Il Drago e il Leone

di BrizMariluna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1 - Scintille ***
Capitolo 3: *** 2 - Con il ghiaccio nel cuore ***
Capitolo 4: *** 3 - Rivalsa ***
Capitolo 5: *** 4 - Storie di fratelli ***
Capitolo 6: *** 5 - Piccole vendette e boiate pazzesche ***
Capitolo 7: *** 6 - Amici per forza ***
Capitolo 8: *** 7 - Il vento del paradiso ***
Capitolo 9: *** 8 - Ricordi e fantasmi ***
Capitolo 10: *** 9 - Una ragazza che piange ***
Capitolo 11: *** 10 - Un'onda che prende, un'onda che dà ***
Capitolo 12: *** 11 - Giochiamo ai pompieri? ***
Capitolo 13: *** 12 - Sogni... ***
Capitolo 14: *** 13 - Tra realtà e fantasia ***
Capitolo 15: *** 14 - Rapimento ***
Capitolo 16: *** 15 - Nessuna promessa ***
Capitolo 17: *** 16 - Giochi pericolosi ***
Capitolo 18: *** 17 - La tana del diavolo ***
Capitolo 19: *** 18 - Festività, canzoni e... ***
Capitolo 20: *** 19 - Tra inverno e primavera ***
Capitolo 21: *** 20 - Giorni di tregua ***
Capitolo 22: *** 21 - Rimorsi ***
Capitolo 23: *** 22 - Sciogliersi o spezzarsi ***
Capitolo 24: *** 23- Un passo avanti e due indietro... ***
Capitolo 25: *** 24 - Strane conquiste ***
Capitolo 26: *** 25 - Sangue, sudore... e fifa ***
Capitolo 27: *** 26 - Ciuffo di neve ***
Capitolo 28: *** 27 - Piuttosto che ammetterlo... ***
Capitolo 29: *** 28 - Spiegazioni e confidenze ***
Capitolo 30: *** 29 - Mi abbracceresti un po'? ***
Capitolo 31: *** 30 - Ombre dal passato ***
Capitolo 32: *** 31 - Una DeLorean per due ***
Capitolo 33: *** 32 - Troppo da perdonare ***
Capitolo 34: *** 33 - Ultime verità ***
Capitolo 35: *** 34 - Temporale ***
Capitolo 36: *** 35 - La bambina perduta ***
Capitolo 37: *** 36 - L'Italia chiama ***
Capitolo 38: *** 37 - Kintsugi ***
Capitolo 39: *** 38 - Voglia di arrendersi ***
Capitolo 40: *** 39 - Separazioni ***
Capitolo 41: *** 40 - Di trappole e rimpianti ***
Capitolo 42: *** 41 - Il prezzo della vittoria ***
Capitolo 43: *** 42 - Ghost ***
Capitolo 44: *** 43 - Pete e la sindrome di Han Solo ***
Capitolo 45: *** 44 - Progetti, attese, ripicche ***
Capitolo 46: *** 45 - Colora i miei giorni ***
Capitolo 47: *** 46 - Non siamo eroi ***
Capitolo 48: *** 47 - Il fuoco e il ghiaccio ***
Capitolo 49: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***










~ PROLOGO ~

 Faro di Omaezaki
 Prefettura di Shizuoka 
Isola di Honshu - Giappone

 

Epoca attuale

 5 aprile

 
Dall'autobus pieno di turisti scese una ragazza alta e bruna che, grazie allo zaino che portava sulle spalle, si mescolava alla perfezione tra loro.
Purtroppo per lei, era tutt’altro che in vacanza. Il faro di Omaezaki, in Giappone, era stato la sua casa in quell’ultimo anno, e lei vi era appena tornata, dopo aver passato circa un mese in Italia, il suo paese natale. Quel paese in cui era nata, cresciuta e dove era convinta sarebbe anche morta: la fattoria tra le colline, in un paesino sul confine tra Toscana e Romagna, era stato il centro di tutta la sua vita e del suo mondo.
Ma erano passati già due anni da quando il destino, che già fino ad allora non era stato clemente, ci aveva di nuovo messo un carico che stavolta aveva rischiato di schiantarla.
La sua esistenza era stata letteralmente stravolta e ribaltata, e ora non aveva più una famiglia, non aveva più una casa propria; le sue stesse radici erano state strappate via.
A testa bassa, col passo un po' strascicato, la ragazza si diresse verso la spiaggia e si sedette sulla sabbia, ad osservare le onde che si infrangevano incessanti sulla riva, ripensando agli eventi degli ultimi anni che l'avevano portata a quel momento.
Da almeno cinque anni, gli scienziati terrestri più quotati lavoravano per preparare una controffensiva a una minaccia, che solo loro avevano subodorato e che avevano cercato il più possibile di nascondere al mondo per non scatenare il panico.
Strani fenomeni avevano cominciato a verificarsi nei posti più sperduti e misteriosi della Terra, e i ricercatori spaziali, affiancati da storici e archeologi, avevano scoperto che il nostro pianeta era, ormai da secoli, l'obiettivo di un'invasione aliena da parte di Black Darius, malvagio imperatore che governava il pianeta Zela.
In svariati paesi si lavorava così, in gran segreto, per progettare e costruire mezzi da difesa e da battaglia.
Suo padre Andrea era stato uno di questi scienziati. Affiancato da validi collaboratori e dall'altro figlio, suo fratello Alessandro, si era prodigato per portare avanti il progetto e la realizzazione di un mastodontico mezzo da guerra: il leone robot Balthazar.
Ma le spie di Darius, poco meno di due anni prima, avevano scoperto questo progetto. E le vite di suo padre e di suo fratello erano rimaste sotto le rovine della loro casa, colpita da quello che, agli occhi dell'opinione pubblica, fu fatto passare per un meteorite. Ma la verità, lei e pochi altri lo sapevano, era ben altra.
Dopo quella tragedia, non sapendo cosa fare, la ragazza si era rivolta all'amico e collega di suo padre, il dottor Yozo Daimonji, lo scienziato giapponese che aveva studiato e costruito il Drago Spaziale, uno dei progetti più ambiziosi tra quelli realizzati per proteggere la Terra.
Lei gli aveva affidato Balthazar perché potesse sfruttarlo nella guerra contro gli alieni. Ma Daimonji le aveva rivelato che, a causa del suo complesso e particolare sistema di pilotaggio – e sicuramente per un perverso scherzo del destino – lei sarebbe stata l'unica persona al mondo in grado di utilizzarlo per combattere.
La sua risposta era stato un perentorio no. Era solo una studentessa, mica un guerriero! Cosa diavolo si aspettavano da lei? Non era sufficiente aver perso tutto? Adesso doveva anche mettere a repentaglio l'unica cosa che le fosse rimasta? La propria vita?
Se ne era rimasta in Italia, a vivere con i suoi vicini, Filippo e Anita Del Rio e la loro figlia Jessica, che erano la cosa più vicina a una famiglia che le fosse rimasta. Aveva tentato di ricostruirsi una vita con una parvenza di normalità, frequentando l'Università a Bologna e un bravo psicologo.
C'era riuscita per meno di un anno, con la sua coscienza che faceva ogni giorno a pugni con l’istinto di autoconservazione, con l’egoismo e con la convinzione di non avere le potenzialità per affrontare una cosa di quelle proporzioni.
Finché, un giorno, il senso di responsabilità era riuscito a prevalere, spingendola a prendere la tormentata decisione: Balthazar rappresentava il lavoro di suo padre, il contributo che lui e suo fratello avrebbero voluto dare per la difesa della Terra. Era il loro lascito, la sua eredità: non aveva il diritto di lasciarlo a marcire in un sotterraneo. Se solo lei poteva guidarlo, allora non poteva tirarsi indietro.
Così aveva mollato tutto: università, amici, la famiglia Del Rio.
Era andata a vivere in Giappone, con il dottor Daimonji e i primi componenti dell'equipaggio del Drago Spaziale: Sakon, Jamilah e Midori.
Il dottor Daimonji era ormai diventato quasi un padre, e Midori, la sua figlioccia, era praticamente una sorella. Sakon Gen, il giovane ingegnere aerospaziale e astrofisico, era senza dubbio il suo più caro amico. E poi c'era Jamilah, l'assistente di Sakon: la migliore amica numero tre.
Con il loro aiuto e la loro supervisione, aveva cominciato il durissimo addestramento per imparare a utilizzare il potente leone robot. Poi, poco più di un mese prima, dopo circa un anno che studiava e si addestrava, Daimonji aveva convocato gli altri giovani, che lui stesso aveva reclutato, per pilotare i mezzi da battaglia e da esplorazione che il Drago ospitava al suo interno: il gigantesco robot antropomorfo Gaiking – la loro punta di diamante – e poi il Bazzora, il Nessak e lo Skylar.
Ma proprio alcuni giorni prima del loro arrivo, lei era dovuta tornare in Italia per risolvere e chiudere definitivamente alcuni affari di famiglia rimasti in sospeso. Daimonji le aveva concesso di farlo, poiché Balthazar era in un temporaneo momento di stasi, non ancora operativo al cento per cento in quanto necessitava di alcuni interventi che non richiedevano la sua presenza.
Era partita per l'Italia impaziente di rivedere la famiglia Del Rio, anche se gli affari di cui avrebbe dovuto occuparsi non la attraevano per nulla.
Aveva concluso con Filippo la vendita del terreno devastato dove un tempo sorgeva la sua fattoria, dato che egli era già proprietario delle terre confinanti. Filippo e sua moglie Anita erano amici della sua famiglia da sempre, avevano praticamente visto nascere lei e Alessandro, e la loro figlia Jessica era per lei come una sorella più piccola. Eppure... nel rivederli aveva avuto come il presentimento che lei, in Italia, non ci sarebbe più tornata. Non per viverci, per lo meno.
L'altra cosa che aveva dovuto fare, in quell'ultimo periodo trascorso nel suo paese, era stata chiudere le pratiche, aperte ormai da quasi due anni, per riscuotere i soldi delle assicurazioni sulle vite di suo padre e di suo fratello.
Lei non ne aveva mai saputo niente: suo padre aveva affidato i preziosi documenti a Filippo, che glieli aveva mostrati poco dopo la loro morte. All'inizio era stata lei a rimandare quell'ingrato impegno. E quando si era finalmente decisa, le cose erano andate a rilento: una lungaggine burocratica e odiosa ai limiti dell'osceno che ora, per venire definitivamente chiusa e archiviata, aveva richiesto la sua presenza di persona.
A lei continuava a sembrare un abominio: soldi in cambio delle vite del babbo e di Ale? Niente avrebbe mai potuto ripagarla di quella perdita.
Soldi... Ora ne aveva un mucchio, di maledetti soldi. Così tanti che a volte le veniva il dubbio su come si scrivesse correttamente quella cifra, che non aveva mai nemmeno lontanamente concepito di poter possedere. E non sapeva assolutamente che cosa farsene. Avrebbe ridato tutto, fino all'ultimo centesimo, pur di riavere la sua famiglia, la sua casa e il suo passato.
E invece si ritrovava a dover affrontare una guerra contro una forza aliena, l'Armata Zelana dell'Orrore Nero. Una guerra che era cominciata senza di lei.
La prima battaglia aveva avuto luogo poche settimane prima, ai primi di marzo, seguita da altre due. L'equipaggio arruolato da Doc Daimonji aveva avuto a malapena il tempo di prendere confidenza con i mezzi da guerra, ma era stato fantastico, da quello che aveva letto sui giornali e visto in televisione.
I giornalisti si erano scatenati, molti erano addirittura arrivati sui campi di battaglia con gli elicotteri, pur di assicurarsi gli scoop migliori, dimostrando sicuramente di avere più incoscienza che coraggio. Quanto ci sarebbe voluto, prima che i loro nomi e le loro facce diventassero, per tutti gli abitanti del pianeta, familiari quanto quelle dei vicini di casa? Ben poco, si disse la ragazza. La stampa e la televisione avevano mille risorse, e non era sicura che fosse un bene.
Midori, con la quale, in quel mese passato in Italia, si era sentita qualche volta per telefono, era entusiasta del loro equipaggio, soprattutto del pilota del Gaiking, che era stato l'ultimo ad essere reclutato. Dopo le prime difficoltà, era riuscito a sconfiggere i Mostri Neri che avevano attaccato prima Tokyo, poi Hong Kong, poi di nuovo il Giappone a Osaka. L'amica le aveva detto che si chiamava Sanshiro Tsuwabaki: era un ex giocatore di baseball che, a quanto pareva, possedeva una specie di superpotere che gli consentiva di utilizzare alcune armi del Gaiking in modo del tutto speciale. A dire il vero, Midori aveva parlato praticamente solo di lui. E anche di qualche attrito con il pilota del Drago, un giovane statunitense che si chiamava… boh, Richard qualchecosa… Non se lo ricordava proprio, in quel momento. Non ricordava nemmeno i nomi degli altri, a dire il vero, ma ora di sera li avrebbe conosciuti tutti.
Il tempo dei ricordi e dei rimpianti finiva lì.
"Devo affrontare una guerra... ma perché proprio io?" pensò rialzandosi in piedi, lasciandosi alle spalle i turisti vocianti e dirigendosi verso il Faro, alle cui spalle, seminascosta da una rigogliosa vegetazione, sorgeva la fortezza all'interno della quale erano situati i laboratori del Centro di Ricerche Spaziali guidato dal dottor Daimonji.
In un'ala a sud del corpo principale c'erano i tre piani con gli alloggi dell'equipaggio del Drago Spaziale. Al piano terra vivevano i tecnici e i collaboratori, al primo i componenti maschili dell'equipaggio vero e proprio; all' ultimo piano, quello meno esteso, subito sotto alla parte spiovente del tetto – ricoperto di grandi placche lucide per lo sfruttamento dell'energia solare – c'erano gli alloggi delle tre ragazze, che loro chiamavano scherzosamente La piccionaia.
Ma sotto alla fortezza, invisibile agli occhi della gente, nelle profondità del sottosuolo e ben al di sotto del livello dell'oceano, una immensa caverna subacquea custodiva il Drago Spaziale e i suoi segreti.
La ragazza bruna si guardò ancora un attimo alle spalle, come per lasciare definitivamente il passato dietro di sé.
Il passato... era decisamente poco, visto quanto era giovane. Aveva ventun anni, scarsi fra l'altro: al suo compleanno mancavano ancora quattro mesi. Eppure, gli ultimi sei non li avrebbe augurati a nessuno.
Le vicende drammatiche di cui era stata protagonista avevano sconvolto la sua vita e modificato la sua personalità, portando la sua autostima, in una scala da uno a dieci, a un livello prossimo al quattro.
Si era costruita una corazza fatta di risate, ironia e parolacce, vivendo spavalda in jeans, camicie sgargianti, stivali da cowboy o scarpe sportive, per mascherare la sua insicurezza, le sue paure e gli incubi che tormentavano le sue notti.
Si comportava da maschiaccio, per nascondere al mondo il desiderio di piacere agli altri, poiché lei continuava a vedersi come la spilungona bruttina e sgraziata che era stata fino a pochi anni prima, ignorata e a tratti bullizzata. Poco importava se non aveva più i capelli cortissimi dritti sulla testa, gli orribili occhiali troppo spessi e l'apparecchio per raddrizzare i denti.
Lei si sentiva ancora così: la persona più inadeguata dell'intero Sistema Solare, l'ultima a cui affidare una macchina da guerra come Balthazar. Alla faccia del coraggio che l'altisonante cognome che si portava addosso, avrebbe dovuto ispirare.
Un colpo di vento le asciugò dagli occhi verdi una traccia di lacrime che lei ricacciò rabbiosamente indietro, e le agitò i capelli di un intenso castano scuro: una delle poche cose femminili, insieme ai colori vivaci dei suoi vestiti, che la contraddistinguevano.
Indossava una camicetta color fucsia acceso, jeans scoloriti, e un paio di Nike bianche alte sulle caviglie, con i laccetti fluo dello stesso colore della camicia.
Ai lobi, fori a profusione: cinque in tutto, ad ospitare anellini e brillantini. All'orecchio sinistro, un intricato rametto d’argento ornato di brillantini si arrampicava fino alla sommità del padiglione.
Era alta; e odiava questa cosa. Come odiava la sua faccia da folletto, i capelli lunghissimi e disordinati, e la manciata di lentiggini sul naso.
Sapeva di risultare ancora più appariscente, con quell'abbigliamento, ma le andava bene così. Forse lo faceva proprio per quello: "Io non mi piaccio," sembrava urlare al mondo "ma sono così. Se non ti vado bene, voltati dall'altra parte!"
Raddrizzò le spalle, preparandosi a fronteggiare un futuro che sarebbe stato duro persino per un Cavaliere Jedi di Star Wars, figurarsi per lei!
Ora doveva affrontare questo mitico Sanshiro, che a Midori pareva piacere parecchio, e gli altri quattro: i piloti del Drago, di Bazzora, di Nessak e di Skylar. Cosa avrebbero pensato di lei? Avrebbe trovato degli amici o degli antagonisti? Da quel poco che aveva detto Midori, sembrava che ci fosse più di un galletto nel pollaio. A parte lei, Midori e Jamilah, quello era un mondo di maschi.
Ma Midori era addetta alle comunicazioni, e Jamilah era studentessa di ingegneria aerospaziale, oltre che l'assistente di Sakon: ruoli più che accettabili per due ragazze. Invece lei avrebbe fatto parte della squadra dei guerrieri.
Si era raccomandata, con Daimonji e con gli amici, di non dire nulla ai nuovi componenti dell'equipaggio, del fatto che fosse una ragazza. Temeva che, se lo avessero saputo prima, sarebbero sorti problemi e dissapori che sarebbero ricaduti sulle spalle di Daimonji. Preferiva affrontare la questione di persona, mettendo i nuovi arrivati di fronte al fatto compiuto.
E in quel momento realizzò che, paradossalmente, per questi ragazzi la nuova arrivata era lei, anche se in realtà viveva al Faro da molto più tempo di loro! I boys, come avrebbero preso il fatto di avere una compagna guerriero femmina?
La giovane donna rivolse il volto al cielo e scoppiò in una risata priva di allegria, in cui danzava una nota sarcastica. 
"Beh, dovranno accettarmi in un modo o nell'altro, i signori maschi! A costo di strafarmi di testosterone! Se questa guerra mi ucciderà, la morte mi troverà ai comandi di Balthazar, non certo rintanata in un buco, ad aspettarla tremebonda come un topo di fogna! La mia vecchia vita finisce qui. Reset. Si riparte da zero. E... Che la Forza sia con me".
Con quell'augurio spavaldo dedicato a sé stessa, Fabrizia Cuordileone raddrizzò le spalle; la sua espressione si fece determinata mentre, a lunghe falcate decise, si dirigeva verso il Faro.
 
> Continua…
 
 
 
 
 Nota dell'Autrice (suonata):
Questo è solo il prologo, siate buoni, vi prego. E grazie per essere arrivati fin qui. Meritereste un premio solo per questo.
Spero tra non molto di postare il primo capitolo.
(Non dipende solo da me, ma dal tempo e dalla voglia che ha mia figlia, una belvetta quindicenne, di aiutarmi. Ciò vi dà l'idea di come sto messa...)
Vi lascio un'immagine di come io vedo la ragazza dall'altisonante cognome. Ogni tanto mi parte la matita e mi escono anche di queste cose...
 

Ah, dimenticavo, importante:
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma per puro divertimento. Mio e, spero, anche di chi vorrà leggere!
I personaggi di Gaiking Robot Guerriero, (Daiku Maryu Gaiking, in originale) non mi appartengono (Seeeh... mi piacerebbe! Soprattutto alcuni di loro... :P)
Sono di proprietà della Toei Animation e di Kunio Nakagami, Akio Sugino e Dan Kobayashi. Da un'idea del mitico Go Nagai, papà anche di altri robottoni molto più famosi.


 
 Fabrizia-Cuordileone

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Capitolo 2
*** 1 - Scintille ***


~ 1 ~ 
SCINTILLE 


 
 Il dottor Daimonji fu la prima persona che Fabrizia andò a cercare una volta varcata la soglia del Centro di Ricerche; lo trovò nel suo studio, in compagnia di Midori. L’amica le diede appena il tempo di salutarlo che le saltò al collo, strappandola letteralmente dall'abbraccio dello scienziato, al quale sfuggì un sorriso alla vista delle dimostrazioni d'affetto delle due ragazze. Quando finalmente le due si staccarono, Daimonji riuscì a fare a Fabrizia una carezza affettuosa sui capelli.
– Com'è andata a casa? – le chiese, sapendo che per lei non era stato facile, tagliare i ponti in quel modo.
– Casa? Doc, adesso sono a casa.
– Sei riuscita a fare tutto quello che dovevi? – le chiese Midori.
– Tutto fatto. Ma non ho molta voglia di parlarne, ora. Doc, com'è andata qui? Ho sentito delle battaglie.
– Non sono state delle passeggiate, ma abbiamo un equipaggio decisamente all'altezza. Sono contento che tu sia tornata, avremo bisogno anche di te e Balthazar. È pronto e operativo.
– Beh, almeno lui. Perché io... Doc, lei crede... che davvero sarò in grado di combattere? Io mi sento così... così inadeguata. Mi sono addestrata per un anno, ma quando mi troverò davanti un Mostro Nero vero, invece che generato dal simulatore, cosa farò? Quelli che si sono visti in tv erano... inconcepibili.
– Lo so. Ma se ha imparato Sanshiro in così poco tempo, a maggior ragione te la caverai tu, che hai avuto un addestramento più lungo. Andrà tutto bene, Briz, vedrai. Io ho fiducia in te.  
Fabrizia sorrise alle parole d'incoraggiamento di Doc, che l'aveva chiamata col diminutivo che Jamilah e Midori le avevano affibbiato quando si erano conosciute.
Il dottor Daimonji conosceva altre due o tre lingue, oltre la propria e l'inglese. Una di queste era l'italiano, così ogni tanto Briz poteva togliersi lo sfizio di parlare con lui nella sua lingua madre. Quanto a lei, era cresciuta praticamente bilingue. Sua madre Serena era stata un'ottima professoressa d'inglese e glielo aveva insegnato fin dall'infanzia, anche se poi aveva lasciato il suo lavoro per dedicarsi al suo sogno: aprire un Bed & Breakfast nella loro fattoria. Sogno che si era tragicamente schiantato contro le decisioni del destino.
Oltre a sapere bene l'inglese, Briz aveva anche un'infarinatura di spagnolo e, dopo un anno passato a Omaezaki, stava imparando persino il giapponese: era una lingua bellissima.
Il dottore era un uomo non altissimo, piuttosto corpulento e intorno ai sessant’anni, con una folta barba grigio scuro e i capelli dello stesso colore un po' lunghi, pettinati all'indietro.
L’uniforme dell’equipaggio – calzoni e maglia a collo alto neri, stivali grigi alti al ginocchio e il giubbotto di colore blu scuro – gli dava un’aria più austera di quanto realmente gli appartenesse.
Lui aveva sempre creduto in Briz, molto più di quanto ci credesse lei stessa.
–  Farò del mio meglio, Doc. Ce la metterò tutta – asserì la ragazza di fronte al suo sguardo fiducioso.
– Non ne dubito. Coraggio, rilassati e vieni a conoscere Sanshiro e gli altri. Non ti morderanno, vedrai.
– Spero bene. Non saranno mica dobermann...
Midori la prese sottobraccio e la trascinò fuori, lungo il corridoio che portava alla sala ricreativa comune, dove i ragazzi passavano parte del loro tempo libero. La sua amica era più grande di lei di un paio d'anni, ma di alcuni centimetri più piccolina. Non che ci volesse molto, visto il metro e settantanove di Briz. Aveva l'aria dolce di una ragazzina – accentuata dal colore azzurro acqua della sua uniforme, uguale a quella di Doc – ma lei la conosceva da più di un anno e sapeva quanta forza e determinazione nascondesse dietro il suo sorriso.
Midori era una trovatella: il dottor Daimonji si era imbattuto in lei diciassette anni prima, una bimbetta piangente di circa sei anni che vagava davanti a casa sua, in preda a un'amnesia a quanto pareva irreversibile, poiché tuttora la ragazza non ricordava nulla della sua prima infanzia.
Affidata ai servizi sociali, era risultata sola al mondo, senza famiglia e senza nome. Era cresciuta in orfanotrofio, dove le era stato dato un cognome d’ufficio ben poco fantasioso, Fujiyama, ma il dottor Daimonji era stato nominato suo tutore, rimanendo un punto fisso della sua vita, e l’aveva sempre amata come un padre.
Midori, diventata maggiorenne, era andata a vivere con lui e aveva terminato gli studi. Diplomata in Informatica e laureata in Scienze delle Comunicazioni, entrare a far parte dell'equipaggio del Drago Spaziale era stata una normale ed ovvia conseguenza. Daimonji aveva anche sempre avuto il sospetto che Midori, di giapponese, avesse solo il nome, e che avesse ascendenze europee, o comunque occidentali. Era piuttosto alta per una nipponica, e aveva lunghi capelli lisci di un castano chiaro che nessuna giapponese avrebbe mai potuto avere. Per non parlare dei profondi occhi color zucchero caramellato, dalle lunghe ciglia, che non avevano assolutamente il taglio a mandorla degli orientali.
Midori aprì la porta, ed entrarono tutti e tre nella sala comune. Su una parete c'era un grande televisore a LED, al momento spento, corredato di un impianto home theater e una Playstation di ultima generazione. Di fronte ad esso c'erano poltroncine e divanetti. Un modernissimo stereo di notevoli dimensioni occupava l'angolo alla loro sinistra e in fondo, sotto alla vetrata che dava su un’ampia terrazza, c'erano persino un vecchio gioco del calcetto e un flipper.
Sulla destra c'erano alcuni tavolini e una zona bar; seduti a un tavolo c'erano quattro giovani, diversissimi l'uno dall'altro. Si alzarono tutti in piedi quando videro entrare le ragazze.
Briz non ebbe difficoltà a capire quale fosse Sanshiro: intorno ai venticinque anni, doveva essere alto più di uno e ottanta – cosa notevole per un giapponese – e sfoggiava un bel fisico atletico messo in risalto dai pantaloni neri e dal giubbotto rosso scuro della sua uniforme. Capiva perché Midori ne fosse rimasta affascinata: i capelli bruni erano un po' mossi e spettinati, e gli occhi marroni avevano un'espressione amichevole e vagamente divertita come il suo sorriso. Fu il primo ad andare loro incontro e a tenderle la mano.
– Ciao, io sono Sanshiro. Midori, dove la tenevi nascosta la tua amica?
– Smetti di fare il buffone – lo rimproverò lei con un sorriso – Lei è Briz ed è arrivata ora dall'Italia.
Sanshiro sgranò gli occhi e un'espressione sorpresa sostituì il sorriso, mentre lei gli stringeva la mano. Sembrò pensarci sopra qualche secondo, poi disse, quasi sottovoce: – Wow. Il pilota di Balthazar. Avevo sentito parlare di Briz, ma non avevo capito che fosse un nome femminile.
– È solo il diminutivo di Fabrizia, che non è comunissimo nemmeno in Italia, si usa di più al maschile. Sono contenta di conoscerti. E ti faccio i miei complimenti per come hai combattuto contro i Mostri Neri. Sei stato grande.
– Grazie, ma ho ancora molto da imparare. Spero di essere davvero all'altezza. Rispetto a te e agli altri, io sono l'ultimo arrivato, qui. Sono entrato giusto il giorno precedente alla prima battaglia. Ragazzi, vi presento la pilota del leone Balthazar – disse rivolgendosi agli altri tre, che si fecero avanti.
Il primo era alto un po' meno di lei, un ragazzone bruno sorridente e pacioccone, col naso a patata e un paio di sopracciglioni marcati, dall'aria tranquilla ma sicura di sé, che avrebbe messo a suo agio chiunque. A dispetto del fisico piuttosto corpulento, Briz lo trovò carino.
– Salve, sono Bunta Hayami, il pilota del Nessak.
Mentre gli stringeva la mano, Briz pensò che il mezzo d’appoggio che pilotava fosse adattissimo a lui: aveva le sembianze di un plesiosauro, simile a Nessie, il mostro di Loch Ness, a cui si erano ispirati per il nome; era specifico per le esplorazioni e le missioni subacquee.
Nel guardare gli altri due piloti, non le fu difficile collocarli nei loro ruoli. Pensando al Bazzora, che ricordava un triceratopo robot, si rivolse a un giovanottone imponente dall'aspetto un po' rozzo, con un zazzerone ispido di capelli scuri e scompigliati, gli zigomi pronunciati e il mento importante. Aveva pensato che Sanshiro fosse alto per un giapponese, ma questo lo batteva di un bel po' di centimetri, senza contare che sembrava un incrocio tra un bisonte e un armadio a sei ante! Si sentì una nanerottola al suo cospetto, il che era tutto dire!
– Tu... guidi il Bazzora, vero? – gli chiese, quasi sicura di non sbagliare.
–  Già. Come hai fatto a capirlo?
– Ehm... dalla stazza? – azzardò lei.
– Fantastico, hai il senso dell'umorismo. Credo che andremo d'accordo. Sono Yamatake, ex lottatore di sumo – ridacchiò l'omone.
– Sumo, eh? Okay. Questo spiega tutto! – esclamò Briz, squadrandolo dal basso con un sorriso, mentre lui le porgeva una mano grande quanto una pala. Quando se le strinsero, quella di Fabrizia, che non era propriamente una manina di fata, scomparve letteralmente sotto alle dita di Yamatake, grosse come salsicce.
– E quindi tu, – disse rivolta all'ultimo componente del gruppo – suppongo sia il pilota dello Skylar.
– Supposizione esatta. Fan Lee. Lieto di conoscerti.  
Un altro sorriso e un'altra stretta di mano. Come si poteva dedurre dal nome, Fan Lee non era giapponese, ma cinese. E anche lui ricordava nel fisico il suo mezzo da battaglia, che sembrava un agile e scarno pterodattilo. Alto, magro e dai tratti spigolosi, probabilmente prossimo ai trent'anni e con i capelli molto corti, Fan Lee non era decisamente un bello nel senso classico del termine, però aveva un fisico agile e scattante, e dalla sua persona trasparivano lealtà e forza d'animo. Ma nel suo sguardo si leggeva anche, a tratti, una profonda malinconia, nonostante il sorriso. Per qualche strano motivo, Briz si sentì molto vicina a lui, come se, pur non sapendolo, condividessero un doloroso passato.
Le cose promettevano bene, Fabrizia cominciò a rilassarsi. Nessuno di loro si era lasciato sfuggire commenti negativi sul fatto che era una donna, o sulla sua giovane età. Chiacchierò con loro, Midori e Doc per qualche minuto, osservando i suoi compagni d'avventura.
Tutti indossavano la stessa uniforme nera con stivali grigi, e i giubbotti nella foggia erano tutti uguali, come quelli del dottor Daimonji, di Midori e di Sanshiro – con la cerniera sul lato sinistro del petto e le mezzelune imbottite color grigio argento sulle articolazioni delle spalle e dei gomiti – ma erano tutti di colori diversi. Erano fatti di un innovativo materiale sintetico, che alla vista e al tatto sembrava simile alla pelle e aveva la particolarità di mantenere costante la temperatura del corpo, indipendentemente dalla stagione.
Quello di Fan Lee era nero, quello di Bunta verde, mentre Yamatake sfoggiava un improbabile color arancione. Tutti portavano anche un alto cinturone con una grossa fibbia di metallo su cui era incisa la sagoma di un drago dalle ali spalancate.1 Al cinturone era agganciata una fondina con una pistola: un fulminatore laser.
Fabrizia girava le spalle alla porta e non la sentì aprirsi. Per puro caso si voltò da quella parte, in tempo per veder entrare nella stanza un giovane che si distingueva da tutti gli altri. In quella profusione di teste brune e occhi più o meno a mandorla, quella zazzera di capelli biondo scuro dai riflessi rossicci, un po' lunghi sulle orecchie e dietro al collo, spiccava notevolmente; per non parlare dei ciuffi che gli tumultuavano sulla fronte e gli celavano a tratti gli occhi.
Il ragazzo si appoggiò alla parete e incrociò le braccia, guardandosi intorno con l'espressione seria e le sopracciglia leggermente aggrottate. L'intuito suggerì a Briz che quell'atteggiamento, un po' scostante e indifferente al resto del mondo, gli fosse abituale.
Quando i loro sguardi si incontrarono, per alcuni lunghissimi secondi rimasero a fissarsi. Briz si ritrovò a guardare in due profonde pozze azzurre, e per un attimo, chissà per quale assurdo motivo, sentì il cuore arrivarle in gola.
Midori si accorse di quegli sguardi intrecciati, e si convinse di aver visto scoccare una scintilla.
Poi gli occhi del giovane si spostarono altrove, con apparente indifferenza.
– Midori... – ansimò Fabrizia senza fiato, aggrappandosi al braccio dell'amica – ma chi diavolo è quel figaccione biondo che è appena entrato?
– Briz, facci due conti! Non ti eri accorta che mancava qualcuno all'appello? Il Drago Spaziale non si guida mica da solo. È il Capitano Pete Richardson dell'USAF, l’Air Force degli Stati Uniti.
– Mmm. Sembra a me o ha l'aria un po'... non so... ombrosa?
– No, non ti sembra soltanto. Direi che ombroso è un aggettivo che gli si addice alquanto. In realtà non sono ancora riuscita a... inquadrarlo. Non sta molto in compagnia, parla poco ed è piuttosto freddino e ironico con tutti. Ha anche trovato da dire con Sanshiro, che per poco, all’inizio, non ha mollato tutto! Ma è spettacolare il modo in cui riesce a far fare al Drago tutto quello che vuole. Doc dice che non avrebbe potuto trovare nessuno migliore di lui, per questo compito.
– Beh, se lo dice Doc, non ho motivo di dubitarne.
– Comunque, non lasciarti intimidire troppo dal suo atteggiamento di superiorità. Lo chiamiamo Capitano perché è il grado che ha nell’Air Force, ma qui è assolutamente alla pari con te e Sanshiro. Anche lui prende ordini da Doc, a meno che non gli venga dato esplicitamente il comando in battaglia.
Briz annuì, e studiò il giovane ancora per un po', mentre parlava con il dottor Daimonji.
Pete era un po' più alto di Sanshiro, muscoloso ma non in modo esagerato, con un volto dai lineamenti marcati ma regolari, il naso diritto e una fossetta sul mento appena accennata. L’abbronzatura creava un contrasto assolutamente piacevole con il colore dei capelli e con gli occhi chiari, che erano ornati da ciglia lunghe e scure. Il colore azzurro cupo della sua uniforme gli donava decisamente.
Eh, sì! Briz dovette ammettere che era passato un bel po' di tempo, dall'ultima volta che aveva posato lo sguardo su un così bell'esemplare maschile del genere umano. Le ricordava un po’ i protagonisti degli anime giapponesi degli anni settanta e ottanta che le piacevano tanto, e che aveva conosciuto guardando i vecchi DVD dei suoi genitori.
Non che fosse interessata a relazioni che andassero al di là di amicizia e cameratismo, sia chiaro. Aveva già dato, in quel senso, e ne aveva avuto più che abbastanza; per lei era un argomento chiuso e archiviato, aveva ben altro a cui pensare, che queste stupidaggini.
Ma nel rifarsi un po' la vista ogni tanto, che male c’era, dopotutto?
In quel momento si rese conto che Pete stava discutendo con il dottor Daimonji, e l'espressione algida e indifferente era stata sostituita da un atteggiamento decisamente più alterato.
– Cosa? – lo sentì esclamare.
E quella parola, da sola, bastò a farle capire di cosa stessero parlando: di lei.
Gli occhi di lui la squadrarono dall’alto in basso e viceversa: una scansione accurata che sembrò registrare ogni più piccolo particolare. Poi le andò incontro a passo deciso.
Briz prese un bel respiro, mettendo insieme l’aria più battagliera che riuscì a trovare, e si drizzò in tutta la sua altezza per prepararsi ad affrontarlo. Per qualche strano motivo, aveva capito subito che, con il Capitano, la faccenda non sarebbe stata semplice come con gli altri.
Yamatake, che aveva seguito la scena, evidentemente aveva avuto la stessa sensazione.
– Ops. Guai. Guai grossi – commentò, preoccupato.
Pete si fermò di fronte a Briz. Lei alzò gli occhi di alcuni centimetri – cosa che non le era mai capitata tanto spesso come quel giorno – e li affondò in quelli di lui. Fu come scrutare in due abissi di ghiaccio. Si sentì gelare, ma per niente al mondo glielo avrebbe fatto capire. Prese un respiro e si armò della sua corazza di aggressività e ironia, in attesa della prima frecciata. Che arrivò, puntuale e scontata.
– Ti prego! Non dirmi che tu sei davvero il pilota di Balthazar! – esordì Pete.
– Ma buongiorno anche a te, Capitan Richardson! Okay, non te lo dico. Sei più contento, così?
Pete guardò il dottore, come se lei non avesse nemmeno parlato: – È una ragazza! – esclamò.
– Va là!? Te ne sei accorto? Complimentoni! – non poté fare a meno di ribattere Briz.
Il giovane la guardò di nuovo, scosse la testa con un sospiro esasperato, e si rivolse di nuovo a Daimonji: – Doc! Ma è una bambina!
Briz decise che era davvero troppo. Lo afferrò per un braccio e lo fece voltare di nuovo verso di lei.
– Scusa, ti dispiace? Punto primo: io sono qui! Piantala di parlare di me come se non ci fossi! Punto secondo: ha parlato Matusalemme! Ma ti sei visto? Avrai giusto un paio d'anni più di me!
Gli altri ragazzi si scambiarono sguardi stupiti, ma anche divertiti. L'unico a cui era capitato di alzare la voce con Pete, era stato Sanshiro. In realtà avevano tutti un po' soggezione di lui, e non si aspettavano che proprio Fabrizia gli avrebbe tenuto testa in quel modo. In pochi secondi, quasi tutti si resero conto che quella ragazzina, alta e impertinente, avrebbe dato filo da torcere al glaciale Capitano Richardson.
Pete prese il polso di Briz tra il pollice e l'indice, e le staccò con deliberata lentezza la mano dal suo braccio.
– I casi sono due: o tu sei più vecchia di quel che sembri, o gli anni di differenza fra di noi sono più di un paio. Ne ho ventisei, fanciullina. Almeno io sono maggiorenne, e anche da un po’!
– Fanciullina ci chiami tua sorella! E, giusto per la cronaca, sono maggiorenne anch'io, da tre anni. E so che ti sembrerà strano, ma pensa! Ho persino la patente!
Tra i presenti cominciò a sentirsi qualche risatina soffocata e qualche commento.
– Oh, oh. La bambina ha un caratterino – si fece sentire la voce di Bunta.
– Mi sa che Non-sbaglio-mai-Richardson ha trovato pane per i suoi denti – ghignò Sanshiro.
– Ragazzi... Non credo che questo sia un bene – sospirò Midori, preoccupata.
Fabrizia e Pete continuavano a guardarsi in cagnesco. Non c'era più traccia di quella scintilla, che Midori avrebbe giurato di aver visto quando i due si erano guardati la prima volta; quando lui non aveva ancora la più pallida idea di chi fosse Briz, né lei di chi fosse Pete.
E intanto l'alterco tra i due continuava.
– Perché c'è una come te a guidare una potenza come Balthazar?
– Perché non mi piace niente, il modo in cui dici una come te?
– Ma perché diavolo nessuno si è preso la briga di dirci che sei una ragazza? Anzi... una ragazzina.
– Magari volevo farvi una sorpresa! Agli altri è piaciuta. Come mai a te no?
– Forse perché io sono un po' più realista. Non stiamo giocando.
– Cosa ti fa pensare che invece io lo stia facendo?
– Beh... mi viene da chiedermi: te ne eri accorta che la guerra è cominciata? Perché, dovunque tu fossi, te la sei presa comoda a tornare, dolcezza!
– Ehi, biondone! Dolcezza con chi!? Per chi mi hai presa? Guarda che io non sono mica una di quelle fighette che sicuramente ti cascano ai piedi quando guardano i tuoi begli occhi blu!
– E tu cosa credi, che mi inchinerò a te soltanto perché sei una donna? Che poi... donna... è una parola grossa, per descriverti!
– Ma come ti permetti?! Brutto idiota di un maleducato!
– Ragazzi! – tuonò la voce di Daimonji, zittendoli all'istante e facendoli girare verso di lui – Sentitemi bene, voi due! Non ci siamo! La guerra è là fuori, e che ne scoppi un'altra qui dentro è l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno! Pete, fattene una ragione: abbiamo bisogno di Briz! È la figlia dello scienziato che ha progettato e costruito Balthazar!
– Ah, fantastico. Un regalo di compleanno di papà, eh? – fu il commento pieno di sarcasmo di Pete – Come ti ho già detto, questa è una guerra vera, mica il set di Star Wars!
– Ma dannatissimo bastardo, figlio di put… – Midori la afferrò da dietro appena in tempo, interrompendo l'insulto, e  trattenendola prima che gli si scagliasse contro per spintonarlo.
– Zitta, Briz! Calmati. Avanti, respira... E lascia perdere – le disse sottovoce.
Fabrizia rimase a guardare il suo avversario ansante, con gli occhi che mandavano lampi. 
– Non osare, mai più, parlare di mio padre – sibilò a bassa voce – Se il dottor Daimonji ha fiducia in me, dovrai averla anche tu, cafone presuntuoso. E se non ti piaccio... amen! È un problema tuo!
Le parole offensive sembrarono scivolare addosso al giovane, come se non le avesse nemmeno sentite.
– Ma perché tu? Non poteva imparare chiunque altro a guidare Balthazar? 
– No! - rispose Doc bruscamente, al posto di Briz – Come ho scelto Sanshiro, per via delle sue doti particolari, per lo stesso motivo ho convocato Briz: è l'unica persona al mondo in grado di usarlo per combattere.
– Oh, ma vieni! Un'altra con i superpoteri – commentò Pete quasi tra sé, alzando gli occhi al cielo.
– Che ti succede, Capitan America? Sei invidioso? Li volevi anche tu, poverino?
– Briz! – la richiamò Doc.
– Non ho nessun super potere – sbuffò Fabrizia con voce stanca, passandosi una mano tra i capelli – È solo che io... non guido Balthazar. Io sono Balthazar!
– Uhmm…  Dovrei sentirmi impressionato, da una frase ad effetto come questa?
– Certo che no. Anche perché non ho nessuna intenzione di stare a spiegartene il senso. Probabilmente nemmeno capiresti.
– Cerca di non sottovalutarmi troppo, Briz, o come diavolo ti chiami.
– Mi risulta che finora sei tu, quello che sottovaluta.
– E va bene. Se il dottor Daimonji si fida di te, vedrò di provarci anch'io.
– Uh, che concessione! Quale terribile sforzo ti sarà costata!
– Non lo immagini nemmeno...
Briz guardò la sua amica e disse: – Midori, avevi detto che il qui presente Capitan Richardson era ironico, ma non hai reso l'idea. È decisamente sarcastico!
– Perché, c'è differenza? – chiese lui.
– Tra ironia e sarcasmo? Più o meno come tra un sospiro e una scor... voglio dire, un versaccio volgare!
– Tsé! E poi il sarcastico sarei io? – commentò Pete con un sospiro esasperato e tendendole la mano di malavoglia.
Si vedeva da lontano un miglio, che fu un gesto dettato solo dal senso del dovere. Briz gliela strinse con la stessa mancanza di entusiasmo, prima che cambiasse idea. Tutti guardarono le loro mani, che si presero e si lasciarono velocemente, come se quel contatto fosse durato anche troppo, per i loro gusti. Ma i loro occhi continuarono a sfidarsi.
Sì, perché quella che era scattata tra di loro, era davvero una sfida in piena regola, lo capirono tutti.
Le scintille riapparvero per qualche secondo, ma non somigliavano a quelle che Midori credeva di aver visto all'inizio. Neanche un po'. Questi due si odiavano, altroché!
– Credevo che Briz fosse un nome da maschio – commentò Pete.
– Non sei l'unico che l'ha pensato – ribatté lei, guardando Sanshiro che, poco prima, aveva detto esattamente la stessa cosa – Però solo tu ne hai fatto una questione di stato.
– Ma che razza di nome è Briz? Sembra quello di un cane – la provocò Pete, ignorando il suo commento.
– Il tuo invece è il banalissimo e comunissimo nome da americanaccio ignorante e pieno di sé. Qualunque cosa tu mi dica, io te la rigiro indietro! Vogliamo continuare su questo tono ancora per molto?
– Okay, fanciullina. Piantiamola qui e dimmi come ti chiami davvero.
– E dàgli! Ti ho già detto di non chiamarmi così!
– Io ti chiamo come mi pare, fanciullina!
– Gnnn, mi sale il crimine! – ringhiò lei – Mi chiamo Fabrizia Cuordileone! Lionheart, nella tua lingua.
– Caspita. Tutto un programma! Con un cognome del genere dovrai stupirmi con effetti speciali.
– Lo farò, bel pupone! E senza farla cadere tanto dall'alto! – replicò lei con una sicurezza che era ben lungi dal provare. Gli voltò le spalle e sibilò sottovoce, in spagnolo, scuotendo appena la testa:
– Cabròn.
Poi si rivolse agli altri: – Ragazzi, è stato un piacere conoscervi e sarà un onore combattere al vostro fianco. Ma ora devo andare a salutare un altro paio di amici che non vedo da un po'. A domani! – e così dicendo sollevò le braccia e agitò le mani in un saluto scanzonato. Dopo di che infilò la porta alla svelta.
“Maledizione, lo so che questa somiglia tutta a una dannatissima fuga, ma se non me ne vado di qui, finisco per dare di sclero!” pensò agitata.
Midori le andò dietro, seguita a poca distanza da Doc.
– Hai detto che non eri ancora riuscita a inquadrare Pete, vero? – disse Briz, all'amica che teneva il passo di fianco a lei – Perché io, invece, ho già trovato in quale categoria collocarlo!
– E... sarebbe? – incalzò Midori, già paventando la risposta.
– Bello e stronzo!!!
Il dottor Daimonji, dietro di loro, scosse la testa. Aveva immaginato, conoscendo sia Pete che Fabrizia, che qualche scintilla ci sarebbe stata. Ma le cose erano andate molto peggio di quel che aveva temuto.
 
 *********
 

Midori e Fabrizia imboccarono un sentiero, che spariva in un boschetto situato a circa mezzo chilometro dal Faro. In una radura fra gli alberi sorgeva una costruzione di legno nella quale Briz aveva alloggiato tre amici, venuti con lei dall'Italia circa un anno prima.
Il primo dei tre le corse incontro lungo il sentiero e quasi la travolse, abbaiando prima e uggiolando poi.
– Atlas! Bestione, stai calmo. Anch'io sono felice di rivederti.
Il pastore belga, dal folto pelo lungo e nero, si rovesciò sulla schiena e si lasciò coccolare, con la lingua penzoloni.
– Vergognati! Grande e grosso e guarda come ti comporti! Midori ti ha trattato bene, eh? Sei diventato un ciccione!
Briz si rialzò e il cane la imitò e la seguì. Un paio di nitriti salutarono le ragazze e Fabrizia allungò il passo.
Una grande tettoia ombreggiava la larga parete della costruzione, sulla quale si apriva un portone che dava in un ampio corridoio interno che la attraversava fino sul retro, su cui si apriva un'uscita posteriore. Sulla sinistra del corridoio c'erano due porte: una era la selleria, che custodiva selle, finimenti, e un piccolo frigorifero e un armadietto contenenti farmaci per uso veterinario e materiale da primo soccorso; l'altra era chiusa a chiave. Di fronte ad esse, sulla destra del corridoio, si aprivano le porte di due box, entrambe con la parte inferiore chiusa. Al di sopra, si affacciavano i musi di due cavalli: uno era talmente nero che il mantello aveva riflessi bluastri; l'altro era pezzato, con la testa scura e la fronte attraversata da una lista bianca che finiva in mezzo alle froge. Aveva la criniera lunga e ondulata, nera ma striata di bianco, come la coda.
– Obi-wan! Indy! Mi siete mancati, fratellini! Siete bellissimi, non vedevo l'ora di rivedervi!
– Li ho cavalcati a turno ogni volta che è stato possibile, e Sakon e Jamilah mi hanno aiutato: abbiamo fatto dei turni per dargli da mangiare e tenerli puliti. Ma ci ha dato una mano notevole anche Hakiro Kobayashi,2 il ragazzino che abita a pochi chilometri da qui e che hai contattato tu.
– Grazie, sapevo di poter contare su di voi – disse Briz, abbracciando il muso nero di Obi-wan. Poi aprì i box e condusse i due equini nel grande recinto sul retro, lasciandoli liberi di scorrazzare.
Si appoggiò allo steccato e osservò i suoi cavalli: Indy, il pezzato, era sempre stato suo, mentre Obi-wan era appartenuto a suo fratello Alessandro. Non avrebbe mai ringraziato abbastanza il dottor Daimonji per aver capito quanto quegli animali fossero importanti per lei, e per averle permesso di portarseli dietro dall'Italia e messo a disposizione quella vecchia costruzione in legno, che poi aveva fatto adattare a scuderia.
Organizzare il loro trasferimento in Giappone non era stato uno scherzo, un anno prima: due cavalli e un cane non erano esattamente una coppia di criceti. Briz aveva affrontato quel lungo viaggio insieme a loro, nella stiva dell'aereo, ma ne era valsa la pena. Atlas, Obi-wan e Indy erano tutto ciò che le restava del suo passato.
Midori vide la sua amica assorta. Sapeva che ogni tanto le accadeva di perdersi nei ricordi e di diventare malinconica. Non che se ne stupisse: con quel che le era capitato, era il minimo. Per fortuna, guardandosi alle spalle, vide qualcosa che l'avrebbe distratta.
– Ehi, Briz. Guarda chi arriva.
Dal sentiero giungevano chiacchierando due persone. Fabrizia li riconobbe immediatamente.
Sakon Gen era alto, snello e ben fatto, con la pelle chiara, gli occhi a mandorla di un marrone scurissimo e i capelli lunghi, dal taglio irregolare, neri e mossi; le sopracciglia erano sottili e il naso lievemente aquilino: nel complesso, un giovane piuttosto bello. Nelle sue fattezze si intuiva l'incrocio di etnie dei suoi genitori: padre giapponese e madre australiana. Possedeva un quoziente intellettivo eccezionale, intorno al 340, forse il più alto presente sulla Terra, e un carattere talmente sereno e pacato, che instillava tranquillità anche in chi gli stava vicino. Il giubbotto grigio della sua uniforme era perfettamente in stile con la sua indole seria e modesta.
Contrastava parecchio con la ragazza che lo accompagnava: un cespuglio di riccioli, di un castano scurissimo, coronava un volto color cioccolato al latte. Aveva il naso piccolo leggermente schiacciato e una bocca sorridente, dai denti bianchissimi e le labbra carnose. Ma la cosa più incredibile, su quei tratti che richiamavano indiscutibilmente l'Africa, erano gli occhi: grandi e con ciglia nere lunghissime, ma di un intenso color acquamarina che creava un contrasto meraviglioso con la pelle scura, almeno quanto il suo giubbotto rosa pallido. Quanto a miscuglio di razze, anche Jamilah Nyong'o non scherzava: suo padre era kenyota mezzosangue, sua madre neozelandese. Erano rimasti a vivere ad Auckland, la città da cui proveniva anche Sakon e in cui viveva sua madre. Il padre di Sakon, che era stato un noto archeologo, era morto anni prima, durante una spedizione nel deserto del Sahara.
Mentre Jami stava ancora studiando per la seconda laurea, Sakon si era già laureato due volte, e da diversi anni. Ma lui, come diceva Jamilah, non faceva testo. Era un fuoriserie: non ci si laurea in Ingegneria Aerospaziale a sedici anni e in Astrofisica a diciannove scarsi, col massimo dei voti, se non si è qualcosa di più di un fenomeno. Senza contare altri vari master e dottorati nelle più disparate materie tecnico-scientifiche. Non per niente Jamilah lo aveva conosciuto all'Università in qualità di suo professore, nonostante la giovane età.
Ora Sakon aveva ventisette anni, e lei, che ne aveva ventiquattro, stava imparando talmente tanto, facendogli da assistente, che a volte pensava di non avere spazio a sufficienza nella sua testa, per tutte quelle nozioni. Timore totalmente infondato, visto che anche Jami aveva una mente sveglia e un'intelligenza comunque superiore alla norma. Anche lei aveva già una laurea in Astrofisica ed era a pochi passi da quella in Ingegneria Aerospaziale. Lei era convinta che non sarebbe mai arrivata a eguagliare la mente di Sakon; intanto però, era orgogliosa che lui, in quanto Ingegnere Capo, esperto nella manutenzione e nel funzionamento del Drago Spaziale e custode di tutti i suoi segreti, avesse scelto proprio lei come assistente. Qualcosa doveva pur significare.
Fabrizia andò loro incontro e li abbracciò. Anche loro le erano mancati, in quell'ultimo periodo.
– Briz, ma che è successo? Ha detto Doc che avete fatto scintille, tu e il nostro Capitano – disse Sakon.
– Scintille? È già un miracolo se non abbiamo appiccato un incendio. E poi ha cominciato lui! Mi odia.
– È solo perché non ti conosce. Quando avrà visto Balthazar in azione, cambierà idea.
– È proprio questo il problema, Sakon! Tutti vi aspettate grandi cose da me! Cuordileone: un nome una garanzia. Io adesso sono terrorizzata! E comunque, per far colpo su Capitan America, dovrei come minimo vincere questa guerra da sola.
– No! Non lo avrai davvero chiamato Capitan America! – chiese Jami, ridendo.
– Beh, lui mi chiama fanciullina e... Dio, che orrore: dolcezza! Ma ti rendi conto! A me!
– Oh, sì, effettivamente sono offese imperdonabili – scherzò Sakon.
– Dai, ma fanciullina con chi!? E poi detto con quel tono di condiscendenza e compatimento, come se lui fosse il Padreterno! Secondo me ha dei problemi con le donne. E poi... ha osato nominare mio padre!
– Sì, beh, so che questa è una cosa che ti scoccia parecchio. Ma qualcosa mi dice che gli hai davvero tenuto testa. Chiamarlo Capitan America è parecchio ironico...
– Già, per non parlare di biondone o bel pupone – intervenne Midori.
– Bel pupone? A Pete? No, dai, non posso crederci! – esclamò Jamilah, facendo tanto d'occhi.
– Oh, ma se è per questo Briz gli ha detto di molto peggio. Cose del tipo: cafone presuntuosobrutto idiota di un maleducato... – cominciò a elencare Midori, contando sulle dita – Ah, un dannatissimo bastardo e un figlio di put... che sono riuscita a interrompere in tempo. Ah, e vogliamo parlare di cabròn? Ma lui non ha raccolto, probabilmente lo spagnolo non lo capisce.
– È ovvio, che non lo ha capito. È già un miracolo se parla correttamente la sua, di lingua! – esclamò Briz.
– Già, dimenticavo – aggiunse Midori – Gli ha detto anche che il suo nome è quello tipico e banalissimo dell'americanaccio ignorante e pieno di sé!
– Oh, senti, lui mi aveva appena detto che Briz è un nome da cane!
–  Oddio... – commentò Sakon, senza altre parole, portandosi una mano alla fronte.
Midori continuò il suo resoconto citando l'ultima affermazione della ragazza: – E ha detto anche, per fortuna solo con me, che il suo giudizio sintetico su di lui sta in due parole.
– Gesù, Giuseppe e Maria… non oso chiedere – sussurrò Jamilah, tra il divertito e il preoccupato.
– Beh, ma ho detto la verità! – si difese Briz con innocente candore – È davvero bello e stronzo!
 Sakon e Jamilah si guardarono e scossero la testa.
– Ahiahiai... – fu il commento di Sakon – La vedo davvero dura. Ma molto, molto dura.
 
* * * * * *
 
Più tardi, Midori accompagnò Fabrizia alla clinica del Centro.
Il dottor Toshiro Watanabe e la dottoressa Yumiko Mori la salutarono con calore.
Toshiro era un medico cinquantenne alto e asciutto, con gli zigomi pronunciati e una perfetta, lucidissima pelata. Briz si era sempre tenuta per sé, che il dottore le sembrava il disegno animato della pubblicità del MastroLindo.
Yumiko era una bella donna di circa quarantacinque anni, con qualche filo argentato, nei capelli nerissimi, che le dava un'aria signorile e distinta. A lei ricordava Michelle Yeoh, un'attrice americana di origine orientale che le piaceva molto.
Quando Midori se ne fu andata, i due medici sottoposero Briz ad una visita approfondita per verificare che le sue condizioni psicofisiche fossero al top, per poter reggere, nel prossimo futuro, lo stress da battaglia. Soprattutto quello a cui l'avrebbe sottoposta la NGC, la Neuro Genetic Connection, ovvero il sistema sperimentale di combattimento ideato da suo padre, che le permetteva non solo di guidare Balthazar ma, in un certo senso, di diventarlo. 
Al Centro erano in pochissimi a sapere in cosa consistesse realmente questa Connessione NeuroGenetica, e Briz voleva che le cose non cambiassero. Era una faccenda sua. Era già troppo la frase che si era lasciata sfuggire, sull’onda della rabbia, con quello scassapalle di uno yankee.
La dottoressa Mori si occupò anche delle analisi del sangue e di controllare il piccolo dispositivo a rilascio ormonale continuo che le aveva impiantato da tempo nella parte interna del braccio sinistro, appena al di sopra dell'incavo del gomito. Era l'ultimo passo fatto, l'ultimo sacrificio che Briz aveva dovuto chiedere al suo fisico.
Quel fenomeno naturale che appariva circa ogni ventotto giorni in tutte le donne del mondo, interferiva con la NGC, come aveva scoperto a sue spese durante uno dei primi addestramenti: aveva avuto un collasso.
Naturalmente non poteva permettere che ciò succedesse in battaglia. Non c'era molto da stupirsi se ultimamente aveva cominciato a sentirsi poco femminile, ancora più di quando era un'adolescente lunga, secca e occhialuta, con i capelli corti e dritti.
Quel dispositivo le aveva tolto quella cosa che, per tutte le donne del mondo, era una gran rottura di scatole ma, allo stesso tempo, la quintessenza della femminilità: Fabrizia non aveva più il ciclo mensile da quasi un anno.
                                                      
> Continua…
 


Nota dell’autrice (fulminata come una lampadina)
1 Ho cambiato le divise dell'equipaggio perché, a dirla tutta, quelle originali della serie anni settanta, con la calzamaglia e la mutanda al di sopra, tipo Superman, nel 21° secolo... non si possono proprio guardare, via!
 
2 Hakiro. Questo è un personaggio che ho intenzionalmente e spudoratamente stravolto, sminuito e relegato a un ruolo estremamente marginale. Nell’anime era un bambinetto di una decina d’anni, figlio del guardiano del Faro (che nessuno ha mai visto) e che faceva inspiegabilmente, almeno per me, parte dell’equipaggio. Io lo odiavo, perché lo reputavo totalmente inutile. La truppa del Drago, di tutto avrebbe avuto bisogno, fuorché di una mascotte che tutto ciò che faceva era mettersi nei guai e creare ulteriori casini. Tutto ciò per dire che non avrei proprio saputo come trattarlo. Così, molto vigliaccamente, l’ho praticamente segato! (Però gli ho messo il cognome, Kobayashi, di uno dei suoi creatori.)

Ma se è per questo non esisteva nemmeno un Centro di Ricerche, la base vera e propria era il Drago stesso, che si portava in giro per il mondo (ed eventualmente nello spazio) tutto ciò che serviva. L’equipaggio “viveva” nel Drago, che è lungo circa 400 mt. Ma io soffro di claustrofobia, e a me ‘sta cosa dava l’ansia (e pure a Fabrizia, porella, abituata a vivere all’aria aperta).
Scusate la lunghezza del capitolo, spero i prossimi di riuscire a farli più corti. Magari li spezzerò. Ma non vi prometto niente…
Ringrazio di cuore chi si è soffermato a leggere, spero che continuerete.


Ma la mia gratitudine più sincera va a MiciaSissi che mi ha recensita (e incoraggiata a pubblicare), e a Divergente Trasversale (ora Kamony) che oltre a vincere la palma della mia prima recensione, mi ha persino messa tra le seguite. Non me l’aspettavo. Vi adoro!
E chiunque voglia lasciare un commento è il benvenuto.
Io vi lascio la mia rivisitazione a pastelli del Capitano “bello e stronzo” Pete Richardson, Se non s’è capito, è per lui che avevo un debole, a quei tempi. Fabrizia, per ora, molto meno…
Hasta la vista! 


Pete-Richardson

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Capitolo 3
*** 2 - Con il ghiaccio nel cuore ***


~ 2 ~
CON IL GHIACCIO NEL CUORE
 
 

Fabrizia chiuse gli occhi e lasciò che l'acqua sciacquasse via dalla sua pelle il sapone, il sudore e… la fifa. Era stremata, sentì le gambe tremarle e si ritrovò ad accucciarsi sul piatto della doccia, abbracciandosi le ginocchia e nascondendovi il volto, cercando sollievo nel caldo picchiettare delle gocce sui muscoli contratti del collo e della schiena.
Non poté fare a meno di tornare con la mente alla storia degli Zelani. Il loro pianeta stava, da secoli, avvicinandosi inesorabilmente ad un buco nero che un giorno li avrebbe inghiottiti. Zela aveva ormai i mesi contati. Per questo, i più brillanti scienziati Zelani avevano, in un ormai lontano passato, creato Black Darius, un essere senziente dalla potente intelligenza artificiale, che potesse elaborare un piano di salvezza. Ma lui aveva preso il sopravvento, aveva creato a sua volta quattro orrendi, giganteschi generali – Desmon, Denkel, Killer e Ashmov – e insieme a loro aveva dato vita agli Uomini Uccello, orribili cyborg alati, soldati senza volontà propria. Essi rappresentavano il soldato perfetto per antonomasia: eseguivano gli ordini meccanicamente, senza discutere e incuranti del pericolo. E lavoravano per costruire i Mostri Neri, che le forze dell'Alleanza Terrestre1 avevano chiamato Armata dell'Orrore Nero.
Darius aveva deciso che la conquista della Terra e lo sterminio dell'umanità fossero l'unico sistema per garantire una patria e un futuro agli Zelani, che erano comunque un popolo ormai oppresso dal loro Imperatore. Al punto che si era formata, su Zela, una specie di Resistenza Ribelle, la quale, per sfuggire alla micidiale attrazione del buco nero, aveva costruito una inespugnabile città-fortezza nel sottosuolo del pianeta, dalla quale i più validi scienziati di cui disponeva, tentavano di ostacolare i folli sogni di conquista di Black Darius, cercando un sistema pacifico alternativo per la sopravvivenza del loro popolo.
Era passato circa un mese e mezzo da quando Briz era tornata in Giappone, e aveva affrontato tre battaglie, senza per questo combinare un granché, se ne rendeva conto anche da sola.
La prima volta, circa quaranta giorni prima, un Mostro Nero aveva attaccato in India. Il Drago Spaziale era partito immediatamente, e così lei aveva potuto vedere in azione il Capitano Richardson. E non si era minimamente sognata di aprire bocca: aveva avuto la conferma che se c'era una persona che poteva ottenere il massimo, dalle prestazioni di quella mastodontica astronave, era lui.
Quando aveva sentito nell'auricolare la sua voce che le ordinava di uscire, le uniche parole con cui aveva potuto rispondere erano state:
– Agli ordini. Balthazar, pronto.
Aveva aspettato che uscisse prima Sanshiro, e aveva assistito affascinata all'assemblaggio del Gaiking. Sanshiro, all'interno del Drago Spaziale, raggiungeva un piccolo veicolo che lo trasportava nella testa del Drago, dentro la quale si trovava l'abitacolo. A quel punto Midori lanciava i due componenti che formavano le braccia e le gambe e, una volta che questi erano fuori, la testa del Drago con dentro Sanshiro si staccava e, raggiunte le altre parti, si univa a loro. Il muso del Drago diventava il torace del robot. Dalla parte superiore, tra le spalle, la testa del Gaiking emergeva, portandosi dietro l'abitacolo e le imponenti corna, che si ritrovavano così ai lati della testa del grande robot.2
Fabrizia aveva seguito le manovre col cuore in gola poi, cercando di dominare il terrore, aveva raccolto le zampe di Balthazar in posizione di volo, e si era lanciata lungo la pista che l'avrebbe portata all'esterno, passando attraverso i pannelli sollevati situati sul petto del Drago.
Una volta all'aperto, il Mostro Nero le si era parato davanti in tutto il suo orrore. In pochi secondi si era tolta il casco e il giubbetto viola dell'uniforme, rimanendo con la speciale tuta sottostante nera – che era uguale a quella dei compagni solo all’apparenza – e aveva effettuato la NGC. Un'armatura bianca e oro l'aveva rivestita.


Briz-NGC
L'elmo che le ricoprì interamente il capo aveva l’aspetto di un muso felino e, quando abbassava la celata, le fessure verdi che venivano a trovarsi davanti ai suoi occhi servivano ad acuire la sua vista. La poltroncina, su cui lei sedeva quando pilotava, si spostava all'indietro per lasciarle spazio, e lei restava in piedi, al centro della piccola carlinga posta nella testa di Balthazar. Teneva le mani sulla cloche, ma più che altro per mantenere l'equilibrio.
Le bastava formulare il pensiero di ciò che voleva far fare al leone, o pronunciare il nome dell'arma da usare, perché i colpi partissero. Spesso li accompagnava con bruschi movimenti degli arti superiori, come se fosse lei stessa a combattere.3 
Prima di tutto questo, però, la vetrata dell’abitacolo si oscurava e diventava uno schermo, sul quale la ragazza continuava a vedere tutto quello che c'era al di fuori; ma gli altri non potevano più vedere lei. Il contatto con il resto dell'equipaggio rimaneva solo vocale, poiché lei non voleva che qualcuno potesse vedere cosa diventava quando combatteva.
Fabrizia era Balthazar. Il suo segreto.
Erano in quattro a conoscerlo: Doc, Sakon, Jamilah e Midori. E pregava che nessun’altro, mai, lo venisse a sapere.
Nemmeno Pete.
Soprattutto Pete.
Si sentiva un mostro, e non voleva, per nessuna ragione al mondo, che gli altri ragazzi potessero considerarla tale. Avevano ben altri mostri, da affrontare.
Come quello che si era trovata di fronte all’improvviso, e che lei aveva attaccato con i raggi laser che si sprigionavano dagli occhi del leone robot. Al Mostro Nero avevano fatto lo stesso effetto di due schizzi d'acqua fresca. Poi un'ondata di calore l'aveva travolta e Balthazar si era ritrovato a rotolare per terra, in una palla di fuoco. A quel punto Sanshiro era intervenuto e, dopo un combattimento nemmeno troppo lungo e un aiuto dallo Skylar di Fan Lee, aveva avuto ragione del mostro.
Quando Briz si era ripresa, la sua prima battaglia era finita.
Al rientro dentro al Drago, non aveva avuto nemmeno il coraggio di presentarsi al suo posto nella sala comandi. Effettuata la disconnessione dal leone – che fra l'altro le procurava sempre alcuni minuti di intensi malesseri, che andavano dalla nausea alla febbre alta con tanto di tremarella – aveva deciso di rimanere lì, seduta dentro a Balthazar, finché non erano tornati al Faro di Omaezaki.
Ma quando finalmente era scesa dal Drago, aveva finito per infilarsi lungo il corridoio della base proprio insieme a Pete. Lui l'aveva guardata, valutando il volto pallido e le labbra screpolate della ragazza. Aveva aperto la bocca per dirle qualcosa – dalla sua espressione niente di buono, aveva giudicato Fabrizia – e aveva sollevato le mani per farlo tacere.
– Non. Dire. Una. Parola.  
Poi, scrollando la testa, aveva abbassato le mani e se ne era andata, senza riuscire a togliersi di dosso la sensazione di assoluta inutilità, che le aveva fatto provare lo sguardo di ghiaccio del Capitano Richardson.
Erano passate appena un paio di settimane, ed era successa una cosa orribile, che li aveva scossi tutti.
Sakon e Sanshiro avevano salvato una ragazza inseguita da alcuni Uomini Uccello sulla spiaggia, e l'avevano portata, ferita, a bordo del Drago. Pete, duro e intransigente come al solito, non aveva approvato, ma Sakon, evidentemente colpito dagli occhi blu della ragazza, che si chiamava Lisa, l'aveva difesa.
Pochi giorni dopo, una nave era scomparsa al largo delle coste di Shikoku, ed era stata ritrovata il giorno successivo nel deserto di Gobi. Quando il Drago era partito, diretto al deserto per indagare sul misterioso fatto, Lisa, che aveva passato quegli ultimi giorni quasi sempre in compagnia di Sakon, era andata con loro. E durante il volo era accaduta la tragedia.
Midori aveva scoperto che Lisa era una spia di Zela; peggio ancora: una kamikaze. Dentro al suo corpo era nascosta una bomba a orologeria, pronta ad esplodere appena prima dell'atterraggio. La ragazza aveva voluto questo incarico per vendicare il fratello, che era stato reclutato tra i soldati dell'Orrore Nero ed era morto in battaglia. Ma Lisa, che in quei pochi giorni aveva trascorso quasi tutto il suo tempo con Sakon, aveva finito non solo per innamorarsi di lui, ma anche per vedere le cose dal punto di vista dei terrestri. Così aveva deciso che si sarebbe lanciata dal Drago, per esplodere lontano da loro.
Sakon, assistito da Jamilah, aveva tentato il tutto e per tutto per disinnescare la piccola ma micidiale bomba nascosta nel petto di Lisa. Attraverso un'incisione sotto alla clavicola, aveva raggiunto l'ordigno, che però era perfettamente compenetrato nei tessuti organici della ragazza. Strapparlo semplicemente, avrebbe significato ucciderla, ma anche disinnescarla era stata un'impresa impossibile.
Lisa, rimasta cosciente durante l'intervento, si era resa conto che non c'era più tempo. Era saltata giù dal lettino, aveva raggiunto il primo portellone e premuto il pulsante per aprirlo. Sakon e Jamilah l'avevano inseguita.
– Ti amo, Lisa! Non farlo! – aveva gridato Sakon, convinto di avere ancora qualche minuto a disposizione per tentare di salvarla.
Ma Lisa, forse più consapevole di lui della realtà, gli aveva risposto:
– Anch'io ti amo. Saremmo stati bene insieme. Ma non era destino.
Lisa era saltata dal portellone e, pochi secondi dopo, una devastante esplosione aveva scosso il cielo; lo spostamento d'aria aveva scagliato il Drago ad alcune centinaia di metri di distanza.
Sakon, in piedi davanti al portellone da cui Lisa si era buttata, era stato spinto di nuovo all'interno, dove era caduto all'indietro tra le braccia di Jamilah, rotolando entrambi sul pavimento. Si erano risollevati a sedere lentamente, mentre gli ultimi bagliori dell'esplosione riverberavano sui loro volti rigati di lacrime. Jamilah aveva chiuso gli occhi e, ancora abbracciata a Sakon, dietro di lui, gli aveva premuto il viso contro la schiena e lo aveva stretto a sé.
Lisa non c'era più.
Pete aveva rimesso in rotta il Drago velocemente e, raggiunto il deserto di Gobi, il Gaiking e Balthazar avevano attaccato il mostro responsabile della sparizione della nave. Fabrizia lo aveva scalfito con i raggi laser e colpito un paio di volte con i boomerang di luce, aprendo piccoli solchi sulla superficie metallica, poi era intervenuto Sanshiro, anche lui talmente fuori di sé, per ciò che era accaduto a Lisa, che lo aveva fatto fuori in un amen, senza dare a Fabrizia il tempo di fare altro. Non che a lei dispiacesse: l'importante era aver distrutto il Mostro Nero.
Erano rientrati nel Drago e avevano ripreso i loro posti nella sala comandi. Sakon era distrutto dal dolore, e gli altri non erano meno sconvolti. Cosa che il gelido Capitano Richardson rifiutò di comprendere.
– Non capisco come possiate soffrire per lei. Io lo avevo detto di non farla salire a bordo del Drago! Era una spia, un mostro! Voleva ucciderci tutti!4
– Era una persona! – gli aveva urlato in faccia Briz – E ha scelto di salvarci e morire da sola, alla fine! Se davvero era un mostro, tu non lo sei di meno! E non osare rispondermi, perché in questo momento ne avresti parecchi contro! Stai zitto, arrogante sputasentenze che non sei altro. Fa’ il tuo lavoro e portaci a casa.
– Briz, calmati! – l’aveva richiamata Doc; poi aveva proseguito, in tono stanco e addolorato: – Pete, Briz ha ragione: a Lisa nessuno aveva mai insegnato niente di diverso dall'odio e dalla vendetta. Darius e i suoi scagnozzi hanno sfruttato il suo dolore a loro favore. Ma qui, lei ha trovato qualcuno che le ha fatto vedere le cose da un altro punto di vista, e le ha fatto scoprire di avere un cuore. Ha sacrificato la sua vita per Sakon. E per noi. Non permetterti di giudicare, se non capisci!
– Sì, signore – aveva risposto Pete, in tono stranamente sommesso. Doc era l'unico del quale, alla fine, anche lui aveva soggezione.
Fabrizia si rialzò, chiuse l'acqua della doccia e si avvolse nell'accappatoio.
Quel giorno c'era stata la sua terza battaglia, e anche stavolta Pete aveva trovato qualcosa da dire. Così lo aveva accuratamente evitato e, rientrati al Centro, era andata di corsa nella sua stanza.
Non aveva combattuto molto, è vero, ma era convinta di avere fatto la cosa giusta, lasciando il mostro al Gaiking, al Bazzora e al Drago, e andando a difendere una scuola che correva il rischio di venire travolta dalla battaglia.
Era un edificio ad un solo piano, basso e largo, e Balthazar lo aveva protetto, tra le quattro enormi zampe, respingendo diversi colpi delle armi dei giganteschi robot che avevano rischiato di colpirlo di rimbalzo. Grazie a ciò, l'ultima classe rimasta dentro, ventuno bambini e due maestre, aveva avuto il tempo per uscire aiutata dai Vigili del Fuoco. Quando Briz aveva lasciato la scuola e si era alzata in volo per raggiungere il Drago, nel giro di pochi minuti l'edificio era collassato, colpito dall'esplosione del Mostro Nero, riducendosi a un mucchio di macerie. Mentre anche Gaiking e Bazzora rientravano, nell'auricolare le era risuonata la voce di Pete.
– Allora, hai finito di giocare ai pompieri?
Fabrizia aveva sibilato sottovoce, in italiano, le uniche parole che le erano venute in mente: – Fottiti, soldato idiota.
Tanto lui non avrebbe capito.
E adesso… si era fatta ora di cena. Nella sala da pranzo le sarebbe toccato affrontarlo. Valutò la possibilità di mangiare qualcosa da sola, in camera sua, ma la scartò. I problemi andavano risolti, non evitati. E il suo capitano era decisamente un problema!
In sala da pranzo almeno non sarebbe stata da sola: la presenza degli amici le avrebbe dato un po' di sicurezza. Almeno sperava. In realtà non voleva nemmeno coinvolgerli troppo nei suoi casini, ma aveva come la sensazione che Pete fosse un grattacapo non solo per lei. Pensò che la miglior difesa fosse l'attacco: quando entrò nella mensa, e vide Pete squadrarla da capo a piedi con il suo solito atteggiamento di superiorità e supponenza, non gli diede modo di parlare per primo e partì in quarta.
– Qualunque critica tu abbia da farmi, io oggi ho salvato ventitré persone. E sono fiera di averlo fatto.
Lui le voltò le spalle, in un gesto sprezzante.
– Le hanno salvate i pompieri. Nessuno ti aveva ordinato di andare alla scuola – le ribatté in tono freddo e distaccato, senza nemmeno guardarla.
– E nessuno mi aveva ordinato di non farlo, se è per questo. Ho una testa anch'io, cosa credi? Tu sarai anche il Capitano Richardson, ma io sono il Comandante Cuordileone. E in ogni caso non eseguirei un ordine, che come ho già detto non c'è stato, se andasse contro la mia coscienza! – esclamò lei.
Finalmente Pete si degnò di voltarsi e guardarla, con espressione di condiscendenza.
– Era compito dei Vigili del Fuoco salvare i bambini, ce l'avrebbero fatta comunque. Tu sei solo piena di ideali eroici! Cacciati una cosa in quella testolina, Briz: non puoi salvarli tutti!
– Lo so! Ma devo salvare quelli che posso!
– Amen. Bella frase. Da ragazzina che ragiona col cuore e non con il cervello.
– E meno male, che almeno io lo faccio! – ribatté Briz, alterata.
Poi si calmò di botto, prese un respiro e brontolò, quasi parlando a sé stessa:
– Oh, merda… tu non sei nato così. Non puoi, essere nato così. – Così come? Ma di che diavolo stai parlando?
– Nessuno nasce con un pezzo di ghiaccio al posto del cuore. Ti deve essere successo qualcosa… – disse Fabrizia.
E si rese conto di aver probabilmente colto nel segno, perché il volto del ragazzo impallidì leggermente. Le rispose in tono scocciato:
– Risparmiami la tua psicologia da quattro soldi! Cosa vuoi saperne, tu, di me e del mio passato!
– Proprio un bel niente, fidati! È solo che non ci vuole Freud, per capirlo. Cosa credi, di essere l'unico ad avere un passato doloroso e difficile alle spalle? Beh, benvenuto nel club. Qualunque sia il tuo problema, sappi che un cuore di ghiaccio ha solo due alternative: o si spezza o si scioglie. E nessuna delle due è un'esperienza piacevole. Spero di esserci, e di ridere tanto, quando succederà! – e così dicendo, Briz gli voltò le spalle per andare a cercarsi un posto dove sedersi, lontano da lui.
Gli altri avevano seguito il loro alterco in silenzio, senza azzardarsi a fiatare. Per qualche strana ragione, la faccenda sembrò a tutti molto più seria dei litigi precedenti, anche perché, a quanto pareva, per Pete la questione non era ancora chiusa. Briz aveva fatto appena un paio di passi, che lui proseguì la discussione.
– Ma tu ti ascolti, quando parli? Passati tragici, cuori di ghiaccio, spezzarsi o sciogliersi… Sei davvero solo una bambina romantica. Io continuo a chiedermi cosa ci fai, qui.
Fabrizia si fermò. Già la frase era offensiva di suo. In più, nel suo tono di voce c’era qualcosa che non le piaceva per niente: troppa calma.
Si voltò e affrontò nuovamente Pete che continuò imperterrito, alzando tre dita di una mano davanti al suo naso.
– Tre battaglie, fanciullina. E ho visto uscire da Balthazar un paio di tristi raggi laser e due semicerchi luminosi, che al mostro dell'altra volta hanno fatto giusto il solletico. Ma lo hai capito che al nemico ti devi avvicinare, se lo vuoi combattere? Devi studiarlo, valutarlo, trovare i suoi punti deboli e usare le armi giuste! Tu… Tu sei un concentrato di emozioni, perdi la testa. Per scendere in battaglia ci vogliono freddezza, autocontrollo, sicurezza in sé stessi. E un mucchio di altre cose, che non so come tu potrai mai tirare fuori. Non è il tuo posto, qui!
Briz avanzò di un passo, e stavolta fu lei ad alzare un indice e poi puntarglielo contro.
– Per qualche incomprensibile motivo, tu non mi vuoi qui. Tu mi hai già processata, giudicata e condannata. E non vedi l'ora di calarti nella parte del boia per eseguire la sentenza. Non vuoi darmi nemmeno il tempo di imparare.
– Imparare? Non ne hai già avuto abbastanza, di tempo? Mi risulta che hai un anno di addestramento più di noi, alle spalle! Beh, vorrei davvero sapere che cosa diavolo hai fatto, in realtà, in tutti quei mesi. Evidentemente non un granché, visto che io e gli altri abbiamo avuto solo qualche settimana, per prendere confidenza con i nostri mezzi. Senza contare Sanshiro, che ha sconfitto il primo Mostro Nero praticamente senza aver mai guidato il Gaiking. Tu sei solo tante chiacchiere e pochi fatti, bella stellina!
Briz sentì il sangue defluirle dal volto e le ginocchia tremarle. Le forze la abbandonarono e per un attimo temette addirittura di perdere l’equilibrio, come se fosse stata colpita. Si sentì umiliata e completamente annientata da quelle parole. Con fatica, tirò un respiro e cercò di ritrovare un po' di aggressività.
– Non permetterti mai più, maledetto arrogante, di mettere in discussione il mio operato e il mio impegno! Senza contare che sminuisci anche il lavoro di Daimonji e dei suoi collaboratori! Non sai nemmeno di cosa parli! Tu non hai la più pallida idea di quello che ho passato e di cosa stia affrontando tutt'ora! Tantomeno di quanto mi costi! E nemmeno deve interessarti!
Sentì, con sgomento, che gli occhi le si riempivano di lacrime e che le labbra cominciavano a tremarle.
Oh, no! Maledizione, no!  Non doveva piangere.
NonDovevaPiangere!
Non poteva assolutamente dargli questa soddisfazione! Abbassò le palpebre, deglutì vistosamente e strinse i denti, cercando di controllarsi; ma una lacrima si fece comunque strada tra le ciglia e le colò lungo una guancia.
– Oh, Dio, sapevo che me lo sarei dovuto aspettare! – fu il commento esasperato di Pete – Ecco l'arma segreta di voi ragazzine. Quando non sapete più cosa dire, mollate la lacrimuccia. Sei patetica. Avanti, chiudi i rubinetti, fanciullina, che con me non attacca.
Fabrizia non ci vide più. Midori capì le sue intenzioni e scattò per fermarla, ma stavolta non fu abbastanza veloce.
Briz cancellò in un secondo la breve distanza che la separava da Pete: fu tutto un unico, fluido e deciso movimento, e gli mollò un ceffone tanto forte da farsi male alla mano.
– Strafottuto bastardo figlio di puttana! – gli ringhiò, letteralmente fuori di sé, mentre sentiva il palmo della mano bruciare a quel violento contatto.
Quello schiaffo ce lo aveva lì fin dal primo giorno, trattenuto a stento e pronto per l'uso. Che soddisfazione, appiccicarglielo così di forza sulla sua bella faccia!
La reazione del giovane fu repentina, dopo aver incassato lo schiaffone senza nemmeno un gemito: la afferrò per le spalle e la spinse contro il muro, dove poi piantò le mani, ai lati della sua testa.
Briz si sentì inchiodata alla parete, anche se lui non la stava toccando minimamente.
– Adesso smettila Pete, state esagerando! Piantatela tutti e due! – intervenne Sanshiro, avanzando verso di loro.
Ma fu proprio lei a gelarlo con un’occhiata e a fargli capire di lasciar perdere: davanti al suo sguardo duro e determinato, Sanshiro arretrò di un passo, ma rimase all'erta gettando un'occhiata a Bunta e Yamatake, cercando silenziosamente man forte, nel caso la faccenda fosse degenerata. Anche se, peggio di così…
– Come volevasi dimostrare. Autocontrollo zero – la prese in giro Pete. Poi le sibilò, col naso a pochi centimetri dal suo: – Provaci un'altra volta e io te lo restituisco con gli interessi, anche se sei una donna. Non contare sul mio spirito cavalleresco, perché non ce l'ho.
– Ma non mi dire – rispose Briz.
Nonostante tutto la sua voce suonò ferma, e i suoi occhi verdi, anche se lucidi, affrontarono quelli di Pete. Erano tanto vicini che, nelle iridi azzurre, poteva vedere le pagliuzze blu attorno alle pupille.
Gli mise una mano aperta sul petto e lo allontanò con una spinta, tanto di forza da farlo quasi barcollare. Quando parlò, la sua voce era un abisso di tristezza e rassegnazione.
– Sta' lontano da me, vigliacco! Se il tuo obiettivo era di schiantarmi, ci sei perfettamente riuscito. Mi hai psicologicamente annientata e moralmente uccisa. Va bene: sono inutile, incapace e codarda, me lo hai fatto capire fin troppo bene. Non credo di avere altre alternative. Volevi liberarti di me, Capitano Richardson? Allora che sia! Hai raggiunto il tuo scopo. Hai la faccia di un angelo e l'anima di un mostro. Non ce la posso fare, contro di te. E sinceramente… non ne ho nemmeno più voglia. 'Fanculo tutto. Io me ne vado.
Scosse la testa e, senza aggiungere altro, infilò la porta e raggiunse il corridoio. Sanshiro e Midori fecero altrettanto e la seguirono.
– Midori, vai a chiamare Daimonji – le ordinò Sanshiro.
La ragazza si affrettò ad obbedire, mentre anche Pete usciva nel corridoio, richiamando secco Fabrizia.
– Briz! Tu non…
Lei si inchiodò, si girò e lo interruppe con una nota isterica nella voce.
– E basta, cazzo! Che altro vuoi, ancora? Ti ho già detto che ho capito! Ah, no, dimenticavo: sono anche stupida, quindi non è possibile! Vattene, torna di là. Mi disturba la tua presenza e mi dà fastidio il suono della tua voce. Ti odio, razza di farabutto. Ti odio così tanto da sentirmi male! Non voglio mai più avere a che fare con un… essere come te – concluse.
Gli girò le spalle, sprezzante e decisa, e riprese a camminare a passo spedito per guadagnare al più presto la sua stanza. Sanshiro le andò dietro e la fermò, mettendole le mani sulle spalle.
– Briz, Briz! Ascoltami. Pete ha fatto così anche con me. All'inizio non ha fatto che criticarmi, e anch'io avevo deciso di andarmene. Ma poi mi sono reso conto che c'era bisogno di me, e che quello di Pete era solo un modo come un altro per scuotermi e per migliorarmi.
– Sanshiro, ti prego! Io non sono te! Intanto, tu sei un uomo, e hai anche qualche anno in più. E poi, ci hai messo ben poco a convincerlo delle tue capacità. Perché le hai davvero. Lui aveva fiducia in te, anche prima. In me non l'ha mai avuta, e non l'avrà mai. Mi ha odiata dal primo momento in cui mi ha vista. Sai che ti dico? La verità è che Pete ha ragione: di te c'è davvero bisogno. Di me no, invece: io non valgo niente, ed è meglio per tutti se mollo. Prima di arrivare ad esservi d'intralcio, invece che d'aiuto…
Con un movimento del braccio, lo allontanò da sé e riprese a camminare lungo il corridoio.
In quel momento vide Midori e Doc che li avevano raggiunti, ed erano arrivati a sentire ciò che lei e Sanshiro si erano detti. Daimonji lanciò un'occhiata a Pete, che era rimasto indietro, accanto alla porta.
– Senti, Fabrizia, Midori mi ha detto cosa è successo. Pete ci è andato giù parecchio pesante…
Briz non lo lasciò finire: – E io pure, se è per questo. Prenderlo a schiaffi è stata la soddisfazione più grossa che mi sia presa in questi ultimi tempi. E, come ho detto a Sanshiro, la cosa peggiore è che Pete ha ragione. Io non sono fatta per questo, Doc. È sempre stato così! Devo prendere atto, di questa cosa! Ci ho provato. Non è andata. Fine.
Quella considerazione le fece sgorgare altre due lacrime lungo le guance, e questa volta un singhiozzo le spezzò la voce.
– Mi dispiace, Doc. Ma io mollo.
– No, Briz! – disse Midori – Che ne sarà di Balthazar?
– Fatene quel che vi pare. Tanto è ovvio che non serve a niente, con o senza di me. Non è più affar mio.
Doc le posò una mano sulla spalla.
– Sai che sei libera di decidere, non ti ho mai costretta a niente. Ma pensaci sopra, stanotte. Magari Pete non crede in te, ma io sì. E anche gli altri.
– Sono io che non credo più in me stessa, Doc. Richardson mi ha… ammazzata. Ma se lo avesse fatto semplicemente sparandomi, mi avrebbe fatto meno male.
– Forse domani vedrai le cose sotto una luce diversa.
– È quello là, che avrebbe bisogno di vedere le cose da altri punti di vista – esclamò Briz con un cenno della testa verso Pete – Quello ha davvero il ghiaccio nel cuore. E non credo che si spezzerà o scioglierà mai. È senza speranza. Farò come ha detto, Doc: se è vero che la notte porta consiglio, proverò a pensarci. Ma in questo momento sono troppo avvilita, non riesco a vedere altre soluzioni. E adesso lasciatemi in pace tutti, vi prego. Ho bisogno di starmene da sola.
Si incamminò verso gli ascensori, seguita dagli sguardi degli amici. Midori fece per seguirla, incurante delle sue parole, ma bastò uno sguardo dell’amica a fermarla. Non aveva mai visto Fabrizia così fredda e decisa, eppure, nello stesso tempo, così disperata. Non le restò che tornare da Doc e Sanshiro.
Quando i tre si girarono per tornare nella sala da pranzo videro Pete, che era rimasto vicino alla porta e aveva sentito le loro parole. Midori e Sanshiro lo ignorarono mentre gli passavano accanto per entrare nella stanza.
Lui tenne la testa bassa, e alzò appena lo sguardo quando Daimonji gli si fermò di fronte. Sulla guancia sinistra del giovane spiccava il segno rosso delle cinque dita di Fabrizia. A Doc non dispiacque affatto: Pete aveva bisogno di qualcuno che gli tenesse testa in quel modo, e il fatto che fosse una ragazzina più giovane e inesperta di lui, forse non era un male. Per questo sperava che il consiglio dato a Fabrizia di pensarci sopra, venisse ascoltato.
Dopo di che, se la ragazza fosse rimasta, si sarebbe dovuto trovare un modo per far sì che il rapporto tra quei due trovasse un equilibrio. Ma al momento, quel se, lo preoccupava non poco.
Guardò Pete negli occhi, facendolo sentire un verme. Daimonji era il loro capo indiscusso, il più vecchio, il più saggio. Nemmeno Pete aveva il coraggio di contraddirlo.
– Briz aveva bisogno solo di più tempo, – gli disse con voce dura – ma tu non hai pazienza, vuoi tutto e subito. Non puoi sempre pretendere dagli altri ciò che pretendi da te stesso e nello stesso modo. Non siamo tutti uguali, ragazzo. Se nelle persone cerchi solo i difetti, stai tranquillo che li troverai. Sempre. Ognuno di noi ne ha. Ti do un consiglio: comincia a cercare i pregi, nelle persone che ti stanno intorno. E forse per te sarà una sorpresa, ma troverai sempre anche quelli! Fabrizia è ben lungi dall'essere un guerriero perfetto, lei stessa ne è consapevole. Ma non è un militare, non è un soldato! È solo una studentessa che è stata travolta dagli eventi. Tu non hai idea di cosa quella ragazza abbia passato negli ultimi anni, e di cosa stia chiedendo a sé stessa per combattere questa guerra. Tu nemmeno provi ad accorgertene, ma Fabrizia ce la sta mettendo davvero tutta. Riconoscile almeno questo, Pete. Se perdiamo Balthazar, ti riterrò responsabile.
Doc non aggiunse altro, e Pete riabbassò gli occhi e mandò giù faticosamente. Ebbe il buon senso di non replicare, e se ne andò in silenzio.
Quella sera, furono in due a saltare la cena.

> Continua…




Note:

1 L’Alleanza Terrestre me la sono allegramente inventata! Se c’era qualcosa del genere io non me la ricordo…

2 Non so se vi soddisfa questa descrizione dell’assemblaggio del Gaiking, ci ho provato.

3 La NGC, Neuro Genetic Connection (Connessione Neuro Genetica): mi sono ispirata, molto liberamente, al film del 2013 “Pacific Rim”, di Guillermo del Toro, anche se io gli ho dato una connotazione molto più fantasy. Più avanti ne sapremo di più.

4 L’episodio di Lisa è il n° 8, “Il Drago Spaziale impazzisce”
 
Ecco, quello raccontato in questo capitolo è quello che, anche in seguito, verrà ricordato e citato come il “litigio tragico”.

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Capitolo 4
*** 3 - Rivalsa ***


~ 3 ~ 
RIVALSA
 
Il duro confronto col Capitano Richardson aveva letteralmente distrutto Fabrizia: passò metà della nottata a piangere, a soffocare nel cuscino urla disumane e a prenderlo a pugni, immaginando che fosse Pete.
Ma perché Daimonji aveva scelto proprio lui!? Diceva che fosse il migliore, ma lei non riusciva a crederlo: possibile che su tutto il pianeta non ci fosse qualcun altro, con le stesse capacità e magari un carattere un po’ più abbordabile? 
Lo odiava, quel maledetto bastardo senza cuore! Era stato capace di distruggere tutto quello che, con immane fatica, era riuscita a diventare in quell'ultimo anno, facendola sentire una nullità.
Probabilmente perché lo era davvero: Balthazar nelle sue mani non valeva nemmeno il titanio e l’acciaio con cui era stato costruito.
E adesso? Cosa avrebbe fatto? Il solo pensiero di andarsene di lì e lasciare Doc e gli altri amici, la annientava; ma anche quello di rimanere per poi non combinare niente di utile per nessuno, le faceva lo stesso effetto.
Le venne persino la nausea; andarsene, e fare la figura di chi si è arreso, o restare, e rischiare l’ulcera duodenale e l’ictus cerebrale ogni volta che quel farabutto dagli occhi azzurri le avesse rivolto la parola?
Quando, finalmente, un sonno leggero e tormentato ebbe ragione di lei, concedendole un minimo di tregua, non aveva ancora preso una decisione.
Fu svegliata di soprassalto, dal suono dell'allarme, alle cinque e ventitré del mattino.
Un altro attacco? Ma come? Avevano sconfitto un mostro solo il giorno prima, com'era possibile?
Il suo primo gesto, dopo essere saltata dal letto, le venne istintivo: afferrare la maglia e i pantaloni neri, e il giubbotto viola dell'uniforme. Le venne naturale, come se nella vita non avesse mai indossato altro; e questo le fece capire che, almeno per il momento, andarsene fosse fuori discussione.
Ebbene, no, non si sarebbe arresa: avrebbe rischiato l’ulcera, l’ictus e pure l’infarto del miocardio. Anzi, meglio ancora: li avrebbe fatti venire a quel delinquente fedifrago travestito da supereroe!
Infilò gli stivali e tirò su velocemente la lampo del giubbotto, sfiorando con la punta delle dita l'angolo vicino alla cerniera, in cui spiccava la piccola immagine del profilo di una testa di leone con la criniera di fuoco. Un attimo e filò fuori dalla porta.
Gli strumenti avevano rilevato un mostro in avvicinamento e la guardia di turno aveva dato l'allarme: i calcoli lo davano diretto verso la Russia.
Fabrizia stava per raggiungere la sua postazione nella sala comandi del Drago, quando quasi si scontrò con l'origine di tutti i suoi guai.
– Sei qui…? – disse Pete, stupito di vederla.
Lei gli rispose senza nemmeno guardarlo, scostandolo sgarbatamente con un braccio teso e dirigendosi verso la sua postazione.
– Sì, sono qui: è evidente, mi pare. Se non ti dispiace, mi prendo un'altra possibilità. E se invece ti dispiace, non me ne frega un cazzo! Non ci sto a fare il tuo gioco, Richardson! Perché dovrebbe importarmi di ogni stronzata che dici? Tu non sei niente, per me!
– La cosa è reciproca. Ma se è un'altra possibilità, che vuoi, accomodati: te la concedo.
– Madonna, che privilegio dall'alto!
– Doc dice che Balthazar ci serve… e quindi, di conseguenza, ci servi tu. Dimostrami che ne vale la pena, e forse ritirerò quello che ho detto ieri sera. Vediamo cosa riuscirai a combinare stavolta, possibilmente di utile e senza ficcarti in qualche casino, se ci riesci.
Freddo, serio, sarcastico: come sempre.
– 'Fanculo… – ringhiò lei tra i denti, in italiano, dirigendosi alla sua postazione e pensando che, probabilmente, le parole con cui le aveva fatto quella concessione fossero la cosa più vicina a delle scuse che avrebbe mai ricevuto. Il che era tutto dire: lì, di scuse, non ce n’era l’ombra. Ma, del resto, cosa ci si sarebbe potuti aspettare da uno così?
Mentre si sedeva lanciò su di lui un'occhiataccia che avrebbe congelato il Mauna Kea e accennò un’alzata di spalle, come per dire che non le importava assolutamente niente di qualunque altra cosa lui potesse dire; dopo di che, non lo degnò più di una parola.
Il Mostro Nero si stava dirigendo effettivamente verso l'est dell'Europa, ma il Drago lo intercettò ben prima che raggiungesse una grande città. Era comunque ormai penetrato nell'atmosfera terrestre, e il Gaiking uscì immediatamente e lo attaccò, prima che arrivasse al suolo.
Era un essere orrendo, simile a un grande ragno, e Briz ne fu non solo spaventata, ma anche disgustata. Eppure, mentre prendeva posto nella carlinga di Balthazar, sentiva come un’inspiegabile eccitazione che le pompava il sangue nelle vene a una velocità folle.
L'ordine di andare non tardò che pochi istanti, e lei lanciò Balthazar fuori dal Drago senza nemmeno replicare. Effettuò la connessione con il leone immediatamente e raggiunse il mostro e il Gaiking che stavano precipitando velocemente, abbrancati l'uno all’altro, verso il suolo.
Briz colpì diverse volte il ragno gigante con i raggi laser e con i boomerang, ma gli procurò solo danni superficiali.
Con un boato, i due avversari si schiantarono al suolo, nella solitudine della steppa, dove per fortuna non avrebbero provocato grandi danni, e rotolarono ancora avvinghiati. Sanshiro non riusciva a liberarsi, e Fabrizia si sentì per un attimo annichilita dalla paura.
Ma, all’ improvviso, le parole che Pete le aveva rivolto la sera prima, le rimbombarono nella mente:
"Ma lo hai capito che al nemico devi avvicinarti, se vuoi combatterlo?"
– E così io sarei una cagasotto che non ha il coraggio di avvicinarsi ai nemici, eh? – sibilò tra sé e sé, lanciando in avanti Balthazar, incurante del fatto che i compagni la sentissero tramite gli auricolari, dato che bofonchiava, come al solito, nella sua lingua – Te lo faccio vedere io, chi non ha coraggio, fottutissimo stronzetto yankee dei miei stivali!
Poi, la stessa voce gelida e distaccata risuonò di nuovo nella sua mente, con l'ultima frase che lui le aveva rivolto poco prima: 
"Dimostrami che ne vale la pena".
Qualunque cosa significasse, le diede una scarica di adrenalina.
– Vuoi vedere se ne vale la pena? Ti dimostrerò che sarebbe stato davvero un errore cacciarmi via, cabròn! – ringhiò di nuovo, continuando a parlare a sé stessa.
Briz lanciò un urlo feroce, non certo per spaventare il nemico, quanto per farsi coraggio da sola. Ma le fauci del leone robot si spalancarono e amplificarono quell’urlo in un ruggito terrificante: da esse uscì come un'onda invisibile che centrò in pieno il mostro, il quale, per alcuni secondi, non fu più in grado di muoversi.
Balthazar sfoderò gli affilati artigli luminosi delle zampe anteriori e li affondò nella schiena del nemico, poi gli serrò i denti acuminati nel punto in cui la testa si univa al corpo, in un morso micidiale.
Il ragno gigante lasciò il Gaiking e si rivoltò contro il leone, che lo lasciò andare, si impennò e fece uscire, da una specie di grande diamante che aveva sul petto, un raggio di un'accecante luce azzurra, che congelò la testa e parte del corpo del mostro.
Il Ruggito Paralizzante, gli Artigli di Luce, il morso e l'Onda di Ghiaccio avevano funzionato perfettamente, almeno per indebolire e distrarre il nemico quanto bastava per dare a Sanshiro il tempo di tornare all'attacco.
Dalla plancia di comando del Drago, gli altri guardavano allibiti la furia con cui Balthazar aveva attaccato. Pete, a bocca aperta e con gli occhi spalancati, non sapeva se essere più sorpreso o soddisfatto.
– Porcaccia la miseria! Il gattone si è svegliato!
– Eccome! – esclamò Yamatake – D'altra parte, l'avevi fatta incazzare forte, la nostra amica, ieri sera! Anzi, direi che lo è ancora. Onestamente non mi aspettavo niente di meno da lei; a differenza di te, uomo di poca fede!
Pete gli lanciò un’occhiata di traverso, ma non rispose: non avrebbe mai immaginato di beccarsi un rimprovero da quell'orso troppo cresciuto, ma fu costretto ad ammettere con sé stesso che Yamatake non aveva tutti i torti.
Sakon ci mise il carico da undici:
– Anch'io avevo fiducia in lei. Sapevo che a Briz serviva solo… solo… beh, non lo so di preciso, ma qualunque cosa fosse, pare che l'abbia trovata.
Intanto Sanshiro aveva cominciato a martellare il ragno con i raggi perforanti che uscivano dal petto del suo robot – precisamente dagli occhi del Drago – e, contemporaneamente, i boomerang luminosi che si erano staccati dalle spalle di Balthazar compivano traiettorie inverosimili, guidati dai pensieri di Fabrizia, tranciando una alla volta le innumerevoli zampe del mostro nero.
Con un colpo di pugno rotante del Gaiking, il nemico venne trapassato da parte a parte e Sanshiro e Briz ebbero giusto il tempo di allontanarsi, mentre si disintegrava in un'esplosione di luce rossastra.
Fabrizia, col respiro corto, si ritrovò a fare i conti con una sensazione che non aveva mai sperimentato prima di quel momento: per qualche attimo le sembrò di non essere sola nell’abitacolo, al punto che si ritrovò a guardarsi intorno.
Naturalmente non c’era nessuno, e lei archiviò quel momento di smarrimento tra i tanti spiacevoli effetti collaterali che la connessione e il distacco da Balthazar le provocavano.
Avviò la disconnessione: l'armatura bianco e oro si staccò dal suo corpo e i vari componenti rientrarono nelle piccole botole che si erano aperte sul pavimento della carlinga, attorno a lei; la poltroncina si riavvicinò e la ragazza ci si lasciò cadere sopra pesantemente, con un sospiro. Per alcuni lunghissimi istanti fu assalita da un accesso di nausea che sopportò piegata in avanti, con la testa tra le ginocchia; quando passò, fu presa dai brividi e, per un paio di minuti, combatté contro un violento e repentino attacco di febbre a più di quaranta. Quando anche quest'ultimo effetto collaterale si placò, afferrò il giubbetto viola, lo indossò e si rimise il casco d'ordinanza. Aveva ancora una discreta tremarella, quando premette il pulsante che rischiarò la grande vetrata, restituendole la visione naturale: il contatto visivo con i compagni fu ripristinato. Il piccolo monitor sulla sua destra, di fianco alla cloche, si illuminò: il viso serio di Pete la osservò e la sua voce la raggiunse.
– Perché quando cominci a combattere mi sparisci dai monitor? – le chiese senza preamboli.
– Mi appello al quinto emendamento – rispose freddamente Briz.
– Facoltà di non rispondere, eh? Okay, cominciate le operazioni di rientro – ordinò il capitano, glaciale ed efficiente come al solito, portando il Drago in posizione e aprendo i pannelli frontali.
Poco più tardi, Sanshiro raggiunse Fabrizia nell'ascensore cilindrico trasparente che, dall'hangar nella pancia del Drago, li avrebbe riportati alla plancia di comando al piano superiore.
– Briz, sei stata grandiosa! Senza di te non so come mi sarei liberato – le disse con entusiasmo.
– Meno male che almeno tu mi dai qualche soddisfazione – rispose lei, battendogli un cinque sul palmo della mano sollevata.

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– Bah, lascialo perdere. Si scioglierà prima o poi – rispose il ragazzo, sapendo benissimo chi fosse il sottinteso soggetto di cui parlava l'amica.
– Seh! Aspetta e spera. È meglio che non smetta di mangiare, nell'attesa.
– Guardate che vi sento, cosa credete? Avete i microfoni e gli auricolari ancora collegati – si intromise la voce di Pete.
– Vabbè, e allora? – replicò Briz – Tanto lo sai, cosa penso di te. E so che la cosa è reciproca: siamo pari.
– Guarda che lo fai solo arrabbiare di più, così – disse Sanshiro, preoccupato.
– E chi se ne frega. Sai, al mio paese, quando andavo al liceo, si usava una frase per chi era sempre arrabbiato…
– Sarebbe?
– Che… chi s'incazza, prima o poi si scazza.
Sanshiro scosse la testa e alzò gli occhi al cielo, divertito.
– Ha-Ha – la falsa risata di Pete le risuonò nell'auricolare – Devo ridere o la cosa è facoltativa?
Briz non si prese la briga di rispondere, si portò la mano al piccolo congegno applicato all'orecchio e staccò la comunicazione brontolando qualcosa in italiano. Sanshiro non capì niente, ma ebbe la netta sensazione che fosse una sfilza di improperi.
Il loro rientro in sala di comando fu accolto dalle grida di gioia di Yamatake e dai commenti entusiasti, ma più pacati, di tutti gli altri. Briz si sedette alla sua postazione, dalla quale vedeva, più in basso, quella del pilota del Drago.
Pete aveva davanti a sé uno schermo immenso che riproduceva ciò che si trovava al di fuori, come se guardasse attraverso una grande vetrata.
Sotto di esso c'era la consolle di controllo più complessa che lei avesse mai visto, con un'infinità di manopole, monitor grandi e piccoli, pulsanti luminosi e non, di ogni forma e colore, davanti alla quale il capitano Richardson sedeva manovrando una coppia di leve, che comandavano il volo e i movimenti basilari del Drago Spaziale. Ma lei ricordava di averlo visto, in alcune occasioni, quando la situazione aveva richiesto manovre più complesse, pilotare da in piedi utilizzando una cloche dalle impugnature semicircolari.
Doveva ammettere che in quei momenti, pur freddo e altero, lo aveva trovato dannatamente coraggioso e determinato. E con un fascino che richiamava più quello di un capitano pirata al timone, che di un ufficiale dell'Aviazione americana.1
Proprio in quel momento la sua voce la riscosse dalle sue riflessioni.
– Senti, fanciullina… – cominciò, brusco.
– Dio, no! Di nuovo! Cos’ho fatto, ‘sto giro? – esclamò lei con un sospiro teatrale, accasciandosi in avanti e appoggiando la fronte sulla propria consolle, con le dita intrecciate dietro la nuca.
– Niente! Cioè… Niente di sbagliato, intendo. Devo ammettere che sei stata bravina.
Il tono lasciava sottintendere che quelle parole fossero state pronunciate a malincuore. E poi… bravina? Santo cielo, che non si sprecasse!
Eppure, per la miseria, Briz non riusciva quasi a credere di averle sentite davvero. Si affrettò a replicare, prima che lui trovasse il tempo per rimangiarsele.
– Allora ritira tutte le puttanate che mi hai rovesciato addosso ieri sera.
– Mh… forse per questa volta…
– Al diavolo, tu e le tue clementi concessioni! Inutile, ormai è appurato che noi donne dobbiamo fare le cose due volte meglio di voi uomini, che per fortuna non è troppo difficile, solo per sentirci dire di essere state brave la metà. Suppongo che delle scuse vere e proprie da parte tua siano improponibili.
– Supponi bene: per quelle ci vorrà ben altro. Comunque… che hai combinato? Ti sei fatta di qualcosa?
– Ah, strepitoso! Adesso mi dai anche della tossica! Dacci un taglio, please! Come diciamo in Italia, forse ho solo… mangiato del leone.
Qualcuno ridacchiò, e qualcuno altro lo seguì: l’atmosfera si rilassò.
Ma non Pete, naturalmente, che si limitò a piegare fugacemente un solo lato delle labbra verso l’alto, scuotendo appena la testa con atteggiamento condiscendente. Ma anche solo quel quarto di sorrisetto accennato, durato un nanosecondo, bastò a rendere la sua faccia ancora più attraente.
Briz si chiese se sarebbe mai riuscita a vederlo sorridere davvero; o addirittura a ridere. Bah! Impensabile.
– Briz, sei un fenomeno – disse Sakon – Il giorno in cui incontrerai la morte, prenderai in giro persino lei!
– Potete scommetterci il cu… le chiap… va be’, avete capito! – rispose la ragazza, sollevata nel vedere l'amico sorridere, poiché sapeva che soffriva ancora molto per la perdita di Lisa.
– Ehi, bel pupone – chiamò poi, rivolgendosi di nuovo a Pete.
– Smetti di chiamarmi così – disse lui gelido.
– Se un giorno smetterai di chiamarmi fanciullina; forse.
– Hm. Comunque, che vuoi ancora?
– Sai lo schiaffo, ieri sera…
– Sì, mi pare di ricordare: mi fa ancora male la guancia. Chi ti ha insegnato a menare, l'Incredibile Hulk? – ribatté lui, facendo l'indifferente e impostando la rotta per il rientro.
Briz raccolse prontamente il suo pallido tentativo di battuta.
– No, purtroppo. È che prima mi era venuta voglia di scusarmi con te, ma poi mi hai fatta incazzare di nuovo, quindi niente. Anzi, giusto per rimanere in tema di supereroi, comincio a pensare che ieri sera mi avrebbe fatto più comodo Mjolnir, il martello di Thor. Perché mi fa ancora male la mano – confessò.
– Bene! Così ho almeno due buoni motivi per essere felice che tu non lo avessi, Mjolnir.
– La tua cavalleria mi sconvolge. Ma… che stupida, dimenticavo: la cavalleria non fa parte delle tue già scarse doti umane – Briz tacque per qualche secondo, poi aggiunse sommessamente: – Senti, io quel ceffone ce lo avevo lì, che mi prudeva nella mano, da quando ti ho conosciuto, e tu te lo sei proprio tirato addosso. E nemmeno due scuse in croce per come mi hai trattata da quando sono arrivata… No, davvero, con la ceppa, che mi scuso con te.
– Stai cercando di farmi fare la figura dell'idiota?
– Tranquillo, non ti servo io, per questo.
– Oh, basta! Avere l'ultima parola con te è impossibile, con quella lingua che taglia e cuce! Chiudiamola qui!
– Ecco, per una volta ti do ragione! – tagliò corto Briz; poi si rivolse agli altri: – Sono distrutta. Vi dispiace se mi riposo, nel viaggio di ritorno?
Tutti avevano notato il suo pallore e le occhiaie violacee che le segnavano il viso dopo ogni combattimento, ma quel giorno sembravano anche più evidenti del solito.
– Ma prego! Credi di essere su un Boeing in prima classe? Vuoi che ti porti un cuscino? – sdrammatizzò Sanshiro ridacchiando – No, va bene, fai pure, effettivamente ti vedo un po' sfatta – concluse poi.
– Ah, Sanshiro! Tu sì, che sai come fare i complimenti a una donna! – esclamò lei, divertita.
– Senza scherzi, Briz – disse Bunta, serio – Puoi andare in una delle cabine con le cuccette.
– Cosa stai dicendo!? Non sono ridotta così male! – esclamò, facendo un po' la smargiassa.
In realtà era a pezzi, ma non voleva davvero dormire: che figura ci avrebbe fatto, soprattutto con Capitan-So-Tutto-Io? Però, quando si appoggiò con la schiena alla sua poltroncina, che era piuttosto comoda, si sentì le palpebre terribilmente pesanti. Incrociò le braccia e, nel giro di pochi minuti, nonostante i suoi tentativi di rimanere vigile, finì davvero per addormentarsi.
Riemerse dal sonno faticosamente, con Midori che la stava scuotendo per una spalla.
– Briz. Siamo arrivati, sveglia.
– Eh? Ma chi… Cosa? Di già?
– Mi sa che hai dormito persino meglio che in prima classe – disse Bunta con un sogghigno.
Il Drago era appena riemerso nella caverna sotterranea sotto al faro; pochi minuti, per le ultime manovre di assestamento, e tutti furono pronti per uscire. Briz non resistette, era troppo euforica per aver finalmente combinato qualcosa di decente, e le venne un attacco folle di stupidera.
Accese il suo microfono e la sua voce risuonò in plancia:
– Il comandante e l'equipaggio vi salutano e vi augurano un felice soggiorno. Grazie per aver volato con Dragon Wings!
Una risata generale si alzò, dapprima in sordina, poi i ragazzi si lasciarono trascinare da quell’impellente bisogno di levità che, dopo i pericoli corsi, li faceva tornare ad essere quello che erano: giovani come tutti gli altri, pronti a ridere in compagnia per una sciocca futilità. E stavolta Fabrizia si accorse che Pete lottava con sé stesso per trattenersi. Figurarsi se si trattenne lei, dal provocarlo un altro po', quando lo vide lasciare la sua postazione e venirle incontro per apprestarsi ad uscire.
– Qualcuno può dire a Sua Serietà, che una bella risata ogni tanto non ha mai ammazzato nessuno?
Per qualche strano motivo, Pete decise di accontentarla e si concesse una breve risata, più rilassata ma alquanto trattenuta, tipica di chi non è abituato a cedere alla leggerezza.
– Mi raccomando, Richardson, non ti lasciare andare troppo, eh? – infierì ancora lei.
– Avanti, piccola fulminata. Alza quel bel sederino e scendi dal mio Drago – fu l’insolita esortazione.
– Il tuo! Che razza di presuntuoso! E poi che ne sai, tu, del mio lato B?
Pete non rispose, ma incrociò le braccia con aria di sfida, guardandola a metà tra il compiaciuto e l’insolente. Briz non riusciva a credere a ciò che quell’espressione le stava comunicando.
– Non vorrai mica dire che mi hai davvero guardato il culo? – sbottò, arrossendo disperatamente.
– Avrò anche il cuore di ghiaccio, ma gli occhi mi funzionano, soprattutto se mi cammini davanti. Fanciullina.
Per un attimo Briz fu seriamente indecisa tra l’andarsene sculettandogli sotto il naso o mostrargli un dito; non uno a caso, proprio quel dito.
Rinunciò saggiamente ad entrambe le opzioni, anche se ciò che le venne fuori non migliorò la situazione.
– Beh, se la metti così, sappi, giusto per la cronaca, che anche il tuo è niente male. Bel pupone! – esclamò secca, ubbidendo all'ordine di poco prima e voltandogli le spalle per dirigersi a terra, affinché lui non si soffermasse sulle sue guance che, dal rosso, viravano rapidamente al viola. Perché lo sapeva, dannazione lo sapeva, che adesso le avrebbe davvero guardato di nuovo il sedere!
– Merda, sto dando i numeri. Ma come mi è uscita questa? – sussurrò tra sé con gli occhi al cielo.
Midori li guardò allibita, con le sopracciglia sollevate: quello scambio di battute vagamente pepate era davvero una novità!
Briz agitò concitatamente le mani, in una serie di gesti che dicevano palesemente: "Vi prego, non commentate".
Sapeva benissimo che i rapporti tra lei e Capitan Scontroso non erano affatto risolti: non bastava certo un breve momento di ilarità o una battutina mordace, per sciogliere una situazione come quella.
Sperava che fosse un piccolo passo… Tuttavia, qualcosa le diceva che per arrivare non tanto all'amicizia – che le sembrava decisamente un'utopia – ma almeno a un rapporto cameratesco decente ed equilibrato, la strada sarebbe stata ancora lunga, tortuosa e piena di ostacoli.
E tutta in salita.

> Continua…



 



Note dell’autrice:
1 Nell’anime Pete non ha mai pilotato da in piedi, non che io ricordi, almeno. Ma leggere fanfiction su un altro Capitano mi ha fatto uscire ‘sta cosa. So che c’è qualcuno che capirà. A parte che molto, ma molto, mooooolto più avanti, questo particolare mi servirà.                    

Vi lascio una cosa che mi ha passato mio figlio, trovata in rete, che mi ha fatta ribaltare. Mi ci sono proprio ritrovata. Le cose in colori diversi, tra parentesi, e i punti 11 e 12 li ho aggiunti io.
 

 

 
DODECALOGO DEL PILOTA DI UN ROBOTTONE GIGANTE
 
1- Difenderai solo la città di Tokyo (e qui col Drago Spaziale almeno ne siamo fuori).
2- I tuoi nemici attaccheranno sempre e solo uno alla volta.  (E saranno poco svegli: ti lasceranno sempre il tempo di guarire e riparare il tuo robot, per esempio. O ti prenderanno prigioniero innumerevoli volte solo per lasciarti scappare).
3- Dovrai sempre gridare il nome dell’arma che stai per usare.
4- Se il tuo robot verrà colpito tu soffrirai per solidarietà, come se avessero ferito te.
5- I tuoi compagni saranno sempre uno spilungone taciturno, un bambino, una bella ragazza e un tipo grasso.
6- Sei sempre orfano e, se hai un padre, 
(o un fratello) vive in un computer o nel tuo orologio.
7- Tuo padre, prima di sparire, ti ha messo nei casini facendo incazzare gli alieni invasori, però ti ha costruito un robottone gigante per difenderti.
8- Hai un’arma segreta invincibile, ma la userai solo alla fine, dopo aver preso botte da orbi per ore.
9- Per raggiungere la cabina di pilotaggio dovrai affrontare un percorso tortuoso e inutilmente lungo tra ascensori, corridoi e corse in moto.
10- Il tuo robot è parcheggiato sempre in posti assurdi tipo crateri, cascate, parchi giochi e laghetti artificiali 
(o sotto a un Faro. Quello di Omaezaki esiste davvero, fra l’altro).
11- Non esistono leggi fisiche, mediche o temporali: il ferro rimbalza, le ferite guariscono in un amen, e le tue giornate probabilmente hanno dalle 36 alle 72 ore, visto tutto quello che riesci a farci stare…
12- Tutti parlano tutte le lingue, dall’ostrogoto allo swahili. Naturalmente passando per lo Zelano, o il Vegano, o qualunque lingua aliena del nemico di turno. Vi capirete tutti, sempre e comunque.

BONUS: i tuoi compagni avranno tutti un loro robot simile a loro, tipo un robottone panzone e imbranato, o una robottessa che spara le tette.
 

Non so voi, io sono morta mentre mio figlio me la leggeva!
Dai, io non ho dotato Fabrizia di una robottessa che spara le tette, però! Ditemi che sono stata brava, almeno per questo! Sarà vero che chi si loda s’imbroda, ma Balthazar è sicuramente più affascinante, non credete?


Come sempre, un milione di ringraziamenti a lettori e recensori.
E a tutti, di cuore, l’augurio di un 2017 pieno di due cose indispensabili: amore (in ogni sua forma) e salute. Con l’aggiunta di quattro soldi in più e pazienza a palate, che servono sempre!
Buon Anno!


Aggiunta del 18 marzo 2018: 
Grazie alla mia amica Morghana, che ha fatto la sua comparsa solo al capitolo 30 di questa storia, ora possiamo vedere come io immagino Balthazar. Ha rimaneggiato al pc un'immagine di Beralios, dell'anime Daltanious, e ha tirato fuori il "mio" leone robot! Grazie ancora, carissima!



 

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Capitolo 5
*** 4 - Storie di fratelli ***


~ 4 ~
STORIE DI FRATELLI
 
 
Luglio era arrivato, caldo e afoso, trascinando tutti in un’estate gialla e luminosa che, in tempo di pace, sarebbe potuta essere stupenda e spensierata.
Invece c'erano stati altri scontri dai quali, con coraggio e determinazione, i nostri eroi erano usciti vincitori. Darius sferrava offensive in qualunque luogo del pianeta: Africa, Asia, Europa… E dovunque avvenisse un attacco, il Drago arrivava e il suo equipaggio combatteva, spesso trovandosi in situazioni ai limiti dell’assurdo e del misterioso.
I rapporti di Briz con gli altri componenti del gruppo si erano ulteriormente rinsaldati, tranne che con Cuor di Freezer, naturalmente: con lui, le cose non erano a posto. Pete sembrava averla accettata, ma molto suo malgrado; aveva dovuto ammettere che negli ultimi scontri Balthazar era stato se non decisivo, sicuramente una buona spalla per il Gaiking, ma i loro caratteri diametralmente opposti faticavano a sopportarsi. E la lingua lunga di Briz non aiutava, visto che non perdeva occasione per provocare lo scorbutico Capitano.
Ogni tanto Daimonji era costretto a richiamarla all'ordine, quando tra loro c'era qualche colorita discussione che la ragazza non riusciva a lasciar perdere; ma anche Pete ci metteva del suo. Alla fine, se non era uno era l’altro, e non si risolveva mai niente.
In quel periodo i lavori fervevano, alla base del Faro di Omaezaki.
Era stato convocato il professor Kijima, specialista in metalli, che stava affiancando Daimonji nei lavori per la realizzazione di una nuova arma per il Drago Spaziale: una lama in grado di tagliare qualsiasi tipo di materiale, leghe metalliche comprese. Oltre ai due scienziati, erano coinvolti nella realizzazione dell'arma anche Sakon, affiancato dalla immancabile e fidata Jamilah, e Pete. Gli altri si tenevano a disposizione a turno, per eventuali ricerche su Internet e i soliti periodi di guardia seduti davanti agli strumenti, pronti a lanciare l'allarme in caso di avvistamenti sospetti.
A volte Briz si sentiva dannatamente inutile. Per fortuna, nei rari momenti liberi, poteva contare sulla compagnia di Midori e Jami e dei suoi animali.
Un pomeriggio mise la sella a Indy, il suo cavallo pezzato, e andò a fare una passeggiata lungo la spiaggia. Si era spinta un po' più lontano del solito quando decise di rientrare, vedendo grossi nuvoloni neri che si addensavano sul mare, lungo l'orizzonte, ad annunciare un temporale estivo. Mise Indy al piccolo galoppo sul bagnasciuga, quando scorse una figura solitaria che correva lungo la riva, venendole incontro. Rallentò il cavallo al passo, e non le ci volle molto per riconoscere Pete.
Briz si fermò, osservandolo: indossava dei calzoni da tuta, di cotone nero e leggero, e una felpa senza maniche dello stesso tessuto e colore, col cappuccio tirato indietro. Correva con passo regolare e cadenzato, sicuramente mettendoci la massima concentrazione, come in tutto quello che faceva.
L'aveva quasi raggiunta, quando alzò lo sguardo e la vide, fermandosi di botto; Fabrizia scese da cavallo e gli andò incontro. Pete restò dov’era, tirandosi il cappuccio della felpa sulla testa per ripararsi dal vento che si stava alzando, guardando sconcertato il cavallo che Briz si tirava dietro, tenendolo per le redini con tranquilla disinvoltura.
– Ma tu non ti rilassi mai? – lo apostrofò la ragazza con un sorriso incerto, pensando che quei bicipiti perfetti avrebbero distratto anche una suora, per non parlare dei pettorali scolpiti che risaltavano anche sotto la smanicata leggera – Con lo stress di quest'ultimo periodo, forse non ti farebbe male dormire, invece di sfinirti a correre – concluse, cercando di rendere il suo sguardo il più indifferente possibile.
– Parla lei: Calamity Jane generazione duemila – commentò Pete, osservando la camicia azzurro elettrico ricamata di perline, gli stivali e il cappello da cow-boy della ragazza.
Briz studiò il viso lucido di sudore di Pete, e il ciuffo ribelle di capelli chiari che sbucava dal cappuccio e gli ricadeva quasi fin sul naso. Indy gli si avvicinò, allungando curioso il muso verso di lui, e il ragazzo fece quasi un salto indietro, allontanandosi di alcuni passi.
– Cribbio, Richardson! Sei più ombroso del mio cavallo! Cos'hai paura, che ti sporchi?
– Non ho paura, è solo… che non ho molta dimestichezza con gli animali, tutto qui.
– Chissà perché la cosa non mi stupisce. Ma mi fa un po' ridere un americano che non sa andare a cavallo.
– Ti diverti un po' di più, se ti dico che avevo anche una nonna Cheyenne?
– Una nonna Cheyenne! Beh, adesso mi spiego l'abbronzatura perenne e il taglio degli occhi! Però, dai, la nonna indiana, e non sai niente di cavalli?
– Gli americani non sono tutti cowboy, Briz.  E mia nonna non l'ho mai conosciuta. Io mi rilasso correndo, proprio come tu lo fai cavalcando il tuo amico a quattro zampe. Non sapevo che avessi un cavallo.
Per una volta, Briz gli rispose in tono pacato.
– Ne ho due, se è per questo, e hai detto bene: è decisamente un amico. Io di amici ne ho bisogno: non piace stare da sola. Forse farebbe bene anche a te stare un po' di più in compagnia; sapresti più cose sui tuoi compagni di avventura, e magari diventeresti meno scontroso e più simpatico. E forse saresti persino più felice…
– Senti, fanciullina, non cominciare a provocarmi. Ho un brutto carattere, non è un mistero per nessuno e sono il primo ad ammetterlo. E se non sono proprio felice… Beh, di sicuro mi vado bene così.
– Era solo un consiglio, scusa se mi sono permessa…
Un tuono esplose sul mare, accompagnato da un fulmine che tagliò in due il cielo e illuminò tutto di una luce spettrale per qualche secondo. Indy nitrì ed ebbe uno scatto all'indietro, mentre Pete fece praticamente lo stesso nella direzione opposta. Briz cercò di tranquillizzare il cavallo, mentre i primi goccioloni cominciavano a cadere: con un agile balzo la ragazza rimontò in sella, e in un attimo prese il controllo dell'animale che si stava agitando.


Briz-cavallo-temporale

– Non vuoi un passaggio, vero? – chiese ironicamente a Pete.
– Ma secondo te…!?
– Okay. Tanto ci bagneremo entrambi comunque. Hasta la vista, bel tenebroso! – gridò Briz, toccandosi la tesa del cappello con una mano e, girato il cavallo, partì al galoppo lungo la spiaggia, mentre la pioggia cominciava a scrosciare.
A Pete non rimase che riprendere la corsa dietro a lei, tornando verso casa, correndo sulle tracce lasciate sulla sabbia dagli zoccoli del cavallo. Briz stava scomparendo davanti a lui, nella pioggia, ormai a notevole distanza; mentre correva continuò a fissarla, finché non la vide più.
"Hasta la vista. Pazzoide squinternata".
 
* * *

Il temporale passò come era arrivato. Briz aveva riportato in scuderia Indy, lo aveva asciugato e gli aveva dato da mangiare, poi era rientrata alla base. Dopo una doccia si era sentita meglio ed era uscita di nuovo, attratta dallo spettacolo del mare in burrasca.
Stava per rientrare quando vide un pullman, come quello che circa tre mesi prima aveva riportato lei a Omaezaki: scese solo una persona.
A Briz quasi venne un colpo quando vide il ragazzo che le andava incontro. Dimostrava all'incirca vent'anni, e i lineamenti del viso e i capelli biondo scuro si discostavano pochissimo da quelli di Pete: il naso era leggermente più scavato, il taglio degli occhi un po' più arrotondato e le sopracciglia meno marcate, ma le ciglia scure e l'azzurro intenso erano praticamente gli stessi. E anche il mento, le labbra scolpite… Persino il ciuffo ribelle sulla fronte, pur se un po' più corto, era come quello di Pete. E anche l'altezza sembrava di famiglia: il giovane sconosciuto non era alto come il capitano Richardson, ma ci mancava poco, anche se era più smilzo e dinoccolato del suo… del suo cosa? Fratello maggiore? Possibile?
Le sue parole confermarono le ipotesi di Fabrizia:
– Scusa, – le si rivolse con un sorriso – ma vista la tua divisa, credo di essere nel posto giusto. Sto cercando il Centro di Ricerche del dottor Daimonji, e mio fratello…
Briz non lo lasciò continuare.
– Penso proprio che tuo fratello non sia molto lontano di qui.
– Ma se non ti ho nemmeno detto chi è! – disse il ragazzo ridendo, tendendole poi la mano – Mi chiamo Tom Richardson.
– Fabrizia Cuordileone, piacere di conoscerti – disse Briz, ricambiando la stretta di mano – Santo Cielo, somigli a Pete in modo impressionante… solo che tu sorridi. Vieni con me.
Briz accompagnò Tom all'interno del Centro e, lungo un corridoio, incrociarono Yamatake, al quale fu chiesto di avvertire Pete della visita del fratello e di raggiungerli in plancia di comando, dal dottor Daimonji.
Yamatake obbedì e lei e Tom salirono a bordo del Drago, dove trovarono il dottore nella sala comandi con Sanshiro, Midori, Fan Lee, Sakon e Jamilah, che furono non poco stupiti di conoscerlo: Pete non aveva mai parlato a nessuno di lui.
Proprio in quell’attimo il Capitano entrò in plancia come una furia; indossava l'uniforme, come tutti loro, e aveva i capelli ancora umidi per la doccia. Ed era a dir poco nero!
– Cosa diavolo ci fai tu qui? Chi ti ha fatto entrare? – esclamò, arrabbiatissimo, nei confronti di Tom.
– L'ho fatto entrare io, hai qualcosa da dire? – intervenne Briz, sconvolta da quell’approccio violento – È tuo fratello, per la miseria! Mica il primo che passava per strada!
– Invece direi che è proprio questo, che è! Chi ve lo dice che è mio fratello?
– Ma ci sei o ci fai? – saltò su Sanshiro – È identico a te! Se non fosse che si vede che è più giovane, sembra il tuo gemello! Ma se vuoi gli chiediamo i documenti, e non credo che avrà paura di mostrarceli.
Pete non rispose e si limitò a guardare Tom in silenzio, incrociando le braccia; Tom fece lo stesso gesto, sostenne il suo sguardo e nemmeno lui parlò.
La posa speculare e il modo assolutamente identico col quale i due si erano mossi, fu più che sufficiente per fugare ogni residuo di perplessità sulla loro parentela.


Tom-e-Pete-Richardson

Briz si accorse che il più sconcertato da questa novità era Fan Lee, che fissava Pete con un'espressione di aperta ostilità sul viso spigoloso.
– Pete… – sussurrò Midori – Perché non ci hai mai detto di avere un fratello?
– Perché non ce l'ho!
– Ma che stai dicendo? – disse Fan Lee, trattenendo a stento la rabbia – È sangue del tuo sangue, non puoi fare finta che non esista!
Pete sembrò non considerarlo nemmeno e rispose, rivolgendosi a Tom:
– Dovevi rimanere dov'eri, in America, a studiare. Io non posso occuparmi di te, ho altro a cui pensare, se non ti dispiace. Finché sarò il pilota del Drago Spaziale non ci sarà posto per altro, nella mia vita. Non posso permettermi distrazioni.
– Distrazioni? Un fratello sarebbe una distrazione? – sbottò Fan Lee.
– Tu non sei mica a posto! – rincarò Sanshiro.
– Lasciate stare – intervenne Tom con voce pacata – Non sta succedendo niente di diverso da quello che mi aspettavo. Scusa se mi è sembrato giusto parlarti di persona, Pete. Volevo solo dirti che ho finito il liceo, e volevo passare un po’ di tempo con te, prima di decidere del mio futuro. Ecco tutto.
– Dunque ti sei diplomato. E per la legge sono ancora io il tuo tutore?
– Il mio tutore… – sospirò Tom ironico – Hai appena detto che non ce l'hai, un fratello! Mi hai mandato in collegio e ti avrò visto sì e no una volta ogni sei mesi, negli ultimi sei anni! E, per la cronaca, hai perso il conto degli anni: sono diventato maggiorenne un anno fa, non sei più responsabile di me da un bel po’. La settimana scorsa ne ho compiuti diciannove, ma immaginavo anche che te lo fossi dimenticato.
Pete lo fissò incredulo per qualche secondo.
– Ah, sei già maggiorenne, eh? Bene… allora, come hai detto, puoi decidere della tua vita. Fai quello che credi, ma non qui.
– Pete! – intervenne Daimonji – Ti stai dimenticando chi è il Comandante in capo, su questa astronave. Tom è tuo fratello: come hanno già detto i tuoi compagni, non c'è di sicuro bisogno di una prova del DNA, per accertarlo. Quindi, per quanto mi riguarda, può rimanere con noi tutto il tempo che vuole.
– Va bene, Doc. Ma non mi chieda di fargli da baby-sitter, ho altro da fare.
A quel punto Briz, che era riuscita a trattenersi fino a quel momento, non resistette più e gli rifilò uno dei suoi commenti pungenti:
– Uhhh, come ce la tiriamo oggi, Capitano! Mi dai anche una lucidata al lampadario, prima di scendere dal piedistallo?
Tom la guardò sconvolto, con due occhi grandi come piattini: non riusciva a credere che quella ragazza si fosse davvero rivolta a suo fratello in quel modo! Gli altri, ormai conoscendola un po', si stupirono relativamente; quanto agli occhi del Richardson maggiore, se fossero stati due lanciafiamme Briz sarebbe stata incenerita all'istante.
– Hai perso una delle tante occasioni per tacere, come sempre.
– Ma… tu che problemi hai, esattamente? – lo rimbeccò lei, senza nemmeno ascoltarlo – Io… darei dieci anni della mia vita per vedere mio fratello che entra da quella porta per venire a trovarmi!
– E come mai non lo fa, allora? Forse perché, alla fine, nemmeno lui ti regge più di tanto?
Briz gli piantò in faccia due occhi talmente freddi che lo stupirono.
– O forse… – gli rispose con una calma raggelante – perché ha qualche impedimento. Come tornare dall'Aldilà, per esempio. E sarò tanto generosa da perdonarti la battutaccia, perché non potevi saperlo: mio fratello non c’è più, e né l'amore né la vendetta me lo riporteranno indietro. In realtà, se fosse ancora vivo, non avrebbe nessun bisogno di venire qui a trovarmi: ci sarebbe già, perché al mio posto avrebbe dovuto esserci lui! Lui sarebbe dovuto essere il Comandante Cuordileone, e forse sarei dovuta morire io al suo posto. Con Alessandro saresti andato più d'accordo… forse – concluse con un sospiro.
Incrociò casualmente lo sguardo di Fan Lee, e vi lesse un tale misto di rabbia, dolore e rassegnazione, che fu costretta a chiedersi nuovamente cosa gli fosse accaduto. Soprattutto, dal pilota dello Skylar, Briz si sentì… capita. Guardò anche gli altri ragazzi, compresi Bunta e Yamatake che erano arrivati nel frattempo, che erano rimasti in un silenzio attonito, nel sentire di Alessandro.
Intanto Fabrizia riprese, rivolgendosi di nuovo a Pete:
– Per questo non riesco a concepire come tu possa essere… dannatamente così… 
– Così come, stavolta? – sbottò lui, esasperato.
Se la rivelazione della ragazza lo avesse in qualche modo colpito, era difficile dirlo.
– Così… emotivamente stitico! – gridò lei in risposta.
Pete alzò gli occhi al cielo, scosse la testa e sospirò.
–  Tu e le tue uscite da paranoia… e io che ti ascolto, pure! Senti, fammi un favore: levati di torno.
– Quando e se mi pare. Vattene tu fuori dalle scatole, bello senz'anima, che hai sempre tremila cose importanti da fare! E fanne un’altra, prima di andartene: recupera il tuo cuore dal congelatore, magari si scioglie un po'; ma forse ci sarà bisogno anche di una passatina in microonde, per farti tornare vagamente simile a un essere umano!
Pete la guardò come se fosse un'aliena.
– Tu sei veramente pazza come i tuoi cavalli… – commentò in tono rassegnato.
– Ebbene sì, sono completamente pazza, e non è nemmeno una novità. E adesso ti dico che facciamo: io mi ritrovo con un fratello di meno, e tu, a quanto pare, con uno di troppo, quindi me lo adotto io, Tom. Mi piace l'idea di un fratello più piccolo. Se lui è d'accordo, naturalmente – aggiunse guardandolo.
– Mai avuta una sorella: credo che mi piacerà – rispose lui stando al gioco, prendendola a braccetto e rivolgendole un sorriso da infarto.
– Poco ma sicuro, che ti darò più soddisfazione di Pete! – concluse Briz, ricambiando il sorriso.
Il maggiore dei due Richardson fu lì lì per replicare qualcosa, ma non arrivò nemmeno ad aprire la bocca che Sakon intervenne con la sua flemma olimpica:
– Pete, io e Doc abbiamo bisogno di te. Ci serve il tuo aiuto. Vieni con noi.
Non ci voleva molto, per capire che era solo una trovata per mettere fine a quell’assurda discussione. Pete decise di non rispondere, per non alimentare altre eventuali uscite strane della pazzoide, e infilò la porta seguito da Daimonji e da Sakon.
– Emotivamente stitico, eh? – esclamò Tom – Non l'avevo mai sentita, questa, ma devo ammettere che si addice un bel po’ a mio fratello! E anche quella del microonde non era male!   
Briz guardò Fan Lee, che sembrava ancora molto irritato: lui ricambiò lo sguardo, le passò accanto toccandole appena un braccio, facendole provare ancora quella sensazione di vicinanza e comprensione, poi, in silenzio, fece un lieve cenno di saluto agli astanti e se ne andò.
– Fan Lee – sussurrò lei, muovendo un passo verso la porta, tentata di seguirlo per svelare quel mistero; ma Sanshiro la fermò.
– Lascialo stare, non credo abbia voglia di parlarne, e io posso dirti solo l'essenziale; se un giorno vorrà, magari te ne parlerà lui stesso. Tu non eri ancora tornata dall'Italia, ma io ero con lui a Hong-Kong, prima della battaglia, quando suo fratello è morto.1 
– Oddio… anche lui. Ecco perché lo sento così… vicino. Povero Fan Lee… chi meglio di me potrebbe capirlo?
– Ci dispiace anche per te, Briz. Se un giorno vorrai parlarne, noi siamo qui.
– Grazie. Ma ora credo che sia Tom, quello che ha bisogno di comprensione.
– Giusto! A questo punto, – proseguì Bunta – direi di andare in sala comune: almeno offriremo a Tom un po' più di ospitalità di quanto non abbia fatto il sangue del suo sangue.
Tom fece un sorriso triste.
– Vi ringrazio. Magari vi spiegherò qualcosa… Anche se poi, forse, mio fratello me ne farà pentire…
Dieci minuti più tardi, Tom era seduto su uno dei divani della sala comune insieme ai suoi nuovi amici. Una bibita in mano e qualche altra futile chiacchiera lo avevano messo a suo agio.
Nel frattempo anche Daimonji e Sakon li avevano raggiunti, dimostrando così come, poco prima, volessero solo distogliere Pete da un ennesimo litigio con Fabrizia e che adesso, come spesso accadeva, sembrava sparito dalla circolazione. Forse il dottore lo aveva redarguito, sul modo sgarbato con cui aveva accolto il fratello minore.
Tom si schiarì la voce che suonò piuttosto ferma, quando cominciò a raccontare, anche se vi si sentiva una nota di emozione. Il ragazzo alternava momenti in cui sembrava più grande della sua età, ad altri durante i quali, invece, sembrava ancora un ragazzino sprovveduto.
– Circa sei anni fa io, Pete e nostra madre eravamo in viaggio con nostro padre, sul mercantile di cui lui era comandante, la Blue Princess. Era stata un'idea della mamma: diceva che altrimenti non riuscivamo a stare mai insieme, tutti e quattro, come una famiglia decente. Posso dire che non aveva tutti i torti, papà lo vedevamo davvero poco. Purtroppo quel viaggio fu la tragedia che ci cambiò la vita… Il servizio meteo dei naviganti aveva previsto per quella notte maltempo e turbolenze, ma quella che si scatenò fu una tempesta in piena regola. E nostro padre, Dio solo sa per quale motivo, aveva bevuto: era ubriaco, dissero che non fu in grado di organizzare le operazioni di salvataggio. Effettivamente, non lo vedemmo per nulla, durante l’emergenza. Io avevo tredici anni, e ricordo bene quei momenti orribili: se chiudo gli occhi vedo ancora mia madre sul ponte, accanto a me, e il container che dondola, sospeso sopra di noi… È… stato un attimo, non so… nostra madre capì che stava per rovinarci addosso, e il suo ultimo gesto fu di mettere tutta la sua forza nello spingermi verso mio fratello, nel tentativo di allontanarci dal pericolo. Pete capì che quello sforzo non sarebbe stato sufficiente: si gettò in avanti e mi afferrò, tirandomi via… e il container cadde. Praticamente lo sfiorò, mentre cercava di tirare via anche la mamma…  ma lei non fu abbastanza veloce e… rimase… – Tom si interruppe, visibilmente commosso, ma non ci fu bisogno di chiarire la cosa; si riprese subito e proseguì:
– Dopo, ho dei ricordi più confusi: paura, dolore, caos… un freddo cane, fuori e… dentro. Ma Pete non mi abbandonò un secondo, mi protesse e rassicurò, benché anche lui dovesse essere terrorizzato e scioccato da ciò che era accaduto. Finché George Blackwood, l'ufficiale in seconda, ci caricò su una scialuppa di salvataggio. Il tecnico delle comunicazioni era riuscito a mandare un S.O.S. e i soccorsi arrivarono piuttosto velocemente, ma… Insomma, la nave subì danni gravissimi, e alla fine le vittime furono cinque, tra cui i nostri genitori. Invece George che, per inciso, per noi era come un parente al quale volevamo molto bene, e che aveva fatto un ottimo lavoro, fu colpito alla testa da un gancio d'acciaio. Per quel che ne so, non è mai uscito dal coma, non so nemmeno se sia morto o ancora attaccato alle macchine.
I ragazzi avevano ascoltato in un silenzio di tomba quella terribile storia.
– Tom… Ma è… è orribile. Non avrei mai immaginato… – disse Fabrizia, con la voce spezzata dalla commozione.
– Da quel giorno mio fratello è cambiato – proseguì Tom – Lui e la mamma mi avevano praticamente salvato la vita, quando avrebbe dovuto farlo nostro padre, che invece non era stato capace di proteggere né la sua famiglia, tantomeno la nave e l'equipaggio di cui era responsabile. Non avevamo altri parenti e Pete, a vent'anni scarsi, si è ritrovato sulle spalle un fratello tredicenne di cui occuparsi. L’unica nota positiva, in quella tremenda situazione, fu che scoprimmo di avere una notevole disponibilità economica, così Pete decise di mettermi in collegio, uno dei migliori. E poi… per qualche strano motivo, fece quello che aveva sempre desiderato nostro padre: lasciò l'università e si arruolò in Aviazione. Non credo lo abbia fatto per lui: da quel giorno non ha mai più sopportato nemmeno di sentir nominare William Richardson. Ma ha fatto della disciplina, della responsabilità e dell'autocontrollo le sue regole di vita. Ho sempre pensato che… volesse far dimenticare al mondo quello che aveva fatto nostro padre, diventando il migliore e dimostrando di non essere come lui. Ed è quello che ha fatto: a ventidue anni era già il miglior pilota di caccia in circolazione, a ventitré era tenente e istruttore di volo, e adesso… è qui, al comando del Drago Spaziale con il grado di Capitano. Se il dottor Daimonji lo ha scelto ci sarà un motivo, no?
Jamilah era commossa da quella storia, ancora di più dal tono di voce con cui Tom parlava di suo fratello.
– Tu vuoi un bene immenso a Pete – commentò.
– Non dovrei? È tutto ciò che mi resta della mia famiglia, mi ha salvato la vita e sono orgoglioso di lui, di quello che fa, e di essere suo fratello. La gente, quando lo conosce, dice che ha il cuore di ghiaccio… ma io so che non è vero. Da qualche parte, dentro di lui, deve esserci ancora il ragazzo felice che era una volta: quello che amava la musica, e studiare, e stare con gli amici… e giocare con quella peste del suo fratellino. Io mi auguro che trovi, prima o poi, qualcuno che riesca a vederlo, questo ragazzo spensierato, e a farlo tornare. Perché io non ci sono riuscito.
– Di certo non lo troverà qui, questo qualcuno – disse Briz, ritenendo impossibile che Pete potesse amare qualcosa, tantomeno la musica o divertirsi con gli amici; giocare con suo fratello, poi… – Passa meno tempo possibile con noi, e con alcuni ci litiga pure – aggiunse con un sospiro.
– Scommetto che tu sei uno di questi alcuni. Da quel poco che ho visto, sei l'unica capace di farlo uscire dai gangheri, e ti garantisco che non è certo da lui, freddo e inquadrato com'è.
– Certo, lui è il principe del gelo e dell'autocontrollo: per questo mi diverto tanto a farlo incazzare. Ma anche lui mi fa letteralmente andare fuori dai coppi, quando ci si mette: c'è mancato poco che mi facesse scappare di qui, con le sue stronz… cioè, i suoi brutti modi. E quanto al fatto di avere il cuore di ghiaccio, gliel'ho detto anch'io. E gli ho pure urlato in faccia che spero di esserci e ridere, quando si spezzerà… o si scioglierà.
– Wow, gli hai detto così? E lui che ti ha risposto?
– Più o meno che sono una bambina scema e romantica, piena di belle frasi e poca sostanza. Così, io ho finito per tirargli un ceffone e dargli del bastardo, e anche qualcosa di peggio.
– Effettivamente gli ha urlato questo e altro: non hai idea delle cose che sono capaci di dirsi quando litigano – disse Sanshiro.
– Cavoli! Davvero? – si sbalordì Tom, ammirato – Sei forte! Nemmeno io ho il coraggio di rispondergli per le rime, figuriamoci dargli uno schiaffo!
– È stato lo sfogo di un attimo. E dopo quello che ci hai raccontato, me ne sto quasi dispiacendo. Però… Shh, zitti un attimo – aggiunse abbassando improvvisamente la voce, dirigendosi a passo felpato verso la porta chiusa e aprendola di scatto: Pete fece un passo indietro, sorpreso.
– Aha! Beccato! Che diavolo fai, ci ascolti di nascosto, adesso?
– Veramente stavo per entrare – si difese lui.
– Sì, come no! Sono almeno dieci minuti che ho sentito i tuoi passi fermarsi qui! Vieni dentro, asociale!
Briz lo tirò nella stanza e lui entrò di malavoglia, mentre lei pensava che Pete avesse quasi sicuramente sentito Tom raccontare la loro storia; ipotesi che fu confermata dalle sue parole:
– Ho sentito male, o ti dispiace davvero avermi preso a schiaffi?
– Non hai sentito male: mi dispiace. E non solo perché mi sono fatta male alla mano.
Briz si stupì di come quelle parole le fossero affiorate alle labbra, prima ancora di pensarle.
– Mi stai chiedendo scusa perché adesso, che conosci il mio passato, ti faccio pena? – le chiese Pete, con una nota orgogliosa nella voce.
– Tu non sei il tipo da ispirare pena, Richardson. Semplicemente, mi dispiace per quello che hai passato, e mi dispiace anche il ceffone, davvero! Ma se pretendi che mi metta in ginocchio…
– Lascia, non sia mai. A posto così, stordita – disse Pete, distogliendo lo sguardo da lei e posandolo su suo fratello.
– Tom: vattene di qui appena puoi. Te lo chiedo per favore – finì freddamente.
Lanciò un ultimo sguardo al resto della truppa, poi se ne uscì di nuovo, rigido e controllato come sempre.
Fabrizia fissò attonita la porta che gli si era chiusa alle spalle; anche lei era reduce da un passato tragico, ma non aveva mai rifiutato l’aiuto e l’affetto di chi le stava intorno.
“Ma perché fa così?” si chiese, senza riuscire a capire.

> Continua…




Note dell’Autrice:
1 L’episodio in cui Fan Lee perde suo fratello è il n° 10, “Nei cieli di Hong Kong”.
 
Questo capitolo e il prossimo, invece, sono ispirati all’episodio n° 19, “Pete senza pietà”. La storia che Tom ha raccontato, anche se con parole mie, è più o meno quella che lui narra nell’anime, tranne per un particolare, aggiunto da me, che mi servirà mooolto più avanti, per ricamarci sopra a modo mio, ovviamente.
 
Ho un po’ rimescolato l’ordine degli episodi, rispetto all’anime, in base alle mie esigenze di trama 
😉
 
Grazie ancora a chi mi legge in silenzio, ma ancora di più a chi mi recensisce, Divergente Trasversale e Micia Sissi, che mi incoraggiano e mi danno consigli sia sullo stile, che su come usare il PC. Anche se questi ultimi, con una pagnocca come me servono il giusto. Io e il computer abbiamo un rapporto conflittuale, io lo odio e lui LO SA. Così mi ricambia… 
I disegni sono un'aggiunta di novembre 2022

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Capitolo 6
*** 5 - Piccole vendette e boiate pazzesche ***


~ 5 ~ 
PICCOLE VENDETTE E BOIATE PAZZESCHE

 
 
Il dottor Daimonji convocò tutti in sala riunioni, per annunciare che i lavori sulla Lama Gigante erano stati ultimati. Sul grande schermo collegato al suo computer, e affiancato da Sakon e Pete, mostrò al resto dell’equipaggio il suo funzionamento, specificando che il giorno successivo avrebbero proceduto al suo collaudo; poi diede all’equipaggio qualche ora di libertà.
I giovani si diressero in sala comune, dove trovarono Tom che li aspettava. Briz si stupì nel vedere che Pete si era unito a loro: di solito rifuggiva la compagnia, e non si illudeva certo che si stesse sforzando di seguire il consiglio che lei gli aveva dato la settimana precedente, quando si erano incrociati sulla spiaggia; in quei giorni il capitano non aveva nemmeno passato il poco tempo libero con suo fratello, e lei non riusciva a capacitarsi di questo.
Tom, però, non se ne era lamentato e aveva apprezzato i momenti passati insieme al resto dell’equipaggio, soprattutto con lei e Sanshiro. Non aveva nemmeno preso in considerazione l’ordine di Pete di andarsene da lì: per la prima volta, dopo tanto tempo, il ragazzo si sentiva a casa.
Briz si servì di una Coca-Cola, e ne allungò una anche a Tom.
– Scommetto che è almeno la terza che ti fai fuori, oggi – disse Pete alla ragazza, alludendo alla bibita.
– Uhmm… Può darsi, perché? Sta' a vedere che adesso non posso più nemmeno bere una Coca-Cola quando mi pare!
– Padronissima, per carità, è che tu non ti accontenti di una; poi stamattina ti ho vista anche tracannarti parecchio caffè, e a te la caffeina non fa bene… sei già abbastanza schizzata di tuo.
– Ah-ah, come diresti tu: devo ridere? Non sforzarti a fare battute, non sono il tuo forte, Capitan America. A me il caffè risolve tutti i problemi: ho sonno? Caffè! Sono senza energie? Caffè! Ho freddo? Caffè! Il Capitano Richardson mi fa incazzare? Glielo rovescio in testa.
Tom seguì interessato e divertito quello scambio di battute pungenti che stavano strappando sorrisi e risate anche agli altri; decise che Briz era davvero meravigliosa: era verissimo che lui stesso non avrebbe saputo tenere testa a suo fratello in quel modo.
Diede un'occhiata a Sanshiro e sollevò un sopracciglio con aria interrogativa, come a dire: “Ma questi due sono sempre così?”
Il pilota del Gaiking gli spiegò con un sogghigno:
– Per ora sono piuttosto tranquilli, spesso sono peggio. Poi, solitamente, quando non ne può più, Fabrizia se ne va imprecando robacce in italiano, o in spagnolo, che non capisce nessuno. A quel punto, purtroppo, lo spettacolo finisce.
– La prossima volta ti faremo pagare il biglietto, visto che ti diverti tanto – disse Briz, passando accanto a Sanshiro e dandogli una lieve gomitata nelle costole.
Tom guardò Fabrizia e le disse, a metà tra il preoccupato e il divertito:
– Ma sei sicura che nessuno capisce l'italiano?
– Il dottor Daimonji lo conosce, ma non mi sgrida mai per quel che dico nella mia lingua.
– Oh, Pete! Non gliel'hai detto della nonna, vero? – chiese al fratello con un vago tono di accusa.
Pete lo guardò con aria più rilassata del solito: forse, nonostante tutto, la presenza di Tom lo aveva un po’ ammorbidito.
Ma poi scosse appena la testa, con un ghigno diabolico sulle labbra.
– Qu… Quale nonna? – chiese Briz, cominciando a preoccuparsi.
– Nostra nonna Rosy. Era di Verona: italianissima – rispose Tom – Ci ha insegnato la sua lingua, quando eravamo piccoli, e mamma pure la parlava bene. E anche noi, per quanto adesso siamo un po' arrugginiti; ma ti posso garantire che… la capiamo. Molto bene, potrei aggiungere.
– Ahargh! – Briz quasi si strozzò con un sorso di Coca.
Quando l'accesso di tosse si calmò, guardò Pete con gli occhi lucidi e disse, paonazza e con la voce stridula: – Ma mi hai detto che tua nonna era una Cheyenne!
– Fanciullina, fino a prova contraria di nonne se ne hanno due! È vero che la mia era troppo signora per insegnarmi le parolacce, ma in questo ho colmato abbondantemente la lacuna mentre ero nell'Air Force: hai idea di quanti commilitoni di origini italiane, irlandesi, ispaniche e altro ho avuto? Il fatto che io non le usi spesso, non vuol dire che non conosca espressioni sconce, e in un sacco di lingue! E per quanto riguarda lo spagnolo… beh, vengo dalla California: è la seconda lingua, dopo l'inglese, mastico abbastanza bene anche quello.
Fabrizia si passò una mano fra i capelli, posò la Coca su un tavolino e si sedette di peso sul divano.
– Ma porca puttana… – ansimò, sconvolta, nella sua lingua madre.
– Ecco, appunto… – commentò Pete.
Briz si coprì la faccia con le mani.
– Cazzo… – brontolò fra i denti.
– Questa è persino più facile! E adesso ascoltami un attimo, visto che se ne parla.
Il tono di Pete era stranamente pacato, ma anche molto fermo, e lei non replicò, obbedendo. 
– Allora: non mi importa un fico secco se in battaglia ti scappano porcherie e mandi affanculo i Mostri Neri; ci può stare tutto, e ognuno è libero di sfogare la tensione come meglio crede. Ma guai a te, se ti sento ancora mandarci me, o darmi del fottutissimo stronzetto e del soldato idiota, in italiano, spagnolo, arabo o qualunque altra lingua. E anche strafottuto bastardo e figlio di puttana, non è che mi piacciano molto. Ah, fra l'altro, non so se lo sai, ma la parola cabròn, per gli ispanici, vuol dire molte altre cose, oltre che caprone. Per esempio stronzocornuto e testa di… beh, quello che hai detto poco fa.1  
Fabrizia abbassò le mani scoprendo la faccia, e la sua espressione, nonostante le guance in fiamme, diceva che sì, lo sapeva benissimo, cosa volesse dire cabròn in tutti i suoi innumerevoli significati; altrimenti non glielo avrebbe sibilato contro diverse volte.
Sospirò, sentendosi con le spalle al muro.
– Merda, ma te le ricordi proprio tutte, le robacce che ti ho detto dietro!?
– Ho buona memoria, per cui ficcatelo bene in quella bella testolina: nelle lingue che parli tu, capisco le parolacce; capisco gli insulti; capisco tuttoClaro? – concluse con l'ultima parola in spagnolo.
– Limpio… – sussurrò lei nella stessa lingua, imbarazzatissima, ma senza staccare lo sguardo da quello di lui.
Quasi tutti gli altri stavano cercando di trattenersi dal ridere, compreso Daimonji, che non poté fare a meno di pensare che quella piccola chiacchierona sboccata di Briz, stavolta meritava proprio di subire questa piccola vendetta da parte del loro Capitano.
– Vigliacco però! Me lo potevi dire… – si lamentò lei; poi, con un altro sospiro, si ricompose: – Va bene, ti chiedo scusa; ti prometto che cercherò di non dire più volgarità contro di te, anche se devi riconoscere che a volte me le tiri proprio fuori. Però hai detto che l'Armata dell'Orrore Nero non conta.
– No, certo che non conta. È un peccato che non si possano ammazzare i Mostri Neri a parolacce: tu saresti perfetta come arma impropria e avresti già vinto la guerra da sola.
– Però devi ammettere che la nostra ragazzina nelle ultime battaglie se l’è cavata bene, no? – disse Yamatake, che amava difendere la componente più giovane del loro equipaggio – Lo vedi, Briz? I tuoi sforzi contano: chi semina raccoglie.
Briz ridacchiò: – Già… ma sarà davvero un bene? Chi raccoglie è costretto a chinarsi… e a quel punto è un attimo…
Due secondi di silenzio per capire il pesante sottinteso, e altre risate finirono per uscire, un po’ meno trattenute; Tom, poi, si sbellicava letteralmente.
– Che vi dicevo? – esclamò Pete – Briz e la finezza: due rette parallele che mai si incontreranno. Sei davvero peggio di uno scaricatore di porto!
– Va bene, va bene, hai chiarito il concetto, basta! Tanto la guerra a parolacce non la vinceremo, ci toccherà usare le nostre armi.
– Che non sono scarse, direi! Non vedo l’ora di cantare vittoria – esclamò Yamatake.
– Scusate, – intervenne di nuovo Pete – non per fare il disfattista, ma cosa vi fa pensare che la guerra contro l'Orrore Nero la vinceremo sicuramente noi?
Per qualche secondo scese il silenzio nella sala: nessuno aveva una risposta concreta, così Briz diede la sua, che di concreto aveva poco o niente:
– Beh… Perché noi siamo i buoni, no?
– Ti pareva che non saltasse fuori la fanciullina ottimista e sognatrice… – commentò lui.
– Ma come, non ero lo scaricatore di porto? Sei indeciso, capitano! – ghignò; poi tornò improvvisamente seria: – Dai, Pete… non è questione di ottimismo, lo sai. Se parliamo del futuro significa che immaginiamo di vincere, perché se perderemo… il futuro non sarà più, per nessuno, qualcosa di cui preoccuparsi.
E a quel punto, nessuno riuscì più a trovare qualcosa con cui ribattere.
 
* * *


L'allarme risuonò all'improvviso il giorno successivo, quando erano quasi tutti a bordo del Drago per gli ultimi studi sulla Lama Gigante, prima del collaudo. Tom era con Fabrizia davanti a un monitor a studiare la situazione, e lei lo lasciò a continuare quel compito per correre alla sua postazione nella sala comandi.
Nel giro di cinque minuti il Drago solcava i cieli, con l’equipaggio al completo, andando incontro al mostro che si era fatto vivo di nuovo in Giappone.
Quando lo videro rimasero tutti piuttosto sconvolti: era una specie di gigantesco bruco, grande quasi quanto il Drago, che emetteva dalla bocca a forma di tenaglia una lucida bava giallastra che, quando avvolgeva qualcosa, si solidificava diventando impenetrabile.
– Bleah! – fece Fabrizia – Sono uno più schifoso dell'altro, i nostri nemici.
– Per questo si chiamano mostri, tesoro – disse Yamatake.
Sanshiro non aspettò nemmeno l’ordine, e in brevissimo tempo fu pronto a ricevere i componenti del Gaiking lanciati da Midori: il giovane eseguì le manovre di agganciamento e il grande robot si preparò per combattere. Ma il bruco, invece di attaccare, si dileguò sottoterra.
– Yamatake, – ordinò Doc – fuori con Bazzora!
Il giovanottone si era già precipitato, ma, arrivato all'hangar, la sua voce risuonò allarmata negli altoparlanti della sala comandi: – Doc! Bazzora non c'è più!
– Cosa? Ma dov'è? – gridò il dottore – Midori, cerca il contatto radio!
– Subito! – nel giro di alcuni secondi, la ragazza aveva stabilito la comunicazione.
Sui monitor comparve l'immagine dell'interno dell'abitacolo del Bazzora: ai comandi, con un'espressione fredda e determinata, c'era nientemeno che Tom! Ma aveva staccato il contatto vocale, prima di lanciarsi all'inseguimento del Mostro Nero.
Pete non credeva ai suoi occhi.
– Porca puttana, lo sapevo! Lo sapevo che avrebbe finito per fare una cazzata! Merda!
Briz si rese conto che la faccenda era davvero grave, e non solo perché il supercontrollato Capitan Richardson aveva infilato ben tre parolacce in un'unica frase. Tutti rimasero a fissare, attoniti, Bazzora scomparire sottoterra, trivellando il terreno dietro al mostro. Sanshiro si sentì impotente: il Gaiking non era fatto per combattere nel sottosuolo.
Briz aspettò l'ordine di uscire, che non arrivò: in realtà sapeva benissimo che nemmeno Balthazar avrebbe potuto far molto.
Improvvisamente, il bruco si catapultò di nuovo fuori dal terreno e sputò una massa di bava gelatinosa che avvolse il Drago e che, solidificandosi, chiuse la via d'uscita agli altri mezzi e lo immobilizzò.
Il Gaiking lo attaccò più volte, con varie armi, ma sembrava tutto inutile. Dietro al mostro rispuntò il Bazzora guidato da Tom, che lo attaccò a sua volta. Il bruco, sentendosi attaccato su due fronti, reagì in un modo imprevedibile: cominciò ad avvolgersi nella sua stessa bava, creandosi attorno uno scudo per proteggersi. Tutti inorridirono, quando si resero conto che il mostro aveva imbozzolato, insieme a sé stesso, anche il Bazzora.
Sanshiro cominciò a colpire l'orribile bozzolo nel tentativo di liberare Tom, ma la bava si era solidificata, diventando più impenetrabile di una barriera di titanio. Balthazar, imprigionato dentro al Drago, era altrettanto impotente; il Drago stesso era immobilizzato.
– La Lama Gigante – disse Pete, come tra sé, tirando la leva per azionarla.
Sapevano tutti che l'arma non era stata ancora collaudata, e rimasero in attesa degli eventi. La gigantesca lama uscì dalla pancia del Drago e tagliò di netto l'indistruttibile materiale che lo aveva avvolto. L'astronave si liberò e si sollevò raggiungendo il bruco imbozzolato.
– Pete che vuoi fare? – gridò Sanshiro dal Gaiking.
– Distruggerò il mostro con la Lama.
– Ma sei pazzo? C'è tuo fratello lì dentro!
– Vedi un'alternativa? È un problema senza soluzione! Nessuno gli ha ordinato di combinare questo disastro – fu la gelida risposta.
Briz si alzò dalla sua postazione e scese più in basso, dove Pete si era alzato in piedi e aveva impugnato la cloche simile a un timone: era fermissimo nella sua decisione, che sembrava mostrare il disinteresse più totale per la sorte di Tom.
In pochi secondi anche Doc li aveva affiancati.
– Pete, non osare fare del male a Tom! – gridò Sanshiro.
– Sanshiro! – lo zittì Daimonji – Dovremo fidarci di Pete, questa volta! Soltanto la Lama Gigante può tagliare quel maledetto materiale.
– Doc e Pete hanno ragione – disse Fabrizia serissima, con voce ferma – Non c'è soluzione: se non interveniamo, Tom sarà comunque spacciato. Se c'è una possibilità di salvarlo, è nelle mani di Pete!
Sanshiro non ribatté: era vero, il loro Capitano aveva preso l’unica decisione possibile.
A tutti la lama sembrò di dimensioni immani, quando si avvicinò al bozzolo. La nuova arma cominciò ad intaccare la bava solidificata, tagliandola e lacerandola; Briz pensò che fosse come tagliare un filo di seta avvolto attorno a un dito senza ferirsi, usando una mannaia.
In piedi al fianco di Pete, si soffermò a guardarlo: era concentratissimo nella sua missione, gli occhi fissi sul suo obiettivo; una goccia di sudore gli scivolò dalla tempia lungo la guancia, mentre si mordeva il labbro inferiore e quasi tratteneva il respiro.
La ragazza tornò a guardare il grande schermo, su cui si vedeva la lama incidere l'involucro sempre più a fondo. Finalmente, dall'ultimo taglio praticato, il Bazzora rotolò fuori, incolume, finendo sul terreno dopo un paio di capriole; il Gaiking si affrettò a trascinarlo fuori dalla portata del mostro.
Pete lasciò uscire l'aria dai polmoni con un sospiro che gli gonfiò per un attimo le guance, e chinò per qualche secondo la testa, chiudendo gli occhi.
Briz lo guardò di sottecchi: era pallido come un cencio, e lei gli rivolse un pensiero: "Va là, che sei un essere umano anche tu, porca miseria!" 
Il Gaiking scattò per attaccare, e Briz fece altrettanto per correre a raggiungere Balthazar, ma il Drago li precedette ed entrambi restarono dov’erano: Pete aveva ripreso il controllo e, ormai eliminato il bozzolo, la Lama Gigante affondò nel corpo del mostro, squarciandolo in due per il lungo e allontanandosi poi velocemente.
Il riverbero dell'esplosione stava ancora tremolando sulla superficie metallica del Drago, quando atterrò poco lontano dal Gaiking e dal Bazzora.
Briz ancora non riusciva a crederci: tutto era accaduto in tempi brevissimi.
Pete era tornato a sedersi e lei, senza nemmeno accorgersene, aveva posato la mano guantata sulla sua spalla e l'aveva stretta leggermente. Il giovane sollevò lo sguardo su di lei, che però aveva gli occhi ancora puntati sullo schermo panoramico.

Briz-Pete-sala-comandi

– Mitico Richardson… Solo tu potevi riuscirci – mormorò tornando a guardarlo e incrociando i suoi occhi. 
– Grazie per la fiducia – le disse a voce bassa, strizzandole l'occhio fugacemente.
– Tom sta bene – annunciò Midori, che aveva ristabilito i contatti con il Bazzora.
– Meglio per lui, perché poi ci penserò io, a farlo star male – tagliò corto Pete.
Briz non fu capace di dargli torto, e sorvolò su quella minaccia.
– Per essere uno che non usa le parolacce, ti sei espresso piuttosto bene, prima. Tre in un'unica frase: un'ottima media, direi – ironizzò Briz, per rompere la tensione.
– Già… ma ho avuto a che fare con una luminare in materia, negli ultimi tempi – fu la risposta.
Daimonji, in piedi dietro alla poltroncina di Pete, li guardò per qualche secondo. La mano di Briz era ancora sulla spalla del giovane e, con sua sorpresa, quella di Pete si posò rapidamente su quella della ragazza, dandole un colpetto scherzoso, prima di tornare a posarsi sui comandi del Drago.
Un pensiero sfiorò velocissimo la mente del dottore: "Ma questi due… Stai a vedere che c’è una speranza…"
Era stato solo un attimo, e forse fu solo una pia illusione… ma in quel momento ci stava.
 
* * *


Tom era seduto nell'infermeria, alla base del Faro di Omaezaki, dove il dottor Watanabe aveva appena finito di visitarlo: fortunatamente non aveva niente di più di qualche escoriazione, anche se era piuttosto scosso dalla brutta avventura; ma la cosa che lo preoccupava di più, doveva ammetterlo, era l'idea di affrontare suo fratello.
Il medico gli diede il permesso di alzarsi e di andare e Tom, rivestitosi in fretta, decise di togliersi subito il pensiero.
Si diresse alla sala comune, dove sapeva di essere atteso. Entrò a testa bassa, si richiuse la porta alle spalle e alzò lo sguardo azzurro, affrontando gli amici.
– Lo so che ho fatto una boiata pazzesca. Mi dispiace… non so davvero che altro dire…
– Perché l'hai fatto, Tom? – chiese Briz, in tono un po' aspro – Perché, devi scusarmi se te lo dico, ma boiata pazzesca è un po' riduttivo, per descrivere quello che hai combinato! Non me lo aspettavo da te, davvero!
Pete guardò Fabrizia perplesso: non pensava che la ragazza avrebbe accusato Tom, sempre pronta com'era a difenderlo.
– Una stupida mania di grandezza – confessò il ragazzo guardando Pete – Così adesso mi hai salvato la vita due volte. Volevo farmi grande ai tuoi occhi, per vedere se mi avresti considerato un po' di più.
Pete sbuffò e scosse la testa: – E invece hai peggiorato le cose! Cosa credi, che adesso mi fiderò di te?
Si passò una mano tra i capelli e si costrinse ad un atteggiamento più pacato: – Senti, hai presente la nostra casa a Santa Barbara? Perché non ci vai a vivere? Ti iscrivi all'università e te ne stai lì, buono buono, e dai una direzione alla tua vita: non mi sembra una brutta idea, alla fine di tutto.
– Non so se ho voglia di tornare in California.
– Sai di quante cose non avrei voglia, io? – esclamò Pete, alterandosi di nuovo – Comunque, fai come credi. Hai accesso alla tua parte di eredità, fai quello che ti pare: vai dove vuoi, in Europa, in Australia o nel Mato Grosso, non mi interessa! Ma apri bene le orecchie, Thomas Matthew Richardson: entro domani sera ti voglio fuori di qui. E se tu lo avessi fatto subito, ci saremmo risparmiati tutti parecchie ansie! – concluse gelido Pete, uscendo dalla sala.
Briz stava per ribattergli dietro qualcosa, ma decise di lasciar perdere. Pete era stato spietato, come sempre, ma non aveva detto una stupidaggine, anche se lei riteneva che Tom avesse pagato il suo errore e imparato la lezione: in fondo era andato vicino a lasciarci le penne. Decise di cambiare argomento.
– Perché non vorresti tornare a Santa Barbara, Tom? Mi hanno detto che è una città molto bella.
– Sì, lo è, e l'università è una delle più rinomate della California. Anche la casa è stupenda… ma la verità pura e semplice…  è che non voglio ogni giorno tornare in quella casa, per quanto bella e spaziosa. Mi manca la mia famiglia, e quel posto me la ricorda troppo… Ma per questo non c'è rimedio: l’unica famiglia che ho è Pete, e lui non mi vuole. Non saprei dove altro andare, non ho agganci né conoscenze da nessuna parte.
– Mmm… Non è detto – disse Fabrizia, meditabonda – Mi sta venendo un'idea…
– Devo preoccuparmi? – chiese Tom.
Gli altri si guardarono l'un l'altro, un po' perplessi: quando Briz aveva una delle sue idee, di solito l'unico che doveva preoccuparsi era Pete.
 
***

Il giorno successivo Briz, Sanshiro, Midori e Sakon accompagnarono Tom al pullman che lo avrebbe condotto fino a Shizuoka, da cui avrebbe preso il treno per Tokyo, e poi l'aereo per Los Angeles. Fino all'ultimo continuarono a guardarsi in giro, per vedere se Pete sarebbe venuto a salutare suo fratello.
– Piantatela di aspettarlo – disse Tom – Tanto non si farà vedere, lo so.2 
– Non sopporto che ti tratti così – brontolò Fabrizia – Va bene, hai fatto un casino, ma per fortuna è finito tutto bene! E non sa nemmeno quando ti rivedrà… O se ti rivedrà, se è per questo! Io non le concepisco, certe cose.
Tom la prese un attimo in disparte e la guardò intensamente, con quei suoi occhi blu così simili a quelli di Pete, ma infinitamente più vivaci e allegri, nonostante tutto quello che avevano visto e passato.
– Non te la prendere: un giorno o l'altro accadrà qualcosa, e mio fratello si scioglierà, ne sono sicuro.
– Mah… secondo me è irrecuperabile.
– Io dico di no. Gli hai detto che speri di esserci, quando succederà: beh, ci sarai senz'altro, Briz, perché se esiste una persona, non dico sulla Terra, ma in tutta la galassia, capace di far fondere il cuore di ghiaccio di Pete… quella sei tu. Sei tu il microonde che gli serve, vedrai se mi sbaglio.
– Tom, ti prego, questo punto di vista… non mi attrae per niente.
– Senti, io ho solo diciannove anni, e non sono altro che un ragazzo incosciente che combina casini, ma ogni tanto ne indovino una. Buona fortuna, Cuordileone: ne avrai bisogno, per tutto – così dicendo, Tom la abbracciò e le stampò un bacio sulla fronte.
Per quei pochi secondi, le sembrò davvero di avere di nuovo un fratello; ricambiò l'abbraccio e gli arruffò i capelli.
– Buona fortuna a te, combinaguai. Ci sentiamo per mail, okay?
– Appena arriverò, promesso. E a proposito di mail… dai la mia a Pete solo quando tu lo riterrai opportuno.
– Come abbiamo deciso – concluse lei, mandandolo poi a salutare gli altri.
A tutti dispiacque che Tom se ne andasse e, a parte Briz, il saluto più caloroso fu di certo quello di Sanshiro, che non aveva fratelli e aveva lasciato i suoi genitori lontano da lì, in un posto sicuro dove, si sperava, non avrebbero corso rischi.3 Sentiva la loro mancanza, si era affezionato ai suoi compagni di battaglia come a una seconda famiglia, e ora anche al ragazzino spilungone.
Guardando il pullman che si allontanava, Briz si avvicinò al pilota del Gaiking e lo prese amichevolmente sotto braccio.
– Dispiace anche a te che vada via, vero? – gli chiese.
Sanshiro abbassò appena lo sguardo su di lei.
– Un po'. Ma in una cosa Pete ha ragione: Tom deve trovare la sua strada e vivere la sua vita.
– Lo sta facendo, credimi.
– Che avete combinato voi due? Dove sta andando Tom? – le chiese incuriosito.
Briz sollevò appena il viso e gli sussurrò la risposta all'orecchio. Poi aggiunse a voce più alta: – Prometti di non dirlo a Pete.
– Ma non ci penso nemmeno, fidati! Che se lo sudi, l'affetto di suo fratello!
Briz diede un ultimo sguardo al pullman, poi lasciò il braccio dell'amico e si diresse insieme agli altri alla jeep. Guardò Sanshiro, che si metteva alla guida, e Midori sedersi al suo fianco; lei si sistemò dietro con Sakon.
Per un attimo, aveva percepito come un lampo di ostilità negli occhi scuri della sua amica, quando aveva preso sottobraccio Sanshiro; era scomparso immediatamente, ma c'era stato.
Forse Midori si stava davvero prendendo una cotta per lui, ma Briz non riusciva a capire se potesse avere qualche speranza o no. Sanshiro aveva un carattere spesso irruento, ma anche aperto e pronto al sorriso… tuttavia, non riusciva a capire se Midori gli piacesse un po' di più che come semplice amica.
Guardò di nuovo il giovane, le sue mani strette sul volante, gli occhi marroni riflessi nello specchietto retrovisore, i capelli scuri perennemente spettinati: un gran bel ragazzo, anche lui. Capiva perfettamente che Midori potesse sentirsene attratta.
Ma lei, più lo guardava, e più pensava a chi le ricordava.
Se Tom era diventato quasi subito, per lei, come un fratello minore, Sanshiro era, già da un po’, come uno maggiore: perché aveva lo stesso temperamento coraggioso e spensierato, forte e allegro, simpatico ed impetuoso… del suo meraviglioso fratello, Alessandro Cuordileone.
                                                              
> Continua…
 

 
 
Note dell’autrice
 
I molteplici significati di cabròn sono veri: trovato sul vocabolario di Spagnolo.

2 Nell’anime, la faccenda tra Tom e Pete si chiudeva così: con un niente di risolto, e il fratello più giovane che se ne tornava in America. Ma lì non c’era Fabrizia a metterci il naso, e non credo proprio che i fratelli Richardson avessero nonne Cheyenne o addirittura veronesi, cose che ho inventato io. Non era specificato nemmeno da quale stato venissero: io ho deciso che sono californiani, perché di Santa Barbara mi hanno parlato benissimo. Naturalmente mi fido sulla parola, perché io ho messo piede fuori d’Italia solo un paio di volte, e non più in là dell’Austria… 

3 Io non ricordo assolutamente che nell’anime vengano mai nominati i genitori di Sanshiro. Forse (come al solito) era orfano, ma siccome qui di orfani ce ne sono già a profusione, ho voluto risparmiare almeno il pilota del Gaiking.
 

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Capitolo 7
*** 6 - Amici per forza ***


~ 6 ~ 
AMICI PER FORZA

Fabrizia entrò nello studio del dottor Daimonji, richiudendosi la porta alle spalle.
– Buonasera, Doc. Mi ha fatta chiamare?
– Sì, Briz, entra pure. Allora, Tom è partito?
– Un paio d'ore fa, e per quanto sia stato qui poco, io mi ci sono affezionata: ne sento già la mancanza.
– È vero che ha combinato un mezzo disastro, ma credo proprio che la lezione gli sia servita. È un bravo ragazzo, ed è intelligente: imparerà dai suoi errori e se la caverà, nella vita.
– Credo anch'io, soprattutto ora che potrà decidere da solo che cosa fare. Lo sa che Pete non è nemmeno venuto a salutarlo? Quel… Quel… – non riuscì nemmeno a trovarla, una parola adatta.
La porta si aprì di nuovo e Briz incrociò proprio lo sguardo del tipo per il quale stentava a trovare una definizione. Pete, che l'aveva sentita, incrociò le braccia e si appoggiò alla parete.
– Non sforzarti troppo, – le disse – e ricordati che hai promesso di non prendermi più a parolacce.
– Non sfidarmi, disgraziato! Non riesco a metterla da nessuna parte, questa faccenda di Tom. Sei inqualificabile!
Daimonji si sedette alla sua scrivania e appoggiò il mento su una mano, studiandoli in silenzio; li aveva convocati proprio perché  doveva trovare una soluzione a questa storia: cominciava ad averne le tasche piene dei loro litigi. Gli altri magari si divertivano, ad assistere ai loro battibecchi – e anche lui, in qualche caso, era stato costretto ad ammettere di averli trovati divertenti – ma temeva il rischio che le cose degenerassero, come la sera in cui Briz era crollata ed era stata sul punto di battersela.
Adesso basta, c'era un limite a tutto; era decisamente stufo, anche perché non era un bene per l'equipaggio in generale.
Oltretutto Doc conosceva le loro storie personali, ed era convinto che quella strana coppia avesse più cose in comune di quanto loro stessi potessero immaginare. Non pretendeva certo che tra di loro scoccasse il grande amore, e nemmeno che diventassero i migliori amici del mondo; ma che la piantassero di litigare. Da come stavano procedendo le cose, però, le speranze gli sembravano poche, persino per mettere insieme almeno una parvenza di rispetto reciproco.
– Smettila, Tom non è mica sparito nel nulla – stava dicendo Pete con un tono quasi superficiale – Fra qualche tempo lo contatterò e cercheremo di chiarirci un po': la California non è mica irraggiungibile.
A Briz sfuggì un ghigno diabolico:
– Eh, eh! Aspetta e spera!
– Perché non mi piace per niente quell'espressione da Satanella che hai messo insieme? – chiese lui, cominciando a preoccuparsi.
– Dai, Pete… tuo fratello te lo ha anche detto, che per il momento non voleva tornare a Santa Barbara.
A Pete occorsero un paio di secondi, per metabolizzare il sottinteso; poi esplose.
– Dove diavolo l'hai mandato?! Che accidenti hai combinato stavolta?! – le gridò, perdendo la calma.
– Primo: sei stato tu a dire che poteva andare dove voleva, tranne qui. Secondo: non l'ho mandato, ha solo seguito di sua iniziativa un mio suggerimento. Terzo: non te ne importa un emerito niente di lui, quindi risparmiati gli attacchi di sclero. E non cercarlo al cellulare o per mail, perché li ha cambiati.
– Tu sei… sei una maledetta impicciona, lo sai? Avanti, dimmi dov'è Tom!
– Nemmeno se mi punti il fulminatore alla tempia! Lui mi ha fatto promettere di rimettervi in contatto solo quando io lo riterrò opportuno; e non intendo venire meno a una promessa.
– Quando tu lo riterrai opportuno? Ma guarda un po' quella testa di rapa di mio fratello dove va a riporre la sua fiducia…
– Falla finita, sei tu quello che ha rovinato tutto! Se davvero ti fosse interessato stare con lui, Tom sarebbe ancora qui. Era il benvenuto per tutti, tranne che per te: l’unico che gli resta della sua famiglia! E tu lo hai cacciato via! Tu sei davvero fatto di ghiaccio, non ami niente e nessuno, niente ti tocca e ti scalfisce… In compenso sei bravissimo a ferire e distruggere gli altri.
– Siamo in guerra, fanciullina, non al campeggio dei boy-scout.
– Lascia perdere, non sai nemmeno di cosa stai parlando. Continua a pilotare il Drago, a combattere e a dare ordini… tanto sono le uniche cose che sai fare.
– Almeno le faccio bene, rompicoglioni che non sei altro!
– E con questo cosa vorresti dire? Che io invece no? Ci hai già provato a farmi sentire una nullità, brutto vigliacco! Non oserai…
– Non oserò?! Vogliamo vedere?
– Okay, giovani! Finiamola qui!
Pete e Fabrizia si voltarono di scatto verso il dottore, colpiti dal tono della sua voce, secco come una staffilata: non era da lui.
Si guardarono per un attimo, sbuffando, e forse – forse – si sentirono quasi d'accordo sul fatto che, di nuovo, stessero per passare il limite; e capirono anche che, stavolta, Daimonji non ci sarebbe passato sopra. Con altri due lievi sbuffi, si lasciarono cadere sulle due poltroncine davanti alla scrivania.
Doc sospirò, passandosi sul volto rugoso i palmi delle mani e lisciandosi i capelli grigio ferro all'indietro.
– Non riesco ancora a capire come sia possibile che due persone, valide e intelligenti come voi, non siano capaci di trovare un modo per… andare d'accordo, almeno – esclamò stancamente.
– Io non posso andare d'accordo con uno che rinnega un fratello.
– Ma non l'ho rinnegato, scema al cubo! Sei tu che non ti fai mai i cavoli tuoi!
– In compenso a te non importa un fico secco del tuo prossimo! Non ti ricordavi nemmeno quanti anni ha, Tom, tantomeno in che giorno li compie!
– Giusto perché tu lo sappia, non lo avevo dimenticato. Ma credi davvero che mi possa dimenticare l'età di mio fratello? Avevo solo bisogno di essere duro con lui; so benissimo che ne ha compiuti diciannove il quattro di luglio.
– Tsé! Bello sforzo! Te lo ricordi solo perché è la festa dell'indipendenza americana. Sei davvero… oh, Dio! Non lo so cosa sei! Non ho parole!
– Io invece sì, eccome! Ma non te le posso dire: non davanti a Doc!
– Pete, basta, non se ne esce! Piantiamola con questi teatrini da “Asilo Mariuccia”! – esclamò Fabrizia esasperata.
– Effettivamente, Briz ha centrato il punto – constatò Doc – E visto che continuate a comportarvi come due bambini, ho deciso di trattarvi come tali: vi metto in punizione!
Ed ecco che accadde una cosa strana: i due si sentirono sulla stessa barca e, per una volta, sembrò loro di avere una qualche affinità. Gli scappò quasi da ridere e si guardarono di nuovo, entrambi con un mezzo sorriso un po' scettico sulle labbra, come per dire: "Dai, in punizione! Che potrà mai farci!?"
– Ridacchierete meno, quando scoprirete cosa voglio da voi. Allora… per quel che riguarda te, Briz: Pete dice che sei troppo irruenta ed emotiva e che ciò ti rende insicura. Non riesco a dargli tutti i torti: ti conosco, so cos'hai passato, e so che hai già fatto miracoli per superare traumi e lutti terribili, ma so che puoi ancora migliorarti. Per esempio tenendoti la lingua tra i denti, ogni tanto! – concluse il dottore in tono deciso e severo. Poi proseguì: – Quanto a te, Pete, ripongo la massima fiducia nelle tue capacità di pilota e comandante: hai la freddezza e la determinazione necessarie per prendere sempre le decisioni giuste in un attimo, ma i tuoi compagni hanno ragione, quando dicono che sei un pezzo di ghiaccio. So che anche nel tuo passato ci sono eventi tragici, li conosco; ma non possiamo scordarci di essere umani. Siamo persone, Pete! Sei giovane, non puoi dimenticare di essere anche tu un ragazzo come tutti gli altri. Ci sono momenti, nella vita… sì, anche durante una guerra! in cui si può ridere, stare in compagnia e con i propri amici. Rilassati, ogni tanto! E cerca di ritrovare il tuo cuore, nonostante tutto.
– Doc… dicono tutti che il mio cuore è diventato di ghiaccio, e forse hanno ragione. Per me è più facile, così – sospirò Pete passandosi una mano tra i capelli per spostarli dalla fronte, sulla quale ricascarono subito dopo.
Nonostante quelle parole, sembrava quasi… che questa faccenda del ghiaccio cominciasse a dargli un po' fastidio.
– Io ti ho già detto che può anche sciogliersi, un cuore di ghiaccio – fece Briz.
– Il mio è più facile che si spezzi, e non credo di voler fare questa esperienza.
– Tu sei troppo duro per spezzarti. E comunque, nell'eventualità, posso assicurarti che si sopravvive anche a quello – insistette lei, tranquilla.
– Hm! Ha parlato l'esperta.
– In questo caso sì: so di cosa parlo – concluse la ragazza.
Pete si chiese cosa ci fosse stato nel suo passato a spezzarle il cuore. Sapeva che Briz aveva perduto la sua famiglia, anche se non conosceva i particolari, ma il suo sguardo e il suo tono di voce gli suggerirono che fosse accaduto anche qualcos'altro, e che ciò non avesse nulla a che vedere con i lutti che l’avevano colpita. Era anche sicuro che, a dispetto delle sue smargiassate e del suo linguaggio da carrettiere, Briz avesse il cuore fin troppo tenero e che, per farlo a pezzi, non dovesse esserci voluto molto.
– Lo vedi? – continuò Daimonji – Il destino ti ha mandato Briz: non so chi altri potrebbe aiutarti meglio di lei.
I due giovani alzarono lentamente le teste e fissarono Doc a bocca aperta, con gli occhi spalancati: erano rimasti letteralmente senza parole, non molto sicuri di aver compreso bene il concetto appena esposto dal dottore. La prima a riprendersi fu Fabrizia, non prima di aver pensato che Tom le aveva predetto quasi la stessa cosa: "Sei tu il microonde che gli serve per scioglierlo".
– Dunque è questa la mia punizione? Insegnare a Pete… come far sciogliere il suo cuore? Ma-ma-ma… non era esattamente questo che intendevo un attimo fa! – esclamò con un tono di voce nel quale vibrò una nota di isteria, che il dottore ignorò spassionatamente.
– Veramente, tu sei solo un aiuto: dovrà essere lui a farlo. È la sua punizione.
– Oddio… non oso pensare alla mia – disse lei, scuotendo la testa e guardando il giovane capitano, che la guardò a sua volta e, piuttosto freddamente, le disse:
– Non l'hai capito? Io devo insegnarti a essere più realista, più dura e pragmatica, meno piagnucolona e ad avere fiducia in te stessa. Dico bene, Doc?
– M-mm. Più o meno – fu la semplice risposta.
– Io non sono piagnucolona… – brontolò Briz – E se la fiducia in me stessa me la devi instillare tu, sto fresca! E di certo il compito più difficile toccherebbe a me.
– Usa i tempi giusti, piccola – disse Daimonji piuttosto serio – Facile o difficile, di certo ti tocca, come tocca a Pete. La questione va risolta, in un modo o nell’altro: da domani, vi obbligo a passare insieme almeno un paio d’ore del vostro tempo libero, se non tutti i giorni, di sicuro ogni volta in cui vi sarà possibile. Capisco che non sarà facile, ma dovrete farlo, a costo di costringermi ad ammanettarvi insieme! Non mi importa dove andate, cosa fate, quello che vi dite: fate quel diavolo che vi pare, ma imparate a conoscervi e a fidarvi l'uno dell'altra. So che avete entrambi parecchie qualità: tiratele fuori e cominciate ad usarle; sono abbastanza convinto che sarete in grado di compensarvi a vicenda… – e qui la voce di Daimonji si fece ancora più minacciosa – …e riuscirete a smussare gli spigoli dei vostri caratteracci!!! So solo che un giorno voglio vedervi comportare non dico come due amici, ma almeno come due persone che si rispettano! Sono stato abbastanza chiaro?
– Eccome, Doc – disse Briz con aria depressa.
– In tutta onestà, io non so da che parte cominciare – ammise Pete.
– Dillo a me – disse la ragazza in tono avvilito, i gomiti sulle ginocchia e lo sguardo fisso sul pavimento.
Poi, lentamente, sollevò il viso e guardò il suo compagno di sventura: le parole di Daimonji le avevano dato un'idea.
– Doc, lei ha detto: "Fate quel diavolo che vi pare". 
Pete mise subito le mani avanti:
– Ecco, a proposito di diavolo! Fabrizia, hai di nuovo la faccia da Satanella: ti mancano solo le corna, due alette da pipistrello e un bel forcone in mano! Cosa sta macinando il tuo cervellino?
– Ma che viaggi ti fai? Sto solo pensando che da qualcosa dovremo pur partire, no? Prova a fidarti, come dice Doc, e io cercherò di fare lo stesso. Non ci sono molte cose che potrei insegnarti, ma una che potrebbe davvero aiutarti a scioglierti un po', potrei averla – esclamò la ragazza alzandosi in piedi.
Il giovane guardò Daimonji – che, l'aria severa e irremovibile, se ne stava in piedi a braccia conserte dietro alla sua scrivania – poi tornò a guardare lei.
– Non credo di avere molta scelta – si arrese Pete.
– Allora, – lo informò Briz – ci vediamo domani pomeriggio alle quattro: quando esci dal Centro, prendi il sentiero a sinistra, dopo circa mezzo chilometro mi trovi. Mettiti dei jeans e una camicia vecchi; e un paio di stivali, se li hai.
Pete mangiò la foglia e le spalancò in faccia gli occhi azzurri, alzandosi a sua volta e scuotendo appena la testa.
– Oh, no. Oh-no!
– Oh, !
– Non so un accidente di quella roba, Briz!
– Appunto! Sarà dannatamente divertente vederti alle prese con qualcosa che io so fare e tu no, bel pupone! Alle quattro, domani: prima lezione di equitazione! – annunciò la ragazza con un indice  alzato, e poi uscendo chiudendosi dietro la porta.
 
* * *


Pete fermò la vecchia moto fuori dal cancello, scese, lasciando il casco appeso al manubrio, ed entrò nel cortile; l'odore dei cavalli e del fieno lo accolse, e non lo trovò affatto sgradevole.
Sulla sinistra della scuderia si ergeva un capannone aperto, al cui riparo si trovavano un trailer per il trasporto di cavalli, un Ford Kuga blu elettrico metallizzato con tanto di gancio di traino, e perfino una vecchia mountain bike rosa fluo e nera.
Da dentro alla scuderia usciva una musica a volume altissimo. A Pete sfuggì un sorriso: la colonna sonora di Star Wars mandata a palla! Che altro si sarebbe potuto aspettare, da quella squinternata?
Non ebbe il tempo di pensare ad altro: un animale nero e peloso uscì di corsa dalla costruzione, abbaiando prima e ringhiando poi, dopo averlo costretto in un nanosecondo ad addossarsi al muro.
– Mapporc… B-buono, cane… A cuccia, bello… Briiiz!
Non trovò di meglio da fare che restare lì, fermo immobile, con la parete alle spalle e il cane – cane? A lui sembrava un incrocio con un orso! – che gli ringhiava contro, col pelo dritto sul collo e dei denti che gli ricordavano quelli del Drago Spaziale.
Briz, all’interno della scuderia, aveva visto Atlas percorrere a rotta di collo il corridoio interno e uscire abbaiando; il tempo di abbassare il volume della musica, e si precipitò fuori.
Pete, dal canto suo, vide Fabrizia uscire trafelata, ma si guardò bene dal muovere un muscolo: fu già molto se la seguì con gli occhi. Lei lo vide lì, appoggiato al muro, con l'animale che gli ringhiava contro, e si ritrovò ad essere per metà preoccupata e per metà divertita.
– Atlas! Qui! – disse con voce secca e perentoria.
Il cane smise di ringhiare, girò la testa verso di lei e trotterellò al suo fianco.
– Seduto! – ordinò la ragazza.
Il cane obbedì e abbassò il posteriore sul terreno, ansimando con la lingua fuori; la guardò, poi tornò a scrutare lo sconosciuto che si era di poco staccato dal muro.
– Vieni qui, tu – disse Briz a Pete – Atlas ha deciso che per oggi non ti mangia.
– Ma buongiorno anche a te, eh? Un bel benvenuto, mi hai preparato: se volevi mettermi a mio agio, beh perdonami, ma non ci sei riuscita un granché – replicò lui, mascherando la preoccupazione con l'ironia. Si avvicinò sì e no di due passi, e pure indecisi.
– Scusami, non avevo pensato che Atlas non ti conosce, ancora. Avvicinati: puoi fidarti, credimi, anche se capisco che un bestione come lui possa fare paura, soprattutto se ti corre incontro ringhiando.
Pete si avvicinò lentamente, diffidente come un gatto. Atlas alzò il naso e Briz gli accarezzò il testone nero.
– Questo è Pete, un amico. Amico – ripeté, affinché il cane riconoscesse il suono della parola – Beh, magari amico è un parolone… – aggiunse quasi tra sé – ma questo è il termine che conosce Atlas, quindi va bene così. 
Tese un braccio in avanti e disse: – Dammi la mano.  
Lui esitò solo un secondo, poi le obbedì: Briz gliela prese e sentì come… uno strano formicolio. Pete aveva delle belle mani, grandi e abbronzate, con le dita lunghe e le unghie corte e pulite.
Le rare volte in cui era capitato tra loro un contatto, avevano sempre avuto indosso i guanti dell'uniforme: a parte la stretta di mano scambiata malvolentieri quando si erano conosciuti, e lo schiaffone che gli aveva mollato, quella era la prima volta che lo toccava.
"Ma che ca…? Che pensiero sarebbe, poi, questo?" si disse, mentre faceva avvicinare al tartufo del cane le loro mani: Atlas le annusò, interessato.
– Così sentirà il tuo odore insieme al mio, e capirà che non deve aver paura di te – spiegò Briz.
– Ah, fantastico! Lui, non deve aver paura? Cioè, non che io ne abbia, ma…
– Okay, okay, tu sei eroico e coraggioso: è per questo che un minuto fa ti ho trovato che tentavi di infilarti nel muro per sfuggirgli – disse Briz, senza resistere alla tentazione di prenderlo in giro e portandogli la mano sulla testa di Atlas – Su, ora accarezzalo, e parlagli: non ti farà niente.
Pete sorvolò sulla canzonatura della ragazza: l'aveva messa sul ridicolo, e non aveva nemmeno tutti i torti. Doveva ammettere che questa piccola scocciatrice selvatica, a volte era persino divertente. Per qualche strano motivo, gli sembrò diversa dal solito: era più rilassata e sicura di sé stessa. Ma in fondo, ora era nel suo territorio: giocava in casa, come si suol dire.
Si azzardò a passare la mano sulla testa del cane, sfiorandogli le orecchie: il contatto col pelo morbido e lucido era assolutamente piacevole. Atlas sembrò gradire e ansimò con la lingua fuori, stirando le labbra in un sorriso canino che, suo malgrado, conquistò il ragazzo;  ma gli sembrò che la cosa fosse assolutamente reciproca.
Beh, a quanto pareva, almeno al cane stava simpatico!
– Ehi, peloso, allora siamo amici? – e, seppur con circospezione, si chinò posando un ginocchio a terra di fronte ad Atlas, che cominciò a leccargli le mani.
Briz era allibita: l'algido capitano Richardson che giocava con Atlas? Pazzesco! Un bel ragazzo e un bel cane: che accoppiata!

 
Pete-e-Atlas

"Accidenti al diavolo, questa non me l'aspettavo proprio. È la conferma che Pete non è quello che vuol sembrare: Atlas riconosce a naso le persone” pensò.
– Vieni, ti faccio vedere i cavalli – gli disse; poi si rivolse al cane, che si era steso sulla schiena con la lingua che penzolava da un lato della bocca spalancata.
– Alzati, vecchio rinnegato! E vergognati: un paio di giochi, e guarda come ti riduci!  
Pete si rialzò in piedi e la seguì all'interno; il cane seguì lui, la testa all'altezza della sua mano.
Briz si chinò a raccogliere un forcone da terra e notò il sorrisetto ironico con cui Pete la fissò. Lei sollevò un sopracciglio, in un'espressione che avrebbe voluto essere interrogativa, ma lui la interpretò diversamente.
– Ecco, lo dicevo, io! Non avrai le ali da pipistrello e le corna, ma quel forcone che tieni in mano fa il paio perfetto con la tua faccetta diabolica!
– Forse perché lo sono! – ghignò Briz, stando al gioco – Tu invece mi sembri un pesce fuor d'acqua: non hai idea di quanto mi stia godendo questo momento! Ti presento i miei fratellini: lui lo conosci già – gli disse, indicando Indy e appoggiando il forcone contro il muro.
Da sopra le mezze porte dei box, i cavalli allungarono le teste, incuriositi dal nuovo arrivato. Sopra alle porte c'erano due targhe di legno, con incisi i nomi degli animali.
– E dai, Briz, non ci credo! Davvero si chiamano Indy e Obi-Wan?
– Certo che sì! Due personaggi delle mie saghe cinematografiche preferite: Indiana Jones e Star Wars. Vecchiotte, non dico di no, ma hanno Harrison Ford in comune: ho sempre avuto un debole per lui, e mi piace ancora, anche adesso che potrebbe essere mio nonno.
– Bene, per quanto possa sembrarti strano, perché so che l’hai pensato, conosco benissimo sia Star Wars che Indiana Jones. A quanto pare abbiamo scoperto un'altra cosa che abbiamo in comune, oltre a un passato tragico: quando ero un ragazzino adoravo anch'io quei film. Ma anche se in Han Solo mi piaceva identificarmi, ammetto che mi piaceva di più la principessa Leia.
– Grande, Richardson! Hai appena tentato di fare una battutina? A parte questo, non mi stupisce che ti rivedessi in Han Solo: bello, cinico e sarcastico, ma coraggioso e alla fine anche altruista. Però sei anche arrogante come lui: ti ci vedo pure, col Drago Spaziale, a fare la Rotta di Kessel in meno di dodici Parsec! 1 
Pete sembrò divertito dalla sua citazione, ma poi le chiese, serissimo:
– E che ne sai tu, del mio coraggio e del mio altruismo?
– Oh, smettila, non credo che Doc ti abbia obbligato… e un egoista non avrebbe scelto di venire a vivere in un paese straniero, a combattere una guerra interplanetaria, solo per senso di dovere e giustizia. Quanto al coraggio… non sono cieca: lo vedo.
– Allora, sembra proprio che abbia davvero qualche pregio anch'io. E tu ti rivedevi in Leia? – le chiese Pete,  tornando all'argomento di prima, non volendo correre il rischio, per ora, di andare troppo sul personale. Meglio rimanere sul futile, opinione che anche Briz sembrò condividere.
– Non mi rispecchiavo molto nella principessa, anche perché io ho almeno venticinque centimetri di troppo, per somigliarle: benché fosse forte e determinata, era piccolina e molto femminile. No, no… io volevo essere un Cavaliere Jedi come suo fratello, Luke Skywalker.
– E questo non stupisce me – concluse Pete.
Briz glissò sull'ironia di quell'ultima frase, che  sottolineava la sua indole da maschiaccio: era troppo impegnata a fare supposizioni sul sedicenne che poteva essere stato Pete dieci anni prima. Da quello che aveva appena detto, immaginava un adolescente con un carattere molto diverso da ora; e del resto, Tom aveva detto che suo fratello era cambiato dopo la tragedia che era costata la vita ai loro genitori.
Si fermarono davanti al muso nero di Obi-Wan; Briz circondò il collo dell'animale con un braccio e gli accarezzò il naso morbido e vellutato.
– Mano – ordinò a Pete.
Lui capì e si avvicinò, con la mano tesa, a sfiorare la fronte del cavallo. Briz gliela coprì con la sua e avvertì un altro piccolo, involontario brivido; si affrettò a fargliela scivolare lungo il muso dell'animale.

 
Obi-Wan-Mani

– Sul naso, Pete. Sai, l'odore, come col cane: è con l'olfatto e l'udito che gli animali ci riconoscono, ancor prima che con la vista.
Obi-Wan annusò entrambi, curioso. Briz mise sull'altra mano di Pete una zolletta di zucchero.
– Tienila sulla mano bene aperta e lascia fare a lui: non ti morderà – gli spiegò.
Il cavallo sgranocchiò lo zucchero in pochi secondi, gli leccò la mano e si sporse ad annusare la camicia del ragazzo, per vedere se ne avrebbe trovato ancora. Lui sorrise e lo accarezzò di nuovo.
– Non ne ho più, bello, dovrai accontentarti.  
Obi-Wan ricominciò ad annusarlo, e Fabrizia si stupì per la seconda volta.
Pete aveva seguito il suo consiglio, e indossava un paio di jeans scoloriti e dei vecchi stivali; una camicia a piccoli quadretti bianchi e blu, dalle maniche rimboccate, completava il suo semplice abbigliamento. Non sembrava proprio un ufficiale dell'Air Force Americana, men che meno il pilota del Drago Spaziale: era solo un giovanotto bello e abbronzato che faceva amicizia con Obi-Wan.
– Sembra che io piaccia ai tuoi animali, Briz.
– Vedo… – disse lei, guardando il cavallo che continuava a sfiorare la camicia di Pete con il naso.
"E che mi venga un colpo! In questo momento non piaci solo a loro…" si ritrovò a pensare.
– Bah! – si riscosse scuotendo la testa, per accantonare quel pensiero assurdo e molesto – Mi sento un po' tradita: per essere uno che non ha dimestichezza con gli animali, noto un certo feeling, tra di voi.
– Non chiedermene il motivo, io non ho mai avuto nemmeno un pesce rosso.
– Chissà perché, nemmeno questa cosa mi sorprende – esclamò Briz con aria scherzosa.
– Dunque è questo che vuoi fare? Sciogliere il mio cuore di ghiaccio con la pet-therapy? – le chiese con uno sguardo ironico.
– Hai visto mai… magari funziona… – rispose lei, a voce bassa.
Poi rimase in silenzio, a guardarlo. 
Lui riprese ad accarezzare il collo del cavallo, pensando che quel gesto gli dava una sensazione piacevolissima, come di… serenità? Spensieratezza? Pace…? Si sentiva incerto su quello che provava: erano tutte cose che non sentiva da tempo immemorabile.
All'improvviso Fabrizia lo chiamò, riscuotendolo dai suoi pensieri con una strana richiesta.
– Pete… guardami.
Il giovane si voltò verso di lei, e la fissò negli occhi.
– Ti sto guardando.
– Dimmi cosa vedi – fu l'insolito invito di Fabrizia – Ma voglio che tu mi dica la verità, qualunque essa sia. Beh, con un po' di tatto, magari…
Il giovane rimase perplesso per alcuni secondi: Daimonji aveva detto che dovevano parlarsi e imparare a conoscersi, e, a quanto pareva, Briz era intenzionata a dare retta al dottore.
Capiva anche lui che era la soluzione più ragionevole: non si poteva continuare così, e non erano cretini nessuno dei due; non fino a quel punto, per lo meno.
Per lui aprirsi era una fatica improba, ma sapeva che avrebbe dovuto farlo, prima o poi. Briz aveva avuto il coraggio di fare il primo passo, e lui non poteva ignorarlo.
Sperò solo di poter andare per gradi.

> Continua…



Note dell’autrice:
1 “Questa è la nave che ha fatto la rotta di Kessel in meno di dodici parsec”: battuta di Han Solo in “Star Wars - Una nuova speranza”, mentre decanta i pregi della sua vecchia astronave mercantile, il mitico Millennium Falcon.

Ehhh, se volete sapere che altro faranno questi due, e se davvero si diranno cosa vedono uno nell’altra… vi tocca aspettare il prossimo capitolo. Mwahahahah! Risata da autrice perfida… Che poi, capirai che gran pathos! Probabilmente finiranno per picchiarsi!

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Capitolo 8
*** 7 - Il vento del paradiso ***


~ 7 ~ 
IL VENTO DEL PARADISO
 
 
“Guardami” aveva detto Briz “E dimmi cosa vedi, magari con un po’ di tatto”.
Pete incrociò le braccia, si appoggiò alla parete di legno con una spalla e si apprestò ad obbedire a quella richiesta.
Briz indossava una camicia scozzese dal fondo bianco, ma i quadretti erano formati da righe rosa e azzurre, che negli incroci formavano altri quadretti lilla; la teneva annodata in vita e con le maniche arrotolate, e sotto portava una canotta turchese. Appena sotto il nodo della camicia faceva capolino una luccicante fibbia ovale d'argento, con incisa sopra una testa di cavallo. I jeans erano aderenti, neri; gli stivali, un paio di vecchi camperos.
Una serie di braccialetti di perline dai colori più sgargianti le copriva mezzo avambraccio, e il cappello da cow-boy grigio con attorno una fascia, anch'essa di perline colorate, completava l'insieme.
I capelli scuri erano raccolti in una trecciona disordinata che le ricadeva su una spalla, chiusa con un elastico di un rosa tanto intenso da far male agli occhi.

Briz-treccia

– E dai, vabbé, ma se mi guardi così! Okay che te l'ho chiesto io, ma mi sembra di essere un insetto studiato da un entomologo! Vuoi anche trafiggermi con uno spillone, già che ci siamo?
A quell'uscita, Pete si lasciò sfuggire un sorriso divertito e le disse una cosa inaspettata:
– Dimmi prima cosa vedi tu, quando ti guardi: ma anch'io voglio la verità.
– Ah, ti prego! Io vedo una spilungona insulsa, che non riesce a tenere ridotta una massa di capelli lanosi e disordinati e che si sforza di fare una cosa che forse è troppo grande per lei. E che fa la spavalda e dice le parolacce, per nascondere il fatto di essere timida e insicura. E incapace, codarda e stupida – concluse a voce più bassa.
Le ultime parole erano una frecciata diretta a lui, per ricordargli come l'avesse fatta sentire qualche tempo prima. E siccome non era uno scemo, Pete lo capì benissimo.
– Briz, ascoltami: ammetto che quella sera, quella del litigio tragico, come ormai lo chiamano tutti, ci sono andato giù duro, forse troppo; e per questo hai pensato di essere tutte queste cose. Chiunque se ne sarebbe convinto, ma… e va bene, accidenti! Non sei codarda, o incapace, tantomeno stupida. E nemmeno lo penso.
Briz si avvicinò a lui di un paio di passi, sentendo il cuore arrivarle in gola e batterle a mille.
– Queste… sarebbero quelle scuse per le quali mi dicesti che ci sarebbe voluto ben altro, per ottenerle?
– Forse… Non lo faccio per te, sia chiaro: lo faccio per Doc – rispose lui, brusco, facendo riaffiorare la sua vena scorbutica che, in quegli ultimi momenti, era sembrata essersi affievolita.
– Ah, non ho dubbi, su questo – rispose lei, cercando di apparire altrettanto dura.
Non si era aspettata la propria reazione al suo sguardo, che l'aveva percorsa lentamente e con… interesse? Per un attimo si era sentita come se gli abiti fossero diventati trasparenti.
Deglutì vistosamente e pensò di essere, forse, anche arrossita; perché, poi, doveva ancora capirlo. Ma non perse la sua combattività, e tornò a ciò che lui aveva detto poco prima.
– Senti, ammettiamo che la sera del litigio tragico tu ci sia andato giù più pesante di quanto avresti voluto. Però… perché? Perché farmi sentire così… inutile e inadeguata? Tu volevi davvero, che io me ne andassi.
Pete sembrò per qualche attimo disorientato, preso alla sprovvista, come se la risposta a quella domanda fosse troppo complicata, ma si riprese immediatamente, col suo solito tono pratico e materiale.
– Diciamo che era per vedere se lo avresti fatto sul serio: volevo vedere se ti saresti svegliata, se c'era davvero un po' di arrosto, dietro al fumo delle tue parole così idealiste; e a quanto pare, ho fatto bene. E forse… non sopportavo il fatto che una ragazza, per giunta così giovane, non si sentisse intimidita dal mio ruolo. Sì, ecco… un po' di maschilismo.
– Ma sì, giusto un po'! – esclamò Briz sarcastica, nonostante fosse sorpresa da quell'ammissione. Poi abbassò gli occhi per qualche secondo e disse, quasi assorta: – Sai, qualcuno, non so chi, ha detto che “Agli uomini piace quello che vedono, e alle donne quello che sentono. Ed è per questo che le donne si truccano, e gli uomini mentono”.
Tornò a guardarlo, allargò appena le braccia, con un atteggiamento rassegnato, e proseguì:
– Non è che io e te dobbiamo per forza piacerci, ma dobbiamo mettere insieme uno straccio di rapporto civile, se non per noi stessi, almeno per Doc e per la missione che ci siamo accollati. Quindi, che vuoi ti dica? Questa sono io, Pete: sono un concentrato di emozioni, come hai detto tu; e anche parecchio incasinate, niente da dire. Ma anche se non mi piaccio molto, io non mi trucco, nemmeno metaforicamente parlando, perché non desidero che gli altri vedano in me qualcosa di diverso da ciò che sono. È vero, fa sempre piacere essere apprezzati, ma io non posso, e tantomeno voglio, diventare un'altra persona, nemmeno se me lo chiede Doc. Però… se lui pensa che potrai aiutarmi a diventare migliore, e io potrò fare lo stesso con te, perché no? E capisco anche che se passerai del tempo con me, lo farai solo perché Doc ce l'ha imposto, ma mi importa relativamente.
Pete si staccò dalla parete e si avvicinò a sua volta.
– Vuoi ancora sapere cosa vedo io? – le chiese.
Lei annuì lentamente, e lo lasciò proseguire:
– Adesso, qui, in questo contesto… sto guardando una persona diversa da quella che ho sempre avuto sotto gli occhi. Non vedo una spilungona, soltanto una ragazza alta; e tutt'altro che insulsa, anzi… sei una ragazza carina – disse in tono talmente spassionato, che nessuno avrebbe potuto prenderla per nient'altro che una constatazione – Sei convinta di non piacere agli altri, ma usi vestiti e accessori che sembrano colorati con gli evidenziatori, e fai vedere che non t'importa del giudizio altrui e che non devi dimostrare nulla a nessuno. Lasciamo stare il discorso capelli, visto il pulpito da cui verrebbe la predica – e così dicendo se li tirò sulla testa, da dove ricaddero sulla fronte, esattamente come prima.
Briz non poté fare a meno di sorridere, rilassandosi un po', e Pete proseguì: – Ti sforzi di fare una cosa più grande di te, però… okay, devo ammettere che Doc ha ragione: ce la metti davvero tutta! Ma i tuoi sforzi ti procurano una tale tensione e ansia da prestazione che finiscono per renderti aggressiva e sarcastica per nascondere l'insicurezza. Ed è verissimo che ci ho messo del mio, per farti sentire così. A te manca l'autostima, ma non sei timida: se così fosse, non mi terresti testa come sai fare, quando litighiamo. Come ti ho detto, di solito la gente ha soggezione di me; tu no. Sei una contraddizione vivente, Cuordileone.
– Chi è che gioca allo psicologo, adesso? Non ti ho mai sentito fare un discorso così lungo da che ti conosco – esclamò la ragazza, nel sentire quel torrente di parole – E comunque… non devi sentirti in dovere di farmi dei complimenti, solo perché Doc ha detto che dobbiamo sforzarci di andare d'accordo. Io non sono mai stata carina, e non credo che lo sarò mai.
– Tipica frase di chi desidera sentirselo dire di nuovo: sì che lo sei. E il mio giudizio vale sicuramente più del tuo: tu non hai gli ormoni, per giudicare l’aspetto di una donna. Se poi la faccenda sta nel fatto che tu non ti ci senti, carina… beh, allora è un altro discorso, ma il problema è tuo: tu mi hai chiesto cosa vedo io. E mettiamo in chiaro una cosa, riguardo a ciò che hai detto prima sulle donne che si truccano e gli uomini che mentono: neanche a me piace apparire diverso da quello che sono, e io non ho l'abitudine di mentire e dire cose che non penso, men che meno a sangue freddo come in questo momento.
– Perché, ci sono anche momenti in cui tu hai il sangue caldo? Ha! Vorrei proprio vederne uno!
– Non credo che ti capiterà. Dimentichi…
– …il cuore di ghiaccio, già! Mmm… e vedi nient'altro in me? – gli chiese, tornando all’argomento di prima.
Pete non rispose e si limitò ad osservarla.
– Hai gli occhi verdi – disse lui, sorprendendola.
E lei gli rispose per metà in italiano e per metà in inglese, con il suo specialissimo sarcasmo.
– Maddài? Che occhio, Sherlock! Dopo più di tre mesi te ne sei accorto!?
– Scusa, non so cosa… Cioè… È… solo un dato di fatto – si giustificò lui, piuttosto goffamente.
Fabrizia era sconcertata: Pete Richardson confuso? Ma quando mai? Decise di attaccare ora, che si sentiva leggermente in vantaggio.
– E tu cosa vedi nello specchio, bel pupone?
– Che palle, Briz, la pianti? – quell'appellativo continuava a dargli sui nervi non poco – Non lo so, mi guardo giusto il minimo indispensabile, che vuoi che veda? Che sono biondo e ho gli occhi azzurri?
– Non prendermi per il culo! Hai capito benissimo cosa intendevo!
– E va bene – si arrese lui – Vedo… uno che fa il suo dovere, anche quando gli costa; uno che pretende molto dagli altri, perché lo pretende anche da sé stesso; uno che mette le responsabilità al primo posto. Onestamente non saprei che altro vedere in me.
– Huh… Decisamente artico, come profilo.
– Perché? Tu vedi qualcosa di diverso?
– Effettivamente, no… ma se ci studio un po’ sopra, forse trovo qualcos’altro; magari poi te lo dico. Allora, vuoi salire a cavallo o no? Non ti obbligo, se hai paura… – lo provocò.
– Non ho paura! Ma devo ammettere che, un po', l'idea mi rende nervoso.
– Oh, smettila! Guidi il Drago Spaziale e combatti i Mostri Neri, e ti preoccupa un cavallo? – rise lei, aprendo il box e conducendo Obi-Wan verso il recinto.
Pete li seguì, guardando i movimenti disinvolti con cui la ragazza legava la corda alla staccionata, e le sue mani dalle dita lunghe e affusolate, che sfioravano il collo nero e lucido dell'animale con innata naturalezza. Sarebbero state delle mani molto belle: peccato quelle unghie corte, addirittura un po' rosicchiate, che confermavano la sua teoria sulla tensione e l'ansia da prestazione. Tornò a concentrarsi sui loro discorsi.
– È che il Drago fa quello che dico io – rispose – Sono io la sua mente. Invece Obi-Wan… ha la sua testa. Che succede se decide che quello che voglio fare non è di suo gradimento?
– Non preoccuparti, non accadrà.
– Se lo dici tu…
– Lo dico io. Di battaglie e strategie forse non capirò niente, ma di cavalli me ne intendo un pochino, se permetti. Soprattutto per quel che riguarda questi due, che sono tutto ciò che resta della mia famiglia.
Pete non commentò: era un argomento di cui la ragazza non amava parlare, era evidente. Nessuno meglio di lui poteva capirla, per questo, e non la forzò; se mai avesse voluto raccontargli i dettagli, lo avrebbe fatto di sua volontà.
La seguì nella selleria, e notò alcuni quadretti appesi alle pareti, con scritte delle frasi.
– “Il vento del paradiso è quello che soffia tra le orecchie del cavallo”…? – lesse perplesso, a voce alta.
– Sicuro – spiegò Briz – Un vento che può accarezzarti il viso solo… se sei sul cavallo! Devo ancora trovare nella vita qualcosa che mi rende felice nello stesso modo, che mi fa sentire… soddisfatta di quello che sono.
Pete lesse un'altra frase: – “Quattro ruote portano un corpo. Quattro zoccoli portano un'anima” – si spostò di un passo e ne trovò un’altra: – “Sotto il cavaliere la sella; sotto la sella, un miracolo di Dio”. Wow, che parole! In un chilo ce ne stanno poche.1
– Taci, uomo senza poesia! Porta questa da Obi-Wan e lavora! – disse lei, mettendogli fra le braccia una sella americana piuttosto pesante.
Briz gli fece vedere come si sellava il cavallo e, a dire il vero, lui si mostrò curioso e interessato, chiedendo spiegazioni sulle cose che non sapeva: ovvero, praticamente su tutto!
A un certo punto la ragazza gli passò vicino e gli cacciò in testa un cappello da cow-boy nero.
– Metti questo, oggi il sole ciocca – disse senza accorgersi di parlare italiano.
– Eh? Cosa fa il sole? Traduci ciocca, per favore – chiese lui, che non aveva capito l'ultima parola.
– Oh, scusa. Ciocca: picchia forte. È un'espressione… un po' dialettale. Avevo mia nonna romagnola, che diceva così. A volte diceva anche: un sole che spacca la testa ai somari – gli spiegò con un'occhiata birichina, sollevando un sopracciglio.
– Ma grazie, sì?! – rispose Pete sistemandosi il cappello.
Briz si ritrovò di nuovo a guardarlo, solo che stavolta lui se ne accorse; le si avvicinò di un passo.
– Avanti, cosa vedi, che è palese che muori dalla voglia di dirmelo?
Briz si sentì scoperta, si costrinse a calmare il battito del suo cuore, e fece un respiro profondo.
– Vedo un ragazzo bello, anche se non dovrei dirtelo, perché si vede benissimo che lo sai già! Fino a poco tempo fa pensavo bello e stronzo, te lo confesso, ma il fatto che ora tu sia qui con me, e che ti stia sforzando di fare ciò che Daimonji ci ha chiesto, ti rende un po' più… non so… affrontabile. E poi, quello che ci ha raccontato Tom mi ha colpito, e mi ha dato ragione sul fatto che dovesse esserti successo qualcosa di terribile; nessuno meglio di me può capire. E ci credo, che mi sembri anche tormentato, vorrei vedere. Hai nascosto i tuoi sentimenti e le tue passioni sotto l'intransigenza e la freddezza, e ho come l’impressione che tu stia vivendo una vita che… non è la tua. Forse il tuo cuore non è tutto di ghiaccio, ma ne ha una bella corazza, intorno. Piaci ai miei animali… e anche loro piacciono a te, me ne sono accorta, quindi forse, c'è qualche speranza, dopotutto. Come dice Doc, se in una persona cerchi i difetti, li troverai sempre, ma troverai sempre anche delle qualità.
– Lo ha detto anche con te, eh?
– A suo tempo, sì. Sai, hai detto che non ami apparire diverso da come sei, ma probabilmente lo fai, senza nemmeno rendertene conto. Forse… non sei il mostro che ti sforzi tanto di sembrare. Credo anche di aver capito perché hai cacciato via Tom.
– Sentiamo anche questa – sospirò lui.
Briz ignorò il tono condiscendente e proseguì.
– Non volevi che corresse pericoli, stando qui; e probabilmente avevi anche ragione, visto che infilarsi in un casino, è proprio ciò che prontamente ha fatto. E non sei venuto a salutarlo, perché non volevi correre il rischio che lui, o qualcuno di noi, ti potesse vedere lasciarti andare a un gesto di affetto, fosse stato anche solo scompigliargli i capelli. Perché alla fine di tutto, Pete, tu gli vuoi bene.
Pete rifletté su quelle parole: Briz non lo sapeva, ma ci aveva preso davvero tanto. A dire il vero, per essere così diversi e incompatibili, si erano analizzati a vicenda piuttosto bene, ma non glielo avrebbe detto per tutto l'oro del mondo! Quindi, quando le rispose, la sua voce grondava scetticismo.
– È tornata fuori l’ottimista romantica: tu vuoi vedere più di quello che c'è realmente, fanciullina.
– Ah, ecco volevo ben dire, la fanciullina oggi non era ancora saltata fuori! Forza, giovane! Metti il piede nella staffa, tirati su e appoggia il tuo bel sedere sulla sella!
A Pete sfuggì una mezza risata: l'abilità di Fabrizia nel cambiare argomento era meravigliosa. Si affrettò a fare quello che lei gli aveva chiesto; anzi, ordinato.
Pete salì a cavallo con apparente facilità, come se nella sua vita non avesse mai fatto altro: il modo in cui afferrò le redini con una mano, si impostò sulla sella e strinse le ginocchia, fu istintivo e disinvolto.
Briz lo osservò perplessa, grattandosi la nuca.
– Richardson… ma tu sei davvero sicuro di non essere mai andato a cavallo?
– Non in questa vita, te lo giuro. Ma devo ammettere che mi sento abbastanza a mio agio.
– Si vede. Forse, dopotutto, nonna Cheyenne ti ha lasciato qualcos'altro nel DNA, oltre all'abbronzatura perenne e al taglio degli occhi.
– Chissà… magari sono pronto per lasciarmi accarezzare dal vento del Paradiso
La frase avrebbe potuto suonare sarcastica, ma non fu così: il tono di voce con cui era stata pronunciata era sembrato, per un attimo, quasi sognante. Una cosa del tutto involontaria, ovviamente.
"Dio sa se ne avremmo bisogno tutti e due, di un po' di Paradiso" si disse Briz.
Se aveva pensato che Pete che giocava con Atlas fosse una cosa piacevole da guardare… beh, Pete in sella a Obi-Wan era un vero spettacolo. Un bel ragazzo e un bel cavallo: meglio ancora.

