Per esser pirati non servon le navi

di Amatus
(/viewuser.php?uid=921049)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Maso ***
Capitolo 2: *** Annella ***
Capitolo 3: *** Lo Scalpellino ***
Capitolo 4: *** Lucina ***



Capitolo 1
*** Maso ***


Il mio nome è Maso e sono nato tra queste colline. I miei genitori sono nati qui e i loro genitori nacquero qui anch'essi.
Credo che avendo tempo o modo di contare tutte le generazioni all'indietro fino al primo antenato che mise piede in questa striscia di terra, si potrebbe risalire fino ai tempi della nascita di Nostro Signore. Penso che nessun appartenente alla mia famiglia abbia mai posato gli occhi su un orizzonte diverso, e c'è da dire che qui l'orizzonte è piuttosto vicino, chiusi in una valle come siamo.
I miei erano contadini, come i miei nonni prima di loro e come loro non impararono mai a leggere altro che le stagioni e i segni del tempo. Non hanno mai avuto necessità di scrivere, se gli capitò mai di fare qualche acquisto importante, una stretta di mano valse più di ogni contratto. Tra gente semplice l'onore è più prezioso dell'oro, che anche ad averne, l'oro, non si saprebbe con cosa scambiarlo, l'onore invece compra tutto ciò che c'è di importante.
Quando mio padre sposò mia madre poi, gli bastò vergare una croce tremolante e si trovarono uniti davanti a Dio e davanti agli uomini. Nessuno a Cospaia sapeva leggere, ma tutti conoscevano il valore di un matrimonio, in quanto a Dio, non ha certo il tempo di leggere registri o validare documenti Lui!
Così, quando si trovarono a dover registrare la mia nascita fu il curato a scrivere il mio nome nel grosso librone delle anime custodito in canonica. E quel giorno il signor curato doveva essere molto impegnato, perché non si concesse neanche un momento per dire a mio padre che Maso non si può certo definire un nome.
Nel librone, non scrisse Tommaso, scrisse proprio Maso, lo chiesi molti anni più tardi al curato che lo sostituì e lui me ne diede conferma. Così, mi ritrovai con un mezzo nome. Ricordo ancora che un giorno, ero un bambino allora, durante il catechismo il curato fece notare che portavo il nome di un apostolo. Io al tempo ero troppo timoroso per spiegare al curato che di quell'apostolo incredulo e miscredente avevo preso solo mezzo nome, ché lui non si era premurato di scriverlo per intero il mio nome nel suo librone.
Tornato a casa me ne lamentai con il babbo e ne ricevetti in cambio uno scapaccione e una ramanzina. Mi sembra di sentirlo anche ora mio padre borbottare sulla mia ingratitudine, che se il curato avesse avuto abbastanza pazienza da insegnarmi a scrivere il mio nome, avrei ringraziato la sua avvedutezza, che scrivere un mezzo nome per un testone come me era già un'impresa degna di nota. Lo sento ancora dire che lui, il suo nome non aveva mai imparato a scriverlo, che Giuseppe è un nome da professore, non da falegname né tanto meno da contadino, e che io dovevo essere grato che il mio nome mi avrebbe reso la vita più facile.
Ma allora non ero tanto convinto che fosse proprio così. Pensavo invece che avere un nome a metà mi avrebbe fatto vivere una vita a metà, l'altra metà perduta nel tempo con la prima parte del mio nome. Ma erano le fantasticherie di un bambino e passarono in fretta.
I miei morirono presto, ammalati di lavoro e di stenti e devo esserne grato, perché il cuore della mia povera madre non avrebbe retto a ciò che sarebbe dovuto venire di lì a pochi anni dopo la sua morte. Io, da parte mia, mi rassegnai presto a ciò che veniva e presi facilmente l'abitudine di non farmi troppo coinvolgere dalle cose degli uomini. Ero sano, ero forte e avevo tanto lavoro da portare avanti.
La domenica mattina alla messa e la domenica sera alla locanda con un bicchiere di vino e paio di amici silenziosi e stanchi come me, erano tutte le occasioni di svago e riposo che mi concedevo. Non ero di grande compagnia e non attraevo le donne. Dopo tutto come avrei potuto? Non ballavo durante le feste, ero silenzioso e burbero, di certo non ero bello. Ma anche alla mia vita monacale mi abituai presto. Non era male in fondo, avevo la mia casa, la mia terra, pagavo la decima e rendevo grazie al Padre Eterno, non temevo nulla. Non cercavo nulla.
Eppure la storia voleva venire a cercare me. Si mise proprio d'impegno quella signora volubile a tirarmi le vesti, ma non la ebbe vinta e sì che ero giovane ancora, come tanti di quelli che invece si fecero sopraffare dalla sua venuta. Ce ne furono di campi abbandonati alle ortiche, per colpa della storia. Ma certo non il mio.

