UN INFERNO CHIAMATO FOX RIVER

di revin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A tu per tu ***
Capitolo 2: *** Missione impossibile: scovare Burrows ***
Capitolo 3: *** Abruzzi: il re della giungla ***
Capitolo 4: *** Segreti ***
Capitolo 5: *** Corri, ferisci, scappa ***
Capitolo 6: *** Inaspettata alleanza ***
Capitolo 7: *** Scacco matto ***
Capitolo 8: *** Giorno di visite ***
Capitolo 9: *** Haywire ***
Capitolo 10: *** Il trasferimento ***
Capitolo 11: *** Rivolta infernale ***
Capitolo 12: *** Interessanti scoperte ***
Capitolo 13: *** Innocente ***
Capitolo 14: *** Pass per il laboratorio ***
Capitolo 15: *** La stanza delle guardie ***
Capitolo 16: *** Il momento della verità ***
Capitolo 17: *** La nuova operaia ***
Capitolo 18: *** Gelosa ***
Capitolo 19: *** Sorelle ***
Capitolo 20: *** Mai aggredire una guardia ***
Capitolo 21: *** La manipolatrice ***
Capitolo 22: *** L'esecuzione ***
Capitolo 23: *** Nuovo percorso ***
Capitolo 24: *** Avversa fortuna ***
Capitolo 25: *** Al gran completo ***
Capitolo 26: *** Inaspettato ***
Capitolo 27: *** Ultimo atto ***
Capitolo 28: *** Il bacio che aspettavo ***
Capitolo 29: *** La fuga ***



Capitolo 1
*** A tu per tu ***


Iniziavo il mio primo giorno da carcerata, spedita in mezzo a quella mandria imbufalita di detenuti.
Ero da poco tornata dal mio primo incontro col direttore del carcere, Henry Pope, ed ero rimasta nella mia cella giusto il tempo di dare ai numerosi ospiti del Braccio A nel quale ero stata spedita, la possibilità di sfogare tutti i più volgari e bassi commenti sulla nuova arrivata.

Ne avevo sentite di tutti i colori nel corso di quell’ora trascorsa sulla branda più bassa del letto a castello, rannicchiata come un riccio per paura che qualcuno potesse allungare una mano e farmi del male. In verità quella cella era il luogo più sicuro al mondo, se paragonato al cortile esterno dove le guardie ci avrebbero accompagnati di lì a poco.
Avrei dovuto aspettarmelo, prima o poi quel momento sarebbe arrivato. Dovevo solo convincermi che tra me e quegli uomini non c’era alcuna differenza. Io ero come loro, un detenuto. Più facile a dirsi che a farsi, ovviamente.

“Posso farcela”, mi dissi alzandomi dalla branda quando tutte le celle vennero aperte, segnando l’inizio della pausa pomeridiana.
“Posso farcela”, ripetei a me stessa gonfiando il petto per tirare fuori un grosso sospiro mentre appoggiavo un piede fuori, oltre le sbarre, per immettermi nella fila che proseguiva verso il cortile.
“Posso farcela”, ma tutti i muscoli e le ossa del mio corpo stavano tremando per la paura.

Per quanto ci provassi, non riuscivo a non sentirmi un pesce fuor d’acqua il quel mondo.
Ero in carcere, ero a Fox River per scontare la mia pena come gli altri, ma più di ogni altra cosa, ero lì per trovare Lincoln Burrows, il condannato a morte. Questo dovevo fare, sfoderare il mio coraggio e la mia arte investigativa per scoprire qualcosa che mi aiutasse a dimostrare la mia innocenza e soprattutto, vendicarmi dei bastardi che avevano contribuito a rovinarmi la vita.
Quel pensiero riuscì a darmi coraggio e rimettere in moto i miei neuroni. Dovevo pensare, pianificare e agire, ma prima dovevo individuare il bersaglio e per farlo, dovevo innanzitutto orientarmi.

Feci una passeggiata nello spiazzo cercando di capire innanzitutto a quale zona del carcere corrispondesse la mia posizione all’esterno, e contemporaneamente, non dare troppa importanza alle continue occhiate che mi venivano lanciate. Grazie al giro turistico effettuato quella mattina e alla passeggiata nello spiazzo, ero riuscita a farmi un’idea della struttura e dell’organizzazione del penitenziario.
Esistevano due blocchi dove venivano sistemati i detenuti, a est il blocco A e a ovest il blocco B. Le due sezioni erano completamente isolate dall’ala sud, dove lavorava il personale amministrativo.
Questa prima informazione era riuscita fin da subito a gettarmi nello sconforto. Il fatto che i blocchi di celle fossero due mi dava il 50% di possibilità di poter individuare Burrows. Io ero stata destinata al Braccio A, ma in quale si trovava Burrows? Non sapevo ancora che essendo un condannato a morte, l’uomo non appartenesse a nessuno dei due blocchi, ma fosse stato destinato alla sezione isolata rispetto ai detenuti comuni.
Nell’ala opposta al Braccio A era dislocata l’infermeria, e al piano di sotto, le docce.

All’esterno l’organizzazione era completamente diversa. C’erano quattro torrette di controllo, una per ogni angolo dell’alto muro di cinta, che a sua volta era sormontato da un’alta recinzione di filo spinato che si prolungava per chilometri, a perdita d’occhio. Oltre all’edificio principale, che da fuori appariva ancora più cupo e squallido, avevo notato anche una specie di stanza-magazzino adibito a stanza ristoro per le guardie. Sul lato opposto, un altro edificio, più piccolo rispetto a quello centrale, al quale venivano destinati gli schizofrenici, i malati mentali e le vittime di abusi.
Non sarebbe stato tanto facile scovare Lincoln Burrows in mezzo a quell’ammasso di anime e cemento.

Stanca di camminare, decisi di sedermi su una panca all’ombra, isolata e silenziosa rispetto alle altre. Stavo osservando il cielo, deprimente e nuvoloso, chiedendomi quando sarei riuscita a rivedere il cielo limpido della California, quando all’improvviso una voce molto ravvicinata interruppe il flusso dei miei pensieri e mi fece trasalire.

-          Ehi, bambolina! Sei seduta sulla mia panca.

Il tizio che aveva parlato, si avvicinò sedendomisi a fianco con fare alquanto intimo che immediatamente mi mise sulla difensiva. Un uomo giovane, sulla trentina, con un viso dai lineamenti piuttosto grossolani, pallido, importuno e dai modi fin troppo diretti. Però non faceva particolarmente paura. A prima vista sembrava uno di quei tipici scocciatori che disturbano se in quel momento vuoi restartene da sola e vuoi pensare agli affari tuoi.
Aveva il naso adunco come il becco di un’aquila, gli occhi stretti e penetranti come aghi di spillo, labbra sottili, quasi invisibili, racchiuse fra due pieghe profonde ai lati della bocca, appena increspate da un sorriso sfuggente, ambiguo e un po’ beffardo che non arrivava a scoprire neanche i denti.

Mentre osservavo quello strano tipo smilzo vagliando ciò che mi aveva appena detto, mi chiesi cosa fosse meglio fare. Potevo alzarmi dalla panca e andarmene, ma così avrei dimostrato di non avere affatto spina dorsale e se volevo farmi rispettare, dovevo dimostrare il mio coraggio fin da subito, altrimenti quei mesi sarebbero stati un incubo.

-          Devo chiedere un permesso per sedermi su questa panca? – chiesi tastando il terreno.

Al minimo sentore di pericolo ero pronta a schizzare via.

-          Quello è il mio posto, lo sanno tutti qui dentro, ma tu ovviamente non puoi saperlo perché sei nuova e non conosci ancora le regole. Dovresti stare attenta bambolina, potresti finire nei guai.

Mentre mi parlava, un brivido, forse un avvertimento, mi attraversò la schiena ed ebbi l’impulso di scappare. C’era qualcosa in quell’uomo, nel modo in cui mi guardava, come un pastore tedesco che fissa una bistecca su un piatto, o nel modo in cui mi sorrideva, di un modo veramente inquietante. Eppure in apparenza sembrava così calmo e innocuo. Chissà chi era quell’uomo…

-          Non preoccuparti bambolina, io posso fare in modo che tu non debba chiedere il permesso a nessuno… -  e così dicendo si avvicinò a me per eliminare la distanza che ci separava.

Mi vennero subito i brividi e per porre un minimo di distanza tra noi cercai di scostarmi impercettibilmente, pur continuando a mantenere un atteggiamento sicuro.

-          …ma per fare questo, tu dovrai riuscire ad entrare nelle mie grazie, non so se mi spiego. – continuò sollevando un sopracciglio.

“A meraviglia!" Ecco un tipo viscido dal quale stare alla larga.

Copiai il suo gesto e mi allontanai un altro po’.   – No, non direi.

-          Eppure è semplice. Qui a Fox tutti fanno parte di uno specifico gruppo. C’è il gruppo dei neri fissati con le differenze di razza, il gruppo dei cocainomani…Quella è la zona dei culturisti, – disse indicando un angolo dov’erano posizionati vari attrezzi e pesi che alcuni nerboruti detenuti stavano utilizzando. – ma di solito quella è zona off-limits. E’ meglio che non ti avvicini a quei tipacci, piccola.

-          E tu di che gruppo saresti?

-          Del gruppo dei buoni. Recluto le nuove leve affinché si ambientino a Fox nel migliore dei modi e non abbiano problemi, perché vedi, chi è sprovvisto di protezione qui dentro non dura molto. – Il tono in cui lo disse mi fece accapponare la pelle.

-          Grazie dell’offerta ma penso proprio che ne farò a meno.

Ancora una volta provò ad avvicinarsi e io mi allontanai. Sarei presto caduta a terra se continuavamo con quel ritornello.

-          Bambolina, credo che tu non abbia afferrato bene il concetto. Ti conviene accettare al più presto il mio aiuto perché senza sarai spacciata. Basterà che tu prenda questa – Tirò fuori la fodera della tasca dei pantaloni. – e che prometti di seguirmi ovunque io vada e di appoggiarmi qualunque cosa io faccia. E’ semplice. Certo, potrebbe capitare che io abbia bisogno di un favore o che abbia qualche…richiesta, ma daltronde è così che funziona una trattativa, no? Io faccio un favore a te e tu ne fai uno a me e in cambio ti prometto protezione assoluta…sarai la mia schiavetta personale e io sarò il tuo padrone.

Rabbrividii solo a pensarci. – Questo è un carcere, non un harem. Te lo ripeto, la tua offerta non m’interessa.

La mia risposta riuscì a trasformare completamente la sua espressione che da sorridente, si fece minacciosa.

-          Ragazzina, non sono tipo da ripetere una seconda volta le offerte di pace. Non hai idea di cosa questo significhi.

-          Immagino sarò costretta a scoprirlo.

I suoi occhi si fecero nuovamente viscidi, famelici. – Non ti conviene farti nemici pericolosi qui dentro.
Stavo per alzarmi dalla panca e andare via, la situazione era diventata pericolosa a sufficienza. Ero dentro da meno di tre ore ed ero già riuscita a farmi dei nemici. Proprio quello che mi ci voleva. Prima che mi alzassi per darmela a gambe, l’uomo riuscì ad afferrarmi per un braccio e per un attimo pensai di essere sprofondata nella sfortuna più nera. Volevo aspettare almeno 24 ore prima di cacciarmi nei guai. Quello sarebbe stato un record.

-          Lasciala T-Bag e sparisci di là! – esclamò improvvisamente un altro detenuto, riferendosi evidentemente al tipo smilzo che mi aveva arpionata. – E’ il suo primo giorno, lasciala respirare.

Guardai davanti a me per capire chi avesse parlato e mi accorsi che si trattava di un ragazzo dalla pelle color caffelatte e dal tono di voce fermo e sicuro. Accanto a lui, un altro tipo, alto quanto lui ma più pallido.

-          Amico, non vedi che io e la ragazzina stiamo parlando? – sbottò l’uomo senza decidersi a lasciarmi il braccio.

-          T-Bag togliti dai piedi. Non te lo ripeterò un’altra volta. – fu la minaccia del ragazzo caffelatte che riuscì a guadagnare un punto simpatia nella mia lista.

Con mia grande sorpresa, il tipo smilzo fece un sorriso conciliante e si alzò dalla panca, liberandomi. Prima di andarsene però non dimenticò di salutarmi e, mentre mi lanciava un sorriso ambiguo, sibilò tra i denti:

-          Ci vediamo presto bambolina.

Chissà perché avevo la sensazione che avrebbe mantenuto la promessa.

-          Hai scelto proprio l’individuo più infimo per cominciare a costruire la fascia dei nemici, io al tuo posto avrei iniziato con qualcuno alla mia portata. – esclamò sarcastico il ragazzo di fronte a me, dopo che la serpe velenosa si fu dileguata.

Increspai le labbra nel tentativo di formulare un sorriso, ma ero appena incappata nel primo di una lunga serie di problemi che avrebbero reso la mia vita a Fox River un inferno, e non avevo molta voglia di ridere.

Decisi di concentrarmi sui due nuovi arrivati e di capire che tipi fossero. Il ragazzo che mi aveva salvata dalle grinfie del viscido aveva la carnagione bruna che ricordava vagamente tonalità esotiche. Era un uomo slanciato e ben fatto, con occhi e capelli scuri che lasciavano scoperta un’ampia fronte. Aveva un’espressione amichevole, franca e grave insieme. Nel complesso lo si sarebbe potuto definire un tipo attraente.

-          Ti consiglio di stare alla larga da quel tipo e di guardarti sempre le spalle quando c’è lui nei paraggi. Quello è un…

-          Assassino? – dissi precedendolo. – So chi è. Un uomo con seri problemi ossessivi, stupratore di bambini in Alabama, nonché loro assassino. Dentro da quattro anni, condannato a scontare due ergastoli. Il caso di Theodore Bagwell, in arte T-Bag, ha avuto un grande riscontro sul pubblico nazionale all’epoca in cui venne arrestato.

-          Lo avevi riconosciuto?

-          Certo.

Il che non era proprio vero. In realtà non ero ancora arrivata in America quando era scoppiato il caso Bagwell. Ne conoscevo le vicende solo a livello generale, ma non avevo mai visto una sua foto, per questo quando mi si era avvicinato non lo avevo riconosciuto. Quando “il mio amico caffelatte” aveva nominato il nome T-Bag però avevo ricollegato il tutto. Per fortuna il mio istinto mi aveva avvertita all’istante di quale mostro mi si fosse appena avvicinato.

-          Comunque io sono Fernando, Fernando Sucre e questo è il mio compagno di cella Michael Scofield.

Appena udii quel nome, Michael Scofield, una lampadina mi si accese all’improvviso nel cervello e da quel momento non riuscii ad impedirmi di guardare più attentamente quel ragazzo rimasto muto fino ad allora. Sembrava un tipo ordinario, alto quanto il suo amico, ma più magrolino e meno pompato. Aveva il classico aspetto di uno che porta sulle spalle il peso del mondo con quell’espressione distaccata, consapevole, il volto in ombra e lo sguardo diretto.
Fu a quel punto che incontrai i suoi occhi restandone immediatamente abbagliata.
Erano occhi espressivi in grado di nascondere la verità quanto di svelarla, occhi meravigliosamente azzurri e penetranti in modo strano. Non ambiguo e fastidioso come lo sguardo che mi aveva lanciato T-Bag un momento prima. Il suo era uno sguardo che metteva a nudo, attento. Se ne stava immobile, con entrambe le mani infilate nelle tasche della felpa e mi vagliava con quella sua espressione, gli occhi semichiusi in una fessura, una piega sul sopracciglio destro, segno di profonda concentrazione. Un’incredibile colpo di fortuna averlo incontrato senza neanche cercarlo.

-          Tu ti chiami Scofield? – chiesi fingendomi solo curiosa. – Michael Scofield?

-          Cos’è, hai sentito parlare anche di lui? – mi chiese divertito il tizio sulla sinistra che si era presentato come Fernando Sucre.

-          No io…in realtà ho sentito parlare di suo fratello. – e rivolgendomi espressamente ad “occhi penetranti” continuai decisa – Lincoln Burrows. Ho sentito dire che anche lui è rinchiuso in questo carcere, è vero?

-          E’ così. – rispose finalmente il ragazzo parlando per la prima volta.

-          Però non l’ho visto da nessuna parte, credo che l’avrei riconosciuto se l’avessi incrociato. Sapete dove lo tengono?

-          Chi, Burrows? E’ stato condannato a morte e i tipi come lui di solito vengono tenuti isolati rispetto ai detenuti comuni, al di là della…

-          Perché sei così interessata a mio fratello? – mi domandò all’improvviso Scofield, interrompendo la spiegazione dell’altro che cominciava ad interessarmi.

-          E’ solo curiosità.

Il ragazzo continuò a vagliarmi attento. Mi chiesi cosa trovasse di così interessante. Cominciavo a sentirmi a disagio.

-          Hai un viso familiare. Ci siamo per caso già conosciuti?

-          Non penso proprio. – mi affrettai a rispondere.

Per un attimo il ragazzo era riuscito a spiazzarmi. Credeva davvero di avermi già vista da qualche parte o se l’era inventato? Io comunque non mi ricordavo di averlo mai visto, un viso del genere difficilmente mi sarebbe passato di mente. Era possibile che avesse dei sospetti sulla mia identità? Per questo mi fissava con tanto interesse? No impossibile, avevo falsificato il mio nome per proteggere la mia privacy. Sicuramente si era sbagliato.

-          Posso farti una domanda che probabilmente ti suonerà molto strana? - intervenì caffelatte – alias Fernando, ridestandomi dai miei dubbi. – Ma tu…sei veramente una ragazza?

Ecco cosa intendeva per domanda strana. Io e il suo amico lo guardammo sorpresi prima che mi scappasse da ridere notando il suo imbarazzo.

-          Si, immagino che fino a prova contraria io possa considerarmi una ragazza.

-          Scusa, è solo che…cioè, che ci fa una ragazza a Fox River?

Per un po’ mi sarei dovuta abituare a sentirmi rivolgere quella domanda scontata.

-          Mi dispiace, non ho il permesso di parlarne.

-          Il permesso? – ribatté occhi penetranti, alias Michael. – Si tratto di un segreto di stato che non puoi rivelare?

Ammiccai. – Una cosa del genere.

-          Ed è un segreto di stato anche il tuo nome o almeno quello puoi dircelo?

Curioso il ragazzo. Decisi di mostrarmi amichevole con quei due solo perché uno di loro era il fratello di Burrows e sarebbe potuto tornarmi utile, quindi scesi dalla panca e gli andai incontro.

-          Mi chiamo Gwen Sawyer. Piacere di conoscervi ragazzi. 
 
 

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Capitolo 2
*** Missione impossibile: scovare Burrows ***


Incredibile che fossi sopravvissuta al mio primo turno d’aria.
Era strano come la prima sensazione che avevo provato mettendo un piede fuori nel cortile esterno di quell’immenso penitenziario, oltre alla paura, fosse stata di attesa. Mi ero sentita terrorizzata e impaziente allo stesso tempo. Non è che fossi una psicopatica incapace di rendermi conto del pericolo a cui stavo andando incontro. Ero pur sempre sola, e certamente indifesa, a dispetto di quell’ammasso di criminali che presto sarebbero diventati i miei compagni di disavventure.

Il problema era che non sapevo ancora cosa aspettarmi, non riuscivo a provare la giusta dose di paura. Seguivo gli altri detenuti mentre una guardia ci ricordava di ritornare all’interno delle nostre celle e di prepararci per il secondo turno di lavoro, ma riuscivo solo a guardarmi in giro come se fossi appena entrata in un parco divertimenti a tema.
Quella era un’esperienza totalmente nuova per me, non solo perché non avevo mai messo piede in un carcere, ma anche perché sapevo di essere la prima donna nella storia della detenzione a varcare i cancelli di un penitenziario interamente maschile. C’erano stati altri casi come il mio? Assolutamente no, e se c’erano stati, io di sicuro non ne avevo mai sentito parlare.

Mentre le guardie ci scortavano lungo un percorso lastricato di larghi mattoni di pietrisco, vidi oltre le inferriate dello spiazzo esterno, gruppi di detenuti che mi fissavano. Avevano indosso tutti la stessa identica tuta da lavoro blu e dalla mia prospettiva, anche tutti la stessa faccia.
Lasciammo il viale lastricato per immetterci lungo un corridoio percorso da una serie interminabile di cancelli e massicce porte di ferro, finché all’improvviso il secondino al mio fianco mi fece cenno di svoltare ed entrare nella prima porta a destra. Ovviamente obbedii, ma con riluttanza.
Perché ero l’unica che doveva fermarsi in quella stanza, mentre il resto del gruppo veniva ricondotto al Braccio A?
Insieme a me e alla guardia che mi aveva ordinato di entrare in quella strana stanza con solo una grossa scrivania al centro e diverse apparecchiature elettroniche sparse in giro, entrò anche un’altra guardia armata fino ai denti come il suo collega. Non mi sentivo per niente a mio agio.
 
  • Allora, vediamo che bel fenomeno da baraccone ha scelto questa volta il nostro bravo direttore.  -  esordì uno dei due uomini afferrandomi con energia la mandibola, girandola da una parte e poi dall’altra.
 
In ben altra situazione avrei reagito prontamente per fargli passare la voglia di mettermi le mani addosso, o in quel caso, in faccia, ma quello era il carcere e se volevo sopravvivere, dovevo sbrigarmi a farmelo entrare in testa.
L’uomo di fronte a me continuò a stringere le sue dita grassocce contro la mia mascella continuando a bofonchiare. Aveva capelli scuri sotto il cappello della divisa, la testa tonda e gli occhi piccoli e viscidi proprio come quelli di una lucertola. Non ci avrei messo molto ad odiarlo, me lo sentivo.
 
  • Tu non sembri affatto un ragazzino!  -  osservò alla fine lasciandomi andare.
 
Anche il collega al suo fianco si avvicinò per squadrarmi più da vicino. Avrei voluto trovare un atteggiamento un po’ più cordiale almeno nell’altro uomo, in quel suo viso quadrato o in quel corpo grasso, ma in entrambi riuscivo a scorgere solo due tipi squallidi che continuavano a osservarmi ostentatamente e sfacciatamente senza curarsi minimamente del mio disagio.
 
  • No che non sembra un ragazzino, questa è una ragazza…e se non è una ragazza, è un ragazzino molto molto carino.
 
Erano entrambi convinti che fossi un maschio, forse non erano stati informati del mio arrivo.
 
  • In effetti hai ragione… -  commentò occhi da lucertola lanciandomi un’altra occhiata, poi ad un tratto si rivolse a me minaccioso. – Chi diavolo sei?
 
Non risposi. Non mi sembrava una cattiva idea passare per un maschio, avrei di sicuro avuto molti meno problemi. Il tizio di fronte a me però non sembrava intenzionato ad aspettare i miei comodi.
 
  • Non mi piace scherzare, sia chiaro, parla o ti cavo le parole di bocca!
 
Dal tono che aveva usato, sospettavo che non si sarebbe fatto nessuno scrupolo a mantenere la parola. Non potevo fare altrimenti, dovevo vuotare il sacco anche se non ne avevo nessuna voglia.
 
  • Mi chiamo Gwyneth…e non sono un ragazzo. -  risposi in tono basso e aspro.
 
L’uomo col cappello spalancò la bocca e per un attimo mi sembrò che i suoi occhi si facessero ancora più piccoli. Non capivo perché il direttore Pope non avesse messo al corrente del mio arrivo il suo personale. Dovevo provare fin da subito a mostrarmi sicura. Non volevo in alcun modo che qualcuno, detenuto o guardia che fosse, approfittasse del fatto che ero una ragazza per schiacciarmi.
 
  • E’ una donna, Brad. -  mormorò ancora sorpreso il tizio grasso.
  • Grazie, lo vedo anch’io, ma che diavolo ci fa una donna qui?
  • Dovresti fare questa domanda a Pope, è stato lui a prendere questa decisione. -  rispose una voce alle nostre spalle.
 
Ci voltammo tutti e tre nello stesso momento. Nella stanza era appena entrata una donna, scura di carnagione e robusta di costituzione. Portava un camice bianco con una targhetta puntata sul petto che riportava la sua foto e accanto, il nome: Katie Welsh. L’avevo riconosciuta subito. Era stata lei al mio arrivo quella mattina che mi aveva sottoposto alla perquisizione più imbarazzante e mortificante della mia vita. Avevo ringraziato il cielo quando mi era stato risparmiato di essere perquisita da una delle guardie, ma avevo comunque trovato quell’interminabile check up generale molto molto umiliante.
 
  • Katie, che cazzo ci fa qui questa ragazzina? -  grugnì occhi da lucertola.
  • Te l’ho già detto, devi chiederlo a Pope. C’è il più stretto riserbo su di lei.
  • Ma è una ragazza per Dio! Questa è una follia.
  • Non posso farci niente, Brad. La dottoressa la sta aspettando. Scortatela in infermeria.
 
Occhi da lucertola - alias Brad - sbuffò lanciandomi un’occhiataccia, ma decise di non replicare e mi spinse fuori per accompagnarmi come gli era stato chiesto.
Per raggiungere l’infermeria, ci spostammo sul lato opposto della struttura. Fox River era davvero un complesso sconfinato, grazie a quel breve giro turistico però cominciavo a capire come fosse organizzato.
L’infermeria era esattamente come l’avevo immaginata, ma non altrettanto la dottoressa che trovammo nella stanza ambulatorio.
 
  • Buongiorno dottoressa Tancredi. -  fece il losco secondino con voce improvvisamente mielosa quando entrammo.
 
Quando la donna si voltò, quasi rimasi di stucco, e questo principalmente per due ragioni: primo fra tutti, perché mai e poi mai mi sarei aspettata di trovare una donna come lei in un posto come quello.
Era una donna giovane, sui 30 anni e anche molto bella. Alta, straordinariamente slanciata e apparentemente sicura di sé. Aveva i capelli color miele, gli occhi scuri orgogliosi e allo stesso tempo pieni di una grande bontà. Il labbro inferiore era un po’ sporgente, come il mento che le donava un carattere particolare e anche una sfumatura di alterigia. Decisamente non la donna che ci si sarebbe aspettati di trovare in un penitenziario. Il secondo motivo era semplice. Io conoscevo quella donna. Non direttamente, certo. L’avevo vista diverse volte sui giornali, perché Sara Tancredi era diventata un personaggio pubblico da quando suo padre, Frank Tancredi, era diventato governatore dello stato dell’Illinois.
 
  • Salve Brad, entrate pure. -  ci fece accomodare la dottoressa prima di rivolgersi direttamente a me.  -  Tu devi essere la ragazza di cui parla tutto il penitenziario da stamattina. Siediti pure sulla sedia.
  • Sara, tu che ne pensi dell’arrivo di questa ragazzina? Non credi che questa storia…
 
Notai che Brad – occhi da lucertola si era avvicinato quasi con fare intimo alla donna per parlarle sottovoce, anche se riuscivo ugualmente a sentirli. Però avevo la sensazione che fosse più una mossa strategica per fare colpo sulla bella dottoressa che per non farsi sentire. Ed evidentemente non ero l’unica ad essersene accorta.
 
  • Non so che dirti Brad, solo Pope è al corrente della situazione. Dovrai parlarne con lui. Adesso ti pregherei di farmi lavorare. -  rispose lei liquidandolo con malcelato fastidio.
 
A quanto potevo capire la donna non era ugualmente bendisposta nei confronti del viscido secondino. Un punto per la dottoressa.
Finalmente rimaste da sole, dopo che Brad si fu richiuso la porta alle spalle, la donna venne a sedersi di fronte a me, aprendo sul tavolo accanto a noi una cartelletta con su la mia foto e i miei dati.
 
  • Allora…ti chiami Gwyneth Sawyer, vivi in California, a Beverly Hills e hai 24 anni. Non mi sbagliavo, sei molto giovane. -  iniziò scrutandomi attentamente come se dalla mia espressione potesse carpire ciò che non le era stato rivelato. -  Il direttore Pope ci ha informati stamattina che sarebbe arrivato un detenuto un po’ insolito. In questo dossier ci sono informazioni molto stringate sul tuo conto, nulla su cosa facessi prima di essere arrestata, sulla tua famiglia…non c’è niente neanche sulla condanna che ti è stata imputata. Potresti aver investito un cagnolino o aver commesso un omicidio, per quanto ne sappiamo. Non hai niente da dire?
  • Che cosa devo dire? -  chiesi fingendomi ingenua.
  • Per quale reato sei stata condannata?
 
Il suo non era un modo di fare conversazione per conoscermi, glielo leggevo in faccia che era solo curiosa. Le sorrisi enigmatica ma non le risposi. Volevo divertirmi. Si dice che quando una persona ha un segreto che molti bramano di conoscere, è come se tenesse il controllo su di loro.
La donna ci riprovò formulando una nuova domanda, ma ormai avevo deciso di ignorarla e avevo iniziato a studiare ogni dettaglio di quella stanza, distrattamente.
 
  • Hai per caso problemi nella comunicazione?
 
Non la stavo guardando nemmeno.
 
  • Ma senti quello che dico?
  • Sento benissimo, grazie -  risposi ruotando gli occhi verso di lei -  è solo che non mi piace rispondere quando non ne ho voglia. Se quelle informazioni non sono sul dossier e il direttore non l’ha avvertita, un motivo ci sarà, le pare?
 
Sembrò non aspettarsi quella risposta diretta e ci impiegò un po’ad individuare le parole successive.
 
  • Come vuoi. Allora parliamo di quello che ho letto nella tua cartella medica e che, a quanto pare, è anch’esso confidenziale. Sembra che tu soffra di un disturbo di personalità antisociale e di frequenti disturbi dell’umore che arrivano addirittura a causarti crisi di panico…
 
Scrollai le spalle per minimizzare la cosa.  – Non così frequenti.
 
  • Sei bipolare. -  constatò ovvia.
  • Si.
  • E con simili problematiche credi che un penitenziario maschile sia il luogo adatto per scontare una pena detentiva?
  • Qui o in qualunque altro carcere che differenza farebbe?
  • Ne farebbe molta.
  • Io non credo.
 
La dottoressa si accigliò quasi minacciosa.  -  Parlerò personalmente con il direttore e gli spiegherò che non è una buona idea tenerti qui, ne va della tua salute, oltre che della tua sicurezza.
  • Auguri. Mi faccia sapere quando le negheranno la richiesta. -  le risposi sfrontata.
  • Perché ne sei così sicura?
  • Se sono qui è per un motivo.
  • E non me lo vuoi proprio dire questo motivo?  -  Le sorrisi.  - D’accordo. Vista la situazione voglio che tu ti faccia controllare da me almeno una volta a settimana. Avvertimi quando sopraggiungono i primi sintomi e… se dovesse servirti qualcosa o sentissi il bisogno di parlarmi di qualunque necessità…ehm…femminile, io sono qui.
 
Annuii e fui la prima ad alzarmi quando intuii che la conversazione era giunta al termine. Nonostante mi fossi presa gioco di lei, la dottoressa si era dimostrata disponibile nei miei confronti. Non me lo sarei mai aspettata. Forse perché mi sembrava impensabile poter trovare qualcuno di disponibile in un carcere.
Eppure, avevo avvertito qualcosa in quel primo incontro con la figlia del governatore, qualcosa di strano, indecifrabile. Pensavo si trattasse della solita scarsa fiducia che riservavo generalmente agli sconosciuti, ma c’era dell’altro. Il mio sesto senso mi diceva che era meglio non fidarsi troppo di quella donna.
Le porte si aprirono e la mia personale scorta si fece avanti per accompagnarmi alla prossima tappa. Immaginavo che quella fosse la penultima, prima di raggiungere quello che sarebbe stato il mio nuovo alloggio per i prossimi mesi: una cella cupa e desolata.
Venni condotta nell’ala sud del penitenziario per incontrare per la seconda volta il direttore. Quell’uomo era l’unico a conoscere la mia vera identità e il motivo per il quale ero stata condannata. Lui soltanto in tutta Fox River conosceva la mia storia. Anche questa volta le guardie mi lasciarono entrare da sola e io mi ritrovai improvvisamente in una grande stanza spaziosa, illuminata e distintamente arredata. Mi piacque subito.

Era molto ordinata. C’erano una grande scrivania, delle poltrone di pelle nera, un armadio, una cassettiera e un mobile con delle mensole cariche di libri, molti dei quali nuovi e probabilmente mai aperti. Un ufficio tutto sommato classico, ricordava quello di una persona importante, forse per la bandiera degli Stati Uniti che capeggiava a sinistra della scrivania.
 
  • Accomodati pure -  esordì l’uomo in piedi accanto alla finestra dietro la scrivania.
 
Con un gesto indicò la poltrona di fronte a lui e cominciò con l’osservarmi a lungo. Mentre facevo come mi aveva detto, cercai anch’io di studiarlo prima che avesse inizio l’interrogatorio. Henry Warden Pope era un uomo sulla sessantina, corpulento, di statura superiore alla media, con spalle larghe e spioventi che gli davano un aspetto un po’ curvo. Aveva un abito elegante e comodo e un’aria dignitosa, da signore. Il suo viso largo, con gli zigomi grossi, era abbastanza piacente con un colorito fresco e un bel paio di baffi curati. I suoi capelli, ancora molto folti, erano proprio biondi, abbondantemente brizzolati e pettinati all’indietro. I suoi occhi celesti avevano un espressione fredda, attenta e penetrante. Quando riprese a parlare, notai il suo sforzo di suonare affabile e lo apprezzai. Aveva una bella voce autorevole.
 
  • Keith mi ha consigliato di lasciarle qualche secondo perché possa ambientarsi, prima di attaccare con le domande. Dice che lei è un tipetto molto particolare e che tende a diventare piuttosto vaga e irritante quando si sente minacciata.
  • Keith mi conosce bene.
  • Signorina Hudson, non so cosa significhi trovarsi di fronte ad una ragazza lei e non starò di certo qui a far finta di saperlo, né tantomeno di sentirmi onorato, perché non lo sono, anzi, cercherò di non girarci troppo attorno e di arrivare subito al punto. Continuo a non essere molto felice della sua presenza nel mio carcere. Non mi fraintenda, non ho niente contro di lei. Conosco il motivo per cui è stata condannata e so che non potrebbe essere considerata neanche lontanamente pericolosa o alla stregua del più docile dei detenuti di questo istituto detentivo.
 
Su questo, di sicuro, ci trovavamo d’accordo.
 
  • Lei è una donna e come certamente saprà non dovrebbe stare qui, -  continuò  -  ma Keith Sawyer è un buon amico. Mi ha chiesto aiuto perché crede che qui lei sarà più al sicuro, anche se personalmente io non lo credo affatto. Gli dovevo un favore, per questo e solo per questo lei si trova qui.
 
“Ah ecco” pensai ammirata, “e bravo Keith, aveva fatto leva su vecchi debiti del passato. Furbo.”
 
  • Ciò non annulla la mia preoccupazione. Questo è da considerarsi un caso senza precedenti e temo per le conseguenze che la sua presenza possano scatenare…
 
Senza attendere la fine, feci l’errore di interromperlo e come risultato mi beccai un’occhiata truce che bloccò le mie ultime sillabe in gola. Poi continuò come se il mio intervento non fosse mai avvenuto.
 
  • Keith mi ha descritto a grandi linee la sua situazione. Lei…tu…posso darti del tu? -  Annuii. -  Tu da oggi e per i prossimi tre mesi verrai considerata un detenuto come tutti gli altri. Se sbaglierai, pagherai come gli altri, se farai di testa tua, finirai per passare qui dentro più tempo del dovuto. Ti sono state spiegate le nostre regole?
 
Annuii di nuovo. All’improvviso era come se fossi passata sotto esame, sentivo nei confronti di quell’uomo una sorta di rispetto reverenziale. Quella infondo era un po’ come casa sua e io non ero altro che un ospite.
 
  • Bene. -  rispose iniziando a ripetere dettagliatamente quello che mi era stato già spiegato al mio arrivo a Fox River.
 
Mi sarebbe stato presto assegnato un lavoro con il quale avrei guadagnato dai due ai quattro dollari al mese, ma se non mi fossi presentata ad ogni turno, sarei stata spedita immediatamente in cella di rigore e ci sarei rimasta per una settimana. In caso di recidiva – mancanza al lavoro per la seconda volta – la punizione si sarebbe allungata a 30 giorni. Il rifiuto a collaborare, insieme a negligenza, atti violenti, possesso di droghe, armi e oggetti contundenti di qualunque tipo, poteva essere punito con la cella di isolamento per sei mesi.
 
  • Troverai il resto su un cartoncino appeso nella tua cella con ognuna delle principali regole scritte in stampatello ben leggibile. Domande?
 
Feci di no con la testa. Wow, credevo non me l’avrebbe mai chiesto, e cominciavo a pensare che si trattasse di una conversazione unidirezionale, come d’altronde lo era stata fino a quel momento.
 
  • Keith mi ha spiegato il motivo per cui il giudice non ha voluto concederti gli arresti domiciliari. Condivido la sua decisione se è pensata allo scopo di darti una lezione. Per esperienza so che molte persone non sempre riescono a capire quando sbagliano e ho la netta sensazione che tu non solo non lo abbia capito, ma che non ne sia neanche dispiaciuta, dico bene?
 
In tutta risposta mi strofinai il naso asciutto con l’indice e scrollai le spalle.
 
  • Immagino tu sappia esprimerti anche a monosillabi oltre che con gesti paralinguistici.
  • Si signore. -  risposi finalmente, dato che mi aveva invitata indirettamente a farlo.
  • Ottimo. Adesso voglio elencarti quali disposizioni ho deciso di apportare per la tua sicurezza.
  • Non voglio delle disposizioni diverse rispetto agli altri detenuti.
  • Non credo che tu sia nella posizione di chiedere cosa volere o non volere. -  mi rimproverò con tono autoritario. -  E comunque sono delle disposizioni necessarie. Sei una ragazza diamine, e non voglio rischiare di buttare al vento quarant’anni di carriera solo per farmi massacrare dai media e condannare pubblicamente per aver accettato di accogliere una ventenne nella mia struttura. O credi che qui capiti tutti i giorni di invitare ragazzine per far divertire i detenuti?
  • Certo che no.
 
L’uomo sospirò passandosi una mano tra i capelli. Si vedeva lontano un miglio che quella situazione lo metteva a disagio, procurandogli non pochi grattacapi.
 
  • Qui dentro sono rinchiusi uomini pericolosi, alcuni dei quali condannati a scontare diversi ergastoli, uomini che non vedono una donna da anni. Se credi che tre mesi qui a Fox River siano paragonabili ad una piacevole passeggiata in campagna, credo che tu ti sia fatta un opinione sbagliata. E se il mio vecchio amico Keith è così stupido da credere che un penitenziario maschile sia un posto sicuro dove nascondere la sua pupilla, allora credo di aver conosciuto un uomo molto più sveglio.
  • Signore, io non credo che…
  • Sarò chiaro fin da subito con te Gwyneth, così come lo sono stato con Keith quando al telefono mi ha fatto questa richiesta assurda. Non voglio alcuna responsabilità su quello che accadrà durante il tuo periodo di detenzione. Farò tutto il possibile per evitare che si presentino condizioni favorevoli ad abusi e violenze, ma capirai che non posso garantirti una protezione a 360° e non voglio neanche che tu me lo chieda.
  • Non ho intenzione di farlo. Non pretendo nulla, so già a cosa sto andando incontro, so che la mia incolumità dipende da me stessa.
 
Il volto del direttore sembrò rilassarsi, ma solo per un millesimo di secondo. Avrei potuto giurare che in quel momento stesse maledicendo il mio patrigno per avergli scaricato sulle spalle quella responsabilità.
 
  • Detto questo, ecco le disposizioni di cui ti ho appena accennato: ti verrà assegnata una cella singola. Solitamente i detenuti vengono assegnati alle celle per coppie, ma vista la particolarità del tuo caso ho ritenuto opportuno fare in modo che tu non abbia rapporti troppo ravvicinati con i detenuti. Gli orari di accesso alle docce ovviamente sono prestabiliti. Tu avrai orari diversi. La mattina entrerai dopo che tutti gli altri avranno finito e la sera, prima che comincino ad entrare i primi gruppi. Per l’assegnazione dei lavori, per gli orari di accesso alla mensa e per tutto il resto non posso fare niente, dovrai adeguarti a mescolarti ai tuoi compagni di disgrazie.
  • D’accordo.
  • Un’ultima cosa. -  puntualizzò prima che potessi anche solo sperare che la conversazione fosse conclusa. -  Voglio ribadire qualche altro punto fondamentale che credo implicito, ma che per correttezza voglio sia chiaro. Punto primo: niente relazioni con i detenuti. Non approvo alcun tipo di rapporto nel mio carcere, né con i detenuti, né con le guardie, né con il resto del personale. Sappi che alla minima avvisaglia verrai trasferita ancor prima che te ne renda conto.
  • Posso farcela. -  risposi ammiccando. Mi sembrava a dir poco inverosimile l’idea di poter fare amicizia lì dentro, figuriamoci pensare ad altro.
  • Punto secondo: niente favoritismi. A parte le poche disposizioni di cui ti ho parlato, non ho alcuna intenzione di trattarti in modo diverso solo perché sei una ragazza o perché sei la figlia acquisita del mio amico. Tu per me sei un detenuto come tutti gli altri, quindi non ti aspettare di poter venire qui e chiedere un trattamento diverso, perché non lo avrai.
  • Ok, ho capito.
  • Punto terzo e più importante della lista…
 
“Oddio, c’è anche un punto terzo”.
 
  • …non cacciarti nei guai e cosa ancora più importante, non mettere me nei guai. E’ tutto. Una guardia ti scorterà nella tua cella…GUARDIA!!
 
Due secondi dopo, un uomo di colore dal portamento militaresco, diverso dai due secondini che l’avevano preceduto, entrò nella stanza del direttore, mi sistemò le manette ai polsi e mi spinse delicatamente fuori.
Ripercorremmo nuovamente la strada a ritroso finché ad un certo punto l’uomo, serio e professionale proprio come doveva essere una guardia, mi fece cenno di svoltare verso est.
Era arrivato il momento di tornare nel Braccio A. Adesso si che cominciavo a sentirmi veramente a disagio. Da quel momento in avanti sarei stata a contatto con i detenuti, mi sarei mescolata a loro com’era successo quella mattina in cortile. Da quel momento sarei stata una di loro.

Appena varcammo l’ultima porta massicciamente blindata, una valanga di voci, urla e schiamazzi ci travolse in pieno. Vidi alcune guardie sbattere contro le sbarre delle celle i loro manganelli per intimare agli uomini chiusi all’interno di fare silenzio, mentre sentivo pervadermi ad ogni passo da un’inquietante tremarella.
Ero appena scesa nel primo girone dell’inferno.

Avevo la sensazione di essere improvvisamente piombata sul set cinematografico di Alcatraz, l’antica prigione che dopo la chiusura venne trasformata nella suggestiva location per diversi film sulle evasioni impossibili. Il blocco era strutturato su tre piani sia sul lato destro che su quello sinistro, e su ogni piano si alternavano file di celle accostate l’una accanto alle altre. I vari piani si potevano raggiungere attraverso delle rampe di scale situate una all’entrata e una all’uscita. Tutti i detenuti in quel momento erano nelle loro celle, ma sembrava che la mia entrata in scena avesse appena scatenato l’apocalisse. Era come trovarsi in uno zoo pieno di scimmie selvatiche in gabbia che hanno appena visto entrare una banana. La banana, in quel caso, ero io.
 
  • Ehi, la bambina è caduta nel girone dei cattivi. Ora si che ci sarà da divertirsi! -  sentii gridare dall’alto, mentre fischi e risate si susseguivano.
  • Mettetela nella mia cella, vi prego! -  fece un altro.
  • Vieni qui bambolina, facciamo amicizia!
 
A testa bassa percorsi l’intero corridoio. La mia cella era quella accanto alla stanza di controllo delle guardie dalla quale venivano gestite l’apertura e chiusura delle celle.
 
  • Apri la 93! -  gridò la guardia al mio fianco senza voltarsi.
 
La porta della cella di fronte a noi si aprì e io entrai nel mio nuovo alloggio, una stanza 6 metri per 3 che odorava di disinfettante e umidità. Ecco a cosa avrei dovuto abituarmi da quel giorno in avanti: un letto a castello con un materasso sottile e all’apparenza neanche tanto comodo, un lavabo accanto ad un water e una vista mozzafiato sulle celle di balordi e criminali della peggior specie.
Prima che le sbarre si chiudessero alle mie spalle, una voce dall’alto, probabilmente quella di un detenuto, gridò:
  • Benvenuta a Fox River, dolcezza!
 
Più tardi, recandomi a mensa con gli altri detenuti per la cena, ripensai a quel primo giorno che credevo ormai giunto al termine. Avevo conosciuto uno dei peggiori assassini della storia e addirittura il fratello di Burrows, avevo fatto “amicizia” con la figlia del governatore dell’Illinois e scatenato fantasie perverse nella mente di un intero blocco di galeotti. Adesso avrei dovuto escogitare un piano per trovare il condannato a morte, ottenere la sua fiducia e spingerlo a raccontarmi ciò che sapeva. Nel frattempo avrei fatto amicizia col fratellino. Chissà che anche lui non potesse tornarmi utile. Insomma, proprio un lavoretto da niente.
 
“Un passo alla volta Gwen.”
 
Per il momento dovevo solo preoccuparmi di superare incolume l’ora di cena.
Già, una parola.
Riuscii a stento a riempire il vassoio con tovagliolo, posate, panino sigillato, una bottiglietta d’acqua e una ciotola con dentro una strana poltiglia verde che non avevo la benché minima idea di cosa potesse essere, quando all’improvviso un tipo con il berretto blu in testa finse di imbattersi in me accidentalmente, spingendomi a terra.
 
  • E sta attenta, idiota! -  imprecò per giunta disturbato.
 
Inutile descrivere la fine miserevole che fece il mio vassoio. Volò tutto in terra. L’abominio verde nel mio piatto era finito tutto sui miei pantaloni e il panino sigillato dentro una bustina trasparente era scivolato, sempre accidentalmente, sotto il piede del beota che aveva posizionato il piede perché io cadessi dopo che il suo complice mi aveva spinta. Incredibile ma vero, non solo la mia rovinosa caduta era riuscita a scatenare le chiassose risate dell’intera sala, ma era riuscita ad attirare anche l’attenzione delle guardie, infastidite che avessi creato scompiglio e sporcato il pavimento.
 
  • Alzati forza! -  “Oh, riecco occhi da lucertola.” -  Cos’è, sei per caso stupida? -  mi rimproverò guardandomi come se fossi stata un verme.
  • Ma io veramente…
  • Alza quel culo da terra! -  abbaiò con un misto di odio e repulsione.
 
Non mi sembrò il caso di farmelo ripetere.
 
  • Allora, ti ha spinta qualcuno o sei solo troppo stupida per percorrere un rettilineo senza inciampare sui tuoi stessi piedi?
 
Mi chiesi che diavolo di problema avesse quel tipo contro di me. Non lo conoscevo neanche e già lo odiavo. Avrei voluto afferrare il vassoio e scaraventarglielo in testa, anche solo per avere la soddisfazione di togliergli dalla faccia quell’espressione disgustata. Invece dovevo controllare la mia furia omicida. Di dire come erano andate realmente le cose non se ne parlava neanche. Non solo ero certa che quel celebroleso di un secondino non mi avrebbe creduta, ma avrei anche contribuito ad allungare ulteriormente la lista di nemici che non potevo permettermi là dentro.
 
  • Allora, hai qualcosa da dire?
  • No, sono solo inciampata.
  • Fallo un’altra volta e ti ritroverai a pulire quello che arriva sul pavimento con la lingua, mi sono spiegato bene ragazzina? -  sbottò minaccioso strattonandomi per un braccio perché mi togliessi dai piedi.
 
