The wrong side

di SherlokidAddicted
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** My dearest Sherlock ***
Capitolo 2: *** La frattura ***
Capitolo 3: *** The game is on… again ***
Capitolo 4: *** Sei mai stato a Praga? ***
Capitolo 5: *** Un altro buffone spaziale ***
Capitolo 6: *** L'uomo non morto ***
Capitolo 7: *** Assalto al Colosseo ***
Capitolo 8: *** I Dalek ***
Capitolo 9: *** North Pole ***
Capitolo 10: *** L'ultima lettera ***
Capitolo 11: *** Lame affilate ***
Capitolo 12: *** You can sleep now ***
Capitolo 13: *** Cerchi nel grano ***
Capitolo 14: *** Quegli occhi verdi ***
Capitolo 15: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** My dearest Sherlock ***


My dearest Sherlock

 
UN MESE PRIMA…

 
- Signora Hudson! Perché quest’uomo è nel mio salotto? –

- Lascia perdere Sherlock, sarei comunque entrato. – Mycroft si era accuratamente seduto sulla mia poltrona, le gambe accavallate e il portamento regale che lo distingue da sempre. Si sta spolverando via qualcosa dal vestito, qualcosa che non c’è, ma il suo essere così precisino lo porta a fare cose di cui nemmeno si accorge.

- Che cosa vuoi? – Gli chiedo mentre sistemo la mia vestaglia blu con un’alzata di spalle.

- Non rispondi ai miei messaggi, non sei rintracciabile nemmeno dall’ispettore Lestrade. – Mi guarda con quello sguardo severo che solo lui sa rivolgermi, mentre incrocia le dita delle mani fra di loro. Io sbuffo sonoramente e recupero il pacchetto di sigarette nascosto sotto al teschio, quello che non ho mai spostato da sopra il camino.

Già, John le nascondeva sempre lì sotto.

- Voglio stare da solo. – Mi metto seduto sulla poltrona. La sua. Per un attimo rimango immobile a stringere con le dita i braccioli, affondandole nella pelle. Non mi ci ero mai seduto da quando è stato scaraventato nel passato. Riesco a vederlo mentre si mette comodo col suo giornale e con la tazza di tè in mano, concentrato sulla prima pagina del quotidiano. Deglutisco rumorosamente e porto la sigaretta alle labbra con lo sguardo perso sul pavimento. Percepisco l’espressione contrariata di mio fratello sul fatto che fumassi contro la sua volontà, ma mi concede di stare zitto e non controbattere.

- Segui dei casi? –

- Mycroft. – Dico poco prima di sbuffare il fumo dalla bocca. – Non costringermi a spingerti fuori. – Si alza dalla mia poltrona, reggendo il manico del suo ombrello con la mano destra. Si aggira un attimo per la stanza, poi con lo stesso manico scosta la tendina della finestra e si sporge con la testa per sbirciare.

- A quanto pare qualcuno vorrebbe parlarti. – So di chi sta parlando. Il Dottore è ancora lì, fissa la mia finestra in continuazione. Lo fa sempre, per dei minuti interminabili.

- Tutti vogliono parlarmi ma nessuno ha ancora capito che voglio essere lasciato in pace. – Mormoro con voce impastata dal fastidio che sto provando da quando è entrato nell’appartamento. La sigaretta incastrata fra le labbra e lo sguardo perso a fissare il vuoto.

- Ti conosco abbastanza bene da capire che c’è qualcosa che non va. – Non rispondo e mi limito a sbuffare fuori altre nuvolette di fumo che vanno a disperdersi nel salotto. – Il dottor Watson è davvero andato dalla sorella, Sherlock? –

No, Mycroft, non osare.

- Ho controllato, fratellino. Sai che posso controllare anche gli spostamenti delle persone e non risulta che John sia partito. -

Non osare.

- John non è partito. Dov’è, allora? –

- Vattene. – L’ho detto con un tono rabbioso, dalla mia bocca esce il disprezzo, l’odio, la paura, la solitudine, la mancanza. Tutto ciò che ho provato in questo mese è uscito fuori con quell’unica parola, e a Mycroft il messaggio è arrivato forte e chiaro. Si è infatti raddrizzato sulla schiena e a passo lento si è avviato verso la porta. Non è uscito, però, si è girato per guardarmi un’ultima volta.

- Sherlock, per qualunque cosa io… - Non gli ho comunque dato il tempo di finire la frase. Mi sono alzato di tutta fretta e l’ho spinto fuori con entrambe le mani, poi ho chiuso la porta e mi ci sono poggiato contro con le spalle. Mycroft è ancora lì dietro. Lo sento sospirare, probabilmente si è sistemato la giacca con accuratezza, poi i suoi passi lungo le scale si fanno sempre meno udibili.

Rimango immobile per non so quanto tempo, forse secondi, forse minuti… non lo so di preciso. Riesco a muovermi e ad uscire da quella stranissima trance solo quando sento il suono del Tardis che scompare. Anche il Dottore se n’è andato.

Inizio a camminare e senza rendermene conto finisco nella mia stanza. Mi rendo conto di essere stanco, di voler stare sdraiato su quel letto per tutto il giorno, sperando che tutto questo possa finire, anche se so che non finirà.

Mi sbottono lentamente la camicia e sento la lana morbida del maglione che ho messo sotto di essa. Me la sfilo e l’odore di John mi arriva alle narici. Non ricordavo di aver indossato quel capo di abbigliamento, né pensavo che avrei potuto essere così tanto sentimentale, ma date le circostanze, dato tutto quello che è successo, non mi stupisco più di niente. Non lo tolgo, però. Mi sdraio delicatamente e poggio la testa sul cuscino fresco, portando stupidamente l’orlo delle maniche al mio naso. Lo immergo nella lana, ne assorbo l’odore fino a sentire il fiato corto e gli occhi pungere. Gocce calde e dolorose scendono e attraversano i miei zigomi pronunciati fino a posarsi sulla stoffa chiara del cuscino. Cavolo, sto piangendo.

 
- Che diavolo hai addosso? –

- Non dire nulla, per favore. – John cammina fino al salotto facendo svolazzare le maniche fin troppo lunghe del maglione. Sembra infastidito e la sua buffa espressione mi fa ridacchiare dietro il microscopio.

- Harriet? –

- Ha pensato di mandarmelo per il mio compleanno, credo abbia sbagliato le misure… -

- … O ne ha preso uno più grande per farti un dispetto. – Accenno una leggera risata e lui mi fulmina con lo sguardo, prima di sfilarsi il regalo della sorella che aveva indossato sopra alla camicia a quadretti.

- Non ti chiederò come fai a dire una cosa del genere, mi limiterò a crederti sulla parola. – Dice mentre lo piega accuratamente, cercando in tutti i modi di ignorare il mio sorrisetto divertito. – A te starebbe bene. Potresti provarlo. –

- Io non metto quella roba! – Esclamo alzando la testa dal mio esperimento in corso. Lui alza un sopracciglio, accennando un’espressione divertita quando vede quello che lui chiama “muso lungo da bimbo capriccioso”.

- Lo metto nel mio cassetto, in mezzo agli altri maglioni, e prima o poi te lo farò indossare. –

- Sì, contaci. – Lo sento ridacchiare mentre raggiunge al piano di sopra, mentre io, nascondendo il rossore delle guance, torno con gli occhi al microscopio.
 

 
Cavolo, se sto piangendo.
 
_________________________________________________________________________ 
 
Londra, 25 novembre 1902

Mio carissimo Sherlock,

scrivere su un pezzo di carta, alla vecchia maniera, con penna e calamaio (cercando oltretutto di non rovesciare l’inchiostro sul tavolo, come è già successo circa due minuti fa con la precedente lettera che ho preferito strappare), è decisamente più complicato di quanto pensassi. Ero abituato ad utilizzare il portatile, e lì potevo cancellare facilmente una riga per poi riscriverla correttamente. Non per niente questa è la quinta volta in cui provo a scriverti senza sbagliare una virgola.

Sicuramente adesso starai roteando gli occhi, ti conosco. Non ti interessano queste “inutili introduzioni”, quindi arrivo al dunque.
Dalla data potrai benissimo immaginare in che luogo io sia finito. È stato terribile quando ho realizzato tutto. Due secondi prima stavo guardando te ed il Dottore che correvate verso di me, spaventati, e due secondi dopo mi sono ritrovato scaraventato in un piccolo vicolo alla periferia di Londra.

Il Dottore ha proprio ragione riguardo ai viaggi nel tempo senza capsula, sono devastanti. Ho vomitato due volte, poi mi sono ripreso. Mi ci è voluto un po’ per mettere a fuoco e per riuscire a stare dritto su due piedi.

Non so bene cosa fare, adesso. So che non posso tornare nel nostro tempo, come non potevano farlo Luke Jefferson e Joseph.
Mi sono recato in un’osteria vicina. Sono stati molto gentili, mi hanno dato del cibo gratuitamente, e non hanno esitato quando ho chiesto loro di potermi far scrivere una lettera. Questa lettera.

Purtroppo è stata un’idea mia. Il Dottore non è venuto a rassicurarmi e darmi la borsa con tutto ciò di cui ho bisogno per vivere qui, come ha fatto per tutti gli altri. Forse si farà vivo dopo, forse non verrà, ma so che questo potrebbe essere l’unico modo che ho per poterti informare su quello che mi sta accadendo, e come vedi non ho perso tempo.

Solo… non riesco a capire. Avevamo fermato gli Angeli, ci eravamo riusciti! Perché sono qui? Perché sono stato comunque catturato?

So per certo che tu e il Dottore ve ne siete accorti poco prima che tutto accadesse, ma non avevate avuto il tempo di comunicarmelo. Ma cosa è andato storto?

Nella mia mente quella scena si ripete in continuazione. Vederti correre verso di me con quegli occhi terrorizzati. Poche volte ti ho visto terrorizzato, ma mai come quando tutta questa orribile faccenda è avvenuta.

I tuoi occhi.

Al solo pensiero che non potrò rivederli mai più sento come una stretta al petto che mi impedisce di respirare. Dopo mesi e mesi a darmi la colpa per tutto quello che è successo a Mary, dopo mesi sentendo che niente e nessuno avrebbe potuto sollevarmi il morale, ho trovato in te la felicità che avevo perduto. E adesso mi è scivolata dalle mani come sabbia.

Mi manchi.

E mi mancherai.

Mi sembra l’unica cosa che posso dire adesso. Non sarà l’unica lettera che scriverò, ma sapendo che non potrò più sfiorare le tue labbra con le mie, che non potrò più sentire quelle sensazioni magnifiche che ho provato quando abbiamo fatto l’amore, che non potrò più sfiorare la tua pelle, sentire le tue incredibili deduzioni, la tua voce annoiata che mi snerva, che non potrò più rimproverarti per le tue cazzate, che non potrò più nascondere in luoghi impossibili le tue sigarette, né correre da te quando ricevo un tuo sms… tutto questo, insomma, mi fa solo venire in mente di dirti che mi mancherà ogni cosa.

Adesso è meglio che vada, qui stanno per chiudere a farò bene a cercare un posto per la notte, spero di non dover ricorrere ai marciapiedi nelle strade o… beh, si vedrà.

Alla prossima lettera, Sherlock.
Con immenso affetto,
tuo John
 
_________________________________________________________________________ 

OGGI…

 
Abbiamo percorso la scalinata in silenzio, io ho varcato il salotto per il primo, e ho sentito il Dottore fermarsi sulla porta. Quando mi sono girato per guardarlo, noto i suoi occhi preoccupati che mi fanno alzare un sopracciglio.

- Che c’è? –

- Sei magro come un chiodo. – Non se n’era mai accorto nessuno, nemmeno io. Ma ora che il Dottore me lo fa notare, riesco a sentire la spossatezza della fame, e le costole sporgere più del normale. Mi giro d’istinto verso lo specchio sul camino e porto l’attenzione sul mio viso. Gli zigomi sporgono spaventosamente ed i miei occhi si inumidiscono senza che io possa controllare quella reazione stupida.

- Beh… - Con una leggera tosse cerco di cambiare argomento. Voglio arrivare subito al dunque. – Spiegami il tuo piano. – Ma lui sembra non volere arrivare dritto al punto. Si sfila gli occhiali e li sistema nella tasca interna della giacca. Indossa un completo marrone a righine blu, diverso da quello che ha sempre portato. Si avvicina, dopo aver chiuso per bene la porta.

- Sherlock, non ti dirò niente se non metti qualcosa sotto ai denti. – Ed eccolo! Dottore di nome e di fatto. Perché non può semplicemente parlare? Sono due mesi che aspetto che tutto questo si risolva. Devo sapere.

- John è più importante. – Esordisco incrociando il suo sguardo. Lui piega leggermente la testa da un lato ed incrocia le braccia al petto.

- Anche la tua salute lo è. – Puntello i piedi sul pavimento. A volte John mi faceva notare quanto questo mio comportamento mi facesse sembrare un bambino, ma adesso non mi importa di sembrare tale. Odio quando vengo contraddetto.

- Ma John è ancora lì! – Ho alzato la voce, forse in maniera abbastanza esagerata, ma il Dottore si limita soltanto ad allungare un braccio e a poggiarlo sulla mia spalla nel tentativo di calmarmi. Sotto il tocco del palmo della sua mano, tutti i miei nervi tesi vengono pian piano allentati, ma le mie mani sono strette in due pugni minacciosi. Sono fin troppo stanco di tutto.

- Non ho detto che non andremo a prenderlo. – La sua voce è calma e flebile e riesce a far svanire del tutto la mia rabbia. Al suo posto si fanno spazio le lacrime, che copiose rigano le mie guance. Sto proprio cadendo in basso, ma mi sono trattenuto fin troppo a lungo. L’unica volta che ho pianto in due mesi, per pochissimo, è stata quando mi fece visita mio fratello. Non mi rendo conto che adesso il Dottore mi sta stringendo in un goffo abbraccio con lo scopo di rassicurarmi. Solo che io non voglio né riesco a reagire o a ricambiare quel gesto di apparente affetto. – Facciamo così: io ti spiego quello che ho scoperto, ma solo se tu mangi qualcosa mentre ne parliamo. – Si allontana appena da me e mi guarda, aspettando una mia risposta. Se le condizioni sono queste per sapere come aiutare John, allora tanto vale accettarle. – Ci stai? –

- D’accordo. – Mormoro dopo aver tirato su con il naso.

- Perfetto! Su, sediamoci. –




Note autrice:
Ecco, siamo tornati all'arrembaggio! (?) Dopo il successo di The side of the Angels ho deciso di tornare, ma non prima di preparare due capitoli, così da poter essere pronta per pubblicare. E poi mi avete chiesto in tanti un segito, ed eccolo qui.
Spero vi piaccia, i tempi di pubblicazione saranno sempre quelli.
Un bacio e alla prossima!

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Capitolo 2
*** La frattura ***


La frattura

Londra, 26 novembre 1902

Mio carissimo Sherlock,

molti dei miei problemi sono finiti. Il Dottore ha dato segni di vita. Ok, non si è presentato di persona, ma mi ha lasciato un pacco ed una lettera all’osteria di ieri sera. C’era scritto che non poteva farsi vedere perché, come ha detto lui, noi siamo nell’occhio del ciclone: io, tu, lui. Forse vederci avrebbe causato qualcuno di quei disastri… e ne sono già accaduti parecchi, quindi meglio così.

Nel pacco ho trovato le mie nuove referenze, ma probabilmente il Dottore sapeva già che avrei voluto tenere il mio vero nome, dato che l’ho trovato scritto sul mio documento. Ho un conto in banca con un bel po’ di soldi, e adesso posso presentarmi in qualche ospedale e lavorare normalmente come medico.

Ho una casa, sono andato a vederla subito dopo che l’ho scoperto. La cosa buffa è che il mutuo sembra già saldato. Non so come diamine abbia fatto il Dottore a comprarla, né a fare tutto il resto, ma gli devo la vita. Non avrei saputo proprio cosa fare senza il suo aiuto.
Mi ha spiegato anche cosa è successo. Il fatto che anche l’immagine o la foto di un Angelo possa diventare tale è una storia un po’ inquietante, no? Come una di quelle favole che si raccontano ai bambini per spaventarli.

Questa notte l’ho passata al freddo, sul retro di una sartoria. Avevano buttato via delle stoffe, sono stato fortunato perché ho potuto utilizzarle come letto provvisorio. Non immagini il freddo, nonostante le coperte di cui stavo usufruendo. Ho battuto i denti tutta la notte, non ho riposato per niente, e sono dovuto scappare via prima che il negozio aprisse, non volevo essere cacciato malamente e ho deciso di evitare il disastro.

Adesso sono su una carrozza. È difficile scrivere qui sopra con i sobbalzi dovuti alla strada malmessa. Ho ritirato alcuni dei soldi in banca e adesso mi sto dirigendo nella mia nuova casa per sistemarmi. Ovviamente ho dovuto cambiarmi d’abito. Attiravo fin troppa attenzione con i vestiti del 21esimo secolo.

Ti farò sapere come andranno le cose, quindi per qualche giorno non ti scriverò, ho abbastanza cose da fare.

Mi manchi.

Lo so, l’ho già scritto nella lettera di ieri, ma mi sento vuoto senza di te.

Sono solo adesso.

E mi manchi.
Con immenso affetto,
Tuo John
 
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- La situazione è questa. – Si interrompe un attimo e sorseggia il tè che poco prima si è preparato, in attesa che io cominciassi a mangiare ciò che aveva ordinato al telefono. Il pasto comprende un primo, un secondo, ed una fetta di dolce come ciliegina sulla torta. Mi aveva minacciato di non spiegarmi nulla se non avessi ingurgitato tutto. Quindi, con molta moltissima calma e decisamente controvoglia, ho cominciato a mangiare. – Dopo che mi hai cacciato mi sono sbrigato a preparare le cose di cui John avrebbe avuto bisogno, poi le ho lasciate in un’osteria nel suo tempo. Non potevo vederlo perché siamo tutti e tre nell’occhio del ciclone e avrebbe causato un paradosso. Adesso ha una casa, la sua identità, un conto in banca ed un lavoro. Non ho voluto cambiasse il suo nome, anche perché secondo me, John non avrebbe voluto farsi chiamare diversamente. Ho fatto bene? – Poggia la tazza vuota sul ripiano in legno e si siede proprio di fronte a me, dall’altra parte del tavolo. Io sto in silenzio, accennando un leggero movimento della testa per annuire e giocando con la forchetta sul cibo parecchio invitante nel mio piatto semivuoto. Sono ancora al primo. Immaginavo che John non avrebbe voluto una nuova identità, è fin troppo sentimentale per distaccarsi dal suo nome. – Questo perché pensavo che non avrei mai più potuto risolvere le cose. –

- Non capisco, avevi detto che non c’era alcun modo per recuperare le vittime. –

- Ed è così! Ma non sapevo che prima dell’arrivo degli Angeli fosse successa una cosa che avrebbe cambiato l’esito della situazione. – Porto un boccone alle labbra e non inizio a masticare se non prima lo sento parlare nuovamente. – Non me ne sono reso subito conto, non finché un giorno il Tardis ha deciso di cambiare rotta da solo e portarmi dove voleva lui. Ogni tanto lo fa, quando succede qualcosa di strano. Quando si è fermato sono corso alla porta. Lo scanner dava problemi e non ho potuto vedere da lì né il luogo né il tempo in cui ero finito. – Allunga un braccio per togliere il piatto ormai vuoto davanti ai miei occhi e per posizionarmi sotto il naso il secondo. Con un gesto della mano mi incita a mangiare. Il suo silenzio mi fa capire che non avrebbe continuato a raccontare se io non avessi ripreso a rimpinzarmi. Quando il primo boccone è nella mia bocca, si schiarisce la voce: - Fuori c’era la Terra. Ero finito ad un paio di anni luce dalla Terra, fluttuavo nello spazio e di fronte a me c’era il vostro pianeta illuminato dal Sole. Non ho capito all’inizio, non potevo uscire e continuavo a chiedermi perché il Tardis mi avesse portato lì. – Inutili ed inutili giri di parole, insomma… vogliamo arrivare al punto? – Poi ho guardato in basso, mi sono sporto e sotto al Tardis l’ho vista. Una frattura, una crepa, uno squarcio nello spazio tempo, o in qualunque modo tu voglia definirlo, ma era lì. Non avevo mai visto una frattura così grande e mi sono subito allarmato. – Grazie alle sue informazioni il mio cervello si attiva all’istante. Una volta mi aveva parlato di cose come queste, e tutto era collegato proprio a quello che pensavo.

- Non dirmelo, un passaggio per un mondo parallelo? – Lui annuisce sorpreso ed incrocia le dita fra di loro.

- Oh, la tua mente così geniale! Sherlock Holmes, un semplice umano con un cervello così perfetto e… -

- Dottore! – Il suo modo di idolatrare la mia mente… ammetto che mi ha lusingato. Ma adesso non mi sembra il caso di soffermarsi in questi particolari frivoli.

- Giusto, scusa. – Dice lui, tornando serio.

- Cosa c’entra questo con John? – Il cibo comincia sempre di più a sembrarmi insapore, e provo un leggero senso di nausea nel mangiarlo, ma comunque non demordo.

- Pensaci Sherlock. Una frattura per un mondo parallelo. Prima pensavo che le cose non si sarebbero sistemate, ma ora sono convinto che tutto tornerà alla normalità, e questo perché? – Mi guarda in attesa di una risposta, sperando che la mia “mente geniale” si attivi per dare io stesso la soluzione.

Bene, riflettiamo.

Il Dottore sa perché John non può essere riportato nel 2016, per via dei paradossi e dei disastri che potrebbero accadere se solo ci provasse. Questo prima che il Dottore notasse la frattura che il Tardis (devo appuntarmi che questa nave è, a quanto pare, vivente e con una mente tutta sua) ha voluto mostrargli. Perché adesso è possibile salvare John? Un passaggio per un mondo parallelo, vari paradossi e…

Oh, ma certo, è ovvio!

- Gli Angeli vengono dal mondo parallelo! – Esclamo lasciando ricadere la forchetta nel piatto. Il Dottore allarga entusiasta le braccia.

- Esatto! I nostri due Angeli si divertivano a saltare da un mondo ed un altro. Li abbiamo uccisi, questo è vero. Ma l’immagine di uno di loro vaga ancora in questo mondo, e questa immagine non proviene da qui. Tutto ciò che loro hanno fatto da questa parte, nella parte sbagliata… non è valido. –

- Sono un paradosso. – Lo diciamo entrambi, nello stesso momento. E allora capisco tutto. Gli stessi Angeli sono un paradosso, che hanno a loro volta creato un paradosso gigantesco con le loro vittime.

- Tutte le vittime allora… -

- Tutte le vittime non dovrebbero essere lì, né Luke Jefferson, né Joseph e nemmeno John. Se riusciamo a chiudere lo squarcio, loro torneranno indietro, il tempo stesso tornerà indietro e sarà come se niente fosse accaduto. – Spiega agitando le braccia e mettendosi in piedi per camminare avanti e indietro nella stanza. Ho totalmente perso interesse per il cibo e allontano disgustato il piatto con una mano, facendo tintinnare la forchetta nella porcellana. Lui non mi dice nulla, né controbatte. Forse aveva immaginato che questa sua spiegazione mi avrebbe sconvolto.

- E la frattura… come la chiudiamo? Immagino si sia creata per un qualche paradosso. –

- Immagini bene, il paradosso è avvenuto nel mondo parallelo e ha causato la frattura. Quando gli Angeli hanno iniziato a oltrepassarla e a divorare il tempo della gente, la frattura si è allargata sempre di più. Ciò che dobbiamo fare è cercare il nostro Angelo e rispedirlo nel mondo parallelo. Faremo lo stesso anche con i nostri due Angeli morti, il fatto che siano qui è un pericolo già abbastanza grave. –

- A quel punto la frattura si chiuderà? –

- E le vittime torneranno a casa. –

Sembrava facile a dirsi. Ma conoscendo i rischi e i pericoli, passare all’azione era sicuramente molto più difficile del previsto. Mi schiarisco la voce ed incrocio le braccia al petto. Molti dubbi si fanno spazio nella mia testa. Il suo piano è ottimo e se ci riusciamo tutto potrebbe tornare al suo posto, ma se falliamo? Cosa potrebbe succedere se falliamo? Non rivedrei più John, ma ci sarebbe la frattura aperta e…

- Se non ci riusciamo? Se la frattura resta aperta? –

- In quel caso, altre creature aliene si accorgerebbero dello squarcio e lo oltrepasserebbero senza problemi. Si allargherebbe e questo potrebbe causare la fine del tempo e dello spazio. Tutto morirebbe. – Il suo tono e grave. Guarda il pavimento e tiene le braccia lunghe ai fianchi mentre mi comunica quello spiacevole esito.

Ma qui non si trattava di salvare una persona qualunque. Se si fosse trattato di altri, avrei lasciato liberamente che lo squarcio si allargasse e che facesse finire tutto. Perfino la mia stessa vita. Ma John. Si trattava di lui. L’unica persona per cui mi sono fatto in quattro per tutta la vita, e se oggi non fosse bastato, mi sarei fatto in otto, in sedici, in trentadue, pur di riaverlo con me.

- Quindi… andiamo? – Mi alzo ed aspetto una sua risposta, che per fortuna non tarda ad arrivare. – Vado a cambiarmi. – Dico dopo averlo visto annuire.

- Ti aspetto qui. – Mi sento come se una scarica elettrica mi avesse dato tutta la forza necessaria persa in quei lunghi mesi di solitudine. Avevo di nuovo voglia di muovermi, di andare all’azione, di far ricominciare il gioco. Quando mi cambio, mi rendo conto che anche oggi ho indossato quel maglione. Stava diventando un gesto abitudinario, decisamente fin troppo. L’ho tolto e l’ho sistemato accuratamente nel cassetto, poi mi sono preparato, completando il tutto con il solito cappotto, i soliti guanti e la solita sciarpa.

Mentre io e il Dottore oltrepassiamo la porta per uscire dall’appartamento, la luce esterna mi sembra talmente fastidiosa che non riesco a tenere del tutto gli occhi aperti. La luce, il sole, la vita sociale, le auto, le persone, Londra. Tutto ciò che per molto ho visto solo dalla mia finestra e non dal vivo.

- Il tuo amico, l’ispettore Lestrade, si è occupato lui dei nostri Angeli dopo che li abbiamo fermati? – Mi chiede prima di varcare la soglia del Tardis.

- Non è mio amico. – Rispondo con glaciale naturalezza mentre lo seguo. – Se ne è occupato lui, comunque. – Detestavo il fatto che la gente pensasse che io avessi amici.

Entrare nel Tardis dopo così tanto mi fa rabbrividire. Per un attimo mi sembra di rivivere la prima volta in cui ho varcato quella porticina: lo stupore, la meraviglia, la confusione, la paura… e John, che con la sua risata sorpresa si aggirava nella cabina come un bambino davanti al suo regalo di Natale.

- Prima vorrei che ti rendessi conto di quello che stiamo per affrontare. – Mi comunica mentre con fare esperto manovra ogni leva e pulsante. Inserisce le coordinate, ormai ho capito come funziona, più o meno. Non dico niente, mi limito ad annuire, portando le mani dietro alla schiena e aspetto di arrivare dove vuole il Dottore. Pochi attimi dopo, la cabina si ferma e lui si dirige alla porta con passo spedito. La apre e mi dice di raggiungerlo.

Ecco di nuovo lo spazio infinito, riesco a rivivere di nuovo la prima volta in cui io e John siamo stati esposti a tutto questo, seduti sul bordo della cabina senza aver paura del vuoto sotto di noi. Un vuoto immenso e senza fine.
Quando lo raggiungo, entrambi ci sporgiamo a guardare verso il basso e…

- Per la miseria! – Esclama lui mentre io immagazzino nel mio palazzo mentale ciò che sto vedendo. Ho le labbra semiaperte e scommetto qualunque cosa che la mia faccia sembra abbastanza scossa e disarmata di fronte a tutto quello. Sotto di noi c’è lo squarcio, sembrava quasi che lo spazio si fosse squarciato come delle lenzuola. Un infinito lenzuolo nero con un enorme strappo dalla quale non si riusciva a vedere granché. Ma lo squarcio risplendeva di luce propria, sembrava uno di quegli ingressi dei portali nei film stupidi che John adorava guardare. Adesso era tutto vero.

Mi giro a guardare il Dottore e lo vedo abbastanza turbato mentre allunga e aziona il suo cacciavite sonico in direzione della grande apertura.

