Inside

di Daymy91
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** #1 Capitolo ***
Capitolo 3: *** #2 Capitolo ***
Capitolo 4: *** #3 Capitolo ***
Capitolo 5: *** #4 Capitolo ***
Capitolo 6: *** #5 Capitolo ***
Capitolo 7: *** #6 Capitolo ***
Capitolo 8: *** #7 Capitolo ***
Capitolo 9: *** #8 Capitolo ***
Capitolo 10: *** #9 Capitolo ***
Capitolo 11: *** #10 Capitolo ***
Capitolo 12: *** #11 Capitolo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Salve a tutti! era un pò che non mi facevo viva con qualche fanfic su house md. 
In realtà ammetto di essere un pò stupita di me stessa per aver trovato la passione di riprendere a scrivere su questo meraviglioso tf! ...che dire dunque? spero tanto la storia vi possa piacere... io ho semplicemente provato ad immaginare un ipotetico seguitoo del finale della 5 stagione, andato in onda in america la scorsa settimana.

La storia non è conclusa e sinceramente non so quanti capitoli verranno fuori. Spero solo di riuscire a portarla avanti.
Si accettano sempre commenti e/o critiche. 

Enjoy it!

Myky91

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Inside

“La solitudine è come una lente d'ingrandimento se sei solo e stai bene stai benissimo, se sei solo e stai male stai malissimo.”

(Giacomo Leopardi)

 

 

 

 

“Ho sempre creduto di essere un uomo forte. Ho fatto i miei errori… ma son sempre stato capace di superarli e di andare avanti.- l’uomo sorrise amaramente – ma credere, non sempre basta a sfuggire alle paure e alla sofferenza.”
“Per questo sei morto?” Gregory House riuscì ad attirare il suo sguardo.
“Sono morto perché così doveva essere.”
“E tu perché sei morto?” sussurrò una giovane donna con sguardo curioso e pungente.
House si voltò a guardarla, infastidito “Io non sono morto. Tu lo sei.”
Amber sorrise “Dipende dai punti di vista.”
Kutner si mise in piedi con fare piuttosto pacato “Sei in una clinica psichiatrica.”
“Già. Chissà perché!!”
“Wilson dice che guarirai.”
“Tutti lo dicono.” bisbigliò House zoppicando verso la finestra e fermandosi a contemplare il paesaggio che quel terzo piano gli regalava da ormai due mesi.
Amber si avvicinò al suo viso “Ma nessuno ci crede.- gli sussurrò – Tu per primo.”
Un tonfo.
Ancora.
A lui stava benissimo… ormai non lavorava più, passava le sue giornate chiuso in quella stanza… gli stava bene in fin dei conti avere un po’ di compagnia. Ciò che invece detestava era ciò che la “compagnia” diceva. Cose che difficilmente potrebbero fare rimarginare ferite.
Cose che, per quanto lui volesse dimenticare, mettere da parte, venivano invece dette e ripetute.
Sempre.
Da chi poi?
Da se stesso.
Dal suo subconscio.
“Qui ci sono dei bravi medici… mi rimetteranno in sesto.”
Kutner sorrise “Fortuna che sei rinchiuso qui dentro. Ti vedessero i tuoi collaboratori, i tuoi ‘sottoposti’… cosa direbbero? – fece una pausa riflessiva, poi riprese – cosa direbbe Cuddy?”
“Lasciatemi in pace!”
“Ma... al momento non è che dica molto – sospirò Amber, ora seduta sulla scrivania della camera, le gambe accavallate come di suo solito – è da quando sei qui dentro che non si fa sentire. Be.. del resto non c’è da stupirsi dato che ormai non frutti più niente al suo amato ospedale.”
“Non mi interessa.” sussurrò House, chinando debolmente il volto mentre dava ancora le spalle al resto della camera.
“Pensavo ne fossi innamorato.”
“Concordo… lo pensavo anche io.” Kutner disse anch’egli la sua nel solito modo ingenuo con cui spesso, quand’era in vita, partecipava alle diagnosi.
“Sta zitto tu.”
“Un altro buco nell’acqua. – esclamò Amber facendo spallucce – come con Stacy del resto. Noi, in realtà, non siamo capace di farci amare.”
A quell’esclamazione House si voltò a guardarla, stanco di ascoltarla, stanco di sentirsi dire tutto ciò che lei le diceva, stanco di doversi subire se stesso. 
La guardò dritta negli occhi, uno sguardo gelido… uno sguardo vuoto.
La donna alzò leggermente la spalla sinistra, guardandolo con rammarico  “Non hai mai fatto l’amore con lei Greg. Smettila di crederci. Lei non è mai stata al tuo fianco.” 

Toc! Toc! Toc! 

House trasalì all’improvviso bussare della porta.
“Avanti!”
Un uomo con il camice bianco l’aprì con fare deciso, lasciando spazio ad una seconda figura: James Wilson.
L’oncologo aspettò che il medico che l’aveva accompagnato lì se ne andasse. Poi iniziò:
“Hei. Come va?”
“Va.”
“Va male o va bene?”
“è un indovinello?”
Wilson sorrise, capendo che forse era meglio cambiare discorso ma House lo precedette: “Era da un po’ che non venivi a trovarmi”
“Ho avuto da fare con il lavoro. – rispose l’amico – Sono un oncologo, ricordi?”
House lo guardò seccato “Wilson… ho allucinazioni, non sono rimbambito.”
“Ci mancherebbe.”
“Allora…- il diagnosta sembrò voler lasciar perdere tutto adesso e, mostrando un sorriso, zoppicò verso l’amico – Cosa mi hai portato di bello questa volta paparino? Dolcetti? Caramelle? un bel film porno?.. ti prego dimmi di si!!”
Wilson sorrise divertito, alzando all’altezza del viso un pacchetto “Biscotti.”
Amber fece una smorfia “meglio di niente.”
“Io avrei preferito delle ciambelle.” brontolò Kutner.
“Uff… avrei decisamente preferito un porno. Anche se le opinioni al momento divergono… Kutner fa il difficile.”
Wilson spacchettò il pacco, offrendo all’amico i biscotti poi, con aria seria, aggiunse: “Così continui a vederlo.”
“A quanto pare si.” bofonchiò il diagnosta, mettendosi in bocca un biscotto e cercando di mostrare un’aria tranquilla.
Ma nonostante tutto, Wilson non riusciva a fare altrettanto.
“Sono due mesi che stai qui dentro… speravo che almeno qualche progresso l’avessi fatto.”
“Sono solo un paziente caro James Wilson… non più il Dr. House. La mia mente adesso è nelle mani di quegli idioti… ops! Cioè, volevo dire, bravi medici!”
“Piantala di fare il cretino. – Wilson poggiò i biscotti sul comò per poi tornare di fronte a lui – Credi che sia facile vederti chiuso qui dentro? Venirti a trovare solo nei ritagli di tempo… e scoprire che nonostante tutto non sia cambiato nulla?”
“E tu cosa credi che sia facile per me?! – House era serio adesso, lo sguardo fisso in quello di Wilson – Giorno e notte chiuso qui dentro! Pagherei per poter uscire a farmi un giro in moto… il dolore alla gamba pulsa giorno e notte ma nonostante tutto, ho continuato a non prendere Vicodin. Credi che sia facile!?!”
“House… ti prego, non adesso, non qui…”
“è facile parlare, non è così?”
Wilson annuì, conscio di aver sbagliato “House, scusami. Non intendevo…”
“So benissimo cosa intendevi. – disse il diagnosta, ora con un tono più pacato mentre, deviando lo sguardo di Wilson, andava a fissare il sorriso di Amber che era ancora ferma, immobile ed impassibile a godersi la scena – E se tanto ti viene dura prenderti quei 20 minuti a settimana per venire a farmi la predica… tanto vale che te li risparmi per leccare un altro po’ il culo a Cuddy.”
Wilson rimase immobile, sorpreso dalla freddezza di quelle parole.
House soffriva… soffriva più di quanto aveva sofferto negli ultimi 4 anni. Sia emotivamente che fisicamente.
Era stato un’idiota. Ciò che avrebbe dovuto fare, in quanto suo amico, era semplicemente andare da lui.. fargli compagnia, ridere, scherzare. E invece, gli aveva fatto pressione e, adesso, la sua reazione era più che giustificata.
“Ok.” bisbigliò, mettendosi le mani sul volto in un gesto di stanchezza. Avrebbe voluto aggiungere dell’altro… ma contemporaneamente non ne ebbe la capacità per farlo. Fece cadere pesantemente le braccia lungo i fianchi, guardando nuovamente il viso di Gregory House, poi, con fare sbadato, decise di lasciare la camera… conscio che con quel gesto dava inizio ad un lungo periodo di solitudine. 

La porta si chiuse.
Nella stanza tornò a regnare il silenzio.
“Che fai? Perché non gli vai dietro!?- esclamò Kutner, ora in piedi a lato della porta – Diamine House! Lui è Wilson!!”
Amber si distese divertita sul letto  “ …e adesso, Gregory House, sei veramente solo.” 

 

E quelle parole rimbombarono nella sua testa per tanto, tanto tempo.

 

 

 

 

 

 

 

 To be continued…

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Capitolo 2
*** #1 Capitolo ***


Grazie a tutti per i bellissimi commenti!!!^^
Sono contenta che la storia vi piaccia… e spero potrà piacervi anche il seguito. Anche perché, se così non sarà, mi dovrò ritenere sconfitta come scrittrice. U.U  Ma migliorerò, ve lo prometto! ç.ç *sta facendo tutto lei*


Deliri a parte, veramente.. grazie a tutti per le bellissime recensioni!!^^
LadyT.. vedrai lati di me che non penseresti mai di conoscere! XD

Vi lascio questo primo chap! Spero vi piaccia!^^ 

Enjoy it!

Miky91

 

CHAP 1

I migliori momenti dell'amore sono quelli di una quieta e dolce malinconia dove tu piangi e non sai di che, e quasi ti rassegni riposatamente a una sventura e non sai quale.

(Giacomo Leopardi)

 

 

La notte era scesa.
Il giorno si era concluso.
Il vento soffiava freddo tra le persiane mentre, il picchiettare della pioggia, difficilmente avrebbe permesso a Lisa Cuddy di riuscire a far addormentare Rachel.
La stringeva al petto, cullandola dolcemente. Riusciva a percepire i suoi battiti, il suo respiro… così tenero e così dolce.
Da quanto tempo desiderava stringere a se una bambina? Da quanto desiderava avere una bambina da allattare, da accudire, da amare….?
Tre anni.
E adesso, finalmente, sua figlia era tra le sue braccia.
Tre anni di desideri, speranze, e, inevitabilmente, anche sofferenze. Tutte cose che però aveva condiviso con una persona…. con lui.
Cuddy sorrise vedendo Rachel fare un piccolo sbadiglio mentre, ormai assonnata, si rannicchiava ancor di più sul suo petto.
Erano proprio quei piccoli gesti che le riempivano il cuore di gioia, che la facevano stare bene sia come donna che come madre.
Che le facevano dimenticare tutto ciò che era successo in quel periodo… anche se per pochi attimi.
L’ospedale ormai senza Gregory House era come un contenitore vuoto, o forse, lo era semplicemente lei.
I giorni erano monotoni, infiniti nella loro limitatezza. Il tempo, ora dopo ora, sembrava non aver più voglia di fuggire.
Le mancavano i suoi scherzi, i suoi giochi di potere, i loro battibecchi, i suoi insulti persino.
Le mancava tutto di lui.
Alle volte chiudeva gli occhi e lo immaginava irrompere nel suo ufficio con in mano dei documenti da firmare per chissà quale impossibile operazione, altre invece, lo immaginava giocherellare con quella pallina rossa e grigia che tanto amava e che tanto gli era utile per i casi più disperati.
Ma tutto questo, lo sapeva, non sarebbe avvenuto…perché lui non era più al suo fianco.
Chiuse gli occhi, cercando di ricacciar indietro quei tristi pensieri, legati poi a dei stupidi sentimenti di un amore impossibile.
Un amore che lascia la sua impronta solo nella sofferenza.
Sospirò debolmente, notando che adesso Rachel si era completamente addormentata.
“Buona notte piccola.” le sussurrò, dandole un bacio sulla fronte e deponendola nella culla. 

Si diresse in cucina, mettendo sul fuoco un po’ d’acqua.
Erano le 21:00... e tuttavia non aveva cenato.
Indossava ancora il tailleur che aveva messo per andare a lavoro e, adesso, ciò di cui aveva veramente bisogno era un bel bagno caldo.
Ma l’improvviso picchettare alla porta le fece svanire ogni speranza di un po’ di relax.
Eppure, per quanto stanca potesse essere, non appena aprì la porta e vide James Wilson di fronte a se, il suo volto si illuminò, ringraziando il cielo che l’oncologo fosse riuscito a trovare il tempo di venirla a trovare.
“Wilson!- esclamò contenta – Vieni entra o ti bagni.”
“Ciao Cuddy…” l’oncologo seguì il consiglio, entrando velocemente per evitare la pioggia.
Cuddy gli sfilò via il giaccone, attaccandolo all’appendiabiti “Pensavo di vederti domani a lavoro.”
“Ti avevo detto che se ce la facevo passavo.”
Lei annuì, facendo accomodare l’oncologo nel salone e, non appena vide che si era sistemato nel divanetto, iniziò: “Com’è andata?”
Wilson scosse il capo sospirando, mentre dal suo sguardo traspariva stanchezza “Non riesco più a stabilire un dialogo con lui.”
“Ma sta bene almeno?” domandò preoccupata la dottoressa, sedendosi al suo fianco.
“Ho parlato con i suoi medici e mi hanno detto che hanno provato a fargli un po’ di test di routine… per confermare che si ratta di un problema mentale.”
“Che imbecilli.” sbotto Lisa seccata.
“Scoperto che non aveva nulla di fisico, sono passati ad analizzare il problema mentale. L’hanno sottoposto a vari test sulla concentrazione, altri sul linguaggio… tutto negativo. Secondo ciò che fino adesso hanno fatto, House è in piena salute mentale.” concluse Wilson con rassegnazione, come se cercasse di auto convincersene.
Cuddy abbassò lo sguardo “Almeno non è schizofrenia.”
“Qualcosa deve essere. Non posso pensarlo chiuso là dentro senza che possa ricevere un aiuto vero e proprio.”
“E lui… come sta? Avete parlato?”
“È frustato.- Wilson si portò una mano sugli occhi, facendo tornare i pensieri a quel che era accaduto quel pomeriggio – Non sopporta più la mia presenza. È arrivato al punto da cacciarmi via perché gli avevo chiesto se c’erano progressi. –fece una pausa, inumidendosi le labbra - Lo sto perdendo… e non sono capace di evitarlo.”
“Non è colpa tua.” lo consolò Cuddy, non riuscendo più a trattenere un’espressione di tristezza.
Wilson annuì amaramente “Intanto sarà meglio evitare di andare da lui per un po’. È arrabbiato, frustrato, e soffre a causa delle allucinazioni. Se torno da lui gli farei ancora del male.”
Il pentolino che pochi attimi prima Cuddy aveva messo sul fuoco iniziò a fischiare improvvisamente, costringendo la dottoressa ad andare a spegnere il fornello.
Solo ora Wilson stava notando l’abbigliamento elegante di Cuddy e, guardando l’ora, aveva capito che probabilmente la dottoressa non aveva avuto nemmeno il tempo di cambiarsi o di mangiare. Si alzò, pensando che probabilmente era meglio andar via… del resto ciò che le doveva dire gliel’aveva detto. E poi anche lei meritava un po’ di riposo.
“Sarà meglio che vada.” urlò dal salotto, mettendosi in piedi e prendendosi la propria giacca.
Lisa lo raggiunse nel corridoio qualche secondo dopo “Se vuoi… posso andare io a trovare House.” sussurrò.
“No.”
“Wilson… sono due mesi che è lì dentro e io non sono mai..”
“Ed è meglio cosi.” esclamò l’oncologo, andando per aprire la porta.
“Dannazione, mi vuoi spiegare il perché!? - sbottò Cuddy, strappandogli di mano la giacca e costringendolo a guardarla in faccia – Mi hai detto di non telefonargli, di non farmi sentire… mi hai detto di non andarlo a trovare e che mi avresti portato tu sue notizie. Ho fatto come dicevi perché mi fidavo…ma se adesso tu non ci vai, se adesso non potrò sapere come sta, come pensi mi debba comportare io!? Dammi solo una ragione per lasciarlo marcire là dentro in solitudine!”
Wilson abbassò lo sguardo, riflettendo sul da farsi.
Cosa avrebbe dovuto dirle?!
No, non ci andare, perché se ti vedesse starebbe peggio?  Perché in realtà ciò che l’ha portato a tutto questo è stato il credere di averti amato?!’
“La cosa migliore al momento è lasciare che i medici facciano il proprio lavoro. – si limitò a dire dopo un attimo di riflessione – Se tu ci andassi, House starebbe peggio perché capirebbe quanto gli manca la sua vita. È per questo che io non ci andrò più. Non voglio farlo soffrire più di quanto già non soffra. – fece una pausa, guardandola negli occhi – E poi… non penso gli farebbe piacere farsi vedere da te ridotto in quelle condizioni.”  
Cuddy esitò un attimo poi, stanca, gli porse la giacca “Ok... anche se non penso sia una soluzione tutto questo.”
“Diamogli tempo. – le rispose l’oncologo, indossando l’indumento – Spero solo che vada tutto bene.”
“Spero solo che tu non ti sbagli.” puntualizzò Cuddy.
Wilson annuì colpevole, conscio che, nonostante la sofferenza che questa decisione stava procurando sia a Cuddy che ad House, tutto questo era la cosa migliore.
“Lo spero anche io.” concluse, uscendo di casa e lasciando la dottoressa immobile davanti la porta.
Cuddy fissò il freddo legno del portone oltre il quale immaginava la figura di Wilson allontanarsi.
Vide anche un’altra figura allontanarsi… non dalla sua casa ma da lei, e non era di certo Wilson.
Rimase immobile mentre le lacrime scesero silenziose sulle sue guance.
Che Wilson le stesse nascondendo qualcosa era palese quanto il colore marrone del cioccolato… ma la cosa che più le faceva rabbia era che, ne era certa, in qualche modo rientrava con House.
E il dolore di non poter conoscere la verità, il dolore di non poterlo vedere, di non potergli stare accanto… la fecero immediatamente scoppiare in un pianto dirotto che difficilmente, quella sera, si sarebbe arrestato.

 

 

To be continued…

 

 

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Capitolo 3
*** #2 Capitolo ***


CHAP 2

Il buon senso c'era: ma se ne stava nascosto per paura del senso comune.

(Alessandro Manzoni)

 

 

La pioggia aveva presto lasciato spazio ad una serena mattinata.
L’umidità della notte si era asciugata, permettendo ora, a chiunque volesse, di uscire a fare un passeggiata.
Lo stesso fu per coloro che popolavano il Myfield Psychiatric Hospital.
 

“Uff… che noia.” Amber sospirò, portando il braccio sullo schienale della panchina sulla quale era seduta.
Kutner fece spallucce, alzando lo sguardo al celo “Almeno è una bella giornata.”
“Sai che bello.- fu l’acida risposta di House ad entrambi – Noia dentro, noia anche fuori.”
“Beh, c’è un lato positivo al fatto che siamo in tre. – Kutner sorrise. – Potremmo sempre inventarci un passatempo.”
House lo guardò torvo “Come tentare di capire perché mi state assillando la vita?”
“Beh. La risposta è semplice: sei impazzito. Mi dispiace.” puntualizzò il giovane indiano con ovvietà, mettendo le mani nelle tasche del proprio camice.
“Grazie. Ora si che va meglio.”
“Infondo, il problema è solo questo. Non ci sappiamo rassegnare alle risposte che in realtà sono… a noi serve la ricerca di ciò che c’è dietro. Dell’impossibile.” Amber fece cadere il proprio braccio sul collo di House che, ignorandola, rimase immobile a riflettere.
Ci sono 2 motivi per i quali una persona non tenta un suicidio House. – la interruppe Kutner, come se stesse leggendo la mente del diagnosta – O ha la forza di andare avanti, o si tratta di una persona che ama convivere con la vita e le sue sofferenze. Nient’altro. È semplicemente questa la vera ragione. Inutile perdere tempo in risposte palesi.”
“La verità è che non ne esiste gente felice in questo mondo. Nel mondo si distingue la gente capace di resistere, e la gente capace di arrendersi.” Amber si stiracchiò le braccia, con fare rilassato.
“Il mondo fa schifo.” fu il secco commento di House ad entrambi, voltando lo sguardo nel tentativo di ignorarli. Nel tentativo di non starli a sentire.
Ma era difficile del resto.
E difficile fu ignorare la domanda che, poco dopo, Kutner gli fece:
“ …e tu in cosa sei capace, House?” questa volta il giovane medico era serio, rispecchiando perfettamente lo stato d’animo che si poteva leggere sul volto del diagnosta: Cupo, duro e privo di emozioni.
“Stai forse dicendo che dovrei suicidarmi anche io? Lasciatelo dire, non hai proprio fantasia.” House si sforzò di fargli un sorriso sarcastico, ma in realtà sapeva che non era Kutner a dire questo.
“Non te lo sto venendo a dire io. Ricordi? ‘Io sono te tu sei me’?”
Amber si avvicinò al suo orecchio, iniziando a giocherellare con le sue ciocche dorate “Forse è questo il motivo per cui sei così ossessionato dalla morte di Kutner. Forse vuoi semplicemente scoprire cosa c’è al di là… qual’è il suo vero significato. – gli sussurrò. Rifletté un attimo, incerta, poi riprese -Nessuno di tutti e tre è felice. Ci hanno messo qui dentro, rinchiusi. A nessuno importerebbe del resto. Perché non provare? Sarà interessante.”
Kutner sorrise ad Amber, squotendo debolmente il capo. Poi si rivolse ad House: “Ma forse c’è qualcosa che va oltre tutto questo. Qualcosa che ti lega a tutto questo. Non è così?”
House questa volta rise di gusto, mettendosi una mano sugli occhi e portando il capo all’indietro, permettendo al sole di illuminargli le gote “Certo che sono ridotto proprio male.” sussurrò. 

