Somewhere only we know

di BrokebackGotUsGood
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Bonjour :3
Dunque...come avete letto nell'intro, questa storia è ispirata a "Good Will Hunting" (come si capirà soprattutto nei capitoli successivi), quindi chi ha visto il film può farsi più o meno un'idea di come verrà sviluppata questa storia :3
Se non l'avete visto, invece, ve lo consiglio, non solo perché potreste comprendere maggiormente la ff, ma anche perché sono sicura che lo adorereste a partire dal fatto che c'è Matt Damon :)
Quindi questo è il prologo, in cui non approfondisco molto la situazione di Sherlock, poiché sarà Sherlock stesso a farlo più avanti, e... niente, let's get started ;)



 

Prologo



 

«Ho tutto perfettamente sotto controllo. Gradirei che la smettessi di assillarmi con le tue indesiderate e inutili opinioni»
«I miei sono solo consigli, Sherlock»
«Beh, inutili e indesiderati rimangono. Non ne ho bisogno»
«Non è l'impressione che abbiamo io e mamma»
«Non dovevi occuparti delle imminenti elezioni coreane? La tua presenza qui comincia a farsi piuttosto...ingombrante, direi».
Sherlock gli diede le spalle, facendo volteggiare teatralmente la lunga e raffinata vestaglia di seta blu, e afferrò il violino senza la delicatezza che solitamente gli riservava, per poi appoggiarvi sopra il mento e cominciare a strofinare energicamente l'archetto sulle corde, emettendo quei suoni striduli che di solito invogliavano suo fratello a lasciare l'appartamento.
Ma non quella volta.
Quella volta Mycroft estrasse la sua agenda dalla tasca dell'elegante giacca grigia e iniziò a sfogliarla con aria apparentemente impassibile, tradita soltanto dalla lieve nota di disapprovazione che trasparve dalla sua voce.
«Lunedì scorso un uomo di nome Garret Wilson ti ha denunciato per stalking».
Sherlock si interruppe bruscamente, sospirando con più che percettibile irritazione.
«L'ho semplicemente seguito fino a quella che, secondo le mie deduzioni ovviamente corrette, era la scena del crimine. Avrei potuto dimostrare la sua furia omicida, se solo la polizia non fosse stata così idiota da credergli».
Il maggiore degli Holmes non lo ascoltò e andò avanti a leggere. «...Giovedì sei stato arrestato per oltraggio a pubblico ufficiale e scagionato solo grazie all'intervento dell'ispettore Lestrade...»
«Quel poliziotto se lo è meritato»
«...Nei giorni successivi hai mostrato un atteggiamento parecchio aggressivo (e non solo verbalmente) nei confronti di chiunque ti rivolgesse la parola, Molly Hooper del St. Bartholomew's Hospital mi ha riferito di averti sorpreso più volte a frustare i cadaveri dell'obitorio e infine, cosa che riterrei decisamente motivo di maggiore preoccupazione, sei stato a un passo dall'overdose per la seconda volta in due settimane. Secondo la mia inutile e indesiderata opinione, fratellino, non hai per niente tutto sotto controllo».
Le sue labbra si distesero in uno dei sorrisi fittiziamente benevoli che avevano la capacità di irritare Sherlock quasi quanto la disarmante incompetenza di Scotland Yard.
«Non cambierò idea, Mycroft» disse il minore con voce bassa e grave, continuando a dargli le spalle e guardando la vita londinese scorrere fuori dalla finestra del salotto. «Non vedrò uno psicologo. I nostri genitori ci hanno provato innumerevoli volte nel corso della mia adolescenza e non credo abbiano mai ottenuto risultati soddisfacenti, o mi sbaglio?».
Finalmente si voltò per guardare Mycroft negli occhi, ricambiando il suo sorriso con una certa aria di sfida.
A quanto pareva le radici della convinzione che lui avesse bisogno della terapia non erano ancora state estirpate, e ora si erano insediate anche nella mente di suo fratello.
«Non ho nessuna intenzione», continuò, «di rivolgermi ad uno di quegli incompetenti che hanno sempre preteso di etichettarmi come psicopatico basandosi semplicemente sul mio interesse per gli omicidi seriali».
Mycroft sospirò, disegnando delle linee sul tappeto con il suo inseparabile ombrello. «Questa volta è diverso, Sherlock, parliamo di una situazione ben più grave di un'innata passione per il mondo del crimine. Si tratta non solo delle tue bizzarre abitudini, ma anche del tuo rapporto con il mondo che ti circonda e, di conseguenza, con le... sostanze di cui fai uso»
«Di conseguenza?» chiese Sherlock con astio e stizza.
Calò un istante di silenzio teso, durante il quale i due fratelli mantennero gli sguardi fissi l'uno sull'altro; quello del minore si assottigliò, diventando tagliente e penetrante come una lama.
«Pensi che io mi droghi perché mi sento solo? È questo che stai cercando di dire? Oh, Dio, e la gente pensa che sia tu quello intelligente».
L'altro non si lasciò toccare da quel commento e inclinò leggermente la testa di lato, riprendendo a giocherellare con l'ombrello.
«Te lo ricordi...Barbarossa?».
Di nuovo silenzio.
L'espressione dura e fredda di Sherlock sembrò vacillare per un momento, complice il leggero tremore del labbro inferiore e il velo di malinconia che ombrò i suoi occhi chiari. «Non sono più un bambino, Mycroft»
«No, certo che no. Eppure necessiti ancora di qualcuno che ti tenga d'occhio».
Quella conversazione stava imboccando sentieri pericolosi e Mycroft ne era perfettamente consapevole; per questo, una volta raggiunto il suo scopo di indebolire le difese del fratello con quello spiacevole ricordo, decise che era arrivato il momento di passare all'azione.
«Nell'arco di cinque giorni, un serial killer la cui identità non è ancora nota ha ucciso tre membri dell'MI6. Non è mai stata ritrovata alcuna arma del delitto, l'assassino è magistralmente riuscito a passare inosservato manomettendo i sistemi di sicurezza e sembra non aver lasciato tracce, se non un simbolo di riconoscimento sui cadaveri simile ad una lettera greca. Non hai un caso degno di nota da un bel po' di tempo, se non erro».
Sherlock serrò la mascella e, dopo avergli lanciato un'ultima occhiata di disprezzo, prese a girovagare nervosamente per il soggiorno.
«Vai avanti»
«Ti fornirò ulteriori dettagli...se accetterai di fare delle sedute di sostegno psicologico»
«Questo è uno sporco ricatto!»
«È un patto, Sherlock. Prendere o lasciare».
Era in momenti come quelli che Mycroft diventava particolarmente insopportabile, tuttavia Sherlock pensò di prendere in considerazione l'idea.
Sapeva che non sarebbe servito a nulla e che la diagnosi sarebbe stata sempre e inevitabilmente la stessa (rifiuto categorico di contatto umano se non per necessità, propensione ad assumere comportamenti aggressivi, inusuale interesse per enigmatici delitti, abitudini inquietanti inerenti la sperimentazione sui cadaveri: psicopatico), ma pensò che spaventare un altro psicologo con la sua innata capacità di ricostruire la vita di una persona da un dettaglio apparentemente insignificante avrebbe potuto rivelarsi un gradito divertimento.
Sarebbe stato rapido e indolore e in fondo, per un caso così allettante, ne sarebbe valsa la pena.
Fece un sorrisetto sghembo, uno di quelli che non promettevano nulla di buono, e si fermò davanti al fratello maggiore, che attendeva pazientemente una risposta.
«Affare fatto».

