Monomanìa

di Kitsunelulu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Io, Marco ***
Capitolo 2: *** Neve ***
Capitolo 3: *** 25 Dicembre ***
Capitolo 4: *** Torta al cioccolato ***
Capitolo 5: *** A domani ***
Capitolo 6: *** Orlando ***
Capitolo 7: *** Marlboro rosse ***
Capitolo 8: *** 31 dicembre ***
Capitolo 9: *** Grazie ***
Capitolo 10: *** Blackout ***
Capitolo 11: *** Compleanno ***
Capitolo 12: *** Messaggi ***
Capitolo 13: *** Estate 2013 ***
Capitolo 14: *** Regalo ***
Capitolo 15: *** Pioggia ***
Capitolo 16: *** Tempesta ***
Capitolo 17: *** Nuvole ***
Capitolo 18: *** Fiducia ***
Capitolo 19: *** Books ***
Capitolo 20: *** Silenzio ***
Capitolo 21: *** Whisky ***
Capitolo 22: *** Egoismo ***
Capitolo 23: *** Miele ***
Capitolo 24: *** Parole ***



Capitolo 1
*** Io, Marco ***


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La morte è una bestia che vive nella gabbia della mia testa. Si potrebbe dire che siamo in simbiosi, io e lei.
Anche se a volte decide di starsene tranquilla e mi permette di distrarmi, non mi abbandona mai ed è sempre pronta a tornare e farsi più grande, finché in alcuni momenti straborda e diventa così grande da scivolare fuori dalla gabbia, inondandomi. Sono i momenti in cui penso che riuscirò finalmente a farla finita e con una sorta di strana determinazione (che mi manca in qualsiasi altro ambito) mi appresto a cercare il modo più veloce per rimanerci secco. E’ successo tre volte in tre anni e tutte e tre le volte ho fallito il tentativo. Sarà che nel momento in cui sono più vicino a ottenere ciò che voglio la mia vigliaccheria mi tira indietro e ha la meglio, sarà che la bestialità del mio carattere mi tiene attaccato alla vita così egoisticamente da andare contro i miei stessi interessi, ma tutte e tre le volte, nel momento di "premere il grilletto", una sorta di paralisi mi ha bloccato e mi sono poi ritrovato a proseguire la giornata come se niente fosse. Nessuno al mondo sa che la mia tendenza suicida abbia sfiorato l’epilogo per ben tre volte.

Una volta appresa la sentenza definitiva di dover sopravvivere, è subentrato il desiderio di farlo nel modo più facile possibile. Mi sono imposto alcuni precetti volti a semplificare questo compito così ingrato: scegli sempre di tenerti alla larga dalle altre persone, fai ciò che devi fare velocemente liberandoti il prima possibile da ogni impiccio, tieni a bada la bestia che hai nel cervello. Ed è così che conduco la mia vita, se questo scempio che va avanti solo a causa della mia inettitudine si può definire tale. Fortunatamente sono riuscito a crearmi un modello che mi agevola nel seguire quei precetti: tre anni fa ho lasciato il mio paese natale per andare a studiare fuori sede. L’università è una grande seccatura, ma l’unico modo per scappare dalla morsa dei propri genitori a 20 anni è farsi spedire in chissà quale paese con la scusa dello studio. Vivo da solo e non devo lavorare, però in compenso devo sostenere degli esami e possibilmente conseguire buoni risultati. Ciò che mi causa più problemi però non sono gli esami (studio letteratura, per la cronaca) ma il dover frequentare le lezioni obbligatorie e cioè interagire con le altre persone. Scrivere mi piace abbastanza ed ogni tanto mi fa sentire soddisfatto, ma tutto ciò che butto giù tra le quattro mura del mio appartamento rimane lì ed anzi, la maggior parte delle volte, va a finire nella discarica delle idee scartate. Nei rari periodi in cui la bestia me lo concede, riesco a dedicarmi anche alla stesura di un libro. Un romanzo mediocre destinato a non vedere la luce, ma che porta via dalla mia testa qualche pensiero di cui voglio liberarmi convertendolo nella storia di qualche personaggio. E’ un modo per allontanare da me ciò che mi da fastidio, riversarlo sui miei personaggi, una sorta di sistema di autodifesa che il mio cervello attua da quando ero piccolo. Beh, in effetti non riesco a ricordare un momento della mia vita in cui non pensassi a dei personaggi. Nascono e vivono a volte poche ore e a volte mesi interi nella mia testa, agiscono influenzati da ciò che mi accade e sono una presenza costante. In realtà molte cose sono una presenza costante nella mia vita e ciò è determinato dal mio essere estremamente abitudinario. Se si potesse misurare l’età dell’anima sono certo che la mia sarebbe quella di un vecchio. Avere dei ritmi costanti mi permette di vivere secondo una scaletta autoimposta, senza la quale potrei ritrovarmi chissà in quale condizione fisica e mentale (prendermi cura di me stesso fa parte di quelle pene che sono costretto a scontare vivendo e perciò ho bisogno di metodo per riuscire a farlo al limite della decenza). La mia giornata tipo si compone così: sveglia alle 7, lezione, pranzo alle 13, ancora lezione, se necessario spesa, tornare a casa tra le 17 e le 18, scrivere o studiare, relax fino a mezzanotte, dormire; domenica niente sveglia, il che si conclude in 24 ore di letto. Ciò che mi muove ad agire è solo ed esclusivamente la necessità e perciò ogni azione è compiuta al minimo indispensabile. Potreste pensare che questa non sia vita, che lasciarsi scorrere il tempo addosso in questo modo a 23 anni sia un errore, ed avreste ragione. La mia vita è finita tre anni fa, da allora in avanti è stata solo sopravvivenza. Se mai riuscirò a spegnere anche il corpo capite bene che sarà inutile essere tristi, che invece sarà più adatto tirare un sospiro di sollievo. Ah come sarebbe triste mia madre, invece! Disperata, e conosco esattamente la sintomatologia della disperazione di mia madre in questi casi. Silenziosa, schiva, amareggiata, delusa dal dio in cui crede. Mio padre invece si occuperebbe della faccenda sociale del lutto, accogliendo parenti e amici e trattenendoli a sé, in una sorta di scudo protettivo nei confronti di mia madre. In effetti sono schifato dal modo in cui chi non è davvero toccato dalla perdita senta la necessità di ostentare la sua vicinanza al sofferente. Forse proprio pensare allo sguardo di mia madre in quei momenti mi ha paralizzato quelle tre volte e continuerebbe a paralizzarmi ad ogni tentativo.
Si, deve essere senz’altro quello.

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Capitolo 2
*** Neve ***


Era dicembre e mentre mi trascinavo a scuola una sensazione di gelo sulla pelle mi aveva fatto sobbalzare. Guardai in alto e scorsi tanti piccoli fiocchi bianchi scendere dal cielo e farsi poi sempre più grandi. Ondeggiavano come buste nel vento e la loro caduta era lenta, così lenta da non lasciare alcun dubbio: nevicava. Un bagliore di meraviglia sbocciò nei miei occhi e gli angoli della bocca si sollevarono istintivamente in un sorriso entusiasta. Subito cercai lo sguardo di mia sorella e vi trovai, come mi aspettavo, lo stesso bagliore, quello che brilla negli occhi di qualsiasi bambino alla vista della prima neve d’inverno. Quel semplice vialetto da casa a scuola si trasformava lentamente in qualcosa di diverso dallo stesso che percorrevamo ogni mattina con gli zaini in spalla, ed anche la nostra destinazione cambiava: neve significava niente scuola, così corremmo verso casa con un’energia che nessuna mattina aveva mai visto attivarsi così presto. La mamma ci accolse con un sorriso divertito e dopo averci preparato una cioccolata si affrettò a coprirci il più possibile, due paia di guantini, due sciarpe, due cappellini uguali, prima che l’entusiasmo ci avesse definitivamente trascinati via a giocare. Com’era bello, era la felicità massima a cui un bambino potesse aspirare allora. In quella mezzora di preparazione la città era ormai diventata un grande parco giochi bianco e freddo. Lilia correva più di me e immaginai una super-bambina che grazie al potere della neve potesse volare. Raggiunta la piazzola dove lei mi aspettava, la super-bambina sparì e tornò Lilia.                       
La mattinata fuori scuola sembrò eterna e quando a mezzogiorno tutti i bambini, noi compresi, tornarono nelle loro case, tanti divani e coperte furono pronti ad accoglierli e farli riposare fino a una nuova sessione di gioco. Continuò a nevicare per tutta la notte e un’altra mattinata di gioco fu assicurata. Un altro fiocco di neve cadde lentamente e finì sul mio viso.
Che buffo, anche oggi un fiocco di neve è caduto lentamente sul mio viso. Per un attimo il bagliore si accende e cerco uno sguardo vicino, ma non trovo nulla. Mi guardo intorno e vedo tante persone che camminano disinvolte, chi apre l’ombrello, chi si ripara sotto un balcone. Niente bambini nei paraggi, niente vialetto che porta a scuola, niente Lilia. All’improvviso sono arrabbiato con chiunque mi circonda. Arrivo finalmente nell’aula della lezione e vedo le solite facce stanche, desiderose che quest’ultima settimana prima della pausa natalizia passi velocemente. Un mormorio inonda il legno dei banchi. “Ah, non vedo l’ora di tornare a casa!”; “Come passerai la vigilia? Se non hai piani…”; ”Spero che il mio ragazzo si sia ricordato di farmi un regalo…”; “Marco!” una voce familiare distoglie il mio udito dal brusio indefinito. Poco lontano scorgo Irene. “Buongiorno, sono felicissima! Hai visto che neve fitta che c’è?” Si siede di fianco a me e poggia la borsa invadendo la mia parte di banco. “Se continua così tra qualche ora si potrà giocare per bene!”.  “Buongiorno”, rispondo. Irene è una ragazza bionda, molti ragazzi ci provano con lei, non è brillante ed è così invadente che per tenersene alla larga non basta chiudersi a chiave nel bagno dei maschi. Effettivamente l’unica persona che riesce a rivolgermi la parola al di fuori di un contesto formale non poteva che essere la persona più estroversa del corso. Generalmente non è una compagnia spiacevole ma inizia a diventare fastidiosa quando tenta di includermi in qualche gruppo di amicizie più ampio (fortunatamente giunti al terzo anno sembra averci rinunciato definitivamente). Non so cosa la spinga a considerarmi suo amico nonostante la mia palese insofferenza per i rapporti sociali che invece lei ama.
 “Dopodomani finiscono le lezioni e posso tornarmene a casa finalmente. Ho l’aereo giovedì, tu?”
“Io non torno a casa, te l’ho già detto, no?”
“Ah, già! Scusa ma me n’ero dimenticata. Comunque non ti chiedo il perché, figurati se me lo diresti anche se te lo chiedessi..” mi rivolge un sorriso provocatorio.
“Beh, vedi che alla fine non sono così difficile da capire? Hai imparato come ci si comporta con me.”
“Ci ho messo tre anni ma ce l’ho fatta.” Sorride.
Conversiamo del più e del meno finché il professore entra in aula. Ascolto distrattamente la lezione e prima che me ne accorga è già finita. Non so per quale motivo le lezioni, nel periodo di Natale, sembrano sempre più corte. Appena uscito mi accorgo che ha smesso di nevicare. In quelle quattro ore la poca neve che avevo visto alle 8 si era ormai sciolta ed aveva lasciato posto ad una fanghiglia grigia. Anche l’entusiasmo della mattina si era ingrigito e sciolto. Cammino verso casa a passo svelto e dopo quindici minuti a piedi la raggiungo. Intorpidito dal calore, mi lancio sul divano dove il mio laptop mi attende.
Se dovessi descrivere il mio appartamento dovrei partire dal presupposto che per potersi permettere di non dividere l’affitto con dei coinquilini bisogna rinunciare a diverse cose, come ad esempio una cucina spaziosa o un balcone. Infatti, nei pochi metri quadri che lo compongono, c’è spazio solo per un piccolo soggiorno illuminato da una finestra, un cucinino ed un bagno. Il mio letto è il divano, che aprendosi diventa un comodo materasso a due piazze. Subito sotto la finestra c’è la scrivania dove studio. E’ piccolo ma confortevole e sempre in disordine. Il color mogano del divano è nascosto dalle tre coperte a fantasia che lo ricoprono, mie migliori amiche durante l’inverno. E’ qui che passo la maggior parte del mio tempo, parlando solo a me stesso. Mi stendo, e ignorando la fame che inizia a farsi sentire ripenso a come passare le vacanze natalizie. Dovrò darmi da fare per non impazzire: venti giorni senza contatti con altri esseri umani sono una gioia fin troppo grande per uno come me, ma sono senz’altro la via più facile per dimenticare definitivamente come ci si comporta nella società. Cerco di ricordare come ho passato le vacanze scorse e quelle precedenti. Il primo Natale in questa nuova casa lo passai con mia madre che insistette per venirmi a trovare, nonostante io avessi fatto di tutto per non tornare a casa e non vedere facce conosciute. Fu triste e dovetti aspettare giorni prima di riprendermi dalla depressione che ne conseguì. Il secondo Natale riuscii a passarlo da solo ma non fu tanto meglio. Il senso di colpa per aver chiuso definitivamente i rapporti con la mia famiglia mi tormentava e guardare la felicità di tutti circondarmi costantemente contribuì a farmi sentire più solo e disperato che mai. Questo sarà il terzo natale che passo in questa città. Sono cambiato molto in tre anni e la mia famiglia è ormai un ricordo lontano.
Sono sicuro che quest’anno sarò pronto a non badare a quanto gli altri siano felici. 
Starò bene.

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Capitolo 3
*** 25 Dicembre ***


Me ne stavo sul divano a leggere, poggiato al bracciolo destro. Poggiata al bracciolo sinistro anche Lilia leggeva lo stesso libro. Non ricordo qual era, ma ricordo che entrambi concordammo non fosse un granché. A 15 anni si ha il tempo di leggere anche cose che non piacciono. Il rumore della porta fece sollevare lo sguardo a entrambi: vi entrò nostro padre. Entrambi tornammo a rivolgere la nostra attenzione alle pagine. L’uomo appena entrato non significava più nulla per noi da quando aveva chiesto il divorzio alla mamma.  A 15 anni è difficile accettare che i propri genitori abbiano smesso di amarsi, proprio nel momento in cui è a loro che si guarda per cercare un riferimento. Imparare ad amare diventa molto più difficile, imparare a fidarsi quasi impossibile. Si chiusero in cucina e iniziarono a discutere come facevano ormai da giorni, ma il loro vociare rappresentava solo un fastidioso sottofondo.
Lilia si spostò dal bracciolo sinistro e raggiunse la mia parte di divano, appoggiando la sua testa sulla mia spalla. I capelli corvini, sciolti come sempre, mi scivolarono sulla pelle solleticandomi appena. Li accarezzai portandoli dietro il suo orecchio e seguendoli arrivai ad accarezzarle il capo. Capii che la sua sensibilità era decisamente diversa dalla mia e che la situazione dei nostri genitori costituiva un motivo di sofferenza per lei. Quando soffriva mi cercava ed io ero determinato a proteggerla. La avvolsi in un abbraccio e lei lasciò scivolare la testa sul mio petto. Senza dire nulla rimanemmo fermi in quella posizione finché entrambi ci addormentammo.
Quando apro gli occhi vedo un soffitto grigio di fronte a me. Stringo la mano e sento il tessuto della mia t-shirt attraversare le dita. Ancora una volta mi guardo intorno ed è cambiato tutto. Oggi è 25 dicembre ed io mi sono appena svegliato, alle 16. E’ un problema che io mi sia svegliato così tardi perché il frigo è vuoto ed a Natale non troverò nessun negozio aperto fino a tardi. A fatica mi alzo e penso che forse potrei trovare almeno un bar o un locale aperto, qualsiasi cosa pur di mettere a tacere il mio stomaco, così decido di prepararmi a uscire. Mi butto in una doccia bollente e rigeneratrice. Osservo il mio corpo nudo allo specchio: è troppo sottile, longilineo, i fianchi ricordano quelli di una donna. E’ lo stesso che vedo ogni giorno ma ogni giorno penso che dovrei averne più cura, magari fare qualche esercizio fisico per mettere su un po’ di massa. Puntualmente questo proposito finisce nel nulla. Vestitomi, indosso il mio cappotto preferito e una sciarpa di lana e, per qualche motivo, decido di darmi una sistemata ai capelli specchiandomi prima di uscire. L’aria è gelida ed ogni esalazione corrisponde ad una nuvoletta bianca che si disperde nella luce del lampione. Sono le 17 ed è già buio. Camminando sotto i portici desolati osservo le finestre delle case scagliarsi luminose sulle facciate scure dei palazzi: rivelano una realtà lontana, figure festanti, grandi alberi decorati, tavole imbandite. Posso quasi sentire il chiasso allegro proveniente dai miei ricordi di quei giorni. Io e Lilia, con i cuginetti, amavamo esibirci in un piccolo spettacolo di canzoni natalizie davanti a tutti i parenti. Adesso invece la strada è silenziosa e l’asfalto umido, e con il cielo blu forma un deserto di ghiaccio. Sono poche le persone che incontro nel cammino, tutte sole almeno quanto me. Non so esattamente dove sto andando, ogni vetrina è spenta ed ogni locale è chiuso, così proseguo a camminare alla ricerca di qualche bar che, spinto dalla noncuranza per le feste o dalla voglia di denaro, abbia aperto anche oggi. Cammino per mezzora prima di scorgere finalmente una luce accesa tra i negozi. Sono finito in una strada poco lontana dall’università in cui ci sono molti locali generalmente frequentati da studenti e personale del campus. Comunque, non mi era mai capitato di frequentare quell’unico che sembra attivo. La gioia per averne trovato uno è troppo grande per preoccuparsene e così mi fiondo all’interno, il freddo e la fame camminano per me. Sembra essere un caffè, i tavolini bianchi e quadrati sono tutti vuoti ma le candele su di essi sono accese e sprigionano un piacevole odore di cannella. La vetrina del banco è accesa e semi vuota ma ciò che scorgo in lontananza mi sembra sufficiente a decidere di sedermi. Non vedo nessuno del personale. Attendo leggermente imbarazzato. Dopo circa trenta secondi finalmente una porta bianca si apre ed una sagoma alta e stretta ne viene fuori. Leggermente affannato, come chi non aspetta nessuno ed è sorpreso da una visita, cerca un blocchetto sul tavolo di fronte a lui ed indossa un grembiule marrone. Nascondo il mio sorriso sotto la sciarpa nel vedere la scena, è proprio Natale per tutti alla fine. Ricompostosi, si dirige verso il tavolo in fondo a destra dove sono seduto. Ora posso vederlo meglio: è un ragazzo alto, molto alto, dai capelli mossi color cenere e lo sguardo distratto.
“Buon Natale!” esordisce. “Cosa posso portarle?”
“Buon Natale a te,” rispondo, “anche se stai lavorando.”
“Già, il capo sa essere crudele a volte..mi ha lasciato le chiavi per aprire il bar mentre lui è a casa al caldo!”, ride.
Mentre parla i suoi grandi occhi sembrano fissarsi su di me, come un bambino che curiosissimo si trattiene a stento dal fare domande. Quell’atteggiamento infantile mi diverte in qualche modo, così decido implicitamente che il mio intrattenimento per un po’ sarà giocare con la curiosità di questo ragazzo.
“Anche tu ti stai chiedendo perché sono qui da solo a quest’ora del Natale, no?”
“Beh, in effetti sembriamo avere la stessa età…la maggior parte dei ragazzi tornano a casa per le vacanze natalizie.” E’ palese che sta morendo dalla voglia di sapere di più.
“Per alcune circostanze ho deciso di rimanere qui. Comunque, portami qualcosa da mangiare, qualsiasi cosa andrà bene, mi basta che sazi molto. Ah, e due cappuccini.”
“Arrivano subito!”. Si incammina verso il bancone.
Controllo il telefono nell’attesa. Nessuna chiamata da casa.