“Così sembrerebbe.”
Una voce nuova ed improvvisa ruppe la quiete che per pochi istanti si venne a creare.
House riaprì gli occhi, focalizzando lo sguardo sulla nuova figura.
“Noi non ci conosciamo, suppongo.” esclamò dubbioso, iniziandola a squadrare.
Era una bella ragazza, probabilmente sulla trentina. Portava i capelli, lisci e scuri, alla lunghezza delle spalle mentre il vestito, elegante ma non troppo, le risaltava le forme ed i fianchi.
Per qualche istante House credette che fosse un’allucinazione anch’ella. 
Ormai era ordinaria amministrazione vedere cose impossibili. Allucinazioni, gente morta che gli parla, ragazze da urlo che si intromettono nei suoi discorsi di suicidio…
“Mi chiamo Jenny Dawson – le sorrise la ragazza, porgendogli la mano in segno di saluto – Tu invece sei Gregory House, giusto?”
House fissò la sua mano per qualche istante. No, decisamente non era un’allucinazione.
“Se sei venuta qui per rapirmi e portarmi via con te... si, sono Gregory House. Altrimenti, mi dispiace, hai sbagliato persona.”
Lei gli sorrise divertita, sedendosi accanto a lui sulla panchina “Immagino ti abbiano già parlato di me.”
Lui si pose un dito sul mento, fingendo una finta riflessione “Già. Il medico del secondo piano dice che di notte fai scintille” bisbigliò, alzando il sopracciglio destro con espressione maliziosa.
“Sono la tua psicologa.” le rispose lei, ignorando la battuta.
“Sul serio? Allora mi è finita bene dopo tutto…”
“Cercando di far finta di non sentire ogni tua allusione a fatti e/o persone che abbiano in comune riferimenti sessuali… - Iniziò lei con un sorriso – Durante questo mese dovremmo lavorare un po’ su di te. Chissà che non riusciamo a risolvere qualche problema.”
“E cosa ti fa credere che io parlerò con te?”
“Parli con i morti. Cos’è, mi reputi inferiore a loro?”
“Questa è cattiva.” commentò Amber allibita.
Gregory House la fissò ancora un attimo, indeciso sul da farsi. Poi aggiunse: “Come te la cavi con le terapie di coppia?”
“Ti dirò…- Jenny gli si avvicinò a pochi centimetri dal volto ma, anche allora, House non mosse un muscolo, tanta era la sua curiosità di studiare quel nuovo personaggio – Non sono molto specializzata in quel campo.”
Il diagnosta rimase imbambolato per un attimo, poi sussurrò stordito: “Peccato. Hai delle gran belle doti...”
Da quanto tempo non faceva un po’ il cascamorto con le donne?
La verità?...troppo.
Ah, quanto amava perdere tempo in quelle frivolezze!!
“E tu invece? – riprese Jenny, dimostrando una forte sicurezza di sé e delle sue intenzioni – Come te la cavi con le terapie di coppia?”
La domanda aveva lo stesso tono malizioso con il quale le era stata posta da House qualche istante prima ma, diversamente, il significato era un altro.
E questo House lo capì subito: si mise in piedi, serrando il bastone sotto il palmo della mano e ponendosi finalmente da un punto di vista più alto.
“Non prendertela a male, Jenny, ma a prescindere… che siano vecchi decrepiti o donne da urlo con tanto di “prendimi-sono-tua” scritto in fronte, io odio gli psicologi.” esclamò con un tono improvvisamente freddo e privo di scrupoli, prima di voltarsi ed allontanarsi da lei e da quella maledettamente scomoda panchina.
Si sarebbe aspettato un po’ più d’insistenza da parte della ragazza, ma, non appena si voltò a sbirciare cosa in realtà ella stesse facendo, la vide cogliere un fiore ed iniziare ad annusarlo come una bambina che sente per la prima volta un profumo. Come se, in realtà, era contenta per qualcosa… anche se la domanda che nacque in lui in quell’istante fu: Di cosa?
Scosse il capo.
“Pff!... donne.” bisbigliò, questa volta ignorandola del tutto.
Ma ciò che egli non vide fu il sorriso che lei fece non appena House entrò in clinica.
E ciò che lui ancora non sapeva era che quello sguardo deciso e sicuro che seguì quel gesto avrebbe fatto, ben  presto, cadere i muri più pesanti. 

Gregory House entrò in clinica, seccato.
Non c’era più alcun divertimento a prendere in giro le donne se poi non ti inseguivano per vendicarsi, se poi non ti venivano dietro urlando il tuo nome ed iniziando a discutere con te per chissà quale strana ragione.
La verità era che fin troppo gli mancava la figura di Cuddy.
I giochini, i battibecchi, le prese in giro… gli mancava tutto di lei.
“Smettila di pensarci.- tuonò Amber alle sue spalle – Lei non ti ha mai amato. Mettitelo in testa!”
A quelle parole House si fermò improvvisamente, stringendo l’impugnatura del suo bastone fino a far diventare bianche le nocche per lo sforzo.
Kutner era sparito. Adesso c’era solo Amber lì con lui.
“Dov’era lei quando tu stavi male? Dov’era lei quando avevi bisogno di una mano?... nelle tue fantasie?! È per questo che la adori tanto? Perché è brava nei suoi ruoli, a recitare i tuoi siparietti? –le prole della donna gli rimbombarono in testa. Erano dure, fredde. Ma in realtà.. era proprio il suo subconscio che gli stava urlando tutto quello. E lui lo sapeva. Ma più di qualsiasi altra cosa, per quanto strano potesse risultare, in quei momenti, desiderava solamente non sentire quel lato razionale di se stesso. – E adesso che tu avresti realmente bisogno di lei.. dov’è?”
House chinò il capo, lasciando leggermente la presa dal bastone, favorendo nuovamente la circolazione del sangue.
“Tu non esisti. Sei solo il frutto della mia fantasia.”
Amber si mise davanti a lui, lo sguardo severo “Ma diversamente da qualsiasi altra fantasia… io ti dico ciò che è giusto per il tuo bene.”
“Se l’avessi piantata di ascoltare me stesso per il ‘mio bene’… a quest’ora non sarei qui.” esclamò il diagnosta, oltrepassandola e tirando dritto per l’ascensore.
House finalmente aveva capito cosa legava lui con tutti i malati che stavano in quella clinica: le scelte.
Per tutta la sua vita aveva sempre fatto scelte sbagliate… scelte che l’avevano portato a soffrire. Per cosa poi? Per il semplice piacere di farlo.
Perché Wilson aveva sempre avuto ragione… lui amava la sofferenza. Ma senza rendersene conto, si era accoltellato con le sue stesse mani ed ora la ferita era troppo profonda per rimarginarsi.
“Le 12:00 am… Gregory House sale in camera.” esclamò al medico posto a sorvegliarlo da quando era uscito fuori in giardino.
“Quella si che è una donna.” gli sorrise l’uomo, inconsapevole della discussione che House aveva appena avuto con ‘se stesso’, concedendosi uno sguardo alla psicologa fuori in giardino mentre accompagnava House all’ascensore.
House sorrise amaramente “Si vede che non frequenti molte donne.”
“Più di te sicuramente.” fu l’acida risposta a quella frecciatina.
House lo guardò torvo “Ma come sei simpatico!”
Il medico gli sorrise, dandogli una pacca sulla spalla “Coraggio House… magari riuscirà ad aiutarti. Chissà.”
“Grazie Bill.” esclamò il diagnosta con menefreghismo, uscendo dall’ascensore che si era appena aperto di fronte a loro e dirigendosi verso la sua stanza.
“Mi chiamo Jack!” urlò l’uomo con rassegnazione.
“D’accordo Bob!”
Il medico sorrise. Del resto, per quanto Gregory House fosse odioso, non gli dispiaceva poi così tanto. Era un tipo interessante dopotutto.
“Fammi un colpo quando ti va di uscire di nuovo” concluse per poi premere il pulsante dell’ascensore e svanendo dietro di questo.
“Come se fosse facile…” brontolo House, aprendo la porta della propria camera.
“Ci hanno accollato una psicologa come ultima carta. – brontolò Amber, incrociando le braccia sul petto e seguendo il diagnosta dentro la stanza – Questo sta a significare che ormai si stanno arrendendo anche loro.” fece per entrare nella camera ma subito si bloccò, notando che House aveva fatto lo stesso.  Si voltò a guardare verso la direzione che il suo sguardo sembrava volesse indicarle.
Una donna era davanti a loro.
Era posta davanti la finestra della camera con una borsa alla spalla sinistra. Portava una collanina argentata che, alla luce della finestra, risaltava come fosse un raggio di sole.
Vestiva elegante, come sempre del resto… mentre i capelli, scuri, cadevano delicati sulle spalle.
Amber spalancò gli occhi. Quasi non ci credette.
Quel volto… quello sguardo.
Era…semplicemente lei.
“Ciao Cuddy.” e le parole che House riuscì finalmente a pronunciare sembrarono destare entrambi da quella sorta di ipnosi nella quale erano caduti.
Cuddy sorrise, in un espressione di gioia mista a nervosismo.
“Ciao House.”

 

 

 
 

To be continued…

 

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Capitolo 4
*** #3 Capitolo ***


Grazie a tutti per il sostegno!
Spero che anche questo chap sia di vostro gradimento! 

Enjoy it!

Miky91

 

Il silenzio li avvolse.
Il rumore della macchine, il chiacchiericcio della gente fuori in giardino, i passi dei medici nel corridoio… tutto improvvisamente sembrò svanire.
House era perso nello sguardo di Cuddy, come lo sguardo di Cuddy era perso nel suo.
Cosa dire in questi momenti? Cosa dire quando finalmente ti compare davanti agli occhi ciò che è stato oggetto dei tuoi pensieri per tre lunghi ed interminabili mesi?
“Un po’ tardi per venire a vedere come sto, non credi?” esclama improvvisamente House, rimanendo con lo sguardo fisso su di lei. No, decisamente... non era questo ciò che avrebbe dovuto dirle. Ma gli fu inevitabile.
E fu proprio Cuddy che, questa volta, non riuscì a mantenere lo sguardo, diversamente da ciò che invece si era imposta di fare “Sono stata impegnata con dei convegni fuori città.” mentì, serrando le mani sui manici della borsa che scendeva giù dalla spalla.
House annuì vago “Non preoccuparti, puoi dirlo che non avevi la voglia di venire.” esclamò, coscio della menzogna da parte della dottoressa.
“È la verità.- Insistette lei – Sono stata occupata con il lavoro e non ho avuto modo di venirti a trovare. Wilson continuava a dirmi che stavi bene… almeno, fino a l’altro giorno.”
“Immagino ti abbia detto che sto impazzendo sempre di più. – House trovò finalmente il coraggio di avvicinarsi a lei – è la verità. E tu non hai nessun obbligo di venire qui. Sei solo il mio ex capo.”
“Sai benissimo che non è così. - Cuddy alzò lo sguardo, tentando di ristabilire un contatto visivo con i suoi occhi, ora fin troppo vicini, fin troppo profondi e pieni di sofferenza – Volevo vederti.”
Vi fu un attimo di un breve ma allo stesso tempo infinito silenzio.
“Se realmente voleva vederti... cosa l’ha fermata? Cosa è cambiato? - sussurrò Amber, osservando la scena alle spalle di House – tre mesi sono tre mesi.  C’è qualcosa che non torna.”
House la ignorò, allungando la mano verso Cuddy come se fosse stato in attesa di ricevere qualcosa.
“Coraggio, dammela.” esclamò seriamente.
Cuddy lo guardò interrogativa “Cosa…”
“Non crederei che tu venissi a trovarmi per nessuna ragione al mondo se non avessi una scusa per farlo.”
La dottoressa arrossì improvvisamente, capendo a cosa House si riferisse.
Era imbarazzante del resto dover ammettere che aveva ragione.
Aprì la borsa, vi rovistò un attimo, e ne estrasse fuori una cartella clinica che porse immediatamente al diagnosta.
House aveva ragione: quella cartella era la sua scusa per venirlo a trovare. Il suo biglietto… il suo lascia passare per vederlo e non cadere in imbarazzanti silenzi o cercare di riprendere discorsi che probabilmente era meglio lasciare dove stavano.
Era il suo modo per cercare di far tornare il loro rapporto alla normalità.
“La tua equipe era occupata con un altro caso. – gli spiegò –… tu sei l’unico che può aiutarla.”
House le sorrise di rimando, ringraziando il cielo per aver con se una donna come lei.
Strinse la cartella a se, anche se non la degnò di un minimo sguardo, e, con un sorriso intrigato, esclamò: “Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a fare la differenziale.”
“Sono qui anche per questo.”  gi rispose Cuddy dopo un attimo di esitazione.
Si… ben presto tutto sarebbe tornato alla normalità.

  

CHAP 3

La coscienza regna, ma non governa.
(Paul Valèry)

 


House aprì la finestra a vetri, svelando una balconata al di là di questa.
Fece un semi inchino, indicando in modo ironico la direzione a Cuddy.
Lei gli sorrise e, con fare disinvolto, uscì sul balcone con lui al suo seguito.
La dottoressa poggiò le braccia sul parapetto mentre House iniziava ad aprire la cartella clinica per vedere di cosa avrebbe dovuto iniziare a discutere con Lisa Cuddy. Era strano in fin dei conti… non aveva mai fatto una differenziale con lei… ed ora, che si ritrovava a miglia di distanza dal luogo in cui non l’avrebbe mai fatto, la stava facendo.
Lei però lo precedette, troppo impaziente di attendere il suo studio “Una donna di 42 anni è stata ricoverata qualche giorno fa in rianimazione. – iniziò, attirando subito lo sguardo di House - con diagnosi di sospetta intossicazione da atropina.”
“Se l’asma non è una malattia mortale, dovrebbe partire direttamente dai sintomi interessati…” brontola Amber, dando una sbirciata alla cartella che House stringeva tra le mani.
Lui la ignorò.
Di nuovo.
Se c’era una cosa che avrebbe voluto, quella era non dare ascolto ad Amber in presenza di Cuddy.
“Continua.” sussurrò quindi alla dottoressa in modo pacato.
Cuddy gli fece un debole sorriso di circostanza, notando quanto quell’atteggiamento risultasse strano per uno che fino a pochi mesi prima fuggiva all’accenno di una ‘diagnosi fiacca’.
“Ecco… la ragazza sembrava stare piuttosto bene al momento del ricovero. Però, quando l’ho visitata, ho notato la presenza di contratture spastiche ai muscoli della mandibola e gonfiori agli arti inferiori.”
Amber sbuffò, tamburellando le nocche contro la parete alle sue spalle “2+2 fa ancora 4 al mio paese.”
House sorrise, abbassando il capo per evitare che lei lo notasse.
Inevitabilmente, lei lo notò.
E, sempre inevitabilmente, non riuscì anch’ella a trattenersi dal fare un sorriso divertito. Il sorriso di House le aveva fatto capire che lui aveva già capito.
Il diagnosta tornò serio, passandosi un dito sulla fronte ed iniziando a riflettere, poi, dopo qualche istante, esclamò:  “Hai un pennarello?”
“No…”
“Un rossetto?” gli tese la mano, nuovamente.
Cuddy annuì confusa, frugando nella borsa per poi porgergli un rossetto rosso-cupo.
“Che vuoi farci?”
House si bloccò per un istante.
Lo sguardo fisso sull’oggetto che stava sul palmo della sua mano.
L’ultima volta che aveva tenuto il ‘rossetto di Cuddy’ in mano… era sull’orlo della pazia. Cosa sarebbe accaduto ora?...cosa stava accadendo ora?
Improvvisamente pensieri confusi iniziarono ad affollargli la mente: stava realmente parlando con Cuddy? E Wilson? Aveva realmente litigato con Wilson?! Perché… perché, improvvisamente, dopo mesi di assoluta solitudine, di speranza nei suoi confronti, lei appariva nella sua vita ed iniziava a comportarsi in modo così naturale con lui?!? Era… solo un modo per non parlare realmente?... o era semplicemente ciò che lui avrebbe voluto fare o dire in un ipotetico incontro con Cuddy?
“House?”
La sua voce lo destò.
“House… va tutto bene? – Cuddy gli mise una mano sulla spalla, cercando di capire se la situazione fosse sostenibile o meno mentre, adesso, sentiva forte in se la preoccupazione di perderlo di nuovo. Come era stato l’ultima volta che l’aveva visto.  – Vuoi che chiamo un medico?”
Gregory House alzò lo sguardo verso di lei, stringendo il rossetto in un pugno.
No.
Lei era Lisa Cuddy… ed era lì con lui.
E questo era quanto.
“Non preoccuparti. – rispose in modo pacato – sono solo un po’ stanco.” 
“Se vuoi ti lascio riposare.” Cuddy era visibilmente preoccupata adesso, come se, anche per lei, si fossero fatti vividi dei ricordi di qualche mese prima; Come se, in qualche modo, l’espressione preoccupata e confusa di House le avesse fatto intendere che qualcosa non andava.
“No.”
Il diagnosta entrò in camera mentre, dal forte rumore dei tacchi di lei, sentiva la sua presenza dietro di se.
Si diresse verso una parete ed iniziò a scrivere i primi sintomi con il rossetto.
“Hei!- tuonò Cuddy improvvisamente, sbucando alle sue spalle e prendendogli il rossetto dalle mani – Che diavolo ti salta in mente!? Vuoi consumarmelo tutto nel tentativo di farti espellere dalla clinica?!?”
“Hm… mi hai colto in fragrante, lo ammetto.”
Lei sorrise divertita, adesso intenta nell’evitare di pensare all’espressione che pochi attimi prima aveva coperto il volto di House “Non te lo permetterò! Mi è costato un occhio della testa!”
House sbuffò “Cuddy... ho solo quel rossetto per scrivere e farti una differenziale.”
“Scommetto che hai anche solo quel muro per farmi la differenziale.” lo fulminò lei, mettendo le mani sui fianchi.
“No... il muro è una semplice vendetta nei confronti di quell’inserviente che tutte le volte mi lava il bagno come se fosse una cuccia per cani.”
Cuddy annuì sconvolta, dando uno sguardo alla porta del bagno e capendo che, qualsiasi cosa fosse successa, sarebbe stato meglio non metterci piede.
“Coraggio spruzzetto di sole…” la incitò House, pretendendo il rossetto.
Cuddy lo guardò per un istante, poi sospirò: “E va bene… ma pretendo che me ne compri uno nuovo!”
House anni “Se mai riuscirò ad uscire da quest’inferno, lo farò.”  esclamò, voltandosi a scrivere le parole che avrebbero dovuto indirizzarlo alla diagnosi di quella ‘così complicata malattia’.
“Certo che uscirai di qui! – Lisa si sedette sul letto, in modo da avere una panoramica di ciò che il diagnosta stava scrivendo. – Uscirai.. e quando tornerai a lavoro, ti faremo una festa di benvenuto!... che ti piaccia o no.”
Amber sorrise, avvicinandosi ad House: “A me non sembra una cattiva idea. L’importante è che ci si organizzi prima con Wilson per portare la roba da bere!”
“è meglio di no… - House si voltò a guardare Cuddy, rimettendo il tappo al rossetto – Lo dico per il tuo bene.” si giustificò ironico dopo un breve istante.
Cuddy gli lanciò un’occhiata canzonatoria  “Ho smesso di bere alle feste dove sei protagonista indiscusso…”
“Ah, io non ci metterei la mano sul fuoco. – esclamò lui di tutto punto, inarcando il sopracciglio destro in un’espressione di ovvietà – L’ultima volta è stato così traumatizzante che non ho toccato io stesso alcol per un mese.”
Cuddy scoppiò in una risata “Spero tu stia scherzando! Ero più sobria di te!”
“Bah.. dipende dai punti di vista.”
“Ok, vorrà dire che ‘per il mio bene’ non ci sarà alcol.” esclamò la dottoressa con un sorrisino.
Amber la fulminò con lo sguardo, lanciando poi un’occhiataccia ad House “Hei.. qui si sta oltrepassando il limite. Fa qualcosa!”
“…ed il tuo di bene invece?”
Quell’esclamazione da parte della dottoressa lo colse di sorpresa.
Era come se Cuddy, improvvisamente, stesse tornando alla realtà di quel momento, al fatto che comunque.. lui era chiuso in quella clinica.
“Eccola…” la dottoressa dai capelli biondi si accasciò a terra, stanca di continuare a sopportare quel dialogo.
“Non preoccuparti Cuddy... sopravviverò ad una sera senza party-time.” esclamò House, facendole un occhiolino d’intesa.
Lei si mise nuovamente in piedi  e, diversamente da House, il suo sguardo traspariva una forte serietà mista a preoccupazione.
“House…Non devi pensare di non farcela… non devi arrenderti. Perché se lo fai…”
“Ok!! Allora, questa diagnosi?!?” le urlò lui, cercando di far cadere il discorso e, riprendendo a guardare la cartella continuò: “Che vuol dire debolezza muscolare progressiva? Non dirmi che l’hai testato personalmente… sai, la notte preferirei evitare di fare  sogni porno su te e le tue pazienti.”
Cuddy gli strappò la cartella dalla mano, infastidita dal suo atteggiamento “adesso ha metà corpo paralizzato!” puntualizzò.
“Ok, ok.. mamma mia come siamo permalose…” House riprese a scrivere sulla parete, sentendo però lo sguardo di Cuddy fisso sulle sue spalle.
Aveva accettato di recitare quella scenetta per stare con lei… non per parlare dei suoi malesseri con lei.
Perché doveva insistere nel tentare di aiutarlo?!...perché tutti dovevano farlo?!
Al momento l’unico che poteva aiutarlo… era semplicemente se stesso.
Anche se, effettivamente, non è che ne avesse poi tanta fiducia.
Si voltò a guardare la parete piena di scritte, poi rivolse nuovamente lo sguardo a Cuddy che adesso sembrava non avere intenzione di proferir parola.
“La paralisi è avvenuta improvvisamente… o no?!” le chiese alla fine.
“No… ha avuto rigidità muscolare prima e gli esami non hanno mostrato nessun…”
“Nessun pipistrello attorno ai pesci… - Cuddy lo guardò confusa, così House si mise una mano sulla fronte inscenando teatralmente un’improvvisa illuminazione – Ops! Scusa.. quelli sono i gabbiani giusto? Pf! I pipistrelli non vanno mica dietro i pesci…”
Cuddy scosse il capo, infastidita.
Si stava prendendo gioco di lei… e lei glielo stava permettendo.
Lo vide voltarsi nuovamente verso la parete, a scrivere chissà quale altro indizio nato da una stupida metafora che aveva il solo scopo di umiliarla.
 “Sei arrabbiato con me. – sussurrò incerta dopo un breve istante, facendo cadere la concentrazione che finalmente sembrava essersi focalizzata sul caso clinico –Perché?”
Vide la mano di House bloccarsi a mezz’aria, sentì il suo respiro farsi pesante.
Eppure continuò a darle le spalle.
Cuddy scosse il capo al silenzio che seguì la sua domanda.
Attese qualche attimo, incerta se continuare o meno. House però… non sembrava avesse voglia di parlarle.
Non sembrava volesse avere alcun tipo di dialogo con lei che andasse oltre i vecchi ricordi e i battibecchi.
Sospirò, prendendo in mano la propria borsa dal letto e mettendosela sulla spalla.
Sentì l’improvviso bisogno di sparire, come se avesse detto chissà quale tremenda cosa.
“Sono tre mesi che sto chiuso qui dentro. – la voce di Gregory House, fredda e rigida, la fermò dall’uscire da quella stanza – Non una visita, non una telefonata. Poi, improvvisamente, vieni e ti comporti come se ci fossimo visti giusto ieri.”
“House io…”
“Non dirmi che sei stata impegnata con il lavoro perché non la bevo.”
La dottoressa rimase interdetta.
Lo sguardo dell’uomo che aveva davanti era penetrante, come se stesse cercando di leggerla dentro. E sapeva che non sarebbe riuscita ad ingannarlo.
“Ero confusa” Lisa abbassò il capo.
“Perché sei venuta allora?”
“House... volevo vederti. Cos’è, non posso preoccuparmi per te?”
“Non dopo tre mesi.”
Cuddy si passò una mano sulla fronte. La situazione stava degenerando… a quanto pareva, il caso clinico sembrava non destare più l’interesse del diagnosta.
“Cosa vuoi che ti dica?” era confusa, semplicemente confusa.
“Perché? Perché mi hai evitato tutto questo tempo?”
House le si avvicinò, zoppicante ma deciso.
“Perché… - Cuddy fece una pausa, guardandolo negli occhi - …Non lo so.”
Lui la guardò sorpreso “Non ha senso.”
“Non ha senso nemmeno per me.” Cuddy abbassò nuovamente lo sguardo, cercando di non aggiungere altro.
“Non si può non sapere il motivo per il quale si fa o non si fa una cosa.”
“Non si può sapere il motivo di un gesto se questo fluttua senza una forma nella tua mente.” disse Cuddy con ovvietà, conscia di non aver lottato a sufficienza per convincere se stessa ad andare a trovarlo in precedenza.
House rimase immobile davanti a lei. Lo sguardo, fisso nei suoi occhi.
Era in un ospedale psichiatrico… l’aveva attesa tutto quel tempo… e adesso? Le stava dicendo che non sapeva il motivo per cui lo stava venendo a trovare? Le cose erano due: o continuava a mentirgli… o diceva la verità.
E se diceva la verità…
“Reputi i tuoi sentimenti per me... senza una forma?”
“Che ne sai tu dei miei sentimenti?!” Cuddy sembrò quasi offesa da quell’esclamazione.
“Cuddy… - House pronunciò il suo nome con dolce convinzione mentre, con freddezza, concluse – Se veramente non provi dei sentimenti per me… prendi le tue cose e va via. Perché non hai motivo di stare qui.”
La dottoressa vide House porle il suo rossetto, la cartella clinica lo seguì a ruota.
Non ebbe il coraggio di pronunciare una sola parola mentre, decisa e seccata, andò per aprire la porta ed uscire da quella stanza.
Mise un piede nel corridoio, dietro di se poteva percepire la figura di House immobile nell’osservare i suoi movimenti.
Che diavolo le stava saltando in mente?
Cosa stava facendo?...cosa House stava facendo?
Le stava dicendo: O ammetti di amarmi o vai via dalla mia vita.
E lei stava andando via.
Perché però?
Per ammettere a se stessa di non amarlo? Per ammettere a se stessa di non aver bisogno di lui… ?
No.
Non era questo ciò che desiderava.
Si fermò sull’uscio della porta, continuando a dargli le spalle.
Sospirò.
Lei lo amava. Era inutile negarlo.
Si voltò verso di lui, le guance rosate, gli occhi lucidi.
Deviò un attimo il suo sguardo, come se stesse cercando di prendere la decisione più importante della sua vita.
Uscire o non uscire da una stanza del reparto psichiatria del Myfield?
Si, realtà, era la decisione più importante della sua vita.
Perché adesso ciò che contava era decidere se stare o meno con Gregory House.
 

