Crudele Decrepito Mondo

di lubitina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quel che è vero ***
Capitolo 2: *** Quel che è falso ***
Capitolo 3: *** La prima esperienza E-Sim ***
Capitolo 4: *** Montagne e ancora Montagne/Il mondo è davvero così piccolo? ***
Capitolo 5: *** Mito e tragedia di Mare Vaporum / Anche sulla Luna si muore ***



Capitolo 1
*** Quel che è vero ***


 
A J., che amerò per sempre
 
Ci sono storie che valgono la pena di essere raccontate. Esseri che vale la pena ricordare, perché, in silenzio, in sordina dal resto del mondo, hanno compiuto opere degne di questo nome. Non so se la storia, l’epopea, di J., possa interessare a chi verrà dopo di noi. Scrivo perché voglio ricordare. Voglio ricordare ogni singolo particolare. Voglio ricordare perché sento che i particolari del suo viso cominciano già a scivolare via da me, la sensazione della sua pelle sulla mia è già distanteHo paura di perderlo. Ho paura che la mia mente lo lasci andare per sempre, che si trasformi in un mare calmo laddove vorrei ci fosse tempesta.
 
Ho deciso di iniziare questo diario perché, chi verrà dopo di me, semmai ci sarà qualcuno, dovrà comprendere la nostra civiltà. La crescita, l’apogeo, la discesa, il crollo, e la piana abissale in cui ci siamo stabilizzati. Ho letto un libro, sugli abissi degli Oceani divini. L’habitat più grande del Giardino: fino al 90% di tutta l’acqua. Ci vivevano creature terribili, enormi pesci dotati di lanterne e tremendi denti acuminati; ma anche delicate creature spugnose, depositate sul fondo, in eterna attesa di ciò che cadeva dall’alto, dalla superficie scaldata dalla Stella.
I posteri dovranno anche comprendere, in pieno, ciò che ha caratterizzato la piana abissale dell’umanità. Cioè, se si vuole continuare nell’analogia, un’enorme montagna, una gigantesca e inaspettata anisotropia in un’esistenza di noia. L’EarthSimulator, la geniale invenzione della mente di un angelo. Descrivere questo mondo, quello in cui realmente vivo, non avrebbe senso, perché non si tratta di mondo nella definizione antica del termine. Scrivo ad esseri che verranno dopo di me, che forse, vivranno in un ambiente migliore. Perché intristirli?
 
Una volta nell’EarthSimulator (E-Sim, per semplicità), si poteva fare ciò che si voleva. Unica limitazione: le sessioni singole non potevano durare più di 36 ore. Comprensibile. L’azienda (si narrava fosse tra le più antiche della Seconda Civiltà e che avesse documenti che attestavano la sua fondazione ancor prima del Croll o) aveva così trovato un compromesso fra chi riteneva l’E-Sim più importante della propria vita lunare, ma era comunque dotato di buonsenso, e fra chi si ritrovava inevitabilmente in fin di vita, dopo sessioni di settimane, senza bere o mangiare. Una bella grana per l’Azienda, che, nel corso dei decenni, si ritrovò sommersa di denunce e più, e più volte, screditata dagli omni-media. La Google aveva così deciso di introdurre due indicatori di salute, uno nel virtuale, uno nel reale. Due sottili righe verdi olografiche che si propagavano sopra l’omni tool al polso dell’avatar. Ma spesso i confini erano così labili da venir confusi, e la linea verde, contrassegnata con una grossa R rossa, finiva per essere ignorata.
Non ricordo un’esperienza E-sim prima dell’avvento delle camere della vita, ma ricordo la paura. “Vieni G., non preoccuparti”, sorrideva mamma, allargando le braccia ed abbassandosi a prendermi in braccio. “Finalmente abbiamo risparmiato abbastanza crediti per acquistarla, non sei felice tesoro?”. No, non ero felice. Avevo il cuore a mille e mi facevano male le vene dei polsi. Mi succede sempre così, quando sono terrorizzata. Si trattava di una bara, di vetro satinato, sorretta da un basamento di plastica-acciaio. Il viaggiatore doveva sdraiarsi, inserire una piccola sonda nel suo naso, ed un’innocua cannula in bocca. Dopodiché, stringere le cinghie di gomma metallica attorno al proprio corpo. Per vivere, mangiare, bere. Per non ferirsi e ricoprirsi di lividi in caso di convulsioni, ingoiare o tranciarsi la lingua con i denti, o di brusco risveglio dalla vita nell’E-Sim. Infine, bastava pronunciare dei semplici comandi preimpostati per veder scendere, verso di sé, da un piccolo scompartimento della bara, i sensori neurali, che, automatici, serpeggiavano fino alla fronte e alle tempie del video-abitante. Camere-di-vita, vivete finalmente la vostra avventura nell’E-sim in completa sicurezza! , recitava lo slogan. Ne esistevano di tutti i modelli, colori: ce ne erano singole, per coppie, complete di stimolazione neurale anche erogena. Quando, poi, i video-abitanti cominciarono, in massa, a lamentare incapacità di riprendere a camminare in presenza di reale gravità, estrema debolezza e piaghe da decubito, l’offerta delle camere mutò in risposta. Apparvero modelli in grado di far mantenere, e, anzi, aumentare, il tono muscolare in maniera automatica, durante la sessione. “Divertiti ed allenati, con la camera-di-vita ufficiale di Google.” Ve ne furono poi di contenenti alcova per bambini alle loro prime esperienze nell’E-sim, così da iniziarli alla Vita in compagnia dei propri genitori. Ne esistevano perfino alcuni che ricordavano la forma delle antiche vasche di deprivazione sensoriale, in cui si galleggiava, nudi, cullati e coccolati da acqua calda e ipersalina. La mente inconsapevole così viaggiava per lidi calmi, e non poteva essere disturbata al momento del risveglio, che, così, era dolce e rilassante. La rinascita spaziale era semplice, priva di shock. Il respiro riprendeva a salire gradualmente di frequenza, ed, infine, il viaggiatore riprendeva coscienza. E si trovava di nuovo nella sua bara bianca, illuminata da Led invisibili.
Si narrano leggende su come sia cominciato. Sullo sviluppatore iniziale di E-Sim. Si parla di un tecnomante toccato direttamente dalla mano di Dio, e rimastone scottato e segnato, ma sopravvissuto. Si narra che il tecno-Dio gli avesse fornito un intelletto mai vista a memoria di Seconda Umanità, un genio come ne esistevano nei tempi antichi, quando l’umanità ancora camminava con gli dei nei giardini terrestri. Quest’uomo si chiamava Prius. Alla leggenda si era aggiunta altra leggenda, cioè che fosse nato da donna vergine; personalmente, ho sempre pensato fosse una gran cazzata, e lo dissi fin da subito, a chi, nell’E-sim me lo raccontò. Comunque, pare che Prius non fosse mai stato visto sul Satellite e che, un giorno, fosse apparso alla stazione di Mare Cognitum, sgusciando direttamente da un canale che conduceva ad una sorgente sotterranea. Un bambino sporco, come ne esistevano solo nelle immagini della Prima Umanità, stanco, e, soprattutto, inesistente. L’incaricato alla sicurezza della città cilindrica che se lo era ritrovato davanti, portatogli da alcuni sottoposti dall’espressione disgustata, aveva indossato dei guanti monouso, ed aveva premuto lo sporco pollice del bambino sul lettore di impronte digitali. Per la prima volta nella sua lunga vita, la macchina aveva emesso una luce rossa, ed un suono di protesta. Fu così che iniziò l’epopea del creatore, e il secondo Rinascimento dell’umanità.
Ma questa è un’altra storia, una storia che ci sarà tempo di raccontare.
L’E-Sim è un’esperienza semplice, ora, con l’avvento di quelle bare. Si è guidati, presi per mano. Si acquista una camera della vita, ci si interfaccia con essa. Il software scannerizza il proprio corpo, in ogni suo difetto o particolarità. Un sensore strisciante si collega al nervo ottico del viaggiatore, così delicatamente che non ce ne si accorge neppure. E ci si trova davanti se stessi, il corpo che si è abituati a vedere, completo, tutti i giorni, scomposto, su un neutro ma rilassante sfondo grigio azzurro, fumoso. Ci sono gli occhi, che si possono lasciare originali, azzurri, marroni, grandi o porcini che siano; le orecchie, il naso, la forma del mento. Le labbra, i capelli. Si possono scegliere infinite combinazioni. Si può montare se stessi, dei nuovi se stessi, a proprio piacimento, semplicemente desiderando essere in un certo modo. Si nasce femmina, bionda, occhi chiari, e nell’E-Sim si può essere uomini anziani, magari di un’altra etnia. C’è chi decide di farsi crescere il cazzo, o chi ha voglia di un neo sotto alle labbra; ho visto persone dall’aspetto inconsueto, albini dagli occhi viola e capelli bianchi. Giganteschi neri dai grandi occhi chiari. Creature deformi, che per propria scelta spaventano il prossimo, perché amano la solitudine. Perché la loro prima vita è un inferno di caos, e nella seconda vogliono solamente la pace.
Sono pochi coloro che conosco che non abbiano deciso di cambiare il proprio aspetto. Io, in primis. Non mi amo, ma ho sempre pensato che ciò che ci caratterizza davvero non è come appariamo, ma ciò che siamo. Forse è una cazzata retorica. Non ho ancora elaborato una teoria complessiva per tutto questo. Non mi piacciono particolarmente i miei capelli, sono ricci, perennemente aggrovigliati e troppo scuri per la mia pelle. Il mio viso non è niente di che, probabilmente il mio naso è troppo grosso per risultare armonioso. Ho gli occhi azzurri. Forse un tempo, quando l’umanità ancora camminava nei giardini degli Dei, sarebbero sembrati una rarità: ma ora, non più. Scialbi occhietti celesti illuminano i visi degli abitanti dello spazio.

