Different Worlds

di PeterJRaf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prismo Beach ***
Capitolo 2: *** Blue Family ***
Capitolo 3: *** Next to you ***
Capitolo 4: *** One Chance ***



Capitolo 1
*** Prismo Beach ***


1° Capitolo: Prismo Beach

‘’Perché avete scelto proprio me?’’ Sussultai sentendo nominare il mio nome dal professore di fotografia.
‘’Signorina Katy Morris la volete questa lode si o no?” il tono della sua voce aumentò di livello, facendomi avvertire il suo senso di irritazione.
Ingoiando delle imprecazioni, guardai verso il soffitto nel tentativo di riuscire a dire qualcosa per autoconvincermi di essere felice di essere stata assegnata a quell’incarico.  
“Scusatemi professor Dekker, in cosa consiste?” cercai di mantenere un tono della voce che facesse ricordare una suggestione di stupore o perlomeno d’indifferenza.
“Il tempo minimo è un mese ma se ancora non sarai riuscita a catturare l’essenza del progetto puoi prenderti tutto il tempo che ti serve. Assisterai ad allenamenti e partite effettive della squadra The Prismo Beach. Dovrai presentare un esposizione alla galleria d’arte che si trova in centro. L’obiettivo principale del progetto è quello di catturare la passione che emanano gli atleti. La fotografia digitale sportiva può essere molto impegnativa, la velocità è tutto. Il momento in cui il pallone gonfia la rete, il ringhio sul volto di un pallavolista mentre schiaccia, la plasticità di un ginnasta al culmine di un’evoluzione sono i momenti che vogliamo e dobbiamo essere in grado di immortalare per descrivere nel modo migliore l’evento a cui abbiamo assistito. La necessità di cogliere l’attimo impone alcuni requisiti che un fotografo deve possedere.”
“Ma io non sono s..” Il professore mi interruppe, zittendomi alzando la mano destra. Si stropicciò gli occhi con l’altra facendo un lungo sospiro. “Sei una bravissima fotografa, se ti sto assegnando questo incarico sono sicuro che lo porterai a termine con grande successo. A fine lezione recati dalla segreteria che ti fornirà tutto il materiale necessario.” I suoi occhi sfiorarono appena i suoi appunti e poi rivolse l’attenzione verso un altro studente. “Invece tu, signorino James Davis dovrai recarti al Prismo Beach Monarch Butterfly Grove. La nostra colonia è uno delle più grandi della nazione, che ospita una media di 25.000 farfalle nel corso degli ultimi cinque anni. Dovrai documentare la bellezza di quelle specie..” Mi girai verso la finestra, cercando di ignorare la lezione restante. Quando finalmente sentii il suono della campanella fui la prima ad uscire dalla classe per recarmi in segreteria, si trovava davanti l’entrata principale della mia piccola scuola chiamata Judkins Middle School. Essa era situata lontana dal nostro meraviglioso mare ma solamente dalla terrazza c’era la possibilità ad intravederlo. Era una struttura a pianta quadrangolare, gli ambienti erano accoglienti e adeguatamente spaziosi. Lo stabile si sviluppava su due piani fuori terra ed era dotato di ampi saloni interni, refettorio, cortile esterno ed apposite palestre.
Quando le lancette del mio orologio segnarono le due e mezza del pomeriggio finalmente varcai la soglia dell’entrata e mi incamminai verso casa. La mia città, Prismo Beach, era una delle poche città balneari più belle di tutto lo stato della California, perlomeno secondo il mio avviso. Questa città offre lunghe spiagge bianche per fare una piacevole passeggiata o semplicemente per godersi la vista spettacolare del tramonto, il momento migliore di una giornata carica di fatica. Questa città conta solamente 8.000 abitanti ma, perlomeno la maggior parte, sono persone di cuore o “calde” definite secondo il dialetto del posto.
Immersa nei miei pensieri non mi accorsi di essere già arrivata a casa, delicatamente aprii il portoncino in metallo e lo richiusi subito dopo. Tyson, il mio amato American Staffordshire terrier aveva il brutto vizio di scappare e di ritornare qualche giorno dopo sporco di fango e di feci, quando eravamo fortunati. Aveva un anno ormai ed era alto 30 cm, con una muscolature possente che gli permetteva di arrampicarsi sugli alberi. Stanca della giornata che avevo passato, mi diressi senza neanche dedicargli uno sguardo verso la panchina in legno posizionata alla destra della porta d’ingresso. Quando mi sedetti sentii il mio corpo rilassarsi e ogni nervo allentarsi. Tyson corse verso di me, posizionando la sua testa sul mio ginocchio in attesa di una carezza di benvenuto. Appoggiai la mia mano sul suo nasino, era freddo e umidiccio. Mi ero sempre chiesta come mai questa razza canina fosse temuta, il mio piccolo batuffolo beige era uno dei cani più dolci del quartiere, i bambini appena lo vedevano subito si avvicinavano per abbracciarlo e per fargli le coccole. Sussultai al suono che emesse il mio cellulari, per una frazione di secondo mi guardai intorno con il tentativo di ritornare alla realtà. Estrassi dalla tasca l’oggetto tecnologico e lessi il nome sul display, un piccolo sorriso si accennò sul mio volto. “Hey Marilyn, avevo proprio bisogno di una tua chiamata!” esordii; “Ho proprio voglia di un caffè e di guardare quei bei ragazzi della nostra città mentre giocano a beach-volley” risi silenziosamente e risposi acconsentendo “Va bene, ci vediamo tra 10 minuti da Splash Café.”