- L’avevi già vista prima, perché ti allarmi tanto? – La sua espressione non cambia nemmeno mentre rimette il suo cacciavite nella tasca interna della sua giacca, nemmeno quando mi lancia quello sguardo subito dopo.

- Ha subito un cambiamento abbastanza notevole dall’ultima volta che l’ho vista. – Mi comunica dopo essersi schiarito la voce con un colpo di tosse.

- Che tipo di cambiamento? – Guarda di nuovo in basso e concentra la sua attenzione verso un punto ben preciso di quella frattura, poi sospira.

- Mi sa che dobbiamo muoverci a risolvere questa situazione. –

- Dottore, lascia perdere i giri di parole, non li sopporto. Arriva al punto! – Dico chiudendo esasperato gli occhi, facendo sentire il fastidio nella mia voce.

- Si è ingrandita, credo che adesso sia il triplo più grande. – Incrocia le braccia al petto e punta lo sguardo su di me. Io ho aperto gli occhi e ho sospirato pesantemente davanti a tutta quella situazione assurda.

- Questo vuol dire che… - Dico, intuendo già il motivo per cui quella frattura avesse subito quel drastico cambiamento.

- Esatto. – A volte sembrava leggermi nel pensiero. Sapeva già cosa stessi per dire. – Il nostro Angelo sta ancora banchettando con la razza umana… e date le dimensioni della frattura, puoi immaginare quante volte abbiano mangiato. -




Note autrice:
Olè, puntualissima!
Sono felice di riprendere questa storia, ogni volta che la scrivo mi sembra di viverla in prima persona. In più sono contenta voi gradite tutto questo.
In questo capitolo si capisce il motivo per cui John può essere salvato... ma anche il perchè del titolo "The wrong side". Avete notato il riferimento?? L'ho messo in corsivo eh!
Un bacio e al prossimo capitolo!

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Capitolo 3
*** The game is on… again ***


The game is on… again



- Sai quante sciocchezze ho dovuto inventarmi per colpa vostra? – Lestrade sembrava quasi infastidito dalla nostra improvvisata a Scotland Yard. Dopo quello che era successo a John gli ho raccontato tutta la verità. Non aveva prove, io non parlavo più col Dottore e non potevo dimostrargli quanto le mie parole fossero veritiere con la sua presenza, ma gli avevo parlato di lui. Lo aveva già visto, questo è vero, ma non sapeva chi fosse in realtà.

Era stupito, scioccato, e aveva riso divertito, pensando stessi scherzando… ma non ero mai stato più serio. “Dimmi come stanno davvero le cose!” aveva detto, esasperato dal mio silenzio. Non avevo altro da dire, le cose stavano davvero così e non potevo inventarmi nessuna balla, quindi Lestrade dovette prendere la mia storia come verità. Cosa raccontò alla stampa, però, non lo sapevo.

Lo stiamo seguendo negli archivi delle prove. Cerchiamo i due Angeli che avevamo fermato e che la polizia aveva rimosso da Hyde Park per portarli qui, in questi archivi.

- Lei è davvero di un altro mondo? – Gli chiese mentre apriva una delle porte con un mazzo di chiavi. Il Dottore, però sembra distratto e concentrato sulle pile di scatole e documenti di vecchi casi che lo circondano. Li scruta con attenzione e cerca di leggere i titoli di ogni scomparto. L’ispettore è rimasto immobile ad aspettare una risposta. Se il Dottore non si dà una mossa a rispondergli, quella porta non si aprirà mai più. Cerco di riportarlo alla realtà, colpendolo leggermente con il gomito. Lui sobbalza appena e torna a guardarci confuso.

- Come? –

- Ho detto, lei è davvero di un altro mondo? – Il Dottore si sistema la giacca e stringe il nodo della cravatta per rispondere.

Si sta dando delle arie.

- Beeeeeh, già, lo sono! – Lestrade ridacchia ed apre la porta. Non lo vedo né spaventato, scioccato o sconvolto, perlopiù è divertito.
- Non poteva essere altrimenti, infatti. Solo un alieno poteva farti uscire da quell’appartamento, eh Sherlock? – Non vedo cosa ci sia di divertente in tutto quello che dice, e il mio sguardo su di lui è torvo mentre raggiungiamo la stanza. Ciò che vedo sono solo scaffali pieni di scatole, scartoffie e vecchie prove, ognuna catalogata in ordine alfabetico. Le uniche cose fuori posto sono appunto gli Angeli, posizionati l’uno davanti all’altro ed in mezzo alla stanza, diventando il punto focale di essa, facendo perdere importanza ad ogni oggetto presente. – Le abbiamo messe qui perché… gli agenti avevano paura, insomma quelle facce sono inquietanti, no? – Riesco a vedere la scena patetica degli agenti che abbandonano i due Angeli al centro della stanza e che fuggono impauriti, richiudendosi velocemente la porta alle spalle.

Ridicoli.

Mi avvicino con cautela alle due statue, tenendo la schiena ben dritta e le braccia incrociate dietro. Le guardo con attenzione. Avverto un certo senso di soddisfazione nel sapere che non avrebbero potuto fare più nulla, ma sono anche arrabbiato, perché sono loro la causa di tutto. – A questo punto credo sia meglio che vi lasci lavorare, vi aspetto fuori. – L’ispettore abbandona la stanza e, quando riusciamo a sentire la porta chiusa, io e il Dottore ci guardiamo.

- Come facciamo a riportarli indietro? –

- Già, questo non te l’ho spiegato. – Dalla sua giacca tira fuori uno strano congegno, lungo e sottile. Somiglia quasi al suo cacciavite sonico ma non lo è. Me lo lancia ed io lo afferro al volo con i miei riflessi pronti. – Non è un cacciavite sonico. – Mi anticipa mentre a passo lento si aggira tra gli scaffali, analizzando ogni titolo con gli occhiali ben piantati sul naso.

- Questo lo avevo capito! – Dico mentre continuo a rigirarmi quell’oggetto fra le mani. Somiglia davvero al suo cacciavite sonico, ma non ha la luce blu all’estremità, ha una piccola apertura, non so bene come definirla.

- Immaginavo. Beeeeh, serve per mandare creature nel mondo parallelo e non farle più tornare, utilizza energia sonica, per questo somiglia ad un cacciavite, ma ha tutt’altro scopo… -

- Non che tu mi abbia spiegato a cosa serva il cacciavite. –

- Non l’ho fatto? –

- Nope. – Accenna un sorriso divertito nel sentire quella risposta, tira fuori un grosso fascicolo da uno scaffale dietro di lui e lo apre, sfogliandolo con attenzione mentre mi affianca.

- Apre le porte, rileva un paio di cose, fa funzionare un paio di cose, fa… tante cose. – Accenno un minuscolo sorriso mentre lo vedo attenzionarsi su una pagina in particolare.

- E questo, invece? – Dico riferendomi al nuovo congegno. Lui non sposta gli occhi dalle pagine ed indica con una mano i due Angeli.

- Punta e premi il pulsante. – Mi sta affidando davvero quel compito? Rispedire i due assassini solitari nel loro mondo parallelo? Detto così, “puntando e premendo il pulsante” sembra addirittura facile, ma bisogna considerare il fatto che ormai sono morti, e che con un Angelo vivo forse sarebbe stato più complicato. Spero di non sbagliarmi su questo punto, altrimenti non so come faremo a catturare quell’altra creatura che ancora si aggira qui, sul pianeta Terra.

Ecco un appunto, Sherlock: mi sa che dovrai ripassare quelle cose sull’Universo dai libri che Mycroft ti ha procurato.

Ad ogni modo, faccio come ha detto e punto il congegno verso il primo Angelo, poi premo il pulsante. Da esso fuoriesce un raggio, sembra quasi un laser, che colpisce la creatura, la avvolge di una luce rossastra abbagliante e poi… poco a poco essa svanisce nel nulla. Non faccio caso al mio shock iniziale e ripeto la stessa operazione sull’altra statua. Alla fine entrambe sono sparite ed io mi sento quasi sollevato. “Quasi”, perché adesso dobbiamo affrontare l’impresa di catturarne un altro. Quanto tempo ci avremmo impiegato prima che la frattura si allargasse a tal punto di far collassare l’universo stesso?

Cavolo, sto iniziando a parlare come il Dottore.

- Ottimo lavoro! – Mi dice con un leggero sorrisetto soddisfatto. Anche sulle mie labbra ne compare uno, mi piace il fatto che apprezzi ogni cosa che faccia. Dalle mie deduzioni, alle mie idee, alla mia “brillante mente”. Solo lui e John sono in grado di farmi sentire appagato con i loro complimenti lusinghieri.

Ma con John è diverso, con lui è sempre tutto diverso.

- Oh, non credevo che il caso dell’esplosione al Bart’s si trovasse in questo fascicolo! – Esclama ad un tratto.

Mi ricordavo di quell’esplosione, ho seguito io questo caso un paio di anni fa. Accadde in obitorio. Era vuoto in quel momento, e ad un tratto ci fu quest’esplosione che fece crollare una parte di parete all’interno dell’ospedale. Non ho risolto questo caso, purtroppo, oserei dire. Gli indizi erano confusi, non avevamo un colpevole e i campioni al microscopio risultavano obsoleti, li avevamo trovati sparsi per il pavimento, accanto alla parete distrutta. Sembrava quasi che questa cosa fosse esplosa e che avesse causato tutto ciò e…

Oh, ma certo!

- No, ti prego, non dirmelo! –

- Che cosa? – Mi chiede confuso mentre ripone il fascicolo al suo posto.

- Ho seguito io quel caso, e non l’ho risolto. – Mi guarda ed incrocia le braccia al petto, poi si gira spostando lo sguardo altrove, fa finta di niente mentre io continuo a parlare. – Sei stato tu! – Lo accuso, puntandogli contro il dito indice ed avanzando con fare minaccioso verso di lui, lentamente.

- Cosa? No! –

- Tu c’eri! – Cerca di nuovo di negare l’evidenza ed io sollevo contrariato un sopracciglio. C’è un attimo di silenzio, poi sbuffa rumorosamente e distende le braccia lungo i fianchi. Sono di fronte a lui e riesco ad annusare la sua finta innocenza, a leggere nei suoi occhi la colpevolezza.

- Va bene, va bene! – Dice esasperato, dopo una manciata di secondi.

Beccato!

- Hai ragione, ma non ho avuto altra scelta! –

- Lo sapevo! – Esordisco scuotendo la testa ed accennando un sorrisetto nervoso.

- Era una creatura pericolosa, un alieno grasso che mangia cervelli alle persone, o quello o la parete distrutta! –

- Potevi causare delle morti! –

- In un obitorio? – Ci guardiamo in silenzio senza dire nulla. La mia esclamazione in quel contesto risulta in effetti un po’ assurda. Scoppiamo in una risata prolungata e, scuotendo la testa ci rechiamo ancora in preda ai singhiozzi all’esterno della stanza, dove Lestrade ci aspetta e ci guarda confusi. Poi ci segue senza dire nulla. Resta in disparte a guardarci, dietro di noi, e non si azzarda ad aggiungere nulla nemmeno quando vede la cabina blu in lontananza, nemmeno quando si accorge che ci stiamo dirigendo nella sua direzione.

- E adesso? –

- Ci serve un mio vecchio marchingegno. –

- Il rilevatore di tempo transitorio. –

- Impari in fretta Sherlock! Se ci sbrighiamo possiamo trovarlo in poco tempo. Allons-y! –

Arriviamo nel Tardis, quella splendida nave che mi ha fatto ricredere negli avvenimenti sovrannaturali ed impossibili, e la sensazione che provo quando il Dottore mi dice di pilotare la cabina insieme a lui è meravigliosa.
 
_________________________________________________________________________
 
Londra, 5 dicembre 1902
 
Mio carissimo Sherlock,

è ormai passata più di una settimana dalla mia ultima lettera. Non ho avuto proprio tempo di scriverla, troppe cose sono accadute.
In questo momento sono seduto su un treno. Un bellissimo treno dell’epoca, uno di quei treni che non mi aspettavo mai di vedere in vita mia e su cui adesso sto riempiendo un foglio di parole che non so neanche se ti arriveranno mai.

Quando viaggio, non so se lo sai già, per me è il miglior modo che conosco per estrapolare dal cuore tutti i miei sentimenti. Ed è quello che sto facendo adesso con questa penna e questa carta che fra le tue mani sarà vecchia e ingiallita, e l’inchiostro sfocato.

Sto seguendo il consiglio della mia analista. Certo, qui non posso aprire un blog, ma posso scrivere a te e questo mi basta.

Ultimamente ho pensato molto al Dottore, su quello che ha detto sugli universi paralleli, sul fatto che in uno di essi io e te siamo i protagonisti di un libro ottocentesco… mentre guardo le persone sedute su questo treno cerco di immaginarmi come staresti in queste vesti, come staremmo noi due in quest’epoca, insieme.

Anche in questo contesto riusciresti ad essere un completo idiota per tutto il tempo? Oh, io penso di sì! Non si possono cambiare le abitudini di un uomo normale, figuriamoci le tue!

Oh, ti chiederai perché sono su un treno! Un mio paziente richiede un’urgente assistenza fuori da Londra. Sì, il lavoro procede benissimo, in ospedale mi hanno accolto bene, i miei colleghi sono simpaticissimi e con loro mi diverto a volte, anche se in qualche modo mi sento fuori luogo. Non solo perché sono abituato ad una generazione diversa, ma anche perché qui… cavolo, tutti quanti hanno i baffi, qualunque uomo porta i baffi ben folti sotto al naso e so che sarai inorridito nel pensare che sto provando a farli ricrescere. Voglio sentirmi appartenere a questo posto se devo davvero restarci per sempre e… questo magari è un piccolo passo per cominciare.

Ormai manca poco all’arrivo, cos’altro posso raccontarti…

Oh beh, il mio appartamento è fantastico: ho un bel salotto che funge anche da sala da pranzo, una cucina, un bagno ed una camera da letto. La padrona di casa non somiglia affatto alla nostra cara signora Hudson, sai? È un po’ burbera, grassottella e si lamenta quasi sempre. L’unico suo pregio è quello di saper preparare un ottimo tè. Date le mie abitudini di provvedere alle faccende domestiche, mi ha quasi creduto pazzo quando ieri sera mi ha trovato a pulire per bene il salotto.

Continuo a ripetermi che devo abituarmi a tutto questo, solo così riesco ad andare avanti.

Fa molto freddo la sera, ed è l’unico momento di pace in cui posso godermi il calore del caminetto seduto alla mia poltrona. A volte me ne dimentico, resto assorto al mio giornale quotidiano per dei minuti interminabili, poi sollevo la testa verso la finestra e divento cupo quando non vedo la tua figura e non sento le note dolci e rilassanti del tuo violino. Adoravo vederti suonare. E ora non mi è più concesso nemmeno quello.

Mi capita di cominciare a piangere, dopo che mi rendo conto della mia situazione. Se tutto questo mi fosse accaduto prima di conoscerti, quando mi sentivo soltanto uno scarto andato a male dell’esercito… allora sì, lo avrei accettato. Ma adesso no, non riesco a fare a meno di pensarti. Più la mia vita va avanti qui, più io ripenso ad ogni istante passato con te e mi convinco che non potrò reggere a lungo.

Vorrei solo sapere come stai, adesso. Ti manco? Sei tornato il solito freddo e calcolatore Sherlock di sempre o… senti lo stesso dolore che sento io? Perché se è così vorrei davvero essere lì, prenderti fra le mie braccia, stringerti e dirti che va tutto bene, che non c’è nulla da temere. Ma non è così. Non è così e la cosa mi uccide.

La smetto con questo sentimentalismo, so che non ne apprezzi in dosi così elevate, quindi adesso è meglio che vada, siamo quasi arrivati.

Cercherò di scriverti domani.

Spero tu stia bene.

Mi manchi.
Con immenso affetto,
tuo John

P.S. la gamba fa di nuovo male, ho un nuovo bastone.



Note autrice:
RITARDISSIMO, lo so. Ma a parte i vari impegni ho anche scritto la one shot "For the rest of your life" che vi invito a leggere, dato che è Johnlockosa come sempre.
Spero mi perdoniate con questo nuovo capitolo, ritornerò ai ritmi di prima, spero.
Un bacio, alla prossima!

 

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Capitolo 4
*** Sei mai stato a Praga? ***


Sei mai stato a Praga?



Prima di poterci dedicare totalmente alla ricerca dell’Angelo, il Dottore ha impostato delle coordinate sullo scanner e ci siamo diretti proprio lì, ho tenuto uno sguardo confuso per tutto il viaggio. Quando la cabina si è fermata, si è infilato il cappotto e io l’ho seguito, ma lui mi ha fermato sulla porta, sollevando una mano e sospingendomi leggermente all’indietro per evitare anche che vedessi l’esterno. Perché, sì, non voleva che vedessi.

- Tu devi aspettarmi qui. – Ha detto con tono severo.

- Dove siamo? – Ho chiesto, infastidito dal suo comportamento autoritario.

- Devo solo lasciare un messaggio, tu aspettami qui, ci metterò due minuti esatti. Non toccare niente in mia assenza! – Che cosa sarebbe successo se non lo avessi ascoltato? Date tutte le cose che mi aveva detto sui paradossi e sui possibili disastri che sarebbero accaduti se qualcosa sarebbe andato storto… ho deciso di indietreggiare con le mani dietro la schiena ed annuire, mentre il suo dito indice mi puntava contro. Mi ha sorriso leggermente, poi è uscito richiudendosi la porticina alle spalle.

È tornato dopo due minuti esatti, come aveva promesso. Ha esclamato un “Possiamo andare!” e poi ha completamente evitato l’argomento. E di conseguenza l’ho evitato anche io.

Il rilevatore di tempo transitorio è accesso da ore e non abbiamo ancora riscontrato nessun segnale, nessun “ding” che ci indicasse che siamo vicini alla nostra preda. Il Dottore lo ha lasciato acceso e appoggiato alla console, in attesa di sentire un minuscolo suono. Mi ha spiegato che avrebbe collegato il congegno al Tardis in modo da avere le coordinate della provenienza del segnale. Ma avremmo dovuto aspettare.

Mi sono sistemato sulle sedute e continuo ad osservare le lucine del rilevatore, sperando di fargli emettere un piccolo suono solo con la forza del pensiero. Il Dottore è in piedi e gli punta contro il cacciavite sonico, poi sospira.

- Ancora niente. – Mormora sedendosi accanto a me ed infilando combattuto il cacciavite sonico nella tasca interna della giacca.

- Quanto potrebbe impiegarci? –

- Questo non lo so. Potrebbe volerci poco, come potrebbe volerci molto. – Annuisco e mi zittisco, fissando un punto indefinito del pavimento. Il Dottore non smette di guardarmi, non percepisco i suoi pensieri finché non mi pone quella domanda:

- Hai paura? –

- Figuriamoci se ho paura di strane creature che… -

- Non delle creature. Hai una costante paura di perdere John. – Rimango in silenzio. È fottutamente vero. Ma lui mi sorprende con un’altra affermazione. – Non solo ora che non c’è, ma da sempre. Le tue azioni fino ad adesso lo dimostrano. Ma non hai solo paura. Lo difendi come se ne dipendesse la tua vita, fai dei sacrifici per tenerlo al sicuro. Magnussen… il tetto del Bart’s… - Oh certo, adesso è tutto chiaro. Mi sfugge una risatina leggera e nervosa mentre strofino le mani fra di loro e punto lo sguardo sulle lucine lampeggianti del rilevatore, accuratamente poggiato sulla console.

- Non sei tornato indietro solo per Barbarossa quella volta, vero? – Lui scuote la testa e la mia tesi è finalmente confermata. Non mi ricordavo affatto della sua presenza in quei momenti così cruciali della mia vita. O meglio… era nascosto bene e non ho affatto visto la sua faccia.

- Ho assistito anche al tuo ritorno dopo i tuoi due anni di assenza. Ho notato la delusione nei tuoi occhi quando hai visto che John avrebbe fatto la proposta di matrimonio a Mary. – La scena si ripete come in un loop nella mia mente, proprio nello stesso momento in cui il Dottore la racconta. – Ero tra i clienti, seduto ad uno dei tavoli. Ho visto che quando è arrivata Mary… ho visto che stavi trattenendo le lacrime. Eri in un angolino a fissarli e non riuscivi ad accettare quella cosa ma nonostante tutto hai pensato, e so che lo hai pensato, che se lui era felice con lei, allora andava bene per te. – I miei occhi si inumidiscono e cerco di nasconderlo voltando la testa e attenzionando ogni dettaglio della cabina, come se le pareti del Tardis mi interessassero davvero. Sono comunque bravo a trattenermi. Le lacrime sono rimaste al loro posto, nessuna di esse è scivolata lungo i miei zigomi, riesco a controllarmi… ma non a nascondere il notevole senso di malinconia che la mia espressione fa trasparire. – Ti sei preso un attimo per tornare la persona di sempre e hai fatto la tua improvvisata. – Dopo qualche secondo di silenzio sento la sua mano che prontamente si poggia sulla mia spalla. – Volevi dirglielo quella sera, vero? Volevi confessare tutto. - Forse avrebbe voluto darmi conforto, ma io reagisco e mi alzo, raggiungendo a passo svelto l’altro lato della cabina. Non mi volto verso di lui, sento ancora gli occhi pungere e non voglio che se ne accorga. Il suo sospiro arriva forte e chiaro alle mie orecchie. - Non c’è niente di male in quello che hai fatto quella sera, Sherlock. –

- Lo so. – Mormoro tenendo lo sguardo fisso sulla porticina d’ingresso.

- Quindi volevi dirglielo? –

- Sì. – Ammetto senza però mai voltarmi. – Ma non è colpa di Mary. Avevo calcolato che John avesse potuto avere qualche relazione, ma di solito non duravano, capisci? E sai perché? – Mi giro verso di lui e lo trovo ancora seduto, con le braccia incrociate al petto. Mi ascolta e lascia che io mi sfoghi. È bello sapere che qualcuno mi ascolti, in un certo senso. – Perché trovavo sempre un pretesto per mandare a monte i suoi appuntamenti. Prima di vedere John con quella scatolina di velluto per Mary, ho creduto… ho creduto che lasciasse le sue ragazze perché tra loro non funzionava e invece la causa ero io. Il fatto che stesse chiedendo a Mary di sposarlo mi ha fatto capire che dovevo lasciarlo andare, che ormai era troppo tardi. E lui l’amava. Mary era una persona in gamba, mi piaceva. Ho pensato “Perché no, posso sopportarlo”. – Prendo un lungo respiro ed infilo entrambe le mani nelle tasche del mio cappotto. È ancora in silenzio, questo vuol dire che vuole che io continui a parlare.

Non credo che mi sarei sfogato così con nessun altro.

- E dopo, quando ho sparato a Magnussen ed ho capito che era l’unico modo per proteggerli, non ho esitato. Potevo anche correre il rischio di non rivederlo più dopo, di pagare tutte le conseguenze, ma loro dovevano essere al sicuro. – Lo vedo accennare un sorriso triste, poi si alza e mi raggiunge, cercando il mio sguardo mentre è puntato contro il pavimento.

- Sherlock è un nome da femmina, eh? –

- Non ci posso credere, eri anche lì. – Il suo sorriso si allarga ed anche il mio. Restiamo qualche secondo in silenzio, poi sospiro. - Mary era incinta, non potevo dirglielo. È stato un pretesto per vederlo sorridere, almeno un’ultima volta. –

- Sai, credo che tu lo abbia comunque scoraggiato. Anni passati a dirgli che i sentimenti non facevano per te. Forse stava con quelle ragazze per attirare la tua attenzione, non credi? Magari lo faceva inconsciamente. – Ammetto di non averci mai pensato, non avevo mai visto la situazione in quel modo. – Forse mi sbaglio, ma chi può dirlo! Sono sicuro che anche tu facevi anche delle piccole cose per attirare la sua attenzione, inconsciamente. – Raggiunge il rilevatore e con il cacciavite sonico modifica qualcosa nel congegno. – Ho raddoppiato il raggio. Dovrebbe cercare il nostro Angelo in una fascia più estesa. – Mi spiega mentre mi raggiunge nuovamente. Io, però, non smettevo un attimo di pensare alle sue parole. E se fosse stato vero? Se davvero John aveva fatto tutto quello che aveva fatto solo per attirare la mia attenzione?

Riuscendoci perfettamente, oserei aggiungere.

Dannati sentimenti, ecco perché non vi ho mai capiti.

- Sappi una cosa, Sherlock. Ora che so che è possibile salvarlo, farò tutto ciò che è in mio potere per riportartelo. – è sincero, lo è sempre stato. Quando veniva a trovarmi sotto casa, aspettando solo che io lo facessi entrare, il suo scopo era proprio quello di comportarsi da amico. Non ho amici, non ne ho mai avuti, e lui aveva visto tutti i momenti della mia vita che io consideravo dolorosi, quei momenti in cui avevo cercato di fare le scelte migliori per John, per fare in modo che lui fosse felice. Anche lui doveva aver fatto quello per Rose, quindi sapeva come ci si sentiva. Adesso entrambi avevamo perso la nostra metà. Non era possibile per lui riavere indietro la sua Rose, e voleva soltanto che io potessi riavere John con me, che almeno qualcun altro potesse essere felice all’infuori di lui. E quel qualcuno ero io. Il Dottore voleva che io fossi felice proprio perché siamo simili. E, sì, anche perché si era abbastanza affezionato a me. Non lo ammetterà mai, e nemmeno io ammetterei mai che provo lo stesso.

La sua parola d’onore mi solleva il morale, accenno anche un sorriso mentre lo vedo dirigersi velocemente verso il rilevatore.
Ero così distratto che non mi ero accorto avesse fatto ding più di una volta.

- Oh, ci siamo! – Esclama lasciandosi sfuggire subito dopo una risata liberatoria. Lo vedo recuperare da sotto alla console una miriade di cavi dei quali ne sceglie solo due. Con fare esperto collega le estremità al rilevatore e allo scanner. – Bene, così il Tardis ha le coordinate e raggiungeremo il luogo da cui proviene il segnale. – Mi dice, poi solleva lo sguardo verso lo scanner e si pianta per bene gli occhiali sul naso. Poco dopo i suoi occhi si illuminano ed accenna un sorriso. Sullo schermo deve essere apparso il luogo che tanto speravamo di vedere. – Sei mai stato a Praga? –

- Praga? Direi proprio di no. –

- Bene, perché è lì che stiamo andando! – La leva viene sollevata e io vengo sospinto all’indietro da un sobbalzo della nave. Mi reggo al corrimano e con tutte le mie forze cerco di non cadere, cercando anche di capire come faccia lui a sopportare ogni volta questo continuo terremoto.

Il Tardis atterra e il rilevatore impazzisce, i ding sono molto più rumorosi, più veloci, non smettono un attimo di farsi sentire.

- Si trova qui. – Mormoro in modo che possa sentirmi. Lui annuisce e afferra il rilevatore, con quella risatina entusiasta. Come me non vede l’ora di passare all’azione.

- Muoviti Sherlock! –
 
_________________________________________________________________________
 
Londra, 6 dicembre 1902
Mio carissimo Sherlock,

oggi è successa una cosa a dir poco stranissima. Prima di raccontarti la mia giornata, vorrei iniziare proprio da questo, sono sicuro che troverai la situazione abbastanza interessante. In questi casi avrei proprio bisogno del tuo aiuto.

Ho sempre bisogno del tuo aiuto in realtà.

Da solo non sarei capace di stabilire se questa è una strana coincidenza o un segno. Tu lo sapresti.

Quindi… è iniziato tutto in ospedale, stavo visitando una paziente con l’influenza. Come sai già, in questo tempo la medicina non è al passo con quella del ventunesimo secolo, quindi ho dovuto assegnare alla ragazza dei rimedi totalmente diversi dai soliti, abbastanza arretrati insomma.

Ad ogni modo, le ho consegnato la ricetta e ad un certo punto, proprio mentre stava per uscire, si è voltata verso di me ed i suoi occhi mentre mi guardavano sono sembrati completamente vuoti. Mi sono alzato allarmato nel vederla in quello stato, e stavo per trascinarla di nuovo sul lettino per visitarla, quando ha esclamato con una voce che non sembrava nemmeno la sua: “Tienile con te, John”.

Ammetto che la cosa mi ha leggermente spaventato. Sembrava quasi sotto ipnosi, non so spiegarlo.

“Che cosa ha detto?”

“Tienile con te, John, tienile sempre con te, non separartene mai.”