Pete-e-Obi-Wan

Accantonò quel pensiero e si dedicò al divertente compito di insegnare al Capitano Richardson i rudimenti della monta all’americana; la successiva ora e mezza passò in un lampo.
Briz guardò distrattamente l'orologio, seminascosto dalla profusione di braccialetti che le coprivano l'avambraccio, e si accorse che erano quasi le sei.
– Ehh, il tempo passa in fretta quando ti diverti – disse, volendo fare una battuta ironica. Invece Pete la prese in parola:
– Sai che hai ragione? Devo ammettere che è stato piacevole.
A dire il vero, Briz lo aveva strapazzato parecchio, e lui si era reso conto che cavalcare non era così facile come avrebbe potuto sembrare a prima vista. La ragazza gli aveva urlato contro per buona parte di quegli ultimi novanta minuti, divertendosi un mondo a farlo sentire… sì, incapace e inadeguato, doveva riconoscerlo. 
Stringi le ginocchia, tieni i talloni bassi, non alzare le mani per aria! E stai dritto con la schiena e non attaccarti alle briglie, che a cavallo ci si regge con le gambe, non con le mani…!” 
E poi? Cos'altro, ancora? Tremila cose da tenere in mente e da fare tutte contemporaneamente! Tuttavia, le aveva detto la verità sul fatto di averla trovata un'esperienza piacevole.
Scese da cavallo con un movimento fluido e le porse le redini, cercando di fare lo splendido.  E invece… gli sfuggì una smorfia, e gli si piegarono un po' le ginocchia.
– Ahio… ma porca…
– Ti lamenti adesso? – rise lei, a quella mezza imprecazione – Ti va già bene che sei abituato a correre e ad allenarti in palestra, ma domani avrai male in muscoli che non sapevi nemmeno di avere!
– Evviva, mi fai un bel coraggio! Spero che le prossime volte andrà meglio; sempre se avrai voglia di continuare a insegnarmi, naturalmente.
– Tanto ci tocca… tanto vale proseguire su questa strada.
– Giusto. Però… se io imparerò a cavalcare, anche tu dovresti impegnarti in qualcosa, non credi? – le disse a bruciapelo.
– Avanti, spara: lo so che ti inventerai qualcosa di massacrante – rispose Briz rassegnata.
– Non più di tanto: devi smettere di mangiarti le unghie. E di imbottirti di caffeina.
– Non è una cosa, sono due. Non vale!
– Vuoi paragonarle con l’imparare ad andare a cavallo? Come hai detto tu, ci tocca.
– E va bene, lo farò. Domani alle quattro, qui, di nuovo?
– Ho il turno di guardia stanotte e domattina un paio d’ore di addestramento al simulatore, ma ce la farò. Non sono uno che ha bisogno di molte ore di sonno, per recuperare.
– Altra cosa di cui non sorprendersi. Rilassati ogni tanto, Capitan America – gli consigliò, mentre la mente le fu attraversata per un attimo dall'immagine di Pete addormentato tra le lenzuola aggrovigliate. Immagine che si affrettò a rimuovere, chiedendosi semplicemente… perché?
– Senti… tu, piuttosto – le disse lui, guardandola intensamente – Fai buon uso di questa notte. Non per essere scortese, ma hai l'aria stanca.
– Ti preoccupi di essere scortese? Con me? Ma non sforzarti. E comunque, lo so: dormo poco e male, ma spero sia solo un periodo.
– Motivo in più per smetterla con la caffeina. Perché lo fai?
–Un'altra volta, Pete, ti prego – tagliò corto Briz, incamminandosi con lui verso la moto, dopo aver legato Obi-Wan allo steccato.
Lui pensò che doveva aver toccato di nuovo uno dei diversi argomenti delicati che costellavano il passato della ragazza.
Dopo qualche secondo di silenzio Briz disse:
– Direi che come prima volta non è andata troppo male, no? Siamo riusciti a non picchiarci. A pensarci bene, non ci siamo nemmeno insultati.
– Devo confessare che mi ero aspettato di peggio: siamo stati bravi. Vuoi un passaggio? O magari… sempre per accontentare Doc, s'intende, potrei ricambiare e… insegnarti a guidare la moto.
Briz spalancò gli occhi e diede un'occhiata alla vecchia Yamaha.
– Ma… anche no! – rispose convinta.
– Perché?
– Perché è meglio smettere di rosicchiare le unghie e bere caffè. Su quel catorcio, poi? Neanche morta!
Poi vide l'espressione di lui e decise che fosse il caso di preoccuparsi.
– Pete, adesso le corna diavolesche stanno per spuntare a te! Non pensarci nemmeno, io in moto non ci vado! Anche se non è come hai detto tu: non ho paura, semplicemente, non mi piace.
– Va bene, va bene, come non detto; concentrati sulle unghie e sul caffè. Ci vediamo domani… Orrore Nero permettendo – concluse restituendole il cappello e infilandosi il casco.
– A domani – confermò Briz, portando due dita alla fronte in un veloce saluto.
In pochi secondi Pete aveva messo in moto e se ne era andato.
Dalla curva del sentiero dietro alla quale era appena sparito, Briz vide spuntare Midori a piedi, che la raggiunse.
– Che diavolo ci faceva qui, Sua Gelidità? – chiese a Briz.
Mentre l'amica l'aiutava a sistemare i cavalli per la notte, Fabrizia le raccontò della strana punizione alla quale Daimonji li aveva costretti.  Concluse dicendo di non sapere assolutamente se avrebbe funzionato, ma, alla fine di tutto, aveva visto Pete sotto una luce diversa.
– Vuoi dire che siete stati insieme, da soli, per due ore, senza scannarvi? – esclamò Midori stupita.
– Così pare. Magari Doc ha avuto una buona idea. E comunque, il fatto che i miei animali lo abbiano amato immediatamente, vorrà dire qualcosa: sicuramente che non è cattivo, anche se a volte fa di tutto per sembrarlo.
– Oh, andiamo! Gli ho appioppato anch’io diversi appellativi negativi, ma non ho mai pensato che Pete potesse essere… cattivo; men che meno dopo che Tom ci ha raccontato la loro storia. Credo che sia solo… complicato. Perciò stai attenta.
– A che cosa?
– Non so… E se dovesse succedere che un giorno… i tuoi animali non saranno gli unici ad amarlo?
Briz sollevò un sopracciglio e guardò l'amica con scherzoso compatimento.
– Ma… sei seria?
– No! Scherzavo! – rise Midori – Santo Cielo, non ti ci vedo proprio, con lui.
– Oh, woah… sarà meglio! Tu piuttosto: cosa pensi di fare col bel Comandante Sanshiro Tsuwabaki?
Midori arrossì come un tramonto tropicale, ma la sua risposta fu fermissima:
– E… perché mai dovrei… fare qualcosa?
– Perché ti piace un botto…? – disse Briz con disarmante brutalità.
– Guarda che ho beccato anche te a fissarlo parecchie volte! – saltò su Midori, lievemente aggressiva.
– Ah-ha! Vedi? Sei anche un po' gelosa. Sì, mi capita di guardarlo, Dori, perché più lo conosco, più mi ricorda… una persona – confessò, anche per tranquillizzare l'amica.
– Ma chi? – le chiese Midori.
– Alessandro…
– Alessan… Oh Dio, scusami – disse Midori sommessamente – Scusami, scusami, sono davvero stupida! Credevo che Sanshiro ti piacesse…
– Come piace a te? No. Cioè, mi piace, devo ammettere che è uno spettacolo che si guarda volentieri, ma… il suo carattere impetuoso, il modo in cui sorride, e come si muove… Mi ricorda davvero Ale, Dori. Voglio bene a Sanshiro, tanto: proprio come ne volevo a mio fratello. E ne voglio a te… non potrei mai nemmeno immaginare di portartelo via.
– Portarmelo via? Non è mica mio! Mi piace, d’accordo, ma è tutto qui, fine. A parte che lui neanche si accorge di me in quel senso: ha ben altro per la testa, e tutto sommato anch'io. Abbiamo cose più importanti a cui pensare, Briz. Tutti.
– Su questo sono assolutamente d’accordo con te – concluse l’amica, chiudendo il cancello bruscamente.
 
> Continua…



 
1 Questo è un modo di dire che si usa a casa mia, non so se invece sia anche di uso comune. Comunque, è per commentare con ironia una frase che può apparire profonda, fatta di parole di un certo peso, per cui, appunto, ne basterebbero poche per fare un chilo.

MiciaSissi mi aveva chiesto un disegno di Briz a cavallo, che avevo postato qui, ma durante la revisione l'ho spostato nel capitolo 4, "Storie di fratelli", alla scena in cui Briz e Pete si incontrano sulla spiaggia, perché qui... hehehehe, avete visto, ho messo Pete, a cavallo! Che è pure meglio!  E comunque, li dedico comunque a lei, entrambi! 

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Capitolo 9
*** 8 - Ricordi e fantasmi ***


~ 8 ~ 
RICORDI E FANTASMI

 
Tre settimane erano volate in un lampo.
Per Fabrizia le cose da fare erano state tante, ogni giorno, ogni notte: turni di guardia, addestramenti vari, i cavalli da curare… e un paio di battaglie che l’avevano terrorizzata ma dalle quali, al tempo stesso, aveva finito per uscire più sicura e temprata.
Andava a dormire distrutta, ma i suoi sonni erano come sempre tormentati, anche se aveva smesso di bere Coca-Cola a tutte le ore e non toccava quasi più il caffè vero e proprio.
E poi… c’erano le ore obbligate da passare con Pete.
Lui imparava ad andare a cavallo, e lei si impegnava per ridimensionare la quantità di caffeina e a rosicchiarsi le unghie: erano ormai venti giorni che si inventava di tutto, per tenerle lontane dai denti; quando non ci riusciva, ci pensava Pete a levargliele di bocca con gesti bruschi e lievi schiaffetti sul dorso delle mani.
Alla fine le unghie si erano allungate di un paio di millimetri e quel giorno, nonostante diverse cose da fare, in un impeto di frivolezza aveva persino trovato mezz’ora per laccarle di rosa fluo.
Gli incontri a cui Daimonji li aveva costretti non avvenivano mai nelle stesse ore del giorno, e loro cercavano di infilarli dove potevano, in mezzo a tutti i loro impegni: a volte si vedevano al mattino, altre il pomeriggio, spesso si erano limitati a fare due chiacchiere con gli altri dopo cena, poiché c'erano stati giorni in cui altro tempo era stato impossibile da trovare; ma avevano capito che Doc apprezzava i loro sforzi.
Effettivamente i loro rapporti erano un po' migliorati, e le discussioni tra loro non sfociavano più in veri e propri litigi; però, quando si vedevano, tutto cominciava sempre nello stesso modo, con Pete che, dovunque fossero, faceva ogni volta la stessa domanda:
– Dov'è Tom?  
La risposta era invariabilmente la stessa:
– Te lo dirò, ma non oggi.
Così lui passava alla domanda numero due:
– Che ti succede nella carlinga di Balthazar quando combatti?
E anche qui, la risposta non cambiava mai:
– Quinto emendamento.
Al che, Pete sbuffava e lasciava perdere.
Bisogna dire che, dopo quel primo incontro alle scuderie, avevano evitato di andare in discorsi troppo personali, e i loro sforzi si limitavano a chiacchierare di futilità, come i film, la musica, gli animali, cercando di non punzecchiarsi troppo.
Ma c’era stata una volta in cui Briz era rimasta davvero sconcertata: Pete stava strigliando Obi-wan, e sicuramente non si era reso conto che lei fosse a portata di voce, altrimenti non si sarebbe lasciato andare a… canticchiare! E già qui, c’era di che stupirsi.
Lei aveva trattenuto il respiro e non si era fatta sentire: il fatto che fosse pure piuttosto bravo, benché non stesse spingendo sulla voce, l'aveva incuriosita ulteriormente, ma la ciliegina sulla torta era stata che la canzone era una delle più famose del suo gruppo musicale preferito: “What I've done”, dei Linkin Park!
La sera stessa non aveva resistito e aveva mandato un messaggio a Tom:
"Ricordi quando hai detto di essere convinto che Pete avesse ancora, nascosto dentro di lui, il ragazzo che era una decina di anni fa? Oggi credo di essere riuscita ad intravederlo per qualche attimo: lui non se n’è accorto, ma l'ho sentito cantare una canzone dei Linkin Park, mentre strigliava uno dei miei cavalli! Avresti mai immaginato qualcosa di simile?" 
La risposta di Tom non si era fatta attendere:
"I Linkin Park1 sono sempre stati tra i suoi gruppi preferiti! Potrà sembrarti strano, ma mio fratello ha una voce notevole: alle feste del liceo lo facevano cantare spesso, e i loro pezzi erano il suo cavallo di battaglia! Te l'avevo detto che il suo cuore è ancora vivo, anche se lui si ostina a tenerlo in ibernazione! Continua di lì: sfiniscilo di Linkin Park, e anche con i Simple Plan vai sul sicuro! Ciao, microonde!" 
Briz aveva scosso la testa, divertita e sorpresa da quella scoperta che rivelava un altro lato normale del capitano Richardson.
Anche lei si divertiva a cantare, ma le capitava di farlo, a squarciagola, solo quando era sicura che nessuno la potesse sentire. Quanto al fatto di essere a conoscenza di questo talento nascosto di Pete, aveva deciso che, per il momento, se lo sarebbe tenuto per sé.
Il giorno successivo era apparso, appeso nella selleria, un altro quadretto con uno di quegli aforismi che piacevano a lei: 
"Se senti qualcuno cantare, fermati e ascoltalo, perché chi odia non ha canzoni". 
Briz si era chiesta se Pete avesse colto l'allusione. Boh! Vai a sapere! Probabilmente non lo aveva nemmeno notato.
Dopo quel pomeriggio non si erano più visti per tre giorni, ma Briz non se ne era stupita: il dottor Daimonji stava lavorando, insieme a Sakon e Jamilah, per dotare il Drago Spaziale di nuove armi e tecnologie, e anche Pete era molto coinvolto.
E ora erano quasi le sette e mezza di sera: con il vassoio in mano che conteneva la sua cena, Fabrizia si sedette a un tavolino da quattro, di fronte a Midori.
– Ehi, Dori, tutto bene?
– Abbastanza, anche se comincio a preoccuparmi un po': dopo gli ultimi due scontri ravvicinati, gli Zelani non si sono più fatti sentire per due settimane… Troppa calma: non mi convince.
– Hai ragione. Almeno c'è stato il tempo per fare le migliorie necessarie al Drago, e con Doc abbiamo lavorato anche su alcune cose riguardo a Balthazar. Sai, quella faccenda di migliorare la percentuale del DNA…
– Perché non vuoi dire a nessuno questa cosa? Dei particolari di come funziona la connessione, intendo – le chiese Midori.
– Così… Lo sai, questa cosa mi fa sentire… Niente, dai, non voglio parlarne, ecco.
In quel momento si avvicinò Sanshiro, anche lui con il vassoio della cena tra le mani.
– Mi prendete al tavolo con voi, belle ragazze? – chiese, sedendosi senza aspettare la risposta.
– Che dici, Midori? Lo teniamo? – scherzò Briz.
– Mmm… Visto che è bello anche lui, perché no? – rispose Midori con una disinvoltura che la sorprese.
"Wow, stai a vedere che la mia amica si sta svegliando!" si disse Briz. Poi sbottò scherzando:
– In Italia esiste un proverbio: “Un cavaliere tra due dame, fa la parte del salame!”
– A questo poniamo rimedio – disse una quarta voce.
Pete posò il suo vassoio tra le due ragazze, di fronte a Sanshiro.
Fabrizia lo guardò quasi divertita ed esclamò:
– Toh! Eccolo qui, il quarto bello! Che ti succede? Non dirmi che, siccome non ci vediamo da qualche giorno, ti sono mancata!
– Scherzi? Tantissimo: come una bomba in tasca! – rispose lui con un sorriso ironico, mettendosi a sedere.
– Scemo! – replicò lei, fingendosi offesa; poi aggiunse: – Battuta carina, però: passare del tempo con me comincia a farti bene.
– Allora… – cominciò Pete.
– …dov'è Tom? – proseguì Briz, interrompendolo – La risposta è sempre quella: “Non oggi”. E dato che ora mi chiederai cosa mi succede nella carlinga di Balthazar, anche qui ti rispondo come tutti i giorni: “Quinto emendamento”, così anche ‘sto giro archiviamo la questione – Poi cambiò improvvisamente argomento: – Guarda un po'! – esclamò, sollevando le mani e mostrando a Pete le unghie rosa shocking.
Lui le prese una mano fra le sue per osservarle meglio:
– Tu ti ci metti proprio d'impegno, quando ti sfidano su qualcosa, eh?
– Credo che dopo aver imparato a connettermi con Balthazar e a combattere, qualunque altra sfida sia una cazzatella. Che sarà un po’ di manicure?
–  Hai usato un colore che mi fa venire mal di testa a guardarlo, come le tue camicie, i tuoi braccialetti o i tuoi lacci per le scarpe, ma non sono male, davvero. Se ci riesci, lasciale in pace: almeno adesso hai le mani da ragazza.
– Seh… mani di fata: ormai son grandi come le tue… – si lamentò Briz, togliendo la sua da quelle di lui.
– Scusate… cosa mi sono perso? – esclamò Sanshiro, sconcertato da quello scambio di battute scherzose.
Lui non sapeva della loro punizione ed era la prima volta che li vedeva insieme da parecchio tempo; fu Midori a spiegargli brevemente la faccenda, concludendo poi:
– …così Briz sta insegnando a Pete a cavalcare.
– Bah! C'è rimasto ben poco da insegnargli! – brontolò lei – Questo qui va a cavallo meglio di Pecos Bill2: in meno di tre settimane ha imparato cose che io, per riuscire a farle, ho dovuto sputare l'anima per mesi! Però le prime volte l'ho strapazzato per bene – si voltò a guardarlo e aggiunse: – Devo ammettere che c'è una certa soddisfazione a insegnare, a un primo della classe come te, qualcosa che io so fare meglio.
– Cavolo, ma ho davvero l'aria del secchione? – chiese Pete guardando i tre amici.
– M-mm…! – fu il commento del trio, che gli regalò tre sorrisetti ironici, muovendo appena le teste su e giù, prima di cominciare a mangiare.
Briz attaccò la sua bistecca e mangiò in silenzio per qualche minuto; quello scambio di scherzi leggeri l'aveva un po' tirata su, ma in linea di massima si sentiva ancora piuttosto depressa: quello era un brutto periodo dell’anno per lei, anche se si sforzava di non darlo a vedere. Doc, seduto a un altro tavolo con Sakon e Jamilah, la guardò per un po': era contento di vedere che il suo stratagemma per farla andare un po' più d'accordo con Pete stesse funzionando, ma era anche preoccupato nel vederla spesso così triste, pur conoscendone il motivo.
Quando per caso incrociò il suo sguardo, le fece un sorriso di incoraggiamento; lei lo ricambiò, con un sorrisetto che era più una smorfia, e decise di continuare a fare l'allegrona.
– Pete, ma tu in che giorno sei nato? – gli chiese all'improvviso.
– Il ventuno dicembre, perché?
– Fantastico, il solstizio d'inverno, uno dei giorni più freddi dell'anno; non poteva esserci data più adatta. Sagittario, e in cuspide col Capricorno, poi! Un incrocio da paura!
– Non crederai a stupidaggini come gli oroscopi, vero? – le chiese lui.
– Ma secondo te? Certo che no, anche se mi capita di leggere il mio, ogni tanto, giusto per riderci su!
– E in che giorno sei nata, tu?
– Il nove di agosto: avrei mai potuto avere un segno zodiacale diverso dal Leone?
– Ma solo io, a chiedertelo… – concluse Pete.
– Il nove agosto è fra pochi giorni, – commentò Sanshiro – ma non mi sembri molto contenta di compiere gli anni.
– Capirai, e son solo ventidue – disse Pete.
– Ventuno: ne compio ventuno – precisò Briz.
– Ma all'inizio di aprile, quando ci siamo conosciuti, hai detto che eri maggiorenne già da tre anni! Hai barato! – esclamò lui.
– Solo di qualche mese; proprio come  te, se è per questo, visto che li fai a dicembre! A meno che tu non vada già per i ventisette!
– No, no… devo compiere i ventisei – rispose lui, con aria quasi colpevole per essere stato sgamato a mentire sull’età.
– Ecco, alla fine la differenza fra noi due è solo di cinque anni, e pure scarsi, che facevi tanto il grosso! E comunque… il compleanno c’entra, ma relativamente, con la mia tristezza – finì lei, tornando sul discorso.
– Che ti succede? – le chiese Sanshiro – Lo abbiamo visto tutti che ultimamente sei più depressa e stressata del solito.  
Briz sospirò e finì le patate che aveva nel piatto, poi sollevò lo sguardo e disse:
– La settimana scorsa sono stati due anni che mio padre e Ale sono morti…
Midori lo sapeva già, ma tacque, e anche i due ragazzi non seppero cosa dire. Poi Pete la fissò tanto intensamente che lei, sentendosi osservata, si costrinse a sollevare gli occhi e a guardarlo.
– Cos'è successo alla tua famiglia, Briz? – le chiese semplicemente.
Lei deglutì e poi rispose: – In fin dei conti, te lo devo: dopotutto, noi sappiamo cos'è successo ai tuoi genitori.
– Adesso non si sta parlando di me, e non mi devi nulla, su questo argomento. Dimmi cos'è successo ai tuoi, ma solo se ti va.
– Ti avviso che potrei aprire i rubinetti.
– Spero che manterrai il controllo: non so cosa fare con una ragazza che piange! Ma nell’eventualità, vedrei di adeguarmi.
Sanshiro e Midori si scambiarono un'occhiata, chiedendosi se quei due si fossero accorti che sembrava quasi avessero escluso gli altri dalla conversazione, come se fossero soli. Ma poi Fabrizia si girò verso di loro e si appoggiò allo schienale della sedia, con un sospiro.
– Mia mamma è morta sei anni fa, quando io ne avevo quindici: un cancro se l'è mangiata lentamente, senza scampo; la mia adolescenza è finita quel giorno. Non ero certo la prima ragazzina al mondo che perdeva la mamma, ho cercato di aggrapparmi a questo, per farmene una ragione. Papà ne uscì devastato, e io e Alessandro ci attaccammo ancora di più l'una all'altro. Mio padre era amico di Doc da tanti anni, avevano già subodorato la minaccia zelana, e mentre Doc lavorava al progetto del Drago Spaziale, papà lavorava a quello di Balthazar. Dopo la morte della mamma ci si buttò a capofitto, forse il lavoro gli serviva da antidoto contro il dolore, proprio come serviva ad Ale: anche se frequentava il liceo scientifico, mio fratello impiegava la maggior parte del suo tempo facendo da assistente a nostro padre. Io pure andavo al liceo, anche se con un altro indirizzo, e lo studio mi impegnava parecchio; fra quello, e occuparmi dei cavalli e della casa, riuscii a rientrare in carreggiata. Finché, due anni fa… non so come sia accaduto, me lo chiederò per sempre… le spie di Darius scoprirono il progetto Balthazar. Sui giornali e in TV scrissero e dissero di tutto, ma alla fine la notizia ufficiale fu che la nostra casa era stata colpita da un piccolo meteorite. Sì, un meteorite il cazzo! Quello era un missile zelano!
– Ma io me la ricordo, questa cosa! – fece Sanshiro, allibito – Fu una notizia di portata mondiale, il meteorite che distrusse una fattoria in Italia. Non riesco a credere che fosse casa tua! E molta gente diceva di non crederci, alla storia del meteorite: se fosse stato davvero così, si sarebbe saputo molto prima, avrebbero fatto evacuare la zona, no?
– È vero, me lo ricordo anch'io, ed ero uno degli scettici – commentò Pete – Cavoli! La ragazza superstite senza nome di cui tutti parlavano… eri tu!
– Ero io, sì. Secondo me i giornalisti e le autorità mentirono per non scatenare il panico da invasione aliena, – proseguì Briz – e in effetti devo dire che funzionò: credo che la gente sia propensa a credere a quello che la spaventa di meno. Comunque… mio padre e Ale erano in casa, quando ciò avvenne. Forse gli Zelani credevano che Balthazar e il laboratorio fossero da quelle parti in un sotterraneo, o si sono accontentati di uccidere il suo progettista e il suo futuro pilota… O forse avrebbero voluto rubarlo… Non lo so, non capisco come ragionano, quegli esseri. Ma il leone robot e il laboratorio erano in una immensa grotta, dentro una collina, ad alcuni chilometri dalla nostra casa: non lo hanno mai trovato.
– Ma tu dov'eri, quando è successo? – le chiese Pete.
– Ero sui pascoli, a recuperare Indy e Obi-Wan: dovevo riportarli in scuderia prima di sera. Io… avevo litigato con papà, perché quel giorno ero stanca, volevo starmene a casa, a leggere un libro, e non avevo voglia di arrivare fino al pascolo; ma poi decisi di obbedirgli: ricordo che mi affacciai alla porta del suo studio, per dirgli che andavo su a recuperare i cavalli. Lui mi sorrise, e pace fu fatta: tra noi funzionava così. Salutai Ale, che stava studiando con lui, e me ne andai. Senza saperlo, mio padre mi ha salvato la vita, costringendomi a fare un lavoro che non mi andava. È stata l'ultima volta che li ho visti… le ultime parole che papà mi rivolse furono: "Brava, piccola", quelle di Ale: "A stasera, gnappetta" – concluse con gli occhi appena luccicanti.
– Gnappetta? E cosa sarebbe? – chiese Sanshiro.
– E che ne so, io? Era uno dei nomignoli che mi appioppava mio fratello; se li inventava: Rompina, Folletta… Gnappetta. Lui era così… e lo adoravo anche per quello…
A quel punto la voce le si spezzò e tacque per qualche istante, ma riuscì a mantenere il controllo.
– Dunque doveva essere davvero Alessandro il pilota di Balthazar – affermò Sanshiro.
– Già. Mio padre all'inizio non voleva, lo riteneva troppo giovane, e poi odiava l’idea di mettere a repentaglio proprio la vita di suo figlio! Ma Ale aveva già deciso, e lo convinse a testare su di lui la sua invenzione. I comandi di combattimento del leone funzionano tramite la NGC, NeuroGeneticConnection: Balthazar obbediva solo al DNA di Alessandro. So che mio padre lavorava per estendere questa possibilità anche ad altri piloti, ma i suoi studi sono andati distrutti con la casa, e sono morti con lui…
Midori la guardava con gli occhi spalancati, chiedendosi fin dove sarebbe arrivata l’amica con quella confessione.
Gli altri due non erano da meno, per quel che riguardava l'espressione stupita; quanto a Briz, era talmente presa dal suo racconto, che non si curò del fatto che anche tutti gli altri si erano zittiti da un po' e la stavano ascoltando.
– Per la miseria – disse Pete, sottovoce – Ecco perché sei l'unica che può comandare Balthazar: sei la persona con il DNA più simile a quello di Alessandro.
– Più o meno…
– Ma tu e Ale… – chiese Sanshiro – …non ho capito: hai detto che frequentavate il liceo. Ma tu due anni fa dovevi avere appena finito l'ultimo anno, quindi tuo fratello… era addirittura più giovane di te…?
A Fabrizia sfuggì un sorrisetto furbo ma pieno di affetto, prima di rispondere:
– In realtà, se è vera la teoria che il più vecchio è quello che nasce per secondo… allora Ale era il maggiore, perché è arrivato un quarto d'ora dopo di me.
– Eravate gemelli! – intervenne Bunta che, come tutti, aveva ascoltato sconvolto.
Pete, sorpreso quanto gli altri da quella rivelazione, non riusciva a staccare gli occhi da Briz: si aspettava di vederla scoppiare in lacrime da un momento all'altro, dopo una rivelazione come quella. Invece la ragazza diede prova di notevole autocontrollo.
– Gemelli! – esclamò Yamatake – Ecco perché il DNA…
– No, Yamatake – lo corresse Daimonji – Fabrizia e Alessandro erano di sesso diverso, e quindi gemelli dizigoti, o eterozigoti: il loro DNA era come quello di qualunque altra coppia di fratelli di età diverse. Simile, ma non identico.3 
– Esatto – confermò lei – Infatti con Doc ci stiamo lavorando sopra, ma, come ho detto, l'esperto di genetica, per quel che riguarda la NGC, era mio padre. Siamo riusciti ad aumentare la percentuale di somiglianza del DNA, ma siamo ancora lontani dal cento per cento, nonostante l'aiuto di alcuni esperti che facevano parte della squadra scientifica di papà: per questo soffro ancora di alcuni effetti collaterali, soprattutto dopo la disconnessione.
– Ma come avviene la connessione? – chiese Pete, già sapendo che entrava in territorio proibito.
– Sei pagnòcco quando vuoi, eh? Sei in zona Quinto emendamento!
– E dai, ci ho provato, scusami – ammise Pete, chiedendosi cosa fosse quella strana parola con cui Briz lo aveva appellato.
– Ti somigliava Ale? – le chiese Sanshiro, per disinnescare quello che avrebbe potuto essere un inizio di battibecco.
– Per essere gemelli dizigoti, e in più maschio e femmina, eravamo parecchio simili, soprattutto da ragazzini, anche perché io facevo di tutto per somigliare a lui: ero un vero maschiaccio.
– Sì, perché adesso, invece… – sogghignò Pete.
Briz lo guardò e gli fece una boccaccia; poi prese il cellulare dalla tasca e, facendo scorrere le immagini della galleria, cercò una vecchia foto che aveva sempre conservato, prima in versione cartacea e ora in digitale. La mostrò a Sanshiro, che rimase piuttosto sorpreso.
Midori la conosceva già e il telefonino passò a Pete, che fissò la foto in cui erano ritratti due ragazzini di circa tredici anni, appoggiati l'uno all'altro con la schiena e le braccia conserte, che indossavano t-shirt larghe e colorate e blue-jeans. Con i volti leggermente girati verso il fotografo, guardavano l'obiettivo sfoggiando sorrisini furbetti e capelli corti e scuri, tenuti dritti sparati sulle teste da una dose industriale di gel. Entrambi erano alti e magri, avevano gli occhi verdi e una spruzzata di efelidi sui nasi praticamente identici.
 
Briz-e-Ale-piccoli  
 

– Briz, sto per dirti una cosa cattiva – cominciò Pete.
– Sai che novità! Credo di conoscerla già: stai per dirmi che non sai quale dei due io sia. Non preoccuparti, è quello che dicono tutti, quando vedono questa foto. Ti aiuto: io sono quella miope.
– Cos…? Ma tu non sei miope…
–  Adesso, non lo sono. Se ci guardi bene, io nella foto tengo gli occhi un po' più strizzati…
– Va bene, allora sei quella di destra: noto ora che hai anche un paio di occhiali appesi alla tasca dei jeans.
– Sì, occhiali… due fondi di bicchiere, vorrai dire!
– Ma ci vedevi così poco?
– Poco è un eufemismo: non vedevo un prete nella neve, ed ero costretta a quegli orrendi occhiali perché ero allergica alle lenti a contatto. A diciotto anni, per fortuna, ci sono state le condizioni per fare l'intervento.
Midori e Sanshiro tornarono a guardarsi: Pete e Fabrizia sembravano di nuovo soli e che avessero escluso tutti gli altri. Si riscossero solo con la voce tonante di Yamatake:
– Ehi, posso vedere anch'io?
Briz recuperò il cellulare e glielo passò.
– Certo, fai pure.
Tirò su col naso e si riappoggiò allo schienale della sedia; Pete la osservò per qualche secondo, l'espressione pensierosa, poi disse:
– Sei stata brava: non hai nemmeno aperto i rubinetti.
– Ci sono andata vicino, ma ho voluto risparmiarti. A forza di passare del tempo con te, avrò imparato qualcosa anch'io, no? Magari l'autocontrollo non è una brutta cosa… – rispose lei, con un sorriso stanco.
Si alzò e guardò i compagni d'avventura:
– Non so voi, ma io sono cotta. Se mi ridate il mio cell, mi ritirerei nei miei alloggi: ho dei lavori da finire al computer, e poi avrei un appuntamento con il mio letto.
Fan Lee le restituì il telefono che aveva girato tra i ragazzi: le sembrò molto colpito da quella foto, forse addirittura commosso. Briz, che adesso sapeva di avere qualcosa in comune con l'amico cinese, gli rivolse un sorriso triste, che lui ricambiò: forse sapeva… che lei sapeva; ma non ebbe il coraggio di dirgli nulla.
Si rimise lo smartphone in tasca e fece per andarsene. Pete, mentre lei gli passava accanto, la fermò prendendole un braccio.
– Ehi, vedi di dormire, fanciullina, okay?
– Ci proverò, pupone secchione – e così dicendo gli passò una mano sui capelli, arruffandoglieli.
– E piantala! – protestò lui, sottraendosi a quella carezza sgarbata – Non sono mica il tuo cane!
– Mah! Andate talmente d'accordo, tu e Atlas, che qualcosa in comune, ce l'avrete! Certo che, prima che tu diventi il mio migliore amico come lui, ce ne vorrà, ancora! Buenas noches!
Un attimo, e Briz era sparita, lasciando ai presenti nella sala una strana sensazione: come di vuoto.
 
* * *
 
 
Fabrizia lanciò Balthazar fuori dai pannelli di uscita del Drago Spaziale: un'occhiata veloce al mostro, che stava già affrontando il Gaiking, e diede il via alla NGC, diventando tutt'uno col grande leone robot, lasciandosi ricoprire dall'armatura bianca e oro.
Una battaglia: il regalo per il suo ventunesimo compleanno.
Lei stessa aveva dato l'allarme, dopo aver avvistato il mostro sui radar che monitoravano la Terra, sulle coordinate delle isole Hawaii, e lo avevano raggiunto prima che atterrasse da qualche parte.
Sanshiro lo teneva impegnato già da qualche minuto, e lei si affrettò ad affiancarlo: lo bersagliò con i boomerang luminosi e i raggi laser, mentre il Gaiking faceva altrettanto con i raggi ottici e una serie di piccoli missili che gli uscivano dalle mani.
Tutto a un tratto accadde una cosa che li colse di sorpresa: la testa del mostro si staccò e si ingrandì, dando vita ad un secondo nemico. Mentre Sanshiro si occupava del corpo, a cui era spuntata un'altra specie di testa, Balthazar si gettò contro il mostro più piccolo, prima addentandolo e poi colpendolo con gli Artigli di Luce; l'essere zelano le si rivoltò contro, colpendola prima con dei raggi rossastri e poi con delle sfere luminose che la scagliarono attraverso il cielo.
Si riprese velocemente e lo attaccò di nuovo con il Ruggito Paralizzante, ma il mostriciattolo – che era comunque grande quasi quanto Balthazar – sembrava indistruttibile e, come sempre, aveva un aspetto disgustoso, simile a un grosso scarafaggio; Briz non riusciva a trovare un punto debole su cui dirigere i suoi assalti.
All'improvviso fu travolta da un’ondata di luce che la accecò temporaneamente: il mostro ne approfittò e le si gettò sulla schiena, abbarbicandosi con le sue innumerevoli zampe. A nulla valsero le manovre, le acrobazie e gli avvitamenti per scrollarselo di dosso: Balthazar – Briz se ne rese conto in un attimo – non aveva armi sulla schiena. Tentò di muovere le ali e di colpirlo con la coda, usandola come una frusta, ma non funzionò. Si accorse che, insieme al Mostro Nero, stava precipitando in mare: in pochi secondi si ritrovò a sprofondare negli abissi del Pacifico, trascinata dal peso del suo nemico.
Sanshiro se ne accorse, ma era troppo impegnato a respingere gli attacchi dell'altro mostro. Il Drago intervenne in aiuto di Sanshiro e, contemporaneamente, Pete gridò a Bunta di uscire col Nessak per andare ad aiutare Balthazar. Fabrizia, collegata con gli auricolari, sentì la voce di Pete:
– Briz, sta arrivando il Nessak a darti man forte! Mi senti?
Per sentirlo, lo sentiva; ma mentre rotolava sul fondo dell'oceano, tentando di schiacciare il nemico contro le rocce, Briz ebbe la netta sensazione che nella sala comandi del Drago non sentissero lei.
– Doc, non la sento più! – esclamò infatti Midori, tentando tutti i canali possibili; eppure, lei li sentiva.
– Briiiz! – urlò Pete assordandola negli auricolari – Che diavolo succede? Stai bene?
– Sto bene, ma dite a Bunta di sbrigarsi! – gridò lei, continuando a sballottare il mostro contro il fondo senza riuscire a liberarsene; ma nessuno la sentì.
– Non risponde – la voce di Pete era tesa e preoccupata.
Briz capì di aver visto giusto: avevano proprio perso la comunicazione con lei. Ma che cosa stava succedendo? Forse dentro il suo casco si era danneggiato un contatto!
Il robot zelano, intanto, stava ribaltando la situazione, e Fabrizia si ritrovò a sua volta ad essere sballottata e schiacciata contro il fondo roccioso: perse l'equilibrio dentro alla carlinga e, nonostante la sua testa fosse protetta dal casco dalla forma felina, prese un colpo molto violento e rimase rintronata per un po'.
Nello stesso momento, sul Drago, tentavano inutilmente di mettersi in contatto con lei: la preoccupazione e la tensione stavano diventando tangibili, mentre Pete doveva pensare anche ad aiutare Sanshiro, e quel maledetto doppio essere zelano sembrava invincibile.
Bunta, ai comandi del Nessak, stava scendendo nelle profondità oceaniche, dove Balthazar era stato visto affondare; finalmente lo individuò, alquanto lontano di lì, prigioniero sotto allo pseudo-scarafaggio che lo colpiva ripetutamente con scariche di raggi accecanti.
Briz riprese i sensi rendendosi conto di essere ancora martellata dal nemico: era confusa, dolorante e anche impaurita. Si chiese se la comunicazione vocale con i suoi compagni fosse ancora fuori uso, ma dalle frasi che sentiva negli auricolari, le sembrava di sì. Diede un paio di colpi sui lati del casco, sperando di ripristinare la comunicazione.
E poi lo vide, sollevando appena la testa del leone, tra i riflessi deformanti dell'acqua: il Nessak la stava raggiungendo.
– L'ho trovata! – la voce di Bunta risuonò nella sala comandi del Drago dove, su un monitor, comparve l'immagine di Balthazar trasmessa dal Nessak: il leone aveva ricominciato ad agitarsi per liberarsi del nemico, e fu a quel punto che, per qualche sconosciuto motivo, la trasmissione audio tornò in funzione.
Con gran sollievo di tutti, il grido di Fabrizia echeggiò a bordo del Drago:
– Buntaaa! Levami dalle palle questo rompicoglioniii!
A Pete e agli altri venne quasi da ridere, nonostante la situazione.
– Bentornata, Cuordileone, mi par di capire che stai bene! 
Bunta colpì il mostro con due missili subacquei per distoglierlo da Balthazar, poi lo imprigionò in una specie di sacca violacea luminescente con cui lo trascinò verso la superficie.
Briz li seguì velocissima e tutti e tre uscirono dall'acqua in una fontana di spruzzi; al contatto con l'aria, la sacca violacea che conteneva il mostro si dissolse.
Improvvisamente, a Briz accadde una cosa imprevista: la strana sensazione che a volte provava in carlinga, quella di non essere sola, si acutizzò. Gettò uno sguardo intorno a sé, sgomenta: ovviamente non c’era nessuno, per lo meno a livello fisico, ma nella sua mente sentì dilatarsi una presenza, come un sussurro incessante.
Ebbe la fugace visione di una nuova arma che non conosceva, e a quel punto il sussurro si amplificò, in una voce che non sentiva da tanto, tanto tempo, e che le rimbombò nelle orecchie, suggerendole un nome.
Pensò di stare per impazzire, non trovò un'altra spiegazione, tuttavia, prima che potesse ragionarci sopra, si ritrovò a urlare:
– Thunderbolt!4 
La stranezza era che nemmeno lei sapeva bene cosa fosse, tantomeno come funzionasse: si ritrovò a sollevare il braccio destro, come se fosse qualcun altro a muoverlo, e fra le punte delle ali che sormontavano le spalle di Balthazar, si formò come una linea frastagliata bianca, luminosissima, praticamente una saetta. Il braccio della ragazza compì un movimento semicircolare e la coda del leone si piegò, formando un arco sulla schiena, attingendo con la punta l'energia della scarica: un ultimo rapido movimento di Briz, come quello di lanciare una frustata, e la coda di Balthazar scagliò il fulmine contro il mostro con un rombo di tuono.
 
 
Thunderbolt  

Il nemico fu imprigionato in una micidiale rete luminosa che, nel giro di qualche istante, lo polverizzò.
Briz, a occhi spalancati, sconvolta e frastornata, rimase a guardare l'esplosione e, al di là di essa, il Drago e il Gaiking che finalmente riuscivano a sconfiggere l'altro mostro.
Poco dopo, il Drago Spaziale atterrò sulla spiaggia di un atollo per dar modo a tutti di rientrare più agevolmente. Briz eseguì la manovra, poi avviò la disconnessione e, eliminata l’armatura, ricadde seduta al suo posto, cercando di infilarsi faticosamente il giubbotto viola con le membra scosse dalla solita nausea e da violenti brividi.
– Cavolo, Briz! Qualunque cosa sia questo Thunderbolt, funziona una meraviglia! Da dove ti sei tirata fuori questa novità? – le chiese Pete, mentre il contatto visivo tornava sui monitor.
– C-Credimi, n-non vuoi d-davvero sa-saperlo – rispose lei, con le labbra scosse da un tremito incontrollabile.
– Ehi, ma che ti succede? Sei pallida da far paura, sembra che tu abbia visto un fantasma! – le disse, con un tono ansioso che non gli aveva mai sentito: se non fosse stato che lo riteneva impossibile, avrebbe quasi pensato che si stesse preoccupando per lei.
– P-più che vederlo l'ho s-sentito. Ho b-bisogno di D-Doc – balbettò, confusa e agitata.
Cosa accidenti era accaduto?
Probabilmente stava davvero impazzendo: la voce che le aveva urlato nella mente la parola Thunderbolt… era quella di Alessandro!

> Continua…




Note:

1 Linkin Park: me li ha fatti scoprire mio figlio. Fanno rock-pop-metal da circa vent’anni, ma le tre canzoni che ce li hanno fatti conoscere sono “What I’ve done”, “New Divide” e “Iridescent”; noi la chiamiamo la magica tripletta e appaiono nei titoli di coda dei primi tre film della saga “Transformers”. Io li adoro, tranne alcuni pezzi troppo urlati e rappati. Quando scrissi questa storia, Chester Bennington, il loro frontman e voce principale, era ancora vivo. Con grande dolore mio e dei miei figli, si è tolto la vita il 20 luglio 2017 😢.  Se la cosa vi interessa, vi rimando ai soliti Google e Youtube, dove trovate di tutto, di più.
Insieme a quelle dei Simple Plan, (altro gruppo piacevolissimo, almeno per me) le loro canzoni contribuiranno a un avvicinamento tra Briz e Pete.
Più avanti.
Forse.



Pecos Bill è una figura di cowboy leggendaria americana, l’eroe nazionale dello stato del Texas. Negli anni ’50 del XX secolo esistevano gli albi a fumetti venduti in edicola (a 20 lire!) Io ce li ho tutti, raccolti dal mio papà quando era ragazzino e rilegati in due volumi 🤩. Da bambina li ho letti e riletti, è stato il mio primo eroe. Poi sono arrivati Goldrake, Mazinga & C. 😏😍

3 I gemelli eterozigoti e omozigoti. Non credo che sia proprio necessaria questa spiegazione, ma a scanso di equivoci, la differenza consiste in ciò: gli eterozigoti, come Fabrizia e Alessandro, nascono da due ovuli, fecondati da due spermatozoi, nello stesso momento. Sono solo due fratelli che per caso condividono l’utero materno nello stesso tempo, e possono essere di sesso diverso e con caratteristiche fisiche agli antipodi. Gli omozigoti, invece, detti anche gemelli identici, nascono da un ovulo, fecondato da uno spermatozoo, che poi si divide, dando vita a due individui con lo stesso patrimonio genetico e che sono sempre e comunque, per forza di cose, dello stesso sesso.

4 Il Thunderbolt… Che cos’è? Oh, lo chiedete a me? Non penserete mica che lo sappia! Non ne ho la più pallida idea, è uscito così…  mi suonava bene il nome…



 

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Capitolo 10
*** 9 - Una ragazza che piange ***


~ 9 ~ 
UNA RAGAZZA CHE PIANGE



 
La faccenda del Thunderbolt aveva lasciato Briz parecchio sconvolta:
ritornata in plancia di comando, riuscì a riprendersi pian piano e, seduta all'ampia postazione che il dottor Daimonji divideva con Sakon e Jamilah, raccontò a lui e agli altri quello che le era accaduto.
L'unica spiegazione che Daimonji poté darle, fu che un ultimo residuo del DNA di Alessandro fosse rimasto nei connettori neurali di Balthazar e avesse interagito temporaneamente col suo.
A lei sembrò una teoria più paranormale che scientifica, ma proprio per questo sposava felicemente col fatto che lo strano fenomeno le fosse venuto in aiuto nel momento giusto. Decise di accettarlo così, senza porsi altre domande e chiedendosi se, in futuro, le sarebbe capitato di nuovo.
Del resto, la sensazione di qualcuno che la affiancava nei combattimenti la accompagnava ormai da tempo; era ovvio che fosse solo suggestione, ma illudersi che potesse essere davvero Ale, che male avrebbe potuto mai farle? Tanto ormai… le stranezze nella sua vita erano all'ordine del giorno!
Con ancora il battito del cuore irregolare, si diresse alla sua postazione, mentre Pete impostava le manovre di decollo per apprestarsi a tornare a Omaezaki. Bunta, che si stava a sua volta dirigendo al suo posto, le andò incontro.
– Briz, stai bene?
Lei si sentì quasi sopraffatta da un'ondata di affetto per quell'amico che l'aveva tolta da un notevole guaio.
– Ehi, ragazzone! Sto bene, sì, grazie a te: se non fossi arrivato tu, credo che sarei ancora là sotto, ad affogare lentamente – gli disse, abbracciandolo e schioccandogli un bacetto sulla guancia paffuta.
– Sono qui per questo, no? Lavoro di squadra – disse Bunta, ricambiando l'abbraccio: gli sembrò che Briz avesse disperatamente bisogno di un gesto rassicurante.
Il Capitano Richardson interruppe quell'affettuoso ringraziamento:
– Partenza prevista tra un minuto. Quando avete finito con le smancerie ditelo, che magari partiamo! Mi state mandando in coma iperglicemico!
Avrebbe potuto essere una frase scherzosa, invece la voce di Pete era suonata gelida come il Polo Nord; niente a che vedere con la preoccupazione che Briz aveva avvertito quando non riusciva a mettersi in contatto con lei, o quando l'aveva vista provata e confusa dopo la battaglia. Mentre Bunta, con un'espressione interrogativa sul viso, la lasciava per tornare al suo posto, lei decise di sfoderare la sua consueta ironia.
– Che succede, Capitan Richardson? Vuoi un bacio anche tu?
– Ma non credo proprio!
– Ecco, meglio così: avrei paura di congelarmi le labbra! – ridacchiò lei.
– E io di morire avvelenato.
Tono durissimo e glaciale: Briz rimase impietrita da quella replica.
Si morse un labbro, per impedirsi di mandarlo in qualche posto sconveniente a fare qualcosa di ancor più sconveniente, e si sedette alla sua postazione. Spense il suo auricolare, allacciò la cintura e sentì i motori del Drago partire, aumentare i giri e, infine, la grande astronave staccarsi dal suolo: il suo pilota era già concentrato nell'esecuzione dei suoi compiti.
Briz guardò Midori e formulò la domanda solo con le labbra:
– Ma che gli ho fatto?
Midori sollevò appena le spalle, come per dire che non ne aveva idea. Anche lei aveva staccato il microfono e le parlò sottovoce:
– Lo sai che Pete è fatto così.
– Già, è fatto male! E non è nemmeno una novità! – fu la sua lapidaria considerazione.
– Briz – la chiamò Sanshiro, tenendo anche lui la voce bassa – Mi sbaglierò… ma se vuoi un parere da un punto di vista maschile, questo sembrava davvero un attacco di gelosia!
– Sanshiro, – osservò Briz – ti è sfuggito un particolare: la gelosia è un sentimento, che fra l'altro ne implica degli altri; è qualcosa di totalmente incompatibile con Pete.
– Ah, già… hai ragione, non avevo pensato che non stiamo parlando di un normale essere umano.
– Bah! Che vada al diavolo, lui e il suo carattere di m… – finì bofonchiando Fabrizia, anche se la parola finale fu ben interpretata dai suoi vicini.
Incrociò le braccia e chiuse gli occhi, cercando di controllare il tremito che le era tornato. Aveva già i suoi pensieri, i suoi problemi… ci mancavano solo le battutine acide di quel carognone misogino!
Non poteva certo dimenticare che, quel giorno, anche Ale avrebbe compiuto ventun anni: risentì nella mente la sua amata voce, perduta e familiare, che le suggeriva il nome della nuova arma di Balthazar.
E poi, come perfetto contrasto, le risuonò di nuovo nelle orecchie la voce fredda di Pete: "E io di morire avvelenato". 
Se avesse pronunciato quella frase in modo scherzoso, lei ci avrebbe sicuramente riso sopra ribattendo con una delle sue cazzate, qualcosa tipo: "Certo, io sono la donna tarantola!" 
Invece, con quel tono gelido, l'aveva letteralmente spenta: era stato il degno coronamento di una giornata di compleanno decisamente schifosa.
Ed erano solo le due del pomeriggio.



 
* * *

– Vorrei tanto sapere dove si è cacciata Briz – disse Midori a Jami, all'ora di cena, nella sala da pranzo.
– Non la vedo da oggi pomeriggio, quando siamo tornati – rispose Jamilah.
Daimonji si avvicinò alle due ragazze, sentendo i loro discorsi.
– Al nostro ritorno l'ho fatta visitare dalla dottoressa Mori perché mi sembrava molto provata dalla battaglia, poi le ho consigliato di dormire qualche ora, prima di cena: forse non si è ancora svegliata.
– In camera sua non c'è… e il cellulare è acceso: ha visualizzato i messaggi, ma non risponde – lo informò Midori.
In quel momento entrò Pete, e le due ragazze lo fulminarono con lo sguardo e lo affrontarono.
– Dov'è Briz? – chiese Jamilah minacciosa, con gli occhi color acquamarina che mandavano lampi.
– Dovrei saperlo io? Siete voi le sue amiche del cuore – esclamò lui, stupito.
– Che diavolo le hai fatto, stavolta? È sparita, alla base non c'è! – rincarò Midori.
– Beh, adesso io vorrei sapere una cosa! – sbottò Pete – Ma sarà mai possibile che ogni santissima volta che Fabrizia ha le paturnie, deve essere colpa mia?
– Sei la persona con la quale, ultimamente, passa più tempo – gli fece notare Sanshiro.
– Non certo per sua scelta, e nemmeno mia, lo sapete benissimo! Comunque… forse ho una vaga idea di dove possa essere.
– E allora vai a recuperarla e portala qui a mangiare con noi. Dopotutto è il suo compleanno! – gli ordinò Jamilah perentoria.
– Non credo di essere la persona più adatta, anzi, sicuramente sono l'ultima che vorrebbe vedere.
– Meno male che lo riconosci! Oggi è stata grande, e tu l'hai trattata da schifo!
– Oh, basta, eh? Tra lei e voi, sono mesi che rompete l'anima con le battute sceme sul mio carattere! Ne faccio una io su di lei e diventa subito un'offesa mortale! – si difese Pete.
– Valle a spiegare a lei, queste cose – disse Sanshiro – E già che ci sei, dalle questo, visto che ci hai messo una quota anche tu – concluse, lanciandogli un piccolo pacchetto colorato che lui afferrò al volo.
– E cerca di non fartelo tirare dietro, se ci riesci – aggiunse inaspettatamente il pacato Sakon.
Pete passò in rassegna i compagni con lo sguardo, uno per uno, e dovette ammettere che non gli restava altra scelta: avevano vinto loro.
Mise il pacchettino nella tasca dei jeans e con un sospiro uscì, chiudendosi dietro la porta. Era così difficile capire dove fosse la sciroccata? Sicuramente era dai suoi amati cavalli, non ci voleva una scienza per arrivarci, proprio come non ci voleva per capire che gli altri lo avevano incastrato per bene: lo sapevano benissimo dove fosse Briz, ma era ovvio che pretendevano che si scusasse con lei.
Si incamminò per il sentiero, a testa bassa, nella calda luce del tramonto estivo. I compagni avevano ragione: la sua era stata una battuta infelice. La verità era che non riusciva a capire come facesse Briz, con tutto quello che aveva passato nella sua vita – per non parlare di quel giorno, durante il quale aveva rischiato la pelle più del solito e aveva anche vissuto un'esperienza ai limiti del romanzo fantasy – ad essere comunque capace di sorridere e pensare agli altri: nel caso specifico, ringraziare Bunta.
In realtà non gli aveva dato nessun fastidio vederla che lo abbracciava: sapeva quanto fossero amici. Briz era amica di tutti, se era per questo, e lui si scoprì a invidiare quella sua capacità di reagire sempre con una battuta ironica, un sorriso o un gesto gentile per chiunque – a dispetto del suo essere sboccata e maschiaccio – anche quando era psicologicamente distrutta. E poi aveva un’autoironia da primato: sapeva prendersi in giro e ridere di sé stessa.
Lui, quando si sentiva stanco, avvilito o confuso, riusciva solo a chiudersi come un riccio e sparire dalla circolazione, proprio come aveva fatto Briz quella sera. Non era nel suo stile, per questo tutti si preoccupavano; persino lui, un po', ammise con sé stesso.
Arrivò alla scuderia e trovò il cancello accostato, senza lucchetto. C'era qualcosa di strano nell'arrivare in quel posto e venire accolti dal silenzio, invece che dalla musica sparata a tutto volume.
Entrò nel portone e si infilò per il corridoio interno, alla cui destra si affacciavano i box: i cavalli lo salutarono sbuffando e lui sfiorò i loro musi distrattamente. Atlas gli trotterellò incontro, la lingua penzoloni, e infilò la testa sotto la sua mano; Pete gli accarezzò le orecchie e proseguì fino in fondo al corridoio sbucando all'esterno, sul retro, dove c'era il grande recinto.
– Briz…? – chiamò senza alzare troppo la voce.
Fu a quel punto, girandosi sulla destra, che la vide.
Addossata alla parete c'era una grossa balla di paglia rettangolare sulla quale Briz sedeva voltandogli la schiena; appoggiata al muro con una spalla, si teneva le ginocchia abbracciate, stando quasi raggomitolata: piangeva a dirotto, scossa dai singhiozzi.
– Briz… ma che ti succede? – le chiese, avvicinandosi di un paio di passi; non l'aveva mai vista in quello stato.
Doveva ammettere che, anche se ogni tanto la prendeva in giro con la battuta dei rubinetti da chiudere, l'unica volta in cui l'aveva vista piangere era stata quella del litigio tragico, quando l'aveva quasi spinta a mollare tutto; ma di quel momento, lui ricordava un’unica lacrima silenziosa, un pianto trattenuto e orgoglioso. Stavolta era diverso, era davvero sconvolta; non sapeva nemmeno se lo avesse sentito chiamarla.
La risposta a quella domanda arrivò immediatamente: Fabrizia si voltò lentamente, tirando su col naso e asciugandosi gli occhi gonfi e arrossati con un fazzoletto di carta, preso da una scatola appoggiata sulla balla, accanto a lei.
Stancamente, rimanendo seduta, posò i piedi per terra e si appoggiò con la schiena e la testa alla parete, guardando il cielo arrossato dal tramonto.
– Ma puttana galera… Di tutti quelli che potevano venire a cercarmi… proprio te, dovevo trovarmi davanti – gemette, scuotendo appena la testa e chiudendo di nuovo gli occhi.
– Io l'ho detto, con gli altri, che non mi avresti visto volentieri. Vuoi che chiami le tue amiche?
– Non voglio loro più di quanto voglia te. Se non te ne fossi accorto, non sono in vena di compagnia.
– Senti, Briz… se è per quello che ho detto oggi… tu scherzavi, lo so, ma… Dai, è che io non ho il tuo senso dell'umorismo: io le battute non le so fare…
– Ah, questa poi! – disse lei tra un singulto e l'altro, senza sapere se mettersi a ridere o continuare a piangere – Sei davvero un dannatissimo egocentrico presuntuoso! Non penserai mica che sia stata la tua, peraltro orrenda, battuta, a farmi rovesciare dal piangere e a ridurmi uno straccio?
Pete si avvicinò e si sedette sulla balla accanto a lei, però non disse nulla e si limitò a guardarla: per una volta, Briz aveva un aspetto più femminile, con una camicetta aderente bianca dalle maniche corte a palloncino, i calzoni di cotone di uno sfavillante arancione che arrivavano a metà polpaccio, e un paio di scarpette di tela color argento che, in sé, non avevano nulla di particolare, se non i laccetti che, oltre a consistere in nastri di seta praticamente fosforescenti, erano pure spaiati: il destro giallo e il sinistro fucsia.
Lei continuò a piangere, tornando nella posizione di prima e voltandogli di nuovo le spalle.
– Cosa ti fa pensare che… sniff… abbia voglia di parlare con te? Sniff… Lasciami in pace, già mi manda in bestia che tu mi abbia vista ridotta così. Sniff… Va' via.
– Se torno senza di te, mi faccio lapidare.
– Fatti tuoi. Potrebbe essere una soluzione a molti dei miei guai – e giù a singhiozzare.
– Beh, riesci ancora a darmi addosso, se non altro. Io… lo so che ti sembrerà difficile da credere, ma… mi dispiace vederti così. L'unica cosa che mi solleva un po', è che per una volta hai detto che non è colpa mia.
Fabrizia si soffiò il naso e si asciugò di nuovo le lacrime. Tornò a girarsi, sedendosi accanto a lui con i gomiti sulle ginocchia e le mani a coprirsi il volto; poi se le passò sulla fronte, tirandosi i capelli sulla testa, e sospirò:
– Se vogliamo essere sinceri fino in fondo, la tua battuta del cavolo ci ha messo il carico da undici. Che diavolo ti è preso? Sembrava ti scocciasse perché ho dato a Bunta un bacetto sulla guancia! Che ti importava?
– Ma niente, non è questo! Puoi baciare chi ti pare! Solo che…
Lei lo interruppe, a questo punto decisamente fuori dai gangheri, e si alzò in piedi urlando:
– Era solo un modo per ringraziarlo! Cosa credi, che io abbia l'abitudine di sbaciucchiarmi gli uomini per sport? Io non sono una ragazza facile, chiaro? Cazzo, Bunta mi aveva appena salvato il culo, non te n'eri accorto? È che tu non le capisci, queste cose. Tu… tu sei…
– …sì, emotivamente stitico, lo so – sospirò lui, stancamente – Ma anche tu, quando vuoi, sai essere maledettamente tagliente, credimi. E comunque, giusto a titolo informativo, non mi ha mai sfiorato l'idea che tu possa essere una ragazza poco seria. Non capisco nemmeno perché tu debba pensarlo…
– Ah, lascia stare… – glissò Briz, tornando a sedersi sulla balla accanto a lui – Tu mi farai uscire pazza, Pete! Ogni volta che trovo in te qualcosa che mi piace, e che in qualche modo ti ricolloca fra i rappresentanti del genere umano, poi finisci per fare o dire qualcosa che mi costringe a ricredermi! E poi la contraddizione vivente sarei io? E comunque, come ti ho detto, non è tutta colpa tua. Per essere il mio ventunesimo compleanno, è stata decisamente una… giornata di merda, ecco!
– Concordo con te, al tuo posto chiunque sarebbe alquanto scocciato. Solo che tu non sei arrabbiata, sei disperata; e me ne sono accorto persino io, scusa se è poco. È stato quello che ti è successo con il Thunderbolt?
– Anche… ma non solo. Posso far finta di dimenticarlo, ma oggi… è anche il compleanno di mio fratello; solo che io ho compiuto ventun anni, e lui ne ha ancora diciannove. Lui… lui avrà diciannove anni per sempre! Eppure, in qualunque mondo sia adesso, ha trovato il modo per… regalarmi il Thunderbolt.
Pete rimase in silenzio: il punto di vista di quel discorso lo lasciò perplesso, e allo stesso tempo lo affascinò.
Briz si girò appena e lo guardò negli occhi, ma decise quasi subito che sarebbe stato meglio non farlo: in quel momento Pete era nella versione essere umano, bellissimo e con un'espressione che rasentava la dolcezza. La cosa bella era che lui, probabilmente, non ne era nemmeno consapevole. Assurdo… quello non era lui!
Briz distolse lo sguardo e tornò ad arruffarsi i capelli.
– Hai visto che sono riuscita a smettere di sfinirmi di caffeina?
– Sì, ma che c’entra ora?
– La caffeina mi faceva dormire poco… perché io non volevo dormire. Perché quando dormo sogno: e i miei sogni sono sempre orribilmente vividi e realistici. Pagherei, per non sognare!
– Hai gli incubi… Ti capisco: io sogno raramente, ma quando mi capita… sogno il naufragio – disse lui, guardando davanti a sé, sorpreso da quanto facilmente gli fosse uscita quella confessione.
– I miei sogni non sono incubi – proseguì Briz – Io non sogno l'esplosione della mia casa, non sogno la morte della mia famiglia. Sarebbe quasi meglio se fosse così, invece, semplicemente… li sogno: vivi, belli e felici. Con la mamma mi capita di rado, forse perché è passato più tempo, o forse perché… la sua morte è stata una disgrazia, il destino: si è ammalata, non è stata colpa di nessuno. Invece… sogno papà che lavora alle sue sperimentazioni, che mi chiede cosa sto studiando… E Ale che mi chiama con qualche strano nomignolo, io e lui in giro per i boschi a cavallo, o che ridiamo come scemi guardando un film. Mi sembra tutto vero… La cosa orribile non sono i sogni, Pete: è il risveglio, quando mi rendo conto della realtà e che loro sono davvero morti. Svegliarmi… è l'incubo – la voce le si spezzò, e ricominciò a piangere sommessamente.
Pete sfilò un fazzoletto dalla scatola e glielo porse, senza dire una parola. Lei lo prese e, tra un singhiozzo e l'altro, continuò a parlare:
– Tra me e Ale succedevano delle cose strane – confessò – Cose che sono considerate leggende anche per i gemelli omozigoti, figurati per noi, che eravamo gemelli diversi. Ma a volte… io pensavo una cosa, e Ale mi rispondeva, come se avessi parlato! Mamma chiedeva: "Dov'è Ale?" e io glielo dicevo, anche se non mi aveva detto dove fosse andato. Non so perché: lo sapevo e basta. Sapevamo sempre se l'altro era triste o felice, se stava bene o male… Per esempio, nelle ultime due settimane della sua vita, Alessandro era contento: gli sentivo il cuore sereno, spensierato e leggero. Non sono riuscita a scoprirne il motivo, e lui se l'è portato nella tomba. Oppure, quando avevamo otto anni: Ale si ruppe un braccio cadendo con la bici, e io sentii il suo dolore, soffrii con lui finché non l'ingessarono. Alla fine fecero la radiografia anche a me, perché urlavo talmente tanto che persino i medici credettero avessi il braccio rotto anch'io! E se ho sofferto così per un suo braccio rotto… riesci a…
Briz si interruppe e si soffiò il naso, mentre Pete era allibito al punto da non aver parole: aveva capito dove sarebbe andato a parare il discorso, e quando lei riprese si sentì venire la pelle d'oca.
– Riesci a immaginare, anche solo lontanamente, cos'ho provato, lassù nel pascolo, sola con i miei cavalli e il mio cane… quando ho sentito prima l'esplosione, e subito dopo la sua vita… spegnersi?
Rimase in silenzio qualche secondo, poi proseguì: – Un dolore indicibile… e poi un vuoto totale, un abisso di oscurità. È stato come… se stessi morendo anch'io; ho perso i sensi, per ore. Mi ha trovata Filippo, il mio vicino di casa: è stato Atlas, che era poco più di un cucciolo, a correre da lui e poi a guidarlo dove mi trovavo. Quando mi sono risvegliata ero in ospedale, e in qualche modo… sapevo.
Di nuovo silenzio… Pete si sentì raggelato, quasi paralizzato; non osò chiederle nulla e lasciò che fosse lei a continuare a parlare.
– Non puoi capire come mi sia sentita oggi, quando la voce di Ale mi ha urlato Thunderbolt nelle orecchie… E questo pomeriggio, mentre dormivo un po', per la prima volta ho avuto un vero incubo in cui ho rivissuto la sua morte; e il risveglio è stato comunque orribile – tacque qualche secondo, poi riprese, quasi urlando: – Sarà sempre così, Pete?! Ogni fottutissimo compleanno che mi sarà concesso, lo passerò a piangere per mio fratello?
Pete pensò che quella fosse una delle rare occasioni in cui si sentiva assolutamente impotente: per una volta che avrebbe voluto fare o dire qualcosa per consolare Briz, non sapeva cosa.
Doveva ammetterlo, quel giorno gli era sembrata fortissima, determinata, coraggiosa; e ora, dopo quello che aveva appena saputo, capì che lo era sempre stata: lei era convinta di essere un disastro in tutto, e invece era un mezzo fenomeno.
E adesso eccola qui, sfinita dal piangere e dalla disperazione che quegli orribili ricordi le ispiravano: adesso era davvero solo una fanciullina fragile e indifesa.
Senza nemmeno rendersene conto, sollevò una mano e le accarezzò i capelli. Briz sollevò il viso dalle mani e lo guardò, stupita da quel gesto che non era proprio da lui. Un altro fiotto di lacrime silenziose le inondò le guance e Pete, sempre tenendole la mano sui capelli, le fece appoggiare la fronte sulla sua spalla; la ragazza scoppiò di nuovo in singhiozzi.
"Che faccio, adesso?" si chiese lui.
Non trovò di meglio che tenerla così, scendendo con la mano ad accarezzarle la spalla e il braccio, appoggiandole la guancia sui capelli. Una folata di profumo dolce e fresco lo investì, facendogli quasi girare la testa.
Briz continuò a piangere e singhiozzare per alcuni minuti, chiedendosi se sarebbe mai riuscita a smettere. Forse anche quello era un sogno: non poteva essere il Capitano Richardson, quello lì con lei!
Lo sentiva un po' impacciato, si capiva che era un atteggiamento che non faceva parte del suo carattere: non era abituato a consolare gli altri; eppure ci stava provando. Fabrizia si sentì vagamente rasserenata da questo fatto, e il calore del suo braccio che la circondava con leggerezza la rassicurò.
– Briz, però basta, adesso – disse lui dopo un po' – Avanti, respira e rilassati, altrimenti altro che rubinetti: con questo tsunami non basterà una diga!
– Wow, Capitan Richardson: battutona! Ti stai proprio lanciando, ultimamente! – riuscì quasi a sorridere lei, con la parlata da naso chiuso e il viso schiacciato contro la sua spalla.
Si staccò lentamente da quel mezzo abbraccio, per soffiarsi il naso e asciugarsi le lacrime per l'ennesima volta. Quando pensò di essere tornata più o meno presentabile, si azzardò a guardarlo di nuovo: Dio, quegli occhi azzurri dalle ciglia lunghe e scure… uno strafigo, in tutti i sensi. Cosa ci faceva, lì con lei, uno così?
– Ma chi diavolo sei tu? – gli chiese – Tu non sei il pilota del Drago Spaziale, sei un… un replicante, solo che quando ti hanno costruito ti hanno dotato di un carattere migliore.
– Huff, meno male, sei tornata te stessa – sospirò Pete rialzandosi e, tendendole una mano, la aiutò a tirarsi in piedi.
Per un attimo rimasero lì, Briz con la mano in quella di lui, vicinissimi; poi lei si affrettò a lasciargliela e ad allontanarsi di un passo.
– Torniamo alla base, Richardson: io non dovrei saperlo, ma Midori e Jamilah mi hanno fatto fare una torta, e tutto sommato, adesso, l’idea mi fa voglia – esclamò, attraversando il corridoio della scuderia.
Pete la seguì, salutarono i cavalli e Briz chiuse il cancello; si incamminarono per il sentiero, sotto un cielo violetto in cui si accendevano le prime stelle.
Pete si ficcò le mani in tasca, rilassato e soddisfatto per la missione compiuta, e sentì sotto le dita il pacchettino.
– Ohi, Briz!
– Che c'è?
– Non c'è solo la torta: per qualche assurdo motivo, i nostri amici hanno deciso che questo devo dartelo io – e le lanciò il regalo, facendogli descrivere nell'aria un piccolo arco.
– Uh, ma che carino! – ridacchiò lei, afferrandolo al volo – Un passo in più per mettermelo in mano era troppo faticoso? Potrei lanciartelo addosso, sai?
– Effettivamente, Sakon ha detto che avrei dovuto proprio fare in modo che ciò non accadesse, ma direi che per stasera le gentilezze sono state anche troppe, per essere noi due.
– Peccato – disse lei mentre toglieva la carta al pacchetto – Non mi dispiaceva, il replicante: sapeva anche che cosa fare con una ragazza che piange!
– Piantala, un film ogni tanto, con qualche scena del genere, l'ho visto anch'io! Ho preso ispirazione…
Lei gli tirò la carta colorata appallottolata e si affrettò ad aprire la piccola scatola blu.
Il regalo era una cosa semplicissima, che lei adorò immediatamente: un braccialettino di cuoio intrecciato, con al centro un cuore di lucido acciaio cromato. Al centro del cuore spiccava, inciso, il simbolo che Briz portava sul giubbotto dell'uniforme: il profilo di una testa di leone con la criniera di fuoco.
– Chi lo ha scelto? Midori e Jami, vero? – chiese.
– Le tue amiche hanno scelto il braccialetto con il cuore. Io… ho suggerito di far incidere il leone.
Tu? – fece lei, incredula.
– Maaa… non solo io, anche gli altri, in realtà. Ci sta, no? – minimizzò Pete.
Briz sorvolò su quello strano scambio di battute, e tornò ad ammirare il braccialetto.
– Un cuore e un leone: è il mio nome. Sì, effettivamente ci sta.
– Non solo… è anche quello che sei: tu sei Cuordileone di nome e di fatto; come doveva esserlo tuo fratello, se a diciannove anni scarsi si era assunto la responsabilità di diventare il pilota di Balthazar. Ci vuole una buona dose di coraggio anche solo per sedersi ai comandi, di quel bellissimo mostro che è il vostro leone. Il coraggio era di casa, nella tua famiglia – dovette riconoscere Pete, prendendo il braccialetto e aiutandola ad agganciarlo.
Briz si sentì il cuore in gola, per quell'ammissione: da quanto tempo ci sperava, di sentirsi dire da lui una cosa del genere? Come non bastasse, il contatto con le dita di lui, che sfioravano il delicato interno del suo polso per allacciarle il braccialetto, le provocò un brivido attraverso le vene.
Decise di allentare quella strana tensione alla sua solita maniera:
– Nahh! Sto solo diventando un aiuto decente per Sanshiro, e ogni tanto riesco a farne una per il verso. Come diceva Herman Hesse: "Anche un orologio rotto segna l'ora giusta, due volte al giorno". 
– Smetti di sminuirti così, non sei un orologio rotto: ti è capitato questo destino, sei una specie di… prescelta.
– Porca miseria, che culo – esclamò Briz, facendolo sorridere.
– È la vendetta che cerchi? – le chiese, tornando serio.
– E che cosa me ne faccio della vendetta, Pete? Non mi renderà quello che ho perduto. Combatto perché è giusto; perché, come hai appena detto tu, il destino mi ha dato l'opportunità di aiutare il mio pianeta. All'inizio non volevo saperne, sai? Ci ho messo mesi e mesi a decidere, ma poi… Che persona sarei, se non ci avessi nemmeno provato, soprattutto sapendo che senza di me… Balthazar sarebbe del tutto inutile?
Pete la guardò e annuì in silenzio.
– Mi hai dato la risposta che speravo. Come fai, con tutto quello che hai passato, a essere così? Riesci ancora a sorridere, a divertirti, a fare pazzie; scherzi, dici le parolacce, ti vesti come un evidenziatore ambulante. Sai prenderti in giro, ridere dei tuoi difetti e dei tuoi limiti… e riesci a far ridere noi, anche in mezzo ai casini più tremendi, come oggi. Quel: "Bunta, levami dalle palle questo rompicoglioni”, esploso così, dopo tutto quel silenzio preoccupante, è stato…
– …sì, catartico, direi – ridacchiò sommessa – È l'unico modo che ho trovato per difendermi, Pete. La mia adolescenza è stata un tantino travagliata, e adesso me la sto, diciamo così, riprendendo. Capisco che magari non sia il momento migliore, ma…
– …ma se non fai così, impazzisci – concluse Pete al suo posto.
– Esatto. Qualche volta sembri persino intelligente – disse ridendo, facendogli capire al volo che scherzava.
– Ah, ma grazie, non ci voleva molto, per capirlo. Io, per affrontare i miei, di demoni, faccio esattamente il contrario.
– Ognuno si protegge come sa fare, dal dolore. Il mio psicologo disse che io ero stata brava a trovare questo metodo.
– Sei stata in analisi?
– Per circa un anno, sì. Che ti credevi? Che da una batosta così ne potessi uscire da sola? Ho provato a prendere il diploma di Wonder Woman, ma mi hanno bocciata all'esame finale, perché a volare, proprio, non ci sono riuscita!
– Ecco, appunto: a proposito della tua capacità di scherzare sulle cose più difficili – esclamò Pete, mentre, a quella battuta assurda, gli veniva di nuovo da ridere.
Briz pensò che avrebbe davvero dovuto farlo più spesso: aveva una risata bellissima, pur non lasciandosi mai andare completamente.
– Cambiamo argomento, okay? Per oggi ne ho avuto abbastanza di brutti ricordi – gli suggerì.
– Sono d'accordo con te – commentò Pete, rimettendo le mani in tasca e riprendendo a camminare.
– E questa cosa sì, che la dice tutta, sulla stranezza di questa serata! – esclamò Briz.
– Senti… – riprese dopo un po', con un sorriso birichino, rimirandosi il braccialetto – Dopo un regalo come questo, lo sai che, arrivati a casa, quei ragazzi dovrò sbaciucchiarmeli uno per uno, vero?
– Ah, prego, fai pure – fu la spensierata risposta.
– Tranne te, naturalmente.
– Okay, tranne me – acconsentì Pete, tranquillamente – Ma perché? – sbottò poi, all'improvviso, come se si fosse reso conto solo in quel momento del senso del discorso.
– Come perché? Altrimenti ti avveleno, no?
– Oh, già… Dimenticavo… – tacque per qualche istante, poi aggiunse: – Ehi, buon compleanno, fanciullina.
Fabrizia ghignò tra sé, continuando a camminare al suo fianco, in silenzio, tutti e due con le mani affondate nelle tasche.


B-P-mani-in-tasca

Perché così, tutto a un tratto, la parola fanciullina non le sembrava più un'offesa?
Di punto in bianco, Briz si avvicinò a Pete e, senza nemmeno togliere le mani dalle tasche, gli scoccò un rapidissimo bacetto su una guancia, allontanandosi poi immediatamente.
– Beh? Cos'era questo? – le chiese Pete, sbalordito.
– Un bacio, non l'hai riconosciuto? Caspita, doveva essere un bel pezzo che non ne ricevevi uno! E comunque… era per il replicante. Fallo tornare, qualche volta.
– Forse ci proverò, ma non ti prometto niente. Non ti sei congelata le labbra, a quanto pare.
– E tu non sei morto avvelenato, se è per questo!
Pete scosse la testa con un mezzo sorriso, e non rispose.
– E comunque… grazie. Per il regalo, e per aver saputo consolarmi, stasera – disse la ragazza, sottovoce.
– Non c'è di che – concluse Pete.
Erano quasi al Centro, e non trovarono altro da dire.
Per Briz era stata una giornata pesante come poche, ma la serata prometteva decisamente meglio: forse, alla fine, non sarebbe stato un compleanno del tutto schifoso.
 
> Continua...



 

 

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Capitolo 11
*** 10 - Un'onda che prende, un'onda che dà ***


~ 10 ~ 
UN'ONDA CHE PRENDE, UN'ONDA CHE DÀ
 
 
Agosto scivolò lentamente verso settembre, e l'estate si stemperò in un autunno mite, soleggiato e carico di colori caldi. Successero cose strane, e si fecero ancor più strane scoperte.
Il Drago partì per indagare su alcuni misteriosi avvenimenti, nei luoghi più assurdi e leggendari della Terra.
Il primo era stato in Perù, dove un gruppo di archeologi era scomparso mentre faceva ricerche nelle pianure di Nazca.
Pete aveva spiegato ai compagni che Nazca è famosa per le gigantesche e misteriose figure disegnate sul terreno, riconoscibili come tali solo dall'alto. Tracciate da immense piste bianche, compaiono decine di sagome stilizzate, fra cui molti animali. È stato stimato che risalgano a epoche lontanissime, addirittura tra il 300 a.C. e il 500 d.C. Il mistero sta nel fatto di come, a quel tempo, fosse stato possibile disegnare figure così grandi senza poterle vedere dall'alto; ma si presume che il popolo dei Nazca avesse ottime conoscenze della geometria. 
Briz – e non solo lei – si era chiesta come mai il giovane fosse così ferrato in materia, e si era ripromessa, un giorno, di chiederglielo.
Il capo archeologo della spedizione scomparsa, il professor Koga, era stato il benefattore di Yamatake, quando da ragazzo era giunto a Tokyo per iscriversi a una prestigiosa scuola di sumo; ma, giovane e ingenuo com'era, si era fatto rubare il portafogli. Disperato, per riuscire almeno a togliersi da quel guaio, non aveva trovato di meglio che tentare la stessa strada: quella della rapina. Per fortuna di Yamatake, la sua vittima era stato il professor Koga che, invece di denunciarlo, lo aveva preso sotto la sua ala e lo aveva incoraggiato lungo la strada sportiva. Era diventato un discreto campione e se, grazie anche alle sue doti fisiche, Yamatake ora era alla guida del Bazzora, era merito soprattutto del professor Koga.
Era stato un trauma e una rivelazione per tutti, scoprire che nei sotterranei di Nazca c'erano tre mostri neri, aventi le sembianze di una scimmia, un condor e un alligatore: tre dei disegni più famosi rappresentati sulla pianura. Insieme ai mostri c'era una piccola base zelana, e il generale Dankel – uno dei Grandi Quattro – con alcuni sottoposti e diversi Uomini Uccello, erano i responsabili della morte degli archeologi.
La battaglia contro i mostri era stata lunga e cruenta, anche se alla fine l'unico superstite nemico era stato Dankel, che era scappato con una piccola astronave. Yamatake era stato il combattente più agguerrito e motivato, pur sapendo che vincere quella battaglia non avrebbe reso la vita al professore che lo aveva salvato da una brutta strada, e gli aveva quasi fatto da padre.1
La battaglia successiva si era svolta in un altro luogo misterioso della Terra: Loch Ness, in Scozia. Dalle profondità del lago era emerso un essere simile a un dinosauro che si era rivelato un Mostro Nero zelano. Non era stato facile sconfiggerlo, e l'aiuto più significativo per il Gaiking e per Balthazar era venuto sicuramente da Bunta, dalla sua abilità con il Nessak e dalle sue conoscenze in fatto di profondità acquatiche: non per niente era un campione di immersioni e aveva una laurea in oceanografia.
In molti si erano chiesti da quanto tempo fosse lì, il mostro. Era quello che, da decenni, centinaia di persone dicevano di aver avvistato? O forse Darius si era ispirato a questa leggenda, per costruirlo? 2  La domanda era rimasta senza risposta, ma questa era stata l’ennesima conferma del fatto che Zela progettasse da tempo immemorabile l'invasione della Terra, visto che, a quanto pareva, c'erano mostri nascosti da così tanto tempo nelle sue profondità.
L'altro evento che cambiò il loro modo di vedere le cose fu che, un giorno, il dottor Daimonji ricevette una richiesta di aiuto dal più improbabile dei personaggi: un illustre scienziato zelano.
Si chiamava Zenon, ed era uno dei capi della resistenza ribelle di Zela, quella parte di abitanti del pianeta che si era ritirata nel sottosuolo, sul lato del pianeta più lontano dal buco nero, in un'unica città fortezza sotterranea, dalla quale si difendeva da Darius e portava avanti i suoi progetti non belligeranti di sopravvivenza.
Il professor Zenon chiedeva asilo politico al dottor Daimonji per la popolazione zelana civile e pacifica, e aiuto e collaborazione, da parte dell'Alleanza Terrestre, per combattere insieme Darius e i suoi mostri.
Daimonji non si fece certo pregare: se c'era una persona che credeva nella pace e nella collaborazione, quello era sicuramente lui.
Il Drago partì per lo spazio, con l'intenzione di intercettare l'astronave in fuga che trasportava Zenon e la sua famiglia e scortarla sulla Terra, su cui gli zelani avrebbero trovato rifugio in cambio di collaborazione. Il Drago e l'astronave arrivarono ad avvistarsi nello spazio profondo, e i loro occupanti si parlarono e si guardarono in faccia attraverso i monitor, su cui apparvero i volti del professor Zenon e della moglie;
tutti arrivarono a pensare che le differenze tra loro fossero davvero minime: gli zelani avevano la pelle di una sfumatura ambrata, il naso più piatto e squadrato e le orecchie a punta.
Briz pensò che non fossero molto diversi da come lei immaginava i begli elfi dei romanzi fantasy di Tolkien e Terry Brooks; i loro occhi, a parte piccoli segni triangolari agli angoli inferiori, che si sfumavano in sottilissime linee lungo le guance, erano uguali a quelli dei terrestri: marroni quelli di Zenon, azzurri quelli di sua moglie, e i loro sorrisi erano pieni di simpatia e speranza. 
Sakon si ritrovò a pensare a Lisa, la kamikaze zelana che mesi prima, per amor suo, aveva trovato la redenzione nella morte. Lisa aveva avuto la capacità di prendere sembianze umane, e ora lui poteva immaginare quale fosse stato il suo vero aspetto: trovò che non sarebbe stata meno bella di una qualsiasi terrestre. Il giovane ingegnere sospirò, chiedendosi quanto tempo ancora sarebbe dovuto passare, per riuscire a smettere di pensare a lei.
Accanto a lui, Jamilah, guardandolo di sottecchi, si chiese la stessa identica cosa, ma Sakon non poteva saperlo. Fabrizia invece, osservandoli, capì; e quello che era sempre stato un sospetto, diventò per lei una certezza: quanto avrebbe resistito Jamilah, ombra onnipresente nella vita di Sakon, a dedicargli la sua vita, a combattere contro il fantasma di Lisa e ad amarlo in silenzio?
Il pensiero di Lisa portò Briz a guardare qualcun altro: il freddo pilota del Drago che, nei confronti della ragazza zelana, aveva provato solo una sprezzante diffidenza, senza capire il valore della sua ammissione di colpa e del suo sacrificio finale. Con sua sorpresa, vide che Pete sembrava molto colpito e coinvolto dalla faccenda di aiutare lo scienziato zelano. Nonostante la sua efficienza e la sua proverbiale concentrazione, la voce del giovane rivelava il massimo rispetto e disponibilità, mentre preparava il Drago a scortare l'astronave verso la Terra.
Fu a quel punto che si scatenò l'inferno: un Mostro Nero, immenso, terribile e letale, si palesò alle spalle dell'astronave zelana. Pete fu abilissimo a mettersi in mezzo per difenderla, e il Gaiking e Balthazar furono operativi e schizzarono fuori nell’arco di pochi secondi. Il mostro fu attaccato su più fronti, ma sembrò non curarsene: la sua missione era quella di colpire l'astronave del professor Zenon, e l'equipaggio del Drago non riuscì a impedirlo, poiché tutto si sarebbe aspettato, ma non quello.
Una salva di missili si abbatté sulla piccola nave aliena, distruggendola senza scampo; dopo di che il mostro, conclusa la sua missione suicida, si lasciò sopraffare e sconfiggere facilmente dal fuoco incrociato del Drago, del Gaiking e di Balthazar.
Il silenzio scese nello spazio, mentre tutti cercavano, sconvolti e costernati, di prendere atto di quella sconfitta, tanto bruciante quanto dolorosa.
Daimonji crollò seduto alla sua postazione, con la faccia nascosta fra le mani. Sanshiro, ancora ai comandi del Gaiking, scuoteva la testa, incredulo, con gli occhi lucidi come tutti gli altri. Fabrizia, ancora connessa dentro alla sua armatura, e le altre due ragazze a bordo, lasciavano scorrere le lacrime sui loro volti senza ritegno. L'unico con gli occhi asciutti era Pete, ma anche lui era impallidito e aveva mormorato un no pieno di incredulità, passandosi una mano tra i capelli e rimanendo a fissare il grande schermo di fronte a lui, affranto e con gli occhi sbarrati; non era tipo da piangere, ma di certo non era meno addolorato degli altri.
Con immensa fatica, Daimonji diede gli ordini di rientro ai suoi ragazzi, la voce carica di dolore e stanchezza. La loro missione di pace era miseramente fallita: Zenon e la sua famiglia erano stati uccisi, e anche se il mostro era stato distrutto, tutti loro sentivano, per la prima volta, il sapore amaro della sconfitta.3
Il Drago spaziale si diresse verso la Terra, con il suo equipaggio avvilito e silenzioso. La voce di Pete ruppe il silenzio all'improvviso:
– Midori! C'è qualcosa che brilla sul radar, alle nostre spalle! Riesci a intercettare un segnale?
La ragazza localizzò l'oggetto che li seguiva e tentò un contatto audio.
– È una capsula di sopravvivenza! – annunciò stupita – Stanno cercando di comunicare con noi!
In pochi secondi, grazie all'abilità di Midori nell'usare i codici di comunicazione, sul grande monitor della sala comandi apparvero due volti zelani, un ragazzo e una ragazza, incredibilmente giovani: lui poteva avere diciassette, forse diciotto anni, la ragazzina non poteva averne più di quattordici. Erano entrambi biondi – i capelli del ragazzo talmente chiari da essere quasi bianchi – i volti sconvolti e addolorati ma compostamente dignitosi, gli occhi pieni di lacrime: ogni particolare di quella giovanissima coppia colpì al cuore ciascun componente dell’equipaggio del Drago. La voce del ragazzo suonò rotta dal pianto a stento trattenuto.
 
Yock-e-Lyra  

– Drago spaziale! Dottor Daimonji, aiutateci, vi prego!
– Vi aiuteremo senz'altro; chi siete, ragazzi? – chiese Doc.
– Siamo Yock e Lyra Zenon, i figli del professore. I nostri genitori si aspettavano che qualcosa potesse andare storto, e ci hanno espulsi dall'astronave con la capsula pochi secondi prima dell'esplosione!
– Pete, apri i pannelli e falli salire a bordo – ordinò il dottore – Riesci a eseguire la manovra da solo, Yock?
– Ce la faccio, dottor Daimonji, grazie.
La capsula, un semplice uovo color acciaio con due piccole ali ai lati, entrò lentamente sulla pista all'interno del Drago.
– Qualcuno di voi vada ad accogliere quei due poveri ragazzini – disse Daimonji.
– Doc, vorrei andarci io, se me lo permette.
Tutti guardarono increduli Pete, che aveva parlato.
– Va bene, vai – acconsentì Daimonji – Sakon, prendi tu i comandi, per il momento. Pete, porta qualcuno con te: io vi aspetto alla stanza di primo soccorso.
Pete si alzò dalla sua postazione e venne prontamente sostituito da Sakon. Senza dire una parola passò accanto a Briz, le lanciò una breve occhiata e le tese una mano: un secondo, e lei era già in piedi al suo fianco, per raggiungere di corsa l'hangar in cui era atterrato il mezzo zelano.
Cinque minuti più tardi erano tutti e quattro da Daimonji, al primo soccorso: Briz sorreggeva Yock, livido e tremante per lo shock di aver appena visto morire i suoi genitori. Gli occhi castani, così simili a quelli del padre, erano dilatati dal dolore e dalla paura; Pete reggeva fra le braccia il corpo esile di Lyra che, a causa del trauma, aveva perso i sensi. Una breve visita decretò che, almeno a livello fisico, i due giovani stavano bene, ma Daimonji decise di sedarli: la loro mente aveva bisogno di una tregua. La grande preoccupazione di Yock, prima di sprofondare nel sonno, fu di consegnare al dottore un dischetto per la conservazione di dati.
– Qui ci sono tutti gli studi che mio padre stava facendo, e tutto quello che avrebbe voluto dirle per dimostrarle la sua amicizia, la sua buona fede e la sua ammirazione per ciò che state facendo per il vostro pianeta… e anche per il nostro popolo.
Daimonji prese in consegna il dispositivo mentre il ragazzo si addormentava, e disse a Briz e Pete di tornare ai loro posti.
Mentre camminavano lungo il corridoio verso la sala comandi, Briz gli chiese:
– Perché hai voluto che venissi io con te, a recuperare Yock e Lyra?
– Perché sei stata l'unica, oltre a Doc, ad aver capito il motivo per cui ho chiesto di andarci io.
– Che ne sai che l'ho capito? Non ho detto una parola.
– Briz, se ci sono due persone che possono capire cosa stanno passando quei due, quelle siamo io e te.
Fabrizia non poté fare a meno di dargli ragione: sapeva che i due giovani zelani avevano sentito la sua empatia nei loro confronti. E per quel che riguardava Pete, lei era stata sicuramente la prima a rendersi conto che, in quei due orfani a cui la vita, come un’onda devastante, aveva tolto ogni affetto, – ma che, nonostante tutto, rimanevano caparbiamente aggrappati ad essa e alla speranza – lui aveva rivisto sé stesso e suo fratello, sei anni prima.
 
* * *
 
Fabrizia e Pete misero i cavalli al passo dopo una folle galoppata sulla spiaggia, i capelli al vento e l'aria di ottobre sulla faccia. Era una giornata bellissima e luminosa, anche troppo per come si sentivano i due componenti dell'equipaggio del Drago.
 
Cavalli-al-galoppo  
 
Quella cavalcata aveva in qualche modo schiarito le loro menti e li aveva riportati alla dimensione di esseri umani, dopo gli avvenimenti dell'ultima settimana.
Yock e Lyra erano stati portati al sicuro in un luogo segreto, ma lontani da lì; il dottor Daimonji si era reso conto con costernazione che le spie di Zela avrebbero potuto essere dovunque, la base al Faro di Omaezaki non sarebbe rimasta un segreto ancora per molto, e lui aveva deciso di dotarla di guardie armate ad ogni ingresso e lungo il perimetro recintato, che comprendeva anche le scuderie e il boschetto che le proteggeva. Nonostante fossero comunque liberi di andare dove volevano, purché sempre armati e dotati di auricolari, i ragazzi cominciavano a sentirsi in prigione.
I cavalli sbuffarono, mordendo i freni e schiumando dalla bocca. Fabrizia sospirò, passandosi le dita tra i capelli spettinati.
– Cos’hai? Sembri malinconica – constatò Pete, sapendo comunque di non essere da meno.
– Yock e Lyra… Sono solo due ragazzini, come quelli terrestri, e hanno passato e visto già troppo. Mi ci sono affezionata, e non so quando li rivedrò, mi mancano già… e mancano anche a te, lo so.
– Ricominci a giocare alla psicologa? Non ce n'è bisogno… l'hanno capito tutti che quei due mi fanno pensare a me e Tom; solo che tu ci sei arrivata prima degli altri.
– C'è una cosa che devo dirti, Pete, e forse non ti piacerà; ma tanto ormai, noi due, le cose spiacevoli abbiamo imparato a dircele senza troppi problemi, no?
– Okay, sentiamo.
– Riguarda Sakon… e Lisa.
– Pensi che negli ultimi giorni non ci abbia pensato? Che non abbia rivalutato lei, e quello che ha fatto?
– Non sono nella tua testa, Richardson. Se l'hai fatto ne sono felice, ma un giorno, a Sakon, dovrai chiedere scusa, per le parole dure e orribili che dicesti dopo la morte di Lisa. E non voglio che tu lo faccia perché te lo chiedo io: dovrai farlo perché tu, sentirai di volerlo fare.
– Lo so.
La risposta fu laconica e appena sussurrata, con gli occhi fissi davanti a sé.
Proseguirono in silenzio, al passo, per far asciugare il sudore dei cavalli al tiepido sole autunnale; il discorso era chiuso, e a Briz bastava averglielo detto.
Deviarono i cavalli su un sentiero sovrastante il terrapieno che delimitava il fondo della spiaggia, prima della boscaglia. Più avanti, ormai poco lontano dal Faro, arrivarono in vista di quello che tutti chiamavano semplicemente l'Albero. Briz, onestamente, non sapeva nemmeno che cosa fosse: era solo un grande, bellissimo, frondoso albero che si ergeva sul ciglio del terrapieno, e che ora sfoggiava una miriade di colori autunnali caldi e brillanti. Spesso lei si fermava lì, a disegnare, a leggere o anche solo a guardare l'oceano.
Lo raggiunsero e scesero da cavallo, legando gli animali a un ramo basso. Briz si sedette sull'erba, con le braccia sulle ginocchia piegate, e rivolse il viso abbronzato al sole; Pete andò a sedersi accanto lei, e una leggera brezza agitò i capelli scuri di Fabrizia, portandogli alle narici un'ondata di profumo che, ultimamente, aveva cominciato a notare, ogni volta che le passava accanto.
– Briz, che profumo usi? – se ne uscì all'improvviso, pentendosene subito dopo.
Possibile che proprio lui, il principe dell'autocontrollo, si fosse lasciato sfuggire una domanda così stupida e frivola? Infatti Briz lo guardò con un'espressione stupita che era tutta un programma.
– Profumo? Io? – chiese, perplessa; poi si annusò una manica – Sniff, sniff… In questo momento direi… Eau de Cheval Numero 5.
– Cosa? Eau de… – Pete si interruppe, afferrando il senso della battuta e scoppiando in una risata.
Forse per la tensione accumulata in quegli ultimi giorni, Briz ne fu contagiata, e si ritrovarono a ridere come due cretini, seduti sotto all'albero, con i volti nascosti tra le braccia appoggiate alle ginocchia.
Obi-wan e Indy sollevarono le teste dall'erba che stavano brucando e drizzarono le orecchie, guardandoli incuriositi: gli umani erano davvero strani, sembrarono pensare; questi due in particolare.
– Oddio, non è possibile! – ansimò Fabrizia, lasciandosi cadere su un fianco, battendo ripetutamente un palmo della mano sull'erba, completamente travolta dall’accesso di risa – Nooo… non si può ridere così per una boiata del genere! Non so nemmeno come mi sia venuta fuori!
Intanto, però, continuò a farlo, pensando che era la prima volta in cui vedeva anche Pete ridere così, senza trattenersi con la sua solita, ferrea autodisciplina, mentre anche lui finiva sdraiato, con le mani sulla faccia, tentando di arginare l'ondata di ilarità.
L'attacco di ridarella durò ancora un bel po’ e quando, molto lentamente, passò, entrambi si sentirono meno malinconici e più rilassati. Con i respiri pesanti, ancora spezzati, a tratti, da brevi risate, gli occhi alle nuvole che si rincorrevano nel cielo azzurro, capirono tutti e due di aver avuto davvero bisogno di quella risata liberatoria.
– Dai, davvero, ogni volta che mi passi vicino sento un profumo… di gelsomino? – fece Pete girandosi su un fianco, guardando la ragazza sdraiata accanto a lui e dandosi del deficiente: ma perché continuava a battere su quell'argomento?
E perché in quel momento trovava Briz incredibilmente… bella? E… invitante?
Nemmeno a farlo apposta, Fabrizia tese le gambe e si stiracchiò, con le braccia allungate sopra la testa, in un inconsapevole richiamo.
Oddio, aveva davvero pensato a un termine così? Invitante? Quella era la fanciullina selvatica e maschiaccia che diceva le parolacce! Senza sapere bene per quale motivo, si rimise rapidamente seduto.
– Ti sei fissato col profumo, eh? – cominciò Briz, senza sospettare minimamente quali inquietanti pensieri passassero nella mente di Pete – Niente di che, comunque: è solo il mio doccia-shampoo al biancospino – spiegò, arrotolandosi una ciocca di capelli castani attorno a un dito – Come mai ti incuriosisce tanto? – gli chiese, pensando fugacemente che le dispiaceva che non fosse più disteso sull'erba accanto a lei; in un attimo era tornato teso e sulle sue.
– Così… è buono… – rispose lui, evasivo.
"Perché ormai me lo sogno la notte" pensò invece "Ma non te lo dico nemmeno se mi minacci di morte".
Tornò a guardare l'oceano e scorse una figura solitaria in riva al mare.
– Quello è Fan Lee – disse Briz, seguendo lo sguardo di Pete e rimettendosi a sedere a sua volta.
– Già… So che viene spesso ad allenarsi da queste parti. Non lo sapevi che è un campione di arti marziali?
– Sì, ma non l’avevo mai visto in azione – rispose aguzzando la vista, per seguire i movimenti del giovane cinese.
Fan Lee indossava il classico kimono bianco, stretto in vita da una cintura nera. Pur essendo alto e spigoloso, i suoi movimenti erano fluidi ed eleganti, e catturarono l'attenzione di Briz che, nel giro di qualche minuto, cominciò a riconoscerli. Si alzò in piedi e sussurrò:
– Bassai dai
– Che cosa? – chiese Pete.
– Fan Lee sta eseguendo un kata, un esercizio in cui praticamente combatte contro degli avversari immaginari: questo si chiama Bassai dai.
– Da quando ti intendi di karate?
– L'ho praticato per un paio d'anni – fu la semplice risposta di Briz.
Pete la guardò sconcertato: se c'era uno sport nel quale non riusciva a vedere Fabrizia, era il karate. Per quel po' che ne sapeva, le arti marziali erano molto basate sulla concentrazione, la sicurezza in sé stessi e l'autocontrollo, tutte cose di cui, più di una volta, l'aveva accusata di totale mancanza. A volte pensava davvero di aver sbagliato un mucchio di cose sul conto di questa sciroccata.
– Hai mai pensato di ricominciare? – le chiese a bruciapelo.
– Sì… ma poi non l'ho fatto – gli rispose, senza staccare gli occhi dai movimenti di Fan Lee.
– Potresti farlo ora, insieme a lui – provò a suggerirle.
– Nooo, non voglio fargli perdere tempo: lui è un campione…
– Io non credo che lo considererebbe tempo perso, proprio perché è un campione.
– Magari un giorno glielo chiederò…
– No, devi farlo adesso! Altrimenti non lo farai più, lo so.
Briz guardò prima Pete, poi Fan Lee, che stava terminando il suo esercizio; si accorse di ricordare perfettamente il Bassai dai, che a suo tempo aveva voluto testardamente imparare, nonostante fosse appannaggio delle cinture superiori. Seguì affascinata quei movimenti, quasi a respirare in sincronia con Fan Lee, accennandone alcuni con le mani, senza nemmeno rendersene conto.
L’amico concluse il kata accompagnando l’ultimo gesto con un urlo, al quale per poco lei stessa non fece eco. Maledizione, non credeva di avere così tanta nostalgia di questo sport… e questo biondone rompiscatole se n'era accorto solo guardandola!
– Va bene: glielo chiedo – disse, prima di dirigersi verso la riva del mare – Se vuoi puoi tornare alle scuderie, sei perfettamente in grado di farlo da solo.
– Non ci penso nemmeno: voglio vedere come va a finire – replicò lui, seguendola.
Fan Lee li aveva visti già da un po' arrivare a cavallo e, con la coda dell'occhio, vide Fabrizia avvicinarsi e fermarsi a pochi metri da lui. Lentamente si girò e le fece il saluto orientale, chinandosi in avanti, le braccia lungo i fianchi e lo sguardo fisso nel suo. Briz ripeté lo stesso movimento, usando le parole che aveva imparato a suo tempo in palestra: – Oss, Sensei – che più o meno era come dire “Salve, maestro”.
Lui si rese subito conto, dalle parole e dalla postura, che la ragazza sapeva quel che faceva.
– Conosci il karate, Briz?
– Un po': ero cintura arancione, ma ho smesso un paio d’anni fa.
– Quando… hai perso tuo fratello…? – indagò Fan Lee.
– Ci allenavamo insieme. Dopo che è morto… non sono più riuscita a mettere piede al dojo.
Fan Lee sospirò e annuì in silenzio. Briz sentì nuovamente quell'affinità con lui, come le era capitato quando lo aveva conosciuto e poi in occasione della visita di Tom, quando, litigando, aveva detto a Pete che suo fratello Ale era morto; per non parlare di quando aveva rivelato a tutti loro che lei e Ale erano gemelli. Fan Lee era molto sensibile all'argomento fratelli, e adesso che sapeva di condividere con lui una tragedia simile, ne capiva il motivo.
– Fan Lee, io… non so i particolari di come sia accaduto, ma so di tuo fratello – gli disse sommessamente.
– Ho immaginato che tu sapessi. Ti dirò come è successo, poi, forse, ti chiederò di non parlarne più, perché mi fa troppo male. È accaduto durante la seconda battaglia, poco prima che tu tornassi dall'Italia, a Hong-Kong, la mia città natale. In quell'occasione avevo ritrovato il mio fratello minore, San Lee: il destino ci aveva separati da piccoli, quando rimanemmo orfani… e me l'ha fatto ritrovare solo per togliermelo di nuovo. Avrei dato la mia vita per difenderlo e proteggerlo, invece è accaduto il contrario: un soldato zelano, uno di quegli orribili Uomini Uccello, mi ha sparato, e San si è messo in mezzo prima che potessi fare qualcosa. È morto fra le mie braccia per salvarmi la vita, senza che potessi fare niente per lui. Per questo capisco cosa provi, quando pensi ad Alessandro: lui e San… sono entrambi morti a causa di questa guerra. E… come hai detto anche tu una volta, niente e nessuno potrà restituirceli, nemmeno la vendetta.
– No, niente potrà ridarceli; però io sono più fortunata di te – gli disse con gli occhi lucidi – Io ho diciannove anni di vita insieme a lui, da ricordare.
Fan Lee le accarezzò una guancia, asciugando un'unica lacrima che le era scivolata sul viso, e annuì. Briz capì che il discorso era chiuso, ma anche per lei era più che sufficiente.
Pete aveva ascoltato quella storia, ricordandola in modo nebuloso: quando era successo lui era a bordo del Drago, e gli era stata raccontata dopo. Ricordava che Fan Lee ne era uscito distrutto, ma lui, pur essendo dispiaciuto, non era stato capace di dirgli nulla, un po' perché ancora si conoscevano appena, un po' perché, fu costretto ad ammettere, lui era ancora molto freddo e distante dai suoi compagni, in quel periodo: non aveva ancora conosciuto la squinternata. E continuava tuttora a chiedersi, seriamente, se la presenza nella sua vita di Briz Cuordileone fosse un bene o un male.
Tornò a rivolgere l'attenzione ai due compagni, avvicinandosi a loro di qualche altro passo.
– Ti piacerebbe ricominciare a praticare il karate? – stava chiedendo Fan Lee a Briz.
– Beh, a dire il vero, sì… ma capisco che non ti sarebbe di grande aiuto, allenarti con me.
– Questo lascialo decidere a me. Sapresti elencarmi i cinque punti del Dojo-kun? – le chiese all'improvviso.
Briz non si fece prendere in contropiede e glieli recitò:
– "Cerca di perfezionare il carattere. Rafforza instancabilmente lo spirito. Percorri la via della sincerità. Osserva un comportamento impeccabile. Astieniti dalla violenza e acquisisci l'autocontrollo". 
Nell’ascoltare quelle regole, Pete si disse che se ogni persona le avesse seguite, quasi tutti problemi del pianeta si sarebbero risolti in un amen.
– Molto bene – commentò Fan Lee – Se io ti porto oy-zuki, gyaku-zuki mae-geri, sapresti ancora parare con ay-uké, uchi-uké, e gedan-barai4  
Briz socchiuse gli occhi, visualizzò le mosse nella sua mente e rispose: – Credo di sì…
– Nononono! Puoi dire di sì o di no: niente credo!
Quelle parole le ricordarono i personaggi di due vecchi film: uno era “Karate kid”, in cui il maestro Miyagi insegnava il karate a uno sprovveduto ragazzino americano; l'altro era “L’impero colpisce ancora”, della saga di Star Wars, nel quale il piccolo e verde maestro Yoda addestrava Luke Skywalker per farne un cavaliere Jedi. Proprio come Yoda e Miyagi, pareva che anche Fan Lee non amasse le mezze misure.
Si mise rapidamente in guardia; un attimo solo, e Fan Lee partì rapidamente con i colpi che prima le aveva annunciato: Briz usò tutte e tre le parate che lui le aveva suggerito, e dopo l'ultima le venne spontaneo portare lei un pugno accompagnato da un urlo che conteneva velocità, forza e un pizzico di cattiveria, e che lasciò Fan Lee piuttosto impressionato, anche se lo parò con una certa facilità. Rimasero qualche secondo ansanti, guardandosi negli occhi, le gambe divaricate e flesse, Briz col pugno ancora all'altezza dello sterno del compagno. Lentamente si raddrizzarono, senza mai perdere il contatto visivo, e si fecero di nuovo il saluto, inchinandosi.
– Allenarmi con te sarà un piacere, Fabrizia-san – disse Fan Lee con uno dei suoi rari sorrisi.
– Grazie, Sensei. E per me sarà un onore – replicò Briz.
– Domani a quest'ora sarò qui, se vuoi. Quando farà più freddo, ci alleneremo in palestra, compatibilmente con impegni vari e… Orrore Nero permettendo.
– Farò il possibile. Grazie ancora, Fan Lee.
– Ringrazia Pete – rispose il cinese indicandolo – Tanto ho sentito che è stato lui a convincerti.
– Non ho faticato molto, credimi – disse Pete avvicinandosi a loro.
– Non sottovalutare questa ragazza, capitano Richardson, potrebbe riservarti delle sorprese – disse Fan Lee.
– Me ne sto accorgendo – fu la risposta.
Tacque qualche secondo, poi riprese: – Senti, io… mi ricordo di tuo fratello San. Mi dispiace per quello che è accaduto… E anche per essere stato così… cafone e maleducato da non dirti nulla al momento…
– Va bene così, tranquillo. Sappi solo una cosa, Pete: Briz ed io abbiamo perso un fratello ciascuno. Tu ce l'hai ancora, non dimenticartelo: amalo e abbine cura, avrai poche altre cose nella vita, che varranno quanto lui. La vita può essere dura, sorprendente, bella e terribile: nello spazio di un attimo, una sconfitta può alternarsi a una vittoria, una felicità a un dolore, una lacrima a una risata… come la marea sulla riva del mare, un'onda prende, e un’onda dà. Ma questa esistenza altalenante, a suo modo, può essere persino seducente, basta saper cogliere i momenti giusti e goderseli.
Inevitabilmente, alla mente di Pete si riaffacciò il suo passato, quello di Briz, quello appena saputo di Fan Lee, e le dure battaglie dei giorni precedenti, le disavventure trascorse di Yamatake, i ragazzini zelani… tutto in netta contrapposizione con le sensazioni di poco prima: il galoppo dei cavalli, il rumore del mare, il calore del sole sul viso e il vento tra i capelli… o il profumo di biancospino… Si chiese se davvero sarebbe mai più stato capace di lasciarsi sedurre dalla vita e dal fascino delle piccole cose.
Gesù, si disse passandosi una mano sulla faccia: quelli, più che da Fan Lee, sembravano ragionamenti by Briz Cuordileone, molto poco nelle sue corde!
Non fu capace di dire nulla e assentì in silenzio. Probabilmente, per quanto riguardava suo fratello, Fan Lee aveva persino ragione… Se solo avesse saputo dov'era, Tom!
Guardò Briz con aria interrogativa, come per chiederglielo; lei interpretò correttamente quello sguardo, ma scosse appena la testa: non era ancora ora.
Salutarono Fan Lee, e tornarono verso i cavalli.
– Era a Sakon, che ti avevo detto di chiedere scusa.
– Beh, da qualche parte si dovrà pur cominciare. Intanto ho visto che non è così difficile.
Briz lo gratificò di un sorrisetto soddisfatto e lui ripensò alla grinta con cui si era difesa dai colpi di karate dell'amico.
– Accidenti, fanciullina, sai che mi hai fatto paura? Spero che adesso sfogherai i tuoi attacchi di aggressività in palestra, invece di prendere me a parolacce!
– Non ti insulto più da un pezzo, e lo sai – lo rimbeccò – Dovrò fare richiesta ai piani alti, per far allungare le mie giornate di cinque o sei ore… non ne avevo già abbastanza da fare! – aggiunse poi divertita, slegando Indy, mentre Pete faceva lo stesso con Obi-wan.
– Ma se non vedevi l'ora: la prossima volta scoprirò che Bunta ti dà lezioni di immersione con le bombole.
– Ma si capisce! E poi mi faccio anche insegnare il sumo da Yamatake!
La sola idea li fece scoppiare a ridere di nuovo.
– Oggi non smetti di sorprendermi, Richardson: prima ti scusi con Fan Lee per la tua cafonaggine, e poi, in meno di mezz'ora, ridi per ben due volte!
– Per forza, Briz: se fossimo in un castello medioevale, tu saresti sicuramente…
– …il giullare di corte – concluse lei, togliendogli le parole di bocca.
– Ah, era fin troppo ovvia, come battuta; non arriverò mai al tuo livello di stupidera!
– Puoi scommetterci! – finì Briz, mentre ridevano ancora risalendo in sella.
Briz lo guardò e, ripensando alla filosofia di Fan Lee, constatò che l’onda di quella giornata si era presa la malinconia, per poi dar loro delle sane risate; un pensiero le balenò nella mente:
"Che Dio mi aiuti, Capitano Richardson: adoro vederti ridere".
                                                                  
> Continua…
 
 
 
Note:
1 La storia di Yamatake è nell’episodio n° 9, “Le piste di Nazca”.
 
2 Questo invece è lontanamente ispirato al n° 42, “Il Mostro di Loch Ness”.
 
3 C’è un episodio, che ricordo pochissimo, con una famiglia (o una comunità) zelana, che collabora col Dottor Daimonji, rimettendoci la pelle, ma io mi ci sono ispirata molto vagamente. Qui è quasi tutto inventato, soprattutto i ragazzini superstiti Yock e Lyra.
 
4 Tutte queste parolacce in giapponese, sono nomi di pugni, calci e parate. Il Bassai Dai è davvero un kata del Karate, significa più o meno, Espugnare la fortezza. Il dojo è la palestra intesa come scuola,  e il Dojo Kun, come avrete capito, è il codice di comportamento che deve seguire chi pratica questa disciplina. Il vero nome del kimono da karate è Karategi, la cintura intesa come oggetto si chiama Obi, mentre intesa come livello di preparazione (cintura bianca, gialla, arancio, verde, blu, marrone e nera) si chiama Kyu.
Ho imparato queste cose a sedici anni, quando arrivai alla cintura verde, poi anche mio figlio ha praticato il karate per quattro anni ed è stato più bravo, è arrivato alla marrone, prima di abbandonare per vari motivi.
 


 
Il disegno di Briz e Pete a cavallo è dedicato a Kamony, così la smette di rompere dicendo che non le dedico niente. (Mo’ scherzo, lei lo sa!)  Volevo farne uno un po’ speciale, spero di esserci riuscita…
E grazie sempre e comunque a chi continua a leggere in silenzio, a recensire, (chi poi volesse cominciare a farlo è sempre il benvenuto…) e a chi ha messo la storia in qualche lista.

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Capitolo 12
*** 11 - Giochiamo ai pompieri? ***


~ 11 ~ 
GIOCHIAMO AI POMPIERI?

 
Sidney.
Il Mostro Nero di turno aveva attaccato il cuore pulsante dell'Australia, e dall'arrivo del Drago sul posto non ne era andata bene una.
Il mostro sembrava scomparso dopo aver seminato morte e distruzione; Bazzora era uscito per una rapida esplorazione, e subito dopo era toccato a Sanshiro con il Gaiking e a Fan Lee con lo Skylar.
Mentre Briz era pronta per uscire con il suo robot felino, il mostro era tornato all'attacco: prima che Balthazar fosse in grado di lanciarsi all’esterno, un'onda di raggi paralizzanti aveva investito il Drago mentre era ancora in volo. Si era bloccato tutto, compresi i pannelli principali sul petto dell’astronave, e niente era più in grado di uscire o entrare. Le armi erano inutilizzabili e la funzione di volo quasi completamente compromessa: Pete riuscì miracolosamente a compiere un atterraggio di fortuna, dal quale tutti uscirono più o meno ammaccati.
Il Drago completamente inerme! Non era mai successo niente del genere! Solo le comunicazioni funzionavano, ma non a pieno ritmo. Sanshiro riuscì a mettere fuori uso l'arma paralizzante del mostro, simile a un grosso rospo, e ad afferrarlo, per poi trasportarlo in volo allontanandolo dalla città, seguito dallo Skylar; la battaglia era in mano loro, gli altri erano completamente impotenti.
I lavori sul Drago cominciarono immediatamente, con Sakon e Daimonji al comando, coadiuvati dalla sempre presente Jamilah: apparve subito ovvio che ci sarebbe voluto parecchio.
– Sakon, dimmi cosa posso fare – disse Pete, ansioso di rendersi utile e di rivedere operativo il suo Drago.
– Al momento niente, eventualmente ci servirai quando avremo ripristinato le funzioni di base, ma per ora…
– Eventualmente, eh? – brontolò Pete, come tra sé.
Briz, tornata in plancia poiché Balthazar era impossibilitato ad uscire, si accorse della sensazione di inutilità che era crollata addosso al pilota: era la stessa che provava lei, al pensiero di lasciare Sanshiro e Fan Lee da soli, alle prese col mostro.
Lo sentì imprecare sottovoce:
– Maledizione, non sopporto di stare qui senza fare niente.
– Lo so, mi sento così anch'io – disse lei.
– Briz… una volta ti dissi che io sono la mente del Drago. Beh, vuoi la verità? La mente del Drago è Sakon, non io – proseguì lui, in tono avvilito – Io sono soltanto quello che lo muove spostando leve e premendo pulsanti. Chiunque potrebbe farlo.
– Non è vero che chiunque potrebbe farlo: hai eseguito un atterraggio di fortuna da maestro, semplicemente spostando leve e premendo pulsanti. E se Sakon è la mente del Drago… allora tu diventa il suo cuore: al Drago serve anche quello!
– Oh, ma certo: Dragonheart! Tu e le tue romanticherie! – la prese in giro sarcastico – Già mi accusi di non riuscire nemmeno a ritrovare il mio, di cuore! Figuriamoci essere quello del Drago!
– Ma che cavolo ti prende, Pete? Un attacco di frustrazione acuta? Falla finita, dai: ognuno ha i suoi compiti e li esegue al meglio delle sue possibilità. E piantala di commiserarti, che non è proprio nel tuo stile! – lo rimproverò Briz, mollandolo lì per andare da Midori, che continuava ad occuparsi delle comunicazioni.
Vedere Pete avvilito le fece uno strano effetto; meglio allontanarsi da lui, perché le era venuta una strana voglia di… boh… toccarlo, per consolarlo; qualcosa come accarezzargli i capelli o… Aahhh! Ma che diavolo le veniva in mente!
Si concentrò sul lavoro di Midori: la battaglia di Skylar e Gaiking contro il mostro proseguiva lontano di lì, e loro potevano a malapena capire cosa stesse succedendo.
A un certo punto, una voce estranea si intromise:
– Drago Spaziale, qui è il capitano Hogan, della Squadra 4 dei pompieri di Sidney. Abbiamo un'emergenza, potete aiutarci?
– Purtroppo il Drago Spaziale è in avaria. Di cosa si tratta? – chiese Midori.
– Una piccola clinica ha subito gravi danni: grazie agli allarmi tempestivi è stata evacuata, ma pare ci siano ancora delle persone bloccate all’interno. Le altre nostre squadre sono quasi tutte impegnate in altri punti della città, solo la 6 del capitano Russell è riuscita ad arrivarci, prima che il mostro devastasse le strade e ne precludesse il raggiungimento.
Doc intervenne immediatamente: – Abbiamo ancora Bazzora nelle vicinanze, forse possiamo mandarvi qualcuno, ma a mezzi, per il momento, siamo scarsi anche noi.
– Qualunque aiuto, anche piccolo, sarà il benvenuto: vogliamo salvare quelle persone.
Bazzora era fermo ai piedi del Drago, Yamatake in attesa; Doc guardò gli altri ragazzi e non ci fu bisogno di dire altro: Bunta si precipitò fuori dall'unico piccolo passaggio per il personale rimasto agibile.
Briz lanciò un'occhiata di sguincio a Pete:
– Allora, Capitan America? Giochiamo ai pompieri? – lo provocò, ricordando la frase beffarda con la quale l’aveva presa in giro mesi addietro, durante il litigio tragico; poi gli girò le spalle, seguendo Bunta all'esterno. A Pete non rimase altro da fare se non seguire i compagni: almeno avrebbero fatto qualcosa di utile.
Bazzora giunse nei pressi dell’ospedale: la Squadra 6 guidata dal capitano Russell – un tipo competente e deciso, anche se piuttosto arrogante – non riusciva ad entrare a causa del crollo di parte della struttura. Yamatake scavò col suo mezzo una specie di galleria e sbucò all'interno della costruzione, aprendo una strada anche per il manipolo di vigili del fuoco, che si divisero rapidi per i vari reparti. Bunta e Yamatake seguirono le indicazioni di Russell e si diressero a perlustrare l'ala ovest, mentre a Pete e Fabrizia toccò quella est.
– Non posso crederci! Guarda che reparto ci è toccato! – esclamò Briz vedendo le indicazioni.
– Proprio la pediatria… Briz, cerca di non lasciarti influenzare troppo dalle emozioni, okay? – le disse Pete immaginando, conoscendola, quanto sensibile potesse essere la ragazza, sull'argomento bambini. Lei non commentò e salirono di corsa nel reparto, percorrendo due rampe di scale ancora agibili e raggiungendo un atrio, dal quale si accedeva alle degenze attraverso una porta tagliafuoco.
Nel corridoio l'aria era calda, secca e polverosa; c’era sentore di fumo, e il pavimento era disseminato da calcinacci staccatisi da alcune pareti, al momento solo percorse da brutte crepe: difficile dire quanto avrebbero retto.
Ispezionarono le stanze una per una e Briz a un certo punto si bloccò sulla soglia di una di esse, agghiacciata, vedendo spuntare, da sotto un pesante scaffale rovesciato, il busto di un'infermiera. Insieme, riuscirono velocemente a liberarla, purtroppo solo per constatare che per la donna non c'era più niente da fare.
Lei si sentì totalmente impotente: esitò, inginocchiata accanto al cadavere, pallidissima e con le labbra tremanti. La morte violenta, vista così da vicino, in un contesto tanto umano come poteva essere un ospedale, le fece quasi più impressione di un Mostro Nero che portava devastazione.
Pete la riscosse con una stretta sulla spalla.
– Briz…
– Lo so – disse lei sommessamente, rialzandosi – “Non possiamo salvarli tutti”, giusto?
Pete chiuse gli occhi e scosse appena la testa, rassegnato quanto lei.
– No, non possiamo. Forza, magari qualcuno che ha bisogno di noi, c'è.
A conferma di quelle parole, i due furono raggiunti da alcune grida di aiuto e dal suono di un pianto incessante. Oltre l’angolo del corridoio, un grande armadio metallico si era rovesciato e bloccava la porta di una stanza; al di là di essa si sentivano alcune voci disperate. Briz e Pete riuscirono a spostare un po’ l’armadio, quanto bastava per far aprire parzialmente la porta, e riuscirono a vedere tre persone terrorizzate.
La più grande poteva avere forse sedici anni: una biondina che teneva in braccio una bambina in lacrime, che di anni non poteva averne più di un paio; nonostante la differenza d’età, si vedeva a occhio che erano sorelle. Il terzo era un ragazzino bruno di circa dieci anni, con due immensi occhi castani spalancati dalla paura.
– Passami la piccola, presto! – ordinò Pete all’adolescente, la quale obbedì prontamente facendo passare, attraverso l’esigua apertura, la bimba che venne afferrata dal capitano.
Poi la ragazza spinse fuori il maschietto.
– Vai tu, Luke, forza! – lo esortò, mentre anche Pete, posata a terra la bambina, aiutava il ragazzino.
La biondina rimase per ultima, dando prova di altruismo e coraggio, infilandosi a fatica nel pertugio e riuscendo anche lei a guadagnare il corridoio aiutata dal pilota del Drago.
Briz si occupò dei due più piccoli: il bambino sembrava vagamente catatonico, e il suo nome, insieme all’immagine che campeggiava sul petto del suo pigiama, – un inquietante primo piano di Darth Vader – le diede un’idea per tentare di distrarlo dal terrore.
– Ehi, Luke Skywalker! – esclamò, cercando di incoraggiarlo arruffandogli i capelli – Qui dobbiamo svignarcela, e di corsa! Dobbiamo uscire dalla Morte Nera, prima che esploda.
Il bambino si riscosse, sorpreso che quella sconosciuta conoscesse i protagonisti di Star Wars.
Pete prese in braccio la bimba e si avviò di corsa nel corridoio, domandandosi se sarebbero riusciti a portare in salvo almeno questi tre, che già tossivano e ansimavano.
 
Pete-Annie  
 
– Sapete di nessun altro? 
– No, non che io sappia – rispose l’adolescente, che lo seguiva rapida insieme a Briz e a Luke.
– Forza, allora, tutti oltre la porta antincendio, nell'atrio! Là è ancora abbastanza sicuro!
Mentre correvano, un boato alle loro spalle annunciò il crollo di una parete sul fondo, da cui fecero capolino alcune fiammate. L'aumento di calore mise loro le ali ai piedi ma, passando davanti a una stanza, – quella in cui avevano trovato la povera infermiera – Pete si fermò in scivolata e passò la piccola a Briz.
– Andate fuori, voi! Io arrivo subito, ho visto qualcosa!
– Pete, ma sei pazzo? Fra pochi minuti qui si scatenerà l'inferno! Non possiamo salvarli tutti, me l'hai insegnato tu!
– E tu mi hai insegnato che dobbiamo salvare quelli che possiamo! Avanti, uscite nell'atrio e fai prendere fiato ai ragazzini! Un paio di minuti dovreste averli, ma non di più. Se nel frattempo non sarò tornato, battetevela, e alla svelta!
Briz non riuscì a replicare: Capitan Richardson l'aveva stupita per la milionesima volta, ed era sicura che non sarebbe stata nemmeno l'ultima. Con la bimba bionda fra le braccia, Luke attaccato alla sua cintura e la ragazzina alle calcagna, Fabrizia si precipitò oltre la porta antincendio e se la richiuse alle spalle, cercando un attimo di tregua nell'atrio, dove l’aria era più respirabile. Spinse il maniglione del portone che dava sulle scale e studiò la situazione: non avevano più l’aria molto sicura, dal piano terra cominciava a salire del fumo denso. Richiuse l’ingresso e si diresse in fondo a un corto corridoio, dove una porta a vetri sembrava portare a una scala antincendio esterna, sul lato dell’edificio opposto a quello da cui erano entrati.
Fece sedere i bambini a terra perché riprendessero a respirare, e si accosciò di fronte a loro, anche lei un po’ ansante; intanto non perdeva di vista il tagliafuoco oltre il quale aveva lasciato il Capitano.
– Come vi chiamate? – domandò Briz alle bambine, per distrarre loro dal pericolo e sé stessa dal pensiero di Pete.
L'adolescente bionda rispose: – Mya, e questa è mia sorella Annie: dovevano dimetterla oggi pomeriggio, io ero qui per farle compagnia fino all'arrivo dei nostri genitori. Anche Luke sta bene, suo padre era sceso di sotto a prendere un caffè, in attesa della lettera di dimissioni… e non sappiamo niente di lui. E i nostri genitori… saranno terrorizzati… – le parole le uscivano come un fiume in piena, forse nel tentativo di non farsi travolgere dal panico – Voi non siete pompieri – constatò poi, guardando il giubbotto viola di Fabrizia, con il simbolo del leone ricamato.
– No, facciamo parte dell'equipaggio del Drago Spaziale. Io sono Fabrizia Cuordileone, ma puoi chiamarmi Briz.
Luke si illuminò tutto, nonostante fosse impaurito e in pensiero per la sorte del padre: – Ma sei la pilota di Balthazar il Leone! – esclamò, dimenticando per qualche attimo il pericolo.
– Già, pare proprio di sì – confermò lei, poco sicura che l’essere diventati famosi come delle rockstar, fosse una buona cosa per la truppa del Drago.
– Ma… allora… Lui è… – balbettò Mya, arrossendo e indicando la porta antincendio chiusa – …è Pete Richardson, il pilota del Drago!
– Esattamente – rispose Briz, soddisfatta che i bambini non fossero troppo agitati, e cercando di non pensare perché Pete ci mettesse tanto: i due minuti erano agli sgoccioli.
– Accidenti, è persino più figo della foto che ogni tanto fanno vedere in TV! – esclamò Mya, con l'entusiasmo tipico della sua età.
Ma guarda un po’! Stavano rischiando la vita, tuttavia alla ragazzetta non era sfuggita l’avvenenza del loro Capitano. Briz decise di seguire quella scia, per tenerli distratti.
– Quanti anni hai, Mya? – le chiese rialzandosi in piedi, con lo sguardo sulla porta tagliafuoco.
"Avanti, Richardson, che diavolo stai facendo? Muoviti!" lo incitò col pensiero.
– Quindici – rispose intanto la biondina.
– È troppo vecchio per te, tesoro: lui ne ha almeno una decina in più – la avvertì, con un sorriso che nascondeva l'apprensione, mentre si dirigeva alla pesante porta ancora chiusa.
Che succedeva di là? Si sentivano rumori di piccoli crolli, e crepitio di fiamme. Il tempo stabilito era passato da alcuni secondi, se Pete non fosse tornato nel giro di pochissimo, sarebbero stati davvero costretti ad andarsene senza di lui: il solo pensiero la fece inorridire.
Poi sentì un urlo: – Briz! Apri la porta!
Lei obbedì prontamente, e fu come aprire la porta dell'inferno!
Pete si precipitò oltre il tagliafuoco, mentre Briz richiudeva a tutta velocità su un mare di fiamme. Il giovane si tuffò letteralmente nell’atrio, rotolando per terra e girandosi sulla schiena per non schiacciare il fagotto che reggeva tra le braccia.
– Ma che diavolo… Perché ci hai messo tanto? – lo rimproverò Briz, aiutandolo a rialzarsi, mentre lui tossiva, col viso annerito dal fumo e dalla polvere – Stai bene? – gli chiese, preoccupata.
– Credo di sì… e credo anche lui… o lei – rispose Pete, scostando la copertina in cui era avvolto un neonato di non più di tre mesi, che aveva cominciato a strillare come un'aquila.
Il calore cominciava a diventare insopportabile anche lì: dovevano andarsene subito e trovare un'uscita.
– Briz, prendilo tu: è più leggero, e io non so nemmeno come maneggiarlo, sinceramente – disse Pete, mettendole in braccio il neonato e dirigendosi verso gli altri.
– Fantastico! E cosa ti fa pensare che invece io sì? – brontolò lei, mentre obbediva prontamente.
– Andiamo, fanciullina, fai la donna, una volta tanto! Io prendo le bambine, tu pensa a Luke e al piccolo! – e così dicendo sollevò di nuovo Annie, afferrò Mya per un braccio, e si diresse alla porta a vetri che dava sulla scala metallica esterna.
La porta col maniglione antipanico era bloccata e, per un attimo, rimasero tutti attoniti; Pete sfoderò il fulminatore e con poche cerimonie sparò nella serratura, prima di avventurarsi sulla scala antincendio che tremolava paurosamente…
 
* * *
 
All'esterno, Yamatake, Bunta e il resto dei pompieri, insieme ai mezzi di soccorso, aspettavano di veder comparire le uniche sette persone che mancavano all'appello.
Yamatake aveva fatto uscire Bazzora dopo averci caricato sopra una vecchietta e una giovane signora visibilmente incinta, salvate da lui e Bunta. I vigili del fuoco avevano fatto il resto, l'ospedale era completamente evacuato, salvo Pete, Fabrizia, quattro bambini e un’infermiera, le cui famiglie disperate attendevano accanto ai mezzi di soccorso. Tra loro c’era anche il padre di Luke, che era stato portato al sicuro dai pompieri che lo avevano trovato mentre, dal pianterreno, tentava di salire al primo piano per raggiungere il figlio.
All'improvviso, all'interno della struttura, in fondo al passaggio scavato da Yamatake, ci fu un crollo: un immenso sbuffo di polvere e fumo si sollevò. I presenti guardarono costernati la nuvola scura, rendendosi conto che il passaggio si era sicuramente chiuso. I genitori dei ragazzini urlarono terrorizzati; una giovanissima mamma gridò:
– Michael! – poi cominciò a singhiozzare.
Lentamente, il polverone che avvolgeva quasi tutto l’edificio cominciò a diradarsi e, tra lo stupore generale, apparvero alcune figure barcollanti: nere di fuliggine e grigie di polvere e calcinacci, le sagome si delinearono nella luce opaca del sole offuscato dal pulviscolo.
Pete teneva Annie a cavallo sul fianco destro, e con il braccio sinistro cingeva le spalle di Mya che si reggeva a lui tossendo; Briz reggeva in braccio il neonato urlante da un lato e, dall’altro, teneva per mano Luke che, con i corti capelli dritti e gli occhioni scuri spalancati nel visetto annerito, avrebbe avuto un'incredibile avventura da raccontare.
Grida di gioia e battimani disordinati si alzarono dalla folla, poi Briz e Pete non capirono più niente: i medici e i paramedici gli furono attorno, presero i bambini per soccorrerli e loro stessi si ritrovarono con gli infermieri che li spingevano a sedere dentro un'ambulanza, slacciavano loro i giubbotti e gli aprivano le cerniere delle tute, per poi cacciargli le maschere dell'ossigeno sul naso; non si erano resi conto di quanto bisogno ne avessero, finché non si ritrovarono a respirare quel getto di aria fresca che gli si riversava nei polmoni.
Poco lontano da loro, Annie e Mya erano sottoposte allo stesso trattamento, abbracciate dai loro genitori; più in là, videro Luke divincolarsi a un certo punto dal paramedico e trascinare il padre ritrovato fino da loro. L’uomo li ringraziò, spiegando che, grazie a loro, i ragazzini non avevano subito grossi traumi, a parte una paura micidiale; persino il piccolo Michael, il neonato, stava bene.
Briz e Pete tirarono un sospiro di sollievo, un sollievo che fu però cancellato alla vista di un uomo e un ragazzo abbracciati, in lacrime: il marito e il figlio dell’infermiera che non sarebbe più tornata a casa.
Si resero conto insieme che, se Pete era riuscito a salvare il piccolo Michael, era stato quasi senz’altro grazie al sacrificio della donna, la quale doveva averlo sottratto dalla traiettoria dello scaffale caduto, che invece aveva travolto lei. Il neonato era scivolato sotto il letto, protetto e nascosto dalla culla rovesciata sopra di lui e dalla copertina in cui era avvolto, e, zitto come se ne era stato, Briz e Pete non lo avevano visto né sentito, presi prima dal pensiero della poveretta, e poi dalle urla e dai pianti degli altri superstiti. Miracolosamente, Pete lo aveva poi sentito e visto muoversi mentre scappavano, ed era tornato a prenderlo.
Si guardarono, di colpo intristiti e costernati: avevano salvato quelli che avevano potuto, ma non avevano potuto salvarli tutti. E anche a Pete, in quel momento, tutto sembrò una grande, irrimediabile ingiustizia: Sidney, quella sera, avrebbe festeggiato la vittoria e le vite salvate, ma avrebbe anche pianto i suoi morti.
La giovane mamma li raggiunse mentre, una volta ripresi, scendevano dall’ambulanza. Teneva il piccolo Michael fra le braccia, che si era addormentato stremato, ma illeso. Pete le raccontò brevemente le circostanze in cui lo aveva trovato e della sorte della vera salvatrice del piccolo. La donna lo ringraziò, commossa, e tornò dal marito che li guardava, grato, anch’egli con gli occhi pieni di lacrime. Insieme, la famigliola si diresse dal marito e dal figlio dell’eroica infermiera: forse, sapere che il suo sacrificio aveva salvato quella piccola vita, avrebbe mitigato un po’ il dolore dei suoi famigliari.
All’improvviso, Luke lasciò il fianco del padre e si precipitò ad abbracciare Briz: quel gesto, felice e spontaneo, stemperò quei tristi pensieri.
– Questi sono gli uomini su cui faccio colpo – commentò lei, sorridendo e stringendo a sé il bambino.
Pete scosse la testa, senza parole: perfino ora, Briz riusciva a mettere insieme una frase scherzosa!
Briz, tenendo un braccio intorno alle spalle di Luke, che non voleva saperne di staccarsi da lei, lo guardò, stanca ma più rilassata.
– Visto? Nonostante tutto, non è poi così male giocare ai pompieri – sussurrò, alludendo ai bambini salvati.
– Ammetto senza pudore che almeno questa parte mi piace – rispose lui.
In quel momento Mya si avvicinò di corsa e si fermò di fronte a loro, rossa come un peperone.
– Capitano Richardson… Pete… Grazie, hai salvato la vita a me e a Annie! 
Poi, prima che lui avesse il tempo di replicare, si alzò sulla punta dei piedi, gli mise le braccia attorno al collo e gli chiuse la bocca con un bacio mozzafiato. Pete rimase lì, impietrito, con gli occhi spalancati e le braccia leggermente allargate, terrorizzato, senza il coraggio di toccarla nemmeno per allontanarla da sé: Mya era minorenne, non voleva rischiare una denuncia! E se faceva niente erano pure in Mondovisione, con tutti gli elicotteri della stampa e delle televisioni varie che giravano lì intorno!
Luke li guardò e agitò una mano, disgustato, esclamando:
– Bleah! Ma che schifo!
Briz rimase un attimo indecisa se piegarsi in due dalle risate, o dare una mano all’amico; poi, visto che la ragazzina sembrava piuttosto tenace, decise per la seconda opzione: intervenire. Si avvicinò e, mettendole una mano su una spalla, la fece staccare dallo sconvolto pilota del Drago il quale, dalle labbra finalmente libere, si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.
Briz guardò la ragazza con aria comprensiva.
– Mya, tesoro, lo so che il capitano Richardson è coraggioso e bellissimo, nonostante la faccia sporca di fuliggine, ma… è giusto che tu sappia che ha anche una fidanzata parecchio gelosa.
Mya li guardò, prima uno poi l'altra, e diventò ancora più rossa.
– Caspita, che stupida! – esclamò mortificata – Scusatemi, avrei dovuto capirlo prima che voi due…
– No, no, non hai capi… – fece per negare Briz.
Ma Pete la interruppe, mettendole un braccio attorno alle spalle e stringendola a sé, non tanto come una fidanzata, quanto piuttosto come un'ancora di salvezza. Lei decise di reggergli il gioco e, parlando sottovoce, disse:
– Non dirlo a nessuno, Mya. Siamo già fin troppo conosciuti, se lo scoprono i giornalisti stiamo freschi! Ci manca solo di finire anche sulle riviste di gossip!
– Okay, manterrò il segreto. Scusate, scusate… E ancora grazie, grazie di cuore, per averci salvate!
Li abbracciò di nuovo entrambi velocemente e tornò dai genitori. Luke capì che era ora anche per lui di separarsi dalla sua nuova amica e, con un ultimo abbraccio e un sorriso, tornò da suo padre.
– Briz… – cominciò Pete, col braccio che ciondolava con naturalezza attorno al suo collo – M-ma… hai visto come… Insomma, la biondina… mi ha b-baciato come una… grande!
– Lamentati! Ti è anche andata bene che è carina!
– Ma non è questo il punto! Avrà sedici anni!
– Quindici, in realtà… – lo corresse lei, serafica.
– Argh! Peggio che peggio, è una bambina! Ma cosa insegnano ai ragazzini di oggi!?
Due grandi ombre oscurarono il sole, seguite da una più piccola: il Drago spaziale, il Gaiking e lo Skylar toccarono terra poco lontano, sotto gli occhi di una folla entusiasta e festante.
La battaglia era conclusa, vinta da Sanshiro e Fan Lee, e grazie a Sakon, temporaneamente ai comandi, e a Doc e Jamilah, il Drago era tornato operativo.
– Puoi lasciarmi adesso – fece notare Briz a Pete, mentre si incamminavano verso il Drago.
– Ma anche no: hai visto mai che la ragazzina piovra, con tanto di ventose, torni indietro!
Mentre ridacchiavano, Yamatake e Bunta li raggiunsero, felici di trovarli sani e salvi e stupiti di vederli praticamente abbracciati; furono costretti a raccontargli l'episodio del bacio, e gli altri riferirono della vecchietta che si era quasi presa un colpo alla vista di un bisonte come Yamatake, e della signora incinta che per poco non aveva trasformato il Bazzora in una sala parto.
Briz si staccò da Pete, vedendo il Capitano Russell avvicinarsi a loro; gli andò incontro, per ringraziarlo del suo lavoro di coordinamento.
Bob Russell era decisamente un bell'uomo, a occhio e croce tra i trentacinque e i quaranta, con i capelli castano chiaro, gli occhi nocciola e un fisico imponente; un'ombra di barba sulla mascella accentuava l'aria da macho. Ma… Briz notò in lui anche un'aura di arroganza e senso di onnipotenza, come se il solo fatto di essere un coraggioso vigile del fuoco gli desse il diritto di prendersi tutto quello che gli piaceva; aveva già avuto la percezione, prima, di un  atteggiamento strafottente, e non le piacque per niente, proprio come il modo in cui la squadrava.
La sua sensazione era stata giusta: esauriti i convenevoli, lo sguardo insolente del pompiere si soffermò un attimo di troppo sul leone ricamato sul giubbotto viola di Briz, proprio sulla curva del seno; la battutina pesante gli uscì mentre allungava la mano verso di lei:
– Carino il leone… Morde se lo tocco?
Briz fece un passo indietro, a occhi spalancati per la spudoratezza di quella battutaccia, proprio mentre Pete, poco più in là, udiva la frase e si accorgeva della scena.
– Il leone no, ma lei si sogni anche di sfiorarlo soltanto, e mordo io! – fu la pungente risposta di Fabrizia, mentre gli spostava la mano con un colpo secco sul polso. Lui non se ne curò più di tanto:
– Ah, sei anche spiritosa – rise di rimando, avvicinandosi di nuovo fino a pochi centimetri da lei.
– Giù le zampe e stia in là, Capitano Russell! Da quando ci diamo del tu? – e indietreggiò ancora, finendo addosso a Pete che l'aveva raggiunta vedendola in difficoltà.
– Briz, tesoro, va tutto bene? – le chiese, tornando a cingerle le spalle.
Lei gli si strinse contro istintivamente, abbracciandolo: stavolta i ruoli si erano invertiti, e il Capitano dei Vigili del Fuoco era, a suo avviso, ben più pericoloso di Mya.
– Sì… io e il Capitano Russell, qui, ci stavamo… salutando – concluse Briz.
– Okay, okay – si arrese Russell, sollevando le mani – Non avevo capito che Briz fosse proprietà privata.
Pete lo fulminò con lo sguardo: – Per lei è il Comandante Cuordileone, e non è proprietà di nessuno! Ma visto che ragiona in questi termini e che porta un anello al dito, deduco che lei, capitano Russell, forse a qualcuno appartiene. Pensi alla sua, di donna, e non faccia il cretino con quelle degli altri!
– Ehi, biondino, con chi credi di parlare?
– Biondino ci chiama suo fratello! Non creda di spaventarmi con quella decina d’anni in più – fu la fredda replica di Pete che, nonostante l’imponenza di Russell, lo sovrastava di un paio di centimetri.
Il vigile del fuoco non replicò, squadrando la coppia con condiscendenza. Pete lo freddò con un ultimo sguardo tagliente e si trascinò via Fabrizia, che non aveva il coraggio di staccarsi da lui.
– Tesoro? Ma da dove ti è saltato fuori? – sibilò la ragazza.
– Eh, ho avuto l'impressione che a Capitan Bietolone Russell servisse qualcosa di molto chiaro, per capire che doveva lasciarti in pace.
– “Biondino ci chiama suo fratello”, eh? Mi sembra di averla già sentita, questa frase, in un’altra variante – fece Briz, ripensando a come gliel’aveva rivolta lei, al femminile, durante il loro primo burrascoso incontro.
Si lanciò un'occhiata alle spalle: Russell li stava ancora guardando e Pete commentò:
– Non credo fosse questo che intendevi, con giocare ai pompieri, vero? Perché se questo è l'altro genere di uomini su cui fai colpo… allora è mille volte meglio il piccolo Skywalker.
– Ah, senza ombra di dubbio.
– E dai, rilassati, mi sembra di abbracciare un manico di scopa! Non hai mai fatto mistero di trovarmi attraente: è tanto difficile, far finta che ti piaccio un pochino? – le disse Pete all'orecchio.
– Mmf, cretino. E comunque… grazie – sussurrò lei con un risolino, ubbidendo e stringendolo più forte, mentre continuavano a camminare lentamente verso il Drago, seguiti dallo sguardo torvo di Russell. Tenerlo abbracciato e sentirsi a sua volta stretta da lui era decisamente piacevole; non c’era un granché, da fingere. 
– Sei stata grande, con quei bambini – disse lui – Sei riuscita a sdrammatizzare tutto, e a tenerli calmi quando c'era da andare nel panico totale. Solo a una folle come te potevano venire in mente Luke Skywalker e la Morte Nera, in un momento come quello!
– L’hai detto: sono folle. E tu? Con Annie in braccio, in mezzo a tutto quel fumo… E quando sei sbucato dal tagliafuoco… Dio, eri fantastico, con quel neonato che non sapevi come tenere! Se penso che senza di te sarebbe morto!
– Sapevo di poterlo salvare: ho imparato anch'io qualcosa da te.
– Che ti piacciono i bambini?
– Anche.
– Sei sulla buona strada… Dragonheart. 
– Ahh, lo sapevo che ne avresti fatto un altro assurdo soprannome da appiopparmi alla prima occasione! Anche se è sicuramente meno sarcastico di Capitan America
Si fermò e le prese il viso tra le mani, per guardarla negli occhi. Briz abbassò lo sguardo, imbarazzata, e lui proseguì:
– Non abituarti troppo a questo lato di me, okay? Il replicante è solo per le grandi occasioni.
Briz si costrinse a risollevare gli occhi in quelli di Pete, che spiccavano come due acquemarine nel volto annerito, e gli rispose sommessa:
– Dentro di te c'è ancora una bella corazza di ghiaccio e di segreti, che non credo nessuno riuscirà mai a penetrare, tantomeno io. Ma al centro di tutto quel ghiaccio, Pete… c'è sicuramente il cuore di un Drago. Che, così a occhio… è più di quello di un leone. 
– Non ti sminuire così, proprio ora che hai fatto conquiste…
– Seeh! Bella roba!
– Vogliamo parlare delle mie?
Poi, sempre tenendole le mani sulle guance, le diede un rapido bacio sulla fronte. Briz, sconvolta, non riuscì a fare a meno di chiedersi cosa sarebbe accaduto se lei avesse sollevato il viso e quel bacio, invece che sulla fronte, le fosse piovuto sulle labbra.
Pensiero pericoloso, pericolosissimo! Da abbandonare subito, seduta stante!
Fu attraversata da un brivido, come una scossa.
– Ehi, che ti succede? – le chiese Pete sottovoce.
– Nulla, – mentì lei – una reazione nervosa a quello che abbiamo appena passato, suppongo. Mi sta venendo un po’ freddo…
Pete sembrò crederci, si sentiva anche lui strano e scombussolato, non era molto da lui. E anche se, in quel frangente, l'unico odore che potevano avere addosso era un mix di polvere, sudore e fumo, lui, dandole quel rapido bacetto, aveva avvertito comunque un vago sentore di biancospino.
Yamatake e Bunta li raggiunsero nuovamente per salire sul Drago, e si fermarono a guardarli, incuriositi.
– Che caspita succede, oggi, a voi due? Un attacco di romanticismo? Qui si va dall'odio all'amore con gran facilità, mi pare di vedere! – esclamò il lottatore di sumo, col suo tatto da elefante.
– Dai, Yamatake, non ci arrivi? – gli spiegò Bunta – È stata una recita per far sentire un verme Russell: non hai visto in che modo volgare si è comportato con Briz?
– Mmm… sarà! E io che cominciavo a credere che Briz fosse finalmente diventata una donna!
– Vai a fare un lavoro al cesso, Bisontirex! – esclamò lei, togliendogli ogni illusione e allontanandosi, a malincuore, da Pete.
– Cosa sarebbe un Bisontirex, scusa? – chiese Yamatake.
– Non si capisce? Un incrocio tra un bisonte e un T-rex!
– Effettivamente ti calza alla perfezione! – commentò Pete, salendo sulla rampa del Drago e dirigendosi insieme agli altri in plancia, ognuno alla propria postazione.
– Ma davvero tu e Pete stavate solo recitando? Non è scoccato nessun grande amore? – insistette Yamatake, dirigendosi al suo posto.
– Ma secondo te?! – esplose Briz, esasperata – Ti sei dimenticato chi siamo? Siamo Pete Richardson e Fabrizia Cuordileone! Facciamo fatica persino a comportarci da amici, certe volte!
– Già già… solo una recita per il pompiere porco, dunque –  Yamatake pareva un po’ scettico – No, perché… vi stava venendo benone. Complimenti!
– Ma sei ancora qui? Non ti avevo mandato al cesso?
In quel momento, tramite gli auricolari si intromise la voce di Pete, che era già seduto ai comandi del Drago:
– Senti, giusto per farti felice, Yamatake, potremmo dire che Briz è la mia miglior nemica, okay? Sei contento ora? E adesso vai dove ti ha detto lei, poi magari torniamo anche a casa!
"La tua miglior nemica, eh? Chissà, ci può quasi stare…” pensò la ragazza allacciandosi le cinture, mentre tutto l’equipaggio si scioglieva in una breve risata, cercando di dimenticare, per quanto possibile, che ogni battaglia di quella maledetta guerra si lasciava dietro una scia di vittorie e di sconfitte, di vite salvate e di vite perdute.

> Continua…
 
 
 
Nota:
 
MiciaSissi, volevi i baci! Peccato che non fosse esattamente questo che intendevi, vero? Muahahahah! Sono perfida, lo so!
 
Questo disegno mi è costato una fatica bestiale, i primi due tentativi di ispirarmi alla foto di un attore con la figlia in braccio, sono stati allegramente appallottolati e cestinati! A quel punto ho deciso che l’immagine dovevo farmela io in testa, e copiare da quella. E così ho fatto.
(Grazie, 2015Robin! Se mai leggerà qui, so che capirà, lei che disegna senza copiare!)
Spero di essere riuscita a rendere l’idea, ma disegnare i bambini, tutti fossette e manine e piedini cicciotti, è difficilissimo!

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Capitolo 13
*** 12 - Sogni... ***


~ 12 ~ 
SOGNI…
 
Briz strigliava il manto pezzato di Indy, canticchiando e ripensando all'avventura di qualche settimana prima, quando avevano salvato i bambini dell'ospedale di Sidney. Non avevano combattuto, lei e Pete, ma sicuramente era stata una delle missioni che le aveva dato più soddisfazione, ed era abbastanza sicura che fosse stato così anche per lui.
Quel giorno, quando erano rientrati a Omaezaki dall'Australia, appena scesi dal Drago, Briz lo aveva chiamato. Pete l'aveva raggiunta lungo il corridoio principale del Centro, con un'espressione interrogativa sul viso.
– Oggi hai dimostrato che il cuore, un pochino, ti funziona: direi che ti meriti un premio – aveva detto lei con un sorriso.
– Ah, no! Per oggi basta con le smancerie, eh?! Ho già dato! – aveva ribattuto Pete, scherzoso ma non troppo, ancora sconvolto per come lo aveva baciato Mya, la quindicenne bionda che avevano salvato.
– Scusa, ma… qualcosa ti fa davvero pensare che io vorrei baciarti? Ma puoi star tranquillo!
Pete era diventato improvvisamente serio e le si era avvicinato:
– Mi dici dov'è Tom?
– Beh, ma adesso! Ho detto che il tuo cuore funziona un po', mica che è guarito o scongelato! Ti do qualche indizio – gli aveva risposto, resistendo alla voglia di accontentarlo alla vista di quello sguardo speranzoso. Gli aveva mostrato il display del proprio cellulare.
– Questo è il primo messaggino che Tom mi ha mandato quando è arrivato… , circa tre mesi fa.
– Deduco che mi dovrò accontentare.
– Deduci giusto. Posso solo dirti che sta benissimo, vive con una famiglia e si è iscritto all'università. Quindi, in qualcosa ti ha dato retta, come vedi.
Pete aveva preso il telefono e letto il messaggio di Tom: "Questo posto è una favola. Ma perché non mi avevi detto che J. è così incredibilmente bella"?
– Bene – era stato il laconico commento del giovane, mentre le restituiva il cellulare; poi non era riuscito a trattenersi e aveva chiesto: – Chi o cosa è, J.?
– Eh, bello mio, vuoi sapere troppa roba! Ho già esagerato!
– Strega – l’aveva apostrofata, pungente.
– Vai a farti una doccia – era stata la serafica replica.
Mentre Pete stava per infilarsi nell'ascensore che lo avrebbe portato al piano della sua stanza, Briz lo bloccò tempestivamente.
– Aspetta!
Lui si voltò, con un’espressione interrogativa.
– Senti… io… te lo direi anche, dov’è Tom: gliene ho parlato, l’ultima volta che ci siamo sentiti. Ma è stato lui a dire che per ora vuole tenerti ancora un po’, parole sue, sulla graticola a friggere, per fartela pagare di come lo hai trattato quando è venuto qua. Non ne ha voluto sapere, e onestamente posso anche capirlo, ma io ho perorato la tua causa, giuro.
– Non c’è bisogno che giuri, ti credo. E sappi che sono tranquillo, su di lui, soprattutto dopo quello che mi hai appena detto. Digli che faccia il bravo, e che studi!   
E, prima di sparire nell’ascensore, le aveva sorriso con una strizzata d'occhio e detto a mezza voce: – Grazie, fanciullina.
Non si erano più visti spesso, dopo quel giorno: i loro turni di guardia non erano mai coincisi e ogni volta che era libero lui, non lo era lei e viceversa. Daimonji non ebbe nulla da dire, capiva la situazione e sapeva che, tutto sommato, i loro rapporti avevano già fatto dei passi avanti. Sapeva anche che Briz si allenava nel karate con Fan Lee proprio su suggerimento di Pete, e l'aveva trovata un'ottima idea. Ma il dottore aveva avuto anche un'altra impressione, osservandoli: che, ora che si erano diradate, i due ragazzi sentissero quasi la mancanza di quelle ore passate insieme.
Salvo poi ricredersi, quando gli capitava di vederli qualche volta, all'ora di cena, e scopriva che battibeccavano senza ritegno per delle stupidaggini anche con una certa durezza, pur se non con l'astio e gli insulti dei primi tempi.
Accarezzando il muso di Indy, prima di portarlo nel recinto per poi pulire il box, Briz si ritrovò a ripensare alla naturalezza con cui Pete le aveva passato il braccio attorno alle spalle, per far credere a Mya di non essere libero, e a quando l'aveva rifatto poco dopo per difendere lei da Capitan Porco Russell.
Doveva ammettere che quella stretta, leggera ma ferma, l'aveva fatta sentire incredibilmente protetta, come se fosse stata nel posto più sicuro dell'universo. Aveva fatto credere a Russell di essere il suo ragazzo, ma aveva specificato che, non per questo, lei dovesse essere una sua proprietà.
Caspita, le piaceva questo concetto.
E quel dannatissimo bacetto sulla fronte che le aveva dato… Maledizione, se lo era sognato, un paio di volte!
Scosse la testa, vagamente irritata: le cose stavano prendendo una piega che non le piaceva affatto… Era un bene, che ultimamente non si vedessero così spesso.
Per distrarsi da quei pensieri inquietanti, inserì nel lettore stereo una chiavetta con le basi musicali delle canzoni che amava di più, e si mise a cantare a squarciagola una canzone di Adele, “Set fire to the rain”, fingendo che il manico del forcone piantato nel fieno fosse il microfono. 
"Se qualcuno mi vedesse adesso direbbe che sono stonata e soprattutto… scema! Ma tanto non deve venire nessuno, oggi".
Quando Pete arrivò alle scuderie, fu accolto, come quasi sempre, dalla musica. Briz non lo aspettava, poiché lui si era ritrovato libero per caso dopo aver cambiato un turno di guardia con Sanshiro.
Entrando nel cancello, riconobbe la canzone.
"Però, Adele! La pazzoide ha anche momenti di buon gusto".
Ma mentre si avvicinava, si accorse che nella canzone c'era qualcosa che non quadrava: la voce, per quanto cantasse piuttosto bene, non era amplificata… e di certo non era quella di Adele!
Si avvicinò in silenzio e sbirciò da una finestrella esterna che dava nel box di Indy: Briz, con indosso una delle sue incredibili camicie sgargianti, era arrivata ai vocalizzi finali, e li cantò nel suo pseudo-microfono con una tale passione, che lui ne rimase decisamente colpito. Quando la canzone finì, da quella buffoncella che era, fece un inchino, ringraziando il suo pubblico immaginario, e si preparò a cantarne un'altra.
Pete non mosse un muscolo e si ascoltò, quasi senza fiatare, tutta “I dream about you” dei Simple Plan; e si disse che se la voce della ragazza fosse stata amplificata da un vero microfono, sarebbe stata davvero niente male, per essere solo una dilettante.
Era curiosissimo di sentire cosa avrebbe cantato ora, peccato che Atlas gli arrivò praticamente addosso, piantandogli le zampe anteriori sul petto e buttandolo quasi a terra.
– Cavoli che tempismo, Atlas – brontolò respingendolo e ritrovando per miracolo l'equilibrio; gli accarezzò la testa nera e, sollevando gli occhi, vide Briz di fronte a lui.
– Da quanto tempo sei lì a spiarmi? – gli chiese serissima.
– Non ti stavo spiando – le rispose Pete, negando l'evidenza e sentendosi come da piccolo, quando veniva sorpreso a rubare i biscotti.
– Nooo! Mi ascoltavi di nascosto, senza farti vedere né sentire; così a occhio, mi sembra la stessa cosa.
– Se tu mi avessi visto avresti smesso, invece volevo ascoltarti fino in fondo: hai una bella voce.
– Ma levati, ha parlato l'esperto! – ribatté, per vedere se lui avrebbe ammesso di saper cantare anche meglio. Ma niente… la risposta fu molto vaga e incentrata su di lei.
– Esperto no, ma se uno è stonato me ne accorgo, e tu non lo sei. Continui a sorprendermi.
– Ha! E non sai nemmeno tutto, del mio lato artistico. Perché sei qui? Non avevamo accordi.
Chissà per quale motivo, la parola appuntamento le sembrava troppo… impegnativa.
– Ero libero, ma se ti scoccio me ne vado.
Mai avrebbe ammesso, nemmeno con se stessa, che vederlo andarsene le sarebbe dispiaciuto. Invece si ritrovò a pensare che se, ritrovandosi libero, aveva scelto di venire da lei, allora forse il tempo passato insieme non gli pesava troppo! L’idea, stranamente, le sollevò il morale… ma per quale motivo, poi? La punizione di Doc era pur sempre attiva, lui aveva scoperto che i cavalli gli piacevano… che c’entrava lei?
– Smettila – si ritrovò a rispondergli – Puoi venire quando vuoi, lo sai. Anzi, aspetta, ora che ci penso, devo darti una cosa – e si diresse verso una porta del corridoio, quella che lui aveva visto sempre chiusa.
Pete si era sempre chiesto che stanza fosse, ma non si era mai permesso di entrare a curiosare, pur sapendo che la chiave stava appesa lì accanto.
– Questo è il mio ripostiglio privato, ci sono entrate solo Midori e Jamilah, finora. E Doc, un paio di volte – disse lei, girando la chiave nella toppa.
– Allora sto fuori, non sia mai che sconsacri il tuo santuario – ironizzò Pete.
– Diciamo che il titolo di Miglior Nemico ti autorizza ad entrare – concesse Briz aprendo la porta.
Nella piccola stanza c'era un vecchio, ampio e comodo divano, di un blu scolorito, che occupava quasi tutta la parete di fondo, un tavolino basso altrettanto vecchio e una libreria stracolma di oggetti, soprattutto libri, anche se molto malmessi. Ma ciò che lo colpì più di tutto il resto, furono i quadretti appesi alle pareti di legno: erano disegni, incorniciati in semplicissimi pico-glass, dai colori molto intensi e vivaci. Ritraevano animali e persone, ma anche altre cose: Atlas, i cavalli, un bel ragazzo bruno di circa diciotto anni… che doveva essere Alessandro, visto quanto somigliava a Briz. In un altro era ritratto Harrison Ford da giovane, nei panni di Han Solo, con lo spazio stellato sullo sfondo e una meticolosa riproduzione del Millennium Falcon. Poi ce n'era uno, più grande degli altri, che rappresentava uno scenario fantasy: una coppia di elfi guerrieri alti e biondi, un uomo e una donna, con le orecchie a punta, che cavalcavano un immenso e stupefacente drago azzurro.
Anche alcuni dei disegni avevano macchie e bordi bruciacchiati.
– Devo capire: illuminami – fu l'unico commento di Pete.
– Quando il mio vicino di casa, Filippo, fece rimuovere le macerie della mia fattoria dopo aver comprato il terreno, trovò diversa roba che si era salvata: libri, quaderni, piccoli oggetti, e me la spedì. Strano destino, l’ala della fattoria che subì meno danni fu quella in cui c'era la mia stanza. In seguito ho reperito qua in giro questi mobili usati e ho allestito questa stanzetta. Tu lo hai chiamato santuario per ridere, ma queste, in fondo, sono davvero le mie… reliquie: i rimasugli della mia vecchia vita. Ti confesso che ci sono stati momenti, i primi tempi, in cui mi aveva sfiorato l’idea di bruciare tutto… ma poi non ne ho avuto il coraggio, forse sentivo che me ne sarei potuta pentire. Adesso stare qui a rilassarmi, qualche volta, quando mi viene un attacco di nostalgia, non mi dispiace.
– Hai fatto bene a non distruggere tutto. I disegni sono molto belli, li hai fatti tu? – chiese Pete.
– L’altro mio lato artistico di cui ti dicevo. Questi son vecchi, ma ogni tanto mi diverto ancora a scarabocchiare, quando mi viene l’ispirazione.
Intanto che parlava aprì un cassetto della libreria, ne estrasse qualcosa di tintinnante e glielo lanciò; lui lo prese al volo.
– Delle chiavi?
– Il cancello e il portone: così puoi venire qui anche se io non ci sono. Se ne hai voglia, beninteso.
– Beh, grazie, così posso anche sostituirti quando ne hai bisogno.
Pete sapeva bene quanto la cura degli animali la impegnasse, e non gli pesava darle una mano, ora che aveva imparato come fare.
– Per quale altro motivo pensavi che te l'avessi data? Per i tuoi begli occhioni blu? – lo provocò lei.
– Puoi smettere di fare la dura! Lo so che i miei occhi ti piacciono! – scherzò lui di rimando.
Fabrizia giunse le mani come in preghiera e alzò il volto al cielo:
– Oh, Signore! Dammi la pazienza, con questo qui, che se mi dai la forza, finisco per mollargli uno sganassone che gli rompo il naso! Che poi sarebbe un peccato, visto che non è male nemmeno quello! Tu compensi giusto con l'aspetto fisico, Richardson, perché per il resto…! – esclamò Briz, facendolo sorridere.
– Potrei dire la stessa cosa di te, animaletto selvatico! Dimmi la verità: hai studiato arte? – continuò lui cambiando argomento.
– Un po'. Mi sono diplomata al Liceo Artistico, ma poi… – si interruppe un attimo, come se quel pensiero le procurasse ricordi dolorosi – …dopo poche settimane dalla maturità, Ale e papà sono morti. Ci ho provato, con l'università: l'ho frequentata per parecchi mesi, e andavo anche piuttosto bene, considerando ciò che stavo passando e che avevo scelto un corso di laurea alquanto impegnativo e, soprattutto, lontano le mille miglia dall'arte; studiare mi aiutava tanto, però. Nel frattempo, il dottor Daimonji mi aveva ricontattata per dirmi che solo io avrei potuto far funzionare Balthazar. All'inizio sai che l'avevo praticamente mandato al diavolo ma, a un certo punto, ho scelto di assumermi le mie responsabilità, e così… eccomi qui, a vivere un'altra vita. E a combattere per avere, un giorno, la possibilità di tornare a quella di prima. Anche se niente… sarà mai più come… prima – finì, in un soffio rassegnato.
– Cosa studiavi? – le chiese Pete, un po' per distrarla da quei pensieri tristi, e un po' perché gli interessava davvero.
– Secondo te? Ho due cavalli e un cane; mi mancano un paio di gatti, ma hai visto mai…?
– Mmm… Visto come me la presenti, direi zoologia… o veterinaria.
– La seconda che hai detto.
– Effettivamente, è una scelta davvero strana, per una con un diploma da artista.
– Già, sono un tipo eclettico.
– Io direi più… incoerente.
– Vabbé, dettagli. Se sopravvivo a questa guerra, probabilmente ricomincerò a studiare; in Italia ho fatto parecchia pratica con il nostro veterinario di famiglia, e a forza di aiutarlo e assisterlo con i nostri animali mi sono appassionata. Ogni tanto mi sento ancora con lui, quando ho bisogno di un consiglio, anche se ne ho trovato uno del posto, per le emergenze.
– Allora non è vero che non hai proprio più nessuno: qualche contatto in Italia ce l'hai ancora.
– Certo, e c'è anche Filippo Del Rio con la sua famiglia… non so come avrei fatto, senza di loro.
Si appoggiò al muro, con le mani dietro la schiena, e gli rivolse un mezzo sorriso pensando: "E non immagini nemmeno di avere anche tu qualcuno, laggiù. Muoio dalla voglia di vedere la tua faccia quando, un giorno, te lo potrò dire".
– Oh-oh… Sorriso furbetto e corna diavolesche in procinto di spuntare. Stai per farmene una delle tue? – chiese lui, fingendosi preoccupato.
– Io? Ma scherzerai, ti sembro il tipo? E tu? Ti sei arruolato nella Air Force a vent'anni. Che hai fatto fino ad allora? Un secchione come te… Studiavi anche tu, vero?
– Sì… ma oggi non si parla di me – rispose Pete, guardando i vecchi libri sugli scaffali.
– Bah, non si parla mai di te, se è per questo! Che guardi?
– I tuoi libri: Tolkien, Terry Brooks, James Rollins… Wow, Ken Follett e Stephen King! Fantasy, avventura… persino horror: tu hai ancora un mucchio di segreti che devo scoprire, fanciullina.
– Più o meno quanti ne hai tu, direi. I nostri rapporti saranno pure migliorati, ma alla fine, di cose tue personali, non abbiamo mai veramente parlato.
Pete le lanciò un'occhiata e, come al solito, non rispose. Estrasse un libro: “La canzone di Shannara” di Terry Brooks, il terzo di una saga fantasy infinita, ma molto bella, che da ragazzino aveva letto anche lui. Lo sfogliò, realizzando che era, per forza di cose, scritto in italiano; eppure i nomi dei protagonisti – Brin, Jair, Rone Leah – gli balzarono subito agli occhi, come se avesse finito di leggere quel libro solo il giorno prima.
Le pagine erano rovinate e con qualche angolo bruciacchiato. Un foglietto di quaderno a quadretti, altrettanto malridotto, fece capolino tra di esse, e Pete arrivò a vedere un cuore disegnato con un evidenziatore rosa, e a leggere due nomi scritti all'interno, prima che Briz lo afferrasse al volo.
– Chi è Diego? Perché deduco che Fabry sia tu – disse lui maliziosamente, riferendosi ai nomi letti.
– Aargh! Non chiamarmi mai più così! Ma come diavolo ha fatto a rimanere lì questo foglietto!? – esclamò lei, facendolo in mille pezzi e gettandoli per aria, lasciandoli a ricadere come coriandoli.
– A proposito di segreti, eh? – indagò Pete.
– Affatto! Nessun segreto, nada de nada! Diciamo piuttosto… niente per cui valga la pena di perder tempo a parlarne: cazzate adolescenziali! Solo… non chiamarmi, mai piùFabry.
– Okay… Immagino di non poter sapere il perché.
Briz si morse il labbro inferiore e, scuotendo la testa e agitando le mani, uscì in silenzio dalla stanza.
Pete la seguì e lei richiuse a chiave, riportò Indy nel box, e riprese i suoi lavori: era più che evidente che per lei la questione fosse chiusa, e a lui non restò altro da fare che darle una mano, virando i loro discorsi sui cavalli.
Più tardi, quando ebbero finito, si avviarono verso il cancello e se lo chiusero alle spalle; si incamminarono in silenzio verso la base.
– Accidenti, devo proprio aver toccato un brutto argomento, prima – disse lui, vedendola così pensierosa.
– Vuoi sapere perché non voglio essere chiamata Fabry? – gli chiese all’improvviso.
– Solo se tu vuoi dirmelo.
Quella fu la risposta giusta, che gli fece guadagnare la confessione di Briz.
– Hai presente la foto in cui, a tredici anni, ero uguale a mio fratello? Ecco… io ho avuto quell'aspetto fino a… circa diciassette anni: i capelli ispidi e dritti, che ora sono lunghi ma non molto meglio; quegli occhiali orrendi; le lentiggini su questa faccia da elfo, che poi ci sono ancora. E poi… ero lunga e secca, tutta braccia e gambe… e per quasi tutta l’adolescenza, come non bastasse, ho avuto anche l'apparecchio ai denti. E il soprannome che mi avevano dato al liceo, era… una specie di scioglilingua.
Esitò qualche secondo, fece un sospiro poi confessò, arrossendo e abbassando lo sguardo: – Fabry Froggy. 
– Fabry il ranocchio…? – mormorò lui, allibito.
– In realtà chi me lo aveva appioppato, traduceva con… rospo. 
– Ma… a chi era potuta venire in mente una cattiveria del genere!?
– A un bastardo figlio di puttana! Anzi, a dire il vero erano più di uno. Mi rendo conto che è una stupidaggine, non ha molto senso star male per queste cose. Però, quando si è solo un’adolescente bruttina e insicura, sentirselo rimarcare in quel modo… – si interruppe, lasciando che fosse il suo silenzio a fargli capire cosa provasse a quel ricordo.
Pete sembrava dispiaciuto di questa cosa, e con questo atteggiamento, una volta di più, senza nemmeno saperlo, dimostrò a Briz di non essere la persona fredda e scostante che si sforzava di apparire.
– Lasciali dove sono, Briz: nel passato. Ficcali nel dimenticatoio e che ci restino. Chiunque fossero, non meritano nemmeno un pensiero da parte tua: quegli emeriti stronzi dovrebbero vederti adesso.
Quelle parole suonarono alle orecchie della ragazza come un complimento; osò guardarlo negli occhi e rischiò di annegarcisi, rimanendo per un attimo senza fiato. Sì, aveva proprio ragione lui: le piacevano i suoi occhi, tanto. E non solo quelli… Per un lungo, interminabile secondo, desiderò follemente che allungasse una mano verso di lei e la traesse a sé.
Chissà come baciava il Capitano Richardson? Di sicuro divinamente, con quelle labbra perfette. Se avesse dato retta al suo istinto… quasi quasi… Ma nooo! Ma cosa andava pensando!
Oltretutto, ironia della sorte, se c'era una persona che le aveva insegnato l'autocontrollo era proprio Pete, senza contare un altro milione di motivi per cui, fare una cosa del genere, sarebbe stata una follia a prescindere, ovviamente!  
Il cuore le martellò nel petto, reagendo a quei pensieri inquietanti che erano fioriti, così all’improvviso, nella sua testa, ed erano poi esplosi, accavallandosi uno sull’altro come onde impazzite, lasciandola impietrita e persino spaventata.  
Si allontanò di un passo, come per paura che lui potesse sentire il disordinato sconquasso che le si agitava contro le costole. Si sentì le guance in fiamme e la bocca secca…
Dio, non poteva! Non poteva, accadere una cosa come questa! Non a lei!
Deglutì, cercando di calmarsi, e finse indifferenza.
– Bah, lasciamo perdere. Hai ragione: acqua passata.
Pete si accorse che la ragazza era alquanto alterata, ma diede la colpa a quello spiacevole ricordo; pensò che, per essere solo acqua passata, avesse lasciato un solco ben profondo nell’animo della ragazza, tanto che era ancora convinta di essere insignificante e bruttina. Qualcosa gli disse che c'entrasse anche quel Diego, ma decise di rispettare la sua richiesta e di non parlarne più; almeno per ora.
Arrivati al Centro, Briz lo salutò in fretta e si infilò di volata nell’ascensore.
Quando le porte si aprirono all’ultimo piano, nel piccolo atrio della Piccionaia, Midori e Jamilah, che stavano uscendo dalla stanza di quest’ultima, la videro attraversare in fretta e furia il pianerottolo e posare la mano sullo scanner per aprire la propria porta, senza neanche guardarle.
– Briz, ma che cosa diavolo… –  cominciò Jamilah.
Entrambe si resero conto che l’amica era leggermente agitata; le due si guardarono perplesse.
– Emergency? – fece Midori.
– Emergency – confermò Jamilah, ed entrambe seguirono Briz nella sua stanza un attimo prima che richiudesse la porta. 
Fabrizia si lanciò letteralmente sul letto e soffocò un urlo disumano nel cuscino, sotto gli occhi esterrefatti delle due amiche.
– Aaargh!
– Briz… – cominciò Jami.
– Aargh! Non è possibileee! Non può succedermi una cosa così! Non può, non può! – continuò a urlare Briz, senza nemmeno considerarla. Si sforzò di prendere un respiro, poi si mise a sedere sul letto con le gambe raccolte e abbracciando il cuscino, dondolandosi e cercando di calmarsi.
– Hai litigato con Pete? – le chiese Midori, convinta di non sbagliare.
– E perché dovrebbe c’entrare lui?
– Perché, c'è qualcun altro capace di farti sbroccare in questo modo?
– Va bene, okay, lui c'entra. Ma non abbiamo litigato, ho fatto tutto da sola…
– Ma hai fatto da sola cosa? Briz, che hai combinato, stavolta? – chiese Jamilah.
– Un casino, ho combinato! Porco schifo, non può succedere, dannazione! Come se non ne avessi già abbastanza, di pensieri! Di tutte quante le assurdità… proprio lui, in tutto l'universo mondo…?! Ma Maremma maiala…!
Midori e Jami si sforzarono di seguire le sue farneticazioni, che erano in buona parte in italiano, poi la prima ebbe come un'illuminazione: prese le mani dell'amica e la costrinse a guardarla negli occhi.
– Oddio, Briz! Non dirmi che alla fine ti è successo davvero! Non ti sarai mica presa una cotta per il tuo Miglior Nemico…?
– No!
– No, eh?
– I-io… no! Solo che… da un po' mi capita di sognarlo… a Sidney, che esce dalla porta dell'inferno con quel neonato, o che corre con la bambina bionda in braccio… e poi che mi dà un bacino sulla fronte per tenere lontano quel porco di Russell… solo che una volta, ho sognato che quel bacio…
– Te lo ha dato… non esattamente sulla fronte, è così?
Il gemito quasi disperato che Briz soffocò nel cuscino, fu una risposta sufficiente.
– E poi, oggi… Dio, c'è stato un attimo che… non so come, mi ha sfiorato il pensiero di… saltargli addosso! E gli ho anche dato le chiavi della scuderia e l'ho fatto entrare nel ripostiglio privato. E gli ho detto… del mio soprannome al liceo.
– Gli hai detto di Froggy? Ma Santo Cielo, Briz! Tu non ti sei presa una cotta. Tu… rischi di innamorarti, così! 
– Aaargh! – gridò di nuovo lei nel povero cuscino – Non lo dire! Non è vero! Non la voglio sentire, quella parola!
– Okay, non la dico più. Anche se…
– Anche se, una ceppa! No. No! Nonono! Enne - O! Negativo! È solo… attrazione. Dai, ma scusate, è talmente bello che dovrebbe essere dichiarato fuorilegge! Vi sembra che io possa permettermi una cosa come… innamorarmi?  
Pronunciò l’ultima parola come se fosse stata una sconcezza, e continuò:
– Di Capitan Paranoico, poi! Ne uscirei massacrata! Oltretutto, lui passa del tempo con me solo perché glielo ha ordinato il dottor Daimonji. Io sono la fanciullina, la pazzoide, la buffona, prima mi ha dato addirittura dell’animaletto selvatico! Riesco giusto a farlo incazzare, e nel migliore dei casi a divertirlo un po'! Sono la sua Miglior Nemica. Andiamo, è solo un dannato bel ragazzo…
– Sei forte, tu – la interruppe Jami – Urli e ti disperi come se fosse successo l'irreparabile… e poi te la canti e te la suoni: hai già deciso che ti sta solo succedendo di provare, per il nostro scontroso Capitano, un'innocua attrazione fisica. E allora? Dov'è la tragedia? Se è solo una tempesta ormonale, o ti passerà da sola, o…
– O…?
– O le dai sfogo, in qualche modo! – suggerì Midori, con una malizia che quasi non era da lei.
– Sfogo? Ma sei impazzita? Hai capito cos'ho appena detto? Non gli interesso! E poi, anche se fosse… beh, sappi che io non vado a letto con un uomo così, solo perché lo trovo bello! So di essere antiquata e fuori moda, ma i miei genitori mi hanno insegnato dei princìpi.
– Lo so, Briz. In realtà scherzavo, so che non sei il tipo da sesso e via. Non intendevo che dovresti arrivare fino a quel punto… però, rubargli un bacio, giusto così, per vedere come lo prende; magari te lo dà indietro.
– Ah, sì! Proprio! – replicò Briz, trovando nonostante tutto la cosa quasi divertente – Se in un momento di follia lo faccio davvero, sai che succede? Lui mi respinge. E io… mi posso sparare, a quel punto: dalla vergogna. Dopo non riuscirei più nemmeno a guardarlo in faccia.
– Sai che invece, quasi quasi, ci proverei nei tuoi panni? – se ne uscì Jamilah – Sicuramente lo sconvolgeresti! E come ha detto Dori, che ti respinga è una teoria tutta da provare. In fondo, un bacio non ha mai ucciso nessuno. E dai, buttati.
– Ma sì! Nel fiume, mi butto! Che cosa stai dicendo!? Ma che vi è preso oggi? Non mi sembrate nemmeno voi! Tanto per cominciare, non mi sembra il caso di sorvolare sul fatto che siamo compagni di battaglia: facciamo parte dello stesso equipaggio, non possiamo sconvolgere le… dinamiche di bordo, non mi sembra proprio una buona idea; di casini ne abbiamo già creati anche troppi, a suo tempo! E poi, rovinerei anche quella specie di equilibrio che siamo riusciti a mettere insieme con tanta fatica! Sarebbe un gioco pericoloso, temo. E per cosa, poi? Per uno sfizio stupido: baciare un bel ragazzo? Maddài.
E a quel punto, come la volpe di Esopo che, non arrivando all'uva, decideva di rinunciarci dicendo che era acerba, Fabrizia trasse una sua personale conclusione.
– E poi, tanto, nella realtà le cose non sono mai come nei sogni: probabilmente le sue labbra sono dure e fredde come il suo cuore! Lui, oltretutto, lo avevo già classificato, e sapete anche voi cosa penso degli uomini belli. Hanno una prerogativa: sono anche stronzi, soprattutto in certi contesti.
– Sembri esperta nel settore.
– Può darsi. E comunque, a parte il fatto non trascurabile che non sono in cerca di un uomo, uno come Richardson sarebbe una bega a prescindere! Preferirei di gran lunga, che so… non dico Bunta in particolare, ma uno del genere, per capirci: un ragazzo non troppo bello, poco appariscente, ma affidabile, simpatico e semplice.
– Beh, anche perché con Bunta non batteresti chiodo: lo sai che è fidanzato? – rivelò Jamilah.
– Bunta Hayami fidanzato? 1 E con chi? – chiese Briz stupefatta; quella le arrivava proprio nuova, e a quanto pareva anche a Midori.
– Con Solange Delacroix, venticinque anni, francese, laureata in Biologia Marina. Piccoletta, capelli biondi e corti, bellina da matti: stanno insieme da quando avevano diciotto anni. Vive a Yokohama, ma Bunta non la vede dall'inizio della guerra, non vuole correre il rischio che venga coinvolta.
– Hai capito, il nostro pacioccone! Si è preso nientemeno che una francesina laureata!
– Beh, anche Bunta ha una laurea in Oceanografia, lo sai.
– Già, anime gemelle, a quanto pare. Dalle mie parti si dice che “Dio li fa e poi li accoppia”. E, alla luce di questa perla di saggezza, si evince che io e Pete apparteniamo davvero a due pianeti diversi. Ma che dico, due pianeti: due galassie, diverse! – esclamò Briz, pensando di mettere un punto alla questione.
– E io posso dirti anche che…  “Gli opposti si attraggono”, a volte – rimarcò invece Midori.
– Ma tu da che parte stai, scusa? Una volta mi hai detto che con Pete non mi ci vedresti proprio, e io mi ci vedo pure meno, se è per questo! No, perché sai, faccio presto a passare al contrattacco, a questo punto, e a dirti di saltare addosso a Sanshiro!
Midori avvampò e non rispose, e la cosa fece scoppiare a ridere Jamilah.
– E tu cosa ridi, – infierì Fabrizia – che muori dietro a Sakon da una vita, e non sai da che parte farti?
Anche a Jami non toccò che ammutolire, e Briz concluse il discorso.
– Chiudiamola qui, okay? Siamo circondate da uomini, respiriamo feromoni maschili e nuotiamo nel testosterone dalla mattina alla sera! Credo sia normale se ogni tanto gli ormoni ci partono come palle di un flipper! Basta non ascoltarli, in fondo. Abbiamo ben altro a cui pensare, non credete? Piantiamola con queste bischerate!
A quel punto, tutte e tre decisero che fosse davvero meglio riderci su: Jamilah ammise che il loro consiglio era stato quanto meno azzardato, e chiusero l’argomento.
Era vero che anche lei e Midori avevano il cuore in subbuglio da qualche tempo – o forse, più facilmente, solo gli ormoni, come aveva detto Briz – ma alla fine di tutto, che importanza poteva mai avere? Avevano davvero questioni molto più gravi da risolvere: tipo affrontare una guerra contro i mostri alieni. Ed era un fatto ormai risaputo, quasi una legge non scritta: l’amore e la guerra insieme, non andavano bene.
Tutto il resto era solo un mucchio di grandissime stupidaggini.
 
> Continua…
 
 
Nota:

Nell’anime Bunta non era affatto fidanzato. Non c’erano fidanzati/e per nessuno/a. Per questo esistono le fanfiction, no? E poi io ho la spiacevole tendenza a volerli accoppiare tutti. Se duro così, finirò per accasare persino Yamatake!

Ma se non hai ancora fatto succedere niente? Cosa cianci, sciroccata? (Nota dei Lettori, stufi che nessuno concluda qualcosa…) 
Come? State dicendo che manca qualcosa? Un disegno, forse? Okay, vi metto qui Jamilah, visto che è solo un ritratto.


 
Jamilah

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Capitolo 14
*** 13 - Tra realtà e fantasia ***


Avviso: 
il capitolo potrebbe essere un po’ più lungo degli altri, (che già non scherzano 
🙄) ma spezzarlo avrebbe avuto poco senso.
 


 
~ 12 ~ 
TRA REALTÀ E FANTASIA

 
La notizia fu, per la sua stranezza, l'argomento principale di tutti i telegiornali del Globo: al centro dell'Oceano Pacifico, era emersa un'isola rocciosa.
I componenti dell'equipaggio del Drago Spaziale si ritrovarono tutti nella saletta delle riunioni, a seguire gli sviluppi di quell'insolito fenomeno.
– Dottore, pensa che ci sia lo zampino dell’Orrore Nero, in tutto ciò?
– Dopo le esperienze che abbiamo avuto, mi aspetto di tutto, Sanshiro…
Vedendo Pete che trafficava al computer, lo scienziato gli chiese:
– Hai trovato qualche spiegazione plausibile?
– Proprio plausibile, no. Può sembrare pazzesco, ma… la zona è quella dove si dice sorgesse, un tempo, il leggendario continente perduto di Mu.
– Scusa la mia ignoranza, –  intervenne Briz – ma l'unico continente perduto di cui io abbia mai sentito parlare, è Atlantide.
Pete collegò il computer al grande schermo, sul quale apparve il disegno di una mappa: un'isola immensa che occupava proprio il tratto di oceano di cui stavano parlando, anche se quella emersa pochi giorni prima era molto più piccola.
Il capitano si lanciò nelle spiegazioni:
– Il mitico continente perduto di Mu aveva le isole Hawaii come confine settentrionale, e come confine meridionale una linea immaginaria che si estendeva dalle isole Fiji a sud-ovest fino all'isola di Pasqua a sud-est. Sembra che gli abitanti di Mu fossero persino più evoluti degli atlantidei, e che questi ultimi discendessero addirittura da loro. Un colonnello inglese, un certo James Churchward, vissuto tra l'’800 e il ’900, sosteneva che questo continente fosse davvero esistito e che il suo nome derivasse dalla omonima lettera dell'alfabeto greco, che sarebbe stata trovata incisa sulle pareti di diverse grotte, ritenute gli ipotetici accessi al continente. Egli stimava che fosse largo da est a ovest circa ottomila chilometri, e da nord a sud intorno ai cinquemila, e che dovesse essere ricco di vegetazione tropicale, fiumi, laghi e grandi animali… Sembra sostenesse anche che la prima vera civiltà umana si fosse sviluppata qui, tra i dodici-tredicimila anni fa e, quindi, che discenderemmo tutti di lì… Ma sono tutte ipotesi, se non addirittura leggende – concluse Pete.
– Detto questo, – disse Daimonji, riprendendo le redini del discorso – siete tutti d'accordo di andare a vedere quest'isola da vicino?
La risposta affermativa fu unanime, ma Briz si rese conto che, anche se cercava di nasconderlo sotto la sua solita armatura di indifferenza, il più entusiasta era sicuramente Pete: gli occhi gli brillarono di una luce che lei non aveva mai visto, e un sorriso gli illuminò letteralmente il volto.
– Come mai ti affascina tanto, l'idea di andare laggiù, Pete? – gli chiese Daimonji, che aveva notato la stessa cosa – Sei attratto dalla possibilità di diventare famoso come primo esploratore di Mu?
– Doc, cosa vuole che mi importi… per quel che mi riguarda sono già fin troppo famoso. Ma esplorare un continente sommerso… Mu, o Atlantide, o qualunque altro posto sconosciuto e misterioso, è un sogno che ho da quando andavo al liceo.
– E allora che aspetti? Vai al tuo posto di comando! Coraggio, ragazzi, si parte!
Briz si accorse che pure Daimonji era stupito, ma anche soddisfatto, per aver scoperto che perfino lo scostante Capitano Richardson aveva dei sogni e delle passioni.
Mentre si sistemava al suo posto, a bordo del Drago Spaziale, la ragazza ripensò alle confidenze che si era scambiata con le amiche un paio di giorni prima.
Maledizione, non voleva considerare nemmeno di striscio l’ipotesi di potersi innamorare di Pete. Poteva arrivare ad ammettere – molto malvolentieri, sia chiaro – di provare un'intensa attrazione fisica per lui, ma niente di più. Lei non era mai stata una dalla cotta facile, e quella strana cosa che provava ora, era di quelle che, in qualche modo, prima o poi passano.
Era così.
Era sicuramente, assolutamente, così!
E poi, era pure a senso unico.
“E per fortuna,” si ritrovò a pensare “così mi passerà ancora più facilmente!” 
Se non altro perché erano talmente diversi, che una relazione tra loro due non avrebbe mai funzionato a prescindere; c'era da uscirne davvero col cuore massacrato… lei non voleva più saperne, di stronzate romantiche!
E poi erano nel bel mezzo di una guerra galattica! Era la pilota di Balthazar, e già questo le dava non pochi problemi: aveva ben altro a cui pensare.
Comunque, al momento era rimasta piuttosto colpita dalla precisione e dalla competenza con cui Pete aveva esposto le teorie riguardanti Mu, e soprattutto dalla passione che era trapelata dalle sue parole. Cominciò ad avere un vago sospetto su quale facoltà frequentasse all’università, prima di decidere di diventare un pilota dell'USAF. Ma se fosse stato davvero come pensava, perché aveva interrotto gli studi per diventare un militare?
Briz accantonò il pensiero, sapeva che non lo avrebbe saputo finché non fosse stato lui a parlarne, e sempre che decidesse di farlo, cosa sulla quale nutriva seri dubbi: era talmente schivo che tirargli fuori due parole in croce, su qualcosa di personale, era impensabile.
Il Drago atterrò sulla misteriosa isola, su un'ampia pianura rocciosa. Daimonji decise che, a bordo del Bazzora, sarebbero andati in esplorazione Yamatake, Sanshiro, Briz, Sakon e Pete; la sua raccomandazione primaria fu quella di non correre rischi inutili e di non separarsi per nessun motivo.
Il triceratopo robot si mosse sui poderosi cingoli e si diresse verso un'altura di origine rocciosa, che si ergeva solitaria quasi al centro dell'isola. Avvicinandosi, tutti e cinque i componenti della spedizione videro, sul fianco della montagna, un'apertura simile all'ingresso di una caverna, ma troppo piccola perché Bazzora potesse entrarci. Così, armati di torce a led, decisero di continuare la perlustrazione a piedi. Mentre si dirigevano verso l'ingresso, Sanshiro si rivolse a Pete.
– È stato interessante il tuo spiegone: non ti facevo così colto.
– Mentre tu correvi dietro a una palla da baseball, io studiavo! – fu la risposta vagamente pungente.
Sanshiro non replicò, ma Briz si accorse che era rimasto piuttosto risentito per quella frase, così si fece immediatamente sentire.
– Ma razza di brutto secchione presuntuoso! Ti diverte tanto umiliare gli altri? Non tutti hanno le stesse possibilità o le stesse attitudini, nella vita!
A dispetto della cosa strana che sentiva nei suoi confronti, quando saltava fuori questo lato della sua personalità, lo detestava; ma lui riuscì a stupirla, come spesso accadeva, ormai.
– Scusa, Sanshiro, Briz ha ragione: a volte mi faccio prendere la mano dal mio brutto carattere, mi sono spiegato male. In realtà, volevo solo dire che ognuno di noi aveva le proprie passioni e il proprio talento, ma quasi tutti abbiamo dovuto rinunciarci, per un motivo o per l'altro.
– Okay, in questo caso capisco cosa vuoi dire; e sono d'accordo te – rispose Sanshiro, rimanendo però un po’ sul sostenuto.
Quando gli Zelani avevano cercato di ucciderlo per evitare che venisse convocato dal dottor Daimonji, lui era avviato ad una luminosa carriera nel mondo del baseball: era un vero astro nascente, per via di quello che veniva chiamato il suo lancio magico. Dall’attentato era uscito con un polso rotto, che gli aveva precluso per sempre la possibilità di giocare ancora ad alti livelli; la magia e la potenza dei suoi colpi, le aveva trasferite nel suo modo di combattere con il Gaiking, ed erano diventate il perno della sua abilità in battaglia.
Chiusa la discussione, i cinque esploratori entrarono nel passaggio e l'oscurità li avvolse, trafitta solo dalla luce delle torce.
– Guardate! – esclamò Sakon, indicando una parete sulla quale era inciso un carattere greco.
– Signori, la lettera Mu – spiegò Pete – Direi che la strada è quella giusta. Accidenti, che spettacolo! Stai a vedere che questa isoletta è davvero una piccola parte di quell'impero perduto!
Briz sentì la nota del tutto nuova che gli vibrò nella voce, e non riuscì a stare zitta: non sarebbe stato proprio da lei!
– Guarda un po' che ci voleva, per sentire un po' di emozione nella voce del nostro Capitano! Sai che ho capito cosa studiavi, prima di arruolarti in Aviazione? Riesco persino a immaginarti…
– A immaginarmi come, buffoncella? Sentiamo!
– Con una camicia color caki, un cappellaccio Fedora un po' sfatto e magari persino la barbetta incolta e una frusta legata alla cintura. Dai, mitico! Il professor Indiana Richardson!
Una lieve risata sfuggì a ciascuno di loro, smorzata dall'ambiente cupo che li circondava.
– Bene, fanciullina, hai indovinato: studiavo Archeologia e sognavo di trovare tesori perduti in giro per il mondo, proprio come Indiana Jones. Poi sono cresciuto… – fu il commento rassegnato di Pete.
Quell'ultima frase – pronunciata con un vago tono di rimpianto, seppur mascherato dalla solita corazza di ghiaccio – mise la parola fine al discorso, ma non ai pensieri di Briz, che riusciva a immaginarlo mentre studiava qualcosa che amava. Prima che il destino gli togliesse la capacità di amare ancora qualcosa… o qualcuno.
Proseguirono per un po', i fasci di luce che tagliavano l'oscurità di quel budello scavato nella roccia, il silenzio rotto solo dal suono dei loro passi e dei loro respiri, finché, sulla loro destra, si avvidero di un’arcata, al di là della quale si apriva un altro vano: era una stanza appena sbozzata nella roccia, dal soffitto vagamente a cupola, al cui centro si ergeva un sarcofago di pietra di forma rettangolare, ricoperto di fitte incisioni. Si avvicinarono tutti lentamente, come se avessero timore di commettere un sacrilegio.
– Ma è magnifico! – disse Briz, avvicinandosi e percorrendo con le dita gli sconosciuti simboli che ornavano il manufatto: gli studi artistici che aveva alle spalle glielo facevano apprezzare particolarmente, anche se non riusciva a riconoscere quelle strane rune; decise di fare qualche foto con il cellulare.
Anche Sakon sembrava affascinato quanto lei.
– Pete, tu riconosci qualcuna di queste lettere? A me sembra di non aver mai visto niente del genere, ma devo ammettere che è un argomento di cui non mi intendo.
Sakon non ottenne risposta e tutti si voltarono per guardare il loro esperto di archeologia, ma, per quanto le torce vagassero nel buio della camera, non riuscirono a individuare il loro compagno: Pete sembrava scomparso nel nulla.
A Briz venne la pelle d'oca: dove diavolo era finito?
– Figurarsi se non perdeva l’occasione, di fare l’eroe solitario e tenebroso. Pete! Piantala di fare l'asociale, Doc ha detto che dobbiamo stare insieme!
L'unica risposta fu l'eco della sua voce, che rimbombò tra le pareti di pietra.
– Eppure ha l'auricolare, non può non sentirci! – commentò Yamatake.
Si precipitarono fuori dalla stanza del sarcofago, nel cunicolo da cui erano arrivati, scrutando ogni angolo con le torce per vedere se Pete avesse proseguito e trovato un’altra camera o se, per lo stesso motivo, si fosse invece fermato prima; ma lui, semplicemente, non c'era.
Non ebbero tempo per proseguire la ricerca: la terra tremò sotto i loro piedi, frammenti di roccia si staccarono dalla volta e alcune crepe si aprirono nelle pareti dello stretto corridoio di pietra.
– Via! Via tutti! – gridò Sakon, che aveva preso il comando della piccola spedizione.
Cominciarono a correre verso l'uscita cercando di tenere il panico sotto controllo, e Briz sperò e pregò, con tutte le sue forze, che anche Pete, ovunque fosse, si dirigesse verso l'uscita. Si catapultarono fuori in pochi secondi, mentre l'isola continuava a tremare, e salirono in fretta e furia sul Bazzora, Sakon accanto a Yamatake, Briz e Sanshiro dietro.
E finalmente, nella ricevente dell'abitacolo, risuonò la voce di Pete:
– Aspettami, Yamatake!
– Oh, ma chi si sente! – esclamò Briz, arrabbiata nera – Allora quel cazzo di auricolare ti funziona ancora!
Pete uscì dal cunicolo correndo a rotta di collo e, quando li raggiunse, piombò dentro l'abitacolo come un ciclone, schiacciando Fabrizia tra lui e Sanshiro e chiudendo il portellone blindato, mentre Yamatake faceva partire il mezzo a tutta velocità verso il Drago, ballonzolando sul terreno sconnesso e traballante.
Poi, così com’era iniziato, il terremoto sembrò placarsi.
– Pezzo di somaro psicopatico che non sei altro! – urlò Briz tirando un pugno di traverso sulla spalla di Pete – Doc ha detto di non separarci, dove diavolo ti eri cacciato? – e per buona misura, gliene mollò un altro.
– Oohh! La smetti di menare? Lasciami in pace, hai capito?
Il tono era gelido come nemmeno i primi tempi, ma lei non se ne curò.
– Ma se t’ho appena toccato, piantala!
– Ehi, che ti è successo, là dentro? – gli chiese Sanshiro.
– Niente – e così dicendo si appoggiò contro lo schienale del suo sedile, incrociò le braccia e abbassò la testa, chiudendosi nel silenzio; il ciuffo di capelli gli scese sugli occhi, nascondendogli lo sguardo.
– Okay – brontolò Briz, a mezza voce – Uno dei suoi attacchi di stronzaggine acuta. Gli passerà…
Pete non diede segno di averla sentita; strano: di solito le sue battute pesanti lo mandavano in bestia, ma in quel momento era talmente alterato che decise di lasciarlo perdere. Probabilmente si sentiva in colpa per aver commesso la stupidaggine di allontanarsi da loro… e faceva bene!
Quando arrivarono al Drago, Daimonji aveva già mandato i motori a pieno regime; Bazzora entrò e tutti scesero velocemente per andare in sala comandi, a riferirgli quello che avevano trovato. Pete rimase indietro e li avvertì:
– Andate voi, devo controllare una cosa nella sala motori.
Gli altri erano quasi arrivati in plancia di comando, quando un allarme interno risuonò, avvertendo che c'erano dei problemi: i motori del Drago stavano rapidamente perdendo potenza.
"Strano," pensò Briz "Pete è appena andato a controllare". 
Un'orribile idea le passò per la mente e il suo sguardo incrociò quello di Sanshiro, che sembrava aver avuto il suo stesso pensiero.
– Briz, vieni con me! – le ordinò all'improvviso, tornando di corsa sui suoi passi.
Lei lo seguì, e in un attimo raggiunsero il vano macchine: Pete era davanti al pannello dei comandi e stava abbassando le leve che controllavano la potenza dei motori. Takashi, il tecnico addetto al controllo, si stava rialzando a fatica da terra, con un rivolo di sangue che gli colava dal naso: era evidente che si fosse preso un pugno in faccia, e Briz notò che anche Pete aveva un segno rosso sulla guancia.
– Ma che ca… – Briz si lanciò contro di lui – Fermo! Che stai facen… 
Non arrivò nemmeno a finire la frase: le arrivò un manrovescio su un lato del viso che le fece vedere le stelle e rotolò a terra, dove rimase, dolorante e intontita, per parecchi secondi.
Sanshiro, a quella vista, fu più determinato: fu colpito a uno zigomo da un pugno di Pete, ma anche se gli fece male riuscì a reagire e ad atterrare il capitano. Standogli addosso gli rifilò un paio di colpi a sua volta, che lo lasciarono stordito per qualche secondo; Sanshiro ne approfittò, lo girò a faccia in giù e lo immobilizzò piegandogli le braccia dietro alla schiena, prima di tirarlo bruscamente sulle ginocchia.
Fabrizia, intanto, si era sollevata a sedere, una mano premuta sulla guancia colpita e dolorante, e si trascinò davanti a Pete che, ancora immobilizzato da Sanshiro, se ne stava fermo in ginocchio, a testa bassa. Lui alzò appena il viso e la fissò.
Briz rimase raggelata: gli occhi di Pete avevano le pupille dilatate e opache, e le iridi intorno ad esse erano ridotte a due anelli di un diabolico colore rossastro.
– Cristo santo, Pete! Che cosa ti hanno fatto? – esclamò la ragazza disperata, scrollandolo per le spalle.
La testa gli dondolò, ma non diede segno di averla riconosciuta.
– Ho l’impressione che le maniere forti non servano a niente… continua a parlargli – disse Sanshiro, sempre tenendogli le braccia dietro alla schiena.
Lei obbedì e gli prese il viso tra le mani obbligandolo a guardarla negli occhi, ma dovette esercitare un'intensa costrizione anche su sé stessa, per sostenere la vista di quelle pupille vitree e dal colore infernale.
– Pete, guardami! Guardami, ti prego! Svegliati! Sono Briz, non ti ricordi di me? La tua Miglior Nemica… La fanciullina pazzoide…
A Pete sembrava di avere la testa dentro una bolla: si sentiva la mente e i sensi ottenebrati, e vedeva tutto in modo nebuloso e distorto, come in certi sogni. Aveva percepito una voce che gli aveva ordinato di sabotare il Drago Spaziale, e lui non era riuscito ad opporsi: lo aveva fatto… ma forse qualcosa era andato storto.
Sentiva altre voci che gli sembravano lontanissime, anche se vagamente famigliari… Qualcuno lo aveva colpito, ma lui non aveva sentito dolore… Però ora era immobilizzato, e le voci sembravano essersi fatte più vicine.
Davanti a lui prese forma il volto di una ragazza, ma non riusciva a metterlo a fuoco: sembrava carina, gli parlava, poiché vedeva le sue labbra muoversi… ma lui afferrava solo una parola ogni tanto.
Sentì che gli teneva ferma la testa, e riuscì a fissare lo sguardo su due begli occhi color smeraldo: gli sembrarono più nitidi di tutto quello che gli stava intorno, perché si accorse che erano pieni di lacrime che brillavano tra le lunghe ciglia scure.
"Pete, sono io, il giullare buffone!" 
Un flash gli attraversò la mente confusa e gli fece sbattere le palpebre un paio di volte; una nuvola di profumo al biancospino lo avvolse, risvegliando vaghi ricordi: dei cavalli… un cane nero…
Poi, in quella specie di sogno, successe una cosa: sentì le dita della ragazza scivolargli tra i capelli, vide gli occhi verdi chiudersi e avvicinarsi ai suoi, e lui avvertì sulle labbra, per qualche secondo, il sapore salato delle sue lacrime… e la dolcezza di un bacio.
Una sensazione di pace e serenità gli scese nel cuore.
Chiuse gli occhi e ogni muscolo del suo corpo si rilassò, mentre chinava appena la testa in avanti per prolungare quel piacevole contatto… ma si sentì trattenere da dietro, e le labbra della ragazza, chiunque essa fosse, si staccarono dalle sue.
Un urlo gli trafisse i timpani all'improvviso facendolo trasalire, accompagnato da una fitta di dolore in mezzo agli occhi che infranse la bolla in cui si era sentito prigioniero; si sentì scrollare con violenza per le spalle.
– Dannazione, svegliati, Richardson!!!
Pete spalancò gli occhi, mettendo a fuoco il viso disperato di Fabrizia, gli occhi verdi stravolti e le lacrime che le rotolavano sulle guance.
– …fanciullina…!? – esclamò, al colmo della confusione – Dai, chiudi quei rubinetti – gli uscì poi, senza che nemmeno se ne rendesse conto.
Briz lo guardò incredula per qualche secondo, a bocca aperta: di tutte le frasi che avrebbero potuto venirgli in mente tornando in sé, quella era decisamente la più assurda!
Ma, almeno, le pupille di Pete erano tornate vive e delle dimensioni giuste, al centro delle iridi che avevano riacquistato il loro azzurro intenso e trasparente.
– Whew! – sospirò la ragazza rilassandosi, mentre la presa delle sue mani sulle spalle di Pete si trasformava in una carezza, tornandogli fra i capelli e poi sulle guance – Ehi… bentornato, mon Capitain.
A quelle parole, anche Sanshiro lo lasciò andare, pur se con una certa cautela.
– Ma che cosa è successo? Che ci facciamo in sala macchine? – chiese Pete, mentre il compagno lo aiutava a rialzarsi.
– Dovremmo saperlo noi? – lo assalì Sanshiro – Ti è accaduto qualcosa nella grotta, ma se non lo sai tu…!
– Io… non mi ricordo niente. Solo che siamo entrati in quel cunicolo…
D’improvviso la terra ricominciò a tremare e tutto il Drago venne scosso, mentre l'allarme generale di un attacco cominciava a suonare. Briz lanciò un’occhiata a Takashi, che era già tornato al suo posto passandosi il dorso della mano sotto al naso sanguinante, e che le fece capire di non dire nulla al Capitano Richardson del fatto che lo avesse colpito. Poi si rivolse a lui:
– Stai bene, Pete? Te la senti di combattere?  
– Sì, che domande!
– E possiamo fidarci? – lo provocò Sanshiro, mentre uscivano dalla sala macchine.
– Esci con il Gaiking, muoviti! – ordinò Pete col suo solito piglio sbrigativo – E tu vai fuori subito con Balthazar! – aggiunse, mentre già tutti e tre correvano per raggiungere i loro posti di combattimento.
– Ehi, Briz! – la chiamò poi, fermandosi all’improvviso, mentre stavano per separarsi.
– Che c'è?! – chiese lei, impaziente.
Pete la guardò per un paio di secondi, e negli occhi gli brillò come una domanda inespressa; scrollò la testa, come per eliminare un'idea assurda.
– …Niente, vai! – concluse, prima di raggiungere la sua postazione.
Il Mostro Nero emerse dalla vetta della montagna nelle cui viscere avevano passeggiato meno di mezz'ora prima: era uno strano essere, con le vaghe sembianze umane di una statua dell'antica Grecia con avvolto, attorno al corpo gigantesco, un altrettanto gigantesco serpente. Quando Pete lo vide impallidì, e il ricordo di quello che era accaduto dentro alla montagna lo assalì; Daimonji se ne accorse.
– Pete, ti senti bene? – gli chiese, poiché Takashi lo aveva informato via radio di quello che era accaduto.
– Non proprio, ma le spiegherò poi. Ora andiamo!
Non c'erano dubbi sul fatto che Pete fosse tornato a essere sé stesso.
Il Mostro Nero attaccò e la battaglia ebbe inizio: il serpente si staccò dal compagno umanoide, e venne naturale che di quest'ultimo si occupasse il Gaiking, mentre il mostruoso rettile fu affare del leone, che per poco non venne sopraffatto. Per fortuna, mentre si rotolava sul terreno roccioso avvolto nelle mastodontiche spire, Balthazar fu soccorso dal Drago che, con la Lama Gigante e una manovra simile a quella con cui, mesi prima, aveva liberato il Bazzora guidato da Tom, procurò al mostro danni tali da costringerlo a lasciarlo. Un solo, potente colpo di raggio al plasma, uscito dagli occhi di Balthazar, fu sufficiente a distruggerlo definitivamente, mentre il Drago dava il colpo di grazia con i missili anche all'altro essere, già ridotto a mal partito da Sanshiro.
Briz si rese conto che gli interventi di Pete con il Drago erano stati decisivi per l'esito della battaglia.
"Wow, vendetta, tremenda vendetta!" pensò la ragazza davanti a quella furia, chiedendosi cosa diavolo gli fosse accaduto nelle profondità di quella montagna maledetta.
Effettuata la disconnessione, ai soliti malesseri ormai di routine si aggiunse quello del dolore alla guancia sulla quale Pete l'aveva colpita. Le faceva un male cane, dandole la spiacevole sensazione che anche il labbro superiore si fosse gonfiato.
Il Gaiking e Balthazar rientrarono a bordo, mentre l'isola, così come era emersa pochi giorni prima, si inabissava nuovamente, portandosi via per sempre la leggenda del mitico continente di Mu.
 
 
 ***
 
 
Al rientro al faro di Omaezaki, Daimonji spedì Pete dal dottor Toshiro Watanabe e dalla dottoressa Mori. I due medici lo sottoposero a un'accurata visita, sia fisica che neurologica, che non portò alla luce nessuna anomalia: Pete era sano come un pesce, a parte un paio di vistosi lividi sulla parte destra del viso e il labbro inferiore un po' gonfio. Aveva appena finito di rivestirsi, quando sulla porta si affacciò Daimonji.
– Possiamo entrare, dottori? Ci sono altri tre feriti lievi da visitare.
– Prego, entrate, il Capitano Richardson è a posto.
Dietro al dottor Daimonji entrarono tre persone: Fabrizia, Takashi e Sanshiro.
– Che vi è successo? Vi siete feriti durante la battaglia? – chiese Pete, mentre Toshiro si occupava per primo di Takashi e la dottoressa Yumiko Mori di Fabrizia.
– Non proprio! – rispose Sanshiro in tono tagliente – Ma davvero non te lo ricordi? Prima che io riuscissi a immobilizzarti, nella sala motori, ci hai mezzi massacrati!
– Cosa? Ma come… – si avvicinò a Takashi, il cui naso non sanguinava più, ma che aveva schivato per miracolo la frattura del setto – Scusami… io non…
– Non è niente, Capitano, non volevo nemmeno che lei lo sapesse. Mi sono accorto che… non era lei. E comunque, mi sono difeso, mi creda – minimizzò il tecnico, che aveva capito perfettamente la situazione. Pete guardò mortificato anche Sanshiro, che esibiva su uno zigomo un livido non meno evidente del suo.
– Non stare a chiedermi scusa, mi sono già preso la soddisfazione di restituirteli, un paio di papagni ben fatti! – lo apostrofò il pilota del Gaiking con un ghigno, prima che la dottoressa Mori lo chiamasse.
Pete si avvicinò a Briz che, terminata la visita, gli girava le spalle e si teneva un cuscinetto pieno di ghiaccio premuto sulla guancia. La fece voltare e le scostò la mano dal viso.
– Ahi, no… – si lamentò lei, un po' per il dolore e un po' perché non voleva che lui vedesse.
Ma ormai era fatta: il livido stava diventando scuro e sia la guancia che il labbro erano gonfi.
– Oh, Dio, Briz! – mormorò costernato – Potevo sopportare l'idea di aver fatto a pugni con Takashi e Sanshiro, ma ti giuro, in vita mia non avevo mai picchiato una donna. Mi dispiace.
– Ma come? Una volta mi hai detto che non hai spirito cavalleresco! Mi hai mentito? – provò a sdrammatizzare lei; ma vedendo l'espressione contrita di Pete, non riuscì a scherzarci oltre.
– Senti… è vero che mi hai restituito con gli interessi lo schiaffone che ti ho dato mesi fa, ma non sei stato tu, a picchiarmi, lo so. Non ti angustiare per questo. Se solo tu ti fossi visto… Non… non eri tu.
Briz sapeva che il ricordo di quelle iridi, rosse come il fuoco dell’inferno, l’avrebbe perseguitata per chissà quanto tempo.
Intervenne Daimonji:
– Finite di farvi medicare, poi, se ve la sentite, venite in sala comune. Vediamo se Pete riesce a spiegarci cosa è successo.
Un quarto d'ora più tardi, erano tutti seduti sui divanetti e sulle poltroncine della sala comune: Pete, Fabrizia e Sanshiro si tenevano i cuscinetti di ghiaccio sui lividi, per attenuare il dolore e il gonfiore, ma gli altri erano impazienti di sentire cosa fosse accaduto.
– In realtà non sono per niente sicuro di quello che sto per dirvi – cominciò Pete – È stato come un sogno confuso, e lo ricordo anche male. Quando voi siete entrati sotto l'arco, qualcosa mi ha spinto a proseguire: c'erano dei gradini che scendevano, molto più avanti, nascosti nel buio. Mi sono ritrovato in una stanza con le pareti di pietra al cui centro c'era una enorme statua, una specie di guerriero greco, con un serpente avvolto intorno al corpo…
– Era il Mostro Nero…? – chiese Midori.
– Io… credo di sì. So solo che dagli occhi della statua si è sprigionata un'intensa luce rossa che mi ha quasi accecato e… non so, ho sentito come una voce, nella testa, che mi diceva di sabotare il Drago. Una volta risalito a bordo, non sono riuscito più a resisterle, mi ha annientato la volontà, completamente… Ho dimenticato… tutto. Non sapevo nemmeno più chi fossi.
– Insomma, ti sei fatto infinocchiare per bene – lo prese in giro Sanshiro, con una certa soddisfazione: si stava divertendo da matti nel prendersi una rivincita sui modi, a volte presuntuosi, di Pete.
– Ecco perché eri così strano, quando sei risalito sul Bazzora… – disse Briz.
– In che senso, ero strano?
– Più stronzo del solito! – rispose Sanshiro.
– Tu passi troppo tempo con Briz, ultimamente: non ti fa mica bene! – ribatté Pete, senza prendersela più di tanto. Tutti si lasciarono sfuggire qualche sommessa risata, a quel battibecco amichevole.
– Ci hanno attirati sull'isola apposta – disse Daimonji, tornando serio – E non credo che abbiano scelto Pete a caso. Gli scagnozzi di Darius sanno che sei il pilota del Drago, e che avresti saputo dove mettere le mani per sabotarlo.
– E allora perché non prendere Sakon? Lui è l'ingegnere capo, ne sa molto più di me.
– Dimentichi il suo Quoziente Intellettivo: ipnotizzare lui sarebbe stato molto più difficile – spiegò il dottor Daimonji.
– Allora sanno anche questo? Ci conoscono così bene? – chiese Sakon.
– Temo di sì. Nessuno di noi, per un motivo o per l'altro, è più perfettamente al sicuro al di fuori dei confini della base.
– Staremo attenti – disse Briz – Andremo in giro armati e vivremo con gli auricolari notte e giorno, ma io non posso rinunciare a vivere quella poca libertà che mi resta!
– Nessuno te lo chiede, Briz. Solo… state all'erta, sempre.
I ragazzi concordarono, e dopo qualche momento di silenzio, qualcuno si ritirò. Fabrizia rimase e, continuando a premersi il ghiaccio sul viso, si avvicinò alla grande vetrata che dava su un ampio terrazzo, e dalla quale il pallido sole dei primi di novembre illuminava la stanza.
Pete le si avvicinò, mentre Midori e Sanshiro rimanevano seduti a chiacchierare. Briz lo sentì e gli lanciò uno sguardo fugace: non teneva più il ghiaccio, ma il livido sulla faccia gli stava diventando più evidente. Si vedeva lontano un miglio quanto fosse mortificato.
– Pete, smettila con quell'aria da cane bastonato, ti prego: ti ho già detto che ti perdono.
– Il fatto è che non riesco ancora a concepire di aver potuto picchiare una ragazza… soprattutto te. Che razza di ceffone ti ho dato per… ridurti così?
– Era più un mezzo pugno, in effetti – precisò lei.
– Ah, grazie! Rincari anche la dose, adesso? Forse mi sentirei un po' meglio, se sapessi che anche tu ti sei difesa picchiandomi.
– Chi ti dice che non lo abbia fatto?
Pete scosse la testa: – No… Tu…
Come un lampo, un ricordo improvviso gli attraversò la mente.
– Tu mi hai baciato! – esclamò, prendendola per le spalle per guardarla in viso.
Midori e Sanshiro, a quella frase, si girarono a guardarli, e anche il dottor Daimonji, che era rimasto a un tavolo, da solo e pensieroso.
– Che? Cos’ho fatto, io? – fece lei, sgranandogli in faccia due occhi tondi che erano uno spettacolo e togliendosi il ghiaccio dalla guancia.
– Mi hai baciato! – ripeté lui.
Briz fece un passo indietro, scosse appena la testa e ridacchiò, sollevando un sopracciglio. La frase che le sfuggì fu in un italiano sgrammaticato, dall’accento dialettale ereditato dalla nonna romagnola.
– Mo’ la mia stèlla, te hai fatto un sogno!
– No, non ho fatto un sogno! – esclamò lui, che aveva capito lo stesso – Ammetto che ero confuso, ma…
– Pete, dire che eri confuso è un po' riduttivo! Ti garantisco che per almeno una ventina di minuti, sei stato più suonato di una canzone di Michael Jackson!
– Oh, ma andiamo! È vero che è passato un bel po', dall'ultima volta che una donna mi ha baciato, ma riesco ancora a capirlo, se succede! E tu l'hai fatto!
– Seeh! Ti piacerebbe! – lo provocò lei.
Pete continuava a guardarla con un'espressione scettica, poi si rivolse a Sanshiro.
– Ehi, tu eri lì! Avanti, mi ha dato un bacio, no?
Sanshiro guardò per un attimo Fabrizia, poi lui, e scosse la testa.
– Mmm… La teoria del sogno continua ad essere la più attendibile, Pete.
– Visto?! – esclamò Briz – Pete, ti ricordo chi siamo, noi due. Hai presente, io e te? Il giorno e la notte, il fuoco e il ghiaccio, un arcobaleno e un temporale, un cane e un gatto… tutte cose che non possono coesistere! Un bacio è qualcosa di totalmente incompatibile con… con noi!
Pete sospirò e si grattò la nuca, incerto; la piccola folle non aveva tutti i torti.
– E allora, se davvero l'ho sognato… perché?
– Oh, beh, questo è un problema tuo.
Sanshiro continuò a tormentarlo:
– Magari… perché è davvero qualcosa che ti piacerebbe!?
Pete lo fulminò: – Adesso sei tu che sogni!
– Sentite, diamoci un taglio, per piacere! – la chiuse lì Briz – E cambiamo argomento: tu non l'hai visto il sarcofago, vero, Pete?
– Quale sarcofago?
– Questo…
Fabrizia afferrò il proprio cellulare e gli disse:
– Ti passo delle foto; sono solo due o tre, purtroppo non c’è stato il tempo, per farne di più.
In pochi secondi, alcune immagini furono trasferite sullo smartphone di Pete, che rimase a guardarle affascinato.
– Le hai fatte tu, queste foto?
– Noo, mia nonna! E chi, se no!? Forza, vai a scaricartele sul tuo computer e studiatele come si deve, lo so che ti interessano da matti. Anche perché quel sarcofago… non lo troverà mai più nessuno. E credimi, non so cosa darei in questo momento, perché al mio posto, a vederlo dal vero, ci fossi stato tu – concluse sincera.
Effettivamente, il fatto che quel meraviglioso tesoro archeologico fosse andato perduto per sempre, dispiaceva a tutti, ma a Pete in modo particolare. E l'ultima frase della ragazza lo colpì: era un pensiero carino.
– Grazie, Briz, a volte sei davvero impagabile. Quasi quasi ti bacerei davvero… – aggiunse ironico.
Lei gli puntò l'indice davanti al naso, arrossendo vergognosamente:
– Non ti sognare di farlo!
– Veramente è proprio quello, che ho fatto! L'hai detto tu che ho sognato! – ribatté lui.
– Sì, va be’, okay, falla finita! Vai a studiarti le foto e levati dalle scatole! E rimettiti il ghiaccio su quella faccia, che comincia a sembrare una carta geografica!
– Quanto sei simpatica, tesoro – le passò vicino e le allungò una rapida carezza sui capelli scompigliati.
– E non chiamarmi tesoro! – gli ordinò, ritraendosi bruscamente.
– Va bene, e vai a riposare anche tu, piccola: ne hai bisogno.
– Non è che, detto da te, piccola mi piaccia molto più di tesoro, sai? – brontolò lei, alla porta che Pete si stava richiudendo alle spalle.
Il dottore si lasciò sfuggire un sorriso. Quei due, non riusciva proprio a inquadrarli: alternavano battute pesanti e litigi, con momenti che rasentavano la tenerezza; momenti che poi facevano di tutto per rovinare. Vuoi vedere che, a forza di urlarsi dietro e dirsene da forca e da galera, alla fine, un po' si piacevano, pure?
Briz scosse la testa, e con un sospiro si rivolse a Sanshiro.
– Grazie per avermi retto il gioco, con Pete.
– Retto il gioco? Non capisco – esclamò Midori.
– E io non capisco il motivo per cui tu gli abbia mentito spudoratamente – disse Sanshiro a Briz, mentre Midori restava a bocca aperta dalla sorpresa.
– Mentito? Vuoi dire che… – cominciò la ragazza.
– Che l'ha baciato davvero! – la interruppe Sanshiro – E vi posso garantire che, per quanto fosse parecchio fuori, a Pete non è dispiaciuto. Nemmeno un po'! 
– Smettila, lo sai benissimo perché l'ho fatto! Tu mi hai detto che le maniere forti non servivano, e ho avuto l'idea di fare qualcosa che… lo sconvolgesse. E infatti, guarda caso, ha funzionato – esclamò, guardando Midori in modo eloquente, che ripensò a ciò che si erano dette pochi giorni prima, insieme a Jamilah.
– Sarà! – esclamò Sanshiro – A me, voi due non la raccontate giusta!
– Non farti certi viaggi, amico mio. Io e Pete? Ma non esiste!
Si avvicinò a Midori e le si rivolse a voce bassa.
– Però mi sono tolta il dubbio: le sue labbra non sono dure, e nemmeno fredde. Peccato solo che lui, in quel momento, chissà chi credeva di baciare.
Con un sorriso birichino, guadagnò la porta e sparì.
Midori rimase pensierosa per qualche secondo e le sfuggì un sorriso. E brava furba, la sua amica Briz: lo aveva fatto davvero!
Guardò di sottecchi Sanshiro e pensò: “E se lo facessi anch'io?"
– Perché sorridi? – le chiese lui.
– Niente… Ho appena pensato… a una cosa piacevole.
Si avvicinò e gli posò un rapido bacio… sulla guancia!
– Ehi… perché? – si stupì Sanshiro.
– Così… Perché vuoi bene a Fabrizia come me; perché sei un amico… Ciao, bel ragazzo, vai a riposarti anche tu, ne avrai bisogno – concluse Midori, lasciandogli una carezza lieve sul viso.
E se ne andò, maledicendo fra sé la paura che aveva, anche lei, di complicare le cose.
Daimonji aveva seguito la scena in silenzio; tra i suoi ragazzi si stavano sviluppando dinamiche che non aveva previsto.
Aveva pensato che la faccenda Pete e Fabrizia fosse difficile da inquadrare.
Perché, quella Sanshiro e Midori, invece, era semplice?
 
> Continua…
 
 
 
Nota dell’autrice:
Questo capitolo è ispirato all’episodio n° 7, “La resurrezione dell’Impero Mu”.
Le spiegazioni che Pete dà ai compagni su questo leggendario continente perduto, le ho trovate su Google. Se non fossero precise, prendetevela con lui! (Google, non Pete…)
Naturalmente, nell’anime, a far rinsavire il nostro bel capitano erano i papagni di Sanshiro, non il bacetto della fanciullina. Lei non c’era… anche se The Blue Devil la cerca, quando si riguarda un episodio 😉
Il disegno è per tutti quelli che aspettavano il primo bacio, anche se lo so, LO SO, che non è così che ve lo immaginavate. Ma io son Kativa! Mwahahaha! 😈

Briz-Pete-bacio-ipnosi
Ciao a tutti, grazie per aver letto e (spero) apprezzato.
*Aggiunge sottovoce*: Se poi qualcun altro vuol farsi avanti e dirmelo, mica piango, sapete?
Kiss!

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Capitolo 15
*** 14 - Rapimento ***


~ 14 ~ 
RAPIMENTO
 
Pete arrivò davanti alla porta della sala comune e si fermò, incerto. L'indecisione era una di quelle caratteristiche che, generalmente, non gli appartenevano; come l'umiltà, del resto. Eppure, in qualche modo, ora doveva scacciare la prima e mettere insieme una buona dose della seconda. Sapeva che, a quell'ora, in sala comune non c'era nessuno, tranne Sakon; prese un respiro ed entrò.
Il giovane ingegnere stava leggendo, una volta tanto un romanzo, e non uno dei soliti testi di informatica, astrofisica, meccanica aerospaziale o chissà cos'altro. Riuscì a vedere il titolo di sfuggita, Timeline di Michael Chrichton: un bel raccontone di avventura e viaggi nel tempo che aveva letto anche lui.
Sakon alzò lo sguardo dal libro e lo salutò.

 
Sakon

– Ciao, posso fare qualcosa per te?
– Sì: devo parlarti, se hai un minuto da dedicarmi.
Sakon chiuse il libro e si chiese cosa potesse mai avere Pete, da dirgli; dalla sua espressione, sembrava che l'argomento fosse più di natura personale che tecnica.
– Sono qui: spara.
Pete si sedette sulla poltroncina di fronte a lui e si chinò in avanti, con i gomiti sulle ginocchia; si passò le mani tra i capelli, con un gesto che tradiva il suo nervosismo.
– Senti… io… sono negato per certe cose, ma questa sento davvero di doverla fare, anche perché alcuni avvenimenti degli ultimi mesi mi hanno fatto cambiare idea su… alcune questioni, e… insomma, voglio chiederti scusa, Sakon.
– A me? Ma per che cosa?
– Ah, non cercare di indorarmi la pillola, lo sai: ho detto delle cose orribili quando Lisa è morta. Ma dopo più di sei mesi passati a combattere al tuo fianco, dopo averti conosciuto meglio… e aver conosciuto meglio anche gli Zelani… ho capito molte cose, e ho dovuto rivalutare anche Lisa e quello che ha fatto; ho finito per considerare tutto da altri punti vista. Mi dispiace, perdona la mia insensibilità.
Sakon lo ascoltò in silenzio. Onestamente, non si sarebbe mai aspettato una cosa del genere da Pete, il campione degli orgogliosi. Conoscendolo, pensava che si fosse persino dimenticato delle parole dure che aveva detto quel giorno, così ci aveva messo una pietra sopra, anche alla luce dei cambiamenti che aveva visto in lui, soprattutto negli ultimi mesi.
– Pete… Ti ho perdonato da un pezzo, se proprio vuoi saperlo. E sai perché? Perché tu non somigli più nemmeno lontanamente all'uomo che eri quando sei arrivato qui, anche se puoi sicuramente migliorare ancora. Cioè… come pilota del Drago non sei secondo a nessuno, io intendo come essere umano.
– A volte non so se sia un bene, ho paura che affezionarmi troppo a… agli altri, mi possa…
– …possa cosa? Rammollirti? Esserti d'intralcio quando combatti? Eh, come ti ho detto hai ancora della strada, da fare, ma posso dirti una cosa in cui credo fermamente: i sentimenti per le persone che abbiamo intorno, amicizia, affetto, simpatia e… anche amore, in certi casi, possono darci tanto di quel coraggio da farci fare cose impensabili. I sentimenti ci rendono più forti, Pete, non più deboli.
– Mi sembra di sentir parlare Fabrizia.
– Può darsi… condividiamo diverse idee sulla visione del mondo, io e lei. Adoro quella matta scapestrata.
– La adori… in che senso? – chiese Pete, con un'espressione a metà tra il preoccupato e il curioso.
– Non nel senso che hai appena pensato. Le voglio bene, perché nonostante le batoste che ha preso non ha perso né la voglia di vivere, né i sentimenti, tantomeno il coraggio. E non ha paura di cambiare: lei stessa non è più la ragazzina spaventata e insicura che era all'inizio e ce la mettete davvero tutta, entrambi, per ubbidire all'ordine che vi ha dato Daimonji. Ho visto che ultimamente le fai fare addestramento ai simulatori di volo: le stai insegnando molto e dando ottimi consigli su come concentrarsi e mantenere i nervi saldi; suggerirle di ricominciare a praticare il karate con Fan Lee, poi, è stato un vero colpo di genio. Lei sta imparando, anche grazie a te, a diventare un guerriero; e se tu sei diventato un po' più… umano, il merito è della tua fanciullina, dei suoi cavalli, e della sua… come la chiami, tu? Stupidera. Su questo Doc aveva visto giusto: passare del tempo insieme vi sta rendendo migliori, non puoi dissentire.
– No, è vero; ammetto che con lei ho ricominciato a vedere certe cose con un po' più di leggerezza. Riesce a farmi ridere, e già questa è una cosa insolita; ma riesce addirittura a farmelo fare in situazioni difficilissime. E… non so… se in Yock e Lyra ho rivisto me e Tom, ci sarà un motivo; sei mesi fa, probabilmente, non ci avrei nemmeno pensato. E sul fatto che anche lei sia cambiata, e sia diventata più determinata e coraggiosa, non posso dire nulla; era solo una studentessa di veterinaria con un diploma da artista e un passato tragico alle spalle… e guarda cosa fa, ora!
– E tu eri solo un Capitano dell'USAF presuntuoso e freddo come l'Artico, e guarda adesso cosa fai: ami gli animali e salvi i bambini. Dimmi la verità: è stata lei a dirti di chiedermi scusa.
– Uhm… Sì, ma no… insomma, avevo deciso già da tempo che volevo farlo. Diciamo che Briz si è preoccupata di ricordarmelo, naturalmente precisando di farlo solo quando ne fossi stato convinto, e non perché me lo aveva detto lei.
– Ahah! Questo è proprio nel suo stile! – rise Sakon, che poi, riprendendo la sua solita espressione pacata, proseguì: – Pete, posso darti un consiglio? Vedo che vi tormentate spesso, tu e Briz, vi prendete in giro, e battibeccate continuamente, ma… hai mai pensato di guardarla da un punto di vista diverso da quello della compagna di battaglia?
– Pensi che non lo faccia? Non potrei evitarlo… Credo di sapere alcune cose di lei che alcuni di voi nemmeno si sognano, anche se sono sicuro che tu, Midori e Doc ne sapete altre che non so io. Sulla NGC, per esempio: non mi ha mai voluto dire cosa le succeda esattamente quando combatte.
– E pensi che te lo dirò io?
– Neanche per sogno: spero che un giorno me lo dica lei, ma ho smesso di chiederglielo.
– Posso dirti solo che… tu non hai idea di quello che Briz sta chiedendo al suo fisico, alla sua mente e persino al suo cuore. Come hai detto tu… era solo un'artista sognatrice che studiava veterinaria.
Rimasero in silenzio per un po', poi Pete tornò all’argomento iniziale.
– Sakon… pensi ancora molto a Lisa?
– Ci penso, sì… non come all'inizio, però. Ci sono cose, nella vita, che non puoi cambiare, e a un certo punto… devi lasciarle andare.
Pete ascoltò quelle parole in silenzio, assorto, e se le ripeté nella mente: "Lasciarle andare…" 
Sakon capì che cercava, molto faticosamente, di adattarle a sé stesso. Ricordava il racconto di Tom, e pensò che tutti loro conoscevano la storia dei due fratelli, e della morte dei loro genitori, solo dal punto di vista del minore; nessuno sapeva come Pete avesse realmente vissuto quella tragedia, sapevano solo che, in seguito ad essa, lui era cambiato.
– Pete… una volta, in cui ero un po’ giù di corda, Briz mi ha detto una cosa, una frase che aveva letto in un libro: "Dammi, Signore, la serenità per accettare le cose che non posso cambiare; la forza e il coraggio per cambiare quelle che posso; e la saggezza… per riconoscere la differenza". 
Pete ponderò quella preghiera per un po': non era male, doveva ammetterlo. Era proprio… una cosa da Briz, pensò con un mezzo sorriso, scuotendo appena la testa.
– Alla fine siamo tornati a parlare di lei – commentò.
– Già… e non ti dispiace nemmeno. Dammi retta, Pete, guardala bene, la tua fanciullina, considerala da ogni punto di vista: lei è molto di più della pilota di Balthazar, del nostro giullare di corte o della piccola scapestrata che spara volgarità per sentirsi più dura.
Pete annuì lentamente, e non disse nulla; si alzò e fece per andarsene, quando Sakon gli disse:
– Ehi… grazie, per essere venuto da me, e per le tue scuse: l’ho apprezzato molto – e gli allungò la mano.
Pete gliela strinse, con la convinzione che, quel giorno, aveva perso un semplice compagno di battaglia per trovare un amico.
In quel momento la porta si aprì, e Jamilah mise dentro la testa.
– Ah, sei qui, Prof! Ciao, Pete. Vi disturbo?
– Certo che no, Jami, tu non disturbi mai – disse Sakon.
A quelle parole, Pete ebbe l'impressione di vedere il volto della ragazza assumere una sfumatura rosata sotto la pelle d'ambra, e una luce danzare negli incredibili occhi color acquamarina. Gli sembrò strano aver notato una cosa del genere: di solito lui non era molto attento alle emozioni altrui.
– Senti, Prof… volevo solo dirti che Doc ha bisogno di te, ma senza fretta. Ti aspetto da lui, a dopo – disse Jamilah, con un sorriso tutto denti bianchissimi, fossette sulle guance e occhi luminosi, prima di scomparire di nuovo dietro la porta.
"Questa ragazza è adorabile" pensò Pete "E mi sa che Sakon nemmeno se n'è accorto!"
– Raggiungi Jami – gli disse; poi, usando più o meno le stesse parole che aveva usato Sakon, proseguì: – Posso darti un consiglio io? Guardala bene, la tua collaboratrice: secondo me è molto di più dell'assistente silenziosa e professionale che sembra, anche se continua a chiamarti Prof. Non darla per scontata, potrebbe sorprenderti!
– Lo sai, vero, che prima di conoscere Briz non mi avresti mai detto una cosa del genere? – concluse Sakon, uscendo dalla sala e lasciandolo lì, con quella domanda che aleggiava nell’aria.
Pete si disse che forse l'amico non aveva tutti i torti: da un po' di tempo aveva davvero cominciato a pensare e ragionare su certe cose in modo diverso; lui e Briz si stavano davvero influenzando a vicenda. 
La tua fanciullina, aveva detto Sakon. Ecco, forse in questo si sbagliava… Fabrizia era senz'altro una fanciullina, per lui lo sarebbe sempre stata, ma una cosa era certa: non era sua.
 