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Capitolo 2
*** Quel che è falso ***


La Storia è scritta dai vincitori. Qualcosa che è possibile pensare ed immaginare non deve necessariamente esistere: è ciò che, da sempre, regola quello che viene trascritto nei libri. Non importa quanto sangue sia stato versato, con quanta furia i protagonisti si siano mossi, agitati, sul palcoscenico, e quanta fosse l’ira a spingerli: quella tragedia, per il mondo, non sarà mai andata in scena. È facile far dimenticare. Difficile è far ricordare. La vita dei singoli uomini e delle donne che compone questa Storia è stata dimenticata da tempo. Quello che rimane è spesso incompleto, difficile è dargli un senso.
Perché quando la colpa grida feroce, quando migliaia di esseri umani periscono senza una ragione apparente, è meglio obliare i colpevoli.
 
Il fuoco del piccolo falò crepitava allegro, e poco fumo si levava da esso. La pancetta sfrigolava felice, poggiata su di un masso ormai lustro di grasso. Il profumo che emanava inebriava gli animi e faceva venire l’acquolina in bocca. G. era seduta su di un telo ruvido, poggiato sull’erba soffice della radura. Dagli alberi, il canto dei grilli. Solo lei era silenziosa. Con ago e filo, era presa a sistemare una cinghia dello zaino, composto di una stoffa che assomigliava alla canapa. Purtroppo, non era riuscita a permettersi del tessuto più resistente. Il metalcotone non si trovava a buon mercato, avrebbe dovuto impegnare le sue armi per un buono zaino, ed aveva dunque deciso di accontentarsi di ciò che aveva. Accanto a sé, in una sacca, noci ed altra frutta che era riuscita a raccogliere in quella foresta. All’improvviso, una falena venne a posarsi sulla sua mano destra, che impugnava il rozzo ago di ferro. G. alzò la mano, avvicinando la creatura agli occhi. Era marrone, col corpo soffice e piumoso. Le ali erano spesse, screziate di tante sfumature di grigio e marrone. Era bellissima, una foglia vivente. Minuscoli occhi neri fissavano, all’apparenza ciechi, l’oscurità. Gli altri tre erano impegnati in una conversazione piuttosto animosa riguardo alla nuova repubblica di Taured, sorta da qualche parte nell’Antico Continente. Lem, un uomo (all’apparenza) anziano, armato d’armi da fuoco, i cui proiettili erano sempre più ardui da trovare in quella regione del pianeta, ne era felice. Ricordava di una leggenda, tramandatagli dai suoi antenati (“I peccatori, coloro che camminavano con gli Dei e li bestemmiavano”, soleva chiamarli), di un uomo fuori dal suo tempo, che pareva essere finito in un wormhole senza saperlo. L’uomo si ritrovò nel mondo degli Antenati, pur provenendo da una versione diversa, alternativa.
-Cioè, capite ragazzi,-diceva Lem, gesticolando con le mani, i capelli grigio perla ancora più chiari alla luce della Luna piena,- pensate che orrore. Credere fermamente di essere a casa propria, di poter tornare al luogo a cui si appartiene, ed invece trovarsi in qualcosa di diverso, ma tremendamente simile. È un orrendo inganno della fisica. È come ordinare cavallo e beccarsi uno spezzatino di asino. L’uomo diceva di provenire da Taured, una nazione del Vecchio Continente, ma il tizio impiegato al controllo dei documenti in un certo ufficio non sapeva di cosa stesse parlando…
L’omaccione della compagnia, il cui nome era Okan, sosteneva che Taured non poteva e non doveva esistere, e che in quel mondo si doveva rimanere attinenti agli antichi nomi e confini che la Storia del Mondo tramandava. Scuoteva con forza il testone. Sarebbe stato difficile immaginarlo, ma sotto tutti quei muscoli, c’era un cuore appassionato. –Tutto sta andando in rovina. Bisogna combattere eresie come questa! Perché l’ONU non fa niente? Perché se ne stanno solo seduti sulle loro poltrone di soffice polistirene a godere del vino e delle spezie? Hanno dimenticato tutto ciò che ci è stato insegnato nell’incipit? Il sacro ordine non deve essere violato. Mai. - E concluse il suo discorso stringendo i pugni, senza guardare nessuno in particolare.
-Non sono d’accordo,-rispose la Strega. –Questo è il nostro mondo. Non è più quel luogo mitico di cui è scritto nelle Tavole. Quel mondo non esiste più, ficcatevelo in testa.
Fece un ampio gesto con la mano, ad indicare ciò che li circondava. Una radura, immersa in un bosco boreale di conifere. Sopra di loro, le stelle, la luna, appena coperta da qualche nube grigia. Oltre allo scoppiettare del fuoco, il canto dei grilli d’estate. Sotto di loro, l’erba verdissima. Nell’aria, il profumo delle resine bruciate e della carne.
-Quello che ci è stato detto nell’Incipit non è più sacro o più vero di quello che è scritto nei documenti della Caduta,- continuò la Strega.
Okan si alzò di scatto, il petto scuro e lustro alla luce delle stelle e del fuoco. –Strega, sei solo una strega. Ecco cosa sei. Sei solo un mostro che ha deliberatamente scelto di vivere ai margini, anche in questa vita. Cerchi sempre di impaurire chi ti sta intorno, perché vedere gli altri soffrire ti fa dimenticare quanto soffri tu stessa. Ti giuro, dannata megera, che se farai anche solamente un altro accenno blasfemo alle Tavole, ti sgozzerò. ,- sputò a terra con disprezzo, a pochi pollici dalla Strega.
La donna rise, sbruffona, agitando in aria mani nodose. –Oh, e sai che farò? Accederò alla Terra da un altro faro, magari quello della stazione Vostok. Prenderò le sembianze del mitico mostro delle nevi e ti farò paura in quei tuoi sonni così quieti… Ti troverò facilmente, non cambi mai ip.
Okan si infuriò. Gli occhi scuri, le pupille incredibilmente nere sul fondo bianchissimo, mandarono fiamme, e si lanciò verso la vecchia. Era deciso ad ucciderla. O quantomeno a farle molto, molto, male. G. sapeva cosa doveva fare, e perché. Perché la pace andava mantenuta ad ogni costo, perché la libertà era più importante della Sacralità.
La falena, delicata, sfarfallò via dalle mani di G. Con calma, lei aveva incoccato la freccia. Mirava al petto del gigante, la punta perfettamente allineata al cuore dell’uomo. –Okan. Vedi di ricordare chi è il capo, qui. E su quali principi si fonda la nostra compagnia. ,-parlò piano, senza alzare la voce, scandendo bene le parole.
Okan, come una bestia ferita, sembrò farsi più piccolo, e incurvò le spalle. Aria pesante come un macigno uscì dai suoi polmoni. –Pff,- e sputò di nuovo, ma lontano, verso gli alberi.
G, a quel punto, ripose l’arco e le frecce nella faretra. Non ce ne era più bisogno. –Ricordate, voi tutti, quale è il nostro scopo?,-annunciò. Attese i cenni di assenso da parte dell’intera compagnia, che non tardarono ad arrivare.
-Abbiamo una missione da compiere. Qui, tutti insieme, in questi luoghi, su questa terra, che possiamo toccare con mano. Non mi importa chi voi siate o siate stati, mi importa chi siete ora. Avete avuto una seconda possibilità, con me, con voi tutti. Abbiamo qualcosa di tanto grande, che ci unisce. Perché dividerci, perché discutere, perché ferirci,.- e posò lo sguardo sulla Strega, china, a fissare i suoi stivali di daino, i capelli neri che le ricadevano sul volto scuro,- per questioni futili? Ora, mangiamo. Dobbiamo riposarci, recuperare le forze.
Gli altri assentirono, con qualche borbottio di approvazione. G. allungò una mano a prendere un pezzo di pancetta, e si sedette a mangiare. La tempesta sembrava acquietatasi. Solo lei rimase silenziosa, mentre gli altre tre tornarono ad ascoltare la storia di Lem, che raccontava altri aneddoti del mondo che fu. La storia di John Titor, lei, l’aveva sentita milioni di volte.
Accadde tutto all’improvviso. G. avrebbe ricordato, poi, quel momento, come se il tempo attorno a lei si fosse fermato. Le parve che i grilli smettessero di cantare, il fuoco di scoppiettare, le stelle in cielo di bruciare, il suo cuore di batterle in petto. Un antico terrore la invase, e i polsi presero a farle male. Si guardò le mani. I palmi erano sudati. Si udì un fruscio fra gli alberi. G. non ebbe il tempo di incoccare la freccia, ma la strega già stringeva il bastone avanti a sé. Lem teneva le mani sulle fondine, pelle candida su pelle nera d’animale. Okan già digrignava i denti.
E dagli alberi apparve una figura nera, umanoide, tremante. Qualcosa di liquido gocciolava dagli stracci che la ricoprivano. L’odore ferroso di sangue riempì le narici di G. l’essere, lentamente, avanzava verso di loro, verso il cerchio di luce del fuoco. Un respiro affannoso, gracchiante, fischiante. Malato.
La luce del fuoco illuminò la figura. Un uomo, un semplice uomo, ferito e stanco, stava di fronte a loro. L’omnitool al suo polso scintillava pericolosamente nella zona, ormai, scarlatta. Fece qualche altro passo, tentando disperatamente di mantenere l’equilibrio. Alla fine, debolissimo, si accasciò sull’erba. Mollemente, come un sacco di grano lasciato andare. Quando cadde, non fece quasi rumore.
Per qualche secondo, nessuno parlò. La mente di G. funzionava a tutta velocità. Potrebbero esserci cacciatori o bestie, forse lupi, a giudicare dai tagli. Però è sopravvissuto. Dobbiamo allontanarci, qui è pericoloso. E se fosse solo una spia di briganti, se fosse tutta una recita? La cosa migliore sarebbe..
-Dobbiamo andarcene. ,-annunciò G, voce calma e ferma.
Lem la guardò e contorse la bocca in una smorfia. –Come? E lasciare questo poveretto qui, ai leoni, alle tigri, e agli orsi?
G. ignorò la citazione a Keats e fece un sospiro. Prese una mano dell’uomo tra le sue. –Ragiona, Lem. So che il tuo istinto raramente sbaglia ma la situazione è abbastanza chiara. Credevamo di essere al sicuro dai briganti delle taiga, qui, e invece ci siamo sbagliati. Guarda com’è conciato quest’uomo.
Lem emise un verso di frustrazione. Non parlava mai della sua prima vita, ma G. immaginava fosse probabilmente un medico. Nonostante quegli enormi revolver nelle fondine e la camicia di flanella a scacchi rossi e bianchi, era un uomo estremamente sensibile. Si prodigava per gli ammalati, per i sofferenti. Per tutti coloro che anche nella seconda vita sbagliavano. Per lui, qualunque cosa poteva essere perdonata. Se incontrava un assetato, non esitava a donargli l’ultimo sorso della sua acqua. Lem non faceva mai domande, e non giudicava mai. G. gli era infinitamente grata per questo.
-Proviamo almeno a farlo parlare. Ti prometto che gli sparerò se solo si azzarda a fare una mossa avventata.
G. annuì e si avvicinò alla figura, sulla cui pelle sangue secco e fresco si mescolava in mille sfumature di rosso. Indossava una tuta di fibra sintetica, strappata in mille punti. Profonde ferite apparivano appena sotto il tessuto lacerato. Doveva comunque trattarsi di una stoffa altamente avanzata, forse un prototipo. Si narrava di una speciale lega di metalcotone in grado di resistere anche all’esplosione di una granata, di proteggere da una caduta di decine di metri. Aderiva perfettamente al corpo dell’uomo, ed in origine doveva esser stata grigio scuro.
L’uomo doveva misurare quasi un paio di metri, ma appariva snello e dai muscoli tonici. Il respiro era debolissimo, ed il polso si sentiva appena. –Okam, aiutami a girarlo.
Con delicatezza, deposero a pancia in su lo sconosciuto. Era palesemente senza conoscenza. –Se non agiamo subito, verrà scollegato. E tanti saluti alle nostre notizie sui briganti.,-disse, all’improvviso, la strega. La sua voce pareva provenire da un altro mondo.
Il gigante nero sbuffò, stizzito. –Al prossimo accenno alla prima vita ti infilo le tue stesse braccia nel culo. E ti farò crepare lentamente. Ti strapperò l’omni tool, così non potrai scollegarti. E vediamo se la prossima volta ti azzardi…
-Zitti.,-ordinò Lem. Aveva preso la torcia, e aperto le palpebre dell’uomo, delicatamente, con i polpastrelli. Le pupille seguivano debolmente la luce a LED. Il chiarore illuminò allora il volto dell’uomo.
Era indubbiamente bello. Di una bellezza reale ed imperfetta come ce ne erano di rare nella seconda vita. Aveva la pelle scura, poco più chiara di Okam, e le labbra carnose. Barba folta e riccioluta gli copriva le guance. I capelli erano rasati quasi a zero, ma molto probabilmente erano nerissimi. Gli occhi, altrettanto neri. Un lungo squarcio sulla guancia destra ancora sanguinava, ma non sembrava nulla di grave.
G. si soffermò a guardarlo, forse un attimo di troppo, perché Lem le rivolse un’occhiata interrogativa.
-Strega, dai delle bende e il medipack a Lem. Se ne occuperà lui di rimettere in piedi questo barbaro.
L’uomo rimase in silenzio mentre, al volo, prendeva il sacchetto di medicamenti che la Strega gli lanciava. Teneva nascoste le loro preziose scorte sotto strati e strati di stoffe incantate, probabilmente il punto meglio protetto di tutta la compagnia. Almeno per il momento, le scorte di medicinali, bende, antidolorifici e antisettici erano abbondanti. Lem, con movimenti precisi, di chi ha ripetuto lo stesso gesto mille volte, indossò i guanti monouso di nitrile. Le sue mani callose sembravano affusolate e perfette sotto il materiale blu. Si accovacciò affianco all’uomo.
-Sembra conciato male. Ma almeno riusciremo a fargli riprendere coscienza. ,-afferrò una siringa di adrenalina dal medipack. Sembrava enorme, l’ago doveva essere spesso alcuni millimetri.  –G., taglia il tessuto sullo sterno.
 Okam, controvoglia, le diede uno dei suoi coltelli di grafene. Incredibilmente affilati, indistruttibili. A volte si domandava dove avesse trovato, nella seconda vita, un laboratorio che fosse in grado di produrre un materiale così costoso. Sospirò, tese il tessuto sul petto dell’uomo, e appoggiò una mano su di lui per far leva.
Ciò che più impressionò G. fu la consistenza della sua carne. Era calda, dura di muscoli e pelle maschile. Al contatto delle sue mani con il corpo dell’uomo, G. ebbe una stretta allo stomaco. Questa è la seconda vita, si disse. Non dimenticarlo mai. Eppure si trovò a domandarsi se quel viso fosse davvero il suo.