-Buonasera, spero che perlomeno questo primo capitolo vi sia piaciuto. Mi piacerebbe tanto leggere i vostri commenti qualora aveste delle critiche da fare. 

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Capitolo 2
*** Blue Family ***


2° Capitolo: Blue Family

“Perché volevi rifiutare? Quei calciatori sono conosciuti da metà California e hanno pressoché la nostra età. Ti innamorerai di uno di loro, ti sposerai, vivrai immersa dalle banconote e farete tanti bambini”; Guardai Marilyn con un’espressione stupita, era capace di trovare in ogni situazione un elemento che appagasse la sua sfera personale. Travolta dai miei pensieri posai gli occhi sui suoi lineamenti caucasici; ci conoscevamo da almeno cinque anni, due ragazze con due caratteri differenti ma nonostante tutto eravamo molto unite. Era una ragazza di vent’anni, alta e con un fisico scolpito. Se avessi fatto due anni di palestra non sarei riuscita ad avere un fisico tonico come il suo. La prima cosa che notai in lei furono i suoi due occhioni marroni che quando entravano in contatto con la luce la distesa di cioccolata si tingeva di un verde primaverile rendendoli ancora più belli. L’unica parte che lei amava di sé erano i suoi capelli, lunghi fino ad accarezzargli leggermente il seno. Marilyn era quella tipica ragazza che quando tutto stava andando per il verso sbagliato riusciva a rivelare, in qualche modo, l’aspetto positivo della situazione.
Dopo aver preso i nostri caffè ci dirigemmo verso la spiaggia per concludere il pomeriggio, appena arrivate trovammo subito una panchina vuota e senza perdere tempo ci sedemmo rimanendo in silenzio, facendoci cullare solamente dal dolce rumore delle onde che si infrangevano a riva.
Marilyn mi picchiettò il ginocchio e con un cenno del capo mi indicò una parte della spiaggia, rivolgendo lo sguardo verso il posto segnalato, socchiusi gli occhi nel tentativo di scrutare il gruppo di ragazzi che notai in lontananza. “Brandon..” sussurrai. La figura affianco a me mi strinse la mano, “Se vuoi ce ne andiamo, non ti fare scrupoli a dirlo.” Rivolsi lo sguardo verso il mare, sorseggiando tranquillamente il mio caffè ormai tiepido. “Non preoccuparti.”
Brandon Brown era il motivo per il quale odiassi i ragazzi, eravamo stati insieme per quasi un anno ma era evidente che la monogamia non era un concetto reale per lui. Cosa ci ho trovato in lui? Mi interrogai mentalmente, forse la bellezza, forse la dolcezza, forse lo amavo, forse no. Scrollai le spalle con la speranza di far scivolare quei pensieri lontani dalla mia mente.
Dopo un oretta passata a chiacchierare, tornammo a casa; il sole stava iniziando a calare per cedere il posto alla luna. Dopo aver salutato a Tyson e anche ai miei genitori, mi recai nella mia stanza; guardai l’orologio e segnava appena le sette del pomeriggio così nell’attesa della cena mi appoggiai sul letto e per ingannare il tempo iniziai a navigare per i social-network ma senza accorgermene sentii le palpebre farsi sempre più pesanti per poi lasciarmi andare interamente dalla stanchezza.
Socchiusi gli occhi, al punto giusto da scorgere la posizione delle due lancette sul mio orologio: 07.45. Li spalancai di botto, mi alzai e con uno scatto di corsa mi recai in bagno. Merda, merda, merda sono in ritardo! Imprecai sotto voce, cercando di velocizzarmi. Dopo essermi vestita, corsi in cucina per afferrare qualcosa al volo per poi correre verso scuola. “Buongiorno fiorellino, siccome ieri hai saltato la cena ti ho preparato doppia porzione di pancake” sussultai quando sentii parlare, stavo andando così di fretta che non mi accorsi della presenza di mia madre. Le andai vicino, con un gesto delicato le spostai dietro la spalla una ciocca di capelli neri e le stampai un bacio sulla guancia. “Scusa mamma, devo correre. Mi farò perdonare, in ogni caso grazie e ricordati che sei la mia mamma preferita”, la sentii ridere ma in un secondo tempo in tono serio si rivolse verso di me raccomandandomi di non rimanere a digiuno. Con un lesto gesto della mano la salutai e uscii dallo stabile.