* * *

Midori fece un paio di respiri profondi e mise le mani sulla cloche del caccia stellare: la spinse lentamente in avanti e il veicolo acquistò velocità sulla rampa di lancio all'interno del Drago.
Adesso cominciava a capire come si sentissero Briz e tutti gli altri, quando lanciavano Balthazar e gli altri mezzi su quella stessa pista. Pochi secondi, e il caccia schizzò all'aperto, stagliandosi contro il cielo azzurro.
Questa volta non era un addestramento: era una missione di ricognizione dall'alto, con un nuovo mezzo. Nel dischetto che Yock aveva consegnato al dottor Daimonji, avevano trovato informazioni talmente numerose e dettagliate, da essere ancora al vaglio. Molte dovevano essere ancora decrittate, ma grazie ai computer e all'aiuto di Yock e Lyra, Daimonji e i suoi colleghi che avevano in affidamento i due ragazzi, ne avevano già decodificato una buona parte.
C'erano indicazioni su siti terrestri sospetti e su progetti di navi madri e stazioni da combattimento disseminate nello spazio. Molte spie ribelli zelane erano morti, per raccogliere quei dati e farli avere al professor Zenon; lui stesso aveva pagato con la vita la missione di consegnarli ai terrestri, e che poi era stata miracolosamente portata a termine dai suoi coraggiosi figli.
Daimonji aveva scelto ora di affidare a Midori questo compito di ricognizione, poiché riteneva che nessuno avrebbe riconosciuto né il caccia, né il pilota. Doveva solo esplorare una zona, nientemeno che nel deserto del Sinai, indicata nei dati del dischetto come possibile sito di un insediamento zelano nemico. Il dottore aveva anche chiesto a Sanshiro di accompagnarla, visto che il velivolo poteva portare due persone, ma Midori aveva rifiutato, un po' perché non voleva essere ritenuta tanto sprovveduta da aver bisogno di un accompagnatore, un po' perché sapeva benissimo che la presenza di Sanshiro l'avrebbe ulteriormente innervosita.
Si sentiva strana, ogni volta che pensava a lui; non era tanto ipocrita da affermare che non le piacesse, ma era assolutamente d’accordo con le cose che si erano dette con Jami e Briz: era un compagno di equipaggio, erano solo ormoni a palla, avevano altro a cui pensare, e bla, e bla, e bla…
In più, Midori era tormentata da qualcosa che nemmeno lei capiva. Era sempre stata una ragazza alquanto timida e riservata, nei rapporti con l’altro sesso; c’era stato un momento in cui si era persino chiesta se in lei non ci fosse qualcosa che non andava: si era sempre sentita un po’… diversa, rispetto alle sue amiche che erano molto più sciolte e disinibite. Era sicurissima di essere eterosessuale, – e se anche avesse scoperto il contrario, non sarebbe stato certo un problema – non era in questo contesto che avvertiva tale differenza.
Alla fine, aveva dato la colpa di tutto al fatto di essere orfana e di non ricordare nulla delle proprie origini. Ma le sue esperienze con i ragazzi si contavano su una mezza mano e non si era mai sentita coinvolta più di tanto.
Quello che provava per Sanshiro le sembrava assolutamente nuovo, e le faceva paura; non sapeva perché, ma era così. E proprio per questo – e per le ragioni di cui aveva discusso con le amiche – era assolutamente decisa a lasciare il mondo come stava. Anche perché, cosa da non sottovalutare, Sanshiro non aveva mai fatto un mezzo passo che lasciasse trapelare un minimo di interesse verso di lei. Da un lato le dispiaceva un po’, dall’altro si sentiva sollevata: un pensiero in meno di cui preoccuparsi.
Ma adesso, mentre il terreno roccioso, le alture e gli anfratti si dipanavano sotto di lei, venne assalita dalla tensione: forse, affrontare in solitaria quella ricognizione, non era stata poi un’idea così buona.
– Che stupida – mormorò parlando a sé stessa, per farsi coraggio da sola – Avrei dovuto ascoltare Doc… vorrei tanto che Sanshiro fosse qui…
– Presente! – le rispose lui, dal sedile dietro.
– Aaugh! – urlò Midori spaventata a morte, sobbalzando con violenza, gettando un'occhiata dietro di sé e perdendo per qualche secondo il controllo del caccia.
Riportato il mezzo in assetto, la ragazza guardò di nuovo Sanshiro di traverso.
– Non-farlo-mai-più! – gli sibilò – Mi hai tolto dieci anni di vita, disgraziato! Cosa diavolo ci fai qui!?
– Oh, andiamo, non venirmi anche a dire che ti dispiace: hai appena detto che mi avresti voluto qui! Non è stato poi così difficile salire prima di te, senza farmi notare – aggiunse con una nota di autocompiacimento.
– Sì, ma… Ah, niente, lasciamo perdere – sospirò lei – Avrei dovuto immaginarlo, che non vi sareste fidati delle mie capacità.
Ripreso il controllo della situazione, e soprattutto delle proprie emozioni, Midori si chiuse nel silenzio e nella concentrazione. Sapeva che per i ragazzi dell'equipaggio era stata una novità scoprire che anche lei sapeva pilotare un mezzo da ricognizione, ma Sanshiro le era parso il più stupito. Così, senza dirgli una parola, decise che gli avrebbe dato una dimostrazione della sua abilità: all'improvviso cominciò a tirare la cloche verso di sé e a salire verso l'alto, a velocità vertiginosa.
– Ehi, ma cosa…! – protestò il giovane.
– Silenzio, là dietro! – lo zittì Midori perentoria, puntando poi in giù il muso del caccia, facendolo letteralmente precipitare in avvitamento.
– Doriii! Piantala! Sei bravissima, okay? Fermaaa!
La ragazza recuperò l'assetto all'ultimo secondo, sfrecciando poi attraverso il cielo in orizzontale facendo avvitare il velivolo su sé stesso e infilando, uno dopo l'altro, un paio di giri della morte. Sanshiro si aggrappava ai braccioli con tutte le sue forze, e se non fosse stato per le cinture che lo tenevano saldamente ancorato al sedile, chissà dove sarebbe finito.
– Aaaahh! Midori, basta! Sei impazzita!?
La giovane pilota riportò il caccia in posizione e riprese il volo tranquillamente, lasciandosi sfuggire una risata argentina e prendendo un po' in giro l'amico:
– Fabrizia mi ha detto che in Italia, in un parco di divertimenti che si chiama Mirabilandia, c'è una specie di ottovolante, il Katun,1 sul quale provi sensazioni come queste. Ma visto il colore di cui sei diventato, è un'attrazione che non ti consiglio!
– Tu sei matta proprio come la tua degna amica! – esclamò Sanshiro, risistemandosi sul sedile e raddrizzandosi il casco; nonostante le cinture, aveva preso una bella sconquassata – E, per la cronaca, ero convinto già prima che tu fossi un'ottima pilota, non c'era bisogno di… traumatizzarmi così!
– Oh, ma povera stella… e allora come fai sul Gaiking?
– Ma ti prego! Il Gaiking lo guido io!
– Guarda! Questa è la zona che dobbiamo sorvolare e studiare – esclamò Midori che, nonostante il battibecco, non aveva distolto l'attenzione dal suolo.
Passarono a volo radente diverse volte su alcune grandi formazioni rocciose, senza rilevare forme di vita. Midori decise di scendere più in basso, infilandosi in un canalone e zigzagando tra le rocce, ma non trovarono tracce di insediamenti zelani.
– Potrebbero esserci dei sotterranei, delle caverne; forse dovremmo atterrare e andare a vedere a piedi – disse la ragazza, cercando una zona pianeggiante su cui discendere.
– Io penso che dovremmo rientrare e lasciare questo compito al Bazzora, che mi sembra il mezzo più adatto, ma la missione è la tua: mi fido di te.
Midori trovò un piccolo spiazzo e attuò un atterraggio in verticale: non aveva preso minimamente in considerazione il consiglio di Sanshiro. Controllarono le pistole e scesero a terra.
Sembrava tutto calmissimo: non c'era anima viva, silenzio assoluto, a parte i loro passi che scricchiolavano sul terreno polveroso; gli anfratti e le ombre si rivelarono solamente per quello che erano.
Dopo circa mezz'ora tornarono sui loro passi, verso il caccia; si fermarono all'ombra del velivolo, accaldati sotto il sole cocente, e si tolsero i caschi e i guanti.
– Uff, non ne potevo più! – sbuffò Midori, scuotendo i capelli – A quanto pare le informazioni in nostro possesso riguardo a questo sito non sono molto precise.
– Pare proprio di no, magari sono state decrittate male – concordò Sanshiro, cominciando a rilassarsi.
– A questo punto direi che possiamo rientrare. Magari, come dici tu, è meglio un'esplorazione più mirata col Bazzora.  
Midori fece per rimettersi il casco, ma lui la fermò.
– Aspetta, vorrei darti una cosa – disse Sanshiro, togliendo un oggetto da una tasca del giubbotto – Oggi è il diciotto novembre, quindi… domani è il tuo compleanno, no?
– Beh, sì… ma non mi aspettavo regali. E comunque… è come il regalo che abbiamo fatto a Briz: da parte dell'equipaggio, vero?
– Veramente no; quello c'è, ma te lo daremo domani. Questo… è da parte mia.
Midori rimase senza parole, non se l'aspettava proprio: Sanshiro le aveva fatto un regalo! La cosa la intrigò, suo malgrado; e la spaventò, anche.
Prese il sacchettino di stoffa dorata, chiuso da un laccetto dello stesso colore, e lo osservò, sentendo le guance scottare.
– Io… non so proprio come ringraziarti, davvero.
– Intanto aprilo, poi ci pensiamo. Magari non ti piace.
"Sarà difficile. Qualunque cosa sia, mi piacerà per il semplice fatto che me l'hai regalata tu" pensò, senza riuscire ad arginare quel pensiero, e provando subito dopo, di nuovo, una strana inquietudine.
Sciolse il fiocchetto e aprì il sacchettino e, come previsto, si innamorò immediatamente del ciondolo a forma di M agganciato a una catenina d’argento: incastonata in una delle due punte c'era una piccola pietra azzurra che luccicava alla luce del sole.
Finalmente Midori ritrovò la voce e il coraggio di guardare Sanshiro negli occhi: non gli aveva mai visto un'espressione così, a metà tra il tenero e l'imbarazzato.
– Lo adoro – disse semplicemente.
– Bene, sono contento. Perché, sai… l’ho fatto modificare da Sakon: contiene una piccola trasmittente.
– Una trasmittente? Non bastavano gli auricolari con cui conviviamo quasi sempre? – chiese lei.
– Veramente è un po’ diverso… con questo… – a Midori sembrò quasi di vederlo arrossire – Beh, con questo comunichiamo… solo io e te. Ecco l’ho detto! – concluse velocemente.
Il giovane sollevò un polso per mostrarle il proprio braccialetto d'argento che portava da sempre, e sul quale era inciso il suo nome in giapponese: sulla piastrina d'argento, accanto al nome, c'era una piccola pietra azzurra, uguale a quella del ciondolo.
– Ho fatto mettere una trasmittente identica qui.
– Non ci credo! Ma… come ti è venuta in mente una cosa simile?
– Mmm, boh. Magari perché a volte, anche se non possiamo vederci, mi piacerebbe parlarti senza che lo sappia tutta la truppa. È… come un cellulare personale, ma un po' più carino e meno ingombrante.
A Midori sfuggì un sorriso: le orecchie di Sanshiro erano diventate incandescenti. Esistevano ancora ragazzi così? Ecco perché ciò che provava per lui era così diverso dalle sue esperienze precedenti.
Per la miseria: si era davvero presa una cotta con i controfiocchi! Il problema era che questa cosa la spaventava a morte; com’era possibile provare nello stesso tempo due sensazioni così contrastanti?
– Senti… visto che il regalo ti piace, non mi dispiacerebbe riprendere il discorso dei… ringraziamenti – fece lui, avvicinandosi di quel passo che li separava; le accarezzò il viso e abbassò la testa, appoggiando la fronte a quella di lei – Perché sai… io, una mezza idea, ce l'avrei – finì sottovoce.

 
Sanshiro-e-Midori

Midori pensò fugacemente: "Hai capito, questo! Fa il finto timidone!" 
E a quel punto si rese conto, paura o non paura, che se adesso l’avesse baciata, di certo lei non si sarebbe fatta in là.
Chiuse gli occhi e aspettò.
Aspettò un bacio che non arrivò.
Midori sentì Sanshiro irrigidirsi improvvisamente ed entrambi aprirono gli occhi, mentre lui le metteva un dito sulle labbra per farla tacere e si guardava intorno; anche lei aveva sentito qualcosa, e in un attimo erano di nuovo vigili e all'erta.
Il boato ruppe il silenzio del deserto all'improvviso: una strana nave corazzata zelana sfondò una parete di roccia, rivelando un nascondiglio dentro un'altura.
I due si ripararono dietro il caccia, mentre cominciavano a sparare agli Uomini Uccello che erano comparsi all'improvviso attorno a loro. Ne fecero fuori parecchi, ma il fuoco continuo delle loro armi gli impediva di muoversi per risalire sul loro caccia. Ad un tratto, dal mezzo nemico partì un largo raggio infuocato che investì in pieno il loro velivolo. Riuscirono a sfuggire per miracolo a quell'arma micidiale, mentre il caccia veniva letteralmente fuso sotto i loro occhi. Sanshiro riuscì a dare l'allarme al Drago Spaziale, che comunicò il suo arrivo nel giro di pochi minuti.
Purtroppo quei pochi minuti si rivelarono troppi: gli uomini alati spuntavano da tutte le parti e si avvicinavano pericolosamente, sempre di più, avvantaggiati dal fatto che potevano volare.
C'era un'unica via di fuga, lungo il canalone, e decisero di provare: inseguiti dal fuoco nemico cominciarono a correre, quando Sanshiro si avvide che un Uomo Uccello li aveva quasi raggiunti, poco sopra di loro, e si apprestava ad afferrare Midori. Con tutte le sue forze si lanciò contro di lei, facendola rotolare a terra, mentre un letale raggio rossastro partito dall'arma del mutante, lo colpiva a una spalla.
Il dolore fu lancinante e gli si annebbiò la vista.
– Scappa, Midori! – gridò, mentre impegnava tutte le sue forze nel prendere la mira e sparare allo zelano.
L'uomo alato rovinò a terra, e Sanshiro non poté fare altro che la stessa cosa: il sangue gli usciva a fiotti dalla ferita, e insieme ad esso se ne andavano le forze. Midori si fermò per soccorrerlo, terrorizzata, ma lui le gridò di nuovo di scappare.
Lei obbedì, ma fu ben presto raggiunta. La vide difendersi come una pantera, sparando, tirando calci e pugni, atterrando e abbattendo diversi nemici. E intanto, chiamava lui.
Sanshiro riuscì solo a pensare che Midori era in pericolo, e lui non poteva aiutarla. L'ultima cosa di cui fu cosciente, prima di perdere i sensi, furono gli orribili soldati alati che la sopraffacevano, immobilizzandola e portandola via, sollevandola da terra.
E la sua voce, che continuava a chiamarlo.
 
* * *
 
A svegliarlo fu il dolore pulsante alla spalla.
Non era più steso nella polvere del canalone, ma in un letto, nella stanza di primo soccorso del Drago. Con la vista ancora annebbiata, Sanshiro faticò a mettere a fuoco Briz, Sakon, Daimonji e Pete.
– Ehi, come stai? – gli chiese Fabrizia, spostandogli i capelli scuri dalla fronte.
– Dov'è Midori? – chiese lui per tutta risposta.
– Speravamo che ce lo dicessi tu – disse Doc, preoccupato.
Sanshiro si sollevò lentamente, appoggiandosi ai cuscini che Briz gli aveva sistemato.
– L'hanno presa. L'ultima cosa che ho visto erano gli Uomini Uccello che la sollevavano e la portavano via.
– Allora dev'essere ancora viva – commentò Pete, deciso.
– Come fai a dirlo? Non hanno fatto altro che spararci addosso!
– Appunto: allora perché rapirla? Se avessero voluto ucciderla, lo avrebbero fatto e basta, non credi?
Effettivamente il ragionamento non faceva una piega, ma tutti si stavano chiedendo il perché.
– Maledizione… dovevo proteggerla, invece me la sono fatta rapire sotto al naso! Come ho potuto…?
– Ecco, a proposito! – esclamò il solito intransigente Pete – Che diavolo stavate facendo, per distrarvi così durante una missione?
– Stavamo parlando, okay? E non eravamo distratti, ci siamo accorti subito che c'era qualcosa che non andava! – rispose Sanshiro – E tu devi solo stare zitto! Ti sei già dimenticato che poche settimane fa ti sei fatto fregare come un pollo? Se non ci fossimo stati io e Briz, a quest'ora il Drago sarebbe stato bello che andato, perché tu… ti eri distratto!
Briz intervenne: – Ragazzi, ma vi sembra il momento?
Doc prese la parola: – Con ogni probabilità Pete ha ragione, quando dice che hanno rapito Midori per un motivo. Il caccia è distrutto, e la presenza del Drago non è più un segreto. Io penso che dovremmo… aspettare la loro prossima mossa.
– E se volessero torturarla, per farsi dire qualcosa del Drago? – disse Sanshiro – E se poi scoprissero che lei non sa un bel niente di tutto il suo funzionamento? La uccideranno! Se le faranno del male, io…
– Tu cosa? – lo interruppe Sakon – Nessuno può fare niente al momento, tantomeno tu, con quella spalla ferita. E poi gli zelani sanno che le persone che conoscono più a fondo il Drago siamo io, il dottor Daimonji e Pete. Non credo che uccideranno Midori, non prima di averci detto cosa vogliono, almeno. Forse ha ragione Doc: dobbiamo aspettare un segno da loro.
Sanshiro si lasciò ricadere contro i cuscini, con un gemito di frustrazione; non riusciva a credere di essere stato così stupido. Non era capace di condividere il cauto ottimismo degli altri, sapeva solo che Midori gli sembrava perduta, proprio adesso che…
No, non poteva darsi pace, si sentiva in colpa, incapace e totalmente inutile.
– Ascolta, Sanshiro – gli disse Daimonji – Devi accettare il fatto che per il momento non possiamo fare niente. Il dottor Watanabe ha detto che la tua ferita non è grave, ma hai perso molto sangue e devi assolutamente riposare un po’; intanto noi cercheremo di valutare la situazione. Fai come ti dico.
Il giovane assentì, con un'espressione così avvilita che persino Pete si sentì solidale con lui: in fondo Sanshiro aveva ragione, a dire che lui si era fatto ingannare in modo anche più stupido. Si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla sana.
– Ehi… se c'è un modo per riprenderci Midori, lo troveremo, stanne certo.
Sanshiro chinò stancamente il capo, rassegnato, guardandoli poi di sottecchi uscire dalla stanza. Solo Briz rimase, seduta sulla sedia accanto al suo letto.
– Cerca di dormire, devi recuperare un po’ di energie; so che è difficile, ma credo anch'io che possiamo solo aspettare. E non sentirti in colpa, sono sicura che hai fatto tutto quello che potevi per difendere Midori. Non ti avranno ferito per niente, no?
– Mi sono buttato avanti perché non la afferrassero… Il solo pensiero mi ha messo il terrore.
– Non hai niente da rimproverarti: avete reagito tempestivamente, quando vi hanno attaccati.
– Sì, anche se ammetto che ero abbastanza preso da… insomma stavo per…
– Per…?
– Stavamo… per baciarci – confessò Sanshiro.
– Uhuu… questa è una bella novità! – esclamò Fabrizia, stringendogli leggermente una mano e cercando, per quanto possibile, di sdrammatizzare – A questo punto, tireremo fuori a tutti i costi la nostra amica da qualunque posto sia: non posso proprio perdermi un epilogo romantico, con voi due come protagonisti! Quindi, cerca di riprenderti in fretta.
– Okay, ci proverò – disse Sanshiro con un lieve sorriso stanco – Tu riesci sempre ad alleggerire anche le situazioni più tese. Grazie.
– Dai, riposa un po’, adesso, e riprendi le forze. Andrà tutto bene…
Sanshiro chiuse gli occhi, e l'immagine di Midori gli danzò nella mente. Il sangue perduto, la stanchezza e i tranquillanti che aveva in corpo, fecero il resto: lentamente scivolò nel sonno.
Briz gli accarezzò i capelli con un gesto affettuoso.
Come tutti gli uomini, Sanshiro si teneva i sentimenti sepolti nel cuore fino all'ultimo: nemmeno lei era riuscita a decifrarlo prima, men che meno Midori, che le era sempre sembrata molto indecisa, su questa situazione col pilota del Gaiking. E adesso, il destino avrebbe dato ai suoi amici l'opportunità di realizzarlo, quel bacio?
Briz era spaventata e preoccupata quanto gli altri, ma ci sperava; ci sperava davvero tanto.
 
> Continua…
 
 
Nota:
Questo capitolo e il successivo, sono ispirati all’episodio n° 12, “Rispondi, Midori”, sul quale, naturalmente, io ho ricamato un po’, come mio solito. La parte di Sanshiro che si intrufola sul caccia di nascosto e Midori che fa la spericolata, c’è davvero anche nell’anime, così come il rapimento e il regalo del ciondolo con la trasmittente. Naturalmente, invece, al nostro Sanshi, come da copione dell’epoca, non passava nemmeno per la testa di provare a baciare la ragazza (fortuna che ci sono io a pensare a queste cose).
Fra l’altro sono sicura che non fosse nemmeno nel deserto del Sinai, che fosse ambientato l’episodio, ma siccome mi piaceva l’idea, e la fanfiction è mia (sì, mia, miamia!) io ci faccio quel che mi pare.

 
1 Il Katun: ragazzi, se vi capita di andare a Mirabilandia, provincia di Ravenna, provatelo. Io pensavo me la sarei fatta sotto al solo pensiero, e invece, alla mia veneranda età, ho finito per farlo tre volte di fila! È una figata galattica! (Anche se scendi ogni volta con lo stomaco in gola e le gambe che tremano… ops, forse non dovevo dirvelo…)

 
Ah, avete visto nei disegni Sakon, Sanshiro e Midori: naturalmente sono ispirati a com’erano nell’anime, ma con la mia personalizzazione.
Sanshiro lo avevo messo anche al capitolo tre, ma era più in stile anime.

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Capitolo 16
*** 15 - Nessuna promessa ***


~ 15 ~ 
NESSUNA PROMESSA
 
“Ten thousand promises,
ten thousand ways to lose.”
(Linkin Park – Powerless)
 
 
Nel nascondiglio da cui era uscito il mezzo corazzato zelano che aveva rapito Midori, non c'era assolutamente niente: il veicolo era scomparso con gli Uomini Uccello e la ragazza a bordo.
Il Drago esplorò dall'alto diverse zone del deserto, ma nessuno notò qualcosa di strano; l'avamposto nemico sarebbe potuto essere dovunque, nel sottosuolo o all'interno di una qualsiasi delle alture circostanti. L'astronave atterrò, appoggiando le enormi zampe munite di cingoli e artigli sul terreno polveroso.
Pete guardò il dottor Daimonji e scosse appena la testa.
– Non ho la più pallida idea di dove possano essere…
– E se fossero fuggiti nello spazio? – ipotizzò Briz, respingendo mentalmente quell'idea agghiacciante.
– Non credo – le rispose Daimonji – Sanshiro ha detto che il mezzo che li ha attaccati era un veicolo da esplorazioni a terra, e se anche avesse raggiunto un'astronave, ne avremmo rilevato la partenza.
– Io continuo a pensare che siano nelle vicinanze, magari vogliono attirarci in una trappola. Se solo avessimo una minima idea di dove cercarli… – disse Pete.
– Se anche trovassimo la base, non potremmo attaccarla, con Midori là dentro.
La voce di Sanshiro era risuonata ferma, e li fece voltare tutti verso la porta dell'ingresso in plancia.
– Che ci fai tu qui? Dovresti essere ancora a riposare – lo rimproverò Jamilah.
– Sto bene, ho dormito anche troppo, non ti preoccupare per me, Jami – le disse lui, toccandole un braccio mentre le passava accanto.
– Hai ragione, Sanshiro, – intervenne Sakon – non potremmo attaccarla… ma potremmo farci vedere; così loro sarebbero costretti a fare qualche mossa, a farci capire perché hanno preso Midori…
Sanshiro annuì pensieroso e si passò una mano tra i capelli. Briz lo vide bloccarsi di colpo, osservandosi il polso: stava guardando il proprio braccialetto d'argento.
– Il ciondolo! – esclamò all'improvviso.
– Quale ciondolo? – chiese Pete.
– Quello che ho regalato a Midori: ha una trasmittente collegata al mio braccialetto!
Per qualche secondo tutti, tranne Sakon che già sapeva, lo guardarono allibiti, chiedendosi per quale motivo lui e Midori possedessero due trasmittenti, fra l'altro nascoste in due oggetti molto personali; poi la consapevolezza della situazione riprese il sopravvento.
– Allora puoi metterti in contatto con lei! Farti dire dov'è! – disse Yamatake.
– Non è una buona idea – intervenne Sakon – Gli zelani le avranno sicuramente tolto l'auricolare, e se si accorgeranno che il ciondolo è una trasmittente, elimineranno anche quello. Ma posso provare a localizzarlo, senza parlarle: la trasmittente ci darà la sua posizione.
– Forse si può fare – disse Pete trasferendo, a un tavolo centrale digitale, una mappa tridimensionale del deserto.
Sanshiro schiacciò per tre volte la piccola gemma azzurra incastonata nel suo braccialetto: la pietra cominciò a brillare a intermittenza, mentre tutti osservavano la mappa davanti a loro.
Ed ecco che, ai piedi di un’altura della mappa olografica, cominciò a brillare un'altra piccola luce azzurra: in pochi secondi, accanto ad essa comparvero le coordinate.
Pete si affrettò ad impostare la rotta del Drago, che si alzò in volo e, in pochi minuti, raggiunse il sito indicato: una montagna che non si differenziava affatto dal resto del paesaggio.
Il Drago Spaziale atterrò, facendo tremare il terreno. Sapevano di non poter sferrare nessun attacco, ma se avevano rapito Midori con uno scopo, erano a un passo da scoprirlo.
La loro mossa fu ripagata: una parete della montagna si sgretolò e un Mostro Nero umanoide tarchiato, tondeggiante e pieno di corna uscì allo scoperto.
– Esco col Gaiking! – esclamò Sanshiro.
– Ma ce la fai? La tua spalla… – obiettò Briz, seguendolo per uscire anche lei.
– Vado, non preoccuparti!
Un attimo ed era uscito dalla sala comandi, mentre Pete lanciava un’esortazione:
– Va’ dietro a quello smargiasso, Briz, che avrà bisogno di aiuto, con quella spalla malandata.
Nel giro di un minuto il Gaiking era operativo, seguito a breve distanza da Balthazar.
Dalla spaccatura nella roccia si intravedeva una specie di laboratorio, confermando così che lì c'era veramente una base zelana. Sarebbe stato un gioco da ragazzi far uscire la lama gigante dalla pancia del Drago, attaccare e distruggere tutto; il pensiero attraversò la mente di Pete, ma sapeva di non poterlo fare, con Midori prigioniera là dentro.
Sanshiro attaccò il mostro, trascinandolo il più possibile lontano dalla base nemica, per timore che la battaglia potesse arrecare danni al luogo in cui si trovava Midori; ma, una volta lontani di lì, il muso del mostro si aprì, mostrando al suo interno una sfera trasparente che conteneva la cabina di comando e il pilota.
Sanshiro e Briz rimasero pietrificati dall'orrore: ai comandi del Mostro Nero c'era Midori!
– Che succede? Perché vi siete bloccati? – chiese Daimonji.
– È Midori che guida il mostro! Non posso combatterlo! – gridò Sanshiro terrorizzato.
– Com'è possibile? – esclamò Fan Lee.
– Devono averle fatto il lavaggio del cervello, o l'hanno ipnotizzata, come hanno fatto con me! – disse Pete, non meno sconvolto degli altri – Sanshiro, ascoltami! Non è poi così un male che Midori sia lì.
– Non è un male? Sta cercando di uccidermi! – esclamò Sanshiro, cercando di evitare i raggi che il mostro gli scagliava contro. Anche Briz non sapeva fare nulla di più che scansare i colpi: non poteva attaccare la sua amica!
– No, adesso sappiamo che non è dentro la base, e col Drago possiamo attaccarla. E tu puoi provare a parlare con Midori! Se Briz è riuscita a svegliare me, tu puoi farlo con lei! Sei l'unico che lei può sentire, tramite il tuo regalo, e probabilmente, proprio per questo, sei anche la persona più giusta!
– Okay, pensate alla base zelana, qui ce la vediamo io e Balthazar.
– In bocca al lupo, ragazzi.
Con quell'ultimo augurio, Pete diresse il Drago verso l'avamposto nemico, mentre Sanshiro si chiedeva cosa potesse fare, oltre che limitarsi ad evitare i colpi delle armi del mostro.
Le parole di Pete gli avevano ridato una speranza: schiacciò il brillantino azzurro del braccialetto, mentre Balthazar balzava in avanti e atterrava il mostro, inchiodandolo con le spalle a terra; ma Briz fu costretta a lasciarlo quasi subito, colpita da una scarica di luce gialla che la stordì per qualche minuto.
– Midori! Midori! Sono Sanshiro, fermati!
Midori sembrava realmente privata della sua volontà. Sanshiro riusciva a vederla, attraverso i vetri dei loro abitacoli: una macchia di colore azzurro acquamarina, l'espressione fredda, lo sguardo spento. Continuò a chiamarla, a parlarle, ma lei non sembrava sentirlo, e continuava a colpirlo e a sparargli addosso micidiali raggi rossastri. Briz, che aveva appena recuperato i sensi, non poteva fare altro che tentare di ostacolarla.
Midori non sentiva nulla, tranne una forza misteriosa che le diceva di distruggere il Gaiking. Aveva dimenticato tutto: il suo nome, i suoi amici, la sua missione per la Terra.
Ma a un certo punto sentì un'altra voce, che chiamava qualcuno di nome Midori.
Chi era Midori? Perché sentiva di conoscere quel nome? Non capì subito da dove la voce venisse, ma si immobilizzò, in ascolto; si guardò il centro del petto e vide una piccola luce azzurra brillare.
Afferrò il ciondolo e rimase immobile ad osservarlo per parecchi secondi: conosceva quell'oggetto, e anche la voce che ne usciva, anche se non riusciva a collegarla a un volto. Eppure…
No, era troppo difficile, troppo faticoso uscire da quel senso di torpore che l'aveva avvolta. Continuava a fissare il monile e la luce azzurra che emanava, finché,  lentamente, riuscì a concentrarsi sulla voce che, piano piano, cominciò a sovrastare quel desiderio di distruzione che qualcuno, o qualcosa, le aveva instillato nella mente.
– Sono Sanshiro, Midori. Non puoi esserti dimenticata di me, te l'ho regalato io, quel ciondolo! Ascoltami, tu non c'entri niente con quel mostro… Guardami!
Il Gaiking abbassò appena la testa, in modo che la cupola trasparente della carlinga fosse all'altezza della sfera che conteneva Midori. Faticosamente, la ragazza staccò gli occhi dal ciondolo e li alzò davanti a sé, incrociando, al di là dei due vetri che li separavano, lo sguardo di Sanshiro; il giovane si tolse il casco, per permettere a Midori di vederlo meglio.
– Guardami – le ripeté – Non puoi avermi dimenticato.
Midori affondò lo sguardo in quello di Sanshiro e, in un secondo, recuperò la coscienza di sé e riconobbe gli occhi marroni, i capelli scuri spettinati e il volto del giovane.
– Sanshiro! Sei tu! Dio, ma come ho potuto… Dove sono!?
– Sei ai comandi di un Mostro Nero, ma sei tornata in te: ora ti tiriamo fuori di lì!
Più facile a dirsi che a farsi: il mostro, anche se inerte, non sembrava presentare punti deboli in cui poter aprire una via di fuga alla ragazza. In quell'attimo, all'interno dell'abitacolo di Midori, si accese una lucina rossa intermittente, e una voce metallica annunciò:
– Attenzione, due minuti all'autodistruzione. Due minuti all'autodistruzione!
Anche Sanshiro la sentì.
Panico! E adesso?
Estratta una delle Croci Spaziali – due specie di spade situate, dalle ginocchia alle caviglie, lungo le gambe del Gaiking – il giovane cominciò a fare leva attorno alla sfera per provare a scalzarla, ma non si muoveva di un millimetro. Briz ci provò con gli artigli luminosi e taglienti di Balthazar, ma non servì a nulla.
I due minuti stavano per scadere, quando la spada del Gaiking smosse la sfera e gli artigli del leone bianco e oro cominciarono a staccarla dalla sua sede. Il mostro esplose, scagliando Balthazar all'indietro in una direzione, e facendo la stessa cosa con il Gaiking, ma dalla parte opposta.
La sfera che conteneva Midori schizzò attraverso il cielo, intatta, ma non c'era speranza per lei: da quell'altezza e a quella velocità, niente sarebbe sopravvissuto a una tale caduta; tantomeno dentro una sfera che, nell'impatto, si sarebbe frantumata. Eppure Midori, già pronta ad affrontare la fine di tutto, sentì la sua caduta bloccarsi all'improvviso: avvertì uno sballottamento orribile e disgustoso che la fece quasi vomitare, e un rumore stridente di metallo.
Poi più niente… Tutto fermo… l'immobilità assoluta.
Un silenzio così totale e profondo da essere assordante.
"Sono morta… fine dei giochi" pensò.
Ma evidentemente non era così, perché si ritrovò a respirare e a riaprire lentamente gli occhi. Non capì subito dove fosse, ma un po' alla volta mise a fuoco la situazione, attraverso il vetro pieno di crepe della sfera che l'aveva tenuta prigioniera. Sotto di lei vedeva il Gaiking, semidisteso a terra, che si mosse e si mise seduto. A quel movimento anche la sua palla di vetro si spostò e lei realizzò dove si trovasse: era nella mano del robot! Sanshiro l'aveva afferrata a mezz'aria, esattamente come un campione di baseball avrebbe afferrato la palla con il guantone! E se non era un campione lui…!
– Midori… Ci sei? Ti ho presa! – disse Sanshiro.
– Sì, mi hai presa. Sto bene… – sussurrò lei, dando un bacio sul ciondolo e crollando poi in avanti spossata, con un sospiro, sulla consolle ormai fuori uso dell’ex mostro. 
Il Gaiking, con tutta la delicatezza possibile, la appoggiò a terra e si alzò in piedi, ergendosi in tutti i suoi cinquanta metri di altezza; in seguito a quel gesto, la sfera cominciò a sgretolarsi.
Sanshiro si alzò, dentro alla carlinga del Gaiking, e azionò la piccola piattaforma di uscita che, quando il robot era in piedi, scendeva lungo il suo interno fino a terra; sul piede del Gaiking un pannello scivolò di lato, e il giovane ne uscì di corsa per raggiungere Midori. Nell'auricolare sentì la voce di Fabrizia che annunciava: – Vado ad aiutare il Drago.
– Okay. Midori sta bene, penso io a lei.
– Ma dai, davvero? – fece Briz, sollevata e divertita, voltando Balthazar verso la base nemica, dalla quale si erano allontanati.
In quell'attimo, proprio da quella direzione, un'esplosione di proporzioni atomiche sembrò spaccare il cielo, poi lo tinse di rosso cupo. Dal fungo di fumo che si sollevò sbucò, dopo un tempo che a Briz parve interminabile, il Drago Spaziale, lasciandosi dietro nuvole sfilacciate di colore rossastro. Ci sarebbero voluti ancora diversi minuti perché li raggiungesse, ma della base zelana non restava più niente.
– Ripensandoci… non è che abbiano molto bisogno di me – constatò Briz, facendo sorridere Sanshiro che la sentì nell'auricolare, mentre raggiungeva la sfera ridotta a un ammasso di vetro infranto.
Midori sollevò il viso e lo vide a pochi passi da lei; senza dire una parola, lei si alzò e uscì, un po' barcollante, dai resti dell'abitacolo zelano.
Lui le si avvicinò di due passi e lei, inspiegabilmente, fece due passi indietro.
– Midori… Sono io! Cosa c'è?
– Lo so che sei tu… è proprio per questo che non voglio che ti avvicini!
– Ma perché? Che ti ho fatto? – le chiese lui, sconvolto da quella reazione, continuando ad avanzare verso Midori che, invece di andargli incontro, arretrava.
Sanshiro decise di fermarsi, e allora anche lei fece lo stesso. Rimasero a guardarsi per diversi secondi, sotto il sole a picco del deserto, poi Midori ritrovò la voce.
– Non mi hai fatto niente, anzi… mi hai salvato la vita. Ma se ti avvicini… ho paura di farti del male.
– Del male? Ma che stai dicendo? Perché dovresti?
– Perché!? Ho appena cercato di uccidere te e Briz, ecco perché! E se ci provassi di nuovo?
– È finita, Dori! Non eri tu, a volermi uccidere! Sono stati gli scagnozzi di Darius!
Briz, dall’auricolare, sentiva Sanshiro, ma non Midori, e non capiva bene cosa stesse succedendo. Di certo si era immaginata tutta un'altra scena, con Midori che correva fra le braccia di Sanshiro, ridendo o piangendo, o magari tutte e due le cose insieme, e… anche quel famoso bacio ci sarebbe stato benissimo, tanto per dirne una. Invece, da quello che diceva Sanshiro, si stava facendo un'idea di come si sentisse Midori: doveva essere più o meno come si era sentito Pete quando aveva scoperto di aver picchiato lei, mentre era sotto ipnosi.
– Sanshiro, ricordale quello che è accaduto a Pete: anche lui si è sentito così, ma poi è passata.
Sanshiro seguì il consiglio di Briz e Midori sembrò rasserenarsi un poco: lo lasciò avvicinare di un paio di passi, tanto quanto gli bastò per vedere le lacrime che rotolavano sulle guance impolverate della ragazza, lasciandole sul volto delle scie più chiare. Qualche altro passo, e riuscì a raggiungerla.
– Midori, non è colpa tua, sono loro i mostri, non tu. Tu sei…
L’ultimo passo che li separava, fu lei a compierlo, e Sanshiro se la ritrovò tra le braccia, che singhiozzava col viso contro la sua spalla. La strinse forte a sé, almeno quanto glielo consentiva il dolore alla ferita che, ad essere sinceri, in quel momento sentiva appena.
– Calmati, Dori… è finito tutto, va tutto bene, sono qui con te. Anche se devo ammettere che non sia una gran garanzia di sicurezza, considerato che eri con me anche quando ti hanno rapita…
Sul viso di Midori, in mezzo alle lacrime, si fece strada un sorriso e il pianto cominciò a calmarsi.
– Scenderei anche all'inferno, insieme a te, e sono sicura che farei ritorno. E poi… tu mi avevi consigliato di rientrare e passare mano al Bazzora! È stata colpa mia e… io… credevo che tu fossi morto, in quel canalone! E invece mi hai salvato la vita! Oh, non lasciarmi, ti prego.
– Non mi passa nemmeno per l'anticamera del cervello. Su, basta, ora… – la rassicurò Sanshiro, accarezzandole i capelli e baciandole la fronte.
– Beh, cominciamo a ragionare – commentò Briz, facendo avanzare Balthazar lentamente verso di loro.
Quando li raggiunse, il leone si accucciò, allungando le grandi zampe davanti a sé, in modo che i due giovani abbracciati si trovassero tra di esse, protetti dalla luce abbagliante e dal caldo soffocante del sole. Entrambi sollevarono per un attimo i volti verso l'immensa testa felina che li sovrastava, poi tornarono a guardarsi negli occhi. Sanshiro affondò una mano fra i capelli di Midori e le fece appoggiare la fronte contro la sua.
– Sembra a me, o è qui che eravamo rimasti? – le disse sottovoce.
– I… io… beh, più o meno – balbettò lei, confusa, mentre il ragazzo abbassava il viso per baciarla.
– Ohi, era ora! – esclamò Briz con una risata, dimenticando il collegamento audio e facendo sobbalzare Sanshiro giusto un attimo prima che la bocca di Midori toccasse la sua.
– Aspetta un secondo – le disse, portandosi una mano verso l'auricolare – Briz, non ti dispiace se stacco il contatto, vero?
– Ma ti pare! Fate pure con comodo – rispose Briz, sentendo il click con cui Sanshiro toglieva la comunicazione.
E stavolta, protetti dalla mole di Balthazar, niente impedì alle labbra dei due giovani di incontrarsi.
 
 
Sanshi-Dori-bacio  
 
Briz ebbe tutto il tempo per disconnettersi, farsi passare i malesseri vari a cui ormai si era abituata, e ristabilire i contatti con il Drago che li aveva quasi raggiunti.
Poi, alzandosi in piedi dentro alla carlinga, lanciò una breve occhiata sotto di lei: Midori e Sanshiro erano ancora abbracciati stretti, i capelli scompigliati dal vento caldo e secco del deserto, le labbra incollate.
– Evviva. Questa è una di quelle cose per cui varrà la pena combattere e vincere questa guerra – disse piano, a sé stessa.
– Cosa stai cianciando? E che diavolo fai col robot in quella posizione, un pisolino? – le chiese Pete nell'auricolare, mentre faceva atterrare il Drago al fianco di Balthazar, coprendolo con la sua immensa ombra.
– Sto proteggendo dal sole e dando un po' di privacy a questi due.
Pete li vide sul piccolo monitor della sua postazione: Sanshiro e Midori si erano staccati quando il Drago era atterrato, e lo avevano salutato sorridendo agitando le braccia tese, ma poi, incuranti di tutto, avevano ricominciato a baciarsi.
– Ops – fece Pete, interrompendo il contatto visivo prima che anche il resto dell’equipaggio li vedesse, ed escludendoli dall’audio – E adesso che facciamo, Briz?
– E che ne so? Aspettiamo. Dovranno respirare prima o poi!
 
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Il dottor Daimonji aveva deciso che avrebbero passato la notte lì, per riprendersi dalla stanchezza e dai traumi subiti. Ma, nonostante tutto ciò che aveva passato, Midori non sentiva proprio il bisogno di riposare; uscì sull'ala destra del Drago, per ammirare il tramonto rosso sangue sul deserto.
Doc l'aveva visitata sommariamente, senza trovare il minimo problema, a parte qualche graffio e un paio di brutti lividi. Aveva raccontato agli amici ciò che aveva scoperto, mentre era prigioniera nell’avamposto nemico, prima che le condizionassero la mente.
I generali di Darius, i Grandi Quattro, possedevano quattro astronavi chiamate Grotector, che quando avvicinavano le prue formavano un’immensa croce nello spazio creando un vortice, una specie di scorciatoia spazio-temporale, attraverso il quale i Mostri Neri penetravano rapidamente nel Sistema Solare. Ed era venuta a sapere anche la terribile verità sugli Uomini Uccello: erano cittadini zelani, civili che erano stati rapiti, assoggettati al volere di Darius con il lavaggio del cervello – che nel loro caso sembrava essere irreversibile – e poi trasformati in cyborg.
Questa cosa li sconvolse tutti: il pensiero che ogni volta che ne uccidevano uno, toglievano la vita a ciò che prima era stata una persona come la povera Lisa, o Yock e Lyra Zenon, era qualcosa di davvero duro da mandar giù.
Eppure, in qualche modo, furono costretti a prenderne atto: se anche un tempo erano state persone, ora gli Uomini Uccello erano solo spietati soldati, macchine senza volontà, e loro dovevano pur difendersi.
Il comandante zelano, agli ordini del generale Desmon col quale era in contatto, aveva immobilizzato Midori a un pannello di acciaio con dei ceppi ai polsi e alle caviglie, e le aveva cinto la fronte con una fascia metallica, collegata tramite elettrodi e fili a un macchinario orribile. Lei aveva provato un dolore indicibile, tanto fisico quanto psicologico, al pensiero che quella cosa potesse rubarle i ricordi. Ma per fortuna, a quanto pareva, c'era riuscita solo in parte, se, successivamente, la voce di Sanshiro e la sua vista erano state sufficienti per risvegliarsi.
Già, Sanshiro. Bell’argomento… E adesso?
Osservò il sole, una palla di fuoco sull'orizzonte, pensierosa, sfiorandosi le labbra col pollice. Cosa sarebbe successo, ora? I rapporti tra loro due avevano preso una piega tale che lei non era riuscita a resistergli; tuttavia, in quel momento, si sentiva solo agitata e confusa.
Si voltò appena, sentendo dei passi alle sue spalle: l'oggetto dei suoi pensieri le si avvicinò, con il braccio destro al collo; si fermò dietro di lei e, con il sinistro, la circondò stringendola a sé e le posò la guancia sulla sommità della testa. Midori sospirò e si appoggiò all'indietro contro di lui.
– Come stai? – gli chiese sottovoce.
– Bene, adesso che sono qui con te. E tu?
– Frastornata… e terrorizzata.
– Terrorizzata? E da che?
– Cosa… cosa ti aspetti da noi due, adesso, Sanshiro? Cosa ti aspetti… da me? Come si fa a far progredire una storia in mezzo a questo delirio? Ho rischiato di ucciderti, oggi! Cos'altro potrà succedere andando avanti? Rischiamo la vita un giorno sì e l'altro pure, e io ho paura… e non solo di morire. A volte credo che abbia ragione Pete, quando dice che le emozioni sono solo d'intralcio.
Sanshiro la lasciò sfogare: comprendeva il suo stato d'animo, ma non lo condivideva in pieno.
– Cosa vuoi che capisca Pete, di sentimenti. A parte che secondo me la sua è tutta scena.
– Cosa vorresti dire?
– Che Briz gli piace, e anche tanto, ma non lo ammetterà mai nemmeno con sé stesso. Ma questo è un altro discorso… –  la fece girare verso di sé e le scostò i capelli dal viso, per guardarla negli occhi.
– Midori, io ti…
Lei lo interruppe, mettendogli un dito sulle labbra:
– Shh! Non dirlo. Se dici quella frase, sarà tutto così… grande, profondo, immenso. Non sono capace di affrontare una cosa di queste proporzioni; non ora, per lo meno. Non posso, e non voglio, farti promesse, e non pretendo che tu ne faccia a me: ci sono fin troppe possibilità di non poterle mantenere.
– Vuoi lasciare il mondo come sta, quindi?
– Io… credo di sì – ammise lei, abbassando lo sguardo.
– Peccato… avevo avuto la sensazione che baciarmi ti fosse piaciuto.
– La sensazione era giusta, ma… non ce la faccio. Ho dei pensieri, delle cose mie, che mi pesano dentro e mi tormentano da un po’, e finché non ne sarò venuta a capo, e questa cavolo di guerra non sarà finita, dubito che riuscirò a pensare ad altro. Non credo che potrò darti nulla di più…
– Spiegami cosa significa: che se ogni tanto mi viene voglia di fare questo, posso farlo? – esclamò lui, senza sapere se essere spazientito o speranzoso, prima di passarle la mano libera dietro la nuca e baciarla con una passione che li lasciò entrambi senza fiato.
– M-mm… O-okay – ansimò Midori, con le ginocchia che le tremavano – M-momenti come questo, ci possono stare, qualche volta. Ma nessuna promessa e… non si oltrepassano certi limiti.
– Grazie per la concessione – fu la risposta tra il divertito e l’ironico – Cercherò di farmeli bastare, ma di certo stasera voglio farmene un po' di scorta per i periodi peggiori – concluse imprigionandole di nuovo le labbra tra le sue e pensando:
“E visto come mi baci, chissà… magari, con un po’ di pazienza, riesco persino a farti cambiare idea…”
 
♥●♥●♥●♥●♥●♥●♥
 
Pete avanzò sull'ala sinistra del Drago; camminando lungo il fianco dell'astronave, arrivò sul bordo dell'ala e rimase lì, con una mano appoggiata alla parete metallica.
La luce di quel tramonto incredibile aveva attirato persino lui, ma quando era arrivato di là, sull'ala destra, aveva sentito le voci di Midori e Sanshiro. Stavano solo parlando, ma, non volendo fare da terzo incomodo, aveva optato per l'altra ala.
Questa faccenda lo aveva lasciato piuttosto perplesso: doveva essere da un po', ormai, che Sanshiro era innamorato della ragazza, ma nessuno se n'era mai accorto. Era stato bravo a tenerselo dentro, e Pete dovette riconoscere che questo sentimento non aveva comunque intaccato le sue capacità e la sua determinazione in battaglia; anzi, a pensarci bene, era stato proprio questo a permettergli di salvare Midori.
Vuoi vedere che perfino tutte le teorie di Briz e di Sakon sui sentimenti erano giuste? Per quanto, dalle poche parole che li aveva sentiti rivolgersi, sembrava che quei due non avessero le idee molto chiare, su ciò che stava accadendo tra loro… e tutto sommato, poteva anche capirli.
Quella guerra metteva un freno a tutto: sentimenti, possibili relazioni, progetti per il futuro. Capiva come Midori e Sanshiro si sentissero in alto mare, e ben lungi, per il momento, dalla possibilità di approdare da qualche parte.
Aveva saputo anche che Bunta era fidanzato, ma che aspettava la fine del conflitto, per rivedere la sua ragazza, perché corresse meno rischi possibili.
Sakon e Jamilah? Non facevano un metro avanti, anche se qualche presupposto per qualcosa ci sarebbe anche stato.  
E lui…? Che cosa lo aspettava dopo la fine della guerra? Un fratello con cui voleva assolutamente ritrovare un rapporto, anche se prima avrebbe dovuto scoprire dove fosse. Sapeva di aver fatto ben poco per dimostrarglielo, ma voleva bene a Tom; però, per quanto potessero recuperare la loro familiarità, Tom un giorno avrebbe seguito la sua strada e si sarebbe fatto una vita – anzi, probabilmente lo stava già facendo, dovunque si trovasse – mentre lui avrebbe proseguito la carriera nell'Aviazione americana: sarebbe sicuramente diventato Maggiore, e poi…
A pensarci bene, non gliene importava un accidenti di niente, perché era proprio questo che c'era, ad aspettarlo: niente! Soprattutto, più che niente, non c'era nessuno! Sospirò, chiedendosi il motivo di questi pensieri; in fondo, il Capitano Peter J. Richardson era sempre stato benissimo da solo.
Ciononostante, ultimamente si era accorto che la compagnia degli altri componenti dell'equipaggio cominciava a piacergli. Il tempo libero non era mai tantissimo, ma era divertente, a volte, guardare un film insieme ai compagni; o assistere quando Briz e Yamatake si sfidavano alle corse in auto di Need for Speed1 alla Playstation, tra urli, risate, incitazioni e parolacce, al punto che aveva quasi voglia di sfidarli entrambi, nel prossimo futuro, per vedere come se la sarebbe cavata.
Gli piaceva, quando si allenava in palestra con gli attrezzi, vedere dall’altra parte della grande sala, Fan Lee e Briz che si allenavano nel karate; e aveva finito per ridere anche lui, insieme a tutti loro, sentendo Midori e Jamilah esibirsi nel karaoke, perché se Midori era piuttosto brava, Jami era un disastro totale. Doveva ammettere che quel microfono lo aveva attirato non poco, l’ultima volta che le due ragazze lo avevano usato, ma non si sarebbe mai messo in mostra in quel modo, non era nel suo stile; o per lo meno, non era nello stile del Pete Richardson attuale: anche la musica era finita tra le cose dimenticate, insieme all’archeologia.
E comunque apprezzava anche le ore passate a lavorare in laboratorio con Sakon, Jamilah e il dottor Daimonji, a studiare con loro le migliorie da apportare al Drago, o le strategie da adottare in battaglia. Se poi, solo un anno prima, qualcuno gli avesse detto che una ragazza buffona e un po' matta gli avrebbe insegnato ad andare a cavallo, ad amare gli animali e a occuparsi di loro, gli avrebbe detto di farsi visitare da uno bravo.
Si rendeva conto di essere cambiato davvero, in quegli ultimi mesi. O forse no… non era cambiato: aveva solo recuperato alcuni aspetti del suo carattere che aveva soffocato e credeva di aver dimenticato.
Tuttavia, una parte di lui non era ancora convinta che ciò fosse davvero un bene.
Il rumore di alcuni passi alle sue spalle lo riscosse dalle sue riflessioni; avrebbe riconosciuto quell'incedere tra mille ma, senza voltarsi, chiese lo stesso:
– Chi sei?  
– Il tuo peggiore incubo – rispose Fabrizia, fermandosi al suo fianco.
Senza distogliere lo sguardo dall’orizzonte, Pete sorrise: non riusciva a farne a meno, con questa squinternata.
– Pensavo che fossi dai tuoi due protetti – le disse.
– A fare che, Capitano? A reggere il moccolo? Mo' ho già dato per oggi!
E stavolta gli sfuggì una risata, sommessa ma sincera. Ecco le altre cose che aveva riscoperto, grazie a questa sciroccata: il senso dell'umorismo, l'ironia, il piacere di ridere per piccole cose, anche stupide, come quel suo intercalare esclamazioni e parole in italiano.
– Non per deluderti, ma lo sai, vero, che quei due sono ancora lontani anni-luce dall’essere una coppia a tutti gli effetti? – le disse.
– Sì, lo so… Midori si è sfogata con me, stasera, e l’ho semplicemente lasciata fare; non so nemmeno io cosa dirle, o cosa farei al suo posto. Questa situazione è quasi surreale, stravolge ogni nostro modo di vivere, di pensare…
Pete non rispose: se c’era qualcosa di cui ammetteva di non capire niente, erano i sentimenti.
Le lanciò uno sguardo di sottecchi: il tramonto disegnava ombre e luci sui lineamenti da folletto del viso di Briz, e accendeva riflessi infuocati tra i suoi capelli scuri, sciolti e disordinati. Com'era possibile che questa ragazza, quando si guardava allo specchio, vedesse una persona insignificante?
Incrociò le braccia e si appoggiò alla parete metallica con la schiena, apprestandosi a guardarla meglio, come gli aveva consigliato Sakon. Aveva creduto che quelle due o tre donne con cui aveva avuto a che fare nella sua vita fossero attraenti, ma, a pensarci bene, era stata solo questione di trucco e parrucco e tacco dodici: molta apparenza e poca sostanza, in definitiva.
Questa ragazza era diversa: era bella, Briz, nel senso reale del termine: se pensava quella parola riferita a lei, la vedeva nella mente scritta tutta in maiuscolo, a colori sgargianti. Briz Cuordileone era… vera; e la sua bellezza era accentuata proprio dal fatto che lei non se ne rendeva minimamente conto. Che fosse per questo che, quando era sotto ipnosi, aveva sognato che lo baciava? Sognato, poi…! Lui continuava a non essere affatto sicuro, che fosse stato un sogno! Sapeva che non avrebbe avuto pace finché non avesse scoperto se quel bacio fosse stato vero o meno, ma in quel momento non aveva molta voglia di indagare. Distolse lo sguardo da lei e lo focalizzò nuovamente sul deserto arrossato.
– Pete, stai fermo così, non muoverti! Cinque secondi, ti prego!
– Che c'è?!
Briz sollevò le mani con i pollici e gli indici a elle, inquadrandolo come per una foto.
– Ma che stai facendo?
– Sta' fermo, ho detto! Guarda lontano, come prima… Cavoli! Sarebbe un disegno bellissimo: il tramonto, parte della testa del Drago… i colori sono stupendi, persino tu ci stai bene. Solo che non ho niente con cui fare almeno uno schizzo, che peccato!
– Ah, “Persino tu ci stai bene” è proprio carina! Riesco a non rovinare un bel panorama: sono soddisfazioni! – esclamò lui, divertito nonostante tutto.
Briz ridacchiò, e si tenne per sé che il soggetto principale del disegno, se avesse avuto modo di farlo, sarebbe stato proprio il suo volto di tre quarti, lo sguardo perso nell'orizzonte infuocato, e che quel tramonto meraviglioso e lo scorcio della testa del Drago sullo sfondo, sarebbero stati solo un bel complemento.
– Però è suggestivo, no? Pensa, quello laggiù è il monte Sinai, dove, secondo la Bibbia, Mosè ha ricevuto da Dio le tavole della legge!
– Sei religiosa, Briz? 
Lei ci pensò su qualche attimo.
– Mmm, no…  religiosa non particolarmente, è un pezzo che non vado più in chiesa. Ma sono… credente, questo sì; penso sia diverso.
– Probabilmente lo è. Anch’io non metto piede in una chiesa da quando ho ricevuto i sacramenti da ragazzino, ma non riesco a definirmi… ateo. Dev'esserci qualcosa, là… da qualche parte… – disse, facendo un gesto vago con la mano, indicando qualcosa di immaginario tra la terra e il cielo.
– E non ti emoziona uno spettacolo come questo?
– Lo sai che io e le emozioni non andiamo d’accordo, fanciullina!
Briz strinse i pugni, a quella frase, e ringhiò letteralmente:
– Gnnn… Mi fai salire il crimine, quando fai così! E vuoi sapere una cosa? – proseguì alzando il tono di voce – Io credo che se, davanti a uno spettacolo come questo, uno non si emoziona almeno un po', persino LuiLassù al Piano di Sopra, s'incazza!
– Ehi, Lady Isterica, datti una calmata, che per adesso l'unica incazzata, qui, sei tu! – replicò Pete a voce alta.
La voce di Yamatake si fece sentire, mentre li raggiungeva insieme a Fan Lee e Bunta.
– Ti pareva! Da un eccesso all'altro: sull'altra ala ci sono due che ci vorrebbe la fiamma ossidrica per staccarli, e qui ci sono due che litigano!
– Beh, almeno questi due li possiamo disturbare senza troppo imbarazzo – commentò Fan Lee.
Briz e Pete sollevarono le mani e li salutarono, ma rimasero sul bordo dell'ala, stagliati contro il cielo rosso, uno di fronte all'altra, e tornarono a guardarsi.
– Se ti dico che sono emozionato, ti calmi un po'? – chiese Pete.
– Perché dovresti raccontarmi balle solo per accontentarmi? Tu provi le stesse emozioni di… uno di quei pietroni laggiù! Lascia stare, va là.
Pete guardò il deserto dai colori bollenti e luminosi, poi di nuovo lei.
– Briz, io… non ho mai visto niente di più bello. Te lo giuro – disse a voce bassa.
Forse diceva sul serio: negli occhi gli brillava una luce che Briz non aveva mai visto, nemmeno quando parlava di archeologia. Decise di volere una piccola prova, quindi gli prese una mano e, con il pollice, gli cercò il battito sul polso, ascoltandolo per almeno dieci secondi: era lentissimo.
– Mi prendi per il culo? – esclamò irritata, lasciandogli bruscamente la mano – Sarai sui sessanta battiti al minuto; io viaggio sui settanta quando sono rilassata! Tu sei freddo come un pesce!
– E tu non fai testo, se è per questo: sei sempre talmente agitata che probabilmente vai in fibrillazione persino quando dormi! Però… – si interruppe un attimo e, senza che lei se lo aspettasse, Pete le riprese la mano e se la appoggiò sul petto, dove la cerniera slacciata del giubbotto lasciava scoperto il tessuto più leggero della tuta nera.
Lei sentì i battiti regolari del suo cuore, lenti come prima. E lui, proseguendo, le spiegò:
– Hai mai sentito parlare di bradicardia?2 Ecco, io ce l'ho: quando sono tranquillo, arrivo a malapena ai quarantacinque battiti. Quindi, se fai due conti…
– Bradicardia… Sì, lo so cos’è. Beh, se esiste una patologia adatta a te, è questa. Quindi sei davvero emozionato…
– Te l'ho detto: non ho mai visto niente di più bello.
Teneva ancora la mano di Briz contro il petto, e non guardava più il tramonto, ormai diventato crepuscolo: guardava lei.
 
pete-briz-ala-drago
 
 

– Ma sei sicuro che stanno litigando, questi due? – fece Yamatake a Bunta.
– Sono confuso, devo ammetterlo – rispose il pilota del Nessak.
Fabrizia si sentì il cuore in gola: lei non era bradicardica, anzi, fu vittima di un attacco di tachicardia talmente folle che ebbe paura di sentirsi male, ma fu bravissima a non darlo a vedere, esattamente come lui era bravissimo a giocare con la sua ingenuità.
– Okay, sono felice che esista qualcosa in grado di far battere più veloce il tuo cuore di ghiaccio – gli sussurrò, con un sorriso che avrebbe sciolto l'Alaska.
Gli diede un colpetto sul petto, prima di staccare a malincuore la mano da lui, e si diresse verso gli altri amici.
– Ehi, voi tre! Lasciate in pace quei due sull’altra ala! Hanno già i loro problemi, ci manca solo che vi ci mettiate voi, a tormentarli con battutine del cavolo. Voi non avete visto niente! Sono stata chiara? – li sgridò.
– Assolutamente sì, Comandante! – esclamò Yamatake, scattando sull’attenti.
Anche Pete si girò verso di loro e li raggiunse.
Sanshiro, poco prima, senza nemmeno saperlo, aveva detto a Midori la verità: per nessuna cosa al mondo, assolutamente nessuna, il Capitano Richardson avrebbe ammesso che ad aumentare i battiti del suo cuore bradicardico… non era stato il tramonto.
 
 
> Continua…
 
 
 
 
 
1 Need for Speed: videogiochi di corse automobilistiche che mio figlio adora. Copyright Electronicts Art Inc.
 
2 Bradicardia: da bradys, lento, e cardia, cuore. Riferendosi a un soggetto adulto, si ha bradicardia quando la frequenza cardiaca a riposo rimane al di sotto dei 60 battiti al minuto.
Ho scoperto cos’è questa condizione perché mio marito e mio figlio ce l’hanno e mi sembrava una cosa più che adatta al nostro Richardson.
 

La faccenda del lavaggio del cervello sarà ricorrente, a tratti, perché era proprio una delle armi preferite dei nemici (e non solo in Gaiking, come The Blue Devil ha precisato non molto tempo fa ;) ) Con tutte le incongruenze del caso, ovviamente, ma, come sapete, stiamo parlando di robottoni; c'è sempre il famoso dodecalogo in fondo al capitolo 3, a cui fare riferimento! 
 

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Capitolo 17
*** 16 - Giochi pericolosi ***


~ 16 ~ 
GIOCHI PERICOLOSI

 
“Nah you don’t know me
Lighting above and a fire below me
You cannot catch me, cannot hold me
You cannot stop much less control me.”
(Linkin Park – A light that never comes)
 
Dicembre…
Dopo l'avventura nel clima infuocato del deserto del Sinai, svegliarsi quel mattino con la neve che cadeva era stata una vera sorpresa, soprattutto perché la neve a Omaezaki era praticamente un'utopia.
Fabrizia aveva indugiato parecchio sotto alle coperte, sapendo di avere la mattinata libera, ma i pensieri che le giravano per la testa la tormentavano quanto i sogni che faceva continuamente tutte le notti. Da un lato era contenta di non sognare più, da un po’ di tempo, Ale e la sua famiglia; ma visto e considerato chi era, adesso, il protagonista delle sue inconsce avventure notturne, non era sicura di averci guadagnato, nel cambio.
Da quando aveva baciato Pete per riscuoterlo dall'ipnosi, non aveva più pace, e cominciava a essere stufa di svegliarsi abbracciata al cuscino, con le lenzuola aggrovigliate e il respiro affannato: i sogni erano diventati un po' troppo realistici per i suoi gusti, in particolare quello della notte scorsa!
Decise di alzarsi e andare a sistemare i cavalli: aveva bisogno di rinfrescarsi le idee e raffreddare i bollenti spiriti. Maledizione, com'era possibile? Lo aveva solo baciato sulle labbra! Okay, d'accordo, erano le labbra del Capitano Richardson, talmente perfette e ben delineate che sembravano scolpite da un angelo, ma come poteva, quel breve contatto, aver scatenato una serie di sogni assurdi come quelli?
Indossò la pesante giacca di pelle con le frange e uscì, ma la corta camminata nell'aria frizzante, tra i lenti fiocchi bianchi, non la aiutò granché; in realtà era più confusa di prima. Sperava che Pete quel mattino venisse a darle una mano, e magari anche a fare una passeggiata a cavallo nella neve insieme a lei.
No, riflettendoci… era meglio che non venisse: non era in grado di sostenere la sua compagnia, non dopo aver sognato per mezza nottata di pomiciare con lui come una ragazzina di quindici anni. A pensarci bene, lei non aveva indugiato in quel genere di cose nemmeno quando li aveva avuti, quindici anni, imbranata e sandrona com'era stata. Il suo primo bacio era stata la cosa più ridicola del mondo, e quanto al resto… scosse la testa rabbrividendo, come per scacciare un pensiero molesto. Meglio pensare ai cavalli e, soprattutto, arrangiarsi. La prima cosa che fece quando arrivò alla scuderia fu di accendere la musica a volume assordante; la neve sembrava attutire i suoni, invece lei voleva che fossero i suoni ad attutire i suoi pensieri. 
For the win”, dei Two Steps from Hell, che fondeva meravigliosamente musica classica e moderna, soprattutto nella versione remix, faceva al caso suo.
Ma, a un certo punto, gettò un'occhiata al cancello e lo vide arrivare: Pete, anche lui a piedi, per via della neve.
"Faccio finta di niente, faccio finta di niente, faccio finta di niente…" cominciò a ripetersi come un mantra, cosa totalmente inutile, visto che il battito cardiaco le era letteralmente impazzito.
Peccato non avere il cuore da bradipo, come l'oggetto dei suoi pensieri.
– Briiiz! – gridò Pete, entrando nella scuderia e cercando di sovrastare il volume della musica – Puoi alzare il volume!? Perché mi dicono che a Tokyo si lamentano, che non sentono molto bene!
Mitico, oggi era anche in versione scherzosa! Proprio quello che le ci voleva, per far vacillare il poco buon senso che le restava. Andò ad abbassare la musica: tutto sommato era davvero esagerata.
Pete passò un braccio attorno al collo di Obi-wan e gli strofinò il muso.
– Poveri, questa matta vi farà diventare sordi… – disse all'orecchio del cavallo; poi guardò lei e proseguì: – Facciamo una passeggiata? Cavalcare nella neve sarebbe una piacevole novità, almeno per me.
Lei si limitò a fissarlo. Miseriaccia! Aveva appena finito di pensare che sarebbe stato meglio non si facesse vedere… ma adesso ce lo aveva lì, davanti a lei, e aveva già cambiato idea. Ma perché?!
– Ehi, sei viva?
– Mm-mm – fece Briz, andando a prendere la sella.
– Wow, sei vivace come una statuetta di terracotta, stamattina. Ti si è congelata la lingua? Perché anche questa sarebbe una novità!
– Non sono in vena di chiacchiere – rispose in tono piatto, sorvolando sulla battutina pungente.
– Ma toh, non si era capito! Dev'essere per questo che nevica.
– Oh, ma la pianti?! – brontolò stavolta Briz, di malumore, a quella seconda punzecchiatura, entrando poi nel box di Indy.
Il cavallo la accolse raspando con uno zoccolo fra la paglia, tenendo una zampa anteriore appena sollevata. Pete sentì qualche frase in italiano, con uno strano accento che tendeva a mangiarsi la lettera c, e una parola che non conosceva.
– No, Indy! Ma 'he hai 'ombinato, bischero d'un 'avallo. 
– Ma che lingua stai parlando? – le chiese entrando anche lui nel box.
– Toscano: vengo da quelle parti, te lo sei dimenticato?
– Ah, okay. E che cos'è un… bisc… hero?
– Bah, lascia perdere. Indy ha un ferro lento, non posso cavalcarlo, finché il maniscalco non verrà a sistemarlo; però se vuoi andare tu con Obi-wan, fai pure.
– Tu mi lasceresti davvero andare in giro, da solo, con il tuo cavallo?
– Pete, non hai più niente da imparare, non ti ho dato le chiavi per venire qui solo a lavorare. Forse non ti è chiaro, ma ci sono cose per le quali di te mi fido ciecamente: anche i miei cavalli sono una di queste.
– Oh, interessante. E le altre?
Briz lo guardò di sottecchi, poi sollevò la zampa di Indy, si appoggiò con la spalla contro quella dell'animale e gli bloccò lo zoccolo tra le proprie ginocchia, per togliere il ferro lento con le apposite pinze.
– Tienilo fermo per la testiera, per favore, se no si agita.
Pete eseguì l’ordine e lei, proseguendo il suo lavoro, riprese l'argomento.
– Ogni volta che salgo sul Drago Spaziale, metto la mia vita nelle tue mani senza pensarci due volte, e lo sai benissimo. Cosa sei, in cerca di complimenti, oggi? – concluse bruscamente.
– Come mai sei di umore così simpatico, allegro e solare, stamattina? – fece lui, sarcastico.
– Così, perché mi va: lo sai che sono lunatica. O forse perché, stranamente, ci pensi già tu a fare lo spiritoso; magari è questo, il motivo per cui nevica. Allora, che fai? Esci con Obi-wan? – gli chiese, lasciando la zampa di Indy e osservando il ferro che gli aveva tolto.
Pete valutò l'idea di una passeggiata in solitaria, ma decise abbastanza in fretta.
– No, preferisco darti una mano, se ne hai bisogno.
Briz accettò l'aiuto volentieri, bofonchiando un:
– Beh, grazie. Qui c’è sempre bisogno, lo sai…
Per un po' lavorarono scambiandosi poche parole, finché Briz afferrò una pala e si diresse all’esterno, sul retro, per cominciare a liberare dalla neve il passaggio dal portone al recinto, prima che diventasse troppo alta. Pete la seguì con un’altra pala, pensando che in due avrebbero fatto prima, e lei si guardò bene dal protestare: spalare la neve non era mai stata la sua attività preferita.
Si soffermò a guardarlo mentre lavorava, col ciuffo biondo scuro sulla fronte e addosso un giubbotto di jeans foderato di lana che aveva visto giorni migliori e dal quale spuntava, dietro al collo, il cappuccio di una felpa grigia.
Distolse lo sguardo, vedendosi costretta ad inventarsi un altro mantra: “Non sono innamorata di lui-non sono innamorata di lui-non sono innamorata di lui…”
A un certo punto Pete si fermò, appoggiando la pala e facendo un passo verso di lei.
– Briz, devo chiederti una cosa.
– Sentiamo – rispose lei, facendo la stessa cosa e mettendo poi le mani sui fianchi.
– Dai, seriamente: voglio sapere se mi hai baciato, o se ho davvero sognato.
– Ancora?! – sbottò lei, spalancando gli occhi verdi – Ma è diventata una fissazione, non hai di meglio da pensare? Devo dirtelo in giapponese, che hai fatto un sogno? Anata ga yumemite kimashita!1 Contento? Te lo ha detto anche Sanshiro che non era vero!
– Sì, Sanshiro: buono, quello! L'avvocato del diavolo: lui è sempre dalla tua parte, perché sei la migliore amica della sua ragazza!
– Midori non è la sua ragazza. Sono solo… – cominciò a precisare lei, tentando di sviare il discorso.
– Non me ne frega niente, fatti loro! Non è di questo che stiamo parlando – tagliò corto lui, senza cascarci.
Tacque qualche secondo, e i suoi occhi blu fissarono  Briz intensamente.
– È una bugia – la accusò poi tornando a bomba, con la massima tranquillità, facendo un altro passo verso di lei.
– Bene, dunque, se hai già deciso così, perché me lo chiedi? – esclamò Briz irritata.
– Allora, se lo hai fatto davvero, dimmi perché mi hai raccontato una bugia.
– Ma che due palle! Per quale motivo dovrei mentirti? – sbuffò lei allargando le braccia esasperata.
– Ah, non lo so: dimmelo tu!
– Se non la pianti, giuro che ti piglio a pallate di neve in faccia, Pete!
– Non avresti il coraggio!
– Vuoi scommettere? – rispose Briz, raccogliendo due abbondanti manciate di neve e cominciando a pressarle per farne una palla.
Improvvisamente, si era stufata di fare la seriosa. E poi, così, avrebbero abbandonato lo spinoso argomento… forse.
– Andiamo, Briz! Non credi di essere un po’ grandicella per queste cose? – le disse lui, pensando di distoglierla da quell’idea balzana.
– Sai, Pete, uno scrittore tuo conterraneo, un certo George Bernard Shaw, ha detto che "Non si smette di giocare perché si diventa vecchi, ma che si diventa vecchi perché si smette di giocare". 
– Allora tu sarai una fanciullina anche tra settant’anni!
– Ci puoi giurare! E alla luce di questo, ti conviene difenderti! – lo avvisò, finendo di preparare la palla.
– No, eh? Non ci prova… – Pete non arrivò nemmeno a concludere che il proiettile lo colpì in mezzo al petto con violenza, esplodendo in schizzi di neve e facendolo quasi barcollare.
– Non mi hai preso in faccia! Mira scarsa, fanciullina! – la prese in giro, preparandosi a ricambiare il dispetto.
Infatti, subito dopo, Briz fu colpita a una spalla, ma fu lesta a preparare un’altra offensiva.
– Mira scarsa una ceppa, biondone! Era lì che volevo colpirti, ma se è in faccia, che la vuoi, pronto: ti accontento subito! – esclamò Briz ridendo e scagliando un’altra palla, più piccola e morbida, che centrò Pete su una guancia, sfarinandosi poi lungo il collo e scivolandogli dentro la felpa.
– Oh, ma brutta piccola… – esclamò rabbrividendo e avvicinandosi a lei minaccioso, con l’intenzione di ficcarle anche lui una manciata di neve giù per il collo.
Briz si sentì braccata e indietreggiò velocemente di qualche passo, ma le suole lisce dei suoi stivali scivolarono sul terreno ghiacciato e perse l'equilibrio all'indietro. Annaspando con le mani si aggrappò al giubbotto di Pete, che si era buttato avanti per sostenerla, ma riuscì solo a piombare pesantemente con la schiena sul mucchio di neve che avevano spalato… e a tirarsi lui addosso.
– Vacca boia, che botta! – ansimò Briz senza fiato, rendendosi conto di essere affondata sulla neve fredda; sotto di lui.
– Avanti, levati – gli disse ridacchiando, e rendendosi conto di quanto la situazione avesse preso una piega imbarazzante.
Pete accennò un sorriso, ma il suo unico movimento fu di sollevarsi appena e poi immobilizzarla: con una mano le bloccò una spalla, mentre con l'altra fu più delicato e si soffermò ad accarezzarle la fronte, scostandole il ciuffo all'indietro e lasciandole poi la mano tra i capelli.
Fabrizia rimase paralizzata tra le sue braccia, gli occhi spalancati, mentre il sorriso si spegneva dalle labbra di entrambi.
– Dai, spostati – ripeté lei, stavolta serissima.
Pete scosse appena la testa, altrettanto serio, e lei ebbe la netta sensazione che questa specie di gioco fosse diventato ben più che imbarazzante: era diventato pericoloso.
– Non ci penso nemmeno, voglio la verità su quel bacio! E se mi menti un'altra volta, allora giuro che ti bacio io, e continuo finché non mi implori di smettere.
Briz non riusciva a crederci. Stupendo! Credeva di minacciarla, giurandole di baciarla? Lei moriva dalla voglia, di un bacio! In fondo, perché ciò accadesse, sarebbe bastata un'altra bugia, dirgli: “Non ti ho baciato”… così lo avrebbe fatto lui. E poi… implorarlo di smettere? Non aveva proprio capito niente!
Il problema era che, in realtà, neanche lei capiva più niente!
E poi, Pete disse una cosa strana: non le chiese di nuovo di dire la verità. Col ciuffo di capelli chiari che le sfiorava la fronte, le disse a voce bassa:
– Avanti, Briz, mentimi ancora.


 
Neve

Le ultime due parole le rimbalzarono nella mente: non avevano il tono di una sfida, sembrava solo una richiesta. Pete l’aveva appena esortata a mentire, per avere una scusa per baciarla? Si ritrovò i pensieri e i desideri confusi in un gorgo disordinato…
E così, arrivati al dunque, capì che no, non sarebbe stata una buona idea. Non così; non per ripicca, sfida o ricatto. A dire il vero, sarebbe stata un’idea pessima in ogni caso: avrebbe solo complicato le cose!
Con le labbra che le tremavano e il respiro corto, vide gli occhi di lui cominciare a chiudersi e il suo volto abbassarsi lentamente verso il suo.
Un attimo prima che le loro labbra si sfiorassero, Briz sfoderò la sua arma abituale e, con i pugni appoggiati al suo torace, lo allontanò appena ed esclamò:
– Cavoli, bel pupone, hai davvero così tanta voglia di baciarmi? Prego, accomodati, ma sta’ attento che non ti avveleni davvero, stavolta!
Pete riaprì gli occhi di scatto e sollevò il viso di qualche centimetro: non riusciva a credere che Briz avesse usato il sarcasmo per togliersi da questo frangente! E la cosa peggiore era… che forse aveva anche ragione!
– Stai giocando col fuoco, fanciullina, lo sai? – la minacciò, più che altro per darsi un tono.
– Non dire scemenze, con te posso al massimo giocare col ghiaccio – e, così dicendo, lo respinse con più decisione – Ho freddo. Togliti, sei pesante – concluse gelida.
A Pete, ormai completamente spiazzato, non restò che obbedire e tirarsi in piedi. Lei lo imitò, passandosi nervosamente le dita tra i capelli bagnati, poi esitò diversi secondi, con la testa tra le mani e le tempie che le martellavano, e pensò che, a quel punto…
– E va bene, facciamola finita: ti ho baciato! – confessò all'improvviso, battendo poi in ritirata dentro alla scuderia – E adesso che lo sai? Ti senti realizzato? – gli gridò, mentre anche lui la raggiungeva all’interno. 
– Almeno adesso so di non essere proprio scemo. E perché l'hai fatto? – le chiese.
– Perché Sanshiro mi aveva appena fatto notare che le maniere forti non servivano per farti rinsavire! Così mi è venuta l'idea di provare a sconvolgerti, e guarda caso… ha funzionato!
– Sconvolgermi, eh? E perché non dirmelo subito, allora?
– Che ne so… così! Presuntuoso come sei, temevo che ti saresti… fatto delle strane idee, ecco tutto.
– Tu sei davvero complicata da decifrare, sai?
– Già! Tu, invece, sei limpido come l’acqua di fonte…
Pete le si avvicinò, e le spostò una ciocca di capelli umidi dietro all'orecchio. Ripagando l'ironia della ragazza con la sua stessa moneta, le disse:
– Hai avuto una bella fifa che ti baciassi davvero, prima, eh?
Fabrizia si sottrasse a quella specie di carezza con un gesto brusco della testa, ma non si spostò e mise insieme l’aria più spavalda che riuscì a trovare.
– Cretino! Fifa di che? Per un bacio non è mai morto nessuno! Oltretutto, tu non sei esattamente il mostro di Loch Ness, capirai che gran sacrificio sarebbe stato! Solo che non mi andava, fine! Eri tu, che ne avevi una gran bella voglia, là fuori! Ma cosa ti è preso? Ti metti a fare il cascamorto con me, la buffona squinternata? Shh! Silenzio! – esclamò agitandogli un dito davanti al naso, vedendo che lui aveva aperto la bocca per ribattere – Adesso ti dico una cosa, quindi apri bene le orecchie e stampatela a fuoco nella materia grigia, perché non la ripeterò: se per qualche assurdo motivo, un giorno, dovesse venirmi davvero voglia di un bacio, stai sicuro che me lo prenderò, e non sarà per ripicca, per scommessa o per ricatto! Ma di certo non succederà oggi, anzi, è più facile che non succeda mai! Sono stata abbastanza chiara?
– Trasparente e cristallina – confermò Pete, restando piantato di fronte a lei.
– Fatti in là! – gli ringhiò affibbiandogli un mezzo spintone – E finiamola qui una volta per tutte! Ne ho le scatole piene di queste… stronzate!
Lui indietreggiò, senza sapere se fosse meglio sorridere o sbuffare esasperato.
– Senti, Briz… Forse… è meglio che me ne vada. Okay?
Briz si accorse di essere in bilico tra un attacco di risate e uno di pianto. Non sapendo quale scegliere, gli voltò le spalle e si strinse le braccia.
– No, maledizione, non voglio mandarti via. Non dopo che ti ho dato le chiavi e detto che puoi venire quando vuoi… È… È solo che…
– Shh, tranquilla, va bene così, fanciullina. Per stavolta vado, è meglio; e non parliamone più.
Quando lei voltò la testa, Pete era già fuori dal cancello, col cappuccio della felpa tirato sulla testa, le mani in tasca, la neve che gli sfarfallava intorno. Briz si passò una mano tra i capelli, si appoggiò con la schiena alla parete e cominciò a ripetersi, a mezza voce, il terzo mantra della giornata:
– Sonun’idiotasonun’idiotasonun’idiota. Sono.Una.Idiota!
 
***
 
In mattinata era arrivato il maniscalco a sistemare i ferri di Indy, poi Briz aveva spalato altra neve; da mezzogiorno alle sei era stata di guardia e, in seguito, si era allenata un paio d’ore con Fan Lee per poi cenare con un panino. 
Non aveva rivisto Pete per tutto il giorno, il che forse fu un bene. Avrebbe voluto vedere almeno Midori, ma la sua amica aveva fatto il turno di guardia la notte precedente e, dopo qualche ora di sonno, aveva lavorato per comunicazioni varie con l'Alleanza Terrestre fino a sera, e forse avrebbe voluto passare il poco tempo libero con Sanshiro. O forse no? Difficile capirli, quei due: quando erano in compagnia degli altri, si comportavano come sempre.
Che fra loro ci fosse un po’ di tenero, ormai era più di un sospetto: bastava vedere gli sguardi che si scambiavano ogni tanto, o il modo in cui si sorridevano; e alcuni di loro avevano intravisto, dopo l’ultima avventura, lo scambio di effusioni tra i due sull’ala del Drago Spaziale. Però nessuno, dopo l’avvertimento di Fabrizia di lasciarli in pace, si azzardava a lasciarsi sfuggire un minimo commento. 
Fabrizia, comunque, sapeva che non c’era niente di più di quel che era stato visto. E va be’… che facessero loro.
Andò in cerca di Jamilah, bisognosa di un po’ di compagnia femminile, ma era in turno di manutenzione in sala macchine, pur se in procinto di finire.
Uff! Cominciava a sentire il peso di avere intorno tanti uomini: quando si ritrovava da sola in mezzo a loro per qualche riunione tattica o addestramento speciale, le sembrava di essere alla Sagra del Testosterone. E poi si meravigliavano se lei stessa faceva il maschiaccio!
Alla fine, stanca e stressata dalla giornata impegnativa – come quasi sempre, ormai – entrò nella sala comune e si avvicinò alla vetrata: fuori era buio, ma si vedeva ancora la neve cadere lenta.
Si ritrovò a osservare la propria immagine riflessa: era sempre vestita in jeans e camicie o felpe, non si truccava, i suoi capelli erano un disastro perenne e, anche se non si rosicchiava più le unghie, aveva smesso di mettersi lo smalto, una frivolezza che aveva giudicato le portasse via del tempo prezioso; anche Pete sembrava aver apprezzato quell'atteggiamento pratico.
A volte Briz sentiva su di sé il suo sguardo azzurro, accorgendosi di essere osservata, e si sentiva… strana.
In certi momenti era arrivata quasi a sentirsi carina, come era accaduto nel Sinai, sull'ala del Drago; o come quella mattina, con lui addosso, in mezzo alla neve.
Lo aveva accusato, per ben due volte, di aver avuto voglia di baciarla, e lui non aveva smentito. Ma cosa stracavolo stava succedendo? Lei non era il tipo di donna che piaceva agli uomini, men che meno a uno strafigo come il Capitano Richardson!
E di colpo, con un tuffo al cuore, realizzò: lui si divertiva semplicemente a prenderla in giro; giocava, non poteva essere diversamente. E di nuovo, l’unico aggettivo che le venne in mente, da associare alla parola giochi, fu pericolosi. Maledizione, ci mancavano proprio, queste baggianate, ad aggiungere peso al carico che si portava sulle spalle! Infatti si sentiva anche avvilita e preoccupata per come stavano andando le cose in generale.
Si rese conto di essere letteralmente furiosa: con Pete, con sé stessa, con il resto del mondo.
Nel frattempo, nella sala stavano arrivando quasi tutti alla spicciolata; mancava solo Bunta, in turno di guardia.
Tornò a focalizzare l'attenzione sull'oscurità e sulla neve, al di là del vetro, e si ritrovò, dopo non molto, a incrociare il riflesso degli occhi chiari di Pete, che si era fermato al suo fianco.
– Ehi, fanciullina.
– Ehi – rispose lei, incrociando appena il suo sguardo nel riflesso.
– Sei ancora arrabbiata per stamattina?
Lei girò la testa, per guardarlo direttamente: – Non avevamo deciso di non parlarne più? E, no, non sono affatto arrabbiata – mentì spudoratamente.
Si staccò dalla vetrata e lo piantò lì, raggiungendo gli altri.
– Fantastico, immagina un po' se invece lo fossi stata! – bofonchiò Pete, quasi tra sé.
Yamatake accolse Briz con una delle sue risate tonanti:
– Ciao, Anoressina, stai bene?
– Anoressina? Questa da dove salta fuori? – chiese lei, divertita.
– Hai mangiato solo un panino, a cena. Anzi, mangi sempre poco, secondo me!
– Questo è un argomento su cui tu non fai assolutamente testo! – ridacchiò lei – E sappi che, vicino a te, persino Doc e Bunta sembrano anoressici, sottospecie di Godzilla troppo cresciuto!  
– Grande! Sono passato di grado: da T-rex a Godzilla! – rise il lottatore di sumo, passandole un braccio attorno alle spalle, rischiando di soffocarla.
Pete li guardò un attimo, pensando che se in quel momento lo avesse fatto lui, probabilmente avrebbe ricevuto di rimando una gomitata nello stomaco, invece che una risata.
– Senza scherzi, piccoletta, ti vedo un po' giù… che ti succede? – insistette Yamatake.
– Ah ah, ti giuro che piccoletta non me l'aveva mai detto nessuno! Comunque, niente… sono solo preoccupata, forse anche un po' avvilita, per come procedono le cose. Mi spaventa che Darius riesca ad arrivare così vicino a noi: ci ipnotizza, ci rapisce, ci fa il lavaggio del cervello! E questa guerra sta devastando il nostro pianeta, forse perfino a livello climatico: oggi nevica, addirittura, cosa che in questa zona è decisamente strana. A volte penso… non so… che potrebbe davvero finire nel modo sbagliato – concluse, sedendosi su una poltroncina.
– Proprio tu, l’ottimismo personificato, ti deprimi così? – le disse Fan Lee – Non sei quella che diceva che avremo un futuro, e vinceremo la guerra perché “noi siamo i buoni”?
– Scusa, Sensei, sono un po’ demoralizzata. Il futuro non riesco proprio nemmeno a concepirlo, in questo momento. 
– Beh, io credo che pensare di avere un futuro sia l'unico modo che abbiamo per non avvilirci. Avrai dei desideri, dei progetti per… dopo, no? – insistette l’amico cinese, per cercare di tirarle su il morale.
Lei guardò gli altri, che sembravano incuriositi.
– Se mi promettete di non ridere, ve lo dico. Perché, conoscendomi, vi potrebbe sembrare strano – rispose Briz ritrovando un mezzo sorriso.
Abbassando lo sguardo disse: – Un giorno vorrei… dei bambini.
Briz si accorse di come la sua affermazione avesse fatto sollevare lo sguardo di Pete, che fino a quel momento si era un po’ estraniato, concentrato sul proprio cellulare.
– È un bel desiderio, Briz – fu il commento di Fan Lee – Qualcuno ha detto che un figlio è la nostra immortalità.
– Uno? Io ne voglio almeno due o tre!
– Scusa se mi intrometto, fanciullina, – interloquì Pete – ma mi risulta che per fare un bambino bisogna essere in due: direi che ti manca metà dell'attrezzatura.
La nota di malizia che gli vibrò nella voce, sembrava sottintendere che neanche l'avrebbe mai trovata, l'attrezzatura, e Briz fu costretta a ricorrere a tutto il suo autocontrollo, condito con il suo immancabile sarcasmo.
– Ti stai candidando, Pete? Perché ti avverto che non sei esattamente quello che avevo in mente.
– E meno male! Dividere la vita con te sarebbe un po'… faticoso, giusto per essere generosi. Non credo di essere votato al martirio.
– Ma grazie, gentile come tuo solito! Non so se te ne rendi conto, ma siamo nel ventunesimo secolo: una donna non ha più bisogno di sposarsi, a pensarci bene nemmeno di innamorarsi, per fare un figlio. Basta trovare un bel ragazzo con cui passare qualche notte piacevole, dopo di che… Bye bye! Saluti e baci!
– Cosa? Ti faresti mettere incinta per poi sparire?! – esclamò Midori, sconvolta; non avrebbe mai creduto che la sua amica potesse fare un discorso del genere.
Anche gli altri erano decisamente allibiti, e l’affermazione successiva di Briz non migliorò di molto la situazione.
– Che poi, ripensandoci… al giorno d'oggi ci sono anche soluzioni più sbrigative, e senza ingannare nessuno. La scienza adesso ci permette di concepire un bambino senza per questo costringerci a fare sesso con qualcuno: procreazione assistita e via, mai sentito parlarne?
– Ma piantala, non sei tu che parli. Non faresti mai una cosa del genere, come privare un bambino del padre prima ancora che nasca! Dov'è finita la fanciullina romantica e ingenua? – le chiese Pete, senza capire il perché di quello sfogo, che gli sembrava assurdo; e non solo a lui.
 – Ma che ne sai tu di me, di quello che sono, di quello che farei? Tu non mi conosci, pensi di potermi dire cosa fare, Pete? La fanciullina ingenua l'hai inventata tu, se ci pensi bene. Io non sono una di cui gli uomini si innamorano!
– E fatti due domande, sul perché… – infierì lui.
– La piantate di dire idiozie, tra tutti e due? – intervenne Sakon – Briz, lascia finire questo assurdo conflitto, torna alla tua vita e avrai la fila dei pretendenti sotto casa. Vedrai se mi sbaglio!
– Sììì, senz'altro! Sono una perticona di un metro e ottanta, goffa e mascolina, che guida un robot da guerra, non vede un parrucchiere da anni e si esprime come un mandriano! Dovrò tenerli lontani a bastonate, i pretendenti! – poi si rivolse di nuovo a Pete – Come vedi conosco i miei limiti, Capitano! Non mi ferisci, con le tue provocazioni del cavolo! E poi, comunque… non so. È vero che vorrei dei figli, un giorno, ma non sono affatto sicura di volere un uomo nella mia vita!
– Credo di essere la persona che ti conosce meglio, qui dentro. Ma non avrei mai immaginato che potessi avere idee del genere – disse Midori, con aria vagamente delusa.
Briz sollevò lo sguardo verde e lo fece vagare sugli amici.
– Io so solo… che di tutte le bugie che voi uomini ci raccontate, ti amo è quella che vi riesce meglio. E io… ho solo imparato da un pezzo a non crederci più.
– Probabilmente è per questo, che mi sono sempre guardato bene dal dirlo a qualcuna! – commentò Pete, sarcastico.
– E ciò dovrebbe sorprendermi? – esclamò Briz, con lo stesso tono.
Poi vide l'aria tra lo scettico e il costernato degli altri amici, e si affrettò ad aggiungere: – Ragazzi, lo so che non siete tutti così… ma… io parlo per me…
A dispetto della sua battuta di poco prima, Pete era un po' sconcertato: era stato quello che era successo quella mattina – o, per essere più precisi, che non era successo – a rompere gli argini che contenevano tutto quell'astio nei confronti degli uomini? Se avesse anche solo provato ad avanzare un'ipotesi del genere, Briz lo avrebbe accusato, come al solito, di avere un ego e una presunzione smisurati.
Ad un tratto, gli balenò il ricordo di un foglietto ingiallito con due nomi scritti dentro a un cuore: Fabry+Diego. La faccenda di Froggy gli si affacciò nella mente, e non riuscì più ad essere sarcastico e malizioso.
– Briz, tra tutte le cose orribili e tristi che ti sono successe, deve esserci stato anche qualcuno che ti ha dato una gran brutta batosta.
Non aveva nemmeno concluso, che si era già pentito di aver parlato: gli occhi di Fabrizia diventarono due laghetti di ghiaccio, al cui confronto si sentì un dilettante; e il tono della voce con cui gli rispose, non si discostava di molto.
– Cosa vuoi saperne, tu? Tu che sei arrivato a rinnegare un fratello? Amore, batoste… o il cuore che ti va in frantumi… Non parlare di cose di cui non sai assolutamente niente! Primo, perché non sarebbero fatti tuoi; secondo, perché non le capiresti nemmeno se te le spiegassi per ore!
Pete sostenne il suo sguardo.
– Perché fai la stronza? – le chiese, con voce incolore.
– Magari perché lo sono! Non hai idea, di quanto posso essere stronza, se mi ci metto!
– Ce l’ho, fidati!
– Sì, beh, non ne dubito: effettivamente tu sei particolarmente bravo, nel tirare fuori questo lato di me!
Midori, Jamilah e gli altri, li guardarono totalmente frastornati: questi due sembravano tornati al punto di partenza! Anche Daimonji era rimasto senza parole: le uscite di poco prima non gli erano mai sembrate parte della personalità di Briz, soprattutto sapendo da che tipo di famiglia provenisse. E a dire il vero, aveva proprio la netta impressione che questo fosse solo un atteggiamento dell’ultimo minuto: quella sera, la ragazza aveva voglia di litigare, era ovvio, anche se il motivo lo sapeva soltanto lei; e sempre ammesso, che lo sapesse.
– A me sembra che abbia ragione Pete: non sei tu, che parli – disse il dottore – Come mai da un giorno all'altro sei diventata così cinica e calcolatrice?
Briz lo guardò di sottecchi, con un'espressione tanto dura da rasentare la cattiveria.
– Andiamo, Doc, me lo chiede pure? Mi ha costretta lei, a passare il mio tempo libero con un ottimo maestro! – fu la spietata risposta, mentre si alzava e si dirigeva verso la porta, tirando a Pete un'occhiata di fuoco.
Lui la guardò con un'espressione tra il colpevole e il desolato. Poi sospirò e scosse la testa, mentre lei se ne andava sbattendo la porta.
 – Oddio… Ho creato un mostro.
 
> Continua…
 
 
 
 
Note:
1 La frase sui sogni in giapponese: così Google Traduttore me l’ha data, e così ve la passo. Eventualmente lamentatevi con lui.
 
Se Briz in questo capitolo non vi è piaciuta molto, avete ragione, mi fate compagnia. Non so perché mi sia venuta fuori così: a un certo punto ha preso, e deciso e fatto tutto da sola, e non sono riuscita a farla ragionare. XD
All’epoca della prima stesura e pubblicazione, nel 2017, non avevo fatto nessun disegno, pur pensando che la scena di loro due nella neve sarebbe stata carina, ma la nostra Brizzetta mi aveva fatta arrabbiare al punto che mi passarono sia la voglia che l’ispirazione.
Direi che il passare del tempo (ormai sei anni) sia stato un bene, no? Perché ammetto che, per averlo fatto piuttosto di fretta pochi giorni fa (il 22/1/2023), in un momento in cui non ero nemmeno troppo in forma, il disegno non mi pare malaccio. Spero vi piaccia
 😉

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Capitolo 18
*** 17 - La tana del diavolo ***


~ 17 ~ 
LA TANA DEL DIAVOLO



 
Il Drago Spaziale emerse dalle acque dell'oceano, levando in volo la sua mastodontica mole e i suoi quattrocento e passa metri di lunghezza. Per la prima volta dall'inizio del conflitto contro l’Orrore Nero, i terrestri partivano con il Drago non per difendere la Terra, ma per sferrare un attacco.
Da tempo Doc e i suoi collaboratori studiavano i dati contenuti nel dischetto che Yock gli aveva consegnato, e ultimamente avevano decifrato diversi progetti in essa contenuti: alcuni riguardavano una stazione da battaglia zelana, completi di coordinate spaziali.
La stazione, che i ragazzi avevano chiamato Tana del Diavolo,  somigliava ad un grande asteroide, ma celava al suo interno una base con tanto di astronavi e Mostri Neri in costruzione, ed era posizionata a una distanza dalla Terra troppo esigua per non essere preoccupante.
Studiando i piani, Sakon, Jamilah, Daimonji e Pete avevano scoperto che la base spaziale aveva un unico punto debole, situato proprio al centro di essa. Colpendo il punto esatto, si sarebbe instaurata una reazione a catena che avrebbe causato la distruzione della stazione stessa.
Purtroppo avevano scoperto anche altre cose: per esempio che per colpirlo era necessario introdursi all'interno della struttura; che per raggiungere il nucleo bisognava percorrere lunghi tunnel e immensi corridoi disseminati di pericoli e mezzi nemici; e che la potenza dell'arma con cui colpire doveva avere una certa portata.
Nel corso di una riunione tattica erano state valutate tutte le possibilità e, alla fine, era risultato che il Drago fosse troppo grande per entrare all'interno della Tana del Diavolo; il Gaiking anche: pur avendo armi potenti, non avrebbe potuto percorrere quei cunicoli per via delle dimensioni delle sue ali; Bazzora e Nessak erano fuori discussione, poiché non erano abbastanza veloci; Skylar avrebbe avuto le dimensioni giuste e la velocità necessarie, ma non era possibile dotarlo di un'arma con una potenza di fuoco sufficiente ad innescare la reazione a catena.
A quel punto della riunione, nella sala era sceso un silenzio opprimente e, senza che lo volessero, tutti gli sguardi avevano finito per convergere su Fabrizia; la realtà era palese agli occhi di tutti: Balthazar.
Il leone era l'unica risposta possibile, l'unica soluzione: aveva la velocità, le dimensioni giuste, avendo la possibilità di ripiegare le ali, e la potenza energetica del Thunderbolt. 
Briz non aveva potuto fare altro che annuire in silenzio, conscia della responsabilità e del peso di quel compito.
– Va bene, lo faccio! – aveva detto semplicemente, in tono risoluto.
– Non se ne parla! 
La voce di Pete era risuonata altrettanto decisa, mentre la fissava dall’altro lato del tavolo.
Briz si era alzata sporgendosi in avanti, con le mani sulla superficie che li divideva, e lo aveva squadrato freddamente.
– Senti, lo so che per te io posso essere solo un’accettabile spalla per il Gaiking; lo so che sono il componente più giovane e l'unica donna della squadra di guerrieri, e che ti sembra folle affidare proprio a me questa missione; e so anche che non ti fidi delle mie capacità, è sempre stato così! Ma cosa credi, che io muoia dalla voglia di infilarmi in quel buco e andare a farmi bruciare le chiappe? Trova un'alternativa valida, e io rinuncio volentieri.
Daimonji era intervenuto perentorio.
– Pete, non possiamo lasciare le cose come stanno: più tempo passerà, più la Tana del Diavolo si potenzierà e diventerà pericolosa. Ci viene data l'opportunità di distruggere un avamposto nemico che, nel giro di poco, potrebbe diventare una fabbrica di Mostri Neri a un passo da noi.
– Lo so, Doc – aveva detto Pete – E non è che non mi fidi di te, Briz. Ultimamente abbiamo rispolverato i nostri problemi di incompatibilità, noi due, ma non mi sembrava che la mancanza di fiducia come compagni di battaglia rientrasse tra questi; dovresti saperlo, ormai.
– Allora andiamo. Punto – aveva concluso lei, brusca.
L'idea che fosse Briz a mettere a repentaglio la propria vita, non piaceva a nessuno, ma tutti sapevano che c'era una legge non scritta, durante i conflitti: “La guerra è guerra”; nessuno di loro si illudeva più da un pezzo, e ognuno faceva ciò che era chiamato a fare.
E così, eccoli tutti lì, a bordo del Drago, diretti verso lo spazio, dopo aver passato giorni e notti a studiare i progetti della stazione nemica, e protetti da un sistema anti-radar per non venire individuati dal nemico fino all'ultimo momento.
Briz aveva imparato a memoria la sequenza dei corridoi e dei tunnel da imboccare per arrivare al centro della struttura, ma Sakon l’avrebbe aiutata, grazie a un rilevatore montato su Balthazar che gli avrebbe mostrato, su una mappa tridimensionale, la sua posizione all'interno della Tana del Diavolo.
Quando la raggiunsero, rimasero impressionati dalle sue dimensioni: l'aspetto poteva ingannare, in quanto sembrava davvero un grande asteroide del diametro di circa cinquanta chilometri. Ciò significava che Balthazar avrebbe dovuto percorrerne almeno venticinque per arrivare al nucleo, e altrettanti per fuggire dopo averlo colpito; ma sarebbero sicuramente diventati di più, contando le quasi scontate deviazioni che avrebbe dovuto fare all'interno di esso e che avrebbero allungato tempi e distanze.
La superficie dell'asteroide era disseminata di aperture illuminate: gli ingressi ai vari ponti di accesso.
Briz era già al suo posto nella carlinga di Balthazar, ancora nell’hangar dentro al Drago Spaziale, e aveva già individuato quale fosse il ponte da cui sarebbe dovuta entrare, ma aspettò l'ordine di Pete per partire, poiché prima avrebbero distratto i nemici attaccando dall'esterno con il Drago, il Gaiking e lo Skylar.
Effettuò la connessione, staccando prima il contatto visivo, e si preparò mentalmente, ripassando il percorso.
– Briz, mi senti? – le chiese Pete.
– Forte e chiaro. E tu?
– Anch'io, ma preferirei poterti anche vedere in faccia.
– Meglio di no; tanto… non mi vedresti comunque.
Pete non replicò: aveva smesso da tempo di porsi domande su cosa accadesse a Briz durante la connessione.
Sanshiro uscì con il Gaiking, Fan Lee con lo Skylar e, insieme al Drago, diedero inizio all'attacco. Immediatamente dalla stazione spaziale volarono fuori nugoli di piccoli caccia, guidati dagli Uomini Uccello; successivamente si palesò un Mostro Nero, una specie di pipistrello che attaccò repentinamente il Gaiking. E a quel punto, Balthazar schizzò fuori dal Drago quasi inosservato e si infilò nel tunnel prestabilito.
Se Briz si era aspettata cunicoli dai muri lisci e lineari, aveva sbagliato di grosso: le pareti erano formate da innumerevoli tubi e intercapedini di tinte diverse, che emettevano continuamente lampi luminosi e cambiavano colore, disegnando ombre e luci che avrebbero disorientato chiunque. La ragazza riuscì, nonostante tutto, a mantenere la rotta sul suo percorso; tuttavia a un certo punto, com'era inevitabile, i nemici la scoprirono e, con i caccia, si misero al suo inseguimento all'interno della base spaziale.
Contrastarli non era facile: più ne abbatteva e più ne spuntavano. A volte doveva cambiare percorso per evitarli, altre bastava schivarli, mandandoli a disintegrarsi contro le intercapedini.
Sakon, dalla sua postazione all'interno del Drago, era concentratissimo nel compito di guidarla verso il nucleo, seguendo nella mappa olografica la sua posizione, indicata da un led azzurro, che si muoveva lungo lo schema tridimensionale che rappresentava l'interno della Tana del Diavolo.
Nel frattempo, all'esterno, il Gaiking aveva avuto ragione del mostruoso pipistrello, mentre il Drago e lo Skylar avevano a loro volta inflitto gravi danni alla superficie della stazione da guerra zelana.
Pete diede l'ordine di rientro a Sanshiro e a Fan Lee.
Briz, dopo aver disintegrato un altro paio di caccia nemici con i raggi laser, si ritrovò il bersaglio davanti quasi senza rendersene conto: Balthazar sbucò in un'ampia sala circolare, al centro della quale una grande sfera sfaccettata era appesa al fondo di una lunga colonna d'acciaio.
La ragazza si sentì improvvisamente la bocca secca e, per un attimo, fu assalita dal suo più grande terrore: non riuscire a capire quale sarebbe stato l’attimo preciso in cui lanciare la sua arma più potente. Poi, all’improvviso, la paura si dileguò come per magia: la presenza  che a volte si manifestava nei momenti più complicati, le riempì la mente. Lasciò che la sua famigliare voce si facesse strada tra i pensieri, scostandoli al limitare della sua coscienza, e l’incitazione fluì spontanea al momento giusto: “Adesso, folletta!” 
Il suo pensiero e il suo grido partirono in sincronia:
– Thunderbolt!
La scarica di energia simile a un fulmine si abbatté sulla sfera, che esplose innescando la reazione che avrebbe distrutto la stazione nel giro di pochi minuti. Balthazar si infilò nuovamente, a tutta velocità, nel budello da cui era venuto, e a Briz venne spontaneo sussurrare un: – Grazie, Ale – che le venne dal profondo del cuore.
Immediatamente il leone fu attorniato da uno stormo di caccia nemici dai quali fu, però, completamente ignorato: i loro piloti alati, consapevoli di ciò che era accaduto, erano troppo impegnati a fuggire per salvarsi la pelle.
– Sììì! Yeah-haa! Sono o non sono una fottutissima genia? – urlò Briz.
– Oh, sì! Lo sei, maledizione se lo sei! – la voce di Pete tradiva una risata di trionfo e ammirazione, ma poi la ammonì: – Non sei ancora fuori, però! Ricordati che non stai giocando alla Playstation!
– Merda, Richardson! Ma tu non ti rilassi mai? – esclamò Briz ridendo a sua volta, accorciando a ogni secondo la distanza che la separava dall’uscita.
Le urla di esultanza furono interrotte dall'esclamazione spaventata di Sakon.
– Oddio! La reazione a catena è più veloce di quanto avessimo calcolato!
– Cacchio! Vuol dire che mi scotterò davvero il culo? Me l’hai proprio gufata, Richardson, sei contento, adesso? – tentò di sdrammatizzare Briz dando più velocità, mentre le fiamme dell'esplosione le arrivavano effettivamente alle spalle più rapide del previsto.
– Briz, se riuscirai a sfuggire alle fiamme e ad uscire, verrai comunque investita dall'onda d'urto dell’esplosione prima di poter rientrare nel Drago! Balthazar è troppo piccolo per contrastarla! Finirai… sparata chissà dove! – gridò Sakon.
Briz rispose dopo qualche secondo di silenzio:
– Insomma, comunque la giriamo, sono fregata, è così?
– Ma non esiste proprio! Non osare mollare! – le gridò Pete, con la mente che lavorava febbrilmente alla ricerca di un piano; poi annunciò al resto dell’equipaggio:
– Forse so come fare, ma dovremo aspettarla; e nel frattempo, vi consiglio di ancorarvi ai sedili con le cinghie ben strette.
Daimonji decise in due secondi pur sapendo che, fermarsi lì, avrebbe voluto dire correre il rischio che anche il Drago venisse investito dall'esplosione o, quanto meno, dall'onda d'urto.
– Hai carta bianca, Pete: il Drago è più grande, più pesante, assorbirà l'impatto. Ma come pensi di fare con Briz?
– In qualche modo, la prendo.
"La prende? E come?" si chiesero tutti, mentre eseguivano l'ordine di stringere le cinture.
– Sakon, fammi vedere qual è il ponte da cui uscirà Balthazar – disse Pete, con una calma che era solo apparente.
Sakon glielo mostrò, trasferendogli sul monitor l'immagine dell'interno dell'asteroide che stava collassando; Pete diresse il Drago verso l'apertura che l'amico gli aveva indicato.
Nessuno di loro aveva pensato, nemmeno per un attimo, che fermarsi a salvare Briz avrebbe potuto significare la fine del Drago Spaziale e di tutti loro: la fiducia nel loro Capitano era scontata, qualunque cosa avesse voluto dire con quel “La prendo”.
Briz lottò con sé stessa per non farsi prendere dal panico, mentre continuava a spingere Balthazar a tutta velocità, sia con la cloche che con il pensiero, lungo i cunicoli della base nemica; la sua voce risuonò ben poco ferma.
– Sono alla velocità massima, Pete! Ho l'inferno alle calcagna, non so se ce la farò!
– Fabrizia.
Raramente Pete la chiamava così – il che la diceva lunga sulla situazione che stavano vivendo –, ma la sua voce calma e sicura mentre pronunciava il suo nome per intero, le fece scendere nel cuore un'improvvisa tranquillità, nonostante la concitazione di quegli attimi.
– Sono qui – rispose, tentando di non far tremare la voce.
– Ti fidi di me? – le chiese Pete.
Briz esitò forse un paio di secondi, le mani sempre a spingere sui comandi, poi gli rispose.
– Adesso e sempre, Dragonheart.
– Brava fanciullina! Sono sicuro che non sei ancora al massimo, il tuo gattone può fare di meglio!
Briz non rispose, ma nella sua mente, come evocata da qualcun altro, si formò l’immagine di Balthazar che iniziava a roteare, avvitandosi su sé stesso come una trivella a una rapidità impressionante, sfondando gli spazi e qualunque altra cosa si parasse sul suo percorso. E ciò che lei – o qualcuno, per lei – pensava, il suo gattone, come lo aveva appena chiamato Pete, lo faceva.
Intanto il Drago prese posizione sulla stazione zelana, le grandi zampe ancorate sulla sua superficie, al di sopra dell'apertura dalla quale Briz sarebbe schizzata fuori. Al suo interno, tutti trattenevano il respiro in un silenzio di tomba; Sanshiro allungò una mano su quella di Midori e lei la strinse forte, intrecciando le dita con quelle del giovane; Jamilah, legata con le cinture alla sua postazione di comando, tra Sakon e Doc, si sporse verso il suo Prof, aggrappandosi al suo braccio.
Pete serrò i denti, mentre gocce di sudore gli scivolavano dalla fronte lungo il lato del naso e sulla guancia: sulla mappa tridimensionale, seguiva il led azzurro che si avvicinava sempre di più all'uscita.
– Ci sei quasi, Briz, ti vedo! Tre, due, uno…
Balthazar sbucò all'improvviso, un proiettile bianco e oro lanciato a una velocità folle; ma il Drago, nonostante la propria mole, fu ancora più veloce: in una frazione di secondo si tuffò verso il basso e le fauci dai grandi denti si chiusero sul corpo del leone, imprigionandolo.
Briz lanciò un urlo, mentre sentiva un orribile rumore stridente, di metallo contro altro metallo; la sua corsa fu rallentata di botto e lei finì a rotolare sul pavimento della carlinga.
E ora… aveva la sensazione di precipitare, poi di risalire, poi di roteare… non capiva più niente: si aggrappò al primo appiglio che trovò nell'abitacolo e cercò di resistere, rinunciando a capire come, e soprattutto se, Pete fosse davvero riuscito a salvarla, o se invece si stesse perdendo nelle profondità siderali.
L'esplosione non colpì il Drago in fuga, ma l'onda d'urto lo investì in pieno, scagliandolo per vari chilometri nello spazio. Pete si affondò i denti nel labbro inferiore, concentratissimo nel duplice sforzo di tenere Balthazar stretto nella bocca del Drago e, nello stesso tempo, contrastare la violenza dello spostamento d'aria. L'astronave venne sballottata nel vuoto per un tempo interminabile, insieme ai suoi occupanti che, nonostante le cinghie che li legavano ai loro posti, presero tutti una terribile centrifugata.
Finalmente, un po' alla volta, il Drago smise di roteare e riprese lentamente il suo assetto; i componenti dell'equipaggio riaprirono gli occhi e ricominciarono a respirare.
– Briz, sei ancora lì? – fu la prima domanda di Pete.
– Domanda interessante… dammi qualche indizio su dove dovrebbe essere il , perché non ho capito un accidente di cosa sia successo! – boccheggiò Fabrizia, ancora chiusa nell'armatura, faticando a riprendere fiato.
Provò a rimettersi in piedi, cosa non facile, poiché il pavimento era storto; no, non il pavimento… tutta la carlinga era storta! Balthazar stava messo di traverso… in qualche modo, da qualche parte…
Vedeva lo spazio, dal monitor panoramico che le faceva da vetrata, e percepiva di essere in movimento, ma per il resto non capiva.
– Dimmi dove diavolo sono, Richardson!
– Praticamente… sei in bocca al Drago.
– Hm, fantastico! Ha-ha, riesco a sfuggire agli zelani e per poco non mi ammazzi tu! – commentò con una risata stridula che rasentava l'isteria, prima di esalare, senza fiato: – Grazie, Capitano. Solo a te poteva venire in mente di fare una cosa del genere. 
– Dovere, piccola – rispose Pete, ridendo nervosamente anche lui.
Individuò un grande asteroide, sul quale decise di atterrare affinché riprendessero tutti fiato e potessero fare il punto della situazione. Il Drago toccò la superficie rocciosa, poi abbassò la testa e spalancò le fauci al massimo per permettere a Balthazar di liberarsi.
Briz eseguì poi la disconnessione e crollò sul suo sedile, sperando che la nausea e i brividi di febbre passassero in fretta; quando la presenza di Ale – o ciò che lei riteneva tale – si manifestava in quel modo, il distacco le sembrava più difficoltoso. Lentamente, si rimise il giubbotto viola e il casco di ordinanza e ripristinò i contatti video, mentre cominciava ad eseguire le manovre di rientro nel Drago.
Al suo posto di guida, intanto, Pete, ansante e col volto sudato, si era slacciato il giubbotto in cerca di aria che gli riempisse i polmoni, convinto che la tensione accumulata nell’esecuzione di quella manovra gli fosse costata almeno cinque anni di vita. Si tolse i guanti e, guardandosi le mani, non si stupì di trovarsele informicolite e tremanti: le aprì e le richiuse un paio di volte.
Doc lo raggiunse e gli strinse una mano sulla spalla.
– Sei stato grande, ragazzo! Sono fiero di te, di Fabrizia, e di tutti gli altri che non hanno dubitato delle vostre capacità, nemmeno per un attimo: un ottimo lavoro di squadra.
– Grazie, Doc – rispose Pete, tornando a guardare il monitor su cui era apparso il volto provato di Briz.
– Ehi, hai l'aria un po' cotta, fanciullina.
– Perché tu, invece? Ma ti sei visto? – ridacchiò lei, nervosamente.
– Vuoi che ti venga a prendere all'hangar?
– Ma non ci provare! È un bel pensiero, grazie, ma so arrivare in plancia con le mie gambe! Pensa a riprendere fiato tu, piuttosto!
Quando, alcuni minuti più tardi, Briz varcò la porta della sala comandi, se li ritrovò quasi tutti addosso, prima fra tutti Midori che la abbracciò con foga, pienamente ricambiata.
– Dori, trovati un'oretta per me appena puoi: ho bisogno di due chiacchiere con te, okay? – disse Briz, consapevole di dover chiarire con l’amica, e non solo con lei, tutte le assurdità che aveva sparato qualche sera prima. 
– Quando vuoi, pazza furiosa! – rise Midori, che aveva già capito.
Briz la lasciò, per accettare altre pacche e abbracci: Yamatake, come sempre, rischiò di stritolarla; gli altri furono meno bruschi, ma altrettanto affettuosi.
Il dottor Daimonji la raggiunse e le prese il viso tra le mani, guardandola commosso.
– Sei stata davvero fantastica – le disse; poi fece girare lo sguardo su tutti gli altri: – Ve ne siete resi conto, vero, che della Tana del Diavolo non è rimasto più niente?
Effettivamente erano stati tutti talmente presi dal fatto di salvare Briz e di scappare, che solo ora realizzarono come la missione fosse perfettamente riuscita.
Mentre Daimonji abbracciava Briz come un padre orgoglioso della propria figlia, gli altri si lasciarono sfuggire risate e commenti soddisfatti. Lei sentì di dovere delle scuse anche al dottore.
– Doc, mi dispiace per qualche sera fa… le ho risposto male e le ho mancato di rispetto. La prego di perdonarmi: ero arrabbiata, ma non con lei.
– Me n’ero accorto e accetto volentieri le scuse, non preoccuparti. Forse è con qualcun altro che ti devi chiarire – disse il dottore lasciandola andare e guardando più in basso, dove Pete non aveva abbandonato la propria postazione.
Il Capitano se ne stava in piedi, appoggiato alla consolle con le braccia incrociate, a osservare la scena dell'ingresso in plancia dell'eroina del momento. Briz lasciò Doc dicendo:
– Tanto… con lui è un chiarimento perenne. Non facciamo altro che chiederci scusa…
Si tolse i guanti e, passando accanto al proprio posto, li buttò sulla poltroncina tirando un'occhiata di traverso al pilota del Drago.
– Cazzarola, Richardson! Mi hai salvato le chiappe! – esclamò.
– Beh, pare di sì. Anche se magari io mi sarei espresso in un altro modo.
– Ma sicuro, Capitan Perfettino! – lo prese in giro.
Pete se la vide venire incontro, alta e diritta, la falcata decisa e spavalda: in quel momento non c'era niente in lei della ragazzina insicura e senza autostima. Ma nonostante il sorriso trionfante, aveva le labbra screpolate e gli occhi verdi segnati e stanchi, che risaltavano ancora di più nel volto pallido.
Gli si fermò di fronte, a un passo di distanza, incantandolo con i suoi incredibili occhi di smeraldo.
– Pete… io… l’altra sera avevi ragione. Avevate ragione tutti… ho detto un mucchio di stronzate.
– Quali stronzate? Non mi ricordo, e poi… anch’io sono stato parecchio pungente. Qualunque cosa sia accaduta, con quel che hai appena fatto sei andata in credito. Oggi sei stata… oh, non lo so, non riesco nemmeno a trovarla, una parola per descriverti – le disse.
– Meravigliosa? – suggerì lei, ritrovando un po’ di verve nel sentirsi concedere delle scuse che non era quasi arrivata a chiedere.
– Bah, non ci si avvicina neanche – replicò lui.
– Vero, hai ragione! Qualcosa come… strepitosa, mi sembra più appropriato – e gli fece un sorriso che le disegnò sulle guance due irresistibili fossette.
– Sì, molto meglio, può andare; e vedi di ricordartene, la prossima volta che avrai un attacco di avvilimento o di autostima a livello zero!
– Pete… io sarò anche strepitosa, ma senza di te, a quest'ora… non sarei proprio! Fine della storia.
La voce le si spezzò, e le lacrime le annebbiarono la vista.
– Che cosa stai facendo!? – esclamò lui, vedendole negli occhi quel luccichio sospetto – Nononono, ti prego, Briz, ma che cavolo! Mi fai un ingresso in plancia in grande stile, degno di una rockstar… e poi da Madonna ti trasformi in Candy Candy che piange sempre?  Dai, chiudi quei rubinetti!
Lei gli allungò un finto spintone.
– Al diavolo i rubinetti, Richardson! E pure Madonna e Candy Candy! Mi hai salvato la vita, e io piango quanto mi pare, hai capito!? Perché io… non potrò mai ripagarti di una cosa del genere!
Sanshiro che, senza parere, li osservava da un po' – come tutti del resto, essendo comunque nella plancia di comando – si lasciò sfuggire sottovoce: – Ma santo cielo, quanto gli ci vuole, a quel somaro galattico, per capire che Briz ha bisogno di un abbraccio? Perché se non ci arriva, mi tocca andare lì e spiegarglielo.
– Shh – fece Midori divertita, altrettanto piano – Forse non ce ne sarà bisogno…
Infatti, quasi come se avesse sentito le loro parole, Pete allungò una mano verso Fabrizia e le sfiorò una guancia.
– Coraggio, strepitosa, vieni qui.
In un attimo, il passo che li separava fu cancellato: Briz gli circondò il collo e gli affondò il volto contro la spalla. Le lacrime le sgorgarono silenziose dagli occhi chiusi mentre lui la stringeva forte, un braccio intorno alle spalle, l'altro attorno alla vita.
Briz si chiese perché stesse rovinando un momento come quello piangendo, ma non poteva farne a meno: la paura e la tensione si stavano stemperando in quelle lacrime; persino Pete lo capì, e non le chiese di smettere.
 
 
P-B-abbraccio  
– Va bene, Briz… piangi – le disse con un tono di voce rassicurante e caldo che la fece sciogliere – Basta che non ci metti secoli, a smettere – aggiunse poi, con pungente dolcezza.
Briz continuò a piangere silenziosamente, cullandosi nel calore di quell'abbraccio; il ricordo del terrore provato svanì, lasciando il posto a un altro pensiero che la spaventò persino di più.
"Ma chi voglio prendere in giro? Posso negarlo al mondo intero e anche a me stessa, anzi lo farò senz’altro da domani in poi, ma io… potrei davvero innamorarmi perdutamente di questo ragazzo, e persino del suo carattere impossibile e dei suoi lati oscuri…"
Non lo voleva nel modo più assoluto: avrebbe lottato come una pazza, contro sé stessa e la dannata cosa strana che provava nei suoi confronti. Sapeva che la batosta presa in passato sarebbe stata niente, al confronto di quella che avrebbe potuto prendere adesso: se per lei c'era un uomo sbagliato di cui innamorarsi, quello era il Capitano Pete Richardson!
Tanto valeva godersi quell'abbraccio, finché fosse durato; e se Pete giocava soltanto, allora avrebbe giocato anche lei e, entro certi limiti, si sarebbe presa quel che fosse capitato, per quanto pericoloso potesse essere per la sua sanità mentale ed emotiva.
– Grazie, Dragonheart – gli sussurrò all'orecchio, stringendolo un po' più forte e accarezzandogli i capelli.
– Sono io che devo ringraziarti, per esserti fidata di me senza nemmeno sapere cosa avrei fatto. Va meglio, ora? – le chiese, sentendo che cominciava a rilassarsi.
– Sì, va meglio – sorrise Briz scostandosi appena, lasciandogli un braccio attorno al collo e asciugandosi gli occhi con l'altra mano; affondò lo sguardo in quello azzurro di lui e gli chiese: – Pete, cosa avresti fatto se… se non fossi riuscito a prendermi?
– Non vuoi saperlo, fidati! Probabilmente… avrei dovuto usare il piano B. 
– Il piano B. Che consisteva in…?
– Ehm, io… non lo so: ha funzionato il piano A!
– “Ha funzionato il piano A”?! Ma-ma-ma… e poi la pazza squinternata sarei io? Cavoli, hai ragione: era meglio non saperlo! – esclamò Briz, dandogli una scrollata scherzosa e abbracciandolo di nuovo, questa volta ridendo.   
– Fanciullina… forse non te ne sei accorta, ma stiamo dando spettacolo.
Lei girò la testa e diede un'occhiata verso l'alto dove, dai loro posti, alcuni dei loro amici li osservavano divertiti, qualcun altro fingeva di guardare altrove, e Yamatake, col suo solito tatto, batteva teatralmente le mani.
– Bah, sai che novità! – commentò lei – È dal giorno in cui ci siamo conosciuti che io e te, per loro, siamo meglio del cinema!  
Fece un passo indietro, staccandosi a malincuore da lui, e gli lasciò scivolare un'ultima carezza dai capelli fino alla guancia.
– Forza, Richardson, portaci a casa, adesso – gli disse sottovoce.
Gli voltò le spalle dirigendosi verso il suo posto, ma si bloccò quasi subito, come se le fosse venuto in mente qualcosa.
Si girò di nuovo, con una luce furbesca nello sguardo, e tornò sui suoi passi; arrivata di fronte a Pete, gli afferrò con una mano il lembo slacciato del giubbotto e lo tirò bruscamente verso di sé.
E gli stampò un bacio sulla bocca che lo lasciò lì, annichilito e con gli occhi spalancati, per un paio di secondi durante i quali la sua mente si spense.
Quando il cervello gli si riaccese, e realizzò che ricambiare sarebbe stata un'idea tutt'altro che malvagia, era troppo tardi: le loro labbra si erano già staccate, con tanto di schiocco che tutti sentirono.
Briz lo teneva ancora per il giubbotto, con un sorriso spavaldo e una luce di sfida che le brillava negli occhi; Pete, ovviamente, non poté esimersi dal prenderla un po' in giro.
– Baci come una bambinetta, lo sai?
– Perché è esattamente così che volevo baciarti, bel tenebroso, che ti aspettavi? Dopotutto sono solo una fanciullina ingenua, no? – e lo lasciò andare, girandogli di nuovo la schiena per raggiungere la sua postazione.
– Ma… senti, giusto per la cronaca… perché mi hai baciato?
Fabrizia si voltò ancora verso di lui e, camminando all'indietro, sollevò appena le spalle e allargò le braccia.
– Perché mi andava! – esclamò tornando nuovamente a girarsi.
– Tutto qui? Perché ti andava? Bella risposta!
– Te lo avevo detto, giorni fa, che se avessi voluto un bacio, me lo sarei preso.
– Ehi! – intervenne Bunta – Non hai mica baciato così, me, quella volta che ti ho salvata!
– Tu sta’ zitto, che sei fidanzato! – ribatté lei, puntandogli un indice contro.
– Ma mica lo sapevi, ancora! – insistette Bunta, prolungando lo scherzo – È che io non ho il fisicaccio e gli occhi azzurri del nostro Capitano – concluse, malizioso e pungente.
Briz arrossì disperatamente, ma si tolse d’impaccio in un attimo, lanciando uno sguardo a Pete da sopra la spalla, mentre raggiungeva il suo posto.
– Richardson, mi andava perché mi hai salvato la vita, ma non è solo per quello. Dai, ma ti sei davvero dimenticato che giorno è oggi?
Pete sospirò, alzando gli occhi al cielo.
– Che giorno è? Sentiamo anche questa!
– È il ventuno dicembre! Buon compleanno, Dragonheart!
                                                        
> Continua…
 
 
 
 
 
Nota dell’autrice flippata:
Se questo capitolo vi dà l’impressione di già visto, tipo che so, Star Wars, o cose simili, ecco… la cosa non è del tutto casuale, ma voluta. C’è una missione simile ne Il ritorno dello Jedi, con il Millennium Falcon guidato da Lando Calrissian e un simpatico piccolo co-pilota extraterrestre. In fondo, forse i miei figli non hanno tutti i torti quando mi dicono che copio come un’assassina!
E lo so che vi aspettavate tutti il disegno del bacio, io invece vi ho fregati di nuovo – e con voi i miei personaggi – e ho optato solo per l’abbraccio, perché in questo capitolo, quest’ultimo è più vero e importante del bacio, che è solo una piccola presa in giro tra i nostri due protagonisti disagiati.
Per i baci ci saranno occasioni migliori… Forse  XD

 
Ah, il prossimo capitolo sarà molto leggerino, dopotutto i nostri protagonisti sono arrivati sotto Natale, vogliamo dargli un attimo di respiro e farglielo festeggiare, insieme al Capodanno? Orrore Nero permettendo, ovviamente…

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Capitolo 19
*** 18 - Festività, canzoni e... ***


~ 18 ~ 
FESTIVITA’, CANZONI E…

 
 
“I dream about you,
Heaven only knows I do,
I dream about you,
every single night it’s true,
I dream about you…”
(Simple Plan feat. Juliet Simms - I dream about you)
 
 
 
I giorni successivi furono impegnativi: il Drago, il Gaiking e Balthazar necessitavano di riparazioni notevoli, soprattutto il leone, che era uscito alquanto ammaccato e malconcio dal salvataggio in extremis attuato dal Capitano Richardson. Il lavoro e i turni di guardia assorbirono la maggior parte del tempo di tutti loro; Briz e Pete si incrociarono giusto un paio di volte nei corridoi, e si scambiarono un paio di messaggini in cui decidevano chi dei due si sarebbe occupato dei cavalli.
Ma il terzo giorno, quello della vigilia di Natale, si presero quasi tutti un attimo di pausa; Briz scomparve per l’intero pomeriggio, dicendo che aveva delle cose da fare in città: nessuno scoprì quali fossero, queste misteriose cose.
Quella sera, dopo cena, quando arrivò in sala comune, nonostante fosse già piuttosto tardi ci trovò Midori che, con un sorriso, le fece segno di andare a sedersi accanto a lei. Forse, finalmente, avrebbero avuto il tempo per due chiacchiere tra amiche, e Briz obbedì, non prima di aver posato in un angolo un voluminoso scatolone che aveva portato con sé.
– Vieni qua, eroina! Stai bene? – le chiese l’amica.
– Ma che eroina, sono stanca morta! Ma almeno questi ultimi avvenimenti mi hanno tirato un po' su di morale.
– Già… soprattutto aver baciato il nostro bel Capitano – celiò Midori maliziosa.
– Ma ti prego, era solo un bacetto a stampo, una roba da asilo d’infanzia, così per scherzo! Non cominciare a farti certi filmini mentali, okay? – sbottò Briz con un po' troppa foga.
– Nessun grande amore, all’orizzonte, quindi? È sempre valida la teoria degli ormoni sconvolti e basta?
– Mettiamola così: è solo un gioco, Dori. 
– No, perché sai, allora, dai tuoi vaneggiamenti di qualche sera fa, sarebbe una motivazione più che sufficiente per scegliere proprio Pete, come potenziale padre per i tuoi futuri figli – la prese in giro Midori che, riflettendoci sopra, aveva capito benissimo che, qualche sera prima, l'amica aveva esagerato apposta – Oltretutto, – proseguì poi, convinta – esemplari come voi due produrrebbero senza dubbio bimbi di una bellezza sconvolgente.
A Briz balenò per un attimo nella mente l'immagine di due bambini: una femmina dai capelli biondo scuro e gli occhi verdi, e un maschietto con i capelli castano scuro e gli occhi azzurri. Con una scrollata di testa si riscosse da quel pensiero, che definire folle sarebbe stato poco.
– Andiamo, Midori, lascia perdere: ho già ammesso di aver detto un mucchio di stronzate, lo sai. Non metterei mai al mondo, volutamente, un figlio senza padre, ma se l’unico uomo disponibile dovesse essere Pete, fidati che piuttosto farei senza!
Ciò che stupì Midori, fu che quest'ultima frase non venne pronunciata con astio, ma ridendo spensieratamente. Le suonò davvero un po’ strano, ma annuì e tacque qualche secondo, prima di cambiare argomento e chiederle, a bruciapelo:
– Briz, chi è Diego?
L’amica la guardò sconvolta.
– Come fai a conoscere questo nome? Non te ne ho mai parlato.
– Infatti… Invece, qualche giorno fa, Pete mi ha chiesto se io, visto che ti conosco meglio, sapessi chi sia. Perché lui conosce questo nome e io no? – indagò Midori.
– Ehi, sembra quasi che tu sia gelosa! Lo sa perché lo ha trovato scritto dentro un cuore, sfogliando uno dei miei vecchi libri. E non te ne ho mai parlato perché è solo una cazzata da adolescenti, esattamente come ho detto a lui. Perché Pete voleva saperlo?
– Secondo lui, è qualcuno che ti ha fatta soffrire.
– Bah, di certo non ne sono morta, come vedi.
– Già… ma ti ha convinta che quando un uomo dice ti amo, è solo una bugia ben riuscita.
– In linea di massima, sì; ed è inutile che fai la paternale a me, quando nemmeno tu vuoi sentirtelo dire! E ha poco senso, scusa: tu e Sanshiro potreste essere davvero una coppia!
– Siamo in guerra, Briz: non c’è tempo per cose come promesse, progetti o… altro, che renderebbero tutto più…
– …più cosa, Midori? Impegnativo? Profondo? Reale? Ha! E poi quella strana sarei io?
– Cosa faresti tu? Sentiamo!
– Ci sono molti se, in questa già ipotetica situazione. Cosa farei se io fossi una che si innamora, e se avessi qualcuno che mi ama davvero? E se volessi una circostanza del genere? È tutto alquanto improbabile, ma nel caso… io vorrei promesse! Tante! E vorrei progetti! Vorrei tempo insieme… Vorrei amore, passione, fedeltà, tenerezza, eternità! Vorrei giorni… e notti. Vorrei tutto, Dori, tutto il possibile, perché non sarei disposta a dare niente di meno; a maggior ragione quando tutto potrebbe finire da un momento all'altro. Ma, ribadisco, io non mi innamoro facilmente, non cerco un uomo, e, soprattutto, non stiamo parlando di me! Io spero con tutto il cuore che non succeda niente a te o a Sanshiro, ma se davvero hai tanta paura che uno di voi due possa morire, vuoi davvero correre il rischio che accada… senza nemmeno sapere come sia fare l'amore con lui?
– Briz! – esclamò Midori scandalizzata, rossa come un'aragosta.
– Ma non fare la scolaretta, Dori, siamo grandi: e quando si è innamorati certe cose succedono, lo sai benissimo! Ed è esattamente quello che siete, tu e Sanshiro: innamorati, anche se tu non vuoi considerarla in questo senso.
– Ma senti, ha parlato l'esperta! Sei davvero forte, tu: quella che solo una settimana fa aveva dubbi su come potrebbe finire questa guerra e che non crede nell'amore e nelle promesse degli uomini!
– E io ti ho appena detto che non è di me, che parliamo; tantomeno di me e Pete. E detto questo… chissà: magari da qualche parte, là fuori, in qualche posto… c'è davvero un bravo ragazzo, disposto a prendersi, un giorno, una pazza sconsiderata come me per tutta la vita e a fare con me due o tre bambini… in modo tradizionale!
In quel momento la porta si aprì, e Pete entrò trascinandosi dietro un ramo di abete. Briz e Midori si guardarono per un attimo, e Fabrizia si rifiutò di vedere ciò che gli occhi dell’amica parvero suggerire: “A proposito di bravi ragazzi… eccone qui uno”.
– Ah, sei qua, fanciullina! Che ne dici di darmi una mano, visto che questa cosa me l'hai commissionata tu? – esordì lui, vedendola.
– Da quanto tempo sei lì, dietro quella porta? – gli chiese Briz, serissima, andando ad aiutarlo.
– Da adesso, mentre parlavi di un povero bravo ragazzo al quale non oso pensare cosa faresti passare, se davvero avesse la disgrazia di incontrarti!
– Faccio finta di non aver sentito; qui lo dico e qui lo nego, potresti anche avere ragione – tagliò corto lei in tono scherzoso, apprestandosi a sistemare il ramo verde in un grande vaso pieno di terra che aveva preparato in precedenza, non essendosi dimenticata che, quel giorno, era la vigilia di Natale.
Poi tirò fuori, dallo scatolone che aveva portato, una profusione di palline natalizie e ghirlande luccicanti, tutte sui toni del blu e dell’argento.
– È questo che sei andata a fare oggi pomeriggio? Comprare decorazioni natalizie? – chiese Midori.
– Uhmm, sì… Fra le altre cose… – rispose Briz, enigmatica.
– Ti do una mano – disse Pete – Anche se dall'ultimo albero che ho addobbato è passata una vita.
Non c’era bisogno di essere un genio per capire che l’ultima volta dovesse averlo fatto con la sua famiglia.
In quel momento arrivarono Sakon e Jamilah, gli unici altri due che non seguivano riti orientali, seguiti a breve distanza da Sanshiro.
– Ehi, che bello, l’albero di Natale ci voleva proprio, qui al Centro! – esclamò Jami.
– Effettivamente, credo fosse l’unico posto di Omaezaki in cui mancava. Certo che siete forti, voi giapponesi – commentò Pete, rivolto a Sanshiro – In Giappone i cristiani saranno sì e no due milioni, il resto siete buddisti, scintoisti o atei, ma festeggiate il Natale come gli occidentali, con immensi alberi addobbati, Babbi Natale e luminarie come non ne ho mai viste nemmeno in America. Anche se per voi, in realtà, è… una specie di San Valentino.
– Hai ragione, è proprio così – convenne l’amico – Ma io, Midori e gli altri conosciamo il significato del vostro Natale, e lo rispettiamo. Anzi, devo dire che ha anche un certo fascino.
Intanto, nonostante l'ora tarda, erano arrivati anche Daimonji e gli altri ragazzi, che si avvicinarono incuriositi: sembrava che nessuno, quella sera, avesse voglia di andare a dormire, e Fabrizia scoprì che, sebbene avessero un'altra religione, o magari nessuna, i loro amici erano contenti di condividere con loro quella notte.
Nel giro di un altro quarto d'ora l’albero era finito, e Briz pensò che, per quanto quelle decorazioni fossero semplici, almeno creavano l’atmosfera. Mentre gli altri parlavano, prese un oggetto dallo scatolone; voleva darlo a Pete, ma si bloccò, sentendo dall'esterno un suono in lontananza: una campana! Se ne uscì sulla grande terrazza per sentirla meglio.
Pete la vide andar fuori e la seguì: la notte era frizzante, ma non gelida, e tutte le stelle sembravano essersi date appuntamento in quel pezzo di cielo sopra le loro teste; la neve, a parte qualche chiazza tra gli alberi, era ormai solo un ricordo.
– Che fai qua fuori al freddo, fanciullina?
– Senti? Le campane… Mi viene un po’ di nostalgia di casa, a sentirle, ma adesso sì, mi sembra davvero Natale. Tieni, questo è per te – e gli allungò l'oggetto che teneva in mano: un contenitore cilindrico, di quelli che di solito servono per contenere rotoli di progetti… o disegni
– In realtà avrei voluto dartelo per il tuo compleanno, ma il ventuno è stata una giornata un po'… impegnativa.
– Sì, giusto un po' – concordò lui, con un sorriso – Ma me lo avevate già fatto, un regalo – aggiunse, mostrandole il ciondolo di lucido acciaio a forma di drago, appeso al laccetto di cuoio che portava al collo, che gli amici gli avevano dato un paio di giorni prima, in uno dei pochi, brevi momenti di calma.
– Questo è da parte mia, al mio Miglior Nemico. Diciamo che è diventato un regalo di Natale.
Pete aprì il contenitore e srotolò il foglio che conteneva. Alla luce che filtrava dalle vetrate, si ritrovò a guardare il disegno che aveva fatto Briz: era lui sull'ala del Drago, che guardava il tramonto sul deserto del Sinai, con parte della testa del Drago Spaziale che si intravedeva alle sue spalle.
– Sei riuscita a farlo a memoria, alla fine – si stupì.
– M-mm… La cosa più difficile è stata ricordare i colori. E tu… mi sei venuto bene, devo ammetterlo, ma non fare il presuntuoso: non sei l'unico a cui ho fatto un ritratto.
– Grazie, è davvero molto bello. E io… non ho un regalo per la mia Miglior Nemica.
– Direi che avermi salvato la vita è stato un pensiero carino, da parte tua – rispose, girandosi a guardare il cielo stellato per nascondere il proprio imbarazzo.
Pete si accorse di avere, tutto a un tratto, un bisogno assurdo e impellente di toccarla, necessità nella quale il profumo di biancospino, che aveva cominciato a stordirlo, aveva avuto un ruolo di primo piano: la sua mano si mosse quasi da sola verso le spalle della ragazza, ma l'aveva appena sfiorata alla base del collo, che lei si ritrasse.
– Ahia! No! – esclamò quasi sobbalzando.
– Ehi, scusa! Che cos'hai? – le chiese, ritraendo il braccio a tutta velocità e mettendosi le mani in tasca.
– È che… sono ancora tesa e indolenzita dalla nostra ultima missione: ho male dappertutto.
Pete non disse niente: anche lui aveva ancora i muscoli tesi e doloranti da tre giorni, però non fino a quel punto! Dopotutto, l'aveva appena sfiorata. Mah… in fondo, Briz era la ragazza dei mille misteri.
– Pete, senti… c'è un'altra cosa che voglio dirti: Tom studia Medicina, è uno dei migliori del suo corso; e quella J. di cui mi chiedesti “Chi, o cosa è”
– Sì…? – la incalzò lui.
– Jessica. Una bella ragazza, e anche brava; ha un anno in meno di lui, ma studiano insieme, perché è andata a scuola un anno prima.
– Dove, non è dato sapere, vero?
– Non dipende solo da me, lo sai: ho fatto una promessa.
Pete annuì e non insistette.
– Non avrei mai immaginato che Tom desiderasse diventare medico… Sono felice di saperlo.
Vedendo che lei non aggiungeva altro, concluse: – Si sta facendo freddissimo: torniamo dagli altri.
Lei assentì in silenzio, passandogli accanto; con un movimento rapido, ma gentile, Pete la fermò.
– Grazie, per avermi detto di Tom.
Le accarezzò lievemente il viso, le fece scivolare la mano dietro la testa e le diede un leggerissimo bacio sulle labbra; un istante, non di più: un bacetto come quello che gli aveva rubato lei pochi giorni prima, solo un po' meno brusco.
Il tempo di realizzare cosa stesse succedendo, ed era già finito. Briz sollevò lo sguardo sconcertato in quello di lui, che le teneva ancora la mano tra i capelli.
– M-ma p-perché? – gli chiese incerta, senza sapere cosa pensare.
Pete sorrise, un'espressione tra il dolce e l'ironico, mentre la lasciava andare e si allontanava di due passi.
– Perché mi andava. Pensavi di avere l'esclusiva? E non siamo nemmeno andati in pari, se consideriamo quello con cui mi hai svegliato dall’ipnosi.
– Ah… oh, uhm… okay – fu l'unica cosa che Briz riuscì ad articolare, prima di rientrare dagli altri.
Una volta dentro, lei rimase appoggiata alla sua solita vetrata, guardando fuori; in realtà guardava il riflesso di sé stessa e, per la prima volta, ciò che vide in quel riflesso fu incredibilmente piacevole. Si passò la lingua sulle labbra secche, col cuore in tumulto, ripetendosi uno dei suoi mantra.
"Sta giocando. Sta giocando. Sta giocando".
– Ehi, sei andata in screen-saver? – le chiese l’oggetto dei suoi pensieri, vedendola assorta e strappandole un sorrisetto.
– Non so… è che… per la prima volta, quello che vedo qui riflesso non mi dispiace.
– Credevo vedessi solo una… perticona insignificante.
Briz osservò i propri jeans aderenti con un paio di strappi strategici, gli stivaletti bassi sulle caviglie e decorati con fibbie e borchie argentate, e il cardigan di lana nero, un po' abbondante, col cappuccio sulle spalle. Quell’abbigliamento era tutto fuorché elegante, ma i capelli appena lavati erano morbidi, lucidi, avevano una parvenza di ordine, e gli occhi erano luminosi: strano, ma si piaceva davvero.
– Sai, Pete, la nostra ultima missione, e un altro paio di piccoli avvenimenti, hanno cambiato la mia percezione delle cose. Ti comunico, ufficialmente, che oggi ho ucciso Fabry-froggy! Sai chi vedo al suo posto? Una tipa alta, tosta e pure carina!
– Che tu abbia fatto fuori Froggy è una gran bella notizia! E, per la cronaca, quello che vedo io è esattamente quello che vedi tu: una tipa alta e tosta, e molto, molto bellina.
– Wow! Vedi che me l’hai fatto un regalo di Natale? La mia autostima ha raggiunto i valori massimi e ringrazia!
"E se stai solo giocando… beh, gioca quanto ti pare: ci sto, purché non si esageri. Spero solo di non uscirne massacrata" pensò, stupita di sé stessa.
– Bene… e adesso vieni qua con noi, prima di montarti la testa – concluse Pete trascinandola a sedersi su uno dei divani, in compagnia degli altri.
Ben presto, tra una risata, il racconto di un aneddoto e qualche futile chiacchiera, si accorsero che Sakon era invece piuttosto taciturno.
– A cosa pensi, Sakon? – gli chiese Sanshiro vedendolo così pensieroso.
– Ah, niente, così… Pensavo che mi dispiace che l'unica cosa capace di far cessare i conflitti più sanguinosi sulla Terra, sia stata una guerra ancora più grande, addirittura contro un altro pianeta.
– E poi, cosa credi? – disse Briz – Che se finirà tutto bene, l'umanità rimarrà tutta unita in un abbraccio fraterno? Le do cinque anni, ed esagero; poi qualcuno ricomincerà a spararsi addosso.
– Oh, no! – intervenne Pete, seduto accanto a lei – Questo mi rifiuto di crederlo! Non voglio e non posso pensare che gli uomini saranno così stupidi da ricominciare a combattersi e a uccidersi, dopo una prova del genere! L'umanità dovrà imparare, da tutto questo!
Fabrizia lo osservò, dubbiosa: Pete, forse, non aveva tutti i torti, solo che, detto da lui… era strano.
– Da quando sei diventato così ottimista e fiducioso, Pete? – gli chiese il dottor Daimonji.
La risposta fu data in tono leggero e divertito:
– Doc, è colpa sua: è stato lei a costringermi a passare il mio tempo libero con un'ottima maestra.
A quel punto scoppiarono tutti a ridere, ricordando che Briz, la settimana precedente, aveva usato nei suoi confronti la medesima espressione, anche se in modo molto duro e in senso decisamente più negativo.
– Davvero hai fiducia nel genere umano, Pete? Davvero credi che ne usciremo tutti migliori? – gli chiese.
– Perché non dovrei? Sì, ci voglio credere, o per lo meno ci spero – disse serissimo.
– Richardson, in versione ottimista sei davvero irresistibile, sappilo! Il mio replicante si fa davvero vivo, ogni tanto: sono io, che ho creato un mostro! – esclamò Briz, schioccandogli uno scherzoso baciotto rumoroso su una guancia.  
Pete la guardò un po' di sguincio scostandosi appena, un sopracciglio sollevato in un’espressione tra il perplesso, lo stupito e l'imbarazzato.
– Beh, fanciullina, non ti ci abituare: un cuore di ghiaccio non si scioglie con un po' di ottimismo, e il replicante ha fatto atto di presenza solo perché è la notte di Natale. Ragazzi, – annunciò poi, alzandosi in piedi – non so voi, ma io domattina, anche se è festa, comincio il turno di guardia alle sei: anche Capitan America ha bisogno di qualche ora di sonno, ogni tanto. Buonanotte!
Un attimo ed era sparito. Briz rimase qualche secondo a fissare la porta, poi le sfuggì un sorriso: chi era più abile, tra loro due, in materia di fughe ad effetto?
– Ehi, piccoletta! – tuonò Yamatake – Dai, senza scherzi: che succede tra te e Capitan Richardson?
La domanda di Yamatake la fece ridere, mentre gli rispondeva:
– Proprio un bel niente, Godzilla! È il mio Miglior Nemico, come sempre!
– Ah, ma certo, si capisce: è perché siete nemici, che ogni due per tre gli salti addosso e te lo sbaciucchi!
 
***

La sera del trentun dicembre non aveva l'aria di essere particolarmente diversa dalle altre: anche in quell’ultima settimana i lavori sui mezzi da guerra avevano impegnato a fondo tutto l’equipaggio.
Erano passati dieci giorni dalla distruzione della Tana del Diavolo, e tutti stavano ricominciando a sentirsi in pericolo. Non che ci fosse uno schema temporale preciso, negli attacchi degli Zelani: era successo ancora di dover combattere due giorni di fila, o che passassero anche venti giorni fra una battaglia e l'altra. In ogni caso, la guardia non era mai abbassata anche se, con l'annientamento della stazione da guerra, Darius, i quattro generali e scagnozzi vari, avevano preso una gran brutta suonata.
Una festa di Capodanno vera e propria era fuori discussione, ma a due chiacchiere in compagnia, gli auguri a mezzanotte e un po' di musica, nessuno disse di no. Quando Briz arrivò nella sala comune col suo computer portatile, Midori stava già rovistando tra i vecchi CD e le chiavette che contenevano le loro musiche preferite.
Sakon, Jamilah e Pete arrivarono dopo un po'.
Il cuore di Fabrizia tentò una capriola nel vedere il suo Capitano, e lei faticò non poco a rimetterlo al suo posto. Oltretutto indossava un maglione di lana azzurro, lavorato a trecce e con il collo alto, che gli stava una meraviglia, e lei per un attimo si pentì di essersi accontentata dei soliti jeans e di una maglia nera a maniche lunghe, con la scritta Rock sul davanti in grandi lettere a colori fluo e persino glitterati. Non che lei, nel suo armadio, avesse qualcosa di più elegante, ma anche Midori e Jamilah si erano tolte dai soliti stracci di ogni giorno, indossando camicette carine; l’amica mulatta sfoggiava addirittura una minigonna nera e stivali con i tacchi. Ma pazienza… lei e i vestiti eleganti e femminili non erano mai andati molto d’accordo.
Da quando Pete le aveva salvato la vita, i loro rapporti avevano subito una piccola svolta, non tanto per quel paio di bacetti che si erano scambiati per scherzo, e che lasciavano il tempo che trovavano, quanto perché dovere la vita a qualcuno, te lo faceva per forza vedere in modo diverso. Il fatto che lei fosse anche a un passo dal ritrovarsi stracotta come una zucchina lessa era un’altra faccenda, solo un dettaglio, che se ne stava in un compartimento del suo stupido cuore, chiuso a tenuta stagna. Con un po’ di fortuna, forse, un giorno, la famosa cosa strana le sarebbe passata: ci credeva ancora, in questa possibilità. Così gli sorrise con noncuranza, e tornò a trafficare con il computer e le tracce musicali.
Sakon, dal canto suo, si guardò attorno in silenzio e osservò Jamilah che rideva con le amiche: ce l'aveva sotto agli occhi da quanto…? Da quando si era iscritta al corso di cui lui era docente all'università di Auckland… e quando Doc, quasi due anni prima, lo aveva contattato per occuparsi insieme a lui del Drago Spaziale, dicendogli di scegliersi un collaboratore che lo affiancasse, lui non aveva esitato un attimo: Jamilah Nyong’o era stata la scelta più facile, intelligente e dotata com'era. Poi un giorno Pete, la persona più improbabile tra tutti i suoi compagni, gli aveva detto di guardarla bene. Si era sempre reso conto dei suoi pregi: Jami era, oltre che intelligente, anche simpatica, leale e coraggiosa.
– Vedo che stai seguendo il mio consiglio, professor Gen – disse Pete, quasi gli avesse letto nel pensiero.
– Almeno quanto tu stai seguendo il mio, direi – fu la pungente risposta di Sakon, vedendo che lui osservava Briz.
Pete non rispose, limitandosi a guardare l'amico sollevando un sopracciglio in un gesto eloquente; Sakon recepì il messaggio e tornò a guardare Jamilah: oltre alle qualità di cui aveva appena preso atto, Jami era anche bella da togliere il fiato! Era così diversa, sia per aspetto fisico che per carattere, dalle donne con cui aveva avuto a che fare fino a quel momento… Beh, meglio dire dalla donna, visto che Lisa era stata una cometa, una stella cadente rapida e tragica, con la quale non c’era stato tempo per nulla. E l’unica altra con cui avesse, invece, condiviso parte della sua vita, Alison, era stata una cosa totalmente diversa, chiusa da tempo e a cui non aveva più voglia di ripensare. Non aveva motivi per sentirsi legato a nessuna, tuttavia, per qualche strano motivo, sul quale non si sentiva ancora pronto per interrogarsi, nei confronti di Jamilah si sentiva come… frenato.
– Jami, non pensi di allietarci con la tua ugola d'oro anche stasera, vero? – chiese Yamatake con fare scherzoso.
– Per questa volta vi risparmio, contenti? Ma magari, se l’Orrore Nero attaccasse, potrei improvvisare qualcosa, sarei una perfetta arma impropria: li metterei in fuga in un nanosecondo! – rispose Jamilah ridendo; sapeva stare al gioco e conosceva i suoi limiti: era stonata e pace, non ci poteva fare niente.
– Non si può aver tutto, dalla vita, Jami – disse Sakon, intuendo i suoi pensieri.
Era evidente che il sottinteso stava a significare che lei, di qualità, ne avesse già a bizzeffe; Jamilah accettò il complimento con un sorriso e un cenno del capo, mentre si accomodava al tavolo che Sakon divideva con Yamatake.
Vedendo le altre due ragazze che trafficavano ancora con le musiche nel computer portatile di Fabrizia, Pete chiamò Midori che lo raggiunse.
– Dori, fai cantare Briz – le suggerì.
– Briz? Ma lei non canta.
– Questo lo credi tu – e dicendo così, si diresse lui stesso ai microfoni e ne mise uno sull'asta, piazzandolo davanti a Fabrizia che, avendo sentito lo scambio di frasi fra i due amici, lo squadrò inorridita.
– Ma non ci pensare nemmeno – dichiarò semplicemente.
Lui non raccolse il netto rifiuto e rimase piantato davanti a lei, bloccandola lì con il microfono davanti alla faccia.
– Ti prego, Pete, non farmi questo – lo supplicò Briz, con due occhi che avrebbero impietosito un sasso.
– Oh, un attacco di avvilimento? Quando imparerai a credere nei tuoi talenti? Dov'è finita la strepitosa? 
Briz tergiversò… Era un’altra sfida, un altro gioco: tirarsi indietro era assolutamente impensabile!
– Okay, lo faccio, ma a tuo rischio e pericolo, perché te la farò pagare! Ne sei consapevole, vero?
Pete sorrise ironico: – Non vedo come, ma correrò il rischio.
La base musicale partì: la canzone era “Set fire to the rain”, di Adele, quella che le aveva sentito cantare, tempo addietro, alle scuderie.
Briz attaccò al momento giusto, seppur nervosissima e rigida come un manico di scopa, e la voce le tremò un paio di volte: non aveva mai cantato davanti a qualcuno. Ma quando arrivò in fondo, gli amici non poterono fare a meno di applaudire, stupiti di aver scoperto una cosa del genere: per essere solo un'autodidatta, Briz il maschiaccio aveva davvero una discreta voce.
Midori in particolare era rimasta senza parole! E a quanto pareva, anche stavolta, come per la faccenda di Diego, Pete lo sapeva… e lei no! Questa cosa la sconvolgeva.
Briz si affrettò a spostare il microfono per andarsene, guance in fiamme e cuore in gola.
– Dove vai? Non crederai mica di aver finito? – le disse Pete, afferrandola per un braccio e riportandola al suo posto.
Lei sbuffò e lui, per tutta risposta, le mostrò un altro titolo sul monitor del computer.
– Avanti, questa l'hai cantata da Dio col manico del forcone, figurati con un microfono vero. Alla peggio fingi che ci sia solo io, che tanto ti ho già sentita cantarla.
Briz mollò una risata di gusto: – Ahahah! Non è possibile! – esclamò rivolgendosi agli amici – Ci credereste? Mi ha appena chiesto di concentrarmi su di lui… per cantare “I dream about you”!
Lo guardò un attimo, poi afferrò il microfono, a metà tra il deciso e il rassegnato.
– Forza, dai, prima inizio, prima finisco. E levati di qui… credo che terrò gli occhi chiusi.
Mentre le risate degli amici si spegnevano, la musica partì e Briz abbassò le palpebre e cominciò a cantare, tenendo davvero le palpebre abbassate. Giunta al ritornello, riaprì gli occhi e… vide Pete tranquillo e rilassato, appoggiato al muro con una spalla, le mani in tasca e un mezzo sorriso, che la guardava; così continuò a cantare con lo sguardo fisso su di lui, facendo tutto il possibile per farlo sentire in imbarazzo.
Pete si sentì osservato: in effetti gli amici guardavano alternativamente lui e Briz e, quando la canzone finì, dovette togliersi dall'impaccio in qualche modo.
– Sai anche recitare bene, oltre che cantare, Cuordileone: avresti convinto chiunque che davvero “Mi sogni tutte le notti”.  
Briz accennò un ghigno e ribatté:
– Paura, eh? Bah, sono talmente stanca ultimamente, che non so nemmeno più cosa voglia dire sognare, figuriamoci sognare te! – mentì senza pudore, preparando sul computer un'altra base musicale.
– Aiutami un secondo, per favore, qui c’è qualcosa che non va! – brontolò, pestando sulla tastiera del PC.  
Lui la raggiunse e, quando vide il titolo evidenziato sul monitor, mangiò la foglia e fece per andarsene; Briz lo afferrò per un braccio e con l'altra mano gli trascinò il microfono sotto il naso.
– Ma sei suonata? Io non…
– “Tu non” un cavolo: ti avevo avvertito che me l'avresti pagata!
– Ma non sai nemmeno se so fare, a cantare! Ti sembro il tipo?
– Intanto ho i miei informatori, e poi… ti ho sentito anch'io, giù alle scuderie, quando pensavi di essere solo! La prima volta, parecchio tempo fa ormai, canticchiavi soltanto; così ti ho tenuto dietro e ho scoperto due cose: uno, che sei piuttosto bravo, e due, che c'è un complesso al quale non riesci a resistere. E, fra parentesi, non posso nemmeno darti torto, visto che li adoro anch'io. Credevi di essere l'unico con la vocazione di spia? Fra l'altro sono stata anche più brava di te: io non mi sono fatta sgamare a spiarti. E adesso zitto e canta!
– Ah, “Zitto e canta” è proprio un bel discorso: l'ossimoro principe! Ma andiamo, Briz, è da quando avevo diciotto anni che non faccio qualcosa del genere! – protestò lui.
– Shh! Bugia: l’ultima volta t’ho sentito nemmeno una settimana fa, giù dai cavalli!
– Ma non è la stessa co…
La base musicale partì, interrompendolo: la mitica introduzione, piuttosto lunga, di “What I've done”, dei Linkin Park. Pete afferrò con un sospiro l’asta del microfono e la fulminò con un'occhiataccia, sentendosi con le spalle al muro, ma nemmeno lui era il tipo da tirarsi indietro davanti a una sfida.
– Giochi sporco, fanciullina, sapevi che non avrei resistito… – commentò con un mezzo ringhio.
– Ah, gioco sporco, eh? Indovina da chi ho imparato – mormorò Briz, facendo per allontanarsi, ma lui la bloccò di nuovo davanti all'altro microfono, stringendole un braccio.
– Qui ti tocca, che credevi? – disse Pete, con uno sguardo diabolico.
– Cosa pensi, di farmi un dispetto? Tanto, ormai… – rispose lei, decisa a stare al gioco.
Vide Pete prendere un respiro, e cominciare a cantare.
E se Briz aveva stupito gli amici, lui li lasciò addirittura annichiliti: se c'era qualcosa che non avrebbero mai pensato di trovare nel loro Capitano, era un'anima rockettara, tantomeno una voce come quella. Quando giunse al ritornello, la voce di Briz si unì alla sua. Quelle dei Linkin Park erano due voci maschili, Chester Bennington e Mike Shinoda, ma quelle di Fabrizia e Pete sembravano fatte apposta per fondersi l'una con l'altra: il taglio personalizzato che diedero alla canzone fu quantomeno originale, ma di certo non ne uscì snaturata, anzi!
Alla fine del brano rimasero per qualche secondo ansanti, le mani strette sui microfoni, a guardarsi negli occhi senza riuscire a credere di aver fatto una cosa del genere.
Briz si girò verso gli amici: – Ne volete un'altra? Sì, vero?
Pete alzò gli occhi al cielo, tra l’esasperato e il divertito.
– Briz, tu sei come quei suonatori che volevano un dollaro per cominciare e dieci per smettere!
– Perché tu, invece?! Si vede lontano un miglio che non vedi l'ora!
– Ma come ho fatto a cacciarmi in questo casino? – si lamentò Pete, che in realtà cominciava a divertirsi.
– Sei stato tu a cominciare, Richardson! Hai voluto la bicicletta? Adesso pedala! Che ne dici di questa?
– “Burn it down”… La so, ma c'è un pezzo di rap che si sovrappone alla voce di Bennington.
– E tu canta Bennington: alla parte rap ci pensa Briz Shinoda. 
A quella battuta Midori uscì di corsa e piombò nello studio di Daimonji, dove il dottore era ancora impegnato in alcune ricerche. La musica a volume alto arrivava fino lì: non era molto il suo genere, lui era più il tipo da musica classica, ma tutto sommato non la trovava nemmeno terribile, e pensò che i ragazzi avevano bisogno, ogni tanto, di qualche distrazione, altrimenti sarebbero impazziti.
– Doc, devi venire subito! – esclamò agitata la sua figlioccia.
– Ma che succede?
– Sono Pete e Fabrizia…
– Oddio! Litigano un'altra volta!? – chiese Daimonji preoccupato.
– No, no…  Però questa non te la puoi proprio perdere!
Doc la seguì incuriosito ed entrò nella sala, dove i due in questione… stavano cantando! Insieme!
Pete stringeva il microfono, gli occhi serrati, concentratissimo: sempre lui, insomma. Briz invece interpretava la parte più parlata, agitandosi come un vero rapper e, quando taceva, mimava gli strumenti musicali: in quel preciso momento afferrò l’asta del microfono di traverso, fingendo di suonare la chitarra.
Insomma, la solita buffona.
 
sing-a-song  

Per più di mezz'ora l'inedito duo cantò, una dietro l'altra, diverse canzoni dei Linkin Park e dei Simple Plan.
Alla fine, quello che più di ogni altra cosa stupì il dottore e i loro amici, a parte l'innegabile fatto che entrambi erano bravi, fu il modo in cui interagivano l'uno con l'altra. Gli bastava un'occhiata o un gesto appena accennato per capirsi: comincio ioentra tufinisci tucontinua. Erano affiatati come se non avessero mai fatto altro che cantare insieme.
Pete e Fabrizia si portavano dentro ancora parecchi segreti e se, a prima vista, sembravano diversi come il giorno e la notte, Daimonji era sicuro che fosse solo apparenza: i due ragazzi avevano molte cose in comune, avevano affrontato entrambi lutti e tragedie, e ciò che li rendeva diversi non era tanto il dolore, che doveva essere molto simile per entrambi, quanto il modo in cui lo affrontavano.
Ma di una cosa era certo: non aveva mai visto Briz così disinvolta e sicura di sé stessa come in quel momento; ed era altrettanto sicuro di non aver mai visto Pete sciolto e sorridente come quella sera.
Dopo l'insolito exploit canoro del Capitano Richardson e del Comandante Cuordileone – costretti, a un certo punto, a dare forfait, ormai senza fiato e con le corde vocali provate – la serata proseguì con qualche tranquilla canzone cantata da Midori, seguita poi da chiacchiere e risate.
Finché, all’improvviso, un botto pazzesco, come una specie di esplosione, li zittì e paralizzò tutti quanti per alcuni di secondi. I ragazzi si precipitarono verso il tavolo sul quale tutti avevano appoggiato le loro pistole laser, che non abbandonavano mai.
– Co-cos'è s-stato? – balbettò Briz, con la pistola in pugno, pallida come un cencio.
– Calma, Briz… – disse Pete toccandole un braccio, anche lui con la pistola spianata.
Un altro botto si ripeté, facendo tremare le vetrate: una cascata di luci riverberò nel cielo scuro, al di sopra degli alberi. Tutti tirarono un sospiro di sollievo e uscirono sul terrazzo, tranne Briz che rimase indietro, tentando di dominare il tremito che l'aveva travolta.
– Ma porca trota… – imprecò, più che altro contro sé stessa.
Gettò la pistola sul divano con un gesto stizzoso, lasciandocisi poi cadere seduta, coprendosi il viso con le mani. Fuori, i botti continuavano e le fontane di luci colorate riempivano il cielo; a Briz venne quasi da piangere.
Pete era rimasto sulla soglia del terrazzo e si voltò, credendo di averla alle spalle; quando la vide là seduta la raggiunse, comprendendo il motivo per cui si fosse spaventata.
– Briz… sono solo fuochi d'artificio.
– Eh, ma grazie, sì? Adesso lo so! Merda, mi è quasi preso un colpo!
– Senti, lì per lì ci siamo impauriti tutti, ma è stato un momento. Su, vieni fuori con gli altri – le disse tendendole una mano.
Fabrizia gliela prese, si alzò, ma non si sognò di mollarlo, mentre uscivano.
– Quanto dovremo andare avanti così, ancora? Io mi sento quasi in colpa per aver abbassato la guardia ed essermi divertita per una sera, e i cittadini di Omaezaki hanno il coraggio di sparare fuochi artificiali!? Non so se ho voglia di vedere e sentire esplosioni! – brontolò, senza sapere se essere arrabbiata o sollevata.
Pete le lasciò la mano e le circondò le spalle col braccio, notando per un attimo che non aveva più dolore alla base del collo; qualunque cosa fosse, che le faceva male la notte di Natale, sembrava fosse passata, però aveva ancora una bella tremarella: i botti l'avevano davvero scossa.
– Briz, se ci pensi bene, non è una brutta cosa… i fuochi, intendo: vuol dire che la gente ha ancora speranza, e che da quest'anno che sta iniziando si aspetta qualcosa di meglio.
– Come se ci volesse molto – rispose lei – e poi questi non sono ragionamenti molto da te, sembrano più considerazioni by Cuordileone: mi devi il copyright!
Lui le sorrise, sollevato nel sentirla scherzare: il brutto momento sembrava passato e Briz cambiò argomento.
– Sai, non sei male nemmeno tu, come attore: quando abbiamo cantato “Not alone”… mi hai quasi convinto che “Non sono sola”.
Pete le posò due dita su una guancia e con dolcezza le girò il viso, costringendola a guardare il gruppo dei loro amici, diversi passi davanti a loro, intenti a guardare i fuochi e a chiacchierare tra loro.
– Ti sembra di esserlo? – le chiese.
Briz osservò gli altri ragazzi, sorrise, poi tornò a guardare lui.
– No, hai ragione, non mi sento più sola già da un po': questa, insieme ad Anita e Filippo, è la cosa che più si avvicina a una famiglia, da quando ho perduto la mia. E… mi sono divertita un sacco, a cantare con te, stasera. Mi sentivo, non so… me stessa, dopo tanto tempo. Mi sentivo… a casa. 
– È vero, è stato molto divertente: mi sembrava quasi di essere tornato al liceo – poi la sua espressione diventò più seria, prima di proseguire – Ed è vero anche… quello che hai detto sul fatto di esserti sentita a casa, e che il nostro equipaggio sembra quasi una famiglia: anche per me è diventato così, da qualche tempo.   
Però! Era un’affermazione niente male, per il tipo ombroso e solitario che era stato fino a qualche mese prima.
Quell'ammissione la sorprese un po'; di certo non quanto la sorprese il piccolo bacio che le rubò all'improvviso, nel buio, sapendo che gli altri non li vedevano. Come le altre volte, fu solo una questione di labbra che si toccarono, anche se durò un po' di più.
Si staccarono bruscamente, consapevoli che, se non l'avessero fatto, sarebbe potuto diventare un bacio di tutt'altro genere, che avrebbe sollevato troppi interrogativi: non sarebbe più stato un gioco, lo sapevano entrambi. Briz lo guardò di sottecchi.
– Beh, che succede? Dall’asilo d’infanzia siamo passati alle scuole medie? – scherzò.
– È solo perché è Capodanno, e poi… adesso siamo pari, no? Rilassati, fanciullina: nemmeno io ti sogno la notte, fidati!
– Scemo! – ridacchiò lei sottovoce, spintonandolo leggermente con una spalla.
Doc era rimasto in disparte, guardando l'eterogeneo gruppo di giovani che formava il suo equipaggio: era evidente che Fabrizia e Pete non si erano accorti di lui, ma lui aveva visto e sentito loro.
La faccenda gli si palesò piuttosto chiara, alla luce di ciò che aveva visto una settimana prima – dopo il salvataggio di Briz dalla Tana del Diavolo – e ora su quel terrazzo: quei due potevano negarlo al mondo e perfino a sé stessi, ma era ovvio che si piacessero un bel po’.
Tuttavia, sembravano lontani anni luce dal soffermarsi a considerare la cosa seriamente, proprio come Sanshiro e la sua figlioccia e, con ogni probabilità, anche Sakon e Jamilah.
Era anziano, ma non era uno stupido: certe cose le notava anche lui; ma in fondo poteva comprendere tutte le loro indecisioni, remore e reticenze, considerando ciò che erano costretti a vivere ogni giorno: capiva chiaramente che non erano pronti, per almeno un milione di motivi, ad affrontare, e tantomeno accettare, sentimenti impegnativi.
Quello che ciascuno di loro, compreso il dottor Daimonji, non poteva ancora immaginare, in quel momento di tregua e relativa pace, era che presto non ci sarebbe stato più tempo né per i fuochi d'artificio, né per i giochi, né per le canzoni; tanto meno per i baci, dati o presi a tradimento che fossero.
E che dall’indomani in poi, per più di due mesi, quella sarebbe stata, per tutti, l'ultima sera spensierata.
                                                  
> Continua…




Note della scrittrice… autrice… matta schianta:
Sì, lo so, è un capitolo strampalato, ma spero non noioso: mi è venuto così e così l’ho lasciato, davvero avevo bisogno, di farli ridere e divertire tutti. 
Il prossimo capitolo è particolare, forse un po’ ostico, o almeno lo è stato per me. Ci saranno alcuni flashback che racconteranno cose che io ritenevo importanti al fine della narrazione, ma se avessi fatto dei capitoli veri e propri, sarebbe venuta una lungaggine infinita. Poi, per diversi capitoli, i nostri ragazzi parleranno…

Se a qualcuno dovesse interessare quali canzoni ho immaginato cantassero questi due, oltre a quelle citate, vi do un elenco. Su You Tube le trovate senz’altro. 


LINKIN PARK: Final Masquerade, Leave out all the rest, Iridescent, New Divide, Numb, Roads untraveled, In my remains, Powerless, Castle of Glass, Until it’s gone, Burning in the skies.

SIMPLE PLAN: Welcome to my life, Take my hand, This song saved my life, Astronaut.

E se state ancora aspettando i disegni dei baci… beh, aspettate. Scusate, ma vi sembrano baci degni di un disegno, questi? XD
Grazie per la vostra presenza, o voi che leggete con pazienza i miei deliri!

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Capitolo 20
*** 19 - Tra inverno e primavera ***


Le recensioni a questo capitolo sono riferite anche a quello successivo, poiché in data 13/2/2023 ho deciso di spezzarlo in due, in quanto ritenevo fosse troppo ostico, lungo e malfatto...  quindi, per chi leggerà le rece, sappia che ci saranno spoiler sul prossimo capitolo! Scusate l'inconveniente ;)
 


~ 19 ~
TRA INVERNO E PRIMAVERA
 
 
 
Alla fine, in qualche modo, faticosamente e dolorosamente, l'inverno si avviò verso la fine. L'odore dolce della primavera cominciava ad aleggiare nell'aria, insieme a una brezza che sembrava quasi portare speranza. Sembrava soltanto, purtroppo: in realtà il conflitto era ancora nel pieno del suo svolgimento e anzi, in quegli ultimi due mesi, si era profondamente inasprito.
A Briz sembrava passato un secolo dal Capodanno, l'ultima volta in cui era riuscita davvero a rilassarsi e divertirsi.
Dopo quella sera spensierata di festa e canzoni, ne erano successe di tutti i colori: attacchi, battaglie e altri rapimenti avevano messo a dura prova i componenti dell'equipaggio e, a tratti, persino i rapporti tra di loro.
Oltretutto, a un certo punto, Briz si era dovuta risolvere, naturalmente dietro compenso, ad affidarsi ad Hakiro, il ragazzino che abitava nelle vicinanze, perché si occupasse dei cavalli ogni mattina prima della scuola e verso sera, poiché nessuno di loro aveva più il tempo per farlo ogni giorno.
Sulla terrazza della sala comune, sola, la ragazza offrì il volto al pallido e  tiepido sole di un ultimo sfilaccio di inverno, in quella limpida giornata dei primi di marzo, lasciando che i pensieri corressero alle avventure più brutte del periodo appena passato.
Prima c'era stata la battaglia sulla Luna: un’avventura pazzesca, in cui erano stati attirati sul nostro satellite da un Mostro Nero. Lei, Sanshiro e Yamatake ne erano usciti vivi per miracolo, contusi e ammaccati. Il Mostro, un Condor Lunare, alla fine aveva subito il colpo di grazia dal Drago dopo una battaglia interminabile, combattuta non solo contro di lui, ma anche contro la gravità, così diversa da quella terrestre.
Il Gaiking, il Bazzora, Balthazar e il Drago stesso, avevano subito danni gravissimi, al punto che era diventato impossibile lasciare la Luna. La salvezza era venuta da Sakon: uscito con la tuta spaziale, il giovane ingegnere aveva scoperto un giacimento di titanio lunare, grazie al quale, dopo essere stato lavorato nell'officina ospitata nella pancia del Drago, erano state possibili le riparazioni. Erano diventati più forti di prima, ma quei tre giorni, passati praticamente da prigionieri sulla Luna, erano stati un mezzo incubo per tutti.1
Erano tornati provati, stanchi e psicologicamente a terra, senza più nessuna voglia di ridere o di scherzare; e ancora non sapevano quello che li avrebbe aspettati nel futuro prossimo.
L’avventura successiva, sull’Isola di Pasqua, era stata persino peggio, e Briz l’aveva relegata il più possibile nel dimenticatoio: Midori di nuovo rapita, salvata da Pete e Sanshiro poi catturati a loro volta, e liberati miracolosamente da Sakon così che Pete potesse tornare al comando del Drago e distruggere, insieme al Gaiking, il mostro di turno. Briz, con Balthazar, aveva preso quasi subito una madornale batosta e lei, rimasta semincosciente fino alla fine dello scontro, non ricordava quasi niente, né niente aveva voluto sapere.2
Erano riusciti a malapena a riprendersi, che c'era stata la triste e tragica storia di Erika…
Un Mostro Nero, dall’affascinante aspetto di un giaguaro, si era diretto verso Parigi; l’equipaggio del Drago, giunto sul posto, se lo era trovato davanti all'improvviso, pronto all'attacco, accucciato sull'Arco di Trionfo: dopo una breve lotta col Gaiking, per qualche inspiegabile motivo, si era ritirato.
Sanshiro aveva poi conosciuto una misteriosa ragazza, di nome Erika: era zelana, e voleva vendicare il suo fidanzato, Starl, un ufficiale che era morto mesi prima in battaglia. Quando Erika – era lei, la pilota del Mostro Giaguaro – aveva visto Sanshiro, aveva creduto di riconoscere in lui proprio Starl: la somiglianza era incredibile, e lei si era convinta che Starl non fosse morto, ma che i terrestri gli avessero fatto il lavaggio del cervello per poi affidargli il Gaiking.
Sanshiro le aveva spiegato come stessero realmente le cose: lui non era Starl, e sulla Terra non si usavano metodi barbari come quello di condizionare le menti altrui per costringere le persone a combattere.
Ormai convintasi che Sanshiro non fosse il suo fidanzato, Erika aveva cercato di portare a termine la sua missione tentando di ucciderlo, ma all'ultimo momento le era mancato il coraggio: il giovane somigliava talmente al suo amore perduto, che non ce l'aveva fatta ed era nuovamente fuggita con il Mostro Giaguaro. Era tornata dallo spietato generale Killer e si era fatta fare lei stessa il lavaggio del cervello, per dimenticare tutto ed essere così in grado di distruggere il Gaiking e il suo pilota. Ma, durante la successiva battaglia, Sanshiro l'aveva riconosciuta e, pur rendendosi conto che Erika non era più in sé, ormai conosceva la sua storia: consapevole che nel momento in cui avrebbe potuto ucciderlo, lei non l'aveva fatto, Sanshiro non era più stato capace di combatterla, rimanendo anche ferito.
Così era toccato a Briz.
Un leone contro un giaguaro, guidati da due ragazze: mai scontro era stato più equilibrato. I due giganteschi felini si erano affrontati con ferocia, suscitando in chi li guardava un fascino quasi perverso. Balthazar era apparso potente e invincibile, nonostante Fabrizia non fosse del tutto convinta di ciò che stava facendo: aveva sperato anche lei di trovare un modo per salvare quella povera ragazza, finché aveva capito che Erika, in realtà, cercava la morte, poiché non voleva più vivere senza Starl.
Aveva affondato i denti acuminati di Balthazar nel collo del giaguaro con tutta la ferocia possibile e, con gli artigli luminosi, gli aveva inflitto solchi profondi nel petto e nella schiena, fino a indebolirlo irrimediabilmente… ma alla fine, troppo provata emotivamente da tanta sofferenza, Fabrizia aveva dovuto lasciare l'intervento decisivo al Drago, che aveva stritolato il mostro fino a farlo esplodere.
Erika e Starl erano finalmente insieme, e avevano trovato la pace.3
Rientrata sul Drago, Briz, con le lacrime che le scorrevano sul volto, aveva visto le espressioni costernate dei suoi compagni, in particolare quella di Sakon, che non aveva potuto fare a meno di pensare come il destino di Erika fosse stato simile a quello di Lisa, il suo amore perduto: anche lei, come Erika, era stata sfruttata dalla crudeltà di Darius e loro non erano riusciti a salvarla.
Briz aveva dato uno spintone a Sanshiro, incurante del sangue che gli scivolava sulla guancia dalla ferita alla fronte.
– Non farmi mai più fare niente del genere! – gli aveva ordinato, fuori di sé al pensiero di essere stata costretta, dall’amico, ad assumersi la responsabilità di uccidere Erika, peso da cui l’aveva, infine, sollevata Pete, intervenendo col Drago.
Si era resa conto che non era tutta colpa di Sanshiro, ed era anche riuscita a capirlo, ma con qualcuno aveva dovuto prendersela, o sarebbe potuta impazzire. E non poteva tirare pugni al maledetto, schifoso Darius!
Sanshiro aveva non solo incassato in silenzio il suo sfogo, ma anche compreso quello che aveva provato l’amica; allora l’aveva abbracciata, non meno avvilito di lei, e l’aveva lasciata sbollire. Una volta calmata, Briz gli aveva chiesto scusa con una carezza sul viso, era tornata al suo posto e non aveva più parlato, chiudendosi in sé stessa.
La reazione di Pete a quella storia non era stata molto diversa; in qualche modo, ne erano stati tutti toccati. Darius e i suoi quattro generali non conoscevano i sentimenti, non capivano l'amore, l'affetto, le emozioni: ne ridevano e li sfruttavano per i loro scopi, approfittando di persone come Lisa, Erika e Starl.
Quelle tre feroci battaglie erano state le più brutali e dolorose, anche dal punto di vista psicologico, ma non erano state le uniche: gli scontri si erano fatti più frequenti e ravvicinati, più duri e cruenti, facendo emergere in ognuno di loro, a tratti, i lati più taglienti e spietati delle loro personalità.
Doc e i ragazzi sapevano di dover combattere per senso di giustizia e per la difesa della Terra, e non per vendetta o risentimento; ma tutti, dopo quella sequela di orribili disavventure, si erano sentiti sopraffatti dall’odio.
Questo sentimento negativo li portò a isolarsi per qualche tempo gli uni dagli altri; persino Sanshiro e Midori finirono per passare poco tempo insieme, figurarsi Pete e Fabrizia.
Non era nella sua indole, ma persino Briz aveva avvertito, impellente, la necessità di stare sola; e proprio ora, che sembrava aver capito di aver bisogno degli altri, anche Pete si era di nuovo ritirato in sé stesso. Tutti loro sembrarono, tutto a un tratto, anelare alla solitudine e, nei momenti liberi, cercare disperatamente solo silenzio e riposo. Daimonji li aveva capiti e non li aveva forzati.
Nonostante gli attacchi, significativamente intensificati, li mettessero continuamente a dura prova sia a livello fisico che mentale, il loro impegno e determinazione durante i combattimenti non vennero mai meno; ma dal punto di vista delle relazioni umane e sociali fra di loro, fu quasi come se quei due mesi, gennaio e febbraio, non fossero mai esistiti.
Briz si staccò dalla ringhiera della terrazza, si passò le mani tra i capelli scompigliati dalla brezza e decise di andare alle scuderie per godersi i suoi animali, sapendo che nessuno, quel giorno, sarebbe venuto a disturbarla, soprattutto Pete, che aveva intravisto poco prima di sfuggita, mentre si dirigeva ai simulatori per una sessione di addestramento.
Lo evitò accuratamente, non desiderava stare con lui, in quel periodo: non era nulla di personale, era sempre il suo Miglior Nemico e continuava a sentire per lui la cosa strana, ma lei non voleva fare niente di niente. Non aveva voglia di scambiare due parole con Midori e Jamilah; non aveva voglia di disturbare Doc con i suoi pensieri depressi; a volte non aveva voglia neppure di andare dai cavalli e li aveva quasi totalmente affidati ad Hakiro.
Non aveva voglia di niente e di nessuno, e sapeva che ciascuno dei suoi compagni era nelle medesime condizioni.
Come ognuno di loro, avrebbe desiderato solo di mettere fine a quel mostruoso conflitto… o di morire.
 
***

Un paio di giorni più tardi si ritrovarono in una delle situazioni più difficili che avessero mai affrontato, probabilmente l’avventura più brutta in assoluto fino a quel momento e che ebbe, alla fine, un unico merito: quello di riavvicinarli gli uni agli altri.  
Tutto cominciò quando una spedizione di esploratori scomparve nel deserto del Sahara. Sakon si sentì alquanto coinvolto, rivivendo la misteriosa sparizione e la morte di suo padre, avvenuta proprio in quel luogo diversi anni addietro; ultimamente aveva avuto persino il dubbio che proprio gli Zelani ne fossero stati la causa.
Il Drago accorse sul luogo per studiare la situazione e, a bordo del Bazzora, Yamatake, Sanshiro e Sakon scoprirono, nel sottosuolo, una base dell'Orrore Nero comandata dal perfido generale Ashmov, uno dei temibili Grandi Quattro.
I tre giovani scesero dal mezzo di appoggio per perlustrare meglio i dintorni: non fu la mossa giusta, poiché  furono attaccati da una squadra di Uomini Uccello. Dopo una interminabile sparatoria tra dune e massi, scappando e nascondendosi tra anfratti e speroni di roccia, Yamatake e Sanshiro riuscirono miracolosamente a fuggire, ma Sakon, nonostante una strenua resistenza per coprire i compagni, si ritrovò circondato: fu catturato e imprigionato dai nemici.
La situazione si delineò immediatamente, agli occhi di tutti, pericolosa e ai limiti del tragico poiché, alla fine, gli alieni erano riusciti in ciò che i terrestri avevano sempre paventato: avere come ostaggio Sakon e la sua brillante, ineguagliabile intelligenza.
Nella lunga e cruenta battaglia che seguì, nel tentativo di liberare il compagno rapito, contro un mostro che sembrava non presentare debolezze, il Drago Spaziale venne, inaspettatamente, duramente colpito e sconfitto.
Dopo che il Gaiking e Balthazar, malconci e con problemi gravi di funzionamento, riuscirono fortunosamente a rientrare nell’astronave, Pete fu costretto a un disperato atterraggio di fortuna tra le dune, dove il Drago, altrettanto malridotto e in buona parte fuori uso, affondò inesorabilmente nelle sabbie brucianti e lì rimase, bloccato, semisepolto nell’oceano di fuoco del Sahara.
Nessuno, lì per lì, seppe spiegarsi come fosse potuta accadere una cosa del genere. Si resero conto, sconcertati e orripilati, che il Drago era stato ripetutamente colpito in ogni suo punto debole: il nemico sembrava conoscerli alla perfezione uno per uno.
Una volta che il possente mezzo terrestre fu ridotto all'impotenza, un nutrito manipolo di soldati alati armati fino ai denti, salì a bordo. I cyborg zelani invasero ogni angolo dell’astronave, come se sapessero perfettamente dove scovare ciascuno dei terrestri; nessuno ebbe scampo: tutto l'equipaggio fu fatto prigioniero.
Nel giro di pochi minuti scoprirono, con orrore, il motivo per cui avevano perduto quella battaglia in modo così eclatante: Sakon li aveva traditi!
Ripristinate le funzioni di base del Drago Spaziale, lo stesso ingegnere passato al nemico lo pilotò in un’immensa caverna sotterranea in cui era stato ricavato un attrezzatissimo hangar nascosto agli occhi del mondo.
Daimonji e i suoi ragazzi furono fatti scendere dall’astronave, pungolati alla schiena e nelle costole dai fucili imbracciati dagli Uomini Uccello.
Quando Sanshiro scorse finalmente Sakon, attorniato dai soldati alati che parevano fargli da scorta e con, sulle labbra, un sorrisetto sarcastico e insolente, gli si scagliò contro e prese a tempestarlo di pugni fino al punto che, se non fossero intervenuti proprio i soldati nemici – e persino Doc e Fan Lee, aiutati da Jamilah – avrebbe finito per ucciderlo.
– Fermati, Sanshiro! – gridò la ragazza, disperata nel vedere il suo Prof asservito ai loro odiati nemici – Lo hanno condizionato, non può essere lucido! Gli hanno fatto il lavaggio del cervello!
Gli animi si calmarono un po’, a quell’ipotesi, rendendosi conto che tali atteggiamenti avrebbero solo peggiorato la situazione; così, tutti quanti si lasciarono condurre, più o meno docilmente, in una cella scavata nella nuda roccia, spoglia e poco illuminata, che avrebbero dovuto condividere.
Non tutti parevano convinti fino in fondo della teoria dell’asservimento: avevano sempre pensato che Sakon, grazie al suo sorprendente quoziente intellettivo, fosse praticamente immune al condizionamento mentale. Tuttavia, la tesi sembrava definitivamente smentita: Sakon appariva davvero, senza ombra di dubbio, completamente assoggettato.
Ciò che scoprirono fu alquanto agghiacciante: con l'aiuto di Sakon e del suo intelletto superiore, l’Orrore Nero voleva potenziare il Drago, eliminarne ogni punto debole e, successivamente, sfruttarlo per i loro scopi di conquista.
Tutti loro furono obbligati a lavorare di persona per rinforzarlo, eliminando ogni pecca e difetto su cui i nemici si erano concentrati per abbatterlo, e assemblando, inoltre, due grandi trivelle di acciaio zelano agganciate alle zampe.
Furono costretti a ritmi da schiavi, sorvegliati dagli Uomini Uccello armati di taser e fucili, agli ordini di Sakon. Tutti loro finirono per prendersi almeno un paio di scariche elettriche e percosse, soprattutto gli uomini, che si ribellavano con violenza ogni qualvolta vedevano una delle ragazze venire maltrattate.
Venne loro concesso il cibo – poco – e il riposo notturno – poco anche quello – solo per mantenere le forze sufficienti per lavorare.
Ribellarsi apparve fin da subito fuori discussione, sarebbe stato un suicidio sicuro, quindi non rimase loro che arrendersi a quella drammatica circostanza e cercare, nel frattempo, di elaborare un piano. Cosa non facile, quest’ultima, visto lo stato di prostrazione fisica e psicologica in cui versavano ogni volta che, a notte fonda, venivano sospinti in quella cella tutti insieme, per dedicare poche ore a un sonno leggero e tormentato su un pavimento di pietre dure e gelide.
Briz non capiva quali fossero i pensieri di Pete su quella orribile faccenda, ma certo, con la sua freddezza e autocontrollo, era quello che riusciva più di ogni altro, insieme alla ragionevolezza di Doc, a tenerli calmi e a sedare gli animi perché non succedesse di peggio.
Quell’incubo si ripeteva incessante: sveglia all’alba, – o presunta tale, dato che non vedevano la luce del sole dal momento della cattura – duro lavoro per tutto il giorno, con solo un paio di brevi momenti di pausa per mettere qualcosa di frugale e ben poco appetitoso sotto i denti, e ritorno in cella a notte inoltrata.
Era già la quinta volta che rivivevano quella routine e che, rientrando nella segreta, si delineava il prospetto di qualche ora notturna scomoda e al freddo, nella vana ricerca di un riposo decente o un’idea che concedesse loro una possibilità di fuggire da quella prigionia. Il pensiero che i lavori di potenziamento al Drago fossero quasi alla fine, e il loro tempo ridotto agli sgoccioli senza aver avuto la possibilità di trovare una soluzione, non li aiutava a mantenersi lucidi e pragmatici.   
Quando il cancello della loro prigione, manovrato da Sakon, stava per richiudersi alle spalle di Jamilah, la ragazza, in preda a un crollo nervoso improvviso, si rivoltò violentemente assalendo il giovane, scrollandolo per le spalle e tempestandolo di colpi sul petto, completamente sopraffatta dalla rabbia, dallo scoramento e dalla paura.
– Svegliati, maledizione! Svegliati, torna in te, Prof! Come puoi farci questo!? Non può essere che stia accadendo davvero! Basta, devi tornare in te!
Jami non ci aveva pensato, ma, pur nell’eventualità che, a quel suo impazzimento improvviso, Sakon si fosse potuto riprendere, non sarebbero stati affatto fuori pericolo: anzi, probabilmente i nemici avrebbero imprigionato o, addirittura, fatto fuori anche lui seduta stante.
Ad ogni modo, non andò così.
Sakon allontanò Jamilah da sé con un’espressione indifferente sul volto e un brusco spintone che la mandò a cozzare contro Sanshiro. Il pilota del Gaiking scostò con calma la ragazza da sé, lasciandosi poi sfuggire un moto di ribellione e caricando lui stesso l’amico assoggettato, pronto a colpirlo.
Sotto gli occhi inorriditi di tutti, Sakon sollevò il fulminatore e gli sparò con la massima glacialità, ferendolo a un braccio; al dottor Daimonji, che era scattato per intervenire in soccorso di Sanshiro, toccò la stessa sorte.
Sakon li colpì solo di striscio, ma tutti rimasero sconvolti e terrificati da questo fatto; mentre soccorrevano i due compagni feriti, Sakon, con il massimo disinteresse, richiuse il cancello e se ne andò.
Più tardi, seduta sul pavimento con Jamilah tra le braccia, Briz tentava invano di consolare il pianto dell’amica, silente e dignitoso ma incessante. Una parte di Jami era stata convinta, fino a quel momento, che Sakon fosse ancora recuperabile, ma quella più razionale, dopo ciò che era appena accaduto, l’aveva persuasa che, per lui, non ci fosse più nulla da fare.
La giovane mulatta finì per addormentarsi, stremata sia fisicamente che a livello psicologico, anche perché ora si era aggiunto il senso di colpa per aver provocato, pur se inconsapevolmente, la reazione violenta di Sakon.
Anche Briz, a un certo punto, si distese a terra sfinita, lanciando uno sguardo in giro: Sanshiro, con una fasciatura di fortuna al braccio sinistro, era seduto appoggiato al muro di fronte a lei, con la testa china e gli occhi chiusi. Daimonji era disteso sull'unica panca della cella, con la ferita alla spalla che era stata medicata alla bell'e meglio, poco prima, dalle ragazze, e veniva vegliato da Midori; il respiro regolare del dottore probabilmente rassicurò la sua amica, poiché Briz la vide lasciarlo per raggiungere Sanshiro e sedersi accanto a lui. Il giovane strinse Midori tra le braccia e rimasero lì, in silenzio, più o meno come tutti gli altri che, sdraiati qua e là sul pavimento o seduti appoggiati alle pareti, tentavano in qualche modo di recuperare un po’ di energie.
Con le espressioni stanche e avvilite, i ragazzi con l'ombra scura della barba incolta sui volti provati, stavano in attesa di venire richiamati, di lì a poche ore, per un altro turno massacrante di lavoro. E per cosa, poi? Alla fine, la conclusione sarebbe stata per forza una sola: ottenuto ciò che voleva, il generale Ashmov li avrebbe uccisi tutti. Tranne, probabilmente, Sakon, ormai irrimediabilmente trascinato dalla parte della causa zelana, che avrebbe messo al servizio di Darius la sua eccezionale intelligenza.
Briz chiuse gli occhi e una lacrima silenziosa le sfuggì di tra le ciglia, pensando a un'altra cosa che la tormentava: era la prima volta che si trovava tanto vicina fisicamente a uno dei giganteschi generali. Gli immensi occhi sfaccettati di Ashmov, simili a quelli di una mosca, incastonati nella grande testa ovale, sembravano inespressivi, ma la ragazza percepiva di essere studiata, come se lei lo interessasse in modo particolare. Lei, dal canto suo, detestava e temeva anche gli altri tre generali, Dankel, Killer e Desmon, ma per Ashmov aveva sempre sentito un odio e un livore molto più profondi, tanto da sconvolgerla, soprattutto perché non ne capiva la ragione.
Tormentata dal freddo, riaprì gli occhi, sentendo sul viso un lieve tocco che aveva asciugato la sua lacrima solitaria: inginocchiato al suo fianco, Pete sfoggiava un'espressione non meno stanca e demoralizzata degli altri; l'unica differenza era che, sul suo viso, la barba non era un'ombra scura, ma un riflesso dorato.
– Se stai per dirmi di non piangere, non farlo – soffiò appena, disperata, vedendo, nell’espressione di lui, la stessa propria impotenza – Entro domani saremo costretti a terminare i lavori e poi… ci uccideranno. E quello che non posso sopportare è che probabilmente, a farlo, sarà il nostro migliore amico – concluse poi, tentando di nascondere l'incrinatura nella voce.
Si girò sull'altro fianco, verso il muro, voltandogli le spalle e raggomitolandosi, tentando di respingere il gelo dal quale nemmeno la speciale uniforme riusciva a proteggerla; forse perché, in realtà, ce lo aveva dentro. Pete l’aveva già vista piangere, ma questa volta, per qualche motivo, la ragazza non voleva che lui la vedesse così scoraggiata, angosciata e senza speranze.  
Provò un ulteriore brivido, quando si rese conto che Pete si era appena sdraiato dietro di lei e l'aveva circondata con un braccio.
– Stai morendo di freddo – le disse per giustificare quel gesto.
Briz non rispose, ma si appoggiò con la schiena contro di lui, rilassandosi un po’.
 
 
Briz-Pete-prigionieri
 
Rimasero per diverso tempo in silenzio e, poco a poco, le lacrime si fermarono e si asciugarono sulle sue guance fredde, mentre entrambi si sentirono avvolgere dal calore irradiato dai loro corpi così vicini.
– Briz – la chiamò Pete, a voce bassissima.
– Sì…? – fece lei, altrettanto piano, senza muoversi.
– Se c'è un modo per uscire da questo purgatorio, ti giuro che lo troverò.
– Cosa ti fa pensare che ci sia, un modo? – gli chiese, avvilita.
– Perché… noi siamo i buoni, ti ricordi?
Briz non replicò, ma un sorriso triste le piegò le labbra: erano così lontani, i tempi in cui la loro vittoria in quel conflitto le sembrava quasi un risultato scontato. E poi, detta da lui e proprio in quella circostanza… quella frase suonava davvero singolare. Accarezzandogli il braccio che la circondava, trovò la sua mano e la coprì con la propria; lui l'abbracciò un po' più stretta.
– Anche tu stai morendo di freddo – gli disse.
– No… io non ho mai freddo: ho il cuore di ghiaccio, non dimenticarlo.
– Bugiardo – sussurrò lei, tanto piano che, forse, Pete non la sentì nemmeno.
Aveva spesso sognato, e anche desiderato – pur se con tutte le remore e i dubbi che sempre la accompagnavano su questo argomento – di dormire abbracciata a lui, ma certo non in un contesto così drammatico. Si chiese se quella sarebbe stata davvero l'ultima notte della loro vita, ma subito allontanò il pensiero per non venire travolta dalla disperazione; sentì il respiro di Pete tra i capelli, e si concentrò sul battito lento e regolare del suo cuore contro la schiena; e, lentamente, scivolarono insieme in un sonno tormentato.
Dal brusco risveglio in poi, tutto si fece veloce e confuso.
Gli uomini alati li fecero uscire dalla cella per riprendere il lavoro, compreso Doc: ordini di Sakon. Briz, a dispetto dell’immenso affetto che aveva sempre provato per l’amico, lo odiò profondamente, in quel momento.
Poi, proprio Sakon si diresse verso lei e Pete con un’espressione gelida e truce sul volto: rapido e con ben pochi riguardi, li spinse e li strattonò fino all'altro lato del Drago rispetto agli altri, immobilizzandoli contro la parete di acciaio di una delle trivelle pronte per essere montate sulle zampe del leviatano metallico.
Sakon spinse un fucile zelano di traverso contro le loro gole; Fabrizia e Pete temettero seriamente che quelli fossero gli ultimi istanti della loro vita e le loro mani si trovarono istintivamente; le dita si intrecciarono strette, alla ricerca di un’ultima manciata di coraggio che gli permettesse di morire con l’orgoglio, nonostante tutto, di avercela messa tutta. Chiusero gli occhi, aspettando il colpo fatale.
Invece, con sorpresa, sentirono Sakon parlare a voce bassissima: si sforzò di tenere un tono minaccioso e freddo, ma le sue parole riaccesero in loro un barlume di speranza.
– Fra circa venti minuti il Drago sarà operativo con le trivelle montate sulle zampe, e il portellone di ingresso si aprirà: dovrete salire il più velocemente possibile, mentre io vi coprirò. Passate voce agli altri, senza che gli zelani se ne accorgano.
Detto questo, rifilò uno schiaffo a Briz, facendola barcollare, e un pugno nello stomaco a Pete, che incassò con un gemito soffocato piegandosi in avanti. Sakon si dileguò, raggiungendo un gruppo di soldati nemici e abbaiando ordini nella loro lingua, e lui e Briz si guardarono fuggevolmente, increduli; dopo di che, nonostante il sollievo che li aveva pervasi, riuscirono a fingere velocemente di rimettersi al lavoro e, passando accanto a ognuno dei loro compagni, li avvertirono di stare pronti ai loro ordini. La speranza si riaccese magicamente nei loro cuori, ma persino Jamilah riuscì a mantenersi impassibile e a continuare il suo lavoro.
Sakon non aveva mentito: al momento stabilito aprì lui stesso il portellone principale del Drago con un telecomando.
– Ora! – gridarono insieme Pete e Briz.
I compagni scattarono come un sol uomo e salirono di corsa sull’astronave, sfuggendo miracolosamente ai micidiali raggi sparati dai fucili nemici, mentre proprio l’ingegnere rimaneva per ultimo, a coprire la fuga degli amici sparando agli Uomini Uccello con lo stesso fucile zelano con cui, poco prima, aveva finto di minacciarli.
A bordo non ci fu tempo per le spiegazioni: Sakon fece vedere a Pete come azionare le nuove trivelle di acciaio alieno appena montate, e bastarono pochi secondi perché il Capitano Richardson riprendesse pieno possesso dei comandi del suo Drago che, nei minuti successivi, seminò il panico nella base nemica, facendosi largo e devastando tutto con la nuova arma, costruita a spese del generale Ashmov! 4 
Tra fumo, fiamme ed esplosioni, il Drago Spaziale riemerse alla luce del giorno, in mezzo al sole accecante del Sahara.
Solo Ashmov, come sempre, riuscì a fuggire vigliaccamente con una piccola astronave, lasciando nel cuore di Fabrizia l'interrogativo che la tormentava: perché lui le ispirava più odio di Desmon, Killer o Dankel?
Più tardi – a diversi chilometri dalla base nemica devastata, di cui non rimaneva che una voragine colma di macerie carbonizzate – nell'ambulatorio di primo soccorso a bordo del Drago, Daimonji e Sanshiro vennero medicati per bene dalle ragazze e giunse finalmente il momento delle spiegazioni.
Tutti ebbero così la conferma che Sakon aveva sempre finto, di stare con i nemici: il condizionamento mentale non aveva effettivamente funzionato sulla sua intelligenza superiore, anzi, aveva finito per accentuarla.
Sakon, quando si era ritrovato prigioniero, aveva realizzato che,  senza l'aiuto del Drago, non sarebbe mai potuto fuggire di lì; così aveva avuto l'idea di sfruttare i nemici per potenziarlo: con questo disperato proposito, aveva fatto in modo che venisse sconfitto in battaglia e catturato con tutto l'equipaggio. Il fatto che il Gaiking, Balthazar e gli altri mezzi di appoggio, non fossero stati operativi al momento della cattura e che, successivamente, fossero rimasti all’interno del Drago senza essere toccati, era stato, tutto sommato, un bel colpo di fortuna, in tutta quella disastrosa vicenda.
Comunque, per far sì che gli zelani non si accorgessero che era rimasto lucido dopo il trattamento di condizionamento, Sakon aveva recitato la parte del traditore talmente bene – arrivando persino a sparare a Sanshiro e Doc, e colpire Briz e Pete – che anche gli amici se ne erano convinti. Ma era andata bene così, pur di non correre il rischio che qualcuno potesse involontariamente tradirsi.
A quel punto delle spiegazioni, Sakon guardò l'unica persona che non aveva mai voluto credere fino in fondo al suo tradimento, e che ora se ne stava silenziosa, in piedi, al suo fianco: Jamilah.
– Tu non ci sei cascata, però: hai creduto in me, nonostante tutto.
– No, ho ceduto ieri sera, dopo che mi sono rivoltata e tu hai sparato a Doc e a Sanshiro. Chiedilo a Briz: credo di aver pianto persino l'anima, stanotte, mi sentivo anche in colpa per averti provocato e scatenato la tua reazione.
– Effettivamente quella è stata la parte più dura per me, ma sono stato costretto a ricorrere a qualcosa di drastico, perché mi ero accorto che, già da un po’, Ashmov aveva cominciato a nutrire qualche sospetto su di me. Perdonatemi, non ho potuto fare altro, per risultare convincente con quel bastardo.
– È stato proprio questo – intervenne Pete – a far nascere in me il dubbio che tu stessi magistralmente recitando: se fossi stato davvero un traditore, non avresti ferito Sanshiro e Daimonji in modo tanto superficiale, li avresti uccisi e basta. Il sospetto è diventato certezza quando ti sei scoperto con me e Briz, fingendo di minacciarci prima di colpirci, cosa che hai dovuto fare per convincere gli zelani della tua fedeltà. Ha senso: dovevano credere che tu ci avessi redarguito per qualcosa, e non avvertiti di ciò che stavi per fare per liberarci.
Sakon era mortificato per quello che gli amici avevano dovuto passare a causa sua, ma tutti compresero: avevano volentieri pagato quel prezzo, soprattutto Sanshiro a cui, ora, dispiaceva anche averlo preso a pugni, credendolo un traditore, all’inizio di tutta quella sporca faccenda.
Ma dopotutto, i risultati di quella brutta avventura erano, ora, la libertà di Sakon e il loro Drago perfezionato, libero da molti punti deboli, e potenziato da una nuova, temibile arma: le trivelle di acciaio zelano.
Infine, Sakon confessò loro un'ultima cosa di cui era venuto a conoscenza, durante la permanenza presso i nemici: la spedizione di ricercatori guidata da suo padre, scomparsa anni addietro, era stata davvero annientata proprio dal generale Ashmov, quando, in gran segreto, era stata costruita la base zelana nel sottosuolo.
– Non ho mai inseguito la vendetta, ma, anche se ciò non mi restituirà mio padre, devo ammettere che aver distrutto quell'avamposto sotterraneo mi ha dato una soddisfazione inimmaginabile! – disse Sakon, con la voce che tremava di rabbia repressa e commozione.
E Fabrizia pensò che anche lei, tanto affezionata all'amico ingegnere, ora aveva un motivo in più per odiare ancor più profondamente Ashmov, il gigante umanoide con gli occhi da insetto.
Jamilah scosse la testa, ancora frastornata da quella orribile avventura, mentre si dirigevano in plancia lasciando Daimonji e Sanshiro a riposare in letti comodi, vegliati da Midori.
Raggiunta insieme agli altri la postazione di comando che lei e Sakon avevano sempre diviso col dottore, Jami ebbe l’assoluto bisogno di fare qualcosa che la convincesse di non stare sognando, e che il giovane fosse davvero di nuovo lì con loro: gli si avvicinò e lo abbracciò stretto, soffocando un singhiozzo contro la sua spalla. Lui ricambiò l'abbraccio, stringendola forte a sé e dimenticandosi per un po' di tutto il resto, compresa la presenza dei compagni.


 
Jami-Sakon-abbraccio

– È bello riaverti qui, Prof…
– Sono qui, Jami… anche per me è bello essere a casa. Sono tornato, va tutto bene.
– Dev'essere stato orrendo per te, subire il lavaggio del cervello. Come hai potuto resistere?
– Non è stato piacevole, devo dirlo – ammise Sakon – Ma sono riuscito ad usare un trucco per schermare i miei pensieri: ho cercato tra di essi qualcosa di bello, me ne sono riempito la mente, e mi sono concentrato solo ed esclusivamente su quello.
Jami non ebbe il coraggio di chiedergli conferma di ciò che quella spiegazione – e quello sguardo – sembravano dire. Possibile che fosse lei, quel qualcosa di bello con cui Sakon aveva colmato la propria mente? Non voleva illudersi. 
A capirlo fu, invece, l'efficiente Capitano Richardson che, molto opportunamente, spedì tutti ai loro posti dando gli ordini di partenza, lasciando soli i due e dando così prova di una insospettabile sensibilità.
Sakon tenne ancora un po’ la ragazza stretta a sé, cosa di cui lei fu molto felice, ma si limitò, oltre a prolungare quell'abbraccio, a lasciarle un bacio sulla fronte: un'insulsa cosa da fratello maggiore.
Pete e Briz, uscendo per ultimi dalla postazione, ebbero modo di notare quel gesto e si guardarono di sottecchi, scuotendo appena la testa: questi due avevano davanti una strada ancora più lunga di quella di Sanshiro e Midori.
Quello che avrebbe fatto sorridere, e forse anche  arrabbiare, in quello strano gioco di coppie che parevano giocare a rimpiattino, era che sia Sanshiro e Midori, che Sakon e Jamilah, pensavano la stessa cosa circa Fabrizia e Pete, che invece, dall’idea di poter essere davvero una coppia, non venivano nemmeno sfiorati.
Il Drago, con Pete ai comandi, si sollevò finalmente in volo, con i componenti del suo equipaggio vivi e vegeti, ma che non erano mai stati così sfiancati e male in arnese tutti contemporaneamente.
Feriti e doloranti, stanchissimi, sporchi e affamati, riguadagnarono la rotta di casa con in testa tre desideri fissi: un pasto decente, una doccia calda modello Cascate del Niagara con almeno mezzo chilo di sapone, e dormire; non necessariamente in quell'ordine.
Di un’ultima cosa avevano disperatamente bisogno, ma fu sufficiente guardarsi tutti negli occhi l’un l’altro e sorridersi, per sentirla fluire spontaneamente fra loro, senza alcuna forzatura: ritrovare il loro legame di amici, oltre che di compagni di battaglia.
Quelli che tornavano al Faro di Omaezaki da vincitori, dopo quella durissima prova, erano di nuovo un’affiatata e indivisibile squadra.
Di più: questa volta erano davvero una famiglia.
  
 
>Continua…



 
Note:
1 Episodio n° 23, “Inferno sulla Luna”.
2 Episodio n° 24 “Gli dei dell’Isola di Pasqua”.
3 Episodio n° 21, “Le lacrime del diavolo giaguaro”.
4 Episodi n° 13-14, “Le piramidi del Sahara” e “Il contrattacco del Drago Spaziale”.

 

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Capitolo 21
*** 20 - Giorni di tregua ***


Questo capitolo viene aggiunto in data 13 febbraio 2023, nel corso della revisione. Prima era tutt'uno con quello precedente, ma siccome risultava troppo lungo e ostico da leggere, ho pensato di spezzarlo per rendere tutto più facile. Ovviamente non ci sono recensioni, perché è già stato commentato in quelle del precedente capitolo, quando erano tutti e due insieme. 
Ulteriori avvisi: quando arrivate al disegno fatevi una risata e compatitemi, ma avevo voglia di ridere :D
Inoltre, se nel capitolo precedente facevo passare due mesi di colpo, da qui in poi ce ne vorranno tre o quattro per... raccontare un giorno solo! ;)
 
 
~ 20 ~
GIORNI DI TREGUA

 
 
Benché fossero passati già cinque giorni, dal loro ritorno dalla durissima avventura in cui erano stati prigionieri nel sottosuolo del Sahara, e avessero avuto tutti modo di prendersi il meritato riposo, l’equipaggio del Drago si ritrovava ancora a fronteggiare, a tratti, non i nemici, ma attacchi improvvisi di sonno, stanchezza e, nel caso di Yamatake e Bunta, anche momenti di fame incontrollabile.
Beh, a dire il vero, anche Briz si era ritrovata ad assaltare le cucine del Centro, alle tre di notte, per qualche rapina e furto con destrezza ai danni di frigoriferi e dispense; e, a dirla tutta, era sicura che ognuno di loro ci avesse provato almeno volta, Doc compreso.  
E poi il freddo… il freddo di quella segreta e di quel duro pavimento, che a Fabrizia pareva essere penetrato nei pori, nelle vene e giù per le vie respiratorie! Ancora, ogni tanto, aveva bisogno di mettersi addosso un paio di maglioni o felpe in più perché le sembrava di avere le ossa gelate, e spesso si sentiva le mani e i piedi come pezzi di ghiaccio e il naso che perdeva la sensibilità… e si era accorta che, chi più, chi meno, anche gli altri avevano risentito di questa cosa. Sanshiro e Jamilah avevano pagato questa discutibile esperienza con un raffreddore da primato, e per Doc si era temuta anche una brutta bronchite che per fortuna, affrontata prontamente, si stava già risolvendo.
Insomma, dormire, mangiare e scaldarsi erano davvero state le loro priorità, in quegli ultimi giorni.
Quella mattina, finalmente, ritrovato un minimo di voglia di vivere, Fabrizia si diresse alle scuderie, nonostante sentisse ancora una certa debolezza; e, benché si fosse quasi a metà marzo, il sole splendesse e l’aria fosse più che tiepida, sentì il bisogno di infilarsi un pesante maglione di lana sopra alla felpa. A essere sincera, non vedeva l’ora che si facesse piena estate.
Il pensiero che le attraversò fugacemente la mente fu se ci sarebbero arrivati, all’estate, ma si rifiutò di dargli peso e la sua testa andò oltre.
Obi-wan la salutò affacciandosi alla porta del box agitando la testa e sbuffando, un comportamento non molto consono alla sua abituale indole paciosa. Osservandolo bene, Briz trovò la brutta sorpresa: il cavallo aveva una ferita, sulla coscia sinistra, ancora sanguinante. Doveva essersela procurata dopo che Hakiro era andato via, altrimenti l’avrebbe subito avvertita. Non riuscì a capire come se la fosse fatta, ma necessitava sicuramente di qualche punto di sutura, così telefonò al veterinario, il quale promise di venire entro mezzogiorno.
Briz ripulì e disinfettò la ferita di Obi-wan, che per fortuna sopportò il fastidio senza ribellarsi, coprendola poi con una benda provvisoria perché non si sporcasse.
Una volta terminato si diresse nel suo ripostiglio privato, decisa a non fare nulla di impegnativo, in attesa del dottor Shidara.
Da un cassetto della libreria estrasse un blocco per schizzi e una matita e cominciò un disegno, mentre i pensieri andavano per conto loro, a rivivere le brutte avventure di quell'ultimo periodo: la Luna, l’Isola di Pasqua, Erika e Starl e il Diavolo Giaguaro… ma soprattutto, ovviamente, la recentissima prigionia nel deserto.
Si accorse che i suoi ricordi si soffermavano più spesso – com’era normale, supponeva – ai rari momenti meno pesanti di quei cinque o sei orribili giorni, cercando invece di dimenticare quelli più difficili e angoscianti, che erano stati senza dubbio la maggioranza. 
Avrebbe voluto evitare, però, di pensare troppo anche all’ultima notte, quando si era addormentata, sfinita e scoraggiata, addossata a Pete e circondata dalle sue braccia; o al momento in cui, minacciati da Sakon e convinti di stare per morire, le loro mani si erano cercate e le loro dita intrecciate in una stretta disperata. Erano stati momenti particolarmente duri e stressanti, e lei cercava di convincersi che gesti di quel genere sarebbero accaduti anche se al suo fianco, al posto di Pete, ci fossero stati, per esempio, Sanshiro o Fan Lee. Il cuore, ovviamente, le diceva di non raccontarsi stupidaggini, ma lei preferiva ascoltare la ragione… che, però, di ragioni non ne aveva.
Scelse di concentrare i pensieri su un altro momento di quell’ultimo giorno in cui avevano ritrovato la libertà; e così, ora, la matita di Fabrizia stava immortalando l’attimo in cui Jami, incurante della presenza dei compagni, aveva abbracciato il suo Prof: il disegno stava riuscendo bene, ma si accorse di essere troppo stanca per finirlo, e di avere le dita gelate che faticavano a tenere in mano la matita.
Appoggiò il blocco sul tavolino, con gli occhi che le bruciavano e le palpebre pesanti, e soffocò uno sbadiglio.
Dio… ancora!? Le sembrava di non aver fatto altro che dormire e mangiare da quando erano praticamente risorti dall’inferno, ma fu inutile resistere: si sdraiò sul divano, non prima di essersi avvolta in una coperta dalla sgargiante fantasia, e, nel giro di trenta secondi, era perduta in un sonno profondo.
 
***
 
Pete, preso dalla necessità di spazi aperti e di luce, aveva deciso di fare una passeggiata, ma i suoi passi non lo avevano portato molto lontano: si ritrovò alle scuderie, dove non andava da un po', ormai.
La costruzione era immersa nel silenzio, ma il cancello e il portone erano aperti. Sperò che Briz ci fosse: aveva un bisogno pazzesco di vederla, ma preferì non indagare sul perché; voleva solo assicurarsi che stesse bene, dopo quell’ultima, terribile disavventura, dalla quale erano tornati letteralmente a pezzi.
Persino lui, che non aveva mai avuto bisogno di tante ore di sonno, questa volta era letteralmente crollato, pregando, con tutte le sue forze residue, di non venire risvegliati dall'allarme.
Tuttavia, forse, questa ennesima, devastante sconfitta, avrebbe tenuto gli zelani lontani per un po'; ci sperava davvero, perché avevano tutti bisogno di alcuni giorni di tregua che, almeno per ora, pareva gli fossero concessi.
La prima cosa che notò, entrando nel corridoio e soffermandosi ad accarezzare il muso di Obi-wan, fu la benda di fortuna applicata sulla coscia dell’animale; la seconda, che la porta di fronte ai box, quella della stanzetta privata di Briz, era aperta.
Sbirciò all'interno e lì per lì non la vide: sul divano scorse solo una massa informe di morbido pile coloratissimo; avvicinandosi, si accorse che da un lato ne sbucava solo uno spettinato ciuffo di capelli scuri.
Poi la massa variopinta si mosse appena, e lui inquadrò la scena: Briz se la dormiva beatamente, raggomitolata nella coperta tirata fino alla fronte; un braccio sfuggì dalle pieghe del pile e la mano ciondolò giù dal divano, andando ad accarezzare inconsciamente il nero pelame di Atlas che, ai piedi del divano, faceva esattamente la stessa cosa: ronfava felice, come solo i cani sanno fare.
Il primo gesto che l'istinto, a bruciapelo, gli avrebbe suggerito di fare, sarebbe stato di inginocchiarsi accanto a lei e accarezzarle i capelli, ma si trattenne: non voleva svegliarla.  
Invece così, anche se non si vedeva granché, avrebbe potuto continuare a guardarla… ahhh, ma che diavolo stava pensando!
 