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Scusate per averci messo così tanto :c
In questo capitolo (che è stato un vero e proprio parto) comincia a capirsi sul serio che la storia è ispirata a Good Will Hunting :3 Ho inserito molte scene ispirate a quelle del film e mi sono permessa di rubare anche alcuni dialoghi (come farò ancora nei capitoli successivi). Vi lascio in fondo i link delle scene da cui ho preso spunto ;)
Spero tanto che sia worth the wait, buona lettura e grazie infinite per le recensioni già ricevute! <3


 


Capitolo I




 

«Si rilassi, signor Holmes. Lei ora è avvolto da una rassicurante e calda nube di beato torpore e sta facendo un lungo viaggio indietro nel tempo, fino a penetrare nel cuore pulsante della sua infanzia. Faccia un lento e profondo respiro e si concentri. Ora mi dica: dove si trova?».
La voce baritonale del dottor Richardson rimbombò tra le pareti bianche del piccolo studio, mentre Mycroft, seduto compostamente su una poltroncina in pelle dietro di lui, osservava la scena con aria annoiata.
«S-sono...sono in un parco» rispose Sherlock titubante, sdraiato ad occhi chiusi su un divano dall'aspetto non particolarmente comodo e rivestito di un tessuto dalla fantasia orribile.
«Com'è questo parco?» proseguì lo psicoterapeuta.
«È...è grande. L'erba è ben curata, ci sono delle altalene, uno stagno e una fontana».
Mycroft aggrottò lievemente la fronte sentendo una nota di inquietudine nella voce del fratello minore.
«C'è qualcun altro, oltre a lei?»
«È deserto, sono da solo...No, aspetti, si sta avvicinando qualcuno. Due persone»
«Le riconosce?».
Sherlock strizzò le palpebre in quello che sembrò uno sforzo di concentrazione, per poi aprire la bocca con stupore.
«Una delle due persone è lei, dottor Richardson!».
L'interessato si voltò verso il maggiore degli Holmes, a cui lanciò un'occhiata stranita, scuotendo la testa.
L'altro alzò solennemente un sopracciglio.
«Io? E chi c'è con me?»
«Una donna. Ha i capelli biondi raccolti in una coda di cavallo e indossa vestiti sportivi. La sta tenendo per mano, sembrate molto intimi, ma non è sua moglie, la quale compare nella bella fotografia incorniciata sulla sua scrivania; no, direi che assomiglia in maniera piuttosto impressionante alla sua collega Olivia Carter».
A quel punto il tono inquieto e spaurito era decisamente scomparso, rimpiazzato dalla solita sciolta e arrogante parlantina; Mycroft, a cui il gioco del minore era ormai piuttosto chiaro, alzò gli occhi al cielo con un lieve sospiro esasperato e si alzò dalla poltroncina, avendo ormai capito che la seduta poteva considerarsi conclusa.
Sherlock aprì gli occhi e si tirò su con un agile balzo sotto lo sguardo sconcertato del povero dottor Richardson, per poi fare il giro del divano con un sorrisino soddisfatto.
«S-signor Holmes, senta...»
«Le consiglio di dire la verità a sua moglie e porre fine al suo matrimonio in maniera pacifica, finché è in tempo»
«Non ho idea di che cosa stia parlando!» esclamò con indignazione, rivolgendosi poi a Mycroft. «Sto sprecando il mio tempo, qui»
«Ce ne andiamo, signor Richardson. La prego di scusarmi per l'inconveniente».
Sherlock prese le chiavi della macchina dell'analista dalla scrivania e cominciò a farle penzolare avanti e indietro davanti allo sguardo ammonitore del fratello. 
«Guardami attentamente...» disse Sherlock con voce scherzosamente ipnotica, imitando lo psicoterapeuta nel chiaro tentativo di parodizzarlo.
«Sherlock»
«Non mi serve la terapia...».
Mycroft gli tolse le chiavi di mano più bruscamente di quanto ci si potesse aspettare da lui, rimettendole al loro posto e incamminandosi poi verso l'uscita dello studio, seguito da uno Sherlock piuttosto divertito e soddisfatto di se stesso.


 

***

 

Vennero contattati altri quattro rinomati analisti, ma ogni tentativo di far collaborare Sherlock in modo serio o quantomeno soddisfacente andò miseramente in fumo: la pazienza e l'autocontrollo di tutti e quattro vennero meno a causa delle corrette e per questo indesiderate deduzioni del minore degli Holmes, che, d'altro canto, trovava l'intera faccenda assai divertente.
Uno era diventato da poco dipendente dal gioco d'azzardo, un altro aveva parecchi problemi irrisolti coi propri genitori, un altro ancora frequentava gente poco raccomandabile in un giro di marijuana e l'ultimo aveva evidentemente finito col detestare la propria professione: tutti questi dettagli sulla vita privata degli psicoterapeuti erano venuti a galla in nientemeno che un quarto d'ora di seduta, oltre cui nessuno di loro aveva osato andare.
A quel punto Mycroft, non sapendo più dove sbattere la testa, aveva deciso di fare quattro chiacchiere con il suo cocciutissimo fratellino: una fredda mattina piovosa, armato di una discreta dose di pacatezza, lo aveva invitato a prendere una tazza di té nel bar accanto al 221B di Baker Street.
C'erano solo altri sei clienti oltre a loro; la pioggia cadeva incessante e, in contrasto all'atmosfera resa buia e cupa dall'assenza di luci accese, nell'aria aleggiava un leggero e piacevole odore di caffé e cioccolata calda.
«Avevamo fatto un patto, Sherlock» disse Mycroft con rimprovero, le mani intrecciate tra loro sul tavolo sgombro se non per le due tazze di té e un giornale stropicciato.
Sherlock si lasciò andare contro lo schienale della sedia, prendendo un piccolo sorso dalla sua tazza e guardando il suo riflesso nello specchio sulla parete di fronte a lui.
«Sì, e io l'ho rispettato. Non ho forse sopportato ben cinque sedute di sostegno psicologico?»
«No, tu hai volontariamente indotto gli analisti a rinunciare alle suddette sedute molto prima che esse terminassero. Lo scopo non era mettere in mostra le tue doti intellettive, fratellino»
«Erano tutti dei noiosi e perfetti idioti. Prendi il signor Richardson, ad esempio: più che uno psicologo si credeva un poeta. "Una rassicurante e calda nube di beato torpore"? Per favore!»
«Sherlock...»
«Se dobbiamo fare un patto, voglio poter stabilire anche le mie condizioni. E in questo caso ho solo una richiesta. Pensi di essere in grado di soddisfarla?».
Mycroft inclinò leggermente il capo di lato, ricambiando lo sguardo di sfida di Sherlock, che riprese a bere il suo té con disinvoltura e compostezza.
Si inumidì le labbra e fece un sorrisino tirato, consapevole di non avere altra scelta. «Sentiamo».
Il minore posò la tazza ormai quasi vuota sul tavolo e congiunse i polpastrelli sotto il mento. «Se vuoi che io mi sottoponga ad un' analisi assolutamente inutile in cambio di indizi sugli omicidi dell'MI6 lo farò, ma è ovvio che dovrai trovare qualcuno di effettivamente competente, e il fatto che gli analisti da te contattati non siano stati in grado di gestirmi per più di quindici minuti li esclude automaticamente da questa categoria. Non mi soprenderebbe se mi avessero già dato dello psicopatico senza nemmeno essere andati in fondo a quelli che tu credi siano i miei problemi».
Mycroft fece per ribattere, ma Sherlock, prevedendo una paternale su come i suoi si potessero considerare eccome dei problemi, non glielo lasciò fare.
«Trova qualcuno che sappia svolgere il proprio lavoro in maniera adeguata e che non sia noioso. A quel punto potremo riparlarne».
Il maggiore lo guardò in silenzio, con un'idea che già faceva capolino da un angolo della sua mente: un'idea che, doveva ammetterlo, gli faceva storcere il naso, ma che avrebbe potuto rivelarsi una carta vincente.
«Qualcuno ci sarebbe».
Sherlock sbatté le palpebre una volta. «Chi?»
«Un professore di psicologia della Quintin Kynaston. È...» Mycroft esitò, cercando una definizione adeguata per quell'uomo con cui non aveva avuti contatti negli ultimi quattro anni. «...Una mia vecchia conoscenza»
«Oh, vuoi dire una persona comune che hai intenzionalmente coinvolto nei tuoi affari di Stato al fine di raggiungere i tuoi scopi, sconvolgendogli inevitabilmente l'esistenza in maniera pressoché irreversibile?».
Mycroft sospirò, scuotendo lievemente la testa e sollevando le sopracciglia chiare. «Io non ho...non avevo...»
«D'accordo, ti concedo di risparmiarmi i dettagli. Un professore...Ha mai praticato delle sedute?»
«Non che io sappia, ma posso assicurarti che fa al caso nostro»
«E cosa ti dice che accetterà di farti questo...favore?»
«Lo convincerò».
I due fratelli si guardarono per qualche istante, non accorgendosi nemmeno che la pioggia aveva smesso di cadere.
Sherlock sollevò l'angolo della bocca in un sorrisino che diceva "sono curioso di vedere come farai", per poi mandare giù gli ultimi sorsi del té diventato ormai tiepido.