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Capitolo 4
*** Torta al cioccolato ***


Quando il gigante dai capelli cenere torna con il vassoio gli faccio cenno di sedersi di fronte a me. Visibilmente sorpreso si indica con la mano libera e faccio un cenno d’approvazione. In qualche modo penso che potremmo farci compagnia a vicenda. Magari parlare con qualcuno che come me, per un motivo o l’altro, si ritrova a passare il Natale da solo, potrà farmi sentire meglio. Raramente mi concedo di chiacchierare con degli sconosciuti, ma oggi decido di farmi questo regalo. In ogni caso è solo per una volta e lui è solo un cameriere che non vedrò mai più. E’ solo finché non entra qualche altro cliente, mi dico.
Il ragazzo obbedisce e, dopo aver poggiato il mio ordine sul tavolo, prende posto. Senza dare spiegazioni circa l’invito mi fiondo sul grande pezzo di torta al cioccolato che c’è nel piatto di fronte a me. Non passano tre minuti ed è già finita, lo stomaco mi ringrazia.
“Ah, questo è per te.” Sposto uno dei due cappuccini di fronte al ragazzo, l’altro inizio a berlo. Senza fare complimenti anche lui inizia a bere. Tuttavia, c’è una luce nei suoi occhi azzurri che lascia trasparire una gratitudine quasi infantile. Sorrido.
“Non avere paura se ti ho chiesto di sederti con me, non sono una specie di maniaco, è solo che per delle circostanze sono dovuto rimanere qui mentre tutti i miei amici sono tornati alle loro case. Mi sento un po' solo, quindi ho pensato di fare due chiacchiere con te. Tanto non credo entreranno altri clienti per un bel po’, puoi anche smettere di darmi del lei.”
“Ti ringrazio…mi fa davvero molto piacere poter chiacchierare con qualcuno, temevo non sarebbe entrato nessuno qui, oggi. Anche io studio fuori sede e sono rimasto in città da solo.”
Mentre parla è rilassato e confidente, trasmette tranquillità. E’ da molto che non converso così. Entrambi finiamo il cappuccino. Sono ancora decisamente affamato, così gli chiedo di portarmi un’altra fetta di torta.  Quando torna ha due piatti. “Tanto il capo non entrerà mai oggi!”, sorride.
“Cosa studi qui?” mi chiede.
“Studio letteratura, tu?”
“Io storia dell’arte, quindi siamo nello stesso dipartimento.”
“Non mi sembra di averti mai visto in giro, però.”
“Diciamo che non mi è facile frequentare il campus perché lavoro molto, però faccio di tutto per studiare e rimanere al passo con le lezioni, anche se al momento dovrei dare parecchi esami..”
“Ti paghi da solo gli studi?”
“Già, non ho un bel rapporto con i miei e quindi sono venuto qui di mia volontà, posso contare solo sulle mie forze.”
All’improvviso ho una strana sensazione. Sento come se non dovrei proseguire il discorso, come se stessi contravvenendo ad una delle mie regole autoimposte. Andare avanti e scoprire la storia di questo ragazzo potrebbe farmi sentire più coinvolto di quanto dovrei, e se diventassimo conoscenti o addirittura amici avrei una scocciatura in più da sopportare. Già, solo una scocciatura, per quanto piacevole la sua compagnia possa sembrarmi adesso. E’ piacevole solo perché mi fa sentire meno solo, niente di più. Devo assolutamente fare in modo che smetta di parlarmi di cose personali. Però … contare sulle sue sole forze. Mi chiedo cosa voglia significare, mi chiedo se davanti ho una persona davvero così simile a me. Dal suo sguardo, che involontariamente si è fatto più serio al pronunciare quelle parole, percepisco una sensazione familiare. Forse è solo la mia inutile immaginazione. Si, sicuramente. Devo interrompere il discorso.
Proprio mentre sono assorto nella ricerca della frase giusta da dire, sento una vibrazione provenire dal cellulare poggiato sul tavolo. Purtroppo so già di cosa si tratta, ma leggere quel nome sul display mi destabilizza. Non sono pronto ad affrontare una chiamata del genere adesso, forse non lo sarò mai. Esito un attimo, ma dentro di me so che non rispondere è la scelta sbagliata. Faccio scorrere il dito sullo schermo.
“Pronto, Mamma.”

            

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Capitolo 5
*** A domani ***


Lilia faceva i compiti, poggiata sul tavolo bianco del soggiorno. Io leggevo un libro. La stanza era illuminata dalla luce color pesca del tramonto ed ogni granello di polvere sembrava immobile, rivelato dal raggio di luce penetrante dalla finestra quadrata. Tutto era fermo, il silenzio scandito solamente dal voltare delle pagine. Guardare Lilia mi suscitava un certo senso di colpa poiché me ne stavo a gingillare mentre avrei dovuto svolgere i compiti anche io. Lei era molto più studiosa di me, per una sorta di curiosità innata, nonostante il nostro rendimento scolastico fosse pressoché simile. Certo, non ero premiato per la mia pigrizia. Frequentavamo entrambi il terzo anno del liceo classico. Mi alzai e la raggiunsi al tavolo, sedendomi accanto a lei. Sollevò per un attimo gli occhi dal testo per rivolgerli a me: osservarli era come specchiarsi. Stesso colore azzurro, stesso taglio affusolato. Le rivolsi un sorriso, e spostandole i lunghissimi capelli dalla spalla mi avvicinai un po’. Non dissi niente, e così lei. Tornò a studiare. Quel silenzio templare fu interrotto dallo squillo del telefono. Un rumore assordante che attraversava la stanza come un taglio su una tela. Assordante, opprimente. Non volevo che quel telefono squillasse. Non voglio, ma la mente mi riporta al presente. Ho risposto alla chiamata di mia madre.
“Marco, sei tu? Riesci a sentirmi?”
Quella voce, che non sentivo ormai da mesi, riesce ogni volta a paralizzarmi. Facendo un cenno di saluto al cameriere, che attendeva di fronte a me, esco dal bar. L’onda di gelo che mi circonda dall’esterno è simile al freddo che sento dentro di me. Con la voce tremante provo a rispondere.
“Si, riesco a sentirti. Buon Natale.”
“Buon Natale a te, Marco … anche tuo padre ti augura altrettanto.”
“Se avesse voluto augurarmelo, mi avrebbe chiamato o perlomeno mandato un messaggio.”
“Lo conosci, avrebbe voluto. Ma tu avresti risposto?”
Da parte mia, silenzio.
“No, non lo avresti fatto,” risponde lei, “e comunque mi ha telefonato stamattina e mi ha chiesto di augurartelo da parte sua. Ti pensa sempre, Marco, devi credermi. E così anche io.”
“Ti credo, mamma, ti credo davvero. Ma non posso credere a lui.”
“Non tornerai neanche quest’anno.”
“No, mi dispiace.”
“Mi manchi, mi mancano i miei bambini. Ti prego, torna …”
Sentendo la voce afflitta della donna, una sensazione di dolore mi si sparge nel petto. Senso di colpa, odio verso me stesso. E’ di nuovo sola a causa della mia codardia, a causa dei fantasmi che non ho il coraggio di affrontare. Pensarla in una stanza vuota mi fa bruciare il petto e gli occhi e non riesco a trattenere le lacrime. Cazzo, chiudo la chiamata. Non posso resistere oltre. Ho bisogno di chiudermi nella mia stanza. Il mondo intorno a me è improvvisamente troppo crudele. Non riesco a sopportarlo. Non adesso.
Tremante, entro nel bar e lascio dei soldi sul tavolo, sicuramente più del conto effettivo, ma non ho tempo di preoccuparmene. Senza dire nulla, il ragazzo mi osserva e spera in una mia spiegazione. E’ visibilmente preoccupato, sembra sincero, ma non ho altro in testa se non un forte rumore. Non riesco a pensare, a formulare delle parole. Tutto ciò che riesco a pronunciare è “a domani”.
Corro verso casa incurante di chi mi osserva stranito, corro più veloce che posso, svuotandomi il petto. Perché la gente si scandalizza per così poco?! Vorrei che sparissero tutti. Il mondo va sempre troppo veloce per me, ma quando sono io a correre mi scambiano per un pazzo. Raggiungo casa in meno di venti minuti. Le mani mi tremano e così impiego qualche secondo ad inserire la chiave. Non so esattamente come comportarmi, non so perché non sento nemmeno la stanchezza per la corsa, solo un forte bruciore al petto, alla testa, agli occhi. Quando sono finalmente nella stanza, mi accascio sul pavimento. Le lacrime scorrono senza fine, singhiozzo come un bambino. Mi stendo sul pavimento e vado avanti, con ancora il cappotto indosso, per quelle che potrei approssimare due ore. Sento la mente che mi abbandona, forse vuole farlo per cessare il flusso di pensieri che mi porterebbe a chissà quale esito. Un velo nero cala sulla mia vista e lentamente, singhiozzando ancora, mi addormento.
Mamma. Papà. Me stesso e Lilia, l’uno accanto all’altra. Perché tutto ciò non può durare per sempre? Perché la vita ha deciso di portarmi via un po’ alla volta la felicità alla quale mi aveva abituato? Capirete che è impossibile tornare a fidarsi di qualcosa di così crudele e bugiardo come la vita, per me. Proprio quando penso “Dio, ti ringrazio per avermi donato questa tranquillità”, proprio mentre nel mio cuore ancora infantile questo sentimento di gratitudine raggiunge il massimo, è allora che la vita decide di mostrarmi la verità e lo fa senza mezzi termini. Prima mi porta via la famiglia, poi mi porta via l’altra metà di me. Mi lascia solo e dimezzato. Non voglio più credere che esista un Dio capace di così tanta indifferenza di fronte alle preghiere disperate di un ragazzo. Ho smesso di farlo perché è stato necessario. E’ più confortante pensare che la vita e la natura siano crudeli con chiunque indistintamente piuttosto che pensare a quale ingiustizia debba essere dover soffrire così tanto mentre tutti gli altri gioiscono. E’ più facile cullarsi nell’idea che la vita mi deve qualcosa. Si, vivere così è l’unico modo che ho per farlo. Vivere da solo, solo nella mia infelicità naturale, e che tutti gli altri rimangano soli nella propria. Non m’interessa di cosa provano le persone intorno a me. Neanche tu, mamma. La vita mi ha portato via tutto ciò a cui io abbia mai tenuto e l’unico modo per non essere deluso di nuovo è non avere nulla da farsi portare via. Se proprio sono condannato a vivere, lasciatemi sopravvivere a modo mio.
“Ti prego, torna.”
Per scacciare l’eco assordante di queste parole, la mia mente decide che è il caso di svegliarsi. Non si può dire che abbia propriamente dormito, comunque, perché quando mi sveglio sono più esausto di prima. Come previsto, è impossibile che io riesca a sostenere una conversazione con mia madre senza ricadere nel baratro della depressione. Non che ne sia mai uscito completamente. Però, se un margine di miglioramento c’è stato da quando mi sono abituato a questa nuova vita solitaria, va completamente perso quando i frammenti della mia vita passata che non posso eliminare tornano a galla. Le questioni che ho lasciato in sospeso e continueranno a tormentarmi per sempre. Già, sono destinato a vivere così, in una fuga continua da ciò che avrei dovuto fare e non ho fatto e da ciò che potrei fare ma non voglio.
A giudicare dalla rigidità della mia schiena devo aver dormito delle ore sul pavimento. Fuori è ancora buio. Mi alzo rantolando un po’ per il dolore, poi cerco il telefono per controllare l’orario. Sono quasi le 10 di sera, ciò vuol dire che ho dormito per circa tre ore. L’idea del frigo vuoto mi riporta alla mente ciò che stavo facendo prima di correre via come un pazzo. Stavo conversando con uno sconosciuto in un bar, mentre mangiavo una torta al cioccolato. Avrei dovuto finirla quella torta perché adesso sono decisamente affamato. Mi torna alla mente di aver detto qualcosa al cameriere in vece di amico, forse “ci vediamo domani” o qualcosa del genere. Ero concentrato su altro, ma forse ho pensato di volerlo vedere ancora e gli ho detto così senza prestarci particolare attenzione. In ogni caso non lo rivedrò mai più e forse è meglio, perché devo evitare di incontrare persone interessanti. Devo vivere con me stesso e basta e lasciare le porte del mio mondo sempre chiuse. Se qualcuno vuole entrare come ospite, che se ne vada subito dopo. Al massimo conoscenti, ma niente amici. La regola è questa.
Pensando alla porta sbarrata del mio mondo, sento suonare il campanello della porta del mio appartamento. Che ironia, proprio in questo momento. Quel campanello avrà suonato cinque volte in tre anni, approssimando per eccesso. Sono sorpreso, parecchio sorpreso. Nessuno che sia a conoscenza del mio indirizzo si trova in questa città in questo momento. Forse è il vicino che passa a fare gli auguri, è un tipo molto socievole, un sessantenne che vive da solo e farebbe di tutto per un attimo di compagnia. Si, deve essere proprio lui, è la prima persona che mi viene in mente. Mi strofino i palmi sul viso e faccio scorrere le dita attraverso i capelli, poi mi accingo ad aprire la porta. Ciò che ho di fronte è uno scenario ben diverso dalla mia previsione: dove dovrebbe esserci la faccia del vicino ci sono dei bottoni di un cappotto beige; dove dovrebbero esserci dei capelli brizzolati ci sono delle spalle larghe e dove dovrei scorgere il pianerottolo del mio palazzo vedo la faccia del cameriere con cui stavo conversando qualche ora prima. Decisamente spiazzato, non ho bisogno di parole per esprimere la mia perplessità. Lui parla per primo:
“Beh, scusa se ti ho spaventato, però ecco, hai lasciato una 50 euro sul tavolo e poi sei corso via come un dannato … pensavo potesse trattarsi di un’emergenza così non ti ho fermato, però mi sarei sentito troppo in colpa a tenermi tutto il resto come mancia, così te l’ho portato.” Sorride innocentemente.
“Come diavolo hai fatto a trovarmi?!”
E’ tutto ciò che riesco ad esprimere della moltitudine di pensieri che mi intasano il cervello. 

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Capitolo 6
*** Orlando ***


Questo ragazzo alto e biondo mi osserva con occhi curiosi. Io lo osservo con occhi confusi, tenendo la testa leggermente sollevata. Non che io sia basso, direi che sono nella media maschile, ma lui sarà alto almeno un metro e novanta. E’ venuto a casa mia alle 10 di sera di Natale per restituirmi 42 euro. Ora che ci penso, il suo nome non me l’ha proprio detto.
“Ti ho seguito per un po’ sperando che ti fermassi, poi sono tornato indietro, non potevo mica lasciare il bar incustodito. Comunque, ormai avevo in mente la zona dove potevi essere diretto. Qui ci vivono quasi solo studenti. Poi è stato facile, ho chiesto ad un signore di mezza età se avesse visto correre un ragazzo bassino dai capelli neri e lui aveva l’aria di conoscerti. <> ha detto, ed ha sorriso spiegandomi che aveva proprio pensato che fossi impazzito vedendoti correre così. Mi ha indicato questo palazzo ed ecco che ho trovato il tuo nome sul campanello, Marco.” Ride.
“Mi sa che sei tu il pazzo, se ti è sembrata una buona idea cercare uno sconosciuto senza alcun indizio, tra l’altro per portargli dei soldi che non si era nemmeno accorto di aver perso.”
“Eppure ti ho trovato!” Getta una mano nella lunga tasca del cappotto e fruga per qualche secondo, poi mi porge due banconote da 20 ed una moneta da 2. “Sarà stato il destino, o forse oggi è il tuo giorno fortunato.”
Già, fortunato.
“Senti, io ora non so cosa dovrei fare esattamente per ringraziarti del disturbo, ma so per certo che qualcosa devo pur farla.” Mi accorgo di sembrare scortese parlando in questo modo. In fondo sono davvero riconoscente per quel gesto. Cerco di spiegarmi meglio:
“Intendo dire che ti ringrazio davvero per essere venuto fin qui con questo freddo, quindi se ti va-”
Prima che possa finire la frase il ragazzo di fronte a me fa un passo, e con quel solo lungo passo varca la soglia di casa, superandomi. Si ferma lì, come se aspettasse delle indicazioni, e nel frattempo si guarda intorno.
“Certo che questa casa è piena di libri! E’ proprio la casa di uno scrittore. Si, davvero, me la sono sempre immaginata così ed ora è proprio davanti a me.”
“Non è che siamo una specie protetta. Poi sono solo io ad essere così, un po’ cinematografico, lo ammetto. La maggior parte dei miei compagni di corso sono persone normali.”
“Guarda che ho molti amici che studiano letteratura. Ma questa casa è quella di uno scrittore, uno già pronto a pubblicare un libro.”
“Se lo dici tu. Comunque, anche se non so come ti chiami ormai tu sai chi sono io. Accomodati così continuiamo la conversazione di prima.”
Senza imbarazzo, ma con dei movimenti un po’ impacciati, come un gatto che cammina in un giardino sconosciuto, si dirige verso il divano. Si toglie il cappotto e si siede, poggiandolo sulle gambe. Io vado in cucina e preparo due tazze di acqua bollente. Ci metto dentro due filtri di tè alla vaniglia e lo raggiungo.
“Tieni. Si congela lì fuori.”
“Un tè bollente mi fa proprio piacere adesso. Casa tua dista almeno venticinque minuti a piedi dal bar, ma io ce ne ho messi molti di più per trovarla.”
“Mi diresti il tuo nome?” mi siedo dall’altro lato del divano.
“Mi chiamo Orlando. E’ un nome strano e non mi si addice, vero?”
“Non direi che non ti si addice.”
“Mh, Orlando è qualcuno che porta gloria, no? E’ una persona valorosa e stimata da tutti, io però non sono nulla del genere!” sorride.
“Che sia un nome inusuale, questo si. Però mi piace, suona bene, e poi mi hai riportato quei soldi nonostante il freddo al posto di tenerli per te, quindi sei valoroso anche tu.”
“Non ci ho pensato nemmeno. Davvero, farmi riscaldare un po’ qui basta e avanza come ringraziamento per una sciocchezza del genere. Comunque, se non si trattava di un’emergenza, scusa se te lo chiedo, ma come mai sei corso via così, all’improvviso?”
“In realtà si trattava di un’emergenza. Cioè, c’era mia madre al telefono e dovevo correre a casa a sistemare una faccenda di cui mi ero dimenticato, ecco perché. Nulla di grave comunque.”
“Davvero? Quando hai lasciato i soldi sul tavolo avevi l’aria di qualcuno che avesse appena sentito una brutta notizia. Sono felice che non sia successo nulla. Devo averlo immaginato ma mi sembrava che piangessi!” ride. “Mi sono preoccupato inutilmente.”
Questo ragazzo mi infastidisce. Deve avere un talento per capire le persone, il che non va bene perché io non ho alcun interesse ad essere capito. Comunque, credo di averlo convinto che non ci sia nulla di importante dietro la mia fuga improvvisa. In effetti non c’era nulla di importante. Solo un tentativo di evasione della bestia. Ricordate? La bestia ingabbiata nel mio cervello. Il suo sguardo però non ha smesso di esprimere curiosità. E’ chiaro che voglia capire meglio la situazione, ma si stia trattenendo per non risultare troppo invadente. La sua curiosità, in ogni caso, è destinata a rimanere insoddisfatta per sempre.
“Ti preoccupi così per tutti gli sconosciuti?”
“No, solo per quelli che mi offrono un cappuccino ed una chiacchierata e poi corrono via.”
Decido che è il caso di spostare il discorso su di lui.
“Comunque, tu hai detto che non hai un buon rapporto coi tuoi e che ti paghi gli studi da solo. Avete litigato per qualche motivo in particolare?”
“No, niente in particolare.”
“Non mi aspetto che mi racconti della tua vita privata. In fondo ci siamo appena conosciuti. Però, quando hai detto quella frase, mi sei sembrato sincero ed ho avuto una sensazione familiare, come se stessimo condividendo lo stesso sentimento.”
“Io non ho alcun problema a parlarti della mia vita privata, però non è poi così interessante. Sono sicuro che tu abbia di meglio da fare che ascoltarmi.”
Nonostante io sia curioso di conoscere la storia di questo ragazzo, penso che in fondo sia meglio mantenere una certa distanza. Se fossero delle motivazioni strettamente personali, conoscerle sarebbe rischioso. E poi non voglio che possa sentirsi in diritto di riservarmi lo stesso trattamento.
“E come mai hai scelto di studiare storia dell’arte?”
“Ho seguito la mia passione, niente più niente meno. E’ un campo di studi rischioso, non è certo qualcosa come medicina, ingegneria o giurisprudenza, però da delle soddisfazioni. Attualmente sono al secondo anno. E tu? Come mai letteratura?”
“A dire la verità, non credo di essere stato io a scegliere di studiare letteratura. E’ più come se lo avessi sempre saputo dalla nascita. Non credo di avere un talento nella scrittura o chissà quale sensibilità di lettore, semplicemente farei troppo schifo in qualsiasi altro ambito, così la letteratura è l’unica via che mi è possibile.”
“A me piace leggere ma non lo faccio molto, tu invece hai la scrivania ricoperta di libri. Non stanno su uno scaffale, sono tutti sparsi per la casa, con le pagine segnate. Sai cosa vuol dire secondo me? Che li leggi e li rileggi di continuo, li metti in discussione. E questo fa di te un letterato e non un lettore, come invece potrei definire me.”
“Credo che tu abbia una considerazione troppo alta di me, dovresti prima conoscermi per pensare una cosa del genere. Adesso temo di poter deludere le tue aspettative.”
“Anche se fosse, non ho paura di essere deluso. Ti riterrei migliore di me in ogni caso.”
“Certo che la tua autostima tocca lo stesso fondo dove la mia giace da anni.”
“Non è una novità che abbiamo qualcosa in comune. Due studenti fuori sede che rimangono completamente soli il giorno di Natale in una città che non è la loro, di cui uno accetta di lavorare per terrore di perdere il posto ed uno si ritrova a mangiare una torta come pranzo, qualche problema devono avercelo.” Ride.
“C’è da aggiungere che uno è corso via come un pazzo e l’altro l’ha pure inseguito!” Rido anche io.
“Già … che buffo. Eppure ci siamo incontrati casualmente. Io però voglio sapere di più sul tuo conto, nonostante tu l’abbia capito e stia opponendo resistenza ad esporti troppo.”
Questo tipo di sincerità mi lascia spiazzato, una richiesta così diretta non può essere ignorata. Il talento di questo ragazzo nel capirmi si supera sempre di più. O forse sono io ad essere un libro aperto? In ogni caso, mi sento a mio agio nel parlare. Probabilmente me ne pentirò in un futuro prossimo, ma sento di voler chiacchierare ancora per ore.                                                                                                          
“Ti devo dire la verità: io non ho amici qui. Anzi, ormai da un po’ non ho amici da nessuna parte. Tu mi ricordi gli anni in cui non ero così solo. Non so dirti il perché, ma c’è qualcosa di familiare in te. Potrebbe essere solo un’impressione, ma se così non fosse non ti avrei neanche rivolto la parola, probabilmente.”
“A me sembra che tu stesso sia indeciso su come dovresti parlarmi, se da sconosciuto o da persona con cui potresti fare amicizia. Non so perché ti trovi in questa situazione, non voglio che tu me lo dica, però credo che la tua solitudine dipenda da questo, cioè da te e nessun altro. Correggimi se sbaglio, ma tu ti tieni volontariamente alla larga dalle persone?”
“In un certo senso, ma è una necessità.”
“Non indagherò oltre per ora.” Mi sorride.
“E tu? Tu hai molti amici qui?”
“Si, ne ho molti. Non si può dire che non sia una persona socievole. In università conosco quasi tutti, anche se le persone a cui tengo davvero si possono contare sulle dita di una mano.”
“Quindi adesso rientro anche io nella tua cerchia di conoscenze e non posso farci nulla?”
“Chissà, magari un giorno potresti rientrare anche tra le persone a cui tengo davvero. Sempre se mi lascerai essere tuo conoscente, prima.”
 

