Baby Yankee di AvalonGirl (/viewuser.php?uid=25890)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Incinta? Ma quando mai! ***
Capitolo 2: *** Come e quando dire ***
Capitolo 3: *** Come e quando dire “nonni” 2° Parte ***
Capitolo 4: *** Father in law and friends. ***
Capitolo 5: *** University and Gynecology ***
Capitolo 1 *** Incinta? Ma quando mai! ***
ssssssssss
Sedevo impaziente sulle poltroncine dello
studio medico, quasi mi mancava l’aria. Per la tensione mi mordicchiai
distrattamente le unghie, abitudine che avevo abbandonato al primo anno di
liceo.
Il grande orologio appeso sopra la segreteria
scandiva i secondi in modo fastidioso, producendo un perpetuo tic-tac.
Stavo letteralmente per scoppiare.
Cercavo di non pensare ai quattro, dico ben
quattro, test di gravidanza che avevo nella borsa.
Tutti positivi.
L’infermiera dal volto paffuto chiamò in quel
momento un nome di un’altra paziente; questa si alzò e mi passo davanti, per
dirigersi verso l’ambulatorio. Aveva una pancia enorme.
Come quasi tutte le altre donne che c’erano in
quella sala d’aspetto.
Doveva essere di sette o otto mesi.
Vederla sgambettare goffa verso la porta non
fece altero che aumentarmi l’ansia, anche perché io ero la prossima.
E sapevo gia cosa mi avrebbe detto la
ginecologa.
Sospirai profondamente e mi ridissi
mentalmente il discorso che mi accompagnava da una settimana a quella parte.
“Non sono una sedicenne, ma una donna di 23
anni sposata. Un bambino è più che un’ottima notizia.”
Allora perché stavo così male?
Quella mattina sarei dovuta andare a una
lezione abbastanza importante all’università, ma quello era più urgente.
Avevo detto ad Andy che dovevo andare ad
accompagnare mia sorella a una visita medica.
Odiavo mentire ad Andrew, lo amavo troppo per
farlo senza sensi di colpa.
Non ero riuscita a dirglielo; avrei voluto
tantissimo averlo qui con me, in quel momento, ma la lingua mi si era in
sostanza incollata al palato.
Le parole “Sono incinta.” si rifiutavano di
uscire dalle mie labbra.
Notai che ormai le unghie sulla mano destra
erano completamente sparite, passai alla sinistra e iniziò anche a tremarmi la
gamba.
Mi chiamo Judith Maria Ferrante, ho ventitré
anni e sono sposata da due. Ho conosciuto mio marito a diciotto anni, durante
la mia prima festa da campus come universitaria. Andrew aveva la mia stessa età
e frequentavamo entrambi la New York University, ma in due indirizzi diversi;
lui frequentava la facoltà di giurisprudenza, io quella d’arte.
Non ho ricordi molto precisi di quella serata,
pensandoci dovevo essere anche un po’ brilla, ma la figura di Andrew che
entrava in quella stanza non la dimenticherò mai.
Indossava dei jeans chiari e una camicia
bianca con il simbolo della facoltà di legge, capelli biondi e indomabili e un
fisico da dio greco, ma quello che mi colpì di più furono gli occhi: grandi e
verdi, con qualche pagliuzza castana, contornati da ciglia chiare; era uno
sguardo profondo e intelligente e mi abbagliò in modo folgorante, peggio delle
insegne dei Mulin Rouge. Per non parlare di quando mi sorrise…
Cavolo se non era fantastico!
Mi si avvicinò sicuro e si presentò –Ciao,
sono Andrew Allen, piacere.- e mi allungò una mano.
Mi ci aggrappai come se ne dipendesse la mia
vita, probabilmente.
Tre mesi dopo lo presentai ai miei genitori
come mio ragazzo ufficiale. I miei erano entrambi figli di emigranti italiani arrivati
a New York nei primi degli anni ’20; i miei bisnonni aprirono un ristorante italiano,
il “Al Chiaro Di Luna” nell’allora appena nata Little Italy, il quartiere, dove
si raggrupparono gli emigranti provenienti dall’Italia. Tutta la mia famiglia
abitava nell’appartamento sopra al ristorante, io andavo a lavorarci quasi
tutti i pomeriggi da quando mi ero trasferita all’inizio dell’università; così
riuscivo a stare con la mia famiglia e a guadagnare qualcosa.
Mia madre aveva adorato, letteralmente, Andrew
dal primo momento in cui aveva messo piede nel ristorante. Mio padre era stato
un po’ diffidente, ma se io ero felice anche lui lo era; in più Andrew si era
sforzato fin all’inverosimile di far loro un buona pressione (come se ci fosse
il bisogno...per me era perfetto in tutto) e, molto evidentemente, ci era
riuscito. Mia madre lo accolse subito in famiglia, invitandolo a passare al
ristorante ogni volta che voleva senza farsi problemi.
Instaurare un rapporto con i sui genitori fu
più difficile, molto difficile…diciamo anche che fu un’impresa. Ci volle molte
più tempo prima che lui decidesse di presentarmi come sua fidanzata. Per me non
fu per niente un problema, sapevo che in quel periodo il rapporto con i suoi
era abbastanza precario…cioè più del solito, e da quello che mi aveva raccontato,
non ci tenevo proprio a incontrarli.
Il padre di Andrew, Bruce Allen, era uno degli
avvocati più rinomati e competenti dell’intera città, se non dell’intero stato
di New York. Gestiva un ufficio legale di fama nazionale nell’Upper East Side e
aveva scritto e pubblicato non so quanti saggi e libri sulla giurisprudenza.
Sua madre Evangeline, invece, era l’unica figlia di un imprenditore
immobiliare; quel genere di donna newyorkese tutta vestiti filmati, alta
società e balli delle debuttanti.
Era la donna più bella e più fredda che avessi
mai incontrato.
Andrew era figlio unico e sin da piccolo aveva
frequentato le scuole più importanti della piazza dell’Upper East Side,
dall’asilo nido al liceo.
Dopo di questo erano iniziati i guai.
Il Dottor Allen aveva in mente dei progetti
tutti suoi per il figlio: Andrew avrebbe dovuto frequentare Yale, sposare una
ricca newyorkese anch’essa tutti balli e martini, e affiliarsi nell’ufficio del
padre per poi prenderne le redini un giorno.
Il piano sembrava perfetto, a parte un piccolo
particolare: Andrew non aveva nessuna voglia di seguirlo.
Non si presentò all’esame d’ammissione per
Yale, e nonostante che a suo padre bastasse una piccola telefonata per far
ammettere il figlio, Andrew si rifiutò tassativamente. Disse quindi di voler
frequentare la New York University, per grande orrore del padre, e di voler
cercare lavoro per conto suo, senza dover basarsi sulle sue “fortune di
famiglia”; aveva passato il test d’ammissione con un punteggio astronomico e si
era trasferito nel campus.
La situazione era abbastanza critica.
Quando prendemmo il coraggio a quattro mai, ci
recammo dalla sua famiglia, che abitava nell’attico più bello che occhio umano
avesse mai visto.
Dove?
Naturalmente nell’Upper East Side.
L’incontro andò meglio di quanto ci
aspettassimo…per intenderci, non fu propriamente quello che si può definire
tutti “baci e benvenuti”; suo padre mi sembrò una persona simpatica anche se un
po’ rigido.
Sua madre invece era una lastra di giacchio
freddo e pungente; per la maggior parte della serata non mi rivolse la parola.
Non me la presi perché Andrew mi aveva
avvertito, ma anche perché si vedeva da un miglio di distanza che era quel
genere di donna che non riesce a sciogliersi neanche a pochi centimetri da un’eruzione
vulcanica.
Insomma, chi ero io? Ero la ragazza
italoamericana che basava i suoi studi su una misera borsa di studio e lavorava
nel ristorante per turisti dei genitori che stava irretendo il suo unico
figlio, sottraendolo dalla candidata ideale che aveva scelto come sua futura
nuora.
Dopo due anni di fidanzamento (in cui Andrew
fu in pratica adottato da mia madre), così, all’improvviso me lo chiese.
Ci trovavamo al Museo di Storia Naturale, io
stavo osservando tranquilla e inconsapevole una riproduzione di gesso di
Leonardo Da Vinci, lui s’inginocchiò e mi chiese molto teatralmente che se non
gli concedevo la mano, testuali parole, si sarebbe buttato dal ponte di
Brooklyn. Il tutto amplificato di suoi occhi in versione cucciolo abbandonato
bisognose di coccole, in questo caso di un “si”.
Come potevo rifiutare?
Accettai meccanicamente, gli strappai l’anello
dalle mani e me lo infilai. Tutto nell’arco di un suo battito di ciglia.
Avevamo solo ventuno anni, eravamo giovani, è
vero…ma cosa ce ne importava?
La reazione dei mie fu indimenticabile.
Come ogni pomeriggio ero al ristornante ad
aiutare, mio padre stava cucinando alcuni ordini, mia madre era alla cassa e
mia sorella stava servendo dei tavoli.
Sfoderai il mio miglior sorriso, quello da
campagna pubblicitaria che avevo ottenuto solo grazie a tre anni di apparecchio
ai denti ed esclamai tutta giuliva:
-Mamma, io e Andy ci sposiamo. Fra due
settimane. Papà vedi di essere puntuale in chiesa, che mi devi accompagnare
all’altre. Oh…Claudia, - mia sorella allora sedicenne –sei la mia damigella
d’onore.- ed ero tornata a ripulire il bancone.
La pizza margherita che mio padre stava
modellando schizzò come un fulmine contro il muro, mentre mia madre rischiò una
frattura della mandibola, tanto aveva aperto la bocca.
Nel dirlo ai suoi fummo un po’
più…ehm…moderati.
Il che vuol dire che lo scoprirono solo quando
gli arrivò l’invito di partecipazione.
Fosse stato per Andrew, avrebbe fatto anche a
meno di invitarli, ma non volevo rischiare di mettermi contro ancora di più la
mia futura suocera e perché, nonostante lui lo credesse inconcepibile, suo padre,
mi stava davvero simpatico.
Senza considerare che mi sembrava troppo
sfacciato andare da loro, mostrare le fedi ed esclamare “Ci siamo sposati. Ora
non potete fare nulla per impedirlo. Tiè!”.
Stranamente sua madre non disse nulla
incontrario…in verità non parlò e basta, per tutta la cerimonia.
Credevo che sotto ci fosse lo zampino del
Dottor Allen, e quando mi fece l’occhiolino mentre mi dava gli auguri, ne ebbi
la conferma.
Il Dottor Allen accettò il matrimonio senza
problemi, ma ci chiese un compromesso: avrebbe dato la sua benedizione (e anche
se Andy diceva che non gliene importava, io sapevo che era il contrario) solo
se Andrew avesse accettato di diventare il successore del suo ufficio e se
avesse incominciato a lavorare lì part-time il pomeriggio, senza naturalmente
tralasciare gli studi.
Lui accettò a patto che avrebbe dovuto
incominciato da zero; niente preferenze o comportamenti di privilegio solo
perché era il figlio del capo.
Andrew era fatto così, ed io lo amavo più di
qualsiasi altra cosa.
La cerimonia fu semplice, fu celebrata in una
piccola chiesa nel Greenwich Village. Non invitammo molte persone; solo
famiglia e qualche amico stretto. Per l’occasione arrivarono mia nonna e mia
zia dall’Italia.
I sui genitori ci regalarono casa, non senza
proteste del mio neo-marito, evitandoci così le spese di un eventuale mutuo.
Era dislocata su due livelli più la soffitta, completamente di mattoni rossi,
tra la quindici King Street e 13 Chartlon Street, nel distretto storico di
Chartlon-King, sempre nel Greenwich Village; Andrew adorava quella zona e
quello che stava bene a lui stava bene anche a me.
Adoravo quella casa; per me, che ero nata e
cresciuta in un appartamento comunicante col ristorante, dove dovevo dividere
la stanza con le mie due sorelle e i miei due fratelli, quello era il paradiso.
Appena entravi c’era l’ingresso, piccolo e
accogliente, dipingemmo le pareti di un lilla chiaro e posizionammo un tavolo
rotondo al centro; poi c’era la cucina, che era abbastanza grande da accogliere
anche un divano a tre posti e il pianoforte di Andrew, quindi divenne
cucinasoggiornosala da pranzo; al secondo piano c’era, poi, un breve
corridoio con l’unico bagno e due camere, quella più grande divenne la camera
da letto, mentre nell’altra ammassammo un po’ di roba inutile, fendendo per
diventare una sottospecie di stanzino; poi c’era la soffitta, quello divenne il
mo regno.
Andrew ed io la ripulimmo completamente
trovando roba stranissima, da bamboline woodoo con tanto di aghi a una ventina
di gufi impagliati…ci chiedemmo che razza di persona aveva vissuto in quella
casa prima di noi. La soffitta divenne il mio laboratorio, con tanto di tele,
cavaletti e il familiare odore di colore acrilico e tempera che mi faceva stare
bene col mondo.
In fine c’era un piccolissimo giardino nel retro,
dove Andrew dispose due sdraio e un tavolino da giardino bianco.
Ero così felice che sarei potuta morire in
quel momento e non avere nessun rimpianto.
Da allora erano passati due anni ed io e Andy
avevamo trovato la nostra quotidianità che ci faceva stare così bene.
La mattina prendevamo insieme la metro e
andavamo all’università, poi ognuno si recava verso la propria facoltà; io
quella d’arte, lui quella di legge, a entrambi mancava lo stesso numero d’esami
per la laurea.
Ci concordavamo appuntamento nel campus della
scuola alle tre e mezzo e andavamo a mangiare nel ristorante dei miei;
dopodiché lui andava da suo padre, come sancito nell’accordo, ed io restavo ad
aiutare i miei fino alle sette.
Io ero la prima a tornare a casa, cucinavo e
mi mettevo a studiare. Andrew rientrava verso le nove, cenavamo e guardavamo un
po’ di tv; lui appoggiava il capo sulle mie gambe ed io gli carezzavo
distrattamente i capelli biondi e spettinati che tanto adoravo…a parte quando
c’erano degli esami in vista, in quel caso non cenavamo nemmeno... ma passavamo
tutta la serata chini sui libri. Poi andavamo a letto e a quel punto…beh…a quel
punto luci rosse per i minorenni. Durante i weekend organizzavamo sempre gite a
Central Park; ci sceglievamo un bel posto vinco a lago e ci passavamo tutta la
domenica, tra libri e coccole varie; oppure visitavamo qualche museo o galleria
d’arte interessante.
Adoravo profondamente la nostra quotidianità e
le nostre abitudini.
Avevamo una vita frenetica e piena d’impegni…e
un posto per un bambino proprio non lo trovavo.
Per non parlare del fatto che, molto
probabilmente, non sarei risuscita a sostenere un esame di laurea con un
pancione di nove mesi o un neonato in braccio. E anche Andrew avrebbe dovuto
rinunciare ai viaggi che tanto amava fare ogni due o tre mesi…e poi non mi ci
vedevo proprio genitori.
In conclusione…stavo da schifo.
Cercavo di non guardare tutte quelle donne
panciute e incintissime che mi stavano attorno. Quando vidi la ragazza di prima
uscire dallo studio medico iniziai a sudare freddo.
L’infermiera cinguettò allegramente il mio
nome –Signora Allen, è il suo turno!-.
Io considerai l’idea di scappare a gambe
levate, ma poiché i miei ventitré anni mi avevano dato un po’ di giudizio, mi
alzai con difficoltà dalla poltroncina verde e mi diressi versa la porta dietro
alla quale mi aspettava la ginecologa e il suo verdetto ormai scontato.
Entrai nella stanza e la ginecologa, la
Dottoressa Wilder, bassina e sulla cinquantina, con espressione gentile, mi
sorrise.
Si alzò dalla sua sedia e mi raggiunse.
-Allora, - disse sempre sorridendo, -cosa ti
porta qui?-
Io deglutii e risposi al suo sorriso con uno
stentato, -Credo di essere…ehm…incinta…- wow, ero riuscita a dirlo, non credo
di esserne capace al primo colpo!
-Oh…davvero?- il sorriso della ginecologa si
moltiplicò –bene…di quando sei in ritardo?
-Ehm…quattro settimane.- e abbassai lo
sguardo, avevo tentennato prima di costringermi ad andare da un medico.
-Hai aspettato parecchio, eh? Sempre meglio
tardi che mai! Allora hai gia fatto un test?-
Io annui meccanicamente e scavai nella mia
borsa a tracolla, ci misi un po’ per trovare quello che cercavo.
Estrassi tutti e quattro i test e li appoggiai
sulla scrivania. La dottoressa sollevò un sopracciglio divertita, poi prese un
foglio da un cassetto –Sono tutti positivi…bene. Hai avuto dolori simili a
quelli mestruali?-.
-Si.- mormorai e scrisse qualcosa con la
penna.
-Gonfiore al seno?-
Annui.
-Perdita di appetito? Nausea? Stanchezza?-
La risposta era “si”, a tutte le domande.
La ginecologa finì di compilare la sua scheda
e poi si alzò di nuovo, -Bene…ora vieni con me, faremo un’ecografia, così
saremo sicuri al cento per cento.-e mi fece segno di seguirla nella stanza
adiacente.
Al centro di quella c’era posta la macchina
per l’ecografia, la dottoressa stese sul lettino un lenzuolino di carta e mi
fece segno di stendermi –Su, avanti! Non aver paura!- m’incoraggiò, ma non ebbe
risultati.
Mi stesi sul lettino e mi alzi la maglia, lei
mi spruzzò del liquido blu, freddo e gelatinoso sul basso ventre e inizio a
stenderlo con uno strano aggeggio.
Io tenevo gli occhi chiusi e l’unica cosa che
riuscivo a sentire era il ronzio prodotto dai macchinari.
Questo fin quando la dottoressa non esclamò
con voce alta e allegra –Eccolo!-.
Girai la testa verso il monitor così in fretta
che senti uno strano scricchiolio nel collo.
Trattenni il respiro rumorosamente.
-Ecco qui!- continuò la dottoressa, -E’ questo
puntino!- anche se non c’è ne era bisogno me lo indicò con il dito.
In monitor trasmetteva un’immagine nera e
bianca, al centro di questa, piccola, quasi invisibile una macchiolina
conteneva qualcosa.