 

***

 

«...Perché la nostra società è avvelenata dal pregiudizio sin dall'alba dei tempi? Cosa ci spinge a criticare, giudicare, deridere o disprezzare qualcosa con cui non abbiamo mai avuto realmente a che fare e su cui, di conseguenza, non abbiamo elementi sufficienti per trarre delle conclusioni affidabili? Ma la domanda più importante è: cosa possiamo fare per combatterlo?».
Nell'aula calò il silenzio, disturbato solo dal tamburellare di qualche matita o di qualche piede; una ragazza prese a mangiucchiarsi una ciocca di capelli, un ragazzo ad accartocciare dei foglietti di carta.
«Parker, vuoi essere così gentile da condividere una tua opinione?».
Lo studente interpellato sobbalzò leggermente sulla sedia, chiudendo di fretta il quaderno su cui stava scarabocchiando. «B-beh, ehm...penso che l'uomo abbia sempre avuto paura di ciò che non conosce» balbettò, annuendo poi a se stesso come per convincersi che la sua risposta non fosse poi così male. 
«Molto bene, sono d'accordo. Spesso è la paura dell'ignoto che ci porta a formulare pensieri infondati. Qualcun altro? Collins?».
Matthew Collins non fece in tempo a rispondere, interrotto dalla lenta apertura della porta dell'aula.
Il professore si voltò con un sorriso cordiale, immaginando fosse un bidello venuto ad informarlo di un'altra comunicazione da parte del preside (sarebbe stata la terza, quel giorno), ma il sorriso svanì di colpo dalle sue labbra quando vide la figura che gli si presentò davanti.
Un uomo alto dall'abbigliamento impeccabile, accompagnato dal suo inseparabile ombrello, lo osservava con il suo sguardo di ghiaccio, una gamba elegantemente piegata dietro l'altra e il mento leggermente sollevato che gli conferiva un'aria di potere e superiorità.
John Watson si raggelò sul posto.
Serrò le labbra e deglutì, un'opprimente sensazione di disagio ad un improvviso riaffiorare di spiacevoli ricordi; gli studenti, a cui quella reazione non passò inosservata, puntarono tutti gli occhi su quell'ospite inatteso.
Il professore, ancora pietrificato, boccheggiò alla ricerca di qualcosa da dire. «S-signor Holmes» fu tutto ciò che uscì dalle sue labbra.
«Professor Watson» rispose Mycroft con un cenno del capo.
Dio, non lo vedeva da almeno quattro anni. 
Quattro anni in cui aveva cercato di dimenticare, di andare avanti, di scacciare le immagini di un passato le cui ferite bruciavano ancora. Cosa aveva spinto quell'uomo a cercarlo di nuovo?  
Se solo avesse avuto la faccia tosta di pretendere un suo coinvolgimento in uno dei suoi sporchi affari, John avrebbe fatto un uso alquanto inappropriato di quell'elegante ombrello, questo era sicuro.
Deglutì di nuovo, sentendo la salivazione quasi azzerata, e riuscì a voltarsi nuovamente verso i ragazzi, tenendo però lo sguardo basso e sentendo la necessità di appoggiarsi alla cattedra, i palmi sulla superficie liscia e lucida.
«Per oggi abbiamo finito, potete andare» disse con il tono più normale che gli riuscì. «La prossima volta portate il volume A. Parleremo dei disturbi psicosomatici e delle loro cause».
Mycroft si scostò dalla porta per permettere agli studenti di uscire dalla classe e, una volta che essi si furono affollati in corridoio diretti verso l'ingresso principale, si avvicinò con passo lento e studiato al professor Watson, che si sollevò dalla cattedra e, quasi non rendendosene conto, si mise sull'attenti, senza nemmeno provare a nascondere il turbamento sul suo volto.
Mycroft lo squadrò da capo a piedi. «A proposito di disturbi psicosomatici», disse con un irritante sorrisetto, «come va la gamba?».
John ignorò volutamente la domanda, cosa che per il politico equivalse alla più chiara delle risposte (la zoppia, seppur più leggera –non c'era traccia del bastone– non era affatto passata, il che significava che l'insoddisfazione per la propria vita era tornata a fargli visita) e ne formulò una nuova. «Cosa ci fa qui?»
«Immagino sia sorpreso di rivedermi dopo tutto questo tempo»
«Non piacevolmente sorpreso».
Mycroft inarcó un sopracciglio, per poi far roteare l'ombrello e prendere a passeggiare tra i banchi, guardando con disinteresse le cartine geografiche appese alle pareti. 
«Allora? Cosa vuole?»
«Sono solo venuto a chiederle un piccolo favore».
John assottigliò lo sguardo e strinse i pugni in un riflesso spontaneo, aprendo la bocca con sconcerto e stizza. «Un favore? Vuole scherzare! Devo ricordarle cosa è successo l'ultima volta che le ho fatto un favore?» disse con rabbia.
Il politico sospirò. «Non ha niente a che fare con quella storia, John, né con faccende simili. Non ci sono in gioco delle vite...O meglio, credo che lei potrebbe contribuire a salvarne una».
Riuscì quasi a vedere un bagliore di risentimento attraversare gli occhi del professore, che tuttavia tornò ad ascoltarlo.
«Riguarda mio fratello Sherlock. Ha sempre avuto un carattere difficile e ha sempre mantenuto un determinato atteggiamento nei confronti delle persone che lo circondano, tant'è che il suo nome viene ormai automaticamente associato all'arroganza, alla rudezza, alla presunzione. Ha una mente brillante, ma al posto di sfruttarla per scopi realmente utili preferisce utilizzarla per...risolvere crimini, soprattutto omicidi. O per i suoi insulsi esperimenti, i quali molte volte richiedono l'uso di parti umane che, ahimè, conserva nel frigorifero insieme al minimo necessario di cui si nutre. Come se non bastasse, non sono rari i casi in cui ha messo a repentaglio la sua vita con la droga».
John ascoltava con le braccia incrociate al petto e un'espressione indecifrabile persino per il maggiore degli Holmes.
«Non ha mai avuto amici o qualcuno che si prendesse cura di lui, non li ha mai voluti. Perciò ho ritenuto necessario che fosse un esperto a...farlo ragionare. Tuttavia, a causa di quelle sue caratteristiche che le ho elencato poco fa, nessuno degli analisti da me contattati è riuscito a concludere la prima seduta».
Il professore capì immediatamente dove Mycroft volesse arrivare e fece una breve risata sarcastica, scuotendo la testa con incredulità. «E pensa che io invece potrei sbloccare la situazione?».
Il politico fece un lieve sorriso, avvicinandosi di qualche passo. «Non lo penso. Ne sono certo»
«Ah sì? E come mai?»
«Lei ha carattere, John. È stato un soldato, sa prendere decisioni con ammirabile fermezza e non si lascia mettere i piedi in testa da nessuno, e questo ho potuto verificarlo di persona, in passato. Se c'è qualcuno in grado di tenere testa a Sherlock, quello è lei».
John arricciò le labbra e, mani sui fianchi, abbassò lo sguardo sulle opache piastrelle marroni del pavimento. «Senta...Non credo di voler avere di nuovo a che fare con uno di voi. Con un Holmes. E poi io mi limito ad insegnare, non faccio sedute»
«Naturalmente sarei disposto ad offrirle una generosa somma di denaro»
«Oh, certo, per lei ruota tutto attorno a quello...»
«Non finga di non averne bisogno».
Il professore irrigidì la mascella e dovette chiudere gli occhi per un istante per riuscire a mantenere la calma. «Adesso controlla anche i miei registri bancari?» chiese con voce piatta, dosando il respiro.
Mycroft sollevò le sopracciglia. «Può decidere lei il numero di sedute, così come il luogo e il giorno in cui effettuarle. Sappia solo che avrei altri mezzi per convincerla»
«Oh, vuole ricattarmi?»
«Spero di non dover arrivare a tanto».
I due uomini si guardarono in silenzio per qualche secondo, l'elettricità che quasi si poteva toccare con mano.
John, non avendo idea di cosa fosse più giusto fare, esitò.
Da una parte la sola idea di entrare in contatto non solo con uno, ma con entrambi gli Holmes, nome che lui aveva cercato di seppellire per via dei ricordi e delle vicende ad esso correlati, gli faceva venire i brividi; dall'altra gli era sembrato che dal volto di quell'uomo di ghiaccio davanti a lui trasparisse un velo di appena visibile ma sincera preoccupazione, il che significava che questo Sherlock doveva essere davvero nei guai (la droga era una prova sufficiente), e se Mycroft si era ritrovato a ricorrere proprio al suo aiuto voleva dire che non aveva effettivamente altra scelta.
Si passò la lingua sull'interno della guancia, indeciso, e inclinó lievemente il capo. 
Se doveva vedere il lato positivo, quella sarebbe potuta essere l'unica opportunità per molto tempo a venire di far succedere qualcosa di diverso nella linea piatta e monotona che era diventata la sua vita da quattro anni a quella parte.
Sperò davvero di non doversi pentire della decisione che stava per prendere, spinto anche da un'inconsapevole e malsana curiosità di conoscere questo strambo fratello.
«Possiamo fare una seduta di prova sabato mattina alle dieci, nel mio ufficio» disse con voce bassa e grave, puntandogli poi l'indice contro come segno d'avvertimento. «Ma deciderò io se continuare. E non voglio i suoi sporchi soldi».
Mycroft sembrò sinceramente sorpreso. «Non le ho ancora detto la cifra»
«Fa lo stesso, non mi interessa».
Il politico lo scrutò attentamente, cercando forse di dedurre il perché di quel rifiuto (anche se poteva benissimo immaginarlo), poi, consapevole del fatto che insistere non sarebbe servito a nulla, sorrise con fare cordiale, porgendogli la mano.
«La ringrazio molto per la collaborazione, John. A sabato mattina».
John lo guardò dritto negli occhi, rivedendo in essi gli eventi che avevano segnato la sua vita in maniera indelebile.
Passò qualche istante prima che si decidesse a ricambiare la stretta.


 

***

 