È tornata come prima, mi ha guardato come smarrita e poi mi ha chiesto se era tutto, se poteva andare. Le ho chiesto a cosa si riferisse poco prima, ma lei sembrava non ricordarsene, anzi mi ha quasi ritenuto pazzo quando le ho accennato la cosa.

È uscita dalla stanza e solo dopo mi è parso di sentire uno strano rumore. Ho controllato fuori dalla finestra, da dove mi era sembrato che fosse arrivato, ma non c’era niente di niente.

Magari starai pensando che è un dettaglio futile, magari la mia paziente era stordita dall’influenza e stava semplicemente dando di matto. Ma io credo che non sia così, perché il rumore che ho sentito, solo per quei pochissimi secondi, sembrava quello del Tardis che se ne andava.

Ora dimmi, Sherlock, sto dando di matto anche io? Potrei aver immaginato quel suono, giusto? O magari è un segno! E se lo fosse, cosa avrei dovuto tenere sempre con me?

Come vorrei che fossi qui. Non solo per questa situazione ma… anche perché la gamba continua a fare male e senza te, senza la tua continua presenza non riesco a provare sollievo.

Il resto della mia giornata, beh… avevo detto che ti avrei raccontato ma non è successo nulla di che, a parte il fatto che ho litigato con la mia padrona di casa, la signora Jordan. Non sopporta il modo in cui metto a posto la roba, in cui sposto le cose, dice che faccio di tutto per non farle trovare nulla dove lo ha lasciato lei. È così che tutto è cominciato, abbiamo urlato l’uno contro l’altro, poi lei se n’è andata per l’esasperazione.

Ah, si è anche lamentata dei miei singhiozzi di stanotte. Ho pianto, come non avevo mai fatto in vita mia, non avevo pianto in questo modo nemmeno in missione con l’esercito. Il fatto è che non posso sopportare che tu non ci sia. Lo so che lo ripeto in ogni lettera, per te sembrerà snervante, forse. Ma quanto tempo abbiamo avuto per stare insieme, per stare insieme davvero, come una vera coppia? È stato così breve.

Quei baci… e quella notte insieme, mi capita di pensarci tutti i giorni. Ti ho voluto per così tanto tempo e quando ho ottenuto il tuo amore, il regalo più bello che avessi mai potuto ricevere, ti ho perso. Mi restano solo quei ricordi, quei ricordi indelebili di te mentre dici il mio nome tra i sospiri profondi, della tua voce baritonale che mi confessa i tuoi sentimenti e della tua pelle a contatto con la mia. E il tuo profumo… mi manca anche quello.

Ho deciso che domani andrò a fare un giro in centro. Ho bisogno di distaccarmi da tutto questo casino. Nonostante la gamba, credo che questo sia l’unico modo per potermi un po’ distrarre. Non ho ancora assaporato per bene la Londra del ventesimo secolo.

Sono molto stanco, credo che andrò a dormire adesso.

Mi manchi.
Con immenso affetto,
tuo John



 
Note autrice:
Bene, eccomi di nuovo. Mi sono mandata avanti con il lavoro e ho scritto due capitoli in tutto, ma il prossimo lo avrete fra tre giorni come sempre. In più sto iniziando una nuovissima storia Johnlock che pubblicherò prossimamente, avrà capitoli più lunghi del solito e beh... quando ne sarò soddisfatta vi lascerò il link.
Vi avverto adesso, nel prossimo capitolo salterà fuori un nuovo personaggio, un personaggio della serie del Dottore, volete provare ad indovinare di chi si tratta? Si aprano le scommesse!
Un bacio e alla prossima!

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Capitolo 5
*** Un altro buffone spaziale ***


Un altro buffone spaziale



La Torre dell’orologio astronomico, nella patria della leggenda del Golem. Me la sono ritrovata di fronte non appena ho messo piede fuori dalla porta. La folla riempie la piazza e gli artisti di strada fanno i loro spettacoli incantando adulti e bambini, facendo scaturire applausi e risate gioiose. Mi chiedo come facciano tutti a non accorgersi della cabina che è appena apparsa dal nulla. Sono forse stupidi?

- Non vedono il Tardis? – Chiedo mentre punto lo sguardo sulle abitazioni pittoresche e la Cattedrale di San Vito così ben elaborata dall’altra parte della piazza.

- Lo vedono eccome, ma c’è un filtro di percezione. Una volta si adattava ad ogni luogo in cui atterrava. Nell’antica Roma si sarebbe trasformata in una statua di marmo, ma poi negli anni 60 si è guastato il filtro ed è rimasta una cabina blu della polizia. Mi è piaciuta, ho preferito non ripararlo. – Continuo a guardarmi intorno: ci sono delle carrozze, due per l’esattezza, trainate da cavalli bianchi e possenti, carrozze per i turisti che vengono caricate di famiglie entusiaste, pronte per fare il giro della città. – La gente può vedere il Tardis, ma per loro sarà una cosa come un’altra, a meno che non ci prestino particolare attenzione. Ma guarda dove siamo! Praga! Credi che alla gente interessi appostarsi vicino ad una cabina blu apparentemente inutile? – Dice mentre mi fa segno di raggiungerlo. Lo seguo, portando le mani nelle tasche del mio cappotto, fissando il rilevatore che non ha smesso un attimo di suonare.

Quel ding sta diventando fastidioso

L’Angelo deve essere qui per forza, quindi ci ritroviamo ad aggirare il nostro sguardo verso ogni cosa, nella speranza di vedere una statua che non corrisponde a quelle della città, verso gli edifici, verso il monumento della piazza, dove noto le incisioni sulla pietra in inglese…

Aspetta, inglese?

- Dottore, le incisioni non dovrebbero essere in cieco? – Chiedo confuso, senza staccare gli occhi dalla statua di Jan Hus, il teologo boemo rettore dell’Università di Praga.

- Lo sono, è il Tardis che traduce per noi. –

Bene, un altro appunto per il mio palazzo mentale: il Tardis è un traduttore.

- Traduce lo scritto e il parlato, e… - Lo vedo aguzzare lo sguardo e sfilarsi gli occhiali. La sua espressione è confusa, ma diventa quasi immediatamente sorpresa. Non capisco il motivo, probabilmente ha visto l’Angelo, ma non avrebbe reagito in questo modo. Quindi deve aver visto qualcuno e a giudicare dalla sua sorpresa deve essere proprio qualcuno che conosce.

Mi giro per verificare la mia deduzione e a quanto pare è corretta, perché un uomo si sta avvicinando di corsa verso di noi, urlando il nome del Dottore a gran voce.

Non sono riuscito a distinguere bene la sua forma finché non si è avvicinato: alto, robusto, con un inusuale completo anni quaranta, ma il suo cappotto fa intuire che non è un semplice completo, ma quello di un soldato… un capitano, magari? Taglio di capelli corto, il tipico uomo che le persone “normali” giudicherebbero di bell’aspetto. Conosce il Dottore, forse abbastanza bene. Il modo in cui lo ha chiamato, con quell’entusiasmo e quella sorpresa mi fanno intuire che non lo vede da tempo e che probabilmente stava cercando proprio lui. Al polso porta uno strano congegno che non ho mai visto prima, sembra tecnologia aliena.

Bene, un altro buffone spaziale!

- Che diavolo ci fai tu qui? – Urla il Dottore con una punta di isteria nella voce. L’uomo lo abbraccia stretto non appena arriva davanti a lui e quest’ultimo si lascia sfuggire un sorriso rassegnato.

- Dottore! Oh, lo sapevo che saresti arrivato anche tu. Torchwood riceveva strani picchi e sono venuto a dare un’occhiata di persona. – Il capitano, potrei scommetterci tutto quanto che sia più vecchio di quanto sembra, non si è ancora accorto della mia presenza, è troppo impegnato a riferire le sue bizzarre scoperte al Signore del Tempo. Dai suoi atteggiamenti e dai modi sicuri in cui parla si capisce subito quanto si creda mozzafiato. Al solo pensiero roteo gli occhi al cielo e sbuffo sonoramente, cosa che riesce a far spostare la sua attenzione su di me.

- Vedo che non sei solo! –

Direi fin troppa attenzione su di me.

Mi guarda come se abbia appena avuto l’apparizione di una qualche meravigliosa creatura mistica. Noto anche un leggero pizzico di malizia nel suo sorriso, quando allunga un braccio per presentarsi. Sta per aprire bocca ma io non gli do nemmeno il tempo di parlare.

- Capitano, guardarmi in quel modo mi sembra poco appropriato, dal momento che non ci siamo mai visti. Ma probabilmente lo fa con tutti, anzi, ne sono abbastanza sicuro, e aggiungerei che lei è troppo vecchio per me. Molto carino il suo teletrasportatore, vedo che riesce a sopportare i viaggi senza capsula, deve esserne abituato, quindi. – Lo dico afferrando la sua mano e lui mi guarda scioccato, lanciando occhiate al Dottore che ridacchia sotto i baffi alla sua reazione sconvolta.

- Ma come diavolo ha fatto? – Chiede con voce stridula, rivolto al Signore del Tempo.

- Già! Sorprendente, vero? Lui è Sherlock Holmes! – L’uomo sbatte più volte le palpebre, ancora del tutto confuso, poi titubante si presenta, stringendo vigorosamente la mia mano.

- Capitano Jack Harkness, è un vero piacere! – Sta di nuovo lanciandomi quello sguardo malizioso e ammaliatore, io sollevo irritato un sopracciglio in risposta. – Hai degli zigomi impressionanti. – Si è avvicinato
direi anche troppo, ma il Dottore è intervenuto appena in tempo.

- Finiscila, Jack! – Ha esclamato esasperato.

- Stavo solo salutando! –

- Come avrai notato, Sherlock, Jack flirta con qualunque cosa respiri. – Jack sta per controbattere, ma il Dottore gli deposita una leggera pacca sulla spalla. – Sherlock è impegnato con qualcun’altro. –

- Le mie intenzioni erano del tutto innocue. – Ha detto lui, con un tono di voce infastidito dalle presunzioni (secondo me ovvie) del mio amico.

Aveva appena detto che sono impegnato.

La cosa non mi spaventa come mi aspettavo, anzi, mi sembra di provare una certa sensazione di orgoglio e di soddisfazione nel sentire dire da qualcuno che sono impegnato. Impegnato con John.

Lui sarebbe arrossito.

- E comunque è molto fortunato questo qualcuno con cui sei impegnato. –

No, non è così.

Non sai i pericoli che corre con una persona come me.

- Le adulazioni non ti porteranno da nessuna parte, capitano. –

- Fa sempre così? – Il Dottore ridacchia e comincia a guardarsi intorno, parlando a Jack distrattamente.

- Già, ma mi sono ormai abituato. –

- Quindi sei qui per questi picchi che ho rilevato a Torchwood, immagino. – Il discorso sulla mia bravura nell’essere “il solito Sherlock” è caduto con quella semplice domanda di Jack. Ne sono sollevato. Qui ci sono questioni più importanti di cui discutere.

John, salvarlo è più importante.

- Esatto, stiamo cercando un Angelo piangente, hai presente? – Il Dottore inizia a camminare e per riuscire a sentirlo siamo costretti a seguirlo a passo svelto. Si sta dirigendo alla cattedrale.

- Non ne ho mai visto uno, ma ho letto qualcosa su di loro. – Dice l’avvenente Jack Harkness, camminando a spalle dritte e con le braccia dietro la schiena.

Un po’ troppo sicuro di sé, un po’ troppo modesto, non trovi John?

Oh, Sherlock, John non è qui, concentrati.

- Quindi immagino sai come funzioni con loro, se vuoi aiutarci. Perché vuoi aiutarci, no? –

- Certo che voglio! – Jack allarga le braccia con la tipica espressione di chi ha appena ascoltato una cosa fin troppo ovvia. Per quanto tempo lui e il Dottore hanno collaborato insieme? Forse un bel po’, visto che Jack sembra non vedere l’ora di buttarsi nella mischia. Con quel Signore del Tempo ne ha passate di cotte e di crude. Magari è proprio causa sua se adesso non può morire. Sì, ho capito che è immortale. Perché?

Gli occhi.

Anche gli occhi di Jack Harkness sono più vecchi rispetto al resto.

Il fatto che non possa morire lo rende così coraggioso, pronto a tutto, a buttarsi in ogni avventura senza pensare alle conseguenze. Perché di conseguenze lui non ne avrebbe.

- Occhi aperti, allora. – Mormora il Dottore mentre varca la soglia della cattedrale, completamente invasa da turisti.

- Non vorrei contraddirti Dottore, ma con lui l’Angelo non avrebbe alcun effetto. Non ci sarà nessuna tomba col suo nome inciso sopra. – Il Dottore si gira a guardarmi, poi rotea gli occhi ed annuisce.

- Vero. – Jack continua a tenere il sorrisetto malizioso di poco prima, mentre io supero entrambi per farmi avanti nella chiesa, cercando di notare qualcosa che non faccia parte di quel patrimonio artistico e culturale. – Comunque, si è aperta una frattura, l’Angelo viene da un mondo parallelo, dobbiamo fermarlo prima che i paradossi che sta creando distruggano l’Universo. –

- Credi che il mondo parallelo sia quello di Rose? – Dietro di me non odo più il suono della voce del Dottore, ma solo i passi dei due che lentamente mi seguono. Io continuo a guardarmi intorno fingendo il totale disinteresse, ma sono talmente bravo a fingere. Nessuno potrebbe battermi. In realtà sto seguendo ogni traccia del loro discorso che mi incuriosisce abbastanza. Il fatto che Jack abbia menzionato Rose Tyler vuol dire che anche lui la conosceva, che sapeva fosse finita lì… ma dei sentimenti del Dottore? No, di quelli non ne era a conoscenza. Le persone normali, sapendo di un trauma di natura amorosa eviterebbero di parlare del soggetto di questo trauma per evitare di causarne un altro. E quest’altro trauma è il ricordo del soggetto.

Jack non lo sapeva. Se sì, avrebbe evitato il discorso.

Il Dottore si trova in difficoltà, non sa come rispondere, lo percepisco dal suo respiro irregolare che abbandona le sue narici.

- Non lo so. – Dice dopo dei secondi interminabili. Ora sta armeggiando con il rilevatore. Vuole diminuire lo stress causato dalle parole di Jack, cercando di distrarsi su altro.

- E se così fosse? Si potrebbe parlare con lei? Potresti… che so, salutarla. – Al posto suo avrei reagito male. Tutti sanno quanto io sia scontroso e completamente diffidente alla natura umana. Ma nonostante quell’uomo mi somigli così tanto in quasi ogni cosa, la sua reazione è diversa. Il Dottore è bravo a cambiare velocemente discorso.

- Naaaah, troppi paradossi, evitiamo. Ora, cercare l’Angelo in una cattedrale così grande… sarà difficile, non credete? –

- Trovato! – Esclamo con un normalissimo tono di voce. I due si guardano intorno ma sono stupiti di non vedere quello che ho visto io. Mi sfugge un minuscolo sorriso. È divertente notare cose che gli altri non notano.

- Io non vedo niente. – Mormora Jack puntando lo sguardo in alto, verso le statue dorate che sovrastano le colonne della navata centrale. Questa cattedrale è così grande!

- Tu guardi ma non osservi, capitano. I turisti! In una cattedrale grande e bella come questa, perché sono tutti accerchiati in un angolo a fotografare un singolo elemento? Ovviamente il singolo elemento è una cosa nuova, una cosa che prima non c’era nella cattedrale, qualcosa di completamente diverso dallo stile di questa chiesa. –

- L’Angelo! – Esclamano in coro.
 
_________________________________________________________________________
 
Londra, 8 dicembre 1902

Mio carissimo Sherlock,

Questa lettera sarà breve. È molto tardi e sono stanco.

In questi ultimi giorni non è successo nulla di strano. Ma scrivere a te di qualunque cosa mi sta facendo bene, in un certo senso, mi aiuta come mi aiutava il blog.

So che non avrò più la possibilità di dirtelo, di parlare apertamente con te, di poter creare un bel momento per questa cosa. Per questo te lo scrivo. Non posso più tenermelo dentro. All’inizio non volevo sconvolgerti e non ho parlato, ma poi quando ho ritrovato la tua foto nel mio vecchio portafoglio, (sì, ho una tua foto nel portafoglio), ho pensato “Diamine, sono solo delle lettere. Non so nemmeno se riuscirà mai a leggerle”.

Bene Sherlock. Te lo dico.

Ti amo. Ti amo tremendamente.

Non credo di aver mai amato qualcuno così tanto come io amo te.

Ok, te l’ho detto. Adesso dovrei contenere le mie lacrime ma non ci riesco. Dormirò di nuovo con l’emicrania, bagnerò ancora il cuscino e sfogherò tutta la mia nostalgia su di esso. La signora Jordan è stanca di dover cambiare la federa tutti i giorni.

Mi sento così vuoto.

Adesso è meglio che vada.

Mi manchi…

… E ti amo.

 
Tuo John.


 
Note autrice:
Bene, come promesso eccomi! Sono stata puntuale, avevo il capitolo già pronto, perchè sabato sono andata a vedere Doctor Strange e ho speso tutta la giornata a fangirlare, ed il giorno dopo a sclerare perchè l'ho rivisto in streaming. MA NON CREDETE SIA SPETTACOLARE? (se lo avete visto)
Che dite dell'arrivo di questo nuovo personaggio? Ve lo aspettavate?
Insomma, che dire, se festeggiate Halloween allora vi auguro una buona serata.
Al prossimo capitolo, un bacio!

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Capitolo 6
*** L'uomo non morto ***


L'uomo non morto



Nella cattedrale sono udibili solo i bisbigli e i mormorii dei turisti, poi solo i nostri passi, quelli miei, quelli del Dottore e quelli del capitano. Sembra quasi buffo da dire. Un Dottore, un capitano ed un investigatore privato che cercano un angelo. La situazione è comica, avrebbe fatto ridere John se solo fosse stato qui.

Il rumore dei nostri piedi sembra spettrale mentre ci avviciniamo gradualmente all’angolo della chiesa in cui le persone scattano le loro fotografie.

Merda, le fotografie.

“L’immagine di un Angelo è anch’essa un Angelo”.

- Dottore, ma le foto… -

- Sì, lo so. Ci penso io. – E nel frattempo tira fuori la sua carta psichica. Ho già capito le sue intenzioni, ma dubito che il capitano abbia fatto lo stesso.

A proposito del capitano: era così distratto a guardarsi intorno che non ha visto la panca su cui è appena andato a sbattere. Ha fatto così tanto fracasso che la gente presente si è voltata nello stesso momento, inclusi me ed il Dottore.

Mai fatto errore più grande.

L’Angelo si era volatilizzato. Nessuno lo stava guardando in quel preciso momento, e lui è veloce, così tanto veloce che nella frazione di un secondo era riuscito a spostarsi e a svanire sotto gli occhi stupiti di tutti. I turisti sussultano e si allontanano spaventati, indietreggiano e si aggrappano ai parenti e agli amici con cui stanno facendo il loro giro turistico. Il panico si sta diffondendo nella cattedrale. Ma non dovrebbe essere così, in certe situazioni è meglio tenersi sotto controllo. Il panico si estenderebbe a macchia d’olio. Tutti a Praga saranno a conoscenza dell’Angelo che è svanito quando nessuno lo ha guardato.

- Dobbiamo trovarlo, dobbiamo! – Sbotta il Dottore, puntando il cacciavite contro il rilevatore nel tentativo di renderlo più potente possibile.
La gente sta già iniziando a correre verso l’uscita. Io e Jack ci scambiamo uno sguardo e da questo capisco che abbiamo avuto la stessa idea: dobbiamo fermarli prima che diffondano le foto.

Jack inizia a correre verso di loro, io lo seguo solo dopo aver strappato la carta psichica dalle mani del Dottore. Non sembra accorgersene, è troppo impegnato a cercare la statua con lo sguardo.

- Signori, state calmi! – A quel punto, quando Jack riesce a fermare i turisti davanti alla porta principale, mi accorgo che ha tirato fuori dalla tasca una carta psichica simile a quella che ho appena strappato dalle mani del Dottore. Perfetto, saremo più credibili.

- Tirate fuori le macchine fotografiche ed i cellulari! – Sia io che Jack teniamo ben in vista la carta psichica. Non so cosa ci sia scritto sopra, non so che identità ci abbia appena fornito, ma la gente ci ha ascoltati e ha fatto come abbiamo detto. – Cancellate immediatamente ogni foto che avete scattato dell’Angelo, io ed il mio collega vi controlleremo. – Jack mi lancia un’occhiata sollevata. È contento che la carta abbia funzionato con tutti.

- Solo una questione di sicurezza! Non appena le vostre foto saranno cancellate dovrete lasciare la cattedrale ed allontanarvi tutti, grazie. – Io ed il capitano controlliamo ogni singola macchina fotografica con estrema attenzione. Le occhiate furtive verso il Dottore non mancano. Sta ispezionando il posto con il rilevatore e il cacciavite, sembra che non ci sia traccia della nostra statua, a giudicare dalle imprecazioni a bassa voce che sento provenire dalla sua bocca e dal modo in cui si sposta da un lato all’altro della cattedrale.

Io e Jack abbiamo quasi finito di far piazza pulita delle foto dei turisti e, mentre sono intento a curiosare nella canon di una ragazzina, Jack mi si avvicina per aiutarmi con il resto del gruppo.

Nei pochi minuti in cui abbiamo avuto modo di chiacchierare, mi sembra un tipo abbastanza a posto, a parte l’ego smisurato e la modestia.

Suvvia Sherlock, anche tu sei abbastanza difficile da gestire.

Ed intelligente anche, dato che con un solo sguardo aveva capito le mie intenzioni.

- Secondo te… - Inizia, senza staccare gli occhi dal cellulare che un uomo di mezza età gli ha dato prima per fare in modo che lo controlli. - … cosa dicevano le nostre carte psichiche? Insomma, poco fa una donna, abbastanza carina devo dire, ha evitato il mio sguardo per tutto il tempo, sembrava spaventata. – Questo mi fa capire che Jack è uno di quelli che rientra nella minima percentuale che vede quelle referenze solo come un inutile pezzo di carta bianco. Vuol dire che il suo quoziente intellettivo supera abbastanza la media. Ovviamente non arriva al mio livello, e vi dico, questa non è vanità, è semplice realismo. So di non essere stupido come gli altri.

- Non so quante autorità massime possano esistere, ora che conosco il Dottore. – Affermo, pienamente consapevole del fatto che esistono più cose strane di quanto io avessi mai potuto immaginare.

- Non hai tutti i torti. – Mormora mentre con un gesto della mano incita all’uomo di lasciare l’edificio. Un poliziotto precisamente, un poliziotto italiano in vacanza a Praga, un poliziotto che si lascia intimorire da uno strambo capitano ed un investigatore… e ci credono chissà chi. L’ho notato dai suoi occhi, dalle sue gambe tremolanti, dalla sua postura ricurva. Quell’uomo era spaventato. – Insomma, dove ti ha trovato, precisamente? –

Che noia, ci mancavano anche le normalissime conversazioni tra comuni mortali.

Il Dottore sta ancora aggirandosi fra le colonne della cattedrale, tanto vale soddisfare la sua curiosità.

- Sono un consulente investigatore, stavo indagando sulla scomparsa di un uomo e i responsabili erano questi Angeli. – Mi pare di sentirlo ridacchiare sorpreso quando accenno alla mia professione. Ma so che non lo fa con presunzione, è la tipica reazione di chi sente per la prima volta il modo in cui mi definisco, con il lavoro che mi sono inventato.

- Capisco. E adesso lo aiuti a chiudere la frattura? Scusa se te lo dico ma non mi sembri uno che si preoccupa di disastri che riguardano il resto del genere umano. Mi sembri piuttosto chiuso… sociopatico. – Il gruppo si è ormai smaltito. Sto controllando l’ultimo componente quando mi sorprende con quell’ultima definizione. È la prima persona che non utilizza la parola “psicopatico”, non ho bisogno di correggerlo. Posso finalmente affermare quanto la sua intelligenza sia superiore rispetto alla massa.

- Già. Ma ho messo nei guai una persona, sto rimediando. – Non dice altro, mi concede solo un piccolo sorriso. Ha capito che sto parlando di qualcuno di importante e ha preferito non fare domande. Se un sociopatico agisce per aiutare una persona che non è sé stesso, allora deve per forza tenerci particolarmente.

- Ragazzi! – Il Dottore, è lui che ci chiama. Ha l’Angelo di fronte a sé. Avrà battuto le palpebre più volte, dato che adesso se lo ritrova spaventosamente vicino, con quelle fauci spalancate e i denti appuntiti e spaventosi. Le mani protese in avanti con le unghie affilate, pronte ad artigliare la sua preda.

Dovevo agire, e dovevo farlo subito.

Il dispositivo sonico, dov’è il dispositivo sonico?

Le mie tasche sono vuote e per un attimo mi sento smarrito, ho paura di non poter riuscire a salvare anche lui. Non deve più accadere.
Odio ammetterlo, ma ho a cuore anche quello strambo Dottore alieno.

Mi tasto i pantaloni e sento sotto la mia mano la forma allungata del dispositivo.

- Tenetevi pronti, il tempo si riavvolgerà, tornerà tutto al suo posto. – Urla il Dottore mentre mi avvicino per prendere la mira esatta, poi schiaccio il pulsante e l’Angelo sparisce sotto i nostri occhi. – Reggetevi! – Ecco, adesso tutto dovrebbe tornare a posto e sento il cuore riempirsi di gioia mentre mi aggrappo ad una delle panche, pronto a vedere il tempo riavvolgersi come in un film di fantascienza.

Passano uno o due minuti. Nessun cambiamento, il tempo non si riavvolge, tutto è normale.

- Non per allarmarvi ma… non noto differenze. – Jack afferma l’ovvio mentre lascia andare la colonna a cui si era aggrappato. Io mi guardo attorno mentre il Dottore, ancora sconvolto, ispeziona il posto con il suo cacciavite sonico.

- Non è successo niente. – Mormora portandoselo all’orecchio, come se quel cacciavite potesse sussurrargli cosa sta succedendo. Mi sollevo anche io.

Cosa mi aspettavo? Di tornare da John, di vederlo nuovamente davanti ai miei occhi come due mesi prima, ma nulla è cambiato.

Rifletti Sherlock.

L’Angelo è ovviamente tornato nel suo mondo parallelo, questo avrebbe dovuto far chiudere la frattura, il tempo si sarebbe riavvolto e tutto sarebbe stato impresso nella nostra memoria ma non sarebbe mai accaduto, essendo noi nell’occhio del ciclone. Ma allora perché non è successo?

- Torniamo al Tardis. – Dico sorpassandoli e con tono duro e severo. Riesco a percepire lo sguardo dispiaciuto del Dottore che mi segue a passo svelto.

- Che hai in mente? – Mi chiede Jack quando ho raggiunto l’interno della cabina. Sono sospinto da una specie di rabbia, sento il sangue ribollire nelle vene, credo di essere anche diventato rosso in viso.

Non può finire così.

Nessuno dei due parla, mi guardano come se fossi impazzito mentre nella mia mente riesco a rivedere il Dottore che si muove agilmente tra i comandi della console. Molte volte l’ho osservato farlo e questo mi è bastato ad imparare e a capire a cosa servissero tutte quelle leve e quei pulsanti. Inserisco velocemente le coordinate. Le ho memorizzate quando il Dottore mi ci portò la prima volta. Poi tiro una leva, spingo qualche pulsante e la cabina parte proprio come mi aspettavo.

Il Dottore si avvicina traballante mentre Jack si regge alla balaustra, investito dagli scossoni. Ha paura che io stia andando a prendere John nel suo tempo, di un potenziale paradosso che potrebbe distruggere per sempre l’Universo. Ma non sono stupido, la mia meta non è quella. Quando si rende conto delle coordinate che ho inserito mi guarda grato ed annuisce. Non si sta nemmeno chiedendo come sia riuscito a pilotare il Tardis. Sa che apprendo in fretta con un solo sguardo, non ha bisogno di porsi domande inutili. Il fatto che non stia facendo nulla per fermarmi mi fa intuire che anche lui aveva avuto la stessa identica idea. Jack non capisce, resta solo in silenzio e aspetta.

Il Tardis si ferma ed io e il Dottore corriamo alla porticina. Ci ritroviamo di nuovo lì, fuori l’Universo infinito, la grande Terra, il Sole, la piccola luna che la sorveglia, poi ci sporgiamo e siamo stupiti, scioccati, nel vedere che la frattura è ancora lì, è ancora aperta e splendente. Non si è nemmeno rimpicciolita, ha la stessa dimensione dell’ultima volta.

Qualcosa proprio non quadra.