Chiuse la porta.
Al di là di questa si sentivano ancora i passi di alcuni medici che affollavano la clinica.
Guardò House negli occhi.
Aveva preso la sua decisione.
E adesso, anche se tremendamente a disagio, era pronta ad affrontare con lui un discorso che, per la prima volta nella sua vita, non sarebbe stato incentrato su dei casi clinici… ma su loro stessi.

 

Perché ormai era chiusa in un stanza con lui.*

 

 

 
 

To be continued…

 

 

 

 

 

*riferimento voluto ad una puntata della 3 stagione. “Giorno nuovo, stanza nuova”.
… e chi vuole intendere, intenda! ;)

 

 

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Capitolo 5
*** #4 Capitolo ***


Salve a tutti!!!!
Grazie ancora per i meravigliosi commenti che, tralaltro, continuano a spingermi e a sostenermi nella scrittura di questa ff.

@ ChrisP: Grazie per la tua recensione! mi ha fatto piacere leggerla... non avevo mai visto la storia sotto quell'aspetto. Grazie!^^
@
IsAnastaciaHuddy92: Eeh, si. Dopo il finale della season 5 è dura pensare all'Huddy e/o ad House senza piangere. Non preoccuparti però, il bel finale ve lo regalo io... promesso! ;)

Ed ovviamente grazie anche al sostegno di LadyT e Lady cat! ^^

Dunque...posso dire di aver finalmente dato sfogo alla mia vena Huddy in questi ultimi capitoli..aaah…mi sento realizzata! XD
Ora, con la speranza che anche questo chap possa piacervi, ve lo lascio con qualche piccola ed indispensabile premessa:
1- Ho messo il rating PG13 come limite massimo… ma sinceramente non so fin dove la mia mente contorta potrà spingersi. Potrei benissimo mantenermi al solito PG. 
Ci tenevo a precisarlo, dato che non l’avevo fatto in precedenza.

2-  qualsiasi cosa accada… So quel che faccio! ;)

 
Bene.
Dopo di ciò, ve lo lascio.
Fatemi sapere, mi raccomando!! ^^

 

Enjoy it!

 

CHAP 4

Non siamo mai così privi di difese, come nel momento in cui amiamo.

(Sigmund Freud)

 

 

 

 

Sentì il rumore sordo di una porta che si chiudeva.
Era tutto finito.
Forse lei pensava che lui la stesse osservando andar via… non era così.
Si stava odiando, odiava se stesso e quel suo carattere dannatamente egocentrico e superbo.
La stava facendo scappare e, ciò che era peggio, non la stava fermando.
Sentiva lo sguardo di Amber puntato su di lui, eppure, non gli importava.
Teneva gli occhi chiusi, lo sguardo basso.
Ormai Cuddy non sarebbe più tornata. 

“House…” 

Il sentire la sua voce fu per lui come un fulmine a ciel sereno.
Alzò lo sguardo.
Era lì, davanti a lui.
Era rimasta.
Lei era imbarazzata, sulle guance un rossore che non le era mai appartenuto.

Lui stava immobile a contemplarla… come se fosse stata la cosa più bella del mondo.
Tutto avrebbe scommesso... ma non che lei fosse rimasta per mettere in chiaro i loro sentimenti. Perché era questo ciò che adesso era in ballo.
“Sei rimasta.” House disse quelle due parole come se quasi non ci stesse credendo.
Cuddy si inumidì le labbra, imbarazzata “Non potevo andarmene.”
House le sorrise. Un sorriso puro, uno che raramente Lisa Cuddy aveva visto sul suo volto se non in compagnia di Wilson.
Lo vide muoversi verso di lei, lentamente… ma non certo a causa della gamba.
Fu a pochi centimetri da lei nel giro di pochi istanti, gli occhi fissi nei suoi.
“Pensavo non saresti mai riuscito a farmi arrivare fino a questo punto.” ammise Cuddy, senza però abbandonare il suo sguardo.
“Pensavo non saresti mai riuscita a trovare il coraggio di affrontarmi.”
“Non sei mica un mostro...”
“Sono peggio.” adesso House aveva iniziato ad accarezzarle i capelli, delicatamente, come se avesse il timore che lei fuggisse via, anche se sapeva benissimo che non l’avrebbe mai fatto.
Quante cose avrebbe voluto dirle…. ed era certo che, in quell’istante, anche lei ne aveva tante. Eppure, contrariamente a ciò che avrebbero dovuto dire o fare, nessuno dei due proferì parola… come fossero rimasti bloccati in uno stato di trans.
Improvvisamente gli venne in mente il bacio che tanto tempo addietro si erano scambiati con foga, con passione, con timore.
Riusciva benissimo a ricordare il sapore delle sue labbra, il sapore di quel momento.
Adesso aveva l’opportunità di darle quel bacio. Quel bacio che tre mesi prima si era materializzato nella sua mente.
Un bacio dolce.
Un bacio delicato.
Gregory House chinò il capo mentre Lisa Cuddy, socchiudendo gli occhi, attendeva impaziente di risentire sulle sue labbra il suo sapore.
“La cartella diceva che la paralisi era scesa dal capo fino al busto, continuando con gli spasmi muscolari.- la voce di Amber lo frenò dal baciarla. Vide la giovane donna affiancare Cuddy, ponendosi davanti ai suoi occhi. – House! Si sta sbagliando! Devi risolvere il caso… altrimenti…”
House deviò lo sguardo di quell’allucinazione.
Perché dannazione!?
Perché il suo cervello continuava a spingerlo lontano da Cuddy?... perché la parte razionale, quella geniale, del suo carattere.. non voleva che egli avesse quell’attimo che tanto aveva agognato?!
“House... va tutto bene?” chiese Cuddy, notando la sua distrazione. Poi, delicatamente, poggiò la propria mano su quella del diagnosta che adesso si trovava ad accarezzare il suo volto.
House deviò il suo sguardo, facendo scivolar via la propria mano da quel tocco.
“Qual è stata la tua diagnosi?” le domandò poco dopo, quasi costringendosi a farlo.
Del resto… lui era Gregory House, colui che non trovava pace se qualcosa non gli tornava.
Cuddy lo fissò esterrefatta ma non ci volle molto per capire che adesso per House, quel caso clinico, aveva la priorità su tutto.
Persino su di lei.
Ma le andava bene anche così, era quello l’uomo di cui era innamorata del resto.
“Encefalite. – gli rispose quindi, squotendo il capo in un atto di resa – ma quando la paralisi si è estesa, ho pensato alla Sindrome di Isacco.”
“Passami la cartella.”
Che diamine stava combinando!? Era solo con Lisa Cuddy, lei aveva ammesso di amarlo, erano soli, tranquilli, indisturbati. Eppure lui... doveva risolvere il caso!?!
Prese la cartella in mano, detestandosi come mai aveva fatto prima di allora.
“Non mi avevi detto della posizione a Trisma.” rifletté dopo una breve lettura.
“Pensavo fosse determinata dagli spasmi. – rispose la dottoressa – non è clinicamente rilevante.”
House le voltò le spalle, avvicinandosi alla parete e tornando a studiare i sintomi che pochi attimi prima vi aveva scritto sopra.
“Quella tizia sta morendo.”
Cuddy lo raggiunse in pochi istanti, preoccupata da quell’esclamazione “Che vuoi dire? Di che si tratta?”
“Dalle analisi del sangue e dall’ipocalcemia, anche se di poco inferiore alla norma, direi che si tratta di tetano.- le rispose – e se non chiami immediatamente l’ospedale… non so quanto tempo ancora rimarrà a fare da burattino ai nostri giochini.”
La dottoressa annuì amareggiata, prendendo il cellulare dalla borsa e digitando il numero dell’ospedale nel giro di pochi secondi.
House alzò lo sguardo verso Amber, ora intenta a giocherellare con una calcolatrice.
‘Ho fatto ciò che volevi.. ora lasciami in pace!’ pensò furioso, lanciandole uno sguardo minaccioso.
Amber non lo degnò nemmeno, divertita com’era nel digitare numeri sulla calcolatrice che stringeva in mano. Poi l’alzò, in modo che il diagnosta potesse vedere ciò che aveva scritto: 2+2=3.
House la fissò confuso.
Cosa stava cercando di dirgli?!
“Pronto? Sono la dottoressa Lisa Cuddy…- di sottofondo si sentiva la dottoressa chiamare il Princeton Plaisboro Teaching Hospital - Dovete controllare la paziente nella stanza 223 del secondo piano. Controllate se ha ferite o cicatrici… e fatele i dovuti test per il tetano. Se le analisi sono positive, iniziate subito la cura.”
Amber guardò Cuddy, ora intenta a fare la sua telefonata “Come si chiamava quel tizio? Quello che aveva scritto quel libro noioso! –chiese poi, rivolgendosi ad House – Friz?.. Frud?... Fred?”
House fu colto improvvisamente da una fitta alla testa, le orecchie iniziarono a fischiargli.
 “Al diavolo come si chiamava. Ascolta un po’ cosa dice. - notò che adesso Amber stringeva un libro in mano, concentrata nella sua lettura - Tutte le scelte della psiche sono dettate dal principio del piacere: l'uomo desidera la sua felicità, l'appagamento immediato e incondizionato dei suoi desideri, ma tale desiderio si scontra quasi sempre con la realtà, ovvero con le costrizioni morali e le tradizioni sociali che sono ostili al pieno soddisfacimento del piacere.”
Il diagnosta sentì un rumore sordo, il tonfo di un telefono.
Cuddy era corsa da lui a sorreggerlo, lasciando cadere a terra tutto ciò che le occupava le mani.
“House!! – esclamò preoccupata, vedendolo barcollare. Lo fece sedere sul letto, tentando di farlo riprendere – House… che succede? Stai bene!?”
House strinse la mano di Cuddy, cercando di reagire a quel malessere improvviso.
Cosa stava accadendo? Tre mesi di pura noia e adesso, che lei era finalmente con lui, gli succedeva tutto questo!?
“Non preoccuparti. – bisbigliò a fatica, voltandosi a farle un sorriso tirato - Hai chiamato l’ospedale?”
“Si, se ne occuperanno loro. – Cuddy gli passò una mano fra i capelli, scostandogli una ciocca in un gesto d’affetto – Adesso pensa solo a riprenderti.”
House sentiva la testa pulsare, come se stesse scoppiando, ma Amber non dava segno di voler smettere.
“…Il principio del piacere si scontra con la realtà e ne deriva l'inevitabile frustrazione dei desideri. Ecco allora che al principio del piacere può subentrare il principio di realtà: esso cerca la soddisfazione del desiderio in relazione a ciò che la realtà può offrire”.
Il diagnosta avrebbe voluto ucciderla.
Quelle parole sembravano avessero l’intento di fargli scoppiare la testa, per quanto strano ed assurdo fosse il loro significato.
Sospirò pesantemente, poggiando il capo sulla spalla di Cuddy, nell’attesa e nella speranza che Amber smettesse.
“Come va con la testa?” Cuddy gli stava accanto e, lo sapeva benissimo, non se ne sarebbe andata. E in quel momento quello fu l’unica cosa che riuscì a farlo sentire veramente al sicuro.
Eppure, per quanto meglio adesso si sentisse, Gregory House venne colto improvvisamente da un flash: 

2+2=3
Dovete controllare la paziente nella stanza 223…
 

Cosa diavolo…
Si voltò a guardarla, dubbioso “Come fai a sapere che mi fa male la testa?”
“House... stai male. Sei pallido...” rispose immediatamente Cuddy, senza dar conto a ciò che il diagnosta gli aveva chiesto.
“Non puoi sapere che mi fa male la testa vedendo il mio viso pallido.”
Mentre il principio di piacere cerca la soddisfazione immediata del desiderio in modo completamente irrazionale, il principio di realtà persegue l'appagamento del desiderio ponendosi obiettivi estesi nel tempo e sublimando l'impossibile appagamento immediato in rappresentazioni sostitutive.”
“No.” House sussultò, chiudendo debolmente gli occhi, mentre le parole di Amber continuavano a rimbombargli nella mente.
Cuddy lo guardò incerta, cercando di capire cosa stesse accadendo.
“House! Cosa c’è che non va?... Dannazione House! Se non me lo dici non posso aiutarti!...House!!”
Lui continuò a rimanere con gli occhi serrati mentre la sua voce si faceva sempre più lontana, sempre più ovattata al suono.
“…escogitando diversi quanto necessari appagamenti.”
Poi, improvvisamente, il silenzio.
Amber aveva smesso di parlare, non una parola si poteva udire attorno a lui.
Aprì gli occhi, abbassando lo sguardo.
Si sentì mancare appena si rese conto di ciò che era appena accaduto.
L’intuizione che ebbe qualche attimo prima… era corretta.
Cuddy era sparita.
Accanto a lui, non vi era più nessuno.
Si voltò confuso verso la parete che fino a qualche attimo prima era ricoperta di rossetto… nulla. Davanti ai suoi occhi c’era una semplice parete bianca.
Spostò lo sguardo sconvolto al pavimento dove doveva starci un cellulare o una borsa… o qualsiasi altra cosa.
Non un oggetto fuori posto.
Amber schioccò le dita, sedendosi nel letto acanto a lui. Nelle mani stringeva ancora il vecchio libro che, guardandolo bene, era quello che Wilson gli aveva regalato molti anni addietro.
“Freud! – esclamò la giovane donna con un sorriso, ricordandosi il nome dell’autore – Ecco come si chiamava!!Era quel tizio che ha inventato la psico-analisi, se la memoria non mi inganna...” 

House non la guardava nemmeno adesso, stringendosi la testa tra le mani.
Un tonfo nel nulla, il vuoto l’assalì.
Si sentì esausto, stanco di se stesso e di tutte quelle illusioni di cui si rendeva vittima.
Stava impazzendo sempre di più… era questa la realtà.
Non poteva avere la sua Cuddy. Non poteva vedere nessuno.
L’unica cosa che adesso era certa in lui era la coerenza di essere stato un bastardo per troppo, troppo tempo.
Era in un ospedale, in una clinica, da solo... a parlare con le proprie allucinazioni. Non una persona che gli stava accanto.
Ne Cuddy, ne Wilson, ne nessun altro.
Non più ormai.
Perché la cosa che più aveva amato fare nella sua vita, era allontanare le poche persone alle quali importasse qualcosa di lui.
Sempre.
Le lacrime scesero lente sul suo volto, quasi involontariamente.
Sentì le proprie mani bagnarsi al loro contatto, ma non gli importò. Era da troppo tempo che aveva la necessità di farlo…la necessità di piangere.
E così fece.
“Gregory House, come ti sei ridotto…” Amber adesso era in piedi di fronte a lui, osservandolo con tristezza.
“Lasciami in pace!!!- le urlò improvvisamente House, prendendo il vaso che stava sul comodino a lato del letto e tirandoglielo addosso – Sparisci!!!”
La giovane donna inclinò debolmente il capo mentre veniva oltrepassata dal vaso che, inevitabilmente, a contatto con il suolo, si frantumò in mille pezzi.
“Non dipende da me - sussurrò seria – Io sono tua, ricordi?”
“Sparisci…- ripeté House, questa volta in un sussurro, coprendosi gli occhi in una silenziosa disperazione – te lo ordino, dannazione!!”
Amber si rannicchiò davanti a lui, mettendosi in ginocchio in modo d’avere il volto all’altezza del suo; Poggiò le mani sulle sue gambe, osservandolo silenziosamente per un breve istante.
Poi, improvvisamente, sussurrò:
“Dobbiamo impegnarci entrambi per questo, lo sai vero? – quelle parole assunsero agli occhi di House una serietà che mai prima di allora Amber aveva dimostrato. E fu proprio in quel momento che, finalmente, il diagnosta alzò il volto per guardarla – Ma da soli non potremmo mai farcela.”
Vi fu un improvviso silenzio. Per la prima volta, da quando era in quella clinica, le sue allucinazioni glielo stavano donando… perché adesso c’era una scelta in ballo.
House comprese.
Per la prima volta, House comprese a pieno il significato delle parole di Amber.
La guardò negli occhi, titubante.
Sapeva cosa lei le stava proponendo... e sapeva anche di esserne spaventato.
Poi, dopo un breve attimo, annuì.
Amber aveva ragione.
Il suo subconscio aveva ragione.
Se veramente voleva tornare ad essere Gregory House… doveva impegnarsi.  Doveva giocarsi tutte le carte a sua disposizione… come aveva sempre fatto.
E adesso gliene rimaneva solamente una.

  

 

Ore 13:00
Mensa del Myfield Psychiatric Hospital

 

Era ora di pranzo, la mensa della clinica sembrava essere la parte più affollata di tutta l’intera struttura.
Si sentiva il chiacchiericcio della gente fare da sfondo ai suoi passi.
Il tocco del bastone e del suo passo incerto sembrava confondersi con quello di molta altra gente che sembrava non degnarlo di uno sguardo.
Meglio così.
Non avrebbe mai osato farsi vedere in pubblico in quello stato… e il solo fatto che lui si trovasse lì andava già oltre i propri schemi. Ma il motivo che lo spinse ad entrare in mensa era uno solo. Il suo obbiettivo.
Si fermò.
Jenny Dawson stava mangiando ad un tavolo poco distante da lui, non gli fu difficile riconoscerla.
Le si avvicinò con decisione, cercando di non mostrare tentennamenti o paure.
Si fermò di fronte a lei, posando il peso di entrambe le braccia sul capo del proprio bastone.
Jenny alzò lo sguardo, notando la sua figura.
“Ciao Greg.- gli sorrise – Hai già mangiato?”
Lui ignorò quella domanda.
“Sei sicura di avere tutta questa curiosità di conoscermi?” esclamò, conscio del fatto che si stava prostrando davanti a lei.
“È il mi lavoro. – Jenny annuì amichevole, dal suo sguardo non trasparì alcun segno di sorpresa -Anche se sono certa che anche tu abbia questa curiosità.”
“La tua proposta è ancora valida?” questa volta deviò il suo sguardo, come vergognandosi di chiedere aiuto ad una psicologa.
Lei gli sorrise “Non è mai stata considerata conclusa.”
E mai come in quel momento Gregory House aveva considerato delle parole tanto indispensabili per se stesso...

 

 

 

 

To be continued…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ciò che è posto in analisi nel capitolo, sono studi basati sulle teorie di Freud.Non appartengono a me, e mai mi apparterranno.  

Bibliografia:

http://www.forma-mentis.net/Filosofia/Freud.html

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Capitolo 6
*** #5 Capitolo ***


Salve gente!!
Grazie a tutti per il sostegno, sono contenta che la ff continui a piacervi.
So che le allucinazioni di House hanno un pò deluso le aspettative.. ma sono state fondamentali per me, dato che in questo modo House si è reso conto della gravità della situazione e sia stato spinto ad accettare l'aiuto dell'antagonista Jenny Dowson.
Vi lascio questo chap, sperando possa andare bene.. anche se, personalmente, non mi soddisfa più di tanto. Di fatto, consideriamolo un chap d'obbligo... che doveva esser scritto.
Per cui, non aspettatevi nulla di meraviglioso.
Spero solo possa andare bene.
Fatemi sapere in caso di errori grammaticali, etc... è sempre buono se qualcuno li fa notare. Migliorare del resto sta nella mia lista delle cose da fare... :P

Enjoy it!


Miky91

CHAP 5

L'umanità ha sempre barattato un pò di felicità per un pò di sicurezza.
(Sigmund Freud)

 

 

 

 

 

 

Il sole si era levato in cielo già da un po’ quella mattina mentre la rugiada veniva presto asciugata dai suoi raggi.
Erano le 10.00 del mattino ed attorno alla clinica vi era un forte silenzio.
House stava immobile, poggiato sulla balconata che dava sul giardino. Non era stato capace di chiudere occhio per tutta la notte.
Quella sarebbe stata la sua prima giornata di terapia con Jenny Dawson e, nonostante era stato lui stesso a confermare la sua partecipazione, adesso, si sentiva semplicemente un imbecille a farlo.
Dove mai si era sentito che con una chiaccheratina si risolvevano problemi di quel calibro?!
Eppure, doveva fidarsi. O, per lo meno, doveva provare. Perché quella era la sua ultima occasione di tornare ad essere se stesso, di tornare ad essere Gregory House.
Alzò il capo, facendosi scompigliare i capelli da una folata di vento.
“E se… non funzionasse?” Amber era in un angolino della stanza, in piedi, lo sguardo fisso a terra.
Era stata con lui tutta la notte ma, come il diagnosta, non aveva osato proferir parola. Era spaventata, intimidita.
Del resto, entrambi, stavano andando incontro a qualcosa a loro sconosciuto.
“Deve funzionare.” le rispose House, anche se dal suo tono di voce non traspariva poi tutta quella convinzione.
La giovane donna annuì, lasciandosi però il beneficio del dubbio “Hai ragione. Dobbiamo mettercela tutta… tu devi tornare a casa.”
House le sorrise, quasi involontariamente.
Cosa stava accadendo? Era come se… finalmente, la parte del suo cervello che dava vita ad Amber si fosse resa conto della gravità della cosa; Come se il suo subconscio volesse far sparire quelle allucinazioni, proprio come lui.
Era strano… ma qualsiasi cosa fosse, per Gregory House, era la benvenuta. 