Non lo avrebbe mai ammesso, ma era curioso di incontrare la persona che Mycroft riteneva adeguata all'arduo compito di gestire un paziente come lui e non vedeva l'ora di verificare la veridicità di quell'ipotesi, probabilmente perché voleva studiare il modo migliore (e più divertente) per metterlo alla prova.
E la curiosità aumentava a causa del fatto che quella persona, tra l'altro, facesse parte dell'oscuro e segreto passato politico di suo fratello e, malgrado avesse dichiarato di non avere la necessità di conoscere i dettagli, non poteva fare a meno di chiedersi in che modo il suo nuovo terapista (anche se non proprio in regola) ne fosse stato coinvolto.
Professor John Hamish Watson.
Il nome, per qualche motivo a lui ignoto, gli ispirava fiducia, ma di certo non si sarebbe lasciato ingannare dalle apparenze: in fondo, da quello che gli aveva detto Mycroft, si era sempre limitato ad insegnare, quindi non era affatto detto che sapesse mettere in pratica le sue conoscenze.
Ma, per quanto detestasse dirlo o anche solo pensarlo, suo fratello non sbagliava mai. O quasi.
Una volta scese alcune rampe di scale e percorsi i lunghi corridoi della Quintin Kynaston, i due fratelli giunsero davanti alla porta vetrata dell'ufficio del professor Watson, situato a poca distanza dall'uscita d'emergenza (interessante); Mycroft bussò due volte e, senza nemmeno aspettare una risposta, fece il suo ingresso nella piccola stanza, trovando John seduto alla sua scrivania, intento a scribacchiare qualcosa su un block notes.
«Buongiorno, John».
L'uomo alzò velocemente il capo e sbatté le palpebre con stupore, poi, quando vide chi era appena entrato, si rilassò e fece un lieve ed educato sorriso.
«Oh, buongiorno, signor Holmes. Puntuale come un orologio svizzero» disse alzandosi dalla sedia, per poi avvicinarglisi e stringergli la mano.
Il suo sguardo si posò poi su Sherlock, di cui notò immediatamente il contrasto tra i riccioli scuri e la pelle candida del viso, sul quale brillavano due iridi azzurrissime e spiccavano due zigomi alti e marcati.
«Lei dev'essere Sherlock Holmes. John Watson, piacere di conoscerla» disse gentilmente, porgendogli la mano.
Sherlock gliela strinse e fece un lieve cenno con il capo, ma non parlò, prendendo invece a scrutarlo con attenzione da capo a piedi (uomo sulla quarantina, piuttosto basso ma dal fisico allenato, capelli biondi in un taglio militare, occhi blu, viso gentile e nel complesso piacente: insomma, niente a che fare con i precedenti psicologi, e questo era già un considerevole vantaggio); il professore sembrò non accorgersene o, se lo fece, sembrò non darci molto peso (ipotesi più probabile. A quanto pareva era già preparato a tutto quello che ci si poteva aspettare da un Holmes).
«Molto bene, vi lascio dunque alla vostra chiacchierata, avrete occasione di presentarvi meglio durante la seduta. Ho delle questioni piuttosto urgenti che richiedono la mia attenzione» disse il maggiore degli Holmes, lanciando un'occhiata al fratello. «Comportati bene, Sherlock»
«Oh, come osi insinuare che farei il contrario?» rispose l'altro con un sorrisetto sghembo.
Il politico sospirò e alzò gli occhi al cielo, per poi voltarsi e incamminarsi verso la porta, che venne chiusa una volta oltrepassata.
Fu così che Sherlock e il professor Watson rimasero da soli.
Il gioco era iniziato.
«Uh...prego, si accomodi» disse John dopo qualche istante di silenzio, posizionando due sedie una di fronte all'altra al centro della stanza. «Non è il massimo della comodità, ma...»
«Andrà bene» lo interruppe Sherlock, togliendosi il lungo e raffinato cappotto e appendendolo allo schienale della sedia su cui prese posto.
Il professore sorrise e, dopo aver riordinato alcuni fogli sulla sua scrivania, si sedette di fronte a lui; per qualche secondo si massaggiò distrattamente la gamba destra, poi intrecciò le mani e se le posò sul grembo.
«Allora...Quanti psicologi ha visto prima di me?» chiese pacatamente.
Il moro sollevò un sopracciglio. «Dipende da cosa intende. Nelle ultime settimane ne ho visti cinque. In tutta la mia vita...beh, non saprei dirle, è un'informazione inutile che ho volontariamente rimosso».
John inclinò il capo e sbatté velocemente la palpebre, aggrottando di poco la fronte. «E nessuno le è stato d'aiuto?»
«Ma che brillante deduzione, sono colpito. Oltre al fatto che sia stato Mycroft a mettersi in testa la ridicola convinzione che io abbia bisogno d'aiuto, quelli da lui contattati erano idioti di prima categoria. E non posso essere sicuro che lei faccia eccezione».
Il professore assottigliò lo sguardo e arricciò le labbra, accavallando le gambe; Sherlock osservò quella reazione e riuscì a leggerci chiaramente un primo accenno di nervosismo.
«Dunque, suo...suo fratello mi ha detto che le piace risolvere crimini» disse con tono ancora calmo, dopo essersi schiarito la voce. «Posso sapere com'è nata questa passione?».
L'altro fece una smorfia offesa. «Ne parla come se fosse un hobby da casalinga. Non è una "passione", è un lavoro»
«Quindi lei lavora per la polizia?»