“Sono Derek Smith, sono l’allenatore della squadra; piacere. Il tuo professore mi ha chiamato stamane spiegandomi lo scopo del progetto”. L’uomo, più o meno sui cinquant’anni, dimostrava origini scozzesi nella corporatura massiccia, con le gote rubiconde e la barba rossa e grigia ben curata su una mandibola sporgente. Appena lo vidi mi sentii a disagio davanti una figura così imponente ma successivamente alla stretta di mano, mi riuscii a trasmettere sicurezza e soprattutto simpatia. Si diresse verso la porta e mi invitò a seguirlo. Lo spogliatoio dei calciatori si trovava alla fine di un corridoio lungo e spoglio di ogni forma di decorazione. Quando varcammo la soglia fui pervasa di un odore di menta, ma quando mi guardai intorno il mio corpo si impietrì. Mi trovai di fronte una ventina di ragazzi molto giovani, il più anziano avrà avuto trent’anni, a petto nudo e alcuni avevano un asciugamano in vita con il logo della squadra stampato sopra. Cercando di controllare la temperatura del mio corpo rivolsi lo sguardo verso l’allenatore con la speranza che dicesse qualcosa. “Lei è Katy Morris, è una studentessa del Judkins Middle School e ci farà compagnia durante gli allentamenti e partite. Le è stato affidato l’incarico di riuscire a catturare l’essenza del calcio. Quindi se non riuscirà a prendere la lode sarà colpa vostra perché significa che non mettete abbastanza passione in quello che fate.” In coro, risero brevemente. “Mi raccomando, fatela diventare una della famiglia.” Abbassò il capo, consultando il suo orologio. Mi appoggiò delicatamente la mano sulla spalla e mi porse un gran sorriso “Io ora devo allontanarmi, fai conoscenza e poi ci vediamo in mezzo al campo” velocemente aprì la porta e poi la richiuse dietro di se. Con gli occhi sgranati guardai la porta esanime e poi mi rivolsi verso la squadra, sentii le guance avvamparmi sprofondando in un strano imbarazzo per mancanza di parole. In seguito uno alla volta si avvicinò a me per presentarsi “Io sono Kevin..” “Io sono Robert, ma mi chiamano Bobby..” “Io sono Peter..” Dopo aver stretto la mano con ognuno di loro mi resi conto di non riuscire ad associare neanche un nome. Uscii fuori dalla porta e tentai di trovare quella che portasse al campo di calcio.
Dal mio zaino, firmato eastpak, estrassi la mia fotocamera Reflex Nikon con obiettivo a focale fissa da 300 con apertura massima molto ampia, o semplicemente, come avrebbe detto mia madre un cannone di fotocamera. L’impugnai con destrezza e avvicinai l’occhio al mirino oculare per fare una breve prova, ingannando in qualche modo anche il tempo d’attesa. D’un tratto l’immagine della distesa dell’erba sintetica cedé il posto ad un limbo nero, cercai di mettere a fuoco, sperando di non aver rotto l’apparecchio; trasalii sentendo una voce, allontanai il volto dalla Nikon e la mia attenzione si focalizzò su una figura dinnanzi a me. “Ciao sono Javier, ci siamo conosciuti prima nello spogliatoio” Mi rivolse un gran sorriso e notai il suo petto gonfiarsi mentre mi tendeva la mano, uno strano modo per dimostrare la propria virilità. Un ragazzo sicuramente sulla ventina, dall’aspetto fisico che sarebbe rientrato nei canoni di ragazzo perfetto di molte adolescenti e ammetto anche nel mio caso, ma ho sempre sostenuto che la prima impressione è quella più importante e dai suoi comportamenti sembrava un ragazzo pieno di sé, che con un minimo di importanza data dai tifosi di quella squadra gli era andato totalmente alla testa.
“Ciao” borbottai, rivolgendogli uno sguardo d’indifferenza. Mi continuò a guardare forse con la speranza che dicessi qualcos’altro ma, semplicemente, sospirai e continuai a guardare all’interno del mirino. “Perché è così grande questo coso?” “Questo coso si chiama obiettivo a focale e ci permette sia di isolare meglio i soggetti, diminuendo la profondità di campo e ottenendo quindi uno sfondo piacevolmente sfocato, sia di acquisire sufficiente luce da permettere di mantenere molto basso il tempo di esposizione.” Spostai di nuovo il mio sguardo verso la sua espressione titubante, risi sotto i baffi risparmiando fiato a dargli ulteriori spiegazioni più elementare. Successivamente sentii un strepitio di passi e mi accorsi dell’ascesa della squadra all’interno del campo. L’allenatore, Derek, comparse poco dopo la loro entrata e iniziò a dettare gli esercizi di allenamento. Noncurante mi allontanai da Javier e iniziai a cercare l’angolazione perfetta per iniziare a scattare qualche foto. La loro divisa blu e bianca mi faceva ricordare la pubblicità dei marshmallow che manco a farlo apposta erano dello stesso colore dell’oggetto in questione. In seguito all’allenamento, si divisero in due squadre e iniziarono una partita. Mi sentivo un pesce fuor d’acqua perché io quel tipo di sport non lo avevo mai capito. Mio padre mi aveva portato qualche volta a vedere delle partite ma, costretto dalla mia noia, abbandonava gli spalti durante il primo tempo. Però una parte di me cercò di darmi le giuste motivazioni, la lode a fine anno la desideravo arduamente quindi strinsi di più la macchina fotografica e cercai di fare del mio meglio.
“Come mai ti hanno affidato questo incarico? ” Questa volta sussultai, riportandomi una mano sul cuore cercando di farlo diminuire di battiti. “Cristo! Tu mi fai venire un infarto.” Javier mi guardò e si grattò la nuca facendomi avvertire un lieve senso di imbarazzo. Tranquillizzandomi, mi distesi per terra aspettando che uno di loro facesse goal per catturare lo scatto perfetto. “Sono venuta qua con il fine di farmi importunare da ragazzi che si credono celebrità e che l’unica cosa che sanno fare e correre appresso ad un pallone.” Gli rivolsi un sorriso carico di sarcasmo e poi distolsi lo sguardo. Sentii la sua attenzione su di me per qualche secondo e poi, con la coda dell’occhio, lo vidi allontanarsi.

