Tutto per una scommessa

di Giuu13
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due ***
Capitolo 3: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quattro ***



Capitolo 1
*** Capitolo Uno ***


«Non dire cazzate»
«È inutile negarlo, Italia» disse ridendo l’inglese, la schiena ben appoggiata al morbido schienale.
«Smettila di dire sciocchezze, razza di idiota» rispose Romano stizzito. Era steso sul tavolo, proteso verso il biondo seduto davanti a lui in caffetteria.
«Italy, ha ragione il piccoletto. Tutti voi siete ossessionati da noi, indossate le nostre bandiere» disse Alfred masticando una ciambella ripiena. Arthur gli lanciò un’occhiataccia infastidito dal parlare a bocca piena dell’altro e dall’epiteto con cui lo aveva chiamato.
«Non mettertici anche tu, ok? Noi italiani non mettiamo le vostre stupide ed esibizioniste bandiere»
«Visto? Visto?» l’americano rideva e saltellava indicando il moretto seduto. «Hai detto “ok” e sei italiano, usi il nostro linguaggio»
Romano, silenzioso, lo fissava pensando a diversi insulti in italiano, tutti quelli che conosceva.
«Il mondo ci ama» disse Arthur passandosi una mano tra i capelli, facendo la finta star.
«Mi ama, vorrai dire. Tu sei abbastanza vecchio e antiquato, sono io quello che piace» disse Alfred facendo le bollicine nel bicchiere di Coca ormai sgasata. Arthur lo guardò scandalizzato. Come osava dargli del vecchio? Lui era la grande Inghilterra, la mitica. Stava già per urlargli contro, lanciargli qualcosa addosso, di appuntito magari; venne fermato da Romano che si era alzato in piedi con sguardo furente e aveva battuto un pugno sul tavolo facendo traballare i bicchieri posati sopra.
«Vi troverò un italiano che preferisca l’Italia a voi, che non vi ami proprio, che vi detesti. Poi dovrete baciarmi il culo, idioti!»
Uscì dalla stanza sbattendo la porta, molti occhi lo seguirono, altri si posarono sugli altri due ragazzi.
«Be’, che c’è da guardare? Abbiamo semplicemente fatto una scommessa» disse Arthur bevendo un sorso di quel tè annacquato preso alle macchinette.
 
Romano camminava a passo di marcia per il grande edificio, attraversava corridoi urtando persone e mobili, insultando tutto quello che si metteva sul suo cammino. Quei due anglosassoni erano riusciti a rovinargli una giornata iniziata decentemente.
«Lovinito» si sentì chiamare da una voce familiare, fin troppo familiare. Aumentò il passo, stava pensando di cominciare a correre, ma una mano gli prese la spalla trattenendolo.
«Cosa vuoi anche tu? Dirmi che la Spagna è migliore dell’Italia? Perché se è così stai pronto a ricevere una testata» disse voltandosi e guardando il soffitto.
«È per questo che discutevi con Alfred e Arthur? Che stupidi» disse Antonio sorridendo, l’espressione di un angioletto dipinta in faccia. Romano trattenne un ringhio che proveniva dalle profondità dell’Inferno; non voleva essere la causa della scomparsa della Spagna dalle cartine, non ancora almeno.
«Lasciami andare, devo cercare un ragazzo da presentare a quelle due teste di ca-»
«Cavolfiore» finì per lui Antonio. Non gli piacevano le parolacce e men che meno il modo scurrile di parlare di Lovino. «Sul serio? Non stavi scherzando allora» continuò seguendo l’italiano che aveva ripreso a camminare; non avrebbe sorpreso nessuno se delle nuvole di vapore fossero uscite dalle sue orecchie, era incredibilmente furioso.
«Mmph» soffiò lui in risposta senza girarsi.
Stavano camminando a vuoto e ad un certo punto Romano si fermò così all’improvviso che Antonio sbatté contro la sua schiena: erano già passati da lì, quel tavolo bianco e appuntito lo aveva visto almeno due volte ed aveva già calpestato quel tappeto sottile.
«Dove diavolo è l’uscita?» allargò le braccia e si voltò in tutte le direzioni in cerca di qualche cartello illuminato da lampadine al neon colorate che dicesse EXIT. Se lo sarebbe aspettato dagli americani.
«Questo posto è indecifrabile e confusionario come Alfred, e non c’è nulla dentro! Proprio come la sua testa. Il progetto di questo edificio poteva essere partorito solo da una testa vuota come lui» scattò sbuffando.
Antonio prese sottobraccio l’italiano che non cercò di liberarsi dalla stretta, era così confuso che non se ne accorse neanche, e lo accompagnò verso la grande uscita al piano terra. Loro erano al terzo.
«Nervoso, nervoso, mal di testa, nervoso» ripeteva il ragazzo, mentre camminava al fianco dello spagnolo che sorrideva felice.
Davanti alla porta a vetri, custodita da due uomini grandi e grossi e, cosa più importante, armati, Antonio lasciò andare l’altro che sembrò accorgersi di quello che aveva davanti: gli si illuminarono gli occhi e un ghigno gli si stampò sul viso.
«Grazie, bastardo» disse e gli diede una pacca sulla spalla.
«Vai direttamente all’aereo. Dormi durante il viaggio: dall’America all’Italia è lunga, riposati un po’. Ti copro io con Ludwig, tanto non dobbiamo discutere di nient’altro, abbiamo finito questa mattina»
«Sì, sì, smettila di fare la mamma apprensiva» disse Romano scocciato da tutte quelle raccomandazioni. Stava per uscire da quell’edificio labirintico quando venne fermato da una voce.
«Sei ancora qui?»
Si voltò e vide Alfred con alcuni sacchetti tra le braccia attraversare il grande atrio illuminato. «Pensavo fossi già in viaggio, mi eri sembrato così deciso»
«Sto andando, stai tranquillo. Sarà facile trovare un italiano che ami l’Italia, ne siamo pieni» disse lui scuotendo una mano.
L’altro lo guardò a lungo, sorrise.
«Sai di indossare dei miei pantaloni, vero?» disse inclinando la testa e osservando i pantaloni scuri dell’altro. Romano abbassò lo sguardo sulle sue gambe. Impossibile. Lui non indossava niente che non fosse italiano, anche i pannolini che aveva messo erano italiani.
«Non scherziamo, io indosso solo capi miei e di mio fratello e non metterei mai-» si bloccò, lo sguardo fisso avanti a sé. Suo fratello. Quelli erano un regalo di suo fratello di ritorno da una vacanza con il crucco e il giapponese rachitico. Oh no. No no no no. Si contorse, prese il retro dei pantaloni e tirò fuori l’etichetta. Americani. Quei pantaloni erano indubbiamente americani, c’era la firma di quell’idiota biondo mangia hamburger.
«Alla fine dici tanto, ma ti piacciono i miei articoli. Lo dico sempre a Francia che sono io il vero paese della moda»
Antonio guardò Lovino irrigidirsi e pensò al peggio.
Qui ci scappa il morto.
Francis e Lovino erano sempre in lotta su molte cose: il miglior vino, il miglior cibo, i migliori amanti, le città più romantiche, la patria della moda. Lovino odiava pensare che il vinofilo si credesse migliore di lui in queste cose, ma odiava ancora di più sentire quelle parole uscire dalla bocca dell’americano; era come sentire Arthur affermare la sua supremazia in campo culinario. Assurdo. Preferiva urlare al mondo che il mondo della moda era in mano ai francesi che agli americani.
Si tolse la cintura che cadde a terra tintinnando, cominciò a sbottonarsi i pantaloni con rabbia mal celata verso il fratello, verso l’americano che aveva notato i pantaloni e verso se stesso per  non aver controllato prima l’etichetta. Antonio si era avvicinato e cercava di togliere le mani di Romano dai pantaloni.
«Cosa stai facendo? Non puoi andare in giro in mutande»  disse allarmato.
«Via!» Romano cacciò il ragazzo e in unico movimento sgusciò fuori da quella stoffa americana, rimanendo in mutande rosso fuoco. Sventolò i pantaloni sopra la testa.
«Sta tranquillo che non me li vedrai più indosso» disse già deciso a rispedirli a casa di Veneziano, con tanto di bigliettino minatorio in caso gli venisse in mente di fargli un altro regalo.
«Addio» disse solo e uscì lasciando Antonio e Alfred allibiti, ancora lì in piedi a seguire la figura in mutande attraversare la strada.
 
