Il testamento di Tito

di workingclassheroine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non avrai altro Dio all'infuori di me ***
Capitolo 2: *** Non nominare il nome di Dio, non nominarlo invano ***
Capitolo 3: *** Onora il padre, onora la madre ***
Capitolo 4: *** Ricorda di santificare le feste ***
Capitolo 5: *** Non devi rubare ***
Capitolo 6: *** Non commettere atti che non siano puri ***



Capitolo 1
*** Non avrai altro Dio all'infuori di me ***




NON AVRAI ALTRO DIO ALL'INFUORI DI ME

 
"Non avrai altro Dio all'infuori di me,
spesso mi ha fatto pensare:
genti diverse venute dall'est
dicevan che in fondo era uguale.
Credevano a un altro diverso da te
e non mi hanno fatto del male.
Credevano a un altro diverso da te
e non mi hanno fatto del male."


Ci ho pensato spesso, a Dio. 
Lo ho immaginato in tutte le varianti, in tutti i colori. 
Quando ero bambino e Mimi mi metteva il vestito della festa per andare in chiesa lui era il Padre, una figura invisibile a cui desideravo con forza credere e che tutti dicevano volermi bene, nonostante io non me ne rendessi minimamente conto e non ne giovassi in alcun modo. 
In effetti, non conoscevo padre che si comportasse diversamente. 
Crescendo s'era fatto Madre, e anche lì non vedevo ombra di contraddizioni.
Mi ero sbagliato: Dio mi voleva effettivamente un gran bene, solo non sempre. 
Aveva molti figli a cui pensare (nella mia mente si chiamavano tutti Julia o Jackie) ed era normale che non trovasse il tempo per tutti.
Non ero arrabbiato, adottare questa sorta di giustificazionismo preservava la mia mente ancora acerba dal rancore che l'avrebbe logorata nei giorni a venire.
Dio era Madre, ma io ero solo uno dei suoi tanti figli.
Potevo conviverci, potevo accontentarmi.
Verso l'adolescenza lo vidi accorciarsi i capelli, riempirli di gel e muovere provocatoriamente il bacino sugli schermi sporchi dei cinema di provincia.
Elvis era il Dio, il nuovo, meraviglioso Messia progettato per elevare agli altari i poveri bastardi come me.
Come Pietro prima di me lasciai tutto ciò che avevo e che ero: il mio unico desiderio, ricongiungermi a lui.
Mi ci vollero anni per capire infine che Elvis non era Dio ma profeta, testimone di qualcosa di più grande. 
Elvis divideva il mar Rosso; 
la musica guidava la sua mano.

Avevo trovato Dio.




Note

Prima di tutto: ci manchi, John, tantissimo, ed ecco perché sono qui a pubblicare questa follia a pochi minuti dalla mezzanotte in un giorno così triste. Ma io nuoto nella tristezza, lo sanno tutti. Non so quanti di voi conoscano la canzone "Il testamento di Tito" di De André (se non la conoscete cercatela ragazzi, è un capolavoro) ma io ci ho sempre rivisto molto del modo di rapportarsi di John con le cose e la religione in particolare, e da qui nasce questa storia. Saranno dieci capitoli (forse undici, devo decidere) tutti molto brevi, uno per ogni comandamento. Mi sembrava un'idea interessante, ma mi sono già pentita. Bene, dicevo: dieci capitoli in cui John ci spiegherà il suo modo di concepire il mondo, Dio e le cose. Spero che l'idea vi piaccia (se fa schifo potete dirmelo, ho abbastanza cioccolata da sopportare il trauma). Fatemi sapere cosa ne pensate! Un bacio, la vostra Heroine.