Il mio bambino.
Mio e di Andrew.
Non sapevo come mi sentivo in quel momento…
avevo tanta voglia di piangere e ride assieme e non sapevo se era per felicità,
incredulità, confusione e chissà cos’altro.
La dottoressa guardò comprensiva il mio volto,
probabilmente era abituata a quel tipo di espressione a pluri sentimenti.
Continuò a muovere l’aggeggio sul mio ventre e
iniziò a segnare delle cose con il mouse.
-Vediamo un po’…6 mm…è di un mese e pochi
giorni, cara. Circa 26.- mi disse –Sembra tutto apposto…ora sentiamo il
battito, ok?-.
Anche senza ricevere nessuna risposta la
ginecologa continuò e premette un tasto sulla tastiera.
Tum-tum-tum-tum…
-Lo senti?- mi disse –Questo è il battito del
tuo bambino!Ahhh…il miracolo della vita!-
Io non la ascoltavo, tutta me stessa seguiva
quel rumore regolare e perpetuo.
-Bene! Abbiamo finito! Puoi ripulirti ora…- e
mentre stampava le ecografie mi passò dello Scottex.
Tentai di togliere la gelatina dalla pancia e
seguii la dottoressa nella stanza di prima.
Questa si sedette e mi fece segno di sedermi a
mia volta.
-Bene…so che ora può sembrare tutto
inverosimile e ti starai ponendo tutte le domande del mondo…ma avere un bambino
è la cosa più fantastica che possa capitare, credimi! Ora tieni questa…- e mi
passò una specie di cartellina rossa -…dentro ci sono le ecografie, il mio
numero di telefono e di cellulare e il giorno della prossima visita, ok? Non
esitare a chiamarmi per qualsiasi cosa…e mi raccomando…dirlo al più presto a
tuo marito!-.
Sbattei le palpebre un paio di volte e guardai
la dottoressa son sguardo interrogativo.
-C…come fa lei a sapere…che non…- ma non mi
fece finire.
-Tesoro…dammi del tu, figurati!...faccio
questo lavoro da così tanti anni che tutte le pazienti sono per me di libri
aperti!-
Mi alzai dalla sedia e mi avviai verso
l’uscita, non prima di ringraziarla, però.
Lei mi rispose gioviale e mi fece gli auguri.
Uscii dall’ambulatorio di ginecologia con i pensieri
azzerati del tutto.
Venti minuti più tardi ero sulla
metropolitana, che come sempre era super affollata, e tutto iniziò a diventare
più limpido.
Stavo per avere un bambino.
Io…madre. Certo, avrei dovuto aspettare nove
mesi…anzi otto…ma il concetto era quello.
Oddio, avrei dovuto partorire! Deglutii due
volte cercando di non andare nel panico.
Andrew…mi serviva Andrew al più presto. Mi
sentivo sul bilico delle lacrime, e sapevo che se avessi iniziato difficilmente
avrei smesso.
Guardi l’orologio sul cellulare…erano ancora
le undici di mattina. Non avevo né la voglia né la capacità mentale di andare
in facoltà, anche se ero ancora in orario per la lezione del professor Gregory
sull’arte rinascimentale.
Sempre sull’orlo di una crisi di lacrime
arrivai fino a Greenwich Village e in pochi minuti arrivai a casa.
Con mano tremante misi la chiave nella toppa
ed entrai. Mi appoggiai alla porta alle mie spalle fino ad arrivare a sedermi
per terra.
Sapevo di essere incinta, me lo sentivo da
quattro settimane…da quando ero in ritardo, anche se non ero mai stata
particolarmente puntuale con il ciclo.
Avevo fatto quattro test di gravidanza uno
dietro l’altro, e tutti dai risultati positivi, ma avere la conferma da un
medico…vederlo e sentirlo…beh… era tutto
un altro paio di maniche.
Afferrai il telefono dalla tracolla e cercai
tra la rubrica il suo numero, lo conoscevo a memoria ma non avevo la coscienza
di mettermi a ricordare numeri.
Trovai subito il nome, era il primo
dell’elenco.
Andy.
Schiacciai il tasto di chiamata e attesi.
Lo sapevo…era egoistico da parte mia chiamarlo
in quel momento ma cos’altro potevo fare?
-Pronto?-
Tirai su col naso, appena sentita la sua voce
sentii le lacrime iniziare a scorrere.
-A…Andy…-
-Ju…che
succede? Stai piangendo?- la voce dall’altra parte del telefono assunse
sfumature preoccupate.
-Andy…t..ti..p…preg…o..shh…vieni!-
-Dove
sei? Ju, cos’è successo?-
-No..n…per…telefono…-
-Dove
sei? Sto arrivando!-
-S…so…sono a…casa…-
mormorai distrutta.
-Corro!-
Sapevo che ci avrebbe messo un po’ per
arrivare, così mi feci forza e mi alzai, diretta verso il bagno.
Mi sciacqua il viso con acqua fredda, gelida,
e mi fissai allo specchio.
Non avevo precisamente una bella cera. Ero
abbastanza scura di pelle, con occhi castani abbastanza grandi e corti capelli
neri tagliati in modo sfilato sul viso ovale. Fisicamente non ero molto alta né
particolarmente formosa, con la mia seconda scarsa, come ci si aspettava da una
di origini mediterranee, tutt’altro.
Mi ero sempre considerata banale, specialmente
confrontata con Andrew, che era la personificazione dell’essere prefetto, e non
solo ai miei occhi.
Ora ero pallida e spossata, con gli occhi
leggermente arrossati, di certo non ero nel mio splendore ottimale.
Mi trascinai verso la stanza da letto e non accesi
neanche la luce, mi buttai sul letto matrimoniale e mi ci abbandonai aspettando
Andrew.
Arrivò circa quaranta minuti dopo; sentii la
porta aprirsi frettolosamente e i suoi passi urgenti.
Probabilmente aveva visto la mia borsa gettata
a casaccio sul pavimento.
-Judith!- urlò con una strana voce.
-Sono qui!- gracchiai invece io, cercando di
alzare al massimo il volume della mia voce.
Riuscii a percepire i suoi passi sulla scala e
in men che non si dica spalancò la porta della stanza da letto.
-Cos’è successo?- mi chiese subito avvicinandosi
al letto e a me.
Appena fu abbastanza vicino mi ci gettai
addosso, rifugiandomi in un abbraccio che avevo atteso per tutta la mattinata e
ricominciai a singhiozzare.
-Ehi…- sussurrò dolcemente, accarezzandomi i
capelli, -Mi vuoi dire cos’è successo, prima che mi venga una attacco di
cuore?-
Io mi strinsi ancora di più a lui, nascondendo
il visto nell’incavo del suo collo, profumava di dopobarba e di caffè.
Come stavo bene fra le sue braccia!
Dio, quanto lo amavo!
Singhiozzai nuovamente e gli allungai la
cartellina, per far questo purtroppo mi dovetti staccare dal suo abraccio.
Mi sentii di nuovo piccola e indifesa con il
peso di tutto sulle spalle.
Gli occhi che tanto adoravo mi guardarono
confusi quando gli misi la cartellina tra le mani.
-A…aprila…- gli dissi.
-Non è una richiesta di divorzio, vero?- mi
chiese sorridendo un po’ nervoso.
Agitai il capo in senso negativo.
-Beh…meno male! Non sarà nulla che non potrò
sopportare allora!- e incominciò ad aprire.
Afferrò curioso e preoccupato l’ecografia e la
squadrò, vidi chiaramente il segno interrogativo materializzarsi sulla sua
testa.
-Ehm…amore…cos’è?-
Me lo chiese con un’espressione così candida
che mi sentii sciogliere.
-E’…u…n’ ecografi…a.- spiegai.
-Ah.-
-Andy…- respirai profondamente -…sono incinta.-
Il sorriso che aveva sul volto gli scivolo
dalla bocca, e pose lo sguardo sull’ecografia come se gli fosse stato aperto un
nuovo mondo sotto agli occhi.
-Questo è…è…- mi chiese tentennando. Cattivo
segno, Andrew non tentennava mai, era sempre sicuro di se.
-Si.- annui.
Dopodiché rimase in silenzio per alcuni
minuti, che a me arrivarono come ore.
-Da quando tempo lo sai?- era serio.
-Da…ehm…un po’…ma stamattina ne ho avuto…la
conferma dalla ginecologa.-
-E cosa aspettavi a dirmelo?!-
Pregai che non fosse arrabbiato.
-Io…volevo esserne…sicura, ecco! Mi dispiace,
dispiac…- ma con un segno m’intimò il silenzio e riprese a fissare l’ecografia
con sguardo serio.
-Non è uno scherzo, vero?-
-Come puoi pensare che sia uno scherzo?! Come
puoi pensare che…che sti... a scherzando su una cosa del genere?!- sentivo le
lacrime salire di nuovo.
Io attendevo in silenzio, poi all’improvviso
mi sentii travolgere e le sue labbra si posarono sulle mie, nel bacio più dolce
che avevo mai ricevuto.
Rimasi interdetta.
Aveva un sorriso a cento e più denti e
sembrava brillare di luce propria. Mi abbracciò altrettanto dolcemente e posò
lo sguardo sull’ecografia per l’ennesima volta.
-Mio dio è…è fantastico!- esclamò poi, all’improvviso,
riabbracciandomi.
Io boccheggiai stretta tra le sue braccia.
Mi staccai, a malincuore, e lo guardai negli
occhi.
-Tu…tu non sei arrabbiato?-
Mi guardò come se avessi detto un’eresia.
-Il motivo per il quale stavi piangendo era
questo? Pensavi…davvero pensavi che non volessi nostro figlio?- era deluso, lo sentivo,
forse avevo fatto qualche errore di calcolo…probabilmente più di qualche errore.
Non sapevo cosa rispondergli.
-Si…cioè no…non lo so!- mi arresi, infine –E’tutto
così strano! Ho paura.- ammisi mordendomi il labro inferiore.
-Amore…è una cosa che abbiamo fatto in due,
ok? Io sono qui, non devi aver paura!- era bellissimo e felice.
Cercai di nuovo il suo abbraccio, che non
tardò ad arrivare. Mi strinsi a lui il più forte possibile, desideravo non
lasciarlo mai.
-Ti ho mai detto che ti amo?- mi soffiò nell’orecchio
dolcemente.
Io sorrisi sotto i baffi e mormorai un
distratto, -Si…qualche volta…-.
-Beh, - riprese lui –lasciatelo ridire: ti
amo!-
-Anche io.- gli risposi fra la lacrime; e per
la prima volta in quel giorno potevo dare un senso a quelle goccioline d’acqua
che fuoriuscivano dai miei occhi castani: ero felice, dannazione! Ero
dannatamente felice!
Non potevo dire di non avere più paura,
sarebbe stata una bugia, ma fin quanto avrei avuto Andrew con me, avrei
superato tutto.
Anche la mia, la nostra, gravidanza.
Ed eccomi che mi ributto in una fanfict più grande di me!
Ditemi cosa ne pensate, mi raccomando!
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Capitolo 2 *** Come e quando dire ***
nonni
Come e Quando dire “nonni”
1° Parte
Quando la mattina dopo mi svegliai notai con grande
sollievo che tutto lo stress accumulato nell’ultimo mese andava scemando sempre
di più. Rimasi un altro po’immobile nel letto, seminascosta tra le coperte
leggere e accoglienti.
La sveglia non era ancora suonata e quindi decisi di
starmene a poltrire ancora un po’. Sempre a occhi chiusi ripensai a tutto
quello che era accaduto il giorno prima: ero incinta.
Mi sentivo ancora abbastanza confusa al riguardo, ma
l’idea ch e qualcosa stesse crescendo dipendendo interamente da me non mi
terrorizzava più…certo, avevo ancora una fifa matta sulla piccola questione
nota come “partorire”, ma non me ne sarei dovuta preoccuparmene per altri otto
mesi.
Aprii gli occhi lentamente, ancora assonnata, e me li
strofinai con le mani. La vista fu abbagliata dal raggio di luce che penetrava
dalla finestra aperta e scoperta dalle tendine, amplificato dal colore caldo e
acceso della stanza; le pareti e le tende erano di un luminoso color pesca, il
letto era posto al centro della stanza, in legno chiaro e con una trapunta rosa
e bianca, dello stesso colore del letto erano i due piccoli comodini e
l’armadio, fissato in una fessura tra la finestra e il muro.
Avevo arredato quella stanza personalmente, adoravo i
colori caldi egli ambienti luminosi, mi mettevano di buon umore.
Allungai il braccio verso l’altra parte del letto, sicura
di trovare il corpo caldo e perfetto di Andrew ancora dormiente. Con mio grande
dispiacere, invece, la mia mano andò a vuoto, scoprendo il materasso e i
cuscini freddi, segno che erano disabitati da un po’, mugugnai delusa.
Si era gia
alzato…strano. Solitamente era un’odissea ogni volta che doveva alzare il suo
regale fondoschiena da letti o divani.
Contrariata, alzai gli occhi verso il comodino, dove
tenevo la sveglia, e li spalancai: erano quasi le nove meno un quarto.
Saltai letteralmente a sedere sul letto, come punta da
qualcosa.
Avevo lezione alle otto e mezzo!
Calcolando il traffico e l’attesa alla metro non sarei
riuscita ad arrivare in facoltà neanche per le nove e mezzo.
Andrew dov’e diavolo era? Possibile che lui avesse sentito
la sveglia ed io no?
Balzai giù dal letto e senza neanche infilarmi le
pantofole mi precipitai giù dalle scale.
La scala dava sul piccolo ingresso, nel quale sentii
distintamente la voce della giornalista della CNN che argomentava su una delle
tante sparatorie avvenute nel Bronx.
Mi diressi verso la cucina e quando entrai, spalancai gli
occhi.
Andrew indossava il mio grembiule da cucina preferito,
quello bianco regalatomi da mia madre con la scritta “Kiss me! I’m Italian!”, e
pasticciava con la cialda per le frittelle.
Il mio grembiule, che una volta era stato candido e
profumato, era completamente sporco di miele e sciroppo d’acero.
Andrew era perfetto in tutto: era bellissimo,
intelligente, dolce, affettuoso, spiritoso e non era per nulla geloso (forse
solo un po’). L’uomo ideale con la “I” maiuscola e sottolineata.
Era un essere umano, però, …e come tutti gli esseri umani
anche lui aveva un tallone d’Achille; non sapeva minimamente cucinare.
Perciò, vederlo nella cucina, con il mio camice
portafortuna e indaffarato ai fornelli mi faceva un po’ paura.
-Cosa diavolo stai facendo?- gli chiesi con cipiglio
ironico.
Lui alzò la testa dalla cialda e mi sorrise tutto giulivo
–Buon giorno, amore!- cinguetto poi tutto felice, abbandonò gli aggeggi che
aveva in mando e venne verso di me.
Mi baciò lievemente e a fior di labbra, poi ritornò a
cucinare.
Era così dannatamente attraente anche così, con i capelli biondissimi
ancora più spettinati del solito e la farina sul volto, che mi sentii veramente
felice…anche se mi aveva messo a soqquadro, la cucina.
-Come ti senti?- mi domandò.
-Bene. Molto bene, davvero. E’ tutto più chiaro e calmo
ora -ed era la verità; poi mi ricordai il motivo per cui ero entrata in cucina.
Neanche lui era andato in facoltà.
-Ehi…ne sai qualcosa della sveglia?-
-Sveglia?- mi chiese distrattamente continuando a versare
il liquido sulla cialda.
-Si, - ripresi io –quella che avrebbe dovuto suonare alle
sei e mezzo.-.
Mi guardò con espressione angelica con tanto di aureola
sul capo e coda da diavolo che ondeggiava dietro, -No, non ne so niente.-.
Io sospirai divertita, -Hai tolto le batterie.- era un’affermazione.
-Se lo sai non chiedermelo!-
Afferrò il vassoio con le frittelle e mi fece segno di
sedermi. Io mi accomodai accanto a lui e guardai attentamente il piatto.
-Sicuro che sono commestibili?-.
Mi guardò con faccia finta offesa, -Assolutamente si!-.
Ne presi un pezzo con la forchetta e assaggiai…era
addirittura buono. A che ora si era svegliato per prepararle? Di certo non gli
erano riuscite al primo colpo, lo conoscevo troppo bene.
-Allooora?- pendeva letteralmente dalle mie labbra.
Gli sorrisi, addolcita da quei suoi occhi che mi facevano
sempre girare la testa come la prima volta che lo vidi.
-Ti amo.-.
Il suo sorriso s’illuminò, cavolo se non era da mozzare il
fiato!
Mi abbracciò stretta, come solo lui sapeva fare. Mi ordinò
di finire la colazione di andare a vestirmi, mentre lui avrebbe ripulito la
cucina.
-Perché?- gli chiesi.
-Perché altrimenti faremo tardi.-.
-Tardi? Per dove?-, sentivo puzza di bruciato.
Mi sorrise dolce, -Ma dai tuoi, naturalmente! Tua madre ha
chiamato prima, gli ho detto che saremmo passati nella mattinata, perché c’era
qualcosa di molto importante su cui discutere.-.
La mascella mi cadde sul pavimento. Iniziai a sudare
ghiaccio.
-C…cosa avresti fatto tu?-
Mi guardò stupito, -Su, andiamo Ju! Qual è il problema?-
Venti minuti dopo mi trovavo di nuovo nell’ingresso, indossavo
dei jeans chiari, una maglia celeste e avevo portato indietro i capelli con un
cerchietto bianco.
Di certo non c’erano i manuali su cosa indossare per dire
ai tuoi che eri incinta; perché è questo che mi stavo apprestando a fare. Ok,
avevo accettato quasi completamente l’idea di aspettare un bambino…e allora
perché ero terrorizzata all’idea di dirlo a mia madre? Andrew si era offerto di
dirglielo, ma, anche se avevo una fifa pazzesca, rifiutai.
Dovevo essere io a comunicare la notizia.
Perché anche se avessi temporeggiato un po’, alla fine
avrei comunque dovuto affrontare l’argomento.
Andrew scese le scale vestito di tutto punto, neanche
dovesse andare ad un matrimonio.
Era bellissimo.