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Capitolo 7
*** Marlboro rosse ***


Seduto su un divano di tela rossa, aspettavo l’arrivo delle pizze. Steso sullo stesso divano, con la testa sul bracciolo e le gambe di lato, c’era Cesare. Nel piccolo locale regnava il silenzio. Non un silenzio opprimente o imbarazzante, ma un silenzio d’attesa, a cui eravamo abituati. Su una sedia poco distante c’era Filippo, che rivolgendoci le spalle sembrava intento a fare qualcosa, probabilmente rollare una sigaretta. Senza voltarsi, ruppe la quiete:
“Ma voi avete mai fumato?”
“Ce ne vuole per trovarne uno che non abbia mai almeno provato a 18 anni.” Aggiunse Cesare.
Lo guardai facendogli intendere che ne aveva proprio uno di fronte.
“Non ci posso credere!” Ridemmo tutti e tre. “Adesso devi per forza provare.”
Filippo si avvicinò a me stringendo una sigaretta tra l’indice e il pollice. Lo guardai, e mi fece cenno di continuare. Avvicinai le labbra al filtro e tirai appena, ma ciò bastò a farmi esplodere in una tosse incontrollabile. Risero entrambi, io mi aggiunsi a loro tossendo ancora.
“Ma come fai a non aver mai provato?!” Disse Cesare.
“Siete voi gli unici amici che abbia mai avuto, è colpa vostra se non me l’avete chiesto prima.”
“In effetti hai ragione.”
“Quando hai iniziato a fumare con costanza, tu?” Chiesi a Filippo.
“Mah, forse due anni fa. E tu, quando hai fatto il primo tiro?” si rivolse a Cesare.
“E’ stato così tanto tempo fa che nemmeno lo ricordo. Sicuramente alle medie. Non so dirti però quale dei nostri vecchi compagni di classe sia stato a propormelo, forse Paolo, lui fumava tantissimo già a 13 anni.”
 
Rivolgo lo sguardo al pacchetto di Marlboro rosse poggiato sulla scrivania.
“Ne vuoi una?” Chiedo a Orlando, che ha finito il tè e poggiato la tazza sul pavimento.
“No, ti ringrazio, ma io non fumo.”
“Infatti, hai la faccia di una persona che non fuma.”
“Ho pensato la stessa cosa di te, però mi sbagliavo.”
“Fumo pochissimo e raramente. Non so nemmeno perché, di certo non ne sento la necessità.”
“Alcuni miei amici fumano per necessità, altri fumano solo in compagnia, per sentirsi meglio, suppongo.”
“Comunque, si sono fatte le 11. In che zona abiti?”
“Abito dalle parti dell’ospedale, perciò potrebbe essere un problema se perdessi l’ultimo tram. Dovrei camminare per almeno 35 minuti.”
“C’è una fermata della linea 7 a 5 minuti di qui, che ferma proprio all’ospedale.”
“Perfetto, allora ho il tempo di arrivarci con calma e senza rischiare di rimanere a terra.”
“Fa proprio freddo, sarebbe una tortura.”
“Ci rivedremo ancora?”
“E chi può saperlo?”
“Beh, allora ho un favore da chiederti. Mi presti un libro?”
“Quale libro?”
“Mh…questo!” Tira fuori da una catasta di libri chiusi Il Capitale di Marx.
“Ma davvero?! Ti interessa leggere Marx?”
Ride.
“Poteva andarmi meglio, ma si, all’improvviso credo che mi interessi Marx.”
Rido anche io.
“E va bene, te lo presto. Però dovrai farmi un resoconto finale, quando me lo riconsegnerai.”
“L’importante è che te lo riconsegnerò!”
Inizia a mettersi il cappotto.
Osservandolo, continuo a ricevere una sensazione familiare. Si, voglio rivederlo ancora. Devo assecondare questo desiderio? Potrei anche decidere di no. Eppure, qualcosa mi dice che lo farò. E’ possibile che dopo tre anni di completa solitudine io sia pronto ad affrontare dei nuovi rapporti umani. Gradualmente. Potrei iniziare stringendo amicizia con Orlando e poi magari crearmi un piccolo gruppo di amicizie, poi magari trovarmi una ragazza e chi lo sa, forse riuscire anche a ricostruire i rapporti con i miei. Questo tipo di ottimismo mi manca da così tanto tempo. Cerco di non pensarci, non voglio crearmi delle idee troppo lungimiranti. Per ora potrei iniziare con l’amicizia, tutto il resto si vedrà.
“Beh, allora io vado. Non so quando e dove, ma ci vediamo.”
“Già, ci vediamo.”
Chiudo la porta.
Sono di nuovo solo a casa. Sorridendo appena, mi fiondo sotto la doccia. Ripenso a quella disperazione che mi aveva assalito prima che Orlando suonasse al mio citofono. Mi sembra così lontana adesso. Del resto, ogni volta che mi sono sentito così disperato, è accaduto all’improvviso ed è durato per un breve tempo. Poi sono sempre tornato alla normalità. Di certo non una normalità entusiasmante, ma una normalità tranquilla. L’arrivo di quel ragazzo ha reso un po’ più interessante questa normalità.

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Capitolo 8
*** 31 dicembre ***


 
Quella notte dormii così profondamente da non sognare nulla. Il che è inusuale per me, dato che sogno moltissimo: avvenimenti del mio passato, paure per il futuro; il mio sognare è sistematico e assolutamente logico, perciò ogni mattina ricordo tutto. Tranne quella mattina. Per quanto mi riguarda potrei essere stato rapito e poi riportato lì, e non me ne sarei accorto. Quando mi svegliai avevo così tanta voglia di scrivere che, senza nemmeno fare colazione, mi fiondai al pc e buttai giù dieci pagine. Riscrissi anche molte delle precedenti e per un attimo amai il mio lavoro. Il romanzo a cui lavoravo da un po’ mi sembrava avere finalmente una forma e pensai che potessi lavorarci ancora all’infinito e con lo stesso ritmo. Mi sentivo come se finalmente una nuova strada si fosse aperta davanti ai miei occhi e così, in quella nebbia euforica che mi circondava, mi sentii felice. La nebbia si è gradualmente diradata e sono tornato a vedere il mondo così com’è nel giro di pochi giorni, ma un’impronta di ottimismo mi è rimasta impressa nella mente. Continuo a scrivere, seppure a ritmo rallentato. La cosa più importante è che finalmente ho un’idea ben chiara da trasformare in parole, e così posso lavorarci su al meglio.

Ho sempre pensato che ci fossero due tipi di persone: chi ha qualcosa da dire ma non sa esprimerla e chi non ha nulla da dire ma si sa esprimere benissimo. Generalmente gli scrittori rientrano nella seconda categoria. Ciò che distingue i veri geni dagli scrittori che saranno dimenticati è proprio questo: i primi hanno ben fissa in mente l’idea da mettere in parola, mentre i secondi scrivono perché amano scrivere, o in alcuni casi solo perché è capitato che siano bravi a farlo. Ecco, io sono proprio così. Non ho la determinazione di Dante, non ho la passione di Leopardi e non ho l’eleganza di Wilde, è solo capitato che ciò che so fare meglio è scrivere. Tuttavia, da quel giorno c’è qualcosa che mi rende molto produttivo. Non so se la si possa chiamare ispirazione o meno, però da allora ad oggi ho lavorato sul romanzo più di quanto abbia fatto dall’inizio. Anche adesso sono seduto alla mia scrivania e sto digitando. Fuori tramonta, sono circa le cinque del pomeriggio. Vorrei continuare ma devo uscire a fare la spesa o morirò di fame nel giro di poche ore. Per scrivere non ho pranzato e, come sempre, il frigo è vuoto. Mentre mi preparo per uscire mi torna in mente che ho un esame da dare a gennaio e perciò dovrei iniziare a studiare. Il freddo pungente scaccia il pensiero fastidioso del dovere. Questi sono i giorni più freddi dell’anno. Entro in un supermercato e ne esco qualche minuto dopo, con in mano un solo sacchetto. Mi da fastidio che mi sia preparato per poi rientrare in casa subito dopo, così, per passare più tempo fuori, decido di fumare una sigaretta prima di tornare a casa. Molte auto invadono le strade e molti pedoni i marciapiedi. Sono tutti indaffarati. Oggi è 31 dicembre e stanotte, la vigilia del nuovo anno, tutti si daranno da fare per divertirsi più che possono. Domani, primo gennaio, inizierà un nuovo ciclo di 365 giorni. Mi chiedo se sia così importante scandire il tempo. Il corso degli eventi prosegue imperterrito, senza badare ai calendari. Comunque, voglio approfittare di questo convenzionale reset per impegnarmi a migliorare me stesso e la mia vita. Quando la sigaretta è ormai cenere, mi incammino verso casa.
Arrivo di fronte al portone, ma qualcosa di inaspettato mi provoca un sorriso incredulo. Mi fermo ad osservare la scena senza farmi notare: intento a leggere Il Capitale c’è Orlando, seduto su uno scalino. Forse dovrei specificare che sta sicuramente facendo finta di leggere perché nelle orecchie ha delle cuffiette e picchietta l’indice sul ginocchio a tempo di musica. Non so cosa possa farci esattamente lì, ma la scena mi provoca una risata. Nonostante le cuffiette, lui mi sente ed alza lo sguardo.
“Oh, eccoti!” dice, liberando entrambe le orecchie dalla musica.
“Cosa ci fai qui?”
“Sono venuto per riportarti il libro come promesso!”
“E quindi hai finito di leggerlo in meno di una settimana? Davvero?”
“Non è la cosa più importante adesso. Senti, devo dirti una cosa.”
“Ah, ecco, quindi il libro era una scusa sin dall’inizio.”
“Dai, ascolta! Hai degli impegni per stasera? Sono sicuro di no.”
“Cosa te lo fa pensare? Ho un appuntamento molto importante.”
“E con chi sarebbe questo appuntamento? Con te stesso?”
 “Stai dubitando del fatto che io possa avere un appuntamento?”
“Certo, me lo hai detto tu che non ti piace stare con le persone.”
“Ed infatti ho un appuntamento con il mio divano.”
“Allora mi dispiace ma dovrai rimandare perché stasera ti porto con me a festeggiare.”
“Spero tu stia scherzando!” Mi lascio sfuggire una risata. “Hai idea di quante volte la mia amica Irene abbia provato a portarmi a delle feste?! Credimi, tante volte. E non ci è riuscita per ben tre anni! Come credi di convincermi proprio tu? Questa è la seconda volta che ci incontriamo.”
“Questa volta è diverso, io non sto provando a convincerti. Tu devi venire.”
“E come mai devo venire?”
“Perché ti ho già comprato il biglietto.” Mentre parla, tira fuori dalla tasca un pezzo di carta.
“Ma tu sei pazzo!”
“Senti, io tra un’ora inizio a lavorare e finisco alle dieci, fatti trovare di fronte al bar per quell’ora, così ci andiamo insieme. E mi raccomando, vestiti bene. Ti presenterò delle ragazze. Ah, se ti stai chiedendo come tornare a casa, ci ho già pensato: un mio amico abita nei paraggi e ti darà un passaggio in macchina.”
“Non mi sto chiedendo come tornare a casa perché non uscirò di casa.”
“Invece lo farai!” Mi mette tra le mani il libro, poi scappa via.
“Sto per perdere il pullman quindi corro via, ci vediamo dopo!”
Gira l’angolo prima che possa ricambiare il saluto.
Entro in casa ed apro il libro, nel quale ha lasciato il biglietto della festa. E’ un semplice ticket blu con su scritto “New year’s eve party” ma nessun indirizzo o riferimento telefonico. Quel suo atteggiamento mi diverte e mi arrabbia contemporaneamente. In un certo senso mi fa piacere che mi abbia chiesto di partecipare alla festa: non mi sembra che l’abbia fatto come farebbe Irene, perché vuole fare numero o perché vuole presentarmi al resto dei suoi amici. Il suo sembra un interesse sincero, sembra che si sia preoccupato che potessi rimanere da solo. Tuttavia, rimane il fatto che io odio le feste. Odio dover interagire forzatamente con tante persone, odio che tutti debbano divertirsi a tutti i costi, ma soprattutto odio il rischio di poter fare amicizia. Parlare con Orlando è già stato un grande errore, che mi ha portato a ritrovarmi in questo tipo di situazione. Certo, riuscire a rapportarmi a lui mi ha riaperto la speranza nel poter tornare un po’ alla volta a vivere normalmente. Ma, per l’appunto, un po’ alla volta. Le feste non mi sono mai piaciute. Anche prima di tre anni fa le evitavo sempre. La sola idea mi fa venire i brividi. Si, sono deciso a non andarci. In ogni caso Orlando non ha il mio numero di telefono e perciò posso starmene tranquillo a casa mia. Ho già in programma di guardare il mio film preferito, La haine. Poi, ascolterò il vinile che mi sono regalato, In the court of the Crimson King. Ho anche comprato una bottiglia di liquore ed ecco, questo sarà l’unico modo in cui festeggerò l’inizio del nuovo anno.

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Capitolo 9
*** Grazie ***


Lo so, potreste accusarmi di incoerenza. Potreste accusarmi di così tante cose che non me ne interessa neanche una. Sono le dieci in punto di sabato 31 dicembre. Dove mi trovo? Non dove dovrei trovarmi. E dovrei trovarmi sul mio divano, a casa mia, avvolto tra le mie coperte. Invece sono fuori dal suo bar, avvolto nel suo abbraccio. Leggermente infastidito, mi scrollo le sue braccia di dosso e mi allontano.
“Allora sei venuto davvero!” Un sorriso a bocca aperta lascia trasparire la sorpresa del ragazzo davanti a me.
“Ti prego, stai zitto.”
Mi squadra dalla testa ai piedi. “E ti sei anche vestito bene. Questo si che è un miracolo.”
“Senti, ci conosciamo da appena una settimana, abbiamo parlato tre volte in tutto, cosa ti dice che io non sia un serial killer? Non ti conviene provocarmi.”
“Come sei suscettibile…beh, comunque, anche se tu fossi un serial killer non mi faresti paura.”
“Ah, sentiamo perché?”
“Perché sei molto più debole di me e si vede a colpo d’occhio.”
“E come fai a fermare un revolver, per quanto forte tu possa essere?”
“In ogni caso, tu non sei un serial killer e un revolver non ce l’hai, altrimenti mi avresti ucciso quando sono venuto a casa tua a Natale, non credi?”
“Credi ciò che vuoi.”
“Ora stammi dietro, dobbiamo prendere un pullman.”
Seguo Orlando senza aggiungere altro. Mi sento come se in 23 anni non avessi mai fatto nulla del genere, come una ragazzina che va per la prima volta a ballare. E’ una sensazione estremamente fastidiosa, soprattutto perché, per qualche motivo ancora sconosciuto a me stesso, sono stato io a decidere di accettare l’invito. Saliamo su un pullman della linea 7, non ho idea della nostra destinazione. Quando l’altro mi fa segno di scendere, ci troviamo in una zona residenziale. So dove siamo. Inizio a capire. Alla nostra destra, l’ospedale della città dipinge con la sua luce bianca la strada di fronte. I lampioni, dalla luce molto più calda, quasi arancione, ci conducono lungo il marciapiede. Sono abbastanza sicuro che Orlando abiti da queste parti.
“Dove stiamo andando?” Chiedo a questo punto.
“A casa mia, ovviamente.”
Leggermente confuso, mi fermo a osservarlo. Lui continua a camminare finché non si accorge finalmente della mia sosta, dopo di ché si gira e mi guarda interrogativamente.
“Scusami, per caso la festa è a casa tua o il serial killer tra noi due sei tu?”
“Ah, già, non ti ho spiegato nulla! Guarda che la festa inizia dopo la mezzanotte, secondo te esiste qualche locale dove si va a ballare così presto? E’ una roba da quarantenni.”
“Ed il countdown, il trenino, i fuochi d’artificio…?”
“Non importa a nessuno.”
“Quindi sostanzialmente è un sabato come un altro per voi.”
“Beh, la maggior parte va a cena in qualche ristorante prima di andare alla festa. Io però non posso certo portarti al ristorante, non ho tutti quei soldi!” Ride.
“Quello è solo uno dei motivi per cui non dovresti farlo. Comunque, come mai stiamo andando a casa tua?”
“Devo cambiarmi, ho appena finito di lavorare. E poi dobbiamo aspettare: un mio amico verrà a prenderci in macchina a l’una. L’ultimo pullman è alle undici, così sarebbe stato impossibile per te raggiungermi da solo; l’unica soluzione è stata farti venire da me.”
“Capisco. Beh, sarà una serata istruttiva.”
Saliamo finalmente al secondo piano di una palazzina grigia. Il condominio non sembra nuovo, ma l’interno dell’appartamento è curato. Nonostante sia molto piccolo, gli spazi sono gestiti perfettamente: c’è un piccolo divano di pelle color panna, un tavolino sul quale sono poggiate delle riviste, un mobile a parete che regge una tv e le cui mensole sono ricoperte di libri. Nella stessa stanza, in un angolo vi è la cucina e in un altro angolo il letto, affiancato da un grande armadio. E’ un ambiente unico, la cui unica stanza isolata è il bagno. E’ molto più luminoso del mio appartamento: il contrasto tra spazi pieni e vuoti è bilanciato in modo da rendere l’ambiente equilibrato. Al confronto, casa mia sembra soffocante. Non mi aspettavo di trovare così tanti libri. La maggior parte sono libri d’arte, ma ci sono anche romanzi, classici e saggi di filosofia. Alle pareti, incorniciate da lastre di vetro senza bordi, vi sono delle riproduzioni di stampe giapponesi di Hokusai. L’ultimo dettaglio che mi salta agli occhi è la presenza di una grande finestra nascosta da tende gialle, ai lati della quale vi sono diverse piante.
“Anche tu vivi da solo, vedo.”
“Già, quest’anno sono riuscito a trovare questo appartamento singolo grazie all’aiuto del mio datore di lavoro. L’anno scorso dividevo la casa con altri due coinquilini. Vivere da soli è decisamente più tranquillo.”
“Io non ho mai diviso l’appartamento con qualcuno, quindi non ho idea della differenza, ma posso immaginare.”
“Tu lavori? Come ti paghi un appartamento singolo?”
“No, non lavoro. Scrivere, studiare e badare a me stesso assorbono già abbastanza delle mie energie. Tutte le spese del caso le paga mio padre, che di soldi ne ha tanti. Lo fa senza dire una parola perché si sente in debito con me, ed io ne approfitto.”
“Non ti senti crudele? Tuo padre deve volerti molto bene.” Sentendo quelle parole, ricordo che Orlando avesse accennato ad un rapporto conflittuale con i suoi. Evito di aggiungere altro circa l’argomento.
“Tu invece come fai a studiare e lavorare così tanto contemporaneamente?”
“Non è facile, lavorare mi porta via molte ore ogni giorno e soprattutto in periodo d’esami sono stressato fino al midollo. Però sono sempre stato molto energico, mi sono sempre dato da fare. L’anno scorso riuscivo addirittura a frequentare il club d’arte della mia facoltà.”
“Cosa sarebbe un club d’arte?”
“Esattamente ciò che puoi immaginare dal nome. Avevamo un’aula e ci riunivamo per guardare film, organizzare mostre, promuovere giovani artisti dell’ambiente, soprattutto fotografi. Poi ho dovuto abbandonare perché avevo bisogno di lavorare di più.”
“I tuoi non ti pagano niente?”
“No, purtroppo non possono mandarmi soldi.”
“Capisco.” Non voglio parlarne oltre. Dal suo sguardo, immagino che neanche lui voglia.
“Comunque, io vado a farmi una doccia, tu aspetta qui. Non voglio essere ancora sotto la doccia a mezzanotte, vorrei almeno farti gli auguri per il nuovo anno in tempo!”
“Va bene, allora ti aspetto sul divano.”
Stranamente, mi sento a mio agio nonostante l’ambiente mi sia completamente estraneo. Estraendo il cellulare dalla tasca mi accorgo che sono le undici. Sollevando lo sguardo, mi accorgo invece di un grande specchio, alto più di me. Non l’avevo notato dall’ingresso poiché risultava nascosto dall’armadio. In casa mia l’unico specchio è un piccolo rettangolo nel bagno. Incuriosito, mi alzo e mi dirigo di fronte alla superficie, che per adesso riflette solo la parte di stanza di fronte ad essa. Quando mi interpongo tra la parte di stanza riflessa e lo specchio, ecco che un altro me appare dall’altro lato. Vedermi interamente fa un certo effetto. E’ piacevole, forse perché ho davvero indossato i miei vestiti preferiti per la festa. Nulla di particolare, comunque: dei jeans scuri, una camicia bianca, un maglioncino altrettanto scuro. Delle scarpe di cuoio marrone. Mi accorgo, dopo qualche secondo, di indossare ancora il berretto rosso che a causa del freddo mi porto sempre dietro questi giorni. Lo tolgo e mi aggiusto i capelli. E’ rara la sensazione di piacersi, per me, così me la godo fino in fondo. Maledico me stesso per l’idea, ma decido di scattarmi una foto allo specchio. Sono imbarazzato, decisamente imbarazzato, poiché è la prima volta che scatto una foto a me stesso, tuttavia la foto mi piace e così decido di non eliminarla. Dopo qualche minuto, torno a sedermi sul divano. Sfoglio una rivista. E’ un artzine o almeno così c’è scritto sulla copertina. Io non ho idea di cosa sia un artzine così sfoglio alcune pagine. Sono piene di immagini ma non contengono neanche un articolo. Che strano tipo di rivista. Ne prendo un’altra, con una copertina decisamente accattivante. Il nome è Toilet paper. Curioso, anche questa rivista contiene moltissime immagini. Sono delle fotografie e dei collage molto bizzarri. Metto via anche questa rivista. Finalmente sento la doccia spegnersi, sono passati venti minuti ormai. Dopo qualche secondo la porta del bagno si apre. Noncurante di quanto l’accappatoio che lo copre sia striminzito, Orlando viene fuori con i capelli ancora bagnati. Ormai non so più cosa aspettarmi da questo individuo.
“E’ stata proprio una doccia rigenerante!” Esclama sorridente.
“Ma tu ti fai vedere in accappatoio da tutte le persone che inviti a casa?”
“Ma dai, siamo entrambi ragazzi. Cosa vuoi che sia? Non hai mai fatto la doccia negli spogliatoi a calcio?”
“Veramente io non ho mai giocato a calcio.”
“Beh, nemmeno io, ma era solo un esempio.” Ride. “Comunque i miei vestiti sono in questa stanza, li prendo e torno in bagno.”
Fa come ha detto, ed attendo altri cinque minuti prima che torni, finalmente vestito ma con i capelli ancora bagnati. La camicia bianca ancora sbottonata rivela un torace più muscoloso di ciò che possa sembrare quando è coperto. Tutto sommato, il suo fisico è davvero migliore del mio.
Si siede nel lato del divano non occupato da me e accende lo stereo con un telecomando. La canzone che ne viene fuori inizia con un indistinguibile cinguettio: è Welcome to the pleasure dome.
“Sai che questa canzone riprende dei versi di un poemetto di Coleridge?”
“Certo che lo so.”
“E così tu ascolti i cd? I vinili hanno un suono decisamente migliore. Se gli strumenti sono analogici, anche il mezzo con cui ascolti deve essere analogico, non credi?”
“Queste cose le dicono solo le persone ricche come te.”
“Però lo stereo che hai sembra molto più costoso del mio lettore di vinili, è un Bose.”
“Questo me lo sono portato da casa, diciamo come souvenir. Tanto lo usavo solo io. Però i cd devo comprarmeli con i soldi che lavoro.”
“Io ce l’ho un vinile dei Frankie goes to Hollywood, quindi se un giorno capiti a casa mia ti faccio sentire la differenza del suono.”
“Io lo prendo come un invito, quindi non ti lamentare quando mi presenterò a casa tua.”
“Beh, potresti almeno avvisarmi questa volta.”
“A proposito, mi dai il tuo numero di cellulare? Ah, e sei su Facebook?
Prendo il suo cellulare e digito il mio numero.
“Eccolo. Comunque no, non sono su Facebook.”
“Ti prego, non dirmi che sei uno di quelli contro la tecnologia e contro i social!”
“No, la tecnologia non mi da fastidio. Ho diversi abbonamenti a giornali online, ho anche un blog e un profilo wattpad dove pubblico alcuni miei brani, però non uso social. Dai, guardami, solo per il fatto che si chiami social dovresti capire che non fa per me.”
“Dai, creiamo il tuo profilo Facebook!”
“Ma tanto non lo userei affatto, lo sai?”
“Fa niente, facciamolo! E’ troppo strano che nel 2016, anzi possiamo quasi dire 2017, tu non abbia un profilo.”
“Ma è davvero così necessario?”
Ride.
“Parli proprio come un vecchio. E va bene, niente Facebook.”
“Piuttosto, guarda l’orologio: Tra dieci minuti è mezzanotte. Cosa dovremmo fare?”
“Stappiamo una bottiglia. Tranquillo, non è niente di costoso.”
“Avevo comprato una bottiglia di Jagermeister da stappare in pace, da solo…”
“Accontentati del prosecco per ora, a casa mia non manca mai.”
Si alza e va a prendere una bottiglia dal frigo.
“Ecco a te!” Mi porge un bicchiere. “La stappiamo a mezzanotte esatta.”
“Che strano.” Sorrido.
“Cosa c’è di strano?”
“Che strana vigilia di capodanno, intendo. Non so perché, ma forse questo prosecco è meglio del mio Jager.”
“Non l’hai ancora bevuto!”
“Già, però mi sembra più buono.” Una sensazione di calore mi dilata il petto. E’ questo ciò che vuol dire non sentirsi soli? Dopo tre anni, torno a ricordare. Questa sensazione dalla quale mi ero volutamente tenuto alla larga sta tornando a popolare il mio cuore. Finalmente, sento di avere un amico.
“Ehi! Cosa stai fissando? Guarda che manca meno di un minuto!”
“Mi ero distratto un attimo. Allora?”
“Allora 3…2…1…” Stappa la bottiglia. “Auguri!”
“Auguri, buon anno nuovo. E grazie.”
“Grazie di che?!”
“Del prosecco, di che altro se no?”