«Lavorare per quegli idioti di Scotland Yard? Dio, no. Loro consultano me quando brancolano nel buio, il che accade praticamente sempre»
«Ma la polizia non...non consulta i dilettanti».
Sherlock lo trapassò con lo sguardo e lasciò trascorrere parecchi istanti di silenzio teso, disturbato solo dal ticchettare delle lancette dell'orologio.
Poi lo scansionò come aveva fatto poco prima, stavolta per ricavare informazioni diverse dall'aspetto fisico.
«Lei è un ex soldato che non è mai riuscito a riabituarsi alla vita civile, dopo il congedo non ha avuto altra scelta se non quella di dedicarsi alla sua attuale professione, che però non è di certo la più adatta a soddisfare il suo innato desiderio d'azione. Conseguenza: zoppia psicosomatica, ho avuto modo di notarla quando si è alzato per stringere la mano a mio fratello. È stato sposato, ma sua moglie è morta: ho visto la fede sulla sua scrivania accanto alla sua foto. Il suo orologio da polso è un costoso modello che di certo lei non avrebbe comprato da sé, considerando che indossa vestiti vecchi di almeno tre anni e compra dopobarba economici, perciò lo indossa perché ha un particolare valore sentimentale: è un regalo di sua moglie. Non è un amante della tecnologia: nonostante la scuola sia dotata di computer, non ce n'è traccia in questo ufficio, infatti lei preferisce usare appunti cartacei; la calligrafia sulla cartolina appesa alla bacheca dietro di lei è inconfondibilmente femminile: le è stata mandata da sua sorella, non da un'altra parente, poiché, dato il suo passato militare, non credo abbia una famiglia molto allargata, o almeno non ne è in contatto. Come vede, aveva ragione»
«Avevo ragione...su cosa?»
«La polizia non consulta i dilettanti».
Calò il silenzio e John lo fissò a bocca aperta senza muovere un muscolo: l'unico movimento percettibile era l'alzarsi e l'abbassarsi del suo petto per il respiro leggermente accelerato.
Poi sbatté le palpebre e scosse leggermente la testa, sbalordito. «Ed è riuscito a dedurre tutto questo solamente...osservando?»
«Oh, è stato piuttosto semplice».
Il professore fece una breve risata incredula, inumidendosi poi le labbra; non c'era da sorprendersi più di tanto, si disse, i due fratelli Holmes dovevano pur somigliarsi in qualcosa, e cos'altro, se non l'incredibile intelligenza?
Sherlock posò i gomiti sui braccioli della sedia e congiunse i polpastrelli sotto il mento, andando più a fondo nella sua analisi. «Ho saputo che lei ha collaborato con mio fratello in una delle sue missioni top secret e che voi due non siete in ottimi rapporti. Cosa può essere successo? Non credo certo sia una questione di soldi, quindi forse è una vicenda personale, forse era coinvolto qualcuno che lei conosceva. Forse c'entrava sua moglie»
«Forse dovrebbe andarci piano».
Le labbra di Sherlock si stirarono in un sorrisetto quasi provocatorio. «Ci ho preso, non è vero?»
«La smetta».
La voce di John non era più gentile e pacata, bensì ridotta a qualcosa di molto simile al basso ringhio di un cane che, prima di mordere, avverte chi lo sta infastidendo; normalmente Sherlock avrebbe tranquillamente ignorato quell'avvertimento, continuando a parlare con noncuranza fino a distruggere la sua vittima pezzo per pezzo.
Ma non quella volta.
Quella volta l'aspirante detective ebbe la sensazione che non si sarebbe sentito soddisfatto e compiaciuto di se stesso una volta fatte crollare le difese dell'uomo seduto di fronte a lui.
Chi sei tu, John Watson?
Dopo aver sostenuto lo sguardo scuro e minaccioso del professore per un tempo che nemmeno lui seppe definire, si alzò dalla sedia e recuperò il cappotto, infilandoselo lungo il breve tragitto verso la porta; prima di uscire si girò un'ultima volta, sollevandosi il bavero. «Ci vediamo, John».
John rimase a fissare il vuoto fino a quando i passi di Sherlock non si furono dissolti lungo il corridoio, per poi alzarsi con rabbia, sedersi alla sua scrivania e scaraventare dei fogli in aria con una manata.
Appoggiò i gomiti sulla superficie in legno e si passò una mano sul viso, fermandola sulla bocca.
Diavolo, neanche dieci minuti con quell'uomo e quello era  il risultato. Come avrebbe fatto a continuare, se quella scena si fosse ripetuta ad ogni incontro?
Non aveva pensato all'eventualità che Sherlock potesse arrivare volontariamente a toccare tasti dolenti, o meglio, aveva sperato che non accadesse, ma si diede dell'idiota per aver anche solo preso in considerazione l'idea che un Holmes potesse curarsi dei sentimenti altrui.
Eppure sentiva una strana sensazione.
Era nervoso e irritato, questo sì, ma quando guardò la sua mano sinistra, a cui aveva un tremore intermittente (in passato da lui scorrettamente diagnosticato come disturbo da stress post-traumatico), e la vide perfettamente immobile, una voce nella sua mente gli disse che quello era proprio ciò di cui aveva bisogno: qualcuno che lo stimolasse, che facesse uscire il soldato che era in lui.
Quella con Sherlock Holmes sarebbe potuta diventare una sfida personale.
Si sfilò il cellulare dalla tasca posteriore dei pantaloni e cominciò a digitare un messaggio, cercando di non premere i tasti con troppa violenza. 