Aveva fatto il viaggio in aereo con dei pantaloni comprati in un negozio rigorosamente italiano prima di andare all’aereo porto. Era andato alle poste il giorno dopo essere arrivato, aveva consegnato il pacco contenente i pantaloni ed era tornato a casa.
Si sedette sul divano sprofondando nei morbidi cuscini, accese la televisione dove apparve un servizio sul paese più popolare: l’America. Cambiò canale e le immagine della famiglia reale inglese occuparono lo schermo del televisore.
«Sarà maschio o femmina il figlio del principe William e della bella Kate?»
«Cosa me ne può fregare? Non mi interessa se concepiscono o meno, quei due» era in piedi e teneva le mani a stringere lo schermo; urlava contro la voce della giornalista che parlava dei pettegolezzi di corte.
«Anche noi abbiamo una famiglia reale, ma nessuno se la caga» disse prima di spegnere e andare a cucinarsi qualcosa. Preparò degli ottimi spaghetti al sugo, li accompagnò a del buon vino francese (quel giorno poteva permetterselo) e infine uscì per una passeggiata serale tra le vie di Roma.
Si fermò ad una pasticceria a comprare dei dolcetti, si fece riempire un sacchetto da cui spilucchiò lungo la strada. Roma era proprio bella la sera, con le luci che illuminavano le strade, le moto colorate parcheggiate davanti ai locali, giovani e vecchi a chiacchierare e giocare nei bar, gente fuori che fumava e sorrideva; c’erano coppiette, che accortesi di quest’aria romantica e un po’ malinconica, passeggiavano proprio come lui. Solo che loro tenevano la bocca occupata in un modo e lui in un altro. Guardò il sacchetto ormai vuoto e lo gettò in un cestino.
«Devo trovarmi una ragazza»
Tornato a casa fece una doccia veloce, buttò i vestiti in un angolo del bagno e andò a letto. Si sistemò sotto un lenzuolo leggero; nonostante fosse solo primavera già soffriva il caldo.
Hai sangue caliente nelle vene, proprio come me
Sentì la fastidiosa voce di Antonio rimbombargli nella testa.
«Stai zitto» sussurrò al soffitto.
Si grattò il petto nudo, scalciò le lenzuola per scoprirsi un po’ di più. Guardò la parte vuota del letto accanto a sé, pensò davvero di doversi procurare compagnia.
«No, prima qualcuno da presentare a quei due idioti al prossimo meeting»
Si voltò a pancia in giù, le mani sotto al cuscino che spostò in cerca della parte ancora fresca; diede un’occhiata all’orologio. Era mezzanotte appena passata, una debole luce illuminava le lancette e la porta socchiusa. Si addormentò con il sorriso sulle labbra, l’immagine di Alfred e Arthur di fronte al suo italiano amante della propria cultura in primis lo mandava su di giri.
 
Si alzò da letto sudato e con l’impronta del cuscino stampata in faccia, aveva il solito broncio, le sopracciglia corrugate; la mattina non era proprio il momento preferito della giornata, in realtà non aveva un momento preferito. Stava bene solo a letto.
Uscì di casa un oretta dopo, lavato e profumato, per far colazione al suo bar preferito. Ci metteva sempre un’ora a prepararsi, e pensare che si faceva solo la doccia, poi dicono tanto delle donne.
«Perché sono una persona ordinata, io» diceva in sua difesa ai commenti degli altri: ad Antonio che aveva sempre i ricci sparati per aria, a Veneziano che aveva sempre mezza camicia nei pantaloni e l’altra metà volante; Ludwig era molto curato, era l’unica cosa che apprezzava del crucco pela patate.
«Romano, buongiorno» sorrise cordiale il barista, un uomo sulla quarantina con una grossa pancia e dei folti baffi neri.
«Il solito?» chiese prima di preparare un cappuccino e scaldare una brioche vuota. Il ragazzo annuì e si sedette al solito tavolo all’angolo vicino alla vetrata che dava sulla strada, ad osservare il solito via vai di gente per il corso.
Fece colazione lentamente, lesse alcune notizie della Gazzetta e si concentrò, più per dovere che per piacere, su tutte le pagine del Corriere e altri giornali di cronaca. Doveva farlo, era il suo mestiere, doveva sapere quello che succedeva nel mondo, tanto che riceveva aggiornamenti  sul cellulare, gli arrivavano messaggi ogni ora.
Pagò e uscì, doveva cominciare a cercare la persona che avrebbe poi umiliato quei due pezzi di nazione. Si guardò intorno, doveva cercare tra i giovani, erano loro il punto focale della scommessa: per Alfred erano i giovani ad essere ossessionati da loro. Vedeva cose che non gli piacevano: ragazzi che indossavano tute americane con il marchio sul culo, scarpe e sciarpine e maglie a stelle e strisce, con la croce britannica. Ovunque rosso, bianco e blu.
«Dannazione» ringhiò lui, sarebbe stato più difficile di quanto avesse immaginato.
Vide una ragazza in un grazioso vestito a fiori, aveva un cappellino a tesa larga ed era voltata di spalle.
«Se è carina possiamo anche fare qualcosa» rise fra sé sapendo che non avrebbero fatto un bel niente. Non avrebbe mai avuto rapporti con gli umani, erano mortali e lui no. A meno che una qualche guerra o carestia lo avrebbe ucciso, ma per il resto avrebbe vissuto a lungo, troppo; aveva visto Veneziano affezionarsi a umani, lo aveva visto rimanere giovane e uguale mentre gli altri erano invecchiati e morti, aveva visto la tristezza, la disperazione del fratello in ogni amico andato, perduto per sempre. Non voleva soffrire allo stesso modo.
Si era avvicinato alla ragazza che non si era accorta della sua presenza.
«Scusami» disse con voce dolce e bassa.
La ragazza si voltò, i lunghi capelli biondi frusciarono e comparvero due grandi occhi azzurro cielo. Romano sorrise cordiale, come non faceva con nessuno, se non in casi di estrema necessità e quello era uno di quei casi. Poi inorridì. La ragazza aveva tra le mani un iPhone che aveva come cover la stramaledetta bandiera americana.
«No! Ma vaffanculo» urlò al telefono, alzò il medio e se ne andò lasciando la ragazza interdetta e scandalizzata.
Occupò tutta la mattinata e il primo pomeriggio con la sua ricerca e ormai disperato rallentò il passo, aveva preso ad aggirarsi per le strade in modo frenetico. La gente lo osservava sospetta, le madri allontanavano i figli al suo passaggio. Con le mani nelle tasche guardava il cielo azzurro, un aereo aveva lasciato una scia bianca che divideva in due parti il cielo altrimenti perfetto; calciò una lattina dimenticata, la raccolse e con uno sguardò omicida si guardò intorno. Buttò la lattina nel cestino proprio accanto a lui.
E poi si lamentano della spazzatura per strada. Cominciate a fare le piccole cose. Si disse.
Una Vespa rossa gli sfrecciò accanto e si fermò poco più avanti, frenò di colpo emettendo un rumore stridente. In sella c’era una ragazza con il casco tricolore, verde, bianco e rosso e Romano perse un battito. L’aveva trovata. La ragazza alzò un braccio per salutare qualcuno nel bar di fronte. Solo quando sparì oltre la porta, Romano si accorse dei suoi vestiti: aveva delle Superga rosse, dei pantaloncini bianchi e una maglietta larga e leggera verde. Gli venne quasi da piangere per la commozione. La sua giornata di totale vagare era valsa qualcosa, alla fine.
Si avvicinò alla Vespa che accarezzò con amore, era la sua moto preferita, ne aveva avute di Vespe. Ne aveva avute di tutti i colori, ma la sua preferita era quella verde. Si appoggiò al sellino perso nei suoi ricordi, ripensò a tutti i viaggi che aveva fatto da solo e con il fratello; tutti i posti che avevano visitato.
Non si rese conto che la ragazza era uscita ed ora era dietro di lui, non si era reso conto che era passata mezz’ora dall’inizio del suo tuffo nei ricordi.