Il Granduca, uomo senza Dio, decise un giorno di chiedere indietro del denaro dato in prestito al Papa. Come può sapere il Granduca, lui che non ha mai lavorato e che non ha mai probabilmente neanche visto un pascolo, quanto sia faticoso e dispendioso per un pastore avere cura di tutte le pecore del gregge? E che gregge enorme ha poi il Papa? Ma il Granduca è chiuso nel suo ducato a contar quattrini e del mondo e delle anime non sa un bel niente. Chiese quindi indietro i suoi denari, che il Papa, anima buona non era in grado di restituire, per questo cedette la nostra terra, Sansepolcro con tutte le sue pertinenze, fu detto dal banditore. A mia madre si sarebbe fermato il cuore nello scoprire che invece che sotto la protezione del Papa, sarebbe stato un senza Dio come il Granduca a governarci.
Ma c'è da dire che se non ci fosse stato quel piccolo errore, per molto tempo noi non ci saremmo accorti di nulla. Invece di pagare la decima avremmo pagato la gabella, ma più di quello non sarebbe cambiato.
Infatti fu proprio a fine anno quando nessuno venne a ritirare l'una o l'altra che ci accorgemmo tutti che qualcosa non andava.
Ora, devo dire che la nostra terra è stretta tra due rii come tra le colline. Ebbene i cartografi del Papa da una parte e quelli del Granduca dall'altra, presero tutti a riferimento il rio più prossimo a casa loro e per la prima volta nella storia dell'uomo, un inghippo nacque a causa della mancanza di avidità anziché per il suo contrario.
Questo farà anche capire quanto poco valesse la nostra bella valle, che per noi era però tutto: casa, eredità e lignaggio.
E fu per questo orgoglio per la nostra terra che la gente, soprattutto i giovani con famiglie nuove o ancora da venire, si infiammò a questa novità. La nostra terra era nostra, non dovevamo più nulla a nessuno. Furono giorni strani, tutti erano in fermento come nei giorni della vendemmia, quando il vino scorre a fiumi e tutti ballano e ridono.
In quei giorni di fine anno non c'era vino che scorreva ma l'euforia per la novità bastava a se stessa e inebriava gli animi più di una nottata in locanda, più di un ballo turbinoso.
Turbine c'era in effetti ma di idee, di possibilità, di sogni. Tutti pensavano che solo i re o i signori possiedono la terra, e noi in quel momento eravamo un po' re e un po' signori e dovevamo approfittarne. Io, come durante le feste di vendemmia, rimanevo in disparte, ché la mia terra l'ho sempre considerata mia, mia e di nessun altro e la decima l'ho sempre pagata volentieri, è poca cosa in infondo, in cambio della salvezza della mia anima.
Ché senza pagar la decima, come avrei avuto la salvezza eterna? Questi erano i miei dubbi, questi i miei timori. E mentre i miei coetanei e quelli che avrei imparato a chiamare i miei compatrioti, sognavano in grande, io parlavo con il curato e chiedevo lumi. Ma lui era spaventato, ché non si sa mai cosa esce fuori quando il popolo si mette in testa di voler esser signore e lui era sempre pronto con una bisaccia sulla porta.
Poi pian piano l'euforia scemò, ma un grande fermento andò ancora avanti per anni. Uomini e donne, si davano convegno quasi tutte le sere e mentre i bambini giocavano in piazzetta gli adulti discutevano e si ingarbugliavano le idee nel trovare il modo migliore per gestire tutta quella faccenda. Più volte la mia presenza fu richiesta, perché ero l'ultimo della mia famiglia ed era importante, dicevano, che tutte le famiglie di Cospaia fossero rappresentate, ma io la sera dormivo presto perché il mio campo mi aspettava di giorno. Solo la domenica sera andavo qualche volta a queste assemblee ma solo perché sempre più spesso il locandiere chiudeva bottega per prendere parte anche lui alle discussioni e allora anche io, se volevo un bicchiere di vino, dovevo andare.
Ma non mi interessai poi molto. Volevano che anche io partecipassi del governo della nostra bella Cospaia, ma fui irremovibile. Io ho il mio campo e la mia anima a cui badare, quello è il solo governo che voglio, gli altri potevano con il loro tempo fare ciò che volevano, io avrei continuato a badare ai miei affari. Una contadinella, di poco più di vent'anni una sera m'aggredì accusandomi d'esser nato già morto e di non essermene accorto, di esser già pronto per diventare nutrimento a quella terra che amavo tanto. Mi lanciò anche una maledizione, augurandosi di vedermi morire di fame a causa della mia cara terra, perché se non tenevo alla comunità, la comunità non si sarebbe curata di me, al bisogno. Il padre la riprese e la spedì a casa. Mi faceva pena il povero padre, quella ragazza in età da marito tanto poco accostumata a parlar con gli altri, tanto spregiudicata da accusare un uomo in pubblico, senza pudore e senza rispetto. Quella sera tornai a casa presto, mi misi a letto ma il sonno non veniva, il che era strano. Mi trovai a ripensare alle parole della ragazza, al fuoco nei suoi occhi. Come doveva essere avere un fuoco che arde dentro con così tanta forza? Io non lo avevo mai sentito. Doveva essere un incomodo notevole, una grave minaccia alla serenità. Mi trovai a pensare a quella ragazza che tutti chiamavano Lucina, ma tutti sapevano in paese che il suo nome vero era Lucrezia. Mi tornarono in mente le parole di mio padre. Era vero in fondo che il mio nome mi aveva reso più facile la vita, forse ad esser Tommaso quel fuoco avrebbe preso anche me. Invece Maso era stato risparmiato e poteva dormire tranquillo nel suo lettino, al sicuro nella sua casetta, circondato dalla sua terra.