A: Mycroft Holmes
Martedì, alle quattro. Si assicuri che venga.
[10:18 a.m.]




 

Prima e terza parte: https://youtu.be/oY13UXa7yU8
Quarta parte: https://youtu.be/LPy2DW-H3-I

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


Alla fine ce l'ho fatta ad aggiornare anche questa storia, non ci credo. :')
Mi scuso ancora una volta per la mia insopportabile lentezza, ma a parte questo non ho molto da dire, se non che da adesso in poi i dialoghi ispirati o tratti dal film saranno seguiti da un asterisco.
Buona lettura....spero. <3


 

Capitolo II
 



 

«Devo ammettere che mi ha sorpreso, John. Pensavo non sarebbe stato disposto ad andare avanti con le sedute».
Sherlock si tolse il cappotto e si sedette sulla sedia a lui riservata, e il professore, che si stava affrettando a riporre alcuni documenti in un piccolo armadio, si voltò con aria incuriosita. 
«Perché? Credeva di avermi spaventato?» 
«O quantomeno suscitato la sua ira».
John ridacchiò e raggiunse la sua sedia. «Beh, non nego di aver provato un irrefrenabile desiderio di prenderla a pugni. Ma sarebbe stato decisamente poco professionale, non crede?».
Il moro fece un breve sorriso e lo guardò con curioso interesse, seguendo i suoi movimenti mentre prendeva posto e trovava una posizione confortevole.
«Si comporta così con tutti, quindi? Voglio dire, deduce la vita di una persona, ricavandone dettagli che la persona in questione preferirebbe non venissero alla luce, nel tentativo di allontanarla?»
«Io mi limito ad osservare, sono le persone ad allontanarsi di loro iniziativa. Come se le loro relazioni segrete, i loro fallimenti o gli spiacevoli eventi della loro esistenza fossero colpa mia. Non è niente per cui valga la pena rammaricarsi, comunque: sono tutti degli idioti».
Il professore rise sommessamente e sollevò le sopracciglia, pensando che nonostante anche Mycroft si ritenesse superiore al resto dell'umanità, non lo aveva mai dichiarato così esplicitamente. «Oh, beh, la ringrazio»
«Ma lei non si è allontanato».
Non aspettandosi quella risposta, John tornò serio, piantando gli occhi su quelli di Sherlock per un lungo e silenzioso istante.
Nessuno dei due seppe definire cosa passò esattamente in quello sguardo: forse una giocosa sfida, o forse semplicemente l'inizio di una reciproca conoscenza interiore.
«Perché fa uso di droghe?» chiese il professore, rompendo il silenzio.
Il paziente, che da quella frase capì che John a quel punto si era reso conto che con lui non ci sarebbe stato alcun bisogno di essere delicati, non riuscì a trattenere un sorrisino compiaciuto.
Ma non rispose.
Prese a guardarsi intorno, facendo scorrere lo sguardo dai piccoli (e orrendi) quadri appesi alle pareti agli scaffali pieni di libri; si alzò e si avvicinò lentamente ad essi per leggerne i titoli con sguardo critico e scrutatore.
«"Storia degli Stati Uniti, Volume 1"*. Le è di qualche utilità leggere...» prese il libro e lo sfogliò, arrivando alle ultime pagine per constatarne il numero «...1123 pagine di nomi e date?».
John accavallò le gambe e alzò le spalle. «La storia mi ha sempre affascinato»
«Non è la risposta alla mia domanda»
«Che cosa...intende con "le è di qualche utilità"?».
Sherlock tornò al suo posto, piantando il suo sguardo gelido su quello più scuro ed espressivo del professore. «Le è mai servito nella vita? Le ha mai portato qualche vantaggio in circostanze pericolose? Le è mai stato d'aiuto per raggiungere i suoi obiettivi?».
John, confuso, aggrottò la fronte e scosse leggermente la testa. «È semplicemente un interesse, non deve necessariamen...mi è di utilità morale, ecco»
«Noioso».
John arricciò le labbra (un gesto che faceva spesso, notò Sherlock) e, dopo aver posizionato il gomito sul bracciolo della sua sedia, appoggiò il mento sul palmo della mano. «Lei dice?»
«Vi riempite tutti la testa di inutile spazzatura, ignorando ciò che invece può rivelarsi veramente importante»
«Quindi lei mi sta dicendo...che non si interessa di nient'altro al di fuori di esperimenti e delitti?»
«Tutto ciò che conta per me è il lavoro. Il resto è solo distrazione e mi rallenta».
Il professore annuì lentamente, per poi abbassare gli occhi su un punto indefinito con aria pensierosa, mentre Sherlock prese a guardare distrattamente fuori dalla finestra dietro la scrivania.
«Quindi non ha nemmeno...una ragazza?».
Il moro spostò lo sguardo verso di lui solo per un millesimo di secondo.
«Ragazza? No, non è esattamente il mio campo» rispose con tono basso e stranamente pacato.
L'altro annuì di nuovo. «Mh». 
Gli ci volle qualche secondo per rendersi conto del significato che quella frase avrebbe potuto nascondere, e quando lo capì tornò a guardare il suo paziente con curiosità, mista a un briciolo di sorpresa. «Oh. D'accordo. Ha un ragazzo, allora?».
A quel punto Sherlock si voltò, guardandolo con circospezione.
«Va bene comunque»
«Lo so che va bene».
John sorrise gentilmente, cosa che però non aiutò molto a smorzare la tensione inevitabilmente creatasi. «Quindi ha un ragazzo?»
«No»
«Va bene, ok».
Sherlock, insospettito, lo guardò inumidirsi le labbra e abbassare poi lo sguardo con malcelato imbarazzo, accentuato da un successivo schiarimento di voce.
Come aveva potuto non pensarci prima? 
John era un ex soldato, abituato alla sola presenza di persone di sesso maschile, e negli eserciti non era insolito che determinati istinti prendessero il sopravvento; più volte il suo sguardo si era soffermato sul collo diafano del detective, lasciato in bella mostra a causa dell'assenza della sciarpa blu che era solito indossare (indizio debole ma da tenere comunque in considerazione); Mycroft gli aveva raccontato che John non era mai stato incline a parlare dei suoi genitori, probabilmente a causa di un rapporto burrascoso, e aveva senso: era sulla quarantina, quindi cresciuto negli anni '80, dove la diffusione dell'AIDS aveva dato vita a oppressivi pensieri e atteggiamenti omofobi.