Chibi


Oltretutto quella notte aveva fatto dei sogni – lui, che i sogni non li ricordava praticamente mai, tanto da essere quasi convinto di non sognare affatto – che lo avevano lasciato alquanto sconcertato: stava abbracciando Briz addormentata, sul freddo pavimento della cella zelana; però a un certo punto, nel sogno, Briz si era girata verso di lui e lo aveva abbracciato a sua volta, gli aveva accarezzato il volto e i capelli e lo aveva baciato… baciato davvero! Lui l’aveva stretta a sé, mentre il duro e sporco pavimento si era trasformato in morbide lenzuola profumate di biancospino e, sotto le mani, aveva avvertito non il materiale sintetico della divisa di Briz, ma solo pelle nuda, tiepida e vellutata e… si era svegliato! Ovviamente, fra le braccia, stringeva solo il cuscino, e lui era ridotto in condizioni tali che aveva necessitato di una immediata doccia fredda!
Scrollò la testa, come se quel gesto potesse scacciare quei pensieri inquietanti. Briz era Briz! Faceva parte dell’equipaggio! Forse erano persino diventati amici, ma… insomma, un conto era prenderla un po’ in giro con due bacetti scherzosi, un altro indulgere in certe… fantasie. Non poteva, non doveva, pensare a lei in quel modo!
Vide il disegno incompiuto sul tavolino e, per distrarsi, lo prese e osservò i tratti precisi e riconoscibilissimi, benché fossero solo abbozzati, di Sakon e Jami, ritratti mentre si abbracciavano; posò il blocco e girò lo sguardo sulla vecchia libreria, sui volumi e i quaderni che conteneva. Il grosso dorso di uno di questi attirò la sua attenzione: forse l'altra volta gli era sfuggito. Sulla costa c'era scritto: “Le avventure di Balthazar”.
Curioso, lo estrasse e lo sfogliò: era un raccoglitore ad anelli in formato A4, con molti fogli alquanto rovinati e qualche bordo bruciacchiato, come molti degli oggetti miracolosamente salvati dalla casa distrutta di Briz.
Il quadernone conteneva una storia a fumetti, disegnata dal vero direttamente sui fogli a quadretti e colorata con i pennarelli a tinte vivaci. Raccontava le avventure di un certo Jack Lionheart, giovanotto belloccio, moro e con gli occhi blu, che difendeva la Terra dagli invasori alieni combattendo a bordo di un leone robot di nome Balthazar. Era aiutato nella sua battaglia da una ragazza bruna, e altrettanto belloccia, di nome Bree, che guidava un caccia stellare il quale, all'occorrenza, si agganciava al leone diventando le sue ali. Il leone robot non era proprio identico al Balthazar pilotato da Fabrizia, ma, nella sua semplicità, gli somigliava parecchio.
Non era difficile riconoscere la mano della ragazza in quei disegni e, anche se avevano l'aria più infantile rispetto a quelli che faceva ora, erano comunque carini. Pete guardò le ultime pagine, nelle quali i due protagonisti, dopo aver vinto la guerra, si dichiaravano finalmente il loro amore ed erano raffigurati in un'ultima vignetta, grande come l'intera facciata, mentre si baciavano appassionatamente.
Evviva: la fanciullina romanticona non si smentiva! C'era una data, in fondo al quaderno, e facendo due conti calcolò che, quando Briz aveva inventato e disegnato quella storia, doveva avere al massimo tredici o quattordici anni.
In quel momento Briz si lamentò, parlando nel sonno in una lingua che era un mix tra l’inglese e un italiano pesantemente inflazionato da un paio di cadenze dialettali:
– Dai mo’Ale, don't stress! ‘Un ci vado a scuola, oggi, ‘un ce la fo… Go away… 
– Ma come diavolo parli!? – disse Pete divertito, a voce bassa per non svegliarla.
Briz però mugolò ancora qualcosa, si stiracchiò, uscendo in parte dalla coperta, e apri gli occhi; ancora assonnata, lo vide.
– Mmm, sei tu, Richardson… che ci fai qui? – sbadigliò, ancora intontita, mettendosi a sedere.
– Sono venuto a vedere come stai e se hai bisogno con i cavalli. Va tutto bene? – le chiese, posando il vecchio quadernone sul tavolino e avvicinandosi a lei.
Briz si massaggiò le tempie, e Pete si chiese come potesse, una ragazza, essere così bella appena sveglia e con i capelli arruffati. Lei ovviò a quest'ultimo inconveniente pettinandoli sommariamente con le dita e raccogliendoli rapidamente nella solita trecciona.
– Cribbio, ho dormito troppo, sono rincoglionitissima! No, non va tutto bene: sto aspettando il veterinario.
– Ecco, infatti ho notato la ferita di Obi-wan.
In quel momento Briz si avvide del suo fumetto appoggiato sul tavolino.
– Uhm – fece, alzandosi in piedi e finendo di intrecciarsi i capelli – Vedo che hai scoperto le mie cavolate di ragazzina. E così, adesso sai da dove mio padre prese l'ispirazione per la forma e il nome del mio gattone robot. Certo, allora non avrei mai immaginato che sarebbe diventato vero… e tantomeno che lo avrei addirittura guidato.
– Tuo padre… si è ispirato al tuo fumetto, per progettare Balthazar?
– Solo per quel che riguarda l'aspetto e il nome, naturalmente: nella mia storiellina disegnata non c’è niente di ingegneria meccanica, genetica o elettronica, solo follia delirante e romanticume da quattro soldi. Però… il babbo mi ha fatto un bel regalo, no?
– Eccome! Ma certo tu avevi una bella immaginazione, per inventarti una storia così.
– Mah, guardavo tanti vecchi cartoni giapponesi… Ero innamorata di Goldrake, Mazinga, Jeeg…
– Sììì, conoscendoti, lo eri più dei loro piloti, mi sa… 
– Beh, anche! Ci sta, no? Duke Fleed e Koji, che nel doppiaggio italiano si chiamavano Actarus e Alcor, erano così… fighi! Tetsuya, poi, era uno tosto da paura! E anche Hiroshi Shiba aveva il suo bel perché! Ah, e ovviamente adoravo il leone Beralios di Daltanious.
– Briz, sei fantastica, ti mancano solo le mani giunte e gli occhi a cuoricino, lo sai?
– Sì, che lo so: ancora mi emoziono quando penso a quei vecchi anime che anche i miei genitori amavano… E poi, guarda: la realtà ha davvero superato la fantasia.
– A chi ti sei ispirata, per i personaggi del tuo fumetto? Bree ha i capelli scuri e gli occhi verdi… per non parlare del nome.
– Già… Bree è tutto quello che avrei voluto essere e a cui non somigliavo nemmeno da lontano: una gnoccolona.
Pete non poté fare a meno di ridere, nel sentire quella buffa parola che non conosceva, ma di cui non fu troppo difficile intuire il significato.  
– Beh, ma avevi tredici anni, cosa pretendevi? Che poi, alla fine…
– …alla fine, che?
– Ecco, così a occhio… tu e Bree, vi somigliate un casino, ora!
– Dai, va là, smetti di dire boiate – disse in italiano.
– E Jack… chi era? – le chiese ancora Pete, ignorando il commento da bassa autostima e pensando per un attimo che lei fosse meglio, ma molto meglio, della fantomatica Bree.
– Ahh, Jack… è inventato di sana pianta: era il tipo di ragazzo che mi sarebbe piaciuto allora, ma non esisteva proprio, era solo un disegno. Infatti è uguale a Marin Raigan, il pilota di Baldios, altro gnocco da sballo di un vecchio anime! Sì, ne sono consapevole, non dirmelo: ho di nuovo gli occhi a cuoricino! Ehi, dev'essere arrivato Shidara – annunciò, sentendo il rumore di un’auto e uscendo.
Pete la seguì, piacevolmente frastornato dai divertenti sproloqui della ragazza, rendendosi conto di quanto il suo chiacchiericcio gli fosse mancato. La verità era che si sentiva contento per lei: era sollevato di vederla avviata a ritrovare una certa spensieratezza che, sperava, sarebbe durata ancora per qualche tempo.
Si stava già immaginando il dottor Shidara: un giapponese anzianotto con la pelata, piccolo e rotondetto, alla guida di uno scassato pick up.
Quasi gli venne un colpo quando invece, da un imponente Nissan Qashqai nero, scese un ragazzone alto quasi come lui, ben piantato, capelli nerissimi e occhi scuri, che dimostrava una trentina d'anni. Sembrava più un hawaiano, che un giapponese: una specie di… Keanu Reeves da giovane.
Atlas gli corse incontro e pretese la sua dose di giochi: sembrava proprio che, per il cane, il giovane dottore fosse annoverato tra gli amici. 
Briz li presentò:
– Pete, il dottor Kenji Shidara. Kenji, il Capitano Pete Richardson.
I due si strinsero la mano e Kenji si disse onorato di conoscere il pilota del Drago Spaziale. Poi, con una mano sulla spalla di Briz, disse:
– Vieni, fammi vedere cosa si è fatto il tuo cavallone nero.
Parlava un inglese quasi perfetto e Pete si sentì un po' idiota: era vero che, dopo quasi un anno nel paese del Sol Levante, era andato decisamente più in là di arigato, konnichi-wa e sayonara, ma sapeva che non avrebbe mai imparato il giapponese allo stesso modo in cui Kenji parlava l'inglese; il fatto di conoscere bene anche l'italiano e lo spagnolo, non lo fece sentire meno inadeguato. Ma perché!?
– Vieni anche tu, Pete: dopotutto, ultimamente, Obi-wan è stato quasi più tuo che mio – gli disse Briz.
Lui li seguì, e fu anche di discreto aiuto nello far stendere il cavallo, dopo che Kenji gli ebbe praticato una leggera anestesia che lo tenesse intontito. Con gesti precisi e competenti, il veterinario disinfettò e ricucì senza indugio la ferita dell’animale, e Pete si stupì, quando chiese a Briz se si sentisse di terminare la sutura.
Lei stessa esitò, ma poi, seguendo i consigli e gli insegnamenti del dottore, applicò gli ultimi due punti con un lavoro accurato e pulito, che meritò i complimenti di Kenji. Pete pensò che, guerra permettendo, il futuro della ragazza fosse davvero segnato: diventare veterinario sarebbe stata la sua strada.
Pochi minuti più tardi Obi-wan era di nuovo in piedi; e mentre Shidara compilava la ricevuta fiscale del suo onorario, Briz e Pete ebbero un battibecco – una vera stranezza! – poiché voleva saldare lui il conto: in fondo era stata lei a dire che Obi-wan era quasi suo! E, per una volta, la ebbe vinta lui.
Dopo aver salutato il dottore, Pete rimase a guardare dal portone Briz che lo accompagnava al Suv e lo salutava a sua volta con cordialità. Quando la vide tornare, una domanda gli salì da dentro irrefrenabile e gli raggiunse le labbra, senza che riuscisse in alcun modo a fermarla.
– E… da dove salta fuori, esattamente, questo Kenji Shidara?
– È… il veterinario…? – rispose lei, ironica – L'ho scelto sull'elenco telefonico, quando io, i miei cavalli e il mio cane siamo arrivati qui, un paio di anni fa! Mi suonava bene il nome. E dopo… siamo diventati amici quando gli ho detto che anch'io studio… studiavo veterinaria.
– E chissà come e perché, hai beccato subito il più figaccione!
– Ma che ne so? Al telefono mica potevo saperlo, che aspetto avesse: sarebbe anche potuto essere un vecchio barbogio! Ma ammetto che, quando l'ho visto, è stata una piacevole sorpresa – si interruppe e fece due più due, vedendo l'espressione di Pete – Ma si può sapere cosa vai pensando? Kenji ha trentadue anni, è felicemente sposato con Yuki che, per inciso, è una donna meravigliosa, e hanno due figli bellissimi, Nami e Hiroshi: tre anni lei, quattro mesi lui! Non avrai creduto che…
– Non ho creduto un bel niente, okay? Fine del discorso! – concluse lui, bruscamente.
– Non ci posso credere! – esclamò Briz – Richardson, ti rendi conto che sembri geloso, sì?
– Piantala, Cuordileone! Non posso essere geloso: non sei mica la mia ragazza! Per me puoi avere tutti gli uomini che ti pare!
– Ehi, biondone! Guardami bene e altrettanto bene ascoltami: io posso scherzare, ma non faccio la scema con gli uomini, chiaro?
– Me l'hai già detto una volta, e io già allora ti risposi che non l'ho mai pensato! Era solo un modo di dire… Perché hai così tanta paura di passare per poco seria?
– Non so… visto come mi sono comportata con te qualche volta, avresti anche potuto crederlo. Però è stato solo…
– Smettila, le ultime volte sono stato io a fregarti un paio di baci a tradimento. E in ogni caso, non potrei mai giudicarti una ragazza facile per un paio di… come li hai chiamati? Bacetti da asilo d’infanzia? Dai, stavamo solo giocando, in fondo, no?
– Mmm… qualcosa del genere, sì. E poi… è stato una vita fa. Un gioco, come hai detto tu: ho già rimosso.
– Vuoi che ti rinfreschi la memoria? – scherzò Pete facendo un passo verso di lei.
– Ma non ci provare! – esclamò lei prendendola in ridere, tendendo un braccio in avanti e bloccandolo lì, con una mano al centro del petto. Sollevò lo sguardo nel suo e disse:
– A casa mia si usava spesso un proverbio: "Un bel gioco dura poco". Okay?
– Okay, hai ragione…
Briz abbassò la mano e… il cellulare di Pete si mise a suonare, togliendoli da quel momento di lieve imbarazzo. Briz non poté fare a meno di notare che aveva cambiato suoneria: da quella standard era passato alla musica di Indiana Jones!
Lo vide guardare, perplesso, il numero apparso sul display, come se non lo riconoscesse; ci mise un po' prima di decidersi a rispondere, poi lo fece, voltandole le spalle. Prima che potesse parlare, all'altro capo si sentì una voce: Briz non capì le parole, ma era decisamente una voce di donna, che lasciò Pete palesemente basito; era ovvio che fosse qualcuno, anzi qualcuna, che lui non si sarebbe aspettato minimamente. Briz fece per allontanarsi, ma lui si girò di nuovo dicendole a voce bassa:
– Dove vai? Puoi restare, se credi – poi si rivolse di nuovo all’interlocutrice telefonica – Ehi… Ehi, Meli… Melissa…! Posso parlare anch'io? No… Sì… parlavo con una persona… no, non la conosci, come potresti, sono in Giappone! …Certo che sono stupito! Dopo due anni, non dovrei…?
Briz non sentiva cosa dicesse la misteriosa Melissa, ma a questo punto, avendo avuto il permesso di restare, non si sarebbe persa questa novità per niente al mondo! Si appoggiò alla parete e incrociò le braccia, osservando la glacialità di Capitan Richardson venire messa a dura prova da quella che sembrava proprio una ex alquanto agguerrita.
– Senti, Melissa, vieni al punto: che vuoi da me, dopo tutto questo tempo? …Beh, eravamo stati abbastanza chiari e onesti su come stessero le cose tra… noi due. …Ah, no, senti… No. Melissa, ho detto no, okay? …ma certo, perché adesso sono il pilota del Drago Spaziale, mentre prima ero solo uno sfigato Tenente dell'aviazione americana… Ma lascia perdere! Ma porc… – Briz lo sentì reprimere un'imprecazione mentre chiudeva di colpo la comunicazione, facendo un gesto brusco come se volesse tirare via il telefono.
La guardò, e lei non poté fare a meno di sorridere: Pete che perdeva le staffe e diventava  pure rosso, era proprio uno spettacolo fuori dal normale!
– Non c'è proprio niente da ridere! – ringhiò – Ero arciconvinto che quella pazza non mi avrebbe mai più cercato! Avevo cancellato il suo numero, non pensavo proprio che lei avesse ancora il mio! Dopo due anni, poi! Lo… lo sapevamo tutti e due che era stata una storia… così!
– Così come? – fece Briz, con un’espressione birichina e maliziosa – Sesso e rock and roll, arrivederci e grazie? Melissa era una… scopamica
– Dio, Briz, certe volte ti esprimi proprio…
– …come un camionista, lo so!
– Eh! Però devo ammettere che hai reso il concetto: ci piacevamo e basta – confessò lui.
– Però, da quel po' che ho capito, alla cara Melissa piacerebbe ricominciare. Magari… non tanto con l'ex Tenente Richardson, quanto con l'eroico Capitano, nonché pilota, del Drago Spaziale.
– Va be', speriamo che abbia capito che non sono più interessato – le disse, infilandosi il cellulare in tasca; non aveva nemmeno finito di farlo, che il tema di Indiana Jones ricominciò a suonare.
– Come non detto… La vedo dura, liberarmi di lei! Ma tu guarda, oggi, cosa va a succedere… – sospirò esasperato, guardando il numero sul display.
– Idea! – esclamò Briz; e, senza lasciargli il tempo di aprire bocca, gli tolse il cellulare di mano e se lo portò all'orecchio aprendo la comunicazione.
Pete la guardò con gli occhi sbarrati e agitò le mani come per dire: “Non farlo”, mentre lei si metteva un dito sotto al naso, intimandogli di tacere. Il giovane decise di arrendersi: c'era forse altro che potesse fare, con due donne dall'altra parte? Bene, che se la sbrigassero tra loro.
Melissa passò all'attacco esattamente come prima, senza dare all'interlocutore nemmeno il tempo di dire “Pronto”.
– Non ti permettere! Non è nel tuo stile, attaccarmi il telefono in faccia!
– Buongiorno! – disse allegramente Briz, attivando il viva voce.
– Chi… parla? – chiese Melissa, indecisa.
– Dovrei chiederlo io, visto che sei tu che hai chiamato – esclamò Briz, con voce angelica, dirigendosi fuori, sul retro; Pete la seguì, curioso come una scimmia di vedere cosa avrebbe combinato.
– Ma io ho chiamato Pe… il Capitano Richardson – replicò intanto Melissa, con tono quasi lamentoso.
– Infatti è il suo telefono, ma in questo momento è sotto la doccia. Senti? – e allungò la mano ad aprire il rubinetto posto all’esterno, a cui era attaccato il tubo dell'acqua per lavare le zampe ai cavalli; lo rivolse all'insù, in modo che l'acqua che cadeva dall'alto, a pioggia, producesse un rumore simile allo scroscio di una doccia.
– Ma chi sei? – chiese Melissa, sconcertata.
– Il Comandante Fabrizia Cuordileone, ma gli amici mi chiamano Briz.
– E che ci fai nella stanza di Pete? Mentre lui fa la doccia, poi!
– Ahem, non so… Usa l'immaginazione: magari quello che ci facevi tu un paio d'anni fa, in America?
Silenzio attonito; proprio come quello di Pete, che si portò una mano chiusa a pugno alle labbra, tentando di dominare una risatina e senza riuscire a capacitarsi di quella scena, che gli sembrava al limite del surreale.
Melissa ritrovò la voce, ma non sembrava più così sicura di sé:
– Io… beh, scusa… non avevo capito. Io credo… uhm, di averti vista in tv, e… sai una cosa? Non avrei la minima speranza, al confronto con te. Fai le mie scuse a Pete, per prima, Briz… visto che è così che ti chiamano gli amici. E digli… che non lo disturberò più: probabilmente stavolta, quel bel musone, ha davvero trovato l'altra metà di sé stesso.
Melissa chiuse la comunicazione; Briz e Pete si guardarono in silenzio per alcuni secondi, poi la tensione si ruppe e scoppiarono in una risata.
– Tu sei davvero matta! Ma come ti è uscita la storia della doccia?
– Una delle mie balordate, no? E zitto, che avevo perfino voglia di urlare qualcosa tipo: “Pete, dove sono le mie mutande?”, ma mi sono trattenuta.
Per un altro minuto buono furono impegnati con un’altra risata, che stemperò l’imbarazzo per la malizia di quella battuta e fece pensare a Pete che, nonostante tutto quello che avevano passato da quando la guerra era iniziata, non ricordava di aver mai riso così tanto. Si rese conto di averne davvero avuto bisogno, dopo quel recente brutto periodo.
– Se andiamo avanti a raccontare questa balla, un giorno o l’altro finiremo per ritrovarci davvero fidanzati senza nemmeno rendercene conto! – ansimò Briz, ancora senza fiato.
– Certo, non ne abbiamo già abbastanza di Yamatake, che ci prova in continuazione a metterci insieme! – rispose lui, riprendendo il controllo – Senti, io non avrei saputo come cavarmela, senza rasentare la maleducazione. Non sono molto diplomatico…
– Ma cosa mi dici mai, la novità del secolo! E comunque, quanto a diplomazia, non è che io stata molto più delicata, povera Melissa – ammise Briz, restituendogli il cellulare.
– In ogni caso… grazie.
– Ma ti pare!
Si sorrisero, senza sapere che altro dirsi; Briz pensò all'ultima frase che Melissa aveva detto prima di chiudere: "Probabilmente quel bel musone ha davvero trovato l'altra metà di sé stesso".
"Ah, sì, proprio, guarda!" si disse "Io non sarò mai la metà giusta per nessuno, figurarsi per 'sto bellone tormentato e con tremila pensieri. Che poi… nemmeno ci tengo, sarebbe una bega di quelle grosse! L’unica cosa che desidero, io, è stare in pace e tranquillità".
Desiderio, quest’ultimo, che pensando a ciò che stavano attraversando da quasi un anno, aveva parecchio dell’ironico.
In quel momento di assoluto silenzio, uno strano, sommesso brontolio, si fece sentire.
– Cos'era questo? – chiese lui.
Briz arrossì pietosamente dalla vergogna: – Il mio stomaco… credo.
– Solo lui poteva conoscere delle parolacce del genere! Devo dedurre che hai fame?
– È l'una e mezza! Ho fatto colazione stamattina alle sette, e ho mangiato anche poco: ho il diritto.
– A volte mi chiedo se Yamatake non abbia ragione, quando ti chiama Anoressina.
– Ma se da quando siamo tornati non faccio altro che mangiare come un orso!
– Hai voglia di una passeggiata in città? Mangiamo qualcosa in giro.
– Mi stai invitando a pranzo fuori?
– No, ti sto invitando a mangiare qualcosa in giro!
– È che… ho paura, ad allontanarmi troppo dal Faro.
– La città è a dieci minuti da qui, Briz. E, non so perché, ma ho fede che non succederà niente, per un po'.
– E va bene, ci sto, ma a una condizione – dettò lei, cominciando a chiudere le scuderie.
– Sentiamo: devo preoccuparmi?
La risposta, che fu in realtà una domanda, lo lasciò un po' più che sbalordito.
– Mi ci porti in moto?


> Continua…

 


E mo’ vi lascio qui! Ci andranno davvero in città insieme, addirittura con la moto, che Briz dice di non amare?
Scopriranno qualcosa del loro passato, o litigheranno un’altra volta? O tutte e due le cose? O niente di tutto ciò?
Prossimo capitolo, se vi interessa!
Come sempre grazie a tutti: quelli che leggono, quelli che mettono tra seguite/preferite/ricordate, e a chi ha voglia di perdere qualche minuto a recensire.
 

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Capitolo 22
*** 21 - Rimorsi ***


~ 21 ~ 
RIMORSI
 
“I’m swimming in the smoke
Of bridges I have burned
So don’t apologize
I’m losing what I don’t deserve
What I don’t deserve.”
(Linkin Park – Burning in the skies)
 
 
Nemmeno mezz’ora più tardi, Briz si dirigeva verso la rimessa dietro al Faro, dove sapeva che Pete teneva la sua Yamaha FZ6 che, fra l'altro, pur non essendo nuova, non era affatto il catorcio che lei denigrava a ogni piè sospinto. Si era cambiata, sostituendo gli abiti da lavoro con una felpa bianca sulla quale spiccavano delle stelline di un azzurro sgargiante; sopra aveva indossato un giubbotto di pelle nera.
Si chiese cosa diavolo le fosse preso, a chiedere a Pete di portarla con la moto, ma a un certo punto… aveva avuto un bisogno assoluto e irrefrenabile di… toccarlo. Pessima idea: dopotutto aveva avuto la conferma che lui aveva davvero solo giocato, in quel periodo intorno a Natale, e andava bene così. Era decisa più che mai a uscire da quella cavolo di stupidissima cosa strana che in quell’ultimo, cupo periodo, era riuscita a tenere a bada. Però, al suo invito inatteso, si era fatta venire l'idea di un giro in moto; andava bene pure quello… qualunque cosa, purché le desse una scusa per abbracciarlo!
“Ma sì, facciamoci del male. Tanto, più di così…” si disse, rassegnata.
Pete, inginocchiato a controllare la catena della moto, sollevò lo sguardo quando la sentì arrivare e, per parecchi secondi, non fu capace di distoglierlo, nemmeno mentre si alzava in piedi.
– Che c'è da guardare? – gli chiese la ragazza.
– Niente. Cioè… Sì… insomma stai bene.
– Anche tu: Tom Cruise di Top Gun non ti allaccia nemmeno le scarpe – commentò Briz, vedendo che lui indossava un giubbotto che ricordava quello dell'attore nel vecchio film.
– Io sono un ufficiale della U.S. Air Force, l'aviazione americana, mentre Maverick, il protagonista del film, era un pilota della U.S. Navy, la  Marina – precisò lui, un po’ saccente.
– Il solito pignolo! Ti ricordi qual era il vero nome di Maverick
– Uhm… Mitch? Non pensavo che tu lo conoscessi, quel film, non eri nemmeno nata, quando uscì nei cinema.
– Perché tu invece sì, vero? – lo prese in giro – È un film che ha più di trent'anni, lo so, ma in casa avevo il DVD: l'ho visto parecchie volte. Tom Cruise a quell’età mi piaceva – tacque per qualche secondo, poi proseguì – Comunque Maverick non si chiamava Mitch, Mitchell era il suo cognome: ci sei andato vicino. Si chiamava come te: Pete. E adesso andiamo, perché il mio stomaco sta ricominciando a imprecare e non rispondo delle parolacce che potrebbe tirare fuori.
Si infilò il casco che lui le aveva teso, lo allacciò e salì sulla moto dietro a Pete con una scioltezza che lo stupì. Anche il modo in cui gli passò le braccia intorno e si assestò sulla sella, tranquilla e disinvolta, gli fecero balenare nella mente un paio di domande e, cinque minuti più tardi, nemmeno a metà strada, si era dato le risposte: Briz sapeva accompagnare le curve piegandosi nel modo giusto, e quando lui frenava non sbatteva il casco contro il suo, come capitava a chi non era un po' esperto. E non aveva affatto paura, dato che gli aveva già detto un paio di volte di andare più veloce: la fanciullina, in moto con qualcuno, c'era già andata. Uno dei suoi innumerevoli segreti, pensò Pete. Forse era quel misterioso Diego, che in passato l'aveva scarrozzata…? Beh, peggio per lui, chiunque fosse! Adesso Briz se la portava in giro lui, Peter J. Richardson, ed era lui che si sentiva stringere dalle sue braccia; cosa che, dannato il diavolo, gli piaceva non poco. Aveva già dovuto riconoscere, nell’arco di quella mattinata, che in quegli ultimi due mesi – durante i quali, stanchi e demoralizzati, se ne erano stati molto per conto proprio – Fabrizia e le sue battutine, le sue risate, la sua chiacchiera incessante e persino il suo sarcasmo e i suoi momenti di malinconia, gli erano mancati. E per quanto drammatica fosse stata la situazione in quella orribile cella zelana umida e fredda, addormentarsi tenendosela tra le braccia era stato l'unico momento, di quella terribile avventura, degno di essere ricordato; sembrava passato un secolo, invece erano trascorsi solo pochi giorni.
Diede una brusca accelerata, per vedere se lei lo avrebbe stretto un po' di più, cosa che avvenne prontamente, facendogli provare un'ondata di soddisfazione. Come già accaduto poche ore prima, si costrinse a mettere un freno a quei pensieri.
Più tardi, seduti a un tavolino fuori da un Take Away cinese, chiacchieravano davanti ai resti del loro pranzo tardivo. Resti… in realtà c'erano rimasti solo i cestini vuoti, anche se Briz frugava inutilmente con le bacchette, alla ricerca di un ultimo boccone di pollo al limone.
– Briz, non ce n'è più! Se ne vuoi ancora, l'unica cosa che puoi fare è ordinarne un'altra porzione.
– No, okay, basta: non sono mica Yamatake – ridacchiò lei.
– Decisamente no, anche se, con tutto quello che hai mangiato, oggi gli saresti quasi stata alla pari!
– Oh, parla lui! Ti va di fare una passeggiata? Così forse riusciamo a smaltire qualcuna delle diecimila calorie che abbiamo ingurgitato! Magari arriviamo al parco.
– Va bene, è passato troppo tempo persino per me, dall'ultima volta che ho passato una giornata normale.
Ripulito il tavolino e gettati i rifiuti nei vari cestini della raccolta differenziata, si incamminarono verso il parco.
“Una giornata normale”, aveva detto Pete. Era solo la prima giornata, da parecchio tempo, in cui si sforzavano di non pensare alla guerra contro l'Orrore Nero, ma da qui a definirla normale ce ne correva. Già la mattinata, a Briz, era sembrata surreale, con il dottor Shidara e Pete che sembrava geloso.
E la quasi demenziale telefonata di Melissa? Quella era proprio stata ai limiti del paranoico! Ancora si chiedeva come avesse fatto a reggere una recita come quella, per quanto breve. Per non parlare del giro in moto…
E poi, a dirla tutta, una passeggiata nel parco con Pete, era una cosa normale? Non sapeva nemmeno lei cosa pensare…
E comunque, non potevano permettersi di dimenticare proprio tutto; istintivamente si portò una mano all'orecchio, all'interno del quale era installato il piccolo auricolare. Ormai vivevano con quel dannato aggeggio ventiquattr'ore su ventiquattro, esattamente come convivevano con il duro rigonfiamento del fulminatore laser sotto ai giubbotti.
Cercò di allontanare questi pensieri, e di godersi la passeggiata e il pomeriggio bello e soleggiato: il profumo di primavera aleggiava già nell'aria.
– Fermata obbligata! – esclamò la ragazza ad un tratto, dirigendosi verso una luccicante vetrina.
– Oh, ti prego! Non dirmi che sei una di quelle che vanno in brodo di giuggiole per i gioielli! Non te ne vedo mai addosso, a parte tutti quei ciaffi alle orecchie e, raramente, il braccialetto che ti abbiamo regalato per il tuo compleanno.
– Lo porto poco, perché mi piace troppo e ho paura di perderlo. Però oggi l'ho messo, come vedi – disse mostrandogli il polso – E hai ragione, in genere i gioielli non mi mandano giù di testa, ma in questa vetrina ce n'è uno per il quale ho fatto un'eccezione. Ogni volta che passo di qui, mi fermo a guardarlo per un po': ci ho messo sopra un'opzione.
– E quale sarebbe? – chiese lui incuriosito, raggiungendola davanti al negozio e guardando la profusione di oggetti preziosi e lucenti in mostra. Si aspettava un ciondolo o, più facilmente, un altro strampalato orecchino.
– Quello – fece invece Briz, indicando un anello di oro bianco su cui era montato un diamante: la pietra era quadrata, girata di traverso, con i quattro lati leggermente incurvati verso l'interno, che le davano l'aspetto di una piccola stella a quattro punte. Il diamante era di un bianco purissimo, e la trasparenza perfetta catturava i colori dell'iride, proiettandoli nei loro occhi. Non era il diamante più grande lì esposto, ma non sarebbe potuto stare nemmeno tra i più piccoli; eppure, anche Pete non poté fare a meno di pensare che, proprio per la sua semplicità, fosse sicuramente il più bello tra tutti quelli in esposizione.
– Caspita, Briz! Non si può certo dire che ti piaccia la roba brutta o da poco! Ma hai visto il prezzo?
– Mm-mm – assentì; aveva già calcolato che quella cifra scritta in yen, equivaleva a diverse migliaia di euro – Pensi che non possa permettermelo? Posso, credimi. Ho promesso a me stessa che, se alla fine della guerra, sarà ancora in questa vetrina, regalarmelo sarà una delle prime cose che farò per festeggiare. Hai qualcosa in contrario?
– Io? Ci mancherebbe. È solo che…
– Ti pareva che non ci fosse un ma! Ti vedo perplesso: spara.
– Ecco… mi sembra strano che tu ti compri da sola un gioiello del genere: questo è il tipo di anello che, di solito, un uomo regala a una donna per chiederle di sposarlo. Insomma, dai: è un anello di fidanzamento!
– Scusa, c'è scritto sopra, che può essere solo un anello di fidanzamento? Perché sai, io non vedo niente di tutto ciò! Andiamo, Pete, sono io! Credi davvero che esista qualcuno che un giorno mi chiederà di sposarlo regalandomi un anello simile? Se lo voglio, dovrò comprarmelo. E lo farò, perché mi piace e basta – concluse, decisa e pragmatica.
– Briz, la sera di Natale, parlando con Midori, dicesti, testuali parole: "Magari là fuori, da qualche parte, c'è davvero un bravo ragazzo disposto a passare la vita con una pazza sconsiderata come me". Devo aggiungere il resto che sentii, riguardo a “Due o tre bambini concepiti in… modo tradizionale”?  
Lei arrossì senza scampo, ma non si lasciò sopraffare dall’imbarazzo:
– Se è per questo, tu mi rispondesti che lo compatisci, “Quel povero bravo ragazzo che avrà la disgrazia di incontrarmi”. Cosa che non è ancora accaduta, e forse mai accadrà: mi sa che quello sfigato deve ancora nascere.
– Briz… ma tu te ne accorgi, che al mattino dici una cosa e alla sera ne dici un'altra? Un giorno ti senti strepitosa e invincibile, quello successivo bruttina e insignificante; un momento dici di non credere nelle promesse degli uomini e che “Ti amo” è solo una bella bugia, e quello dopo dici che da una storia d'amore “Vorresti tutto, perché non saresti disposta a dare niente di meno”. Sei un tantino indecisa, non trovi?
– Alla faccia! Dopo più di due mesi, ti ricordi che ho detto tutta 'sta roba? Per fortuna che la sera di Natale dovevi essere appena arrivato, col ramo di abete, fuori dalla porta! Chissà cos’altro hai vergognosamente origliato; no, non voglio saperlo, lascia stare! E comunque… probabilmente è vero, sono incoerente, cosa vuoi che ti dica? Di questi tempi, non ho un grande equilibrio psichico ed emotivo. Comunque, se ci tieni tanto a regalarmelo tu, il diamante, lo prendo volentieri. E pensa: ti risparmio il fidanzamento!
Pete la fissò con un sorrisetto tra l'ironico e lo sbalordito.
– Fanciullina, ma a te queste boiate vengono così, a braccio, o ci studi sopra la notte?
Briz non riuscì a trattenere una risata, poi, con l'indice sollevato, esclamò:              
– Carina, questa, ti è venuta bene. Stai migliorando, Richardson, devo ammetterlo; stai decisamente migliorando.
Pete le afferrò la mano e, trascinandosela dietro, replicò ridendo:
– Forza, Cuordileone, andiamocene di qui, altrimenti la padrona della gioielleria si aggiungerà alla schiera di quelli che ci vorrebbero davvero fidanzati: è già da un po' che ci guarda speranzosa da dentro il negozio! E io, scemo, che non ho ancora imparato a capire quando fai sul serio e quando mi prendi per il culo!
– Ehi, Capitan Perfettino, parli come un contadino!
– Maddài!? Indovina da chi ho imparato!
– E che ne so io! Non posso farci niente se frequenti persone sboccate e volgari!
– Smettila, tu non sei volgare: solo, ti diverte scandalizzare il prossimo col turpiloquio!
– Ma ti senti!? Sembri proprio un secchione di un prof!
– Veramente mi avevi appena dato del contadino! Ma la coerenza…?
– E allora? Ti ho appena detto che lo so, di essere incoerente: sei tu che non ascolti!
Continuarono su questo tono per un po', tra una risata e una presa in giro.
– Pete… – disse lei, dopo diversi istanti di silenzio.
– Che c'è?
– Lo so, dov'è il parco – rispose seria.
– Beh, lo immagino. E allora?
– Eh, allora… perché continui a tenermi per mano? Hai paura che mi perda per strada?
Entrambi abbassarono gli occhi, sulle loro mani ancora allacciate; non solo, le loro dita erano anche morbidamente intrecciate: ma come avevano fatto? Si guardarono e si sorrisero imbarazzati, e le loro mani si sciolsero.
Tutti e due andarono col pensiero a qualche giorno prima, al momento in cui avevano creduto che Sakon li avrebbe uccisi e le loro dita si erano cercate, intrecciandosi come in quel momento. Briz, riprendendo a camminare al suo fianco, ripensò di nuovo a quell'ultima notte nella cella della base zelana: sarebbe potuta essere l'ultima della sua vita, per quel che ne sapeva in quei momenti, e, anche se aveva dell'incredibile, proprio Pete era riuscito a rassicurarla, tenendola stretta a lui tutta la notte e infondendo nel suo cuore un po' di pace e di calore.
Quanti segreti nascondeva, questo ragazzo che si sforzava in tutti i modi di apparire diverso da quello che era? Beh, vista l'atmosfera rilassata e amichevole che si era creata tra di loro, decise che quel giorno avrebbe provato a farlo parlare: voleva assolutamente scoprire qualcosa in più, su di lui. Così, per pura curiosità, naturalmente; niente secondi fini.
Certo, se avesse immaginato, anche solo lontanamente, la piega che le cose avrebbero preso di lì a non molto, forse avrebbe rinunciato. O forse no… ma non aveva il dono della preveggenza.
Nel frattempo erano arrivati al parco e si erano seduti sul prato, nei pressi di un laghetto dove nuotavano placidi alcune anatre e qualche cigno; Briz aveva appoggiato la schiena al tronco di un albero.
– Allora… che mi dici di Melissa? È stata l'ultima di una lunga serie? – indagò Fabrizia in tono leggero.
Pete la guardò con aria interrogativa. Ah, però! Briz sfoderava senza preavviso l'artiglieria pesante! Bah, finché gli faceva domande di questo genere, poteva anche sbilanciarsi… ma giusto un po'.
– È stata l'ultima, ma non di una lunga serie; non sono mai stato un gran seduttore, e il mio carattere non mi ha certo aiutato. Prima di Melissa c'era stata Sophie – aggiunse pure.
– Ah, ma senti! E… quanto sono durate?
– Poco, tutte e due: qualche mese, ma senza promesse da parte di nessuno. Sophie mi ha lasciato lei, alla fine, e con ben pochi complimenti! Melissa l'ho scaricata io, perché stava venendo meno ai patti, mi toglieva il respiro: hai sentito anche tu che tipetto è. Due sbornie passate in fretta. E se proprio lo vuoi sapere, dopo Sophie e prima di Melissa ce n’è stata una della quale, molto vergognosamente, non ricordo nemmeno il nome: una notte e via. Come hai detto tu? Sesso e rock and roll? – concluse con tono di sfida.
– Pete, sono una sciocchina romanticona, ma non una bacchettona. Basta che fosse maggiorenne, consenziente e consapevole della situazione: ognuno fa quel che crede della propria vita privata.
Lui non rispose; se aveva pensato di scandalizzarla, era rimasto deluso, ma, in fondo, Pete era sempre stato il primo ad ammettere di essere piuttosto arido.
Se, fino a qualche tempo prima, Briz non aveva stentato a crederlo, ultimamente le riusciva più difficile: negli ultimi mesi aveva visto affiorare in lui caratteristiche che avevano un po’ minato l’ormai trita teoria del cuore di ghiaccio; così insistette.
– Dai, vuoi dire che non ti è mai capitato di prenderti una cotta mostruosa per qualcuna? Uno di quegli innamoramenti da cuore a mille, orecchie che vanno a fuoco e ginocchia che tremano? Da sognartela la notte ma anche di giorno, da vederla anche dove non c'era, da non capire più niente?
– Non da adulto – fu la laconica risposta.
– Uhm… E… prima? 
Per qualche motivo, Pete capì immediatamente cosa significasse quel prima: non tanto prima dell'età adulta, quanto prima di ciò che gli aveva ribaltato la vita, ovvero il naufragio in cui erano periti i suoi genitori. Distolse lo sguardo da lei, e per qualche interminabile momento sembrò incredibilmente interessato alle anatre del laghetto; poi gli uscì dalle labbra un nome, appena sussurrato.
– Tracy Ballantyne.
Bastò il tono con cui lo aveva pronunciato, per far capire a Briz che quella ragazza era stata diversa dalle altre; e se era successo prima, dovevano anche essere stati entrambi molto giovani. Non che la cosa la stupisse, era proprio da adolescenti che si prendevano le cotte più furiose e devastanti: se non lo sapeva lei!
– Ecco, questa Tracy mi pare interessante. Avanti, Dragonheart, mollati un po': bisogna tirarti fuori le parole con le tenaglie!
– Magari non ho voglia di parlarne, ti ha sfiorato l’idea? – fu la risposta un po' brusca.
Lei ribatté in tono diametralmente opposto, pacato e quasi spento:
– Tu ormai sai vita, morte e miracoli, di me. Non dico che tu me lo debba, però, porca miseria… non mi parli mai di te.
– Tanto per cominciare non so vita, morte e miracoli, Briz. Non vuoi dirmi della NGC, e va bene: non te lo chiederò più. Non vuoi dirmi cosa ti ha fatto Diego: va bene anche questo. E poi? Dio solo sa cos'altro mi nascondi, ma ho anche smesso da un po' di farti certe domande, se per caso non te ne fossi accorta.
– Diego… Uhmf, buono, quello! Non c'è niente da dire, per quello non ne parlo! Cosa vuoi sapere? Avevo diciassette anni scarsi, lui diciannove e io me la sono pure cercata!
– Eri innamorata di lui?
– Sì… No… Non lo so. Ero innamorata; ero stupida; ero… la prova che a quell'età non si capisce un tubo. Due terzi della popolazione femminile del liceo era innamorata di lui, in qualche modo! Potevo arrivarci perfino io, a capire che il superfigo della scuola non poteva fare sul serio con Fabry-Froggy. Ecco perché diffido degli uomini troppo belli e popolari: tutte li amano, e loro non amano nessuna. Tutto qui.
– Okay – si arrese Pete, sapendo che non avrebbe certo ottenuto i particolari, benché fosse convinto, anzi convintissimo, che non fosse affatto tutto lì. Ma capì che adesso toccava a lui.
– Cosa vuoi sapere di Tracy? – le chiese, rassegnato.
– Siete stati insieme tanto?
– Dai diciassette ai vent'anni, ma siamo stati in classe insieme fin dal primo anno di liceo, era la mia migliore amica; poi abbiamo scelto la stessa facoltà di Archeologia all'università. Avevamo la stessa età, anzi, Tracy sei mesi in più: lei era nata in giugno. E, prima che tu me lo chieda, era la ragazza più normale della Terra: capelli castani, occhi marroni, altezza media. Carina, ma non troppo appariscente…
– Ma tu eri innamorato, è evidente. Tre anni insieme, a quell’età, non sono pochi: è ovvio che fosse una cosa piuttosto seria.
– Lo era. Come hai detto tu prima: da non capire più niente – ammise Pete, guardando da un'altra parte.
– Ma allora… perché è finita?
Pete esitò; si guardò in giro un altro po' e si passò una mano tra i capelli. Briz ormai conosceva quel gesto, che faceva sempre quando era nervoso e che non serviva a niente, perché poi il ciuffo gli ricadeva sugli occhi esattamente come prima.
– Il naufragio… – sospirò.
– Oddio! È morta!? – sbottò Briz, sconvolta.
– Ma che hai capito? No, non è morta, lei non era con noi sulla nave. Tom ve lo avrebbe detto, no?
– Whoa! Meno male. Solo che, scusa, ma allora… non vorrai dire che ti ha lasciato proprio dopo quella tragedia! Quando avresti avuto più bisogno di lei!
Così dicendo, Briz cambiò posizione, andando a sedersi al suo fianco, ma girandosi al contrario, in modo da poterlo vedere in faccia. Lui continuò a tenere i gomiti sulle ginocchia e a guardare di fronte a sé, tormentando nervosamente un ramoscello.
– Non mi ha lasciato lei – confessò a voce bassa.
A Briz occorsero diversi secondi per metabolizzare la frase: non l'aveva lasciato lei…
– Ma che cosa vuol dire!? L'hai lasciata tu!?
Pete non rispose, e se era vero che chi tace acconsente
– L'hai lasciata tu! – ripeté Briz, ma stavolta non era una domanda, piuttosto una indignata affermazione – Oh, ma… Ma perché, in nome del Cielo!? Non capisco!
– Non capisci, eh? – la voce di Pete era diventata improvvisamente dura, fredda e impersonale, come all'inizio, quando si erano conosciuti; la guardò per un attimo, e per poco non si sentì fulminata.
– Quel disastro mi ha devastato! Mi si è come… rotto qualcosa… dentro. Non avevo più niente da darle, Briz! Niente di buono. Non mi importava più di nulla: né di lei, né dell’Archeologia, tantomeno di me stesso. Prima o poi, Tracy si sarebbe stufata di uno difficile come me, è stato meglio lasciar perdere, tagliare i ponti e fine, prima che lo facesse lei… e mi spezzasse definitivamente.
– Come fai a sapere che lo avrebbe fatto? Era la tua ragazza! Probabilmente in quel momento non avrebbe chiesto altro che essere la tua roccia, la tua ancora di salvezza! Non hai pensato di aggrapparti a lei? Di parlarle? Di dirle come ti sentivi?
– No! – fu la secca replica, seguita da un altro silenzio che le sembrò lunghissimo.
– Forse avresti dovuto, invece – disse lei, tagliente.
– Avrei dovuto? Ma che ne sai, tu? Hai capito cosa ti ho appena detto? Lo vuoi capire che… non ero più io!?  Tu non c'eri, quella notte, sulla nave! Non hai idea di cosa sia successo! Io non la meritavo una come Tracy; non potevo costringerla a rimanere legata al mostro che ero diventato, tormentato com'ero dai… sensi di colpa, e divorato dai rimorsi!
Briz non riusciva a capacitarsi della piega che quella conversazione aveva preso: non aveva mai visto Pete così sconvolto, eppure, allo stesso tempo, lo sentiva freddo e lontano; aveva di nuovo abbassato la testa, evitando il suo sguardo. Gli appoggiò una mano su una spalla e gli diede una leggera scrollata, per costringerlo a guardarla; lui lo fece per un attimo, poi riabbassò il viso, il tempo sufficiente perché lei vedesse nei suoi occhi un luccichio sicuramente insolito.
– Sensi di colpa? Rimorsi? Ma perché? Tom ci ha detto che è stato tuo padre a ubriacarsi e a non essere più in grado di affrontare la tempesta! Che cosa… cos'è successo, quella stramaledettissima notte!?
– Cristo santo, Briz! Tom non sa tutto quello che è accaduto! Mio padre… se ha bevuto fino a stordirsi, quella notte… è stato per colpa mia!
Pete nascose di nuovo il volto tra le braccia appoggiate alle ginocchia; non aveva mai raccontato niente a nessuno di quella orribile nottata e, per qualche assurdo motivo, stava rischiando di farlo proprio con Briz. Aveva già confessato anche troppo, ma si sarebbe fermato lì. Stava per prometterlo a sé stesso, quando sentì la mano della ragazza passargli dolcemente sui capelli. Quel gesto tenero innescò in lui una reazione totalmente inaspettata: sentì una spiacevole sensazione di pressione dietro agli occhi e la gola chiudersi. Sollevò appena la testa, sottraendosi alla carezza di Briz ed eludendo il suo sguardo; deglutì, tentando di eliminare quel senso di soffocamento, e abbassò le palpebre, sperando che passasse. Invece si accorse, con orrore, che quel gesto servì soltanto a fargli rotolare lungo le guance due lacrime brucianti.
– Ma che diavolo… – brontolò passandosi sugli occhi il dorso di una mano.
Non poteva credere che gli stesse succedendo una cosa del genere! Non sapeva se essere più sconvolto per quello o per ciò che aveva raccontato a Briz: non era nella sua indole, lasciarsi andare in quel modo.
– Che cosa mi stai facendo? Che cosa vuoi da me, Briz? – la accusò.
– I… Io non ti sto facendo proprio niente! E poi… cosa dovrei mai volere? Ma non vedi? Per una volta che finalmente spremi due lacrime, dai la colpa a me! E il bello è che non so nemmeno di cosa tu stia parlando!
Briz gli mise di nuovo una mano fra i capelli, ma stavolta in modo brusco, costringendolo a girarsi verso di lei e ad affrontare il suo sguardo. Pete la guardò, con gli occhi lucidi; ogni volta che li chiudeva per tentare di arginare quel… quella cosa, altre lacrime silenziose si facevano strada tra le ciglia e gli scivolavano lungo il viso: non servì stringere gli occhi, né mordersi le labbra. Non riusciva a sopportarlo… riabbassò la testa fra le braccia.
– Lasciami, io non piango! – disse, negando l'evidenza.
– Oh, sì che lo fai, ed era anche ora! Avevo sempre pensato che la soluzione per farti sciogliere un po', fosse nel riuscire a farti ridere. Sicuramente ha aiutato, ma adesso… credo che invece sia di questo, che hai bisogno: piangere. Pensi che ti giudicherò uno smidollato, per questo? Non ho mai pensato che un uomo che piange sia un debole, se ha un buon motivo per farlo – il suo tono si addolcì – E qualcosa mi dice che tu di motivi ne hai ben più di uno, ma non posso capirti, se non me li dici.
Di nuovo silenzio; Pete era troppo impegnato a cercare di controllarsi, senza peraltro riuscirci. Briz avrebbe voluto fare qualcosa, per farlo sentire meglio, ma non sapeva cosa: riusciva solo a starsene lì, seduta vicino a lui, senza sapere cosa dirgli.
 


 
Pete-Briz-laghetto-parco
Per quale assurdo motivo si sarebbe dovuto sentire in colpa lui, per quello che aveva fatto suo padre? Non riusciva proprio a spiegarsela, questa faccenda… e non pensava che sarebbero arrivati a questo. L'unica cosa che capiva era che, senza volerlo, aveva scoperchiato un vaso di Pandora di proporzioni epiche.
– Pete… mi dispiace… scusa… – gli disse, accarezzandogli di nuovo i capelli.
La risposta di Pete fu una spinta che la allontanò da lui, e le parole che seguirono, pronunciate con voce rotta, ma gelida, le diedero l'impressione di aver scavato un abisso tra di loro:
– Non mi toccare! Mi hai massacrato, Briz, lasciami in pace, per una volta!
Briz deglutì a vuoto, mortificata; si alzò in piedi, senza riuscire a capacitarsi di quello che aveva appena sentito, ma non era disposta a lasciarsi umiliare in silenzio.
– Ah, ti ho massacrato? Come se tu, con me, non l'avessi mai fatto! Bene, torna ad arroccarti nel tuo castello di ghiaccio, se è questo che vuoi. E scusami se, dopo tutto il tempo passato insieme, tutta la fatica, le avventure, le risate e i pericoli che abbiamo condiviso in questi mesi, mi ero illusa che io e te fossimo riusciti a diventare… qualcosa di simile a due amici. Mi sono sbagliata, è evidente. E perdona il sacrilegio che ho commesso: averti visto fare qualcosa di così terribilmente umano come piangere!  
Raccolse dall'erba il giubbotto di pelle e se lo infilò con movimenti rapidi e nervosi.
– Ti lascio in pace, come mi hai chiesto. Se vuoi tornare a casa, fai pure: più tardi c'è un autobus per il Faro, rientrerò con quello – concluse freddamente, allontanandosi.
Pete alzò appena lo sguardo e, con la vista annebbiata, la vide tirarsi su il cappuccio della felpa, affondare le mani nelle tasche del giubbotto e avviarsi a passo deciso, costeggiando lo steccato che delimitava il laghetto. Ma tutto quello che lui riuscì a fare, fu solo di riabbassare la testa e continuare a piangere silenziosamente; si rese conto di avere una ragione in più per farlo: aveva ferito Briz, al punto di farla addirittura scappare.
Per un lunghissimo, assurdo momento, si sentì profondamente solo. E quella cosa che lei aveva detto, sul fatto di essere diventati quasi amici… beh, doveva ammettere che non aveva nemmeno tutti i torti. Si diede del deficiente, poi del cretino, poi dell'idiota; asino, somaro, stupido! E imbecille! Nel giro di pochi minuti aveva esaurito il vocabolario degli insulti da rivolgere a sé stesso, ma non le lacrime. Ma quanti cacchio di litri ce n'erano in un corpo umano? 
Briz gli avrebbe probabilmente detto che lui non faceva testo, perché aveva gli arretrati, più gli interessi maturati in tutti quegli anni… o qualcun'altra delle sue assurde teorie del cavolo per cercare di sdrammatizzare.
Fu costretto ad ammettere che se c'era una persona che avrebbe potuto capirlo, era davvero lei: in fondo chi, più di quella pestifera fanciullina, avrebbe potuto essere il massimo esperto di pianti e lacrime?
Tuttavia poco prima, quando lei gli aveva accarezzato i capelli – e gli aveva persino chiesto scusa! – si era sentito travolto da una tale ondata di emozioni, da sentirsi completamente sopraffatto. Aveva dovuto allontanarla da sé, perché l'unica altra alternativa sarebbe stata stringerla fra le braccia e continuare a piangere come un bambino, col viso seppellito tra i suoi capelli, respirando il suo profumo fresco di biancospino.
"E allora, scemo atomico?" si disse da solo "Non sarebbe stato meglio, visto che tanto, a piangere, stai continuando comunque?" 
Chissà se, con un po' di fortuna, avrebbe potuto ancora rimediare qualcosa.
Strofinandosi il palmo di una mano sugli occhi, prese il cellulare dalla tasca accorgendosi, con un po' di sollievo, che il fiume in piena sembrava essersi placato. Trovato il contatto di Briz, le inviò uno sbrigativo messaggio: "Dove sei?" 
La risposta arrivò dopo più di un minuto: "Nel Congo! E dove vuoi che sia? Sto facendo il giro del laghetto, tra dieci minuti sarò di nuovo lì, quindi ti conviene andartene, se non l'hai già fatto!"
Merda, era davvero arrabbiata… Però decise che l'avrebbe aspettata, se non altro per una questione di principio: non esisteva proprio che Pete Richardson portasse una ragazza da qualche parte e poi la facesse tornare da sola!
Si alzò in piedi, si avvicinò al laghetto e appoggiò le braccia allo steccato, scompigliandosi i capelli e guardando l'acqua che si increspava alla brezza. Sì, ma certo! Chi voleva prendere in giro? L'avrebbe aspettata perché era lui, ora, a doverle delle scuse… e magari anche per raccontarle cosa fosse accaduto tra lui e suo padre, quella notte, prima che si scatenasse la tragedia.
Sempre che lei avesse avuto ancora voglia di ascoltarlo, furiosa com’era.
 
> Continua…
 
 
 
E adesso? Fabrizia avrà voglia di ascoltarlo, Pete, o deciderà di prendere l’autobus? Bel dilemma…

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Capitolo 23
*** 22 - Sciogliersi o spezzarsi ***


~ 22 ~ 
SCIOGLIERSI O SPEZZARSI
 
“So let mercy come
And wash away
What I’ve done.
I’ve faced myself
To cross out what I’ve become
Erase myself
And let go of what I’ve done.”
(Linkin Park – What I’ve done)


 
Per i primi dieci minuti, Briz aveva camminato a testa bassa, a passo di carica, le mani affondate nelle tasche, mordendosi le labbra per non urlare dalla frustrazione; poi, un po' alla volta, la rabbia era sbollita. Si era data mille volte della stupida: era stata troppo insistente, troppo curiosa, troppo saccente! Chi era lei, per giudicare se Pete avesse fatto bene o male a lasciare Tracy? O per pretendere di conoscere i suoi drammatici trascorsi? Come se non lo sapesse, poi, che lui odiava parlare di sé e del suo passato. Ma perché non stava mai zitta, vigliacca galera?
Però… aveva davvero creduto che le cose tra loro fossero cambiate, per questo si era sentita un po’ più libera di dire cosa pensasse; gli aveva pure chiesto scusa, quando si era resa conto di aver esagerato, e lui l’aveva allontanata in malo modo!
Mollò anche lei un paio di lacrimucce, chiedendosi, per la milionesima volta in quegli ultimi tempi, come potesse essere lì, a un passo  dall’innamorarsi di uno come Pete. Lei, che non faceva altro che urlare al mondo che una cosa del genere non le sarebbe capitata mai più! E invece… che le piacesse o no, la cosa strana, ormai, un nome preciso ce lo aveva eccome, anche se lei non si sentiva ancora pronta per pronunciarlo.
Ci provò, almeno col pensiero, come se formulare quella parola servisse ad esorcizzarla, a renderla meno paurosa.
“Innamorata”.
Dio, che follia…
Innamorata… e non di un ragazzo semplice, disponibile, aperto e solare; troppo facile, così!
Innamorata… di uno che aveva più problemi e complicazioni, che capelli in testa – ed era tutto dire!
E il bello era che non desiderava nemmeno che lui la ricambiasse: la sola idea la terrorizzava più che affrontare i Mostri Neri! Ma poi, di cosa avrebbe dovuto aver paura? Tanto lui non si innamorava, lui le ragazze se le portava a letto e basta, e si dimenticava pure come si chiamassero! In alternativa, a questo punto era chiaro che fosse convinto di non essere adatto a una storia seria con qualunque brava ragazza… esattamente come lei, alla fine. E quindi, proprio per questo, era in una botte di ferro. Sapeva che con lei non ci avrebbe mai provato fino a quel punto; un po’ perché sapeva di non essere proprio il tipo di donna che piaceva a Pete, un po' perché in fondo – molto in fondo – avevano davvero finito per diventare anche amici, oltre che compagni di battaglia.
Al diavolo… questa cosa non aveva nessun presupposto da nessuna delle due parti! Doveva passarle e fine.
“I difetti, i difetti! Concentrati sui suoi mille difetti, maledizione!” si esortò, rendendosi immediatamente conto che, porca miseria, non riusciva più a vederli, i difetti, anche quando si palesavano evidenti sotto al suo naso.
Poi era arrivato quel cavolo di messaggino: “Dove sei?” 
La tentazione di rispondergli: “Dove cazzo mi pare!” era stata forte, ma si era controllata e, alla fine, aveva optato per la verità in salsa sarcastica: “Nel Congo!”, come diceva sempre Ale, quando lei piombava in casa cercandolo e chiedendo dove fosse.
Si bloccò di colpo quando, sollevando la testa, si rese conto di aver compiuto il giro del laghetto ed essere tornata al punto di partenza; e lui era lì, appoggiato allo steccato.
Cavolo, non se n’era andato, nonostante lei lo avesse avvertito che stava arrivando… cosa significava? Che, dopotutto, era abbastanza cavaliere da non rimandarla a casa da sola?
Riprese a camminare, indecisa, e i loro sguardi si incrociarono per pochi fugaci attimi. Lentamente si avvicinò allo steccato e vi si appoggiò a sua volta col fondo della schiena, ma rimase a qualche metro da lui, le braccia conserte, senza guardarlo. Non aveva la più pallida idea di cosa dirgli, ma una cosa era certa: se voleva avvicinarsi, che lo facesse lui! Non si sarebbe fatta respingere un'altra volta, non lo avrebbe sopportato.
Pete guardò la ragazza ferma a pochi passi da lui, che sembrava decisa ad ignorarlo; lo stava sfidando ad avvicinarsi, era ovvio, ma lui non si fece nessun problema: la raggiunse con calma e si riappoggiò alla recinzione accanto a lei. Senza nemmeno pensarci, allungò una mano, come per sfiorarle i capelli, ma lei evitò il contatto, spostando bruscamente la testa e voltandogli le spalle.
– Cosa ti fa pensare che se io non devo toccarti, tu possa farlo con me? – gli disse con voce dura.
Pete lasciò ricadere la mano, con aria rassegnata. Beh, che altro avrebbe potuto aspettarsi? Era stato lui a respingerla, prima; e solo perché in realtà, il desiderio di toccarla era stato talmente intenso da spaventarlo. Decise di non arrendersi, e provò un altro metodo.
– Briz… mi dispiace.
Eh, maledizione, questo no! Pete si stava giocando la carta del pentimento gentile! Se faceva così…! Tentò di spostarsi, ma sentì che lui la tratteneva dolcemente per un braccio.
– Senti, perdonami: sono un idiota.
E così tutte le sue difese andarono a farsi friggere, ma col cavolo che si girò a guardarlo.
– Sì, è vero! Un dannatissimo metro e ottantasei di idiota! – brontolò – Però, sì, ti perdono, se non altro perché so che io, quando mi ci metto, posso essere un intero metro e settantanove di rompicoglioni.
– Mmm… non tutto intero, dai. Solo un po' – concesse lui.
Briz si voltò lentamente, gratificandolo di un'occhiata con un sopracciglio sollevato che era molto eloquente, e lui si affrettò ad aggiungere: – Però, tu… sei la cosa più vicina a un amico che io abbia avuto da quasi sette anni.
– Oh, ma guarda! Ci sei arrivato! – esclamò – Solo che detta così… non so nemmeno se sia un complimento o… boh, qualcos'altro! – e si scostò da lui, rimettendosi le mani in tasca: almeno non avrebbe corso il rischio di allungarle su di lui. Se per il bisogno di toccarlo o di picchiarlo, non lo sapeva nemmeno lei!
“Sei la cosa più vicina a un amico che io abbia avuto…?” Gesù, una roba che Fersen e Lady Oscar fatevi in là!
– Briz, che c'entra… è solo che… già mi sembra dannatamente strano ritrovarmi come migliore amico una ragazza… Figurarsi proprio te!
Ah, okay, si continuava su questa strada, quindi… Bene, buono a sapersi… e meglio così, naturalmente!
– Pensa quanto sembra strana a me, una cosa del genere! Io ero rimasta che eravamo Migliori Nemici! E sul fatto che tu possa essere il mio migliore amico… beh, adesso non esageriamo! Devo ancora lavorarci sopra – esclamò, tentando di fare la sostenuta; poi cambiò argomento e tono di voce, e proseguì: – Allora? Quanto tempo era che non ti facevi un pianto?
– L'ultima volta… avevo diciotto anni: quando è morta mia nonna Rosy – confessò lui.
– Cosa? Non avevi più pianto, nemmeno per i tuoi genitori?
Pete non rispose, si limitò a guardarla di sottecchi e a scuotere appena la testa. Briz sospirò, senza riuscire a immaginare quanto potesse far male, un dolore che ti pietrificava a tal punto; lei, almeno, il conforto delle lacrime lo aveva avuto…
– Okay, Richardson, – sbottò ad un tratto, allargando appena le braccia – io sono qui! Hai appena ammesso che sono qualcosa di simile a una migliore amica, quindi che vogliamo fare? Possiamo prendere la moto, tornare a casa e far finta che non sia successo niente: non insisterò e ti comprenderò. Oppure… ci sediamo dove eravamo prima e vuoti il sacco. Decidi tu, a me va bene comunque.
Pete ci pensò per un po', guardando in basso, smuovendo il terreno con la punta di uno stivale; poi si staccò dalla recinzione e prese Briz sottobraccio.
– Forza, andiamo a sederci: credo che sarà una cosa lunga – sospirò.
E così si ritrovarono esattamente come mezz'ora prima, seduti sotto all'albero, fianco a fianco, ma girati uno verso l'altra.
– Dunque? Che puoi aver fatto di così mostruoso da meritarti la colpa di tutto? – gli chiese lei dolcemente.
– Litigai con mio padre, quella sera.
E poi silenzio… Briz fece un cenno brusco con la testa e con una mano, come per dire: “Okay, vai avanti”.
– Io e mio padre smettemmo di andare d'accordo già da molto prima che finissi il liceo. Erano già quasi due anni che… ogni volta che ci parlavamo, finivamo per discutere, anche pesantemente. La mamma aveva voluto che lo accompagnassimo in quel viaggio di lavoro, sulla Blue Princess, anche per provare a farci riavvicinare… Ma lo sapevo che non sarebbe servito a niente: lui non voleva che io proseguissi gli studi di Archeologia…
– Ma perché?
– Lui… adorava gli aerei; e quando si accorse che io, da bambino, avevo la stessa passione, cominciò a fare progetti, su di me. Progetti che, lo ammetto, io fui più che felice di assecondare; credo di aver costruito più modellini aerei di qualsiasi altro ragazzino sulla Terra: avevo libri, giocattoli, film… Al videogioco col simulatore di volo non mi batteva nessuno! Ne sapevo tanta, lo ammetto senza paura di sembrare presuntuoso: semplicemente, sembravo nato per volare. Eravamo tutti convinti che fare il pilota fosse davvero la mia strada e a sedici anni mi iscrissi alla scuola di volo. Ma nel frattempo avevo cominciato le scuole superiori e… avevo scoperto anche altre passioni: l'Archeologia e la storia antica.
– E Tracy Ballantyne… – suggerì Briz, tentando di sdrammatizzare.
– E Tracy, certo… fu lei a trasmettermi questa passione. Ma non c'era giorno che mio padre non mi dicesse di lasciar perdere: sperava che, finito il liceo, mi sarebbe passata. E invece, una volta che mi fui diplomato ed ebbi ottenuto anche il brevetto di volo… feci una scelta.  
– Bene, hai scelto Tracy e l'Archeologia: c’era qualcosa di tragico in questo? – si stupì Briz.
– Secondo me no: ero innamorato di tutte e due! Mentre mio padre le detestava, tutte e due; secondo lui, Tracy mi aveva… traviato: diceva che la dovevo piantare di giocare a Indiana Jones e non potevo buttare al vento il mio brevetto e il mio talento a causa di una ragazzetta secchiona. Ma quella sera, sulla nave, gli dissi che poteva scordarselo, che avrei rinunciato ai miei studi, tantomeno a Tracy; che non si sognasse mai più di offenderla, che avevo vent'anni e la mia vita dovevo sceglierla io! Volare sarebbe comunque rimasto un piacevole diversivo, ma non ne avrei fatto una professione. Devo avergli detto anche qualcosa di molto offensivo, del tipo… che era un vecchio fossile, e che se l'Aviazione, trent'anni prima, lo aveva scartato, costringendolo ad accontentarsi di venire arruolato dalla Marina Mercantile per ritrovarsi a comandare quella bagnarola, non poteva pretendere che prendessi io il suo posto e che i suoi fallimenti ricadessero su di me. E credo anche di averlo mandato dove non si dovrebbe mai mandare un genitore… e di essermene andato sbattendo la porta. Insomma, cose che non avevo mai fatto in vita mia… Fra l’altro era il portellone della sua cabina… insomma, feci un bel po’ di casino, quella notte… ero davvero fuori di me.
– Uhm… Vabbè, forse ci sei andato giù un po' pesante, però… tua madre cosa diceva, di tutto questo?
– Lei… lei mi appoggiava: era felice che mi piacesse studiare. La incrociai, appena fuori dalla cabina di mio padre, mentre me ne andavo arrabbiato nero e, quando lei lo raggiunse, io mi fermai in corridoio e li sentii litigare violentemente. Mia madre gli urlò che doveva smetterla di rovinarmi la vita, che io dovevo seguire la mia strada e che gliel’avrebbe fatta pagare; gli disse che appena rientrati da quel viaggio… avrebbe chiesto il divorzio, così gli avrebbe impedito di fare la stessa cosa anche con Tom. A quel punto scappai, letteralmente, nella cabina che dividevo con mio fratello, pensando che non avevo mai sentito mia madre così furiosa. Non credevo che le cose tra i miei genitori fossero a quel punto, e io ci avevo messo il carico da undici. Mio padre pretendeva da me qualcosa che io non volevo dargli; e mia madre voleva lasciarlo… per lo stesso motivo: a causa mia!
Pete si interruppe, come se non avesse più le forze per andare avanti.
– Questo è… tutto quello che è accaduto prima della tempesta? Insomma, quella notte tuo padre si è rifugiato nell'alcool, perché aveva litigato con te e con tua madre?
– Immagino di sì. Lui non era uno che beveva, non aveva mai avuto quel vizio, per questo mi sono sempre chiesto… quanto male dovevo avergli fatto, per farlo arrivare a quel punto?
– È comprensibile, ma… nessuno ha mai provato a farti vedere le cose da un altro punto di vista?
– E chi mai avrebbe potuto farlo? Tu sei la prima persona al mondo a cui racconto questa… cosa. E comunque io la rigiri… non vedo altro colpevole che me stesso, per aver dato il via a tutto.
Briz rimase per un po' in silenzio, valutando quell'orribile storia. Poi sollevò il viso e incrociò lo sguardo di Pete: aveva di nuovo gli occhi lucidi e li distolse da lei, che invece gli si appoggiò con la spalla alla gamba piegata. Tacque un altro po', poi gli disse, a voce bassa:
– Prima mi hai detto che io non c'ero, sulla nave. È vero, non c'ero; forse per questo il mio punto di vista, ora che mi hai raccontato tutto, è più spassionato del tuo. Che posso dirti? Non sei stato certo il primo ventenne che ha litigato col padre per le sue scelte e che lo ha chiamato vecchio fossile e mandato… diciamo al diavolo; e non sarai stato nemmeno l'ultimo. Non mi sembra un litigio così grave da giustificare una fuga dalla realtà tramite l'alcool. Magari la causa del suo gesto è stata la decisione di tua madre di chiedere il divorzio…
– Ma lei voleva lasciarlo per colpa mia! – la interruppe Pete.
– Non puoi saperlo per certo: forse difendere te era solo un pretesto. Il problema di fondo non eri tu, Pete, era tra di loro. E poi… insomma, d’accordo, avevi disatteso i sogni e le aspettative di tuo padre, ma volevi diventare archeologo, mica un delinquente! Perdona le mie parole, perché mancare di rispetto a chi non c’è più mi fa schifo, ma stordirsi con l'alcool per una delusione del genere, o per un litigio con la moglie, non mi sembra certo una reazione da persona forte e saggia, soprattutto in quel momento e per uno con il suo ruolo di comandante.
– Lo so! – l'esclamazione di Pete fu quasi un urlo – È per questo che ho fatto dell'autocontrollo e della disciplina il mio modo di vivere! Non si trasgrediscono le regole, Briz! Cinque morti, compresi loro due, e George Blackwood, il suo secondo, in coma probabilmente irreversibile! La verità è che odio mio padre per quello che ha fatto! E odio mia madre perché voleva lasciarlo! E odio me stesso, per tutto questo rancore che provo per loro… e per essere stato la causa scatenante di tutto! Li odio… eppure mi mancano… mi mancano in modo intollerabile, Briz! Dio solo sa quanto vorrei che fossero ancora qui! E invece adesso… loro sono morti! E io sono vivo… Perché?!
Quell'ultima domanda rimase lì, sospesa tra di loro, nel silenzio che seguì; nemmeno Briz aveva una risposta. Con un sospiro, scosse la testa e gli accarezzò il viso.
– Miseriaccia, Richardson: tu sei persino più incasinato di me.
Pete annuì appena, senza allontanarla.
– Benvenuta nella mia vita – mormorò, sarcastico e avvilito.
– Guardami, Pete – gli ordinò con dolcezza, prendendogli il viso tra le mani.
Lui si costrinse ad affrontare gli occhi verdi di Fabrizia, e a ricacciare indietro le lacrime che minacciavano di nuovo di esondare.
– Devi fartene una ragione, in qualche modo: a volte le cose, semplicemente, accadono. E noi non possiamo fare niente per cambiarle; possiamo solo… accettarle, e sperare di trovare da qualche parte quel minimo di serenità per imparare a conviverci.
Con sua sorpresa, Pete le prese le mani e gliele abbassò, ma senza lasciarle; con gli occhi bassi, rispose con una frase che lei conosceva: – “Concedimi, Signore, la serenità per accettare le cose che non posso cambiare; la forza e il coraggio per cambiare quelle che posso…” – si interruppe, sentendosi di nuovo la gola chiusa, e fu Briz a concludere:
– “…e la saggezza, per riconoscere la differenza”. Non sapevo che la conoscessi anche tu.
– L'ho imparata da te, anche se indirettamente: me l’ha passata Sakon, e anche lui mi ha detto, qualche tempo fa, che ci sono cose, nella vita, che non possiamo tenere strette per sempre; che a un certo punto dobbiamo… lasciarle andare. Sono mesi che ci rimugino sopra, che ci provo… ma non ci riesco – ammise, sollevando di nuovo lo sguardo.
Briz gli rivolse un sorriso un po' triste, che gli fece mancare un battito di cuore.
– È saggio, il nostro Sakon – disse Briz – E anche tu lo sei quanto basta, per vedere la differenza tra le cose che puoi cambiare e quelle che non puoi. E il tuo passato… lo sai che non puoi.
– Avrei bisogno di un po’ di pace interiore per accettarlo, quindi… Ma non so dove andarla a cercare… – affermò Pete.
– Sì… lo capisco. Ma se può servirti a vedere le cose da un altro lato ancora, prova a chiederti questo: sei sicuro al cento per cento che se tuo padre fosse stato sobrio, le cose sarebbero andate diversamente e lui sarebbe riuscito a salvare tutti? Nessuno può esserlo, Pete. Hai anche detto che lui non aveva il vizio del bere: se non era abituato all'alcool, forse gli è bastato poco per passare il limite, e magari non era quello che avrebbe voluto. E ti sei mai chiesto se tua madre non abbia detto quelle cose solo sull’onda della furia del momento? Magari non lo pensava veramente, di divorziare. Non lo saprai mai, è vero, ma puoi lasciar loro il beneficio del dubbio. Per questo non ti resta che una strada.
– Quale? – le chiese lui, sopraffatto da quei ragionamenti e quelle ipotesi che gli erano spesso balenate in mente, ma che non era mai riuscito, o non aveva mai voluto, prendere in considerazione con la dovuta profondità.
– Il perdono, Pete: qualcosa di cui disponiamo tutti e che usiamo troppo poco. Forse i tuoi genitori hanno sbagliato, ma hanno pagato, e tanto. Perdonali… e continua ad amarli, perché so che una parte di te non hai mai smesso di farlo, nonostante tutto; e quando sarai riuscito a perdonarli… lasciali andare. E alla fine, perdona anche quel ragazzo ventenne convinto di essere la causa di tutto: ha pagato anche lui, non credi?
– Io… avrei pagato? Sono qui, sono ancora vivo!
– Sei qui, sì: perché tua madre, come tutte le madri del mondo degne di questo nome, ha ritenuto che la vita dei suoi figli fosse più importante della propria. Ricordi il nostro primo incontro dai cavalli, quando ci dicemmo a vicenda quello che vedevamo l'uno nell'altra? Io ti dissi che, secondo me, tu vivevi una vita che non era la tua. A quanto pare ci avevo preso: hai rinunciato all'amore, hai rinunciato alla passione della tua vita, hai ucciso tutti i tuoi sogni… per fare quello che avrebbe voluto tuo padre; e lo hai fatto anche dannatamente bene! E secondo te, non hai pagato? Non stai pagando? È anche per questo che ci sei tu, sul Drago Spaziale a rischiare il culo! Direi che è un ottimo motivo per il quale il destino, sotto le spoglie di tua madre, ti ha lasciato in questo mondo. Chi ci sarebbe, se tu non ci fossi?
– Qualcun altro, Briz, è semplice.
– Semplice? Io sul Drago non ci metterei piede, senza te ai comandi. E questo non lo dico perché ora siamo amici: l’ho sempre pensato, fin dall’inizio, anche quando mi stavi pesantemente sulle scatole. Dragonheart puoi essere solo tu, esattamente come Balthazar posso essere solo io! E poi… hai Tom: non è una buona ragione per la quale essere ancora qui?
– Sono stato il fratello peggiore che si possa avere…
– Rimedierai, Pete; prima o poi ne avrai l’opportunità. Finché si è vivi, tutto è possibile.
– Se lo dici tu, fanciullina… – commentò Pete, poco convinto.
Distolse per l'ennesima volta lo sguardo, poi le lasciò le mani e si portò le sue al viso.
– Maledizione, no! Non un'altra volta! – si lamentò, strofinandosele sugli occhi, tentando invano di arginare un'altra piena.
Briz obbedì all'istinto e, con un gesto lento e delicato lo attirò a sé e lo abbracciò, decidendo di correre il rischio di venire di nuovo respinta. Ma non accadde nulla del genere: Pete chiuse a sua volta le braccia intorno a lei e affondò il viso tra i suoi capelli, esattamente quello che avrebbe voluto fare prima, invece di cacciarla via malamente. Ed eccolo, il profumo dolce e fresco di biancospino, che gli piaceva tanto: in quel momento gli sembrò un balsamo per il suo cuore confuso e ferito.
– Smetti di trattenerti, stupido orgoglioso, e non vergognarti del fatto che ami ancora tua madre e persino tuo padre: è per questo che riesci finalmente a piangere! Fallo uscire, tutto questo dolore che ti porti dentro! Se non lo butterai fuori, una volta o l'altra ti spezzerà davvero il cuore!
– Briz… Un giorno mi hai detto che quando fosse arrivato quel momento, avresti voluto esserci… e che avresti riso tanto. Beh, credo che tu stia per essere accontentata, perché… merda, non ce la posso fare… non ero mai stato così male.
– Sono contenta di esserci, ma non mi viene da ridere, stanne certo.
Briz si tenne la testa bionda di lui contro la spalla, senza riuscire ad evitare che una frase si formasse nella sua testa.
“Oddio, Pete, povero amore mio”.
Eccole di nuovo, quelle parole che facevano tanta paura: “Amore mio”. Erano belle… e terrorizzanti! Costrinse la propria mente a non dirle più, e seppe che non avrebbe mai permesso che raggiungessero le sue labbra. Accantonò di nuovo la questione in un angolo del suo animo: non era lei quella che, al momento, aveva bisogno di conforto e di coraggio.
 
 
Briz-Pete-abbraccio-parco
– Pete, il tuo cuore non si sta spezzando: è un Cuore di Drago, dopotutto, no? Non ti rendi conto di cosa sta accadendo? Tutte queste lacrime… è il ghiaccio che si sta sciogliendo. Otto anni di arretrati e interessi: per forza fa male.
Pete non riusciva a crederci! Briz aveva davvero tirato fuori la teoria del cavolo che lui stesso aveva ipotizzato poco prima, riguardante lacrime arretrate e relativi interessi!? Se non fosse stato che non riusciva a smettere di piangere, gli sarebbe venuto da ridere! E anche se gli sembrava impossibile, quel pensiero riuscì davvero a farlo sentire un po' meglio: persino l’idea che le lacrime fossero il ghiaccio che si scioglieva, aveva un certo fascino. Era proprio… una cosa da Briz. La ragazza gli aveva davvero fatto vedere un punto di vista diverso, più lucido e distaccato; poteva esserci qualcosa di vero, o forse no, ma in quel momento non importava, gli bastava stare lì fra le sue braccia, e sentire le sue mani che gli accarezzavano i capelli e la schiena. Era così dolce… rilassante. Gli sembrò quasi di tornare bambino, quando la vita era ancora bella, spensierata, senza guerre… e fatta solo di famiglia, amici, studio e primi amori.
– A volte vorrei una macchina del tempo per tornare indietro. Se solo…
– Ma si capisce! – esclamò lei, scostandolo un pochino per guardarlo in faccia – Una bella DeLorean, come quella di Ritorno al Futuro! Smetti di torturarti, Pete: e se, e se, e se…! E se mia nonna aveva le palle, era mio nonno!
– Te e le tu espressioni colorite! – esclamò lui, tirando su col naso, senza riuscire a trattenere un accenno di sorriso, a quell'uscita assurda.
– Scusa, è una battuta che si usa dalle mie parti, mi è venuta così. E stupida, però ti ha fatto sorridere.
– Comincio ad abituarmi ai tuoi strani modi di dire… e di fare. Io… proverò a pensarci ancora, alle cose che mi hai detto, che, se non te ne sei accorta, sono anche quelle una bella serie di se… Ma ciò non significa che mi sentirò meno responsabile, anche se posso ammettere che parlarne mi ha sollevato un po’, e non lo avrei mai creduto possibile; soprattutto che l’avrei fatto… con te.
– Già, rasenta il ridicolo, a pensarci bene: io sono il giullare di corte, quella che spara solo bischerate. Coraggio, musone, adesso ripigliati e chiudi i rubinetti!
Briz si affidò all’ironia prima di scompigliargli i capelli e staccarsi da lui per alzarsi, anche se a malincuore. Doveva allontanarsi: abbracciarlo aveva fatto sorgere in lei l'intenso desiderio di assaggiare il sapore di quelle lacrime, che erano scivolate lungo il volto di Pete ed erano andate a fermarsi sulle sue labbra.
E che cavolo, aveva ragione lui, era incoerente: dove erano finiti tutti i suoi ragionamenti di poco prima? Si strinse con le dita la radice del naso, sentendo gli occhi che bruciavano.
– Briz, non aprire i rubinetti anche tu, ti prego! Se no facciamo traboccare il laghetto.
– Ah-ah! Spirito di patata – ridacchiò lei, tendendogli una mano – Avanti, alza le chiappe: credo sia ora di tornare verso casa.
Pete afferrò la sua mano e si tirò in piedi, ritrovandosi a pochi centimetri da lei. Rimase per qualche secondo a fissarla e lei si ritrovò a respirare male: lo tsunami sembrava essere rientrato, anche se aveva lasciato gli occhi di Pete lucidi, arrossati e un po' gonfi; le ciglia, così umide, sembravano più scure e più lunghe del solito: Briz lo trovò comunque meraviglioso.
Purtroppo, o per fortuna, Pete le lasciò la mano e fece un passo indietro, incamminandosi poi verso l'uscita del parco; a lei non restò che seguirlo, ma si sentì libera di prenderlo sottobraccio, cosa che lui accettò con naturalezza.
– Senti… so che tuo padre si chiamava William… e tua madre, invece? – gli chiese, per rompere quel silenzio.
– Elizabeth. Elizabeth McBride, ma la chiamavano quasi tutti Liz.
– È un bel nome, dall'aria un po' antica…
– Disse quella che si chiama Cuordileone!
– Già, ma nella mia famiglia i nomi altisonanti si sprecano. Pensa che mio nonno materno apparteneva a una nobile e antichissima famiglia toscana, di cui non resta più nemmeno il nome, visto che mia mamma era la sua unica figlia, l'ultima discendente: si chiamava Serena Monforte di Roccabruna. Quanto al nonno, con un cognome così, si è ritrovato a portarsi addosso un nome come… Alberico.
– Wow! Quello di mia madre è niente, al confronto. I nomi dei tuoi famigliari sembrano quelli dei protagonisti di una saga medievale: dame, cavalieri e soldati di ventura.
– Vero? L'ho sempre pensato anch'io. E come se non bastasse, la mamma ha finito per sposare Andrea Valentino Cuordileone; non aggiungo altro. E adesso voglio sapere come ti chiami di secondo nome.
– Come sai che ho un secondo nome?
– Quasi tutti gli americani ne hanno uno: Tom si chiama Matthew, no? E sul calendario dei turni di guardia sei registrato come Peter J. Richardson. Quella J. vorrà pur dire qualcosa: James, Joshua, Jeremy, o che so io…
– Nessuno di questi: mi chiamo Jonathan.
– Wow, bello! Come “Il gabbiano Jonathan Livingstone”: sa di avventura.
– Beh, di certo quella non ci manca. E tu ce l'hai un secondo nome, Fabrizia Cuordileone?
– Certo che sì, anche se in Italia raramente il secondo nome viene registrato all’anagrafe. Ho un nome da principessa, ovviamente: quello della “Bella Addormentata nel Bosco” di Walt Disney.
– Aurora… Dici sul serio? Effettivamente è proprio… fiabesco, anche se devo dire che…
Briz terminò per lui: – …che proprio per questo non si addice a una bestiola selvatica come me, vero?
– No, perché? È solo che tu sei bella, ma addormentata nemmeno un po'! Né nel bosco, né da qualche altra parte!
– Uhmm… è un complimento, o che? – fece lei indecisa, arrossendo.
Pete si fermò, anche perché erano arrivati alla moto, e le rispose in tono noncurante:
– Boh, fai tu. Per quanto, la bestiola selvatica, col bosco, sposa abbastanza bene.
– Andava proprio detto… – bofonchiò Fabrizia.
Stava per rispondergli qualcosa di pungente, ma ci ripensò, gettandogli un'occhiata di sottecchi: Pete aveva ancora gli occhi segnati e irritati, stava passando un gran brutto momento; tuttavia, si stava sforzando di scherzare con lei.
– Come ti senti? – gli chiese, osservandolo mentre si toglieva di tasca la chiave della moto.
– Ho gli occhi che bruciano, il naso chiuso e un mal di testa micidiale. A parte questo… tutto sommato mi sento uno schifo, grazie – ammise lui.
Briz assentì, con gli occhi bassi; poi gli si avvicinò e, con un gesto repentino, gli tolse di mano la chiave.
– Che diavolo fai?
– Guido io!
Pochi secondi ed era a cavallo della moto, il casco in testa e la chiave nel quadro; a Pete, allibito, non restò che infilarsi il casco e salire dietro di lei. Bene: se Briz avesse guidato molto male, allora l'avrebbe stretta più forte, decise cingendole la vita sottile con le braccia.
Nel giro di due minuti, Pete aveva appurato che stringerla fosse sicuramente una buona idea: non perché guidasse male, anzi, era uno spettacolo e se la cavava più che bene! L'unica cosa che sperava era di non incappare nella Polizia, perché Briz andava sparata, divertendosi un mondo! E anche lui si stava divertendo tantissimo, doveva ammetterlo, pur essendo la prima volta in vita sua che, in moto, faceva il passeggero e addirittura con una ragazza che guidava!
Quando arrivarono alla base, di fronte alla rimessa, Briz spense il motore, fissò il mezzo sul cavalletto ed entrambi si tolsero i caschi. La ragazza passò la gamba destra sul davanti della moto, rimase seduta di fianco e osservò l’amico; probabilmente era stata una buona idea, guidare lei, perché era evidente che la corsa in moto fosse piaciuta anche a lui: i suoi occhi erano ancora arrossati, ma avevano un'espressione decisamente divertita.
Il dottor Daimonji aprì la porta del retro della base, proprio a ridosso della rimessa, per uscire, ma sentì le voci dei due ragazzi. Indeciso, si fermò e li vide: Pete a cavallo della moto, con una faccia strana, un po'… stropicciata; Fabrizia davanti a lui, seduta di traverso.
Non voleva interromperli, e nemmeno origliare… ma finì per rimanere lì.
– Ti senti ancora uno schifo? Perché capisco di averti un po' scombussolato la vita, oggi – disse Briz.
– Non fartene una colpa, dovrò imparare a convivere con il mio passato in modo un po' meno… devastante. Nessuno mi aveva mai dato una visione dei fatti come quella che mi hai dato tu.
– Grazie tante, non ci voleva molto: sono l'unica a cui li hai raccontati, i fatti!
– E Dio solo sa il perché! – esclamò Pete alzando gli occhi al cielo; poi proseguì, cambiando discorso: – Avrei dovuto immaginarlo, che la moto la sapessi guidare, e anche bene! Per la pilota di Balthazar, portare questo catorcio è come per Valentino Rossi guidare un triciclo!
– Ritiro: non è un catorcio, l’hai tenuta benissimo e si guida una meraviglia. Avevo solo bisogno di una scusa per non salirci, ma ho cambiato idea. Certe cose vanno esorcizzate, in qualche modo.  
– Con chi andavi in giro in moto? Con Diego?
– Ma che palle, la pianti di tirare fuori Diego ogni due per tre? Io e Alessandro ne avevamo una: a sedici anni abbiamo preso il patentino e andavamo spesso in giro insieme. Dopo che è morto, non ci sono più salita, non ne avevo il coraggio; così l'ho regalata alla figlia di Filippo, il mio vicino.
– Così anche tu, oggi, hai finito per fare qualcosa che non facevi più da un pezzo.
– Io non andavo in moto da due anni e mezzo, tu non piangevi da otto! Credo proprio che sia andata meglio a me: io almeno mi sono divertita! Tu un po' meno, mi sa.
– Già…  Ehi, aspetta! – esclamò all’improvviso – Hai preso il patentino a sedici anni? Ma a quell’età si prende per la cilindrata 125! Questa è un 600! Hai guidato senza patente?  
– Oops! – fu l’unica risposta di Briz.
– Ma quanto sei pazza, da uno a dieci?
– Boh… dodici, tredici… fai tu. Ti immagini? La pilota di Balthazar che si becca la multa perché guida senza la patente giusta!
– Ma cosa devo fare, io, con te? – le disse con un mezzo sorriso, scuotendo la testa e abbassando la voce, prima di accarezzarle lievemente il volto.
Piegò appena la testa di lato, avvicinandosi, ma Briz, all'ultimo momento, girò bruscamente il volto dalla parte opposta: le labbra di Pete incontrarono solo la pelle liscia della sua guancia. Lei lo respinse con una mano sul petto, anche se con una certa gentilezza, e scese dalla moto.
– Piantala, dai… anche stamattina ci hai provato, a fare il bietolone con me: non voglio baciarti.
– Sicura? – disse Pete, scendendo anche lui dalla Yamaha.
– Sicurissima, bel presuntuoso, sono cose che tra noi non hanno ragione di essere. Sono stufa di giocare: il fatto di, eventualmente, desiderare qualcosa, per gioco o per sfizio, non significa sempre che sia giusto farla. Da non crederci! Devo essere proprio io a insegnartelo?
Pete sospirò, sentendosi vagamente sconfitto, ma le fece un lieve sorriso stanco.
– Hai sempre una risposta per tutto, ma hai ragione.
– Sì, capita spesso che sia così – gli rispose lei allegramente, con una cameratesca pacca sul braccio a mo' di saluto – Grazie per aver pagato il veterinario, e per il giro in città… e avermi fatto guidare la moto…
– A te, fanciullina, per tutto… anche se di piangere avrei fatto a meno. E comunque, per la cronaca, volevo baciarti davvero sulla guancia, solo per ringraziarti.
Briz lo guardò perplessa, con la sensazione di aver fatto l'ennesima figura del cavolo.
– ‘key… – biascicò, voltandogli le spalle per dirigersi verso l'entrata della base; lui la richiamò.
– Fabrizia!
– Che c'è ancora? – fece lei, girandosi a guardarlo.
– Io sono uno stronzo bastardo, non innamorarti di me: non voglio spezzarti il cuore.
Fabrizia non riusciva a credere alle proprie orecchie; cosa avrebbe mai potuto rispondere a una frase così? “Troppo tardi, già fatto”? Decisamente no. Era ovvio che lui stesse scherzando, così scoppiò in una risata allegra, copiandogli la battuta di quel pomeriggio:
– Richardson, ma tu ci studi anche sopra, per tirare fuori queste bischerate? Perché puoi fare a meno, fidati! E… te l’ho già detto, vero, che sei un presuntuoso?
– Sì, me lo hai detto: poco fa e anche altre volte – rispose lui, sollevato da quella risposta.
– E poi lo sai, – aggiunse lei più seria – me l'hanno già spezzato, il cuore: ho già dato – finì, voltandosi per entrare.
Per poco non si scontrò con il dottor Daimonji appena uscito che, da attore consumato, finse di essere arrivato lì in quell'attimo.
– Ehi, ragazzi, tutto bene? Pete, che ti succede, hai avuto un attacco di allergia al polline?
– Hmm, sì, una specie… – rispose lui, sfregandosi gli occhi, non sapendo se arrossire o mettersi a ridere.
– In realtà, è stato più un problema di rubinetti rotti – commentò Briz, senza pietà.
Doc decise di non infierire: qualcosa capace di far piangere Pete, doveva essere quanto meno eclatante, ma, dai discorsi che aveva udito, poteva immaginare che l'argomento fosse stato il naufragio in cui avevano perso la vita i suoi genitori. Aveva sempre pensato che solo Briz potesse riuscire a tirargli fuori qualcosa e, a quanto pareva, non si era sbagliato.
– Beh, capitate a fagiolo – disse, cambiando argomento – Volevo dirvelo da un po', ma non mi è mai capitata l'occasione, in questi ultimi tempi così difficili. So che ultimamente gli eventi non vi hanno più consentito di passare insieme molto tempo, come vi avevo costretti a fare, ma direi che ormai ho ottenuto quello che volevo: mi sembra che siate riusciti a costruire un rapporto decente, quindi siete sciolti dall'obbligo di frequentarvi per forza.
Due occhi azzurri e due verdi lo fissarono, sgranati e increduli: Fabrizia e Pete si guardarono per qualche istante con un'espressione ancora più sconcertata, prima di tornare a guardare lui.
– V-vuol dire che… non dobbiamo più passare insieme… – cominciò Briz.
– …il nostro tempo libero? – concluse Pete.
Doc non si stupì più di tanto di quella reazione e si affrettò a correggersi, in tono piuttosto burbero, come se si stesse rivolgendo a due bambini un po’ tardi:
 – Ho detto che non siete più obbligati, non che non potete passare del tempo insieme se ne avete voglia!
L'espressione di sollievo e il sospiro che i due mollarono quasi all'unisono, furono davvero divertenti. Doc scosse la testa facendo il sostenuto e, trattenendo una risata, si diresse nel garage, dal quale uscì pochi secondi più tardi, al volante di una jeep.
– A volte Doc mi preoccupa – fece Pete, grattandosi la nuca e osservando l'auto che si allontanava.
– Lui preoccupa te? Io credo che siamo noi, tutti quanti intendo, a far diventare matto lui! Sai, penso che Doc veda, in ognuno di noi, i figli che non ha avuto… Senti, – disse poi Briz all'improvviso, in tono leggero – Vieni su da me, stasera intorno alle undici e mezzo.
Pete la fissò, basito.
– Prego? Mi hai appena detto di venire nella tua stanza di notte? Dopo tutte le storie che hai fatto per un bacetto? Ma guarda che sei un bel fenomeno!
– Cribbio, Pete! Ma perché voi maschi non avete un po' di elasticità mentale? I vostri pensieri vanno sempre a battere . Cosa credi, che voglia sedurti, dopo quello che ci siamo detti poco fa? È solo una questione di… fuso orario.
– Fuso orario? Sei davvero delirante!
– Sì, ormai me lo avrai detto un milione di volte! Alle undici e mezzo, allora. Non ti salterò addosso, promesso, anche perché a mezzanotte comincio il turno di guardia e non ci sarebbe il tempo: non amo le cose frettolose – concluse, con un ghigno malizioso.
– Altro che fuso orario… qui l'unica cosa fusa sei tu! – commentò lui, sarcastico.
– E anche questa non è una novità. Fidati di me, ti aspetto.
In pochi istanti, Briz era sparita dietro la porta; per un attimo Pete pensò: "Alleluja, che silenzio!"
E poi, subito dopo, si sentì quasi sopraffatto da un inquietante senso di solitudine.

> Continua…




Note dell’autrice:
Siete padronissimi di non credermi, ma il nome del nonno di Briz è un omaggio al mio nonno: si chiamava davvero Alberico, classe 1911, ed era Capitano di Cavalleria. E non è nemmeno l’unico nome strano, nella mia famiglia: il fratello del nonno si chiamava Ignazio, ho uno zio Tarcisio e avevo una zia Stanislaa, una bisnonna Doralice e una trisnonna Prasséda (sì, sì: proprio Prasséda, non Prassede).
Quanto ad Aurora e Jonathan… non sono miei avi, come Alberico, ma miei discendenti. Da quando li ho partoriti, mi hanno sconvolto la vita. Ma questo è un altro discorso…

Grazie come sempre a tutti e… ma secondo voi, ci va davvero, Pete, nella stanza di Fabrizia all’ultimo piano, dove alloggiano le ragazze? Prima di mezzanotte? A fare che? Non siete un po’ curiosi? Dai…

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Capitolo 24
*** 23- Un passo avanti e due indietro... ***


~ 23 ~ 
UN PASSO AVANTI E DUE INDIETRO…
 

 
Quando Pete uscì dall'ascensore, all'ultimo piano degli alloggi, si guardò intorno: non era mai stato lassù, ma sapeva che le tre ragazze avevano battezzato il loro piano La piccionaia. Erano le undici e venticinque, constatò con un'occhiata all'orologio; si avvicinò alla porta di fronte, quella di Briz. Se qualcuno lo avesse beccato lì, a quell'ora… non voleva nemmeno pensare alle conseguenze: quel piano era off-limits per i ragazzi, Doc lo avrebbe come minimo destituito! Fece per bussare, ma si accorse che la porta scorrevole di metallo era accostata.
– Briz, posso entrare? Sei presentabile? – chiese, affacciandosi.
– Ehi, sei già qui! Vieni, entra – biascicò lei, facendo capolino dalla porta del bagno con lo spazzolino da denti in bocca.
Pete diede un'occhiata alla stanza, che in realtà era quasi un piccolo monolocale, in cui trovavano posto un tavolo con un paio di sedie, un divano e un angoletto cucina. La zona giorno era separata da quella notturna da una libreria a cubi, dietro alla quale Pete intravide un letto a una piazza e mezzo, coperto da una trapuntina leggera a quadri coloratissimi.
– Perché tu hai un letto così grande? E una stanza, così grande, se è per questo! Noi ragazzi abbiamo alloggi molto più limitati e spartani.
Briz uscì dal bagno con addosso la tuta nera dell'uniforme e ai piedi un paio di calzini di spugna color verdino fluo, scuotendo i capelli ancora un po' umidi e spandendo fresco profumo di biancospino dappertutto.
– Voglio sorvolare sul fatto che la prima cosa che hai notato è stata il letto. Per il resto posso dirti che, a volte, appartenere al cosiddetto sesso debole ha i suoi vantaggi – gli spiegò, in equilibrio su una gamba per infilarsi uno stivale.
– Bene, appurato che non mi vuoi davvero saltare addosso, visto che ti stai vestendo e non il contrario, mi dici che ci faccio in camera di una bella ragazza a quest'ora di notte?
Briz, infilati entrambi gli stivali, si sedette al tavolo e, con un indice alzato e un’occhiata eloquente, lo invitò ad avere pazienza. Per qualche minuto trafficò col suo PC portatile, il cui monitor Pete non poteva vedere, poiché le stava davanti. Gli disse di accomodarsi e lui obbedì, afferrando la sedia che era lì accanto, sedendosi di fronte a lei e osservandola curioso: ed ecco un'espressione soddisfatta e un ampio sorriso aprirsi sul volto della ragazza.
– Ciao, fratellino! – esclamò lei, salutando qualcuno che era apparso sul monitor – È tutto okay?
– Tutto benissimo! Lui è già arrivato? – rispose una voce, resa un po' metallica dall'altoparlante del computer.
– È qui: è tutto tuo! Ciao, bellissimo, un bacione, e salutami Jessica!
Briz girò il portatile verso Pete che, col cuore in gola, ascoltando quelle poche battute, aveva comunque già fatto due più due: fuso orario; fratellino; Jessica. 
Era vero che non avrebbe saputo cosa aspettarsi da quello strano invito, ma di certo non questo: a fissarlo dal monitor, con un sorriso allegro, c'era suo fratello Tom.
– Ciao, big brother, stai bene? Mi sembri un po'… non so… sottosopra!
– Gesù, Tom, che bello vederti! Ma dove diavolo sei?
– In Italia, in un paesino in mezzo alle colline dell'Appennino Tosco-Romagnolo: praticamente a casa della nostra amica Briz. Sono ospite di Anita e Filippo Del Rio, e studio all'università di Bologna insieme a Jessica, la loro figlia. Qui sono circa le due e mezzo del pomeriggio, per questo Briz ti ha convocato a quest'orario, come dire, un po' equivoco. Ma lì nella sua stanza nessuno penserà di venire a scocciarti, così ci facciamo due chiacchiere in pace. Se ti va, beninteso.
– E come potrebbe non andarmi? Da quando te ne sei andato le ho rotto l'anima per mesi, perché mi dicesse dove fossi! È evidente che oggi ho fatto o detto qualcosa per cui devo essermelo meritato!
– Pete, lo sai bene che lei te lo avrebbe detto molto prima e che, a un certo punto, sono stato io a dirle, anzi diciamo ordinarle, di non farlo. Sei consapevole di non essere stato molto ospitale, vero, l’ultima volta che ci siamo visti là, a luglio scorso? Ma stamattina, cioè quando era mattina qua, intendo, e da voi doveva essere circa l’ora di cena, mi ha telefonato ed è stata categorica: io e te dovevamo vederci! E ho pensato che sì, fosse proprio ora di parlare un po’, io e te.
Pete distolse un attimo lo sguardo da Tom e lo portò su Fabrizia, che si stava allacciando il giubbotto viola della divisa raggiungendolo poi davanti al computer.
– Ehi, Tommy, – disse lei, chinandosi all'altezza del monitor e mettendo un braccio sulle spalle di Pete – potresti trovarlo un po' cambiato, il tuo fratellone. Naturalmente in meglio, cosa per la quale non ci voleva molto; non farci troppo caso se lo vedi commuoversi e aprire i rubinetti.
– Senti un po', ho mollato due-tre lacrime e adesso devi mettere i manifesti? – brontolò Pete.
– Seh, due-trecento, semmai! È tuo fratello, Pete: puoi dirgli tutto quello che vuoi. È cresciuto e ha imparato la lezione anche lui, che credi? – poi aggiunse a voce bassa, vicino al suo orecchio – E a parte Doc oggi pomeriggio, che tanto lo aveva capito da solo, ti giuro che non l’ho detto, e non lo dirò mai, a nessun altro, che hai pianto.
Fece per sollevarsi e andarsene, ma Pete la trattenne, il volto a pochi centimetri dal suo.
– Grazie, fanciullina – le disse, incurante del fatto che Tom li vedesse sul proprio computer.
– Ehi, mi sono perso qualcosa? – chiese infatti il ragazzo, curioso e divertito.
– Niente che tu non sappia già – esclamò Briz, raddrizzandosi e lasciando scivolare la mano attraverso le spalle di Pete, mentre si allontanava.
Di fronte alla porta si fermò e si girò, guardando l'amico con un sorriso ironico.
– Pete… non innamorarti di me: ti sto aiutando a sciogliere il tuo cuore, ma non voglio spezzarlo.
– Colpito – sospirò lui, con un sorriso dello stesso tipo.
– Stai quanto ti pare, e ricordati di spegnere il computer e chiudere la porta, quando te ne vai. Ciao, Tommy, ci sentiamo presto, io e te! – concluse, posando la mano sullo scanner apriporta e uscendo.
– Ma che sta succedendo? – chiese Tom – Ti ha detto davvero di non innamorarti di lei? Voglio dire… chiacchieriamo parecchio, io e Briz, ma non mi ha mai accennato che voi due…
– Naah, è solo un gioco tra di noi, lascia perdere. Dimmi di te, forza, futuro dottor Richardson.
Mentre ascoltava il fratello parlargli del proprio percorso di studi, un ultimo pensiero gli scivolò attraverso la mente: “Non innamorarti di me”. Lui, quella frase, l'aveva detta per scherzo, a Briz, e lei, come al solito, gliel'aveva rispedita al mittente. 
Si ritrovò a pregare Dio che fosse davvero solo uno stupido gioco tra due sciocchi, che erano riusciti, con fatica, a diventare amici.
 
* * *


Le sei e diciotto minuti del mattino; Fabrizia si diresse all'ascensore e salì all'ultimo piano: era stanca, dopo la nottata di guardia durante la quale, per fortuna, non era accaduto nulla d'insolito.
Ripensava ancora a quanto strana fosse stata la giornata precedente, cominciata con una mattina movimentata – tra aitanti veterinari e telefonate di ex fidanzate – un pomeriggio che aveva rasentato la commedia drammatica, e una serata quasi surreale, con Pete nella sua stanza a parlare con Tom via computer.
Non aveva idea di che ora avessero fatto i fratelli Richardson a raccontarsi le loro vite, sapeva solo che aveva senz'altro fatto bene a entrambi, e che sicuramente, da ora in avanti, si sarebbero parlati spesso.  
Per quel che la riguardava, in quel momento voleva solo raggiungere il letto e dormire il sonno dei giusti.
Entrò nella sua stanza e, chiudendosi la porta alle spalle, notò che il computer non era più sul tavolo. Ma dove diavolo…! Poi, avvicinandosi, scoprì dove fosse: sul divano, accanto a Pete che, disteso su un fianco per quanto era lungo, i capelli sugli occhi, se la dormiva della grossa!
Briz si sentì assalita da un'ondata di tenerezza: eccolo lì, l'intrepido e algido pilota del Drago Spaziale, addormentato come un bambino. Per un attimo il desiderio di togliere il computer, sul quale il ragazzo teneva una mano, e prendere il suo posto sdraiandosi accanto a lui, le fece provare un brivido; volendo, il posto ci sarebbe anche stato…
Il buon senso ebbe la meglio: tolse il computer, ma sul divano ci si sedette soltanto.
Le dispiaceva svegliarlo, ma aveva bisogno di andare a dormire, e non avrebbe chiuso occhio, sapendolo lì, a pochi metri da lei. Allungò una mano e gli spostò i capelli dalla fronte, senza riuscire a fare a meno di soffermarsi con lo sguardo sui suoi occhi chiusi, sulle lunghe ciglia che ombreggiavano gli zigomi, sulle labbra perfette appena dischiuse… Avrebbe fatto o dato qualunque cosa, pur di vederlo felice.
Dio, com'era possibile che si fosse innamorata fino a quel punto?
Ecco! La sua mente aveva di nuovo formulato la parola proibita, che le faceva tanta paura… E stare lì, a rimirarselo mentre dormiva, non era certo il sistema migliore per farsela passare… cretina al cubo, proprio!
Pete si mosse, avvertendo il suo tocco, e mugugnò qualcosa di incomprensibile; aprì gli occhi e si guardò intorno spaesato, come chiedendosi cosa ci facesse lì, poi la vide e ricordò la stranissima giornata precedente.
– Briz? Ma non avevi il turno di guardia, stanotte?
– L'ho appena finito, Bell'Addormentato sul divano: sono le sei e mezzo del mattino.
– Per la miseria, sono proprio crollato. Scusami – disse, ancora intontito, mettendosi a sedere.
– E di che? Ieri mattina tu hai beccato me, giù alle scuderie, che sembravo Yoghi a mezzo inverno.
– Sì, ma appunto, tu non eri nella mia stanza!
– Dettagli. Avete chiacchierato tanto, tu e Tom? – gli chiese, togliendosi gli stivali.
– Un sacco! Di lui, dell'università, di te, della guerra. E anche… di quella maledetta notte del naufragio. Hai ragione, il mio fratellino sta davvero diventando grande… mi ha detto, più o meno, le stesse cose che mi hai detto tu. Non puoi immaginare come mi sia sentito, a un certo punto sembrava che il fratello maggiore fosse lui… – rispose Pete, strofinandosi gli occhi assonnati.
– Ti giuro che non gli avevo raccontato nulla, di quello che ci siamo detti io e te al parco.
– Lo so, tranquilla. E comunque, mi sono dato dello scemo ancora una volta. Non che potessi sfogarmi con Tom, allora: aveva solo tredici anni, ma forse, qualcun altro con cui aprirmi e raccontare quello che provavo, probabilmente ci sarebbe stato. E magari avrei avuto le stesse risposte, ma al momento giusto; e avrei avuto modo, nel tempo, di mantenere un legame più stretto con Tom in ogni caso…  
Briz capì che aveva pensato anche a come aveva lasciato Tracy, la sua prima fidanzatina.
– Tom mi ha anche fatto conoscere Anita, Filippo e Jessica: sono una bella famiglia, sono contento che Tom stia da loro – aggiunse Pete.
– Che te ne pare di Jessie Del Rio?
– Ragazzina adorabile.
– Guarda che ha diciannove anni; e credo che il caro Tommy se ne sia accorto.
– Beh, i ragazzi Richardson hanno buon gusto, cosa credi? Comunque, a un certo punto mi sono seduto sul divano col computer sulle ginocchia perché stavo più comodo e quando ho salutato Tom erano… tipo le tre, o poco meno! Ho appoggiato la testa all'indietro per un attimo e… paf, sono partito: non mi sono nemmeno reso conto di essermi sdraiato.
Si alzò in piedi, stiracchiandosi e soffocando uno sbadiglio, apparendo, agli occhi di Briz, esattamente quello che era: un ragazzo umano di ventisei anni alle prese con stanchezza e sonno arretrato, molto lontano dal gelido e indisponente capitano che aveva conosciuto quasi un anno prima; la ragazza lo accompagnò fino alla porta.
– A volte le emozioni stancano quanto la fatica fisica, soprattutto se non ci sei abituato.
– Ecco, ho messo insieme anche la filosofa personale: mi mancava. Sarai stanca, vai a dormire anche tu – disse lui, dandole una scompigliata ai capelli.
– Sì, sono stanca, – ammise Briz, cominciando a slacciarsi il giubbotto viola – e se non te ne vai, non posso spogliarmi.
– Perché? A me non dà mica fastidio – scherzò Pete, fermandosi davanti alla porta.
– A me invece sì! Vattene, forza! – lo incitò lei ridendo, mettendo una mano sul dispositivo a scanner e spingendo Pete verso la porta che scivolò di lato.
– Aspetta, e se qualcuno mi becca mentre esco di qui? – chiese lui richiudendo, una mano sopra alla sua.
– Gli dici la verità, no? Lo sanno tutti che ero di guardia, e poi chi crederebbe mai che io e te…
Lui la interruppe, togliendole la mano dallo scanner, girandola verso di lui e appoggiandola al muro; poi mise una mano contro la parete, vicino alla sua testa.
– Che io e te… cosa? – le chiese malizioso – Che poi, sai benissimo che c'è chi ci crederebbe.
– Sì, giusto quell’improbabile romanticone mancato di Yamatake! – ridacchiò lei, cercando di allontanarlo.
Pete non si spostò di un millimetro e Briz fece un sospiro, tra il divertito e l'esasperato, tentando di nascondere il battito furioso del proprio cuore: a quanto pareva, si ricominciava.
– E va bene, vuoi giocare? Se è un bacio che vuoi, allora prenditelo e facciamola finita! Io sono qui – disse, raddrizzando le spalle e guardandolo con aria di sfida.
Pete fece un mezzo sorriso e avvicinò appena il viso a quello di Briz, ma dopo un attimo di indecisione si tirò indietro e scosse appena la testa, sorridendo.
– Oh, no, non così, mi sembri una vittima sacrificale pronta a immolarsi. Facciamo come abbiamo detto l'altra volta: se mai ti verrà davvero voglia di un bacetto, deciderai tu e fine.
– Aspetti un pezzo, allora – disse sottovoce Briz, sentendosi un po' sollevata, un po' divertita e un po' delusa.
Pete le riprese la mano, gliela mise sullo scanner e fece aprire la porta; lanciò una rapida occhiata all’atrio deserto e le mollò sulla bocca chiusa un bacio improvviso e sgarbato. Briz subì quel breve contatto tenendo le labbra serrate, gli occhi spalancati e le braccia lungo i fianchi, ostentando rassegnazione, come se stesse accontentando un bambino insistente.
– Finito? – chiese, indifferente, quando lui si staccò, dopo un paio di secondi, e sorprendendolo scoppiando in una risata – Richardson, sai una cosa? Hai ragione: tu sei davvero uno stronzo bastardo!
– Sì, ne sono consapevole: lo sai che non ho l’abitudine di mentire.
– E adesso chi è l’incoerente? Prima mi rifili cretinate come “Non ti innamorare di me” e dici che, se mi verrà voglia, deciderò io se baciarti o no, poi riprendi con questi giochetti del ca… del cavolo.
Pete le accarezzò una guancia: – È vero, mi diverto a prenderti un po’ in giro, lo ammetto, perché so di poterlo fare: sei sveglia a sufficienza per non innamorarti d’un figlio di puttana del mio stampo. Tranquilla, fanciullina, sai che certi limiti, con te, non li passerei mai; sei davvero mia amica, la prima da un mucchio di tempo…
– Da Miglior Nemica a Migliore Amica… Ah, son progressi, non c’è che dire! Dai, va’ via, che qui non siamo tanto a posto, né tu, né io; la stanchezza ci dà fastidio, mi sa! – replicò ridendo e spingendolo fuori.
Lui attraversò in poche falcate il pianerottolo e raggiunse l'ascensore, lanciandole uno scanzonato occhiolino prima di sparire dietro le porte scorrevoli.
Briz sollevò gli occhi al cielo, a metà tra il frustrato e il sollevato.
Tornò nella sua stanza, si appoggiò alla porta dopo averla richiusa e mollò un sospiro; si tolse il giubbotto, lo lanciò attraverso il soggiorno facendolo atterrare in un mucchietto viola tra il divano e il pavimento e, sbuffando, si lasciò cadere bocconi sul letto, coprendosi la testa con il cuscino.
"Ecco, fanciullina, sei contenta adesso? Una friendzonata ufficiale e con tutti i crismi! Dopotutto era questo, che volevi, quindi guai a lamentarsi, eh?! E adesso dovrei pure dormire? Bah!”
 
* * *
 
Midori salì lentamente la lunga scala a chiocciola che portava in cima al faro: uscì sullo stretto ballatoio che circondava la parte alta della struttura e si appoggiò coi gomiti alla ringhiera di metallo, godendosi la brezza salmastra che spirava dal mare.
Era appena passata la metà di marzo, ma l’aria era tiepida come a primavera inoltrata, anche a quell’ora di notte. Era stato l’anno più strano che ricordasse, in fatto di fenomeni atmosferici: prima l’inverno con tanto di neve, ora questa primavera particolarmente calda. Ma tanto, si disse, non c’era più niente di normale nelle esistenze di chiunque, ormai.
Il suo rapporto con Sanshiro, a tutt’ora non aveva fatto un mezzo passo avanti. Andava detto che dai primi dell’anno non c’era stato respiro, e di tempo da passare insieme, loro due, ne avevano avuto veramente poco; senza contare i momenti di sconforto e pesante stanchezza, durante i quali quasi tutti avevano avuto bisogno solo di riposo e calma.
Ma erano ormai diverse settimane che rimuginava su ciò che Fabrizia le aveva detto più di due mesi prima, la sera della vigilia di Natale. Le sfuggì un sorriso tirato; la sua amica, secondo il suo parere, era la classica persona che predicava bene e razzolava male: sapeva dare ottimi consigli agli altri, ma quando si trattava di lei tendeva a non capire un emerito niente. In ogni caso, Midori si ritrovava da un po’ a pensare che fosse ora di dare una svolta a questa situazione di stallo fra lei e Sanshiro: si era resa conto da un pezzo che una passeggiata ogni tanto sulla spiaggia mano nella mano, o rubarsi un paio di baci infuocati quando si incrociavano in un corridoio deserto o nell’ascensore, cominciavano ad essere quelle sciocchezze da adolescenti che a Sanshiro non bastavano più. E a dire il vero, nemmeno a lei.
Fabrizia aveva dannatamente ragione: erano in guerra, okay, ma proprio per questo c’erano cose che, probabilmente, non era il caso di perdersi. Era vero, lei soffriva ancora di quello strano senso di non appartenenza che aveva sempre percepito, ma i rari momenti in cui quella sensazione si attenuava, erano proprio quelli che passava con il pilota del Gaiking. Non si sentiva ancora pronta ad ammetterlo, soprattutto con lui, ma forse, per la prima volta in vita sua, era davvero innamorata.
Sentì dei passi giungere alla fine della scala a chiocciola, e si voltò. Come evocata dai suoi pensieri, la sagoma di Sanshiro si materializzò nella semioscurità, e Midori si chiese se non fosse un segno del destino.
– Ehi, non pensavo di trovarti qui – le disse lui avvicinandosi, le belle labbra tese in un sorriso.
– Voglia di qualcosa di bello – commentò lei, facendo un cenno verso il cielo stellato.
– Anch’io, e a quanto pare ne ho trovato più di quanto ne cercassi.
Allungò una mano ad accarezzarle una guancia, e Midori si accostò di quel passo sollevando il volto verso di lui, in un tacito invito. Le loro labbra si cercarono dapprima con dolcezza, per poi lasciarsi trasportare da una passione che Midori non ricordava di aver mai provato: sembrava quasi che Sanshiro le avesse letto negli occhi i pensieri di poco prima. Soffocò un gemito di soddisfazione contro la bocca imperiosa di lui e si abbandonò ai suoi baci roventi: gli cinse il collo con le braccia e si sentì sospingere contro la parete alle sue spalle. Non sapeva cosa diavolo stesse prendendo a tutti e due, ma una cosa era certa: non era in grado di respingerlo, e nemmeno lo voleva. Gli infilò le dita di una mano tra i capelli scuri, facendogli capire che non doveva staccarsi, non doveva smettere, non doveva andarsene…
Non che a Sanshiro fosse passato per la testa niente del genere, ma la risposta della ragazza un po’ lo stupì: non era mai stata così arrendevole, e allo stesso tempo così… provocatoria. Quella reazione travolse i suoi sensi: avvertiva ogni curva del corpo di Midori aderire al proprio, come non era mai accaduto prima, e si ritrovò a schiacciarla più forte tra lui e la parete. Le prese un polso e le sollevò il braccio, appoggiandole il dorso della mano al muro, premendole il palmo contro il suo e intrecciando le loro dita.
 
Sanshiro-Midori-Faro 
 
L’altra mano del giovane partì, come dotata di vita propria, dal fianco di lei fino a raggiungere un seno sul quale si posò con delicatezza… e lei non lo scostò.  
Midori sentì le labbra di Sanshiro staccarsi dalle sue e lasciarle una traccia umida fin sotto l’orecchio, per poi scendere lungo il collo, strappandole un fremito. E lui si sentì bruciare, quando la mano libera della ragazza gli si infilò sotto la felpa e la maglietta, scivolandogli leggera sulla pelle della schiena. Midori si ritrovò a sollevare appena una gamba, strusciandola e avvinghiandola a quella di Sanshiro, premendosi di più contro di lui.
La mano del giovane lasciò la morbida rotondità che stava accarezzando, scese fino all’orlo della camicetta e si intrufolò al di sotto, alla ricerca della pelle calda e, risalendo nuovamente, sentì sotto il palmo il pizzo del reggiseno… e lei ricominciò a baciarlo.
Staccarsi dalle sue labbra fu una fatica immane, quanto togliere la mano da sotto i suoi vestiti, ma a un certo punto Sanshiro si sentì costretto a farlo.
– Dori, io… ma… che ti succede? – le chiese, ansante, senza lasciarla andare, il volto tra i suoi capelli.
– Non lo so… So solo che… non avevo mai provato niente del genere.
– Stai dicendo che non hai mai… – cominciò lui, poi si interruppe: gli dispiaceva imbarazzarla.
– Fa ridere, vero? Una ragazza di ventitré anni ancora vergine. Credo che siamo davvero poche.
– Guarda che la cosa non mi fa né ridere, né paura. O… sei tu, ad essere spaventata?
– No, non lo sono, non da te. Ho avuto un paio di storielle, quando andavo all’università, ma per qualche motivo non… non so, non sono mai riuscita a… ad andare oltre. 
La voce le tremò appena, mentre gli accarezzava una guancia e si perdeva nello sguardo vellutato di lui.
– Dori, tranquilla, non ci andiamo stanotte; oltre, intendo. Fra venti minuti devo essere in turno di guardia – precisò rassegnato, ma senza sciogliere il loro abbraccio.
Midori si strinse contro di lui, la guancia contro la sua spalla, mentre lui le accarezzava i capelli ed entrambi cercavano di riprendere il controllo dei loro cuori impazziti.
– Mi sento davvero inadeguata – gli sussurrò dopo un po’ – Io sono una sprovveduta, ma tu…
– Io… cosa?
– Ma dai, non lo immagini? Un campione sportivo, famoso e bello… chissà quante donne hai avuto ai tuoi piedi… e nel tuo letto!
– Ai miei piedi non lo so; nel mio letto… una – ammise, senza problemi.
– Una sola? Non ci credo.
– Che motivo avrei per mentirti? Una. È stata la mia ragazza per diversi anni, poi abbiamo capito che non eravamo più fatti l’uno per l’altra e, un paio di anni fa, siamo andati ognuno per la propria strada. Fine: niente di tragico, nessun segreto, nessun mistero.
Midori sorrise e si lasciò sfuggire un lieve ansito, e Sanshiro si chiese se fosse di sollievo o di frustrazione, per il fatto di doversi separare di lì a pochi minuti; ma il modo in cui lei lo baciò, gli fece propendere per la seconda opzione.
Un trillo insistente li riscosse dal caldo sconquasso che stava tornando ad assalirli.
– Maledizione… – imprecò Sanshiro, scostandosi appena da lei e pescando il cellulare dalla tasca dei jeans.
– C… chi è, a quest’ora? È quasi mezzanotte – si lamentò Midori.
– Eh, appunto, non è nessuno: è solo la sveglia che mi avverte che… devo andare – sospirò rassegnato – E per fortuna che l’avevo puntata, perché questo… fuori programma, stava davvero per farmi dimenticare tutto.       
– Già, non è stato male, come fuori programma. Dovremo riparlarne, quando avremo più tempo…
– Assolutamente sì – convenne Sanshiro, attardandosi qualche altro prezioso istante sulle labbra della ragazza, prima di risolversi, molto a malincuore, a lasciarla.
– Forza vai, ora, o farai tardi – lo esortò lei sottovoce.
Sanshiro le lasciò un ultimo lieve bacio sulla guancia e infilò la scala a chiocciola; Midori sospirò e si riappoggiò alla ringhiera, guardando il riflesso del quarto di luna sulle onde che, in lontananza, si infrangevano sulla riva.
Aveva ancora il cuore in tumulto e il volto in fiamme, e uno dei suoi mal di testa che se ne stava in agguato dietro alla fronte. Era da un po’ che soffriva di cefalee improvvise e inopportune, delle quali incolpava la tensione, ma in quel momento preferì concentrarsi su altro.
Se non ci fosse stata la seccatura del turno di guardia, e Sanshiro le avesse chiesto di passare con lui il resto di quella notte, cosa avrebbe fatto? Che domanda del cavolo, non aveva nessun dubbio sulla risposta. All’improvviso le venne in mente che probabilmente era un bene che ci fosse l’impegno di Sanshiro di mezzo: così sui due piedi, avrebbero corso il rischio di dimenticare che prima sarebbe stato meglio prendere qualche precauzione. Guardò l’orologio, e ricordò che a mezzanotte la dottoressa Mori avrebbe iniziato il turno notturno all’infermeria; forse era il caso di fare due chiacchiere con lei. Ridiscese velocemente la lunga scala e si diresse verso l’ambulatorio:  ne avrebbe approfittato anche per chiederle cosa potesse fare, per quei giramenti e dolori alla testa.
Tre quarti d’ora più tardi, Midori uscì dallo studio di Yumiko per andarsene finalmente a dormire. Si toccò distrattamente l’interno del braccio, sopra la piegatura del gomito, dove la pelle bruciava un po’ a causa del contraccettivo a rilascio ormonale sottocutaneoche la dottoressa le aveva impiantato, prima di prescriverle anche un analgesico e alcuni integratori e vitamine, che avrebbero dovuto alleviarle i fastidiosi malesseri che la affliggevano.
Si era appena richiusa alle spalle la porta della sua stanza, felice ed elettrizzata all’idea, nel prossimo futuro, di dare una svolta concreta alla sua storia con Sanshiro, che una fitta in mezzo agli occhi la trafisse, facendola barcollare e mozzandole il respiro. Cadde distesa sul letto, boccheggiando, tenendosi le mani sulle tempie: spaventata, si chiese cosa stesse succedendo. Ultimamente aveva imparato a convivere con il mal di testa, ma un attacco così lancinante non le era mai capitato: era come una lama infuocata in mezzo alla fronte.
Riuscì a buttare giù uno dei calmanti che la dottoressa Mori le aveva dato, e si raggomitolò, gemendo debolmente, finché, con una lentezza esasperante, il dolore cominciò ad attenuarsi, lasciandola spossata a sprofondare in sogni confusi e travagliati.
 
* * *
 
Ora che aveva il contatto, Pete non aveva più bisogno del computer di Briz per parlare con Tom, così lo faceva spesso. Gli spigoli del suo carattere scontroso e solitario avevano cominciato a smussarsi già da diversi mesi, ormai, e se il capitano Richardson era sempre freddo ed efficiente quando si trattava di lavorare e combattere, ora che stava recuperando il rapporto con Tom, e soprattutto il suo affetto, nei rari momenti di tempo libero aveva abbassato un po’ la guardia.  
In realtà rimuginava ancora, e parecchio, sul suo passato, ma non sembrava più così torturato. Quanto ai rapporti con Briz… chi voleva per forza immaginare che tra loro fosse scattato chissà cosa, rimaneva puntualmente deluso. Non litigavano più da un pezzo, e si comportavano come tutti i compagni di battaglia, a volte come i migliori amici del mondo, ma dal loro modo di fare non trapelava nulla di più, anche se Yamatake continuava ad essere il più cocciuto di tutti nel voler vedere a tutti i costi qualcosa… che non c’era.
– Eppure… hanno un modo di guardarsi, di sorridersi – se ne uscì il lottatore un giorno, in sala comune, quando loro non c’erano – Voglio dire… non ci vedrei niente di strano se stessero davvero insieme, è un pezzo che penso che sarebbero una coppia bellissima. Proprio come qualcun altro… – soggiunse, dando un’occhiata a Midori.
Anche Sanshiro l’aveva guardata, lei però aveva distolto lo sguardo.
Il giovane non riusciva a capire cosa stesse accadendo: erano passate un paio di settimane da quella sera sulla balconata del Faro, quando le loro effusioni avevano raggiunto un livello di guardia che definire focoso era poco. In quei momenti Sanshiro avrebbe giurato che la ragazza fosse pronta a un mutamento del loro rapporto, e invece… Midori era improvvisamente cambiata: era diventata più silenziosa, solitaria, quasi tormentata; aveva spesso sul volto un’espressione corrucciata o, in alternativa, quasi assente, e lui aveva la spiacevolissima e tangibile sensazione che lo tenesse addirittura a distanza e lo evitasse. Ma quando le aveva chiesto cosa ci fosse che non andava, lei aveva risposto solo di scusarla, che era stanca e stressata; e di ciò che era accaduto tra loro, non si era più parlato.
La cosa cominciava a stargli stretta dal punto di vista fisico, dopo tutti quei mesi e soprattutto dopo l'episodio del Faro, ma soprattutto gli pesava da quello emotivo. Midori non aveva voluto promesse, tantomeno frasi impegnative, fin dall'inizio, e si era chiesto se per lei non fosse solo un gioco e lo stesse prendendo in giro. Alla fine aveva deciso di darle un altro po' di tempo, pur rendendosi conto che la sua pazienza stava cominciando a scemare: non aveva più l'età per accontentarsi di una storiella fatta solo di baci rubati e senza alcun progetto per il futuro. Tuttavia, era costretto ad ammettere che il futuro fosse una tale incognita, ora, che qualunque progetto sarebbe stato comunque fuori discussione. Però lui era innamorato di Midori, disperatamente; mentre lei non voleva nemmeno sentirselo dire.
Sanshiro cominciava a temere che il discorso cominciato quella sera, su al Faro, non sarebbe mai proseguito.
In quel momento la porta si era aperta, e Sanshiro fu distolto dai suoi pensieri dall’ingresso di Pete e Fabrizia, con lei che, da italiana verace, come sempre gesticolava animatamente, parlando con l’amico di qualcosa che riguardava i cavalli.
– Visto? – era saltato su Yamatake ridacchiando – Sono insieme anche ora! Se fa niente, passano più tempo appiccicati adesso, di quando erano obbligati da Doc!
– Ma… se ci siamo appena incontrati in corridoio! – aveva esclamato Pete – Non diteci che con tutti gli argomenti che avete a disposizione, stavate parlando di noi!
Yamatake si era lasciato sfuggire un mugugno, sollevando le spalle e mostrando i palmi delle mani. Briz e Pete si erano guardati, scuotendo la testa perplessi: a volte i loro amici erano davvero strani!
In quel periodo di relativa calma, il Drago venne potenziato con una nuova arma da sfruttare quando il Gaiking era operativo e la grande astronave si trovava senza testa: una coppia di doppie corna che usciva dal moncone del collo a formare un'altra pseudo-testa che, funzionando come una tenaglia, poteva stritolare un mezzo nemico, ma anche sprigionare un raggio potentissimo in grado di fondere la maggior parte dei metalli.
Anche Balthazar e il Gaiking furono dotati di nuovi congegni: un antiradar, che impediva ai nemici di avvistarli sugli schermi delle loro apparecchiature, e una specie di scudo invisibile che, come un gioco di specchi, quando erano nello spazio ingannava la vista, nascondendoli anche a occhio nudo. E tra i turni, gli impegni vari e la manutenzione dei mezzi da guerra, Pete e Fabrizia non passarono molto tempo insieme, deludendo così le aspettative del loro amico Yamatake.
In seguito, com'era prevedibile, gli eventi insoliti ricominciarono a presentarsi in giro per il pianeta Terra: la tregua finì e si ricominciò a combattere.
Prima ci fu il leone d'oro nel centro dell'Africa nera2, poi le sfere luminose in Texas,3 dopo di che un'avventura contro un'aquila bicefala che si rivelò tratta da un progetto terrestre del recente passato. L'Aquila era stata progettata per difendere la Terra ma poi, alla fine, l'Alleanza Terrestre aveva scelto il Drago Spaziale, e gli Zelani avevano prontamente approfittato del progetto scartato, riuscendo in qualche modo a rubarlo.4
Gli scontri furono faticosi e cruenti, ma furono affrontati con quel coraggio e quel senso di responsabilità che ormai erano diventati parte di loro. Quella guerra era diventata il perno delle vite di ognuno di essi, ma combattere insieme li aveva anche resi forti e uniti: per quanto lunghe, snervanti e violente fossero le battaglie, era anche questo a permettere all'equipaggio del Drago Spaziale di avere sempre la meglio sui nemici.
Durante tutto questo, all'inizio di aprile a Pete era arrivato sullo smartphone un messaggio di Briz, mentre lui lavorava sul Drago insieme a Daimonji, Sakon e Jamilah, e lei era in turno di guardia.
"Un anno", diceva il misterioso messaggio, che aveva dato il via a uno strampalato botta e risposta.
"Un anno cosa?"
"Pensaci: che giorno è?"
"Il 5 di aprile. Quindi?"
"Ripeto: pensaci. Del resto, che potevo aspettarmi da uno che si dimentica pure quando compie gli anni?"
La risposta di Pete aveva tardato qualche minuto, poi, finalmente, ci era arrivato.
"È già un anno che ti sopporto, squinternata?"
"Buon anniversario anche a te, Capitan America! Ti detesto!"
Seguiva una faccina che faceva una linguaccia.
"Lo so. Anch'io!" aveva concluso lui, con un'altra faccina dagli occhi sbilenchi e la bocca storta.
Ecco: questi erano loro due! Alla faccia di ciò che voleva vedere Yamatake!
Poi anche quelle ultime settimane, scandite dagli scontri e dal duro lavoro, erano passate talmente in fretta che si erano ritrovati, verso la fine di aprile, nel mezzo di una primavera calda e rigogliosa, quasi senza rendersene conto.
Pete mise Indy al passo – ormai era abbastanza esperto da uscire da solo anche con il cavallo pezzato, di indole più irruenta e sanguigna –  e anche Atlas rallentò, seguendo trotterellando cavallo e cavaliere, con la lingua penzoloni. Il giovane si chiese dove fosse finita Briz, gli sembrava di non vederla da una vita; si incrociavano nei corridoi della base, a volte si vedevano a cena o a pranzo, insieme a chi non era di turno, ma avendo i turni di guardia e lavoro sempre sfalsati, anche alle scuderie si erano incontrati poco e niente; decisamente era stato un periodo frenetico.
Arrivò all'Albero, che era in piena fioritura, tutto rosa, verde chiaro e argento. E allora li vide, Fabrizia e Fan Lee, in riva al mare: due figure in kimono bianco che si allenavano, stagliate contro l'azzurro cupo dell'oceano.
La prima cosa che il giovane notò, fu che la cintura della ragazza aveva di nuovo cambiato colore. Era la terza volta, da quando aveva cominciato ad allenarsi con Fan Lee, in autunno! Dopo nemmeno un mese, da quella arancione era passata alla verde; a fine gennaio Fan Lee le aveva dato quella blu; oggi Briz sfoggiava una nuova cintura marrone: l'ultimo colore, prima di conquistare quella nera.
La brezza gli portava l'eco dei respiri affannosi dei due atleti, delle loro urla e delle parole che si scambiavano di tanto in tanto.
– Molto bene, Briz, ma voglio più convinzione nei colpi!
– Hai sempre detto che non devo colpire davvero, che devo acquisire l'autocontrollo! E poi… avrei paura di farti male.
– Ah-ah, non farmi ridere! Male a me? I tuoi colpi li paro, se ti scappano, tesoro! – disse Fan Lee con affettuosa ironia – Avanti, chiudi la guardia e concentrati!
Briz fletté le gambe e sollevò i pugni davanti a sé, gli occhi fissi in quelli dell'amico. Ad attaccare con un calcio fu Fan Lee, e nel giro di pochi attimi Briz lo parò, girò su sé stessa e glielo restituì in pieno, colpendolo al ventre.

 
Briz-Fan-Lee-karate

Non contenta, lo afferrò per il kimono e, tendendogli una gamba dietro alle ginocchia, lo atterrò, gli si avventò contro e, rimanendo in piedi a cavallo sopra di lui, lanciò un urlo e gli piantò un pugno in mezzo allo sterno, che però si fermò a mezzo centimetro dal petto di Fan Lee.
Rimasero lì, immobili, per alcuni secondi, guardandosi negli occhi col respiro corto; il pugno serrato di Briz tremava. Lentamente, senza smettere di guardarsi, si rialzarono e si fecero il saluto, inchinandosi. Poi Fan Lee si portò una mano allo stomaco dolorante, dove era stato colpito dal calcio.
– Te lo avevo detto, che avevo paura di farti male – disse Briz con espressione mortificata.
– Sei stata dannatamente brava, anche a controllare l'ultimo pugno.
– Credo di aver avuto fortuna… non mi riuscirà mai più di atterrare un campione del mondo.
– Mai dire mai, piccola. Il più grande dei campioni, prima o poi incontrerà qualcuno più grande di lui, non c’è scampo da questo. E comunque, l'ho sempre detto che il tuo Sensei italiano è stato avaro, con le tue cinture.
– Per regolamento sportivo, gli esami erano uno ogni sei mesi, al ritmo di mezza cintura alla volta…
– Beh, io non ragiono con i regolamenti delle società sportive, ma giudico e valuto quello che vedo. E poi, in fondo, i kyu sono solo un simbolo: come diceva il maestro Miyagi di quel vecchio film, il karate è nella mente e nel cuore, non certo nel colore di una cintura. E dopo questa perla di saggezza, direi che per oggi basta…
– Chiudiamo con un Bassai-dai e un Tekki-shodan? – chiese Briz.
Fan Lee annuì e insieme eseguirono i due kata preferiti di Fabrizia.
Pete legò il cavallo a un ramo basso e si sedette sull'erba, all'ombra, ad osservarli; il cane gli si accucciò al fianco e lui gli accarezzò le orecchie nere; seguì come ipnotizzato i loro movimenti perfetti e sincronizzati: non riusciva a staccare gli occhi dalla ragazza. Ultimamente aveva sviluppato nei suoi confronti una specie di senso di protezione, un bisogno impellente di difenderla dal male e dal pericolo. Che scemo! Dopo quello a cui aveva appena assistito, era ovvio che Briz, in quanto a difesa, se la cavava benissimo da sola! Fan Lee, oltre che campione di arti marziali, era anche una decina centimetri più alto di Briz, visto che di due o tre svettava persino lui, che non era esattamente un nanerottolo; senza contare che Fan Lee era un uomo e, seppure asciutto e longilineo, con una notevole massa muscolare. E lei era riuscita ad atterrarlo!
Intanto i due avevano concluso l'esercizio e, dopo il rituale di chiusura dei saluti, la ragazza si voltò verso Pete e sollevò le braccia, salutandolo con un sorriso abbagliante. Atlas le corse incontro e lei si chinò ad accarezzarlo poi, insieme al cane, si diresse verso di lui.
Si alzò in piedi e la guardò venirgli incontro, con i capelli scompigliati dalla brezza marina, la pelle dorata che contrastava col bianco del kimono e i piedi nudi che smuovevano la sabbia tiepida. Il cuore gli perse un paio di colpi.
"Cristo santo, ma che mi sta succedendo?" pensò, sentendosi il respiro pesante. Le sorrise, soffocando quell'inquietante sensazione con una battuta leggera.
– Considerato quello che ho appena visto, sono proprio contento che siamo diventati amici!
– Diventi ogni giorno più spiritoso, Capitano. Come stai? Mi sembra di non vederti da un secolo!
– Stavo pensando proprio la stessa cosa, quando ho visto te e Fan Lee. Però gli ultimi lavori sul Drago sono finiti, oggi avevo un po' di respiro, e ho fatto un giro con Indy e Atlas.
– Hai fatto bene, Indy aveva bisogno di una sgambata. Balthazar necessita ancora di qualche perfezionamento: stasera devo andare a fare l'ultimo controllo, poi spero di avere anch'io un po' di tempo libero. Magari domani facciamo un giro a cavallo insieme, se ti va – gli propose Briz.
Era passato davvero tanto, dall'ultima volta, Pete non ricordava nemmeno quando fosse stato, e dovette riconoscere con sé stesso che l’idea lo attraeva non poco; ma si limitò ad un semplice "Okay”, prima di salutarla e risalire in sella.
Ovviamente, se avessero avuto il dono della preveggenza e saputo quello che sarebbe successo quella sera, avrebbero fatto sicuramente a meno di progettare uscite a cavallo.
Perché, come diceva John Lennon, “La vita è quello che accade, mentre tu fai altri programmi”.
 
> Continua...
 
 
 
Note:
 
1Il dispositivo a rilascio ormonale di Midori, non è come quello di Fabrizia, che blocca il ciclo mensile, e che in realtà non credo esista. Questo serve solo ed esclusivamente come contraccettivo, e penso che invece cose del genere ci siano. In ogni caso, partiamo dal presupposto che sto scrivendo una fanfiction ambientata nel mondo inverosimile di un robottone. Se qualcosa non quadra, c’è sempre il famoso dodecalogo alla fine del capitolo 3, a cui fare riferimento! Non dimenticatevelo mai! XD
 
2 Episodio n° 36 “Brucia, leone d’oro”.
3 Episodio n° 11 “Le sfere di luce”.
4 Episodio n° 31 “L’aquila vendicatrice”.
 
Come vedete il capitolo è un po’ frammentario e di passaggio, anche se un paio di cosette sono successe e qualche interrogativo l’ho sollevato. I prossimi saranno più avventurosi anche se, nonostante qualche momento drammatico, io ho voluto dargli un taglio “leggero”, come mio solito, e troveremo un comandante nemico un po’ sui generis.
Un grazie, come sempre, a chi ancora legge, e alla prossima!
 😊

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Capitolo 25
*** 24 - Strane conquiste ***


~ 24 ~ 
STRANE CONQUISTE
 
 
Balthazar si trovava nell’hangar all’interno del Drago Spaziale, gli ultimi lavori finalmente conclusi.
Briz arrivò davanti al petto del suo leone accucciato, sul quale splendeva il grande diamante da cui usciva l'Onda di Ghiaccio: rilevata la sua presenza, nella parte più vicina a terra del diamante si aprirono due pannelli scorrevoli, dietro ai quali si trovava una piccola piattaforma rotonda che, scivolando verso l'alto in un cilindro trasparente, la portava direttamente in carlinga.
Briz si sedette al posto di guida ed eseguì alcuni controlli: gli ultimi aggiornamenti ai software, eseguiti nel pomeriggio da Sakon e Jamilah, apparivano perfetti. Si sentiva tranquilla e rilassata, una volta tanto; non era in servizio, tanto che non indossava nemmeno l'uniforme, ma una camicia stranamente non troppo sgargiante, di un verde petrolio sbiadito, vecchia e lisa e che le stava grande, essendo appartenuta ad Alessandro. La teneva annodata in vita, come suo solito, e a creare l'effetto pugno nell'occhio ci pensava la canotta che portava sotto, di un turchese acceso. I jeans aderenti e scoloriti erano infilati in un paio di anfibi neri decisamente poco femminili, se non fosse stato per i laccetti: quello del destro era rosa fluo, quello del sinistro dello stesso turchese accecante della canotta. Ma il suo abbigliamento – così da nostalgica Anni Ottanta, neanche li avesse vissuti realmente – non stupiva più nessuno, ormai: quella era Briz.
In quel momento il suo cellulare squillò; si decise a rispondere dopo aver sentito un tuffo al cuore, cosa ormai di routine quando si trattava di Pete, che fosse vederlo, sentirlo… o anche solo leggere il suo nome sul display del telefono.
– Hola, Cavaliere Solitario! – rispose, facendo la disinvolta.
– Buonasera anche a te! Stai ancora alla caverna?
– Sono venuta a dare la buonanotte al mio micione; sono ancora in carlinga, ma ho finito. E tu?
– Sono sulla spiaggia: dai a Balthazar il codice T-01 e riesci a vedermi.
Briz eseguì e la potentissima telecamera, che dal Faro riprendeva la riva del mare e la spiaggia circostante, le mandò sul monitor della consolle l'immagine di Pete che la salutava.
La maglia bianca a maniche lunghe che indossava si stagliava nitida nella notte, alla luce della luna: Briz riuscì a vedere che aveva anche il cappuccio che gli ricadeva sulla schiena e la scollatura a V mezza chiusa da un laccetto di cotone.
– Okay, ti vedo – esclamò allegra.
“Anche troppo bene” pensò “Ma come fai, a essere così scandalosamente bello?”
– Se hai finito, ti andrebbe di fare due passi qua in spiaggia? Si sta benissimo! – le chiese Pete all'improvviso.
Oddio, una passeggiata sulla spiaggia al chiaro di luna, con lui? Roba da dare di matto, poteva mai esserci una risposta diversa da un sì? Cioè, no! In realtà era una follia, come avrebbe potuto passarle quell’insano innamoramento, se gli avesse detto di sì?
“Ma di che ti preoccupi? È solo una passeggiata per fare due chiacchiere con un amico!” le disse una vocetta insistente nel suo cervello.
“Lascia perdere, rischi di renderti solo la vita più difficile: lo sai che lui gioca!” si fece sentire una seconda voce.
“E dai, ho solo voglia di passare un po’ di tempo con lui! Non abbiamo fatto altro che combattere e lavorare come somari, negli ultimi tempi! Che sarà mai?” intervenne lei.
“Già, che sarà mai! Poi ci stai male perché sai che non può essere l’uomo della tua vita!” le gridò una delle due vocine nelle orecchie.
“Ma vai, piccola, piantala di farti tremila paturnie, che ti frega!” la incitò l’altra.
Briz sbuffò alzando lo sguardo al cielo, esasperata: pure le voci, adesso!?
Si sentiva come quei personaggi dei cartoni animati, quando si ritrovavano con un angioletto su una spalla che suggeriva di fare una cosa, e un diavoletto sull’altra che invece consigliava esattamente il contrario. In questo caso l’angelo era il buon senso, il diavolo la stupidità totale, lo sapeva.
Guardò di nuovo il monitor, e decise: “Ma ‘fanculo, potrò ben scendere in spiaggia quando cavolo mi pare!?”
Stava per dire a Pete di aspettarla cinque minuti quando vide, alle sue spalle, un movimento improvviso. Briz urlò:
– Attento! Dietro di te!
Come dal nulla, dal buio sbucarono alcuni Uomini Uccello. Pete fu velocissimo a estrarre il fulminatore che teneva dietro la schiena, infilato nella cintura dei jeans, e ne colpì un paio che stramazzarono a terra, ma altri due lo presero alle spalle, mentre un terzo lo disarmava e gettava in mare la sua pistola. Lui non conosceva le arti marziali, ma era agile e forte, e fra calci e pugni se la sbrigava piuttosto bene: i tre alieni mutanti rimasti ebbero filo da torcere; ma… quelli volavano, porca miseria! Briz aveva già fatto suonare l'allarme, ma sulla spiaggia la situazione precipitò: la ragazza ebbe giusto il tempo per vedere sul monitor uno dei soldati alati piombare alle spalle di Pete e immobilizzarlo, mentre un altro lo colpiva in fronte col calcio di un fucile zelano.
Il “No!” che sfuggì a Briz fu un urlo disperato.
Pete crollò a terra e gli zelani lo trascinarono verso la riva: anche da quella distanza, Briz vide il rivolo di sangue che gli colava sul viso.
– Rintracciate il dottor Daimonji e il professor Gen! Hanno preso il Capitano Richardson! – urlò nel microfono – Preparate il Drago!
Poi, un pensiero la fulminò: "Ma il Drago cosa, cazzo! Dove andrà mai, senza Pete!"
Certo Sakon avrebbe potuto, in caso di emergenza, se non combattere, almeno guidare il Drago, ma ora che fosse arrivato lì e che tutto fosse stato approntato, sarebbero passati almeno altri cinque minuti. Decisamente troppi: Pete non li aveva cinque minuti!
Sulla spiaggia, nel frattempo, era apparsa un'ombra che aveva oscurato la luna: un'astronave piuttosto piccola, forse un ricognitore, valutò Briz. Dalla pancia di quest'ultima scese un largo raggio giallo che avvolse sia gli Uomini Uccello che Pete, privo di sensi: all'interno del raggio i loro corpi cominciarono a sollevarsi, attirati verso il ventre della nave.
La decisione di Briz fu presa in un lampo: attivò Balthazar, fece aprire i pannelli del Drago e infilò la rampa di lancio.
In un attimo fu fuori e raggiunse il tunnel subacqueo che conduceva all'oceano: il grande leone emerse dalle profondità marine e Briz riuscì a individuare la sagoma scura dell'astronave nemica che si allontanava. Era molto veloce, ma lei riuscì a tenerle dietro, cercando di rassicurarsi pensando che Pete fosse senz'altro ancora vivo.
Era come il rapimento di Midori, o quello di Sakon: se avessero voluto ucciderlo, lo avrebbero fatto sulla spiaggia. Avevano altri scopi, i maledetti, probabilmente i soliti: estorcergli informazioni… o assoggettarlo! Doveva, assolutamente, senza ombra di dubbio, essere così!
Respirando profondamente, Briz effettuò la connessione con il suo leone; non che fosse strettamente necessaria per pilotare e basta, ma diventando tutt'uno con il suo robot, si sentiva più forte e più sicura.
Mandò un messaggio veloce all'equipaggio del Drago Spaziale, specificando che si sarebbe rimessa in contatto con loro prima possibile per fargli avere la posizione, ma tutti sapevano che se avesse continuato a comunicare, i nemici l'avrebbero scoperta.
Chiuse i contatti e attivò il nuovo antiradar e la protezione a specchio: Balthazar sembrò scomparire nell'oscurità dello spazio, mentre inseguiva, invisibile e silenzioso, la piccola nave che aveva rapito il capitano Richardson.
Dopo un volo che le sembrò interminabile, Briz avvistò la loro destinazione: un'altra astronave molto più grande, anche se non quanto il Drago Spaziale. Sul lato si apriva l'entrata luminosa di un ponte di atterraggio dentro la quale si infilò la navetta più piccola con a bordo Pete e i suoi rapitori.
Briz rimuginò per un po', indecisa su cosa fare; fino a quel momento i nuovi marchingegni per nasconderla alla vista dei nemici avevano funzionato ottimamente, ma nel momento in cui fosse atterrata sul ponte della nave, con ogni probabilità l'avrebbero scoperta: era impensabile che non ci fosse nessuno di guardia, nell'hangar.
Una volta Pete le aveva salvato la vita… adesso stava per rendergli il favore anche se, in realtà, non sapeva se ce l'avrebbe fatta. Eppure, in qualche modo, un sistema per entrare lì dentro doveva trovarlo; e magari, dopo, anche uno per uscire di lì insieme a lui. 
 
* * *

A risvegliare Pete fu il dolore lancinante alla testa, al quale si aggiunse, subito dopo, una serie di fitte altrettanto intense ai polsi e alle braccia; e non riusciva a muovere le gambe.
Girò appena la testa e capì il perché: era sdraiato, immobilizzato su un pannello metallico, con i polsi chiusi in due bracciali d'acciaio fissati ai lati della testa; altri due ceppi identici gli serravano le caviglie. Alla sua sinistra c'era una grande consolle, con ripiani e comandi vari, scanalature e leve.
Faticosamente, riuscì a sollevare un po' la testa e a mettere a fuoco il luogo in cui si trovava: una specie di stanza delle torture, visto come lo avevano sistemato. Era una saletta semicircolare con la parete di fronte a lui disseminata di schermi, pulsanti e piccole luci. La parete curva di sinistra era formata da una grande vetrata, dalla quale si vedeva lo spazio. A destra c'era l'entrata, formata da un ampio arco nel cui vano brillavano evanescenti linee azzurrine che si intersecavano, formando un reticolato luminoso. Di lì, senza un codice, una chiave, o qualunque altra diavoleria, non si usciva; e nemmeno si entrava, se era per quello! Quella rete luminescente era sicuramente mortale per chi aveva la disgrazia di finirci contro, ma era anche l'unica via disponibile. C'era senz'altro un sistema per disattivare quella barriera letale, solo che prima avrebbe dovuto trovare un modo per liberarsi di quei bracciali d'acciaio che lo tenevano inchiodato alla tavola di metallo.
Sarebbe già stato difficile in condizioni normali; con l'occhio destro gonfio e mezzo accecato dal sangue che gli era colato dentro, a causa del sopracciglio spaccato dal calcio del fucile, e con quel dolore pulsante che non gli dava tregua, la vedeva davvero molto dura.
Oltre l'arco, al di là della barriera azzurrina, c'era una piccola stanza, occupata da alcune postazioni di ricerca dotate di computer a schermi olografici, che al momento erano vuote. Sulle pareti si aprivano un paio di porte dai pannelli scorrevoli obliqui: da quel poco che vedeva, una pareva dare su un corridoio che, a occhio e croce, avrebbe potuto essere quello da cui lo avevano trascinato fin lì e che, probabilmente, portava verso il ponte di atterraggio. Dall'altra porta si intravedeva appena una plancia di comando.
A un certo punto, al di là del reticolato, gli sembrò di vedere un movimento, come un'ombra, che dalla porta del corridoio si tuffava nella piccola stanza, rotolava silenziosa, si rialzava appena e premeva un pulsante che richiudeva l'apertura obliqua. La figura, solo una sagoma nella penombra, si fermò un secondo a guardarlo poi, rapidissima, si nascose tra una parete e una delle postazioni di ricerca: lì sarebbe stata celata alla vista di chiunque fosse entrato da ognuna delle due porte; ma lui sapeva che ora, lì, c'era qualcuno.
Pete si rendeva perfettamente conto che il baluginio azzurrino, l'occhio incrostato di sangue, il mal di testa e anche una discreta paura che si sforzava di tenere a bada, potessero giocare brutti scherzi alla mente, ma avrebbe giurato che una delle calzature indossate dalla figura misteriosa, avesse un laccetto rosa fluorescente!
Briz?! Ma non poteva essere! Come diavolo aveva fatto, quella piccola pazzoide selvatica, ad arrivare fin lì?! Forse il Drago era a poca distanza e con lei c'era Sanshiro col Gaiking… dopotutto erano lui e Balthazar ad avere i nuovi dispositivi anti-rilevamento.
O forse… aveva avuto un'allucinazione provocata dalla botta in testa, cosa che non sarebbe stata del tutto da escludere.
Non arrivò a darsi una risposta: dalla porta che dava su quella che lui aveva, giustamente, immaginato essere la sala di comando della nave, uscì una figura alta, dal portamento deciso e flessuoso, che attraversò la stanzetta semibuia e si diresse verso l'entrata della saletta semicircolare in cui si trovava lui. Si fermò al di là del reticolato e lui la vide posare una mano sulla parete, a lato della porta ad arco. Pete gettò una rapida occhiata nel punto in cui si era nascosta Briz, immaginandola mentre studiava e prendeva mentalmente nota di tutto ciò che vedeva. Sempre che, naturalmente, non l'avesse sognata…
Non sapeva se sperare che fosse davvero lei, o l’esatto contrario: non gli piaceva per niente che quella matta rischiasse la vita per lui.
Intanto la chiusura evanescente si stava disgregando e la soglia dell'arco fu varcata dal comandante della nave. Pete rimase alquanto sorpreso: una donna. No, si corresse, una Valchiria: questa tizia sembrava venuta giù direttamente dal Walhalla.
La sconosciuta avanzò verso di lui, che riuscì a vederla meglio:
portava un elmo dorato, con due corna ricurve sul davanti, che rendeva impossibile vedere di che colore fossero i capelli. Poteva avere un'età tra i trenta e i trentacinque anni, con occhi di un violetto pallido pesantemente delineati di nero e dalle ciglia lunghissime, che spiccavano sul volto color ambra; aveva le orecchie a punta, che l'elmo lasciava scoperte, il naso leggermente aquilino, non quello piatto tipico degli zelani, e le labbra di un fucsia acceso erano carnose e ben disegnate; pure troppo.
 
Zhora-con-casco
 
Nella sua stranezza, quel volto poteva apparire attraente, e il corpo non era certo da meno, ma indossava abiti tanto succinti da rasentare la volgarità: il top di pelle nera con le borchie metalliche era talmente aderente, corto e scollato da lasciare ben poco all'immaginazione. Decisamente non era molto adatto a contenere le forme prorompenti della donna sulle quali, suo malgrado, Pete non poté fare a meno di soffermarsi: come le labbra, anche questa parte del corpo della sconosciuta, aveva l'aria di non essere molto naturale. In questo modo, il giovane finì per notare lo strano pendente luccicante che portava al collo: sembrava un incrocio tra una chiavetta USB per la raccolta di dati digitali e un ankh egiziano. All’avambraccio sinistro sfoggiava un bracciale di cuoio che arrivava al gomito, e i pantaloni, anch'essi di pelle, ma marrone scuro e attillati quanto lo striminzito top, erano aperti sui lati, lungo le gambe, e i lembi erano tenuti insieme da qualche stringa di cuoio; ma fra l'una e l'altra di queste ultime, le porzioni di pelle scoperta erano più che generose.
Benché fosse bella, e senz'altro provocante, quando avvicinò una mano dalle scintillanti unghie viola per toccargli una guancia, Pete si irrigidì ed ebbe un moto di fastidio.
Il pannello su cui era immobilizzato si raddrizzò lentamente, portandolo in posizione verticale consentendogli di appoggiare i piedi a terra, e si trovò faccia a faccia con lei. La donna fece un passo indietro e, con un movimento fluido, si tolse l'elmo cornuto, lasciandosi scivolare sulle spalle una massa di lunghi capelli di un improbabile viola, scuro e lucido.
 
 
Zhora-figura-intera
 
– Io sono il comandante Zhora, e il mio compito è farti il lavaggio del cervello per estorcerti informazioni sul Drago Spaziale, visto che a quanto pare tu ne sei il pilota, capitano Richardson.
– Niente di diverso da quello che immaginavo: ormai state diventando prevedibili. Prego, comincia quando ti pare, di certo non striscerò ai tuoi piedi per supplicarti di non farlo – la sfidò Pete, sperando di riuscire a fare come Sakon, che era riuscito a non farsi condizionare pensando a Jamilah. Okay, lui non aveva un quoziente intellettivo come quello del suo amico ingegnere, ma non era nemmeno scemo.
Si rese conto di colpo che una persona di cui riempirsi la mente, per provare a resistere, ce l’aveva anche lui. Evitò di guardare nella direzione del nascondiglio di Briz, temendo di tradire la sua presenza, – sempre che ci fosse davvero – e si preparò a fissarsi la sua immagine nei pensieri, pregando che funzionasse.
– Però, però! Una volta tanto una sorpresa piacevole! – esclamò la donna con una voce tra l'ironico e il suadente, sfiorando il volto di Pete e scostandogli i capelli dagli occhi – Non avrei mai pensato che i nostri nemici fossero così belli!
– Cosa? Ma tieni giù quelle zampe! – esclamò Pete tentando, nonostante il dolore, di muovere la testa per sottrarsi a quel tocco indesiderato.
Zhora prese qualcosa da un ripiano dietro alle spalle di Pete, gli si riavvicinò e, con sua sorpresa, invece di cingergli la testa col dispositivo per il condizionamento mentale, cominciò a ripulirgli il sangue dal viso e dall'occhio con un fazzoletto umido. Lui sentì il suo profumo dolce e intenso, tanto forte e penetrante da essere quasi nauseante; niente a che vedere con l'altro profumo che invece adorava: quello fresco e delicato di biancospino di Briz.
Questa strana donna gli stava troppo vicina e a lui questa cosa dava fastidio, molto fastidio: più del sopracciglio spaccato.
– A volte gli Uomini Uccello sono un po' troppo brutali – commentò Zhora passandogli il fazzoletto sul viso – Ma per fortuna ti rimarrà solo una piccola cicatrice attraverso il sopracciglio. Sarebbe stato un peccato rovinare dei lineamenti tanto perfetti: sei davvero carino, Capitano Richardson.
– Ma cosa stai dicendo!? E poi che t’importa? Tanto hai sicuramente ricevuto ordine di eliminarmi, dopo avermi condizionato e aver ottenuto le informazioni che ti servono!
– Mmm, non è detto… mi sta venendo voglia di cambiare i programmi: un bel ragazzo come te… sarebbe davvero uno spreco ucciderti. Comincio a pensare che potrei anche tenerti… e divertirmi un po'.
– Oh, beh, se è a questo che miri, trasformarmi nel tuo toy-boy, il lavaggio del cervello ti toccherà farmelo per forza, e anche bene! So che ti sembrerà scortese ciò che sto per dirti, ma non sei esattamente il genere di donna per cui impazzisco – esclamò Pete, tirandosi il più possibile all'indietro, stupito lui stesso dell’ironia che gli era uscita spontanea.
Pessima mossa, fra l’altro: la tizia aveva l’aria di essere pure permalosa, e forse provocarla non era stata una buona idea. Ma, a quanto pareva, l’aliena aveva deciso di non demordere nella sua opera di seduzione.
L’istinto gli disse di ignorarla, e fissò lo sguardo in un punto indefinito, oltre le spalle della zelana, ostentando indifferenza alle sue poco gradite attenzioni.
 
Pete-e-Zhora

– Magari cambierai opinione – sussurrò lei, prendendogli il viso tra le mani e appoggiandosi contro di lui.
Pete sentì il seno prosperoso della donna premergli contro il petto.
– Lasciami in pace, Zhora! Non toccarmi o giuro che ti mordo! – le ringhiò sul naso.
– Questa sì, che è una cosa interessante… anche perché è l'unica che potresti fare – commentò la donna, facendogli scivolare una mano lungo il torace, verso il basso, e sollevando poi la stoffa bianca della maglia, indugiando in una carezza sensuale e sfacciata sulla pelle nuda, tesa sui muscoli addominali e sui pettorali.
Prima che lui potesse dire un'altra parola, Zhora lo baciò, stringendogli i capelli tra le dita dell'altra mano fino a fargli male; anche il bacio fu parecchio sgarbato e piuttosto violento.
Pete non si fece molti scrupoli ad affondarle i denti nel carnoso labbro inferiore, fino a sentire il sapore del sangue. Colta alla sprovvista, Zhora lo lasciò e indietreggiò.
– Non credevo che lo avresti fatto davvero! – gli sibilò, passandosi il dorso della mano sulle labbra sanguinanti, fissandolo con rancore.
– Te lo avevo detto che non sei il mio tipo! – replicò Pete.
La donna gli si avvicinò di nuovo e, accecata dall’ora, gli mollò un ceffone. Lui incassò in silenzio, mentre una manciata di stelle gli esplodeva dietro agli occhi e, sulla sua guancia, prendeva forma il segno rossastro delle cinque dita di Zhora.
– Immagino ci sia una piccola insignificante terrestre ad aspettarti da qualche parte! Bene: meglio che non trattenga il respiro in attesa del tuo ritorno! – gli sibilò.
Poi gli afferrò il davanti della maglia e avvicinò di nuovo il volto a quello del giovane per leccargli dalle labbra il proprio sangue; quindi gli chiuse la bocca con un altro bacio alquanto brutale. Infine, altrettanto bruscamente, lo lasciò, facendogli sbattere la testa contro il pannello di acciaio.
– Io e te faremo i conti più tardi, bel Capitano, e non sarà divertente! Per te, sia chiaro! – lo minacciò, prima di uscire e richiudere la barriera azzurrina dall'esterno con gesti rabbiosi, lasciandolo lì, immobilizzato al pannello metallico in posizione verticale, scomodo e dolorante.
A passo di carica, Zhora riattraversò il piccolo atrio semibuio e sparì in plancia di comando, mentre la porta obliqua si richiudeva alle sue spalle. Pete rimase solo e riuscì a sfregarsi le labbra contro la spalla, per togliersi di bocca il sapore del sangue e dei baci di Zhora che, per quanto provocante, lui riusciva solo a trovare repellente.
Non perché fosse aliena: si era convinto da tempo, ormai, che c'erano donne zelane che non avevano nulla da invidiare a quelle terrestri. Ma questa… questa era una creatura assoggettata al volere dell'Orrore Nero, e ciò bastava per farne un mostro esattamente come Darius e i suoi quattro orrendi tirapiedi.
E adesso? Lui non era assolutamente in grado di liberarsi da quei ceppi di acciaio e, nell’improbabile caso in cui ci fosse riuscito, sarebbe stato comunque disarmato: come avrebbe mai potuto raggiungere l’hangar, e magari rubare una navetta, senza finire ammazzato almeno una decina di volte? Sospirò, appoggiando la testa all’indietro contro il pannello, girandola appena, affinché il freddo della superficie d’acciaio desse un po’ di sollievo al lato destro del viso contuso; stavolta si era proprio infilato in un bel casino, l’eventualità di uscirne vivo gli sembrava sempre più lontana e irraggiungibile: forse era davvero arrivato al Game Over.  
Briz, ancora nascosta nel suo anfratto, non riusciva a credere a ciò cui aveva appena assistito: la comandante zelana che tentava di concupire il bel capitano nemico?! Ma Santo Cielo, adesso le aveva davvero viste tutte! Pete era stato forte, se l'era cavata con dignità e ironia, andava detto: se la situazione non fosse stata drammatica, le sarebbe quasi scappato da ridere!
Decise che fosse ora di tentare qualcosa: uscì dal nascondiglio, dirigendosi verso il dispositivo di apertura del reticolato azzurro, situato al di qua dell'arco, e cominciò ad osservarlo attentamente, per scoprirne il funzionamento. Pete era oltre la barriera, ma a pochi metri da lei.
– Briz…? Allora sei davvero tu… – disse lui a bassa voce, agitandosi come se volesse liberarsi, ottenendo solo di scorticarsi i polsi.
– Preferivi la diavolessa con gli ormoni in subbuglio? Certo che tu riesci proprio a fare le conquiste più assurde: non ti bastavano le ragazzine quindicenni salvate dagli incendi, adesso anche le tardone aliene arrapate. Qualcosa di più equilibrato, no? – lo prese in giro la ragazza altrettanto piano, senza guardarlo, continuando a studiare il meccanismo e cercando di non pensare al frangente in cui si erano cacciati.
– Oh, taci, ti prego! Cosa diavolo ci fai qui?
– Sono venuta in gita. Ma secondo te? Provo a salvarti, mio bel terrestre – disse, regalandogli una rapida occhiata e un sorriso nervoso.
– Cosa? Se sai sì e no badare a te stessa! Poi chi viene a salvare te? – la provocò Pete, continuando a parlare con la voce più bassa possibile.
– Divertente! Domanda interessante, però: per inseguire te, non ho avuto modo di mandare al Drago le nostre coordinate, altrimenti mi avrebbero intercettata – poi cambiò argomento – Questo coso è uno scanner digitale per impronte, simile a quello delle nostre stanze a Omaezaki: si apre solo con la mano di Zhora la vampira. Se gli sparo semplicemente, ho paura di bloccare tutto e far scattare un allarme. Non puoi aiutarmi ad elaborare un sistema per uscire di qui insieme?
– Che succede, il piano A non ha funzionato? – ironizzò Pete.
– Ah, ah! Quale piano A? Direi che possiamo passare direttamente al B o al C! Anzi, arrivare alla Z e farci da capo: mi sembra già un miracolo che io sia arrivata fin qui.
– Strepitoso – fu l'unico commento di Pete a quella risposta.
A dire il vero, doveva ancora decidere se fosse felice di vederla, o disperato all'idea che probabilmente sarebbe morta anche lei nel tentativo di salvarlo. Non indossava nemmeno l'uniforme, era evidente che fosse partita così, a rotta di collo, non appena si era resa conto di cosa stesse accadendo… e probabilmente era pure da ringraziare, per questo.
Di colpo, la porta obliqua del corridoio si aprì e un paio di Uomini Uccello piombarono nella saletta, accendendo le luci e accorgendosi immediatamente dell'intrusa. Briz sparò una raffica col suo fulminatore: un uomo alato cadde a terra colpito in pieno, il secondo lasciò cadere il fucile, raggiunto alla mano dal laser, ma non prima di aver fatto fuoco a sua volta.
Briz non sapeva cosa diavolo sparassero quelle dannate armi zelane, ma non erano raggi laser, che ferivano bruciando e cauterizzando: sul suo avambraccio si aprì un doloroso taglio, che cominciò a sanguinare e le fece mollare la pistola.
L'uomo alato, a sua volta ferito e disarmato, le si gettò contro all’improvviso attaccando brutalmente, e fu veloce, dannatamente veloce: la ragazza non vide nemmeno il pugno che la colpì sullo zigomo destro. Il dolore fu lancinante e lei finì a sbattere violentemente la schiena contro la parete.
Pete si agitò, sopraffatto dal bisogno di correre ad aiutare l’amica, ma naturalmente non poté far altro che rimanere inchiodato al pannello di acciaio, ferendosi più a fondo i polsi.
Il soldato si fiondò di nuovo addosso a Briz ma lei, dopo il primo attimo di smarrimento, non si fece più prendere in contropiede e si gettò di lato, rotolando sul pavimento. Si risollevò di scatto, alzò la guardia e prese posizione, concentrandosi come le aveva insegnato Fan Lee.
– Avanti, piccione troppo cresciuto, fatti sotto – lo incitò, spavalda.
L’alieno raccolse l’invito, ma Briz scattò, stavolta molto più rapida del suo nemico: un calcio alla pancia lo fece piegare in due. Gli afferrò la testa e gli sbatté la faccia contro il proprio ginocchio sollevandolo di scatto e, per buona misura, gli assestò un colpo col taglio della mano tra capo e collo che lo fece crollare, inerte.
Al di là dell'altra porta chiusa, in plancia, il passo veloce e pesante della comandante si fece sentire: chiaramente, il rumore della colluttazione aveva richiamato la sua attenzione. Briz recuperò la sua pistola e, incurante del braccio ferito e del doloroso livido che prendeva forma sul suo viso, richiuse la porta del corridoio e si addossò con le spalle alla parete, di fianco all'altro passaggio obliquo che si aprì di scatto lasciando passare Zhora.
Già arrabbiata di suo per il rifiuto di Pete, ora la donna era decisamente inferocita.
– Che sta succedendo, qui? – gridò con la pistola in pugno.
Vide i corpi dei due soldati alati riversi a terra, ma non arrivò a vedere Fabrizia che, alle sue spalle, non perse tempo: la attaccò da dietro con un calcio alla mano che la disarmò, poi le passò il braccio sinistro intorno al collo stringendo il più possibile e le ficcò la canna del fulminatore laser dentro l'orecchio appuntito.
– Frena i bollori, diavolessa! O ti rimando all’inferno da cui sei scappata!
 
> Continua…
 
Il disegno del Capitano Richardson in balia della zelana in vena di conquiste, l'ho fatto nel 2017… Gli altri due disegni di Zhora sono del 2023, fatti con affetto e simpatia,
 io non so se gli piaceranno, e sono dedicati di cuore a The Blue Devil, che ha un debole per questo personaggio.
 

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Capitolo 26
*** 25 - Sangue, sudore... e fifa ***


~ 25 ~ 
SANGUE, SUDORE… E FIFA!

 
– Frena i bollori, diavolessa! O ti rimando all’inferno da cui sei scappata! 
La voce di Briz risuonò come un ringhio minaccioso, mentre pronunciava quella frase che non avrebbe stonato in una commedia avventurosa. La ragazza ne fu alquanto compiaciuta: se solo la situazione non fosse stata drammatica e pericolosa, avrebbe pensato che aveva sempre sognato di dire parole come quelle!
– Vieni con me fino a quell'aggeggio e disattiva la barriera! – ordinò a Zhora, infondendo nella voce tutta l’autorità che riuscì a mettere insieme.
– Preferisco morire! – fu la prevedibile risposta della zelana.
– Perfetto, niente di più facile! – ribatté Briz furibonda, premendole più forte la pistola nell’orecchio, strappandole un gemito di dolore e rabbia.
– Se mi uccidi, non potrai più aprire la barriera: non riuscirai a trascinarmi fin là e a sollevarmi per portare la mia mano a quell'altezza! – replicò Zhora, con un tono di sfida che Briz raccolse prontamente.
– Ma posso ucciderti e tagliarti la mano che mi serve, non ci vuole niente. Lo so, pensi che non ne abbia il coraggio, ma non ti consiglio di mettermi alla prova, sexy pantera da quattro soldi!
Zhora dovette riconoscere la determinazione dell'avversaria, perché si lasciò spingere fino allo scanner e vi posò sopra la mano. Il reticolato azzurro scomparve, mentre Pete guardava allibito Briz che spintonava e minacciava la zelana – che era alta quanto lei, se non qualcosa di più, e sicuramente più muscolosa – costringendola ad entrare nella stanza semicircolare. Non aveva mai visto Briz così fuori dai gangheri, eppure così fredda e padrona di sé; dov'era finita la fanciullina? Non che importasse: adesso andava benissimo questa pazza furiosa che ne aveva preso il posto.
– Apri quei ceppi e libera il capitano Richardson! – ordinò Briz perentoria.
– E perché dovrei?
– Sempre per il motivo di prima: sennò ti uccido. Sei dura di comprendonio, mangiauomini, o pare a me? Avanti, come si apre quella trappola?
La voce di Briz ebbe un lieve tremore: Pete si accorse che la ragazza stava per avere un momento di cedimento, dopotutto era ferita e la zelana sembrava un osso duro. Effettivamente il suo braccio sanguinante, che reggeva la pistola contro l'orecchio di Zhora, ebbe un improvviso sussulto involontario. Zhora se ne accorse e colse l'attimo, sfoderando con un movimento rapidissimo e quasi impercettibile, una lama nascosta che scattò in fuori dal bracciale di cuoio che teneva al polso sinistro.1
– Ha un pugnale! – gridò Pete.
L'avvertimento giunse con un istante di ritardo, ma non fu del tutto inutile: la lama saettò micidiale all'indietro ma, invece di colpire Fabrizia allo stomaco, lacerò la stoffa resistente dei jeans sulla coscia e aprì un taglio lungo almeno dieci centimetri nella pelle abbronzata. Il dolore fu improvviso e rovente e, nonostante la ferita non fosse troppo profonda, cominciò a sanguinare abbondantemente.
Colta alla sprovvista, Briz cadde all'indietro e la pistola le sfuggì dalla mano lievemente intorpidita e resa scivolosa dal sangue dell’altra ferita, finendo oltre la porta ad arco. Zhora sfilò del tutto il coltello dal bracciale e lo impugnò con la destra, ma Briz fu velocissima a rialzarsi e la fronteggiò, alzando nuovamente la guardia. Il prigioniero si agitò di nuovo,  inutilmente, non riuscendo a capacitarsi di essere del tutto impotente.
– Ma sei solo una bambina! – si stupì Zhora, quando la vide in faccia.
– Certo, in confronto a te anche Pete lo è, tardona! Forza, fatti sotto e leviamoci il pensiero, che voglio riportarmi a casa il mio Capitano! – brontolò Briz, facendo l'arrogante mentre in realtà si sentiva morire.
Era questo il coraggio? Crepare di fifa e far finta di niente? Le parole di Zhora sembrarono confermare la tesi.
– Non penserai di spaventarmi, piccoletta! Anche se devo ammettere che sei coraggiosa!
– Ancora col piccoletta? Avete proprio rotto l’anima tutti, amici e nemici, con le battutine sulla mia età! E poi, di cosa dovrei aver paura? Di una sottospecie di pornostar ninfomane con le poppe rifatte? – ribatté Briz con sarcasmo, ignorando il dolore e le gocce del proprio sangue che cadevano sul pavimento in piccole chiazze rotonde.
Guardando la sua nemica, notò anche lei il ciondolo che la donna portava al collo. Pete, nel sentire la frase provocatoria di Briz, non poté fare a meno di dirsi che in un’altra situazione sarebbe scoppiato a ridere, e si accorse che anche la sua amica aveva visto quel monile. Ebbe come un'illuminazione: guardando con la coda dell’occhio il pannello accanto a sé, dove si trovavano i comandi e la strumentazione per il condizionamento mentale, si avvide di una scanalatura della stessa forma del ciondolo.
Nel frattempo Zhora, pugnale spianato, studiava la ragazza ferita, eppure incredibilmente determinata, che la affrontava disarmata.
 
Briz-e-Zhora

– Non dirmi che è questa insulsa ragazzetta, a farti battere il cuore, Capitano Richardson! – lo provocò spavalda la zelana.
La risposta sarcastica di Pete fu degna del comandante Cuordileone.
– Dovresti farmelo battere tu, Zhora? Ma ti sei vista, con quella faccia da puttana in pensione?!
Zhora attaccò, offesa e furiosa, scagliandosi con il pugnale levato. Fabrizia, che non aspettava altro, si gettò in avanti e sollevò le braccia incrociate, bloccando il colpo e afferrando con entrambe le mani il braccio della donna, torcendoglielo dolorosamente. Con un unico, fluido movimento – mentre il coltello cadeva dalla mano di Zhora, scivolando sul pavimento lontano da loro – Briz la tirò con violenza verso di sé piantandole una ginocchiata micidiale nello stomaco scoperto, in una mossa di karate che Pete le aveva visto fare diverse volte, quando si allenava con Fan Lee. Non ancora paga, con un urlo feroce la ragazza piazzò una violenta gomitata sul lato del viso di Zhora, facendola piombare a terra con i sensi intorpiditi.
– Nessuno fa male ai miei amici, brutta stronza! – ringhiò Briz, strappandole dal collo il pendente.
Zhora tentò un gesto di ribellione e la ragazza le rifilò un pugno in faccia che la spedì del tutto nel mondo dei sogni, prima di dirigersi in due passi al pannello con i comandi.
– Sapevo che avevi capito anche tu, che quello non è un ciondolo: qui a sinistra c’è una fessura con quella forma – la avvertì Pete.
Briz schiaffò con impazienza il piccolo congegno nella scanalatura corrispondente: i quattro ceppi di acciaio si aprirono con uno scatto e Pete fu libero. Con un gemito il giovane abbassò le braccia doloranti e informicolite.
– Stai bene? – gli chiese Briz, veloce e pratica, mentre lui si massaggiava i polsi spellati per riattivare la circolazione.
– Sì… boh, nei limiti della situazione. Tu, piuttosto… – disse lanciando uno sguardo al suo braccio e alla sua gamba sanguinanti e al livido sullo zigomo.
– Sopravviverò. Andiamocene di qui, dai!
Pete lanciò un'occhiata a Zhora, chiedendosi fugacemente per quanto ancora sarebbe rimasta priva di sensi, e se non fosse il caso di imprigionarla a sua volta nei ceppi; ma pensò che fosse meglio non perdere altro tempo, e battersela prima che arrivassero altri Uomini Uccello.
Briz doveva aver pensato la stessa cosa, perché si avviò rapida per andarsene da quella sala delle torture. Raggiungendola, Pete la afferrò per una spalla e, d’improvviso, le schioccò un rapido bacio sulla bocca, prima di dirigersi veloce, a sua volta, verso l’uscita ad arco.
– Ma andiamo! Ti sembra il momento? – protestò lei, seguendolo e andando a recuperare la sua pistola.
– Scusami! Ma dopo le labbra di Lady Silicone, avevo bisogno di assaggiare qualcosa di buono – fu la spiazzante risposta del giovane, facendo spallucce mentre si armava di un fucile zelano, tolto a uno degli Uomini Uccello abbattuti.
Briz non rispose; scuotendo la testa alzò gli occhi al cielo e allungò una mano sul comando per aprire la porta obliqua che immetteva nel corridoio. Bah! Uomini!
Si infilarono per il lungo passaggio che costeggiava un lato esterno della nave, procedendo rapidi e silenziosi lungo la parete sulla quale si aprivano, a intervalli regolari, alcune rientranze; all'interno di queste erano incastonati degli oblò rettangolari da cui si vedeva lo spazio. Sembrava che in giro non ci fosse nessuno.
– Zhora è stata decisamente superficiale, ha peccato di presunzione – spiegò Briz a bassa voce – Non ho incontrato guardie, venendo in qua, e il ponte da cui sono entrata non è lontano di qui. Ma forse, ora, qualche stupido pennuto si sarà accorto del casino che abbiamo combinato.
A Pete sfuggì un sorriso, sentendo l'ennesimo soprannome che lei aveva trovato per gli Uomini Uccello.
– Come sei arrivata fin qui?
– Non lo avrei mai creduto, ma i nuovi congegni anti-rilevamento hanno funzionato fin sul ponte di atterraggio: i soldati alati non hanno visto Balthazar fino a quando… Beh, lo vedrai quando ci arriveremo.
La solita Briz, dai cento misteri e le mille sorprese.
– Lo avresti fatto davvero di… voglio dire… uccidere Zhora e tagliarle la mano?
– Ti prego… mi viene da vomitare solo al pensiero! Per quanto, – aggiunse dopo un istante di riflessione – se fosse stata l'unica soluzione per tirarti fuori di lì… sì, mi sarei risolta a farlo.
– Fra non molto, quel mostro dalle sembianze di donna riprenderà i sensi e farà suonare l’allarme; forse avresti dovuto davvero ucciderla.
– Se ci fossi riuscita mentre la affrontavo faccia a faccia, non mi sarei fatta scrupolo, credimi! Ma non posso sparare a una persona a sangue freddo, e per di più priva di sensi: non ce la faccio.
– Lo so, tranquilla, credo che nemmeno io potrei farlo. E comunque sappi che, quando ti ci metti, sei veramente strepitosa – commentò Pete.
– Vero? Me lo dico anch'io, certe volte – concluse Briz, cominciando ad accusare il dolore e sentendo che, nonostante la frase spavalda, la sicurezza cominciava a farle difetto.
Le ferite presero a farle un male del diavolo, e si sentiva stanca e indebolita anche psicologicamente. Le aveva quasi spese tutte: voleva andarsene di lì, e alla svelta!
Il corridoio girava a sinistra; si avvicinarono con circospezione e Pete sbirciò oltre l'angolo: senza voltarsi, le fece segno muovendo due dita sollevate.
– Okay: due pappagalli – sussurrò lei – Con i fucili?
– Ma certo che sì, li volevi anche disarmati? – ironizzò lui, continuando a studiare la situazione.
Briz gli si accostò.
– Mmm, sarebbe stato troppo bello. Che Dio ci protegga.
– Certo, e… “Che la Forza sia con noi”.
– E magari anche una botta di culo non guasterebbe – rincarò la ragazza.
– Effettivamente no.
Solo in quel momento Pete fece un passo indietro e si girò a guardarla, accorgendosi che Briz faceva la dura per nascondere la preoccupazione e la sofferenza: aveva il fiatone ed era pallida, con la parte destra del viso livida e contusa per il pugno che si era buscata; per non parlare delle le ferite da taglio, che, anche se lentamente, sanguinavano. Faceva di tutto per non farlo vedere, ma era spaventata a morte: era più che evidente che stesse per crollare. Anche lui si sentiva la testa dolorante e la ferita alla fronte che pulsava: avevano bisogno di un attimo di respiro… e non ce l'avevano, perché le voci dei due Uomini Uccello si fecero più distinte, avvicinandosi a loro.
Mise le mani sulle spalle della ragazza e la attirò a sé, tirandola bruscamente all'interno di una nicchia, dal cui oblò si vedeva l'esterno: un mare nero di stelle e altri corpi celesti che brillavano come diamanti sul velluto. La libertà era lì, a un passo, ma per conquistarla dovevano arrivare a Balthazar e affrontare un po' di soldati. Era già andata anche troppo bene fin lì, non sarebbe potuta durare.
Tenne Briz stretta contro di lui, sentendola tremare per la tensione e lo shock delle ferite, finché le voci dei due zelani si allontanarono, tornando nella direzione da cui erano venuti: non li avevano visti, né sentiti. Magari Zhora sarebbe rimasta fuori gioco tutto il tempo necessario…
Forse era il momento di crearlo, quell'attimo di respiro, si disse Pete. Sfiorò appena la guancia ferita della ragazza e le passò le dita tra i capelli, cercandole gli occhi con i suoi, vedendo che guardava fuori dall’oblò, come in trance.
Stava rischiando la pelle, e lo stava facendo per lui.
– Briz, guardami: hai paura? – le chiese a voce bassa.
Lei ricambiò quello sguardo intenso e annuì.
– Cazzarola, sì: ce l'ho, eccome – sussurrò con le labbra che le tremavano.
– Non mi era sembrato, poco fa.
– I-io… non so c-come ho fatto… M-ma non ce la f-faccio più.
– Certo che ce la fai: te lo dico io.
– Temo… di aver dato f-fondo alla scorta di coraggio.
– Mi dispiace dirtelo, ma ce ne servirà ancora, e non poco.
– Come cacchio fai a non aver paura?  
– E chi ti dice che non ce l’ho?
– Non sei d’aiuto, così, Pete: neanche un po’ – gli disse, col panico che balenava negli occhi spalancati.
– Ma come, non siete voi donne che ci volete con un lato tenero e vulnerabile?
– Questo solo se siamo in riva al laghetto di un parco! Quando dobbiamo scappare da una nave zelana, comandata da una vampirona malvagia, concupiscente e cornuta, ci piacete machi, tosti e cattivi!
– Macho, tosto e cattivo, eh? Nient'altro? Beh, proviamo… Pronta?
– Tsz! Sono nata pronta! – fece lei, tentando di mostrare un'arroganza che non aveva, e con una faccia che in realtà diceva:  “Neanche un po’!”
– Cuordileone, Briz, di nome e di fatto: so che lo sei! – la incoraggiò Pete, stringendola più forte per un attimo e ridandole, senza saperlo, tutta la sua determinazione. Poi aggiunse: – E, senti… in qualsiasi modo vada a finire… grazie! Sei stata comunque grandiosa! E adesso andiamo!
Briz assentì lievemente, allentando appena l'abbraccio:
– Andiamo! E facciamogli il cu… ehm… massacriamoli! – concluse, staccandosi da lui.
Lui le sorrise, contento che Briz fosse, in un certo senso, tornata.
Si avvicinarono all'angolo, presero un respiro e contarono fino a tre, poi, aprendo il fuoco senza tregua, si lanciarono contro i due soldati. Solo che, alla faccia della botta di culo, il fucile zelano di Pete fece cilecca!
Uno dei soldati alati era caduto sotto il laser di Briz, ma l'altro lo aveva schivato buttandosi a terra e si stava rialzando, spianando la propria arma. Per fortuna fu lento: Pete gli era già arrivato addosso e, brandendo il fucile difettoso per la canna, come un randello, lo colpì tra capo e collo, facendolo crollare a terra in un mucchietto disordinato di penne bianche, verdi e rosse, e stoffa grigia.
– Oh, sì! Così! Macho, tosto e cattivo! – esclamò Briz, riprendendo la fuga e cercando di ignorare il dolore al braccio e, soprattutto, alla gamba, che la faceva zoppicare vistosamente.
– Le armi zelane fanno davvero schifo! – commentò Pete, tirando via il fucile e seguendola.
– Prosegui, a destra c'è il ponte! – urlò Briz, senza fermarsi, mentre lui le passava davanti.
Improvvisamente, dall'angolo a destra, sbucò un soldato col fucile già imbracciato: Briz sparò, ma lo mancò. In pochi istanti di confusione, durante i quali non capì cosa accadde, si ritrovò con Pete che la afferrava per le spalle e la immobilizzava con la schiena al muro.
Uno schizzo di sangue le arrivò sul viso, caldo e vischioso: capì di essere stata colpita, anche se, lì per lì, non sentì dolore. Vide solo, oltre la spalla di Pete, il soldato che aveva sparato, e d’istinto, rapidissima, sollevò la pistola e gli sparò di nuovo con indicibile freddezza. Stavolta lo prese in pieno, ma nel momento in cui l’uomo alato stramazzava a terra, anche Pete crollò contro di lei e lentamente scivolò in ginocchio sul pavimento, tenendosi la parte superiore del braccio sinistro.
Merda! Era lui a essere stato colpito, non lei! Si inginocchiò accanto al giovane che, pallidissimo, la fissò per qualche secondo prima di perdere i sensi e rotolare a terra.
Briz fu colta per un attimo dal panico: era arrivata fin lì per salvargli la vita, e adesso era successo esattamente il contrario! Quel raggio tagliente si sarebbe piantato in mezzo ai suoi occhi, se Pete non si fosse messo in mezzo per proteggerla.
Respirò profondamente e si costrinse a ritrovare la lucidità, guardandosi attorno: non c'era nessuno in giro.
E in quel momento, giusto per non farsi mancare niente, risuonò un allarme; una voce femminile, impersonale e metallica, annunciò:
– Attenzione! Dieci minuti all'autodistruzione! Ripeto: dieci minuti all'autodistruzione!2
– Perfetto, Zhora si è ripresa prima del previsto… era da dire che la botta di culo si sarebbe fatta aspettare! Avevi ragione, Richardson, dovevo ammazzarla! Avanti, svegliati o finiamo fritti come le patatine di McDonald! – brontolò lei parlando all’aria, in tono vagamente isterico, cercando di valutare l’entità della ferita di Pete.
Sembrava profonda, e il sangue non accennava a fermarsi: una piccola pozza scarlatta si era già formata sotto di lui. Lo squarcio procurato da quel fucile micidiale andava, di traverso, dal muscolo deltoide fino al bicipite. Briz gli posò le dita sul collo, cercando il battito cardiaco; già era lento di suo, il cuore di Pete, figuriamoci adesso, col sangue che stava perdendo! Però, per quanto debole, Briz riuscì a percepirlo.
Rapidamente si tolse la camicia, la strappò facendone delle strisce a caso, e ne usò una parte per fasciare stretto il braccio dell'amico, sperando di fermare, o almeno rallentare, l'emorragia. Si infilò la stoffa restante nella cintura dei jeans, dopo averne usato un lembo per ripulirsi sommariamente il viso dal sangue che le aveva offuscato un occhio. Si alzò e tentò di trascinarlo, ottenendo solo una scia vischiosa, color rosso cupo, che si allungava per qualche metro sul pavimento; non sarebbero mai arrivati all'hangar in quel modo, oltretutto era ferita e sanguinava anche lei. Le sembrava passato un secolo, ma si accorse che in realtà erano trascorsi solo un paio di minuti; tuttavia, ciò non la consolò. Scoraggiata, tornò a inginocchiarsi e cominciò a scuoterlo.
– Non ce la posso fare, da sola, Pete! Andiamo, non mollarmi adesso, ti prego! Non farmi questo! Cazzocazzocazzo… non ho fatto tutta questa fatica solo perché tu mi muoia dissanguato fra le braccia!
– Briz… – gemette Pete, tentando di muoversi.
– Oh, Dio, ti ringrazio! Avanti, ho ancora bisogno del mio protettore macho e cattivo! Non mi morire adesso, Dragonheart!
– Non ne ho la minima intenzione, ma smetti di urlare, per piacere – si lamentò Pete, sollevandosi faticosamente a sedere.
Briz lo aiutò, e lui la squadrò confuso per qualche istante, lo sguardo perso, mentre lei cercava di tirarlo in piedi. Guardandogli il volto sporco di sangue, ricordò che aveva subito anche un notevole trauma cranico, prima di venire portato sull’astronave.
– Che fine ha fatto la tua camicia? – fu la sorprendente domanda che gli uscì di bocca, mentre si alzava faticosamente.
– Ma sarà possibile? – esclamò lei, sostenendolo e costringendolo a camminare – Abbiamo all'incirca sette minuti per raggiungere Balthazar, lasciare questo purgatorio e allontanarci prima che esploda; siamo feriti e sanguinanti e forse schiatteremo qui… e la prima cosa di cui ti accorgi… è che io non ho più la camicia! Non va bene, questa cosa! – concluse, ansante.
Pete si guardò la ferita, che ora sanguinava appena, notò la fasciatura di fortuna e si rese finalmente conto del pericolo che correvano: senza una parola, allungò il passo e si costrinse a correre verso il ponte.
Raggiunsero il portellone, al di là del quale li attendeva Balthazar: Briz lo aprì velocemente, premendo il comando sulla parete, e il pannello d'acciaio scivolò di lato rivelando, al di là di esso, un paesaggio irreale: nemmeno al Polo Nord poteva esserci tanto gelo!
L'hangar era stato trasformato in una scintillante caverna di ghiaccio, con stalattiti e stalagmiti lucide e trasparenti che pendevano dal soffitto e si ergevano dal pavimento: all'interno di alcune di queste ultime, c'erano almeno una dozzina di Uomini Uccello, imprigionati nel ghiaccio. Silenzioso e implacabile, Balthazar torreggiava immobile su quel glaciale monumento.
– Ma che ca… co-cosa diavolo è successo qui? – chiese Pete, senza fermarsi, col respiro corto che formava nuvolette nell'aria gelida e, nel frattempo, contemplando quello spettacolo.
La risposta di Briz trasudava compiacimento, mentre continuavano a correre faticosamente verso il grande leone.
– Bello, vero? Un bel Ruggito Paralizzante per immobilizzare tutti… e una bella passata di Onda di Ghiaccio… per cristallizzare nel tempo ogni cosa. E tutto… prima che riuscissero a far scattare un allarme. Sapevo che ti sarebbe piaciuto! – ansimò Briz, senza rinunciare alla sua ironia.
– Beh, non mi stupisce che in giro per la nave… abbiamo incontrato poche guardie: sono quasi tutte qui! – commentò Pete, ansante quanto lei.
– Visto? Pollo surgelato, un tanto al chilo! E nonostante questo, e il fatto che Zhora si sia scelta un equipaggio poco sveglio… non è che sia stata proprio una passeggiata… hanf, hanf…
– E, non per scoraggiarti, ma non è detto… che sia finita qui – disse Pete affannosamente, fermandosi di fronte al petto di Balthazar e stringendosi il braccio ferito.
Il passaggio situato sul diamante dell'Onda Congelante si aprì, e i due giovani entrarono: l'ascensore cilindrico li portò in un lampo in carlinga, dove Briz prese posto alla guida.
Pete si fermò dietro di lei, le mani posate sullo schienale della poltroncina di pilotaggio: era la prima volta che entrava nell'abitacolo di Balthazar ed ebbe la stranissima sensazione che, sulla consolle dei comandi, attorno alla cloche e al monitor, mancasse qualcosa, ma fu solo un attimo. Si concentrò sulla ragazza che, con gesti rapidi e precisi, attivò il leone in posizione di volo: Balthazar si sollevò e, velocissimo, schizzò fuori nello spazio, verso la salvezza.
La prima cosa che i due ragazzi fecero, fu di mandare le loro coordinate al Drago Spaziale perché venisse loro incontro.
La seconda fu aumentare la velocità, per non venire investiti dall'onda d'urto dell'esplosione dell'astronave nemica che avvenne, puntualmente, di lì a pochi secondi.
La terza fu inorridire quando videro sbucare, dalle nuvole rossastre e dal fumo, un Mostro Nero.
Merda! La botta di culo era decisamente in ritardo!
Però il mostro era lontano, ancora, forse avevano una speranza.
– Non guardare in qua, non guardare in qua… – pregò Briz sottovoce, rivolta idealmente al nemico, mentre si accingeva ad attivare i dispositivi antiradar e di mimetizzazione.
Ma una voce risuonò beffarda, dal piccolo altoparlante sulla consolle, proveniente, era chiaro, dal pilota zelano: – Credevate davvero che ve la sareste cavata con così poco?   
Briz chiuse gli occhi, sentendo il cuore affondare nel nulla: Zhora. Ancora lei!
– Se a te è sembrato poco! Speravo proprio di essermi liberata di te, panterona! – esclamò, cercando di farsi forza con l’arroganza.
– Avresti dovuto uccidermi quando ne hai avuto l’occasione, sciocca bambolina!
– Sì, avrei dovuto! Solo che io sono una guerriera, non un’assassina.
– Non sei una guerriera, sei una stupida!
– Vattene, Zhora! Se lo fai, giuro che non ti inseguirò, me ne andrò per la mia strada e mi dimenticherò di te!
– Non vuoi combattere, codarda? – la provocò la zelana.
– Non vuoi approfittare della mia generosità, cretina? – le rispose sullo stesso tono – Non voglio ammazzarti, chi te lo fa fare?
– L’Onnipotente Black Darius il Grande!
– Sì, sì, va bene: bla bla bla… non sia mai che lo deludiamo, The Big Boss, vero?
Briz aveva risposto con spavalderia, ma poi si sentì raggelare quando si rese conto della situazione: sarebbe stata costretta a combattere! E se già l’idea della battaglia in sé la spaventava non poco, visto che avrebbe dovuto affrontarla da sola, il fatto che avrebbe dovuto eseguire la NGC sotto agli occhi di Pete, aggiungeva un carico di ansia parecchio pesante.
Si guardarono per un paio di secondi: anche lui aveva capito ciò che la preoccupava, ma entrambi sapevano che non c'era una scelta. Fabrizia studiò per qualche istante il Mostro Nero, una specie di robot umanoide dalle sembianze vagamente femminili ma alquanto demoniache, che, pur essendo ancora piuttosto lontano, chiudeva rapidamente le distanze; fuggire non sarebbe servito.
La sensazione di Pete, che in quell'abitacolo mancasse qualcosa, si fece sempre più intensa.
– Come posso aiutarti, Briz? – le disse, sentendosi totalmente inutile, inginocchiandosi a fianco della poltroncina.
– Non puoi! – fu la sbrigativa risposta, prima che Briz addolcisse il tono e gli sorridesse fugacemente – Ma grazie del pensiero, lo apprezzo molto.
E in quel momento Pete, guardando nuovamente la consolle, capì cosa mancava.
– Briz, dove caspita sono i comandi per azionare le armi?
– Sono qui, Richardson: nella mia testa – disse lei, toccandosi appena la fronte.
Poi, con freddezza e determinazione, si alzò in piedi, mentre il giovane cercava di trovare un senso alle sue parole alzandosi a sua volta.
– Adesso è il mio turno, di essere tosta e cattiva. Non rimanere troppo scosso da ciò che stai per vedere, okay? 
Lui non rispose, limitandosi a un cenno di assenso con la testa, e si spostò istintivamente sul fondo del piccolo abitacolo.
Briz premette un pulsante luminoso e la poltroncina di pilotaggio scivolò all'indietro, verso di lui, che posò di nuovo le mani sullo schienale come cercando un appiglio, stringendolo tanto forte che le nocche gli diventarono bianche. Rimase a osservare la ragazza che prendeva posto al centro della carlinga e guardò, incuriosito e attonito, il cerchio formato dalle botole che si aprivano sul pavimento attorno a lei.
Non ci fu bisogno di escludere il contatto visivo e di attivare la visione virtuale per nascondersi; Briz lasciò che la vetrata le desse la visuale naturale, tanto l'unica persona che non avrebbe mai voluto venisse a conoscenza di questa cosa, era lì con lei, proprio alle sue spalle.
Pete vide degli strani oggetti uscire dalle botole e fermarsi a mezz'aria, tutt'intorno a Briz: sembravano i pezzi di un'armatura, si disse perplesso. Gli sembrava di vedere tutto al rallentatore, concentrato com'era su ogni piccolo particolare di quella scena irreale.
La ragazza si afferrò i lunghi capelli che le scendevano sulla schiena e se li portò tutti sul davanti, con un rapido movimento che le scoprì le spalle abbronzate, sulle quali spiccavano le spalline sottili della canotta turchese e, accanto ad esse, quelle rosa fluorescente del reggiseno.
A contrastare con la sua pelle dorata c'era anche un'altra cosa, alla base del collo: un disegno che lui non riuscì a vedere per più di un paio di attimi, ma che riconobbe immediatamente, e che gli fece ricordare la notte di Natale, quando lui l'aveva toccata proprio in quel punto, e lei si era lamentata per il dolore.
Era la testa di leone dalla criniera di fuoco.
 
Briz-tattoo
 
Pete si stupì di aver potuto notare tutte quelle cose e di aver fatto stare tutti quei pensieri in una manciata di secondi, e seguì affascinato le fasi della Connessione Neurogenetica.
Tutto a un tratto i pezzi dell'armatura furono attirati dal corpo di Briz, come se la ragazza fosse diventata una calamita umana: con un rumore metallico, si chiusero su di lei, incastrandosi l'uno con l'altro. Le ultime parti furono l'elmo felino bianco e oro che le imprigionò la testa, e una striscia metallica bianca, con i bordi a zig-zag, che si incastonò perfettamente nello spazio ancora libero lungo la sua spina dorsale.3 Inorridito, Pete vide l'estremità superiore di quella specie di serpente d'acciaio chiudersi per ultima alla base del collo di Briz, proprio sopra al tatuaggio, procurandole sicuramente uno spasmo doloroso, poiché la vide contrarsi e inarcarsi all'indietro per qualche istante, soffocando un gemito.
La connessione era completata.
Nonostante fosse rivestita dall'armatura, il ragazzo si avvide che Fabrizia aveva il respiro pesante.
La testa felina si voltò verso di lui, guardandolo con i due rombi orizzontali che aveva per occhi, verdi come smeraldi; ma, al di là di essi, Pete riuscì a scorgere, altrettanto verdi, i veri occhi della sua amica.
Lentamente come si era girata verso di lui, la ragazza tornò a voltarsi verso la vetrata e Pete la sentì mormorare qualcosa, come tra sé.
– Lo spettacolo ha inizio: si va in scena!
 
> Continua…                                                                 
 
 
 
 
Note:
Chi conosce la saga di videogames "Assassin’s Creed", (copyright Ubisoft Entertainment) non avrà faticato a riconoscere nell’arma di Zhora la Lama Celata, usata dai vari protagonisti dei videogiochi. Questa non è proprio identica, ma è lì che mi sono ispirata.
 

Forse ve lo siete chiesto: che Zhora parli la lingua dei nostri eroi potrebbe anche essere. Magari ha addosso (non so dove, visto gli abiti succinti, ma n’importa, piccolezze) una specie di traduttore simultaneo. Ma che le comunicazioni sull’astronave siano in una lingua terrestre, che Fabrizia comprende, ecco… Avete capito, vero? Sempre quelle famose dodici regole sui robottoni, di cui si parla alla fine del capitolo 3… XD
 
E questa, la striscia metallica dell’armatura che si incastra lungo la schiena, è copiata pari pari dal film "Pacific Rim" (già citato in precedenza).
 
Devo anche confessare che alcuni scambi di battute tra Briz e Pete durante la fuga, mi sono stati ispirati da un dialogo in una situazione avventurosa del film del 1998 "6 giorni 7 notti", di Ivan Reitman, con Harrison Ford e Anne Heche: mi sembrava doveroso riconoscerlo.
Invece c’è una frase che, lo giuro, è completamente mia, quella in cui Pete dice: “Che la Forza sia con noi”, e Briz risponde: “Sì, e magari anche una botta di culo non guasterebbe!”. Ci credete che tempo fa, sul web, ho trovato un meme in cui Yoda dice la stessa cosa?
Me l’hanno rubata! 
😭😱🤣
 

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Capitolo 27
*** 26 - Ciuffo di neve ***


~ 26 ~ 
CIUFFO DI NEVE
 
 
Lentamente come si era voltata all'indietro, Briz tornò a girarsi verso la vetrata per affrontare Zhora. Pete la sentì mormorare alcune parole tra sé: – Lo spettacolo ha inizio: si va in scena. 
 
Fabrizia decise che la miglior difesa fosse l'attacco e, senza dare al mostro il tempo di avvicinarsi ulteriormente, urlò in sequenza i nomi dei raggi laser e dei boomerang luminosi che, gli uni dopo gli altri, colsero di sorpresa la comandante zelana. Zhora però, accusati i colpi, ci mise un niente a rispondere con missili e raggi scagliati con una ferocia devastante.
La battaglia proseguì per alcuni interminabili minuti mentre Pete, reggendosi come poteva allo schienale del sedile per resistere alle botte e agli scossoni, assisteva allibito al modo di combattere di Fabrizia, che coniugava ordini mentali e vocali, a gesti che sembravano accompagnare i colpi, come se fosse davvero lei a sferrarli. La sua mente tornò al giorno in cui si erano conosciuti, quando lei gli aveva detto: "Io non guido Balthazar, io sono Balthazar!”
Bene, aveva appena avuto la risposta a cosa significasse davvero quella frase sibillina, alla quale da più di un anno cercava di dare una spiegazione.
Faticava a pensare che dietro a quel muso metallico dall'aspetto felino ci fosse la sua fanciullina. Sì, sua, vabbè Ci si era già soffermato a suo tempo, su quell’aggettivo possessivo; Briz non era sua, anzi non sarebbe mai stata proprietà di nessuno, questo era chiaro. Ma poi… cosa andava pensando, proprio in mezzo all’infuriare di una battaglia?
La voce di Zhora si fece sentire furibonda: Briz le stava dando troppo filo da torcere, per i suoi gusti, non era riuscita a liberarsi di lei nemmeno facendo saltare l'astronave con l'autodistruzione!
– Hai finito di umiliarmi, maledetta, insulsa ragazzina! Non sarò riuscita a realizzare il piano iniziale, ma se ucciderò i piloti di Balthazar e del Drago Spaziale, Darius me ne sarà sicuramente riconoscente! – ringhiò.
Briz, nemmeno troppo sorprendentemente, le rise in faccia.
– Certo, come no! Baciami il culo, puttana!
Oh, sì, eccola! Sotto quella corazza di metallo bianco e oro, a comandare con la mente l'immenso gattone, Pete riconobbe davvero la fanciullina! Sua o meno, non aveva importanza!
Briz spinse Balthazar contro il robot di Zhora, affondandogli i denti acuminati in una spalla. Attraverso i vetri dei due abitacoli, le due donne si squadrarono per alcuni istanti, e Pete ebbe la netta sensazione che Zhora fosse rimasta alquanto sconvolta nel vedere l'aspetto della pilota di Balthazar.
Fabrizia approfittò immediatamente del momento di smarrimento della zelana: il leone sfoderò gli artigli luminosi e li piantò nel petto del robot nemico, dai cui occhi partì una coppia di raggi verdastri che colpì in pieno la carlinga e i due giovani, facendoli finire a terra travolti dall'orribile sensazione di una scossa elettrica. Briz fu costretta a mollare la nemica, poi, visto come aveva funzionato bene nell'hangar, sparò un'Ondata Congelante che ricoprì il mostro di una spessa crosta di ghiaccio.
Briz si preparò ad attaccarla nuovamente, ma il robot nemico sembrò cambiare colore, un alone rossastro lo circondò e la crosta di ghiaccio si sciolse in pochi secondi. Una palla di fuoco, partita dal centro del suo petto, rischiò di colpire in pieno Balthazar, ma fu solo per un attimo. Togliendosi abilmente dalla traiettoria infuocata, per non finire cotti al forno, Briz si ritrovò per un attimo indecisa: ci voleva qualcosa di drastico, e sapeva che il Thunderbolt molto spesso non perdonava, ma era anche vero che le portava via una percentuale importante di energie. Se non avesse funzionato, non avrebbe avuto più forze sufficienti per continuare a combattere, e non aveva il Gaiking e il Drago Spaziale a pararle le chiappe: era consapevole che i compagni avrebbero impiegato ancora un po' per arrivare, ma non poteva di nuovo ingaggiare battaglia per un tempo interminabile.
Fu a quel punto che la voce famigliare, che spesso le veniva in aiuto nei momenti difficili, si fece sentire.
"Fallo, gnappetta. Andrà bene, tranquilla!"
– Se lo dici tu, Ale… – sussurrò, incurante del fatto che Pete potesse sentirla e prenderla per pazza.
Senza pensarci un istante di più, Briz riuscì a immobilizzare, per pochi, preziosi secondi, il robot di Zhora con un Ruggito Paralizzante; poi sollevò il braccio destro e lo mosse repentinamente, prima in cerchio e poi in avanti, come se stesse usando una lunga frusta, e urlò il nome della sua arma più potente.
La coda di Balthazar raccolse il fulmine prodotto dalle proprie ali e lo lanciò contro il mostro nemico: le saette gli si avvolsero intorno, ricoprendolo di una rete luminosa e letale. Le urla di Zhora rimbombarono nelle orecchie di Briz e Pete, finché un boato e un lampo accecante le spensero.
Fumo, scintille e schegge metalliche investirono Balthazar, scagliandolo nel vuoto per qualche centinaio di metri; Fabrizia faticò non poco a riprendere il controllo e, quando ci riuscì, il primo pensiero coerente fu solo uno: "Come sta Pete?" 
Si voltò per guardarlo, mentre con un rapido gesto della mano sollevava la celata dell'elmo felino, scoprendosi il volto lucido di sudore. Lui la guardò a sua volta, affascinato, e a lei sfuggì un mezzo sorriso: Pete era in ginocchio, praticamente abbracciato alla poltroncina, però sembrava stare bene… compatibilmente con la situazione. Infatti lo vide mollare la presa e afferrarsi il braccio sinistro che aveva ricominciato a sanguinare, anche se non a fiotti come prima; lui la guardò nuovamente, mentre si rialzava faticosamente in piedi, con una domanda inespressa negli occhi che era più che ovvia: "Stai bene?"
Briz, ansante e sfinita, assentì in silenzio e sollevò appena una mano ricoperta di acciaio bianco, per fargli capire di non avvicinarsi. Tutto quello che lui riuscì a fare, fu obbedire e crollare seduto sulla poltroncina, tenendosi il braccio.
A quel punto dovevano solo incontrarsi con il Drago Spaziale, a cui avevano trasmesso le coordinate; meglio non spostarsi, ci avrebbero pensato Sakon e Daimonji a raggiungerli.
Briz disse qualcosa, che alle orecchie di Pete suonò come Ancoraggio, e riprese posto al centro della carlinga: il leone si immobilizzò, mantenendo la posizione nel vuoto dello spazio, senza più spostarsi. Le botole attorno a lei si riaprirono e Briz spinse di nuovo il pulsante luminoso: in un solo attimo i pezzi dell'armatura si staccarono dalle sue membra con la stessa violenza con cui ne erano stati attratti. Ancora una volta il suo corpo si contrasse e si inarcò, mentre un grido soffocato le usciva dalle labbra; le ferite all'avambraccio destro e alla coscia sinistra sanguinavano ancora.
A Pete venne spontaneo alzarsi di scatto e avvicinarsi alle sue spalle, e tutto sommato fece bene, perché, nel momento in cui le botole si richiusero dopo aver riaccolto i pezzi dell'armatura, Briz barcollò all'indietro e perse l'equilibrio, finendogli tra le braccia a peso morto, stremata come non le era mai capitato. Piombarono pesantemente sulla poltroncina, che si era riavvicinata al posto di guida, una addosso all'altro.
La ragazza fece per rialzarsi, ma non ci riuscì, un po' perché non ne aveva la forza, un po' perché Pete la trattenne, nonostante una fitta di dolore al braccio ferito. La vide annaspare e ansimare, come se non riuscisse più a respirare, per alcuni terrorizzanti momenti; poi, finalmente, un fiotto di aria le si riversò nei polmoni e, lentamente, il respiro le tornò regolare.
– Briz, ce la fai? Ma che cosa… cosa ti succede? – le chiese, sconvolto.
Anche la ragazza era stupita: una crisi respiratoria di quel genere non le era mai capitata, aveva davvero creduto di soffocare! Fu assalita da un forte attacco di nausea, che la fece di nuovo boccheggiare per qualche istante e ringraziare di avere lo stomaco vuoto; le sembrò che tutto, attorno a lei, girasse come una giostra impazzita, dalla quale non poteva scendere. Il mondo cominciò a fermarsi con una lentezza esasperante e la nausea si placò. Non ebbe nemmeno il tempo di provare sollievo, che la temperatura le salì repentinamente, superando i quaranta gradi. Scossa da violenti brividi, con la pelle d'oca e l’epidermide in fiamme e ipersensibile, le venne spontaneo raggomitolarsi su sé stessa, esattamente come a Pete venne spontaneo raccogliersela tra le braccia, nei limiti delle sue possibilità, stringendola e tentando di trasmetterle un minimo di calore. Nonostante la ragazza tremasse per il freddo, Pete sentì contro la guancia la sua fronte rovente: era pallida come la luna, salvo per due pomelli arrossati sulle gote.
– Mio Dio, Briz, ma è sempre così, quando ti disconnetti?
La ragazza non rispose subito, si sforzò di fare qualche lungo respiro, cercando di dominare il tremito che non accennava a diminuire.
– N-Non so perché… qu-questa volta è molto p-peggio… non d-dura mai così t-tanto e… non è mai così f-forte – riuscì ad articolare, benché i denti le battessero incontrollabilmente.
Nemmeno lei capiva: quando si era disconnessa la prima volta, dopo aver congelato l'hangar dell'astronave di Zhora, i disturbi erano stati lievissimi, tanto da non crearle quasi nessun fastidio.
Ora, la sensazione di gelo nelle vene e di vuoto sia mentale che fisico stava diventando insopportabile: le sfuggì un gemito spezzato, lungo e straziante, che a Pete fece accapponare la pelle.
– Briz… ? – mormorò, impotente e disperato.
– Sto male… è come una mano… di nebbia gelata… che mi strappa qualcosa… dentro…
– Da… dentro…?
– D… dall’anima… ahaaa…
Pete avrebbe voluto avvolgerla meglio tra le braccia, ma il braccio sinistro quasi inservibile glielo impediva. Col destro attorno alle sue spalle la premette di più contro di sé, cullandola appena, tenendole le labbra schiacciate sulla fronte bollente e il volto tra i capelli scompigliati.   
Finalmente il calore che irradiava dal corpo di Pete cominciò a pervaderla: lentamente i brividi calarono di intensità fino a fermarsi e per Briz fu come se il buio si dissipasse dal suo animo. Si lasciò sfuggire un lungo sospiro e il giovane la sentì abbandonarsi tra le sue braccia per poi stringersi più forte a lui.
 
Briz-in-braccio-a-Pete
 
Le ferite all'avambraccio e alla gamba di Briz non sanguinavano quasi più, e anche il suo volto riprese un po' di colore.
– Va meglio? – le chiese accarezzandole un braccio, sentendo che stava tornando alla temperatura normale e che la pelle d'oca si era attenuata.
– Sì, solo… ti dispiace… tenermi così ancora per un po'?
– Insomma, se proprio devo… Abbracciare una bella ragazza è un sacrificio mica da poco – scherzò Pete, rilassandosi a sua volta.
Si rese conto che quello appena passato era stato, probabilmente, il momento più terrorizzante di quella brutta avventura, perché lui non aveva saputo, nel modo più assoluto, cosa fare per affrontarlo. In realtà, anche se non se ne rendeva conto, ciò che aveva fatto era tutto quello di cui Briz aveva avuto effettivamente bisogno: che lui fosse lì, semplicemente.
La ragazza soffocò un lieve sorriso contro la sua spalla e pensò che, nonostante la posizione sacrificata in cui si trovavano, non si sarebbe mossa di lì per niente al mondo. Poi la consapevolezza di ciò a cui l'amico aveva appena assistito si palesò e, senza volerlo, sentì tutti i muscoli tendersi nuovamente.
– Che c'è, fanciullina?
– Hai… visto il mostro?
– Sì, e sei anche stata molto brava: l'hai fatto fuori da sola, senza l'aiuto di nessuno.
– No, Pete, non hai capito: io non intendevo il Mostro Nero, ma quello in cui mi trasformo io, quando combatto. Adesso capisci perché non ho mai voluto dirlo, né a te, né agli altri?
– Per quale motivo dovresti sentirti mostruosa? Non lo capisco.
– Te ne sei accorto, no? A volte io non sono… sola, mentre combatto.
Effettivamente, poco prima che lanciasse l’arma con cui aveva sconfitto Zhora, gli era sembrato che Briz parlasse con… qualcuno? Quella strana faccenda gli riportò alla mente il giorno in cui la ragazza aveva scoperto il Thunderbolt e alla spiegazione che Daimonji aveva dato, relativa al DNA di suo fratello ancora presente nei connettori neurali di Balthazar. Non erano argomenti in cui lui fosse particolarmente ferrato, ma era sottinteso che fosse Alessandro, la presenza che lei avvertiva durante le battaglie e con cui pareva, in qualche modo, interagire. E a dire il vero, considerato il modo in cui lei la presentava, la cosa lo inquietava, persino; ma di certo non gli faceva vedere Briz come una creatura orrenda e disumana. Pensò che a volte, in momenti difficili e complessi, la mente avesse bisogno di aggrapparsi a qualcosa, per non vacillare; quella di Briz aveva, semplicemente, scelto il ricordo del suo amato gemello.
– Io non ho visto nessun mostro, – le ribadì, sottovoce – ma solo una tizia dannatamente forte e coraggiosa. E vuoi sapere una cosa? Quella cavolo di armatura ha persino un certo fascino, su di te.
A quelle parole, Pete la sentì ammorbidirsi di nuovo e persino lasciarsi sfuggire una risatina nervosa.
– Ah-ah, ma certo! – commentò ironica – Sembro un incrocio tra ser Lancillotto e un Power Ranger! 
– Beh, io adoro il personaggio di Lancillotto – disse Pete; poi aggiunse, con tono da cospiratore: – E se mi prometti di non dirlo a nessuno, ti confesso anche che quando avevo undici anni andavo matto per i Power Rangers!1
– 'cidenti! A saperlo prima, quante paturnie mi sarei risparmiata!
Sentendola scherzare, anche Pete si sentì un po' meglio.
Briz teneva il capo chinato in avanti, e lui le sollevò i capelli sulla nuca, scoprendo il tatuaggio e osservandolo in silenzio.
Aveva visto bene: rappresentava davvero il leone con la criniera di fuoco. Attorno ad esso, con i bordi parzialmente coperti dalle fiamme, si vedeva bene la forma di un cuore rosso stilizzato, disegnato con due semplici tratti curvi asimmetrici.
Briz capì benissimo cosa stesse guardando Pete, e si concentrò su quello per non pensare a quanto le piacesse sentire le sue dita tra i capelli.
– Alla fine l'hai visto, eh? – disse rassegnata.
– Perché, era un segreto di stato?
– Ah, no no… prima o poi doveva accadere.
– L'hai fatto la vigilia di Natale, vero? Era questo che quella sera ti faceva male.
– Hm-mm. Una delle mie ultime cazzate.
– E perché? Non mi pare una cosa così strana, di questi tempi.
– Non pensi che sia una frivolezza?
– Non particolarmente, è una voglia che ho avuto anch'io, quella del tatuaggio – confessò Pete.
– Davvero? E dove te lo sei fatto?
– Ah, sentila, la curiosona! Ti piacerebbe vederlo, eh? – la provocò, sfoggiando un sorrisetto malizioso e vagamente diabolico.
Briz avvampò al punto di sentirsi le guance bruciare, ma non si lasciò prendere in giro.
– Sì, mi piacerebbe, a meno che non sia in un posto… che so, dove non batte il sole. Nel qual caso, passo.
– Beh, la verità è che alla fine… non l'ho fatto, perché quando ci pensavo non mi veniva in mente niente, scritta o disegno che fosse, che volessi davvero portarmi addosso per tutta la vita. Ma il tuo ha un senso: tu sei Cuordileone, e lo sarai per sempre.
Briz non trovò nulla con cui ribattere a quel complimento sottinteso; lui lasciò che i capelli le ricadessero sulle spalle e tacquero, cercando di rilassare le membra provate dalla fatica e dal dolore, traendo conforto, nonostante la scomodità, dalla stretta vicinanza dei loro corpi; un po’ come la notte che avevano passato insieme durante la prigionia nel sottosuolo del Sahara.
– Stai meglio, ora? – le chiese dopo un po’.
– Sì, è passato – rispose Briz.
Pete la scostò appena per guardarla in viso.
– No, non è passato – disse piano, vedendole una piccola goccia scarlatta appena sotto la narice sinistra.
– Che cosa c'è? – chiese Briz preoccupata.
Pete riuscì, nonostante il braccio quasi fuori uso, a toglierle dalla cintura dei jeans i resti strappati della camicia; fu sollevato dal fatto di riuscire a muoverlo un po’.
– Niente di grave, direi: ti sanguina il naso – le disse asciugandoglielo.
Briz si ritrasse, disgustata.
– Bleah, ma che schifo! – brontolò, girando la testa per non farsi guardare.
– Briz, non è niente, solo un po' di sangue dal naso. Messi come siamo, goccia più, goccia meno…! Guarda, ha già smesso… Non ti è mai capitato da ragazzina? A me sì, qualche volta – la rassicurò Pete, girandola di nuovo verso di lui e finendo di ripulirle il viso.
Si bloccò di colpo, guardandola a occhi sgranati.
– Che altro c'è? – esclamò lei, agitata.
Pete fissava, allibito, il ciuffo di capelli che le incorniciava il lato destro del viso e che le scendeva poi lungo la spalla. Si arrotolò la lunga ciocca attorno alle dita e gliela mostrò: la ragazza vide, inorridita, che i capelli, da castani, diventavano lentamente bianchi come la neve. 
Le venne voglia di urlare e si impose di tacere premendosi un pugno sulla bocca, ma non riuscì a trattenere un gemito soffocato. Nessuno dei due fu capace di proferire parola.
Nell'arco di un minuto la ciocca, larga diversi centimetri, era diventata candida, partendo dalle radici fino ad arrivare alle punte, spiccando con il resto della chioma scura.2 
Briz alzò gli occhi in quelli di Pete, lasciando che due lacrime le rotolassero silenziose sulle guance.
– Che cosa… mi sta succedendo? – disse a voce bassa, con le labbra che tremavano e un tono a metà tra il rassegnato e il disperato.
– Io… non ne ho la più pallida idea, credimi – le rispose, non meno confuso di lei.
– Cosa! Stracavolo! Mi sta! Succedendo?! – reiterò Briz urlando, afferrandogli e stringendo fra le dita contratte la stoffa macchiata di sangue della sua maglia e scrollandolo, praticamente in preda a una crisi isterica; Pete le afferrò la mano e le diede a sua volta uno scrollone.
– Calmati! – le ordinò in tono perentorio, con uno sguardo duro come l'acciaio.
Lei si immobilizzò, come se avesse preso uno schiaffo, e lo guardò smarrita; la stretta sulla sua mano si allentò e gli occhi di Pete tornarono a essere solo preoccupati.
– Okay, fantastico – commentò Pete, come a sé stesso – Ho imparato cosa fare con una ragazza isterica, oltre che con una che piange. Avanti, adesso prendi un paio di bei respiri e tranquillizzati – le disse con calma.
Lei annuì e respirò, poi abbassò gli occhi e crollò il capo in avanti, sentendosi completamente avvilita.
– Fabrizia Cuordileone, guardami – le disse Pete, sollevandole il viso con una mano – Io non so cosa ti stia succedendo, e finché non saremo a casa e Doc, Toshiro e Yumiko non ti avranno visitata, non potremo saperlo. So solo che io non posso farci niente, e nemmeno tu: è un dato di fatto. Mi hai ascoltato? – le chiese, pratico come sempre.
– Sì – mormorò lei, vagamente apatica.
– Dimmi come ti senti.
– Come mi sento, dici? – gli gridò, ritrovando la parola – A parte sfinita, lercia e sanguinante, vuoi dire?
– Oh, bene, riesci a fare del sarcasmo, vuol dire che sei tornata in te! Per la cronaca, anch'io mi sento esattamente così: sfinito, lercio e sanguinante! Il braccio mi fa male, molto! E anche la testa! – poi, vedendola così pallida, con le labbra tremanti e quella ciocca di capelli color della neve, smorzò i toni e proseguì – Ma passerà anche questa e andrà tutto bene, fanciullina: i nostri amici stanno arrivando. E adesso dammi quel braccio – le ordinò dolcemente.
Briz raddrizzò leggermente il capo e la schiena e obbedì; con calma e delicatezza, ignorando la posizione scomoda e il braccio sinistro dolorante e intorpidito, Pete riuscì a fasciarle alla bell'e meglio, con i resti della camicia, sia l'avambraccio che la coscia. Briz guardava affascinata i suoi movimenti, lenti e impacciati ma rassicuranti; respirando a fondo, come lui le aveva consigliato, cominciò a sciogliersi un po'. Gli sollevò il ciuffo dalla fronte e lui la guardò.
– Oh, Pete… il tuo occhio – sospirò scuotendo la testa, osservando la ferita al sopracciglio e il livido che stava diventando violaceo.
– Ah, non dirmelo… Me lo sento gonfio come quello di un rospo, credo sia un miracolo se ci vedo ancora qualcosa – rispose lui, chinando la testa e appoggiando la fronte sulla spalla di Briz.
Era sfinito anche lui, ma la carezza delle dita della ragazza fra i capelli gli diede un meraviglioso senso di pace e rilassatezza.
– Tranquillo, non è poi così gonfio; è solo molto… non so… nero? E viola… con sfumature di blu – gli disse, tentando di scherzare.
Proprio in quel momento il canale delle comunicazioni si aprì: la voce del dottor Daimonji riempì l'abitacolo e il suo viso barbuto apparve nel piccolo monitor, a destra della cloche.
– Pete! Fabrizia! Ci siete, state bene? Si può sapere che diavolo avete combinato stavolta? – chiese, ansioso e preoccupato.
Pete sollevò piano la testa dalla spalla di Briz, guardò verso il monitor e le disse: – Coraggio, rispondi, sei tu il comandante, qui.
Briz gli fece un breve sorrisetto nervoso e si chinò appena in avanti, ripristinando i contatti.
– Presenti, Doc. Per esserci, ci siamo, quanto allo stare bene… ci stiamo lavorando, ma avremo bisogno di Toshiro e Yumiko, e di lei. Abbiamo preso una discreta strapazzata.
– Santo Cielo – commentò Sanshiro, apparendo in una metà del monitor – mi sembrate usciti da un libro di Stephen King! Briz, che ti è accaduto ai capelli? E perché ve ne state abbracciati una addosso all'altro? 
– Ma grazie! – rispose Pete – Tu sì che sai come tirare su il morale agli amici! Ti dispiace se vi raccontiamo le nostre disavventure più tardi? Sparisci! – concluse in tono leggero.
Sanshiro, sollevato nel sentire l'amico scherzare, gli obbedì e scomparve dal monitor e, al suo posto, apparve Sakon ai comandi del Drago: anche lui fece una faccia stupita, nel vederli.
– Beh, Sanshiro non ha tutti i torti, circa il vostro aspetto; ne avrete un bel po', di cose da dirci, appena vi sarete ripresi. Stiamo per entrare in contatto visivo reale, riuscite a vederci?
Briz e Pete alzarono lo sguardo oltre la vetrata e il Drago Spaziale apparve in tutta la sua possente mole.
– Non avevo mai visto il Drago da lontano, nello spazio – disse Pete a bassa voce; poi aggiunse perplesso: – È per via della botta in testa che ho preso, o è davvero sempre stato così brutto?
– Ebbene sì, mio Capitano – confessò Fabrizia, mentre lo guardavano avvicinarsi a loro – Sono dispiaciuta di dirti che il Drago Spaziale è sempre stato orrendo, sgraziato e pancione. Ma ti giuro che in questo momento è la visione più bella che io abbia mai avuto… Devo riprendere i comandi e rimettere a cuccia il micione! – annunciò poi, riscuotendosi all’improvviso.
Con cautela si alzò, cercando di non far caso al dolore, e gli si tolse di dosso.
Nel separarsi ci fu un istante, che nessuno dei due avrebbe mai rivelato all'altro, in cui sentirono come un'inspiegabile sensazione di freddo: come se, tutto a un tratto, mancasse loro qualcosa.
Anche Pete si rialzò, dolorante quanto lei, e si posizionò a fianco della poltroncina, mentre la ragazza riprendeva posto e avviava le manovre di rientro. Al momento di infilare l’entrata tra i pannelli aperti sul petto del Drago, il braccio ferito e informicolito le tremò, facendole perdere per un attimo il controllo. Pete fu lesto a sporgersi in avanti e la sua mano destra si posò sicura sopra quella di Briz, rimettendo il leone in assetto, fino a riportarlo nell’hangar.
– Grazie – sospirò lei con un’occhiata ansiosa, sentendosi quasi inetta, per poi spegnere tutto.
Nell'auricolare le risuonò la voce di Sanshiro: – Senza scherzi, mi siete sembrati davvero messi maluccio, ragazzi! Abbiamo già allertato l'infermeria, veniamo a prendervi all'hangar.
– Apprezziamo molto, a fra poco – rispose Briz grata, ma stancamente, mentre Pete faceva un passo indietro, con un’espressione sofferente sul viso.
Briz lo vide barcollare e si alzò di scatto, nonostante la debolezza e il dolore alla gamba, affrettandosi a sostenerlo.
– Pete! Stai bene?
– Mmm, no, non proprio – rispose lui, appoggiandosi alla parete di fondo della carlinga – Comincio a pensare che nelle mie vene ci sia rimasto giusto mezzo litro d'acqua con qualche globulo rosso disperso…
– Andiamo, forza, prima che mi svieni come una donnetta! Dov'è finito il mio macho tosto e cattivo?
A coronamento di quella frase, fu lei quella a cui si annebbiò di nuovo la vista, e perse l'equilibrio finendogli addosso; nemmeno a farlo apposta, sarebbe potuto venire così bene.
– Scusami, non sono messa molto meglio di te – sussurrò appena, scuotendo la testa e rimanendo lì, appoggiata contro di lui.
Sollevò lo sguardo nel suo e si disse, con un certo orgoglio, che era riuscita nella sua temeraria missione: lo aveva riportato a casa vivo; massacrato, ma vivo. Pensò di meritare una ricompensa… Dopotutto gli aveva salvato la vita, e quella specie di patto che c’era tra loro – o gioco, o scherzo, o quel che fosse – consisteva ancora nel fatto che… "Se lei avesse avuto voglia di un bacio, se lo sarebbe preso".
Così chiuse gli occhi e appoggiò le labbra appena dischiuse a quelle di Pete, accorgendosi subito che quel lieve, innocente contatto, non le sarebbe bastato. Premette un po' di più la bocca, muovendola piano, mordicchiandogli dolcemente il labbro inferiore, indecisa se concedersi o meno qualcosa di più profondo. Il fatto che lui non la stesse respingendo, ma stesse ricambiando quel timido approccio, la fece decidere in un attimo e, con il cuore in tumulto e le guance in fiamme, gli sfiorò con la punta della lingua il labbro superiore.
“Oh, andiamo, ma che stai facendo, stupidona!” si disse staccandosi in fretta, con la precisa impressione, però, che a Pete, questa mossa imprevista, non fosse proprio dispiaciuta: sembrava più che altro sorpreso.
– Briz… ma che ti prende? – le chiese infatti, con un sorriso incerto e cercando il suo sguardo.
Lei tenne la testa bassa e non rispose, così lui gliela sollevò, con un dito sotto al mento, ma Briz tenne gli occhi chiusi. Sentì che la fronte di Pete toccava la sua, e anche il suo naso sfiorava la punta del suo.
– Allora? Che succede? – insistette lui sottovoce.
Briz aprì appena i occhi e si morse un labbro.
– Ma… niente… A-avevo bisogno di… f-fare qualcosa che mi convincesse che… ne s-siamo usciti vivi – balbettò confusa.
Ma che cavolo…! Solo lui riusciva ad essere attraente con addosso più sangue di un vampiro alle tre di notte e con un occhio nero e pesto! Si scostò e accennò un passo indietro, verso la piccola piattaforma dell'ascensore.
– Ehi, ehi! Dove credi di andare? – esclamò Pete, trattenendola per il braccio sano e riaccostandola a sé.
Le spostò una ciocca di capelli dal viso, gliela passò dietro l'orecchio e, guardandola intensamente, disse:
– A te è bastato così poco? Perché io… non sono mica ancora convinto, di esserne uscito vivo.
Briz si sentiva agitata e frastornata, ma il senso di quella frase non le sfuggì; mentre chiudeva gli occhi decise che, accidenti, andava bene così! No, andava più che bene: andava benissimo!
Ecco, magari non si era aspettata che Pete si sarebbe preso un bacio così prepotente, tenendole una mano dietro la testa e le dita intrecciate ai suoi capelli in modo quasi sgarbato, quasi avesse paura che lei volesse staccarsi; eventualità lontana anni luce, ovviamente. Pete sentì Fabrizia lasciarsi andare contro di lui, la sua mano risalirgli lungo il petto fino ad accarezzargli il collo e la guancia e intrufolarglisi tra i capelli, e la sua bocca cedere, tenera e calda, contro la sua.
Il bacio perse tutta la prepotenza e la furia iniziali, le loro labbra si schiusero morbidamente e il sapore del sangue e della paura si stemperò in una meraviglia di passione e dolcezza.
A entrambi venne spontaneo tentare di sollevare anche gli arti feriti per abbracciarsi e, a quel movimento dettato dall’istinto, ambedue avvertirono le labbra dell’altro contrarsi in una smorfia di dolore che li fece staccare, ma fu solo un attimo. Le loro bocche si fusero nuovamente, mentre le braccia sanguinanti rimasero lungo i fianchi, accontentandosi di afferrarsi le mani e stringersi le dita.
Briz lo spinse contro la parete, ed entrambi avvertirono un brivido quando il seno di lei si schiacciò sui pettorali di Pete, facendo quasi rimbalzare i loro cuori sulle costole. Dopo aver visto la morte così da vicino, quel bacio stava togliendo loro il fiato ed era, allo stesso tempo, una boccata di aria limpida: un lungo respiro di vita che, brioso e frizzante, gli serpeggiò felice tra le vene.
 