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Che dire, infiniti grazie a chi è arrivato fin qui. Ecco il nono capitolo di Monomanìa. Se vi state chiedendo dove vuole andare a parare questa storia, beh, sappiate che la strada è ancora molto lunga. Procede lentamente e ne sono consapevole. Vorrei poter chiudermi in casa e buttare giù tutte le idee che ho in testa senza mai interrompermi, ma purtroppo non è possibile. Voglio così bene a Marco e Orlando che ho bisogno di molti capitoli ancora per raccontare al meglio la loro storia. Comunque, se sarete così pazienti da rimanere con me lungo questo cammino, prometto di dare il meglio di me e di regalarvi ogni singola parola che sarà digitata dalle mie mani. Non temete, d’ora in avanti la storia incalzerà e ci saranno tanti colpi di scena, tante rivelazioni. Il passato di questi due ragazzi è ancora tutto da scoprire, e meglio ancora, anche il loro futuro. Godetevi questi capitoli spensierati! Nel frattempo, vi auguro buona fine 2016 e, con il prossimo aggiornamento, vi augurerò buon inizio 2017! 


 

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Capitolo 10
*** Blackout ***


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Apro gli occhi. Anzi, spalanco gli occhi all’improvviso. Un soffitto sconosciuto mi si para davanti. No, a osservarlo meglio non è sconosciuto, è insolito. Non è il mio soffitto e da tre anni, ogni mattina, ho sempre e solo visto il mio soffitto appena sveglio. Come mai questo non è il mio? Lo riconosco, ma di certo non è il mio. Quando muovo la testa per ispezionare il resto del luogo che mi circonda, un dolore acuto si stringe come un cappio attorno alle mie tempie. Il dolore sembra tuttavia svolgere la funzione di propellente per i ricordi, che in un flash tornano a popolare il mio cervello. Ora ricordo tutto. No, non esattamente tutto, ricordo tutto meno il momento in cui sono finito qui. Ricordo dove mi trovo, cioè a casa di Orlando. A giudicare dalla prospettiva nuova da cui osservo la stanza, sono nell’angolo a sinistra, cioè nel letto. Dalla finestra entra un sole debole, filtrato dalle tende gialle. E’ il primo sole del 2017, a meno che io non abbia dormito per più di un giorno. Ricordo che in questa stessa stanza mi trovavo alle undici di ieri sera e che dopo aver finito una bottiglia di prosecco, siamo usciti per andare a una festa. Ricordo che la festa era piena di gente noiosa e ricordo di aver fatto conoscenza con alcune ragazze. Ricordo di aver iniziato a ballare nonostante la musica fosse una pena e che per questo mi era stato necessario ricorrere ai drink. Ecco, qui inizio a ricordare meno. Il ricordo non è più lineare, come un filmato, ma diventa una successione di diapositive, finché (dopo parecchi cocktail) diventa uno schermo completamente nero. E poi il risveglio in questa casa. Non a casa mia. Qualcosa è andato storto perché ricordo che i piani per la serata fossero diversi, e cioè che io venissi accompagnato a casa mia da un amico di Orlando che abita dalle mie parti. Devo indagare. Cercando di ignorare la testa che mi gira ancora e la nausea, per prima cosa cerco il telefono. Lo trovo ai piedi del letto, incastrato nel piumone. Controllo l’orario: sono le 12, primo passo per ricostruire la mia esistenza in questo mondo. Mi alzo per perlustrare la stanza con lo sguardo, ma prima che possa iniziare la mia indagine sono distratto da un dettaglio fondamentale: sto indossando solo la camicia. Perplesso, torno alla mia ricerca: osservando la stanza noto che sul divano ci sono delle coperte e un cuscino, perciò presuppongo che Orlando abbia dormito lì. Sul tavolo ci sono il mio maglione e i miei pantaloni, ai piedi del letto le mie scarpe. La bottiglia vuota di prosecco è ancora sul davanzale della cucina e alla sua vista la nausea si intensifica per un attimo. Nella casa non c’è traccia del proprietario.
“Orlando?” chiamo, senza ricevere risposta.
Mi dirigo verso il bagno, dove un Marco decisamente sconvolto mi appare di fronte nello specchio. Il colorito è pallido e le occhiaie viola, così come le labbra; i capelli spettinati emanano odore di fumo. Questa è la seconda volta nella mia vita che ho bevuto così tanto da perdere coscienza ma la sensazione di aver viaggiato nel tempo è sempre la stessa. E’ come se, da un momento in poi, avessi smesso di esistere e poi, da dieci minuti, io sia tornato sulla Terra. Sono spaesato. Apro il rubinetto e mi sciacquo il volto. Proprio nel mentre, sento il rumore della serratura e così esco dal bagno: è Orlando e in mano ha un piccolo vassoio bianco.
“Oh, ti sei svegliato finalmente!” Osserva, con aria divertita.
“Dammi delle spiegazioni.”
Si avvicina al divano e si siede, poggiando sul tavolino di fronte il piccolo vassoio. Io lo raggiungo e rimango ad osservarlo, in piedi.
“Lì dentro c’è la colazione per te. Sono appena tornato dal lavoro.”
“Aspetta, tu sei riuscito a lavorare stamattina?”
“Per tua fortuna reggo l’alcol molto bene. Sicuramente meglio di te.” Ride.
“Comunque ho troppa nausea per fare colazione, ti ringrazio ugualmente.”
L’altro sospira e mi fa cenno di sedermi accanto a lui con la mano. Io lo seguo e non appena sono seduto, tira fuori il telefono dalla sua tasca, mostrandomelo.
“Ora ti faccio vedere cosa è successo ieri sera, ma non arrabbiarti se scoppio a ridere.”
Non rispondo. Mi mostra delle fotografie.
“ Ore 1.30. Ecco, questi siamo noi due appena arrivati. Eri solo brillo quindi dovresti ricordarlo, mi hai chiesto tu di fare una foto.” Man mano che osservo le immagini, parti di memoria tornano.
“Ore 3.00. Questo invece sei tu che dopo qualche cocktail parli con due ragazze contemporaneamente. Sembravate molto affiatati ma in realtà tu stavi parlando di filosofia estetica e, ti assicuro, loro non hanno capito niente.”  L’imbarazzo continua a crescere ad ogni foto, così come lo sforzo di Orlando per rimanere serio.
“ 4.00. Ed ecco, qui penso che tu abbia iniziato a non capire più niente perché sei venuto a chiedermi di crearti un profilo Facebook in modo da, testuali parole, poter aggiungere agli amici le due tizie che avevi rimorchiato. Io ti ho ovviamente assecondato così siamo andati in bagno, ti ho creato il profilo, e tu le hai aggiunte davvero agli amici. Però ho una domanda da farti. Come immagine del profilo hai voluto mettere una foto palesemente scattata al mio specchio ma continuavi a mentire sostenendo che fosse lo specchio di un autogrill. Sai darmi qualche spiegazione?”
“Ti prego, non infierire.”
“Beh, allora continuo. Dopo averti creato il profilo Facebook siamo tornati dentro e le due ragazze erano già in compagnia di altri due tizi. Tu non ci hai fatto caso e ti sei seduto ai loro stessi divanetti, al che sono venuto a recuperarti perché, nonostante le ragazze sembrassero felici del tuo ritorno, i ragazzi sembravano infastiditi. 4.30: un po’ scocciato hai accettato di uscire per fumare una sigaretta con alcuni miei amici. Nel mentre hai bevuto altri shot gentilmente offerti dal mio amico Brian. Dopo di che, credo alle 5, il collasso. Ti sei vomitato sui pantaloni e ho pensato che fosse meglio tornare a casa, anche perché avrei dovuto lavorare alle 8. Non eri nelle condizioni di tornare a casa tua quindi ti ho portato da me ed eccoti, alle 12, fresco come una rosa.” Continua a ridacchiare mentre parla.
“Non mi porterai mai più a una festa, vero?”
“Mi hai fatto divertire come non mai, ma scherzi? Solo, la prossima volta controllerò che non esageri con i drink. Per la tua salute.”
“Ti ho causato un sacco di problemi, però. Hai dovuto badare a me tutto il tempo.”
“Se mi fosse dispiaciuto, non lo avrei fatto. Sei un adulto in fondo. Un adulto che beve come un sedicenne ma pur sempre un adulto.”
“Scusa un attimo, posso vedere il mio profilo Facebook?”
“Hai l’applicazione sul telefono, fai pure.”
Apro l’applicazione e vado sul mio profilo. C’è davvero quella foto imbarazzante in alto a sinistra. Non ho tempo per preoccuparmene perché scorrendo verso il basso scopro foto ben più imbarazzanti, come ad esempio il primo piano di me e Orlando e una foto di me con le due ragazze. Sprofondo nella vergogna, tanto che posso sentire la mia faccia diventare rossa.
“Beh, ormai hai conosciuto anche questa parte di me. Ti devo un favore per avermi tenuto al sicuro.”
“Non mi devi un favore, l’ho fatto volentieri.”
“Quindi ora torno a casa mia. Grazie, di nuovo.”
“Aspetta, non dovresti indossare prima dei pantaloni?” Ride. “Ti andranno un po’ lunghi, ma te ne presto un paio.” Così dicendo, tira fuori dei jeans dall’armadio. Li indosso.
“Ora vado davvero, così potrai riposare. Non hai dormito affatto o sbaglio?”
“Solo un’ora, ma ci sono abituato.”
“Ciao ciao.”
“Ci vediamo!”
Il viaggio in pullman sembra durare un’eternità. Quando finalmente giungo a casa l’unica ipotesi che mi sembra plausibile considerando le condizioni del mio corpo è dormire. Non mi ci vuole molto perché mi addormenti profondamente: neanche questa volta sognerò.

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Capitolo 11
*** Compleanno ***


Il telefono si illumina e vibra per qualche secondo. Esco dallo stato di alienazione mentale che mi tiene lontano dal mondo e torno a focalizzare lo sguardo su qualcosa di reale. Leggo la notifica, è un messaggio:
Vediamoci al parco della Trinità oggi pomeriggio. Vorrei parlarti di qualcosa.”
Sospiro.
Metto via il telefono. Risponderò più tardi.
 
Sono passati molti giorni da quella sera, sicuramente più di una settimana, ma ormai ho perso la cognizione del tempo. So solo che dovrei ritrovarla, perché a breve riprenderanno le lezioni, gli esami, e tutte quelle faccende il cui solo pensiero mi da la nausea per un secondo. Scaccio via quel pensiero.
Da quel giorno, ho pensato a lungo a come dovrei comportarmi con Orlando.

Grazie.”

Quella parola, che avevo pronunciato proprio io, mi rimbomba nella mente senza tregua. Quel sentimento di gratitudine così sincero da non poter essere nascosto. Come mai ho provato una cosa simile? Come mai questo estraneo che è piombato nella mia vita all’improvviso, come una specie di stereotipato miracolo di Natale di un film da quattro soldi, è riuscito a farmi divertire senza che mi sentissi in colpa? Già, senso di colpa. E’ questo che provo adesso. Ma non lo provavo, mentre ero con lui. Come mai il senso di colpa, vi chiederete? Me lo chiedo spesso anche io. Il senso di colpa è apparso nella mia vita come un semplice dato di fatto. Non so perché, ma so che comparirà ogni qual volta io mi avvicini ad essere felice. Da tre anni.
Prima di oggi, Orlando mi ha chiesto di vederci per tre volte: tutte rifiutate.
Mi spiace, ma oggi non posso proprio.”
A breve ci sono gli esami, oggi ho in piano di studiare.”
Non sono in vena di uscire.”
Mi chiedo come dovrei rispondere oggi. Come mai ho impulsivamente risposto di no a tutti e tre gli inviti? Eppure, passare il tempo con lui non mi dispiace. Anzi, è piacevole, ed è difficile che io trovi piacevole trascorrere del tempo con una persona. E’ forse proprio per quello che ho rifiutato? Ho paura di essere assalito nuovamente dal senso di colpa, oppure ho paura di affezionarmi così tanto a lui da essere messo nuovamente a rischio? Avevo imposto a me stesso di non intraprendere dei legami pericolosamente stretti come regola di sopravvivenza della mia nuova vita in questa città. Forse sento che potremmo diventare buoni amici, potrei affezionarmi a lui. Devo aver percepito un’affinità che potrebbe danneggiarmi. Voglio rimanere alla larga anche dalla più remota delle possibilità di provare di nuovo quella disperazione. Eppure:
Vediamoci adesso.”
Messaggio inviato. Ho bisogno di fare chiarezza dentro di me. La risposta non tarda ad arrivare:
“Finisco il turno alle 12, va bene?”
“Certo.”
Le 12 non hanno fretta ad arrivare ed io sono sul luogo con abbondante anticipo. Ecco cosa succede quando si hanno tante cose da fare ma nessuna voglia di impegnarsi, si arriva addirittura in anticipo agli appuntamenti. Orlando arriva alle 12.05, reggendo una busta bianca.
“Scusa il ritardo. Ecco, questi sono per te, sono dei biscotti.”
“Ti ringrazio.”
“Finalmente riusciamo a vederci! Certo che sei molto impegnato ultimamente.”
“Ho un esame a breve, purtroppo ogni tanto mi tocca…”
“Comunque, volevo vederti perché mi mancavi. Solo questo.”
Esito un attimo nella risposta. Mi mancavi? Come dovrei reagire a questo tipo di dichiarazione? In fondo anche io ho pensato a lui in questi giorni, vuol dire che si trattava di mancanza anche nel mio caso? Che io sia meno onesto con me stesso di un normale essere umano, è risaputo. Devo iniziare ad ammettere certe cose. Forse esito troppo, perché è lui a riprendere il discorso per primo.
“Tu hai avuto solo lo studio in mente, vero?”
“Cos’altro avrei potuto avere, in ogni caso?”
“Eheh… hai proprio ragione, cos’altro?”
“Non c’è niente per cui valga la pena distrarsi.”
No, no. Non è questo che volevo dire. Non voglio pronunciare queste parole, eppure lo faccio. E’ come se qualcuno le tirasse fuori dal mio petto e le trasformasse in suono, senza che ricevano l’approvazione della mia mente.
Anche io ti ho pensato. Avrei voluto vederti, ma ho trovato il coraggio solo oggi.
Nei suoi occhi per un secondo, ma solo per un secondo, riesco a scorgere una scintilla di delusione. Poi tornano gli occhi brillanti e sorridenti di sempre.
“Sai, oggi è il mio compleanno. E’ questa la cosa di cui volevo parlarti. Non te l’ho detto via messaggio perché forse, dicendotelo dal vivo, ci sono più possibilità che tu possa accettare di venire a cena da me.”
“Auguri. Il compleanno è tuo ma i biscotti me li hai regalati tu…”
Sorride.
“Allora, ci sarai?”
“No, mi spiace.”
“Dai, non dirmi che studi anche di sera! Deve essere un esame molto pesante.”
“Troppo pesante. Non so neanche perché sono qui adesso. E comunque sai che non mi piacciono le feste.”
No! Non è così! Sono felice di essere qui adesso. Vorrei tanto esserci stasera, voglio cenare con te e farti passare un bel compleanno.
“Dici che non ti piacciono le feste ma sei il primo a darci dentro! A Capodanno sei stato il più divertente.” Sorride.
Perché sorridi?!
“Quella è una serata che vorrei non aver vissuto. Se l’alcol non avesse già provveduto, sarebbe proprio una serata da dimenticare.”
No, no! Mi sono divertito così tanto da sentirmi in colpa…mi sono accorto che potremmo diventare amici, mi sono sentito grato dal profondo del mio cuore per il tuo invito.
“Davvero? Beh, scusa ma io la ricorderò, perché mi sono divertito davvero tanto.”
 Continua a sorridere dolcemente. Nel suo sorriso, però, c’è qualcosa di diverso: dei tanti sorrisi che ho visto apparire sul suo volto ne ho incontrati di rassicuranti, gentili, divertiti, accomodanti. Ma questo è un sorriso doloroso, è un sorriso che non dovrebbe essere lì. Desidero con tutto me stesso che quel sorriso si trasformi in un ghigno infastidito, che mi metta a tacere. Vorrei che mi prendesse dal colletto e mi urlasse in faccia di smetterla. Invece sorride.
“Stasera non verrò.”
Senza aggiungere altro, né aspettare una risposta, mi giro e torno sui miei passi, verso la fermata dell’autobus. Orlando non prova a fermarmi. Vedo solo che rimane fermo lì, senza muovere un muscolo, finché non lo perdo di vista. Mi torna in mente la busta dei biscotti, che non ho raccolto dalle sue mani.