prompt: Vacillare/Esitare


Mi sono imbattuta nella storia di Cospaia qualche anno fa e la mia mente non ha smesso di fantasticare in proposito, ho approfittato di nuovo della bella challenge LeTrasformazioni Elementali, indetta dal forum Torre di Carta e ideata dall'impagabile Black Friday, per mettere ordine nei milioni di appunti e di idee.
Esiste davvero questa minuscola repubblica, o meglio è esistita. Nalla cacofonia di stati che è stata l'età moderna in Italia, c'era una striscia di terra di circa 3 chilometri quadrati, completamente autonoma da qualunque potere. Erano i contadini, analfabeti e ignoranti a governarsi da sè in una forma di governo incredibilmente democratica. Non tutto è oro ovviamente, ma mi ha affascinato talmente tanto da voler cercare di immaginare la storia dal punto di vista di possibili abitanti del posto. Non vi aspettate una ricostruzione storica, ho un'idea molto romantica della vicenda, solo mi sembrava un buono spunto per parlare di tante cose, e allo stesso tempo per rendere un poco nota questo pezzettino di storia italiana. 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Annella ***


Annella

Il sonno non vuole proprio arrivare questa notte, continuo a fissare le travi del soffitto e a rigirarmi in questo giaciglio scomodo. Mia sorella qui accanto ronfa tranquilla, beata lei, ma io non riesco, continuo a pensare all'assemblea.
Cielo! A ripensare a quella notte le gambe riprendono a tremare e la testa a ronzare come fossi ubriaca. Mi torna in mente la faccia sconvolta del babbo, mi ha fissato scuro scuro ma non ha avuto il coraggio di schiaffeggiarmi, quella volta.
E tutto perché ho avuto il coraggio di alzarmi in piedi e dire la mia.
Son sempre stata piuttosto minuta, e gli altri ragazzi si fanno da sempre gioco di me. Anche il mio nome è stato storpiato a causa del mio aspetto. Ho quasi vent'anni ormai, molte delle mie amiche sono maritate, alcune hanno già i primi figli eppure io continuo ad esser Annella, per tutti. Un nome da bambina che anche quella sera, nonostante tutto, mi ha perseguitato.
Sono dovuta salire in piedi su una sedia per farmi ascoltare sopra al baccano che tutti continuavano a fare. Ho creduto che a mio padre sarebbe venuto un colpo, il grosso collo gli si era fatto rosso rosso, e la fronte raggrinzita si era bagnata tutta di sudore. Aveva la stessa espressione di quando batte con il grosso martello in fucina, o di quando si trova a ferrare uno stallone un po' troppo agitato.
Sapevo che tutti gli occhi erano puntati sul maniscalco, si aspettavano una sfuriata, ma io ho guardato altrove per non farmi prendere dalla paura e ho iniziato a parlare.
Ma forse dovrei raccontare dal principio.
Da quando tutto era cambiato, la stagione del raccolto era arrivata due volte e allora ci si avvicinava di nuovo alla fine dell'anno. La vendemmia era appena terminata e dai frantoi si spargeva il profumo dell'olio nuovo. Si iniziavano ad accendere i fuochi per scaldare, oltre che per mangiare e tutti avevano la sensazione di essere un po' più ricchi.
Per due anni nessuno aveva richiesto la decima e per la prima volta i cospaiesi si trovavano ad avere grano nei depositi e vino nelle botti al voltare della stagione e anche quest'anno nessuno avrebbe preteso nulla.
Per lungo tempo il vino era corso a fiumi e l'entusiasmo aveva dato alla testa a molti, ma poi i primi incidenti avevano iniziato a guastare gli animi. Un aratro rotto oggi, carenza di lana domani, freddo e fame che bussano alle porte. I primi malumori iniziavano a farsi sentire e i più codardi avevano iniziato ad invocare l'arrivo di un signore capace di sistemare le cose.
Ma non io. Io so che la nostra ricchezza non si conta con il ferro o con la lana, nonostante il babbo la pensi diversamente. Ma quello di battere il ferro è il suo mestiere, cos'altro dovrebbe pensare lui? Per me è diverso io non vivrò per sempre grazie ad una fucina scura e infuocata come l'inferno. Io so che se i miei figli crescessero padroni di loro stessi, io mi sentirei una vera dama.
La nostra ricchezza, a Cospaia, sta proprio in questo, nel non aver padroni, ma so anche che questo non rimette a posto le cose per Marta che non ha di che coprire i figli appena nati, o per il fattore che non potrà arare i campi in primavera.
E allora è nostro dovere trovare un modo che ci mantenga liberi, ma che ci scaldi in inverno e ci permetta di lavorare con la bella stagione.
Io lo so che siamo ricchi, ma so anche che tutti dovremmo esserne consapevoli e allora, non solo saremo ricchi, saremo forti.
Ed è questo che ho pensato mentre tutti gridavano attorno a me, durante una delle interminabili assemblee. Sarei potuta rimanere seduta ad ascoltare e tenere i miei pensieri per me, ma nella mia testa giovane, le idee si infiammano da sole senza bisogno di un mantice a ravvivarle. Ho pensato quindi: se non ci sono più signori, non c'è più nessuno da temere.
Quel Carlo che urla ora in mezzo alla stanza non è di certo un letterato, le uniche lezioni che ha preso sono quelle del catechismo e da queste parti si sa che i maschi al catechismo escono presto e imparano poco, ché gli importa solo di assaggiare il vino del curato di nascosto. E Duccio, lì in piedi col cipiglio da padrone, per mangiare deve farsi le mani lorde come faccio io, che diritto hanno loro di parlare più di quanto ne abbia io? Cospaia è cambiata, ma se io rimango la stessa tutto tornerà alla normalità, col volgere delle stagioni. I pensieri nella mia testa erano d'un tratto così forti che ho creduto tutti potessero già sentirli in ogni caso e allora sono salita su quella sedia, chiedendo mentalmente scusa al babbo.
“Le nostre dispense sono piene, abbiamo grano in abbondanza e vino buono in botti oramai invecchiate." Tutti mi hanno guardata, ma la mia voce non tremava, io ne ero certo la più stupita. “Ci serve ferro, lana, ci servirà altro in futuro, ma di certo non ci serve un signore. Possiamo vendere o scambiare ciò che abbiamo in abbondanza e acquistare in questo modo ciò che ci manca. Ciò di cui abbiamo davvero bisogno però, è che tutti sappiano che Cospaia è nostra e che nessuno venga qui un giorno a pretendere ciò che non gli appartiene. Dobbiamo far sapere a tutti che siamo liberi di commerciare le nostre cose, perché sono solo nostre.”
E' sceso il silenzio in chiesa, quando ho smesso di parlare. Da quando il curato è fuggito e nessuno viene più a dire messa da queste parti, la chiesa non era mai stata così silenziosa. Tutti mi guardavano come le comari guardano il prete parlare con Dio. Poi all'improvviso tutti hanno iniziato a batter le mani e a sorridere e a darsi ragione, a darmi ragione. “Brava la nostra Annella!” Sento ripetere. E tutti sono pronti a prendere per buone le mie parole. Anche il babbo alla fine rimane in silenzio e si guarda attorno.
Non sappiamo cosa saremo, ma sappiamo che Cospaia è nostra. E tutti lo sapranno.
Lo scalpellino si è messo all'opera subito l'indomani e domenica celebreremo appendendo uno stemma sulla porta della chiesa.
Perpetua et Firma Libertas”, questo sarà scritto sullo stemma. A quanto dice lo scalpellino le a e la s sono fatte magistralmente, ma a Cospaia, ora che il curato è andato, nessuno può capire se dice il vero. Ma infondo che importa? Anche se lo scalpellino avesse scritto: “Mangeremo Solo Rape”, come qualche burlone sostiene, quel simbolo per noi varrebbe comunque quanto le nostre case.
Dalla prossima domenica, Cospaia sarà nostra, saremo i suoi signori, avremo uno stemma tutto nostro, una nostra bandiera, un nostro motto. Neanche il Granduca in persona potrà più portarci via la nostra valle. Ovvio che potrebbe con un esercito, ma un esercito costa di gran lunga più di tutto l'oro che troverebbe nelle nostre case e di grano e vino, che è tutto quello che questa valle avrebbe da offrire, di certo il Granduca non difetta. Finché le cose rimarranno tali sarà tutto nostro e il merito sarà anche un po' mio e del mio coraggio che mi ha portato a sfidare il babbo. Ora però dovrei proprio spegnere la candela e dormire, se mio padre rientrasse, me ne darebbe di motivi per lagnarmi ed è meglio non farlo arrabbiare!











