How I Met Your Father

di Seryka
(/viewuser.php?uid=488317)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** Chapter 1: And this is how... ***
Capitolo 3: *** Chapter 2: I Remember ***
Capitolo 4: *** Chapter 3: A Drop in the Ocean ***



Capitolo 1
*** Prologue ***


How I Met Your Father

 

Prologue
 

“La vita è imprevedibile”.
 
Quante volte, quante migliaia di volte avrò sentito questa frase?
L'avrò sentita in film, letta nei libri, udita da qualche anziano seduto sulla sedia di un bar.
E quante volte mi sono degnata di prenderla sul serio, o per lo meno di rifletterci su?
Facile: zero! No, mi correggo, una. In questo preciso istante.
Eppure, con tutte le svolte che la mia vita ha preso negli ultimi anni, me ne sarei dovuta accorgere da tempo.
Imprevedibile? È un eufemismo!
Dio, mi sento proprio come una poetessa fallita e al termine della sua carriera, nel formulare questi pensieri.
A ragionare sul senso della vita, mentre io stessa lo sto ancora cercando.
È pur essendomene sempre altamente disinteressata, solo ora capisco a pieno il senso di questa frase.
“imprevedibile”. Non la puoi prevedere.
Puoi progettare, sognare e impegnarti quanto vuoi,
ma ci saranno sempre degli eventi – grandi o piccoli che siano – che, come un fulmine a ciel sereno, arriveranno a sconvolgere i tuoi piani perfetti.
E direi che io ne sono la prova vivente.
Dovrebbero mettere la mia foto, di fianco alla parola “imprevedibile” sul dizionario.
Ma ciò che, più di tutto, non puoi assolutamente prevedere – o per lo meno, così è stato per me –, è la reazione che avrai di fronte a questi eventi.
O lo stato d'animo che ne seguirà!
Avevo forse programmato che diventare madre mi avrebbe praticamente salvato? Assolutamente no.
Mi sarei mai immaginata di ritrovarmi, come una stupida adolescente, a fissare qualcuno al di là di una vetrina, chiedendomi “Entro? Non entro?”?
No! Non avevo programmato niente!
Di tutte le cose che mi sono successe, dai miei diciassettenne anni in poi, non ne avrei immaginata una, neanche in un milione di anni.
E il bello è che, dopo tutto questo tempo, dovrei essere una donna forte, sicura, o quanto meno, capace di gestire le mie emozioni.
Era l'unica cosa che avevo programmato!
Povera illusa...
 
“La vita è imprevedibile cara, la vita è davvero imprevedibile”.

 


 

 

Note della (non) autrice:
Salve a tutte/i, Directioners e non!
Sappiate già da ora che, se sceglierete di seguire questa storiella, le note della (non) autrice saranno, essenzialmente, una marea di stupidità gratuita! Lettore avvisato...
Ma veniamo a noi! Come già accennato nella prefazione, questa storia, NON è mia, quindi NON la sto scrivendo io. Ma bensì, una mia bravissima amica, che l'ha pubblicata nella sezione di un altro gruppo musicale (SHINee). Con il suo permesso, io la sto solo pubblicando qua, cambiando tutti i nomi e qualche minuscolo particolare quà e là, per adattarla agli 1D. 
Onestamente, mi ha già fatto leggere, due o tre capitoli e vi assicuro che mi sto già innamorando! Quindi spero davvero tanto, che decidiate di seguire la sua Fan Fiction.
E bene, sì. La storia è proprio ispirata alla serie televisiva "How I Met Your Mother". E niente... dato che l'autrice originale non mi ha ancora svelato tutti i dettagli, non so cos'altro aggiungere. Sarà un percorso che scopriremo insieme!
Spero di ritrovarvi tutti al prossimo capitolo,
Un saluto da...


- Seryka

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Chapter 1: And this is how... ***


And this is how...