Sono di nuovo da solo a casa.

O forse dovrei dire che sono di nuovo da solo al mondo?

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Capitolo 12
*** Messaggi ***


O- Ti capita mai di sentirti solo?

M- Non dovresti sentirti solo la sera del tuo compleanno.

O- Beh, io però sono a casa da solo e un po’ mi sento così.

M- Non dovresti.

O- E tu non dovresti usare il telefono mentre studi!

M- Ho preso una pausa per cenare.

O- Sono le 23,30…

M- Appunto.

O- Come mai hai risposto subito al primo messaggio?

M- Forse mi sento in colpa per essere corso via stamattina.

O- Non ti sentire in colpa, devi studiare. Sarei io nel torto ad insistere nel distrarti.
    Però, Marco…
   Hai risposto al primo messaggio ma non al contenuto della domanda.


M- Si che mi capita. In realtà è più corretto dire che vivo sentendomi solo.

O- Lo immaginavo…

M- Come mai lo immaginavi?

O- Perché quando non ti senti solo hai paura e scappi via.

M- Hai la tendenza a saltare a conclusioni affrettate, per fortuna non studi psicologia.

O- Vuoi dire che sono nel torto?

M- No, ma è la fortuna del principiante.

O- Ahahahah
     Comunque, se ti senti solo puoi fare affidamento su di me.
     Okay?


O- Sei tornato a studiare?

O- Beh, passata la mezzanotte, finito il compleanno.
     Buonanotte.







_________________________________________________________________________________________________

Con questo mini capitolo concludo la faccenda del capitolo precedente. Come vedete, il tono introspettivo inizia a farsi più intenso. Come promesso le vicende dei due protagonisti procederanno più velocemente: scopriremo il passato di entrambi e li accompagneremo in un cambiamento che, spero, rappresenterà un'evoluzione del loro personaggio. Come primo, grande ostacolo, Marco dovrà superare la sua tendenza a isolarsi e diffidare da tutti, mentre Orlando dovrà fare attenzione a non ferirsi troppo nell'aiutarlo. Se siete arrivati fin qui seguendo la storia dall'inizio vi ringrazio infinitamente e spero di non deludervi! Grazie mille, e se c'è qualcosa per cui valga la pena essere colpiti dalla mia storia, che sia in positivo o in negativo, mi piacerebbe moltissimo ascoltarlo in una recensione! 

 

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Capitolo 13
*** Estate 2013 ***


Lilia giaceva sul mio letto, il volto premuto contro il cuscino. I lunghi capelli neri e lucidi formavano un ventaglio luminoso contro le lenzuola bianche. Io, seduto alla scrivania, la osservavo in silenzio. Era arrivata all’improvviso, come l’estate di quell’anno, e senza dire niente si era stesa in quel modo. Silenziosamente, senza interrompere il mio studio. Io però mi sarei distratto per ogni minima variazione dell’ambiente, soprattutto poiché ero costretto a studiare cose di cui non m’importava, così mi voltai verso di lei e rimasi a fissarla interrogativamente per un po’. Quando se ne accorse girò la testa verso di me.
“Che hai?”, le chiesi. “Non dovresti studiare anche tu?”
“Sai che non ne ho bisogno.”
“Ma tra due giorni c’è il tuo esame orale. Hai davvero già finito?”
“Non ho mai iniziato, se proprio vuoi saperlo.”
“Tu sei pazza.”
“Prenderò comunque un voto più alto del tuo.”
“Questo non lo metto in dubbio. Sei tu quella intelligente tra noi due.”
“Anche tu sei intelligente, ma hai meno memoria e sei pigro, e soprattutto non sei curioso. E ti distrai troppo facilmente, anche.”
“A proposito di distrazioni, perché ti sei stesa sul mio letto? Non vieni spesso in camera mia ormai.”
“Quando eravamo piccoli giocavamo sempre qui. Mi andava di tornarci.”
“C’è qualcosa che ti preoccupa? E’ per gli esami?”
“Ovviamente no, non è per gli esami.”
“E per cosa, allora?”
“Ho un ragazzo. Da due mesi, ma ho trovato solo ora il coraggio di dirtelo.”
“E perché ti preoccupa questa cosa? Mi ritengo fin troppo fortunato come fratello per il fatto che il tuo primo ragazzo l’abbia trovato a diciotto anni.”
“Sei geloso?”
“Un po’. Ma di te mi fido. Davvero ti preoccupa?”
“No, non è la tua gelosia a preoccuparmi.”
“E cosa, allora?”
“Beh, io mi sono sempre sentita inopportuna tra le persone. Non ho mai avuto una comitiva o delle amiche strette a cui confidarmi, né una cerchia di conoscenti da frequentare. Nella classe non ho stretto rapporti con nessuno. E’ la prima volta che riesco ad avvicinarmi ad una persona.”
“Ma è una cosa positiva, no?”
“In un certo senso lo è. Però non riesco a capacitarmi del fatto che sia reale. Lui si chiama Francesco. E’ arrivato all’improvviso, mi ha trattata come ho sempre desiderato che qualcuno, chiunque, anche solo in amicizia, mi trattasse. Come una persona normale. Io ho sempre avuto te, perciò non ho mai imparato come ci si comporta con gli altri. Non ne ho mai avuto bisogno perché non mi sono mai sentita sola. Tu gli amici ce li hai quindi non puoi capirmi, ma per me rimanere in un posto chiuso con tante persone intorno è una tortura. E’ una sensazione opprimente, sono inopportuna, sento che gli altri mi stanno giudicando. Ho paura di sbagliare anche con lui, che si accorgerà di come sono davvero. Ecco, è questo che mi preoccupa.”
“Io invece capisco esattamente qual è il tuo problema: tu sei troppo bella e intelligente. Così tanto da suscitare odio involontario nelle persone. Le intimorisci, pensano che tu viva su un altro pianeta rispetto a loro. In parte hanno ragione, tu sei troppo intelligente. Io lo so perché ti conosco dal primo battito del tuo cuore e so che la tua intelligenza non compromette in alcun modo il rapporto che si può avere con te, gli altri però non lo sanno e si convincono da soli che tu sia chiusa in te stessa, che ti voglia isolare. Così sono loro a isolarti per primi. Non lo fanno per cattiveria, è il loro subconscio che agisce così.”
“Mi sento sempre come se fossi immersa in una teca di vetro piena d’acqua. Tutti sono lì che mi osservano, parlano tra loro, poi proseguono. Non posso sentire ciò che dicono, il suono è ovattato, se provo a raggiungerli c’è il vetro che si interpone. So che si riferiscono a me, ma in qualche modo non sono partecipe del loro giudizio. E’ frustrante. Francesco è l’unico al mondo che non mi fa sentire in questo modo.”
“Deve essere un ragazzo speciale. Si è accorto della tua sensibilità. Voglio solo darti un consiglio: fa’ attenzione. Potrebbe essere che si sia avvicinato a te perché, notando la tua sensibilità, abbia deciso di proteggerti. Ma potrebbe essere anche che quella sensibilità voglia sfruttarla solo per ottenere la tua fiducia. Non essere ingenua, non fidarti mai troppo presto.”
“Io mi fido già di lui, perché mi ha salvata.”
“Da cosa ti ha salvata? Non sei mai stata in pericolo.”
“Invece si. Ci sono cose di cui non ti ho mai parlato. Cose che non potresti capire, perché tu non sei solo. Non ti rimprovero nulla, è giusto che un ragazzo si faccia degli amici prima o poi. Però, quando siamo cresciuti, mi hai lasciata lì in quella teca di vetro. Non è qualcosa di cui ti sto accusando, la colpa è della mia incapacità. Comunque, ci sono tantissime cose, anche le più semplici come passeggiare fino a tardi o guardare un tramonto al mare, che non avevo mai fatto. Sono tanti ricordi della giovinezza che mi ero persa, prima di incontrare Francesco. Lui mi ha tirata fuori da quella prigione e mi sta regalando una vita che vale la pena vivere.”
“Ti prego, non fidarti ciecamente di lui. Va bene amarlo, ma pensa prima a te stessa, sempre.”
Lilia si alzò dal letto, la sua espressione era indecifrabile. Sentivo che se avessimo incrociato gli sguardi mi sarei trasformato in una statua di ghiaccio. Si muoveva lentamente, come un gatto stanco che non ha alcuna fretta di fare ciò che sta facendo. Si avvicinò alla mia sedia, posò le labbra calde sulla mia fronte e poi, senza aggiungere nulla, uscì dalla stanza. Dopo qualche minuto sentii il rumore della porta di casa.
La dura verità era proprio quella: ero geloso. Mia sorella, la mia gemella, che fino ad allora era stata mia e solo mia, si era sempre affidata a me, solo a me, adesso aveva un nuovo punto di riferimento. Un ragazzo del quale non sapevo nulla se non il nome, Francesco, adesso era autorizzato a stringerla tra le sue braccia. Toccarle i capelli, sfiorarle il seno, baciare il suo lungo e sottile collo. Lilia era davvero troppo bella. Qualsiasi ragazzo si sarebbe innamorato di lei, ma nessuno si sarebbe mai sentito all’altezza di avvicinarla. Non solo era bella, il suo carattere introverso e la sua intelligenza brillante la rendevano una specie di divinità greca agli occhi di chiunque. Sembianze umane, ma nella loro forma migliore. Qualcosa che condivide con noi solo le fattezze e la lingua, ma vive sull’Olimpo. Irraggiungibile. Francesco però l’aveva raggiunta. Era forse anche lui bello e intelligente? Era alla sua altezza? Era davvero innamorato di lei o ambiva solo al suo corpo? Io, fino ad allora, non avevo mai pensato alle relazioni amorose. Ero immaturo pur avendo quasi 19 anni. Nessuna ragazza aveva mai suscitato il mio interesse tanto da spingermi a desiderarla. Mi struggevo per cercare di capire quelle meccaniche, per decifrare la situazione di mia sorella. Era un’equazione senza soluzioni. Per quanto ci provassi, non avevo dati a sufficienza per risolverla.
Ma non volli capacitarmene.
 
“Ti capita mai di sentirti solo?”
L’eco di quelle parole rimbomba nella mia mente così forte da svegliarmi. Ho dormito male, sommerso dai pensieri e dai ricordi. Sento come se la mia mente non avesse realmente riposato. Muovendo la mano a casaccio cerco il telefono, per controllare l’orario. Sono le sei e mezzo. Mi sono svegliato mezz’ora prima della sveglia. Un po’ è meglio, odio svegliarmi con quel rumore assordante. Mi alzo lentamente dal letto e decido di prepararmi una colazione abbondante in quella mezz’ora extra. Poi faccio una doccia bollente e mi vesto. Alle sette e quaranta esco di casa. Il freddo pungente mi fa rabbrividire leggermente. Nevica, fiocchi minuscoli, dalla vita breve. La prima lezione dell’anno sta per iniziare, ma mi sento già stanco.

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Capitolo 14
*** Regalo ***


“Tu sei proprio uno stronzo!”
Mentre faccio finta di dormire con la testa poggiata sulle braccia, sento la voce squillante di Irene.
“Cosa ho fatto per essere uno stronzo?”
“Sono tre anni che ti invito a feste e serate e tu hai sempre rifiutato. A stento accetti di bere un caffè insieme!”
“Aspetta, ti stai arrabbiando adesso per questo?”
“No! Guarda che ti ho trovato su Facebook, ho visto le foto di capodanno.” Ride. “Eri palesemente ubriaco, ma il punto è un altro! Perché sei uscito di casa per la prima volta senza di me?! Non è affatto giusto.”
“Non sapevo che ci tenessi a quest’esclusiva.”
“In ogni caso, sappi che adesso sei obbligato ad accettare almeno un mio invito.”
“Si, si, come no…”
“Comunque, dopo le lezioni fermati a pranzo con me. Devo chiederti delle cosette.”
“Come vuoi.”
“Tanto sai che ti seguirei anche se mi dicessi di no.”
Il professore entra nell’aula e mi risparmia la fatica di interrompere la conversazione. Lezione straziante, pausa per il caffè. Altra lezione, leggermente più interessante. Altra pausa. Poi lezione fino alle due. Sono al primo giorno dopo le vacanze ed ho già sprecato tutte le energie accumulate. Muoio di fame e l’idea di correre a casa, dove mi aspetta un ottimo avanzo della cena di ieri, mi alletta. Almeno finché non ricordo dover pranzare con Irene. Che rottura. A volte la sua compagnia non mi dispiace, ma oggi di sicuro insisterà nel farmi domande sulle mie vacanze, nel raccontarmi come ha trascorso le sue, interrogarmi sul perché sia andato alla festa e con chi. Insomma, un fastidio inutile ma inevitabile. Insieme decidiamo di pranzare in una catena di fast food poiché siamo troppo stanchi per cercare di meglio. Ci sediamo in un piccolo tavolino quadrato, l’uno di fronte all’altra. Io non inizierei il discorso neanche sotto tortura ed infatti è lei che parla per prima:
“Allora, chi è che è riuscito nell’impresa di trascinarti fuori casa?”
“Un mio amico. Anzi, è meglio definirlo un conoscente.”
“Ah, interagisci con altri umani oltre me? Questa si che è una sorpresa!”
“Diciamo che ho dovuto fare la sua conoscenza per un evento casuale.”
“Beh, racconta i dettagli!”
“Non è nulla di speciale. Avevo dimenticato dei soldi in un bar e lui me li ha riportati. Faceva freddissimo, così per ringraziarlo del gesto l’ho invitato a riscaldarsi un po’ in casa. Abbiamo chiacchierato e siamo diventati conoscenti. Lui è un tipo estroverso, ha fatto tutto da solo, un po’ come te. Io mi sono solo adeguato alle sue azioni.”
“Il solito antipatico. Finalmente hai trovato qualcun altro in grado di sopportarti!”
“Non è che siamo diventati migliori amici. Ho accettato il suo invito quella volta perché mi annoiavo, nulla di che. Poi ne ho anche rifiutati alcuni.”
“Io ti vedo più sereno del solito. Spero che tu riesca ad approfondire questa amicizia e magari, chissà, entrare a far parte di una cerchia di conoscenze, uscire un po’. Sta tutto nel trovare delle persone interessanti. Però non dimenticarti di me quando accadrà.” Sorride.
“Non ti illudere, non cambierò mai. Non posso tradire il mio migliore amico divano.”
“Il solito pigro… Comunque, sai che il tuo nuovo amico è proprio un figo? Come si chiama?”
“Si chiama Orlando.”
“Bene, inizia a dirgli che c’è una ragazza di nome Irene interessata a conoscerlo! Orlando, che nome da principe azzurro. Devi presentarmelo prima o poi.”
“Ma tu non sei già impegnata?”
“Beh, quelli sono futili dettagli.”
“Non cambi proprio mai, tu. Comunque io devo andare, ho dei servizi urgenti da sbrigare.”
“Anche io devo andare, l’esame è sempre più vicino, dovrei proprio decidermi ad aprire il libro.”
Usciamo dal locale e ci congediamo.
Devo assolutamente iniziare a studiare per l’esame di storia romana che devo sostenere tra venti giorni. Per farlo ho bisogno di comprare un libro e così decido di passare dalla libreria. E’ la mia solita libreria di fiducia, che non ha nulla di quelle catene enormi a più piani nelle quali non faccio altro che perdermi. Nella mia libreria mi basta entrare, chiedere al vecchio Greg il libro che mi serve, pagare, ed è fatta. Niente ricerche di ore e ore tra scaffali enormi, niente interazioni con commessi scorbutici e sempre di fretta, niente file kilometriche. Greg è un inglese di mezza età che ho conosciuto per caso. Ero arrivato in città da tre mesi e avevo l’urgente bisogno di procurarmi un libro, del quale avevo completamente dimenticato fino al giorno prima della lezione per cui serviva. Tutte le librerie maggiori erano chiuse (erano ormai le dieci di sera), ma con una ricerca su Google avevo scoperto l’esistenza di questo piccolo negozio chiamato Stories non lontano dal centro. Sarà stata fortuna, ma chissà perché mi capitò di passarci di fronte nonostante l’orario e scoprii che era ancora aperto. Trovai il libro di cui avevo bisogno e feci una piacevole conoscenza. Allora la mia depressione era ingestibile poiché era passato poco tempo da quell’evento che mi aveva distrutto. Scambiare qualche chiacchiera con quell’inglese mi fece sentire meno solo, per pochi minuti, finché rimasi avvolto nell’odore di carta e nella luce arancione e soffusa. Tornavo spesso a farvi visita ed è così che è diventata la mia libreria abituale.
Senza neanche rendermene conto sono già arrivato di fronte alla pesante porta di vetro. La spingo con la spalla ed entro, togliendomi il berretto.
“Ciao Marco!” L’uomo distoglie lo sguardo dai libri che sta sistemando, per salutarmi. I suoi occhi sembrano sempre assenti, anche se ti fissano direttamente.
Good evening Greg.”
“Cosa ti porta qui?”
“Devo sostenere un esame di storia romana e ho bisogno di questo libro.” Gli mostro un biglietto stropicciato che tenevo in tasca.
“Posso procurartelo per lunedì se vuoi, non è un libro molto comune.”
“Per lunedì andrà benissimo. Ah, c’è anche qualcos’altro che mi serve…”
Un’immagine improvvisa appare nella mia mente. E’ il volto di Orlando, quel sorriso che mi provoca dolore anche adesso. Mi sento davvero in colpa per aver rifiutato tutti i suoi inviti ed avergli parlato freddamente. Di solito è il mio comportamento standard, ma chissà perché nel suo caso mi fa sentire in colpa. Decido di fargli un regalo di compleanno, per farmi perdonare. Anche se so che non ce n’è bisogno.
“Mi serve un libro su Hokusai.”
“I libri di arte sono tutti sullo scaffale in fondo a destra.”
Ne scelgo uno che mi colpisce in particolare poiché pieno di illustrazioni. Quelle sulle pareti di casa di Orlando le avevo reputate molto belle, è un dettaglio rimasto impresso nella mia mente. Mi dirigo alla cassa.
“Potresti metterlo in un pacchetto regalo?”
“Subito. Hai deciso di viziarti meglio del solito?”
“Questa volta non è per me, è davvero un regalo…”
“Che sorpresa!” L’uomo sorride divertito. “Finalmente hai una girlfriend?”
“E’ solo per un mio conoscente. Nulla di speciale.”
“Ah, quindi hai trovato un amico. Bene, bene.”
“Cosa vuol dire quell’espressione divertita?! Comunque, ho detto conoscente.”
“Non è facile prendere in giro un vecchio. Sono 22 euro, prego.”
Senza aggiungere altro, rivolgendo solo uno sguardo di sfida all’uomo, consegno i soldi.
“Beh, mi raccomando, poi fammi sapere se gli piace.”
“Certo che no.” Saluto muovendo il braccio destro, senza voltarmi. Con il sinistro reggo il sacchetto di carta.
Ho comprato un regalo per Orlando. Ciò vuol dire che dovrò incontrarlo per consegnarglielo. Nella decisione comprare un regalo era implicita la conseguenza rivedere Orlando. Ma la mia mente non è brava a fare certe connessioni logiche. 