Improvvisamente si sentì una chiava occupare la serratura della sua stanza poi, quasi immediatamente dopo, la porta si aprì.
Al di là di questa vi stava il medico che si era sempre occupato, da quando House era stato ricoverato, di accompagnarlo in giro per la clinica e di stare attento ai suoi spostamenti.
 “Ciao Bill – Iniziò House ironico – Che notizie mi porti dal fronte?”
L’uomo scosse il capo, rassegnato al fatto che ormai il suo secondo nome era quello.
“Oggi inizi la terapia con la dottoressa Dawson, lo sai vero?”
“Dici davvero!?... strano, pensavo fosse giovedì” House si finse sorpreso. 
L’infermiere sorrise “Coraggio, andiamo.” si scostò, lasciandogli il passaggio libero.
“Non c’è fretta.” bisbigliò House uscendo, quasi volesse farlo infastidire.
“Grazie!” Amber fece un sorriso di cortesia, varcando anch’ella la porta della stanza.
I tre entrarono in ascensore e l’infermiere cliccò subito il tasto per dirigersi al piano terra.
House guardò dubbioso quel gesto. Sapeva che al piano terra non vi stava altro che la mensa e qualche sala svago… nulla di più.
“Dove stiamo andando?” domandò incerto.
“Dalla tua psicologa.” fu la semplice risposta dell’uomo che, senza degnarlo di uno sguardo, aveva iniziato ad aggeggiare con il cellulare.
“E questo sarebbe colui che ci dovrebbe tener d’occhio!? – sbottò Amber, incrociando le braccia sul petto ed appoggiandosi con fare seccato alla parete dell’ascensore – Imbecille.”
House si trattenne dal fare un sorrisino divertito. Del resto, era simpatico in questi momenti avere Amber con se.
Le porte dell’ascensore si aprirono poco dopo, lasciando il via libera a coloro che lo occupavano.
“Vai nell’atrio, la trovi lì.” gli indicò l’uomo, lasciando che il diagnosta uscisse in corridoio.
“E tu non vieni con me? – House lo fissò stupito. Erano tre mesi che era rinchiuso lì e da tre mesi nessuno l’aveva mai lasciato vagare indisturbato in clinica. Qualcosa non andava. – Potrei benissimo decidere di rubare un’auto e svignarmela… in tal caso che faresti!?”
Non è che amava essere pedinato ed osservato, ovvio, ma quella stranezza risvegliò in lui una forte curiosità.
“Non è mio dovere sorvegliarti per oggi. – l’uomo premette il pulsante dell’ascensore, lasciando che le porte si chiudessero davanti a lui – Fai come credi.”
Amber lo guardò allibita, voltandosi poi a scambiare uno sguardo con House.
Cosa intendeva con “Fai come credi”??
House scosse il capo, sorridendo intrigato, e dirigendosi verso l’atrio.
Se c’era una cosa che detestava… era proprio non essere al corrente di nulla; Ma se c’era una cosa che invece amava… quella era scoprire il perché.
“Ciao Greg!”
Jenny lo attendeva proprio davanti la porta d’ingresso, sul viso un sorriso vivace.
“Ciao” rispose lui tentennante. Del resto, non era roba di tutti i giorni essere chiamati per nome… o, per lo meno, non era roba da tutti i giorni essere chiamati per nome da una ragazza. L’ultima donna che aveva pronunciato il suo nome… era stata Stacy del resto.
“Al volo!” la psicologa gli lanciò qualcosa, consapevole del fatto che nonostante il gesto fosse stato improvviso, House l’avrebbe presa.
E così fu.
Il diagnosta prese al volo l’oggetto, anche se non aveva ben capito di cosa si trattasse.
Aprì la mano, curioso di capire cosa fosse.
Erano delle chiavi.
“Cosa diavolo…”
“Sai guidare, giusto?”
Amber sgranò gli occhi “eh!?”
“Certo, ma…”
Jenny aprì la porta “Allora andiamo a farci un giro.”

 

 

Princeton Plaisboro Teaching Hospital 

Lisa Cuddy era seduta alla propria scrivania da ore ormai.
Ogni tanto, lo sguardo si posava sull’orologio… impaziente nell’attendere l’ora di pranzo.
Quella mattina aveva avuto due riunioni ed in più aveva fatto due ore di visite in ambulatorio. Ebbene si, da quando House non lavorava più in ospedale aveva tentato di dividere i suoi turni ai vari medici anche se con poco risultato… dato che comunque tutti avevano i propri compiti all’interno della struttura. Così si era messa in gioco anche lei.
Ma le andava bene infondo.
Un po’ di fatica in più nell’attesa che tutto tornasse come prima non era un gran sacrificio.
Perché era questa la sua speranza.
In molti le avevano suggerito di trovare un nuovo capo reparto di diagnostica, in molti avevano tentato di farla ragionare… di spiegarle che cose simili non si risolvono così velocemente. Un individuo come House poi, se mai sarebbe stato in grado di tornare “Normale”, si sarebbe preso un tempo troppo lungo.
E non era suo compito attenderlo.
Almeno, non era il compito di Lisa Cuddy, la direttrice dell’ospedale.
Ma lei, per quanto fosse consapevole di tutto questo, non volle ascoltare quelle voci. Ignorò tutto e tutti. Perché l’attenderlo, il fatto di non sostituirlo a lavoro con qualcun altro, rendeva le sue speranze più vere, più vicine.
Un uomo solo però era stato in grado di farsi ascoltare.
James Wilson.
L’oncologo era sempre stato protettivo sia nei suoi confronti che nei confronti del diagnosta… pur tuttavia, adesso, le chiedeva l’impossibile. Le chiedeva di non farsi sentire da House, di non andare da lui.
Lisa Cuddy sapeva che la situazione era pesante da gestire, sapeva che andandolo a trovare si sarebbero aperte delle ferite e che probabilmente Wilson non voleva che lei ci andasse per questo. Forse Wilson credeva che evitando di farla andare da House lei non avrebbe sofferto; Forse credeva che impedendole di sentirlo o di vederlo in quelle condizioni lei non avrebbe fatto sciocchezze come passare intere giornate al suo fianco.
E forse aveva ragione.
Non avrebbe dovuto.
Ma la verità era anche che lei avrebbe preferito stargli accanto ed assisterlo piuttosto che non vederlo o non aver la possibilità di parlargli.
Era tutto così confuso per lei… che molte volte arrivava al punto da detestare James Wilson, nonostante il suo odio andava in realtà a se stessa in quanto era lei che continuava ad ascoltarlo.
Firmò un ennesimo foglio, posando, ancora una volta, lo sguardo sull’orologio.
Erano si e no le 11:00.
Poggiò la penna sul tavolo,  distogliendo lo sguardo dai documenti e portandolo al telefono alla sua destra.
Fu improvvisamente assalita da una voglia irrefrenabile di alzare la cornetta e digitare il numero della clinica Myfield.
No, non doveva farlo. Wilson le aveva spiegato che House stava bene.
Ma era anche vero che lui non andava a trovarlo da più di una settimana ormai.
E se fosse successo qualcosa ad House?... e se avessero scoperto cosa non andava in lui?
Doveva saperlo.
Doveva sentirlo.
Senza pensarci due volte prese la cornetta e se la portò all’orecchio, digitando velocemente il numero della clinica che ormai sapeva a memoria… tante erano state le volte che aveva stretto in mano il foglio con quel numero di telefono.
Sentì l’apparecchio squillare.
Fu immediatamente tentata di chiudere la chiamata, come tutte le precedenti volte del resto, ma alla fine trovò il coraggio di andare oltre il terzo squillo.
“Clinica psichiatrica Myfield, mi dica.” la voce di un’infermiera ruppe la tensione che quel continuo squillare le stava provocando.
Cuddy sussultò.
Aprì la bocca mentre, senza che se ne rendesse conto, le parole le si smorzavano in gola.
“Salve… sono la Dottoressa Lisa Cuddy, direttrice dell’ospedale di Princeton. – dopo qualche istante di silenzio, finalmente, trovò il coraggio di parlare – Vorrei parlare con Gregory House. So che è ricoverato lì da voi.”
“Attenda in linea.” un breve clic la mise in attesa.
Cuddy iniziò a tamburellare le dita contro il freddo legno della scrivania.
Cosa stava facendo!?... cosa avrebbe detto ad House? ‘Ciao, come vanno le cose? Scusa se non mi son fatta sentire prima, sai… sono stata occupata’ !?!?
Forse lui non avrebbe nemmeno accettato di parlarle.
Non dopo tre mesi.
Probabilmente, dopo tutto quel tempo, la detestava e basta.
Erano passati 3 minuti ormai.
Adesso la dottoressa aveva iniziato a giocherellare con la penna.
Minuto dopo minuto, ormai era peggio di un’agonia.
5 minuti.
6 minuti.
7 minut..
Sbuffò seccata.
Forse era meglio chiudere la chiamata e basta.
Perché lo stava chiamando poi!?
Un altro po’ ed avrebbe parlato con Gregory House…
“No” sussurrò, intimidita da quel pensiero. Staccò la cornetta dall’orecchio, andando per deporla al proprio posto sull’apparecchio telefonico.
“Pronto?”
Cuddy trasalì sentendo una voce provenire da questa, annullando i pensieri precedenti e rimettendosela all’orecchio “Pronto, House?!”
“Dottoressa, al momento Gregory House è impegnato. Non posso disturbarlo.”
“Ah… capisco.” sussurrò la dottoressa con un’aria tra l’infelice e il sollevato.
“Può riprovare questa sera.”
“Certo. La ringrazio.” chiuse la chiamata.
Cosa diamine stava combinando!?
Scosse il capo tristemente, rendendosi conto solo in quell’istante di ciò che aveva fatto.
Non stava facendo la cosa giusta, lo sapeva.
Ripose la cornetta al proprio posto sul telefono, rimanendo immobile a contemplare l’apparecchio per qualche istante.
Non sapeva se essere felice o meno.
House non c’era… non aveva potuto parlargli. Doveva essere triste.
Eppure era sollevata di questo. Perché finalmente aveva compreso una cosa… una cosa che quegli istanti di attesa gli avevano fatto capire.
Non era House quello con il quale avrebbe dovuto parlare in quel momento.
Prima di iniziare una conversazione con lui, sapeva benissimo che avrebbe dovuto occuparsi di un’altra conversazione… quella con James Wilson.
Si alzò in piedi, scostando la sedia con fare deciso. Uscì dall’ufficio, questa volta decisa a chiarire la situazione con l’oncologo.
Perché quel pomeriggio Lisa Cuddy sarebbe andata alla clinica Myfield.

 

* * *

 

James Wilson era intento a studiare una cartella clinica, chiuso nel suo ufficio. Teneva in mano una penna, annotando  ogni tanto ciò che gli sembrava particolarmente rilevante dalla lettura di questa.
Era tarda mattinata, tra un po’ sarebbe andato a pranzare e in quell’istante finire gran pare del suo lavoro mattutino era il primo dei suoi pensieri. Almeno, fin quando non senti improvvisamente l’aprirsi della porta dell’ufficio.
Alzò lo sguardo, notando la figura di Lisa Cuddy varcarla. Aveva un’espressione confusa in viso, ma decisa.
“Wilson.. dobbiamo parlare.”
“È successo qualcosa?” l’oncologo sembrò preoccuparsi.
La dottoressa si sedette su una delle sedie di fronte la scrivania, iniziando a giocherellare nervosamente con la collana che teneva al collo. Poi, dopo un pò, iniziò: “Hai notizie di House?”
“Ho chiamato la clinica ieri sera – ammise l’oncologo – Sta iniziando una terapia con una psicologa.”
Cuddy sgranò gli occhi.
House con una psicologa!?
Povera donna.
“Non concluderanno niente di questo passo.- disse stanca, passandosi una mano sulla fronte – Quante volte abbiamo tentato di fargli fare delle terapie simili per via della gamba?! Lui odia gli psicologi.”
“È quello che ho tentato di spiegare anche io. – continuò Wilson – ma a quanto pare è la loro ultima carta.” l’ultima frase sembrò quasi essere bisbigliata ma, nonostante tutto, la dottoressa la sentì come se l’oncologo gliel’avesse urlata dentro le orecchie.
Doveva immaginarselo del resto.
La verità era quella…. House non sarebbe più tornato.
Rimase in silenzio per qualche istante, lasciandosi coprire il volto dalla mano che, sorretta dal braccio poggiato sul bracciale della sedia, non dava segno di voler abbandonare il suo viso.
“Lisa io…”
“Ho provato a chiamarlo questa mattina.” lo interruppe lei, alzando uno sguardo rassegnato.
Wilson rimase interdetto per qualche istante, incurvando la testa con aria sorpresa “Ah.”
“Probabilmente era impegnato con la terapia. Non ho potuto parlargli.”
“Ti avevo chiesto di non…”
“Perché?” era strano, ma questa domanda finalmente trovò il coraggio di uscire allo scoperto.
Erano tre mesi che faceva ciò che Wilson le diceva… senza mai chiedere però il vero motivo.
Ma adesso i giochi erano finiti. House probabilmente non sarebbe mai più uscito da quella clinica, era questa la realtà purtroppo, e lei non avrebbe potuto continuare in eterno ad evitarlo.
Non se ne parlava.
“Perché?!- ripeté al silenzio dell’oncologo – Dimmi la verità Wilson. Sono stanca di andare alla cieca verso il nulla.”
“Non c’è nessuna verità - rispose dopo poco Wilson – Ti ho già detto i motivi per i quali penso sia meglio tenersi a distanza da House al momento.”
“Ma se hai detto tu stesso che ormai non c’è più speranza che torni!”
“Cuddy, non mi sembra che io abbia mai fatto qualcosa che vada contro il tuo bene…” disse Wilson dopo una attimo di riflessione.
“Lo so. – sussurrò Cuddy – ma mi piacerebbe sapere ciò che dovrebbe spingermi ad allontanarmi da House!”
Wilson non rispose.
Si era tradito da solo.
Come dire certe cose dopo tutto?
Sapeva che se Cuddy fosse andata da House… lui avrebbe sofferto. Sapeva che House era fragile, vulnerabile, davanti a lei.
E se c’era qualcosa che poteva fare per l’amico, quella era evitare di far andare Cuddy da lui.
Ma come dire alla dottoressa tutto questo? 
Come spiegarglielo?!
“Dannazione, Wilson! – Cuddy si era alzata in piedi, le mani caddero pesantemente sul freddo legno della scrivania facendo rimbombare il colpo per tutta la stanza – Che diavolo succede!? Lui non ha mica il colera!!.. ha semplicemente avuto delle allucinazioni... dammi una sola ragione per la quale io non dovrei..- Cuddy si bloccò, soffermandosi sulle proprie parole.
Il respiro le divenne pesante.
Andò a cercare lo sguardo di Wilson, ma inutilmente. L’oncologo aveva il volto coperto da una mano, probabilmente alla ricerca di qualcosa da dire per evitare che lei capisse.
Ma era troppo tardi.

 -Mi hai insultata ed io me ne sono andata… non è qualcosa di mai visto in precedenza.
-No, no… non è quel che è successo. Ti ho detto che avevo bisogno di te. Tu mi hai aiutato!
 

Cuddy tolse le mani dalla scrivania, indietreggiando.
Improvvisamente i ricordi di quel giorno entrarono prepotentemente nei suoi pensieri.
Ricordava quella frase.
Ricordava che quel “Tu mi hai aiutato” l’aveva spinta a chiedersi il perché, nelle sue allucinazione, lei lo aiutava… e, in tal caso, come?
Come poteva lei aiutarlo?... come poteva averlo aiutato??
Vide Wilson alzarsi in piedi, per poi vederlo di fronte a se nel giro di pochi istanti.
L’oncologo la guardò in silenzio per un breve attimo; Le prese la mano, cercando di trovare le giuste parole per affrontare quel momento.
Del resto, lo sapeva benissimo, Cuddy non era una stupida. 

Ho fatto sesso con lisa Cuddy! 

La dottoressa sciolse subito quel contatto, iniziando a fissare l’oncologo con aria allibita.
Come poteva esser stata così cieca!?
Come aveva fatto a non capirlo prima??
Il comportamento di House quel giorno, il comportamento reticente di Wilson per tutto quel tempo.
Adesso le era tutto chiaro.
“Perché non mi hai detto niente?” esclamò tentennante. 

Mi chiedevo se fosse il caso di vivere insieme. 

La dottoressa si passò una mano sulla guancia destra, evitando la scesa di una lacrima.
Ricordò il sorriso di House quando le sussurrava quelle parole. Gli venne in mente la freddezza con la quale l’aveva liquidato.
Perché la vita era stata così assurda?!
 “Lisa… mi dispiace. – bisbigliò Wilson – Avrei dovuto dirtelo ma… non è stato facile.” sussurrò Wilson, capendo che ormai la recita era finita.
La cosa che per tanto tempo si era impegnato a nascondere, adesso, era saltata fuori e, inevitabilmente, andava affrontata.
Cuddy scosse il capo, guardandolo confusa e meravigliata. Deviò poi il suo sguardo, superandolo e uscendo fuori dall’ufficio. 

Sentì la porta sbattere alle sue spalle, sentì la gente fissarla mentre percorreva i corridoi della clinica.
Se c’era una cosa che avrebbe voluto in quell’istante, quella era evitare di vedere James Wilson per il resto della sua vita.
Come aveva osato tentare di manovrarla in quel modo senza nemmeno dirle la verità?! …era la diretta interessata, eppure, nessuno si era scomodato di chiarire cosa c’era in ballo in quella situazione.
Eppure sapeva benissimo che l’oncologo non aveva colpa in tutto questo, sapeva che nessuno aveva colpa su tutto questo… perché l’unico capo espiatorio adesso erano solamente quei malsani sentimenti che avevano sempre legato lei e Gregory House.
Andò nel suo ufficio, conscia che non sarebbe più uscita da lì per tutto il resto della giornata. E consapevole del fatto che, per quanto fosse dura ammetterlo, Wilson aveva ragione.
Se c’era una cosa che avrebbe potuto fare per House… quella era dimenticare tutti quei sentimenti che lo legavano a lui.
Anche se questa, lo sapeva benissimo,  sarebbe stata la cosa più dura del mondo.
Si sedette alla scrivania, gli occhi appannati dalle lacrime che, comunque, non sarebbero mai scese. Perché lei l’avrebbe impedito.
Prese la cornetta del telefono.
“Breda… Sono Cuddy. Fammi un favore, appena puoi, portami in ufficio i curriculum di quei medici. – sospirò, conscia del suo ruolo e dei suoi doveri – Si. Sarà meglio che inizi a cercare un nuovo medico per il reparto diagnostica.”

 

 

 

 

 

 

 

To be continued…

 

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Capitolo 7
*** #6 Capitolo ***


Salve gente!!
Grazie sempre per il sostegno che mi date!!..ve ne sono grata!!^^

Beh, dunque, spero che anche questo capitolo vi possa piacere dato che è il penultimo… cioè, il penultimo per ora. Infatti il prossimo venerdì partirò per fare un viaggetto all’estero e mi assenterò per un bel po’, così mi rimane tempo per postare, dopo questo chap, solo un altro capitolo.Contemporaneamente, direi che con il prossimo chap si concluderà una parte importante della storia..cioè l’ambientazione all’interno della clinica psichiatrica.Quindi spero vivamente che questi ultimi 2 chaps potranno soddisfarvi... io, per quel che mi riguarda, ne sono abbastanza soddisfatta. :P
Bando alle ciance, eccovi il 6 capitolo! 

Enjoy it!

 

CHAP 6

Il fine della psicologia è darci un'idea completamente diversa delle cose che conosciamo meglio.

(Paul Valéry)

 

 

 

“È uno scherzo, vero?! – Amber guardava il tabellone che aveva davanti con aria stupita, mentre, seduta su una sedia, andava ad accavallare le gambe come era suo solito fare – Stiamo parlando di una donna Gregory… vuoi per caso perdere!?!”
House la fulminò con lo sguardo, iniziando a cercare una palla adatta nel mucchio che aveva di fronte.
Ci mise qualche secondo, poi, finalmente, ne prese una color pastello.
Sorrise.
Questa volta avrebbe spaccato.
Si portò la palla sulla fronte, concentrandosi sull’obbiettivo in fondo alla pista: i birilli.
Se c’era una cosa fondamentale nel gioco del bowling... quella era evitare di distrarsi, anche se, in questo caso, Amber non lo stava aiutando per niente.
Tirò.
Vide la palla ruzzolare velocemente lungo la pista mentre, di sottofondo, si sentivano delle vecchie canzoni anni 80.
“Niente male.- Jenny Dawson l’affiancò in pista, dandogli una pacca sulla spalla – ma ti ci vorrà più di qualche strike per raggiungermi.”
House sbuffò.
Detestava perdere contro le donne.
In qualsiasi campo.
“Bah!” sbottò, fissando il punteggio sul tabellone e tornandosene a sedere.
“Oh, andiamo! Perdere non fa mai male…” lo consolò la ragazza, focalizzando l’attenzione sui birilli.
House la guardò tirare poi, finalmente, dopo già un quarto d’ora che stavano giocando, iniziò: “Allora è così che ti guadagni i soldi… perdi tempo con i pazienti per divertirti un po’ e poi vieni pagata per aver fatto la psicologa.”
Lei si voltò a guardarlo con aria stupita ma allo stesso tempo divertita  “Volevo conoscerti prima di imporre la mia presenza nella tua mente, che c’è di male in questo? Se nel frattempo organizziamo un incontro di bowling... meglio ancora. ”
“E quanto ti pagano?- la ignorò House – Scommetto che quel gioiellino di macchina è solo uno dei pezzi forti del tuo garage.”
Il commento di House non era puramente casuale.
Ebbene si, Jenny Dawson aveva una macchina sportiva rosso fuoco che, per chissà quale grazia divina, gli era stato concesso di guidare. E già solo per quello, House avrebbe fatto volentieri una statua in onore della psicologa.
“È vero, lo ammetto – Jenny andò a prendere un’altra palla, pronta per il secondo tiro – Il mio amore più grande va alla mia moto.”
“Siamo sicuri che non sia un uomo?” sogghignò Amber, guardando la ragazza con ammirazione.
House sorrise “Di che cilindrata è?”
“1255… ma la uso fuori dal lavoro, giusto per fare qualche giro.” la dottoressa tirò nuovamente, segnando un ennesimo strike sul tabellone.
“Moto di questo calibro sono sprecate per le donne.”
“Sarebbero meno sprecate per uno zoppo?”
Il diagnosta la guardò divertito, cogliendo al volo la provocazione “Da quando il razzismo per gli storpi ha preso questa brutta piega?”
“Da quando questa brutta piega l’ha preso anche il razzismo verso le donne!” lo apostrofò lei con aria di sfida.
La vide sedersi accanto a lui, iniziando a fissarla intrigato.
Era da poco che stavano insieme ma già aveva iniziato ad inquadrare il carattere della donna… e, cosa più strana, non gli dispiaceva affatto.
Si alzò, non prima di averle tenuto testa per qualche secondo con lo sguardo.
Andò a prendere la palla, era giunto il suo turno.
Portò nuovamente la palla sulla fronte, concentrandosi verso i birilli. Ormai era questo il suo gesto d’inizio.
“Così tu sei Gregory House… - iniziò Jenny alle sue spalle – Il più famoso diagnosta di Princeton.”
“Così sembra.” House non distolse lo sguardo dai birilli.
“Mi sento quasi onorata a dover lavorare con te, lo ammetto.”
“Sei onorata nell’addestrarmi al bowling?”
“Onorata del fatto che riuscirò a guarirti.”
House tirò.
Vide la palla andare spedita ma, giunta vicino ai birilli la sfera iniziò a brancolare fino a gettarsi sulla sponda laterale.
Si voltò seccato “Cosa ti fa credere che tu riuscirai a guarirmi?!”
“Tu credevi che le tue allucinazioni fossero causate dal vicodin. L’uso di oppiacei del resto.. causa effetti simili. Eppure non tocchi droghe da tre mesi. L’unica causa è il fattore psicologico.”
House scosse il capo, andando a prendere una seconda palla e preparandosi per un altro tiro “Se pensi di potermi aiutare… fa pure. Ma penso sia inutile dire che per me tutto questo non ha valore. La psiche si basa solamente su eventi della mia vita ai quali, secondo psicologi montati, non riesco a dare significato. Sarei uno scemo secondo queste persone dunque.”
La psicologa si sistemò più comodamente sulla sedia, distendendo le braccia sulle spalliere di quelle accanto “La psiche umana non è del tutto trasparente. Non tutto ciò che sentiamo e crediamo di intendere in superficie è in sé compiuto e completamente chiaro.- iniziò - La psiche è come un iceberg: la parte superficiale è molto meno rilevante della parte sommersa, immensa e misteriosa.”