Prompt: Bastone parlante (mettersi in gioco)


Secondo raccontino dedicato ad una pagina di storia quasi sconosciuta. Per dimostrare di non essermi inventata proprio tutto e spoprattutto perchè mi piace tantissimo, ho inserito il vero stemma di Cospaia che ancora oggi si trova sulla facciata della chiesetta. 
Grazie a chi ha lasciato commenti e ha chi ha letto silente. Spero di continuare a produrre qualcosa di piacevole a leggersi.
Enjoy 


 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Lo Scalpellino ***


Lo Scalpellino

E' vero ho studiato. Nella mia giovinezza fui un giovane viziato, ricco e colto. Ma questo fu in un'altra vita, una vita sepolta lontano che vorrei poter dimenticare ma che torna a bussare alla porta ogni volta che il silenzio scende pesante su questo mio vecchio corpo.
Che se ne fa di un villaggio di duecento anime un uomo colto che teme il silenzio? Sarebbe facile dire che vi è stato costretto, ancor più facile comprendere che se lo sia scelto come castigo. Eppure da qualche anno il mio confino mi si è ritorto contro, non vi è più silenzio in queste strade, neanche quando uno lo desidererebbe per poter chiudere gli occhi e allontanare le fatiche del giorno.
Ma a Cospaia sembra che nessuno debba più dormire. Ad ogni ora e dietro ogni porta c'è sempre un crocchio di gente pronta a discutere, a parlare, a gridare e a far la pace. Questo villaggio di contadini si è trasformato in un foro in fermento e Dio solo sa quanto strenuamente ho cercato di sfuggire il foro nella mia vita.