-Allora, - disse incoraggiante –andiamo?- e mi pose il
braccio. Il lo afferrai sbuffando e uscimmo.
La nostra auto era una Ford del ’98 grigia metallizzata,
Andrew l’aveva acquistata a diciassette anni lavorando come meccanico in un
officina nel West Side; naturalmente senza consenso dei genitori. Nonostante
fosse abbastanza vecchia, andava che era una meraviglia e Andy la adorava.
Salimmo in macchina in silenzio, o meglio, io ero in silenzio…lui non faceva
altro che parlare e sorridere, profetizzando la faccia che avrebbe fatto mia
madre.
Io cercavo di non pensarci.
Erano le undici di venerdì mattina, il che voleva dire che
sia mio padre sia mia madre erano occupati con ristorante; in positive sia le
mie sorelle sia mio fratello dovevano essere a scuola.
“Diventerete nonni.” Facile, semplice e diretto. Mi
bastava entrare nel ristorante, sorridere felice, guardare i miei negli occhi e
pronunciare quella semplice frase; verbo e complemento…niente di più.
Mentre passavamo per Houston Street, fui per la prima
volta stranamente felice nel notare il familiare traffico di New York, avrei
avuto più tempo per preparare un discorso decente.
-Sicura che non vuoi che parli io?- la voce di Andy mi
giunse da lontano, nonostante fosse seduto proprio accanto a me, al voltante.
Io negai con la tesa –No, grazie…ma voglio essere io.
Capisci, no?-
-Sicuro! Ricordati che io sono con te, e poi è una bella
notizia.-.
-Già, - concordai io, -è una bella notizia.-, era la
verità, mi dissi mentalmente.
Il traffico non era statico, così, passata Broadway,
arrivammo velocemente ai confini di Little Italy.
Parcheggiammo l’auto fuori dal quartiere; il “Al Chiaro di
Luna” non era lontano, anzi era proprio all’inizio di Mulberry Street, la via
principale del borgo italoamericano.
Un tempo Little Italy era stato uno dei più grandi
quartieri con residenti italiani dello stato di New York ma ora non era più
cos’ legato alle sue origini italiane. Certo, tutti i negozi avevano nomi
italiani e le bandiere tricolore sovrastavano gran parte delle strade, ma era
ben limitato il numero di veri emigranti italiani rimasto. La mia famiglia
rientrava in quella categoria.
Mio padre, Carlo Ferrante, aveva cinquantadue anni. Per la
sua nascita mio nonno era voluto rientrare in Italia, così mio padre era
italiano puro, così come lo era mia madre, Maria. Lei e mio padre si erano conosciuti
in occasione di uno dei tanti viaggi che papà faceva in Italia quando era più
giovane, “Per non dimenticare chi siamo e la terra che ci ha donato la vita.”,
diceva sempre.
Si erano incontrati per le vie popolari di Napoli ma mia
madre era romana; al fine dei tre mesi, quando mio padre stava per rientrare,
lei era “scappata” con lui, non penso che mia nonna materna ne fosse molto
felice. Nove mesi dopo spuntò fuori mio fratello maggiore, Joseph.
Joseph pecora nera.
Lui e mio padre non andavano particolarmente d’accordo.
Papà avrebbe voluto che Jo ereditasse il ristorante, così come succedeva da tre
generazioni. Peccato che Jo non fosse della stessa idea. Avevamo quattro anni
di differenza ed era il mio fratello preferito. Purtroppo non lo vedevo da po’
perché viveva a Seattle lavorando come commercialista. Io ero la seconda di
cinque di figli. Dopo di me venivano le mie due sorelle, la diciottenne Claudia
e la quattordicenne Lily.
Claudia era sempre stata la mia spina nel fianco fin da
piccolissime. Ero sempre stata un tipo calmo, ma la nascita di Claudia era
stata davvero decisiva per la mia infanzia. Staccava la testa a tutte le mie
bambole, mi si appiccicava peggio della colla e voleva sempre stare al centro
delle attenzioni quando invitavo le mie amiche a casa. Ora si era calmata,
diciamo, ma era comunque un tipo stravagante, frequentava l’ultimo anno di
liceo e aveva gia chiaramente dichiarato di non aver la minima intenzione di
andare all’università. Nonostante avessimo passato i tre quarti nella nostra
infanzia a tirarci le trecce a vicenda le volevo bene.
Liliana, invece, era quel genere di ragazzina che non si
vedeva e non si sentiva. Minuta e anche abbastanza timida aveva sempre cercato
la protezione dei fratelli maggiori. Mia madre aveva tentato di farla
sciogliere un po’ iscrivendola a un corso teatrale, e forse aveva ottenuto i
suoi risultati. Lily rimaneva comunque la solita introversa, probabilmente era
la più dedita allo studio della famiglia. Regnava incontrastata sui libri,
questo era certo; ne aveva letti così tanti che a volte mi domandavo come
facesse a trattenere tutte quelle informazioni in una testa tanto minuta.
Poi c’era l’ultimo della famiglia. In Italia, nella città
di mio padre, i tipetti come Vincent erano chiamati in un solo modo: scugnizzo.
Undici anni di pepe e scherzi, avrebbe fatto un baffo a
Bart Simpson. Passava le sue giornate a giocare a calcio nel parco vicino casa
o a architettare scherzi contro i nostri poveri vicini. Papà lo definiva la
mascotte del ristorante e deponeva in lui grande fiducia; dopo Jo era l’unico
figlio maschio e quindi avrebbe ereditato lui il ristorante.
Sinceramente questa concezione così maschilista sulla
questione dell’“eredità” m’infastidiva parecchio, ma preferivo lasciar cadere
l’argomento per evitare discussioni inutili.
Papà poteva sembrare rude al tocco, molto rude…in verità. Sapevo
che come diceva mia madre era un pezzo di pane. Parlava con un forte accento e
quando si arrabbiava, imprecava sempre in italiano, mamma ci copriva le
orecchie con le mani e scuoteva la testa rassegnata.
Ricordi come quello mi facevano stare bene.
Anche camminare tra le strade di Little Italy mano nella
mano con l’uomo che amavo mi faceva stare bene. Finché Andrew mi avrebbe tenuto
per mano, sarebbe filato tutto liscio.
Quelle vie erano tutte incredibilmente familiari per me,
familiari e nostalgiche; mi avevano vista appena nata ed ora ci camminavo da
sposata ed incinta. Greenwich Village era un quartiere bellissimo e che amavo,
ma niente avrebbe mai potuto sostituire alla mia Little Italy.
Andrew strinse di più la mia mano, -Ci siamo.- disse.
L’insegna blu a caratteri rossi che recitava “Al Chiaro di Luna. Vero ristorante italiano.
Dal 1930.” era ben visibile. Dato che eravamo settembre, c’erano ancora i
tavoli fuori, quelli che disponevamo in estate per permettere ai clienti di
godersi la stagione e la vitalità del quartiere. Il locale non era molto
grande, in tutto c’erano venticinque tavoli, i servizi e la cucina, in cui
scendeva la scala che la collegava ai due piani superiori, dove c’era la casa.
Aprivamo tutti i giorni, escluso il martedì, dalle otto alle undici.
Mi avvicinai ancora di più ad Andy ed entrammo.
La porta si spalancò con il solito trillo, che ci
avvertiva dell’entrata di un cliente. Mia madre, che era china su un tavolo che
stava apparecchiando, alzò il volto paffuto e ci sorrise con espressione dolce.
-Ecco qui i miei tesori!- esclamò con il suo forte
accento, e abbracciò entrambi. Si sprecò in baci con Andrew, che per lei, come
per me, rappresentava l’essere e il marito perfetto.
Mia madre aveva cinquanta anni, era bassa e un po’
appesantita. Il suo volto era la cosa più dolce che avessi mai visto,
contornato da ricci e sbarazzini capelli castani e due occhi blu cielo che t’incantavano.
Da piccola le avevo chiesto molte volte il motivo per cui
non avevo occhi così belli, poiché i miei erano di un fin troppo comune castano
scuro.
-Ju, - mi disse, e si avvicinò preoccupata – stai bene,
tesoro?- mi mise le mani sul volto e lo girò a destra e a sinistra, per scrutarmi
meglio.
Sapevo di non avere esattamente quella che si poteva
definire una bella cera, dovevo essere anche abbastanza pallida perché mia
madre mi scrutava critica, forse nel tentativo di trovare qualche strano
sintomo che indicasse qualche sottogenere di malattia.
-Sto bene, mamma! Non ti preoccupare!- cercai di
ribattere.
Era ovvio che non li avessi per niente convinta.
-Sicura?-, poi si voltò verso Andrew, -Andy caro, ance tue
sembri stanco…volete che vi prepari qualcosa?-.
Qualcosa per lei equivaleva a un pranzo per il
Ringraziamento per otto persone.
-Non si preoccupi Mary…- le rispose un po’ forzato.
Sbaglio o mi sembrava preoccupato? Forse un po’ d’ansia stava venendo anche a
lui.
Sorrisi sadica alle sue spalle. Così avrebbe capito cosa
sentivo da quella mattina!
Mia madre non era per niente convinta delle sue parole, infatti,
continuò a squadrarci con i suoi grandi, immensi e indagatori occhi azzurri.
Mi sembravano raggi x.
-Ragazzi, siete strani, sapete?...su, avanti, ditemi cosa
è successo!- era impaziente, si vedeva benissimo.
-Ecco, - Andrew prese parola, io mi sentivo la lingua
incollata al palato, di nuovo. -…Carlo non c’è?-.
Mamma aprì e chiuse le palpebre. Andy non chiedeva mai di
mio padre…non perché non andassero d’accordo o perché avevano qualche
contrasto, ma perché lo metteva in soggezione. Potevo capirlo, perché il
sopracciglio alzato di mio padre e la sua espressione burbera avevano fatto
scappare quei pochi ragazzi che avevo avuto durante l’adolescenza.
Andrew era sopravvissuto al suo sguardo accigliato, ma
comunque, anche se di poco, ne avvertiva l’ostilità. Ostilità che era
notevolmente calata dopo il matrimonio; probabilmente mio padre avrebbe voluto
vedermi sposata con un italiano.
-Noi abbiamo una cosa da dire-continuò -…è importante che
ci sia anche lui.-.
Mia madre ci guardò per qualche secondo, con gli occhi
ridotti a fessure, ovviamente si stava chiedendo perché quel comportamento così
sospetto.
Io, anche non ero mai stata particolarmente loquace, me ne
stavo zitta e con espressione cerea sul viso. Andrew, che di solito era la
reincarnazione umana della perfezione e della sicurezza di se, sembrava
addirittura confuso.
Gli doveva sembrare tutto molto strano.
-Sicuro, - riprese –è in cucina, ve lo chiamo subito
ragazzi. CARLO! VIENI QUA! Tua figlia e
tuo genero ci devono parlare!-.
Mia madre e mio padre parlavano quasi completamente
italiano tra di loro.
Andy mi guardò, forse voleva che gli traducessi quello che
aveva detto mia madre, ma rimasi zitta.
-L’ho chiamato, ma siete sicuri di stare bene?- ed eccola
che ritornava alla carica.
-Cosa succede?- mio padre uscì dalla cucina. Indossava un
camice identico al mio, con la stessa scritta “Kiss me. I’m Italian.”.
Aveva un’espressione corrucciata, il solito sopracciglio
sinistro alzato (ma come riusciva a sollevarne solo uno?!) e sguardo serio.
-Ehm, - Andy mi guardò, -forse…forse è meglio che ci
sediamo- propose.
Mia madre si mise una mano sul petto, -Cosa avete
combinato?!- chiese allarmata.
Andrew scosse le mani sorridendo nervoso, -Nulla…non si
preoccupi!-.
Mio padre arcuò ancora di più il famoso sopracciglio.
Entrambi si sedettero.
-Ecco…- Andy mi guardava. Forse aspettava che prendessi la
parola; infondo gli avevo detto di voler essere io a dirlo ai miei. Ora non ne
ero più così convinta.
“Perché non riesci a
parlare?” sentii
distintamente questa domanda nella mia testa.
“Qual è il
problema?” insistette la voce petulante.
“Non so come dirglielo…” risposi mentalmente io. Ora
sentivo anche le voci, stavo impazzendo. Non sarei resistita altri otto mesi,
mi avrebbero dovuto ricoverare in uno ospedale psichiatrico prima dello scadere
del termine.
“Sono i tuoi
genitori…perché ti fai tutti questi problemi? Non hai fatto nulla di sbagliato.”
“Io…io mi vergogno.”
La voce assunse un tono tagliente, quasi cattivo, “Ti vergogni di tuo figlio?”.
NO!
-Vedete…noi dovremmo comunicare una notizia…o
meglio…ehm…Judith vorrebbe darla…-, Andrew stava tentennando e mi guardava ancora, forse aspettava un
segno.
“Io non mi vergognerei mai di mio figlio!” risposi prepotentemente.
“E’ questo che stai
facendo.” terminò
la voce in modo affilato, per poi spegnersi improvvisamente così come si era
accesa.
Quella voce era la mia coscienza.
Certo che facevo proprio schifo, pensai mentalmente.
Guardai mia madre, tutta preoccupata, e mio padre,
sospettoso; in fine Andrew, che arrancava dandomi tempo.
Nostro figlio.
Il nostro bambino. La conseguenza….no, non la
“conseguenza”, ma il “dono” del mio amore per lui.
La verità m’illuminò di colpo.
Perché me ne sarei dovuta vergognare?
-Sono incinta.-
Lo esclamai tranquillamente.
Tutte le mie ansie sparirono di colpo, come foglie portate
via dal vento. Mi sentivo leggera e felice.
Andrew si zittii all’istante. Forse perché stupito dal mio
cambiamento di tono, forse per dare il tempo e il silenzio necessario ai miei
per assimilare l’informazione.
-Che…che cosa…?- chiese mio padre.
-Sono incinta. Di un mese. Diventerete nonni!- esclamai
sorridendo.
Tutte le mie preoccupazioni erano sparite.
Mi sarei vergognata mai di mio figlio?
Assolutamente no, non ne avrei avuto nessun motivo.
Cercai la mano di Andy, che non tardò a stringere la mia.
Aspettavamo entrambi una reazione. Che non tardò ad
arrivare.
Mia madre diede un urletto e si alzò di colpo dalla sedia,
noi facemmo altrettanto.
-Mamma?- chiesi confusa.
-Sei incinta!- esclamò quasi brillando.
-Si.- le risposi io sorridendo.
-Di un mese!- continuò.
-Si.-
-Diventerò nonna!
Annuii anche a questo, -Si, mamma.-
Mia madre mi si catapultò addosso e mi abbracciò con tutte
le sue forze.
-Non ci posso crede…! Nonna! Nonna! Il mio primo nipote!-
stava letterale sproloquiando.
-Dov’è? Dov’è quel santo ragazzo?- chiese la vuoto; si
girò di scatto verso Andrew, che sorrideva imbarazzato.
-Sono qui.-.
Mamma gli fu addosso in men che non si dica, -Grazie!
Grazie! Lo sapevo io…- disse agitando le braccia, -…lo sapevo che eri il
ragazzo giusto!-, gli afferrò il volto tra le mani e gli scoccò un sonoro bacio
sulla guancia.
-Santo ragazzo! Benedetto ragazzo!Lo sapevo io!-, poi
ritornò da me.
-Ehm…grazie, Mary.- Andy si scompigliò i capelli, era il
gesto tipico di quando era in imbarazzo.
Mia madre lo fulminò scherzosamente con lo sguardo,
-Quante volte ti ho detto di chiamarmi mamma?-.
-Molte.- gli rispose Andy, ridendo.
-Bambina mia! Tesoro! Non ci posso credere…! La mia
donna!- e iniziò a baciarmi.
La abbracciai con tutta me stessa, -Ti voglio bene,
mamma.- le dissi, poi, con tutto il sentimento possibile.
-Anche io! Anch’io!- urlò lei. Poi si staccò
improvvisamente; corse verso l’ingresso del ristorante e girò il cartello da
“APERTO” a “CHIUSO”.
-Oggi non si lavora!- esclamò tutta pimpante, -E’ un
giorno di festa!-
Poi mi resi conto che mio padre non si era mosso dalla
sedia.
“Oddio…” pensai.
-Papà?- ero esitante.
Sia mia madre (che era tutta intenda ad abbracciare Andy)
che Andrew si girarono in contemporanea verso mio padre, ancora seduto e con lo
sguardo rivolto al pavimento.
-Caro…?- chiese mia madre avvicinandosi.
Mio padre alzò lo sguardo.
Ciò che vidi mi toccò il cuore.
Lacrime.
Mio padre stava piangendo.
Si asciugò gli occhi con la manica e ci guardò torvo –Cosa
avete da guardare?-.
-Ohh tesoro…-
sospirò mia madre.
Papà si alzò dalla sedia e andò verso Andrew, che deglutì.
Lui e mio padre si guardarono negli occhi per pochi
instanti, poi mio padre aprì le braccia e lo abbracciò.
Dall’espressione di Andrew capì che non se lo aspettava.
-Congratulazioni.- disse mio padre, era evidente dal suo
tono (ma scommetto che non l’avrebbe mai ammesso) che era commosso.
-Grazie, Carlo.- Andy era veramente colpito.
Non lo avevo mai visto così felice.
Io e mia madre guardammo entrambi intenerite.
Poi mio padre lasciò Andy e venne da me.
Mi catapultai fra le sue braccia e mi strinse forte.
Sentivo il familiare odore di tabacco alla menta sui suoi vestiti vissuti.
-Sei una donna, ora. - mi disse con voce emozionata.
-Ti voglio tanto bene, papà.- sentii distintamente alcune
lacrime di felicità salire agli occhi, anche mia madre singhiozzò.
Mio padre sciolse il nostro abbraccio e mi guardo, era chiaramente
felice. Raramente gli avevo visto quell’espressione.
-Devo chiamare tua nonna!- esclamò all’improvviso mia
madre, interrompendo quel momento, e corse verso il telefono vicino alla cassa.
Papà la guardò stizzito, -Non inizierai a mettere i
manifesti per tutta l’America e l’Italia, spero!-
Mamma gli fece cenno di star zitto.
Andrew mi si avvicinò.
Intrecciò le dita delle mani con le mie e mi guardò
sorridendo.