House tirò “Quindi la causa delle mie allucinazioni è un iceberg…”
Questa volta la palla andò a finire nella sponda di destra.
Jenny sorrise divertita, iniziando a giocare con una ciocca di capelli “Non sei molto in forma.”
“Si nota tanto?” disse House ironico.
“Che ne sa lei se sei in forma o meno?” la voce di Amber lo destò, facendolo voltare.
Era rimasta in silenzio sin da quando avevano iniziato a giocare, tranne qualche acido commento sui suoi modi di affrontare la donna. Ora, improvvisamente, aveva preso la parola.
House la fissò in silenzio per qualche istante, voltandosi poi verso la psicologa.
“Già… che ne sai tu se sono in forma o meno? – esclamò il diagnosta, guardando Jenny con aria confusa e preoccupata, colto dall’improvviso terrore di un’ennesima allucinazione. Come era stato con Cuddy. Come anche era stato con il suo desiderio di disintossicarsi – Tu non mi hai mai visto giocare a Bowling, potrei anche essere una schiappa… che ne sai?!”
La psicologa si alzò in piedi, sul suo volto un dolce sorriso che, contrariamente a ciò che aveva appena temuto, House trovò quasi rassicurante.
“È stata Amber a fartelo notare? – inclinò leggermente il capo, incrociando le braccia al petto – o è stato Kutner?”
“Cos’è, hai pagato un investigatore privato per spiare il mio subconscio?” ironizzò House, nonostante in quell’istante la sua sorpresa fosse più grande del suo concetto di ironia.
La psicologa rise di gusto, andando a scegliere poi una palla adatta per tirare.
Adesso era il suo turno.
“Ho parlato con un certo Wilson… - iniziò, concentrandosi sul tiro – ha chiamato ieri nel mio ufficio.”
House schioccò le dita, iniziando a capire molte cose  “Ah.. parli di quel ritardato mentale che si spaccia per un oncologo?”
“Parlo del tuo amico.”
“Io non ho amici.”
“Era preoccupato per te.”
House si sedette accanto ad Amber, iniziando a guardarla con stanchezza “Ti ha parlato di Amber e Kutner?”
Deviò il discorso sull’amicizia.
Ormai la realtà era quella… era stanco di crederci.
Jenny prese una piccola rincorsa, lanciando scivolare la palla con dovuta eleganza. Eleganza che il diagnosta, dato il problema alla gamba, non avrebbe mai mostrato sulla pista.
“Mi ha detto i nomi. – gli sorrise lei – Parlarmi di loro spetta solo a te.”
“E se io non volessi farlo?”
“Sei stato tu a volere quest’incontro. Non penso che le tue reali intenzioni siano di giocare a Bowling, altrimenti non sarei qui.”
Amber si rivolse ad House, ma senza proferir parola. Lo sguardo supplichevole che le copriva il volto spinse finalmente il diagnosta a prendere la parola su quell’argomento.
Un sospiro profondo accompagnò i suoi pensieri.
“Erano dei miei dipendenti. – disse, grattandosi la fronte con il pollice... come era solito fare quando rifletteva o iniziava un discorso complicato – Ora però sono morti.”
“Così vedi solo persone morte?”  la donna si voltò, lasciando trasparire un leggero filo d’orgoglio per il punteggio ottenuto mentre andava a prendere la palla per l’ultimo tiro.
“Si.”
“No! - Amber si mise in piedi, rivolgendosi verso House – Sai che non è così! Devi dirglielo!”
House deviò il suo sguardo, cerando di ignorarla.
Amber aveva ragione, lo sapeva. Ma contemporaneamente qualcosa in lui non voleva rivelare nulla riguardo a Cuddy.
Del resto non era mai riuscito a farlo.
Non era mai riuscito a dire “Sono innamorato di Lisa Cuddy.”… non era mai riuscito nemmeno a pensarlo direttamente. E l’ammetterlo a qualcuno ancora sconosciuto a lui, non era il primo dei suoi pensieri.
Non in quel momento.
Ma Jenny lo vide tentennare.
Posò lo sguardo verso la sedia acanto a quella del diagnosta, capendo all’istante che per lui lì ci stava qualcuno.
“Che rapporto avevi con loro?” domandò poi, consapevole del fatto che l’insolita reticenza che il diagnosta stava mostrando serviva ad evitare qualcosa.
E a questo punto era suo compito scoprire cosa.
“Erano degli idioti – disse lui acidamente – Io comandavo e loro obbedivano.”
“Beh, per quanto potessero essere degli idioti, il fatto che tu li veda sta a significare che in fondo ci tenevi a loro.”
Amber sorrise, rivolgendo uno sguardo malizioso ad House ed iniziando a giocherellare con una ciocca di capelli “Ammettilo, io ero proprio una bomba.”
“Avrei potuto benissimo odiarli a morte. Il concetto è sempre quello del resto.” ribatté prontamente House, colto di sorpresa, senza però essersi prima concesso un sorrisino d’intesa con Amber.
La psicologa tirò.
La palla era tutta a destra come se fosse in procinto di cadere lateralmente. Poi, improvvisamente, arrivata all’altezza dei birilli, deviò verso sinistra facendo un improvviso e potente strike.
Quello vincente.
“Si!! Vittoria!!!” urlò felice.
Amber si coprì il volto con le mani, vergognandosi del suo protetto.
“Congratulazioni.- borbottò House, mettendosi in piedi e guardandola in modo allusivo – ma sei sicura di essere una donna?! Non è che sei qualche trans travestito che si interessa di moto, bowling e, nel tempo libero, di psicologia?”
Jenny si avvicinò a lui, sciogliendosi i capelli che fino ad allora erano rimasti attaccati a coda di cavallo.
“Donna. E fiera di esserlo.”
House fece un passo in avanti, accettando quella sorta di sfida che Jenny sembrava volesse proporgli.
“Gregory House, molto più fiero di quel che credi.”

Jenny sorrise, inclinando debolmente il capo ed iniziando a fissarlo incuriosita “Fiero di essere chiuso in un manicomio, o fiero di quel che sei stato?”
House divenne serio, rimanendo in silenzio davanti a lei.
Cosa diavolo voleva? Quali erano in realtà le sue intenzioni?!
Iniziava a temere quella figura, iniziava ad aver timore di esporsi troppo. Era troppo recettiva ai suoi atteggiamenti.. e questo non gli piaceva affatto.
“Ero un medico rispettato.” disse semplicemente, indietreggiando per prendere la sua giacca ma senza staccare quel contatto visivo con lei.
“…e adesso non lo sei più. – disse Jenny – non lo reputi un problema?”
“È ovvio che è un problema!!”
“Allora perché non l’affronti come tale?!”
Questa volta il tono di Jenny sembrava non voler ammettere repliche. Era decisa, convinta e ferma nelle sue convinzioni. E per queste avrebbe lottato.
“Cosa dovrei fare? Scrivermi in fronte ‘Accetto il fatto che sia un problema’ !?!?”
La ragazza si mise la giacca addosso, iniziando ad abbottonarsela “Potresti. O potresti semplicemente dirmi quello che succede quando hai un’allucinazione.”
“Tel’ho detto. Vedo due miei dipendenti morti. So che è macabro come scenario ma…”
“Tu odi gli psicologi.- gli fece eco la donna, andando a posare delle monete alla cassa e dirigendosi verso l’uscita con House al suo seguito – Eppure sei venuto da me. Non sono stupida, so che è successo qualcosa.. qualcosa che ti ha spinto a venire a chiedere il mio aiuto.”
“Piantala di fare l’imbecille!! – Amber era alle sue spalle ma la vide fiondarsi immediatamente davanti a se, iniziando a camminare all’indietro nel tentativo di stabilire un contatto visivo con il diagnosta – Sin dai tempi di Stacy la vita è stata uno schifo, ricordi? Adesso ti viene data la possibilità di sistemarla… e se questo non riuscirà a guarirti, per lo meno riuscirà a mettere in chiaro tutto quello schifo che hai in testa. Ti sembra poco?!”
Erano arrivati al parcheggio di fronte all’uscita.
Un forte vento gelido li colpì, costringendoli a dirigersi a passo svelto verso la macchina.
House si fermò, mentre Jenny entrava nell’auto sportiva di fronte a loro, questa volta al posto di guida.
Guardò Amber per un breve istante, senza proferir parola.
“Ricordi?... è la nostra ultima possibilità.” gli sussurrò in fine la dottoressa dai biondi capelli, scuotendo debolmente il capo con fare rassegnato.
House sospirò, esitante.
La sua ultima possibilità…

 
Ho sempre creduto di essere un uomo forte. Ho fatto i miei errori… ma son sempre stato capace di superarli e di andare avanti. Ma credere, non sempre basta a sfuggire alle paure e alla sofferenza.

 Credi che sia facile vederti chiuso qui dentro? Venirti a trovare solo nei ritagli di tempo… e scoprire che nonostante tutto non sia cambiato nulla?

  …e adesso, Gregory House, sei veramente solo.

 Dobbiamo impegnarci entrambi per questo, lo sai vero?


Ricordi dolorosi offuscarono la sua mente.
Vide i volti di Wilson, di Cuddy, dei suoi protetti.
Tutti lo osservavano, impazienti.
Lo aspettavano.
“È giunto il momento di smetterla con questo gioco – Amber arrivò al suo fianco, sussurrandogli qualcosa all’orecchio – Perché per quanto un gioco possa essere bello, a lungo andare stanca… Gregory.”
 

House aprì lo sportello della macchina, sedendosi al posto accanto a Jenny.
La macchina era ancora spenta, stranamente, eppure non ci fece caso.
Iniziò a fissare il proprio bastone con sguardo assorto mentre, lo sapeva benissimo, la psicologa attendeva.
Attendeva di ascoltare le sue parole.
Perché lui aveva qualcosa da dire.
Aveva qualcosa di cui parlare.
E lei lo sapeva.
“Forse sarà meglio che ti racconti una storia.” sussurrò dopo un breve istante.
“Ti ascolto.”
Jenny sapeva che per House era dura, sapeva che qualsiasi cosa avrebbe detto lei aveva il semplice compito di ascoltarlo e, se possibile, di aiutarlo.
Era il suo compito. Ma, stranamente, anche un volere.
House fece un sospiro, voltandosi verso di lei al suono di quelle parole.
Vi fu un attimo di silenzio.
La fissò qualche istante poi, finalmente, annuì, capendo l’importanza e la necessità di parlarle.
“Tutto è iniziato ai tempi dell’università, quando ancora la mia testa era completamente vuota di nozioni mediche mentre invece era completamente piena di film porno e giornaletti sconci.”
Jenny sorrise divertita “Strano, pensavo che anche attualmente la tua mente contorta vivesse di questo.”
Il diagnosta abbassò il capo, imbarazzato.
Non sapeva il vero motivo per il quale lo fosse… ma sapeva di esserlo.
Nonostante la psicologa stesse cercando di rompere quell’atmosfera sempre più pesante.
“Beh, fu allora che conobbi Lisa Cuddy.”
E in quel momento Gregory House sentì Amber sussultare, come se il pronunciare quel nome l’avesse veramente convinta della sua determinazione.

 

 

 

 

 

To be continued…

 

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Capitolo 8
*** #7 Capitolo ***


Salve a tutti gente!!!!!!!!!
Un grazie enorme va sempre a tutti voi che continuate a recensire e a sostenermi nella realizzazione di questa storia:
ChrisP, huddy4eIsAnastaciaHuddy92ladyT lady cat e, sopratutto, un grazie speciale va a  GaaRa92! GaarRa, grazie per la bellissima recensione! Mi ha fatto molto piacere leggere il tuo parere... ^^
Vi lascio questo chap sperando che vi possa piacere e sperando di non aver deluso le vostre aspettative. Del resto, devo dirlo, tutto ciò che viene sritto dalla sottoscritta, capitolo dopo capitolo, è tremendamente premeditato! XD
Alla prossima gente! (che secondo i miei calcoli sarà verso metà luglio :P)
Grazie ancora a tutti!!!

Miky

CHAP 7

L'intero problema si riduce a questo: la mente umana è in grado di dominare ciò che ha creato?
(Paul Valéry)

 

 

 

 

Gregory House chiuse la porta alle sue spalle, entrando con passo lento nella sua stanza.
Era pomeriggio.
Ricordava ancora l’amaro di quel pasticcio di cibo che lui e la psicologa Jenny Dawson avevano mangiato in un fast-food qualche ora prima, parlando e discutendo di cose che, per quel che gli riguardava, non avrebbe mai pensato di dire ad una donna, in un ambiente come quello per lo più.
Era stanco.
Stanco di camminare, stanco di parlare.
Era stato in giro tutto il giorno, con una donna veramente niente male, aveva giocato a bowling, guidato una macchina da urlo… si insomma, avrebbe dovuto sentirsi soddisfatto. In fin dei conti, non gli stava finendo poi così male.
Non del tutto.
O almeno… questo era bello pensarlo.
Per quanto quel giorno si fosse divertito, i dialoghi con Jenny l’avevano sfinito. E se in precedenza aveva creduto che lei fosse solo una poco di buono, in tutti i sensi possibili immaginabili, adesso si dovette ricredere.
La realtà era che adesso adorava e temeva la figura della psicologa. Ma, soprattutto, adorava e temeva ciò che lei era stata in grado di dedurre da quel che lui gli aveva raccontato. 

“Così, adesso lei è il tuo capo.”
“Si.”
“E come se la cava?” Jenny è seduta davanti a te, sul volto uno sguardo sorridente.
“È odiosa… pretende di starmi dietro in ogni singolo attimo della sua vita solo per controllare se faccio il mio lavoro.”
Ricordi ancora l’espressione che in quell’istante assumesti nel parlare di lei… e, ne sei certo, questa la stava notando anche Jenny.
“Piantala di lamentarti. – la vedi ingoiare un boccone a fatica, tanto era disgustoso quel panino che stringeva in mano – Inutile negare che ne sei innamorato.”
Sbuffi, come se lei ti stesse dicendo qualcosa di pesante.
In realtà è così.
Scuoti il capo con fare seccato, per poi posare lo sguardo sul tuo panino.
“Si.”
 

“Così sei riuscito ad ammetterlo finalmente.”
La voce di un uomo lo destò da quei ricordi, spingendolo a far vagare lo sguardo per l’intera camera.
Poi, improvvisamente, eccolo.
Stava vicino la finestra, le mani nascoste nelle tasche del camice che indossava.
“Kutner.”
Il giovane indiano sorrise amichevolmente “Chi non muore si rivede.”
“Senti da che pulpito viene la predica… – House zoppicò verso il letto, gettando a terra lo zaino che teneva sulle spalle – del genere: chi è già morto si rivede sempre e comunque.”
Kutner si avvicinò ad Amber, affiancandola ai piedi del letto e rivolgendosi ad House che, in quell’istante, si stava concedendo un po’ di riposo “Sai che non è così.”
“Si, si, lo so… tu ed Amber siete due fratellini capricciosi, sapete?!” li rimproverò ironico.
“È il nostro compito.”
House si gettò sul letto, portando le mani dietro la nuca ed iniziando a fissare il soffitto “Il vostro compito è quello di rompere le scatole?!”
“Esattamente.” Amber sorrise, abbracciando Kutner con fare amichevole. Sembrava contenta che House li avesse definiti in quel modo.
Il giovane indiano le cinse i fianchi, rivolgendosi con fare serio al diagnosta “Ciò che ti ha detto la psicologa è pesante. – iniziò – Cosa pensi di fare? Hai intenzione di seguire il suo consiglio o rimanere a crogiolarti nell’autocommiserazione ancora per un pò?”
Il diagnosta lo fulminò con lo sguardo, alzando il proprio busto con i gomiti per meglio poter vedere l’espressione che adesso il giovane medico aveva sul volto: sorrideva.
Sapeva che Kutner voleva una risposta, e sapeva anche che ciò che voleva era la certezza del fatto che lui si sarebbe deciso a prenderla.
Esitò.
Per un attimo, sentì il bisogno di riprendere nella propria mente il discorso che qualche ora prima Jenny Dawson gli aveva fatto. 

Le hai raccontato tutto.
Le hai detto della tua allucinazione con Cuddy, di quel giorno quando urlasti a tutto l’ospedale di essere andato a letto con lei.
Sei imbarazzato, non osi proferir parola mentre adesso, Jenny, ti osservava intrigata.
Come diavolo eri riuscito a raccontarle tutto non lo sai nemmeno tu… ti ha praticamente strappato con la forza quelle parole. Eppure, non ne sei dispiaciuto.
Sei curioso di sentire cosa ne pensa, sei curioso di sentire come interpreterà tutto quel che ti è successo.
Eppure, ciò che adesso lei ti dice ti stupisce alquanto: “Era la prima volta?”
Esiti un attimo, cercando di capire cosa lei voglia dire.
“Prego?!” sussurri, con un tono tra l’ovvio e il confuso.
La vedi sorridere divertita, probabilmente si è resa conto di aver fatto una domanda troppo criptata.
“Intendevo… era la prima volta che avevi un’allucinazione su di lei?”
La guardi sconvolto, come se stesse dicendoti chissà quale offesa “Ma ci stai quando dico che è stata la mia prima allucinazione?!” borbotti, dando un ultimo morso al tuo panino al formaggio.
Se c’era una cosa da fare dopo aver mangiato quella schifezza, quella era andare indubbiamente a farsi una bella lavanda gastrica.
“Ok, scusa... hai ragione.”
“No invece.” senti Amber sussurrare qualcosa alla tua destra.
Ti volti, incuriosito da quella sua esclamazione.
Sta giocherellando, tracciando con il dito disegni invisibili sul freddo legno del bancone del locale.
Poi si volta a guardarti, lo sguardo deciso “Non è stata la prima volta...”
Vedi Jenny che si volta a guardare il bancone anch’ella, cercando di capire cosa tu in realtà stai guardando. Ma era ovvio che ciò che al momento stava attirando la tua attenzione, lei non l’avrebbe mai notato.
Vedi Amber posare lo sguardo su di lei,  poi nuovamente su di te.
Inizia ad accarezzarsi la gamba dolcemente, facendo scivolare la propria mano verso l’alto, iniziando a percorrere la coscia sinistra, in modo da scoprire parte del suo corpo che qualche istante prima era coperto dalla gonna.
“Che bei ricordi… non smetterei mai di pensarci. - sussurra maliziosa, attaccandosi ad un palo che affiancava il bancone del negozio ed iniziando a muoversi sinuosamente -Rammenti Gregory?”
Curvi leggermene il capo, guardando i suoi movimenti con interesse.
Striscia sul palo con insolita bravura, imitando i movimenti di qualcuno… qualcuno che tu conosci benissimo.
Aveva ragione, non era stata la prima volta.
“Tempo addietro, ebbi un incidente – inizi, senza però distogliere lo sguardo dalla bionda dottoressa – E a causa di ciò che accadde dopo, svenni… ed ebbi una sorta di sogno-allucinazione su di lei.”
Jenny ti sorride sorpresa, per qualche strana ragione adesso ti guarda ammirata “È stata Amber a dirtelo?!”
Ti volti a guardarla, incuriosito dalla sua reazione.
“No, me l’ha fatto solo ricordare.” rispondi ovvio, gesticolando in maniera vaga con la mano destra.
“È strabiliante quanto si sia acuito il tuo dialogo con il tuo subconscio.” ti sussurra meravigliata, poggiando il mento sul palmo della mano ed iniziando a focalizzare l’attenzione solo ed esclusivamente su di te.
“Io lo chiamerei inquietante.” brontoli tu, lanciando di tanto in tanto delle piccole occhiate ad Amber.
“Però non è stata un’allucinazione – Jenny riesce ad attrarre nuovamente la tua attenzione, iniziando a riflettere ad alta voce – È stato solo un sogno. Intendo quello dovuto all’incidente. Se dici di esser svenuto…”
“Già, forse ha ragione.” Vedi che Amber adesso si trova alle spalle della psicologa, seduta sul tavolino dietro, mentre inizia a riflettere su quell’ultima esclamazione. 
“Si.” bisbigli confuso, abbassando il capo nell’atto di riflettere.
In realtà era stato solo un sogno. Lo sai benissimo.
E adesso ti domandi come mai dalla tua bocca è uscito quell’argomento.
“Eppure Amber, il tuo subconscio, ha voluto che tu me lo dicessi.- la psicologa inizia a sorridere intrigata, e ciò che lei ha appena detto sembra darti non poco timore – Capisci cosa vuol dire?”
La vedi gesticolare convinta, muovendo entrambe le mani con forte passione mentre quelle parole le escono dalla bocca. È come se ti stessi guardando allo specchio, come se stessi notando quella scintilla che ti aveva sempre spinto nel risolvere i tuoi amati casi clinici.
E adesso, tu eri il suo caso.
Tu eri diventato la sua passione, il suo mistero da svelare.
“Spiegamelo.”  le sussurri incuriosito.
Noti che adesso anche Amber è concentrata sulla psicologa, curiosa anch’ella del verdetto.
“Hai sempre pensato che il tuo problema fosse il vicodin, la tua droga. – inizia Jenny - Eppure non ti sei mai reso conto che la tua vera droga è sempre stata lei: Lisa Cuddy.”
“Cosa diavolo stai blaterando…?!”
“È così Greg! Persino il tuo subconscio cerca di fartelo notare. Ti ha appena fatto ricordare altre tue esperienze simili a queste allucinazioni proprio per questo, per sottolineare tutto questo. – ti spiega con enfasi - …non mi stupirei se Amber o Kutner avessero cercato di convincerti a dimenticarla o ad allontanarti da lei.”  
Senti un brivido percorrerti la schiena.
“Le tua allucinazioni… tutto, è basato su di lei.”
Guardi Amber, cercando il suo sguardo. Noti che anche lei ti guarda ma, contrariamente dalla tua espressione sconvolta, lei sorride.
La vedi abbassare lo sguardo verso Jenny, come fosse attratta dalla genialità di quella donna.
La psicologa aveva ragione.
Per tutto quel tempo il tuo subconscio aveva tentato di farti dimenticare Lisa Cuddy… e adesso sai il perché
. 