Dovetti andare a cercarmi un posto, ma naturalmente non potei recuperare né vassoio, né cena. La politica del carcere era chiara: se non eri in grado di apprezzare il cibo che ti veniva offerto, saresti rimasto a digiuno. Se la tua porzione finiva a terra, dovevi aspettare la prossima. Mentre camminavo tra le fila di tavoli a testa bassa alla ricerca di un posto isolato e libero, incrociai lo sguardo viscido di T-Bag, che insieme al suo gruppo mi stava fissando con un’espressione che sembrava voler dire “non hai ancora visto niente”.
Lo ignorai e finalmente trovai un posto sull’ultima fila. Il mio stomaco gorgogliava rumoroso, non mangiavo niente da quella mattina e avevo fame. Dovevo solo tenere duro per altri 89 giorni, pensai amareggiata. Tenere duro non era un problema, era tenersi fuori dai guai il difficile.
Potevo impegnarmi quanto volevo, ma i guai sarebbero stati una costante della mia vita.

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Capitolo 3
*** Abruzzi: il re della giungla ***


Mi resi conto molto presto che se volevo sopravvivere in quell’ambiente dovevo trovare degli agganci, o perlomeno, qualcuno che in caso di bisogno fosse stato disponibile ad appoggiarmi.
Già, ma chi poteva essere così stupido? A Fox River la categoria uomo prevedeva soltanto due fasce, e purtroppo non faceva distinzioni tra guardie e detenuti.
Da un lato c’erano quelli che preferivano tenersi fuori dai guai e che ovviamente preferivano tenersi il più possibile lontani da me. Non serviva un’arca di scienza per capire che una donna in un posto del genere non avrebbe potuto far altro che portarsi guai dietro. Dall’altro lato c’erano tutti gli altri, quelli che volevano letteralmente saltarmi addosso e purtroppo per me, questa seconda fascia era molto più affollata della prima, quindi se volevo superare incolume quei 90 giorni dovevo trovare qualcuno che potesse essermi utile.
  • E’ neve. -  dissi a voce alta affinché l’ometto occhialuto accanto a me potesse sentirmi. -  E’ neve la quarta verticale che non hai risolto. “Gli eschimesi la definiscono in 30 modi diversi.” Neve.
L’uomo si voltò guardingo fissandomi come un’appestata.
Era da poco scattata la prima ora d’aria del mio secondo giorno da detenuta. Questa volta avevo deciso di scegliermi una panca occupata da alcuni detenuti solitari e improbabilmente pericolosi per cercare di far passare il tempo e tenermi lontana dai guai. Avevo capito che stare troppo isolata era un’idea persino peggiore che provare a fraternizzare. Lì, prendendo posto, avevo incrociato lo sguardo preoccupato di un ometto sulla sessantina che teneva un gatto dentro la casacca per proteggerlo dal freddo pungente e che in mano aveva un giornaletto di enigmistica. Gatto ed enigmi erano stati due punti a suo favore, per questo avevo deciso di avvicinarmi.

Quando l’uomo si era accorto che andavo a sedermi non lontano da lui, mi aveva guardata più volte diffidente, un po’ come si guarda un cane ricoperto di zecche augurandosi che non si avvicini per non doverlo scacciare via. Ero sicura che avesse anche considerato la possibilità di allontanarsi e cercarsi un’altra panca. Alla fine era rimasto, tornando a concentrarsi sui suoi cruciverba. 
  • Come lo sai?-  si decise infine a chiedermi. -  La seconda lettera qui è la A. Come può essere Neve la risposta esatta?
  • Perché la 14 orizzontale è sbagliata.
  • Ah si?...E qual è la risposta corretta?
  • Gendarme.
 Restò a fissarmi non del tutto convinto per un paio di secondi, finché si decise a scrivere le due risposte che gli avevo suggerito.
  • Mi piacciono i gatti, sai? Da piccola ne avevo uno, si chiamava Dylan…il tuo come si chiama? – ripresi amichevolmente.
  • E’ una lei. Si chiama Marylin.
  • Posso tenerla? -  provai.
 Ennesima occhiata guardinga, poi afferrò il gatto e me lo depositò sulle gambe. Avevo appena raggiunto il primo traguardo, mi ero conquistata la sua fiducia.
Accarezzai delicatamente il felino sulla testolina pelosa, procedendo con il secondo passo: fare amicizia. 
  • Io mi chiamo Gwen comunque. Gwen Sawyer.
  • Charles Westmoreland. Sembra che tu piaccia alla mia Marylin, di solito non è così tranquilla in braccio ad uno sconosciuto.
  • Si vede che anche lei, come il resto dei detenuti di questo carcere, non ha mai visto una donna qui dentro e apprezza le novità.
 Un sorriso appena accennato comparve sul viso dell’ometto, questo significava che stavo riuscendo nell’impresa. Ottimo!
  • Così ti chiami Charles Westmoreland. -  continuai grattando il musino a Marylin -  Ho sentito dire però che tu sei D. B. Couper. Scusa la domanda, ma chi diavolo è D. B. Couper?
 Finalmente una risata.  – Non conosci la storia del fantomatico D. B. Couper? L’uomo che è riuscito a lanciarsi da un aeroplano con un milione e mezzo di dollari e un paracadute malconcio?
  • Noo, sul serio? Forte! E quell’uomo sei davvero tu?
  • Credi che quell’uomo possa essere io? Magari potesse esserci un bel milioncino ad aspettarmi fuori da qui, mi farebbe comodo.
  • Che peccato, sarebbe stato bello poter raccontare di aver conosciuto in galera una simile celebrità.
 Questa volta il vecchio mi lanciò un’occhiata scrutatrice, mentre io fingevo di non notarla. 
  • Senza offesa, tu non sei proprio il tipo che avrei creduto di incontrare qui dentro. Si racconta che la tua presenza a Fox sia circondata da un alone di mistero e che addirittura neanche le guardie si aspettassero il tuo arrivo.
  • E’ vero. Solo il direttore ne era informato. -  risposi fingendomi indifferente.
  • Ma perché ti hanno spedita in una prigione maschile?
Scrollai le spalle.  -  Gran bella domanda.
  • Allora è vero che c’è sotto un segreto. Beh, a me basta sapere che piaci alla mia Marylin.
Ammiccai nella sua direzione.  -  Senti Charles, mi è stato detto che presto mi verrà assegnata un’occupazione o che in alternativa potrei scegliere tra i vari gruppi di lavoro già presenti e chiedere al capogruppo se è disponibile ad integrarmi, ma io non ho la più pallida idea di cosa scegliere.
  • Posso aiutarti io.
Charles cominciò col descrivermi tutti i vari lavori che potevano essere svolti all’interno di una prigione, quelli che lui considerava i più sicuri, quelli da evitare assolutamente. A quanto potevo capire un lavoro valeva l’altro, ma i più furbi si tenevano lontani da quelle occupazioni che contavano tra i propri membri tipi poco raccomandabili. I lavori nel penitenziario venivano assegnati in base alle esperienze, un po’ come nel settore amministrativo.
Mi chiesi che tipo di lavoro fosse stato assegnato a Lincoln Burrows. 
  • Posso chiederti una cosa, Charles? Nel Braccio A ci sono sezioni di detenuti staccate, per motivi particolari, rispetto alla nostra?
  • Perché questa domanda?
  • Niente di che, è che sono un po’ fissata con i calcoli. Stamattina ho fatto un rapido conteggio dei detenuti presenti nel Braccio A sia a mensa che qui in cortile e ho notato una differenza netta rispetto al calcolo dei detenuti chiusi nelle loro celle…
  • Ti sei messa a contare tutti i detenuti a mensa e durante le ore d’aria? -  chiese guardandomi attraverso gli occhialetti con fare scettico.
Avrei voluto rispondergli che quando a mensa ti spediscono a posto senza nulla da mangiare e fuori in cortile devi guardarti continuamente le spalle, si rischia di trovare passatempi simili. Però avevo come la sensazione che fosse meglio non ricordare al vecchietto lo sbaglio di aver fatto amicizia con una donna e una potenziale calamita per i guai. 
  • Beh vediamo…può capitare che le ore d’aria coincidano con visite di parenti o avvocati. Poi ci sono le giornate coniugali in cui ti viene messa a disposizione una stanza e puoi trascorrere un’ora in completa libertà col tuo compagno, e poi…a volte capita che qualcuno debba recarsi in infermeria…in effetti questo capita molto spesso… -  Ci credevo. Le ore di libertà in cortile dovevano essere i momenti più gettonati per spedire qualcuno in infermeria. -  …e c’è anche la sezione riservata ai condannati a morte, che svolgono attività diverse e occupano le celle al di là dell’inferriata.
La nuova informazione riuscì a catturare completamente la mia attenzione.  -  Sul serio a Fox River ci sono dei condannati a morte?
  • In realtà ce n’è solo uno. Lo hanno assegnato ai lavori di laboratorio per tenerlo lontano dal resto dei detenuti. Se ne sta sempre per conto suo. E’ un tipo strano.
“Beh, è un condannato a morte!”
Chissà se Charles parlava di Burrows. Avrei anche potuto chiederglielo, ma non volevo destare sospetti e suonare più curiosa del dovuto. 
  • In che consiste il lavoro al laboratorio?
Charles mi rivolse uno sguardo penetrante. -  Meglio che te lo scordi di farti assegnare proprio lì, lo dico per il tuo bene.
  • Perché?
  • Semplice. Il lavoro al laboratorio non viene assegnato dalle guardie. Il responsabile è John Abruzzi, è lui che sceglie i collaboratori.
Inarcai un sopracciglio, fingendomi sorpresa. -  John Abruzzi? Stiamo parlando proprio di John Abruzzi il mafioso?
  • Proprio lui. Se vuoi un consiglio, è molto meglio stare alla larga da quell’uomo.
Suonava proprio come un ottimo consiglio, ma se volevo scoprire se il condannato a morte di cui mi aveva appena parlato Charles era Lincoln Burrows dovevo arrivare a quel laboratorio. E dovevo farlo subito.
Restituii Marylin al vecchio salutando i miei due nuovi amici, prima di dileguarmi con una scusa per mettermi alla ricerca di John il mafioso. Non era nei miei programmi di ingraziarmi il re della giungla di Fox River, ma dovevo assolutamente farmi assegnare al laboratorio prima che le guardie mi appioppassero un qualunque impiego.

Fu più facile del previsto rintracciare Abruzzi. L’uomo si stava divertendo a giocare a carte, seduto in un angolo all’interno del Braccio in compagnia dei suoi scagnozzi. Era circondato da almeno dieci uomini, più protetto di un senatore. Arrivare a lui sarebbe stato più difficile che chiedere un’udienza privata alla regina Elisabetta. Nel momento stesso in cui mi avvicinai infatti, uno dei suoi uomini notandomi mi si parò davanti squadrandomi dalla testa ai piedi con aria infastidita. 
  • Che diavolo vuoi? -  Diretto il tipo.
  • Vorrei parlare con John Abruzzi. -  risposi.
Alle spalle del bodyguard, il diretto interessato non si preoccupò neanche di sollevare un sopracciglio nella mia direzione. 
  • Sparisci pulce! -  esclamò il nerboruto a due passi da me.
  • Magari lui vuole ascoltare quello che ho da proporgli. -  riprovai alzando la voce perché il capo mafia mi sentisse.
  • Non te lo ripeterò un’altra volta.
Il tono minaccioso mi fece capire che continuando in quel modo non avrei ottenuto gran che. Dovevo cambiare tattica, dovevo attirare la sua attenzione senza farmi pestare a sangue dal colosso che avevo di fronte. All’improvviso, puntellai contemporaneamente i pugni sui fianchi e sospirando rumorosamente, dissi a voce piuttosto alta:
  • Dio, odio quando si fa finta di non considerarmi! Ehi capo!! Devo togliermi la maglietta per ottenere un’udienza?
Finalmente il volto truce del pluripregiudicato alzò il suo sguardo e incontrò il mio, inizialmente infastidito fino ad ammorbidirsi successivamente in un sorriso di sfida. 
  • E’ un’offerta interessante! -  rispose.
Gli altri risero circondandomi. Nell’intera struttura calò il silenzio.
 
“E brava Gwen, hai ottenuto attenzione, e ora?” 
  • Ne sono certa… -  Sorrisi sostenendo il suo sguardo. Non avevo intenzione di lasciarmi intimidire. -  …in realtà, l’offerta è un’altra.
  • Beh, qualunque cosa tu abbia da offrire, non m’interessa. Non mi diverto con le ragazzine. -  disse vagliandomi attentamente, come fossi stata esposta in una bancarella al mercato. 
Ecco un altro tipo squallido dal quale avrei dovuto girare alla larga. Magro e segaligno come un maratoneta, Abruzzi aveva un’espressione fissa sul volto, sdegnosa. Aveva capelli lunghi pettinati all’indietro, ma si radeva e avevo la sensazione che avesse curato il suo aspetto come se dovesse recarsi ad una festa. Insomma, il classico mafioso italiano. Ne avevo visti a centinaia come lui in televisione. 
  • Vorrei un lavoro al laboratorio. -  dissi senza mostrare un briciolo di esitazione.
Un secondo dopo, tutti stavano ridendo rumorosamente, tranne Abruzzi. Lui ammiccò soltanto nella mia direzione, prima di esclamare:
  • Sparisci!
Restai di sasso. Mi ero aspettata almeno un qualche tipo di contrattazione. 
  • Perché non posso lavorare al laboratorio? Perché sono una donna?
Il capomafia sventolò una mano in aria e si rimise a giocare a carte. Il discorso era terminato, ma io non avevo ancora gettato la spugna. Non so come mi venne in mente di fare un passo avanti per lamentarmi, so solo che nel giro di un ventiquattresimo di secondo mi ritrovai con il sedere per terra, circondata da ghigni divertiti ovunque guardassi dopo che il bodyguard nerboruto mi aveva dato una spinta per allontanarmi. Non avrei combinato niente con Abruzzi, non quel giorno almeno, questo mi era chiaro. Non potevo far altro che rinunciare.

Digerendo la magra figura, mi rialzai ripulendomi i pantaloni dallo sporco. Solo allora, in mezzo a tutte quelle facce sghignazzanti, notai in alto, al piano superiore, due occhi azzurri che mi stavano fissando. Lo riconobbi subito, era il fratello di Burrows, Michael Scofield. Mi aspettavo di leggere anche nel suo sguardo un’espressione divertita, invece non la trovai. Il ragazzo continuò a fissarmi finché non fui io a distogliere lo sguardo per ritirarmi dopo la bruciante sconfitta appena incassata.

Non riuscivo a credere di aver così miseramente fallito. Non mi aspettavo certo che John Abruzzi accettasse la mia richiesta con un sorriso e una stretta di mano, ma neanche che mi chiudesse la porta in faccia con tanto di disprezzo gratuito. Gli avevo chiesto un lavoro, non un posto d’onore nella sua cerchia privata, maledizione. Dovevo assolutamente rintracciare Lincoln Burrows, ma l’impresa si stava rivelando persino più complicata del sopravvivere in quel posto dimenticato da Dio.
Alla fine del turno d’aria, dopo che tutti i detenuti furono tornati nelle loro celle, una delle guardie mi raggiunse per consegnarmi un tesserino e un pass per le cucine. Ora anch’io avevo un lavoro: scrostare pentoloni puzzolenti e lavare piatti e posate fino a farmi sbiancare le mani.
 
“Ma che fantasia, una donna in cucina!”
 
Più tardi a mensa si ripeté lo stesso repertorio del giorno prima, ma con modalità diverse. Dopo essermi riempita il vassoio ed essermi guardata intorno per individuare un posto libero, un tatuato da circo mi si avvicinò disinvolto, fingendo di passarmi accanto per farmi volare il vassoio dalle mani. Per fortuna era tutta roba solida e non dovetti “leccare niente dal pavimento”. Questo era il lato positivo. Il lato negativo fu che dovetti sorbirmi l’ennesima strigliata da occhi da lucertola che ormai, come avevo imparato, rispondeva al nome di Bradley Bellick. 
  • Ragazzina, lasciatelo dire, sei proprio una spina nel fianco. Ora raccogli tutto e trovati un posto dove stare buona.
Quando alzai gli occhi verso il secondino, in piedi accanto a me con i pugni piantati sui fianchi e l’espressione evidentemente scocciata, cominciai ad innervosirmi anch’io e una lunga serie di pensieri omicidi cominciarono ad accumularsi nella mia mente. Avevo una fame del diavolo, il cibo era finito sul pavimento perché l’ennesimo idiota non aveva avuto nient’altro da fare che accanirsi contro di me, io sarei rimasta nuovamente a stomaco vuoto e come se non bastasse, dovevo sentirmi anche rimproverare da un beota di secondino con un neurone e mezzo in testa. 
  • Brava, ora smamma! -  continuò il sadico secondino dopo che ebbi finito di raccogliere i rimasugli della mia cena. -  Dammi il vassoio e sparisci. Anche questa volta resterai a stomaco vuoto.
Era troppo.  -  Capo, a pranzo non ho toccato cibo, lasciami prendere almeno il…
Mi sentii trucidare con un’occhiata.  -  Sparisci dalla mia vista.  -  sibilò.  -  Prova a rispondermi un’altra volta e per i prossimi 7 giorni berrai solo acqua… Sei ancora qui?!
 
In quel momento desiderai ardentemente che potesse uscire fuoco dai miei occhi per poter carbonizzare Bradley la lucertola. Purtroppo non accadde nulla. L’uomo si fece ancora più minaccioso e posò una mano sul manganello che portava al fianco. Non avevo dubbi che lo avrebbe usato. 
  • Per caso c’è qualcos’altro che tu voglia dire?
Sbuffai aria dal naso come un toro inferocito ma fu tutto quello che potei fare, insieme ad un dietrofront di resa. Mi sentivo così umiliata. Prima Abruzzi, poi Bellick. Sarei mai riuscita a trovare qualcuno che non volesse schiacciarmi come un insetto? Come se il peggio non volesse proprio giungere al termine, trovai tutti i posti occupati. Qualcuno doveva proprio avercela con me, stava andando tutto dannatamente storto, finché all’improvviso accadde qualcosa di assolutamente inaspettato. 
  • C’è un posto libero qui al nostro tavolo.
Mi voltai distratta pronta ad abbaiare a chiunque avesse voluto prendersi gioco di me, invece mi trovai davanti il viso gentile di Michael Scofield che mi indicava la sedia libera alla sua destra. Restai letteralmente a bocca aperta quando mi accorsi che oltre a lui, erano presenti allo stesso tavolo anche altri due uomini. Uno era il suo compagno di cella che si era presentato come Fernando. L' altro era un uomo corrucciato che riconobbi all’istante.

Che incredibile colpo di fortuna! Ecco l'uomo che stavo cercando. Mi ero quasi fatta pestare dagli scagnozzi di Abruzzi per incontrarlo e adesso me lo ritrovavo davanti per caso, non riuscivo a crederci. Finalmente avevo scovato Lincoln Burrows!

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Capitolo 4
*** Segreti ***


Si, non c'era alcun dubbio. Quello era proprio Lincoln Burrows.
  • Grazie. -  risposi, sedendomi a capotavola tra i due fratelli. 
Per una manciata di secondi mi sentii scrutare con fare critico dai tre componenti del gruppo che mi avevano invitata ad unirmi a loro. L’atteggiamento di Burrows in particolare mi mise a disagio, anche se sospettavo che un tipo come lui riuscisse a mettere a disagio chiunque. L’uomo aveva un aspetto massiccio, spalle larghe, poderose, un accenno di barba sul viso e i capelli tagliati cortissimi sulla grossa testa rotonda che aveva la nuca sporgente e arrotondata. Lo sguardo dei suoi occhi però era stranamente in contrasto con tutta la sua figura, la sua espressione corrucciata gli conferiva una perenne portata minacciosa. 
  • Perché mi fissi? -  chiese improvvisamente l’uomo inchiodandomi con i suoi occhi chiari.
  • Scusa… non volevo… -  mi giustificai imbarazzata.
  • Ti do un consiglio, non stare a fissare la gente qui dentro o non arriverai a fine giornata.
  • E’… un ottimo consiglio… grazie. 
Non mi sembrava che fosse così bendisposto nei miei confronti come il fratello. Me lo sarei dovuta lavorare più del previsto allora. No problem.
Scofield mi allungò il suo panino ancora sigillato nella bustina di plastica, cercando di non dare nell’occhio. 
  • No grazie, non ho fame.
Le mie parole vennero immediatamente smentite da un gorgoglio basso proveniente dal mio stomaco. Arrossii all’istante quando mi resi conto che il rumore si sarebbe potuto sentire anche da coloro che occupavano le file più avanti.
 
Il ragazzo sorrise.  – Non si direbbe. Dai prendilo, io sono sazio.
  • Meglio di no, ti caccerai nei guai se le guardie se ne accorgono.
  • Allora tu sii discreta.
Avevo troppa fame per fare la schizzinosa, però non volevo mostrarmi così disperata con dei detenuti. 
  • E’ meglio che lo ascolti -  intervenì Fernando. -  Mi sa che il gruppetto di T-Bag ti ha presa di mira. Per un po’ andranno avanti così e tu non potrai sopravvivere senza nutrirti.
Qualcosa mi diceva che Fernando avesse ragione. Con un gesto rapido afferrai il panino e lo nascosi sotto la felpa, più grande rispetto alla mia taglia di almeno tre misure. 
  • Hai avuto fegato prima ad affrontare John Abruzzi, mi hai sorpreso. -  continuò Scofield.  -  Come mai ci tieni tanto a lavorare al laboratorio?
Feci spallucce.  -  E’ solo perché così potrei tenermi lontana dai guai… o perlomeno starmene alla larga da T-Bag.
  • Che bell’affare! -  bofonchiò Burrows. -  Ti toglieresti di torno il depravato e lavoreresti a stretto contatto con il mafioso.
  • Tu lavori al laboratorio, vero? -  gli chiesi prendendo subito la palla al balzo. -  Com’è lì l’atmosfera?
  • Niente di speciale. -  rispose apatico.
Beh, non si poteva certo dire che il tipo desse molti spunti per una conversazione, ma perlomeno ero riuscita a trovarlo. Forse non sarei mai riuscita a mettere piede al laboratorio, però avrei potuto trovare Lincoln Burrows a mensa. Certo, prima avrei dovuto conquistarmi un posto fisso al loro tavolo e cercare di fare amicizia col gruppetto di galeotti.

“Impegno Gwen, impegno!” 
  • Che strano questo tatuaggio. -  dissi osservando il braccio di Scofield. -  Che cosa rappresenta?
  • La solita lotta tra il bene e il male. -  mi sentii rispondere in modo vago.
Cominciai ad osservare il disegno attentamente, chiedendomi quanto fosse grande. Il braccio sinistro ne era completamente ricoperto fino al polso e la stessa cosa si ripeteva anche per il destro. Doveva trattarsi di un disegno molto esteso. Ero quasi certa che oltre le maniche arrotolate della felpa, il tatuaggio risalisse fino alle spalle. 
  • Quella sembra la spada di Damocle. -  continuai indicando il braccio destro.
  • Si esatto. Conosci la leggenda?
Non risposi. Ero affascinata da quel disegno così intricato, avrei tanto voluto chiedergli di mostrarmi anche il resto se non fosse parso un tantino sfacciato. 
  • Sembra un disegno senza logica… decisamente utilizza un linguaggio figurativo gotico… sembra un percorso. E’ un gran capolavoro, quanto tempo hai impiegato per fartelo fare?
Avevo posto quella domanda sovrappensiero, senza staccare gli occhi da quella pelle ricoperta d’inchiostro. Non sapevo nemmeno perché quel tatuaggio avesse attirato tanto la mia attenzione. Il fatto di non riuscire a trovare una spiegazione logica in quell’intreccio di linee e figure mi spingeva a spremere le meningi. Guardando i disegni sul braccio sinistro per esempio, non riuscivo a non pensare alla linea guida che ci vedevo rappresentata. Non avevo dubbi che il tatuaggio fosse costruito su un’impalcatura preesistente, ma non ne capivo il motivo. Forse in precedenza vi era stato un altro tatuaggio e quello nuovo vi era stato sovrapposto.
Solo allora mi resi conto che Scofield e Burrows mi stavano ancora fissando accigliati. Quest’ultimo era addirittura rimasto con una forchettata di verdura a mezz’aria.
  • Che c’è? -  chiesi preoccupata.
  • Scusa, cos’è che hai detto? -  esclamò Burrows parlandomi come se gli avessi appena versato dell’acqua sporca sulle scarpe.
  • Ho… ho detto che è un capolavoro… è… è un bel tatuaggio. Giuro, lo è.
  • No, prima.
  • Perché pensi che sia un percorso? -  mi chiese Scofield venendomi in aiuto.
  • Ho detto così? 
“Oddio si è offeso! Forse non è quello che voleva sentirsi dire.”
  • Non lo so, io… l’ho detto così… per dire.
  • No, sul serio. Cosa te lo fa pensare?
Fissai Michael in quegli occhi di un azzurro impenetrabile. No, non sembrava offeso, piuttosto curioso, ma allora perché suo fratello continuava a fissarmi come se lo avessi appena minacciato di morte?
  • Vedi queste linee? -  dissi sfiorandogli il braccio -  Si intersecano e formano quasi delle figure geometriche, questo significa che sono state realizzate come impalcatura. E’ un disegno che si appoggia alla struttura portante e non una struttura che fa da contorno alle immagini come accade di solito. Non ce ne sarebbe bisogno comunque, sono così incredibilmente elaborate. Insomma, io ci vedo un percorso, una sorta di labirinto… guarda questa linea. -  continuai tracciando il disegno che risaliva lungo l’avanbraccio.  -  E’ una linea guida, sopra vi è disposto il tatuaggio.
  • A dire il vero io ci vedo solo un tatuaggio e basta. Che cosa sei, una specie di appassionata di geometria o roba simile?  -  s’intromise Fernando poco convinto.
  • No, niente del genere, è solo che ho studiato arte al liceo. Ero brava con le proporzioni. Questa porzione del disegno non è il continuo dell’altra parte dietro, vedi? Vi è stato solo accostato, come un fumetto in cui non è più presente il margine. A me sembra un’accozzaglia di immagini senza il benché minimo sen…
Mi bloccai appena in tempo, scrutando attentamente il volto del ragazzo accanto a me per capire se si fosse offeso. Sembrava di no. Dovevo ricordarmi di stare attenta ed evitare di dare libero sfogo alla lingua come avevo appena fatto. I detenuti avevano la fama di essere piuttosto suscettibili.
  • Sai che sei proprio una strana ragazzina, non pensavo si potesse leggere un tatuaggio come una cartina geografica. -  esclamò divertito il compagno di cella di Scofield.
  • Tutta la faccenda della tua presenza qui è molto… strana.-  continuò serio Burrows, sostenendo il mio sguardo, forse per la prima volta da quando mi ero seduta a quel tavolo. -  Si può sapere chi sei e che ci fai qui?
  • Sono Gwen Sawyer e sono qui per scontare la mia pena.
  • Che cosa hai fatto?
  • Mi dispiace, non posso parlarne.
  • Perché? Sarai anche una ragazza, ma sei un detenuto come gli altri. Cosa può aver commesso di così terribile una ragazzina di… quanti anni hai a proposito? Diciotto?
Alzai gli occhi al cielo.  -  Ventiquattro.
  • Ok, ventiquattro, ma qualunque sia stato il crimine che hai commesso, che diavolo ci fai in un penitenziario maschile? Hanno confuso le assegnazioni?  -  Distolsi lo sguardo per cercare di eludere la domanda. L’uomo sbuffò infastidito.  -  Odio i misteri.
  • Non è un mistero, è solo una questione di privacy.
Capivo che dovesse essere strano e del tutto nuovo per tutti loro vedere una donna in una struttura adibita a soli uomini, ma quante volte mi sarei dovuta sentir fare quella domanda prima che la mia presenza venisse accettata?
  • Una ragazzina a Fox River? Ma andiamo! Sarebbe stato meno assurdo spedire una suora nelle viscere dell’inferno.
  • Sucre, adesso piantala! -  intervenì Michael mettendo fine ad ogni commento.
Gliene fui grata e in quello stesso istante le guardie ordinarono il rientro nelle celle. La pausa era terminata. Ci alzammo tutti e quattro contemporaneamente dopo l’ordine ricevuto. Feci il giro del tavolo per inserirmi nella fila che portava verso l’uscita, chiedendomi quale direzione avrebbe preso Burrows per tornare al suo alloggio isolato, quando all’improvviso quest’ultimo, afferrandomi per il polso, mi bloccò al suo fianco.
  • Ehi!  -  scattai spaventata da quell’inaspettato gesto.
L’uomo non ci badò nemmeno e mi spinse veloce dietro di lui con fare protettivo. Nello stesso istante Michael e Fernando si misero in allerta. Confusa, mi guardai intorno per capire cosa fosse preso a tutti e tre finché accanto a Lincoln vidi passare un tipo losco con il berretto calcato in testa, seguito a pochi passi da Theodore Bagwell. Entrambi mi lanciarono un lungo sguardo significativo prima di passare oltre, ma fu il sorrisetto sadico del depravato e l’occhiata inceneritrice che Burrows gli lanciò in risposta a farmi prendere coscienza del pericolo appena scampato.
  • Co… cos’è successo? -  balbettai.
  • Ragazzina, sbrigati a lasciare la mensa e guardati le spalle fino alla tua cella.
Un brivido mi corse lungo la schiena quando mi resi conto di averci visto giusto e di essere appena scampata ad un’imboscata. Il pericolo però era ancora in agguato.
  • Perché quel tizio ce l’ha con me? Che cosa vuole?!  -  Ero senza voce per la paura.
  • Abbassa la voce, ti farai sentire dalle guardie.  – mi intimò Burrows duro.  -  Stanno cercando di intimidirti, ecco cosa vogliono. Che diavolo pensavano quando hanno deciso di spedire una ragazzina in un penitenz…
  • Smettila di chiamarmi ragazzina!!  -  sbottai più terrorizzata che arrabbiata.  -  Ho un nome io.
  • Si, come ti pare, ma se non farai come ti dico finirai male.
  • Lincoln… -  lo ammonì il fratello.
  • Che c’è? Lo dico per il suo bene, questo non è posto per lei.
Aveva ragione. Cercavo di mascherare la paura, pregavo di passare inosservata, ma era fin troppo ovvio quanto fossi indifesa e sbagliata per quel posto.
  • A quanto pare hai fatto incazzare i cattivi. Cerca di non abbassare mai la guardia quando nei paraggi c’è quel depravato di T-Bag, anzi, se vuoi farti un favore guardati le spalle da chiunque qui dentro…  -  Le parole di Sucre riuscirono ad angosciarmi ancora di più. Mi sembrava di essere precipitata in un incubo senza via d’uscita.  -  … ehi, non guardarmi così e ti prego, non metterti a piangere. Non posso fare da balia ad una ragazzina, ho già abbastanza guai per conto mio.
Abbassai lo sguardo cercando di riprendere il controllo, ma quando Michael mi sfiorò la spalla per farmi strada verso la fila, sussultai. In quel momento mi resi conto che stavo tremando. Che cosa avrei fatto se quel delinquente mi avesse aggredita prima di arrivare al sicuro nella mia cella? Con quella confusione nessuno si sarebbe accorto di nulla e lui o il suo complice avrebbero potuto agire indisturbati.
  • Su sta tranquilla, rimani al mio fianco e seguimi. Lincoln e Fernando cammineranno dietro di noi.  -  mi disse Scofield gentile, parlandomi lentamente, con voce calma.
  • Michael, non farlo.  -  intervenì il fratello. Ero sicura che tra i due in quel momento fosse in atto una sorta di comunicazione telepatica. -  Attirerà più guai di quelli che possiamo permetterci.
Chissà se si rendeva conto che ero ancora presente. Al momento, l’unica informazione che aveva registrato il mio cervello era che avevo trovato una sorta di alleato.
  • Linc, l’accompagno solo nella sua cella, non è una tragedia.
  • Come no… - sbuffò freddandomi con un’occhiataccia. Poi di nuovo al fratello - … Occhi aperti.
Dal momento in cui ci immettemmo nella fila rimasi letteralmente incollata a Michael, certa che almeno con lui sarei stata al sicuro, almeno lo speravo. Camminai lentamente, tesa come un manico di scopa mentre guardavo i visi di tutti per cercare di individuare qualche volto ostile. Tutti mi sembravano una possibile minaccia.
  • Respira e non dare agli altri la sensazione che hai paura.  -  mi consigliò Michael. C’era qualcosa di incredibilmente calmo in quel ragazzo. Emanava una tranquillità e una sicurezza che io non possedevo. Il suo tono era affabile, ero stranamente a mio agio con lui.  -  E così hai 24 anni. Sei dell’Illinois o anche questo è un segreto?
Stava cercando di distrarmi perché apparissi più disinvolta. Era una buona idea.
  • No, io vivo in California, Beverly Hills. 
Non era proprio vero, visto che negli ultimi sei mesi avevo vissuto pressappoco come una nomade, però in teoria non poteva considerarsi neanche una bugia. La California era l’unico posto in cui avessi passato più tempo da quando mi ero trasferita negli Stati Uniti. 
  • Wow, Beverly Hills, il mistero s’infittisce.  -  esclamò Sucre ancora dietro di noi.
Non avevo ancora capito se quello fosse realmente il suo nome o solo un soprannome. Mi voltai per chiederglielo, ma poi ci ripensai. Sucre continuò a blaterare qualcosa tornando sulla storia del segreto e di quanto fosse sospetta la mia presenza tra di loro, ma io non lo stavo più ascoltando. Lincoln Burrows non era più dietro di noi.
  • Dov’è tuo fratello?  -  domandai rivolgendomi a Michael.
  • La sua cella non si trova nel Braccio A.
Avrei tanto voluto chiedergli dove si trovasse ma qualcosa mi diceva che avrei fatto meglio a tenere la mia curiosità per me, se non altro per non destare sospetti. Non era ancora arrivato il momento di scoprire le carte.
  • Quindi Beverly Hills.  -  continuò, usando la mia risposta come scusa per cambiare discorso.-  Devi essere una ragazza di buona famiglia per poterti permettere un posto simile.
  • Non sono una ragazza ricca finita in carcere per noia, se è questo che stai insinuando.
  • Per quel che ne sappiamo di te, potrebbe anche essere.
Qualcosa mi diceva che Michael fosse intrigato dal mio segreto.
  • E voi invece? Due ladri nella stessa cella, che bell’accoppiata! Non rischierete di rubarvi il dentifricio a vicenda?
  • Ti sei informata su di noi?
  • Non proprio, è solo che quando nessuno parla con te finisce che ti ritrovi un sacco di tempo per ascoltare le conversazioni altrui… oh, eccomi arrivata, la 93 è la mia “camera d’albergo”.
Mi fermai voltandomi per salutare i due ragazzi. Fernando Sucre mi fece l’occhiolino, dileguandosi successivamente, mentre Michael si fermò appoggiandosi alle sbarre della mia cella. Certa che la conversazione non fosse ancora finita, entrai, ma mi sistemai proprio di fronte al ragazzo così che solo le sbarre potessero dividerci.
  • Posso farti una domanda, Michael Scofield?  
  • Tu risponderai ad una mia?
  • No, penso di no.
  • Allora non è equo.
Era ancora impalato davanti alla mia cella però. Decisi di tentare ugualmente.
  • Che cosa rappresenta davvero quel tatuaggio?
Il suo viso si accigliò per un istante.  -  Te l’ho detto, è solo…
  • …l’eterna lotta tra il bene e il male,  -  lo precedetti  -  si, questo è chiaro, ma la domanda è: che cosa rappresenta per te?
Non rispose, ma almeno adesso avevo la certezza che quel tatuaggio nascondesse una storia. Magari un segreto, e che fosse interessante o meno, io non vedevo l’ora di scoprire di cosa si trattasse.
  • A domani. -  concluse salutandomi -  Se ti serve una mano, un consiglio o una spalla su cui piangere sono al piano di sopra. La mia cella è la 40.
  • Grazie.
Lo guardai mentre si allontanava svelto, salendo su per le scale per raggiungere il piano superiore e attesi esattamente 20 minuti vigile e in guardia prima che tutte le celle del Braccio venissero chiuse, così che potessi finalmente rilassarmi.
Mi sentivo ancora piuttosto scossa per la mancata imboscata alla quale ero sopravvissuta, ma mi sentivo anche piuttosto soddisfatta all’idea di essere riuscita a rintracciare Lincoln Burrows. Era quella la cosa più importante al momento, al di là di aver anche fatto amicizia con dei galeotti, essere sfuggita alle mire di un depravato sinistro e di aver quasi scatenato le ire di un pericoloso boss mafioso.
Era così strano immaginarmi in un posto del genere, come avevo potuto cacciarmi in un simile guaio?
Non ero certa che questa volta sarei riuscita a cavarmela come al solito, ma in un solo giorno avevo già fiutato un paio di segreti interessanti, ed ero certa che Fox River avrebbe portato a galla inaspettate sorprese e subdoli altarini.

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Capitolo 5
*** Corri, ferisci, scappa ***


Ero in punizione, incredibile! Qualcuno avrebbe potuto considerarlo un record il venir puniti il terzo giorno di carcere, ma io certamente no. Era ovvio che sarebbe finita così. Quando si nuota in una vasca di squali, è sempre il pesce piccolo che ne paga le conseguenze. Avrei anche potuto imparare a nuotare più velocemente degli altri, ma non in 72 ore, ecco perché il mio secondino preferito Brad Bellick mi aveva ordinato di strappare le erbacce che crescevano ai margini delle inferriate, rigorosamente a mani nude. Avrei voluto strozzarlo.
  • Ehi ragazzina!
Sollevai la testa infastidita. A pochi passi da me, dall’altra parte dell’inferriata, vidi Lincoln Burrows. Tanta fatica per trovarlo e adesso era lui che trovava me. E che mi rivolgeva la parola per primo, per giunta.
  • Ehi…
  • Che fai?
  • Secondo te che faccio?  - esclamai mostrandogli un mucchietto di erba, senza riuscire a nascondere il mio malumore.  -  Mi hanno punita.
  • Cos’hai combinato?
Feci spallucce.  -  “Accidentalmente” mi è “sfuggito” per l’ennesima volta il vassoio dalle mani oggi a pranzo.
  • Vuoi dire che anche oggi non hai toccato cibo? Qual è il piano di quel mostro, lasciarti morire di fame?
Era un’ottima occasione per fare conversazione e sondare il terreno, ma in quel momento non ero in vena di parlare di T-Bag o peggio, di cibo. Continuai a strappare erbacce finché l’uomo non riprese a parlare. 
  • Credo di essere stato… come dire… un po’ duro con te ieri. Il fatto è che penso sinceramente che questo posto ti ucciderà. Quelli contro cui ti sei messa non sono avversari alla tua portata.
  • Probabile.
  • Dovresti chiedere a Pope il trasferimento.
  • Non posso.
  • Perché no, ancora con questa faccenda del segreto? Che cosa nascondi di tanto contorto?
Mi scappò una risata.  -  Ti sembro contorta?
  • Diamine si, sei una ragazzina in un penitenziario maschile…
  • Disse il condannato a morte!  -  esclamai sfacciata, fermandomi per guardarlo dritto negli occhi.
Forse il mio fare diretto e i miei modi spicci rischiavano di distruggere quel minimo di confidenza che stavamo provando ad instaurare, ma dovevo assolutamente smuovere le circostanze a mio favore per arrivare alla verità. Avevo solo un mese di tempo. Un mese per conquistarmi la fiducia di Lincoln.
  • Che cosa si prova al pensiero di dover trascorrere gli ultimi preziosi giorni della propria vita in mezzo a delinquenti della peggior specie?
Burrows inarcò le sopracciglia facendo bene attenzione a non sorridere.  -  Tu non hai peli sulla lingua, eh?  -  Fece una piccola pausa, poi ricambiò con la stessa moneta.  -  Che cosa si prova a sapere di essere una potenziale vittima di stupro?
 
Aveva risposto alla mia sfida con un’altra sfida invece che mandarmi al diavolo. Bene. Allora non ero proprio un completo disastro.
  • Touchè!  -  risposi trattenendo un sorriso.
Poco lontano da noi, una delle guardie ci ordinò di restare almeno a 3 metri di distanza. Non ce lo facemmo ripetere, allontanandoci entrambi dall’inferriata quel tanto che ci permettesse di continuare a conversare senza dover alzare la voce.
A dire il vero, ero un po’ sorpresa. Il giorno prima a mensa, l’uomo non mi era parso così ben disposto nei miei confronti, mentre adesso si stava mostrando persino amichevole. Oddio, forse amichevole era una parola grossa, comunque non scortese. Quella era un’occasione da prendere al volo. Dovevo ancora ringraziarlo per avermi aiutata a rimanere illesa dall’imboscata messa in atto da Bagwell. 
  • Senti un po’… perché mi hai aiutata ieri a mensa?  -  gli chiesi diretta.
Ci pensò su un attimo.  -  Non lo so. Odio quel depravato di T-Bag.
  • Non sei il solo, credimi.
  • Il fatto è che… ho un figlio della tua età… cioè, lui ha 17 anni ma tu in un certo senso me lo ricordi.
Avevo letto qualcosa sul figlio di Burrows, ne avevo sentito parlare spesso anche ai telegiornali. I media si erano sbizzarriti per molto tempo a sezionare la storia del famoso condannato a morte e della sua famiglia. Ne avevo lette e sentite di tutti i colori, arrivando alla conclusione che molte di quelle notizie fossero solo pettegolezzi pubblicati dalle testate giornalistiche allo scopo di incrementare le vendite. La verità su Lincoln Burrows, a mio parere, era molto banale. Lui era solo un uomo che aveva finito col prendere delle decisioni sbagliate, un reietto della società abbandonato dalla moglie dopo appena due anni di matrimonio e ripudiato amaramente dal figlio diciasettenne in seguito alla dura condanna piovuta improvvisamente sulle spalle del padre. 
  • Come si chiama tuo figlio?  - gli chiesi più per avere l’opportunità di protrarre la conversazione che per un reale interesse.
  • Lincoln Junior.  -  rispose.  -  Sai, lui è già un piccolo teppista. E’ un bravo ragazzo intendiamoci, io so che è così, ma il mio arresto e la successiva condanna a morte non hanno contribuito a dare un buon esempio paterno… vorrei che non finisse come me e suo zio. Quando ieri ho visto quell’individuo venirti incontro con fare minaccioso, ho subito pensato a mio figlio. Se ci fosse stato lui al tuo posto, avrei tanto desiderato che qualcuno l’avesse protetto.
  • Beh, qualunque sia il motivo per cui mi hai aiutata ti devo un grazie, anche se credo che tu ti sia fatto un’opinione sbagliata di me. Io non ho bisogno di protezione.
Persino i passeri a quel punto si sarebbero potuti mettere a ridere se mi avessero sentita. Certo che avevo bisogno di protezione.

Ovviamente Lincoln rise.  -  Oh certo.
  • Guarda che sono molto più forte di quanto possa sembrare.
  • Ti credo.
Non ci credeva per niente, si stava solo prendendo gioco di me. Decisi di cambiare argomento, dovevamo parlare di lui, non di me.
  • Tuo fratello come ha preso la tua condanna?
  • Come un qualunque fratello che apprende una notizia del genere. Comunque se conoscessi Michael sapresti che non è il genere di persona che accetta passivamente.
  • Che vuoi dire?
  • Lui è… diverso dagli altri ragazzi. Non si dà mai per vinto.
  • Ah davvero? Beh, scusa il disfattismo ma non è che possa fare gran che qui dentro, a parte sperare nella tua assoluzione o in una revisione della pena.
L’uomo non rispose, notai però che le mie parole lo avevano incupito. Subito mi pentii di aver aperto bocca. Avevamo cominciato a trovare un terreno comune, non volevo rovinare quel poco che ero riuscita a costruire con la mia stupida franchezza. Stavo per scusarmi e rimediare al danno, quando alle mie spalle una delle guardie mi ricordò che la dottoressa Tancredi mi aspettava in infermeria.
Mi rialzai da terra abbandonando le erbacce per ripulirmi i pantaloni prima di andare. Quando mi voltai nuovamente verso l’inferriata, Burrows era scomparso. Era andato via senza neanche salutarmi.
 
Arrivai di fronte alla porta dell’infermeria chiusa, scortata da una guardia che non avevo ancora visto, un tizio pelato che per tutto il tempo non aveva fatto altro che lanciarmi occhiatine curiose, convinto che non me ne fossi accorta. Il nome del secondino a quanto ero riuscita ad afferrare era Green Rizzo.
Al nostro arrivo, l’infermiera Katie Welsh ci aveva chiesto di attendere in corridoio perché la dottoressa non aveva ancora finito con l’ultimo detenuto entrato prima di me.
Quando la porta si aprì, circa dieci minuti dopo, restai piuttosto sorpresa di veder uscire la bionda e sexy dottoressa proprio in compagnia di Michael Scofield. Li osservai a lungo, mentre il detenuto salutava affabilmente la donna con un sorriso.
Che cosa era andato a fare Scofield in infermeria? Non mi sembrava che avesse un aspetto malaticcio o particolarmente sofferente.
Sembravano così in sintonia, lei pareva addirittura lusingata. Mi chiesi cos’avessero Michael e la Tancredi da sorridere.
 