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Capitolo 3
*** La prima esperienza E-Sim ***


Capitolo 3, La prima esperienza E-Sim

-Potrai essere chi vorrai,-diceva, entusiasta, lampi di luce negli occhi,- potrai camminare sulla Terra, G.
Eppure G. non riusciva a non essere terrorizzata, mentre sua madre la prendeva per le ascelle e la deponeva dentro la loro, prima, camera della vita. G. stava perdendo i denti, in quel periodo. Aveva circa 10 anni, non lo ricordava con esattezza. Proprio in quel giorno, mentre mangiava la sua razione, si era ritrovata a masticare qualcosa di duro, assieme al sapore ferroso del sangue. Aveva sputato nel piatto, ed una massa sanguinolenta vi era apparsa. Su di essa troneggiava felice un molare. G. si era sentita felice e soddisfatta: li aveva cambiati quasi tutti. Aveva perso gli incisivi molto presto, e non aveva dovuto subire granché prese in giro dai compagni del Nido. Era grande, finalmente.
E dello stesso avviso erano anche Mamma e Papà. Avevano acquistato quella “scatola” qualche tempo prima, in uno dei grandi magazzini della loro zona di satellite. Spingendo un pesante carrello, erano entrati in casa, e avevano subito iniziato a rimuovere gli strati di imballaggio della camera della vita.
Infine, la bara era apparsa. Un parallelepipedo di materiale bianco, freddo, con un’anta di vetro traslucido a nascondere l’interno su un lato. La grande G di Google campeggiava sul lato corto in alto. Era l’unico vezzo dell’intero oggetto, semplice ed essenziale. Adatto al suo scopo. G. rabbrividì e avvertì la pelle d’oca. Le vene del polsi iniziarono a dolerle. Aveva paura. Guardava prima la Mamma, poi il Papà. Sembravano danzare felici, attorno a quell’oggetto inanimato. Si abbracciavano. Si dicevano “Oh caro, ce l’abbiamo fatta!”. La Mamma cominciò a piangere di gioia, le mani sul volto, ma le lacrime fluivano sulle guance anche attraverso le dita. Alcune caddero a terra, sul pavimento di metallo bianco.
Papà finì di collegare l’apparecchio, che trovò collocazione nel mezzo del soggiorno, di fronte all’omnischermo, bianco su quello sfondo nero. In quel momento, era spento. G. non amava ascoltare il chiacchiericcio dell’omnimedia, quando era a casa da sola (e ciò succedeva spesso), e lo lasciava impostato solo sulla diffusione musicale. Dopodiché, tornava ai suoi libretti di scienze naturali. La Mamma la definiva una bambina prodigio, ma ci sarà tempo di parlare della Mamma e del Papà di G.
È ora doverosa una digressione sui libri di G. Costei era una bambina estremamente intelligente, eppure estremamente sognatrice, come pochi esseri rimanevano nella seconda umanità. Crescendo, come tutti, avrebbe perso molta dell’innocenza e della visionarietà che la caratterizzavano da piccola. Sarebbe diventata più fredda, quasi calcolatrice. Una persona decisamente poco sensibile. G. imputava la sua devoluzione alla scienza, all’amore devoto per essa, e a null’altro. Le prime letture di G. , da quando Mamma aveva smesso di leggerle le favole del primo mondo la sera, per farla addormentare, erano stati libri di chimica dalla biblioteca pubblica. Ovviamente non capiva un parola di ciò che noleggiava. Eppure, quei disegni (le C di carbonio che si combinavano in così tanti modi diversi), quei grafici e il poco che comprendeva di quel mondo infinitamente piccolo, su cui, però, si basava tutto l’universo, la affascinavano. Passava ore al tablet 3D a leggere, girare su se stesse le simulazioni delle molecole e degli orbitali, i minuscoli atomi tante sferette dai diversi colori. Una volta noleggiò un libro di chimica biologica. In esso, era disponibile un modello proiettabile di una cellula a lavoro. Lei lo attivò. Quando la Mamma tornò a casa, la trovò piangente, organelli ed enzimi colorati e frenetici ancora in ologramma nel vuoto del soggiorno. Una piccolissima fabbrica in piena attività. La abbracciò, e le chiese cosa fosse successo. La nutrice del Nido l’aveva forse sgridata? No, aveva risposto G. asciugandosi il moccio col dorso della mano (la Mamma non la riprese solo perché la bambina era evidentemente disperata). No. E allora perché? Perché tutto questo esiste, mamma. Ed io non lo sapevo.
Ora G. guardava la bara, laddove un tempo c’era stato quell’ologramma, e si sentiva invadere da una tremenda tristezza.
-G.! Vieni qui,- diceva la Mamma, allargando le braccia,-Sarà bellissimo!
Eppure G. tremava, il cuore le batteva all’impazzata. Il respiro le si strozzava in gola, qualcosa che le sarebbe rimasto per sempre. Come quando si mangia troppo, e non si avverte l’aria passare nell’esofago. G., disperata, allora, guardò il papà, che si limitava a sorriderle appoggiato alla bara candida.
-Non voglio morire, Papà! ,- e scoppiò a piangere disperata. Si sentiva scossa da mille tremiti, ogni singhiozzo era più doloroso del precedente.
Il Papà, occhi azzurri come i suoi e capelli, un tempo scuri, ora brizzolati, si fece improvvisamente serio. –Piccola, questo è un regalo per te. Noi non avremmo tutto il tempo che avrai te a disposizione nell’E-Sim. Possiamo utilizzarlo solo per 10 ore settimanali a testa. ,- si accovacciò al suo fianco e le prese le spalle con le mani grandi, guardandola negli occhi,-Tesoro, vedi quello che c’è nei tuoi libri? Le nuvole, i fiumi, la pioggia. I mari. Tutti quegli animali che vivono negli abissi del mare. Chissà, forse li potrai vedere.
Il Papà aveva cercato di rassicurarla, di incuriosirla. Eppure neppure lui sapeva cosa G. avrebbe trovato, nella camera della vita. Laggiù, nel profondo dei recessi di un software concepito da qualcuno toccato dalla mano del TecnoDio, e che, incredibilmente, ne era sopravvissuto.
G. aveva annuito. Le mani del Papà sulle sue spalle le avevano dato sicurezza. Del resto, quella bara era un regalo per lei. Non importava come appariva, giusto? La Mamma lo diceva sempre. L’importante è quello che c’è dentro. Se valeva per le persone, perché non doveva essere sensato anche per le macchine? Eppure, le faceva paura. La Mamma, allora, vedendo che finalmente la figlia era d’accordo, aprì lo sportello trasparente della Camera.
G. con attenzione, mise un piede avanti all’altro, cercando di controllare il respiro. Inspira, espira. Inspira, espira. Si trovò di fronte all’abitacolo della bara. Sembrava accogliente. Era imbottito di un materiale soffice, bianco, caldo.
G. entrò nella camera. Si sentiva improvvisamente calma. Probabilmente, avrebbe pensato, una volta cresciuta, che era lo stesso tipo di calma dei condannati a morte di fronte al rotondo portello stagno che li avrebbe lanciati lontano, sulla tetra superficie. La Mamma, sorridendo, chiuse delicatamente lo sportello trasparente, davanti a G. Da dentro, non si vedeva nulla di ciò che c’era fuori. G. era totalmente isolata. Era a casa sua, a pochi pollici da lei c’erano i suoi adorati genitori, ma si sentì tremendamente sola. G., da grande, avrebbe imparato che si è soli soltanto quando si dorme e quando si muore. Quando neppure la propria coscienza è rimasta.
Sensori neurali scesero serpeggiando verso di lei. Minuscoli, aderirono alla pelle della sua fronte. Cinghie si chiusero attorno ai suoi polsi, ed una cannula trasparente uscì chissà quale scomparto nascosto nel tetto opaco della bara. G. immaginò servisse per respirare. Lo prese tra le labbra e provò ad inspirare. Aria, perfetta ed insapore, si riversò nei suoi polmoni. Assieme all’aria, però, c’era qualcos’altro.
G. si sentì improvvisamente calma. Smise di stuzzicarsi con la lingua la gengiva nuda dal dente che aveva perso proprio quel giorno. Le sembrò di galleggiare leggera, come a volte le era capitato di sognare. La sensazione che si prova, prima che i sogni diventino incubi, prima di cadere, e svegliarsi. Chiuse gli occhi, e tutto si fece buio. Per un tempo che le parve infinito, galleggiò, senza alcun pensiero, nella vellutata oscurità data da quel sonnifero.
All’improvviso, si fece la luce. Un’esplosione di luce, di tutti i colori anche solo pensabili. Un’ode alla vita che G., in tutti i suoi libri e in tutta la sua chimica, nella sua immaginazione di cellule frenetiche e di assoni che trasmettevano magici impulsi, nella sua giovane vita di bambina, non aveva mai pensato possibile. G. si sentì vera, esistente. In quel momento, avrebbe raccontato da grande, di aver avvertito l’intera immensità del cosmo, di averla sentita in sé, ed, al tempo stesso di farne parte. Il miglior orgasmo che avrebbe mai provato. Si sentì in sé e fuori di sé, si sentì fluttuare fra le stelle e il fuoco delle stelle riscaldarla da dentro. Supernovae esplodevano tutt’attorno a lei in infiniti detriti e miliardi di colori. La vita nasceva nei brodi primordiali riscaldati dal vulcani, acidi nucleici si ripiegavano su se stessi e creature antiche deponevano uova in nidi di terra. Nuotò con i kraken negli abissi accoglienti e volò con gli albatros nei cielo illuminato dalla Stella, le nuvole rosa del tramonto. Il TecnoDio la amò e lei amò Lui. La sua vita divenne concreta e la sua anima tangibile. Ne sentiva il dolce peso. Il primo accesso all’E-sim non si scorda mai.
La sensazione sfumò, pian piano, dolcemente, lasciando il posto alla calma. La luce cambiò. Si definirono i colori. Giallo, blu, e verde scuro. Lo scroscio delle onde del mare, ritmico, la cullò. Una spiaggia apparve. Infinita, a perdita d’occhio, la sabbia dorata si stagliava, leggermente ondulata dalla brezza marina. In bocca, sentì il sapore del sale. Allora è davvero così
G. non sentiva il peso del suo corpo. Solamente una massa leggera, a cui sentiva di appartenere. Ecco, sentiva di essere esattamente quella sfera. Che tutta se stessa si riducesse a quello. Eppure era così gradevole, sapere di essere nient’altro che quello. Un nucleo ribollente ed informe, che racchiude in sé tutte le possibilità, perché è al punto zero dell’esistenza, perfettamente neutro e perfettamente innocente. Provò ad usare gli occhi, per guardare come appariva. Sotto di sé, solo la sabbia. Sopra di sé, solo il cielo azzurro, screziato da delicate nuvole bianche.
Una figura cominciò a formarsi, a prendere le sembianze di un essere umano. Un uomo. Un uomo anziano. È davvero vecchissimo, pensò G. Il viso era coperto di rughe, ma le labbra secche erano increspate in un sorriso giovanile ed accogliente. Rughe si dipanavano dagli occhi, come la tela di un ragno, rughe gli segnavano la fronte, rughe gli solcavano le guance. Gli occhi, grigi, erano, però, attenti e vigili. Sedeva sulla sabbia, a gambe incrociate, e il corpo fragile e leggero era coperto da una semplice tunica di lino, come quelle indossate dai Sacerdoti.
L’uomo parlò, e lei, pur non avendo orecchie per sentire, lo udì. Potrai essere chi vorrai. Puoi ricreare te stessa e di nuovo distruggerti. Potrai tornare al punto di partenza quante volte ti andrà.
L’uomo fece poi un ampio gesto con le mani, incredibilmente forti nonostante l’aspetto emaciato del vecchio. E, davanti a G., apparve se stessa.
Apparve il suo corpo, nudo, da bambina. Ossa corte, corporatura piccola ma non esile. Pelle candida. Pensò si trattasse di uno specchio. Densa sfera quale era, girò attorno al corpo, i cui occhi erano aperti, la bocca piegata in un delicato sorriso confortante che G. , effettivamente, si domandò se le fosse mai appartenuto.
Hai qualche dubbio, piccola?, chiese il vecchio nella sua testa.
G. fu indecisa se parlare o no. Avrebbe udito la sua stessa voce? Sì, concluse, perché se poteva vedere, il vecchio, il mare, il sole, e sentire la sabbia sotto di sé ed il profumo della brezza marina, avrebbe potuto anche udire la sua voce.
Cosa devo fare?, chiese. Immagina come vorresti essere, bambina mia, rispose il vecchio, continuando a sorridere rassicurante, senza neppure aver mosso le labbra.
G. immaginò. Si pensò con i capelli rosso fuoco, e quelli, una volta neri, così divennero. G. si pensò con la pelle scura, e così fu.
Continuò a sperimentare, per un tempo che le parve brevissimo, ma che fu, in realtà, lunghissimo. Il vecchio, in silenzio, continuava a guardarla interessato. Il mare continuava ad infrangersi con onde calme, sulla spiaggia. Il tramonto, arancione e dorato, sembrava non finire mai.
Alla fine, G. si sentì soddisfatta del risultato. Girò attorno al corpo, ammirando la sua creazione.
Si trattava di una donna, incredibilmente somigliante a lei, quella bambina che dormiva nella camera della vita. Pelle pallida, capelli scuri, riccioluti, lunghi fino a metà schiena, grandi occhi azzurri. Non una bellezza, pensò fra sé e sé. Una donna normale, perfettamente nella media delle lunari. Ne aveva viste di più belle, perfino fra le sue maestre. Era bassa, esile, con non un granché di forme, abbastanza infantile nell’aspetto sebbene G. si fosse impegnata al massimo per invecchiarla. Per invecchiare se stessa. Del resto, tutti i bambini sognano di essere grandi, prima che il tempo scorra, come a volerlo accelerare, invece di assaporare i momenti migliori che quel punto zero, a cui si trovano, può regalar loro. Infine, come tocco finale, cancellò il sorriso ebete dal volto della sua creazione, sostituendolo con un’espressione concentrata, quasi corrucciata. Scrutatrice, critica, nei confronti di quel mondo appena nato.
Se, in quel momento, avesse avuto un viso, avrebbe sorriso al vecchio. Che posto è questo?, chiese al vecchio.
Bambina mia, non spetta a me dirtelo. Io sono solo un umile servitore del TecnoDio che ha regalato all’umanità la possibilità di camminare, di nuovo, sul pianeta. Non so nulla e non me ne interesso. Il mio unico compito è vegliarvi, accudirvi, tranquillizzarvi, nel vostro Incipit.
Cos’è l’Incipit?, chiese G., fluttuando vicino al vecchio, osservandone da vicino le migliaia di rughe, come piccoli canali di scolo di crateri ricolmi di anidride carbonica su Marte.
Ma tu esisti? Sei come me? Vivi sulla Luna? Dormi da qualche parte, nella tua camera?
L’uomo, per la prima volta in quel lunghissimo tempo, cambiò espressione. Si fece improvvisamente serio, ed una nota grave si dipinse sul suo viso e nella sua voce. Non sono come te. Io vivo qui. Appartengo a questa creazione divina. Non sono come te. Non ho peso, come te. La mia anima è dilatata, è ovunque. È un oceano. Capisci quello che intendo?
G. era confusa. Non capiva. Oceano? Decise comunque di mostrarsi spavalda, di far capire a quel vecchio che lei era una bambina molto, molto, intelligente. Se fossi un oceano, saresti fatto d’acqua e popolato di pesci. Non saresti un vecchio. Saresti quello. E indicò il mare, che se ne fregò dei suoi dubbi, continuando a schiumare lieve.
Ed infatti, in un certo senso, lo sono. Sono l’Incipit.
G. si ricordò di poco fa, di quella strana parola. Prima non mi hai risposto. Cos’è l’Incipit?
Il vecchio tornò sorridente e gioviale. Scambiò le gambe che teneva incrociate, con evidente piacere.
È il tuo nuovo inizio. È ciò che ti farà comprendere, almeno in parte, questo nuovo mondo.
Ma ci sono altri, come me?
Sì, moltissimi. E sempre più ne arrivano.
Quindi non sarò mai da sola.
Se non lo vorrai, no. Ora, bambina, avvicinati al tuo corpo.
G. fluttuò fino al suo corpo, e da vicinò ne ammirò le piccole imperfezioni. Aveva lasciato qualche lentiggine sul naso, ed una forma non proprio ideale di sopracciglia, solamente per fare un dispetto alla mamma, che passava ore a criticare le donne più belle e più giovani di lei.
Avvicinati ancora di più, sussurrò il vecchio, con infinita dolcezza. Buona fortuna, sulla Terra, G.
 