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Capitolo 2
*** Non nominare il nome di Dio, non nominarlo invano ***




NON NOMINARE IL NOME DI DIO, NON NOMINARLO INVANO

 
"Non nominare il nome di Dio,
non nominarlo invano.
Con un coltello piantato nel fianco
gridai la mia pena e il suo nome:
ma forse era stanco, forse troppo occupato,
e non ascoltò il mio dolore.
Ma forse era stanco, forse troppo lontano,
davvero lo nominai invano."
 

Ricordo di aver implorato qualcuno una volta sola, nella mia vita. 
Luglio era un mese caldo, e i vestiti neri del lutto mi sembravano grotteschi e inopportuni in rapporto al clima. 
Mimi aveva dovuto costringermi a indossarli, seppur le tremassero le mani e i suoi occhi fossero velati.
Mi aveva tirato su i calzoni come a un bambino, aveva spinto ogni bottone nella propria asola e aveva spolverato la mia giacca con qualche colpo. 
L'inerzia non si confaceva a una donna così forte, l'inerzia era per i deboli.
E infatti, io ero rimasto immobile. 
Il battere del ridicolo martelletto del giudice ed Eric Clague, il cui nome è una scarificazione nella mia memoria, veniva condannato a uno schiaffetto sulla nuca, del genere che Mimi mi dava quando facevo una battuta troppo sarcastica di fronte ad ospiti.  
Mimi. Ferita, incrollabile Mimi.
Fu la mia voce e i miei silenzi, in quei giorni, il motore immobile intorno a cui inevitabilmente ruotavo, inebetito dal dolore, il viso nascosto nelle sue ginocchia.
Urlò contro l'uomo che mi aveva portato via l'unico amore che avessi mai conosciuto, chiamandolo col nome che mi rimbombava continuamente in testa, e a cui sempre l'avrei associato.
Assassino.
Si caricò sulle spalle il mio e il suo dolore, senza vacillare neanche per un istante, senza lasciarsene soffocare, e si assunse il compito di traghettare entrambi al di là dei rimorsi e dei rimpianti che provavamo. 
La ammiravo e la detestavo, per questo, perché a me Julia mancava nel più umano e patetico dei modi.
Non c'era orgoglio né eroismo nelle lacrime che versavo, nel vomito che innaffiava l'asfalto, nel sangue sulle mie nocche: ero un ragazzino umiliato che aveva perso sua madre. 
Avevo pregato, a quel punto, sperando che Dio avesse pietà di me, che me la restituisse, che ponesse fine a quell'immeritato dolore.
Quando la terra aveva infine celato ciò che Julia Stanley meravigliosamente era stata avevo voltato il capo, riconoscendomi sconfitto.
La sua tomba era rimasta spoglia, per mio volere, e Mimi aveva taciuto.
Julia non era più sotto la mia, la nostra giurisdizione, e pretendevo che fosse il suo Dio ad occuparsi di lei, come io avrei voluto fare e come Lui non mi aveva permesso.
Volevo dimostrare a tutti che si sbagliavano.
Quel Dio di misericordia, fiore all'occhiello delle nostre chiese, non aveva ascoltato il mio dolore. 
Stanco, distratto, occupato, non importava; lo avevo chiamato e non aveva risposto.
Lo avevo nominato invano.

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Capitolo 3
*** Onora il padre, onora la madre ***




ONORA IL PADRE, ONORA LA MADRE

 
"Onora il padre, onora la madre
e onora anche il loro bastone,
bacia la mano che ruppe il tuo naso
perché le chiedevi un boccone:
quando a mio padre si fermò il cuore
non ho provato dolore.
Quanto a mio padre si fermò il cuore
non ho provato dolore."