- Qui le opzioni sono due. – Dice il Dottore mentre tutti e tre siamo ancora intenti a fissare quella enorme crepa. – O gli Angeli sono più di uno o… -

- O altre creature si sono accorte della crepa e sono fuoriuscite da essa, causando ulteriori paradossi. – Continuo la sua frase e lui annuisce, confermando la mia tesi. – Non sono Angeli, gli Angeli sono tutti al loro posto. Il tuo rilevatore non ha più suonato da quando l’ultimo Angelo è sparito. Hai aumentato il raggio, se ce ne fossero stati altri li avresti rilevati. Si tratta di altre creature. E a questo punto mi rivolgo a te, Dottore, perché io non ho la minima idea di cosa dobbiamo fare per recuperarli ed identificarli. – Lui annuisce stringendo gli occhi, poi ci sospinge tutti all’indietro e richiude le porte del Tardis, cercando di riordinare tutto il caos nella sua testa.

- Ok ok, allora… - Mormora mentre io e Jack attendiamo. – Jack, ho bisogno di te, devi farmi due favori. –

- Qualsiasi cosa per te, Dottore! – è entusiasta di poter essere utile. E sta sorridendo, forse non è il momento adatto per sorridere ma lo sta facendo.

- Andiamo a Torchwood, a Cardiff, devi prendere alcune attrezzature di cui ho bisogno, e l’altro favore… Devi fare quello che ti dico senza fare domande. Nessun tipo di domanda. – Mi rivolge un’occhiata premurosa mentre dice quelle parole al capitano. Capisco che non devo ascoltare, quindi mi allontano appena da loro e mi appoggio alla parete del Tardis con le spalle.

Quando il Dottore fa scendere Jack da solo in un punto del tempo e dello spazio a me sconosciuto, io resto nel mio angolo e attendo. Non devo interferire, qualcosa mi dice che non posso farlo.
 
_________________________________________________________________________
 
L’uomo sta sanguinando copiosamente. Un tentato suicidio che temo finirà in tragedia. Quest’uomo si è appena buttato da un palazzo, senza badare alle conseguenze. Se Sherlock fosse stato qui avrebbe saputo perché, e l’attuare il suo metodo non mi aiuta affatto perché io non sono lui.

È arrivato su una barella in fin di vita, non ha più respirato e tutti i tentativi per farlo tornare in vita non sono serviti a nulla. È morto alle 13.52 di oggi, e adesso sono all’obitorio, a riempire la sua cartellina.

Lo abbiamo coperto con un telo bianco. Non sono facilmente impressionabile, insomma, sono un medico, ed uno abbastanza bravo… ma era così malmesso che non riuscivo a guardarlo e l’ho coperto il prima possibile.

Sto riempiendo frettolosamente la sua cartellina, sono proprio di fianco alla barella e sono solo. Chissà cosa ha spinto quel tizio a gettarsi da un palazzo così alto. In più, nessuno sembra conoscerlo. Con sé non aveva un portafoglio, non abbiamo idea di chi sia. Non possiamo nemmeno contattare la sua famiglia. È un’identità sconosciuta, un individuo fra tanti.

La penna mi cade dalle mani e la cartellina fa la stessa fine quando mi sento afferrare un braccio. Non c’è nessuno nella stanza e all’inizio non capisco. Poi mi rendo conto. È l’uomo sotto il telo, la mano appartiene a lui e adesso mi sta stringendo così forte che sento la circolazione del polso venire a meno. Si solleva e si mette a sedere come sospinto da una molla. Sta riprendendo fiato come se fosse stato in apnea e respira a fatica ma a poco a poco si stabilizza. Delle sue ferite non c’è più traccia ed io sono talmente spaventato che ho l’istinto di fuggire, ma la sua forte presa me lo impedisce. Punta lo sguardo su di me, poi mi si avvicina pericolosamente, facendomi sussultare.

- John Watson… - Come diavolo fa a sapere il mio nome? – Non ho molto tempo, quindi ascoltami bene. – Il respiro fatica ad uscirmi dalle labbra, sono letteralmente pietrificato. Il suo invece si è stabilizzato. Sta bene, è resuscitato, se così si può dire. – Le lettere che hai scritto a Sherlock Holmes, le tue lettere… - Ok, non lo avevo mai detto a nessuno, come è possibile che sa anche questo?

- Come diavolo fai a saperlo? –

- Non è importante, ma ascolta bene e fai quello che ti dico. Quelle lettere. Tienile con te sempre. Mettile in una borsa, nel cappotto, dove ti pare, ma tienile addosso. È questione di vita o di morte. –


- Perché? – Chiedo confuso mentre la sua presa al braccio si affievolisce. Mi lascia del tutto, poi si alza senza rispondere alla mia domanda e recupera i suoi vestiti accuratamente piegati accanto alla barella. Si riveste in tutta fretta ed io indietreggio lentamente verso la porta. – Tu chi sei? – Mi guarda come a rimproverarmi, poi si avvicina furiosamente a me e per un momento ho paura che possa picchiarmi, ma rimango sorpreso quando mi supera ed esce dall’obitorio, sparendo improvvisamente nel nulla.



Note autrice:
Un giorno di ritardo... perdonatemi. Adesso sono qui.
Che ne pensate? Su su, via coi pareri.
Non ho molto altro da dire, se non che ho pensato di fare una fan art ispirata a questa storia, ma non ho idea di quando e di come la comincerò, ma se mai dovesse succedere, vi posterò il link e ve la farò vedere.
Beh, tutto qui!
Spero vi sia piaciuto, al prossimo capitolo!

 

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Capitolo 7
*** Assalto al Colosseo ***


Assalto al Colosseo



- Bene, penso che ci siamo! – Jack sta scaricando le ultime attrezzature all’interno del Tardis. Per riuscire al meglio a trasportare tutto da Torchwood ha dovuto sfilarsi il cappotto lungo. La t-shirt bianca che porta di sotto, con le bretelle color avana, lasciava in bella mostra le sue braccia forti ed abbastanza allenate.

- Hai preso tutto? – Mentre il Dottore si assicura che tutto è presente, io guardo ogni cosa che il capitano ha appena tasportato. Non so a cosa servano, né come si utilizzino. Qui gli esperti sono loro.

- Proprio tutto. Ciò che dobbiamo fare adesso è collegare il tutto alla console. Non solo ci darà un segnale più ampliato, ma ci darà anche delle coordinate ben precise. – Ci mettiamo tutti il lavoro, loro mi spiegano come funziona e cosa devo collegare a cosa, ed io eseguo da bravo… allievo, se così mi posso definire.

Dopo un paio di minuti, il Dottore è intento a collegare dei fili al suo scanner, invece io e Jack stiamo cercando di riparare uno dei suoi strani attrezzi. Ovviamente, se si tratta di queste cose, non ho la più pallida idea di cosa sia ciò di cui ci stiamo occupando insieme.

- Bene, tu… da dove vieni esattamente? – Gli chiedo, curioso di poter apprendere altro di questo universo che mai avrei creduto potesse essere così ampio e ricco di stranezze.

- Oh, non lo sai? Credevo ci saresti arrivato da solo. – Il suo sorrisetto mi fa sollevare un sopracciglio. Non ci sta provando con me, è semplicemente il suo modo di fare e nonostante prima lo trovassi abbastanza fastidioso, adesso riesco quasi a sopportarlo.

- Non lo so, non sono esperto in materia aliena. – Lui ridacchia senza staccare gli occhi e la sua attenzione dall’attrezzatura, mentre io continuo a tenere sollevato quello che lui poco fa ha chiamato con un nome strano, mentre per me è solo un semplice coperchio di metallo. Sta lavorando a qualcosa al suo interno e quel maledetto coperchio non sta sollevato da solo, a Jack serviva una mano. – Hai quattro reni? Un solo polmone, tre stomaci? O posso considerarti normale? – La sua risata si fa più prolungata e rumorosa. Beh, posso dire che all’inizio ero serio, cosa potevo saperne! Ma poi accenno soltanto un sorriso divertito che non faccio vedere al diretto interessato.

- Sono un umano, signor consulente. Non ho organi raddoppiati, qui non siamo tutti Signori del Tempo. – Il Dottore, sentendosi chiamato in causa, solleva la testa dalla console e ci guarda, scostando gli occhiali dal proprio naso.

- Cosa? – Chiede confuso.

- Niente. – Rispondiamo Jack ed io con tono annoiato, mentre io continuo a tenere fermo quello strano aggeggio. Il Dottore fa spallucce e riprende da dove si era interrotto.

- Un umano immortale? –

- Una lunga storia. – Lo guardo impaziente. Non m’importa se è una lunga storia, voglio proprio sapere cosa c’è di strambo in quest’uomo. Con uno sbuffo dovuto alla mia faccia in grado di mettere sotto pressione chiunque, finalmente ottengo ciò che voglio ed inizia a raccontarmi. – Vengo dal cinquantunesimo secolo, esattamente. Sono umano ma vivevo su Boeshane, una colonia della Terra. Mi è capitato di incontrare il Dottore… era leggermente diverso allora. – Ha marcato sull’aggettivo, lanciando uno sguardo malinconico al diretto interessato. Come può un uomo che non invecchia mai essere diverso? – Eravamo io, Rose Tyler e lui. Per alcune circostanze, Rose ha risucchiato il Vortice del Tempo dentro di sé ed è diventata l’essere più potente mai esistito. Il Lupo Cattivo, la chiamavano. Io ero morto, mi avevano ucciso, ma lei è riuscita a riportarmi in vita, solo che… -

- Era troppo forte e adesso non puoi morire in nessun modo. –

- Esatto. Quando mi sparano le mie ferite si rimarginano. Una volta mi hanno fatto a pezzi e il mio corpo si è
ricongiunto, mi butto dai palazzi e dopo qualche minuto ritorno in vita. Le mie ossa… si rimettono a posto. Però posso invecchiare, molto lentamente rispetto a tutti. – Faccio scorrere il mio sguardo su di lui e capisco che nessuna delle sue morti ha avuto conseguenze sul suo corpo. La sua andatura è normale, sembra in forma, nonostante tutti i traumi che lo avrebbero dovuto uccidere.

- Provi mai dolore? – Mi lancia un’occhiata curiosa, sa che la mia domanda non è conclusa lì. – Ricordi le tue morti? – Con un gesto della mano mi dice che sono libero di abbassare il coperchio. Ha finito e ha poggiato gli attrezzi da lavoro sul pavimento.

- Il dolore lo provo, è allucinante. Immagina come sia una lama che ti fa a pezzi, o avere la schiena spezzata, o una pallottola nel cervello. Il dolore purtroppo c’è e… -

- Ti fa desiderare di tornare mortale. – L’angolo destro delle sue labbra si solleva ed annuisce. Sembra triste di essere in questo stato. So di storie, leggende in cui gli uomini di potere bramano l’immortalità e di possedere ogni cosa. Adesso, guardando Jack e il Dottore, mi rendo conto che la vita è bella se è breve come la nostra.

Quante pene devono aver sofferto, quante persone devono aver perso! Forse troppe. Capisco il suo desiderio di tornare normale.

- Immagino che tu sia un punto fisso nel tempo, se no il Dottore avrebbe potuto riaggiustarti. – Lui ridacchia e si rimette in piedi, seguito da me che non smetto un attimo di studiarlo, di guardarlo dalla testa ai piedi come se fosse una scena del crimine da esaminare.

- Mi diverte il fatto che tu sappia le cose prima che gli altri te le dicano, sei interessante. – Con l’aiuto del Dottore collega anche quello che abbiamo appena sistemato allo scanner e alla console.

- A me diverti tu. – Mormoro con un leggero sorriso. Entrambi sembrano non sentirmi però, sono troppo impegnati a sistemare l’attrezzatura del Torchwood.

Mi sto decisamente annoiando, più del solito. Ed è strano, perché non mi annoio mai sul Tardis.

- Bene, queste sono delle antenne, immagino. Captano segnali alieni, no? –

- Sì, ci diranno dove sono, così possiamo portarli di nuovo al loro posto. – Il Dottore, poco dopo la sua spiegazione, si entusiasma nel vedere i segnali che immediatamente ci indicano delle coordinate.

- Faccio io! – Lo spingo quasi con prepotenza dalla sua postazione davanti allo scanner. Stavo quasi per provocare la sua caduta ma Jack è stato pronto ad afferrarlo prima che potesse fare quella brutta fine. Sì, sono stato sgarbato, aggressivo forse. Ma a giudicare dallo sguardo che il Dottore mi lancia, so che capisce il mio comportamento.

Sono annoiato, arrabbiato, impaziente, stanco. Voglio solo che tutto questo finisca, e di sicuro stare a guardarli mentre fanno le loro cose geniali, senza poter essere di alcun aiuto, non riesce a farmi mantenere la calma. Devo fare qualcosa anche io, mi basta anche pilotare il Tardis.

Mi aggancio alle coordinate e al segnale. Sullo scanner ci sono una decina di puntini luminosi che capisco essere gli alieni che si sono divertiti a rimbalzare da un mondo parallelo all’altro. Sollevo la leva e in un attimo il Tardis si muove, facendo sobbalzare Jack e il Dottore.

- Sherlock! – La voce di quest’ultimo mi arriva forte e chiara alle orecchie. – Capisco il tuo stato d’animo ma cerca di darti un contegno. – Annuisco, mortificato dalle mie azioni e nel frattempo la cabina arriva a destinazione. Lui mi lascia delle pacche amichevoli sulla spalla ed io mi faccio da parte per lasciare che controlli lo schermo che ci sovrasta, dalla quale provengono quelle lucine intermittenti, di cui adesso è più chiaro lo spostamento.

- Come mi rendo utile? – Chiedo con la voce rotta dall’impazienza e dalla paura che tutto questo possa continuare ancora per molto. Dio, come vorrei che John fosse qui. – Mi sento inutile Dottore, qualunque cosa io faccia. –

Per la prima volta sento che tutto ciò che ho da offrire con la mia “mente brillante” serva poco e niente.

- Tu sei la cosa più importante dell’intero universo, Sherlock. In questo momento lo sei. Sei l’unica cosa che mantiene ancora quel contatto psichico con John. Più tu lo pensi e più sarai in grado di salvarlo. – Annuisco velocemente mentre i miei occhi pungono dalla voglia di piangere. Vorrei davvero piangere, ma non posso. Mi trattengo, sono forte per John, solo per lui sto cercando di reggere a tutto questo. – E non dimenticare che sei tu quello che spedisce le creature dall’altra parte, no? – Con la testa indica la tasca del cappotto dove avevo conservato il dispositivo sonico. – E la tua mente, che farei senza la tua mente! – L’entusiasmo dimostrato mentre ha detto quell’ultima frase è trasparito dalla sua voce e dal suo sorriso sincero e allegro, e anche dal suo gesto inaspettato, ovvero quello di infilare le dita fra i miei capelli e scompigliarli come si fa con i bambini piccoli. Con qualche ricciolo davanti agli occhi accenno una risata.

- Bene, ricordatevi che non sappiamo chi ci troveremo davanti, quindi prendete tutte le precauzioni possibili. – Jack aveva già provveduto a questo, tra le sue mani infatti c’era un fucile da caccia pronto a colpire, nella sua cintura le ricariche di quest’ultimo, in caso fosse stato necessario. Io mi affretto a tirare fuori il dispositivo e la pistola che, senza nemmeno rendermene conto, avevo portato con me.

- Tu niente, Dottore? –

- Il Dottore non ama le armi. – Mormoro al capitano, poco prima che il Dottore possa farlo. Ancora una volta sorride alla mia corretta deduzione.

Fuori dalla cabina ci accorgiamo di essere arrivati proprio in Italia, dato che davanti ai nostri occhi si estende il Colosseo come mai lo avevamo visto prima.

- Alieni al Colosseo, questa devo proprio segnarmela. – Mormoro a bassa voce mentre grazie alla carta psichica riusciamo ad avere l’accesso all’enorme monumento storico. Come ogni volta, non so cosa ci sia scritto sopra, e mai lo sapremo dato che noi tre riusciamo a vedere solo un pezzo di carta bianco. La nostra fortuna è trovare gente non abbastanza intelligente da non vedere le nostre credenziali. Il genere umano, a quanto pare, è abbastanza stupido.

Per questioni di sicurezza, siamo riusciti anche a sgombrare il monumento dai visitatori. Dobbiamo avere campo libero per questa operazione.

Ci aggiriamo all’interno, sorpassando rovine e scrutando ogni angolo in cui notiamo movimento, sospirando di rammarico quando ci accorgiamo che è solo un uccello che si è poggiato su una roccia.

D’un tratto il cacciavite del Dottore, con il quale non smetteva di scansionare il posto, inizia ad emettere strani rumori leggermente più elevati rispetto al solito.

- Si sono svegliati, erano dormienti. Sono qui da qualche parte, spero proprio non siano i… - Improvvisamente veniamo interrotti da una voce meccanica in lontananza e tutto accade in un attimo, senza nemmeno avere il tempo di difenderci: un raggio colpisce Jack che lo fa accasciare sul terreno. È morto, ma so che si risveglierà, anche se non perdo un attimo prima di mettermi davanti a lui con la pistola sollevata verso il punto in cui avevo visto partire quell’attacco, come a difendere entrambi da un ulteriore raggio. La voce meccanica adesso è più chiara e comprensibile. Il Dottore si pietrifica, esclamando un “No, non loro!”

- STERMINARE!
 
 _________________________________________________________________________

Londra, 11 dicembre 1902

Mio carissimo Sherlock,

È successa la cosa più assurda che poteva mai capitare ad un medico. O ad una persona in generale. Ho appena assistito alla resurrezione di un uomo deceduto in obitorio. Si è gettato da un palazzo, sai? Proprio come hai fatto tu. È vero che anche tu sei tornato… ma non così. Lui ha proprio preso vita davanti ai miei occhi. Nessun trucco, sembrava quasi… magia.

La cosa assurda è che mi conosceva, anche se io non avevo idea di chi fosse. Ma non sembrava ipnotizzato come quella mia paziente. Era lui a parlare e a dire quelle cose di sua spontanea volontà.

Sì, ha detto le stesse cose “tienile con te”, ma adesso so che si riferisce a queste lettere, perché me lo ha specificato mentre cercava di riprendere fiato.

Fin da quando sono qui cerco di prendere tutto come se fosse una strana coincidenza. Ma il fatto che si riferisca a queste lettere, di cui non ho mai fatto parola con nessuno, e il fatto che si sia gettato da un palazzo come hai fatto tu, Sherlock… mi fa pensare che sia un messaggio da parte tua o magari da parte del Dottore.

Cosa significa? Che tornerò presto da te, o semplicemente vogliono dirmi che se tengo le lettere sempre con me potranno arrivare facilmente nelle tue mani?

Non so, non so proprio come rispondere a queste mie domande.

Ma nonostante questo farò come mi ha detto quell’uomo. Non mollerò mai queste lettere. Perché so che stai
cercando di fare qualcosa ed io ho sempre avuto fiducia in te.


La polizia sta indagando, comunque. Tutti cercano invano l’uomo che è risorto ed è fuggito dall’ospedale sotto i miei occhi spaventati.

So che non arriveranno mai ad una conclusione, che questa caso si manderà avanti per molto tempo senza un riscontro positivo. Io so come è andata. Ho visto quell’uomo sparire nel nulla, ma la gente è scettica, non mi crede.

Per il resto… non è cambiato nulla. Sempre la solita routine.

Ma mi manchi e purtroppo questo non potrà mai cambiare. Dico purtroppo perché non ne posso più di vivere con questo vuoto dentro.

Ah, la mia collega mi ha invitato a prendere un tè insieme. È molto carina ma… non me la sono sentita di accettare. Avrebbe potuto distrarmi se fosse stata solo una cosa fra amici, ma dal suo punto di vista non sembrava essere così. Lo capisco da come mi guarda che il suo interesse è ben superiore all’amicizia. 

No, non ce la faccio ad uscire o ad avere la compagnia di qualcuno che non sia tu, Sherlock.

Ed ora che sono convinto che questo messaggio dell’uomo misterioso riguarda te, e spero con tutto il cuore lo riguardi, adesso dentro di me si è riaccesa la luce della speranza, quella che fino a poco tempo fa avevo perso. Quindi ti aspetterò, aspetterò finché tutto questo finisca… perché stai venendo a prendermi, vero?

Mi manchi.

E ti amo.
Tuo John.



Note autrice:
In ritardo, ma eccomi! Nel mio paesino ci sono stati giorni di festa e non ho potuto scrivere
Questo capitolo non mi convince molto, non so perchè...
Spero che possiate smentire la mia incertezza c.c
E che vi piaccia soprattutto
Un bacio e alla prossima!

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Capitolo 8
*** I Dalek ***


I Dalek



Quelle creature sono buffe. Per un attimo mi è anche venuto da ridacchiare mentre le vedevo avanzare verso di noi. La loro forma ricorda quella di un enorme thermos con due braccia costituite da quella che sembrava una frusta da cucina e da una grossa ventosa. Vogliono per caso sturarmi o… frullarmi il cervello?

- Spero sia uno scherzo. – Mormoro con una risata mentre continuo a tenere la pistola puntata sui grossi alieni di latta che si stanno avvicinando. Continuano a spostare quello che dovrebbe essere il loro occhio su di noi. Ma sono piuttosto lenti nell’avvicinarsi. Le rovine sono abbastanza numerose da impedire altri movimenti, o… almeno era quello che speravo, perché subito dopo mi sono reso conto che questi cosi possono volare. Sollevarsi e volare!

- Forse è meglio che tu vada, Sherlock. – Mormora il Dottore senza distogliere lo sguardo da loro. Io ho ancora quel sorriso scettico sul volto, anche se, beh… hanno appena ucciso Jack. – Prendi il capitano e torna sul Tardis! – In un attimo carico la mia pistola e tengo il dito ben fermo sul grilletto.

- Non ci penso nemmeno! –

- Sono Dalek, non si possono fermare. – Quella frase avrebbe dovuto scoraggiarmi e farmi fuggire? Naaah. Sono più determinato che mai a fermarli.

- Ma ho il dispositivo, posso fermarli, rimandarli alla loro parte! – Un altro raggio parte da uno di quelli che a quanto pare si chiamano Dalek, costringendo il Dottore a nascondersi dietro ad una delle rovine.

- Puoi darlo a me, posso fare da solo. – Mi guardo intorno e cerco di calcolare le possibilità della sua riuscita, ma non vedo nessun riscontro positivo. I Dalek sono troppi, molto più di una dozzina e di sicuro da solo non sarebbe riuscito a fermarli.

- Non ti lascio qui da solo! – Esclamo senza batter ciglio. Il Dottore sta per dire qualche altra cosa ma i Dalek lo precedono con dei raggi che cadono su di me a fiotti, ma sono fortunato perché con un balzo mi sposto dietro ad una delle rovine, accanto al Dottore, trascinandomi dietro un Jack ancora senza sensi… ok, decisamente “ancora morto”. Ho constatato io stesso che lo fosse mettendo due dita sotto alla sua mascella per controllare i battiti cardiaci. Nessun segno. Nemmeno quando ho passato le stesse dita sotto il suo naso per controllare che respirasse ancora. Non so quanto tempo potrebbe passare prima che si svegli.

Subito dopo prendo il dispositivo dalla tasca e mi preparo a rispondere all’attacco.

- Sherlock! – Mi richiama lui, preoccupato dalla mia prossima mossa.

- Avresti dovuto averne uno anche tu – Dico, riferendomi al dispositivo che faccio volteggiare in aria prima di sporgermi velocemente e colpire due dei Dalek che stavano ancora sparando furiosamente i loro raggi verso di noi. Torno velocemente dietro il mio scudo di mattoni e sobbalzo quando Jack si risveglia all’improvviso, riprendendo fiato come se fosse stato appena tirato fuori dalle profondità del mare, annaspando per raggiungere di nuovo la normale respirazione.

- Che… succede? – Chiede sollevandosi appena dal terreno.

- Dalek. – Dico preparandomi ad un secondo attacco. Lui ridacchia e per un momento non riesco a capire per quale motivo trovi divertente questa situazione assurda, poi afferra il fucile abbandonato qualche metro più in là e ritorna accanto a noi, strisciando faticosamente per non farsi centrare di nuovo in pieno.

- La mia prima morte, che gioia! – Commenta sollevando il fucile, con una punta di ironia nella voce. A quanto pare ho appena scoperto come Jack abbia perso la vita la prima volta. Nello stesso modo che ho appena visto, e in entrambi i casi si era risvegliato e ci aveva riso su.

- Bene, io potrei spostarmi da qualche altra angolazione mentre tu li distrai. – Mormoro al capitano che aveva già caricato l’arma fra le sue mani, sollevandola in modo che potesse attaccare più facilmente. Dal suo sguardo capisco che anche lui la pensa come il Dottore, ovvero che dovrei tornare nel Tardis e lasciare il lavoro sporco a questi due geni spaziali. Ma tutti sappiamo quanto io sia testardo. Scuoto la testa contrariato e mi alzo, ignorando completamente i loro richiami.

Inizio a correre e con la coda dell’occhio vedo che Jack è intenzionato ad andarmi dietro, ma i Dalek gli impediscono di farlo. Durante il mio tragitto verso una delle colonne, riesco a centrare più di uno dei nostri nemici, ma vengo colto di sorpresa: quando ho raggiunto quella colonna ho sperato di essere al sicuro e di stare riuscendo a sconfiggerli. Ma non avevo calcolato quanto anche quelle creature potessero essere intelligenti e completamente silenziose quando ti attaccano alle spalle. Infatti, uno di loro ha sparato verso di me. Non mi ha preso, perché non sono morto all’istante come ha fatto Jack poco fa… ma colonna è crollata, e non ricordo altro a parte il dolore lancinante alla testa quando ho toccato terra, trascinato dalle macerie stesse… Probabilmente si tratta della rovina… che è appena franata… colpendomi…? E poi… poi… il buio… più totale.
 
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Londra, 16 dicembre 1902
 
Mio carissimo Sherlock,

Ti prego di non illudere le mie aspettative, io sto ancora attendendo qualcosa che possa tirarmi fuori da questo casino e mi sto rivolgendo a te.

Non voglio sembrare ripetitivo perché, beh… con tutte le lettere che ti ho scritto credo che si potrebbe creare un romanzo, e siccome sai quanto la gente apprezzi i miei scritti, potrebbe anche fruttarmi un bel po’ di denaro.

Quindi oggi non starò qui a dichiararti il mio immenso amore come sempre, ma giusto per cambiare argomento… ti racconterò qualcosa di me. Qualcosa che non sai e che non ti ho mai raccontato, non so perché.

Devo dire che solo il fatto di starti scrivendo mi ha fatto venire in mente questa storia. Perché anche in quel caso c’entravano delle lettere che io scrivevo mentre ero in missione.

Beh, quando sono partito per l’Afghanistan avevo una ragazza. Si chiamava Sharon. La amavo come un disperato. È vero, non te ne ho mai parlato, ma so che mi avresti interrotto bruscamente dato che hai detestato ogni mia singola relazione con un qualunque soggetto vivente. Adesso, dato che sto scrivendo, non potrai interrompermi, quindi mi sa che dovrai subirti il mio racconto.

Era scozzese. Suo padre è morto quando era molto piccola, e l’unico suo familiare ancora in vita era la madre, Jane. Faceva la sarta ed anche lei era molto brava con ago e filo. È stata proprio sua madre a prendere le misure per la mia divisa da soldato. Sharon la aiutava ed è così che ci siamo conosciuti io e lei. Ai tempi non mi avevano incaricato per nessuna missione, quindi stemmo insieme per un intero anno, prima che mi chiamassero.

Pianse molto quando partì, litigammo la sera prima perché ancora tentava di convincermi a non andarmene. Non ci fu modo di farmi cambiare idea, nonostante il suo stato d’animo mi facesse stare male, ma avevo un dovere da rispettare e le ho detto che le avrei scritto.

E fu così, ci scrivevamo. Io attendevo le sue risposte come un bambino attende il giorno di Natale per aprire i regali. Lei mi raccontava le sue giornate e mi parlava dei suoi progetti per il futuro, ed io ero felice di sentirglielo dire, perché nei suoi progetti io ero sempre presente.

Passarono mesi, e le sue lettere non arrivarono più. All’inizio pensai si trattasse del fatto che avevamo spostato i nostri accampamenti, ma poi la dura verità mi si piazzò davanti quando tornai a casa. La cercai subito, per avere delle spiegazioni, ed indovina un po’?

Suonai alla sua porta e mi aprì un palestrato di quasi due metri, con un asciugamano attorno alla vita e la faccia confusa. Sharon dietro di lui, in intimo e completamente terrorizzata da una mia possibile reazione.