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Capitolo 15
*** Pioggia ***


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C’è qualcosa, nella pioggia, di rassicurante. Starsene davanti alla finestra a osservare la strada riempirsi di acqua, le luci dei lampioni riflettersi in una sorta di Notte stellata sull’asfalto bagnato, anche il rumore lontano delle auto che sfrecciano sulle pozzanghere, tutto ciò mi rilassa. Certo, la condizione necessaria è che io sia al chiuso, in un luogo caldo e asciutto. Un po’ come quelle scatolette di alimenti a lunga conservazione. Riesco anche a concentrarmi meglio, per qualche ragione. Bene, è la condizione ideale per restarsene chiusi in casa e studiare il più possibile per l’imminente esame. Preparo il caffè. Se c’è qualcosa di positivo nell’avere una casa piccola, è che l’odore del caffè si diffonde in ogni angolo e ci rimane per un po’. Anche questo è accomodante. Mi fa venir voglia di avvolgermi in una coperta e guardare un film. Magari uno di quei film francesi che durano tre ore, film senza fretta. Ma perché vi sto parlando di questo quadretto di relax, vi starete chiedendo? Beh, ovviamente perché sto facendo di tutto per evitare il mio dovere: uscire e andare da Orlando, per consegnargli il suo regalo (e con esso le scuse per essermi comportato male). Infrangere questo idillio domestico per affrontare la pioggia ed il freddo sembra quasi un peccato. Questo è ciò che continuo a ripetermi per rimandare il momento, ma ormai sono passati tre giorni. Dovrò inventare la scusa di essere stato molto occupato. In uno slancio di determinazione che colgo al volo esco di casa. La temperatura, se pure ghiacciata, si è alzata di qualche grado rispetto alle settimane scorse. Apro l’ombrello e mi incammino verso la fermata dell’autobus. Sono le sei del pomeriggio perciò andrò a trovare Orlando a lavoro. Dalla sera del suo compleanno non ci siamo più sentiti. Io non sono una persona che ha l’abitudine di contattare la gente se non ha qualcosa di necessario da comunicare, mentre lui sarà stato molto impegnato, penso. Sicuramente non ha avuto il tempo di pensare a me. Ma in fondo che motivo avrebbe avuto di farlo? Anzi, il contrario sarebbe strano. Arrivo al bar in meno di dieci minuti, ma con mia grande sorpresa non trovo Orlando nel suo grembiule da barista: c’è una ragazza al suo posto. E’ il karma? E’ un segno del destino? Mi avvicino alla giovane per chiederle spiegazioni. Con un sorriso gentilissimo, uno di quei sorrisi meccanici che compaiono sui volti dei camerieri automaticamente, mi risponde:
“Ah, Orlando? Per qualche giorno lo sostituisco io. Sei un suo amico, o sei il suo ragazzo?”
Il suo ragazzo?
Sorrido nervosamente. Non ho nulla di quella cortesia automatica.
“No, sono solo un suo conoscente. Dovrei restituirgli delle cose, perciò sono venuto a cercarlo qui.”
“Capisco. Tutto ciò che so è che deve assentarsi dal lavoro fino a giovedì. Posso darti il suo numero, se vuoi.”
“Ti ringrazio molto per la cortesia, ma non ce n’è bisogno.”
“Allora buona serata!” Un altro sorriso da copertina di catalogo.
Cosa intendeva con il suo ragazzo? Stava parlando di amici e poi ha specificato: ragazzo. Non aveva l’aria di star scherzando, né di provocare. Era sinceramente curiosa di sapere se fossi il suo ragazzo. Forse avrà insinuato che Orlando possa essere omosessuale. E se invece lo fosse davvero? Se non me ne fossi mai accorto, ma fosse apertamente gay? In fondo non ha mai provato a nasconderlo né abbiamo mai avuto occasione di parlarne. Questo non cambierebbe nulla nella nostra amicizia, ovviamente. E’ solo curioso che non me ne sia mai accorto e che non me ne abbia parlato. In ogni caso, decido di chiamarlo per capire se mi sarà possibile incontrarlo. Dopo qualche squillo, risponde:
“Pronto?”
“Ehi, ciao. Sono Marco.”
“Ciao, Marco, che sorpresa! E chi se l’aspettava una tua chiamata.”
“In realtà ero partito con l’intento di una visita. Sono al bar, ma tu non ci sei.”
“Wow, deve essere un giorno speciale. Sono a casa adesso, se ti va passa di qui.”
“Va bene, allora a tra poco.”
“Ti aspetto.”
E’ il solito Orlando. La sua voce è sempre la stessa, vivida e rassicurante. Torno alla fermata e prendo la linea 7 che mi porta a casa sua. Dopo dieci minuti arrivo al campanello. Esito un attimo, poi suono.
Il biondo, in vestaglia e pantofole, sembra avere un colorito pallido. Inizio a capire perché non fosse a lavoro.
“Hai qualcosa di contagioso?”
“Nulla di contagioso, entra pure.”
“Ben ritrovato, comunque.”
“Da quanto tempo! Scusa se ti accolgo così, ma come immagini non aspettavo visite.”
“Ti disturbo? Hai la febbre?”
“Solo i decimi adesso, sto decisamente meglio. Figurati, non disturbi affatto. Anzi, una visita mi fa più che bene. E’ da domenica che non esco di casa, vedere qualche umano mi riaccende il cervello.” Sorride.
“Anche un tipo energico come te si prende l’influenza, quindi.”
“Purtroppo, sono intrappolato in questa gabbia corporea come tutti gli altri umani.”
“Dai, ha i suoi lati positivi. Almeno il corpo è bello. Il pensiero, l’anima, mica puoi vederlo o toccarlo.”
“Però puoi capire se è bello o meno lo stesso.”
“Comunque, ti ho riportato i pantaloni che mi prestasti a capodanno.”
Gli porgo un sacchetto di plastica in cui avevo riposto i pantaloni, dopo averli lavati.
“Ah, grazie mille. Sul tavolo ci sono i tuoi.”
“In realtà, anche questo è per te.”
Esito un po’, ma alla fine gli porgo il sacchetto di carta della libreria.
“Mmh, non ricordo di averti prestato altro…”
“Tu aprilo e guarda.”
Quando si accorge che si tratta di un pacchetto, il suo volto s’illumina di una sorpresa meravigliosa. Di tutti gli atteggiamenti infantili tipici dei suoi modi di fare, come i sorrisi sinceri ed i movimenti impacciati, questo sguardo incredulo è il migliore. A volte mi chiedo che tipo di reputazione la gente abbia di me, se basta così poco per meravigliarla positivamente.
“Alla fine mi hai fatto un regalo di compleanno?” Non distoglie lo sguardo dal pacchetto ancora integro, ma dal suo volto trasuda impazienza. Nella sua testa avrà già strappato la carta mille volte.
“Beh, aprilo. E’ per farmi perdonare di non essere venuto quella sera.”
“Ma io non sono mai stato arrabbiato con te!”
“Io però ero arrabbiato con me. Avanti, cosa aspetti ad aprirlo?”
Senza farselo ripetere toglie la carta del pacchetto, lentamente, come se non avesse fretta di scoprirne il contenuto. Quando finalmente vede il libro un sorriso spontaneo si aggiunge alla lista dei suoi sorrisi.
“Che tipo di indagine hai svolto per capire il libro che desideravo da mesi?”
“Immagino si tratti di fortuna, ma sono felice che ti piaccia.”
“Grazie davvero, non ho altre parole da dirti. Nessuno dei miei amici ha potuto passare la sera con me per il mio compleanno, così non ho fatto più nulla. Però nessuno di loro si è sentito così in colpa da farmi addirittura un regalo. Tu sei strano, strano positivamente.”
“Esageri sempre con i complimenti, sei troppo generoso.”
Prima che possa rispondere, una forte tosse interrompe le parole che stanno per essere pronunciate. Avevo dimenticato che Orlando avesse la febbre, è più energico di me anche in questo caso, perciò è difficile ricordarsene. Penso che dovrei togliere il disturbo e lasciarlo riposare. Magari gli scriverò.
Ma prima, mi torna in mente che c’è una domanda da fare.
“Senti, Orlando, a te piacciono gli uomini?”
Il ragazzo esita per un po’. La sua espressione cambia: è nuova, non avevo mai visto questa configurazione del suo volto. Le ciglia sono leggermente corrugate, come a indicare uno stato di confusione. Le labbra appena schiuse sembrano celare una risposta che c’è, ma fa fatica a venir fuori. Dopo qualche secondo torna ad adottare un’espressione solita e rilassata.
“No, perché me lo chiedi?”
“Così, per curiosità. A me non cambierebbe nulla, è solo che non ne abbiamo mai parlato.”
“Capisco. Sei strano, davvero.”

 

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Capitolo 16
*** Tempesta ***


“Strano? Io? Sono una persona più noiosa di quanto credi.”

Orlando mi guarda. Mi fissa, per essere più precisi. Sembra voler indagare a fondo il mio sguardo per interpretarne ogni singolo dettaglio e decifrare le mie intenzioni. Ovviamente non ci riesce, perché da interpretare o decifrare non c’è nulla. La mia è una pura e semplice domanda, la sua una chiara e netta risposta. Una bugia, probabilmente. Anzi, sono sicuro che stia mentendo. Questo ragazzo di fronte a me sta cercando di nascondermi la sua sessualità. Perché proprio a me? Lo sapeva addirittura la sua collega. La sua negligenza mi ferisce leggermente, come un rasoio che taglia la pelle mentre ci si rade la barba. Una di quelle ferite leggere, ma che continuano a far sentire la loro presenza per molto tempo, senza fare realmente male, ma suscitando un leggero fastidio. Un fastidio a cui vorrei non pensare ma che continua ad essere lì, proprio sulla mia pelle.
“Non guardarmi così. Non so cosa ti abbia dato quest’idea di me o chi te l’abbia detto, ma non è così. Molti pensano che mi piacciono gli uomini, ma non è vero.”
“Senti, Orlando, io non voglio sapere la verità. La mia era una domanda di semplice curiosità, ma ti assicuro che la risposta mi è del tutto indifferente. Se ti ha creato disagio ti chiedo sc-“
“No, perché dovrebbe crearmi disagio?”
“Non so, hai fatto un’espressione strana…come se non ti andasse di rispondere.”
“E’ stata solo una domanda improvvisa, tutto qui.” Sorride, con quel suo modo tipico di inclinare la testa.
“In ogni caso, ti assicuro che non mi darebbe alcun fastidio.”
“Marco…” sul suo volto continua ad esserci un sorriso accennato. “Sei dolce, quando ti preoccupi per me.”
Cosa sta succedendo? C’è qualcosa di strano di fronte a me, intorno a noi. Quiete che precede la tempesta? Potrei definire solo così questa sensazione. L’aria si è fatta più pesante all’improvviso, come se qualche mano invisibile avesse levato le molecole di ossigeno e le avesse sostituite con qualcosa di sbagliato, che non dovrebbe essere lì. Orlando non è il solito Orlando. O forse mi sto sbagliando? In fondo io non so niente di questo ragazzo. Lui ha avuto modo di conoscermi e comprendermi meglio di quanto io abbia potuto nei suoi confronti. Cosa si cela dietro quel sorriso perenne, che riesce a farmi male? Qualcosa di oscuro, ed in questo esatto momento ho potuto percepirlo, senza riuscire tuttavia a coglierne la vera essenza. C’è qualcosa ed io ne sono spaventato. Se entrassi nel tunnel segreto della sua interiorità, riuscirei mai a tornare indietro?

“Ti ho mentito.”

Guardando in basso, Orlando pronuncia queste parole, interrompendo il flusso di pensieri che mi tiene in silenzio.
“A-ah, ecco, quindi a-”
“Sono gay, mi hai scoperto.” Ride leggermente, sollevando la testa. Il suo volto ha assunto una colorazione intensa che si avvicina al porpora.
“Capisco.”
“­Pensavo di riuscire a tenertelo nascosto ancora per un po’, per non complicare le cose. Ti chiedo scusa.”
“Scusa? No, non scusarti! Non c’è niente di complicato. Ti ho detto ch-”
All’improvviso sento un abbraccio stringermi intorno, strettissimo. In quella forza sembra risiedere tutta la comunicazione che non c’è stata verbalmente. La paura, la frustrazione, l’imbarazzo, tutto mi sembra così chiaro adesso, con questo semplice abbraccio. Non c’è più bisogno delle parole. Qualcosa di freddo scorre copiosamente lungo la mia schiena, sono lacrime. Cadono sulla concavità del collo e scivolano nella maglietta attraversando le spalle, poi continuano a scendere. Sono così tante. Sento che ormai la mia spalla destra è completamente bagnata, ma non c’è nulla che riesca a dire per fermare i singhiozzi del biondo che mi tiene stretto. Tutto ciò che posso fare è sollevare le braccia e, ancora esitanti, poggiarle sulla sua schiena.
“Ho paura. Ho sempre paura.” La voce tremante è soffocata dal pianto.
“Va tutto bene. Quando ci sono io non avere paura.”
Sento che ormai non potrò tornare indietro. Forse perché mi sono perso, o forse perché non posso fare a meno di proseguire in avanti.
“Orlando, tu sei bollente. Potresti misurarti la febbre?”
“Va bene.”
Tutto sembra essere più naturale adesso. La fitta nebbia intorno a noi si è diradata ed ora torno a guardare quel biondo impacciato in vestaglia come se nulla fosse. Anzi, lo sento più vicino di prima.
Si siede sul divano con un termometro sotto il braccio e si avvolge in una coperta di pile blu. Il suo volto continua ad essere rosso, segno che la temperatura è sicuramente alta.
“In effetti avevi ragione, la febbre è salita a 39.”
“Così alta?! Mettiti subito nel letto, stai tremando.”
“Lo farò dopo aver mangiato qualcosa, altrimenti non posso prendere farmaci”.
“Vai nel letto, ci penso io a portarti da mangiare.”
“Tranquillo, sto bene, sono giorni che bado a me stesso, sai?”
“Ti ho detto di andare nel letto. Non ti lascio riposare, altrimenti. Resto qui e ti parlo di storia romana, poi ti interrogo anche.”
“Sei una specie di demone quando ti ci metti.” Sorride, poi obbedisce.
Preparo un brodo di verdure con ciò che trovo nel frigo. Non sono esperto di cucina ma dovrebbe andare bene. E’ una pietanza che la mamma preparava sempre quando ero malato ed il solo odore mi faceva stare meglio. Un ricordo doloroso, come tanti. Metto il piatto su un vassoio insieme ad un bicchiere d’acqua ed una pillola di antibiotico che si trovava sul davanzale, poi porto tutto a Orlando, camminando come una specie di equilibrista per non far cadere nulla. Lui, guardandomi, ride appena.
“Non giudicare male le mie scarse doti di cameriere.”
“Tranquillo, con qualche accorgimento potresti diventare bravo.”
“Non ti aspettare che ci metta dell’impegno la prossima volta.”
“Marco, grazie. E’ bello che qualcuno si prenda cura di me. Non accadeva da tanto tempo.”
“Non parliamone adesso. Ora mangia e poi riposati, altrimenti la febbre non si abbassa. Io devo andare, tra poco la linea degli autobus chiude. Se dovessi avere bisogno di qualcosa, non esitare a chiamarmi.”
“Va bene.”
Sorride, questa volta senza nascondere verità più profonde.

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Capitolo 17
*** Nuvole ***


“Quando l’orizzonte  scomparirà  sotto le nuvole, quando non sarà né giorno né notte, ed il sole e le stelle rimarranno sospesi di fronte, quando l’azzurro sarà sotto di noi e l’oro coprirà le nostre teste, allora ci incontreremo.”
 
E’ sbagliato desiderare che il nostro passato cambi? Se ci fosse un particolare evento nella nostra linea temporale che turbasse tutti gli eventi successivi, sarebbe lecito desiderare che quell’evento non fosse mai avvenuto? Saremmo davvero noi stessi, ciò che siamo diventati, se il corso del nostro passato fosse diverso? Esiste il destino? Oppure è tutto una mera casualità? Una casualità fatale? Un mare di pensieri mi turba. Probabilmente, la mia risposta a tutte queste domande è che se si potesse cambiare un evento del passato, lo farei molto volentieri. Certo, non sarei ciò che sono diventato, ma ciò che sono diventato è ciò che mi fa desiderare di poter tornare indietro. Mi trovo davanti al monitor del mio pc, con le dita congelate: all’improvviso, dopo aver scritto due righe, si sono fermate. Come un film proiettato improvvisamente, diapositive di ricordi si susseguono nella mia mente.
 
Passeggiavo da solo in un vialetto alberato, la luna era altissima e splendente e faceva vibrare di bianco le gocce di umidità notturna. La sua luce risultava fastidiosa. Era il buio ciò che avevo dentro, un buio pesto, ed uscire nella notte doveva aiutarmi a sentirmi a mio agio con quella condizione. Ma la luna rendeva tutto luminoso. Neanche fuori c’era posto per me. Mi fermai su una panchina di legno e iniziai a osservare attentamente quella sfera tonda e argentea; poi provai a stringerla nella mano. Troppo lontana per essere spenta. Le lacrime iniziarono a scorrere abbondanti lungo il viso a destra e a sinistra finendo poi per conciliarsi sotto il mento. Chiusi gli occhi, con la testa rivolta ancora verso l’alto. Qualcosa se n’era andato per sempre, irrimediabilmente, qualcosa di insostituibile e necessario. Qualcosa che avevo sempre dato per scontato. La notte era bellissima, il fresco sulla pelle era piacevole. Il profumo degli alberi non era mai stato così dolce. “Perché proprio adesso?”, pensai.
 
Torno al presente, come svegliato da un sogno. Anzi, un incubo. Non so esattamente perché ma oggi è un giorno triste. Fuori piove. Stamattina ho dato un brillante esame di storia romana. Poi ho preso un caffè con Irene. Tornato a casa ho dormito per tre ore, poi ho provato a scrivere. Adesso, contemplo lo schermo senza produrre. Lancio sguardi che si perdono a metà strada. Sembra quasi che la mia mente cerchi di censurare i pochi successi che ottengo riportando a galla ogni ricordo più doloroso proprio nei momenti più felici del presente. Penso a Orlando. Piangendo di fronte a me, aprendo il suo cuore, mi ha trasmesso una vicinanza che non avevo mai provato. Pericolo di rapporti umani. E’ così che automaticamente il mio cervello interpreta questo stimolo, e così decide di ricordarmi come è andata a finire l’ultima volta. Tutto ciò a cui tengo si spezza, sparisce o decide di abbandonarmi. Come devo comportarmi adesso? Correre il rischio, dopo così tanto tempo, oppure impormi di tornare indietro? Non voglio. Ora che ho intravisto la possibilità di essere felice, non voglio tornare a vivere da solo. Eppure la solitudine è una condizione di sicurezza. Torno a dormire. Non è una necessità fisica, ma mentale. Se continuassi a pensare finirei in un vortice di tristezza senza ritorno. Probabilmente sognerò.
 
Un orizzonte lontano. Qualcosa di azzurro è sotto di me, ma quando provo ad abbassare lo sguardo la mia testa sembra non rispondere al comando. Non posso neanche camminare. Sono immobile e galleggio tra le nuvole, mi sento leggero. Le nuvole, invece, sembrano pesanti. Probabilmente sotto di esse c’è un temporale. Un’aura dorata arriva dall’alto, invece. Probabilmente è la luce del sole, ma non riesco a identificarne la natura. E’ giorno? E’ il tramonto? O forse, dove mi trovo io non ha senso parlare di giorno e notte. Sto osservando il sole da un punto di vista diverso da quello della Terra. Dove mi trovo?Vorrei indagare ma mi è negato qualsiasi movimento. Successivamente, mi accorgo di un nuovo dettaglio: c’è un punto lontano che si muove, avvicinandosi e facendosi sempre più grande. Sembra una persona. Chi sei? Vorrei parlare, ma anche la parola mi è negata. Cerco di osservare meglio. E’ Lilia? Due luci azzurre brillano nell’aura dorata. Sono i suoi occhi. Come dimenticarli? In fondo continuano a tormentarmi ogni giorno quando mi guardo allo specchio. Un battito di palpebre. Un solo battito di palpebre e la figura ignota mi è di fronte. Lilia?
“Tu non sei Lilia”

“Tu non sei Lilia.” Come potresti esserlo? Lilia è morta.
Mi sveglio sussurrando quelle parole, come se uscissi da un’apnea profonda, lunga tutta la notte. Tuttavia, non riesco a ricordare affatto cosa stessi sognando. Sono le undici e mezzo di un'anonima mattina di sabato e l’assenza della cena di ieri inizia a farsi sentire. Ho bisogno di mangiare, ma nessuna voglia di muovere un muscolo. Controllo velocemente il telefono. Ci sono tre chiamate perse, ma non controllo il mittente.
Torno ad affondare la faccia nel cuscino. Solo un altro po’, mi dico.


 

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Capitolo 18
*** Fiducia ***


O: Marco, tu sei matto. Sono giorni che non rispondi alle chiamate, pensavo mi evitassi per qualche motivo. Invece no, vengo a cercarti in università e scopro che non ti presenti a lezione da una settimana. Hai dato l’esame? Stai mangiando come si deve? Sono sicuro che non ti fai una doccia da giorni. Ti prego, rispondi, sono preoccupato per te. Fammi almeno sapere che sei vivo.

M: Sei una ragazzina iperprotettiva rompi cazzo.

O: Okay, sei vivo e non sei cambiato di una virgola. Tutto a posto? Come mai non esci di casa?

M: Non mi va.

O: Hai l’obbligo di frequenza ed è il tuo ultimo semestre. Sei matto, avevo ragione. Oppure un motivo c’è?

M: Il motivo per cui non mi va è che fa freddo e non riesco a separarmi dal piumone.
      Comunque smettila di comportarti da stalker.

O: Stalker? Pensavo fossi morto! Ma sentilo, stalker. Ti faccio vedere io cosa vuol dire. Tra 10 minuti sono da te.

M: Non ti apro.

O: In questi dieci minuti fatti una doccia, per favore.