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Capitolo 3
*** Next to you ***


3° Capitolo: Next to you.

“Non dovresti essere così dura con loro” Esclamò mia madre, intenta nel lavare con sagacia l’insalata appena comperata. “Potresti veramente piacere a quel ragazzo” A quell’affermazione assurda, roteai gli occhi. “Mamma, anche se fosse comunque a me non potrebbe mai piacere un ragazzo che di professione insegue un pallone” Mi rivolse uno strano sorriso “Come dice tua zia, chi disprezza vuol comprare!” Anche se sapevo che non avrei mai potuto provare un emozione verso di lui, per qualche strano motivo il nervosismo iniziò ad insidiarsi sotto la pelle, afferrai il cellulare e il guinzaglio e informai mia madre che sarei andata a fare una passeggiata con Tyson. 
Arrivammo fino alla spiaggia correndo, stavo lottando col mio corpo per non morire tra un momento e l’altro. Appena riuscii a sedermi su una panchina iniziai a respirare profondamente cercando di riprendere le forze sufficienti per una breve passeggiata ma istantaneamente Tyson iniziò ad abbaiare e tirarmi in direzione della spiaggia. “Ma tu non ti stanchi mai?” Si bloccò di scatto, si sedette dandomi le spalle e girò la testa lievemente giusto per lanciarmi uno sguardo carico di dolcezza. Appoggiai la testa fra le mani e velocemente mi alzai “Conosci i miei punti deboli, bravo cane diabolico!” Mi guardò con la lingua penzolante, con un’espressione eccitata e decisamente felice. 
Dopo un passeggiata sul lungo mare ci recammo ad un bar lì vicino, coca-cola per me e acqua per lui. Tenere in mano la lattina ghiacciata, in quel momento, era una vera benedizione; il velo di sudore che si era formato sulla mia pelle a causa delle temperature alte ormai non si avvertiva più. “Hey!” Trasalii e lasciai uscire un gemito dalle mie labbra. “Scusa se ti ho spaventato, posso offrirti qualcosa?” Javier indicò il bar, rivolgendomi un bellissimo sorriso. Scossi lievemente la testa, pensando che il suo aspetto fisico lo consideravo in modo troppo soggettivo. “No, grazie. Già ho comprato qualcosa” Quando si avvicinò ancora di più, Tyson iniziò a ringhiare e per un momento non lo allontanai cercando di non far notare la mia espressione divertita; qualche volta pensavo che io e lui condividessimo gli stessi sentimenti perché ogni volta che si avvicinava una persona non gradita lui iniziava a ringhiare, cercando di tutelarmi. Contro le mie aspettative Javier si piegò sulle gambe, in modo da poterlo guardare in faccia e dopo pochi secondi passato a fissarlo dritto negli occhi gli appoggiò una mano sul capo e iniziò ad accarezzarlo. Tyson in un primo momento gli annusò con prudenza la mano e subito dopo iniziò ad accogliere le coccole con grande felicità. Javier indirizzò la sua attenzione verso di me “Perché questa faccia?” Quando ritornai alla realtà sbattei più volte le palpebre come se volessi mettere a fuoco. “No, di solito non si comporta così”. D’un tratto Tyson si girò dalla parte opposta e avvertii tutti i suoi muscoli irrigidirsi, notando un lieve ringhio che incrementava sempre di più. Titubante mi guardai