 
Il cartone animato sta quasi volgendo al termine.
Conosco Cenerentola a memoria; io lo avrò visto almeno cento volte da piccola, ma la mia bambina mai.
Con gli occhi incollati allo schermo, si stringe a me, mente le accarezzo i capelli. Fortunatamente la febbre le è scesa... altri due o tre giorni, e potrò rimandarla all'asilo.
Mi volto verso il comodino, e osservo la pila di DVD che ho comprato una settimana fa, quando si era appena ammalata.
Mi viene da sorridere: Peter Pan, Bambi, Il Re Leone, Lilli e Il Vagabondo, Alice Nel Paese Delle Meraviglie, La Sirenetta, La Bella e La Bestia... Praticamente la mia infanzia racchiusa in quei contenitori. Li ha guardati con entusiasmo, e alla fine di ogni pellicola voleva subito metterne un altra.
Le scosto una ciocca di capelli dal viso, proprio mentre Cenerentola e il suo principe corrono per mano verso la carrozza. Nello sfiorare la sua guancia mi accorgo che è umida. Sta sudando? Le è tornata la febbre?
<< Amore stai... >>, le afferro il mento tra le mani e delicatamente la faccio voltare verso di me. Rimango interdetta: << … Stai piangendo? >>.
Il mio tono è incredulo e po' allarmato. I suoi occhi sono leggermente arrossati e una sola lacrima le riga la guancia sinistra.
<< Cosa c'è? Non ti senti bene? >>.
Lei mi guarda e scuote leggermente la testa, poi punta il suo piccolo indice verso il televisore di fronte a noi.
Sposto lo sguardo, dalla TV a lei, un paio di volte prima di capire cosa intende.
<< Ahhh! Ti ha fatto piangere il cartone? >>,
Annuisce in silenzio, nascondendo il viso dalla parte opposta. Mi viene da sorridere e la faccio voltare di nuovo.
<< Non ti è piaciuta la fine? >>,
Lei mi guarda confusa, e scuote energicamente il capo,come se avessi detto un enorme sciocchezza.
<< Sono contenta, perché ora Cenerentola è felice dopo essere stata triste per tanto tempo >>, mi spiega emettendo lievi singhiozzi.
Mi si scioglie il cuore, e vorrei solo afferrarla e stringerla forte tra le mie braccia per riempirla di baci.
<< Ma, mamma, perché sto piangendo se sono contenta? >>
Mi nasce spontaneamente un sorriso sulle labbra. L'ingenuità, dipinta sul suo volto dai tratti infantili, farebbe tenerezza a chiunque.
<< È normale tesoro, non c'è niente di strano. Ti sei solo commossa. Queste sono lacrime di felicità >>
Estraggo dalla tasca un fazzoletto di carta (inutile dire che ne sono sempre munita nel periodo delle influenze) e, prima le asciugo le lacrime, poi le faccio soffiare il naso.
<< Si può piangere per la felicità? >>
<< Certo... >>, accenno una risata.
<< Come è possibile? >>
Abbasso leggermente il capo. È evidente che la sua fase “dei perché” è iniziata ampiamente in anticipo rispetto agli altri bambini. L'ho sempre detto che è estremamente intelligente...
<< Quando sarai grande lo capirai da sola >> Le sposto una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
Vedo che sta per aprire nuovamente la bocca e in pochi istanti capisco che sta per iniziare una conversazione estremamente lunga. Non accetterà mai questa mia risposta... vorrà sapere il perché, del perché, del perché...
E, devo ammetterlo, per quanto questi cinque anni mi abbiano insegnato molto sull'essere madre... non ho la minima idea di cosa risponderle. Come spieghi ad una bambina di cinque anni il significato della commozione?
Decido di giocarmela d'astuzia, cambiando agilmente argomento.
Gettò una rapida occhiata verso l'orologio elettronico sul comodino più vicino e le dico: << Guarda un po', sono quasi le quattro. Andiamo a farci una bella merenda? >>
Le si dipinge un sorriso enorme sul volto ed annuisce energicamente. L'ho scampata bella...
Balza giù dal divano con un salto e raggiungiamo, per mano, la cucina.
Meglio non darle niente che contenga cioccolata. Non le fa bene se ha il mal di gola.
Apro uno sportello in alto mentre lei si è già seduta al suo posto davanti al bancone sporgente della cucina.
Sarebbe un ripiano per cucinare, ma ormai è diventato il nostro tavolo da colazione e merenda.
<< Thè alla fragola o al limone? >>
<< Fragola! >>
Prendo le bustine e preparo tutto l'occorrente per far bollire il thè. Le farà bene una bevanda calda.
Ho già messo la teiera sul fornello, e sto per accendere il fuoco quando mia figlia mi rivolge un altra domanda inaspettata.
<< Ma funziona davvero così? >>
Non riesco a capire a cosa si sta riferendo. Al thé?!
<< Cosa tesoro? >>
<< Si innamorano davvero così le persone? >>
Ecco. Povera illusa a pensare che il discorso si fosse concluso lì.
Bene, penso, adesso mettiti d'impegno e spiega a tua figlia, di cinque anni che l'amore è completamente diverso da come lo ha appena visto in televisione.
<< Beh... Vedi >>, esito qualche istante, mentre cerco mentalmente le parole adatte. << A ogni persona succede in maniera diversa, e... i modi in cui può succedere sono davvero tanti >>
Ti prego dimmi che le basta. Ti prego dimmi che mi sono salvata.
<< Allora può succedere anche come è successo a Cenerentola? Che arriva il principe a salvare la ragazza triste? >>
Bene. Sono fregata.
<< Mhh, immagino di sì >>
<< Anche a te e papà è successo così? >>
Ho un piccolo fremito a quella domanda. E mentre mi riscuoto, cerco di prepararmi mentalmente alla lunga serie di botta-risposta che, so già, sta per attendermi.
<< Cosa intendi amore? >>
<< Tu eri triste prima di conoscere papà, quindi è stato lui a farti tornare felice. È così? >>
Rimango senza parole. Triste? Certo che ero triste. Anzi, probabilmente è un eufemismo. Ero immersa nella depressione. E questo è un puro e semplice dato di fatto. Ma lei come fa a saperlo?
Distolgo lo sguardo dal fornello e mi volto a guardarla.
<< Io ero triste? Perché stai dicendo questo? >>
Mi risponde senza esitare minimamente.
<< Una volta ti ho chiesto perché io ho solo tre nonni mentre gli altri bambini ne hanno quattro, e tu mi hai detto che, prima di conoscere papà, il tuo era appena morto. Se il mio papà morisse io sarei tristissima >>
E nel giro di pochi secondi, realizzo che mi sembra di parlare ad un adulta in miniatura, non ad una bambina di cinque anni.
Non le ho mai detto chiaramente che mi padre è morto, e men che meno le circostanze in cui è successo. Mi sono sempre limitata, ad un più delicato “il nonno, ad un certo punto, ha deciso di andare a vivere sopra le nuvole, ed ora ci controlla da lassù”, aspettandomi l'inevitabile giorno in cui si sarebbe chiesta, quale aereo al mondo compie un viaggio simile. Ma è evidente che ha già capito tutto da sola
<< Capisco... Quindi vuoi sapere se è stato tuo padre a farmi tornare felice di nuovo? >>
Annuisce accennando un sorriso, come se capisse quanta delicatezza merita, un argomento del genere.
<< Mhh... Diciamo di sì. È stato anche lui >>
<< E come ha fatto? >>
Sfodero un sorriso enorme, quasi ironico, perché riassumere tutto quello che è successo con suo padre, in pochi minuti sarebbe un impresa. Ragiono, per un attimo, alla ricerca della giusta frase per spiegarglielo in poche parole, ma mi rendo conto che non è possibile
<< Oh, è una storia molto lunga. Quando avremo tempo te la racconterò, promesso! >>
<< Raccontamela ora! >>
Lo sapevo. Prima o poi sarebbe arrivato il momento... non ho mai avuto il desiderio di nasconderle quella parte della mia vita. Ho sempre progettato di spiegarle tutto, un giorno. Ma me lo ero immaginato in un futuro abbastanza remoto; con lei sedicenne, sedute su un divano, mentre la consolo dopo la sua prima delusione amorosa...
<< Tesoro, non è il caso, davvero. Sono successe così tante cose... ti assicuro che quando sarai grande avrai tutto il tempo per farmi ogni domanda che vuoi, e risponderò a tutte quante >>
Assume un broncio che decifro immediatamente. Un broncio che ho visto poche volte, ma che affronto sempre a fatica. Non ammetterà un no come risposta.
<< Ma io voglio saperla ora, mamma, ti prego! >>
Le rivolgo uno sguardo implorante e sospiro. Allora quel genietto travestito da bambina, cambia tattica: Unisce le mani, come se stesse pregando, abbassa le labbra, incurvandole in giù. E in un istante, capisco che sono spacciata...
<< Per favooore! >>
È ridicolo, lo so. Me ne rendo conto da sola che non dovrei cedere così facilmente. Che non dovrebbe bastarmi una faccia da angelo per acconsentire alle sue richieste. Che farò quando mi chiederà il permesso bere, fumare o dormire fuori?
La mia vocina interiore mi sta consolando, dicendomi che ha solo cinque anni, e si tratta semplicemente di raccontarle una storia. Non sarò eletta “peggior madre dell'anno” domani..
Ma sono davvero pronta? Me la sento - proprio adesso, proprio oggi - di mettermi a raccontarle del periodo più complesso, ed emotivamente contorto che abbia mai vissuto?
In questi anni, mi sono messa a ripensarci così poche volte... tanto ero presa dal crescere lei. Ma mi rendo conto che non devo scavare molto per ritrovare quei ricordi. Non sono in qualche angolo nascosto, e polveroso della mia mente. Sono proprio lì, in superficie, e aspettano solo di essere ripescati.
So già che mi sto per cacciare in un guaio senza fine, ma alzo lo stesso le mani al cielo, scuotendo leggermente il capo, e le annuncio:
<< D'accordo, hai vinto >>
Non la vedo in faccia, perché mi sono voltata a spegnere il fornello, ma scommetto che ha un sorriso raggiante, da parte a parte. E sta gongolando per la piccola vittoria.
Prendo la sua tazza e la mia. Le riempio, e poi verso una buona quantità di biscotti in un piatto.
Quando mi volto, confermo la mia tesi e osservo la sua faccia vittoriosa.
<< Vediamo... Da dove inizio? >>, poso il piatto in mezzo a noi due, le porgo la sua tazza e mi siedo proprio di fronte a lei, << Mhh... Allora... >>.
Realizzo che mi sono davvero cacciata in un guaio... Dovrò inevitabilmente censurare gran parte dei fatti. Per quanto possa essere una bambina precoce, ci sono delle cose che non può ancora sapere, ed è giusto che le scopra quando avrà una diversa maturità. Come posso trasformare una storia come la mia, in una versione adatta a mia figlia? Mi prendo qualche secondo per scegliere da cosa, e come iniziare, mentre il calore del thè, nella tazza, mi scalda le mani.
<< Come hai appena detto tu, mio padre se ne era andato da poco. Io avevo sedici anni e... non stavo molto bene. Avevo pochissima voglia di uscire e di stare con la gente... Ma per mia grandissima fortuna, tua zia non mi ha lasciato da sola. Sai, il merito infondo è anche suo. Non avrei mai conosciuto tuo padre se non fosse stato per lei >>
<< Cosa ha fatto la zia? >>
Ahia, penso, se le domande iniziano già adesso, non oso immaginare quanto ci metterò a finire.
<< Mi ha portata in questa città. Io e il tuo papà ci siamo conosciuti proprio qua sai? Io non sarei mai venuta a vivere qui. Devi ringraziare lei se sei nata >>
Faccio una pausa perché, dalla sua espressione, capisco che sta per rivolgermi un altra domanda...
<< E come ti ha convito a venire qua? Dopo quanto lo hai conosciuto papà? Cosa è successo prima della mia nascita? >>
Sgrano gli occhi e alzo una mano in segno di stop. Oh, povera me...
Meglio adottare un altra tecnica. Devo parlare senza pause, altrimenti staremo qua tutta la giornata...
<< Amore, con calma! Un passo per volta. Allora.. Lei mi chiese di venire qui, qualche giorno dopo il funerale. Me lo ricordo perfettamente... >>.
 
E mentre inizio a raccontare la storia di come la mia vita è cambiata, la mia mente vaga. Come se tornasse in quel preciso istante. Per ripercorrere ogni momento del lungo cammino che mi ha portato ad oggi. Nella cucina di casa mia, a preparare la merenda a mia figlia.
Fisicamente sono sempre qua, ma con la mente torno all'agosto di svariati anni fa... Nella mia casa natale, in una piccola città della California...





 
Note della (non) autrice:
Salve gente! Pe rquesto capitolo, vi lascio il commento dell'autrice originale, dato che è abbastanza neutrale, e io personalmente non ho molto da dire:

"E rieccoci qua! Grazie mille a tutti per aver dimostrato interesse alla storia in maniera così calorosa!!!
Adesso scusate che vado a mettere da parte le balle di fieno...
MA TORNIAMO SERI. Spero, con questo primo capitolo, che inizia ad entrare nel vivo della trama, di aver stuzzicato, anche in minima parte, la vostra curiosità.
E anche se così non fosse... Non mollo! Sono troppo affezzionata a questa FanFiction, e non la abbonderò nemmeno se dovessi avere zero lettori di qui alla fine. 
Che altro dire? Sto già fremendo per la pubblicazione del prossimo capitolo!
Fin qua tutto bene? Qualche domanda? C'è qualcosa che non vi torna? Volete un secchio di letame da buttarmi addosso? Lo trovate all'ingresso, grazie...
A parte tutto, spero che anche quei pochi lettori timidi e sileziosi possano essere soddisfatti... E in caso contrario... Io ci ho provato >o<
Un bacio da, The Black Pearl"

- Seryka

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Chapter 2: I Remember ***


I Remember

Image and video hosting by TinyPic
 

" I don’t know why I still remember,
All our memories that were like a living hell.
I’ll remember our past. You were playing around with me.