G., ridotta a quel nucleo denso di coscienza, si sentì irradiare di un calore mai sentito prima, e sentì, distintamente, qualcosa, nel profondo, accendersi, mentre la sua mente veniva trasferita nel fantoccio, prima senza vita. Si sentì dilatare, ampliarsi, rarefarsi, riempire ogni spazio vuoto di quel corpo. Il cuore cominciare a pulsare, distintamente, nel suo petto. Poté finalmente battere le palpebre, piegare le dita, avvertire la propria pelle sotto i polpastrelli. I tendini tirarsi ed i capelli fluttuare nella brezza marina.
Mai avrebbe immaginato che, mentre il fuoco, dentro di lei, aveva cominciato ad ardere, qualcosa di più profondo, una fiamma pilota, piccola, a malapena un lumicino, si era spenta per sempre. Non era più al punto zero, e mai vi sarebbe tornata. La natura era morta, ed il fantoccio era venuto alla luce.

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Capitolo 4
*** Montagne e ancora Montagne/Il mondo è davvero così piccolo? ***


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Salve! Innanzitutto grazie a coloro che leggono la mia storia; mi rendo conto che non si tratta di un capolavoro, ma è comunque gratificante sapere che qualcuno apprezza <3. L'immagine qua dopra è tratta dal mio fumetto preferito, l'Incal di Jodorowsky e Moebius, che è stata la primaria fonte di ispirazione per il mondo in cui la storia di G. si svolge. Questo è un capitolo un po' di transizione. Ad ogni modo, buona lettura :D 