Non ho fatto scenate, sono semplicemente andato via e da quel giorno non l’ho più vista. Solo dopo ho scoperto che quel bel fusto non era stato l’unico che aveva invitato sotto le lenzuola durante la mia assenza.

Beh, volevo raccontarti una delle mie esperienze, dato che non me ne dai mai l’occasione.

Se dovessi fingere che tu possa rispondere a questa lettera… ti chiederei di raccontarmi una delle tue esperienze. So che non hai mai baciato nessuno, ma non crederei nemmeno fra un milione di anni che non hai mai avuto una cottarella per qualcuno.

Ok, ho scritto abbastanza per oggi. Adesso devo iniziare il turno in ospedale, spero di non vedere altra gente resuscitare in quel modo così inquietante…

Oh, fra poco qui è Natale. Mi sarebbe piaciuto passarlo con te. Spero ancora che potrò passarlo con te, insomma… il Natale normale, quello nel 2016.

Mi manchi.

E ti amo.
Tuo John.
 
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Ha solo perso i sensi, Jack. Ma quella ferita… Oh cavolo, credo si sia rotto un braccio.”

“Quando pensi che si risveglierà?”

“Non saprei. Ogni volta che muori mi faccio la stessa domanda”

“Divertente…”


 
- Cos…? –

- Ssssh, Dottore, credo stia per svegliarsi. –

Mettere a fuoco non mi è mai sembrato più difficile in tutta la vita. Per poco non riesco nemmeno ad aprire gli occhi. Le palpebre sono pesanti come mattoni.

- Sherlock? – Vedo i due davanti a me, ma sono sfocati. Riconosco a chi appartiene quella voce… è del Dottore. – Sherlock, andiamo, reagisci! – Ora che ho messo a fuoco riesco a sentire il dolore allucinante alla testa, proprio sopra l’occhio destro, dove credo di aver preso una bella botta. Non oso immaginare il colore del livido…

Porto una mano proprio su di esso e mi rendo conto del grosso bernoccolo insanguinato grazie al tatto leggero delle mie dita. Anche solo sfiorarlo fa un male cane.

- Merda… - Mormoro osservando il sangue sul palmo. Inoltre non ho più addosso né il cappotto, né la giacca, e le maniche della mia camicia sono arrotolate fino al gomito.

- Bene, sei tornato tra noi! – Esclama il Dottore con un sorriso sollevato sulle labbra. – Ti consiglierei di non muoverti date le condizioni del tuo… -

- MERDA! – Impreco a denti stretti, dopo aver cercato invano di mettermi a sedere in modo più composto. Sono poggiato con la schiena alla seduta accanto alla console, ero semisdraiato. Non mi ero minimamente accorto dell’osso rotto finché non mi sono mosso.

- … braccio, appunto. –

- Che è successo? – Chiedo con voce rotta dal dolore mentre, con l’aiuto di Jack, mi metto seduto compostamente.

- Un Dalek ha centrato la colonna dietro la quale eri nascosto. Non ti è andata male, ma nemmeno tanto bene. –

- Non mi è andata male? – Chiedo con voce stridula, alzando le sopracciglia (gesto che avrei potuto evitare, dato il coinvolgimento del bernoccolo dolorante).

- Adesso il Colosseo è libero dai Dalek. Mentre Jack ti riportava sul Tardis io mi liberavo di loro con il dispositivo. – Dice, ignorando completamente la mia domanda ironica.

- Non siamo tornati indietro nel tempo? – Chiedo speranzoso.

- Purtroppo no, Sherlock. – Questo vuol dire che ci sono altre creature aliene del mondo parallelo intrappolate in questa dimensione. Con un impeto di rabbia e frustrazione mi muovo appena, e il mio osso ne risente, perché con un urlo di dolore ritorno alla posizione di prima, reggendo il mio avambraccio e digrignando i denti per il dolore.

- Dobbiamo fare qualcosa per quel braccio. –

- TU DICI? – Urlo all’affermazione di Jack. I due si guardano, sembra stiano parlando telepaticamente, anche se so che non sono capaci di farlo.

- Faccio io. – Il Dottore solleva le mani di fronte a sé e chiude gli occhi. Entrambi non capiamo cosa voglia fare. È come se si stesse concentrando, ma per cosa?

Le risposte arrivano subito dopo, anche se non capisco. Le sue mani cominciano a risplendere di una luce dorata e fluttuante. Per un attimo mi perdo ad osservare incantato quelle particelle volteggiare attorno alle sue dita, ma questo strano processo viene interrotto da Jack che afferra prepotentemente le sue mani e le fa abbassare lungo i fianchi del Dottore. Quest’ultimo lo guarda scioccato e sorpreso. –
Che stai facendo? –

- Non lascerò che tu sprechi dell’energia rigenerativa. – Dice lui posizionandosi di fronte a me. Sta studiando la mia ferita. Non capisco cosa vogliono fare, né di cosa stiano parlando, quindi mi limito a stare in silenzio nel tentativo di capire.

- Ma è l’unico modo! –

- No, c’è un altro modo! – Il Dottore inarca le sopracciglia, confuso quasi quanto me.

- E sarebbe? –

- Beh, è un mio trucchetto. Funziona una sola volta su ogni persona. L’ho già provato con altri ed ha funzionato perfettamente. Perché non tentare? – Si siede accanto a me, mentre io alterno lo sguardo dal Dottore al capitano, reggendo ancora il braccio ferito contro il torace.

- Di che cavolo state parlando? – Sbotto irritato. Odio non sapere.

- Sherlock. – Mi dice con tono gentile e pacato. Troppo pacato, troppo cortese. Cosa vuole fare? – Ti prego, non saltare a conclusioni affrettate, e perdonami. – Corrugo ancora di più la fronte e sto per dire qualcosa, ma vengo interrotto.

Come?

Quello spilungone pomposo ha appena poggiato le sue labbra petulanti sulle mie.



Note autrice:
BUONSALVE. Ok, sono mancata per un bel po', ma ho avuto un po' di influenza, quindi zero forze e zero voglia di scrivere.
Spero di farmi perdonare con questo capitolo.
Un bacio e alla prossima!

 

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Capitolo 9
*** North Pole ***


North Pole


 
Ho gli occhi sbarrati oltre ogni dire. Abbandono il braccio ferito e con quello buono lo spingo via, facendolo cadere rovinosamente dalla seduta. Atterra sulla schiena e si lascia sfuggire un gemito di dolore.

- MA SEI IMPAZZITO? – Urlo mettendomi immediatamente in piedi. – Come ti salta in mente? – Forse posso sembrare isterico sotto gli occhi del Dottore e di Jack, ma adesso proprio non m’importa.  Non ho mai desiderato altre labbra sulle mie se non quelle di John. Mi sono sentito sporco, mi sono sentito un traditore, anche se non ho perso tempo a spingerlo via.

Cosa penserà John di tutto questo?

Come avrebbe reagito se fosse stato presente?

- Sherlock! – Il richiamo del Dottore è completamente inutile, perché è come se non l’abbia sentito. Mi limito ad avvicinarmi pericolosamente a Jack che è ancora steso sulla schiena. Afferro il colletto della sua t-shirt bianca e lo sollevo di peso, facendolo mettere in piedi. Le sue mani sui miei polsi mi fanno capire che vorrebbe che lo lasciassi, ma io non demordo e stringo quella stoffa fino a quasi strapparla.

- Dato che non puoi morire, non ti dispiacerà se ti do una lezione! – Sibilo furioso, ricevendo in risposta una risatina divertita e soffocata dalla mia stretta.

- Con entrambe le braccia, immagino! – Forse la rabbia non mi ha aiutato a capire cosa è appena successo. La sua affermazione mi confonde, non capisco dove voglia andare a parare finché il mio sguardo non si concentra sulle sue dita aggrappate ai miei polsi. La rabbia si affievolisce fino a sparire del tutto.

Riesco a vedere le cose come stanno: l’ho trascinato di peso con entrambe le braccia, e adesso che sono lucido non sento nessun dolore farmi imprecare a denti stretti.

Il mio osso si è risanato.

Penso, mentre a poco a poco lascio andare il colletto di Jack. Mi soffermo sulle mie condizioni a bocca semiaperta, poi porto le dita sul bernoccolo e mi accorgo che è sparito, che è rimasto solo il sangue che fino a poco prima sgorgava dalla mia ferita aperta sulla testa.

Quello spilungone pomposo mi ha appena guarito con le sue labbra petulanti.

Alzo lo sguardo verso di lui, guardandolo per la prima volta come se non credessi davanti a chi o che cosa mi trovassi. Sto per aprire bocca mentre lui si sistema la maglietta stropicciata dalla mia furia incontrollata.

- Non c’è di che. – Mormora con un sorriso beffardo, prima di raggiungere un Dottore abbastanza divertito dalla scena a cui ha appena assistito.

Rabbia? Completamente sparita.

Al suo posto? Profondo e puro imbarazzo.

Quel dannato bacio non significava niente, era soltanto una maledetta cura che Jack si porta dietro fin dal giorno in cui Rose Tyler lo ha reso un essere immortale.

Mi ha appena salvato e io l’ho quasi scaraventato fuori dal Tardis.

Stupido, stupido.

- Come hai fatto? – Chiede il Dottore mentre mi posa premuroso la giacca sulle spalle, con la speranza che io la indossi. Però sono ancora
immobile e scioccato.

- Non so come funzioni, in realtà. Credo sia un regalo del Lupo Cattivo, oltre all’immortalità possiedo anche il bacio che guarisce. Ma prima d’ora nessuno mi aveva quasi ucciso per avergli salvato la vita. Di solito ne erano riconoscenti. – Mi lancia uno sguardo ironico prima di indossare il suo lungo cappotto. Io non stacco gli occhi dal mio braccio e inghiottisco a vuoto prima di abbassare lentamente le maniche della mia camicia. Poi infilo la giacca e noto, appoggiato malamente alla console, un pacchetto di salviette che non esito ad utilizzare per rimuovere il sangue dalla mia fronte.

- Quei Dalek… - Mormoro a bassa voce mentre mi rigiro la salviettina fra le mani. Ho bisogno di cambiare argomento. – Perché eri così spaventato da loro? –

L’atmosfera è cambiata. Sento svanire l’espressione divertita del Dottore. Sento la sua malinconia come se fossi io a provarla. Ma non è semplice malinconia. È qualcosa di più forte, qualcosa che fa male, lo capisco dal suo viso, anche se prova talmente tante volte a nascondere il suo dolore. Ho toccato un tasto dolente con quella domanda, ma forse sarà la volta buona che scoprirò cosa ha passato quest’uomo.

- Cosa ti hanno fatto? – Chiedo mentre con cautela infilo la mia giacca.

- C’è stata una guerra. – Il suo tono è freddo e distaccato, come se non volesse davvero parlarne, o probabilmente perché fa troppo male per lui. – La grande Guerra del Tempo. Dalek contro Signori del Tempo. – Afferra lo scanner evitando lo sguardo di entrambi, e lo abbassa davanti ai suoi occhi per individuare altri segnali che avremmo potuto seguire. – Noi abbiamo perso. Hanno sterminato il mio popolo. – So che non è la prima volta che racconta questa storia a qualcuno. So che cerca sempre di evitare questo argomento. Forse anche con me avrebbe voluto, ma entrambi sappiamo che sono il tipo a cui non si può nascondere niente.

- Sei l’ultimo della tua specie. – Solo in quel momento sposta gli occhi dallo schermo e li punta su di me. Ci leggo dolore, rabbia, colpa, tristezza, nostalgia, solitudine. Tutti questi sentimenti in un solo sguardo.

Mi chiedo cosa la gente noti nei miei occhi.

Ci ho azzeccato, e non mi aspetto una sua risposta od una sua spiegazione. Infatti si limita ad annuire e a tossicchiare leggermente come a schiarirsi la voce. So che adesso cambierà argomento, perché è quello che faccio sempre io se mi ritrovo in situazioni come queste. Come tutte le volte in cui mi chiedono cosa mi ha reso così freddo e distaccato, cosa mi spinge a non provare nessun tipo di sentimento. Perché dover raccontare di Barbarossa, sapendo quanto male potrebbe fare, quando invece posso semplicemente cambiare argomento e non rimuginarci sopra?

Credo che questa sia l’unica cosa che io e il Dottore abbiamo di diverso. Lui racconta la sua storia, malgrado sia dolorosa, io la tengo per me, incapace di affrontare il senso di vuoto che viene dopo.

- Ma questi Dalek sono stati facili da battere. Attraversando la frattura hanno perso parecchia energia ed erano più vulnerabili, quindi… oh, noto dei segnali. Perfetto! Spero siano gli ultimi. – Con movimenti guizzanti e veloci, sfreccia tra i comandi della nave e in un batter d’occhio si aggancia al segnale per poterlo seguire.

Jack mi osserva dall’altro capo della console ed io evito i suoi occhi in ogni modo possibile ed immaginabile. La nave atterra e posiamo lo sguardo su un Dottore sovraeccitato che non vede l’ora di buttarsi in qualche guaio assurdo. Con una risatina afferra il cappotto marrone e si dirige alla porta, indossandolo in fretta e furia.

Il freddo ci investe come un camion in corsa. L’aria pungente e gelata ci costringe a strofinare le mani sulle braccia in un inutile tentativo di trasmetterci calore. La neve volteggia all’interno della cabina e si posa leggiadra sul pavimento.

- Ragazzi, benvenuti al Polo Nord! – Dice il Dottore, mentre col suo cacciavite sonico ispeziona la landa desolata su cui siamo atterrati.

- Che grande notizia! Non ti dispiace se resto qui, vero? – Mormora Jack tremante per il freddo, affacciandosi appena dalla porta mentre si stringe nelle spalle. Io lo supero all’esterno senza problemi, ovviamente dopo aver indossato cappotto, sciarpa e guanti, ma strofino le mani sulle mie braccia per scaldarmi e comincio a guardarmi attorno, notando soltanto una lunga e vasta distesa di neve e nient’altro che la cabina blu a contrastare con tutto il resto.

- Sicuro siano le coordinate giuste? Insomma… non c’è niente qui! – Dico a voce alta, per farmi sentire al di sopra del forte vento che sibila alle nostre orecchie.

- Rilevo qualcosa! – Dice spostano il braccio con il cacciavite in varie direzioni. – Quando la situazione sembra tranquilla non bisogna mai fidarsi, i guai potrebbero essere gross… - Non ha il tempo di finire la frase che lo vediamo svanire sotto i nostri occhi stupiti e sconcertati. Un raggio verde lo ha avvolto e poi lo ha fatto completamente svanire.

- Che cavolo è stato? – Chiedo mentre vedo Jack correre verso il punto esatto in cui abbiamo visto il Dottore volatilizzarsi.

- Un teletrasporto? – Mormora guardandosi intorno. – Ma teletrasporto per dove? – Si chiede mentre io rimango fermo a guardarlo, cercando di capire al meglio la situazione ma riuscendo soltanto ad ottenere la confusione totale. Ad un certo punto lo vedo sollevare la testa e guardare verso il cielo. – Oh, ma certo. – Faccio lo stesso e punto lo sguardo in alto. Oltre alla nebbia poco fitta vedo quella che dovrebbe essere una nave spaziale che sovrasta l’intera landa desolata. Per questo non l’avevamo notata prima.

- Perché non hanno preso anche noi? –

- Due stupidi umani e un Signore del Tempo, chi credi preferirebbero? – Il suo discorso non fa una piega e mi limito ad annuire, condividendo appieno il suo ragionamento.

- Li conosci? – Lo vedo assottigliare lo sguardo e concentrarsi sui dettagli della nave, il suo sguardo sembra superare la nebbia e analizzare ogni angolo metallico di ciò che ci sovrasta.

- Credo sia una nave Cyberman. – Sto per chiedere ulteriori spiegazioni, ma lui mi anticipa. - Dei robot con dei cervelli umani, in sostanza. –

- Il cervello di un Signore del Tempo potrebbe valere una fortuna per loro. – Mormoro tenendo gli occhi puntati alla nave sopra di noi. – Che cosa facciamo adesso? – Chiedo a voce alta perché giunga alle sue orecchie.

- Non ne ho la più pallida idea. –
 
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Il trambusto regna da questa mattina. Non ho capito cosa è successo finché non ho raggiunto il lettino del pronto soccorso con sopra la paziente che sta attirando l’attenzione di tutti.

Non avevo mai visto quella ragazza. Di solito non mi occupo di casi gravi qui, ma avevo sentito parlare che si trattava di un codice rosso.

L’infermiera Alicia James sta controllando la cartellina della donna, con un sorriso a 32 denti da invidiare (lei è la collega che mi ha chiesto di uscire).

- Buongiorno Alicia! – Dico mentre la raggiungo. Attorno al letto vedo una decina di altri pazienti ed infermieri curiosi, hanno tutti la loro attenzione sulla donna distesa sul lettino, apparentemente di ottima salute.

- Buongiorno, dottor Watson! -

- Che succede qui? –

-  Oh, la signorina Finnegan ha avuto un brutto incidente. Costole rotte, stava per perdere la gamba, date le condizioni del suo femore… e la guardi adesso! – La signorina Finnegan era sana come un pesce. Sorrideva e scambiava battutine con le persone presenti.

- Un altro miracolo? – Chiedo io con evidente ironia. La paziente riesce a sentire il mio commento e si solleva con la schiena, sistemandosi in una posizione semi seduta. Mi guarda con quel sorriso sollevato e appagato.

- Il mio angelo custode mi ha salvata. –

- Il suo angelo custode? – Chiedo io confuso.

- Sì. Ho sempre saputo di averne uno, ho pregato a lui di non perdere la gamba e lui mi ha sentita. Mi ha salvata. – Sembrava davvero convinta di ciò che diceva. – E non c’è che dire, il mio angelo è proprio sensuale! Il suo bacio mi ha guarita. – Dalla sua bocca e da quella delle pazienti che le circondano fuoriesce una risatina insopportabile, che cerco di digerire ricambiando con un sorrisino sghembo. Un angelo custode che salva una paziente ed è pure sensuale? Dubito fortemente. A me sembra qualcosa di… alieno, piuttosto.

Quella strana conversazione finisce lì. Non credo più in questo tipo di miracoli dopo aver passato l’avventura degli Angeli piangenti con il Dottore.

Un uomo che risorge dopo una caduta spaventosissima e una donna che viene guarita da un angelo custode? Mh… qui c’è di sicuro lo zampino di qualcuno che conosco. E ne ho la conferma quando arrivo alla mensa dell’ospedale. Seduto in un tavolo in fondo ad abbuffarsi, noto l’uomo che pochi giorni fa si è svegliata dal letto di morte.

- Sei tu l’angelo custode della signorina Finnegan? – Chiedo bruscamente mentre mi accomodo senza tanti complimenti di fronte a lui.

- Davvero è convinta che io sia il suo angelo custode? – Mi chiede con una risatina divertita mentre abbandona le posate sul vassoio e stiracchia la schiena.

- Sì, lo è. E se volevi attirare la mia attenzione ci sei riuscito benissimo. Ora dimmi cosa vuoi. – Mi stupisco nel vedere che si trova nelle stesse condizioni in cui mi ha lasciato giorni prima. Avrà viaggiato nel tempo per finire in questo momento preciso. Il viaggio nel tempo gli ha fatto venire fame? Probabile, vista la foga con cui si stava ingozzando.

- Oh, quindi lo hai capito! Mi aveva detto che fossi intelligente. –

- Chi te lo aveva detto, il Dottore? Non credo di esser… -

- Il tuo ragazzo. – Cala il silenzio e lo guardo dritto negli occhi. Sta parlando di Sherlock. Sentirlo nominare come il mio ragazzo dopo tutto questo tempo senza di lui mi provoca una certa sensazione alla bocca dello stomaco che riesce a farmi tremare le braccia. Dio, quanto mi manca. Darei la mia vita per essere con lui adesso. – Anche tu manchi a lui. – Il vassoio davanti a lui perde completamente importanza, perché adesso lo ha spostato verso sinistra e ha la sua attenzione su di me.

- Lo conosci? –

- Vagamente. –

- Non mi hai ancora detto chi sei. –

- Vuoi tornare a casa, John? – Ha del tutto ignorato la mia celata domanda, con un’altra abbastanza scontata. Certo che voglio tornare a casa. – Se vuoi tornare a casa, devi fare una cosa importante. – Quindi c’è davvero una possibilità! Posso tornare a casa e lui ha sicuramente un collegamento con il Dottore… e con Sherlock.

- Che cosa? –

- Ci sarà un momento in cui ti sembrerà che il tempo stia scorrendo all’indietro. Questo vuol dire che tornerai a casa, ma ciò potrebbe farti perdere tutti i ricordi accaduti dall’arrivo del Dottore, ogni ricordo. Non deve succedere. – Avrei potuto perdere il nostro primo bacio, la nostra prima volta. No, ha ragione, non deve succedere. – Un collegamento psichico è l’unica soluzione perché tu non dimentichi. Le lettere e la tua testa. Quando tutto succederà tu devi pensare a Sherlock, e ricordare ogni singolo attimo. - Non sarebbe stato difficile, affatto. Io penso a Sherlock in continuazione.

- Funzionerà? – Ridacchia e afferra un‘ultima forchettata del purè dell’ospedale, poi si alza mentre si gusta quell’unico boccone, lasciando infine ricadere la posata nel piatto semivuoto.


- Parola di Jack Harkness! – Mi fa un occhiolino, lasciandomi completamente inebetito da quello sguardo che potrei giudicare… ammaliante. Poi se ne va, come aveva fatto la prima volta, sparendo nel nulla.





Note autrice:
Ssssera ragazzi. Non puntuale come speravo ma ci sono.
Nella gif potete ammirare la gnoccagine di Jack (amo questo personaggio, si è capito?) in una tipica cit Sherlockiana.
Non sono molto presente perchè sto anche lavorando ad una seconda storia Johnlock, solo Johnlock però, niente Doctor Who.
Spero di pubblicarla presto, infatti scrivo un po' questa e un po' quella, motivo per cui a volte ritardo.
Che ne dite di questo capitolo? Fatemi sapere.
Un bacio e alla prossima!

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Capitolo 10
*** L'ultima lettera ***


L'ultima lettera



- Non possiamo usare il tuo teletrasportatore? – Chiedo, come invaso da un lampo di genio. Dopo aver rimuginato all’esterno della cabina, ci siamo rintanati all’interno per poter sopravvivere, date le temperature troppo basse… e a quanto pare Jack sa come attivare i riscaldamenti del Tardis, e adesso la situazione è leggermente più sopportabile.

Il capitano solleva il braccio, e con mio enorme disappunto mi accorgo che il suo teletrasportatore è rotto.

- Come diavolo è successo? – Lui fa spallucce e si posiziona davanti allo schermo sovrastante alla console di comando.

- C’entrava un palazzo… da dove mi sono lanciato, una delle mie morti. – Mi è sembrato fin troppo vago su quella spiegazione. Mi nasconde qualcosa e mi duole ammettere che non ho la più pallida idea di cosa. C’entra forse quella volta in cui il Dottore gli ha chiesto un favore e lo ha fatto scendere dal Tardis in un posto che non mi era possibile vedere?

Qualcosa mi dice che in tutta questa storia c’entri John.

- Conoscendo il Dottore so che sta prendendo tempo, e che sta cercando in tutti i modi di persuaderli per evitare che usino il suo cervello per potenziare il loro esercito. – Il fatto che abbia cambiato velocemente argomento mi fa pensare che… sì, mi sta nascondendo sicuramente qualcosa. Ma adesso la priorità è quella di riuscire a tirare fuori il Dottore dalla nave Cyberman, quindi cambiare discorso mi sembra appropriato per il momento.

- Quindi se prende tempo, si aspetta che noi facciamo qualcosa e che siamo abbastanza intelligenti da arrivarci da soli? – Lui annuisce senza distogliere lo sguardo dallo schermo.

- Se riuscissi a trovare la frequenza della nave potremmo assistere in diretta a quello che il Dottore sta facendo con loro. –

- Puoi davvero farlo? –

- Certo, se sapessi come si fa. – Mi avvicino a lui irritato e incrocio le braccia al petto, guardandolo con enorme disappunto.

- Sai accendere i riscaldamenti del Tardis e non sai cercare una frequenza? –

- Oh scusa, sapientone! – Esclama allargando esasperatamente le braccia ed accennano una risata stupita. – Non credevo ci volesse una laurea per accendere dei maledetti riscaldamenti. – Mi giro dalla parte opposta e roteo gli occhi, fingendo una stranissima attrazione verso le sedute accanto alla console. – Capisco, capisco. Sei ancora incazzato per il bacio, vero? – Non rispondo, ma non perché ciò che dice sia vero, ma perché non so cosa dire. Quando è successo mi ha dato talmente fastidio da volerlo rimuovere a suon di pugni. Adesso, anche se so per bene il motivo, non riesco a togliermi quel momento dalla testa… mi sento come se avessi fatto un grosso torto a John, e non riesco ad immaginarmi la sua reazione se solo lo sapesse. Ho avuto paura di ritornare sull’argomento, per il profondo imbarazzo che ho provato quando ho capito che mi aveva soltanto aiutato, e perché non volevo vedere nella mia testa il viso di un deluso John Watson. E… ok sì, per un momento ho anche pensato e creduto che Jack ci stesse provando spudoratamente. – Puoi stare tranquillo sapientone, non ha significato niente per me. – Il suo tono è severo e duro. Sembra proprio che stia parlando con un bambino capriccioso.

Lo ammetto, a volte mi comporto come tale.

- Lo so, ma hai fatto apprezzamenti all’inizio e… -

- Per l’amor del cielo, Sherlock! Il mondo non gira intorno a te. – Il suo tono si è leggermente alzato. Ha completamente frainteso ciò che volevo dire e non mi ha lasciato finire. – E francamente non capisco la tua frustrazione e il tuo disagio, visto che non ho strane intenzioni con te. Non dirmi che non provi disagio perché lo vedo! Non preoccuparti, davvero! Nella mia testa gironzola già qualcun altro, quindi John non se la prenderà. –

Oh, ecco. Ho toccato un tasto dolente.

Quindi non ha per niente frainteso ciò che volevo dire, ma è stato perfettamente capace di intuire la mia paura. Inoltre, non avevo quasi mai parlato o fatto riferimento a John in sua presenza. Ciò conferma in modo definitivo le mie deduzioni sul teletrasportatore rotto, sulla sua spiegazione vaga riguardo a come è successo, e al fatto che lui e il Dottore sono andati in un luogo che io non potevo vedere.

Sa di John. Ha fatto qualcosa che riguarda lui.

Decido comunque di non farci caso. Gli è ovviamente sfuggito, e farò finta di credere che il Dottore gli abbia parlato di me e lui.

- John è una persona dannatamente sentimentale. – Mormoro posando lo sguardo sul suo viso che ad un tratto ha cambiato espressione. Oltre alla rabbia, noto solo una profonda tristezza. – Saperlo potrebbe ferirlo.- Accenna una risatina amara, prima di scuotere la testa lentamente.

- Anche lui era sentimentale. –

Sta parlando di quel qualcuno che gironzola nella sua testa.

“Era?”

- So che magari il fatto che io ti abbia adulato un po’ ti abbia fatto fraintendere. Io sono così, il Dottore ha ragione su di me. Apprezzo i bei ragazzoni e le belle donne, a volte per non soffrire della mia immortalità mi do alle avventure di una sola notte. Il mio bacio è stato solo a scopo curativo. E credimi, non me la sento ancora di sbaciucchiare qualcuno se non per questo motivo, non dopo… - Smette di parlare, come se all’improvviso avesse perso la capacità di respirare. Lo vedo deglutire più volte e stringere i pugni lungo i fianchi.

È morto, la perdita è recente.

- Jack, so che cosa volevi fare con quel bacio e non devi più darmi spiegazioni. Ho capito. Ero solo un po’ preoccupato sulla possibile reazione di John, tutto qui. – I toni si sono finalmente abbassati, sembra che la conversazione potrebbe andare avanti senza fraintendimenti e urla.

Non ho la minima intenzione di comunicargli che sono imbarazzato per il mio comportamento. Mi porterò questo inutile sentimento nei suoi confronti nella tomba.

- Lavorava al Torchwood? –

Perché sento di voler far sparire quel broncio irritante dalla sua faccia?

Ci riesco, perché poco dopo accenna un minuscolo sorriso, rilassando le mani e tornando ad incrociarle al petto.