I miei mi vedevano avvocato, erano pronti per questo a pagar fior fior di quattrini ed io ero abile nel spenderli tutti, lungi da me l'idea di smentirli.
Quando arrivai a Bologna però, le occasioni mi sembrarono infinite e studiar le leggi non era interessante quanto disquisire coi maestri in merito alle origini del mondo o alla natura di Dio. Mi lasciai affascinare da discorsi che aprivano davanti agli occhi di un giovane curioso, meraviglie sterminate. Avrei votato la mia vita al sapere, alla ricerca, alla conoscenza e perché no, a Dio. Ma i miei genitori non stimavano di gran valore il prestigio che viene dalla cultura e ancor meno dalla tonaca, erano affamati di gloria e successi ben più terreni, volevano un figlio da sfoggiare a Firenze per consolidare un nome di famiglia che faceva ancora storcere il naso ai nobili più eleganti e a coloro che potevano valutare con la purezza del sangue la propria nobiltà.
Scienze, filosofie e teorie avevano forgiato presto il mio cuore ma non certo il mio carattere e il cipiglio di mio padre mi aveva facilmente riportato sulla retta via. Diventai avvocato, mi feci forza pensando a chi mi aveva preceduto, pensai che il grande Cola di Renzo fu leguleio prima di divenire guida del popolo, pensai che Firenze poteva offrire a chi conosce la legge e si interessa di uomini, un terreno di ricerca vasto quanto e più di quello racchiuso in una polverosa biblioteca. Credetti per un poco di poter metter il mio sapere al servizio dello stato. Ma i fiorentini son gente gretta, chiusi a contar fiorini nei propri studioli bui, con occhi buoni sono a studiare il prossimo per leggervi inevitabilmente intenzioni maligne. E quelli che li governano non son certo da meno, essendo anzi campioni fra tutti per vizi, prim'ancora che per virtù.
La mia speranza infatti, fu presto sommersa da beghe meschine, gente che si accapigliava per un capro o una vigna ed io che volevo riformare lo stato, ero costretto a far da pacere tra mercanti truffaldini e nobili spietati.
Le voci dei maestri mi additavano nel mio lavoro giornaliero, sentivo il loro disdegno alimentare la mia frustrazione.
I mie genitori preoccupati si affannarono a trovarmi moglie, certi che questa avrebbe potuto rischiarare le mie giornate e placare la mia inquietudine. Mi presentarono un giorno una ragazza tanto graziosa da stregarmi. Era delicata e fresca come un fiore, i suoi occhi erano intelligenti e mi sfidavano a catturarne l'attenzione con l'arguzia più che con le lusinghe, a cui era avvezza e che anzi l'annoiavano.
Lo giuro davanti al cielo, l'amai con tutto me stesso. L'amai nell'unico modo in cui un giovane uomo innamorato della vita può amare una donna, in modo assoluto e disperato. Vissi solo per lei per sei intensissimi mesi. C'era solo lei nei miei pensieri, i miei studi non mi attraevano più, le giornate di lavoro trascorrevano lievi, i miei pensieri erano sempre e comunque con lei.
Devo ammettere che anche lei mi amava. Ma mi amava come una giovane di buona famiglia, che riconosce nell'amore l'unica possibilità che le verrà mai offerta nella vita, mi amò con parsimonia e lungimiranza. Quando io l'accusai di non amarmi nel modo giusto lei, per paura di vedermi andare via, mi amò a modo mio. Mi concesse il suo corpo come non avrebbe mai potuto concedermi il suo cuore, ma quello fece ardere in fretta il mio amore. Le meraviglie dell'amore fisico non mi erano nuove e la delusione che la realtà produce su un animo romantico gettò sabbia sul fuoco ardente.
Presto le giornate tornarono a farsi tediose e gli studi tornarono a richiedere la mia attenzione.
Il giorno delle nozze dovette essere anticipato, per celare alle genti volgari la fretta con la quale ci eravamo amati, ma quell'urgenza per me era scomparsa. Passai una notte insonne prima delle celebrazioni, attanagliato dall'orrore di una vita grigia e con l'animo stracciato dai sensi di colpa. Raccolsi infine i pochi fiorini che avevo nella mia stanza, il poco che avevo davvero guadagnato con il mio lavoro, lo misi in un sacchettino di seta e lo lasciai davanti l'uscio della mia amata.
Fuggii da Firenze mentre albeggiava. Provavo ribrezzo per me stesso, ma ne avrei provato altrettanto se fossi rimasto, e in ogni caso non avevo modo di evitare di rovinare due vite.
Fuggii e sperai nel destino, per la bella donna che avevo condannato alla rovina, più che per me stesso.
Ero solo e senza soldi, non avevo più un nome o una professione. Feci appello ai miei studi per sfuggire alla disperazione. Il Dio che un giorno avevo sperato di poter servire, non poteva essermi d'aiuto in quelle circostanze, avevo tradito tutti i suoi comandamenti e lo avevo fatto deliberatamente. Molti dei filosofi che avevo studiato facevano appello all'umanità dello studioso per essere compresi, e la mia viltà non me ne lasciava neanche un briciolo. Lo stoicismo, quello invece mi venne in aiuto. Mi ricordai di scritti antichi che non mi avevano mai davvero convinto ma che in questo momento calzavano come un guanto la mia vita.
Mi feci pietra per allontanare da me il rimorso e la paura, mi feci pietra per dimenticare di aver tradito una vita che poteva portare il mio spirito ad innalzarsi verso vette di sapere inesplorato, ma che la viltà aveva reso inerte e infruttuoso. Mi feci pietra e della pietra divenni servo.
Affamato e sull'orlo della disperazione, trovai un primo incarico in una bottega di uno scalpellino. Non dovevo far altro che spostare grosse lastre di pietra inizialmente, ma poi il livello più infimo della mia istruzione si rivelò il più utile. Saper leggere e far di conto non è un'abilità comune ed è molto apprezzata soprattutto negli ambienti più umili. Appresi l'arte vagando di bottega in bottega finché arrivai a Cospaia. Compresi di aver trovato il posto adatto per ritirarmi e iniziare a ripagare i miei crimini. L'espiazione non è un concetto molto stoico, ma avevo ben presto dovuto riconoscere che se Dio avesse voluto farci di pietra, non ci avrebbe dato un'anima. Non avrebbe avuto senso continuare a nascondersi. Mi fermai a Cospaia e accettai che il silenzio mi raggiungesse e agisse su di me come un boia spietato. Lasciai che il rimorso consumasse la mia vita, mentre giorno dopo giorno le mie mani lasciavano impresse nella pietra parole senza valore. Sembrava un giusto contrappasso per chi aveva avuto la possibilità di forgiare i cieli e l'aveva invece rifuggita per codardia.