La ragazza si schiarì la voce. «Vuoi fare un giro?»
Romano si risvegliò, si voltò e la vide. Stava facendo roteare le chiavi intorno a un dito. Non ricevendo risposta lei si sedette e accese la moto per partire, allacciò il casco sopra i lunghi capelli rosso scuro e abbassò la visiera. Salutò il ragazzo con lo sguardo strano con due dita in fronte, tipo saluto militare.
«No, aspetta» disse lui prendendo il manubrio. Non l’avrebbe lasciata andare adesso che l’aveva trovata.
«Ho bisogno di un favore»
«Non faccio favori alle persone che conosco, perché dovrei farli ad uno sconosciuto?» chiese lei alzando un sopracciglio.
«Perché… Perché…» non gli veniva niente da dire, non sapeva come spiegarle quello che voleva. Si guardò intorno e vide tre ragazze fissarli curiose da dietro il vetro di una finestra del bar dove era entrata prima la ragazza.
«Cosa c’è da guardare?» chiese infastidito. «Sono amiche tue?»
«Quando capita, dipende dalle volte» disse lei.
Rimasero in silenzio a guardare il bar, le tre ragazze salutavano e ridevano, si tiravano le gomitate e parlavano coprendosi la bocca.
«Mi chiamo Chiara» disse la ragazza scendendo dalla moto e aprendo la sella. Tirò fuori un secondo casco che tese a Romano. «Romano»
«Andiamo da qualche altra parte a parlare» disse Chiara tornando alla guida della moto.
Romano si mise dietro di lei e indossò il casco rosso, si aggrappò alla moto.
«Cosa aspetti a partire?» chiese.
«Che ti aggrappi a me, non voglio vederti morire, non ti conosco ancora»
«Mi tengo alla moto»
Chiara si girò appena e a Romano sembrò che sorridesse mentre diceva «Certo»; diede gas e partì.
Se fossero esistite le marce, quella sarebbe stata una partenza in ottava.
Dopo la prima curva, in cui le loro ginocchia avevano sfiorato terra, Romano circondò Chiara con le braccia.
Sentì che il corpo della ragazza era attraversato da piccole scosse, stava ridendo di gusto.
«“Mi tengo alla moto”» urlò lei facendogli il verso.
Quel viaggio, che durò meno di un quarto d’ora, fu il peggiore, il più pericoloso e il più veloce che avesse mai fatto Romano; aveva visto la sua vita passargli davanti almeno un paio di volte.
Kiku a quest’ora si sarebbe buttato giù anche con la moto in corsa. Pensò dopo un’altra curva a gomito superata non si sa come.
Non è che Chiara non sapesse guidare, anzi, rispettava tutti i cartelli e le velocità, ma il modo di muoversi era così instabile e azzardato che faceva sembrare la ragazza la protagonista di Fast and furious.
Arrivarono a un parco dove frenarono di colpo, Romano sbatté la testa protetta dal casco contro quella di Chiara, si sentì un rumore sordo e poi arrivò il mal di testa, come se insieme a lui anche il cervello fosse andato a sbattere contro la scatola cranica.
«Tu sei pazza. Tu non sai guidare, non ci verrò mai più con te in moto» disse Romano lanciandole il casco.
«Alla patente sono stata promossa con tanto di complimenti» disse lei mettendo via il casco e mettendo la sicura alla moto.
Entrarono al parco, non c’era nessuno in giro e passeggiarono senza essere disturbati da grida e giochi altrui.
«Allora? Che favore vorresti?»
Non poteva certo dirle che voleva umiliare due nazioni. O forse sì?
«Due ragazzi, uno inglese e uno americano, credono che non esistano italiani che preferiscano l’Italia alle loro nazioni. Così ho scommesso con loro che avrei trovato qualcuno pronto a smentirli»
«Perché io?» chiese guardandolo con la coda dell’occhio.
«Ho visto come sei vestita, ho visto il tuo casco, la tua moto. Più italiana di te ci sono solo io» disse lui, triste che nessuno potesse capire a cosa alludeva con la seconda frase. Era triste essere una nazione in mezzo agli umani, nessuno poteva capire le sue battute.
Chiara guardò i propri vestiti e sorrise. «E io cosa ricevo in cambio?»
Romano la guardò, non aveva pensato di dover dare qualcosa in cambio, credeva che umiliare degli anglofoni sarebbe bastata come ricompensa.
«Sto scherzando, lo faccio» disse lei sbuffando.
«Meglio, perché non ti avrei dato niente»
«Ho cambiato idea, non lo faccio più. Mi stai antipatico»
«Aspetta, non puoi cambiare idea così» disse lui fermandosi.
«Posso, l’ho appena fatto» Chiara continuò a camminare, non si era nemmeno girata per rispondergli.
Romano le corse dietro, di solito era lui quello inseguito dagli altri, era lui che si faceva desiderare. Non era lui che correva dietro alla gente.
«Cosa diavolo vuoi in cambio?» chiese Romano esasperato, la prese per un polso costringendola a voltarsi.
Lei alzò le spalle.
«Quando dovremmo vederci?»
«Tra un mese ci incontriamo, siamo tutti… ragazzi, un grande gruppo di amici, più o meno» disse Romano cercando una storia plausibile.
«Va bene. In cambio del mio super favore voglio che tu sia, in questo mesetto, il mio amichetto» lo disse come se fosse la cosa più dolce del mondo, con un grande sorriso e gli occhi luminosi, ma a Romano suonò tanto come ricatto. Stava per rifiutare quando un gruppo di ragazzine gli passò accanto, avevano tutte la bandiera inglese al collo; pensò a quanto sarebbe stato difficile trovare un’altra ragazza come Chiara.
Chiara aveva seguito il suo sguardo su quelle ragazze e quando Romano la fissò arrabbiato lei sorrise sornione.
«Va bene» disse lui.
«Bene. Andiamo a prenderci un gelato, amico?» disse Chiara prendendolo sotto braccio e ridendo come il cattivo di un film.
Romano cercò di liberarsi dalla morsa, ma era salda, peggio di quando Antonio lo abbracciava.
Dopo aver pagato il gelato per entrambi, Romano riuscì a staccarsi da Chiara, troppo presa a mangiare il gelato, e le rimase a un passo di distanza pronto a scattare lontano nel caso lei avesse voluto riprenderlo vicino a sé.
«I’m on top of the world, ‘ay, I’m on top of the world, ‘ay» Chiara canticchiava quella canzoncina da un po’.
«Non puoi cantare altro? Ormai l’ho imparata a memoria» disse Romano esasperato sedendosi a una panchina.
«Allora cantala con me. Non mi piace la musica italiana, non il pop almeno e di rock, be’ c’è ben poco»
«E allora cosa ti piace di italiano?» disse lui facendole spazio, si era prepotentemente seduta al suo fianco facendoli segno di spostarsi.
«La lirica. Amo il personaggio di Figaro ne “Il barbiere di Siviglia”, quando canta Largo al factotum della città. Mai sentita?» chiese voltandosi verso di lui. Romano rimase sorpreso, non aveva mai conosciuto qualcuno a cui piacesse la musica classica, era tutti convinti fosse una cosa da vecchi, una cosa ormai obsoleta. Rimase zitto a fissarla.
«No, eh? Non piace a nessuno, preferiscono la musica moderna. Piace anche a me, sai?» disse cambiando argomento e sgranocchiando l’ultima parte del cono.
«Personalmente preferisco “Turandot”, è più intrigante come trama» disse in un soffio Romano. Non era abituato a parlare di queste cose, sentiva sempre e solo politica e problemi mondiali.
«Non ci credo, oggi mi sono fatta un nuovo amico a cui piace la musica classica. Questa me la segno sul calendario» Chiara rise e mise il fazzolettino di carta del gelato in tasca.
«Devo tornare a casa. Vuoi che ti accompagni fino a-»
«NO» Romano scattò in piedi e salutò con una mano; si diresse verso l’uscita del parco. Non ci sarebbe più salito su quella Vespa, non per quel giorno.
«Domani? Ci vediamo al bar di oggi? La mattina magari»
Romano alzò il pollice, aveva trovato la ragazza italiana, ma in cambio doveva fare l’amico. Niente di più difficile.