Problemi di fiducia.
Bisessuale represso.
Era interessato a lui? Aveva appena...tastato il terreno? Non era una violazione del rapporto analista/paziente? 
Tecnicamente no, non lo era. La professione di John non comprendeva le sedute e questa per lui era un'eccezione, inoltre, per sua scelta, non veniva nemmeno pagato da Mycroft. 
«Non ha risposto alla mia domanda iniziale, in ogni caso» disse l'oggetto della sua analisi dopo qualche istante di silenzio, interrompendo l'inarrestabile flusso dei suoi pensieri e intrecciando le mani sul grembo.
«Perché faccio uso di droghe?»
«Esattamente. Lei non vuole essere...rallentato da nulla, a quanto ho capito. Quindi perché?».
Sherlock inspirò. «La droga non mi rallenta, a dire il vero. Anzi, è uno stimolo alquanto efficace, mi è d'aiuto quando devo immergermi nel mio palazzo mentale durante le indagini»
«Sa che può essere estremamente dannoso?»
«So calcolare le dosi»
«Eppure di recente è stato più volte vicino all'overdose».
Il moro roteò gli occhi ed espirò rumorosamente. «Era per un caso» disse, scandendo ogni parola.
John annuì, anche se non del tutto convinto, e si inumidì le labbra; poi prese il suo block notes dalla scrivania e scribacchiò velocemente qualche appunto.
Forse era meglio affrontare quell'argomento più avanti, pensò: era una faccenda che necessitava di particolare attenzione e, nonostante non fosse un esperto per quanto riguardava il crimine, era certo che un caso non fosse abbastanza per giustificare un'overdose.
«Che mi dice, invece...» finì di scrivere, posando il blocchetto sulle ginocchia e su di esso la penna. «...riguardo al frustare i cadaveri?».
Il più giovane, divertito, sollevò un angolo della bocca. «Temo proprio che Mycroft sia dell'idea alquanto ridicola che sia il mio nuovo modo di sfogare una sorta di rabbia repressa»
«Non è così?»
«Nelle ultime settimane ho seguito un caso per il quale mi serviva sapere quali ematomi si formano a venti minuti dalla morte. Non è di certo un mio passatempo».
Il professore (che sembrava sollevato dall'ultima affermazione) scrisse ancora qualcosa, per poi fissare il foglio in silenzio con aria assorta.
«Sta valutando se ritenermi uno psicopatico?».
A quella frase si riscosse e alzò lo sguardo sul detective, la fronte leggermente aggrottata. «Perché? È questa la conclusione a cui sono giunti gli altri terapisti?»
«Soprattutto durante la mia adolescenza»
«Beh, no, non è a quello che pensavo. Certo, devo ammettere che lei è piuttosto...fuori dall'ordinario, ma mi sembra un po' affrettato formulare certe ipotesi».
John era quello giusto, ormai Sherlock se ne stava convincendo.
Poteva non essere la mente più brillante in circolazione, ma era riuscito ad attirare la curiosità e l'interesse del più giovane in sole due sedute, e il fatto che, come Mycroft aveva previsto, riuscisse a sopportare la sua indole arrogante con una certa abilità giocava decisamente a suo favore.
Sherlock non credeva che John sarebbe riuscito a cambiarlo, questo no. Non sarebbe diventato magicamente...come tutti gli altri.
Ma forse avrebbe potuto trovare in lui la prima persona che avesse mai realmente apprezzato in tutta la sua vita.
Il professore, invece, non riusciva ad inquadrare il suo strano paziente.
La mancanza di amici di quest'ultimo sembrava aver trovato una spiegazione nel fatto che tutti fossero spaventati dalle sue impressionanti capacità deduttive o, altra ipotesi più che probabile, dalla vita che conduceva; era anche vero, però, che non era una situazione a senso unico, perché lui decisamente non si sforzava di piacere alle persone: doveva esserci una ragione specifica che lo spingeva ad assumere determinati aggettamenti e che lo aveva portato alla ferma convinzione che tutto ciò che non riguardava il suo lavoro fosse uno svantaggio.
Una ragione da ricercare sicuramente nel profondo del suo passato.
Avrebbe dovuto avere pazienza.
«Pensavo solo al fatto che dovrò lavorare precchio» disse sinceramente, passandosi la lingua sull'interno della guancia. «È difficile farsi un'idea su di lei»
«Pensavo che saper leggere nell'animo umano facesse parte del suo lavoro»
«Beh, io insegno questa roba, non ho mai detto di saperla fare*».
Sherlock fece una breve e sommessa risata e abbassò lo sguardo sul block notes di John, con un'idea folle ma piuttosto allettante che cominciava a prendere forma nella sua mente.
A dire il vero ci sarebbe stato un modo con cui avrebbe potuto aiutare il professore a...beh, farsi un'idea su di lui.



 

***

 

Quattro suicidi in serie e un messaggio. Nessuna traccia della valigia rosa.
[Fri 7:33 p.m.]

 

...Mi scusi, credo che lei abbia sbagliato numero.
[Fri 7:36 p.m.]

 

Niente affatto, John.
[Fri 7:36 p.m.]

 

Signor Holmes...?
[Fri 7:37 p.m.]

 

Sherlock, prego.
[Fri 7:38 p.m.]

 

Come ha avuto il mio numero?
[Fri 7:38 p.m.]

 

Mycroft.
[Fri 7:39 p.m.]

 

Certo. Di quali suicidi sta parlando?
[Fri 7:39 p.m]

 

Un uomo, un ragazzo e due donne hanno ingerito esattamente lo stesso veleno, di loro volontà.
Una delle due donne, Jennifer Wilson, ha inciso il nome "Rachel" con le unghie sul legno del pavimento. È completamente vestita di rosa ed è chiaro che avesse con sé una valigia, ma non ce n'è nemmeno l'ombra.
[Fri 7:42 p.m.]

 

Oh, ma certo, si tratta di uno dei suoi casi. Ma perché lo sta dicendo a me?
[Fri 7:43 p.m.]

 

Lei era un soldato.
[Fri 7:47 p.m.]

 

Sì.
[Fri 7:51 p.m.]

 

Avrà visto molte ferite e morti violente.
[Fri 7:52 p.m.]

 

Sì. Sì, abbastanza. Ne ho viste anche troppe.
[Fri 7:52 p.m.]