“Mmmm… vuoi vedere che tra quei due c’è del tenero”. 
  • Sara, se hai finito con Scofield, di là c’è un altro detenuto che aspetta.  -  sentii dire all’infermiera Katie, mentre mi indicava al di là della porta in compagnia della guardia.
  • Si grazie… ci vediamo la prossima settimana Michael.  -  salutò cordiale la donna, congedando il ragazzo.
A quel punto ero già entrata nella stanzetta, precedendo la dottoressa.
Aveva detto: “ci vediamo la prossima settimana Michael” in tono estremamente cordiale e amichevole, il che poteva non voler dire niente, ma poteva anche voler dire che quei due se la intendessero. Inoltre lo aveva chiamato Michael e non Scofield, questo significava che tra loro si era creata una certa confidenza. Però a dir la verità, aveva attirato molto di più la mia attenzione il fatto che la donna lo avesse invitato a tornare la settimana seguente. Perché? Michael Scofield soffriva di particolari problemi di salute o si trattava semplicemente di visite di piacere? 
  • Allora signorina Sawyer, come procede la permanenza a Fox River?  -  mi chiese la donna nell’istante esatto in cui si fu chiusa la porta alle spalle.
  • Sono ancora viva.  -  risposi secca.
  • Lieta di saperlo.
Procedemmo con semplici controlli generali, poi la dottoressa annotò tutto sul suo taccuino. 
  • I detenuti come hanno preso il tuo arrivo?
Avevo la sensazione che stesse cercando un modo qualunque per fare conversazione, ma non riuscivo a fare a meno di considerare i suoi tentativi banali. 
  • Non saprei, lo chieda a loro.
  • Lo sto chiedendo a te.
  • Beh, abbiamo fatto subito amicizia. Ci siamo scambiati i numeri di telefono e abbiamo in programma di organizzare una gita in campagna appena saremmo fuori di qui.  -  ironizzai.
Sospirò.  -  Non potresti provare a parlare seriamente?
  • Come vuole che l’abbiano presa?  -  sbottai d’improvviso.  -  Nessuno mi è ancora saltato addosso per ora, ma stamattina il mio vicino di cella mi ha dato una pacca sul sedere. Crede che dovrei denunciarlo per molestie sessuali?
  • Potrebbe andarti anche peggio di una semplice pacca sul sedere. Qui non sei al sicuro.
  • La prego, se la risparmi… la tiritera intendo.
  • Sono solo preoccupata per la tua incolumità. Gwyneth, ha idea di quanti detenuti si uccidano o peggio, vengano uccisi per un nonnulla? Perché vuoi mettere a repentaglio la tua vita?
Stava cominciando a stancarmi, e non aveva la benché minima idea di quanto riuscissi a diventare antipatica quando venivo infastidita in quel modo. 
  • Tu non sei la classica ragazzina sbandata che vive per strada ed è finita dentro per una bravata di droga o di taccheggio, potrei scommetterci. Tu sei una ragazza intelligente, scommetto che hai studiato e hai una vita fuori da qui, anche se, chissà perché, tutto quello che ti riguarda è avvolta nel mistero.
  • Che sta facendo, fa congetture sulla mia vita?
  • No, io…
  • Che cosa direbbe se fossi io a fare congetture sulla sua vita? Scommetto che non è neanche così difficile inquadrarla. Che dice, proviamo?  -  Ammiccai melliflua.  -  Sara Tancredi, figlia del governatore Frank Tancredi, studentessa modello, laureata col massimo dei voti alla North Western University di Chicago. Poi il disfaccelo durante la specializzazione: le feste a base di alcool e sballo, la droga, i furti di morfina dagli ospedali, il primo arresto per possesso e uso di stupefacenti 3 anni fa e infine la disintossicazione.  -  La donna era ammutolita di fronte al mio pungente riepilogo. Mi fissava a occhi sbarrati.  -  Che le è successo? Era stanca di vivere come la classica figlia di papà ricca e viziata ed è andata a cercare emozioni forti, o è semplicemente scattata in ritardo la ribellione adolescenziale?
  • Come sai tutte queste cose?
  • Leggo i giornali. Lei è stata la spina nel fianco di suo padre per anni dottoressa Tancredi, lo sanno tutti. Suo padre è un personaggio pubblico, è naturale che i giornali si siano accaniti tanto sulla sua storia. Quando Frank Tancredi è diventato governatore dell’Illinois, gli altarini della figlia sono usciti allo scoperto e il paparino ha deciso di spedirla dritta dritta in riabilitazione per farla disintossicare. Pare incredibile che lei sia finita ad esercitare la professione di medico proprio in un carcere. Che bell’ipocrisia! Lei cura i detenuti che suo padre spedisce sulla sedia elettrica, questo lo sa, vero?
  • Basta, esci fuori di qui!  -  La sua voce d’un tratto era diventata carta vetrata.
  • Guardi che queste sono notizie di dominio pubblico… non si sarà offesa…
  • GUARDIA!!  -  chiamò, distogliendo definitivamente lo sguardo da me. L’uomo che mi aveva scortata fino all’infermeria, comparve pronto.  -  Riporta la detenuta nella sua cella. Per oggi abbiamo finito.
Non disse più nulla né io aggiunsi altro. Lasciai che la guardia mi rimettesse le manette e mi scortasse fuori, nello spiazzo, dov’era già cominciato il primo turno d’aria della giornata. Quindi, venni nuovamente liberata dalle manette.
Per un po’ passeggiai cercando di tenermi lontana dai guai, ripensando nel frattempo a quello che avevo detto alla Tancredi. Non ero stata molto cordiale nei suoi confronti e la cosa non mi stupiva affatto a dire il vero. Non era stata mia intenzione esagerare o offenderla. Beh, perlomeno adesso avrebbe smesso di fare domande indiscrete sulla mia vita.

Mentre proseguivo verso est assorta nei miei pensieri, riconobbi Michael Scofield accanto alle cabine telefoniche destinate ai detenuti. Aveva appena riattaccato la cornetta sul ricevitore, dopodiché si era voltato verso un altro uomo al suo fianco, posto di spalle. Solo quando l’uomo misterioso si era voltato per allontanarsi lo avevo riconosciuto, restando letteralmente di sasso.
Quello era John Abruzzi.
Michael stava chiacchierando proprio con John Abruzzi. Che cosa avevano di così importante da discutere? Non c’era modo di avvicinarsi senza che mi vedessero. Avrei potuto raggiungerli, ma con tutta probabilità avrei dato l’impressione di volermi intromettere, però avevo una gran voglia di sapere cosa si stessero dicendo.
Purtroppo per il momento avrei dovuto mettere da parte la mia curiosità, Michael e Abruzzi avrebbero dovuto aspettare.
Tornai sui miei passi costeggiando la recinzione alla ricerca di Burrows, ma non lo trovai, quindi mi diressi verso l’esterno. All’improvviso mi sentii strattonare da un tipo completamente calvo con la barbetta bionda che con una spallata riuscì a scaraventarmi dentro uno stanzino, facendomi cadere a terra. 
  • Ehi, ma sei impazzito? 
L’uomo con la barbetta bionda sorrise ambiguo, prima di voltarsi e chiudere la porta alle sue spalle. Nello stesso istante, dall’oscurità dello stanzino comparvero altri due uomini, tra cui T-Bag. Mi si gelò il sangue nelle vene. 
  • Ciao bambolina. Sono felice di vederti.  -  esordì quest’ultimo con un sorriso compiaciuto.  -  Il nostro primo incontro non è andato come mi sarei aspettato. Non sei stata affatto carina con me. Io ti ho fatto una proposta e tu mi hai addirittura snobbato. Così non va.
Ero ufficialmente terrorizzata. Non ci voleva certo un’arca di scienza per capire che intenzioni avesse il depravato. Il giorno prima aveva provato ad aggredirmi a mensa, riuscendoci per un soffio, e visto che non aveva portato a termine l’impresa non aveva perso tempo, ritentando il mattino dopo. Questa volta non c’erano Burrows e Scofield a proteggermi, come ne sarei uscita viva?
Mi rialzai lentamente da terra, radunando i brandelli del mio coraggio che sentivo appeso ad un filo. T-Bag mi si avvicinò con quell’orrido sorriso voglioso stampato in faccia e quei suoi inquietanti occhietti da iena addosso. 
  • Facciamo un gioco, vuoi?  -  La sua espressione la diceva lunga su quale fosse il gioco che aveva in mente.
Non dovevo assolutamente lasciarmi prendere dal panico… già, più facile a dirsi che a farsi!

“Corri, ferisci, scappa!”  gridò una vocina nella mia testa.

La porta era proprio di fronte a me, ma non sarebbe stato così semplice raggiungerla. Anche riuscendo a superare Bagwell e avere la meglio su di lui, come avrei fatto a mettere fuori combattimento i suoi due gorilla?

“Corri, ferisci, scappa!”
  • Che cosa vuoi da me?  -  balbettai.
Se avessi gridato “sto morendo di paura” sarebbe stato lo stesso. 
  • Credo che tu lo sappia.  -  mormorò leccandosi le labbra con un movimento che avevo ormai imparato ad odiare.
  • Lasciami uscire da qui o giuro che mi metterò ad urlare. 
  • Accomodati pure, tanto nessuno correrà in tuo soccorso tesoro, tanto meno le guardie. Loro chiudono un occhio quando possono, e li chiudono tutti e due quando gli allunghi una banconota da cento.  -  continuando a parlare, mi si avvicinò ancora sfiorandomi il viso. Potevo sentire il suo alito, ma non potevo che rimanere immobile.  -  Eh dai piccola, vogliamo solo divertirci, scambiare quattro chiacchiere. Rilassati.
  • Stammi lontano.  -  mormorai disgustata.
Era proprio come trovarsi di fronte una iena. Sarei stata il cadavere sul quale si sarebbe avventato? No, non l’avrei permesso, ma che possibilità avevo di scamparla? Ero pratica nel calcolo delle probabilità, ma al momento il mio cervello restituiva solo un numero con troppi zero iniziali. Meglio lasciar perdere le probabilità e passare ai fatti. Il mio cervello immediatamente partì alla ricerca di possibili tattiche di fuga.

“Corri, ferisci, scappa”.

Prima mossa: colpisci l’avversario. Il mio braccio rispose al comando con forza e precisione colpendo sul viso il losco individuo, seguito da una ginocchiata ben assestata allo stomaco. L’uomo incassò entrambi i due colpi, imprecando. Evidentemente non si era aspettato una reazione così improvvisa, per questo ero riuscita a prenderlo di sorpresa.

Seconda mossa: scappa. Quasi non credetti ai miei occhi quando mi resi conto di essermi liberata di Bagwell ed essere riuscita a sfuggire al colosso dietro quest’ultimo. Ero sgusciata via come una biscia approfittando della lenta reazione dell’uomo, però ero capitolata quasi subito quando il tizio con la barbetta bionda mi aveva arpionato una spalla e spedita nuovamente a terra. In un paio di secondi il gorilla era riuscito a bloccarmi entrambe le braccia e sollevarmi da terra come un sacco di patate. Non potendo avvalermi delle braccia, ero ricorsa ai calci e ai morsi, lottando senza sosta e scalciando come una cavalla selvaggia.Il nerboruto sulla sinistra si beccò un calcio in testa. Io mi beccai un malrovescio in piena faccia che per qualche secondo mi fece vedere le stelle.
Avevo provato a difendermi, ma erano pur sempre tre uomini contro una ragazza.
Finii per la terza volta a terra quando il tizio con la barbetta mi lasciò cadere sul pavimento. In quel momento mi resi conto che non ce l’avrei fatta. Ero circondata, sentivo un dolore pulsante alla guancia destra e alla mascella e il sapore del mio sangue sulle labbra. 
  • Maledetta puttana, hai delle gambette scheletriche ma quando calci fai male.  -  sbottò il nerboruto.
  • E io che ti immaginavo docile come un agnellino… ora tu e io ci faremo una bella chiacchierata fra amici, che ne dici bambolina?  -  Fu T-Bag a strattonarmi il braccio perché mi tirassi su.  -  Proviamo, per cominciare, a risolvere questo mistero che ti riguarda. Perché ti hanno spedita a Fox River?
  • Sei un idiota depravato, te l’ha mai detto nessuno? Credo proprio che morirai con questo dubbio.  -  risposi tagliente, facendo appello a tutto il mio coraggio.
  • Oh… è così…
Nel buio vidi i suoi occhi luccicare, poi mi sentii afferrare per i capelli e con un colpo secco mi fece sbattere la faccia dolorante contro la grata di ferro. Fu un dolore assassino che mi fece piegare le ginocchia. Provai ad urlare più forte che potei sperando che qualcuno fuori mi sentisse, ma Bagwell fu subito pronto a tapparmi la bocca. 
  • Riproviamo? La domanda è sempre la stessa: perché ti hanno spedita a Fox River?
  • Lasciami andare, io non ti ho fatto niente.  -  piagnucolai quando mi tolse la mano dalla bocca.
  • Non funziona così. Rispondi alle domande.
  • Che cosa te ne importa? Tanto finirai con l’uccidermi.
  • Naa… e come potrei più divertirmi se lo faccio? Possiamo andare avanti all’infinito e rendere il resto della tua condanna un inferno, o puoi passare dalla mia parte e diventare la mia bambolina. In cambio di qualche piccolo favore e del patto di allietare i miei giorni qui dentro, io ti lascerò in pace.
  • Che favori?
  • Forse ti dispiacerà saperlo, ma tu non sei l’unica fonte di interesse che mi attrae qui a Fox River. C’è un altro finocchietto col quale ho un conto in sospeso, e con lui… beh, sarà tutta un’altra storia.
Rabbrividii disgustata. Non c’era bisogno di chiedere a cosa si stesse riferendo. 
  • Chi?  -  chiesi per prendere tempo.
  • Scofield.
  • Scofield? Perché?  -  Ero esterrefatta.
  • A tempo debito, dolcezza. Allora, hai ripreso fiato a sufficienza? Sei pronta a rispondere alle mie domande o vuoi un altro incontro ravvicinato con la grata?
Avrei volentieri voluto ucciderlo solo per potergli cancellare quel ghigno voglioso dalla faccia. Ero pervasa dalla rabbia che mi trafiggeva la gola facendomi stridere i denti. Non gliel’avrei data vinta. 
  • Penso proprio che ti vedrò scavare la fossa da solo nell’attesa di gratificare la tua curiosità, e per quanto riguarda la tua proposta da depravato psicopatico, preferirei tagliarmi la gola da sola che stare al tuo seguito come una pecora.  – dissi sputando fuori quelle parole con odio.
L’uomo sembrò quasi allettato da quella nuova sfida e continuò a spogliarmi con gli occhi umettandosi le labbra, quasi stesse pregustando il suo prossimo pasto. 
  • Mmm… sei così coraggiosa e tagliente quando alzi la voce. Le donne però mi eccitano molto di più quando gridano. Chissà se… -  vidi che estraeva dalla tasca dei pantaloni un coltellaccio dalla lama dentata e sentii improvvisamente le forze venirmi meno.  -  … voglio presentarti un amico. Io lo chiamo “sferruzzabudella”, e sai perché? Perché dopo averlo piantato nello stomaco e averlo tirato fuori, è in grado di portarsi dietro le budella della vittima, così mentre il malcapitato soffre può guardarsi le budella prima di morire.
Non avevo idea del colore che avesse assunto la mia faccia in quel momento, ma dall’espressione soddisfatta che leggevo negli occhi del verme e dalle risatine che sentivo al mio fianco, sospettavo non fosse un colorito sano. Se non fosse stato per i due scagnozzi di T-Bag che, me ne accorgevo solo adesso, mi sorreggevano per le braccia, sarei già finita a terra. La vista di quel coltellaccio da macellaio, aveva spedito sotto le scarpe quel briciolo di sicurezza e coraggio che poco prima ero riuscita a sfoderare. Avevo iniziato a tremare così convulsamente che avevo temuto potessi finire col vomitare o addirittura svenire.

“Non voglio, non voglio morire”.

Non avevo più neanche la forza per supplicarlo di lasciarmi andare e non riuscivo a schiodare gli occhi da quel coltello a così breve distanza da me. Mi vedevo già morta. Tutto ciò a cui riuscivo a pensare in quegli interminabili istanti, era che avrei portato come ultima immagine della mia vita la forma e il colore delle mie budella.
Poi all’improvviso, sentii una voce rimbombare all’interno dello stanzino e nello stesso istante, il buio venne sostituito da una luce che quasi mi accecò. Mi resi conto che la porta era stata aperta e che qualcuno era entrato avvicinandosi pesantemente verso di noi. Contemporaneamente i due scagnozzi di Bagwell mi avevano mollata e io ero finita con le ginocchia a terra, priva di forze. 
  • Bagwell, ma che cazzo hai combinato?!
Era Bellich, il secondino che mi aveva dato il tormento da quando avevo messo piede a Fox River.
Misi a fuoco la vista cercando di capire se fosse reale o se lo avessi solo immaginato. 
  • Che cosa le avete fatto?  -  continuò la guardia, trattenendo T-Bag prima che potesse sgattaiolare via.
  • Noi non l’abbiamo toccata. E’ stato solo un incidente.  -  si giustificò il galeotto.
  • Incidente un corno! Ma l’hai vista?
  • Si è ferita da sola… noi siamo accorsi per soccorrerla.
  • Fuori di qui. Tutti. Tornate nelle vostre celle!
Un minuto dopo anche Louis Patterson venne a dare man forte al capitano delle guardie. Fui accompagnata in infermeria e per la seconda volta nello stesso giorno mi ritrovai di fronte il viso della dottoressa Tancredi. 
  • Oh mio Dio… come ti hanno ridotta… 
La donna mi fece subito sedere sul lettino, disinfettò la ferita e applicò dei punti. Non avevo idea di quanto potesse essere martoriata la mia faccia e non avevo nessuna intenzione di constatarlo di fronte ad uno specchio. All’improvviso, mentre la dottoressa stava medicando le ferite, mi sentii invadere dallo shock. Mi resi conto che avevo rischiato di morire e che avrei dovuto attribuire la colpa solo a me stessa. Non avrei mai dovuto prendere una decisione tanto stupida come quella di farmi rinchiudere in un penitenziario maschile.
Vedendomi tremare scossa dai brividi, la donna si fermò, restando a fissarmi comprensiva. 
  • Gwyneth, che cos’è successo?  -  mi chiese delicata. 
Non riuscii a risponderle, ero come bloccata. 
  • Lo sai che se penso tu possa essere stata aggredita dovrò denunciarlo e fare rapporto…Chi ti ha fatto questo? A me puoi dirlo. 
Senza più riuscire a trattenerle, avvertii scendere le lacrime lungo le mie guance, inesorabili. La dottoressa mi passò un fazzoletto di carta con cui asciugai l’occhio e la guancia destra. Non riuscivo neanche a pensare di avvicinarmi all’altra parte martoriata.
Restammo entrambe in silenzio per un po’, io continuando a versare lacrime e lei restando seduta accanto a me come presenza di conforto. Quando trovai finalmente la forza di calmarmi, la donna riprese la sua medicazione e non mi fece più alcuna domanda.

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Capitolo 6
*** Inaspettata alleanza ***


Ero appena sopravvissuta ad un agguato.
Un pazzo psicopatico aveva provato ad uccidermi con un coltello da macellaio.
Avrei dovuto rallegrarmi al pensiero di essere ancora viva, grazie al pronto intervento del secondino che era accorso prima che T-Bag potesse infilzarmi come uno spiedino con il suo affilatissimo “sferruzzabudella”, ma mentre controllavo i danni sul mio viso, non mi riusciva proprio di tirare un sospiro di sollievo.

L’immagine riflessa dallo specchio era abominevole. Il lato destro del mio viso era stato martoriato per bene: sopracciglio tagliato e ricucito con tre punti, graffi sullo zigomo, guancia gonfia e arrossata e labbro inferiore grosso come un canotto. Ad accentuare irrimediabilmente il disastro, il consueto pallore spettrale che aveva caratterizzato gli ultimi 24 anni della mia vita.
Avrei tanto desiderato sdraiarmi sulla branda e attendere che quel giorno finisse, ma la politica del carcere aveva altri piani per me. Alle 15 aveva inizio il secondo turno di lavoro e io sarei dovuta tornare nelle cucine per ricominciare a sgrassare pentole e padelle.

Appena le celle vennero aperte per permettere ai detenuti di recarsi nelle rispettive zone di lavoro, m’incamminai lungo il Braccio A, guardandomi attorno in un modo che probabilmente a qualcuno sarebbe potuto sembrare sospetto. Il fatto era che non volevo rischiare di ritrovarmi nuovamente nelle vicinanze del depravato dell’Alabama o di uno dei suoi scagnozzi. Avevo tutte le intenzioni di rimanergli alla larga nel corso di quegli 87 giorni e di evitare, se fosse stato possibile, ulteriori incontri ravvicinati.

Troppo occupata a guardarmi le spalle da possibili pericoli, non mi accorsi che all’altro capo del Braccio Scofield e Burrows si stavano avviando proprio nella mia direzione. Per un inspiegabile motivo mi prese il panico, non volevo che mi vedessero in quello stato.
Di scatto mi voltai per cambiare direzione, ma investii un detenuto con una lunga barba e finii solo con l’attirare di più l’attenzione. Mi scusai con l’uomo prima che potesse portare a termine la lunga lista di imprecazioni iniziata nel momento stesso in cui l’avevo urtato, e partii a passo svelto verso l’uscita, sperando che i due fratelli non mi avessero notata.
La speranza divenne vana quando alle mie spalle giunse la voce di Lincoln Burrows che mi chiamava col solito appellativo. 
  • Ehi ragazzina…
 Era tardi per fingere di non aver sentito. Mi bloccai di botto facendo un giro su me stessa per incontrare gli sguardi dei miei due detenuti preferiti.
  • Ragazzi! 
Come volevasi dimostrare, restarono entrambi ammutoliti. Non speravo certo di poter passare inosservata con mezza faccia gonfia e arrossata, ma avevo pensato che togliendo le bende e i cerotti sarei riuscita ad attirare meno l’attenzione. Evidentemente avevo pensato male.
A poco a poco vidi l’espressione di Burrows passare dalla sorpresa alla furia.
  • Chi è stato?  -  sibilò tra i denti quasi non riuscendo a trattenersi.
Com’era successo poco prima con la dottoressa, non riuscii a rispondere. Non sapevo cosa dire. Dovevo mentire come avevo fatto con la guardia, che in ogni caso aveva già liquidato l’accaduto prendendo per buona la spiegazione di Bagwell, o dovevo rifiutarmi di parlare come avevo fatto poco prima con la dottoressa? L’espressione freddamente irremovibile di Lincoln mi convinse a confessare. Ero sicura che non si sarebbe accontentato di una mezza spiegazione.
  • Bagwell e due dei suoi galoppini.
  • Io quel verme lo uccido!  -  ruggì il fratello più grosso, digrignando i denti così forte da sentirli scricchiolare.
Era davvero arrabbiato, tanto che pensavo sarebbe corso a cercare T-Bag in quello stesso momento per mettere in pratica le sue minacce.
Il tocco di Michael sulla spalla del fratello lo fece calmare all’istante. 
  • Ti hanno conciata proprio male. Sei stata in infermeria?  -  mi chiese il ragazzo più giovane con delicatezza.
  • Appena mezz’ora fa.
  • Cos’hanno detto a riguardo le guardie?
Scrollai le spalle.  -  Che si è trattato di un incidente. T-Bag ha raccontato a Bellick di avermi trovata a terra e di avermi soccorsa, e lui gli ha creduto. Non mi ha neanche domandato se la mia versione coincidesse. Semplicemente non gli interessava.
  • Mi dispiace.  -  mormorò Scofield sincero.  -  Ti hanno…fatto qualcosa?... cioè, a parte picchiarti intendo.
Capii immediatamente a cosa alludesse e mi affrettai svelta a scuotere la testa  -  No… e comunque adesso è tutto ok.
  • Tutto ok un corno!! Ti hanno spappolato mezza faccia. Così ti uccideranno entro una settimana.
Non si poteva certo dire che Burrows spiccasse per la sua delicatezza.
Mi sentivo ancora piuttosto scossa per ciò che mi era accaduto durante il turno d’aria, e l’ultima cosa di cui avevo bisogno era sentirmi ricordare quante probabilità avessi di finire i miei giorni in quel carcere.
Ogni volta che mi fermavo a riflettere, rivedevo davanti agli occhi quell’abominevole coltellaccio con la lama dentata e la faccia di T-Bag mentre me lo piantava nello stomaco. Mi salivano ancora i brividi e anche solo immaginare la scena mi faceva salire la nausea. 
  • Sarà meglio che vada…-  dissi cercando di scacciare quell’orribile pensiero dalla mia mente.
  • Si, anche noi dobbiamo andare. Il lavoro al laboratorio ci aspetta.
Restai sorpresa di constatare che anche Michael lavorasse col gruppo di Abruzzi. Michael Scofield aveva fatto il suo ingresso a Fox River una settimana prima di me, almeno così credevo di aver capito. Perché lui era riuscito ad ottenere il lavoro e io no? Stavo per domandarglielo, ma Burrows mi interruppe prima che potessi farlo. 
  • Ehi ragazzina…
Odiavo che si rivolgesse a me in quel modo. Avevo pur sempre un nome.
 
  • Che c’è?
  • Ci vediamo più tardi, ma tu cerca di stare attenta.
Restai a fissarlo confusa mentre proseguiva verso l’uscita, tirandosi dietro il fratello. Non ero ancora riuscita a capire bene come avevo fatto a conquistarmi le simpatie del condannato a morte, però ormai non c’erano più dubbi: Burrows era nelle mie mani. Dovevo solo lavorarmelo per bene per ottenere le informazioni che mi servivano e avrei raggiunto il mio scopo. Lui era il mio caso giornalistico, ero finita a Fox River per indagare sul suo conto, quale migliore occasione di sondare il terreno se non adesso che sembrava diventato così bendisposto nei miei confronti?
 
Più tardi, dopo il turno di lavoro e la doccia, tutte le porte delle celle vennero nuovamente aperte e i detenuti si riversarono fuori per raggiungere la sala mensa. Mi ero ripetuta fino alla nausea che non dovevo avere paura, con un po’ di coraggio sarei riuscita ad affrontare i miei nemici a testa alta. Lì dentro ero nuova e per giunta ero una donna, era comprensibile che l’attenzione generale si concentrasse su di me, ma ero sicura che presto si sarebbero stancati, non sarei stata più una novità, nel giro di un paio di settimane sarei persino potuta passare inosservata e Bagwell e i suoi scagnozzi avrebbero trovato di meglio da fare che prepararmi agguati dentro stanzini bui e puzzolenti. Questo, perlomeno, era quello che mi auguravo.
Le mie opere di convincimento andarono presto a farsi benedire quando, pochi minuti dopo essermi immessa nella fila che portava alla mensa, mi sentii prendere sottobraccio dal depravato dei miei incubi. 
  • Ciao tesorino, mi sei mancata… io ti sono mancato?
All’istante mi si accapponò la pelle e contemporaneamente avvertii un senso di gelo risalirmi lungo la schiena. 
  • Sta lontano da me!  -  sibilai tra i denti, mentre cercavo di liberare il braccio.
Fu tutto inutile. Bagwell mi aveva arpionata, intenzionato a non lasciarmi scappare. 
  • Che cos’è questo tono? Non dirmi che sei ancora arrabbiata con me. Voglio farmi perdonare.  -  La sua voce era calda e sensuale mentre, senza spostarsi, premeva il suo corpo contro il mio.  -  Voglio proporti un gioco, questa volta però giocheremo solo tu e io, che ne dici?
  • Va al diavolo!
Sarebbe stato meglio rimanere in cella. La speranza di rivedere Lincoln Burrows mi aveva convinta a comportarmi da persona coraggiosa, ma la verità era che avevo una gran paura. Avevo bisogno del condannato a morte per dimostrare che le accuse che erano state mosse a mio carico durante il processo erano del tutto infondate, ma il fatto che volessi a tutti i costi andare a fondo nella questione Burrows non significava che volessi anche rischiare la mia incolumità a causa di Bagwell.

Nel momento in cui facemmo il nostro ingresso nella sala mensa, la guardia notò che la vicinanza creatasi tra me e il detenuto al mio fianco era diventata un po’ troppo intima, quindi ci richiamò perché ci allontanassimo. Rispondendo all’ordine, Bagwell si decise a lasciarmi il braccio così fui finalmente libera di sgattaiolare il più lontano possibile. Per un momento pensai di tornarmene in cella, ma poi ci ripensai.
 
“Ormai che sono qui, tanto vale approfittarne”.
 
Incredibile ma vero, quell’incontro era persino riuscito a farmi passare la fame.
Come al solito posai sul vassoio solo una bottiglietta d’acqua e un panino sigillato. Non aveva senso riempirlo di cibo che, in ogni caso, sarebbe presto finito a terra e che non avrei potuto mangiare. In questo modo non solo evitavo di sporcare a terra e quindi attirarmi addosso le ire delle guardie, ma evitavo soprattutto di far finire il cibo addosso a qualche altro detenuto e allungare la già lunga lista di coloro che volevano farmi la pelle. 
  • Ti consiglio di prendere qualcosa di più nutriente di quel panino rinsecchito. Sei più magra di un’acciuga. 
Mi voltai verso la voce e al mio fianco vidi Burrows con un vassoio in mano. Istintivamente sorrisi.
  • Lo vorrei tanto, ma non credo che sia una buona idea.
  • Sawyer, fammi contento ti prego.
Restai a fissarlo come un ebete.  -  Scusa, come mi hai chiamata?
  • Hai detto che ti da fastidio essere chiamata ragazzina e il tuo cognome è Sawyer, no? Come ti chiamano di solito i tuoi amici?
Non riuscivo a credere alle mie orecchie, ero davvero riuscita ad entrare nelle grazie di Lincoln Burrows, e in pochissimo tempo. Mentre m’imponevo di non ridere, presi dal bancone davanti a me un piatto di purea, un altro panino e una cotoletta dall’aspetto non molto appetitoso. 
  • Gwen. -  risposi.  -  Così… adesso siamo amici?
Cercavo di far finta di niente, ma ero felice che avessimo fatto un così grande passo avanti rispetto alla prima volta in cui lo avevo conosciuto. Inoltre avevo la sensazione che anche Lincoln in quel momento non fosse del tutto a suo agio. Sembrava… impacciato. 
  • Io non ho tanti amici, -  disse quasi a giustificarsi  -  ma se te la senti. Le persone mi giudicano difficile.
  • Se è per questo anche a me.
  • Prendi anche della frutta. -  continuò. Mi sembrò più un ordine che un consiglio.
Quando ebbi terminato, mi prese il vassoio dalle mani e lo appoggiò sopra il suo rimasto vuoto. Poi si avviò verso un tavolo in fondo alla sala dove avevo già notato Michael e Sucre.
Ovviamente lo seguii.  -  Che stai facendo?
  • Credevo fosse chiaro. Cerco di far arrivare questo vassoio a quel tavolo.
Quel gesto inaspettato mi mise subito in agitazione. Mi guardai intorno e in un tavolo sulla destra colsi al volo l’espressione infastidita di T-Bag che ci stava osservando. La stessa identica espressione si poteva leggere anche sul volto del capitano delle guardie, in fondo alla sala accanto all’entrata. 
  • Lincoln non farlo, in questo modo ti farai dei nemici. Dammi questo vassoio e allontanati da me o cominceranno a rendere la vita un inferno anche a te.
L’uomo continuò a camminare come se non avessi parlato con lui.  -  Che ci provino. Aspetto proprio l’occasione giusta per far pagare a quel ridicolo frocetto sia quello che ha fatto a te, sia quello che ha intenzione di fare a Michael.  -  poi, considerandolo già un discorso chiuso, cambiò argomento.  -  Quindi Gwen… che diavolo di soprannome è Gwen?
 
Apprezzavo il suo tentativo di aiutarmi, ma non potevo lasciar correre. Sapevo cosa sarebbe successo se si fosse dichiarato mio alleato e non volevo certo che ci rimettesse per colpa mia. Gli restavano da vivere meno di 4 settimane, perché voleva sprecarle mettendosi nei guai per una ragazzina che nemmeno conosceva? 
  • Lincoln, ti prego lascia perdere.
Niente da fare, l’aveva presa come una sorta di missione.
Grazie al suo intervento, il vassoio arrivò al tavolo con tutto ciò che vi avevo depositato sopra. Nessuno si avvicinò a noi, nessuno tentò di far volare il vassoio dalle mani di Lincoln.
Appena arrivati, Michael e Fernando mi salutarono con un cenno. Ricambiai il saluto e presi posto a capotavola, mostrandomi grata dell’aiuto che Lincoln mi aveva offerto, nonostante non glielo avessi chiesto. 
  • Gwen è il diminutivo di Gwyneth. A me piace.  -  ripresi per rispondere alla domanda rimasta in sospeso.
Lincoln rispose con una smorfia.  -  A me piace più Sawyer.
  • Chiamami come ti pare, ma smettila di chiamarmi ragazzina.
  • Accordato.
Quasi non mi sembrava vero di potermi finalmente dedicare ad un pasto vero e proprio e di poter riempire lo stomaco. Vedere T-Bag all’entrata della mensa era riuscito a farmi passare la fame, ma quando mi ero ritrovata quel ben di Dio sul vassoio, mi era subito venuta l’acquolina in bocca.
Michael e Sucre si scambiarono un’occhiata d’intesa vedendomi infilare una forchettata abbondante di purea in bocca. 
  • Piano, non ti strozzare.  -  esclamò Sucre  -  Guarda che non te lo toglie nessuno di davanti.
  • Uhm…non hai idea… di quanta fame avessi.  -  bofonchiai con la bocca piena di cibo che nascosi dietro la mano.
Sia Scofield che Sucre risero.
  • Si vede. Come va l’occhio?  -  continuò Michael, interessandosi in modo premuroso.
Risposi con un ok per evitare di dovermi esprimere nuovamente con la bocca stracarica di cibo. 
  • Ci sono andati proprio pesante con te, eh? Che razza di bastardi!  - commentò Sucre.  -  Però se hanno dovuto ricorrere alle maniere forti significa che gli hai dato parecchio filo da torcere. Allora non sei così indifesa come sembri.
  • Quei tipi sono pericolosi. Puoi stargli alla larga quanto vuoi, ma ti daranno comunque delle rogne.  -  mormorò soprappensiero Michael, giocherellando con la verdura nel suo piatto.
Forse mi sbagliavo, ma avevo la sensazione che non avesse tirato fuori quel commento a caso. Il ragazzo sapeva di cosa stava parlando. Probabilmente anche lui aveva avuto la sua buona dose di problemi al suo arrivo.
 
“Potrei approfittare del momento per avere qualche risposta…”
 
Deglutii e fingendomi indifferente gli chiesi:  -  Tipi come John Abruzzi?
Il ragazzo sollevò gli occhi su di me, vagliandomi per una manciata di secondi prima di rispondere.
  • Si, proprio come John Abruzzi.
  • Che strano. Eppure stamattina ti ho visto chiacchierare amichevolmente con lui. Sembravate…come dire…in confidenza.
  • Non è proprio confidenza quella che mi lega ad Abruzzi.
  • Allora cos’è?
La fretta della mia domanda riuscì a catturare la sua attenzione. Questa volta il ragazzo mi fissò più a lungo. Io sostenni il suo sguardo. 
  • Solo chiacchiere tra detenuti.  -  rispose infine vago.
  • Con il capo mafia più pericoloso d’America? E dai Michael, so che tipo di uomo è Abruzzi. Se ti ha rivolto la parola significa che pensa che tu possa tornargli utile… o viceversa.
  • Stavamo soltanto parlando, e comunque non dimenticarti che sono nel suo stesso gruppo di lavoro e di motivi per parlare con lui ne ho a sufficienza.
  • Già e anche questo è piuttosto sospetto. Ho sentito dire che Abruzzi non lascia entrare tanto facilmente i novellini nel suo gruppo di lavoro. Figurati, io ho quasi rischiato di farmi pestare a sangue quando gli ho chiesto un posto nel suo laboratorio. Com’è che tu sei entrato invece? Se non sbaglio non sei dentro da più tempo di me.
  • Forse sono stato più convincente.
  • A-ah.  -  C’era sotto qualcosa, ci avrei giurato.
Feci una smorfia fingendo di credere alla sua dubbia spiegazione e tornai alla mia cena. Per un po’ nessuno di noi disse più una parola. Finii per spazzolare tutto, fino all’ultima mollica e notai nel frattempo che nell’ultima mezz’ora si era concentrato un certo interesse intorno al nostro tavolo. Non solo T-Bag e il suo gruppo di scimmie ammaestrate, seduti un paio di file avanti, non avevano fatto altro che lanciare occhiate furtive nella nostra direzione, ma John Abruzzi, seduto dirimpetto a noi, aveva lanciato spesso un occhio al nostro tavolo.
Percepivo aria di complotti nell’aria, complotti che evidentemente legavano Abruzzi proprio a Scofield, anche se suonava piuttosto improbabile che un ragazzo gentile come Michael avesse a che spartire col pregiudicato. A tempo debito mi sarei occupata anche di quel mistero, ma non dovevo dimenticare che la mia priorità era Lincoln Burrows. Era lui che tra meno di un mese sarebbe finito sulla sedia elettrica e dovevo sbrigarmi se volevo ottenere le informazioni di cui avevo bisogno. Il primo traguardo era stato raggiunto con facilità, mi ero conquistata un posto nel loro gruppo e presto sarei riuscita anche a conquistarmi la loro fiducia. Il prossimo passo sarebbe stato scoprire come sfruttare a mio vantaggio il potere che esercitavo sul condannato e sul suo dolce fratellino. 
  • Non mi piace lo sguardo che ha quel maniaco.  -  disse Lincoln improvvisamente, attirando la mia attenzione. Non c’era bisogno di chiedere a chi si stesse riferendo.  -  Appena le guardie ci richiamano alle celle, aspetta di essere l’ultima nella fila e domani mattina cerca il più possibile di restare in mezzo ai detenuti.
Istintivamente il mio sguardo cadde tra i tavoli due file più avanti.  -  Credi che ci riproverà?  -  gli chiesi con la morte nel cuore.
  • Purtroppo T-Bag non è il tipo che rimanda quello che ha cominciato.  -  rispose Michael al posto del fratello.
  • Allora tu dovresti proprio preoccuparti, a quanto pare neanche tu gli vai particolarmente a genio.
  • Io?
  • Si tu. Non te l’ho detto ma dopo avermi ridotto la faccia ad una macedonia stantia, Bagwell ha parlato di te, ha detto che io non sono il suo unico obiettivo. Si può sapere che gli hai fatto?
Michael scrollò le spalle.  -  Non ne ho idea. Quell’uomo cerca solo rogne.
 
Ecco un’altra bugia. Era così evidente che stesse mentendo. 
  • A quanto pare sta usando con te gli stessi sottili metodi usati anche con me… -  constatai accennando alla ferita decisamente fresca sul suo sopracciglio destro. 
Lo vidi sfiorarsi il sopracciglio ferito e ammiccare.  -  No, in realtà questo è un regalo che mi ha lasciato un altro detenuto.
  • Oh andiamo bene, fa piacere sapere di non essere l’unica a doversi guardare le spalle dall’intero penitenziario che cerca di ucciderti.
  • Non ti preoccupare, non tutti vogliono ucciderti. Noi siamo dalla tua parte.  -  mi ricordò Sucre riuscendo a strapparmi un sorriso.
  • Vi ringrazio, davvero, ma se voglio liberarmi del depravato devo sapere perché ce l’ha tanto con te Michael, e soprattutto perché sia convinto di poterti colpire prendendosela con me.
  • Pensi che sia per arrivare a me che T-Bag ti ha presa di mira? 
  • Penso che sia tu il suo obiettivo principale. Se fosse stato davvero intenzionato a saltarmi addosso come il 95% dei detenuti qui dentro, sarebbe andato dritto al sodo invece che perdere tempo a picchiarmi. Devo sapere la verità, Michael. Allora, cosa gli hai fatto di così grave da farlo incazzare fino a questo punto?
  • Non lo so.  -  rispose lui evasivo.
Avevo dato per scontato che fossi io quella con i segreti, ma Michael Scofield non era certo da meno. Apparentemente sembrava un tipo alla mano, ma c’era qualcosa di misterioso in lui, qualcosa che sentivo il bisogno di scoprire. 
  • Mi dispiace seT-Bag ti ha presa di mira per colpa mia, ma credimi, lo avrebbe fatto anche se io non ci fossi stato. Tieniti il più possibile lontano da lui.
  • Non me lo vuoi proprio dire il motivo dei vostri contrasti, eh?
  • Ognuno ha i suoi segreti.
  • I segreti non mi spaventano e personalmente non mi hanno mai fermata. Se volessi potrei scoprire di cosa si tratta.
All’improvviso comparve un lampo di sfida nei suoi occhi.  -  Facciamo così: dimmi per quale reato sei stata condannata e io ti dirò per quale motivo T-Bag ce l’ha tanto con me.
  • Mmm… ti propongo una controfferta. Io ti dimostro che sono in grado di scoprire il tuo segreto e tu in cambio mi dirai cos’hai da spartire con Abruzzi, che ne dici?
Un sorriso si allargò sul suo viso mentre si appoggiava contro lo schienale della sedia, assumendo un’aria sfacciatamente piena di sé.
Dovevo ammetterlo, era davvero carino quando sorrideva. 
  • Che cosa sei, un detective?... D’accordo, ci sto.
Ammiccai, già pregustando la vittoria.  -  Sta attento a non rimangiarti la parola. Ci vediamo ragazzi.  -  conclusi alzandomi da tavola senza dimenticare di recuperare il vassoio.
  • Non si era detto di aspettare la fine della fila per cominciare ad andare?
  • Mi piacerebbe, ma la bella crocerossina mi aspetta per medicarmi la ferita.
Lasciai la mensa dopo aver svuotato il vassoio e mi diressi dritta in infermeria.
Ero soddisfatta dei risultati raggiunti ed ero persino riuscita a sostituire il pensiero logorante di T-Bag con una nuova ondata di positività. Stava andando tutto secondo i miei piani. Ben presto avrei avuto in pugno Michael Scofield e i suoi segreti ed ero certa che una volta arrivata a lui, far cantare il fratello sarebbe stato uno scherzo.

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Capitolo 7
*** Scacco matto ***


La prima cosa che dovevo studiare e conoscere a fondo se volevo sopravvivere per i restanti giorni della mia condanna, era la mentalità dominante del carcere. Dovevo calarmi nei panni del detenuto, non c’erano alternative.
Fernando Sucre mi aveva consigliato di armarmi nell’eventualità di un ennesimo faccia a faccia con Bagwell o con qualunque altro detenuto intenzionato ad aggredirmi, però a me era sembrata subito una pessima idea. Non avevo mai usato un’arma in vita mia, persino le poche volte in cui Keith mi aveva obbligata a tenere in borsetta una bomboletta di spray urticante, mi ero sentita a disagio. L’unica arma che riuscivo ad utilizzare era la mia lingua lunga, e quella fino a quel momento era riuscita a mettermi nei guai più spesso di quanto avessi voluto.

Prima di essere trasferita a Fox River mi ero ripetuta con convinzione “Sono soltanto 3 mesi. Che sarà mai?”, ma era trascorsa meno di una settimana da quando avevo varcato i cancelli del Joilet’s Penitenziary e avevano già tentato di uccidermi due volte, quindi cosa potevo fare? Armarmi come aveva suggerito il bell’imbusto portoricano e rischiare di farmi beccare dalle guardie e trasformare la mia condanna da tre mesi a sei o continuare a subire prepotenze da quel farabutto di T-Bag?

La risposta alla mia domanda arrivò il mattino seguente alla buon’ora e giunse niente di meno che dai piani alti. Una guardia venne a prelevarmi direttamente fuori dalle docce per scortarmi fino all’ala sud. Per la terza volta in pochi giorni mi ritrovai nuovamente nell’ufficio del direttore del carcere, anche se non avevo la più pallida idea del perché fossi stata convocata. 
  • Salve Gwyneth, accomodati.  -  esordì l’uomo vedendomi entrare.
  • Direttore.
Così come la volta precedente, Henry Warden Pope mi indicò la sedia di pelle accanto alla sua scrivania perché prendessi posto. Attese che mi accomodassi e restò a fissare lungamente la parte ammaccata del mio viso prima di riprendere la parola. 
  • A quanto pare i timori della dottoressa Tancredi erano fondati. Lei voleva che rivedessi la mia decisione di farti scontare la tua pena qui, sosteneva che i detenuti non avrebbero accolto con gioia il tuo arrivo. La dottoressa crede che tu sia stata aggredita da uno o più detenuti, questo non è riuscita a stabilirlo con certezza, mentre il capitano Bellick mi assicura che si sia trattato di un incidente… Mi piacerebbe sentire anche la tua versione, ragazza.
Esitai per un momento prima di rispondere. Quella domanda avrebbe anche potuto celare dei trabocchetti, ma ero sicura che le intenzioni del direttore non fossero quelle di mettermi in difficoltà. Ero pur sempre la figliastra del suo antico compagno di college, proprio grazie a questo ero riuscita ad oltrepassare le mura di Fox River. Pope non avrebbe fatto mai niente per inimicarsi la figlia dell’amico che in passato lo aveva tirato fuori dai guai, salvandogli il matrimonio. 
  • Vuole la mia versione? Signore, potrei anche dirle di essermi beccata accidentalmente una gomitata in viso mentre giocavo a basket con gli altri detenuti, ma lei sa meglio di me che il più delle volte la politica del carcere non segue direzioni prettamente corrette.
  • Sei stata aggredita?
  • Diciamo che non ci sono finita inciampando contro la grata di ferro.
Il direttore parve intuire il significato delle mie parole e annuì pensieroso, mentre si passava nervosamente una mano sul mento. 
  • Che cosa pensi che dovrei fare adesso?
  • Non credo di poter rispondere a questa domanda. Lei ovviamente deve prendere la decisione che ritiene opportuna.
  • Sapevo che sarebbe stato fuor di ogni logica accogliere una ragazza nel mio penitenziario. Temevo che episodi di questo genere si sarebbero potuti presentare e… non vorrei ma… ammetto di trovarmi in serie difficoltà in questo momento. Tu non dovresti trovarti qui. La commissione disciplinare potrebbe licenziarmi in tronco e gettare un’ombra nei miei quarant’anni di carriera se succedesse qualcosa e questa storia venisse fuori, lo capisci, vero?  -  sospirò asciugandosi il sudore della fronte con il dorso della mano  -  D’altro canto, non posso voltare le spalle a Keith. E’ sempre stato un buon amico. Quando dieci anni fa sua moglie lo lasciò abbandonandolo con la figlia piccola, fu un duro colpo per lui. Mi sorprese quando decise di risposarsi con tua madre. Nonostante tu non sia sua figlia, deve tenerci davvero tanto a te, l’ho capito dopo la sua telefonata.
  • Si, Keith è un buon patrigno.
A quel punto l’uomo raggiunse il suo posto dietro la scrivania, sedendosi pesantemente. Il suo sguardo era ancora attento su di me.
  • Sei ancora convinta che restare qui sia una buona idea?
  • Credo di si… si, lo sono.
La verità era che non avrei voluto trascorrere nemmeno un altro minuto in quel posto sapendo che ad attendermi avrei trovato Theodore Bagwell pronto a portare a termine il gioco del gatto e del topo che aveva cominciato, ma al di là della paura che quell’uomo m’incuteva, io ero consapevole e assolutamente convinta di aver subìto un grosso sopruso da parte della legge.