Thanks to you, everything’s changed for me.
The side of me that used to be able to laugh, doesen't exist anymore. "


( I Remember - B.A.P )

 
 
 
Ricordo tutto di quei giorni. Ogni secondo. Ogni pensiero. Ogni emozione.
Ma la cosa che più mi infastidisce, è che ricordo ogni particolare di quel giorno.
Ricordo come ero vestita. Ricordo che mi ero cambiata il piercing proprio quella mattina. Ricordo che la lezione di educazione fisica era stata particolarmente noiosa.
Mi ricordo che l'autobus non arrivava mai e, durante il tragitto, dalla fermata verso il mio alloggio, avevo visto due labrador con ilcollare e ben muniti di targhetta, che girovagavano senza meta e senza padrone.
Conoscendomi, devo aver pure pensato, di dover aiutare quei due cagnolini spersi. Senza minimamente immaginare che, di lì a pochi minuti, sarei stata io quella a sentirsi persa.
La cosa peggiore è che, a quanto pare, non dimenticherò questi inutili dettagli mai più. Rimarranno impressi nella mia mente fino al giorno in cui lascerò questo mondo.
Chi sa cosa c'era, nella sua mente, un istante prima che lasciasse questo mondo...
Chi sa cosa stavo facendo io, in quel momento esatto. Ignara del fatto che la mia vita stava cambiando per sempre
 
<< Ha chiamato tua sorella diverse volte, Maya, dice che hai il telefono spento. Sembrava urgente >>
 
La voce di Adam, il mio vecchio coinquilino, che mi annunciava la cosa. Si, ricordo anche quella.
Ogni sfumatura e ogni piccolo cambiamento di tono. Neanche lui poteva sapere quanto, realmente, urgente fosse.
Quella semplice frase mi risuona in testa all'impazzata, ogni volta che mi soffermo a ripensarci.
Ma questo non è niente in confronto a quello che successe dopo.
Ancora oggi mi chiedo come mia sorella sia riuscita a mantenere un tono neutrale, durante la chiamata.
Ce n'erano venti perse - tutte sue -, quando riaccesi il cellulare.
 
<< Sto venendo a prenderti, fatti trovare nel parcheggio >>
 
Non stava piangendo, ne urlando, ne ansimando. Semplicemente, non mi aveva lasciato intendere niente. Zero emozioni, e la ringrazio ancora per averlo fatto. Per avermi concesso quegli ultimi dieci minuti di pace.
Non ebbi neppure il coraggio di replicare. Non una domanda, non un “che accidenti è successo?”. Niente.
Chi sa se il mio subconscio avesse già intuito qualcosa, e stesse cercando di preservare la mia stabilità emotiva, rimandando l'inevitabile, al più tardi possibile. Poco probabile.
Fatto sta che, dopo aver chiuso la conversazione, rimisi il telefono in tasca, andai a posare la cartella sul mio letto, e uscii per raggiungere il parcheggio. Il tutto con una calma estrema.
E quando la Toyota grigia metallizzata di mia sorella, si fermò proprio davanti a me, l'inevitabile non pote più essere rimandato.
 
Avevo sempre trovato patetiche le scenette dei film, nelle quali annunciano la scomparsa di un parente senza MAI terminare la frase. Ma solo adesso - a quel tempo, ancora non lo realizzai -, mi rendo conto di quanto siano veritiere.
Perché una figlia non può annunciare una cosa del genere senza scoppiare in lacrime a metà frase.
E anche se riconosco che quei pochi secondi, sono e saranno sempre i peggiori della mia vita, non posso biasimare mia sorella per non essere riuscita a concludere la frase:
 
<< Papà è... >
 
Morto, dissero per lei, le lacrime uscendo violentemente dai suoi occhi.
Devo essere sincera; non lo avevo capito subito.
Dopo aver aperto la portiera, l'avevo subito guardata in faccia, aspettando una spiegazione.
Lei aveva la stessa espressione che mi ero immaginata qualche minuto prima al telefono. Impassibile.
Niente occhi rossi, quindi non aveva pianto durante il viaggio. Probabilmente il suo cervello era ancora nella fase della negazione, e si è resa realmente conto, di ciò che era successo, solo nel momento in cui ha dovuto annunciarmelo.
E ricordo bene che, la parte più ottimista di me, prima di sentir pronunciare quelle parole, sperava con tutta se stessa che fosse qualcosa di meno grave.
 
Papà è in ospedale,
Il gatto è stato investito,
Siamo in banca rotta,
 
Tutto. In quel momento, avrei preferito tutto... ma non quello.
Non avrei voluto che, il ventidue maggio del duemiladodici, diventasse il giorno più brutto della mia vita. Ma è così che è andata, e niente potrà mai cancellarlo...
 
Inutile dire che i giorni seguenti furono strazianti. Nessuna condoglianza, o nessun abbraccio, dei mille che ricevetti, furono capaci di rimarginare quell'enorme ferita.
Rotta. Ero ufficialmente rotta. Un pezzo del mio cuore, è morto insieme a lui quel giorno, e per quanto impegno io possa metterci, non lo rianimerò mai.
E iniziai lentamente ad etichettarmi quel marchio sulla fronte. Orfana.
La mia parte razionale, in fondo in fondo, sapeva - o per lo meno, sperava - che non sarei stata triste per sempre. La depressione si può combattere, la tristezza può affievolire.
Non sarei stata per tutta la vita la ragazzina a cui è appena morto il padre, ma sarei stata, per sempre, orfana.
Un orfana di sedici anni. E questo non potrà mai cancellarlo nessuno psicologo.
 
Al funerale non avrei neanche voluto partecipare.
Non volevo onorare la sua morte. Perché mai avrei dovuto? Cosa c'è di bello nello stare, per due ore, circondata da persone che sono lì solo per dovere morale? Che vengono a stringerti la mano, augurandoti di essere forte. E tu vorresti solo tirar loro uno schiaffo, sputandogli in faccia, che non devi essere forte per nessuno. Devi, anzi, hai il diritto, piangere, sfogarti e mostrare a tutti le tue debolezze.
Sei tu l'orfana. Gli altri dovranno essere forti per te. È così che dovrebbe andare.
Ma la verità è ben diversa...
 
La verità è che le persone hanno i loro impegni, e la loro vita - meno tragica della tua- a cui tornare.
Non possono cederti la loro spalla per sempre.
Vieni qua, che ti consolo per cinque minuti, però dopo sono cavoli tuoi eh! Che io devo andare...
 
Il paradosso è che non versai neanche una lacrima, ne in chiesa, ne al cimitero, quando lo calarono sotto terra, sigillandolo in eterno. Ero troppo occupata a pensare a come proseguire il resto della mia vita... senza trovare uno straccio di risposta.
Al contrario di mia sorella, che si lasciò completamente andare, svuotando i condotti lacrimali, ma riuscì a ricomporre - o quanto meno a raccogliere - i pezzi della sua neo-vita da orfana, praticamente subito dopo.
 
Dovevano essere passati quattro, o cinque giorni, e non potevamo più fare finta di niente.
Ero una ragazzina minorenne, senza genitori. E per quanto mi sentissi un bagaglio inutile, che nessuno vuole tenere in mano, legalmente parlando, doveva essere fatto qualcosa.
Sinceramente, in quel momento, neanche la prospettiva di essere sbattuta in un orfanotrofio riuscii a smuovermi dal mio stato catatonico.
E me ne restai immobile per ore, su quella poltrona a casa dei miei nonni, mentre Mia continuava a discutere con i genitori, e i fratelli del nostro defunto padre - che sembravano averci preso momentaneamente sotto la loro ala protettiva -.
 
<< Per questa estate la sistemiamo sul divano, e a settembre, tornerà a stare negli alloggi della suola no? Sarebbe legalmente affidata a noi, senza vivere a casa nostra... >>
<< No, nonna. Si è fatta ritirare ieri. Non vuole più andarci >>
<< Vuole cambiare scuola? >>
<< Non vuole più studiare. Non vuole affatto iniziare il prossimo anno >>
<< Oh santo cielo! Ma ha solo sedici anni, e non è diplomata! Non puoi permetterglielo... >>
<< Si che posso, dopo i sedici anni si è liberi di scegliere la propria carriera scolastica. Non faccio io le leggi... >>
<< Mia non vorrai davvero lasciar perdere così, giusto? Devi fare qualcosa, è tua sorella, perché non le parli e...
<< PERCHÈ NON SONO SUA MADRE, OKAY? Io non lo so che cazzo fare, nonna. Ne io, ne lei abbiamo chiesto questa situazione! >>
 
Rimasi di sasso, esattamente come mia nonna.
Persino nel mio stato di semi-coscienza, quella frase riuscii a scuotermi. Non per le parole, ma per la disperazione che si celava dietro.
Oh, certo, avevo visto mia sorella piangere; per un compito andato male, per un colloquio di lavoro non superato, per un fidanzamento fallito.
Ma un rotto, e disperato pianto, pieno di rabbia, era sicuramente la prima volta che lo vedevo.
 