intorno e capii il motivo del suo comportamento. Javier si alzò e sedendosi al bancone mi porse la stessa domanda che mi presentai mentalmente qualche secondo prima. “Si sta avvicinando una persona poco gradita” Mi rigirai di nuovo verso il bar sperando che l’individuo che si stava avvicinando non mi rivolgesse la parole. “Chi si vede!” Strinsi d’istinto gli occhi, ingerendo velocemente un altro sorso di coca-cola; sentivo lo sguardo impensierito di Javier ma noncurante mi girai e lo vidi a pochi centimetri da me. “Piove sempre sul bagnato, vero Brandon?” Sorridendo in modo sarcastico, cercai di mantenere la calma. “Tyson calmati, non ne vale la pena!” Ancora afferrato dall’ira, gli accarezzai le orecchie e immediatamente si rasserenò. “Chi è quello strano individuo affianco a te?” Domandò assumendo degli atteggiamenti di superiorità e di sprezzo nei confronti di Javier. Prima che quest’ultimo potesse rispondere, mi alzai e mi avvicinai tanto da sentire il suo respiro infrangersi sull’epidermide. “Senti, io non voglio far succedere casini e penso neanche tu. Quindi ora ti giri e te ne vai, sicuramente qualche puttana da quattro soldi sta aspettando le tue lusinghe.” “Mi conosci bene” la mia mano destra iniziò a tremare, cercando di mantenere il pugno che tanto desideravo dargli. Gli rivolsi una smorfia di indifferenza e senza emettere ulteriori parole mi girai e me ne andai. Javier mi seguì, chiedendomi spiegazioni. “Si chiama Brandon Brown, siamo stati insieme quasi un anno. Pensavo di essere l’unica ragazza nella sua vita ma gli piaceva infilare la lingua in gola, e non solo, a tutte le ragazze del posto. A causa alla sua popolarità nella beach-volley è diventato un tipo superbo, e le ragazze cascano ai suoi corteggiamenti senza il minimo sforzo. A ripensarci mi sento una stupida, me ne dovevo accorgere prima. Dovevo dare ascolto alle voci ma ripetevo sempre vedere per credere e così il destino mi ha accontentato. Un giorno decisi di fargli una sorpresa, mi presentai a casa sua e lo vidi avvinghiato tra le cosce di una cheerleader della mia scuola.” Guardai Javier e aspettai che dicesse qualcosa e quasi nello stesso momento mi domandai del perché gli stavo raccontando quelle cose, infondo non lo conoscevo.. “Per questo odi gli atleti?” Quando sentii quell’attestazione il cuore mi scese il cuore in gola “Io non ti odio” “Ieri non sembrava” “Solamente non mi piace dare subito confidenza agli estranei” sospirai, sentendo il mio cuore ormai palpitante. “Va bene, allora ti perdono.” “Guarda che nessuno ti ha chiesto scusa”. Contro la mia volontà mi uscirono quelle parole in modo allietato e non in tono di disprezzo, mi meravigliai di me stessa. “Va bene, io ora giro di qua. Ci vediamo domani. Assisterò alla mia prima partita effettiva.” Dissi, un po’ eccitata. “Va bene, sono stato bene.” A quell’affermazioni sorrisi e subito dopo mi avviai verso casa senza altri saluti, avevo una strana voglia di baciarlo. Non puoi! Lui era un altro ragazzo che amava lusingare le ragazze sfruttando la sua posizione di successo, ne ero sicura; infondo i ragazzi sono tutti uguali. 