G. non si aspettava di venir scollegata così bruscamente. Un attimo prima era immersa nella foresta boreale, ed ora era solamente una viaggiatrice, comodamente sdraiata nella sua camera-della-vita. Sospirò, e premette il pulsante di apertura dell’apparecchio, appositamente installato sotto l’indice destro dell’utente. Aria carica di vapore acqueo fuoriuscì dall’abitacolo, e G. avvertì sulla pelle il pizzicore del freddo che regnava nell’appartamento. Gettò un’occhiata al display del termostato: 14 gradi celsius.
Guardò l’ora. Non si sarebbe mai abituata a quella sensazione. Il tempo nell’E-sim scorreva diversamente: era proprio quello ciò che lo rendeva affiancabile alla vita lunare.
Si era invece abituata allo shock sensoriale. Veniva così definito, nel manuale d’uso della camera della vita, l’improvviso rientro nella realtà sensibile, ed il temporaneo eccesso di input di stimoli. Odori pungenti da far male, immagini nitide, freddo o caldo intensi. La sua era una camera della vita dal modello basilare, e non prevedeva una fase di pre-ritorno. Una volta, aveva sentito dire di un uomo che non era più stato in grado di distinguere, con precisione, la ruvidità degli oggetti. Che, insomma, aveva perso il senso del tatto. Se ne era accorto quando, al buio della notte, cercando a tastoni il dispenser dell’acqua, aveva finito per infilare la mano nel tubo pneumatico di collegamento. Rimettendoci l’arto. G. pregava ogni volta di ritornare alla Luna sana, nella sua interezza mentale e sensoriale.
G. uscì dall’abitacolo, tremando di freddo. Impostò il termostato a 25 gradi, sperando che avrebbe fatto in fretta.  Avvertiva distintamente le tante piccole protuberanze che si erano formate sulla sua pelle, per il freddo, e la pressione contro le gengive dei denti, ogni volta che le arcate sbattevano. In piccole ondate, il gelo correva dalle braccia alle gambe, esaurendosi alle caviglie. Nell’attraversare l’appartamento, dovette evitare tutti gli oggetti che, nel suo disordine, aveva disseminato in giro. Si appuntò, mentalmente, di dover assolutamente riordinare una volta tornata da lavoro.. A terra, in un angolo, vicino al frigorifero, c’era, in bella vista, eppure non l’aveva mai notata prima, quella collana di zaffiri artificiali che andava cercando da giorni. Raccolse dal letto una coperta, e se la drappeggiò addosso. Rimase accanto al calorifero per qualche istante, finché i brividi cessarono. Si stropicciò poi gli occhi con il dorso della mano, cercando disperatamente di svegliarsi del tutto. All’improvviso, avvertì un brontolio allo stomaco, che quella pancetta cotta sul falò non era stato in grado di saziare. Erano più di dodici ore che non mangiava, nella prima vita. Sulle punte, saltellò fino al frigorifero e lo aprì. La luce illuminò una serie formidabile di ortaggi, formaggi, frutta, dolci di vario genere (prevalentemente contenenti neo-cacao), e numerose bottiglie di syn-latte a lunga conservazione. Il latte bovino era un lusso che pochi potevano permettersi, ed i suoi buoni cibo non le permettevano di acquistarlo. Ancora, sghignazzò, al pensiero del nuovo progetto che aveva in cantiere a lavoro. Si versò una tazza di latte e prese un croissant dalla dispensa, inzuppandolo nel liquido candido, prestando attenzione a non farne cadere neppure una goccia. G. aveva sempre adorato mangiare. Appena ricevuto il primo stipendio del Laboratorio, non aveva badato a spese, e si era diretta, con la omni-carta serrata nella mano destra ed un gioioso sorriso stampato in volto, ai Grandi Magazzini Tranquillitatis. E lì, non aveva badato a spese. Acquistò perfino un nuovo freezer, non conscia che ciò avrebbe significato sacrificare il tavolo della cucina del suo infimo appartamento, per infilarci tutto il cibo che aveva acquistato. Ricordava ancora il sapore della farina di grano lievitata, “ottenuta con puri chicchi di Triticum vulgare originario coltivato nelle nostre serre” (ed, in piccolo, “coltivazione GM presso Cratere Plinius”), e l’aura mistica che il profumo del caffè donava alla casa, mescolato all’aroma del vero burro da latte bovino spalmato su fette di vero pane. Il croissant, dopo pochi morsi, era già terminato, e G. si ritrovò, sovrappensiero, a guardare la sua mano, ormai vuota: era rosa, abbastanza piccola, e con unghie ben curate anche se tenute corte, per via del suo Lavoro. Chissà che se ne sarà mai fatto dell’altra mano, quel tizio, pensò. Se non si ha coscienza del tatto, di ciò che si ha intorno, come si fa a essere consci di non fluttuare nel vuoto?  Orride immagini di portelli stagni e corpi coperti di veli le piombarono in mente. Scacciò il pensiero, ma si ripromise di riflettere su quel punto. Sul terrore del vuoto.
G. lanciò poi la tazza nel lavabo, centrandolo in pieno. Sorrise a se stessa, ed alla sua ottima mira. Beh, certo non come quella nell’E-sim.
G. sgattaiolò fino alla doccia, accendendo l’acqua al massimo. Sbuffò, quando si accorse di non aver neppure ricaricato l’acqua calda: gliene rimanevano solo dieci minuti al massimo getto. Come ogni mattina, G. fece la doccia, si lavò i denti, indossò l’uniforme (non mancò di notare che, anche in quel caso, aveva dimenticato qualcosa: la camicia non era stirata), si truccò leggermente, indossò le scarpe magnetiche. E come tutte le mattine in cui si risvegliava dall’esperienza E-sim, rimase per un po’ a fissare il proprio volto.
Non esistevano specchi nell’E-Sim. Pena, l’eliminazione dell’account neurale, il che, valeva a dire, che non esisteva in alcun modo la possibilità di tornare sul Pianeta. Mai più. Il preciso fingerprinting delle onde cerebrali del viaggiatore era registrato al momento dell’Incipit, ed era, ovviamente, impossibile da cambiare. L’aspetto del proprio avatar, era, dunque, visibile solo al momento della sua creazione: l’Incipit, infatti, consigliava di imprimere bene in mente i lineamenti, il corpo, lo sguardo che si erano scelti, perché quell’aspetto avrebbe potuto determinare fin troppe cose, nella seconda vita.
G. amava pensare di aver creato un avatar somigliante a se stessa da grande, quel giorno lontano anni. Credeva di esserci riuscita. Occhi azzurri, grandi, naso con qualche lentiggine, e neanche troppo grazioso, labbra carnose e bocca piccola. Pelle pallida, ma guance rosse, segno di salute. Impiegò più del solito per quelle cure mattutine, quel giorno.
Infine, diede un’ultima occhiata al suo appartamento. In quello stesso spazio angusto, troppo piccolo per tre persone, aveva vissuto per tutta la prima vita, e conosciuto l’Incipit. I suoi genitori le avevano dato tutto l’amore di cui erano stati capaci, compreso quel regalo, di cui, lei, aveva avuto tanto terrore, che ora campeggiava nel soggiorno, davanti allo schermo dell’omnivideo.
Aprì il portello ed uscì, ritrovandosi nel corridoio del condominio della città pozzo in cui abitava. Controllò l’ora, e, cazzo, era in ritardo: mancavano meno di venti minuti all’apertura del Laboratorio. Avrebbe dovuto prendere un taxi: la frequenza di transito della metropolitana, alla sua fermata, era troppo bassa per arrivare in tempo.
Digitò sull’omnitool (lo teneva al polso destro, come avveniva nella seconda vita) la richiesta, mentre entrava nell’ascensore pneumatico. Nell’abitacolo non c’era più gravità artificiale, e G. si dovette aggrappare, come tutte le mattine, alle sbarre fissate lungo il perimetro del parallelepipedo. Le pareti erano a specchio, e G. diede un’ultima controllata al suo aspetto. Giacca verde, gonna verde, calze verdi, camicia e scarpe col tacco bianche. Capelli tenuti lunghi, legati da un nastro di raso verde. Era quella, l’uniforme delle Ricercatrici.
In una ventina di secondi, l’ascensore giunse al 43 esimo livello della Città, ossia quello in cui terminavano le zone abitative ed iniziavano le zone di lavoro. G. sospirò, uscendo dall’abitacolo, e fu investita dall’odore dell’Umanità: centinaia, forse migliaia, di persone, transitavano lungo la Via Galilei, il lungo camminamento che, dagli ascensori delle zone abitative, connetteva al centri di lavoro. L’enorme corridoio si apriva poi in una gigantesca cavità, una grotta dal soffitto alto più di cinquecento metri, volontariamente lasciata spoglia, se non per le migliaia di persone che vi transitavano: piazza Leonardo da Vinci. Da lì si diramavano le metropolitane e le arterie dei Rami, come braccia delle antiche stelle marine, che conducevano alle sezioni funzionali della città pozzo. Dalla sua posizione, G. riusciva a scorgere, in lontananza, una soluzione di continuità nell’altrimenti infinita via metallica e multicolore.
G. attendeva il suo taxi, guardando sfilare, di fronte a lei, nelle corsie riservate ai pedoni, persone su persone, differentemente vestite e più o meno indaffarate e di corsa. Alcuni si lanciavano nelle scale per la metropolitana; altri (in genere severamente multati) azzardavano a togliersi le scarpe magnetiche e a svolazzare giù, dandosi la spinta contro le altre persone e profondendosi in mille “Scusi, vado di fretta”. In quella città pozzo abitava circa un milione e mezzo di umani, più un numero indefinito di androidi e ominidi di servizio, losche figure sotterranee a cui G. cercava di non pensare.
Accanto a lei venne a depositarsi, fluttuando delicata fino a terra, la bancarella in fibra di carbonio di un venditore di custodie di omni-tool. La donna, dietro al bancone, aveva un bel colorito blu acceso, un insano segno di intossicazione da Sali di argento, evidentemente molto diffusi nell’acqua della zona del Satellite da cui proveniva. Le custodiette di plastica, di mirabolanti colori e fogge, si abbinavano perfettamente all’incarnato cobalto. G. si avvicinò, e la donna le rivolse un bel sorriso di denti candidi su gengive violacee, cui G. rispose arricciando gli angoli delle labbra; indicò una custodia rosa acceso, coperta di brillantini, e tirò fuori dalla tasca i quattro crediti. Lasciò cadere le monete nella mano blu, protesa in avanti, della donna, che si inchinò leggermente, profondamente grata. Qualche buona azione non guasta mai.. o così almeno le avevano insegnato Mamma e Papà. Montò la custodia all’omnitool al polso destro, e notò con piacere il contrasto kitsch con l’uniforme verde, gongolando.