Poi Cospaia si è trasformata. Mi sono tenuto lontano quanto ho potuto da tutto il rumore e il fermento, ma in fondo, le vie del Signore sono imperscrutabili, e io non voglio tirarmi indietro di nuovo.
Dopo dieci anni di anarchia la gente del posto agogna un po' di ordine, vuole un governo, vuole delle regole. Ha messo in fuga il curato ed ora brancola completamente nel buio.
Sono venuti da me una notte a chiedere consiglio, sanno che ho studiato, che so leggere e scrivere, credono che io debba avere le idee più chiare di tutti su come si governa una città.
Si dà il caso che abbiano ragione e che io abbia davvero le idee chiare su come si governa una città. Si dà il caso che io abbia immaginato la mia Repubblica, come un Platone dei nostri tempi. Ebbene eccomi qui ora, a trascrivere sulla carta ciò che il popolo sotto la mia guida ha deciso.
Il popolo, ha ascoltato, ha compreso ed elaborato, ed ora Cospaia, un villaggio miserrimo sperduto nel nulla, ha forse il governo più evoluto che mai l'uomo abbia visto realizzato.
Ogni famiglia avrà un seggio nel consiglio, il consiglio deciderà come amministrare i beni che appartengono a tutti. Verrà eletto uno tra gli anziani con il compito di armonizzare le decisioni e facilitare le discussioni. Non ci sarà distinzione tra uomini e donne, avranno pari dignità e pari responsabilità. Non vi sarà necessità di un esercito o di una forza di polizia, ciascuno sarà il guardiano del proprio fratello.
Tutto questo ho visto divenire realtà sotto i miei occhi. Cospaia, non è Firenze questo è certo, ma gli uomini son sempre uomini e se tutto questo dovesse persistere, allora gli studiosi di tutti i tempi avranno finalmente la prova che la natura dell'uomo è realmente intrinsecamente buona. Io in questo momento lo credo e se Dio mi lascerà morire prima che anche questa idea si infranga al contatto con la realtà, allora saprò per certo di aver espiato il mio debito e di essere rientrato nella grazia del Signore, di nuovo puro e innocente come un bambino.



Prompt: Spiritualità/Immaginazione


Terzo capitolo di questa strana storia. Scrivere di questo personaggio mi è piaciuto molto, ho un debole per i personaggi ambigui e spero di averlo reso al meglio.
La repubblica intanto prende forma, ci tengo a precisare che la forma di governo di cui parlo è reale, non avrà visto la luce grazie ad uno scalpellino un po' infame, ma secondo le carte che ci sono arrivate il governo era davvero in mano al consiglio degli Anziani e dei Capifamiglia che eleggeva un presidente e prendeva collegialmente le decisioni. Ogni carica era su carta accessibile a uomini e donne. Il non avere un esercito è limitato ai primissimi anni della repubblica. Andando avanti e arrivando attorno al 1700 credo che ogni cittadino di Cospaia avesse armi, e sebbene non vi fosse una vera e propri milizia organizzata non stupisce sapere che forze mercenarie difendevano i confini e il commercio. Ma a questo ci si arriverà con calma, se avrete la bontà di continuare a seguire questa storia.
Un grazie ancora una volta al forum LaTorre di Carta per aver dato vita alla challenge Le Trasformazioni Elementali, da cui questa storia prende spunto.
Grazie a chi legge in silenzio, preferisce, segue o ricorda. Grazie davvero.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Lucina ***


Lucina

La luce della sera confonde i mie vecchi occhi stanchi, non c'è modo che possa finire il lavoro oggi. Poso il filo e il ricamo lasciato a metà e mi alzo a fatica dalla poltrona ormai logora. Devo chiudere gli scuri e approntare il pasto serale, un giorno in più da mettermi alle spalle, una pratica da sbrigare in fretta.
Una sera come tante, come troppe, questa vita che mi si è attaccata alle ossa con tenacia, non porta con sé un solo briciolo di volontà o di speranza.
Il vento di levante è frizzante questa sera e porta alla mia finestra un profumo di vita lontana che mi cattura ancora.
Le mie vecchie ossa, i miei occhi stanchi, le membra doloranti, ma nulla riesce ad incatenare il mio pensiero neanche in questi ultimi miei giorni. Il mio pensiero è la mia maledizione, basta un soffio profumato di erba per accendere la mia immaginazione, per eccitare i miei sensi. In un attimo torno la ragazza irriverente e sfrontata che sono stata, torno ad avere il fuoco nelle vene. Poi il mancato accelerare del mio cuore mi ricorda che quelle vene sono ormai rigide, e non possono assecondare tanto entusiasmo. Quel fuoco mi ha consumato l'anima bruciandola fino in fondo e lasciando della bella e allegra Lucina, niente più che un ammasso di stracci e dolori.