-Spero vi sia piaciuto!

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Capitolo 4
*** One Chance ***


4° Capitolo: One chance


Mi svegliai di soprassalto, senza fiato, madida di sudore e tremante. Mi stropicciai gli occhi rendendomi conto che era solamente un incubo; con fatica girai la testa verso l’orologio e mi accorsi che erano le tre del pomeriggio. Tra meno di un’ora sarei dovuta essere sul campo da calcio, così già con la mancanza del letto nel cuore mi avviai verso il bagno. Appoggiai la testa vicino le mattonelle mentre il mio corpo godeva del getto d’acqua caldo infrangersi sulla pelle. La stridente suoneria del telefono invase la vaporosa intimità del bagno ''Via!'' gridai, ma l'apparecchio continuò a suonare fino all'inserimento della segreteria telefonica. “Piccola sono Marilyn, oggi vengo a vedere la partita. Voglio vederti all’opera! Spero di riuscirti a salutare, ciao!” Sospirai uscendo dalla doccia, notando le nuvole di vapore che si erano formate in giro per la stanza. La partita ancora non era iniziata ma ero in un tremendo ritardo. Mi vestii, indossando una tuta per essere comoda per tutti i movimenti necessari. Scendendo in cucina, bevvi un succo d’arancia per darmi più energia e mangiai un paio di biscotti al cioccolato e corsi fuori.
Prima di aspettare il fischio dell’arbitro che comunicasse l’inizio della partita, entrai negli spogliati e augurai a tutti un buona fortuna. “Se vinciamo sarai la nostra ospite d’onore alla festa che abbiamo organizzato, berremo per festeggiare” disse Kevin, uno dei giocatori. “E se perdete?” I giocatori si guardarono tra di loro e ribadirono in coro “Beviamo per dimenticare.” Ridemmo tutti quanti insieme finché non si intromise Derek iniziando un discorso motivazionale. A sentire quelle sue parole iniziai a capire l’importanza del calcio verso certe persone, non era solamente uno sport dove rincorrere un pallone ma un modo per divertirsi veramente, esprimere i propri sentimenti, per sfogare la propria rabbia o distrarre la mente dal mondo reale. “Ascoltate. Non abbiamo niente da perdere, se ci rilassiamo possiamo fare diversi goal. Dobbiamo combattere. Lo dobbiamo ai tifosi. Non lasciate che la vostra testa tremi. Abbiamo lavorato tanto per essere qui, battuto tante buone squadre. Lottate per 90 minuti. Se segniamo, siamo in corsa. Se credete che possiamo farcela, ce la possiamo fare. Avete la possibilità di essere eroi. I tifosi sono con noi, loro sono dietro di noi“. 
Si misero tutti in cerchio stendendo il braccio verso il centro. Quando si fece una mini torretta formata dalle mani urlarono in coro “Siamo i campioni”.
All’inizio del secondo tempo stavano perdendo 0 a 1 ma dopo un po’ Bobby riuscii a fare il primo goal pareggiando il risultato. Avevo un nodo in gola che non riuscivo a mandare giù, non mi ricordavo che le partite trasmettessero così tanta preoccupazione. In certi momenti mi dimenticavo anche di stare lì per fotografarli per un incarico scolastico e mi immedesimavo nei panni di una giovane tifosa venuta a vedere la propria squadra del cuore. Scossi la testa cercando di trascorrere quegli ultimi momenti in modo imparziale, di questo passo neanche in un mese sarei riuscita a portare a termine il compito. 
Ormai eravamo alla fine, l’arbitro aveva dato 3 minuti di recupero e dopo esserne trascorsi la metà iniziai a sudare, sentendo una strana morsa al livello del petto. Pareggiare non era il nostro obiettivo. Mi diressi velocemente verso porta della squadra avversaria sperando in un goal all’ultimo secondo. Da lontano vidi Javier prendere il possesso palla e con tutte le sue forze iniziò a correre verso la porta. Un’emozione in me iniziò a crescere e sperai con tutta me stessa che sarebbe riuscito nella sua impresa. Una volta arrivato alla porta, un gesto inaspettato accadde: si fermò. “Katy Morris, vuoi uscire con me?” Iniziò a palleggiare sul posto, cercando di allontanare i difensori con le braccia spalancate. Di colpo la mia mente si bloccò completamente, è pazzo pensai.
“Si, ti prego segna però!” gridai, d’impulso. Lui mi rivolse un gran sorriso e con destrezza fisica lanciò il pallone verso la porta, il portiere si buttò cercando di pararla ma lo sfiorò di un centimetro. Quando il pallone entrò, colpendo con violenza la rete, fu seguito subito dopo dal fischio dell’arbitro che enunciava la fine della partita. Con le lacrime agli occhi raggiunsi tutti gli altri giocatori della squadra che stavano esultando. Vidi Javier venirmi incontro, senza maglia e con la pelle lucida a causa dell’effetto del sudore. Mi bloccai, alzando gli occhi al cielo, faceva caldo a causa del sole o per la bella vista? “Tu sei pazzo!” affermai, avvicinandomi a lui “I pazzi sono i migliori.” Alzò le spalle di scatto rispondendomi con naturalezza. 