“È così Gregory… il tuo unico problema è lei. – Kutner lo destò dai suoi pensieri per la seconda volta nel giro di pochi minuti, facendogli riaccendere la frustrazione che tutto quello gli stava creando - È lei l’iceberg contro il quale stai picchiando la testa.”
“Perché…?” sussurrò tra se Gregory House, passandosi una mano in fronte, sconvolto al ricordo di quelle parole.
Amber si avvicinò alla sponda del letto con passi lenti.
“Perché lei non ti ama. Tu continui ad immaginare che non sia così… e invece lo è. Renditene conto. – si era fermata davanti a lui, in mano una vecchia foto dei tempi dell’università che man mano che lei parlava andava svanendo – Solamente in questo modo riuscirai a controllare te stesso.”
Il diagnosta la fissava interdetto, conscio di ciò che quelle parole stavano a significare.
Vide la foto di quei due giovani svanire debolmente, sconfitto.
Si mise a sedere sulla sponda del letto, chinando la testa sulle proprie mani.
Ciò che il destino gli stava imponendo era dura da reggere come emozione.
Era stanco di sopportare.
“Conosci la diagnosi… adesso devi solamente iniziare la cura. Se ne hai il coraggio. – sentì la voce di Kutner seguire quella di Amber, il suo tono era identico a quello della dottoressa – E non cercare vie traverse, perché poi, alla fine, ne rimarrai sconfitto comunque. Come è stato per la tua gamba.”
Sentì la propria pelle gelarsi al suono di quelle parole.
Odiava Kutner, odiava Amber, odiava tutto ciò che loro continuavano a sbattergli in faccia. Ed odiava il loro ruolo in tutto quello.
Odiava se stesso. 

La porta si aprì improvvisamente, costringendolo ad alzare lo sguardo verso colui che aveva osato aprirla senza un minimo di permesso.
“Ciao – il caro vecchio Bill era adesso davanti i suoi occhi, fermo sull’uscio della porta – Come va?”
“Se non te ne vai, male.”
“Siamo nervosetti…- gli sorride, senza però entrare nella stanza – Devo dedurne che con la psicologa non è andata molto bene.”
“Non avevi detto che oggi non mi avresti girato intorno?!”
“Si, ma solo fin quando stavi con Jenny Dawson.”
House gli gettò un’occhiataccia, grattandosi il capo con fare nervoso “Perché sei qui?”
“Volevo ricordarti che è ora di cena. Ti aspetto all’ascensore.” si limitò a dire l’uomo, velocemente, giusto per assolvere al suo dovere. Poi si voltò, andando per richiudere la porta.
Ma il suono di questa fu praticamente assente.
House alzò nuovamente lo sguardo, notando che il medico, bloccandosi nel suo gesto, l’aveva riaperta.
“Ah, quasi dimenticavo – riprese – Questa mattina ti cercavano. Ha chiamato una certa Lisa Cuddy.”
Vi fu un attimo di silenzio.
Amber e Kutner si scambiarono due sguardi vaghi d’intesa.
“Ok, grazie.” sussurrò House dopo qualche istante, congedando definitivamente il medico.
Sospirò, vedendo la porta chiudersi di fronte a sé e, mettendosi in piedi, prese il proprio bastone tra le mani.
Chiuse gli occhi, riflettendo sul da farsi.
Era stanco di tutto quello che aveva attorno.
Era stanco di continuare a vivere una vita piena di ozio. Strano da parte sua, ma avrebbe pagato per poter tornare al proprio lavoro.
Avrebbe dovuto lottare e la cosa non si sarebbe di certo rivelata facile, lo sapeva.
Ma cel’avrebbe fatta.
Era stanco delle sue allucinazioni, dei suoi tormenti e di tutto quello che vi girava attorno.
Sapeva benissimo che quel che Bill qualche attimo prima gli aveva detto era solamente frutto della sua fantasia. Ormai aveva iniziato a capire la sua mente e le sue tattiche.
E sapeva benissimo che Cuddy non avrebbe mai osato chiamarlo.
Non dopo tutto quel tempo.
Non così all’improvviso.
Era stata tutta un’ennesima allucinazione, senza dubbio.
Si voltò verso Amber e Kutner, sul volto un’espressione ferma, convinta.
Se il problema era quello, la soluzione era solamente una: dimenticare lei.
Dimenticare tutto ciò che rientrava in lei o che viveva nei suoi ricordi.

Doveva dimenticare Lisa Cuddy.
“Sono pronto.” sussurrò ai due medici, consapevole del valore di quella affermazione.
E fu allora che, per la prima volta dopo tre duri e pesanti mesi, le figure di Amber e Kutner iniziarono a svanire davanti ai suoi occhi. Sul loro volto, finalmente, un’espressione di vittoria.

 

 
 

 

 

 

 

 

To be continued…

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** #8 Capitolo ***


Salve gente!
Come promesso, tornata dalle vacanze, eccovi un nuovo capitolo!
Perdonatemi ancora per l'attesa!
Ve lo lascio... sperando che possa piacervi, anche se personalmente non lo reputo una cosa fantastica. Nutro invece particolari speranze per il prossimo... :P
Ok, basta! evitiamo anticipazioni... XD

Enjoy it!

 

 

Era una fresca serata primaverile. Il sole stava per abbandonare cielo, mentre ancora si poteva sentire l’umidità della pioggia appena caduta sovrastare la zona.
Il rumore di una macchina accesa rompeva la silenziosa atmosfera del giardino dietro la clinica psichiatrica, mentre si udiva perfettamente il suono di passi pesanti a contatto con l’erba bagnata.
L’uomo aprì il bagagliaio della macchina con fare disinvolto, mettendoci dentro tutto il necessario. Lo richiuse velocemente, voltandosi poi a dare un ultimo sguardo alla clinica alle sue spalle.
Il palazzo era imponente nel suo complesso, articolato in mille e più stanze.
Quanti brutti ricordi stava abbandonando lì dentro… troppi probabilmente.
Ma adesso, a distanza di quattro mesi, stava per dire addio a quel palazzo.
Essere felice o meno per questo, adesso, dipendeva tutto da lui.
“Dimentichi nulla?” la voce di una donna attirò la sua attenzione mentre, deviando velocemente lo sguardo dall’edificio, Gregory House andava a prendere posto all’interno dell’auto.
“No. – bisbigliò, quasi emozionato – Andiamocene.”

 

 

CHAP 8

Così come si provocano o si esagerano i dolori dando loro importanza, nello stesso modo questi scompaiono quando se ne distoglie l'attenzione.
(Sigmund Freud)

 

 

Gregory House sentì quasi un brivido nel girare la chiave nella serratura della porta che aveva di fronte. Aprì la porta di casa con lentezza, mentre il cigolio di questa accompagnava il suo sguardo verso il cupo interno.
Ricordò casa sua con una nostalgia che mai avrebbe pensato di provare.
Varcò l’entrata, andando a cercare l’interruttore della luce. Quando le lampade si accesero ed illuminarono il salone, si poté vedere il disordine che vi regnava all’interno. Era normale, per lui del resto quello era sempre stato il vero ed assoluto ordine.
Fece qualche passo, entrando nel salone e bloccandosi al centro di questo. Il suo sguardo vagò libero, posandosi prima sulla fredda superficie del pianoforte, su quei tasti bianchi e neri ancora scoperti dall’ultima volta che l’aveva suonato. Le sue chitarre erano ancora sulla parete, tranne una: quella classica. Ricordava ancora la melodia che aveva composto quella volta quando, stanco di una giornata lavorativa, si era deciso a comporre qualcosa di nuovo.
Fu colto da mille ricordi, nostalgie.
La sua amata tv, il divano dove faceva dormire Wilson nei giorni più bui per l’oncologo, ma divertenti per lui.
Entrò zoppicando in cucina, accendendo anche lì la luce della lampada. Aprì il frigorifero, notando che ormai l’apparecchio era spento e vuoto. Capì subito che Wilson era stato a casa sua dopo il suo ricovero, per sistemare ciò che doveva esser sistemato. Il minimo indispensabile.
Rimase a guardare lo spoglio interno di quel frigorifero mentre la mente andava a ricercare ricordi passati.
Ormai non sentiva Wilson da molto tempo.
Più di una volta era tornato a trovarlo in clinica nell’ultimo mese ma lui aveva sempre rifiutato di vederlo o di parlare con lui, categoricamente. In realtà non sapeva nemmeno il perché. Il fatto che l’ultima volta che si erano visti l’oncologo gli aveva rinfacciato i suoi non-progressi… l’aveva spinto a non voler più farsi vedere nemmeno da lui. Odiava essere commiserato. Odiava il fatto che qualcuno gli sbattesse in faccia la vera e cruda verità. Anche se era strano da parte sua pensarlo, del resto quella era la cosa che aveva sempre fatto lui con tutti.
Eppure, solo ora si rendeva conto di quanto potesse essere dura e di quanto i sentimenti potessero influenzare tanto un’amicizia.
Ci vogliono anni per coltivare una relazione con qualcuno, per renderla una amicizia come quella che c’era stata tra lui e James Wilson. Eppure, non ci vollero nemmeno 10 minuti per distruggerla. Poche parole da parte dell’oncologo e lui aveva mandato all’aria tutto ciò che Wilson per lui simboleggiava: un amico.
Ma adesso era a casa.
Era tutto finito.
E forse sarebbe tornato tutto alla normalità.
Forse.
“Wow, non ti avevo mai visto così concentrato nella contemplazione di un frigorifero...”
Una voce lo destò dai suoi pensieri, costringendo a voltare lo sguardo “Effettivamente mi mancava il mio vecchio frigo.. ah, quanti bei ricordi…”
“Già, non oso immaginarli. - la donna si avvicinò a lui, chiudendo lo sportello del frigo e guardandolo con aria sospettosa – Tutto a posto?”
“Avevo fame, il frigo è vuoto… ma non lo classificherei ancora come un trauma. Aspetterei qualche ora per questo.”
Jenny Dawson gli sorrise divertita, andando ad aprire il rubinetto della cucina per vedere se l’acqua scendeva “Ok. Allora aspetterò fino a questa sera per rifarti la domanda.”
House la vide voltargli le spalle e uscire dalla cucina.
Cielo, quanto detestava quella psicologa quando non si impegnava a rompergli le scatole!
“Non avrai intenzione di rimanere qui fino a questa sera, spero.” la seguì nel salone, chiudendo il rubinetto dell’acqua che pochi istanti prima la donna aveva aperto.
Jenny si voltò verso di lui, con aria sorpresa “Sono già le 20.00. Se vuoi che me ne vada… non ci sono problemi.”
House si sorprese nel vedere quanto la donna di fronte a lui avesse preso sul serio quelle parole.
“No.” la guardò ovvio.
Jenny sorrise amichevole, capendo, in quel momento, l’importanza del suo ruolo.
“Allora….- si mise le mani ai fianchi, inclinando leggermente il capo – Andiamo a mangiare qualcosa?”
House aprì l’armadio a muro, iniziando a rovistare “No.”
“Credevo avessi fame.”
“Ho detto che il problema si sarebbe presentato tra qualche ora…- spiegò il diagnosta con ovvietà, mentre continuava a rovistare tra vari scatoloni – Se poi il tuo concetto di ora è così limitato, il problema non è mio.”
“Che diavolo stai combinando?”
House sbuffò seccato, continuando la sua ricerca.
“Greg?!”
“Non dirmi che Wilson ha fatto sparire pure il Whisky?!”
Jenny si avvicinò perplessa al diagnosta “Tu tieni il Whisky dentro l’armadio con le scarpe?”
House si voltò titubante, poi fece spallucce “Storia lunga.”
“Ok, credo che il tuo amico abbia fatto, come mi sembra doveroso che qualcuno faccia ogni tanto, un po’ di piazza pulita in casa.”
Gregory House sbuffò nuovamente, staccando da una cruccia un cappotto leggero e buttandoci dentro la giacca che teneva addosso.
“Che fai?”
“Andiamo”
“Dove di preciso?”
“A bere qualcosa.”

 

 

* * * * * *

  

 

Gregory House e Jenny Dawson entrarono in un piccolo locale abbastanza frequentato, a metà strada tra casa di House e l’ospedale di Princeton.
Luogo vicino e poco impegnativo, spesso frequentato dal diagnosta nei primi anni lavorativi in quella città.
Eppure, nonostante la folla all’interno del locale, i due  riuscirono presto a trovare un tavolino dove sedersi.
House ordinò subito un bicchiere di Whisky mentre Jenny preferì qualcosa di più leggero. Se c’era una cosa in cui lei ed House non si assomigliavano per niente, quella era il vizio di bere.
House beveva alcol come fosse acqua.
Jenny beveva alcol come se fosse droga, ergo: proibita.
“Ti senti meglio adesso?” sospirò rassegnata, nel vederlo mandar giù il terzo bicchiere di Whisky.
“Cameriere, un altro prego!” annuì House, intonando un modo di parlare non molto tipico della sua persona.
“Piantala o puzzerai di alcol per un mese intero!”
“Rilassati. – la rassicurò lui, inclinando il capo nella sua direzione – È tutto a posto. Ci vorrebbero almeno due barili di alcol puro per rendermi brillo.”
“Beh, non è una giustificazione per farlo! Non sai che l’alcol fa male al fegato?”
“Tu piuttosto, prendi qualcos’altro. Offro io.” la ignorò lui.
Jenny scosse il capo, scossa da quel suo atteggiamento.
Il cameriere non tardò ad arrivare e nel giro di poco ad House venne servito anche il quarto bicchiere. House fece un sorrisino soddisfatto nel vedere il bicchiere posarsi sul tavolo e inarcando le sopracciglia in un espressione di gioia lo prese e fece per portarlo alla bocca quando, improvvisamente, lo sentì appesantirsi.
Jenny Dawson aveva messo la mano sul bicchiere, facendo pressione in modo che il diagnosta fosse costretto a riposarlo sul tavolo.
“Non posso vederti fare così. – esclamò poi – Non è tutto a posto, lo sai benissimo. Te lo si legge in faccia.”
House la guardò rassegnato, mollando la presa dal bicchiere.
Sbuffò.
Come al solito, Jenny aveva colpito un punto debole.
La donna si rilassò, sospirando “Cosa pensi di fare?”
“Domani vado in ospedale. Devo riprendere a lavorare o impazzirò veramente.- le rispose House, assumendo un tono ed uno sguardo piuttosto serio – E quattro mesi di ospedale psichiatrico mi son bastati, grazie.”
“Vuoi che ti accompagni?”
 “Non c’è bisogno. L’ho già fatto altre volte.- la rassicurò ironico il diagnosta – Anzi, grazie per il passaggio a casa. Non penso avrei osato chiamare Wilson per farmi venire a prendere.”
La psicologa lo guardò titubante, indecisa se dargli retta o meno “Sicuro?”
“È ora che io torni.” si limitò a dire l’uomo.
Jenny sospirò, guardando l’ora sull’orologio che portava al polso.
“Si è fatto tardi, devo tornare a sistemare le ultime cose a casa. – bisbigliò, alzandosi dalla sedia. Poi prese la giacca e, voltandosi verso House, con un sorriso sussurrò – Tu invece perché non passi da Wilson? Gli farebbe piacere sapere che sei stato dimesso.”
Il diagnosta fece spallucce “Gli farà lo stesso piacere se mi vede domani”
“Si ma se lo vai a trovare ora, assume tutto un altro significato.”
“Ah, questo certamente! Soprattutto se sente che ho bevuto!” ironizzò House, strabuzzando gli occhi con fare disinvolto.
Jenny scosse il capo, rassegnata all’evidenza che House era House… e che nessuno poteva farci nulla. Anche se, e le dispiaceva, con la sua cocciutaggine stava allontanando tutti coloro che fino ad allora gli erano stati vicini.
E questo, per lui, non era affatto un bene.
“Ci vediamo!” lo salutò con un cenno, allontanandosi dal tavolino.
Sorrise nel vedere che al posto di rispondere al saluto House era rimasto con lo sguardo fisso sul bicchiere di Whisky ancora pieno, perso nei suoi pensieri.
Quello era un buon segno che fece capire subito alla psicologa ciò che stava passando per la testa al diagnosta. 

House rimase a fissare l’alcol contenuto nel bicchiere con insolito interesse.
Il liquido sembrava voler scendere giù dai bordi da un momento all’altro, tanto ne era colmo l’oggetto di vetro.
“Fare visita a Wilson.” sorrise divertito, prendendo finalmente in mano il bicchiere e portandoselo alla bocca.
Bevve un sorso, poi lo riposò sul tavolo.
“Wilson.” ripeté tra sé e sè.
La verità era che gli mancava troppo la figura dell’amico. Gli mancavano le serate passate a mangiare pizza, a bere e a sparlare le infermiere più antipatiche… o quello che l’oncologo riusciva a portarsi a letto. Gli mancavano i suoi rimproveri, le ramanzine, le lavate di capo che gli facevano venire le idee più assurde per risolvere i casi clinici più impossibili.
Gli mancava il suo lavoro.
I suoi sottoposti.
Gli mancava lei: Lisa Cuddy.
Ebbene si, durante quell’ultimo mese che aveva passato nel tentativo di dimenticarla… non ne era stato capace.
L’unica cosa che l’aveva aiutato a venirne fuori era stato il fatto di riuscire a controllare i sentimenti per lei.
Perché per Gregory House, dimenticare Lisa Cuddy, era come ammettere di non sapere nulla di medicina.
Scostò la sedia con fare improvviso, ricacciando indietro quei pensieri e deciso in quel che doveva fare.
Si mise in piedi, prendendo in mano la giacca e posando sul tavolo un paio di banconote.
Jenny aveva ragione.
Jenny aveva sempre ragione.
Si diresse con passo spedito verso l’uscita del locale, salendo i due scalini che immettevano nell’ingresso dove vi stava il bancone. 

“Me ne dia un altro bicchiere.” 

Un sussurro.
Una voce familiare.
House bloccò il passo, sul pavimento il tonfo del bastone rimbombò quasi delicatamente.
Si era forse sbagliato?
Si voltò verso il bancone, notando la figura di una donna, seduta di spalle, mandare giù velocemente il liquido contenuto nel bicchiere che pochi attimi prima il barista le aveva riempito.
Era vestita con dei pantaloni scuri e una camicia color panna, mentre dei capelli castano scuro le scendevano un po’ sotto le spalle.
Sentì un brivido percorrergli la schiena al pensiero che quelle spalle potessero appartenere a Lisa Cuddy.
No, impossibile.
Lei non era il tipo da stare in locali del genere la sera tardi, da sola poi.
Si stava sicuramente sbagliando… infondo aveva mandato giù un bel po’ di Whisky quella sera, no? Sa quante donne possono avere quel tipo di capelli e la voce identica alla sua!... mica era unica nel suo genere!
Strinse il manico del suo bastone con insolito nervosismo, senza nemmeno rendersi conto di essersi fermato nel bel mezzo del locale a fissare una donna seduta di spalle.
E destino vuole che ogni volta che una persona fissa qualcuno in maniera così intensa, quel qualcuno è sempre arcanamente chiamato a voltarsi.
E questo fu quel che accadde in quell’istante.
Vide il suo viso voltarsi debolmente a guardare in dietro, gli occhi stanchi.
No, non si era sbagliato.
Era proprio lei.
Era Cuddy.
Sentì l’impulso irrefrenabile di ignorare il suo sguardo e di uscire prima che lei potesse rendersi conto della sua presenza… ciononostante rimase immobile nella sua posizione.
La dottoressa guardava proprio nella sua direzione adesso, sul viso un’espressione confusa. Poi, improvvisamente, il terrore.
Si era resa conto di chi aveva di fronte.
Si era resa conto che di fronte a sé ci stava Gregory House.
La vide sussultare mentre le sue labbra andavano aprendosi in un espressione attonita.
“House?!”

  La domanda adesso era una sola:
…sarebbe stato in grado di ignorarla ed uscire dal locale?

 

 

 

 

 

To be continued…

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Capitolo 10
*** #9 Capitolo ***


Salve gente!
E come sempre, settimana trascorsa, capitolo nuovo!
Però devo scusarmi con voi... questo capitolo non era nato per essere come tale!... infatti, mi son trovata costretta a dividerlo a metà, altrimenti non avrei trovato mai il tempo di postarlo oggi. (dato che ormai posto ogni venerdì)
Purtoppo ho avuto dei problemi a casa e ultimamente mi sto ritrovando a fare io tutte le faccende domenstiche. Sto tutto il tempo fuori poi a fare spesa, e a risolvere altri problemi personali.
Mi dispiace dirlo ma penso che a breve non riuscirò più a continuare con questa puntualità settimanale. Prometto di mettercela tutta, ma non vi assicuro nulla.
Intanto vi lascio a questo chap.
Spero vi piaccia!

ah, un ultima cosa.
So che quel che accadrà non sarà una cosa da voi calcolata, ma sto immaginando questa parte della storia da molto tempo ed ha uno scopo ben preciso.
So, enjoy it! ;)




La dottoressa Cuddy guardava proprio nella sua direzione adesso, sul viso un’espressione confusa. Poi, improvvisamente, il terrore.
Si era resa conto di chi aveva di fronte.
Si era resa conto che di fronte a sé ci stava Gregory House.
La vide sussultare mentre le sue labbra andavano aprendosi in un espressione attonita.
“House?!”

La domanda adesso era una sola:
…sarebbe stato in grado di ignorarla ed uscire dal locale?