Briz-Pete-Bacio

Ormai appurato che la ragazza non si sarebbe staccata sdegnata – anzi, che non si sarebbe staccata affatto – la presa di Pete fra i suoi capelli si allentò, trasformandosi in una lenta carezza sulla nuca, scendendo lungo il collo e scivolando sulle spalle scoperte, stringendola poi in un abbraccio il cui unico rimpianto, avendo un braccio a testa fuori uso, era quello di non poter essere più completo e avvolgente. Dimenticarono completamente i loro abiti strappati e macchiati di sangue e di essere sfiniti, sporchi, doloranti e feriti. Il tempo dei bacetti da asilo d’infanzia era decisamente andato: in un attimo erano finiti in quinta liceo con tanto di esame di maturità; oltretutto, a quel che pareva, superato a pieni voti!  
Da quanto tempo ci giravano intorno, al desiderio di un bacio come quello? Mesi!  
Il pensiero che, forse, avrebbero dovuto smetterla, poiché giù li aspettavano, li sfiorò appena. Per tre o quattro volte accadde che, nel momento in cui uno dei due accennava a staccarsi, l'altro faceva in modo che le loro bocche si raggiungessero e si trovassero nuovamente, perdendosi una nell’altra.
La realtà tardò ancora un po’, a farsi strada nei loro pensieri; e quando, con riluttanza, le loro labbra si separarono definitivamente, non riuscirono ad allontanarsi l'uno dall'altra, ma nemmeno a guardarsi in faccia: rimasero lì, lei con la fronte contro il collo di Pete, lui con la guancia appoggiata ai suoi capelli, con gli occhi chiusi, tutti e due ansanti come dopo una corsa, i cuori che continuavano a battere impazziti uno contro l'altro. E con tutto il sangue che avevano perso, era tutto dire.
– Uoh… – sospirò Briz, restando morbidamente abbandonata contro di lui – Delinquente… avrai anche il cuore di ghiaccio… ma baci che è uno spettacolo!
Pete si accorse, dal tono di voce, che la ragazza stava ridacchiando, così le passò le dita nei capelli, scostandola un po' da lui e osservandole il volto pallido e gli occhi segnati.
– Anche tu, per essere solo una fanciullina ingenua; comincio a credere di non aver mai capito niente di te.
Briz gli sorrise: un sorriso stanco, sul volto provato dalla paura e dal dolore, ma che le illuminò gli occhi di una luce birichina e che le ridiede la sua solita spavalderia.
– Ma… seriamente, Pete? Non ho più tredici anni, anche se ho l'impressione che tu continui a pensarlo!
– Non è che pensassi… che tu non avessi mai baciato nessuno, prima… è solo che… – rispose lui, incerto.
– Senti, ne avevamo voglia tutti e due, lo sai! Anzi, ne avevamo… bisogno! Questo non significa che sarai costretto a regalarmi quel famoso anello che abbiamo visto in vetrina, con tutto ciò che ne consegue. Per quanto notevole, era un bacio. No, vabbè, forse erano anche quattro-cinque… Ma suvvia, non facciamocene un problema… non mi sono mica infilata tra le tue lenzuola!
Pete si sforzò di scacciare dalla sua mente la sconvolgente immagine di questa ragazza nel suo letto. Le sorrise, un po’ intenerito da quel tentativo di ridimensionare ciò che era appena accaduto.
– Briz, a volte sei davvero…
 – …sciroccata, delirante, fusa…? – suggerì lei – Sì, devi avermelo già detto.
– Già, ma è un concetto che ogni tanto è bene ribadire, no? Tranquilla, allora, non ti chiederò di sposarmi. Ma hai ragione: avevamo davvero bisogno di qualcosa di bello, dopo questo casino – concordò lui, con un’ultima stretta attorno alle spalle di lei e schioccandole un bacio sulla tempia.
Briz si staccò da lui e fece un passo indietro, sulla piattaforma dell'ascensore trasparente; pur suo malgrado, Pete la lasciò andare e la seguì.
La piccola piattaforma circolare si mosse verso il basso e lui approfittò del poco spazio per avvicinarla di nuovo a sé. Era sfinito, debole e, soprattutto a livello emotivo, confuso quanto lei, ma non riusciva ad allontanarsene. La ragazza gli appoggiò la guancia alla spalla, sentendosi non meno stremata e turbata di lui: quei baci, come abili e imprevedibili ladri, li avevano privati delle ultime energie rimaste.
Proprio ora che erano giunti alla fine di quell’avventura pazzesca e quasi surreale, e l’adrenalina cominciava a scemare e dissiparsi dai loro corpi, il dolore delle ferite si riacutizzò per entrambi: Briz si sentì improvvisamente le gambe molli e formicolanti e si aggrappò improvvisamente a lui, pallidissima e faticando a respirare.
– Pete… tienimi… – ansimò.
– Cosa c’è? Cos…
– Tienimi, sto per…
Non arrivò nemmeno a finire che si afflosciò tra le sue braccia, perdendo i sensi. Pete si chinò, passandole il braccio sinistro dietro alle ginocchia per sollevarla, preoccupato a morte; ma quel gesto istintivo, fatto senza pensare, fu troppo per lui: sentì distintamente la ferita riaprirsi e il sangue ricominciare a fluire copiosamente, penetrando la fasciatura di fortuna. Il dolore lo colpì come una violenta e improvvisa staffilata, costringendolo a crollare in ginocchio e ad appoggiare la schiena della ragazza svenuta alle proprie gambe per non lasciarla cadere; si ritrovò col respiro mozzato e, per un attimo, faticò a ritrovare l’aria.
– Briz! Che ti succede? – riuscì ad articolare, quando riprese fiato.
Continuò a chiamarla, tenendole il braccio sano attorno alle spalle, ma lei rimase inerte, con la testa reclinata all’indietro, le labbra livide e screpolate e gli occhi chiusi, le cui lunghe ciglia non riuscivano a celare le occhiaie violacee. Di nuovo, un filo scarlatto stillò da una narice e le colò lungo la guancia contusa. E quella ciocca bianca che risaltava tra i capelli scuri…
Oh, Dio! Pete non si era mai sentito così disperato, inutile e spossato: il suo braccio ferito continuava a sanguinare e a pulsare, in fitte lancinanti, all’unisono con il cuore, la testa e l’occhio, mentre si costringeva a sostenere come poteva il corpo di Briz, tentando di non svenire per il dolore. 
 
 
Briz-Pete-feriti
 
La porta dell'ascensore si aprì e Pete, sfiancato e pallido almeno quanto Fabrizia, si trovò davanti Sanshiro e Bunta che misero a fuoco la situazione in un attimo.
Sanshiro si chinò davanti all’amico inginocchiato e, presa in braccio la ragazza esanime, la adagiò su una delle due attrezzate barelle, pronte per portarli alla stanza di primo soccorso. Bunta aiutò Pete a rialzarsi, sostenendolo per condurlo all'altra lettiga.
– Pensate… prima a Briz. È ferita…
– Perché tu no, invece? Non preoccuparti, Sanshiro la sta già portando da Doc, all'infermeria: starà bene.
– Bunta, mi è svenuta fra le braccia! La NGC… Ha combattuto… Non… – Pete non riuscì a finire la frase: la vista gli si offuscò, i rumori si attutirono…
Fu un attimo… e anche per lui, il mondo scomparve.
 
 
> Continua…
 
 
 
Note:

1 I Power Rangers erano una serie di telefilm (18 stagioni!!!) andate in onda a partire dal 1993, della Saban Entertainment, che racconta le avventure di gruppi di teenager che diventano supereroi e si avvalgono anche dell'aiuto di vari robot. Una robetta ridicola, ma ricordo che a mio figlio piacevano un botto! 
                                                                    
2 Mi è stato detto che i capelli, dopo uno stress o uno spavento, possono davvero imbiancarsi (la chiamano “Sindrome di Maria Antonietta”, poiché pare che alla regina sia accaduto davvero, durante la vana fuga a Varenne della famiglia reale, durante la Rivoluzione Francese) ma comunque non imbiancano tutti di colpo: cominciano dalla radice e diventano bianchi man mano che crescono. Effettivamente è logico, ma a me piaceva che questa cosa avvenisse così, in modo repentino. Quindi, perdonatemi la licenza un po’ favolistica che mi sono presa.


Uhm uhm… state dicendo che è successo qualcosa, oltre alla sconfitta di Zhora e alla ciocca di capelli bianchi?
Eh? Che cosa? Dite che si sono baciati? Cioè baciati davvero con la lingua? No, ma dai... e io dov'ero quando è successo??? 

Eh, beh, insomma, 26 capitoli per una pomiciata decente… magari era pure ora... peccato che siano entrambi un po’acciaccati, ma pare che loro abbiano gradito lo stesso ^^'  Voi non so… Perché… avete visto che lo hanno preso come l’ennesimo gioco, vero?
Ed ecco che mi arriva addosso il Thunderbolt... 

No, dai... bastano i disegni per farmi perdonare?  Sapete, vi dirò che ne sono piuttosto fiera, io che di solito mi sminuisco sempre. 
Però... non è che vi dà fastidio il sangue, vero? Perché ammetto che mi sono divertita ad abbondare... sadikona, io! 
(E pensare che a me fa pure impressione!
)

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Capitolo 28
*** 27 - Piuttosto che ammetterlo... ***


~ 27 ~ 
PIUTTOSTO CHE AMMETTERLO…
 
 
Quando Pete riprese i sensi, era immerso nella penombra di una stanza che non era l'infermeria del Drago: era a terra, nella clinica annessa alla struttura del Centro. La luce che filtrava dalle strisce della tapparella abbassata lo informò che era giorno fatto, forse da un pezzo, ed era comunque sufficiente per ferirgli gli occhi, o meglio, l'occhio: il sinistro. Il destro era bendato e se lo sentiva gonfio, con la pelle che tirava sul sopracciglio; sicuramente gli avevano dato un paio di punti.
Quanto al braccio sinistro, era coperto da una medicazione piuttosto estesa che tamponava lo squarcio e immobilizzato da un semplice tutore di tela, ma sentiva la ferita bruciare e altri punti tirare: di certo più di un paio; non osò pensare a quanti potessero essere. I medici dovevano avergli dato una ripulita, poiché indossava una t-shirt bianca e un paio di calzoni da tuta grigi, di cotone leggero. Si accorse che faticava a muovere anche il braccio destro e, girando appena la testa, vide il trespolo di acciaio con appesa un grossa sacca di plastica, contenente del liquido trasparente, e il tubicino che da essa finiva sotto a un cerotto applicato nella parte interna dell'avambraccio.
"Meraviglioso, una flebo" si disse scocciato.
Poi si rincuorò pensando che, almeno, non gli stavano facendo una trasfusione di sangue: in fin dei conti, sembrava solo soluzione fisiologica, probabilmente con l'aggiunta di una buona dose di antibiotici e analgesici. Ma quanto aveva dormito? Per quel che capiva, avrebbero potuto essere due ore come venti: aveva completamente perso la cognizione del tempo. Gli faceva male la testa… si sentiva suonato come… come diceva, Briz? Come una canzone di Michael Jackson.
Richiuse l’occhio; l'unica cosa che la sua mente gli mostrò fu la ragazza svenuta tra le sue braccia, pallida da far paura, con il rivoletto scarlatto che le colava dal naso, la ciocca di capelli candidi e la canottiera turchese chiazzata dal sangue di entrambi.
– Briz… – disse con la voce bassa, resa rauca dalla gola secca e infiammata.
– Vuoi smetterla di preoccuparti per Briz, ridotto come sei? – disse la voce di qualcuno, che emerse dalla penombra, facendosi più vicino: Bunta. Accanto a lui c'era il dottor Daimonji.
– Ehi, Capitano Richardson – gli disse sommessamente lo scienziato – Hai preso una bella batosta, stavolta: il dottor Watanabe ha detto che hai rasentato il rischio di una trasfusione, ma per fortuna sei giovane e forte.
Pete deglutì faticosamente, sentendo la gola bruciare, e chiese di nuovo:
– Dov'è Briz?
– È a pochi metri da qui, nell'altra stanza.
– Come sta? Mi ha salvato la vita, Doc! Voglio vederla!
– Ma vi siete messi d'accordo? Sono praticamente le stesse parole che ha detto lei di te, quando ha ripreso i sensi. No, non puoi vederla, non dovete muovervi, per ora. Ma in definitiva, credo che stia meglio di te.
– Ma allora… Voglio dire, le ferite, la connessione, il sangue dal naso e… qu-quei capelli bianchi…? Mi è letteralmente crollata tra le braccia!
– Beh, – intervenne Bunta, cercando di alleggerire la tensione che avvertiva nell'amico – a te è andata meglio: a me sei crollato tu, fra le braccia! E per quanto l'universo femminile ti possa considerare un bell'esemplare, ti assicuro che io ne avrei fatto a meno: non sei esattamente il mio tipo, e sei pure pesante!
A Pete sfuggì un sorriso debole e tirato: se Bunta scherzava, era ovvio che Briz stesse meglio.
– Cosa le è successo, Doc? – gli chiese, tentando di mettersi seduto; Bunta lo aiutò a sollevarsi e gli mise un paio di cuscini dietro la schiena, prima di porgergli un bicchiere d’acqua che alleviò la sua gola riarsa.
– Beh, anche lei ha perso parecchio sangue, anche se non quanto te. Ci sto studiando sopra, ma ho bisogno che mi dica di più: appena starà meglio, ne parleremo. Briz ha deciso che, a questo punto, anche gli altri sappiano cosa le accade, di preciso, quando si connette con Balthazar.
– Io… non avrei mai immaginato niente di simile, credevo che cose del genere succedessero solo nei film. È… pazzesco… come quasi tutto quello che la riguarda… – concluse Pete, quasi parlando a sé stesso.
– Ora smetti di preoccuparti per Briz, te l'ho detto: sta abbastanza bene, è solo molto debole per la perdita di sangue e lo stress che il suo fisico ha subito. Adesso vorrei che tutti e due provaste a riposare ancora un po', Toshiro ha detto che ve ne starete qui in osservazione almeno qualche giorno. Tra te e lei, avete addosso un sacco di punti di sutura e pure un trauma cranico ciascuno: il tuo in particolare non è stato da poco; e avete in circolo tanti di quei sedativi, da dormire una settimana.
– A me sembra già di aver dormito due giorni, però ammetto che mi sento ancora molto intontito. Se me lo ordina lei, Doc, ci proverò – si arrese Pete, non troppo convinto, ma comunque tranquillizzato sulle condizioni di Briz.
– Bravo ragazzo; e, per la cronaca, sono solo quattro ore che siete ricoverati qui. Toshiro tornerà più tardi a visitarti.
Pete annuì, chiudendo l’occhio, e Doc e Bunta uscirono silenziosamente. Solo quattro ore… era mattino inoltrato, dunque erano stati via tutta la notte? Gli salì un risolino nervoso. Cavoli, Briz aveva ragione: il tempo passava in fretta, quando ti divertivi!
“Oh, al diavolo, sto cominciando a ragionare come lei!” si disse.
Mollò un sospirone di sollievo, ripensando al fatto che, tutto sommato, la ragazza stesse abbastanza bene. Ma dormire era assolutamente fuori discussione, se prima non fosse riuscito, in qualche modo, a comunicare con lei. E a quel punto gli sovvenne, di colpo, che lui era senza auricolare: glielo avevano preso gli zelani, e, indubbiamente, anche a Briz era stato tolto quando era giunta in infermeria. Quanto al suo cellulare… merda! L'aveva perso sulla spiaggia, quando i pennuti lo avevano aggredito: era sicuramente andato perduto, sepolto chissà dove.
La porta si riaprì piano, e la voce indecisa di Sanshiro interruppe i suoi pensieri; alle sue spalle c'era Sakon.
– Pete, possiamo entrare? Come stai?
– Un po' meglio, grazie, entrate pure. Avete visto Briz?
– Sì – rispose Sakon – È di là, che dice di non volerne sapere di dormire, se prima non parla con te; solo che siete tutti e due senza auricolare e…
– …e il mio cellulare è andato a puttane – brontolò Pete.
– Infatti. Vuoi parlare con lei? – gli chiese Sanshiro.
– Secondo te, sapientone? – gli rispose brusco.
– Tu sei proprio fantastico, sai? Riesci a essere indisponente e antipatico anche quando sei mezzo schiantato! Tieni – disse Sanshiro, allungandogli il suo braccialetto – Midori ha prestato a Briz il ciondolo che le ho regalato: potete tenerli, finché i medici non vi daranno il permesso di alzarvi.
Pete guardò sorpreso l'oggetto d'argento e lo prese, sentendosi un emerito imbecille.
– Grazie… e scusami, se a volte sono così scorbutico. Sei un amico, davvero.
– Sarebbe anche ora, che te ne accorgessi! Ma non fa niente, lo so che sei preoccupato per lei. Avanti, chiamala.
Pete schiacciò la piccola pietra azzurra incastonata nel braccialetto; la voce di Briz rispose quasi subito dalla microtrasmittente.
– Pete! Come stai?
– Per dirla con parole tue, rincoglionito. Come stai tu, piuttosto!
– Mmm… così… come te; mi sembra di aver preso un mucchio di botte.
– Che, così a occhio, è proprio quello che ci è successo, direi. Sei sola?
– No, ci sono Midori e Jamilah, qui con me: il consiglio femminile al gran completo. Pete, non darti pensiero per me, ti prego: va tutto bene, credimi. Solo, senti… la prossima volta che, per qualche strano motivo, avrai voglia di invitarmi a fare una passeggiata al chiaro di luna… avvertimi prima, sulle possibili conseguenze: magari ci penserò su.
Nel sentir parlare di passeggiata al chiaro di luna, Sanshiro e Sakon si guardarono stupiti; nella stanza di Briz, Midori e Jami fecero lo stesso, ma loro due nemmeno se ne accorsero.
– È stata la mia fortuna, averti chiamata dalla spiaggia e che tu abbia visto tutto dalla telecamera, decidendo cosa fare senza pensarci troppo. Evidentemente, a volte, seguire l'istinto ha i suoi vantaggi: mi hai salvato la vita, Briz.
– Sì, capirai che gran salvataggio, ne sei uscito più massacrato di me! Posso dire la stessa cosa a te: ti sei beccato quel raggio tagliente nel braccio perché non mi arrivasse dritto in faccia… e poteva andarti persino peggio: pensi che potrò mai dimenticarlo? È già la seconda volta che tu, salvi la pelle a me.
– Anche tu, allora: la prima è stata quando sei riuscita a svegliarmi dall'ipnosi coi tuoi metodi… alternativi.
Sakon e Sanshiro, a quel punto, fecero per andarsene, poiché sembrò loro che il dialogo tra i due stesse assumendo un tono molto personale, ma un’occhiata di Pete fece loro capire che potevano rimanere e così Sanshiro si sedette sulla sedia, e Sakon rimase in piedi di fronte a lui, appoggiato alla ringhiera ai piedi del letto, ascoltando la conversazione che riprese una piega leggera.
– Ah, bello… lo hai fatto perché me lo dovevi? – ridacchiò Briz.
– Anche, ma non solo: chi mi avrebbe portato fuori di lì e combattuto con Balthazar, se tu fossi morta? – ribatté Pete sullo stesso tono.
– Dunque è per questo che ti sei fatto maciullare, eh? Me lo ricorderò! – disse Briz, proseguendo lo scherzo. Poi divenne più seria: – Ogni  volta che chiudo gli occhi, vedo del sangue. Dappertutto, a schizzi, a secchiate…
– Anch’io, ora che ci penso… Ne abbiamo lasciato davvero tanto, sulla nave di Zhora, e nella carlinga e nell’ascensore di Balthazar…
– Ah, davvero, guarda… sembrava che avessero scannato il porco!
– Ecco, hai reso l'idea, come sempre – rispose Pete, divertito.
Sanshiro e Sakon da una parte, e Midori e Jami dall'altra, ridacchiarono mentre gli altri due tornavano di nuovo più seri, anche se solo per un attimo.
– Vorrei vederti – disse Pete, a voce bassa – ma me lo hanno proibito… e mi hanno attaccato a una dannata flebo! 
– Anche a me, ma forse stasera me la levano. In ogni caso non sarei un bello spettacolo: sono bianca come una mozzarella e, tra i punti che mi hanno dato al braccio e alla gamba e questi orribili capelli, devo ancora decidere se somiglio di più alla moglie di Frankenstein o a Crudelia DeMon.1 
– Ah-ah! Qui se c'è uno che somiglia a Frankenstein, sono io, con i punti sul sopracciglio.
– Ce ne vuole, per farti somigliare a Frankenstein, biondone! – rise lei.
– Almeno quanto a te per sembrare Crudelia.
A quel punto anche a Sanshiro venne da ridere, e gli altri lo seguirono; sebbene i ragazzi fossero in una stanza e le ragazze nell'altra, si sentirono tutti e sei molto vicini. Pete e Fabrizia si rassicurarono di nuovo sulle loro condizioni e, dopo un altro paio di scambi scherzosi, chiusero il contatto promettendosi di riposare.
– Chi è Zhora? – chiese Sakon, incuriosito.
– Ti prego, lascia perdere; magari lo racconterà Briz, un giorno, quando ci saremo tutti. Conoscendola, saprà rendere la storia interessante e, forse, persino divertente, nonostante tutto.
– Allora, a proposito di Briz: quando ti deciderai a dirglielo, Pete? – gli chiese Sanshiro.
– Dirle cosa?
– Che ti sei preso una cotta devastante per lei.
Il tono del giovane era di un candore totale, come se avesse detto la cosa più ovvia e normale del mondo. Pete lo guardò con un'espressione talmente incredula e con l'occhio sano talmente spalancato, che per poco Sanshiro e Sakon non scoppiarono a ridere.
– Io non mi sono preso un bel niente proprio per nessuno! Ti sembro il tipo? – fu la risposta quasi ringhiata.
Sanshiro, con una vena di sarcasmo, non si diede per vinto.
– Tu non sembri il tipo per un mucchio di cose, poi si scopre che invece lo sei, eccome! Ma andiamo, è perché è la tua migliore amica, che la inviti a passeggiare sulla spiaggia al chiaro di luna?
– Sì, Sanshiro, proprio per questo! Doc ci ha obbligati a lavorarci sopra dei mesi, per arrivarci. Era una bella serata, non ci vedevamo da un po' e volevamo fare due chiacchiere, è proibito? O sei anche tu di quelli che non credono che un uomo e una donna possano essere solo amici? – rispose Pete, chiedendosi perché diavolo si sentisse in dovere di dare all'amico tutte queste spiegazioni.
– Okay, – proseguì Sanshiro imperterrito – quindi è sempre perché siete amici, che nella carlinga di Balthazar, prima di scendere, avete passato un tempo interminabile a limonare come due sedicenni in piena tempesta ormonale!
Il cuore di Pete perse un paio di colpi e credette di aver sentito male; se lo scopo di Sanshiro era stato quello di scioccarlo, c'era perfettamente riuscito. Deglutì rumorosamente, un vero e proprio gulp da fumetto, prima di provare a parlare.
– Ma che co… Che ne sai… Tu… – cominciò tre frasi, non ne finì una.
– Beh, il commento di Briz è stato piuttosto chiaro – fece l'amico – Qualcosa del tipo: "Wow, per avere il cuore di ghiaccio, baci che è uno spettacolo"! 
Questa volta, l'ineffabile Capitano Richardson rimase letteralmente senza parole e lo fissò, bocca aperta e occhio sgranato; quasi come Sakon, che guardò anche lui Sanshiro chiedendosi come potesse sapere una cosa del genere. Sanshiro si portò una mano all'orecchio destro.
– L'auricolare: quello di Briz era ancora acceso. Noi li avevamo spenti tutti, quando siete atterrati dentro al Drago, dopo avervi detto che venivamo a prendervi perché ci sembravate messi maluccio; tranne il mio, per avvertirvi che io e Bunta stavamo arrivando ai piedi di Balthazar ad aspettarvi. E l’ho lasciato acceso perché, arrivati lì, mi sembrava che ci steste mettendo troppo a scendere e temevo ci fosse qualcosa che non andava. Ma poi ho capito che invece… le cose andavano, altroché, se andavano!
Pete avvampò, cosa decisamente inusuale per lui e, incurante della flebo, si portò la mano destra alla fronte, facendola poi scivolare lungo la faccia, con un sospiro quasi comico. Si riprese rapidamente e guardò Sanshiro con il suo solito atteggiamento indifferente, ma l'amico continuò a tormentarlo.
– Fra l'altro mi sono chiesto… Sì, insomma, a me non è mai capitato…
– Non ti è mai capitato cosa, sentiamo! – esclamò Pete, esasperato.
– Di farne svenire una con un bacio! Cosa diavolo fai, tu, alle donne?
Sakon scoppiò a ridere, mentre Pete, rispondendo a Sanshiro, cercava di mantenere un'espressione irritata, senza peraltro riuscirci troppo.
– E tu quanto sei cretino, da uno a dieci? Dodici, tredici? – gli chiese, accorgendosi, suo malgrado, di aver appena usato un’altra battuta di Briz – E comunque, visto che ti sarai spudoratamente ascoltato anche tutto il resto, saprai senz'altro cosa ci siamo detti. Era solo un bacio: un modo come un altro per essere sicuri che fossimo ancora vivi. Fine.
– Sì, vai convinto, Pete, che ci crediamo tutti! Persino Yamatake è  certissimo che tra voi ci sia del tenero!
– Oh, ma sicuro, è risaputo che gli Armadi Quattro Stagioni sono esperti di affari di cuore! – esclamò Pete, sarcastico.
A quel punto intervenne Sakon.
– Facciamo il gioco della verità, Pete: per una volta, sii sincero con noi… e con te stesso.
Pete lo squadrò da sotto in su con l’occhio buono, sollevando il relativo sopracciglio, con un'espressione che era tutta un programma. Il gioco della verità? Alla loro età? Che gli prendeva, a questi due? Che poi, poteva capire Sanshiro, che si divertiva a sfotterlo ogni volta che ne aveva occasione, ma Sakon…?
– Ma da che parte stai tu? Sei diventato l'avvocato del diavolo? – gli chiese.
– In questo caso sì. Credo che Sanshiro abbia ragione, e non solo lui.
– Oh, Dio! Tu quoque, Brute!2 – sospirò Pete, sentendosi un tantino tradito, mentre Sakon proseguiva.
– Bene, ora che hai fatto sfoggio della tua cultura di latino, andiamo avanti. Parlavamo di verità: dimmi qualcosa che ti piace di Briz. Tralasciando l'aspetto fisico, naturalmente, che quello lo sappiamo già che ti piace un botto.
Pete guardò entrambi gli amici e decise di arrendersi, altrimenti non se li sarebbe più tolti di lì. La richiesta di Sakon era fin troppo facile: cosa gli piaceva di Briz? Aveva un mucchio di risposte.
– È coraggiosa e determinata; è dannatamente simpatica: riesce a farmi ridere, e non è poco. È sincera: riesce sempre a dirmi la cosa giusta al momento giusto, bella o brutta che sia… infatti non mi vergogno di confessarvi che mi ha fatto anche piangere, che era persino più difficile. Sa sdrammatizzare ed esorcizzare la paura, trovando qualcosa su cui ridere anche a un passo dallo schiattare, come ci è successo stanotte… Volete sapere altro?
– Sicuro di non aver tralasciato qualcosa? – insistette Sanshiro – Tipo che ha un buon profumo, per dirne una? Perché s’è visto, una volta, quando ti è passata accanto, che hai annusato l’aria. E poi si vede che sorridi con te stesso, quando infila un discorso metà in inglese e metà in italiano, come quando comincia una frase con “Dai, va là”, tanto per dirne un’altra.
– Stai dicendo tutto da solo… e comunque non mi sembrano cose così particolari. Non ho problemi a dire che mi piace anche il suo essere incoerente e casinara. Ve l’ho già detto: a dispetto di come abbiamo cominciato, è diventata la mia migliore amica.
– Facciamo una cosa, allora: dimmi cosa non ti piace di lei. Certamente hai meno da pensarci.
Pete tacque, limitandosi a guardarli irritato e trattenendosi dallo sbuffare.
– Bene – sentenziò Sakon – Credo che quest'ultima risposta stia tutta in un'unica parola: niente. 
Pete distolse lo sguardo e continuò a tacere. Era vero, non riusciva più da parecchio tempo, ormai, a trovare qualcosa di Briz che non gli piacesse; ma non l’avrebbe confessato nemmeno al prete in punto di morte, figurarsi a questi due, che stavano rivelando un insospettabile lato pettegolo, degno di due vecchie comari campagnole!
– Vuoi sapere la mia opinione? – gli chiese Sanshiro a bruciapelo.
– No! – gli rispose l'interpellato in modo deciso – Ma tanto so già che me la dirai lo stesso – concluse rassegnato.
Infatti Sanshiro diede subito il suo lapidario giudizio.
– Sei innamorato perso.
Pete sembrò pronto per sfoderare una delle sue risposte pungenti, ma ci ripensò; quando parlò, il discorso fu alquanto ponderato.
– Adesso mi ascoltate voi due, e aprite bene le orecchie! Briz non è il tipo che s'innamora facilmente, figurarsi di uno come me; è troppo intelligente per fare una stupidaggine del genere. Io men che meno: l’amore è una cosa al di là delle mie capacità e ho ben altro a cui pensare. Posso riconoscere che tra noi ci sia… una certa attrazione fisica: non siamo fatti di legno. Però, Briz non è una ragazza da storie del cavolo! È una persona seria, da quel punto di vista, ha dei buoni princìpi… e le cose tra noi non potranno mai essere diverse da quello che sono ora. Un conto è un bacio dato in un momento di stress emotivo, un altro imbarcarsi in una relazione che sarebbe solo fisica: ho troppo rispetto per lei, per spingermi oltre certi limiti. Volevate la verità: bene, è questa! Spero di essere stato chiaro, perché non voglio tornarci sopra, e che il discorso si chiuda qui, per favore! Cambiando argomento: se c'è una cosa che ho scoperto, stando qui a Omaezaki, è che voi, Dio sa come, siete diventati i migliori amici che io abbia avuto da parecchi anni a questa parte, per cui è giusto che sappiate che ho anch'io un paio d'occhi che ci vedono bene… Beh, insomma, magari non in questo momento – disse sfiorandosi la benda – E comunque, grazie all’amicizia con Briz, mi è tornata in funzione anche un minimo di sensibilità. Sakon, lo so che la storia di Lisa ti ha schiantato, ma sei stato proprio tu a dirmi che ci sono cose, nella vita, che a un certo punto bisogna lasciare andare. Quindi: quand'è che farai un passetto di più con Jamilah, oltre a quel bacetto sulla fronte da fratello maggiore che le hai dato più di due mesi fa? Il rapporto tra me e Briz sarà pure complicato, ma oserei dire che, sotto certi aspetti, tu e Jami siate decisamente più indietro di noi… ed è un peccato, perché voi due, al confronto, avreste certamente più possibilità. Quanto a te, Comandante Tsuwabaki… Beh, probabilmente tu e Midori siete invece parecchio più avanti… O forse no, perché non ci vuole un pozzo di scienza per capire che c'è qualcosa che non quadra, tra voi; non so cosa sia, ma non pretendo di saperlo, a meno che non siate tu, o lei, a volermene parlare. In definitiva… direi che avete una camionata di cavoli vostri da farvi! Ergo, non vi sognate di venire a dare a me consigli sui sentimenti, finché non avrete concluso qualcosa di decente con le vostre donne! E adesso sparite, tutti e due! Probabilmente Doc ha ragione, quando dice che devo starmene tranquillo – concluse, tentando maldestramente di liberarsi di uno dei cuscini; Sakon lo aiutò a trovare una posizione più comoda.
Lui e Sanshiro lo avevano ascoltato in silenzio, un po' stupiti di scoprire che Pete li considerasse i suoi migliori amici, e anche che avesse capito così tante cose di loro e delle ragazze. Decisamente il loro capitano, e sicuramente, ora, anche amico, vedeva e comprendeva più cose di quanto mostrasse. Però cominciava ad accusare la stanchezza, non era il caso di infierire oltre, con lui.
Prima di uscire, tuttavia, Sanshiro non riuscì a resistere dal dirgli un altro paio di cose.
– Sul fatto che Briz sia una ragazza seria, non se ne discute nemmeno; e chissà, forse è vero che non è una che si innamora. Però ti vuole bene.
– Lo so: Briz vuole bene a tutti, è troppo buona. Avrebbe offerto una via di uscita anche alla nostra ultima nemica… Un altro aspetto di lei che mi piace, sei contento?
– Pete! Ascolta quel che ti dico e stampatelo bene nella mente, perché stavolta son serio: Fabrizia Cuordileone è la cosa migliore che potesse mai capitarti, l'unica che potrebbe dare un po' di senso a quel casino che è la tua vita! Cerca di non essere tanto stronzo da farla soffrire!
Si interruppe qualche secondo, poi, con la mano già sulla maniglia della porta e a voce più bassa, concluse: – O tanto coglione da fartela scappare.
Pete riuscì solo a concedergli un’occhiata pensosa; Sanshiro fece altrettanto e, con un mezzo sorriso, se ne andò, soddisfatto, per una volta, di aver avuto l'ultima parola con lui, su qualcosa di serio.
Pete si ritrovò a guardare la porta chiusa.
Però! Se i veri amici erano quelli che si dicevano in faccia anche le cose difficili… allora, loro tre, lo erano diventati sicuramente.
 
* * *
 
A Fabrizia sembrò di rinascere, quando l'infermiera – una donnona buona e simpatica, ma bruttina e, alla necessità, severissima – intorno alle dieci di sera le tolse la flebo e le permise di alzarsi, aiutandola per andare in bagno e darsi una rinfrescata. Si era risollevata molto, parlando con Pete, quella mattina: anche se lo aveva sentito lievemente intontito, era contenta di sapere che se la sarebbe cavata senza troppi problemi. Ma, nel pomeriggio, le amiche erano tornate a farle compagnia per un po’ e, a un certo punto, la conversazione aveva preso una piega che non le era piaciuta affatto.
Midori e Jami le avevano detto che, in tarda mattinata, quando l’avevano salutata per lasciarla riposare, passando davanti alla stanza di Pete avevano sentito Sanshiro che raccontava di sapere ciò che era accaduto tra loro nella carlinga di Balthazar.
Briz era stata così costretta a dare alle amiche spiegazioni e giustificazioni, chiedendosi perché si sentisse in dovere di farlo, poi! Jami e Dori avevano fatto le loro belle insinuazioni e tratto le loro conclusioni, sul fatto che fosse totalmente inutile continuare a negare di essere innamorata del loro bel Capitano, e piacevolezze del genere. E niente, alla fine, se aveva voluto pace, aveva dovuto letteralmente cacciarle via tirando loro dietro un cuscino, non prima di aver fatto loro una lunga filippica sul fatto di quanto fosse del tutto fuori luogo che si sentissero in diritto di darle consigli sulla sua vita sentimentale, quando loro stesse erano nel delirio più totale quando si trattava degli uomini di cui loro erano innamorate! Che tornassero su questo argomento, con lei, quando avessero risolto i loro, di casini! Oh, insomma, ma tu guarda le amiche quanto potevano diventare pettegole, a volte!
Quando l’infermiera se ne fu andata, con cautela si alzò di nuovo dal letto e si diresse allo specchio del piccolo bagno: aveva ripreso un po' di colore, e riposare tutto il resto del pomeriggio le aveva ridato un aspetto… beh, non radioso, questo era certo; diciamo accettabile, anche se a momenti si sentiva ancora molto stordita, stanchissima e assonnata. Si ripromise di tornare a dormire dopo poco, ma prima voleva assolutamente fare una cosa.
Aprì piano la porta e, a piedi nudi, uscì in corridoio, zoppicando rasente al muro; cavoli, se tiravano i punti alla coscia! L'infermiera e la dottoressa Mori parlavano sottovoce nell’ambulatorio, le sentiva. Quatta e sinuosa come un gatto, almeno quanto glielo permetteva l’andatura claudicante, aprì la porta della stanza di Pete, entrò e se la riaccostò piano alle spalle.
Pete, ancora mezzo appisolato, si era appena accorto, con sollievo, che l'infermiera gli aveva rimosso la flebo mentre dormiva: non se ne era nemmeno reso conto! Non ricordava di aver mai dormito tanto, e così profondamente, in vita sua; i sedativi che gli avevano somministrato dovevano essere stati calcolati per Yamatake, non per lui.
Sentì la porta aprirsi e intravide una sagoma silenziosa intrufolarsi nella stanza. La scena gli ricordò quella della notte precedente, quando era prigioniero sull'astronave di Zhora e aveva riconosciuto Briz dal laccetto rosa fluo dell'anfibio: un'ombra tra le ombre, come stavolta, ma ora il segno distintivo fu la ciocca di capelli che, anche nella semioscurità, risaltava bianchissima.
Il giovane si sollevò, senza staccare lo sguardo da lei, mettendosi seduto; fu soddisfatto di esserci riuscito senza troppo sforzo, nonostante il braccio sinistro immobilizzato. Briz si avvicinò e gli sorrise; senza aspettare un invito si sedette, non sulla sedia, ma sul letto, in modo da poterlo guardare in faccia.
– Ciao, Frankenstein – gli sussurrò, sollevandogli i capelli dalla fronte con una carezza, per osservargli il volto che, attorno all'occhio bendato, era livido e un po' gonfio.
– Ciao, Crudelia – rispose lui allo stesso modo, sfiorando il ciuffo color della neve e notando il pigiama leggero che indossava, con stampati disegnini infantili: orsetti, così a occhio e croce.
– Che ci fai qui, a quest'ora? – le chiese, stupito.
– Ma che domande mi fai? Sei stato tu, stamattina, a dire che volevi vedermi.
– Sì, è vero, ma se la dottoressa Mori ti becca qui, ci sgrida tutti e due; per non parlare dell'infermiera, che è un incrocio tra un velociraptor e un ippopotamo con i baffi.
– Uh, paura, mi fanno! Dopo Zhora, credi che mi potrebbero spaventare loro? Però hai ragione, volevo solo vederti. Adesso ho appurato che stai abbastanza bene, non voglio farti stancare e sto per crollare di nuovo anch'io. Cinque minuti e me ne torno nella mia stanza – disse Briz trattenendo a fatica uno sbadiglio.
– Okay, ma facciamo cinque minuti lunghi? Ti prego – le disse Pete,  con un tono fintamente lamentoso che la fece ridere sommessamente.
– Urca, Capitan Richardson che mi prega… ma quando mi ricapita? Si vede che sei sotto sedativi, eh?
A Pete sfuggì un sorriso, mentre si riappoggiava all'indietro contro i cuscini; Briz si lasciò attirare verso di lui, che le passò il braccio destro attorno alle spalle. Cercando una posizione che non desse noia alle loro ferite, Briz si distese accanto a lui, gli appoggiò una guancia e una mano sul petto e chiuse gli occhi.
– Stai comoda?
– Una meraviglia.
– I nostri amici vogliono metterci insieme a tutti i costi, lo sai? – le disse Pete, con voce assonnata ma divertita, come se fosse l'eresia del secolo; anche lui teneva gli occhi chiusi e parlava sottovoce.
– E se chiunque di loro entrasse adesso, e ci trovasse così, che altro potrebbe pensare? – ridacchiò lei.
– Anche questo è vero… E in più, Sanshiro e Sakon sanno anche che io e te, nella carlinga…
– Shh, – lo interruppe lei – notizia già vecchia: anche Midori e Jamilah lo sanno.
– Ah, ma fantastico, Sanshiro ha fatto un ottimo lavoro, ha scatenato il Gossip del Drago Spaziale! Tanto valeva scriverlo sui muri: “Richardson e Cuordileone pescati a pomiciare senza ritegno”.
– Se ci fossimo presi a parolacce, forse avremmo destato meno stupore – commentò Fabrizia lasciandosi sfuggire un'altra lieve risata, senza cambiare posizione – E comunque, chi se ne frega. Te l'ho già detto, non c’è da ricamarci molto sopra: ci siamo solo baciati, non siamo mica andati a letto insieme!
– Davvero? Perché… non so, magari sbaglio… ma mi sembrava proprio che in questo momento tu fossi a letto con me – disse lui, continuando col tono malizioso.
– Stai sempre a guardare le piccolezze, te – sussurrò Briz – Che poi, scusa, se mai dovesse venirci di nuovo voglia, di un bacio fatto come si deve, dove sarebbe il problema? Io non piangerei… – concluse, sentendosi avvolgere da una piacevolissima sensazione di spossatezza.
Si accorse di non riuscire più a sollevare le palpebre e, lentamente, si lasciò sopraffare dal sonno, cullata dal battito assurdamente lento del cuore di Pete, il quale si ritrovò a pensare che era la seconda volta che Briz gli si addormentava tra le braccia. Certo l'altra, quando erano prigionieri degli Zelani nel Sahara, era stata persino più drammatica. Una vocina si fece viva nel suo cervello e lo prese in giro: "Sì, proprio così, sono già due volte, e ti piacerebbe un bel po' che dormisse tra le tue braccia tutte le notti, e per ben altri motivi!"
Oh, Dio! Si impose di far tacere quel petulante suono.
E ora? Cosa doveva fare con questa piccola pazzoide, che stendeva i nemici a colpi di karate, baciava come un angelo, gli dava praticamente il permesso di rifarlo e gli si intrufolava nel letto per dormire abbracciata a lui? Sanshiro gli aveva detto di non essere tanto stronzo da farla soffrire, né tanto coglione da lasciarsela scappare. Si rese conto che quell'ultimatum, lanciatogli dall'amico, era come un serpente che si mordeva la coda: non aveva soluzione. Non farsela scappare avrebbe implicato una storia seria tra di loro, che l’avrebbe fatta sicuramente soffrire. No, lei aveva già dato, e di certo meritava di meglio: Fabrizia Cuordileone era troppo, per un bastardo problematico come lui.
Restava l'altra alternativa, quella di passare per coglione, che lui preferiva di gran lunga: meglio rinunciare a lei piuttosto che rischiare di farle del male.
E il fatto che fosse pronto a far questo, significava, ormai senza scampo, che doveva arrendersi alla realtà. I suoi amici avevano ragione: innamorato perso era l’unica definizione che si avvicinasse a quel che provava per questa ragazza, che si era quasi fatta uccidere per lui e per la quale era andato vicino a fare la stessa cosa.
Non sapeva quale fosse stato, il momento preciso in cui si era  innamorato di Briz, ma una cosa era certa: era stato molto, ma molto prima, di quel momento. Probabilmente era accaduto in riva al laghetto, quando aveva pianto tra le sue braccia; no, era stato prima, nella cella zelana; o forse quando avevano cantato insieme a capodanno… o quando l’aveva salvata dalla base nemica prendendo Balthazar tra i denti del Drago… Oh, basta! La verità era che si era innamorato di lei almeno una decina volte, o forse anche un centinaio… E se avesse continuato a pensarci, e ad andare a ritroso nel tempo, avrebbe finito per concludere che si era innamorato il giorno in cui aveva incontrato il suo sguardo la prima volta, poco più di un anno addietro.   
Sospirò, stringendola a sé e sfiorandole la fronte con le labbra.
 
Briz-Pete-ospedale
 

"E va bene, bestiolina selvatica: sei riuscita a fondermi il cuore e a farmi perdere la testa… ma piuttosto che ammetterlo con qualcuno, mi faccio impiccare!"
Con quest'ultima ammissione che gli frullava nella mente, anche il Capitano Richardson finì per sprofondare in un sonno pesante, senza per questo mollare la stretta attorno al corpo morbido e caldo di Briz. Almeno, nei sogni, poteva illudersi che fosse davvero la sua fanciullina.
Fu solo diverse ore più tardi, che Briz si sciolse pian piano dall'abbraccio di Pete, stando attenta a non svegliarlo. Accidenti, erano ormai le cinque del mattino! Doveva andarsene, se non voleva venire sorpresa lì da Mrs. Velociraptor, l’infermiera.
Si soffermò un attimo a guardare il ragazzo, alla tenue luce che filtrava dal vetro sopra alla porta: così fasciato e pallido appariva totalmente vulnerabile, sembrava persino più giovane. Si era fatto massacrare per salvarle la pelle… ma non sarebbe mai potuto essere l'uomo della sua vita: lui meritava di meglio. Pete Richardson era troppo, per una pazza incasinata come lei!
Gli accarezzò lievemente una guancia con la punta delle dita, e si chinò a lasciargli un bacio leggero sulle labbra, avvertendo il sapore del disinfettante.
Mentre si sollevava e se ne andava, silenziosa come era arrivata, pensò rassegnata:
"Ti amo, Richardson… Ma piuttosto che ammetterlo con qualcuno, mi faccio ghigliottinare!"
 
> Continua…
 
 
Note:
1 Frankenstein lo sapete tutti chi è, vero? Il mostro di Mary Shelley. Crudelia DeMon, invece, è la cattiva della Carica dei 101 di W. Disney, che aveva i capelli metà neri e metà bianchi. Precisazioni superflue, suppongo.
 
Tu quoque Brute: non credo sia necessaria nemmeno questa, di precisazione, ma per andar sul sicuro… Significa Anche tu, Bruto, ed è una frase attribuita a Giulio Cesare, quando vide suo figlio adottivo Bruto tra i congiurati che lo stavano uccidendo.
 

 
E va bene... cappio e ghigliottina per  'sti due zucconi... 
Ma ditemi voi, io che responsabilità ho? È colpa mia se ‘ste due capocce dure non collaborano e prendono decisioni in autonomia senza consultarmi? Io in un letto insieme ce li ho messi, che altro potevo fare, più di così? (Va be’ giustiziate anche a me, a questo punto… ma con un fucile, che è più veloce).

Vi lascio con un pensiero letto su un foglio attaccato all’armadio di mia figlia, che non so a chi appartenga, (non a me) e che un po’ mi ricorda il taglio di questa storia.

 
“La gente guarda il fisico, io guardo gli occhi.
La gente vuole baciarsi, io voglio abbracci.
La gente pensa al sesso, io penso a dormire insieme.
La gente crede alle promesse, io credo nel tenersi per mano.”

 

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Capitolo 29
*** 28 - Spiegazioni e confidenze ***


~ 28 ~ 
SPIEGAZIONI E CONFIDENZE
 
 
Obi-wan e Indy immersero i musi scuri nei mucchietti di fieno che Hakiro gli aveva preparato negli angoli dei rispettivi box: il ragazzo li osservò soddisfatto e si diresse verso l'uscita, in tempo per vedere Fabrizia che arrivava, a passo ancora un po' incerto.
Era passata poco più di una settimana dalla brutta avventura che aveva condiviso con il capitano Richardson, e tutti avevano pregato ogni giorno che l'Orrore Nero non attaccasse ancora per un po', che lasciasse loro il tempo di riprendersi e guarire.
Per Briz,  gli ultimi giorni erano passati in fretta da un lato ed erano sembrati lunghissimi dall'altro: le visite, i controlli e le medicazioni alle ferite si erano susseguite, noiose e frequenti, finché finalmente lei e Pete avevano ottenuto il permesso di fare una vita quasi normale. Una volta dimessi avevano ripreso i turni di guardia, ma avevano avuto la fortuna di non subire attacchi; forse avrebbero potuto far fronte a una battaglia comunque, ma era un'eventualità che nessuno di loro aveva molta voglia di verificare.
Nessuno si era accorto di quella nottata che avevano passato nello stesso letto – che, detta così, suonava davvero male, visto e considerato che avevano trascorso quelle ore a dormire come due orsi in letargo – e i loro amici, per fortuna, non avevano più accennato alla faccenda dei baci nella carlinga del leone robot.
Dopo quella notte, le cose tra loro avevano ripreso la solita piega: ironia, battute, affettuoso cameratismo e collaborazione nell’eseguire i loro compiti… Così, i momenti più intensi di quelle due notti tanto assurde e particolari, se ne rimasero lì, nella mente e nel cuore di Fabrizia, pronti per venire ricordati ogni volta che ne avesse avuto voglia, valeva a dire… diverse volte al giorno.
In quel periodo, durante il quale né lei, né Pete, erano stati in grado di occuparsi dei cavalli, ci aveva pensato Hakiro. Era solo un adolescente di quindici anni, ma Briz, per quel che riguardava i cavalli, si fidava di lui come di sé stessa, e non avrebbe proprio saputo come fare senza il suo aiuto. Lo raggiunse, sentendo i punti alla coscia che tiravano un po'; per fortuna le sue ferite stavano cicatrizzando bene e, nel giro di quattro o cinque giorni, le suture sarebbero state rimosse. Hakiro le andò incontro, frugandosi in una tasca.
– Briz, devo darti una cosa, credo sia tuo – le disse, porgendole un cellulare – L'ho trovato alcuni giorni fa sulla spiaggia, aspettavo di vederti per restituirtelo. È simile al mio, così l'ho collegato al mio caricabatteria per vedere se funzionava.
La ragazza prese l'oggetto e le bastarono pochi secondi per riconoscerlo: lo aveva anche usato, una volta, per parlare con la sconosciuta Melissa.
– Non è mio, è il telefono di Pete. Hakiro, cosa ti ha fatto pensare che appartenesse a me?
– Beh, quando l'ho acceso… – Hakiro si interruppe e lei, incuriosita dalle parole del ragazzo, guardò il display del cellulare, pensando che fosse già un miracolo che funzionasse ancora.
Un'immagine colorata apparve sulla schermata di blocco e lei rimase sbalordita: c’era una foto, bellissima fra l'altro, di lei di profilo, con la fronte appoggiata a quella di Obi-wan. La testa nera del cavallo contrastava con la camicia color fucsia acceso che lei indossava; sullo sfondo si intravedevano un cielo azzurrissimo e un mare color cobalto.
 
 
Briz-Obiwan-celllulare
 
Da quel che ricordava, quel momento doveva risalire a più di un mese prima… ma perché diavolo Pete teneva una sua foto come sfondo del cellulare? E perché gliel'aveva fatta, poi? Con un sorriso, si disse che non si sarebbe fatta nessuno scrupolo a chiederglielo.
– Grazie, Hakiro, glielo darò io, tanto fra un'oretta siamo convocati in riunione da Daimonji. Non avrei mai creduto che potesse rispuntare fuori, Pete sarà contento di riaverlo.
Hakiro la salutò, contento che il cellulare avesse ritrovato il suo padrone, mentre Briz si soffermò per una mezz'ora a giocherellare con i suoi amici quattrozampe.
Quando, più tardi, varcò la porta della sala comune, vide Pete sul terrazzo, attraverso la vetrata, che parlava con Sanshiro. Sebbene anche la sua ferita fosse in rapida via di guarigione, spesso teneva ancora il braccio sinistro al collo, come in quel momento; sul sopracciglio portava ancora una piccola medicazione, in attesa di rimuovere i quattro punti di sutura, ma almeno l'occhio non era più né gonfio, né livido. Non c'era nessun altro ancora e, nel silenzio, Briz sentì, senza volerlo, le sue parole.
– Io so solo che ogni volta che la guardo, e vedo quella scia bianca nei suoi capelli, non posso fare a meno di pensare a quello che ha fatto, alle ferite che si è procurata e a ciò che ha passato per colpa mia… Briz non sentì la risposta di Sanshiro, ma vedendo che si giravano entrambi verso di lei e notavano la sua presenza, li raggiunse sul terrazzo.
– Ehi, ciao Bri! – fece Pete, con un sorriso che le costò qualche battito.
Briz cercò di ignorare le acrobazie del suo muscolo cardiaco e guardò dietro di sé, fingendosi spaesata, come a cercare qualcun altro.
– Ma con chi parli? Chi è Bri? Che fine ha fatto la mia zeta? – esclamò divertita.
– Mm, non so, mi è uscito così – si giustificò lui.
Briz scosse la testa, fingendosi esasperata.
– Solo a un tipo pratico ed essenziale come te, poteva venire in mente di… accorciare un diminutivo! Ho una cosa da darti – disse, allungandogli lo smartphone; Pete lo prese, visibilmente sorpreso.
– Ma co… da dove salta fuori? Lo avevo davvero dato per perso, pensavo di andare domani a comprarne uno nuovo. Ma forse dovrò farlo comunque, non mi dirai che funziona ancora!
– Lo ha trovato Hakiro, sulla spiaggia e, sì, incredibilmente funziona ancora: questi aggeggi sono indistruttibili! Il mistero che non mi spiego è un altro – ghignò.
A quel punto Sanshiro, che stava per rientrare dagli altri, arrivati nel frattempo, diventò curioso come una scimmia e decise di restare.
– Quale mistero? – chiese intanto Pete.
– Questo – rispose lei riappropriandosi del telefono, accendendo il display e piazzandoglielo davanti alla faccia.
La foto di lei e Obi-wan apparve, luminosa e colorata. Pete esitò, cercando disperatamente una risposta, mentre Sanshiro sbirciava spudoratamente per poi guardare l'amico con espressione sardonica, come a dire: "Adesso voglio proprio vedere come ne esci!"
E allora Pete rispose senza indugio, spedito e deciso:
– È per Obi-wan, l'hai detto tu che ormai è più mio che tuo! Guarda com'è venuto bene: è bellissimo!
Sanshiro se ne andò, alzando gli occhi al cielo e battendosi teatralmente una mano sulla fronte, pensando che non ci fosse veramente speranza per questi due! Fabrizia invece si morse le labbra cercando di non scoppiare a ridere: doveva ammettere che questa gli era davvero uscita bene!
– Tu caschi sempre in piedi come i gatti, eh? – esclamò in italiano, dandogli una spinta giocosa.
Gli rese lo smartphone e, tirando fuori il suo, gli intimò perentoria: – E adesso vedi di passarmi quella foto! Hai ragione, Obi-wan è venuto benissimo.
Pete eseguì l'operazione e disse divertito:
– Però, dai… tutto sommato anche la bestiola insieme a lui è piuttosto fotogenica.
Briz gli mostrò la lingua e lo sgridò: – Non lo sai che è reato, fotografare le persone a loro insaputa?
– Tu non sei le persone: sei Briz. E, semplicemente, era una bella scena da fotografare.
Su questo Briz non poté dissentire e glissò, cambiando argomento.
– Senti… credo che mi deciderò ad andare da un parrucchiere, così farò tingere questa orribile orribilezza – disse, toccandosi il ciuffo bianco – E ne approfitterò per mettere in ordine questa informe massa lanosa, così tu smetterai di sentirti in colpa ogni volta che mi guarderai.
A quanto pareva, Briz aveva sentito ciò che aveva detto a Sanshiro, così Pete fece per ribattere, ma in quel momento Daimonji li chiamò e, insieme, rientrarono nella sala comune.
I ragazzi c'erano tutti e la cosa principale su cui Daimonji voleva farli ragionare, poiché lo preoccupava non poco, era come gli scagnozzi di Darius gli fossero praticamente arrivati sulla porta di casa. Le sentinelle erano già state raddoppiate, ma tutti giunsero alla conclusione che non si potesse fare più di così: anche troppo dispiegamento di forze di difesa avrebbe attirato i sospetti degli zelani. Briz disse che pregava di non dover trovare un'altra base per il Drago Spaziale, ed essere così costretta a spostarsi di lì.
– Perché ti fa tanta paura l'idea di cambiare, Briz? – le chiese Bunta.
– Ho fatto tanta fatica a lasciare il mio paese e ad abituarmi a stare qui. Mio padre diceva che sperava di aver dato a me e ad Alessandro le radici, per non dimenticare mai le nostre origini, e le ali, per andare senza rimpianti dovunque il nostro destino ci avesse portati…
– Beh, direi che le ali le hai avute! – esclamò Yamatake.
– Oh, no… Papà ha sbagliato le proporzioni, nel darci questi doni. Il viaggiatore era Ale: lui aveva le radici di una margheritina e un paio d'ali da fare invidia al Drago Spaziale. Io, al contrario, ho sempre avuto alette da libellula e radici che nemmeno un baobab! Amavo la mia famiglia, e il mio paesino e la mia casa… Come ci ero nata, pensavo che ci sarei vissuta e anche morta; immagina cosa possano essere stati, per me, gli ultimi anni. Ora mi sono legata a questo posto, Omaezaki, e spero di poterci rimanere, almeno per ora, ecco tutto.
– Lo speriamo tutti, Briz – disse Daimonji; poi proseguì, sempre rivolto a lei: – Allora, te la senti di parlare ai tuoi compagni di come avviene la NGC? Non sei obbligata, ma hai detto tu di volerlo fare, se non sbaglio.
– Sì, Doc, va tutto bene. Dunque, funziona più o meno così…
Briz spiegò a grandi linee la faccenda, ma poi, su suo invito, intervenne anche Pete, che raccontò ciò a cui aveva assistito dal suo punto di vista, mentre Briz osservava di sottecchi i suoi amici che non sapevano: Sanshiro, Fan Lee, Bunta e Yamatake. Poi riprese la parola lei, per spiegare ciò che Pete non poteva conoscere: le sue sensazioni fisiche ed emotive, il fatto che quando combatteva non si sentiva sola, e che lei avesse interpretato questo fatto immaginando che Alessandro combattesse con lei, semplicemente facendole avvertire la sua presenza; anche se lei stessa ammise che, con ogni probabilità, era tutta suggestione indotta dalla mancanza che sentiva del fratello. Infine riprese Pete, il quale raccontò degli effetti collaterali, che questa volta l'avevano lasciata letteralmente massacrata.
Lei scrutò le reazioni degli amici, ma nessuno di loro mostrò repulsione o paura: se mai trovò, nelle loro espressioni, ammirazione, curiosità e comprensione.
– So che ti stai chiedendo perché ne sei venuta fuori così male – disse Doc – La crisi respiratoria, il sangue dal naso, i capelli bianchi… oltre a nausea e febbre che sarebbero state ormai di routine, diciamo così, ma stavolta anche quelle sono state amplificate all’ennesima potenza. Ho studiato con attenzione i particolari di tutto ciò che mi hai raccontato, Briz, e niente… semplicemente, hai fatto il pieno. Hai eseguito la connessione due volte nell'arco di pochissimo tempo: non lo avevi mai fatto. Inoltre, l'averlo fatto senza la tua tuta speciale, non è un dato da trascurare. Dal tuo racconto, risulta che la prima volta avevi almeno la camicia, che un po' ti ha protetta, oltre al fatto che eri, probabilmente, talmente carica di adrenalina, al pensiero di andare a cercare Pete, da non aver nemmeno sentito gli eventuali malesseri, quando ti sei disconnessa sulla nave nemica. Ma la seconda volta avevi solo la canottiera, e il collo, le spalle e le braccia erano scoperte; ed eri ferita, avevi perso parecchio sangue ed eri più debole. In questa somma di condizioni già critiche, hai concluso in bellezza usando il Thunderbolt, e il tuo fisico, una volta che è finito tutto e tu ti sei rilassata, si è ribellato a un tale stress: ha dato troppo, tutto insieme. Cerca… di fare in modo che un sovraccarico del genere non succeda più.
Briz non rispose e si limitò ad annuire, prendendo atto di quel consiglio e chiedendosi come ne sarebbe uscita, da quella maledetta guerra, se non fosse finita in fretta. 
– Briz – la chiamò Doc, vedendola pensierosa – Detto questo, sappi che sei stata grande: senza la tua capacità di valutare così velocemente la situazione, e la conseguente decisione di come agire, temo che il nostro Capitano non sarebbe qui con noi. Hai fatto bene a fare quello che hai fatto.
– Posso confermare – disse Pete – E vorrei dire una cosa a Fan Lee: grazie per averle insegnato il karate. Ha messo al tappeto prima un Uomo Uccello, poi Zhora, usando le mosse che ti ho visto insegnarle. È stata semplicemente… mitica.
– Forse sarò anche un bravo insegnante, ma di sicuro Briz è un’ottima allieva; e hai la tua parte di merito, Pete: l'hai convinta tu a ricominciare gli allenamenti con me. Ma sono orgoglioso di sapere questa cosa, Fabrizia-san.
– Grazie, Sensei – rispose Briz, finendo poi di rispondere agli amici raccontando, per sommi capi, della loro rocambolesca fuga: di come Zhora l’avesse ferita, e di come Pete avesse prima messo fuori combattimento un cervello di piccione picchiandolo con un fucile difettoso, e poi l’avesse salvata prendendosi nel braccio il colpo destinato a lei.
– Senti, a proposito di questa Zhora… – intervenne Sakon, rivolto a Briz – Pete ha detto che ci avreste raccontato di lei, quando ci fossimo stati tutti. Allora…?
– In teoria non è di buon gusto ridere di chi è morto, ma… a Zhora la vampira ho offerto una scappatoia, e lei l'ha respinta; ed era decisa a ucciderci, fra le altre cose. Non riesco ad avere pietà né rispetto per lei, perché so che lei non ne avrebbe avuti per noi.
– Perché vampira? Era così brutta? – chiese Yamatake.
– No no – disse Pete – Anzi, sotto certi punti di vista, poteva essere considerata bellissima.
– Sì, e poi era vestita in un modo… – fece Briz.
– Beh, vestita… mica tanto – precisò Pete.
– Oh… La cosa si fa interessante – commentò il lottatore di sumo.
– Effettivamente, era alquanto succinta – confermò Briz – Quel po' di cuoio borchiato faticava a contenere tutto quel… quelle… – non volendo spiegarsi a parole, si mise le mani a coppa davanti al seno, mimandone uno molto più voluminoso.
A tutti venne da ridacchiare sommessamente, a quel gesto; anche a Pete, che fu prontamente redarguito.
– Cosa ridi, te? Che ti ci sono ben cascati gli occhi un paio di volte, su quelle poppe rifatte!
– Beh, ma era alquanto difficile non vederle! Era… appariscente, la diavolessa con gli ormoni in subbuglio! O… come l’hai appellata, anche? La sexy-panterona da quattro soldi!
– Perché tu, allora? Lady Silicone! E le hai detto anche che aveva la faccia da puttana in pensione!
A quel punto le risate si fecero più convinte, soprattutto al pensiero che battute come le ultime due fossero uscite da Pete, e non da Fabrizia.
– Briz – disse Bunta – Perché prima hai detto che voleva uccidervi fra le altre cose? Che altro poteva esserci di peggio? Il lavaggio del cervello?
– Sì, beh, anche… Ma la cosa più assurda, è che la sexy-vampira, il nostro bel capitano, voleva… farselo!
– No! Nononono! Briz, ti prego! – boccheggiò Pete, a metà tra un attacco di risate e uno di imbarazzo.
– Cosa? – trasecolò il pilota del Nessak – Farselo? In che… senso?
– Proprio quello, Bunta! In quel senso! – rispose Briz, lasciando l'oceanografo a bocca aperta – Io ero nascosta, e lui era praticamente crocefisso contro un pannello d'acciaio; e la porcona gli si è strusciata contro e se lo è sbaciucchiato e palpeggiato per bene.
– Ahahah! Ma dai?! – rise forte Yamatake, mentre anche gli altri sghignazzavano senza ritegno.
– E tu cosa hai fatto, Pete? – chiese Fan Lee.
– Secondo te? Ero immobilizzato! Ho fatto l'unica cosa che potevo: le ho dato un morso!
– Eh? Non ci credo! – trasecolò il solito Yamatake – Una gnocca tettona, supersexy e arrapata ti si struscia addosso e ti limona… e le dai un morso? Ma tu non hai mica capito niente, ragazzo mio! – concluse il giovanottone, mentre tutti gli altri, compreso Daimonji, non riuscivano più a smettere di ridere.
– Insomma, piantatela! È che a me… piacciono donne di tutt’altro genere, ecco! – si difese lui, grattandosi la nuca e cercando in tutti i modi di non guardare Briz.
Sanshiro e Sakon si guardarono per un istante, come per dire: lo sappiamo, e lui li avvertì con un'occhiataccia, tanto rapida quanto efficace, di non sognarsi di proferire parola.
– Che vuoi farci, Capitano? – disse Jamilah, senza riuscire a frenare la ridarella – Hai la sfiga di essere nato bello! Persino le aliene ti cascano ai piedi!
– Jami, ti prego, non ti ci mettere anche tu, eh? Ne ho abbastanza di questa storia!
Mentre le risate si spegnevano, Briz si alzò.
– Ragazzi, io sono sfinita, tra qualche ora ho il turno di guardia e i punti al braccio e alla gamba mi bruciano: credo che andrò a riposarmi un po', se non vi dispiace – disse, mentre anche gli altri si alzavano per andare a dedicarsi ai loro impegni.
Briz salutò tutti, poi si avvicinò a Pete e gli disse: – Grazie per avermi affiancato, mentre raccontavo della NGC; mi hai fatto sentire meno in imbarazzo.
– A me invece mi ci hai messo, mostriciattola! Ma fa niente, sto imparando a ridere di me stesso, grazie alla tua stupidera. Tutto sommato è divertente non prendersi troppo sul serio. E se sono riuscito a renderti meno pesanti le spiegazioni, sono contento: in fondo è a questo che servono gli amici.
– Già, devo dire che è un ruolo che ti riesce; di certo non ci avrei scommesso, un anno fa. Ciao, capitano, ci si vede – lo salutò, con un occhiolino e allungandogli una lieve carezza su una guancia.
 
* * *
 
La canzone che risuonava tutt'intorno alla costruzione delle scuderie, era in italiano. Pete riuscì a seguirne il senso abbastanza facilmente, mentre parcheggiava la moto, poiché le parole, cantate da una voce maschile, erano scandite piuttosto bene. Il ritornello, poi, era alquanto facile.
 
"Nessun rimpianto, nessun rimorso,
Soltanto certe volte, capita che,
Appena prima di dormire,
mi sembra di sentire
Il tuo ricordo che mi bussa ma,
io, non aprirò”. 1
 
Nemmeno troppo inaspettatamente, la voce di Briz accompagnò quella del cantante per un po', poi si spense, allontanandosi verso il retro. Si chiese se non ci fosse qualcosa di vero, in quelle parole, che la riguardasse, e se, magari, non fosse proprio il misterioso Diego, il ricordo al quale la ragazza non voleva aprire.
Il tardo pomeriggio di metà maggio era carico di profumi e di colori. Pete, nonostante tutto, si sentì tranquillo e rilassato; quel posto gli faceva quell’effetto, come se si calasse in un mondo parallelo, dove la guerra contro Darius non poteva entrare.
Sapeva che quel giorno Briz era andata a farsi tingere la ciocca bianca, l'orribile orribilezza, come lei stessa l'aveva chiamata con una delle sue assurde espressioni. Lungo il corridoio si ritrovò a fermarsi davanti a un piccolo specchio rettangolare con un angolo scheggiato, appeso a una parete di legno; senza nemmeno rendersene conto, si sollevò il ciuffo dalla fronte e si diede un'occhiata al breve sfregio verticale, che gli spezzava la parte più esterna del sopracciglio destro. Quel segno sarebbe rimasto lì per sempre, insieme a quello molto più evidente sul braccio sinistro che era ancora un po' dolorante; i punti erano stati rimossi e ogni tanto la cicatrice, nel suo processo di guarigione, cominciava a prudere, ma se quella ferita era il prezzo da pagare per la vita di Briz, era persino poco, e anche lui poteva solo ringraziare il Cielo, e Fabrizia stessa, se aveva riportato a casa la pelle. Lasciò ricadere i capelli sulla fronte e proseguì, massaggiandosi lievemente il braccio, sbucando sul retro, dove vide i cavalli scorrazzare nell'ampio recinto. Né lui, né Fabrizia, erano ancora pronti per risalire in sella: temevano che, sottoponendole a quel tipo di sforzo, le loro ferite potessero riaprirsi.
Il suo sguardo vagò alla ricerca di Briz; sapeva che anche a lei avevano tolto i punti e che si era ripresa bene, ed era curioso di rivedere la sua fanciullina di prima, con il sorriso birichino e tutti i capelli scuri. La individuò sulla destra del recinto, che gli dava le spalle, mentre arrotolava una corda: la camicia nera, con le rifiniture bianche e delle rose rosa ricamate sulle spalle, era talmente pacchiana che solo lei poteva indossarla con tanta disinvoltura; anzi, le stava pure bene. Subito dopo notò i capelli e quasi gli venne un colpo: visti da dietro, sembravano tagliati in un caschetto scalato e irregolare, che arrivava appena alla base del collo. Accidenti, gli aveva dato proprio un taglio drastico! In quel momento la ragazza sentì i suoi passi e si girò verso di lui, che notò come anche attorno al viso i capelli fossero stati sforbiciati, il ciuffo accorciato, ma Pete tirò un sospiro di sollievo: non li aveva tagliati corti, se li era solo tirati davanti, sulla spalla, come faceva spesso. Erano ancora piuttosto lunghi solo che, così scalati, facevano tutto un altro effetto: sembravano più soffici e leggeri.
Se non che, la ciocca bianca spiccava ancora, disegnando una mezzaluna attorno al lato destro del volto e scendendo poi giù, per tutta la lunghezza dei capelli; forse, con quel nuovo taglio, si notava persino di più.
 
 
Briz-new-look
 
Eppure lui rimase lì, la bocca semiaperta, a fissarla come un allocco: la verità era che, adesso, Briz gli sembrava addirittura più bella.
La ragazza appese la corda arrotolata al recinto e gli si avvicinò di un paio di passi, mentre lui si ficcava le mani in tasca, gesto che ultimamente, in sua presenza, gli era diventato abituale: sapeva che se non avesse fatto così, si sarebbe ritrovato a toccarla, o abbracciarla… o roba del genere.
– …Ehi, ciao… – disse lei, indecisa.
Fabrizia si era aspettata un commento, quasi sicuramente negativo, visto che il ciuffo bianco era ancora lì, ma Pete si limitò a salutarla con un ciao incerto quanto il suo. Porca miseria, lo aveva davvero scioccato!
– Senti, non ti piace, l'ho capito – sbottò, rasentando lo sgarbato.
– Io… non ho detto questo. Di certo il tuo nuovo look è un po'… alternativo. Però… – cominciò lui.
– Sì, certo! – lo interruppe Briz – Di solito si usano proprio termini come originale, alternativo, particolare… quando non vogliamo dire che troviamo qualcosa alquanto bruttino.
– Ma sentila, questa! Se le fa e se le dice, senza nemmeno lasciarmi finire! Posso parlare? Siamo io e te, lo hai dimenticato? Ci siamo sempre detti in faccia anche le cose spiacevoli: se ti trovassi bruttina o ridicola, pensi che mi farei degli scrupoli a fartelo sapere?
Briz non poté fare a meno di dargli ragione, Pete non era mai stato il tipo da falsi complimenti, men che meno con lei.
– Quindi… trovi che mi stiano bene? – gli chiese esitante.
Ah, fantastico! Briz il maschiaccio, per una volta si comportava come tutte le ragazze normali del mondo, cercando l'approvazione del sesso opposto per un semplice taglio di capelli.
– Stai una meraviglia – la rassicurò lui, a voce bassa, avvicinandosi di un passo.
Briz lo osservò, notando che la maglia che indossava era nuova, col cappuccio sulla schiena e il laccetto alla scollatura, uguale a quella della notte dell'aggressione, – e che alla fine della loro avventura era finita nell'unico posto possibile: il bidone dell'immondizia – solo che questa, neanche si fossero messi d’accordo su cosa indossare, era nera. E le spalle ampie e i pettorali scolpiti risaltavano in un modo che… Briz distolse lo sguardo: la legge avrebbe dovuto dichiarare illegale andarsene in giro con un fisico come quello!
– Ti sei comprato una maglia nuova uguale a quella di quella notte… – gli disse, in tono leggero.
– Già, ma nera è meglio: se mi sparano, il sangue si nota meno – scherzò Pete.
– Dio non voglia che accada di nuovo – sussurrò Briz, tentando un sorriso, nonostante si sentisse inorridire al solo pensiero: il ricordo di tutto quel sangue addosso a lui, le faceva ancora venire i brividi. 
Pete allungò una mano, tenendo prudentemente l'altra nella tasca dei jeans, e si arrotolò la ciocca bianca di Fabrizia su un dito.
– Perché hai deciso di non cancellarla? – le chiese.
Subito dopo si pentì della domanda, sentendo che lei si irrigidiva e si allontanava, lasciando che i capelli gli scivolassero tra le dita.
– Lo sapevo che era qui, che volevi arrivare. Senti, lo so che ogni volta che vedi questo ciuffo bianco ti senti in colpa: ti ho sentito quando lo dicevi con Sanshiro. Ci sarà mai un giorno in cui riuscirai a non accollarti più la colpa di tutto? Ma non vedi? Quello che ha fatto tuo padre è colpa tua; quello che ha detto tua madre è colpa tua; i miei capelli da Crudelia sono colpa tua! Quando la pianterai?
– Cuordileone, hai voglia di litigare? Perché magari ci riusciamo senza nemmeno impegnarci troppo!
In realtà lei non aveva nessuna voglia di discutere, si sentiva solo dannatamente tesa. Aveva bisogno di uno sfogo, così continuò la sua dissertazione con un tono un po' duro.
– Ne abbiamo già parlato a suo tempo! A volte le cose accadono e basta, e colpevolizzarci non serve a niente, soprattutto nel caso dei miei capelli!
Si avvicinò di nuovo a lui, e gli sollevò il ciuffo dalla fronte, per osservare la piccola cicatrice sul sopracciglio; poi proseguì, con più dolcezza: – Lo so che stai ancora rimuginando sul tuo passato e non riesci a venirne a capo; me ne accorgo, sai? Ma Pete, non possiamo costruire una macchina del tempo con una DeLorean, e non possiamo tornare indietro per cambiare le cose: nel passato non si torna.
Pete sorrise, al ricordo della DeLorean di “Ritorno al futuro”, di cui avevano già parlato, mentre Briz gli toglieva la mano dalla fronte, lasciando ricadere il ciuffo a nascondergli la piccola cicatrice.
– Quando la parrucchiera ha visto questa ciocca bianca e ha capito che era, diciamo così, naturale, ha detto che sarebbe stato un delitto cancellarla: ha clienti che pagano una fortuna per farsela fare, una cosa del genere!2 Senza contare che fra poche settimane avrebbe comunque ricominciato a vedersi: sarebbe diventata una schiavitù, riprendere la ricrescita. Ce la vedi, la sottoscritta che va dal parrucchiere una volta al mese? Dai, va là, ma non esiste! E comunque, al di là di queste futili considerazioni, ciò che mi ha fatto decidere di tenerla è stato proprio il pensiero di come me la sono procurata: per me è come una medaglia al valore, me la sono guadagnata sul campo, in un'azione di guerra per salvare una persona… a cui tengo. Non sono sfigurata, è solo una ciocca di capelli bianchi; sono sempre io – concluse in tono sommesso.
Sollevò lo sguardo su di lui e poi esplose di nuovo, facendolo sobbalzare: – E quindi non venirmi a dire che ti senti in colpa quando mi guardi! È stata una mia scelta fare quello che ho fatto, anzi, lo rifarei, pure! E chiudiamola qui!
– Briz… – cominciò lui, esitante – Non so se te ne sei accorta, impegnata com'eri nella tua arringa, ma io… non ho fiatato e, anzi, ti ho detto che stai benissimo così: hai fatto bene a tenerti il tuo ciuffo di neve. Con Sanshiro mi sono spiegato male, quel giorno, e poi non c'è stato il tempo per chiarire la cosa! In realtà, quando ti guardo, non mi sento in colpa. L'hai appena detto: l'hai fatto per una persona a cui tieni, e sono contento… e orgoglioso, di essere io, quella persona.
Briz faticò a metabolizzare quelle parole: Pete, che all'inizio l'aveva considerata un'incapace, era fiero di lei. Non sapeva proprio come considerare il tutto, ma di una cosa era sicura: qui bisognava assolutamente minimizzare, se no chissà, lui, cosa avrebbe pensato!
– Sì, okay, beh… grazie per l'approvazione. Sei il mio… il nostro Capitano: abbiamo ancora bisogno di te! – esclamò, confusa e brusca – E se anche il mio ciuffo di neve non ti fosse piaciuto, non credere che me lo sarei cancellato solo per via dei tuoi vaneggiamenti!
– Ah, io vaneggio? Ma si può sapere cos'hai oggi? – esclamò Pete, sbuffando e passandosi le mani tra i capelli – Vabbè, forse ho capito: probabilmente ho beccato uno di quei malefici giorni che capitano a voi donne circa una volta al mese e che vi rendono nervose, piagnucolone e lunatiche!
– Sì, magari – mugugnò lei frustrata, a bassa voce, pentendosene subito dopo.
Le era proprio scappato, Pete non poteva sapere che quella era una cosa che, al momento, a lei non toccava: a parte Doc e la dottoressa Mori, non lo sapeva nessuno. Però lui la sentì, perché disse stupito:
– Come magari? Ho sempre saputo che voi donne considerate quei periodi una gran… rottura di rotule!
Briz ci pensò su qualche secondo, poi prese una decisione: si tirò su la manica sinistra della camicia e gli si avvicinò; gli prese una mano e gli fece toccare la parte superiore dell'interno del gomito.
– Lo senti? – gli chiese, facendogli premere il pollice sul braccio.
Pete avvertì con il polpastrello, appena sotto la pelle di Briz, una piccola forma piatta e circolare, una specie di dischetto. Non era particolarmente esperto in materia, ma sapeva a grandi linee di cosa potesse trattarsi.
– È un… contraccettivo a rilascio ormonale…? – commentò, diventando improvvisamente serio.
– Sì – confermò lei – Per forza di cose…
– Ma cosa diavolo vuol dire!? Cosa te ne fai? Hai… una relazione con qualcuno? – il tono di Pete era diventato più freddo, quasi accusatorio. Bruscamente le lasciò il braccio, mentre lei si tirava giù la manica.
– Sì! Sono l'amante segreta di Yamatake! E di Kenji Shidara, il veterinario! E anche di altri due o tre, giù in città! Pete, ma guardami! Ti sembro il tipo, dopo tutto quello che conosci di me, da avere una relazione di quel genere con qualcuno? Come hai detto tu prima: se vuoi litigare dillo, che ci riusciamo benissimo!
Il fatto era che la sola idea di Briz con un uomo, chiunque fosse, lo mandava letteralmente ai matti; ma doveva riconoscere il buon senso di ciò che la ragazza gli aveva appena detto.
– Scusami – sospirò contrito – Ma allora perché porti un aggeggio come quello? Non capisco a cosa ti serva, se non stai con qualcuno. Oltretutto dicesti che vuoi avere dei bambini, un giorno, quindi mi sembra un controsenso.
– Intanto i bambini, come hai appena fatto notare, li vorrò un giorno. Ma ti ho anche detto che ha una funzione contraccettiva per forza di cose: se tu stessi attento, quando parlo! È ovvio che non è quello, il motivo per cui l'ho dovuto mettere, non l'hai ancora capito? Ha un dosaggio ormonale mirato a… insomma, lo scopo principale è… bloccare… eliminare… la scocciatura mensile, chiaro? Nei primi tempi in cui mi addestravo, una volta ho eseguito la connessione in uno di quei periodi e… ho avuto un collasso; ho creduto di morire… e non mi chiedere il perché, io non lo so. Evidentemente è una cosa… che interferisce n-negativamente c-con il sistema: il DNA di Ale… lui era un m-maschio, e…
La voce le si spezzò per un attimo; tirò su col naso e soffocò un singhiozzo contro il dorso di una mano, ma riuscì a trattenere le lacrime e, in pochi  secondi, aveva già ripreso il sopravvento sulle sue emozioni. Pete ammirò il suo autocontrollo perché a lui, invece, stava succedendo esattamente il contrario: si sentiva ribollire. Gli venne in mente una cosa che sia Doc, sia Sakon, gli avevano detto in due occasioni diverse: "Tu non hai idea di cosa Briz stia chiedendo al suo fisico, alla sua mente e persino al suo cuore. Ma ce la sta mettendo davvero tutta, per fare la sua parte in questo conflitto". 
– Ti ho sconvolto, Dragonheart? A che pensi? – gli chiese lei, tornando a fare la disinvolta.
La risposta di Pete fu quasi un ringhio, le parole intrise di rabbia a stento trattenuta.
– Penso… che per questa fottutissima guerra schifosa tu abbia già sacrificato anche troppo, ecco cosa penso!
– Ah, non darti pena per questo, è solo temporaneo: sarà attivo ancora per circa due anni, e se la guerra dovesse finire prima, cosa che spero con tutte le mie forze, Yumiko me lo rimuoverà e fine. Mi ha assicurato che, in ogni caso, tutto ritornerà com’era, altra cosa che spero vivamente.
– Non riesco a capacitarmi che tu abbia accettato anche questo… non ne avevi già abbastanza?
– Non avevo scelta, lo capisci anche tu: se fosse capitata una battaglia proprio in uno di quei momenti, che avrei dovuto fare? Come al liceo, nell'ora di educazione fisica? "Scusi, Doc, sono indisposta, mi giustifico!" – esclamò, alzando una mano proprio come a scuola, e facendolo persino sorridere – No, dai, era impensabile! Cerco di vedere il lato positivo, di questa… menopausa a tempo determinato: non ho più le malefiche cose, ti pare poco?
Diventò per un attimo pensierosa e sorrise tra sé, mentre un ricordo le si affacciava alla mente: – Una volta, io e Alessandro dovevamo avere quattordici-quindici anni, gli risposi malamente perché, in uno di quei giorni, ero tesa, dolorante e scocciata. Beh, lui riuscì a farmi ridere tirandone fuori una delle sue: "Adesso ho capito perché lo hanno chiamato ciclo! Perché Donne Possedute Da Satana era troppo lungo!" Sì, lo so cosa stai per dirmi: che io sembro posseduta da Satana lo stesso! – commentò, vedendo la sua espressione divertita.
– Veramente no: stavo per dire che tuo fratello doveva essere molto simpatico, come te.
– Oh, sì, lo era: nessuno riusciva a farmi ridere come lui… Credo che vi sareste piaciuti, come compagni di battaglia – concluse, glissando sopra al complimento e concludendo così la sua confessione su quell'argomento che, in teoria, avrebbe dovuto essere oltremodo imbarazzante, mentre, in fin dei conti, le era uscito con estrema facilità, e proprio con Pete! E pensare che non lo aveva mai detto nemmeno a Midori e Jamilah, le sue migliori amiche.
– Briz… perché oggi hai deciso di raccontarmi questa cosa così… intima e personale?
– Ma che ne so, è capitato il discorso. E poi… – sbottò, ispirata – adesso posso farti io qualche domanda molto personale! Me lo devi!
– Cavolo, avrei dovuto capirlo che c'era sotto un inghippo! – rispose Pete, portandosi una mano alla fronte con espressione preoccupata e sentendo l'atmosfera alleggerirsi.
Si domandò cosa mai la ragazza avrebbe potuto chiedergli, che non sapesse già: a lui sembrava di averle raccontato tutto quello che c'era da sapere sul suo conto, ormai.
– Dimmi quanti anni avevi quando hai dato il primo bacio. Un bacio vero, naturalmente – gli chiese a bruciapelo.
Il primo bacio? Ma senti questa! Pete non se l'aspettava proprio!
– Humm… Quattordici? Più o meno… una compagna di scuola. E tu, invece, quanti anni… – si interruppe di colpo – No, scusa, niente… Tu mi hai detto già abbastanza, per oggi.
– Effettivamente… ma questa cosa te la posso dire, se vuoi: è troppo divertente! Anzi, sfiora il demenziale.
– Allora, spara.
– Avevo quindici anni, a scuola, durante l’intervallo: io e Federico Rosati dovevamo fare una penitenza, perché avevamo perso ad un gioco stupido… Povero Fede, un Froggy, come me: occhialoni spessi, apparecchio per i denti… se non che, io ero già alta quasi come ora, e lui era dieci centimetri più basso! I nostri compagni ci diedero quella penitenza perché ci consideravano i due sfigati della classe. Doveva essere solo un bacetto a stampo, e invece… non so cosa sia successo: Federico mi baciò davvero, con tanto di casqué, affinché non si notasse troppo che io ero più alta! Non sono proprio riuscita a respingerlo, anche perché avrei rovinato la scena, e non volevo; e alla fine mi è anche piaciuto. Federico e io eravamo amici e lui era un bravo ragazzo, un po' secchione, ma di quelli simpatici; e dietro quegli occhialoni, aveva due occhi castani bellissimi. Il successo fu strepitoso, ci batterono persino le mani, se non che, al momento di staccarci…
– Che è successo? – chiese Pete, curioso: era ovvio che, con Briz di mezzo, non potesse essere finita lì.
– Gli apparecchi per i denti… Si sono impigliati! Siamo rimasti così sorpresi che Fede mi ha lasciata andare, io sono finita col culo per terra e lui è stato costretto a seguirmi: siamo rimasti lì, io seduta e lui in ginocchio, uno di fronte all'altra con le labbra appiccicate, a trafficare tentando inutilmente di parlare. In più, a sentire tutti gli altri che si sbellicavano, era presa la ridarella anche a noi! Riesci a immaginare che roba? Ci abbiamo messo quasi un minuto per riuscire a liberarci! I sessanta secondi più ridicoli e assurdi della mia vita! – concluse ridendo.
– Dio, Briz! Ma solo a te succedono certe cose!
– Ognuno ha i suoi privilegi: tu sei nato bello, io sono nata buffona! Ce l’ho nel DNA…
– Però quel bacio lì è stato per gioco. Il primo serio… te lo ha dato Diego?
Briz si rabbuiò di colpo, poi parlò con una calma raggelante.
– Pete! Smetti. Di nominare. Diego.    
Tacque qualche secondo, mentre lui incassava la rispostaccia, e riprese: – Il mio primo bacio, è stato quello di Fede. Anche se è stato solo per gioco, è quello che vale la pena di essere ricordato come tale. Entiende? 
– Entiende – fu l’unica parola che lui riuscì a risponderle.
Briz si ravvivò all’improvviso e gli chiese, come un fulmine a ciel sereno: – E invece quanti anni avevi la prima volta che hai fatto l'amore?
– Eeh? Mi hai davvero chiesto quando…? – non riuscì nemmeno a finire la frase, tanto era sbalordito.
– Sì, te l’ho davvero chiesto, hai capito benissimo! Dopo tutto quello che ti ho raccontato di me oggi, e visto che col racconto del primo bacio siamo andati in pari, non mi sembra nemmeno troppo indiscreta, come domanda!
– Me lo hai voluto raccontare tu, del primo bacio! – protestò Pete.
– Ma tu hai accettato. Cosa vuoi, barare?
Ma Santo Cielo, questa piccola pazza riusciva sempre a far sembrare normali anche le cose più assurde! E poi, non aveva nemmeno tutti i torti.
– Ne avevo diciotto – capitolò, rassegnato, con un sospiro – Contenta, ora?
– Mmm… stavi con Tracy – commentò lei, imperterrita.
– Sì, da un anno, poco più. E allora?
– Però, un anno! Te l'ha fatta sudare, la bambina! – esclamò Fabrizia con un sogghigno sardonico.
Pete alzò gli occhi al cielo, esasperato.
– Eravamo molto giovani, Tracy era una ragazza seria e io un tipo perbene. Anche se qualcuno, magari, userebbe un altro termine – sbuffò, come se dovesse difendersi da qualche accusa.
Poi si rese conto che non c’era niente per cui prendersela: Briz si stava divertendo, cercando di scandalizzarlo.
– Brava ragazza! – esclamò Briz tra il serio e il faceto – Tracy ha fatto bene a farti aspettare tanto: non bisogna mai infilarsi nel letto di un uomo alla prima occasione.
– Sentiamo, perché tu quanti anni avevi, signorina?
Briz arrossì come un tramonto africano, mentre gli piantava in faccia due occhi verdissimi e quasi rotondi.
– Questo non te lo racconto nemmeno se mi preghi in arabo! Come abbiamo accennato poco fa, io oggi ho già dato.
Pete la osservò per alcuni istanti, poi sorrise e le fece una lieve carezza sul viso.
– Scusami, sono uno stupido… avrei dovuto capirlo subito.
– Cos'è, che avresti dovuto capire?
– Che non puoi raccontarmi qualcosa… che non è ancora accaduto.
Briz avvampò ancora di più: si sentì le guance bruciare, letteralmente.
– Dunque è questo che pensi? Che io sia ancora vergine?
Pete fece una lieve alzata di spalle mostrandole i palmi delle mani e rispose, leggermente a disagio:
– Briz io… non penso niente! Come vuoi che faccia a saperlo, scusa!
Briz annuì un paio di volte, poi gli rivolse un sorriso da infarto secco, allegro e furbo, prima di rispondergli mentre recuperava la corda che aveva appeso al recinto.
– Bene! Tieniti il dubbio.
Pete la guardò entrare nella selleria e si ritrovò a pensare di nuovo che ogni volta che nominava Diego, Briz se la prendeva davvero troppo perché fosse stata, come aveva sempre detto lei, solo una cazzata adolescenziale. Però era evidente che la ragazza avesse dei princìpi piuttosto ferrei, e all’epoca aveva solo diciassette anni, dopo tutto. Quindi? Cosa diavolo era successo tra quei due, per non volerlo più nemmeno sentir nominare, dopo tanto tempo? Decise che, per quanto curioso, avrebbe rispettato la sua volontà e non sarebbe mai più tornato su quell’argomento.
Intanto, la fanciullina l'aveva piantato lì, a meditare sul fatto che ogni volta che scopriva uno dei suoi misteri, finivano sempre per saltarne fuori almeno un altro paio.
 
> Continua…
 
 
 
 
1 La canzone è “Nessun rimpianto” di Max Pezzali.
 


2 A proposito delle clienti dei parrucchieri che pagano una fortuna per farsi fare un ciuffo bianco… Eccomi, presente!  🙋‍♀️🙈
 

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Capitolo 30
*** 29 - Mi abbracceresti un po'? ***


~ 29 ~ 
MI ABBRACCERESTI UN PO’?
 
 
Doc e i ragazzi cominciavano ad essere preoccupati: dal giorno dell'aggressione a Pete, con conseguente rocambolesca e sanguinosa avventura, era passata ormai una ventina di giorni e l'Orrore Nero non aveva dato segno di vita. Lui e Briz avevano avuto il tempo di riprendersi, ma più il tempo passava, più tutti loro diventavano nervosi e stavano all'erta. Anche nei rari momenti di tempo libero non riuscivano mai a rilassarsi davvero, come in quel momento, in cui Briz non poté fare a meno di toccarsi l'orecchio destro per controllare l'auricolare, in un gesto che le era ormai diventato istintivo.
Il riposo forzato di quelle ultime settimane aveva rimesso in sesto il suo fisico, ma a livello psico-emotivo si sentiva molto provata e un senso di vaga tristezza permeava continuamente i suoi pensieri. Era sempre in tensione, e doveva riconoscere con sé stessa che i sentimenti che le si agitavano nell'animo riguardo al loro capitano, non l’aiutavano. Si diede della deficiente: era una guerriera, anche se suo malgrado, e non una stupida adolescente coi cuoricini negli occhi! E adesso aveva anche, finalmente, baciato come si deve l'oggetto di quell'amore, cosa che non aveva certo reso più facile mitigare il trasporto che sentiva nei suoi confronti. E poi? Fine. Come giustamente doveva essere.
Era ora di piantarla, sia con questi pensieri romantici, che con quella assurda sensazione di rimpianto che la disturbava e basta.
Così quel giorno, per distrarsi, Briz decise che fosse tempo di rimontare a cavallo: i suoi amici a quattro zampe avevano bisogno di uno sfogo, dopo essere stati fermi tanti giorni, e anche lei. Tirò fuori Obi-wan dal box e cominciò a strigliarlo, prima di sellarlo.
Non passava del tempo da sola con Pete da più di dieci giorni: dal pomeriggio in cui si erano lasciati sfuggire confidenze più o meno intime. Chissà se quel pomeriggio si sarebbe fatto vivo… che poi, non sapeva nemmeno lei se desiderarlo o meno. A volte il giovane aveva verso di lei degli atteggiamenti talmente protettivi e, avrebbe osato dire, persino affettuosi, tanto da spingerla a chiedersi se provasse qualcosa di più che un po' di attrazione; e se, da un lato, la cosa avrebbe potuto avere risvolti intriganti, dall’altro veniva prontamente ricacciata in un angolo del cervello: in fondo, non aveva mica cambiato idea sul fatto di non essere la persona adatta a Pete e che lui non fosse esattamente l’ideale di uomo a cui lei avrebbe aspirato!
E comunque, in alternativa, c'erano anche i momenti in cui Pete se ne stava sulle sue, chiudendosi in sé stesso con i suoi pensieri e facendosi i fatti propri; un po’ come lei, alla fine.
Briz si rendeva conto che, spesso, tutte quelle elucubrazioni  raggiungevano un livello ossessivo, martellante, ipnotico, con lo stesso fascino ammaliatore del Bolero di Ravel…  ma non l'avrebbero portata da nessuna parte. Si imponeva quindi di lasciar perdere, non prima di essersi sfogata tirando bruscamente in giro qualche oggetto mal capitatole sottomano.
Il rumore della moto la riscosse: evviva, eccolo qua! Ancora una volta ci pensava il caso, il fato, il destino… o qualunque cosa fosse.
"Okay," si disse "affrontiamo con tutta la disinvoltura possibile quel miscuglio di felicità e insicurezza che mi assale tutte le volte che mi ritrovo da sola con lui". 
Che strano, però… perché la moto andava così piano? Lo vide arrivare al cancello, smontare con movimenti impacciati e tenersi stretto qualcosa dentro al giubbotto di jeans. Decise di andargli incontro.
– Briz, credo di avere del lavoro per te! – esordì lui, frugandosi dentro al giubbotto.
– Ma che cosa diavolo… – cominciò lei, interrompendosi subito alla vista del gomitolo peloso che comparve, come dal nulla, nelle mani di Pete.
Rimase senza fiato: un gattino di non più di tre o quattro mesi, tremante e morbidissimo, dal manto rosso variegato, con le zampine e il musetto bianchi.
 
Briz-Pete-chibi-gatto
 
– Ma povero piccolo, dove l’hai trovato? – chiese, prendendolo delicatamente tra le mani e notando gli occhietti sporchi.
– In un angolo della rimessa, quando sono andato a prendere la moto: l'ho sentito miagolare – le rispose, seguendo la ragazza mentre portava l'animaletto verso le scuderie.
Il micino si raggomitolò nell'incavo del suo braccio, continuando a tremare. Pete seguì i movimenti sicuri, ma delicati, con cui Briz, appoggiatolo su un ripiano della selleria, lo visitava, riscontrando che non aveva né ferite, né fratture.
– Un altro maschio: continuo ad essere decisamente in minoranza, qui – annunciò, accingendosi a pulire gli occhi del micio i quali, al termine dell'operazione, si rivelarono verdi come la giada.
– Direi che in generale sta bene, ha solo una fame bieca. Però non sembra più tanto impaurito, forse è abituato a stare con le persone. Non so perché, ma ho come la sensazione che qualcuno abbia voluto liberarsene. Se lo trovo, giuro che lo appendo per le pal… ops, i pollici. Non si fa così, con gli animali! – tuonò arrabbiata.
Pete non poté fare a meno di darle ragione, nemmeno lui sopportava chi trattava gli animali come giocattoli, che quando venivano a noia si dimenticavano in un angolo o venivano abbandonati. Era vero che la sua famiglia non ne aveva mai avuti, ma proprio perché sapeva che non avrebbe potuto occuparsene come meritavano; però, ora che, con Atlas e i cavalli, si era fatto una discreta idea di cosa significasse essere l’umano di un quattrozampe, si era ripromesso seriamente di non farsi mancare qualche peloso, in futuro. Sempre, ovviamente, che il futuro non diventasse un optional, pensò, vagamente sconsolato, con una eloquente occhiata al cielo apparentemente sereno.
Intanto Briz aveva telefonato ad Hakiro, chiedendogli se, per cortesia, potesse comprare del cibo per gatti, di cui gli aveva spiegato le caratteristiche, e se avesse modo di portarglielo.
Il ragazzo non si era fatto pregare e, intanto che lo aspettavano, Briz si tenne il gattino addosso, coccolandoselo: nel giro di poco cominciò a fare le fusa.
– Hai fatto bene a portarlo qui, Pete.
– E a chi altri avrei potuto darlo, se non a un'aspirante veterinaria? L'hai detto tu, una volta, che un paio di gatti ti mancavano: per ora accontentati di questo. Piuttosto, mi preoccupa Atlas – disse Pete, guardando il cane che si aggirava curioso intorno a loro, anche se, in realtà, non gli sembrava alterato e nemmeno aggressivo.
– Noo… sta' a vedere: Atlas, qui, bello! – chiamò infatti Briz con tranquillità.
Il cane si avvicinò, tartufo in aria e orecchie dritte; la ragazza si inginocchiò e gli fece annusare il micetto, accarezzandogli il testone nero. Con dolcezza, sussurrò al cane una semplice frase che conteneva due parole chiave da lui conosciute:
– È un amico, un cucciolo.
Atlas finì di annusarlo e assestò sul collo del micio una leccata, drizzandogli il pelo morbido fin sulla testolina, poi si sedette di fronte a lei, leggermente ansimante e con la lingua di fuori, e piegò leggermente la testa di lato senza levare gli occhi di dosso al nuovo arrivato il quale, incuriosito, allungò il musetto verso quell’irresistibile sorriso canino: ecco, da quel momento, il piccolo era, ufficialmente, sotto la protezione di Atlas.
– Visto? Lo ha praticamente adottato: ha capito che è un cucciolo da difendere. È un luogo comune che i cani e i gatti debbano per forza odiarsi; conosco il mio cane. E poi, Atlas si è affezionato persino a te!
– Ah, beh, carina questa, grazie – commentò Pete.
– Prego, non c'è di che – replicò Briz, serafica – Domani prenderò appuntamento con Kenji per farlo visitare per bene e fargli fare le vaccinazioni.
– Come lo vuoi chiamare? – le chiese lui cambiando argomento, mal sopportando di sentir nominare il giovane veterinario che somigliava a Keanu Reeves.
Si inginocchiò a sua volta per accarezzare l’animaletto.
– È il tuo gatto, Richardson: arrangiati.
– Tanto per cominciare, visto che starà qui, è il nostro gatto. E poi io non ho la minima fantasia, finirei per chiamarlo Micio, o peggio ancora Fuffi, o roba simile.
– Sforzati un po', a me hai dato soprannomi di ogni genere – ribatté lei, pensando che le piaceva il fatto di essere comproprietari del piccolo felino.
Pete scosse la testa, accarezzando il micino e senza sapere da che parte iniziare; poi, ebbe un lampo di genio!
– Balto! – esclamò.
– Ma Balto era un cane! – obiettò Briz – Quello… che nel 1925, salvò i bambini dall'epidemia di difterite in Alaska, tirando la slitta con le medicine fino a Noum! Ci hanno fatto pure un film a cartoni animati.1
– Sì, hai ragione, ma non era a lui, che pensavo. È uno… dei miei soliti diminutivi. Guardalo, è praticamente dorato, con le zampine bianche: un piccolo leone bianco e oro con gli occhi verdi… Non ti ricorda nessuno? 
– Balto… Un… un piccolo Balthazar! – esclamò lei, entusiasta – Pete, e tu saresti quello senza immaginazione?
– A forza di stare con te… mi avrai contagiato con uno dei tuoi virus ad alto tasso di squilibrio mentale. Ecco Hakiro che arriva – concluse lui alzandosi, sentendo arrivare lo scooter da cui scese il ragazzo, con lo zainetto sulle spalle.
Aveva portato i croccantini e le scatolette di cibo richiesti da Briz e anche del latte, e fu ben lieto di accollarsi per un po' la cura del gattino, seguendo le istruzioni della ragazza. Intanto Pete aveva strigliato e sellato Indy e, in capo a un quarto d'ora, i due giovani erano in sella, pronti per una passeggiata a cavallo sulla spiaggia, con Atlas che saltellava loro intorno, impaziente di accompagnarli.
– Andate tranquilli, tanto io resto finché tornate – li rassicurò Hakiro, col piccolo Balto in braccio.
Pete e Fabrizia raggiunsero la spiaggia tra il passo e il piccolo trotto, decisi ad arrivare al massimo fino all'Albero; avevano paura ad allontanarsi troppo dal Faro: nel caso fosse suonato l'allarme volevano essere in grado di tornare nel giro di pochi minuti. Tuttavia, entrambi avevano finito per ritenere le loro passeggiate come una specie di portafortuna, considerato che non c'era mai stato un attacco mentre erano con i cavalli.
Arrivati in vista della spiaggia aumentarono l'andatura, sentendo gli animali irrequieti per la voglia di correre; li accontentarono, facendoli passare al galoppo ma allentando appena le briglie, perché non prendessero loro la mano. Gli zoccoli degli animali sollevarono schizzi argentati dal bagnasciuga, mentre il loro tambureggiare si mescolava al suono delle risate dei ragazzi e all'abbaiare festoso di Atlas che correva in mezzo agli spruzzi.
Giunti in vista dell'Albero, Pete lasciò che Indy allungasse ulteriormente il passo, ma forse esagerò; Briz, che conosceva i suoi animali, lo avvertì.
– Non mollarlo a briglia sciolta, Pete! Indy tende a sgroppare, quando è troppo euforico! – urlò nel vento, che si portò via le sue parole.
Indy, sentendosi le redini lente, si scatenò in una serie di allegre sgroppate e smontonate, dimenticando completamente di avere un cavaliere sulla sella. Pete, in quell'anno appena trascorso, era diventato decisamente bravo, ma non necessariamente un cow-boy da rodeo; anche se ormai conosceva bene anche Indy, questa volta fu proprio colto di sorpresa: in pochi istanti si ritrovò a rotolare sulla sabbia dura della battigia, dopo aver sbattuto con violenza il fondo della schiena. Dolorante, senza fiato, e con gli abiti chiazzati di acqua e sabbia bagnata, si mise faticosamente seduto, massaggiandosi il braccio e la spalla, ormai guariti ma non proprio felici di quel trattamento.
Briz, che nel momento della caduta e poi vedendolo toccarsi il braccio, si era spaventata a morte, saltò giù da cavallo e raggiunse l'amico insieme al cane, ma ora, che l'aveva visto mettersi seduto, riusciva a stento a trattenere le risa. Pete la guardò avvicinarsi, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e un'espressione torva negli occhi.
– Sei ferito? – gli chiese Briz, sforzandosi di restare seria, arrivando a un passo da lui.
– Solo nell'orgoglio – rispose lui, piegandosi da una parte e massaggiandosi il fondoschiena che, a pensarci bene, ora gli doleva più del braccio.
– Ah, si chiama orgoglio, adesso? Perché a me sembra che tu ti stia strofinando… una chiappa! – lo prese in giro.
– Spiritosona! Avvertirmi prima, che Indy ha le crisi di astinenza da libertà, no, vero? – brontolò Pete scherzosamente.
Scrollò la sabbia dallo Stetson2 nero e se lo ricacciò in testa, mentre Indy continuava a saltare in giro e sgroppare felice, con le zampe da tutte le parti, come se non toccasse nemmeno terra e coinvolgendo nei suoi folleggiamenti anche Obi-wan. Briz li lasciò fare, sapendo che non sarebbero andati lontano.
– Beh, sei passato alla prima categoria dei cavalieri.
– Cioè?
– Non conosci il detto? “Chi va a cavallo si divide in due categorie: quelli che sono già caduti, e quelli che devono ancora cadere”.
– Ah, e suppongo tu appartenga ancora alla seconda, sbruffoncella.
– Ma scherzi!? Ormai ho perso il conto delle botte che ho dato finendo disarcionata! È più facile cadere, quando si diventa esperti e si tende a fidarsi troppo di sé stessi; ma non sarai mai un vero cavaliere, finché non sarai finito col sedere per terra. Ecco perché, chi cade, va in prima categoria – gli spiegò, tendendogli le mani per aiutarlo a rialzarsi.
– Fantastico, allora sono salito di grado? Perché a me pareva di essere decisamente sceso, e anche con una certa violenza! – ridacchiò lui, afferrandosi alle sue mani e tirandosi su.
Si ritrovarono leggermente barcollanti, uno di fronte all'altra, i corpi che si sfioravano e le mani allacciate. Quella situazione ricordò loro il giorno al parco, circa due mesi prima, quando avevano fatto praticamente lo stesso gesto; ma stavolta negli occhi azzurri di Pete non c’era traccia di lacrime, anzi… per una volta brillavano di una luce felice e spensierata rara a vedersi, in lui. Briz, con suo sgomento, notò anche una sfumatura più intensa prendere rapidamente il posto di quella luce, un lampo di un blu cupo, che mandò un messaggio più che eloquente: "Sto per baciarti".
E lei fu perfettamente consapevole della risposta che balenò nel proprio sguardo, altrettanto esplicita: "Prego, fai pure".
E invece… Pete sbatté le ciglia un paio di volte, come se si fosse appena riscosso da un pensiero molesto e, scrollando appena la testa, le lasciò le mani e fece un passo indietro. A Briz non restò altro che fare lo stesso e, con finta disinvoltura, disse: – Avanti, andiamo a recuperare quei due cretini dei nostri cavalli!
Obi-Wan e Indy, che in realtà non erano affatto cretini e che, ormai, conoscevano i loro itinerari quanto i propri box, finalmente calmi erano andati ad aspettare i rispettivi cavalieri sotto all'Albero.
Briz avvolse una briglia del cavallo nero al ramo più basso, mentre Pete faceva lo stesso con Indy, appendendo poi il cappello al pomo della sella.
La ragazza si sentiva nervosa, e i suoi gesti erano rapidi e bruschi: quel po' di spensieratezza che le avevano dato il prendersi cura di Balto prima, e la galoppata in spiaggia poi, si era già dissolto; sbuffò.
– Ehi… cosa c’è, stavolta? – le chiese Pete avvicinandosi, notando il suo malumore.
– Ma… niente, sono stanca… e avvilita.
– Avvilita tu? Dai, dov'è andata la Briz strepitosa e buffona? Era qui, pochi minuti fa – esclamò lui, guardandosi intorno, cercando di alleggerire.
– Dov'è la Briz!? – sbottò lei – Beh, è proprio qui, davanti a te! E, spiacente di deluderti, ma la Briz non è sempre strepitosa e buffona! La Briz è stufa! Ne ha le scatole piene di questa guerra logorante, di sentirsi sempre all'erta, di dormire con un occhio solo! La Briz è tesa, impaurita, angosciata… e qualche altra decina di cose a cui non riesce a dare un nome! E scusami, se la Briz non è come te, adamantina e supercontrollata al punto di dimenticare che venti giorni fa siamo quasi morti! Che poi, voglio dire… lo so che siamo in guerra, e morire, guarda un po’, è proprio una delle cose che può succedere, ma prenderne atto non è che mi faccia meno paura! Che caspita di domande mi fai, anche te?
Si rese conto di essere stata sgarbata, in fondo Pete non le aveva fatto niente. Tranne, naturalmente, averla illusa con la possibilità di un bacio e poi non averglielo dato, solo che questo non poteva dirglielo.
– Scusa… Scusa, Pete, non è colpa tua. Io vorrei solo… avere di nuovo una vita! Sai, una vita fatta di università, cinema, famiglia, laurea e lavoro, pizze e risate con gli amici… e invece guarda: con gli amici devo combatterci al fianco! Non so più nemmeno cosa sia giusto fare: quando sono al Centro, di guardia o per qualsiasi altro compito, non vedo l'ora di avere un po' di tempo libero; e quando ce l'ho, come ora, non riesco a godermelo perché… penso che dovrei stare al Centro, pronta a partire con Balthazar o ad affrontare qualsiasi evenienza. Mi sembra… di non essere mai nel posto giusto. Io… oh, non so se sono riuscita a spiegarmi e… non volevo farmi sopraffare da tutto questo. Perdonami, sto rovinando un’uscita che, finalmente, dopo tanto tempo, era cominciata come un piacevole diversivo… – concluse, in tono sommesso e sconfitto.
– Ehi, calmati… Ti sei spiegata benissimo, Bri.
Bri.
L'aveva di nuovo chiamata con… l'abbreviazione del suo diminutivo; che le piaceva, anche. Del resto, avevano cominciato a piacerle anche fanciullina, buffoncella, bestiolina selvatica… Qualche tempo prima l’aveva pure chiamata mostriciattola… e le era piaciuto pure quello! Le piaceva qualunque appellativo, se lui lo pronunciava nel tono giusto, ovvero senza sarcasmo. Il problema era che succedeva quasi sempre, ormai, anche in quel momento; quella voce, e il modo dolce e pacato in cui l’aveva modulata in sole tre, misere, letterine: Bri…  e lei stava già collassando!
“Gesù, morirò, con questo tipo a un passo da me che mi rivolta l’anima e i sensi… ma prima impazzirò!”
– Guarda che tutto quello che hai detto, a volte capita anche a me – proseguì Pete, inconsapevole del putiferio emotivo che aveva appena scatenato pronunciando un’unica sillaba – Nemmeno io sono invincibile e immortale… nessuno lo è!  Forse è per questo che non saprei proprio che cosa fare per farti stare meglio: ti comunico che si accettano suggerimenti – finì, sentendosi anche lui vagamente rassegnato.
– Suggerimenti? – fece lei, concedendosi un sorriso sul quale aleggiava, però, un'ombra di tristezza.
– Perché no? – disse lui, allargando appena le braccia.
– Forse uno ce l’ho: mi… abbracceresti un po'? – gli chiese avvicinandosi appena, indecisa, considerando se un contatto fisico potesse essere o meno una buona cosa, in quel momento.
Pete esitò, come se stesse valutando, anche lui, le eventuali conseguenze di un tale gesto, poi la mise sullo scherzo.
– Se mi spieghi come si fa, ad abbracciare qualcuno… un po'! 
– Io intendevo per un po'. Ma comunque non… oh, lascia stare, non importa.
– Sì che importa, invece. Dai, vieni qui, disgrazia! – la invitò tendendole una mano.
Con la testa china e le braccia lungo i fianchi, a passi lenti e strascicati, Briz gli si avvicinò fino ad arrivare con la fronte sulla sua spalla, senza fare nessun altro gesto. Pete le posò le mani sulle braccia e gliele accarezzò un po', prima di avvolgerla in un abbraccio tenero e protettivo, al quale lei si abbandonò con un sospiro, allacciandolo a sua volta attorno alla vita.
Briz si rese conto di una cosa: non era mai stata abbracciata a un ragazzo più alto di lei! Non che ci volesse molto, vista la sua statura e lo scarso numero delle sue esperienze… ma quando lo aveva baciato, le era piaciuto il fatto di dover alzare la testa. Quelle braccia attorno a lei sapevano infonderle protezione e sostegno, insieme ad altre cose sulle cui caratteristiche preferiva non indagare; ma se c’era un posto in cui Briz sapeva di essere al sicuro, era quello, maledizione! Girò appena il viso, trovandosi col naso contro il suo collo, a riempirsi l’anima con il profumo della sua pelle, a cui non riusciva ad associare nulla. Avevano forse un odore la forza, il coraggio, la lealtà?
Il vento! Ecco, lui sapeva di vento, a seconda del tempo e delle stagioni: salsedine ed erba tagliata, grano maturo, pioggia, muschio e foglie rosse… neve…  
Dio, ci si sarebbe intossicata, drogata a morte… Resistette a fatica all’impulso, talmente intenso da spaventarsi da sola, di schiudere le labbra e assaggiarlo…
Pete se la cullò dolcemente, nuovamente ignaro delle tumultuose e appassionate sensazioni della ragazza, inebriandosi a sua volta del profumo di biancospino che adorava, misto a quello della pelle vellutata della ragazza, che sapeva di lacrime e risate, di vita e di guerra, di sole e nuvole tempestose, e di sogni, desideri irrealizzati e speranze…  
Perfettamente conscio di ogni centimetro del corpo di lei contro il suo, la strinse appena più forte. Gli venne in mente Yamatake, che ogni tanto la chiamava Anoressina: non capiva proprio niente, il loro amico.
Briz era alta e piuttosto esile, certo, ma senza essere spigolosa, né sgraziata: ogni curva del suo fisico, armonioso e proporzionato, sembrava disegnata alla perfezione per completarsi con le linee più dure e solide del proprio; e questa cosa era bellissima e terrorizzante allo stesso tempo.  
La sentì muoversi quasi impercettibilmente, rendendosi conto che gli sarebbe stato sufficiente assecondarla e chinare appena il viso, per assaporare quel sensibile lembo di pelle sotto al lobo dell’orecchio… e solo un altro centimetro per rubare un bacio alla sua bocca morbida e dolce. A quel pensiero sorrise tra sé: aveva appena scoperto di non aver mai avuto a che fare con una ragazza così alta. Era intrigante il fatto che gli sarebbe bastato abbassare la testa di pochissimo per trovare le sue labbra. Perché no, in fondo? Glielo aveva detto anche lei, che se ci fosse stata un’altra occasione, non avrebbe pianto. Il pensiero era dannatamente allettante, ma non lo avrebbe fatto: gli era già costato trattenersi qualche minuto prima, quando lo aveva aiutato a rialzarsi da terra. Sapeva che, se avesse ceduto alla tentazione, fermarsi sarebbe diventata, poi, una fatica improba; così, appena la sentì accentuare un movimento, le tenne con gentilezza la testa contro la propria spalla.
– No… – le disse, in tono pacato e sommesso.
– No cosa…?
– Non voglio baciarti…
– Cavoli, ti ha fatto così schifo? – lo sfidò Briz, sorridendo contro la sua spalla – È vero che eravamo luridi e coperti di sangue, però…
Pete la strinse più forte, per evitare di cedere a quel divertente tentativo di maldestra seduzione, e gli sfuggì un mezzo sorriso; le rispose a voce bassa, con le labbra che le sfioravano l'orecchio e strappandole un brivido.
– Shh… lo sai il perché.
– No, che non lo so. Dovrei?
– Ah, be’… hai deciso di rendermi la vita difficile, oggi, eh?
– Sì. Allora? Perché non vuoi baciarmi?
– Bri… non è che non voglio, è che… Senti, è un momento un po’ così, e se lo facessi… non credo che smetterei tanto facilmente! – ammise lui, col viso tra i suoi capelli.
– Mmm, ciò è interessante… Qualcosa ti fa pensare che ti chiederei di smettere?
– Sai che mi stai provocando, vero?
– Ma chi, io? Dai, va là, stavo scherzando – si arrese Briz, allentando l'abbraccio e scostandosi appena da lui – Su, mollami, la crisi di tristezza mi è passata – concluse, mascherando la rassegnazione sotto a un sorriso.
Aveva ragione lui, non era una buona idea… era ben consapevole che, tutto sommato, non fosse il caso di abbandonarsi a certi desideri; avevano solo giocato un po’… Ma un bel gioco dura poco, se l’erano detto già qualche tempo addietro; perché farsi del male? Era già una soddisfazione l'avergli fatto ammettere che avrebbe davvero desiderato baciarla, ma era ovvio che, più del desiderio, avevano potuto il buon senso e il granitico autocontrollo.
Pazienza, si disse, accennando un passo indietro con gli occhi bassi.
Non aveva nemmeno riappoggiato il piede a terra, che Pete cancellò quella breve distanza, le prese il viso tra le mani e Briz si ritrovò con la bocca incollata alla sua. Chiuse gli occhi e rimase per qualche istante lì, con le mani sollevate, assolutamente sorpresa e travolta da quel bacio tanto desiderato quanto, oramai, totalmente inaspettato.
 
Bacio-Albero-1
Lentamente, aprì le mani e gliele appoggiò sul petto… e forse lui pensò che volesse respingerlo, perché la sua bocca si allontanò da quella di Briz. Lei si affrettò a fargli scivolare una mano dietro la schiena e l’altra tra i capelli.
– Ma dove vai, scemo… – gli sussurrò, raggiungendo di nuovo il suo volto e riprendendo da dove lui aveva interrotto.
Se era già stata una meraviglia baciarsi nella carlinga di Balthazar, quando erano sfiniti, feriti e sanguinanti, figurarsi ora, con l'odore salmastro del mare, la brezza fra i capelli e il rumore delle onde… e le labbra che non sapevano di paura, sangue o disinfettante, ma solo di loro stessi: biancospino, vento, foglie e salsedine, vita e sole…
Atlas era arrivato loro vicino, aveva posato il sedere per terra ed era rimasto lì a studiarli, col naso per aria e la testa inclinata da un lato. Cosa diavolo voleva dire quando gli umani facevano così, tenendosi stretti tra le zampe e spingendosi i musi uno contro l'altro? Bah! Erano davvero strani, ogni tanto! Sbatté due o tre volte la coda sull'erba, ma era evidente che si fossero completamente dimenticati di lui. Abbassò il muso sulle zampe anteriori, e si accinse ad aspettare: avevano l'aria di due che avrebbero durato per un po', con quel gioco in cui, era evidente, non erano intenzionati a coinvolgerlo.
– Te lo avevo detto… – cominciò Pete, inframmezzando piccoli baci ogni tre o quattro parole – …che se avessi cominciato…
Lei lo interruppe nello stesso modo.
– E io ti ho detto… che non ti avrei… chiesto di smett…
– Shhh, stai zitta – le strinse i capelli tra le dita e la appoggiò con le spalle al tronco dell'albero, soffocando ogni altra parola tra le loro labbra.
Se la presero con calma, assaporando e assaggiando, finalmente abbracciandosi e stringendosi come tre settimane prima non erano riusciti a fare… avevano tutto il tempo che volevano, nessuno li vedeva, nessuno li aspettava. E, soprattutto, poiché avevano gli auricolari sintonizzati solo sul canale di emergenza, nessuno li stava ascoltando.
Continuarono a baciarsi a lungo, profondamente, esplorando, accarezzando e mordendo, fino a sentire un fiotto bruciante di passione fluire rapido, potente, a pulsare e pungere nelle vene.
Il resto del mondo poteva fare a meno di loro… e che lo facesse! Stavano già sacrificando abbastanza, per lui, chi se ne fregava, del mondo, in quel momento?! Alle spiegazioni, a cosa dirsi, ci avrebbero pensato dopo, o domani… o mai. L'importante era godersi quegli attimi, senza pensare, sapendo che niente, assolutamente niente su tutta la Terra, avrebbe potuto staccarli.
 
 
Bacio-Albero-2
 
Niente…
…tranne il suono improvviso che esplose loro negli auricolari!
Si separarono di soprassalto, con un sobbalzo, il respiro corto, fissandosi negli occhi spalancati dal terrore, portandosi le mani alle orecchie, da cui partiva l'odioso e assordante squillo di quell'allarme maledetto, che spaccava loro il cervello!
Era vero, su tutta la Terra non c'era niente che avrebbe potuto distoglierli da quei baci. E infatti, l'unica cosa che era stata in grado di farlo, era una minaccia che arrivava dallo spazio: non c'era obiezione che tenesse.
In un attimo, soffocando un paio di imprecazioni, balzarono a cavallo e lanciarono gli animali a rotta di collo, seguiti dal cane. Anche la piacevole convinzione che i momenti passati con i cavalli fossero il loro portafortuna, era stata brutalmente infranta.
Con quella galoppata forsennata, in una manciata di minuti raggiunsero l'ingresso principale del Centro di Ricerche.
– Briz, i cavalli! Che facciamo!? – gridò Pete, saltando giù da Indy.
– Mollali, sanno la strada e c'è Hakiro ad aspettarli! Atlas, a casa! – ordinò Briz, dando una pacca sul sedere di Obi-wan.
I due equini seguirono il cane al galoppo, mentre lei e Pete entravano correndo nell’atrio, per andare a prepararsi.
Da qualche parte un Mostro Nero si era fatto vivo; la guerra era tornata, con una prepotenza e un tempismo spietati, ad essere l'unica priorità, ad azzerare in un secondo qualunque cosa che non la riguardasse.
Il mondo si era di nuovo ribaltato, e pretendeva attenzioni.
                                                          
> Continua…
 
 
 
Note:
Il cane Balto è esistito davvero, la sua storia è raccontata nel film d’animazione omonimo, del 1995, prodotto dalla Amblin Entertainment di Steven Spielberg.
 

Stetson è un famoso marchio di cappelli da cowboy. Uno dei migliori (e più costosi, mi hanno detto).
 

 
 
 
Vi sarete accorti, forse, che il capitolo è più corto (e magari qualcuno me ne sarà grato...)
Ma un momento dolce per questi due ci voleva, mi è uscito così, non sono riuscita a farne a meno. Anche se forse, visto il finale, mi vorrete ammazzare.
 
 
Vorrei cogliere l’occasione per dedicare il capitolo alla mia amica-sorella n° 1, Stefania R., che non ha un computer e non frequenta EFP, ma ha letto questa storia in innumerevoli rate, tra alti e bassi, nell’arco di tre anni. E ha sopportato con una pazienza da santa tutte le mie paturnie, le modifiche, i blocchi della scrittrice… (Non che io mi ritenga tale, sia chiaro…)
I nostri Whatsapp erano esilaranti, quando erano due mesi che non toccavo il PC: “Mari, hai scritto?” “No, buio totale.” Seguivano relative faccine piangenti e sconsolate… Non si contano, così come quelli con “Stefi, sto scrivendo…” seguiti da disegnini di matite e quaderni, e faccine soddisfatte e sorridenti! Grazie per la tua pazienza e i tuoi incoraggiamenti, Stefanina, che mi sei vicina dal lontano 1983! Credo che senza di te, questa storia non sarebbe pubblicata qui. Forse manco esisterebbe! Un bacione! :* T.V.B.

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Capitolo 31
*** 30 - Ombre dal passato ***


~ 30 ~ 
OMBRE DAL PASSATO
 
 
“Who am I,
I’ve been crawling through the dark
Looking for the answers
Who am I
I’ve been buried from the starts
Losing all my senses
Breaking me, don’t
See what’s left now
Who am I
Losing my identity.”
(Linkin Park – Who am I)
 
L’ultima battaglia era stata estenuante per tutti, per Fabrizia e Pete in particolare che, oltre a soffrire ancora un po’ dei postumi della batosta subita con Zhora, al suono dell’allarme erano  rientrati al Faro a rotta di collo, con i cavalli al galoppo lanciato, senza nemmeno potersi godere uno dei pochi momenti leggeri a loro disposizione.
Anche Midori, però, si sentiva stanca e frastornata. Era da tempo, ormai, che spesso non si sentiva bene: quei mal di testa continui si erano trasformati in voci che le risuonavano nelle orecchie nei momenti più strani, per arrivare, a tratti, a diventare vere e proprie allucinazioni, ma lei non se la sentiva di confidarsi con nessuno, tantomeno con Sanshiro, e sapeva anche che con il suo comportamento stava distruggendo la già difficile e fragile relazione che era cominciata nel novembre scorso, e che in quegli ultimi sei mesi non era progredita di un passo, a parte il focoso intermezzo avvenuto a metà marzo sul ballatoio del faro. Era stato proprio da quella sera che i disturbi si erano intensificati notevolmente, facendole fare parecchi passi indietro sulla loro situazione; ed erano passati due mesi abbondanti, ormai.
Sapeva che Sanshiro era stanco di come le cose si trascinavano: non gli piaceva una storia a mezzo servizio, con una ragazza che gli impediva persino di esprimerle i suoi sentimenti, che gli concedeva o gli rubava un bacio ogni tanto, scatenando fra loro una passione intensa e profonda, per poi sparire rapidamente senza concedergli nulla di più, lasciandolo lì come un allocco. Nonostante tutto, Sanshiro aveva continuato a dimostrare una pazienza da santo, lei stessa era la prima a riconoscerlo, ma ultimamente si era accorta che il giovane stava raggiungendo il limite.
Tuttavia, non avrebbe mai trovato il coraggio per dirgli ciò che la tormentava: l'avrebbe presa per matta. Quanto a confidarsi con Briz o Jamilah, ci aveva fatto un pensiero, ma le sembrava che le sue amiche fossero già abbastanza incasinate per conto loro, per andare a complicargli ulteriormente la vita con i suoi problemi. A Briz, poi, era accaduta una cosa molto strana, alla fine dell’ultimo scontro, che aveva lasciato tutti perplessi e preoccupati, e Midori non voleva arrecarle ulteriore peso sfogandosi con lei sui propri malesseri.
La stessa cosa pensava per quel che riguardava Daimonji, a parte che, forse, nemmeno tutti loro, col bene che le volevano, avrebbero potuto crederle.
Stava cominciando seriamente a meditare sulla difficile idea di dare un taglio a quella strana pseudo-relazione con il pilota del Gaiking, perché ora sapeva che non avrebbe mai potuto dargli ciò che lui meritava… ma odiava l’idea di farlo soffrire.
Pregò di non incontrarlo mentre, dalla Piccionaia – dove era salita per cambiarsi, dopo aver concluso il turno di lavoro e aver volentieri lasciato il posto a Yamatake – scendeva con l'ascensore al piano terra. Le porte scorrevoli si aprirono e le sue speranze si infransero, quando si ritrovò a specchiarsi negli occhi marroni del giovane. Lui le sorrise, facendole come sempre tremare le ginocchia, e la ragazza tentò di fare altrettanto, ma quello che gli rivolse era giusto la parodia, di un sorriso. Sanshiro sospirò, scrollando la testa, e l’espressione affettuosa si spense: era evidente che quella specie di smorfia non gli era piaciuta per niente.
Midori chiuse gli occhi per un attimo, preparandosi a… a che cosa? Non lo sapeva nemmeno lei. All'improvviso si sentì sospingere dentro l'ascensore e riaprì gli occhi di colpo, in tempo per vedere Sanshiro che schiacciava un paio di bottoni per far chiudere le porte e fermare la cabina tra due piani. Lei aprì la bocca per dire qualcosa, ma qualunque cosa fosse venne soffocata da un bacio. Si ritrovò prigioniera contro la parete, e se, per un istante, aveva pensato di protestare per quei modi bruschi, nel giro di un attimo cambiò idea. Dio, era passato così tanto, dall'ultima volta che avevano avuto un po' di tempo per loro! E sapeva che la colpa non era certo di Sanshiro.
Midori non riuscì a resistergli, gli allacciò le braccia intorno al collo e ricambiò il bacio, che divenne subito meno impetuoso e più tenero. Lentamente, con un altro sospiro, Sanshiro staccò le labbra da quelle di lei e se la tenne stretta fra le braccia, come se avesse paura di vederla scappare, cosa che ultimamente succedeva spesso e sulla quale, nonostante tutto, lei si sentiva combattuta. Era meraviglioso stare lì, abbracciata a lui, ma era troppo confusa e tormentata per affrontare qualsiasi argomento.
– Dimmi cos’hai, Dori – le disse all’orecchio, perentorio e dolce allo stesso tempo.
– Niente… – mentì con voce tremante.
– Piantala di prendermi in giro! – esplose lui, prendendola per le spalle e spingendola di nuovo contro la parete – Io e te siamo in un bel casino, altro che niente! Avanti, sputa il rospo, o finirò per uscire pazzo!
– Non c'è nessun rospo – mentì di nuovo lei distogliendo lo sguardo dai suoi occhi, sapendo che se gli avesse detto la verità, a passare per pazza sarebbe stata lei.
– Ancora continui su questa strada? Credi che sia scemo? Persino Cuore-di-iceberg-Richardson l'ha capito, che le cose tra noi sono un disastro!
– Cosa vuoi da me, Sanshiro? – gli chiese Midori con tono stanco e disperato.
– Cosa voglio? Hai un bel coraggio a chiedermelo! Voglio la mia ragazza, ecco cosa voglio! Il problema è… che credo sia lei a non volere più me – affermò lui, avvilito.
Midori avrebbe voluto rispondergli qualcosa, ma lasciò perdere; in realtà non aveva la più pallida idea di cosa dirgli.
"Voglio la mia ragazza" le aveva appena confessato Sanshiro.
Perché sì, la verità era quella: sebbene non avessero mai oltrepassato certi limiti, lui la considerava davvero la sua ragazza. Il problema era che lei… non poteva esserlo. Lo desiderava alla follia, ma non poteva essere sua; non poteva essere di nessuno.
E così lì, sui due piedi, Midori prese la più drastica e scellerata decisione della sua vita: se non poteva condividere il suo problema con lui, allora non avrebbe più condiviso nulla. Meglio farlo arrabbiare e chiudere le cose definitivamente, quindi doveva essere cattiva e sconvolgerlo.
– Ah, è la tua ragazza, che vuoi, vero? Quindi questo!
Gli afferrò una mano e se la posò sgarbatamente su un seno. Sanshiro rimase sconcertato da quel gesto e tentò di spostare la mano, ma lei lo trattenne con forza, fulminandolo con uno sguardo di fuoco.
– Cosa fai, il gentiluomo, adesso? Forza! Trascinami nella tua stanza, sbattimi sul letto e fai quello che devi fare! Tanto lo so che è a questo che miri! Tu sei stufo solo perché non hai ancora ottenuto quello che vuoi veramente!
Sanshiro tolse con decisione la mano da quella posizione; aveva osato quel gesto solo un paio di volte, e di certo non lo aveva fatto in quel modo. Mai si sarebbe aspettato di venire accusato da Midori di voler solo portarsela a letto. Qualunque cosa la tormentasse, era evidente che non lo amava abbastanza per dirglielo. Si diede dello stupido. Amore? Ma dove? Era stato ovvio fin dall'inizio: tutte quelle storie, niente promesse, niente ti amo… Come aveva fatto a non arrivarci subito? Era stato un illuso… Questa volta fu lui a fulminarla con lo sguardo e a fare un passo indietro.
– Lascia perdere, è evidente che non hai capito niente di me: se il mio unico scopo fosse stato di portarti a letto, ti assicuro che avrei cercato altrove molto prima. Sei tu che volevi solo un'avventuretta, e nemmeno troppo impegnativa, con il pilota del Gaiking. Potevi tirarla un po' meno lunga, magari.
Midori interpretò quella frase come un'opportunità che le veniva offerta, affinché fosse lei stessa a scrivere la parola fine alla storia. Non riusciva a vedere un'alternativa, viste le conclusioni a cui l’aveva portata ciò che le stava accadendo, e, anche se le spezzava il cuore, decise di coglierla, per non caricare Sanshiro anche della responsabilità di essere lui a rompere. Così continuò sulla contorta strada che aveva scelto: quella di farsi detestare da lui, perché forse, in questo modo, l'avrebbe dimenticata più in fretta. Dopotutto, non si soffre per una stronza, no?
– Che cosa avevi creduto, Comandante? Che sarei davvero venuta a letto con te? E per cosa? Per vantarmene con le amiche? – gli chiese sardonica.
– No – rispose lui serissimo, senza raccogliere il sarcasmo – Pensavo che se un giorno fosse accaduto, sarebbe stato perché mi amavi, ma tu non hai mai voluto nemmeno parlarne! E sai perché ora non mi importa più niente di dirtelo? Perché tanto è pacifico che tra di noi non può andare – la voce gli si abbassò, assumendo un tono rassegnato – La mia ragazza non c'è più… quando mai c’è stata, in realtà?
– Bene, hai detto giusto, non c’è mai stata. Chiudiamola qui, Sanshiro!
– Sì, chiudiamola qui! Me la farò passare, tranquilla, non avrai il mio cuore spezzato sulla coscienza. Spero solo che ti sia divertita, a pomiciare con me ogni tanto, quando ne avevi voglia!
Senza aggiungere altro, schiacciò il bottone per riportare l'ascensore al piano terra. Con le braccia incrociate sul petto, Sanshiro le indicò, con un'occhiata torva e un rapido cenno del capo, le porte che si aprivano, lasciando a lei la responsabilità dell'ultima scelta: sarebbe bastato niente, solo un cenno, o una parola, per riportare le cose a posto. Sanshiro, per un attimo, ci sperò seriamente e con tutto il cuore, a dispetto delle parole dure che si erano appena rivolti; ma l’unico gesto di Midori fu quello di slacciarsi dal collo il ciondolo con la trasmittente, che lui le aveva regalato sei mesi addietro, e lanciarglielo bruscamente, prima di scegliere la fuga. Lui lo afferrò al volo, mentre la ragazza infilava la porta a razzo, senza degnarlo di un ultimo sguardo. Uscendo nell'atrio, Sanshiro ebbe appena il tempo di vederla scomparire all'esterno del Centro, mentre correva come se avesse il diavolo alle costole.
Si appoggiò con la schiena alla parete e chiuse gli occhi, stringendo i pugni e soffocando un gemito; per tutti i Kami,1 ci mancava solo che gli venisse da piangere! Si voltò di scatto e mollò un pugno contro il muro, ottenendo soltanto di ferirsi le nocche, e, a pensarci bene, non ne valeva nemmeno la pena!
O almeno, di questo tentò di convincersi.
 
***
 
Alle scuderie, Pete non aveva trovato nessuno, così aveva tirato fuori Obi-wan e aveva cominciato a strigliarlo, pensando poi di andare a fare una breve passeggiata. Lasciò per un attimo il lavoro e andò ad accendere lo stereo, senza curarsi troppo di quale musica ci fosse dentro; faceva spesso così, poiché gli piaceva la sorpresa che gli riservavano le canzoni che Fabrizia aveva ascoltato per ultime, e non rimaneva mai deluso da quello che ci trovava: aveva appurato da tempo che i loro gusti musicali erano molto simili.
Tornò a occuparsi del cavallo e la canzone che cominciò lo colse di sorpresa: era un CD vecchio, molto vecchio, di un cantautore italiano di cui aveva sentito parlare spesso, probabilmente da sua madre e sua nonna, quando era piccolo. Anche in questo caso, riuscì a seguire le parole piuttosto bene e il ritornello non gli suonava nuovo.
 
"Mi manca da morire,
questo piccolo grande amore,
Adesso che, saprei cosa dire,
adesso che, saprei cosa fare,
Adesso che,
voglio un piccolo grande amore..." 2
 
Aveva scosso la testa, riscuotendosi da quel vago ricordo, pensando che le parole non si intonavano nemmeno un granché con le sue sensazioni di quegli ultimi mesi, perché lui, invece, non sapeva proprio cosa dire, né cosa fare. E quell'accidente di amore che lo aveva colto alla sprovvista per la bestiolina selvatica, tutto era tranne che piccolo! Anzi, era decisamente grande, grandissimo! Non aveva mai provato niente del genere in vita sua, nemmeno per Tracy, la sua prima fidanzatina.
Sospirò, spegnendo lo stereo; tutto ad un tratto, non aveva più voglia di musica.
Poco prima, arrivando alle scuderie, aveva visto che Indy non c'era e aveva dedotto che la ragazza fosse in giro con lui. Mentre continuava a strigliare l'altro cavallo ripensò all'ultima battaglia, che lui aveva odiato in modo particolare per almeno un paio di motivi.
Per la prima volta Briz aveva combattuto a video acceso, lasciando che i suoi amici si rendessero conto dal vivo di cosa le accadesse con la connessione. E fin qui non c'erano stati grossi problemi: come lui, i loro compagni erano rimasti stupiti, ma di certo non ne erano stati disgustati o impauriti.
Al termine della battaglia però, al momento della disconnessione, Briz aveva avuto alcuni minuti di crisi profonda che nessuno di loro si era aspettato, primo fra tutti Doc: Fabrizia non era riuscita ad avviare il processo di distacco da Balthazar.
Pete ricordava perfettamente il monotono dialogo fra lei e il dottor Daimonji, che cercava di riscuoterla dalla specie di trance in cui era caduta.
– Briz, mi senti? – le aveva chiesto lo scienziato.
– Sì – era stata la risposta, data con un tono talmente apatico da preoccuparli tutti, prima di rimanere immobile, in silenzio.
– Briz! Mi senti? – aveva ripetuto Doc, a voce più alta.
E di nuovo lei aveva risposto automaticamente, con voce àtona: – Sì.
E poi di nuovo silenzio e immobilità.
Dopo un altro paio di tentativi andati a vuoto di Doc, per farsi ascoltare e indurla a disconnettersi, Pete non aveva resistito ed era intervenuto perentorio.
– Ehi, apri le orecchie, buffona! Datti una mossa, e avvia quella fottutissima disconnessione del cazzo! – le aveva gridato negli auricolari.
A quelle parole brusche e quantomeno colorite, piuttosto insolite in bocca al loro Capitano, tutti avevano visto l'armatura che ricopriva la ragazza sobbalzare violentemente, come se Briz si fosse appena risvegliata di soprassalto da un sonno profondo.
– …Pete…? – aveva chiesto indecisa, sollevando la celata del casco e mostrando il volto pallido e confuso.
– No, mia nonna Rosy! Certo che sono Pete, e tu chi sei? Perché mi sembra tu abbia le idee un po' confuse al riguardo. Avanti, muovi il culo e torna nei tuoi panni, prima che decida di venire a staccarti di persona!
Tornata completamente in sé, Briz aveva eseguito la disconnessione e poi le manovre di rientro. Attraverso gli auricolari aveva sentito Pete parlare con Daimonji, mentre lui faceva atterrare il Drago, e quel che si erano detti le aveva fatto quasi scappare da ridere.
– Visto, Dottore? È che ogni tanto bisogna parlare il Fabriziese per farsi ubbidire da lei.
– Oh, e tu l'hai imparato piuttosto bene, mi pare.
In attesa che i malesseri collaterali passassero, Briz aveva pensato che il tono leggero di quello scambio di battute tra i due, avesse mascherato non troppo bene una certa preoccupazione. Infatti, quando aveva raggiunto la plancia di comando si era vista venire incontro Pete, sconvolto come tutti da ciò che era accaduto e che, incurante della presenza degli altri, l'aveva abbracciata sentendola tremare contro di sé.
– Che ti è successo? – le aveva chiesto all'orecchio.
– Non lo so. Che Dio mi aiuti, non lo so – aveva risposto Briz, scostandosi da lui a fatica.
Pete non le aveva permesso di allontanarsi più di tanto, tenendole un braccio attorno alle spalle più per sostenerla moralmente che altro, mentre lei raccontava a Daimonji e ai compagni come si fosse sentita.
– Io… non riuscivo a decidermi, Doc… non ce la facevo. Non mi era mai capitato nulla di simile, stavo… stavo bene lì, chiusa nella mia armatura! Mi sentivo… potente! Invincibile, protetta…
Daimonji aveva sospirato, ansioso.
– Sembra quasi… una specie di dipendenza – aveva sentenziato poi. Briz e gli altri non avevano avuto bisogno di altre spiegazioni, le parole del dottore erano state abbastanza chiare: la NGC cominciava a farle l'effetto di una droga; ancora un po' e, a livello psicologico, non avrebbe più potuto farne a meno…
Questa cosa li aveva fatti inorridire tutti; Briz si era seduta al suo posto col capo chino e Pete, passandole accanto, si era fermato un attimo e le aveva scompigliato i capelli, lasciandosi sfuggire tra i denti un'imprecazione. Quel dannazione appena sussurrato e quel gesto affettuoso non erano sfuggiti a nessuno, tantomeno il sorriso riconoscente, ma stanco, con cui Briz aveva gratificato il loro Capitano, che aveva tentato in qualche modo di ricambiare, prima di tornare ai comandi del Drago.
Continuando a spazzolare il manto nero di Obi-wan, Pete si chiese quali altre prove avrebbe dovuto affrontare la sua fanciullina, prima della fine della guerra. Ecco, continuava a pensare che fosse sua… gli veniva spontaneo, ora che aveva scoperto che tenerla fra le braccia e baciarla, era una delle cose per cui valesse la pena vivere. E questo lo portò al secondo motivo per cui quest’ultima battaglia gli sarebbe rimasta per sempre impressa nella mente: l'allarme che l'aveva annunciata era stato di un tempismo crudele, interrompendoli proprio in quello che, almeno per lui, era stato uno dei momenti migliori della sua vita.
Non ne avevano mai più parlato, di quei baci all'ombra dell'Albero, e forse era stato meglio così. Sapeva che per Briz era solo un gioco, come l'altra volta, nell'abitacolo di Balthazar: un modo per sentirsi ancora viva, rinforzare la sua scarsa autostima, una crisi di voglia di coccole… o Dio sa cosa. C'erano momenti in cui la parte egoista di sé stesso desiderava che Briz lo amasse, ma più spesso pregava che non fosse così, e che continuasse a considerare quei piacevoli intermezzi tra di loro soltanto come un diversivo. Farla soffrire era l'ultima cosa al mondo che volesse, e amare uno come lui sarebbe stato come un biglietto di sola andata per il Purgatorio; per lei ci voleva davvero il bravo ragazzo, disposto a creare un futuro insieme e a fare quei due o tre figli che lei avrebbe tanto voluto.
Quel desiderio tradiva il fatto che Briz, nonostante i suoi modi da maschiaccio e quel dannato dispositivo che le aveva inibito il ciclo mensile, avesse insita nell’animo una profonda femminilità; cosa, quest’ultima, che lui aveva percepito in modo assoluto, nei momenti passati con lei tra le braccia. Non aveva mai osato avventurarsi oltre coi pensieri, immaginando quale cosa meravigliosa e travolgente potesse essere fare l’amore con lei… perché altrimenti sarebbe impazzito.
Fra l’altro, Pete non si era mai posto nemmeno un quesito, nella vita, sull’eventualità di avere, un giorno, dei bambini: mettere al mondo delle piccole copie di sé stesso non gli sembrava una bella idea, proprio per niente. Cosa mai avrebbe potuto insegnare a dei figli, uno come lui, che ultimamente era campato solo di rimorsi, guerra, disciplina ferrea e ordini da dare o eseguire?
Nonostante ciò, provò ad immaginare un bambino coi capelli biondo scuro come i suoi, che somigliasse a lui da piccolo. Non fu difficile visualizzarlo nella mente, ma si riscosse con un brivido, realizzando che quel ragazzino che aveva appena visto, gli somigliava, sì, in modo impressionante, ma aveva gli occhi verdi, e una spruzzata di lentiggini sul naso. Dio no…! Nononono!
Poi si insinuava un altro pensiero: che ne sarebbe stato di loro, alla fine della guerra? Ognuno sarebbe tornato al proprio paese, alla propria vita… Si sarebbero persi…? Si sarebbero mai più rivisti? Interrogativi che venivano spazzati via dall'altra alternativa: e se a cadere fossero stati loro e non l'Orrore Nero? Beh, in quel caso qualunque problema sarebbe stato risolto, anche se non nel migliore dei modi.
Andò a prendere l’occorrente e cominciò a sellare il cavallo. Quando i suoi pensieri si mettevano a frullare in quel modo ipnotico e ossessivo, come una melodia ammaliante che gli riempiva la mente e il cuore, si spaventava a morte da solo e gli sembrava di impazzire: non era da lui, maledizione! Si sforzò di ritrovare la concentrazione sul proprio lavoro e finì di stringere la sella a Obi-wan.
In quell'attimo, Indy e la sua amazzone arrivarono di corsa dal sentiero; strano, Briz gli aveva insegnato che non si rientra mai al galoppo, da una passeggiata, per dare modo ai cavalli di asciugarsi dal sudore. A meno che… non ci fosse qualcosa che non andava. La vide scendere di sella rapidamente e le andò incontro preoccupato, afferrando il cavallo nervoso per le briglie: ultimamente stare in ansia per lei era diventato imprescindibile, non riusciva più a farne a meno.
– Bri, che succede?
– Niente di grave, Doc mi ha mandata a chiamare all'improvviso per fare dei test sul DNA, anche… per via del problema dell'altro giorno, e sono già in ritardo… – rispose lei, affannata.
– Vai, allora, ci penso io a Indy.
– Lo faresti davvero? Grazie, bellissimo! Quando fai così, ti voglio quasi bene! – esclamò, mandandogli un bacetto immaginario con un rapido gesto della mano.
– Mi raccomando il quasi! – le gridò dietro con un sorriso, guardandola saltare a razzo a bordo del suo Ford Kuga e sparire in una nuvola di polvere, dopo una sgommata degna di un pilota di rally.
Pete rimase lì, le braccia abbandonate lungo i fianchi, le briglie lente di Indy in una mano, a guardare il polverone che si posava lentamente. Briz affrontava ogni giorno, come tutti loro, almeno un milione di problemi e altrettanti pensieri, eppure riusciva sempre a scherzare e a regalare agli altri un momento di spensieratezza; soprattutto a lui. Si voltò verso il cavallo, appoggiandogli la fronte sul lato del collo, e chiuse gli occhi: si sentiva moralmente distrutto.
"Oh, Dio, aiutami. Come farò senza di lei?" si ritrovò a pensare.
 
Pete-e-Indy
Il miagolio di Balto, che si sfregava contro i suoi stivali, lo riscosse mentre legava Indy allo steccato. Si chinò e lo prese in braccio, sollevandoselo poi davanti al viso, mentre si sedeva su una balla di fieno; il gattino allungò il musetto, sfiorandogli il naso col suo, raggomitolandosi poi all’altezza della sua spalla, facendo le fusa contro il suo collo. Per la miseria, lui, Pete Richardson, che si coccolava un gatto, era davvero una cosa impensabile! Ma accarezzare quel pelo liscio e morbido, dai riflessi rosso dorati, gli dava un senso di rilassatezza provato raramente in vita sua.  
Gli sarebbe mancata, Briz… e i suoi animali… per non parlare di Doc, che ormai considerava come un padre… e degli altri, che erano diventati quasi dei fratelli. Si rese conto che l’aver instaurato un così profondo legame affettivo con loro, aveva reso il suo modo di combattere e affrontare le battaglie ancora più sicuro e determinato, poiché sapeva di farlo non solo per difendere e proteggere il suo pianeta, ma anche i suoi amici, e Briz in particolare; non era più solo un dovere.
Fu costretto ad ammettere che Sakon, su una cosa che gli aveva detto molto tempo prima, aveva ragione da vendere: "I sentimenti ci rendono più forti, non più deboli". 
“Magari ci incasinano un botto” si disse sarcastico “Ma sul fatto che ne usciamo temprati, non ci piove”.
Il rumore di uno scooter interruppe i suoi pensieri; pensò che fosse Hakiro, invece era un vecchio motorino dal quale scese trafelata Midori, che si avvicinò di corsa e, senza degnarlo di uno sguardo né di un saluto, sciolse le redini di Indy, saltò in sella e se ne andò di carriera.
– Midori, aspetta! Che succede? – le gridò dietro.
Nonostante tutto si fosse svolto in pochi secondi, non aveva potuto fare a meno di notare che la ragazza aveva gli occhi e il viso inondati di lacrime. Midori andava a cavallo da ben prima di lui, ma Pete sapeva anche che era fuori allenamento; in più era sconvolta, e Indy ultimamente si era comportato spesso da bischero, come avrebbe detto Fabrizia. Temendo che potesse accaderle qualcosa, senza pensarci oltre salì in sella a Obi-wan e partì all'inseguimento, non prima di aver ordinato al cane: – Atlas, resta qui! Guardia!
L'animale obbedì, sedendosi vicino al cancello, ma di certo, se avesse potuto esprimere la sua opinione, avrebbe detto che i suoi amici bipedi diventavano ogni giorno più strani.
Pete raggiunse Midori sulla spiaggia dopo una corsa forsennata e riuscì a fermarla, sporgendosi dalla sella e afferrando le redini di Indy che aveva appena cominciato a darsi alla pazza gioia. Arrivò appena in tempo per impedirle di rotolare a terra, come era successo a lui non molto tempo prima. I cavalli si fermarono, ansimando e schiumando dalla bocca, tra i cigolii del cuoio e i tintinnii dei finimenti.
– Ma sei scema? – le gridò arrabbiato – Non si molla così un cavallo come Indy! E te lo dico per esperienza, perché ne ho fatto le spese giusto qualche giorno fa! Ma dovresti saperlo meglio di me!
– Ma cosa vuoi da me, che t'importa? Voglio stare sola!– urlò sgarbata Midori, scendendo di sella e facendo per andarsene a piedi.
Ma anche Pete era già saltato a terra e la fermò, prendendola bruscamente per un braccio e costringendola a voltarsi verso di lui. I cavalli si allontanarono di poco e rimasero a gironzolare sul fondo della spiaggia, ai piedi del terrapieno, con le redini penzolanti.
– Si può sapere che ti prende? – esclamò irritato, ma smorzando subito i toni quando si avvide della disperazione sul viso della ragazza – Dori… ma che ti sta succedendo? – le chiese, con un tono talmente gentile che la fece di nuovo scoppiare in lacrime.
"Miseriaccia! Ma tutte a me, le donne che piangono, devono capitare?" pensò, decidendo che l'unica cosa da fare fosse quella che aveva già fatto con Briz a suo tempo: si attirò Midori vicina e la abbracciò, fingendo che fosse una sorella disperata. In realtà, non c'era molto da fingere, si sorprese.
 
Midori-e-Pete-spiaggia

– Okay, piangi quanto ti pare, ti presto la mia spalla. Ma poi ti calmi, e non pensare di andartene di qui senza prima aver vuotato il sacco. Che ti piaccia o no, lo abbiamo capito tutti che non stai bene.
– P-perché dovrei confidarmi proprio con te, v-visto che non l'ho fatto con n-nessuno? N-non siamo nemmeno mai stati m-molto amici, noi due – singhiozzò lei, contro la sua spalla.
– Vero… ma magari lo farai proprio per questo.
Midori si sforzò di calmarsi, pensando che  Pete non avesse proprio tutti i torti; non erano mai stati particolarmente vicini, ma, grazie alla sua amicizia con Briz, aveva scoperto aspetti di lui che non avrebbe mai immaginato. Lei stessa lo aveva visto cambiare, nel corso di quell'ultimo anno, e il suo abbraccio era fermo e rassicurante, come quello di un fratello maggiore.
Pete sentì che Midori si tranquillizzava e le disse in tono spensierato:
– Spero solo che Sanshiro non passi di qui proprio adesso, altrimenti stiamo freschi.
– Non che importi molto – disse Midori in tono spento, sciogliendosi dall'abbraccio dell'amico e passandosi la manica della camicetta rossa sugli occhi – Tanto… ci siamo appena lasciati. Sempre che ci fossimo mai presi, a dire il vero.
– Cosa? Ma… perché?
– Io… non sono la donna per lui. Credo di non esserlo per nessuno, in realtà.
– Perché dici questo, Dori? Sei una bella ragazza, intelligente, coraggiosa… hai tante qualità e sei amica di tutti. Capisco perché Briz ti voglia bene – disse Pete, andando insieme a lei a recuperare i cavalli e passandole le redini di Indy.
Si incamminarono lungo la riva del mare, fianco a fianco, tornando verso il Faro; i due animali li seguivano docili, le teste basse e le briglie lente nelle loro mani.
– Io… faccio dei sogni, Pete – confessò lei, sapendo di prenderla piuttosto alla larga.
Lui non rispose, ma anche Midori tacque, quindi tentò di incoraggiarla a continuare.
– Non mi sembra una cosa tanto strana: tutti sognano, quando dormono, persino… uno vuoto come me.
Midori gli sorrise; Pete stava imparando a prendere in giro sé stesso: Fabrizia aveva davvero fatto i miracoli con lui!
– Sono incubi, quelli che hai? – le chiese.
– No, tutt'altro; anzi, sono sogni molto belli. Sono solo… strani: vedo paesaggi sconosciuti, alieni, e gli edifici hanno un'architettura particolare, mai vista sul nostro pianeta… E… ci sono due lune, una bianca e una azzurra.
– Va bene, come dici tu, sono molto belli, ma mi sembrano semplicemente sogni. Con tutto quello che stiamo passando, siamo inconsciamente influenzati, credo.
– Aspetta… Sono le sensazioni che provo, ad essere inquietanti: è come se… ci fossi già stata, in quei posti! E infatti ci sono anch'io, in quei sogni: sono piccola, ho tre, forse quattro anni; ci sono persone che mi stanno intorno, sempre le stesse, che indossano vestiti diversi da quelli della Terra; e c'è… una donna bellissima, dagli occhi scuri e sereni, che mi prende in braccio e mi sorride… e mi chiama per nome. Non Midori… mi chiama… Green. Mia piccola Green.3 
– Perdonami, ma non capisco dove vuoi arrivare – commentò Pete, avvertendo comunque una strana inquietudine impadronirsi di lui. Sentiva che Midori stava andando a parare verso un discorso molto complesso e, quando lo fece, si sentì sollevare la pelle d'oca.
– Cosa penseresti se ti dicessi che questi… sogni, se vogliamo chiamarli così, mi arrivano all'improvviso, preannunciati da mal di testa lancinanti, anche quando sono sveglia? Che le voci di quelle persone mi raggiungono nei momenti più strani: mentre sono di guardia, sto mangiando, o bacio… cioè, baciavo Sanshiro… – si corresse.
– Dori… stai cercando di dirmi che non sono sogni, ma… ricordi?
La ragazza non rispose.
Pete conosceva la storia di Midori: sapeva che era stata trovata dal dottor Daimonji quando aveva circa sei anni, senza memoria alcuna del suo passato, e che era cresciuta in un istituto, con Doc come tutore, che poi era diventato un padre, per lei. Possibile che…?
Stava per dire qualcosa, quando Midori diede voce ai suoi pensieri.
– Io credo… di venire da un altro pianeta.
– Oddio, Midori… – cominciò lui, fermandosi di botto e fissandola; la ragazza non lo lasciò finire.
– Non mi credi, vero? È per questo che ho lasciato Sanshiro: perché non mi avrebbe creduto! E perché se anche lo avesse fatto… non avrebbe potuto continuare a stare con… un'aliena! – il suo tono di voce era salito, fino a raggiungere una vaga nota di isteria.
Pete le mise una mano sulla guancia, girandole il viso verso di lui.
– Midori, calmati. C'è solo una persona che può aiutarti, lo sai: Doc.
Midori deglutì con lo sguardo basso e non rispose.
– Ehi, guardami! Capisco che ciò che Doc potrebbe dirti, ti spaventi, ma non hai alternative.
La ragazza lo guardò negli occhi.
– Tu… non credi che io sia pazza?
– No, e penso che nemmeno Sanshiro lo crederebbe. Ma te lo sei dimenticato che Sakon si era innamorato di Lisa? E non era nemmeno un'aliena qualunque: era una zelana.
– E infatti… guarda com'è andata a finire! Pete… e se fossi una zelana anch'io? Ci hai pensato?
– E se anche fosse? Lisa… è stata una storia orribile, come quella di Erika e Starl, ma… sono esseri umani anche loro, a parte quelli a cui è stato fatto il lavaggio del cervello, o sono stati trasformati in cyborg e modificati geneticamente dai generali di Darius. Ma guarda Yock e Lyra: a parte qualche tratto somatico leggermente diverso, condividono il nostro DNA al cento per cento. Sono solo… un’altra etnia umana, come gli africani, gli asiatici o noi caucasici. Pensa una cosa: non ti sei mai ammalata da bambina? Sicuramente hai avuto le stesse malattie che abbiamo avuto tutti, che so… varicella, scarlattina, influenze stagionali varie… e sei sempre guarita con l'aspirina o gli antibiotici, esattamente come tutti noi; sei cresciuta e diventata una donna come tutte le ragazze della Terra. Midori, i casi sono due: o sei solo una trovatella terrestre con un inconscio molto sviluppato, oppure, se davvero vieni da un altro pianeta, è un pianeta i cui abitanti sono altri esseri umani. Io non mi stupisco più di niente, ormai; e tu sei, comunque, una di noi! Per come lo conosco, Sanshiro non ti amerebbe di meno solo perché non sei nata sulla Terra.
Midori lo guardò sconcertata: questo era lo stesso ragazzo che aveva rifiutato Lisa, quasi fatto scappare Fabrizia e cacciato via suo fratello Tom, circa un anno prima? La sua analisi era stata pratica e fredda, tipica del suo carattere razionale, ma lei ci aveva sentito anche incoraggiamento… e persino affetto. Pete rafforzò questa sua ultima percezione prendendole il viso tra le mani e chiedendole di nuovo in tono gentile:
– Allora? Parlerai con Doc? 
– Ci proverò – sussurrò lei, poco convinta.
– Non devi provarci, devi farlo. Se ti spaventa troppo l'idea di affrontarlo da sola… allora chiamami! Ci stai?
– Dammi solo un po' di tempo, ti prego. Io… mi sono sempre sentita come… fuori posto. Non ho mai trovato un luogo, una situazione, che mi abbia mai fatta sentire veramente me stessa: non so chi sono, da dove vengo… non posso chiedere a Sanshiro di rimanere legato a un… un essere strano come me.
– Dori… le persone sono tutti esseri strani. Guarda me, o Briz, o Sakon con quell'intelligenza prodigiosa… o Yamatake! Ti sembra normale, Yamatake? Te l'ho già detto, non sei meno umana di tutti noi. E poi… ho l'impressione che in questa faccenda ti preoccupi più di Sanshiro che di te stessa. Perché non dai un'altra possibilità alla vostra storia?
– Parlerò con Doc, te lo prometto; ma questo non risolverà le cose tra me e Sanshiro. Io… non ti ho detto tutto: credo… che la mia famiglia di origine stia cercando di mettersi in contatto con me per… riportarmi a casa; e se così fosse… dovremmo lasciarci comunque. E allora, preferisco che lui mi odi: mi dimenticherà più in fretta, e ci soffrirà meno.
– Ma ne vale la pena, Midori? Voglio dire, tu vuoi davvero andartene e lasciare non solo Omaezaki, o il Giappone, ma addirittura la Terra, per qualcuno che non conosci e di cui non sai nulla?
– Se quella donna che vedo, e che sento, fosse davvero mia madre? Io… non ho mai avuto una madre, e non sai, non sai quanto mi sia mancata questa cosa! E se mi sta cercando, forse mi ha lasciata sulla Terra perché non ha avuto scelta! Come posso negarle di riavermi con lei? E quello strano senso di estraneità che ho sempre provato, quella sensazione di non essermi mai sentita al mio posto… Forse è questa l’unica soluzione per sentirmi a casa, Pete: tornarci!
La voce le si spezzò e tacque.
Pete non sapeva cosa rispondere; volendo prendere per buono tutto ciò, comprendeva il suo ragionamento e il suo stato d’animo, pur non essendone del tutto convinto.
– Io penso… che la tua famiglia siamo noi… e Doc; forse anche Sanshiro. Stai decidendo tutto da sola, ma… anch'io ho fatto lo stesso sbaglio con una ragazza, anni fa; Briz mi disse che invece avrei dovuto dare a Tracy la possibilità di scegliere lei se lasciarmi, o restare con me e condividere tutti i problemi che stavo affrontando.
– Oh, piantala! O vogliamo parlare delle possibilità che proprio tu e Briz vi state negando!?
– Che c'entriamo io e Briz? Che ne sai? Io e lei non siamo…
– …innamorati? È questa la parola che stai cercando?
– Sì. Cioè… no! Insomma, io e lei… siamo amici e basta.
– Che fai, bel ragazzo, predichi bene e razzoli male? Non stai facendo niente di diverso, con Fabrizia, da ciò che hai fatto con Tracy: hai già deciso da solo che non dovete innamorarvi… ma poi dici a me di fare diversamente con Sanshiro, te ne accorgi?
Pete ci pensò un attimo: possibile che con Briz stesse davvero ripetendo lo stesso errore che aveva fatto con la sua ex fidanzatina? No… la situazione era totalmente diversa. Forse…
– Dori, lascia stare, ti prego. Con Briz è… soltanto un gioco. Ci siamo solo dati qualche bacio.
– Ah, qualche! Non siamo più a un paio? – lo prese in giro Midori, come se non avesse aspettato altro che di cambiare argomento.
– Dai, smettila. Lei vuole un bravo ragazzo, ricordi? E i bambini…
– E cosa ti fa pensare che non potresti essere tu, quel bravo ragazzo?
– Cosa mi fa pensa… Midori! Tutto mi fa pensare di non esserlo! Che se ne fa, una come Briz, di un bastardo emotivamente stitico e incasinato come me, me lo dici?
– Tu eri emotivamente stitico, ma non lo sei più da un pezzo, fidati.
– Oh, basta… Lei merita uno che la renda felice. Con me non potrebbe mai esserlo – concluse rassegnato.
– Lo vedi? La stessa cosa che penso io di me e Sanshiro, e che hai già fatto tu con questa Tracy. Questo non fa altro che avvalorare la mia ipotesi – sentenziò Midori con un lieve sorriso.
– Cioè?
– Che a volte siamo costretti a scelte che dobbiamo fare da soli, per il bene di qualcuno che amiamo; e, proprio per questo, sono difficilissime. E comunque, ciò conferma anche che pure tu sei perdutamente innamorato.
– Strano, mi sembra di averla già sentita questa cosa… Ah, già, ora che ci penso: me l'ha detta proprio il tuo ragazzo non più di qualche settimana fa! Ma non gli ho risposto – fece lui, ironico.
– Ma chi tace acconsente, bello, non lo sai? E poi… è il mio ex ragazzo – concluse Midori, con la voce che si spezzava di nuovo e tirando un po' su col naso, ma rifiutando di rimettersi a piangere.
Nel frattempo erano giunti all'altezza del Centro e risalirono la spiaggia, fino allo spiazzo antistante l'entrata principale dove Leiji4 e Nagai,5 due prestanti militari, montavano la guardia.
– Midori, ascoltami: lascia perdere me e Briz, è un discorso complicato. E… fai quello che ritieni giusto riguardo a Sanshiro, non credo di avere il diritto di metterci bocca. Ma trova le risposte sul tuo passato insieme a Doc; se hai bisogno di qualche giorno per pensare a come affrontare il discorso, prenditelo, ma non di più. Qualunque verità possa rivelarti, so che saprai affrontarla, e comunque… io sarò qui, se avrai bisogno.
Quell'ultimo incoraggiamento fu decisivo: Midori si sentì sollevata al pensiero di avere un amico al suo fianco, pronto a sostenerla in quel frangente. Certo se qualcuno, un anno prima, le avesse detto che quell'amico sarebbe stato lo scontroso capitano Richardson, gli avrebbe risposto di farsi vedere da uno bravo; a volte, la vita era davvero imprevedibile. – Lasciami Indy, ci penso io a riportarlo alle scuderie – le disse, togliendole di mano le briglie.
– Grazie, Pete, farò come hai detto.
Midori esitò, poi gli accarezzò una guancia e lo gratificò di un sorriso che sarebbe stato magnifico, se solo non avesse avuto, nelle iridi color caramello, una luce così disperata.
Fu proprio in quell'attimo che tre persone girarono l'angolo, giusto in tempo per vedere quel gesto: Fan Lee, Bunta e… Sanshiro, naturalmente, il quale aveva appena finito di raccontare agli amici cosa fosse accaduto con Midori. Non che avesse avuto l'intenzione di farlo, ma Fan Lee e Bunta lo avevano incrociato per caso e, notando il suo stato d'animo abbacchiato, lo avevano incoraggiato a confidarsi con loro.
– Beh, ragazzi! – sbottò Sanshiro con la voce che grondava sarcasmo – Ecco risolto l'arcano, è una storia vecchia come il mondo: quando una donna non ti vuole più, di solito è perché vuole qualcun altro.
Midori e Pete si voltarono verso di lui, poi quest'ultimo fece pochi passi e gli si fermò davanti, gli occhi azzurri che fronteggiavano, limpidi e senza timore, quelli marroni.6
– Non pensi sul serio questa stupidaggine, vero? Non tu – disse Pete con una calma e una sicurezza destabilizzanti; infatti la replica di Sanshiro uscì un po' esitante.
– A-allora dammela tu una spiegazione per quello che ho appena visto.
– Niente di più facile: hai visto Midori ringraziare un amico. Se non sbaglio, non molto tempo fa ti ho detto che anche tu lo sei, per me. Mi conosci: non sono uno che concede la propria amicizia a cuor leggero, ma con te l'ho fatto, e credo che tra amici non ci dovrebbe essere bisogno di spiegazioni. Non crederai davvero che potrei farti una… puttanata del genere? – e senza aggiungere altro, lo oltrepassò, tirandosi dietro i cavalli.
Sanshiro si sentì alquanto stupido: tanto per cominciare, Midori non era più la sua ragazza; quanto a Pete, lui stesso gli dava il tormento da mesi, abbastanza convinto di non sbagliare, accusandolo di essere innamorato di Fabrizia. Ma, al di là di tutto questo, sapeva perfettamente che l'amicizia e la lealtà di Pete non potevano essere messe in discussione.
– Hai ragione: scusami – gli disse seguendolo con lo sguardo.
Pete rispose solo con un vago cenno della mano, come per dire che andava bene così: tutto a posto. Poi si fermò, si voltò e guardò Midori.
– Fai quel che ti ho detto, piccola. Okay? – le disse con un mezzo sorriso.
Lei assentì, ma quando Pete fece di nuovo per andarsene lo raggiunse e lo trattenne.
– Senti… quando ti capiterà di parlare con Briz… puoi dirle tutto, se vuoi, anche se in realtà non vorrei caricarla anche di questo pensiero.
– Lo verrebbe comunque a sapere, prima o poi, lo sai. Quindi, perché non glielo dici tu? È la tua migliore amica.
La ragazza abbassò la voce, per non farsi sentire dagli altri.
– È già difficile doverlo fare con Doc. Io non… riesco ad affrontare tutto… tutto insieme…
– Ho capito, Dori, tranquilla: fai un passo alla volta, con Briz ci parlerò io. Tu pensa a come parlarne con Doc, è più importante.
Midori annuì nuovamente e Pete salì in sella a Obi-wan, allontanandosi al piccolo galoppo lungo il sentiero, tirandosi dietro Indy per le briglie.
La ragazza lo osservò per qualche secondo poi, con un rapido cenno di saluto, si congedò dagli altri tre; si costrinse a non incontrare gli occhi di Sanshiro che la seguivano, e raggiunse velocemente l'entrata del Centro. Era troppo, troppo difficile, stare nello stesso posto in cui c'era anche lui.
Cercò di concentrarsi su altro, per esempio sull'evoluzione che lei stessa aveva visto compiersi sull'indole e sui sentimenti del loro Capitano; e comprese come questo ragazzo, a volte tenebroso e imperscrutabile, a volte tenero e gentile, fosse riuscito a far breccia nel cuore torturato della sua amica Briz.
                                                      
> Continua...
 
 
 
 Note:
 
I Kami sono delle specie di spiriti, numi, entità soprannaturali della religione shintoista.
 

2 Questa la conoscete di sicuro tutti: “Questo piccolo grande amore”, di Claudio Baglioni. È un piccolo pensiero per la mia amica-sorella n° 2, Monica R., che conosco da più di trent’anni e che ama Baglioni da quando ha messo insieme l’età della ragione. Non ci vediamo da una vita, ha letto questa storia un po’ alla volta, le mandavo i capitoli all’indirizzo mail di sua figlia, che poi glieli stampava! E insieme all’altra mia amica Stefania, già citata, mi ha convinta a pubblicare questa storia. Quindi, Monica, grazie mille e un bacione anche a te! :* T.V.B.!
 
Allora, il nome alternativo di Midori era così anche nell’anime. Quello che mi fa ridere è ciò che ho scoperto facendo qualche ricerca sui nomi giapponesi. Suppongo sappiate tutti cosa significa Green in inglese: verde. Ecco, Midori, in giapponese, significa esattamente la stessa cosa! E se è per questo… Shiro significa bianco, e Sanshiro è tre volte bianco… Che dire? Bianco e verde! Carini, no?
 
4/5 I nomi dei soldati di guardia al Centro sono due piccoli omaggi: il primo, Leiji, è il nome del sommo maestro Leiji Matsumoto, creatore di quel magnifico e complesso personaggio che è Capitan Harlock. Se io sono qui, devo ringraziare anche Harlock e un gruppo di bravissime autrici che hanno scritto fanfiction meravigliose su di lui. Se vi interessa, vi consiglio di andare a spulciare il fandom in questione. Ne vale davvero la pena. =D
Nagai, invece, è riferito a Go Nagai, il creatore di Goldrake, Mazinga, Jeeg, Devilman e, pare, anche di Gaiking, anche se, riguardo a quest’ultimo, ci fu una diatriba con la casa di produzione Toei Animation, insomma un casino di cui non ho mai capito molto. 


Nell’episodio n° 16, “Separazione eterna”, si racconta la storia di Midori, che riprenderò più avanti. Lì tutto si esaurisce in un’unica puntata, io ho trascinato la faccenda per buona parte della mia storia. Ma nell’anime c’è un momento in cui Bunta, Fan Lee e Sanshiro, (che lì non ha nessuna relazione amorosa con Midori, of course) preoccupati per la ragazza, la pescano sulla spiaggia insieme a Pete, in una scena in cui sembrano molto vicini, e i tre pensano per un attimo che tra loro due ci sia qualcosa. Ecco, questa scena mi ha sempre incuriosita una cifra e io ho voluto immaginare cosa potessero essersi detti questi due sulla spiaggia.

Scusate il capitolo lungo, e le note altrettanto lunghe.
Naturalmente anche quando dimentico di scriverlo, è sottinteso che ringrazio con tantissimo affetto tutti quelli che hanno avuto la costanza di arrivare fin qui. Come sempre, provo a dire di non fare i timidi, mi piacerebbe davvero vedere qualcun altro lasciare un commento. Ma grazie lo stesso, apprezzo i numeretti che vedo, indipendentemente da quanti sono.
E naturalmente grazie alle mie recens…ore? …itrici? Come diavolo si dice? Insomma, in ogni caso grazie, per essere sempre così precise e puntuali, e per apprezzare i miei scleri! E comunque… siete diventate TRE! (Solo che l’ultima ha appena cominciato. Grazie, Robin! Hurrà! :*)
Avrete notato che in questo capitolo Fabrizia quasi non c’è. Invece Pete si è fatto valere anche come amico, a mio avviso 
😉
Alla prossima!  

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Capitolo 32
*** 31 - Una DeLorean per due ***


~ 31 ~ 
UNA DELOREAN PER DUE
 
 
Due giorni dopo la chiacchierata di Pete e Midori sulla spiaggia, nel calore di un tardo pomeriggio di inizio giugno, Fabrizia pedalava a rotta di collo sulla vecchia mountain-bike, in piedi sui pedali, dirigendosi alle scuderie. Ripensava a quello che Pete le aveva raccontato la sera prima riguardo a Midori mentre, sulla terrazza, cercavano un po' di respiro dall'ondata di afa. Non era una cosa facile da mandare giù, pareva ai limiti dell’assurdo anche solo ipotizzarla una cosa del genere, figurarsi crederci! Tuttavia, se anche una persona pratica e razionale come Pete non aveva escluso la possibilità che davvero Midori venisse da un altro pianeta, ecco che le probabilità che fosse vero si alzavano in modo esponenziale. Ormai la prova che gli alieni esistevano l’avevano avuta, pure troppo! Dove stava scritto che gli Zelani dovessero essere gli unici nell’universo?
Briz non era riuscita a vedere la sua amica e a parlarle, anche se in realtà non sapeva bene cosa avrebbe potuto dirle: ci si era arrovellata tutta la notte, senza riuscire a digerire la faccenda. Lasciare Sanshiro le era sembrata una mossa a dir poco folle, eppure non riusciva ad essere in collera con lei e le perdonava anche il fatto di non averla scelta come confidente: pur faticando a farsi una ragione di ciò che Pete le aveva riferito, si chiedeva cosa avrebbe fatto, lei, nei panni di Midori.
Era solo tremendamente triste all'idea di separarsi da lei, se tutta quella storia fosse stata vera; era arrivata persino a sperare che Midori fosse solo stanca e stressata al punto di soffrire di allucinazioni, ma poi si era vergognata di quel pensiero e aveva deciso, almeno per il momento, di provare a non pensarci, anche se non le riusciva molto bene.
Superò in velocità il cancello aperto, notando la moto di Pete e, da bravo maschiaccio, si fermò bruscamente con una sgommata di traverso che lasciò un solco nella ghiaia.
Si sentiva, come sempre, nervosa eppure eccitata all'idea di vederlo. Le bastava pensare a lui per tornare, con la mente, a quei magici istanti passati tra le sue braccia, sotto alle foglie verdi dell'Albero, non molti giorni prima; ma sapeva anche che per Pete quei baci erano solo un piacevole diversivo, ed era sicura che lui pensasse la stessa cosa riguardo a lei. Meglio così: le cose non potevano, non dovevano superare quel limite, altrimenti sarebbe stato un casino.
Dio, cosa avrebbe fatto quando la guerra fosse finita e tutti loro fossero tornati alla vita di prima? Si chiese come avrebbe fatto ad andare avanti e a tornare a un'esistenza normale.
Bah, ma che viaggi si faceva? Non ci sarebbe mai più stato niente di normale in futuro, né per lei, né per nessuno di loro, dopo quel difficilissimo, avventuroso e orribile periodo.
E poi… quale futuro? Se l'Orrore Nero li avesse sconfitti, nessuno ne avrebbe più avuto uno.
E a quel punto, pensò di nuovo a Midori: le mancava proprio, la prospettiva di perdere anche la sua migliore amica. Però… le venne da pensare che, se fosse davvero stata un’aliena e se ne fosse andata, almeno lei si sarebbe tolta da questa guerra schifosa…
"Chiudila qui, con 'sti pensieri, o ne esci pazza" si disse, determinata a concedersi un po’ di tregua con i suoi animali, mollando la bici contro il muro e raggiungendo il recinto sul retro.
I cavalli erano lì entrambi; il vecchio stereo diffondeva le colonne sonore dei suoi film preferiti, ma non c'era traccia di Pete.
– Dove sei, Capitan America, ti sei perso? – chiese, rientrando nel corridoio interno.
Per tutta risposta, ci fu qualche rumore sopra di lei, proveniente dal piccolo fienile situato sopra ai box, e una leggera pioggia di fieno profumato le cadde sulla testa e sulla t-shirt nera con il logo dei Linkin Park.
– Ahahah, molto divertente! – brontolò lei, alzando lo sguardo verso l’alto e spazzolandosi con le mani i capelli e le spalle, prima di arrampicarsi agilmente sulla scaletta.
– Allora, che succede: Regression Time? Ti è tornata voglia di fare il bel tenebroso scorbutico e solitario? – chiese guardandosi intorno, nella penombra.
Da una piccola finestrella, posta sul soffitto di legno spiovente, filtrava una lama di sole, dentro alla quale danzavano minuscoli granelli di polvere; Pete era seduto su una balla di fieno, chinato in avanti, con i gomiti sulle ginocchia e la testa bassa: sollevò appena lo sguardo, quando si trovò la ragazza davanti.
Briz notò le sopracciglia contratte, la ruga verticale tra di esse e l'espressione turbata; non aveva ancora detto una mezza parola, era evidente che fosse accaduto qualcosa.
– Che ti ho fatto, stavolta? – gli chiese, inginocchiandosi di fronte a lui.
Non ricevendo risposta, aggiunse sottovoce: – Qualunque cosa sia, mi dispiace.
– Perché dovrebbe essere colpa tua? – disse finalmente Pete.
– Ohi, il Muto di Portici ha ritrovato la voce! È che di solito sono io che ti faccio arrabbiare: sono la rompicoglioni, no? Per quanto, se non ricordo male, mesi fa mi hai concesso il solo un po'.
– Non è colpa tua, rassicurati. E poi non sono arrabbiato: se ci pensi, è un po' che non mi succede, soprattutto con te – le rispose con un mezzo sorriso, senza riuscire a mascherare l’incertezza che gli incupiva l’azzurro degli occhi.
– Anche questo è vero. Quindi? Hai qualcosa da dirmi, o posso andarmene per i fatti miei, a fare una passeggiata a cavallo? Che poi, sai che puoi venire anche tu, se vuoi.
Pete di nuovo non rispose, ma scosse la testa: era evidente che non fosse giornata. Afferrò una busta bianca posata vicino a lui sulla balla di fieno, e gliela porse; Briz prese la lettera e lesse il mittente: la Marina Mercantile degli Stati Uniti. Ma che cosa diavolo…? Stava per chiedergli del contenuto, quando si rese conto che era ancora sigillata.
Sospirò e gli si sedette accanto; guardò di nuovo la lettera, poi lui.
– Non l'hai aperta… E se fosse qualcosa che… riguarda tuo padre? – disse, esitante.
Pete sbottò, in tono canzonatorio: – Però, un intuito che nemmeno Horatio Caine di C.S.I. quando si toglie gli occhiali!1 E che altro potrebbe mai essere, Briz? Mio padre è l'unico anello di congiunzione che può esserci tra me e la Marina Mercantile! È proprio per questo… che non ho il coraggio di aprirla – ammise a malincuore.
– Ah, questa è proprio bella! L'eroico e intrepido pilota del Drago Spaziale che ha paura di qualche parola scritta su un foglio di carta! E dai, Pete!
Lui le strappò la lettera dalle mani.
– Al diavolo, lo sapevo che non avrei dovuto dirtelo! – esclamò, facendo per alzarsi.
Briz allungò un braccio, lo afferrò per il lembo della camicia a quadretti che gli usciva dal di dietro dei jeans e lo ritrascinò a sedere.
– Ma dove accidentaccio vai? Lo so, che questo argomento ti fa regredire allo stato di Neanderthal, ma dovrai affrontarlo, in qualche modo!
– Sì, divento un Neanderthal, va bene?! Il pensiero di mio padre e di quello che ha fatto riesce… a farmi venire il magone. Vado ai matti e non capisco più niente.
– Maaa… e il tuo glaciale autocontrollo, dov'è finito?
– Boh, non so… Un giorno è piombata nella mia vita dall'Italia una fanciullina selvatica e mezza matta che… ha letteralmente buttato nel cesso tutte le mie convinzioni!
– Meraviglioso: avrei dovuto immaginarlo che sarebbe stata colpa mia anche questo! Comunque, tornando dove eravamo: sei stato il confidente perfetto per Midori che, scusa se te lo dico, mi pare alle prese con qualcosa di ancora più grave! E sei riuscito a tranquillizzarla e a darle tutti i consigli giusti, compreso quello di affrontare a testa bassa il suo problema… e poi tu non vuoi farlo? – finì con più dolcezza.
– No, non credo. Forse ha ragione Midori, che mi ha detto che predico bene e razzolo male…
– Su cos'altro, razzoleresti male?
– Niente, niente, lascia stare… – la chiuse lì Pete, più confuso che mai.
– Vuoi… che la apra io? – gli chiese Briz all'improvviso, senza altri giri di parole.
Pete la osservò qualche secondo, valutando la cosa. Lei sperò che rispondesse in fretta, perché se avesse continuato a guardarla così, gli sarebbe saltata addosso, e non certo per picchiarlo.
Senza parlare, Pete annuì: le diede la lettera e chinò di nuovo la testa, sentendosi ai limiti della frustrazione.
Briz lacerò la busta, tirò fuori il foglio e cominciò a leggere, portandosi con le dita la ciocca bianca dietro all'orecchio. Pete la guardò in silenzio, scrutando le espressioni del suo viso man mano che procedeva nella lettura; a un certo punto la vide spalancare gli occhi e portarsi una mano alla bocca, in un gesto di incredulità.
La ragazza deglutì e sbatté le palpebre, infine, con un sospiro, ripiegò il foglio in due e glielo porse; gli sorrise.
– Credo proprio… che dovresti leggerla.
Pete prese il foglio e, con gesti lenti e incerti, lo riaprì e cominciò a scorrere le righe. Giunto alla fine si lasciò sfuggire un sospiro; alzò gli occhi al basso soffitto di legno e si appoggiò all’indietro, contro la parete.
– Non riesco a crederci – mormorò, mentre il foglio cadeva ai loro piedi.
– A me non pare una brutta notizia, Pete – commentò semplicemente Briz.
La lettera annunciava che George Robert Blackwood, l'Ufficiale in seconda sulla Blue Princess – la nave mercantile comandata da William Richardson e quasi naufragata a causa sua, quasi sette anni addietro – da circa tre anni era uscito dal coma, causato dal colpo in testa di un pesante gancio da carico.
Purtroppo George, al momento del risveglio, non ricordava nulla della notte della tragedia e di gran parte della sua vita: il suo fisico e la sua mente debilitati avevano necessitato di mesi e mesi di terapia per tornare a una parvenza di normalità. Per recuperare la memoria poi, e ricordare anche solo ciò che riguardava la sua vita privata, c'era voluto ancora di più. Ma poche settimane prima, improvvisamente, anche gli ultimi ricordi erano tornati, tutti quanti. E ora, George chiedeva insistentemente di essere messo in contatto con i figli del Comandante William Richardson, sulla cui memoria pendevano pesanti accuse di negligenza, naufragio, lesioni e omicidio colposo plurimo.
– Pete, non sei contento che Blackwood sia vivo e stia bene? Tom disse che gli eravate affezionati – gli chiese Briz, vedendolo così assorto e posando una mano su quella di lui, stringendola appena. Pete si riscosse e la guardò.
– Sì, certo che sono contento! George era un amico di famiglia, per me e Tom era quasi uno zio, ci voleva bene. Quello che mi chiedo è… perché questa urgenza di parlarmi? Io… io non credo di essere pronto per ascoltare altri orribili particolari di quella notte! Lui ha ricordato, mentre io… vorrei solo dimenticare.
– Io ti capisco… ma magari quei particolari non sono così orribili. Potrebbero essere solo… un altro punto di vista.
– Sì, per confondermi ancora di più le idee! Non so cosa fare, Briz! Non so se faccio bene a mettermi in contatto con lui! Lo ammetto, ho paura di peggiorare le cose… ne ho già abbastanza, di pensieri, io… non ce la faccio!
Oh, Dio, povero Pete! Così forte, determinato e coraggioso quando si trattava di scendere in battaglia per difendere la Terra, e così incredibilmente vulnerabile quando si toccava la sfera dei sentimenti e delle emozioni.
– Senti… mi rendo conto che questa eventualità ti inquieti, ma… – cominciò Briz.
– So cosa stai per dirmi – la interruppe lui – Che dovrei farlo e fine. È solo che… mi piacerebbe avere la certezza che è la cosa giusta da fare, capisci?
– E che cosa vorresti, sentiamo! Una bella centuria di Nostradamus personalizzata? Oh, no, aspetta, magari un segno dall'alto dei Cieli: l'Arcangelo Gabriele con la spada infuocata che ti annuncia che George Blackwood ha solo buone notizie da darti!
A Pete sfuggì, suo malgrado, un sorriso e scosse la testa: solo Briz era capace di allentare la tensione in quel modo, con le sue battute spiazzanti e i suoi fantasiosi esempi. 
– Ti diverti a prendermi in giro, eh, Bri? È ovvio che non è questo che intendo… In realtà, non so nemmeno io cosa voglio, lo ammetto.
Così, con un gesto che gli venne del tutto spontaneo, chinò la testa sbuffando appena e le appoggiò la fronte su una spalla; si sentiva profondamente stanco, le tempie gli pulsavano e gli bruciavano gli occhi. Briz gli passò una mano sulla folta capigliatura, non tanto per consolarlo, quanto perché le piaceva farlo: adorava i suoi capelli, di quel biondo scuro dai riflessi rosso-dorati, e la consistenza delle morbide ciocche che le scivolavano tra le dita, anche ora che avrebbero davvero avuto bisogno di un taglio decente.

 
Briz-e-Pete-fienile

Rimasero zitti per un po', ascoltando la musica che proveniva da sotto: la colonna sonora di “Transformers” di Steve Jablonsky si spense lentamente, lasciando il posto a un'altra traccia, decisamente più datata. Riconoscendola, Briz sollevò la testa di scatto; lui fece altrettanto, staccando la fronte dalla sua spalla.
– Pete! Volevi un segno? Senti questa musica!
Il giovane obbedì e ascoltò per diversi istanti.
– È la colonna sonora di “Ritorno al Futuro”: quale segno dovrei mai vederci?
– Una volta hai detto che avresti voluto una macchina del tempo: beh, ora che ce l'hai, non la vuoi più!?
Pete la guardò come se stesse dando i numeri, e lei fu costretta a spiegarglielo: lo prese per le spalle dandogli una scrollata.
– Ma non capisci? Questa musica ti sta dicendo che George Blackwood… è la tua DeLorean!
– La mia DeLo… – il giovane si interruppe di botto, mentre capiva il ragionamento della sua amica.
– Dio, Briz, probabilmente hai ragione! Non somiglia granché a Nostradamus e nemmeno all'Arcangelo Gabriele, ma potrebbe davvero essere un segno.
– Certo che lo è! Ed è meglio che ti sbrighi e non ci metta una vita per deciderti a contattare George: a volte le occasioni si perdono… – disse lei, alzandosi.
Pete la tirò di nuovo a sedere, come aveva fatto lei poco prima, tirandola per il cinturone di cuoio e facendosela quasi cadere in braccio. Le fece una carezza sul viso, e appoggiò la fronte alla sua; in un attimo l’aria, già calda, diventò rovente.
Oh, Signore, era inequivocabile: quella di Pete era la faccia da voglio baciarti… E adesso? Fabrizia ci pensò un attimo e lo anticipò, lasciandogli un piccolo, insulso bacio, all’angolo della bocca, prima di alzarsi in piedi bruscamente, allontanandosi di un paio di passi.
 – Tutto qui? – si lamentò lui, che effettivamente si era aspettato qualcosa di più.
– Non voglio che succeda come le ultime volte; non qui – esclamò Briz, decisa, con le mani aperte davanti a sé, come per tenerlo a distanza.
Lui rimase seduto sulla balla, ma sfoderò il tono da presa in giro.
– Strano, avevo avuto l'impressione che baciarmi come si deve ti fosse piaciuto.
– Oh, ma buongiorno! Dici davvero? – sbottò Briz ricambiando l'ironia – Certo che mi è piaciuto, come a te, del resto. E proprio per questo, ti invito a renderti conto di dove ci troviamo e dell'atmosfera che si respira qui! – gli disse, indicando con un gesto circolare della mano il piccolo fienile, la penombra, la lama di sole, l'odore piacevole del fieno e la sensazione di calda intimità che quel posto evocava.
Pete non fu capace di darle torto: gli balenò nella mente l'immagine di loro due abbracciati, distesi sul fieno, con le bocche fuse una nell'altra, a baciarsi perdutamente… E di lì, al pensiero delle loro mani che cominciavano a frugare sotto agli abiti, il passo fu breve. 
Stoppò perentorio i suoi pensieri prima che partissero per lidi altamente pericolosi. Col cuore in gola la guardò, in piedi davanti a lui: era più che palese che stava pensando anche lei alla stessa identica cosa. La sensazione di essere in bilico su qualcosa ad alto tasso di rischio, fu tangibile; sensazione che venne immediatamente rafforzata dalle parole di Briz.
– Parliamoci chiaro, Richardson: rubarci qualche bacio ogni tanto, per gioco, può anche capitare, ma qui… non va bene. Non voglio che succeda qualcosa di cui potremmo pentirci – e così dicendo, si infilò giù per la scaletta.
Aveva i piedi solo sul secondo piolo, con le anche appoggiate al bordo del fienile, che lui la chiamò per bloccarla e andò a inginocchiarsi di fronte a lei per guardarla in viso.
– A volte sembri persino saggia, lo sai? – le disse a voce bassa.
– Ma saggia dove…? Sono stupida, altroché… – replicò Briz in un soffio, chiudendo gli occhi.
Gli mise una mano tra i capelli e gli scoccò un bacio rovente sulla bocca, mordicchiandogli le labbra con dolcezza e sensualità, facendogli quasi girare la testa. E poi… aveva appena cominciato a fare la stessa cosa anche lui, che… Puf! Era tutto finito: Briz lo aveva lasciato e aveva sceso la scaletta in un lampo.
Lui ebbe appena il tempo di vederla scomparire, mentre gli gridava:
– Contatta Blackwood, Pete! Non sei mai stato un fifacchione, non vorrai diventarlo proprio ora, quando il destino ti sta dando l'occasione per pareggiare i conti col tuo passato!
Pete rimase lì, seduto sul bordo del fienile con le gambe penzoloni, a guardare il punto in cui Briz era sparita. Altro che stupida, era una furbacchiona! Aveva avuto voglia anche lei di baciarlo, ma per paura che le cose potessero degenerare, prima di farlo si era messa in posizione di sicurezza! E tutto sommato, aveva fatto bene.
Per quanto potessero desiderarlo, non potevano permettere che il loro strano rapporto passasse, da un punto di vista fisico, su un altro piano.
“Un bacio ogni tanto…” Cavoli, neanche avessero avuto quindici anni! Tuttavia, sapeva già che se lo sarebbe fatto bastare, perché ormai… sentiva che senza nemmeno quello, sarebbe morto!
L'esortazione di Briz continuava a risuonargli nella mente: "Contatta Blackwood". Gli serviva un po' di tempo per racimolare quel po' di determinazione in più, proprio come Midori, ma sapeva che lo avrebbe fatto. Come spesso accadeva, Briz aveva avuto ragione: George era davvero la sua DeLorean!
Pensò che, ultimamente, le ombre del passato si accanissero su lui e Midori ma, almeno da un po', sembrava avessero smesso di prendere di mira la sua povera fanciullina. Di problemi e pensieri ne aveva sicuramente molti, non ultimi quello della sua amica e tutto ciò che era legato alla NGC… ma, almeno per quel che riguardava i suoi tormentosi trascorsi, gli sembrò che avesse trovato un po’ di equilibrio e serenità.
Ovviamente, non sapeva ancora quanto si sbagliasse.
 
***
 
Il pomeriggio successivo, portando due bottigliette di aranciata, Briz andò a trovare Midori nella sala di guardia a bordo del Drago; l’amica era impegnata nello studio di alcuni codici di comunicazione zelani, trovati nel dischetto che Yock e Lyra avevano consegnato loro. Midori, solo guardandola, aveva capito che Briz sapeva già tutto; d'altra parte, lei stessa aveva detto a Pete che poteva parlargliene.
Briz non disse una parola, posò le bibite sul tavolo, si sedette sulla sedia accanto a lei e le passò un braccio attorno alle spalle. Midori si lasciò abbracciare con un sospiro avvilito.
– Perdonami… non volevo confidarmi con te per non caricarti anche di questo pensiero, ne hai già tanti. Ma alla fine… ho detto a Pete di farlo lui. Sono dannatamente codarda in questo periodo.
– Shh, zitta! Non ho la più pallida idea di come potrà andare a finire questa faccenda; so solo che non prevedo niente di buono, e che sarà una cosa che ci schianterà tutti. Avevamo proprio bisogno anche di questo! Eppure, in qualche modo, quando ne parlerai con Doc ti starò vicina, insieme a Pete.  
– Tu dovresti stare insieme a Pete in un mucchio di altri sensi, ma lasciamo perdere…
– Ecco, brava: credo tu abbia ben altro di cui preoccuparti, ora! – la rimproverò Fabrizia; poi aggiunse, più dolcemente: – Dori, se dovessi andare a finire anche oltre i confini dell'Universo, e non ci dovessimo vedere mai più, tu resteresti, sempre e comunque, la migliore amica che abbia mai avuto. Ti è chiaro il concetto?
– Cristallino: sarà così anche per me – mormorò Midori, sull'orlo delle lacrime.
In quel momento entrò Pete, seguito a poca distanza da Sanshiro che, però, non sapeva niente dei tormenti di Midori. Il giovane ebbe la tentazione di andarsene quando la vide, ma un'occhiata di Pete lo convinse a restare. Il Capitano non aveva tutti i torti: il fatto che loro due si fossero lasciati, non voleva dire che non potessero più stare contemporaneamente nella stessa stanza, soprattutto quando ci fosse stato anche qualcun altro a fare da cuscinetto.
Pete e Sanshiro erano reduci da un paio d'ore di addestramento e Briz da un turno di guardia, e indossavano ancora tutti le uniformi.
Pete e Fabrizia si sorrisero fugacemente e Sanshiro pensò: "Ma guardali: gli innamorati perfetti! E nemmeno prendono l'idea in considerazione, questi due scemi atomici! Per non parlare degli altri due, i super-ingegneri astrofisici: che se ne fanno Sakon e Jamilah di tutta la loro intelligenza, se ancora non hanno trovato il modo per mettersi insieme? Che tre coppie di sfigati, che siamo, tra tutti e sei!"
In quel momento, sul monitor principale, apparve il viso di Nagai, il militare che, insieme al suo collega Leiji, montava di guardia al cancello principale della base.
– Comunicazione per il Comandante Cuordileone.
– Sono qui: dimmi, Nagai.
– C'è una persona che chiede di lei.
– Di me? Ma sei sicuro? Io non conosco nessuno qui in Giappone, che possa cercarmi di persona.
– Beh… non è giapponese.
– Non è…? E da dove viene?
– Dall'Europa, Comandante, per la precisione dalla Spagna.
– Gli hai chiesto i documenti? – domandò Pete a Nagai, incuriosito da quella stranezza, mentre il cuore di Briz dava un balzo e si sentiva improvvisamente la bocca secca: fu costretta a bere un po' di aranciata, per non ritrovarsi con la lingua appiccicata al palato, mentre Nagai rispondeva.
– Sì, Signore, ho controllato il suo passaporto, è tutto in regola: si chiama Santana. Diego Santana Da Silva.
Il silenzio che si manifestò fu quasi assordante.
A Briz andò di traverso l'ultimo sorso di aranciata e cominciò a tossire; Midori le diede qualche pacca sulla schiena finché le passò.
Sanshiro non aveva mai sentito quel nome in vita sua, ma Midori e Pete si guardarono sconcertati; poi guardarono la loro amica, sul cui volto il rossore per l'accesso di tosse lasciava il posto a un pallore malsano. L'aranciata le ribollì nello stomaco e, per un attimo, Briz temette di vomitare l'anima.
Diego in Giappone? C'era un'unica spiegazione: dormiva e stava avendo un incubo, e il peggio era che non riusciva a trovare il modo di svegliarsi! In cerca di aiuto, affondò gli occhi immensi in quelli del Capitano Richardson che, stupito quanto lei, poté solo scuotere la testa e allargare le braccia, in un gesto impotente. Nemmeno lui aveva la più pallida idea di cosa pensare, ma la sua espressione sembrava dirle che, no, non era un incubo.
– Opporca puttana di una miseriaccia infame! Non è un incubo? – realizzò all'improvviso, in un sussurro appena percettibile, per poi sbottare con voce stridula: – Ma che cazzo ci fa qui, quello stronzo?!
Nel vedere l'espressione sconvolta della ragazza, Pete si sentì quasi torcere il cuore: si sentì male per lei… Ma era mai possibile? A quanto pareva, il destino aveva deciso che non ne avessero avuto ancora abbastanza, di pensieri e problemi. Solo il giorno prima aveva sperato che almeno Briz avesse finalmente trovato un po' di pace – per quanto fosse possibile aver pace mentre si combattevano gli alieni – e invece… le ombre del passato colpivano ancora!
Fabrizia si alzò in piedi, si avvicinò al monitor con spavalda sicurezza di sé e, premendo il pulsante delle comunicazioni, disse nel microfono:
– Nagai, spostati un po' per favore, e fammi vedere che faccia ha questo tizio.
Il militare obbedì e la telecamera di sorveglianza inquadrò un giovanotto che poteva avere un paio d'anni più di Briz: probabilmente in altezza non la superava, anche se ciò non ne faceva un nanerottolo, e la camicia scura metteva in risalto un fisico tutt'altro che scarso. Aveva il colorito olivastro e i capelli lisci di un nero corvino, come le sopracciglia e le ciglia che orlavano un paio d'occhi di un blu intenso e torbido. Nel vederlo, Pete pensò che, in effetti, non ci volesse molto perché mezza popolazione femminile di una scuola superiore si infatuasse di un tipo così.

 
Diego-Santana

Anche Briz lo osservò: poteva essere un maledetto bastardo, anzi lo era senz'altro, ma Diego era sempre bellissimo; anzi lo era di più che a diciannove anni. Il cuore le perse colpi e si accorse di tremare leggermente, non certo per l'avvenenza del suo ex ragazzo, ma piuttosto per la rabbia che le ispirava il ricordo di ciò che era successo tra loro.
Prese un respiro e, insieme ad esso, una decisione: alzò la voce, affinché anche Diego potesse sentirla.
– Fallo allontanare, Nagai: non l'ho mai visto prima d'ora – disse poi, fredda e sicura.
La telecamera le rimandò l'immagine di Nagai che si voltava verso Diego per eseguire l'ordine.
– Mi spiace, signore, ma deve andarsene. Ha sentito: il Comandante Cuordileone non la conosce.
E allora il giovane fece una cosa imprevedibile: si avvicinò alla telecamera, in modo che le sue parole passassero attraverso il microfono posto sotto di essa e arrivassero a Briz, e parlò in italiano.
– Se vuoi me ne vado, ma conosco ancora la tua voce. E so che anche tu mi hai riconosciuto, Fabry!
– Aargh! Non chiamarmi mai più così, brutto stronzo!
Era stato un urlo rabbioso, nella stessa lingua. Non era riuscita proprio a resistere: quel diminutivo, pronunciato dalla sua voce, l'aveva mandata letteralmente fuori dai gangheri, facendo sì che si tradisse.
– Visto che sei tu? Hai tutte le ragioni per cacciarmi via, ma ho fatto diecimila chilometri per vederti, e ti cerco da una vita. Voglio solo parlarti, ti prego, Fabrizia! – concluse Diego in tono accorato.
Nagai non sapeva che fare, visto che il comandante Cuordileone e lo sconosciuto parlavano una lingua che lui non capiva, ma era ovvio, dal tono, che si conoscessero, e anche piuttosto bene.
Intanto la mente di Briz macinava, più confusa e agitata che mai, sopraffatta da quella marea di emozioni. Diego la pregava di poter spiegare… come quella maledetta mattina di cinque anni prima, quando lei non gliene aveva lasciato la possibilità, fuggendo e uscendo dalla sua vita.
– Gesù, mi sento male…
Guardò Midori, poi Pete, infine Sanshiro, che fu l'unico a dire qualcosa.
– Chi diavolo è questo Diego?
– Il mio ex – rispose semplicemente Briz.
– Eh? Il tuo ex… fidanzato?
– Meh, una specie… Ho un passato anch'io, che ti credi? O anche per te sono l'ingenua, innocente tredicenne? Va bene, Nagai – cedette poi – Fallo entrare dal cancello, ma non nell'edificio, non ce lo voglio, qua dentro. Sanshiro, saresti tanto gentile da andare da lui e accompagnarlo alle scuderie? Vi raggiungo tra un po'… appena sarò riuscita a metabolizzare il fatto che non sto facendo un brutto sogno.
– Okay… Non so cosa ti abbia fatto, ma se vuoi fargliela pesare così, non credo che vi siate lasciati molto bene – disse il pilota del Gaiking.
– Ha! Dire che non ci siamo lasciati molto bene è come dire che sul Sole c'è un po' di tepore – commentò lei – Ho bisogno di fargliela cascare dall'alto; il nostro ultimo, orribile confronto è accaduto nel suo territorio: nello specifico, casa sua. Adesso sono io, quella che gioca in casa, devo fargli capire che non ha più a che fare con la stupida Fabry-Froggy e prendermi questo vantaggio. E soprattutto qualche minuto per decidere come comportarmi: sono troppo allibita e frastornata, da questa… enormità.
– Fabry…Froggy…? Ma che… – chiese Sanshiro, confuso.
– Un orrendo nomignolo con cui la chiamavano al liceo – spiegò sbrigativa Midori; era la prima volta che gli rivolgeva la parola, dal giorno in cui si erano lasciati.
Si scambiarono uno sguardo carico di… che cosa? Delusione? Rancore? Speranza? Non lo sapevano nemmeno loro.
Sanshiro uscì, per eseguire la richiesta dell'amica e ansioso di allontanarsi da Midori: starle vicino gli procurava un dolore quasi fisico. Aveva capito che la ragazza aveva confidato il suo problema a Pete e Fabrizia, i quali gli avevano soltanto detto che, presto, Midori avrebbe spiegato a Doc e a tutti loro cosa la tormentasse.
Il giovane già mal sopportava che, avendo un problema, la ragazza si fosse fidata degli amici e non di lui, ma quello che, proprio, non riusciva a mettere da nessuna parte, era il fatto che lo avesse preso in giro fingendo di amarlo, e soprattutto che lui, nonostante tutte le reticenze di Midori, non lo avesse capito. La odiava per come lo aveva ferito e per come ci stava male solo a incrociare il suo sguardo e, allo stesso tempo, moriva dal desiderio di stringerla ancora a sé, e di convincerla a forza di baci a spiegargli i motivi del suo comportamento.
La verità era che la amava ancora disperatamente, ma gli aveva fatto troppo male: non sarebbe mai riuscito a perdonarla, concluse con sé stesso arginando lì i suoi pensieri, mentre andava a raggiungere questo bellimbusto, spuntato chissà come dalle nebbie del passato della sua amica Fabrizia, che ormai era una vera e propria telenovela vivente.
Nel frattempo, la telenovela vivente continuava ad essere nella confusione più totale.
– Merda! Cosa faccio, Pete? – chiese, crollando a sedere su una sedia.
– Mi sembra che tu abbia già deciso, Bri: lo affronti, esattamente come farò io col mio problema e Midori col suo – rispose l'interpellato, lanciando un'occhiata a Midori che annuì, d'accordo con lui.
Era vero, aveva già deciso, altrimenti non avrebbe detto a Nagai di lasciare che Diego oltrepassasse i cancelli del Centro di Ricerche; eppure si sentiva ancora insicura sul fatto di aver preso la decisione giusta, e Pete se ne accorse.
– Ehi, fanciullina, non so se ti rendi conto, ma stavolta la DeLorean parcheggiata qui fuori, è per te – le disse in tono gentile.
Lei non poté fare a meno di annuire con solennità, guardandolo intensamente.
– Se pensi che una mano possa servirti, io sono qui – aggiunse Pete.
Midori li guardava allibita: una DeLorean parcheggiata fuori? Ma di che diavolo parlavano questi due?
– Dio, altro che una mano… un miracolo, mi serve! – esclamò Briz, passandosi le dita tra i capelli.
Poi ebbe come un'illuminazione, sollevò il viso e fece un sorriso birichino.
– In realtà, più che un miracolo, mi serve… un fidanzato!
Pete afferrò al volo: trovava più che giusto che Briz volesse far credere a Diego di avere qualcun altro. Era sicuro che la ragazza non avesse passato gli ultimi anni a rimpiangerlo, ma di certo non voleva che quel fedifrago potesse anche solo pensarlo.
Ripensò alla frase che lei aveva rivolto a Sanshiro: "Mi credevi l’ingenua, innocente tredicenne?" Avrebbe potuto significare tutto e niente, ma… e se la storia tra lei e Diego fosse davvero stata qualcosa di più, che una stupidaggine tra adolescenti? Forse stava per scoprire il suo ultimo segreto, quello che più di tutti Briz si era ostinata a nascondere: questo, per lei, era l'ennesimo momento della verità. Beh, lui l'avrebbe aiutata, questo era poco ma sicuro; se era un fidanzato, che le serviva, un fidanzato avrebbe avuto: in fondo era un ruolo che avevano già recitato, e pure in modo convincente. Certo, avrebbero alimentato altre battutine salate degli amici, ma ormai si erano abituati.
Le si avvicinò e le tese una mano.
– Sono tutto tuo, amore mio. Vogliamo andare?
Nonostante sapesse che era solo una recita, sentirsi chiamare amore mio da Capitan Richardson, fece fare al suo cuore due o tre capriole, per non parlare di quel “Sono tutto tuo”
Prese la sua mano e si alzò, guardandolo negli occhi di quell'azzurro meraviglioso e profondo, così diverso dal blu tenebroso e cupo di quelli di Diego. C'era un che di esaltante e soddisfacente, nel presentarsi davanti al suo ex al fianco di un uomo altrettanto bello, ma così diametralmente opposto, sia nell'aspetto fisico che in tutto il resto.
Pete le fece un sorriso rassicurante, poi le offrì il braccio con un gesto teatrale; Briz infilò il braccio sotto quello di lui, sorridendogli a sua volta. Un sorriso decisamente tremolante, notò il giovane.
– Allora? Pronta per salire sulla DeLorean? – le chiese.
– Neanche un po'! Ma andiamo, tesoro. 
 
> Continua…
 
 
 
Note:
Questa mi è venuta da una frase su C.S.I. (telefilm che credo tutti, a grandi linee, conosciate, anche se io non l’ho mai seguito) che mio figlio ha trovato su Internet, a proposito di quando il protagonista ha le intuizioni geniali: “Quando Horatio Caine si toglie gli occhiali, sono cazzi amari per tutti!”
 
Voglio dirvi una cosa: nel giro di pochi giorni, oltre a Robin ho racimolato altri due nuovi recensori che hanno messo la storia tra le seguite. Cosa posso dire? Ringrazio The Blue Devil, che è appena all’inizio, ma già ha voluto dirmi la sua, spero che arriverà fino qui… e anche oltre.
E soprattutto ringrazio in ginocchio Morghana, i motivi sono nella risposta che le ho dato alla recensione nel precedente capitolo, se vi interessa. Sappiate solo che anche lei è una fan di Gaiking, le piace questa storia, ma soprattutto… è l’autrice grazie alla quale ho conosciuto Efp!
Io gongolo felice… e non aggiungo altro, se no mi commuovo e poi le lacrime sulla tastiera non vanno bene… ^^’
 

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Capitolo 33
*** 32 - Troppo da perdonare ***


~ 32 ~ 
TROPPO DA PERDONARE
 
Diego si guardava intorno mentre camminava scortato da Sanshiro, il quale si accorse del nervosismo del giovane ispanico al pensiero di incontrare la sua ex. Si chiese di nuovo cosa fosse successo tra loro di così grave: chi aveva lasciato chi? E perché? Lui aveva attraversato il pianeta per venirla a cercare, eppure Briz lo considerava uno stronzo. Dubitava che lui avrebbe mai saputo qualcosa di questa storia, aveva intuito che fosse qualcosa di molto intimo, e andava bene così. Ma non avrebbe sicuramente fatto mancare all’amica la sua vicinanza.  
– Tu sei il pilota del Gaiking – disse Diego intimidito, mentre si dirigevano verso le scuderie, parlando in inglese.
– Già. Niente di cui farmi un vanto, comunque: è stato destino – rispose Sanshiro nella stessa lingua, lanciando a Diego un'occhiata torva.
Aprì il portone e Atlas si precipitò fuori abbaiando; lui fu lesto ad afferrarlo per il collare e a ordinargli di stare a cuccia. Il cane obbedì, posando il posteriore a terra, ma guardando lo sconosciuto di traverso; Sanshiro pensò che non gli sarebbe dispiaciuto sguinzagliarlo dietro allo spagnolo, infatti Diego li guardò un po' impaurito, chiedendosi anche cosa sapesse il Comandante Tsuwabaki di lui e Fabrizia. Lo osservò, mentre si portava una mano all'orecchio e rispondeva a qualcuno che gli parlava all'auricolare.
– Sto arrivando insieme a Pete – disse Briz a Sanshiro – Facciamo un po' di teatro a uso e consumo di Diego, tu tienici mano, okay?
– Okay, piccola. In bocca al lupo, vi aspetto.
Naturalmente Diego non aveva sentito Briz, ma solo Sanshiro.
– N-non sarai mica il suo… f-fidanzato, vero? – chiese indeciso.
– Io? Certo che no – rispose lui, tranquillo.
Pochi minuti più tardi, videro la moto fermarsi fuori dal cancello delle scuderie e Pete e Briz scendere e togliersi i caschi. Sanshiro vide Diego sgranare gli occhi, alla vista di Pete che accarezzava i capelli della ragazza e le dava un bacio sulla fronte. Ecco cos'era il teatro, realizzò a quel punto il loro amico.
– Cavoli, ma è il capitano Richardson! – ansimò Diego – Fabry ha tanta paura di me da portarsi sia il pilota del Gaiking, che quello del Drago Spaziale, come bodyguard?
– Ti assicuro che Briz non ha paura di niente, tantomeno di te. Combatte i Mostri Neri, se non te ne fossi accorto! Non ha bisogno di nessuno per difendersi e, se non lo sai, è cintura marrone di karate, allenata nientemeno che da Fan Lee, campione del mondo di arti marziali, che fa parte del nostro equipaggio. Io le sto vicino in questo frangente perché è un'amica a cui voglio bene; quanto a Pete Richardson… beh, lui sì, che è il suo ragazzo: guardali un po', direi che si vede, no? – concluse Sanshiro malizioso, deciso a far venire all'ex fidanzato di Briz un bel mal di pancia.
Infatti, a quelle parole, Diego deglutì vistosamente, diventando pallido come un lenzuolo.
– Oh, cazzo… – mugugnò a mezza voce.
Quando era scesa dalla moto, Fabrizia aveva visto Diego e Sanshiro sotto alla tettoia della scuderia e le era venuta la tremarella; Pete le aveva passato una mano tra i capelli e le aveva dato un bacetto sulla fronte, recitando alla perfezione il ruolo del fidanzato affettuoso.
Ora si costrinse a concentrarsi sull'inevitabile confronto, guardando Diego.
– Eccolo là, el hombre de Barcelona. Il mio peggiore incubo… – sospirò Briz.
– Non farti vedere impaziente di parlargli: facciamogliela sudare – le consigliò Pete sottovoce.
– Perché, secondo te, io sono impaziente? Preferirei essere in procinto di affrontare un Mostro Nero!
– Sì, ti credo. Senti, dimmi un paio di cose, così perdiamo un altro po' di tempo e lo teniamo ancora qualche minuto sulla graticola: credevo fosse italiano, il tuo bel filibustiere!
– Non è il mio, tanto per chiarire. Sua madre, è italiana; suo padre è il discendente di un don spagnolo, un hidalgo, sai di quelli con tipo cinquemila cognomi. Oltre che Santana Da Silva mi pare ci sia anche qualcosa come y Montoya Torres de Coronado.
– Fantastico, e poi? Nient'altro? E a me, che sembravano altisonanti i nomi dei tuoi parenti!
– Sì, beh… Più nomi che soldi, comunque.
– È da lui che hai imparato la sua lingua?
– Lo avevo studiato alle medie, ma mia mamma era laureata anche in spagnolo oltre che in inglese. Con Diego l'ho solo perfezionato un po'. Forza, andiamo in là: prima mi dice cosa vuole, prima posso cacciarlo via a calci nel culo! – disse Briz.
Pete le mise un braccio intorno alle spalle e lei gli fece passare il suo attorno alla vita: un gesto che venne loro di una naturalezza meravigliosa, mentre muovevano lentamente qualche passo verso Diego e Sanshiro.
– Calma e sangue freddo, fanciullina, okay? Stai-calma.
– Sono calmissima – mentì lei.
– Certo, è per questo che hai circa duecento pulsazioni al minuto – disse lui, sfiorandole il collo col dorso delle dita, dove una vena batteva incontrollabile.
– Pete… – disse sottovoce, fermandosi – Presumibilmente parleremo in italiano, quindi, ti prego, restate a portata di voce. Sanshiro capirà poco o nulla, e va bene così, ma almeno a te, dopo, dovrò solo qualche chiarimento, senza dover spiattellare tutto da capo.
– Bri… non sei obbligata a farmi sapere cosa sia successo tra voi due. Non sono davvero il tuo ragazzo, e… fosse anche stato, non saresti stata costretta comunque. È una cosa tua…
– Mi piace che tu dica questo, ma… sei comunque il mio migliore amico, e tu, tra una cosa e l'altra, hai finito per vuotare il sacco con me, sul tuo passato, le tue donne, la tua famiglia. Questa… è una faccenda di cui mi vergogno tanto, lo ammetto, ma forse dopo mi sembrerà meno grave. Mi sono voluta tenere dentro questa cosa come se fosse un segreto di stato, e ora guarda: ci ha pensato il destino a mettermi davanti al fatto compiuto, come quando hai scoperto cosa fosse realmente la NGC. Tu resta nei paraggi, ti prego… e grazie – concluse, staccandosi da lui.
Poi, come ripensandoci, lo abbracciò di nuovo e gli stampò un bacio sulla bocca che lui si prese più che volentieri. Del resto, se dovevano recitare, tanto valeva farlo bene, no?
– Fallo nero, Bri – le sussurrò mentre le loro labbra si staccavano.
– Contaci – rispose lei.
Sanshiro lanciò un ghigno soddisfatto allo spagnolo, alzando ironicamente un sopracciglio, come per dire: “Che ti dicevo?” Poi andò incontro ai due amici, pensando: “Ma quale teatro? Se c'è una recita che a questi due stupidi viene da Dio, è proprio quella degli innamorati!"
Batté un cinque sulla mano di Pete, fece una veloce carezza sui capelli di Fabrizia e andò a sedersi sull’erba in disparte, pronto a dare anche lui un sostegno morale all’amica, se ce ne fosse stata necessità.  La vide sciogliersi dall'abbraccio del suo pseudo-fidanzato e voltarsi decisa e spavalda verso Diego. Atlas la raggiunse e scodinzolò felice: Briz gli concesse una grattata di orecchie, poi riportò l'attenzione sul bel ragazzo moro che la aspettava.
– Non-farti-vedere-impaziente – mormorò Pete, praticamente a sé stesso.
Non aveva nemmeno finito di dirlo, che Fabrizia aveva spiccato la corsa incontro al giovane… e Diego le sorrise.
– No… – sfuggì a Pete, che mascherò meglio che poté la delusione per quel comportamento, anche se ci rimase davvero male: possibile che l’avvenente spagnolo le facesse ancora quell'effetto?
Poi, sia lui che Sanshiro, compresero in un attimo di aver totalmente frainteso: Briz arrivò addosso a Diego come un bulldozer e lo colpì sulla bocca con un pugno di una potenza tale che lo mandò a sbattere di schiena contro il muro, con il labbro inferiore spaccato.
 