-Come mai questo cambio improvviso?- mi domandò a bassa
voce.
-E’ nostro figlio. Tuo e mio.-incomincia io –non c’è
niente di più bello. Non c’è niente di cui vergognarsi.-.
Mi rivolse il sorriso più brillante, più sfavillante,
dolce, bello e un sacco di altri aggettivi positivi, che avessi mai visto.
-L’hai capito finalmente!- il suo tono era scherzosamente
saccente.
-Scusa. Scusa se ci ho messo un po’. Mi perdonerai?-
-Assolutamente si.- e mi si avvicinò.
Era così tremendamente bello!
La mia vita stava predendo una svolta totalmente
inaspettata, ma non potevo esserne più felice.
Ora lo potevo esclamare convinta.
Non mi sarei fatta trasportare dagli eventi né avrei avuto
paura di quello che mi aspettava.
La mia famiglia sarebbe stata sempre con me.
La mia famiglia, Andrew e il nostro bambino, erano il mio
futuro, la mia certezza assoluta.
-Ti amo.- gli dissi sorridendo.
-Ne ero sicuro, - mi rispose –perché per me è lo stesso.-e
mi baciò.
Risposi al bacio con passione, allacciando le braccia
dietro al suo collo.
Mia madre, ancora col telefono in mano, ci guardò
intenerita e sorrise commossa; mio padre ci lanciò un’occhiata stizzita ma non
ebbe nulla da ridire.
Era tutto perfetto.
Secondo capitolo!
Che ne pensate?
Ringrazio Purple e
pirilla88 per le recensioni!
Al prossimo cap!
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Capitolo 3 *** Come e quando dire “nonni” 2° Parte ***
bimbo
Come e quando dire “nonni”
2° Parte
-…è andata oltre ogni mia aspettativa.- stava dicendo Andrew.
Erano quasi le sette e stavamo rientrando. Bloccati nel traffico
di Lafayette Street (era l’orario di punta) analizzavamo tutto quello che era
successo in quella lunga, estenuante ma memorabile giornata.
16 settembre 2008, una data da ricordare, mi dissi mentalmente.
C’ero riuscita; l’avevo accettato completamente e…ne ero felice.
Poco meno di una settimana prima mi sembrava una catastrofe.
-Già, - concordai –ma molto probabilmente nel giro di qualche
giorno lo saprà mezza New York.-, non che mi desse fastidio, ma ci tenevo alla
nostra privacy.
-Anzi, credo che arriverà anche oltre l’oceano.- considerai
pensando a mia nonna in Italia. La mamma aveva preso da lei.
Andy rise di gusto –Per me non c’è nessun problema.-.
Per lui non c’era nessun problema, ovvio, d'altronde sembrava
toccare il cielo con tutta la mano da due giorni; io da qualche ora.
M’immaginai la mia coscienza annuire soddisfatta dei miei
pensieri. D’altro canto era merito suo.
Andrew aveva assolutamente ragione, la reazione dei miei era stata
più inaspettata del previsto; naturalmente in positivo.
Mia madre mi aveva tartassato di domande per tutto il giorno: è
stato un incidente? (imbarazzo); ma la ginecologa è buona?; qual è stato il
giorno del concepimento? (super imbarazzo!).
Aveva chiuso il ristorante e non ne aveva voluta sentire ragione.
Era un giorno speciale, non lo avrebbe sprecato a lavorare. Poi si
era attaccata al telefono, parlando un italiano così fitto e veloce che ebbi
difficoltà a capirla; aveva chiamato mia nonna, mia zia, mio zio, i suoi
cugini…probabilmente tutti i membri in vita sull’albero genealogico erano stati
informati, in barba a mio padre, che gia abbaiava per i costi delle chiamate
internazionali.
Anche se toccato, papà aveva preso la notizia con molta nonchalance
…il che voleva dire che non aveva iniziato a saltellare per il ristorante come,
invece, aveva fatto qualcuno, alias mia madre.
Andrew ed io li avevamo osservati divertiti mentre si
battibeccavano sulla possibilità di appendere un”annuncio” nel ristorante, del
tipo “donna gravida in sala.”
Ne sarei morta di vergogna.
Fortunatamente sia mio padre, sia Andy riuscirono a farla
demordere nel suo diabolico intento.
Questo non voleva dire che non avrebbe trovato un modo diabolico e
imbarazzante per permettere a tutti di congratularsi con lei circa il suo
futuro ruolo di nonna.
-Non è un fenomeno da baraccone!- aveva replicato mio padre, che
mi era parso come la voce della ragione in mezzo a tanta follia.
Mia madre lo aveva guardato shockata con espressione traducibile
in un indignato: “Come-puoi-pensare-una-cosa-del-genere-?” e gli aveva messo il
broncio; che durò all’in circa un decimo di frazione di secondo, perché poi era
tornata a sorridere tutta felice.
Papà si era passato una mano sulla faccia, scuotendo il capo.
Il clou della giornata era arrivato quando le mie sorelle e mio
fratello erano rientrati. Mamma non mi aveva fatto neanche parlare, si era fondata
su Claudia e Lily e le aveva raccontato vita e miracoli della mia
neogravidanza, aggiungendo particolari che non avrei giurato di non aver mai
detto.
La lascia fare…almeno fin quando non se ne uscii con la frase -…lo
spara spermatozoi a raffica ci è riuscito, finalmente!- chiaramente riferito a
mio marito, che, povero, avrebbe preferito sotterrarsi con una vanga sotto lo
sguardo accigliato di mio padre.
Un sussurrato –Mamma…non esagerare…- era stato d’obbligo.
Claudia aveva spalancato gli occhi, boccheggiato per un po’ e in fine,
aveva fatto cadere la cartella, incredula; Lily mi aveva abbracciato
congratulandosi. Lo avevo sempre detto io che era la più normale della
famiglia.
Vincent mi guardò la pancia, per poi aggiungere –Ma io non vedo
niente di diverso!-.
Eravamo scoppiati a ridere; il resto della giornata era passata in
modo analogo.
Quando mia madre decise di lasciarmi andare (cosa che non fu per
niente facile…) erano ormai le sei del pomeriggio.
-Ogni giorno che passa diventano sempre più pazzi…- considerai
scherzando.
Beh…effettivamente un po’ strambi lo erano.
-Naaa…non credo, sai?- aveva replicato Andrew, -sono semplicemente
felici. E’ il loro primo nipote, amore…è naturale che siano agitati.-.
Il loro primo nipote, vero.
-Il nostro primo figlio…- avevo sussurrato con tono sommosso.
-Mmmm…mi piace come suona l’aggettivo “nostro” vicino alla parola
“figlio”.-.
Era in momenti come quello che mi convincevo di essere la ragazza
più fortunata al mondo.
Riuscimmo ad arrivare a casa solo venti minuti dopo, che erano
ormai le sette e venti. Parcheggiammo la macchina nel viale di fronte alla
nostra bella palazzina a mattoni rossi.
Andrew scese per primo dalla macchina e mi aprì molto
elegantemente lo sportello, mormoro un fine –Madam…- e mi afferrò per mano.
Lo amavo, lo amavo!
Eccome se lo amavo!
Gli diedi un bacio veloce sulle labbra; bacio che poi si trasformò
in qualcosa di molto meno casto.
Andrew mi afferrò in modo protettivo per un fianco; riuscimmo ad
aprire la porta di casa ed entrammo continuando a baciarci.
Lanciai la borsa per terra, incurante, mentre le calde, familiari
mani di Andy mi accarezzavano su tutto il corpo.
Mi appoggiai contro la parete dell’ingresso, mentre continuavamo a
baciarci con passione e fervore crescente. Cercai di stringermi ancora di più a
lui, per sentire meglio il suo calore, passandogli una mano tra i ribelli
capelli biondi che amavo.
Così come amavo ogni più piccola parte di lui.
Sentii le mani di Andrew avventurarsi sotto la mia fine maglietta
azzurrina, si soffermarono sul mio ventre accarezzandolo in modo dolce e
delicato, poi salirono più su; io emisi un gemito soffocato.
Poi, improvvisamente, squillò il telefono.
Mi bloccai di colpo, infastidita dall’intromissione di quel suono.
-Lascialo stare.-mi sussurrò all’orecchio con voce roca.
Era quello che avevo intenzione di fare.
Dopo un altro paio di squilli l’apparecchio si zittii.
Riprendemmo a baciarci, sempre più rapiti l’una dell’altro;
stavamo per salire in stanza da letto quando quel maledetto telefono rincominciò
a squillare.
Desideravo scomparisse.
Sbuffai scocciata, sotto il suono prepotente che ci aveva
interrotto.
A malincuore mi staccia da Andy, che mi guardò con espressione
delusa.
-Sei una strega…- mi mormorò seduto sulle scale.
Gli feci una linguaccia rispondendogli con un sarcastico –Ti amo
anche io.- e corsi nella vicina cucina per rispondere all’aggeggio infernale,
Andy mi seguì.
Con tutte le probabilità doveva essere mia madre, pensai
scocciata.
-Pronto?- la mia voce doveva apparire un po’ seccata, perché il
mio interlocutore tentenno per qualche attimo.
-Judith?-
La bocca mi si prosciugò improvvisamente. Dovevo anche aver
cambiato espressione, perché, Andrew mi guardò interrogativo.
-Pronto? Riesci a sentirmi?-
Recuperai la mia facoltà di parlare e risposi.
-Si…ehm…riesco a sentirla Dottor Allen.-.
Andrew si alzò dalla sedia immediatamente e mi si avvicinò.
-C’è mio figlio in casa?-
il Dottor Allen era fatto così, puntava direttamente al sodo.
Forse era arrabbiato perché da due giorni Andrew non si presentava
in ufficio; lo guardai preoccupata, lui mi rispose nel medesimo modo.
-Andrew?...ehm…-.
Il suddetto incominciò a mandarmi chiari messaggi di fumo; scosse
il capo in senso negativo e mi guardò implorante.
Nonostante la visita dai miei fosse andata più che bene, non
dimenticavo che mi ci aveva portato con l’inganno. Dai miei occhi intuì cosa
stessi pensando.
-Si. E’ proprio qui. Ve lo passo.-risposi in fine.
Allungai la cornetta verso Andy, che mi guardava come se lo avessi
appena tradito e schiacciai il tasto del vivavoce.
-Papà?- chiese titubante.
-Per quale motivo manchi da
due giorni? Ricordati che ti pago!-.
Andy sospirò –Scusa papà, ci sono state delle…ehm…questioni.-.
-Va tutto bene?- la voce
aveva cambiato tono.
-Si, si- si affrettò a rispondere –nulla di negativo.-.
-Bene. Volevo dirvi che
domenica sera siete inviati a cena da noi.-.
Andrew trattene il fiato, io divenni una maschera d’orrore.
Una sola parola, un solo nome, fluttuava nella mia testa:
Evangeline Allen.
La figura eteria e gelida di sua madre che mi squadrava con occhi
di ghiaccio dalla testa ai piedi, che puntualizzava ogni mio piccolo difetto, che continuava a volergli presentare ragazze
nonostante fossimo sposati da due anni (!), mi congelò il fiato.
Raramente andavamo a casa dei suoi, e altrettanto raramente ci
invitavano; quando succedeva c’era sempre una ragione.
Evangeline adorava, letteralmente, mettermi alla prova. Mi faceva
sentire sotto pressione, giudicava ogni mio comportamento e amava mettermi a
confronto con le ragazze ricche e anoressiche che spopolavano nell’Upper East
Side.
Probabilmente sperava di cogliere in noi un qualche segno che
dimostrasse che il nostro rapporto non funzionava.
Ero certa che teneva gia pronte le carte per un eventuale
divorzio.
In conclusione…mi odiava. In tutti i sensi più negativi nella
parola, che gia di se era più che abbastanza negativa.
Non ero certa di riuscire a sopportare il suo, neanche tanto ben
celato, odio verso di me, questa volta.
-Allora? Cosa rispondi?-.
Andrew cercò il mio sguardo, -Ehm…vedi, papà…non creo che sia una
“buona” idea…-.
Certo che non lo era! Quella vipera sarebbe stata capace di farmi
abortire con un solo sguardo ancora prima che potessi rivelare di essere
incinta!
Andy ti amo, pensai, anche se non gli avevo dato ascolto quando mi
aveva silenziosamente supplicato di non passargli il telefono, mi stava
appoggiando.
Questo si che era amore incondizionato!
O forse, più semplicemente, neanche lui era molto entusiasta
all’idea di rivedere la strega.
-Forse non hai capito.-riprese
duramente la voce del Dottor Allen –non è
un invito. E’ un ordine. Tua madre vuole vederti. Vi aspettiamo per le sette.-e
staccò.
“Tua madre vuole
vederti.”
è certo! Come poteva essere altrimenti?!
Andrew posò il telefono e guardò la mia espressione cerea.
-Amore…- mi disse piano -…non agitarti ok?-.
Come potevo non agitarmi? Non potevamo non presentarci, infondo il
Dottor Allen era una specie di “capo di lavoro” oltre ad essere suo padre e mio
suocero; era grazie allo stipendio (abbastanza alto) che dava ad Andrew che
andavamo avanti!
-Sto bene.-mormorai a bassa voce.
-Mi dispiace tanto!- riprese lui.
-Shhh…- lo zittii abbracciandolo -…non hai fatto nulla!-, mi
guardò con espressione dolce, dopodiché mi sollevò e mi portò direttamente in
camera da letto.
Sospirai affranta ma sicura che c’e l’avremmo fatto a superare
anche questa.
Non ci avevamo pensato, ma prima o poi avremmo dovuto dirlo anche
a loro.
Il problema era che quel “prima” sarebbe venuto più in fretta di
quanto ci immaginassimo.
Mi guardai allo specchio per l’ennesima volta, chiusa in bagno.
Non era mai stata un tipo vanitoso, né mi ero mai particolarmente
soffermata sul mio stile d’abbigliamento; un jeans, una camicia, un paio di
Nike e il gioco era fatto.
Odiavo il trucco in ogni sua forma, il fondotinta mi dava allergia
e il mascara mi faceva venire le lacrime; avevo, quindi, rinunciato a qualsiasi
forma di cosmetico che superasse una semplice linea a matita sugli occhi o il
burro cacao sulle labbra.
Nell’occasione in cui il Dottor Allan ci invitava a cena, sotto
costrizione della malefica moglie, i miei dubbi riguardo al mio aspetto
affioravano sostanziosi. Imprecavo contro la banalità del mio fisico non troppo
alto e un po’ troppo esile.
Eravamo sicuri che fossi realmente mediterranea?
Erano questi i miei pensieri mentre fissavo la mia appena
accennata seconda. Chissà se sarei riuscita ad allattare con un seno tanto
piccolo.
Sbuffai scocciata. Il pensiero di rivedere Evangeline scatenava in
me i miei più piccoli e disperati dubbi.
Ad ogni modo, ero immobile da quasi dieci minuti a fissare la mia
figura allo specchio. Per “l’occasione” avevo indossato un vestito verde
bottiglia, carino e senza pretese particolari, che arrivava un po’oltre il
ginocchio, con ghirigori neri sull’orlo della gonna morbida; un paio di
ballerine e un copri spalle nero.
Avevo lasciato i miei capelli ricadere in modo naturale nel loro
caschetto sfilato e avevo rinunciato a truccarmi; avrei sicuramente sudato,
quindi lasciai stare anche la matita sugli occhi.
Tutto sommato stavo abbastanza bene, ma ad Evangeline non sarebbe
di certo bastato. Ero più che convinta del fatto che si fosse preparata i
commenti da rivolgere a bassa voce e in modo del tutto casuale nei miei
confronti per poi mi guardarmi con la sua solita espressione glaciale
uscendosene con un –Scusa, cara.
Forse ti sei offesa…- per poi tornare a voltare le faccia dall’altro lato della
sala.
Mi venivano i brividi.
Bussarono alla porta del bagno –Ju sei pronta?-.
Non mi restò che dire si.
Anche Andrew sembrava abbastanza agitato, dover stare con sua
madre e con suo padre ore in più del necessario lo infastidiva.
Inizialmente, quando l’avevo conosciuto, stentavo a credere nel
modo in cui parlava dei suoi genitori, così come mi stupiva che non sentisse
alcun bisogno di vederli; per me, che ero cresciuta circondata da fratelli
pestiferi, sorelle rompiscatole e genitori iperaffettuosi, era incomprensibile.
Quando li conobbi, o meglio, quando la conobbi mi sembrò tutto più
chiaro; non potevo non biasimarlo.
Lo guardai attentamente, pensando quanto fosse folgorante e
soprattutto, bellissimo.
Anche lui si era vestito in modo abbastanza elegante, ma non aveva
rinunciato ai soliti jeans strappati. Forse voleva infastidire sua madre.
Sopra ai jeans indossava una camicia bianca a maniche lunghe,
leggera, e una giacca nera. I capelli sembravano ancora più indomabili del
solito, considerai.
Sembrava appena uscito da una rivista di bellezza.
Perché mi sentivo così semplicemente normale?
-Sei bellissima…- mi disse sfiorandomi con lo sguardo,
evidentemente lui non la pensava come me.
-Guarda chi parla.-me lo sarei mangiato, metaforicamente, con gli
occhi.
Uscimmo da casa che erano le sei un quarto; da Greenwich Village
all’Upper East Side erano circa due chilometri, considerando il traffico ci
avremmo messo quasi un’ora.
Sperai di non arrivare tardi.
Durante il viaggio non parlammo molto. Entrambi, a modo nostro, ci
stavamo preparando mentalmente per direi ai suoi genitori e quindi ai miei
suoceri che presto sarebbero diventati nonni; dubitavo fortemente che
l’avrebbero presa con tutto l’entusiasmo dimostrato da mia madre.
Il Dottor Allen perché era quel genere d’uomo che non mostrava mai
apertamente i suoi sentimenti, in tutta la sua vita Andrew affermava che le
volte che ricordava d’essere stato abbracciato da suo padre erano davvero
limitate.
Evangeline avrebbe sottoposto a un test di paternità il nostro
bambino appena fosse nato.
Mi portai le mani in modo protettivo sul ventre; era un gesto
insolito e istintivo che avevo scoperto di fare solo da qualche giorno, quando
mi sentivo agitata o pensavo al nostro bimbo.