Lancio il telefono lontano da me, dall’altro lato del divano. Chi ti ha dato il permesso di cercarmi? Cosa ti fa pensare che mi vada bene questa premura inutile? Non ne ho bisogno. Non voglio averne bisogno. Dopo dieci minuti esatti il campanello suona. Sono le dieci di sera. Non apro finché non sono sfinito dal rumore assordante ripetuto all’infinito, con un’insistenza che mi manda in bestia.
“Cosa sei venuto a fare?”
“Smettila. Non comportarti da lunatico, non credo che tu lo sia davvero.”
“Non mi conosci abbastanza per deciderlo. Come sempre, salti a conclusioni affrettate.”
Il biondo oltrepassa il varco della porta ignorando completamente la mia presenza di fronte, che nella mia mente avrebbe funto da barriera. Si siede sul divano con le braccia conserte, poi sospira.
“Marco, tu devi raccontarmi di te.”
“Non voglio. Non meriti di essere trascinato così in basso.”
“Io mi sento vulnerabile. Tu possiedi una parte fondamentale di me, mentre io di te non ho nulla.”
“Io so semplicemente qualcosa di te che tutti sanno. E tutti lo sapevano prima di me, tranne me. Non azzardare pretese assurde.”
“Non sono pretese. Non voglio obbligarti, vorrei che lo facessi volentieri.”
“Addirittura, ti aspetti che io mi metta a raccontare volentieri cose che vorrei dimenticare?”
“Non è così, perdonami, non vorrei sembrare egoista…” il suo sguardo si fa cupo. “La verità è che la reticenza tra noi è un enorme limite. Sento che potremmo essere amici, più che amici, se solo tutto ciò che c’è in sospeso svanisse. Se solo tutte le cose non dette, venissero dette.”
“Più che amici? Quindi è questo che volevi sin dall’inizio? Mi spiace deluderti, ma non sono come te.”
“Sta’ zitto, basta. Sai benissimo che non intendevo quello.” Un velo di fastidio corruga il volto di Orlando. Improvvisamente, mi afferra dalle braccia e mi mette a sedere accanto a lui, sul divano. Inevitabilmente sorpreso, e a dire il vero leggermente spaventato, non posso che tacere e fissarlo interrogativamente. “Adesso ascoltami e basta, e fai molta attenzione. Inizierò io.”
“Non devi, non è necess-”
“Ascoltami e basta.” Continua a bloccarmi le braccia, lo sguardo tagliente fisso nei miei occhi. “La vedi questa cicatrice che ho sul sopracciglio? Pochi centimetri più sotto e avrei perso l’occhio sinistro. Indovina chi è stato? Mio padre. Il mio primo ragazzo scappò da me, perché mio padre è questo tipo di uomo. Temeva di riceverle al posto mio, se avesse continuato a frequentarmi. Aveva solo sedici anni, io ne avevo diciotto. Ero innamorato, piansi tutte le mie lacrime, ma poi mi rassegnai alla situazione. La mia famiglia è così. Mio padre non mi accetterà mai e se mi facessi vedere a casa probabilmente riceverei lo stesso trattamento di un tempo; mia madre non osa ribellarsi alla volontà di suo marito, e piange inutilmente desiderando un figlio normale, un figlio amabile, un figlio non deludente. Avrei dovuto studiare giurisprudenza ed ereditare lo studio legale di mio padre. Invece sono scappato di casa appena finito il liceo e con una borsa di studio sono riuscito a mantenermi studiando arte. Devo lavorare come un pazzo per vivere decentemente. E’ orribile, è frustrante, ma solo così posso sentirmi libero. Adesso guarda quella cicatrice e non perderla mai di vista. Ti ho regalato la parte peggiore di me, ti ho regalato il mio passato, ricordatelo. Questa è tutta la fiducia che ho in te. Adesso sono degno di riceverne un minimo in cambio?!”
Le lacrime mi scorrono inarrestabili lungo il volto. Perché sto piangendo? Ho percepito tutta la rabbia di Orlando con questo racconto. Tutta la sofferenza a cui è andato incontro, senza motivo. Improvvisamente, per una decisione del destino, o forse per un caso. So esattamente cosa è quel sentimento, lo riconosco, mi appartiene. Orlando è uguale a me.
“Perdonami. Sono stato stupido, non merito la tua fiducia.”
Accorgendosi delle mie lacrime, lascia la presa e si getta in un abbraccio quasi soffocante.
“C’è stato qualcosa di familiare in te dal primo momento in cui ti ho visto. La tua sofferenza l’ho sentita sulla pelle, l’ho vista con i miei occhi. Noi siamo uguali. Tu hai sofferto quanto me, o forse più di me. Tu hai paura, ti chiudi in te stesso, non vuoi uscire dal tuo mondo di solitudine per tutelare te stesso, ma soprattutto gli altri.”
“Non posso uscirne fuori. Ogni volta che ci provo, torno al punto di partenza.”
“Perché non me ne parli? Raccontami. Proprio come io ho raccontato a te.”
“Non ce la faccio. Perdonami, davvero.”
Vorrei raccontare tutta la verità a Orlando. Vorrei potergli dire che dal primo momento in cui ho visto lo sguardo nei suoi occhi ho percepito quel qualcosa di familiare. Vorrei confessargli che se ho accettato la sua amicizia è perché sapevo che ci fosse qualcosa in comune tra noi. Una sofferenza ingiusta. Un sentimento che accomuna inevitabilmente. Vorrei giurargli che mi fido di lui, che mi fido ciecamente. Vorrei promettergli che non tradirò mai la fiducia che lui ha riposto in me.
Tutto ciò che pronuncio, invece, è silenzio.
Il suo volto cerca di nascondere delusione. Non nasconderla, sarei deluso anch’io al posto tuo. Io continuo a piangere, senza riuscire a fermarmi.
“Non piangere, io aspetterò.” Sorride dolcemente. “So che non sei pronto, ma ho intenzione di proteggerti fin quando non ce la farai. Mi basta sapere che non mi odi.”
“Non ti odio.”
“Perfetto, allora il mio lavoro è finito qui.”
“Orlando…puoi rimanere, se vuoi.”
“No, ho bisogno di fare una passeggiata.”
“Prima o poi sarai tu a odiare me.”
“Chi lo sa? Credo di non aver mai odiato nessuno nella mia vita.”
“Odiare un altro vuol dire odiare te stesso per primo. Ma come puoi essere odiato, tu?”
“Cerca di andare a lezione. Buonanotte.”
“Ci andrò. Buonanotte, e buona passeggiata.”

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Capitolo 19
*** Books ***


Cammino senza meta, fumando la terza sigaretta del giorno. Senso di colpa. Senso di colpa è tutto ciò che provo, qualsiasi cosa io faccia: sento di essere felice? Arrivano i sensi di colpa. Mi tengo alla larga da Orlando? Lo stesso. Non ho scampo da questo labirinto. Ho deciso che avrei raccontato a Orlando del mio passato, ma è trascorsa una settimana e non ho ancora trovato il coraggio di farlo. Il tutto si potrebbe riassumere in una breve, stupida frase, ma quando sono sul punto di pronunciarla, mi si blocca nella gola, come se una mano la trattenesse dall’interno dello stomaco. Non è una novità il mio essere codardo. Ho paura di questa amicizia che sta nascendo. Ho paura perché tutte le persone a cui abbia mai voluto bene sono morte, mi hanno abbandonato o sono state abbandonate da me, perché era diventato troppo doloroso continuare ad amarle. Senza che me ne sia accorto sono finito di fronte a Stories. Mi torna in mente che ho un libro da comprare, e che posso approfittarne per fare due chiacchiere con Greg. E’ un bravo consigliere. Queste porte di vetro sembrano sempre più pesanti, eppure sono le stesse da anni e anni. Rispecchiano alla perfezione il loro padrone. L’ambiente è immerso nelle note morbide di Coltrane, nessun cliente oltre me. L’ideale per una chiacchierata.
 “Greg, cosa ti ha spinto a venire a vivere in Italia?”
“Solo gli italiani odiano l’Italia.” Dice, con il suo tipico tono distaccato ed il lieve accento straniero.
“Non ti ho mai chiesto da quanto vivi qui.”
“Ci sono venuto a 18 anni per la prima volta, per gli studi classici. Vivevo a Firenze allora. Poi, finiti gli studi, me ne sono tornato in Inghilterra e lì mi trovai la ragazza. Insieme decidemmo di venire a vivere qui, avevamo 30 anni.”
“E poi, lei? Che fine ha fatto?”
“Andata, tre mesi prima del matrimonio. Ora è sposata ma con un medico, a Londra.”
“La senti ancora?”
“No, abbiamo perso i contatti da troppi anni ormai. Contarli mi farebbe rabbrividire.”
“E ti manca, ogni tanto?”
“No, lei mai. Se c’è qualcosa che mi manca è la presenza di una donna nella mia vita.”
“Non stai meglio, da solo? E’ così che vivo io. Ed anche senza volerlo, faccio di tutto per rimanerci.”
“Ho pensato per così tanto tempo che rimanere da solo fosse la scelta migliore, ma ti assicuro, mi sbagliavo. E’ bello avere la libertà di poter fare ciò che si vuole, di non dover badare a nessuna aspettativa o non poter ricevere delusioni. Ci si sente liberi per i primi anni, quando sei forte e giovane, perché girando e rigirando tra amicizie e relazioni non ci si sente mai soli. Ma a cinquant’anni ti ritiri a casa e non c’è nessuno ad aspettarti, nessuna donna pronta ad accoglierti, nessun amico con una bottiglia o un sigaro, perché ormai sono tutti sposati. Tutti tranne te, ed è allora che ti accorgi di quanto sei solo.” Mentre parla, un sorriso malinconico è fisso sul suo viso. Gli occhi stanchi, come sempre, rimangono distaccati, come se stessero osservando una versione dei libri che regge che appartiene ad un mondo parallelo e che non ci è dato cogliere. Senza muoverli da quella assenza, si gira e inizia a sistemare i libri. Poi aggiunge:
“You’re still on time to save yourself. Don’t let him go.”
Rimuginando ancora sulle parole precedenti, mi lascio sfuggire di ascoltare l’ultima frase, cogliendo solo dall’eco che arriva al mio cervello che si tratta di una frase in inglese. Lascio perdere.
“Greg.” Sospiro. “Se tu avessi perso qualsiasi tipo di fiducia nella vita, se tu avessi toccato un fondo dal quale pensi di non avere scampo … e poi all’improvviso incontrassi una persona capace di darti speranza, di mostrarti una piccola e distante luce nell’oscurità che ti circonda … seguiresti quella luce? Riusciresti ad avere fiducia in quella luce traballante e incerta? Saresti in grado di contare nuovamente su una persona, nonostante tutte le volte che la vita ti ha deluso?”
“Seguire quella luce vuol dire avere un motivo per vivere, una speranza. E’ sempre meglio che rimanere fermi nell’oscurità e rischiare di rimanerci per sempre.”
“Ma se quella luce dovesse spegnersi come tutte le altre l’oscurità che ne conseguirebbe sarebbe più nera di prima. Saresti disposto a correre questo rischio?”
“Te lo assicuro, il buio peggiore è quello di chi non ha neanche provato ad illuminarlo.”
“E allora perché io non ci riesco? Perché anche se finalmente ho trovato una persona in grado di restituirmi la speranza, sento la necessità di rimanervi lontano? Ho paura. E’ una paura subdola, che ha messo le radici nel mio subconscio. Ne sono consapevole, i suoi frutti fanno in modo che le mie azioni feriscano chi prova a salvarmi, mi preserva nella mia solitudine perché sono troppo egoista per rischiare di essere ferito in prima persona. Ma cosa posso farci? Non riesco a cambiare. Mi odio più di prima.”
“Se il tuo unico confidente è un vecchio come me, lascia che la sua esperienza ti guarisca da questa condizione. Guardami: faccio più paura io di qualsiasi rischio che tu possa correre. Quel ragazzo potrebbe essere la tua salvezza e tu, rimasto ancorato in un passato che ormai è polvere, te ne tieni alla larga, ferendolo. Punti a vivere da solo per preservarti da ulteriori delusioni, ma è questa l’oscurità più nera che tu possa toccare. E’ di questo che devi avere paura, degli effetti collaterali. Non è il trauma di aver perso qualcuno che ti farà soffrire per sempre, soffrirai per sempre se non farai nulla per essere più felice. Come me.”
Silenzio. Silenzio è tutto ciò che la mia mente riesce a formulare come risposta. Sento solo che i miei occhi iniziano a bruciare. Lacrime di consapevolezza. Dopo parecchi e interminabili secondi è Greg a riprendere la conversazione:
“Gli è piaciuto il regalo?”
“Si.”
“Per quello lì sono 12 euro.” Indica il libro che ho tra le mani.
Lo poggio sul banco insieme alla somma. Poi, senza dire niente, esco dalla libreria. 

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Capitolo 20
*** Silenzio ***


La vita è strana. E’ impossibile capirla, ed è inutile anche solo provarci. Un attimo è lì, l’attimo dopo sparisce nel nulla. E’ l’unico nostro avere effettivo, ma può esserci tolto da un momento all’altro. Se per caso in questo momento dovessi scendere dal marciapiede, i taxi che sfrecciano ad alta velocità sulla carreggiata mi metterebbero sotto, ed io smetterei di vivere. E’ così delicata, da quel momento di tre anni fa non ho mai smesso di pensarci: mia sorella è morta. Era a casa un’ora prima, litigavamo, un’ora dopo non era più viva. Avere un gemello è difficile. In qualche modo la vita mia e di Lilia è sempre stata percepita da tutti come una sola, ed è per questo che siamo cresciuti con l’impressione di essere l’uno la metà dell’altra. Ma crescendo le cose cambiano. La propria vita è sempre più ingombrante, non ne basta più metà. Si diventa sempre più egoisti, e così si finisce per prendere strade diverse. In quel momento di transizione, proprio in quel momento così difficile, Lilia è morta, lasciandomi da solo con la mia vita, che ormai non era più una metà ma non aveva ancora avuto modo di diventare un intero. Ed in quella condizione di incompletezza ci sono rimasto. Mentre cammino lentamente, e tremo, tiro fuori una Marlboro e l’accendo.
 
“Marco, ho preso una decisione.”
Lilia si era fermata di fronte a me, mentre sedevo sul divano intento a studiare distrattamente un libro per l’esame di ammissione all’università. Alzai appena gli occhi dal testo: lei aveva uno sguardo serio, freddo.
“Dimmi pure.”
“Francesco andrà a studiare a Milano, io lo seguirò.”
“Spero tu stia scherzando.”
“Puoi prendermi seriamente per un attimo?”
“Se dici certe cose all’improvviso come posso prenderti seriamente?”
“La mia è una decisione definitiva.”
“Vuoi andare a vivere con un ragazzo che conosci da un anno o meno, sei pazza o sprovveduta?”
“Non andremo a vivere insieme. Lui pagherà il suo affitto, io il mio, due appartamenti diversi.”
“Tanto sai anche tu che si tratta di un sogno irrealizzabile.”
“Perché? E’ normale studiare fuori sede, e a noi i soldi non mancano. Ci sono migliaia di ragazze che vivono da sole o con delle coinquiline.”
“Loro sono diverse. Tu non potresti vivere da sola.”
“Cosa ho che non va?”
“Sei diversa e basta, lo sai anche tu. Non ti permetterò di prendere una decisione così sciocca.”
“Tu non mi conosci affatto. Sono cambiata, so badare a me stessa.”
“E quindi hai intenzione di andartene come ha fatto nostro padre?”
“Non mettere in mezzo questioni che non c’entrano.”
“Rimarrò solo io, con mamma. Vai pure col tuo Francesco. Quando si stancherà di te, sarai sempre la bentornata in questa casa.”
Lacrime di rabbia velarono i suoi occhi. Quel silenzio fu l’ultima risposta che mai ricevetti.
Uscì di casa sbattendo la porta, non tornò mai.
 
La sigaretta è finita, e con essa scaccio via anche i ricordi. Una sola lacrima scende veloce lungo lo zigomo destro. La asciugo, poi proseguo nella mia passeggiata. La mia destinazione è il bar di Orlando. Sono quasi le dieci, lo aspetterò fino alla fine del turno. Senza preavviso, ho deciso di presentarmi da lui. Ho voglia di vederlo. Ho ripensato alla sua storia ogni giorno ed è stato terapeutico: un grande egoista come me ha avuto modo di capire che non è l’unico al mondo a soffrire. Che la vita non gli deve nulla. Per questo ho finalmente deciso di raccontargli tutto.

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Capitolo 21
*** Whisky ***


Sono passati nove minuti esatti dal momento in cui ho messo piede di fronte al bar dove lavora Orlando. In questa attesa che mi sembra eterna ho modo di notare dei dettagli ai quali finora non ho mai prestato particolare attenzione. E’ come se d’improvviso essi prendano ad essere più evidenti, amplificati dalla mancanza di stimoli più interessanti. Ad esempio ho per la prima volta modo di scoprire come si chiama questo posto in cui sono finito per caso due mesi e mezzo fa. L’insegna bianca a scritte color cioccolato reca il nome Caffè Passione. Che nome stupido. Dall’altro lato della strada, esattamente di fronte, vi è una serranda completamente blu. Nelle piccole aiuole ai lati della porta ci sono dei fiorellini color panna. La strada è poco trafficata e qualche centinaia di metri più avanti c’è un semaforo spento, la cui luce gialla lampeggia riflettendosi sull’asfalto bagnato. Da quanti giorni consecutivi piove? Ho perso il conto. Meno di una settimana, ma più di tre giorni. Complessivamente la cifra di giorni consecutivi di pioggia si aggira tra quattro e sei. Non posso averne la certezza perché alcuni giorni li ho passati in casa senza il minimo contatto, neanche visivo, con l’esterno. Una sorta di ritiro eremitico necessario ad accumulare coraggio. Finalmente la porta di vetro si apre e ne viene fuori Orlando, dall’aria stanca. Rimango ad osservarlo per un po’ prima che si accorga della mia presenza. Solo in questi momenti di intimità rubata si riescono a cogliere alcuni atteggiamenti rarissimi delle persone. Anche questi sono piccoli dettagli, che nel complesso però rendono una persona unica. La parte negativa è che si manifestano solo quando la persona crede di non essere osservata, quando è sola con se stessa. In quei momenti, Orlando, ha un volto cupo. Generalmente di fronte a me sorride molto, è energico e cerca di mantenere un atteggiamento positivo. Adesso però sono a conoscenza di ciò che quel sorriso tenta invano di nascondere. Efficace come un coniglio nano posto a guardia di un castello gotico. La sincerità con cui questo ragazzo è riuscito a raccontarmi tutto il suo passato dopo due mesi e mezzo di conoscenza mi ha spiazzato. E’ stato un enzima che ha inevitabilmente accelerato il processo di avvicinamento tra noi. Non so nemmeno più se si possa parlare di semplice amicizia. Non di amore, credo. Orlando è omosessuale, ma io no. Provo per lui una forte ammirazione, desidero di saper reagire come lui. In un certo senso ne sono attratto, ma io stesso non sono in grado di decifrare esattamente questo tipo di attrazione. Il problema è che non sono mai stato davvero innamorato. Provo attrazione sessuale per le ragazze, e questo è un dato di fatto. Ma non ho mai provato attrazione emotiva. Non so cosa voglia dire, perciò non saprei riconoscere l’innamoramento nemmeno se mi capitasse in prima persona. Ma, comunque, mi sto perdendo in pensieri inutili. Di certo non sarà un ragazzo a insegnarmelo.
Finalmente Orlando si accorge della mia presenza. Il suo sorriso istantaneo che nasce alla vista di me mi sveglia dal flusso di pensiero. Mi viene incontro verso l’angolo di marciapiede in cui attendo.
“Ehi, a cosa devo questa visita improvvisa? E’ un po’ che non ti fai sentire.”
“Ti sembrerà strano detto così all’improvviso, ma sentivo l’esigenza di vederti.”
“E come mai? Per caso ti senti più tranquillo?”
“Si, ho deciso che mi farò coraggio e ti racconterò del perché mi sia ridotto in questo stato.”
“Ma non è necessario che tu lo faccia. Davvero, è raro che una persona sia più brava ad ascoltare che a parlare. Sei un ottimo amico, non devi preoccuparti di raccontare cose che potrebbero farti soffrire.”
“No, il fatto stesso di non raccontartelo mi fa star male. Tu ti sei aperto a me dandomi piena fiducia. E’ un atteggiamento che ti invidio, credimi, ti invidio profondamente. Vorrei essere come te, è questa la verità. Ed è per questo che ho deciso di smetterla con i limiti che mi sono imposto da solo finora.”
“Se davvero è un’esigenza che parte da te stesso, e non lo stai facendo solo per me, allora sono felice di ascoltarti. Che ne dici di andare a cena da qualche parte?”
“No, non ho appetito, preferisco rimanere a casa.”
“Allora andiamo a casa mia.”
Impieghiamo un quarto d’ora ad arrivare all’appartamento di Orlando. C’è un velo d’impazienza che incombe sulle parole che sto per pronunciare. E’ come se fossero state trattenute per troppo tempo ed ora, prossime a venir fuori, si accalchino all’uscita. Mi accomodo sul solito divano.
“Vuoi qualcosa da bere?”
“Si, grazie.”
“Alcolico o non alcolico?”
“Alcolico.”
L’altro mi raggiunge con una bottiglia di whisky e due bicchieri con ghiaccio.
“Senti, ho bisogno di farti una premessa per ciò che sto per raccontarti.”
“Ti ascolto, prego.”
“Prima di tutto,” tiro giù in un grande sorso il contenuto del bicchiere, “ti chiedo scusa per il mio carattere così lunatico. Forse avrai modo di capire cosa mi ha reso tale. Comunque, non te ne ho parlato finora solo perché non me ne sentivo in grado. Intendo, è come se ci fosse stato un blocco fisico ad impedire la vibrazione delle corde vocali ogni qual volta il mio cervello formulasse pensieri sull’anno precedente agli ultimi tre. Ho avuto pensieri suicidi all’inizio. Tutt’ora ci sono periodi in cui fatico ad uscire di casa. Credo sia una forma di depressione ma non voglio averne la certezza clinica. Forse il dubbio mi aiuta a far finta che le cose vadano bene così nella mia testa. Potresti versarmi un altro po’ di whisky?”
“Certo, ma tu non sei uno che regge molto, quindi vacci piano.”
“Riprendo il discorso. Tu, se ti interessa saperlo, sei il primo a cui racconto questi fatti. Non che io abbia avuto particolari amicizie finora, ma anche alle mie poche conoscenze non mi è mai venuto in mente di accennarlo. Eppure c’è questa mia amica da tre anni, Irene, che mi ha chiesto così tante volte di me, da dove venissi, perché fossi sempre triste e pessimista. Le ho raccontato un mare di bugie e non mi sono mai sentito in colpa. E’ un meccanismo di autodifesa. Poi arrivi tu. E tutto va a puttane.”
“Beh, ti chiedo scusa.”
“No, in senso buono, dico. Con la tua sincerità sfrontata hai sbloccato qualcosa in me. Non riuscirei mai a raccontarti le stesse bugie che racconto sempre a Irene, perché mi sentirei in colpa. Però allo stesso tempo mi sento in colpa a stare bene con te, come se da quel giorno di tre anni fa mi fosse vietato di tornare ad essere felice. Ovviamente non sei tu il problema. Prima o poi avrei trovato qualcuno che mi facesse star bene, ho trovato te. Ed il senso di colpa ha trovato me. Però sai cosa c’è di diverso oggi? Voglio prendere tutto il coraggio che ho e piangere davanti a te, non più da solo. Voglio raccontarti ciò che di solito non ho il coraggio nemmeno di pensare. Voglio aprire di mia spontanea volontà quel cassetto della memoria che di solito faccio di tutto per tenere sigillato. Voglio farlo perché sento che se ci sei tu al mio fianco non sarò da solo a dover affrontare la bestia che ne verrà fuori. Perché tu sai cosa significa. Dal primo momento in cui ti ho visto, l’ho saputo. Ho notato qualcosa di familiare nei tuoi occhi. Pensavo che fossero uguali ai miei, invece sono uguali a quelli di mia sorella. E per questo mi affido a te e ti racconto tutto.”