Ero stata condannata per un reato che non avevo commesso, ero stata costretta a scontare la mia pena in carcere perché considerata “un pericolo per la società” e mi ero praticamente giocata l’avvenire venendo espulsa dall’Albo dei giornalisti. Nonostante ciò ero intenzionata a lottare perché anche la mia reputazione non venisse infangata e i veri colpevoli finissero dietro le sbarre.
  • Ti permetterò di restare e a questo proposito, ecco il motivo per il quale sei stata convocata.  -  riprese il direttore conquistando la mia piena attenzione.  -  So che non ti è ancora stato assegnato un lavoro per il turno mattutino.
  • E’ vero. Al momento sono stata destinata al turno pomeridiano nelle cucine con il gruppo di Stephen Richter.
  • Ne sono al corrente. Da oggi stesso il turno mattutino lo trascorrerai alla mensa insieme al personale di servizio. Normalmente il lavoro nella zona mensa non viene destinato ai detenuti, così che solo il personale autorizzato possa avere a che fare con la preparazione del cibo e l’organizzazione delle portate. Nel tuo caso, come avrai capito, verrà fatta un’eccezione. Comincerai alle 8. Una guardia verrà a prelevarti nella tua cella e ti scorterà in sala mensa dove ti occuperai della disposizione dei tavoli, dei lavori di pulizia e del lavoro di supporto ai volontari. Alle 9 sarai libera come gli altri detenuti di usufruire dell’ora d’aria come meglio credi, alle 11,05 dovrai già trovarti al tuo posto di lavoro per aiutare il personale a predisporre il bancone per l’ora di pranzo. Sono sicuro che non avresti alcun motivo per creare disagi al personale o peggio, incidenti che potrebbero contribuire a protrarre la tua permanenza qui dentro. In ogni caso, trovandoti a stretto contatto col cibo, sarai costantemente tenuta d’occhio da una guardia. Se creerai dei problemi verrai punita, e in base all’entità del danno, dovrai risponderne personalmente a tuo rischio e pericolo.
A quel punto l’uomo si bloccò, fissandomi lungamente con quella sua espressione autoritaria e io mi ritrovai a trattenere il respiro per una manciata di secondi che parvero eterni.
  • Spero che tu capisca che è uno strappo alla regola quello che sto facendo, concedendoti di lavorare alla mensa col personale volontario, ma anche la tua presenza qui è certamente un caso straordinario. Spero che non debba mai pentirmi della decisione e che sfrutterai la fiducia che ti è stata concessa nel migliore dei modi.
  • Ahm…grazie. Le posso fare una domanda?
  • Sentiamo.
  • Se sarò impegnata a lavorare durante l’ora di pranzo degli altri detenuti, finirò col saltare il pasto?
  • Certo che no. Potrai metterti d’accordo con il responsabile dei volontari alla mensa e pranzare prima dell’arrivo dei detenuti. Considera che in questo caso avrai a disposizione solo 15 minuti rispetto ai consueti 30. Per te è un problema?
Lo era si, ma non per i motivi che avrebbe potuto pensare.
  • Ci sono altre domande?  -  proseguì il direttore, forse vedendomi pensierosa.
  • Solo una. Perché ha pensato a me per questo lavoro?
L’uomo ci rifletté un momento.  -  Non c’è alcun tipo di favoritismo in questa mia concessione Gwyneth, voglio che tu lo sappia. Come ho già detto, questa è una prigione e non è ammesso alcun trattamento di favore per nessuno, ma al di là di questo, è fuor di dubbio che tu sia una ragazza di 20 anni rinchiusa in un penitenziario di massima sicurezza maschile e immagino quali possano essere i pensieri dei detenuti vedendoti trascorrere le giornate a stretto contatto con loro… forse ne tu ne tantomeno Keith Sawyer riuscite ad intuire i pericoli ai quali sei quotidianamente esposta restando qui. 
Avrei voluto dire di averne avuto un assaggio appena la mattina prima, ma saggiamente preferii lasciare per me i miei pensieri. Avevo notato che il direttore Pope non amava molto essere interrotto.
  • Io non posso ordinare che tu venga segregata nella tua cella o che possa scontare il resto della pena lontana dai detenuti, però posso fare in modo che almeno il turno di lavoro della mattina sia più sicuro.
Era stato molto premuroso da parte di Pope concedermi quel lavoro. I vantaggi di una simile decisione saltavano agli occhi: se avessi lavorato alla mensa, avrei avuto ben due ore al giorno per stare lontano dai detenuti. In questo modo avrei evitato di incontrare T-Bag e altri possibili pericoli rischiando, oltre che la pelle, anche di attirare l’attenzione del direttore, non proprio entusiasta della mia presenza a Fox River. Era senza dubbio un’opportunità fantastica di limitare i guai, però questo avrebbe comportato anche un grosso svantaggio. Così non sarei più riuscita ad incontrare Lincoln Burrows e a parlare con lui durante il pranzo. Avrei avuto a disposizione solo la cena durante la quale avrei dovuto mangiare, conquistarmi la fiducia del galeotto e trovare le risposte di cui avevo un disperato bisogno. E mancavano solo poche settimane alla sua esecuzione. Apprezzavo l’interessamento di Pope, ma non potevo accettare di perdere altro tempo prezioso. Se solo avessi potuto rifiutare con un grazie…
  • Gwyneth, c’è anche un altro motivo per il quale ho deciso di affidarti questo incarico. -  continuò l’uomo indisturbato.  -  Keith mi ha raccontato che il tuo alto quoziente intellettivo è influenzato dal fatto che hai una memoria molto sviluppata… -  Annuii.  -  …perciò ho pensato che potresti utilizzare le tue capacità per migliorare il servizio alla mensa e provare a conquistarti la simpatia dei detenuti.
  • Come?  -  chiesi con palese perplessità nella voce.
  • Vedi… a Fox River attualmente sono rinchiusi 608 detenuti, 203 dei quali occupanti il Blocco A. Capirai perfettamente che per i volontari alla mensa che sono meno di una decina in tutto, non è semplicissimo provvedere alle necessità di così tanti uomini. Per alcuni di loro vengono presi particolari accorgimenti nella selezione e preparazione del cibo. Ovviamente parliamo di necessità mediche come intolleranze alimentari o allergie.
  • Immagino non si tenga conto di casi fuori lo spettro medico, di abitudini personali o richieste speciali.
  • Hai afferrato il concetto. Le richieste personali in tutti i casi non sarebbero ammesse…
  • …perché questo è un carcere e non un albergo. -  dissi concludendo la frase al posto suo, e il tentativo mi costò un’occhiataccia.  -  Scusi, continui pure.
L’uomo non se lo fece ripetere.  -  Credi che potresti cercare di assecondare le esigenze dei detenuti, anche se il numero è elevato?
 
A voler considerare la cosa, quella di Pope era una richiesta piuttosto stramba, ma anche intelligente. Se riuscivo a studiare le abitudini alimentari dei miei 202 compagni di prigione, potevo imparare a conoscerli, trovare un modo per risultare utile e attirare le simpatie dei più che fino a quel momento avevano pensato solo ad un modo per strapparmi di dosso i vestiti. Restava però la questione Burrows. 
  • Signore… -  Non so perché mi ostinassi a rivolgermi a quell’uomo come ad un superiore militare, ma era quella la sensazione che mi trasmetteva. 
  • Si?
  • Non credo di essere adatta. Non voglio farlo.
  • Beh, non credo che tu abbia scelta, ormai ho deciso. Comincerai oggi stesso, dopo l’ora d’aria.
  • Signore…
  • E’ tutto signorina Hudson, può andare adesso.
Avevo capito che ormai la decisione era stata presa, non c’era possibilità di sottrarsi a quell’incombenza.
Visto che non c’era più niente che potessi fare, mi alzai dalla poltrona di pelle nera per lasciare l’ufficio. Ero quasi arrivata alla porta, quando sentii nuovamente la voce del direttore chiamarmi per nome. Mi voltai verso di lui. 
  • Se anche questa soluzione non dovesse funzionare, sarò costretto a mandarti via Gwyneth, e sarai destinata ad una struttura affine alla tua condanna e ovviamente ad una sezione femminile… questo tu lo capisci, vero?
  • Certo. Grazie per la possibilità che mi ha offerto.
Pope annuì, poi agitò una mano perché mi dileguassi il più in fretta possibile.
 
Allo scoccare del primo turno d’aria mi diressi veloce verso il cortile esterno, cercando con gli occhi Lincoln Burrows oltre l’inferriata, ma non lo vidi. Avevo sperato di trovarlo per poter scambiare qualche parola con lui, ma cominciavo a pensare che non avrei ottenuto un bel niente andando avanti così. Le occasioni di incontrarlo a Fox River erano davvero poche, ed erano praticamente nulle quelle in cui avrei potuto scambiare quattro chiacchiere con lui da solo, ma non ero ancora pronta a perdere le speranze.
In un tavolinetto di legno sistemato in un angolo all’ombra, riconobbi Michael insieme al simpatico vecchietto con la passione per i gatti e i cruciverba, così decisi di raggiungerli. 
  • Salve ragazzi…Michael…Charles…oh, ciao anche a te Marylin.  -  Protesi le braccia e nello stesso momento una testolina pelosa allungò il musetto verso la mia mano, finché Charles Westmoreland non lasciò saltare il felino dentro il riparo sicuro che gli stavo offrendo.  -  Grazie.
  • Figurati. Tu piaci molto alla mia Marylin.
Sorrisi in direzione di Michael e andai a sedermi sull’unica sedia libera rimasta, mentre osservavo il vecchio fare l’ultima mossa sulla scacchiera al centro del tavolo. Era bastata un’occhiata per capire che ormai il gioco stesse per volgere in favore di Scofield. 
  • Chi sta vincendo?  -  chiesi fingendo di non saperlo.
  • Michael.  -  rispose Charles sospirando.  -  Tre partite a zero. Mi sta stracciando.
Il ragazzo sorrise senza vantarsi, proclamando lo scacco matto conclusivo. 
  • Ti andrebbe di prendere il mio posto così mi risparmio l’ennesima figuraccia?  - mi chiese il vecchio.
  • Certo, volentieri.  -  Facemmo cambio di posto. Io mi sistemai di fronte a Michael depositando Marylin sulle mie gambe, Charles occupò la sedia accanto osservando entrambi mentre sistemavamo i rispettivi pezzi sulla scacchiera, in posizione.  -  Vacci piano con me, Scofield, è da quando avevo 10 anni che non gioco a scacchi.
In realtà mi stavo solo prendendo gioco di lui. Ero sicura di vincere, Michael non aveva la benché minima possibilità di sopraffarmi, nonostante fosse assolutamente vero che avessi giocato la mia ultima partita a 10 anni.
Da vero gentiluomo, il ragazzo mi concesse la mossa di apertura. Mentre spostavo il mio pedone in avanti, tirai fuori dalla tasca della felpa dei pezzi di mollica di pane per offrirli al gatto che sembrò apprezzare molto l’offerta. 
  • Allora Michael, sei pronto a rivelarmi cosa c’è in ballo tra te e John Abruzzi?
  • Credevo che avessimo deciso di vuotare il sacco quando e se tu fossi riuscita a scoprire un mio altro particolare segreto.
Era molto concentrato sul gioco, infatti mentre mi parlava non sollevava gli occhi a guardarmi. A differenza sua, io ero molto più interessata alla conversazione. 
  • Ma io ho già scoperto il segreto.
  • Non mi dire… allora sentiamo.
Allungai la mano e mossi l’alfiere lungo la scacchiera. Alla quinta mossa Michael aveva il pieno controllo del suo gioco. Quindi era più esperto di quanto avessi creduto. Bene, con lui potevo divertirmi. 
  • Dici sul serio?
  • Certo. Non preoccuparti per Charles, lui è un amico. Parla pure. 
“Credeva forse che stessi bleffando?”
  • D’accordo, come vuoi. Ieri sera, dopo essere tornata dall’infermeria, ho chiesto un po’ in giro. Il mio scopo era capire perché T-Bag ce l’avesse tanto con te, ma non potevo certo fare delle domande dirette, così ho dovuto sondare un po’ il terreno.  -  cominciai  -  E’ stato più facile del previsto, a dire il vero. Dei detenuti mi hanno raccontato che la settimana scorsa, prima del mio arrivo, è scoppiata una rissa che ha visto contendersi i bianchi contro gli afroamericani, con una netta vittoria di questi ultimi dato che nella confusione cinque uomini sono stati uccisi, quattro bianchi e un nero.
Continuavo a guardare Michael, ma lui restava concentrato sulla scacchiera. Sembrava non mi stesse neanche ascoltando, ma io sapevo che non era così.
  • Sicuramente avrai saputo che tra le vittime c’era anche un certo Maytag. Nessuno ha saputo dirmi quale fosse il vero nome del ragazzo, ma in compenso ho scoperto che si trattava del pupillo di Bagwell. A quanto dicono, il depravato ha sofferto molto per la morte del suo beneamato e ha giurato di ottenere vendetta sull’uomo che l’ha assassinato. Da ciò e dall’odio che ho letto nello sguardo di T-Bag quando mi ha parlato di te, ne ho dedotto che fossi stato tu ad uccidere Maytag o perlomeno che ti ritenesse il principale sospettato.
Giocai la diciassettesima mossa del bianco guardando divertita l’espressione perplessa del mio avversario. Guardando la scacchiera, chiunque avrebbe pensato che i bianchi occupassero una posizione strategica e molto ben piazzata rispetto ai neri. Sia la regina nera che il cavallo si trovavano minacciati. Michael avrebbe dovuto scegliere quale pedone sacrificare, invece, con una mossa del tutto insolita e inaspettata scelse di portare avanti l’alfiere. Capii che mi ero sbagliata su di lui. Non era un esperto nel gioco degli scacchi ma decisamente sapeva come far lavorare il cervello, calcolava ogni mossa e metteva in atto brillanti strategie. Era bravo.
  • Complimenti.  -  disse all’improvviso.  -  Se sei riuscita a scoprire tutto questo in una sola serata, sei in gamba.
  • Non ne hai neanche idea. Comunque non è finita, vuoi che continui?
  • Certo.
  • Beh, dopo il raccontino dei miei vicini di cella non riuscivo a raccapezzarmi. Volevo saperne di più per decidere se mandarti al diavolo definitivamente o darti ancora una possibilità, così ho cercato di capire cosa fosse successo, ed è stato a quel punto che ho incontrato Franklin Benjamin Miles…
  • Chi?
  • Miles, noto a tutti come C-Note o ai più come “La Farmacia di Fox River”. Gestisce il mercato nero della prigione e a quanto ho capito non contrabbanda soltanto farmaci. Comunque, ti dicevo che ho parlato con Miles… lui era presente e ha potuto chiarirmi i fatti, però sapessi che fatica parlare con lui. Dio, è così suscettibile! Ho dovuto strappargli le parole di bocca con la pinza. 
Finalmente Michael sollevò gli occhi dalla scacchiera, fissandomi interessato. 
  • Secondo la versione di C-Note, è stato Maytag ad aggredirti.  -  continuai  -  Tu hai cercato di difenderti quando lui ha provato a colpirti, finché un colosso afroamericano non lo ha colpito alle spalle con ben 3 pugnalate al petto e lo ha fatto precipitare addosso a te, sporcandoti con il suo sangue… Secondo me, ma è assolutamente un ipotesi quindi fermami pure se sbaglio, dopo che il tuo aggressore è stato colpito a tradimento, è sopraggiunto T-Bag, ti ha visto accanto al corpo del suo amico e ha tratto le ovvie conclusioni. Al suo posto anch’io avrei pensato che fossi stato tu se ti avessi visto accanto al cadavere, sporco di sangue e per giunta con l’arma stretta in mano. Devo dire che è proprio una brutta storia, e…ah Michael… scacco matto! 
Lo vidi fissarmi allibito. Prima abbassò lo sguardo sul gioco e successivamente tornò a guardarmi con la stessa identica espressione, dopo aver constatato di aver perso. Anche Charles era rimasto a bocca aperta. 
  • Come hai fatto?  - mi chiese il ragazzo smarrito.
  • Che cosa? A vincere o a scoprire il tuo segreto?
  • Entrambi.
  • Per quanto riguarda il gioco, è stato facile.  -  esclamai per vantarmi.
La verità era che Michael era stato davvero un avversario temibile. Mi ci erano volute ben 25 mosse per batterlo. 
  • Ero sicuro di averti in pugno. Come hai fatto a ribaltare la partita?
Gli sorrisi.  -  Fino alla quattordicesima mossa il tuo gioco è stato perfetto, tanto che mi hai costretta ad adottare una nuova strategia e cambiare gioco. Alla diciassettesima mossa hai scambiato gli alfieri, mossa molto intelligente a mio dire. Avresti potuto mettere al sicuro la regina o il cavallo, o potevi non fare nulla e cercare di rafforzare le difese, invece hai fatto una scelta del tutto inaspettata, ma poi hai fatto il tuo primo errore. Ti sei mosso in modo pericoloso, così nel giro di sette mosse ho potuto facilmente distruggere le tue difese e arrivare al re.
  • Ricordi ogni singola mossa che ho fatto?
  • Per vincere ci vuole concentrazione, e tu la tua l’hai persa quando è cominciata la seconda parte del racconto.  -  spiegai come una maestrina.
  • Però tu hai parlato per tutto il tempo, come hai fatto a concentrarti?  -  s’intromise Charles poco convinto.
Risposi con un’alzata di spalle. Amavo darmi delle arie, soprattutto quando erano meritate. 
  • E la storia di T-Bag?  -  riprese Michael.  -  Come hai fatto a scoprire tutte queste informazioni così in fretta? E come sei riuscita ad ottenerle da dei detenuti?
  • Te l’ho detto, io sono brava con i segreti. Tutto sta nel modo in cui poni le domande e soprattutto, a chi le chiedi. Sono contenta che tu non abbia ucciso quell’uomo. Non mi andava affatto di mandarti al diavolo.
Forse ero stata un po’ troppo sfacciata, ma a dire il vero non ne ero pentita. Pensavo davvero che Michael potesse avere qualcosa di diverso, un che di interessante. Volevo conoscerlo.
Il ragazzo tenne fissi i suoi occhi azzurri su di me, poi ammiccò:  -  Rivincita?
  • Ormai è inutile, conosco il tuo stile di gioco.
  • Hai paura di fare una figuraccia?
  • E’ altamente improbabile, ma se insisti.
Sistemai velocemente i pezzi nelle loro posizioni iniziali e ricominciammo a giocare. Questa volta non stavo cercando di darmi delle arie. Era proprio come avevo detto, conoscendo il suo stile di gioco lo avrei stracciato in un attimo. Poteva anche ragionare in modo complicato, ma anche lui come tutti seguiva uno schema. 
  • Allora, adesso sei pronto a mantenere la tua promessa e rivelarmi quale subdolo e pericoloso intrigo ti tiene legato ad Abruzzi il capomafia?
  • Mmm… stai cercando di nuovo di deconcentrarmi?
  • Non hai nessuna possibilità di battermi nemmeno se giochiamo in silenzio.
  • Dammi il beneficio del dubbio. 
Lo accontentai e continuammo a giocare in silenzio. Come avevo ipotizzato, Michael era troppo legato al suo gioco e troppo prevenuto in difesa, però dovevo ammettere che non era semplice sopraffarlo. Sembrava avere sempre un asso nella manica di fronte alle difficoltà che le mie pedine gli ponevano davanti. Era divertente giocare con lui, mi colpiva la grave concentrazione con cui si applicava, ma come volevasi dimostrare vinsi di nuovo io.

In sole diciannove mosse il mio cavallo bianco diede un meraviglioso scacco al suo re. 
  • Non c’è storia amico, ti ha stracciato! -  esclamò soddisfatto il vecchio battendo le mani. 
Il miagolio di Marylin accoccolata sulle mie gambe, sembrò confermare le parole del suo padrone. 
  • Cos’ho sbagliato questa volta?
  • Hai sacrificato troppi pedoni per proteggere quelli più forti, ma dovresti saperlo, senza difesa non c’è attacco.
Piegò la bocca in una smorfia.  -  Ti stai proprio divertendo, eh?
  • Oh, non te lo immagini nemmeno.
  • Ragazzi… volete che me ne vada?  -  domandò all’improvviso Charles con una strana espressione in viso.
Sia io che Michael ci voltammo a fissarlo, confusi. 
  • No, perché?
  • Mah… ho l’impressione che stiate… flirtando. 
Arrossii imbarazzata senza sapere cosa rispondere. Io non avevo avuto quell’impressione, ne avevo avuto la sensazione che Michael ci stesse provando. Perché a Charles era venuta in mente quell’idea assurda? 
  • Non stiamo flirtando.  -  rispose Michael più tranquillo e sicuramente meno imbarazzato di me.
  • A-ah. E’ arrivato il momento di andare per me, se ho capito bene avete delle cose di cui discutere, quindi tolgo il disturbo.
Avrei giurato che fosse solo una scusa banale con cui potersi dileguare, però in fondo era molto meglio così. Preferivo discutere di certi argomenti privati senza testimoni impiccioni in giro. Quando il vecchio si alzò dalla sedia gli restituii il gatto, prima di vederlo allontanare a passo lento.
  • Non si può certo dire che Charles non sia un uomo perspicace. Allora Scofield, sono tutta orecchi. Che c’è in ballo tra te e Abruzzi?  -  chiesi andando dritta al sodo.
Michael sospirò.  -  Perché ci tieni tanto a saperlo?
  • Perché abbiamo fatto un patto, e perché non riesco proprio a capire cosa possa c’entrare un ragazzo come te con un tipo pericoloso come Abruzzi.
  • Beh, se proprio lo vuoi sapere, non è che questa sorta di alleanza che mi lega a quell’uomo mi renda entusiasta. Il fatto è che io ho qualcosa che interessa molto ad Abruzzi e lui ha qualcosa che interessa a me. 
Era riuscito ad incuriosirmi. Mi sistemai meglio sulla sedia e puntellai i gomiti sul tavolo, prima di chiedergli:  -  Cosa?
 
Il ragazzo fece una pausa prima di rispondere alla mia domanda con un’altra domanda. 
  • Lo sapevi che John è stata arrestato e condannato grazie alla testimonianza di un uomo che lo ha indicato come il mandante di un omicidio a sangue freddo?  -  Scossi la testa.  -  E’ così. John stava per farla nuovamente franca se non fosse stato per quell’uomo. Il suo nome è Otto Fibonacci, e in attesa del processo definitivo contro Abruzzi che si terrà il mese prossimo, lui rimarrà nel programma protezione testimoni.
  • D’accordo, ma tutto questo cosa c’entra con te?
Michael puntò i suoi occhi nei miei.  -  Io so dove si trova Fibonacci.
 
Valutai per un momento quell’informazione convinta di non aver capito. 
  • Scusa… in che senso sai dove si trova?
  • Semplice. Ho fatto delle ricerche e ho scoperto in che luogo i federali hanno portato Fibonacci e la sua famiglia per proteggerli.
Per più di un minuto restammo in silenzio. Sembrava che Michael stesse pensando a come continuare il discorso, mentre io aspettavo pazientemente che si decidesse a proseguire. 
  • Il problema in tutta questa storia è che Abruzzi sa che io conosco il nascondiglio di Fibonacci, e vuole che glielo riveli.  -  riprese dopo un po’.
  • Ma tu non hai intenzione di dirglielo, vero?
  • Non hai ida di quanto possa risultare convincente John Abruzzi.
Quella storia non stava in piedi. O Michael mi stava nascondendo qualcosa oppure mi stava prendendo in giro. Ammettendo che il ragazzo avesse davvero scoperto il nascondiglio del testimone chiave al processo di Abruzzi, cosa di per sé piuttosto improbabile, come aveva fatto il mafioso a scoprirlo? Il ragazzo aveva ammesso di aver fatto delle ricerche per scoprire dove si trovava Fibonacci. Perché lo aveva fatto?
Per consegnare l’informazione nelle mani di Abruzzi e tenerlo in pugno? E cosa avrebbe ottenuto in cambio? 
  • Immagino che ciò che brama il tuo amico mafioso sia l’informazione riguardante l’uomo che l’ha fatto condannare, tu invece che cosa vuoi ottenere?
La risposta, a differenza delle altre, arrivò immediata.  -  Protezione.
  • Protezione… -  ripetei aggrottando la fronte. Non me l’ero aspettata.
  • Già. Forse tu non lo sai, ma John Abruzzi è l’uomo più rispettato e potente di tutta Fox River tra i detenuti. Persino le guardie hanno un tacito accordo con lui, lo tengono buono accordandogli dei favori. Bellick gli ha permesso di gestire i lavori di laboratorio. Ecco chi è John Abruzzi…
  • Un mafioso!
  • Un mafioso che può rendere la mia permanenza qui dentro molto più rilassante.
Non so perché quelle parole mi sconcertassero tanto. Michael riusciva a parlarne con una tale freddezza che mi faceva rabbrividire. 
  • Non so cosa dire… -  mormorai a disagio, mentre decidevo se continuare a restare o andarmene.
  • Gwen, qui dentro chi non ha delle buone conoscenze, finisce in un sacco nero entro una settimana. Perché credi che Bagwell non sia ancora riuscito ad uccidermi?
  • Ma hai la più pallida idea di quello che stai dicendo? Se consegnerai Fibonacci, quell’uomo morirà.
  • Lo so.  -  mormorò con voce tutt’altro che distaccata.
  • Allora cosa? Vuoi salvarti la vita a discapito di quel pover’uomo?
  • Non ho detto questo! -  esclamò sulla difensiva.  -  Ho detto che so come trovare Fibonacci e ho detto a John che glielo consegnerò non appena sarò fuori di qui, ma questo non significa che lo farò. Abruzzi ha diversi ergastoli sulle spalle e probabilmente dopo il processo, la sua condanna diverrà effettiva e John non metterà mai più piede fuori da questo carcere. Io invece uscirò tra 5 anni… con la buona condotta potrei essere fuori tra 3 anni e mezzo. A quel punto non avrò più niente da spartire con lui.
  • Tu devi esserti bevuto il cervello. -  sbottai abbandonando di colpo il mio posto. Ne avevo abbastanza delle sue assurdità. -  Abruzzi è un criminale, un assassino… come fai a non capire? Se tu non gli darai ciò che vuole, ti perseguiterà per il resto dei tuoi giorni e poco importerà che tu sia ancora rinchiuso a Fox River o dall’altra parte del mondo.
  • Beh, ormai è tardi. Se non avessi agito in questo modo, mi avrebbero già fatto a pezzi e Abruzzi avrebbe comunque trovato un modo per farmi parlare. Non scherzavo prima quando ti ho detto che sa essere molto convincente. Qualche giorno dopo il mio arrivo, Abruzzi mi ha teso un agguato insieme ad altri due uomini. Mentre in due mi bloccavano, il terzo mi ha staccato il mignolo dal piede con delle cesoie da giardinaggio… esperienza molto dolorosa, credimi.
Riuscivo ad immaginare benissimo la scena. Avevo vissuto anch’io un’esperienza simile grazie a T-Bag.
Per qualche secondo restai in silenzio ad osservare il ragazzo seduto all’altro capo del tavolo. Perché non riuscivo a togliermi di dosso la sensazione che in tutta quella storia appena sentita, qualcosa non andasse? C’erano troppi dettagli che stonavano con la personalità che avevo associato a Scofield. Lui non era stato capace di uccidere l’amico di T-Bag che aveva provato ad aggredirlo, però poteva essere capace di mettere a repentaglio la vita di un brav’uomo, rivelandone ad Abruzzi il nascondiglio?
O io non avevo capito niente di Michael o il ragazzo mi stava mentendo, e di brutto anche. 
  • Sei un bugiardo. Io non ti credo.  -  azzardai al fine di vagliare la sua reazione.
  • Cosa?
  • Questa storia del testimone è assurda. Se anche sapessi dov’è nascosto Fibonacci, io non credo che avresti il coraggio di condannare a morte certa un uomo innocente, non con quello che sta capitando a tuo fratello. E non credo neanche alla storiella che vuoi tenerti buono Abruzzi, promettendogli di dargli un giorno l’informazione che tanto brama. Il processo sarà tra un mese e come hai detto tu, se Otto Fibonacci testimonierà, per Abruzzi e il suo clan di mafiosi non ci sarà scampo. L’unica possibilità per ottenere una revisione della pena sarebbe togliere di mezzo il testimone chiave e non permettergli di presentarsi in tribunale, e se davvero tu sai come arrivare a questo testimone sei in pericolo esattamente come lo è lui, quindi a meno che non ci sia qualcos’altro sotto che non mi hai detto Michael, a me sembra proprio che tu mi stia prendendo in giro. 
Non rispose, ma aveva piegato la testa in avanti e aveva un’espressione da cane bastonato che mi fece montare su tutte le furie. Chi si credeva di essere per riempirmi di menzogne in quel modo? Non avrei dovuto fidarmi di lui. Che stupida! Gli avevo anche prestato attenzione, mentre probabilmente lui si era anche divertito. 
  • Gwen, non è come credi…
  • Lascia stare, non m’interessa. Non so neanche perché me la prendo tanto, d'altronde sei solo un detenuto.  -  conclusi tagliente prima di andare via. 
Non riuscivo a capire perché mi sentissi tanto delusa. Avevo deciso di fidarmi e Michael aveva tradito le mie aspettative, d’accordo, nulla che non si potesse superare… però era così frustrante! Odiavo non sapere le cose e odiavo ancora di più essere presa in giro. A quel punto, potevo decidere di lasciar perdere, concentrarmi su Burrows e considerare Michael Scofield alla stregua del resto dei detenuti rinchiusi in quel posto o potevo togliermi lo sfizio alla vecchia maniera e dare risposta ai miei dubbi, così da mettermi il cuore in pace.
 
Questa storia puzza proprio di bruciato. Scofield nasconde qualcosa.
 
Avevo già preso la mia decisione ancor prima di prendere in esame pro e contro delle alternative. Perlomeno adesso sapevo cosa fare: avevo una telefonata importante da fare prima che terminasse il turno d’aria.

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Capitolo 8
*** Giorno di visite ***


  • E questo che diavolo sarebbe?
Il capellone con le enormi sopracciglia di cui ignoravo ancora il nome, fissò attentamente il piatto prima di sollevare nuovamente i suoi occhi su di me.
  • Manzo con patate.  -  risposi a disagio.
  • E chi ti ha detto che voglio il manzo con le patate?
  • Scusa… ho notato che a pranzo prendi sempre manzo e patate e ho pensato di mettertene una porzione di lato visto che oggi le patate scarseggiano… ma se mi sono sbagliata…
  • Dà qua! -  borbottò, tirandosi il piatto prima che potessi portarglielo via.  -  Domani è mercoledì e il mercoledì mangio il pollo.
  • Farò del mio meglio.
Forse all’inizio mi ero mostrata un po’ scettica all’idea di accettare il lavoro alla mensa che Pope mi aveva proposto, ma adesso invece ne ero felice. Nel giro di pochi giorni ero riuscita a conquistarmi parecchie simpatie e ad organizzare la mensa in relazione alle abitudini alimentari dei miei 202 compagni di disavventure. Dopo solo tre turni di lavoro sapevo che tra gli “ospiti” assegnati al Braccio A, 7 erano ciriaci, 7 erano allergici al lattosio, 26 odiavano le verdure, 2 erano principalmente vegetariani. Tutti gli altri tendevano ad adeguarsi e probabilmente non avrebbero mai ammesso di avere delle preferenze alimentari. Jason O’Donovan per esempio, il venerdì non toccava la carne, probabilmente per qualche preconcetto religioso. Charles Westmoreland chiedeva sempre i bastoncini di pesce (sospettavo che fossero i preferiti di Marylin) e Johnny Sonntag, detto anche Freesby, odiava il formaggio e si rifiutava di toccare qualunque pietanza ne contenesse anche solo l’odore.
Richard, il responsabile dei volontari alla mensa, aveva detto che non poteva essere fatta una distinzione di cibo per i detenuti, primo perché il suo compito non lo prevedeva e secondo, perché essendoci così tanti uomini da sfamare, sarebbe stato impossibile ricordare le esigenze di tutti. Richard però non aveva considerato di avere nel suo team una ragazza con una memoria fotografica. Non aveva avuto niente da ridire sul fatto che fossi io, insieme ad altri 3 ragazzi, a trovarmi dall’altra parte del bancone mentre i detenuti si servivano. Con me in prima fila nessuno rischiava di fare confusione, tutti erano soddisfatti e io avevo più amici. 
  • Sembra proprio che tu abbia trovato la tua vocazione.  -  commentò una voce alle mie spalle, mentre stavo ripulendo il bancone alla fine del turno. 
Ormai quasi tutti i detenuti avevano lasciato la mensa. Gli ultimi stavano finendo di spazzolare la loro razione quotidiana perché arrivati in ritardo.
Quando mi voltai, sapevo già chi trovarmi di fronte.  -  Ciao Lincoln.
  • Ho notato che T-Bag e i suoi compari non si avvicinano mai dalla tua parte del bancone.
  • Sanno che qui è facile procurarsi del veleno per topi e che è altrettanto facile farlo finire “accidentalmente” in una delle loro pietanze. Da quando Pope mi ha affidato questo lavoro, il vassoio ha smesso di volarmi dalle mani e a cena mi lasciano mangiare in pace. Un urrà per Pope!  -  esclamai riprendendo a lucidare il bancone.
  • Perchè non sei più venuta a mangiare al tavolo con noi. Problemi?
Mi finsi del tutto indifferente.  -  No, nessun problema.
  • Quindi non c’entra niente la discussione che hai avuto con Michael qualche giorno fa.
  • Non abbiamo avuto nessuna discussione. 
Dal giorno in cui Michael mi aveva mentito riguardo al rapporto che lo legava ad Abruzzi, avevo fatto di tutto per evitarlo. In cortile mi ero assicurata che tra noi ci fosse una netta distanza, a cena avevo preferito mangiare in compagnia del vecchio Westmoreland. Insomma, avevo deciso volutamente di stargli alla larga. Lui mi aveva mentito, presa in giro e stava architettando qualcosa con un pericoloso criminale. Si poteva mandare al diavolo qualcuno per molto meno. 
  • Io non ti capisco.  -  riprese Burrows.  -  Ci tieni così tanto ai tuoi segreti, però non sopporti se qualcun altro vuole tenersi un segreto per sé.
  • E’ diverso. Se ti stai riferendo a tuo fratello, il suo non è un segreto, è… è un abominio! Ma dico, non sei preoccupato per lui?
  • Michael è adulto e di certo non è un irresponsabile.
  • Ah no?  -  Abbassai il tono e con un cenno del capo indicai Abruzzi che stava lasciando la mensa proprio in quel momento. -  E complottare con un mafioso tu come lo definiresti?
  • Sawyer, Michael è un bravo ragazzo. E’ finito dentro per uno sbaglio e sta cercando di rimediare.
  • Non si finisce per sbaglio a rapinare banche, Lincoln.
  • Hai ragione, però prova a dargli una possibilità, sono sicuro che se lo conoscessi meglio potrebbe piacerti.
Ero sicura che le intenzioni di Lincoln fossero buone, ma lui ovviamente era di parte. Michael era suo fratello e gli voleva bene, questo era evidente. Io però ero sospettosa di natura. Avevo già dato una possibilità a Michael e generalmente non amavo sprecare seconde possibilità con perfetti sconosciuti. Men che meno se si trattava di detenuti che complottavano con i criminali.

Alle 13 cominciava il secondo turno d’aria. Fuori il pomeriggio era freddo, in mattinata aveva anche piovuto, non sembrava una buona idea starsene all’aperto. Decisi di restarmene sdraiata sulla mia branda. Non avevo voglia di andarmene in giro, e in ogni caso non avrei saputo con chi passare il tempo. Meglio restare in cella a leggere un libro.
Avevo appena aperto il libro regalatomi da Meredith prima che mi trasferissero a Fox River, per cominciare a leggerlo. Era il primo romanzo della trilogia di Stieg Larson, intitolato Uomini che odiano le donne. Meredith lo aveva già letto e ne era rimasta entusiasta. Nel libro si faceva riferimento ad un giornalista di successo, nonché uno dei principali protagonisti, che era stato costretto a scontare tre mesi in carcere con un’accusa di diffamazione, nonostante le notizie da lui riportate e pubblicate fossero state reali, ma purtroppo non dimostrabili. Sembrava di leggere la mia storia al maschile, con un’ovvia differenza però: il protagonista non era finito a scontare la propria in un penitenziario femminile.
Avevo appena finito di leggere la terza pagina del primo capitolo, quando un movimento all’entrata della cella richiamò la mia attenzione, facendomi distogliere gli occhi dalla pagina. 
  • Tu non sei un tipo molto religioso, vero?  -  Era Michael Scofield. Con lo sguardo stava esaminando l’interno della mia cella, non so se perché cercasse qualcosa o perché volesse evitare di guardarmi direttamente negli occhi.  -  Di solito i detenuti tendono ad appendere alle pareti simboli del loro credo, foto dei loro cari, oggetti scaramantici… anche se il più delle volte ci trovi le foto di donne mezze nude.
  • Che cosa vuoi Michael?  -  chiesi scocciata, mettendo da parte il libro.
  • Solo scusarmi per averti mentito.
  • Lo hai ammesso… è già un passo avanti. Mi hai presa in giro, non hai rispettato il nostro patto e per giunta mi hai raccontato una bugia.
  • Diciamo più una mezza verità.
  • Che coincide pressappoco ad una menzogna.
Sospirò dispiaciuto. Sembrava sincero, ma per quanto potevo saperne poteva anche trattarsi di una recita. 
  • Guarda che quello che ti ho raccontato è in parte vero.  -  continuò entrando per avvicinarsi alla branda, nonostante non gli avessi concesso affatto questo permesso.  -  E’ vero che io ho qualcosa che interessa ad Abruzzi e che quel qualcosa è l’informazione su Fibonacci… è vero anche che gli ho proposto una specie di scambio, ossia l’informazione in cambio di qualcosa che solo lui può procurarmi.
  • Protezione?
  • No, non proprio.
  • Allora cosa? -  Era di nuovo riuscito a coinvolgermi.
Sospirò nuovamente.  -  Questo non posso dirtelo. Ognuno ha i suoi segreti. Tu hai i tuoi, io ho i mei.
Sbuffai delusa.  -  Io però non rischio l’osso del collo e non ho una tresca con un mafioso!
  • Dipende dai punti di vista.  -  Continuai a fissarlo in attesa, mentre ricambiava il mio sguardo con uno strano sorrisetto ironico.  -  Lo sai, mi sono finalmente ricordato dove avevo visto il tuo viso e perché mi era così tanto familiare. Dal giorno in cui ti ho vista in cortile insieme a T-Bag non ho fatto altro che pensarci, ero convinto di averti incontrata in ufficio o all’università, ai tempi in cui insegnavo a Boston ma poi ho capito che non poteva essere possibile. Un viso come il tuo non si dimentica facilmente. 
Voleva essere un complimento? Perché sarei arrossita di sicuro se non mi si fosse chiuso lo stomaco nel momento in cui aveva ammesso di essersi ricordato del mio viso. 
  • L’altro giorno, dopo la partita a scacchi, mi sono ricordato.  -  riprese  -  Ho visto la tua foto sul Chicago Tribune accanto ad un articolo pubblicato qualche mese fa. Il nome della giornalista di quell’articolo era Haley Hudson. Quando ti ho conosciuta, l’articolo non mi è venuto in mente. Forse mi ha tratto in inganno il nome, però adesso non ho più dubbi, quella giornalista eri tu.
Mi tirai a sedere fingendo la più totale indifferenza, come se fino a quel momento avessimo parlato di capre e cavoli piuttosto che della mia vera identità. 
  • Una giornalista, eh? Ok… cioè… passare per una giornalista va bene, sempre meglio che passare per una spogliarellista come credeva il mio vicino di cella, però forse ti è sfuggito un particolare. Il mio nome è Gwyneth, Gwyneth Sawyer e non Haley Hudson.
  • Sono sicuro che tu sia quella giornalista. Devi aver cambiato nome perché nessuno ti riconoscesse e scoprisse chi sei in realtà.
Risi, fingendomi divertita.  -  Avrei cambiato nome per non far sapere che sono una giornalista che scrive sul Chicago Tribune?
  • No, lo hai cambiato perché nessuno associasse a te il tuo nome per intero, Haley Gwyneth Hudson.Guarda che non sono stupido, io so chi sei, so perché scrivi in quel giornale e perché qualunque altro giornale d’America farebbe i salti di gioia per averti al suo fianco. Immagino spiani un sacco di strade l’avere un quoziente intellettivo superiore alla media come il tuo.
 
Restai a fissarlo a bocca semiaperta, incapace di smentire e tantomeno di continuare ad indossare la maschera dell’indifferenza. Michael ci aveva preso in pieno, mi aveva smascherata ricordandosi di un articolo che avevo pubblicato diversi mesi prima. Ero sconcertata, assolutamente sconcertata.
Prima che potessi prendere in rassegna tutte le possibili conseguenze della scoperta appena fatta da Michael, RoyGeary, tirapiedi affezionato di Bellick “occhi da lucertola”, apparve sulla soglia della mia cella, interrompendo il flusso dei miei pensieri catastrofici. 
  • Ehi bellezza, ci sono visite per te! 
Lo ignorai categoricamente, continuando a fissare Michael con un’espressione da ebete.
Come avrei fatto adesso a convincerlo di essersi sbagliato?
  • Sawyer, hai sentito cos’ho detto?  -  ripeté il secondino.
  • Chiamano te signorina Sawyer. -  mormorò il ragazzo, ammiccando soddisfatto. 
***

L’uomo pelato e la ragazzina bionda al suo fianco, alzarono gli occhi contemporaneamente quando RoyGeary fece scattare la serratura della porta massicciamente blindata che dava accesso alla saletta delle visite. Quando entrambi vennero ad abbracciarmi, mi sentii improvvisamente sollevata, felice. 
  • Keith, Meredith, non avete idea di quanto sia felice di rivedervi. -  esclamai stringendoli forte a me.
  • Ci manchi così tanto, piccola. Io non ho avuto la forza di tornare a casa. Prima dovevo assolutamente vederti e assicurarmi che stessi… Oh mio Dio! Che cos’hai fatto alla faccia?!
Per quanto fossi felice di riabbracciare il mio patrigno così presto, avevo sperato di non vederlo comparire almeno per qualche altra settimana. Lo avevo previsto che la sua reazione sarebbe stata catastrofica una volta appurati i danni sul mio viso, sopravvissuto all’agguato tesomi da T-Bag. Adesso sarebbe servito il pronto intervento per calmarlo. 
  • Keith tranquillo, è meno grave di quanto possa sembrare…
  • Meno grave? MENO GRAVE?!!
Era partito in quarta. Lo conoscevo bene, cercare di rassicurarlo sarebbe stato peggio che buttare benzina sul fuoco. 
  • Shhh!! Keith piantala, così attireremo l’attenzione.
Anche Meredith cercò di darmi man forte quando una delle guardie appostate all’ingresso lanciò un’occhiataccia nella nostra direzione. Poi finalmente riuscimmo a convincere Keith a sedersi al tavolo libero lì accanto e anche io e Meredith prendemmo posto.
  • Si può sapere che ti è successo?  -  riprese l’uomo con tono un po’ più controllato.
  • E’ stato un incidente. Stavamo giocando a basket, quando la palla mi è arrivata in faccia…
  • Una pallonata in faccia? Tutto qui?  -  borbottò l’uomo accigliandosi. Non l’aveva bevuta, e neanche Meredith mi era sembrata molto convinta.  -  Mi hai preso per stupido? Se non sbaglio avevo detto che non avrei esitato a tirarti fuori da qui se fossi stata in pericolo.
  • Ma io sto bene.
  • Hai un bernoccolo grosso come una cucuzza in fronte e il sopracciglio e il labbro tagliato, questo per te è stare bene?
Sospirai impotente, consapevole che qualunque cosa avessi detto non sarebbe servita a farlo sentire meglio. Forse era dovuto al fatto che mi trovassi in prigione o forse era semplicemente dovuto al fatto che Keith continuasse a colpevolizzarsi per ciò che mi era successo. Non lo avrebbe mai ammesso, ma io sapevo che era così. 
  • Hai paura?  -  mi chiese a quel punto Meredith seguendo un percorso più cauto.
Decisi di essere sincera, almeno in parte.  -  Si, ogni giorno… ma ogni giorno che passa va meglio, i detenuti stanno cominciando ad abituarsi alla mia presenza.  -  “Ma quando mai?”  -  Non è il paradiso, ma mi sto abituando anch’io… piuttosto, visto che siete qui, vorrei mettervi al corrente di un piccolo problemino che è sopraggiunto a momenti.  -  Sia Keith che Meredith si fecero attenti.  -  Uno dei detenuti ha scoperto la mia vera identità. Si è ricordato di un articolo che ho pubblicato sul Chicago Tribune e ha collegato il nome di Gwyneth Sawyer a quello della giornalista dell’articolo, Haley Hudson.
  • C’era da immaginarselo.  -  sbuffò Keith passandosi una mano sulla testa pelata.  -  Ma come ha fatto a scoprirlo?
  • A quanto pare a Fox River non ci sono solo ragazzi ignoranti e sbandati di strada. Questo tizio è molto intelligente. Ha collegato l’articolo sul Chicago Tribune e la foto e si è ricordato di me… sembra assurdo, però ha un senso. In quale altro modo avrebbe dovuto conoscere il mio vero nome e la mia professione? Nessuno sa che sono… ero una giornalista. -  conclusi, mordendomi il labbro inferiore.
Era meglio sorvolare su quell’argomento. Ogni volta che ripensavo alla mia ingiusta espulsione dall’Albo dei giornalisti, mi montava una rabbia… 
  • Maledizione, questo è un problema. Spero che tu non abbia confermato i suoi dubbi.
  • No, certo che no.  -  risposi.
  • Perché non provi a fargli credere di essersi sbagliato.
  • Non credo che abboccherebbe. E’ uno che non si lascia raggirare facilmente.
  • Non puoi dirgli la verità, sai cosa succederebbe. La notizia finirebbe per trapelare fuori da queste mura e noi avremmo messo su questa bella farsa per niente. Per non parlare delle preoccupazioni che mi stanno logorando da quando ti hanno condannata. Perché credi che abbia chiesto a Henry Pope di non avvertire neanche il suo personale?
Povero Keith. Mentre mi parlava, la sua carnagione scura si era trasformata in un livido pallore grigiastro e la sua voce aveva assunto un tono basso, aspro e risoluto che gli sentivo in quel momento per la prima volta. Cominciavo a credere che a causa mia e delle continue preoccupazioni che gli infliggevo, presto avrebbe finito per perdere pure gli ultimi capelli sopravvissutigli in testa.
Allungai le braccia lungo il tavolo e gli presi le mani nelle mie, sorridendogli fiduciosa.
  • Sta tranquillo, non c’è nulla da temere, non permetterò che questa storia divenga di dominio pubblico. Piuttosto, avete fatto quella ricerca che vi ho chiesto?
Meredith tirò fuori dalla borsa una cartelletta di cartoncino leggero verde che fece scivolare lungo il tavolo, prima di chiedermi:  -  Non capisco perché tu sia tanto interessata a questo tizio. Chi è? Un detenuto?
  • Si, è un detenuto.
Aprii la cartelletta, tirando fuori una decina di fogli. Scartai i primi fogli scritti e firmati dal mio avvocato che sapevo servissero solo a scoraggiare i controlli delle guardie all’ingresso, e passai direttamente alle ultime pagine, quelle che mi interessavano. Quindi cominciai a leggere.
Qualche giorno prima avevo telefonato a Keith per chiedergli che mi procurasse tutte le informazioni che riusciva a trovare sul conto di Michael Scofield. Prima di essere trasferita a Fox River, avevo letto l’intero fascicolo di Burrows, avevo studiato la sua vita e spulciato l’intera inchiesta relativa all’omicidio di Terrence Steadman, per il quale l’uomo era stato condannato. Mi era capitato sotto gli occhi anche qualcosa in relazione alla sua famiglia, ma non l’avevo giudicato importante, finché non avevo conosciuto personalmente suo fratello. 

Non avevo idea del perché Michael avesse tanti segreti e se in qualche modo questi segreti potessero essere collegati a Lincoln. L’unica cosa certa era che volevo saperne di più, dovevo scoprire cosa stava tramando il bel galeotto tatuato, soprattutto adesso che aveva scoperto la mia vera identità. 
  • Allora, si può sapere chi è questo Michael Scofield e cos’ha di tanto interessante? -  riprese Keith dopo avermi concesso qualche minuto di lettura.
Sollevai gli occhi verso di lui.  -  Michael J. Scofield è il fratello minore di Lincoln Burrows, l’uomo che è stato condannato alla sedia elettrica per aver ucciso il fratello del vicepresidente, ed è sempre lui che ha scoperto la mia vera identità e che al momento mi tiene in scacco. -  Tornai rapidamente alla lettura.  -  Avevo capito che Michael fosse un tipo particolare, ma non avrei mai pensato di poter scovare a Fox River un piccolo genio. Sentite qua: Michael ha frequentato la Morton East Hight School ottenendo eccellenti risultati e ha ottenuto una magna cum laude alla Loyola University di Chicago. Dopo la laurea gli hanno offerto un posto presso la Middleton, Maxwell &Schaum di Chicago come ingegnere edile. Un curriculum da invidiare, non c’è che dire.
 