E onora anche il loro abbandono. 
Onora le porte che hanno sbattuto, bacia le mani che ti hanno allontanato mentre chiedevi una carezza. 
Ringrazia per la fuga codarda dell'uno e per la morte altrettanto codarda dell'altra, brinda ai lividi che hanno entrambi inciso nella tua coscienza e che sempre dietro ti porterai.
Quando ne parlavo con Paul lui scuoteva la testa, addolorato, e diceva che per me il mondo è bianco e nero e non c'è verso di convincermi dell'esistenza di qualcosa che stia in mezzo, a mediare fra i due poli. 
Gli ho dato ragione per anni, incapace di essere sincero, prima di iniziare a spiegare che nella mia vita ho conosciuto una vasta scala di grigi, amandoli tutti immensamente. Ho amato Mimi perché lei era grigio fra la condizione di orfano e una vera famiglia, ho amato i Beatles perché erano grigio fra le urla furiose e la completa fiducia, e ho amato Paul perché era grigio fra il vuoto più totale e l'amore più puro.
La mia vita si giocava in bilico come quella di un funambolo, con conseguenti oscillazioni da una parte o dall'altra a seconda dei momenti. 
Ho conosciuto l'essere orfano, le urla furiose e il vuoto più totale, così come il calore di una vera famiglia, la completa fiducia e forse, mai sono riuscito a comprenderlo davvero, l'amore.
O forse gli estremi non li avevo mai toccati ed avevo vissuto una vita da asintoto, vicino ad ognuno di loro ma mai abbastanza per viverli davvero, e da questo derivava la mia esasperante incompiutezza. 
O forse dovevo ritenermi fortunato perché l'amore l'avevo ricevuto in migliaia di modi diversi, senza capirlo, senza accettarlo, solo perché nessuno mi aveva mai insegnato a farlo.
I miei genitori mi avevano dimostrato che non esisteva: avevo creduto loro, ma non avevo smesso di sperare. 

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Capitolo 4
*** Ricorda di santificare le feste ***




RICORDA DI SANTIFICARE LE FESTE

 
"Ricorda di santificare le feste.
Facile per noi ladroni
entrare nei templi che rigurgitan salmi
di schiavi e dei loro padroni
senza finire legati agli altari
sgozzati come animali.
Senza finire legati agli altari
sgozzati come animali."


Il volto di Parigi, multiforme, pervaso di memoria e d'oblio. Non mi ero mai sentito così straordinariamente vicino alla libertà; non capivo gli uomini, non capivo la loro lingua e gran parte dei motivi per cui finivano per spaccarsi i denti a vicenda, non capivo niente. Tutto era nuovo e già percorso, in gran parte assurdo. Quando lo dicevo a Paul lui sorrideva da sopra il giornale francese che fingeva di saper leggere e che teneva al contrario giusto per darsi un contegno, John e mi diceva che in realtà io non capivo niente delle ragioni degli uomini e delle cose neanche a Liverpool, ed ero così esaltato solo perché l'estero giustificava i miei disturbi sociali. Aveva ragione, naturalmente, ma pur di tenere occupata quella maledetta boccaccia, avevo preso la buona abitudine di comprargli decine di frullati. Parigi intanto sorrideva superba, baciata dal sole e ancor più da una gelida luna, silente spettatrice dello stordimento in cui, immancabilmente, venivamo a trovarci alla sera. Avevo detto a Paul che ero a un passo dal vomitare il suo hamburger sulla carta da parati, e lui aveva risposto che l'assenzio è davvero la più meravigliosa droga che Dio abbia messo in Terra. In quel momento, il ragionamento non era sembrato disdicevole. Per una sfortunata associazione di idee avevo riso, poi gli avevo chiesto se conoscesse Prévert e cosa pensasse in generale del fatto che i francesi partoriscano solo belle donne e belle poesie. Paul aveva annuito vigorosamente, prima di ricordare che era una domanda, quella che gli era stata fatta. E neanche allora aveva risposto, ma aveva preso a parlare. "Trois allumettes une à une allumées dans la nuit" aveva biascicato, con gli occhi lucidi fissi nei miei, "La première pour voir ton visage tout entier/ la seconde pour voir tes yeux/ la dernière pour voir ta bouche". Avevo ascoltato, senza capire, il suo stentato francese. Qualcosa in me, un passo avanti, aveva riconosciuto quelle parole e le aveva tradotte. "Et l'obscuritè tout entière pour me rappeler tout cela/ en te serrant dans mes bras" aveva terminato Paul, sorridendo nel volto sfocato "Me la ha insegnata una puttana. Buon compleanno, John". A quel punto, più che baciarmi, era letteralmente crollato sulle mie labbra, addormentandosi un attimo dopo.
Avevo riso di quello strofinio ubriaco, a cuor leggero.
Non mi sembrava esistesse un modo migliore per santificare una festa.