La parola “bimbo” mi faceva sorridere divertita, non sapevo perché
ma era così.
Comunicherò io la notizia.- disse Andrew all’improvviso, mentre si
fermava a un semaforo rosso all’inizio della Quarantesima strada –Quindi non
preoccuparti.-.
Inutile dire che mi sarei preoccupata comunque, ma mi sentii
enormemente sollevata. Infondo era normale che volesse essere lui a comunicare
la bella notizia, così come io avevo voluto darla personalmente ai miei. Quindi
mi limitai ad annuire in silenzio, continuando a guardare la colorata e attiva
New York con il vento che entrava dal finestrino aperto, sul viso.
Superammo la Cinquantasettesima strada e deviammo per la Quinta
Avenue, una delle strade più belle e ricche dell’Upper East Side di New York, quella,
dove affacciava il lato est di Central Park, la strada dell’Empire State
Building e della cattedrale di San Patrick, per dirne qualcuno.
La strada dove Andrew era nato e vissuto e dove residevano ancora
i suoi genitori.
L’imponente palazzo che ospitava l’attico della famiglia Allen si
ergeva distintivo all’inizio della grande via.
Il “Golden Building” era uno degli edifici più lussuosi della
Quinta Avenue: alto quasi venti piani, in stile liberty, fu edificato
all’inizio del 1900 ma durante la grande depressione cadde in rovina, fu
riacquistato alla fine degli trenta da Robert Golden; il nonno di Evangeline e
il bisnonno di Andrew.
Ci fermammo con l’auto vicino al grande portone d’ingresso e la affidammo
al valletto vestito di rosso scuro con tanto di berretto.
Scesi dalla macchina, io e Andy ci guardammo. Lui mi sorrise
incoraggiante e ci prendemmo per mano.
Mi sembrava tanto il dejà vo di quando mi presentò ai sui per la prima
volta.
Speravo, però, che quella volta andasse meglio. Il nostro primo
incontro non fu proprio dei più idillici, ma comunque non ci furono morti
superflue.
-Bentornato signor Allen.- a parlare era stato l’anziano uomo
all’entrata delle Golden Building, quello che apriva e chiudeva le porte quando
qualcuno doveva entrare o uscire.
-Signora Allen.- si levò il cappello a segno di saluto, io
abbozzai un sorriso.
-Buona sera Louis. E’ da molto che non ci vediamo.-.
-E’ sempre un piacere rivederla, signore.- era un uomo
dall’espressione molto gioviale, il tipo di zio simpatico che tutti vorrebbero
avere e che, nonostante l’età, aveva lo spirito di un vero ragazzino.
Mi era sempre stato simpatico.
Salutammo Louis, che ci aprì la porte di vetro sulla quale brillava
la scritta “Golden Building. 1938” ed
entrammo.
L’atrio era grande, molto grande, arredato finemente. Di fronte a
noi c’era la portineria, quando gli addetti ci videro, si alzarono dalle loro
postazioni e ci salutarono educatamente, Andrew era il figlio del proprietario
di quel posto ed io sua moglie, quella sorta di rispetto non mi piaceva…era
come d’obbligo.
Sempre tenendoci per mano attraversammo tutto l’ampio salone, fino
ad arrivare agli ascensori.
Salimmo in quella privata, che portava direttamente agli ultimi
due piani del palazzo, quelli abitati dalla famiglia Allan – Golden, in cui
Andrew era cresciuto.
-Ti prego, dimmi che ami…- gli dissi d’un tratto, aggrappandomi
quasi al suo braccio intrecciato col mio.
Lui mi guardò tenero, sussurrandomi il –Ti amo.- di cui avevo
bisogno.
L’ascensore produsse il familiare dlindlon, segno che eravamo
arrivati. Deglutimmo contemporaneamente, mentre le porte della macchina si
aprivano.
-Siete in ritardo.-.
L’austera figura del Dottor Allan ci aspettava nella solita
postura composta e rigida davanti all’ascensore.
Era un uomo alto, possente, con espressione un po’ dura. I capelli
castani chiari erano stirati di bianco nelle tempie e alla radice, così come lo
erano i baffi. Indossava un completo giacca e cravatta nero, con camicia
grigia.
Tutta la sua figura era di una serietà sconcertante e trasudava
fierezza da ogni poro. Lo stimavo molto, e, nonostante affermasse l’esatto
opposto, sapevo che anche Andy era della mia stessa opinione.
-Scusa, papà. Abbiamo incontrato traffico.- cercò di
giustificarsi, la sua voce era leggermente diversa; anche la sua postura lo
era. Cambiava sempre atteggiamento quando c’era suo padre nei paraggi.
Il Dottor Allen squadrò suo figlio per un po’, quando poi decise
che la scusa del traffico era sufficiente, rivolse la sua attenzione verso di
me.
-Judith, è un piacere rivederti.-.
-Anche per me, Dottor Allen.- e in parte era falso, se non fosse
stato per sua moglie.
Poi notai che non c’era traccia di Evangeline in giro, e mi chiesi
che cosa stesse tramando.
Andy fu della mia stessa opinione, -Dov’è mia madre?-.
-Scenderà tra poco.-disse soltanto suo padre –intanto perché non
ci accomodiamo in sala da pranzo? Sono gia le sette e mezzo.-e ci fece segno di
seguirlo.
L’attico degli Allen era, e sarebbe sempre stata, la casa che
avessi mai visto in tutti i miei ventitré anni di vita.
Era enorme, arredato con gusto ed eleganza con mobilia classica.
La sala da pranzo, ad esempio, era un ampio salone circolare con un grande
tavolo in vetro al centro, sedie simili a poltrone e un lampadario a soffitto
che cadeva proprio sul centro tavola.
Non mi sarei mai abituata alla magnificenza di quella casa.
Ero ancora in contemplazione, quando la voce mi arrivò forte e
chiara, nel suo tono cristallino e calmo.
-Buona sera, tesoro.- disse la voce.
Evangeline, eterea come sempre, entrò dalla parte opposta alla
nostra, elegantemente fasciata in un vestito bianco a tubino e stivali alti
neri. Altissima e bellissima, non avrei scommesso un dollaro sui suoi quarantasette
anni; aveva lunghi e vaporosi capelli biondi che le incorniciavano il viso
perfettamente ovale, labbra sottili e proporzionate, mani curate e due occhi
verdi così simili a quelli di Andy in modo impressionante.
Camminò in modo elegante nella nostra direzione, mentre io iniziai
a sudare freddo.
Erano due i comportamenti che assumeva in mia presenza: primo,
iniziava a tartassarmi dal momento in cui mi vedeva, commentando inizialmente
il mio abbigliamento per poi passare ad ogni più piccola parte del mio corpo
che, da come lo vedeva lei, era pieno di difetti; secondo, mi ignorava
completamente, limitandomi a squadrarmi o a farmi qualche sorriso tirato, per
poi voltare il viso perfetto e fingere che io sia una piccola mosca invisibile
spiaccicato sul parabrezza in cristallo della sua vita.
Quella sera scelse il secondo metodo.
Mi lanciò un’occhiata di sufficienza, arricciò le labbra in quello
che doveva essere una parvenza di sorriso e si girò verso il figlio e il
marito.
Abbracciò Andrew portandolo il più lontano possibile da me, in
modo che dovette lasciare la mia mano.
-Sto bene mamma, grazie.-stava rispondendo Andy alle sue domande.
-Non vieni mai a trovare la tua cara mamma! Lo so che sei molto
occupato e che mandi da solo avanti
la casa, senza aiuti da parte di nessuno, escludendo me e tuo
padre. Evidentemente c’è chi preferisce scarabocchiare…-.
Un’allusione?
Il Dottor Allen guardò la moglie con sguardo critico, forse prima
del nostro arrivo le aveva fatto un discorso del tipo “Sii umana con tua
nuora.”, cui aveva ribattuto sicuramente con un “Non ho nessuna nuora, per
quello che mi riguarda.”.
Si prospettava proprio una piacevole serata.
-Vedrai, tesoro mio,- perché
calcava quel genere di parola? –la mamma ha una bella sorpresa per te!-.
-A proposito, - tentò di dire Andrew, -…ehm…anche noi abbiamo una
sorpresa…vedete…- ma prima che potesse concludere la frase Evangeline lo fermò;
fin quando il soggetto della frase avrebbe sarebbe stato noi non le sarebbe
interessato.
-C’è tempo per parlare. Ora andiamo a tavola.- e trascinò Andy a
sedere.
Il Dottor Allen mi sorrise nel suo particolare modo e m’indicò il
mio posto. Lo ringraziai educatamente e mi sedetti.
Ero seduta proprio d fronte ad Andrew, che mi guardava con
espressione preoccupata.
Forse si stava chiedendo cosa pensassi o perché me ne stava tutta
zitta e in silenzio; semplice, meno avrei attirato l’attenzione di Evangeline
su di me, meglio sarei stata.
La suddetta era tutta intenta a parlare a proposito di qualcosa
che non conoscevo e che di sicuro non m’interessava, sempre più intenzionata a
ignorarmi.
Non le avrei dato certo un motivo per smettere di farlo.
Considerai che una volta che avrebbe saputo che ero incinta di suo
nipote avrebbe dovuto guardarmi per forza.
Sospirai.
-Tutto bene, Ju?- mi domandò Andy.
-Si…ehm…sono solo un po’ affamata.- e sorrisi accondiscendono.
Bugia. Non avevo per nulla fame.
-Giusto, - intervenne il Dottor Allan e ordinò di servire la cena.
Appoggiarono sul tavolo un arrosto enorme, di quelli che sarebbero
bastati a sfamare una famiglia con otto figli. Mi feci la porzione più piccola,
ma prima che potessi iniziare a mangiare, l’ascensore suonò. Evangeline si
esibì in uno dei suoi più meravigliosi sorrisi (brutto segno), -E’arrivata la bella sorpresa!- e si alzò.
Posammo tutti le posate e aspettammo che ritornasse; solo che non
era da sola.
La prima cosa che pensai quando vidi quella ragazza fu: troppo
luminosa.
Esattamente…sembrava brillare di luce propria. Rimasi un po’ a
bocca spalancata mentre Evangeline le faceva segno di sederi proprio accanto a
mio marito.
Aveva capelli rossi che le arrivavano alla vita, grandi occhi
verde scuro e un viso a forma di cuore.
Avrebbe potuto essere a tutti gli effetti una modella.
La
ragazza salutò educatamente tutti.
-Lei è
Rosie Colerine, - la presentò Evangeline –ci ha gentilmente onorato della sua presenza. E’ un’ospite
molto gradita, lei.-.
Ed io no,
ovviamente.
Il Dottor
Allen guardò la moglie con espressione indecifrabile, tutto mi lasciava pensare
che neanche lui fosse informato di questo piccolo cambio di programma.
Andrew
invece indurì i lineamenti del volto, serrando la mascella. Feci un bel respiro
e contai mentalmente fino a dieci.
-Sapete, -
continuò –la cara Rosie frequenta la Columbia University, è stata ammessa con
uno dei punteggi più alti!-.
La
ragazza arrossì leggermente, -Ho solo studiato molto, niente di che. I miei ci
tenevano molto.-, aveva anche una bella voce.
-Però ora
hai ottenuto un permesso di sei mesi per frequentare un corso di musica di
rilievo presso la Juilliard! I tuoi devono essere molto orgogliosi di te!-.
Arrossì
nuovamente, non mi sembrava una cattiva ragazza.
Sia mio
suocero sia mio marito erano immobili, con la stessa espressione.
Le loro
facce sembravano chiedere “da quando la nostra cena di famiglia è diventata uno
show sulla vita di sconosciuti?”.
Erano
proprio identici.
-Rosie è
la nipote più piccola della signora Miller.- continuò a spiegare. –Come sta tua
nonna, cara?-.
Mi
ricordavo di Miranda Miller, era venuta anche al nostro matrimonio. Era una
signora anziana, con la faccia gentile, completamente fissata per il viola.
-Mia
nonna sta bene, grazie.-rispose educatamente Rosie –Mi hai chiesto di
salutarti, Eva.-.
-Ohh…delle
che io, mio marito e mio figlio ricambiamo il saluto.-.
Ed io chi
ero? Un granello di polvere insignificante.
-Certo, -
ricambiò la ragazza, poi mi guardò stranita, forse anche lei si era accorata
che Evangeline mi aveva bellamente ignorato.
Lo
sguardo di Andrew era della consistenza della pietra; il Dottor Allan continuava
a fissare la moglie serrando la mascella.
Era una
cena e nessuno stava mangiando…in realtà nessuno aveva toccato cibo.
Avrei
dovuto aspettarmi una svolta del genere.
L’aria
intorno alla tavola si fece pesante e per qualche minuto nessuno disse una
parola.
-Ehm…grazie
per avermi invitato…-cercò di dire la ragazza, sorridendo. Lo sguardo un po’
stranito le conferiva un espressione dolce. Era proprio bella.
-Figurati,
- prese parola il Dottor Allan, -la tua visita improvvisa è ben accetta.-.
-Grazie.
Eva mi ha detto che ci teneva tanto che venissi, non ho potuto rifiutare.-.
Come
poteva essere altrimenti?
Evangeline
fece uno sguardo soddisfatto e la guardò con gli occhi pieni d’approvazione.
Ritornò
il silenzio.
Un
cellulare squillò all’improvviso, Rosie tirò fuori il suo Iphone dalla borsetta
e lo fissò.
-Ehm…se
potete scusarmi cinque minuti…- chiese timidamente.
-Certo,
certo, cara! Fai pure!- le disse incoraggiante, mia suocera. La ragazza si alzò
dalla tavola e si diresse verso l’ingresso.
Appena fu
uscita dalla sala da pranzo, Evangeline si girò raggiante verso Andrew.
-Allora?-
chiese impaziente –cosa ne pensi? E’ bella, vero?-.
Questo
era sicuramente troppo; lo capì (beh, non ci voleva molto per arrivarci) anche
il Dottor Allen, che fissò la moglie con astio.
-Perché
non sono stato avvisato di questa intromissione?- la sua voce era dura e
inflessibile.
La moglie
lo fissò confusa, come se non avesse afferrato il problema.
-Cosa c’è
di male? E’ un’ospite così gradita, lei.-affermò
semplicemente, poi ripose la sua attenzione nuovamente su Andy, che era rimasto
in silenzio, -Allora, tesoro? Non pensi sia fantastica?-.
Mi
sentivo male.
Avrei
tanto voluto intromettermi…magari anche spaccarle la faccia, perché no?
Eppure
rimasi ferma al mio posto, le braccia sul ventre e lo sguardo basso.
-Allora?-
continuò insistente.
E Andrew
scoppiò.
Lanciò in
malo modo la forchetta sul tavolo, e guardò la madre con occhi di fuoco.
Il Dottor
Allen non si scompose per niente, rimase perfettamente immobile, l’espressione
neutra, mentre guardava la reazione del figlio.
Il suo
sguardo sembrava dire “Era ora!”, e lo pensavo anch’io.
Evangeline
sbatté le palpebre un paio di volte.
-Proprio
non ci arrivi, vero?- le domandò Andrew sorridendo in modo poco rassicurante.
-Cosa?
Non ho fatto nulla di male, tesoro! Ti ho solo chiesto cosa pensassi di quella
ragazza così carina!-.
Andy
scoppiò a ridere in modo cattivo, -Appunto. Dimentichi che sono sposato,
mamma.-.
-Ah.- lei
fece un espressione contrariata.
-Gia, -
riprese Andrew, -perché dovrei guardare altre donne quando ho una moglie che
amo e un figlio in arrivo?-.
Trattenni
il fiato rumorosamente.
Ci volle
un po’ affinché interpretassero il significato di quella frase.
La testa
del Dottor Allen si voltò immediatamente verso di me, con espressione stupita.
Anche
Evangeline fu costretta a rivolgermi la sua attenzione, come avevo previsto,
per la prima volta in tutta la serata. Non le avevo mai visto un’espressione simile:
era un misto d’incredulità, confusione, disprezzo e…rabbia.
Il suo
bel volto era quasi trasfigurato.
-E’ vero,
Judith?- mi chiese gentilmente il Dottor Allen, con voce spezzata.
-Ehm…- mi
guardai attorno, Rosie stava per rientrare nella sala, ma fece marcia in dietro.
Non sapevo se aveva assistito a tutta la scena, ma la ringraziai mentalmente.
-Si, è
vero.-affermai in fine; Andy mi guardava soddisfatto.
Il volto
di Evangeline divenne ancora più terrificante.
Sapevo
bene quello che stava pensando: un bambino avrebbe legato me Andrew molto di
più di quanto avrebbe potuto fare un certificato di matrimonio in cui giuravi
su Dio di passare il resto della vita assieme.
-Posso
chiederti di quanto sei?- mi domandò sempre gentilmente mio suocero.
Io e Andy
rispondemmo in simultanea -Un mese e quache giorno.-.
Il Dottor
Allen sorrise, forse stava per congratularsi, forse stava per farmi qualche
altra domanda…in ogni modo non lo seppi mai, perché la voce affilata e
tagliente di Evangeline lo interruppe, rivolgendosi ad Andrew.
-Non
avrai mica intensione di tenerlo?-.
Mi colpì
come uno schiaffo in piena faccia. Anche se avevo avuto paura, anche se non
sapevo quello che mi stava aspettando, non avevo mai, MAI, preso in
considerazione l’idea di uccidere il mio bambino.
Perché
era quello, che in sostanza, Evangeline stava chiedendo.
-Andrew,
non vorrai mica tenerlo, voglio sperare!- continuò con voce squillante.
Il volto
del Dottor Allen era una maschera d’orrore. Fissava la moglie come se fosse il
demonio (e forse lo era).
Andrew si
alzò di colpo, talmente in fretta che la sedia si rovesciò.
Venne in
fretta verso di me, mi fece segno d’alzarmi e mi prese per un polso. Anche il
Dottor Allen si era alzato e ora guardava preoccupato il figlio.
Andy
fissò la madre con tanto odio che stentai a riconoscere gli occhi che tanto amavo
sotto a quell’espressione.
-Sei un
mostro.- sibilò soltanto e uscimmo dalla sala, avviandoci verso l’ascensore.