Vidi Meredith sollevare un sopracciglio perfettamente depilato. -  Sembra un tipo in gamba. Come ha fatto a finire in prigione?
  • Mmm… in effetti è questa la parte interessante. A quanto leggo qui, Michael ha lavorato alla Middleton per ben tre anni, e si suppone che avesse uno stipendio fisso di tutto rispetto se poteva permettersi un attico in pieno centro di Chicago. Poi da un giorno all’altro lascia il lavoro…
  • Licenziato?
  • Non è specificato. Esattamente due giorni dopo aver lasciato la Middleton, Michael viene arrestato per rapina a mano armata. Non suona pazzesco?
  • Che ci trovi di pazzesco?  -  intervenì Keith, alzando le spalle.
  • Beh, leggendo questi fogli sulla sua vita, nessuno affibbierebbe a Michael Scofield un’indole da delinquente, anzi, da ciò che sappiamo di lui non avrei mai pensato che potesse avere problemi economici.
  • Che ne sai? Magari era un bevitore accanito che trascorreva le sue serate libere nei bar, scialacquando lo stipendio in whisky e prostitute.
  • Non credo proprio.  -  dissi scartando l’ipotesi risolutamente.
  • Probabilmente era ricoperto di debiti e il licenziamento inaspettato alla Middleton lo ha costretto ad un gesto disperato.  -  provò Meredith.
Quelle ipotesi non mi convincevano per niente. Non sapevo spiegare il perché, ma ero convinta che ci fosse dell’altro… anche se a ben pensarci, l’idea di Meredith che Michael potesse aver accumulato dei debiti avrebbe potuto dare una soluzione al dilemma “alleanza Scofield-Abruzzi”. Possibile che Michael avesse stretto rapporti con dei mafiosi per ovviare a dei problemi economici? Ma se fosse stato vero, perché rischiare 5 anni al fresco andando a rapinare una banca?
Dio, ecco cosa non riusciva proprio ad andarmi giù. Avevo tutte quelle informazioni su Michael Scofield, eppure non facevo che accumulare dubbi sul suo conto. 
  • Gwen, tesoro, si può sapere perché ti stai accanendo tanto su questo tizio? Credevo che il tuo obiettivo fosse Burrows.
  • Il mio obiettivo è ancora Burrows, ma purtroppo non posso arrivare facilmente a lui a differenza del fratello che è nel mio stesso blocco, quindi, se voglio avere le informazioni prima che Lincoln salga sulla sedia elettrica, dovrò puntare su Scofield. Non credo che sia una coincidenza il fatto che Michael sia finito nello stesso carcere in cui il fratello sta scontando la sua pena.
  • Sei già riuscita a scoprire qualcosa?
Sospirai lasciandomi andare al duro poggia schiena.  -  Nada. Devo lavorarmi meglio i fratelli. Voi state indagando sulla vicenda Burrows?
  • Abbiamo rintracciato l’avvocato che ha seguito Burrows prima di essere condannato, un certo Erik Giles, un tipo in gamba. Ha messo in gioco tutto il suo talento per far scagionare il suo cliente, ma le accuse a suo carico erano incontrovertibili. Dopo il rifiuto del ricorso in appello il mese scorso, Giles si è ritirato e ha ceduto il mandato ad una donna, Veronica Donovan. Stiamo cercando di rintracciarla.
Per un secondo scrutai attentamente la biondina seduta accanto al mio patrigno. 
  • Ma tu non dovresti essere al college e preoccuparti solo di studiare? Non voglio che ti occupi di questa faccenda, Meredith.
  • E io non voglio vederti qui dentro. Senza offesa, ma la tenuta da detenuto non ti dona. Sai che faremo del nostro meglio per aiutarti, ma tu cerca di non metterti nei guai, ok? E vedi di risolvere questa storia dell’identità segreta col tuo amico galeotto. 
Annuii nell’istante esatto in cui la guardia indicò ai detenuti presenti nella stanza di prepararsi per tornare in cella. Era giunto il momento dei saluti.
Ci alzammo tutti e tre, contemporaneamente. Meredith fu la prima che superò il tavolo per abbracciarmi. Poi fu il turno di Keith. 
  • Niente più lividi la prossima volta.  -  mi disse mitigando la voce che cominciava ad incrinarsi.
  • Farò del mio meglio, promesso. Cerca di non stare in pensiero per me e torna a casa, non c’è motivo che tu rimanga nell’Illinois.
Li salutai ancora una volta, poi mentre le guardie mi scortavano fuori dalla stanza seguita dagli altri detenuti in coda, mimai con le labbra un “Vi voglio bene”, finché mi ritrovai in corridoio.
Il girone dell’inferno era nuovamente pronto ad accogliermi.

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Capitolo 9
*** Haywire ***


Fu Louis Patterson a riaccompagnare i detenuti del blocco A di ritorno dalla stanza delle visite alle loro rispettive celle. Mancavano pochi minuti alle 15. La maggior parte dei detenuti aveva già raggiunto la propria dimora, prima che il secondo turno d’aria terminasse e scattasse il successivo turno di lavoro.
  • Ehi Louis, ti dispiace se passiamo dalla 40? Dovrei scambiare due parole con Scofield.
La guardia piegò la testa di lato, fissandomi con aria annoiata.
Si, gli dispiaceva eccome, perché ormai aveva finito il suo giro, accompagnato ogni detenuto al suo alloggio e preparatosi mentalmente per appendere la divisa al chiodoo e tornarsene a casa. Il suo turno di lavoro finiva esattamente alle 15.
Se si fosse trattato di qualunque altro secondino avrei evitato di fare quella richiesta, ma ormai avevo capito che Louis Patterson era un brav’uomo, corretto e con un gran senso della legge. 
  • Lo sai che non posso farlo, il turno d’aria è finito.
  • Mancano altri due minuti, ti prego, è questione di un attimo.  -  dissi rivolgendogli il più angelico dei sorrisi.
L’uomo sospirò rassegnato.  -  D’accordo. Solo un attimo però.
 
Louis mi accompagnò, percorrendo insieme a me le scale che conducevano al piano superiore, poi mi lasciò percorrere da sola la distanza che separava la rampa di scale laterale alla cella numero 40, più o meno a metà del corridoio.
Appena avevo raggiunto il piano rialzato, mi ero accorta che qualcun altro aveva avuto la mia stessa idea: John Abruzzi stava confabulando con qualcuno all’interno della cella, e non avevo dubbi che dovesse trattarsi di Scofield.
Prima di raggiungerli, mi schiarii la voce per palesare la mia presenza. Sia Scofield che Abruzzi, troppo impegnati nella loro conversazione segreta, non mi avevano notata, ma quando l’uomo al di là delle sbarre si voltò a guardarmi ebbi la sensazione di aver scelto proprio il momento meno adatto. 
  • Che diavolo vuoi, non vedi che stiamo parlando? Sparisci pulce!  -  sbottò sprezzantemente il mafioso, incenerendomi con lo sguardo.
Non era tanto più alto di me, ne tantomeno più grosso, eppure dalla prima volta che gli avevo rivolto la parola, John aveva continuato a chiamarmi con quell’appellativo.
  • Scusate tanto se ho interrotto il vostro scambio di confidenze… Michael, hai un minuto?  -  chiesi, rivolgendomi direttamente al ragazzo oltre le sbarre.
Non avevo intenzione di lasciarmi intimidire, anche se l’uomo che stavo cercando di scavalcare era John Abruzzi, e come Theodore Bagwell, avrebbe potuto rendermi la vita un inferno. 
  • Sei sorda? Togliti dai piedi ragazzina!
  • John adesso piantala!  -  intervenì Michael in mia difesa.
  • Cos’è? Hai preso a cuore questa ragazzina?
  • Lasciala in pace, lei non c’entra niente.
  • Voglio sperarlo.  -  sibilò tra i denti l’uomo, mentre si passava una mano tra i capelli lunghi.
Evidentemente non aveva apprezzato molto l’intervento del suo presunto compare. Potevo accorgermene dallo sguardo risoluto che mi aveva puntato addosso. Se avesse avuto il potere di farmi a pezzi solo pensandolo, a quel punto avrei già esalato il mio ultimo respiro.
  • Ragazzo, vedi di accelerare i tempi  -  riprese Abruzzi tornando nuovamente a Michael  -  e se ti è possibile, non farti rallentare da certe “distrazioni”.
Cercai di fare finta di niente mentre l’uomo si allontanava lasciandomi campo libero, ma era piuttosto chiaro a chi fosse diretta l’ultima frecciatina.
  • Non farci caso. Ce l’ha con te solo perché sei una ragazza.  -  iniziò Michael sorridendomi.
  • Ma non mi dire!
Aveva appoggiato i gomiti contro le sbarre, posizionandosi proprio di fronte a me. Michael aveva addosso oltre ai soliti pantaloni blu, una canottiera bianca che gli lasciava scoperti completamente braccia e collo. Finalmente potevo dare un’occhiata ad un’altra porzione del suo incredibile tatuaggio, anche se torace e spalle continuavano a rimanere un mistero. 
  • Tu e Abruzzi dovete proprio essere cotti l’uno dell’altro. Vi girate sempre attorno come orsi in calore.
Il ragazzo sogghignò malizioso.  -  Strano. Qualcuno comincia a dire lo stesso di noi.
 
Gli risposi con una smorfia.
Dovevo preoccuparmi se cominciavo a considerare Michael attraente? 
  • Che intendeva dire Abruzzi con “vedi di accelerare i tempi”?
  • Parlava del lavoro al laboratorio.  -  Evasivo come sempre. Non riuscivo neanche più a sorprendermi ormai.  -  Allora, cosa posso fare per te?
  • Volevo solo terminare il discorso di poco fa e dirti che… ehi, ma chi è quel tipo che occupa il letto di Sucre?
Me ne accorgevo soltanto adesso, ma spaparanzato sulla branda che fino al giorno prima era stata occupata dal portoricano “caffelatte”, ora stava un allampanato dalla faccia esangue e due occhi spettrali fissi su un blocco per appunti. 
  • Ti presento il mio nuovo compagno di cella.
  • Che fine ha fatto Fernando?
  • Ha scelto una nuova sistemazione.
Stavo per domandargli il perché, ma il tipo allampanato non me ne diede il tempo. Con un salto lasciò la branda e apparve dietro le spalle di Michael, sbarrando i suoi enormi occhi a palla. 
  • E tu chi sei? Tu chi sei… non dovresti essere qui… chi sei?  -  mi chiese in un modo strano che mi fece impressione.
  • Ehm… ciao, io mi chiamo…
  • Tu sei una ragazza!  -  m’interruppe prima che finissi.  -  Michael, lei è una ragazza, hai visto? C’è una ragazza a Fox River!! Lei è…
  • Una ragazza. Si Haywire, lo hai già detto.  -  tagliò corto Michael, notando il repentino aumento di tono del suo strambo compagno di cella.
A guardarlo, chiunque avrebbe pensato che il tipo fosse un tantino strano. Faceva un bel po’ impressione con quegli occhi a palla, però era divertente il modo in cui mi fissava, quasi fossi un’apparizione celestiale.
  • Ma chi è questo strano tizio? Non credo di averlo mai visto in giro.
  • L’hanno portato qui dalla sezione psichiatrica perché pensano che possa essere reintegrato.
Lanciai uno sguardo oltre le spalle di Michael e notai che il pazzoide mi stava ancora fissando a bocca spalancata. 
  • Ma è…?
  • Normale? Non tanto. Soffre di disturbi schizofrenici e bipolarismo.
  • Le ragazze non dovrebbero stare qui… è da tanto che non ne vedo una… -  riprese Haywire.
  • Oh Signore, che tipo! Non ti invidio affatto per essere finito in cella con questo schizzato. Non sarà un po’ pericoloso?
  • Vuoi dire peggio che con chiunque altro? Comunque… cosa volevi dirmi?
Stavo nuovamente aprendo bocca, quando il pazzoide alle spalle di Michael lo fece spostare con una gomitata per sbattere il blocco per appunti contro le sbarre e mostrarmi i suoi disegni. Istintivamente feci un passo indietro, spaventata. 
  • Lui ha un labirinto disegnato sul corpo. Lui ha un labirinto disegnato sul corpo!!
Michael cercò di allontanarlo dall’entrata, ma Haywire continuò a ripetere quella frase come un folle. Temevo che quel suo strano comportamento avrebbe finito per attirare l’attenzione di qualche guardia, ma quando mi guardai in giro, vidi che era tutto normale. Patterson era ancora fermo sulle scale ad aspettare pazientemente il mio ritorno.
  • Si può sapere cosa sta farneticando? -  chiesi, preoccupata che Michael dovesse condividere la cella con un tipo così imprevedibile.
  • Lascia stare, è pazzo.
Haywire tornò alla carica.  -  Lui ha disegnato addosso un percorso che conduce all’inferno… il tatuaggio… ci porterà tutti all’inferno…
  • Il tatuaggio? Amico, guardalo bene, è solo un disegno.
  • Lui ha un segreto.
  • Beh, almeno su questo mi trovi d’accordo.
Vidi Michael alzare gli occhi al cielo prima di ricominciare a spingere Haywire verso l’interno della cella.
Non capivo perché la mente disturbata del nuovo compagno di cella di Scofield fosse tanto ossessionata dal tatuaggio di quest’ultimo. Anche Haywire aveva parlato di “percorso”, la stessa cosa che avevo pensato la prima volta che avevo osservato la porzione di tatuaggio che ricopriva il braccio di Michael. Una strana coincidenza. Chissà perché il ragazzo aveva deciso di farsi tatuare addosso un disegno tanto contorto. C’era sotto un altro segreto o anch’io, come Haywire, mi stavo avvicinando alla follia? 
  • Sawyer, non ho tutta la giornata!  -  mi richiamò Patterson, stanco di aspettare.
  • Si scusami, adesso arrivo.  -  gli dissi prima di rivolgermi nuovamente a Michael, ancora occupato a domare Haywire.  -  Ti auguro buona fortuna con il tuo nuovo compagno di cella, penso che ne avrai bisogno.
  • Gwen, non dovevi parlarmi di qualcosa?
  • Un’altra volta.  -  lo salutai raggiungendo la guardia.
Il turno d’aria ormai era finito. Non feci neanche in tempo a passare dalla mia cella, Patterson mi accompagnò direttamente nelle cucine prima di raggiungere il suo ufficio per togliersi di dosso la divisa e potersene finalmente tornare a casa.
Ecco qual era la sostanziale differenza tra un impiegato e un detenuto in una struttura detentiva, a parte la paga ovviamente. L’impiegato alla fine del turno appendeva al chiodo cappello e arma di servizio e si lasciava alle spalle quelle gelide mura e quel delirio, il detenuto invece non aveva scampo, doveva solo chiudere gli occhi ed andare avanti.
Io andavo avanti. Aspettavo.
Avevo sempre giudicato dei falliti quelle persone che trascorrevano le loro giornate a guardar scorrere il tempo, annoiati, inattivi, morti. Ma in prigione il tempo era il peggior nemico del detenuto. Si cercava di far finta di niente, di movimentare il continuo ripetersi di gesti e azioni che al lungo andare diventavano logoranti, si cercava di sopravvivere agli attentati di altri detenuti o semplicemente alla noia e si finiva col rassegnarsi.

Era una vita dura che certamente non potevo capire perché ero dentro solo da una settimana, ma era esattamente questo che leggevo negli occhi spenti di uomini come Charles Westmoreland e tanti altri veterani come lui. Una realtà come quella poteva far paura. Ecco perché si trovavano diversivi interessanti e si finiva per trascorrere tutto il pomeriggio a pensare a detenuti come Michael Scofield.
Il mio cervello aveva lavorato alecramente, spulciando i diversi aspetti del rompicapo per ore, ma non aveva ottenuto alcun risultato, escluse le teorie assurde. Il problema era che più le domande e quindi i dubbi su Scofield si moltiplicavano, più cresceva il mio interesse per lui.
Chi era? Che cosa sapevo di lui?
Innanzitutto sapevo con certezza che Michael Scofield e Lincoln Burrows erano fratelli. All’inizio avevo supposto che la differenza di cognome fosse dovuta al fatto che i due fratelli avessero avuto padri diversi, invece, grazie al fascicolo che mi avevano fatto avere Keith e Meredith, avevo scoperto che Michael aveva ereditato il cognome da nubile di sua madre dopo che il padre, Aldo Burrows, un ubriacone molesto con una pessima reputazione, lo aveva abbandonato.
Dopo la morte della madre, Christina Rose Scofield, avvenuta quando Michael aveva solo 11 anni e Lincoln 15, il figlio minore era passato da una famiglia affidataria all’altra, mentre l’altro cominciava a costruire il suo futuro da delinquente venendo rinchiuso in un istituto correzionale. Qualche mese dopo, Lincoln era stato rilasciato e Michael aveva smesso di avere continuamente a che fare con i servizi sociali grazie al fratello che aveva deciso di diventarne il tutore.

I rapporti tra i due non erano per niente facili da interpretare. I due fratelli erano così diversi fisicamente, e ancor più caratterialmente, che facevo fatica persino a considerarli parenti. Lincoln era stato un ragazzino turbolento, un teppista entrato e uscito così spesso da riformatori e strutture detentive da considerarle quasi un surrogato di casa. Si era ritirato dalla Morgan Park High School di Toledo, nell’Ohio, prima di conseguire il diploma e trasferirsi a Chicago, dove era stato arrestato due volte prima della maggiore età  -  2 mesi per rapina e 3 mesi per danni a proprietà private  -  e due volte dopo aver compiuto 18 anni  -  6 mesi per possesso di droga e 6 mesi per percosse  -  prima della fatidica condanna a morte.
Michael invece era stato descritto dai servizi sociali come un ragazzino problematico, taciturno, timido. Il classico sociopatico insomma. Però non aveva avuto precedenti penali prima dei 30 anni, quando una mattina aveva avuto la brillante idea di andare a rapinare una banca. Lui aveva studiato, si era addirittura laureato con ottimi voti e aveva trovato lavoro in una delle aziende più grandi e importanti di Chicago. Che cosa gli era successo? Quali assurde idee gli erano saltate per la testa quando aveva deciso di andare a rapinare quella banca? E quale malsana coincidenza aveva condotto i due fratelli a ritrovarsi nello stesso carcere?
Più ci riflettevo, più quella storia mi suonava assurda.

Continuai a rimuginare su quei pensieri durante tutto il turno di lavoro. Quando le guardie alle 17 in punto ci riaccompagnarono nel nostro blocco, desiderai solamente sdraiarmi sulla mia brandina e riposare. Era stata una giornata spossante, più del solito. Oltrepassate le sbarre però mi accorsi che, nascosto tra il letto a castello e il lavabo, c’era una presenza inquietante che stava frugando tra le mie cose. Inizialmente mi spaventai, temevo potesse trattarsi di T-Bag tornato alla carica. Poi però, osservando meglio l’inaspettato intruso capii che non si trattava affatto di Bagwell, al contrario riconobbi Haywire, il nuovo compagno di cella di Michael. 
  • Che cosa fai qui?  -  gli chiesi, vedendolo trasalire al suono della mia voce.
L’uomo si voltò e con i suoi enormi occhi a palla mi fissò come un allucinato. Altroché se faceva impressione! Poi, senza neanche darmi retta, riprese a frugare e sparpagliare le mie poche cose come se non lo avessi interrotto. 
  • Che cosa stai cercando Haywire?  -  riprovai avvicinandomi cauta.
  • Il segreto… voglio scoprire il segreto… -  disse finalmente.
  • Quale segreto?
  • Tu conosci il segreto. Tu conosci il percorso.
Non so come, ma riuscii a capire a cosa si stesse riferendo. A quanto sembrava non ero la sola ad essere ossessionata da Michael Scofield. 
  • Stai parlando del tatuaggio di Michael?
  • Lui ci condurrà tutti all’inferno, dobbiamo fare qualcosa, quello è un percorso per l’inferno.
  • Togli le mani dalle mie lenzuola e prova a calmarti un momento!  -  gli ordinai infastidita da quella sua continua ricerca.
  • Tu conosci il segreto?  -  mi chiese fermandosi.
Sospirai.  -  Si, conosco il segreto e lo rivelerò anche a te se prometti di stare buono.   
 
Haywire si sedette composto sul letto, come un bambino che ha convinto la mamma a farsi raccontare la storiella della buonanotte. Faceva quasi tenerezza se si sorvolava sul fatto che fosse un detenuto schizzato.
Andai a sedermi accanto a lui sulla branda.
  • Capisco perché tu ci veda un percorso nel tatuaggio di Michael.  -  iniziai  -  Deve trattarsi di porzioni separate del disegno accostate l’una all’altra e non di un unico blocco, forse è per questo che l’intero tatuaggio è costruito sopra un’impalcatura preesistente ma, Haywire, è solo un tatuaggio elaborato. Non c’è niente di “infernale” in questo.
Come se non avessi nemmeno parlato, Haywire ficcò una mano nella tasca dei pantaloni e ne tirò fuori dei fogli spiegazzati che mi mostrò. Sopra ognuno di quei fogli c’era disegnata una porzione del tatuaggio di Michael, non c’era alcun dubbio che si trattasse di questo. Quello che non riuscivo a capire era come Haywire avesse fatto a disegnare delle riproduzioni così fedeli. Riconobbi i disegni, le figure, le intersecazioni che avevo osservato per la prima volta sul braccio di Michael ed erano assolutamente identici a come li ricordavo, non potevo sbagliarmi. Le altre porzioni di tatuaggio invece non le riconoscevo perché non le avevo mai viste. Doveva trattarsi del disegno riportato su spalle e torace. 
  • Come… come hai fatto… cioè, sono bellissimi, ma come…? 
Ero assolutamente affascinata. In qualche modo la mente disturbata di Haywire era riuscita a memorizzare i disegni che aveva visto. Probabilmente gli era bastato guardare poche volte il tatuaggio per riprodurlo fedelmente. Anche perché trovavo molto difficile pensare che Scofield avesse accettato di mettersi in posa per lui, geloso com’era del suo capolavoro.
  • I demoni ci condurranno all’inferno, io voglio restare qui… non voglio andare…
Non diedi più retta a tutto quel farneticare e continuai ad ammirare quei disegni astratti che erano riusciti ad affascinarmi tanto. Haywire continuò a blaterare frasi senza senso, finché uno dei secondini, vedendolo dentro la mia cella, non intervenì per costringerlo ad alzarsi dalla branda e tornare nel suo alloggio al piano superiore. Sentendosi braccato, il povero sventurato prese ad urlare, ripetendo di “non aver ancora finito e di non aver ancora scoperto il segreto”, ma la guardia non gli diede retta.
Conservai i fogli nella tasca dei pantaloni e poco dopo a mensa, per la cena, andai a sedermi al solito tavolo insieme a Michael e Sucre che trovai impegnati a parlottare allegramente. Stavano addirittura ridendo. 
  • Ciao ragazzi.  -  esordii sorpresa di vederli tanto allegri.  -  Dov’è Lincoln?
Michael scrollò le spalle.  -  In infermeria per una visita.
 
La solita maledetta sfortuna. Mai che riuscissi a trovare il modo per restare 5 minuti da sola con Burrows. Urgeva un piano, non potevo continuare ad aspettare che l’occasione propizia mi capitasse tra le mani.
  • Come mai tutta questa euforia stasera?
  • Oh sai… Sucre è stato ammesso al laboratorio, da domani lavorerà con noi.
Il portoricano, che al mio arrivo si era improvvisamente ammutolito, annuì risolutamente con un grosso sorriso stampato in faccia.
A quel punto fissai entrambi con espressione seria per capire se mi stessero prendendo in giro. Davvero mi ritenevano così stupida da credere a tutte le loro sciocchezze? Che Sucre fosse stato ammesso al laboratorio non era certo una notizia per cui esultare. Comunque finsi di crederci, e per prendermi gioco di loro, mimai lo scuotere dei ponpon con le mani per atteggiarmi a cheerleader entusiasta. 
  • Evviva, Sucre è stato ammesso al laboratorio!  -  esclamai sarcastica.  -  C’è altro per cui debba esultare?
  • Michael è tornato ad essere il mio compagno di cella. Poco prima dell’ora di cena sono tornato nella 40.  -  disse Fernando.
  • E che fine ha fatto Haywire?
  • E’ stato riportato nel reparto psichiatrico dopo avermi aggredito. Guarda qua… -  continuò Michael indicando il sopracciglio sinistro coperto da un grosso cerotto.
Non si poteva certo dire che Michael fosse meno rattoppato di me in viso. Gli trovavo un cerotto nuovo ogni paio di giorni.
  • Sono sorpresa che Haywire ti abbia aggredito. Non mi è sembrato un tipo violento.
  • Non ti è sembrato un tipo violento?  -  riprese Sucre  -  Quello è dentro per omicidio di secondo grado. Ha ucciso entrambi i genitori, è un assassino schizzato, certo che è un tipo violento.
  • D’accordo, dico solo che l’ho visto neanche mezz’ora fa nella mia cella e non mi è sembrato agitato, non più del solito almeno.
Il volto liscio e rilassato di Michael si corrugò all’istante.  -  Che ci faceva Haywire nella tua cella?
Feci spallucce.  -  Ha solo continuato a parlare a vanvera del tuo tatuaggio, mostrandomi i suoi disegni. Ho notato che sono molto precisi, quasi fossero ricalcati.
 
La notizia in qualche modo riuscì a turbare sia Michael che Sucre. 
  • Dove sono adesso quei disegni?  -  mi domandò Scofield, forzando una tranquillità che non aveva.
  • Li ho presi io.  -  risposi prendendo i fogli dalla tasca per consegnarglieli. All’istante il suo volto si fece più rilassato.  -  Sapendo quanto sei geloso del tuo tatuaggio, ho pensato non ti andasse molto a genio che Haywire ne avesse una copia.
  • Grazie.
Lo vidi prendere i fogli e strapparli, prima di ficcarseli in tasca.
Era parecchio strano quel suo comportamento. Non poteva trattarsi solo di una spiccata gelosia per il capolavoro che si era fatto marchiare addosso.
  • Figurati, e per quanto mi riguarda, sono proprio contenta che tu sia tornato nella tua vecchia cella, Fernando, anche se non mi è ancora chiaro perché te ne fossi andato. Adesso l’allegra coppia di ladri è nuovamente riunita, sono felice per voi.  -  conclusi alzandomi e portando con me il vassoio.
  • Signorina Sawyer,  -  mi fermò Michael usando uno strano tono  -  noi due abbiamo ancora qualcosa di cui discutere, se non sbaglio.
Sollevai un sopracciglio nella sua direzione e quando incontrai i suoi magnifici occhi blu, lessi che c’era curiosità e soprattutto interesse. Non c’era bisogno che specificasse di cosa volesse parlare, mi era bastato cogliere il tono allusivo col quale aveva pronunciato il mio cognome acquisito per averne un’idea piuttosto chiara.
 
Gli sorrisi complice.  -  Si, non l’ho dimenticato.
  • Bene, perché non ho intenzione di lasciar cadere il discorso.
Era un gioco misterioso e coinvolgente quello che si stava creando tra noi, un gioco che non avrei mai dovuto iniziare con un detenuto, un gioco al quale non potevo sottrarmi… o forse non volevo. 
  • C’è tutto il tempo signor Scofield, io non vado da nessuna parte.  -  esclamai, distogliendo a fatica gli occhi da quel blu celestiale. 
Nel giro di poco più che una notte però, scoprii di essermi sbagliata e dovetti ricredermi: io e Michael non avevamo poi così tanto tempo.

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Capitolo 10
*** Il trasferimento ***


Era domenica mattina, la prima domenica che trascorrevo in cella, ed erano appena scoccate le 7 quando lasciai la mia branda e mi avvicinai al lavabo per sciacquarmi la faccia. Fu in quel momento che sollevai il viso per specchiarmi e ricevetti la prima batosta. Per diversi secondi restai immobile a fissare l’immagine riflessa dallo specchio, facendo fatica a riconoscerla. Chi era quello yeti in cattività che mi fissava con espressione sconcertata?
“Ho davvero un aspetto orribile”  pensai, posando entrambe le mani su due guance dello stesso colore del lenzuolo steso sulla branda. A peggiorare il disastro, contribuivano un cespuglio di rovi aggrovigliati e sporchi in testa e due grosse occhiaie marcate a fuoco.
  • Colazione tra 4 minuti. Preparatevi!  -  sentii gridare ad una delle guardie appena passata accanto alla mia cella.
Mi vestii in fretta, felice più che mai di potermi recare a mensa per la colazione. Dovevo assolutamente mangiare una doppia razione di cereali e rimettermi in forze.
Infilai una maglietta pulita a maniche corte, poi presi i pantaloni nuovi che solo il giorno prima mi erano stati consegnati e che apparivano perfettamente stirati e ancora mai indossati prima. Fu una delusione quando mi accorsi che nonostante fossero della mia misura, ero costretta a trattenerli in vita perché non mi scivolassero dalle anche. Per giunta, la sera prima avevo consegnato i pantaloni sporchi, gettandoli nel cassetto per la lavanderia. L’unica idea che mi venne sul momento fu di stringere i bordi laterali dei pantaloni con dei punta panni, cercando di nasconderli sotto la maglietta, quindi passai ai capelli.
Li pettinai per più di un minuto, ma nessuna forma umana sarebbe riuscita a ridare vita a quell’ammasso di rovi che avevo in testa. Era inutile continuare a perdere tempo in simili dettagli che, in ogni caso, non avrebbero prodotto alcun risultato. Ormai i detenuti si erano riversati fuori dalle loro celle. Non potevo fare altro che buttarmi e iniziare anch’io la giornata.

Per fortuna fu una colazione tranquilla. La domenica i detenuti avevano il permesso di recarsi nella cappella del penitenziario per assistere alla messa e pregare. Io non ero mai stata un’assidua frequentatrice di chiese o altri luoghi di culto, però quel giorno avevo deciso di recarmi alla cappella, una decisione che in un certo senso mi era stata ispirata quando, durante una conversazione a mensa, avevo capito che Lincoln fosse un frequentatore abituale.

Giunsi nella cappella a messa cominciata, e quando ispezionai i pochi banchi riservati ai detenuti, non mi fu difficile individuare chi cercavo. Lincoln sedeva al terzo banco. Appena un banco dietro di lui, l’immancabile fratello, che da quanto potevo vedere si era avvicinato per potergli parlare sottovoce. 
Li raggiunsi andando ad occupare il posto accanto a Burrows. All’improvviso i due uomini mi puntarono gli occhi addosso e tacquero a disagio. Evidentemente avevo interrotto l’ennesima conversazione privata. 
  • Posso anche scegliermi un altro posto se sono di troppo.  -  dissi sottovoce con assoluta tranquillità guardando entrambi. 
In un primo momento avevo pensato di essere arrivata, come di consueto, nel bel mezzo di uno scambio di confidenze, poi però avevo visto le espressioni turbate di Michael e Lincoln e avevo intuito che dovesse essere successo qualcosa. 
  • No, rimani pure. Io e Lincoln abbiamo finito.  -  rispose il ragazzo con un mezzo sorriso.
  • Vuoi dire che non rimani?
  • Spiacente.  -  rispose prima di allontanarsi. 
Avevo tanta voglia di chiedere al mio improvvisato amico Burrows cosa fosse accaduto, ma qualcosa mi diceva che non avesse molta voglia di parlarne. Appariva angustiato.
Peccato che mancassi letteralmente di delicatezza.
  • Tu e Michael avete litigato, non è vero?  -  iniziai, pensando che fosse un buon modo per cominciare un approccio di qualche tipo.
Non so perché mi ero aspettata che l’uomo non rispondesse o tirasse fuori uno dei suoi monosillabi inconcludenti, invece parve sorpreso e immediatamente rilassò il volto. 
  • No, perché avremmo dovuto litigare?
  • Tu e tuo fratello avevate un’espressione strana, ho pensato che fosse successo qualcosa.
  • In effetti qualcosa succederà presto. Non hai sentito la novità? Michael sta per essere trasferito.
  • Scusa?!
Arrossii all’istante e mi tappai la bocca quando alcuni detenuti seduti nelle panche davanti, si voltarono infastiditi dal livello della mia voce improvvisamente salito. A quell’inaspettata notizia, mi era scappata un’ottava di troppo. Dovetti riportare il volume nuovamente ad un livello accettabile. 
  • In che senso trasferito? Trasferito da Fox River?  -  Lincoln annuì.  -  Perché?
  • Non lo so. Pope glielo ha comunicato ieri sera.
  • Ma dev’esserci un motivo. Michael che ha detto in proposito?
  • Niente, non ha detto niente.
Ed eravamo a quota due. La seconda batosta della giornata era appena arrivata, facendosi sentire come un poderoso pugno allo stomaco.
  • Ma… è Michael che ha chiesto di essere trasferito?  -  continuai.
  • No, sembra che la decisione arrivi dall’alto. Ha scavalcato persino Pope.
  • Dannazione, non può lasciarsi portare via così quando mancano 3 settimane alla tua esecuzione…
Troppo tardi mi resi conto non solo di essere stata indelicata ad imprecare in una cappella durante una funzione religiosa, ma di aver anche urtato i sentimenti di Lincoln ricordandogli dell’imminente scadenza sulla sua vita.
  • … oh scusa, sono una stupida, non volevo…
  • Non importa. D'altronde è vero, mancano solo 3 settimane.
Mi sentii immediatamente in colpa.  -  Lincoln, mi dispiace.
  • E’ tutto ok.
  • Che possiamo fare per fermare il trasferimento? Non possiamo lasciarlo andare via.
All’improvviso l’idea che Michael potesse lasciare Fox River appariva come una catastrofe. Avevo trovato una persona interessante con cui andare d’accordo, cosa che non pensavo potesse mai capitare. Si era instaurato una sorta di rapporto tra noi, non volevo salutarlo proprio adesso che stavo cominciando a conoscerlo.
 
Cavolo, io non voglio che vada via”.
 
A quel punto notai Lincoln voltare la testa verso di me e fissarmi, quasi avessi fatto chissà quale rivelazione. Sembrava divertito. Continuava a squadrarmi con uno strano sorrisetto sarcastico che però non riuscii ad interpretare.
  • Che c’è?  -  chiesi indispettita.
  • Puoi ripetere quello che hai detto?
  • Quando?
  • A momenti. Hai detto che non vuoi che Michael vada via.
No, non lo avevo detto, lo avevo soltanto pensato. Avevo per caso pensato ad alta voce senza rendermene conto?
  • No, ti sbagli, io non ho detto niente del genere.  -  mentii senza sapere nemmeno il perché.
Il sorrisetto sarcastico di Lincoln si fece ancora più sfacciato.
  • Si che l’hai detto, l’ho sentito.
  • Si amico, come ti pare.
L’uomo si voltò nuovamente verso la funzione, ma un minuto dopo tornò a voltarsi verso di me con la fronte aggrottata e gli occhi fissi ridotti a due fessure.
  • Dì la verità, ti piace mio fratello?
Invece di rispondere subito, gli lanciai un’occhiataccia e lo colpii al fianco con una gomitata. Burrows si lasciò scappare una risatina che nascose dietro la mano, poi affermò con più convinzione:
  • Si, è così, ti piace Michael!
  • Smettila! Perché diavolo dovrebbe piacermi Michael?-  sbottai punta sul vivo.
  • Non lo so, sembri proprio la classica adolescente innamorata. Ho notato che giri sempre intorno a mio fratello, e arrossisci quando ti parla…
  • Io non arr… -  La mia voce aveva di nuovo superato il limite consentito, tanto che persino il prete in piena funzione religiosa aveva interrotto la sua omelia per lanciarmi uno sguardo carico di rimprovero. Vergognandomi come un ladro, cercai di regolare il tono con un sospiro, tornando a bisbigliare.  -  … Io non arrossisco quando Michael mi parla.
  • Però ti dispiace che venga trasferito.
  • No… cioè si, mi dispiace certo. Lui è uno dei pochi “ospiti” qui dentro con cui sono riuscita a fare amicizia, e poi… che ne so, è un tipo apposto anche considerando tutti i suoi segreti e le sue tresche con Abruzzi.
  • Decisamente ti piace! -  rincalzò Lincoln divertito.
Avrei voluto replicare e dirgli che era completamente fuori strada. Michael poteva anche essere un ragazzo intelligente e carino, ma era pur sempre un detenuto con una condanna sulle spalle da scontare. Tra pochi mesi io avrei varcato i cancelli di Fox River buttandomi tutto alle spalle, e di tutti i suoi attuali inquilini non avrei più voluto sentir parlare. In quel momento però mi dispiaceva molto per Lincoln. Non lo dava a vedere, ma la notizia del trasferimento del fratello lo aveva turbato, forse perché aveva sperato di poter trascorrere le ultime settimane accanto a lui. Era così ingiusto.
 
La giornata per fortuna trascorse veloce. Passai la maggior parte del tempo chiusa in cella a leggere e boccheggiare a causa dell’improvviso sbalzo delle temperature. Da qualche giorno sembrava che avessero acceso i fuochi dell’inferno in tutta Fox River. Nell’Illinois non faceva mai caldo, era uno degli stati più piovosi e freddi degli Stati Uniti e per giunta era il mese d’aprile, allora perché improvvisamente sembrava che fosse arrivato ferragosto?
Quasi avessi sgobbato tutta la giornata ai lavori forzati, finii per collassare alle 9 di sera e mi svegliai solo la mattina seguente, quando RoyGeary fece tintinnare il suo manganello contro le sbarre della mia cella, ricordandomi la visita in infermeria dopo colazione.
Nello stesso istante in cui varcai la porta dell’infermeria, non potei fare a meno di notare quanto Sara Tancredi avesse curato il suo aspetto quel giorno. Mi sembrò perfetta. Viso perfetto, capelli perfettamente ondulati, abiti freschi e profumati. Mi sentii immediatamente una sciattona accanto a lei, con il mio viso pallido e provato, i capelli raccolti dietro la nuca alla buona per evitare di apparire più disperata di quanto già non fossi e con indosso la consueta divisa che puzzava di fritture e unto a causa del lavoro a mensa e nelle cucine.
  • A che pensi?  -  mi chiese in tono distaccato la donna, quando mi sorprese a valutare la lucentezza dei suoi capelli.
A dire il vero, stavo pensando a molte cose contemporaneamente.
Stavo pensando che il giorno stesso in cui avrei lasciato Fox River, mi sarei comprata dello shampoo nutriente agli estratti di aloe e del balsamo e avrei riportato quell’ammasso di ciuffi ribelli che avevo in testa al loro antico splendore.
Stavo pensando che con un po’ di correttore e di cipria extra coprente, forse sarei riuscita a nascondere quelle orribili occhiaie dal mio viso.
Stavo pensando che fino ad un mese prima conducevo una vita tranquilla e spensierata, mentre adesso trascorrevo le mie giornate in un carcere ed ero costretta a sentirmi una sciattona accanto ad una donna abituata a curare il suo aspetto ogni giorno.
E poi stavo pensando anche ad un’altra cosa.
  • Le stanno molto bene i capelli in quel modo.  -  le dissi sincera.
Sara Tancredi a quelle parole si bloccò, sorpresa. Era meravigliata che le avessi fatto un complimento e, in effetti, lo ero anch’io.
  • Grazie.  -  rispose, sfoderando il solito tono austero e perfettamente controllato.  – Tu invece sembri uno spettro stamattina.
“Non solo stamattina, purtroppo”.
  • Che succede Gwyneth?
  • Non lo so, mi sento stanca.
  • Il carico di lavoro è eccessivo?
  • No… non lo so. E’ da ieri mattina che mi sento fiacca e da alcuni giorni soffro di mal di testa. Senza contare che la mia temperatura corporea sembra impazzita. Un momento prima sudo come se mi trovassi nel deserto del Sahara e un momento dopo ho sudori freddi e brividi.  -  confessai sconsolata.
  • Ok, facciamo i soliti controlli.
 Mi feci guidare docile come un agnellino. La dottoressa mi fece tutti i controlli di routine senza pronunciare una sola parola, alla fine venne a sedersi di fronte a me.
  • A giudicare dai sintomi che mi hai descritto e dal tuo attuale stato, ho la sensazione che non starai meglio prima di un paio di giorni. Ti somministrerò degli integratori. Sei pallida e visibilmente dimagrita, ma credo sia normale. Purtroppo non posso fare molto per aiutarti, però posso trattenerti qui in infermeria nella stanzetta accanto per la prossima mezz’ora, così potrai saltare il turno di lavoro ed evitare di affaticarti, cosa ne pensi?
  • La ringrazio, ma me la caverò. 
  • Come vuoi.
Forse per una volta avrei dovuto mettere da parte l’orgoglio e accettare l’offerta di rimanere in infermeria. Riposare ed evitare il turno di lavoro non sarebbe stata una cattiva idea, e poi ero terrorizzata all’idea di sentirmi male in mezzo ai detenuti. Se fosse capitato durante i turni di lavoro o durante le ore d’aria, sarei stata una facile preda per chiunque e per me sarebbe stato molto difficile, se non addirittura impossibile, potermi difendere.
Stavo aspettando che la dottoressa finisse di compilare i dati sulla mia cartella medica e riportasse i nuovi aggiornamenti, quando entrambe venimmo attirate dal vociare di alcune guardie proprio sotto la finestra dell’infermeria, in cortile. Senza chiedere il permesso, mi alzai precipitandomi a vedere cosa stesse accadendo. Attraverso le grosse sbarre di protezione, vidi Michael Scofield che veniva scortato da due guardie verso il cancello della prigione e immediatamente mi sentii colpire da un grosso vuoto allo stomaco. Non riuscivo a dare una spiegazione a quel groviglio di sentimenti contrastanti che esplosero in quel momento nella mia testa: rabbia, delusione, sconforto. Sapevo solo che lo stavano portando via. Michael stava per essere trasferito e io non ero neanche riuscita a salutarlo.
Perché me la prendevo tanto? Era solo un detenuto. Infondo era un bene che lasciasse Fox River. Michael aveva scoperto la mia vera identità, se fosse rimasto avrei dovuto convincerlo di essersi sbagliato, avrei dovuto mentirgli, così invece potevo tirare un sospiro di sollievo. Problema risolto. Per un problema che andava però, un altro subito compariva: adesso che Scofield era fuori dai piedi come avrei fatto ad arrivare a Burrows? 
  • Ti dispiace che lo stiano portando via?
Mi voltai e vidi la dottoressa al mio fianco che stava osservando come me lo stesso detenuto e la sua scorta accompagnarlo verso l’uscita. 
  • Perché mai dovrei esserne dispiaciuta?  -  dissi in tono del tutto indifferente.
  • Non sapevo che Scofield dovesse essere trasferito… non sarà per caso per quello che è successo ieri sera…
  • A che si riferisce? 
  • Ma come, non ti sei accorta che l’intero penitenziario è stato in fermento per un tentativo di evasione?
Cadevo letteralmente dalle nuvole. Non avevo sentito di nessun tentativo di evasione, anzi, non mi ero neanche accorta che fosse accaduto qualcosa di diverso dal normale.
Continuai a fissare la dottoressa con palese perplessità, aspettando che si spiegasse. 
  • E’ impossibile che non ti sia accorta di niente.  -  cominciò sorpresa.  -  Mi è stato raccontato che ieri sera, durante la conta, uno dei detenuti mancava all’appello. Non si trovava nella sua cella, e visto che il suo compagno di cella non ha saputo giustificarne l’assenza, né il detenuto aveva alcun permesso per non trovarsi al suo posto, le guardie l’hanno interpretato come un tentativo di evasione.
  • E il detenuto in questione era Scofield?
  • Proprio lui.
Ero ammutolita. La conta dei detenuti solitamente veniva fatta 2 volte al giorno, una volta la mattina, l’altra la sera. Se le guardie si erano accorte che Scofield mancava all’appello durante la conta serale, che in teoria sarebbe dovuta avvenire alle 9, perché io non mi ero accorta di niente? 
  • Quindi Michael ha tentato davvero di evadere?
  • A quanto ho capito si è trattato di un malinteso. Michael non era nella sua cella perché a quell’ora si trovava nell’ufficio del direttore.
  • A fare cosa alle 9 di sera?
  • A questa domanda non saprei proprio rispondere.  -  disse la donna, allontanandosi dalla finestra.  -  Davvero non ti sei accorta di niente? Sono scattate le procedure di emergenza, l’allarme è risuonato nell’intero penitenziario e tu non hai notato nulla di insolito?  -  Non mi credeva, era palese.
  • Probabilmente dormivo.
  • Devi essere stata in catalessi per non accorgerti della confusione. Immagino sarai triste di non aver potuto salutare il tuo amico. 
Sollevai un sopracciglio quando mi accorsi che l’approccio della dottoressa era appena entrato in modalità indagatoria. Faceva finta di niente, ma glielo leggevo in faccia che voleva soltanto sondare il terreno.
  • Chi l’ha detto che Scofield è un mio amico?
  • Non lo è?
  • Non sono affari suoi.  -  risposi sulla difensiva.
  • Qualche giorno fa Michael mi ha raccontato che lo hai stracciato a scacchi.
  • E allora?  -  M’infastidiva parecchio che Michael avesse parlato di me ad un’altra donna, lo giudicavo un comportamento politicamente scorretto.  -  Mi tolga una curiosità, il personale del penitenziario può instaurare rapporti interpersonali con i detenuti?
  • Non che io sappia.
  • Allora perché questa confidenza col signor Scofield? -  continuai senza accennare a moderare il mio tono palesemente acido e pungente.
  • Si è trattato solo di cortesia professionale. Io ero il suo medico e tenevo sotto controllo il suo diabete, e poi scusa tanto, ma non credo di dovermi giustificare con te.  -  rispose offesa, indicandomi la porta e chiarendomi con questo gesto che avevamo finito. 
Senza aspettare che me lo ribadisse a voce, lasciai l’infermeria e permisi alla guardia di ammanettarmi perché mi scortasse a mensa a completare il mio turno di lavoro.
Ancora una volta ero stata scortese con la dottoressa, sempre così ben disposta nei miei confronti. Non ce l’avevo con lei, non più di quanto ce l’avessi col mondo intero, semplicemente quella mattina non stavo bene e diventavo sgarbata e sgradevole più del solito quando non ero al massimo della forma.
Poco dopo, di ritorno dall’infermeria, accadde una cosa molto strana, inaspettata. Stavo camminando come al solito persa nei miei pensieri, scortata dal fedele dobermann incaricato di riportarmi nel Braccio A e all’improvviso ci imbattemmo nel direttore. La vera sorpresa però fu riconoscere Scofield accanto alle due guardie che seguivano Pope, e quasi mancai un battito quando il mio sguardo incontrò quello di Michael. 
  • Signorina Sawyer che fa in giro a quest’ora?  -  mi domandò cortese il direttore, fermandosi a pochi passi di distanza da noi.
Quasi avessimo ricevuto un ordine, sia io che il secondino al mio fianco come anche Bellick e Green Rizzo che scortavano il detenuto tenendolo per le braccia, ci fermammo.
  • Torno adesso dall’infermeria, signore.  -  risposi, lanciando un’occhiata furtiva in direzione del ragazzo in manette.
Non riuscivo a capire. Perché le guardie lo stavano riportando indietro? Avevano rinviato il trasferimento? Lo avevano cancellato?
Vidi Michael ammiccare appena nel momento in cui i miei occhi tornarono a fissarlo. Ecco un altro mistero che avrei dovuto svelare. 
  • In infermeria di prima mattina? E’ tutto apposto, vero?  -  continuò Pope.
  • Si signore, tutto apposto.  -  E lo sarebbe stato ancora di più adesso che Michael era tornato.
  • Ottimo. Guardia, riporta la detenuta nella sua cella. Oggi niente lavoro alla mensa.  -  ordinò al secondino al mio fianco, prima di rivolgersi nuovamente a me.  -  Va a riposare Gwyneth, sei piuttosto pallida.
Finii per trascorrere il resto della mattinata nella mia cella, sdraiata sulla branda con un fazzoletto bagnato sulla fronte per cercare di combattere il caldo e il massacrante mal di testa che non voleva decidersi a lasciarmi in pace. Solo la chiamata alla ribalta verso la mensa, riuscì a convincermi che fosse arrivato il momento di abbandonare quell’aria malaticcia per rimettersi in sesto con un pranzo abbondante. Prima però provai a ridare vita al mio aspetto di zombie deperito davanti allo specchio, ma il tentativo fallì miseramente. Era tutta fatica sprecata, meglio farsene una ragione. Ero consapevole di essere solo una detenuta che scontava la sua pena in carcere. Non importava a nessuno se avevo i capelli in disordine o andavo in giro come una sciroccata con delle spille da balia a sorreggere in vita i pantaloni, però era ugualmente frustrante. Non che fossi un tipo particolarmente vanitoso o pensassi di incontrare l’uomo della mia vita in un posto del genere, semplicemente odiavo guardarmi allo specchio e vedermi in quello stato. Non mi riconoscevo. 
Certo, se quell’aspetto malaticcio e pietoso avesse potuto tenere alla larga da me i malintenzionati come T-Bag, allora non avrei avuto nulla da ridire, ma sospettavo che nemmeno ricoperta di fertilizzante sarei riuscita a scoraggiare l’intero penitenziario a saltarmi addosso. Quindi tanto valeva darsi un tono, o perlomeno, rendersi meno spettrale.

