe
completamente perfetto se ci fosse anche Julia".
"Lei
è con noi, vive nei suoi fratelli. Voglio pensarla
così...".
"Anche
io". Si rannicchiò fra le braccia di Ross, porgendogli la
bambina. Lui la prese in braccio, quasi timoroso di romperla. Poi la
abbracciò. "Benarrivata in questa pazza famiglia,
Isabella-Rose. Siamo strani ma sai, difficilmente avresti trovato
qualcuno che si vuole bene più di noi! E quindi, visto che
sei nata
in un giorno in cui cade un anniversario speciale per la tua mamma e
il tuo papà, visto che sei stata tanto intelligente da non
rubare a
Clowance il compleanno e visto che tuo fratello e tua sorella han
sentenziato che puoi rimanere... Benarrivata nella nostra vita,
piccola" – disse, baciandola sulla fronte.
Cominciava
una nuova vita, una nuova storia...
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