CHAP 9
Quello che non può la riflessione, può e fa l'irriflessione.
(Giacomo Leopardi)



“House?!”
Al sentire pronunciare il suo nome con quel tono, gli sembrò quasi d’esser stato schiaffeggiato e risvegliato da quell’attimo di trans confuso nel quale era caduto.
Rimase immobile, in silenzio.
I loro sguardi erano persi l’uno nell’altro e nessuno dei due dava segno di voler cedere mentre la gente attorno a loro sembrava appartenere ad un mondo a parte.
Se una situazione del genere gli fosse accaduta qualche mese prima lui avrebbe iniziato subito a sparare a raffica qualche commentino acido su di lei o su un ipotetico e, probabile, stupido motivo che l’aveva spinta ad andare a quell’ora in un locale sola soletta.
Si, un tempo.
Al momento, ciò che riusciva a fare era cercare di trovare un modo per evitare uno strano ed inquietante imbarazzo e, possibilmente, anche un dialogo.
Ma lei lo precedette.
“Non ci posso credere.- bisbigliò sorridendo divertita, strofinandosi gli occhi con fare stanco – Ho bevuto troppo.”
“Eh?” il sopracciglio di House si inarcò, in un atto di pura sorpresa.
Cuddy si voltò verso il barista, ignorandolo. Gli allungò il bicchiere vuoto che ancora teneva in mano “Guardi, me ne riempia un altro bicchiere.”
Un sorriso sfacciato si allargò sul volto di Gregory House, mentre tutte le preoccupazioni di qualche attimo prima andavano a farsi benedire.
Solo il fatto di rivederla, di trovarsi in una situazione del genere con lei combinata in quelle condizioni, ubriaca, lo metteva stranamente a suo agio.
Interessante. Pensò intrigato, zoppicando verso il bancone e sedendosi su uno sgabello accanto a lei.
Se pochi attimi prima aveva avuto il timore di stare davanti ai suoi occhi, adesso, come se vederla avesse riacceso in lui il proprio spirito da buon cinico, non voleva far altro che sfruttare quella situazione.
“Qualcosa di forte per me!” esclamò, richiamando l’attenzione del barista, mettendo una banconota sul bancone ed iniziando ad osservarla con la coda dell’occhio.
Cuddy fece finta di ignorarlo, fissando il proprio sguardo sul bicchiere che stringeva in mano.
House si era adagiato adesso con nonchalance, il braccio posto in verticale sul bancone in modo che la mano sinistra potesse sostenergli il mento, mentre la fissava incuriosito da quel suo atteggiamento.
“Ecco.” l’uomo al di là del bancone gli mise davanti un bicchiere colmo di chissà cosa, voltandogli poi le spalle per tornare a lavorare.
“Alla salute!” fece il diagnosta, alzando il bicchiere verso Cuddy in modo da poter attirare la sua attenzione. Poi lo portò alla bocca, bevendone un bel sorso.
“Ti diverti?”
La sua voce lo portò a posare nuovamente lo sguardo su di lei.
“Non ancora.”
Cuddy deviò di nuovo il suo sguardo, iniziando a tamburellare le dita contro il legno del bancone.
“Che stai facendo?” al diagnosta venne spontanea la formulazione di quella domanda.
“Evito che la gente mi veda parlare sola.- borbottò la dottoressa, senza degnarlo di uno sguardo –le proprietà chimiche e bio-chimiche contenute in sostanze come l’alcol, sono in grado di indurre variazioni nel funzionamento dei neurotrasmettitori nel sistema nervoso, in modo da alterare lo stato cosciente. Ergo: allucinazioni.”
“Hm… sei piuttosto sveglia per una che è arrivata alla fase acuta di ubriachezza da alcol.” commentò House sarcastico.
“Anche se ubriaca, non inizio a dare di matto come qualcuno di mia conoscenza.”
House le fece un sorrisino sfacciato “Mia cara, tu mi confondi con Wilson.”
Vide Cuddy voltarsi verso di lui, sul suo volto un’espressione stanca.
“Avrei dovuto immaginarmelo. Pure se ti immagino, mi rompi le scatole.”
“Niente di personale. Ordinaria amministrazione.” gli sorrise House, divertito da quella situazione alquanto bizzarra.
Ma cosa stava accadendo?!
Erano uno affianco a l’altra. Entrambi non si vedevano da un sacco di tempo… eppure, nessuno dei due voleva dimostrare all’altro quanto questa distanza fosse stata pesante da sostenere.
Cuddy era ubriaca, House lo sapeva. E sapeva bene che per lei, in quel momento, lui era solo un’immagine sfocata di un’ipotetica allucinazione da sbronza.
Ma lui invece? Che stava combinando?
Si stava divertendo a fare lo stronzo come al solito.
Ma era proprio questo che lo stava mettendo a suo agio.
Abbassò lo sguardo, dandosi dell’imbecille per quel comportamento. Poteva, almeno una volta, tentare di mettere da parte il bastardo che c’era in lui?
Beh, provare non costava poi tanto.
“Da quanto tempo sei qui?- House guardò l’orologio che, in quel momento, segnava le 11:15 - Non devi andare a lavoro domani?”
“C’è una bella differenza tra domani ed oggi.”
“Già, pari a 45 minuti da ora.- concordò il diagnosta canzonatorio – e Rachel? Cos’è, l’hai messa in un collegio e te la sei svignata?”
“Non ci posso credere. – Cuddy si coprì il volto con le mani, corrugando la fronte e cercando di non guardare davanti a se, gesto puramente spontaneo quando tutto intorno a te inizia a prendere una piega troppo caotica – Stai forse cercando di darmi delle lezione di vita?”
“Hai ragione. – House ci rifletté un attimo - Mi sa che questa sera ci siamo invertiti i ruoli. Tu ti ubriachi ed io ti rompo le scatole.”
La dottoressa lo guardò torva, come se avesse da ridire contro quell’esclamazione. Poi abbassò lo sguardo rassegnata.
No, forse non aveva nulla da ridire infondo.
“Va bene.- la vide alzarsi dallo sgabello, barcollante – Me ne vado.”
“Cosa?” si alzò anche lui, tentando di capire cosa era opportuno fare.
“Hei! Qualcuno deve pagare qui!” si lamentò il barista, vedendo che anche lui aveva intenzioni di andarsene.
House roteo lo sguardo, esasperato. Aprì il portafoglio, estraendo un po’ di denaro che poggiò sul bancone e si diresse fuori, sperando che Cuddy non si fosse già infilata in qualche macchina.
Chiusa la porta del locale alle sue spalle, non vide nessuno davanti a se e per un breve attimo temette di averla persa di vista.
Poi, improvvisamene, un rumore alla sua destra.
Si voltò.
Cuddy era ferma, la mano destra poggiata sulla parete del locale nel tentativo di sostenersi.
House sorrise “Ti ha mai detto nessuno che sei molto carina quando cerchi di stare in piedi?” la sbeffeggiò.
La donna chiuse gli occhi “Se mi concentro tu sparisci.”
“Magari fosse così facile.” bisbigliò House tra se e se, rammentando tutto il periodo passato in compagnia di Amber e Kutner.
Sentì il rumore dei suoi passi, pesanti e lenti, dirigersi verso l’auto di fronte a loro: l’auto di Cuddy.
Arrivato a quel punto, da buon gentiluomo, avrebbe dovuto prenderla, ammanettarla e costringerla a non mettersi alla guida.
D’altra parte, una vocina dentro di lui, gli urlava di lasciarla in pace.
Tutto quel tempo nel tentativo di far sparire quei sentimenti… e poi? Poi tornava a strisciare dietro di lei?
Cosa sarebbe successo se si fosse lasciato andare nuovamente… se tutto sarebbe tornato ad essere solo una lontana illusione per lui?!
Sarebbe riuscito a resistere?
No.
Non avrebbe dovuto.

Lisa Cuddy era fiera di se stessa.
Era passato qualche minuto, gli occhi ancora chiusi, e di House nemmeno l’ombra. Non un suono, non una voce proveniva più dalle sue spalle.
Se ne era andato.
Teneva ancora gli occhi serrati mentre ogni tanto li riapriva debolmente nel tentativo di individuare la posizione della sua auto per poi richiuderli alla semplice percezione della luce dei lampioni che illuminavano la strada, troppo forte da reggere nello stato in cui si trovava.
Aveva bevuto troppo, lo sapeva. E probabilmente si stava pure rovinando andando avanti in quel modo… ma non riusciva a fare altrimenti.
Fece un altro passo, ormai vicina all’auto, quando improvvisamente sentì le gambe cederle. Poggiò anche l’altra mano sulla parete, nel tentativo di rimanere in piedi, quando sentì una salda presa cingerle la vita.
Lisa sussultò, visibilmente stordita.
Aprì gli occhi, notando che adesso Gregory House la stava sorreggendo.
“Ti accompagno a casa. – borbottò lui, quasi vergognandosi di ciò che stava dicendo – Ma solo perché da domani dovrò tornare a lavorare. E mi dispiacerebbe scoprirti una cerebrolesa a causa di un incidente. Già che dovrò tentare di farmi riassumere facendo i conti con i postumi di questa tua maledetta sbronza.”
Cuddy mise una mano sulla sua spalla, cercando di rimettersi in piedi “Sei troppo gentile, non me lo merito.” brontolò sarcastica.
House fece una smorfia.
“Già, hai perfettamente ragione – commentò acido mentre, sostenendola, l’accompagnava verso l’auto – Solamente per il fatto che stai tentando di stare in piedi sorreggendoti ad uno zoppo.”
Cuddy rise di gusto “Non sei cambiato per niente, House.”
“Vorrei poter dire la stessa cosa di te.”
Sentì le sue braccia stringerle la vita, sentì lui prenderle il braccio e farlo passare sopra il proprio collo così da sorreggerla meglio; Sentì un brivido, quasi come se avesse avuto l’impressione di essere avvolta in un abbraccio celato.
‘Un allucinazione…’ si disse tra se e se, lasciando scivolare una lacrima giù lungo la guancia, silenziosa e veloce, coperta dall’oscurità della notte.
Sentì una folata di vento sfiorarle il volto, scompigliarle i capelli. Le palpebre iniziarono a socchiudersi pesantemente.
Poi, improvvisamente, il buio.










To be continued….



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Capitolo 11
*** #10 Capitolo ***


Ecco quì un nuovo chap di Inside!^^
Spero possa piacere!
Purtroppo noto che ultimamente con questi ultimi capitoli sto andando un "tantinello" OC! Perdonatemi.
Dal prossimo in poi, dove la storia inizierà ad ambientarsi finalmente al PPTH, spero di riuscire a rientrare dentro i parametri dell' IC. 
Vi lascio questo chap comunque!

Enjoy it!


CHAP 10
Il più solido piacere di questa vita, è il piacere vano delle illusioni.
(Giacomo Leopardi)






Quante volte vi è capitato di sentirvi intrappolati? Estranei dal mondo ma, contemporaneamente, imprigionati in esso?
Questo è ciò che in quel momento fu il suo pensiero.
Una lotta.
Contro tutti.
Contro se stessa.
Lisa Cuddy aprì debolmente gli occhi, attorno a lei solo confusione.
Poi tutto divenne buio, non un suono poteva intaccare quello stato di quiete in cui era caduta.

Un ricordo le attraversò la mente.


Mangi in silenzio ciò che sta nel piatto davanti a te.
Sei lenta nei movimenti, quasi stessi mangiando con sforzo.
Sai che lui ti sta fissando e sai anche che è preoccupato. E questo tu non lo vuoi. Per questo hai accettato di cenare con lui.
“Sono contento che hai accettato di uscire.” ti dice dopo poco, sorridendoti amichevole.
Tu alzi lo sguardo, mostrandogli un sorriso tirato “Si, un po’ di svago mi fa bene. Lavoro troppo.”
Lui annuisce, orgoglioso di sentirtelo dire.
Riabbassi lo sguardo, portando una forchettata di insalata alla bocca.
Hm…non male.
“Lisa… - ecco, lo sapevi. Era inevitabile attendersi l’attacco verso la propria vita privata – Come posso aiutarti? Ti vedo sempre così giù di morale.”
“Lascia stare, per favore.” sussurri, con un tono che va tra il rassegnato e il frustrato.
Eppure, lui non sembra voler cedere.
Ti guarda pensieroso, sospirando un “Non è colpa tua.” che non fa altro che farti innervosire.
“Wilson – prendi il tovagliolo che sta sul tavolo e ti pulisci un po’ le labbra, lo posi nuovamente e torni a guardare il suo volto – House è in un manicomio a causa mia. Ne sono responsabile fino al midollo… non ho bisogno di sentirmi dire che non è così.”
“House è in un manicomio perché la sua mente è impazzita.- ti spiega lui deciso, come per controbattere alla tua offensiva – Le allucinazioni sono dovute a una disfunzione celebrale legata alle quantità di dopamina che il cervello usa per trasmettere i suoi impulsi. Non vedo cosa tu possa aver causato o danneggiato, a meno che non gli hai infilato farmaci alla dopamina dritti in gola mentre dormiva, dubito che tu possa aver scatenato qualcosa.”
Sospiri.
La serata non sembra voler essere delle più leggere.
“Dovresti sapere che secondo l'interpretazione freudiana è comunque noto che a condizionare la produzione di sostanze nel nostro organismo sono le emozioni.” esclami stanca.
Se era una battaglia di conoscenze quella che Wilson voleva, allora aveva trovato la persona sbagliata con cui farla.
Wilson è consapevole di star difendendo una causa persa. Glielo leggi negli occhi.
Eppure, infondo, ti fa piacere che lui si stia adoperando tanto per farti star meglio.
Forse lui non lo sa, ma già ti sta aiutando più di quanto immagina.
“Lisa, voglio solo dire che…”
“Se ti trovi in un deserto, immagini dell’acqua; Se sei morto di fame, immagini del cibo. – gli spieghi con ovvietà, sul tuo viso la stessa espressione di quando tentavi di far non-capire a Wilson che baciare House fosse stata la cosa più bella che ti fosse accaduta nella tua vita - L’uomo non ha mai delle allucinazioni che non rientrino nei suoi desideri. Mai. Ed io ho dato ben troppo da desiderare ad House.”




Una luce, un forte bagliore le accecò la vista di quelle immagini.
Fece una smorfia, andando ad aprire gli occhi, anche se con fatica.
Si era forse addormentata?
Si guardò intorno, era in una macchina. Una cintura la teneva ben salda al sedile mentre di fronte a lei vedeva scorrere veloci le auto che venivano dalla corsia opposta che, ripetutamente, andavano ad illuminarle il volto con i fari accesi.
Era buio attorno a lei.
La testa continuava a pulsarle, mentre un forte senso di nausea le disturbava lo stomaco.
Si mise una mano sulla pancia, facendo una smorfia.
Ora ricordava… aveva bevuto.
“Finalmente ti sei svegliata.- una voce familiare attirò subito la sua attenzione - Ti sto portando a casa.”
Cuddy guardò la cintura con aria confusa “È la mia macchina questa?”
“Direi proprio di si. E non chiedermi come sono riuscito a trovare le chiavi. Non penso ci dormiresti la notte.” disse lui, con un tono di malizia nella voce.
Cuddy si voltò verso sinistra, dove l’uomo era concentrato a guadare.
Focalizzò meglio lo sguardo su di lui, per quanto le era possibile dato il suo stato.
“House?!” sussurrò confusa.
“Si. Capisco che avresti preferito un bel macho-man … ma per tua sfortuna sono sempre io.”
Quella frase sembrò averla scossa alquanto. Si voltò nuovamente verso di lui, confusa, la fronte corrugata in un espressione dubbiosa.
Finalmente, da quando House era con lei quella sera, ebbe il coraggio di guardare il suo volto per più di un breve istante.
Lo vide serio in viso, concentrato com’era alla guida.
Si soffermò un po’ di più sul suo profilo.
Improvvisamente la dottoressa mostrò un debole sorriso, anche se marcato da un misto di tristezza e dolcezza.
“Non è vero. Sono contenta che tu sia qui con me.” sussurrò Cuddy, inclinando leggermente il capo.
Era vero.
Qualsiasi cosa egli era, in quel momento, per la sua mente e per lei stessa, di fronte a se aveva solamente lui. Gregory House.
Il diagnosta sussultò, voltandosi a guadare il suo viso.
“Mi fa piacere.- si limitò a dire, concentrando poi la sua attenzione in una curva ben piazzata ed evitando di far trasparire la confusione che in quel momento l’aveva assalito – anche se avrei preferito sentirmelo dire da una Cuddy un po’ meno ubriaca.”
Il tono di House sembrò quasi infastidito.
Lisa continuò a sorridere, chiudendo gli occhi nel tentativo di cercare un po’ di pace “È un buon modo, sai?”
“Ah, si. Questo sempre.” la schernì lui, cercando di capire di cosa in realtà ella stesse parlando. Effettivamente tentare di decodificare i discorsi di Lisa Cuddy ubriaca era proprio una bella sfida!
“Mi aiuta a dimenticare. – la dottoressa aveva lo sguardo rivolto vero il finestrino adesso – e a sopportare.”
“Se continui così non farai altro che rovinarti la vita. E dato che tu non sopporteresti una vita rovinata, impazzirai e basta.” House non riusciva a capire con quale sentimento aveva detto quelle parole. Voleva forse offenderla o darle dei consigli?
Era frastornato, confuso. E questo non gli piaceva affatto.
“Almeno, avrei una scusa per andare a trovarti.” sussurrò Cuddy con una smorfia, in un misto di vergogna e rassegnazione.
“Oh ma su questo non devi farti problemi. Non c’è bisogno di impazzire per farmi una visita. – la provocò House, quasi volesse rimproverarla. Ovviamente l’opzione, arrivati a quel punto, era offenderla – Puoi passare quando vuoi. Se poi vuoi essere ricoverata, basta che fai una delle tue tante scenate isteriche e sta certa che in regalo ti danno pure una camicia di forza.”
Cuddy rise di gusto, squotendo di tanto in tanto il capo.
House la guardò con la coda dell’occhio, dubbioso se prenderla veramente sul serio. Insomma… era ubriaca, no? Rideva sola!
“Alle volte immagino di entrare in quella clinica – adesso Cuddy aveva smesso di ridere e si era voltata verso di lui, sul suo volto uno triste sorriso – Eppure, per quanto bella può essere un’immaginazione, ti vedo sempre più triste. Mi guardi… ed ho quasi paura.- fece una pausa, chinando il capo con fare assente – So che cel’hai con me.”
House rimase in silenzio.
Poteva sentire il suo respiro diventare pesante, poteva immaginare il suo petto sollevarsi ed abbassarsi al ritmo di quei respiri.
Eppure, contro ogni sua logica, non riusciva affatto ad immaginare l’espressione del suo viso.
La macchina era buia nel suo interno. Un buio che non gli permetteva di capire quanto serio potesse essere quel discorso.
Eppure, lo sapeva benissimo, lo era fin troppo.
“Mi manchi House.”
L’auto si fermò.
Attorno a loro il silenzio della notte che, di tanto in tanto, lasciava udire il debole canto dei grilli.
Erano giunti a destinazione, erano a casa di Cuddy. Adesso, l’ultimo passo era portarla in casa e chiamare un taxy per farsi venire a prendere.
Niente di più facile.
Nessun dialogo. Niente risposte.
Questo era quel che doveva fare per evitare il danno.
Ignorarla.
Eppure, non ne fu capace.
Rimase col capo chino a fissare il volante per qualche istante, poi schioccò le labbra rivolgendosi verso di lei.
“Non è vero – esclamò House con tono duro – è bello rinfacciarmi che ti manco, ma non tanto quanto per me lo è rinfacciarti che è tutta una stupida idea che ti sei messa in testa. Se veramente credessi in ciò che stai dicendo, ti daresti una svegliata e andresti alla clinica Myfield. Eppure per una persona come te quello non è il posto più adatto… non è così? – fece una pausa, inumidendosi le labbra – Non te ne faccio una colpa Cuddy. Tu sei solo il mio capo. Ma non venirmi a dire che ti manco.”
Uscì dall’auto, senza nemmeno darle il tempo o l’occasione di ribattere. Non voleva ascoltarla.
D’altra parte, Cuddy assorbì quelle parole come una spugna assorbe l’acqua. Sapeva di meritarsele.
Rimase in silenzio, guardando la figura del diagnosta passare davanti l’auto e venirle ad aprire lo sportello.
Si voltò a guardarlo.
Sul volto di House uno sguardo duro, stanco.
Stanco di ritrovarsi sempre in situazioni ingestibili con lei. Stanco di non riuscire mai ad evitarle… perché, in fondo, era lui il primo che se le cercava. E lo sapeva.
“Andiamo.” disse pacato, allungandole la mano.
Lisa la strinse, guardandolo dritto negli occhi.
E fu in quel momento che si sentì, per la prima volta, quasi intimidita da quell’uomo.
House l’aiutò ad uscire dall’auto e, anche se con fatica, la sorresse fino all’uscio di casa.
Non una parola c’era stata tra i due in quei momenti. Non un accenno a nulla.
Entrambi, adesso, erano coscienti del loro ruolo.
Ciò che doveva esser detto, era stato detto.

Arrivati alla porta, House guardò Cuddy tentennante. Poi, vedendola piuttosto imbarazzata da quel momento, con un sospiro, decise di evitare un altro dialogo. Anche se in quel momento la cosa che doveva chiederle era semplicemente di dargli la chiave di casa.
Tolse il braccio di Cuddy dal proprio collo, chinandosi verso un vaso ai lati della porta.
L’alzò, scoprendo il nascondiglio di una piccola chiave.
Sorrise.
In fin dei conti, Lisa Cuddy era sempre stata piuttosto prevedibile.
Fino ad allora almeno.
Aprì la porta, lasciando che lei entrasse dentro.
Cuddy entrò in casa debolmente. In quei momenti, vedeva tutto intorno a se girare vorticosamente. La prima cosa che avrebbe voluto fare era andare a controllare la bambina e mettersi poi a letto. Eppure, nonostante tutto, non ce la fece.
Entrò in corridoio, appoggiandosi alla parete e rivolgendosi nuovamente ad House.
Non voleva parlargli. Non voleva ribattere niente… perché tutt’ora continuava a vedere la tristezza nel suo volto. E tutt’ora continuava a temerla.
Eppure, non riusciva nemmeno a desiderare che sparisse.
Avrebbe passato l’intera notte lì con lui… se solo avesse potuto.
“Mi dispiace.” la sua voce si levò in un sussurro, rimbombando come non mai tra i loro sguardi.
House rimase immobile davanti a lei, senza riuscire però a dir nulla.
La fissava, confuso.
“Wilson continuava a dirmi che tu stavi bene. Ed io volevo crederci.- continuò Cuddy, abbassando lo sguardo nel tentativo di frenare le lacrime che pulsavano prepotentemente – Diceva… che non dovevo andare. Che stavi bene, che andava tutto a posto.”
La fronte di House si corrugò in un espressione attonita, muovendosi di qualche passo verso di lei “Cosa diceva Wilson?!”
Cuddy lo ignorò, chinando il capo e ponendosi una mano sulla fronte.
Sorrise tristemente.
“Sono una stupida… è tutta colpa mia. Se non fosse stato per me, tu adesso saresti ancora a Princeton Teaching Hospital a litigare con le infermiere, a rompere macchinari, a salvare delle vite... e a rompermi le scatole. Cielo, quanto pagherei per poter riavere tutto questo!”
Il diagnosta voltò lo sguardo verso una parete, piuttosto spoglia rispetto alle altre.
Ci fu silenzio in quel momento.
House capì che Cuddy era a conoscenza di cose che non avrebbe dovuto sapere… e che, qualsiasi cosa era successo, Wilson ne era il diretto responsabile.
Fu colto da una forte e prepotente rabbia. Gli venne subito il bisogno di scagliare un pugno contro qualcosa, contro un certo oncologo magari.
Serrò la mano sopra il manico del bastone, facendo sbiancare le nocche per la troppa forza.
Si voltò, intento ad uscire da quella porta.
Se c’era una cosa che aveva imparato da tutto quello che gli era accaduto in quei mesi, quella era imparare a controllarsi. E adesso, per riuscirci, doveva necessariamente uscire da quella casa.
Cuddy alzò subito lo sguardo, sentendo il rumore dei suoi passi.
Guardò le sue spalle allontanarsi con tristezza. Si chiese cosa diamine la stava spingendo a rimanere lì immobile, senza muovere un muscolo.
Era solo un’allucinazione dopo tutto.
Se se ne andava, tutto sarebbe passato.
Bastava non fermarlo.

L’uomo non ha mai delle allucinazioni che non rientrino nei suoi desideri.