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Capitolo 2
*** Capitolo Due ***


Si stiracchiò, si contorse nel letto avvolgendosi nelle lenzuola. Sentiva gli uccellini cinguettare, il calore del sole che entrava gentile tra le persiane donando luce alla stanza e le lancette dicevano che era appena mezzogiorno.
«Tappatevi il becco, vi strappo le corde canterine, razza di uccellacci!» urlò in direzione della finestra. Come se avessero capito che rischiavano la morte, gli uccelli tacquero e il canto soave si spense facendo spazio al gracchiare di qualche corvo più coraggioso.
Romano lanciò le coperte per aria e scese in cucina, avrebbe fatto colazione in casa quel giorno. Si aggirava tra la stanza nudo, quello era il suo pigiama, comodo e pratico.
Aprì il frigorifero per prendere del latte, poi lo chiuse di botto facendo tintinnare le bottiglie all’interno; alzò lo sguardo all’orologio appeso al muro. Pensò al suo appuntamento con Chiara e corse a cambiarsi, uscì di casa spettinato. Non voleva perdere la ragazza che avrebbe umiliato Inghilterra e America.
Stava pensando d’inventarsi una qualche scusa, che aveva trovato traffico (era a piedi), che non si ricordava dove fosse il bar (ci passava davanti tutti i giorni), ma alla fine decise di non dire niente.
Chiara era seduta sulla sua Vespa e sorseggiava un liquido scuro in un bicchierone di carta, chissà da quanto lo stava aspettando; non appeno lo vide alzò una mano per salutarlo. Romano rispose con un cenno della testa e si avvicinò. Nessuno dei due fece cenno al ritardo del ragazzo e Romano si sorprese, di solito le ragazze si imbestialivano per i ritardi.
«Cosa vuoi fare oggi?» chiese lui sospirando, già pensando a giri per negozi e passeggiate al parco o robe del genere. Sarebbe stato come stare con Veneziano.
«Non lo so, qualcosa che fanno gli amici di solito. Anche se noi lo saremo per un mese» disse lei bevendo l’ultimo sorso dal bicchiere.
«Non so cosa fanno gli amici, dimmi tu»
«Non hai amici?» chiese candidamente lei.
«Sì che ne ho, che credi. Solo che… noi non facciamo… stiamo in riunione e…» cosa stava dicendo? Stava parlando a vanvera, non sapeva che dire. In effetti con le altre nazioni si incontrava solo per le riunioni ed eventi mondiali; era suo fratello l’amicone, quello che usciva con Ludwig e Kiku, quello che si divertiva fuori. Romano aveva come amico solo Veneziano, che tra l’altro era suo fratello, quindi non valeva.
«È complicato, va bene?» con questo Romano chiuse il discorso.
Chiara prese il casco dalla sella e glielo lanciò. «Allora andiamo al cinema, è uscito un film che voglio assolutamente vedere» disse allacciandosi il suo e mettendo in moto.
Al suono del motore che scalciava Romano fu attraversato un brivido in ricordo della prima volta che era salito lì sopra con lei.
«Preferisco andare a piedi, non mi piacciono le moto» mentì spudoratamente.
«Ma se ieri la guardavi con gli occhi a forma di cuore, se stavi per piangere per tutta la bellezza che è racchiusa qui dentro» disse lei con un ampio gesto che abbracciava tutta la moto.
«Diciamo più che altro che hai paura» lo stuzzicò.
«Non ho paura, semplicemente ci tengo alla mia vita! Non hai idea di come guidi, tu» mentre lo diceva si stava allacciando il casco e mentre borbottava qualche parolaccia si sistemò dietro di lei stringendola forte.
Romano non riuscì a trattenersi dall’urlare un paio di volte durante il tragitto, pizzicava il fianco di Chiara quando faceva manovre troppo azzardate e le ringhiava nell’orecchio che se fosse morto l’avrebbe perseguitata da fantasma.
«Fa che oggi – PORCA PUTTANA – io non muoia. Fa che io – OH CAZZO – riesca a tornare a casa sano – CRISTO, LA CURVA! – e salvo»
Sceso dalla moto, Romano lasciò passare qualche secondo per ritrovare la calma interiore. Non si rendeva conto di non averla mai avuta, nemmeno ai tempi con Nonno Roma.
«Due biglietti per il nuovo film» disse Chiara in biglietteria. Romano guardò la locandina e fece una smorfia.
«Lo so, è un film americano, ma non devi inchiodarti qui» Chiara gli mise un dito sulla fronte. «Devi riconoscere e accettare le diversità. Devi ricordarti chi sei prendendo il meglio che ti possono dare gli altri, se no rimarrai chiuso dentro te» detto questo gli consegnò il suo biglietto e corse al bar a prendere da mangiare mentre Romano rimase dov’era. Al bancone gli chiese urlando cosa volesse, se pop-corn oppure un hot-dog, poi rise e chiese se per caso non volesse un piatto di amatriciana con un bicchiere di vino.
Romano si coprì la bocca, non riuscì a trattenersi dal sorridere; si avvicinò e ordinò una porzione media di pop-corn, mentre Chiara prese dei dolcetti, un hot-dog e delle patatine e una lattina di coca.
«Vuoi diventare una balena?» disse Romano sedendosi al suo posto e vedendo tutta la roba che la ragazza aveva tra le braccia.
«Problemi? Voglio mangiare tutto quello che mi piace, la vita è una sola, dopotutto» aveva aperto il pacchetto di patatine e ne mangiava tre alla volta. Gli tese il sacchetto che lui spinse via, aveva già da mangiare e lui non voleva diventare una botte.
Il film iniziò dopo venti minuti di scartavetramento di palle, o come molti dicono “pubblicità”. Ai titoli di apertura, lui aveva già finito metà porzione di pop-corn e si maledisse per non essere riuscito a trattenersi.
Il film raccontava la storia di un ragazzo con qualche problema a livello relazionale che riesce finalmente a farsi degli amici dopo il suicidio del migliore amico, che si innamora di una ragazza dolce che però è fidanzata con qualcuno che non la merita. Parla dei problemi dell’amico gay, che deve tenere nascosta la relazione con il ragazzo perché lui non vuole rivelarsi, soprattutto al padre. Alla fine il ragazzo viene ricoverato per aver tentato il suicidio, cose del suo passato sono emerse prepotenti e cattive; alla fine riesce a stare con la ragazza di cui è innamorato; la fine è lui con le braccia alzate al cielo, sul pick-up dell’amico, con il vento che gli si getta contro.
 
«Allora? Ti è piaciuto?» chiese Chiara uscendo dalla sala.
«Mmm» Romano alzò le spalle. Cristo, se gli era piaciuto, ma non lo avrebbe mai ammesso davanti a lei.
«La prossima volta lo scelgo io, però, il film» disse tenendo aperta la pesante porta d’uscita.
«Quindi ci sarà una prossima volta?» Chiara lo abbracciò e per togliersela di dosso, Romano dovette lasciare la porta che gli si chiuse contro, sbattendogli addosso; finirono a terra tutt’e due tra gli sguardi divertiti della gente lì intorno.
«Che cazzo vi ridete? Aiutare no, eh?» urlò il ragazzo pulendosi i pantaloni. Un uomo si avvicinò e gli tese una mano, stava ancora ghignando per lo spettacolino.
«Non ho bisogno di aiuto, idiota» gli disse a denti stretti. Prese per un braccio Chiara e uscì veloce dal cinema. Lì dentro non ci avrebbe mai più rimesso piede, aveva deciso.
«Tu dovresti fare qualche esercizio per contenere la rabbia» commentò Chiara mentre tirava fuori le chiavi della moto. «La rabbia fa venire le rughe sulla fronte. Ne vedo già una, proprio qui» disse indicando il viso del ragazzo.
«No, un corno!» Romano scacciò la mano della ragazza. «Non ho nessuna voglia di contenere la rabbia. Sono caduto davanti a tutti quegli stronzi per colpa tua, mi sembra anche normale essere arrabbiato» disse trattenendosi dall’urlare.
«Ma non oggi, tu sei sempre così. Hai sempre le sopracciglia così aggrottate che sembra che tu abbia il monociglio, hai la fronte corrugata e il sorriso all’ingiù. E non ti ho mai visto sorridere, chissà come sei?»
Romano contò fino a dieci e girò i tacchi. Non aveva intenzione di restare un minuto di più, aveva passato abbastanza tempo con Chiara quel giorno.
«Non vuoi un passaggio?»
Romano non rispose, non fece alcun gesto con la testa o con la mano. Stava pensando che doveva sopportare quella ragazza per un mese, fino al prossimo raduno. Perché lo avrebbe fatto, perché ne valeva la pena.
Chiara osservò il ragazzo allontanarsi, la testa abbassata a guardare i suoi passi e le mani in tasca; non avrebbe fatto niente per andargli dietro, magari era davvero stufo. Accese la Vespa e partì per tornare a casa.
 
Erano le undici e lui era davanti al bar da un’ora e passa, stava aspettando di vedere spuntare la moto rossa da un momento all’altro. Fece passare altri due minuti ed entrò nel locale, si sedette e aspettò.
 