Ma sono alla finestra ormai e i colori della sera mi catturano. “Signore vieni presto in mio aiuto”, le parole del vespro che imparai da bambina mi sorgono alle labbra. Molti direbbero che quelle parole sulla mia bocca sono bestemmia e forse avrebbero ragione. Si direbbe di me che io sia una peccatrice, ma contro chi ho peccato? Contro Dio o contro gli uomini? E questi uomini che mi accusano non hanno forse avuto l'ardire di sfidare il diritto divino come io ho fatto? Cosa ho fatto di diverso da loro? Ho osato stabilire il mio diritto su questa mia casa di zitella, come loro hanno fatto su questa terra. Ho avuto il coraggio di dire: “Questo è mio!” Ho sfuggito il giogo del padrone come loro hanno fatto, anche grazie al mio aiuto, tra l'altro. Credevo che una terra libera sarebbe stata libera per tutti, ma mi sbagliavo. Hanno ascoltato le mie parole quando queste parlavano in loro favore, quando loro erano servi e le mie parole parlavano di libertà. Quando questa libertà gli si è ritorta contro, quando loro hanno vestito le vesti dei padroni, le mie parole sono divenute eresia.
La donna è fatta per accompagnare l'uomo, dicono, per curarlo e accudirlo.
La donna è fatta per essere come l'uomo, dico io. Ma questo anche nella libera Cospaia produce il suono frastornante di catene infrante.
Ricordo quei giorni con lo stesso immutato fervore, ricordo le lunghe nottate trascorse nell'officina di Tancredi, lo scalpellino. Lui parlava di orizzonti che io non avevo mai visto o sperato di vedere. Ricordo l'impegno con cui cercai di comprendere ciò di cui parlava, imparai con grande affanno a leggere, finché quegli stessi orizzonti si spalancarono difronte a me, sterminati.
Il mio maestro diventò presto mio amico, non c'erano altri la cui conversazione suscitasse in me un piacere più autentico e vivo. Condividevamo per Cospaia i medesimi sogni, o questo credevo. Finché il mio mentore non decise di gettar da parte le idee in favore della brama di possesso e di fare di me sua moglie. Contro ogni logica, contro tutto ciò di cui per anni avevamo parlato, contro tutto ciò per cui ci eravamo battuti anche davanti ai nostri compatrioti. La libertà dell'individuo non contava più, la rigidità delle istituzioni umane che costringono lo spirito in gabbie che lo atrofizzano e lo abbrutiscono non erano più un male così grave. Nulla valeva quanto il suo desiderio di vedermi sua. Lo amavo? Non saprei dirlo. L'ho amato in qualche modo, ma non a prezzo della mia libertà. Voleva che divenissi sua proprietà, che mi trasformassi nella sua ombra, la sua sposa.
Fu colpa mia disse, ma l'unico crimine di cui mi macchia fu di essere irrimediabilmente felice, irrimediabilmente libera.
Una sera, dopo un'assemblea che ci aveva visti protagonisti e in qualche modo vittoriosi, insistetti per rimanere in piazzetta per un po'. Era inverno, il freddo era pungente ma l'emozione e la giovinezza mi mantenevano calda. Ero euforica, non sapevo che non sarei mai più stata altrettanto felice, la fiducia nel futuro in quel momento non conosceva confini. Avrei danzato attraverso la piazza e lungo la strada di casa, ma non vi era musica e il mio compagno era troppo posato. Mi feci un po' gioco di lui, risi, lo provocai e poi lo baciai e fuggii a casa augurandogli la buona notte. Non saprei dire perché lo feci, forse fu un gioco, forse ero ubriaca di speranza e possibilità, o forse davvero lo amavo in quel momento, o semplicemente ero giovane, incosciente e felice di esserlo. Ma l'indomani all'improvviso mi venne presentato il conto, la mia incoscienza venne pagata con una delusione cocente e la mia fiducia nel prossimo s'incrinò irrimediabilmente. Tancredi si presentò al mio uscio all'alba, mi disse che voleva sposarmi, che avremmo potuto farlo all'inizio della primavera e che saremmo dovuti scendere verso San Giustino e far celebrare la funzione dal cappellano del luogo, perché un matrimonio a Cospaia non avrebbe avuto valore. Nella sua proposta vi erano progetti ordinati e precisi, come del padrone entrato in possesso di un nuovo appezzamento di terra. Non si chiede alla terra se preferisce essere coltivata a grano o a maggese e così lui non chiese a me cosa mi aspettassi da quella sua proposta.
Rifuggii quei piani con tutta la forza di cui ero capace. Non volevo ferire il mio amico ma ne ero a mio volta mortalmente ferita. Mi allontanai da lui e il suo rancore mi trasformò in una donna perduta. Per tutti non fui altro che una donna facile, che aveva perduto la strada. Tutti credettero alla mia lascivia senza pormi una domanda, venni condannata senza subire giudizio.
Non avrei mai pensato di divenire ciò che sono stata, ma se una donna non ha il diritto di essere ciò che vuole ha il dovere di divenire ciò che può.
Venni espulsa dalla vita politica, le mie parole improvvisamente non importavano più, non contavano più. Venni ostracizzata come una criminale, il potere che avevo avuto era venuto meno, ero stata ricacciata indietro, una donna qualunque costretta davanti ad un focolare. Ma di tutto quello almeno sarei stata padrona, del focolare e di me stessa e non avrei ceduto il controllo a nessuno di ciò che ritenevo il mio dominio.
Non avevo mai fatto ciò di cui fui accusata al tempo, ma da quel momento in poi amai molti uomini, almeno con il mio corpo se non tutti con il mio spirito.
Ero padrona di entrambi ed ero l'unica a poter decidere come avvalermene. Questa casa divenne la mia reggia, gli uomini venivano qui con aria da padroni, ma uscivano sudditi dei loro istinti e del mio volere.