Diego-e-Briz-pugno  
 
La ragazza agitò un paio di volte la mano verso il basso, con le dita aperte e un’espressione sofferente sul viso: era ovvio che si era persino fatta male ma, nonostante ciò, non aveva finito lì. Cominciò a tempestarlo di pugni sulle spalle e sul petto – colpi che, tutto sommato, al contrario del primo pugno, avevano un effetto più scenografico che realmente dannoso – con insulti di ogni genere, in italiano e spagnolo.
– Maledetto puttaniere testa di cazzo! Pendejo! Brutto porco di un maiale! Perro sarnoso y bastardo! Cabrón asqueroso, hijo de puta! 
Ah, ecco, pensò Pete, in che modo aveva perfezionato il suo spagnolo, la fanciullina, che in quella lingua aveva appena dato a Diego del coglione, del cane rognoso e bastardo, del caprone schifoso e del figlio di puttana, oltre, naturalmente, a tutte le altre piacevolezze in italiano. Ma quello che lo stupì fu che lui non solo non si difendeva, ma nemmeno la respingeva più di tanto. Sembrava quasi che… sapesse di meritarsi tutto: l'unica cosa che riusciva a fare era sollevare le braccia davanti a sé e parare un colpo ogni due o tre, finché, ancora addossato al muro, si ritrovò a scivolare verso terra.
A quel punto i due amici decisero che fosse ora di intervenire: Pete circondò la vita di Briz da dietro e la tirò via, mentre Sanshiro si occupava di Diego.
– Come vedi, a qualcuno i bodyguard sono serviti – gli disse ironico, mentre lo aiutava a rimettersi in piedi.
– Diablo, Fabry. Usted estas loca… – brontolò Diego, guardandola di sguincio e premendosi il dorso della mano sulle labbra sanguinanti.
– Sì, Diego! Yo soy loca! Muy loca!1 Ho fatto solo quello che non ho avuto il coraggio di fare cinque anni fa! E non chiamarmi Fabry! Non esiste più, claro?! Fabry Froggy es muertaYo soy Briz Cuordileone! Ma tu puoi chiamarmi Comandante! – urlò, agitandosi tra le braccia di Pete che continuava a cingerla da dietro.
– Bri, tesoro, datti una calmata adesso, okay? Non era esattamente questo che intendevo con fallo nero – le disse lui, stringendola a sé per impedirle di rifilare a Diego un’altra carica di colpi.
Briz prese un paio di respiri, cercando di riprendere il controllo.
– Ti sei sfogata, ora? Comandante? – le chiese Diego, anche lui col fiato corto.
– Sì! – ringhiò lei, divincolandosi dalla stretta di Pete che, insieme a Sanshiro, si allontanò di qualche passo – Dimmi quello che devi, e poi gira il culo e vattene.
– Avrei preferito che fossimo soli – replicò lui, guardando gli altri due.
– Non sei nella posizione di avere preferenze! – gli gridò mentre entrava nel corridoio della scuderia.
Ne uscì dopo pochi secondi con una scatola di fazzoletti di carta, che gli porse con un gesto sgarbato, sbattendogliela contro lo stomaco.
– Toh, pulisciti quel sangue! Stiamo parlando in italiano, non capiscono una parola di ciò che ci diciamo – mentì spudoratamente, almeno per quel che riguardava Pete, che intanto, insieme a Sanshiro, andava a fermarsi all'ombra di uno degli alberi, poco lontano. Briz e Diego restavano perfettamente in vista e le loro voci gli giungevano limpide e chiare, anche quando parlavano piano.
– E poi, come hai visto poco fa, ti conviene che restino – proseguì Briz – Perché se mi mandi di nuovo fuori dai coppi, sono cazzi amari! Per te, ovviamente!
– Fab… cioè, Comandante
Briz lo interruppe con voce stanca.
– Non riuscirai mai a pensare a me diversamente che alla stupida
Froggy, vero? E lascia perdere il Comandante, tutto sommato è ridicolo.
– Va bene, cominciamo di qui, allora – riprese Diego, ritrovando un po' di determinazione – Ti chiamo Fabry perché è il diminutivo del tuo nome, quello con cui io ti ho sempre chiamata: per me non ha niente a che vedere con Froggy. Concentrati un attimo e dimmi di una volta sola, una vigliacca che sia una, in cui io ti abbia chiamata con quel mostruoso nomignolo!
Briz ci pensò, le braccia conserte, appoggiandosi alla ringhiera di legno dove spesso legava i suoi cavalli.
– Il fatto che tu non mi abbia mai chiamata così in mia presenza, non significa che non l'abbia fatto quando non c'ero. E di certo Aldrovandi e De Carolis, i tuoi degni e ricchi compagni di merende, a scuola lo facevano senza scrupolo anche davanti a te. Ti sei mai scapicollato a difendermi? Forse una volta, mi pare di ricordare un fiacco: “Dai, piantatela”. Dove sono, a proposito? Non te li sei portati dietro, quei due imbecilli? Strano, non muovevi un passo senza di loro!
– Non ho mai più visto Stefano e Luca da quell'orrenda mattina in casa mia, dopo averli cacciati via.
– Che tu, dopo, li abbia cacciati via, ci credo solo se mi pare! Avresti potuto semplicemente non farli entrare, ma in fondo… capisco che dovevi riscuoterli, in qualche modo, i soldi della vostra divertente scommessa.
Pete, appoggiato all'albero, le braccia incrociate sul petto, si sentì venire la pelle d'oca. “Questa è una faccenda di cui mi vergogno tanto”, aveva detto Briz. Quale scommessa potevano mai aver fatto quei tre scapestrati, sulla pelle di una ingenua diciassettenne innamorata?
– Gli ho aperto perché, conoscendoli, avevo paura che si mettessero a fare casino in strada. E non li ho mai presi, quei soldi! – rispose Diego, deciso.
– Stronzo bugiardo! Ma se ci sono piombati in casa alle sette della domenica mattina, per verificare se… il fattaccio fosse accaduto! Mille euro, Diego! Questo era il prezzo per essere stato tanto temerario da farti la brutta e stupida Froggy!? Anzi, volevano darti anche un bonus di trecento euro in più, per essere stato tanto eroico da esserci riuscito dopo solo un mese che uscivamo insieme, quando loro avevano stimato che non ce l’avresti fatta prima di tre. Sempre che ce l’avessi fatta: mi consideravate talmente orribile, che ci voleva tempo, per prepararsi psicologicamente e racimolare lo stomaco necessario! E sicuramente aver anticipato i tempi ti ha fatto comodo non solo per i soldi in più, ma per toglierti subito il pensiero, visto che probabilmente anche solo baciarmi ti ribaltava le budella! Ero ancora nel tuo letto, quando li hai fatti entrare di sotto, in cucina, e siete stati molto espliciti nei vostri discorsi! Anche se tu ti sperticavi di “Shhh, state zitti!”, credevi che non avrei sentito le vostre risate, i vostri commenti volgari e tutte le cazzate che vi siete detti?
Sentendo quelle parole, Pete provò l'impulso irresistibile di andare a spaccare a Diego anche il naso, oltre che il labbro, e magari anche due o tre costole! Sanshiro lo trattenne per un braccio, impedendogli di mettere in pratica il suo proposito; non aveva capito molto – a parte qualche parola, tra cui scommessa – ma era evidente anche per lui che la questione fosse stata piuttosto seria.
– Hai sentito le loro, di risate e volgarità – disse Diego – Non li vedevo da almeno una decina di giorni, e ci stavano dietro dal pomeriggio, quei due stronzi, ma io non lo sapevo! Non avevo premeditato che tu ti fermassi a casa mia, quella notte e lo sai! Dovevamo solo guardare il film con Elisa e Lorenzo, e mi ricordo benissimo che dopo saresti dovuta andare a dormire da lei! È stato il caso! Io non… non ho fatto l'amore con te per scommessa!
Non riuscì a proseguire: Pete vide Briz staccarsi rapidissima dalla ringhiera di legno, artigliare il davanti della camicia del ragazzo e sbatterlo di nuovo al muro con uno spintone, dove lo tenne inchiodato mentre gli urlava in faccia.
– Vaffanculo, Diego! Io ero innamorata di te! Quella notte, io facevo l'amore! Tu scopavi!
Pete non riuscì a farle una colpa per quel modo volgare di esprimersi, che aveva perfettamente chiarito il concetto. E se Briz voleva picchiare di nuovo Diego, che facesse pure: lui non sarebbe andato di certo a difenderlo, stavolta.
– Non mi hai mai dato modo di spiegarti, Fab… Briz. È vero, è iniziato tutto con un gioco schifoso fra tre bastardi perdigiorno, solo che dopo… io non ci ho nemmeno più pensato a quella maledetta scommessa! Non ho più visto Luca e Stefano per tre settimane, e dieci giorni prima del… disastro, avevo detto loro di lasciarci in pace, che per me la scommessa era cancellata e non valeva più! Mi era bastato uscire con te due volte per…
– Per…? Avanti, dillo! Per… cosa? Per accorgerti che ti eri davvero innamorato della tua vittima? Ma andiamo Diego, non siamo mica in una di quelle commedie americane con Sandra Bullock! Ahahah, non posso credere che pensi di cavartela così! – disse con una risata sarcastica, allontanandosi di nuovo da lui e riprendendo a parlare in tono più spento – Hai anche solo una vaga idea, di come mi avete fatta sentire? Eh? Ce l’hai?
– Fabry, io… io non lo so. Immagino… tradita, umiliata, ferita…
– Tutto questo, sì! Ma più di tutto, Diego… più di ogni altra cosa… Tu, Luca e Stefano, mi avete fatta sentire una puttana! Lo capisci?
– Perché? Tu… sei stata solo la vittima di un gioco idiota e crudele, non dovevi, non devi… sentirti così…
– C’entravo io, il sesso, hanno girato dei soldi! Per me è stato più che sufficiente! E tu… tu sei stato bravo, sì. “Te amo, querida… Eres mi vida, Fabry… Te quiero mucho, mi amor…"2 Bah… Soltanto parole senza significato: me le hai dette solo per metterti in tasca mille fottuti euro! Dio, che schifo, ma come ho potuto essere così scema da crederti! E così poco seria da… dartela dopo solo un mese!
Diego non rispose: sembrava davvero annientato da quelle parole.
Dal canto suo Pete, invece, riuscì a trovare in esse la spiegazione a diverse convinzioni e comportamenti di Fabrizia: capì perché avesse così tanta paura di essere considerata una ragazza facile, e perché ritenesse che Ti amo fosse solo una frottola ben riuscita; e anche perché avesse faticato così tanto, per mettere insieme un briciolo di autostima e rendersi conto di essere una bella ragazza.
– Mi dispiace… Briz.
Diego aveva finalmente ritrovato la voce, solo per dire le due parole più scontate che potesse trovare; ma, proprio per la loro banalità, vedendo la sua espressione e sentendo il tono rotto della sua voce, Briz ebbe, per la prima volta, il sospetto che gli dispiacesse davvero. Lui riprese a parlare.
– Hai ragione, capisco che credermi possa sembrarti assurdo, ma… non sono venuto fin qui per raccontarti delle bugie. Che senso avrebbe? Ti avrei cercata per tutto questo tempo, se non mi fosse importato niente di te?
– Va bene… ammesso e non concesso, che tu ti fossi accorto di… amarmi, diciamo così… cosa pensi di ottenere, venendo a dirmelo ora? Io non voglio più avere niente a che fare con te, non puoi non capirlo.
– Certo che lo capisco, infatti non voglio niente; tranne una cosa che non ti costerà nulla, spero, dopo cinque anni.
Briz non rispose, limitandosi a fissarlo.
– Perdonami, ti prego – disse Diego, inaspettatamente – So di averti ferita nel modo più profondo e indegno che ci possa essere, ma… tu dimmi che mi perdoni, e io me ne uscirò dalla tua vita e non sentirai mai più parlare di me.
– Ti sei fatto diecimila chilometri… dopo cinque anni… per chiedermi di perdonarti? Ma tu sei fuori!
– Non mi hai voluto dare la possibilità di farlo, allora. Ci ho provato per mesi, a contattarti.
– Non ho mai risposto alle tue chiamate, lo sai. Non ho mai aperto un messaggino, ma ad ogni tuo tentativo di contatto compariva il tuo nome sul telefono. Così l'ho cancellato dalla rubrica del cellulare, perché dopo solo mezz'ora non ne potevo più di vedermelo sul display ogni tre minuti. Però continuava ad apparire il tuo numero, che purtroppo sapevo a memoria. Non avevo nemmeno il coraggio di bloccarti, mi sembrava una cosa così da… bimbaminkia, a parte che sarei incappata nel tuo nome in rubrica ogni due per tre, ogni volta che l’avessi scorsa… Così… dopo due settimane di quello stillicidio, durante il quale, sappilo, hai anche rischiato di venire denunciato come stalker, ho deciso di cambiare il mio, di numero. Ho tolto la vecchia Sim dal mio telefono, sono andata nel bosco, al torrente, l’ho rotta in mille pezzi con un sasso e ho buttato i frammenti nel torrente! Ero talmente fuori di testa da non pensare nemmeno che stavo inquinando l’ambiente!
– Io… avevo immaginato che avessi cambiato numero, quando, a un certo punto, l'unica risposta che avevo cominciato a ricevere, era che non eri raggiungibile. Una volta, però… sono arrivato fino ai cancelli della tua fattoria – confessò.
– E perché non ti sei fatto vedere? Hai avuto paura… di me?
– Ti ho vista da lontano, ma… c'era anche tuo fratello Alessandro. Di lui sì, ho avuto paura, lo ammetto: aveva solo diciassette anni, ma mi svettava di quasi dieci centimetri, e sapevo che era talmente protettivo con te, che ho pensato che se mi avesse visto… mi avrebbe cavato gli occhi prima che potessi anche solo rivolgerti la parola.
Briz lo guardò con un'espressione quasi angelica.
– Oh, Diego, no… Io, ti avrei cavato gli occhi. Ale… t’avrebbe ammazzato! – disse candidamente – …se lo avesse saputo, naturalmente – concluse a bassa voce.
– Non… glielo avevi detto? – le chiese stupefatto.
– Per quale motivo avrei dovuto? Non volevo davvero che Ale venisse a cercarti per prenderti a botte. Perché, fidati, avevi ragione ad aver paura: so che lo avrebbe fatto! Ma non valeva la pena che si sporcasse le mani con te. Non è stato facile, visto il nostro legame: lui sapeva sempre quando stavo male, e credimi lo aveva capito eccome! Sono riuscita a inventarmi un po’ di scuse, che mi era solo andata storta con un ragazzo che mi piaceva e fine. Non so se mi abbia mai creduta, ma non mi ha mai chiesto altro, aveva capito che mi bastava la sua empatia. A dirla tutta… non l'ho mai raccontata ad anima viva, questa storiaccia, perché… mi vergognavo troppo.
Diego sospirò e si sedette per terra, appoggiato al muro, coprendosi la faccia con le mani, come se solo in quel momento si rendesse conto delle vere proporzioni del dolore che aveva inflitto alla ragazza che aveva di fronte.
Ma anche lei sembrò accorgersi, finalmente, del rimorso che lo divorava da cinque anni. Tacque, per dar modo a quelle emozioni devastanti di placarsi almeno un po’.
– Davvero non hai mai preso quei milletrecento euro? – gli chiese dopo un po’.
– Nemmeno un centesimo. Te lo giuro, Fabrizia.
– A un certo punto sei sparito dalla circolazione, nessuno ti ha più visto in città, da settembre.
– Già, settembre… due mesi dopo che era accaduto il disastro…  mio padre ebbe una promozione dall'azienda per cui lavora e lo trasferirono definitivamente alla sede di Barcellona. Dovetti tornare in Spagna con la mia famiglia, e… a quel punto capii di aver perso ogni speranza di poterti ricontattare…
– Ci hai preso: hai fatto bene a non farti più sentire, e potevi farne a meno anche questa volta e risparmiarmi questo supplizio. Come diavolo hai fatto a trovarmi?
– Mi capitò di tornare in Italia, l'autunno scorso, e, proprio mentre ero a Roma, vidi al telegiornale la notizia sulla battaglia di Sidney, con tanto di riprese e fotografie, quando tu e il capitano Richardson salvaste dei bambini da un ospedale. Fino ad allora le notizie sull’equipaggio del Drago erano sempre state piuttosto riservate e frammentarie, almeno dalle mie parti, e io, lo ammetto, non avevo mai approfondito più di tanto: era più bello pensare a voi come ai nostri paladini senza nome. Certo, mai mi sarei aspettato che ci fossi tu, tra quei paladini. E sebbene, guardando quel servizio, ti avessi trovata cambiata, ti riconobbi al primo sguardo; anche perché… quante Fabrizia Cuordileone possono mai esserci al mondo? Io… lo presi come un segno del destino, così tornai su verso nord, a chiedere notizie ai tuoi vicini di casa, la famiglia Del Rio. Filippo… si chiama così? mi disse che dopo la scomparsa di tuo padre e tuo fratello, cosa che, per inciso, mi ha sconvolto profondamente, eri vissuta con loro per quasi un anno, ma che poi ti eri trasferita in Giappone, al seguito di uno scienziato amico di tuo padre… ma non volle dirmi altro, e giustamente, direi: non mi conosceva. Così, a forza di seguire notiziari e fare ricerche su Internet, riuscii a scoprire il Centro di Ricerche Spaziali del dottor Daimonji al faro di Omaezaki. Ho deciso di provarci… e mi è andata bene.
– Sul fatto che ti sia andata bene, avrei qualche riserva – disse Briz sarcastica, gettando un'occhiata al suo labbro spaccato e gonfio – E come ti ho già detto, potevi risparmiare a entrambi questa tortura, per chiedermi qualcosa che non credo riuscirò mai a darti. Come faccio a perdonarti? Mi hai spezzato il cuore, Diego, e non in due, ma in mille pezzi: uno per ogni euro della vostra lurida scommessa. Ogni punto di sutura per ricucirlo, mi è costato un po' della capacità di fidarmi ancora di un uomo. Alla fine ce n'era rimasta ben poca.
– Io… posso solo immaginarlo, Briz. Ma se tu mi perdonassi, forse riuscirei almeno a dormire la notte; e invece che col rimorso, dovrei convivere solo con il rimpianto di averti perduta, che, ti prego di credermi, è già abbastanza devastante. E comunque… sono contento di vedere che hai trovato qualcuno migliore di me: è evidente che, sulla poca fiducia che ti era rimasta, il Capitano Richardson ha saputo lavorare nel modo giusto.
– Sì, ci è riuscito: quel che provo per Pete non somiglia nemmeno lontanamente alla stupida sbandata che avevo preso per te. Cosa sia davvero l'amore, l'ho imparato con lui.
Le parole le uscirono con una facilità che la stupì solo fino a un certo punto: in fondo, non stava mentendo; non del tutto, per lo meno.
– Non ho più diciassette anni, Diego – aggiunse poi, in tono rassegnato – Alla fine, persino quel disastro ambulante di Fabry-Froggy è riuscita a diventare grande.
Diego si alzò e le si fermò di fronte; allungò una mano e sfiorò appena la ciocca bianca che le incorniciava il lato destro del viso. Lei lo lasciò fare, affrontando impassibile il suo sguardo di un blu tormentato.
– Come te la sei fatta questa?
– Lunga storia… Diciamo stress da battaglia, durante una pericolosa missione che ho affrontato per salvare la vita a Pete. C'è mancato poco che ci restassimo tutti e due.
Diego non rispose, rimase in silenzio fissandola con gli occhi lucidi, in un modo che rasentava la contemplazione. No, non era più la Fabrizia che conosceva lui, con quei capelli lunghi e fluenti, dal taglio molto alternativo, e la ciocca candida che spiccava; con addosso quella tuta da battaglia, dal giubbetto viola con il simbolo del leone ricamato sul petto; e quella pistola laser, santo cielo! Tutto contribuiva a darle un aspetto da guerriera determinata e dura… No, non era più lei… Tuttavia, negli occhi verdi rimaneva una traccia di quell’adorabile luce birichina e forse un po’ ingenua, che ricordava di averle visto spesso quando era più giovane e di cui si era innamorato perdutamente; non riuscì a trattenere il suo commento.
– Sei bellissima…
Lei assentì, gli occhi affondati nei suoi.
– Sì… sono bellissima: ho avuto tempo… per migliorarmi.
– Non c'era niente da migliorare: tu sei sempre stata bellissima, Fabry.
– Certo, con la centrale atomica nei denti e quegli occhiali orrendi che nemmeno Harry Potter… Lascia stare, ti prego.
– Erano solo oggetti, non erano te. Io non li ho mai considerati, e posso dirlo con cognizione di causa – affermò Diego, concedendosi poi un salto nella malizia – Ti ho vista senza occhiali… e senza niente altro, se è per questo.
– Non ti permettere! – urlò Briz, mollandogli uno spintone – Ci ho messo anni per rimuovere quella notte dai miei ricordi! E adesso che ci ero riuscita tu ricompari qui e vieni a ritirarmela fuori! Quella notte non c’è mai stata, non è mai esistita! Non parlarne mai più, comprende? 
– Io… sì, scusami, hai ragione, non so cosa… scusa!
Lei lo guardò furente e ancora per qualche secondo si fronteggiarono, poi Diego riprese, incerto:
– Volevo anche dirti… è giusto che tu lo sappia… che quella mattina fosti l'unica dei quattro ad uscire da quel frangente a testa alta. Mi facesti fare una figura di merda, con quei due, e me la meritai.
– Puoi scommetterci le chiappe, che te la meritasti! Fu il minimo che potessi fare, per cavarmela con un po' di dignità; dovetti inventarmi qualcosa, per non uscire da quella casa in lacrime, e recitai anche dannatamente bene, se quei due fottutissimi figli di una gran baldracca mi credettero!
– Non credettero alla tua recita, ma dovettero inchinarsi al coraggio che dimostrasti per metterla insieme, vista la situazione; fu quello a spiazzarli. Quella mattina, anche loro ti videro per come eri veramente: una tizia dannatamente bella e tosta, altro che Froggy! Questo… prima che io provassi a inseguirti per strada, ma eri sparita in un lampo chissà dove…  Così sono rientrato in casa e li ho cacciati via da casa mia, brandendo una mazza da baseball! – esclamò con l'accenno di un sorriso che si spense quasi subito – Mi era bastato uscire con te un paio di volte, per ritrovarmi stracotto perso; e meno di un mese, per capire che saresti potuta essere l'amore della mia vita. Ma sono stato tanto coglione da farmi trascinare da quei due imbecilli… e ti ho perduta.
L'eco della sua voce si spense e per un po' rimasero in silenzio, guardando in direzioni opposte. Quando Briz parlò, la sua voce suonò spenta e indifferente, chiudendo la questione.
– Credo che non abbiamo più niente da dirci, Diego. Tornatene in Spagna e finiamola qui.
A Diego non restò che prendere atto della cosa e annuire tristemente; le girò le spalle e fece per incamminarsi verso il cancello. Poi si voltò e, con un lieve sorriso, le disse: – Sai, in realtà non torno a casa. Non che possa interessarti, ma… sto per laurearmi in ingegneria e…
– Ingegneria? All’Artistico avevi scelto l’indirizzo di architettura, credevo avessi continuato di lì – chiese Briz, senza sapere perché.
– Alla fine ho optato per qualcosa di meno… frivolo. Recentemente ho fatto domanda per far parte, come volontario, di una spedizione organizzata da un’associazione umanitaria. Ci sono molti posti, sul pianeta, che necessitano di aiuti, materiali e forza lavoro, per progettare e ricostruire di tutto: scuole, ospedali, strade, acquedotti… Non so ancora dove mi manderanno di preciso, ma non importa, anche se nella lista ci sono diversi luoghi che, a prescindere da questa guerra, sono ancora pericolosi: Africa, Sudamerica, Medio Oriente… Nel mio piccolo, magari a qualcosa servirò anch'io.
– Perché mi fai sapere questo? Hai davvero tanta paura che l'unico ricordo che mi resti di te, sia quello del ragazzo arrogante e viziato? Quello pronto a ferire gli altri pur di divertirsi un po’?
– Anche, ma soprattutto lo faccio perché ci credo. Forse quello che è successo tra noi due non ha fatto crescere e cambiare soltanto te.
Tenendo la testa bassa, Briz lo guardò, sollevando soltanto gli occhi. Mah, chissà… Avrebbe anche potuto essere…
– Ti concedo il beneficio del dubbio – disse alla fine, mentre si incamminava verso gli altri.
– Vuol dire che mi perdoni? – le chiese Diego, seguendola speranzoso.
– Non pretendere troppo. È facile scaricarsi la coscienza chiedendo perdono, dopo che hai massacrato il cuore di una povera sciocchina ingenua e romantica, anche se un po’ se l’era cercata. Vattene, Diego, per favore! E mi scuserai se non ti dico che rivederti è stato un piacere – concluse Briz, raggiungendo gli amici.
Si rivolse a Sanshiro: – Gli faresti di nuovo da accompagnatore? Non mi va che gironzoli da solo dentro ai confini del Centro.
– Volentieri – rispose Sanshiro, vedendo Briz che si avvicinava a Pete, andando letteralmente a rifugiarsi sotto al suo braccio, posandogli la testa su una spalla.
Briz vide che Diego, mentre si allontanava, le lanciava un ultimo, disperato sguardo, carico di rimpianto e scoramento, ed ebbe la netta sensazione che non aver ottenuto il suo perdono lo stesse definitivamente distruggendo.
Resistette altri dieci secondi, abbracciata al suo fidanzato-per-finta, osservandolo mentre seguiva Sanshiro, poi si staccò da Pete e fece di corsa qualche passo.
– Ohbbìschero! – lo chiamò.
Diego si fermò, mentre un sorriso stentato gli compariva sulle labbra massacrate, nel sentirsi chiamare in quel modo. Si voltò lentamente e la guardò: anche lei aveva la pallida ombra di un sorriso sul volto, anche se tentava di dissimularlo.
– Dimmi tutto, mi amor – disse lui, sfoderando una vena dell'antica spavalderia.
Briz pensò fugacemente che non le sarebbe mai più capitato, nella vita, che due ragazzi bellissimi la chiamassero amore mio nello stesso giorno; peccato che, per un motivo o per l’altro, nessuno dei due potesse essere preso sul serio.
– Sei un gran paraculo, lo sai? – gli disse, senza avvicinarsi e incrociando le braccia sul petto – E comunque, a proposito di qualcosa che hai detto prima… Mio padre mi ha insegnato che… “È meglio addormentarci con un rimpianto che ci culla il cuore, che svegliarci con un rimorso che ci morde le chiappe” – tacque qualche istante, poi proseguì, con la sua consueta ironia: – Promettimi che non ti farai ammazzare, in uno di quei piacevolissimi posti in cui ti spediranno.
– Te prometo… Ma sei tu quella che corre di più il rischio, querida!
– Diego Santana da Silva… y Montoya e tutto il tuo ambaradàn di cognomi…! – lo prese in giro lei, a quella seconda smargiassata – Vai a progettare e costruire ponti, e pozzi d’acqua… e magari trovati una brava ragazza, sposatela… e vivi! Senza rimpianti, ma soprattutto senza rimorsi… E non pensare più a me, perché io, con te, non lo farò.
– Sí, Señora Comandante! – esclamò, portandosi con un gesto rilassato una mano alla fronte, in un saluto militare – E… senti, tu! – proseguì poi, rivolgendosi in inglese a Pete, che stava in piedi alle spalle di Fabrizia – Vedi di non farla soffrire, la fanciulla ha già dato…  e voglio che sia felice, tanto per quanto ha sofferto, almeno. Quindi, qualcosa mi dice che avrai il tuo da fare.
– Meno di quanto credi, tranquillo – replicò Pete, circondandola da dietro con le braccia – Renderla felice non è una fatica, mi viene spontaneo. E adesso sparisci, prima che mi venga voglia di venire lì e gonfiarti come una zampogna!
A quella frase, Diego annuì e si voltò, chiedendosi preoccupato se il Capitano Richardson, davvero non avesse capito niente di ciò che lui e Fabrizia si erano detti. Le ultime parole di Briz lo raggiunsero inaspettate.
– Buena suerte, Diego. Vaya con Dios.
– A ti tambien3  rispose il giovane e, con un ultimo cenno del capo, si incamminò per il sentiero seguendo Sanshiro.
Si sentiva più sollevato: la parola perdono non era stata pronunciata, ma Diego ebbe la sensazione, in qualche modo, di averlo ottenuto.
– Sei troppo buona, lo sai? – disse infatti Pete, che aveva avuto la stessa percezione, continuando a tenerla contro di sé.
– Sì, che lo so. Non infierire! – sospirò, aggiungendo poi: – Ma dopo tutte le menate che ho fatto a te sul perdono… per una volta ho voluto, e ho dovuto, essere coerente.
Pete la strinse un po' più forte e soffocò una mezza risata fra i suoi capelli.
– Sai che per me quello non ci crede, che stiamo insieme? – le bisbigliò poi all'orecchio.
– È più sveglio di quel che credessi, allora. Peccato però, mi sembrava che avessimo recitato bene – replicò Briz.
– Evidentemente, non abbastanza. Che facciamo?
– Ma cosa vuol dire che facciamo? Tanto se ne sta andando… Ma cosa diav… Pete! – esclamò, rigirandosi tra le sue braccia – Non starai mica… elemosinando un bacio?
– Ho solo l’impressione che ci stia ancora guardando di sottecchi poco convinto. Non elemosino proprio niente, io, figurati!
Briz lo guardò, sospettosa.
– Fai schifo a mentire, sappilo! – gli disse, cingendogli poi il collo con le braccia, prima di baciarlo.
Che male c’era, in fondo? Diego li stava davvero sbirciando, e non fosse mai che gli venisse davvero il sospetto che avessero fatto finta. In realtà furono sufficienti pochi istanti per dimenticare il fatto che stessero solo facendo scena: in quel bacio, di finto, non c'era proprio niente.
Sanshiro soffocò un sorriso quando, lanciando loro un’ultima occhiata, vide la mano di Pete che scivolava lentamente sul fondoschiena di Briz, in una carezza che definire furbetta sarebbe stato poco, e sorrise sardonico allo spagnolo.
– Allora, sei convinto che sono fidanzati, quei due?
– Certo, perché non dovrei? – rispose Diego.
Il giovane spagnolo lanciò loro un ultimo sguardo, pregando e sperando che a Fabrizia non accadesse nulla di male in futuro. Aveva fatto la dura, la sostenuta, l'arrogante… ma alla fine lo aveva perdonato, lo sapeva. A dispetto della coraggiosa e fiera guerriera che era diventata, aveva capito che, in certi frangenti, era ancora la piccola, meravigliosa, trasparente Fabry.
Si sentì sollevato dal fatto che lei non fosse sola, nell’affrontare la pesante missione che si era accollata, e che avesse trovato la persona giusta con cui condividere il suo futuro.
Voltò le spalle alla coppia e uscì definitivamente dalla loro vita,   sentendosi un po' più in pace con il mondo e, soprattutto, con sé stesso, pur sapendo che quel misto di sollievo e rimpianto che ora gli accarezzava il cuore, lo avrebbe accompagnato, forse, fino alla fine dei suoi giorni.
 
> Continua…
 
 
 
Note:

1Usted estas loca: Tu sei pazza. Yo soy loca. Muy loca: Io sono pazza. Molto pazza.
2Te amo, Eres mi vida, Te quiero mucho etc…: Ti amo, sei la mia vita, Ti desidero tanto…
3Buena suerte, vaya con Dios: Buona fortuna, vai con Dio. A ti tambien: Anche a voi.

Le altre parole in spagnolo penso si capiscano bene lo stesso. Suppongo siano precisazioni inutili, comunque grazie, Google Traduttore. Se ho scritto ca**ate vedetevela con lui, che io lo spagnolo non l’ho mai studiato. 
 
Un abbraccio a tutti quelli che continuano a seguire fedelmente questo sclero robotico-sentimentale. In particolare ai miei recensori! Pochi ma buoni! MOLTO buoni!
Grazie per la soddisfazione che mi state dando!
 
Il prossimo capitolo, ricomincia esattamente dove finisce questo. Con la mano furbetta di Pete, che è sfuggita al suo ferreo autocontrollo.
Hasta la vista!
 

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Capitolo 34
*** 33 - Ultime verità ***


~ 33 ~ 
ULTIME VERITA’
 
 
– Pete! La mano! – esclamò Fabrizia, staccando le labbra da quelle di lui, anche se a malincuore.
– Quale mano? – chiese Pete, con fare ingenuo.
– La tua!
– La mia?
– Sì! Quella sulla mia chiappa! Toglila di lì, immediatamente!
– Ops, scusa – disse il giovane, riportandole rapidamente la mano sulla schiena, come stupito che fosse andata a finire proprio lì.
– E non venirmi a tirare fuori che era per la recita! Diego se ne è andato!
– Davvero? – fece Pete, guardando incuriosito oltre la testa di Briz.
– Sì, davvero! – esclamò lei.
Effettivamente non c'era più nessuno, ma lui non se n'era accorto. Ma possibile che ogni volta che baciava questa ragazza, perdesse letteralmente il cervello? E quel che era peggio, la trovava una sensazione meravigliosa. Una volta Briz aveva detto scherzando che, a forza di fingere, avrebbero corso il rischio di ritrovarsi fidanzati davvero… peccato che lui, come fidanzato per Briz, sarebbe stato perfino peggiore di Diego.
La voce di lei lo riscosse.
– Se ogni tanto vuoi fregarmi un bacio, sai che puoi farlo; ma toccami il sedere un'altra volta e ti tiro un papagno che ti rovescio! Non vorrei che con 'sta storia dei fidanzati per finta, ci facessimo prendere la mano, una volta o l'altra – disse lei con un tono semiserio – E adesso puoi lasciarmi andare, fine della commedia – concluse piano, togliendo le braccia da intorno al suo collo e allontanandosi di alcuni passi, pensando che in realtà quella carezza alquanto maliziosa le era piaciuta almeno quanto baciarlo.
Tutto a un tratto si sentì tremare le gambe e l'emozione di quegli ultimi momenti passati tra le braccia di Pete, si sommò con quella di essersi ritrovata a tu per tu con il suo passato: si sentì sommergere da un'ondata di tristezza, anche se non ne capì la ragione. Si ritrovò, senza sapere come, a crollare in ginocchio e poi seduta sull'erba; aveva voglia di piangere… ma perché!? Stava diventando davvero peggio di Candy Candy…
Pete se ne accorse e, ormai rassegnato a essere diventato il consolatore ufficiale delle ragazze in lacrime, si sedette dietro di lei e la abbracciò di nuovo, sentendosi vagamente in colpa.


 
Briz-e-Pete-tramonto-B-N

– Dai, ma che ti succede? Senti, se ti ho mancato di rispetto, scusa…
– Ma piantala, eravamo un po’ presi a recitare, che sarà mai una palpatina? Scusami tu, non è per quello… ma i miei nervi sono arrivati alla frutta… Adesso mi passa, non sei costretto a sopportare i miei pianti.
– Sfogati, ormai mi ci sono abituato: non mi pesa, tranquilla.
– Già, “Rendermi felice ti viene spontaneo”. Ma come ti è uscita, una cosa come quella?
– Più o meno come a te è uscito che “Quello che provi per me non somiglia alla sbandata che avevi preso per Diego”, o che… “Hai imparato con me che cos'è l'amore”.
– Certo, una bella commedia… Siamo stati bravi, no? – scherzò lei, asciugandosi gli occhi e appoggiandosi più comodamente con la schiena contro di lui, mentre le lacrime si esaurivano.
– Sì, siamo stati bravi, decisamente! Senti, posso chiederti un paio di cose?
– Quello che vuoi, tanto ormai non ho più niente da nascondere, soprattutto con te.
– Allora… Uno, che poi non è una richiesta ma un ordine: non mettere mai più, nella stessa frase, te stessa e la parola puttana o qualunque altro sinonimo! Tu sei una ragazza perbene, Bri.
– Sicuro, tanto perbene da andare a letto con Diego dopo solo un mese che stavamo insieme. Magari potevo essere meno impaziente, e aspettare un altro po'.
– Questo non fa di te una ragazza poco seria. Hai un'attenuante notevole: eri innamorata, e del bello della scuola, che aveva scelto te! E poi… queste sono le classiche cose che accadono proprio quando non le programmi.
– Più che altro, avevo diciassette anni scarsi: ergo, non capivo un ca… cioè, niente. E… l'altra cosa da chiedermi?
– Ah, sì… è solo una curiosità: Diego ha detto che quella mattina ne sei uscita a testa alta, ma non ha detto come. Ma non dirmelo, se non vuoi…
– Penso proprio di potertelo dire… Come avrai capito, Diego era solo, quel week-end, i suoi erano via chissà dove, così avevamo organizzato una serata a quattro a casa sua, in città. Io, lui, la mia amica Elisa e Lorenzo, il suo ragazzo. Abbiamo mangiato la pizza e guardato Avatar in DVD, che fra l'altro è molto lungo. Il programma era che, poi, io sarei andata a dormire da Elisa, cosa che mio padre mi dava il permesso di fare, qualche volta. Se non che… il film non era nemmeno finito che Elisa si sentì male, così Lorenzo la portò a casa e il programma di dormire da lei saltò. Diego si offrì di accompagnare a casa me, ma poi, partiti gli altri due… ecco, sai, cose del tipo: “Resta un altro po'”“Ok, ma solo dieci minuti", "Vieni, ti porto a casa", "No, altri due minuti"… Alla fine i minuti sono diventati mezz’ora, la mezz’ora un’ora… E tra una coccola e uno sbaciucchio… beh, puoi immaginarlo: a casa, quella notte, non ci sono tornata. È stata l'unica volta che ho mentito a mio padre, che mi credeva da Elisa… e l'ho pagata. Comunque, il mattino dopo, dalla stanza di Diego, ho ascoltato le risate e le stronzate di quei tre idioti, giù in cucina, e quando sono riuscita a riprendermi, dopo aver capito tutto, ho deciso che dovevo uscire da quella casa con tutta la dignità che non avevano loro. Ho pettinato e sistemato un po' i capelli, perché non sembrassero proprio gli aculei di un porcospino, mi sono rivestita e mi sono persino truccata un po' con i cosmetici della madre di Diego che avevo trovato in bagno. Mi sono annodata in vita la camicetta lasciando l'ombelico scoperto e ho sceso le scale, rigorosamente senza occhiali e rischiando di accopparmi ogni due gradini dato che non vedevo un tubo. Mi sono appoggiata allo stipite della porta della cucina con una spalla, tranquilla e disinvolta: sono abbastanza sicura che fossi quasi sexy. “Hola, guapi!” ho esclamato. Diego, Stefano e Luca sono rimasti basiti e ti giuro che ho sentito Luca dire: “E questa sarebbe Froggy?” Io sono andata verso il frigo e mi sono versata un bicchiere di latte, come se fosse normalissimo essere in quella casa a quell'ora del mattino, e mi sono esibita nel mio monologo principe: “Siete venuti a vedere se l’hidalgo caliente ha vinto la scommessa? Beh, l'ha vinta: ha fatto quel che doveva, potete pagarlo. Adesso vado a farmi pagare io: sapete, non ci credeva nessuno che Froggy sarebbe riuscita a farsi lo strafigo del Liceo Artistico! Andiamo, Santana da Silva, non avrai mica creduto che Elisa stesse davvero male: era tutta scena per lasciarmi qui da sola con te! Ah, un’altra cosa: con tutto il parlare che si fa di te a scuola, onestamente credevo meglio. Ti do un sei e mezzo… al sette, scusami, ma non ci arrivi proprio: sei un po', come dire… frettoloso. Hasta la vista, bei ragazzoni!” Ho infilato la porta ancheggiando, col mio zainetto su una spalla, e poi… sono letteralmente fuggita all'angolo della strada dove, per pura botta di culo, c’era un autobus alla fermata, ripetendomi uno dei miei mantra che, ad ogni passo, crollava sempre più miseramente: “Stobene-stobene-stobene-nonèverostopermorire…” Sapevo benissimo che quei due campioni di stronzaggine di Luca e Stefano avevano capito che recitavo, ma non importava. Diego mi è persino corso dietro per strada, hai presente una cosa tipo: “Fabry, fermati, non è come credi! Fabry, fammi spiegare!” Ma io avevo il cuore in tanti di quei pezzi che pensavo non sarei mai più riuscita neanche a ritrovarli, figurarsi a rimetterli insieme. Non l'ho mai più voluto rivedere, né risentire! C'ero riuscita… fino a oggi.
Pete era rimasto ad ascoltarla in silenzio. Briz lo sentì sospirare e affondarle il viso tra i capelli, poi si accorse che si sforzava di non ridere.
– Dio, ma tu sei davvero fantastica! “Credevo meglio: ti do sei e mezzo, sei frettoloso”. Roba da far desiderare a un uomo di scomparire dalla faccia della Terra!
Briz rimase seria, una volta tanto.
– Beh, a dire il vero… quel sei e mezzo non è stato del tutto immeritato, anzi, forse è stato generoso, e non solo per la frettolosità. Voglio dire… non sono scema, lo sapevo che la prima volta avrebbe fatto male, ma… non mi aspettavo così tanto, anche se non glielo feci capire. E comunque speravo che dopo un po’ avrei sentito anche… qualcos’altro, ecco! E invece… solo dolore all’inizio e poi… è stato un fastidio continuo. Io non ricordo altro…
– È stato così sgarbato? O… violento? – chiese Pete, preoccupato.
– No, no… nessuno sgarbo, né violenza. Diciamo che è stato… maldestro, come probabilmente sono stata anch’io. Ti dirò che, a dispetto della sua fama, ho avuto il forte sospetto che, se per me era la prima volta… beh, per Diego non erano certo state molte di più! – ghignò Briz – Alla fine di tutto, fare l’amore si è rivelata la più grande delusione della mia vita sotto moltissimi aspetti. Ho sempre pensato, appunto, di aver avuto troppa fretta: non era il momento giusto; soprattutto, non era l’uomo, giusto.
Tacque qualche secondo, poi la sua voce risuonò, ferma e decisa.
– Ho giurato una cosa a me stessa: con il prossimo uomo che mi avrà, farò in modo di essere sicura di trovarmi di fronte all’altra metà di me, la persona disposta a percorrere con me la stessa strada, fino in fondo: famiglia, casa, figli, responsabilità… tutto! Non mi accontenterò di niente di meno! E se non lo troverò, uno così, il che è facile, visto come sono fatta… amen, chiuderò quella porta e farò altro, nella vita.
– Adesso mi spiego perché, quando ti raccontai della mia prima volta con Tracy, dicesti che una ragazza non deve mai andare a letto con un uomo alla prima occasione. E anche perché hai preferito lasciarmi credere di essere ancora… insomma, di non aver mai…
– Pete, se ci pensi, in realtà quella volta ti ho detto semplicemente di tenerti il dubbio. Non ti ho risposto di proposito, perché… non c'è una risposta, okay? Per dirla schietta: non sono più vergine, ma solo fisicamente, perché a livello emotivo, io… mi sento davvero come se non l'avessi mai fatto. Cioè… oh, non so se riesco a spiegarmi…
– Shh… Ti sei spiegata perfettamente, fanciullina. Basta ora, non voglio sapere altro.
– Sì, basta, ti prego… – concluse lei, con voce stanca.
Pete se la tenne stretta, come se con quell'abbraccio volesse proteggerla da tutti i mali del mondo.
Era stata molto chiara, su ciò che voleva dalla vita, e non c’era il minimo dubbio che uno come lui fosse completamente, inesorabilmente, fuori dai giochi.
Rimasero lì, in silenzio, finché il tramonto non allungò le ombre e il crepuscolo tinse tutto di viola.


 
Briz-Pete-tramonto

 
* * *
Il pomeriggio successivo, Briz era tornata alle scuderie; aveva appena rimesso i cavalli nei box, alla vista dei nuvoloni che si addensavano scuri, annunciando un temporale estivo; riordinò svogliatamente qualche oggetto rimasto in giro. Ciò che era successo il giorno precedente le sembrava ancora impossibile; era stata una prova non da poco, ma fu costretta ad ammettere che, in fin dei conti, era un bene che fosse andata così. Sapere che Diego, in qualche modo, l'aveva amata, e che ora avrebbe trovato un po' di pace dal senso di colpa che lo aveva roso per cinque anni, rendeva più leggero anche il suo cuore. Finalmente, anche per lei, il libro si era definitivamente chiuso; e sapeva anche che, del giorno prima, i momenti che avrebbe ricordato più volentieri non avrebbero certo riguardato Diego. Aspettare il tramonto seduta sull'erba, con Pete alle sue spalle che la teneva abbracciata, era stata la giusta conclusione di quel faticoso e surreale pomeriggio. Per non parlare di quel bacio, con tanto di sconfinamento sotto alla cintura di quella mano troppo intraprendente. Sì, la recita, proprio… le scappò da ridere fra sé.
Era andata a innamorarsi di uno che dalle donne non cercava storie serie, ma solo scopamicizie, ma che almeno le era affezionato e la rispettava. Ripensando a ciò che gli aveva raccontato della sua prima e ultima volta, una piccola parte di lei, molto maliziosa, le suggerì che farlo con Pete, sarebbe stato totalmente diverso… o no? Comunque si sentì avvampare al solo pensiero e deglutì rumorosamente… Non che l’idea non l’avesse mai sfiorata, ma ora che lui aveva saputo tutto del suo passato, la cosa aveva un lato più… oddio, più cosa…? Intrigante? Allettante?
Oh, no, lei non era il tipo! Dopo quel che aveva passato con Diego, e la promessa fatta a sé stessa di non buttarsi mai più via con qualcuno, non riusciva proprio a concepire di imbarcarsi in una relazione fatta solo di sesso, soprattutto perché, per lei, non sarebbe stato così.
No… il suo cuore era già stato rappezzato a sufficienza. Mai, mai più, si sarebbe concessa a qualcuno che non la amava come lo amava lei.
Senza contare, poi, tutti i pensieri e i problemi che doveva affrontare in quella guerra: gli effetti collaterali della NGC, quelli della disconnessione… poi stava pure per perdere una delle sue migliori amiche! E non ultimo, il fatto che un giorno sì e l’altro pure sarebbe potuta passare a miglior vita e ciao.
Era ancora persa in quei pensieri, quando il cellulare fece sentire il tintinnio di un messaggino in arrivo. Briz lo tolse dalla tasca e guardò chi fosse: Pete.
Tuffo al cuore, tremito di ginocchia, sospirone; routine, insomma.
“Dove sei?”  
“Al solito posto. Vieni in qua?”  
Un emoji della mano col pollice alzato.
Tutto qui? Non che i messaggi di Pete fossero mai troppo eloquenti, ma ebbe l'impressione che stavolta fosse lui, quello in crisi.
E non si sbagliava: Pete comparve un quarto d'ora più tardi nel vano del portone d'entrata, stagliandosi contro il cielo plumbeo e gonfio di pioggia, un braccio sollevato appoggiato allo stipite, jeans lisi e scoloriti e, di nuovo, quella maledetta t-shirt nera a maniche lunghe, col cappuccio sulla schiena e i laccetti alla scollatura, che addosso al Brad Pitt dei tempi d'oro non avrebbe fatto altrettanta figura. A tracolla teneva la borsa rettangolare blu che conteneva il suo PC portatile. La guardò intensamente per alcuni secondi, prima di parlare.
– Ho bisogno di te, fanciullina.


 
Pete-temporale

Il suo cuore diede un balzo: era ovvio che avesse bisogno di lei come amica, ma, dette così, quelle parole suonarono dannatamente seducenti, e lei si concesse il lusso di un salto nella fantasia, dove quella frase aveva tutto un altro significato. Si costrinse a tornare alla realtà e gli rivolse un sorriso scanzonato e abbagliante.
– Sono qui: che posso fare per te, mio Capitano?
– Devo salire sulla DeLorean: vieni con me?
Briz si portò due dita al ciglio e batté i tacchi, in una specie di saluto militare, e gli diede quella che, per almeno mille motivi, era l'unica risposta possibile.
– Signorsì, signore!
Per Pete, decidere di incontrare George Blackwood tramite il PC, non era stato più facile di quanto fosse stato per Briz affrontare Diego Santana solo ventiquattr'ore prima. Ma lui aveva avuto almeno il vantaggio di un po’ di tempo per prepararsi psicologicamente, e si era reso conto di non poter più rimandare, esattamente come sapeva di aver bisogno del sostegno morale della sua amica. Così aveva scelto, come luogo dell'appuntamento virtuale, le scuderie, dove ormai si sentiva a casa molto più che nella sua stanza; e, come aveva sperato, Briz non si era tirata indietro.
Dopo quello spavaldo saluto militare, la ragazza si limitò ad aprirgli la porta del suo ripostiglio dei ricordi e a osservare che, a quell'ora, a Los Angeles, dove viveva George, doveva essere circa mezzanotte. Ma lui le rispose che dalla Marina Mercantile, dopo avergli fornito l'account di George, gli avevano anche detto che qualunque ora andava bene, poiché Blackwood dormiva pochissimo.
Povero… tre anni di coma non dovevano essere stati uno scherzo; non c'era da stupirsi che volesse dormire solo il minimo indispensabile.
Pete si era seduto sul vecchio divano sbiadito di Briz, con il computer sul tavolino. Lei all'inizio se ne era rimasta defilata, appoggiata allo stipite della porta, senza vedere lo schermo: non era sicura che George avrebbe gradito la presenza di estranei e Pete era stato d’accordo.
Quando i due uomini si erano inquadrati sui rispettivi monitor, i convenevoli erano stati alquanto calorosi, anche se Briz capì, dall'espressione di Pete, che, nonostante si fosse aspettato di trovarlo cambiato, George doveva essergli apparso davvero molto diverso da come lui lo ricordava. Avrebbe giurato, dal tono della sua voce e dal luccichio che gli era apparso negli occhi, che il giovane avesse lottato parecchio contro la commozione. La voce di George le era giunta piuttosto chiara, ma anche in essa aveva sentito risuonare un'intensa emozione, oltre a una lieve difficoltà ad articolare correttamente qualche parola. Briz li aveva ascoltati parlare a lungo, mentre George spiegava come la sua memoria si fosse risvegliata all'improvviso dopo aver visto e riconosciuto Pete in alcune riprese in televisione, trasmesse alla fine di una battaglia contro i mostri. Quello era stato l'evento scatenante poi, al ricordo di Pete, si erano aggiunti quelli di Tom, di William ed Elizabeth Richardson, e via via tutto il resto.
Pete, dal canto suo, raccontò a grandi linee, su richiesta di George, le svolte cruciali della sua vita che lo avevano portato a lasciare Tracy e gli studi di archeologia per arruolarsi nell'USAF per poi diventare, alla fine, il pilota del Drago Spaziale, aggiungendo anche di Tom che studiava medicina in Italia.
Finché, a un certo punto, George li stupì entrambi.
– Pete, non sei da solo, lì, vero? – gli chiese a bruciapelo.
– Te ne sei accorto, eh?
– Per forza, circa ogni dieci secondi guardi oltre il computer, come a cercare incoraggiamento. Capisco che parlare con me ti sembri piuttosto strano, dopo tutto ciò che è accaduto e avermi forse creduto morto per tanti anni, e… comprendo che tu abbia voluto vicino qualcuno. E chiunque ci sia, lì, ad appoggiarti in questo momento, immagino sia una persona a cui tieni. Quindi, non mi dispiacerebbe conoscerla.
Pete sorrise e tese la mano a Briz che, intimidita, girò intorno al tavolino e andò a sedersi sul divano accanto a lui.
– Wow – fu il commento di Blackwood quando la vide – Perché volevi tenermi nascosto questo spettacolo, ragazzo? Mi sbaglio o in TV ho visto anche questa affascinante fanciulla?
– L'hai vista, sicuramente. Ti presento il Comandante Fabrizia Cuordileone. Combatte con Balthazar.
– Caspita! Mi viene solo da dire di nuovo… Wow! Felice di fare la tua conoscenza, Comandante.
– Briz, per gli amici. Anch'io sono felice di conoscerla; posso… chiamarla George?
– Assolutamente sì. Che diavolo, Richardson junior! Bella e coraggiosa! Ottima scelta, complimenti.
– Ehmm… Non è come credi, George!
Il fatto che avessero parlato insieme, e il tono sicuro con cui lo fecero, convinsero George solo fino a un certo punto, ma decise di lasciar cadere l'argomento.
Lui e Fabrizia, anche se solo virtualmente, per forza di cose, si presero fin da subito. La ragazza riuscì a mascherare il suo sconcerto, nonostante Pete l'avesse avvertita che lui stesso si era aspettato una persona molto diversa dal trentanovenne prestante e robusto che ricordava. Erano passati quasi sette anni, durante i primi tre dei quali George era stato in coma, e i successivi tre e mezzo era stato massacrato da cure e terapie. La persona che le sorrideva rassicurante dal monitor, dimostrava molto più dei suoi quarantasei anni. I capelli stempiati e ingrigiti lasciavano a stento intuire quelli folti e castani che Pete le aveva descritto, e il volto scavato recava solo l'ombra del bell'uomo che George doveva essere stato. Ma gli occhi azzurri attenti e penetranti, nonostante le rughe sottili che si diramavano dagli angoli, erano esattamente come lui li ricordava e come Briz li aveva immaginati.
A quel punto George venne al sodo, rivolgendosi a Pete.
– Ho voluto parlarti, perché dopo aver cominciato a ricordare… Beh, ecco, mi è venuto in mente Rico Serrano. Te lo ricordi, Pete? Il marinaio portoricano.
– Sì, lo ricordo: era un tipo odioso e sfaticato. Mio padre lo rimproverava spesso per la sua inettitudine, si detestavano profondamente.
– Già. Dunque, come anche tu ricorderai, fu proprio dalla testimonianza di Rico e, soprattutto, dalla conseguente autopsia eseguita sul corpo di tuo padre, che risultò che Will era ubriaco quella notte, e che non fu in grado di intervenire per dare gli ordini necessari ad evacuare la nave. Sembra che alla fine, ad uscirne come un eroe sia stato io, mentre sulla sua memoria pendono pesantissime e infamanti accuse.
Pete non rispose, limitandosi ad annuire. Briz lo vide stringere i denti e le labbra, esercitando il suo ferreo autocontrollo sulle emozioni che quei ricordi provocavano.
– Io ricordo tutto di quella notte, Pete. Dal litigio che avesti con tuo padre, fino al tragico epilogo.
– Tu… sai che avevo litigato con lui?
– Ero nella mia cabina, di fianco alla sua: solo una parete, nemmeno troppo spessa, ci divideva. E… urlavate piuttosto forte; anche tua madre, dopo un po', si fece sentire non poco. Vuoi che ti racconti tutto quello che ho sentito, e che è accaduto poi? Perché ora, che mi hai detto quali scelte di vita hai compiuto dopo quella tragedia, ho come il sospetto che tu ti porti dietro parecchi sensi di colpa, per ciò che è successo.
– Sospetti bene. Raccontami quello che sai, ti prego.
– Bene… Dopo la tua sfuriata, anche Liz e Will ebbero un litigio. Niente di strano, credimi, non era una novità: litigavano molto e si dicevano cose pazzesche. Io lo so poiché spesso, dopo, Will si sfogava con me, il più delle volte dicendo che gli dispiaceva perché la colpa era sua e del suo brutto carattere. Tornando a quella sera, dopo gli urli di tua madre li sentii calmarsi e tuo padre giunse a più miti consigli. Lo ascoltai dire a Liz che aveva ragione, che sì, tu quella sera eri stato molto arrogante e lui era arrabbiato più per quello, che per il vero motivo del vostro diverbio. Ma aveva intenzione di parlare con te, il giorno dopo, e di mettere fine a tutti i vostri contrasti. Anche se in modo molto sgarbato, avevi difeso le tue idee e le tue scelte, ormai se ne era fatto una ragione, Pete: tu volevi fare l'archeologo e aveva preso atto anche del fatto che Tracy fosse una ragazza in gamba, e lui non aveva niente contro di lei. Alla fine di tutto, era orgoglioso di avere per figli due bravi ragazzi studiosi, e se non fosse accaduto quel che è accaduto, te lo avrebbe confessato non più tardi del giorno dopo, credimi. Per un po' non sentii più i tuoi genitori urlare – aggiunse con un mezzo sorriso vagamente compiaciuto – La verità è che quei due avevano un rapporto piuttosto burrascoso, ma si amavano moltissimo. Non si sarebbero mai lasciati, per nessuna ragione al mondo, e amavano te e Tom più della loro stessa vita.
Briz ascoltava le parole di George, però guardava Pete, che continuava a sforzarsi di apparire duro e indifferente, ma gli occhi lucidi tradivano le sue vere emozioni. Briz infilò un braccio sotto al suo e glielo strinse, mentre Blackwood proseguiva nel suo racconto.
– La Blue Princess stava navigando col pilota automatico, ma quando sentii Will uscire dalla sua cabina lo raggiunsi in plancia, poiché sapevamo che il meteo, per quella notte, aveva previsto mare molto mosso. In realtà le previsioni sbagliarono di molto e quella che si scatenò fu una vera e propria tempesta, che colse tutti di sorpresa: fu una cosa breve, ma di una violenza inaudita. Tuo padre mi ordinò di rimanere ai comandi, mentre lui tornò sottocoperta per dire a tua madre di portare di sopra te e tuo fratello per salire su una scialuppa, cosa che Liz fece prontamente, come certo ricorderai. La tempesta, come ho detto, non durò molto, ma fu sufficiente a causare gravi danni alla nave. Così, mentre il mare già cominciava a placarsi e una nave di soccorso stava arrivando, feci salire quasi tutto l'equipaggio sulle scialuppe, come Will mi aveva ordinato molto chiaramente di fare. E fu in quei momenti che… tua madre… il container…
– Ti prego… non ricordarmelo – disse Pete, chiudendo per un attimo gli occhi – Ma perché mio padre non risalì in coperta ad aiutarti nel coordinamento delle operazioni di salvataggio?
– Perché aveva già dato a me tutte le disposizioni possibili, non avrebbe potuto fare di meglio. La morte di tua madre fu una fatalità, Pete: nessuno avrebbe potuto far niente per evitarla, nemmeno tuo padre. C'era un motivo, se lui era rimasto giù: era impegnato a tentare di salvare le altre tre vittime, i tre marinai che erano rimasti imprigionati nella sala macchine. Lo so, perché dopo aver messo in salvo tutti sulle scialuppe, compresi te e Tom, andai sottocoperta da lui per aiutarlo. E qui, entra in scena Rico Serrano… Tuo padre aveva ben ragione, di detestarlo: non credo ti stupirà troppo scoprire che è Rico, il responsabile di tutto. Lui bloccò il portello della sala macchine, per poi potersi vendicare su Will, dando a lui la colpa.
– Non è possibile! Rico era un perdigiorno e un attaccabrighe, ma non riesco a crederlo un assassino!
– Era invidioso, odiava tuo padre perché era tutto ciò che lui non sarebbe mai potuto essere. Forse non era la morte dei tre uomini che avrebbe voluto, ma solo far passare tuo padre per inetto; resta il fatto che i tre marinai morirono. Quando arrivai giù, Rico e Will erano nella cambusa, li vidi dall'oblò della porta chiusa. Rico, minacciando tuo padre con una pistola, lo costrinse a bere un intero bicchiere di whisky, per poi poterlo accusare di ubriachezza e incapacità. Io, nel corridoio, ero ostacolato dall'acqua che mi arrivava quasi a metà coscia e mi scrosciava addosso da una crepa nella parete. Finalmente, a un certo punto, riuscii ad aprire la porta della cambusa e mi precipitai dentro spinto da una cascata d'acqua, cogliendo Rico di sorpresa. Will fu lesto ad approfittarne: lo disarmò e lo mise ko con un paio di pugni ben assestati. A dispetto di tutto quel whisky che era stato costretto a ingurgitare, giuro su Dio, Pete, che tuo padre era assolutamente lucido e sobrio, al punto che l'unica cosa che aveva in mente era di tentare ancora di salvare i tre uomini nella sala macchine, che però era ormai completamente sommersa. Non sapeva ancora di tua madre e decisi che glielo avrei detto solo più tardi. Quando riuscimmo a sbloccare il portello, i tre uomini, purtroppo, erano già annegati, e l'acqua uscì con una tale violenza che investì Will, mandandolo a sbattere con la testa contro lo spigolo di una scaletta di metallo. Cercai di afferrarlo per portarlo in salvo, ma… l'acqua me lo strappò dalle mani e me lo portò via… e non riuscii più a ritrovarlo. Rico, ancora svenuto, mi passò accanto trasportato dal flusso violento dell'acqua e io lo afferrai per gli abiti, deciso a salvare almeno lui, ma solo perché volevo trascinarlo in tribunale e farlo condannare all'ergastolo per omicidio volontario. Ma una volta giunti in coperta, con gli uomini del soccorso già arrivati sul ponte per recuperarci, un enorme gancio di acciaio per il sollevamento dei container mi colpì alla testa. E lì, per me, finì tutto quanto. Quando, dopo tre anni, riemersi dal coma, non ricordavo più niente di tutto ciò e, un giorno, qualcuno mi raccontò la versione ufficiale: la stessa che aveva dato Rico Serrano e che anche tu, e il resto del mondo, conoscete. Ma non è la verità; adesso lo so, e anche tu.
George si interruppe, commosso, guardando il figlio di quell'amico perduto quasi sette anni prima.
– Will era come un fratello, per me. E tu… ora, con qualche anno in più, gli somigli davvero tanto.
Pete non rispose, chiuse un attimo gli occhi e due lacrime gli rotolarono rapide lungo le guance. Il brontolio di un tuono ruppe il silenzio pesante, carico di tutte quelle emozioni.
– Oh, Dio. Papà… – articolò il ragazzo con voce spezzata, mentre Briz, commossa anche lei fino al pianto, cercava la sua mano.
Pete gliela strinse, come se l'amica fosse la sua ancora di salvezza, poi si riprese; si passò il dorso dell'altra mano sul viso per cancellare le lacrime, che lui continuava a considerare la cosa più scocciante che potesse accadergli, e guardò di nuovo Blackwood.
– Scusami, George – disse, tirando su col naso.
– Vuoi scherzare? Non c'è niente di cui scusarsi.
– E adesso… cosa facciamo?
– Per quel che mi riguarda, quello che non ho potuto fare allora: farò tutto ciò che è in mio potere per far riaprire il caso. Voglio inchiodare in croce Serrano fino a farlo confessare, e riabilitare il nome di William Richardson. Mi basterà sapere che, se ci sarà bisogno di una vostra testimonianza, tu e Tom ci sarete.
– Oh, puoi giurarci, che ci saremo! Vorrei fare di più, per papà – fu la più che decisa risposta di Pete.
– Mi pare che tu abbia già il tuo da fare, con quel mastodontico Dragone che porti in giro per il mondo e per il Sistema Solare a combattere i cattivi. Direi che nella famiglia Richardson l'eroismo è di casa.
– Io non mi sento un eroe. È solo… quello che devo fare.
– Coraggioso e modesto: tale padre, tale figlio. Ah, a proposito, complimenti per il nickname che hai scelto per il tuo account. Direi che ti si addice alquanto… Dragonheart. 
– Questa è una delle trovate della mia amica qui presente: ha una fantasia molto fervida, nonché un ottimismo tale che a volte sfiora la stupidera. Quando ci si mette di impegno, non immagini cosa è capace di inventarsi.
– La mia fervida fantasia e la mia stupidera, ti hanno fatto tornare paragonabile a un essere umano, Capitan Scontroso! – esclamò Briz. George sembrò divertito dal modo di fare spontaneo e scherzoso della ragazza e fu senz'altro incuriosito da quell'ultima affermazione, perché chiese: – Che vorresti dire?
– Che quando l'ho conosciuto, poco più di un anno fa, il capitano Peter Jonathan Richardson, era la persona più arrogante, indisponente, odiosa e insensibile di tutto l’universo creato!
– E tu eri solo una ragazzina insolente, inesperta, sognatrice e anche un po' fifacchiona, se è per questo!
– E quindi? Stai cercando di dirmi qualcosa? – indagò lei, con un sorriso fintamente ingenuo.
– Solo che credo di averti insegnato anch'io piccole cose. Che so… autocontrollo, rigore, freddezza…
– Ah, senza dubbio: tu sei un campione in queste cose. Devo ammettere che sei riuscito a farmi tirare fuori il coraggio, anche se con metodi alquanto discutibili; ma sai anche che non avrei mai potuto produrre dal niente qualcosa che non ci fosse stato già di suo. Tu stesso mi hai detto che sono Cuordileone di nome e di fatto!
– Niente da dire, fanciullina, ma anche la tua autostima, ai valori massimi ce l'ho mandata io.
– E… ditemi: come siete giunti ad un'amicizia, diciamo così, speciale? – chiese George, con una punta di malizia.
Anche se i due si punzecchiavano continuamente in un modo davvero esilarante, era sempre meno convinto che, per quanto speciale, tra di loro ci fosse solo un'amicizia: quelle mani ancora strette l'una nell'altra la dicevano lunga, e loro non se ne erano nemmeno accorti.
– È una lunga storia – rispose Briz con un sorriso.
– Sì, effettivamente lo è – ammise Pete – e mi sembra che tu stia cominciando ad accusare la stanchezza, George; dopotutto a Los Angeles è notte fonda. Se mi assicuri che ti farà piacere risentirci spesso, ti racconterò qualcosa di me, di Tom e dei miei compagni di battaglia. E magari anche di come io e Briz siamo riusciti a superare le nostre divergenze nonostante un inizio disastroso.
– Non me lo perderei per niente al mondo, Pete; ma hai ragione, non ora: sono distrutto. Forse stanotte riuscirò finalmente a dormire come Dio comanda: emozioni come queste, schiantano, anche se in senso buono.
– A chi lo dici… A presto, George, e grazie… Di tutto.
I tre si salutarono e Pete chiuse il computer; attorno a lui e Briz scese il silenzio, intervallato solo dai tuoni e dai lampi che fendevano la penombra in cui la piccola stanza era sprofondata.
Un po' erano sollevati, un po' erano sconcertati… Frastornati, forse, era il termine giusto.
Poco alla volta, la pioggia cominciò finalmente a cadere, prima in rari e pesanti goccioloni, poi a scrosciare, alleviando il senso di afa, ma rendendo quella situazione ancora più irreale. Solo in quel momento i due giovani sembrarono prendere atto pienamente delle rivelazioni di George.
Si guardarono, senza sapere cosa dirsi o cosa pensare…
La vita, a volte, era davvero imprevedibile: ti sbatteva porte in faccia fino a romperti i denti, il naso, e a farti a pezzi il cuore e la mente. E poi, tutto a un tratto, quando sembrava che non ci sarebbe stata più speranza di rimettere insieme i cocci… quando meno te lo saresti aspettato, perché nemmeno ci pensavi più… ti spalancava un portone su un universo totalmente differente, che gettava una luce diversa su tutto. 
E che ti ribaltava, di nuovo, tutto quanto.
 
 
> Continua…
 
 
 
Sì, continua. Nel senso che anche il prossimo capitolo riprenderà esattamente da questo momento.
Ho fatto una fatica bestia a inventarmi questa faccenda, compresi George e Rico Serrano, ma io dovevo riabilitare in qualche modo il padre di Pete, perché nella mia testa, Pete non poteva continuare, come nell’anime, a vivere con questa macchia nel suo passato, che gli ha condizionato l’esistenza e il carattere e lo ha tenuto anche lontano dal fratello. Non so se sono riuscita ad essere almeno un minimo credibile, ma di meglio non mi è venuto. Prendetelo com'è, vi prego.

Qualcuno mi ha detto: Basta scuse, adesso, 'sti due, eh? Mmmmpffff… Mwhahahaha! Scusate… un momento di pazzia.

"Al diavolo, coi tuoi momenti di pazzia, abbiamo perso le speranze di combinare qualcosa, io e Fabrizia!"(NdPete lievemente alterato, pronto a incenerirmi con i raggi fulminanti del Drago Spaziale…)

Alla prossima! E grazie per continuare a seguirmi!

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Capitolo 35
*** 34 - Temporale ***


~ 34 ~ 
TEMPORALE

 
“Remember all,
The sadness and frustration,
And let it go,
Let it go…”
(Linkin Park – Iridescent)
 
Nella piccola stanza privata delle scuderie, l'unico rumore continuava ad essere il rombo dei tuoni e lo scrosciare dell'acquazzone; le rivelazioni di George Blackwood aleggiavano ancora nell'aria.
Pete distolse lo sguardo da quello di Briz, si portò le mani al viso e si appoggiò allo schienale del divano, per poi piegare la testa all'indietro e lasciarsi sfuggire un sospiro, passandosi le dita tra i capelli.
– Serrano… Quel dannato assassino… figlio di puttana, che Dio lo maledica per l’eternità! – esclamò con voce spezzata, stringendo i pugni contro la fronte – Oh, Dio, papà… – aggiunse poi, accorato, per la seconda volta in pochi minuti.
Sembrava che quella parola, papà, fosse diventata quasi un mantra; a dire il vero, Briz non lo aveva mai sentito pronunciarla, prima di quel giorno: le rare volte in cui aveva parlato di Will, Pete aveva sempre detto soltanto mio padre.
Lo guardò: aveva ancora la testa reclinata all'indietro, il viso verso il soffitto, gli occhi chiusi, e aveva allargato le braccia sulla spalliera del divano.
Briz sollevò le gambe, piegandole sotto di sé, e gli si avvicinò appena; allungò una mano, in quel gesto che adorava fare: accarezzargli i capelli.
– Questa svolta… non te l'aspettavi proprio, vero? – gli chiese con dolcezza mentre, con il dorso delle dita, scendeva a sfiorargli il viso e ad asciugare un'unica lacrima di cui lui non si era nemmeno accorto.
– Ah, no davvero – fu la semplice risposta; più che altro, un sospiro.
– Beh, con tutti i miei sogni, il mio ottimismo e la mia stupidera… nemmeno io, devo ammetterlo.
Pete aprì gli occhi, ma continuò a fissare il soffitto, come se faticasse a metabolizzare quella verità: per quanto meraviglioso, non gli risultava facile convincersi di aver avuto un padre eroico e altruista, al punto di morire nel tentativo di salvare qualcuno; se non altro per il fatto che, per tanti anni, a causa di uno schifoso bastardo, tutti lo avevano creduto un ubriacone incapace. Briz sembrò quasi leggergli nel pensiero.
– Non pensare a quel cane rognoso, un giorno avrà quel che merita; George non starà con le mani in mano, se ho capito che tipo è. Tu… pensa ad essere felice, e orgoglioso, perché sei il figlio di un eroe.
– Lo sono, Bri, ma… penso anche a quanto l'ho odiato, per qualcosa che non aveva fatto! E… a come mi sono comportato con lui quella sera! E anche la mamma… Non voleva davvero lasciarlo, anzi, grazie a lei, papà era già pronto a perdonarmi.
– No! Nonono! Pete! Non ricominciare! Tu… tu non sapevi! Ti proibisco, nel modo più assoluto, di sentirti in colpa per quello che hai provato per i tuoi genitori in questi anni!
Pete non si mosse, continuò a fissare il soffitto, ma si lasciò sfuggire una risata in cui vibrava una nota sarcastica.
– Ah, ah, questa poi è bella! Tu che mi proibisci di provare emozioni, dopo tutto quello che ti sei inventata, e che mi hai fatto passare, proprio perché imparassi di nuovo a sentirle!?
– Ascoltami bene, zuccone! Ti ricordo che in mezzo a tutta quella confusione di sentimenti negativi, c'è sempre stata una parte di te che non ha mai smesso di amarli. E sai cosa significa questo? Che il tuo cuore non si sbagliava, nonostante la fortezza di ghiaccio che gli avevi costruito attorno! Aggrappati a questa consapevolezza, Pete: amali e basta! Dovunque siano adesso, perché credimi, da qualche parte sonoWilliam Richardson ed Elizabeth McBride lo sapranno! E anche loro non ti ameranno di meno.
– Dovrò avere fede in questo, perché non c'è un'altra strada – affermò lui stanco, con una vena di durezza.
– Se ci pensi, ce n'è sempre una sola di strada, Pete: quella che alla fine, scegliamo di fare – concluse Briz.
Gli sfuggì un altro sospiro, mentre chiudeva di nuovo gli occhi, pensando che la fanciullina era appena riuscita a regalargli un'altra delle sue belle frasi; poi li riaprì e girò appena la testa verso di lei.
– Bri…?
– Che c’è?
– Mi abbracceresti un po'?
Fabrizia lo fissò sconcertata, l'unico muscolo che mosse fu quello di un sopracciglio, che si sollevò dandole un'espressione tra l'ironico e l'incredulo. Quella richiesta le ricordò il momento, non molto tempo prima, in cui gliel'aveva fatta lei, e dopo la quale, tra tira e molla e piccole provocazioni, avevano finito per ritrovarsi a baciarsi perdutamente all'ombra dell'Albero. I primi bacetti da ragazzini, che si erano rubati a vicenda, non contavano molto: erano stati giusto degli scherzi, tra di loro; quelli nella carlinga di Balthazar erano stati catartici, liberatori… un modo per celebrare il fatto di essere ancora vivi dopo la brutta avventura sull'astronave di Zhora; quanto al giorno prima, era stato solo per far scena con Diego, anche se ne avevano senz'altro approfittato ed era stato decisamente piacevole.
Ma quelli dell'Albero… erano diversi: erano stati i baci più belli che Briz avesse mai dato e ricevuto, forse perché non c'era stato nessun motivo che li avesse scatenati, se non il fatto di averli desiderati. E tutto si era interrotto così di colpo, con l'assordante allarme che li aveva fatti staccare, che poi non ne avevano più parlato seriamente e, probabilmente, era meglio così.
Pete si raddrizzò e si girò verso di lei, guardandola intensamente; chissà se anche lui stava pensando la stessa cosa? Briz decise di metterla sullo scherzo, non lo avrebbe provocato, stavolta.
– “Mi abbracceresti un po'…?” Che diavolo fai, mi rubi anche le battute, adesso? Era mia, questa!
– Io non ho la tua inventiva, lo sai che copio. E ti ricordo che quando me lo hai chiesto tu, io ti ho esaudito.
Briz non riuscì a trattenere un sorriso, tantomeno uno dei suoi commenti pepati.
– Caspita, da non credere: il bel pupone in crisi di voglia di coccole. E va bene, farò questo sforzo – disse dolcemente, tendendo le braccia verso di lui.
In fondo aveva chiesto solo un abbraccio, nulla di più.
– Ma perché mi sento così, Briz? – sospirò il ragazzo, chinando la testa e appoggiandole la fronte sulla spalla.
– Così come?
– Sono felice di quello che George mi ha detto di papà; e hai ragione sul fatto che non devo sentirmi in colpa, perché né lui né la mamma per primi lo vorrebbero. Allora… perché mi viene di nuovo da piangere?!
– Ha! Ne hai ancora di strada da fare, Richardson: non si piange solo per disperazione o tristezza, ma anche per felicità, commozione, rabbia, sollievo… persino dal ridere, qualche volta. E a parte l’ultima opzione, credo proprio che in questo momento tu abbia dentro un discreto pot-pourri di tutte le altre… Hai ancora diverse vie da esplorare, sull’argomento lacrime.
– Non mi aiuti, sai? – commentò lui, sentendo che gli occhi gli si riempivano nuovamente.
– Avanti, piangi e lasciali… lasciali andare, ma sul serio, stavolta. E tranquillo, non ti prenderò in giro, questa cosa ha commosso anche me fino alle lacrime – ammise, sentendosi pungere gli occhi.
– Capirai, con quel che ci vuole a commuovere te: piangi per niente – replicò Pete contro la sua spalla.
– Quando fai così ti odio – gli sibilò lei all'orecchio.
– Sì, lo so – disse lui sollevando la testa, allentando l'abbraccio e passandosi un'ultima volta la mano sul viso.
Era meraviglioso starsene lì, accoccolato contro di lei, ma non voleva che gli eventi prendessero un'altra piega, non  e non ora. Erano in piena tempesta emotiva, soprattutto lui; esattamente come avevano pensato nel fienile, pochi giorni prima, la situazione avrebbe potuto rischiare di degenerare.
Proprio in quel momento un fulmine si schiantò vicinissimo, delineando nettamente, in modo spettrale, i contorni delle cose, in contemporanea con un tuono talmente secco e assordante che sembrò spaccare in due il cielo. Briz sobbalzò violentemente, mentre il cuore le saltava in gola, e cacciò un urlo spaventato: in un nanosecondo era di nuovo tra le braccia di Pete, tremando come una foglia.
– Scu-scusami, sono scema, è che… gli scoppi i-improvvisi continuano a t-terrorizzarmi. 
– Shh, va tutto bene, non preoccuparti… è stato proprio un tuono di quelli brutti – sussurrò lui, stringendola a sé, accarezzandole i capelli e appoggiandole una guancia sulla sommità della testa, sentendo che, pian piano, smetteva di tremare.
"Ma guardala un po', Miss Coraggio che si spaventa per un tuono" pensò, mentre veniva assalito da quel bisogno impellente di proteggerla che ogni tanto saltava fuori; che poi, in quel momento, non sapeva nemmeno di preciso da cosa, avrebbe dovuto proteggerla. Sentì che lei stava, molto saggiamente, per sciogliersi da quell’abbraccio quasi involontario e, senza quasi rendersene conto, la trattenne e le posò un bacio lieve sulla fronte. Poi le sue labbra le sfiorarono le ciglia… e le scivolarono lungo il naso. Ecco da cosa: era da lui, che doveva proteggerla, realizzò all'improvviso. Dopo tutto quello che gli aveva confessato il giorno prima, dalla sua unica notte con Diego, fino a quello che lei cercava dalla vita, e che lui non avrebbe mai potuto darle, lasciarla andare e tenere pensieri e mani a posto era l’unica opzione che il buon senso dettasse. Ma Briz sollevò appena il viso per guardarlo…
Non fece altro, a dire il vero: lo guardò e basta; ma le labbra di Pete conclusero il loro percorso sulla bocca della ragazza.
"Maledizione, lo sapevo che andava a finire così" si disse, senza più la forza di interrompersi “E va bene, solo un bacio e poi la lascio andare…”
“Solo un attimo e poi lo mando via…” si promise Briz mentalmente nello stesso momento.
Pensieri che sfiorarono fuggevolmente le loro menti, prima di diventare optional del tutto inutili. Fabrizia intrecciò le dita nei suoi capelli, senza riuscire a resistergli. E anche lui, come sempre, non capì più niente.
Pete si appoggiò all'indietro, allo schienale del divano, la strinse a sé tirandosela addosso, e i loro corpi si mossero all'unisono: Fabrizia si ritrovò, con un unico movimento, a cavalcioni sopra di lui, le cui mani finirono per scivolarle, così, da sole e senza premeditazione alcuna, sul fondoschiena. Si guardarono, solo per un fugace attimo, prima che i loro volti fossero di nuovo attratti uno dall'altro.
 
briz-pete-divano-seduti

I tuoni si erano indeboliti, riducendo il loro rombo a un cupo brontolio lontano e, dall’esterno, giunse solo il rumore della pioggia scrosciante: il temporale si stava placando. Quello fuori, almeno… perché un altro, ben più dirompente, stava cominciando a crescere dentro di loro.
Fabrizia si rese vagamente conto che Pete la stava spingendo via da sé, ma solo per cambiare posizione. Assecondò istintivamente i suoi movimenti, anche quando si accorse di essere stata sospinta sul divano, e di essere sdraiata; con lui sopra, stavolta, che non smetteva di torturare la sua bocca di baci. Qualcosa le disse che sarebbe stato meglio interrompersi lì, ma non riuscì a dirglielo: le sue labbra erano troppo impegnate in altro.
E il tocco della mano di Pete che le accarezzava la guancia, il suo respiro sul viso, l'odore del vento e della pioggia che gli era rimasto tra i capelli, e il sapore salato che le lacrime gli avevano lasciato sulla pelle… le fecero completamente perdere la lucidità. Le labbra di Pete si staccarono dalle sue, solo per tracciare una scia carezzevole lungo il suo volto, fino al lobo dell'orecchio e proseguire più giù, morbide e calde, a lasciarle baci bollenti e bagnati sul lato del collo, fino alla spalla e alla scollatura della camicia. Da qualunque posto venisse la voce che le diceva di smettere, Briz pensò che poteva tacere anche subito. Al diavolo tutto…
Quanto a Pete, era inebriato da lei, dal profumo di biancospino dei suoi capelli, dal sapore della sua pelle, dalla dolcezza della sua bocca che era tornato a conquistare. Pregò che lei gli dicesse di fermarsi, senza rendersi conto che se non avesse smesso di baciarla in quel modo, lei non avrebbe mai potuto proferire una sillaba… infatti anche lei continuò a baciarlo come se non ci fosse un domani. E chissà… forse aveva persino ragione: un domani avrebbe anche potuto non esserci.
Briz lo abbracciò più stretto e gli si inarcò contro, per permettergli di far passare una mano sotto di lei e stringerla di più. La sentì rabbrividire, quando, incerto e delicato, gliela intrufolò sotto alla camicetta, accarezzandole la base della schiena e risalendo lungo il fianco, sollevandogliela fino a scoprirle il ventre. Avvertendo la sensualità di quelle carezze roventi, Briz non riuscì a resistere dal fare la stessa cosa: gli fece scivolare la mano sotto alla maglia, sulla pelle liscia e calda della schiena, sentendo i muscoli tesi sotto le dita. Le sembrò quasi di sentire i polpastrelli scottare, addirittura pulsare, mentre glieli passava sui fianchi e gli spostava verso l'alto la stoffa nera della t-shirt fino a sentire gli addominali scolpiti premerle contro la pancia scoperta. Quel contatto, pelle contro pelle, infuocò i loro sensi, facendo desiderare a entrambi molto, molto di più.
 
Briz-Pete-divano-bacio

Il nodo che chiudeva la camicia di Briz si sciolse e Pete ebbe la fugace visione di un reggiseno di microfibra di un arancione accecante; la sensazione del suo seno sodo premuto contro il petto, gli diede quasi un senso di stordimento. Dovevano… dovevano… assolutamente fermarsi, dannazione! Altro che fienile! Quel vecchio divano era la cosa più pericolosa che gli fosse capitata ultimamente, Mostri Neri a parte.
La mano del giovane scivolò nuovamente sotto di lei, afferrandole una natica e facendola di nuovo inarcare e lei premette, quasi inconsapevolmente, il bacino contro quello di Pete, proprio nell'istante in cui lui faceva la stessa cosa, in un movimento spontaneo, istintivo, ma talmente inequivocabile da lasciarli senza fiato. Entrambi si ritrovarono a odiare gli strati di stoffa che ancora separavano i loro corpi, e il desiderio di slacciare fibbie, bottoni e cerniere, crebbe a dismisura.
Fabrizia ebbe una sensazione di pericolo quasi tangibile; una parte del suo cervello lampeggiò, come un’insegna al neon che la avvertisse implacabile: si stava di nuovo comportando da ragazza facile proprio quando, solo il giorno precedente, aveva affermato che il prossimo uomo che l’avrebbe avuta, sarebbe stato solo il suo compagno di vita e padre dei suoi figli! Sapeva che Pete era automaticamente fuori dai possibili candidati, ma alla fine nemmeno questo riuscì a fermarla: dovunque fosse, trovò una specie di interruttore virtuale che spense quell’ammonimento. Lo amava troppo, non era capace di rinunciare a quel meraviglioso tormento, qualunque conseguenza avesse portato. E se il destino le avesse un giorno presentato il conto, per essersi arresa a tutto questo, si disse che, per salato che fosse, questa volta sarebbe valsa la pena di pagarlo. E lo avrebbe fatto senza rimpianti… forse… forse…
…Niente, la sua mente si era completamente spenta, rimanendo in balìa solo del corpo e del cuore.
Pete si accorse che lei si era completamente arresa a quell’onda anomala che stava per sopraffarli; si sforzò di aggrapparsi all'ultimo barlume di lucidità che gli era rimasto e si costrinse a fermare la mano che stava per chiudersi sul reggiseno della ragazza: sapeva che,  se avesse ceduto a quella tentazione, avrebbe finito per strapparglielo via… La consapevolezza di stare per commettere un errore grande come una casa lo colpì come una staffilata, insieme a un ultimo tuono che rotolò per il cielo, come ad ammonirlo. Non poteva farle questo: non a lei! Non dopo quello che gli aveva confessato solo il giorno precedente…
Lo scrosciare della pioggia, il lieve schiocco dell’ultimo bacio, che Pete si forzò ad interrompere, e il suono dei loro respiri affannati, furono coperti dalla musica di StarWars che esplose, totalmente assurdo e alieno a quella situazione. 
Spalancarono gli occhi e si guardarono smarriti per qualche interminabile istante, gli occhi lucidi di passione repressa, tornando di colpo alla realtà e chiedendosi da dove arrivasse quella musica, finché entrambi si accorsero del cellulare che vibrava nella tasca dei jeans di Fabrizia. Mentre Pete si spostava, la ragazza, senza una parola, gli sgusciò di tra le braccia e si alzò, stordita e tremante, riallacciando svelta il nodo della camicetta e frugandosi nei calzoni alla ricerca del telefono che continuava a suonare. Senza guardare nella direzione del giovane, riuscì finalmente ad afferrarlo e si fermò in corridoio, appena fuori dalla porta.
Pete si sedette sul divano, chinato in avanti e con le mani tra i capelli, con il respiro corto e il cuore in burrasca,1 e sollevò appena gli occhi: la guardò leggere il nome sul display del cellulare e rispondere, tentando di essere disinvolta.
– Sì, Doc? Che succede? …Ah, okay… Certo, non c'è problema… No no, va tutto bene, perché? …Sì, tra un'ora va benissimo… A dopo.  
Briz chiuse la comunicazione e posò bruscamente il telefono su una mensola, cercando di tornare a respirare normalmente e di calmare il galoppo disordinato del proprio cuore.
Ma che cosa accidenti era preso, a tutti e due? Erano impazziti? Cercò di afferrare il coraggio a quattro mani e si costrinse a guardare Pete, che si era alzato e la raggiungeva nel corridoio, come se anche lui volesse scappare lontano da quel maledetto divano.
– F-fermati lì, ti p-prego.
Lui obbedì, capendo che, anche se un po' tremolante, quello era stato un ordine, non una semplice richiesta. Era evidente che la ragazza fosse decisamente scossa e pensò di tentare di ridimensionare.
– Bri, calmati, non è successo niente – disse con il tono più rassicurante che riuscì a trovare.
– Tu… hai già ripreso il controllo della situazione, eh? Beh, i-io no! Se per te, quello che è accaduto poco fa è niente, allora è chiaro che noi due abbiamo c-concetti totalmente diversi sul significato di questa parola! Perché io, invece, ho la netta sensazione che siamo un tantino, come dire, usciti dal s-seminato!
– Senti, hai ragione, ci siamo lasciati un po' andare…
– Alla faccia del po'! – lo interruppe lei, andando ad appoggiarsi allo stipite del portone d'ingresso.
Lui la raggiunse e si appoggiò con la schiena dal lato opposto; rimasero lì per un po', in silenzio, uno di fronte all'altra con le braccia incrociate, senza guardarsi; la pioggia cadeva incessante dal cielo e dal bordo della tettoia, mentre tentavano di ritrovare una parvenza di normalità.
 
Briz-Pete-scuderia-pioggia
 
Briz si decise e alzò lo sguardo su di lui, che ricambiò incerto.
– Scusami… mi dispiace – le uscì con un sospiro.
Il giovane la guardò stupito: Briz chiedeva scusa a lui? Ma cosa…
– C’è qualcosa che non va in me, Pete – affermò la ragazza, con un'espressione quasi disperata, passandosi le mani sul viso e poi fra i capelli.
– In che senso, Bri? Cosa vuoi dire?
– Che certi errori non si possono commettere due volte, nella stessa vita! Come… come diavolo siamo arrivati a questo punto, maledizione!
– Ma non lo so!
– Era una domanda retorica, Pete! Lo so benissimo come siamo arrivati qui!
– Briz, senti… io credo che… in questo momento siamo entrambi vulnerabili ed emotivamente provati, per via di quello che è successo a te ieri con Diego, e a me oggi con George… Senza contare che stiamo affrontando una guerra, che cavolo! Siamo continuamente in preda alla tensione e alla paura, e… siamo vivi, fanciullina, non siamo mica fatti di metallo come i nostri robot. Smetti di preoccuparti – le disse dolcemente.
– Smetto di preoccuparmi?! Ma ti rendi conto di cosa staremmo facendo io e te, adesso, su quel divano, se la telefonata di Doc non ci avesse interrotti?
– Non staremmo facendo niente, Bri. Non sono del tutto scemo: la chiamata di Doc mi ha anticipato solo di pochi secondi, mi sarei fermato comunque… Mi… stavo fermando, credimi – tacque qualche secondo poi aggiunse: – Non ti fidi più di me?
Briz lo guardò, smarrita, e ciò che riuscì ad articolare la spaventò a morte.
– Non è di te, che non mi fido – le uscì a voce bassissima.
Pete comprese benissimo il sottinteso, nemmeno troppo velato: Briz si sentiva di nuovo la ragazza facile, e le parole meste con cui proseguì confermarono la sua convinzione.
– Ci deve essere una componente un po’ sgualdrina, nel mio DNA. Anche se non so da chi potrei averla presa…
– Ti ho già detto che non voglio sentire parole del genere associate a te, va bene? Sentiamo, con quanti uomini saresti stata, in questi cinque anni, dopo Diego?
Briz lo guardò incredula.
– Nessuno… e lo sai – soffiò appena.
– Appunto – disse lui altrettanto piano, prima di scuotere appena la testa e proseguire – Avanti, smettila con questi pensieri assurdi, è stato un attimo di smarrimento, e anche giustificabile, credo! E se qualcuno ha fatto qualcosa di sbagliato… non sei stata tu.
– Chi vuoi convincere? Te o me? – insistette lei, rassegnata, detestando la sua calma apparente.
– Adesso piantala, Bri, non farne una tragedia! Abbiamo ancora i vestiti addosso, dopotutto!
– Ah, sì? Ti ricordo che ci abbiamo volentieri infilato le mani, sotto ai vestiti! 
– Beh, non abbiamo toccato niente di proibito, però – ribatté lui, con un ghigno.
Il tono sdrammatizzante di quell'ultima frase l'avrebbe quasi fatta ridere, se non che… si sentì avvampare al pensiero di qualcosa di proibito. Ed era comunque consapevole che i loro gesti, se non erano stati proprio proibiti, ci erano andati di sicuro parecchio vicino!
– Oh, miseriaccia, altro che mostro, ho creato! E mo' cosa ti rispondo adesso? – esclamò in italiano, staccandosi poi dallo stipite del portone e correndo fuori, oltre la tettoia, sotto l'acquazzone, sollevando il viso accaldato verso il cielo.
– Ma che diavolo fai?! – gridò Pete.
– Una doccia fredda, faccio! Forse ne avresti bisogno anche tu! – gli urlò allargando le braccia.
– Non è un'idea così malvagia, tutto sommato – concluse lui, raggiungendola sotto la pioggia scrosciante.
Effettivamente aveva anche lui un po' di bollori da calmare; anzi, più di un po’, a dire il vero.
– Pete… non deve più succedere. Avevamo detto…
– …sì, che non vogliamo accada qualcosa di cui potremmo pentirci: mi ricordo.
Briz alzò lo sguardo su di lui: erano ormai entrambi fradici e sgocciolanti.
– C'è un'unica soluzione a questa faccenda – disse lei.
Pete la fissò, già sapendo cosa stesse per dire.
– Io credo che dovremmo… frequentarci un po' meno, okay? E dobbiamo finirla con questa cosa che… insomma, dai, lo vedi: come ci guardiamo finiamo per limonare! Quindi, questa sarà stata l'ultima volta: sarà anche cominciato come uno stupido gioco, ma è diventato pericoloso! Ti prego di scusarmi, per come mi sono comportata con te in questi ultimi tempi, provocandoti e sbaciucchiandoti senza un motivo valido, mi dispiace… Ma non voglio usare il sesso come antidoto a tutti i miei problemi e difficoltà, chiaro? Io non ci vengo a letto con te, Richardson: non sono in cerca di uno… scopamico.  
Quel modo decisamente poco fine di esprimersi, e quel termine assolutamente volgare, di cui avevano già parlato, non solo non lo scandalizzarono, ma lo fecero quasi sorridere e, paradossalmente, gli fecero apparire Briz di una tenerezza disarmante; inutile, lei gli faceva questo effetto.
– Stai sfondando una porta aperta, non devi convincermi. Sai che ho avuto alcune storie di quel tipo, ma erano circostanze, e donne, del tutto diverse. E smetti di chiedermi scusa, ti ho già detto che non è colpa tua, soprattutto stavolta – tacque qualche secondo, poi aggiunse, incerto: – Però mi dispiacerebbe perderti come… amica.
– Perché dovresti perdermi? Sono solo le pomiciate a essere di troppo, nel nostro rapporto. Evitiamo di stare troppo da soli e di creare certe situazioni; l'amicizia resterà… a meno che non vogliamo ricominciare a comportarci da stronzi trogloditi, come quando ci siamo conosciuti, ma non credo che siamo tanto stupidi da arrivare a questo.
– Ah, non fa una piega. Quindi, finora, cos'è stato? Solo ormoni sconvolti? Voglio dire, è solo una questione di chimica: siamo due elementi che… tra loro funzionano, niente di più?
– Hai reso perfettamente il concetto, Pete: pura alchimia, che per qualche assurdo motivo, è capitata a noi due. L'hai detto anche tu prima: non siamo fatti di acciaio. Senti… i-io devo andare, adesso: Doc mi aspetta, e devo prima farmi una doccia. Ti dispiace chiudere tu?
– Ci penso io. Vai – concluse Pete, con un lieve cenno della testa verso l'auto di Briz, tentando di scacciare dalla mente l'immagine di lei sotto la doccia: in quel momento non aiutava, proprio per niente.
Lei fece due passi verso il suo Kuga, ma lui sembrò ripensarci e la fermò.
– Bri, aspetta!
– Che c'è ancora!? Che poi, visto che ci siamo, facciamola finita anche con questo Bri del cavolo, stupido nomignolo da bambolina! Ridammi la mia zeta e amen! – esclamò brusca.
Lo sguardo che si scambiarono fu eloquente per entrambi: la tentazione di concedersi un ultimo bacio fu quasi tangibile, forti del fatto che sotto quel diluvio, tutto sommato, sarebbero stati abbastanza al sicuro, ma a quale pro? Pete fu il primo a riscuotersi.
– Okay, facciamo come hai detto tu: prometto che non ti bacerò più… A meno che non sia tu a chiedermelo.
Lei non rispose, lo sguardo fermo e serio affondato nel suo, e annuì silenziosamente, sorvolando su quell’ultima piccola, maliziosa sfida, che era decisa a non raccogliere: per quanto la riguardava, i giochi si chiudevano lì.
– Allora… ciao – concluse Pete sottovoce, permettendosi di scostarle fugacemente la ciocca di capelli candidi dalla fronte a cui era incollata.
– …Ciao… – rispose lei altrettanto piano, sottraendosi di malavoglia a quel lieve tocco – E… senti… Grazie – concluse incerta, per poi voltargli le spalle di scatto e andarsene, salendo decisa sul Kuga azzurro.
Pete tornò a testa bassa verso le scuderie, se non altro perché le aveva promesso che avrebbe chiuso lui. Scrollò i capelli bagnati e accarezzò i musi dei cavalli innervositi. Quanto ad Atlas e Balto, se ne erano stati rintanati per tutta la durata del temporale, poiché nessuno di loro due amava i tuoni, ma ora se ne uscirono dalle cucce e gli andarono incontro. Pete li gratificò di un paio di coccole, per la verità piuttosto distratte, il cervello troppo occupato a macinare su ciò che era appena successo.
Era vero che, benché si fosse lasciato andare più del previsto, non si sarebbe spinto oltre certi limiti, però Briz non aveva tutti i torti sul fatto che stessero giocando col fuoco e che quella situazione non sarebbe potuta andare avanti così.
Il fatto che le ultime rivelazioni di George avessero gettato una luce diversa su tutto, e lo avessero sollevato un po’ dai sensi di colpa che si portava dietro da anni, non significava che ora fosse pronto ad affrontare la vita in modo leggero e spensierato. Quasi sette anni di rimorsi, vissuti in modo rigoroso e duro, ligio al dovere e alla disciplina ferrea, tenendo a freno emozioni e sentimenti, avevano comunque lasciato il segno: era pur sempre Pete Richardson, che si sentiva prigioniero del suo ruolo di Capitano del Drago Spaziale, fin troppo rispettoso delle regole e dal carattere chiuso, scorbutico, e convinto di non avere nulla di buono da offrire a una donna. A Briz in particolare, che era stata molto chiara su quel che desiderava dalla vita: lei era votata a quell’ancora sconosciuto bravo ragazzo – nel quale lui mai si sarebbe riconosciuto – che avrebbe potuto renderla felice e darle quella famiglia che aveva perso troppo presto. Sempre che fosse anche lei uscita viva da quel conflitto che, comunque, metteva paletti a prescindere: la connessione con Balthazar la indeboliva ogni volta di più, le battaglie si erano fatte più cruente e impegnative e, non ultimo, forse era anche sul punto di perdere la sua migliore amica. Era già abbastanza da sopportare, non poteva impelagarla in una relazione con uno come lui, né adesso, né mai.
Una voce petulante si fece viva nel suo cervello: “Ma se anche lei ti amasse, cosa faresti?” 
La musica di Star Wars interruppe quei pensieri, lasciandolo perplesso: ma da dove veniva, stavolta? La risposta arrivò in un attimo: afferrò il cellulare di Fabrizia un istante prima che la vibrazione lo facesse cadere dalla mensola del corridoio, sulla quale lei lo aveva dimenticato. Sul display luminoso apparivano il nome e la faccia sorridente di Hakiro; rispondere gli venne spontaneo.
– Ca… capitano Pete…? – chiese stupito il ragazzo nel sentire la sua voce.
– Briz ha dimenticato il cellulare alle scuderie.
Hakiro voleva solo sapere se per caso avesse lasciato lì la sua felpa quella mattina, e Pete gli confermò di vederla appesa al gancio sulla porta della selleria. Il ragazzo lo ringraziò e chiuse la comunicazione: la sua foto scomparve dal display, lasciando il posto alla schermata home.
Pete rimase sconcertato: su un lato c'erano le piccole icone delle varie applicazioni, ma sullo sfondo… c'erano dei disegni fatti da Briz che, ogni quattro o cinque secondi, cambiavano, susseguendosi uno dopo l'altro. Incuriosito, ne contò cinque e, in tutti, il soggetto principale… era lui.
Lui a cavallo di Obi-wan; lui sull'ala del Drago al tramonto, lo stesso disegno che Briz gli aveva regalato la vigilia di Natale; lui che correva con in braccio Annie, la bambina australiana bionda; lui immobilizzato al pannello di acciaio, col viso striato di sangue, che fronteggiava Zhora; e lui sulla plancia di comando del Drago Spaziale, abbracciato a una ragazza di cui non si vedeva il volto, ma che era alta, con i capelli lunghi e scuri e con indosso il giubbotto viola dell'uniforme: loro due, il ventuno dicembre scorso, dopo che l'aveva salvata dalla Tana del Diavolo.
Pete si diresse di nuovo fuori, sotto la tettoia, si appoggiò al muro e si lasciò scivolare seduto per terra. Affascinato, continuò per un po' a guardare quei cinque disegni che si rincorrevano senza soluzione di continuità. Ma perché!? Che ci facevano lì? Poi pensò che anche lui si teneva nel cellulare un paio di foto della ragazza, che le aveva scattato più o meno di nascosto. Ma era diverso, si disse: lui era innamorato di lei!
E a quel punto, tutti i suoi ragionamenti di pochi minuti prima, crollarono miseramente e fu costretto ad arrendersi.
Briz non si era accontentata di rubargli una foto, come invece aveva fatto lui: lo aveva addirittura disegnato, ricordando alcuni dei momenti della loro storia che l’avevano colpita particolarmente. E quello che vide in quei tratti, in quei colori, nella precisione con cui Briz lo aveva ritratto cogliendo ciò che lui era veramente, gli diede quella consapevolezza che aveva voluto così caparbiamente ignorare fino a quel momento.
Vide finalmente ciò che aveva permeato ogni sguardo, ogni sorriso, ogni carezza, ogni bacio che Briz gli aveva concesso: era la stessa cosa che le aveva dato la forza e il coraggio di partire in quarta, per inseguirlo fino alla nave di Zhora e salvargli la vita; la stessa a causa della quale Briz, poco prima, si era lasciata andare fra le sue braccia con tanta spontaneità. E lui, stupido idiota…! Santo cielo, gli aveva persino confessato di non fidarsi di sé stessa! Avrebbe dovuto capire cosa significava! 
Se lo era chiesto giusto pochi minuti prima: “Ma se anche lei ti amasse, cosa faresti?”
La risposta, purtroppo, non cambiava di una virgola. Era sempre quella, chiara e semplice: niente. Alla luce di quella rivelazione, rinunciare a lei sarebbe solo stato un po’ più difficile, ma lo avrebbe fatto. Perché in fondo, la ragazza non aveva lottato per conquistarlo; non aveva voluto che tra loro accadesse qualcosa di compromettente; anzi, pur essendo stata pericolosamente in bilico e sul punto di cascarci, era sollevata che non fosse successo, e lo aveva anche ringraziato per questo.
Briz aveva già scelto: si era resa conto perfettamente di amare un tipo troppo difficile e problematico per lei, che di casini ne aveva già a sufficienza di suo; Fabrizia già sapeva che Peter Jonathan Richardson, non aveva niente da offrirle, se non di spezzarle di nuovo il cuore.
Alla fine era stata abbastanza saggia da decidere da sola quale fosse la cosa più giusta e sensata da fare.
Posò il telefono a terra e, con un sospiro, chinò la testa tra le braccia.
– Oddio, Bri… te lo avevo anche detto, di non innamorarti di me.
La vocetta di prima si fece risentire, solo per un attimo: “Stupido, lei ha fatto la scelta di allontanarsi da te perché non lo sa che tu la ami!”
Ma Pete e la sua parte glaciale e adamantina, decisero che ciò non avrebbe cambiato nulla e la vocina fu fatta tacere seduta stante.
 Andava bene così… La faccenda era chiusa.
 
> Continua…
 
 
 
 
Note:
1 Il cuore in burrasca di Pete è dedicato a Morghana. Lei sa perché.
 
 
“Ma insomma, concluderemo mai qualcosa io e il mio bel capitano…?” 
(NdBriz che sta per piangere.)
“Non piangere, fanciullina, se la piglio la costringo io a farci concludere, quella maledetta autrice, a vedere se la smette anche di far piangere me, che non la sopporto più, quando fa così!”
(NdPete, incazzato nero)
“Tranqui, Pete, ti risparmio la fatica: sono già al muro, davanti al plotone d’esecuzione dei miei lettori”.
(NdA)


Esatto, mi metto buona buona contro il muro, le mani legate dietro alla schiena… e attendo a testa alta, con coraggio e dignità (e senza nemmeno farmi bendare!) la fucilazione!

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Capitolo 36
*** 35 - La bambina perduta ***


~ 35 ~ 
LA BAMBINA PERDUTA
 
“So say goodbye and hit the road
Pack it up and disappear
You better have some place to go
‘Cause you can’t come back around here
Good goodbye…”
(Linkin Park – Good goodbye)

 
 
Briz se ne stava sulla grande terrazza del Centro, un po’ cupa e silenziosa come la notte appena scesa.
Dio, che gran brutto periodo! Prima il difficile confronto con Diego; poi l’incontro virtuale con George Blackwood che, sebbene fosse stato una cosa positiva, aveva comunque inciso emotivamente, e non poco, nell’animo di Pete. E poi… c'era stata quella cosa tra di loro, a causa della quale avevano preso una decisione su cui, giusta o sbagliata che fosse, non aveva voglia di soffermarsi.
Briz ricordò che quando Pete le aveva reso il cellulare dimenticato nelle scuderie, aveva una strana espressione, forse imbarazzata. Per un attimo era arrossita, temendo che, per qualche motivo, lui avesse visto i disegni della sua schermata home, ma poi si era detta che per accedervi avrebbe dovuto conoscere la password. A meno che… qualcuno l'avesse chiamata e lui avesse risposto, nel qual caso la home si sarebbe aperta; ma quando aveva controllato, l'ultima chiamata che risultava era stata quella incriminata di Daimonji e lei si era tranquillizzata; il lieve disagio che aveva percepito in lui era senz’altro dovuto a… quella cosa. Ovviamente, Briz non poteva sapere che Pete aveva avuto il buon senso di cancellare la chiamata di Hakiro affinché a lei non venisse il sospetto che avesse scoperto i disegni.
A parte tutto ciò – e naturalmente il timore del prossimo attacco zelano, sempre incombente – la cosa peggiore che tutti stavano affrontando era l'imminente separazione da Midori.
Briz, seduta per terra, appoggiata con la schiena alla parete, osservava la volta stellata e si chiedeva cosa avrebbero fatto lei e Jami senza la loro amica.
Pochi giorni prima Midori, insieme a lei e Pete, aveva affrontato Doc, che le aveva raccontato ciò che sospettava: quando lo scienziato l’aveva trovata, piccola, sola e in lacrime, l’ipotesi che potesse venire da un altro pianeta gli si era affacciata alla mente, a causa degli abiti della bambina che sembravano proprio una tuta spaziale. Ma poi la piccina, dopo varie visite mediche, era risultata una perfetta terrestre e lui aveva accantonato quella supposizione.
Ma ora, con quel che le stava succedendo, i suoi sospetti si erano riaccesi: i segnali che sempre più spesso la ragazza captava, gli strani sogni, come li chiamava lei, negli ultimi giorni si erano intensificati – quasi come se il presunto mittente avesse avvertito la sua apertura in tal senso – fino al punto di diventare vere e proprie comunicazioni telepatiche. Attraverso di esse, Doc e Midori avevano elaborato un sistema di comunicazione per riuscire a interagire con l’entità, ora certa e non più solo sospetta, che tentava di mettersi in contatto con lei.
In realtà, Midori aveva quasi sperato che non fosse possibile e che tutto potesse tornare alla normalità, e invece… il contatto aveva avuto un esito positivo, e ciò che lei aveva raccontato a Pete, quel giorno sulla spiaggia, era diventato, tutto a un tratto, un’incredibile realtà.
La donna che lei vedeva nelle sue visioni e sentiva nella sua testa, era davvero sua madre! Si chiamava Ariantha, e le aveva raccontato ogni cosa riguardante il suo passato e la sua provenienza.
Così, la sera precedente, senza poter più tirarsi indietro, aveva affrontato insieme a Doc tutti gli amici, rivelando loro la verità.
Midori si chiamava Green, era nata su Pijon, un piccolo pianeta nella costellazione dello Scorpione che, un giorno, era stato inghiottito da un buco nero, proprio come stava per accadere a Zela.
Consapevoli di ciò che stava per succedere, gli abitanti del pianetino erano fuggiti in cerca di una nuova patria, ma non sapendo se, nel loro girovagare per l’Universo, avrebbero mai trovato un altro luogo su cui trasferirsi, avevano lasciato alcuni dei loro bambini sui mondi abitati incontrati nel loro viaggio, per garantire loro una vita e preservare la loro razza, visto che l’alternativa sarebbe stata per loro quella di una vita – e di una morte – a bordo dell’astronave. Green era una di quei piccoli, che i Pijoniani chiamavano i bambini perduti.
Ora i nativi di Pijon avevano trovato un nuovo pianeta, ribattezzato senza molta inventiva Nuova Pijon, e alcuni di loro viaggiavano nello spazio per recuperare quelli che erano stati i loro figli e nipoti. La madre di Green era impaziente di riabbracciare la sua bambina perduta, e le aveva comunicato il giorno e le coordinate presso le quali sarebbe arrivato un emissario a prelevarla.
Sanshiro aveva ascoltato quella storia allibito, senza riuscire a crederci; aveva scosso la testa ed era uscito dalla sala visibilmente alterato e immusonito, senza dire una parola.
A quel ricordo, Briz chinò il capo sulle ginocchia che si teneva abbracciate, e si sentì sopraffatta da un’ondata di tristezza; si rifiutò di soccombere con le lacrime, ma si sentiva devastata.
Per lei e Midori, che si sarebbero separate per sempre; per Sanshiro e Midori, ai quali toccava lo stesso destino, solo che si sarebbero lasciati tra la rabbia e l'indifferenza, senza concedersi un'ultima possibilità; e anche per lei e Pete, che si erano cacciati in un casino più grande di loro e l'unico modo che avevano trovato, per affrontarlo, era stata la loro decisione di qualche giorno addietro. A dirla tutta le dispiaceva anche per Sakon e Jamilah, che continuavano a stare lì, tra color che son sospesi, mentre i presupposti per qualcosa di più profondo e concreto, lei ce li vedeva tutti. Ma mai una gioia, proprio: era la storia delle loro esistenze…
E questo senza contare quell’assurda guerra che stava logorando i loro nervi e i loro corpi, fagocitando ogni cosa buona delle loro vite, lasciandoli sfiniti e svuotati di ogni speranza ed energia positiva.
Era come percorrere un tunnel, in fondo al quale nessuno riusciva a scorgere una luce; e se anche ciò fosse accaduto, Briz era sicura, a quel punto, che sarebbero stati i fari di un treno pronto a travolgerli!
Il suo incrollabile ottimismo stava andando del tutto a ramengo, e non solo il suo.
Jamilah arrivò in silenzio e Briz sollevò lo sguardo sull’amica, che si sedette accanto a lei.
– Se stai per chiedermi se l'ho convinta, la risposta è no: dice solo assurdità sul… richiamo del sangue – disse sconsolata Jamilah; che il soggetto della frase fosse Midori era sottinteso ma chiaro.
– Richiamo del… ma… al diavolo il sangue! Il sangue è acqua!
– Pensi che non glielo abbia detto? Alla fine ha confessato anche che l’espressione di Sanshiro quando ha saputo la verità, e la sua reazione, il vederlo letteralmente fuggire, sconvolto al pensiero di aver avuto una mezza relazione con un’aliena, l’ha fatta decidere senza remissione.
– Resta il fatto che per me sbaglia: se c'è una cosa che ho imparato, è che la nostra casa non è dove, ma chiCasa sono le persone che amiamo, e per dirlo io, ali di libellula e radici di baobab…
Tuttavia, nonostante quelle parole, Briz e Jami capivano di doversi rassegnare e accettare definitivamente la decisione della loro amica, come già aveva fatto Doc e, più o meno, anche tutti gli altri.
– Dov’è adesso, Midori? – chiese Briz.
– In camera sua, vuole stare sola.
– Sanshiro?
– E chi lo sa? È sparito dalla circolazione quando ha finito il suo ultimo turno di addestramento.
– Che situazione di mer… schifosa – concluse Briz; e il fatto che nemmeno una parolaccia le uscisse fuori, la diceva lunga.
Dopo qualche minuto di silenzio, chiese all’improvviso:
– Ma… tu e Sakon?
– Io e Sakon… cosa?
– Okay… Lascia stare, scusa.
– Cosa vuoi che ti dica, che sono innamorata di lui? Lo sai già. E forse lo sa anche lui; mi sa che persino il Gaiking e Balthazar se ne sono accorti, ma credo che lui mi veda solo come una specie di sorella… per questo non si sbilancia. Forse pensa ancora a Lisa…
– Non so se pensa a Lisa, Jami… È un ragazzo empatico, sensibile… ma sa benissimo che non avrebbe senso amare per sempre qualcuno che non c’è più. Nemmeno Lisa stessa lo vorrebbe vedere solo per tutta la vita, di questo sono convinta.
– No, certo che no, ma sai, a volte credo che… non sia facile, per lui, essere così… diverso. Dev’essere difficile rapportarsi agli altri, spesso ho l’impressione che questa sua intelligenza prodigiosa abbia influito negativamente sui suoi rapporti affettivi e sulla sua vita sociale. Io non so come fosse la sua vita privata, prima di questa guerra, lui era solo il mio prof…  ma nel momento in cui mi ha reclutata, non credo fosse impegnato con nessuna; poi c’è stata la faccenda di Lisa che non lo ha certo aiutato. È una persona così incredibile… lo trovo meraviglioso in tutto quello che fa… Ci sono cose che per noi sono complesse da capire, mentre per lui sono normali e scontate: lui ha pazienza, è bravo, sa come spiegartele, ma ci sono momenti in cui faccio fatica a… stargli dietro.
– E non è che tu sia esattamente tarda… in realtà ti ci vedrei con lui.
– No… credo che una nera con gli occhi azzurri sia troppo strana persino per lui!
– È perché siamo avvilite, che spariamo boiate, Jami? Credi che proprio uno come Sakon guarderebbe a piccolezze come il colore della pelle? Ma ti ascolti quando parli?
– Hai ragione, siamo avvilite. Stiamo per perdere la nostra migliore amica; siamo in guerra, sempre in tensione e occupati a sforzarci di non cedere alla paura; non riusciamo nemmeno a capire con chiarezza i nostri sentimenti, figuriamoci quelli degli altri. Spariamo boiate, sì, forse è meglio.
Sakon era arrivato sulla terrazza, aveva sentito le voci delle ragazze e, senza volerlo, aveva ascoltato le loro ultime battute.
Beh, Jami ci aveva preso, doveva ammettere che era proprio quello il freno principale che avvertiva nei confronti della ragazza: non era facile, per lui, convivere con il suo eccezionale quoziente intellettivo; soprattutto, non era facile per chi gli viveva accanto, essendo un’esperienza che aveva già vissuto.
Alison, l’unica donna con cui avesse avuto una storia concreta prima che lui diventasse l’ingegnere capo del Drago Spaziale, non era riuscita a stargli al passo, e un giorno se n’era andata, dopo due anni di convivenza durante i quali si era sentito rinfacciare continuamente che la sua intelligenza del tutto unica sminuiva quella di lei, che era comunque un ingegnere aerospaziale di tutto rispetto e aveva pure tre anni più di lui. Doveva riconoscere, a onor del vero, che Alison, bionda, pallida e piuttosto algida, era una persona totalmente diversa da Jamilah, sia come aspetto fisico, sia caratterialmente; lui stesso si era chiesto spesso come avessero potuto innamorarsi, due così diversi come loro, ma era una domanda oziosa: gli innamoramenti raramente hanno una spiegazione logica. Ma, soprattutto, il nocciolo della questione era proprio questo: era stato un innamoramento, una infatuazione… una volta esaurito quello stadio, non c’era stata la giusta evoluzione in qualcosa di più maturo e profondo. Comunque fosse, aveva preso una tale scottata che, dopo Alison, non aveva più avuto nessuna. Con Lisa aveva creduto, per un attimo, di aver trovato la persona giusta: se c’era una donna che avrebbe potuto comprendere il senso di diversità che anche lui avvertiva, e accettarlo senza farglielo pesare, era stata proprio lei; lo aveva capito subito, nonostante il tempo passato insieme, così intenso a livello emotivo, fosse stato brevissimo.
E ora Jami… Cosa doveva fare con lei? Era bellissima, intelligente, simpatica… e aveva capito che lei lo considerava molto più del suo Prof, anche se le piaceva appellarlo così. Con ogni probabilità, solo lei avrebbe potuto prendere il posto di Lisa nel suo cuore. Briz non sbagliava: Jamilah Nyong’o era l’unica donna che anche lui sarebbe riuscito a vedere al proprio fianco, di questo era dannatamente consapevole, altrimenti come spiegare quel batticuore che, da qualche tempo, lo assaliva ogni volta che la vedeva arrivare? Quella felicità improvvisa che provava quando la vedeva ridere, quel senso di serenità che gli dava il suo sguardo di acquamarina e che lo pervadeva anche solo all’idea di passare qualche ora a lavorare con lei? Quel bisogno di proteggerla, di volerla al sicuro… e di toccarla, o anche solo sfiorarla, per sentire la morbidezza di quella pelle dal meraviglioso colore dell’ambra scura. Inoltre, poteva mai dimenticare che, quando gli Zelani lo avevano preso prigioniero, era stato solo imprimendosi la sua stupenda e seducente immagine nel cervello, che era riuscito a contrastare il condizionamento mentale?
Ma poi… se un giorno fosse successo come con Alison? Se Jami si fosse sentita sminuita, inferiore, inadeguata, a stare dietro a quel maledetto super-intelletto che si ritrovava lui? No… non avrebbe sopportato di venire respinto anche da lei.
Sentì dei passi venire nella sua direzione e il suo sguardo intercettò Fabrizia che, salutata Jami, veniva verso di lui: l’espressione della ragazza era stanca, triste, e poteva capirla, con tutto quello che stavano passando sia a livello personale che generale.
Sapeva che Briz, oltre a tutti i problemi a cui la sottoponeva la NGC, aveva recentemente affrontato un ex fidanzato, mentre Pete aveva ricevuto una rivelazione su suo padre assolutamente positiva, ma che lo aveva lasciato letteralmente stravolto. A parte che, tra questi due, doveva essere successo qualcosa di strano; il loro modo di rapportarsi era cambiato… in modo impercettibile, forse, ma non era più come prima. Scherzavano, lavoravano insieme, si punzecchiavano dando origine a divertenti battibecchi, si sorridevano… e fin qui, niente di nuovo. Ma non si toccavano… e quando ciò accadeva casualmente, quasi sobbalzavano, come se avessero preso una scossa, e i loro sguardi si facevano imbarazzati. Cosa diavolo avevano combinato, ‘sto giro?
Briz lo raggiunse e lo salutò, con un’espressione amichevole ma tirata, annunciando che andava a prepararsi per il turno di guardia.
Sakon si diresse verso Jamilah, che era rimasta sola, chinata in avanti, coi gomiti appoggiati alla ringhiera della terrazza, lo sguardo perso nel vuoto.
Quando lo vide lo gratificò di un sorriso, meraviglioso quanto inaspettato, che le scavò due fossette sulle guance cancellando per un attimo la malinconia dai suoi occhi e, a lui, fece battere forte il cuore.
– Sei triste anche tu per Midori, vero? – le chiese.
– E chi non lo è? – rispose lei, demoralizzata – Chi lo avrebbe mai detto che la nostra più cara amica potesse essere una creatura extraterrestre? Che, ovviamente, non è questo, che mi rattrista, che importanza può mai avere da dove venga? È il fatto che abbia scelto di andarsene, che non riesco a mandare giù… Non riesco a comprenderla.
– Ti capisco, nemmeno io ci riesco – fu l’unico commento che Sakon riuscì a tirare fuori.
Jami si passò il dorso di una mano su una guancia, asciugando una lacrima che era scivolata furtiva dall’angolo dell’occhio. Una seconda la seguì e, stavolta, fu raccolta dal pollice di Sakon, che le aveva, con sua sorpresa, accarezzato il volto. Jamilah mandò giù un altro groppo di lacrime e, a quel gesto gentile, non riuscì a trattenersi dall’abbracciarlo, cosa che fu ricambiata senza il minimo sforzo.
– È un brutto momento per tutti, Jami, ma in qualche modo supereremo anche questo… o almeno spero.
Jamilah non rispose; con un sospiro tremolante tentò di ricomporsi, quasi vergognandosi di aver mostrato quel segnale di debolezza. Il che era assurdo, poiché in quella situazione carica di eventi negativi, non c’era proprio niente di imbarazzante nel sentirsi stanchi e sfiduciati.
Sakon le tenne dolcemente il capo appoggiato alla sua spalla, le dita tra gli indomabili riccioli scuri, godendo della loro morbidezza. Abbassò appena la testa, non resistendo all’impulso di lasciarle un lieve bacio sulla fronte, come aveva già fatto una volta in passato. Proprio in quel momento Jami sollevò il volto verso di lui, per dirgli qualcosa e… le loro labbra finirono, letteralmente, per scontrarsi. Invece di interrompere quel contatto improvviso, le labbra morbide di Sakon e quelle calde e carnose di Jamilah continuarono ad assaggiarsi leggere, con piccoli tocchi…
 
Jami-Sakon-terrazza
 
 
Dapprima incerti, poi più decisi, presero ad assaporarsi con lievi, teneri morsi, fino a schiudere le labbra e a conquistarsi…
A Sakon si insinuarono e accavallarono nella mente almeno un milione di pensieri, tanto da chiedersi come potessero starci tutti insieme, e nel tempo di un bacio!
Se Jamilah era lì, coinvolta in quella guerra, la responsabilità era anche sua: era stato lui a sceglierla come assistente, per la sua agilità mentale e la sua disponibilità a gettarsi a capofitto in qualunque nuova esperienza. Non l’aveva costretta, certo: Jami stessa sapeva a cosa sarebbe andata incontro accettando quell’incarico, e aveva già avuto parecchi esempi di quanto fosse all’altezza anche delle situazioni più difficili.
E ora lei era lì, fra le sue braccia, ma non per questo al sicuro da altri pericoli continuamente in agguato e, che fosse giusto o no, si sentì in colpa per questo. Non aveva previsto che accadesse… che cosa? Di… innamorarsi? E… se le fosse accaduto qualcosa? E se poi fosse davvero successo come con Alison? E come non bastasse, gli affiorò anche il ricordo di un ragazzone biondissimo che ricordava di aver visto spesso, fuori dall’università, ad aspettare Jamilah alla fine delle lezioni… sì, le lezioni, perché, appunto, Jamilah era una sua studentessa!
Ma per dio, era mai possibile che la sua mente – maledetta lei e il destino che gliel’aveva rifilata! – non riuscisse a smettere di lavorare, rimuginare, macinare… nemmeno mentre baciava questa donna meravigliosa?
Si staccò da lei, frugando con gli occhi scurissimi il suo sguardo azzurro, che lo affrontò luminoso… e gli uscì la più gran castroneria del secolo, alla faccia della sua intelligenza!
– E… e adesso?
A Jami si incurvarono, suo malgrado, le labbra, senza sapere se essere divertita o contrariata da quella reazione.
– Meraviglioso… la classica frase che chiunque sogna di sentirsi dire dopo un momento romantico.
– J-Jami, scusami…
– Oh, Dio, Prof… di male in peggio… Non credevo appartenessi alla categoria degli uomini che baciano una ragazza e poi le chiedono scusa. Comunque… non c’è da scusarsi: mi hai dato un bacio, mica un pugno.  
– Io non so perché…
– Sì, che lo sai, invece: è iniziato per caso, e abbiamo voluto vedere come fosse concederci qualcosa di piacevole in mezzo a tutti questi casini; tutto qui. Non ti ci arrovellare troppo, non è successo niente di grave, okay? Magari un giorno, chissà… se ne potrebbe riparlare – gli disse, avvertendo la sua confusione e sfiorandogli una guancia con la punta delle dita.
Il fatto che si fosse scusato la diceva lunga: non era pronto per niente che potesse avere un seguito; così si affrettò a toglierlo dall’imbarazzo.
– E adesso scusami tu, ma credo che andrò a dormire il sonno dei giusti, sempre che riesca ad addormentarmi e che l’Orrore Nero me lo permetta…
Jami se ne andò e Sakon rimase lì, a guardare smarrito il punto in cui era scomparsa, con ancora il sapore della ragazza sulle labbra e il suo profumo di ambra e di sole nelle narici.
Maledizione, per una volta che, forse, aveva finalmente fatto la cosa giusta, dovevano saltare fuori degli ingiustificati sensi di colpa e delle perplessità assurde, a fargli tirare il freno proprio sul più bello? A volte gli sorgeva un dubbio: era davvero così intelligente?
 
* * *

Midori osservò per la milionesima volta il giovane che sedeva al suo fianco, pilotando la piccola astronave che li avrebbe portati oltre la Cintura di Asteroidi, vicino a Giove, verso quella molto più grande sulla quale li aspettava sua madre, Ariantha.
L'emissario di Pijon si era incontrato col Drago Spaziale alle coordinate concordate, su un atollo in mezzo all'Oceano Pacifico. Il ragazzo non era brutto, anche se non poteva certo competere con Sanshiro o Pete e, a dirla tutta, nemmeno con Sakon: ciocche scomposte di capelli castano chiaro fuoriuscivano dal casco e un paio di occhi grigioverdi la scrutavano a tratti, con espressione furba. Aveva detto di chiamarsi Paul, e di essere stato suo compagno di giochi quando erano bambini, ma lei non aveva memoria alcuna di lui; ma del resto, si disse, nemmeno dei suoi genitori ricordava nulla.
In compenso si sarebbe sempre portata nel cuore il ricordo della separazione dai suoi amici terrestri e dal dottor Daimonji che, solo ora che si era separata da lui, Midori si rendeva conto di considerare davvero suo padre.
Era stata una cosa piuttosto sbrigativa, poiché Paul aveva spiegato che erano giunti nel Sistema Solare grazie a un varco spazio-temporale che gli aveva permesso di evitare un viaggio lungo dieci anni; il varco, però, era sul punto di richiudersi e il tempo era contato.
Briz e Jamilah erano state brave, erano riuscite a salutarla senza pianti tragici, benché gli occhi lucidi tradissero in toto il loro stato d’animo, esattamente come Doc: nessuno di loro lo aveva mai visto così commosso. Quando la ragazza si era staccata da lui, singhiozzando un “Addio, papà”, perfino in Yamatake e Bunta il luccichio degli occhi aveva raggiunto livelli di guardia pericolosi.
Midori aveva salutato Pete per ultimo, abbracciandolo e sussurrandogli una frase all'orecchio: “Abbi cura della mia amica Briz”. Lui aveva annuito e ricambiato l'abbraccio, promettendo che avrebbe fatto del suo meglio e chiedendosi se Briz gli avrebbe permesso di mantenere quella promessa.
Midori invece si era chiesta, poco prima, come e dove avrebbe trovato la forza per affrontare l'addio a Sanshiro, ma il giovane le aveva risparmiato quell'ordalia: nessuno lo aveva visto in giro.
Una volta a bordo, quando il mezzo di Paul era uscito dal Drago Spaziale proiettandosi nel cielo che sovrastava l'Oceano Pacifico, Midori era entrata a tutta velocità nella parte posteriore della piccola astronave – che era chiusa da una cupola trasparente ed era equipaggiata con un cannoncino per la difesa – per riempirsi gli occhi con l'ultima immagine che avrebbe avuto del suo pianeta, e del Drago che campeggiava maestoso sulla spiaggia dell'atollo verde, come un gigantesco mostro ancestrale.
E a quel punto lo aveva visto: Sanshiro era sull'ala del Drago, e guardava verso di lei. Era ormai troppo lontano per vedere la sua espressione, ma l'ultima cosa che notò, prima di chiudere gli occhi e lasciare che le lacrime uscissero nuovamente a rigarle le guance, fu che il ragazzo si era lasciato cadere in ginocchio senza smettere di guardare nella sua direzione.
Midori non poteva saperlo, ma Sanshiro era rimasto lì, inginocchiato, a guardare l'immensità del cielo finché del velivolo di Pijon non era rimasto che un lieve scintillio: una piccola stella che si portava via Midori per sempre.
La ragazza era rimasta seduta nella cupola trasparente, al posto di combattimento del mezzo spaziale, fino a quando la Terra era diventata nulla più di un punto azzurro nello spazio; l'aveva già vista altre volte così da lontano, ma sapeva che questa sarebbe stata l'ultima. Paul l'aveva lasciata stare, comprendendo come si sentisse, e quando era tornata al suo posto accanto a lui, pallida e con le labbra tremanti, Midori aveva cercato in tutti i modi di concentrarsi sul suo futuro, e di convincersi che sarebbe stato bellissimo.
Ci riuscì per circa un minuto… poi crollò.
– Torna indietro, Paul! – gridò disperata.
– Cosa? Ma non posso, l'ho promesso a tua madre! Non la vedresti mai più, non pensi a lei?
– Dovrà comprendermi! Ti prego Paul, l'uomo che amo è laggiù! La mia famiglia, è laggiù!
– Non posso farlo, Green! Non avrei più tempo per tornare indietro: il passaggio spazio-temporale sta per richiudersi e io sarei costretto a rimanere qui. Anch'io ho una famiglia e una ragazza, su Nuova Pijon! Sei tu che devi comprendere, ora: hai avuto tempo per pensarci!
Midori stava per ribattere, quando avvistò un'astronave; per un attimo pensò che fosse la loro destinazione, ma si rese conto immediatamente che era ancora troppo presto: quella era una nave zelana!
– Oddio, Paul! Non ci faranno mai passare! – esclamò Midori.
– Certo che lo faranno: ho già dovuto pagare, per garantirmi anche il ritorno.
– Cos… cosa? Cosa hanno voluto da te?
– La mia arma, un raggio che congela all'istante ciò che colpisce, e che si può sciogliere solo con il neutralizzatore. Penso che ora me la renderanno – fu la risposta.
– Credevo fosse quella, la tua arma – disse Midori disperata, guardando il cannoncino situato nell'abitacolo con la cupola trasparente, dietro di loro.
– No, quello è il neutralizzatore anti ghiaccio; ma loro non lo hanno voluto.
– Lo credo bene! Ma non capisci? Sono Zelani! Non ti renderanno un bel niente: congeleranno il Drago Spaziale, che non ha armi per difendersi da un'arma mortale come quella! Ci hai venduti, Paul!
Paul rimase agghiacciato e sconvolto da quella rivelazione e dalla consapevolezza di essere stato ingannato.
– Non sapevo che fossero Zelani! Mi hanno fatto credere di essere terrestri, e che non si potesse accedere alla Terra se non disarmati!
La mente di Midori cominciò a lavorare febbrilmente, mentre si avvicinavano alla nave nemica che aveva appena avviato un processo di trasformazione in Mostro Nero e che li incrociò, ignorandoli, dirigendosi verso la Terra.
Il Drago Spaziale lo aveva sicuramente già intercettato e, senza dubbio, si stava dirigendo nello spazio per ingaggiare battaglia, ma Paul non poteva fermarsi per aiutarlo, a meno di non rimanere esiliato sulla Terra.
Midori sapeva di non potergli chiedere questo, ma Sanshiro… sarebbe morto, insieme a tutti gli altri! Non poteva permettere che il Drago diventasse la tomba di ghiaccio del suo equipaggio.
Girò di nuovo lo sguardo sulla cupola trasparente che conteneva il neutralizzatore e, a un esame più accurato, vide una speranza di salvezza: la parte posteriore dell'astronave che conteneva l’arma di difesa, era in realtà un guscio di salvataggio in grado di staccarsi per portare gli occupanti in salvo in caso di avaria. Ormai ne sapeva abbastanza, di caccia e mezzi spaziali, per notare queste cose; la decisione fu presa in un attimo, non ebbe nemmeno bisogno di pensarci. Senza nessun preavviso, schizzò alla postazione di combattimento posta nel guscio e chiuse la paratia trasparente che la separava dall'abitacolo.
– Green! Green, cosa fai?
– Quello che devo! Scusami… chiedi perdono a mia madre per me, ti prego, sento che capirà. Dille che pensi a me, qualche volta, io lo farò, ogni giorno. Addio, Paul – concluse Midori, posando una mano sul vetro che li separava.
Paul fece lo stesso, accostando il palmo contro il suo, in un gesto di tacita accettazione; aveva avuto il sospetto fin dall'inizio che la ragazza non sarebbe mai arrivata su Nuova Pijon: non era la prima, tra i bambini perduti, a decidere di non tornare.
– Addio, Green, buona fortuna. Sono sicuro che Ariantha capirà.
In pochi secondi il guscio di salvataggio si separò e Paul fu libero di proseguire il suo viaggio. Midori prese possesso dei comandi e volò come una scheggia nella direzione opposta, sperando di intercettare il Mostro Nero e il Drago Spaziale prima che fosse troppo tardi.
Mentre cercava di capire il funzionamento del sistema di comunicazione, la sua mente fu raggiunta da una voce che ormai ben conosceva: Ariantha.
– Green… Paul mi ha avvertito – la voce trasudava tristezza e rassegnazione.
– Mamma…
– Vai, Green, non avere rimpianti. La nostra famiglia è quella che ci cresce e che ci ama; sono stata io, lasciandoti sulla Terra diciotto anni fa, a dartene una, e adesso è giusto che tu combatta al suo fianco. Sapevo che sarebbe potuto succedere questo, anche se significa separarci per sempre, ma sono orgogliosa che tu abbia fatto questa scelta. Sii felice, piccola: io lo sarò, sapendo che sarai con persone che ami e che ti amano. Anch'io continuerò a farlo.
La sensazione della voce di Ariantha nella mente si affievoliva sempre di più, e Midori capì che il varco spazio-temporale si stava chiudendo, portandosi via per sempre la possibilità di rivedere sua madre. Ma provò anche una sensazione di sollievo, nel sapere che la donna non le serbava rancore per la sua scelta.
– Addio, mamma. Anch'io ti amerò sempre, per avermi messa al mondo e avermi dato la possibilità di avere un futuro.
Solo il silenzio le rispose.
Midori sperò di averlo davvero, un futuro, mentre spingeva il piccolo mezzo armato alla ricerca del mostro e del Drago. Non voleva un futuro senza suo padre, il Drago Spaziale e il resto della sua famiglia. Quanto a Sanshiro… non si illudeva certo di recuperare il suo rapporto con lui: sapeva di aver provocato una frattura insanabile fra loro, e saperla un’aliena aveva dato al giovane il colpo di grazia. Ma se doveva scegliere tra la sua morte o la propria, la seconda opzione era di gran lunga preferibile, e non solo perché la Terra aveva bisogno di Sanshiro a difenderla con il Gaiking.
 
* * *
 
Le ondate di ghiaccio colpirono il Drago Spaziale prima ancora che l'equipaggio riuscisse a vedere con precisione dove si trovasse il mostro: la prima congelò all'istante i pannelli centrali, impedendo loro di aprirsi per permettere l'uscita dei componenti del Gaiking e di Balthazar.
Fabrizia era già connessa con il suo leone, ma non poté far altro che rimanere lì nell’hangar, bloccata: nessuna delle sue armi sembrava penetrare quella terribile barriera di scintillante, gelido, granito alieno. La seconda ondata imprigionò nel ghiaccio la testa del Drago, dentro alla quale Sanshiro era già pronto per le manovre di assemblaggio. Nel giro di poco le pareti all'interno della carlinga si ricoprirono di uno strato di brina; Sanshiro cominciò a tremare per il freddo e si ritrovò a battere i denti con le labbra violacee e intorpidite, senza potersi sganciare dal Drago.
In plancia la situazione non si discostava di molto: in una manciata di secondi l'ambiente era diventato più freddo dell'Artico. I componenti dell'equipaggio, nonostante le tute termiche e i guanti, cominciarono a fare i conti con i polpastrelli formicolanti, il naso e le guance insensibili e ad emettere nuvolette a ogni respiro. Il mostro girava intorno al Drago continuando a sparare raggi congelanti che ricoprivano man mano l'astronave di placche di ghiaccio: tutti i comandi erano bloccati, e Doc e i ragazzi cominciavano a sentirsi intorpiditi non solo fisicamente, ma anche mentalmente.
Daimonji li incitò a rimanere svegli, pur sentendosi lui stesso a un passo dall'addormentarsi. Pete chiamò prima Sanshiro, che gli rispose assonnato, poi Fabrizia che stentò ad articolare una replica; tentava disperatamente anche lui di tenere svegli i compagni, pur sentendosi scivolare lentamente, a sua volta, nel torpore: faticava a muoversi e il Drago cominciava ad andare alla deriva nello spazio.
E poi… come in un sogno, vide un luccichio di fronte a loro: un piccolo mezzo che arrivava velocissimo, con un cannoncino che lanciava a tutto spiano raggi rosso fuoco contro il Drago. E dove colpivano, il ghiaccio si scioglieva.
– Sono io, ragazzi! State bene? – chiese Midori, che aveva trovato il canale per comunicare con loro.
– Doc, è Midori! – gridò Pete, incredulo, prima di replicare – Più che altro stiamo freschi, piccola! Il raggio del tuo mezzo è la nostra ultima speranza: prova a sbloccare i pannelli! Briz, se i pannelli si sbloccano, esci subito e tieni occupato il mostro finché il Gaiking non si è assemblato!
– Come fatto, Capitano! – rispose Briz, ritrovando la determinazione e la speranza.
La manovra riuscì: Midori girò attorno al Drago ancora per un po', niente più di un colibrì attorno a un cavallo, ma dove il mostro lasciava croste di ghiaccio, lei scongelava porzioni sempre più estese di acciaio e titanio, fino a quando ottenne di potersi concentrare sui pannelli anteriori, che Pete riuscì finalmente ad aprire. Balthazar scattò e si lanciò fuori nello spazio, assalendo con un ruggito il Mostro Nero.
– Ti piace il ghiaccio, eh? Prendi allora, bastardo! – gridò, lanciando ondate di Raggio Congelante sulla testa del mostro.
Intanto Midori si era concentrata sulla testa del Drago, e in poco tempo Sanshiro fu libero di sganciarsi e assemblarsi ai componenti che Pete aveva lanciato.
La battaglia fu intensa ma breve, anche grazie a Midori che scongelava all'istante tutto ciò che il nemico cristallizzava nel ghiaccio. In almeno due occasioni lo anticipò, sciogliendo il gelo mortale sul nascere un attimo prima che colpisse la carlinga del Gaiking, con un paio di manovre al limite del suicidio.
Sanshiro sapeva che non l'avrebbe mai perdonata per aver fatto finire così la loro storia, senza dargli un'ultima chance, ma vederla rischiare la vita in quel modo gli aveva gelato il sangue ancor più dell'arma del loro nemico. La voleva via di lì!
– Vai dentro, Midori! Mi manca solo di dovermi preoccupare anche di te! – le urlò.
Midori ubbidì all'ordine senza replicare, vedendo che il Gaiking e Balthazar avevano ormai ridotto il mostro a mal partito, ma si sentì mortificata da quelle parole: capiva il rancore di Sanshiro, ma in fondo gli aveva appena salvato la vita. Mentre atterrava nell'hangar all'interno del Drago, fu raggiunta dal boato e dal riverbero dell'esplosione del mostro.
Un'altra battaglia… un'altra vittoria… Il Drago Spaziale e il suo equipaggio, e con essi la Terra, erano di nuovo salvi.
Parecchi minuti più tardi, lasciato il guscio di salvataggio, Midori guardò la sua amica Briz uscire, pallida e frastornata, dal leone robot che era rientrato dentro al Drago. Anche stavolta, per la ragazza, disconnettersi era stato difficoltoso, forse solo il pensiero di ritrovare Midori l'aveva aiutata a trovare la concentrazione necessaria ad avviare il distacco. Arrivò a malapena ad uscire da Balthazar, che le due amiche si stavano già abbracciando: Briz tremava ancora, in preda ai brividi di febbre di quei maledetti effetti collaterali, ma la felicità di riavere lì la sua migliore amica le rese tutto più sopportabile.
– Lo sapevo! Lo sapevo che non te ne saresti andata! Ci hai salvati tutti, Midori.
– Non avrei mai potuto fare diversamente: avevate ragione tu e Jami, e aveva ragione anche Pete. La mia casa è qui… anche mia madre lo ha capito, e mi ha dato la sua benedizione. Come ti senti, tu? Santo Dio, stai bruciando! – le chiese, strofinando le mani sulle braccia e le spalle di Briz, per attenuarle i brividi.
– Ora va m-meglio, sta passando – le rispose riuscendo, nonostante tutto, a ridere, troppo felice che l’amica fosse tornata – Dori… – disse poi a un certo punto, facendo un cenno con la testa, indicando oltre la spalla dell'amica.
Midori si voltò lentamente e affrontò lo sguardo di Sanshiro, che era appena arrivato nell'hangar dopo essersi sganciato dalla testa del Drago Spaziale. Briz si allontanò in silenzio: forse ai due avrebbe fatto bene stare qualche minuto da soli.
– Stai bene? – chiese il giovane a Midori, con il tono più freddo e distaccato che riuscì a trovare.
– Sì. Tu? – replicò lei, nello stesso modo.
– Okay – concluse lui oltrepassandola, dandole un lieve tocco sulla spalla, come a un vecchio amico, e proseguendo senza nemmeno guardarla.
Midori lo seguì e, ancora risentita per la frase che le aveva rivolto poco prima in battaglia, gli disse con sarcasmo:
– Mi perdonerai, vero, se per salvarti la pelle ti sono stata un po' tra i piedi!?
Sanshiro si fermò e la squadrò freddamente, incurante del fatto che Briz, poco più avanti, potesse sentirli.
– Midori, cosa ti aspettavi? Che ti prendessi tra le braccia e ti giurassi amore eterno solo perché hai scelto noi, invece di una famiglia e un pianeta che non hai mai conosciuto? Ci hai salvati, sei stata brava e coraggiosa, e ti sarò grato per sempre, per questo; e cerco anche di comprendere la rinuncia che hai fatto! Ma noi due… Tu… mi hai escluso dalla tua vita nel momento in cui avresti dovuto aggrapparti a me più che a ogni altra cosa. Hai deciso e fatto tutto da sola: mi hai considerato così ottuso, e intollerante e… stupido. Tu non hai mai creduto in me, ma soprattutto, non hai mai creduto in noi due! Per te la nostra storia è stata solo un gioco! Hai distrutto anche il ricordo dei pochi momenti belli che abbiamo passato insieme, e io non ho più voglia di ricostruirlo, quel ricordo. Non posso, non voglio, stare con una donna che non ha fiducia in me.
– E allora perché sei crollato in ginocchio sull'ala del Drago, quando mi hai vista andarmene con Paul?
Sanshiro ebbe un attimo di smarrimento; non pensava che la ragazza lo avesse visto, ma si riprese subito.
– Un momento di debolezza. Può capitare a chiunque, no? In tutta onestà, non riuscivo a credere che alla fine tu lo avessi fatto davvero. E se sei tornata indietro, è stato solo perché la tua coscienza ti ha impedito di lasciare che il Drago venisse distrutto!
– E per cos’altro avrei dovuto farlo? – lo sfidò – Per qualcuno che, quando ha saputo che sono un’aliena, se n’è andato disgustato?
– Ah, è così che la pensi? Allora… non hai davvero capito niente di me! Se solo tu ti fossi fidata, ti fossi presa la briga di parlarmene… io ti avrei detto che non m’importava niente di chi tu fossi e da dove venissi! Ma tu avevi già fatto la tua scelta, Midori, e io non ne facevo parte. È quello, che mi ha fatto decidere di andarmene dalla sala, quella sera! Ero arrabbiato e ferito, ma che fossi disgustato lo hai deciso tu, da sola, come tutto! Come sempre! Sai, c’è una novità: spesso ti sbagli!
– Sanshiro, io…
– Basta, per cortesia, risparmiami! Mi fa piacere per Doc e per le tue amiche che tu sia tornata, ma se vuoi un po' di coccole affettuose, ti conviene andare da loro, perché da me non ne avrai. Hai avuto più di sei mesi e ti ho dato almeno mille occasioni per dirmi ciò che ti tormentava e quello che provavi per me. Non l'hai fatto, mai! Hai persino impedito a me, di farlo. Sei fuori tempo massimo, fine!
Persino Briz, benché stesse defilata, notò il cipiglio freddo e accusatorio di Sanshiro che faceva quasi paura, e pensò che davvero, come recitava un vecchio detto, non c’è un cattivo più cattivo, di un buono quando diventa cattivo.
Midori inghiottì le lacrime, senza abbassare gli occhi; non si era aspettata nulla di diverso, in fondo, lo sapeva già, nonostante quello sguardo torvo e ferito le trafiggesse l’anima a morte.
 
Sanshiro
 
– Certo, capisco. Posso dirti almeno che mi dispiace?
Sanshiro riuscì solo a rincasare la dose.
– Per cosa? Per tutto quello che io e te saremmo potuti essere, e che tu non hai voluto? Tu non hai la più pallida idea di cosa hai gettato al vento, di cosa ci siamo persi. Certo che puoi dirlo, che ti dispiace, mi sembra il minimo… ma non servirà a niente, Midori. Ti avevo detto che non mi avresti spezzato il cuore, ma ci sei andata vicino; adesso non rendermi più difficile uscirne – finì Sanshiro, duramente.
– Tranquillo, non lo farò. Comunque tu la pensi, sono ancora in grado di capire quando sbaglio e quando devo pagare. Ma lascia che ti dica un’ultima cosa: se io non avessi deciso di andarmene, e avessi lasciato ripartire Paul da solo, il Mostro Nero ci avrebbe distrutti, perché non avremmo avuto l’arma di difesa, contro quel ghiaccio alieno. A volte non tutte le scelte sono sbagliate a priori, e se perdere te, per quanto mi faccia soffrire, è il prezzo da pagare per avervi salvati, allora va bene così – concluse Midori, voltandogli definitivamente la schiena e raggiungendo Briz, che la aspettava più avanti.
L'amica le mise un braccio attorno alle spalle e la scortò fino in plancia, dove la aspettavano suo padre e gli altri amici. I ragazzi accolsero Midori con affetto, consapevoli che la sua scelta non fosse stata fatta a cuor leggero, ma felici che la loro amica considerasse loro, la sua vera famiglia. Daimonji la abbracciò commosso, contento di riaverla con sé.
Pete si avvicinò a Briz e le chiese come si sentisse, con una lieve stretta sul braccio a cui lei rispose con un gesto vago con la mano, come per dire: così così; e indicò con un cenno della testa Sanshiro che giungeva, solo e imbronciato, e andava a sedersi alla sua postazione. La cosa non sfuggì a nessuno, nemmeno a Daimonji, che al di sopra della spalla della figlioccia, incrociò lo sguardo del giovane, duro come l'ossidiana.
Tutti compresero: le lacrime di Midori non erano solo di commozione,
e il difficile e complesso legame che c'era stato tra i due, si era spezzato. Il libro era arrivato all'epilogo ed era stato chiuso. Midori non poté far altro che prendere atto, sgomenta, della cruda realtà: nonostante suo padre, le sue amiche, i suoi compagni… senza Sanshiro lei sarebbe rimasta, per sempre, nulla più che una bambina perduta.
 
> Continua…
 
 
 
Note in libertà dell’Autrice della Cattiva, Perversa e Senza Cuore:

Suppongo la nota sia in realtà superflua: avrete notato che non solo l’interruttore Perfidia è irriducibilmente impostato sull’ON, ma si sono aggiunte anche le modalità di Malvagia e Crudele.
Tre coppie… e non ce n’è una che conclude
 😭
 
Il bacio di Sakon e Jamilah, sia descritto che disegnato, è dedicato a Mirella che ha un debole per la super intelligenza del bell’ingegnere (seh seh, si chiama intelligenza, adesso! 😅)
 
Se per caso non lo aveste notato, dal 6 giugno 2017, grazie a me che ho avuto l’idea e Morghana che l’ha attuata inoltrando la richiesta all’amministrazione di Efp, Daiku Maryu Gaiking, (nome originale dell’anime) ha un fandom dedicato…
I componenti dell'equipaggio del Drago Spaziale, naturalmente ci hanno già ringraziate. Non vi diciamo come... Ihihih!

Scusate, momenti di stupidità a briglia sciolta. Ogni tanto ci vogliono, se no si dà di sclero...

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Capitolo 37
*** 36 - L'Italia chiama ***


Vi chiedo scusa per la lunghezza del capitolo, ma ai fini narrativi spezzarlo non avrebbe avuto molto senso...
 
~ 36 ~ 
L’ITALIA CHIAMA
 
Alla fine era accaduto anche questo: l'Italia aveva richiesto la presenza del Drago Spaziale, per indagare su un insolito quanto pericoloso fenomeno rilevato dall’Osservatorio Vesuviano, l’istituzione fondata nel 1841, che si dedica alla ricerca vulcanologica e geofisica e al monitoraggio dei vulcani e che, dal 2000, è diventato una sezione dell’INGV – Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.
I Campi Flegrei, una zona di circa tredici chilometri di diametro situata a Nord-Ovest della città di Napoli, erano sempre stati considerati un vero e proprio vulcano in stato di quiescenza, ma ora, all’improvviso, tutto il territorio aveva dato segni inequivocabili di un probabile quanto rapidissimo risveglio. Il rischio di un’eruzione importante avrebbe portato conseguenze catastrofiche, essendo la zona altamente popolata.
Le operazioni di evacuazione della popolazione erano state organizzate e attuate in tempi sorprendentemente brevi, per i canoni italiani, e l’equipaggio del Drago Spaziale, una volta arrivato sul posto, non aveva potuto far altro che prendere atto della situazione: per l’ennesima volta, c’era sotto lo zampino dell’Orrore Nero.
Fabrizia aveva sperato con tutte le sue forze che non accadesse mai nulla del genere e che l’Italia venisse risparmiata da una tale prova, ma sapeva benissimo che non c'era nessun motivo per cui il suo Paese dovesse essere immune dalla furia dei loro nemici. 
Il Mostro Nero – che chissà da quanti secoli si trovava nelle profondità del sito, in attesa di venire risvegliato dai suoi artefici – era emerso dalle acque della Baia di Pozzuoli: una immensa creatura tozza, cornuta e dai canini inferiori sporgenti, dall’aspetto diabolico; a tutti loro ricordò un demone uscito dalle profondità infernali.
Le sembianze del nemico ben si addicevano alle caratteristiche del luogo, che anche Virgilio descrisse, nell’Eneide, collocando il Portale degli Inferi proprio in quella zona, in prossimità del cratere oggi conosciuto come Lago d’Averno.
La novità fu che anche Midori partecipò alla battaglia poiché, nelle ultime settimane, insieme a Daimonji, Sakon e Jamilah, aveva lavorato incessantemente per trasformare il guscio di salvataggio dell'astronave di Paul in un piccolo e agile caccia da guerra, che ora somigliava vagamente a uno Skylar più aggraziato di poco più piccolo. Il cannoncino del neutralizzatore di ghiaccio era stato potenziato con altre armi, ed erano stati montati lanciamissili e mitragliatori a onde di energia. Midori, senza una ragione particolare, lo aveva chiamato Infinity.
Sanshiro non aveva saputo niente di tutto ciò, finché lui e Midori non si erano ritrovati nell'hangar, prima della battaglia, pronti a partire insieme a Fabrizia e a Fan Lee. Si erano scambiati uno sguardo di fuoco, quando Sanshiro aveva visto l'Infinity e aveva capito tutto; Midori non gli aveva permesso di parlare, e lo aveva apostrofato con voce dura.
– Non guardarmi in quel modo, tu non hai nessun diritto di dirmi cosa devo fare. Non ti azzardare più, mai più, a dirmi di non starti tra i piedi in battaglia!
Sanshiro non aveva fiatato, l'aveva guardata mettersi il casco e salire, agile e determinata, sul suo caccia, e non aveva potuto fare altro che girarle le spalle e raggiungere il piccolo mezzo che lo avrebbe portato nell'abitacolo dentro alla testa del Drago. In fondo la ragazza aveva ragione: chi era lui per dirle cosa fare della sua vita?
Quello che il giovane non si sarebbe mai aspettato, fu che l'aiuto di Midori potesse risultare decisivo quanto quello di Fan Lee, per l'esito della battaglia: allontanato il più possibile il mostro dalla costa italiana, i due agili mezzi volanti gli misero i bastoni tra le ruote volandogli continuamente intorno, come due piccole vespe rompiscatole, anche correndo notevoli rischi, distraendolo e persino danneggiandolo. Al centro del Mediterraneo, il Gaiking e Balthazar poterono così attaccarlo insieme, uno di fronte e l'altro alle spalle, senza lasciargli scampo, e fu merito di Midori e delle sue manovre ai limiti della follia, se il mostro lasciò scoperto il punto debole alla base del collo, in cui il pugno perforante del Gaiking e i raggi verdi degli occhi di Balthazar lo colpirono simultaneamente, distruggendolo.
L'Infinity, ancora vicinissimo, fu investito dall'onda d'urto dell'esplosione e venne scagliato piuttosto lontano, ma Midori fu abilissima a riprenderne il controllo in pochi secondi.
Eliminata la minaccia aliena, tutto il territorio dei Campi Flegrei tornò alla normalità, ma non solo: con la scomparsa del Mostro Nero, anche la presunta pericolosità della zona, costantemente monitorata, incredibilmente parve attenuarsi, abbassando in maniera esponenziale i rischi per chi viveva nella regione circostante; come se, per tutti quei secoli, il pericolo incombente fosse stato causato più che altro dalla presenza del mostro nascosto nelle profondità della terra.
Adesso che si erano ritrovati tutti in plancia però, il dottor Daimonji, pur riconoscendo il coraggio di Midori, la rimproverò per la sua avventatezza. Midori accettò la lavata di capo in silenzio, consapevole di aver forse rischiato troppo, ma sapeva anche di essere stata un elemento importante per la vittoria.
– Ah, Daimonji può rimproverarti, e io no? – le disse Sanshiro, in tono seccato.
– Doc è mio padre, è normale che si preoccupi per me. Tu dovresti solo ringraziarmi per l'aiuto – fu la pungente replica della ragazza, prima di andare a sedersi alla sua postazione, ignorandolo.
Fabrizia guardò Midori, seduta accanto a lei sulla sinistra, e Sanshiro dall'altro lato, in fondo, sulla destra: il più lontano possibile l’uno dall’altro. Sospirò; non c'era più scampo, da quella situazione: i due non si consideravano, non si guardavano – se non per lanciarsi occhiate infuocate di risentimento – e non si parlavano, a meno che non fosse per scambiarsi battute taglienti. Salvo poi beccarli quando, uno all'insaputa dell'altro, si osservavano di sottecchi con una luce di disperato rimpianto negli occhi. Ma si poteva andare avanti così?
Il Drago raggiunse Fuorigrotta,1 quartiere della città partenopea in cui si trovavano i laboratori dell’Osservatorio Vesuviano; la sosta fu breve, giusto per scambiarsi informazioni, saluti e ringraziamenti con gli scienziati. Successivamente, il Capitano Richardson impostò la rotta per il rientro in Giappone e il Drago decollò nuovamente, sorvolando il Golfo di Napoli e stagliandosi imponente contro il cielo del Mediterraneo.
 
Drago-Spaziale-Napoli

Briz si alzò dalla sua postazione e raggiunse Pete, fermandosi accanto a lui, che era seduto alla guida, per godersi meglio la vista del suo paese dall’alto. Il pilota del Drago sollevò lo sguardo e i due si fissarono per qualche istante.
– Com’è andata la disconnessione? – le chiese lui, tornando poi a guardare davanti a sé.
– Mah, a parte l’armatura che sembrava mi urlasse di restare lì e mi trattenesse con cento mani, le successive nausee e febbre e un gran mal di testa e intontimento, tutto sommato… è stata uno schifo anche a ‘sto giro! Scusa se sono venuta a rompere, ma sai… volevo godermi un po’ di casa mia dallo… schermo panoramico. 
– Prego, fai pure – disse Pete in tono gentile, con un'altra rapida occhiata.
Entrambi non avevano potuto fare a meno di pensare al fatto che Tom e la famiglia Del Rio non fossero molto lontani di lì: con il Drago, sarebbero bastati pochi minuti verso nord, per raggiungerli.
Anche Daimonji aveva avuto lo stesso pensiero e, vedendo quello scambio di sguardi, si avvicinò all'altro fianco del pilota e impostò una nuova rotta. Fabrizia e Pete osservarono le nuove coordinate, si guardarono di nuovo e si sorrisero, mentre lei gli dava una amichevole stretta sulla spalla.
– Doc, mi sta davvero portando a fare un giro a casa? – chiese Briz speranzosa, euforica e persino commossa.
– Solo per poco, ma visto che siamo qui, una notte estiva italiana potrebbe essere una piacevole distrazione, dopotutto – buttò là Daimonji, con disinvoltura.
Erano solo le quattro del pomeriggio: l'idea di rimanere fino al mattino seguente entusiasmò tutti, Fabrizia in particolare, che non vedeva l'ora di posare di nuovo i piedi sulla sua terra, ma anche di rivedere la sua seconda famiglia.
Anche Pete sembrava impaziente: il pensiero di incontrare finalmente suo fratello Tom, dopo tutti quei mesi, lo emozionava.
– Grazie, Doc – risposero i due giovani con un'unica voce.
– Come si chiama il tuo paese, Briz? – chiese Bunta, curioso.
– Son quattro case attorno a una chiesa e una manciata di fattorie sparse tra le colline, una delle quali, casa Del Rio, è la nostra meta. Il paese… ha un nome che sembra uno scioglilingua… – cominciò a rispondere Briz, ma fu interrotta da Pete, che proseguì: – …ed è anche stato inventato da qualcuno con poca fantasia.
– Già, uno come te, probabilmente! – ridacchiò lei.
Poi stese una mano, ad indicare sul grande schermo i colli verdi, con un piccolo agglomerato attorno a una chiesa: effettivamente, quattro case in croce. All'intorno, boschi che creavano macchie di un verde scuro, fresco e lussureggiante.
– Signori, ecco a voi Boscombroso, frazione del comune di Marradi, provincia di Firenze, Italy.
 
* * *
 
A Fabrizia quella giornata sembrò rasentare il surreale: il Drago che atterrava sull’altura antistante la fattoria dei Del Rio era una scena al di là dei suoi sogni più sfrenati, almeno quanto le sembrò irreale ritrovarsi, mezz’ora più tardi, dopo essersi liberati delle uniformi e aver indossato abiti civili, fra le braccia di Anita e di Filippo.
Sebbene avessero seguito in TV le notizie riguardanti la battaglia appena conclusa – che, a causa della vicinanza, li aveva atterriti non poco – i Del Rio erano rimasti sbalorditi quando il sole di quella calda giornata estiva era stato parzialmente oscurato dalla mastodontica mole del Drago Spaziale. Né loro, né Tom, avrebbero mai immaginato di poter riabbracciare i loro cari, pur sapendoli poco lontani.
Quando Fabrizia riuscì a trovare la forza e la volontà per sciogliersi dall' abbraccio della coppia, fu solo per stringere a sé Jessica, la loro bellissima figlia, che per lei era come una sorellina. E mentre le due ragazze si abbracciavano, Pete andava incontro a uno sconcertato Tom.
Oltre la spalla di Jessica, Fabrizia vide i fratelli Richardson avvicinarsi, all'inizio parecchio impacciati. Nonostante si vedessero spesso tramite il computer, e avessero parlato ormai di tutto – dal loro tragico passato, fino agli ultimi risvolti rivelati da George Blackwood, passando per le avventure vissute dall'equipaggio del Drago – vedersi di persona dopo quasi un anno, consapevoli della confidenza e dell’affetto rinati tra loro, fu una profonda emozione per entrambi. Finalmente, dopo un paio di sorrisi indecisi, i due si abbracciarono, lasciandosi andare a risate, pacche sulle spalle e scrollate varie. Quando Pete scostò suo fratello da sé, per guardarlo in viso, rimase sbalordito da un paio di cose.
– Tom, ma che… come mai non devo più abbassare gli occhi, per guardarti in faccia? Ti hanno tirato per i piedi in quest'ultimo anno? E poi… cos'è questa roba sul mento? Non vorrai mica farmi credere che sia barba?
Tom si strofinò la mascella lievemente ispida, fingendosi offeso.
– Cos'hai da dire sui miei quattro peli che coltivo con dedizione? E tu, allora, hai litigato col barbiere? Io almeno i capelli li ho tagliati, non è ora che ci pensi anche tu? – rise Tom, scompigliando la zazzera di Pete con entrambe le mani, in un gesto che solo un anno prima non si sarebbe nemmeno sognato di fare, tanta era la soggezione che aveva avuto di lui. Pete gli rispose semiserio.
– Ho fatto… una specie di voto: quando la guerra finirà, me li farò tagliare, promesso.
Fabrizia si staccò da Jessica e insieme a lei si diresse verso i due fratelli, arrivando a sentire il loro scambio di battute.
– Sarà meglio che riusciamo a chiuderla in tempi brevi, allora, altrimenti ti dovrò insegnare a farti le trecce, bel pupone – ridacchiò, incontrando lo sguardo divertito di Tom, che lasciò il fratello maggiore per abbracciarla.
– Ciao, sorellina, sono felice di vederti qui – le disse accarezzandole la ciocca di capelli candidi, di cui sapeva già tutto.
Intanto Jessica, un po' intimidita, stringeva la mano di Pete che, fino a quel giorno, aveva visto solo un paio di volte via computer, pensando che di persona il maggiore dei due Richardson fosse pure più bello; ma anche Pete non poté fare a meno di notare la stessa cosa.
Jessica Del Rio, dal vivo, era ancora più carina: non era altissima, ma era proporzionata e snella, con lunghi capelli lisci di un nero corvino, la pelle chiara e due luminosi occhi azzurri. I suoi genitori, con lei, avevano creato l'incrocio perfetto: Filippo, a quarantasei anni, era alto e moro, anche se sfoggiava qualche filo d'argento nei capelli e nella corta barba curata; Anita aveva un paio d'anni in meno del marito ed era piccola, un po' rotondetta, con i capelli biondi e mossi, gli occhi azzurri, e un sorriso stupendo tutto fossette.
Briz sorrise quando i suoi compagni, in particolare Sanshiro, salutarono e abbracciarono Tom con calore.
Si ritrovò sommersa da una marea di emozioni e poi di nuovo da quella sensazione che rasentava l'irrealtà; si allontanò dagli altri di alcuni metri, guardando assorta la collinetta ad ovest della fattoria, con il sentiero che vi si arrampicava serpeggiando, sparendo poi oltre un gruppo di alberi verso la cima del crinale.
I suoi amici si accorsero subito del senso di straniamento che aveva colpito la ragazza. Pete e Daimonji le si avvicinarono, seguiti da Tom e dai tre Del Rio; Doc le mise una mano sulla spalla e cercò i suoi occhi, sapendo a cosa pensasse.
– Non so se avrò la forza di andare oltre quell'altura – confessò Briz.
Incontrò lo sguardo interrogativo di Pete, il quale passò quasi subito dall'incuriosito al consapevole.
– Briz… c'era… la tua casa, là. Vero?
La ragazza annuì silenziosamente. Filippo le si avvicinò e le disse:
– Non ti obbligherò mai a salire quel sentiero, se non vorrai, ma… sappi che, se decidessi di farlo, potresti trovare una sorpresa.
Briz si chiese quale sorpresa avrebbe mai potuto trovare nel luogo in cui, fino a non molto tempo prima, c'erano solo le macerie sotto le quali avevano trovato la morte suo padre e Alessandro. Lei non aveva mai visto i resti devastati della sua casa: non ne aveva mai avuto il coraggio e non si era mai vergognata di ammetterlo; ma il sorriso tranquillizzante e paterno di Filippo infuse in lei un po' di sicurezza.
– Una sorpresa, dici? Hai visto mai… Ho messo insieme una discreta riserva di coraggio, in quest'ultimo anno. Quasi quasi… potrei tentare di esorcizzare questa cosa.
Cercò di nuovo lo sguardo di Pete, trovandolo senza faticare, e a Filippo non sfuggì quella complicità; all'idea di affrontare una prova difficile come quella, Briz non aveva cercato sostegno in lui, Anita o Jessie, e nemmeno in Daimonji: l'aveva cercato nel pilota del Drago Spaziale, e l'aveva anche trovato.
– Vengo con te – disse semplicemente Pete.
Briz si guardò bene dal protestare: non aveva nemmeno preso in considerazione l'eventualità di non averlo al suo fianco, in quel frangente.
– Vi accompagnamo – disse Tom, prendendo per mano Jessica e facendo cenno a Fabrizia e Pete di seguirli.
Se, poco prima, Filippo aveva notato lo sguardo d'intesa tra Briz e il capitano Richardson, a questi ultimi non erano invece sfuggite le mani di Jessie e Tom, che si erano cercate e prese con meravigliosa spontaneità, come se fosse un gesto abituale. Anche Daimonji se ne accorse, e pensò fra sé: "Diavolo, i ragazzi Richardson subiscono il fascino dell'Italia, a quanto pare. E soprattutto delle sue abitanti".
A quel punto il dottore aveva gettato uno sguardo sconsolato alla sua amata figlioccia che parlava con Yamatake, e poi lo aveva spostato su Sanshiro, che a parecchi metri di distanza chiacchierava con Bunta; scosse la testa, addolorato per ciò che era accaduto tra loro. Midori ora lo chiamava quasi sempre papà, e lui si era sempre considerato tale, per lei… e voleva bene anche a Sanshiro. Non gli era dispiaciuto quando aveva scoperto che tra i due c'era qualcosa di più di un'amicizia, anche se lui stesso, dopo un certo periodo, si era accorto di come le cose non funzionassero nel modo giusto. E ora, dopo che Midori aveva conosciuto il suo passato e, in seguito, fatto scelte disastrose, fra i due giovani era finito tutto, fra l'altro in malo modo. Eppure, tutti e due soffrivano le pene dell'inferno, per questo, e si vedeva. Possibile che non ci fosse una soluzione? Scuotendo nuovamente la testa, un po' sconsolato, il dottore raggiunse gli altri ragazzi.
Jessie e Tom, nel frattempo, avevano guidato Fabrizia e Pete a un piccolo complesso di costruzioni in legno che sorgeva dietro la casa: alcuni box con dei cavalli, grandi recinti, persino un pollaio popolato di galline, oche e conigli; un paio di cagnoni meticci andarono loro incontro festosamente, annusandoli, e Fabrizia si lasciò volentieri travolgere dal loro entusiasmo: Thor e Loki l’avevano immediatamente riconosciuta!    
Dal capannone annesso, che conteneva un paio di auto, un trattore e altri macchinari agricoli, Tom e Jessica tirarono fuori due moto da enduro alquanto datate. In una di queste, Briz riconobbe quella che era appartenuta a lei e Ale e, preso il coraggio a due mani, montò in sella senza più esitazioni; accese il motore e Pete fu rapido a salire dietro di lei, mentre gli altri due facevano lo stesso con l’altro mezzo, ma con Tom alla guida.
Nel giro di un paio di minuti, le moto si inerpicavano per il sentiero, lungo il fianco scosceso del basso colle. A un certo punto lo sterrato scendeva appena infilandosi in un boschetto, al centro del quale una radura, ombreggiata dai lunghi rami degli alberi, ospitava dei tavoli di legno da pic-nic, un grande camino in pietra per la cucina alla griglia e una baita di legno di dimensioni modeste, ma che sembrava, così a occhio, molto ben attrezzata. Più defilata, un'ampia tettoia era adibita ad ospitare fino a una decina di cavalli, con tanto di mangiatoie e impianto per l'acqua. Sulla sinistra il sentiero risaliva uscendo dal boschetto, attraversato da un ruscelletto sormontato da un basso ponticello di legno, che mormorava allegramente e che, prima di continuare a scorrere giù per il fianco della collina, formava una piccola pozza più profonda e ferma, di un verde cristallino.2
– Io e Ale, da bravi appassionati di romanzi fantasy, chiamavamo questo posto Il rifugio degli Elfi – spiegò Briz – In realtà il motivo della sua esistenza è molto più pratico: è una tappa quasi obbligata per i gruppi che d'estate praticano trekking a cavallo, a cui i miei genitori glielo affittavano. Ora ci pensano i Del Rio, ma quando non era impegnato a tale scopo, io, Ale, Jessica e altri amici venivamo a farci campeggio, da ragazzini. Facevamo il bagno alla pozza e alla notte dormivamo nella baita: ci sono otto posti nei letti a castello lì dentro. Io e mio fratello ci abbiamo festeggiato tutti i nostri compleanni, finché lui… c'è stato.
Pete percepì la nota di tristezza, mentre Briz si sbrigava ad accelerare dietro agli altri due: non voleva lasciarsi prendere dalla nostalgia per quei luoghi. Si concentrò sulla sensazione che le davano le braccia di Pete attorno alla vita e il calore del suo corpo, solido e rassicurante, dietro di lei; poi pensò che anche quella fosse una cosa alla quale non doveva affezionarsi troppo.
All'improvviso il sentiero uscì dalla folta macchia di alberi e li condusse in un baleno sul crinale. Briz fermò la moto, tenendo lo sguardo sul cruscotto; smontò e si costrinse a fare due passi, affrontando l’inevitabile.
Il cuore le mancò un paio di battiti quando guardò in giù, nella piccola conca, dove era sempre stata la sua casa.
Ma com'era possibile? La fattoria… c’era!
Era lì, al solito posto, dove lei l'aveva sempre ricordata: grande, massiccia e intatta, con le mura di pietre a vista grigio chiaro e… nuova! Si sentì quasi barcollare, e si costrinse a respingere le lacrime di commozione, ma si rese conto di non esserci riuscita quando sentì che Pete, avvicinatosi a lei, le passava su una guancia il dorso delle dita e raccoglieva una solitaria goccia luccicante.
– Ehi… la sorpresa di Filippo è riuscita, eh? – le disse all'orecchio, passandole da dietro un braccio attorno alle spalle.
– Altroché – ansimò lei, senza riuscire a distogliere lo sguardo dall'edificio – Oddio, Jessie, ma che è saltato in mente a tuo padre?
– Niente di così strano, Briz – le spiegò la ragazza, avvicinandosi insieme a Tom – Papà e mamma vogliono aprirci un Bed & Breakfast, quello che sarebbe stato il sogno di tua mamma Serena e che purtroppo, per forza di cose, non si è mai concretizzato. I miei hanno pensato che non avesse senso perdersi nel ridisegnare di sana pianta il progetto di un edificio nuovo, quando quello della vostra vecchia fattoria sarebbe stato perfetto. Io… spero che non ti dispiaccia.
– Ma che dici? Come potrebbe mai dispiacermi vedere realizzato ciò che la mamma sognava? È… bellissimo. Soprattutto per il fatto che siate stati capaci di lavorare a tutto questo, nonostante la situazione che stiamo vivendo.
– Cerchiamo di continuare a vivere, come fa, per fortuna, la maggior parte della gente, perché pensiamo che sia anche un modo per far sentire a voi, agli eserciti dell'Alleanza Terrestre, e a chiunque combatta per difendere la Terra, che abbiamo fiducia in quello che fate, nel vostro impegno… e nel futuro, perché voi siete i nostri eroi e salverete questo pianeta. E papà vuole che tu sappia una cosa: non abbiamo idea di cosa sceglierai di fare quando questa guerra sarà finita… forse nemmeno tu ce l'hai… ma qui, in questa casa ricostruita, ci sarà sempre un posto per te, ogni volta che vorrai tornare… che sia per un po' o per sempre; da sola… o con chi vorrai tu – concluse Jessica, sbirciando di sottecchi il braccio di Pete che ciondolava ancora con naturalezza sulla spalla di Fabrizia.
– Maledizione, Jessica Del Rio, gli eroi non siamo noi: siete voi… – sussurrò quasi a sé stessa.
– Senti… – cominciò Tom, impacciato, sedendosi sull’erba imitato dagli altri – c'è qualcosa che forse dovreste sapere…
Pete si lasciò sfuggire una risatina e scambiò un'occhiata con Briz, che aveva avuto la stessa reazione.
– Che fra voi due c'è del tenero? Non per rovinarvi la sorpresa, ma si vede lontano un miglio.
– Cavoli, davvero? – fece Tom, rivolto a suo fratello.
– Davvero, e se me ne sono accorto persino io, figurati gli altri. A parte che mi ricordo il tuo primo messaggino a Briz, che lei si degnò di farmi leggere dopo ben tre mesi che eri arrivato qua, e io non sapevo nemmeno dove fosse, il qua. Comunque c'era scritto: "Perché non mi avevi detto che J. è così incredibilmente bella?" 
– Cosa? – fece Jessica sbalordita, guardando Tom – Già il primo giorno mi avevi… adocchiata?
– Ehm, no, in realtà… già il primo giorno ero innamorato perso.
– Tu stai diventando sempre più italiano, ogni giorno che passa! – disse la ragazza, schioccandogli un bacio su una guancia.
– Però, scusate… – indagò Pete – non so perché, ma ho come la strana sensazione che non fosse solo questo, che vorreste dirci.
– Diglielo, Jess – bisbigliò Tom all'orecchio della fidanzata.
– Bontà divina, Jessie! Non sarai mica… – cominciò Briz, allarmata.
– …incinta? No! Certo che no, cosa vai a pensare! – la tranquillizzò Jessica, avvampando.
– E che ne so, cosa vado a pensare! Sembra che nascondiate qualcosa di terribilmente importante, e che per qualche motivo dovrebbe… non so… turbarmi? Sconvolgermi?
– In realtà non sapevo se dirtelo o no… Non credo che ti dispiacerà, ma probabilmente ti rattristerà, o commuoverà. È una cosa di quasi tre anni fa e non te l'ho mai detta, perché allora eri… annientata dalla perdita di Alessandro.
– A dire la verità, tu non sembravi meno devastata di me, ma posso capirti: eravamo come tre fratelli…
– Ecco, è proprio questo il punto – la interruppe Jessie, avvicinandosi e accarezzandole una guancia – Per me Ale non era… un fratello; così come io non ero più una sorella, per lui.
Quelle parole colpirono Briz come un fulmine.
– Co… cosa? Tu… e Ale? Ma che… da quan… Oddio, Jessie! – balbettò Fabrizia senza alcuna coerenza – Ma perché non me lo avete detto?
– Ci eravamo messi insieme solo da un paio di settimane, e ci divertiva fare gli innamorati segreti, vederci di nascosto… Te lo avremmo detto nel giro di poco, solo che… non ci è stato concesso. E dopo… non ne ho avuto più il coraggio.
– Ti sei tenuta tutto dentro? Jessie, avevi solo sedici anni! Come hai fatto?
– Papà e mamma sapevano: sono stati loro a dirmi di non schiantarti ulteriormente con questa notizia, sapevamo che avresti finito per accollarti anche il mio dolore, ancora più di quanto già facessi.
– Oh, Dio… io non avrei mai immaginato… Ma hai ragione: non so se allora sarei riuscita a sopportare il fatto che tu… soffrissi anche per quello.
– Soffrivamo tutti, Briz: io, te, papà e mamma… È stato un periodo dolorosissimo e orribile per ognuno di noi. E poi, un giorno, te ne sei andata anche tu, per andare in Giappone a combattere con Balthazar. Ti capivo, anzi ero fiera di te, ma lo ammetto, non mi ero mai sentita così sola e disperata. Poi, l'anno scorso… mi hai mandato Tom… – Jessie cercò una mano del ragazzo, che intrecciò le dita con le sue, mentre lei proseguiva – …e con lui ho capito che sarei riuscita, non a dimenticare Alessandro, perché non potrò mai farlo, ma… a collocare il suo ricordo nella giusta prospettiva. Io non credo… insomma, spero di non avergli fatto un torto, innamorandomi di Tom. E spero di non farlo nemmeno a te.
Briz non riuscì a proferire parola per un po', poi abbracciò la sua amica-sorella.
– È di questo che ti preoccupi? Che amare Tom possa essere, ai miei occhi, un tradimento nei confronti di Ale? Oh, Jessie, no! Ale non c'è più… non qui in questo mondo, per lo meno. Lo abbiamo pianto a sufficienza, tutti; e se lo conosco bene, lui non vuole più vederci piangere! Non crederai che, da dov'è ora, lui possa desiderare di vederti sola per il resto della tua vita! Hai diciannove anni, santo cielo, e lui è là da qualche parte, insieme a papà e mamma, a proteggerci e ad augurarci felicità e lunga vita.  
E a quel punto, un pensiero improvviso fulminò la mente di Fabrizia.
– Adesso ho capito! – esclamò.
– Che cosa, Briz? – le chiese Pete.
– Meno di un anno fa, la sera del mio compleanno, quando mi trovasti in lacrime alle scuderie, ti raccontai che Ale, nelle ultime due settimane della sua vita, mi era sembrato più allegro e spensierato del solito, e non avevo mai capito perché. Ora lo so… Era per te, Jessie: era felice perché era innamorato!
Jessica non rispose, sorrise e si strinse di più a quella che per lei era come una sorella più grande.
Tom si alzò, scambiando un'occhiata con il fratello che lo imitò, e si allontanarono di pochi passi, lasciando le due ragazze a coccolarsi un po'. Pete guardò Tom, e non poté fare a meno di pensare che il suo fratellino, stavolta, fosse davvero diventato grande. Al giovane che gli stava di fronte, non sarebbe mai venuto in mente di fare la stupidaggine di un anno prima.
– Non sono stato un granché, come fratello maggiore – confessò Pete, senza guardarlo.
– Avevi le tue ragioni, e comunque non mi hai fatto mancare nulla.
– A parte l’affetto…
– Pete, basta, ne abbiamo già parlato. Avevi solo vent’anni, hai fatto del tuo meglio; e lo stai facendo anche ora: rischi la pelle tutti i giorni e… io sono orgoglioso di te, da sempre.
– Anch'io lo sono di te. Guardati un po': il futuro dottor Thomas Matthew Richardson. E ti sei pure scelto una ragazza da urlo: brava, saggia e bellissima.
– Beh, quello anche tu – disse Tom maliziosamente, con un impercettibile cenno del capo verso Briz.
– Tom, chiariamo subito: ne ho già abbastanza di Yamatake, di Sanshiro e persino di Sakon, con queste insinuazioni. Dacci un taglio subito e chiudiamo l'argomento.
– Come vuoi; tanto un giorno verrai da me, a dirmi che avevo ragione. Ce l'avevo già un anno fa, se è per questo, quando dicevo che lei era il microonde che ci voleva per scioglierti il cuore. Okay, sto zitto, tiro il freno, basta – concluse, vedendo l'espressione accigliata e fintamente minacciosa di Pete e facendo il gesto di chiudersi la bocca con una cerniera lampo.
Le ragazze si avvicinarono e Briz infilò un braccio sotto a quello di Pete, mentre Jessie faceva lo stesso con Tom. Fabrizia sollevò l'altra mano e indicò all'amico una collina proprio di fronte a loro, a sud della casa in pietra, non lontana ma piuttosto alta.
– Vedi quel pascolo verde, al di sopra della macchia di alberi? Ero lì, quel giorno.
Pete non ebbe bisogno di chiederle a quale giorno si riferisse: anche se era passato quasi un anno, dal suo racconto di come lei si fosse salvata dall'attentato alla sua famiglia, lui ricordava tutto.
– Lì, all'interno di quella grande collina, c'è il laboratorio che conteneva Balthazar – proseguì Briz.
– Ci sono davvero andati vicino, quei mostri – disse lui a voce bassa.
– Ma non abbastanza – replicò lei, dura – Io non sono schiattata! E adesso se la devono vedere anche con me: armata, tosta e incazzata!
– Whoa! Fossi in loro, non starei tranquillo – replicò Tom.
– Seh, mi sembra di vederlo, lo schifoso generale Ashmov: “Uh, paura mi fai, piccoletta!” 
– Beh, ormai ti conosco bene; nei suoi panni, non ti sottovaluterei – aggiunse Pete.
Quello scambio di battute strappò una risata leggera a tutti e quattro; la tensione si sciolse, e Jessica andò a prendere la moto prima di rivolgersi a Fabrizia.
– Te la senti di scendere a vedere da vicino?
– Perché no? A questo punto, facciamola compiuta! – esclamò Briz, avvicinandosi all'altra moto.
Poi si voltò verso Pete e gli disse a voce bassa:
– Posso chiederti un favore?
– Certo che puoi.
– Guida tu, ti prego.
– Tutto qui? Okay – concordò lui, montando in sella.
Briz salì dietro, senza una parola. Poteva anche essere armata, tosta e incazzata, e aver deciso di non lasciarsi andare a certe tentazioni, e non baciarlo più; ma in quel momento, aveva disperatamente bisogno di una scusa per abbracciarlo.
 
* * *
 
Quando le due coppie erano tornate alla fattoria dei Del Rio, avevano trovato Anita e Filippo che allestivano tutto, in giardino, per una cena in piedi, a base di panini e salsicce alla griglia. Briz, sempre più stranita, aveva dato una mano, aiutata nientemeno che da Yamatake che era, neanche a dirlo, il più entusiasta di assaggiare la cucina italiana.
– Briz, cos'è la roba in questo cestino? – chiese il ragazzone, indicando una focaccia sottile, di colore pallido e con piccole macchie marroni, tagliata a triangoli.
– Quella è una specialità dell'Emilia-Romagna, la regione da cui, fra l'altro, veniva mia nonna Doralice: era di Ravenna.
– Ravenna? Dove hanno regnato Teodorico, Giustiniano e Teodora? La città dei mosaici bizantini? Vuoi dire che tu li hai visti? – chiese di nuovo Pete, dimostrando ancora una volta la sua passione per la storia e l'arte antica.
– Se li ho visti? Senza nulla togliere a Firenze, che a livello artistico non ha nulla da invidiare a nessuno, Ravenna era la mia seconda città. E i mosaici… dire che sono meravigliosi è poco.
– Tornando alla focaccia, – fece Yamatake con la bocca piena – è una vera figata! Come si chiama?
– Piadina romagnola. Ma non chiedermi di cucinartela a Omaezaki: sono una pessima cuoca.
– Questa sì che è una stranezza: un'italiana che non sa cucinare! – esclamò Pete, prendendola un po' in giro.
– Già, quasi come un americano con sangue nativo che non sa andare a cavallo.
– Non ci provo nemmeno più, ad avere l’ultima parola con te – rise lui.
– Ragazzi, stasera è il trenta giugno! – annunciò Briz poco dopo, sollevando un bicchiere che conteneva un pochino di vino bianco – Direi di fare gli auguri a Sanshiro, che compie ventisei anni!
Sanshiro in realtà non aveva molta voglia di festeggiare, ma l'entusiasmo della sua amica lo contagiò, e finì per accettare di buon grado gli auguri e anche alcuni schioccanti baci sulle guance da parte di Briz, Jamilah e perfino Jessie.
Jamilah mise al polso di Sanshiro il loro regalo: un braccialetto di cuoio intrecciato, simile a quello che avevano regalato a Briz, al quale era agganciato, in acciaio cromato, il simbolo dell'infinito. Lo sguardo del ragazzo finì, inevitabilmente, su Midori, che se ne stava leggermente in disparte, appoggiata a uno steccato, e che riuscì a regalargli un lieve sorriso, che però non arrivò a coinvolgere gli occhi: lo sguardo era triste, almeno quanto lo era stata quell'espressione forzata sulle sue labbra. E lui, guardando il regalo degli amici, per il quale Midori aveva sicuramente messo una quota, non poté fare a meno di pensare che il caccia da guerra della ragazza si chiamava proprio così: Infinity… quello che loro due, e la loro storia, non sarebbero mai stati.
A quel punto intervenne Pete, a spezzare quello strano senso di commozione, cambiando argomento.
– So che c'è chi dice porti sfortuna fare gli auguri in anticipo, ma io sono troppo pratico e materiale per essere superstizioso, e siccome fra quattro giorni noi saremo di nuovo in Giappone, vorrei augurare buon compleanno anche al mio fratellino, che il quattro luglio compie vent'anni.
– Allora te lo ricordi, in che giorno sono nato! – fece Tom, rammentando il loro dialogo di un anno prima.
– L'ho sempre saputo, stupidone – disse Pete, arruffandogli i capelli – È il giorno della festa dell'Indipendenza americana, sarebbe difficile dimenticarlo – lo provocò poi, proprio come aveva fatto Briz un anno addietro con lui, quando sull'argomento avevano, come al solito, litigato.
– Tanto lo so che è solo per questo che te lo ricordi! – rise infatti Tom, stando al gioco.
– Non ho un regalo, però. Non potevo certo immaginare che oggi sarei stato qui – gli disse Pete, rammaricato.
– Ed è questo, il regalo: averti qui, Pete.
– Ehi, vuoi farmi commuovere?
– A te? La vedo dura.
– Meno di quel che credi – ghignò Briz.
A quel punto Fan Lee, sollevando il suo bicchiere che, come quello di Briz, conteneva ben poco di quell'ottimo prosecco, poiché nessuno di loro era abituato a bere, disse: – Io vorrei spendere due parole per la nostra amica Midori. È vero, oggi in battaglia è stata piuttosto avventata, ma per questo è già stata redarguita ampiamente. Ciò a cui voglio brindare è il suo coraggio, poiché il suo aiuto è stato fondamentale, e voglio spingerla ad imparare ad usare questa sua audacia in modo giusto e meditato. Il vero coraggio non è mancanza di paura, Dori; ma aver paura, e saperla dominare. Altrimenti non è più coraggio: è incoscienza.
Midori si avvicinò agli amici e accostò il suo bicchiere a quello dell'amico cinese.
– Ah, Fan Lee! Adoro i tuoi ragionamenti da meditazione zen. Hai ragione: cercherò di fare come mi hai consigliato, te lo prometto, ma… sappiate che da oggi, ho un nuovo motto, con cui affrontare la vita: “Vado dove mi porta il fegato. Perché con il cuore… ho fatto davvero un casino!” 
Mentre pronunciava quelle parole, che suonavano da un lato un po' spavalde e dall'altro un po' rassegnate, e che strapparono, nonostante tutto, un sorriso ai suoi amici, i suoi occhi furono inesorabilmente attratti da quelli di Sanshiro. Il modo in cui la guardò le fece venire voglia di piangere: il giovane aveva un'espressione tra il perplesso e il divertito, come se avesse quasi apprezzato la sua battuta. Midori bevve l'ultimo sorso di vino, poi posò il bicchiere su un tavolino e si avvicinò a Briz e Doc.
– Mi sta venendo un mal di testa bestiale, ho bisogno di fare due passi per schiarirmi le idee, scusatemi.
– Dori, sei sicura di non aver bevuto troppo? – le chiese Daimonji.
– Ma vuoi scherzare, papà? Non ho bevuto niente più di tutti voi, ho solo bisogno di allontanarmi un po'.
Da chi avesse bisogno di allontanarsi, non era nemmeno troppo sottinteso, ovviamente: anche per Daimonji era chiaro.
– Midori, non credi che… – cominciò Briz.
– Mi ha già detto che sono fuori tempo massimo – la interruppe l’amica, intuendo dove Briz volesse andare a parare – Sanshiro è un treno che ho perso, dovrò rassegnarmi, in qualche modo – rispose Midori e, afferrando il suo zainetto, si incamminò, seguita dagli sguardi pensierosi di Doc e Briz, ma anche da quello di Sanshiro.
– Dori! – la chiamò Briz – Se arrivi al Rifugio degli Elfi, sta' attenta alla ringhiera del ponticello: oggi ho visto che ha un palo rovinato, cerca di non cadermi a mollo, eh?
Midori annuì e sorrise; era un po' fusa, okay, ma non fino a quel punto! Briz le aveva parlato tante volte del Rifugio, le sembrava quasi di esserci vissuta, ma non pensava che ci sarebbe arrivata; aveva solo un disperato bisogno di fare due passi e stare da sola.
No, non era vero, naturalmente: aveva un disperato bisogno di Sanshiro, per questo doveva assolutamente allontanarsi da lui.
Un ragionamento di una coerenza perfetta.
 
* * *
 
La notte era arrivata lentamente da est, e Anita e Filippo avevano acceso i lampioni da giardino. Briz si diresse alle scuderie per vedere i cavalli dei Del Rio e si imbatté in Sanshiro, che scrutava pensieroso il sentiero lungo il quale si era incamminata Midori.
– Se sei preoccupato per Midori, tranquillizzati: non c'è nessun pericolo all'interno della proprietà – gli disse un po' dura.
– Per quale motivo dovrei preoccuparmi? – sbottò lui, altrettanto brusco.
– Perché sei ancora innamorato di lei? – suggerì Briz a bruciapelo.
Gli prese il viso tra le mani e proseguì più dolcemente:
– Sanshiro, mio bel somarone, apri bene le orecchie e ascoltami: io ti voglio bene, non puoi nemmeno immaginare quanto, ma voglio bene anche a Midori. È vero che lei ha commesso una marea di errori madornali, nel gestire la storia con te, non ne discuto! Ma è vero anche che tu continui a farle capire chiaramente che non gliene perdonerai mai nemmeno uno. Sei sicuro che sia giusto? Hai sentito quello che ha detto prima…
– Sì, che “va dove la porta il fegato, perché col cuore ha fatto un casino”… Ma c'entra davvero il cuore, nel disastro che ha combinato?
– Ah, non lo so! Dimmelo tu, visto che è proprio qui, che volevo arrivare: io ci indagherei sopra, fossi in te. Siamo esseri umani, Sanshiro, anche quando veniamo da un altro pianeta; a volte sbagliamo, ma possiamo essere anche abbastanza assennati da imparare, dai nostri errori e cercare di non farli più.
– Ho paura che sia come ha detto Midori: è un treno che ormai è passato – sospirò lui.
– Allora, per quel che può valere, posso regalarti una delle mie perle di saggezza, circa quel famoso treno? Lui potrà anche essere passato, ma ci sono cose, nella vita, per le quali vale la pena farsela a piedi. Midori lo è? È una di queste cose?
Sanshiro la guardò pensoso, con quei meravigliosi occhi di un castano scuro, caldo e luminoso.
– …se mi manda al diavolo…? – chiese, incerto.
– Visto come l'hai trattata tu ultimamente, temo sia un rischio che dovrai correre; ma almeno ci avrai provato e, dopo, non avrai più niente da rimproverarti.
Sanshiro annuì, in silenzio. Poi strinse Briz in un abbraccio affettuoso.
– Grazie, Cuordileone, ti adoro! E… sì, vale la pena di provare a farsela a piedi, per lei – affermò, staccandosi dalla ragazza e facendo per infilare il sentiero lungo il quale Midori era sparita da almeno tre quarti d'ora.
– Ehi, innamorato! – lo richiamò Briz divertita, facendo un cenno della testa verso la rimessa – Il farsela a piedi era metaforico: se prendi una moto, la raggiungi prima.
Sanshiro si bloccò, guardò la rimessa e tornò sui suoi passi.
– Giusto! La moto… Già! – bofonchiò impacciato, prima di appropriarsi di uno dei due mezzi, accendere il motore e sparire in pochi istanti dietro la prima curva dello sterrato, al di là degli alberi.
Briz si accorse di essere accaldata; tornò a prendere da bere e decise di strafare un po', concedendosi una bottiglietta di birra fresca, poi si diresse di nuovo verso le scuderie, dove poco prima aveva intravisto Jessica, per vedere i cavalli. Sulla porta della costruzione in legno, scorse Pete che stava per fare la stessa cosa: lo vide dare un’occhiata dentro, indugiare per qualche istante, e infine girarsi per tornare indietro.
– Che c'è, Pete, non sei convinto di entrare? Sono solo cavalli, come i nostri due a Omaezaki.
Si guardarono per un attimo, consapevoli di come fosse suonata quella frase, ma soprattutto quella parola: nostri. Da quando avevano cominciato a considerare Indy e Obi-wan una proprietà comune? Decisero entrambi che fosse meglio glissare su questo pensiero.
– No, è che… non voglio disturbare Tom e Jessie – rispose lui.
– Uh… Stanno parlando di cose importanti?
– Prima, forse. Li ho sentiti ridere, ma ora non stanno proprio… parlando, ecco – disse lui, alzando gli occhi al cielo.
Briz allungò lo sguardo dietro di lui, oltre la porta: Tom e Jessica erano appoggiati alla parete di legno di un box e si baciavano dolcemente, accarezzandosi il viso, e i capelli. Erano totalmente persi l'uno nell'altra e lei si sentì venire il batticuore: erano così belli… e teneri. I due si staccarono e continuarono a guardarsi e sorridersi.
 
Jessica-e-Tom
 
A Briz sembrarono incredibilmente giovani… ma perché, poi? In fondo avevano solo due o tre anni meno di lei. Cavolo, cominciava davvero a sentirsi vecchia a ventidue anni scarsi? Fu assalita da un impellente bisogno di… leggerezza, tenerezza, spensieratezza, dolcezza. Troppi ezza, decisamente! Scrollò la testa per riscuotersi e tese a Pete la bottiglietta di Beck's. 
– Ne vuoi un po'? Fa caldo ancora, ma io non la finisco.
– Briz, renditi conto: con tutto quello che sai di me, di mio padre e tutto… mi offri della birra? Non che bevessi molto nemmeno prima, ma ho smesso ogni tipo di alcolico, dopo quello che sai. Ai brindisi per Sanshiro e Tom, prima, ho bevuto dell’aranciata.
– Allora, bello mio, parliamone. Punto primo: ti ho offerto una mezza bottiglia da trentatré centilitri di Beck's, non una pinta di Jack Daniel's! Nemmeno un dodicenne si ubriaca con questa! Secondo: abbiamo mangiato come trichechi, più che a sufficienza per attutire questo ridicolo fondo di birra. Terzo: abbiamo scoperto da George che tuo padre non solo non aveva il vizio di bere, ma anche che, se era costretto a farlo, reggeva l'alcool come nessuno. Sei suo figlio, Richardson: se tanto mi dà tanto, ci vuole ben altro per farti perdere la testa!
Pete valutò le argomentazioni della ragazza, e non trovò nulla con cui ribattere.
– Odio quando riesci a essere così convincente – esclamò, prendendole la bottiglietta dalle mani e finendo in poche sorsate la birra fresca che era rimasta.
– Oh, wow, sì! Avevo dimenticato quanto fosse buona! – sospirò, passandosi il dorso di una mano sulle labbra e rendendole il vuoto.
– Ogni tanto non è poi così male, infrangere le regole, no? – disse la ragazza, pensando che il Capitano Richardson, quando si lasciava un po' andare, era meravigliosamente irresistibile.
Guardò verso il sentiero, dove Sanshiro era sparito con la moto, e cambiò argomento.
– Chissà se quei due riusciranno a risolvere, con le teste che hanno! Però ci spero.
Pete capì chi fossero i soggetti sottintesi, anche perché aveva sentito ciò che Briz aveva detto a Sanshiro.
– Anch'io, devo ammetterlo. È carina la storia del treno perso e del farsela a piedi.
– Sì, beh, mi è venuta bene… Son brava, eh? – disse lei, appoggiandosi allo steccato e guardando fra gli alberi, dove avevano cominciato a lampeggiare decine e decine di piccole luci.
– Guarda, Pete! Lucciole! Da quanto tempo non vedevi uno spettacolo così bello?
Pete osservò incuriosito i piccoli punti luminosi, ma poi spostò gli occhi sulla ragazza accanto a lui.
– A dire la verità… non molto – rispose a voce bassa.
Briz si voltò appena, come attirata dal suo sguardo e lui le accarezzò il volto e poi la ciocca bianca, affascinato dal disegno perfetto delle sue labbra.
– Sai… ci sono altre cose buone, delle quali ho dimenticato il sapore.
Briz non rispose. Sapeva che avrebbe dovuto farlo, forse anche con una certa durezza, visto che aveva capito perfettamente cosa intendesse Pete, ma non ci riuscì.
– Voglio baciarti, Briz – proseguì lui, tanto per chiarire.
– Anch'io… – sussurrò lei, maledicendosi per aver parlato di regole da infrangere.
Pete abbassò appena il viso verso il suo, ma si ritrovò con l'indice di Briz sulle labbra.
– No, no, ti prego! Dai, facciamo i bravi, abbiamo deciso, rammenti?
– Sì, lo so… Okay, facciamo i bravi – sospirò Pete, frustrato, indietreggiando di un passo, mentre Fabrizia faceva lo stesso.
Lo sguardo che si scambiarono fu talmente caldo e intenso, che diede loro la stessa emozione di un bacio.
E poi… con un ultimo, scanzonato sorriso, Briz gli voltò le spalle e col suo passo, agile e disinvolto, si allontanò, piantandolo lì come un idiota. Di nuovo! Quante volte era successo, ormai? Aveva perso il conto.
– Gnn, maledizione! – imprecò Pete fra i denti, mollando un calcio a un palo dello steccato – Hai ragione, non serve una Beck's del cavolo! Ma tu basti e avanzi, dannata streghetta, per farmi perdere la testa!
Si appoggiò coi gomiti alla recinzione e chinò il capo, passandosi le dita fra i folti capelli, nel suo solito gesto di quando era nervoso o esasperato, e se ne rimase lì, a guardare le lucciole che danzavano nel buio.
Tom e Jessie, fermi sulla porta della scuderia, si scambiarono uno sguardo perplesso.
– Tommy, amore mio… ma perché diavolo i nostri fratelli grandi si incasinano la vita in questo modo?
– Bella domanda, tesoro. E qualcosa mi dice che sono in parecchi, a chiederselo!3 
 
> Continua…
 
 
                                                           
 
Il capitolo è stato scritto una vita fa, quindi l’insana idea di far venire il Drago Spaziale in Italia, è mia. Quella di far partire l’allarme da un’insolita attività dei Campi Flegrei, invece, mi è stata data dalla solita Morghana, che ho scoperto essere più pazza furiosa di me, e neanche di poco. Ma siccome, come ho già detto a suo tempo, mi sento in debito con lei per essere stata la ragione grazie alla quale ho conosciuto EFP, (e di conseguenza anche tante altre persone simpatiche a cui voglio bene, tra le quali i miei recensori,) un altro piccolo omaggio se lo meritava. Un po’ perché questa squinternata mi cita continuamente nelle sue storie, e mi dedica one-shot demenziali dicendo che gliele ispiro, ma soprattutto perché lei è originaria di questa bellissima terra.
Quindi, Morghana, goditi il Drago Spaziale sul cielo di Napoli.

 
Anche l’idea di far diventare Midori una guerriera viene da me. Mi ero un po’ stufata di vederla sempre e solo alle prese con computer e telecomunicazioni. Aveva già dimostrato in più di un’occasione, nella serie, di essere perfettamente in grado di affiancare i compagni in combattimento. E se Sanshiro ne sarà felice o meno, di questa sua scelta, lo vedrete presto.
 

 2 Il Rifugio degli Elfi: questo posto mi è stato ispirato da un luogo davvero esistente, nei pressi di un maneggio a Marradi (comune che, anche questo, esiste davvero, in provincia di Firenze, anche se si trova sul versante romagnolo dell'Appennino).
Boscombroso, invece, lo ha partorito la mia mente bacata.
 
3 Perché Fabrizia e Pete si incasinano la vita…
Sì, come dice Tom, sono in parecchi a chiederselo. In particolare i lettori di questa storia… e forse anche la sua stessa autrice! Quindi, non fate domande. Non penserete mica che io abbia le risposte?

 
Per quanto riguarda Tom, che nell'anime sembrava un quindicenne, io ho voluto farlo un po' più grande. Il disegno è stato rifatto ora, nel 2023, perché quello di cui parla The Blue Devil nella sua recensione era davvero bruttino... questo invece mi piace molto di più!  :D

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Capitolo 38
*** 37 - Kintsugi ***


~ 37 ~ 
KINTSUGI

 
“Take my hand, tonight,
Let’s not think about tomorrow
Take my hand tonight
We can find some place to go
Cause our hearts are locked forever
And our love will never die.
Take my hand tonight
One last time.”
(Simple Plan – Take my hand)

 
 
Sanshiro arrivò con la moto in un posto che sembrava uscito da un romanzo fantasy: una baita, una tettoia per i cavalli, un camino di pietra, tavoli di legno.
La luce del chiaro di luna era talmente vivida che filtrava tra i rami degli alberi, creando macchie luminose; innumerevoli lucciole contribuivano, con le loro luci fluttuanti, a creare un paesaggio fiabesco.
Su uno dei tavoli, il ragazzo notò lo zainetto colorato di Midori. Spense la moto e smontò, dirigendosi fuori dagli alberi, dove un basso ponticello sormontava un piccolo torrente.
Midori era lì, chinata in avanti, i gomiti appoggiati alla ringhiera di legno, i lunghi capelli castano chiaro appena mossi dalla calda brezza estiva, con indosso i suoi calzoni azzurri di cotone leggero e la camicetta a fiorellini senza maniche. Lo guardò per un attimo, come intimorita, poi tornò a rivolgere l'attenzione all'acqua che ruscellava sui sassi arrotondati e che scorreva poco sotto di lei; Sanshiro pensò di non aver mai visto niente di così vicino alla perfezione.
Midori aveva sentito il rumore della moto e, sulle prime, si era spaventata, pur sapendo che non c'erano pericoli in quella zona; poi aveva riconosciuto Sanshiro e si era tranquillizzata, finché non lo aveva visto scendere dalla moto e venire verso di lei. Il senso di inquietudine l'aveva riassalita: che diavolo ci faceva lì? Cosa voleva da lei? Era tornata a guardare l'acqua, sapendo che non sarebbe riuscita a sopportare un altro alterco con lui.
Poi decise di non farsi prendere in contropiede: si raddrizzò e lo guardò fermarsi di fronte a lei, al centro del ponte, bellissimo e serio, con la camicia bianca a maniche corte tenuta fuori dai jeans neri. Parlò per prima, determinata a non farsi più mettere sotto: gli aveva già chiesto perdono, e aveva ancora un po' di dignità; già le pesava e la feriva sopportare il cuore spezzato, ma anche l'umiliazione, proprio no.
– Se sei venuto a sgridarmi un altro po' per la mia incoscienza, ne ho avuto già abbastanza. E se è… per l'altra cosa, allora ti prego, basta anche lì. Ti ho già detto a suo tempo che mi dispiace, ma non ho più voglia di chiedere un perdono che non otterrò; abbi misericordia.
– Dori, io… – cominciò lui, incerto.
Dori? Da quanto tempo non sentiva la sua voce chiamarla così? Sospirò, al pensiero di come il suono di quel diminutivo, pronunciato da lui, la facesse sentire bene; le parole con cui Sanshiro proseguì riuscirono a sorprenderla.
– Senti… sono io che devo chiederti scusa. Mi dispiace per come ti ho trattata in questi ultimi tempi; hai commesso degli errori, ma capisco che tu abbia anche passato dei momenti terribili, e… so di averteli resi ancora più difficili.
Midori lo guardò a bocca aperta, letteralmente sconvolta: tutto si sarebbe aspettata, ma non questo. Possibile che dicesse sul serio?
– Midori, tu… avrai anche combinato un casino, okay, ma io cosa ho fatto per impedirtelo? Un bel niente. Ti ho accusato di aver fatto tutto da sola, di avermi escluso dalle tue decisioni, ma io… te l'ho lasciato fare, in fondo. La verità è che forse mi sarei dovuto arrabbiare con te molto tempo prima di lasciarci, invece che dopo; avrei dovuto trovare un modo per metterti con le spalle al muro e convincerti a confidarti con me; avrei potuto…
– Sì, certo, avresti potuto, avresti dovuto… dove andiamo col senno di poi? Non tormentarmi così, Sanshiro! Se sei qui per illudermi e poi darmi un'altra staffilata, ti avviso che stavolta non riuscirei a sopravvivere! Non ce la posso fare, ti prego! – esclamò accorata, rendendosi poi conto di cosa stesse dicendo.
Era pur sempre Sanshiro, che aveva di fronte, e lui non era né vendicativo, né perfido: pur offeso e ferito, non avrebbe mai fatto niente del genere, lo sapeva.
– Tu… non devi chiedermi scusa. Sono stata io a lasciarti, e ho fatto apposta a farlo in quel modo crudele e stupido.
– Ma perché? È questo che non riesco a spiegarmi. Mi hai persino accusato di voler solo portarti a letto! Se avessi voluto solo quello, pensi davvero che avrei avuto la pazienza di aspettarti più di sei mesi? Non abbiamo mica quindici anni, Dori! Mi sarei stufato prima, e avrei cercato altrove quello che tu non volevi darmi, non credi? Lo ammetto, mi hai massacrato… e ho… creduto di odiarti, in certi momenti.
– Era esattamente quello che volevo! Visto che sarei dovuta partire, e per andare non esattamente dietro casa, ho pensato che se tu mi avessi odiata, mi avresti dimenticata più in fretta. Mi avresti, giustamente, relegata nel posto destinato alle tante persone bastarde che si incontrano nella vita! Non avresti più pensato a me… e saresti stato libero. Non si soffre per una stronza, dico bene?
– No, spiegami, razza di testolina bacata… Stai dicendo che lo avresti fatto… per non farmi soffrire?
– Lo scopo era quello, ma a questo punto so di aver solo peggiorato le cose.
– Infatti… non è così, che funziona – sospirò lui, rassegnato.
– Mi hai accusata di non credere in noi due, che per me fosse solo un gioco, ma non è mai stato così. E se ho gestito tutto così male, è stato solo perché quello che provavo per te era talmente immenso, e potente… che mi spaventava a morte! Non mi era mai successo niente del genere e, proprio per questo, non volevo promesse e nemmeno dichiarazioni troppo importanti. Poi… intorno a Natale avevo cominciato a pensarci sopra, solo che subito dopo c'è stato quell'orribile periodo senza tregua, con la battaglia sulla Luna, ed Erika, e… la prigionia nel Sahara. Tornata un po' di calma, all'inizio di marzo più o meno, avevo deciso che non si poteva continuare così, che anch'io avrei voluto molto di più! Avevo pianificato di dirtelo. Ti ricordi quella sera, sulla balconata del Faro?
– Pensi che potrei dimenticarmela? È stato il momento più intenso di tutto il periodo che abbiamo passato, diciamo così… insieme. Quello che mi aveva fatto pensare: "Accidenti, sta' a vedere che si sblocca finalmente qualcosa". Quella sera sono riuscito a controllarmi per miracolo, solamente perché avevo il turno incombente, ed ero convinto che tutto fosse solo… rimandato al primo momento tranquillo.
– Allora che sia maledetto quel turno… perché anch'io credevo così. Non vedevo l'ora di mettere tutto in chiaro e di… fare… – si interruppe imbarazzata, poi riprese – Solo che avevo cominciato a soffrire di mal di testa, e a fare quegli strani sogni, di notte, e all'improvviso, proprio da quella sera, sono diventati terribili e ancora più dolorosi. E hanno cominciato a tormentarmi anche di giorno, soprattutto nei pochi momenti che riuscivo a passare con te. Io… temevo davvero che nella mia testa ci fosse qualcosa che non funzionava più! E ho pensato di aspettare un altro po', per vedere se sarebbero passati, invece le cose sono peggiorate al punto che ho deciso… che non potevo coinvolgerti in quel delirio… ne avevi già abbastanza a cui pensare.
– Hai davvero creduto che non sarei stato capace di starti vicino, in un momento così?
– Al contrario! È proprio perché sapevo che lo avresti fatto! Non volevo ingabbiarti con… un essere strano come me. Nemmeno Pete è riuscito a convincermi che in fondo… siamo tutti esseri strani. Mi dispiace, Sanshiro, non ho avuto abbastanza rispetto per te, da capire che la scelta avrebbe dovuto essere anche tua.
Sanshiro incrociò le braccia sul petto, come a volersi difendere da qualcosa, forse dalle sue stesse emozioni; si lasciò sfuggire un sospiro, tentando di seguire i ragionamenti contorti della ragazza.
– Avevi davvero deciso di volere di più dalla nostra storia, prima di cominciare a… stare male? E bada che non sto parlando di sesso. Non solo, per lo meno.
Midori annuì, sommersa da quelle emozioni contrastanti che le si agitavano dentro.
– Te l'ho detto, avevo cominciato a rimuginare su una cosa che Briz mi aveva detto la sera di Natale: disse che se lei avesse avuto una storia come la nostra, avrebbe voluto amore, promesse, giorni e notti… Avrebbe voluto tutto, a maggior ragione col pericolo che la guerra potesse far finire ogni cosa da un momento all'altro. Mi stavo convincendo che avesse proprio ragione, quando è cominciato l'incubo delle allucinazioni e delle voci. Credevo di essere malata, pazza… E non volevo legarti a un mostro! E adesso finiamola, ti prego! Sono stufa di scuse, di mi dispiace e di perdoni da chiedere o da concedere! È andata così: avevamo qualcosa di immensamente prezioso tra le mani… e lo abbiamo rotto. O meglio, io… l'ho rotto – concluse la ragazza, tornando a chinarsi sulla ringhiera del ponticello, con la testa fra le mani.
Sentì Sanshiro avvicinarsi alle sue spalle, e la sua voce risuonare bassa e serissima.
– Smetti di paragonarti a un mostro… e perdonami tu, se quella sera, quando ci hai raccontato tutto, me ne sono andato così arrabbiato senza dirti nulla, facendoti pensare proprio questo. Non sopportavo che tu mi credessi capace di dare importanza al tuo luogo di origine. Dori, con tutto quello che stiamo passando, non mi sembra proprio così strano, che tu venga da… come si chiama…? Pijon? Ma che mi importa se tu vieni di lì, o da qualunque altro assurdo posto ai confini dell'Universo! Tu per me sei Midori Fujiyama, sei la figlioccia di Doc, sei…
Stava per dire: "Sei la mia ragazza", ma si bloccò, sentendo che la voce gli si spezzava.
Midori non rispose né si mosse, non sapendo cosa dire; chiuse gli occhi, lasciando libere un paio di lacrime brucianti, finché, con un lieve sobbalzo, li riaprì accorgendosi che Sanshiro le stava allacciando qualcosa intorno al collo. Abbassò lo sguardo e vide il ciondolo con la trasmittente che lui le aveva regalato per il suo compleanno, e che lei gli aveva restituito, lanciandoglielo sgarbatamente, quando lo aveva lasciato. Sentì il calore delle sue mani sulle spalle e quello del suo respiro tra i capelli, ma ancora non ebbe il coraggio di muoversi, né di parlare; si accorse di trattenere il fiato, di avvertire in gola il battito del suo cuore e nella testa il rombo del sangue, che le scorreva impazzito nelle vene.
– Sai… – cominciò lui a voce bassa – tempo fa chiesi a mia nonna come fosse possibile che lei e il nonno fossero sposati da più di cinquant’anni. E lei mi rispose: "Siamo nati in un’altra epoca: un’epoca in cui le cose, quando si rompevano, si aggiustavano, invece di buttarle via…" 
Midori prese un respiro… quelle parole le portarono alla mente una cosa.
– Kintsugi1 – mormorò, alzando appena lo sguardo davanti a sé.
– Cosa…?
– Quando un prezioso oggetto di porcellana si rompe, può essere riparato con la tecnica del Kintsugi… quel sistema con cui le crepe, invece di venire nascoste, vengono esaltate mescolando al collante della polvere d'oro. Così l'oggetto, in questo modo, aumenta di valore, diventa più prezioso, anche in senso metaforico, perché dimostra di aver vissuto, di avere una storia, un passato… – spiegò Midori sottovoce, sentendo qualcosa di simile alla speranza farsi strada nel suo cuore.
– Mi stai dicendo… che la nostra relazione meriterebbe di essere riparata in questo modo? – le chiese Sanshiro, anche lui con una nota speranzosa che gli vibrava nella voce.
– Non lo so… La crepa che abbiamo causato è… una voragine. Ce ne vorrà, di polvere d'oro – rispose lei.
Sanshiro le fece scivolare le mani dalle spalle e le allacciò le braccia intorno alla vita, chinando poi la testa, quasi a sfiorarle la spalla con la fronte.
 
Sanshi-Dori-ponticello
 
 
Le sue parole sussurrate le solleticarono l’orecchio.
– Vado a rapinare Fort Knox… o a cercare l’Eldorado o le Miniere di Re Salomone. E se vuoi venire con me, in questa avventura…
Midori si voltò di scatto tra le sue braccia, e gli afferrò la stoffa della camicia con fare lievemente aggressivo.
– Se voglio? Mi chiedi se… voglio? Sì, maledizione, ! Voglio qualcosa di più grande, di più forte e prezioso! Voglio il Kintsugi! Non importa quanto oro ci vorrà e dove dovremo andare a cercarlo! Voglio te, accidenti! Ti voglio dannatamente, ogni giorno, ogni notte della mia vita, in qualsiasi forma e declinazione possibili!
Sanshiro non ebbe bisogno di una sillaba in più: qualunque altra parola stesse per uscirle dalle labbra, lui la mise a tacere con un bacio. Dopo il primo attimo di smarrimento, Midori si lasciò travolgere da quella passione che entrambi, in qualche modo, avevano sempre tenuto a freno.
Fu una rivelazione, una sensazione del tutto nuova per tutti e due, come se fosse il loro primo bacio; eppure… fu anche come tornare a casa dopo tanto tempo.
– Oh, Dio, come mi sei mancata – sospirò Sanshiro tra i suoi capelli, quando riuscirono a staccarsi.
– Anche tu… oh, ma perché hai smesso di baciarmi! – protestò Midori, facendogli scivolare le braccia intorno al collo e cercando di nuovo le sue labbra.
Sanshiro la strinse forte, come se avesse il terrore di vederla svanire. Non riusciva a credere di averla di nuovo tra le braccia, ma le dita della ragazza fra i capelli, la sua bocca bruciante fusa con la propria, il corpo morbido e sinuoso premuto contro il suo, erano sensazioni meravigliosamente vere. Senza smettere di baciarla, visto che non voleva venire sgridato di nuovo, la spinse contro la barriera di legno del ponticello. Midori ci si appoggiò con il fondo della schiena, attirando il giovane contro di sé e… un crack fragoroso echeggiò nella pace silenziosa della notte, quando un palo della ringhiera si schiantò  improvvisamente. Sanshiro e Midori finirono rovinosamente nel ruscello, sollevando una pioggia di schizzi di acqua fredda. Per fortuna il piccolo ponte era a un'altezza di non più di mezzo metro, e le pietre erano lisce e arrotondate; l'acqua era bassa e non attutì un granché la caduta, ma fu sufficiente per inzupparli dalla testa ai piedi.
– Midori, tesoro, ti sei fatta male? – esclamò Sanshiro preoccupato, aiutandola a sedersi sul greto, con l'acqua che ruscellava loro intorno.
– Insomma, stavo meglio mentre ti baciavo… E tu? – gli chiese, togliendosi dal viso un paio di ciocche di capelli bagnati.
– Forse mi ritroverò qualche livido, ma pazienza.
– È stato bruttissimo! – esclamò lei, tremando, mentre Sanshiro si alzava in piedi, sollevandola poi tra le braccia e portandola sulla sponda erbosa.
Quando la posò a terra, e si distese accanto a lei, la sentì singhiozzare, ma si accorse subito, con sommo sollievo, che la ragazza non stava piangendo: stava letteralmente sbellicandosi dal ridere.
– Oh, Dio, non posso crederci! E Briz mi aveva pure avvertita di stare attenta al palo pericolante e di non finire a mollo! – ansimò Midori, sdraiata sull'erba e bagnata come un pulcino.
– Ah, fantastico, ma dove avevi la testa? – esclamò lui, contagiato da quella risata.
– Beh, mi scuserai ma, proprio come te, su quel ponticello mi sono un po' distratta.
– Ah, ti sei distratta? E con cosa? – chiese lui, facendo l'ironico, chinandosi su di lei.
– Ma, non saprei. Tu che ne pensi? – disse Midori abbracciandolo e, con le labbra a sfiorargli l’orecchio, a voce bassissima gli sussurrò:
– Sanshiro, io ti amo.
Lui spalancò gli occhi, sorpreso e senza fiato.
– Sei… sicura di quello che hai appena detto, vero? Perché… non me lo hai mai voluto dire prima d'ora e… sai che cosa significa, per noi giapponesi. Non… non è una cosa che diciamo molto spesso…
– Ma io non sono giapponese – replicò Midori sorridendo, col viso inondato dal chiaro di luna.
– Già, dimenticavo: tu sei… un E.T. 
A quell'uscita ricominciarono a ridere, e quando riuscirono a smettere di ridere ricominciarono a baciarsi; e quando riuscirono a smettere di baciarsi, risero di nuovo, abbracciati sull'erba. Sanshiro le accarezzò il volto e i capelli bagnati.
– Ti amo, mia bellissima aliena. Mi piace, potertelo dire.
– E a me piace tanto sentirlo. Anch'io ti amo.
– Mi prometti una cosa? Da ora in poi, qualunque pensiero, dubbio o sensazione ti passi per la testa, che ti possa dare la minima inquietudine, me lo dirai. Starti vicino non sarà mai un peso, per me; la nostra storia non sarà mai una gabbia, facile o difficile che sia.
– Lo farò, te lo prometto.
Le loro voci si spensero in sussurri e altri baci, inframmezzati a carezze e sorrisi. E poi di nuovo baci… Finché Midori staccò le labbra da quelle di lui, tremando come una foglia e con la pelle d'oca.
– Sanshiro io… s-sto m-morendo di f-freddo – articolò battendo i denti.
– Hai ragione, accidenti, siamo fradici. L'aria è rinfrescata e l'acqua era gelida… – disse Sanshiro alzandosi e tirando in piedi anche lei – Dobbiamo tornare alla fattoria e toglierci questa roba bagnata di dosso, o ci prenderemo una polmonite.
– No, aspetta… non alla fattoria – disse Midori, prendendolo per mano e trascinandolo verso gli alberi.
Si fermò davanti alla baita e infilò le dita in una fessura tra due tronchi, a lato della porta, cercando qualcosa.
– Che diavolo stai facendo? – le chiese Sanshiro, che cominciava anche lui a sentire brividi di freddo, con la camicia bagnata appiccicata addosso.
– Cercavo questa – disse la ragazza, mostrandogli una chiave.
La porta venne aperta, in un attimo furono dentro e Midori se la richiuse alle spalle.
L'atmosfera era buia e un po' soffocante, e la sensazione di freddo passò in un lampo. La ragazza aprì una delle finestre, facendo entrare il frinire dei grilli e la luce bianca della luna, che mostrò loro la stanza: quattro letti a castello dai materassi coperti da lenzuola di cotone a fiori colorati, una scaffalatura con coperte e asciugamani, un angolo cucina e una porticina che celava un minuscolo bagno.
– Briz mi ha parlato del Rifugio degli Elfi talmente tanto, che ormai è come se ci fossi già stata: so tutto quello che c'è da sapere su questo posto – disse Midori avvicinandosi a Sanshiro, spingendolo con dolcezza contro una parete e cominciando a sbottonargli la camicia.
– Midori…
– Sanshiro, dimmi che non stai per chiedermi cosa sto facendo!? Lo hai detto tu, che dobbiamo toglierci di dosso i vestiti bagnati… – lo sfidò la ragazza con un sorriso angelico eppure, allo stesso tempo, incredibilmente malizioso.
– Sì, ma…
– Ma cosa, mio bel terrestre? Non sei curioso di vedere se la tua bellissima aliena è fatta come tutte le altre ragazze?
– Sei proprio sicura, allora…
– Mai stata tanto sicura di qualcosa, amore mio. L’hai detto anche tu: siamo grandi, e direi che abbiamo perso anche troppo tempo – disse lei, dolce e decisa, facendogli scivolare le mani prima sul petto nudo e poi sulle spalle, sfilandogli la camicia che cadde per terra.
A quel punto, Sanshiro non trovò proprio più nulla da obiettare; non che si fosse particolarmente impegnato in tal senso, bisogna dirlo. Riprese a baciarla, stavolta spingendola lui contro la parete, una mano sulla sua guancia che, poi, le scese lungo il collo, cominciando a slacciare uno a uno i bottoncini della camicetta, la quale finì ben presto sul pavimento, in un mucchietto informe, sopra alla sua. La luce della luna gli rivelò un reggiseno di pizzo blu che lui trovò adorabile, lasciandogli presagire che Midori fosse mille volte meglio di ogni altra terrestre che avesse mai visto. Glielo disse tra un bacio e l'altro mentre, un po' spingendosi, un po' tirandosi, andavano a lasciarsi cadere sul materasso del letto più vicino. Sanshiro scivolò con le labbra sulla gola delicata della ragazza, stordito dal profumo dolce di vaniglia della sua pelle. Una cosa folle, da mangiarsela di baci: cosa che stava effettivamente facendo.
Parole sconclusionate e tenere si stemperarono nell'ennesimo bacio, mentre Midori si inarcava contro di lui, stringendolo su di sé e accarezzandogli i capelli e la schiena.
Le loro mani non riuscivano più a stare ferme, anche se Sanshiro si sforzava di non avere fretta: avevano tutta la notte, c'era tutto il tempo. Con tenera lentezza, la fibbia della cintura dei suoi jeans venne slacciata, seguita dai calzoni azzurri di Midori e, con qualche contorta manovra, anche questi indumenti finirono ammucchiati sul pavimento di legno grezzo. A dividere i loro corpi, la stoffa rimasta era ormai ben poca, e sapere che non sarebbe rimasta lì ancora per molto, infiammò i loro baci e i loro sensi.
Finché Sanshiro si staccò di soprassalto, fulminato da un pensiero.
– Midori, oddio, sono uno stupido! Anzi siamo stupidi in due! Non abbiamo… insomma, non siamo…! Non ho niente per… proteggerci. E se…
– Shh, stai tranquillo Sanshiro – gli disse, posandogli un dito sulle labbra – Te l'ho detto che, prima di incasinare tutto, avevo deciso di dare una svolta al nostro rapporto, no?
– Sì… e allora? Che vuoi dire?
– Voglio dire che… quella sera al Faro, dopo il nostro incontro ravvicinato, quando mi hai salutata per iniziare il turno, io sono andata dalla dottoressa Mori e… ho preso delle precauzioni. E da allora, anche se poi è successo di tutto, da quel lato lì è rimasto tutto sotto controllo. Sono ancora… protetta, ecco; non dobbiamo preoccuparci di niente.
Sanshiro si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo, e la guardò con un misto di ammirazione e contemplazione che l'avrebbe fatta innamorare ancora di più, se ciò fosse stato possibile.
– Allora ti ho convinto, che avevo deciso di far evolvere le cose? Che anch'io volevo molto di più?
– Convintissimo. E comunque, sappi una cosa: è solo perché non è il momento giusto, ma se tutto andrà come deve, l'idea di un figlio con te, un giorno, non mi spaventa affatto. Anzi…
– Neanche a me: la cosa è assolutamente reciproca, mio bel comandante – concluse Midori, prima di riprendere da dove, poco prima, il pensiero preoccupante di Sanshiro li aveva interrotti. Stavolta fu lei a staccarsi appena, dopo poco.
– Davvero non ti preoccupa… essere il primo? – gli chiese lei sulle labbra, esitante, cercando il suo sguardo.
Sanshiro scosse appena la testa, serissimo.
– Non lo sai che ogni uomo vorrebbe essere il primo, per la propria donna?
– Così dicono, ma… tu sai che invece ogni donna vorrebbe essere l'ultima?
Sanshiro sorrise, annuì sfregandole il naso e le labbra contro la guancia, e rispose piano, scendendo a baciarle il collo e la spalla, scostando la spallina del reggiseno.
– Allora… direi che non c'è problema, giusto?
– Giustissimo… – convenne Midori, prima che i loro respiri si mescolassero nuovamente.
I loro gesti si fecero più audaci, le carezze diventarono impazienti mentre ognuno liberava la pelle calda e fremente dell’altro dagli ultimi indumenti che ancora li separavano. Bocche affamate baciarono, morsero e assaporarono… Mani curiose esplorarono senza pudore e il desiderio crebbe, appiccando un fuoco che divampò lentamente, ma senza scampo. Amore e passione si fecero spazio, dilatandosi prepotenti, profondi e intensi, annientando il tempo e il resto del mondo, portando i corpi dei due giovani a fondersi uno nell’altro, finalmente liberi nella più dolce, bollente e appagante delle prigioni.  
 
* * *
 
Sanshiro si svegliò che era ancora notte; Midori dormiva accoccolata contro di lui, la luce della luna piena entrava dalla finestra a illuminare la sua pelle chiara e vellutata, insieme alla fresca aria notturna. Il giovane afferrò un lembo del lenzuolo a fiori e coprì sommariamente i loro corpi, stringendo un po' più a sé la ragazza e accarezzandole i lunghi capelli. Il movimento fece luccicare il braccialetto che gli amici gli avevano regalato diverse ore prima, e lui si soffermò ad osservare l’ornamento.
Midori aprì lentamente gli occhi e notò Sanshiro che si studiava pensoso il braccialetto: il simbolo in acciaio cromato dell'Infinito brillava debolmente, e le ricordò il nome del suo caccia da guerra.
– Sanshiro…  
– Ehi, ti ho svegliata, scusami.
– No, non fa niente. A cosa ti faceva pensare, l'Infinito? – gli chiese Midori, sollevandosi su un gomito e cercando il suo sguardo.
– Al tuo caccia – confessò lui.
– Lo immaginavo… Anch'io ci stavo pensando, sai…
Sanshiro la interruppe, stavolta mettendole lui un dito sulle labbra, intuendo correttamente i pensieri della sua compagna.
– Midori, fai quello che ritieni giusto: sento di non poterti proibire di combattere.
– Ti preoccuperai per me… Lo so che tu non vorresti.
– Oh, beh, questo è poco ma sicuro, ma tu… quante volte muori di ansia per me, quando combatto col Gaiking?
– Ogni volta, fin dalla prima battaglia, credo. Mi piacevi già tanto e non riuscivo a capacitarmene.
– Allora segui la tua coscienza, amore mio, e facciamo il nostro dovere. Solo, fidati degli ordini di tuo padre, di quelli di Pete, ed eventualmente anche dei miei. Sempre.
Midori annuì, mentre Sanshiro le attirava il viso verso il suo per baciarla, stringendola sopra di lui.
– Ah, e per la cronaca, – aggiunse tra un bacio e l'altro – anche tu mi piacevi tanto, già dall'inizio. Solo che ero un po' frastornato e preso dalle responsabilità che mi erano piombate tra capo e collo, tra tutto quello che dovevo imparare, la paura di non farcela e Pete che mi criticava continuamente, non avevo molto tempo per pensarci…
A un certo punto il giovane si accorse che a Midori veniva da ridere; non gli sembrava di aver detto qualcosa di così divertente. La guardò con aria interrogativa, ma allo stesso tempo incuriosito da quella strana ilarità, e lei si affrettò a spiegargli.
– Scusami, ma mi è venuta in mente un'altra cosa che mi disse Briz la sera di Natale, riguardo al fatto che io non volevo promesse.
– Se è un'altra delle perle di saggezza della nostra amica, non me la posso proprio perdere: in fondo è anche grazie a lei, se siamo qui, adesso. Anche se devo dire che, per quanto sia brava a dare consigli agli altri, non combina un accidente quando si tratta di sé stessa.
– Hai ragione, l’ho pensato anch’io, di recente. Comunque, la Vigilia di Natale mi chiese se, avendo così paura che uno di noi due potesse morire, ero davvero sicura di voler correre il rischio che accadesse, senza sapere come sarebbe stato… fare l'amore con te.
– Ti ha detto così? Haha! Avrei voluto vedere la tua faccia in quel momento!
– Meglio di no: il rosso bordeaux non mi dona. Beh, in ogni caso… quello fu il primo momento in cui cominciai a valutare l'ipotesi di dare davvero una svolta a tutto, e a pensare che Briz avesse proprio ragione.
– Bene, e adesso che hai avuto la risposta? Ce l'aveva?
– Oh, sì, eccome se ce l'aveva! Avrei davvero dovuto darle retta molto prima.
Sanshiro ricominciò a sbaciucchiarsela, tra un sorriso e una carezza.
– Che ci fai con uno come me, Green di Pijon? – le chiese, senza ancora riuscire a credere alla direzione che avevano preso le loro vite, in quella calda notte italiana, così lontani dal loro paese.
– Mi sembrava che te ne fossi accorto, di cosa ci faccio…
– Ah, ecco! Stai con me perché sono bravissimo a fare sesso! – la prese in giro Sanshiro.
– Beh, adesso, bravissimo… Che ne so io? Non ho metri di paragone… – lo ripagò lei, con la stessa moneta.
– Eh, allora… dovrai credermi sulla parola.
– Credo di preferire i fatti – gli sussurrò, ricominciando a fargli piovere baci sul viso, sulle labbra, sul collo…
– Dori, tesoro… di nuovo? Non dirmi che non ne hai avuto ancora abbastanza – disse Sanshiro col fiato corto, scostandola da lui per un attimo, per guardarla negli occhi – Perché sarebbe già la terza vol…
Midori gli chiuse la bocca con la sua e non lo lasciò continuare per un po'.

 
Sanshi-Dori-Italian-Night

– Uhmm… Non vorrai mica dire che ti dispiace – gli mugolò sulle labbra.
La risposta di Sanshiro fu repentina e inequivocabile: la afferrò con decisione e la rovesciò sotto di sé, lasciando poi che l’irruenza si stemperasse con la dolcezza e pensando che in fondo nemmeno lui ne aveva avuto ancora abbastanza. Probabilmente non ne avrebbe mai avuto a sufficienza, di quella meravigliosa creatura dello spazio che la sorte, per qualche strano motivo, aveva deciso di destinare proprio a lui.
 
* * *
 
– Accelera, Sanshiro, sono le otto e venti! E il Drago era pronto a partire alle otto! Sai chi lo sente, adesso, il nostro preciso e puntiglioso Capitano? – gridò Midori incitando il giovane.
Lui obbedì prontamente e aumentò la velocità, mentre Midori, stringendolo più forte, lo rimproverò scherzosamente:
– Ma come hai potuto addormentarti così?
– Ah, fantastico, la colpa è mia, adesso?! Beh, direi che sono più che giustificato: non è che tu mi abbia fatto dormire molto, stanotte! E, scusa se te lo dico, ma ronfavi pesante anche tu, amore mio! – rispose Sanshiro, con una risata.
– Io non ronfo! – esclamò ridendo anche lei.
Quella appena trascorsa era stata la notte migliore della sua vita, anche se adesso era un tantino preoccupata all'idea di affrontare gli amici.
Le ragazze quella notte si erano organizzate per dormire alla fattoria con Jessica, mentre i ragazzi, compreso Tom, avevano passato la notte a bordo del Drago perdendosi in chiacchiere su motori, battaglie e robot, ed entrambi i gruppi non avevano potuto fare a meno di notare come Midori e Sanshiro brillassero per la loro assenza.
E dai messaggini non irrispettosi, ma piuttosto salaci, che entrambi avevano trovato sui rispettivi cellulari quella mattina, era alquanto evidente che tutti sospettassero che la notte non l'avessero passata in solitudine. Arrivare insieme, e pure in ritardo, sarebbe stata la conferma finale, la classica ciliegina sulla torta.
Infatti, quando giunsero alla fattoria, l'equipaggio al gran completo, insieme ai Del Rio, li stava aspettando.
Vederli scendere dalla moto e venire verso di loro con le mani allacciate fu per i loro amici, che avevano sperato tutti in una riconciliazione, un vero sollievo. Sollievo che ben presto si tramutò in affettuosa malizia, negli sguardi che non poterono fare a meno di soffermarsi sugli abiti della coppia, tutti stazzonati dall'aver trascorso la nottata ammucchiati umidi sul pavimento, e sui volti imbarazzati e stanchi, che però non riuscivano a nascondere la felicità che brillava loro negli occhi. Yamatake fece un finto cipiglio, picchiettandosi teatralmente un indice sul polso sinistro, su un immaginario orologio, in un gesto più che eloquente, ed esclamò:
– È questa l'ora di arrivare, due sciupanotte che non siete altro?
Sanshiro allargò appena le braccia con aria di scusa, come a far capire che impegni improrogabili li avevano trattenuti. Yamatake si limitò a semisoffocarlo con un braccio attorno al collo e ad arruffargli i capelli, dimostrandogli tutta la sua comprensione e scatenando un attacco di ilarità in tutta la truppa.
Dopo di che, tutti si accinsero a salutare a malincuore i padroni di casa. L'arrivederci più malinconico fu senz'altro quello di Briz a Jessica, Filippo e Anita, ma anche quello fra Tom e Pete non fu uno scherzo, quanto a livello di commozione: nessuno sapeva quando, e soprattutto se, si sarebbero rivisti, ma la speranza la fece da padrona in ogni saluto e abbraccio che si scambiarono.
Mentre si dirigevano a bordo del Drago, Sanshiro fu, di nuovo, amichevolmente preso in giro dagli amici.
– Ehi, passato un buon compleanno? – gli fece Bunta, spintonandolo leggermente con una spalla.
– Meglio di come tu hai passato il tuo – non poté fare a meno di ribattere Sanshiro, pur con un vago senso di colpa sapendo che Bunta non vedeva la fidanzata Solange di persona dall’inizio della guerra.
Midori intanto si lasciava affiancare da Briz e Jamilah, sapendo di non poterla scampare nemmeno lei.
– Briz, – cominciò – abbiamo cercato di lasciare tutto in ordine, però abbiamo dormito al Rifugio e…
Briz la interruppe, e sollevò un sopracciglio in un'espressione più che significativa.
– Che? Avete dormito? Si dice così, adesso? Dai, va là! E comunque piantala, cosa vorresti, pagare l'affitto? Offre la casa, tranquilla! – rise Fabrizia, mettendo un braccio attorno al collo dell'amica – Persino Anita ha capito che stanotte si è ricomposta una frattura che tutti temevamo irreparabile.
– Appunto. E se vi dicessi che io e Sanshiro abbiamo passato la notte a parlare? – la sfidò Midori.
– E dai! Tutta una notte insieme, da soli e… avete solo… parlato? – chiese Jamilah, incredula.
Midori la guardò con un'aria serissima, come non aveva mai avuto in tutta la sua vita.
– Naah, ci sei cascata!? – sbottò poi – E comunque, io taccio, c'è un regolamento sulla privacy! Ah, Briz, devo comunicarti, però, che l'avvertimento riguardo al ponticello… non è servito a niente: un'altra cosa che purtroppo toccherà a Filippo riparare.
– Dio, no, siete finiti davvero a mollo? Ma non è vero! Ora mi spiego lo stato pietoso dei vostri abiti – esclamò Briz, dandosi una manata sulla fronte. Poi agitò le mani: – A questo punto, non voglio più sapere niente a prescindere!
Midori non poté fare a mano di ridere e andò a rifugiarsi sotto al braccio di Sanshiro che, incurante della presenza degli altri, la strinse a sé con fare vagamente possessivo. Il suo sguardo sembrava dire al mondo: “Lei è mia! Nessuno osi toccarla!”  E, alla faccia della riservatezza orientale, le stampò un bacio sulla bocca, come a ribadire che stavolta la cosa era davvero seria e definitiva.
Il dottor Daimonji osservò la scena con la coda dell’occhio, con un sorriso tra il soddisfatto e il commosso. Ci sarebbe stato il momento, per due chiacchiere con la sua figlioccia per augurarle ogni bene; ora voleva lasciare che si godesse il suo momento di felicità. Poteva solo pregare che la guerra non interrompesse tragicamente questo momento di gioia e che questo avvenimento potesse aprire gli occhi anche a qualcun altro.
Il suo sguardo si staccò da Sanshiro e Midori per spostarsi su Fabrizia e sul loro Capitano e, infine, su Sakon e sulla sua bella assistente; gli venne da scuotere la testa perplesso, mentre si incamminava sulla rampa dell’astronave.
Il Drago Spaziale sollevò la sua mastodontica mole nel cielo italiano e nel giro di pochi minuti, per chi rimaneva a Terra, non fu altro che un piccolo punto nell'azzurro. 
 

> Continua…
 
 
 
La faccenda del Kintsugi l’ho trovata sul web mentre cercavo tutt’altre cose, e mi è piaciuta così tanto, che non ho potuto fare a meno di appropriarmene, perché il suo significato metaforico sposava perfettamente con questo capitolo, secondo me. Al punto che ho deciso di usarlo persino come titolo.
 