A mensa, durante il pranzo, non riuscii ad individuare né Michael, né Lincoln, né Sucre, in compenso notai che tutto il gruppetto dei cattivi era al gran completo e avevano tutta l’aria di stare architettando qualcosa di losco. Il che era pressappoco quello che facevano sempre, niente di cui sorprendersi.
Finii per pranzare insieme a Westmoreland e alla sua inseparabile gatta e fortunatamente tutto filò liscio come l’olio.
  • E’ strano che faccia così caldo, qui dentro è un forno.  -  constatò il vecchio asciugandosi la fronte sudata. 
Avevamo aspettato, come di consueto, che la mensa si spopolasse prima di incamminarci verso l’uscita. 
  • L’aria condizionata dev’essersi guastata.  -  risposi disinteressata.
  • Come fai a dirlo?
  • Ieri la temperatura era pressoché uguale a quella di oggi, eppure nel Braccio non si superavano nemmeno i 30 gradi. Stamattina nella stanza dell’infermeria il termometro segnava 34 gradi ed erano appena le 8.
  • Beh, questo non va bene. -  mormorò Charles con un sospiro.
  • Su questo mi trovi d’accordo.
  • No, dico sul serio. 
Nella sua voce avvertii una nota di preoccupazione che mi spinse a smetterla di guardarmi in giro e prestargli maggiore attenzione. 
  • Che cosa ti preoccupa Charles?
  • Sono rinchiuso qui dentro da così tanto tempo che ormai riesco ad avvertire quando cambia il vento anche ad occhi chiusi, e sono venti burrascosi quelli che si preparano, Gwyneth. Al tuo posto starei molto in guardia.
Riuscì ad angosciarmi con quelle parole.  -  Che vuoi dire?
  • Voglio dire che i detenuti tendono ad andare in escandescenza per molto meno. Non ti sei accorta che l’atmosfera è cambiata? Gli uomini sono insofferenti e di malumore a causa del caldo e se le guardie continueranno a fregarsene accendendo i loro bei ventilatori negli uffici, presto gli animali esploderanno. 
Non riuscivo a condividere le preoccupazioni del vecchio. In effetti la temperatura era salita vertiginosamente, ma io non avevo notato niente di diverso nei detenuti rispetto agli altri giorni. Secondo me Charles stava esagerando, in ogni caso avrei comunque seguito il suo consiglio e tenuta alta la guardia per un po’. Tanto per essere sicuri. Certo, non avrei mai e poi mai immaginato che le sue previsioni potessero avverarsi così in fretta.
Alle 15 esatte tutti i detenuti del Braccio A vennero fatti uscire dalle loro celle e fatti allineare sulla linea limitrofa per la conta. Dopo il malinteso del giorno precedente in cui si era creduto che Michael Scofield avesse tentato di evadere, il direttore aveva ordinato alle guardie che venisse effettuato un terzo giro di controllo, oltre a quello mattutino e a quello serale.
Nel momento in cui vidi Bagwell lasciare la fila per fare un passo avanti oltre la linea, percepii una strana sensazione, un brivido lungo la schiena. Istintivamente cercai con gli occhi il vecchio Charles e vidi che anche lui mi stava guardando. Nei suoi occhi leggevo ansia, attesa… paura. 
  • Perché non ci portate in un posto più fresco… tipo Africa!!
La battuta sarcastica del pedofilo riuscì a scatenare l’ilarità generale, ilarità che provocò subito la reazione, inizialmente controllata, del secondino incaricato di contare i detenuti al pianterreno. Osservai RoyGeary mentre appoggiava una mano sul manganello e intimava all’uomo di rimettersi a posto, ma T-Bag non obbedì, continuando a restarsene impalato a fissare il secondino con un mezzo sorriso stampato in faccia.
Il silenzio che seguì parve eterno. All’improvviso anch’io cominciai a guardare alla situazione con gli occhi di Charles Westmoreland e mi parve che qualcosa fosse cambiato. Anch’io percepii quella situazione di attesa, come se tutti non avessero aspettato altro che quel gesto di sfida per scatenarsi.
Senza rendermene conto, feci un passo indietro nello stesso istante in cui altri 5 o 6 detenuti ne facevano uno avanti per aggregarsi al temerario T-Bag. Poi altri li imitarono. Al centro del Braccio adesso era schierato un discreto gruppetto di detenuti. La dichiarazione di guerra era stata lanciata, le truppe erano schierate.
Il povero Geary, da solo di fronte al nemico, non poté far altro che battere in ritirata.
Accadde tutto molto velocemente, quasi non me ne resi conto. Prima, dalla postazione di controllo a pochi passi dalla mia cella, scattò l’ordine per tutti i detenuti di rientrare nelle proprie celle e venne proclamato lo stato di isolamento. Tutte le guardie presenti nel Braccio A andarono a blindarsi dentro la stanza di controllo, un gabbiotto protetto da una grata di ferro, dal quale solitamente le guardie controllavano l’apertura e la chiusura elettronica delle celle e dov’erano situati schermi a circuito chiuso dell’intero blocco.
Così come molti altri detenuti, anch’io preferii rispettare l’ordine e rientrare nella mia cella. Quello era il luogo più sicuro del mondo, al momento. Il resto dei detenuti, preferendo prendere parte alla battaglia, si unì al gruppo di T-Bag e cominciò a scatenarsi, ammassandosi contro il gabbiotto delle guardie per cercare di forzarlo. Il loro attacco di massa in pochi minuti riuscì a scatenare il caos. Dalla mia postazione non era difficile poter sentire i loro schiamazzi, gli insulti lanciati contro Geary, Bellick e Stolte rifugiatisi dentro. Sembravano come impazziti, un branco di gorilla inferociti.
Che cosa avevano intenzione di fare? Sfondare la grata e rischiare di farsi ammazzare?
Solitamente i secondini utilizzavano soltanto i manganelli come armi per difendersi, ma era da stupidi pensare che da qualche parte non tenessero anche la pistola di servizio e che non fossero pronti ad usarla.

Inaspettatamente, dopo una serie di tentativi, il gruppetto sempre più infervorato dal folle T-Bag riuscì a far cedere la grata e prendere possesso della stanza di controllo, mentre le tre guardie si dileguavano velocemente per salvare la pelle.
All’improvviso compresi di essere stata abbandonata completamente al mio destino, sentii crescere una sensazione di terrore sempre più palpabile che si trasformò in panico nell’istante esatto in cui tutte le celle vennero nuovamente aperte. Evidentemente qualcuno doveva aver attivato il comando di apertura per l’intero Braccio.
 
Devo andarmene da qui, sono in pericolo”.
 
Sarebbe stato uno sbaglio restare impalata nel posto dove presto o tardi qualcuno sarebbe potuto venire a cercarmi, ricordandosi di me. Lì ero indifesa, ero scoperta. Dovevo nascondermi, ma prima dovevo uscire allo scoperto e sbandierare ai quattro venti la mia presenza, ma che altro avrei dovuto fare? Restare avrebbe segnato senza ombra di dubbio la mia condanna a morte.
 
Rifletti Gwen, rifletti”.
 
Dovevo riuscire ad arrivare alla stanza di controllo e superarla facendo attenzione a non farmi notare e, una volta fuori dal blocco, trovarmi un angolino sicuro dove aspettare che le acque si calmassero o perlomeno, che qualcuno le facesse calmare. Peccato che quel piano era praticamente impossibile da attuare. Sperare che nessuno mi notasse mentre sgattaiolavo via dalla mia cella, era più o meno come sperare di diventare improvvisamente invisibile.
Appiattita contro la parete, diedi una sbirciatina verso l’esterno. La via verso la stanza di controllo delle guardie era libera, i detenuti erano riusciti a superare la porta che dava accesso ai corridoi del penitenziario. Calcolai a mente la breve distanza e constatai che sarebbero bastati una manciata di secondi per coprire lo spazio che separava la cella 93 dal gabbiotto. Ma una volta fuori, chi poteva assicurarmi che nessuno dei delinquenti rimasti in giro, vedendomi, non decidesse di inseguirmi? E se qualche altro pazzo a zonzo per i corridoi al di là del gabbiotto avesse cercato di aggredirmi e io non fossi riuscita a trovare una via d’uscita? Non conoscevo quella zona dell’edificio riservata al personale e alle guardie, non avrei saputo dove scappare, dove nascondermi.
 
“Oh piantala Gwen. Ti sei voluta mettere in questa situazione, quindi porta fuori le chiappe da qui. Restare in cella a tremare come una foglia non è un opzione”.
 
Presi un profondo respiro, lanciando l’ennesima occhiata furtiva verso la stanza di controllo. La via era ancora libera, era arrivato il momento di andare. 
  • Ciao bambolina, cercavi me?!

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Capitolo 11
*** Rivolta infernale ***


Mi si mozzò il respiro in gola e non feci in tempo a trattenere un urlo quando vidi materializzarsi alle mie spalle il peggiore degli incubi.
Ero stata a tanto così da portare a termine la mia fuga, sapevo che prima o poi qualcuno si sarebbe ricordato dell’inquilina della cella 93, ma non avrei mai pensato che il viscido mostro, dopo aver conquistato il libero accesso al penitenziario, pensasse a tornare nel Braccio A per cercarmi. Avevo sperato in un po’ più di tempo, maledizione!
  • T-Bag… -  sibilai come un gatto col pelo ritto di fronte al pericolo.
  • Non vedevo l’ora che arrivasse questo momento.  -  mormorò l’uomo, sorridendo sfacciatamente mentre indietreggiavo fino a sfiorare con le spalle il ferro delle sbarre. 
Ero in trappola, ero in un mare di guai e come se non avessi già problemi a sufficienza, ero circondata. Oltre al depravato, si erano radunati altri 5 gorilla. Una situazione che non faceva ben sperare.
Questa volta non ne sarei uscita con le mie gambe, me lo sentivo. 
  • Non avere paura bambolina, non abbiamo intenzione di approfittarci di te… mmmh… o forse si?  -  Alle spalle del pedofilo giunsero esclamazioni di gioia e giubilo.  -  Beh, allora sei ufficialmente invitata alla nostra festa!
Il simpatico programmino pensato per la sottoscritta venne accolto da tutti con grande entusiasmo. Sei cani si sarebbero avventati contro un unico osso. Per la seconda volta da quando avevo messo piede a Fox River, provai il panico devastante capace di paralizzare ogni singolo muscolo del mio corpo. 
Mi sentii del tutto inerme quando T-Bag mi afferrò il braccio per trascinarmi verso di lui, e fu un patetico tentativo di opporre resistenza quando mi voltai nuovamente per aggrapparmi alle sbarre. Finii solo per scorticarmi le mani quando mi strattonò con forza perché lo seguissi.

Certo, avrei potuto ribellarmi in qualche modo, lo avevo già fatto infondo, ma sapevo che sarebbe stata una battaglia persa in partenza. Ero solo una ragazza contro 6 colossi infervorati dalla rivolta e col testosterone a mille. Peggio ancora, ero solo una ragazza debole e malaticcia. Chi volevo prendere in giro? Non avrei avuto nessunissima speranza nemmeno se mi fossi trovata davanti solo Bagwell. 
  • Dove diavolo mi stai portando sottospecie di pervertito?! Lasciami… lasciami subito!!  -  gridai, cercando più e più volte di liberarmi dalla sua presa ferrea.
  • Oh ma che brutte parole in bocca ad un fiorellino come te. Questo posto ti sta rovinando piccola, devo dirtelo.  -  Superammo il gabbiotto e proseguimmo verso il lungo corridoio. Il resto del gruppo ci seguì.  -  Vedrai che ci divertiremo un sacco, ma prima che ne diresti di scovare anche quell’altro finocchietto? Più siamo e meglio è, non è così che si dice?
Ero certa che stesse parlando di Michael. Era lui il suo obiettivo. Persino approfittare di una donna in carne ed ossa passava in secondo piano al pensiero di potersi vendicare del torto subito.
Continuammo ad avanzare, superando diverse porte massicciamente blindate che uno dei 5 scagnozzi aprì una dopo l’altra con il mazzo di chiavi che portava con sé. Come avessero fatto ad impossessarsi di quelle chiavi era per me un mistero. Non avevo idea di dove stessimo andando, né di cosa avessero intenzione di farmi, però ero certa che la nostra “passeggiata” non sarebbe durata ancora a lungo.
  • Dobbiamo sul serio trascinarci questo peso morto per tutto il penitenziario?  -  si lamentò l’uomo che aveva appena spalancato la porta per farci passare.  -  Io proporrei di darle una bella ripassata a turno, che ne dite?
  • Sono d’accordo, diamole il nostro personale benvenuto!  -  esclamò un altro dall’aspetto più rozzo e brutale, lanciandomi un’occhiata esplicita.
  • Ragazzi per favore, un po’ di tatto, così spaventiamo la nostra amica.
La vicinanza di T-Bag mi faceva accapponare la pelle più di quella di tutti gli altri. Erano tutti lì per lo stesso scopo, ovvio, ma era Bagwell l’essere più viscido e malvagio. Persino il suono della sua voce così languido, e tuttavia così urtante, mi faceva salire la nausea. Se solo fossi stata abbastanza forte da massacrarlo a sangue con le mie stesse mani… ma non lo ero, ero debole. Però non potevo arrendermi, non gli avrei permesso di farmi del male senza lottare.

Approfittando della breve pausa, ricominciai nuovamente a dibattermi e a scalciare, se non potevo combatterli avrei almeno potuto provare a scappare. Il tipo biondo che si avvicinò per primo, si ritrovò con una guancia insanguinata quando lo graffiai per allontanarlo, ma il gesto non servì a spaventare i miei avventori, tutt’altro, sembrò addirittura eccitarli. 
  • Il primo che se la spasserà con questa troietta sarò io.  -  riprese il biondo, rispondendo all’attacco con un mal rovescio che mi fece sbattere contro il muro. 
Quando sentii il sangue colarmi lungo la guancia e il dolore pulsare frenetico, la prima cosa a cui pensai fu il sopracciglio ferito. La ferita doveva essersi riaperta.
Eccomi di nuovo nella stessa situazione in cui mi ero trovata giorni prima quando T-Bag mi aveva aggredita. Rieccomi a vendere cara la pelle contro 5 energumeni fisicamente superiori.
  • Mi dispiace dolcezza, ma i miei amici non vogliono più aspettare. Sarà il caso di dare inizio alla festa.  -  Bagwell mi sorrise mordendosi il labbro inferiore quando ordinò ai due uomini più vicini a lui di bloccarmi.  -  Forza divertiamoci!
Il biondo mi afferrò per un braccio, mentre il suo compagno bloccava l’altro.
Non avrebbe avuto senso lottare, dibattersi o urlare, lo sapevo, nessuno questa volta avrebbe potuto aiutarmi. A pochi centimetri da me, T-Bag continuava a fissarmi voglioso come se al posto mio avesse avuto tra le mani una gigantesca torta alla panna montata.
  • Ti consiglio di togliermi le mani di dosso, galeotto! -  sibilai tagliente quando l’uomo sfiorò il mio braccio nudo, preso da chissà quale fantasia da pervertito.
Il tono della mia voce per attimo sembrò sorprenderlo :  -  Scusa, come mi hai chiamato?
Sorrisi sarcastica, pregando dentro di me di risultare convincente.   -  Galeotto. E’ quello che sei, un misero galeotto che trascorrerà il resto della sua vita in gabbia.
L’uomo ricambiò il sorriso avvicinandosi al mio orecchio.  -  Piccola, ti sembra saggio provocarmi in una situazione del genere?
Ancora una volta ingoiai il panico e sfoderai tutta la mia audacia.  -  Perché, ti stai sentendo provocato? Tu non mi fai alcuna paura. Ti credi chissà chi per aver stuprato e ucciso dei ragazzini innocenti… chissà quanta forza di volontà e coraggio ti saranno serviti per compiere un’impresa del genere. Cos’è, sei totalmente incapace a soddisfare una donna che hai dovuto ripiegare su dei ragazzini?
  • Immagino che lo scoprirai molto presto.
  • Ah io non credo, direi che sarebbe inutile scomodare i pronostici, io dico che non riuscirai a combinare un bel niente e posso spiegarti anche il perché. Se adesso tu fallisci, 5 colossi saturi di anabolizzanti e steroidi sapranno che ho ragione e ti daranno del cazzone senza palle, sai che è così. Non puoi neanche tirarti indietro ormai…  -  Sorrisi di nuovo, questa volta più sfacciata. Sapevo di aver premuto il tasto giusto, T-Bag stava cominciando a perdere la pazienza.  -  …Comincio a pensare che tu abbia paura delle donne. Dì la verità, ti sei sentito subito minacciato dalla mia presenza. La settimana scorsa per tendermi un agguato hai dovuto corrompere quel celebroleso di secondino e ti sei fatto accompagnare da due gorilla grossi almeno il doppio di te, e oggi addirittura cinque. Eh si Theodore, gli psicologi lo definirebbero un problema.
Ero riuscita ad innervosirlo. Le sue mascelle erano così contratte che le tempie gli si erano tinte di una sfumatura di prugna. Mentre T-Bag piantava un pugno a due centimetri dal mio orecchio facendomi sussultare, capii che la mia finzione aveva raggiunto l’effetto desiderato e seppi come liberarmi e che cosa fare.
  • Ti farò rimangiare ogni singola parola… ogni singola parola!  -  sbottò, cominciando a sbottonarsi i pantaloni.
Adesso i nostri visi erano vicinissimi, potevo sentire il suo cattivo alito mentre mi parlava.
  • Oh si certo, perché non chiedi anche agli altri tre con le mani libere di tenermi ferma. Magari così ti riesce.
  • Credi che abbia bisogno di loro per farmi una troietta come te? Lasciatela!  -  ordinò ai due energumeni che mi avevano bloccato le braccia. Poi, puntando i suoi occhi viscidi su di me, sibilò  -  Rimpiangerai di avermi provocato.
Non so dove trovai la forza per attaccare, ormai avevo capito che non avrei avuto nient’altro da perdere. Se dovevo cadere, qualcuno lo avrei trascinato a terra con me.
Fu in quel momento che agii. Senza pensarci e senza guardare il mio avversario negli occhi, lo colpii con una testata così forte che per alcuni interminabili secondi la vista mi venne meno. L’uomo, colto di sorpresa, indietreggiò dolorante, tamponandosi la fronte e finendo addosso ai suoi scagnozzi. Fu la mia momentanea salvezza. Approfittando del momento di confusione, mi mossi di lato cercando una via di fuga, assecondando l’istinto e il desiderio di salvare la pelle. Scattai in avanti e presi a correre. Qualche passo, e una mano mi afferrò la caviglia. Il contraccolpo mi fece cadere rovinosamente sul freddo pavimento piastrellato, sbattendo la mascella. Per lunghi istanti non fu altro che dolore. La mia agonia però sembrava essere appena iniziata. Provai a reagire quando un uomo con la mascella quadrata mi sollevò letteralmente di peso con una solida presa sul collo per spingermi verso T-Bag, ormai ripresosi dal mio attacco a tradimento. Nonostante tutto, non smisi di lottare neanche quando mi ritrovai nuovamente circondata. Bagwell riuscì ad afferrarmi per i capelli e strattonarmi contro il muro. Avrei voluto continuare a tirare testate ed urlare a squarciagola, ma ormai non ne avevo più la forza, ero stremata.
Quando il pervertito mi riacciuffò per i capelli e cominciò a trascinarmi per il corridoio, non riuscii neanche ad opporre resistenza. L’uomo non badò minimamente alle mie proteste.
Come avevo potuto sperare di sopravvivere in un posto del genere? Keith l’aveva detto che sarebbe stata una follia. Quella sarebbe stata la mia fine. Poi all’improvviso ci fermammo.
  • Oh ma guardate un po’ chi abbiamo qui. Oggi dev’essere proprio il mio giorno fortunato. 
Spinta dalla curiosità di vedere chi o cosa avesse attirato l’attenzione del mio aguzzino tanto da fargli mollare la presa per lasciarmi a terra, sollevai appena la testa cercando di mettere a fuoco le due figure ferme dinanzi a noi. Prima che potessi capire in chi ci fossimo imbattuti,l’uomo più alto parlò: 
 
-  Lasciala andare T-Bag!
 
Riconobbi all’istante quella voce, era Lincoln Burrows. Ma non poteva essere davvero lui, a quell’ora lui non avrebbe dovuto trovarsi lì. Prima che potessi chiedermi il perché della sua presenza, esaminai la figura evidentemente terrorizzata al suo fianco. Era una guardia, il novellino che aveva preso servizio alcuni giorni dopo il mio arrivo. Probabilmente quando era scoppiata la rivolta, Lincoln non si trovava nella sua cella, così quando erano iniziati i disordini il secondino era stato costretto a riaccompagnarlo.  Questo di sicuro avrebbe spiegato perché Lincoln fosse ammanettato e perché, mentre fuori imperversava il caos, lui e la guardia si trovassero in prossimità del blocco A. 
  • Non credo che sia possibile. Vedi, ormai ho promesso ai miei amici una festa e questa bella bambolina è stata formalmente invitata come ospite d’onore.  -  spiegò Bagwell.
  • E’ solo una ragazzina. Lei non c’entra niente qui dentro e tu lo sai.
  • Eppure è qui, e noi non vogliamo certo che si senta esclusa. 
Quando avevo riconosciuto Lincoln, per un istante avevo sperato nella salvezza, non perché pensavo che potesse salvarmi da 6 uomini che mi tenevano in ostaggio, ma solo perché sapevo che lui non mi avrebbe lasciata al mio destino. Lui mi avrebbe aiutata. Poi però T-Bag si era piegato sulle ginocchia puntando un grosso coltello contro la mia gola e il mio cuore aveva mancato un battito per la paura.
  • Ci tieni tanto alla ragazzina? Hai ragione, d'altronde gli hai messo gli occhi addosso prima di noi, hai la precedenza e io lo rispetto… Senti che facciamo, ti propongo uno scambio. Che ne dici se io ti lascio giocare con questa sgualdrinella e tu mi lasci divertire un po’ con la guardia?
Al lato opposto, l’uomo accanto a Lincoln sussultò.
  • Sai che non posso farlo.  -  fu la risposta di Burrows.
  • Peccato, volevo proporti uno scambio alla pari. Vorrà dire che me li terrò tutti e due.
Un istante dopo esplose il caos e una violenza inaudita che mi paralizzò.
Lincoln riuscì a liberarsi delle manette prendendo le chiavi alla guardia che riconoscendo il pericolo lo lasciò fare, ma si ritrovò comunque in evidente svantaggio numerico quando T-Bag e altri tre uomini gli si buttarono addosso per atterrarlo, mentre gli altri due energumeni si occupavano del secondino, immobilizzandolo con facilità.
Anche se Lincoln era grande e grosso, era improbabile che riuscisse a sbaragliare 4 avversari. Si batté fino allo stremo delle forze e riuscì persino a mettere ko due uomini prima di finire al tappeto, ma non poté più nulla quando altri due lo bloccarono riuscendo a buttarlo a terra e T-Bag iniziò a colpirlo con ferocia a pedate e manganellate.
Erano tutti così impegnati a tenere a bada Lincoln che nessuno si era più curato della mia presenza. Non avrei avuto un’altra occasione per darmela a gambe e mettermi in salvo. Ma come potevo abbandonare Lincoln al suo destino? Se non lo avessimo incrociato per caso, chissà che cosa ne sarebbe stato di me. Mi dispiaceva per lui, gli uomini di T-Bag lo stavano massacrando, ma come avrei potuto aiutarlo? Dopo aver finito con Burrows, quei criminali si sarebbero sicuramente ricordati di me per finire ciò che avevano cominciato. Tutto ciò che mi restava da fare era approfittare dell’opportunità per squagliarmela. Non restava molto tempo.

Nonostante la sua mole, era evidente che Lincoln non sarebbe riuscito a resistere a lungo. Non aveva speranze neanche la nuova guardia, disarmata e catturata ad una velocità record.
Senza ulteriori indugi cominciai a correre nella direzione opposta, sperando e pregando che nessuno si accorgesse della mia fuga. Aprii la prima porta sulla sinistra e mi ci infilai dentro senza la più pallida idea di dove stessi andando. Mi ritrovai di fronte l’ennesimo corridoio, deserto per fortuna, quindi continuai nella fuga. Ormai non ce la facevo più. Arrancavo appoggiandomi ai muri, le gambe si muovevano per un puro riflesso condizionato e dai polmoni sentivo risalire al posto dell’aria, catrame.

Inciampai e caddi due o tre volte prima di raggiungere l’ennesima biforcazione e fui costretta a fermarmi quando, a pochi metri da me, oltre la successiva porta blindata, udii degli schiamazzi. Avevo paura non solo che potesse trattarsi di T-Bag e del suo gruppo in possesso delle chiavi, ma soprattutto che accecata e stanca com’ero, avessi percorso una strada parallela al Braccio A e fossi tornata al punto di partenza.
Prosciugata di ogni energia, mi lasciai cadere a terra sul pavimento fresco quando sentii le voci allontanarsi.
Sarei dovuta tornare indietro, trovare un’altra via d’uscita, un nascondiglio, invece chiusi gli occhi e rimasi lì, immobile, provando a liberare i polmoni e a calmare i tremori che di colpo si erano impossessati di me, dopo aver esaurito ogni residuo di adrenalina.
Solo allora i miei pensieri andarono a Lincoln Burrows. Chissà perché aveva deciso di esporsi per aiutarmi. Era un uomo senza speranze, senza nessuna via di scampo. Tra 18 giorni esatti Lincoln sarebbe stato legato ad una sedia elettrica e 5.000 volt avrebbero attraversato il suo corpo, stroncandone la vita definitivamente. Al suo posto chi altri si sarebbe fatto pestare a sangue per salvare una ragazzina sconosciuta? Non riuscivo a capire. Se quell’uomo così freddo e spietato com’era stato descritto dalla cronaca aveva avuto il coraggio di sparare un colpo in testa ad un perfetto sconosciuto, perché darsi tanta pena per una ragazza conosciuta in carcere?
Quei pensieri continuarono a turbinarmi in testa, finché non percepii due mani scuotermi perché mi riprendessi, e una voce lieve e piuttosto preoccupata proferire parole che non riuscii a capire. Impiegai più di un minuto per concentrarmi nel socchiudere le palpebre e mettere a fuoco il viso dello sconosciuto che mi si era avvicinato.
  • Ch… Charles…
  • Ragazza, hai scelto proprio il luogo meno adatto per fare un riposino. 
Westmoreland si dimostrò molto più perspicace e utile del previsto. Capì al volo che restare lì sarebbe stato pericoloso, quindi mi caricò sulle spalle e mi portò via. In quel momento non mi importò dove stessimo andando, se il vecchio volesse aiutarmi o fare il furbo e approfittare della situazione. Un secondo dopo persi del tutto conoscenza. 
  • Ragazzina… ehi ragazzina, mi senti?  -  domandò una voce roca e metallica nel momento stesso in cui mi parve di riaffiorare da un sonno agitato e terribilmente scomodo.  -  Mi senti? Riesci a parlare?  -  Riuscivo a sentire, ma più che altro non mi andava di rispondere.  -  Ehi ragazzina…
Molto presto mi resi conto che quella voce nervosa e preoccupata al contempo, mi era familiare. Fin troppo. Era la voce di Burrows. Era proprio lui.
  • Ti avevo detto di piantarla di chiamarmi ragazzina.  -  rantolai con una voce spaventosa.
  • Bene, perlomeno riesce a parlare…  -  Il nervosismo aveva ceduto il posto al sollievo.  -  … Si può sapere che diavolo è successo? Da quanto tempo è rimasta priva di conoscenza?
  • Circa mezz’ora. E non lo so cosa le è successo. L’ho trovata a terra, nei pressi delle cucine. Ho visto che stava male e ho pensato di nasconderla qui.  -  rispose qualcuno.
L’altra voce mi sorprese, finché ricordai di aver visto il vecchio Westmoreland prima di perdere i sensi. Immediatamente il contenuto della mia testa sgusciò e rotolò in un impeto di nausea, riportando alla memoria le ultime terribili ore a cui inspiegabilmente ero riuscita a sopravvivere.
Pian piano cominciai a riprendermi. Mi resi conto di essere ancora sdraiata a terra, ma non mi trovavo più nel corridoio deserto dove mi ero accasciata senza più energie in corpo per poter proseguire. Sotto di me le mattonelle non erano più lisce e fresche, ma ruvide. Quando spalancai gli occhi provando a mettermi seduta, il viso irrequieto e corrucciato di Lincoln si materializzò a poca distanza dal mio. Era inginocchiato accanto a me e quando si accorse che cercavo di tirarmi su, mi sollevò senza sforzo, finché mi ritrovai bloccata tra un letto a castello, Lincoln e un lavandino. Charles Westmoreland, in piedi accanto al letto, ci fissava immobile.
  • Che ci faccio qui?  -  gracchiai.
  • Charles ti ha trovata a terra e ti ha nascosta nella sua cella… Come ti senti?  -  mi chiese Lincoln, il volto palesemente più tranquillo.
  • Meglio grazie, e tu? 
Non avevo dimenticato cosa aveva fatto per me. A guardarlo sembrava conciato piuttosto male. Il suo viso era gonfio, ferito e insanguinato. Come le braccia e le mani. La maglietta bianca sul davanti era quasi completamente ricoperta di sangue. 
  • Sono stato meglio.
  • Come mi hai trovata?  -  chiesi ancora.
  • Stavo cercando Michael, quando ho incontrato il vecchio che mi ha portato qui. Ti dispiace se ti lascio con lui? Sono molto preoccupato per mio fratello, non riesco a trovarlo e…
  • Certo che no, vai.
Adesso che mi ci faceva pensare, da quando era iniziata la rivolta non avevo più visto né Michael, né Sucre. Cominciavo ad essere preoccupata anch’io.
Restai seduta e nascosta al mio posto, mentre Lincoln si alzava in piedi e lasciava la cella di Westmoreland per andare a cercare suo fratello. Fuori sembrava si fosse appena scatenato il pandemonio. Il Braccio A, inizialmente svuotatosi della maggior parte dei detenuti, era nuovamente tornato ad affollarsi come un enorme campo di battaglia. Udivo le urla, il vociare sempre più intenso dei detenuti, e dal mio nascondiglio vedevo uomini scappare, altri ammassarsi gli uni sugli altri. Non avevo mai assistito a nulla del genere. 
  • Cosa sta succedendo?  -  domandai a Charles, appena sedutosi sulla branda.
  • L’esercito è già schierato per mettere fine alla rivolta.  -  rispose  -  Tutto l’edificio è stato isolato. Ormai manca poco.
  • L’esercito?
  • Già. La situazione è degenerata quando una delle guardie è stata presa in ostaggio. Ragazza, devi tornare al più presto nella tua cella. Quando i soldati faranno irruzione, questo edificio si trasformerà in una giungla e tutti quelli che si troveranno fuori dalle loro celle ci rientreranno a forza. 
Aiutandomi con le sbarre del letto riuscii a rimettermi in piedi per avvicinarmi all’uscita, ma restai agghiacciata nel guardare fuori. Con tutta la buona volontà, se fossi uscita in quel momento sarei stata trascinata via in mezzo a quel fiume di gente e portata nella direzione opposta. D’altro canto Charles aveva ragione, ormai l’esercito era schierato oltre le porte che delimitavano il Braccio A. Se avessi aspettato ancora mi sarei ritrovata tra l’incudine e il martello.

Non finii neanche di pensarlo nella mia testa che le porte esterne si aprirono, e uomini armati fino ai denti irruppero nel blocco per sedare la rivolta. Avevo pensato che la situazione non potesse peggiorare in nessun modo quando avevo visto esplodere l’apice dei disordini, ma a quel punto fui costretta a ricredermi. I detenuti vennero costretti a rientrare nelle loro celle con la forza, alcuni furono tramortiti, colpiti ripetutamente e gettati nei rispettivi alloggi come fossero stati pupazzi. Un gruppo ristretto cercò inutilmente di ribellarsi. Su questi ultimi piovvero raffiche di manganellate così forti che alcuni rimasero addirittura a terra, immobili.

Quando la folla cominciò a sparpagliarsi, decisi che era arrivato il momento di andare. Ringraziai Charles per il suo aiuto e lasciai la sua cella, assicurandomi che la strada fosse libera e che potessi sgusciare con facilità tra soldati e galeotti per tornare alla 93, ma accadde l’imprevedibile proprio in quel momento. Nella confusione generale, un uomo precipitò dal piano superiore, schiantandosi a pochi metri da me.
Restai attonita e sbigottita quando mi resi conto che era morto. Quasi senza rendermene conto, la mia prima reazione fu di sollevare lo sguardo verso il piano rialzato e un moto di rabbia e di paura si scatenò nel mio petto quando i miei occhi incontrarono quelli di T-Bag. Non c’era alcun dubbio che fosse stato proprio lui ad assassinare quell’uomo a sangue freddo, per giunta non un detenuto qualsiasi, ma una guardia.

T-Bag aveva ucciso una guardia. Perché lo aveva fatto? Che razza di mostro era quello?

Quando tornai al cadavere dilaniato e insanguinato del povero secondino mi resi conto in fretta di conoscerlo. Il suo viso era ricoperto di sangue, probabilmente doveva essere stato pestato per bene prima di venir buttato giù, eppure mi bastò un’occhiata più attenta per ricordare di aver già incontrato quell’uomo quello stesso giorno. Era la guardia che avevo visto in compagnia di Lincoln prima che quest’ultimo mi salvasse da T-Bag. Era il secondino che era stato subito catturato, mentre io me la davo a gambe. Improvvisamente sentii qualcosa muoversi nello stomaco e risalire verso la gola quando intuii che al posto di quell’uomo avrei potuto esserci io.
  • Gwyneth, che fai ancora lì? Corri nella tua cella!  -  mi ordinò Charles vedendomi paralizzata a pochi passi dalla sua cella.
Prima di trovare il coraggio di abbandonare il cadavere al suo destino, sollevai occhi carichi di odio e di disprezzo verso l’assassino colpevole di un simile abominio. L’uomo ricambiò il mio sguardo con sardonico trionfo, prima di appoggiare l’indice tra bocca e naso per intimarmi di tenere la bocca chiusa. Il suo era stato un avvertimento esplicito: se avessi parlato, il prossimo cadavere a Fox River sarebbe stato quello mio.

Prima di quel giorno non mi era mai capitato di immaginare l’inferno, ma dopo ciò che avevo visto, ero certa che a Fox River esistesse qualcosa di molto molto simile. Lì dentro mostri della peggior specie venivano ancora chiamati esseri umani, lì dentro uomini innocenti morivano senza sapere neanche il perché.

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Capitolo 12
*** Interessanti scoperte ***


A seguito degli ultimi avvenimenti, il direttore Pope ordinò che tutti i detenuti del Braccio A per punizione restassero rinchiusi nelle loro celle per 48 ore.
Tutti noi venimmo dispensati dalle quotidiane attività. Per due lunghissimi giorni ci fu portato un solo pasto per giornata, qualcosa che somigliava a della zuppa di farro e che odorava di tutt’altro.
Ero solo alla mia seconda settimana e ormai neanche le spille riuscivano più a tenermi in vita i pantaloni.
La mattina del terzo giorno fu quasi un sollievo poter riprendere le normali attività, muoversi, andare a mensa, uscire in cortile e via dicendo. La soddisfazione più grande però fu poter tornare a farsi la doccia. Il direttore aveva provveduto durante quelle 48 ore affinché l’aria condizionata tornasse a funzionare in tutto il penitenziario così da poter combattere il caldo infernale di quei giorni, ma fu comunque un toccasana restarsene sotto il getto d’acqua fresca, quasi come se l’acqua potesse sciacquare via di dosso tutto l’orrore dei giorni precedenti.

A colazione misi sul vassoio una doppia razione di tutto per lasciarmi alle spalle l’orripilante sbobba verde e finii, come di consueto, per trascorrere il primo turno di lavoro alla mensa ad aiutare i volontari.
Il direttore e le guardie non avevano preso bene la morte di Tyler Robert Hudson, conosciuto dagli amici come Bob. Prima di venir assassinato, il secondino era riuscito a portare a termine solo pochi giorni di servizio. Le guardie, ma soprattutto Bellick, si erano ripromessi di vendicare il loro amico e collega individuando il bastardo che aveva osato pugnalarlo allo stomaco con ben tre feroci coltellate, e dal giorno dopo la rivolta avevano iniziato a mettere sottosopra ogni singola cella per poter scovare qualunque elemento potesse portare al colpevole.
Fino a quel giorno non era stato trovato niente.
Forse avrei dovuto confessare tutto a Bellick. Io conoscevo il nome dell’assassino, avrei potuto fare in modo che pagasse per il suo crimine, ma ormai mi era abbastanza chiaro il codice dei detenuti. Se avessi confessato, forse T-Bag avrebbe avuto la punizione che meritava, ma io mi sarei auto impressa sul petto un bersaglio contribuendo ad accorciarmi la vita.

Alle 13 esatte, puntuali come orologi svizzeri, le celle vennero aperte per il secondo turno d’aria. Insieme agli altri mi diressi veloce verso il cortile. Non vedevo l’ora di fare quattro passi e prendere aria. Il mio primo pensiero ovviamente fu quello di cercare Burrows oltre l’inferriata, ma anche questa volta il destino non fu magnanimo. Non lo trovai. In compenso individuai quasi subito Westmoreland seduto sulla solita panca. Mentre mi avvicinavo, avevo notato Bellick scambiare quattro parole col vecchio e il viso di quest’ultimo farsi sempre più scuro, sfuggente. Lo avevo raggiunto nell’istante esatto in cui il capitano delle guardie si era allontanato. 
  • Charles…
  • Ciao Gwen  -  Il suo umore sembrava aver ricevuto un’impennata appena mi aveva vista. Ne ero felice.  -  A quanto pare ti sei ripresa completamente. Mi fa piacere.
  • Il peggio è passato, grazie ancora per quello che hai fatto.
  • Ringrazia le mie ossa vecchie e stanche che sono state in grado di trasportarti.  – esclamò con un sorriso.
Subito ricambiai anch’io.  -  Posso farti compagnia?
  • Sei sempre la benvenuta. Sono di nuovo solo da quando Marylin… -  la sua voce s’incrinò.
Avevo sentito in giro che il gatto di Westmoreland fosse scappato via durante la rivolta e che non fosse più tornato durante le 48 ore di isolamento vissuto da tutto il Braccio. Quella mattina, al ritorno dalle docce, Charles aveva trovato Marylin stesa sulla sua branda, senza vita. Qualcuno aveva pensato di vendicarsi sul vecchio rompendo l’osso del collo al povero felino, evidentemente perché sapeva quanto lui le fosse affezionato.
  • Mi dispiace, so cos’hanno fatto alla tua gatta. Un gesto davvero meschino.
  • Un giorno o l’altro Bellick pagherà anche questa.  -  continuò in tono duro.
Le sue accuse mi sorpresero.  -  Credi sia stato Bellick?
  • Non lo credo… lo so.
  • Ma perché lo avrebbe fatto?
  • Perché Bellick sa che io so chi ha ucciso Bob e che ho troppo rispetto della mia vita per decidere di confidare a lui il nome dell’assassino, rischiando di mettere fine ai miei giorni prima del dovuto.
  • Sai chi è stato?  -  domandai titubante.
  • C’ero anch’io, ricordi? Bob è precipitato proprio di fronte alla mia cella e ho visto quello che hai visto tu.  -  disse rivolgendomi uno sguardo penetrante.  -  Se posso darti un consiglio, farai meglio a tenere questo segreto per te.
Annui pensierosa.  -  Intanto un brav’uomo è morto e il colpevole resterà impunito. Questo pensiero mi fa stare male. Le guardie stanno mettendo sotto sopra l’intero edificio per scovare anche il minimo indizio e noi ce ne restiamo qui come dei codardi a tenerci il nostro piccolo segreto.
  • Lo so, è frustrante. Mi dispiace per la guardia che è morta, ma dopo quello che Bellick ha fatto alla mia Marylin…
  • Pensavo che qui dentro ci si dovesse guardare le spalle dai detenuti. Adesso non so chi siano i peggiori, se gli assassini dietro le sbarre o le guardie che li sorvegliano. Dal primo momento ho subito pensato che quel Bellick fosse un tipo losco. E non mi sbagliavo.
  • Se lo conosci, lo eviti.
Per qualche minuto restammo seduti in silenzio a farci compagnia a vicenda. Ogni tanto lanciavo un’occhiata oltre l’inferriata per controllare che Burrows non avesse deciso di degnarci della sua presenza, ma continuavo a fissare uno spazio deserto. Allora passavo ad una seconda ispezione generale, per assicurarmi che i miei principali nemici occupassero una distanza di sicurezza rispetto a dove mi trovassi. Solo allora potevo tirare un sospiro di sollievo e godermi il pomeriggio. Eppure quel giorno qualcos’altro riuscì ad attirare la mia attenzione. In una panca ad una trentina di metri rispetto alla nostra, avevo riconosciuto Michael e Sucre, fortunatamente vivi e vegeti. Non avevo più visto Michael da quando lo avevo incontrato insieme al direttore e alle guardie intente a riaccompagnarlo nella sua cella, e non avevo più avuto notizie di lui e di Sucre, né durante né dopo la rivolta. Insieme ai due uomini quel pomeriggio primeggiava anche John Abruzzi. Evidentemente anche lui era riuscito a salvare la pelle dopo gli ultimi episodi esplosi a Fox River. Guardandoli da lontano, il solito dubbio tornò a torturarmi. Quella dubbia amicizia tra Michael e il mafioso continuava a non darmi pace, quasi fosse stato un diavolo sulla mia spalla che esigeva insistentemente attenzione, stuzzicando il mio intelletto.
Quasi mi avesse letto nel pensiero, Charles guardò nella mia stessa direzione e poi ammiccò: 
  • Perché non vai da lui?
  • Di chi parli?
  • Del ragazzo che stai continuando a fissare. Scofield, chi se no?
Mi finsi del tutto indifferente mentre ruotavo gli occhi da un’altra parte, fingendo di non aver capito. 
  • Ti sbagli, non fissavo Scofield. 
Il vecchio sorrise tra sé. Mi piaceva stare in sua compagnia proprio perché lo giudicavo un tipo sveglio. Parlava poco, ma in compenso era un grande osservatore, ed era anche gentile.
  • Ho notato che tu e il condannato a morte siete diventati amici. Una scelta coraggiosa, non c’è che dire.-  continuò.
  • Perché coraggiosa?
  • Beh, quell’uomo non rimarrà in questo mondo ancora per molto.
  • Io e Lincoln non siamo amici. Lui si è dimostrato gentile con me e io ho voluto ricambiare la cortesia. So che è destinato alla sedia elettrica, non avrebbe senso attaccarsi a lui. 
Immediatamente mi accorsi di non essere stata del tutto sincera nel pronunciare quelle parole.
  • E Michael?
  • Che vuoi dire?
  • Tu e lui sembrate molto in sintonia, avete un modo molto simile di ragionare… e ho la sensazione che tu non riesca proprio a stargli lontano.
Charles aveva capito di me molto più di quanto io stessa avessi ammesso. Non andava bene.
  • Non è così.  -  mentii.
  • Michael è come una sorta di calamita, per questo da quando è entrato qui dentro molti si sono aggregati a lui.
  • Com’è successo a John Abruzzi.  -  sbuffai, volgendo nuovamente lo sguardo verso i tre uomini sulla panca di fronte alla nostra.
  • E a te.  -  esclamò il vecchio, lanciandomi uno sguardo eloquente.  -  Non mi fraintendere, io penso che Michael sia un bravo ragazzo, ma al tuo posto starei comunque attento a fidarmi di un galeotto.
  • Anche tu pensi che ci sia sotto qualcosa, vero?
  • C’è sicuramente sotto qualcosa se Michael ha previsto il coinvolgimento di Abruzzi. A quel ragazzo frullano in testa idee pericolose, fidati di un vecchio che è rinchiuso qui da 35 anni e sa di cosa parla. L’unico modo per sopravvivere qui dentro è cercare di restare il più possibile lontano dai guai.
Sospirai amareggiata.  -  Allora il mio destino è segnato, per quanto ci provi sembra che i guai non vogliano proprio restare lontani da me.
 
Continuai a chiacchierare col vecchio per un po’, lanciando di tanto in tanto occhiate alla panca di fronte. Non so cos’avrei dato per potermi avvicinare di soppiatto e origliare le loro conversazioni. Stavo pensando di inventarmi una scusa qualunque per poterli raggiungere, quando all’improvviso Louis Patterson mi venne incontro per avvisarmi che in sala visite qualcuno mi stava aspettando e fui costretta a salutare Charles e seguire la guardia.
Pazienza. Prima o poi sarei arrivata alla verità, era solo questione di tempo.