Passò la serata sul divano a fare l’emo-depresso-pentito, si sentiva in colpa per aver trattato male Chiara il giorno prima. È che lo aveva fatto cadere davanti a tutto il cinema, lo trascinava ovunque come un cagnolino, era normale essere arrabbiati.
Sbuffò e guardò la televisione fino ad addormentarsi durante una pubblicità.
Si svegliò e l’orologio segnava le tre del mattino; fece per alzarsi, ma una fitta di dolore gli impedì di muoversi. Aveva il collo bloccato, ogni movimento gli procurava dolore, si era addormentato con la testa penzoloni sul petto. Andò in camera dove senza neanche spogliarsi si stese sul letto, troppa fatica, troppo dolore al collo per sfilarsi la maglietta.
Spera solo di esserci domani o dovrai vedertela con me. È per colpa tua che ho fatto il depresso sul divano fino ad addormentarmi. Pensò.
Erano le nove e vide un’amica di Chiara, una di quelle che erano al bar il primo giorno, entrare al bar. La seguì dentro e la vide incontrarsi con le altre due. La ragazza posò lo zaino a terra e dopo baci e abbracci cominciò a parlare con le amiche. Romano si avvicinò al loro tavolo cercando di sorridere, doveva fare il gentile se voleva delle informazioni. Si vide riflesso nella vetrina dei dolci al bancone e quello che vide fu un ragazzo inquietante con un sorriso terrificante, quasi da maniaco. Glielo avevano detto che quando sorrideva a comando faceva paura. Lasciò stare, tornò alla sua solita espressione scocciata.
«Ciao» disse alle tre che si voltarono velocemente verso di lui, gli fecero una veloce radiografia e, ritenendolo passabile, sorrisero.
«Ciao» dissero in coro muovendo le manine con le unghie colorate.
«Voi siete amiche di Chiara, giusto? La ragazza in Vespa» mimò il gesto di accelerare in moto. Loro sorrisero un po’ tristi. Romano credette di aver visto male, così non chiese niente e continuò.
«E sapete dirmi dove trovarla? Ieri dovevamo vederci qui davanti, ma lei non è venuta»
«E come mai non è venuta?» chiese quella vestita di giallo.
«Che ne so perché» rispose acido lui.
«L’hai fatta arrabbiare, vero?» chiese la biondina con gli occhiali da sole in testa.
«No» disse Romano quasi al limite della sua pazienza. Strinse i pugni dietro la schiena; dopotutto lui aveva chiesto solo se sapevano dove fosse e la risposta era o o no, quelle erano tutte chiacchiere inutili.
«Forse l’ha fatta sentire male per qualcosa. Vi ricordate quando credeva che Francesca non le voleva bene? Che non si è fatta più vedere per giorni» disse la terza ragazza guardando le amiche. Cominciò una discussione su cosa avesse potuto fare Romano per far scappare Chiara, sembrava uno di quei discorsi infiniti.
«Vi ho solo chiesto se sapete dirmi dov’è oppure no. Mi serve una sola risposta» disse esasperato alzando la testa al soffitto. Aveva parlato troppo ad alta voce, alcune teste si voltarono verso di loro.
«Va bene, ma stai calmo, ci stai facendo fare una figuraccia. Dovrebbe essere a casa sua e se non è lì è al parco. Quello lontano dal centro» disse la prima ragazza scrivendo su un tovagliolo di carta l’indirizzo di casa.
«Grazie» borbottò lui prendendo il pezzo di carta. Guardò gli zaini posati a terra, vicino alle loro sedie.
«Non dovreste essere a scuola?»
«Oggi no, piccola bigiata. E tu? Non dovresti essere a scuola?» chiese la biondina con un sorriso di sfida.
«Io no, io lavoro» disse Romano andando verso l’uscita.
«Così giovane?» commentò lei.
«Sono più vecchio di quanto pensi» rispose Romano prima di uscire.
Guardò il pezzo di carta e vide che sotto l’indirizzo c’era un numero di cellulare. Di chi era? Di Chiara o della ragazza? Era per caso un tentativo di conquista da parte sua?
«Al diavolo» disse e prese il telefono. Cancellò il messaggio di aggiornamento sulla situazione della borsa europea e compose il numero. Dopo tre squilli rispose una voce impastata dal sonno che riconobbe per quella di Chiara.
«Sei in ritardo. Di un giorno» disse Romano dirigendosi verso casa della ragazza.
«Romano? Come fai ad avere il mio numero?» chiese la voce, più attenta e sveglia.
«Me lo ha dato una tua amica. Non te l’ho mai chiesto, ma perché non vai a scuola? Hai bigiato in questi tre giorni?»
«No, non vado più a scuola» una nota malinconica sembrò accompagnare quelle parole.
«E perché?»
«Così»
«Perché sei a casa adesso?» cercò di cambiare argomento.
«Sono malata» disse veloce lei.
Rimasero in silenzio, sentivano il respiro dell’altro dall’altro capo del telefono, le rotelline del cervello che giravano in cerca di qualcosa da dire, qualcosa di cui parlare.
«Resta dove sei. Sto venendo»
«Non t’immaginavo quel tipo di ragazzo. Ma va bene, ti aspetto a letto allora» Romano sentì una risata soffocata dall’altra parte. Sorrise divertito e le guance si colorarono di rosso velocemente, lei non lo avrebbe visto.
«Sto arrivando a casa tua, va bene? E non fare più battute così squallide, grazie» cercò di sembrare serio.
«Lo so che ti è piaciuta, stai sorridendo come un idiota» disse lei, la solita nota allegra nella voce.
Romano si fermò sul marciapiede, si voltò da tutte le parti, ma non la vide. Era da qualche parte lì vicino per forza se lo vedeva sorridere.
«Dove sei?» chiese guardandosi alle spalle, magari era dietro quel cassonetto.
«Non ti ho visto, ho sentito il sorriso mentre parlavi. È più facile di quanto sembri»
Romano rimase interdetto qualche istante, scosse la testa. «Ok, se lo dici tu» salutò e riattaccò.
La casa di Chiara era una villetta a due piani con il giardino più verde che Romano avesse mai visto: l’erba era straordinariamente curata, c’erano alcuni alberi in fiore, i fiori rosa e piccolissimi che decoravano i rami; una piccola altalena verde un po’ arrugginita stava sola nel grande giardino, nessun altro gioco in vista.
Suonò al campanello e una Chiara in pigiama con i capelli scompigliati e più ricci del solito aprì la porta di casa, attraversò il prato lentamente e aprì il cancello. Era a piedi nudi sul prato, il pigiama corto e leggero svolazzava per colpa del vento.
«Così ti ammalerai, idiota»
«Non credo proprio» disse ridendo esageratamente Chiara. Lo accompagnò in casa dove gli offrì da bere, da mangiare e, quando lui rifiutò tutto, indicò il piano di sopra.
«Vuoi direttamente quello allora. Ti facevo un po’ più romantico, però. Ti accompagno in camera da letto, o vuoi farlo sul pavimento come gli animali?»
«Chiara!» Romano aveva le guance completamente in fiamme, distolse lo sguardo e si voltò. Chiara rideva piegata in due, si reggeva al corrimano delle scale.
«Smettila» il ragazzo cercava di star serio, di avere un tono di voce sicuro, ma le parole uscivano tremanti e spezzettate, e sentire le guance ribollire come se avesse il fuoco in bocca non lo aiutava per niente.
«Dovresti vedere la tua faccia, è rossa come… come… non lo so, non esiste un rosso così intenso, dovrebbero inventare un nuovo colore. Color Romano imbarazzato» Chiara era seduta sui gradini e si teneva la testa e la pancia, era completamente distrutta dalle risate.
Lo invitò a salire, ad andare in camera sua precisando, tra una risata e l’altra, che voleva solo fargli vedere camera sua. Romano la seguì con la testa bassa, ancora rosso e imbarazzato.
Chiara entrò in camera lanciandosi sul letto enorme e Romano la seguì più titubante; si tolse le scarpe, come aveva chiesto lei entrando. Le pareti erano blu e il pavimento era ricoperto da una moquette rosso fuoco.
«Rosso Romano imbarazzato» disse Chiara indicando il pavimento e sghignazzando ancora.
Il ragazzo entrò e fu sommerso dai libri messi ordinatamente sulle mensole, alcuni poster appesi alle pareti e qualche cd sulla scrivania. Non c’era l’ombra di una televisione o di un computer. Sul comodino c’era il manichino in plastica di una testa, Chiara lo guardò, gli occhi aperti più del normale.
«Come mai sei qui? Sei venuto a chiedermi scusa per come ti sei comportato l’altro giorno?» disse cercando il contatto visivo del ragazzo.
Romano quasi si pentì di essere andato da lei.
«Forse»
«Accetto le tue scuse» disse sorridendo Chiara.
Romano stava per protestare dicendo che non aveva detto di essere lì per scusarsi, anche se era andato fin lì proprio per quello, ma Chiara aveva cominciato a cantare.
«Cause I'm on top of the world, 'ay 
I'm on top of the world, 'ay 
Waiting on this for a while now 
Paying my dues to the dirt 
I've been waiting to smile, 'ay 
Been holding it in for a while, 'ay 
Take it with me if I can 
Been dreaming of this since a child 
I'm on top of the world
»
Era la stessa canzone che aveva cantato quando erano stati al parco, la stessa che Romano stava canticchiando in quel momento a bassa voce, senza accorgersene.
Passarono così la giornata, seduti sulla morbida moquette a parlare e giocare, quasi fossero dei bambini. Chiara vide il ragazzo sorridere un paio di volte e la sorprese così tanto che non glielo fece notare, se lo avesse fatto lui si sarebbe concentrato a non farlo più, stava cominciando a conoscerlo.
Per tutta la settimana successiva Romano andò a trovarla a casa, dato che lei non poteva uscire. Passavano i pomeriggi in casa o in giardino a parlare di cose che Romano non raccontava mai a nessuno, nessuna delle nazioni si era mai interessata a quello che era al di fuori di Italia, nessuno pensava a lui come Romano.
Il ragazzo tornò ancora a suonare a quel citofono.
«Che ci fai ancora qua? Non dirmi che comincio a starti simpatica»
«Se vuoi me ne vado»
Chiara scosse la testa decisa e corse ad aprirgli il cancello.
Rimasero in camera anche quel giorno, la finestra aperta per dare aria e luce alla stanza, per far sentire il canto degli uccelli lì fuori.
La ragazza si sedette a terra e iniziò a distribuire le carte, fischiettava.
Squillò il telefono e Romano rispose uscendo dalla stanza, era il suo superiore.
Chiara sentiva parlare Romano in modo concitato, quasi si tratteneva da mandare al diavolo il suo interlocutore. Doveva essere qualcuno di importante se non veniva insultato.
Il moro tornò in stanza e si sedette rumorosamente, sbuffò e riprese in mano le sue carte; ne scartò una.
«Più quattro, prendi» disse arrabbiato.
Lei prese le quattro carte dal mazzo e scartò.
«Non è divertente giocare a “Uno” in due» disse Romano buttando le carte che aveva in mano.
«Che è successo? La ragazza ti ha mollata? La mamma ha detto di tornare a casa?»
«La riunione… il nostro incontro di amici è stato rinviato di una settimana»
«Mmm»
Chiara sistemò le carte nel contenitore e le mise sulla scrivania, prese una scacchiera da dentro un armadio e la posò tra di loro; posizionò i pezzi bianchi e neri ai loro posti.
«Sarà bello per te, ma per me no. Era importante quell’incontro, dannazione» Romano mosse il primo pedone e guardò Chiara in attesa della sua mossa. Sembrava concentrata, lo sguardo dritto sulla scacchiera a guardare quale pezzo muovere. Questa era l’impressione che dava a Romano, ma Chiara era persa in tutt’altri pensieri: come faceva a dire a Romano che non ci sarebbe stata quella settimana? con che coraggio?
«Credo che possa bastare» disse prendendo i pezzi di legno e sistemandoli nelle loro nicchie nella scacchiera.
«Ma non abbiamo ancora iniziato» Romano prese il suo re, voleva farle vedere quanto fosse bravo a scacchi, Veneziano gli aveva insegnato dei trucchi fantastici.
«No, tu puoi bastare» si allungò per prendere il re nero che Romano teneva stretto tra le dita, ma lui si allontanò e si alzò. «Non capisco, spiegati meglio»
Chiara si passò una mano sugli occhi.
«Il mio era un ricatto, “se vuoi che ti faccia il favore, sii mio amico”. Le persone non si costringono in questo modo, le amicizie nascono, non si costruiscono. Vai a casa, dimentica il nostro patto»
Romano cercava il suo sguardo, ma Chiara teneva la testa abbassata, accarezzava il cavallo bianco.
Non credeva possibile che lo stesse cacciando, dopo tutto quello che lui le aveva detto, dopo quello che avevano fatto. È vero, all’inizio era stato costretto ad essergli amico, ma poi era nato qualcosa, qualcosa che lui aveva associato all’amicizia. Lui si era sentito davvero suo amico, ma a quanto pare si era sbagliato.
Uscì dalla stanza in silenzio, fece le scale due a due e uscendo sbatté la porta dietro di sé, sbatté il cancello. Diede una veloce occhiata alla Vespa parcheggiate sul marciapiede, avrebbe voluto graffiarla, far qualcosa, ma non aveva niente tra le mani se non il re nero.
Lanciò il pezzo degli scacchi in giardino, atterrò vicino a un cespuglio di camelie non lontano dall’entrata.
Il cielo si era rannuvolato e come succede solo nei film cominciò a piovere. Romano urlò qualche insulto in tutti i dialetti che conosceva e correndo arrivò a casa, si sedette in cucina esausto e tutto bagnato.
Andò a letto che ancora pioveva, non faceva più tanto caldo, così indossò delle mutande e un paio di pantaloni di una tuta. Guardò le lancette fare un giro completo due volte prima di riuscire ad addormentarsi.