Passò qualche minuto. Un taxi le sfrecciò davanti, senza fermarsi. G. digrignò i denti e lanciò qualche improperio sottovoce. Si sentiva, improvvisamente, tesa e nervosa. Le immagini della notte passata sul Pianeta le erano rimaste impresse nella mente, soprattutto il volto di quell’uomo, del bel sconosciuto. La straniante sensazione di concretezza, al tatto, sulla sua pelle straziata. Era affascinante. Chissà come sarà la sua voce.. E la sua storia? Da dove viene? Chi l’avrà ridotto così? Alzò gli occhi al cielo, cercando di calmarsi e di controllarsi, ma il soffitto artificiale del Galilei non la aiutò: quel giorno il cielo era nuvoloso, plumbeo, feroce, e qualche lampo saettava tra le nuvole artificiali, stratificate in più ammassi scuri accavallati gli uni sugli altri. Quel cielo era stato creato per funzionare tramite un algoritmo basato sulle emozioni complessive provate dalle persone che lo percorrevano, le molecole volatili espulse e la frequenza degli impulsi nervosi, ed era, così, uno specchio del benessere dei Cittadini. G. l’aveva sempre odiato. Si sentiva spiata, da quel cielo falso a volte solare e sorridente, ed altre, buio e livido: detestava vedere quelle nubi così vicine, ma intoccabili, perché fatte d’illusione. Nelle notti più serene, quando tutti, nei piani inferiori, della città-pozzo, dormivano felici, il cielo era carico di stelle, puntini bianchi trapuntati su velluto nero. Conosceva di vista la persona che aveva progettato i biosensori implicati nel fenomeno, e rabbrividiva al solo pensiero di dover avere, prima o poi, con lui un altro colloquio. Un uomo, fin troppo anziano e rugoso, con occhietti gialli da felino che saettavano rapidi lungo il volto, il corpo, le mani, dell’interlocutore, e lo scrutavano, indagavano, formulavano ipotesi, ed, infine, giudicavano.
Un ultimo lampo saettò lungo il celo plumbeo, andandosi, apparentemente, ad esaurire contro un chiosco di syn-hotdog. L’ometto, incerata bianca unticcia sopra il pancione, intento a cuocere le sue salsicce, rimase totalmente indifferente all’aura di luce che lo illuminò per qualche istante.
Il taxi di G. arrivò mentre lei si slacciava le scarpe magnetiche e si preparava ad una corsa verso la Metropolitana. Caracollò fino alla portiera della vettura, e si lanciò dentro, sedendosi goffamente nel sedile posteriore. Il tassista, un uomo dalla pelle scura sui, forse, trent’anni, represse, fin troppo palesemente, una risatina.
-Andiamo di fretta stamattina, eh?,- cominciò, allegro, l’autista, con G. che sbruffava smanettando con i cinturini delle scarpe.
-Sì, ho fatto tardi. Mi porti al centro Biomedico del Ramo Pauling. Il più velocemente possibile. ,- E, G, lapidaria, disse il tutto senza la benché minima inflessione nella voce. O almeno ci provò.
-Ma come siamo severi! Subito, signorina!
L’uomo premette l’acceleratore ed il taxi si levò delicatamente dal pavimento di pietra lavica della Strada Galilei, e puntò diretto verso le nubi cupe sovrastanti. G. si era, ormai, abituata alla vista di cui si poteva godere dal finestrino. Di quelle nubi minacciose che non sembravano avvicinarsi né finire mai, e le persone, le insegne della Metropolitana, che diventavano sempre più piccole, come giocattoli coloratissimi. A volte G. si domandava se il mondo fosse davvero così piccolo, agli occhi di qualche gigante, come lo si vedeva dall’alto della corsia dei taxi, che puntavano verso nubi false e cieli inarrivabili.
Ed infine, quando ormai il taxi era giunto alla corsia di crociera, il traffico. Tanti, tantissimi, altri taxi di mille colori e forme, slanciate, squadrate, rotondeggianti, che si incolonnavano alle diverse uscite della strada Galilei, o che facevano a gara per inserirsi nel traffico aereo della piazza da Vinci. Incredibilmente, notò G., quel giorno non si era al collasso, e allungando un braccio fuori dal finestrino non sarebbe riuscita a toccare un’altra vettura. Il che, la rilassò. Forse, aveva ancora qualche chance di arrivare in orario in laboratorio, se avesse tagliato per la via più breve.
-Passi per la Piazza Grande. Usi la corsia di sorpasso.
L’uomo, invisibile a G. se non per gli occhi riflessi nel piccolo riquadro dello specchietto posteriore, sbuffò. –questo le costerà un supplemento. Credo lo sappia bene..
-Sì, lo so. Lo faccia.
-E va bene,-mormorò il tassista, schiacciando l’acceleratore e svoltando rapidamente a sinistra, sulla semivuota corsia di sorpasso. Questa, era, infatti, a pagamento. Al solo ingresso in essa, venivano automaticamente scalati crediti all’utente del taxi in base al tempo in cui vi si restava. Città parassita di merda, pensò G, guardando i centesimi di credito diventare unità sul tassametro rosso.
Rapidamente, col vento che entrava dal finestrino aperto ad accarezzarle la faccia ed a farle appiccicare i capelli svolazzanti al rossetto, avanzarono verso piazza da Vinci.
La vista di quell’enorme spazio aperto, a G. , che non era abituata alle Passeggiate, la lasciava ogni volta estasiata. La strada Galilei, che era pure comunque larga almeno cinquanta metri, si apriva in una gigantesca emisfera sotterranea: la corsia dei taxi si trovava circa cinquecento metri più in alto rispetto al livello del suolo, e, sporgendosi dal finestrino e guardando in alto, si potevano distinguere le differenti sfumature di grigio del granito lunare che componeva il soffitto della calotta. L’illusione del cielo della strada Galilei non era stata ancora installata nella piazza, e G. sperava con tutto il cuore che mai lo sarebbe stata. Enormi pilastri di roccia grezza si dipartivano da essa e raggiungevano il terreno, pronti a sorreggere il soffitto. Su di essi erano montati enormi schermi pubblicitari, che lanciavano muti slogan contenenti donne sorridenti pronte a promuovere il nuovo articolo di moda o il nuovo modello di camera della vita dell’Azienda. Fra tutti, spiccava il maxischermo che, a rotazione, mandava immagini provenienti dal nuovo aggiornamento dell’E-sim, che aveva implementato dei Fari posizionati nelle zone artiche: gelide lande desolate, perfettamente bianche, illuminate da un pallido e stanco sole giallo, ed, in lontananza, montagne ed ancore montagne aguzze spruzzate di neve ghiacciata, delicata come glassa. Ad un certo punto, il video zoomava su di un monte da cui fuoriusciva un denso fumo grigio, ed, ancora più vicino, zampillii di lava rossa ed arancione; sulle pendici di esso, arroccato ed indistruttibile, un Faro. Cilindrico, metallico, perfetto, con solo una porticina alla base a segnalarne l’utilizzo dedicato agli esseri umani. Montagne, ed ancora montagne, laggiù in Antartide, e lande pallide. Il mondo era davvero enorme, nell’E-sim.
-Sa, io a quella roba non ho mai acceduto. Un mio amico ha provato a farmi usare la sua camera della vita, ma io me ne frego di queste cazzate. Non ho intenzione di sprecare ore del mio prezioso sonno a soffrire più di quanto non faccia qua, sulla Luna.
Le parole dell’autista, dirette e chiare, riportarono G. sulla Luna, cancellando in un baleno le immagini di lande pallide e desolate. –Ad ognuno le sue idee,-ribatté G., senza molta convinzione. –Io lo trovo molto rilassante.
L’uomo fece spallucce, e svoltò a destra a prendere l’uscita verso il Ramo Pauling. Il tassametro segnava già 50 crediti. Incredibilmente, la via principale del Ramo era sgombra. Non è un buon segno, è tardi, pensò G. mentre sentiva il battito cardiaco accelerare e la pressione arteriosa colare a picco. Agitazione.
-Senta,-disse all’improvviso,-secondo lei, cos’è successo alla Culla?
Gli occhi dell’uomo si mossero, sul riquadro dello specchietto, a cercare l’interlocutrice. –Sa, non mi aspettavo una domanda del genere da lei, anche se, devo dire, in molti me la pongono. Probabilmente è uno dei migliori argomenti di conversazione con i tassisti, molto meglio dell’esaurimento di questo o quel giacimento di palladio o della dismissione di questo o quel reattore elio-3.. Ad ogni modo, ed è libera di non crederci, beninteso, io sono un Credente. Sono una persona abbastanza ordinaria,-e rise, di gusto, per qualche secondo,- e credo, fermamente, alla versione che i nostri avi ci hanno tramandato. Un bel giorno, insomma, gli Dei hanno deciso che era arrivato il momento che l’umanità se ne andasse, prima di fare danni irrimediabili al Giardino. E così, non hanno più camminato con la prima Umanità. Li hanno abbandonati, ma con ciò hanno dato loro fiducia per l’ultima volta: riuscirete a camminare senza di noi che reggiamo le vostre mani? Ora, che siete liberi, che cosa farete? Ed hanno visto quanto sarebbero potuti durare, senza di loro. Di lì a poco, guerre e malattie li hanno decimati. I sopravvissuti hanno racimolato le ultime tecnologie che gli Dei hanno lasciato sul pianeta prima di tornare alle stelle, e con esse sono fuggiti sul Satellite ed hanno fondato le città pozzo. Fine.
G. rimase in silenzio mentre l’uomo accostava davanti al centro Bio medico Pauling. Contò 65 crediti dal portafoglio e li porse all’uomo. Quello controllò e si infilò le banconote in tasca. G. scese dalla macchina, stranamente calma.  –Sta dimenticando una parte,-disse, infine, piano, guardando per la prima volta l’anonimo volto scuro del tassista, -Quella in cui il TecnoProfeta Prius predice il Loro ritorno.
G. si voltò senza attendere risposta. Non le serviva. Aveva conosciuto tanti Credenti, e tutti, nessuno escluso, le avevano raccontato quella versione. Il mondo è davvero piccolo, nella città pozzo.