 

Vuole vederne altre?
[Fri 7:52 p.m.]

 

John Watson, seduto sul bordo del proprio letto, rimase immobile col cellulare in mano, gli occhi leggermente sgranati fissi sullo schermo.
Poco prima stava correggendo gli ultimi compiti dei suoi studenti (disastrosi, come si aspettava a causa della continua disattenzione), poi gli era arrivato quello strano messaggio da un numero che si era rivelato essere quello di Sherlock Holmes e adesso quest'ultimo lo aveva praticamente invitato sulla scena di un crimine.
Gli venne da sorridere per quella svolta decisamente inaspettata.
Sherlock voleva forse dargli un assaggio della sua vita quotidiana per convincerlo del fatto che non fosse poi tanto male? O voleva provargli il contrario, cioè che John non avrebbe più voluto continuare le sedute dopo averlo visto nel suo "ambiente naturale"?
"Se così fosse", pensò, "non sa cosa ho passato con Mycroft".
Erano quasi le otto di sera.
Fuori era già buio, doveva ancora cenare e non aveva nemmeno finito di correggere i compiti...
Al diavolo, pensò.
Erano ormai quattro anni che non succedeva più niente nella sua vita, tutto andava avanti per inerzia: provare qualcosa di nuovo (qualcosa di intrigante) non gli avrebbe di certo fatto male e, chissà, avrebbe anche potuto davvero rivelarsi utile per aggiungere un tassello a quell'intricato puzzle che era Sherlock Holmes.
Smise di pensare e digitò la risposta suggeritagli da una leggera fitta alla sua dannata gamba.

 

Oh, dio, sì.
[Fri 7:54 p.m.]

 

 

***

 

John era perfettamente consapevole delle capacità deduttive di cui era dotato un Holmes: di Mycroft ne aveva avuto prova fin troppe volte, e giorni prima era stato sottoposto anche allo sguardo scrutatore e penetrante di Sherlock. 
Ma non avrebbe mai pensato che le deduzioni di quest'ultimo sulla scena di un crimine potessero lasciarlo ancora più di stucco.
Avevano un qualcosa di assolutamente unico, non solo per la loro complessità o per il fatto che venissero costruite a partire da dettagli a cui nessun altro avrebbe dato importanza, ma anche e soprattutto per il modo in cui gli occhi di Sherlock si illuminavano mentre le parole uscivano ininterrottamente dalla sua bocca: era decisamente nel suo elemento, sembrava che il suo lavoro lo facesse sentire vivo e realizzato, e lo faceva apparire diverso da come il professore lo aveva visto durante le loro due sedute. 
Se aveva avuto l'occasione di vedere questo lato del giovane detective, allora non si era decisamente rivelata una cattiva idea accettare di partecipare alle indagini.
Dopo aver risolto il caso con successo (un tassista dai giorni ormai contati che costringeva le sue vittime a scegliere tra due pillole, una innocua e una letale, in modo che morissero per mano loro e non sua), avevano deciso di recarsi in un piccolo parco lì vicino per discutere di tutto ciò che era successo quella sera.
«Allora? Come ti è sembrato?» chiese Sherlock con un lieve sorriso divertito, la ghiaia che scricchiolava sotto le sue scarpe.
John non fece nemmeno troppo caso all'improvviso passaggio dal "lei" al "tu". «Piuttosto...strano»
«Lo so che ti è piaciuto, non negarlo»
«Beh...sì, ok, non lo nego. Era da un bel po' che non sentivo così tanta adrenalina scorrermi nelle vene».
Il detective piantò lo sguardo su di lui, studiando attentamente i suoi lineamenti al fine di captare la minima emozione che il suo viso lasciava trasparire.
Disagio.
Un brutto ricordo.
Sapeva che non sarebbe stato saggio insistere, ma era dal giorno della loro prima seduta che per qualche motivo non riusciva a darsi pace, continuando a chiedersi cosa fosse accaduto quattro anni prima (questa doveva essere la quantità di tempo passata dalla collaborazione con Mycroft, secondo i suoi ragionamenti).
«Da quattro anni?» si ritrovò a chiedere.
John si irrigidì e smise di camminare, abbassando la testa sul sentiero sassosso e aprendo e chiudendo la mano sinistra.
Poi si spostò verso una panchina a pochi metri di distanza e ci si sedette con un sospiro, seguito da Sherlock, che seguiva con lo sguardo ogni suo movimento.
«Sei testardo, eh? Non lasci proprio perdere» disse il professore con una risatina amara. «Senti, è un argomento che preferirei non toccare e penso che questo ti sia già abbastanza chiaro. Dovremmo parlare di te, non di me»
«Vi sono determinati dettagli in una persona che si possono facilmente dedurre. Se solo ti sforzassi di osservare e pensare, sono certo che saresti in grado di raccogliere quantomeno i dati fondamentali su di me, e costituirebbero tutto ciò che dovresti sapere. Niente di più, niente di meno».
John chiuse gli occhi per un breve istante, come per costringersi a non perdere il controllo, e dosò il respiro; Dio, Sherlock Holmes poteva anche essere un genio, ma per quanto riguardava certi ambiti aveva ancora un'infinità di cose da imparare.
«Se ti chiedessi sull'amore», cominciò il professore, «probabilmente mi diresti che si tratta solo di uno svantaggio, di un...difetto chimico, o qualcosa del genere. Ma non sai dirmi cosa si prova a svegliarsi accanto a qualcuno e sentirsi davvero felici. Non sai come ci si sente ad avere qualcuno di importante ed essere a tua volta importante per questo qualcuno. E se ti chiedessi qualcosa sulla guerra...beh, sono curioso di sapere cosa mi risponderesti, perché sono sicuro che tu non abbia mai sfiorato una breccia, e che tu non abbia mai tenuto in grembo la testa del tuo migliore amico, vedendolo esalare l'ultimo respiro mentre con lo sguardo chiede aiuto*». Strinse nuovamente a pugno la mano sinistra, infilandola nella tasca della giacca, e tirò su con il naso. «Pretendi di sapere tutto di me perché hai tirato fuori delle informazioni da degli oggetti personali nel mio ufficio, ma non puoi sapere cosa ho passato dentro di me. E pensi che io riesca ad inquadrare cosa provi, chi sei, solo perché ho visto un paio di film sulla droga? Basta questo ad incasellarti?*».
Sherlock non rispondeva, lo sguardo imperscrutabile rivolto verso il terreno ricoperto di ghiaia.
Il professore non avrebbe compreso quale effetto le sue parole stessero avendo sul paziente, se, dopo aver voltato il viso verso di lui, non avesse visto il suo pomo d'adamo alzarsi e abbassarsi e la sua mascella irrigidirsi leggermente.
«Non andremo da nessuna parte se non vuoi parlarmi di te», continuò, tornando a guardare davanti a sé. «Io comunque non ho intenzione di costringerti, e non può farlo nemmeno tuo fratello. La scelta è tua».
Detto questo, si alzò dalla panchina e si incamminò verso l'uscita del parco con un'andatura lievemente zoppicante.
Sherlock sentì una goccia di pioggia bagnargli la guancia.





 

Ultima parte: https://youtu.be/cH-lfdkRbM0

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