“Tra cinque minuti sono arrivato sotto casa tua!” mi informò Javier. “Va bene” farfugliai prima di staccare la telefonata. Mi sedetti sul divano in salone, abbassai gli occhi sul grembo e intrecciai le mani l’una l’altra. Cercai di respirare profondamente nel tentativo di calmare la mente e quando la tensione iniziò ad essere impercettibile sciolsi le dita distendendole un po’. Quando sentii un suono del clacson, mi alzai di scatto e intravidi una macchina attraverso le tendine della finestra che dava al giardino. Prima di varcare la soglia, mi avvicinai allo specchio e osservai ogni parte del mio corpo in modo distaccato. Ero nervosa.. chiusi gli occhi e raccomandai a me stessa “E’ solamente un ragazzo, che trovi semplicemente carino. Cena e poi subito a casa!” Stampandomi un sorriso sul viso, uscii da casa e mi diressi verso il cancello cercando di non far scappare Tyson. 
Rimasi stupita dalla bellezza della sua macchina, un Audi R8 tinta di un rosso Ferrari, non era una ragazza che si intendesse di automobili ma sicuramente quella costava quanto la mia casa, se non di più. Mi avvicinai alla parte posteriore e con il dito ne accarezzai le curve. Javier uscii dalla macchina e, parlando di curve, lui non era da meno. Indossava un completo classico stretto nero, mettendogli in risalto i pregi del proprio corpo tonico e muscoloso. Mi sentii a disagio, non ero abituata ad uscite così eleganti. Avvolta nei miei pensieri, Javier si avvicinò a me, mi posò una mano dietro la schiena e mi stampò un delicato bacio sulla guancia. “Sei bellissima” sussurrò facendomi gelare il sangue all’istante. Da fare da gentiluomo mi aprii la portiera e accettando l’invito mi sedetti su comodi sediolini rivestiti in pelle che emanavano un dolce profumo, notai gli interni minimalisti avente una strumentazione totalmente digitale. “Ti vedo tesa” rivolgendo lo sguardo verso il finestrino sorrisi “Sono abituata alla berlina di mio padre” intento nel mettere in funzione la macchina, sogghignò. 
Per l’intero tragitto effettuato all’andata l’unico rumore che spezzava il silenzio imbarazzante che si era formato fu il suono quasi irrilevante della radio. Il mio sguardo era bloccato sulla strada, per ragioni a me sconosciute mi sentivo come un pesce fuor d’acqua. Nella mia mente cercavo costantemente qualcosa da dire, mi sarei accontentata pure di una semplice affermazione ma l’unica cosa che era presente nella mia testa era il vuoto totale. 
Dopo circa una decina di minuti finalmente arrivammo a destinazione. Raggiungemmo un piccolo ristorante situato su una ripida collina; “Da Antonio” riportava l’insegna, il proprietario era ormai come un fratello per mio padre. Quando realizzai dell’ottima scelta che produsse Javier mi si allentarono i nervi mettendomi automaticamente più a mio agio. Una volta usciti dalla macchina, immergendomi nei miei pensieri iniziai a fissarlo creando una sfera di imbarazzo, lui cercò di deviarlo  semplimente con un sorriso e silenziosamente varcammo la soglia del ristorante. 
Fin dalla prima volta che entrai in quel luogo non era mai cambiato, successivamente all'entrata vi era un enorme salone che comprendeva una ventina di tavoli in legno, la superfice era ricoperta da una soffice tovaglia a scacchi casalinga. Il muro era dipinto di un azzurro che ricordava tanto un cielo in piena estate trasmettendoti incosciamente serenità. Su di esso vi era riportato a caretteri cubitali la frase preferita del proprietario o come lui stesso definiva la sua filosofia di vita "La vita non è acquistare e avere, ma dare e essere." 
l'illuminazione era di tipo indiretta in quanto la luce fioca emessa dai lampadari rifleddendosi sulle pareti chiare aumentava d'intesità producendo comunque nitida visibilità  in tutto il locale. 