Intanto Cospaia non impiegò lungo tempo ad attirare ogni sorta di sbandati. È facile credere che essere senza padrone equivalga ad essere senza legge e questo ci trasformò presto, agli occhi di molti, in una terra promessa di libertà senza conseguenze. Gente la cui unica salvezza sta nell'avere un padrone, diviene dannosa se lasciata libera e trasformò Cospaia in un luogo pericoloso. Ogni giorno gettava la propria luce su nuove forme di violenza ma ora nessuno più invocava un signore, tutti indugiavano in quel senso distorto di libertà che li umiliava e li faceva al tempo stesso sentire potenti. Diventarono presto uomini persi, senza ambizione e senza desideri che non risultassero sordidi in un modo o nell'altro.
Potere, immunità, denaro, donne, vino, gli uomini semplici ricavano piacere da cose semplici. Trasformai quindi la mia casa in una casa dei tanti piaceri, era necessaria, pensai, per incanalare e franare gli istinti che si erano già sfogati in modi più oltraggiosi. Essere necessari, inoltre garantisce un certo potere.
Dopo anni da emarginata, di nuovo la mia voce reclamava ascolto. Se prima essere ammessi in casa mia era accompagnato da un misto di bisogno e vergogna, ora rimanere fuori sarebbe stato disonorevole, come essere lasciati a bocca asciutta mentre si è in fila per ricevere l'ostia santa la domenica di Pasqua. Ero di nuovo io ad avere il controllo, ero io a dispensare favori ed elargire consigli, ero io a poter essere prodiga o inflessibile. Dovetti passare dagli istinti più bassi dell'uomo affinché venisse finalmente riconosciuta la mia esistenza come essere libero e quindi di per sé prezioso.

Le ragazze che pian piano si raccolsero attorno a me, avevano una vita più sicura di molte contadine, insegnai loro a leggere i libri e ad osservare gli uomini. Insegnai loro qualche trucco per difendersi dai più pericolosi, insegnai loro a piegare il corpo e a mantenere saldo lo spirito.
Forse mi illudo, forse non fui altro che l'ennesima donna perduta, che spinge altre sue simili sulla medesima strada, ma non permisi mai a nessuno di essere padrone di me, della mia casa, della mia anima e posso forse affermare lo stesso per la maggior parte delle mie ragazze.
Ho peccato io che ho usato il mio corpo per mantenermi libera? E coloro che lo hanno usato per sfogare piaceri animali? Perché il mio peccato dovrebbe essere stato peggiore del loro? Non ho mai ucciso o ferito nessuno, non ho mai tentato di mettere in catene un altro essere umano, non ho mai tradito i miei ideali, ho continuato a cercare conoscenza e perdono.

Ora in questa casa, che ho mantenuto grazie al mio lavoro, posso aspettare la fine, senza troppi rimpianti. I muscoli flaccidi, i tendini e le ossa dolenti, ma il cuore leggero. Perché il mio crimine più grave agli occhi degli uomini è quello di essere una donna, una donna che non hanno saputo imbrigliare. Ma questo a parer mio non è un peccato agli occhi di nostro signore. Ho peccato molto, ma il signore ha misericordia: “Molto le è perdonato perché ha molto amato1”.

O Dio vieni presto a salvarmi
Signore vieni presto in mio aiuto2.



Prompt: Controllo



1: Vangelo di Luca capitolo 7
2: Invocazione di apertura e chiusura dei vespri serali. I Vespri assieme alle Lodi mattutine sono i momenti principali nella liturgia cattolica delle ore. La liturgia delle ore scandiva materialmente il tempo nelle comunità monastiche e nelle piccole comunità rurali.


Quarto capitolo della storia, il balzo avanti dovrebbe essere più o meno di 40 anni, ci troviamo quindi più o meno attorno al 1480/90, la scoperta delle Americhe è vicina e inaspettatamente questa scoperta cambierà tutto per la piccola repubblica di Cospaia. Con questo racconto chiudo quello che immagino essere il primo ciclo di storie riguardanti tutti la nascita della repubblica, il primo di 4. Spero possa continuare a piacere e interessare, scrivere di questa repubblica mi diverte sempre di più quindi spero di riuscire a trasmettere un poco del mio entusiasmo.

Ricordo ancora che questa storia partecipa alla Challenge delle Trasformazioni Elementali indetta dal forum La Torre di Carta. 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3585669