Note.
Qui la traduzione della poesia di Prévert, Night in Paris:
Tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte
Il primo per vederti tutto il viso
Il secondo per vederti gli occhi
L'ultimo per vedere la tua bocca
E tutta l'oscurità per ricordarmi queste cose
Mentre ti stringo fra le mie braccia.

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Capitolo 5
*** Non devi rubare ***




NON DEVI RUBARE
"Il quinto dice non devi rubare
e forse io l'ho rispettato
vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie
di quelli che avevan rubato:
ma io, senza legge, rubai in nome mio,
quegli altri nel nome di Dio.
Ma io, senza legge, rubai in nome mio,
quegli altri nel nome di Dio."


I lamenti di Cynthia mi sembravano così distanti, quel giorno. Non aveva fatto altro che gridare e gridare, e poi aveva pianto, sputando insulti contro di me, contro Dio, contro ciò che ci aveva fatti incontrare e contro i pianeti allineati in quel momento. E io la avevo lasciata fare, ridendo di lei e del suo dolore, ridendo dell'amore che ancora provava e della famiglia che stavo per soffocare. Avevo ficcato un paio di cambi in una valigia e la avevo buttata in macchina, malamente, poi le avevo afferrato il polso e le avevo intimato di tacere. "Me ne sto andando, Cynthia. Puoi continuare a renderti ridicola o tornare a casa e goderti i miei soldi fino alla fine della tua fottuta vita" avevo sibilato, e lei aveva lottato per sorreggere il mio sguardo, gli occhi liquidi e le labbra strette in un'unica linea, "Perché devi farmi perdere tempo? Sappiamo entrambi quello che sceglierai alla fine, non è vero, Cyn?". Lei aveva sussultato all'uso di quel diminuitivo, usato mille volte in camera da letto e in brevi biglietti d'amore, e si era voltata subito dopo verso la porta, preoccupata. Julian se ne stava dritto sulla soglia, inorridito e spaventato, e fissava il polso di sua madre, stretto nel mio pugno. Cynthia aveva questa straordinaria capacità di sentire suo figlio avvicinarsi senza che lui emettesse un solo suono. In tempi che sembravano distanti anni luce, avevo invidiato quel legame. "Va tutto bene, Jules" aveva mormorato lei, dolcemente, asciugandosi gli occhi con la mano che finalmente avevo lasciata libera. Entrambi tremavano così tanto che sembrava fossero sul punto di spezzarsi in due. "Torna a giocare" avevo detto, nel tono più calmo che mi riusciva, "Stavamo solo parlando". Julian si era limitato a guardare prima Cynthia, poi me, senza dire una sola parola. "Ho paura" aveva ammesso, improvvisamente, e sua madre era corsa a prenderlo in braccio, nascondendogli il viso contro il suo seno, la mano tremante aperta sulla sua testa. "Non c'è niente di cui avere paura" avevo detto, con una freddezza che sentivo estranea, inopportuna. Non potevo saperlo, allora, ma stavo condannando me e mio figlio alla più dura delle sorti: non si sarebbe mai più fidato di me. "Non mentirgli, John" mi aveva sfidato Cynthia, stridula, "Affronta tuo figlio e digli che gli stai rubando suo padre". Julian aveva fissato gli occhi nei miei, confuso e spaventato, e io avevo riso. "Non lamentarti, ragazzino" avevo sussurrato infine, e a parlare non ero più io, ma l'Erinni che da sempre tentavo di celare e che inevitabilmente tornava a possedermi, "Quando sono rimasto senza famiglia il mio ladro era Dio. Io ti sto offrendo un capo espiatorio, non credi? Ti sto rubando il padre, Julian".
Avevo taciuto per un istante, con gli occhi che parevano carboni in fiamme e un ghigno sul viso che, potevo vederlo, terrorizzava il mio bambino. "Ma lo sto facendo in nome mio".
Me ne ero andato senza guardarmi indietro.