Nella prima stesura questo capitolo era più lungo, e siccome lo era già, pure troppo, quello precedente, qui ho deciso di togliere l'ultimo pezzo e di aggiungerlo al prossimo, che era più corto. Così, giusto per complicarmi la vita :D

 

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Capitolo 39
*** 38 - Voglia di arrendersi ***


~ 38 ~ 
VOGLIA DI ARRENDERSI
 
“’Cause I’m only a crack
In this castle of glass,
Hardly anything left
For you to see.”
(Linkin Park – Castle of glass)
 
 
 
Quando il Drago si era sollevato dal suolo italiano, Briz aveva osservato pensierosa i luoghi della sua infanzia allontanarsi sempre di più e si era imposta di non lasciarsi prendere dalla malinconia, giurando a sé stessa che, se il destino glielo avesse concesso, sarebbe tornata il più presto possibile, anche solo per un breve soggiorno.
E ora, mentre Pete impostava le coordinate per il rientro in Giappone, le balenò un'idea.
Si alzò dalla sua postazione e andò a chiedere a Daimonji il permesso di metterla in atto, poi si avvicinò a Pete e fece una modifica alla rotta; lui sollevò sulla ragazza uno sguardo interrogativo.
– Segui queste coordinate, voglio solo farti vedere un paio di cose – gli spiegò.
Nel giro di pochi minuti stavano sorvolando una città a pochi chilometri dal mare Adriatico: Briz indicò a Pete alcuni monumenti che si distinguevano dall'alto.
– Ravenna, la mia seconda città; anzi, se fa niente la amo ancora più di Firenze, forse perché ci andavo in vacanza invece che a scuola. Quella cupola grigioverde è il Duomo, e quella chiesa ottagonale e l'altra costruzione accanto sono la basilica di S. Vitale e il mausoleo di Galla Placidia: alcuni dei mosaici più belli dell'epoca bizantina, sono lì. E l'altra cupola a cui ci stiamo avvicinando, quella bianca laggiù, è il Mausoleo di Teodorico.
Pete osservò affascinato ciò che la ragazza gli indicava e gli descriveva.
– Se questo schifo di guerra avrà mai una fine, ti consiglio di farci un viaggio, un giorno, e visitarli come si deve. Conoscendo la tua passione, ti piaceranno, Indiana Richardson.
– Vieni con me a farmi da guida? – le propose lui.
– Mmm… può darsi… se farai il bravo – concesse Briz, sedendosi sul bracciolo della poltroncina e mettendogli un braccio sulle spalle, mentre si chinava in avanti, a indicargli la distesa blu del Mare Adriatico, la spiaggia e un piccolo paese quasi affondato nella pineta.
– Questo è il paesino dove venivo in vacanza al mare con i nonni.
Pete si accorse che Briz aveva parlato con voce sommessa e che faticava non poco a tenere a bada la commozione. La ragazza si riscosse e impostò un'altra rotta verso nord: sorvolarono Venezia e la laguna e non fu necessario molto tempo per raggiungere un altro luogo che Briz amava, sempre per esserci andata in vacanza diverse volte in passato.
– Le Alpi. Che spettacolo, hanno un colore bellissimo!
– Sono le Dolomiti, dette anche Monti Pallidi, e se ti sembrano belle ora, dovresti vederle al tramonto, quando diventano rosa. Quello è il Rosengarten, l'altro il Sassolungo, quello che sembra una torta è il Massiccio del Sella, e quella più in là è la Marmolada. Certo, le Dolomiti non sono le Montagne Rocciose o il Grand Canyon, e il mare Adriatico non è il tuo oceano Pacifico, ma devi ammettere che hanno un fascino tutto loro…
– Eccome, se ce l'hanno! Grazie per avermi fatto vedere questi posti.
– Ammetto che non l'ho fatto solo per te, ma mi piaceva l'idea di mostrarti qualcosa che amo, e che immaginavo ti sarebbe piaciuto;  sono contenta di non essermi sbagliata. E adesso… rotta verso casa: Faro di Omaezaki, Japan.
– Ho l'impressione che tu, la tua casa, la stia lasciando – le disse Pete.
– In effetti… se la nostra casa è dove stanno le persone che amiamo, allora sì, un po' della mia casa è qui e un altro po’ è a Omaezaki. Come per te, direi.
– E diresti giusto – ammise lui, con un sorriso che Briz ricambiò.
Gli diede un colpetto sulla spalla e si alzò, decisa a tornare al suo posto; la sua mano scivolò attraverso le spalle di Pete e le sue dita affondarono per un istante nella zazzera bionda ad accarezzargli il collo e la nuca. Quando si rese conto di cosa stava facendo, ritrasse velocemente la mano e si diresse alla sua postazione. E fu a quel punto, che si sentì richiamare da lui.
– Ehi, matta, aspetta! Torna qui.
Briz lo vide alzarsi in piedi e prendere posto al timone, posando una mano su una mezzaluna d’acciaio e facendole segno con l'altra di riavvicinarsi. Briz diede un'occhiata a Doc e agli altri che la incoraggiarono, incuriositi quanto lei, e la ragazza obbedì incerta, senza capire. Il Capitano la tirò dolcemente davanti a sé, mettendole le mani sui comandi del Drago Spaziale e coprendole con le sue.
– Pete, ma che diavolo stai…? – cominciò lei, sconvolta.
– Shh, fidati di me: fai quello che ti dico, okay? E stacca l’auricolare e soprattutto il microfono – le ordinò con una strizzata d’occhio, rimanendo in piedi dietro di lei e guidando l'astronave tenendo le mani sopra alle sue, mentre lei obbediva.
Pete tirò i comandi verso di loro, e il Drago prese ulteriormente quota. Briz avvertì una sensazione come di vuoto allo stomaco, assolutamente diversa da quella che provava dalla sua postazione e anche da quella che le procurava guidare Balthazar che, pur essendo grande e poderoso, era assolutamente più piccolo e agile del Drago. Raggiunsero una quota spettacolare poi, sempre tenendo le mani sopra quelle di Briz, Pete spinse sui comandi: il Drago sembrò dare un balzo in avanti, lanciandosi rapidamente in mezzo a un banco di nubi color pastello.
– Adesso mantieni questa velocità e segui questa rotta – le ordinò sottovoce, togliendo le mani dalle sue e posandogliele sulle spalle.
Briz fece come le era stato detto; le nuvole sfrecciarono intorno a loro, sfilacciandosi in riccioli e volute azzurre e rosa mentre raggi di sole filtravano tra di esse, inondando il Drago – e anche loro, attraverso lo schermo panoramico – di riflessi oro e argento. Briz si sentì accapponare la pelle.
– Ommioddìoh! Sto! Pilotando! Il Drago! Spaziale! – urlò, ai limiti dell'isterico.
– Aha, sembra proprio di sì – disse Pete tranquillissimo, divertito dalla sua reazione decisamente fabriziesca – E stai facendo tutto da sola. Quasi quasi mi siedo e mi godo il viaggio.
– Non osare spostarti di lì, nemmeno di mezzo centimetro! – ordinò lei, pensando che non fosse tanto la sicurezza che le sarebbe mancata, quanto il contatto con lui.
– Agli ordini, Comandante, come vuoi. Bene… ora sali un altro po'… piano, così… Bravissima!
E mentre Briz obbediva accadde una cosa assolutamente imprevista. Quando si connetteva con Balthazar, lei diventava il grande leone, si muoveva con lui e, soprattutto ultimamente, qualcosa – qualcuno? – le entrava letteralmente nella mente e non avvertiva più niente altro che il bisogno di combattere. Ma ora… era totalmente diverso: la sensazione di vuoto allo stomaco si trasformò all'improvviso in un'impressione di pienezza totale. Il Drago era sotto di lei, ma anche sopra, e ai lati e… dentro. Ma non nella mente: erano due entità separate, umana e meccanica, eppure… si completavano.
L'astronave non era lei, ma era parte di lei, la sentiva, come una sua estensione. Briz faceva quasi fatica a respirare e le sue parole uscirono in un ansito mal trattenuto:
– Porca miseria, che meraviglia… È quasi come fare l'amore…
– Ah, sì, come se tu sapessi di cosa stai parlando… – ghignò Pete a voce bassissima, per non farsi sentire dagli altri.
Briz non si risentì per quella presa in giro: il suo tono di voce era divertito, ma amichevole, mentre lo diceva; quasi… affettuoso.
– No, hai ragione, infatti non lo so, di cosa parlo – ammise, rammentando ciò che gli aveva raccontato della sua disastrosa notte con Diego.
Nel frattempo, continuava ad essere pienamente cosciente delle mani di Pete sulle spalle, del suo torace muscoloso appoggiato alla schiena, del calore che irradiava dal suo corpo e del suo respiro tra i capelli. Voltò appena la testa per incontrare i suoi occhi, solo per un attimo: le sfuggì una risatina nervosa e avvampò, tornando a guardare dinanzi a sé.
– Però non hai tutti i torti – le concesse lui – Guidare il Drago Spaziale dà una sensazione… inebriante, soprattutto le prime volte.
– Immagino che tu ci abbia fatto l'abitudine.
Briz sentì le mani di Pete scivolarle lungo le braccia, e le sue labbra sfiorarle l'orecchio.
– Ci sono cose alle quali non si fa mai, l'abitudine.
"Oddio, adesso sente il mio cuore che dà di sbrocco definitivamente!" pensò Briz, preoccupatissima.
– Grazie per avermi fatto provare questa esperienza: è uno dei momenti migliori della mia vita – gli disse invece, cercando di mascherare le emozioni che le si agitavano nell'animo.
– Di niente: anch'io sapevo che ti sarebbe piaciuto.
Rimasero in silenzio, pilotando insieme, i corpi che continuavano a sfiorarsi e i cuori leggeri; Briz si accorse di ridacchiare sommessamente, soddisfatta come una scema: si sentiva spensierata e felice, come non le accadeva da tanto, ed ebbe la vaga sensazione che fosse così anche per Pete.
 
Al-timone
 
Ogni tanto lui posava le mani sulle sue per spiegarle una manovra, o le indicava qualcosa al di fuori: un agglomerato di nuvole un po' particolare, o un riflesso dai colori insoliti.
A nessuno di loro due passò per la testa che cosa potessero pensare Daimonji e i loro compagni, guardandoli: in quell'atteggiamento, chiunque avrebbe trovato complicità, romanticismo e persino sensualità. Sicuramente glieli trovò il solito Yamatake, che a un certo punto ruppe l'incanto.
– No, ma… vi rendete conto, voi due? Neanche DiCaprio e la Winslet sulla prua del Titanic! E per fortuna non sentiamo quello che vi dite!
Briz alzò gli occhi al cielo e sbuffò: – Uff! Ma Yamatake!
– Sì, okay, capito: vado a fare un lavoro al cesso.
– Hai detto tutto tu, io non ho fiatato! Dopo non dite che sono volgare e sboccata! – la chiuse lì la ragazza, mentre tutti se la ridevano.
A dire il vero, persino il lottatore di sumo si accorse che, in realtà, di quello che tutti loro avrebbero potuto pensare, a Pete e a Fabrizia non sarebbe potuto fregare di meno.


 
***
 
 
Il Capitano Richardson era preoccupato, e neanche poco. Nemmeno l'acqua tiepida della doccia riusciva a rilassare la muscolatura indolenzita delle spalle e della schiena.
In seguito all’avventura sul suolo italiano, circa tre settimane prima, non avevano più avuto tregua: gli attacchi si erano susseguiti con una regolarità che era diventata via via sempre più frequente, fino ad arrivare a quegli ultimi sette giorni, in cui si erano ritrovati per ben quattro volte faccia a faccia con i Mostri Neri, negli angoli più assurdi e impensati del pianeta e dello spazio. Avevano combattuto fino allo stremo e rischiato di nuovo catture e rapimenti.
Erano tutti stanchi, ammaccati e stressati, sia a livello fisico che emotivo e psicologico.
Quell'ultimo periodo era stato orrendo per ognuno di loro, ancora di più per essere cominciato appena tornati dall'Italia, che era stato per tutti l'ultimo dei pochi momenti felici e spensierati di cui disponessero.
E insieme a tutto ciò, la cosa che preoccupava Pete più di ogni altra, era che Fabrizia non si vedeva in giro da almeno tre giorni: la disconnessione, negli scontri di quelle scorse tre settimane, le aveva dato problemi non indifferenti sotto tutti i punti di vista, e l'ultima volta era quasi svenuta. Quando si era reso conto che le sue solite sollecitazioni verbali, benché vivaci e colorite, non portavano a niente, Pete si era risolto ad andare di persona all’hangar a recuperarla in carlinga; aveva fatto appena in tempo a varcare la soglia dell’abitacolo, che l’aveva vista letteralmente collassare e finire riversa a terra, ancora dentro all'armatura. Le aveva sollevato la celata dell’elmo felino e si era spaventato a morte, quando si era ritrovato a specchiarsi nei suoi occhi fissi e vitrei. A forza di scossoni e richiami, Briz si era finalmente ripresa un po’, quanto era bastato per rimettersi in piedi, ma Pete era stato costretto ad avviare personalmente la disconnessione, tanto lei era rintronata.
Quando i componenti dell’armatura si erano rialloggiati nei propri siti, la ragazza era talmente provata e barcollante che Pete era riuscito per miracolo a evitarle di rovinare di nuovo a terra prendendola in braccio, rifiutando poi categoricamente di lasciarla a qualcun altro, finché non l'aveva posata sul lettino dell'infermeria del Drago, affidandola a Daimonji.
Pete non la vedeva da allora: sapeva solo che, dopo un giorno e una notte in clinica, affidata alle cure dei dottori Mori e Watanabe, si era ripresa ed era stata trasferita nella sua stanza alla Piccionaia, ma tenuta costantemente sotto controllo dai due medici.
Pete l'aveva contattata diverse volte col cellulare e le risposte ai suoi messaggini erano state sempre evasive e piuttosto laconiche, cosa che non era molto nel suo stile, tipo: “Ok, non preoccuparti”, “Sono stanca”, “Tranqui”, “Tutto bene”. 
Quando però gliene aveva mandato uno in cui le chiedeva se potesse andare a trovarla, la risposta era stata meno stringata: “Non azzardarti a salire quassù, o ti tiro dietro la prima cosa che mi capita sotto mano. Non sono in condizioni di ricevere visite!”
Nessuno dell'equipaggio la vedeva dall'ultimo scontro e anche Hakiro gli aveva detto che la ragazza non andava dai cavalli da ben più di tre giorni; Daimonji l'aveva temporaneamente esonerata dai turni di guardia, e Midori aveva riferito loro che anche se il momento peggiore di quella crisi era passato, la ragazza era ancora molto provata. La risposta al suo ultimo messaggio di quella mattina, “Dormo, non rompere”, seguito da un’emoticon che faceva la lingua, già più consono alla sua indole, aveva tranquillizzato il capitano solo fino a un certo punto.
Pete uscì pensieroso dal bagno, con addosso, sopra i boxer, solo un paio di jeans ancora slacciati, strofinandosi i capelli umidi con una salvietta.
 
Sexy-Pete
 
Mentre finiva di vestirsi, infilando una t-shirt grigia con sopra scritto Santa Barbara University, cominciò a valutare seriamente di salire fino alla Piccionaia per vedere come stesse la squinternata, anche a costo di farsi davvero tirare dietro qualcosa.
Quando, qualche giorno prima, l'aveva tenuta in braccio semisvenuta, pallida e febbricitante, che si aggrappava a lui come alla sua ultima possibilità di sopravvivenza, un odioso senso di impotenza lo aveva assalito. L'aveva stretta a sé, come se temesse che qualcosa potesse portargliela via, sussurrandole parole rassicuranti e sfiorandole con le labbra la fronte infuocata. Come se ne avesse il diritto, poi! Briz non era la sua donna, avevano praticamente deciso insieme che quell' assurda attrazione, passione repressa, o quel che fosse – fra l'altro scaturita dopo un rapporto iniziale molto vicino all'odio – non dovesse venire assecondata: il prezzo da pagare, il rischio di renderla infelice, era troppo alto.
Quando uscì dalla propria stanza, deciso a prendere l'ascensore per salire all'ultimo piano, quasi si scontrò con Fan Lee.
– Pete, ciao. Sai che finalmente la nostra desaparecida è rispuntata? Ti dirò che ero davvero preoccupato!
– A chi lo dici. E dov'è, adesso? Come sta?
– Mezz'ora fa era in terrazza, credo sia ancora lì: la dottoressa Mori le ha detto di uscire a respirare un po’ ma, anche se sta meglio, l’ho trovata un tantino acciaccata, devo dirlo.
Il Capitano salutò Fan Lee e si precipitò, letteralmente, verso la grande terrazza inondata dai raggi dorati del sole al tramonto, pensando che qualunque fosse stato il problema di Fabrizia, ad esso si era certamente aggiunto anche il pensiero che, proprio in quel periodo, ricorreva il terzo anniversario della morte di Alessandro e di suo padre, ed era più che sicuro che ciò aggiungesse un carico emotivo non indifferente al suo stato di prostrazione fisica.
Sulla terrazza c'erano anche Yamatake, Jamilah e Sakon, e Sanshiro con Midori. Era raro ormai, vedere questi ultimi due da soli, salvo quando uno di loro era di turno; e anche se nessuno aveva più fatto commenti maliziosi, tutto l'equipaggio si era accorto che Sanshiro passava raramente la notte nella propria stanza. Nemmeno Daimonji aveva obiettato, naturalmente: oltre a voler bene a Sanshiro, riteneva giusto che, chi ne aveva la possibilità, avesse una vita privata e si ritagliasse momenti felici ogni volta che poteva.
Fabrizia era a un angolo della terrazza, seduta su una poltroncina di plastica, le gambe allungate davanti a lei: indossava una canotta nera con un disegno astratto sul davanti in colori fluo e teneva in grembo un blocco da disegno con gli anelli; sul tavolino a fianco, una scatola di pastelli. Voltò la testa, quando sentì arrivare Pete, e gli sorrise.
– Ehi.
– Ehi…
Non ci fu bisogno di altri scambi: che fossero sollevati e contenti di vedersi era stato palesato in quelle due parche, identiche sillabe.
Briz tornò a dedicarsi al suo disegno, e Pete si fermò dietro di lei, osservando il lavoro da sopra la sua spalla. I capelli della ragazza, raccolti sulla sommità della testa con un fermaglio colorato, lasciavano scoperto il tatuaggio alla base del collo.
Con un pastello marrone scuro, Fabrizia dava gli ultimi ritocchi sfumando i capelli disordinati della persona ritratta. A Pete venne da sorridere, un po' per il sollievo di vederla finalmente fuori dalla sua stanza, un po' per il soggetto del suo disegno.
– Senti, credo che tu sia l'unica persona al mondo capace di ritrarre Yamatake facendolo sembrare bello. Perché gli hai fatto gli occhi verdi?
– Uhmm… Forse perché Yamatake ha gli occhi verdi?
– Ma da quando?
– Mah, da sempre, direi. Si vede che non hai l'occhio dell'artista, profano materialone. Controlla tu stesso – rispose Briz, vedendo sopraggiungere il soggetto della loro discussione.
– Ti rendo noto che in Archeologia, un minimo di senso artistico bisogna averlo! – rimarcò Pete.
– Il senso artistico degli archeologi si limita agli oggetti; a me piacciono di più le persone, gli animali… le cose vive, insomma. E poi, tu non sei nemmeno un archeologo finito…
– Anche questo è vero – ammise lui, e, facendo un cenno di saluto al lottatore di sumo che si era avvicinato, lo guardò negli occhi, per controllare ciò che Fabrizia aveva appena affermato.
– Ebbene sì, Capitano – disse Yamatake – Che ti piaccia o meno ho gli occhi verdi, anche se di una sfumatura più scura e torbida, di quella color smeraldo della nostra bella amica qui presente!
– Okay, non posso fare a meno di constatare che è proprio così. E adesso che ti guardo, Yamatake, sei sempre incombente come un armadio, ma ho l'impressione che tu sia meno, come dire… morbido. Che hai fatto?
– Corsa, palestra e dieta, e già da alcuni mesi, se non te ne fossi accorto. L'unico strappo l'ho fatto in Italia, con quella cavolo di salsiccia e quella meravigliosa… com'è che si chiama…? Piadina romagnola, ecco! Beh, non sarò mai un fuscello, questo è pacifico, ma almeno ora dalla ciccia è spuntato qualche muscolo – si vantò il giovanottone, piegando un braccio e mostrando un possente bicipite.
Briz staccò con cura il foglio dall'album e si alzò, porgendolo a Yamatake.
– Te lo avevo promesso, ho mantenuto, e come puoi vedere dal ritratto, io i tuoi muscoli li ho notati. Spero ti piaccia.
– Mi piace molto e Pete ha ragione: sembro quasi bello.
– Chi è bello dentro, lo è anche fuori, amico mio: io ti vedo così.
– Dici? Peccato, allora, che la maggior parte delle ragazze non abbia la vista a raggi X come te, e quelle che ce l’hanno… chissà dove sono! Comunque grazie, Anoressina. E non dirmi di non chiamarti così: in questo momento hai davvero l'aria di chi non mangia da un po'. Sono contento di rivederti in piedi, ero un po’ in ansia – e così dicendo, Yamatake stampò un bacio sulla guancia di Briz e si allontanò, raggiungendo gli altri amici, anche perché… ebbe la netta sensazione di essere di troppo.
Briz si appoggiò alla ringhiera e lo seguì con lo sguardo, chiedendosi se anche i suoi compagni di battaglia non cominciassero davvero a sentirsi più che logorati da ciò che stavano passando. Yamatake malinconico – e a dieta! – era davvero qualcosa al di fuori degli schemi. I suoi occhi si spostarono sul Capitano Richardson che stava al suo fianco, le braccia appoggiate alla ringhiera e lo sguardo perso verso il mare: anche lui sembrava stanco, ma era maledettamente bello anche con quell’aria un po’ triste e tesa.
 
Pete-pensieroso
 
 
Sembrava preoccupato… Per lei? Possibile… Per gli ultimi sviluppi di quell'assurdo conflitto? Sicuramente.
Pete si voltò, appoggiandosi all’indietro e incrociando le braccia sul petto, osservando a sua volta l'amica ancora pallida, nonostante l'abbronzatura estiva. Aveva l'aria fragile: le lentiggini sul naso risaltavano più del solito, aveva gli occhi segnati e le labbra livide e screpolate; Dio, quelle labbra carnose e morbide, che ormai aveva assaggiato un numero sufficiente di volte per sentire terribilmente la mancanza del loro sapore! A lui sembrò comunque bellissima. Richiamò alla mente, per qualche istante, le sensazioni che aveva provato pilotando il Drago Spaziale insieme a lei, e al loro scambio di battute dai sottintesi divertenti ma quantomeno intimi. Di conseguenza, tornare col pensiero ai sensuali e sconvolgenti minuti passati più di un mese prima, sul divano nella stanzetta delle scuderie, fu questione di poco. E per un fugace attimo, senza nemmeno volerlo, si chiese se sarebbe stato poi così sbagliato lasciare che le cose facessero il loro corso e che quello che c'era tra loro si concretizzasse.
Arrendersi… che maledetta, meravigliosa tentazione!
"Oh, andiamo, Richardson! Ci hai già pensato dieci minuti fa!" si rimproverò, riprendendosi immediatamente e dandosi dell'egoista "È stata chiara, con te: non è quello che lei vuole veramente. E se anche così fosse, a che servirebbe? Solo a spezzarle di nuovo il cuore, lo sai di non essere adatto a lei! Se davvero la ami, fai quello che ti ha chiesto, e lasciala in pace".
– Come stai? – le chiese in tono gentile.
– Come una che ha passato due giorni e due notti abbracciata al water: non ho più niente da espellere tranne l'anima, ormai. E il terzo giorno l’ho passato a letto schiantata, a ronfare come un drago. Yamatake non sbaglia, dicendo che sembro una che non mangia da giorni.
– Ma cosa ti è successo? Eravamo tutti preoccupatissimi.
– Non lo so! – tagliò corto lei.
– Balle! Dimmela tutta! E, giusto per chiarire, sappi che mi ricordo benissimo che questo periodo dell'anno per te è molto difficile. Sono tre anni, Briz… lo so – insistette Pete ammorbidendo i toni e, rinunciando a resistere, le accarezzò il dorso della mano che lei teneva posata sulla ringhiera.
Briz guardò le loro mani, reprimendo l'impulso di girare la sua col palmo all'insù e intrecciare le dita con quelle di lui. Anzi, la sfilò lentamente, privandosi volontariamente di quel tenero contatto.
– Non fare il carino con me – disse, un po' più aspra di quanto avrebbe voluto.
– Ho avuto l'impressione che, poche settimane fa, non ti fosse dispiaciuto guidare il Drago Spaziale con me, o che io avessi fatto il carino, la sera prima alla fattoria dei Del Rio – disse lui, rendendosi perfettamente conto che quelle parole facevano decisamente a pugni con ciò che si era prefisso appena un minuto prima. Per fortuna Briz si rivelò, ancora una volta, più saggia.
– Se parli del fatto che avevamo voglia di baciarci, rimuovi, e anche alla svelta: abbiamo preso una decisione, io e te. È vero che ti ho anche detto che ogni tanto non è un male infrangere qualche regola, ma… non mi piace stabilirne, per poi essere anche la prima a contravvenirle. È stato un momento di smarrimento, e lo sai: ritrovarmi di colpo a Boscombroso, vedere la mia casa ricostruita, tuo fratello e Jessie che si baciavano e il chiaro di luna… e le lucciole, Pete! Le lucciole… e tu che, ammettilo, mi hai provocato. E nonostante tutto ciò, sono rimasta ferma sulle mie convinzioni: me lo hai insegnato tu, ad essere dura.
– Hai ragione, come sempre: rimuoviamo e torniamo qui. Cosa ti è successo in queste ultime battaglie? Su questo non transigo: voglio saperlo!
Briz desiderò follemente accostarsi a lui di quel passo che li separava, allacciargli le braccia intorno alla vita, e sentirsi circondare dalle sue. Aveva un bisogno disperato di lui; si fece quasi violenza, per resistere a quella tentazione. Ma aveva anche bisogno di confidarsi su ciò che aveva vissuto durante quegli ultimi scontri con i mostri dell'Orrore Nero. Lanciò un'occhiata agli amici che, all’altro lato della terrazza, a tratti li osservavano, e tornò a girarsi, chinando la testa in avanti, la ciocca bianca a velarle lo sguardo triste.
– È stato stress da battaglia, Pete, un po' come quando siamo scappati da Zhora. Quanti scontri abbiamo sostenuto in questi ultimi venti giorni? Otto, dieci? Ho perso il conto. Ho chiesto molto, forse troppo, al mio fisico e alla connessione. In più, come hai detto tu, c'è la componente emotiva: sì, sono passati tre anni, da quando ho seppellito Ale e papà; fra poche settimane ne compirò ventidue, ma mi sembra di averne quaranta, in questo momento.
– Beh, anche se sei un tantino ammaccata, li porti bene – sdrammatizzò il giovane, strappandole un sorriso che le illuminò lo sguardo, e a lui fece battere forte il cuore.
Briz tornò quasi subito seria, vide che anche gli amici si erano zittiti e forse li ascoltavano, e lei lasciò fare; tanto… non aveva più segreti per nessuno, ormai.
– Già da parecchio prima dell'Italia, è cambiato qualcosa, quando combatto. Lo hai visto anche tu, no?
Lui assentì: – Ho l'impressione che tu sia come… non so… più forte e decisa. Combatti meglio, con più determinazione e più freddezza; e non credo sia solo per l'esperienza che hai messo insieme e i consigli che ti ho dato io in tutti questi mesi.
– Esatto: i tuoi insegnamenti e le tue lezioni, e l'esperienza, sono stati sicuramente preziosi, ma… è la connessione a essere diversa, già da qualche tempo. E questa stranezza ora si è accentuata, forse proprio per il fatto che gli scontri si sono intensificati tanto.
– Cosa intendi per diversa? 
– Se te lo dico… non mi prenderai per pazza?
– Sono stato il primo a credere a Midori, rammenti? E poi tu, sei già pazza di tuo, che vuoi che sia? Non mi stupisco più di niente, per quel che riguarda te – rispose Pete, cercando di metterla con leggerezza, cosa davvero insolita, visto che era lei quella che spesso trovava un lato divertente in tutto, mentre lui era quello pratico e serioso.
– Non so come prenderla, questa tua considerazione – commentò lei con un altro sorriso – Ma il fatto è che… oh, non so come dirlo… non sono più io, a combattere con Balthazar. O meglio, non sono solo io.
Pete la guardò sconcertato.
– Spiegati meglio, perché non sono sicuro di aver capito – le disse, tornando serissimo e sentendosi anche un po' spaventato da quella singolare affermazione.
– Ricordi cosa accadde la prima volta che usai il Thunderbolt?
– Sì: un residuo del DNA di Ale interferì temporaneamente col tuo, quanto bastò per metterti a conoscenza della nuova arma.
– Ecco, il DNA di mio fratello: Doc dice che ora non si limita più ad interferire; ora… si fonde letteralmente col mio, durante la connessione.
– Briz… io a volte ti ho sentita. Anche quella volta con Zhora: è come se tu parlassi, con qualcuno. Ma ho sempre creduto che la tua fosse solo… suggestione, o… uno dei tuoi metodi strampalati per affrontare le battaglie e le prove difficili a cui ti ha sottoposta questo conflitto.
Lei scosse appena la testa.
– Anch’io ero convinta che fosse così, ma… no, non è suggestione. Io lo sento, Pete. E una parte di me… diventa lui! Alessandro, intendo. Io… mi sento lui! E a volte percepisco… la sua voce, che mi suggerisce cosa fare: lui… parla davvero con me, combatte con me! Anche se a volte è come se… volesse dirmi di più, ma non ci riuscisse.
Pete rimase senza parole; sembrava una cosa ben oltre la fantascienza: un film fantasy. Eppure non gli riuscì difficile accettarla, esattamente come a tutti gli altri, che ascoltarono questa rivelazione senza stupirsi più di tanto. Anche loro la sentivano, durante le battaglie, rivolgersi a qualcuno, e nessuno aveva avuto bisogno di fare domande, su chi potesse essere questo qualcuno. La mente di Pete si illuminò su un paio di cose e quello che disse stupì lui per primo, soprattutto perché… ci credeva!
– È per questo che fatichi a disconnetterti? Per non dover lasciare Alessandro ogni volta?
Briz si stupì di quanto facilmente Pete ci fosse arrivato ma, soprattutto, di come avesse accettato questa assurdità con la massima naturalezza.
– Penso di sì, ma credo che il problema stia anche nel fatto che… forse nemmeno lui vuole… lasciarmi andare. E non so più cosa fare – finì, con voce spezzata, chiudendo gli occhi.
– Io ce l'avrei, una soluzione – suggerì Pete a voce bassa, forse neanche lui convinto fino in fondo – Credo che… dovresti ritirarti. Smetti di combattere.
Briz gli spalancò in faccia due occhi immensi, non potendo credere che proprio Pete le avesse detto una cosa del genere! Effettivamente, arrendersi sembrava la soluzione migliore… anzi no, la tentazione migliore; ma sapeva che non lo avrebbe fatto.
– Smetto… di combattere? Ma sei fuori!? Non posso farlo! Persino tu sei costretto ad ammettere che Balthazar è diventato determinante quanto il Gaiking! Lo abbiamo appena appurato: non sono più il disastro che ero all'inizio, Pete! Stai tentando di nuovo di escludermi, di cacciarmi via? – gli urlò in faccia, perdendo la calma e facendo trasalire gli altri.
– Sto tentando di salvarti la vita, piccola squilibrata! – gridò Pete a sua volta, sorprendendo i loro compagni: era davvero da un pezzo, ormai, che non li si vedeva più litigare.
– Possibile che proprio tu non capisca, Richardson? Gli ultimi tasselli per costruire tutto quello che io sono diventata in quest'ultimo anno, mi hai aiutata tu a metterceli! Ritirarmi vorrebbe dire mandare a puttane tutto il lavoro che ho… che tutti abbiamo fatto, finora! Cazzo, preferisco morire mentre combatto, che sopravvivere girandomi i pollici, guardando voi che fate anche la mia parte! Chi credi di essere, per dirmi cosa fare? Non sei mio padre, non sei mio fratello! Tantomeno… qualcos'altro!
– Oh, sì, che sono qualcos'altro, invece! Come minimo, un amico che in almeno un paio di occasioni ti ha salvato le chiappe! – precisò lui, strofinandosi appena il braccio sinistro, in un gesto istintivo che le fece cadere lo sguardo sulla cicatrice procurata dal fucile zelano più di due mesi prima. Era ancora leggermente arrossata, ma il dottor Watanabe aveva fatto un buon lavoro: col tempo si sarebbe schiarita e attenuata, anche se non sarebbe mai scomparsa del tutto.
Briz si toccò quella che, a sua volta, sfoggiava sull'avambraccio destro, e bastò quel gesto per ricordare a Pete che la ragazza ne aveva una simile anche sulla coscia sinistra, coperta dai calzoni arancioni di cotone leggero. Per qualche inspiegabile motivo, gli venne in mente che nemmeno in piena estate, aveva mai visto Briz con dei pantaloni più corti di quelli che indossava ora, che le arrivavano a metà polpaccio. Di certo non era una ragazza che amasse scoprire il proprio corpo più di tanto, per farsi notare: le bastavano i colori sgargianti dei suoi abiti, anche se era convinto che chiunque l’avrebbe notata anche vestita di grigio. Era ben altro, in lei, ad attirare l’attenzione, e non se ne rendeva nemmeno conto.
– Direi che sull’argomento salvarci a vicenda siamo indiscutibilmente in pareggio, quindi chiudiamola qui! – lo fulminò brusca Fabrizia, distogliendolo dalle sue futili considerazioni e accantonando la questione – Nemmeno Sanshiro ha preteso che Midori si ritirasse, e ne avrebbe anche avuto il diritto! Tu non puoi chiedermi questo, lo sai – concluse in un soffio.
– Sì, Briz, hai ragione, non posso chiedertelo – si arrese lui, alle sue argomentazioni – Vorrei solo evitare di ritrovarmi a piangere al tuo funerale.
– Tranquillo, so che sapresti trattenerti, nell'eventualità – affermò Briz, con raggelante durezza.
Pete non seppe cosa rispondere; ancora una volta quella piccola folle era riuscita a metterlo a tacere, e con una freddezza che, lo sapeva, non le apparteneva. Aveva davvero imparato bene, e lui non era per niente sicuro che questa Briz, così scostante e adamantina, gli piacesse di più di quella che gli aveva insegnato a ridere, ad amare gli animali, a prendere parte della vita con più leggerezza e persino a considerare positive le emozioni. Sospirò, frustrato, passandosi una mano tra i capelli.
Una folata di vento caldo agitò il blocco per gli schizzi di Briz, posato sul tavolino: Pete si ritrovò a guardare, uno dopo l'altro, i disegni che si susseguivano, nei fogli agitati dalla brezza. Non poté fare a meno di pensare che la ragazza fosse davvero brava, e si chiese se non avesse preso un abbaglio, quando aveva pensato che fosse innamorata di lui, basandosi sui disegni che aveva visto nel suo telefono. I loro amici e compagni di battaglia non erano ritratti con meno precisione di lui e, da quei tratti e colori sfumati, traspariva tutto l'affetto che provava per loro. Poi pensò a quanto fosse inutile cercare di prendersi in giro: i disegni erano stati solo il primo pretesto, erano altre le cose che lo avevano convinto di ciò che Fabrizia provava per lui.
I suoi pensieri furono interrotti, quando il blocco rimase aperto su un disegno che gli fece venire la pelle d'oca: era a carboncino, senza colori, cupo e scurissimo. E non solo non era nemmeno finito, ma era stato da Briz stessa deturpato da larghi e violenti scarabocchi neri. Il volto, se così si poteva chiamare, mezzo cancellato con tanta rabbia, era quello ghignante del Generale zelano Ashmov.
– Briz… – ansimò Pete, senza fiato, raccogliendo il blocco.
La ragazza vide ciò che aveva inquietato l'amico e sospirò.
– Ultimamente, ogni volta che mi connetto a Balthazar, la parte di Alessandro che mi entra nella mente, per prima cosa mi mostra questa immagine.
– Ah, bello, e non ha niente di più piacevole da farti vedere, il tuo caro fratellino? – sbottò Pete, attonito.
– Non so perché accada… vuole dirmi qualcosa, secondo te? – gli chiese, con voce spenta.
"Eccome, se vuole dirti qualcosa! Ma non mi sento proprio di essere io a spiegartelo" pensò Pete impaurito, guardando gli occhi altrettanto terrorizzati di Briz.
Come poteva dirle che la sua opinione era che l'immagine di quell'orribile mostro, fosse l'ultima cosa che aveva occupato la mente di Alessandro prima di morire poiché, con ogni probabilità, era stato proprio lui ad ucciderlo? No, non sarebbe stato lui, a dirle una cosa del genere; anche se, probabilmente, lei lo sospettava già.
Briz appoggiò i gomiti alla ringhiera del terrazzo e si nascose il viso tra le mani, affranta. Al suo silenzio e ai singhiozzi soffocati che cominciarono a scuoterla, Pete si sentì il cuore come stretto in una morsa; la fece staccare dalla ringhiera, per attirarsela fra le braccia, ma lei lo respinse.
– Lasciami stare! Non toccarmi, ti prego! – esclamò cercando di essere dura, ma risultando solo disperata.
Gli girò le spalle, attirando ancora gli sguardi dei loro amici che, di nuovo, non si sentirono di interferire; non era un vero litigio, lo capirono.
– Voltati e guardami, Lionheart! – le ordinò, prendendola per un braccio e costringendola a obbedirgli.
Lionheart.
Il suo cognome in inglese, chissà perché, la lasciava sempre un po' spiazzata, come quando lui la chiamava con il suo nome per intero. Briz si perse nei suoi occhi, irrequieti ed ansiosi, che avevano lo stesso colore del cielo estivo, e tutti i suoi muri e le sue difese si sgretolarono miseramente.
La voglia di arrendersi ebbe per un attimo il sopravvento: arrendersi e basta, lasciar perdere le battaglie, Balthazar e la connessione, ritirarsi dal suo ruolo di guerriera, cedere all’amore per questo ragazzo bello e dal cuore inquieto, che senza nemmeno volerlo si era preso il suo, di cuore… e lui, forse, non avrebbe saputo nemmeno cosa farsene, di quel piccolo muscolo pompa-sangue, martoriato e ricucito fino allo sfinimento. Arrendersi a tutto… e prendersi quello che lui avrebbe potuto darle… perché no? Non aveva forse già dato, fatto e sofferto abbastanza? Che altro voleva la vita da lei?
Tuttavia, il senso del dovere incombeva, facendola sentire lacerata in due.
– Ma Lionheart dove? Cosa? Quando? Hai ragione, voglio continuare a combattere ma… mi sento solo una stupida fanciullina che gioca a fare il guerriero! Guardami, ormai vi procuro più grattacapi che aiuto! – gridò, la voce rotta da un gemito, mentre si lasciava travolgere, suo malgrado, da una crisi di pianto disperato. E così, finì per lasciare che Pete se la attirasse tra le braccia: un’altra resa.
Non sapendo che altro fare, il giovane le aprì il fermaglio che le tratteneva i capelli, passandogli le dita attraverso e accarezzandole la nuca. Lasciò che Briz sfogasse nelle lacrime tutte le sue incertezze, i suoi terrori e le sue frustrazioni; ormai aveva imparato anche lui che, a volte, piangere era l'ultima risorsa che restava per non perdere la propria umanità; e, alla fine, decise di appoggiarla nella sua decisione.
– Shh… piantala. Non sei mai stata stupida, e fare il guerriero ti riesce dannatamente bene. Non stai giocando, non l'hai mai fatto.
– Ma se mi hai accusato proprio di questo, il giorno in cui ci siamo conosciuti! – singhiozzò lei.
– E ti sembra che siamo le stesse persone di allora?
Briz mosse appena la testa contro la sua spalla, in un cenno di diniego, e lui proseguì, cercando di farle distogliere la mente dagli orribili pensieri che la tormentavano.
– Hai disegnato Ashmov semplicemente perché nel Sahara eravamo suoi prigionieri, ed è l'unico di quei quattro mostri che abbiamo visto così da vicino. Non pensarci più. Qualche altro giorno di riposo e tranquillità e tornerai ad essere la mia fanciullina forte e coraggiosa. Vedrai se mi sbaglio.
Gesù, l'aveva detto davvero! La mia fanciullina! Alla fine ci era cascato e, se non fosse stato attento, chissà cosa avrebbe finito per lasciarsi sfuggire. Strinse più forte la ragazza in lacrime, accarezzandole le spalle e cullandola appena, premendole le labbra sulla tempia, mentre lei lo abbracciava disperatamente.
Pete sapeva che se Briz avesse deciso di smettere di combattere, non l'avrebbe amata di meno; per contro, la sua scelta di non arrendersi, nonostante ciò che le costava, gliela faceva amare ancora di più.
Gli amici si avvicinarono alla coppia, avevano capito tutti cosa stesse affrontando Briz in quell'ultimo periodo: lei e Balthazar erano effettivamente diventati più forti, ma a quale prezzo? Quella forza finiva per rivalersi sulla pelle di Fabrizia. Yamatake, Sanshiro e Midori, Sakon e Jamilah, si chiesero se ne valesse la pena. Ma a quanto pareva, Briz aveva già preso la sua decisione e loro potevano solo starle vicino e sostenerla in quella scelta, proprio come stava facendo anche il loro Capitano; anche se era più che evidente che il suo modo di starle vicino, almeno in quel momento, era sicuramente più materiale del loro.
Si stavano giusto chiedendo se la storia tra quei due avrebbe mai imboccato la strada giusta, quando un segnale risuonò negli auricolari di ciascuno: si resero subito conto che non era l'allarme che annunciava un attacco, ma solo una comunicazione vocale. Il tono aveva comunque un'urgenza preoccupante:
“Attenzione. Tutti i membri dell'equipaggio sono attesi fra trenta minuti in plancia di comando dal dottor Daimonji, per una riunione tattica straordinaria. Ripeto: tutti i membri dell'equipaggio in plancia fra trenta minuti”.
Briz sollevò il volto che teneva nascosto contro il collo di Pete e sondò il suo sguardo: fece un sorriso tirato e tirò su col naso chiuso.
– Riposo e tranquillità, avevi detto? E magari ci credevi, pure!
Pete scosse appena la testa, come per dire che anche lui si sbagliava, qualche volta, e col pollice le asciugò una lacrima dal viso. Briz sfiorò la mano di lui con la sua, guardò gli amici e sospirò: sarebbe mai finita? Si staccò riluttante dal suo Capitano, non prima di avergli lasciato a sua volta una rapida carezza su una guancia.
Poi si ricompose, asciugando con un gesto quasi rabbioso le ultime lacrime col dorso di una mano e, tutti insieme, si apprestarono ad obbedire all'ordine.

                               
> Continua…


 
Non ho commenti da fare.
Va là, davvero? Per una volta ci risparmi le tue baggianate? (NdLettori sollevati…)

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Capitolo 40
*** 39 - Separazioni ***


~ 39 ~ 
SEPARAZIONI
 
“…So give me reason, to prove me wrong
To wash this memory clean,
Let the thoughts cross, the distance in your eyes,
Give me reason, to fill this hole,
With lifeless things between,
Let it be enough, to reach the truth and lies,
Across this new divide.”
(Linkin Park – New divide)
 
 
"Piove sul bagnato". 
Era l'unica cosa che Briz riuscisse a pensare…
Se ne stava seduta in plancia alla sua postazione, con indosso l'uniforme, come tutti gli altri, rimuginando su quello che il dottor Daimonji aveva appena rivelato loro, in quella riunione ufficiale straordinaria convocata all’improvviso, mentre quasi tutti loro si trovavano sulla terrazza.
Una fortezza zelana su Marte…
Come avevano fatto a costruirla senza che nessuno se ne fosse accorto, visto che ogni pianeta era costantemente monitorato? Erano venuti a conoscenza ormai da tempo che i Grotector, le astronavi dei quattro generali zelani, formavano la Croce Spaziale con i musi uno contro l'altro, creando così i passaggi spazio-temporali per far entrare nel Sistema Solare i vari Mostri Neri e compagnia bella; ma da allora, quando ciò accadeva, venivano sempre rilevati e scattava l'allarme.
E allora? Che non fosse una costruzione zelana? Ma se non era una cosa legata all'Orrore Nero, allora che cos’altro avrebbe potuto essere?
Comunque fosse, il fatto restava. Daimonji aveva deciso che la cosa dovesse essere indagata, e di questo Fabrizia non poteva discuterne: il Drago Spaziale sarebbe partito per andare a studiare la situazione su Marte e, all'inizio, questa cosa l'aveva quasi entusiasmata; aveva entusiasmato tutti, a dire il vero. Erano già stati nello spazio profondo, anche piuttosto lontano, ma il Pianeta Rosso esercitava sempre un certo fascino. Solo fino a qualche anno prima un viaggio su Marte, con i mezzi più moderni e tecnologici, sarebbe durato approssimativamente sei o sette mesi, nel momento di media distanza del pianeta dalla Terra, ma il Drago Spaziale aveva fatto un balzo immenso sulla tecnologia dei viaggi nello Spazio e, con l'ipervelocità, lo avrebbe raggiunto addirittura in poche ore.
Quello che non era piaciuto a nessuno, a lei meno che a ogni altro, era il piano che il dottore aveva stabilito affinché la Terra, in quel momento di attacchi ripetuti e martellanti, non restasse indifesa durante la spedizione.
Il Drago sarebbe sì, andato su Marte, ma solo con Daimonji, Sakon e Jamilah; e Pete, per forza di cose. Ma il Gaiking, Balthazar e gli altri quattro mezzi d’appoggio, Skylar, Bazzora, Nessak e Infinity, sarebbero rimasti, ovviamente insieme ai loro piloti.
A Fabrizia questa cosa non andava giù, non perché non la capisse, in fondo neanche lei vedeva altra soluzione: bisognava assolutamente appurare se quella costruzione su Marte rappresentasse un pericolo per la Terra o meno e, allo stesso tempo, non si poteva lasciare la Terra sguarnita… ma le era venuto lo stesso da protestare.
– Non ci siamo mai separati, non in modo così drastico! Io non… non sono convinta che sia una buona idea! – si era zittita subito e si era scusata, rendendosi conto che stava dicendo le sue solite bischerate, ma era stato più forte di lei – E se fosse una trappola? – aveva insistito poi, senza riuscire a trattenersi.
– Mi aspetto anche questa eventualità, Briz. Se così fosse, i nostri nemici non potranno contare sull'effetto sorpresa e, nel caso, il Drago saprà difendersi o batterà in ritirata, e avremo comunque avuto la nostra risposta – rispose Doc, paziente.
– Ho una bruttissima sensazione… – continuò Briz – come un presentimento… Avete presente una di quelle vocine che ogni tanto si fanno sentire? E che generalmente non ascoltiamo mai, col risultato di finire quasi sempre con il culo per terra e la merda fino al collo?
– Briz, ti prego! – l'aveva interrotta Pete – Adesso che ha risolto le sue paturnie Midori, su presentimenti, voci e allucinazioni, ti ci metti tu?
– Mi scuserai se ho un cervello che lavora, qualche volta.
– È proprio questo il problema, bestiolina: tu rimugini troppo, ti fai troppi viaggi e congetture.
– Ah, questa è proprio bella! – saltò su lei, punta nel vivo – Tu, che dai della segaiola mentale a me! È come quella del paiolo che grida dietro al pentolone!
– Io? Non mi permetterei mai! Hai detto tutto da sola – rispose Pete, sollevando le mani.
– Lasciamo perdere, va’… Magari hai pure ragione, non sono particolarmente lucida, in questo periodo – finì lei, rassegnata.
Daimonji e gli altri avevano ascoltato quello scambio di battute pungenti, senza sapere se essere divertiti o preoccupati. Un po' per la situazione: l'idea di smembrare l'equipaggio in quel modo non mandava giù di testa nessuno, ma era inevitabile; un po' per la strana piega che aveva preso, ai loro occhi, il rapporto tra Briz e Pete.
Ormai l'attrazione che c'era tra loro era palese, anzi, c'era sicuramente anche dell'affetto profondo, che trasudava da molti dei loro gesti: il modo che avevano di guardarsi, o di toccarsi fugacemente per poi ritrarsi come se quei contatti li spaventassero… o anche la scena di un'oretta prima sulla terrazza, per esempio, quando Briz era scoppiata a piangere rifugiandosi tra le braccia di lui. Alcuni sapevano anche che qualche bacio c'era stato, e non robetta da amici o fratelli; e persino i battibecchi e le punzecchiature, come in quel momento, avevano assunto una connotazione diversa. Tuttavia era evidente anche che, per qualche assurdo motivo, entrambi erano decisi a resistere a… questa cosa, che agli occhi di tutti gli altri, naturalmente, aveva un unico nome: Amore.
Daimonji, a quel punto, aveva dato le disposizioni per la partenza per Marte, prevista per l'alba del giorno seguente. Il Drago era emerso dalla sua caverna e aveva liberato il Gaiking, Balthazar e gli altri mezzi, poi erano atterrati tutti sull'ampia costa sabbiosa dove, per quella notte, sarebbero stati lasciati, come un gruppo di imponenti sentinelle, a vegliare nel silenzio.
Briz era rientrata al Centro, dalla spiaggia antistante il Faro, insieme ai compagni, per seguire il consiglio di Daimonji e dei medici e concedersi un'altra notte di sonno. Ne aveva un bisogno dannato: si sentiva ancora debole, le faceva male la testa, e solo eseguire la semplice manovra, senza connessione, di far uscire Balthazar dal Drago e posizionarlo in riva al mare le era costata fatica.
Arrivata nell'atrio, si appoggiò alla parete a fianco dell'ascensore, mentre gli altri si dirigevano alla mensa; l'idea di mangiare il cibo della cucina del Centro le faceva ancora decisamente schifo, non perché non fosse buona, tutt’altro, ma era ancora troppo pesante e gli odori troppo penetranti per il suo stomaco provato, che era, a tratti, ancora indolenzito dai crampi.
– Briz, che ti succede? Stai bene? – le chiese Jamilah, preoccupata.
– No, ho mal di testa e un gran bisogno di andarmene in camera e starmene un po' in silenzio, mangiare qualcosa di veloce e senza sapore e fiondarmi nel letto.
Pete le si avvicinò: – Ti accompagno, ci manca solo che mi svieni in ascensore.
Il tono non ammetteva repliche, e Fabrizia decise di prenderla in ridere.
– Sì, papà. Vieni pure a rimboccarmi le coperte?
– Se vuoi; magari ti do anche il bacio della buonanotte.
– Ma anche no – scansò lei, pensando che in realtà, un bacio della buonanotte, l'avrebbe fatta sicuramente stare meglio. O forse peggio, a dire il vero… Ahh, era meglio lasciar perdere!
– Ti lascio in buone mani o devo venire anch'io? – si informò Jamilah scherzando.
– Ma vai a mangiare, dai! È pure troppo persino lui, ma se mi oppongo mi frantumerà le palle a morte, tanto vale accontentarlo – rispose Briz ironica, rivolta all'amica, come se Pete non ci fosse.
Lui sorvolò, con un mezzo sorrisetto di condiscendenza, un sopracciglio sollevato e lo sguardo al cielo: ormai lo sapeva, che Briz si divertiva così.
Ridacchiando, Jamilah lasciò Fabrizia in compagnia del loro Capitano ad attendere l'ascensore, e un pensiero le si insinuò nella mente: nel loro equipaggio l'unica vera coppia erano Sanshiro e Midori, ma sapeva che, agli occhi degli altri, anche lei e Sakon, e Briz e Pete, erano considerati alla stregua di coppie virtuali o, per così dire, in attesa. Volendo guardare la faccenda in quest'ottica, saltava all'occhio una cosa: il giorno dopo, lei sarebbe partita per Marte insieme a Sakon; Sanshiro e Midori sarebbero rimasti tutti e due sulla Terra; Fabrizia e Pete, invece, sarebbero stati gli unici a separarsi.
E questo, per quanto potessero negarlo persino a sé stessi, era il loro tormento.
Jamilah scosse la testa: le cose non andavano bene, né dal punto di vista di quel logorante conflitto, di cui non riuscivano a scorgere la fine, tantomeno da quello emotivo e affettivo, per molti di loro. Briz e il Capitano erano in una fase di stallo dalla quale non sembravano avere intenzione di uscire, tanta era la convinzione di non essere fatti l'uno per l'altra, sommata alla paura di soffrire e ferirsi a vicenda.
E quanto a lei e Sakon… Spesso Jami si era detta che, se Lisa fosse sopravvissuta, avrebbe potuto giocarsela con lei ad armi pari, e una delle due ne sarebbe uscita vincitrice; se a diventare la donna di Sakon fosse stata Lisa, lei se ne sarebbe fatta una ragione: sarebbe stata felice per lui e se la sarebbe fatta passare, in qualche modo. Ma Lisa era morta, e lei non era stata tanto meschina da gioirne: non era fatta così. Vedere Sakon distrutto da quella perdita l'aveva fatta soffrire insieme a lui, ma si era anche resa conto che combattere contro un fantasma, era molto più difficile che affrontare una persona viva. Al ritorno dalla loro brutta avventura, quando erano stati prigionieri nel sottosuolo del Sahara, aveva avuto l'impressione che qualcosa stesse come per… sbloccarsi, tra di loro. E invece… niente: un abbraccio caldo e avvolgente, nel quale lei si era crogiolata per qualche meraviglioso minuto, e un casto bacio sulla fronte. Poi, c’era stato quel bacio per caso sulla terrazza, poche settimane addietro, del quale lui si era persino scusato: questo era tutto ciò che aveva avuto da Sakon.
Lei lo amava in silenzio da una vita; lui le voleva bene, ma amava il suo lavoro. E se oltre al ricordo di Lisa, aveva ipotizzato Jami, nel passato del suo capo ci fosse stata qualche esperienza che lo aveva deluso, al punto di non voler più considerare la possibilità di creare un legame amoroso importante con una donna? A volte la sua sensazione era proprio questa…
In ogni caso, doveva rassegnarsi: non ce n'era! Lanciando un ultimo sguardo alle porte dell'ascensore che, chiudendosi, nascosero Briz e Pete alla sua vista, Jami pensò che fosse davvero meglio che ci pensasse lui, ad accompagnarla. Chissà che non fosse la volta buona che… boh, magari sarebbe successo qualcosa! Certo Fabrizia, in quel momento, era prostrata, a livello fisico, ma a confessarsi di amarsi non ci voleva chissà quale forza disumana. O forse si sbagliava?
Sospirò… Almeno Briz se lo era baciato come si deve più di una volta, il suo bel Capitano!
Al diavolo, era stufa di essere per Sakon solo una specie di sorella-segretaria-tuttofare, scontata come una tazza di latte e cereali per colazione! Che fosse ora pure per lei, di darsi una svegliata e provare a smuovere un po' le acque?
Anche lei un po' abbattuta, Jami raggiunse il resto della truppa per risolversi a mandare giù qualcosa, e poi concedersi qualche ora di sonno, prima della loro avventura marziana.
– Se Doc si accorge che sali alla Piccionaia, ti fa degradare – mugugnò Briz a Pete, tenendo la testa bassa, mentre l'ascensore li portava all'ultimo piano.
– Tsz! E allora Sanshiro, che ci dorme pure? Che poi… dorme… Oddio…
– Ma taci, un po'! Ci arrivavo anche da sola, alla mia stanza, non sono mica diversamente abile. 
– No, infatti: tu sei diversamente suonata, che è un'altra cosa. Ma se non ti reggi in piedi! Prega che l'Orrore Nero non si faccia vivo per un po', ché non oso immaginarti a combattere in queste condizioni.
– Figurati io – commentò lei, mentre le porte si aprivano – Ecco, sono arrivata viva, visto? E non sono nemmeno collassata ai tuoi piedi! Coraggio, sparisci, bel pupone.
– Veramente hai l'aria di una che sta davvero per collassare da un momento all'altro – disse Pete, come se non l'avesse nemmeno sentita, passandole un braccio attorno alle spalle – Mi ricordi Melissa, una sera che l'accompagnai a casa completamente in sbornia.
– Io non sono ubriaca, non ho mica bevuto! E in camera mia non ti ci faccio entrare, come invece ha senz'altro fatto, a suo tempo, la tua scopamica Melissa…
– Piantala di dire baggianate, Cuordileone. Tanto per cominciare, non è nel mio stile approfittarmi di una ragazza sbronza, neanche di Melissa che, quella volta, ce la mise davvero tutta; figurati se lo farei con te! E poi lo so benissimo che sei solo distrutta. Vai a dormire, forza: domani starai meglio – la esortò, lasciandola e sospingendola verso la sua porta.
– Come potrò star meglio, guardando il Drago che se ne va lasciando qui me e più di mezzo equipaggio? "E soprattutto che si porta via te" aggiunse col pensiero.
– Continuo a pensare che non sia una buona idea, sappilo – ribadì appoggiandosi alla porta con la schiena, incrociando le braccia e osservandolo.
– Nessuno ne ha una migliore, Briz.
– Lo so – concluse sommessa, sapendo che non c'erano alternative.
Gli fece un sorriso stanco, che lui ricambiò avvicinandosi e scostandole dal volto la ciocca bianca; Fabrizia sentì le sue dita sfiorarle prima la guancia e poi l'orecchio, dietro al quale le fermò i capelli. Si accorse di star trattenendo il fiato e, senza volerlo, si passò rapidamente la punta della lingua sulle labbra secche.
– Non farlo mai più – disse Pete, sottovoce.
– Che cosa?
– Qu… quella cosa… con… con la lingua – articolò lui, completamente in confusione, posando l'altra mano sul muro a fianco della sua testa e abbassando appena il viso, fino a sfiorarle la punta del naso con il proprio. Briz girò appena la testa, cercando di evitare il suo sguardo, ma soprattutto le sue labbra.
– Ti prego, Pete, no! Non baciarmi… Non qui, non adesso.
Un no e tre non: quattro negazioni in un'unica frase… Non potevano essere ignorate, anche se per lui fu una fatica immane.
– Perché? Dammi una buona ragione – le chiese in un soffio, che le solleticò appena le labbra socchiuse.
 
Non-baciarmi
 

Briz gli posò una mano, aperta e decisa, al centro del petto e spalancò gli occhi, che erano stati sul punto di chiudersi in quell'attimo di pericoloso abbandono. A Pete non restò che scostare il volto di qualche centimetro e affrontare quello sguardo smeraldino.
– Vuoi una ragione, Pete? Bene, te la do: in questo momento non sono nel pieno delle mie facoltà mentali, non abbastanza per riuscire a resisterti. E non propinarmi stronzate su Melissa o il non approfittarsi di ragazze sbronze e quant'altro: se mi baci, io apro questa porta e ti faccio entrare; e se ti faccio entrare, non te ne andrai prima di domattina, con tutto ciò che ne consegue. Lo so io, e lo sai tu. Devo spiegarmi meglio?
Pete prese un respiro, allontanandosi di mezzo passo e chiudendo gli occhi. Briz lo vide deglutire e poi riaprirli, facendo un lieve cenno di diniego con la testa.
– Ti sei spiegata perfettamente – le disse a voce bassissima; non riuscì a resistere e le lasciò un bacio leggero tra la guancia e l'orecchio.
Fu un contatto lievissimo e rapido, che lasciò come una sensazione di caldo formicolio, a lei sulla pelle e a lui sulle labbra.
– Buona notte, fanciullina, ci vediamo domattina all'alba.
Briz continuò a fissarlo, mentre Pete indietreggiava di qualche passo e lei cercava con la mano lo scanner digitale che fece scivolare silenziosamente la porta metallica di lato. Fece anche lei un passo indietro ed entrò nella stanza, prima che il pannello di acciaio, richiudendosi, tagliasse l’invisibile filo che legava i loro sguardi.
 
***
 
“Ci vediamo domattina all'alba”.
Quell'ultima frase che Pete le aveva rivolto continuò ad aleggiare tra i pensieri di Fabrizia, e nei suoi sogni tormentati, per tutta la notte.
"Ci vediamo per cosa? Per dirci addio?" pensò confusa, quando si risvegliò definitivamente, ben prima dell'orario stabilito.
Però, nonostante tutto, il suo corpo era riuscito a riposare e, un po’ alla volta, quel senso di spossatezza cominciava ad abbandonarla.
Accantonare il desiderio che lei e Pete provavano l'uno per l'altra, semplicemente decidendo di smettere di baciarsi a ogni occasione, si stava rivelando più difficile del previsto. Anzi, più si imponeva di rinunciare a momenti del genere, più li desiderava. Non voleva cedergli, pur sapendo che anche lui provava, Dio solo sapeva perché, una prepotente passione nei suoi confronti.
Ma… era davvero solo così? A volte i suoi gesti sembravano tradire molto di più, come il bacino sulla guancia che le aveva dato la sera prima. Lei aveva sentito, in quel lieve contatto, un universo di sentimenti, da parte di Pete, quasi di più che in un appassionato bacio sulla bocca. Possibile che avesse commesso anche lui la stupidaggine di innamorarsi? Forse aveva sbagliato tutto; forse avrebbe davvero dovuto lasciarlo entrare la sera prima.
In fondo erano grandi, e liberi; e se anche da parte di Pete non fosse stato amore, che male poteva mai esserci, nel lasciare che accadesse? Dopotutto, sarebbero potuti morire domani, perché non avrebbero dovuto prendersi tutto il possibile? Lo aveva detto anche con Midori, a suo tempo: evidentemente predicare bene e razzolare male era un difetto comune… 
Tuttavia, paradossalmente, fu proprio questo ragionamento a convincerla di aver fatto la scelta giusta…
Infilò velocemente la divisa e mise da parte questi pensieri che, in quei momenti, le sembrarono terribilmente futili: avevano ben altro a cui pensare.
Raggiunse la spiaggia prima degli altri e rimase per un po' lì, seduta sulla sabbia a gambe incrociate, accanto ad una delle immense zampe di Balthazar, a guardare il sole sorgere dal mare.
L'aurora: era persino il suo secondo nome, e in tanti la consideravano un simbolo di speranza… ma la bellezza e il significato di quel fenomeno naturale non le suggeriva, al momento, niente del genere; la percezione di oscuri presagi si fece, anzi, più forte.
Nella luce dorata, vide arrivare il resto della truppa in procinto di raggiungere il Drago Spaziale, chi per partire alla volta di Marte, chi per ricevere le consegne.
Eccolo lì, Peter Jonathan Richardson, Capitano e pilota del Drago Spaziale: alto e biondo, bello, serio e coraggioso. Uno così… non sarebbe stato mai veramente suo, ma… ciò non toglieva che fosse l'amore della sua vita.
Il dottor Daimonji designò Sanshiro comandante in capo del gruppo che sarebbe rimasto a terra e Briz suo secondo, in quanto piloti dei due mezzi più potenti. Briz pregò che non ci fosse proprio nessun bisogno che lei dovesse davvero comandare qualcosa, o qualcuno, senza l'aiuto di Sanshiro, perché se ciò fosse accaduto, sarebbe stato un brutto segno; un gran brutto segno.
La legge di Murphy le balenò nella mente: ”Se qualcosa può andar male, lo farà!”
Scosse la testa, come per rimuovere quella vecchia stronzata tanto pessimista quanto inopportuna, e si concentrò sui compagni. Sakon e Daimonji, dopo aver salutato tutti, avevano guadagnato la rampa d’imbarco, insieme a Pete che, però, sembrava temporeggiare.
E Jamilah…? Dov'era? Non era ancora arrivata! Una manciata di secondi e Briz la vide raggiungerli di corsa, affannata.
– Scusate, scusate! Sono imperdonabile! Non so perché, la sveglia del mio cellulare non ha suonato! – esclamò, abbracciando velocemente le sue amiche e salutando gli altri, che le augurarono buona fortuna mentre lei correva sulla rampa per raggiungere Sakon e il dottore.
Il giovane ingegnere si fermò e, con un'espressione ferma e severa, le sbarrò la strada.
– No, Jami: tu resti.
Il tono era pacato, ma imperioso. Gli occhi di Jamilah diventarono tondi e grandi come piattini, arcuò le sopracciglia e spalancò la bocca.
– Prego? Non ho capito bene – ansimò incredula.
– Hai capito benissimo: tu resti al Faro. È solo una missione esplorativa, non c'è bisogno di te.
– Non c'è bisogno… di me… – ripeté lei, in tono incolore; poi esplose: – Non c'è bisogno di me?! Perché a terra invece sì, secondo te? Cosa faccio a terra? Il mio posto è sul Drago, Sakon! È il Drago il mio lavoro, la mia casa! Oh, no, non mi lascerai indietro, Prof, non te lo sognare neanche! – concluse con convinzione, spostando il braccio del giovane che le impediva di proseguire.
Lui tenne la posizione e Jami, affrontando il suo severo cipiglio, trasse le sue conclusioni sul motivo per cui fosse arrivata in ritardo.
– Hai manomesso la sveglia del mio telefono di nascosto!?
Sakon non rispose, confermando implicitamente l'accusa.
– Ma come ti sei permesso?! – si indignò Jamilah.
– Sarai più al sicuro, qui – le disse, duro.
– Al sicuro da che, esattamente? Hai appena detto che è solo una missione esplorativa! E sai benissimo che ho affrontato cose peggiori, insieme a voi, sul Drago! Cosa ci sarebbe di diverso, stavolta? – rimarcò Jamilah, più arrabbiata che mai.
Sakon, davanti a quella furia, sembrò per un attimo non avere più argomenti, poi si riprese.
– Sono un tuo superiore, Jami: devi fare quello che ti dico io!
– Ah, fantastico, ti rifai sul tuo ruolo, per darmi ordini!? Ma col cavolo, non ci provare! Tu puoi obbligarmi a qualcosa solo per questioni tecniche che riguardino il lavoro sul Drago, chiaro? Ora mi stai solo impedendo di esercitare il mio libero arbitrio! Tu sei l’ingegnere capo, io sono il tuo secondo: io e te, insieme, siamo la mente del Drago! – gli gridò in faccia – E che debba essere io a ricordartelo… beh, è… ridicolo, davvero! – concluse, sconcertata.
Gli amici li guardavano esterrefatti: Sakon e Jamilah che litigavano erano qualcosa al di fuori di ogni immaginazione, dato che entrambi erano considerati da tutti l’emblema della calma e della ragionevolezza. Nemmeno Daimonji si sarebbe mai aspettato uno scontro del genere, tantomeno che Sakon volesse escludere Jamilah da quella missione.
– Non dirmi mai più quello che devo fare, o guai a te, Esimio Professor Gen! – chiuse categorica la ragazza, facendo di nuovo per proseguire.
Sakon stavolta la afferrò per le spalle con una presa ferrea, e la fissò negli occhi con fredda determinazione; Jami non gli aveva mai visto un'espressione così e, improvvisamente, realizzò un paio di cose.
In primis: forse lui temeva, immaginava, o addirittura sapeva, che la missione sarebbe stata più pericolosa di quanto potesse sembrare…?  In secundis: era talmente preoccupato, da arrivare al punto di rinnegare la sua natura pacata e tranquilla; era preoccupato… per lei! E, a differenza di ciò che Sakon sperava, quella seconda motivazione portò Jami ad arroccarsi ancora di più sulla sua posizione: la ragazza decise di mettere in pratica ciò che aveva pensato la sera prima, e di giocarsi il tutto per tutto.
Sotto gli occhi allibiti del resto dell'equipaggio, Jamilah affondò le dita di una mano tra i folti capelli neri di Sakon e lo tirò, quasi con malagrazia, contro di sé, schiacciando la bocca morbida e carnosa contro la sua.

 
Sakon-Jami-bacio-imbarco

Sakon rimase per un istante paralizzato da quel gesto assolutamente imprevisto: Jami lo sentì tendersi come la corda di un arco e si aspettò di venire respinta bruscamente, così lo prevenne e rafforzò la situazione passandogli l'altro braccio intorno al collo e schiudendo le labbra, rendendo il bacio profondo e appassionato e costringendo Sakon a una risposta. A dire il vero, costringere non fu proprio il verbo adatto a descrivere la reazione del giovane che, alla buon’ora, si decise a chiudere le braccia intorno alla ragazza stringendola a sé, e a rispondere al bacio, assaporando di nuovo quelle labbra calde e dolci, come aveva sognato di fare ogni giorno, in quelle ultime settimane.
Per essere tanto intelligente, era stato davvero stupido… Dio, quanto tempo perso! Jami si lasciò andare fra le sue braccia, mentre le usciva un mugolio soddisfatto e, in un certo senso, fu lei che continuò a condurre il gioco, perché quel bacio rovente, per quanto pienamente ricambiato, finì solo quando fu lei a deciderlo. E quando lo fece si ritrovò ansante, con la bocca e le guance in fiamme, ma incenerì con lo sguardo lo sbalordito ingegnere.
– E adesso lasciami qui, se ti riesce! – lo sfidò Jamilah, con gli occhi chiari e fiammeggianti affondati in quelli neri di lui.
Sakon riuscì solo a sondare il suo sguardo senza riuscire a dire una parola, tantomeno a lasciarla andare, tenendo le dita intrecciate nei suoi riccioli scuri.
Jamilah si sciolse bruscamente dal suo abbraccio e lo superò, incamminandosi a testa alta sull'ultima parte della rampa di imbarco, lanciandogli una penetrante occhiata di sfida da sopra la spalla e seguita dagli sguardi divertiti dei loro compagni.
– J-Jami… – cominciò Sakon, esitante, allargando appena le braccia. Lei si voltò repentina e gli puntò un indice contro.
– Zitto, Prof! Jami un accidente! Stampatelo a fuoco in quel tuo supercervello: dove vai tu, vado io! E che non se ne parli mai più! – e, a passo di carica, sparì all'interno dell'astronave, non prima di essere passata davanti a Pete che, guardandola ammirato, le fece un occhiolino con un pollice sollevato.
Il resto dell'equipaggio rimase a fissare Sakon che, a sua volta, massaggiandosi la nuca, guardava il punto in cui Jami era scomparsa dentro al Drago Spaziale.
– Evvai, dottoressa Nyong’o! Così si fa! – esultò Briz, sollevando i pugni chiusi e tirando indietro i gomiti bruscamente, in un gesto di soddisfazione.
– Ahahah! – rise Yamatake, dandosi un paio di manate sulle cosce – Guarda che ci voleva, per mandare ai matti il nostro imperturbabile super-ingegnere! E brava la nostra Jami: ha tutta la mia stima!
Sakon, completamente frastornato, sbuffò esasperato.
– Uff! Ma le donne…! – esclamò, come se stesse parlando della più grande catastrofe dell'universo; senza aggiungere altro, si affrettò anche lui all'interno, lasciando tutti a chiedersi come sarebbe andata a finire.
Sulla rampa di imbarco era rimasto solo Pete, che rivolse agli amici un'espressione tra il divertito e il perplesso e scosse appena la testa, prima di portare la mano alla fronte in un rapido saluto, e voltare loro le spalle per raggiungere anche lui il suo posto a bordo.
E a Briz, quasi si fermò il cuore.
Yamatake intervenne di nuovo: stavolta non parlò ma, con uno sguardo eloquente e posandole una mano al centro della schiena, spinse con decisione Briz verso il Drago. Lei non poté fare a meno di dargli retta.
– Pete! Aspetta!
Lui era già arrivato all'ingresso, al limite della rampa, ormai seminascosto alla vista degli altri, ma si fermò, girandosi a guardarla con aria interrogativa: la ragazza lo raggiunse, armeggiando concitata col fermaglio del proprio braccialetto… ma che diavolo stava facendo? Sempre più sorpreso, la vide avvicinarsi e afferrargli una mano, per poi agganciargli al polso il gioiello: il piccolo cuore d'acciaio luccicò, ai primi raggi del sole.
– Ma… perché? – le chiese soltanto.
– Perché così lo avrai sempre sotto gli occhi! E ogni volta che ti capiterà di guardarlo ti ricorderai che, se non tornerai indietro, io mi incazzerò molto, con te! Ma non molto così per dire! Proprio molto… molto! – e prima ancora di finire la frase, lo abbracciò stringendogli le braccia intorno al collo.
– Mi hai dato un ottimo motivo per rientrare, e pure puntuale: di te incazzata faccio anche a meno, persino da Marte – replicò lui, con l'accenno di una risata che gli vibrava nella voce e ricambiando l'abbraccio, con il viso tra i suoi capelli di biancospino – Andrà tutto bene, tranquilla. Il Drago viaggia in ipervelocità, lo sai: prima di ventiquattr'ore saremo di nuovo qui.
Briz gli posò le mani sulle guance.
– Fa' in modo che non sia una bugia, Dragonheart: torna a casa, tu e tutti gli altri.
– Lo faremo, Bri – le rispose piano, gli occhi azzurri affondati nei suoi.
Bri… quell'improbabile nomignolo era saltato fuori di nuovo, mandandole il cuore in fibrillazione.
Fabrizia chiuse gli occhi… e lo baciò sulla bocca, mandando definitivamente al diavolo tutte le stupide regole che lei stessa aveva stabilito, tanto non riuscivano a seguirle, nessuno dei due: che fosse quel che doveva essere e basta!
Pete doveva aver pensato la stessa cosa, perché la strinse a sé con più forza, mentre il loro bacio diventava profondo e impetuoso, lasciando che a guidare i loro gesti fosse, anche solo per qualche attimo, quella passione divorante che provavano ormai da tempo l'uno per l'altra.
Si riempirono il cuore e l’anima del loro sapore e del loro respiro… e  quando si sforzarono di mettere qualche centimetro fra le loro labbra, erano entrambi affannati.
– Ehi, però! Mi mancava, questa cosa – commentò lui, naso contro naso, senza trattenere un sorriso – Me ne dai un altro così, al mio rientro?
Briz si morse le labbra, poi le distese anche lei in un sorriso, mentre annuiva convinta.
– Anche due, tre… dieci; quelli che vuoi, promesso.
– Okay: considerami praticamente già tornato – affermò Pete, prendendole un altro bacio, un breve e appassionato contatto sulla sua bocca ancora dischiusa in un sorriso.
– Pete…
Il tono con cui Briz aveva bisbigliato il suo nome era suonato dannatamente serio: frugò di nuovo nei suoi occhi verdi, alla ricerca di un seguito che arrivò come un fulmine a ciel sereno.
– Tu torna a casa… e avrai molto di più.
Il cuore gli rimbalzò violento contro le costole, lasciandolo senza respiro: il senso di quelle parole non lasciava spazio a fraintendimenti.
– F-fanciullina… ti rendi conto di cosa hai appena detto, sì…?
Lei gli posò un dito sulle labbra, serissima, e annuì.
– Avrei potuto lasciarti entrare, ieri sera, ma… l’incertezza e il pericolo incombente che provo verso questa missione mi hanno frenata: avrebbero dato a tutto un sapore così… dolceamaro, triste, disperato. Qualcosa come… prendiamoci quel che si può, prima di separarci per sempre, o di morire… e… no, io… non volevo che fosse… così
Pete, ancora incredulo, si sentì chiudere la gola e si appoggiò la testa di Briz contro la spalla, le dita fra i suoi capelli, in un gesto che lei percepì tenerissimo, sentendosi quasi sciogliere.
– Ora mi sento come se… averti detto questa cosa, mi garantisse il tuo ritorno. Capisci cosa intendo?
Pete annuì e dopo qualche secondo le sussurrò all’orecchio:
– Credo proprio… che io e te avremo un po' di cose da dirci, quando tornerò, vero?
– Mmm… forse sì – bofonchiò Fabrizia, il volto contro l'azzurro cupo del giubbetto di lui.
– Bene… ci vediamo domani, allora, piccola matta – finì Pete, abbassando appena la testa per rubarle un ultimo bacio.
Non sentirono il dottor Daimonji che, tornato all'ingresso, vedendoli si schiarì la voce per riscuoterli.
– Ah-ehmm! Al Drago servirebbe un pilota! – annunciò, guardando da un'altra parte.
Le labbra della coppia si staccarono di colpo, con un lieve schiocco, e i due lo fissarono per un attimo, storditi e imbarazzati, prima di rivolgersi un ultimo sorriso e separarsi definitivamente.
E che diavolo, si disse lo scienziato, ma che stava succedendo proprio quella mattina? Stava scoppiando un'epidemia di qualcosa? Non che gli facesse piacere interromperli, anzi… ma la loro missione, ora, aveva la priorità su tutto.
Briz scese sulla spiaggia, guardando Pete e Daimonji che venivano inghiottiti dalla semioscurità, scomparendo nei meandri all'interno del Drago Spaziale, mentre la rampa si richiudeva.
Pochi minuti più tardi i componenti dell'equipaggio rimasti, in piedi uno a fianco all'altro sul terrapieno che dominava la spiaggia, guardavano il Drago alzarsi in volo nel cielo dorato dell'alba. Sapevano che dai monitor al suo interno, anche i compagni vedevano le loro braccia alzate in segno di saluto.
Briz fece un passo avanti, lo sguardo al cielo, e si posò il pugno destro contro il cuore, in un gesto che esprimeva fedeltà assoluta agli amici che li lasciavano. Sanshiro fece la stessa cosa e, uno dopo l'altro, anche Midori, Yamatake, Fan Lee e Bunta li imitarono; rimasero in quella posizione finché il Drago non fu scomparso fra le nuvole rosse e dorate dell’alba.
Fabrizia portò l'indice e il medio al ciglio.
– Buona fortuna, mon Capitain. Torna da me, ti prego… Io ti amo, e al tuo rientro, cascasse il mondo, te lo dirò. E poi… che vada come deve andare.
 
 
> Continua…
 
 
 
 
Note dell’autrice:
Poca roba  (che bello, si sente commentare).
Direi che Briz ha dato a Pete un’ottima ragione per tornare sulla Terra. Ma stiamo comunque sempre parlando di due teste de coccio, quindi si vedrà…
I disegni sono dedicati a Morghana 

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Capitolo 41
*** 40 - Di trappole e rimpianti ***


~ 40 ~ 
DI TRAPPOLE E RIMPIANTI

 
 
“A fire needs a space to burn
A breath to build a glow
I’ve heard it said a thousand times
But now I know
That you don’t know what you’ve got
Oh, you don’t know what you’ve got
No, you don’t know what you’ve got,
Until it’s gone…”
(Linkin Park – Until it’s gone)
 
 
Sakon si lasciò cadere sul sedile della sua postazione, e chinò la testa sentendosi definitivamente sconfitto.
Avrebbe dovuto dare ascolto ai presentimenti di Fabrizia, ma ciò che era accaduto su Marte era andato oltre la loro immaginazione; nemmeno Pete, Daimonji e Jamilah riuscivano a capacitarsene.
Lanciò un'occhiata alla ragazza che, insieme al dottore, lavorava febbrilmente su alcuni dati. Aveva fatto una stupidaggine, avrebbe davvero dovuto imporsi e lasciarla a terra; ma lei lo aveva baciato, e lui non aveva capito più niente. E adesso…?
Un po' più in basso, sulla sua poltroncina di pilotaggio, Pete non era meno affranto di loro: se ne stava curvo, scomposto, un tacco dello stivale appoggiato al bordo del sedile, un braccio teso posato sul ginocchio e la testa china, il ciuffo sugli occhi.
 
Pete-su-Marte

Nessuno parlava.
All’arrivo su Marte avevano avvistato la fortezza aliena quasi subito e, così da vicino, avevano riconosciuto l'architettura zelana: quella della popolazione zelana, non quella delle costruzioni inquietanti e abominevoli realizzate da Darius e dai suoi quattro orribili generali. Era incredibilmente estesa, quasi una piccola città, con una linea sinuosa, elegante, e affusolate guglie collegate tra loro da ponti ad arco; racchiudeva tra di esse una immensa piattaforma sopraelevata, senza ombra di dubbio una pista di atterraggio, con al centro il simbolo della Resistenza Ribelle Zelana.
I quattro componenti dell'equipaggio si erano lasciati sfuggire un sospiro di sollievo a quella vista: erano alleati! Nessuno di loro aveva dimenticato il defunto professor Zenon e la moglie, né Yock e Lyra, i loro figli rimasti sulla Terra, che avevano consegnato loro decine di informazioni grazie alle quali erano riusciti a procurare devastanti sconfitte all'Orrore Nero.
Pete aveva impostato le manovre e si era abbassato per atterrare direttamente sul simbolo dei ribelli, ed era stato a quel punto che era accaduto il disastro: nel momento in cui si sarebbe dovuto posare sulla piattaforma, il Drago aveva incontrato il vuoto. La fortezza si era rapidamente dissolta nell'atmosfera rossastra di Marte, e la grande astronave terrestre era precipitata rovinosamente sul terreno, rovesciandosi su un fianco. Mentre Pete aveva tentato disperatamente di rimettere il Drago in posizione per un rapido decollo, avevano tutti e quattro realizzato di essere stati fregati: la cittadella altro non era che un perfetto, accuratissimo ologramma.
E non era finita lì: dal suolo, ai lati del Drago, erano emerse all'improvviso due semisfere trasparenti che si erano chiuse una contro l'altra al di sopra di loro, saldandosi tanto fortemente da non rivelare nemmeno più il punto di contatto. Il Drago Spaziale era irrimediabilmente prigioniero dentro una sfera, che certamente era saldata in egual modo anche nella parte nascosta, sepolta nel sottosuolo.
A nulla erano valsi i tentativi di distruggerla: né i missili, né i micidiali raggi sprigionati dalle doppie corna che formavano la pseudo-testa – la testa vera e propria, per forza di cose, era sulla Terra, assemblata al Gaiking – e, alla fine, nemmeno la Lama Gigante aveva potuto qualcosa. La trasparente, luccicante superficie concava che li teneva prigionieri, non si era nemmeno scalfita.
Poi c'era stata l'altra brutta sorpresa: erano comunque troppo lontani dalla Terra, per comunicare con i compagni tramite le normali onde radio, ma il Drago era dotato di un segnalatore tracciante che rivelava almeno la sua posizione. Quando, però, Jamilah aveva tentato di metterlo in modalità intermittente, per segnalare a Midori che erano in pericolo e per chiedere l'aiuto del Gaiking, – che forse, con i Raggi Perforanti sprigionati dagli occhi del Drago sul suo petto, sarebbe riuscito a bucare la sfera – avevano scoperto che nemmeno le onde del dispositivo tracciante potevano uscire da quella impenetrabile barriera.
A quel punto la terrificante verità li aveva colpiti come un maglio: il Drago Spaziale era in trappola e Darius era padronissimo di attaccare la Terra.
E lo avrebbe fatto, senza ombra di dubbio.

 
***


Briz era passata dai suoi cavalli, ma si era fermata da loro non più di mezz'ora. Aveva nostalgia dei suoi animali, e avrebbe voluto sellare Indy per fare una folle galoppata sulla spiaggia, lasciando che il vento tra i capelli anestetizzasse i suoi pensieri e le sue ansie; ma aveva troppa paura di un attacco, senza contare che, in realtà, tutto quel senso di vuoto che avvertiva era legato più che altro alla mancanza di Pete, che percepiva in modo praticamente fisico.
Era già il crepuscolo, e le sembrava di aver appena vissuto il giorno più lungo della sua vita; dopo qualche coccola distratta anche ad Atlas e Balto e aver controllato il loro cibo, se ne tornò alla spiaggia.
Si sedette di nuovo sulla sabbia, vicino alla zampa di Balthazar, e attese; che cosa, non lo sapeva nemmeno lei.
Soffiava una lieve brezza, e il rumore delle onde era dolcemente ipnotico: niente faceva sospettare che le cose potessero andare male.
Ripensò al bacio di Jamilah e Sakon, lasciandosi sfuggire un sorriso:  cavoli, la sua amica aveva davvero deciso di prendere in mano la situazione e metterla in chiaro alla svelta! Sperò con tutta sé stessa che, al ritorno sulla Terra, le cose fra loro fossero finalmente risolte e realizzate. Pensare alla coppia di amici che si baciava le riportò inevitabilmente alla mente i baci che lei e Pete si erano scambiati: si passò il pollice sulle labbra, sentendo ancora il sapore di quelle di lui e sentì il volto accalorarsi, al pensiero di ciò che gli aveva promesso al suo ritorno.
Dovevano parlare, le aveva detto… In realtà non sapeva cosa aspettarsi da lui, che magari avrebbe solo voluto specificare che tra loro, una cosa più seria, non avrebbe potuto funzionare… ma non importava: era ora di scoprire le carte e giocarsele, e pregò che non fosse troppo tardi per farlo, qualunque fosse stato il risultato. Lui era difficile da decifrare… non era affatto sicura di quello che Pete provava per lei, come non era sicura di avere la stoffa della scopamica… ma se gli aveva confessato di essere disposta a una svolta così totale con lui, era perché aveva percepito qualcosa di profondo da parte sua… quindi, chissà… Diooo, ma perché era tutto così complicatooo?
Un incedere di passi la riscosse, e vide venire verso di lei il resto della squadra: Sanshiro e Midori si avvicinarono, con un'espressione tesa sui volti seri.
Brutte notizie, era fin troppo facile indovinarlo.
"Lo sapevo: se qualcosa può andar male, lo farà" si ripeté nella mente.
– Non riceviamo più il segnale del dispositivo tracciante – disse Midori con voce spenta.
– Sono lontani – tentò di sdrammatizzare Briz – Forse c'è qualche ostacolo di mezzo… o potrebbe semplicemente essersi danneggiato.
– Può essere, – concordò Sanshiro – per questo pensavamo di aspettare ancora qualche ora.
– Qualche ora… per fare che? …se non avremo notizie…? – chiese lei, sentendo l'ansia salire come una marea.
– Non vedo perché non dovremmo averne, ma, nell'eventualità… – Sanshiro si interruppe, indeciso.
– Nell'eventualità…? Cosa?
Fu Bunta a rispondere: – Sanshiro li raggiungerà con il Gaiking.
Briz vide Midori mandare giù amaro, chiudere gli occhi e quasi trattenere un gemito: era ovvio che quella decisione non era piaciuta a nessuno, ma alla sua amica ancora meno che agli altri.
Yamatake si avvicinò a Briz, la prese sottobraccio e si sedettero insieme davanti alla zampa sinistra di Balthazar, appoggiandosi con la schiena al metallo ancora caldo. Il giovanottone avvertiva quasi materialmente l'angoscia della sua amica, e dopo che aveva intravisto il modo in cui aveva baciato il loro Capitano quando si erano salutati, non aveva dubbi su come potesse sentirsi. Fan Lee e Bunta si sedettero all'altro lato, accanto all'altra zampa del grande leone, mentre Yamatake le passava un braccio attorno alle spalle. La ragazza si appoggiò alla sua possente e protettiva mole, sentendosi un po' rincuorata dalla sua presenza e da quella degli altri amici.
Un po' più in là, vicino a un piede del Gaiking, Midori si sedette sulla sabbia, con il tablet sulle ginocchia, dal quale tenere d'occhio eventuali segnalazioni dal Drago Spaziale, o qualunque altra cosa che potesse far presagire un attacco; anche lei temeva, però, che il sofisticato oggetto tecnologico che teneva in grembo, per quel che riguardava il Drago, sarebbe rimasto muto. Sanshiro si sedette dietro a Midori, la abbracciò e le sfiorò una guancia con le labbra; sapevano tutti che nessuno avrebbe chiuso occhio.
Qualche ora più tardi, a notte inoltrata, non avendo ricevuto nessuna nuova, Sanshiro si alzò in piedi e salutò gli amici, pronto a partire.
– Buona fortuna, Comandante – disse a Briz, salutandola per ultima e abbracciandola brevemente.
– Buona fortuna a te – gli rispose, non riuscendo a immaginare chi potesse averne più bisogno.
Briz distolse lo sguardo dall'ombra alta e scura del giovane che, stagliandosi nella semioscurità, si fondeva con quella di Midori per un ultimo bacio, pensando che stava accadendo proprio ciò che avrebbe voluto evitare: adesso era lei, il Comandante in capo.
Nel giro di pochi secondi la sagoma del Gaiking scompariva nella notte, alla volta di Marte. Fabrizia e Midori si abbracciarono strette, sedute sulla rena, entrambe con i pensieri rivolti agli uomini che amavano e agli altri loro amici, chiedendosi se li avrebbero rivisti. Yamatake, Bunta e Fan Lee rimasero alle loro spalle, privi di qualunque parola.
Potevano solo attendere, chiedendosi se sarebbero arrivate notizie dal Drago o, invece, il temuto allarme di un attacco.
Sarebbe stata una lunga notte.
 
*** 
 
Sakon cercò Jamilah con lo sguardo, ma non la vide.
Avevano passato metà di quella che era la notte sulla Terra, a studiare e fare calcoli e prove varie con ogni arma disponibile, senza trovare soluzioni; il resto del tempo lo avevano impiegato fuori dal Drago, indossando le tute spaziali, per analizzare la cupola trasparente metro per metro, senza per questo ottenere qualcosa di positivo.
Quando la ragazza era rientrata, era sparita dalla circolazione: Sakon l'aveva vista lasciare la plancia, ancora con la tuta pressurizzata addosso, l'espressione avvilita e gli occhi azzurri pieni di lacrime. Jamilah non era una che piangesse facilmente: le poche volte in cui l’aveva vista farlo, da quando era iniziato il conflitto, si contavano sulle dita di una mano.
Non sapeva cosa fare, con lei; se andarla a cercare, o concederle un po' di riposo nella speranza che intanto accadesse… che cosa? Un miracolo: solo quello, ormai, avrebbe potuto salvarli.
– Sulla Terra mancano poche ore all'alba… di nuovo. Chissà cosa stanno facendo gli altri – disse, avvilito.
Pete sollevò appena lo sguardo, sentendo l'amico avvicinarsi al suo posto di pilotaggio.
– Se sono fortunati, staranno semplicemente aspettando il nostro ritorno – rispose, tornando poi a guardare in basso.
Le sue parole lasciavano solo immaginare come sarebbe stato se, invece, gli amici non avessero avuto fortuna e preferivano, ovviamente, non pensarci nemmeno. Pete riprese con voce incolore:
– Per una volta, avremmo dovuto ascoltare i presentimenti di Briz. Lei ci aveva pensato, a una trappola, e anche Doc!
– Un ologramma, Pete! Era perfetto, ma almeno io ci sarei dovuto arrivare! – esclamò Sakon, frustrato.
– Piantala, nessuno avrebbe potuto pensarci, a un cazzo di ologramma! Una cosa che non è neanche vera… e quei figli di puttana ci hanno fottuti per bene.
A Pete non capitava tanto spesso di usare un linguaggio così sboccato, se non in momenti molto tesi e difficili; ciò lasciava ben intuire come si sentisse in quel momento.
– Deve esserci un modo per distruggere quella sfera. Deve avere un punto debole – affermò Daimonji, dalla sua postazione, continuando a studiare i dati disponibili come avevano fatto per tutta la notte.
– Le abbiamo provate tutte, Doc: nemmeno controllarla personalmente, un centimetro alla volta, è servito. Non abbiamo trovato niente di niente – concluse Pete.
Sakon si accorse degli occhi lucidi dell'amico; non aveva mai visto il suo Capitano così disperatamente attaccato allo sforzo di non crollare. Abbassò lo sguardo e lo vide tormentare nervosamente il braccialetto che portava al polso e che prima non aveva notato: si accorse che era quello di Briz.
– Hai paura… di morire, Pete? – gli chiese a bruciapelo.
Lui scosse appena il capo: – Ho paura di morire, senza aver detto a Briz che…
– …che sei innamorato di lei? – finì Sakon al suo posto.
Pete non rispose: una lacrima, una sola, gli attraversò la guancia. Se la asciugò, con un gesto rabbioso del dorso della mano, e raccontò a Sakon ciò che Briz gli aveva praticamente promesso quando si erano salutati.
– Siamo stati due stupidi… Lei ha detto che non voleva che tra noi due accadesse così, solo per il terrore di perderci e per disperazione… Ma se ci fossimo parlati prima, se non avessimo avuto paura dei nostri stessi sentimenti, almeno ora non dovremmo rammaricarci per quello che ci siamo persi. Avremmo avuto qualcosa di più di qualche rimpianto… da portarci via con noi, in qualunque posto ci sia… dopo.
Daimonji, non meno rassegnato dei suoi ragazzi, li ascoltava in silenzio; non riusciva a credere che quella sarebbe stata la loro fine e quella del Drago Spaziale. Quando i loro compagni rimasti sulla Terra non avessero più visto il segnale del dispositivo tracciante, avrebbero fatto qualcosa, non poteva fare a meno di farsi forte di questo: il Gaiking era l'unico dei loro mezzi che avesse l'ipervelocità per raggiungere Marte da solo e in poche ore. Poi un altro pensiero lo sopraffece, e non per la prima volta: se Sanshiro fosse giunto in loro soccorso sul pianeta rosso… l'Orrore Nero ne avrebbe approfittato per attaccare la Terra. Quasi sicuramente era proprio questo il loro piano! Il pensiero che tutta la difesa sarebbe stata davvero sulle spalle di Balthazar e dei quattro mezzi d’appoggio, lo sconvolgeva: questa volta avevano davvero sbagliato ogni calcolo… Lui aveva sbagliato, aveva peccato di superficialità.
Pregò che i ragazzi sulla Terra capissero la situazione; che Sanshiro venisse in loro soccorso e che potesse essere davvero d'aiuto; e che gli Zelani non attaccassero. Si rese conto che, forse, era davvero chiedere troppo, ma pregò lo stesso.
– Pete… dev'esserci un modo. Farò di tutto per trovarlo – disse Sakon.
– Non c'è un modo. Sarà meglio che tu faccia qualcos'altro, Prof: quello che non ho potuto fare io con Briz. Vai da Jamilah, e diglielo: diglielo che l'ami, che lei è la tua ragazza, che è la cosa più bella che potesse capitare nella tua vita… e che non puoi vivere senza di lei.
Era davvero strano sentire una cosa del genere in bocca al Capitano Richardson.
– Va bene, lo farò. Ma tu devi promettermi che, se usciremo da questo casino, farai lo stesso con Briz!
A Pete sfuggì un sorrisetto sarcastico.
– Ah, posso anche promettertelo… So perfettamente cosa farei… Peccato che non so se avrò la possibilità di mantenere.
Sakon gli posò una mano su una spalla e gliela strinse brevemente, prima di andare in cerca di Jamilah.
Il Drago aveva un sistema di riciclaggio dell'aria che trasformava in ossigeno respirabile qualunque atmosfera ci fosse all'esterno; ma lì, sotto alla cupola, quell'atmosfera si stava lentamente consumando: la riserva di ossigeno sarebbe durata ancora parecchio, ma poi, un po' alla volta, avrebbe cominciato a scemare…
Sakon si slacciò il giubbotto grigio chiaro e allentò la tuta nera sul collo, avvertendo un vago senso di soffocamento, poi regolò l'auricolare in modo che potesse ricevere unicamente sul canale di emergenza, pensando a dove potesse essere andata Jamilah. Sperò che fosse a riposare un po', e si diresse verso le cabine.
Jami era andata proprio lì, dopo essersi liberata della tuta spaziale blindata; in seguito aveva fatto lo stesso col suo giubbotto rosa, buttandolo rabbiosamente a terra, e si era gettata su uno dei giacigli, nella cabina a tre posti solitamente destinata alle ragazze. Non riusciva a credere che fossero cascati in un tranello così stupido che sarebbe costato, alla fine, il Drago Spaziale e le loro stesse vite… e forse la Terra intera. E poi proprio ora, che aveva trovato il coraggio di fare qualcosa che, in un modo o nell'altro, avrebbe finalmente dato una svolta al suo rapporto con Sakon! Non avevano più avuto modo di parlarne, da quando erano partiti, o forse non avevano voluto, dando la priorità alla concentrazione sulla missione.
E poi… non poteva fare a meno di pensare a Pete e Fabrizia, che erano separati da qualche centinaio di milioni di chilometri e, forse, non si sarebbero mai più rivisti. Questo pensiero non faceva che aggiungere peso alla sua angoscia: aveva lasciato uscire qualche lacrima, ma ora non riusciva nemmeno più a piangere, si sentiva prosciugata di ogni emozione.
Pensò che la stanchezza non la stesse aiutando, forse riposare un po' le avrebbe ridato un minimo di lucidità mentale, magari per farsi venire qualche idea; chiuse gli occhi stringendo il cuscino, pregando che il sonno desse un po' di pace al suo animo disperato. Fu in quel momento che sentì la voce di Sakon che la chiamava.
Si alzò e fece scorrere di lato la porta metallica, trovandoselo davanti.
– Hai trovato una soluzione? – gli chiese ansiosa, la voce spezzata, gli occhi ancora arrossati.
– No, non ho trovato un bel niente: ho come la testa vuota – confessò Sakon, sentendosi totalmente inutile e inadeguato, davanti alla sua espressione speranzosa.
– Il che è tutto dire, detto da te – sospirò la ragazza, indietreggiando e lasciandolo entrare nell’angusta cabina, il cui spazio era quasi tutto occupato dalle tre cuccette.
– Cazzo, ma perché, Jamilah? A cosa mi serve tutta la mia intelligenza, se non sono capace di trovare una soluzione a questo casino di merda? Me lo dici!? – aveva sbottato Sakon, con una veemenza e un’ira che la sorpresero.
Jami si accorse che era stanco, frustrato, arrabbiato… anche lui, come Pete, raramente usava il turpiloquio come sfogo. Sicuramente era anche spaventato da quello che stava accadendo, e del resto, come avrebbe potuto essere diversamente? Era anche lui un essere umano, come tutti. Con ogni probabilità, sarebbero rimasti bloccati lì fino alla fine dei loro giorni che, era più che ovvio, non sarebbero stati molti.
– Calmati, Prof, non serve a niente colpevolizzarti: non è responsabilità tua, se siamo qui prigionieri. A volte il destino gioca brutti scherzi, senza che noi ci possiamo fare niente.
– Perché sei così calma? Come fai?
– Io non sono calma, nemmeno un po’! Ma ci sei già tu che stai dando i numeri, e mi sembra sia più che sufficiente! Oltretutto non è nemmeno da te.
– Non è da me? Ma cosa diavolo credete che sia, io? Non sono mica… un supereroe, non l’ho scelta io la mia intelligenza!
– E chi ha detto niente? Sei tu, che credi di essere l’unico a dover per forza trovare una soluzione, ma forse non spetta a te! Forse dovremo, per una volta, aver fede in Qualcuno di più potente, della tua intelligenza. O forse… dovremo rassegnarci a morire. Io non lo so… ma se non lo sai nemmeno tu, va bene lo stesso! Un Q.I. pari a 340 non significa che devi per forza avere le risposte a ogni perché dell’Universo!
– E invece dovrei – disse lui sconfitto, le braccia lungo i fianchi, i pugni stretti, appoggiandosi con la schiena alla parete e tenendo la testa bassa.
La ragazza gli si mise di fronte, e gli prese il volto tra le mani, costringendolo a guardarla in modo un po’ brusco.
– Datti tregua, Sakon! – gli gridò in faccia – Prima dici che non sei un supereroe, ma poi ti accolli il peso di dover trovare tu una soluzione! Ti stai contraddicendo, non te ne accorgi? Non dipende da te! Tu hai deciso per partito preso che, a causa della tua intelligenza devi essere il responsabile per trovare una soluzione ad ogni accidente che si presenta. Non è così! Guardati! Hai ventotto anni, ma nella tua testa ce ne sono cinquanta! Hai sempre vissuto in un mondo di gente più vecchia di te, fin da quando eri un ragazzino: tu hai passato l’adolescenza all’Università, tra professori e studenti specializzandi, invece che al liceo a fare cazzate con gli amici della tua età, o a pomiciarti la bella della scuola! Hai mai fatto a cuscinate a un pigiama party? Ti sei mai preso una sbronza, o hai mai fatto il bagno al mare vestito? Non credo proprio: tu hai sempre e solo studiato e lavorato, e ti sei sempre preso sulle spalle quintali di responsabilità! Ma qui, ora… non sei tu, quello da cui tutti si aspettano una soluzione – concluse lasciandolo andare.
– E a chi spetterebbe trovarla, allora, eh? Pete? Lui non può fare niente: per quanto in modo eccellente, lui il Drago lo pilota e basta. Doc? È troppo oppresso dai sensi di colpa, per averci trascinati qua; e io con lui, per non averti convinta a rimanere sulla Terra…
– Credo di essere abbastanza grande per decidere da sola, ti dispiace? Mi è sembrato abbastanza chiaro che non ho subito costrizioni di sorta, per seguirti. È vero: forse moriremo qui… ma la colpa non è la tua! – gli ribadì rassegnata, tornando a sedersi sulla cuccetta con la schiena al muro e abbracciandosi le ginocchia.
Sakon si staccò dalla parete, si chinò e raccolse il giubbetto rosa di lei da terra, posandolo su un altro letto. Senza sapere bene cosa fare, la osservò di sottecchi: era bellissima, con addosso solo la tuta smanicata nera a collo alto, che le lasciava le braccia nude, e con la cerniera un po' abbassata a scoprire la pelle delicata della gola. Ma vedere la sua espressione stanca, e i begli occhi d'acquamarina segnati dalla paura e dalla rassegnazione, gli faceva male al cuore. Tornò ad appoggiare al muro la schiena e la testa, fissando il soffitto, sfoggiando un'espressione tormentata e vinta, che non gli apparteneva. Anche lui teneva il giubbotto slacciato e la cerniera della tuta aperta sul torace; un ciuffo di capelli neri gli ricadeva sulla fronte ombreggiando gli occhi scuri, e le labbra sottili e ben disegnate avevano un atteggiamento imbronciato.
Nonostante la drammaticità della situazione, Jamilah non poté fare a meno di perdersi ad ammirarlo: era bello, il suo Prof. Forse non era appariscente quanto Pete, e non aveva il fascino del campione sportivo come Sanshiro, ma era bello. Anche se non era certo solo per questo, che lei lo amava da morire.
Ah, certo! Da morire era davvero il concetto giusto, perché forse era proprio questo, che sarebbe accaduto.
– Resto dell’idea che avrei dovuto insistere perché tu rimanessi sulla Terra – commentò Sakon chiudendo gli occhi.
– Oh, sta' zitto, Prof! – esclamò Jami contrariata, tornando, in un impeto di nervosismo, ad alzarsi in piedi, pensando che era la seconda volta in ventiquattr'ore che intimava al suo professore di tacere.
Lui la guardò in viso, sorpreso da quella frase così tagliente; lei fece lo stesso.
– Ancora con questo Prof!? Smetterai mai di chiamarmi così? – Sakon interruppe i suoi pensieri in tono quasi seccato, sfidandola con lo sguardo.
Jami realizzò che il tempo a loro disposizione si stava velocemente esaurendo, e loro erano stati incredibilmente stupidi a perderne così tanto. Ormai lei si era compromessa, già qualche tempo prima con il bacio sulla terrazza e ora, definitivamente e irrimediabilmente, baciandolo ancora, davanti a tutti, prima della partenza… Tanto valeva giocarsela fino in fondo, anche perché era stato palese che fosse piaciuto anche a lui; così rispose provocandolo.
– Perché dovrei? È questo che sei, in fondo: il mio insegnante. Non sei mai stato altro! Ti sei persino arrogato il diritto, manomettendomi il cellulare, di scegliere per me, se dovessi venire o meno su Marte! È ovvio che per te non sarò mai nient’altro che la tua talentuosa allieva-assistente!
– Oh, e ti dispiace, per caso? Vorresti davvero essere qualcosa di più? Ma porca puttana, Jami, non resisteresti un mese, con me! E lo sai benissimo, sei stata molto chiara, pochi minuti fa: io sono prigioniero della mia fottuta intelligenza e di tutte le responsabilità che comporta!
– Forse hai ragione! E vuoi sapere una cosa? Se non fosse morta, nemmeno Lisa avrebbe resistito con te, e avrebbe finito per mollarti, alla fine! Perché tu metterai il tuo supremo intelletto sempre davanti a ogni altra cosa, come se lui fosse l’unica peculiarità che ti rappresenta! Lisa, Cleopatra, la Regina di Saba! Nessuna avrebbe speranze con te, quindi tienitela, la tua fottuta intelligenza! È l’unica cosa di cui tu abbia bisogno: portati a letto quella, che te ne fai di una donna!? Il tuo cuore non riuscirà mai a sopraffare il tuo cervello! 
Sakon rimase come paralizzato, cercando di metabolizzare quelle ultime parole.
– Sì, è vero, le donne non resistono con me! Qualcosa ti fa pensare di essere diversa da tutte le altre?!
– Sì! Semplicemente il fatto che io non sono le altre!
Sakon tacque di botto, spiazzato, ricordando di colpo che Pete lo aveva mandato lì per dire a Jami che la amava, e non per perdere tempo a litigare con lei, e realizzando che questo suo essere padrona e sicura dei suoi sentimenti, e caparbia ma coerente con sé stessa, erano proprio alcuni dei motivi per cui si era innamorato di lei.
Si rese a malapena conto di aver afferrato la ragazza per un braccio e di averla attirata contro di sé; di lì ad affondare le labbra nelle sue, imprigionandola tra lui e il muro, fu un attimo.
Si baciarono per un tempo interminabile, senza riuscire a staccarsi. Quando lo fecero, Jami vide l’espressione quasi colpevole sul volto di lui e comprese cosa gli passasse per la testa, poiché nessuno meglio di lei riusciva a intuire i suoi pensieri: il senso di responsabilità stava facendo di nuovo capolino, gli stava dicendo che non poteva indulgere in queste cose mentre avrebbe dovuto preoccuparsi di trovare una soluzione a quella circostanza.
– Datti tregua, Prof – gli ripeté, con una dolcezza nella voce che gli penetrò l’anima – Datti tregua… tu sei soltanto Sakon Gen, non sei la tua intelligenza! Spegnila, qualche volta, smetti di rimuginare! Cancella ogni pensiero, azzera tutto, ti prego. E se proprio devi pensare a qualcosa… beh, ti sei già salvato una volta, pensando a me, quando ti fecero il lavaggio del cervello nel Sahara. Fallo di nuovo: riempiti la testa di me.
Sakon non riuscì a resistere a quella richiesta e ricominciò a baciarla; tanto, la verità era che il tempo per vivere assieme tutta la vita, con ogni probabilità, non lo avrebbero avuto. Deciso a darle retta, senza staccarsi da lei allungò la mano a bloccare la porta, scegliendo di dimenticare per un po’ la drammatica situazione in cui si trovavano.
Accarezzandogli le spalle e scendendo lungo le braccia, Jami gli sfilò il giubbotto grigio, mentre lui le abbassava la cerniera della tuta nera. La vista del semplice reggiseno di cotone bianco, dal sottile bordino di pizzo, sembrò quasi riscuoterlo, ma Jamilah, che gli faceva scivolare le mani sulla pelle chiara e liscia del torace, non lo aiutava a rimanere lucido. No, non era a questo punto, che aveva pensato di arrivare quando era venuto a cercarla… non poteva accadere, non lì, non in quella situazione… era assurdo!
La ragazza sembrò avvertire le sue incertezze e il fatto che la sua mente si stesse allontanando da quel momento e quel luogo.
– Non andartene… Torna qui con me, pensa a me. Se devo schiattare su questa maledetta palla rossa, non voglio portarmi dietro rimpianti… Torna qui… resta qui, ti prego.
“Resta qui…” Jamilah gli stava dicendo di restare non tanto fisicamente, quanto con i pensieri e, sperava, anche col cuore; soprattutto col cuore. 
Sakon riuscì a convincersi che la ragazza avesse ragione; e se finalmente stava succedendo, in pochi minuti, tutto quello che non era successo in più di due anni… beh, era più che giusto!
La sollevò tra le braccia e la posò dolcemente sulla coperta della cuccetta, baciandole il volto, la bocca, la gola e scendendole lungo il corpo statuario e bellissimo che, poco alla volta, si scopriva e gli si offriva, mentre le sfilava la tuta smanicata. Le accarezzò il ventre e il fianco, risalendo verso il seno, liberandolo dal cotone bianco che lo imprigionava e baciandone la pelle vellutata.
Jamilah ricambiò ogni carezza e ogni bacio, mentre anche gli abiti del giovane scivolavano via, con i gesti nervosi e impazienti delle mani che, poi, indugiarono sensuali sui loro corpi, in lente e audaci esplorazioni. Sapevano che non si sarebbero fermati, che non avrebbero smesso di stringersi, toccarsi, assaporarsi. I baci si susseguirono lenti, tra desiderio e dolcezza, finché smisero di pensare a quel futuro che forse non avrebbero avuto, e il bisogno profondo e impellente di appartenersi diventò l’unica ragione di esistere.
La pelle bruna di Jamilah spiccava contro quella più chiara di Sakon, mentre i loro corpi si congiungevano in quell’atto d’amore e di vita, a spazzare via, almeno per un po’, il pensiero della morte.
Se dovevano morire lì, allora che fosse; con i respiri affannati, le labbra brucianti e affamate, i corpi avvinghiati, si presero senza remore quell'ultimo momento di felicità che il destino gli stava concedendo.
Non gli restava altro: solo essi stessi, l’amore e la passione.
Solo il presente.
E in quello, scelsero di perdersi.
 
***


Jamilah si risvegliò di colpo, spalancando gli occhi; il ritorno alla realtà la colpì come un pugno nello stomaco.
Avevano finito per assopirsi sfiniti, non tanto fisicamente, quanto a livello mentale. Com’era possibile che quel momento fosse il più bello, e allo stesso tempo il più terribile, della sua vita? Aveva fatto l’amore con l’uomo che amava da mesi, forse anni, e… probabilmente sarebbe stata anche l’ultima volta.
Si sollevò appena su un gomito, per guardare il volto di Sakon ancora addormentato: alla fine, era riuscita a dare alla sua prodigiosa mente quell’attimo di tregua per distoglierlo dai suoi assurdi sensi di colpa e di inadeguatezza. Le sfuggì un sospiro, mentre gli sfiorava con una carezza i capelli corvini, la guancia e le labbra, poi si chinò di nuovo e gli nascose il viso tra il collo e la spalla, abbracciandolo, mentre anche lui riemergeva lentamente da quel breve sonno. Le passò le dita fra gli indomabili riccioli scuri, e le baciò la fronte.
 
Sakon-Jami-su-Marte

– Jami… 
– Shh, sono qui.
– Mmm, lo so… credi sia possibile non accorgersene? – replicò Sakon, accarezzandole la schiena nuda.
– Forse… dovremmo tornare in plancia – azzardò lei, poco convinta.
– Sì, forse dovremmo… o forse no. A che potremmo servire, dopotutto? Il momento di requie che mi hai dato è stato il migliore della mia vita… ma non per questo mi è venuta un’idea per tirarci fuori di qui… – sospirò lui sconsolato.
– È davvero stato solo questo per te? Un attimo di requie e basta?
Sakon spalancò gli occhi che, alla tenue luce della stanzetta, non apparivano neri, ma di un marrone scurissimo e vellutato.
– Jami, no! Non è così! – rispose, quasi agitato dal fatto che lei potesse aver frainteso il suo comportamento.
– Perché… lo sai che io ti amo, vero? – gli disse lei, con disarmante sincerità.
Sakon annuì, con espressione grave.
– E tu? – incalzò la ragazza.
– Anch’io. Anch’io ti amo, Jamilah.
– Perché non me l’hai mai detto?
Sakon sospirò… e, finalmente, sputò il rospo che si teneva dentro.
Le raccontò di Alison, e di come la sua ex-fidanzata si fosse lamentata di sentirsi continuamente sminuita dalla sua intelligenza, dandogli la colpa per la fine del loro rapporto; e di come lui avesse finito per convincersi che qualunque altra donna avrebbe provato la stessa cosa, stando con lui.
– Jami, non sopportavo l'idea che anche tu potessi sentirti umiliata da…
– Io non mi sono mai sentita umiliata da te! – lo interruppe Jami determinata, sollevandosi sopra di lui e posandogli una mano su una guancia – Né sminuita, tantomeno una nullità! Anzi, tu sei sempre stato meraviglioso, mi hai sempre fatta sentire una persona di valore, importante e intelligente. E non lo hai fatto solo con me, ma con tutti i miei compagni di corso: ci sarà un motivo se anche i più mediocri adoravano le tue lezioni! Tu sai dare soddisfazione a chi è bravo, e incoraggiare nel modo giusto chi lo è un po' meno. Io credo che fosse la tua ragazza ad essere davvero insignificante, con un’autostima da quattro soldi e pure un po’ stronza, se non altro perché ha dato a te, e al tuo dono, la colpa della fine della vostra storia!
A dispetto di tutto, a Sakon scappò un sorriso nell’ascoltare quell’appassionata esternazione, nella quale vibrava anche un accenno di gelosia retroattiva; e ciò gli ricordò una cosa.
– E tu che mi dici di quel pezzo di marcantonio biondissimo, tutto abbronzatura e vitamine, che ti veniva a prendere alla fine delle lezioni in università? – le chiese a bruciapelo.
Jamilah ridacchiò, decisa ad allungare il più possibile quel momento che li separava da un brusco ritorno alla realtà.
– Cody? Il surfista australiano più figo che ci fosse in circolazione… E aveva scelto me, la secchiona. Infatti non è durata, ma almeno di lui ho un bel ricordo: anche Cody disse che non si sentiva abbastanza per me, ma non si è mai sognato di incolparmi per questo. Era un ragazzo con moltissime qualità, eravamo solo troppo diversi, e dopo due anni insieme ne abbiamo preso atto. Fine. Ma spiegami: tu… ti eri accorto che io avevo un ragazzo?
– Jami, io… credo che inconsciamente tu mi piacessi già moltissimo. Ma ero il tuo prof, e tu una mia studentessa: avevo una deontologia professionale da seguire e non mi sono nemmeno mai soffermato ad analizzare la cosa, nemmeno quando ti ho scelta come assistente.
– Beh, l’hai detto: sono la tua assistente, non sono più una tua studentessa. Anche questa è stata una ragione del cavolo, per aspettare tanto a dirmelo! Se tu hai ventotto anni, io ne ho venticinque: siamo maggiorenni e vaccinati, direi.
– Già, sono maggiorenne, vaccinato e idiota.
– Ah, certo, si capisce subito: è perché sei idiota, che hai il quoziente intellettivo più alto della Terra… – disse Jami, lasciandosi scappare un'altra risatina. Si interruppe, poi gli fece l’altra domanda che le rodeva dentro da un po’.
– E… Lisa? Che mi dici di lei?
– Lisa… non lo so, Jami. Non abbiamo avuto abbastanza tempo, per conoscerci e… è stata come… un fulmine a ciel sereno, uno stordimento, ed è finito tutto troppo in fretta, così com'era cominciato. Anzi, in realtà non è cominciato affatto, non è arrivato a esserci niente, fra di noi, Jamilah: non l'ho mai neanche baciata. Pensavo che… avrebbe potuto funzionare, perché… essendo addirittura zelana, con lei avrei condiviso quel senso di diversità che mi tormentava. Credo… che mi avesse capito, ci sentivamo affini.
– Se non fosse morta, credo che le avrei dato battaglia, lo sai? Ma se avesse vinto lei, io mi sarei fatta da parte.
– Lo so, ma… non è detto che avrebbe vinto lei. Io non lo so… ma credo che Lisa lo avesse intuito, che eri tu la donna della mia vita. Probabilmente sarebbe stata lei, a farsi da parte.
– Se ho capito un po’ com’era fatta, probabilmente sarebbe stata la migliore amica che avremmo potuto avere – sussurrò Jami, per poi tacere.
Pensare a Lisa come a un’amica, le fece venire in mente Briz e Midori, rimaste sulla Terra, e, di conseguenza…
– Briz e Pete… – sospirò affranta.
– Non farmici pensare: anche lui rimpiange di non aver usato meglio, con Briz, il tempo a loro disposi…
Non arrivò a finire la frase: lupus in fabula, nell'auricolare di entrambi risuonò la voce di Pete, sul canale delle emergenze.
– Sakon! Jamilah!
– Che emergenza potrà mai esserci, ancora? Peggio di così! – esclamò Sakon saltando giù dalla cuccetta e cominciando a rivestirsi alla velocità del fulmine, subito seguito dalla ragazza.
– Pete, che succede? – gridò lei riattivando il microfono, infilando la porta mentre ancora trafficava per tirarsi su la cerniera della tuta.
– Ho visto il Gaiking! – rispose agitato il loro Capitano.
La coppia giunse in plancia trafelata, in tempo per vedere, sul grande schermo panoramico, l'inconfondibile sagoma del grande robot che attraversava il cielo rosso di Marte.
– Sanshirooo! Siamo qui, siamo qui! Sanshiro! – urlò Pete nel microfono, per poi tacere improvvisamente, rendendosi conto della realtà.
– Non può sentirci, Pete – disse rassegnato Daimonji – La cupola scherma tutte le comunicazioni.
– Maledizione. Maledizione, maledizione! – imprecò il pilota del Drago.
Poi, letteralmente furioso, azionò i raggi fulminanti che fuoriuscivano dalle doppie corna. Lo fece una volta, due, tre… come se potesse servire a qualcosa: avevano già avuto la prova che quella malefica sfera era indistruttibile. Dopo quell'inutile sfogo, Pete si arrese e si lasciò cadere sulla sua poltroncina, stanco e frustrato. Semi mimetizzati in mezzo alle rocce come erano, era ovvio che Sanshiro non li avesse visti.
Impotenti e disperati, i quattro guardarono il Gaiking che, inesorabilmente, si allontanava nel rosso silenzio.
 
 
 
Continua…
 
 
 
Note dell’Autrice: 
Questa vicenda, del Drago prigioniero nella cupola sul pianeta rosso, da me come sempre un po’ rimaneggiata, è raccontata nel penultimo episodio della serie: 
“Un castello fantasma su Marte”.
 
Allora, questo capitolo è dedicato alla solita Morghana, ma molto di cuore, per un paio di motivi.
Il primo è che, se la mia parte ventenne ha una cotta latente (sì, latente… ahahahah!) per Pete, quella di Morghana ce l’ha per Sakon, e spero che con questa… uhmmm… diciamo concretizzazione, tra lui e Jami, abbia dato sfogo alla sua vena romantica.
Il secondo è che, senza nemmeno volerlo, la suddetta signora mi ha tolta da un’impasse con il dialogo tra i due protagonisti, precedente al momento hot.  Thanks, Mirellina! 

 
Devo confessarvi che nella mia testa, quando scrissi questo capitolo, (l’anno scorso ormai) tra Jami e Sakon doveva esserci solo qualche bacio molto infuocato, poi dovevano venire interrotti da Pete che avvistava il Gaiking. Solo che mi hanno preso la mano… e non chiedetemi perché loro sì e qualcun altro no! (A proposito dei personaggi che fanno quello che vogliono, vero, Morghana?) Misteri delle fanfiction…
 

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Capitolo 42
*** 41 - Il prezzo della vittoria ***


~ 41 ~ 
IL PREZZO DELLA VITTORIA

 
 
“I hear my battle simphony
All the world in front of me
If my armor breaks
I’ll fuse it back together
Battle simphony
Please just don’t give up on me
And my eyes are wide awake
For my battle simphony”
(Linkin Park – Battle simphony)
 

 
 
 
Il Gaiking si stava allontanando, togliendo, al dottor Daimonji e ai suoi tre ragazzi, ogni speranza…
Il Capitano lanciò un'occhiata fugace a Sakon e Jamilah, e valutò rapidamente un paio di cose: erano stati lontani dalla plancia un paio d'ore; Jami era senza giubbotto e Sakon pure, e aveva la tuta nera troppo slacciata; non avevano nemmeno i cinturoni con le pistole, come se si fossero rivestiti in tutta fretta. Si tenevano per mano, con le dita intrecciate, e nei loro occhi, nonostante la drammaticità del momento, danzava qualcosa, come una scintilla luminosa, che non riusciva a venire offuscata del tutto dall'ombra della delusione di vedere il Gaiking che si allontanava.
A dispetto di tutto, a Pete sfuggì un mezzo sorriso: non ci voleva una mente superiore per capire cosa fosse successo tra questi due, in quelle due ore…
E a quel punto, quel senso di sconfitta e rassegnazione che aveva rischiato di sopraffarlo, si dileguò. Pete ricominciò a bersagliare la cupola con i raggi fulminanti, sparandoli in ogni direzione: non servivano a scalfire la superficie trasparente, ma mandavano violenti lampi intermittenti, che poi ne percorrevano scintillanti l'interno per scaricarsi a terra. Non sapeva se Sanshiro li avrebbe visti, né se, nel caso, sarebbe riuscito ad aiutarli, ma doveva continuare a provarci.
Voleva farlo per Sakon e Jami; e per Midori e Sanshiro; e per vedere se, così, avrebbero avuto una possibilità anche lui e Fabrizia.
Sanshiro aveva sorvolato la superficie rocciosa e rossastra di Marte per più di un'ora, senza riuscire a trovare traccia del Drago Spaziale, tantomeno della fortezza che avevano avvistato dalla Terra; eppure… le coordinate erano quelle.
Ormai col morale abbattuto, e quasi pronto a rinunciare alla ricerca, un lampo di luce gli balenò ai margini del campo visivo. Sanshiro invertì la rotta per controllare, pregando che non fosse una trappola, e finalmente lo vide: i lampi di luce si interruppero e il Drago Spaziale si palesò in mezzo alle rocce, intrappolato in una semisfera trasparente.
Il Gaiking lo raggiunse, mostrando di averli avvistati e accendendo un barlume di speranza nei cuori dei quattro prigionieri.
I raggi fulminanti dell'astronave ricominciarono a lampeggiare, concentrandosi su un unico punto: era evidente che Pete stesse suggerendo a Sanshiro dove concentrare i suoi colpi.
Il buon senso gli disse che l'arma migliore sarebbe stato il raggio perforante e lo lanciò, continuo e intenso, concentrandolo nello stesso punto in cui, dall'interno, colpivano i raggi del Drago. Proseguirono per un tempo interminabile e, proprio quando le speranze cominciavano a vacillare da entrambe le parti, una piccola crepa si disegnò sulla superficie trasparente: il sollievo intensificò i loro sforzi e la crepa si allungò e si allargò.
Pete ordinò agli altri di agganciarsi ai loro posti con le cinture e cominciò a colpire la sommità della cupola con tutta la poderosa mole del Drago, con gli spuntoni che gli correvano lungo la schiena. I suoi sforzi furono premiati: con uno schianto, la crepa si aprì completamente, lasciando emergere il Drago tra le urla di trionfo dell'equipaggio e le schegge luccicanti e taglienti della loro prigione che volavano in ogni direzione. Sanshiro eseguì le manovre di sganciamento senza molti convenevoli e rientrò nel Drago che, con la testa cornuta al suo posto, riprese il suo solito aspetto. Il pilota del Gaiking giunse in plancia proprio mentre Pete, senza perdere tempo, rimetteva rapidamente in rotta il Drago Spaziale verso la Terra.
Daimonji abbracciò brevemente Sanshiro.
– Bravo ragazzo, sapevo che a terra avreste capito. È tutto okay?
– Lo era, quando sono partito. Spero solo che lo sia ancora…
Anche Sakon lo abbracciò rifilandogli un paio di cameratesche pacche sulle spalle, ma Jamilah, al colmo della gioia, gli buttò le braccia al collo sbaciucchiandogli tutta la faccia.
– Ti adoro, Sanshiro! Non immagini quanto sia felice di vederti! – esclamò mentre lui ricambiava l'abbraccio, sorpreso ma non troppo, da quella dimostrazione di affetto. Jamilah si ricompose e lo guardò negli occhi, e anche lui notò una luce in più nel suo sguardo, dovuta a qualcosa che non era solo la felicità per essere finalmente liberi e sulla rotta di casa.
– Scusami, so che Midori non sarebbe troppo felice di assistere a queste smancerie, ma capiscimi, ti prego – gli disse lei, ridendo.
– Tranquilla, Jami, anch'io sono felice che stiate bene. E poi, a parte che non avrebbe niente da dire, data la circostanza, Midori non c'è: “Occhio non vede, cuore non duole” – scherzò Sanshiro.
A quel punto intervenne Sakon che, mantenendo il tono scherzoso e allungando un braccio attorno alle spalle di Jamilah, la allontanò appena da Sanshiro.
– L'occhio di Midori non vede, ma il mio sì! – esclamò, con uno sguardo più che eloquente.
– Ohilà, mi son perso qualcosa? Qui basta lasciarvi soli ventiquattr'ore che succede di tutto! – disse Sanshiro, battendo un cinque sulla mano di Sakon – Dovevate farvi imprigionare addirittura su Marte, voi due, per darvi una svegliata? – concluse, mentre anche Pete e Daimonji si lasciavano sfuggire una risata che sciolse momentaneamente la tensione.
Poi si avvicinò a Pete, che stava attivando l'ipervelocità. Il Drago fu attorniato da lunghe scie luminose, un tunnel luccicante e quasi fiabesco che, in poco tempo, li avrebbe condotti a casa.
Sanshiro mise una mano su una spalla di Pete, che lo guardò e gli sorrise.
– Se tu non avessi fatto tutto quel caos accecante con i raggi fulminanti, non vi avrei mai visti: sei stato grande, Capitano. Torniamo a casa: hai anche tu una ragazza che ti aspetta, sulla Terra e… un po' di cose da dirvi, mi è parso di capire.
– Avete tutti delle belle orecchie lunghe, eh? Spero che io e Briz ne avremo l'opportunità… ho fatto una mezza promessa a Sakon.
– Mmm… interessante. Allora diamoci una mossa, perché sono molto preoccupato – ammise Sanshiro, mentre l'ultimo barlume di ilarità andava spegnendosi.
– Anch'io sono preoccupata – aggiunse Jamilah, trafficando insieme a Sakon e al dottor Daimonji sulla consolle delle comunicazioni – Il dispositivo tracciante deve aver subito dei danni, perché non riesco a riattivarlo, e siamo troppo lontani per comunicare via radio. Loro non sanno più niente di noi, ma nemmeno noi possiamo sapere se sulla Terra vada tutto bene.
– No, infatti: ho il terrore di quello che potremmo trovare – confessò Pete.
– Se è per questo, anch'io, credimi – concluse Sanshiro.

Il capitano tenne la rotta, sperando di arrivare il più presto possibile, riempiendosi la mente della sua fanciullina, sperando con tutte le sue forze che, là sulla Terra, non fosse stata costretta a scendere il battaglia con il suo leone.
 
Fabrizia-e-Balthazar



                        ***                                         

Fabrizia Cuordileone era quasi convinta di essere morta: non avvertiva dolore, non vedeva nulla, non sentiva più suoni.
Ricordava solo il Mostro Nero che era comparso all'improvviso sui radar, dirigendosi verso Tokyo. Il distaccamento giapponese dell'esercito dell'Alleanza Terrestre lo aveva intercettato ai piedi del Monte Fuji, e Balthazar e gli altri quattro mezzi lo avevano prontamente raggiunto.
Era un drago, una specie di immenso rettile con diverse teste, piene di denti, creste, aculei… ed era immenso, almeno quanto il Drago Spaziale, che ora non c'era e di cui si sentiva in modo più che tangibile la mancanza; e intanto il mostruoso nemico seminava morte in ogni dove, distruggendo senza fatica mezzi corazzati dell'esercito e caccia bombardieri dell'aviazione. Anche dall'America e da altri paesi stavano giungendo rinforzi per via aerea e, per un po', l'arrivo di Balthazar e dei suoi compagni sembrava aver capovolto l'esito della battaglia, ma la speranza non era durata molto.
L'assenza del Drago Spaziale e del Gaiking era come una voragine scavata nella determinazione e nella coscienza dei cinque piloti rimasti a difendere la Terra: non avevano più avuto notizie dal Drago, e la speranza di vederlo tornare era, poco alla volta, diminuita fin quasi a scomparire.
Briz e Midori erano scese in battaglia insieme a Bunta, Fan Lee e Yamatake, entrambe ormai quasi convinte di aver perduto gli uomini che amavano, i loro migliori amici e un padre, un dolore pesante sui loro cuori impossibile da ignorare e da gestire. Ma anche gli altri tre piloti si sentivano terribilmente orfani dei loro compagni e dei loro potenti mezzi da guerra.
E adesso Balthazar giaceva sconfitto, rovesciato sul terreno devastato e arso dal fuoco della battaglia, e Briz era riversa all'interno della carlinga, imprigionata nell'armatura bianca e oro, immobile e immersa come in un sogno, dopo aver combattuto fino allo stremo. Il mostro era riuscito a schivare persino il Thunderbolt, e aveva approfittato della sua momentanea debolezza. La palla di fuoco verde che si era sprigionata dalle sue fauci aveva avvolto Balthazar, e la ragazza si era ritrovata assolutamente impotente, mentre il grande leone rotolava al suolo privo di forze. Gli ultimi pensieri si erano rincorsi confusi nella sua mente: Pete, i suoi amici, Daimonji, Marte… Ancora Pete, i suoi cavalli, Alessandro e i suoi genitori… E di nuovo Pete… E di nuovo Alessandro.
Ale!? Dov'era Ale? I suoi pensieri continuavano a cercarlo, tentando di aggrapparsi a quell'ultimo ricordo mentre si sentiva precipitare nel vuoto, ma non riuscì a sentire dentro di lei la sua presenza rassicurante.
Balthazar aveva perso il suo cuore, la sua mente, la sua anima; e il resto della squadra aveva perso il suo Comandante.
Fan Lee, Bunta, Yamatake e Midori avevano cercato di riscuotere Briz,  parlandole attraverso gli auricolari, nonostante fossero impegnati a combattere contro il dragone alieno, ma lei sembrava aver smarrito ogni contatto con la realtà: i suoi compagni temettero seriamente, a un certo punto, di averla perduta.
Fu a quel punto che un boato penetrò l'atmosfera e un riflesso infuocato accese di rosso la luce del mezzogiorno, trasformandosi poi in un'immensa ombra che oscurò il campo di battaglia.
Il Drago Spaziale!
Gli animi di tutti furono pervasi da un'ondata di sollievo: gli amici erano tornati!
Quando Pete vide Balthazar ridotto all'impotenza, sentì come un colpo nel cuore.
– Briii! – urlò nel microfono, senza ottenere alcuna risposta.
– È così già da diversi minuti, Pete! – gli rispose Fan Lee, dimostrando così che le comunicazioni erano tornate a pieno regime.
L'amico cinese aveva, in un certo senso, preso il comando delle operazioni e, insieme a Midori e agli altri due compagni, era impegnato nello sforzo di tenere il mostro lontano dal leone steso a terra.
Midori ebbe appena il tempo di rendersi conto che il Drago Spaziale era rientrato, che vide i componenti del Gaiking uscire e il grande robot assemblarsi in pochi secondi, e anche per lei fu come tornare a respirare dopo una lunga apnea: Sanshiro c'era, era tornato! Erano tornati tutti! Purtroppo solo per mettere di nuovo a repentaglio le loro vite.
Il mostro approfittò del loro attimo di sollievo per lanciarsi contro Balthazar, ma aveva fatto male i conti, non avendo calcolato la furia che aveva assalito il Capitano Richardson alla vista del leone sconfitto e inerme. Veloce e implacabile, il Drago Spaziale si mise tra Balthazar e il Mostro Nero: due immensi leviatani pronti a fronteggiarsi. Lanciò prima i missili, poi il raggio che si sprigionò dalle corna della pseudo-testa; il dragone nemico arretrò, sotto la potenza dei colpi.
– Tu non la tocchi, bastardo! Non finché ci sono io! Briii! Rispondi!
La voce di Pete ci mise un po', a penetrare la coltre di silenzio che aveva avvolto il cervello della ragazza. All'inizio non si stupì più di tanto di sentirlo: era talmente sicura che lui fosse morto, che sentirsi chiamare da lui, per Briz, non fu altro che la conferma di essere morta anche lei… E se anche nell'Aldilà potevano incontrarsi, allora andava bene così: sarebbe stata la fine della guerra, dell'orrore, della paura…
Ma nel giro di pochi secondi subentrarono altre sensazioni: un dolore acuto le si diffuse per tutte le membra, i polmoni le si dilatarono e cominciò a tossire e a respirare affannosamente; la luce le ferì la vista e il frastuono della battaglia le colpì i timpani, insieme alla voce del pilota del Drago Spaziale che continuava a chiamarla.
– Bri! Bri, parla! Dimmi che stai bene!
Briz riacquistò faticosamente la sua coscienza: era viva, di questo era, adesso, piuttosto sicura; e se lei era viva, e sentiva la voce di Pete, allora voleva dire… che era vivo anche lui!
– Sei… tornato – riuscì ad articolare, nonostante l'aria le bruciasse in gola, passando attraverso la trachea infiammata e dolorante.
– Sono tornato, sì! E anche tu, a quanto pare! Siamo di nuovo al completo, fanciullina! Sveglia, adesso, hai dormito abbastanza!
– Dio, grazie, sei tornato! – riuscì solo a ripetere Briz, senza credere alle sue orecchie e ai suoi occhi, quando vide il Drago Spaziale ergersi, immenso e potente, a sua difesa.
Il dolore si attutì di colpo, mentre si rialzava e riprendeva possesso della sua lucidità, e in quell'attimo, in cui sollievo e felicità le spalancarono il cuore, un'altra voce si fece strada tra i suoi sensi.
"Ehi, non mi crollare ora, perché credo che stavolta siamo arrivati alla resa dei conti! Sei pronta, Gnappetta?"
Si sentì scossa da un brivido: quella voce… non l'aveva mai sentita così forte, nitida e chiara. E poi… Gnappetta! Solo lui la chiamava così!
– Ale? Sei tu! Finalmente! Credevo di aver perso anche te!
Per quanto assurdo potesse essere, a tutti sembrò assolutamente normale ascoltare Briz che comunicava con tanta naturalezza con suo fratello. Il fatto che lui fosse morto tre anni prima, appariva ormai a tutti loro come un dettaglio insignificante: la componente paranormal-fantasy che avvolgeva il rapporto Balthazar-Fabrizia-Alessandro era ormai stata accettata da tutti loro, soprattutto negli ultimi tempi, quando questa particolarità si era intensificata.
Il dragone nemico fu distratto dalla presenza del Drago Spaziale e Sanshiro ne approfittò per colpirlo con la Scossa Mortale, abbarbicandosi al suo dorso e stringendogli parte della corazza tra le grandi corna, dalle quali si sprigionò il micidiale flusso. Il mostro fu scosso da un incontrollabile tremito che lo indebolì e, mentre Infinity e Skylar continuavano a ronzargli attorno senza smettere di colpirlo dal cielo, e Bazzora e Nessak, da terra, gli martellavano le possenti zampe con potenti raggi laser, Balthazar lanciò il Ruggito Paralizzante. Quella del leone fu più una reazione rabbiosa, che un vero gesto di offesa, ma sortì l'effetto voluto: il dragone rimase immobile diversi secondi, quanto bastò perché tutti gli altri, ad un ordine del Capitano, si allontanassero. La lama gigante fuoriuscì dall'addome del Drago Spaziale e la grande astronave si abbatté sul nemico, trapassandolo da parte a parte, attraversandolo letteralmente e lasciandosi alle spalle solo il riverbero dell'esplosione.
Mezzi di soccorso volanti e terrestri cominciarono a confluire da ogni dove, portando aiuto ai feriti tra rumori di motori e pale di elicotteri; una specie di pronto soccorso da campo fu allestito a tempo di record, non molto lontano dai margini del teatro dello scontro.
I robot da battaglia rimasero immobili, i loro piloti e il resto dell'equipaggio straniti e sconcertati: il mostro era battuto, loro erano di nuovo tutti insieme, eppure sentivano che c'era ancora qualcosa di irrisolto. La sensazione che non fosse finita lì serpeggiava tra loro come una minaccia silenziosa e inespressa e le parole di Fabrizia, pronunciate con voce ansante e affaticata, confermarono l'inquietante impressione.
– Mio fratello dice… di non abbassare la guardia.
– Sono propenso a credergli, temo che questo sia solo l'inizio… – disse Pete a mezza voce; e il fatto che a dirlo fosse proprio lui, il più pragmatico e calcolatore dell'equipaggio, la diceva lunga sulla questione.
– L'… l'inizio di cosa, Pete? – chiese la voce tremolante di Midori.
Fu Sanshiro a rispondere: – L'inizio… della fine… credo.
Nessuno, però, avrebbe saputo dire di cosa, sarebbe stata la fine: di quell'incubo, che consumava i loro giorni da sedici lunghissimi mesi… o della Terra e delle loro vite?
La risposta sarebbe arrivata anche troppo presto, lo sapevano, lo sentivano… tutti; il senso di attesa e anticipazione li pervase, dilatandosi in lunghi attimi.
Fabrizia sollevò la celata dell'elmo felino, e richiamò sul suo monitor il contatto di Pete: il volto del Capitano apparve, pallido e provato, ma assolutamente fermo e determinato nell'affrontare qualunque prossima minaccia, un po' come doveva apparirgli lei, pensò Briz.
Si sorrisero, e come per incanto la paura si dileguò; Briz allungò una mano ricoperta di metallo sullo schermo, verso il volto di Pete, come per dare al giovane una carezza virtuale; lui fece la stessa cosa con la mano guantata, e fu quasi come se, sfiorando i rispettivi monitor, le loro dita si fossero toccate.
– Pete… io…
Briz esitò… sapeva che non era il momento, per certe esternazioni, e non proseguì. Sperò solo che le venisse concessa un'altra occasione, per dirgli tutto ciò che sentiva traboccarle dal cuore.
– Sono qui, squinternata: andrà tutto bene – le disse lui rassicurante, come se avesse capito quello che lei aveva taciuto.
All'improvviso una luce giallastra e inquietante tinse le nuvole, spezzando quella calma apparente: con uno schianto secco, più forte di quanto sarebbe mai potuto essere qualunque tuono, una formazione si materializzò, disegnando una croce fiammeggiante contro l'azzurro del cielo.
– Oh, Dio! I Grotector! – ansimò Midori, incredula.
Il senso di compiutezza, di un cerchio che finalmente si chiudeva, si fece più forte: se i Quattro Grandi, i maledetti giganteschi Generali, si mostravano di persona, forse erano davvero arrivati alla fine di tutto.
Quattro fasci di luce, di un orrendo verde malato, si sprigionarono dal fondo delle quattro astronavi fino a toccare terra: all'interno di essi i mostruosi corpi umanoidi di Dankel, Desmon, Killer e Ashmov, presero forma e discesero fino a posare i piedi sul terreno, facendolo tremare. All'incirca delle stesse dimensioni del Gaiking e di Balthazar, i quattro si disposero schiena contro schiena, fronteggiando i mezzi terrestri che li circondavano, lasciandosi andare a una collettiva risata di trionfo: si sentivano invincibili, quegli esseri disumani!
A Daimonji balenò in mente che in quel modo non li avrebbero mai sconfitti: erano come un unico, massiccio muro, fatto di connessioni informatiche e materiale sintetico, per di più con quattro sofisticatissime intelligenze artificiali a guidare le loro azioni.
Una frase sommessa di Pete riscosse il dottor Daimonji.
– Divide et impera… – sussurrò il pilota del Drago, dando voce ai pensieri di Doc: una frase latina che più o meno tutti loro conoscevano, ma forse non chi veniva da Zela…
Separa e regna: nel corso della storia, imperatori e tiranni avevano conquistato e sottomesso popoli e nazioni, seguendo questo motto, facendo in modo che, restando divisi, non potessero mai dare vita a potenze sufficienti per contrastarli.
Tutti capirono al volo: il Drago, il Gaiking, e Balthazar si sarebbero scelti un generale ciascuno; Bazzora, Nessak, Infinity e Skylar si sarebbero presi il quarto.
La voce di Briz risuonò negli auricolari dei compagni, un sibilo rabbioso mal trattenuto.
– Ashmov è mio!
"No, Folletta: Ashmov è nostro!" ringhiò a sua volta Alessandro, nella sua mente.
– Credevo di averti ucciso, piccolo bastardo! – proruppe il gigante zelano, raggelando Fabrizia: com’era possibile che Ashmov avesse percepito la presenza di suo fratello?
Anche Pete, sentendo le parole del mostro, inorridì: aveva già intuito a suo tempo che Ashmov dovesse essere stato l'artefice materiale della morte di Alessandro, ma non aveva voluto dirlo con Briz, che gli era sembrata già abbastanza traumatizzata. Ma ciò che aveva appena sentito negli auricolari gli diede l'ennesima prova di quanto la fanciullina fosse diventata forte, sveglia, coraggiosa e pronta ad accettare le verità più sconvolgenti.
La risposta di Alessandro risuonò nella mente di Briz, e le sue corde vocali le diedero voce.
– "Puoi uccidere i nostri corpi, mostro! Ma noi umani abbiamo qualcosa che tu non potrai mai avere: un'anima immortale!" 
Ashmov si sentì assurdamente spiazzato, come non gli era mai capitato nel corso della sua lunga pseudo-esistenza. Non era sicuro di avere ben chiaro il significato di quella frase: tutto ciò che lui conosceva era fatto di ordini da eseguire, di guerra, distruzione e piani di conquista.
– Avete finito di intralciare i nostri piani, odiosa coppia di gemelli maledetti! Vengo a prendervi! – tuonò, pensando di spaventarli.
Il Cuordileone, che entrambi i gemelli possedevano di nome e di fatto, esplose in un unico ruggito.
– "Cos'è che fai, tu? Non hai capito, schifoso bastardo: siamo noi che veniamo a prendere te!" 1 
Fu esattamente quello, che Briz e Ale, due anime fuse in un solo corpo, fecero di colpo, senza nessun altro preavviso, col generale Ashmov: andarono a prenderlo!
Con un ruggito feroce e un poderoso balzo, il leone attaccò, affondando gli artigli nel petto del generale zelano e gli acuminati denti nella sua spalla.
Da quel momento in poi, nella mente di Fabrizia tutto si fece piuttosto confuso e fu come se a combattere, in certi momenti, fosse qualcun altro; e forse era proprio così: a tratti, Alessandro prendeva davvero il sopravvento.
Nello stesso istante in cui Balthazar aggredì Ashmov, con sincronia perfetta il Gaiking si scagliò addosso a Desmon e il Drago prese di mira Killer, mentre gli altri quattro cominciavano a martellare ininterrottamente gli occhi e le gambe di Dankel.
Distruggere Killer non fu uno scherzo, per il Drago, nonostante la mole molto superiore: sembrava che il più corpulento dei Grandi Quattro fosse in grado di produrre una specie di scudo deflettore invisibile che diede a Pete, Sakon, Jamilah e Daimonji, parecchio filo da torcere. Ma in qualche modo, per caso o per abilità, riuscirono a trovare un punto debole e ciò segnò la sconfitta del primo generale mentre, pochi secondi più tardi, il Gaiking, dopo un furioso corpo a corpo con Desmon, riuscì prima a stordirlo con la Scossa Mortale e poi a trapassarlo con il Pugno Perforante.
A quel punto si diressero verso Dankel, il Generale dai lineamenti più fini ed affilati, ma alquanto diabolici, che si dibatteva come uno scimmione attaccato da quattro grossi calabroni: Nessak, Bazzora, Skylar e Infinity. Fan Lee coordinava le operazioni, e i movimenti dei quattro mezzi erano rapidi e sincronizzati, ma appariva chiaro che da soli non avrebbero mai potuto aver ragione del mostro.
Pete cercò con lo sguardo Balthazar, ma non riuscì a vederlo: probabilmente nell'intento di tenere separati i quattro generali, si era spinto più lontano. Pregando che la simbiosi tra Fabrizia e Alessandro fosse tanto forte da riuscire a sopraffare il loro acerrimo nemico, si concentrò su Dankel insieme al Gaiking, nello sforzo di dare man forte agli altri compagni.
Tutti inorridirono quando una specie di saetta, scaturita dalle corna di Dankel, colpì l'Infinity: il mezzo alato pilotato da Midori si ritrovò con un'ala fuori uso e tutti i circuiti in tilt. Le comunicazioni saltarono, mentre l'Infinity, lasciando una scia scura nel cielo azzurro, precipitava, scomparendo dietro un'altura.
Sanshiro lanciò un urlo disperato, ma si rese conto di non poter lasciare la battaglia: vide con la coda dell'occhio un elicottero di soccorso dell'esercito dirigersi sul posto, e cercò di farsi forte del fatto che non ci fossero state esplosioni. Ciò non toglieva che Midori, nell'impatto a terra, avrebbe comunque potuto essere rimasta ferita, se non peggio, ma cercò di non considerare questa eventualità, nonostante il patto che avevano stabilito tra loro: se uno dei due fosse caduto in battaglia, l’altro avrebbe continuato a combattere per entrambi. Sanshiro, inferocito da ciò che quel mostro aveva fatto alla sua compagna, si gettò sul generale Dankel con tutta la furia che la situazione richiedeva e, sotto i colpi incrociati del Gaiking, del Drago e degli altri tre, al sottoposto di Darius non restò altro che soccombere.
Nel frattempo, più lontano, Fabrizia lottava con tutte le sue forze contro Ashmov, che pareva invincibile: per ogni colpo che lei riusciva ad infliggergli, lui rispondeva con altri due; per ogni arma che Balthazar gli neutralizzava, il generale ne tirava fuori un'altra. Lo scontro era perfettamente equilibrato, ma ad un certo punto la presenza rassicurante di Alessandro nei suoi pensieri sembrò vacillare: non sentiva più i suoi suggerimenti e i suoi consigli, se non a tratti. Ashmov sembrò accorgersene e si lanciò sul leone, sfoderando lui stesso lunghi artigli che gli trafissero il metallo sul petto, sbattendolo con la schiena al suolo e Briz, all'interno dell'abitacolo, finì a sua volta a terra, battendo la testa contro la parete; pur essendo protetta dall'elmo, il colpo la lasciò dolorante e intontita.
Tentò il Ruggito Paralizzante, ma non riuscì a formularne nemmeno il pensiero; lo stesso accadde con l'Onda di Ghiaccio, danneggiata dagli artigli di Ashmov; inoltre il Thunderbolt, con Balthazar così steso sulla schiena, era praticamente inutilizzabile.
Fabrizia cominciò a sentire che le forze scemavano: Ale sembrava scomparso, e non sapeva cosa ne fosse stato dei compagni.
La risata diabolica di Ashmov le riempì le orecchie, e non ci fu più spazio per altro che non fosse sconforto puro. Se almeno avesse saputo che gli altri stavano bene, non le sarebbe più importato molto di lasciarci la pelle, a quel punto… Poi la voce di Pete le risuonò negli auricolari:
– Ti abbiamo localizzata, Briz! Arriviamo!
Come sempre, la sua voce le diede una scarica di adrenalina che le serpeggiò lungo le membra come un'ondata di energia pura, pungendole i sensi. Vide il Drago arrivare in suo soccorso e le sembrò di rivivere i fatti di un'ora prima, quando il Drago era tornato da Marte: una specie di déjà-vu… come tornare a vivere e a respirare. E all'improvviso… anche Alessandro tornò: la sua voce fu come un fulmine che colpì la sua mente, forte e prepotente come non l'aveva mai sentita… tranne una volta, quando, circa un anno prima, nel momento del bisogno le aveva urlato la parola che l'aveva salvata: Thunderbolt.
E stavolta non ci fu nulla di diverso, tranne la parola in sé…
Tra i gangli cerebrali, le rimbombò un altro termine e, allo stesso tempo… lo gridò con tutte le sue forze, insieme al suo gemello.
– Supernova Starfire!
Il Drago e il Gaiking erano sopraggiunti, pronti per strappare il nemico di dosso al leone, ma si bloccarono di colpo nel sentire quell'urlo quasi disumano, più simile a un ruggito che a una voce e, proprio per questo, dannatamente più appropriato.
I componenti dell'equipaggio videro, incuriositi e attoniti, il metallo che formava la criniera di Balthazar diventare all'improvviso incandescente, colorandosi di un arancione sfavillante che poi, rapidamente, si schiarì fino a diventare di un bianco luminoso e accecante. Tutti faticarono a tenere gli occhi aperti, mentre dalla criniera del leone si staccavano globi di quella luce bianchissima che in pochi secondi ricoprirono interamente il corpo del generale zelano, il quale lasciò la presa e si allontanò barcollando di qualche passo.
Briz non sapeva se quel mostro fosse in grado di provare dolore, ma mentre si rimetteva in piedi insieme al suo robot, sperò intensamente, e perfidamente, di . E forse, dalle grida di Ashmov, era davvero così. Il Fuoco di Supernova brillò, e bruciò, e distrusse, finché dell'ultimo sottoposto di Darius non rimase che un misero mucchio di cenere, nera come l'Inferno, che il vento si affrettò a disperdere.
Poteva anche essere vero, che il fine per cui Fabrizia combatteva non era la vendetta personale, bensì la salvezza della Terra, però l'ondata di soddisfazione le attraversò le vene come un fiume di lava rovente, e la presenza del fratello in lei si manifestò ancora più potente. Era sicura che anche lui, tramite il suo corpo, avvertisse quella stessa sensazione: Fabrizia e Alessandro si lasciarono sfuggire un urlo, che attraversò le fauci spalancate di Balthazar e si trasformò in un fiero e assordante ruggito di trionfo. Quel trionfo che anche tutti gli altri riuscirono quasi a percepire, il Capitano Richardson forse più degli altri. Pete sentì un moto di orgoglio salirgli nel petto: la sua fanciullina era davvero diventata la guerriera più strepitosa che avesse mai incrociato sulla sua strada!
Il pensiero di tutti, Sanshiro e Daimonji in primis, corse a Midori, ma nessuno ebbe il tempo di dire o fare qualcosa: un improvviso tremito scosse la terra, e tutti i mezzi da guerra presenti barcollarono e ballonzolarono.
Dalla sommità del Monte Fuji un essere mostruoso, grande almeno come il Gaiking o forse di più, emerse con una risata diabolica e assordante, che lasciò tutti atterriti e senza fiato.
La forma era vagamente umanoide, come ricoperta da un lungo mantello, e il volto era terrificante, poiché era difficile persino chiamarlo con questo nome. Non era un volto, era una maschera dai lineamenti scombinati: la bocca, dalle labbra carnose, lasciava intravedere denti aguzzi e lunghi canini come zanne acuminate; il fatto era che… quella bocca non era posta sotto il naso, era sulla fronte! Ai lati di quella faccia mostruosa e barbuta scendevano due ondulate escrescenze, e gli occhi, ai lati di un naso adunco, erano scintillanti di odio, come due pozze di fuoco dell'Ade.
Quello era Black Darius il Grande.
Non era ancora finita…
– Merda, ci siamo… – ansimò Bunta, senza fiato.
Lo capirono tutti: il Gran Capo che si palesava di persona doveva significare qualcosa di grosso. La sensazione di ognuno fu di essere giunti al confronto finale, e che tutto si sarebbe concluso presto, in un modo o nell'altro.
I guerrieri si ripresero in fretta da quell'attimo di smarrimento che li aveva per un attimo travolti e lasciati allibiti e spaventati.
– Cos'è quella schifezza? – esclamò Yamatake, facendo uscire una vena di bullismo per non cedere allo sconforto.
Fabrizia, come era nel suo stile, fu lesta a seguirlo su quella strada:
– Vacca boia, questo a dargli del mostro gli fai un complimento! Scommetto che gli fa male la faccia, da quanto è brutto! – esclamò spavalda e arrogante, decisa a non pensare al terrore che le incuteva quella figura incombente, pronta a massacrarli tutti. Persino Pete non riuscì a trattenere un sorriso sarcastico: c'era forse un altro modo, per racimolare il coraggio necessario ad affrontare quell'orripilante creatura?
Gli aerei dell'aviazione attaccarono, con colpi e armi di tutti i generi che Darius non sentiva nemmeno, mentre il Drago lanciava i suoi micidiali missili e Sanshiro interveniva con i pugni perforanti.
Briz era stanca e debilitata per aver sfruttato la nuova arma contro Ashmov, ma faceva il possibile con i raggi al plasma e i boomerang luminosi, senza contare gli altri tre mezzi che bersagliavano incessantemente l'immenso mostro. Ma non serviva a niente: Darius sembrava inattaccabile, non veniva nemmeno scalfito, in compenso lanciava raggi infuocati dalle mani e dagli occhi che seminavano morte e distruzione ovunque colpissero.
– Che ne hai fatto degli Zelani, bastardo? Ti hanno creato e tu li hai abbandonati al loro destino! – gli gridò il dottor Daimonji, sapendo che Zela era sulla via del collasso, ai bordi del buco nero.
La voce di Darius e la sua risata furono come un terrificante tuono, che squarciò l'aria rossa e fumosa del campo di battaglia.
– Ahahaha! Vuoi dire la feccia Ribelle? Credi che possa importarmi? Erano rifugiati come conigli nelle tane, nelle viscere di Zela! A quest'ora sono già stati inghiottiti tutti dal buco nero!
Quelle parole fecero imbestialire Daimonji: i Ribelli Zelani avevano fatto di tutto per mandare sulla Terra, a lui, tutte le informazioni possibili per combattere Darius, ma se ora, grazie ad essi, c'era ancora una speranza per salvare la Terra, per loro invece non ce n'erano più; non potevano fare più niente…
A quelle parole, e al pensiero che Yock e Lyra Zenon sarebbero rimasti gli ultimi Zelani superstiti, tutti si sentirono sopraffatti da un'ondata di odio puro. Darius doveva scomparire dall'Universo, proprio come quel popolo che lo aveva creato, sperando di trovare in lui aiuto e salvezza, e che invece era stato vigliaccamente manipolato, schiacciato, e poi abbandonato, per i suoi fini di conquista e potere.
A differenza della tattica che avevano usato per distruggere i Quattro, questa volta i terrestri si unirono, creando un anello compatto che circondò Darius e concentrando i loro colpi più potenti nei punti che lui lasciava scoperti. L'operazione diede i suoi frutti dopo interminabili e faticosi minuti. Nonostante la spossatezza che l'uso del Supernova Starfire le aveva lasciato addosso, Briz e Ale sferrarono il Thunderbolt, in perfetta sincronia con i Raggi Fulminanti del Drago e con una vampata di fuoco rosso che uscì dalle fauci del Drago poste al centro del petto del Gaiking. Fabrizia avvertì la perdita di forze in modo tangibile, il respiro le si accorciò e fu colta da un attacco di vertigini che riuscì per miracolo a tenere a bada.
Darius fu avvolto dalle fiamme che, implacabili e divoranti, bruciarono e consumarono. Stavano per cantare vittoria, tutti quanti, guardando il riverbero del grande rogo, quando dal fuoco e dalle fiamme si eresse spaventosa la vera natura del despota zelano: una struttura massiccia di metallo luccicante e impenetrabile, come un immenso scheletro dall'aspetto diabolico e invincibile. I terrestri lo guardarono, inorriditi e sfiancati, sia fisicamente che mentalmente: ma non sarebbe mai più finito, quell'interminabile scontro?
– È un androide – mormorò sconvolto Daimonji.
Pete fu il primo a esternare la sua personale e, come sempre, pratica conclusione.
– È un robot! È solo un oggetto, non è il diavolo in persona: può essere distrutto!
Senza che fosse aggiunto altro, dal ventre del Drago si sfoderò la Lama Gigante, e il Capitano lanciò l'astronave contro il torace del mostro.
La Lama colpì il metallo con un orribile stridìo… e si spezzò!
Con una forza superiore e inaspettata, il nemico si scagliò addosso al Drago che, già sbilanciato dall’offensiva non riuscita, venne sbattuto a terra con brutalità. I quattro componenti dell’equipaggio a bordo finirono rovinosamente sul pavimento della plancia di comando, compreso Pete che sbatté violentemente la testa contro la consolle.
Balthazar e il Gaiking attaccarono di nuovo, con fredda determinazione, nell'intento di distogliere il mostro dal Drago e dargli il tempo di tornare operativo. La tattica riuscì, anche se il Gaiking, il leone e gli altri tre mezzi erano più che altro un fastidio, per il gigantesco androide. Se solo fossero riusciti a trovare un varco, un punto debole…
All'interno del Drago, Pete, con un rivolo di sangue che dalla fronte gli scendeva lungo un lato del naso, tentava di riappropriarsi delle sue facoltà mentali aiutato da Jamilah, mentre Sakon dava fondo a tutta la sua abilità per ripristinare tutte le funzioni dell’astronave, alquanto malridotta, che erano finite fuori uso. Jamilah aveva poi lasciato il capitano, ancora parecchio frastornato, ai comandi, e, insieme a Daimonji, si era impegnata al computer centrale, tentando di eseguire una scansione del mostro, alla ricerca di un punto vulnerabile.
– Eccolo! – gridò Jami a un certo punto, quando sul monitor del computer, sul quale appariva Darius in lotta con i mezzi terrestri, si palesò una luce rossa che lampeggiava al centro del cranio di metallo. Sakon non si stupì della sveltezza con cui la sua amata era riuscita in quel compito.
– Quello è cervello artificiale di Darius: è il fulcro di tutto, Jami, brava! Sanshiro, Briz! Dovete arrivare lì!
Fabrizia, che era più vicina, tentò il tutto per tutto, appoggiata in pieno dalla mente di Alessandro e, per quanto fossero stremati, lanciarono di nuovo il Supernova Starfire: la luce brillò, prima arancio e poi bianca, e si aprì nei globi luminosi. Le sfere di luce fecero il loro lavoro: ricoprirono il mostruoso androide che, per parecchi secondi, si ritrovò completamente bloccato dalla sfolgorante incandescenza. Le sue risate diaboliche si trasformarono in urla, ma Sanshiro non si lasciò trarre in inganno: sapeva che il Fuoco di Supernova non sarebbe stato sufficiente, da solo, a distruggere Darius, però lo stava momentaneamente immobilizzando e, sicuramente, indebolendo, ed era esattamente ciò di cui lui aveva bisogno. Intervenne fulmineo: fece partire l'Idroraggio, una palla di fuoco che si sprigionò dal centro del muso del Drago e che la mano del Gaiking fu lesta ad afferrare. Il giovane aveva già visto dove colpire: una fessura tra due placche di metallo, alla base del collo del mostro, che avrebbe portato dritto al cervello sintetico.
Il Gaiking sollevò il braccio, e il lancio magico di Sanshiro, degno del più grande dei campioni, compì il miracolo: la sfera infuocata colpì con precisione millimetrica e si infilò implacabile all'interno della testa del gigantesco androide, dividendosi in altre più piccole che serpeggiarono tra i circuiti che formavano la mente dell'Imperatore di Zela.
Questa volta lo sforzo per Briz era stato immane, e la ragazza ebbe appena il tempo per vedere l'Idroraggio colpire Darius, accasciandosi poi sul pavimento della carlinga. La presenza di Alessandro si dileguò, e lei sprofondò nelle tenebre, mentre Balthazar stramazzava a terra, con un tonfo che si ripercosse sul terreno facendolo tremare.
Intanto, le urla di terrore di Darius si alzarono verso il cielo: la sua intelligenza, per quanto artificiale, percepì di essere arrivata all'epilogo.
La testa metallica esplose, sparando pezzi di metallo in ogni dove, subito raggiunti da quelli del corpo, che seguì in pochi secondi la sorte del cervello.
Una lamina di metallo impazzita raggiunse il vetro della carlinga del Gaiking, senza penetrare all'interno, ma spaccandolo: schegge di vetro schizzarono addosso a Sanshiro come proiettili e, dopo aver rotto anche la celata del casco, lo ferirono di striscio al viso e più profondamente ad un braccio, ma lui se ne accorse appena. Si tolse il casco e si passò una mano guantata su una guancia striata di sangue, appurando che non era niente di grave: solo graffi. Decise che anche il braccio non fosse preoccupante, l’unica cosa che avvertiva era l’urgenza di correre a vedere cosa ne fosse stato della sua Midori, ma ebbe comunque anche lui un attimo di smarrimento, nel realizzare quanto era appena accaduto.
Sia i guerrieri del Drago Spaziale, che i soldati a bordo dei mezzi dell'esercito dell'Alleanza Terrestre, rimasero a guardare increduli le fiamme, col fiatone e coi cuori impazziti, quasi tutti scossi da un tremito incontrollabile, senza capacitarsi di ciò che stavano contemplando.
Molti di loro si aspettavano di vedere Darius ergersi e rinascere nuovamente dal suo stesso rogo, come una mostruosa e demoniaca Fenice, ma le fiamme si estinsero; il fumo si diradò: rimase solo una larga macchia scura di ceneri e detriti da cui, questa volta, nulla sarebbe più risorto.
Al suo limitare, si stagliava l'imponente mole bianca e dorata di Balthazar, ancora disteso su un fianco, assolutamente immobile, disperatamente silenzioso.
Una gigantesca, indomabile fiera, colpita a morte.

 
Balthazar-sconfitto

 
> Continua...
 
 
 
 
 
Note dell’Autrice:
 
1Questa frase, "Siamo noi che veniamo a prenderti" l’ho spudoratamente copiata da un famoso film, “Rambo 2”. Mi piaceva troppo! 🤭
 
 
Chi conosce l’anime, forse avrà notato che la battaglia, quella dell’ultimo episodio, intitolato “L’ultima eroica battaglia per la Terra” (una fantasia, gente…) è stata un po’ stravolta rispetto all’originale. Ma io quell’episodio l’ho visto solo una volta, e non avendo avuto tempo di andare a riguardarlo, sono andata a sentimento e a mio piacimento. È stata una faticaccia! E se ci sono cose poco plausibili, ricordate che è una fanfiction e, soprattutto, che è ambientata in un anime robotico. Non ve lo sarete mica dimenticati quel famoso dodecalogo?
 
 
Vi avviso che non so quando aggiornerò, poiché fra due giorni parto per la montagna, dove non avrò internet. Ne approfitterò per disintossicarmi anche dal web per una quindicina di giorni. 
Ne approfitto per salutare tutti quelli che leggono questa storia e che mi recensiscono: mi state dando davvero una grande soddisfazione! Grazie di cuore a tutti, vi voglio bene!

 
 
E… sì. Vi lascio qui, così, come dei ciù, come si dice dalle mie parti.
Con Midori precipitata.
E Briz immobile e silenziosa dentro a Balthazar.
La vittoria ha preteso un prezzo.

Titolo del prossimo capitolo: "Ghost".

Aggiunta del 18 maggio 2018:
Il disegno in CGI di Fabrizia e Balthazar è opera della mia amica Morghana. 

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Capitolo 43
*** 42 - Ghost ***


~ 42 ~ 
GHOST
 
“Don’t you hold your breath,
Cause I’m not coming down
The battlefields have left me only scars
I’m floating in the dark
I’m swimming in the sound
Of voices that should never been apart.
Darker than the blood
Higher than the sun
This is not the end
You are not the only one.”
(Steve Aoki feat. Linkin Park – Darker than blood)
 


Pete si asciugò rabbiosamente la goccia di sangue che gli colava sul viso, trattenendo il respiro. Era dolorante e confuso per il colpo in testa che aveva preso poco prima, ma fu il primo a riscuotersi da quegli infiniti attimi di torpore che sembravano aver colto tutti i presenti sul campo di battaglia.
In quel momento, il fatto che quella guerra orrenda fosse finita era l’ultimo dei suoi pensieri.
Il cuore gli perse parecchi colpi e si sentì quasi morire, mentre fissava allibito il leone immobile.
Sakon richiamò immediatamente il contatto di Briz sul monitor principale della plancia: la ragazza era inerte quanto Balthazar, prona, imprigionata dentro la sua armatura.
 – Fanciullina… svegliati, forza… – la incitò Pete, quasi sottovoce – Svegliati, maledizione! Briii! – gridò poi, non ricevendo risposta – Vado a prenderla! – annunciò infine deciso, alzandosi in piedi di scatto, per uscire dalla plancia.
Arrivò a fare forse due passi, prima che un’ombra nera gli offuscasse la vista e una fitta di dolore dietro agli occhi lo facesse crollare a terra. Jamilah lo raggiunse svelta inginocchiandosi accanto a lui, per controllare le sue condizioni, passandogli una mano tra i capelli, per verificare l’entità della ferita alla testa. Nonostante il sanguinamento pareva una stupidaggine, constatò con un certo sollievo: un piccolo taglio all’attaccatura dei capelli; ma lui non sembrava molto in sé.
– Sakon, fai una bio-scansione della carlinga di Balthazar e controlla i parametri vitali di Briz – ordinò Daimonji, il pensiero fisso a lei e a Midori.
L’ingegnere obbedì prontamente.
– Lasciami andare, Jami – si lamentò Pete, agitandosi, tentando di rialzarsi.
– E dove vorresti andare? Non vedi che non ti reggi in piedi?
– Devo andare da Briz! Lasciami…
– Hai una ferita alla testa, anche se piccola; stai calmo. Oltretutto non potresti nemmeno entrare in carlinga da lei, con Balthazar in quella posizione! Stiamo controllando il suo stato…
In quell’attimo, la voce metallica del bio-scanner diede il suo responso sulle condizioni di salute di Briz:
“Comandante Fabrizia Cuordileone. Funzioni vitali: assenti”. 
– No! Non è vero! – urlò Pete, rialzandosi in piedi di scatto e spingendo via Jamilah sgarbatamente, facendola cadere seduta a terra, per poi precipitarsi di fronte al monitor – Bri! Bri! Svegliati! Non puoi farmi questo, non puoi!  
Gli altri non erano meno allibiti e devastati di lui, e non poterono fare a meno di pensare che anche di Midori non avevano notizie. Era mai possibile che proprio alla fine di quel maledetto conflitto, le uniche vittime dell’equipaggio del Drago Spaziale, dovessero essere le loro belle e coraggiose ragazze guerriere?
Pete respirava a fatica, era pallidissimo, le mani piantate sulla consolle e gli occhi fissi al grande monitor. Una lacrima gli scese silenziosa lungo una guancia, seguita da un’altra… e un’altra ancora; ciò che aveva provato su Marte, al pensiero di dover morire, era stato nulla al confronto di questo. Crollò seduto sulla sua poltroncina di pilotaggio, lo sguardo appannato sull’immobile armatura bianca e dorata.
Non poteva, non voleva crederci. Nessuno di loro, ci riusciva, ma lui meno ancora degli altri…
– Sakon, riprova! Per favore!
L’ingegnere in realtà stava già ripetendo l’operazione da ancora prima dell’esortazione di Pete, ma il responso del bio-scanner non cambiò.
Pete scosse la testa, lo sguardo vitreo, come ipnotizzato: il suo cuore rifiutava a prescindere quella risposta, ma la sua mente razionale sapeva di doverla accettare. Il tono della sua voce suonò spezzato e rassegnato, ancor più che disperato.
– Bri, ti prego, non mi mollare. È per questo che sono sopravvissuto, su Marte? Che sono sopravvissuto a questa guerra? Per veder morire te?
L’armatura che racchiudeva la ragazza, rimase silenziosa ed inerte.
Daimonji era come raggelato; Jamilah si rialzò in piedi lentamente, scuotendo incredula il capo, le labbra tremanti; Sakon si avvicinò al suo capitano ed amico, e gli posò una mano su una spalla, sentendosi totalmente impotente.
Pete chinò la testa, i gomiti sulle ginocchia e le mani tra i capelli e, incurante della presenza degli amici, lasciò che le lacrime gli scorressero sul volto senza ritegno.
–  Dio, fanciullina… cosa faccio adesso, senza di te?
 
* * *
 
La preoccupazione per Fabrizia gli attanagliava il cuore, ma Sanshiro diede la priorità, per forza di cose, all'ansia per Midori. Daimonji gli aveva detto che a Briz avrebbero pensato loro e lui, fermato il Gaiking ai margini dell’ospedale da campo allestito per portare i primi soccorsi, era sceso a terra in pochi istanti.
Fortunatamente sembrava che i feriti fossero meno di quel che si era temuto, e le vittime un numero ancora più esiguo, anche se ciò non lo rincuorò; molti feriti, i più gravi, venivano rapidamente trasferiti, tramite grandi elicotteri, negli ospedali più vicini e attrezzati.
I medici e i paramedici militari non si sorpresero più di tanto, quando videro il pilota del Gaiking piombare nell’improvvisato ma efficiente campo di pronto soccorso.
– Sto cercando Midori Fujiyama, la pilota precipitata con l'Infinity! Dov'è? È ferita? Midori! Midori! – gridò, aggirandosi tra i mezzi di soccorso e le barelle improvvisate.
– Venga con me, Comandante! – gli ordinò un giovane Tenente medico che gli corse incontro.
Sanshiro lo seguì, lasciandosi guidare stordito, faticando a mettere in ordine i propri pensieri: la guerra era finita, ma non riusciva ancora a capacitarsene, non era questo che gli importava, in quel momento.
Il medico lo indirizzò verso una grande ambulanza, dai portelloni posteriori aperti; all’interno, un'immobile macchia di colore colpì il suo sguardo: un giubbotto color azzurro acqua.
Per un attimo il cuore gli si fermò… poi la macchia di colore si mosse, e il suo battito cardiaco riprese furioso, mentre ricominciava a correre per raggiungerla.
Midori, distesa su una lettiga dentro il mezzo, incrociò i suoi occhi nello stesso momento, e fece per mettersi seduta; Sanshiro la raggiunse a bordo per impedirglielo, poiché, giunto al portellone spalancato, aveva notato la medicazione sulla fronte, il livido su uno zigomo, una fasciatura al polpaccio sinistro e il braccio destro immobilizzato in un tutore. La ragazza lo ignorò, incurante delle ferite, e in un attimo si ritrovarono abbracciati, lui in piedi e Midori seduta sulla lettiga, che lo cingeva col braccio sano e con le lunghe gambe, incapaci di credere di essere entrambi ancora vivi, e di essere giunti, in quel caldo giorno d'estate, alla conclusione di quello sfiancante conflitto.
Sanshiro la strinse a sé, attento a non farle male, accarezzandole i capelli e baciandole la guancia sana e la parte di fronte lasciata libera dal vistoso cerotto.
– Dio, credevo che fossi morta…
– Anch’io, credimi; è stato l’atterraggio di fortuna più difficile della storia, non so come abbia fatto e non voglio nemmeno pensarci: è già un miracolo che non mi sia ammazzata, ma sto bene. Adesso che sei qui, e che è finito tutto, sto bene. Cioè… ho un taglio in fronte, uno a una gamba e un braccio rotto in due punti, e ho male dappertutto, ma chissenefrega! Guarirò… Tu, piuttosto… – rispose lei confusamente, guardando i graffi sul suo viso e la ferita al braccio. Sanshiro minimizzò, e lasciò che gli accarezzasse la guancia e gli baciasse il volto graffiato e le labbra; si baciarono a lungo, in modo tenero, inframmezzando ai baci sorrisi incerti, carezze sul viso e vaghe rassicurazioni sul loro stato di salute.
Nella superattrezzata ambulanza c'erano, su altre due lettighe, una soldatessa ferita non gravemente a una gamba, e un altro militare con una spalla malamente contusa, insieme a un infermiere. Tutti li guardarono incuriositi, sorridendo fra loro: quella scena fece prendere consapevolezza ai soldati del fatto che i guerrieri del Drago Spaziale, alla fine di tutto, non fossero dei supereroi come tanti li immaginavano, ma solo giovani uomini e donne, uguali a loro, che avevano nel cuore sentimenti come ogni altro. Ed era bello vedere che l'orrore che avevano vissuto, non aveva impedito a questi sentimenti di uscire allo scoperto, né aveva permesso che venissero annientati. Anche loro soffrivano, sanguinavano, amavano, ed erano riusciti, nonostante tutto, a rimanere esseri umani.
– Sanshiro… – disse a un certo punto Midori, come tornando di colpo alla realtà e cercando il suo sguardo – Briz…? Balthazar… è…
– Non lo so, Dori. Doc ha detto che se ne sarebbero occupati loro… ma sono in ansia quanto te. Ma tu come fai a saperlo?
– Guarda, abbiamo seguito la battaglia da qui – disse la ragazza mostrandogli un sofisticato computer, montato a bordo del mezzo, che trasmetteva le notizie che cominciavano ad accavallarsi l'una sull'altra.
– Permettete? – fece Midori al paramedico mentre, muovendosi con cautela e aiutata da Sanshiro, andava a sedersi di fronte al monitor; l’infermiere e i due feriti la guardarono interessati, e Sanshiro intervenne.
– Specialista delle comunicazioni del Drago Spaziale: possiamo fidarci – spiegò conciso.
Midori inserì con la tastiera alcuni codici ed entrò nel circuito di comunicazione del Drago, che comprendeva anche il contatto audio con i piloti di Nessak, Bazzora e Skylar. Sullo schermo apparve Sakon.
– Midori! Dottore, è Midori! È viva! Stai bene? Sei ferita? – gridò concitato, mentre anche Daimonji si avvicinava per vederla.
– Poteva andare peggio. Voi?
Il volto di Daimonji, apparso accanto a quello di Sakon, si rianimò per un attimo nel vedere Midori, ma le loro espressioni addolorate e gli occhi pieni di lacrime non preannunciavano nulla di buono. Sakon parlò in tono fermo, ma cupo e rassegnato.
– Fan Lee, Bunta e Yamatake hanno solo qualche ammaccatura. Pete ha preso un colpo in testa, sanguina un po’ ma non e grave, ma è in stato semi confusionale, anche perché… Briz… –  la voce gli si spezzò, e non riuscì a continuare.
Midori e Sanshiro sentirono un colpo al cuore, quasi rimasero senza respiro, ma Midori si riprese quasi subito: inserì altri codici, e sullo schermo del computer apparve l'interno dell'abitacolo di Balthazar, con Briz riversa sul lato della carlinga rovesciata, ancora dentro all'armatura.
Perfettamente immobile.
 
* * *
 
Briz aveva visto i globi luminosi, staccatisi dalla criniera di Balthazar, ricoprire interamente il corpo di Darius e, contemporaneamente, aveva sentito la coscienza di Alessandro allontanarsi da lei. Era arrivata anche a rendersi conto che Sanshiro aveva colpito il punto debole del mostro col suo lancio magico, prima che lo sfinimento totale del suo fisico e della sua mente, la facesse precipitare nell'oscurità.
E adesso si sentiva fluttuare nel nulla assoluto.
Non riusciva a muoversi, a parlare, a pensare… si era smarrita in una specie di limbo, e si sentiva completamente svuotata di tutto. Anzi, in realtà… non si sentiva; nella mente della ragazza il nulla si fece strada inesorabilmente, cancellando sensazioni, immagini e ricordi. Si era perduta, e non trovava più la strada del ritorno.
Il buio era totale e sembrava accentuare il rombo cupo che sentiva nelle orecchie; era una sensazione stranissima, nonostante le sembrasse di non avere più un corpo, avvertiva un pulsare sordo e pesante: Tu-tum, Tu-tum, Tu-tum…
…come sangue caldo e scuro, che palpitasse comunque in lei, come se lei stessa fosse quel battito. Non riusciva a dire se tutto ciò fosse piacevole o inquietante: il tepore in cui era immersa non era fastidioso, non provava nessun dolore, e questo non le sembrava un fatto negativo. Anche se… forse… avrebbe dovuto esserlo…?
All’improvviso l’oscurità sembrò spezzarsi, aprirsi in sprazzi di azzurro, fino a diventare una luce bianca che all’inizio le ferì la vista, poi diventò come un piccolo sole, caldo e rilassante. Si sentì ruzzolare, come se stesse facendo una capriola all'indietro, fino a ritrovarsi praticamente in piedi, anche se non avvertì la sensazione di qualcosa di solido, sotto di sé; l’effetto del battito incessante si attenuò, facendola sentire ancora più leggera, eterea. Eppure, anche se in modo totalmente diverso, percepiva ugualmente il suo corpo.
Non aveva addosso l'armatura, ma una specie di tunica corta, di morbida seta color crema, stretta in vita da una lenta cintura dello stesso tessuto, annodata da un lato; ed era scalza.
– Oh, Dio! Stavolta è andata, sono morta davvero! – si sentì esclamare, con una tranquillità che la sorprese.
– Ehi, Folletta – disse una voce calda e famigliare alle sue spalle.
Briz chiuse gli occhi, o almeno così le parve, sentendo il battito del proprio cuore aumentare e pensando che non fosse possibile. O forse sì… in fondo, se era davvero morta, era più che normale che lì ad accoglierla ci fosse…
Si girò, lentamente, riaprendo gli occhi… e lui era lì, di fronte a lei.
Alessandro.
Il suo gemello, il sangue del suo sangue, che in quegli ultimi tre anni, ora lo sapeva, non l’aveva abbandonata un attimo: l’aveva vegliata, protetta, fortificata… Se lei era riuscita a distruggere Ashmov, e a immobilizzare Darius perché Sanshiro potesse finirlo, il merito era soprattutto di Alessandro.
E se per questo, alla fine, aveva pagato con la vita, allora andava bene così.
Ogni guerra ha i suoi eroi e i suoi martiri, e in questa era toccato a lei.
Si stupì della serenità che provava: la morte non faceva poi così male, né paura; ma in fondo, la presenza di suo fratello l’aveva sempre fatta sentire così.
Gli si avvicinò di un passo, senza riuscire a smettere di guardarlo, quasi beandosi, della sua vista. Dio, quanto le era mancato! E ora era lì, di fronte a lei: alto, bello, i capelli scuri, corti e dritti sulla testa, come li aveva sempre portati; gli occhi verdi come i suoi, luminosi e caldi; le labbra morbide e piene, piegate in un sorriso tenero; una manciata di lentiggini sul naso. Portava un paio di calzoni bianchi e una camicia di seta dello stesso colore e, come lei, era a piedi nudi. Certo, che bisogno c’era di scarpe? In fondo, stavano camminando sulle nuvole…
Briz avanzò di due passi e lo abbracciò, sorpresa e felice di poterlo fare. O almeno, la sensazione fu questa, mentre anche lui le chiudeva le braccia attorno.
Niente e nessuno avrebbe più potuto farle del male, ora: era con suo fratello, e lui l’avrebbe riportata a casa, da mamma e papà.
 
Briz-e-Ale-Heaven

Certo, si sarebbe portata dietro parecchi rimpianti, lo sapeva, primo fra tutti, non aver detto a Pete che lo amava. Ma non si portava nessun rimorso, e questo era l’importante… Andava davvero bene così.
– Sono morta, vero? – gli chiese, come se fosse la cosa più normale del mondo.
Alessandro la scostò appena, e le accarezzò il viso.
– In realtà, Gnappetta, non sei davvero morta, finché non ti infili giù di lì.   
Briz guardò il punto che lui le indicava: sembrava un tunnel, anzi, il tunnel: quello famoso di cui si raccontava e fantasticava di dover imboccare, per raggiungere l’Aldilà: sembrava persino invitante, con quella strada azzurrina e luminosa che spariva al suo interno, portando… sicuramente in un bel posto.
Ma se quel posto era davvero il Paradiso, o quello che le persone chiamavano così, allora perché Ale non era ? Non le risultava che, imboccato quel sentiero, si potesse tornare indietro. La risposta le giunse di colpo.
– Tu… non hai ancora percorso quel tunnel, vero? Sei stato… qui, tutto questo tempo? Tre anni?
Alessandro, tenendole un braccio attorno alle spalle, cominciò a camminare, avvicinandosi all’imbocco del tunnel, e rispose alla sua domanda.
– Diciamo di sì, anche se… qui, è un concetto relativo, e il tempo scorre in modo diverso, rispetto alla Terra. E poi, io ho avuto… non so come spiegartelo… una specie di… permesso speciale, perché avevo lasciato qualcosa in sospeso, nella mia vita terrena. Non potevo lasciarti del tutto sola ad affrontare questa guerra, anche se la parte più difficile è stata senza dubbio sulle tue spalle. Di qui non è sempre facile interagire con voi… laggiù. Ma quando tu combattevi, una parte di me, riusciva a raggiungere i connettori neurali di Balthazar, anche se non sempre con la stessa intensità.       
– Sì, lo so, ti ho sentito. Sempre, fin da un anno fa, quando mi hai fatto conoscere il Thunderbolt, e forse anche da prima. Ma negli ultimi tempi la tua presenza si era fatta più forte, molto più forte.
– Infatti; probabilmente era dovuto al fatto che tu stessa eri diventata più forte e determinata, avevi imparato meglio a destreggiarti con la connessione, ma soprattutto, eri molto disposta a credere in ciò che ci accadeva, e così risultava più facile. Oggi poi… è stata l'apoteosi: era da tanto che cercavo di passarti il Supernova Starfire, senza riuscire mai a raggiungerti a sufficienza. Ashmov lo abbiamo distrutto insieme, io ero davvero lì con te.
– Era così doloroso, e difficile, disconnettermi. L’ultima volta è dovuto venire Pete a… svegliarmi, ecco.
– Sì,lo so… in un certo senso, ero lì… Mi dispiace, per tutto il malessere fisico che hai dovuto subire, fin dall’inizio: gli effetti collaterali dei primi tempi, e poi quelli che si erano aggiunti di recente. Io non so spiegarti cosa fosse… forse qualcosa di inconscio, una parte di noi non voleva che ci separassimo, e non so se dipendesse da me, o da te; so solo che ogni volta soffrivo con te, nel vederti stare così male. Ma ora è finita, Folletta.
Briz si fermò e lo guardò incerta: sembrava davvero un film fantasy… ma come sarebbe mai potuto finire?
– Allora, adesso…? Che succede? Vengo con te? – gli chiese, accorgendosi che l'idea di percorrere il tunnel luminoso insieme a suo fratello la spaventava sempre meno, anzi, diventava sempre più tentatrice: avrebbe riavuto Ale, suo padre, la mamma… Perché no, dopotutto?
Poi guardò il suo gemello negli occhi e azzardò un’alternativa pazzesca.
– Oppure… puoi tornare tu… giù… con me? – osò domandargli.
– No, no, tesoro, non è così che funziona – si affrettò a rispondere Alessandro, con le labbra tese in un sorriso sereno e triste allo stesso tempo.
– Però… hai detto tu che, finché non percorri il tunnel… – ci provò ancora Briz, pur sapendo già che, come suo solito, tentava di arrampicarsi sugli specchi.
– Fabrizia… io non posso fare diversamente: sono passati tre anni… il mio corpo non esiste nemmeno più. Tutto quello che dovevo fare, l'ho fatto, ho concluso la mia missione, non ho più niente in sospeso.
– Tu credi? E Jessica?
– Nemmeno Jessie ha più bisogno di me, lo sai. Ha sofferto tanto, è vero, ma è anche grazie a te, se ora sta bene. Lei è a posto, adesso, ha la sua vita da vivere… e mi piace il ragazzo col quale ha scelto di dividerla.
– Sai già tutto, tu, vero? Anche di Tom…
– Più o meno… Non è che vedo tutto, di qui, sia chiaro, ma certe cose si sentono, diciamo così. Infatti so anche che tu, come Jessie, e al contrario di me, hai ancora una marea di cose da fare, sulla Terra.
– E che cosa, di grazia? – chiese Briz, abbracciando di nuovo il fratello, poco convinta.
– Beh, laurearti in Veterinaria, tanto per dirne una. E sposare il tuo bravo ragazzo e fare quei bambini che hai sempre desiderato, per dirne un'altra. E poi credo che insieme, tu e lui, farete un mucchio di altre belle cose.
– Anche nel caso esistesse, potrebbe non volermi, questo bravo ragazzo – rispose Briz, abbassando lo sguardo, e rendendosi conto che Alessandro sapeva benissimo di chi stessero implicitamente parlando.
– Dovrai correre il rischio, Rompina, tanto so che avevi già deciso di dirgli quello che provi per lui. Che, fra l'altro, lui è anche il fratello di Tom.
– Sì, lo so che lo sai! È sempre stato così, fra noi due.
– Ma… da oggi in poi, non lo sarà più. Io… devo lasciarti andare, Briz. Lo capisci questo, vero?
– Sì – fu la sommessa risposta, appena un soffio.
Briz sapeva di non potersi opporre a questo destino: Ale era morto, e doveva andare; mentre lei era viva, e doveva tornare.
– Brava, piccola – le disse Alessandro, con le mani sulle sue guance, dandole un bacio sulla fronte.
– Mi fa ridere che mi chiami piccola: è vero che, in un certo senso, tra i due eri tu il fratello maggiore, ma ora… io sono più vecchia di te di tre anni.
– Sarai sempre la mia Gnappetta, anche quando ne avrai novanta e sarai una super bisnonna sprint.
Nonostante la situazione surreale e drammatica, al pensiero di sé stessa bisnonna novantenne, attorniata da un numero imprecisato di pronipotini urlanti, Briz scoppiò a ridere e anche Ale la seguì: risero insieme di gusto, come quando erano ragazzini, per le sciocchezze trovate su Internet, per le partite alla Playstation, per le nuotate e i tuffi alla pozza del torrente al Rifugio degli Elfi, e le galoppate sfrenate in sella ai loro cavalli. Risero fino a rimanere ansanti, col respiro corto e gli occhi lucidi.  
Ale la strinse di nuovo tra le braccia e a quel punto le risate si spensero: la consapevolezza che quello era un addio, crollò loro addosso come un macigno. Fabrizia si impose di non lasciarsi andare a pianti disperati, non dopo che Alessandro era riuscito a far sì che l’ultima cosa condivisa, fossero state quelle risate incontrollabili e divertite. Quello era l’ultimo ricordo che voleva di lui: aver riso insieme ancora una volta.
In mezzo alla luce lattiginosa, altre figure, vestite come loro, comparvero un po’ alla volta ai margini del campo visivo di Briz, e con volti radiosi e sereni, salutandosi e parlando fra loro, si incamminarono verso l’ingresso del Tunnel, che era diventato improvvisamente più vivido e luminoso. Anche Alessandro percepì che era ora di incamminarsi: il suo tempo era scaduto.
– Devo andare, Fabrizia: devo continuare la mia strada e, come vedi, non sarò solo, lungo il cammino – sussurrò il ragazzo, sciogliendosi dal suo abbraccio ma tenendola ancora per mano.
A lei non restò che annuire, facendo un passo indietro. A dispetto della promessa fatta a sé stessa, un altro paio di lacrime le sfuggirono mentre, con lentezza, camminando all’indietro, si allontanava da lui e le loro mani, scivolando una sull’altra, si separavano definitivamente. Caparbiamente, Briz continuò a sorridere: voleva che fosse quella l’ultima espressione di lei che Alessandro si sarebbe portato via, ovunque fosse il misterioso luogo che lo attendeva.
Suo fratello si allontanava lentamente, camminando all'indietro, ma anche lui le sorrideva, probabilmente per lo stesso motivo.
– Ale! – lo chiamò un'ultima volta, facendo due passi verso di lui.
– Dimmi, piccola.
– Quando vedrai mamma e papà… di' loro che gli voglio bene.
– Loro lo sanno già, ma lo farò. E tu, quando vedrai Jessie, dille che l'ho amata moltissimo, anche se eravamo solo ragazzini; e che le auguro una vita lunga e serena. Sono contento di affidare le mie donne a due persone in gamba come i ragazzi Richardson.
Il sorriso sulle labbra di Briz si allargò, mentre si sforzava di ritrovare una vena ironica.
– E se il mio Richardson non mi vuole, dove vengo a cercarti per reclamare? L'hai pensata bene, eh, furbacchione?
Ale rise di nuovo, felice di portare con sé il ricordo dell’ironia della sorella.
Poi la voce di Briz si spezzò di nuovo.
– Grazie, per essermi stato accanto in questo casino.
– Dovere. E Amore di fratello gemello, naturalmente. Vivi e ama anche per me, Folletta, e fallo più intensamente che puoi – rispose Ale, prima che i contorni della sua figura cominciassero a sfocarsi.
Briz ebbe la netta sensazione che lui le dicesse ancora qualcosa, ma fu solo come un’eco lontana e indistinta.
La sagoma luminosa di Alessandro si scompose in innumerevoli luci, come quelle di tutte le altre, fino a diventare come tante stelle che danzavano insieme, per poi fondersi definitivamente con il riverbero azzurro che proveniva dal Tunnel.
La ragazza si ritrovò per qualche istante completamente sola, spaesata…
“E adesso?” stava per chiedersi.
Non ebbe il tempo per provare sgomento, né paura: tutto a un tratto, fu come se qualcuno l’avesse afferrata da dietro e si sentì trascinare via. L’oscurità tornò ad avvolgerla, il battito sordo e profondo di un cuore pulsante tornò a rimbombarle nelle orecchie.
Tu-tum… Tu-tum… Tu-tum…
 
***
 
Un fremito riscosse il corpo di Fabrizia, e dalle labbra screpolate le sfuggì un ansito, quando l'aria le riempì i polmoni.
Insieme alla coscienza ritornò anche la sensibilità fisica: sentiva dolore dappertutto, anche se non le sembrava di avere qualcosa di rotto.
– Bri… Bri, svegliati, ti prego!
Non era più Alessandro, che le parlava… era Pete!
Le sarebbe venuto da ridere, se non che, si rese conto che le sarebbe costata una fatica improba; ma era già la terza volta, quel pomeriggio, che la voce del Capitano Richardson la riportava nella realtà. Le faceva male la testa e non riuscì nemmeno a rispondere subito, si rese solo conto di essere a pancia in giù, dentro all'armatura e, con uno sforzo che le costò un paio di gemiti soffocati, riuscì a sollevare appena la testa.
Pete, dopo il suo ultimo disperato richiamo, aveva chinato la testa, ormai rassegnato ad aver perso la sua fanciullina.
– Pete, si è mossa! È viva! – gridò Jamilah, al colmo della gioia, mentre la voce metallica del bio-scanner, rimasto collegato a Balthazar in quegli ultimi concitati e disperati momenti, si faceva nuovamente sentire.
“Comandante Fabrizia Cuordileone. Rilevamento dei parametri vitali. Funzioni cerebrali e neurologiche: nella norma. Funzioni cardiovascolari: nella norma. Funzioni respiratorie: nella norma”.
– Sì, l'ho vista anch'io! – esclamò Midori quasi all’unisono, ancora collegata, insieme a Sanshiro, sia con il Drago che con Balthazar, dal mezzo di soccorso.
Pete risollevò di scatto la testa, in tempo per vedere Briz che si agitava.
– Ma porc… ahia, boia di una miseriaccia ladrona… che male! – imprecò Fabrizia, rotolando su sé stessa e finendo supina, tentando inutilmente di rimettersi in piedi; cosa che, si rese conto, non sarebbe mai riuscita a fare, senza rialzare prima il robot.
Il Capitano Richardson e i suoi compagni non riuscivano a credere a ciò che vedevano: poco prima Briz era morta, almeno secondo il bio-scanner. E ora, sempre secondo il sofisticato macchinario, era non solo viva, ma nel pieno di ogni sua facoltà, sia fisica che mentale.
– Briz, come stai? Stai bene? Dicci come ti senti!
Le voci dei componenti dell’equipaggio si sovrapponevano l’una all’altra, tranne quella di Pete, che non riusciva ancora a credere a ciò che vedeva e sentiva: sembrava paralizzato.
– Cacchio… ma urlate piano! Sono completamente suonata – brontolò Briz, facendo scoppiare tutti a ridere.
– Beh, niente di nuovo allora, fanciullina pazzoide – esclamò finalmente Pete.
– No, niente di nuovo! – concordò lei divertita, nonostante fosse ancora distesa di traverso.
– Accidenti, mi hai fatto prendere un colpo! Credevo di averti perduta… – gli scappò detto – Sì, insomma, tutti lo credevamo – si corresse poi, tornando ad indossare la solita maschera di riservatezza.
A Briz sfuggì un sorrisetto ironico: appena possibile aveva intenzione di fare i conti, con lui e con la sua maledetta reticenza a lasciarsi andare!
Realizzò finalmente che per raddrizzare Balthazar le sarebbe bastato il pensiero, visto che era ancora connessa: si concentrò e lentamente, fra ondeggiamenti e stridii di metallo, il grande leone rotolò e si riassestò sulle quattro zampe mentre lei, nell'abitacolo, faceva lo stesso seguendo il suo movimento e aggrappandosi ai comandi.
Ai suoi piedi si allargava la chiazza scura di cenere, su cui campeggiavano i resti metallici, anneriti e consunti, di ciò che era stato Darius il Grande. Finalmente quell'ultima consapevolezza prese possesso della sua mente: era finita, questa volta sul serio.
L'incontro avuto con Ale, le si affacciò alla mente: le sembrava fosse durato parecchio, ma qui, nella realtà, non parevano passati più di un paio di minuti… Era stato vero, o solo un sogno delirante?
Decise che, in fondo, non avesse nessuna importanza, ma capì anche che Alessandro, davvero non c'era più. Non lì con lei, per lo meno; non sulla Terra.
E a quel punto, Briz urlò; e lo fece da sola, stavolta.
Aveva sperato ancora, per un attimo, con quel richiamo disperato, di riportare a sé Alessandro. In quel grido risuonò tutta la tristezza che provava per la sua mancanza, che sentiva in modo quasi tangibile;
ma Balthazar, di nuovo trasformò quell'urlo in un potente ruggito che non fu più di disperazione, ma vittorioso e trionfante.
A bordo del Drago, di Bazzora, Nessak e Skylar, e nell'ambulanza, tutti tirarono sospiri di sollievo, che si trasformarono anch'essi in strilli di gioia ed esultanza, nel rivederla in piedi.
La ragazza sollevò la celata del casco e fece accucciare il maestoso felino. In piedi, anche se barcollante, ai comandi del suo robot, si portò una mano alla fronte dolente, ma si lasciò andare a un altro sorriso, lasciando che la sua natura scanzonata riprendesse il sopravvento.
– Richardson, sto per disconnettermi e scendere a terra: non mi dispiacerebbe trovarti ad attendermi.
Pete si passò il dorso di una mano su una guancia, sulla quale era rotolata un’ultima lacrima involontaria, lasciandosi poi andare a una risata liberatoria, subito seguito da tutti gli altri.
Briz era davvero tornata!
– Tranquilla, bestiola selvatica, sto arrivando!
 

> Continua…


Nota:
Da dove io abbia copiato il titolo di questo capitolo è piuttosto palese, ma è anche doveroso citarlo comunque: dal film del 1990 "Ghost", di Jerry Zucker, con Patrick Swayze, Demi Moore e Whoopi Goldberg.
 

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Capitolo 44
*** 43 - Pete e la sindrome di Han Solo ***


~ 43 ~
PETE E LA SINDROME DI HAN SOLO


 
 
– Tranquilla, bestiolina selvatica, sto arrivando. 
 
Dopo quelle parole, Pete si era alzato rapidamente, poi gli sovvenne una cosa.
– Ce la fai a disconnetterti da sola? – chiese preoccupato a Briz, rivolgendosi all’immagine della ragazza sullo schermo.
– Certo che sì! – rispose lei, sicura e lucidissima; e, senza aggiungere altro, premette il pulsante che avviava la disconnessione.
L'armatura si staccò dal suo corpo con una delicatezza che non c'era mai stata prima; mentre le parti metalliche si rialloggiavano nelle botole, Briz attese di venire assalita da tutta la sequela di malesseri che, ogni volta, la massacravano, ma non accadde nulla del genere: niente nausea, niente febbrone, niente tremiti. Nulla di nulla, sebbene, quella appena sostenuta, fosse stata la battaglia in assoluto più lunga e furiosa che avesse affrontato, nel corso di quell'estenuante conflitto: aveva usato due volte il Thunderbolt e persino due volte quella cosa pazzesca del Supernova Starfire, ma ciò non le aveva arrecato conseguenze.
Briz aveva bisogno di uscire a respirare… anche perché sapeva chi avrebbe trovato ad aspettarla a terra; indossò il giubbotto viola e si infilò nell'ascensore che l'avrebbe portata giù. Conosceva il motivo per cui la questione era cambiata e, ancora per un attimo, la mancanza di Alessandro le tolse quasi il fiato; e doveva comunque ammettere che, nonostante l’assenza dei soliti malesseri, si sentiva stremata come mai prima nella sua vita: le girava la testa e faticava a ragionare lucidamente e a rendersi conto che la guerra fosse realmente finita. Ma in fondo ci stava: dopotutto era anche quasi sicura di aver appena vissuto un’esperienza di pre-morte.
Pete aveva seguito sul grande monitor del Drago Spaziale le fasi della disconnessione di Briz un po' stranito, ed era rimasto lì, con lo sguardo perso nel vuoto, ancora incredulo… un po' come tutti gli altri, del resto.
Sakon fu il primo a riprendersi.
– E allora! Ma sei ancora qui!? Cosa diavolo stai aspettando? – esclamò, scuotendolo per una spalla – Ti sei già dimenticato quello che mi hai detto su Marte? Fila da quella povera ragazza che ha avuto la disgrazia di incontrarti, e vedi di concludere qualcosa con lei, e anche alla svelta!
Pete si riscosse e, senza una parola, si alzò, togliendosi i guanti e lanciandoli dove capitava; si fermò solo un attimo per toccare rapidamente una spalla a Jamilah.
– Jami, scusa per lo spintone di prima. Ero…
– …fuori di testa, lo so, non ci pensare. Datti una mossa e va’ da lei, piuttosto!
Non aveva nemmeno finito di parlare, che lui era già sparito di corsa.
– Vuoi scommettere che riescono a gridarsi dietro e a litigare persino in un momento come questo? – si fece sentire ironica la voce di Bunta, dall'interfono della plancia, mentre il giovane guerriero pacioccone si apprestava a scendere dal Nessak.
– Forse no – disse Sakon fiducioso – Pete mi ha fatto una mezza promessa, su Marte.
– Ahahah, è quel mezza, che mi preoccupa – ridacchiò Fan Lee scendendo dallo Skylar, mentre anche Bunta e Yamatake lo raggiungevano; avevano tutti bisogno di rimettere i piedi a terra, non solo chi era tornato da Marte.
A bordo del Drago, anche il dottor Daimonji si incamminò verso l'uscita, mentre Sakon e Jamilah si abbracciavano un po’ stravolti, faticando ancora a metabolizzare il fatto che fosse, finalmente, tutto finito.
Midori, dal monitor della postazione informatica dentro all'ambulanza, li vide guardarsi con intensità e sorridersi, per poi baciarsi appassionatamente; piacevolmente sorpresa di questo ulteriore sviluppo, spalancò occhi e bocca, spegnendo velocemente il monitor.
– Ah, già! – fece Sanshiro, mentre il paramedico finiva di medicargli la ferita al braccio – Ecco l'altra novità, mi ero scordato di dirtelo: il bacio di questa coppia, prima della partenza per Marte... ha avuto un seguito, come puoi vedere.
– Beh, era anche ora, no? Tu guarda se dovevano pensare di morire su Marte, per decidersi, questi due!
– Mmm... è quello che più o meno gli ho detto io – commentò Sanshiro, mentre lei spegneva il monitor – Ce la fai a camminare? – le chiese poi, preoccupato.
– Assolutamente sì! Mi sono rotta un braccio, mica le gambe – sorrise lei, mostrando il suo spirito di guerriera.
Ma Sanshiro, con un’occhiata critica al polpaccio fasciato e al piede privo dello stivale, non considerò minimamente la sua risposta e la sollevò tra le braccia, scendendo dall'ambulanza, non prima di aver salutato i feriti e ringraziato l’infermiere. Midori, stringendogli le braccia al collo e mandando al diavolo lo spirito guerriero, si godette fino in fondo quel gesto cavalleresco da parte del suo uomo: in quel momento ci stava tutto!  
Sanshiro si diresse verso il punto, non molto lontano, in cui il Drago era atterrato e tutto l'equipaggio si stava raccogliendo.
– E se vuoi la mia opinione su Sakon e Jami, – aggiunse Sanshiro parlandole a voce bassa, in tono malizioso – dalle facce che avevano su Marte, quando li ho raggiunti sul Drago, e dallo stato dei loro vestiti... beh, ho avuto la sensazione che avessero concretizzato parecchio, credimi!
– Ma Sanshiro! – fece lei, fingendosi scandalizzata.
– Oh, senti, con tutte le prese in giro che ci siamo sorbiti noi due, in Italia...!
La ragazza ridacchiò: – Sì, okay, effettivamente... E poi, come hanno detto Bunta e Fan Lee, mi preoccupano di più gli altri due...
– Ah, beh! Non saranno così stupidi, no?
Lo sguardo che gli rivolse Midori, con un sopracciglio sollevato, mentre raggiungevano gli altri, fu più che eloquente, era un chiarissimo: “Stiamo a vedere?”
 
***
 
Fan Lee, Bunta e Yamatake videro Pete uscire di corsa dal Drago e dirigersi verso il leone robot, mentre dall’ospedale da campo giungeva Sanshiro con Midori tra le braccia. Il giovane avrebbe voluto portarla nell’infermeria del Drago Spaziale, ma lei lo esortò a posarla a terra, accanto agli amici ai quali si era unito il dottor Daimonji che si affrettò a sostenerla e ad abbracciarsela.
Anche Sakon e Jamilah li stavano raggiungendo, e l'attenzione di tutti si focalizzò su Pete, che si dirigeva veloce verso Balthazar.
– Cinquemila yen che si baciano – fu la scommessa che buttò lì Yamatake.
– Diecimila che invece no? Entro cinque minuti litigano di nuovo – rilanciò Bunta.
– Andata! E tu, Fan Lee? Cosa fanno secondo te?
– Ah, io non scommetto su questi due, sono troppo imprevedibili! Per quanto... se tanto mi dà tanto, sono capaci di fare tutte e due le cose! Diecimila, ci sto.
– Ma dai, nemmeno loro arriverebbero a questo! – rise Yamatake, imitato dagli altri che furono divertiti da quell'improvvisato giro di scommesse.
Una cosa era certa: nessuno avrebbe voluto perdersi la scena, per niente al mondo. Sapevano di essere alquanto invadenti, con quel comportamento, ma tutti sarebbero stati immensamente felici di vederli finalmente insieme, senza più ostacoli o segreti. Che ci voleva, in fondo?
Briz fece un po’ fatica a far aprire il passaggio sul petto di Balthazar, al centro del diamante dell’Onda di ghiaccio, ormai inservibile poiché danneggiato dall’attacco di Ashmov, ma quando ci riuscì fu investita da una folata di aria fresca che la fece letteralmente rinascere. Sorrise tra sé: in fondo era esattamente quello, che era appena successo: era morta… ed era rinata. Nonostante l’intontimento e lo sfinimento, l’adrenalina le pompava ancora nelle vene a scariche violente: felicità, soddisfazione, orgoglio, in quel momento presero il sopravvento sul senso di spossatezza e confusione.
Poi vide Pete, che correva verso di lei… e come sempre, ogni volta che posava lo sguardo su di lui, rimase senza fiato.
Il giovane si fermò a pochi passi da lei, quasi incredulo di trovarsela finalmente di fronte.
Si sorrisero… e quella fu la molla che li fece scattare uno verso l'altra: Briz gli volò fra le braccia in un attimo, con un tale slancio che Pete la sollevò, e girò un paio di volte su se stesso, prima di farle posare di nuovo i piedi a terra.

 
Sei-tornato
– Sei tornato... non riesco ancora a crederci, sei tornato davvero... – sussurrò lei, accarezzandogli il volto stanco, che Jami non era riuscita a ripulire del tutto dal sangue, passandogli le dita tra i capelli spettinati e poi tornando a stringerlo, nascondendogli il viso tra il collo e la spalla.
– È finita, Bri. È finito tutto, non ci saranno più battaglie, non ci saranno più allarmi, non rischieremo più la vita... basta – la rassicurò lui, tenendola stretta a sé, quasi cullandola, mentre lei si abbandonava a quell'abbraccio, tenero e furioso allo stesso tempo.
– In questo momento non me ne può fregare di meno – gli mormorò all'orecchio – Avrei passato a combattere il resto della mia vita, se fosse stato il prezzo da pagare per il tuo ritorno.
Un singhiozzo le spezzò la voce e Pete la scostò per guardarla in viso.
– Non stai mica aprendo i rubinetti, vero? – esclamò, perfettamente consapevole di avere anche lui gli occhi lucidi.
– Io apro quel che mi pare! Pensa ai tuoi, di rubinetti, che ultimamente, per i tuoi standard, si rompono piuttosto spesso! – gli rispose infatti lei, asciugandogli col pollice una lacrima, che gli scivolava sulla guancia abbronzata e si contrappose perfettamente alla risata che gli sfuggì incontrollabile.
– Miseriaccia, Briz! È tutta colpa tua! Non ho mai pianto tanto come in questi ultimi mesi!
– Se è per questo, non hai nemmeno mai riso, così tanto! E sempre per colpa mi...
Pete non la lasciò continuare, troncandole le parole sulle labbra con un bacio, impetuoso e appassionato, con le dita intrecciate ai suoi capelli. Briz si guardò bene dal protestare, e si lasciò andare volentieri fra le sue braccia, schiudendo le labbra e affondandole nelle sue.
Adesso sì… adesso era finita davvero!
– Sgancia! Ho vinto – disse Yamatake a Bunta, tendendogli una mano a palmo in su e muovendo le dita in modo inequivocabile.
– Aspetta, aspetta! Io ho scommesso che litigavano entro cinque minuti, con o senza bacio – replicò Bunta.
– Eh, no, non barare, furbastro! Hai detto “Diecimila che invece no?” Chiuso! E comunque... li vedi? Questi non smettono prima di un quarto d'ora!
– E va bene... in realtà sono contento che non litighino – si arrese Bunta.
– Anch'io, sono felice di aver perso – concluse Fan Lee, lanciando un'occhiata a un gongolante Yamatake.
Ignari di essere stati al centro del divertente scambio di battute degli amici, e di aver fruttato a Yamatake ventimila yen, Fabrizia e il suo bel Capitano si staccarono appena, per sorridersi e guardarsi negli occhi.
– Scusa la furia... Ma questo me lo avevi promesso... – le disse Pete.
– Appunto, chi dice niente? Non devi scusarti, anzi, io ti ho promesso tutti quelli che vuoi...
– Allora me li prendo, visto che non mi sembra che ti dispiaccia.
– Te l'ho detto, che questi non smettono facilmente... – commentò Yamatake, vedendoli che ricominciavano.
– Godzilla, hai vinto! Ti pago, sta' tranquillo! Ma adesso smetti di fare il guardone, okay? – rise Bunta, esortando i compagni a lasciare in pace la coppia.
I due si baciavano ancora quando, da dietro al Monte Fuji, spuntarono alcuni elicotteri e il rumore ritmico dei rotori li distolse dal loro piacevole momento.
Fabrizia si fece violenza, per privarsi del calore e della passione di quei baci, ma dovette farlo, anche perché ricordò che aveva un'altra promessa, fatta con sé stessa, da mantenere.
Appoggiò la fronte contro quella di Pete, mentre gli elicotteri li sorvolavano e l'aria smossa dalle pale scompigliava loro i capelli. Briz non ci badò minimamente, e le parole le uscirono così, di botto, mentre gli accarezzava una guancia e con il respiro gli sfiorava le labbra.
– Pete Richardson... io ti amo!
– Lo so... – rispose lui, prima di riprendere a baciarla.
Fabrizia si era aspettata un Anch'io, in risposta, ma avrebbe atteso volentieri un altro po', per sentirselo dire; il tempo di un altro bacio ci poteva stare, o anche di due… o tre.
 
Bacio-elicotteri
Pete si staccò da lei e la guardò intensamente, poi lanciò uno sguardo infastidito verso l'alto, agli elicotteri il cui rumore stava diventando davvero molesto.
– Uffaa! Dannati giornalisti! – brontolò, riconoscendo alcune sigle della stampa sulle fiancate dei velivoli – Vieni, raggiungiamo gli altri – le disse poi, passandole un braccio attorno alle spalle.
– Ma… Pete! – esclamò Briz, bloccandosi lì, senza sapere se essere più stupita o indignata – È... tutto qui? Io ti ho detto che ti amo, e questa è la tua risposta? Che lo sai
– Bri... io... – cominciò lui, stringendola appena.
– Ahhhgh! Bri un tubo! Mi scuserai se non erano queste, le due parole che speravo di sentire!? Ma chi diavolo ti credi di essere? Han Solo? Guarda che io non sono mica la principessa Leia!1 – gli gridò in faccia, togliendosi bruscamente il braccio di lui dalle spalle – E comunque ho ancora un po' di orgoglio: è evidente che ho commesso un errore di valutazione… Okay, calma e gesso – disse sollevando le mani, respirando a fondo e come parlando a sé stessa – Non è niente, sai? Sopravvivo pure a questo: un bel reset, ricalcolo percorso e via… Dimentica quello che ho detto, Richardson, e lasciami in pace, ti prego – finì Briz, incamminandosi decisa verso i compagni.
Merda! Avrebbe dovuto immaginarlo che sarebbe andata così. Ma come aveva potuto credere, anche solo per un attimo, che Pete provasse per lei gli stessi sentimenti? Lui giocava! Aveva sempre giocato, non sapeva fare altro, con lei! E lei glielo aveva pure lasciato fare!
Sanshiro, seguendo la scena, si era dato una manata sulla fronte, allibito, poi si era lasciato scivolare la mano sulla faccia; non riusciva a credere che fosse successo! Com'era possibile che, un minuto prima, quei due cretini atomici fossero fuori dal mondo, con le labbra appiccicate col Super Attak, e subito dopo stessero davvero, di nuovo, per la milionesimo volta, urlandosi addosso? Anzi, Briz aveva urlato; Pete se ne era stato anche troppo zitto… come sempre!
– Maledizione, Pete! Sei un cogl… – cominciò, ma Midori gli chiuse la bocca con una mano.
Bunta guardò Yamatake di sottecchi.
– Non infierirò chiedendoti di sganciare, perché comunque i baci ci sono stati – disse, costernato.
– Già – intervenne Fan Lee, sconsolato – Si sono baciati… e adesso stanno litigando. Credo di aver vinto io; sbaglio?
– No! – ringhiarono gli altri due, secchi, all'unisono.
– E comunque... avrei preferito perdere2 – concluse il cinese.
In quel momento, da un elicottero appena atterrato, scese un giovanotto mingherlino, di poco più di vent'anni e con gli occhiali, che si portava a tracolla un intrico di materiale fotografico. Senza nemmeno presentarsi, si affiancò a Briz che si allontanava a passo di carica, e cominciò a bersagliarla di foto.
– Uoohhh! – gli gridò dietro lei, furiosa – E tu chi caz... caspita saresti?
– Ippei Hondo, fotografo e giornalista – esclamò questo, tendendole la mano.
– Maddài, sei serio? – fece Briz sarcastica, ignorando il suo gesto; quando poi riconobbe il logo della rivista che il ragazzo aveva sul cappellino, per poco non gli rise in faccia.
– Perdonami, ma definire giornalista chi lavora per quella porcheria gossippara, mi pare davvero troppo! Già mi stanno sulle scatole quelli seri, di scribacchini, figurati te! Sparisci! Dileguati! Vaporizzati! Puff!
– Oh, la prego, Comandante, queste foto valgono una fortuna! Il capo mi darà una promozione se gli porto le prove di una liaison tra due dei nostri eroi! Immagino che sia arrabbiata perché ha appena litigato col suo fidanzato, ma sono sicuro che lei e il Capitano Richardson farete pace in fretta.
Briz si inchiodò furibonda e lo afferrò per il colletto della camicia, svettandolo di parecchi centimetri.
– Io e Richardson non siamo fidanzati! Vedi forse un anello a questo dito? –  gridò, agitandogli la mano sinistra davanti al naso e mollandolo sgarbatamente.
Pete li raggiunse e, in silenzio assoluto, fulminò Ippei con un cipiglio inquietante. Poi, con tutta la flemma del mondo, tolse la macchina fotografica dalle sue mani e, con poche precise manovre, cancellò tutte le foto digitali che gli aveva scattato, prima dall'elicottero, mentre si baciavano, poi da terra, quando avevano cominciato a litigare; infine, gli rimise bruscamente la fotocamera in mano. La calma con cui gli parlò era raggelante.
– So come ti chiami e dove lavori: se domani vedo pubblicata, sul tuo giornalino del cavolo, una sola foto o una sola parola che riguardi noi due, ti vengo a cercare. Mi sono spiegato?
Briz lo guardò, confusa. Un gesto del genere poteva voler dire un paio di cose… Uno: Pete non voleva, nel modo più assoluto, che si spargesse la voce di una storia tra di loro; si vergognava, proprio! Due: semplicemente, schivo e riservato com'era, lo faceva per proteggere entrambi dalla curiosità della gente; una questione di principio, insomma. In ogni caso, Briz guardò il giornalista come se anche lei volesse ucciderlo e gli rincarò la dose.
– Ti è andata bene che non ti abbiamo rotto la macchina fotografica su quella testaccia vuota! E adesso levati dai cogl... dalle pal... Ooh, va' via!
A Ippei non restò altro da fare che obbedire, ma li seguì con lo sguardo, poco convinto, mentre anche loro si allontanavano.
Pete allungò di nuovo il braccio verso Briz, come per riavvicinarla a lui, ma lei fu lesta a spostarsi e a spingerlo via.
– Te ne vai?! Ma cosa vuoi da me, anche tu? La mia figura di merda giornaliera l'ho già fatta, per oggi!
Pete si riavvicinò e la afferrò bruscamente per un braccio, riaccostandola a sé.
– Adesso stai zitta tu, e ascoltami!
– Cosa? Io ascoltare te? Te che stai sempre zitto? Non so se ne ho più voglia, di ascoltarti!
– Infatti non è il posto, né il momento, per affrontare certi argomenti! Però...
– Oh, certo! – lo interruppe lei – Non sia mai che il Capitano Richardson dia il benservito a una donna in Mondovisione! – ironizzò Briz, tirando un'occhiata di sguincio agli elicotteri e alle telecamere.
– Guardami e taci, sciroccata!
Il tono era perentorio, eppure... c'era quasi come una implicita preghiera, in quelle parole. Fabrizia mollò uno sbuffo, incrociò le braccia sul petto e alzò gli occhi verdi in quelli di lui, seria e imbronciata.
– Avanti, sentiamo! Tanto, a questo punto... – concesse, esasperata.
– Una volta, il giorno del mio compleanno, ti ho salvato la vita, prendendoti al volo fuori dalla Tana del Diavolo che stava per esplodere. Pochi istanti prima di farlo, ti ho chiesto una cosa. Te la ricordi?
Briz finse di pensarci un paio di secondi, ma sì, se la ricordava.
– Mi hai chiesto... se mi fidavo di te.
– Esatto. E ricordi anche cosa mi hai risposto?
Sì, si ricordava anche quello, e molto bene, anche.
– “Adesso e sempre, Dragonheart” – rispose sottovoce, guardandosi i piedi.
– Bene. Capisco che sempre possa essere una parola impegnativa, ma io ti conosco: non credo che il tuo sempre sia già scaduto.
– E questo cosa vorrebbe significare? Che devo fidarmi di te ancora una volta? – sospirò, alzando gli occhi al cielo.
Pete annuì, con una solennità che non poteva essere ignorata, poi la sua espressione cambiò del tutto.
– Di' la verità: ti sei mai pentita di averlo fatto? – le chiese, con un sorriso un po' insolente che avrebbe fatto sballare un sasso.
Lei si sentì il cuore rimbalzare in giro per la cassa toracica come la palla di un flipper. Che cosa cavolo gli rispondeva, adesso? Ci pensò un attimo, e decise che il silenzio sarebbe stato perfetto, come replica… ma poi cambiò idea. Ormai lo conosceva, Pete: aveva tanti difetti, ma non era uno che parlasse a vanvera o che mentisse. Ciò che le aveva appena detto, doveva pur avere un senso! Che valesse davvero la pena fidarsi? Era vero che non le aveva detto “Ti amo anch'io”, però non le aveva nemmeno detto “Io non ti amo”. Decise di giocare d'anticipo: forse aveva una speranza, ma gliela avrebbe fatta pesare, questo era poco, ma sicuro.
– Okay, Richardson – sbottò, con una decisione che rasentava l'arroganza – Tu soffri davvero della sindrome di Han Solo: “Lo so” è la tua frase preferita. Sei quello che sa sempre tutto, e non è mai colpa tua!3 Beh, sappi che c'è una novità: non hai l'esclusiva: anch'io lo so!
– Che cosa, sai?
– Quella cosa! Quella che io non ho avuto paura di dirti, ma che per qualche strano motivo a te, invece, costa tanto farti uscire di bocca. Non vuoi dirmela ora? Bene, sono disposta ad aspettare un po'! – gli concesse; poi gli puntò l'indice davanti al naso: – Ma non andare alle calende greche, o ti giocherai tutto!
– Lo vedi che sei sveglia, quando vuoi? – le disse Pete sottovoce, accarezzandole una guancia e chinando appena il viso verso il suo.
Prima che le loro labbra si sfiorassero, Briz lo respinse di nuovo, posandogli le dita sulla bocca.
– Tira il freno, biondone! Ti ho detto che quella cosa, io, voglio sentirmela dire, ricordatelo bene! Per cui ti comunico che, fino a quel momento, non avrai più nulla da me: niente baci, e stavolta davvero! Men che meno quell'altra assurdità, che Dio sa come mi è scappata prima che tu partissi per Marte! Per cui, mio bel pupone, nel frattempo tieni le zampe, e le labbra, lontane da me! E se per i miei gusti tarderai troppo, farò davvero un ricalcolo percorso, e prenderò il primo aereo per l’Italia! Kapish? 
– Kapish! – rispose lui, stando al gioco e portandosi due dita alla fronte.
– Ottimo! E adesso levati dalle scatole, che voglio andare ad abbracciare i miei amici! Tu hai già avuto! Pure troppo! – esclamò, piantandolo lì.
Pete rimase qualche passo indietro, a guardare Briz che andava incontro a Sakon. L’ingegnere la abbracciò e se la coccolò brevemente, scambiando qualche parola con lei, prima di lasciarla perché abbracciasse la sua amica Jami; poi si diresse verso Pete e le ragazze rimasero a guardarli.
Sakon sfoggiava un'espressione talmente torva, che per un attimo Pete pensò che l'amico avesse intenzione di picchiarlo, tanto che gli venne da fare un paio di passi indietro. Invece, l'equilibratissimo professor Gen gli si fermò di fronte, fissandolo negli occhi, e scosse il capo, sconcertato.
– Ti dico solo tre parole: TuSeiScemo! E sei anche quello che stava per dirti Sanshiro, ma io sono troppo signore per ripeterlo!        
– Ehi, non ho bisogno dei consigli di uno che ci ha messo due anni, per capirci qualcosa con la sua donna.
– Mi avevi fatto una promessa, Pete! – replicò Sakon, ignorando il commento dell’amico.
Pete rispose a voce bassa, non volendo farsi sentire fino in fondo all'universo.
– Ti sembro uno che non mantiene? Credo che persino Briz, abbia capito cosa sto facendo.  
– Cosa dovrebbe aver capito? La stai massacrando, non te ne accorgi? La verità è che è troppo buona, e io non so se te la meriti, una come lei!
Pete lo oltrepassò, per unirsi al resto della truppa, e gli lanciò un’occhiata di traverso da sopra la spalla.
– E lo dici a me? – concluse, brusco.
Sakon lo seguì, scuotendo la testa.
– Sì – ribadì sottovoce – Sei davvero scemo, Richardson. Proprio nella testa, dentro! 
In realtà, non poteva fare a meno di pensare che l'amico fosse ancora dannatamente insicuro e confuso, per tutto quel che riguardava la sfera dei sentimenti. Sakon non aveva dubbi sul fatto che amasse profondamente la sua fanciullina, e lo aveva dimostrato in tanti modi, sia a lei che a loro, doveva ammetterlo; però aveva ancora una fifa boia di dirglielo.
Non poté fare a meno di lasciarsi sfuggire un sorriso, pensando che, conoscendo Briz, in qualche modo, quelle due parole, la ragazza gliele avrebbe tirate fuori.
A costo di fargli sputare anche l'anima.
 
> Continua…
 

Note:
Nel secondo film di Star Wars, L’Impero colpisce ancora, la principessa Leia dice ad Han che lo ama, prima che lui venga ibernato nella grafite. E lui le risponde “Lo so”. È diventata una delle scene cult della storia del cinema, ormai.

Diecimila yen equivalgono a circa 80 euro. Quindi, tranquilli: non è che Yamatake e Bunta si sono svenati, per pagare Fan Lee.

3 "Non è colpa mia." Anche questa è una frase che ad Han Solo ogni tanto sfugge, nel corso della saga di Star Wars. E anche al suo amico Lando Calrissian.