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Capitolo 5
*** Mito e tragedia di Mare Vaporum / Anche sulla Luna si muore ***


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Dal diario di G.
 
Ricordo quel giorno, me lo ricordo bene. Era il 17 novembre del 503 anno dopo l’abbandono dalla Culla. Ero appena arrivata a lavoro, e la giornata era iniziata male. Il risveglio dall’E-sim non era stato particolarmente delicato, ed ancora, nonostante il viaggio in taxi, mi sentivo intorpidita e confusa. Le porte automatiche del Settore Ricerca Medica si aprivano e si chiudevano al passaggio di tante persone ben vestite e colorate, ed io mi sentivo grigia.
Non era un buon giorno.
Entrai attraverso quelle porte, la storiella del tassista che ancora mi rimbombava in mente. Divinità, santi, creature superiori a noi.. In fondo, qual era il senso di, semplicemente, pensarci? Le energie si possono occupare in modo migliore, pensavo, piuttosto che perdersi in elucubrazioni sterili.
Mi infilai nell’ascensore, reggendomi al corrimano, guardando le mie scarpe a punta fluttuare. Mi sentivo già stanca. Sedici piani in pochi secondi ed arrivo.
Sedicesimo piano. Settore Biotecnologie. Laddove, con quel che gli esuli avevano portato dalla Terra, si cercava di tirare avanti a campare. Avevo trovato lì abbastanza facilmente: i biologi erano merce rara. La Vita vera, quella fatta di reazioni chimiche e quel pizzico di magia, interessava a pochi. Sulla Luna, non se ne era circondati, se non per gli altri esseri umani, gli androidi, ed i pochi animali che si era riusciti a salvare dalla Culla in tempi immemori. Tranne che per i curatori della Foresta, gli alberi ed il verde erano solamente lo svago della domenica, o luogo di vacanza per ricconi. Probabilmente ormai così lontani dagli originali da assomigliar a malapena a ciò che gli Dei, o chi per loro, avevano creato.
Un uomo, camice candido e stirato, cravatta verde su camicia rossa, mi oltrepassò senza guardarmi, infilandosi in un laboratorio con una serie di provette di vetro in mano. Non ricordavo di averlo mai visto.
Dicevo, nessuno si interessava alla meraviglia della Vita, sulla Luna. Su Europa, sì. Ma, in quel momento, per noi Lunari, quel lontano satellite tale era e tale era, a breve termine, destinato a rimanere nascosto ed avvolto dal mistero. Si era trovata vita, laggiù, in fondo ai ghiacci. Eppure, tranne che per la notizia in se stessa, in quaranta lunghi anni dalla colonizzazione di quella piccola sfera gelata, non si era mai saputo nulla. La colonia di Europa continuava a funzionare felicemente, esportando acqua potabile in tutte le stazioni della fascia di Kuiper e su Ceres, ma riguardo a quella sconvolgente scoperta, il più che completo segreto e silenzio. Da tempo, avevo smesso di passare lunghe ore davanti al terminale alla ricerca, sull’extranet, di qualche dato condiviso illegalmente. Niente di niente. Avevo anche tentato, per un periodo, di scovare informazioni sull’E-sim: ma a nessuno pareva interessare la Prima Vita, sul Pianeta Sacro. E spesso, armati degli attrezzi di fortuna che si possono recuperare sul Sacro Suolo, non avevano alcun interesse a parlare di lontani corpi celesti.
Il mio lavoro è ricercare strategie per vivere meglio. O, meglio, aumentare la capacità della seconda umanità di sopravvivere ai portatori di morte che, essa stessa, ha importato dalla Culla. Creature microscopiche e gregarie, ma che si erano perfettamente (e democraticamente) adattate alle profondità lunari umide di acqua e a i corpi bianchi e deboli degli Esuli.
Mi spiego meglio. La Luna non ha atmosfera. Non ha quel meraviglioso strato di ozono in grado di bloccare radiazioni cosmiche altamente energetiche. Per questo viviamo sottoterra, nelle città pozzo costruite dagli Esuli con le ultime tecnologie divine. Noi esseri complessi abbiamo delle proteine che riparano continuamente il nostro DNA dai danni delle radiazioni: se ciò non avviene, si sviluppa una malattia. Prevenire la malattia è compito di altri, non mio. Lem, invece, prova a ricucire assieme i brandelli degli esseri che ne vengono colpiti, da tecnoguaritore quale credo sia. Per batteri e virus, invece, così piccoli, privi di individualità, una mutazione è soltanto una strategia adattativa. Nuove combinazioni geniche, nuove capacità.
I primi anni della permanenza sulla Luna, della seconda umanità, ci fu una piaga. Ciò che ora sto narrando, è, oramai, solamente mito, e mi limiterò ad esporre i fatti essenziali, scevri da poeticismi e abbellimenti. Mi è stato raccontato, tanto tempo fa, da Mamma, e proverò ad esporlo a te, lettore, come lei lo espose a me, come un’orrida storia da raccontare per provocare tremendi incubi. Ricordo che, mentre parlava, io tiravo sempre più su le lenzuola, nascondendomi. Eppure, lei non voleva spaventarmi. Voleva soltanto istruirmi a non replicare gli errori degli stanchi, malati, decimati, Esuli. Del resto, ritrovarsi dal paradiso ad un gelido, arido, grigio, inferno, ed essere costretti a vederlo lassù, nel cielo, dev’essere, per forza, l’Orrore del TecnoDio, la sua finale punizione per la crudele Prima Umanità. E ciò che sta redimendo noi, anche se viviamo sottoterra e non ammiriamo praticamente mai la Culla. O così, almeno, dicono i credenti.
 