La situazione era chiara a tutti: mi volevano abbastanza bene da non volermi lasciar marcire in un qualche istituto, ma nessuno se la sentiva di accorparsi la responsabilità di un adolescente emotivamente instabile.
Il fatto che negli ultimi due anni, avessi frequentato, e alloggiato in un liceo munito di appartamenti studenteschi, sembrava una buona scappatoia per tutti i parenti.
La prendo io, ma tanto vivrà là, giusto?
Ma la crisi era sopraggiunta quando avevo annunciato il mio ritiro.
Se non sei uno studente, non puoi usufruire degli alloggi...
Come presi quella decisione? Di getto. Senza pensarci.
Il solo pensiero di dover affrontare, di lì a tre mesi, un intero anno scolastico, e poi un altro ancora, mi sembrava inconcepibile.
Ero andata da sola, a scuola. La mattina presto, quando tutti pensavano che ancora dormissi.
Non perché fossi preoccupata delle loro reazioni o degli eventuali tentativi di fermarmi. Semplicemente volevo farlo, subito e alla svelta.
Avevo pure trovato un buon compromesso con la mia coscienza: mi sarei ritirata, solo finché non avessi capito, esattamente quale piega far prendere alla mia vita.
Se tornerò ad essere la Maya di prima, e capirò quale Maya voglio diventare, mi rimetterò immediatamente sui banchi.
Non me lo ero ripetuto parecchio, ma era comunque diventato un mantra. Una legge non scritta, e che non avrei infranto.
 
La segretaria mi aveva, inizialmente, guardato senza battere ciglio. Poi deve aver fatto due più due...
Le voci di corridoio, sulla studentessa a cui era appena morto il padre, non si erano ancora placate, perciò deve esserci arrivata dopo aver visto il mio sguardo spento, sotto il cappuccio della felpa che indossavo.
Dopo aver firmato, mi voltai senza salutare o guardare nessuno. Nel corridoio, qualche studente mi riconobbe.
Vidi, con la coda dell'occhio, le dita di alcuni, puntate verso di me, mentre i bisbiglii mi giungevano flebili alle orecchie...
 
<< È lei... >>
<< È morto una settimana fa... >>
<< Mia madre c'era al funerale... >>
 
Uscire definitivamente dalla porta di quell'istituto, fu un sollievo indescrivibile.
E io ricordo tutto. Ricordo ogni singolo istante. Ricordo perfettamente la sera del sei giugno duemilaotto.
Sarebbe stato il mio ultimo giorno di scuola - del secondo anno -, se solo ci fossi andata.
Ero nel quindicesimo giorno della mia nuova vita, dato che, ormai, avevo iniziato a scandire il tempo in base al “prima che morisse” e il “dopo che è morto”.
Stavo lentamente iniziando a uscire dalla mia bolla di disperazione, ma a ritmi impercettibili. Parlavo ancora pochissimo, ma avevo smesso di passare diciotto ore su una sedia, e sei su un divano.
Quella sera, Mia mi stava giusto accompagnando a dormire - non ero mai completamente da sola, c'era sempre qualcuno con me - dopo aver mangiato un gelato, insieme, sulla veranda del giardino dei nostri nonni.
Mi ero stesa sulla soffice superficie di quel sofà, che sarebbe stato il mio letto fino a che la mia famiglia non avesse deciso cosa farne di me.
Mi coprii fino alla bocca aspettando il consueto bacio sulla fronte da mia sorella, ma invece lei si piegò sulle ginocchia, fino a poggiarle a terra. Posò i gomiti sul materasso, afferrò e strinse forte la mia mano nelle sue, e mi rivolse uno sguardo che non dimenticherò mai.
 
<< Tu non rimarrai sola, Maya. Okay? Io ci sarò sempre >>
 
Deglutii la mia saliva a fatica, perché sentivo un nodo in gola profondissimo.
Per la prima volta, in quindici giorni, provai qualcosa di diverso dalla disperazione.
Un misto di emozioni che mi colpirono tutte insieme, portandomi sull'orlo di una valanga di lacrime - che, non so come, trattenni -.
In quella frazione di secondo, sentii il nostro rapporto, consolidarsi come una roccia. Capii che poteva diventare indistruttibile.
Non riuscii ancora a provare, neanche un briciolo di felicità, - era troppo presto -, ma di commozione si. Avrei voluto afferrarla, stringerla tra le mie braccia e dirle quanta ammirazione stessi provando per lei, e quanta forza mi stesse trasmettendo. Mi pento ancora, di non averlo fatto...
Ma pochi istanti dopo, provai anche un pressante senso di colpa.
Sapevo che lei non avrebbe permesso a se stessa di crogiolarsi nella depressione troppo a lungo. Lei non era come me; una sedicenne incasinata.
Lei era una talentuosa e sicura ventiquattrenne. Con un lavoro, un futuro, e un allettante prospettiva di carriera, e che stava seguendo dall'altra parte del mondo.
Aveva sempre avuto dei progetti, e si trovava in quello splendido momento della vita, in cui ti ci butti a capofitto, sperando di non cadere, ma di riuscire a costruire qualcosa. E, cavolo, si era data da fare. Senza mai lamentarsi o guardarsi indietro. E dio solo sa quanto la invidiavo per la sua determinazione - cosa che, al tempo, l'orgoglio adolescenziale, non mi permetteva di ammettere neanche a me stessa -.
Il suo bell'appartamento, in inghilterra, era ancora là che la attendeva, insieme allo stage aziendale retribuito, che l'università le aveva offerto. E io non volevo, nella maniera più assoluta, che buttasse tutto all'aria, per consolare e aggiustare la vita della sua sorellina depressa.
Non lo avrei permesso per niente al mondo, e lo realizzai, in quell'istante, guardandola negli occhi lucidi.
 
<< A costo di portarti con me, a Londra, tu non rimarrai sola >>, continuò senza smettere di guardarmi.
 
Non seppi, minimamente cosa pensare. Semplicemente perché, in quel momento, non potevo sapere, che quella conversazione sarebbe stata alla base degli eventi più intricati della mia vita.
Restai semplicemente lì, distesa e protetta dalle fresche lenzuola, mentre lei mi baciava la testa.
Si alzò lentamente, e si passò una mano sugli occhi, prima di avvicinarsi all'interruttore della luce.
La sentii fare una piccola risatina, come se avesse pensato a qualcosa di buffo.
 
<< Chi sa, potrebbe essere un idea, no? >>
 
E fu quella, la primissima volta in cui me lo chiese. Seppur indirettamente, ma me lo chiese. Mia sorella stava valutando l'idea di trasferirmi oltre oceano insieme a lei, e io nemmeno lo stavo capendo.
Ma per quella sera le bastò così, e spense la luce, per poi uscire dalla stanza e lasciarmi nell'oscurità, in compagnia dei miei pensieri.
E... dio, ricordo perfettamente che, poco prima di sprofondare nel sonno, - che in quel periodo era, fortunatamente, senza incubi - la parola “Londra”, attraversò impercettibilmente la mia testa.
E se qualcuno, in quel momento, mi avesse informato, di quanto, quell'impercettibile pensiero, sarebbe stato rilevante nella mia vita, mi sarei messa a ridere roteando gli occhi. Come faccio sempre, quando voglio eclissare un discorso che reputo ridicolo.
 
Ma nonostante l'indifferenza del momento, io ricordo ancora tutto.




 
 
 
Note della (non) autrice:
Bentornati! Come al solito, non so mai come iniziare questa sezione, e temo che andrà sempre peggio... abituatevi.
Ma bando alle ciance... Posso dire che dopo aver letto il capitolo avevo gli occhi lucidi? Ci credete che ho subito chiamato l'autrice originale per tempestarla di domande?
"Ma lei starà meglio? Sarà di nuovo felice? Ti prego, DIMMELO!".
Ma niente, mi ha rivelato giusto, giusto pochi dettagli. La mia curiosità è ancora pulsante. E la vostra?
Ditemi che non sono la sola, vi prego.
Comuque, già che ci sono, ci tengo a precisare, un attimo, le dinamiche di questa mia trascrizione, in caso ve lo steste chiedendo.
Come funziona il tutto? Semplice:
Io e Black Pearl, (l'autrice originale), siamo ottime amiche, non che compagne di classe. In pratica, ogni volta che lei pubblica un capitolo, mi consegna - solitamente, e se riesciamo a vederci - il giorno dopo, la chiavetta con il testo originale. A quel punto io lo leggo, e modifico eventuali particolari, per adattare la storia a questa sezione, e TUTTI i nomi (quindi non solo quelli degli OneD. Abbiamo, di comune accordo, deciso di cambiare i nomi ad ogni personaggio, rispetto alla storia originale. Quindi, ache quei nomi che sarebbero neutrali, saranno modificati).
E questo è tutto! Io cercherò, quindi, per quanto i miei impegni me lo consentano (Ahimè, quest'anno ho la maturità) di pubblicare con un giorno di "ritardo" rispetto a lei, e spero di non deludere nessuno!

 
Ps: L'autrice originale, mi ha chiesto di riferirvi che non è molto soddisfatta dellla lunghezza complessiva del capitolo, e vorrebbe una vostra opinione.
 