 

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Capitolo 45
*** 44 - Progetti, attese, ripicche ***


~ 44 ~
PROGETTI, ATTESE, RIPICCHE

 
 
Briz si stava ancora chiedendo cosa fosse successo, dopo il suo strano litigio con Pete.
Ricordava di averlo piantato lì come un allocco, di essersi diretta verso gli amici, di aver parlato con Sakon e Jami, e poi di averlo visto discutere con l’amico ingegnere. In seguito anche lui aveva raggiunto i compagni e si era fermato accanto a lei, che lo aveva ignorato e aveva aperto bocca per chiedere a Midori come si sentisse; e poi… puf! Era diventato tutto nero: le ultime sensazioni che aveva avvertito erano state di qualcuno che la afferrava al volo e la sollevava da terra, e la voce di Pete, lontana e ovattata, che diceva: “Ohi, ma che ti succede? Non lo perderai mai il vizio di svenirmi tra le braccia proprio quando è finito tutto?”
Si era risvegliata per pochi minuti a bordo del Drago in volo, in infermeria, nel letto accanto a quello di Midori, ma la mente ancora in subbuglio e vari dolori dappertutto, l’avevano spinta a sprofondare di nuovo nell’incoscienza. Quando si era ripresa era all’infermeria del Centro.
Un po’ alla volta, i ricordi delle ultime ore avevano ripreso forma: la fine della guerra, l’ultimo battibecco con Pete e, anche, la strana esperienza avuta come in sogno, in cui aveva incontrato Alessandro.
La dottoressa Mori l’aveva visitata a fondo, facendosi raccontare ogni più piccolo particolare di ciò che aveva vissuto dopo la fine della battaglia. Né lei, né il dottor Watanabe, riuscirono a pronunciarsi su quella singolare esperienza: non era l’unica, nella storia della medicina e della neurologia. Di certo c’era che Briz stava piuttosto bene, anche se sfinita, dolorante e frastornata.
Dopo averla rassicurata sulle condizioni dei compagni, Yumiko l’aveva lasciata a riposare, ed era tornata prima di cena per un ulteriore controllo.
– Come ti senti, Cuordileone? – chiese la dottoressa Mori, puntando la lucina nella sua pupilla.
– Molto confusa, ma è andata peggio a Midori, col suo braccio.
– Sì, ma stai tranquilla, sono due fratture semplici: ora che è ingessato guarirà in una ventina di giorni, il resto sono cose superficiali.
– E Pete? Aveva una ferita alla testa, sanguinava.
– Una sciocchezza, lo sai che le ferite al capo sanguinano molto anche quando sono roba da poco: sta bene ed è perfettamente in sé. È solo stanco e provato, come tutti voi, del resto. Questo non gli ha impedito di darmi l’assillo per vederti, ma gli ho detto che per il momento devi riposare.
– Grazie, ha fatto bene, aspetterà un altro po’. Abbiamo avuto una discussione e non ho voglia di vederlo, né di parlargli.  Sono troppo… disturbata, in questo momento.
– Ed è comprensibile, direi – concluse la dottoressa, cambiando argomento – Bisogna dire che è stata una vera fortuna: durante tutta questa guerra le batoste non sono mancate, ma nessuno del nostro equipaggio ci ha rimesso la pelle; mi sembra ancora incredibile. Direi che sei a posto, Briz – sentenziò Yumiko, concludendo la visita – Non hai niente che non vada, a parte lividi e contusioni varie di poco conto, ma vorrei che tu rimanessi in osservazione qui in infermeria, stanotte. Hai avuto un crollo non da poco, alla fine di tutto.
– Devo proprio? Jami è passata poco fa, per dirmi che il dottor Daimonji vuole dirci qualcosa stasera, dopo cena, e vorrei esserci anch’io. E vorrei dormire nella mia stanza.
– Dovresti startene buona almeno fino a domani; tenerti ferma è un’impresa, lo sai?
– Dovrei, appunto, ma mi conosce, ormai. Ha detto che sono a posto, no? E poi sono davvero stremata, subito dopo conto di andarmene a letto, glielo prometto.
– È esattamente quello che dovresti fare, e stavolta da sola – se ne uscì bel bella la dottoressa Mori, con uno sguardo birichino davvero insolito, su quel volto che era quasi sempre un po' severo.
– P-prego? – si sbalordì Briz, a quello stranissimo ordine – Certo che ci vado da sola! Con chi mai...
– Oh, andiamo! Credi che non lo sappia che, quando tu e Pete siete tornati tutti malconci dalla vostra brutta avventura con Zhora, avete passato praticamente tutta la notte insieme nel suo letto, qui in infermeria? Sarei davvero un pessimo medico, se a una cert'ora non fossi passata a controllarvi. La logica mi disse di lasciarvi stare, in fondo dormire era esattamente quello di cui avevate bisogno; che altro avreste mai potuto fare in quelle condizioni? Però si vede lontano un miglio che siete innamorati persi l'uno dell'altra, discussioni a parte...
– Dottoressa... ma che cosa sta…  – Briz stava quasi per dire vaneggiando, ma si trattenne per rispetto, senza riuscire a credere alle proprie orecchie; Yumiko Mori continuò imperterrita, senza nemmeno ascoltarla.
– A proposito, avevamo detto di rimuovere questo aggeggio, alla fine del conflitto – affermò prendendole una mano e toccandole l'interno del braccio per controllare il dispositivo a rilascio ormonale – Ma sei proprio sicura di volerlo fare? Voglio dire, io mi godrei un po' di pace da soli, prima di pensare a dei bambini – proseguì con un sorrisetto malizioso.
Briz la fissò a bocca aperta, senza riuscire a replicare, e Yumiko ne approfittò per continuare il suo discorso: – Anche se, a dire il vero, potremmo sostituirlo con un contraccettivo di quelli più tradizionali, in modo che il tuo corpo si abitui un po’ alla volta a tornare alle sue funzioni. Ma ti avverto che, sia rimuoverlo che sostituirlo, ti procurerebbe sicuramente alcuni malesseri, e per il momento mi pare che tu ne abbia già abbastanza. Tutto sommato, resto dell’idea che dovremmo pensarci un po’ più avanti. Tu che ne dici?
Questa volta Fabrizia arrossì come un tramonto tropicale, realizzando però che fosse più che urgente riprendersi subito.
– Ma si può sapere che diavolo succede? C'è un'invasione di ultracorpi? Di replicanti? Tutti si comportano da matti… Yumiko, io... io e Pete non siamo… non… non è come crede…
– Eh? Stai dicendo che tu e il Capitano Richardson non state insieme? Oh, bella! E per quale motivo? – chiese la dottoressa Mori, candidamente stupita.
Briz ci pensò pure sopra, per un attimo: già, bella domanda! Perché non stavano insieme?
– I… io non lo so, va bene? Non so di preciso cosa stia succedendo fra noi due! E… non lo so cosa fare, con questo coso, okay? – ammise alla fine, mostrandole l’interno del braccio al colmo della frustrazione.
La dottoressa Mori tornò finalmente seria, vedendola così agitata e confusa, e la guardò comprensiva. Briz sentì l'assoluto bisogno di confidarsi con una donna più matura delle sue amiche: si accorse che mai, come in quel momento, aveva sentito la mancanza di una mamma, e che la dottoressa Mori, probabilmente, sarebbe stata la migliore dei sostituti. Così finì per vuotare il sacco: le raccontò tutto, ma proprio tutto, di quello che era successo tra lei e Pete, sia a livello emotivo che fisico. E naturalmente, anche quello che non era accaduto.
– E adesso? Cosa faccio? – le chiese infine, cercando un consiglio che fosse sia da medico che da amica – Io ho fatto la grossa e l'arrogante, ma in realtà non ho capito niente di lui! Non comprendo se mi ama, e ha solo paura di dirlo, o se invece, semplicemente, gli dispiace dovermi dire che... non è così, e… magari gli piaccio soltanto, ma non vuole impegni! Però dice che devo fidarmi di lui… 
– Non so quanto possa valere il mio parere, considerando che con gli uomini non ne ho mai imbroccata una – ammise la dottoressa – Pete è una persona complessa, ma per quel poco che conosco di lui, penso che non sia né perfido, né stupido: non ti farebbe mai del male prendendoti in giro deliberatamente, non sarebbe nel suo stile. Ma sicuramente è uno che fatica ad esternare i propri sentimenti e, se vuoi sapere la mia, è cotto al forno, povero ragazzo! E sul fatto che abbia paura, non ci piove. Per me, non sa da che parte cominciare perché teme di farti soffrire.
Briz ci pensò, mentre si rivestiva. Anche lei aveva avuto quella paura, nei suoi confronti, e tanta… ma alla fine si era resa conto che era un'assurdità: non aveva più paura di non essere la donna adatta a lui, per quello aveva deciso di scoprire le carte. Ma dopo tutto quello che avevano passato, aveva urgente bisogno di conferme, ne andava della sua sanità mentale ed emotiva. Si sfiorò pensosa l'interno del braccio…
– Ha detto che rimuoverlo o sostituirlo mi procurerà qualche fastidio, quindi credo che per ora... lo terrò. E poi, stiamo a vedere cosa diavolo succede con Pete: se entro un paio di giorni la situazione non si sarà sbloccata, me lo toglierà e, a quel punto… prenderò un bel volo di sola andata per l’Italia, e chiuso!
Yumiko sorrise: – Non credo che lo farai. Comunque, sai che per qualunque consiglio, o anche solo due chiacchiere, io sono qui. Adesso mangia qualcosa e, se vuoi andare alla riunione di stasera, hai il via libera, a una condizione: dopo tornerai a riposare, anche in camera tua, se vuoi, ma non transigo. Oggi, per circa due minuti, sei stata praticamente morta, renditene conto.
– Lo so… – annuì la ragazza.
– Abbi fede… e un po’ di pazienza. Ce ne vuole tanta, con gli uomini – concluse la dottoressa, salutandola poi affettuosamente con una carezza sui capelli, e lasciandola a riposare.
Più tardi la raggiunse di nuovo Jami che, dopo averle concesso il tempo di una doccia rigenerante, la accompagnò a trovare Midori. La pilota di Infinity aveva avuto il permesso di dormire nella propria stanza e se ne stava seduta sul letto, giocosamente servita e riverita dalle amiche: il braccio immobilizzato non le doleva particolarmente, ma era imbottita di antibiotici e antidolorifici e, su ordine dei medici, non sarebbe scesa alla riunione.
Nonostante lo stravolgimento che tutti accusavano, c'erano comunque la felicità e l'euforia che, scorrendo a fiumi nelle loro vene, facevano temporaneamente dimenticare loro la stanchezza e il fastidio delle varie ferite e contusioni. Sapevano che sarebbero inesorabilmente crollati tutti più tardi, ma le ragazze si presero quell’ora tutta per loro, sentendo il bisogno di passare quel breve lasso di tempo in modo spensierato e frivolo, cacciando affettuosamente via Sakon e Sanshiro che erano venuti a reclamare le loro fidanzate. I ragazzi compresero la situazione, soprattutto sapendo, ormai, di avere tutta la vita a disposizione per dedicarsi a loro; così le lasciarono alle loro chiacchiere femminili.
La conversazione finì per concentrarsi su Jamilah e Sakon e sulla piega che finalmente il loro rapporto aveva preso, mentre entrambe le amiche di Briz, avendo assistito al confronto tra lei e Pete, dopo la battaglia, evitarono accuratamente di nominare il loro Capitano. Dal canto suo, Pete non si fece vedere né sentire, ma la cosa era sensata: qualunque cosa se ne potesse dire, in quel momento lui e Fabrizia non erano una coppia. Anzi, Briz ne fu quasi felice: come aveva già detto alla dottoressa Mori, non si sentiva in grado di affrontarlo, e preferiva di gran lunga passare quel po’ di tempo con le amiche.
Le tre ragazze mangiucchiarono qualcosa, ridendo insieme e godendosi quell'improvvisato mini party tra donne, in attesa che Jamilah e Briz scendessero in sala comune per la convocazione di Daimonji.
Jami sparì pochi minuti nella propria stanza, per poi rientrare e tirare a Briz un involto di stoffa e pizzo nero, che si rivelò essere un vestitino corto, con una fila di bottoncini luccicanti che correva sul davanti, dalla scollatura tonda fino all'orlo della gonna, ampia e arricciata.
– Che dovrei farmene? – le chiese perplessa sollevandoselo davanti al viso, tenendolo con due dita come fosse uno straccetto sporco, e osservandolo critica.
– Quello che di solito si fa con un vestito, tesoro: indossarlo.
– Ma tu sei fuoriIo, con un vestito!?
– La guerra è finita, Briz, torniamo a essere quello che siamo: donne! O devo pensare che non hai molta voglia di conquistarlo, il tuo Capitano?
Midori intervenne: – Lo ha già conquistato, Jami. La prossima mossa tocca a lui, Briz deve solo aspettare.
– Ben detto, Dori. Se davvero mi ama, mi prende come sono; e se non mi ama, non sarà un vestito o qualsiasi altro orpello femminile, a far sì che ciò accada. Non ho bisogno di queste... stronzate – esclamò Briz, gettando indietro a Jami il vestito.
– Quindi ti presenterai di sotto, in una serata così speciale, la prima sera di pace, non so se mi spiego, con i soliti jeans bucati, una camicia improponibile e le Nike da ginnastica? O, peggio ancora, gli anfibi? – protestò Jamilah.
– Jami, non è mica una festa, solo una convocazione di Doc! E ha pure detto che sarà una cosa breve. Siamo sempre noi, dai!
– Sei pallida e sciupatella, però! – disse Jami, avvicinandosi a Briz e studiandola in viso – Ci veniamo incontro? Una via di mezzo?
Briz la fulminò con gli occhi: era quasi morta, certo che era sciupatella! Ma non aveva voglia di discutere e si arrese, più per sfinimento che per convinzione, all’idea della sua amica.

 
* * *

Un'ora più tardi, davanti alla porta chiusa della sala comune, Fabrizia scostò, con un cenno insofferente, la mano di Jamilah che le sistemava il ciuffo candido, e le tirò l’ennesima occhiataccia prima di entrare a passo di carica nella sala riunioni.
Il loro ingresso fece ammutolire tutti gli uomini presenti, compreso Sanshiro.
Sakon, in camicia bianca e gilet sportivo slacciato, grigio scuro come i jeans, rimase senza fiato quando vide Jamilah, che indossava un tubino rosso e un paio di sandali dai tacchi alti dello stesso colore. Non era una piccoletta, ma nemmeno una stangona come Briz: poteva permetterseli, eccome.
– Ma… sei tu? – le chiese indeciso; le rare volte in cui aveva visto Jami non in divisa, aveva sempre indossato roba semplice e sportiva.
Era sempre stata bellissima, ma ora era stupefacente; e non era solo per il vestito. Sicuramente era l’euforia per la fine del conflitto, il sollievo per esserne usciti tutti vivi, e la felicità per quello che era finalmente successo tra loro due, ma… la osservò attentamente, e per un attimo gli balenò nella mente un pensiero folle; folle almeno quanto lo erano stati loro due su Marte… Sarebbe stato davvero pazzesco se…
Le parole di Jami lo distrassero da quel pensiero, mentre, sorridendogli, lo prendeva sottobraccio per andare insieme a sedersi.
– Forse ci sono lati di me che non conosci ancora, Prof: a volte mi piace essere un po’… mondana.
No, era evidente che lei, da quel pensiero, non era stata nemmeno sfiorata, si disse Sakon; si ripromise di affrontarlo con lei più tardi, quando sarebbero stati soli.
Pete aveva guardato di sfuggita Jamilah, poi il suo sguardo era stato irrimediabilmente calamitato da Fabrizia – che era avanzata da sola, indifferente e disinvolta, per andare a sedersi – e si prese una gomitata in una costola da Yamatake.
– Chiudi la bocca, Capitano, prima di mangiarti una mosca...
Jamilah, naturalmente, non era riuscita a convincere Briz ad indossare il vestito, ma i pantaloni, di una stoffa leggera di un nero vagamente iridescente, le fasciavano i fianchi e le gambe in un modo che definire seducente sarebbe stato poco; insieme alla camicetta bianca di seta senza maniche creavano un insieme semplice, ma assolutamente piacevole, forse insolito per lei ma, in fondo, niente che tradisse il suo stile. Briz era rimasta abbastanza fedele a sé stessa, anche se solo fino a un certo punto: al posto dei soliti stivali o scarpe di tela, calzava delle classiche ballerine nere.
Pete odiava le ballerine, eppure… addosso a lei, gli piacevano.
I capelli erano raccolti in uno chignon basso e morbido, dal quale sfuggiva parte della ciocca bianca sul lato destro del viso, e poi... c'era il mascara, che le allungava le già foltissime ciglia e che, insieme all'ombretto verde scuro, le esaltava e approfondiva lo sguardo.
Pete si ritrovò a deglutire vistosamente, mentre osservava l’ultimo particolare che lo aveva colpito: un velo di rossetto chiaro rendeva le labbra della ragazza lucide, morbide e invitanti, più di quanto già non fossero. Poteva anche non indossare un vestito sexy, ma era semplicemente stupenda, perché era comunque lei.
Briz gli passò accanto e lo osservò di sottecchi: lui indossava una camicia  leggera, senza colletto, bianca a righine azzurre; il fatto che tenesse i primi tre bottoni slacciati e sapesse, in modo per nulla sfacciato, di shampoo e dopobarba, non aiutava a mantenere gli ormoni a posto. I suoi capelli ancora umidi le fecero desiderare di affondarci le dita… ma lei, essendo diventata brava con l'autocontrollo, gli sorrise, angelica e diabolica allo stesso tempo. Pete, nel frattempo, non riusciva a staccarle gli occhi di dosso.
– Piantala di guardarmi così, sono solo le insane idee della mia amica qui presente! – sbottò lievemente indispettita, soffiando verso l’alto per spostare il ciuffo bianco che le cascava continuamente  sugli occhi, accidenti a  Jami e alla sua maledetta piastra per capelli! Che poi, per quale motivo ne possedeva una, visto che portava sempre i capelli ricci naturali?
 
Briz-ciuffo
 
A passo rapido, si diresse a prendere posto su un divanetto dove lui la raggiunse, sedendosi al suo fianco.
– Con tutto il posto che c'è, perché proprio qui? – gli chiese sferzante, ma non sgarbata.
– Eh, beh... perché... – cominciò lui.
– No, è okay, stai pure, ma ricordati: guardare e non toccare – lo zittì lei, stordendolo con una nuvola di profumo di biancospino.
– Uno a zero. Vai così, Briz: fallo morire! – sussurrò Jami, suscitando un paio di risate sommesse in chi l'aveva sentita, e trovando pieno appoggio.
Daimonji richiamò la loro attenzione, accendendo il grande monitor appeso alla parete che, in quel momento, era collegato al computer centrale della base. Tutti si zittirono, quando lo schermo mostrò loro un corpo celeste che viaggiava a velocità iperspaziale fra le stelle.
– Sapete cos'è? – chiese il dottore.
– Sembrerebbe una cometa – disse Yamatake.
– Già, sembrerebbe. In realtà è una sfera, fatta dello stesso materiale di quella che, su Marte, ci aveva imprigionati, solo molto più grande. Si sta dirigendo qui, sulla Terra, e viene da Zela.
– Eh, no, dottore! Non vorrà mica dire che siamo da capo? – saltò su Bunta, dando voce ai pensieri di tutto il gruppo.
– No, ragazzi, tranquilli: non sono nemici! Questa sfera è governata come un'astronave, e contiene la Città-Fortezza che era stata costruita dai Ribelli nei sotterranei del pianeta Zela. Il loro mondo, alla fine, è stato inghiottito dal buco nero, ma loro sono vivi: sono riusciti a fuggire all'ultimo istante, e mi hanno contattato, chiedendo asilo sul nostro pianeta. Cosa che, d'accordo con i governi dell'Alleanza Terrestre, gli è già stata accordata. Abbiamo calcolato che raggiungeranno la Terra fra circa settantadue ore, in un luogo per il momento ancora segreto ai più, me compreso – concluse Daimonji.
I ragazzi rimasero tutti stupiti per un attimo, poi si lasciarono andare ad esclamazioni di felicità e soddisfazione. A Briz brillarono gli occhi, mentre esternava il suo pensiero.
– Vuol dire che Yock e Lyra... non resteranno gli ultimi della loro razza?
– Esattamente; e forse hanno anche dei parenti, tra i Ribelli superstiti. Domani mattina presto andrò a prenderli, perché hanno espresso il desiderio di passare qualche tempo con noi, prima di riunirsi al loro popolo.
– Sono felice, di questo – sussurrò Briz commossa.
– Ehi, non rimetterti a piangere, che ti rovini il trucco – le disse Pete, sottovoce, mascherando con l'ironia il fatto di comprendere più che bene il suo stato d'animo: essere orfani era una condizione che, purtroppo, in quella compagnia condividevano in molti.
Briz, però, non si fece prendere in contropiede.
–  Sai cosa me ne frega? Tanto lo so, che ti piaccio anche col trucco sfatto.
– Ohoh... siamo diventate presuntuose, eh, fanciullina?
– Sai com'è, avendo avuto a che fare per un anno abbondante con un professionista nel settore...
– Due a zero – sussurrò Jamilah e, a quel punto, Pete decise che fosse meglio il silenzio.
– Detto questo, – proseguì il dottore – da stasera potete considerarvi, in un certo senso, in vacanza, almeno per un po'.
– Bene, perché domani ho intenzione di andare a prendere Solange a Yokohama, e portarla qui per farvela conoscere – commentò Bunta – Ma perché ha detto che saremo in vacanza solo per un po'?
– I governi dell'Alleanza chiedono se siamo disponibili a portare aiuto e collaborazione ai Paesi che sono stati più devastati da questo conflitto. I nostri mezzi corazzati e le nostre armi potrebbero essere utili in altri modi, diversi da quelli per cui erano stati concepiti, senza contare che vederci interessati a loro di persona, solleverà il morale delle popolazioni.
– Vuole dire che da mezzi da guerra e distruzione, il Drago Spaziale e compagnia potrebbero diventare mezzi di ricostruzione e strumenti per allacciare rapporti e svolgere missioni umanitarie? – chiese Fan Lee.
– Io ci sto! Missioni di pace: mi sembra una cosa bellissima, dopo tutto ciò che è accaduto – esclamò un entusiasta Yamatake, subito spalleggiato dagli altri.
– In mezzo a tutto ciò, naturalmente, ci saranno anche doveri diplomatici o, diciamo così, di società – disse il dottore, tirando un’occhiata strana a Briz.
– Cioè? Si spieghi meglio… – chiese lei, preoccupata.
Jamilah cominciò a ridere, rendendosi conto di dove stesse andando a parare il discorso e guardando l'amica, che ci mise un niente a capire.
– Vi prego, no… Intende davvero... conferenze stampa? O ancora peggio, ricevimenti e serate di gala alla presenza di Presidenti, Governatori e Ministri...? – ansimò Fabrizia sconvolta.
– In realtà anche Re, Regine e persino Imperatori... – infierì Sakon.
– Oh, cazzo! Se non so nemmeno ballare! E poi? Cosa dovrei, infilarmi in un fottutissimo abito da sera? Magari col tacco dodici, col rischio di svettarvi tutti, accopparmi a ogni passo e somigliare a un trans, maldestra come sono? Ma non esiste! – esclamò lei.
Tutti scoppiarono a ridere e Pete intervenne ironico.
– Magari sui tacchi si potrà soprassedere, ma sul resto dovremo lavorarci sopra. E non solo sul fatto del ballare, visto come ti sei appena espressa.
– Dovremo chi? Mica io e te per forza...
– Beh, ballare in due non è così difficile: almeno il valzer, posso insegnartelo.
– Te sogni, povero! Doc... Non dirà sul serio – fece lei, implorante.
– Contro la ragion di stato non si combatte, Briz: sono certo che imparerai – rispose lo scienziato.
– E qui si segna il due a uno... – ridacchiò Yamatake.
Anche Daimonji rise sommessamente, poi riprese.
– Sempre a proposito di te, Briz, cambiamo discorso: che ti è successo, oggi? Hai usato, e per ben due volte ciascuna, due armi potentissime. Tra l'altro, il Supernova Starfire sembra devastante... e, nonostante questo, ti sei disconnessa immediatamente, senza problemi e senza i soliti malesseri collaterali, a parte quello svenimento finale, che però mi pare sia stato una cosa a sé stante, che non c’entrasse con la disconnessione.
Fabrizia accantonò il futile pensiero delle feste ufficiali, in compagnia di capi di stato e teste coronate, e si intristì un attimo, poi si riprese.
– È così, sono morta di stanchezza, ma nel complesso sto bene. È che... ho come la sensazione che problemi di questo tipo, anche se dovessi ricorrere nuovamente alla connessione, non si ripresenterebbero più.
– Perché dici questo?
– Mi è successa una cosa, oggi, alla fine della battaglia. Siete padroni di crederci o meno, perché nemmeno io so come considerare questa faccenda, ma la dottoressa Mori e il dottor Watanabe non hanno escluso del tutto la possibilità di una specie di esperienza... non so come dire… extra-corporea. Una specie di pre-morte. 
Nessuno di loro fiatò e così, senza temere di essere presa per matta, Briz raccontò di ciò che aveva vissuto in quella specie di limbo in cui si era trovata, e tutto ciò che lei e Alessandro si erano detti.
– La parte più razionale di me, mi dice di classificarla solo come una specie di sogno – concluse – Eppure... io so che Alessandro, oggi, mi ha lasciata davvero definitivamente, perché una volta risvegliata, anche da connessa, non l'ho più sentito. Non era la disconnessione da Balthazar, a farmi stare male, ma la disconnessione da lui. Oggi è un po' come... se lo avessi perso per la seconda volta, e per sempre. Questo pensiero mi intristisce, ma sono serena e perfettamente consapevole del fatto che questa sia una realtà impossibile da cambiare: Ale è morto tre anni fa, e dal Paradiso non si torna. Ma almeno… sono riuscita a salutarlo. E lo so che mi crederete pazza, ma… questa strana vicenda mi ha convinta di una cosa nella quale, già da tempo, avevo cominciato ad avere fede. Ognuno ha il diritto di crederci solo se gli pare, ma per me... la morte non è la fine di un bel niente – sentenziò sicura – È solo uno dei tanti ostacoli... lungo il cammino.1 E dopo quest’ultima, profonda considerazione, se Doc non ha altro da aggiungere, io andrei a letto. Dottore, dormita libera, domattina, vero?
– Assolutamente sì. Buona notte, piccola.
Briz si lasciò sfuggire uno sbadiglio, mentre si alzava in piedi e si dirigeva stancamente verso la porta.
– Ma anche voi, non siete stanchi? – sbottò di colpo Yamatake – Perché io sì... – concluse alzandosi anche lui, stiracchiandosi in tutta la sua mole.
Tutti si resero conto di quanto il lottatore di sumo avesse ragione: la stanchezza piombò loro addosso tutta in una volta, e le parole dormita libera suonarono come le più allettanti che ognuno avesse sentito da parecchio tempo.
– Bri, aspetta! – la fermò Pete, mentre uscivano in corridoio insieme agli altri.
– Sììì...? Devi dirmi qualcosa? – fece lei, suadente, girandosi.
– Volevo solo… assicurarmi che stessi bene e… darti la buonanotte.
– Mi hai dato di nuovo la risposta sbagliata, non ce la puoi proprio fare… Comunque sto bene, grazie, buonanotte anche a te – lo liquidò la ragazza.
– Senti, fanciullina…
– Senti tu: sai già cosa voglio! Tu invece cosa vorresti, venire a dormire da me? Beh, sai una cosa? Contravvengo gli ordini della dottoressa Mori: ti lascio la porta aperta, puoi venire. Tanto, qualunque cosa tu dica o faccia, ti garantisco che sono troppo stanca, dolorante e incasinata mentalmente per fare qualunque cosa che non sia proprio questo: dormire! Quindi, regolati! E comunque… so già che non avrai il coraggio di farlo – concluse, con un sorriso stanco e pungente allo stesso tempo.
Pete rimase a guardarla sparire dietro l'angolo, chiedendosi se dicesse sul serio o se fosse una delle sue solite prese per i fondelli. Optò per la seconda ipotesi e si girò verso gli amici, che lo guardarono e scossero le teste.
– Un altro due di picche… – commentò Fan Lee.
– Tre a uno. Briz ha ragione, sei proprio senza speranza... – sospirò Sanshiro.

 
* * *

Pete aveva visto Sanshiro salire alla Piccionaia per raggiungere Midori, e poco dopo anche Jamilah e Sakon avevano preso la stessa strada. Era un pensiero pazzesco quello che, in quella mezz’ora appena trascorsa, si era formato quasi da solo nella sua mente, circa questi ultimi due.
Sakon, per tutta la durata della riunione, aveva continuato a guardare Jami in un modo strano, con una specie di adorazione negli occhi, come se la ragazza fosse qualcosa di prezioso da proteggere a tutti i costi. Qualcosa che… andava oltre il fatto di essere felice che fosse diventata ufficialmente la sua compagna. L’amico ingegnere rimuginava su qualcosa, era chiaro.
A Pete sfuggì un sorriso: sarebbe stata davvero grossa, se…
Eppure… se c’era una cosa che aveva imparato, in quell’ultimo anno, era che la vita era un miracolo, che poteva essere davvero imprevedibile e che a volte, per manifestarsi, poteva scegliere le strade più strane.
O magari si stava sbagliando, la stanchezza lo faceva sragionare… proprio lui,  che non era mai stato un tipo particolarmente empatico.
Accantonò il pensiero degli amici e, visto che ormai tutti si erano dileguati, decise di raggiungere davvero, anche lui, la Piccionaia. Gli era venuto un dubbio: magari Briz non aveva scherzato, anzi lo aveva proprio sfidato! Gli aveva detto che non aveva intenzione di fare altro che dormire, e lui di quello si sarebbe accontentato.
Sapeva di averla fatta arrabbiare, ma sapeva anche che quello non era il momento per affrontare certi argomenti; non lo era per lui, almeno. La sua natura calcolatrice continuava a farsi sentire: le cose importanti dovevano andare come lui le programmava, l’idea del contrario lo metteva in crisi, e Briz, quel pomeriggio, lo aveva completamente spiazzato… ma poi, forse, anche compreso. Di certo quella sera si era divertita e sfogata un bel po’, provocandolo pungente, come una vespa dispettosa.
Capì che lei aveva detto sul serio, circa il dormire da lei, quando, uscendo dall’ascensore, vide che aveva davvero lasciato la sua porta accostata.
Entrò titubante, richiudendosela alle spalle, e fu accolto dalla penombra e dall'aria appena rinfrescata dal condizionatore; non vedendola in giro, fece capolino dallo scaffale di legno a cubi che nascondeva parzialmente la zona notte, illuminata solo dalla lampada sul comodino che era rimasta accesa. La ragazza era lì sul letto, raggomitolata e girata verso la parete, dandogli la schiena; indossava il pigiamino con gli orsetti, quello della notte passata con lui in infermeria.
Pete si appoggiò alla libreria con una spalla e valutò la scena, che evidenziava come si fosse liberata in fretta degli abiti, che non sentiva molto parte della sua personalità: i pantaloni neri e la camicetta bianca erano gettati sul pavimento, insieme a una manciata di forcine per capelli e alle ballerine che, con ogni probabilità, erano state scalciate via, essendo ad alcuni metri di distanza l’una dall’altra.
Alla fine era crollata, e non c'era da stupirsene: l'adrenalina, che l'euforia per la vittoria aveva pompato nelle loro vene per ore, si era finalmente esaurita; anche lui era davvero sfinito, confuso e con il mal di testa. Quella lunga giornata avrebbe messo K.O. chiunque.
Si avvicinò al letto, deciso a prendersi quel poco che Briz gli aveva concesso, in attesa di chiarire ogni cosa con lei; non più tardi del giorno dopo, promise a sé stesso.
Spense la lampada, lasciando spazio solo al tenue pallore della luna che filtrava dalla finestrella sul soffitto, e posò un ginocchio sul letto, alle spalle di lei. Non riuscendo a resistere, si chinò sulla sua guancia, notando che non si era nemmeno struccata e che aveva avuto ragione: a lui piaceva da impazzire, anche con il trucco sbavato.
Briz aveva aperto gli occhi, quando aveva sentito Pete entrare, e li aveva richiusi immediatamente; non aveva mosso un muscolo. L'aveva percepito avvicinarsi, esitare, aveva intravisto la luce spegnersi e, infine, sentito il materasso cedere sotto il suo peso. Lo sentì chinarsi su di lei e baciarle lievemente la guancia, poi avvertì la sua mano posarsi, indecisa, sul suo fianco e stringerla appena.
Pete non sapeva perché lo avesse fatto, ma a quel gesto la sentì irrigidirsi e capì due cose: che Briz era sveglia, e che, forse, si era spinto troppo in là. Ritrasse la mano di scatto e si sollevò, pronto ad andarsene.
Ma, con suo stupore, la mano di Briz si mosse all'indietro rapidissima e afferrò la sua, portandosi il suo braccio attorno alla vita; tutto ciò che lui poté fare fu assecondare quel gesto: tornò a chinarsi, sdraiandosi dietro di lei e stringendola a sé. La ragazza si spostò appena, appoggiandosi più comodamente contro di lui, ma non disse una parola.
– Avanti, bestiolina, dormi, adesso. Ci sarà tempo per tutto.
La sentì rilassarsi e stringergli la mano che lui le teneva appoggiata contro il ventre; non la vide in faccia, ma Pete ebbe la netta sensazione che lei stesse sorridendo, e non si sbagliava.
Entrambi pensarono per qualche istante all'altra volta in cui avevano dormito in quella posizione, nella cella sotterranea nel Sahara.
Ma stavolta non erano in guerra, né prigionieri, né al freddo.
Erano in pace, liberi, in un letto comodo, in una notte d'estate.
Peccato solo che fossero distrutti dalla stanchezza, ma Briz si sentì di nuovo al sicuro, mentre lui la stringeva.
“Resta pure qui, capitano. E domattina, al nostro risveglio, te la dovrai vedere con me, cascasse il mondo!” pensò prima di abbandonarsi al sonno, finalmente dolce, profondo e senza sogni, nel quale scivolarono insieme, lasciandosi avvolgere entrambi dal suo abbraccio.

 
sonno-sereno
 
* * *

Fabrizia riemerse dal sonno a fatica. Solo la sua coscienza realizzò di essersi svegliata, perché il suo fisico era ancora immerso in un'immobilità totale e torpida; non ricordava nemmeno più da quanto tempo avesse dormito così profondamente, senza nemmeno sognare. Tenne gli occhi chiusi e si concentrò sugli altri sensi: stringeva fra le braccia qualcosa di caldo e una stoffa morbida le premeva contro la guancia; e odorava di buono.
E all'improvviso la realtà si fece strada e gli ultimi avvenimenti e i programmi futuri dell’equipaggio del Drago le si affacciarono alla mente: la guerra era finita. Sapeva che probabilmente Bunta e Daimonji erano già partiti: il primo per Yokohama, a prendere la fidanzata Solange; il secondo per non si sa dove, a recuperare Yock e Lyra Zenon, che avevano espresso il desiderio di rivedere i loro salvatori ma soprattutto amici.
Poi ricordò lo strano litigio con Pete, concluso con una specie di tregua, in attesa di un chiarimento, e lui che aveva passato quella notte con lei. A dormire, naturalmente.
Eppure... qualcosa non le tornava: ciò che stringeva tra le braccia era troppo... soffice; e immobile; e silenzioso. Aprì gli occhi lentamente e mise a fuoco.
Ma porca vigliacca...! Non riusciva a crederci: di nuovo!? Stava abbracciando quel maledetto, caldissimo, morbidoso e stradannato... cuscino!
Ma possibile che avesse di nuovo sognato? Mollò un sonoro sbuffo, si sollevò a sedere, e lo tirò contro il muro; il cuscino rimbalzò e atterrò nuovamente sul letto accanto a lei, che gli mollò un paio di pugni ben assestati. Poi ci ripensò e se lo strinse nuovamente al seno. No, non era del tutto scema: Richardson, lì con lei, ci aveva dormito, perché il cuscino conservava ancora il suo profumo fresco e pulito. Peccato che lui avesse palesemente deciso di tagliare la corda prima che lei si svegliasse. Che avesse un vago timore di ritrovarsi ad affrontare certi argomenti, il ragazzo?
Faticosamente, Briz mise i piedi giù dal letto e raggiunse il bagno. Si guardò allo specchio e trasalì: oddio, un panda!
Non era stato sufficiente passare una notte tra le braccia di Pete, a dormire come un geco in letargo: pure col trucco sfatto, per forza al mattino era scappato, povero! Questo dava la misura di quanto fosse abituata ad aver a che fare con frivolezze femminili come ombretti, mascara e struccanti! Mugugnando si spogliò, si infilò sotto la doccia e si impose di svegliarsi.
Più tardi, tornata all'aspetto di essere umano, recuperò lo smartphone sul comodino e trovò un messaggio: fu con una certa delusione che si accorse che proveniva da Yamatake.
“Ehi, Anoressina! Stasera, grigliata di pesce sulla spiaggia: si mangia, si canta e si balla! Dovremo pur festeggiare, no? Alle 19. Non ammetto defezioni, né ritardi!”
“Tranquillo, amico mio, ci sarò ad ogni costo” digitò velocemente lei in risposta, prima di raggiungere la zona giorno del suo alloggio, dove si avvide di un paio di cose: che erano già le undici e tre quarti, e che sul tavolo c'era un foglio.
La grafia chiara e precisa di Pete le augurò il buongiorno: "Ciao, ben alzata! Scusa se me ne vado come un ladro, ma dormivi troppo beatamente, non ho avuto il coraggio di svegliarti. Ma dopotutto, non è successo niente di compromettente, da dovermi sentire in colpa. Ho un po' di cose da fare stamattina, ma vorrei vederti nel pomeriggio. Fammi sapere, okay? P".
Briz spalancò gli occhi, incredula.
– "Non è successo niente di compromettente...?" "Vorrei vederti nel pomeriggio?" Ah, fantastico, adesso sei tu che decidi, fai e disfi? E da quando, di grazia? Te lo do io, "Un po' di cose da fare!" Mo' te la faccio pagare, giuro! – ringhiò la ragazza, piegando in due il foglietto.
Afferrò lo smartphone e gli mandò un messaggio brusco e pungente: "Ho da fare anch'io, oggi. Non so a che ora sarò disponibile! Ci vediamo alle sette alla grigliata organizzata da Yamatake. Ciao".
Rilesse e inviò, soddisfatta. Che se ne stesse sulle spine, visto che si divertiva tanto a tenerci lei!
La parte di sé stessa ancora minata dall'insicurezza e dalla scarsa autostima, la avvisava di non illudersi e di prepararsi a venire di nuovo friendzonata senza possibilità di remissione.
Ma al diavolo, stavolta i giochi li dirigeva lei!
Forse.
 
> Continua…


 
Note:
“La morte non è la fine di un bel niente. È solo uno dei tanti ostacoli, lungo il cammino”.
Questa frase l’ho bellamente presa in prestito da un episodio di un vecchio telefilm, il cui protagonista adoravo alla follia: MacGyver.
(E comunque, io ci credo… ;) )

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Capitolo 46
*** 45 - Colora i miei giorni ***


~ 45 ~ 
COLORA I MIEI GIORNI
 
Pete mise Obi-wan al passo, mentre si dirigeva a una piccola cala, protetta dagli scogli sui lati e, sul fondo, dal terrapieno lungo il quale scendeva un pietroso e ripido sentierino per raggiungere la spiaggetta. Veniva spesso lì, quando aveva voglia di pensare o farsi una nuotata in solitaria, proprio come in quel momento.
Briz era stata chiara, nel suo lapidario messaggio di quella mattina: era palese che non avesse nessuna voglia di vederlo o parlargli da sola. Quel po’ di avvicinamento che era riuscito a guadagnarsi andando a dormire da lei la sera precedente, se lo era giocato con la sua fuga mattutina. 
Quando era arrivato alle scuderie nel pomeriggio, aveva notato che Indy non c’era: probabilmente lei era andata a sbollire la rabbia, in attesa della serata di festa con gli amici, con una cavalcata, come faceva di solito quando era nervosa, e non poteva nemmeno darle tutti i torti, per questo.
Ma lui aveva davvero avuto delle cose da fare da solo.
Passò al piccolo galoppo, raggiungendo una macchia di alberi ricca di erba dove era solito lasciare il cavallo legato a brucare prima di scendere a nuotare.
Si bloccò di colpo, fermando bruscamente Obi-wan: all’ombra degli alberi, legato per le briglie a un ramo basso, Indy oziava pigramente, uno zoccolo posteriore appena sollevato, poggiato solo in punta, gli occhi sonnacchiosi e il muso chino e rilassato.
Pete si avvicinò e gli sfuggì un sorriso, all’evidenza che la ragazza avesse avuto la sua stessa idea di fare una nuotata, oltre che una galoppata.
Questo era davvero un segno del destino: Briz aveva finito di scappare… e anche lui.
Dopo averlo legato a un altro ramo, Pete allentò la sella al cavallo nero e, da una delle borse poste ai lati di essa, recuperò una piccola sacca, prima di dirigersi verso il mare scendendo per lo stretto sentiero sassoso. Aveva appena raggiunto la spiaggetta quando Atlas gli corse incontro, abbaiando festoso; Pete gli accarezzò la testa, guardandosi di nuovo intorno alla ricerca della sua padrona.
A pochi metri dalla riva era disteso un telo da spiaggia, con sopra stampata l'immagine di una foresta tropicale popolata di uccelli dai colori tanto violenti da far male alla vista, esattamente come lo zainetto della ragazza, che sfoggiava tasche e scomparti di tre diversi colori fluorescenti: rosa, azzurro e giallo! Buttati accanto ad esso, un paio di stivali da cowboy, una camicetta scozzese a maniche corte e i jeans con gli strappi sulle ginocchia. Pete cercò di non pensare all'emozione che gli stava procurando il solo pensiero di vederla in costume da bagno.
Fermò la sua mente, che era corsa per un attimo a quel giorno del temporale, sul divano delle scuderie, alla sua camicetta slacciata e al reggiseno di microfibra arancione che, solo per miracolo, era riuscito a non strapparle via: l’unica volta in cui aveva visto di lei un capo di abbigliamento intimo che la scoprisse più di una canottiera. L’aveva vista persino in pigiama, ma quello non faceva testo… un pigiamino da dodicenne, pensò ridacchiando fra sé, faceva perfettamente il paio con l’intimo di microfibra dai colori fluo. Probabilmente, conoscendola, indossava un costume intero castigatissimo… magari color verde evidenziatore.
Fece vagare lo sguardo lungo le rocce scure che si allungavano nell'acqua, e finalmente la scorse: era distesa a pancia in giù su uno scoglio piatto e solitario, non molto alto, che si ergeva a una cinquantina di metri dalla riva. La vide sollevarsi appena sui gomiti e guardare nella sua direzione.
Briz lo aveva visto arrivare già da lontano e fermarsi al riparo degli alberi, per sistemare Obi-wan, e aveva cominciato ad agitarsi. E adesso lui era là, in riva al mare, con un braccio sollevato, che la salutava, il delinquente! Con tutti i posti che c’erano, proprio quello aveva scelto! Alla fine, si lasciò sfuggire un sorriso rassegnato e, scuotendo il capo, tornò ad abbassarlo per nascondere il volto tra le braccia, pensando che fosse davvero un segno del destino, se avevano finito per incontrarsi proprio lì.
Pete aveva finito di scappare… e anche lei.
Lo guardò, come ipnotizzata, sfilarsi la vecchia camicia di stoffa leggera, e si sentì venire i sudori freddi quando lo vide, dopo aver gettato gli stivali sulla sabbia, liberarsi dei jeans e rimanere con un paio di calzoncini da mare di un azzurro intenso. Le venne anche da ridere però: si era aspettata qualcosa di nero, o grigio, o comunque poco appariscente, invece quel celeste carico contrastava una meraviglia con tutta quella pelle abbronzata scoperta, tesa su un fisico dalla muscolatura scolpita e armoniosa. Non che non se ne fosse mai resa conto, ma constatarlo a livello visivo valeva la pena: il Capitano Richardson in versione svestita, era una cosa da farsi cadere gli occhi.
Pete entrò nell'acqua, che divenne subito profonda, e si tuffò, mentre Atlas si accucciava come per fare la guardia alle loro cose. Con rapide e potenti bracciate il giovane coprì buona parte della distanza, poi riemerse, scrollando l'acqua dai capelli, a una decina di metri dallo scoglio, e si fermò a guardarla.
Briz, completamente incantata a osservarlo, si sollevò di nuovo su entrambi i gomiti e avvampò di colpo, realizzando solo in quel momento di essere anche lei seminuda.
– Allora? Scendi, bella sirena? – fece lui, spavaldo, non mancando di notare la curva della spina dorsale della ragazza che, dalla base del collo, scendeva tra le scapole per poi proseguire sinuosa, fino a risalire dolcemente sul pendio arrotondato di un fondoschiena che rasentava la perfezione.
Senza staccare lo sguardo da quello di Pete, Fabrizia si sollevò lentamente in piedi. Rimase lì per parecchi istanti, alta ed eretta, lasciando che gli occhi del giovane indugiassero lungo il suo corpo, coperto solo da un bikini di un rosa accecante con qualche ghirigoro nero, che faceva risaltare la pelle dorata dal sole. Le coppe del reggiseno col ferretto aderivano perfettamente alle sue curve, esattamente come lo slip dai fiocchetti sui fianchi, senza rivelare troppo, ma nemmeno troppo poco.
 
bikini
Pete pensò che fosse incredibilmente sexy… Briz, non il bikini; ma era fermamente convinto da un pezzo che lei sarebbe stata seducente anche con indosso un sacco di tela grezza. La fissò affascinato per alcuni lunghi istanti; le sorrise, e venne prontamente ricambiato, mentre si rendeva conto che l'appellativo sirena fosse quanto di più sbagliato potesse esserci per descrivere questa ragazza. Briz possedeva qualcosa che nessuna sirena avrebbe mai potuto avere: un paio di lunghissime gambe, assolutamente da sballo. E lo sfregio leggermente più scuro sulla coscia sinistra – la cicatrice della ferita procurata dal pugnale di Zhora – non sminuiva affatto la sua bellezza, proprio come quello sull'avambraccio.
Briz si vietò categoricamente di arrossire ancora, anche perché la carezza di quello sguardo azzurro sulla pelle non aveva nulla di irrispettoso o insolente, e lei non solo non provò imbarazzo, ma si sentì bellissima. Avanzò di un passo, raggiungendo il bordo dello scoglio, e si tuffò, agile ed elegante, entrando in acqua quasi senza sollevare spruzzi. Nuotò sott’acqua e riemerse davanti a lui, che notò le sue mani mentre si scostava i capelli bagnati dagli occhi. La ragazza aveva rimesso lo smalto alle unghie dopo almeno un anno, ovviamente dello stesso accecante colore del costume e, attraverso l'acqua trasparente, intravide che le unghie dei piedi non erano da meno; inutile, quella era Briz, e lui l'adorava anche per queste cose.
– Allora? Che dovevi fare stamane di così importante? – gli chiese la ragazza, quasi arrogante.
– Non si vede? – ribatté Pete, scrollando i capelli sgocciolanti.
– Ti sei fatto tagliare i capelli? – osservò Briz, non riuscendo a notare un gran cambiamento – E di quanto? Un paio di centimetri?
– Avevo detto che alla fine della guerra li avrei tagliati, non di quanto.
– Seh, vabbè! – rise lei, schizzandolo scherzosamente – Comunque va bene così, non ti ci vedrei, con un taglio alla tedesca. E poi? Tutto qui? Una mattina intera e mezzo pomeriggio, per farti accorciare i capelli di due dita scarse?
– Ho anche contattato Tom.
– Ho parlato anch'io con lui e Jessie, nel primo pomeriggio, me l’hanno detto. E poi? Dimmi qualcosa che non so, Richardson!
– Dopo ho sentito George. E ho pensato… e fatto… altre cose.
– Uhmmm, hai voglia di prenderla alla larga, eh? E hai pensato, pure? Ciò mi preoccupa! – lo prese in giro, muovendosi nell'acqua attorno a lui – Ehi, aspetta un attimo, che hai qui? – gli chiese all'improvviso, notando un'ombra scura sulla sua schiena, che lui tentò di nascondere girandosi di nuovo verso di lei.
– Niente, perché?
– Ma niente un tubo, voltati! – gli ordinò perentoria.
Pete alzò fugacemente gli occhi al cielo e obbedì.
Briz si avvicinò e si lasciò sfuggire un sorriso compiaciuto, mentre allungava una mano a sfiorare, con la punta delle dita, l'immagine tatuata sulla scapola sinistra del ragazzo: un drago nero in stile tribale, che stringeva tra gli artigli un cuore rosso. Il tatuaggio era ormai guarito e consolidato, altrimenti Pete non lo avrebbe esposto al sole con tanta leggerezza, ma doveva essere comunque piuttosto recente, visto che, alla fine di aprile, lui aveva ammesso di non averne.
– Questo non lo hai fatto stamattina, è ovvio – gli disse infatti.
– Certo che no: l'ho fatto un paio di mesi fa, appena mi sono ristabilito dopo la massacrata con Zhora.
– Te l'ho già detto che sei un copione, vero? – lo accusò Briz, mentre lui girava appena la testa, guardandola da sopra la spalla con la coda dell'occhio.
– Sì, più di una volta. Ma mi hai convinto tu, di essere Dragonheart.
– È bello un bel po’, va detto.
Si allontanò, dirigendosi a nuoto verso la riva, per non cedere alla tentazione di posare le labbra su quel bel dragone, tatuato sulla pelle del giovane.
– Che ti succede, te la squagli? – la provocò Pete, affiancandosi a lei in due bracciate.
– Che detto da te… – fece lei, sarcastica.
Fabrizia non aggiunse altro: era lui quello che doveva parlare, non aveva molta voglia di dargli lei l'imbeccata, anche se aveva il vago sospetto che nel giro di poco, conoscendolo, si sarebbe dovuta rassegnare a farlo. Raggiunsero la spiaggia e Briz si avvolse nel suo telo colorato, non potendo fare a meno di ammirarlo ancora. Lo spettacolo era assolutamente degno di attenzione: Pete si strofinava i capelli con l'asciugamano e il ciondolo a forma di drago, che lei e gli altri gli avevano regalato per il suo compleanno, gli luccicava nell'incavo tra le clavicole; le gocce d'acqua gli scivolavano sulla pelle, disegnando le linee e le curve dei muscoli guizzanti, dal torace fino all'ombelico, per poi scomparire, assorbite dal bordo dei calzoncini. Briz immaginò per un attimo di seguire lo stesso percorso di quelle gocce con i polpastrelli…
Bruscamente gli voltò le spalle, si tolse il telo di dosso e si asciugò alla buona i capelli, poi, facendo la disinvolta, lo stese a terra e si sedette, cominciando a pettinarsi sommariamente con le dita.
Atlas li osservò, quasi perplesso, girando loro intorno: ma come, non si giocava? Alla fine si rassegnò ad accucciarsi accanto a Fabrizia.
– Credevo di conoscerlo solo io, questo anfratto. Perché mi stai sempre due passi avanti? – esordì fingendosi scocciata.
– Sei tu che stai due passi avanti a me: è più di un anno questo è il mio posto e vengo qui, quando ho voglia di stare solo. Sarà stato per caso o per destino, che non ci siamo mai incontrati qui, prima d’ora?
Briz fece spallucce chiedendosi se fosse un bene o un male, che in quei quindici mesi trascorsi da quando si erano conosciuti, non fosse mai accaduto. Pete si sedette sul suo telo, di un insulso beige chiaro, accanto a lei; era ridiventato serio, tutto a un tratto.
– Bri… – cominciò, indeciso.
Lei lo guardò, con aria interrogativa.
– Dunque? Hai qualcosa da dirmi? – lo esortò, vedendo che sembrava in difficoltà.
– Ma come diavolo hai fatto? – sbottò Pete improvvisamente, come dando per scontato l'argomento.
– Fatto cosa, Richardson? Non cominciare a parlare per enigmi, che non è proprio giornata!
– Come hai fatto a innamorarti di un bastardo come me?
– Piantala, non sei un bastardo e lo sai.
Briz guardò davanti a sé, decidendo che tenersi tutto dentro non avrebbe aiutato né in un senso, né nell'altro. Probabilmente poco prima aveva visto giusto: se non si fosse aperta lei per prima, da lui non avrebbe tirato fuori una parola neanche con le pinze!
– Non lo so come ho fatto, va bene? Mi è successo! Io sono venuta qua per combattere una guerra, non sapevo nemmeno se ne sarei uscita viva; e se devo dirla tutta, considerato come mi sentivo in quel periodo, non me ne importava un emerito fischio di vivere o morire. Immagina un po' se innamorarmi potesse essere nei miei pensieri o nei miei programmi; di te, poi, ancora meno, che eri tutto l’opposto di quello che avrebbe mai potuto attrarmi in un uomo: un figaccione biondo, odioso e problematico ai limiti del paranoico! Se avessi potuto scegliere, ti garantisco che avrei evitato alla grande. Ci ho combattuto più che contro i Mostri Neri, solo che, a un certo punto, mi sono dovuta arrendere alla realtà: questa guerra personale l'avevo persa su tutti i fronti. E guardami un po'… sono qui, stracotta da far compassione! E di uno che, per i miei gusti, sta temporeggiando un po' troppo, per sentirmi di coltivare qualche speranza. Quindi se, per te, quelle cose che sono successe tra noi sono state solo un gioco, dimmelo e chiudiamola qui. In fondo il tuo biglietto di stamattina diceva il giusto: non è accaduto niente di compromettente. Sarà l'ennesima illusione della mia vita, ma pazienza; sono sopravvissuta a cose peggiori… – tacque qualche istante, poi lo guardò un po' di traverso e annunciò: – Io ho finito, Pete: quello che dovevo dire l'ho detto, adesso è il tuo turno e piantiamola di trastullarci e prenderci in giro – concluse.
Benché apparisse lievemente imbarazzata, a Pete la ragazza sembrò anche estremamente ferma, decisa e fiera: aveva davvero imparato bene a non cedere più di tanto alle emozioni e ad essere pratica e determinata, quando la situazione lo richiedeva.
– Bene, basta giocare, quindi – concordò, passandosi le dita tra i capelli umidi – Guardami – aggiunse poi.
Briz girò lentamente la testa verso di lui, e per poco non annegò nel suo sguardo. Pete allungò una mano e le sfiorò appena una guancia col dorso delle dita, portandole la ciocca bianca dietro l'orecchio, e parlò a voce bassa, ma guardandola negli occhi.
– Bri, io morirei per te… e non una, ma mille volte; ti adoro, sono pazzo di te! Non te ne accorgi? 
Il cuore di Briz perse un colpo, e si ritrovò a deglutire a vuoto, ma sostenne il suo sguardo; un senso di sollievo le allargò il cuore, ma gli rispose in tono semiserio.
– Per quel che riguarda il morire ci sei già andato vicino pure troppo: io ti voglio vivo e sano come un pesce! E non so che farmene dell'adorazione, non sono mica una dea! E se c'è una cosa di cui non ho proprio bisogno, è la pazzia, ne ho già abbastanza io anche per te. Io voglio semplicemente amore! Se vogliamo, anche di quello ne ho un bel po', ma purtroppo non funziona come per la follia: non posso farlo bastare per tutti e due – si interruppe, poi lanciò la domanda che era il centro di tutto – Allora? Tu mi ami?
Pete annuì con lentezza, l'immagine della serietà e della convinzione.
– Non puoi nemmeno immaginare quanto. Sei la mia vita, Bri: la cosa più bella che potesse capitarmi.
La reazione di Briz non fu esattamente quella che si era aspettato.
– Allora dimmelo! – sbottò la ragazza, quasi gridando.
Atlas drizzò la testa e le orecchie, incuriosito da quello scatto, ma rimase accucciato al suo posto.
– Ma se te l'ho appena detto! E credo di avertelo anche dimostrato più di una volta! – replicò Pete, sullo stesso tono.
– Lo so! – gridò lei, frustrata.
– E allora che altro vuoi?
– VoglioQuelle dueStramaledetteParole! Ne ho bisogno, Pete, lo capisci? Ho… bisogno di sentire la tua voce che me le dice!
Lui sospirò, come esasperato; si alzò in piedi e fece un paio di passi, fino in riva al mare. Ma era mai possibile che si ritrovassero ad urlarsi addosso anche in un momento come quello? Sentì che Briz lo raggiungeva e si fermava dietro di lui; girò appena la testa, per osservarla fuggevolmente di sottecchi.
– Perché una frasetta così facile e breve, ti costa così tanto? – gli chiese lei, in tono rassegnato.
– E perché, tutto a un tratto, per te è diventata così importante? Non sono già stato sdolcinato a sufficienza? Mi pareva avessi superato da un po' la fase bambina romantica e zuccherosa! Mi hai già detto che anche tu lo sai! E poi… non hai mai fatto mistero, di considerare quelle due parole solo una bugia che a noi uomini riesce bene! – esclamò lui, alzando la voce suo malgrado e tornando a guardare il mare.
Briz esitò… era questo, dunque? Si avvicinò e lo abbracciò da dietro, posandogli una guancia sulla schiena. Il contatto delle sue mani fresche sull'addome e sul petto, lo fece rabbrividire, ma non di freddo. Di nuovo allungò lo sguardo all’indietro.
 
abbraccio-spiaggia-1
– È tutto qui? – disse Briz, lasciandogli una scia di piccoli baci sulla spalla, assaporando il gusto del sale sulla sua pelle – Un semplice Ti amo, per te è melenso e sdolcinato? Va bene, prendo atto… ma sai anche che io sono una fanciullina romantica e sdolcinata! E se invece è davvero per quella baggianata assurda che pensavo degli uomini… allora sappi che tu… non sei gli uomini. Tu sei Peter Jonathan Richardson, e io ormai ti conosco: tra i tuoi circa cinquemila difetti, non c'è quello di essere un bugiardo; per questo, il fatto che tu non voglia dirmi quelle due parole, mi preoccupa! E, sempre per lo stesso motivo, se me le dicessi… non solo non suonerebbero melense ma, proprio perché saresti tu a dirmele, io ti crederei!
Tacque per diversi secondi, poi glielo domandò di nuovo: – Una volta, Pete; una soltanto, e me la farò bastare: mi ami?
Lui restò in silenzio. Briz sciolse a malincuore il suo abbraccio e si allontanò da lui di alcuni passi, entrando coi piedi nell’acqua, dandogli le spalle; si portò le mani ai fianchi e sospirò.
Niente da fare… non era ancora pronto: Ti amo non gli usciva, proprio. Ma non riusciva a dirle nemmeno il contrario, se era per questo! In fondo si era già dichiarato, e anche alla grande, Briz doveva riconoscerlo; allora, forte di questo, decise che… andava bene così. Si passò le mani tra i capelli e voltò appena il viso, rivolgendogli un sorriso fugace ed incerto prima di tornare a guardare l'orizzonte. E, alla faccia del dirigere i giochi, come si era ripromessa di fare quella mattina… si arrese.
– Ascolta… tutto sommato hai ragione tu, sono solo due stupide parole. E in realtà, sì, me lo hai appena detto, anche se in modi diversi; e almeno in altri cento, me lo hai dimostrato. Tu hai parlato, hai riso, hai pianto con me: ti sei aperto un po' alla volta e mi hai lasciato oltrepassare la tua corazza di ghiaccio, mostrandomi quello che sei veramente. Hai combattuto al mio fianco e mi hai protetta, rischiando la vita per me, esattamente come ho fatto anch'io per te. Quindi, non importa se non riesci a dirlo: io lo saprò lo stesso, sempre. Va bene così.
Stava per girarsi e tornare da lui, ma Pete aveva già chiuso le distanze: Briz sentì le sue braccia circondarla, la pelle calda del suo torace aderirle alla schiena, le sue labbra sfiorarle la guancia, il collo, il lobo dell'orecchio. E le sue parole, appena sussurrate, le provocarono un brivido che le corse lungo la spina dorsale, facendole tremare le gambe.
– Ti amo. Ti amo, Bri! Tiamotiamotiamo!
Per un attimo Fabrizia sentì quasi il cuore fermarsi, e fu indecisa tra scoppiare a ridere o a piangere, tanta era l'emozione che le procurò quella stupida frase, ripetuta non una o due, ma ben cinque volte di seguito.
Sollevò appena gli avambracci, stringendo i pugni e facendosi sfuggire un Sììì! soffocato, a metà tra il sollievo e il trionfo. Era davvero pazzesco: l'unico modo in cui era riuscita ad ottenere quell’ammissione, era stato… rinunciarci! Con un sospiro, gli posò le mani sulle braccia che la cingevano e si abbandonò contro di lui, mentre realizzava un'altra cosa che le fece sfuggire una risatina.
– Perché me lo hai detto in italiano? – chiese senza scomporsi, godendosi l'abbraccio.
La risposta di Pete fu prontissima: – Perché mi hai chiesto due parole: in inglese sarebbero tre.
– Sempre preciso e fiscale, eh? – lo prese in giro – E… ti è costato davvero così tanto, o c'è speranza di sentirtelo dire ancora, qualche volta?
– Mmm… Forse… – mormorò lui contro il suo collo.
– Quando fai così… – ringhiò lei, scherzosamente.
– …lo so: ti sale il crimine – concluse Pete, facendola voltare verso di lui.
Le loro labbra si incontrarono impazienti, prendendosi il loro primo bacio ufficiale.
Eppure, Briz percepì ancora qualcosa che non la convinceva: infatti Pete si staccò quasi subito, dopo un paio di baci leggeri e indecisi.
– Che ti succede ancora, Richardson? Sembra che tu abbia paura di baciarmi, proprio adesso che ti sei guadagnato il diritto di farlo. Suvvia, lo sappiamo bene che baci molto meglio di così! – gli disse, accarezzandogli una guancia.
– Sì, hai ragione, ho una paura dannata: di farti soffrire, di non riuscire ad amarti come meriti.
Ah, mio Dio, Briz non riusciva a crederci! Ancora di questo, si preoccupava!
– Senti... l'ho avuta anch'io questa paura nei tuoi confronti. Fino a poco tempo fa, credevo davvero di non essere la persona giusta per te, di non essere abbastanza. Ero anch'io convinta che tu meritassi molto di più, è per questo che nemmeno io volevo che le cose, tra noi, prendessero una piega troppo impegnativa. Ma alla fine ho cambiato idea, perché adesso so, di poterti rendere felice. Sono piuttosto sicura di essere proprio quello che ci vuole per te! E per una con un'autostima del cavolo come me, direi che è un bel traguardo, ti pare? E tu... tu puoi farmi soffrire solo in un modo: tenendomi lontana da te.
Pete se la strinse tra le braccia, dimostrandole che tenerla lontana era l'ultima cosa che volesse. Ma benché anche lui avesse ormai capitolato su tutta la linea, era ancora incerto su quello che stava accadendo. Era davvero il colmo: essere abbastanza coraggiosi per combattere gli alieni, e farsi fregare dal terrore di non amare a sufficienza qualcuno.
– Ma sei sicura? A me sembra... di non avere niente da offrirti. Io non sono uno facile, sono così diverso da te! Guardaci! Da’ un'occhiata alle nostre cose, già quelle dicono tutto: il tuo zainetto è di tre colori fluorescenti che fanno a pugni tra loro; la mia sacca è grigia. Sul tuo asciugamano c'è disegnata una foresta tropicale, con tutti i colori del caso e anche di più; il mio... è beige! Tu hai colorato i miei giorni, Briz, ma io ho paura di... annebbiare i tuoi. Una volta tu stessa l'hai detto: siamo due cose che non possono coesistere, tu sei il fuoco e io sono il ghiaccio...
– Sì, certo… – lo interruppe lei, prendendogli il viso tra le mani – …e un cane e un gatto! Tutte cazzate! Ogni tanto mi sbaglio anch'io, vedi? In Islanda, tanto per dirne una, il ghiaccio e i vulcani convivono senza troppi problemi, per non parlare di cani e gatti: basta guardare Balto quando gioca con l'altro rinnegato qui presente. E se è vero che ho colorato la tua vita... è vero anche che troppi colori, a volte, fanno venire il mal di testa. Ci vuole qualcosa che smorzi, ogni tanto, no? Ci sono molte vie di mezzo tra il troppo e il niente – concluse in un sussurro, accostando la bocca dischiusa a quella di lui, che stavolta se ne impadronì con un po' più di convinzione.
– Avanti... sciogliti, mio bel musone… stai andando decisamente meglio – lo incoraggiò, indugiandogli sulle labbra salate, che si curvarono in un sorriso prima di riprendere a baciarla.
Adesso che i loro sentimenti erano usciti allo scoperto, anche i baci, pur non essendo i primi, sembravano avere un sapore diverso. Quando riuscirono a staccarsi avevano entrambi il respiro corto e rimasero alcuni lunghi istanti abbracciati, in silenzio, ad accarezzarsi i capelli, come se la grandezza di quello che stava accadendo li intimidisse.
– Bri, non credi di essere in debito?
– Eh? E di cosa, ‘sto giro…?
– Beh… io te l’ho detto ben cinque volte…
Briz non riuscì a trattenersi dal ridere: – Oh, ma cosa sentono mai, le mie orecchie! Che succede? Hai scoperto che sentirsi dire cose carine è piacevole?
Lui si limitò ad assentire, con un Mmh appena mugugnato e le labbra appena sotto al suo orecchio. Era vero, era schifosamente sdolcinato, e anche molto poco nel suo stile, ma adesso la capiva, questa ragazza, perché anche lui aveva bisogno di sentirsi ripetere quelle due parole che a Briz, il giorno prima, erano uscite senza alcuna paura, proprio come le uscirono ora.
– Ti amo, Pete. Ti amo così tanto che a volte… mi sembra quasi di sentirmi male – ammise lei.
La parte finale di quella frase riportò alla mente di Pete un'altra occasione in cui l'aveva sentita, più di un anno prima, ma non certo riferita all'amore.
– Una volta, quella del litigio tragico, hai detto che mi odiavi, tanto da sentirti male.
– Te lo ricordi ancora? In quel momento non avevi l'aria di uno a cui importasse molto, che io ti odiassi a morte.  
– E tu non avevi l'aria di una che scherzava, mentre me lo urlavi dietro.
– Ed è così: in quel momento, era vero all'ennesima potenza. Mi hai mezza ammazzata, quella sera, Pete; non mi sarei mai potuta innamorare di quello che eri allora, o che fingevi di essere. Ma poi, ci si è messo Tom, a sollevarmi qualche dubbio, e Doc, con la sua... punizione. Ho cominciato a conoscerti e... mi è bastato intravedere uno spiraglio della parte migliore di te, ed è stato un attimo, non ho avuto scampo: sbam! Innamorata da fare schifo, proprio!
– Stai a vedere che quella folle di Melissa aveva ragione – disse lui sottovoce, baciandole la guancia.
– Non è che mi piaccia un granché sentirti parlare della tua scop... cioè, la tua ex-cosa... insomma, quella là, ecco!
– Sarai mica gelosa, fanciullina?
– Sì, invece! Un mucchio. Sono italiana, dopotutto, potrei persino scoprire di avere qualche antenato siciliano! Quindi sta' attento: capito, mi hai, ah?! Che poi, parli tu, quello che era geloso di Kenji, il veterinario! E... spiegami: su cosa avrebbe avuto ragione, la Melissa? – si agitò Fabrizia, cosa alla quale lui ovviò passandole un braccio attorno alle spalle e facendo qualche passo fin fuori dall’acqua.
– Su ciò che ti disse al telefono, quel giorno: che ho davvero trovato l'altra metà di me – fu la pacata e serissima risposta.
Briz si calmò immediatamente.
– L'altra metà di te… Mi piace…  Non credevo che sarei arrivata addirittura a questo… “Amor ch'a nullo amato, amar perdona”... – recitò in italiano.
Pete la guardò incuriosito.
– Scusa, questa non mi suona nuova, ma devi tradurmela.
– È Dante Alighieri, nella sua Divina Commedia, canto V dell’Inferno. Il concetto è, all’incirca: “L'Amore, che costringe chi è amato, ad amare a sua volta” – spiegò Fabrizia.
– E cosa vorresti dire? Che tu mi hai amato talmente tanto che, alla fine, non ho potuto fare a meno di amarti anch'io?
– Mh… sì, non mi dispiace pensarla così.
– Beh, Cuordileone, ti rendo noto che le cose non stanno proprio in questo modo – esclamò lui sibillino, prendendola per mano e tornando dove avevano lasciato gli zainetti per poi sedersi sui teli.
– Non stanno… in questo modo...? Che significa?
– Ecco, ti stupiresti molto se ti dicessi che, probabilmente, è stato esattamente il contrario?
– Eh? Ma che cosa stai...? – fece lei, molto più che sorpresa.
– Okay, vuoto il sacco, ma sappi che io stesso ci sono venuto a patti da poco, con tutto questo, e non è stato proprio facile. Ho ammesso con me stesso di essermi innamorato di te dopo aver sconfitto Zhora , mentre eri tra le mie braccia nel letto dell'infermeria, un bel po' ammaccata, proprio come me...
– Quell'avventura è stata proprio una svolta per parecchie cose – commentò lei, pensando che quell'avvenimento coincideva anche col primo bacio vero e coinvolgente che c'era stato tra loro.
– In un certo senso sì… è stato un vero spartiacque: mi sono reso conto che spesso ragiono sugli avvenimenti recenti collocandoli prima di Zhora o dopo Zhora… Comunque sia, ci ho rimuginato sopra parecchio e ho dovuto prendere atto di molte altre cose; anche su quella sera… del litigio tragico. Dici che ti ho quasi ammazzata... perché in fondo, era quello che volevo. Volevo davvero che te ne andassi, perché... forse innamorarti non era quello che cercavi tu... Ma tu, eri sicuramente l'ultima cosa che io mi sarei mai aspettato di trovare, venendo qua in Giappone per affrontare una guerra galattica.
– Una fanciullina folle ed ingenua che ti frantumava le scatole ogni due per tre?
– Direi piuttosto la ragazza più bella, tosta e coraggiosa che il nostro pianeta abbia mai prodotto.
– Ah! E chi sarebbe 'sta specie di Angelo Guerriero? Io no di sicuro! Ogni volta che salivo a bordo di Balthazar, me la facevo sotto dalla fifa!
– E proprio per questo, il tuo coraggio ha più valore del mio. Io sono un soldato, un militare; l'avevo scelto, di combattere: era il mio lavoro. E poi, Daimonji mi avrà anche ritenuto il migliore per pilotare il Drago Spaziale, ma ero comunque sostituibile in qualunque momento, come Bunta, Fan Lee o Yamatake. Tu no; tu e Sanshiro, e forse Sakon, siete gli unici che, per le vostre particolarità, e avendo una coscienza integra, una scelta non l'avete mai avuta veramente. Ti volevo via di lì, non perché non credessi nelle tue potenzialità, ma perché mi distraevi, distoglievi i miei pensieri da ciò che erano i miei doveri. Mi sono accorto subito che averti nell'equipaggio mi avrebbe sconvolto la vita, e non volevo, non potevo permettere che accadesse!
– Cosa stai dicendo! Ti sei comportato come il più gran figlio di puttana dell'universo creato, perché in fondo io... ti piacevo? Ti piacevo già dall'inizio?
– Da impazzire, Bri. Non ci dormivo la notte, fin dal primo momento, credo. Quando ho incrociato i tuoi occhi per la prima volta, il giorno in cui ci siamo conosciuti, non riuscivo quasi più a distogliere lo sguardo: credevo fossi solo un'amica di Midori e Doc, non indossavi nemmeno la divisa. In quei pochi secondi in cui ci siamo guardati, il mio cervello si è praticamente fulminato e mi ha detto: “Richardson, questa ragazza ti smonterà in tanti di quei pezzi che nessuno sarà mai più in grado di rimetterti insieme. Tranne lei”. Pochi minuti dopo, scoprire che eri la pilota di Balthazar mi ha messo in crisi nera: riuscivo solo a pensare che una tipa incredibile come te non avrebbe dovuto essere lì, a rischiare la pelle in quel modo, eppure era altrettanto ovvio che, lì, solo una tipa incredibile ci sarebbe potuta essere! Mi ero infilato in un tale loop mentale, che avrei mandato Freud alla neuro!  Sì, ci ho provato, a sminuire le tue capacità per vedere se ti avrei convinta ad andartene, ma ero anche convinto che avresti superato abbastanza in fretta tutte le tue difficoltà iniziali, e che il contributo di Balthazar allo svolgersi della guerra sarebbe stato più che rilevante. Tu dovevi restare, lo sapevo; e io dovevo, in qualche modo, risolvere il problema che mi stavi causando senza nemmeno rendertene conto. All'inizio, ancor prima che Doc ci obbligasse a frequentarci, ho avuto persino la tentazione di... oh, al diavolo, non so come dirlo, è vergognoso...
– Dillo nell’unico modo possibile: spara! Non voglio segreti tra noi, sia chiaro! – lo esortò lei, perentoria.
– Ho pensato di… provarci, okay? Mi sono detto: “Se riesco a portarmela a letto, la chiudiamo lì e mi tolgo il pensiero”.
Con sua sorpresa, Briz fece una risata, sopra a quella rivelazione che lui riteneva invece offensiva.
– Ahahah! Ma quale pensiero, Pete? Ti detestavo talmente, i primi tempi, che da quel lato lì non ti avrei considerato nemmeno di striscio! Se tu avessi tentato un approccio in tal senso, prima ti avrei riso in faccia e poi, se avessi anche solo provato a toccarmi...
– ...avrei preso più botte del sacco da boxe che c’è in palestra, lo so. Se non sono giunto a nulla di tutto ciò, è stato perché, in realtà, mi ero già reso conto che non avrei potuto farlo, e per un casino di ragioni. Eri una mia compagna di equipaggio, tanto per cominciare, e già questo piantava tutti i paletti del caso, a parte che Doc mi avrebbe prima ucciso e poi destituito. Poi, mi ero reso conto quasi subito del fatto che... averti in quel senso, non sarebbe servito a toglierti dai miei pensieri, anzi… E al di là di tutto questo, Bri, avevo capito come fossi: tu non sei mai stata una Sophie o una Melissa, da spupazzarsi tra le lenzuola per togliersi uno sfizio insieme, tanti saluti e grazie. Sarai anche stata completamente folle, ma da quel lato avevi regole ferree, eri assolutamente inespugnabile e… proprio per questo mi piacevi ancora di più, accidenti! Mi destabilizzavi completamente, e sai che ce ne vuole, con me. Non avevo mai conosciuto una donna capace di farmi questo, così, nel tempo di uno sguardo, una scintilla di pochi istanti. Sei tu che mi hai quasi ammazzato, Bri, e senza che questa cosa, nemmeno ti sfiorasse il cervello; non c'erano tattiche o sotterfugi, in te: sei sempre stata solo e semplicemente te stessa. Ovvero, una specie di arma impropria, perché... tu prima mi hai tenuto testa, e poi… me l'hai fatta perdere!
La ragazza, alla fine di quella lunga confessione, rimase in silenzio diversi istanti, fissandolo con gli occhi sgranati. Non avrebbe mai immaginato di averlo scombussolato in quel modo, e di aver occupato i suoi pensieri, fin dai primi tempi; non in quel senso, per lo meno.
– Ah, questa poi... Mi chiedo come sia possibile che non siamo davvero finiti a letto insieme quando, più avanti, ci sarebbero state le... occasioni, diciamo così – ragionò Briz.
Ma Pete aveva una teoria anche per questo.
– Non è accaduto perché ormai eravamo arrivati a innamorarci oltre i limiti, e avevamo troppa paura di ferirci a vicenda. E se ci pensi bene, è un paradosso che rasenta il ridicolo.
Briz non poté fare a meno di convenirne. Scuotendo appena la testa, accennò un sorriso, gli mise una mano su una guancia e gli sfiorò le labbra col pollice, disegnandone la linea perfetta. Pete gliela coprì con la sua, chiuse gli occhi e girò appena la testa, baciandole il palmo e poi l'interno del polso; quel contatto, tenero e sensuale, fece battere a entrambi il cuore in modo alquanto disordinato. Lui fu il primo a riscuotersi.
–  Okay, facciamo le cose per bene: chiudi gli occhi, Cuordileone – le ordinò dolcemente, spostandosi per mettersi in ginocchio di fronte a lei.
Briz gli sorrise, incerta e alquanto perplessa, e obbedì, sollevandosi a sua volta sulle ginocchia. Lui ne approfittò per rubarle un bacio, che però prese loro la mano, o più propriamente le labbra, e diventarono due, o tre… forse quattro; Briz perse per un po' la tramontana. Quando lui si staccò, riaprì gli occhi: Pete le teneva una mano tra le sue, ma lei non se ne accorse finché lui non gliela sollevò, tenendola sospesa tra di loro.
– Tu non ci credi, che ho avuto da fare, stamattina... – sussurrò Pete, lasciandole la mano.
Solo in quel momento, Briz realizzò di stringere qualcosa fra le dita: lentamente, quasi senza riuscire a respirare, le aprì.
I raggi del sole colpirono la piccola stella di diamante, strappandole lame di luce bianca che scintillarono nei loro occhi. Briz scosse appena il capo, portando l’altra mano alla bocca semiaperta, incapace di staccare lo sguardo dall'anello che le luccicava sul palmo. Non era possibile! Il suo anello! Quello della vetrina in città...
Per un attimo i baluginii si confusero, deformati da un paio di lacrime inaspettate che le si formarono tra le ciglia, ma decise che mai e poi mai, avrebbe aperto i famigerati rubinetti. Oh, no, non avrebbe fatto, proprio in quel momento, la figura da Candy Candy! Strinse di nuovo le dita attorno all'anello, e allacciò di slancio le braccia al collo di Pete, andando di nuovo alla conquista delle sue labbra, cosa che le riuscì con una discreta facilità.
– Wow! Questo era un sì? – le chiese Pete quando si separarono.
– E che ne so, io? Non mi risulta che tu mi abbia chiesto qualcosa – lo provocò.
– Non ancora, ma se ci tieni te lo chiedo, non ho nessuna paura di farlo; in ginocchio già ci sono – rispose lui, assolutamente certo di quel che diceva.
Le prese l'anello dalla mano, lo sfiorò con le labbra e glielo infilò solennemente all'anulare sinistro. Lei se lo rimirò ancora per qualche momento: non riusciva a crederci; a dire il vero, aveva smesso da tempo di pensarci lei stessa, a quel gioiello. Mai, mai, si sarebbe aspettata che se lo ricordasse lui, figuriamoci comprarlo per metterglielo al dito!
– Quel giorno, davanti alla vetrina del gioielliere, dicesti che volevi comprartelo, ma che se avessi voluto regalartelo io, mi avresti risparmiato il fidanzamento. Però… lo ammetto, magari non sembra, ma sono un tipo tradizionale, Bri…
Lei lo interruppe, posandogli un dito sulle labbra.
– Shh, io un po’ meno. Non sono una bacchettona, Richardson: per me, possiamo vivere insieme già da oggi. E possiamo sposarci domani, fra un mese, un anno o cinque. Quando vorremo farlo, nessuno ti impedirà di fare di me la classica donna onesta. La risposta è , per qualunque cosa. Sarà, sempre e comunque!
Briz ebbe la nettissima sensazione di vedere l'impavido Capitano tirare un rapidissimo sguardo al cielo e un sospirone di sollievo, anche se tentò di non mostrarlo troppo.
Pete le mise le mani attorno al viso, stordendosi con la sua bellezza, e avvicinò il viso al suo per baciarla di nuovo, quando il suo smartphone emise un inconfondibile fischio. Nel giro di due secondi, anche quello di Briz tintinnò brevemente dalla tasca dello zainetto. Decisero di controllare, per escludere che non fossero comunicazioni dal dottor Daimonji, ora che non portavano più gli auricolari per le emergenze.
Nulla di tutto ciò: i messaggi erano identici e venivano da Yamatake.
"Richardson e Cuordileone, (tanto lo so che siete insieme) pensate di ridurvi per cena? Così, giusto perché non ve lo dimentichiate: alle 19 vi aspettiamo per la grigliata di pesce sulla spiaggia, per festeggiare insieme e dare il benvenuto a Solange e il bentornato a Yock e Lyra. Se non ci sarete, sapete già cosa penseremo tutti, anzi, io lo sto già pensando! Non avrete intenzione di campare d'aria e d'amore, vero?"  Seguiva una faccina con gli occhi a cuore.
Briz e Pete, i cellulari in mano, si guardarono, ancora in ginocchio, uno di fronte all'altra, trattenendo a fatica una risata.
– Ca... ssiopea! Ci hanno già sgamati! Che facciamo? – chiese lei.
– E cosa vuoi fare? Mica possiamo deludere il nostro Brontosauro Domestico! E poi anch'io voglio rivedere i ragazzini zelani e conoscere la fidanzata di Bunta. Faccio io – esclamò Pete, digitando frettolosamente una risposta: "Ci saremo, tranquillo! E adesso lasciaci in pace!"
Poi spense il telefono e lo gettò con noncuranza dentro allo zainetto.
– Ma ecco, fantastico! Così glielo hai confermato, che siamo insieme! – protestò lei.
– Pensavi di tenerlo ancora segreto? E tanto lui lo sapeva già, come hai potuto vedere!
– Sì, ma... Chissà cosa penserà adesso! – concluse Briz, con una risata.
– Probabilmente che sono un uomo fortunato, fanciullina! E adesso spegni quel cellulare anche tu e vieni qui – le ordinò.
Briz ebbe appena il tempo di obbedirgli che Pete l'aveva già presa tra le braccia e la stava baciando. Questa volta fu molto convinto; e deciso; e appassionato. E lei ricambiò con un tale slancio da farlo cadere all'indietro sulla sabbia, tirandosela addosso. Si staccarono solo perché gli venne da ridere, poi le risate si spensero e ricominciarono a baciarsi, Briz sopra di lui, le dita fra i suoi capelli. Con un rapido gesto, Pete la fece rotolare sulla schiena, invertendo le posizioni.
E a quel punto intervenne Atlas che, stufo di correre dietro ai gabbiani, di tutte quelle chiacchiere e quelle strane movimentazioni dei suoi due zampe, voleva giocare anche lui, e cercò di intrufolare il muso tra di loro.
Pete sollevò la testa e lo fulminò con un'occhiataccia.
– Fatti in là e vai a cuccia, peloso! La tua padrona è mia, me la lasci per un po'?
Atlas abbassò le orecchie, andando ad accucciarsi e rimanendo a osservarli con la testa abbandonata sulle zampe, un'espressione mortificata negli occhi.
– Pure il tuo cane che fa il geloso, mi mancava...  – brontolò Pete divertito, riportando l'attenzione sulla ragazza, che gli passò le braccia intorno al collo.
– Ti rendo noto che da oggi è anche il tuo cane. Esattamente come i cavalli – rise Briz.
– E allora sarà bene che mi diano retta!
– Lo fanno, come vedi. La verità è che sono nostri già da un pezzo – fu l'ultimo commento di Briz prima di attirare di nuovo il viso di Pete verso il proprio.
Per un po' non parlarono più, amoreggiando come due stupidi adolescenti, e il fatto di essere entrambi seminudi non aiutava molto a tenere le mani a posto. Briz sentì una carezza rovente scivolarle sulla coscia: la mano di Pete si soffermò qualche secondo sulla cicatrice, percorrendone la lunghezza con il pollice, per poi risalirle lungo l'anca e il fianco, fino a fermarsi, quasi impacciata, a tormentare il bordo inferiore del reggiseno, delineato dal ferretto. Briz lo guardò negli occhi, una luce vagamente maliziosa nello sguardo verde e un sorrisetto dello stesso tipo.
– Pete… quel ferretto non è mica di filo spinato, sai? Puoi andare oltre, se vuoi – lo incoraggiò, prendendogli la mano e portandosela sul seno.
Per qualche secondo lui la accarezzò, stringendo dolcemente quella morbida rotondità, quasi trattenendo il respiro e baciandole il collo e la spalla, riappropriandosi poi delle sue labbra mentre a Briz sfuggiva un lieve mugolio incontrollato.
 
bacio-spiaggia-Morghana
Fu a quel punto che Pete sollevò di scatto la testa e spostò la mano: le si tolse di dosso quasi a forza, ma aveva appena realizzato di non poter fare diversamente. Si alzò tirandola in piedi e, passandole un braccio attorno alle spalle e l'altro sotto alle ginocchia, la sollevò e cancellò in due falcate i pochi metri che li separavano dal mare.
Briz gli si aggrappò al collo, intuendo le sue intenzioni, e cacciò un urlo.
– Ma che cos...! –  ma capì immediatamente che sarebbe stato meglio chiudere la bocca: Pete la lanciò a mollo, prima di tuffarsi anche lui nell'acqua limpida e cristallina. Ad Atlas non parve vero: si alzò di scatto e corse anche lui fra le onde, sollevando una miriade di spruzzi; finalmente si ricominciava a giocare come piaceva a lui!
Briz riemerse sputacchiando, il contatto improvviso dell'acqua fresca sulla pelle, accaldata non soltanto dal sole, le aveva quasi tolto il fiato.
– Ma che cosa diavolo ti è preso?! – ansimò, scrollandosi i capelli dagli occhi.
– Briz, perdonami, ma... dovevamo calmare i bollenti spiriti, in qualche modo. Lo capisci, no? Non è il momento, e non è nemmeno il luogo, dai, non possiamo... farlo qui! Sarà anche un posto un po' infrattato, ma può arrivare chiunque da un momento all'altro.
A conferma di quelle parole, un gruppo di adolescenti comparve sul ciglio del terrapieno, ridendo, urlando e rincorrendosi. Molto probabilmente li avevano visti, perché si fermarono e un paio dei più grandi lanciò anche qualche fischio scanzonato. Briz arrossì un po’.
– Hai ragione, non abbiamo addosso abbastanza stoffa, per... giocare così – fu costretta a convenire – A meno che... tu non mi stia proponendo di fare un fugone adesso, subito, in questo preciso momento, fino agli alloggi – gli disse tra il divertito e l’imbarazzato.
Lui scosse la testa e le sfiorò una guancia.
– Bri, il fatto che adesso stiamo insieme davvero, non vuol dire che sia obbligatorio farlo in questo momento. Non voglio forzare la cosa, né avere fretta. Anche se ce l'ho...  – confessò con un sospiro, posando le labbra sulla sua fronte.
– Bel discorso, mi piace, di una coerenza totale. Io però ti ho fatto una mezza promessa, prima che partissi per Marte, ricordi? Che avresti avuto molto più… – commentò cingendolo in vita.
– Mi chiedo quanto fossi in te, in quel momento… Comunque, i tempi di questa cosa, li sceglierai tu, okay? Anche perché ormai, ci siamo impantanati con la cena e la festa sulla spiaggia. Ormai manca poco, e… ti immagini, se mancassimo, cosa ci toccherebbe sopportare in seguito?
– E così devo scegliere io, eh? Visto quanto mi hai fatto penare per due paroline, potrei decidere di fartela sudare, sai?
– E io suderò, cosa vuoi che ti dica? Da un lato so che lo desideri anche tu, ne ho avuto dimostrazione più di una volta; ma dall'altro non ho dimenticato che per te è un po' come se io... fossi il primo.
– Che bello, però: l'ultimo dei gentiluomini... è il mio.
– Su quest'ultima considerazione non c'è alcun dubbio – affermò Pete, appoggiando le labbra su quelle di Briz, che si schiusero accogliendo i suoi baci.
L'acqua fresca stemperò un po' il fuoco della passione, e il calore delle loro effusioni rimase ad un livello tollerabile, anche perché Atlas si intromise nuovamente: insomma, questi senzapelo, nemmeno nell'acqua riuscivano a staccarsi!
E poi… si resero conto che si era fatta davvero ora di rientrare…
Nel giro di un minuto, Pete si ritrovò a fissare sconsolato la sua neo-fidanzata che si allacciava la camicetta e si infilava gli stivali; ed era poco ma sicuro, che anche a lei era piaciuto di più vederlo spogliarsi, che rivestirsi. Risalirono dai cavalli, che li avevano aspettati pazienti, brucando e sonnecchiando all'ombra; sistemarono le selle e misero le loro cose nelle borse.
– Ci siamo un po' persi, mon capitain – esclamò Briz, riaccendendo lo smartphone e controllando l'ora – Abbiamo poco più di un'ora per tornare, sistemare i cavalli e renderci presentabili. Perché non so tu, ma io sento la pelle che tira per la salsedine e ho sabbia fin sotto al bikini: ho urgente bisogno di una doccia, prima di raggiungere gli altri.
Pete le si avvicinò, mentre lei era proprio in mezzo ai due animali. Le passò le braccia intorno alla vita e con aria sorniona le disse: – Sono le cose che capitano alle ragazzacce, quando si rotolano sulla spiaggia con qualcuno. Io però... invidio quella sabbia.
Briz gli spalancò in faccia gli occhi con un sorriso sorpreso e lui proseguì su quel tono, affondandole il viso tra i capelli: – Ci farebbe risparmiare tempo farla insieme, la doccia?
– Ehi! – si riscosse lei, ridendo e respingendolo giocosamente – A parte che, no, non ci farebbe risparmiare tempo, anzi! E poi... dov'è andato a finire il gentiluomo, è già sparito? Hai detto che decido io, su questa cosa, no?
– Uhm... Mi sa che mi sono scavato la fossa da solo – brontolò lui.
– Eh, può darsi. E comunque, siccome io sono solo una fanciullina, e non ho la tua esperienza sull'argomento, – disse battendo le ciglia e facendogli gli occhioni – non ho nessuna voglia di cominciare col farlo strano. Andiamo per gradi, ti prego.
– Andiamo per gradi – concordò lui, sottovoce, attardandosi ancora un attimo per sbaciucchiarsela un altro po', cosa che a lei non dispiacque per nulla.
Ad Atlas invece sì, che però si sedette e aspettò paziente, sbattendo stancamente la coda sull'erba, come rassegnato al fatto che, da quel giorno, si sarebbe dovuto abituare a scenette del genere. Pete si accorse dello sguardo insofferente del cane e si staccò appena da lei; entrambi ridacchiarono divertiti poi, anche se a malincuore, sciolsero il loro abbraccio per salire a cavallo.
– Farlo strano suona interessante, però – commentò Pete.
– Pete, bastaaa! – rise Briz, lanciandogli un'occhiata pungente da sopra la spalla, con le guance a fuoco, per poi avviarsi al passo davanti a lui, seguendo uno scodinzolante Atlas.
Più avanti scesero sulla striscia di spiaggia che portava dritto al Centro e lanciarono i cavalli al galoppo. Briz fermò le briglie lente al pomo della sella e si sollevò sulle staffe, levò le braccia verso il cielo e, con i capelli al vento, si lasciò sfuggire un urlo squillante, nel quale erano amalgamati, in parti uguali, spensieratezza, felicità e trionfo.
Quando il suo sfogo si spense e si rimise seduta, rallentando il cavallo, Pete non poté fare a meno di ammirare quel sedere perfetto, appoggiato sulla sella di Indy e fasciato dai vecchi jeans lisi. Non che fosse la prima volta, che i suoi occhi indulgevano in tale piacevole attività…
Spronò Obi-Wan e le si affiancò; Briz lo osservò per alcuni istanti, bellissimo e rilassato, mentre le sorrideva, e ricambiò il sorriso, divertita dal fatto che Pete non potesse conoscere i suoi attuali pensieri.
"Puoi stare sicuro di una cosa, amore mio: te la farò sudare, ma molto meno di quanto pensi. La festa non durerà mica tutta la notte, e non ho più intenzione, da oggi, di dormirci e basta, in un letto con te! Ma se credi che te lo dirò adesso, stai fresco!"
 
> Continua…


Serve salvagente, braccioli, un materassino gonfiabile? Un'iniezione di insulina? No? Siete sopravvissuti a tutto questo mix di miele, melassa e zucchero? Bene, perché ce ne sarà dell'altro! 🍭🍬🍮🍯🍩🧁🍡🍫

Piccole note su due disegni:
L'ultimo è opera della mia amica Mirella, e io lo adoro: grazie cara! <3

Il primo invece, quello di Briz in bikini, è come al solito mio, fatto nel 2023, ed è dedicato a The Blue Devil. Devil, se ti piace, raccogli la mandibola da terra, asciugati la bavetta e sta' in occhio, che sto preparando altro per te ;) Se non ti piace... beh, va' nei frati, non so che altro dirti dirti  XD XD XD

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Capitolo 47
*** 46 - Non siamo eroi ***


~ 46 ~
NON SIAMO EROI
 
“I was broken,
I was choking,
I was lost,
This song saved my life
I was bleeding
Stop believing
Could have died
This song saved my life
I was down, I was drowning,
But it came on just in time
This song saved my life”.
(This song saved my life – Simple Plan)

 
 
 
Per Fabrizia e Pete, arrivati al piano degli alloggi dei ragazzi, salutarsi a cavallo delle porte dell’ascensore fu qualcosa a metà tra il comico e l’impresa disperata, finché, tra un bacio, una spinta e una risata, Briz decise di imporsi sul serio e riuscì a spingere Pete sul pianerottolo e a richiudere le porte scorrevoli.
Giunta alla Piccionaia, invece di dirigersi in camera sua si ritrovò a bussare come una forsennata alla porta di Jamilah; ad aprirsi fu invece quella di Midori, dalla quale anche l’amica mulatta fece capolino.
– Sono qui, Briz, sto aiutando Midori a prepararsi per stasera. Che diavolo succede?
Briz si precipitò nella stanza dell’amica, che tutto sommato stava piuttosto bene, e le due ragazze la guardarono perplesse.
– Che hai combinato, si può sapere? Dovresti andare anche tu a sistemarti un po’! – la esortò Jami, osservando con aria critica i jeans strappati, la camicetta stropicciata e il naso e le guance lievemente arrossate dal sole.
Fabrizia era incredibilmente agitata, rideva, gesticolava e sembrava non riuscire a trovare le parole, cosa decisamente inusuale, per lei. Così Midori le afferrò un braccio con la mano libera dal gesso e la fulminò con aria interrogativa.
– Datti una calmata e respira! Che succede?
Briz prese fiato e, soffocando un’ultima risata e portandosi la mano destra alla bocca, sollevò quella sinistra, con le dita aperte, mostrando alle amiche il diamante che brillava all’anulare.
Le due ragazze si zittirono di colpo, quando compresero.
– Ce l’ho fatta! – esplose Briz, fuori di sé dalla gioia – che Dio mi aiuti, non riesco ancora a crederci, mi sento come se il cuore stesse per scoppiarmi… ma ce l’ho fatta!
Per qualche minuto fu sommersa dalle risate e dalle congratulazioni di Jamilah e Midori, e dagli abbracci e dalle loro domande più o meno impertinenti che cominciarono ad accavallarsi, finché Jami le disse:
– Avevi ragione tu, dopotutto: non ti è servito un vestito, né altre stupidaggini e frivolezze… ed è giusto così.
– Ecco, a questo proposito, – disse Briz – c’è un motivo per cui ti stavo cercando: il vestito nero. Ti prego, Jami, prestamelo!
Le altre due si guardarono stranite, ma si resero conto che non era poi così assurdo che Briz volesse apparire più bella e femminile di quanto non avesse mai fatto, proprio ora che il cuore del capitano Richardson le apparteneva senza remissione.
La ragazza prese l’abito e, dopo aver ringraziato e salutato le amiche, si fiondò nella propria stanza per sistemarsi.
Più tardi si guardava allo specchio con aria soddisfatta anche se, in realtà, l’unica cosa sulla quale il suo sguardo si soffermava continuamente era l’anello. Oddio, l’anello! Non riusciva ancora a farsene una ragione, ma c’era una parte di lei che le diceva di scendere di un piano, piombare nella stanza di Pete e che andassero tutti a farsi friggere! Tanto, alla festa, avrebbe finito per non mangiare niente, di certo non aveva intenzione di sfinirsi a ballare, che nemmeno le piaceva, e tantomeno di dare spettacolo cantando. E se qualcuno, il giorno dopo, li avesse presi in giro a morte con battutine e insinuazioni… beh, okay! Tanto sarebbe successo comunque, già lo sapeva, e andava anche bene, visto quanto lei stessa aveva tormentato le sue amiche e i loro fidanzati.
Se non che, il pensiero di rivedere Yock e Lyra, conoscere Solange e, soprattutto, mostrare il diamante a Daimonji e agli amici, mise un freno a tutto: avevano una famiglia, in fondo. Non che ci tenesse particolarmente a fare annunci ufficiali o cose simili, ma sapeva che non potevano, né lei, né Pete, esimersi da tutto ciò; avevano tutto il resto della vita, da passare insieme.
Cavoli, avevano vinto la guerra, la Terra era salva e la festa ci stava eccome!
Mentre, assorta, si spazzolava i capelli, un ricordo le affiorò alla mente: un altro anello, una semplice fede piatta, di oro giallo, con inciso sopra un drago il cui corpo serpeggiava per tutta la superficie del gioiello: l’anello di Alessandro. Era un regalo della mamma per il suo quindicesimo compleanno, pochi mesi prima che la sua malattia se la portasse via, col quale aveva voluto assecondare la passione del figlio per i romanzi fantasy. Perché le veniva in mente proprio ora? Quell’oggetto era andato perduto con la morte di Ale, nella distruzione della loro casa; non ricordava di averlo mai più visto da allora.
Eppure… qualcosa continuava a frullarle nella mente, anche mentre si sedeva sul letto e si chinava per allacciare i sandali: Ale, nel loro ultimo, soprannaturale incontro, non le aveva forse detto qualcosa, prima di dissolversi nella luce del tunnel?
Rimosse il pensiero: era ora di smettere di pensare a qualcosa che forse non era nemmeno accaduto, e a un passato che non sarebbe più tornato. Aveva un futuro da affrontare, e la fortuna immensa di non doverlo più fare da sola.
Senza porre altro tempo in mezzo, si decise a scendere sulla spiaggia, dove avrebbe trovato gli amici e anche il suo fidanzato. Oh, mammina, il suo fidanzato! Suonava davvero strano, ma un’altra occhiata al diamante la convinse che, dopotutto, il termine era proprio quello giusto!
Arrivò sulla spiaggia pensando di essere l’ultima, o quasi, invece trovò solo Yamatake che si lamentava, con Pete, del fatto che Bunta e Fan Lee non fossero ancora arrivati ad aiutarlo con il fuoco per la grigliata.
I due si girarono nel sentirla arrivare e rimasero a bocca aperta.
Il lottatore di sumo, in bermuda e camicia hawaiana sgargiante, si lasciò sfuggire un fischio, nel vederla andar loro incontro. Pete, invece, si limitò a perdere l’uso della parola per poi rivolgerle un sorriso vagamente ebete… un po’ come quello di lei, insomma.
– Ohi, Richardson – se ne uscì poi Yamatake – quando l’hai vista ieri sera hai rischiato di ingoiarti una mosca, adesso stringi un po’ gli occhi, o ti cascheranno per terra! Che poi… mi sa che l’hai già vista in versione meno vestita. Si vede lontano un miglio che avete… chiarito, dico bene?
Chissà che diavolo avete fatto oggi pomeriggio! – insinuò malizioso.
– Niente di quel che pensi, depravato, ma, se anche fosse, non verrei certo a raccontarlo a te! – si riprese Pete, ironico – Come dici tu, abbiamo chiarito e risolto parecchie questioni.
– Niente di quel che penso, eh? Effettivamente ho sempre pensato che tu non sia del tutto a posto, capitano. Ma guardala: è uno spettacolo!
– Meno male che ci sei a tu a farmi notare queste cose, Yamatake! – scherzò Pete, sorvolando sulle battute e sull’espressione compiaciuta dell’amico, che si sentiva come se fosse merito suo, se la loro relazione aveva finalmente preso la direzione giusta.
Effettivamente Pete si era sentito la bocca secca e le orecchie diventare incandescenti, alla vista delle lunghe gambe di Briz, lasciate scoperte dalla gonna ampia dell’abitino di pizzo, della scollatura tonda, che faceva risaltare le curve delle spalle e del seno, e del volto leggermente truccato. Ai piedi calzava dei sandali neri senza tacco, composti di sottili stringhe di cuoio incrociate, e le unghie rosa shocking risaltavano piacevolmente con quel look total black. Definirla bellissima sarebbe stato poco, era persino più intrigante che in bikini: quella fila di bottoncini luccicanti, che correva dalla scollatura fino all’orlo della gonna arricciata, gli aveva scatenato nella mente qualche fantasia irripetibile a terzi.
 
Briz-vestito 
 
Più o meno come quelle che erano passate per il cervello di Fabrizia, nel vedere Pete con indosso una camicia blu scuro, come sempre con i primi bottoni slacciati.
 
Pete-Morghana-3d

 
 
Nemmeno a dirlo, stava da Dio, anche perché alla camicia scura aveva abbinato dei jeans bianchi. Ora, diciamolo pure, Briz non capiva un emerito accidente di moda, ma era dell’opinione che i jeans bianchi fossero un capo impegnativo: in pochi potevano permettersi di portarli con classe e disinvoltura, e Pete… decisamente era uno di quei pochi.
Yamatake andò ad abbracciare Briz, le stampò un bacio sulla fronte e le sussurrò: – Missione compiuta, piccoletta?
Lei gli mostrò la mano col diamante al dito e gli rispose: – La più difficile che io abbia affrontato, ma ne è valsa la pena.
Yamatake guardò, ammirato e commosso, l’anello scintillante, per poi abbracciarla di nuovo.
– Lo sai che a me piace scherzare, stare tra i piedi, fare lo scemo e il malizioso, e spero che me ne scuserai… ma sono molto, molto felice per voi, sappilo.
– E io sono contenta di avere tra i piedi un impiccione scioccone come te: sei un grande amico, Yamatake!
– Sì, direi che grande è proprio l’aggettivo giusto! – rise lui, per poi spingerla tra le braccia di Pete e tornare ad occuparsi del fuoco per la grigliata, non prima di aver lasciato a lui una pacca sulle spalle che solo per miracolo non lo stese.
– Disgraziato! – lo redarguì Briz, fingendosi indignata – mi vuoi rompere il fidanzato già il primo giorno?
– È bello robusto, funziona ancora, tranquilla! – replicò il lottatore, facendoli avvampare entrambi e tornando ad occuparsi di braci e graticole.
Pete se la strinse ridendo fra le braccia, incurante dell’amico che li sbirciava e che, finalmente, se ne stette zitto. Non per molto, naturalmente: man mano che, un po’ alla volta, arrivavano tutti gli altri, il giovanottone comunicò senza alcun pudore – senza quindi smentire ciò che aveva detto poco prima di sé stesso, anzi rafforzando il concetto – quello che tutti sospettavano, o meglio sapevano, già da tempo.
Non solo nessuno si stupì, ma tirarono tutti un sospiro e fecero quasi la fila per congratularsi con loro e ammirare l’anello di Briz.
Agli occhi dei loro compagni, Briz e Pete erano una coppia da molto prima di quanto loro stessi pensassero; a Midori non sfuggì la scintilla che brillava nei loro occhi: lei l’aveva già vista, quindici mesi addietro, quando i due si erano guardati negli occhi per la prima volta, senza conoscersi ancora e prima di cominciare a dirsene di tutti i colori.
Mentre addentava un gustoso spiedino di pesce – alla fine si era accorta di avere fame, e neanche poca – Briz studiò Bunta, che non aveva lasciato un attimo il fianco di Solange, la sua carinissima fidanzata bionda, insieme alla quale era arrivato poco prima da Yokohama. Piccolina, con uno sbarazzino taglio corto di capelli e lievemente formosa, la giovane biologa francese si era conquistata in un attimo le simpatie di tutti.
Poi Briz si soffermò su Hakiro, invitato da lei stessa per far sentire a proprio agio i due ragazzi zelani, Yock e Lyra, giunti anche loro poche ore addietro insieme a Daimonji. Briz si complimentò con sé stessa per l’idea, quando vide che, nel giro di pochi minuti, Hakiro era stato letteralmente accalappiato e conquistato dalla bella ragazzina aliena la quale, insieme al fratello, si sarebbe riunita, nel giro di alcuni giorni, alla comunità zelana in arrivo sulla Terra.
Fra i componenti dell’equipaggio si aggiravano anche molti dei dipendenti del Centro di Ricerche, dai tecnici agli impiegati, e anche Leiji e Nagai, i capi delle guardie, sembravano quasi spaesati all’idea, per quella sera, di non doversi occupare della sicurezza.
La notizia che la guerra contro l’Orrore Nero era finita, rimbalzava incessante per tutto il pianeta dal giorno precedente e, dopo le prime ore di smarrimento dovute al fatto di dover metabolizzare l’avvenimento, in ogni parte del Globo si festeggiava ormai da ore, giorno o notte che fosse; e a Omaezaki, giustamente, non si era da meno.
Qualcuno, quel pomeriggio, si era occupato di tirare sottili cavi tra i pini che delimitavano quella parte di spiaggia, ai quali erano state appese, all’arrivo dell’imbrunire, decine di lanterne di carta e catene di lucine multicolori.
Sakon e Jamilah si erano occupati di finire di allestire gli impianti per la musica, già sapendo che, se proprio a qualcuno fosse venuta voglia di cantare, di certo non sarebbero stati loro due: tra tutte le sue doti, l’ingegnere non possedeva quella di essere particolarmente intonato, proprio come la sua compagna, dalla quale non riusciva a distogliere gli occhi.
La notte precedente, nonostante la stanchezza, avevano finito per fare di nuovo l’amore, stavolta in modo molto più lento e dolce, senza la paura addosso di poter morire in tempi brevi e, anzi, felici e consapevoli di avere un futuro da pianificare insieme. A questo proposito, dopo, avevano passato ore a dormicchiare e parlare, e Sakon aveva finito per esternare quel pensiero che gli ronzava dalla sera precedente.
– Non abbiamo preso uno straccio di precauzione, su Marte… – aveva esordito.
– Davvero? Ma cosa mi dici mai? – lo aveva preso in giro Jami – sai com’è, anche su Marte a quell’ora le farmacie erano chiuse…
Sakon era scoppiato a ridere, visto che la sua ragazza pareva aver preso la faccenda con molta filosofia, e a lui non era rimasto altro che fare altrettanto: se fosse stato destino, nel giro di poche settimane se ne sarebbero accorti.
Alle prese con gli ultimi cavi da collegare agli amplificatori e ai microfoni, si avvidero di un nutrito gruppo di persone che avanzava lungo la spiaggia, anche loro portando attrezzature per la musica. Probabilmente erano gli abitanti dei dintorni, che avevano avuto la loro stessa idea: c’erano moltissimi giovani, ma anche qualche famiglia con bambini e ragazzini, che fecero per allontanarsi nel vedere che quella zona della spiaggia era già occupata. Briz e Jamilah, invece, corsero loro incontro dicendo che, se gli avesse fatto piacere, avrebbero potuto unirsi alla loro festa.
Un giovanotto, che sembrava essere uno degli organizzatori della serata, non ci mise molto a riconoscere i componenti dell’equipaggio del Drago Spaziale nonostante non indossassero le divise, e si mostrò intimidito all’idea di intromettersi nei loro festeggiamenti, ma Briz e le amiche insistettero, coinvolgendo anche il dottor Daimonji e infine tutta la truppa. Se c’era una cosa di cui tutti loro avevano bisogno in quel momento, era la normalità, sentirsi persone come tutte le altre e non guerrieri, tantomeno eroi. In fondo non c’era nulla di esclusivo, in quella festa in riva al mare: si era tra amici.
Le musiche più conosciute e i tormentoni estivi degli ultimi anni cominciarono a risuonare dopo un po’, a volume piuttosto alto, disperdendosi verso il mare e il cielo.
Alla fine, su istigazione di Jamilah, Solange e Hakiro, che tentava in ogni modo di fare colpo su Lyra, Briz si era persino ritrovata a ballare, scoprendo che, almeno con la musica da discoteca, non le veniva poi così male, anzi era davvero divertente! Si impose di rimuovere il pensiero di dover imparare a ballare cose più impegnative, in futuro.
Midori, impedita dall’ingessatura, se ne era rimasta a guardare gli amici che si divertivano seduta sulla sabbia, accoccolata tra le braccia di Sanshiro, scambiando chiacchiere con Sakon, Pete e altri giovani appena conosciuti. Una ragazza di questi ultimi, osservando dispiaciuta il suo braccio ingessato e il polpaccio con la medicazione lasciata scoperta dalla gonna corta, disse:
– Capisco che ballare non faccia per te, per ora, ma qualcuno prima mi ha detto che canti bene, verresti un po’ al karaoke?
– Chi sarebbe la spia in questione? – chiese lei, tutto sommato tentata dall’idea.
– Le tue amiche: la ricciolona mora con gli occhi azzurri e l’altra alta con la ciocca bianca, che… insomma, ma davvero sono un ingegnere aerospaziale e la pilota di Balthazar?
– Sì, eccome, se lo sono! Ma ciò non le risparmierà dalla mia vendetta! Adesso le sistemo io – fece Midori, raggiungendo Jamilah zoppicando lievemente e afferrandola per un braccio con la mano sinistra.
Poi si diresse verso i microfoni sistemati su una pedana improvvisata e, lungo il percorso, lasciò Jami sospingendola, prendendo bruscamente sottobraccio Fabrizia; manovre che, nonostante il gesso, le riuscirono perfettamente.
– Dori, ma cosa diavolo… – cominciò Briz.
– Muoversi, tutte e due! Se devo fare una figuraccia, la condivido con voi due scellerate! – la chiuse lì Midori.
Fabrizia si rassegnò, chiedendosi cosa avrebbe tirato fuori la sua amica che, come non bastasse, chiamò a raccolta gli amici e i fidanzati sotto al palchetto.
La canzone che apparve sul monitor le piaceva, peccato che sarebbe stata un disastro, con Jamilah al microfono: con lei, la figuraccia non sarebbe stata un’ipotesi, ma una certezza! Ma in fondo, pensò poi, che problema c’era? Erano lì per ridere e divertirsi.
La musica attaccò: la canzone era Sky, di Sonique. Midori cantò la prima strofa e Briz la accompagnò nel ritornello, notando che Jami, molto saggiamente, faceva il pesce, ovvero muoveva la bocca senza emettere suono. A Briz toccò la seconda strofa e, quando attaccò il ritornello, tremò nel sentire che, insieme a quella di Midori, anche la voce di Jami si univa alla sua. Era un po’ incerta, è vero, ma non era stonata: era evidente che, seguendo qualcuno intonato, anche lei riusciva a cantare decentemente.
Quanto al testo, quelle parole la dicevano lunga:
 
“Voglio toccare il cielo, voglio volare così in alto,
Voglio stringerti, voglio amarti stanotte,
Voglio toccare il cielo, voglio volare così alto,
Voglio esaudirti, voglio farti piangere…”
 
https://m.youtube.com/watch?v=7hY-BSpANyw&pp=ygULc2t5IHNvbmlxdWU%3D
 
E così fu anche palese a tutti chi fossero i compagni delle cantanti, perché quelle parole furono cantate con un amore e una passione che trasparivano inequivocabilmente dalle mani tese verso di loro e dagli sguardi, intensi e caldi, incollati sui tre giovani che, a loro volta, uno a fianco all’altro, le guardavano esterrefatti pendendo dalle loro labbra.
Quando il ritornello attaccò per l’ultima volta, Midori e Briz fregarono Jami su tutta la linea, tacendo di colpo e lasciandola andare da sola.
La ragazza non si fece prendere in contropiede e la sua performance non fu perfetta, ma nemmeno un disastro: Sakon la apprezzò tantissimo. Quanto a Sanshiro e Pete, erano lì, un po’ felici e un po’ imbarazzati, ad ammirare le loro ragazze che, insieme a Jami, terminavano la canzone.
Midori e Jami, poi, raggiunsero i rispettivi fidanzati in mezzo agli altri e Briz si ritrovò da sola su quel palchetto improvvisato.
– Dai, Pete, tocca a te, adesso! – fece, tendendogli una mano, mentre la luce di un faretto appena acceso, puntato su di lei, strappava un bagliore al diamante.
– No, Bri… – tentò di protestare lui, ma Sanshiro e Sakon lo stavano già sospingendo verso il microfono, spalleggiati da Jami e Midori.
Il volto raggiante di Briz, che gli tendeva la mano con quell’anello scintillante, lo fece capitolare abbastanza in fretta e gli diede l’idea di cosa cantare.
Briz fece per allontanarsi, ma lui le passò un braccio attorno alla vita e la inchiodò accanto a sé, con uno sguardo che avrebbe fuso un iceberg, mentre sceglieva un titolo sul computer.
La canzone era “This song saved my life”, dei Simple Plan“Questa canzone mi ha salvato la vita”.
Pete cominciò a cantare e Briz, che conosceva benissimo quel pezzo, si rese conto che il testo aveva punti che rispecchiavano perfettamente i trascorsi e gli stati d’animo che avevano caratterizzato Pete fino a non molto tempo prima. E mentre si perdeva nel suono della sua bella voce, si rese conto che questo delinquente aveva cambiato una parola importantissima nel ritornello: aveva sostituito song… con girl!
 
“Voglio iniziare facendoti sapere questo:
Grazie a te la mia vita ha uno scopo,
Mi hai aiutato ad essere quel che sono oggi,
Mi rivedo in ogni parola che dici…
Sto passando attraverso tante cose,
Ma non sarei qui se non fosse stato per te…
A volte mi sembra che tu mi conosca da sempre,
Sai sempre come farmi sentire meglio
[…]
Grazie a te io e mio padre siamo più vicini che mai.
Ero distrutto,
Stavo soffocando,
Ero perduto…
Questa ragazza mi ha salvato la vita.
Stavo sanguinando,
Avevo smesso di credere,
Sarei potuto morire…
Questa ragazza mi ha salvato la vita.
Ero depresso,
Stavo annegando,
Ma lei è arrivata giusto in tempo…
Questa ragazza mi ha salvato la vita…”
 
https://m.youtube.com/watch?v=VrTNXF741fE&pp=ygUjdGhpcyBzb25nIHNhdmVkIG15IGxpZmUgc2ltcGxlIHBsYW4%3D
 
 
La canzone giunse al termine e Pete aggiunse: – Questa ragazza mi ha salvato davvero la vita, e più di una volta; in senso materiale e anche metaforico. Ti amo, Bri Cuordileone – concluse con una spontaneità che stupì prima di tutto sé stesso.
Briz lo fissò sconvolta: era davvero successo? Pete le aveva detto Ti amo davanti a tutta quella gente? Cosa poteva mai rispondergli, adesso?
– Maledizione, Richardson, è perché vuoi sentirti rispondere che anche tu mi hai salvato la vita, e che anch’io ti amo? Beh, lo sai che è così! – rispose cercando di fare la spavalda, ma la voce le si spezzò sul più bello – E adesso che mi hai fatta piangere, sei contento? Che mi si rovina tutto il trucco, sciagurato! – concluse lei, ridendo ed effettivamente piangendo in contemporanea. Lui le asciugò una lacrima e le lasciò un bacio su una guancia.
– Lo sai già che mi piaci lo stesso… – le disse sottovoce all’orecchio, mentre Yamatake dava il via agli applausi e rincarava con un paio di fischi.
Briz guardò i loro amici, che erano radunati lì in prima fila, e pensò che solo alla sua famiglia e ai Del Rio aveva voluto, e voleva, tanto bene quanto a loro. Cliccò una voce sul computer e apparve il titolo di un’altra canzone.
– Uhmm… è scoppiata la sindrome “Un dollaro per cominciare e dieci per smettere”, eh? – la prese in giro Pete, cogliendo in un attimo il nesso con il brano scelto e con un’unica obiezione – Adoro questa canzone, ma la mia voce non somiglia per niente a quella di Elton John.
– Non deve, infatti: la tua voce va benissimo com’è, l’importante è il testo e lo sai – si rivolse poi ai loro spettatori – Ci siamo resi conto ora che questa canzone, “Chosen Family”, cantata in originale da Rina Sawayama ed Elton John, rispecchia molto ciò che noi due siamo ora, ma anche ciò che è per noi l’equipaggio del Drago Spaziale. Un anno fa eravamo solo compagni di battaglia, poi siamo diventati amici, ma ora… siamo fratelli! A loro, e all’uomo che è praticamente un padre, la dedichiamo. Grazie, dottor Daimonji, per averci scelti, capiti… e, lo sappiamo, anche amati.
Inutile dire che il brano, pur nella versione personalizzata dalle voci di Pete e Fabrizia, commosse lo scienziato e i loro amici; Yamatake si ritrovò persino vicino alla lacrimuccia, e forse anche qualcun altro…
 
 
“Raccontami la tua storia e io ti racconterò la mia
Sono tutt'orecchi, prenditi il ​​tuo tempo, abbiamo tutta la notte
Mostrami i fiumi attraversati, le montagne scalate
Mostrami chi ti ha fatto camminare fino a qui
ooh
Mettiti comodo, metti giù le valigie
ooh
Stai bene ora
Non abbiamo bisogno di essere imparentati per relazionarci
Non abbiamo bisogno di condividere geni o un cognome
tu sei, tu sei
La mia famiglia prescelta, prescelta
Che importa se non abbiamo lo stesso aspetto?
Abbiamo passato la stessa cosa, sì
tu sei, tu sei
La mia famiglia prescelta, prescelta
Passami una penna e riscriverò il dolore
Quando sarai pronto, voltiamo pagina insieme
Apri una bottiglia, è tempo di festeggiare
Chi eri, chi sei
Siamo la stessa cosa, sì
Non abbiamo bisogno di essere imparentati per relazionarci
Non abbiamo bisogno di condividere geni o un cognome
tu sei, tu sei
La mia famiglia prescelta, prescelta
E se non abbiamo lo stesso aspetto?
Abbiamo passato la stessa cosa, sì
tu sei, tu sei
La mia famiglia prescelta, prescelta
ho scelto te
Hai scelto me

Ho scelto
Famiglia scelta
ho scelto te

Hai scelto me
Stiamo bene ora”
 
 
https://m.youtube.com/watch?v=GTDRg5G77x4
 
 
– Adesso basta, però – annunciò Briz, quando le ultime note si spensero – che sto per piangere di nuovo!
Ma un ragazzo si diresse verso di loro con tutta l’aria di avere una richiesta, e Briz si preparò ad affrontarla con un deciso no! Via, avevano dato abbastanza spettacolo, per quella sera! Che salisse qualcun altro a farsi compatire
Invece, il ragazzo voleva addirittura un discorso, dai loro eroi, come li aveva appena appellati.
– A-ha, io mi chiamo fuori… è la signorina qui, quella con la parlantina sciolta – disse Pete, facendosi da parte e indicando Fabrizia.
– Scusa, ma perché proprio io, sono la meno indicata, come minimo ci vuole Doc! Chi sono io, ma andiamo! – protestò lei.
– Veramente il Capitano Richardson ha appena detto esattamente il contrario; non vedo perché non dovremmo credergli… – la contraddisse il giovane sconosciuto che l’aveva bloccata lì.
– Oggesù, pure questa mi deve toccare… E va bene, ci proverò… Basta che vi accontentiate di poco – aveva cominciato con un sospiro.
Partì una musica di sottofondo, in cui lei riconobbe il pezzo finale del terzo film della saga di Star Wars“Il ritorno dello Jedi”, quando i protagonisti festeggiano la vittoria contro l’Impero Galattico sulla Luna di Endor, nel villaggio degli Ewoks, i loro piccoli alleati pelosi; un brano allegro, tutto percussioni, tamburelli e voci corali, composta dal mitico John Williams.
– Beh, hai scelto proprio la musica giusta – aveva detto per prendere tempo, per poi rendersi conto che qualcosa doveva pur tirare fuori…
Non aveva idea di cosa volessero sentirsi dire queste persone… ma persino il dottor Daimonji le fece un sorriso di incoraggiamento. E così, all’improvviso, le balzò alla mente ciò che le aveva detto Pete la notte di Capodanno circa la gente che, nonostante la guerra, lanciava fuochi artificiali e nutriva speranza in un futuro… e anche quello che lei aveva detto a Jessica, in Italia, quando aveva visto la sua casa ricostruita e aveva saputo dei progetti per farne un Bed & Breakfast.
– Ragazzi, io non so bene che cosa mi verrà fuori… e qualcuno pagherà per questo – aveva precisato, lanciando un’occhiata assassina a Pete, che aveva ricambiato con un sorriso furbo che sembrava dire “Non vedo l’ora” – …ma ci tengo a farvi sapere che, se questa sera siamo qui tutti insieme, non è perché siamo degli eroi. Noi siamo persone esattamente come voi, alle quali è capitato uno strano destino, ma io credo che… gli eroi, quelli veri, siano ben altri. Perché non riesco a chiamare in nessun altro modo, se non eroismo, quello di chi, nonostante ciò che stava accadendo al nostro pianeta, ha continuato… non so… ad andare al lavoro, a scuola, a fare la spesa e le faccende quotidiane; chi, pur non sapendo come sarebbe finita, non ha rinunciato a innamorarsi, a sposarsi, a fare bambini; chi ha continuato, malgrado tutto, ad alzarsi ogni mattina e a fare il proprio dovere… e a vivere! Chi non si è arreso e, in questo modo, ha dimostrato a noi che valeva la pena, di fare quello abbiamo fatto! E ciò significa che… voi, siete gli eroi! Voi, che avete creduto in noi sempre, ogni giorno! Grazie, dal profondo del cuore!
La musica si stemperò nel classico tema finale di Star Wars e Briz si affrettò a concludere: – Titoli di coda, gente! Qui finisce… e di qui ricominceremo! L’Orrore Nero è caduto! Evviva l’Alleanza Terrestre!1
Con quell’ultimo augurio mollò definitivamente il microfono e andò a prendersi da bere, lasciando il posto ad altri che si appropriarono della postazione del karaoke.
Cercò Pete con lo sguardo, in mezzo alla piccola folla, ma non riuscì a individuarlo; sicuramente era stato monopolizzato da amici vecchi e nuovi, o probabilmente da qualche ragazzetta intraprendente che tanto non avrebbe avuto nessuna speranza, pensò con un sogghigno.
Così bevve l’ultimo sorso di Coca-Cola, prima di togliersi i sandali e dirigersi verso il mare: l’acqua ancora tiepida le lambì i piedi, mentre la musica della festa arrivava attutita fino a lei.
Se ne stette un po’ lì, a guardare il meraviglioso riflesso che la falce di luna dava di sé stessa, increspato dalle piccole onde; mosse i piedi nell’acqua, meditando sulla sua prossima mossa, e sorrise tra sé. Non c’era un granché da meditare, in realtà: adesso sarebbe andata seriamente alla ricerca del suo bel fidanzato e, cercando di non farsi notare troppo dai presenti, lo avrebbe convinto, sicura di non dover faticare troppo, a svignarsela da lì.
Era ora, decisamente: okay fargliela sudare, ma lui sembrava fin troppo intenzionato a mantenere ciò che le aveva promesso e a fare davvero il signore! A quel punto era lei, quella che cominciava a sudare!
Stava per risalire verso la festa, quando una figura non troppo alta si diresse verso di lei, correndo in modo un po’ sconclusionato, reggendo qualcosa a tracolla: le sfuggì un mezzo gemito, quando si rese conto di chi fosse.
– Non è possibile! Ippei? Lo scribarolo rompiballe con tutto l’ambaradàn fotografico? Sei riuscito a imbucarti fin qui, razza di scocciatore che non sei altro? – sbottò esasperata.
Il giovane giornalista smilzo e occhialuto la fissò per un attimo, poi si guardò alle spalle, impaurito.
– Oh, no, sono circondato! – esclamò, mentre dietro di lui arrivava, con molta più flemma e rilassatezza, il Capitano Richardson, che lo apostrofò con sarcasmo.
– Piantala di crederti così importante, scribacchino, non è a te che corro dietro, ma a lei: è tutta la sera che, con una scusa o con l’altra, me la soffiano continuamente da sotto il naso! – spiegò, raggiungendo la ragazza e prendendola per mano – A proposito, carino il tuo discorso, Bri.
– Oh, taci, ti prego, non so cosa diavolo si aspettassero, e tutto per colpa tua!
– Bene, attendo la tua tremenda vendetta…
Ippei Hondo guardò le loro dita intrecciate e non riuscì a tacere.
– Visto che avete fatto pace? Che vi dicevo ieri?
I due si guardarono per un attimo, persuasi del fatto che se non lo avessero accontentato in qualcosa, questo tizio avrebbe rotto loro le scatole per l’eternità.
– E va bene, pseudo-paparazzo dei poveri, – esclamò Briz – ci hai sgamati anche tu! Cosa vuoi da noi?
– Ecco, circa il discorso che ha fatto prima, Comandante… posso pubblicarlo?
– Se proprio ci tieni… – concesse lei; non le era sembrato poi tutta questa originalità – E… puoi darmi del tu, saremo più o meno coetanei.
Ippei si avvicinò, le fece un accenno di inchino e, con aria compita e solenne, le prese la mano sinistra e osservò il diamante che brillava alla luna.
– Questo non c’era, ieri pomeriggio: me lo avevi fatto notare alquanto impetuosamente. Eroi o meno, il tempo per innamorarvi, fidanzarvi e quant’altro, lo avete trovato anche voi, pare.
– E… quindi?
– Qualcosa devo pur pubblicare, per tenermi questo straccio di lavoro in attesa di trovare di meglio… e non voglio scrivere bugie: ditemi com’è cominciata fra voi due, anche poche parole, e mi accontenterò.
– Hai detto niente! – esclamò Pete, ironico – È una lunga storia, ci vorrà tutta la notte, e, vista la chiacchiera della mia ragazza, forse anche qualcosa di più!
– Ohhh, ma non se ne parla proprio! – replicò Briz, che aveva ben altro in mente, per quella notte – Apri le orecchie e sta’ a sentire, imbrattacarte, che per una volta sarò sintetica: ci siamo conosciuti per caso, ci siamo odiati per sbaglio, siamo diventati amici per forza, ci siamo salvati la vita per necessità, abbiamo fatto i fidanzati per finta e ci siamo baciati per gioco. E alla fine… molto alla fine, purtroppo, abbiamo dovuto ammettere che ci eravamo innamorati sul serio. E non c’è altro da aggiungere, perché ufficialmente, come avrai capito, tra noi due è cominciata oggi. Amen. Cerca di averne abbastanza, perché non ho molta voglia di raccontarti altro che possa finire su un giornaletto gossipparo da quattro soldi!
– Dimmi solo un’altra cosa e giuro che poi me ne vado: che programmi hai per la tua prossima vita?
Briz ci pensò su qualche secondo, guardò Pete, poi sparò, con la massima convinzione: – Uhm, dopo tutto quello che abbiamo passato, direi… essere felice da fare schifo! Può andare?
Ippei scoppiò a ridere, sembrando ancora più giovane.
– Beh, Comandante Cuordileone, credo davvero che sia perfetto! Un ottimo programma! Grazie infinite e buon proseguimento, eroi vostro malgrado! – e così dicendo, il ragazzo fece loro un altro educatissimo inchino, voltò loro le spalle per tornare dove la festa continuava, ma, mentre si allontanava, rubò loro un paio di scatti sperando di non farsi notare.
– È un bravo ragazzo, tutto sommato. Spero possa passare a lavorare per testate più serie – disse Briz, prendendo il fidanzato sotto braccio.
– Sì, ma… ci sta fotografando…
– Saranno delle belle foto, devi convenirne – fu il commento della ragazza, accompagnato da un gesto verso il mare e il chiaro di luna.
– Ci sei tu, Bri, saranno belle per forza. Vuoi tornare su a ballare? – le chiese, passandole le braccia intorno alla vita e avvicinandola a sé – prima ho visto che ti divertivi, insieme a Jami, Solange e i ragazzini; e a me piace, vederti ridere.
– Anch’io amo vederti ridere, l’ho scoperto molto tempo fa – ammise lei, cingendogli il collo con le braccia.
La musica, che proveniva attutita, cambiò all’improvviso, diventando più morbida e dolce e, senza aggiungere altro, per qualche minuto i due rimasero abbracciati, dondolando languidamente al ritmo di un lento, i piedi nudi lambiti dalle onde che scivolavano sulla riva.
 
ballo-lento
 
– È la prima volta che ballo un lento… Nessuno invitava una spilungona sgraziata come me, alle rare feste a cui andavo da ragazzina; e forse, se qualcuno lo avesse fatto, sarei scappata imbarazzata. Forse aspettavo te, anche se non lo sapevo…
– Sciocchina romanticona… La verità è che forse conoscevi solo ragazzi stupidi, se non ti invitavano o ti facevano venir voglia di scappare – sorrise Pete tra i suoi capelli – E da come ti muovi, credo proprio che imparerai qualche ballo di coppia senza troppa fatica.
– Di sicuro adesso ballo solo con te. Magari non qui… – gli disse sibillina, all’orecchio.
Pete sentì un brivido caldo accendergli i sensi e la baciò, rimuginando nella testa quello che Briz aveva appena detto.
– Ma basta voi due! Di nuovo? Non vi siete ancora stufati di pomiciare come due liceali in astinenza?
Fabrizia e Pete si staccarono con un sobbalzo, alla voce tonante del solito Yamatake.
– Anche tu ti ci metti!? – esclamò Pete, esasperato quanto divertito – Una bella portaerei di cavoli tuoi, mai? Torna alla festa, dai, che te la cavavi piuttosto bene col ballo dell’orso ubriaco! Oppure vai a scocciare le altre coppie, ce ne sono quante ne vuoi, in giro, stasera! Possibile che dobbiamo sempre essere i tuoi preferiti?
Yamatake rise e si scusò: – Abbiate pazienza, ragazzi, vi prego! È proprio questo il problema: comincio a sentirmi un po’ solo, persino quello zittone di Fan Lee è in buona compagnia – disse indicando l’amico cinese che si intratteneva chiacchierando amichevolmente addirittura con due avvenenti donne intorno alla trentina.
Briz osservò attentamente le altre persone e non le ci volle molto per mettere a fuoco ciò che cercava.
– Vieni con me, Godzilla! – disse, prendendo l’amico a braccetto e conducendolo verso una bella ragazzona, alta e formosa, che in quel momento se ne stava un po’ in disparte sorseggiando un’aranciata; la tipa sollevò lo sguardo su di loro e arrossì, prima di prodursi in un bel sorriso.
– Yamatake, questa è Kaori, le interessa il sumo e ha un ristorante a Shizuoka. Kaori, questo è Yamatake: divertitevi! – li presentò Briz sbrigativamente, prima di fare un rapido cenno di saluto e tornare da Pete.
– Come fai a sapere che a quella lì interessa il sumo? E che ha un ristorante, poi! – le chiese lui, prima di passarle un braccio attorno alle spalle e incamminarsi con lei lungo la riva.
– Perché l’ho sentita chiedere a Bunta chi fosse il nostro bisonte, dicendo di avere un fratello che pratica il sumo, così ci ho fatto due chiacchiere e… ho scoperto anche del ristorante! I presupposti per qualcosa ci sono, dai!
– Sei terribile! Qualche settimana fa Sanshiro e Midori, stasera Hakiro e Lyra e pure Yamatake e Kaori! Hai un futuro come sensale di matrimoni.
– L’unica coppia di cui non avevo capito niente… siamo noi due!
Ridacchiarono per qualche istante, poi si fermarono e si guardarono negli occhi; Briz gli cinse nuovamente il collo con le braccia.
– Non ho infilato un programma, stasera: pensavo che non avrei mangiato, non avevo voglia di ballare e di cantare ancora meno… invece ho fatto tutto questo e pure un discorso. Però adesso… ce la battiamo, io e te, vero? – disse Briz in un sussurro, tornando a sfiorargli l’orecchio con le labbra.
– Ma come…? Non dovevi farmela sudare? – replicò Pete, facendole scorrere le mani sulla schiena.
– Ah, beh… se l’articolo non ti interessa, allora… – rispose lei, fingendo di staccarsi.
Lui fu pronto a impedirglielo, rubandole un bacio travolgente che le tolse il fiato, tenendola premuta contro di sé con le mani che, così, molto casualmente, le finirono sul sedere. 
– Allora? Dici che non mi interessa?
– Ho la sensazione che siamo entrambi, molto interessati a qualcosa – rispose lei, con un tono basso e caldo che gli fece quasi ribollire il sangue – Come organizziamo la fuga senza farci intercettare da altri guastafeste?
– Non lo so, ma se qualcun altro ci prova, non rispondo di me stesso! – fu la risposta decisissima di Pete.
Si guardarono attorno circospetti e scoppiarono a ridere, prima che Pete dicesse: – Di qua, vieni con me!
Le afferrò una mano e insieme partirono di corsa, sollevando schizzi sulla riva del mare, risalendo poi verso una piccola macchia di pini, attraversando la quale si arrivava all’entrata sul retro dell’ala degli alloggi.
Non si accorsero nemmeno di aver lasciato le scarpe e i sandali da qualche parte, e di essere ancora ambedue a piedi nudi…
 
 
Continua…
 
 
Note:
1 Frase scopiazzata, e adattata ai miei scopi, dalla fine del romanzo “Star Wars - Il ritorno dello Jedi”, di James Kahn.
 
 
E lo so che qualcuno mi vorrebbe sparare, per essermi fermata qui. I miei recensori mi hanno minacciata di Alabarde Spaziali, Cupole mangia-ossigeno e perfino mazze da baseball spinate... =D
Ma il capitolo sarebbe venuto troppo lungo, già così è troppo.

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Capitolo 48
*** 47 - Il fuoco e il ghiaccio ***


~ 47 ~ 
IL FUOCO E IL GHIACCIO
 
 
La fuga di Pete e Fabrizia attraverso la piccola pineta riuscì perfettamente.
Un minuto più tardi avevano raggiunto l’atrio deserto dell’ala degli alloggi e, in attesa dell’ascensore, si ritrovarono a ridacchiare, soddisfatti per aver seminato i possibili scocciatori, e a baciarsi, tra una risata e l’altra, come se non ci fosse un domani.
– Pete… siamo scalzi, te ne sei accorto? – riuscì ad articolare lei, tra un assalto e l'altro.
– Oh, al diavolo, no! Non me ne ero reso conto.
– Io non ci torno, là fuori, a recuperare le scarpe, sia chiaro! Manca solo che mi blocchi di nuovo qualcuno… – brontolò Briz.
– Beh, nemmeno io! Sarà una cosa in meno da levarci di dosso… – la chiuse lì Pete, malizioso ma pratico come sempre, senza scomporsi.
Briz concordò, in silenzio: la circostanza non le avrebbe comunque permesso di parlare…
Quando le porte dell’ascensore si aprirono, Pete la spinse dentro, praticamente senza staccarsi da lei, e la appoggiò alla parete. Fabrizia scostò le labbra dalle sue solo per chiedergli: – Da me o da te?
– Da me, è più vicino – rispose lui ricominciando a baciarla.
– Mmm, okay – fu il mugolio di risposta; poi Briz si staccò bruscamente, prima che la sua mano trovasse a tentoni il pulsante – No, ma che da te? Una volta mi hai detto che nel tuo letto ci stai a malapena da solo!
– Già, hai ragione! Allora da te! – finì Pete, schiacciando il bottone dell’ultimo piano.
Le porte si chiusero, l’ascensore partì, e loro ricominciarono a baciarsi.
– Uhmm… e poi dovremo comunque accontentarci di una piazza e mezzo… – si lamentò Fabrizia contro le labbra di Pete, alludendo al proprio letto, mentre con le dita cominciava già a giocherellare con i bottoni della sua camicia.
– La notte scorsa ci siamo stati bene – la rassicurò lui, lasciandola fare.
– Vero… ma stanotte avrei intenzione di farci un po’ più di… come dire… scompiglio. 
– Dio, Bri… se tu fai l’amore nello stesso modo in cui vivi, io sono perduto – le sospirò tra i capelli, mentre le porte dell’ascensore si riaprivano.
I due percorsero quasi di corsa i pochi metri che li separavano dalla porta di Briz e, in una manciata di istanti, furono dentro, nella semioscurità dell’alloggio, con lei di nuovo tra le sue braccia, stretta tra lui e la parete della zona notte. Fabrizia abbandonò la sua bocca e gli lasciò una scia di baci lungo la mascella, arrivandogli sotto l’orecchio e cominciando a mordicchiarlo sul collo, continuando a slacciare bottoni e sentendo sotto le labbra il suo battito impazzito.
– Ehi, Vampirella, calmati, non avere così fretta… Non ci corre dietro nessuno – la ammonì lui, sottovoce.
– Io non ho fretta, sei tu che hai il cuore a mille, bradicardico da quattro soldi.
– Lo so, sei l’unica che riesce a mandarmelo fuori giri… e considerando che ha passato gli ultimi sette anni in congelatore, mi chiedo ancora che razza di amore potrà mai darti – sospirò lui, seminandole piccoli baci in giro per il viso.
– E allora il mio? Ormai è stato ricucito e rappezzato tante di quelle volte, che mi chiedo come faccia a battere ancora. Eppure tu riesci a farglielo fare meravigliosamente…
– Sì… lo sento… – disse Pete, stavolta posandole lui le labbra sul lato del collo – E sai una cosa? Sei anche l’unica con la quale ho scoperto che le classiche farfalle nello stomaco non sono una stupida leggenda. Da non credere, vero?
Briz lo guardò stupita, le mani attorno al suo viso: – Cosa? Tu senti le farfalle?
– Ogni volta che ti guardo, sì… o che mi sorridi. A te non capita? – rispose lui, tornando a baciarle la gola.
– Sei un dilettante, tesoro: quando tu mi guardi, e mi sorridi, nella mia pancia fa irruzione una mandria di rinoceronti! E se fai tanto di toccarmi, cominciano pure a ballare la conga!
– Uhm… Interessante – fece lui, accarezzandole il fianco e risalendo, con insopportabile lentezza, fino al seno – Allora? Ballano i rinoceronti? – le soffiò tra il collo e l’orecchio.
– Ohh, sì, altroché! Si stanno scatenando… – rispose lei, facendogli scivolare la camicia lungo le braccia e lanciandola dove capitava, impaziente di sentire sotto le mani la sua pelle calda e liscia.
Pete si riappropriò delle sue labbra e cominciò a slacciare i primi bottoncini dell’abito nero. Poi, come preso da un pensiero, le accarezzò il braccio sinistro, soffermandosi col pollice sull’interno del gomito e appurando, con quel gesto, che il contraccettivo era ancora al suo posto. Fabrizia si staccò e si guardarono per qualche istante, scambiandosi un lieve sorriso complice che fu più che sufficiente per capirsi, anche senza parole: Pete sapeva che lei avrebbe voluto dei figli, un giorno; e lui, che non aveva mai pensato, prima, all’eventualità di diventare padre, si ritrovò a riconoscere in quell’istante che l’idea non solo non lo spaventava, ma gli piaceva da impazzire. Le prese il volto tra le mani, e la voce quasi gli tremò.
– Bri… Li voglio anch’io, quei famosi due o tre bambini, quando sarà ora… Ma solo perché so che la loro mamma sarai tu.
– Sono felice di sentirtelo dire; ma non mi sono fatta rimuovere il dispositivo, ieri, perché adesso, e ancora per un po’… io voglio te. Soltanto te.
Io voglio te… Quelle tre parole gli procurarono un fremito caldo, lungo la spina dorsale, che lo lasciò quasi senza fiato.
– Su questa scelta mi trovi assolutamente d’accordo, fanciulla – le disse sulle labbra.
Si concessero ancora qualche bacio, finché Fabrizia gli sfuggì giocosamente puntandogli una mano contro il petto nudo e lo spinse all’indietro, mandandolo a cadere sul letto. Pete indietreggiò, fino a trovarsi con le spalle contro i cuscini appoggiati alla testiera, mentre lei lo raggiungeva sul copriletto colorato, muovendosi a quattro zampe e mettendosi a cavalcioni sopra di lui.
Lui intravide, nella semioscurità, che Briz slacciava altri bottoni dell’abitino e decise di volerci vedere più chiaro.
Accese la lampada sul comodino, ad illuminare lo spettacolo.
Briz arrossì disperatamente e si allungò a spegnerla.
Lui la riaccese.
Lei la spense nuovamente.
Con un perentorio sguardo che non ammetteva repliche, la ragazza si impadronì di un piccolo telecomando posato accanto alla abat-jour e fece aprire del tutto il pannello scorrevole che oscurava in parte la finestra sul soffitto spiovente: la luce soffusa della luna entrò, illuminandoli quanto bastava. Pete non poté fare a meno di approvare, mentre lei proseguiva a far uscire i bottoncini luccicanti dalle asole fino a rivelare un reggiseno a balconcino di seta rosa pallido, bordato di un sottile pizzo color grigio perla. Lui le fece scivolare il vestito dalle spalle lungo le braccia e glielo lasciò ricadere attorno ai fianchi dove si raccolse, simile alla corolla di un fiore nero dalla quale lei si ergeva, seminuda e bellissima: poté solo, semplicemente, ammirarla, completamente ammaliato dalla sua bellezza. 
 
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– Ti… aspettavi la solita microfibra di un colore assurdo e accecante, vero? – gli sussurrò.
– Sei riuscita a sorprendermi di nuovo: è una meraviglia, ma credo sia perché dentro… ci sei tu. Tu, sei la meraviglia!
– Non mi sembra molto diverso da com’ero oggi pomeriggio in spiaggia…
– È totalmente diverso, credimi… ma ti rivelo una cosa – disse a bassa voce attirandola a sé, accarezzandole la cicatrice sulla coscia e risalendo sotto la stoffa ammucchiata dell’abito – Pizzo, seta, microfibra… non importa di cosa sia fatto… tanto, non ti resterà addosso ancora per molto.
Il sorriso che Briz gli rivolse era carico di promesse, nonostante le guance in fiamme, e le sue mani gli corsero leggere lungo il torace, saggiando la compattezza dei muscoli, dai pettorali agli addominali perfetti, fino a scivolare più in basso; gli slacciò la fibbia della cintura e i bottoni dei jeans, abbassandoglieli poi sui fianchi. Il giovane la aiutò, scalciandoli via e rimanendo con i boxer, mentre lei si chinava a cercare le sue labbra: era più forte di lei, non ne aveva mai abbastanza di baciarlo, ma era piuttosto evidente che la cosa fosse reciproca.   
Ma poi, tutto ad un tratto, Briz si fermò, impacciata, cercandogli lo sguardo nella penombra: sembrava che, improvvisamente, non sapesse più cosa fare delle proprie mani.
– P-Pete, scusami… non…
– Bri, cosa c’è? – le chiese, prendendole il volto arrossato tra i palmi.
Lei scosse appena la testa, con un sorriso imbarazzato, e lui proseguì: – Se non sei sicura, dillo e ci fermiamo, ma… fallo subito perché, onestamente, credo che mi manchi molto poco al punto di non ritorno…
– No! N-non è quello, ma cosa dici? È solo che… volevo fare una bella scena di seduzione, ma lo sai che in realtà per me è come se fosse… insomma, io… sono imbranata, ecco.
– Davvero? Perché a me sembrava che già dall’ascensore stessi andando benissimo, sai?
– Non so… dai, insomma… gui-guida tu, ti prego.
– Guido io? – fece lui, un po’ perplesso.
– Sì – confermò Briz in un soffio.
Lui annuì, in silenzio, un mezzo sorriso sulle labbra. Il vestitino, ormai slacciato del tutto, andò a finire chissà dove, e la mano che Pete le teneva sulla coscia proseguì la sua esplorazione, insieme all’altra dal lato opposto: entrambe finirono il loro percorso sul fondoschiena di Briz, fasciato da una culottes di seta e pizzo, coordinata col balconcino. Pete la attirò un po’ in avanti, sul proprio bacino, e Briz avvertì contro di sé, un po’ fiera e un po’ imbarazzata, il desiderio di lui, ormai impossibile da nascondere. Lui la rovesciò spingendola sotto di sé e, tenendola stretta, appena sollevata, cercò sulla sua schiena il gancetto del reggiseno.
Se pensava di farcela con un semplice gesto, si sbagliava di grosso: dopo aver pasticciato per parecchi inutili secondi, fu sul punto di darsi per vinto.
– Ma porc… se scopro chi lo ha inventato… – brontolò, frustrato.
A Briz venne da ridere, e non resistette alla tentazione di prenderlo affettuosamente in giro.
– Che ti succede, bel pupone, ci hai perso la mano? Eppure non dovrebbe essere il primo che sganci.
– Bri, il problema è… che questo reggiseno è il tuo! Mi sento come… se fosse la prima volta – confessò lui.
Fabrizia si sentì assalita da un’ondata di tenerezza, a quell’ammissione.
– Beh, ma lo è: è la prima, per noi due insieme. L’hai detto tu: non ci corre dietro nessuno, abbiamo tutta la notte… Vedrai che prima di domattina questo gancetto si apre…
– Domattina? Ma vorrai scherzare, spero! – esclamò lui, impaziente, strappandole una risata che lo contagiò.
Le risate si affievolirono, stemperandosi in baci brucianti che Briz avvertì scendere lungo la gola e le spalle, fino al bordo di pizzo del balconcino; il malefico gancetto si slacciò come per magia, e le labbra di Pete furono libere di proseguire il loro percorso, impossessandosi della morbida e serica pelle del suo seno, facendo fiorire in lei una miriade di piccoli, piacevolissimi brividi. Si lasciò andare all’istinto, seguendo spontaneamente le movenze di lui: le carezze divennero intraprendenti da ambedue le parti, avventurandosi oltre la poca stoffa che ancora indossavano, e si inframmezzarono a sospiri, sorrisi e parole appena sussurrate, finché nelle loro vene il sangue diventò come lava infuocata.
Le ultime barriere di seta e cotone che separavano i loro corpi, finirono nell’unico posto che in quel momento gli competesse: il pavimento. Ben pochi centimetri della loro pelle accaldata, furono risparmiati dal tocco delle loro mani e dai loro baci, e la ragazza si accorse che al proprio corpo stava accadendo qualcosa di fino ad allora sconosciuto: fu come se il battito del suo cuore si spostasse all’ingiù, una stilla di liquido vuoto rovente, che infine si annidò, cupo, forte e pulsante, nel suo basso ventre. Un vuoto che urlava, silenzioso e incessante, di essere colmato.
 
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E proprio in quel momento… accadde: quel desiderio incontrollabile, famelico e dirompente, venne soddisfatto, evolvendosi in un attimo di perfezione irripetibile. I loro corpi si incontrarono guidati da un impulso irresistibile e diventarono un’unica cosa, completandosi l’un l’altro in quel modo assoluto e antico come la vita stessa.
Rimasero per qualche lunghissimo istante senza fiato, immobili, a guardarsi negli occhi, sopraffatti dalla meraviglia per la spontaneità e la naturalezza con cui era successo, ma pienamente consapevoli che con quell’atto, col quale si accolsero e conquistarono a vicenda, non solo i loro corpi, ma anche le loro anime, avevano creato la fusione e l’incastro perfetti.
– Oh, Dio, Bri… – sospirò Pete, chiudendo gli occhi e appoggiando la fronte su quella di lei.
Fabrizia gli accarezzò i capelli, baciandogli il volto, sorpresa da quelle sensazioni del tutto nuove, che fino a quel momento aveva solo immaginato.
Era passato tanto tempo dalla sua prima, unica e disastrosa volta; era stata quasi sicura che avrebbe provato di nuovo dolore, che l’emozione e l’imbarazzo le avrebbero giocato brutti scherzi, e si era preparata a quella eventualità; e invece…
Si affrettò a rimuovere qualunque ricordo residuo di ciò che le fosse accaduto in passato: la realtà era questa, dove tutto era come doveva essere; proprio come aveva pensato da quando, per la prima volta, si era concessa di immaginare come sarebbe potuto essere, fare l’amore con Pete.
Incapace di resistere, assecondando l’istinto, si mosse sotto di lui, inconsapevolmente vogliosa e sensuale, schiudendogli la bocca sul collo e facendola scorrere fino alla spalla, alternando baci e piccoli morsi, assaporando la sua pelle leggermente salata. Gli accarezzò il braccio, sentendo sotto i polpastrelli la cicatrice che gli solcava il bicipite, mentre l’altra mano gli correva, curiosa e impaziente, lungo la spina dorsale, fino a raggiungergli il fondoschiena… e lui la fermò.
– Stai ferma… non muoverti, ti prego – le ordinò sottovoce, con un tono quasi implorante, mentre lei riportava la mano incriminata verso l’alto. Le parlò, sfiorandole la guancia e l’orecchio, cercando di sdrammatizzare: – Se ti muovi ora… qui finisce tutto prima di cominciare. Scusami, ma… non… non era mai stato così. Se questo è solo l’inizio, io sono un uomo morto.
– Oh, no… – sospirò lei, comprendendo al volo la situazione – io ti ho già detto che ti voglio vivo e sano come un pesce… E direi che fin qui ci siamo, e alla grande, anche…
Pete soffocò una risata fra i capelli di Briz, inebriandosi del loro profumo e pensando che solo lei poteva essere capace di fargli fare una cosa del genere, in un momento come quello. Proprio a lui, che aveva sempre preso il sesso molto sul serio: aveva sempre creduto che fosse la cosa più piacevole che si potesse fare senza ridere; e invece… la sua fanciulla pazzoide gli stava facendo scoprire che anche fare l’amore, poteva prendere una piega dannatamente divertente. Davvero niente male, se si considerava che, tra i due, l’esperto
sarebbe dovuto essere lui.
Eppure Briz, in quel modo, riuscì a distogliere la sua attenzione da quelle sensazioni talmente intense da rischiare di fargli perdere il controllo; fu esattamente ciò che ci voleva: a lui per riprendere la padronanza della situazione, e a lei per abituarsi a quella meravigliosa invasione.
Quando il momento di ilarità, così stranamente opportuno, si spense, i loro corpi ripresero a muoversi in modo lento e languido, all’inizio ancora un po’ incerti, cercando e trovando insieme la sincronia giusta, imparando a conoscersi.
Il resto del mondo scomparve, come era giusto: per lui avevano già dato.
Il tempo si dilatò, o si fermò… entrambi ne persero la cognizione, smarriti in quella danza antica come il mondo che diventava sempre più infuocata, in cui dolcezza e passione, amore e desiderio, si fondevano mirabilmente, creando un’onda impetuosa e irresistibile, che li legò indissolubilmente l’uno all’altra, cedendo finalmente il passo a tutto quello che, ormai da tempo, avrebbe dovuto essere.
I loro gesti diventarono più audaci, le richieste più esplicite; i respiri si fecero più affannosi, ad infrangersi sulla loro pelle bollente e contro le labbra che si cercavano, a tratti assaggiandosi dolcemente, a tratti divorandosi affamate.
Finché Briz si ritrovò a soffocare un grido, assolutamente attonita e impreparata a ciò che le accadde così, all’improvviso, quando una marea calda e travolgente salì dentro di lei, trascinandola in un gorgo di sensazioni sconosciute che la spinsero ad avvinghiarsi ancora di più al suo compagno.     
Pete avvertì il corpo di Briz tremare e inarcarsi contro il suo, tutti i suoi muscoli tendersi, le sue braccia cingerlo con forza e le unghie piantarglisi in una natica, come a trattenerlo nel timore che potesse staccarsi da lei. La strinse a sé, quasi cullandola, consapevole di ciò che stava provando, mentre le sue lunghe gambe gli si serravano attorno ai fianchi. Sentì la bocca di lei dischiudersi e i suoi denti affondargli nella spalla, mentre il grido della ragazza si trasformava in un lento mugolio contro la sua pelle. Quei gesti, insieme al gemito soffocato che li accompagnò, innescarono in lui la stessa reazione, irrefrenabile e ormai inevitabile, contro la quale Pete rinunciò a resistere, lasciandosi finalmente sopraffare a sua volta.
Briz lo abbracciò, stringendoselo addosso, mentre il giovane si lasciava andare su di lei, scosso da lenti e incontrollabili fremiti, il volto premuto sul suo collo, a reprimere a malapena un suono, a metà tra un ringhio e un sospiro.
Cercò quasi subito di rotolare al fianco di Briz, temendo di pesarle addosso, ma lei glielo impedì.
– No… stai qui, ti prego… – ansimò, continuando a tenerlo stretto.
Lui obbedì, abbandonandosi sopra di lei, senza riuscire a replicare.
Ci volle un po’, prima che i loro corpi smettessero di tremare e i loro cuori e i loro respiri tornassero a ritmi più lenti e regolari.
Stavolta, quando Pete si spostò, girandosi sulla schiena e portandosi Briz al fianco, lei non protestò: lo circondò con un braccio e una gamba e gli si avviticchiò addosso. I loro sguardi si cercarono e, ancora leggermente ansanti, si sorrisero, di un sorriso stanco e soddisfatto, al quale non riuscirono, per un po’, a far seguire nemmeno una parola. Briz si sollevò appena su di lui, gli accarezzò il volto e i capelli e gli lasciò un bacio sulla fronte, facendoglielo poi scivolare lungo il profilo fino a soffermarsi, casto e leggero, sulla bocca.
– Accidenti, Pete – sussurrò, strofinandogli la punta del naso contro il suo – Saremo anche fuoco e ghiaccio… ma insieme funzioniamo davvero bene.
– Credo proprio che il merito sia tuo, fanciullina. Il ghiaccio è solo materia fredda e inerte, mentre il fuoco è vivo, luminoso e caldo… come te – asserì lui, frugandole lo sguardo.
– Intanto sul freddo e inerte riferiti a te, soprattutto ora, avrei parecchio di cui discutere… e poi potrei dirti che il mio punto di vista sulla questione è diametralmente opposto al tuo: secondo me, il fuoco distrugge, mentre il ghiaccio preserva. Quindi? Cosa mi rispondi, adesso?
Pete la guardò, seriamente in difficoltà, ponderando che, effettivamente, la metafora di Briz ribaltava completamente il significato della sua, prima di lasciarsi andare ad una risatina sommessa.
– E cosa vuoi che ti risponda? Che… non avrò mai ragione, con te.
– Mmm… forse ogni tanto te la concederò. La ragione, intendo… – mugolò lei, prima di raggomitolarsi contro di lui, posandogli la guancia sul petto e chiudendo gli occhi, sfinita.
– Ti amo, Bri – sussurrò Pete, con le labbra a sfiorarle i capelli.
– Lo so – fu la lieve risposta – Anch’io ti amo… e so che lo sai…
Fu appena un sospiro, prima di trascinarlo con sé in un sonno dolce, profondo e appagato.
  
* * *
 
Pete fu svegliato di colpo, sì e no mezz’ora più tardi, dai gemiti soffocati di Briz e dai suoi movimenti inconsulti: con un ultimo grido, la ragazza balzò a sedere sul letto spingendolo via e spalancando gli occhi, ansante, e lui riuscì ad afferrarla da dietro, con le braccia intorno alla vita, un attimo prima che saltasse dal letto.
– L'allarme! Sta suonando l'allarme! – urlò lei, portandosi la mano all'orecchio, cercando l'auricolare… che non c'era.
Pete se la strinse contro, ancora intontito dal sonno, e le baciò la tempia, cercando di calmarla.
– Bri, tesoro… non c'è nessun allarme, è finita, tranquilla. Hai sognato…
Lei si voltò appena e lo guardò con occhi scuri e cupi, nella semioscurità della stanza, come a chiedersi cosa ci facesse Pete, lì nel suo letto, coperto a malapena dal lenzuolo. Poi le sue iridi si schiarirono e ritornò alla realtà, ricordando quello che era accaduto: si lasciò sfuggire un lieve sorriso, mentre si rilassava contro di lui con un sospiro.
– Scusami… non volevo svegliarti.
– Non è niente, è tutto a posto… è passato.
– Quanto durerà questa cosa? Svegliarmi con gli incubi, intendo – chiese Briz, in tono vagamente avvilito.
– Non lo so… ma, se può consolarti, sappi che è capitato anche a me, qualche volta; e non posso prometterti che non accadrà più – le disse, tornando a stendersi, con lei stretta al fianco – Passeranno anche gli incubi, Bri, abbi pazienza. Almeno, quando succederà, non ci sveglieremo più da soli.
Fabrizia non rispose e si limitò ad annuire, abbracciandolo in silenzio.
Riuscirono a riaddormentarsi, ma Briz si risvegliò dopo un paio d’ore. Restò ferma, ad ascoltare il battito lento del cuore di Pete e il lieve suono del suo respiro regolare. Si mosse per cambiare posizione, e anche lui si spostò, ma senza svegliarsi.
“Non riesco a crederci” pensò Fabrizia, sollevandosi appena su un gomito, guardando la zazzera scompigliata di lui, che gli nascondeva in parte gli occhi chiusi. Si era spostato a pancia in giù, il volto girato verso di lei e semi affondato nel cuscino.
Briz percorse con gli occhi la linea delle sue spalle e trasalì per un attimo, nel vedere sulla sua pelle il lieve segno dei propri denti. Arrossì, al ricordo delle sensazioni che l’avevano travolta nel momento in cui lo aveva morso: non se lo era aspettato… non già la prima volta; non così all’improvviso e non così intenso…
I suoi occhi scesero lungo la muscolatura armoniosa della schiena,  soffermandosi sulla scapola ornata dal disegno del drago, poi scivolò più in giù, sui glutei scolpiti, per metà coperti dal lenzuolo stropicciato; sul sinistro c’erano persino i quattro, piccoli segni a mezzaluna delle sue unghie: uno spettacolo che valeva davvero la pena, andava detto.
 
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Quante volte le era capitato che le fosse balenata in mente una visione come questa, spesso senza che nemmeno lei lo volesse? Beh, dal vero era decisamente meglio: altro che visione, era stato tutto molto, ma molto concreto.
Possibile che questo bellissimo, giovane uomo, che dormiva nudo al suo fianco, fosse lo stesso freddo, impenetrabile individuo che aveva conosciuto quindici mesi prima? L’insopportabile Capitano che l’aveva fatta sentire una nullità, quello che lei aveva preso a schiaffi e col quale se ne erano detti da forca e da galera per mesi? Sapeva essere duro e intransigente, quando era necessario, ma lei aveva scoperto da un pezzo che sotto quella corteccia ghiacciata che amava ostentare, c’era tutta un’altra persona; c’era lui, Peter Jonathan Richardson, quello vero, di cui aveva parlato Tom: il ragazzo che amava la musica, i bei film, studiare archeologia e divertirsi con gli amici… E che per qualche assurdo motivo, amava anche lei! Su quest’ultima cosa non aveva più dubbi, glielo aveva ripetuto persino davanti a decine di persone; e il modo infuocato, eppure gentile, con cui aveva fatto l’amore con lei, glielo aveva ulteriormente confermato.
“Cuore di ghiaccio ‘sto cavolo, mio Capitano! Tu sei la parte migliore di me e della mia vita” pensò, chinandosi a sfiorare con le labbra il cuore che il drago tatuato teneva fra gli artigli.
Daimonji li aveva costretti a frequentarsi perché aveva capito che avevano punti in comune su cui lavorare, e altri, che sembravano agli antipodi, che invece si sarebbero compensati. Diavolo di un dottore! Aveva avuto ragione, come sempre, anche se allora, probabilmente, non aveva immaginato nemmeno lui che l’epilogo potesse essere questo.
Pete le aveva insegnato a trovare il coraggio e l’autocontrollo dentro di lei, e a credere in sé stessa e nelle sue capacità, ma anche a fidarsi di lui. E c’era riuscito, perché se era lui, a dire che era coraggiosa, allora era vero; perché se era lui, a dirle che era bella, voleva dire che lo era davvero; perché se era lui, a dirle che la amava, lei ci credeva.
Stava per accoccolarsi di nuovo accanto a lui, quando un’immagine le balzò nel cervello, di nuovo: l’anello di Alessandro. Ma perché…? L’immagine di Alessandro, che la salutava mentre il suo corpo si smaterializzava in piccole stelle luminose, le riempì la mente, insieme alle parole che in quel surreale momento non era riuscita a sentire: “Cerca nel vecchio zainetto militare, Folletta, c’è ancora qualcosa di me lì dentro!”  
Visualizzò nella sua testa una vecchia e logora sacca, che non usava da tempo immemorabile; le sorse persino il dubbio di possederla ancora… Senza sapere perché, avvertì il bisogno impellente di controllare.
Briz si avvolse nella copertina colorata di cotone leggero e scivolò giù dal letto per raggiungere l’armadio.
Aprì l’anta e si chinò a frugare sul fondo, tormentata da quel vago sospetto: spostò un paio di scatole… e il vecchio zainetto era lì! Lo afferrò bruscamente, aprendo la cerniera e cercando con ansia una piccola tasca interna, seminascosta, anch’essa chiusa da una lampo. Fece scorrere la zip, e ficcò dentro le dita… Dio, non era possibile! Sfilò la mano… e l’anello di Ale era lì, a brillare sul suo palmo.
Era sempre stato lì, seppellito tra i ricordi in fondo a quell’armadio, dentro quella vecchia sacca di tela, che lei aveva completamente dimenticato di essersi portata dietro dall’Italia.
Sorrise tra sé: ancora una volta, suo fratello non si era smentito e aveva voluto lasciarle qualcosa di lui, e lo aveva fatto in quel modo speciale ed unico che era ancora tutto loro, pur vivendo ormai in due dimensioni totalmente aliene l’una all’altra.
In realtà, sapeva che quell’anello non lo avrebbe portato lei… Se lo infilò momentaneamente al pollice, l’unico dito nel quale non le ballasse, e fece per girare intorno al letto per tornare al fianco di Pete. 
Non aveva fatto nemmeno due passi che sentì la stoffa tirare e svolgersi dal suo corpo: rapidamente la riafferrò, drappeggiandosela intorno e girando il volto verso il letto, avvampando disperatamente.
 
 
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Si ritrovò ad affrontare lo sguardo malandrino di Pete, che teneva in mano l’altro lembo del leggero copriletto.
– Spiegami: dopo tutto quello che abbiamo fatto, ti copri per fare due metri?
– Sì! – rispose lei alzando il mento, l’atteggiamento a metà tra la sfida e la timidezza, tenendosi la stoffa sul seno.
– Hai bisogno di un’iniezione di autostima?
– Mmm… Forse.
– Allora vieni qui… – disse lui, tirando la copertina e facendola di nuovo cadere sul letto su cui rotolarono insieme, le gambe intrecciate nelle lenzuola, a ridere e ruzzare come due cuccioli, finché la giocosa schermaglia si concluse, con un tonfo e un paio di grida soffocate, sul pavimento, in un groviglio di stoffa colorata.
Quando riuscirono a smettere di ridere, Briz osservò la situazione.
– Non è successo – affermò con aria fintamente grave – Non siamo caduti dal letto: non può essere.
– Può essere eccome, fanciullina: quando si tratta di te, può accadere questo e altro…
– Anche questo è vero – fu costretta a concordare lei, stringendosi di nuovo il lenzuolo davanti.
– Ma la smetti? – le disse lui, vedendo quel gesto – Sei talmente bella da abbagliarmi, Bri, non puoi vergognartene – aggiunse serio.
– N-non è che mi vergogno, Pete, è solo… che non sono ancora abituata a stare nuda davanti a qualcuno.
– Io non sono qualcuno: sono l’altra metà di te.
– Santo Cielo… ti ho fatto uscire una vena poetica? Sono davvero un fenomeno.
– Basta che non lo dici a nessuno…
Eh, già! Non fosse mai, che gli altri venissero a conoscenza del lato tenero del Capitano Richardson! Come se ormai non lo sapessero già tutti.
– Va bene, te lo prometto. E… mi piace che tu sia l’altra metà di me: voglio che il resto della mia vita, sia fatta per il cinquanta per cento di te.
– Perché solo il cinquanta per cento? Che significa? – chiese Pete, mentre raccattavano lenzuola e copertina colorata e tornavano a prendere possesso del letto, distesi uno di fronte all’altra, le gambe intrecciate, prima di coprirsi sommariamente.
– Proprio un realista come te, me lo chiede! Perché nella vita vera non si può avere sempre e solo felicità, come nelle favole, Pete! Per quanto… visto ciò che entrambi abbiamo passato, direi che siamo sicuramente in credito – constatò – Comunque, se tu sarai metà della mia vita, ciò che ci sarà nell’altra metà andrà bene a prescindere, bello o brutto che sia. Con te affronterò qualunque cosa, so che è possibile: lo abbiamo già fatto, molto prima di oggi; prima di essere davvero una coppia.
– In realtà, io e te, siamo una coppia ormai da parecchio tempo, e lo sai.
– Di sicuro i nostri amici lo pensano da un pezzo, ma hai ragione. In fondo, se ci pensi bene, l’ultima cosa che mancava al nostro rapporto… era questa – disse lei, con un gesto vago che indicava le lenzuola sfatte.
– Beh, direi che stasera ci siamo impegnati, per aggiungere alla nostra storia l’ultimo tassello; avevi detto che volevi farci scompiglio, nel letto, ma mi sembra più un devasto – ridacchiò Pete – E pensare quanto ci siamo ostinati a non volerla nemmeno prendere in considerazione, questa cosa.
Briz si sollevò sui gomiti, per guardarlo in viso.
– Senti… io sono ancora convinta che se avessimo ceduto, e lo avessimo fatto prima, avremmo rovinato tutto. Non so tu, ma… io non ero pronta ad affrontare qualcosa di tanto meraviglioso come fare l’amore con te, proprio in mezzo al delirio che abbiamo vissuto. Non riuscivamo nemmeno ad ammettere di amarci, Pete. Probabilmente ne sarebbe uscita una cosa, non so… sminuita. Avremmo finito per considerarlo solo… uno sfogo. Va bene così, credimi, mi piace molto di più – concluse.
– Sì, va bene così – convenne Pete, passandole una mano dietro la nuca e impossessandosi delle sue labbra.
– Bri, è… tutto okay, vero? – le chiese poi, vagamente preoccupato.
– In che senso?
– Ecco… c’è stato un momento in cui… sono stato un po’ troppo… ho temuto di averti fatto male.
– Ma cosa dici? Sto divinamente, anzi, sono io che ti ho dato un morso… e graffiato il sedere… – disse, imbarazzata, sfiorandogli la spalla, sulla quale il segno dei suoi denti andava svanendo – Mi hai fatto provare molte cose, ma ti giuro che… male, non era fra queste – aggiunse, guardandolo intensamente e sollevandosi a sedere.
Quest’ultima affermazione lo fece sorridere e provare un moto di soddisfazione: si stiracchiò, con un’espressione compiaciuta che fece ridere Briz.
Poi divenne seria e sollevò appena la mano destra: Pete vide l’anello al pollice, che lei si sfilò, mostrandoglielo.
– Da dove viene, questo? – le chiese, sedendosi anche lui e osservando l’incisione.
– Era di Alessandro; credevo fosse andato perduto nella distruzione della nostra casa, invece è rispuntato fuori. Forse è un segno del destino, o forse Alessandro ci ha messo di nuovo del suo: conoscendolo è capace di averlo fatto, anche da dove si trova ora. Sì, okay, sto farneticando, lascia stare… Comunque è qui: tu sei l’unica persona, addosso alla quale sarò felice di vederlo.
– E io sarò felice, e onorato, di portarlo, Bri.
– Il suo valore materiale non è minimamente paragonabile a questo – disse Briz, osservando il suo diamante – Ma… mi sembra appropriato, e non solo perché, casualmente, c’è incisa l’immagine di un drago…
Pete non rispose, si sentì solo commosso e orgoglioso, mentre Briz posava un bacio sull’anello e glielo infilava all’anulare sinistro, prima di passargli le braccia intorno al collo e baciare lui.
Si guardarono, sentendosi entrambi vagamente straniti, eppure, allo stesso tempo, essere lì, su quel letto sfatto, senza nient’altro addosso che quelle lenzuola stropicciate, sembrò loro la situazione più naturale del mondo…
– Devo farti vedere una cosa – disse all’improvviso Pete, sporgendosi a raccogliere i propri jeans, che erano ancora sul pavimento, e prendendo lo smartphone da una tasca, prima di appoggiarsi con la schiena ai cuscini, contro la testiera del letto. Lei gli si accoccolò accanto, mentre lui cercava alcune foto nella galleria del cellulare.
– Eccola – disse Pete, trovando ciò che cercava.
– È… una casa – constatò Briz.
Le immagini mostravano, ripresa da diverse angolazioni, una grande costruzione a due piani più una mansarda, bianca, dall'architettura vagamente spagnoleggiante, con un ampio porticato e il tetto di tegole rosse: in quell'abitazione c'era posto per almeno due famiglie, forse tre. Alle sue spalle c'era un bel prato con una specie di dépendance, insieme a un annesso in legno che aveva tutta l'aria di una specie di stalla con il fienile, anche se sembrava assolutamente spoglio e inutilizzato. Tutto il complesso era però attorniato da alberi, cespugli fioriti e palmizi, e si stagliava nitido contro l'azzurro del cielo e il verde di una bassa collina.
– Ehm… mi correggo: questa non è una casa – commentò Briz – Sembra più un ranch… no, come si dice già, in spagnolo? Una… hacienda. Ma dov'è?
– Nell'entroterra di Santa Barbara, in California; l'oceano però è a pochi chilometri. Ti piace?
Briz rimase per qualche istante senza parole, poi si riprese.
– Come potrebbe non piacermi? È bellissima! Ma perché me lo chiedi?
– Perché… è casa mia. Ti piacerebbe… abitarci?
– Abit… eh… ehu… – Briz perse la parola per la seconda volta in pochi secondi e si alzò sulle ginocchia – Mi stai chiedendo… di andarci a vivere insieme?
Pete non capì subito se la cosa la intrigasse, la scandalizzasse o, addirittura, la spaventasse.
– Bri… – si affrettò ad aggiungere – Se vuoi tornare a vivere in Italia, sappi che Boscombroso, a me, piace moltissimo. E se vuoi andare in qualunque altro posto, vendiamo la casa di Santa Barbara e ne compriamo un'altra: qui in Giappone, in Australia o a Timbuctu… non mi importa dove. Basta che sia un posto che ti piaccia, dove pensi di poter essere felice.
Briz gli sorrise, divertita e completamente conquistata da quel Capitano Richardson alquanto inedito, che si lasciava prendere dall'entusiasmo per progetti di vita a lunga scadenza. Per non parlare di quel vendiamo, riferito a quella meraviglia di casa come se già fosse di entrambi, che gli era uscito senza nemmeno rendersene conto.
– Sei diventato anche tu, uno di quelli convinti che casa non sia dove, ma chi?
– Straconvinto al mille per cento, sì! La mia casa sei tu, Cuordileone.
– Oh, queste sì, che son parole! E considerando che io una casa non ce l'ho proprio, è tutto dire. Ma… sei sempre vissuto lì?
– No… Quella casa viene dalla famiglia di nonno McBride, il marito di nonna Rosy. Noi abitavamo a Los Angeles, e lì ci andavamo solo in vacanza: papà non la amava particolarmente e non aveva nemmeno modo di venirci spesso, ma io e Tom ci siamo affezionati. Abbiamo passato lì quasi tutte le estati della nostra vita, prima di… del… – si interruppe; parlare del naufragio a volte lo angosciava ancora, e Briz lo zittì dolcemente.
– …sì, ho capito. Quindi hai anche una casa a Los Angeles?
– Non più: l'ho venduta e ho lasciato a Tom il ricavato, quando mi sono arruolato nell'USAF e lui è andato in collegio. A me bastavano gli alloggi dei piloti dell'Aviazione.
– Pete, ti confesso una cosa che non sai di me – disse lei, dopo aver metabolizzato quelle ultime rivelazioni.
– Un'altra? Cosa devo aspettarmi?
– Niente di preoccupante, soltanto che… se volessimo un'altra casa, in qualunque altro luogo, non ci sarebbe bisogno di vendere niente. Io, anche se ne ho dati quasi la metà in beneficenza, praticamente a ogni organizzazione umanitaria e ambientalista che conosco, beh… ho ancora un mucchio di soldi, ecco!
E così finì per raccontargli anche quanti fossero, da dove provenissero, e di come avrebbe desiderato immensamente riavere la sua famiglia, al posto di tutto quel denaro che le assicurazioni sulle vite di Ale e suo padre le avevano fruttato.
Pete la ascoltò, stravolto e perplesso e, alla fine, persino divertito.
– Per fortuna che me lo hai detto solo ora, almeno non mi accuserai di volerti sposare per i tuoi soldi!
– Scemo! – rise Briz – Che poi mi pare di capire che nemmeno tu e Tom siate esattamente sul lastrico. Ma tornando al discorso di prima, Pete… per il momento mi va bene stare qui, voglio fare ciò che Doc ci ha proposto: missioni di pace e non di guerra.
– Ti rassegnerai davvero anche al valzer, dunque? – la provocò lui.
– Solo se me lo insegnerai tu.
– Allora è cosa fatta, ma… dovrai arrenderti anche ai vestiti da sera, lo sai.
– Già, e dovrò anche smettere di imprecare come un pirata della Tortuga. Sono pronta al sacrificio, ne varrà la pena, visto che la ricompensa sarà ammirare te in smoking, che dev'essere davvero un bel vedere! Anche se… credo sia niente, in confronto a ora – le sfuggì, mentre gli faceva scorrere, lieve, una mano sul petto.
Pete le fece scivolare lentamente un dito sul lato del collo, scendendo lungo la clavicola, delineando poi la curva esterna del seno; come risvegliandosi di colpo, le riportò la mano sul viso.
– Allora… Santa Barbara ti piace?
– Moltissimo. Vorrei solo poter tornare a Boscombroso ogni volta che sarà possibile.
– Non credo che sarà così difficile: sono un pilota, no?
– Disse quello che, oggi pomeriggio, aveva paura di non avere niente da offrirmi… – rise Briz, divertita.
Pete le accarezzò il volto.
– Ti amo, Lionheart. Ti amo più di ogni altra cosa sulla Terra, e anche oltre. E so di cosa parlo, perché ci sono stato… e non ho trovato niente che ti somigliasse, nemmeno da lontano.
– Meno male! Sono contenta di sapere che non mi trovi somigliante all'unica, terribile donna, con cui hai avuto a che fare nello spazio! – esclamò lei, tornando ad abbracciarlo.
Pete represse una specie di brivido, sentendo l'allusione a Zhora, e cambiò argomento, cercandole di nuovo lo sguardo.
– C’è qualcosa di particolare che vorresti fare, quando le Missioni di Pace del Drago Spaziale saranno finite e andremo a vivere in California?
– Sì! Voglio la mia dannata laurea in Veterinaria, sperando che all’università di Santa Barbara mi riconoscano gli esami del primo anno che ho dato a Bologna. Ma sono disposta anche a ricominciare da capo. E tu?
– Voglio la mia dannata laurea in Archeologia, avevo già frequentato quasi due anni! – le rispose, copiandole la battuta.
– Davvero? E l’Air Force?
– Questa è un’altra delle cose che ho fatto stamattina… cioè, ieri mattina, ormai. Ho parlato con i miei superiori: al termine dell’anno delle Missioni di Pace, mi sarà accordato il congedo col grado di Maggiore. Non voglio mai più avere a che fare con la guerra, Briz, nemmeno di striscio. E allora mi iscriverò di nuovo all’università e ricomincerò a studiare, e pazienza se risulterò un po’ fuori corso, come studente.
– Farai quello che vuoi, credo che tu ne abbia tutto il diritto. Sarò felice in egual misura di essere la signora Richardson, un giorno, che sia del Maggiore o del Professore. Ma ammetto che, archeologo o meno, non riesco a immaginarti a non pilotare qualcosa: tu non puoi vivere senza volare.
– È vero anche questo, infatti… Ma potrei conciliare le cose, e fare l’istruttore a livello privato. Ho parlato anche con un vecchio amico di mio padre, che ha un piccolo aeroporto con una scuola di volo…
– Non ti mancherà il Drago Spaziale?
– Te l’ho detto, non voglio più sentir parlare di mezzi da guerra. E tu? Ti mancherà pilotare Balthazar? Intendo dire, la NGC: quella sensazione che ti faceva sentire… invincibile.
– No. Ora che Ale si è staccato da me, anche se dovessi aver bisogno di connettermi ancora, non ci sarà più quella sensazione di… dipendenza. Hai visto, dopo l’ultima battaglia: quando è finito tutto, non sono nemmeno stata male. E poi, ho trovato un’altra cosa che mi fa sentire potente, esaltata e protetta, anche più della NGC.
– Ah, sì? E dove?
– Qui, adesso. Tu, mi fai sentire così.
– Se mi dici cose come questa, lo sai cosa succede, vero?
– E secondo te, perché te l’ho detto? – rispose Briz maliziosa, allungando le dita tra i suoi capelli e avvicinando il volto a quello di lui.
– Stai di nuovo entrando in modalità seduttrice? 
– Se ti dispiace, non hai che da dirlo, ma… mi sembri più che pronto per il secondo round – gli sussurrò mentre le loro labbra si fondevano.
Pete fece per sospingerla contro il cuscino e rotolarle sopra, ma lei lo bloccò e ribaltò la situazione: lo sguardo di fuoco che Briz affondò nel suo, non lasciava spazio a fraintendimenti.
– Shh… fermo, Capitano: guido io…
Lui rimase lì, incantato, a guardare Fabrizia, il suo bel volto chino a pochi centimetri dal suo, accarezzandone il corpo nudo e perfetto.
– Bri… mi stai facendo venire degli strani pensieri… credo che senza troppa azione di convincimento, prima di giorno riuscirò persino a fare la doccia con te…
– Ma ti sei proprio fissato con quella doccia! Guarda che è una cabina normale, non siamo mica sull’Arcadia di Capitan Harlock, con la doccia a gravità zero!1 Per adesso va bene il letto, ti ho detto come la penso, sul farlo strano. Per quanto… ora di domani, non è detto che… – fu la allettante prospettiva che Briz lasciò in sospeso, prima di ricominciare a baciarlo.
Pete la strinse sopra di sé, lasciandola libera di… guidare lei e sentendosi, ad ogni secondo, più felice, innamorato e leggero.
Questa era davvero la fanciullina che, fin dal primo giorno, lui aveva trattato malissimo, cercando di umiliarla e sminuirla? E soltanto perché, ora lo sapeva, era stata capace, del tutto inconsapevolmente, di stregarlo fin dal primo sguardo.
Briz non si era lasciata intimidire, gli aveva tenuto testa, lo aveva riempito di improperi, lo aveva preso in giro e persino a ceffoni. E anche quando aveva avuto un momento di cedimento, e aveva quasi deciso di mollare tutto per causa sua… non si era arresa! Non l’avrebbe mai ringraziata a sufficienza per questo, perché non osava nemmeno immaginare cosa sarebbe stata, adesso, la sua vita, se quel giorno lei se ne fosse andata davvero…
Sempre che l’avesse avuta, una vita, naturalmente.
Briz era la sua guerriera indomita e ribelle, capace di guidare Balthazar in battaglia, di prendere in giro i nemici a colpi di sarcasmo, oltre che di Thunderbolt e Supernova Starfire, e di saltare nello spazio da sola per andarselo a riprendere dalle grinfie di Zhora, procurandosi quella ciocca di capelli bianchi che lui adorava, perché gli ricordava continuamente quanto coraggio le avesse dato l’amore che provava per lui.
Era la sua buffoncella squinternata, che con le sue parolacce, i suoi animali, i suoi aforismi a volte strampalati e i suoi momenti di follia, alternati a quelli di malinconia, era riuscita a farlo morire dal ridere e persino dal piangere.
Le sue armi erano state le risate, le chiacchiere, i baci e persino gli scontri e i litigi; con tutto ciò aveva combattuto e sconfitto il mostro di ghiaccio che lo imprigionava. Aveva recuperato il suo cuore e glielo aveva rimesso in moto; aveva salvato la sua anima, risvegliandola e riportandola alla vita.
Fabrizia Cuordileone aveva davvero colorato i suoi giorni, ma si era appena reso conto che sarebbe stato niente, in confronto a quanto avrebbe colorato le sue notti.
Gli occhi verdi le scintillavano lucidi di passione, mentre lo guardava; le labbra rosee, appena dischiuse, che riuscivano a farlo sciogliere con un sorriso e a farlo impazzire con un bacio, erano come un richiamo ancestrale al quale non poteva, e non voleva, resistere.
Adesso era, finalmente, la sua fanciullina, che faceva davvero l’amore nello stesso modo appassionato, tenero, impetuoso e divertente, col quale viveva.
Stentava ancora a credere che tutto ciò stesse accadendo realmente, mentre i loro corpi si fondevano di nuovo, muovendosi sensuali e con perfetta armonia, nuovamente alla ricerca di quel piacere unico, intenso e caldo che, quella notte, già una volta li aveva portati ad annullarsi totalmente uno nell’altra.
Il fuoco aveva sciolto il ghiaccio.
Il ghiaccio aveva domato il fuoco.
Loro due insieme erano la fine del mondo…
…e l’inizio del Paradiso.
 
 
L-inizio-del-paradiso  
 
> Continua…
… con l’Epilogo.
 


Note:
1 Nel film in CG Capitan Harlock the Space Pirate del 2014, (film stranissimo, che non è assolutamene ciò che mi aspettavo quando lo andai a vedere, ma che in qualche modo ho apprezzato) c’è una scena in cui Kei Yuki, la ragazza bionda dell’equipaggio, fa la doccia a gravità zero, volteggiando tra le gocce d’acqua. Scena che, nonostante la brevità, (e l’inutilità, aggiungerei) ha scatenato la fantasia di diverse fanfictionare, nonché di parecchi maschietti. Tra i quali, forse, anche il Capitano Richardson, che deve averlo visto…
 
E qui, cosa dire? Direi che siamo arrivati davvero in fondo, e i nostri due sono finalmente arrivati al dunque. Non credo di aver sforato nel rating rosso, ma se così fosse fatemelo sapere, okay?
A questo punto manca solo l’epilogo, (e direi che era anche ora, in fondo) giusto per dare uno sguardo a cosa succederà…dopo.

 
Ringrazio ancora, di cuore, tutti quelli che leggono questa storia, conosciuti e sconosciuti, e che hanno avuto il coraggio e la costanza di arrivare fin qui (senza morire di coma iperglicemico…)
Vi abbraccio forte!

 
Credo di essere rimasta nel rating arancione anche con i disegni. Dei quali, a differenza del solito, sono abbastanza soddisfatta.
E devo dire che mi sono divertita a farli, anche se mi hanno fatta sudare (in più di un senso...! ;P) L'ultimo, che io trovo stupendo, è di Morghana, che ringrazio come sempre tantissimo!

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Capitolo 49
*** Epilogo ***


~ EPILOGO ~
 
Dieci anni dopo
 
 
L’estate di Santa Barbara era calda e secca, come il vento dell’est che, spirando dal deserto, scompigliò i capelli biondo scuro di Pete mentre scendeva dal vecchio Ford Kuga. Anche se ora li teneva un pochino più corti, non aveva perso il vizio di dimenticarsi troppo spesso di farseli tagliare, e a trentasei anni, suonati da ormai sei mesi, continuavano a creargli tumulto sulla fronte proprio come dieci anni prima.  
Era di ritorno dall’università, dove aveva affiancato il Professor Marcus Brody1 che aveva tenuto una lezione su come gli Zelani, nel corso dei secoli, avessero sfruttato i più famosi e importanti siti archeologici terrestri per farne i loro avamposti, nonché covi per Mostri Neri, contro cui la Terra aveva combattuto un decennio addietro. Era l’argomento che Pete aveva scelto, a suo tempo, per la propria tesi di laurea e sul quale era piuttosto ferrato, avendo vissuto quei drammatici avvenimenti in prima persona.
Ebbene sì, alla fine aveva ottenuto la sua sospirata laurea in Archeologia, proprio come Fabrizia era riuscita a diventare veterinario, al prezzo di ore passate insieme, col naso affondato nei testi più disparati, dalla storia alla chimica, dall’arte antica alle patologie tipiche del gatto o del criceto. Pete ricordava quel periodo sempre con piacere: era stato impegnativo e faticoso, ma molto soddisfacente, poiché entrambi avevano amato, e amavano tuttora, ciò che avevano studiato.
Era anche vero che, durante quelle lunghe giornate di studio, a volte era capitato loro di distrarsi, ma bisogna dire a loro favore che non era mai successo prima di un esame importante e, anche se non erano usciti con il massimo dei voti, se l’erano cavata più che dignitosamente. In ogni caso, l’impegno di Pete con l’università, come quel pomeriggio, era solo saltuario: gli piaceva collaborare con l’Ateneo e con il suo anziano professore – a cui era molto affezionato – assecondando la sua vecchia passione; ma il suo vero lavoro era, come aveva, in fondo, sempre desiderato, volare e insegnarlo agli altri.

Per un anno, dopo la fine del conflitto, lui, Briz e il resto dell’equipaggio, avevano girato il mondo con il Drago Spaziale, portando aiuti materiali, umanitari e a volte anche solo morali. Per chi aveva perso beni, affetti e quant’altro a causa dell’Orrore Nero, vedere da vicino chi li aveva salvati, liberati e, in un certo qual modo, vendicati, era sempre e comunque psicologicamente utile, proprio come constatare che gli Eroi del Drago Spaziale – come tutti li chiamavano, loro malgrado – una volta finita la guerra non si erano dimenticati del resto del loro pianeta.
Allo stesso modo, era stato fondamentale il loro intervento nell’appoggiare i Governi dell’Alleanza Terrestre per perorare la causa dei profughi Zelani, che agli occhi di alcune nazioni era una questione ancora molto difficile da accettare; ma alla fine, con tempo, pazienza e collaborazione, anche quella faccenda si stava risolvendo, e gli alieni ora convivevano in modo più o meno pacifico e piuttosto amichevole con la maggior parte dei terrestri.
Negli anni successivi alle Missioni di Pace e alle dimissioni dell'intera squadra, il Drago Spaziale, il Gaiking e Balthazar, erano rimasti, insieme agli altri mezzi d’appoggio, a Omaezaki. Non c’erano minacce imminenti dallo spazio, ma i robot da battaglia erano mantenuti operativi per ogni evenienza, anche perché in quegli ultimi tempi a volte erano intervenuti, con un nuovo equipaggio, per sedare sul nascere qualche conflitto in giro per il Globo.
Infatti, come Fabrizia aveva ben previsto anni prima, i terrestri non erano tutti interessati al mantenimento della pace sul pianeta, e in alcune parti del mondo, dopo diversi anni di tranquillità pressoché totale, qualche scaramuccia si era ripresentata, anche senza che gli alieni c’entrassero qualcosa: questioni religiose, xenofobia, deliri di onnipotenza di qualche pazzo salito chissà come al potere… Insomma, la pace completa continuava ad essere un’utopia. La situazione sulla Terra era sicuramente migliore, rispetto agli anni precedenti la guerra contro Darius, ma era purtroppo chiaro come il sole che l’essere umano non sarebbe mai cambiato: non era capace di imparare dalla Storia, tantomeno dai propri errori.

Il Drago e tutti i mezzi annessi erano tuttora sotto la responsabilità del dottor Daimonji che, ancora in piena forma pur avendo da poco superato la settantina, era tuttora alla dirigenza del Centro di Ricerche di Omaezaki. Il dottore, grazie ad un nuovo team di giovani studiosi di ingegneria genetica, era riuscito, negli ultimi anni, a estendere la possibilità di pilotare Balthazar ad altri piloti che, insieme ad altri ragazzi e ragazze, erano stati sostituti più che degni dei precedenti.
E ora c’era un ulteriore nutrito gruppo di una nuova generazione di giovani che studiavano e si addestravano, per diventare il terzo equipaggio del Drago Spaziale. Tra tutti i loro nomi, alcuni spiccavano più di altri: per esempio quello del venticinquenne Hakiro Kobayashi, che stava scoprendo tutti i segreti del Gaiking; o quello di Yock Zenon, di un paio d’anni più vecchio, che aveva tutte le carte in regola per pilotare il Drago, e quello di sua sorella minore Lyra, che era in grado di connettersi perfettamente con Balthazar senza problemi di sorta.
Hakiro e Lyra, dopo una breve e innocente liaison adolescenziale, si erano persi di vista, ma da alcuni anni si erano ritrovati ai corsi di addestramento: il rapporto inquieto e litigarello che si era instaurato tra i due, ora che erano adulti, ricordava a Daimonji un’altra turbolenta coppia del primo equipaggio. Tutti avevano già intuito come stessero in realtà le cose, per questi due giovani che, tra un bacio e un diverbio, avevano comunque perso meno tempo dei loro due predecessori.
 
Durante l’anno successivo alla fine del conflitto, in cui lo storico equipaggio del Drago era stato Ambasciatore di Pace, c’erano stati anche i famosi impegni diplomatici, tanto temuti da Fabrizia e che invece, alla fine, la ragazza aveva imparato ad apprezzare. Non era stato poi così difficile tirare fuori la parte più femminile di lei, anche se il suo fidanzato aveva aiutato non poco, in questo. Ma aveva cominciato a tenere a freno la lingua, a muoversi con grazia e, udite udite, non diceva più le parolacce! Cioè… non in certe situazioni, per lo meno. Il pirata della Tortuga, a volte non poteva fare a meno di palesarsi, ma accadeva raramente, e solo quando proprio era necessario. Ma soprattutto, cosa che aveva stupito tutti, Briz aveva imparato a indossare un abito da sera non solo con disinvoltura, ma addirittura con classe. Fabrizia, Jamilah e Midori, ad ogni evento avevano lasciato senza fiato gli amici e i rispettivi fidanzati, nonché i vari presidenti, monarchi e relativi ministri e delegati.
 
89-Briz-Pete-gala 
 
Ma lei stessa aveva dovuto ammettere che Pete e i loro compagni con lo smoking erano davvero qualcosa di impagabile: persino Yamatake faceva la sua bella, pur se ingombrante, figura!
Naturalmente Briz aveva imparato anche a ballare il valzer e altre cose più impegnative.
Ecco, quello non era stato facile, non nel senso pratico in sé: il problema era che lei, considerandosi una schiappa e non volendo dare spettacolo, aveva deciso che Pete le avrebbe dato lezioni nella privacy della loro stanza. Se non che era questione di pochi minuti, una manciata di volteggi, e si ritrovavano a fare tutt’altro che ballare il valzer! Così, quando il numero di lezioni saltate era diventato improponibile, avevano optato per la palestra; ma pure qui, dopo aver scoperto che era sufficiente chiudere la porta a chiave per non venire disturbati, anche Fabrizia si era arresa, convenendo che non si potesse andare avanti in questo modo e decidendo che l’unico posto possibile fosse la terrazza o la sala comune, con o senza spettatori. E, senza nemmeno troppo stupore, le erano state sufficienti un paio di volte per capire come funzionasse: come Pete, a suo tempo, si era scoperto portato per cavalcare, per Fabrizia, imparare qualche classico ballo di coppia senza distrazioni inopportune – per quanto piacevoli – era stato uno scherzo.
 
Ridendo fra sé a quel divertente ricordo, Pete varcò la soglia della grande hacienda bianca, affacciandosi poi alla porta della cucina.
– Hola, Felicita! – salutò, alla vista della governante messicana che metteva insieme una delle sue ottime cene e che ricambiò il saluto con un sorriso.
– Hola, Pete! Bentornato!
Tra loro non c’erano formalità: Felicita e suo marito Joaquim – che si occupava del grande giardino, dei lavori manuali più pesanti e aiutava nella cura dei loro cavalli – erano stati l’ennesima sorpresa, per Fabrizia. I due, poco più che cinquantenni, non avevano figli e vivevano nell’ampia mansarda all’ultimo piano della grande casa: erano custodi della tenuta fin da quando erano giovani sposi, quando Pete aveva una decina d’anni e Tom circa un paio. Era stato del tutto naturale che rimanessero alle loro dipendenze, visto che la coppia non era mai stata considerata come servitù, ma parte della famiglia, e il loro aiuto era assolutamente indispensabile perché, nonostante Briz ce l’avesse messa tutta – e avesse effettivamente qualche piatto della cucina italiana come cavallo di battaglia – come cuoca era rimasta, in generale, un vero disastro; senza contare che il suo lavoro la impegnava parecchio, e stare dietro a una casa così grande da sola, sarebbe stata comunque un’impresa.
Pete attraversò l’ampia sala, dall’arredamento perfettamente equilibrato tra classico e moderno, e il suo sguardo, come spesso accadeva, si posò sulle quattro foto che facevano mostra di sé sulla mensola del grande camino.
In una era ritratto Alessandro a diciassette anni, con un sorriso scanzonato e gli occhi verdi e luminosi: più uguale di così a sua sorella, non sarebbe potuto essere; Pete aveva sempre pensato di dovere molto a questo ragazzo che il destino non gli aveva concesso di conoscere, ma ciò non gli impediva di amarlo come un altro fratello.
Nella foto più grande, che risaliva a circa sei anni prima, Pete e Briz si sorridevano, gli sguardi persi uno nell’altro, lui in abito scuro e lei con i capelli raccolti in un’elaborata acconciatura e un lungo vestito color avorio dal corpetto in pizzo e ornato di piccole perle. La ragazza sfoggiava un’espressione felice e soddisfatta, probabilmente per essere riuscita, un paio d’ore prima di quello scatto, a mettergli la classica corda al collo; anche se, in realtà, era difficile dire chi avesse accalappiato chi.
 
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E insomma, a un certo punto, senza troppo sfarzo e alla sola presenza dell’equipaggio del Drago Spaziale, della famiglia Del Rio, di Tom Richardson, George Blackwood e pochi altri, si erano anche sposati. 
Ospite d'eccezione, un occhialuto giornalista giapponese, col quale, dopo la fine della guerra, erano rimasti in contatto diventando grandi amici: Ippei Hondo. Il ragazzo aveva fatto poi una discreta carriera, grazie alle sue indubbie doti narrative e alle sue foto dal tocco artistico e incisivo. Briz e Pete gli avevano concesso l'esclusiva, sapendo che avrebbe raccontato il loro matrimonio, tramite le sue immagini e le sue parole, in modo divertente, originale e piacevole, ma mantenendo sempre toni sobri e non gossippari.
I Richardson non erano stati i primi, però, ad ufficializzare la loro relazione: Jamilah e Sakon, pur continuando tuttora ad intervenire periodicamente nei lavori di manutenzione e miglioramento del Drago Spaziale, erano tornati a vivere ad Auckland, in Nuova Zelanda; erano docenti all’università, e avevano compiuto il grande passo parecchio prima di Pete e Fabrizia.
Pete trattenne a stento una risata nel ricordare il momento, a due mesi dalla fine del conflitto, in cui Jami aveva dato l’annuncio ufficiale: lei e il suo Prof aspettavano un bambino, e lui era stato l’unico a non stupirsene più di tanto. Dopo alcune impertinenti illazioni degli amici, nonché un paio di calcoli buttati a caso, Jamilah non aveva potuto far altro che confermare, fugando il sospetto di molti: solo su Marte, per forza di cose, i due non avevano preso alcuna precauzione. Sakon non era uno che arrossisse facilmente, ma in quel frangente, con gli amici che, insieme alle felicitazioni, avevano fatto commenti più o meno mordaci sul fare centro al primo colpo – e per di più sotto pressione, come i due dovevano essere stati in quel momento – non aveva potuto fare a meno di diventare letteralmente paonazzo; ma la luce che gli si era accesa nello sguardo aveva rivelato quanto il diventare padre, pur così in fretta e all’improvviso, lo rendesse felice, tanto che, nel giro di altri due mesi, lui e Jami si erano sposati. Il loro bambino ora aveva nove anni, i capelli corvini e mossi di Sakon e la pelle ambrata e gli stupefacenti occhi chiari di Jamilah. Chiamarlo Martin, ovvero Dedicato a Marte, era venuto fin troppo naturale, ma la cosa che rendeva felice Sakon più di ogni altra, era che suo figlio era sì, un bambino sveglio, brillante e intelligente, ma assolutamente nei canoni. A differenza di lui, avrebbe avuto una vita normale, in scuole normali, con amici normali, dove non si sarebbe annoiato e si sarebbe anche divertito con i compagni della sua età.
 
87-Martin
Il dottor Daimonji si era ritrovato ad essere un orgoglioso nonno, ma Martin Gen era stato solo il primo, di una schiera di nipotini che alcuni dei suoi ragazzi gli avevano regalato.
Midori e Sanshiro – il quale era tuttora l’allenatore di baseball più richiesto del Giappone – erano rimasti a vivere a Omaezaki, dove Midori affiancava il padre nel suo lavoro al Centro e, talvolta, lo sostituiva più che degnamente. Avevano seguito anche loro la scia di Sakon e Jamilah, ma, più tradizionalmente, avevano prima pensato al matrimonio; successivamente erano nati i loro figli, un maschio e una femmina: Daisuke e Hikaru,2 che ora avevano sette e cinque anni. I due bambini erano bellissimi, ed erano l’ulteriore prova vivente, se mai ce ne fosse stato bisogno, che gli abitanti di Pijon erano esseri umani al cento per cento.
Stufi di fare gli eterni fidanzati, erano convolati a nozze anche Solange e Bunta, che ora avevano un figlio di sei anni di nome Koji,2/a e una figlia di tre, di nome Vivienne. Le loro professioni di oceanografo e biologa marina gli consentivano di lavorare insieme, ma li costringevano spesso in giro per il mondo; i bambini, però, li seguivano senza troppi problemi, e avevano una casa a Yokohama alla quale tornare dopo ogni viaggio.
Fan Lee e Yamatake avevano aperto in società una scuola di arti marziali a Shizuoka, la città la cui prefettura comprendeva Omaezaki. Erano la coppia di soci più improbabile che si fosse mai vista: il primo alto, asciutto, un po’ taciturno; il secondo incombente, chiacchierone e casinista. Ma andavano d’accordo, anche perché l’esuberante carattere di Yamatake era spesso tenuto a freno dalla simpatica ma pacata Kaori, la ragazzona che il lottatore, grazie all’intervento di Briz, aveva conosciuto dieci anni prima, alla festa sulla spiaggia, e che aveva sposato già da alcuni anni. Yamatake divideva equamente le sue attenzioni tra la scuola di sumo, il ristorante della moglie, e la piccola Mariko, di appena un anno, arrivata finalmente di sorpresa, quando ormai nessuno ci sperava più.
Quanto a Fan Lee, non si era ancora sposato ma, all’alba dei quarant’anni, finalmente, da qualche tempo frequentava Sakura, una donna dal carattere tranquillo, ma aperto e solare, che si completava perfettamente con l’indole riservata di lui… e che aveva la bellezza di dodici anni in meno. Era presto, per parlare di figli, ma avevano tutto il tempo per pensarci.
Ripensare ai suoi amici fece volare la mente di Pete a suo fratello e a Jessica Del Rio i quali, laureati in Medicina a Bologna, si erano poi trasferiti in America e si erano specializzati all’università di Santa Barbara: Tom in Pediatria e Jessie in Ginecologia e, subito dopo le specializzazioni, erano entrati a far parte di uno studio medico associato. Avevano appena cominciato a parlare di matrimonio e si ritrovavano già in procinto di mettere in pratica i loro studi, poiché Jessica era felicemente in attesa da circa quattro mesi.
Pete e Briz si sentivano zii di tutti i figli dei loro amici, ma il bambino, o bambina, di Tom e Jessie, sarebbe stato davvero loro nipote e, soprattutto, sarebbe stato lì con loro, nell’ala opposta della grande casa in cui vivevano, e questo li emozionava moltissimo.
Vivendo tutti sparsi tra Stati Uniti, Giappone e Nuova Zelanda, gli amici non si vedevano molto spesso, ma per fortuna Internet aiutava non poco a mantenere i contatti: raramente passava un giorno in cui almeno alcuni di loro non si sentissero, tra videochiamate, messaggi e invio di foto e notizie varie. In tutto ciò, vigeva un patto tacitamente sottoscritto: non lasciar mai perdere un’occasione per trovarsi di persona; e c’erano comunque le due volte all’anno, fisse e insindacabili, a giugno e dicembre, in cui si tenevano le adunate ufficiali in Italia, a Boscombroso alla fattoria dei Del Rio.
 
Il pensiero di Pete si spostò di nuovo, e con esso gli occhi che si posarono su altre due immagini incorniciate sulla mensola: anche lì erano ritratte due coppie di sposi, ma le fotografie erano datate, dai colori un po’ sbiaditi.
In una erano ritratti Andrea Cuordileone e Serena Monforte, i genitori di Briz; nell’altra, William Richardson ed Elizabeth McBride.
Quasi subito dopo la fine del conflitto contro l’Orrore Nero, il processo a carico di Will era stato riaperto in base alle rivelazioni di George Blackwood: le testimonianze di Tom e Pete, e di alcuni altri componenti dell’equipaggio della Blue Princess, circa i rapporti tesi di Rico Serrano con il Comandante Richardson, erano stati sufficienti a far riaprire il caso e mettere sotto indagine il portoricano che, messo alle strette, e forse fiaccato da anni di rimorsi, era alla fine crollato e aveva confessato il suo delitto. Il nome di Will Richardson era stato finalmente riabilitato e ricordato con tutti gli onori, e l’unica ombra che Pete sentiva nel cuore, ripensando a lui, era il rimpianto di non avergli mai potuto chiedere scusa per le pesanti frasi che gli aveva rivolto durante quel maledetto, ultimo litigio. Ma Briz, ogni volta che l’argomento saltava fuori, riusciva sempre a sollevarlo un po’: alla fine, la famosa storia che “La morte non è la fine di un bel niente, ma solo un ostacolo lungo il cammino”, lo convinceva del fatto che i suoi genitori, ovunque fossero, lo avessero perdonato di ogni cosa e continuassero ad amare lui e Tom e ad essere orgogliosi di loro; e la cosa era, ovviamente, assolutamente reciproca.

Un movimento improvviso accanto al caminetto attirò la sua attenzione, distogliendolo dai ricordi: da una delle teche illuminate e riscaldate, una Pogona vitticeps, altrimenti detta Drago Barbuto, originaria del deserto australiano, lo osservò curiosa e vagamente speranzosa.
– È inutile che fai la ruffiana con quello sguardo languido, Saphira!3 Non ti tiro fuori di lì, scordatelo! Ci penserà la tua degna padrona più tardi, se io glielo permetterò! – disse Pete, redarguendo l’animale e immaginando già Briz che, di lì a qualche ora, se ne sarebbe andata in giro per casa con il lucertolone su una spalla. Spostò lo sguardo nella teca superiore, dove facevano gli splendidi non uno, ma ben tre esemplari di Eublepharis macularius, i gechi leopardini dell’Afghanistan: due femmine e un maschio. Le due femmine erano le ultime arrivate e ciò non lo faceva ben sperare, circa il fatto che gli occupanti di quel terrario sarebbero rimasti in tre ancora per molto. Quella dei rettili era l’ultima passione che era spuntata in sua moglie e, sebbene lui all’inizio fosse molto perplesso, doveva ammettere che aveva finito per affezionarsi a quelle strane bestiole quasi quanto ai loro cavalli, e cani, e gatti, che, loro sì, erano già aumentati di numero ormai da tempo.
Atlas era un vecchio cane di quasi quattordici anni, col muso imbiancato e qualche acciacco che Fabrizia curava con dedizione e affetto, e persino Kora e Syrio, due grossi e giovani pastori australiani, sembravano quasi sostenerlo e proteggerlo. Al gatto Balto si erano aggiunti altri felini trovatelli – che all’inizio si erano limitati a bazzicare nelle scuderie ma, col tempo, come ogni gatto che si rispetti, avevano inevitabilmente finito per impossessarsi di buona parte della casa – ai quali Briz aveva affibbiato i soliti nomi presi dai suoi film preferiti, tipo Jyn, Solo e Rey.4 L’unico con un nome normale era il più piccolo, Teo, ma perché glielo aveva dato Pete.
I due mitici cavalli, Indy e Obi-wan, pur anzianotti tenevano botta più che bene, ma a far loro compagnia erano arrivati, da un paio d’anni, Cisco, Thunder e Moonlight.
Nella dépendance dietro alle scuderie si trovava l’ambulatorio veterinario di Fabrizia, al quale si accedeva, da un cancello sul retro, passando sotto a un’insegna di legno che ne recava inciso il nome: Noah’s Ark. Il nome era venuto fuori così, praticamente da solo, ma del resto tutta la loro casa, in generale, era davvero un’Arca di Noè.
Gettato un ultimo sguardo ai rettili, Pete si diresse all’esterno, attraversando il patio sul retro per raggiungere le scuderie, sicuro che avrebbe trovato lì sua moglie. Balto gli venne incontro strusciandosi contro le sue gambe e lui si abbassò ad accarezzargli il morbido manto bianco e rossiccio.
– Ehi, ciccione, è bello non fare un accidente dal mattino alla sera, eh? Più invecchi, e più diventi grasso! Forse è proprio vero che i cani ci insegnano ad amare, ma voi gatti a vivere! – commentò divertito.
Proprio in quel momento, i suoi due animaletti preferiti sbucarono dal portone spalancato della scuderia, correndogli incontro e saltandogli letteralmente addosso, senza nemmeno dargli il tempo di rialzarsi.
Quando ci riuscì, lasciò a terra il maggiore dei due, cinque anni appena compiuti, al quale stare in braccio non importava più di tanto: Alex ormai era grande, e gli bastava una scompigliata di capelli da parte di suo padre per sentirsi importante; capelli che erano identici a quelli scuri di Briz, proprio come la spruzzata di lentiggini sul naso. A dire il vero, quel bambino era la copia stampata di sua madre e, di conseguenza, dello zio di cui portava il nome, anche se in inglese: Alexander. Ma Pete aveva pareggiato i conti scegliendo come secondo nome William e prendendosi la soddisfazione di vedere che gli occhi di suo figlio, crescendo, erano diventati dello stesso azzurro intenso e trasparente dei suoi.
Alex corse di volata a sedersi sul recinto, a guardare Joaquim che faceva muovere alla corda Moonlight, mentre Pete li raggiungeva con la figlia in braccio.
Ecco, questa piccoletta di quasi quattro anni invece, che si era annunciata a sorpresa quando Alex era ancora un neonato, e aveva fatto il suo ingresso nel mondo a soli quattordici mesi dalla nascita del fratello, era uguale a lui: i capelli biondo scuro dai riflessi rossicci, il nasino diritto e l’espressione decisa, ne facevano una Richardson sputata, fatta e finita. Beh, proprio fatta e finita, magari no: anche qui, una spruzzata di lentiggini non mancava e gli occhi erano inequivocabilmente verdi, come quelli di Briz.
La prima parola di Alex era stata mamma, a quasi un anno di età, quando ormai disperavano di sentirlo pronunciare qualcosa. Invece, quando la piccola aveva pronunciato per la prima volta papà, a soli otto mesi, lui si era quasi commosso.
Briz lo aveva guardato, e aveva detto: – Pete, ha parlato! È un miracolo, così piccola! 
Lui si era ripreso immediatamente e aveva ribattuto molto seraficamente: – Bri, è tua figlia: il miracolo sarebbe se fosse stata zitta.
Ed effettivamente, ora, l’atteggiamento da adorabile streghetta nonché piccolo maschiaccio, insieme alla lingua sciolta, non lasciavano molti dubbi su quale ramo della famiglia avesse predominato, dal punto di vista caratteriale.
Del resto, i due nomi della bambina erano quelli dei nonni Cuordileone: AndreaSerena, e comunque Andy, come tutti la chiamavano, aveva davvero un debole per il suo fortissimo e bellissimo papà. Era un debole pienamente ricambiato, va detto: ogni volta, come in quel momento, che sentiva le braccine di sua figlia stringersi intorno al suo collo, a Pete sembrava di sciogliersi.
Aveva imparato da sua moglie e dai suoi figli, come l’amore potesse davvero avere mille modi e sfumature diverse, su come manifestarsi e riempire la vita.
Posò a terra Andy, non prima che gli avesse stampato sulla guancia un appiccicoso bacino, e la guardò, agile e svelta, nei suoi jeans e camicetta a quadretti, raggiungere il fratello. Joaquim sollevò Andy e la mise a cavallo di Moonlight, poi toccò ad Alex, che fu posto dietro di lei, e il bambino le passò le braccia attorno alla vita con un gesto protettivo. Adorava la sorellina, che faceva parte della sua vita da quando aveva memoria: c’era sempre stata, per lui. Erano ancora piccoli per andare a cavallo da soli, ma Moonlight – una giumenta di razza palomino di un sauro chiarissimo con la criniera e la coda argentee – era buona e tranquilla e, con Joaquim, erano in buone mani.
 
88-Andy-Alex-Moonshine
Pete scacciò il pensiero di come sarebbero stati questi due meravigliosi bambini di lì a dieci anni, in piena adolescenza, tra scuola, paturnie di crescita, innamoramenti vari e altre piacevolezze…
“Alt, affrontiamo un problema per volta!” si disse convinto.
 
Raramente Pete e Fabrizia parlavano della guerra contro l’Orrore Nero.
Gli incubi e i risvegli improvvisi che li lasciavano senza fiato, ansanti e sudati, col rumore dell’allarme o lo stridore delle battaglie che risuonavano loro nelle orecchie, non avevano risparmiato nessuno dei due: c’erano voluti mesi perché cominciassero a diradarsi, e diversi anni affinché sparissero quasi del tutto. Almeno, risvegliarsi nello stesso letto, insieme, era sempre servito a mitigare il disagio causato da quei sogni inquietanti.
Una volta cresciuti, i bambini avrebbero per forza imparato di essere figli di due guerrieri che avevano contribuito alla salvezza della Terra, ma lui e Fabrizia non li ritenevano ancora abbastanza grandi per capire appieno la situazione; e quando parlavano tra loro di quel periodo, non era quasi mai per ricordare gli scontri o i loro nemici, ma solo i legami con i loro compagni o le tappe del loro rapporto personale che, dopo quell’inizio disastroso, li avevano lentamente portati fino a quel momento. Però, ogni tanto, il nome di Zhora affiorava nei loro discorsi, a volte risvegliando il ricordo della paura provata durante quell’avventura – che aveva lasciato segni indelebili e tuttora visibili sulla loro pelle – altre invece finendo per strappare loro qualche battuta e risata.
 
Pete entrò nella scuderia, guidato dalla voce di Fabrizia che parlava con Indy in un italiano pesantemente inflazionato da un paio di accenti dialettali.
– Poggia in là, bischero! Mo sta’ fermo, dai… Sei un bel ciù, ve’!
Ecco, le sue ascendenze toscano-romagnole che ogni tanto si facevano sentire, e alle quali si era abituato: ogni tanto tirava fuori dei termini che lo facevano davvero ridere, come appunto ciùossia allocco, o il suo solito e collaudato “Dai, va là”, che conosceva ormai da tempo.
Sembrava stare bene, a giudicare da come continuava a cianciare con il cavallo.
A dire il vero, era un po’ preoccupato: quella mattina Fabrizia si era alzata pallida come un cencio e con la nausea, e nel giro di dieci minuti aveva vomitato l’anima. Poi era passato tutto e quando lui era uscito, a malincuore, per andare prima al campo di volo e, nel pomeriggio, all’università, Briz era di nuovo in perfetta forma e l’aveva mandato via accusandolo di preoccuparsi troppo. Ma lui le aveva strappato la promessa che sarebbe passata da Jessica, allo studio medico, a farsi vedere.
Era più di un anno che si erano messi alla ricerca del terzo figlio, ed era altrettanto tempo che ogni venticinque-quaranta giorni – Briz non era mai più stata regolare col ciclo naturale, dopo gli sconvolgimenti dovuti a quel dannato dispositivo ormonale portato più di due anni – dovevano fare i conti con la delusione. Ma avevano deciso di prenderla con filosofia: in fondo Briz aveva appena trentadue anni, e pure scarsi, avevano un mucchio di tempo, ancora. Se un altro bambino fosse arrivato, bene; se invece no, pazienza: non si poteva avere tutto, nella vita, e loro, al tutto, c’erano già molto vicini.
Il suo malessere di quella mattina li aveva fatti sperare, anche se vederla stare così male non gli era piaciuto per niente. Le gravidanze per Alex e Andy erano state delle passeggiate: Briz aveva sempre detto di non essere mai stata tanto bene come quando era incinta e aveva sfornato i pargoli con ragionevole facilità, affrontando travagli intensi, ma non troppo lunghi.
Pete era stato al suo fianco in ambedue le occasioni, non si sarebbe perso le nascite dei suoi figli per tutto l’oro del mondo, ma quando lei era in vena di prenderlo un po’ in giro sulle sue debolezze, gli ricordava senza pietà che entrambe le volte, nei giorni successivi, sembrava lui, quello che aveva partorito! E lui rammentava benissimo, anche se non lo avrebbe mai ammesso, che effettivamente, in quei concitati momenti in sala parto, aveva respirato e spinto quasi più di lei.
Ed eccola lì, ora: lo aveva sentito arrivare e gli andava incontro, nel calore della scuderia odorosa di fieno, una lama di sole rossastro a tagliare la penombra e ad illuminare il sorriso sulle labbra piene, i capelli raccolti in una treccia e la ciocca bianca che risaltava, accarezzandole il viso.
– Buenas tardeprofesor – lo salutò, prima di abbracciarlo.
Pete le sollevò il mento per baciarla, approfittando del fatto che i mocciosetti non potessero vederli e rompere le scatole con i loro: “Uffa, ma perché vi baciate sempre?”
In realtà, non è che passassero tutto il loro tempo libero a sbaciucchiarsi, ma chissà perché i bambini avevano come un radar, che consentiva loro di spuntare fuori come per magia ogni qual volta ciò capitava.
Aver affrontato due gravidanze aveva solo leggermente arrotondato le curve di Briz… nei punti giusti, reputava Pete, per il quale la compagnia di sua moglie, tenersela fra le braccia e fare l’amore con lei, erano ancora tra i privilegi migliori che la vita gli avesse concesso; e sapeva che la cosa era profondamente ricambiata.
Questo non significava che non discutessero mai, ma avevano imparato a conoscersi: Briz aveva l’arrabbiatura svelta, durante la quale urlava ed era capace di lasciarsi scappare robacce delle quali si pentiva immediatamente e di cui si affrettava a scusarsi, almeno quanto Pete si affrettava a dimenticarle; e  dopo si parlava. Lui, invece, aveva l’arrabbiatura lunga, che consisteva, quando qualcosa lo contrariava, nello smettere di parlare e tenere il muso per ore. Briz aveva imparato a lasciarlo ruminare e, anche in questo caso, dopo, si parlava.
Una volta, quando, agli inizi della loro relazione, Pete aveva superato i limiti e la crisi di mutismo gli era durata tre giorni – ora come ora non ricordava nemmeno più il motivo del litigio – Briz aveva sofferto moltissimo di questo suo comportamento. Quando finalmente avevano chiarito la cosa, lei gli aveva chiesto, abbracciandolo stretto, di non farlo mai più: qualche ora di silenzio per sbollire, la poteva comprendere e sopportare; di più, no. Pete aveva capito, e da quella volta avevano instaurato un patto, tra loro: non si andava a dormire senza aver fatto pace, a costo di metterci tutta una notte per risolvere una questione; e, finora, il sistema aveva sempre funzionato.
– Sei bellissima, lo sai?
– Anche tu, accidenti. Sei il prof barboso e secchione più sexy che conosca – gli disse, studiando il volto abbronzato di suo marito e pensando che quei dieci anni trascorsi avessero aggiunto fascino ai suoi bei lineamenti; in fondo aveva solo qualche ruga d’espressione in più, agli angoli degli occhi, perché rideva più spesso.
– Come stai? – chiese Pete affrontando gli occhi verdi di Fabrizia, nei quali aveva visto brillare una luce malinconica, o forse solo rassegnata.
La cosa non lo stupì più di tanto: aveva immaginato che il responso della dottoressa Jessie non sarebbe stato diverso da tutti gli altri di quell’ultimo anno e gli risultò evidente che Briz, quella mattina, avesse avuto solo un imbarazzo di stomaco.
– Sto bene, è tutto a posto – sospirò lei, chiudendo gli occhi e affondandogli il volto nel collo, godendosi il calore del suo abbraccio e il famigliare profumo della sua pelle.
Pete le accarezzò i capelli e la schiena e le baciò la fronte, reprimendo anche lui un sospiro di vaga frustrazione; era vero che cercavano di prenderla con filosofia, ma quel leggero senso di delusione si faceva vivo lo stesso, ogni volta.
Briz sollevò il viso e il suo respiro gli solleticò l’orecchio e i sensi, insieme alle sue parole.
– E vabbè… dopo tutto, i nostri figli non saranno tre. Dovremo farcene una ragione.
– Non angustiarti, fanciullina, non è colpa di nessuno, se anche stavolta non sei incinta.
– Pete…
– In fondo quelle due pesti bastano e avanzano, se ci pensi…
– Sì, ma Pete…
– Abbiamo tempo, ancora. Vorrà dire che avremo motivi per… divertirci insieme qualche volta in più.
La sentì soffocare una risata contro la sua spalla, poi lei si scostò per guardarlo in faccia.
– Pete, amore mio, guardami.
– Ti sto guardando: che sei bellissima te l'ho già detto oggi, vero?
– Sì, poco fa!
Il sorriso di Fabrizia si accentuò; la luce che le scintillò negli occhi lo abbagliò per un attimo. Ma… si era perso qualcosa?
Lei gli cinse di nuovo il collo con le braccia e se ne uscì con una strana cosa, sussurrata al suo orecchio.
– Ho detto che i nostri figli non saranno tre… non che non sono incinta.
Passò un secondo…
Due…
Tre…
…o forse quattro o cinque…
Pete le prese il viso tra le mani e la guardò incredulo.
– Oh! Mio! Dio!
– Eh… – fece lei, laconica.
– Ma… come abbiamo fatto a non pensarci mai, a questa eventualità? Dopotutto tu sei…
– …già: una gemella. Sì, era geneticamente possibilissimo… ma è accaduto solo stavolta.
– E perché tu mi sembri felice, ma non del tutto?
– Io non… non sapevo come l’avresti presa. Mi sembri perplesso anche tu, infatti.
– Beh, sì… Cioè, no! Insomma è… è fantastico, Bri! In fondo il posto e le possibilità economiche per crescerli non ci mancano. Sono solo… un po’ preoccupato per te.
– Ho scodellato gli altri due senza colpo ferire, Pete, non vedo perché dovrebbe essere così diverso; mia madre diceva di non aver avuto problemi, con me e Ale, ed eravamo i primi. Nella peggiore delle ipotesi dovranno farmi un taglio cesareo, ma sono una tosta, io. Dopo aver imparato a connettermi con Balthazar e aver combattuto con l’Orrore Nero, qualunque altra cosa sarà una bazzecola…
– Oh, questo è poco, ma sicuro. Io… scusa, sono solo un po’ frastornato – esclamò, stringendola forte, per poi allentare la stretta subito dopo, come se avesse paura di farle male.
– Ehi, sono un po’ più incinta delle altre volte, è vero, ma non sono di vetro: non mi rompo mica.
– Hai ragione, mi ci abituerò, suppongo. Io… oh, al diavolo, solo tu potevi farmi una cosa del genere! – poi non le diede modo di ribattere e la baciò appassionatamente, non prima che lei si fosse lasciata sfuggire un sospiro di sollievo.
– Oh, no! Alex, si baciano ancora! – gridò costernata la vocetta squillante di Andy, affacciandosi al portone seguita dal fratello.
Con espressione rassegnata, Pete e Fabrizia si staccarono e si guardarono.
– Ti amo, fanciulla selvatica – le disse, incurante dei bambini.
Briz gli accarezzò il volto, spostandogli i capelli dalla fronte.
– Lo so – fu la serafica e scontatissima risposta, che era ormai diventata un gioco tra di loro con la variante, a volte, di: “Sarà meglio!”
Briz aveva davvero temuto, per un attimo, che lui l’avrebbe presa piuttosto male, ma si diede della stupida: era di suo marito, che si parlava, quello che, dopo dieci anni insieme, riusciva ancora a sorprenderla… Anche se, quel giorno, era sicura di averlo battuto su ogni fronte!
Un vecchio detto recita che è un peccato, lasciar trascorrere anche un solo giorno senza essersi stupiti… e mentre Pete appoggiava istintivamente una mano sulla pancia ancora piatta di Fabrizia, entrambi non poterono fare a meno di pensare che, quello di non sorprendersi più a vicenda, fosse un rischio che, restando insieme, non avrebbero mai corso.
La loro vita era lì, in quei due fagiolini che si erano appena formati dentro di lei, e in quegli altri due nanerottoli che, stagliati fianco a fianco contro la luce del tramonto, nel vano del portone della scuderia, li osservavano con espressioni che erano un perfetto mix di disgusto e divertimento, ma che erano anche piene di quell’amore assoluto e genuino che solo i bambini riescono a mostrare.
La felicità era fatta di attimi, e i momenti difficili facevano parte di ogni vita degna di questo nome: ce n’erano stati in passato, e Dio solo sapeva quanto fosse stata dura affrontarli… E ciò non significava che non ce ne sarebbero stati altri in futuro, ma, per ora, il destino sembrava aver deciso di ripagarli di tutte le perdite e sofferenze subite.
Il programma che Briz aveva esposto sulla spiaggia di Omaezaki, una lontana sera di tanti anni prima, al loro stralunato amico giornalista, a quanto pareva, si stava realizzando, perché in quel preciso istante si sentivano, davvero, felici da fare schifo!
Pete passò un braccio intorno alle spalle della moglie e insieme si diressero all’aperto, mentre Briz prendeva la manina di Alex e lui quella di Andy.
L’ultimo particolare che i suoi occhi colsero, prima di uscire nella rossa luce del tramonto estivo, fu una frase, di quelle che piacevano tanto a Fabrizia, incorniciata in uno dei numerosi quadretti disseminati sulle pareti di legno della scuderia:
 
“La Vita ti porta in luoghi inaspettati.
L’Amore ti porta a casa.”
 
 
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FINE
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note:
 
1 Un mio piccolo omaggio a Marcus Brody, il simpatico professore della saga di Indiana Jones, capace di “perdersi nel suo stesso museo” di cui era direttore.
 
2-2/a Daisuke, Hikaru e Koji: i nomi dei figli di Sanshiro e Midori, e di Bunta e Solange, sono un piccolo tributo a Goldrake, essendo quelli di Actarus, Venusia e Alcor, nella versione originale giapponese.
 
Saphira: un altro piccolo tributo, alla dragonessa protagonista della saga fantasy “Eragon”, di Christopher Paolini.
 

4 Jyn, Solo e Rey, sono naturalmente nomi presi dai film di StarWars. Solo, non c’è bisogno di specificarlo, Rey dalla trilogia sequel, Jyn dal bellissimo e commovente “Rogue One”.
 
L’Italia è l’unico paese in cui Andrea è considerato un nome maschile; nel resto del mondo è femminile.
  
 
 
 
Pensieri finali e ringraziamenti dell’Autrice: (che piange…)
 
Scusate se mi dilungherò un po’, ma non posso farne a meno.
Ringrazio infinitamente e di cuore, chi ha voluto affrontare questa storia recensendola, finora. E cioè:
 

Kamony, ex Divergente Trasversale, che spero arriverà fin qui nonostante i suoi mille impegni, per l’entusiasmo che ha messo fin dall’inizio per questa cosa, per i consigli e la sua sincerità quando qualcosa non la convinceva, e che ha avuto l’onore di lasciarmi la PRIMA, nonché la CENTESIMA recensione. Ciao, cara, spero che ti trovi un po’ di tempo libero e a presto!
 
MiciaSissiper la sua puntualità e simpatia, che è tra quelle che mi hanno incoraggiata a pubblicare, e per i consigli vari che mi ha elargito soprattutto all’inizio, quando ero parecchio impedita. E anche per essere una cara amica, con la quale condividere risate in compagnia. Ma anche perché con la recensione a questo epilogo, sarà la PRIMA ad aver recensito tutta la storia! Un bacio e Grazie, Micia!
 
2015Robinche è una carissima ragazza, che è ancora indietro nella lettura, ma che spero un giorno arrivi anche lei a leggere queste righe! Ti aspetto, amica mia!
 
The Blue Devil, un maschietto, quale onore! Anche lui è tuttora indietro, ma ha promesso di finire. Grazie infinite, amico, per le tue recensioni al limite del surreale e tutte le rotture di scatole che mi hai propinato sugli accenti, gli apostrofi e altre mostruosità del genere, e per avermi segnalato errori un tantino madornali e pure imbarazzanti, facendo, come tu stesso ti sei definito, il maestrino fastidioso (ma ho imparato, un po', visto?) Ma grazie anche per essere stato disponibilissimo e tempestivo quando ti ho chiesto aiuto su come correggere i capitoli già pubblicati. Devo inoltre ringraziarti per avermi detto due cose fantastiche: 1) che questa storia potrebbe servire come trama per un remake di Gaiking migliore della schifezzuola che è stata fatta realmente; 2) hai detto che ti ho "rovinato" Gaiking perché ogni volta che lo guarderai ti aspetterai di veder spuntare fuori Briz che risveglia Pete dall'ipnosi col bacio, o cercherai senza trovarlo l'episodio con Zhora la panterona… sei troppo buono, davvero! Aspetto anche te qui al varco, sai, ci conto!
 
E… soprattutto, la mia amicissima Morghana, che cito per ultima solo per darle più peso. È arrivata praticamente per ultima, ma è stata la causa istigatrice di tutto! La ringrazio per aver amato questa storia, per non avermi denunciato alla webmistress di Efp accusandomi di aver copiato dalla sua “Burrasca nel Cuore” (ihihihih! Senza quella storia che mi aveva incuriosito, io non saprei né cos’è Efp, tantomeno le fanfiction), ma per avermi addirittura detto che era felice se mi aveva aiutata ad ispirarmi! In realtà ora ci ispiriamo e citiamo a vicenda, scambiandoci consigli, anticipazioni e battutacce, rischiando di strozzarci dal ridere! E la faccenda di un remake di Gaiking usando questa storia me l'ha tirata fuori anche lei, una volta... grazie, anche se non credo che Nagai e soci approverebbero, anzi temo mi fulminerebbero con l'Idroraggio...
Adesso sarò io a mandarti gli Arf Arf Arf, per avere gli aggiornamenti alle tue storie!   
E… che altro dire? Ti voglio bene, cara! Ci si sente! Sempre!


Faccio un'aggiunta speciale oggi, 2 settembre 2021, per un'altra amica speciale, che arriverà a questo punto tra qualche settimana: EleWar. A lei è dedicato il passaggio (anche questo aggiunto solo ora) del giornalista Ippei Hondo come inviato speciale al matrimonio di Briz e Pete. So che lei capirà e, spero, apprezzerà. ;)
Ele, grazie per la tua amicizia e per un mucchio di altre cose! So che non c'è bisogno di dilungarmi troppo, con te! Un bacione! 
😘
 
Vorrei puntualizzare che tutti i miei recensori sopra citati, sono anche autori, su Efp. (Qualcuno, ormai, anche fuori, da Efp.) Chi ha orecchi, intenda...
 
Un grazie infinite anche a tutti quelli che hanno letto (e magari leggeranno) in silenzio. E a quelli che hanno messo, o metteranno, tra preferite, ricordate o seguite. E magari vorranno recensire in futuro…
 
 
Beh, ragazzi. Che cosa posso dire? Sono arrivata in fondo. E devo dire che posizionare il cursore e mettere la spunta su "Completa", gesto che sanciva la fine di questa storia, non so se mi ha intristita o sollevata. È stata la mia prima storia pubblicata. Dopo così tanti capitoli, il Faro di Omaezaki, il Drago Spaziale, la mia protagonista sciroccata (e soprattutto quel gran figo del suo capitano…) mi mancheranno. Ma per fortuna resteranno sempre qui nel mio computer, su Efp per chiunque avrà voglia di leggere le loro avventure, e sicuramente anche un po’ nel mio cuore. Perché le nostre storie sono un po’ come i nostri figli (anche se le concepiamo con i nostri deliri, invece che con un marito/moglie). Però le partoriamo, letteralmente, e proprio come i figli, costano fatica, ore insonni, e magari anche qualche arrabbiatura e qualche lacrima. Ma di sicuro ci fanno anche fare molte risate e ci danno soddisfazioni, e tutto si compensa. E alla fine, sempre come i figli, bisogna anche… lasciarle andare.
Se sono riuscita a incuriosirvi, divertirvi e magari emozionarvi un po’, ho raggiunto il mio scopo.
 
Ah, dimenticavo. Qualcuno, o meglio qualcunA, mi aveva chiesto qualcosa su Fabrizia e Pete intenti a fare insieme una certa DOCCIA…
Ecco, i due protagonisti mi hanno detto di riferire a questa qualcuna, di farsi una portaerei di affari suoi.
In realtà io so il motivo per cui non vogliono parlarne.
Dopo il primo tentativo, hanno appurato che non è proprio come nei film, e che tra sapone negli occhi che brucia, fondo scivoloso con rischio di ruzzoloni, e soprattutto colpi inconsulti al rubinetto con conseguenti gelature e scottature… beh, sensualità e romanticismo sono andati a ramengo in un amen! Esattamente dove può andare anche il farlo nella doccia! Ci sono posti migliori!
(Ma siccome io sono un po’ suonata, nel 2020 ho fatto vivere questa esperienza a qualcun altro… la ff incriminata è nella sezione City Hunter,  è di cinque capitoli e ha per protagonisti Ryo Saeba e Kaori Makimura. Si intitola “Muschio & Vaniglia” e... è a rating 
rosso!).  
  
 
Vi abbraccio e, ancora, grazie di cuore, a tutti.
Marina

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