"Katy piccerella mia, erano mesi che non ti vedevo." Intenta a scrutare il locale non mi ero accorta della presenza di Antonio Genovese, il proprietario. "Vedo che sei in compagnia" sempre con un soffice livello di imbarazzo ci abbracciammo calorosamente. "Mi sei mancato e ad essere onesta anche la tua cucina" con fare svenevole alzò gli occhi al cielo e con le dita della mano sinistra si arricciò il baffo arruffato che si era fatto crescere negli ultimi mesi. In un secondo momento si rivolse al mio accompagnatore "Buonasera giovanotto! Io conosco la sua famiglia meglio di chiunque altro quindi se durante la serata e anche dopo verrò a sapere che sei stato irrispettoso nei suoi confronti ti brucerò e userò la tua carne per fare il ragù" Non potei fare a meno di scoppiare in una breve risata, il suo aspetto non incuteva nessun tipo di terrore tantomeno nell'atto della minaccia. Javier sorrise e con tono di voce tranquillo dichiarò "La tratterò con la stessa delicatezza e affetto con cui voi cucinate i vostri piatti e sono a conoscenza che voi ci mettete il cuore a differenza di tante altre persone." Antonio per qualche secondo rimase a guardarlo come se avesse visto d'un tratto il Creatore e poi si rivolse a me "Questo ragazzo mi piace, misà che ti ama già" sospirai, divertita dal momento ma anche curiosa degli obiettivi di Javier ma non curante della dichiarazione ammisi di avere una gran fame così incitai di scegliere un tavolo per sederci. 
Dopo aver scelto direttamente i primi piatti decisi che il primo argomento della serata sarebbe stato diretto a scoprire la sua storia. Scavando nel suo passato ero intenta di capire realmente chi era il ragazzo seduto di fronte a me, non volevo sbagliare di nuovo prima che fosse stato troppo tardi. Dopo avergli porto la prima domanda lui serrò i denti riflettendo sulla risposta "La mia infanzia" sospese il discorso e si morse ripetutamente il labbrò "Beh se devo essere sincero non amo parlarne ma come tu ti sei aperta con me, io farò altrettanto" mi rivolse un sorrise auto-rassicurante e sospirò "Sono di origine brasiliana, io e la mia famiglia ci siamo trasferiti qui quando avevo due anni. Abbiamo cercato di condurre una vita serena ma mio padre cadde nel vizio del gioco e lo ammazzarono davanti a me quando avevo sei anni, ne sono passati più di quattordici  ma ricordo i dettagli come se fosse accaduto un giorno fa. E qual'è il rimedio più funzionale per una madre per mandare avanti tre figli, una casa con debiti, senza l'aiuto di un marito e senza un lavoro?" attese la mia risposta che non arrivò mai in quanto avevo colto la sua nota di duro sarcasmo. "Mia madre morì per overdose, per pagare velocemente le bollette iniziò a prostituirsi ma i soldi che guadagnava non erano diretti a sfamarci ma alla droga, l'eroina se l'è portata via, lei la considerava come una buona amica...I miei fratelli Santiago e Abelardo mi hanno mantenuto fino ai miei sedici anni e poi mi hanno abbandonato per condurre la loro vita. Così ho intrapreso questa professione, era la mia unica passione, l'unica cosa che veramente mi piaceva fare. Giocavo a pallone quando vedevo mia madre venire a casa con altri uomini, giocavo a pallone quando lei morì, quando i miei fratelli stanchi dal lavoro litigavano a vicenda. Per me il calcio è come un antidoto ad una vita infelice. Ora la mia famiglia è la squadra, i miei fratelli si sono trasferiti chissà dove, non li sento più da tempo. Ecco questa è la mia storia!." Senza accorgermene rimasi con la bocca socchiusa ad ascoltarlo, involontariamente gli accarezzai la mano in segno di conforto creando così  una strana intesa interrotta, ahimè, dall'arrivo del cameriere con i nostri piatti.

-Spero vi sia piaciuto!


 

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