Concludo con un ringraziamento enorme a:
willytestolinabacata_98, per aver inserito la FanFiction tra le seguite ed aver recensito entrambi i capitoli!
Alla prossima,
 
- Seryka

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Chapter 3: A Drop in the Ocean ***


 
 
A Drop in the Ocean

Image and video hosting by TinyPic

"It's like wishing for rain as I stand in the desert...
I don't wanna waste the weekend...
Then it's time to go.
As my train rolls down the east coast,
It's too late to cry, too broken to move on. "

( A Drop in the Ocean - Ron Pope )


 

È difficile spiegare cosa accadde quell'estate. L'estate del duemila dodici, la mia prima da orfana.
Non posso esattamente dire che, da un giorno all'altro, rimossi tutto, e cominciai lentamente e a mutare. Ma direi che, come spiegazione, ci si avvicina.
Chiariamoci; non mi sono svegliata una mattina, dicendo “Ma si, è proprio ora di rimuovere dalla mente questa morte, e cambiare stile di vita”. Assolutamente no. È stato molto più graduale ma, allo stesso tempo, è successo nel giro di quei pochi mesi estivi.
Se ci ripenso mi viene quasi da sorridere: non mi ero mai fatta un idea concreta sul concetto di lutto - o almeno, non prima di viverlo personalmente -, ma avevo sentito dire che ognuno lo gestisce a modo suo, a volte anche nei modi più bizzarri.
Non che mi fossi mai soffermata a chiedermi: “Se capitasse a me, come reagirei?”, ma se qualcuno mi avesse detto che, proprio io, sarei stata una di quelle a “reagire in modo strano”, non ci avrei mai creduto.
La verità è che finché non ti capita non puoi rispondere a una domanda del genere... non puoi assolutamente sapere come reagirai al dolore più straziante della tua vita, finché non ti ci trovi catapultato dentro.
A cosa paragonare quel dolore? A un mare. Un mare immenso, freddo e profondissimo. Un mare in tempesta, con delle onde - alcune più grandi, altre più piccole - che compromettono la tua capacità di nuotare. E tu devi fare di tutto per non affogare, ma, cosa più importante, devi trovare un modo per muoverti e riuscire a tornare a riva, perché non si può vivere in acqua per sempre.
Ecco, il mio modo di restare a galla, è stato sfociare in una sorta di ribellione adolescenziale. E non giudicatemi, perché non saprete mai cosa ci fosse nella mia testa, in quel periodo - a stento lo sapevo io -.
La mente umana, opera in modi imprevedibili... e la mia, mi ordinò di agire in questa maniera.
 
Ci misi circa un mese a riprendermi dall'intontimento iniziale. Mia, nel frattempo, rimandava ogni volta la partenza per Londra fino a nuova data e la cosa mi opprimeva da morire. Sapevo bene, di esserne la causa. La situazione non si era ancora risolta - nessun parente si sentiva pronto per me - e nessuna soluzione sembrava palesarcisi.
Continuavamo a dormire, io sul divano, e lei sul materassino gonfiabile, nella stanza che un tempo era stato lo studio di nostro nonno.
Dopo settimane di tentativi, avevano finalmente smesso di farmi pressione sulla questione scolastica. Era ormai chiaro a tutti, quanto la mia decisione fosse irremovibile.
Il desiderio di evitare la scuola era talmente forte, che nemmeno il pensiero di mia sorella e dei progetti che stava rimandando, riusciva a smuovermi. Anzi, dopo un po', iniziai addirittura a fregarmene. Brutto, lo so. Ma il mio malessere interiore stava già cominciando a prendere il controllo.
 
Credo che la cosa iniziò a non toccarmi più, il giorno in cui cambiai colore.
Avevo iniziato a tingermi i capelli già quattordici anni, ma fino a quel momento, la mia chioma aveva visto pochi cambiamenti significativi: a quattordici appena compiuti, mi ero fatta castano chiaro. Successivamente, mogano, mentre per tutto l'anno dei miei quindici, avevo avuto un marrone cioccolato. Mi divertiva cambiare...
Tutti continuavano a dirmi che ero pazza. Che il mio naturale biondo miele era perfetto così... e io continuavo a ripetere che la testa era mia.
Nel periodo in cui morì papà, avevo una cascata di capelli mori. Neri come la pece. Li avevo tinti tre mesi prima, nel lavandino del mio bagno, nell'alloggio scolastico. Nero, come il lutto. Come la morte. Chi sa, forse avrei dovuto prenderlo come un segno del destino...
Ma quell'estate, le tranquille gradazioni di colore, furono totalmente messe da parte.
Entrai nel negozio, in una giornata di fine giugno, senza un idea ben precisa in testa. Ricordo bene che pensai...
Devo tornare alla mia vita di sempre giusto? Tanto vale cominciare...
E la Maya del “prima” - (del lutto) -, cambiava colore ogni quattro mesi. Tanto valeva che la Maya del “dopo”, facesse altrettanto.
Mi diressi immediatamente allo scaffale delle tinte. Iniziai ad osservare ogni singolo colore disponibile, rimanendo immobile per parecchi minuti... e poi il mio sguardo lo vide. Si puntò su quella scatolina luminosa e la osservai con adorazione. Era il colore perfetto, lo specchio esatto della mia anima.
Così tornai a casa, e quando tirai su il capo dal lavandino del bagno di mia nonna, osservai, allo specchio, la mia nuova chioma rosso fuoco. Non un rosso sangue, ne un rosso autunnale. Ma puro calore e passione. Il colore della rabbia. Un colore determinato e sconvolgente. E in quel momento, sentii che era ciò di cui avevo bisogno.
 
Da lì fu una strada tutta in discesa...
Ad ogni cambiamento - fisico o caratteriale -, mostravo sempre meno tristezza. Non che non ne provassi, ma non la davo a vedere. Ne agli altri, ne a me stessa. Infatti iniziai a piangere sempre meno, la notte.
Chiamatelo meccanismo di difesa se volete. Io, ad oggi, non so ancora che nome dargli... ma ho le idee molto più chiare di allora. Capisco bene cosa stesse cercando di fare quella sedicenne smarrita.
Stava facendo leva sulla sua parte più forte, per non sprofondare nell'abisso del mare di dolore.
In poche parole, volevo svegliarmi la mattina, guardarmi allo specchio, e vedere una me diversa. Non volevo vedere la stessa faccia della ragazzina a cui era stata data la notizia della morte di suo padre, mai più. Volevo vedere il riflesso di un estranea.
Ad oggi mi rendo conto che non ha senso. Ma come ho già detto,ognuno gestisce il lutto a modo suo.
E così, iniziai con “mutazioni” più estreme...
 
Era metà luglio quando mi presentai in quello studio di tatuaggi, in un piccolo e anonimo quartiere di San Francisco. Non sarei potuta di certo andare dallo stesso che mi aveva fatto i piercing alle orecchie; per quelli avevo avuto il permesso scritto di un adulto, stavolta no.
Era stato Logan, un amico di Adam, a consigliarmelo: avevo chiesto loro se conoscessero qualche piercer che facesse uno strappo alla regola, e accettasse una minorenne, senza permesso dei genitori. Dopotutto, ero orfana...
Non avrei saputo nemmeno a chi chiedere il permesso: mia nonna? Mio nonno? Mia? In fin dei conti non ero affidata a nessuno. Ma sinceramente non mi importava neanche del loro consenso, e non mi preoccupai nemmeno del loro eventuale disappunto.
Mi presentai nel posto, una mattina, alle undici e mezzo. Era una specie di vecchio magazzino in una viuzza nascosta, con una vetrina neutra. Sopra la porta di vetro, palesemente ammaccata, la malandata scritta luminosa “Tattoo”, sfarfallava a intermittenza. La seconda “t”, era completamente fulminata.
Dentro, le pareti erano grigie, e cosparse di foto di corpi tatuati. I disegni erano raccapriccianti.
Il tatuatore che mi venne incontro indossava un grembiule bianco, sporco, qua e là, di macchie di inchiostro nero, ed emanava un odore di fumo talmente forte, che dovetti trattenere il fiato.
Mi fece sdraiare sul lettino bianco, e pochi minuti dopo, le sue mani ricoperte dai guanti, gialli come i suoi denti, mi bucarono l'ombelico. Pagai quindici dollari.
Mi sentivo benissimo: la sensazione di controllo. Avere il potere di decidere del mio corpo e della mia vita... era sublime.
Tenni quel piercing nascosto per giorni, finché tornai a farne un altro. O almeno, entrai con lo scopo di farne uno, ma ne uscii con due.
Il cerchietto argentato sulla mia narice sinista fece spalancare la bocca a mia sorella, ma mai quanto la barretta d'acciaio infilzata nella mia lingua. Mia nonna non mi rivolse parola... aspettò la sera per sbraitare contro la povera Mia. Stesa, sul divanetto in quella stanza buia, ascoltavo la loro accesa discussione.
Stavo iniziando a sviluppare un senso ironico nei confronti della vita, per cui la situazione mi sembrava comica: nessuno voleva accaparrarsi il fardello del mio affidamento, ma tutti si incolpavano per i miei degradi.
 