*** 
  • Grazie al cielo sei sana e salva!
Furono queste le prime parole del mio patrigno quando, appena liberata dalle manette, mi venne data la possibilità di entrare nella stanza delle visite e riabbracciare la mia famiglia. Era sempre un enorme sollievo rivederli. Quando Patterson mi aveva annunciato che fossero arrivate delle visite per me, avevo subito pensato a Keith e Meredith. Nessuno al di fuori del mio patrigno, sua figlia e del mio avvocato, sapeva che mi trovassi a Fox River. Però il pensiero che Keith potesse vedermi con le nuove ferite e i graffi riportati durante la rivolta mi preoccupava. Non mi andava che cominciasse nuovamente a dare di matto e tirasse fuori l’argomento “trasferimento immediato”.
  • Non vi avevo detto di tornarvene a casa e smetterla di preoccuparvi per le mie sorti?  - avevo esclamato nell’istante esatto in cui Keith aveva deciso di lasciarmi andare.
  • Non sei per niente spiritosa.
Veramente non avevo affatto pensato di esserlo. Ero molto sorpresa di rivederli di nuovo a Joilet.
  • Non hai la minima idea dello spavento che mi sono preso quando alla tv hanno dato la notizia della rivolta scoppiata a Fox River. Ho provato a telefonare al centralino ininterrottamente, ma non rispondeva nessuno, così ho preso l’auto e sono tornato subito nell’Illinois, ma quando sono arrivato qui ieri, mi è stato detto che i detenuti del Braccio A erano stati segregati nelle loro celle e che non potevo vederti. Allora ho chiamato Meredith in California, ho chiamato Nathan per avere un parere legale e… non sapevo più chi chiamare… per tutto il tempo ho avuto così tanta paura che credevo di impazzire.
  • Keith, mi dispiace sul serio.  -  Non avevo mai visto l’uomo in quello stato, mi fece sentire in colpa. -  Scusa, non avevo idea che la notizia fosse stata trasmessa addirittura a livello nazionale.
  • Sembra sia trapelata ai media locali che la figlia del governatore Tancredi fosse stata sequestrata da alcuni detenuti e la notizia nel giro di qualche ora è rimbalzata in tutto il territorio nazionale.  -  spiegò Meredith, chiarendo ogni dubbio.
  • Oh… non ne sapevo niente.  -  commentai pensierosa.
E così anche la dottoressa se l’era vista brutta. Chissà perché non ne avevo saputo o sentito parlare. D'altronde, con tutto quello che mi era capitato, difficilmente avrei prestato attenzione alle sorti di qualcun altro. Avevo la netta sensazione che quella fosse stata una giornataccia per tutti.
  • Mi dispiace di avervi fatto preoccupare.  -  dissi guardando soprattutto Keith.
Mi bastò un’occhiata per capire quanto fosse arrabbiato. Aveva sicuramente passato dei brutti momenti e ce l’aveva con me, non perché lo avessi fatto spaventare a morte e gli avessi fatto percorrere 830 miglia dal New Jersey all’Illinois, ma semplicemente perché nonostante l’assurdità di tutta quella situazione e di tutti i pericoli ai quali ero scampata, continuavo ad intestardirmi a voler restare a Fox River. Lui non poteva capire. A volte neanch’io riuscivo a capirmi.
  • Cos’è successo esattamente? Cos’ha scatenato la rivolta?  -  riprese la biondina al mio fianco.
Scrollai le spalle.  -  L’insofferenza dei detenuti, più che altro.
  • Ma… tu stai bene? Intendo… si insomma… 
Lasciò in sospeso la frase mentre, sia lei che suo padre, si soffermavano ad osservare le ferite sulla mia faccia. Riuscirono a mettermi a disagio.
  • Si, sto bene.
Meredith continuò a fissarmi scettica.  -  Sembri piuttosto dimagrita.
  • Naa, sono questi enormi pantaloni che mi fanno sembrare più magra.
  • Non so cosa mi dia più fastidio,  -  sbuffò proprio in quel momento Keith, inchiodandomi con uno sguardo carico di rimprovero.  -  se trovarti in questo stato pietoso ogni volta che vengo a trovarti o sentirmi prendere puntualmente in giro come uno stupido. Non ti vuole proprio entrare in testa che se continuerai a restare in questo posto, metterai a rischio la vita!
  • Keith…  -  provai senza successo.
  • Lascia stare, non proverò più a farti rinsavire, tanto non mi dai mai ascolto. Un giorno o l’altro sarò costretto a farti interdire. E date le circostanze, ho l’impressione che non manchi molto.
  • Senza dubbio i giudici ti darebbero ragione.  –  gli sorrisi.
L’uomo continuò a restarsene imbronciato al suo posto, ma ormai avevo intuito che lo sfogo avesse fatto il suo corso e la rabbia fosse sfumata. Come me, anche Keith era sollevato che anche questa volta l’avessi scampata. 
  • Beh, che cos’avete per me?  -  esclamai all’improvviso, vedendo padre e figlia ancora impalati a fissarmi.  -  Non ditemi che siete venuti solo per assicurarvi che fossi viva.
Vidi Keith alzare gli occhi al cielo e trattenere a stento una rispostaccia, Meredith invece prese la sua borsa e ne tirò fuori un fascicolo con la copertina rigida che aprì sul tavolo.
  • Ci hai chiesto di indagare su Lincoln Burrows e l’abbiamo fatto.  -  incominciò, passandomi alcuni fogli.  -  Volevi sapere se l’uomo è colpevole? A quanto pare lo è. Burrows lavorava come magazziniere nelle industrie della Ecofield, la società di proprietà di Steadman, prima di venire improvvisamente licenziato. Questo, insieme alla richiesta di un anticipo sul mensile che Steadman stesso aveva negato al galeotto, sono stati ipotizzati i principali moventi che abbiano spinto l’uomo ad assassinare il suo capo.
  • A-ah.
  • Terrence Steadman è stato colpito alla testa con un colpo di pistola subito dopo aver parcheggiato l’auto nei sotterranei della sua società. Ad incastrare Burrows, oltre al ritrovamento dell’arma del delitto sulla quale sono state riscontrate le sue impronte, è stata la testimonianza di un poliziotto che afferma di essersi recato in casa dell’uomo il giorno dopo e di averlo trovato in bagno mentre lavava nella vasca dei pantaloni sporchi di sangue. Il sangue ovviamente…
  • … era quello di Steadman, si, questo però è pressappoco quello che sapevamo già. Che altro avete scoperto?
  • E’ saltato fuori il video di sorveglianza del parcheggio.  -  continuò Keith  -  Sul nastro viene ripreso perfettamente il momento dell’omicidio, e Lincoln Burrows è stato riconosciuto come l’assassino. 
  • Perché si viene a scoprire solo adesso dell’esistenza di un video?  -  esclamai esterrefatta.
  • Perché si è preferito non mettere a verbale quest’informazione prima che Burrows fosse ufficialmente condannato. Per quanto ne sappiamo, è vero che è stata la testimonianza di quel poliziotto a far condannare Burrows, ma ciò che ha convinto tutti in aula è stato quel video dove si vede esattamente chi è stato a sparare.
  • Siete riusciti a dare un’occhiata a quel video?
  • Purtroppo no.
  • Perché no? Secondo le leggi sulla divulgazione, noi possiamo…
  • Gwen,  -  m’interruppe Keith con un sospiro.  -  non è stato possibile visionarlo perché sembra che l’originale sia andato perduto a causa di una perdita d’acqua, che ha distrutto gran parte delle documentazioni conservate in quella sezione del tribunale.
  • Distrutto?
  • Proprio così. Ho anche saputo che prima dell’incidente al tribunale, qualcuno ha richiesto una copia di quel video che dovrebbe essere in possesso del nuovo avvocato di Burrows ma, non ci crederai, sembra impossibile rintracciare quella donna. E’ letteralmente scomparsa. Due giorni fa la casa di Veronica Donovan è saltata in aria a causa di una perdita di gas. E’ stato ritrovato un cadavere, ma non era quello della donna.
Riflettei su quelle nuove informazioni per qualche secondo, prima di lasciarmi andare allo schienale della sedia con un lungo sospiro di frustrazione.
  • Sbaglio o cominciano ad accumularsi un po’ troppe coincidenze in quest’assurda storia? Le dichiarazioni che sono state rilasciate da Lincoln Burrows e dal suo precedente avvocato non concordano per niente con questi nuovi risvolti e adesso, il video che incastra Lincoln dell’omicidio di Steadman è andato distrutto, la copia di quel video è in mano al suo nuovo avvocato che però sembra scomparso del tutto e addirittura l’abitazione della Donovan viene distrutta e lei non si trova da nessuna parte? Che diavolo sta succedendo? C’è qualcosa che non va.
  • Abbiamo pensato la stessa cosa, ma non dimenticare che il video è stato presentato durante il processo come prova accusatoria, questo significa che è stato sottoposto al parere di tecnici e specialisti del campo.  -  mi ricordò Meredith frenando le mie fantasie innocentiste.  -  Lincoln Burrows è stato riconosciuto come colui che ha sparato e quindi come colpevole.
  • Già  -  sospirai delusa.  -  Perché l’avrà fatto?
Per un momento avevo sperato che Lincoln potesse davvero essere stato vittima di un madornale errore giudiziario, ma quel video era la prova che lo incastrava. Che l’uomo avesse attraversato un periodo difficile mi era piuttosto chiaro, ma perché allora Michael non aveva aiutato suo fratello? Cosa aveva spinto Lincoln ad impugnare quella pistola e buttare nel cesso la sua vita? Probabilmente in passato aveva avuto dei problemi, a comprovarlo c’erano i numerosi precedenti penali, però io avevo conosciuto un uomo che si era dato tanto da fare in prigione per aiutare una ragazzina che nemmeno conosceva, e nemmeno per una volta avevo avuto la sensazione che Lincoln potesse arrivare ad uccidere per disperazione.
Raccapezzarsi in quel mistero sarebbe stata una bella impresa.
  • Tesoro, ho l’impressione che tu stia prendendo un po’ troppo a cuore questa storia.  -  disse Keith dopo avermi scrutata a lungo.
Subito scrollai le spalle.  -  Sono stata sbattuta in prigione per non aver verificato l’attendibilità delle mie fonti quando ho accusato pubblicamente la Reynolds di aver riciclato denaro sporco nella società del fratello. Sono stata accusata di diffamazione Keith, ma quelle accuse erano infondate… io non dovrei trovarmi qui.
  • Lo so, se ti trovi in questa brutta situazione la colpa è anche mia.  -  sospirò facendosi assalire dall’ennesimo senso di colpa.
  • Non penso affatto che sia colpa tua, Keith. Me la sono cercata. Tu mi avevi detto di lasciar perdere, ma io mi ci sono voluta accanire lo stesso. Mi conosci, non è mai abbastanza quando c’è da darsi la zappa sui piedi.
Era iniziato tutto un normalissimo lunedì mattina, mentre ascoltavo la mia biondissima sorellina acquisita raccontarmi le ultime novità sulla sua tormentata love story. All’improvviso il telefono aveva cominciato a squillare ed ero stata io a rispondere per trascrivere su un block notes tutti i dettagli del nuovo caso a cui io e Keith avremmo presto lavorato. Da quando Meredith era partita alla volta di San Diego per il college, Keith era rimasto solo a mandare avanti la sua agenzia investigativa. Anch’io frequentavo il college in California, ma al contrario della mia infaticabile sorellina non amavo molto restare troppo a lungo nella stessa città, così quando non ero costretta a restarmene a Los Angeles per sostenere esami e seguire lezioni alla UCLA, mi piaceva girare per gli Stati Uniti, scrivere e pubblicare i miei articoli da freelance e soprattutto aiutare Keith a risolvere casi investigativi interessanti. 
Fu proprio a causa di uno di quei casi che rimasi invischiata in una delle situazioni più inverosimili che mi fossero mai capitate.
  • Non avremmo mai dovuto occuparci di quella faccenda, lo avevo capito fin dall’inizio che sarebbe stato pericoloso.
  • So che non dici sul serio. Tu non sei il tipo che lascia in sospeso una situazione così bollente. E poi, suvvia ammettiamolo, c’erano in ballo un bel po’ di soldi e se te lo fossi dimenticato, noi ne avevamo un gran bisogno.  -  gli ricordai.
Eh già, la retta della University of California, conosciuta anche come UCLA,  non si pagava mica da sola. Il college al quale mi ero iscritta, riservava agli studenti più promettenti delle borse di studio e il completo rimborso delle spese annue, ma al primo anno d’iscrizione bisognava comunque pagare una cifra esorbitante con la quale avrei potuto permettermi una villa a Malibu, con tanto di piscina e idromassaggio.
Io non avevo quei soldi, e nemmeno Keith. Ecco la principale ragione che ci aveva spinti ad accettare il lavoro, successivamente passato alla storia come “Caso delle intercettazioni”.
Durante le nostre indagini, io e Keith avevamo scoperto un collegamento tra il nostro caso delle intercettazioni e il vicepresidente Caroline Reynolds. In un primo momento ci eravamo occupati solo di indagare sugli affari interni e sull’ultima contabilità semestrale di un’importante società di costruzioni. Proseguendo in quella direzione, avevamo scoperto una serie di traffici illeciti gestiti, incredibile ma vero, dal governatore del Wisconsin, Carl Adelphi. Scoprimmo inoltre che la rete di intrighi si estendeva molto più in là di Chicago e di tutto lo stato dell’Illinois e del Wisconsin, ma purtroppo le autorità alla fine riuscirono ad inchiodare solo Adelphi e alcuni suoi affiliati. In seguito, il furbo governatore aveva pagato profumatamente una sfilza di avvocati che lo avevano salvato in calcio d’angolo, ma io volevo di più. Io e Keith avevamo lavorato per mesi a quel caso, ma nonostante tutti i nostri sforzi, solo i pesci piccoli erano finiti in gabbia. Per questo quando avevo scoperto il collegamento con il vicepresidente, avevo deciso di non demordere. Keith era tornato nel New Jersey pronto a mollare e a mettere una pietra sopra a tutta quella storia, ma io non c’ero riuscita. Avevo continuato ad indagare per conto mio, avevo scoperto che il coinvolgimento di Adelphi nella concessione di appalti illeciti si scontrava spesso con il nome di una società no profit di Chicago, la Ecofield. Avevo scoperto che molti conti in comune tra Adelphi e la Reynolds risultavano a nome dell’ente del fratello di quest’ultima, ma dopo la morte dell’uomo tutti i conti della sua società erano improvvisamente spariti. 
  • Io sono ancora convinta delle accuse mosse contro il vicepresidente. -  ripresi -  Il giorno stesso in cui a Lincoln Burrows è stato dato il massimo della pena, i soldi inglobati alla Ecofield sono spariti e le prove contro Caroline Reynolds e Terrence Steadman sono scomparse… una coincidenza? Sai bene quanto io creda alle coincidenze. Probabilmente Lincoln è colpevole e tra due settimane riceverà la punizione che merita, ma se c’è anche il più piccolo collegamento tra l’omicidio di Steadman e i complotti tra la Reynolds e Adelphi, stai pur certo che lo scoprirò, e quello di certo non sarà un giorno felice per nessuno… eccetto che per me, s’intende.
  • Dio, è raccapricciante sentirti parlare.  -  sospirò Keith nuovamente in ansia, mentre Meredith mi sorrideva fiduciosa alla mia destra.
  • Se vuoi davvero scoprire se Burrows ha qualcosa a che fare con il complotto Reynolds – Adelphi o se è stato messo in mezzo, a questo punto l’unico modo è chiederglielo.  -  disse Meredith.
Sospirai frustrata.  -  Ve l’ho già detto, Burrows non è nella mia stessa sezione. I suoi orari non coincidono affatto con quelli dei normali detenuti. E’ già una fortuna quando riesco a beccarlo a mensa o in cortile, ma in quest’ultimo caso lui si trova dall’altra parte dell’inferriata e le guardie ci costringono a restare a 3 metri di distanza. Capirete che non è certo la condizione ideale per poter affrontare argomenti seri. Figuriamoci, comincia a diventare complicato perfino scambiare quattro chiacchiere con suo fratello.
  • Ti riferisci a quel Michael Scofield?
  • Si esatto.
D’improvviso vidi Meredith cambiare espressione. Persino Keith si fece più sfuggente. Non ci misi molto a capire che mi stessero nascondendo qualcosa.
  • Che c’è?  -  chiesi incuriosita.
  • Credo che ci siano delle cose interessanti sul conto di Scofield che dovresti sapere.  -  La ragazza fece una pausa, mentre io mi sistemavo meglio, allungandomi verso il tavolo.  -  Visto che l’ultima volta mi sei sembrata particolarmente interessata al fratello di Burrows, ho deciso di controllare più a fondo il suo fascicolo. Mi avevi chiesto di controllare anche vecchie cartelle mediche per saperne di più sul suo diabete, ma non ho trovato niente in proposito…
  • Nessun riferimento al suo diabete?
  • Nemmeno un accenno, però ho trovato qualcos’altro. A quanto pare l’assicurazione medica del ragazzo ha coperto per un anno le spese per delle cure psichiatriche.
Senza rendermene conto, strabuzzai gli occhi e li puntai dritti in quelli del mio patrigno e di sua figlia.
  • State dicendo che Michael è stato in cura da uno strizzacervelli?!
  • Non hai ancora sentito la parte più interessante. Sembra che il signor Scofield sia affetto da un insufficiente livello di inibizione latente.
A quel punto padre e figlia restarono a fissarmi in attesa. Io feci lo stesso.
  • Ahm… dovrei sapere di che si tratta?
A volte avevo la sensazione che la gente scambiasse un po’ troppo spesso la mia capacità di memorizzare le informazioni, con quella di conoscerle a priori. Forse a qualcuno sfuggiva che io non ero un’enciclopedia vivente.
 
Finalmente Keith si decise a spiegarmi.  -  L’inibizione latente è ciò che serve al nostro cervello per discriminare i tantissimi stimoli che gli arrivano dall’esterno, evitando il rischio di esserne sommerso. Solitamente un uomo con un normale livello di inibizione latente gestisce un equilibrio perché il suo cervello è capace di selezionare quelli che possono essere stimoli utili al suo organismo, invece per gli individui dotati di un basso livello di inibizione latente, il cervello tende a ricevere un numero esagerato di stimoli.
  • E questo cosa comporta?
  • La ridotta inibizione latente è stata spesso associata alla psicosi. Il cervello umano non è predisposto per poter inglobare la miriade di stimoli provenienti dall’ambiente esterno giorno per giorno, per questo chi è affetto da questa sindrome rischia il più delle volte di compromettere il suo equilibrio mentale. Invece nei soggetti con un alto quoziente intellettivo la scarsa inibizione latente è associata a buona intelligenza, memoria, genialità artistica.
A poco a poco stavo cominciando a capire.  -  Quindi…Michael Scofield è… è come me.  -  mormorai esterrefatta.
 
Chissà perché mi stupivo tanto. Avevo avuto un bel po’ di indizi sotto al naso per rendermi conto che Michael non fosse affatto uno stupido. Lo avevo visto applicare le strategie più contorte e impensabili quando avevamo giocato a scacchi. Lo avevo ascoltato mandare in aria la mia copertura solo per essersi ricordato di un’insignificante articolo che avevo pubblicato mesi prima.
  • Beh, non esageriamo, nessuno è come te Gwen.  -  esclamò Meredith sorridendo. -  Però è certamente un tipo da non sottovalutare. Chissà che cosa ci farà un tipo come Scofield in un posto del genere.
  • Hai detto che è stato in cura per un anno da uno psichiatra. Sei riuscita a scoprirne il motivo?  -  continuai sempre più coinvolta.
  • Certo che no, per chi mi hai presa? Queste informazioni sono protette dal segreto professionale, dovrei andare a scassinare l’archivio personale dello psichiatra che lo ha avuto in cura per scoprirne il motivo.
  • Come se non lo avessi già fatto in vita tua!
Rubare il fascicolo di un paziente dall’archivio di uno psichiatra non era certo una novità per Meredith, tantomeno per me. Non era certo la prima volta che ci imbattevamo in quel tipo di effrazione.
  • Quella era tutt’altra storia, senza contare che c’era di mezzo un cliente e che il cliente pagava.
  • Piantatela tutte e due, nessuno ruberà niente.  -  s’intromise Keith serio.  -  Gwen, l’unico motivo per cui ho chiesto a Meredith di comunicarti queste nuove informazioni, è perché voglio che tu stia lontana da quel ragazzo. 
  • Cosa? Perché?
  • Perché è già abbastanza pericoloso avere a che fare con un delinquente qualsiasi, figuriamoci se poi ha anche un cervello.
  • Michael non è pericoloso.  -  affermai senza neanche riflettere.
A Keith ovviamente non piacquero né la mia risposta, né tantomeno la sicurezza nella mia voce. Avrebbe finito sicuramente con l’alzare nuovamente la voce, se la guardia in fondo alla stanza non avesse comunicato ai presenti in visita che tra meno di 5 minuti i detenuti sarebbero dovuti tornare nelle loro celle.
La comunicazione bastò a fargli ritrovare la calma, quando tutti e tre ci alzammo per salutarci.
  • C’è un’ultima cosa che devi sapere.  -  continuò, prima di avvicinarsi e abbracciarmi.  -  Forse ti farà arrabbiare, ma ho creduto fosse arrivato il momento di affrontare il problema con le armi giuste.
  • Che cos’hai combinato?
  • Ho deciso di affidare il tuo caso a qualcuno di più competente. Voglio che tu venga seguita da un altro avvocato.
  • Ma dai, Nathan se l’è cavata alla grande fino ad ora… mi era simpatico.
  • Non pago un avvocato perché ti stia simpatico, Gwyneth. Da adesso in avanti verrai seguita da un altro avvocato.
  • Chi?
Cominciai a preoccuparmi quando notai che l’uomo prendeva tempo per rispondere.
  • Tua sorella.  -  disse a disagio.
Restai a fissare il mio patrigno per quasi un minuto, convinta che mi stesse prendendo in giro. Da un momento all’altro mi aspettavo che lui o Meredith esplodessero in una risata rivelatoria, ma poi mi ricordai che Keith non si sarebbe mai permesso di scherzare sulla mia famiglia, sapendo quanto questo mi avrebbe fatto stare male. 
  • Cloe… Hai…hai assunto Cloe come mio avvocato?!  -  Ero sconvolta.
  • Non le avrei mai raccontato della tua situazione se non avesse telefonato proprio la settimana scorsa, chiedendo di parlare con te. Si trovava a Boston per lavoro e voleva venirti a trovare prima di tornare in Italia. Ho dovuto dirglielo.  -  provò a giustificarsi.
  • Potevi raccontarle una scusa!!  -  sbottai arrabbiata.
  • Era preoccupata per te, ha detto che non ricevevano tue notizie da mesi.
  • E si domandano anche il perché?!
Keith sospirò paziente.  -  Cloe è in gamba, è un ottimo avvocato e sai che si farà in quattro per tirarti fuori… Era davvero preoccupata…
  • Preoccupata…  -  ripetei, puntellando i pugni sui fianchi e gli occhi al soffitto.
  • Gwyneth, l’ho fatto per te.
Gli rivolsi lo sguardo più crudo che possedessi.  -  Vuoi fare una cosa per me, Keith? Tieni fuori la mia dannata famiglia da questa dannata storia!

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Capitolo 13
*** Innocente ***


Cloe.
Come diavolo era venuto in mente a Keith di coinvolgere proprio lei? Tra tutti, proprio lei!
L’unica condizione che avevo preteso da quando tutta quella storia era iniziata, era stato che la mia famiglia restasse allo scuro di tutto. Informare Cloe sarebbe stato come indire una conferenza stampa. Mia sorella non era mai stata brava a tenere i segreti per sé, come avvocato non riusciva neanche a rispettare il segreto professionale che la legava al silenzio al di fuori della cerchia difensore – cliente.
Lei era un vero disastro, però c’era anche da dire che se fosse stata lei il mio avvocato, perlomeno avrei potuto rivederla. Non l’avevo più vista né sentita da quando avevo lasciato l’Italia.

Quel giorno fu Louis Patterson a scortare i detenuti appena usciti dalla stanza delle visite, nuovamente al Braccio A. Mancavano pochi minuti allo scoccare delle 15. Presto il secondo turno d’aria sarebbe terminato e i detenuti sarebbero stati costretti a recarsi alle rispettive postazioni di lavoro per restarci fino alle 17.
Mentre superavamo il corridoio del primo blocco per proseguire verso l’area riservata ai detenuti comuni, ci accorgemmo all’improvviso di una gran confusione e un vociare sempre più intenso che attirò l’attenzione di tutti. Proseguimmo, ma ben presto mi resi conto che doveva essere successo qualcosa. C’erano una gran quantità di uomini ammassati alle finestre in direzione del cortile, quindi ci avvicinammo anche noi. Solo allora mi accorsi di un’alta colonna di fumo in lontananza, sentii le sirene dei pompieri che facevano il loro ingresso a Fox River e capii che a creare quell’improvvisa confusione fosse stato un incendio. 
  • Louis, che sta succedendo?  -  chiesi alla guardia, non riuscendo a stabilire in quale edificio esterno si fosse scatenato l’incendio.
  • Non lo so, forza tornate in riga. Adesso!  -  ordinò il secondino richiamando l’attenzione del suo gruppo.
Scoprii poco dopo che ad andare a fuoco fosse stato il vecchio magazzino che si trovava nelle vicinanze della sezione psichiatrica. Il magazzino, negli anni era stato utilizzato come deposito di materiali di ogni genere, finché le guardie avevano finito col trasformarlo in una stanza riservata a loro.
Secondo indiscrezioni di corridoio, il magazzino era andato a fuoco a causa di una sigaretta mal spenta. Più tardi a mensa riempii il vassoio di tutto ciò che riuscii a recuperare, commestibile e non. Avevo così tanta fame che avrei potuto mandare giù un cavallo.
Avevo appena finito di recuperare posate di plastica e tovaglioli, quando una voce bassa e melodiosa mi fece sollevare gli occhi su un viso amichevole e luminoso, con l’ombra di un sorriso sulle labbra perfette.
  • Ciao.
Senza volerlo anche il mio viso si illuminò.  -  Michael! E’ da un po’ che non ci si vede.
  • Già, vedo che sei sopravvissuta alla rivolta. Lincoln mi ha raccontato che te la sei vista brutta. Adesso come stai? 
Risposi con una smorfia. La dottoressa aveva fatto un gran bel lavoro, medicandomi in modo tale che il mio viso non assomigliasse a quello di Frankenstein. Avevo qualche livido, ma tutto sommato potevo ritenermi fortunata. 
  • Ceni con noi?  -  riprese, indicandomi il solito tavolo in fondo alla sala.
  • Certo, perché no. 
Avendo notato Lincoln e Fernando seduti a quello stesso tavolo, avevo preso la palla al balzo. 
  • Non ti ho vista oggi durante le ore d’aria, dov’eri?
  • Non mi hai vista perché eri troppo impegnato a complottare col tuo amico mafioso. Avrei voluto raggiungervi ma, sai com’è, non volevo disturbare. 
Giunti al tavolo, salutai i due uomini già seduti e impegnati a mangiare e presi posto anch’io. Michael si sedette alla mia destra, nonostante la sedia libera accanto al fratello fosse proprio ad un passo da lui. 
  • Lincoln, volevo ringraziarti per quello che hai fatto l’altro giorno e scusarmi per averti lasciato da solo a cavartela con il gruppo di T-Bag… Ti devo la vita.
L’uomo annuì senza alzare gli occhi dal piatto.  -  Non l’ho fatto per te.  -  rispose freddandomi.  -  Mi sono semplicemente trovato lì con Bob quando T-Bag e il suo gruppo sono comparsi, e visto che avevo un conto in sospeso con quel verme, gliene ho scaricate un po’ addosso.
 
Era riuscito a gelarmi. Certo, forse avevo corso un po’ troppo con la fantasia pensando che Lincoln si fosse fatto massacrare di botte per salvarmi, ma non lo avevo sentito rivolgersi a me in quel modo neanche quando mi aveva conosciuta. 
  • Beh, ti ringrazio lo stesso.  -  dissi nascondendo la delusione,  prima di rivolgermi ai due inquilini della cella 40.  -  E a voi ragazzi, com’è andata? Dopo che è scoppiato l’inferno non vi ho più visti. Dove siete andati a nascondervi? 
Sia Michael che Sucre risposero con un’alzata di spalle.
A ben pensarci, era davvero strano che non mi fossi imbattuta in nessuno dei due mentre T-Bag mi trascinava per tutto il penitenziario. E adesso che ci riflettevo, non ricordavo di aver visto nemmeno Abruzzi in giro. Le coincidenze continuavano ad accumularsi.
  • Immagino ci sia sotto l’ennesimo segreto.  -  borbottai.
  • Guarda che qui l’unica che ha dei segreti sei tu.  -  esclamò Michael con uno sguardo furbo.  -  E a tal proposito, se non ricordo male, ce n’è uno di cui dobbiamo ancora discutere.
  • E’ vero, devi ancora spiegarmi cos’avete da spartire tu e John Abruzzi.
  • No, io mi riferivo ad una certa conversazione che abbiamo fatto nella tua cella qualche giorno fa. Ti do qualche indizio: c’era di mezzo un articolo e il nome di una giornalista ficcanaso.
Avevo capito perfettamente a quale conversazione si stesse riferendo e personalmente, ero intenzionata a negare fino alla morte, se questo fosse servito a convincerlo che si fosse sbagliato.
  • Ancora con quella storia della giornalista del Chicago Tribune? Secondo me hai preso una cantonata grossa come lo stato del Texas. Ho 24 anni Michael, vado ancora al college, secondo te come diavolo farei a lavorare come giornalista in una delle testate giornalistiche più importanti d’America?
  • Se sei davvero chi penso che tu sia, allora è possibile eccome.
La sua caparbietà era impressionante, daltronde avevo da poco scoperto che Michael fosse una sorta di genio pragmatico e incredibilmente riflessivo. Ancora non potevo credere di aver incontrato un tipo come lui a Fox River.
  • Scusate, credo di essermi perso…  -  intervenì Sucre, guardando sia me che Michael con espressione palesemente interrogativa.  -  Si può sapere di chi state parlando?
  • Lascia perdere amico, quando questi due iniziano a confabulare si capiscono solo loro.  -  sbottò Lincoln, alzandosi improvvisamente per allontanarsi insieme al vassoio.
Lo guardai lasciare la mensa, ma non riuscii ad interpretare il suo strano comportamento. Era andato via senza neanche finire di mangiare. Aveva svuotato il vassoio nel cestino e si era dileguato prima di chiunque altri quella sera. Due minuti dopo anche Sucre aveva lasciato il tavolo, allontanandosi.
  • Tuo fratello ce l’ha per caso con me?  -  chiesi, ormai rimasta sola insieme a Michael.
Sembrò spiazzato dalla mia domanda inaspettata.  -  No. Non credo almeno.
  • A te non è sembrato un po’ strano? Più del solito, intendo.
  • E’ solo preoccupato per suo figlio, non farci caso.
  • L-J?  -  Michael annuì.  -  Perché preoccupato?
Ebbi la sensazione che il ragazzo stesse per rispondermi, ma poi ci ripensò e la sua espressione mutò nuovamente, si fece triste.
  • Michael, non voglio fare l’impicciona, voglio solo sapere cos’ha Lincoln.
Tirò un sospiro.  -  Ieri Pope ha comunicato a Lincoln che la sua ex moglie e il suo compagno sono stati ritrovati nella loro casa senza vita… qualcuno gli ha sparato. Di L-J non ci sono tracce.
  • Oh mio Dio! E’ terribile…  -  esclamai sconvolta.  -  … ma che significa che di L-J non ci sono tracce?
  • La polizia crede che sia stato lui a sparare e che poi sia fuggito, ma è una follia. L-J non lo avrebbe mai fatto. Non era quel tipo di ragazzo. Lui adorava sua madre, non le avrebbe mai fatto del male.
  • Però la polizia sospetta di lui.  -  gli feci notare cercando di trovare una spiegazione.  -  Se il figlio di Lincoln è innocente, perché di lui non si sa più niente?
  • Non lo so, non riesco a spiegarmelo.
Prima il padre e adesso anche il figlio rischiava un’accusa di omicidio. Che famiglia assurda, e che storia ancora più assurda.
  • Forse se Lincoln potesse parlare con suo figlio si chiarirebbe tutto. Infondo è solo un ragazzino, sarà terrorizzato.
  • E’ proprio questo il problema.  -  continuò, sospirando di nuovo.  -  Pope ha vietato a Lincoln qualunque contatto con L-J finché sarà sospettato di omicidio, e comprensibilmente è preoccupatissimo per suo figlio. Ho paura che faccia qualche sciocchezza.
Era comprensibile che fosse preoccupato. L’uomo avrebbe salutato questo mondo tra meno di 15 giorni. Chiunque al suo posto, non potendo assicurarsi che il figlio stesse bene, sarebbe andato nel pallone.
Povero Lincoln, adesso capivo molte cose, la sua assenza in cortile, la sua improvvisa ostilità. La sua vita stava letteralmente andando a rotoli, non ci voleva quest’ennesima brutta notizia.
  • A che pensi?  -  mi chiese dopo un po’ Michael, guardandomi mentre trucidavo pensierosa la lattuga nel mio piatto.
  • Pensavo ad un modo per aiutare tuo fratello a parlare con suo figlio.  -  risposi sincera.
  • Qualcosa in particolare?
  • Può darsi, ma te lo spiego dopo. Adesso avrei un favore da chiederti.
Mi ero appena resa conto che la mensa aveva iniziato a svuotarsi. Presto saremmo tornati in cella.
  • Sentiamo.
  • Oggi è scoppiato un incendio nella casetta delle guardie. Ho sentito dire che l’interno è andato completamente distrutto e che Bellick ha deciso di affidare i lavori di riparazione ai detenuti.
  • Si, è così.
  • E’ vero che è stato scelto il vostro gruppo per occuparsi dei lavori?
  • Già, i lavori di pittura al laboratorio sono stati completati e così Bellick ha affidato a noi la ricostruzione del magazzino bruciato. Cominceremo domattina. Perché vuoi saperlo?
Invece di rispondere, continuai con un’altra domanda.  -  Immagino che Abruzzi abbia scelto lo stesso gruppo che ha lavorato al laboratorio, dico bene?
  • Esatto. John coordinerà i lavori. Io, Lincoln e Sucre ci occuperemo dello smantellamento e della ricostruzione. Adesso, per favore, vuoi dirmi cos’hai in mente?
  • Voglio prendere parte ai lavori nella stanzetta delle guardie insieme al vostro gruppo.
Il ragazzo strabuzzò gli occhi, sorpreso.  -  Scusa?
  • Voglio lavorare con voi, senza dubbio sarà più divertente che restare nelle cucine a sgrassare pentole e padelle.
La verità ovviamente era un’altra. Se fossi riuscita a farmi ammettere nel gruppo di Abruzzi, finalmente avrei avuto modo di passare più tempo a contatto con Lincoln e ottenere qualche informazione sulla vicenda Steadman e sul coinvolgimento del presunto assassino. Il tempo stringeva, al mio testimone chiave mancavano poco più di due settimane per liberarsi la coscienza e fare ammenda dei suoi peccati.
  • Gwen, sai meglio di me che non sono io a prendere queste decisioni. E’ Abruzzi che si occupa delle assegnazioni.
  • Questo lo so, è qui che entri in gioco tu!  -  esclamai, sfoderando il mio sorriso più smagliante.  -  Il mafioso non accetterebbe mai di includermi nel suo gruppo, per lui rappresento lo scalino più basso nella classe detentiva, dopo gli stupratori e gli psicopatici. Però se fossi tu a parlargli, potresti convincerlo della mia utilità.
  • Ah… io non credo che…
  • Ti prego Michael, provaci, ci tengo davvero.  -  dissi, congiungendo le mani a mo’ di preghiera.  -  Parla con Abruzzi. Convincilo ad assegnarmi il pass per il laboratorio.
  • Perché t’interessa tanto questo lavoro? Non si tratta certo di una passeggiata. Ci sarà da eliminare tutto il materiale andato bruciato che poi dovremmo sostituire con quello nuovo. Ci saranno pesi da sollevare e un sacco di polvere.
Avevo la strana e irritante sensazione che Michael fosse il primo a non volermi nel gruppo, ma non riuscivo proprio a capirne il motivo.
  • Non dirmi che vuoi davvero metterla sul piano della differenza fra i sessi. Qual è il vero problema?
  • Beh… il fatto è che non credo ti troveresti molto a tuo agio con noi.  -  Fece una pausa fissando a disagio il suo vassoio ormai ricoperto solo da piatti e cartacce, mentre aspettavo che aggiungesse qualcosa di più sensato. I secondi passavano.  -  John ha deciso di prendere un altro detenuto che ci aiuti nei lavori.
  • Chi?
Nella sua voce percepii una punta di durezza.  -  Bagwell.
Fu come ricevere un pugno in pieno stomaco.  -  Bagwell farà parte dei lavori?!
 
Maledizione, non lui, non il depravato! Tra tutti i maledetti galeotti presenti in quel penitenziario perché proprio T-Bag?
  • Ne sono entusiasta quanto te, credimi.
  • Io non capisco. Non mi è sembrato affatto che Abruzzi avesse un debole per lo stupratore dell’Alabama. Non posso credere che abbia accettato di ammettere proprio lui. Se c’è una persona che Abruzzi odia più di me è certamente T-Bag.
  • Forse non ha avuto scelta.  -  commentò distratto, continuando a fissare il vassoio.
Ero certa che come al solito, Michael sapesse molto più di quanto avesse ammesso. Stavo cominciando a conoscerlo meglio. Adesso mi era più facile capire quando diventava evasivo per nascondermi le cose. Chiedergli altre spiegazioni non sarebbe servito a niente, tanto valeva tornare al punto che tanto mi premeva.
  • Parlerai ad Abruzzi prima che inizino i lavori?
  • Vuoi comunque quel lavoro pur sapendo che ci sarà T-Bag?
  • Michael, il suo obiettivo non sono certo io. Si diverte a rendermi la vita impossibile, ma non è interessato a me in quel senso. Credo che le donne gli interessino molto meno dei maschietti, anzi, sono quasi certa che abbia un debole proprio per i tipi svegli e carini come te.  -  dissi, sfoderando uno sguardo malizioso.
Replicò con una smorfia e tornò di nuovo serio.  -  E va bene, se ci tieni tanto proverò a parlare con Abruzzi. Al posto tuo però non mi farei tante illusioni.
 
Ignorando il suo ultimo commento, esultai trillando come un campanellino a festa. Quasi non me ne resi conto, ma presa dall’euforia mi alzai dal mio posto e lo abbracciai. Due secondi dopo arrossii fino alla punta dei capelli, rendendomi conto che quel gesto sarebbe anche potuto essere frainteso.
Per evitare ulteriori imbarazzi, mi staccai da lui di colpo, presi il mio vassoio dal tavolo e feci per andarmene, ma Michael mi fermò.
  • Ehi Gwen.
Mi voltai nuovamente verso di lui e il suo sguardo, incredibilmente intenso, riuscì ad imbambolarmi.
  • Si?
Sorrise.  -  Non ci sarebbe niente di male se tu fossi quella giornalista… voglio dire, io saprei mantenere il segreto.
 
Annuii senza sapere cosa rispondere. Era riuscito a cogliermi di sorpresa. Di nuovo.
 
Il giorno dopo, al mio risveglio, qualcosa era cambiato. Non solo durante la notte avevo dovuto tirarmi addosso la coperta, segno che la temperatura stesse gradatamente variando e che l’eccessiva e inaspettata calura fosse ormai passata, ma già in mattinata mentre mi dirigevo in infermeria, avevo notato un pullman pieno di nuovi acquisti fare il suo ingresso oltre il grande cancello all’ingresso. Inevitabilmente il mio primo pensiero fu di chiedermi che reazione avrebbero avuto i nuovi arrivati quando mi avrebbero vista passeggiare per i corridoi del carcere.
A colazione feci il pieno con pane bianco e succo d’arancia annacquato. Il primo turno d’aria invece riuscii finalmente a trascorrerlo in compagnia di Lincoln, anche se come sempre, separati dall’alta inferriata. Era da tempo che non vedevo uscire Lincoln in cortile e visto che avevo molto di cui discutere con lui e che proprio quel giorno avevo messo appunto un piano per aiutarlo, avevo deciso di raggiungerlo e fargli compagnia.
Mentre mi avvicinavo, notai che il suo umore fosse addirittura peggiorato rispetto alla sera prima. Sembrava così depresso e inconsolabile. Mi fece una gran pena vederlo in quello stato.
  • Ehi galeotto!  -  esordii in tono scherzoso.
  • Ehi ragazzina…  -  mi rispose per le rime, ma con tono privo d’ironia.
  • Pensi che riuscirai a parlarmi senza aggredirmi questa volta? Ieri sembrava ce l’avessi a morte con me.
  • Io non ce l’ho a morte con te.
  • Lo so.  -  risposi comprensiva. Ormai l’avevo capito che il suo malumore non riguardasse affatto me.  -  Pensi di poter uscire fuori in cortile alla prossima ora d’aria?
Scrollò le spalle senza guardarmi.  -  Non penso che uscirò.
  • Cos’è, ti piace trascorrere il tuo tempo in quella cella dimenticata da Dio?  -  L’uomo mi ignorò continuando a guardare fisso davanti a sé.  -  Non è restandotene relegato in cella che aiuterai tuo figlio.
Le mie parole riuscirono a scuoterlo, lo intuii dall’occhiata guardinga e sospettosa che mi puntò addosso.
  • E tu che ne sai di mio figlio?
  • Ho parlato con Michael. So che tuo figlio è nei guai. Pensi che sia stato lui ad uccidere sua madre e il suo compagno?
  • L-J è innocente!!  -  scattò come un animale ferito.  -  E’ stato messo in mezzo, lui non l’avrebbe mai fatto… E’ tutta colpa mia.
Riuscì a confondermi.  -  In che senso è colpa tua?

Lincoln abbassò lo sguardo calciando un sasso accanto al suo piede. Restai ad attendere la risposta così a lungo che pensai potesse non giungere mai, invece dopo una manciata di minuti l’uomo si decise a spiegarsi. 
  • Qualcuno ha cercato di incastrare mio figlio per colpire me.  -  Fece un’altra pausa.  -  Se ti dicessi che non ho ucciso nessuno, che qualcuno ha falsificato le prove perché venissi accusato dell’omicidio di Terrence Steadman… mi crederesti?
Riflettei un momento su quelle parole prima di dare la mia risposta.
  • Beh dipende. Stai cercando di dirmi che sei innocente?
Era la mia occasione, ma dovevo essere cauta, andarci con i piedi di piombo.
  • E’ difficile da credere, ma è così.
  • Non hai ucciso Terrence Steadman?
  • No.
Il suo sguardo sembrava sincero, ma nel rispondermi mi era parso teso, a disagio. Stava mentendo.
  • Perché qualcuno avrebbe dovuto falsificare le prove e farti condannare per un omicidio che non hai commesso?
  • Io… io non lo so, maledizione! So solo che non ho ucciso quell’uomo. Mi hanno condannato a morte per qualcosa che non ho fatto, per qualche motivo qualcuno vuole farmi sparire dalla circolazione il più in fretta possibile. Io ho cercato di dimostrare la mia innocenza, ho chiesto ai miei avvocati di indagare per cercare delle prove che mi scagionassero e 2 giorni fa è venuta a farmi visita una giornalista. Aveva detto di voler pubblicare la mia storia, invece mi ha minacciato, ha detto che se avessi continuato ad accanirmi se la sarebbero presa con la mia famiglia. Ieri Pope mi ha comunicato la notizia che la mia ex moglie e il suo compagno sono stati trovati morti in casa e che di mio figlio non ci sono tracce.
Quella era la prima confessione che avevo ricevuto da Lincoln Burrows. Non che mi fossi aspettata nient’altro di diverso, ogni buon colpevole in un modo o nell’altro finiva per dichiararsi innocente, ma Lincoln non mi era sembrato il tipo d’uomo capace di coinvolgere e mentire su suo figlio per salvarsi la reputazione.
Che cosa c’era di vero in quella storia? Era solo una storiella costruita per impietosirmi o davvero un uomo innocente era stato vittima di uno dei più grossi errori giudiziari nella storia americana? Difficile a dirsi. Esistevano delle prove evidenti che dimostravano la colpevolezza dell’uomo e, ciliegina sulla torta, Keith aveva parlato di un video che mostrava Lincoln sparare al fratello del vicepresidente degli Stati Uniti d’America. Nel complesso però la cosa più importante, al di là del fatto che Burrows fosse colpevole o innocente, era che fossi riuscita a farlo parlare, che lo avessi convinto a fidarsi di me.
 
Fissandosi le mani serrate, l’uomo proseguì dolorosamente.  -  So che non mi credi, non m’importa. All’inizio tutti pensavano che fossi stato io, la maggior parte della gente ancora lo pensa…ma mio figlio è la fuori, solo, sarà terrorizzato e io… io non posso fare niente per aiutarlo.
 
Sollevò lo sguardo verso di me e rimasi sconcertata dal dolore che gli lessi negli occhi.
  • Lincoln,  -  dissi avvicinandomi alla ringhiera, quasi potessi prenderlo tra le braccia per fargli coraggio.  -  parla con L-J. Chiamalo al telefono. Non so esattamente in che guai si trovi, se sia davvero scappato e perché, ma parlare con suo padre sicuramente lo aiuterà. Insieme potreste trovare una soluzione.
  • Pope non mi concederà il permesso di telefonare, dice che finché mio figlio continuerà ad essere sospettato di omicidio chiunque provi a mettersi in contatto con lui potrebbe essere accusato di complicità.
  • E allora? Hai una condanna a morte che pesa sulle tue spalle e stai a preoccuparti per un’accusa di complicità?
Il respiro gli si strozzò in gola quando cercò di soffocare un’imprecazione.  -  Non me ne frega un cazzo dell’accusa di complicità!! Non posso telefonare a mio figlio perché le guardie non mi permettono di farlo.
  • Staremo a vedere!  -  esclamai decisa, prima di voltarmi per andarmene.
  • E adesso dove stai andando?
  • Vado a flertare con le guardie, mi pare ovvio.
*** 
 
La mia unica possibilità di far ottenere a Lincoln una telefonata era di convincere una delle guardie a chiudere un occhio, cosa di per sé non facile, primo perché l’ordine di non concedere telefonate al condannato era arrivato dai piani alti e nessuna guardia si sarebbe mai sognata di mettere a repentaglio il suo posto di lavoro per un detenuto e secondo, perché ero a corto di denaro per poter tentare un’opera di corruzione. Certo, sarei anche potuta andare sul sicuro chiedendo direttamente al direttore la telefonata per Lincoln ma l’impresa avrebbe richiesto tempo, oltre che una buona dose di spirito di convincimento. Non avevo tempo da perdere e non volevo neanche sprecare le mie poche possibilità con Pope, quindi dovevo ripiegare su una delle guardie. Avrei semplicemente dovuto puntare sull’uomo giusto, e mentre mi allontanavo dalla zona protetta dove avevo appena lasciato Lincoln, già sapevo in quale direzione dirigermi e su chi puntare. 
  • Ciao Green.  -  esordii picchiettando un colpetto sulla spalla dell’uomo in divisa, fermo accanto al vialetto recintato dove i detenuti uscivano per raggiungere il cortile.
Due occhietti piccoli e piuttosto vicini, in parte nascosti dalla visiera del berretto blu, si posarono su di me insieme ad un’espressione sorpresa ed un sorriso impacciato.
  • Ciao Gwyneth!
  • Vedo che sei sopravvissuto bene alla rivolta. Ho saputo che quando è scoppiato il caos, tu ti trovavi in infermeria insieme alla dottoressa e che siete entrambi stati aggrediti da un gruppo di detenuti. Chissà che brutta esperienza.
  • Niente di speciale, in realtà avevo la situazione sotto controllo.
Chissà perché a me invece era arrivata tutt’altra versione.
  • Ne sono convinta.  -  dissi evitando di sorridere.  -  Senti Green, c’è una cosa di cui vorrei parlarti, ma in realtà non so se sia una buona idea… insomma, sono un po’ in difficoltà, capisci?
L’uomo finse di distrarsi un attimo per lanciare una rapida occhiata alla scarna scollatura, prima di sollevare nuovamente gli occhi e rispondere:  -  Dimmi pure, ci sono problemi?
  • In realtà si tratta più di un favore.
  • Certo, quello che vuoi.
Ecco cosa mi piaceva di Green Rizzo, era il classico uomo che qualunque donna con un minimo fascino e una misura di seno più grande della prima sarebbe riuscita a raggirare anche ad occhi chiusi. Fin dal primo giorno, non era stato difficile interpretare le lunghe occhiate da ebete lanciatemi dalla guardia. Green Rizzo aveva una cotta per me e la cosa davvero divertente era che non si sforzava neanche di nasconderlo. Ecco perché avevo puntato su di lui, ottenere ciò che volevo sarebbe stato uno scherzo.
  • Il fatto è questo: il direttore Pope ha proibito a Lincoln Burrows di fare e ricevere telefonate per via di ciò che è successo a suo figlio, però a me sembra proprio una cosa inumana proibire ad un uomo di parlare con suo figlio, ti pare? Green, tu hai figli?
  • Veramente… no.
  • Neanch’io, ma probabilmente un giorno li avrò e penso che la preoccupazione di sapere che mio figlio è in pericolo mi divorerebbe.
  • Si capisco, il direttore però è stato chiaro in proposito.
Sporsi il labbro inferiore per assumere un’aria scontenta.  -  Questo lo so, però se tu concedessi a Burrows qualche minuto…
  • No, non se ne parla nemmeno!  -  esclamò l’uomo, agitando una mano davanti a sé come a respingere l’ipotesi risolutamente.  -  Dovrei trasgredire agli ordini, se facessi una cosa del genere potrei perdere il lavoro.
  • Si scusami, hai ragione. Non avrei dovuto chiedertelo. Non voglio certo metterti in difficoltà.  -  risposi conciliante.
  • Sai che se avessi potuto aiutarti…
  • Certo, certo lo so Green sul serio, non importa. Lo chiederò a Patterson, lui magari potrà trovare una soluzione.
  • Cosa, Patterson? Si vede che non lo conosci bene, lui non contravverrebbe mai ad un ordine dato da Pope, è un boyscout. Non contarci.
  • Beh, ci proverò lo stesso. Devo farlo, capisci? Io credo che concedere questa possibilità a quel pover uomo prima di salire sulla sedia elettrica sia d’obbligo. Vorresti che lasciasse questo mondo senza aver detto addio a suo figlio? E’ una cosa così triste!
L’uomo deglutì lucido di sudore sulle guance e sulla fronte.  -  Si, penso… credo che lo sia…
  • E’ quello che credo anch’io, per questo voglio fare un tentativo. Sono venuta da te prima perché so che sei bravo a cavartela in ogni situazione. Quando mi hanno raccontato quanto sei stato in gamba a tenere a bada quei detenuti durante la rivolta, non sono rimasta affatto sorpresa.
  • Ah no?  -  Sembrava incredibile anche a lui.
  • Certo! Non so se un altro al tuo posto avrebbe fatto lo stesso.
Per sedurre qualcuno, il trucco consisteva nel scoprire prima i suoi punti deboli. I punti deboli di Rizzo erano le donne e la convinzione di essere importante, oltre il fatto di apprezzare, come tutti, i complimenti.
  • Gwyneth, sul serio, vorrei poterti accontentare e far fare quella telefonata a Burrows, ma se Pope lo scoprisse io passerei dei guai seri.
  • Beh, io non glielo dirò di certo. Accanto all’uscita est che dà sul cortile c’è una cabina telefonica. Alla fine dell’ora d’aria, Lincoln passerà da lì per tornare nella sua cella. Se fossi tu a scortarlo, potresti concedergli qualche minuto per telefonare. Non vi vedrebbe nessuno. Ti prego Green, fallo per me.
  • Ma…
  • Puoi sempre raccontare di essere stato tramortito mentre accompagnavi Burrows nella sua cella, così non correresti rischi se qualcuno vi scoprisse…  -  Ormai avevo vinto quasi del tutto le resistenze della guardia, mancava un nonnulla per farla capitolare.  -  … e poi magari potresti darmi il tuo numero così quando sarò fuori di qui, cioè molto presto, potrei invitarti a cena e… ricambiare il favore.
Gli sorrisi maliziosa. L’uomo si sciolse come un cioccolatino al sole.
  • Accetteresti di uscire con me?
  • Assolutamente. Io ho un debole per gli uomini audaci.