G., sono certa che tu già lo sappia, che gli Esuli fossero circa mezzo milione di persone, prevalentemente tecnomanti e governanti. Dalla Diaspora, solamente i più ricchi, tra quei corrotti, si erano salvati. E di loro, i migliori, i più fortunati, costruirono e si stabilirono sulla più bella delle città pozzo originarie. Si dice che potesse contenere un intero asteroide, che la sua foresta rivaleggiasse con quelle della Terra del Fiume giù sul Pianeta, e che oro e metalli preziosi fossero comuni nelle sue miniere. Eppure, quell’idillio durò poco, molto poco. Un bel giorno, con la Culla alta nel cielo stellato kilometri più in alto, qualcuno venne a contatto con un batterio, che, forse, un giorno, era stato una semplice, solitaria, cellula fra tante altre. Lo trasmise ai componenti della sua famiglia. Poi, del suo condominio. Infine, della sua città pozzo. Di 340000 persone che abitavano Mare Vaporum, sopravvissero, alla fine, in novecento.
La città era stata fin da subito, dalle altre (all’epoca ancora non esisteva il Governo), dichiarata inaccessibile. Ogni richiesta di aiuto, respinta. Quelle novecento persone provarono a scappare dal pestilenziale isolamento in cui la città oramai era: si narra che i cadaveri avessero interamente riempito i livelli inferiori abitativi. Solamente novecento persone non sono sufficienti a far funzionare una meravigliosa macchina come una città-pozzo: uno dopo l’altro, i sistemi principali saltarono. La capacità depurativa della Foresta Centrale non fu più sufficiente a smaltire i gas di decomposizione. I biofiltri andarono in tilt. Le pompe per l’acqua potabile, estratta dagli umidi abissi della Luna, si guastarono. L’oro ed il platino divennero inutili. I lontani, inaccessibili, pannelli solari, sulla distante superfice, furono ricoperti di detriti spaziali, ed, uno ad uno, morirono. Non fu più possibile attivare i bioconvertitori per produrre proteine, zuccheri, vitamine. Alcuni, dimentichi del loro glorioso passato di tecnomanti della prima umanità esule, si armarono di tute stagne e cominciarono a scendere quotidianamente nei livelli inferiori, tornando con provviste rimaste nei conapt, scorte in magazzini dimenticati, ed, infine, dopo tanti mesi, corpi umani gelidi e mummificati da utilizzare come cibo e combustibile. Allora i novecento, o quanti in realtà ne erano, oramai, rimasti, provarono ad essiccare ed a bruciare i cadaveri per scaldarsi, per far muovere i generatori, per continuare a dar luce alla Foresta.
La Foresta. L’ultimo angolo di Culla rimasto nelle città-pozzo. Si narra che quella di mare Vaporum fosse la più ricca mai vista, con centinaia di specie arboree diverse, cespugli dai fiori di meravigliosi colori, e che, annualmente, il profumo del polline riempisse l’intera città: piante nate direttamente da semi provenienti dal Pianeta. Si accamparono lì, gli ultimi rimasti, sulle sponde del Lago, la più grande riserva d’acqua rimasta nella città. Sulle sue sponde, accendevano falò di stracci per scaldarsi, pronti a gettare acqua su qualunque prezioso ramoscello avesse preso fuoco. Di nuovo, gli Dei punivano la loro tracotante prole, riducendola a nutrirsi dei propri simili ed a bruciarli per scaldarsi, e per far vivere degli alberi, un tempo loro servi.
Qualcuno ricordò dei passaggi di servizio per le navette di emergenza di collegamento fra le città pozzo. In quell’epoca lontana, la Metropolitana ancora non forava, come gallerie di lombrichi in una grossa, grigia, mela, la crosta della Luna. Qualcun altro si disse in grado di pilotare. Così, si organizzò una spedizione in superfice, kilometri e kilometri di devastazione più in alto.
In qualche modo, ce la fecero, facendosi strada tra portelli stagni sigillati, piani allagati, fluttuando leggeri per i corridoi pieni di morte, e nel buio più totale, alla sola luce delle torce alimentate dalle poche batterie nucleari che avevano ritrovato. Si narra che avessero costruito una lunghissima fune, usando vestiti, lenzuola, dei morti, per tenere uniti tutti i novecento disperati.
Immaginai la scena: uomini, donne, bambini, emaciati, pallidi per la mancanza di luce, sporchi e stanchi, che si tenevano per mano, e nell’oscurità, se non per il piccolo cono di luce delle loro torce; persone per cui il ricordo della Culla era ancora vicino, ancora caro il Sole che tramontava sul mare, ancora pieno di colori, costrette a quell’inferno per sopravvivere.
Novecento persone trovarono poste sulle navette d’emergenza, portandosi dietro i pochi viveri rimasti e tutta la loro speranza. Prova a figurarti la scena: quest’orda di disperati che riesce a forzare i portelloni stagni dell’Hangar Principale, e, dal buio, vede apparire decine e decine di piccole astronavi. Chissà, forse avranno sognato, anche se per un istante, di poter raggiungere le mitiche Colonie di Titano e Marte, all’epoca ancora in terraformazione. Ma poi, un certo ingegnere li riportò a contatto con la realtà.
Le navette erano a corto d’energia. Qualcuno si offrì volontario di recuperare le batterie atomiche di ricambio. Quel qualcuno tornò dopo alcuni giorni, emaciato, ustionato, con un occhio penzolante fuori dall’orbita, le batterie accatastate nel portabagagli di un taxi che aveva forzato. Morì alle porte dell’hangar, tra terribili dolori.
I pochi anziani rimasti si offrirono di montare le batterie. Tanto, a breve, sarebbero morti comunque. Meglio essere utili alla causa, meglio aiutare a diffondere gli ultimi scampoli della, un tempo, gloriosa civiltà terrestre tra i barbari delle altre città pozzo. Uno di loro, che era riuscito ad arrivare così lontano, a risalire kilometri verso la superfice, decise, infine, di rimanere lì.
L’anziano, il cui nome non ci è giunto, li guardava salire, nella sala comandi pressurizzata, mentre attivava i comandi per l’apertura della calotta dell’hangar, che si apriva come uno strano fiore, lasciando intravedere la luminosa Via Lattea. Le stelle erano sempre state lì, indifferenti a ciò che si era consumato dentro il sotterraneo formicaio. Le radiazioni cosmiche avevano, per sempre, distrutto una città ed il meglio che all’umanità era rimasto da offrire all’universo, ma quei pochi ce l’avevano fatta. Pianse, mentre le cinque navette si libravano nel cielo e puntavano in alto, con la stella Polare dritta sull’orizzonte.
All’improvviso, fuoco silenzioso fuoriuscì dallo scafo di una delle piccole astronavi. Corpi di umani, ammassi di stanchi stracci, mulinarono fuori, rigidi come pupazzi. Ed un’altra ancora esplose.
Infine, tutte.
L’uomo guardò senza proferir parola lo scempio, e continuò a guardare finché l’ossigeno non si consumò e i relitti smisero di bruciare, finchè i corpi non ricaddero sulla superfice polverosa della Luna, in piccole cataste. Le navi non si erano alzate di neppure cento metri dal suolo, quando erano state colpite.
Allora l’uomo afferrò una tuta spaziale, e la infilò. Uscì dalla sala comandi, camminando a larghe falcate verso il centro dell’hangar, il cielo stellato sopra di lui. Alla ricerca di un perché.
Un’ombra enorme coprì, all’improvviso, la Luce del Sole. Un gigantesco incrociatore militare, di come ne ricordava solo ai tempi, ormai lontani, in cui l’umanità non era ancora stata scacciata dalla Culla, si era sostituito al cielo. Dall’enorme scafo si aprì una piccola cavità, ed una minuscola navetta due posti volò rapidamente verso di lui. Atterrò piano, a fianco di un cumulo di metallo fuso e di cenere, di sangue coagulato e disseccato.
Quell’uomo, quell’anziano, fu l’unico sopravvissuto della tragedia di Mare Vaporum, colui che ha raccontato questa storia. Fu risparmiato perché appiedato, perché solo, perché vecchio e non pericoloso. Inoltre porre in quarantena un singolo essere umano era molto più semplice che farlo con novecento. Dissezionare un singolo essere umano, peraltro già di per sé vicino alla morte, molto meno disturbante.
Fu sottoposto ad esperimenti, a Lacus Mortis. Si studiò il suo sistema immunitario. Fu trattato come una cavia.
Si narra, di lui, che, una volta, dopo tremendi mesi, fu lasciato libero scomparve. Il suo cadavere fu ritrovato in una tuta spaziale, centinaia di kilometri lontano dalla città-pozzo, vicino alla calotta polare boreale. Era morto soffocato. In una tasca della tuta, nel factotum, teneva il racconto di questa storia.
 
Imboccai la porta del mio ufficio. Sul vetro della porta, campeggiava felice, in stampatello, il mio nome, e “Capo-ricercatore neo-antibiotici”. Ne avevo conquistato uno personale l’anno prima, un cubicolo 3x3, ma era quanto mi bastava per avere la giusta calma per pensare e programmare al terminale. Il laboratorio di mia competenza si trovava poche porte più giù, e ne possedevo le chiavi. Potevo fruirne come preferivo, con l’unica condizione di non poter scegliere il personale a me sottoposto. Detestavo lavorare in team, e mi infastidiva avere continuamente tirocinanti tra i piedi. L’unico, di cui, a quei tempi, mi fidavo, era S., un ricercatore associato, ma di lui parlerò in seguito.
Lasciai la borsa sulla scrivania, ed afferrai i guanti ed il camice che avevo lasciato a sterilizzare sotto la lampada UV. Tutti ne avevamo una personale in dotazione. Per ogni evenienza.
Qualcuno bussò alla porta, facendomi sobbalzare. Era una ragazzina, forse sui vent’anni, con capelli neri, lunghi, ispidi, occhi scuri, e un’abbondante acne sulle guance. Indossava abiti comuni, e probabilmente era l’ennesima tirocinante.
-Salve, dottoressa G. F.. Il signor S. mi ha mandato da lei..
-Per cosa?
Sicuramente un altro scherzo di S. Sa quanto adoro i tirocinanti. Mi imposi di non sbuffare.
-Devo sterilizzare il mio camice.. ,-mormorò, lo sguardo di un cucciolo ferito, l’indumento bianco stretto fra le ditine grassocce.
-Certo. Sotto la scrivania. Attenta a non mettere le mani sotto la luce. Chiudi la porta quando esci.
E mi sforzai di sorriderle. Non era una buona giornata, ma non doveva essere per forza nera come il basalto dei Mari.
Uscii dall’ufficio, puntando verso il mio laboratorio.
Davanti alla porta, un piccolo capannello di persone era impegnata in un mesto chiacchiericcio sottovoce. Notai S., moro, magro, e barbuto, fra tutti, che gesticolava ampiamente. Non sorrideva, mentre parlava con un donnone occhialuto e dai corti capelli biondi, B. La biofisica del team. Accanto a loro, Gar., una chimica, tarchiata e amante dell’olo-smalto (di cattivo gusto), scorreva col dito, nonostante la ridicola unghia, sullo schermo del factotum, commentando qualcosa assieme a Ruz., il mio omologo della sezione fermentazioni, prematuramente calvo e dalla parlantina lenta. Apprezzavo la sua sincerità, l’onesta intellettuale di non indossare parrucche né optare per trapianti di capelli.
Il quartetto si ammutolì, quando mi vide. Le facce si scurirono. Anche quella di S., l’unico che sapevo essere sinceramente felice di vedermi tutti i giorni. B. si morse un labbro, e si riavviò i capelli corti, e fece per parlare. S. mormorò qualcosa come “ci penso io”, e mi si avvicinò.
Io rimasi immobile. –C’è qualcosa che non va, ragazzi? Buongiorno anche a voi, comunque..Avete visto il cielo del Galilei stamattina?
S. sospirò, e mi parve che le spalle si stringessero, il suo collo si accorciasse, e la sua barba rientrare nella pelle del viso.
-C’è stato un incidente, al reparto Processi. L. è morto.
Ricordo solo il pavimento piastrellato azzurrino che si avvicinava, ed un gran mal di testa. 

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