Sentii
distrattamente mio suocero chiamare il suo nome e, altrettanto distrattamente,
vidi Rosie che ci guardava con espressione dispiaciuta.
Quando
arrivò ed entrammo nell’ascensore, stavo già piangendo.
Terzo capitolo! Spero di aver
risposto positivamente alle attese!
Ringrazio pirilla88, AlessandraMalfoy,
e Purple per le recensioni!
Un bacione a tutte^^
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Capitolo 4 *** Father in law and friends. ***
tttttttttt
Father in law and
friends
Sentii Andrew che si alzava da letto
lentamente, in modo che non mi svegliassi.
Sforzo inutile, perché non avevo chiuso
occhio. Da quando eravamo rientrati, la sera prima, mi era stato impossibile
non sentire le parole di quella vipera rimbombarmi nelle orecchie: “Andrew, non
vorrai mica tenerlo, voglio sperare!”. L’aveva chiesto a lui, non a entrambi;
come se la cosa non mi riguardasse direttamente.
Con le mani strinsi un lembo della coperta.
Perché mi stupivo ancora della malignità delle persone? Specialmente se
rispondevano al nome di Evangeline Golden in Allen.
Stavo davvero male. Di certo non mi ero
aspettata i salti di gioia, né tantomeno che spruzzasse felicità da tutti i
pori, ma che mi chiedesse d’abortire, di uccidere nostro figlio…suo nipote, no, quello non l’avevo
calcolato.
Dopo essere scappati da quel posto infernale Andrew
ed io non avevamo proferito parola, né nell’ascensore né in automobile.
Semplicemente non avevamo niente da dire, la situazione parlava da sola.
Tornati a casa, le mie lacrime silenziose si erano trasformate in una vera e
propria crisi. Andy mi aveva portato in stanza da letto e abbracciandomi mi
aveva chiesto scusa.
Scusa per cosa? Certamente non era colpa sua
avere quel mostro come madre!
Gli avevo risposto esattamente in questo modo,
mentre rispondevo al suo abbraccio. Avevamo intrecciato le dita e mi aveva
baciato. Dal bacio, poi, eravamo passati oltre. Sentirlo così vicino a me, il
suo corpo caldo contro il mio, il suo respiro sulla mia spalla, mi aveva
enormemente tranquillizzato; ma di certo non avevo dimenticato, come potevo
farlo?
La sveglia era suonata da quasi cinque minuti,
ma io non mi alzai. Il lunedì non andavo mai in facoltà, in ogni modo non ci
sarei andata lo stesso, ero troppo stanca (sia fisicamente sia mentalmente) per
andare a lezione.
Andrew uscì dalla stanza e sentii
distrattamente la doccia scorrere.
“Pensa ad altro, pensa ad altro, pensa ad
altro…”mi ripetevo con forza, “non hai bisogno dell’approvazione di quel
mostro. Il bambino è vostro, lei non centra.”.
Non ne avevo bisogno, era vero, e lei non
centrava, anche questo era vero, eppure m’importava; per la prima volta da
quando avevo conosciuto Andy e di conseguenza lei, il giudizio di Evangeline
era riuscita a turbarmi. Non mi ero lasciata scoraggiare quando l’avevo
incontrata per la prima volta, anche se mi aveva definito una popolana
emigrante che voleva risalire la scala sociale servendomi del figlio, né
vedendo la sua faccia disgustata al nostro matrimonio.
Questa volta era diverso. Enormemente diverso,
questa volta centrava nostro figlio.
Mi dissi mentalmente che anche se Evangeline
non avesse approvato, non mi sarei fatta condizionare; né da lei, né da nessun
altro.
Il rumore della doccia si spense. Ero
preoccupata per Andrew; lui l’aveva presa molto peggio di me.
Era sempre stato di carattere allegro e
loquace, ma l’espressione che ero riuscita a scorgere sul suo volto non l’avevo
mai vista prima.
Era deluso, arrabbiato e…stupito, anche. Forse
neanche lui si aspettava quel tipo di risposta a una notizia del genere,
Evangeline era pur sempre sua madre.
Sospirai tremante, pensando a quanto fosse
influente la sua figura sulla nostra vita. Anche se affermavamo il contrario,
sia la figura imponente del Dottor Allen che quella elegante di Evangeline ci
sovrastavano.
Rimasi a letto per un bel po’, anche dopo che
sentii Andy uscire e il telefono squillare. Probabilmente era mia madre. Le
avevo detto sarei dovuta andare a cena dalla sua consuocera e forse, ora, voleva
sapere come fosse andata, ed io non avevo alcuna voglia (né tantomeno la forza)
per risponderle in modo sincero. Non avevo voglia di fare nulla. Mi sentivo
stanca e spossata e avevo un filo di nausea.
Quando decisi di alzarmi dal mio rifugio-letto
erano gia le nove. Sposati le coperte con un colpo secco, deciso, e mi rizzai a
sedere sul materasso morbido comperato all’Ikea. Non avevo specchi in camera,
ma anche senza vedermi sapevo benissimo che aspetto dovevo avere: pallida e con
le borse sotto gli occhi rossi, dovuti alla notte in bianco, ero sicuramente un
disastro. Non me ne importava minimamente.
Afferrai a caso dall’armadio i primi jeans che
capitarono e una t-shirt bianca, con sopra scritto “I Love NY”. Andai diritta
verso il bagno e mi fiondai nella cabina doccia.
Normalmente amavo fare la doccia bollente, ma
sulla piccola guida che mi aveva dato la ginecologa, c’era scritto di non fare
bagni con acqua troppo calda almeno per i primi tre mesi di gestazione; quindi
mi accontentai di una temperatura tiepida. Rimasi sotto il getto d’acqua per
più di venti minuti. Il rumore scrosciante delle goccioline contro le
mattonelle della doccia servì a bloccare i miei pensieri; adoravo quel suono,
lo avevo sempre avvertito come rilassante.
Speravo che insieme all’acqua mi scivolassero
sul corpo tutti i ricordi e i pensieri che mi collegavano alla sera prima.
Purtroppo non fu così.
La doccia era servita a calmarmi solo in
parte, ma andava bene lo stesso. Mi asciugai in fretta i capelli neri e
altrettanto in fretta mi vestii. Mentre abbottonavo i jeans, mi ritrovai a
pensare quando la mia taglia quarantadue non mi sarebbe entrata più. Sarei
diventata davvero enorme, a quel sarei riuscita a sentire il bimbo muoversi
chiaramente.
Mentre mi passavo una mano sul ventre ancora
piatto, quei pensieri mi aiutarono a restituirmi un po’ di buon umore.
Scesi in cucina scalza; proprio non riuscivo a
tenere le scarpe, da ginnastica o pantofole che siano, in casa.
Sulla piccola tavola quadrata c’erano un
piatto delle frittelle e un post-it rosso. Lo lessi sorridendo: “Mi dispiace doverti lasciare da sola. Mangia
e di riprenderti, lo so che non hai dormito. Ti amo.”.
Forse sarei riuscita ad arrivare alla fine
della giornata con un umore abbastanza decente, tutto sommato.
Guardai le frittelle nel piatto. Avrei voluto
seguire il consiglio di Andy, ma non avevo per nulla fame. Inoltre la nausea
che sentivo difficilmente mi avrebbe permesso di mandare giù qualcosa. Presi il
piatto e lo misi nel microonde, poi aprii il frigo, un bicchiere di tè freddo
sarebbe bastato.
Cerchiai sul calendario la data 16/10/2008, la
prossima visita dalla ginecologa. Andrew aveva detto di volere accompagnarmi ad
ogni costo ed io ne ero stata enormemente felice.
Il lampeggiare della lucina della segreteria
telefonica attirò la mia attenzione. Sette messaggi registrati, tutti di mia
madre.
Sospirai divertita e schiacciai il tasto della
registrazione. La voce vispa e affettuosa di mia madre si diffuse per la
cucina.
“Tesoro
com’è è andata con la vipera velenosa? Non ha fatto nulla di male, vero?
Richiamami appena puoi. Ti voglio bene.”
Il seguente sembrava un po’ più seccato.
“Si può
sapere che fine hai fatto? Hai intenzione di farmi morire per la
preoccupazione? Perché non mi hai richiamato? Fallo appena puoi!”.
Non ebbi bisogno di sentire gli altri, mi era
facile intuire che avessero tutti lo stesso argomento.
Avrei tanto voluto richiamarla, ma mi dissi
che non era la cosa migliore da fare. Avevo comunque intenzione di andare al
“Al Chiaro di Luna” quella giornata.
Andrew non sarebbe tornato prima delle sette e
non avevo intenzione di restare da sola fino a quell’ora.
Rassettai un po’ la casa, rifeci il letto e
ripulii la cucina, in fine misi in moto la lavatrice. Non amavo fare le pulizie
domestiche, anzi, le odiavo proprio con tutto il cuore, ma mi aiutarono a
distrarmi. Anche perché non ero il tipo che se ne stava con le mani in mano.
Finito il rassetto, salii in soffitta, non ero
riuscita a dedicarmi alle mie “opere” in quell’ultima settimana. Erano gia passati
sette giorni da quando avevo ufficialmente scoperto di aspettare il nostro
bambino, di questo passo mi sarei ritrovata al termine della gravidanza in un
batter d’occhio.
Scossi la testa terrorizzata.
La soffitta non era grande ed era interamente
a mansarda. L’odore di pittura acrilica e tempera era così forte che quasi
asfissiava, ma io lo adoravo. C’erano tre cavalletti di diversa misura sul
fondo della soffitta, due erano ricoperto con un telo, mentre il terzo –quello
incompiuto- era ben visibile. Su tutte le pareti erano accatastate tele su tele
di tutte le dimensioni, a sinistra quelle finite e a destra quelle bianche. Ero
riuscita anche a vedere qualche opera a delle gallerie d’arte di Chelsea,
ottenendo risultati abbastanza buoni dalla critica, ma solo due dei miei quadri
erano stati venduti, a un prezzo neanche abbastanza alto, ma a me andava bene
così; io dipingevo perché amavo farlo e perché era una cosa radicata in me fin
dalla Junior School, non per soldi o per fama. Se poi una delle due cosa
sarebbe arrivate, beh…era comunque più che accetta.
Aprii la finestrella e disposi il cavalletto
con la tela sotto la luce. Volevo dipingere un paesaggio marino, magari una
spiaggia con un mare agitato, per rappresentare come mi sentivo in quel
momento. Il mare era il mio soggetto preferito.
Passai quasi un’ora tra pennelli e pittura.
Quando brandivo il pennello ero un'altra, diceva Andrew. Il mio sguardo si
concentrava e la mia espressione era seria, secondo quello che notava lui.
Anch’io mi sentivo diversa, mentre dipingevo.
Mi costruivo la mia bolla inespugnabile, fatta di silenzio e concentrazione. Tutti
i pensieri scemavano via, nascosti in un angolo della mia mente, mentre
l’immagine fotografica di quello che volevo dipingere occupava il primo posto.
Quando dipingevo, mi sentivo in pace col
mondo, semplicemente perché mi catapultavo nel mio, di mondo, fatto di pittura
e tele bianche su cui dipingere, abitato solo da due persone: me ed Andrew.
Ora, riuscivo a vedere anche un’altra figura; era ancora confusa e per niente
nitida, ma riuscii a intuire chi fosse. Il nostro bambino.
Era tutta concentrata sulla tela, quando il
campanello suonò.
Mi tolsi il grembiule da lavoro scocciata.
Possibile che mia madre non sentendomi
richiamare fosse venuta fino a casa?
Scesi in fretta le scale, sempre scalza, e
arrivai davanti alla porta. Quando guardai dentro lo spioncino, sentii il cuore
accelerare.
“Aprire o non aprire?” mi chiesi mentre mi
mordevo nervosamente il labbro inferiore, questo sì che era un dubbio amletico.
Il campanello suonò di nuovo.
Feci un lungo sospiro a occhi chiusi e aprii
la porta.
L’uomo sulla porta mi guardò attento, -Buon
giorno Judith.- esclamò calmo, sorridendomi.
-Ehm…buon giorno Dottor Allen…-, come mi
dovevo comportare? Fingere che la sera prima non fosse successo nulla?
-Posso entrare?-.
Mi accorsi allora di stare immobile sull’uscio
della porta, dovevo sembrare proprio stupida.
-C…certo! Prego.- e mi spostai per lasciarlo
passare.
Il Dottor Allen entrò silenziosamente,
guardandosi attorno, curioso.
Non era mai stato a casa nostra; o meglio,
c’era stato prima che ci spossassimo, quando ci aveva mostrato il suo regalo di
nozze due anni fa.
Gli domandai se gli andava di bere qualcosa,
mi chiese un semplice bicchiere d’acqua.
Andammo in cucina, dove gli dissi di
accomodarsi.
Cinque minuti dopo eravamo entrambi seduti
intorno alla tavola.
-Mio figlio non è in casa, vero?- mi domandò
dopo un po’.
-No…ehm…è in facoltà Posso dirgli che siete
passato, comunque.-.
-Oh, non sono qui per parlare con Andrew,
quello posso farlo anche oggi pomeriggio in ufficio. Sono qui per te.- per me?
Dovetti assumere un’espressione un po’
confusa, perché il Dottor Allen sorrise e si affretto a spiegare.
-Per quello che è successo ieri sera.-.
Proprio l’argomento che cercavo di evitare con
tutte le mie forze. Perché proprio a me doveva succedere tutto quello?
-Va bene…cioè sto bene…- risposi
immediatamente; dove cercare in tutti i modi di dirottare l’argomento.
-Vedi, - iniziò –mia moglie non è così cattiva
come appare.-.
Arcuai il sopracciglio, scettica. Era della
stessa persona che stavamo parlando?
Accortosi dell’espressione che aveva assunto
il mio volto, il Dottor Allen continuò.
-Ciò che ha detto ieri sera è assolutamente
imperdonabile, questo è più che ovvio, ma dobbiamo vederla anche dalla sua
ottica. Vedi Judith, mia moglie non è sempre stata così…- Stronza? Bastarda?
Mostruosa?
-…così fredda. Ero, e lo sono tuttora, davvero
innamorato di lei. Era una donna splendida, addirittura dolce; dopo…- riuscì a
cogliere la difficoltà con cui stava pronunciando quella frase, capii subito
quale argomento stava per affrontare -…dopo la morte di Lucas è cambiato tutto.
Lei è cambiata.-.
Lucas.
Il fratello di Andrew.
Mi mobilitai immediatamente –Dottor Allen, non
c’è bisogno di far riaffiorare argomenti dolorosi, ho capito cosa intende.-.
-No, invece.-volle continuare –E’ proprio
perché non è mai riuscita a superare il dolore che si è rinchiusa nel suo
guscio. Dopo la morte di Lucas eravamo sconvolti, d’altronde come poteva essere
altrimenti?- lo chiese più a se stesso che a me, -Andrew era molto piccolo e
all’improvviso vide il fratello sparire. Lei voleva parlarne; parlava sempre e
solo di Lucas, in qualsiasi momento. Io no. Faceva troppo male. Non le ho dato
il conforto che cercava, è una colpa che non smetterà mai di perseguitarmi.
Così si attaccò in maniera quasi morbosa ad Andrew, quasi non lasciava
avvicinare neanche me. I problemi sono iniziati quando incamiciammo a mandarlo
all’asilo; non voleva lasciarlo. Andrew cresceva e si distaccava da lei sempre
di più da lei, penso che fosse una risposta involontaria a tutte le attenzioni
che Evangeline gli rivolgeva.- considerò. Io ascoltavo in silenzio. Non avevo
mai affrontato quell’argomento con Andrew, mi mancava il coraggio.
Era il nostro unico tabù, tantomeno avevo mai
preso in considerazione l’idea di domandare al Dottor Allen o a Evangeline del
figlio morto da piccolo.
-Quando Andrew, a diciotto anni, disse di
voler andare a vivere da solo la prese malissimo. Mi preoccupai veramente che
potesse cadere in depressione. Dopo solo pochi mesi Andrew ti presentò come sua
fidanzata ufficiale, fu un vero smacco per lei. L’idea che un'altra donna
potesse occupare il suo posto nella vita del figlio l’era inconcepibile, aveva
paura di te; per questo motivo è sempre stata un po’…crudele nei tuoi
confronti, Judith. Non devi credere che ha questo comportamento perché c’è la
in particolare verso di te, credo che avrebbe assunto questo modo di fare verso
qualsiasi donna Andrew ci avrebbe presentato, indifferentemente da chi fosse o
da quali fossero le sue origini.-.
Non avevo mai visto Evangeline sotto
quest’ottica. Indubbiamente avevo sempre pensato che la prematura morte del
figlio avesse contribuito al suo carattere.
Per la prima volta sembrava quasi umana.
Intanto il Dottor Allen continuava, non avevo
neanche mai visto lui così in difficoltà, -per non parlare di quando arrivò
l’invito del matrimonio. Ho sempre pensato che foste stati più tosto
intelligenti a non venircelo a dire di persona. Cerai di parlare e di calmarla.
Fortunatamente ci riuscii.-, infatti per tutta la durata della cerimonia non aveva
detto una parola., -Ed ora, quest’ultima notizia è stata davvero troppo o per
lei. Dopo che ve ne siete andati, era shockata. Ha paura che questo allontanerà
ancora di più il figlio da lei, non capisce che è stato proprio questo suo
comportamento a far scappare Andrew lontano in tutti questi anni.- il Dottor
Allen sospirò in modo pesante e riprese a guardarmi, -Non ti chiedo di passare
oltre sue parole, ma di non giudicarla come un mostro; è soltanto una madre che
ha paura di perdere un altro figlio.-.
Guardai l’uomo che mi stava davanti come se lo
vedessi per la prima volta. Il Dottor Allen era un uomo meraviglioso.
Cercai di sorridergli dolcemente, -La
ringrazio per aver parlato così apertamente con me di un argomento tanto
pesante. Ho capito tutto, Dottor Allen. Non si preoccupi.-.
-Ho sempre pensato che Andrew è stato
fortunato a incontrarti, Judith. Sei proprio quello che serviva a mio figlio
per capire cosa significa amare. E’ sempre stato diviso tra me, che sono sempre
stato freddo nei suo confronti, e sua madre, che lo asfissiava d’attenzioni
fino al limite. Ti ringrazio.-.