- Lui portava il caffè. –

- Soltanto? –

- Era fin troppo coraggioso e pronto a qualunque cosa per lasciargli soltanto quel compito. – Mi ricorda vagamente qualcuno. John è fin troppo coraggioso e pronto a tutto per essere soltanto il mio blogger. – Ed era fin troppo Ianto Jones, era fin troppo sensibile perché io lo ferissi. In punto di morte ha detto di amarmi per la prima volta, ed io non ho saputo dargli una risposta adeguata perché non ho mai voluto illuderlo. Insomma, lo avrei visto morire comunque, nonostante quel terribile incidente perché con me è così che va. Ho fatto finta che lui fosse soltanto uno dei tanti. –

Prima il Dottore con la sua Rose, e ora l’ammaliante capitano Jack Harkness con il suo Ianto Jones.

Sono grato di non essere un alieno con una lunga vita o un umano immortale. Come mi sarei ridotto dopo la morte di John? Come avrei continuato? Sarei riuscito a combattere e a rialzarmi come hanno fatto loro due? Se si tratta di John… ne dubito.

- Ma mentre moriva fra le mie braccia gli ho promesso che non lo avrei mai dimenticato, perché era questo che temeva. Credeva di essere uno dei tanti. –

- E visto il tuo smisurato ego e la tua immensa vanità gli hai praticamente confessato di amarlo in questo modo. – Dalla sua bocca semiaperta vorrebbe uscire qualche parola, qualche suono comprensibile e decifrabile, ma l’unica cosa che è in grado di fare è richiuderla e guardarmi stupito. Non ci aveva mai pensato prima che quel gesto era una chiara dimostrazione di amore. – Ok, visto che ci siamo perdonati a vicenda, che questo argomento ti sta completamente facendo perdere la dignità e che io sento un imminente conato di vomito parlando di queste smancerie, che ne dici di tornare ad escogitare un piano per risolvere questa situazione? – Ed eccomi qui, è tornato il solito vecchio Sherlock, quello fastidioso ed irritante, che tutti vorrebbero prendere a sberle ogni volta che apre bocca. Ma ho un effetto diverso sul capitano, perché le mie parole lo hanno fatto sorridere divertito.

Il broncio è sparito.

- Dobbiamo trovare la frequenza? – Continuo, e lui annuisce. – Ed è come agganciarsi ad un segnale, no? –

- Immagino di sì. –

- D’accordo… - Agganciarmi al segnale. L’ho già fatto prima, l’ho visto fare al Dottore. Questa volta si tratta di una frequenza… ma non dovrebbe essere diverso, giusto? Il procedimento, le leve e i pulsanti da premere dovrebbero essere sempre quelli. – Bene! – Esclamo, poco convinto. Inizio a premere e spingere leve, cercando di imitare i movimenti fluidi del Dottore mentre si dedica ai comandi della console. Lo schermo emette qualche ronzio e abbiamo all’improvviso un’immagine. Appare all’inizio poco chiara, ma poi riusciamo a vedere cosa sta succedendo, e lì, contorniato da quelli che dovrebbero essere Cyberman, il Dottore intrattiene un discorso, quello che avrebbe dovuto fargli prendere tempo.

- Come diamine hai fatto? –

- Imparo in fretta… senza alcuna laurea. – Mormoro tenendo lo sguardo fisso sullo scanner, ma sentendo comunque la risatina divertita di Jack.

La voce metallica dei Cyberman fa roteare gli occhi al Dottore. Probabilmente ha spiegato loro qualcosa ma sono talmente cocciuti da non capire.

Cosa ti aspetti da alieni di metallo?

- Ve lo ripeto per la milionesima volta! – Esclama esasperato il Dottore. – Voi avete oltrepassato una frattura. Questo universo non vi appartiene, fate parte di una realtà parallela. Se non vi riporto indietro il paradosso sarebbe così grande da cancellare tutto ciò che conosciamo, e quindi anche voi! –

- IL TUO CERVELLO CI SAREBBE COMUNQUE UTILE PER GUIDARCI COME NOSTRO CAPO, DEVI ESSERE PRONTO AL MIGLIORAMENTO, VERRAI MIGLIORATO. –

- Se vengo messo in un guscio di metallo non potrei mai aiutarvi. Per la miseria, avete un cervello umano, cercate di ragionare! – Dice rivolgendosi ad uno di loro in particolare. – Certo, sarebbe più facile se avessi con me il cacciavite sonico, sapete è caduto nella neve mentre mi trasportavate qui. – E il suo sguardo si punta proprio verso di noi. È come se sapesse che lo stiamo guardando, come se ci stesse comunicando attraverso lo schermo. – Se avessi avuto il mio teletrasportatore lo avrei usato per fuggire. Non avrebbe funzionato comunque, si è danneggiato e dato che non ho il cacciavite con me non avrei potuto ripararlo. – Non ha mai mosso lo sguardo da noi, e all’improvviso Jack è sgusciato fuori dal Tardis e ha iniziato a scavare a mani nude nella neve, alla ricerca del cacciavite. Torna poco dopo, soddisfatto ed infreddolito, stringendo l’oggetto in questione con una mano. – E sarebbe stato bello non essere stati da soli. Magari due amici avrebbero potuto aiutarmi. Uno sarebbe venuto qui a prendermi, dato che non voglio finire in un universo parallelo, e l’altro avrebbe utilizzato il Tardis come dispositivo per rispedirvi nel vostro universo, ma sono solo e l’unica cosa che mi resta da fare è stare qui ad aspettare che accada una qualche strana… coincidenza. – Lo schermo si oscura ed io e Jack ci scambiamo un’occhiata d’intesa. Adesso sappiamo cosa fare, grazie al Dottore. Non so come abbia fatto, ma ha previsto che avremmo trovato un modo per attivare lo scanner, ha avuto totale fiducia in noi e nel nostro quoziente intellettivo, sono sorpreso.

- Vado io a prenderlo, dammi il teletrasportatore. – Dico deciso, mentre guardo Jack che punta il cacciavite sul polso per rimettere in funzione l’oggetto del discorso.

- Sono Cyberman, è pericoloso! – Dice chiaramente preoccupato mentre allontana il proprio braccio dalla mia vista, probabilmente per evitare che io afferri il teletrasportatore e scappi via. Sospiro esasperato e sfilo il dispositivo per il mondo parallelo dalla mia tasca, sollevandolo proprio davanti ai suoi occhi confusi.

- Anche i Dalek lo erano, ed inoltre io non ho idea di come collegare questo al Tardis per rispedire al suo posto un’intera nave Cyberman. Tu sei più esperto in tutto ciò. – Mi guarda per dei secondi interminabili, in cui so che sta cercando di valutare dai miei occhi, dalla mia postura decisa e dalla mia espressione se sarei davvero capace di cavarmela.

- D’accordo, va bene sapientone! – Dice strappandomi il dispositivo dalle mani, poi si sfila il teletrasportatore dal polso e lo aggancia al mio. Si fida di me, ne sono orgoglioso.

- Come funziona? – Chiedo mentre Jack si impegna per allacciarlo per bene.

- Devi solo pensare a dove vuoi andare e poi attivarlo. – Annuisco e faccio qualche passo indietro.

- Cerca di sbrigarti, quando torneremo deve essere già tutto pronto. –

- Tu fai attenzione. – Annuisco velocemente, sento l’adrenalina andare in circolo e l’euforia sale alle stelle mentre avvicino la mano al pulsante sul polso. Poi penso alla nave Cyberman che ci sovrasta immensa, e con un colpo deciso attivo il teletrasportatore.
 
_________________________________________________________________________ 
 
Londra, 20 dicembre 1902
 
Mio carissimo Sherlock,

Credo che questa sia davvero l’ultima lettera che ti scrivo.

So che sta per succedere qualcosa che mi farà tornare da te e non immagini quanto io sia felice. Quell’uomo me l’ha detto, quello che è resuscitato davanti ai miei occhi sconvolti, dice di chiamarsi Jack Harkness. Spero tutto ciò sia vero e non vedo l’ora, davvero, non vedo l’ora di essere di nuovo al tuo fianco.

Dovrò tenere le lettere con me, e dovrò pensarti, mantenere questo contatto psichico perché io non perda la memoria di quelle giornate passate con te, quelle in cui siamo diventati amanti, quelle in cui io e te ci siamo aperti l’un l’altro. Non sarà per niente difficile. Non mi sono mai separato dalle lettere da quando me lo ha detto, e per quanto riguarda il pensarti… Dio, non smetto mai di pensarti intensamente e non avrei mai smesso comunque.

C’entri tu, vero? In tutta questa storia c’è il tuo zampino, ne sono sicuro.

Ho fiducia in quello che stai facendo. Allora aspetterò, avrò pazienza, e quando saprò che tutto sta per tornare come prima me ne accorgerò sicuramente.

E allora saremo di nuovo solo io e te, contro il resto del mondo.

Mi manchi.

Ti amo.

E a presto.

Tuo John
 

 
Note autrice:
E rieccomiiiii. Scusate il ritardo ma in questo periodo sarà più o meno sempre così.
Ho fatto dei chiari riferimenti a Torchwood, perchè è un'altra serie che adoro, per chi non lo sapesse è uno spin-off di Doctor Who tutto incentrato su Jack, e sopra vi ho postato la gif di lui con Ianto Jones (i miei bimbi).

Comunque, Sherlock salirà sulla nave Cyberman. Cosa accadrà?
Al prossimo capitolo gente, un bacio!

 
 

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Capitolo 11
*** Lame affilate ***


Lame affilate

 

Mi ritrovo disteso su un freddo pavimento, sento dolori in tutto il corpo e faccio fatica ad aprire gli occhi. La testa fa male e sento le tempie pulsare fastidiosamente. Provo ad aprire un occhio e l’unica cosa che vedo è uno sfondo offuscato. Apro anche l’altro e con tutte le mie forze cerco di mettere a fuoco ciò che mi sta attorno. Ci riesco dopo un bel po’ e mi rendo conto di trovarmi in una stanza di forma circolare completamente vuota, con una sedia di metallo al centro, fissata saldamente al pavimento, e una grossa porta per poter uscire.

Mi tiro su facendo peso con entrambe le braccia e all’improvviso sento un conato di vomito che mi costringe a portarmi le mani alla bocca per trattenerlo.

Maledetti viaggi senza capsula! Come fa Jack a sopportare tutto questo?

Cerco di prendere fiato e porto le mani alle tempie mentre con la schiena mi poggio alla parete. Sto bene, devo solo provare ad alzarmi, anche se la testa mi gira da morire. Strizzo gli occhi e mi ripeto che posso riuscire a stare fermo su due piedi. Traballo un po’ ma ce la faccio.

- Ok, Dottore. Spero tu non sia molto lontano. – Tiro fuori la pistola e la tengo lungo il fianco mentre mi avvicino alla porta di metallo. So che non servirà a nulla contro dei robot con dei cervelli umani, ma… sempre meglio di essere indifesi.

L’ingresso non ha una maledetta maniglia, nè riesco ad aprirlo spingendo la porta metallica. Solo dopo mi rendo conto del pulsante sulla parete e mi do dello stupido per non essere riuscito a notarlo prima. Non lo premo subito, voglio accertarmi che non ci sia nessun pericolo dall’altra parte, quindi poggio un orecchio sulla porta per una manciata di secondi. C’è il silenzio, un tombale ed inquietante silenzio. Potrebbe essere un buon modo per ingannarmi, non mi fido della calma e della quiete, quindi sollevo la pistola con entrambe le braccia ed emetto un respiro profondo prima di premere il pulsante e fare così in modo che la porta si sollevi. Punto l’arma a destra e a sinistra sulla difensiva, ma con mio totale sollievo mi rendo conto che sono solo e fuori pericolo.

Non chiedetemi che scopo abbia la stanza che mi sono appena lasciato alle spalle, non ne ho la più pallida idea, ma per un momento ho pensato di essere finito in un luogo che non è la nave Cyberman. E se non è questa? E se per un momento i miei pensieri hanno deviato su altro e non sono finito dove avrei dovuto essere? Come faccio ad accertarmi di essere nel posto giusto? L’unico modo è esplorare e trovare qualcosa che mi faccia capire dove mi trovo.

Dannazione, se solo sapessi com’è fatta una nave spaziale! Se solo avessi una maledetta mappa!

Decido di andare a destra, il mio istinto dice che la destra è la direzione adatta. Cammino lentamente, poggiando i piedi sul pavimento con la lentezza e la delicatezza disarmante che uso di solito quando John si addormenta sfinito dal lavoro sul divano.

Oh, John… vorrei fossi qui.

Suvvia, posso farcela. In fondo, prima dell’arrivo di John nella mia vita lavoravo da solo e ne ero totalmente abituato… adesso non credo di esserlo più.

Non so per quanto tempo cammino, ma questo corridoio sembra non finire più. Poi arrivo davanti ad una grossa finestra che lascia intravedere sotto di me il bianco polare della neve, quel colore così acceso mi fa rabbrividire, anche se sembra che questa astronave sia immune alla temperatura esterna.

Posso dire di aver avuto la conferma di essere proprio nel posto giusto. E tutti i miei dubbi si azzerano quando sento dei passi di marcia farsi sempre più vicini. Provengono dal corridoio che sto per raggiungere e, prima che possa essere troppo tardi, mi nascondo velocemente dietro la rientranza di un’altra porta di metallo che chissà in quale strana stanza mi potrebbe far finire. Lascio sporgere leggermente la testa e poi li vedo: camminano in fila e senza mai voltarsi, producendo fastidiosissimi rumori robotici. Sono così tanti che ho perso il conto dei secondi interminabili che ho aspettato nascosto. Non esco subito dal mio angolo sicuro, aspetto di sentire il passo di marcia a malapena. In effetti, non conosco questi alieni e quindi non so in quale modo potrebbero farmi fuori, e stavolta nessun bacio del capitano potrà salvarmi, dato che ha già usato il suo “dono” su di me.

Adesso la domanda è: devo dirigermi dalla parte da cui provenivano o sarebbe meglio seguirli?

Rifletti Sherlock.

Hanno appena catturato un Signore del Tempo, l’ultimo Signore del Tempo, il Dottore con i due cuori, l’uomo che potrebbe potenziare l’esercito e renderlo indistruttibile. Avere un prigioniero di così tanta importanza potrebbe suscitare scalpore, e chi non si recherebbe ad assistere a quello che loro chiamano il suo “miglioramento”? Quindi, di sicuro, stanno proprio raggiungendo il Dottore e lui si trova lì. Devo muovermi e seguirli.

Bene, cosa mi sta succedendo?

Perché i miei piedi non riescono a compiere un singolo passo? Perché la mia mano trema mentre stringo con forza la pistola? Perché le mie palpebre faticano a restare aperte? E… perché sento il cuore uscirmi dal petto?
Sicuramente è un effetto del viaggio con il teletrasportatore, ovviamente.

“Eh no, Sherlock! È inutile cercare di trovare alternative, tu hai paura.”

Già, ho paura. In queste situazioni di solito sento l’adrenalina a mille e non mi interessa di rischiare tutto, perfino di rischiare la mia vita. Adesso no, e credo che il motivo sia non solo che non conosco queste creature e non so come si comportino, ma anche perché sono da solo contro qualcosa di sconosciuto. Non ci sono né John, né il Dottore, né Jack. Devo cavarmela da solo e devo farlo per forza.

Prendo l’ennesimo respiro profondo e compio il primo passo verso la direzione che ho scelto di seguire, in
quella dove credo di trovare il Dottore. Ad ogni passo lento deglutisco, ed è come se cercassi di ingoiare e scacciare via tutta la mia ansia e la mia paura.

- Lo sto facendo per John – Sussurro mentre cerco di velocizzare il passo.

Lo sto facendo per John.

Lo sto facendo per John.

Lo sto facen-

Cavolo, altri Cyberman! E per fortuna un’altra rientranza con una porta metallica dove nascondermi.

Li scorgo con la coda dell’occhio mentre trasportano qualcuno dentro una delle tante stanze presenti qui sopra. “Potrebbe essere chiunque” mi dico, ma la voce inconfondibile del Dottore arriva forte e chiara alle mie orecchie mentre dice ancora loro di ragionare su quello che stanno facendo. Ovviamente non gli danno ascolto e lo rinchiudono all’interno.

Quindi queste stanze sono… prigioni?

Mentre mi avvicino, dopo essermi assicurato che i Cyberman si siano allontanati, mi chiedo come delle prigioni abbiano un pulsante per aprire la porta all’interno della stanza, ma capisco tutto non appena mi ritrovo davanti alla porta che divide me dal Dottore. Sulla parete, proprio nel punto in cui dal lato opposto ci dovrebbe essere il pulsante, si trova una piccola tastiera numerica.

Ma certo, c’è un codice per sbloccare la porta! In questo momento è bloccata e il pulsante non funziona.

- Dottore! – Dico mentre annuncio la mia presenza con leggeri colpi sul piano metallico che ci separa. – Dottore, riesci a sentirmi? –

- Sherlock? – La sua voce risulta ovattata, ma sono sollevato che possiamo riuscire a comunicare. – Sherlock,
sei tu? –

- E chi dovrebbe essere, Babbo Natale forse? Beh sai, non è vero che vive al Polo Nord! Secondo i miei calcoli non esiste. –

- Perfetto, sei proprio tu, non ho dubbi adesso! – Mi sfugge un sorriso divertito e sistemo nuovamente la pistola
nel cappotto, dopo essermi assicurato che intorno a me tutto è tranquillo.

- Un codice apre la porta, ma ho poche probabilità di indovinarlo. I Cyberman sono fatti di metallo, quindi non lasciano impronte digitali sui tasti e… -

- Prova 5863 – Inarco un sopracciglio e avvicino la mano al tastierino numerico, esitando a pochi millimetri di
distanza dal numero cinque.

- Come diavolo fai a saperlo? –

- Ogni numero emette un suono diverso ogni volta che viene pigiato. Sono stato bravo ad ascoltare attentamente quando hanno bloccato la porta. – Certo, ero troppo distante sia per vedere quali numeri il Cyberman stesse pigiando, sia per distinguere quali suoni emettessero quei tasti.

Emetto un sospiro profondo prima di digitare i numeri che il Dottore mi ha suggerito. Con mio grande sollievo il codice viene accettato subito e la porta si apre immediatamente, liberando un Dottore coi capelli scompigliati e l’aria esausta.

- Che ti è successo? – Chiedo tirando nuovamente fuori la pistola e reggendola con una mano, in caso di eventuali urgenze.

- I Cyberman sono duri d’orecchio. – Probabilmente ci aveva discusso per così tanto tempo e aveva cercato di convincerli a cambiare tattica in tutti i modi possibili, ma loro non demordevano e il Dottore, stufo di ripetere milioni di volte la stessa cosa, si era passato le mani fra i capelli con fare disperato.

- Beh, se non ti hanno ucciso subito il tuo discorso deve averli fatti ragionare almeno un po’. –

- Ho semplicemente detto loro che il mio cervello aveva bisogno di una macchina più elaborata, e mi hanno chiuso qui in attesa di costruirla. Ho guadagnato tempo perché sapevo che saresti venuto. – Solleva un angolo della bocca e mi lancia uno sguardo d’intesa, che io ricambio senza problemi.

- Su, reggiti a me, così torniamo sul Tardis. – Sto per premere il pulsante al mio polso ma il Dottore mi ferma appena in tempo, spostando la mia mano dal teletrasportatore. Lo guardo irritato, sollevando un sopracciglio. – Dobbiamo andarcene, potrebbero accorgersi che sei fuggito e potrebbero dare l’allarme! –

- Ci sono due persone a bordo, dobbiamo salvarle. –

- Babbo Natale e il suo elfo? – Chiedo con ironia, ricevendo uno sguardo spazientito da parte del Signore del Tempo. Io sospiro e roteo gli occhi. - Ma stiamo per mandare i Cyberman dall’altra parte! Tutto tornerebbe come prima e loro saranno di nuovo a casa. –

- Non ti sfugge qualcosa? – Mi chiede incrociando le braccia davanti al petto e rivolgendomi uno sguardo ricolmo di aspettativa. Sa che ci arriverò da solo, come sempre. Ma a che cosa vuole arrivare?

Jack sta potenziando il dispositivo per mandare l’intera nave nel mondo parallelo, tutto ciò che c’è all’interno non sarà mai appartenuto a questo mondo e… oh, certo!

- Se mandiamo anche quelle due persone insieme alla nave il paradosso non cesserà, la frattura non si
chiuderà perché persone di questo mondo sono dall’altra parte. – Rifletto ad alta voce, mantenendo lo sguardo su un punto indefinito della parete dietro al Dottore.

- Sai, è bello non dover spiegare tutto a qualcuno, tu impari in fretta! – Esclama con un sorriso smagliante e contento, fuori luogo direi, data la situazione in cui siamo finiti. Ma ormai non mi sorprende alcuna stranezza di quest’uomo. Detto ciò, fa dietro front e comincia a camminare spedito e deciso, marcando ogni passo e tenendo le mani nelle tasche del lungo cappotto marrone.

Sicuramente sa dove sta andando ma… sta facendo troppo baccano per i miei gusti, dato che fino a dieci minuti fa ero io quello che si aggirava per questi corridoi, con tutta la cautela del mondo.

Quante volte ha affrontato queste creature?

- Come fai a sapere che ci sono persone a bordo? – Chiedo in un sussurro mentre cerco di stargli dietro e, soprattutto di affiancarlo senza fare rumore. Ma è inutile provarci, dato che la sua risposta non è sussurrata come la mia voce.

- Me lo hanno detto loro. Hanno catturato due giornalisti venuti qui per un servizio sul magnifico Polo Nord e vogliono utilizzarli per creare l’esercito. Dovevi sentirli: “loro sono compatibili”, come se fossero due pile per un telecomando. – Dalle sue parole si può udire una punta di disprezzo mischiata ad un leggero pizzico di divertimento, forse per il modo in cui ha cercato di scimmiottare la voce metallica dei Cyberman.

- E dove li troviamo? – Gli chiedo guardandomi intorno, per paura di venire attaccato da un momento all’altro, comunque la mia pistola è sempre ben tesa verso un qualunque rumore sospetto.

- In una delle celle. – Sto per esprimere un mio dubbio ed apro la bocca per fare la mia domanda, ma mi legge nel pensiero e parla prima di me. – Queste sono celle per persone di una certa importanza o di una certa specie. Gli umani vengono rinchiusi da un’altra parte della nave, vicino alle macchine per il miglioramento. È così che li torturano. –

- Così come? –

- Facendogli sentire le urla di quelli a cui viene strappato il cervello. – Sul mio volto compare un’evidente smorfia di disgusto e di pena. Io che provo pena… non lo avrei mai detto, ma è così adesso. Mi immagino al loro posto, a sentire in continuazione le urla di gente innocente, aspettando con timore il mio turno. – Inoltre sono delle normalissime celle, con delle sbarre e tutto il resto. –

- Mh… - Lo seguo portando entrambe le mani dietro alla schiena, e rifletto facendo scorrere i miei occhi sul pavimento, analizzando ogni insignificante macchiolina e passando poi ad una prossima.

- Cosa? – Il suo tono vuole sembrare disinteressato e neutro, ma la sua voce trema per un chiaro segno di curiosità. Si sta chiedendo perché appaio così dubbioso.

- Nulla. –

- No, cosa? – Si piazza davanti a me, impedendomi di continuare a camminare e mi osserva con grande aspettativa.

- Le celle hanno un codice? –

- No, sono diverse da queste, come ti ho detto. -

- Come fai ad aprirle, visto che il cacciavite sonico è nella tasca del cappotto di Jack? – Lui apre la bocca e cerca di dire qualcosa, ma da essa non fuoriesce alcun suono. L’ho colto di sorpresa, è da sempre abituato ad averlo con sé, ma questa volta non ci aveva quasi fatto caso. Sarebbe arrivato alle celle, avrebbe preso il suo amato cacciavite dal suo cappotto marrone, avrebbe aperto i lucchetti e liberato i due giornalisti. Ma non sarebbe stato possibile. – Altre idee? – Chiedo, aspettando invano una sua risposta. Lui sospira, poi si guarda intorno ed infine si rivolge nuovamente a me:

- Prima arriviamo alle celle, e poi escogitiamo qualcosa che non richieda l’uso del mio cacciavite. – Riprende a camminare ed io lo seguo a passo svelto, stavolta non sono più cauto e lento, voglio muovermi e sbrigare questa faccenda. Se il Dottore si sente così sicuro da camminare rumorosamente, allora forse neanche io devo preoccuparmi.

Arriviamo in una parte della nave più oscura, riusciamo a vedere i nostri passi a malapena, ma quello che sentiamo ci fa rabbrividire: un rumore agghiacciante di lame affilate. La macchina è pronta ad accogliere i due giornalisti.



Note autrice;
Buonaseraaaa, sono tornata. Purtroppo il tempo che passa tra un capitolo e un altro non è più quello di prima e credo sarà così anche per i prossimi. Vari problemi.

Non ho altro da aggiungere, godetevi il capitolo e ci rivediamo al prossimo al più presto.
Un bacio!

 

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Capitolo 12
*** You can sleep now ***


You can sleep now



Il rumore delle lame è insopportabile ora che siamo proprio dove i Cyberman hanno sistemato le celle, vorrei poter non sentire più niente… ma devo aguzzare lo sguardo e l’udito se io e il Dottore dobbiamo salvare i due malcapitati.

Mi immagino queste due persone, entusiaste di poter girare un servizio sugli orsi polari, sui pinguini o… sulla neve del Polo Nord, vedendo magari per la prima volta questo posto, ma alla fine venire catturati da una flotta di robot estirpa-cervelli. Magari era il loro sogno più grande, magari no, ma immagino che adesso vogliano fuggire da questo luogo a gambe levate. Il servizio? Che resti soltanto un’idea.

Perché ti stai preoccupando per due persone che nemmeno conosci, Sherlock?

Sarà che stare col Dottore mi ha reso più umano. Buffo, un alieno che rende più umano un individuo del pianeta Terra!

Le celle sono tante, troppe… ma questo dispensa la grandezza esagerata della nave in cui siamo finiti. Tutte vuote, tutte silenziose, immerse nel buio più totale ed inquietante.

- Non hai la super vista, vero? – Sussurro ad un tratto, mentre continuiamo ad aggirarci nel posto come due talpe cieche.

- Quella speravo ce l’avessi tu, in allegato con il tuo super cervello. – Mi risponde mantenendo il suo tono serio e concentrato. Restiamo in silenzio per un tempo indefinito, camminando lentamente e senza fare rumore, così da poter sentire un qualunque scricchiolio causato, si spera, dai due giornalisti.

L’unica cosa che mi resta da fare è isolare il senso dell’udito, sentire solo quello, eliminare tutti gli altri sensi e concentrarmi. Mi fermo proprio nel bel mezzo del nulla, avvertendo il Dottore che cerca di capire le mie intenzioni e, dato il suo silenzio credo abbia capito cosa voglio fare e mi lascia continuare.

Chiudo gli occhi, apro bene le orecchie e resto immobile. Sento le lame taglienti, voci di Cyberman in lontananza che testano la macchina poi, del tutto all’improvviso, dei colpi leggeri e metallici, come se qualcuno stesse cercando disperatamente di aprire una cella e fuggire. Spalanco gli occhi soddisfatto e li punto sul Dottore. Nonostante il buio noto la sua sagoma scura.

- Hai sentito? –

- Non ho sentito niente. – Risponde tranquillamente, per poi iniziare a seguirmi non appena io mi dirigo spedito verso una precisa direzione. Nel mio palazzo mentale si è già creata la cartina di questo agglomerato di prigioni. Grazie all’udito e al modo in cui abbiamo girato in tondo per tutto questo tempo, credo di sapere già come sia fatto qui sotto e, seguendo la mia mappa mentale, finalmente sento proprio ciò che speravo.

- C’è qualcuno? –

- Sono loro! – Esclama il Dottore mentre velocizza il passo verso il suono di quella aggraziata e giovane voce femminile. Mi lascia una pacca sulla spalla, so che è soddisfatto ed orgoglioso del mio ottimo lavoro.

- Rispondete, non siete robot, vero? – Stavolta è un uomo a parlare, dalla voce grossa e rauca si capisce che è molto più grande della giovane ragazza che abbiamo udito solo poco prima. Le due sagome scure che scorgiamo man mano che ci avviciniamo si tengono per mano. Dalla postura si nota quanto siano spaventati, e la ragazza sembra cercare conforto tra le braccia dell’uomo perché non capisce se siamo dalla parte dei buoni o… se siamo degli estirpa-cervelli anche noi. Troppo contatto fisico per essere solo due amici giornalisti. Non sono amanti, padre e figlia, direi, anche perché il loro accento e il loro modo di parlare è simile. Forse il padre ha voluto portare la giovane con sé per questo servizio al Polo, lei ci teneva tanto se ha voluto sopportare queste bassissime temperature.