Note
Questo capitolo è stato davvero davvero difficile da scrivere, ma stranamente mi piace, è uscito come lo volevo (evento raro).
Prima di lasciarvi, non posso che ringraziare ancora una volta, sempre, Martina che è mia amica, mia sorella, mia spalla, mia redattrice e mia inesauribile fonte di idee e sostegno. Ti voglio bene!

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Capitolo 6
*** Non commettere atti che non siano puri ***




NON COMMETTERE ATTI CHE NON SIANO PURI


Non commettere atti che non siano puri, cioè non disperdere il seme.
Feconda una donna ogni volta che l'ami così sarai uomo di fede.
Poi la voglia svanisce e il figlio rimane, e tanti ne uccide la fame.
Io forse ho confuso il piacere e l'amore, ma non ho creato dolore.


La prima volta che ho preso una donna tra le braccia mi sono reso conto con amara certezza che incastrarmi in altri corpi non avrebbe mai colmato le concavità invisibili che mi perseguitavano.
Così ne ho avute altre, sempre di più, con sempre più rabbia, frustrazione.
Quando Mimi mi vedeva tornare a casa con la camicia ancora fuori dai pantaloni e la cerniera calata si faceva il segno della croce e borbottava.
Paul, invece, aggrottava le sopracciglia in una sorta di comprensivo rimprovero.
Fu forse quella disperata ricerca di un completamento che mi spinse a sposare la dolce Cynthia, e poi a lasciarla.
Quando l’illusione svanì, e il figlio permase, mi sentii perso.
Scappai, per rifugiare il viso sulle ginocchia di Paul, per dimenticare il dolore che, se ora era solo sotteso in Julian, sarebbe un giorno esploso nel suo stomaco recidendogli i nervi.
E Paul, immobile e solenne, come un Cristo Pantocrator, mi abbatteva sulle spalle il suo giudizio, e intanto mi carezzava.
Lo baciai per la prima volta nel bel mezzo delle sue invettive contro di me, e lui, da Cristo divenuto Maddalena, si lasciò baciare.
Fu l’atto meno puro che abbia mai compiuto, ma mentre pensavo agli inferni che mi avrebbero atteso dopo la morte mi resi conto che non mi interessavano più.
Lasciai che la mia anima si perdesse nel suo corpo, e vi si dannasse per sempre.
Mi interruppe solo un attimo, il tempo di sussurrare “Devi smetterla di confondere il piacere e l’amore, John”.
E m’interruppi solo un attimo, il tempo di sussurrare “Non ti farò del male”.
E se la fiducia è un atto di fede, abbandonandosi a me Paul risplendette della più pura santità.


Note
ECCOMI TORNATA.
Non aggiornavo questa storia da un secolo per totale mancanza di ispirazione, ma desidero completarla perché nonostante sia forse tra i meno apprezzati, rappresenta per me il più maturo tra i miei lavori.
Spero che possa piacere anche a voi, e che vi faccia piacere questo mio ritorno!
Vi informo inoltre che mi sono iscritta anche su Wattpad , per sperimentare qualcosa di nuovo. Il mio nome è workingclasscheroine (sì, una c in più nel mezzo perché sì) per cui se qualcuno di voi è anche lì mi farebbe piacere beccarci, anche se ancora non so bene come funziona!
Un abbraccio.

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