Ad oggi, mi sento così in colpa, per aver fatto passare quel periodo d'inferno a mia sorella. Ogni mio sbaglio ricadeva su di lei, che era totalmente innocente. Non era certo colpa sua se ero orfana, così come non era responsabile della mia “ribellione”.
Continuo a chiederle scusa ogni volta, e lei, da perfetta sorella maggiore qual'è, mi abbraccia e mi da lo stesso bacio sulla fronte che mi dava allora, ogni sera.
 
Al contrario, non sono più arrabbiata con i miei nonni per non aver preso la situazione in mano.
A quel tempo lo ero, lo ero da morire. Li ritenevo dei vigliacchi, ma solo a distanza di anni, sono riuscita a capire che anche loro erano in lutto... un genitore non dovrebbe sopravvivere a un figlio.
Credo di averli perdonati a fondo, solo dopo essere diventata madre a mia volta. Dopo aver capito, che un nuovo pezzo di te, viene al mondo nel momento in cui stringi il tuo bambino o la tua bambina tra le braccia.
Quindi, anche un pezzo di loro, insieme a mio padre - il loro bambino -, è morto quel ventidue maggio.
 
La cosa più buffa, però, è che tutti si incolpavano a vicenda, additandosi i miei errori... ma nessuno ne ha mai parlato con me. La diretta interessata.
 
Maya sta cambiando, devi impedirle di fare così, guarda cosa fa...
 
Ma un “Maya come stai? Maya parliamone”, non è mai uscito dalle loro bocche. Facevo davvero così pena?
Gira che ti rigira, la verità è una sola: stavo cercando disperatamente di capire come affrontare il resto dei miei giorni senza mio padre, e dato che nessuno era disposto - aggiungiamo pure, che non ho avuto il coraggio, io stessa, di chiederlo - ad aiutarmi, nel cercare una risposta... ho accantonato completamente quella domanda.
Ho impedito al mio cervello di pensarci. Come direbbero gli psicologi, ho protratto la fase della negazione per mesi. Non permettevo a me stessa di affrontare il dolore, e questo mi ha portato a diventare un altra persona.
Una ragazza dai capelli rossi e piena di piercing, anziché una bambina depressa. La ragazzina orfana doveva restarsene al di sotto di quella ferraglia.
Stupido, lo so. Ma avevo solo sedici anni...
 
E inizia anche a uscire. A frequentare i miei soliti amici. A passare le serate in quel parco giochi vicino scuola, fumando una o due sigarette, delle cinquanta che si portavano dietro.
Quella non era una novità. Anche prima lo facevo, ma la mia mentalità era completamente cambiata.
La Maya del prima, usciva con loro per uniformarsi, e sentirsi un adolescente. La Maya del dopo, usciva con loro, per combattere la noia.
Per non stare a casa, e non pensare. Non avevo più il men che minimo interesse a far parte di un gruppo sociale.
 
Il resto di quei caldi giorni, quindi, trascorse così... con la mia famiglia che continuava ad arginare attorno a un problema che nessuno voleva risolvere, mentre io passavo le giornate sempre nella solita maniera: la mattina camminavo per ore, sulla parte di spiaggia non intasata dai turisti; o a bagnarmi i piedi sulla riva, o a osservare le onde, seduta sugli scogli, con le cuffie nelle orecchie. Nelle afose ore pomeridiane, mi gettavo sul divano a leggere, o a fare zapping sui canali cinematografici. E la sera salivo sulla macchina di Adam, - sotto lo sguardo pieno di disapprovazione dei miei parenti - senza nemmeno sapere dove saremmo andati.
E questo è il semplice motivo per cui, quando ripenso o racconto di quel periodo, mi piace usare il termine “mutazione”. Perché nessun'altra parola potrebbe descriverlo meglio: io mutai. Mutai completamente. E non solo nell'aspetto. Cambiai quasi ogni parte di me. Così il dolore, non sarebbe stato in grado di distruggermi.
 
Credo che la Maya di oggi, abbia perdonato gran parte delle cose, alla Maya di allora. Ma c'è un piccolo fatto che, per me, è ancora un tasto dolente, se ci ripenso. Non riesco proprio a mandare giù l'aver momentaneamente smesso di tenere a Mya.
Posso girarci intorno quanto voglio, ma la verità è che, lutto o non lutto, avevo smesso di preoccuparmi di lei, su ogni fronte. E questo è l'unico punto della mia mutazione che non riesco ancora a perdonarmi.
Lei stava lottando con le unghie e coi denti per non lasciarmi allo sbando, mettendo da parte i suoi sogni... e io le porgevo beatamente l'altra guancia. E la cosa peggiore, è che non ho mai tenuto conto del fatto che anche suo padre era morto. Mi consideravo l'unica vittima della situazione, senza rendermi conto, che eravamo in due ad essere rimaste orfane.
 
Il picco dell'insolenza, lo raggiunsi una mattina di fine agosto.
Mi ero appena vestita, con una delle mie solite tute leggere, e prima di uscire di casa, ero passata dalla cucina per un bicchiere di succo. Mia era seduta al tavolo, intenta a massaggiarsi le tempie di fronte allo schermo del suo portatile. L'aria palesemente stressata negli occhi, che io - ovviamente - non notai.
 
<< Dio, se non mi muovo a tornare a Londra, il proprietario dell'appartamento mi scioglie il contratto d'affitto. Ci metterò settimane a trovarne un altro >>
 
Aprii il frigo, non curante delle sue preoccupazioni. Che stronza... Non la degnai nemmeno di una parola, e lei aveva solo bisogno di un po' di conforto. O forse stava solo cercando di entrare, discretamente, nell'argomento...
 
<< Sai, stavo pensando di prenotare un volo per i primi di settembre. Mi sa che non posso più permettermi di rimandare... >>
 
Ero ancora voltata, e versai buona parte del succo in un lungo bicchiere trasparente. Alzai rapidamente le spalle, prima di risponderle con noncuranza.
 
<< Buon per te >>
 
Il tono così piatto e freddo, che se tornasi indietro mi prenderei a schiaffi da sola.
Portai il bicchiere alla bocca, e sorseggiai lentamente la bevanda alla mela verde. Sentii dietro di me il rumore della sedia muoversi e, pochi istanti dopo, Mia si avvicinò.
 
<< Maya possiamo... posso parlarti un attimo? >>
 
<< Stavo andando sulla spiaggia >>
 
<< Ci metterò un minuto >>
 
Riposi il bicchiere, ormai vuoto, nel lavandino, e quando mi voltai incrociai il suo sguardo. Si era poggiata, con la schiena al muro, e mi guardava fissa negli occhi, tenendo le braccia conserte.
Poggiai a mia volta le mani sul ripiano del bancone, e attesi. Non mi chiesi neanche cosa volesse dirmi, mi importava solo uscire alla svelta di lì.
Prese una piccola boccata d'aria e il suo sguardo si sperse un istante nel vuoto, prima di parlare:
 
<< Non... so bene neanch'io come iniziare ma, beh penso che ormai sia giunto il momento di prendere la situazione in mano >>
 
Fece una pausa, e iniziò a gesticolare con le mani. Un vizio che ha sempre avuto.
 
<< Io devo urgentemente tornare in Inghilterra. Ne va del mio futuro, capisci? Adesso che l'intera questione dell'eredità è finita, non c'è più niente che mi tenga qua. Devo tornare a preoccuparmi dei miei studi, dello stage. Il prossimo anno mi laureo e non posso proprio...
 
<< Puoi arrivare al punto Mia? >>
 
Doppia stronza. Non ebbi neanche la decenza di lasciarla sfogare. Ma lei, che ormai da tre mesi conviveva con quell'adolescente ingrata, non ci badò e si riscorre subito.
 
<< Si, scusami. Il punto è che io... non partirei tranquilla, sapendoti qua da sola, e con il tuo affidamento ancora in sospeso >>
 
<< Sto qua da tre mesi, credo ormai i nonni si siano rassegnati, non avranno problemi a farmi restare >>
 
Nonostante la loro diffidenza apparente, sapevo bene che non mi avrebbero mai lasciata in mezzo a una strada.
 
<< Si, lo so Maya, ma non mi sentirei tranquilla comunque. Hai sedici anni, non sei ancora in grado di badare a te stessa >>
 
<< L'ho fatto per l'intero anno scolastico mi pare! >>, la interruppi bruscamente. Mi dette un gran fastidio quell'affermazione. Negli alloggi scolastici, a parte qualche sporadico controllo degli insegnati, ero completamente da sola. O meglio, insieme ai miei coinquilini, ma senza la costante supervisione di un adulto.
 
<< Non lo metto in dubbio, ma la situazione era meno... meno... >>, indugiò alla ricerca del termine adatto e io ricacciai indietro il moto di tristezza derivante dalla consapevolezza di dove volesse andare a parare: << Più tranquilla >>, concluse portando le mani lungo i fianchi.
 