Mi sentii arrossire, mio suocero non mi aveva
mai apertamente rivolto un complimento del genere.
-Io ringrazio voi per essere venuto fin qua.-
risposi educatamente, ero un po’scossa ma la sua visita mi era servita davvero
tanto, ora era tutto più chiaro.
Il Dottor Allen si alzò, dicendomi che ora
doveva scappare per motivi di lavoro. Lo accompagnai alla porta e mentre usciva,
si voltò a guardarmi.
-Posso chiederti di non dire nulla ad Andrew
di questa nostra conversazione? Vorrei parlargli personalmente.-, annui
convinta. Ero più che sicura che avrebbe fatto bene a tutte e due parlare un
po’tra di loro di qualcosa che non includesse il lavoro.
-Oh…sono davvero contento del fatto che
renderete nonno, - aggiunse sorridendo felice –per qualsiasi cosa fatemelo
sapere, va bene?-.
-Certo, Dottor Allen. Buona giornata.-.
-Altrettanto.- e salì nella sua lussuosa
macchina, ritornando d essere la fiera e austera persona che tutti conoscevano.
Quando chiusi la porta, mi batteva il cuore a
mille. Era stata la conversazione più lunga che avessi mai avuto con mio
suocero in due anni di fidanzamento e in due di matrimonio. L’argomento era
stato anche abbastanza pesante, quindi mi sentivo abbastanza scossa. Corsi in
bagno a sciacquarmi il volto.
Avevo bisogno d’uscire.
M’infilai in fretta le Nike grigie e consumate
e mi chiusi la porta di casa alle spalle. Una volta in strada decisi di
prendere un taxi.
L’autista mi chiese dove doveva portarmi ed io
risposi con il primo indirizzo che mi venne in mente –557esima Broadway,
grazie.-.
La Scholastic Corporation era una delle più
grandi librerie di New York. Avevo passato la maggior parte della mia
adolescenza tra quei grandi e colorati scaffali zeppi di libri.
Entrando attraverso le porte automatiche
riuscii a sentire l’odore di carta che contraddistingueva tutte le librerie e
le biblioteche.
Era tutto così familiare. Stranamente quel
giorno non era molto affollato; meglio così, pensai.
Avevo bisogno di distrarmi e non c’era niente
di meglio che passare un paio d’ore immersa tra i libri.
Fino a una certa età restavo tutto il tempo
nella sezione fantasy per ragazzi, dividendomi tra i vari Harry Potter e i
libri di Tolkien. Inseguito, ero passata alla sezione arte, che frequentavo tuttora.
Questa volta, però, sapevo dove dirigermi.
Attraversai sicura tutta la libreria fino ad arrivare a una delle ultime
sezioni: Puericultura.
C’erano così tanti libri sulla gravidanza,
l’educazione e i significati dei nomi che c’era davvero l’imbarazzo della
scelta. Non sapevo esattamente cosa volessi comprare, né se volessi veramente
acquistare qualcosa, sta di fatto che iniziai a prender in mano qualche libro,
sfogliandolo distrattamente. Erano tutti pieni di fotografie di donne col
pancione enorme e di neonati. Erano libri sulla gravidanza, cosa mi aspettavo?
Poi lo notai, era un libricino piccolo,
colorato in modo sgargiante. La copertina recitava: “Baby Yankee. Guida pratica per come sopravvivere da genitori alla
giungla newyorkese.”.
Presi il libricino e lo sfogliai, nessuna
immagine panciuta in bella mostra, solo spiegazioni.
Lo aprii a una pagina a caso e iniziai a
leggere mentalmente.
Mandare
a quel paese la moda.
Non
siete dell’Upper East Side? Bene, mandate a quel paese negozi come “Rosie Pope
Maternity” e guardate oltre. L’abbigliamento non conta in gravidanza. Avete un
bambino che vi sguazza nella pancia, cosa v’importa di cosa indossate?
Mettetevi solo abiti comodi e largi; niente jeans super attillati, maglie iper
strette e borse enormi che v’ingombrano i movimenti. Indossate soprattutto
vestiti e scarpe basse. Ci sono centinaia di negozi premaman a buon prezzo che
aspettano solo voi; e che critichino pure, le super mamme altolocate della
Quinta Avenue, tanto loro faranno crescere i loro figli da tate depresse e
sfruttate. Voi, che da brave mamme vi prendere cura dei vostri pargoli, badate
principalmente alla comodità, al comfort e alla qualità. Una donna incinta è
bella sempre, indifferentemente da quello che indossa, e se gli altri non la
pensano così…beh, problemi loro.
Inseguito, riportava alcuni indirizzi di
negozi premaman consigliati. Lo compro, pensai immediatamente.
-Judith!- mi sentii chiamare all’improvviso.
Conoscevo quella voce, mi girai e vidi Kelly corrermi incontro.
Kelly era la commessa della libreria. Doveva
avere all’incirca quarta o quarantacinque anni, non si era mai sposata e rientrava
in quella categoria di donne che facevano del pettegolezzo il proprio stile di
vita.
Mi guardai intorno, in cerca di una via di
fuga, ma mi aveva gia visto e mi aveva quasi raggiunto.
-E’ vero quello che si dice in giro?- mi
chiese subito, come volevasi dimostrare, senza neanche salutarmi. Inarcai un
sopracciglio scettica e sospettosa.
-Cosa si dice in giro?- la mia voce doveva
essere un po’ acuta.
-Che sei incinta, tesoro!- mi risposa con voce
ovvia ed eccitata –Mi ha detto mia nipote che le ha detto la madre di una sua
amica che aveva parlato con un cliente del ristorante dei tuoi che aveva
sentito dire a tua madre che eri incinta! Allora…è vero?- poi posò gli occhi
sui libri di gravidanza che avevo in mano e il suo volto si illumino.
-Ma allora è veroooooo! Tesoroooo, auguriiii!
Taaaanti complimenti a te al tuo bel maritino! A proposito, dov’è quel graaaan
pezzo di ragazzoooo?-. Come faceva d avere un tono di voce così sottile e
perforante? –Ehm…Andrew è in facoltà.- le risposi –Prendo questo, ok?- e le
posi il libro. Lei annui convinta e la seguii verso la cassa, mentre continuava
a blaterare a proposito di una voce di corridoi che diceva un non so cosa su
una ragazza che molto probabilmente non conoscevo.
Ed ecco finito la mia visita alla Scholastic,
pensai. Mi ero dimenticata che di mattina ci lavorava la signora Kelly; se lei
sapeva che ero incinta, con tutte le probabilità, ne era a conoscenza l’intera
Little Italy. Avrei dovuto affrontare con mia madre l’argomento “privacy” al
più presto.
-Sono 12,30$, tesoro.- mi disse sorridendomi.
Pagai il libro e uscii dalla libreria
sospirando. “Perché capitavano tutte a me?” pensai mentre la signora Kelly
continuava a salutarmi strillando, -Ancora auguroniiii, tesorino!-.
Odiavo stare al centro delle attenzioni, non
era per me. Ero troppo banale e poco loquace. Quel genere d’attenzione erano
più indirizzate per una ragazza come Rosie.
Avete mai sentito il detto “Parli del diavolo
e spuntano le corna”?.
Beh…mai ci fu proverbio più vero.
-Ehm…Judith Allen?- una voce dolce e melodiosa
richiamò la mia attenzione. Mi girai lentamente con la bocca spalancata.
-Oh…ehm…salve…- salutai timidamente.
Rosie Colerine era davanti in tutta la sua dolcezza da bambola
di porcellana. Mi ritrovai di nuovo a pensare alla sua strabiliante luminosità
confrontata con la mia banalità.
Forse avrei fatto meglio a restare a casa a dipingere.
-Possiamo parlare un attimo?- mi chiese lei altrettanto
timidamente. Sapevo gia di cosa voleva parlare.
Che cosa potevo farci? Il suo viso a cuore era troppo
bello per rispondere no.
Così mi limitai a mormorare un flebile –Certo.- e
seguirla.
Si sedemmo ai tavolini del bar vicino alla Scholastic e
ordinammo un tè freddo. O meglio, lei lo ordinò per tutte e due.
-Ecco…non so come dirtelo, - iniziò, ma la bloccai, -Se è
per ieri…-.
-Volevo scusarmi.-riprese in fretta, -non avrei dovuto
accettare l’invito di Eva. Dovevo immaginare che ci fosse qualcosa sotto, mia
nonna mi aveva avvertito.-.
Quella ragazza mi stupiva sempre di più. Le persone belle
e ricce erano cattive, di solito; questo sempre basandomi su esperienza
personale, ovvio.
Possibile che Rosie fosse così bella eppure così gentile
come sembrava?
-Non c’è bisogno di scusarti. Dispiace più a ma per la
scenata.- e le sorrisi. Aveva un ascendete sulle persone davvero strabiliante.
-E’ stata orribile.- continuò –Come ha potuto dirti una
cosa del genere. Ma che razza di madre è?- domandò al vuoto.
Ripensai alle parole che mi aveva detto il Dottor Allen
quella mattina.
-Ha sbagliato, è vero. Ma forse sarà stato solo lo shock
iniziale.-.
-Ad ogni modo, felicitazioni! Voi due formate una bella
coppia.-.
Arrossii e ringraziai -E tu? Non hai nessuno…ehm…-,
ragazzo? Fidanzato?
Mi anticipò lei, -No…mi sono concentrata molto sullo
studio, nell’ultimo anno.-.
-Ah.- sorseggiai un po’ di te senza voglia, anche io avrei
dovuto concentrarmi di più sullo studio.
L’Iphone di Rosie squillò.
-Ora devo andare, - mi disse gentilmente, -anche se per
poco mi ha fatto piacere parlare con te.-.
-Anche a me.- ed era la verità. Sentivo d’avere una specie
d’affinità con Rosie.
Si alzò in modo elegante (ma quanto era bella?!) e mi
guardo –Credo che potremmo benissimamente essere amiche, noi due.-.
Io annuii con convinzione e la salutai.
Chiamai in fretta un taxi e ci salì, diretta verso Little
Italy, prima che mia madre mi desse davvero per dispersa.
Ritornai a casa che erano quasi le sette. Avevo trascorso
tutto il pomeriggio dai miei genitori.
Tutto sommato era stata una giornata abbastanza piacevole,
escludendo certe scene.
Avevo anche scoperto come facesse effettivamente la
signora Kelly a sapere che ero incinta.
Mia madre era riuscita a mettere in atto il suo piano
diabolico; non aveva messo una targa sulla porta del ristorante con scritto
“Donna gravida in sala”, bensì se l’era scritto sul grembiule. Proprio così.
Se ne andava in giro con un grembiule su cui risplendeva
la scritta “Futura nonna. Mia figlia maggiore è incinta.”. Ero rimasta a
guardarla per più di qualche minuto, mentre tutti i clienti si voltavano a
guardarmi.
Mi sentii veramente come un animale da circo. Le avevo supplicato
di toglierselo con tutte le mie forze, ma era stata irremovibile, così ci avevo
rinunciato. Addio privacy.
La mia famiglia era fatta così, e tra gioie e dolori a me
ne andava più che bene. Non avevo, però, potute evitare la domanda –Come è
andata ieri?-. Mi era stato insegnato a non mentire, in qualunque situazione,
specialmente ai miei genitori. Così avevo sospirato e avevo raccontato loro
tutto quello che era successo la sera prima.
Mia madre era diventata un toro, aveva iniziato a urlare a
destra e a manca in italiano –Io quella
la rompo!- oppure –San Gennaro vede e provvede!-, mentre mio padre le
aveva ordinato di smetterla perché spaventava i clienti.
Girai la chiave nella toppa di casa ed entrai.
Non abbi il tempo neanche di capire che ci fosse gia
qualcuno in casa che Andrew mi travolse, letteralmente.
Mi abbracciò stretta, poi mi allontanò di colpo
mantenendomi per le spalle. Io lo guardai sorpresa, sbattendo le palpebre.
-Dove sei stata?- aveva uno strano tono.
Lo guardai confusa, -Dai miei. Ma perché sei così
agitato?- gli domandai.
-Perché? Mi chiedi perché?- era sarcastico –perché ho
cerato di chiamarti per tutto il pomeriggio! Che fine ha fatto il tuo
telefono?-.
Cercai il telefonino in borsa. Quando lo trovai e guardai
il display mi segnalava trenta chiamate perse. –Oh…c’era il silenzioso.
Scusa.-.
–Ero preoccupato.-, ammise in fine.
-Sono incinta non invalida!- esclamai fintamente
scandalizzata.
Andrew mi guardò attentamente, -Per ieri sera, ecco…-, ma
bloccai le sue parole con un bacio. Premetti le mie labbra contro le sue e
intrecciai le mie braccia dietro al suo collo, mentre lui mi circondò la vita
con le sue grandi, accoglienti e amate braccia, rispondendo al bacio.
Quando ci staccammo, per mancanza d’ossigeno, incrociammo
le mani guardandoci negli occhi.
-Mettiamoci una bella pietra sopra, ok?- gli chiese a
pochi centimetri dalle sue labbra.
-Assolutamente.-mi rispose sorridendo e riprendemmo a
baciarci con passione.
Non sapevo se il Dottor Allen gli aveva parlato e non
sapevo neanche come si sarebbe risolta a questione di Evangeline, ma eravamo
insieme.
Andava tutto bene, pensai, mentre Andrew ed io salivamo in
camera baciandoci.
Andava tutto bene.
Aggiornato^^!
Come è questo capitolo? Vi piace?
Ringrazio
chi mi recensisce (AlessandraMalfoy, pirilla88, giunigiu95, Purple), le persone
che hanno aggiunto questa mia piccola ff nei loro preferiti e tra le storie
seguite ma grazie anche a chi legge soltanto!
Un
bacione^_^
|
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Capitolo 5 *** University and Gynecology ***
aaaaaaaaaaaaaaaaaaaa
University and
Gynecology
-Ju, tutto bene? Mi fai entrare, per favore?- il tono di
Andy era a metà tra il preoccupato e lo scocciato. Lo capivo benissimo, ma non
potevo farci niente, stavo troppo male.
Beh…non proprio troppo…diciamo che mi sentivo sul punto di
rimettere l’anima, o forse l’avevo gia fatto.
-Allora?- la sua voce continuava a chiamarmi. “Esco
subito.” Avrei voluto rispondere, ma l’ultimo di una serie di lunghi coniati di
nausea mi bloccarono le parole sul nascere. Mi coprii la mano con la bocca
nella varia speranza che servisse a qualcosa; che illusa.
Tirai di nuovo lo scarico del wc, appoggiando la testa sul
muro alle mie spalle.
Maledizione, perché fra tutti i sintomi della gravidanza
proprio le nausee mi dovevano capitare? E poi non erano chiamate “mattutine”?
Perché mi venivano a qualsiasi ora della giornata? Che cavolo! Quando non avevo
le nausee, invece, mangiavo come un’orchessa; di conseguenza, mezz’ora dopo ero
con la faccia quasi dentro il wc.
Mia madre mi aveva avvertito di queste
piccole…ehm…inconvenienze ma le aveva minimizzate per non mettermi ansia. Avevo
fatto una piccola ricerca su internet e avevo scoperto che le nausee erano più
che comuni nel primo trimestre, mentre andavano scemando sempre di più verso il
secondo e il terzo. Non c’erano cause chiare per spiegarle, sta di fatto che
colpivano il 79,4% delle donne incinte. C’era pure l’altro fattore del 15% in
cui le nausee potevano protrarsi per tutta la durata della gestazione; quaranta
settimane passate nel bagno con la testa sul wc, che bello! Conoscendo la mia infinita fortuna tutto mi lasciava
presupporre che sarei rientrata in quella piccola percentuale di sfortunate,
specialmente con tutti i pensieri negativi che Evangeline mi doveva rivolgere
in quel periodo.
Andrew ed io non avevamo più parlato del fatto che mia
nuora mi aveva chiesto, seppur implicitamente, di abortire, né del fatto che il
Dottor Allen aveva parato con entrambi. Senza contare che Evangeline stava
stentando di mettersi in contatto cin Andy da più di una settimana senza
risultati. Io avevo preferito non intromettermi in questa storia, ma avevo
ugualmente precisato ad Andrew che poteva sentirsi libero di chiamare sua madre
quanto voleva; anche suo padre gli aveva chiesto di farlo, ma Andy era stato
più che chiaro.
Quella mattina sveglia non aveva neanche suonato che ero
corsa verso il bagno, avevo chiuso la porta a chiave e avevo dato inizia al mio
inferno.
Se non sopportavo neanche due giramenti di stomaco, mi
chiesi come sarei riuscita a sopravvivere al travaglio. La sola idea mi fece
stare male di più.
E non erano neanche le sette di mattina, ma che bella
giornata! Senza considerare che quel pomeriggio avrei avuto la mia seconda
visita ginecologica. La prima era stata molto confusionaria e anche un
po’…shockante; non avevo avuto il tempo (né la capacità) di chiedere nulla alla
ginecologa, né lei mi aveva informato precisamente su cosa andavo incontro. Per
telefono mi aveva suggerito di portare il mio compagno, in modo che fosse reso
partecipe e anche lui fosse informato sul come doversi comportare durante
questi…sette mesi.
Troppo pochi ma al contempo molti. Non sapevo che
decidere.
Sospirai tremante, mentre mi preparavo a un altro coniato.
-O apri immediatamente questa porta, o giuro che la
scardino!-.
Odiavo trattare così Andy, ma proprio non mi andava che mi
vedesse in questo stato. Dovevo Pallida e spossata, con le borse sotto gli
occhi e non dovevo avere neanche un buon odore.
Sospirai di nuovo, più profondamente, per darmi l’azione
necessaria per alzarmi e aprire la porta.
La maniglia scattò e sentii Andrew esclamare
–Finalmente!-, io ritornai accasciata accanto al wc.
Mi si sedette accanto, passandomi un asciugamano –Come ti
senti?- mi chiese accalorato. Non ebbe bisogni di una mia risposta, ma gli
lanciai un’occhiata inequivocabile traducibile con “Non puoi costatarlo da
solo?”. Stavo diventando più tosto acida, dovevo ammetterlo, ma proprio non
sopportavo quella situazione.