Avere il sedere gelato per guardare degli orsi polari dal vivo? Piuttosto cerco delle foto su internet!

La gente è strana davvero.

- Siamo persone, state tranquilli! Adesso vi facciamo uscire. – Esclama il Dottore mentre si posiziona davanti alle due sagome di cui grazie alla vicinanza adesso è possibile scorgere qualche dettaglio.

Tratti somatici molto simili.

Padre e figlia, come pensavo.

- Sia lodato il cielo! – La giovane sembra non riuscire a trattenere le lacrime dal sollievo. Ma c’è ancora una questione da risolvere: il Dottore non ha con sé il cacciavite e non abbiamo idea di come queste porte si possano aprire.

- Siete stati portati qui da loro, eravate attenti? Vi ricordate cosa hanno usato per chiudere questa cella? – Dico io, aggrappandomi alle sbarre per fare in modo che la mia voce sussurrata arrivasse chiara e precisa alle orecchie di entrambi. Stanno in silenzio per un attimo e si guardano, come a cercare di ricordarsi la scena, poi il padre si rivolge a me:

- Non avevano una chiave. Hanno solo parlato. –

- Riconoscimento vocale. – Mormora il Dottore passandosi una mano fra i capelli, continuando così con lo scompigliarli sempre di più. La situazione sembra non essere facile per lui. Ovviamente nessuno avrebbe potuto imitare la voce dei Cyberman, nessuno avrebbe aperto facilmente la porta e sarebbe andato via, quindi che fare?

Oh… stupido, stupido Sherlock! Come hai potuto non pensarci prima? Stai perdendo colpi!

- Sta’ attento se arriva qualcuno. – Dico, indietreggiando di appena due passi. Lui mi guarda interdetto, senza capire.

- Sherlock, cosa…? –

Pensa e premi il pulsante. Il Tardis, devo andare sul Tardis.

- Non farlo, Sherlock! - Troppo tardi, dopo due secondi sono già nella cabina, proprio dove volevo essere. Ma perché il Dottore non voleva che usassi il teletrasportatore? Forse perché ero da poco riuscito a riprendermi dai conati quando sono atterrato sulla nave Cyberman e l’uso frequente poteva provocare altri sintomi abbastanza insopportabili? Credo proprio di sì, dato che adesso la testa mi gira come se fossi stato sbattuto dentro una centrifuga. I conati di vomito sono più accentuati, e la testa mi esplode… per non parlare della nausea.

- Per la miseria, Sherlock, mi è preso un colpo! – Dice Jack con tono preoccupato e arrabbiato allo stesso momento. Mi si avvicina velocemente e cerca di mettermi in piedi su due gambe. – Respira profondamente, succede se lo usi frequentemente. Ma che ci fai qui, dov’è il Dottore? – Mi reggo a lui per riuscire a non barcollare pericolosamente. Vedo ogni cosa che si muove incontrollata, se solo provo a tenere gli occhi aperti, devo lasciare che stiano chiusi e cercare di riprendermi a profondi respiri, proprio come mi ha suggerito lui.

- Dammi il cacciavite sonico. – Mormoro con un tono impossibile da percepire, tanto che il capitano è costretto a chiedermi di ripetere. Con fatica pronuncio nuovamente quella frase e Jack mi passa il cacciavite e, senza neanche dargli il tempo di controbattere (perché era quello che stava per fare quando mi ha visto con la mano a mezz’aria, pronto ad attivare nuovamente il teletrasportatore), mi ritrovo di nuovo sulla nave Cyberman, accanto al Dottore, nel buio inquietante delle celle.

Non ho la forza di dire nulla, né di muovermi dalla posizione raggomitolata in cui mi sono materializzato. L’unica cosa che faccio è quella di porgere il cacciavite all’uomo, cercando invano di concentrarmi per cacciare via il fastidiosissimo pulsare alle mie tempie, il conato di vomito sempre più forte che… purtroppo, mi costringe a girarmi dalla parte opposta e rimettere vergognosamente. Per fortuna l’oscurità del posto evita lo scenario ai presenti.

- Era per questo motivo che non volevo che lo utilizzassi! Ora dovremmo tornare sul Tardis e ho la netta sensazione che non riuscirai a trattenere un capogiro! – Mi rimprovera mentre con il cacciavite riesce a liberare i due malcapitati, che non la smettono di ringraziarci con occhi lucidi e voce commossa. – Ce la fai ad alzarti? – Mi chiede, inginocchiandosi davanti a me e guardandomi preoccupato. Devo avere una faccia veramente pallida e sciupata a giudicare dal modo in cui mi studia… e non lo biasimo, perché da quando sono arrivato qui non sono ancora riuscito a spiccicare una sola parola.

Il Dottore non attende una mia risposta, sono troppo stordito per alzarmi, quindi si affretta a rimuovere il teletrasportatore dal mio braccio.

- Lo userò io questa volta. Questo non ti eviterà comunque altri sintomi, ma saranno minori rispetto a quelli che hai adesso, e sicuramente eviteremo il capogiro. – Lo sistema allacciandolo velocemente al suo braccio, poi si premura di aiutarmi a stare in piedi. – Ma nel caso in cui dovessi svenire ci sarò io a reggerti, d’accordo? – Provo a dire un sussurrato “sì” ma ancora non ci riesco del tutto e, visto che dalle mie labbra non esce un suono, annuisco velocemente per rispondere. – Bene, i vostri nomi? – Chiede, rivolgendosi ai due ormai ex prigionieri.

- Io sono Albert e questa è mia figlia Irina. –

- Perfetto, lui è Sherlock, io sono il Dottore. Adesso ciò che dovete fare è reggervi a me e saremo fuori in un batter d’occhio. – Dice mentre tiene un braccio attorno alle mie spalle per aiutarmi a restare fermo sui due piedi. In effetti credo di sentirmi un po’ meglio. Anche se la testa mi gira ancora e la nausea non vuole smettere di tormentarmi.

- Dottore chi? – Chiede la ragazza mentre afferra il lembo del cappotto del Signore del Tempo, ascoltando il suo consiglio e venendo imitata poco dopo dal padre.

- Dottore e basta. Quando atterreremo ci ritroveremo al freddo e sulla neve. Voi dovrete correre al vostro rifugio mentre noi ci occupiamo di far andare via i Cyberman, sono stato chiaro? – I due si guardano in faccia come a cercare una risposta negli occhi dell’altro, poi annuiscono e stringono più forte la stoffa del cappotto. – Sherlock, dimmi quando te la senti. – La sua mano è ferma sul pulsante e aspetta un mio permesso che non tarda ad arrivare.

- Dottore… - La voce è rauca ma per fortuna sono riuscito a dire qualcosa. – Ti prego… finiamo questa faccenda. – Mai avrei immaginato di fare una richiesta così disperata, ma non ne posso più di stare senza John, di non godermi la luce ed il calore del caminetto acceso mentre lui scrive sul suo blog ed io suono il violino, mi manca addirittura avere a che fare con gli infondati insulti della Donovan e con la stupidità degli agenti di Scotland Yard. Quando arriverò a casa… se ci arriverò, la prima cosa che farò sarà prendermi un’intera giornata tutta per me, così da riposarmi da tutto questo casino.

Lo sguardo del Dottore è comprensivo, ed accenna un sorriso triste mentre prende un respiro profondo. Tutti ci stringiamo maggiormente a lui e nel giro di pochi secondi ci ritroviamo sulla terra ferma, la neve bianca ci fa rabbrividire e il vento freddo ci costringe a stringerci nelle spalle. Io cado in ginocchio, completamente privo di forze, gli occhi ancora strizzati dal dolore alle tempie. Sento la testa girare vorticosamente, molto peggio di poco fa. Delle mani mi afferrano e mi trascinano con cautela. Il Dottore mi sta aiutando a raggiungere la cabina.

- Non preoccupatevi per il mal di testa e la nausea, è normale e passerà subito. Adesso correte nel vostro rifugio. – I due ci ringraziano a voce alta mentre si allontanano, ma per il resto tutto è confuso, sono troppo debole per capire cosa stia succedendo attorno a me, e l’unica cosa che riesco a sentire sono delle voci ovattate e la neve che scivola sotto le mie gambe mentre vengo trascinato. Sono troppo pesante per il Dottore.

- Jack, Jack! Apri la porta! – Il cigolio di quest’ultimo risulta fastidioso alle mie orecchie e fin troppo alto, tanto che provoca una forte fitta alla mia testa e mi costringe ad una smorfia di dolore.

- Che è successo? –

- Uso frequente del teletrasportatore, aiutami a portarlo dentro! – Vengo sollevato da quattro braccia che mi adagiano delicatamente sulle sedute accanto alla console. – Hai potenziato il dispositivo? –

- Sì, è tutto pronto. – Quelle parole mi danno la forza di mantenere la lucidità. Voglio stare a sentire cosa succede, voglio sapere se tutto questo sforzo per risolvere il paradosso ha funzionato. Quindi, nonostante sento di stare per avere quel maledetto capogiro, faccio di tutto per restare sveglio e vigile.

Apri gli occhi, Sherlock. Apri gli occhi e stai attento.

La fessura da cui riesco a vedere immagini sfocate è abbastanza per capire cosa succede nel Tardis. Vedo una sagoma imponente afferrare quello che sembra essere il dispositivo sonico. È Jack, che si sta dirigendo all’esterno per puntare la nave dei Cyberman. Esso è collegato alla console, il capitano è riuscito a potenziare quel piccolo oggetto e renderlo adatto ad una nave grande come quella da cui siamo appena usciti.

A quanto pare però, puntare e sparare un raggio non basta. Il Dottore sta armeggiando tra i comandi, questo probabilmente lo potenzierà.

- Puoi agire… - Tira una leva e poi esulta dicendo: - Adesso, Jack! – E il capitano aziona ciò che ricondurrà i Cyberman al loro posto.

- La nave è sparita! – Esclama Jack mentre torna all’interno della cabina richiudendosi la porta alle spalle. – Cosa dovrebbe succedere adesso? –

- Se ha funzionato, torneremo intatti a due mesi fa, se non ha funzionato vuol dire che ci sono ancora creature del mondo parallelo in questa dimensione, e ci toccherà cacciare via anche loro. –

- E come facciamo a sapere se ha funzionato? –

- Aspettiamo! – Il Dottore decide di affiancarmi e in qualche modo di cercare di intrattenermi, per evitare che io perda i sensi e che invece resista. – Te l’ho giurato, Sherlock. – Mormora mentre io porto entrambe le mani a massaggiare debolmente le tempie. Si riferisce alla sua promessa di salvare John.

Non ho il tempo di rispondere che il Tardis si attiva da solo, le leve si spostano e la cabina parte con uno scossone. La cosa è talmente improvvisa che il Dottore lancia uno sguardo al capitano, il quale alza le mani in segno di innocenza.

- Non guardare me, non ho toccato niente! –

- Questo vuol dire… -

- La frattura si è chiusa. –

- Ce l’abbiamo fatta! – Il Dottore ride entusiasta mentre si regge alle sedute con entrambe le mani, per paura di poter cadere rovinosamente sul pavimento. Jack ci raggiunge barcollante e si premura di reggere anche me, dato che non ho le forze di reagire.

Non fatemi mai più viaggiare con un teletrasportatore.

Ve lo chiedo per favore.

Gli scossoni del Tardis non mi aiutano per niente. Ero già abbastanza stremato, ma sentire tutto questo trambusto sta peggiorando le mie condizioni, solo che… pensandoci bene, adesso so che tutto sta tornando come prima, almeno spero sia così, che tutto ciò che sta accadendo non è un sogno, uno scherzo della mia mente scaturito dal mio corpo allo stremo delle forze.

Forse posso permettermi di chiudere gli occhi e di lasciarmi andare.

Sì, posso, in fondo è tutto ok adesso, no?

Se mi sveglio John sarà con me, giusto?

Sì, Sherlock, andrà così.

Puoi chiudere gli occhi.

Puoi dormire adesso.



Note autrice:
Buonasera people! Sono tornata.
Siamo quasi alla fine, ma le sorprese non sono affatto finite. Le domande sono queste adesso: la frattura si è davvero chiusa? John tornerà? Il Tardis sta tornando indietro nel tempo o semplicemente qualcos'altro aspetta ai nostri amici?
Secondo voi cosa accadrà? Sono curiosa di sapere che vi aspettate dal prossimo capitolo, quindi scrivetemi come pensate continuerà. (Sappiate che io ho già finito questa storia, quindi probabilmente i capitoli successivi usciranno presto)
Bene, spero vi sia piaciuto.
Un bacio e alla prossima!

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Capitolo 13
*** Cerchi nel grano ***


Cerchi nel grano



Non fa più freddo, sento il calore rassicurante e piacevole di quando sono a casa davanti al caminetto. Quasi quasi riesco ad udire lo scoppiettare del fuoco e il profumo del mio appartamento. È tutto così bello da sembrare vero, come se non stessi affatto sognando. Mi muovo leggermente e mi rendo conto di essere sdraiato su un fianco, sembra quasi di stare sul divano del mio salone, quello in cui passo intere giornate ad annoiarmi. Il calore piacevole proviene dalla coperta che ho addosso. È un sollievo stare al caldo dopo il Polo Nord... anche se me lo sto immaginando.

Mi muovo un po’ e la coperta scivola sul pavimento con un tonfo leggero. Sbuffo.

Possibile che neanche nei sogni possa stare tranquillo?

Allungo un braccio e tocco il parquet freddo, fino a sfiorare la lana morbida del tessuto che mi stava cullando fino a poco fa… sento la morbidezza e la ruvidità della coperta come se fosse vera.

Aspetta!

Spalanco gli occhi in un istante e mi guardo intorno. Sono al 221b, sono davvero al mio appartamento. L’ultimo ricordo che ho è un’immensa distesa di neve bianca. Come sono finito qui? Jack ha mandato la nave Cyberman dall’altra parte, il Tardis è partito da solo e…

Merda, dovrei essere tornato a due mesi fa. Dovrebbe essere tutto a posto.

- John? – Mormoro a voce bassa, per paura di non avere alcuna risposta, per paura di essermi soltanto addormentato e di aver sognato tutto… e che quindi la missione di salvataggio è stata soltanto frutto della mia immaginazione.

Cerco di alzarmi dal divano ma un capogiro mi costringe a rimettermi seduto e a portare le mani sulle tempie e a stringere gli occhi per l’improvvisa fitta di dolore. A questo punto non so più se si tratta del teletrasportatore o del fatto che ho dormito troppo.

- Sherlock? – Il mio sguardo si posa immediatamente sulla figura che è appena comparsa dalla cucina e mi sento mancare il cuore nel petto quando mi rendo conto a chi quella figura appartiene. Ci guardiamo negli occhi e il mio respiro si fa pesante, mi accorgo di aver paura che quello che è successo sia stato soltanto un sogno, che io e lui non ci siamo mai baciati, che non abbiamo mai fatto l’amore, che il Dottore non è mai esistito, che gli Angeli piangenti sono solo frutto della mia psiche… ma poi noto quella piccola lacrima fuoriuscire dall’angolo del suo occhio destro e quel mezzo sorriso ad increspargli le labbra e smetto finalmente di tremare.

Mi alzo dal divano, sentendo la debolezza scivolare ed abbandonare del tutto il mio corpo. Ci veniamo incontro a passo svelto e ognuno finisce tra le braccia dell’altro, aggrappandoci come dei disperati alla stoffa dei vestiti, io al colletto del suo magione, lui a quello della mia camicia. L’altra mano si incastra nei capelli e li stringe come fossero un’ancora di salvezza, come se avessimo paura di separarci ancora una volta. Le fronti si toccano e i respiri si mescolano mentre la punta dei nostri nasi si sfiora delicatamente.

- Sei in ritardo, idiota. – Sussurra poi, prendendomi il viso fra le mani e carezzando con delicatezza i miei zigomi appuntiti e pronunciati.

- Stavolta solo due mesi, non due anni. – Mormoro io, ricevendo in cambio la risata di John, spezzata soltanto dalle sue lacrime di gioia. La sua risposta è la cosa che speravo fin dal primo istante in cui l’ho sentito chiamarmi con quella voce incredula dalla porta della cucina. Poggia le sue sottili labbra sulle mie e lascia che giochino con le mie, che le esplorino dopo un tempo che è sembrato infinito, che facciano passare la sua lingua a sfiorare con soave dolcezza il mio labbro superiore e subito dopo anche la mia, che fremeva dal desiderio di essere sfiorata da lui. Stringo la lana del suo maglione tra le dita e ancora non mi sembra vero di averlo tra le mie braccia. La foga del bacio non mi fa controllare i movimenti e inciampo malamente sulla poltrona di John, facendomelo ritrovare a cavalcioni sulle mie gambe, mentre ridacchiamo a bassa voce come due ragazzini, le labbra ancora incollate fra di loro.

Quello che succede dopo è molto semplice da spiegare. Ci raccontiamo cosa è successo: John mi dice che si è risvegliato all’improvviso nel 221b, con i vestiti che aveva nel 1902 addosso, e quando è andato nell’altra stanza ci ha trovato me disteso sul divano con il Dottore e Jack che si premuravano di fare in modo che stessi comodo. Gli raccontarono cosa mi era successo e poi, a quanto pare, Jack ha svelato a John di quel bacio guaritore che è servito a salvare il mio braccio malandato. Non l’ha presa male: “Ti ha guarito, quindi posso anche accettarlo”… ed io che mi preoccupavo! Poi mi ha detto che Jack era andato a trovarlo nel suo tempo, lanciandosi da un palazzo per farsi notare e resuscitando subito dopo nell’obitorio. È stato così che lo ha avvertito del fatto che stavamo andando a prenderlo, ed è stato così che ha potuto rivelargli il modo per potersi ricordare di ciò che era accaduto con me, con il Dottore e con gli Angeli. Ha mantenuto il contatto psichico ed è riuscito a risvegliarsi con la memoria lucida e piena di ricordi indelebili, che contenevano il nostro primo bacio, la nostra prima volta e quel ridicolo uomo chiamato il Dottore. Io, d’altro canto, ho raccontato tutto ciò che ho dovuto affrontare per salvarlo: gli Angeli a Praga, l’incontro con Jack, i Dalek, i Cyberman, i giornalisti… e John era terrorizzato e affascinato allo stesso momento.

L’unica domanda a cui non riuscivo a trovare risposta è stata solo:

- Dove sono loro adesso? – John mi guarda e sospira, poi fa spallucce ed incrocia le gambe sul materasso (ci eravamo spostati in camera per raccontarci queste vicende).

- Chi lo sa… hanno detto che era meglio per noi due che stessimo qualche tempo senza loro. Si sentiva in colpa per ciò che è successo, e ha preferito lasciarci vivere la nostra vita come tutti i giorni. Se ne sono andati e mi hanno detto di salutarti. – Non avrei mai potuto immaginare di poterci rimanere male per un mancato addio, per il fatto che non abbia potuto ringraziarli come si deve… ma in fondo forse è meglio così, anche se la mia vita aveva preso svolte interessanti da quando quel Signore del Tempo ha fatto irruzione nel mio salotto la prima volta, facendomi dubitare della sua reale esistenza. Quante cose ho da immagazzinare nel mio palazzo mentale adesso! - Oh, ma ti ha lasciato questo! – John si allunga verso il comodino per afferrare qualcosa che poi mi porge. È il dispositivo per i mondi paralleli, quello che è servito per chiudere la frattura. – Un ricordo. – Accenno un sorriso e mi rigiro l’oggetto fra le mani fino a farle sudare. È stato disattivato proprio da lui, in modo che quando lo guardo potrò ricordarmi di lui. Se tocco il pulsante so che non funzionerà, almeno così nessuno finirà dall’altra parte per sbaglio. Credo lo metterò sul caminetto, accanto al teschio.

Mi mancherà quel dannato alieno.

È tardi adesso, John si è addormentato esausto accanto a me, con la testa poggiata sulla mia spalla. Credo dorma da circa un’ora e mezza, ma io non ho chiuso occhio e ho continuato a tenere stretto il dispositivo in una mano, pensando e rispolverando tutte le avventure passate in quei mesi che… adesso non esistono, che non sono mai esistiti, ma che resteranno vividi nelle nostre memorie finché avremo fiato in corpo. Quindi immagino che Tracy e suo padre siano ancora vivi, che il postino Joseph è ancora in questo mondo, e che la signorina Jefferson non sarà mai la cliente spaventata dalla scomparsa del padre. Tutto è normale, tutto è ordinario, di nuovo. Tranne John. Ci ricordiamo entrambi di quello che abbiamo passato, dell’evoluzione dei nostri sentimenti, e questa cosa è successa davvero fra noi due, anche se non ci sono testimonianze, anche se nella nostra linea temporale non esisterà mai.

Sollevo spazientito la testa e noto sul bancone sotto alla finestra delle buste da lettera vecchie, ingiallite.

Possono avere circa un secolo.

Le vittime degli Angeli, così informavano i parenti della loro situazione.

John ha scritto delle lettere. Sono servite da tramite per mantenere un contatto psichico con me, per non fargli dimenticare nulla.

Sento un groppo in gola che cerco di mandare via soltanto deglutendo, poi, facendo attenzione a non svegliare John, mi alzo dal letto e mi avvicino titubante al ripiano in legno dove le lettere emanano quell’odore di vecchio e di misterioso. Le afferro e ne studio la carta, l’inchiostro sbiadito e l’unica scritta sul davanti, ovvero la data e la frase “Per Sherlock” a caratteri cubitali. La mia curiosità è talmente tanta che non esito un attimo prima di aprire quella con la data del 25 novembre. E da lì non smetto più. Sento il dolore di John ad ogni tocco della sua penna, sento le sue lacrime bagnare il foglio nei punti in cui vedo delle gocce macchiare l’inchiostro, sento la sua malinconia, la sua tristezza e la sua rassegnazione, ma soprattutto… sento il suo amore smisurato, che viene confermato nel momento in cui leggo quelle uniche due parole che mi fanno iniziare a piangere contro il mio volere.

Ti amo.

Il mio cuore perde uno e più battiti mentre mi soffermo con gli occhi su quelle parole. Non vado più avanti a leggere e rimango immobile a fissare quella riga sbiadita, con la bocca semiaperta dallo stupore e gli occhi lucidi e piangenti dall’emozione.

Chi l’avrebbe mai detto che ti saresti emozionato per queste cose, Sherlock!

Sento quasi la voce del Dottore canzonarmi scherzosamente, poi mi giro titubante verso il letto in cui John poco prima stava dormendo, e lo trovo dritto a sedere, con le coperte strette nei pugni che mi guarda ansioso. Non dico nulla e lascio cadere la lettere nuovamente sul piano di legno, mentre una silenziosa lacrima raggiunge la linea del mio mento e la percorre fino a precipitare rovinosamente sul pavimento di legno.

- Di quelle te ne avrei parlato. – Mormora sulla difensiva. Si crede colpevole, di cosa non so, ma l’unica cosa a cui riesco a pensare è solo a quelle due parole che ho letto ma che non ho mai sentito pronunciare dalle sue labbra. Ma ciò che più mi stupisce, sopra ogni altro aspetto, è che anche io sento di provare lo stesso. Sta per dire qualcos’altro ma io parlo prima di lui, stupendolo sopra ogni aspettativa.

- Ti amo anch’io, John. – Mormoro senza mai lasciarmi andare ai singhiozzi. Devo mantenere un contegno. Tuffo i miei occhi chiari nei suoi blu e limpidi come la notte, che mi osservano stupiti dalle mie stesse parole. – Ormai non ho motivo di nasconderlo. Ho rischiato la mia vita e quella dell’intero pianeta per salvarti e per riportarti indietro, e lo rifarei… - Mi metto seduto proprio davanti a lui, portando le mani tremanti a stringere le sue, che lasciano andare la coperta in segno di stupore. – Lo rifarei altre milioni di volte pur di riaverti qui con me. – La sua espressione non cambia, a parte alcune lacrime che scivolano fino a venire fermate dalle mie labbra che delicatamente le asciugano dalla pelle soffice e calda. – Non potevo stare senza di te, John. – Sussurro sincero, mantenendo il contegno che mi ero ripromesso.

- Nemmeno io. – Sussurra lui nascondendo il viso nel mio collo e aggrappandosi alla mia schiena con tutte le forze per potermi stringere forte fra le sue braccia. – Ti amo. – Continua con un sussurro che fa rabbrividire la scia di pelle su cui il suo respiro si è posato, accarezzandomi. Non diciamo altro, non ce n’è bisogno, tutto ciò che ci serve sapere ce lo siamo appena confessati. Ciò che viene dopo è sicuramente un’altra delle cose più belle che potessero mai capitare dopo il riuscito salvataggio del dottor John Hamish Watson: facciamo l’amore, lo facciamo fino a sentire i nostri corpi esausti. Ma questa volta sono io a possederlo, a farlo mio, ad unirmi a lui e a renderci una sola cosa. È stata un’altra prima volta per entrambi, non avevo mai fatto nulla del genere (devo ammettere che sono stato nervoso, ma il suo sguardo è riuscito a calmarmi come sempre), e John di sicuro non si era mai fatto prendere da nessuno. Io sono stato il primo e, a giudicare dai suoi sospiri rilassati e colmi di piacere, dalle sue dita che hanno graffiato la mia schiena nivea e lattea, dai suoi gemiti sommessi e disperatamente eccitati, dalle parole dolci sussurrate al mio orecchio e dalla stretta delle sue gambe intorno al mio bacino, beh… devo essere andato piuttosto bene. E so perché è andata così. Semplicemente l’amore ha reso il tutto molto più profondo e naturale di qualunque cosa.

E se sono felice adesso? Lo sono eccome. Lo sono da matti, perché addormentarsi con le dita intrecciate, con l’orecchio poggiato al petto del mio blogger e sentire che quelle pulsazioni veloci sono dovute a me, non avete idea di quanto sia soddisfacente, appagante ed eternamente rilassante.
 

Un anno dopo…

 
- Il posto è questo? – Chiede John, mentre io accosto con la macchina e mi sporgo dal finestrino per controllare il campo di frumento che immenso si estende fino a perdita d’occhio.

- Sì, è questo. – Dico io, tenendo il motore della jeep vigorosamente acceso. John deglutisce e si regge con entrambe le mani al sedile del passeggero, fissando il campo di fronte a noi.

- Sei sicuro di volerlo fare? –

- Non c’è altro modo, John. Abbiamo provato di tutto. –

- Non verremo arrestati? – Nel frattempo stringo con forza il volante e cerco di studiare le mie prossime mosse, calcolando angoli e distanze, prevedendo manovre e svolte.

- Non se è il terreno è tuo –

- Hai comprato un dannatissimo terreno? Come diavolo… -

- Mycroft. – John ride nervosamente e si aggrappa con tutte le sue forze, pronto alla nostra ennesima e disperata pazzia. Mi unisco alla sua risata subito dopo, ma non sono nervoso, l’adrenalina mi scorre nelle vene come non mai. Se questo era l’unico modo per contattare il Dottore dopo un anno di silenzio, allora lo avremmo fatto senza discutere.

Il mio piede si lascia andare sull’acceleratore e l’auto sfreccia in mezzo al frumento a velocità smisurata. John ha gli occhi sbarrati ma riesco a notare, guardandolo di sottecchi, che anche lui trova la cosa eccitante, nonostante sia spaventato dalla velocità e dalle mie improvvise svolte a destra e a sinistra. Ho calcolato alla perfezione come avrei dovuto guidare, e l’auto sobbalza e sbanda più volte, finché non mi reputo soddisfatto del mio lavoro e lascio spegnere il motore. Spero solo che la cosa sia andata per il meglio ma, prima di scendere e controllare il risultato, io e John ci facciamo scappare una risata liberatoria e soddisfatta.

Sul campo di frumento, grazie alla jeep che ha calpestato il raccolto, dall’alto si può leggere la scritta “Dottore”. Come abbiamo avuto quest’idea? Beh, avete presente le leggende dei cerchi nel grano da parte degli alieni per attirare l’attenzione degli umani? Magari la stessa tecnica avrebbe funzionato anche con gli umani per attirare l’attenzione degli alieni.

- E adesso che facciamo? – Chiede John mentre scendiamo dalla macchina e ci poggiamo al cofano a braccia incrociate.