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Capitolo 3
*** Capitolo Tre ***


Fu lo squillo del cellulare a svegliarlo, sentirsi quella dannata suoneria preimpostata nelle orecchie non era affatto un bel risveglio. Allungò una mano verso il comodino. Sul display lampeggiava il nome di suo fratello.
«Cosa c’è» rispose borbottando.
«Ciao, Lovi! Come stai? Tutto bene? Ma sei ancora a letto? Sono le undici passate, dovresti vivere la vita e alzarti presto come faccio io» Romano dovette allontanare il telefono dall’orecchio per non farsi bucare i timpani dalla voce acuta e squillante di Veneziano. Dopo aver parlato a lungo del più e del meno – Romano aveva solo ascoltato, Veneziano era l’unico a parlare, come sempre – Veneziano fece una piccola pausa, forse per prendere fiato.
«Come va la ricerca dell’italiano?» chiese cautamente. Sapeva che per il fratello quella era una questione di principio.
Romano si irrigidì, la testa sprofondata nel cuscino, il pugno chiuso, ancora arrabbiato per il giorno prima.
«Non voglio parlarne» disse solo.
«Ma Lovi, non devi tenerti dentro le cose»
«Feli, sono stanco, devo far colazione e ho un sacco di lavoro arretrato» attaccò il telefono senza sentire le lamentele del fratello. Aveva abbastanza fastidi.
Vide la cartelletta dei messaggi illuminata, l’aprì e trovò un messaggio da parte di Chiara.
Non so se ci sarò la settimana del vostro incontro tra amici.
Cosa voleva dire? Non ci sarebbe stata, perché? Lei doveva esserci, non poteva prendersela perché lui se ne era andato arrabbiato da casa sua, non poteva. Era stata lei ad essersi comportata male, a dire di dimenticarsi del loro patto e quindi della loro amicizia nata, appunto, da quel patto. Romano aveva sperato che anche se lei non voleva come amico, sarebbe andata con lui al meeting. Quel messaggio cambiava tutto. Le rispose chiedendole il perché, lasciò passare cinque minuti di orologio, rimase seduto sul bordo del letto a fissare le lancette dell’orologio e poi il telefono. Non gli rispose. Le inviò lo stesso messaggio e nel frattempo si lavò, si vestì e fece una veloce colazione; tornato in camera non trovò nessun messaggio, così decise di chiamarla, ma lei non gli rispose.
«Cazzo, rispondi, Chiara» disse mentre scendeva le scale, il telefono all’orecchio per un ultimo tentativo.
Si ritrovò per l’ennesima volta davanti a quella villetta, davanti a quel prato curatissimo; suonò ancora a quel campanello e vide, ancora, la testa rossa di Chiara aprire la porta.
«Adesso mi spieghi due cose: cosa significa quel cazzo di messaggio e perché cazzo non hai risposto ai messaggi e alle telefonate» Romano stava urlando e pensò che non era il modo esatto per farsi rispondere, soprattutto quando l’apertura di un cancello dipendeva dalla persona a cui si stava urlando.
Chiara uscì di casa e si avvicinò al cancello. Era più pallida dal giorno prima e due occhiaie le circondavano gli occhi scuri.
«Non so se ci sarò, niente di più. E non ti ho risposto perché sapevo mi avresti parlato in questo modo» disse lei facendo la linguaccia.
«Me lo avevi promesso, avevi detto che ci saresti stata. Ho fatto anche l’amichetto, come volevi tu» si stava proprio umiliando davanti a quella ragazza. «E avrei continuato a farlo se solo me lo avessi permesso, ma non per via del patto, ma perché sarei stato felice di esserti amico»
Cosa diavolo sto dicendo. Non credeva possibile di averlo detto ad alta voce, i suoi pensieri erano arrivati alla bocca senza filtri, senza blocchi; aveva detto quello a cui aveva pensato per tutta la notte in un soffio, senza rendersene conto e senza potersi fermare.
«Lo dici solo per dire, non lo pensi davvero» disse Chiara, un po’ di speranza negli occhi.
Romano si morse la lingua. Ormai aveva cominciato, non poteva tirarsi indietro.
«Non lo dico tanto per dire, mi piaceva esserti amico, mi piaceva che tu mi fossi amica. Pensavo piacesse anche a te» disse mentre le guance cominciavano a colorarsi.
«Ma a me piaceva»
«Allora perché mi hai detto di andarmene?» chiese senza capire.
«Perché non so se ci sarò quella settimana» sussurrò Chiara abbassando la testa, teneva le mani sulle sbarre di ferro che li dividevano. Romano sospirò.
«Non importa, magari ti libererai dell’impegno. Chissà?»
Chiara scosse la testa in modo così impercettibile che il ragazzo non notò il movimento.
«Ora posso mostrarti quanto sono imbattibile a scacchi?» chiese Romano spostando il peso da una gamba all’altra. Si sentiva a disagio, non era da lui comportarsi così. Quando si ha a che fare con una persona più fragile, si tende a essere forti, più forti, per compensare l’altro; si tende a essere forti per due, per entrambi.
«Hai portato il re nero?» chiese Chiara alzando lo sguardo illuminato.
«Oh»
Ci vollero venti minuti prima di trovare il pezzo nero, lo cercarono ovunque in giardino; Romano aveva indicato il punto esatto dove lo aveva visto cadere quando lo aveva lanciato – cosa che procurò al ragazzo una ramanzina –, ma quando guardarono il pezzo non c’era. Alla fine lo trovarono in una buca fatta dal cane di Chiara, una specie di topo allungato, che si divertiva a rubare le cose dei padroni per sotterrarle da qualche parte.
 
«Scacco matto»
Era la terza partita che Romano vinceva, ed era la terza rivincita che Chiara chiedeva, non credeva possibile di aver perso ancora.
Il moro scosse la testa e si sdraiò sulla moquette, le braccia tese verso l’alto; Chiara sistemò i pezzi, il re nero era un po’ morsicato, si vedevano i segni dei denti del cagnolino.
Sarà un ottimo ricordo. Pensò.
Romano stava osservando Chiara sistemare i pezzi al loro posto, quando vide un sorriso immensamente triste comparirle sul volto per poi scomparire non appena lei si accorse di essere osservata. Gli fece la linguaccia e saltò sul letto, prese da una mensola un libro.
«È il mio preferito» disse sfogliando alcune pagine.
Romano si avvicinò per leggere il titolo.
«Ti piace Il Piccolo Principe? Ma non è per bambini?»
Lei gli tirò un pugno sulla spalla.
«No, non è per bambini. Lo hai mai letto? No? Be’, dovresti» disse Chiara facendo l’offesa.
Mentre Chiara parlava della vita dello scrittore de Il Piccolo Principe entrò in camera la madre, una donna sulla cinquantina con occhiaie e borse sotto gli occhi.
«Tesoro, sono tornata a casa prima così possiamo stare un po’ insieme, ti va se-» la donna si fermò sulla soglia, guardò la figlia sorridente vicino al ragazzo sconosciuto, forse quello di cui parlava a tavola. Aveva gli occhi buoni come aveva detto Chiara, il sorriso era al contrario e le sopracciglia aggrottate. La donna sorrise, era esattamente come glielo aveva descritto la figlia.
Romano vide la donna ferma sulla soglia sorridere, non capiva se stesse guardando lui o la figlia. Si alzò e si passò una mano tra i capelli.
«Allora io vado, ci vediamo un altro-»
«NO!»
Sia Chiara che Romano si voltarono spaventati verso la porta, la madre aveva urlato e ora si copriva la bocca pentita.
«Volevo dire che puoi restare, non devi andartene. Io e lei staremo insieme più tardi, resta pure» la donna parlava trattenendo la felicità e la paura che il ragazzo se ne potesse andare.
«Mamma…» Chiara lanciò un’occhiata alla donna che alzò le mani, un sorriso strano in faccia.
«Scusa, hai ragione. Allora io vado, Romano, è stato bello incontrarti. Spero che tornerai presto» uscì dalla stanza quasi correndo, si sentirono i suoi passi veloci sulle scale e la porta della cucina chiudersi.
«Come fa a sapere il mio nome»
«Potrei aver parlato un po’ di te qualche volta. Sai, non ho avuto molti amici ed è per questo che si è comportata in quel modo» distolse lo sguardo dalla porta da cui era scappata la madre e tornò a parlare di De Saint-Exupéry.
 