Odiavo fammi vedere così…debole e indifesa, cavolo! Anche
se era Andrew. Mi spostò i capelli da visto da viso sudato, -Forse è meglio se
rimani a casa.- constatò.
-No!- risposi immediatamente, non avrei lasciato che delle
semplici nausee sconvolgessero la mia giornata –Non posso saltare altre lezioni,
- aggiunsi, ed era vero; in quel periodo erano più le volte che non andavo che
il contrario, il mio prossimo esame era lontano. Ma non potevo di certo
starmene sugli allori.
-Ok, ma prendiamo la macchina, va bene?- mi chiese, ed io
annuii. La metro traballava troppo per il mio stomaco, non ero sicura che sarei
riuscita a reggere. Probabilmente no, considerai mentre ricominciai a rimettere
nella taccia del wc, con Andy che mi teneva i capelli con una mano e che mi
guardava preoccupato.
-Non dovremo preoccuparci?- il tono era un filino ansioso
–Passi là maggior parte della mattina in bagno.-.
-Non credo.- risposi io mentre mi sciacquavo la bocca, -Ho
letto ovunque che sono molto frequenti i primi tre mesi.-.
Notai dal suo sguardo che non era ancora perfettamente
convinto, sorrisi –Oggi lo chiederemo alla ginecologa, ok?- e lui annui, non
ancora soddisfatto.
Mi aggrappai alla mano che mi porgeva e mi aiutò ad
alzarmi, mi sentivo un po’meglio, forse perché non mi era rimasto nulla da
rimettere.
Andrew uscì da bagno, diretto in cucina, dicendo che
andava a preparare la colazione e di chiamarlo in caso di bisogno. Certo…come
se sarei riuscita a buttare giù qualcosa!
Ne approfittai per farmi una doccia veloce, in modo da
togliermi da dosso quell’orribile odore di acidità.
Quando ne uscii, mi sentivo notevolmente meglio, anche se
la pesantezza di stomaco continuava a tormentarmi peggio di un mal di mare.
Mi asciugai in fretta e mi guardai allo specchio. Il mio
ventre era ancora completamente piatto, infondo ero solo di otto settimane e
due giorni, cioè di due mesi. Avrei dovuto aspettare la fine del terzo mese o
l’inizio del quarto per notare qualcosa.
Anche se la mia pancia era ancora allo status quo io me lo
sentivo. Mi sentivo incinta, in tutti i significati possibili. Le nausee
avevano preso a tormentarmi verso metà del mese scorso, accompagnate da un
rifiuto totale per gli odori di ogni genere, inoltre avevo sonno, molto sonno,
al punto che a volte mi addormentavo cenando (sempre le lo stomaco mi
permetteva di mangiare) o mentre ero il aula (quello si che era imbarazzante),
oppure mi sentivo intrappolata in una tormenta di sentimenti, alternavo
felicità a tristezza e tristezza a beatitudine. I miei sbalzi d’umore
spaventavano non poco Andy che, poverino, non sapeva proprio come prendermi.
Mi vestii nel minor tempo possibile, indossando dei comodi
pantaloni neri e un pullover azzurrino, avevo sviluppato un sentimento d’odio
per tutti i vestiti che non fossero larghi o comodi. Era troppo provata per
pensare ai capelli, così li legai all’indietro, cosa che mi risultò un
po’difficile dato che erano abbastanza corti.
Scesi scalza verso la cucina, con tutta l’intenzione di
mangiare almeno qual cosina, tanto per mantenermi in vita. Forse avevo perso
qualche chilo, in gravidanza non era l’incontrario?
Ad ogni modo, tutti i miei buoni propositi sulla
nutrizione andarono a frasi un giro quando arrivai in cucina. L’odore era così
forte e sgradevole che quasi mi girò la testa, inutile dire che non avrei
mangiato assolutamente nulla.
Entrai nella stanza respirando con la bocca, per evitare
che il mio caro, carissimo stomaco decidesse di metterli a ballare ancora.
Andrew mi sorrise e mi mise davanti agli occhi del succo
di frutta al mango e delle uova strapazzate. Le guardai inorridita.
-Ehm…Andy, credo di non avere molta fame.-, gli disse
coprendomi la bocca con una mano.
Lui mi guardo severo, -Amore, non so se lo sai,
ma…dovresti mangiare per due e tu non lo fai neanche per te stessa.-.
Si pentii subito delle sue parole, forse notando la mia
espressione, e mi abbracciò. –Scusa, Ju. Solo prova a mangiare almeno qual
cosina, ok? Almeno il succo di frutta, ti prego!- mi stava, letteralmente,
implorando con gli occhi da cucciolo più languidi che avessi visto.
Sbuffai contrariata e afferrai il bicchiere con il
succo…mmm…non aveva poi un odore così cattivo. Cercai di mandarlo giù di un
fiato, senza pensarci. Andrew mi guardava soddisfatto.
Adoravo quando si preoccupava per il bambino, -Ti amo.-
gli dissi sorridendo.
Lui mi rispose ammiccante, -Come poteva essere
altrimenti?-.
Arrivammo a Washington Square in perfetto orario,
parcheggiammo la macchina nel parcheggio riservato agli studenti e ci
incamminammo per la piazza. Nonostante l’ora era gia piena di vitalità, adoravo
quella piazza; il grande arco la sovrastava quasi interamente creando un’atmosfera
davvero unica, per non parlare di tutti i musicisti che circondavano la grande
fontana al centro, alcuni davvero sprecati nel fare i suonatori di strada.
Rallegravano la piazza e la rendevano ancora più viva e movimentata di quanto
lo fosse già, con tutti gli studenti della NYU che correvano verso gli edifici
della propria facoltà. Andrew ed io camminavamo vicini, non avevo per niente
voglia di staccarmi da lui.
Stare vicino ad Andy mi faceva sentire sicura, pronta per
affrontare qualsiasi cosa, lo avevo sposato anche per questo. Era quel genere
di persona in grado di prendere qualsiasi decisione, la quale era comunemente
giusta.
Andavo così dannatamente fiera della fede che portavo sul
dito! Beh…in realtà, in principio, le avevo sempre odiate, le avevo sempre
paragonate a delle manette o a un marchio di riconoscimento, come a voler dire
“Guardate sono sposata!”. Ora non ero più della stessa idea, sicuramente.
Vidi Amber e Nike venire verso di noi salutandoci.
-Amore, ora devo andare. Ci vediamo a pranzo, ok?
Qualsiasi cosa chiamami.-mi baciò velocemente e andò via. Io sorrisi divertita,
Andy diventava sempre un po’nervoso quando cera Nike nei paraggi. Potevo
capirlo perfettamente, soprattutto dopo…beh…dopo quello.
-Come sta la nostra bella mamma?- mi domandò Amber
raggiante.
Ci conoscevamo dal primo anno di liceo ed era una delle
poche con cui ero rimasta in contatto alla fine della scuola, anche perché
frequentavamo la stessa facoltà.
Amber Richie era quel genere di ragazza che definire
eccentrica era assolutamente riduttivo. Si notava immediatamente dai suoi
capelli, un tempo castano chiaro, ora blu; o dal suo stile d’abbigliamento. Ricordava
incredibilmente quello di Nancy Spungen, ed era così che tutti la chiamavano.
Per lei andava più che bene, giacché adorava i Sex Pistols, diceva solo che
adesso le mancava il suo Sid Vicious. Quando le facevamo notare che Nancy era
stata la causa della rovina del giovane Sid, lei rispondeva con –Dettagli.- e
cambiava argomento.
Sorrisi, se avevo sperato di mantenere la notizia non
proprio segreta, ma quasi, mi ero sbagliata alla grande. Nel giro di una
settimana tutta, e sottolineo tutta, la facoltà d’arte, dagli studenti ai
docenti, ne era venuta a conoscenza. Queste cose non accadevano soltanto nei
paesini dove tutti si conoscono?
Evidentemente no, e sapevo anche di chi era la colpa,
pensai guardando Amber.
-Sto bene, grazie.-le risposi –ma potresti evitare di
affiggere i manifesti per tutta la piazza?-, inutile solo a dirlo. Infatti, mi
guardò confusa, -Che male c’è? Dovresti essere felice che tutti vogliano
condividere la felicità tua e di Andy, no?-.
-Anche persone che non conosco?- ma sapevo gia la
risposta.
-Assolutamente si.-.
A quel punto Nike intervenne –A proposito…dov’è quel gran
pezzo di figliuolo di Andrew?- domandò con occhi sognanti. Non potei fare altro
che alzare gli occhi al cielo divertita –E? scappato non ha penna ti ha
intervisto.-le risposi semplicemente.
Nike assunse un’espressione finta offesa, si portò una
mano al petto con sguardo scandalizzato ed esclamò –Perché mai succede con
tutti gli uomini che incontro?- la sua espressione era in perfetto stile “Drama
Queen”.
-Te lo chiedi anche?- s’intromise Amber –Li spaventi,
Nicholas.-, sospirai, quei due non facevano altro che stuzzicarsi.
Nicholas “Nike” assunse un’aria d’orrore –Non pronunciare
mai quel nome!- esclamò con voce squillante, mi sorpresi che non
indietreggiasse sconvolto.
-Perché?- continuò lei –E’il tuo nome, no?-, fortunatamente
ero passata in secondo piano, sospirai felice.
-E’ un nome maschile!-
spiegò con tono ovvio –Io mi chiamo Nike come…-ma lei lo fermò
-…come le scarpe!-.
-Assolutamente no! Nike come la dea greca della vittoria,
ignorante!- e alzò il volto oltraggiato.
-Ma tu sei un uomo. Non c’è nulla di sbagliato se ti
chiamo Nicholas, Nike.- sorrise quasi maligna.
-Fate retro satana!- veramente incrociò le dita per
formare una croce e la mise quasi in faccia ad Amber, che lo guardava
divertita.
-La mia anima è quella di una VERA donna!- puntualizzò
guardandoci entrambe, -E’ il mio corpo ad non essere convinto, purtroppo.-finì
sconsolato.
-La natura è crudele, lo so.- annuì Amber.
-Già, basta guardare te!-.
-Almeno non ho nulla d’ingombrante tra le gambe, io!-.
-Come ti per…-.
Quei due mi avrebbero fatto impazzire, alla fine. Quando
mi ero iscritta alla New York University, ero stata davvero felice che ci fosse
anche Amber, nonostante non fossimo proprio amiche, al liceo; non conoscevo
nessuno nell’università e il fatto che ci fosse un volto familiare mi faceva
sentire meglio, ed era così anche per Amber (tutto questo prima che conoscessi
Andrew, naturalmente). In seguito si aggiunse a noi Nike, Nicholas Deltion,
tanto bello quanto omosessuale. Dovevo ringraziare Nike, perché era grazie a
lui che avevo conosciuto Andy. Amber non era il tipo da festa, così Nike
trascinò me, a quella famosa festa da campus.
Il resto è storia.
-Ehm…forse dovremmo andare.-suggerii, i due si voltarono a
guardarmi e annuirono, dimenticandosi della loro lite.
Amber e Nike erano fatti così.
Insieme ci avviammo verso la facoltà d’arte della New York
University.
Avevo salutato Niki e Amber da qualche minuto, lasciandoli
che litigavano sulla strada verso la biblioteca, e mi ero diretta verso la
fontana della piazza, aspettando Andrew. Era quasi la mezza e l’appuntamento
con la ginecologa era fissato per due, considerando che lo studio di ostetricia
e ginecologia si trovava a Brooklyn potevo dire di essere gia in potenziale
ritardo, in più avevo un sonno assurdo.
Mi sedetti su una panchina a caso, in mezzo alla folla di
gente che popolava Washington Square, un ragazzino stava suonando qualcosa con
la chitarra, era molto bravo per la sua età; doveva avere massimo undici o
dodici anni.
Mi avvicinai alla custodia della chitarra e gli buttai
cinque dollari, lui mi sorrise per ringraziandomi e continuò a suonare.
Ero ancora intenta ad ascoltare il ragazzino con la
chitarra, quando mi sentii abbracciare da dietro. Sapevo gia chi fosse, sorrisi
felice e ricambiai il bacio di Andrew.
-Scusa, - mormorò a fior di labbra –sono in ritardo.-.
-Credo di poterti perdonare, questa volta, signor Allen.-.
-Che ne dici di andare, signora Allen?- io annui e ci
dirigemmo alla macchina.
Come previsto, trovammo traffico, quindi chiamai la
ginecologa per informarla del nostro possibile ritardo, lei rispose che non
c’era nessun problema.
Durante il tragitto io e Andy chiacchierammo un po’, ma
più ci avvicinavamo allo studio più mi sentivo agitato.
Se fosse andato storto qualcosa? Il primo trimestre è il
periodo più difficile di ogni gravidanza, la maggior parte degli aborti avveniva
tra il primo e il terzo mese. La parola “aborto” mi faceva venire la pelle
d’oca.
Erano passati solo due mesi, ma mi ero così profondamente
abituata all’idea di essere incinta che il pensiero che potesse succede
qualcosa mi faceva stare troppo male. Mia madre gia parlava di ripescare dalla
vecchia e ammuffita cantina di casa nostra la mia vecchia culla, quella che
aveva visto nascere me e tutti i miei fratelli. Mi sarebbe piaciuto se il
nostro bambino avesse dormito nella mia stessa culla; il Dottor Allen ci veniva
a trovare più spesso ultimamente ed era anche più flessibile con gli orari di
Andrew. Tutti si erano abituati all’idea di un nuovo membro della famiglia.
Secondo i libri di ginecologia il nostro bambino doveva
essere di circa quattro centimetri, incredibile come un esserino tanto piccolo
porti così tanti cambiamenti.
Da gravidanza accidentale la mia si era trasformata in
scopo della mia vita. Strano, vero?
Sinceramente non mi vedevo ancora a fare la madre. Ero
terrorizzata, senza escludere che non sapevo se sarei riuscita a sopravvivere
al parto. Non avevo una soglia del dolore molto buona, anzi, non c’è l’avevo
per niente.
Eppure era così, ero una futura mamma. Forse eravamo
giovani, Andrew ed io, avevamo appena ventitré anni, lo avevo sentito dire da
molte persone, ma non poteva importarmene di meno.
Io e Andy avevamo entrambi la testa sulle spalle e saremmo
stati degli ottimi genitori, o meglio, Andrew sarebbe stato un ottimo
genitori…io ancora non lo sapevo.
“Pensa positivo, tesoro.” mi aveva mamma qualche giorno
fa, mentre le avevo confidato questi miei disparati dubbi, “Essere madre è
nell’istinto do ogni donna, e poi io sarò sempre con te.”.
In momenti come questi mi rendevo conto quanto la mia
famiglia fosse importante per me; poi guardavo Andy, che di famiglia non ne
aveva avuto granché, tra sua madre sconvolta per la morte di Lucas e suo padre,
sempre troppo impegnato.
Sapevo che questo bambino contava molto per lui, molto di
più di quanto potessi immaginare.
Rappresentava la sua possibilità di avere una vera
famiglia.
-Siamo arrivati.-disse dopo un po’. Lo studio della
dottoressa Wilder era nella zona centrale di Brooklyn, in una palazzina rosa al
numero 142 di Joralemon Street. L’avevo trovata tramite l’elenco telefonico di
New York, in una cabina telefonica.
Io e Andy scendemmo dalla macchina in fretta, eravamo in
ritardo di quasi mezz’ora. Arrivati nello studio, ci accolse la solita
infermiera dall’aria gentile che avevo incontrato l’ultima volta che ero stata
lì.
La sala d’aspetto, abbastanza grande, con le pareti di un
verde acqua tappezzate di manifesti e volantini sulla gravidanza, non mi
sembrava poi così spaventosa e soffocante come in precedenza; anzi, aveva un
aspetto molto sereno e rilassante.
Strabiliante come le nostre emozioni condizionino il
nostro modo di vedere le cose.
-Siete i signori Allen, vero?- ci domandò la cinguettante
infermiera, - la dottoressa mi aveva avvertito del vostro ritardo. Andate, vi
sta aspettando!- e ci sorrise incoraggiante.
Andy si schiarì la voce, sembrava un po’ nervoso.
Effettivamente doveva essere la prima volta che andava da una ginecologa.
Entrammo nello studio mano nella mano, la dottoressa
Wilder ci aspettava sorridente come l’avevo lasciata il mese scorso.
-Prego, accomodatevi!- e ci fece segno di sederci.
-Bene, - iniziò –vedo che ha portato anche suo marito.
Piacere!- e Andy e la dottoressa si strinsero la mano.
-Bene, ora faremo una visita molto più dettagliata, ok?-.
Dettagliata fu poco! Dopo la solita ecografia (Andrew
guardava tutto attento il monitor, non l’avevo mai visto così assolto), la
dottoressa mi pesò e mi disse che ai miei cinquantadue chili avrei dovuto
metterne all’incirca dodici o al massimo quattordici. Mi compilò una lista
molto dettagliata di come e di cosa avrei dovuto mangiare durante i nove mesi;
mi chiese poi se fumavo o se prendevo dei farmaci di qualsiasi genere ed io
risposi no a entrambe le domande. Mi stampò anche un elenco con tutti i tipi di
test e di esami che avrei dovuto eseguire nei prossimi mesi, e, accidenti, ne
erano davvero tanti! Per le nausee non c’era nessun rimedio che funzionasse
realmente, quindi avrei dovuto sopportarle per un altro mese, per mia sfortuna.
Concluse la visita dicendomi che quello studio medico era collegato con il New
Yorker General Hospital e che, se non avessi avuto nulla incontrario, avrei
potuto recarmi lì per eseguire le analisi o addirittura prenderlo in
considerazione per il parto. Conoscevo il General Hospital, era stato lì che
Claudia si era operata di appendicite qualche anno prima; era un buon ospedale,
quindi dicemmo di non avere nulla incontrario.
Quando un’ora dopo, Andrew ed io uscimmo mano nella mano
dalla palazzina che ospitava lo studio di ostetricia e ginecologia della
dottoressa Wilder, lui fissava sbalordito l’ecografia dove un’immagine molto
stilizzata di nostro figlio si distingueva chiaramente nello sfondo nero,
mentre io, con l’altra mano sulla pancia, mi sentivo veramente al settimo
cielo.
Capitolo transitorio, corto
e anche banale, lo so =_= abbiate pietà!
Alla prossima!
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