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Capitolo 22
*** Egoismo ***


“E’ morta. Questo è il fulcro principale della questione, ma immagino che l’avessi già capito.”
Il biondo annuisce lievemente mentre sorseggia.
“E’ stato così improvviso che non avrei mai potuto immaginare nulla di simile. Eppure quel giorno c’era un’aura minacciosa tutt’intorno a Lilia, una specie di temporale fermo nelle nuvole cariche di pioggia. Avrei dovuto immaginarlo, ma come potevo? E’ stato un incidente stradale. Avevamo appena finito di litigare e lei corse via arrabbiatissima. Prese la macchina di mia madre e imboccò la strada statale, i vigili dissero che correva parecchio. Stava guidando verso la casa del suo ragazzo, ma era la prima volta che usciva fuori paese. La patente ce l’aveva da pochi mesi. Una fatalità, qualcosa andò storto mentre cercava di sorpassare un camion e finì fuori strada, giù dal guard rail. Chiamarono a casa mezz’ora dopo l’incidente, ma lei era già morta sul colpo. Non me ne capacitai per settimane. Forse per paura di svegliare la consapevolezza del fatto che non potesse tornare indietro, non andai nemmeno al funerale. Non versavo lacrime, semplicemente rimanevo chiuso in camera mia evitando che il pensiero di Lilia potesse anche solo sfiorarmi. Ma non era possibile. Guardarsi allo specchio bastava a ricordarmi il suo volto. Ogni cosa in quella casa era anche sua, ogni ricordo, ogni fotografia, ogni oggetto. Eravamo due metà dello stesso intero, ed ora ero rimasto solo io. Mi sentivo soffocato, annegato. Finché un giorno uscii finalmente di casa. Presi il treno e andai a picchiare a sangue il ragazzo di Lilia. Tornato a casa scoppiai in un pianto incessante. Mia madre sembrava persa nel vuoto. Mio padre, che ormai viveva con la sua nuova moglie da cinque anni, era in una situazione ambigua. Non gli do colpe, lui è stato vicino a mia madre e continua ad esserlo. E’ stata una tragedia per tutti. Ma la tragedia maggiore è stato scoprire quanto potessi essere schifosamente egoista. Ricattai mio padre, letteralmente. Gli dissi che la casa mi andava stretta e che se non mi avesse pagato l’università fuori sede probabilmente mi sarei suicidato. Non sopportavo più neanche un secondo in quella casa. Anche vedere mia madre soffrire era insopportabile, così decisi di abbandonarla. Decisi di andare a vivere da solo sia fisicamente che spiritualmente. Sono un pessimo figlio ed una pessima persona in generale. E’ questa la verità. Se pensi che in tre anni sia migliorato, come vedi, ti sbagli. Sono ancora qui. E con mia madre a stento ci parlo al telefono. Non sono mai tornato a casa, nemmeno una volta. Da quando sono qui ho sempre fatto di tutto per relegare i ricordi nella parte della mia mente più remota possibile. Spesso però tornano a galla. Nei sogni, tra le parole ascoltate distrattamente, mentre mi perdo nei pensieri. Continuano a tormentarmi, a ricordarmi incessantemente di che pessima persona io sia. Ed ora che lo sai anche tu, ti chiedo scusa in anticipo. Ma soprattutto, se vorrai lasciar perdere la nostra amicizia, non ti biasimerò nella maniera più assoluta. Non la merito, questo è ovvio.”
Orlando sembra scosso dal mio racconto. Probabilmente non tanto della morte di mia sorella. In fondo tutti muoiono, tutti soffrono, tutti spariscono prima o poi. Ciò che ha provocato il turbamento in lui è sicuramente la confessione dei miei personalissimi peccati. Ah, che pietà che ho di me stesso. Finalmente trovo il coraggio di raccontare tutta la verità a una persona e scelgo proprio l’unica persona che non vorrei perdere. Ma ormai ci ho fatto l’abitudine. Una persona come me non merita di essere amata, non merita nemmeno la vicinanza di esseri umani. Ne soffro io, per il mio malatissimo egoismo, e ne soffre chi mi circonda. Penso proprio che dovrebbero relegarmi in isolamento su qualche isola a massima sicurezza. Soffrire in silenzio, la miglior pace che possa desiderare. Ma perché allora sto tremando? Ho paura? Forse sono solo triste? Non ho freddo. Non ho la febbre. Perché ho iniziato a piangere senza accorgermene? Di solito me ne accorgo e cerco di fermarmi. Ma adesso le lacrime scorrono senza che le senta. Mi accorgo della loro presenza solo per la sensazione di umido sulle ciglia e per qualche goccia che cade sulle mie mani. Ho paura? No.
La verità è che sono terrorizzato.
“Sei uno stupido.”
Orlando afferra entrambe le mie mani e le stringe forte. Attende qualche secondo, ma quando si accorge che non accenno a sollevare lo sguardo, forse per la vergogna di mostrare queste strane lacrime o forse per il terrore di scoprire cosa avrò di fronte, mi solleva il mento di forza con la mano sinistra. Lo osservo, obbligato a farlo. I suoi occhi sono rossi. Ha le guance rigate dalle lacrime, ma ora non sta piangendo. Ha un’espressione nuova, inedita sul suo volto: è arrabbiato. Sembra furioso di qualcosa, e si accinge a spiegarmelo.
“Sei uno stupido. Stai addirittura tremando. Credi davvero che possa abbandonarti così? Credi davvero di essere una persona spregevole solo perché la vita è stata così cattiva con te? Sei un essere umano. Hai il diritto di soffrire e di reagire al dolore come meglio credi. Tutti gli esseri umani sono egoisti, lo sono nel profondo, sono macchiati di questo peccato originale in ogni azione che compiono, anche quella che sembra più altruista. Tu non sei diverso. Tu non devi niente alla vita, e lei non deve niente a te, perché è così che vanno le cose. E’ il triste corso degli eventi, e che sia casuale o causale, questo non ci è dato saperlo, perciò è inutile preoccuparsene. Non esistono gli eroi e nessuno si è mai aspettato da te che tu lo fossi, se non te stesso.  Non devi vivere nel presente come se il passato fosse una malattia! Non so davvero come mai pensi questo di te. Il tuo è l’atteggiamento più altruista che io abbia mai visto nella sofferenza. Guarda me, fallo! Credi davvero che io sia così diverso? Credi davvero che io sia meglio di te? Con quale criterio potrei mai io giudicarti se per primo sono scappato dal dolore, senza nemmeno provare a combattere per cambiare la situazione? Mi manca mia madre ogni giorno. So che è lo stesso per lei e che lei mi ama nonostante tutto. Ma continuo a farla vivere nel rimorso di aver provocato la fuga di suo figlio, pur sapendo benissimo che lei non c’entra nulla. Semplicemente non ho la forza necessaria a combattere mio padre. Non c’è nulla di eroico in me. E non devi farti una colpa se non c’è nulla di eroico in te. Possiamo essere semplici umani insieme.”
Esito. Cosa potrei rispondere? Non mi viene in mente nulla. Nella mia mente la risposta alla mia confessione era del tutto diversa. Faccio fatica a credere di aver sentito quelle parole. Abbandonato da tutti ogni volta, questa volta sono invitato a non sentirmi in colpa per il mio egoismo. Non sono perdonato, sono compreso. E’ qualcosa di così dannatamente adeguato che aderisce alla mia anima completamente. Sono le parole che avrei sempre voluto sentire, ed ora sono dentro di me, come se si fossero materializzate da un desiderio.
Orlando, cosa sei tu, per me?

“Marco, ascoltami bene. Ciò che sto per fare sarà un atto di egoismo che potresti non perdonarmi. Spero che possa farti capire che non sei il peggiore tra noi, perché non c’è un peggiore. Spero possa farti sentire meglio, anche se dovesse portarti a odiarmi. Lascia che sia egoista e che assecondi la mia volontà, solo per pochi secondi.”
Detto ciò, quasi in una dimensione temporale sospesa e talmente improvvisa da cogliermi alla sprovvista, Orlando tira a sé il braccio che ancora regge con la mano sinistra, e con la destra mi accarezza il volto, per poi avvicinarsi in un bacio. Un bacio che dura più di pochi secondi.



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AAAAAA DUNQUE FINALMENTE E' SUCCESSO. Mi ci sono voluti 22 capitoli, mea culpa, ma finalmente i miei carissimi Marco e Orlando vengono al dunque. Chiedo perdono per la lentezza con cui sto proseguendo la storia ultimamente (sempre che ci sia qualcuno a cui interessi davvero).
Per motivi vari ho dovuto concentrare la scrittura in altre cose e sinceramente credo mi abbia fatto bene, perché tornando a occuparmi di Monomania dopo parecchio tempo, ho scritto un fiume di parole di cui mi ritengo abbastanza soddisfatta, ed era da un po' che non succedeva. Quanti sentimenti in questo capitolo, mamma aiuto. Spero che apprezziate e se c'è qualcuno che ha seguito la storia dall'inizio, beh, questo capitolo è dedicato con tanto amore a voi. Con l'augurio che vi sentiate soddisfatti/e dopo 22 capitoli di rottura di c- . Ovviamente da qui inizia il bello, eheh, perciò se siete qui, mi raccomando, proseguite. Tanti grazie,
Lulu

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Capitolo 23
*** Miele ***


Qualcosa di caldo scorre lungo la mia spina dorsale. Fremente quanto una scarica elettrica, ma fluida come il miele, e lenta. E’ una sensazione che non ha fretta di passare. Posso sentire il volto andarmi in fiamme ed il cuore quasi far male per quanto batte. Ciò che era stato un contatto superficiale delle nostre labbra ora è un intreccio profondo, il cui impeto non accenna a consumarsi. Cerco di non perdere la ragione e non dimenticare dove mi trovo, ed in quale situazione. E’ difficile, come se una febbre altissima ed improvvisa limitasse le mie capacità cognitive. Sono a casa di Orlando, sono con Orlando ed è proprio Orlando che mi regge in questo modo strano, che mi impedisce qualsiasi movimento, mentre mi bacia. La cosa tuttavia non sembra darmi fastidio. Perché sta succedendo? Tutto ciò arriva alla mia mente come una rivelazione. Orlando è omosessuale ed io, per tutto questo tempo, mi sono comportato come se la cosa non avesse il minimo impatto sulla nostra amicizia. No, anzi, mi sono comportato come più che un amico, nel bene e nel male. Sarà forse che inconsciamente ho sempre provato attrazione? Ho volutamente giocato col fuoco, pervaso da quella ingenua curiosità che ha sempre un fine segreto anche a se stessi? Potrebbe essere l’inizio di un cambiamento. Non avevo mai valutato l’ipotesi di provare piacere nel baciare un uomo, ed è stata l’esperienza severa maestra di questa consapevolezza. Uno shock, per quanto ben accolto dal mio corpo. Una delle mani del biondo si alza e inizia a scivolare sotto la mia maglietta; nel frattempo, le sue labbra cercano voracemente il mio collo. Ad ogni sospiro un brivido profondo mi attraversa. Apro gli occhi, consapevole di avere un’espressione spaventata sul volto. Come dovrei comportarmi adesso? Ci sono così tanti interrogativi nella mia testa. Troppe domande le cui pericolose risposte richiedono tempo, e adesso tutto sta succedendo troppo velocemente. Afferro il braccio che ormai esplora il mio petto e cerco di tirarlo via, con una forza razionale che cerca di sormontare l’abbandono delle sensazioni, che non hanno alcun interesse a fermarsi. Orlando è ovviamente più forte di me, ma non esita un secondo ad interrompersi di sua spontanea volontà. Immagino che nei suoi piani questo momento si sarebbe dovuto fermare al bacio, e che abbia perso il controllo. Fisso il mio sguardo nei suoi occhi, desiderosi quanto colpevoli. Si alza, liberandomi completamente dalla presa, e guarda in basso reggendosi la fronte con i pugni stretti.
“Ti chiedo scusa, davvero. Ho tradito la tua fiducia. Fa’ come se non fosse mai successo.”
Per un po’ rimango in silenzio. Trovo a stento tutta la forza necessaria a calmarmi, poi rispondo.
“Non devi preoccuparti assolutamente di ciò che è successo. Te lo giuro, non cambierà nulla per me.”
“Si è fatto tardi, non credi? Potresti rimanere a piedi se non ti affretti per il pullman.”
“Posso rimanere, non mi da fastidio una passeggiata fino a casa.”
“No, è tardi, non voglio che cammini da solo a quest’ora. E poi sono stanco, vorrei andare a dormire.”
“Se è ciò che desideri davvero vado, ma prestami un libro.”
“Come mai ti serve un libro proprio ora?”
“Me l’hai insegnato tu, è la tecnica per doversi rivedere per forza, no?”
“Non devi essere gentile con me. Ho esagerato, lo so. Sarai tu a non volermi rivedere, probabilmente.”
“Non mi conosci abbastanza. A domani.”

Il letto è incredibilmente comodo stasera. E’ come se il sonno subentrasse nella mia mente per necessità di porre fine alla tempesta di pensieri che la attanaglia. Troppi, troppo disordinati. Ci vorrà tempo ed energia per sbrogliare questa matassa. Nel frattempo, rimando tutto a domani, e mi addormento.

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Capitolo 24
*** Parole ***


Il letto continua ad essere incredibilmente comodo. Da qualche giorno ci passo molto più tempo del solito, forse perché dormire è l’unico momento in cui riesco a non pensare. Chi sono io? Cosa sono stato fino ad ora? Tutto nasce dal dubbio che ci possa essere qualcosa di più dell’amicizia tra me e Orlando. E’ un dubbio subdolo che si è insinuato improvvisamente nella mia coscienza, nell’esatto momento di cinque giorni fa in cui sono stato baciato, quello strano, fatale momento, che ha cambiato qualcosa dentro di me. E’ come se prima di allora fossi stato cieco di fronte alla possibilità che Orlando possa piacermi. Adesso, questa possibilità si aggira intorno a me come uno spettro, e mi perseguita. Cerco di cacciarla via, ma lei è lì ed io lo so. E’ solo una possibilità, ma mi tiene in ostaggio, tanto da frenarmi ogni qual volta io provi a chiamare Orlando. Sento come se prima di tornare a parlargli io abbia bisogno di chiarire qualcosa con me stesso. Allo stesso tempo, ho paura che non contattarlo possa dargli l’idea sbagliata che quel bacio mi abbia spaventato, e che lo abbia allontanato da me. E così, mentre combatto per decidere quale parete scalare, queste due si stringono sempre di più intorno a me e mi paralizzano. In questa faccenda c’è però un lato positivo: la mia scrittura ne ha risentito positivamente. Quando si ha qualcosa da raccontare le pagine si scrivono da sole, e le dita sembrano danzare freneticamente sulla tastiera, con ritmo incessante. E’ una sensazione piacevole. Per una persona la cui unica capacità è la scrittura, è appagante. Ci si sente produttivi. Ho deciso, per la prima volta, di saltare un appello d’esame. Non riesco a concentrarmi su nient’altro che la mia storia, e la mia vita. La stesura del mio romanzo gode di una scarsa sequenzialità. E’ una storia che porto avanti da ormai anni, perciò potete immaginare quanto la mia persona sia cambiata nel frattempo. Iniziai a scriverla per esigenza, poco dopo la morte di Lilia. Da allora è cambiata completamente parecchie volte. La storia che c’è adesso, però, è sicuramente quella definitiva, e soprattutto è quasi giunta alla fine. E’ una fine che ho in mente dall’inizio, ma il percorso per arrivarci cambia continuamente: si arricchisce, poi si sublima, poi si spezza. E questi giorni sembra essersi allungato di parecchio. Mentre scrivo, tutte le inquietudini che vivono nel mio cervello sembrano svuotarsi sul foglio e prendere vita nei miei personaggi. E’ come guardarsi allo specchio, guardare la propria interiorità in una sfera di cristallo. Ed in questo momento vedo una tempesta.
Dopo parecchie ore di indecisione, decido che è finalmente giunto il momento di affrontare il problema. E’ meglio smettere di pensarci su, perché qualsiasi decisione razionale sarebbe intralciata dai sentimenti, perciò meglio lasciar fare tutto a loro. E così mi presento da Orlando senza preavviso, appena uscito da lavoro.
“Ormai è un vizio quello di presentarsi qui all’improvviso.”
Nel suo sguardo sorpreso riesco a intravedere un sorriso di sollievo. Nonostante questo, la sua voce è tesa.
Per alleggerire l’atmosfera, mi avvicino e lo stringo in un abbraccio. Immagino che possa averne bisogno per rassicurarsi, e neanche a me dispiace. Si scioglie dopo qualche minuto.
“Senti, Orlando, non hai proprio bisogno di essere teso. Diciamoci le stesse cose di sempre e comportiamoci normalmente. Come stai?”
“Beh, mentirei se ti dicessi che sto bene al cento per cento. Parlare con te mi ha fatto riflettere su molte cose, quindi ho passato dei giorni irrequieti.”
“Spero di non aver detto o fatto qualcosa di sbagliato.”
“No, anzi. Sono io che ho fatto qualcosa di sbagliato.”
“Hai solo fatto ciò che volevi fare in quel momento, non preoccupartene così tanto.”
Per quanto possa cercare di rassicurare Orlando con le parole, il suo volto sembra diventare sempre più cupo.
 “Ti va di pranzare insieme domani? Non lavori a pranzo di venerdì, giusto?”
“Hai imparato a memoria i miei orari di lavoro?”
“Ho una buona memoria, non è stato intenzionale.”
“E va bene, pranziamo insieme. Però devi ammettere che faresti paura a chiunque altro.”
“Per fortuna tu sei Orlando, il cavaliere coraggioso!”
Sorridiamo entrambi. Sembra che la tensione si vada diradando sempre di più.
“Allora ci vediamo domani?” Chiedo, cercando l’approvazione dell’altro con lo sguardo.
Lui mi fa cenno di sì con la testa, benedetto dalla solita disinvoltura che lo contraddistingue. Se si nasce con la fortuna di essere eleganti negli atteggiamenti, si potrebbe sembrare disinvolti in qualsiasi contesto, ed Orlando è una di quelle persone. Mentre lavora, mentre sorseggia un caffè, anche mentre nessuno lo sta osservando, è sempre elegante. Ci sono solo alcuni momenti, ed a ripensarci sorrido, nei quali viene fuori il suo lato impacciato.
Scaccio via quei pensieri dalla testa. E’ tutto troppo strano, troppo pericoloso.

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