Romano non riuscì ad andare a trovare Chiara per una settimana intera: ci furono riunioni e incontri continui, uno dopo l’altro un po’ in tutt’Italia; lui e suo fratello seguirono i loro superiori, assistettero ad alcune riunioni in cui non potevano intervenire e rimasero ad ascoltare i problemi nazionali da risolvere.
«Veh, Lovi, non ne posso più. Voglio tornare a casa» Veneziano era sdraiato sul tavolo della caffetteria, aveva tra le mani una brioche al cioccolato che pucciava nel cappuccino ormai freddo.
«Smettila di lamentarti, anche io vorrei essere da un’altra parte» disse l’altro dando un morso al suo bombolone alla crema.
«Io me ne vado. È stato bello rivederti, fratellone» Veneziano si alzò tutto contento e Romano dovette trattenerlo dal lembo della camicia.
«Se io devo sorbirmi quegli inutili discorsi lo farai anche tu» disse mettendo la camicia del fratello nei pantaloni.
Veneziano si sedette con un rumoroso sospiro, si agitò un po’ sulla sedia e poi crollò nuovamente sul tavolo; Romano credette che si fosse calmato, così da poter finire il suo bombolone in pace e, nel caso quello non lo avesse saziato, finire la brioche del fratello.
«È che stasera devo vedermi con Kiku: ha detto che sarebbe venuto a trovarmi e che mi avrebbe cucinato qualcosa, che mi avrebbe fatto vedere un suo nuovo videogioco»
«Stai tranquillo, stasera sarai a casa tua»
Le parole del fratello riuscirono a calmarlo e durante le due successive ore interminabili di chiacchiere e documenti e grafici, Veneziano non si mosse inquieto sulla sedia neanche una volta, sicuro che la sera avrebbe visto l’amico. Romano invidiava un po’ il fratello, era tanto bravo a farsi degli amici come lui lo era a tenere la gente a distanza. Aveva dovuto fare un patto per ottenere la sua prima amica. Un giorno forse, mettendo da parte orgoglio e dignità, gli avrebbe chiesto qualche consiglio in materia.
 
Mancavano tredici giorni al meeting mondiale e Romano sperava che Chiara riuscisse a liberarsi da quell’impegno; non ne avevano ancora parlato apertamente, ma lo avrebbe fatto, magari il giorno prima.
Quel giorno trovò il cancello aperto e quando suonò vide la porta socchiudersi e la testa di Chiara fare capolino ed invitarlo ad entrare.
La casa non era più tanto luminosa e Chiara era avvolta in un pigiama lungo e pesante, aveva il viso scavato e le occhiaie scure.
«Ciao, Romano» la madre della ragazza non era messa tanto meglio, era solo più colorata in viso e manteneva la robustezza che la contraddiceva.
Dalla cucina uscì un uomo alto e possente, aveva i capelli bianchi e la barba di qualche giorno; anche lui sembrava provato. Le occhiaie erano per caso il marchio distintivo di quella famiglia?
«Sono Giorgio, il padre di Chiara» si presentò lui allungando una mano. Romano la strinse, aveva una presa debole, nonostante gli strati di muscoli che vedeva sotto la sottile camicia.
«Non hai ricevuto il messaggio?» chiese sottovoce Chiara.
Quale messaggio? Lui non aveva ricevuto niente. Il ragazzo tirò fuori il telefono per controllare ancora, ma nella casella non c’era nessun nuovo messaggio.
La ragazza annuì e prese Romano per una mano e lo portò di sopra. I suoi genitori dissero che sarebbero rimasti in cucina, per qualsiasi cosa loro erano lì.
In camera Chiara si sdraiò sul letto, chiuse gli occhi; Romano si sedette alla scrivania a guardarla. Respirava rumorosamente, il petto si alzava e si abbassava sotto quella maglia pesante.
Sentiva qualcosa dentro dirgli di andarsene, di scappare immediatamente, qualcos’altro di rimanere e parlare.
«Stai bene?»
Bell’inizio, tu si che sei un grande oratore. Si schernì da solo.
Vide Chiara annuire debolmente nel letto.
«Perché mi riesce difficile crederci?»
«Non credo di poter venire alla tua riunione» disse voltandosi a guardare il soffitto. «Sono malata»
«Stai tranquilla, magari ti riprendi, mancano tredici giorni» disse lui facendo l’indifferente, guardando le persiane socchiuse.
«No. Sono malata a termine»
Romano inclinò la testa a destra, prese a tirarsi dei pizzicotti alla gamba. «Che vuol dire?»
«Voglio dire che mi sarebbe sempre piaciuto essere rossa, che questi non sono i miei capelli, che i miei sono corti e scuri. Che tra tredici giorni io non ci sarò più»
Si sentivano gli uccellini cantare, il rumore delle rare macchine che passavano per la via e le voci di alcuni bambini in lontananza.
Cominciava sempre con un lieve pizzicore agli occhi che pian piano aumentava d’intensità, con il vuoto improvviso nella testa come se la capacità di ragionamento e di pensiero sparissero momentaneamente, con il cuore che si stringeva lentamente, con qualcosa di duro e forte che stritolava il cuore e i polmoni facendo mancare l’aria; era da tanto che non sentiva gli occhi prudere, che non sentiva il cuore fermarsi per qualche istante, istanti che sembravano minuti, ore, giorni. Era da tanto che non gli si appannava la vista impedendogli di vedere la punta del naso. Da tanto tempo non provava quel tuffo al cuore che durava un’eternità, un tuffo negativo, un tuffo nel dolore e nello strazio; si sentiva più leggero, si sentiva senza più il cuore, come se si fosse perso nella caduta, come se si fosse finalmente liberato da quei 300 grammi fastidiosi e fragili. Provò a trattenere le lacrime. Se ne trattieni una le trattieni tutte, ma se te ne scappa una, per quanto piccola sia, un’altra la seguirà e poi un’altra ancora e una quarta, fino a quando non avrai più liquidi in corpo. Il pianto scuote tutto di te: dal cuore che batte irregolare e forte, ai polmoni che cercano aria, che creano i singhiozzi e si comprimono e si rilassano in modo spasmodico; le mani che si aprono e chiudono, che non sanno dove stare, cosa stringere e cosa picchiare; le gambe che si avvicinano al petto, che ti trasformano in un riccio chiuso nel suo dolore, che si mettono a protezione di quell’organo piccolo e leggero così fragile, che tentano di limitarne le crepe e i tagli inutilmente.
Romano aveva imparato a piangere in silenzio, senza emettere alcun suono, nessun singhiozzo sarebbe mai uscito dalla sua bocca. Pianse un quarto d’ora, seduto alla scrivania ad osservare Chiara stesa, bianca e fragile. Pianse con dei sussulti impercettibili, con le lacrime che bagnavano maglia e pantaloni; piangeva senza far rumore, senza disturbare. Le mani si torturavano, si stringevano forti per impedire qualsiasi movimento violento, per arginare la voglia di distruggere; le gambe chiamavano per salire al petto per impedire che il cuore si crepasse, chiedevano di fare da muro, da protezione.
In quel quarto d’ora Romano chiese di poter tornare indietro, di cancellare la scommessa che aveva fatto con Alfred e Arthur e la successiva conoscenza con Chiara; avrebbe preferito cancellare tutto, avrebbe preferito rimanere fuori da tutto quello strazio, avrebbe preferito non sapere come Veneziano si sentisse ogni volta.
Avrebbe preferito morire.

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Capitolo 4
*** Capitolo Quattro ***


«Roma» disse Chiara allungandosi nel letto. Il ragazzo si voltò verso di lei, era appoggiato alla testata del letto che gli pungeva la schiena.
«Mi devi fare un super favore»
Romano annuì divertito dall’ironia della sorte. Avevano cominciato con un favore e con un favore sarebbe tutto finito.
«Questi tuoi amici delle riunioni sono simpatici? Non rispondermi, diresti di no anche se lo fossero»
Romano girò la testa sorridendo.
«Non puoi farteli amici?» continuò lei. «Esci con loro qualche volta, a bere qualcosa, a fare un giro, invitali a casa tua e fagli vedere quanto sei imbattibile a scacchi. Sei un buon amico, Romano, hai un grande cuore, anche se non lo mostri. Non ti sto dicendo di farteli amici, ma almeno di provarci. Ho vissuto a lungo senza amici, non volevo includere nessuno nella mia vita per ovvi motivi, ma aver trovato te è stata la cosa più bella che mi sia mai capitata»
Romano annuì mentre Chiara si sistemava vicino a lui chiudendo gli occhi, poteva farlo, glielo doveva.
 