<< Puoi dire pure “meno tragica” >>
 
Riposi il cartone del succo nel frigo, sperando che la conversazione cadesse lì, ma ovviamente c'era dell'altro.
 
<< Il fatto è che... mi rendo perfettamente conto quanto difficile sia questo periodo per te. Ed è più che normale, non voglio fartene una colpa. Ma è proprio per questo che vorrei starti sempre accanto per aiutarti >>
 
Si interruppe, forse nella speranza che ci arrivassi da sola. In seguito, realizzai quanto fu difficile, per lei, instaurare quella conversazione.
Sfoderai un sorriso isterico e altamente ironico e alzai lo sguardo verso il soffitto:
 
<< Aiutarmi? Ora vuoi aiutarmi? Senti, se stai cercando di scaricare su qualcuno il senso di colpa per aver rimandato la partenza, fai pure. Ma non mi pare di averti mai pregato in ginocchio supplicandoti di restare, quindi scusami tanto, ma non so come risolvere i tuoi dilemmi esistenziali. O resti, o te ne vai. La scelta è tua >>
 
Esasperata, feci per uscire dalla cucina. Il minuto concessole, era abbondantemente scaduto.
 
<< Non è quello che in... Aspetta! Lasciami finire! >>
 
Mi fermai sbuffando, e quando tornai a guardarla, lei si era staccata dal muro e avvicinata a me.
 
<< Non era assolutamente quello che intendevo. Non voglio ne scaricare la colpa su di te, ne addossarti i miei problemi Al contrario, voglio che sia tu a raccontarmi i tuoi, e ovviamente non potrai farlo se saremo a un continente di distanza. >>
 
<< Tranquilla, ti chiamerò su Skype se dovesse finire lo zucchero... >>
 
<< Maya, per favore... >>
 
E in quell'istante, capii che la sua pazienza stava iniziando a cedere. Stava usando tutta la sua forza per mantenere un tono calmo e rassicurante. Quello che non capiva - così come il resto della famiglia -, è che la cosa mi infastidiva da morire. Mi trattavano tutti con condiscendenza, mentre io volevo solo essere trattata come la Maya di sempre. Non essere giustificata su tutti i fronti.
Decisi di andare incontro a mia sorella e lasciarla parlare; nemmeno la mia nuova facciata da ingrata riuscii a non notare la sua espressione supplicante.
Sospirai e le rivolsi un cenno, invitandola a proseguire:
 
<< Okay... ci ho girato troppo intorno. Il punto è questo: sono giorni interi che penso a una soluzione per poterti stare accanto anche a distanza, ma la verità è che è impossibile. Non potrò mai aiutarti concretamente, quando sarò dall'altra parte del mondo >>
 
Roteai gli occhi, perché non vedevo veramente l'ora di mettere piede sulla sabbia calda, e lei era sempre stata estremamente discorsiva.
 
<< Perciò, alla fine, ho concluso che l'unica strada possibile è una sola. Ovvero... beh... ovvero... >>
 
<< … Ovvero? >>, la esortai sempre più esasperata.
 
Prese un respiro, e pronunciò quelle parole con estrema cautela. Come se fossero la chiave d'accesso a una bomba ad orologeria:
 
<< Ovvero che... tu, parta con me >>
 
Sembrava più una domanda a se stessa che a me. Ma aveva fatto bene, anzi benissimo, a procedere con cautela. Perché la bomba iniziò a tentennare.
Rimasi con la bocca semi aperta per qualche secondo, cercando di capire se fosse seria o meno.
 
<< … R-ripeti scusa? >>, balbettai spaesata.
 
<< Rifletti un attimo >>, riprese, fastidiosamente a gesticolare, esponendomi i suoi assurdi piani: << A scuola non vuoi tornarci, giusto? Vuoi prenderti il tuo tempo? Là potrai startene in pace quanto vuoi. Io lavoro massimo otto ore al giorno, e tu sarai libera di girovagare per la città o startene in casa in totale tranquillità... a tuo completo piacimento! E col passare del tempo, vedremo come si evolverà la situazione e decideremo cosa fare... >>, parlava senza sosta. Senza neanche fermarsi per respirare, tanto pareva eccitata da tutte quelle prospettive: << … Se chiamo adesso il proprietario del condominio, posso spiegargli la situazione, e sono sicura che mi troverà un altro appartamento, con due camere, nello stesso edificio. L'affitto sarà un po' più alto, ma se faccio qualche straordinario in più, potremmo... >>
 
<< Puoi frenare un attimo la lingua! >>, sbottai agitando le mani in aria.

Mia parve confusa dall'improvvisa interruzione del suo progetto perfetto, e mi guardò negli occhi preparandosi a qualunque reazione.
 
<< Mi dispiace rovinare la tua prospettiva delle adorate sorelline felici, ma non accadrà mai! Non mi trasferirò all'altro capo del mondo, solo perché la tua coscienza ti impedisce di fare sonni tranquilli la notte >>
 
Non capii subito quanto quella frase l'avesse colpita, ma giurai di vedere i suoi occhi farsi più lucidi. Per la terza volta, nel giro di pochi minuti, avevo preso le sue buone intenzioni, per rigettargliele addosso, come uno schiaffo in pieno volto. Quello che, invece, mi sarei meritata io.
Ma lei diede l'ennesima dimostrazione di forza, e non permise a quelle lacrime salate di rigarle le guance. Il suo tono però, la tradì, perché divenne molto più basso e roco.
 
<< Ti ho detto che non riguarda me, Maya >>, scosse la testa lentamente, a conferma delle sue parole: << Ho pensato che fosse la soluzione più adatta per... entrambe. >>
 
<< Oh, tu hai pensato a entrambe!? Perché a me sembri già molto convinta. Dì pure “ho organizzato senza chiedere il tuo parere” >>
 
<< Non ho organizzato niente! >>, alzò bruscamente la voce, mentre cercava, visibilmente, di moderarsi: << Non te lo sto imponendo! Te lo sto proponendo... >>
 
La frustrazione, ben visibile sul suo volto, fu troppo. Non ressi più a quella discussione e la troncai di netto.
 
<< Beh, proposta rifiutata! Ritenta, magari avrai più fortuna >>
 
Glielo sputai in faccia come veleno, prima di raggiungere la porta d'ingresso con passo deciso e senza voltarmi.
Poggiai la mano sulla maniglia, e nel varcare la soglia di casa, vidi Mia spuntare frettolosamente, al di là del muro divisorio tra il salotto e il corridoio. Mi aveva rincorso, per poi frenare bruscamente. Mise una mano aperta davanti a se, come a volersi proteggere o a supplicarmi di lasciarle dire un ultima frase:
 
<< C'è una buona offerta per dei biglietti su un volo nei primi giorni di settembre . Mi prometti che almeno ci penserai? >>
 
La fulminai con lo sguardo, impugnando la maniglia ancora più forte.
 
<< Io vado in spiaggia >>, e richiusi, con un tonfo secco, la porta dietro di me.
 
Il tempo, fuori, sembrò essersi adeguato al mio umore, dato che uno strato di nuvole grigie iniziò a coprire il cielo. Non faceva particolarmente freddo, ma era percepibile lo svolgimento al termine della stagione. Il caldo afoso estivo non c'era già più, e in quella giornata particolarmente spenta, mi vennero quasi i brividi. Il tessuto della mia tuta, grigia come il cielo, era molto traspirante, per cui mi coprii con la leggera felpa abbinata. Tirai su il cappuccio e strinsi forte le braccia al petto. Camminai a sguardo basso, per non incrociare lo sguardo di nessun passante.
La casa di mia nonna si trovava in un bel quartiere. Elegante e colorato. Ma la cosa che ho sempre adorato, è la vicinanza con il mare. Pochi isolati a piedi, e ti ritrovi di fronte all'immensità del Pacifico, che nelle giornate di sole, brilla come se fosse un pavimento di cristallo.
Quella mattina, però, non feci la solita strada. Sapevo bene che, nonostante il brutto tempo, non sarebbero mancati i turisti, perché la spiaggia di San Francisco è troppo bella. Sole o non sole, pioggia o nuvole... vorresti restare lì e non andartene più.
Ed ecco il primo valido motivo per non partire, pensai camminando direttamente verso la strada per gli scogli, senza dover passare sotto gli sguardi dei bagnanti.
Quello si che era il mio posto preferito. Non che fosse privo di turisti; pullulava anzi di tuffatori provetti o di donne in cerca di un po' di pace per abbronzarsi, ma proseguendo su quegli enormi massi, trovavo sempre un posticino leggermente isolato, in cui potermi abbandonare a me stessa.
Quella mattina però camminai più del solito. Scansai tutte le persone, saltando agilmente da un masso all'altro. Camminai un sacco, e nel frattempo rimuginavo.
 