- Aspettiamo. – E il mio consiglio dà i suoi frutti, perché poco dopo il rumore stridulo del Tardis ci fa balzare in piedi, la cabina compare davanti ai nostri occhi proprio come ce la ricordavamo, e da essa ne esce un Dottore sconvolto che stringe tra le mani un quotidiano del giorno seguente, con in prima pagina la foto satellitare della nostra scritta. La indica allibito e ci guarda dalla testa ai piedi prima di sbottare con un “ma siete seri?”. Poi però scoppia a ridere e si getta letteralmente su di noi per abbracciarci.

- Ci dispiace per questa mossa disperata, ma non sapevamo come contattarti. Non ci hai dato un recapito telefonico, un indirizzo, niente di niente. – Mormora John con voce strozzata per colpa della stretta esagerata del Signore del Tempo. Ci scompiglia i capelli con fare scherzoso, poi si gira e lancia il quotidiano all’interno della cabina, prima di tornare con l’attenzione su di noi.

- Dopo tutti i problemi che vi ho causato… -

- Ma che ci hai anche risolto! – Esclama John, mentre io assisto alla scena, tenendo entrambe le mani dietro alla schiena. So che andranno avanti ancora per molto, quindi mi limito a sospirare spazientito per interrompere quel fiume di parole.

- Bando alle ciance, possiamo arrivare al punto? – Chiedo con voce estremamente annoiata, ricevendo in cambio le occhiatacce dei due. Infilo perciò la mano nella tasca del cappotto e ne esco una busta da lettere che porgo al Dottore, aspettando con la solita impazienza che lui l’afferri. – Volevamo che tu avessi questa. – Prima di poterla prendere, ci guarda confuso, poi la apre lentamente e tira fuori il cartoncino, facendo scorrere gli occhi (quegli occhi anziani) sul contenuto. Dapprima sembra non capire, poi i suoi occhi si spalancano ed iniziano a posarsi su entrambi, poi di nuovo sulla lettera. Io e John ci scambiamo un’occhiata d’intesa, sollevando l’angolo delle labbra in un sorrisetto.

- Non ci credo. – Mormora poi, leggendo nuovamente le parole sul cartoncino per avere la conferma che ciò che gli vogliamo comunicare è vero. – Dite sul serio? –

- Già. – Dice John, con aria compiaciuta.

- Voi due vi sposate! – Esclama, lasciandosi sfuggire una risata entusiasta.

- Tra due mesi, e questo è ovviamente un invito per te. – L’espressione del Dottore cambia dal giorno alla notte. Non è più entusiasta, adesso sembra triste e, deglutisce forzatamente prima di riporre il cartoncino all’interno della busta. Non sappiamo il perché di quella reazione.

- Ragazzi, io sono davvero contento per voi, e sono lusingatissimo di questo invito, ma devo purtroppo rifiutare. – Dice, dopo svariati secondi di silenzio. Io e John ci guardiamo scioccati e contrariati, ed è a quel punto che io sbotto senza controllo.

- Oh, ti prego! Non tirare fuori la scusa del sentirti in colpa per tutto quello che è successo. Non per questo devi mancare! –

- Non è per questo, Sherlock. – Il suo tono è spaventosamente pacato e tranquillo, anche se prima di continuare a parlare ha deglutito impaurito. – Io sto morendo. – 



Note autrice:
Hola ragazzi! Bene, vi informo che siamo quasi alla fine. Il prossimo capitolo sarà l'ultimo, ma poi ci sarà un breve epilogo che concluderà la storia.
Che ne dite di come si stanno evolvendo i fatti?
Un bacio e alla prossima!

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Capitolo 14
*** Quegli occhi verdi ***


Quegli occhi verdi



- Che cosa stai dicendo? – Chiedo con voce acuta mentre lo vedo rigirarsi la busta da lettere fra le dita.

- La verità. C’è una profezia che dice che morirò dopo il suono di quattro colpi. –

- Non crederai a questa scemenza? – La mia voce è incredula, mentre John porta la mano sulla mia spalla nel tentativo di tranquillizzarmi.

- Non ci credevo, finché non è successo. Hanno bussato quattro volte, ed io ho assorbito un’ondata di radiazioni per salvare un amico. Un normale essere umano sarebbe morto sul colpo, ma io… posso resistere ancora. – La sua voce inizia a tremare e così anche le sue mani e le sue braccia. Fa un passo all’indietro e le sue ginocchia cedono. Il disastro deve essere accaduto da poco, e deve aver resistito troppo a lungo, perché solo adesso si notano i segni di sopportazione. Lo reggiamo entrambi prima che possa cadere rovinosamente a terra. – Sarei passato comunque a salutarvi… prima sono stato da Jack per dirgli addio, e da tutte le persone che ho conosciuto. Non avevate bisogno di rovinare un campo di frumento per… trovarmi. – Con il nostro aiuto si rimette in piedi e cerca di resistere ancora, solo per poterci dare l’addio adeguato che l’anno prima non era riuscito a darci.

- Sei un alieno e hai più di novecento anni, non puoi fare davvero nulla per rimediare? – Chiede John con un tono pacato, mentre lo guarda tenere lo sguardo puntato contro le proprie solite scarpe di tela.

- Noi Signori del Tempo abbiamo un modo per sopravvivere, ma le radiazioni sono state troppo potenti e non avrò abbastanza energia per ricorrere a questo rimedio… tutti muoiono, ragazzi. Anche i Signori del Tempo. - Tremante infila la busta da lettere nella tasca del suo cappotto marrone, poi allunga una mano verso la porta del Tardis e si regge ad essa per non cedere nuovamente sulle ginocchia. – A parte Jack Harkness, ovviamente! – Esclama nel tentativo di risultare spiritoso come sempre, ridacchiando appena, ma non riuscendo a contagiarci, data la nostra sorpresa e la nostra paura.

Ed eccolo lì, il Dottore, il Signore del Tempo di novecento anni, l’uomo che ha rischiato tutto e tutti per salvare John Watson, l’uomo che affronta i pericoli terrestri e extraterrestri per salvare vite, l’uomo che evita disastri, battaglie, l’uomo che vince senza usare la forza, e l’uomo che adesso ha dato la sua vita per salvare un amico. Posso anche aggiungere, colui che mi ha dato quelle dosi di adrenalina e di avventura che non provavo da tempo.

Mi sarebbe mancato?

Assolutamente sì.

- Non so quanto tempo mi rimane… sto riuscendo a salutarvi tutti, a gioire per la vostra bella notizia. Mi sarebbe piaciuto essere presente. – So che vorrebbe piangere, ma non lo fa, o almeno… non vuole farlo davanti a noi. Ma probabilmente, appena tornerà nella cabina, si lascerà andare.

- Avremmo voluto ci fossi. – Mormoro non riuscendo più a guardare quei suoi occhi anziani senza riuscire a vederli spenti dalla morte.

Goditi il tuo coinvolgimento, Sherlock.

Stai zitto, Mycroft…. Stai zitto, ti prego.

- Lo so. – Deglutisce a lungo prima di portare un piede all’interno della cabina, senza staccare i suoi occhi stanchi da noi. – Mi dispiace non avervi salutato come si deve l’anno scorso. – Le sue colpe, eccole. Si sente in colpa per come ci ha lasciati, e prima di morire vuole assicurarsi che lo perdoniamo.

Non serve scusarsi.

- Dove andrai adesso? – John è visibilmente preoccupato. La sua espressione somiglia a quella che aveva il giorno in cui io stavo per prendere quell’aereo. Tutte quelle parole non dette, quei silenzi e quelle lacrime trattenute. Non voleva piangere nemmeno lui.

- Non ho ancora salutato Rose. – Il suo tono si è addolcito, ed ha accennato un tenero sorriso mentre si preoccupava di far tamburellare nervosamente le dita sulla porta in legno del Tardis. – Poi chissà… - Lascia la frase in sospeso, prima di tirare su con il naso ed entrare del tutto nella nave. Ci guarda entrambi con quel mezzo sorriso che vorrebbe essere rassicurante, ma che risulta soltanto triste e malinconico. – Io non voglio andarmene… - Mormora con tono grave prima di richiudersi la porta alle spalle. La cabina svanisce sotto i nostri occhi con quel solito rumore assordante, ed entrambi ci poggiamo distrutti al cofano della jeep. John si morde l’interno della guancia nel tentativo di non piangere, io invece non distolgo lo sguardo dal punto in cui la cabina è svanita.

- Dovremmo andare, allora. – Dico con voce tremante, l’unico sintomo del lutto che pian piano mi sta crescendo dentro. John mi guarda senza mutare la sua espressione triste, poi si rifugia con la testa sul mio petto e mi stringe a sé, sospirando pesantemente. Non ricambio quell’abbraccio, sono come irrigidito dalla notizia, mi limito ad abbassare il viso per poggiare il mento sulla sua testa, e nient’altro.


I due mesi sono volati, nonostante gli attimi interminabili in cui ci soffermavamo a pensare all’uomo che ci ha aperto gli occhi e ci ha fatti stare insieme. In quei momenti il silenzio regnava sovrano nel 221b. John si sedeva sulla poltrona e fissava un punto indefinito del tappeto, accavallando le gambe e mordendosi l’interno della guancia come era solito fare per trattenere il pianto. Io mi piazzavo davanti alla finestra, nella speranza di sentire il suono del Tardis, stringendo convulsamente il violino, ma senza azzardarmi a suonarlo. L’unico suono che volevo sentire era quello della cabina. Ma non avvenne mai.

Dovevamo accettare la sua morte e andare avanti.

I preparativi delle nozze furono entusiasmanti sia per John, che per i nostri amici. Non sapevo il perché dovevamo scegliere un posto bellissimo, il colore delle tovaglie, dei fiori, un menu adatto, un tipo preciso di vino o di champagne… in fondo io volevo solo sposare l’uomo che amavo, senza frivole preparazioni. Ma John ci teneva, quindi mi ero impegnato a rispettare ogni scelta e ogni suo capriccio. Era felice, così felice che avrei sprecato quelle ore di indecisione su un colore da indossare con entusiasmo, pur di vedere quel sorriso affiorare sulle sue labbra sottili.

Si sa, John è un romantico, ci tiene a queste cose. In fondo, per farmi quella proposta aveva organizzato una serata talmente sdolcinata, con tanto di violinisti e cenetta speciale, che avrebbe fatto venire le carie a chiunque. Ma non posso negare che quella fosse stata una delle giornate più belle della mia vita. Ricordo ancora benissimo il modo in cui si è inginocchiato davanti a me, stringendo la mia mano fra le sue e chiedendomi se avessi voluto passare il resto della mia vita con lui. Il mio corpo mi ha tradito, perché non sono riuscito a trattenere l’emozione e ho lasciato fuggire quelle piccole lacrime che hanno varcato il mio viso. Ho detto di sì senza neanche pensarci, nonostante ciò che penso sui matrimoni. Volevo davvero sposare John, e lo avrei fatto senza pensarci anche subito, perché so che lui è e sarà sempre l’unico.

E oggi, mentre metto la fede al dito di John, il mio sorriso non ha abbandonato le mie labbra neanche per un secondo. Non sembravo lo Sherlock di sempre, ma ero lo Sherlock innamorato del dottor John Hamish Watson. E le emozioni mi tradiscono spudoratamente.
Ammetto di aver sperato per tutta la giornata di vedere in qualche angolo il volto familiare del Dottore, a guardarci con quel sorriso sincero e felice. Non è accaduto, ma per il resto della cerimonia i nostri pensieri sono concentrati su altro. È il nostro giorno, e non possiamo permetterci di passarlo con due musi lunghi.

La sala per la festa si trova in una magnifica villa che John ha adorato dal primo momento in cui i suoi occhi ci si sono posati. Non ha esitato a sceglierla come luogo del ricevimento.

Tutto è come lo avevamo organizzato. I tavoli sono sistemati secondo il nostro ordine, le tovaglie sono del colore giusto e perfino i fiori che abbelliscono la sala sono meglio di come ce li aspettavamo.

- Cos’è quella faccia? – Siamo nel bel mezzo della sala e stiamo ballando un lento. Avrei preferito non farlo ma così voleva la tradizione. Il primo ballo dei due sposi, sotto gli occhi commossi di tutti gli invitati e i presenti, compresi camerieri e fotografi.

- Quale faccia? – Chiedo continuando a far vagare gli occhi tra la folla che ci fissa.

- Questa faccia! – Mi dice costringendomi a voltare il viso verso il suo. – Ci stai di nuovo pensando? – Ha capito tutto. Ultimamente, data la situazione, è più facile leggere il mio stato d’animo. Cerco come sempre quel volto conosciuto tra la gente, dal giorno in cui abbiamo saputo da lui stesso che non sarebbe sopravvissuto. Non ho mai smesso di cercare e sperare. – Sherlock, anche io sono abbattuto e non riesco ad accettarlo. Ma questo è il nostro giorno… -

- Lui è imprevedibile, quando credevo di averti perso per sempre lui ha smentito tutto e ti ha riportato indietro. –

- Questo è vero, ma sappiamo che è morto. – Lo guardo negli occhi e sospiro, prima di poggiare la fronte contro la sua, nel tentativo di ritrovare la lucidità e di scacciare via il pensiero del Signore del Tempo.

- Hai ragione, dovrei pensare a noi oggi. – Le mani di John raggiungono le mie guance e sollevano il mio viso. Vuole guardarmi nel profondo dei miei occhi, leggermi, tranquillizzarmi ed azzerare ogni mia paura.

- Mi stai dando ragione, il matrimonio fa miracoli! – Sul suo viso compare un mezzo sorriso divertito, mentre io in risposta lo fulmino con lo sguardo, riuscendo soltanto a farlo ridere di più mentre poggia delicatamente le labbra sulle mie. All’inizio sono colto di sorpresa e non ricambio quel gesto, ma poi riesco a sciogliermi e a chiudere gli occhi per donargli quel bacio dolce e pieno di tenerezza che si aspettava. È la seconda volta che lo bacio davanti ad altre persone. La prima è stata allo scambio degli anelli. Il solo pensiero che altri ci stanno guardando mi fa colorare le guance di un rosso scarlatto, che cerco poi di nascondere immergendo il viso nell’incavo del suo collo. Per gli altri è sembrato un gesto dolce e romantico, invece, tanto che hanno esclamato un verso intenerito e commosso, degno da vera commedia romantica da quattro soldi.

Anche se il profumo di John e il calore che mi trasmette il suo corpo non mi dispiace affatto.

Le sue dita stuzzicano piacevolmente la mia nuca ed entrambi continuiamo a ballare, mentre io poggio il mento sulla sua testa, stringendo la sua mano nella mia e mantenendo un lieve sorriso sulle labbra finché… non noto qualcosa di strano fra la folla che ci guarda. Sono sicuro di conoscere ogni singolo invitato ma quell’uomo appoggiato alla colonna in fondo alla sala, quello che ci sta guardando con l’angolo delle labbra sollevato verso l’alto, non credo di averlo mai visto in vita mia. E il fatto che sia qui è abbastanza strano.

- Quello chi è? – Sussurro abbassandomi in modo da raggiungere l’orecchio di John con le labbra. Quest’ultimo si gira e guarda verso la mia direzione, aggrottando la fronte e aprendo appena la bocca confuso.

- Non lo so, è stato qui tutta la sera, credevo fosse qualcuno che conoscevi tu. – La musica finisce e la gente attorno a noi applaude, mentre i nostri occhi non si staccano dall’uomo che non smette di rivolgerci quello sguardo raggiante.

- Intrattieni gli ospiti, vado a parlargli. – Dico, notando che l’uomo si stava affrettando ad allontanarsi e ad uscire dalla sala.

- Non vuoi che venga con te? –

- Siamo gli sposi John, non mi sembra carino assentarci entrambi. Dì agli altri che sono andato in bagno. – Faccio per andare via, ma la mano di John che afferra la mia mi costringe a fermarmi e a puntare lo sguardo sul suo viso visibilmente preoccupato.

- Fai attenzione. – Mi intima con tono serio, come se stesse parlando ad un bambino. Io sorrido appena ed annuisco, poi mi lascia andare e continua a guardarmi fino a quando non raggiungo l’uscita. In fondo al corridoio vedo l’uomo che si sta allontanando a passo svelto, però non corre. Quando sente il mio richiamo si blocca e volta appena la testa verso sinistra, scrutandomi con la coda dell’occhio, finché non mi ritrovo proprio ad un passo dallo sconosciuto.

- Dove vai così di fretta? – Chiedo mentre l’uomo si gira del tutto verso di me. Fa scorrere i suoi occhi su di me, dalla testa ai piedi, poi sorride radioso, proprio come poco fa nella sala. Sembra felice, entusiasta di vedermi, ma ciò che non capisco è perché sperava che io non lo seguissi.

- Oh, scusami, devo… devo aver sbagliato sala. – Mormora mentre con le mani stira la sua giacca marrone e subito dopo sistema il cravattino rosso che ha legato al collo. Posso stare tranquillo, non sembra affatto un tipo losco con cattive intenzioni, ma sono sicuro stia mentendo, non ha affatto sbagliato sala.

Lo guardo attentamente e cerco di memorizzare quel viso nella mia testa. Capelli castani, occhi piccoli e verdi, mento prorompente, sopracciglia quasi assenti e mascella squadrata.

- La verità. – Dico sospirando spazientito. – Non ci sono altri matrimoni o cerimonie in programma per oggi, le altre sale sono libere, quindi dimmi la verità. Delle recenti situazioni mi spingono ad accertarmi che la gente che incontro non sia… come dire, intenta a fare cose contro di me o contro il mio compagno. – Lui accenna una risatina divertita e si strofina le mani tra di loro.

- Tu sei Sherlock, vero? Tu e John siete davvero una coppia avvincente! – Scherziamo? È davvero un fan del blog di John che è riuscito ad intrufolarsi al nostro matrimonio?

- Sono lusingato che tu sia un nostro fan ma non sei stato invitato, quindi sarei lieto che abbandonassi l’edificio il prima possibile. – Sono risultato maleducato? Che importa, dato il suo sorriso smagliante e sorpreso non credo di averlo toccato più di tanto.

- Ah, visto? È qui che ti sbagli, perché proprio qui ho… - Si ferma un attimo per frugare nella tasca interna della sua giacca, scoprendo le buffe bretelle rosse abbinate al cravattino che indossa, poi mi porge ciò che ne ha estratto. Una busta da lettere che somiglia tanto agli inviti che abbiamo fatto stampare per i nostri amici. – Ho questo. – Me lo porge, ed io lo prendo con titubanza, prima di rendermi conto che è davvero uno dei nostri inviti.

- Dove lo hai preso? –

- Me lo hai dato tu di persona. –

- Io non ti conosco. –

- Non ancora, ma io conosco te, e anche tu, ma… beh, non è facile da spiegare. Mi conosci sotto un altro aspetto. – Lo guardo confuso senza capire, e vorrei tanto dire qualcosa ma lui non smette di parlarmi, anzi… prende il mio viso tra le mani e mi costringe a guardare i suoi occhi. – Sherlock, sono davvero felice di averti visto così spensierato mentre stringevi il tuo John sulla pista da ballo. Tu, proprio tu che non riuscivi ad esprimere i tuoi sentimenti nemmeno sforzandoti, guarda adesso dove sei arrivato! – I suoi occhi, occhi verdi, occhi… anziani. – Lo vedo che sei felice, ed io lo sono per voi due. – Le sue mani si abbassano sulle mie e le stringono con affetto.

No no no, non può essere, la mia mente è solo tormentata dalla sua perdita. Non è possibile.

- Farete faville insieme. – A quel punto mi lascia le mani ed io mi affretto ad aprire la busta, mentre dietro di me riconosco il passo svelto di John: “Il matrimonio di John Hamish Watson & William Sherlock Scott Holmes, caro Dottore sei invitato a gioire con noi in questo giorno speciale…”

Non può essere.

- Che succede, Sherlock? – Sollevo lo sguardo ma davanti a me quell’uomo non c’è più. Notando che non rispondo alla sua domanda, John mi strappa la busta dalle mani e inizia a leggere, spalancando poi le labbra con sorpresa. - Non ci credo… - E la sua incredulità viene immediatamente smentita quando dalla finestra lo vediamo varcare la porticina in legno della cabina che aveva parcheggiato nel bel mezzo del prato, girarsi verso di noi e rivolgerci un cenno con la mano ed un sorriso sincero prima di sparire all’interno di essa. Poi anche il Tardis svanisce sotto i nostri occhi stupiti.




Note autrice:
Booom, ultimo capitolo! Che ne dite, ve lo aspettavate?
Vi lascio qui sotto una gif di Undicesimo perchè sì.
Ricordatevi che non è finita qui, ci sarà presto un epilogo, non so quando lo pubblicherò ma ci sarà e poi vi darò altre informazioni.
Ci vediamo all'epilogo!
Bye guys


 

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Capitolo 15
*** Epilogo ***


Epilogo



- Sherlock, sono tornato! – Non stacco gli occhi dal microscopio e mugolo in risposta mentre John poggia la sua spesa sul ripiano della cucina, dato che il tavolo è totalmente ricoperto di provette, sostanze e attrezzatura adatta al mio esperimento. Poco dopo avverto la vicinanza del viso di John al mio e non esito a girarmi per far incontrare le nostre labbra in un piccolo e veloce bacio a stampo. – Quella è pelle umana? - Mi chiede poi, lanciando un veloce sguardo a ciò che sto studiando al microscopio. Mugolo di nuovo per rispondere. – Perché studi la pelle umana? – Mi chiede mentre inizia a mettere a posto ogni cosa che ha appena acquistato.

- L’ho immersa in una sostanza che mi ha dato Molly e sto verificando cosa succede quando una persona ne viene a contatto. – Lui annuisce interessato mentre ripone il barattolo di marmellata nello scaffale. Ormai sono due mesi che siamo sposati, e non è cambiato molto. Credevo che con il matrimonio una coppia cambiasse stile di vita, modo di pensare, ma la nostra situazione sembra non essere mutata affatto (a parte, ovviamente, i baci, le avventure sotto le lenzuola, le effusioni durante la giornata, le coccole sul divano quando mi annoio troppo per la mancanza di casi da risolvere). Sono felice che il nostro rapporto sia così, non avrei voluto che le cose tra di noi cambiassero. E poi… lo amo.

- Da quanto ci stai lavorando? -

- Qualche ora. –

- Qualche ora o da stamattina? – Io faccio spallucce. Non voglio dargliela vinta ed ammettere che sono più di otto ore che non smetto di lavorare su quel campione di pelle. Emette una leggera risata e porta entrambe le mani sulle mie spalle, cominciando a massaggiarle con dolcezza. Ero teso e con la schiena dritta, ma il tocco delle sue mani mi scioglie e mi fa incurvare le spalle rilassato. Mi distolgo dal mio esperimento e chiudo gli occhi, godendomi le sue dita che lentamente distendono ogni mio nervo e mi regalano quella tranquillità di cui ho bisogno. – Che ne dici di un bagno caldo? – La sua bocca è pericolosamente vicina al mio orecchio, quel sussurro sprigiona migliaia di brividi che si sparpagliano per tutto il corpo, riuscendo addirittura a farmi tremare i polsi mentre lascio andare il microscopio. Il campione di pelle perde del tutto la sua importanza e sollevo la testa in modo da incontrare gli occhi di John, che brillano di quella luce maliziosa che mi fa sentire quelle maledette farfalle fastidiose allo stomaco.

- Beh… io… - La voce mi muore in gola. Sto cercando in tutti i modi di trattenere il rossore sulle guance. – Va… va bene. – Mormoro alla fine, rendendomi conto che non desidero altro che giacere nella vasca tra le sue braccia forti. Mi sorride di rimando e mi lascia un bacio sulla fronte.

- Ti aspetto in bagno. – E poi sparisce oltre il corridoio, non prima di avermi scompigliato scherzosamente i capelli. Deglutisco a vuoto più volte. Dopo tutto questo tempo insieme non mi sono ancora abituato a vedere i nostri due corpi nudi che si sfiorano e il solo pensiero mi fa rabbrividire. Lui ha un fisico ben messo, asciutto, è forte, un soldato. Io sono così goffo, così magro, così alto… non mi è mai importato del modo in cui il mio corpo si presentasse, ma quando mi ritrovo davanti a John divento vulnerabile. Il suo giudizio è la cosa più importante e rispetto a lui mi sento così inappropriato… anche se non la pensa come me, mi trova attraente. Dice che ama la mia schiena, il mio petto, le mie gambe slanciate e le mie mani dalle dita lunghe e sottili. Da come ha detto, sono quelle che lo fanno impazzire di più.

Oh, John…

Sento lo scrosciare dell’acqua che riempie la vasca ed abbandono del tutto il campione di pelle per incamminarmi verso il bagno, quando un rumore mi fa sobbalzare e girare verso la finestra del salotto, da dove credo provenga. È stato un botto forte, talmente tanto che anche John è uscito allarmato dal bagno per seguirmi di fronte alla finestra. In strada vediamo la gente correre spaventata e urlante in tutte le direzioni. Non capiamo proprio che cosa sia successo. Poi due individui si fanno spazio tra la folla ed iniziano a guardarsi intorno: la prima è una ragazza dai capelli rossi, potrebbe avere circa vent’anni. Attorno al collo una sciarpa rosso sangue nella quale si nasconde, ma non per la paura, piuttosto per il freddo pungente. Sembra impavida, non ha paura di nulla. Il secondo individuo si avvicina correndo e urlando: “Amy, per l’amor del cielo! Hai per caso visto dove sono andati?”, ed è lì che lo riconosciamo: la giacca marrone che svolazza e lascia intravedere le bretelle rosse, il cravattino rosso ben annodato al collo, i capelli stravagantemente pettinati, il mento evidente e gli occhi piccoli. John si aggrappa al mio braccio e strattona la manica della mia camicia con evidente entusiasmo ed un sorriso a trentadue denti. Io mi limito a sollevare un angolo delle labbra.

Dice qualcosa alla ragazza che inizia a correre dall’altra parte della strada, per poi sparire tra la folla, poi estrae quello che sembra un cacciavite sonico nuovo di zecca, molto più grande del precedente argentato dalla punta blu. Inizia ad ispezionare la zona, poi punta il dispositivo verso la finestra e, non appena i suoi occhi si puntano su di noi, si immobilizza sorpreso. Sa che abitiamo in questa strada, ma per colpa del caos non ci aveva fatto caso. Resta a fissarci per un po’ mentre rimette il cacciavite in tasca, poi solleva leggermente gli angoli della bocca e si aggiusta il cravattino con entrambe le mani. Ancora mi chiedo come sia possibile che sia lui, che sia ancora vivo, che abbia cambiato faccia come dal giorno alla notte. Questa deve ancora spiegarcela…

- John, forse è un po’ tardi per il bagno, non credi? –

- Già, hai ragione. – Rimane un po’ in silenzio mentre osserviamo il Dottore che con quel sorriso intenerito incrocia le braccia al petto e attende, senza staccarci gli occhi pieni d’aspettativa di dosso. – Secondo te come ha fatto, chirurgia plastica? –

- Ne dubito. –

- Andiamo a chiederglielo? – L’iniziativa di John mi sorprende. Era d’accordo con il fatto che il Dottore ci avesse lasciato soli per vivere tranquillamente la nostra vita, per fare in modo che non avessimo problemi o che non ci causasse guai. L’ultima avventura con lui è stata abbastanza… snervante per noi, in effetti. Ma mai in tutta la vita avevo provato un’adrenalina del genere, ed è lo stesso anche per John, e so che è così, perché sento che non vede l’ora di buttarsi nella mischia.

Al diavolo il pericolo!


- Buona idea! – Mormoro, per poi precipitarmi giù dalle scale, seguito dai passi svelti di… posso dirlo finalmente, di mio marito.



Note autrice:
Beneeee, questo è l'epilogo, come avevo promesso!

Si dia il via alle comunicazioni:
1. Questa serie era pensata come trilogia, ma data la mancanza di idee per un terzo capitolo direi che forse è meglio farla finire così, anche perchè il lieto fine non guasta mai. (Nel caso dovesse venirmi in mente qualche seguito ve lo farò sapere).
2. Se volete essere informati di un eventuale continuo, lasciatemi una recensione e provvederò ad avvisarvi.
3. Ho appena iniziato una long sulla Johnlock, niente crossover stavolta. Si chiama "Recovery", mi piacerebbe che la leggeste.
4. Grazie a tutti per aver seguito questa storia ed anche la precedente fino all'ultimo, quindi un ringraziamento speciale va ai seguiti, ai preferiti e ai recensori fedeli!

Alla prossima, ci sentiamo su Recovery, se la leggerete.
Un bacio!

 

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