Venne svegliato dal telefono che squillava prepotente, rispose assonnato e infastidito. Dall’altra parte c’era la voce debole e flebile di Giorgio; Chiara si era addormentata quella notte con loro nel letto senza più svegliarsi.
Romano rimase a letto tutto il giorno, non si alzò, non mangiò, non vide e sentì nessuno; rimase a vegetare fino a sera quando squillò di nuovo il telefono. Stava pensando di non rispondere, ma vide il nome di Veneziano comparire sul display.
«Lovi, come stai?»
Era incredibile come riuscisse a sentire il suo dolore senza una parola; lui diceva che era perché erano fratelli, perché tra loro c’era tanta empatia da gemelli.
«Arrivo, dammi qualche ora. Prendo l’aereo e sono lì» riattaccò senza stare ad ascoltare le deboli proteste di Romano che non voleva nessuno.
Aprì la porta quando sentì il rumore di un motore spegnersi davanti casa sua. Trovò Giorgio sulla porta di casa, aveva tra le mani le chiavi della Vespa di Chiara, la moto parcheggiata sul marciapiede.
«Abbiamo trovato un bigliettino, una specie di testamento “fai-da-te”» sorrise l’uomo triste. «Voleva che l’avessi tu: “Datela a Romano” c’era scritto, “gli piace tanto”»
L’uomo gli mise le chiavi in mano, Romano non accennava a muoversi, e se ne andò a piedi, la testa bassa e incassata tra le spalle, l’andatura sbilenca di Chiara.
Era seduto sulla Vespa con solo i pantaloni della tuta addosso quando un taxi bianco si fermò, scese Veneziano che in fretta pagò e prese una piccola valigia dal baule.
«Sei mezzo nudo, così ti ammalerai, Lovi»
«Non credo proprio» sussurrò Romano mentre il fratello lo trascinava in casa.
Veneziano cucinò qualcosa di veloce e mentre era ai fornelli ascoltò la storia di Romano, quello che era successo dall’inizio fino ad allora; raccontava con tono distaccato guardando il pavimento freddo, non sembrava nemmeno la sua storia, sembrava la trama di un film.
Il più piccolo stava male mentre ascoltava, ma doveva essere forte per il fratello, doveva compensarlo come lui aveva fatto in passato.
Un’ora più tardi Veneziano si rotolava tra le lenzuola.
«Si sta così bene qui, fa caldo»
Romano gli si sdraiò accanto a pancia in giù, la testa rivolta dall’altra parte a guardare la porta aperta.
Cominciò a piangere lentamente e in silenzio, senza singulti e movimenti vari, le mani sotto al cuscino si muovevano una alla ricerca dell’altra per pizzicarsi e contorcersi; era sorpreso di essersi trattenuto durante tutta la giornata, di non aver versato una lacrima, ed era sorpreso di non riuscire a fermarsi, adesso.
La notte porta consiglio. No, la notte porta dolore, lo risveglia quando tu vorresti solo addormentarti.
Sentì una mano calda sulla schiena all’altezza del cuore, e un’altra che gli stringeva le dita sotto al cuscino. Trattenne il respiro e si voltò cercando di mantenere gli occhi nascosti dai capelli; Veneziano era girato verso di lui, gli occhi chiusi e il respiro regolare, ma non dormiva, lo stava consolando.
Romano si addormentò con la mano del fratello sulla schiena, la sentiva rimettere lentamente insieme tutti i cocci del suo cuore, sentiva le crepe rimarginarsi e diventare semplici graffi; sentì i polmoni rilassarsi e riuscì a tornare a respirare piano.
 
«È quello verde?» chiese Veneziano da dentro casa.
«Prendi quello che vuoi, è un semplice casco, muoviti»
Romano aprì la sella della moto per prendere il casco. Trovò quello tricolore e prendendolo sentì un tonfo nel bauletto. Tirò fuori un pezzo degli scacchi, era il re nero masticato da quel bassotto bastardo; sorridendo rimise a posto il re quando sentì i passi del fratello dietro di lui.
Veneziano si era allacciato il casco al contrario e sbuffando Romano glielo sistemò, non voleva di certo prendere una multa per quell’idiota.
«Sei sicuro che possa venire anche io? Non mi conosce nessuno e non c’entro niente con-»
«Stai zitto, Feli. Tu vieni e basta, sei mio fratello e tutto quello che riguarda me riguarda te»
«Oh, Lovi» Veneziano lo strinse forte tra le braccia, lo coccolò a lungo mentre lui si dimenava insultandolo.
«Lasciami stare, idiota! Non devi abbracciarmi, ma salire in moto. Siamo in ritardo, dannazione» riuscì a divincolarsi dalle braccia a tentacolo del fratello che si mise buono sulla sella.
«E vedi di attaccarti alla moto, non a me»
Come se le sue parole fossero entrate in un orecchio ed uscite dall’altro, Veneziano circondò la vita del fratello cominciando a canticchiare.
Era una giornata troppo bella per un funerale. Il sole splendeva nel cielo e le poche nuvole erano candide e morbide.
«Il cielo è felice di averla con sé» disse Feliciano dietro di lui; Romano annuì, la sua presenza lì dietro lo confortava.
Arrivarono in chiesa appena in tempo, stavano chiudendo le porte; Giorgio fece cenno con la testa a mo’ di saluto e si sedette accanto alla moglie piegata in avanti e nascosta da un cappello a tesa larga. Loro si sedettero su una panca vuota, la navata era quasi deserta e non si capiva se fosse perché era una cerimonia privata o perché non c’era stato nessuno da invitare. Qualche posto più avanti Romano vide le tre ragazze del bar strette in un abbraccio.
La cerimonia iniziò e il silenzio lo si sentiva pesante e quasi soffocante.
Si era fatto accompagnare da Veneziano per avere una spalla, un punto forte, ma si ritrovò lui stesso ad essere il punto saldo del fratello. Feliciano stava piangendo cercando di trattenere i singhiozzi, si asciugava gli occhi con un dito in fretta, voleva essere all’altezza del compito di cui il fratello lo aveva rivestito tacitamente. Veneziano non piangeva per Chiara, non poteva, non la conosceva; Veneziano piangeva per il dolore che vedeva negli occhi dei genitori della ragazza, per Romano che non stava versando una lacrima.
«Stai piangendo per entrambi» sussurrò Romano sorridendo. A quel sorriso, a quel sorriso nel posto sbagliato, a quel sorriso sotto sotto ferito a morte, Veneziano pianse senza più trattenersi.
 
Al tavolo delle riunioni si discuteva a voce bassa, senza urla e strepiti, senza litigi tra Alfred e Arthur, Arthur e Francis; c’era una nota grave nell’aria che tutti potevano sentire. Romano era seduto al suo posto tra il fratello e Francis, con Ludwig due posti più a destra che parlava della situazione disastrosa dell’euro.
La sera del funerale Feliciano aveva chiamato Ludwig e i fratelloni Antonio e Francis per metterli al corrente su quello che era successo e aveva tassativamente vietato loro di chiamare Romano, non era pronto a parlarne. Alla fine tutte le nazioni erano venute a sapere la storia, così si evitarono figure e frasi che avrebbero potuto peggiore la situazione: nessuna battuta sulla scommessa persa, nessun commento sulla superiorità dell’America o dell’Inghilterra. Intorno a quel tavolo tutti si erano legati in qualche modo agli umani, avevano provato tutti il dolore causato dalla loro perdita.
Francis osservò il ragazzo seguire il discorso del tedesco, la tristezza nascosta dietro quegli occhi ambrati; lui più di tutti sapeva cosa stava passando, lui aveva perso Jeanne e ancora adesso se ci pensava provava nostalgia. Era questo il lato brutto dell’essere nazione, di vivere per sempre: la memoria era perfetta, i ricordi chiari e limpidi, indelebili e sarebbero rimasti con loro per sempre, fino alla fine.
 
«Ehi Roma» Antonio si avvicinò alla panca su cui l’italiano stava prendendo il sole, il viso alzato verso il cielo.
«Che fai, terroncello?» chiese Gilbert sedendoglisi affianco.
«Prendo il sole, cosa che dovresti fare anche tu visto che sei pallido come un fantasma. Esiste il sole in Crucconia?»
«Noi andiamo a prendere qualcosa in caffetteria, ti va di venire?» Francis appoggiò i gomiti allo schienale della panca ad osservare il ragazzo pensieroso.
«Solo se lui non viene» disse Romano puntando il pollice contro il prussiano che si alzò in piedi offeso.
«Come puoi non volere la compagnia del Magnifico?» chiese scandalizzato.
«Si può fare» rise Antonio prendendo il ragazzo per un polso e cominciando a correre verso l’entrata del grande edificio grigio. Francis li seguì saltellando senza prima aver tirato una potente pacca sul collo a Gilbert che prese a corrergli dietro minacciandolo e urlando improperi vari.
«Siete tutti degli stronzi bastardi!»
Gilbird volava dietro il padrone cinguettando.
Le nazioni in pausa seguivano divertiti con lo sguardo la corsa, rumorosa e colorata, di quei quattro fino a quando non sparirono dietro le porte dell’edificio.

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