Che cosa voleva il mondo da me? Non era già abbastanza quello che mi era successo? Perché improvvisamente dovevo addossarmi la responsabilità della vita di Mia!
Non le avevo mai, mai chiesto di non partire, e all'improvviso sembrava che l'avesse fatto per richiesta mia. Beh, che se ne tornasse pure nella sua amata Europa, e tanti saluti a tutti.
Perché mai avrei dovuto seguirla? San Francisco era la mia città, il posto in cui sono nata e cresciuta. La facoltà di scegliere di andarmene, avrei dovuto averla quando e come mi pareva. Non certo perché la poverina aveva crisi di coscienza.
 
Mi fermai quando mi resi conto di essere in un luogo mai visto. Dietro di me potevo ancora vedere il tracciato rettilineo segnato dalle rocce, ma non mi ero mai spinta così oltre.
Osservai intorno: non c'era l'ombra di un granello di sabbia. Davanti a me, solo una fetta di Pacifico, la più calma che avessi mai visto; le onde la smuovevano appena. Alla mia destra, in lontananza, una coltre di abeti si ergeva in una fila ben delineata. Cavolo, ero arrivata fino al confine con la vegetazione. Non mi era sembrato di aver fatto tanta strada.
Mi tolsi le converse nere, abbassai il cappuccio, e andai a sedermi sul limite dello scoglio. Se non fosse stato per l'orizzonte sconfinato dell'acqua, avrei giurato di trovarmi di fronte a un lago.
Mi presi le ginocchia tra le braccia, e poggiai la testa sopra. Una bambina capricciosa, ecco come mi definirei oggi. Ma in quel momento mi sembrava di essere nel pieno delle mie convinzioni:
 
Non se ne parlava proprio. Ma come si permetteva? Considerarmi un pacco postale da poter tranquillamente spedire su un aereo. No. Categoricamente.
Sarei rimasta in quella città, con dei parenti incapaci di approcciarsi a me.
Mi resi conto, da sola, quanto quel pensiero suonasse ridicolo, e credo che in quel momento, la mia convinzione iniziò a vacillare. Ma non del tutto, tant'è che cercai mentalmente un'altra valida motivazione a mio favore.
Ho i miei amici qua!, e passai in rassegna ai loro volti: più che amico, Adam era diventato il mio tassista. Ma lui non si lamentava, e io lo lasciavo fare. Nessuno di loro si era minimamente interessato a chiedermi perché avessi lasciato la scuola. E mi venne in mente che, a breve, loro avrebbero ricominciato l'anno. Io avrei avuto tante altre serate libere per uscire a mio piacimento... loro no.
 
Oltre ad Adam, c'era Linda, che si sarebbe abbassata le mutande per qualsiasi essere maschile e dotato di polmoni. Jessica e Rachel; la prima non l'avevo mai sopportata. Sputava sentenze in ogni frase che pronunciava, mentre Rachel era a posto. Un po' solitaria, e una fumatrice compulsiva, ma tutto sommato, tranquilla. Logan non usciva spesso con noi, e non lo avevo ancora ben in quadrato, ma suo cugino Matt - che ci deliziava invece della sua compagnia -, avrebbe venduto sua madre per un po' di birra. Credo che avesse pure iniziato a farsi. Il ragazzo di Jessica, Aaron, era un santo. Come facesse a sopportarla, rimaneva, e rimane tutt'ora, un grande mistero per me.
Bel quadretto di amicizie Maya,sembra proprio invitante. Sai scegliertele bene le persone, pensai auto commiserandomi. No che non sapevo sceglierle. Era sempre stato così. Io, le persone disastrate me le andavo proprio a cercare, per buttarmi a capofitto nei loro disastri. Salvo poi, rendermene conto, tempo dopo, e chiudere i rapporti. Ragione per cui, le mie amicizie durature erano pari a zero.
Per una frazione di secondo, con lo sguardo fisso sul mare, visualizzai due lati opposti del mio futuro nei mesi successivi:
Nel primo, ero seduta sul divano di mia nonna, guardando annoiata la televisione, mentre fuori dalla finestra, la stagione invernale incombeva.
Nel secondo, camminavo nella metropoli di una città sconosciuta, con le cuffie nelle orecchie, ma senza sguardo basso. Mentre persone sconosciute - straniere -, mi passavano di fianco senza degnarmi di uno sguardo, perché lì, in quella città lontana, nessuno conosceva la mia storia.
Improvvisamente, la prospettiva del viaggio, non mi sembrò più così sgradevole.
 
Alzai la testa e osservai una singola goccia d'acqua cadere dal cielo, e poi andare confondersi col resto dell'oceano.
Non era poi così pessima, come idea. E forse avevo esagerato, inveendo contro Mia in quella maniera. Forse avrei dovuto aspettare, a carpire qualche informazione in più?
Quando una seconda goccia mi bagnò la punta del naso, decisi di ripercorrere la strada, prima di ritrovarmi inondata dalla pioggia. Rimisi velocemente le scarpe, ma stavolta lasciai il cappuccio abbassato.
Capii di aver fatto un sacco di strada, solo quando mi ritrovai a correre a testa bassa per evitare le fredde goccioline. Gli sguardi dei turisti mi si piantarono addosso, dato che i miei sgargianti capelli rossi erano, stavolta, ben visibili, ma io li sorpassai il più veloce possibile.
L'unica pensiero che avevo in testa, era quanto la proposta di mia sorella iniziasse a risultarmi sempre meno ridicola. Come se ogni piccolo vantaggio, andasse a posizionarsi proprio sopra i punti sfavorevoli, schiacciandoli completamente.
Arrivai al primo isolato, e camminai a passo svelto, riparandomi sotto le varie tettoie, mentre la pioggia prese un ritmo più regolare.
 
Era davvero così? Ne avrei ricavato dei vantaggi a partire?
Non avendo mai visitato quel paese, non sapevo trovare delle risposte concrete: magari la città non mi sarebbe piaciuta, il tempo sarebbe stato costantemente orribile e il cibo pessimo... ma la prospettiva di diventare una minuscola goccia, in oceano di gente sconosciuta, mi attraeva da morire.
Là, nessuno mi conosceva. Là, nessuno sapeva niente del mio passato. Là sarei stata una dei tanti, non una ragazzina sfortunata. Là, il progetto di essere una Maya estranea, sembrava mille volte più realizzabile. Paura ne avevo, e anche parecchia. Si trattava comunque di oltrepassare il mio amato oceano Pacifico. Sarei potuta tornare a casa a mio piacimento? Ne dubitavo. Mia doveva comunque lavorare e, mi pareva, le mancassero ancora parecchie ore di stage.
La mancanza di certezze, improvvisamente, mi opprimeva. Era fastidioso dover ragionare sulla base di così poche informazioni.
Rientrai in casa in tutta fretta, togliendomi subito quella felpa bagnata di dosso. Dalla cucina, il profumo del pranzo sui fornelli, invase le mie narici, e sentii i passi di mia nonna, indaffarata ad apparecchiare.
Non mi preoccupai nemmeno di salutarla; raggiunsi direttamente quella che era ormai diventata la mia camera da letto, nello studio del nonno.
Aprii piano la porta e guardai Mia, seduta di fronte alla scrivania, che spostò lo sguardo dal computer a me.
 
<< Quando sarebbe questo volo? >>




 
 
 
 
Note della (non) autrice:
Salve a tutti! Anche per questo capitolo vi lascio il messaggio originale dell'autrice (su sua richiesta, perché vuole che venga visto da tutti i suoi lettori).

"Ce l'ho fatta! Ce l'ho finalmente fatta! Voi non potete capire quanto sia stata dietro a questo capitolo. Credo di averci messe più impegno di qualsiasi altra cosa abbia mai scritto. Con questo non voglio dire che sia un capolavoro, ma mi sento abbastanza fiera, soprattutto della lunghezza.
Adesso si che entriamo ufficialmente nel vivo della trama, e spero di cavalcare quest'onda nella miglior maniera possibile.
 
Non volevo affermarlo con certezza prima di esserne sicura, ma credo proprio, che mi porrò l'obiettivo di pubblicare almeno un capitolo a settimana.
Mi sarebbe piaciuto anche annunciarvi un giorno fisso di pubblicazione (infatti avrei voluto far uscire questo capitolo lunedì), ma mi rendo conto che i miei impegni, AL MOMENTO, non me lo consentono.
Tenete conto che sono al quinto anno, la maturità incombe, e i professori mi remano contro. Quindi cercherò di fare del mio meglio, ma non posso promettervi niente. Tengo molto a questa storia, e rimarrei delusa da me stessa se dovesse restare nei meandri del sito... ma cercate pure di capirmi, se non sarà la mia priorità assoluta.
Spero vivamente di riuscire a trovare un organizzazione tale, da poter rispettare una pubblicazione settimanale fissata (Ogni lunedì o ogni martedì, ecc...), ma per il momento, non mi è assolutamente possibile. Quindi cerchiamo di mantenere una promessa alla volta...
 
I ringraziamenti sono d'obbligo, perché il vostro supporto è una spinta enorme a proseguire. Siete preziosissimi!"

PS: Vi chiedo scusa già da ora se, per caso, mi fossi dimenticata di modificare qualche nome... non vi fate scrupoli a farmelo notare!
Al prossimo capitolo, 
baci!
 
- Seryka

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3578275