“House!”
No, non sarebbe mai riuscita a non fermarlo.
L’uomo si bloccò, poggiando la mano sulla porta ancora aperta e rimanendo voltato di spalle.
“Rimani con me, ti prego.”
Un sospiro si levò, mentre la testa del diagnosta andava inclinandosi nel tentativo di guardare la figura della dottoressa alle sue spalle.
Tentennò.
No.
Strinse la presa della porta, tornando a guardare il giardino di fronte a se.
“Mi dispiace. – sussurrò, chiudendosi la porta alle spalle – Ormai ho smesso di giocare.”





To be continued…

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Capitolo 12
*** #11 Capitolo ***


E dopo 4 anni, ecco a voi l'11 capitolo!! spero possa piacervi, anche se personalmente aspetto di scrivere i prossimi. Ho tante ideuzze per questa fic, spero potranno piacervi!
un saluto a tutti!!!

Miky91

CHAP 11

“In ogni istante della nostra vita siamo ciò che saremo, non meno di ciò che siamo stati.”
(Oscar Wilde)







Non si era fatto notare quella mattina.
Era passato dal retro, dal parcheggio del grande ospedale. Si era ben guardato dal farsi notare in atrio, si era ben guardato dal farsi vedere, zoppicante come sempre ma, questa volta,anche  incerto, spaesato. Incerto su cosa fare, incerto se fare la cosa giusta.
Aveva giurato a se stesso che avrebbe affrontato le sue paure. l’aveva giurato. E l’avrebbe fatto.
In realtà non avrebbe mai voluto tornare in quell’ospedale, luogo dove molti sui ricordi, sia tristi che spensierati, si mescolavano con un inquietante chiarezza.
Memorie, sofferenze… e poi c’era lei. Sarebbe stato in grado di affrontare questa ennesima prova? Era ormai arrivato ad un punto dove non poteva permettersi il lusso di tornare indietro e abbandonare l’impresa. Doveva combattere.
Fermò il passo, piantandosi al centro del corridoio che stava attraversando. Si voltò verso la parete a vetro alla sua sinistra e, poggiando il peso del corpo sul suo bastone, rimase a fissarli.
I suoi ex dipendenti.
Erano lì, nel solito vecchio ufficio che aveva visto risolvere decine e decine di casi medici.
Erano ancora lì, proprio dove lui li aveva lasciati.
Erano tutti rivolti verso la fida lavagna, intenti a proporre teorie ad un uomo, mai visto prima, che sembrava ascoltarle con attenzione per poi trascriverle nero su bianco.
Era così che si faceva? Si ascoltava con attenzione ogni teoria? Si annuiva amichevolmente?
House fece un sorrisetto divertito, grattandosi la fronte col pollice della mano libera.
Era come se avesse lasciato i propri bambini ad una babysitter che ogni giorno compra loro gelato, dolciumi e schifezze varie… viziandoli fino al midollo.
L’uomo che sino a quel momento aveva scritto a raffica una serie di teorie sulla lavagna bianca, sicuramente improbabili, posò finalmente il suo sguardo su House… domandandosi dubbioso come mai fosse così interessato al loro lavoro.
Tutti gli altri medici si voltarono, curiosi di individuare quel qualcosa che aveva attratto l’attenzione dell’uomo.
Ci fu un attimo di silenzio. Se qualcuno di loro si era voltato con noncuranza, ancora intento ad esporre una propria idea, alla vista di House si zittì.
Il vetro sembrava rendere la scena eccessivamente teatrale, mentre la gente nel corridoio andava e veniva come se nulla fosse, ignorando quella particolare ed imbarazzante situazione.  
House fece un sorrisino di circostanza, inclinando il capo. Ecco che si entrava in scena.
Prese un respiro profondo…
“Scusate!- esclamò quindi, entrando zoppicante dentro l’ufficio e attirandosi gli sguardi interdetti di tutti i presenti -Avevo tentato di entrare nell’ufficio affianco ma qualche balordo deve averlo chiuso a chiave!”
“House!- Foreman si era alzato in piedi, confuso – che ci fai qui?”
“Sei stato dimesso?” azzardò Taub.
“Lei…è il Dr. House.” l’uomo a lui sconosciuto gli rivolse un sorriso sorpreso, allungando subito la mano per salutare quella figura leggendaria.  
Era alto, magro. Non sembrava avere più di una trentina d’anni. Vestiva in giacca e cravatta, ma per quanto elegante fosse il suo abbigliamento, non era facile notarlo sotto quel tanto conosciuto camice bianco. Quel camice bianco che Gregory House si era sempre rifiutato di portare.
House rimase a fissare la sua mano sospesa a mezz’aria, senza pensare minimamente di corrispondere il gesto, costringendolo dopo poco ad abbandonare l’idea di avere un saluto di rimando. Lo guardò torvo per un attimo, squadrandolo da capo a piedi “E lei sarebbe?”
“Sono il nuovo primario di questo reparto. Posso esserle utile?”
House rimase interdetto per qualche istante, gettando ai suoi ex collaboratori un occhiata vaga.
Certo.
Era stato sostituito.
Ecco perché nessuno si era preso la briga di farsi sentire anche solo per un consulto medico. Avrebbe dovuto immaginarlo d’altronde.
“Si, volevo sapere che fine hanno fatto le cose che stavano nel mio ufficio.”
Tutti si guardarono intontiti.
“Hai parlato con la Cuddy? Li ha presi lei, probabilmente li ha portati a casa tua assieme a Wilson” azzardò Foreman.
“No – House ignorò la prima domanda, zoppicando verso il suo ex ufficio – a casa mia non ci sono. Quindi le cose sono due: o li tiene come cimeli o li ha messi in vendita su ebay, e se l’ha fatto… stima profonda per le sue capacità intuitive. Quegli oggetti avevano più valore di voi quattro messi assieme.”
 “Erano robaccia” fece Taub con nonchalance.
 “Oh su via!non sminuire ulteriormente la tua posizione!” fece House ironico, iniziando ad aprire i vari cassetti del vecchio ufficio, nel tentativo di trovare qualcosa. O forse nel tentativo di ficcanasare in giro.
Il nuovo capo reparto lo raggiunse, ponendosi subito tra i cassetti ed il loro attentatore  “Non troverà niente qui, l’ufficio era stato svuotato quando mi hanno dato l’incarico!Provi a parlare con la Dr.sa Cuddy… sicuramente saprà aiutarla.”
House sbuffò seccato, ignorando l’uomo e tornando nell’altro ufficio, pensieroso.
“Sei stato riassunto? Lavorerai con noi?” domandò Tredici incuriosita.
“Figuriamoci. Non voglio mica togliervi tutto il divertimento! Sono sicuro che avete fatto i bravi bambini mentre papino era via…”
Mugugnò pensieroso, mentre con gli occhi percorreva vagamente la lista di sintomi scarabocchiati sulla lavagna:
Arresto cardiaco, epistassi,… e poi vari scarabocchi,giustamente presentati nello stile incomprensibile comune a molti medici. più si scorreva la lista dei sintomi, più questi diventavano illeggibili. Era forse ‘droga’ la parola che stava tentando di mettere a fuoco??
“Infatti. Sono degli ottimi medici, li ha istruiti bene. Ma adesso dovranno cavarsela senza di lei… - gli sorrise ancora una volta l’uomo che sino ad allora aveva continuato a parlare senza esser interpellato, destandolo dal tentare di decifrare le annotazioni sulla lavagna – stia tranquillo, e si goda la riabilitazione.”
House si voltò a guardarlo finalmente, sul viso un’espressione di disgusto.
“Certo. Come no.”
“Dove stai andando?”
“A cercare le mie palle. Qualcuno le ha prese.” rispose teatrale all’insulsa domanda di Foreman mentre, uscendo nuovamente in corridoio, la sua figura svaniva tra la gente che lo popolava.


***


“Va meglio?”
Cuddy annuì debolmente, bevendo un altro sorso di tisana calda. Firmò un documento, poi un altro ancora, cercando di apparire più stabile possibile.
In realtà non lo era affatto.
Wilson era preoccupato, lo sapeva. Ed aveva tutte le ragioni per esserlo. Eppure non voleva che lo fosse, non voleva mostragli tutta quella vulnerabilità che sino ad allora aveva faticato a nascondere.
Certo, avrebbe dovuto pensarci prima di prendere una sbronza e non aver le forze per alzarsi dal letto ed andare a lavoro. Prima di chiamare Wilson per farsi venire a prendere perché incapace di mettersi al volante. Prima di mostrarsi così come non avrebbe dovuto. Fortunatamente per lei, il suo ritardo le aveva permesso di modificare gli orari della babysitter, così da poter tornare a casa più tardi quel giorno.
Era strano, ma le veniva difficile ormai gestire la bambina e tutti gli altri problemi, sia lavorativi che non. Nelle ultime due settimane non era riuscita a dedicarle nemmeno un weekend, e se il giorno prima Wilson l’aveva riaccompagnata a casa con l’intento di farle passare ‘un po di tempo con la sua bambina, lontano dal lavoro’, lei era finita coll’approfittare della presenza della babysitter per allontanarsi ancora una volta da casa. Si chiedeva il perché. Certamente non era un comportamento che una madre avrebbe dovuto avere… e se House avesse sempre avuto ragione? E se lei non era adatta a fare la madre?  
Sospirò.
“Si. Sto bene, grazie per questa mattina.”  bisbigliò, decidendo di rompere quell’imbarazzante silenzio che sino ad allora si era imposta di tenere.
“Saresti dovuta rimanere a casa… – annuì l’oncologo – anzi, no. saresti dovuta rimanere a casa ieri sera, dopo che ti ci avevo accompagnato. Cuddy non va affatto bene!sei andata in un locale… ad ubriacarti?”
La dottoressa si coprì il volto con una mano, imbarazzata “Non era quello lo scopo”
“E quale era allora?”
“Avevo bisogno di riflettere… ”
Wilson scosse il capo, rassegnato “Non puoi continuare così, sono settimane che sei in questo stato. Credi che comportandoti così le cose miglioreranno?”
“No, certo che no!- sbottò Cuddy, posando pesantemente la tazza sulla scrivania e facendo sghicciare qualche goccia di tisana sui documenti ai quali stava lavorando. Odiava quando Wilson non si faceva scrupoli a centrare il problema – ormai è tardi per migliorare le cose! Ormai non c’è più modo di migliorarle, lo so! Non venire a farmi la predica James, sai benissimo che non dovresti.”
Wilson annuì colpevole, ricevendo il colpo.
Era colpa sua d’altronde, inutile sostenere il contrario.
Aveva tenuto troppe cose nascoste alla dottoressa, aveva preteso che per lei andasse bene a prescindere, si era illuso che tutto sarebbe tornato alla normalità. Era questo ciò che sperava… tornare alla normalità.
E invece cosa era successo?
House non aveva più dato sue notizie, Cuddy aveva scoperto delle sue menzogne su di lui, aveva capito di esser stata manipolata e che a causa di questo House non le avrebbe più rivolto la parola, probabilmente. Ed era stato lui a condurre quel carro… era lui il cocchiere folle di quella folle strada intrapresa.
Non doveva biasimare Cuddy… anzi.
“Mi… mi dispiace – sussurrò, con un tono colpevole – sono solo preoccupato per te Lisa. Come… come sei tornata a casa ieri sera? È pericoloso guidare ubriachi, promettimi almeno che non lo farai un'altra volta. Se vuoi ubriacarti… - fece un pausa,  esitante – chiamami che andiamo assieme.”
Cuddy lo guardò incredula. L’amico era passato dal ‘non farlo mai più’ a un ‘ok, fallo, ma lascia che ti aiuti in questo’.
“Non lo farò più, non preoccuparti. Non sono masochista fino a questo punto. – sussurrò, facendo una smorfia per il mal di testa – anche se… ora che mi ci fai pensare non ricordo come sia riuscita tornare a casa. Credo che… mi abbia accompagnato qualcuno.”  
“Ah… bene.” annuì l’oncologo dubbioso.
“Credo anche di aver visto House…” continuò Cuddy ironica, corrugando la fronte nel tentativo di ricordare la sera passata.
“House?” Wilson era sempre più dubbioso.
“Si, lo so… ho bevuto troppo.”
“Vai per locali nel tentativo di non pensare a lui e, una volta attuato l’intento di affogare i pensieri nell’alcol… vedi House. Dovresti risolvere in altri modi il problema.”
Cuddy gli lanciò un’occhiataccia “Ad esempio?”
Wilson esitò. Ormai, se era davvero tutto perduto, che altro c’era da perdere?
“Prova ad andare a trovarlo. – esclamò, spalancando le braccia in segno di resa – prova… non so, a parlargli. Chissà, magari riuscirai ad avere sue notizie… io sotto questo punto di vista sono off limits.”
Cuddy si voltò totalmente verso di lui, sfoggiando uno sguardo tra l’incredulo e l’allibito.
Cosa stava cercando di dirle? Le stava dicendo di andare da lui?! Di andare da House?! Dopo tutto quello che avevano fatto per evitare questo ‘pericoloso incontro’?
“Non guardarmi così, so cosa pensi.. ma… forse era meglio far così sin dall’inizio. Sono umano, posso commettere pure io degli errori. E poi… non voglio vederti in questo stato Lisa. Non voglio che tu ci soffra.”
“Non sto soffrendo. – mentì lei – sono solo preoccupata. House è un caro amico, non voglio perderlo.”
“Giusto… perché chi trova un amico trova un tesoro. Se si tratta di House poi…” La schernì l’oncologo, sapendo perfettamente quanto quelle parole fossero prive di un significato tangibile. House non era mai stato ‘solo un amico’… e lo sapeva fin troppo bene.
“Cosa vuol dire che sei ‘off limits’?” deviò il discorso la dottoressa, incuriosita dalla frase che l’amico aveva, pochi attimi prima, enunciato.
Wilson fece cadere le braccia lungo i fianchi, pesantemente.
Si era tradito da solo.
Rifletté un attimo, giusto per ponderare se era opportuno dire o meno la cosa.
“Ecco… ho chiamato per sapere come stava molte volte, ma sembra che lui abbia negato il consenso ai suoi medici di far trapelare notizie sulla sua salute, soprattutto se a chiederlo sono io.”
 Cuddy abbassò lo sguardo, avvilita “Forse dovremmo solo lasciarlo in pace.”
Bevve un altro sorso di tisana, mentre le affioravano alla mente ricordi vaghi di un vago sogno avuto la notte precedente. Riguardava un uomo, alto, slanciato; un uomo che la sosteneva, l’aiutava. Un uomo che le diceva di farsi forza. Un aspetto familiare…
La porta a vetri dell’ufficio si spalancò improvvisamente, lasciando che la figura di un uomo la varcasse. Anche lui era alto, anche lui era slanciato e sicuro di se, proprio come quello del suo sogno.
Anche lui era House.
“Chi è stato l’idiota che ha assunto un altro idiota per sostituirmi? Non è passato in mente a nessuno che potrei anche offendermi se provate a dare il mio posto ad uno che non sa nemmeno da che parte si fa il nodo della cravatta e che pensa che ogni persona provenga dal paese delle meraviglie?”  irruppe melodrammatico, piazzandosi come se niente fosse a pochi metri di distanza dalla scrivania del suo ex capo, come era solito fare fino a non molto tempo prima.
Cuddy rimase spiazzata.
Gettò uno sguardo alla tazza di tisana che stringeva ancora in mano, poi uno sguardo a Wilson come a chiedergli conferma di ciò che aveva appena visto ed udito.
L’oncologo, d’altro canto, era rigido come il gesso. In mano, teneva ancora il fascicolo che aveva preso pochi attimi prima dalla scrivania di Cuddy.
“House?” bisbigliò incredulo, sbattendo le palpebre nel tentativo di metterlo meglio a fuoco, come se quell’uomo davanti a lui in realtà fosse qualcun altro.
L’ex diagnosta schioccò le labbra con fare ovvio “No, mio nonno.”
“Oh mio dio…” Cuddy balzò in piedi, in un atto istintivo. Aprì nuovamente la bocca ma prima di riuscir a proferir altro non potè fare a meno di incrociare direttamente il proprio sguardo col suo. Finalmente, dopo tanto tempo… dopo mesi e mesi… lui era davanti a lei.
Le parole le si bloccarono in gola.
Qualsiasi cosa stesse per dire, svanì dalla sua mente come fosse nebbia al mattino. Rimase immobile, quasi pietrificata…
Fu in quell’istante che lo notò.
Cosa dire? Non aveva nulla da dire in realtà.
Improvvisamente entrambi non avevano proprio nulla da dirsi.
“Sei… scappato dalla clinica?!” fece Wilson, ignorando lo stato di Cuddy e avvicinandosi all’amico con fare preoccupato.
House lo fissò rassegnato, alzando in bella mostra il bastone “ti sembro nelle condizioni di ‘scappare’?”
“Ti hanno dimesso?”
House annuì, cercando di non far trapelare quel piccolo scintillio di orgoglio che quella domanda aveva acceso in lui. Abbassò lo sguardo, deviandolo poi nuovamente su quello di Cuddy. Lei era ancora in piedi, immobile, lo fissava… era come terrorizzata. Non aveva il coraggio di parlare.
Non la biasimava.
Quello che non avrebbe dovuto avere il coraggio di parlare in quella stanza era qualcun altro.
“Rivoglio il mio lavoro.” esclamò convinto, con il solito atteggiamento di sempre,  cercando di farla tornare in se. Cercando di darle il giusto argomento per iniziare una conversazione. Perché ormai, oltre al lavoro, loro non avevano più argomenti di conversazione. E non li avrebbero più avuti.  
Lisa Cuddy corrugò la fronte, tentando di ricacciar indietro le fitte alla testa che per tutta la mattina l’avevano accompagnata a lavoro.
Sentì i sensi di colpa affiorarle dentro, incontenibili. Cosa aveva fatto?!
“Ho… ho affidato il tuo reparto al Dr. Burns” sibilò, incredula di aver appena ammesso di fronte a House di aver creduto che lui non sarebbe più tornato.
Lui annuì.
“Ok. Vorrà dire che proverò da qualche altra parte…” si voltò nuovamente verso l’uscita dell’ufficio, dando le spalle ai due come se non considerasse che quella era la prima volta che li vedeva dopo tanti lunghi mesi di isolamento.
“House!” lo richiamò la dottoressa, destandosi dallo stato nel quale era precipitata. Oltrepassò la scrivania e gli venne incontro a passi lenti, riflettendo sul da farsi.
L’uomo tornò a guardarla, pregando di essere in grado di riuscire ad allontanarsi da quell’ufficio il più presto possibile.
“Posso reinserirti nella squadra. Dovrai stare alle dipendenze del Dr. Bursn ma potrai tornare a lavorare… dovrò anche ridurti lo stipendio però. – fece una pausa di riflessione – lo dovrò ridurre a tutta la squadra, ma va bene. Se questo può farti tornare ad esercitare la professione…”
Lui scosse la testa “No, voglio il mio vecchio stipendio.”
“House!- lo richiamò Wilson, incredulo – ti sta facendo un favore! Accetta, è la migliore soluzione.”
“No, il favore lo sta facendo alla fama del suo ospedale. Adesso che il medico zoppo è tornato tutti vorranno venire qui. Io non ne ricevo nessun favore se mi riduce lo stipendio, né lo riceveranno tutti gli altri medici della squadra.”
“Lo strai facendo… per loro?” suppose l’oncologo, stupito.
“No, per ME!”
“O questo.. o potrò permettermi solo di darti dei turni in ambulatorio.” lo ricattò Cuddy, certa che con questo il diagnosta avrebbe accettato.
House la fissò allibito. Era lì solo da pochi minuti e già lo minacciava? Bene. Almeno nulla era cambiato.
“Molto bene.” annuì dopo qualche attimo di riflessione.
Wilson gli sorrise, felice.
Anche Cuddy non riuscì a trattenere un sorriso di gioia, uno di quelli che era solito ricordare in quei momenti bui trascorsi al Mayfield.
Diamine, quanto gli era mancato.
“Vado subito ad informare la squadra”
“No – House bloccò l’entusiasmo della Cuddy con voce pacata – intendevo che accetto di fare le visite in ambulatorio.”
La dottoressa, che si era già lanciata a prendere dal cassetto i documenti necessari alla riassunzione si bloccò, esitante, dubbiosa sul fatto di aver realmente compreso le parole del diagnosta.
“Come?”
Wilson la seguì a ruota “Co.. cosa?”
“Va bene se inizio domani?”
Cuddy era nuovamente rimasta senza parole, lo fissava interdetta, la fronte corrugata nell’atto di comprendere l’incomprensibile.
“Fammi avere gli orari via mail appena riesci –annuì House, prendendo quel silenzio come un consenso – Ci vediamo!”   
I due medici si scambiarono degli sguardi sgomenti, interdetti. Wilson cercò un vago sostegno in Cuddy ma anche lei stava facendo la stessa cosa.
“A…aspetta!”  fece l’oncologo annuendo alla dottoressa e uscendo dall’ufficio nel tentativo di bloccare House.
“Puoi parlare anche mentre cammino?sai non ho tanto tempo da perdere… ho una casa da risistemare, …”
“Che vuol dire che farai i turni in ambulatorio.. tu odi fare i turni in ambulatorio!”
“Infatti non voglio fare i turni in ambulatorio!”
“E allora cosa…?”
“Voglio il mio vecchio lavoro.”
“Ma non puoi avere il tuo vecchio lavoro…”
“Quel Burns è un’idiota. Il fatto che Cuddy ancora non se ne sia resa conto vuol dire che ancora non ha avuto un caso serio tra le mani, e cioè… che è stato assunto da poco. Due mesi al massimo. Io dovrò solamente subirmi un paio di mesi di ambulatorio, forse anche meno… da lì la squadra inizierà a chiedermi aiuto, e Cuddy capirà che presto dovrà restituirmi il lavoro. – fece House ovvio, diretto verso l’uscita  - Sempre meglio che contrattare. Se faccio qualche visita, in cambio riotterò il mio lavoro senza alcuna riduzione di stipendio e senza dover stare alle dipendenze di un idiota.”
“Beh… ottima teoria, se solo non fosse che Burns non è un’idiota e che Cuddy sa quel che fa!”
“No, non è vero. Non l’ha mai saputo in realtà. E poi l’ha assunto solo perché ha un buon curriculum e un bel faccino… che tanto bello poi non è, ma sappiamo tutti che i gusti della Cuddy hanno sempre fatto schifo.”
“E il fatto che abbia un buon curriculum non ti dice niente?”
“Mi dice tante cose in realtà…” sogghignò ironico il medico ma prima che riuscisse a poggiare la mano sulla maniglia della grande porta a vetri che si affacciava sul parco del Princeton Wilson l’afferò per un braccio, bloccandolo.  
“E che mi dici di te?... che ne è stato di tutto quel casino che ti aveva fatto andar via di qua?”
House fece spallucce, anche se continuava a mantenere un espressione seria.
“Andato.”
“Non pensi che dovremmo parlare noi due?” lo implorò l’oncologo, confuso dall’atteggiamento menefreghista dell’amico.
“Lo stiamo già facendo…”
“Pensavo fossimo amici.”
“Lo pensavo anche io.” concluse House in un sibilo.
Strinse la presa attorno al bastone, voltandosi nuovamente verso l’uscita e decidendo di abbandonare lì la conversazione.
Wilson lo vide uscire dall’ospedale, lo vide allontanarsi da lui a passi svelti.
Rimase immobile, incapace di reagire.
Che cosa stava accadendo?
Per la prima volta, dopo quei lunghi mesi, James Wilson, aveva iniziato a temere la solitudine.






To be continued…

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