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Capitolo 14
*** Pass per il laboratorio ***


Anche quel pomeriggio finii per saltare il turno di lavoro nelle cucine perché la dottoressa volle farmi delle analisi più approfondite, non riuscendo a spiegarsi perché stessi continuando a perdere peso, nonostante affermassi di mangiare in abbondanza.
Più tardi in cortile, cercai Lincoln oltre l’inferriata, ma non lo trovai. Ero curiosa di sapere se Rizzo si fosse deciso a concedergli la telefonata, se Lincoln fosse riuscito a parlare con suo figlio e più di ogni altra cosa, di riprendere il discorso lasciato in sospeso riguardo la sua presunta innocenza.
La storia che mi aveva raccontato mi lasciava piuttosto perplessa. Credergli sarebbe stata una pazzia, chiunque avrebbe potuto inventarsi una storiella simile e proclamarsi innocente, però se fosse stata vera…
Dovevo assolutamente saperne di più.

Non avendo trovato Lincoln, cominciai a darmi un’occhiata in giro alla ricerca di Michael. In un batter d’occhio individuai Charles Westmoreland, solitario come sempre e seduto in una panca riparata dal vento con un giornaletto in mano, probabilmente di enigmistica. Riconobbi Fernando Sucre accanto alle cabine telefoniche, Abruzzi e il suo gruppo di leccapiedi, tutti attorno ad un tavolo e tutti apparentemente infervorati da un poker all’ultimo sangue. Notai persino il pervertito, proprio al centro del cortile, che supportato dal suo seguito di carogne, si stava divertendo a dare fastidio ad un ragazzo che non ricordavo di aver mai visto. Probabilmente doveva trattarsi di uno dei nuovi arrivi.
Erano tutti presenti all’appello quel pomeriggio, ma di Michael neanche l’ombra. Poi però mi ricordai che il giovedì solitamente il ragazzo si recava in infermeria per l’abituale controllo settimanale legato alla sua presunta malattia, quindi smisi di cercarlo. Lo avrei incontrato sicuramente più tardi. Avevo assoluto bisogno di chiedergli come avesse preso John Abruzzi la proposta che venissi integrata nel loro gruppo di lavoro. Speravo davvero in una notizia positiva.
Per un po’ restai ferma, impalata in un angolo a deprimermi, guardando il cielo ricoperto da nuvole dense e opache e chiedermi quando avrebbe iniziato a piovere, finché poco lontano da me sentii lo sghignazzare familiare del depravato che, dopo essersi divertito a punzecchiare il nuovo arrivato, lo aveva spinto a terra, allontanandosi successivamente.
Mi sentii quasi in dovere di raggiungere il ragazzo per aiutarlo. Mi faceva pena e in un certo senso mi ricordava i miei primi giorni a Fox River, quando ero io il passatempo preferito di T-Bag, io quella da torturare.
Gli arrivai alle spalle proprio nel momento in cui stava cercando di rialzarsi da terra, quindi lo aiutai a tirarsi su. 
  • Grazie amico, cominciavo a pensare che fosse in atto una sorta di congiura perché tutti mi snobbassero.  -  disse, ancora impegnato a ripulirsi i pantaloni.
  • Figurati. Non ti hanno fatto del male, vero?  -  gli chiesi.
Lo vidi sollevare gli occhi su di me e strabuzzarli in modo impressionante, quasi avesse scorto la Santa Trinità. Come tutti, anche il nuovo arrivato non si era aspettato di poter trovare una ragazza a Fox River.
Reazione scontata e prevedibile. Anche lui presto ci avrebbe fatto l’abitudine, ma nel frattempo aveva ancora l’espressione da ebete e la bocca spalancata quando provò a formulare la prima domanda.
  • Oh Gesù… ma tu… ma tu che ci fai qui? Tu… tu sei una ragazza?
Alzai gli occhi al cielo, sospirando. Come potevano esserci ancora dei dubbi? Certo che ero una ragazza! Non sapevo se farmi una risata a quel punto o sbattere la testa in un muro. Avrei attirato meno l’attenzione se al posto di un essere umano di sesso femminile fossi stata un grizzley inferocito? Sospettavo che la risposta fosse si. 
  • Beh, di sicuro non sono un secondino.  -  risposi con il tono di chi parla con un ritardato mentale.
  • Certo… lo vedo, questa però non è una sezione mista. Non lo è, vero?
  • No, non lo è.
  • Allora che ci fa una ragazza qui?
  • Ma che razza di domanda è questa? Ci faccio quello che ci fai anche tu, sconto la mia pena. O credi che io sia qui in vacanza?
  • No… no, io…  -  Il ragazzo, palesemente in difficoltà, restò a fissarmi confuso, squadrandomi dalla testa ai piedi due volte.  -  … io non ci capisco più niente.
Mi ero divertita abbastanza a farmi beffe di lui, adesso potevo anche smetterla, però non potei fare a meno di ridere della sua espressione. 
  • Mettiti il cuore in pace, continuerai a non capirci niente.  -  esclamai porgendogli la mano.  -  Mi chiamo Gwyneth Sawyer e, sta tranquillo, sono l’unica donna – detenuto in tutta Fox River. Piacere.
  • Io sono David, David Apolskis, in arte Tweener.  -  rispose imbarazzato, stringendomi la mano. 
Il ragazzino doveva avere si e no la mia stessa età. Poco più alto di me, David aveva un viso espressivo e olivastro, con la scriminatura sulla nuca e due grossi occhi scuri e mansueti che mi fissavano in cerca di qualcosa, come se questo potesse bastare a spiegare la mia presenza lì. 
  • In arte Tweener?  -  ripetei ridendo.
Anche lui questa volta sorrise.  -  Già… senti un po’, ma come mai sei qui? Voglio dire, questa cosa è legale? Tu dovresti stare in una sezione femminile.
  • Ma non mi dire! Sono qui per un permesso speciale da parte del direttore Pope.
  • E come mai?
  • Il come mai non è affar tuo. Ti ho per caso chiesto perché sei finito a Joilet invece che a Chicago? Non mi pare.  – David restò in attesa, forse cercando di capire se stessi scherzando. Si rilassò soltanto quando notò che ridevo sotto i baffi.  -  Adesso devo proprio andare David Apolskis, in arte Tweener. Credo che ci vedremo in giro. Nel frattempo cerca di stare attento.
  • Aspetta, dove vai?
  • A chiedere udienza al re della foresta!  -  esclamai. In tutta risposta, David mi rivolse uno sguardo perplesso, quindi aggiunsi:  -  Te l’avevo detto che avresti continuato a non capirci niente.
David era a Fox River da troppo poco tempo per sapere che il re della foresta lì dentro era John Abruzzi.
Era proprio da lui e dal suo gruppo che mi stavo dirigendo. No, non mi aveva dato improvvisamente di volta il cervello, ero semplicemente impaziente di sapere se Michael avesse proposto all’ex capomafia la mia partecipazione all’interno del gruppo e cosa quest’ultimo avesse risposto. Non ero per niente un tipo paziente, non ero brava ad aspettare. Probabilmente se fossi stata una persona prudente o perlomeno, se fossi stata una persona che riflette prima di agire, avrei aspettato di parlare con Michael, ma lui non c’era. A quel punto, potevo aspettare che arrivasse l’ora di cena per potermi togliere il dubbio oppure potevo affrontare Abruzzi faccia a faccia e risolvere la faccenda di persona.
Lui e il suo clan stavano ancora giocando a carte al solito tavolo quando mi avvicinai. I primi a notare il mio arrivo furono un tipo completamente calvo con il pizzetto e un altro piccoletto dal viso scaltro coperto da grossi peli rossicci, che gli sedeva a fianco.
John era originario della Sardegna, il classico capomafia italiano insomma. Per poter arrivare a lui avrei dovuto ottenere udienza.
  • Salve bodyguards!  -  esclamai ai due uomini quando mi vidi sbarrare il passo. 
Riecco il déjà-vu della volta precedente. Speravo solo di non finire nuovamente col sedere per terra. 
  • Tornatene da dove sei venuta, Biancaneve!  -  rispose il piccoletto dal viso scaltro.
  • Volentieri, ma prima vorrei discutere a quattr’occhi col boss.
L’accostamento boss al sottinteso mafioso in questo caso era stato del tutto involontario. Speravo non fraintendessero. 
  • Lo sai, sei fastidiosa come una zanzara. Perché non ti levi di torno ragazzina, prima di pentirti amaramente di aver interrotto John Abruzzi?  -  continuò il tizio a fianco.
  • Certo che voi americani avete quest’assurda propensione a vedere minacce ovunque. Suvvia ragazzi, sono solo una ragazza, che pericolo volete che rappresenti?  -  John ancora non sembrava volersi interessare alla mia improvvisa entrata in scena.  -  Per fortuna gli italiani hanno una mentalità più aperta. Sono abituati ad affrontare le situazioni di petto, e non certo a coprirsi le spalle mandando avanti i loro mastini, dico bene Mr. Abruzzi?
La provocazione sembrò funzionare. John finalmente si voltò a guardarmi interessato.
  • E tu cosa ne sai di mentalità italiane?  -  mi chiese.
Ammiccai soddisfatta.  -  Ne so quanto basta. Sono nata in Sicilia e ho praticamente vissuto tutta la mia vita lì, perciò puoi credermi se dico che so di che parlo.
  • Sicilia, eh? Splendida isola… non come la Sardegna, s’intende. Ho un grosso rispetto per la mentalità siciliana, la gente lì sa come ottenere ciò che vuole.  
Con un gesto m’invitò a prendere posto di fronte a lui. Nello stesso momento, il gruppetto di brutti ceffi che gli stava davanti, si dileguò passandogli alle spalle.
  • Come faccio a sapere che dici la verità e che non mi stai prendendo in giro?  -  riprese  -  Tutto ciò che ti riguarda continua a rimanere un mistero persino per le guardie.
  • Immagino che per un uomo con le tue conoscenze, non sia certo un problema scoprirlo, dico bene John? E comunque le mie origini non sono un mistero per nessuno, sono riportate persino sul mio fascicolo.  -  risposi, sperando di apparire ai suoi occhi anche solo la metà di come appariva sicuro e a suo agio ai miei.
  • A-ah. Che ne diresti di arrivare subito al sodo? I giri di parole non mi sono mai piaciuti.
  • Sono d’accordo. 
Il gruppo di scagnozzi alle sue spalle continuava a fissarmi, chi divertito, chi semplicemente curioso di vedere per quanto tempo sarei riuscita a reggere lo sguardo del mio interlocutore. Dovevo solo ignorarli.
  • In verità sono qui per farti una… proposta. 
Stavo per dire “richiesta”, ma sarebbe suonato troppo supplichevole.
  • Bene, io adoro le proposte.  -  disse sorridendo sardonico, mentre si lisciava i lunghi capelli lisci lungo il collo. Era un gesto meccanico il suo, glielo avevo visto fare altre volte.  -  Sentiamo.
  • Voglio prendere parte ai lavori di laboratorio.  -  affermai decisa.
John strinse gli occhietti attenti su di me e per una manciata di secondi ebbi la sensazione che si aspettasse che aggiungessi dell’altro, finché all’improvviso scoppiò in una risata fragorosa che coinvolse anche il branco dietro di lui.

Ci impiegò un po’ per tornare serio.  -  Non credo di aver capito… tu hai trovato il fegato per interrompere la mia ora di relax, solo per chiedermi un favore?  -  Altra risatina.  -  Non ti offendere, ma quando una bella ragazza viene a disturbarmi e io la invito a sedersi al mio tavolo, mi aspetto tutt’altro genere di proposte.  -  concluse, lanciandomi uno sguardo malizioso e piuttosto esplicito che provocò l’ennesima risata generale.
 
Decisi di trattenere una rispostaccia e mi limitai a sorridere anch’io. 
  • Peccato John, ti ritenevo tutt’altro genere di uomo, meno scontato a dire il vero. Solo gli ottusi relegano la donna alla sola utilità sessuale, e tu sembri possedere qualche neurone in più rispetto alla marmaglia di cui ti circondi.
Qualcuno tra le fila del boss sembrò cogliere l’offesa, ma ancora una volta Abruzzi si fece una risata, zittendo tutti con un solo cenno.
  • Ti sto offrendo un operaio in più nel tuo gruppo.  -  ripresi, intenzionata a farmi ascoltare e suonare convincente.  -  Potrei esservi utile e potrei farvi accelerare i tempi e terminare prima del previsto.
  • E cosa ti fa pensare che io voglia terminare prima?
  • Perché così otterresti un incentivo in più rispetto a quello che ti è stato promesso, ti verrebbe affidato un lavoro nuovo e ti libereresti di T-Bag… perché tu vuoi liberarti di T-Bag, giusto?
  • Può darsi, ma tu come fai a sapere che il “Sergente Sodomia” è dei nostri?
  • Scofield...  -  risposi, chiarendo ogni dubbio.
  • Scofield… certo. Quel ragazzo ha la lingua un po’ troppo lunga.
  • Michael è d’accordo sul fatto che partecipi anch’io alla ricostruzione della stanzetta delle guardie. Ieri ha detto che te ne avrebbe parlato…
  • Sono io che decido a chi assegnare i lavori!  -  replicò in tono aspro.
  • Lo so, per questo sono qui.
Non so esattamente cosa mi fossi aspettata. Sapevo che convincere il mafioso a concedermi il lavoro non sarebbe stato facile, e che probabilmente Abruzzi non mi avrebbe mai e poi mai accolta con una stretta di mano e una pacca sulla spalla, ma credevo che alla fine sarei riuscita a convincerlo. Forse perché speravo che Michael gli avesse parlato – contavo molto sull’influenza che il ragazzo sembrava esercitare sul mafioso – o forse perché speravo che Abruzzi odiasse T-Bag tanto quanto lo odiavo io, e che sostituirlo con me all’interno del gruppo di lavoro sarebbe stata una decisione accettabile. Invece restai notevolmente sorpresa quando l’uomo seduto di fronte a me mise di lato l’espressione divertita, per rivolgermi lo sguardo più ostile che gli avessi mai visto rivolgere a qualcuno.
  • Ascoltami bene ragazzina, perché adesso ti dirò esattamente cosa penso della tua proposta strampalata.  -  disse, sporgendosi lungo il tavolo.  -  Non ti farei entrare in quella stanza neanche se fosse il presidente degli Stati Uniti in persona a chiedermelo. Qui le regole le faccio io perciò rassegnati, tu con me e con il mio gruppo non avrai mai niente a che fare, hai capito? E adesso alza il culo da quella sedia e va a rifilare i tuoi discorsi saccenti a qualcun altro.
  • Non ho ancora finito…
  • Non spetta a te decidere quando finire e quando iniziare. Vattene prima che ti faccia ricordare cosa vuol dire far incazzare un connazionale.
Avevo fatto un buco nell’acqua. Di nuovo. A quel punto persino un cieco avrebbe capito che nemmeno un miracolo avrebbe fatto cambiare idea ad Abruzzi. Avrei dovuto mettermi il cuore in pace, ma ostinatamente non ci volevo rinunciare.
Quando il mafioso si accorse che, nonostante le minacce, ero ancora seduta al loro tavolo e non mostravo intenzioni di alzarmi, fece un cenno ad un suo uomo senza neanche aprire bocca. Immediatamente un barbuto di un metro e novanta mi afferrò per le ascelle, sollevandomi come un fuscello. A poco servirono le mie imprecazioni.
  • Cliff, puoi metterla giù.
Ubbidendo all’ordine, il barbuto mi mollò.
Non c’era più niente che potessi fare. Per come si erano messe le cose, era già un grosso risultato poter battere in ritirata con le mie gambe. Soffocando il mio orgoglio ferito, mi voltai pronta ad andarmene, ma prima che potessi farlo la voce tagliente del mafioso tornò a rivolgersi a me.
  • Posso assicurarti comunque che non sono l’unico a non volere che tu entri in quella stanza.
Riflettei su quelle parole per qualche secondo, prima che il significato di quell’affermazione giungesse a destinazione con la violenza di uno schiaffo.
  • Michael non ti ha detto niente… Neanche lui vuole che io partecipi ai lavori, capisco.
A dire il vero, adesso era tutto molto più chiaro. Michael mi aveva nuovamente presa in giro. Se mi avesse detto chiaramente di non volermi nel suo gruppo di lavoro, di sicuro mi sarei arrabbiata di meno. Perché non aveva parlato ad Abruzzi? Perché non mi voleva in quella stanza? Se prima mi ero ostinata a voler entrare nella stanzetta andata a fuoco per poter passare qualche ora in più insieme a Lincoln e sondare i suoi segreti, adesso volevo assolutamente entrarci per scoprire cosa Michael e compagnia bella stessero architettando. La chiave di quel mistero era senza ombra di dubbio in quel magazzino, e se pensavano di mettermi di lato solo perché ero una donna, allora avevano fatto male i loro conti!

Più tardi, rientrando verso l’edificio al termine dell’ora d’aria, dovetti avvicinarmi alla zona protetta e lì, oltre l’inferriata, notai Lincoln intento a conversare col fratello. Quei due non c’erano mai quando li cercavo, ma se per una volta avevo la luna storta e non mi andava di incontrarli, eccoli che spuntavano tutti e due come funghi, e ovviamente sperare che non mi notassero perché troppo presi dalla loro conversazione, era chiedere troppo.
  • Ehi Sawyer.  -  mi chiamò Lincoln facendomi segnale di avvicinarmi.  -  Dove ti eri cacciata?
Inutile ignorarli o fare finta di non vederli.
  • Ero alla ricerca di qualcuno a cui rovinare la giornata.  -  risposi.
  • E lo hai trovato?  -  chiese Michael, appoggiando il mio finto sarcasmo.
  • Non ancora, ma la giornata non è finita… sei poi riuscito a parlare con tuo figlio?
Lincoln sorrise grato.  -  Si. Non so come tu ci sia riuscita, ma ti ringrazio.
  • Non devi. L-J sta bene?
  • Per il momento si.
  • E’ questa la cosa importante. 
Quella sarebbe stata un’occasione perfetta per approfondire l’argomento e rispondere a qualche altra domanda, ma in quel momento l’unica cosa che m’importava davvero sapere era perché Michael mi avesse mentito. Per questo mi rivolsi a lui:
  • Hai chiesto ad Abruzzi se posso entrare anch’io a far parte del vostro gruppo di lavoro?
Il ragazzo non mostrò alcuna esitazione nel rispondermi.  -  Si, ma te l’avevo detto che non c’era da aspettarsi molto. John non vuole saperne di prendere altri operai.
  • Ma che strano, John a me ha dato tutt’altra versione.  -  dissi con tono privo di emozioni, guardando Michael dritto negli occhi.
  • Sei andata da Abruzzi?  -  Lincoln strabuzzò gli occhi, non so se più preoccupato o contrariato dalla cosa.
  • Eh già. Secondo il caro John, lui non è propriamente il solo che si oppone al mio ingresso nella stanzetta delle guardie.  -  Ancora una volta puntai gli occhi su Michael in una silenziosa accusa.  -  Non che generalmente darei credito alle parole di quel poco di buono, ma questa volta, non so perché gli credo.
  • Quello non è lavoro per una ragazza.
Avrei voluto urlare.  -  Grazie tante Lincoln, mi è stato ribadito più che a sufficienza per oggi.  -  sbottai.
  • Gwen, ti prego, cerca di capire.  -  intervenì Michael sfoderando quel suo sguardo dannatamente sincero.  -  Non è contro di te, credimi, è molto meglio così.
“Molto meglio per lui, probabilmente”.
 
Sperai di poter imitare l’espressione truce che avevo letto sul volto di Abruzzi quando mi aveva liquidata un momento prima, quando mi rivolsi nuovamente al ragazzo.
  • Oh lo so che non è contro di me, non preoccuparti, ma si da il caso che io voglia ugualmente quel lavoro e fosse anche l’ultima cosa che faccio, entrerò in quella stanza. Puoi giurarci se ci entrerò!
E prima che uno dei due potesse controbattere, mi allontanai senza neanche salutarli.
 
Ormai avevo deciso, che fosse stata o meno una cosa contro di me non m’importava. Sarei entrata in quella stanza con o senza il permesso del mafioso. John Abruzzi poteva anche avere il benestare delle guardie, ma non era certo il capo di Fox River, e a tal proposito io sapevo esattamente a chi rivolgermi per poter scavalcare l’altezzoso galeotto e tutta la sua schiera di tiraborse.

La giornata era cominciata male quando “occhi da lucertola” Brad Bellick era venuto a prelevarmi dalla mia cella per scortarmi alle cucine. Quando avevo domandato perché dovessi saltare il mio solito turno di lavoro a mensa, il secondino, andando poco per il sottile, aveva risposto sgarbatamente che lui non era un centro informazioni e che quindi non era tenuto a darmi alcuna spiegazione. A peggiorare il tutto, una volta arrivata, mi ero ritrovata nuovamente in coppia con Stephen che quel giorno aveva deciso di dare il peggio di sé per vendicarsi di aver scansato gli ultimi due turni di lavoro. 
  • Allora Sawyer, oggi quanto del tuo prezioso tempo ci riserverai?
Stephen Richter, 29 anni e una condanna a tre anni per ricettazione, aveva avuto la sfortuna di essere scelto dalle guardie come supervisore dei lavori all’interno del gruppo che oltre me e lui, contava un nanerottolo grasso e barbuto dalla parlantina pungente. Dal giorno in cui le guardie mi avevano spedita nelle cucine a lavorare, Stephen aveva chiaramente palesato la sua totale insofferenza nei miei confronti e non riuscivo proprio a spiegarmene il motivo. Avevo cercato fin da subito di seguire i suoi consigli sul lavoro, non mi lamentavo mai e sopportavo in silenzio le chiacchiere logorroiche del nostro compagno di gruppo, ma Stephen sembrava proprio non digerire la mia presenza.
  • Voglio dire, forse tu pensi di essere in vacanza e di poterti assentare quando ti pare mentre noi qui sgobbiamo al posto tuo.
  • Non penso affatto di essere in vacanza e di certo non mi assento per il mio personale piacere. -  borbottai infastidita, cominciando ad occuparmi dei contenitori sporchi ammassati nel lavandino.
Non ero né dell’umore adatto, né tantomeno bendisposta nei suoi confronti per poter cominciare l’ennesima polemica con lui.
  • Oh certo. Forse avresti fatto meglio a farti dispensare da ogni incarico dal direttore, oltre a farti assegnare una cella singola e un lavoro insieme ai volontari alla mensa… daltronde per avere simili privilegi bisogna essere una stupida sgualdrinella da due soldi.
  • Si può sapere che problemi hai?  -  scattai davvero stanca di continuare a sentirlo polemizzare.  -  Mi dispiace davvero se il fatto di avere qualche privilegio in più perché sono una donna sminuisca il tuo orgoglio maschile, ma è così che stanno le cose, fattene una ragione! Ti disturba avermi nel tuo stesso gruppo di lavoro? Beh, comincia a chiederti quanto lo stesso valga per me e forse ti disturberà un po’ meno.
In genere non mi curavo delle ripetitive litanie di Stephen ed era molto più facile fingere che non ci fosse, ma quella mattina non ero riuscita a trattenermi. Non avevo ancora digerito lo squallido voltafaccia di Michael.
  • Forse ti sfugge un piccolo particolare, principessa.  -  riattaccò odioso.  -  Bellick ci fa il culo se non usciamo tutte le mattine facendo splendere questa topaia. Non che il tuo aiuto sia così risolutivo, persino mia nonna saprebbe lavare queste padelle meglio di te.
Mi odiava proprio. Ogni volta che mi rivolgeva la parola era per rimproverarmi o per ribadire che stavo battendo la fiacca.
  • Non vedo come la mia assenza possa fare questa gran differenza. Siete in cinque, contando anche l’altro gruppo.
  • No, siamo in quattro. Non sai nemmeno questo perché come dicevo non sei mai al lavoro.
  • Ma piantala!  -  sbottai acida.  -  Sentiamo, chi ha dato forfait?
Stephen scrollò le spalle.  -  Credo il pompato col pizzetto. Ha fatto un bel salto di qualità: polvere, pesi e 19 centesimi l’ora. La schiavitù renderebbe molto di più.
 
Riuscii a scheggiarmi un’unghia a furia di scartavetrare il pentolone appena capitatomi tra le mani, ma risi comunque per la battuta divertente.
  • Che vuoi farci, questa è la prigione. Quando parli del pompato col pizzetto ti riferisci a C-Note, non è vero?  -  Il ragazzo rispose con un cenno affermativo.  -  E a quale altro posto di gran classe è stato destinato il caro Frank? Spero non alla biblioteca. Ho scongiurato in aramaico per ottenere quel posto, ma Bellick ha pensato che il posto per una donna dovesse essere la cucina. Che fantasia!
  • Se ti avessero assegnata alla biblioteca mi sarei risparmiato l’imbarazzo di conoscerti. 
Stephen incassò una smorfia, ma non se ne curò. Era la prima volta che conversavamo in modo quasi normale da quando ero stata assegnata a quel lavoro. Quasi non riuscivo a crederci.
  • Comunque no, che io sappia C-Note è stato assegnato al gruppo di Abruzzi.
Soffocai deglutendo la mia stessa saliva nell’apprendere la novità. Adesso si che ero sconcertata.
  • No, è impossibile, so per certo che Abruzzi non voleva prendere nessun altro operaio. Come diavolo ha fatto C-Note a farsi ammettere?
Stephen mi parve addirittura divertito per la mia strana reazione.  -  Che cosa vuoi che ne sappia io come è stato ammesso. Che Dio l’abbia in gloria per aver lasciato questo posto, piuttosto.
 
Più rimuginavo su quella storia, più mi perdevo per strada. Che Abruzzi, Michael e compagni non mi volessero in quella stanza potevo anche capirlo, era un dettaglio da approfondire ma potevo capirlo, ma perché allora avevano preso C-Note? Se chiunque in quella stanza era ben accetto, allora il magazzino in cortile non nascondeva niente di interessante e questo poteva significare soltanto che il vero problema ero io.
 
“No, dev’esserci dell’altro…”
 
Michael e John Abruzzi odiavano Theodore Bagwell, non l’avrebbero mai accolto nel loro gruppo se non per una qualche incomprensibile e misteriosa ragione. E C-Note? Da quando mi trovavo a Fox River non lo avevo nemmeno visto avvicinare al clan del mafioso o alla stretta cerchia di Scofield, però da un giorno all’altro era stato accolto tra i membri che si occupavano dei lavori di laboratorio. Ero io che stavo cominciando a lavorare un po’ troppo di fantasia o c’era davvero qualcosa di contorto sotto che mi sfuggiva?
Trasalii per la sorpresa quando all’improvviso una delle guardie entrò nella stanza chiamando il mio nome. La guerra che si stava consumando nella mia mente sparì immediatamente come una nuvoletta di vapore.
  • Sawyer, il direttore ti aspetta nel suo ufficio. Adesso!
Neanche se fosse stato programmato, quello sarebbe potuto essere momento più sbagliato. Ero appena riuscita a creare una tregua col mio compagno di lavoro, ma quando vidi Stephen sbattere una delle posate contro il lavandino e soffocare un’imprecazione, capii di essermi riguadagnata il suo odio. Ancora una volta avrebbe dovuto caricarsi anche del mio lavoro.
Che potevo farci? Quella mattina mi ero rivolta alla direzione dicendo di avere urgente bisogno di parlare col direttore, ma non mi sarei mai aspettata di poter essere ricevuta così presto, né tantomeno mentre svolgevo il mio turno di lavoro.
Forse Stephen non aveva tutti i torti a considerarmi una privilegiata.
  • Ok capo, mi lavo le mani e arrivo  -  risposi alla guardia, prima di rivolgermi a Stephen, sinceramente mortificata.  -  Ti giuro che si tratta di un caso.
Il ragazzo sbuffò riprendendo il suo lavoro.  -  Però devi ammettere che questo va oltre le normali coincidenze.
  • Mi dispiace sul serio.
  • Si beh… sparisci di qua.  -  rispose conciliante e per la prima volta comprensivo.
Una volta lasciate le cucine, io e la guardia percorremmo la strada di ritorno verso il Braccio A, lo attraversammo e superammo il primo blocco blindato che conduceva alla sezione privata. Da lì in poi i detenuti non potevano proseguire se non adeguatamente ammanettati e scortati. L’ala sud contava tra i suoi principali uffici: l’infermeria, la sala degli educatori, le varie stanze destinate al personale sanitario che contava, oltre ai 4 medici e ai 20 infermieri, anche 2 psicologi , un psichiatra e un criminologo.  Superato il secondo blocco blindato ci si addentrava verso la sala relax, il centro raccolta volontari e tutti i vari uffici amministrativi. Svoltando nel primo corridoio a destra, si accedeva alla sala adiacente all’ufficio del direttore Pope, dove solitamente spiccava solare e cortese il viso sempre ben curato di Becky, la segretaria personale di quest’ultimo.
Fin dal primo giorno la donna si era mostrata molto cortese nei miei confronti.
Quella mattina, stretta nel suo tailleur grigio antracite di una taglia più piccolo, tanto da stringerle la vita e farle sporgere la pancia sopra la cintura, Becky si era illuminata vedendoci entrare. Ovviamente sapevo benissimo che quel bel sorriso non fosse destinato a me, ma al dongiovanni Louis Patterson che mi accompagnava. D'altronde non era così facile ignorare le intense occhiatine che entrambi si lanciavano mentre aspettavamo che il direttore si liberasse per ricevermi. Avevo la sensazione che quei due non aspettassero altro che liberarsi di me per poter restare soli.
  • Prego Gwyneth, adesso puoi entrare  -  mi avvertì Becky con la consueta gentilezza.
  • Bene, grazie.
Dietro la grande scrivania del suo ufficio, Henry Warden Pope mi stava aspettando. Era impeccabile con quel suo completo leggero grigio fumo, la cravatta blu stirata con cura e i capelli radi perfettamente pettinati all’indietro. Però era visibilmente preoccupato e prevenuto, non sapevo dire quale di quei sentimenti in quel momento prevalesse in lui. Riconoscevo sempre la tipica espressione turbata, quell’accenno di disagio ogni volta che varcavo la sua porta.
  • Signorina Hudson…  -  esordì l’uomo lasciando la poltrona.  -  … so che ha chiesto di vedermi. Che posso fare per lei?
Restai impalata all’entrata finché non mi fece cenno di avvicinarmi, poi attese che prendessi posto, prima di fare lo stesso.
  • So che non è quello che vuole sentirsi dire signore, ma mi trovo in difficoltà.
  • E che cosa ti aspettavi? Questa è una prigione, le difficoltà sono all’ordine del giorno. Io lo avevo detto fin dall’inizio che scontare la condanna qui non sarebbe stato facile, soprattutto nel tuo caso. Avevo messo al corrente te e persino Keith dei rischi che avresti corso. Nel momento in cui hai accettato di diventare un detenuto di questa prigione, hai anche accettato di caricarti di ogni responsabilità relativa alla tua personale incolum…
  • Direttore. -  lo interruppi, intuendo il seguito di quell’inutile tiritera.  -  Lei è stato chiaro a sufficienza, stia tranquillo. Non sono qui per lamentarmi o denunciare un qualche tipo di violenza nei miei riguardi, sono qui per chiederle di concedermi una cortesia, non è gran che, mi creda. Vorrei che mi proponesse per un altro lavoro e mi trasferisse dalle cucine.
Per un momento il direttore mi studiò attentamente, congiungendo le mani sotto il mento, assorto in una profonda concentrazione. I minuti passavano.
  • Credevo di aver chiarito in modo molto chiaro che io non ammetto favoritismi nel mio carcere a nessuno dei miei detenuti, e non ci sono eccezioni né per razze, né per religioni, né tantomeno per sesso Gwyneth.
  • Me lo ricordo.
  • Ovviamente non sono cieco. So cosa accade all’interno del mio carcere e so che nonostante le mie disposizioni, alcuni detenuti riescono ad ottenere più privilegi degli altri, ma posso assicurarti che questo in alcun modo dipende da me o dalle guardie.  -  Su questo avevo forti dubbi.  -  Tutti i detenuti sono tenuti a eseguire i lavori che gli vengono assegnati, senza storie. Se non ci sono prove di avvenuti maltrattamenti, abusi o insofferenze di qualche tipo al luogo di lavoro, non posso fare niente.
  • Mi sta dicendo che dovrà prima accadermi qualcosa perché vengano presi dei provvedimenti?  -  Il direttore fremette sulla sua poltroncina di pelle e non riuscì subito a rispondere.  -  Senta, so che lei non è tenuto ad offrirmi alcun vantaggio solo perché sono una donna e infatti non è quello che le sto chiedendo, voglio solo evitare spiacevoli inconvenienti che, le assicuro, si verificheranno presto se continuerò a svolgere il turno di lavoro pomeridiano nelle cucine.
Avrei potuto prendere l’Oscar per la mia perfetta interpretazione. Raccontavo balle così convincenti che a volte persino io mi meravigliavo. Pope pendeva ormai dalle mie labbra.
  • Che cosa stai cercando di dirmi? Qualcuno ha attentato alla tua vita?  -  mi chiese a disagio.
  • No, ma credo che accadrà molto presto e non voglio aspettare di finire come Seth Collins. Quel ragazzo si è suicidato, e lei sa bene il perché.
Vidi impallidire il direttore di colpo a quelle parole e feci una pausa. Era un bagliore di colpa quella che gli leggevo negli occhi? Ma certo che lo era.
  • Chi stai accusando esattamente?
  • Non sto accusando nessuno.
  • Signorina Hudson,  -  continuò alzando impercettibilmente il tono della voce -  lei non può sganciare una bomba del genere e poi ritrattare.  -  Eravamo tornati alle formalità, segno che la conversazione stesse procedendo su un terreno minato.  -  Se nelle cucine accade qualcosa di spiacevole di cui io non sono al corrente, lei è pregata di riferirmelo.
Sospirai a testa bassa, fingendomi restia.  -  Senza offesa direttore, ma sappiamo bene entrambi che fare la spia qui dentro equivale a disegnarsi un bersaglio sul petto. Se adesso io le dicessi quello che so, lei molto probabilmente prenderebbe dei provvedimenti. Ma se io oggi pomeriggio non mi presentassi al lavoro, si sospetterebbe subito di me e a quel punto cosa impedirebbe a qualche psicopatico senza scrupoli di infilzarmi con una lama seghettata com’è accaduto a Tony Russell l’altro giorno? Io non voglio finire i miei giorni qui dentro!
 
Il tono acceso e deciso che avevo sfoderato nell’ultima parte aveva avuto proprio l’effetto desiderato. Ormai Pope stava per crollare, glielo leggevo negli occhi.
  • Insomma, cosa mi stai chiedendo di fare? Ignorare quello che sta succedendo e permettere che le cose degenerino com’è accaduto la settimana scorsa durante la rivolta?
  • No, le sto chiedendo di mettermi nelle condizioni di poter completare i miei tre mesi e uscire sana e salva da Fox River.
L’uomo tornò nuovamente a torturarsi il mento, ritrovando l’iniziale concentrazione. Era combattuto, preoccupato senza alcun’ ombra di dubbio e frustrato al pensiero di dover avere a che fare con una ragazzina in un penitenziario che accoglieva solo uomini. Però infondo sentivo che era un brav’uomo. Avrebbe voluto scovare le ingiustizie e abbatterle sul nascere, ma in un penitenziario di massima sicurezza stracolmo di assassini e malviventi, non tutte le ingiustizie potevano essere combattute.
  • Ascolti, le propongo una soluzione e se non sarà d’accordo, lascerò a lei la decisione di prendere provvedimenti o meno, prometto che non la disturberò più.  -  ripresi pronta a contrattare.  -  Io adesso tornerò al mio lavoro nelle cucine e farò finta di niente. Durante il secondo turno pomeridiano, lei potrà affidarmi un nuovo lavoro così nessuno sospetterà che sia stata io a chiederglielo. Vede, il vero problema è che io salto spesso il turno di lavoro per le visite in infermeria o i colloqui col mio patrigno e il mio avvocato… persino con lei. Capisco perché i ragazzi siano disturbati dalle mie continue assenze.
Il problema creatosi in quelle settimane con Stephen, in quel contesto cadeva proprio a fagiolo, nonostante io lo avessi ingigantito con presunte minacce di morte.
  • Se lei, direttore, mi destinerà ad un’altra attività pomeridiana, eviteremo possibili incidenti e soprattutto eviterà di mettermi nella scomoda situazione di dover puntare il dito contro qualcuno e allungare la già lunga lista di detenuti che…-  “Vorrebbe accopparmi”  -  …non mi vede di buon occhio.
Pope rifletté. -  E cosa ti fa pensare che in un gruppo diverso non si presenterebbero problemi simili?
  • Non potrebbe assegnarmi un lavoro indipendente?  -  proposi per mostrarmi partecipativa.
Era solo una tattica ovviamente, era tutt’altro il lavoro al quale stavo puntando, ma volevo assolutamente evitare di insospettire Pope proponendo come prima soluzione la stanzetta delle guardie.
  • E’ escluso. Per poterti assegnare un lavoro indipendente dovrei inventarmene uno e come ti ho detto, questa è la prigione, non facciamo distinzioni. Tra le altre cose, qualcuno potrebbe anche pretendere, con ragione, lo stesso trattamento.
  • La biblioteca allora.
  • No, anche questa ipotesi è da scartare. Se avessi potuto assegnarti a quel posto, lo avrei già fatto dall’inizio.
  • Mmm… allora che ne direbbe della stanzetta delle guardie, l’ex magazzino sul cortile esterno?
L’uomo corrugò la fronte.  -  Intendi quella che è andata a fuoco qualche giorno fa?
  • Si, proprio quella.
  • Ma si tratta prevalentemente di un lavoro di ricostruzione e manodopera. Hai esperienze in questo campo?
  • Per niente, ma penso che potrei trovare un modo per rendermi utile.
  • Non credo sia una buona idea.  -  disse, tornando a massacrarsi il mento con le dita. -  Trattandosi di un lavoro al chiuso in una sezione separata, le guardie non potranno controllare minuto per minuto ciò che accade in quella stanza.
Ma guarda, questa si che è una notizia interessante: 6 galeotti rinchiusi nella stessa stanza priva di controlli…”
  • Senza contare che il gruppo che si sta occupando dei lavori conta tra i suoi membri uomini molto pericolosi, tra cui Lincoln Burrows che attualmente è in attesa di ricevere la pena capitale.
Burrows non era certo l’esempio più lungimirante di uomo pericoloso del gruppo, se confrontato con Bagwell e Abruzzi; chissà se Pope se ne rendeva conto.
  • Signore, personalmente non ritengo Burrows un pericolo per la mia incolumità. L’unico problema al momento credo sia rappresentato da Abruzzi.
  • Per quale motivo?  -  chiese accigliandosi.
  • Beh, a quanto ho sentito dire è John Abruzzi che coordina i lavori di laboratorio e che sceglie chi deve far parte del gruppo, e adesso il gruppo è al completo. Se oggi pomeriggio mi presentassi all’ex magazzino, ho paura che Abruzzi potrebbe… ehm… avere qualcosa di ridire… potrebbe opporsi, ecco.
Eccome se si sarebbe opposto, non c’era alcun dubbio!”
  • Sciocchezze! Sono io il direttore, io faccio le leggi.
  • Non lo metto in dubbio signore, ma quello che voglio dire è che Abruzzi gestisce il laboratorio da anni…
Pope mi parve sinceramente confuso, come se non riuscisse a capire quello che stavo cercando di dirgli. Probabilmente non aveva idea del fatto che molti dei principali lavori svolti a Fox River fossero gestiti dai detenuti. Forse avrei dovuto aprire gli occhi all’integerrimo direttore e fargli notare che quei detenuti ai quali cercava di non concedere favoritismi, fossero gli stessi che pagavano bustarelle alle guardie per ottenere privilegi fissi. Ma infondo quelli non erano affari miei.
  • Signor direttore,  -  ripresi  -  stiamo parlando di John Abruzzi e io non credo proprio che accetterà di prendermi nel suo gruppo se non sarà lei stesso a ordinarglielo.
  • Va bene, dirò al capitano Bellick di accompagnarti nella stanzetta – magazzino oggi pomeriggio, così potrà spiegare personalmente al gruppo che si occupa dei lavori la tua presenza lì da adesso in avanti.
Sorrisi.  -  Gliene sono immensamente grata.  -  risposi trattenendo a stento la soddisfazione.
 
Quasi non potevo credere di aver ottenuto il lavoro, non avevo dovuto nemmeno ricorrere alle suppliche.
Intuendo che il nostro colloquio fosse ormai giunto al termine, mi alzai dalla poltroncina e dopo essermi congedata, mi diressi in silenzio verso l’uscita. Il direttore mi richiamò quando ero ormai arrivata alla porta.
  • Signorina Hudson, spero di non dover più ricevere richieste del genere, perché non ci saranno più altre concessioni da parte mia. 
Traduzione: “Anche se attenteranno alla tua vita, la prossima volta non azzardarti a venirmi a disturbare”.
 
Abbozzai un sorriso conciliante, ma questa volta il viso del direttore non accennò a distendersi. Più che come un avvertimento, le sue parole erano giunte a destinazione come una minaccia.
  • Cercherò di ricordarmene in futuro. Buona giornata direttore.

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Capitolo 15
*** La stanza delle guardie ***


La buona notizia era che ero riuscita a raggiungere lo scopo prefissatomi: raggiungere il gruppo di lavoro di Abruzzi, non solo per poter trascorrere più tempo a contatto con Lincoln, ma anche per cercare di scoprire quello strano, subdolo, inspiegabile legame che accomunava Michael al mafioso. Non sarebbe stato facile, ma per lo meno adesso avrei avuto più elementi sui quali lavorare e ben due ore di tempo al giorno per scoprire per quale motivo Michael mi volesse a tutti i costi lontana da quella stanza.
C’era anche una cattiva notizia però. Da quel pomeriggio in avanti avrei trascorso quotidianamente del tempo nella stessa stanza col pedofilo che fin dal mio primo giorno a Fox River avevo tentato di tenere lontano da me. Ogni volta che quel terrificante pensiero mi balzava alla mente, non potevo fare a meno di chiedermi se il gioco valesse davvero la candela. 

La mattinata per fortuna trascorse piuttosto veloce. Durante l’ora di pranzo, a mensa, ignorai categoricamente il tavolo in fondo alla sala, nonostante avessi sentito chiaramente la voce di Lincoln chiamare il mio nome più volte. Non ce l’avevo con lui. Persino la rabbia per essere stata presa tanto palesemente in giro da Michael durante la notte era sbollita, questo però non significava affatto che lo avessi perdonato o che potessi semplicemente mettere una pietra sopra alla faccenda. Piuttosto avevo preferito pranzare in compagnia del vecchio Westmoreland.
Durante l’ora d’aria invece mi ero recata nella piccola biblioteca della prigione, dedicandomi alla lettura fino alle 15, quando dovetti tornare nel Braccio A dove ad attendermi trovai, come promesso dal direttore, il capitano Bellick pronto a scortarmi al prossimo, e tanto atteso per quanto mi riguardava, turno di lavoro. 
  • Ti sei lavorata per bene il vecchio, eh? Dì la verità, stai cercando di fare la furba.  -  commentò il secondino, camminandomi a fianco.
  • Capo, non so di cosa tu stia parlando.
  • Oh certo che lo sai, non fare la finta tonta con me. Non so come tu abbia fatto ad infinocchiare Pope, ma non ti dimenticare che è con me che devi avere a che fare, qui sono io che comando.
Il suo tono di voce non mi piaceva, ma c’era ben poco che potessi fare. Potevo solo limitarmi ad annuire e ignorarlo. Daltronde era solo uno stupido grassone e un gradasso che quel giorno mi avrebbe spianato la strada per mettere a punto il mio piano. Mentre percorrevamo il cortile esterno per raggiungere la stanzetta delle guardie riuscivo a pensare solo a quello: alla mia vendetta, alla mia vittoria e alle facce che avrebbero fatto John e Michael vedendomi entrare lì dentro.
 
“Uno a zero per la ragazzina!”
 
Quando Bellick aprì la porta del magazzino lasciando che lo precedessi in quella che mi parve essere una perfetta anticamera della stanza andata a fuoco, con scaffali e mucchi di legno e plastica ammassati, mi scoprii con una certa sorpresa quasi elettrizzata, come se varcata la bassa porta di ferro estremamente massiccia e dipinta di blu, mi aspettassi un enorme e luminoso luna park piuttosto che una stanza dalle pareti annerite e dal persistente odore di bruciato e marcio.
Nell’istante esatto in cui il capitano delle guardie spalancò la porta, sei operai apparentemente molto indaffarati ruotarono gli occhi verso di noi, soffermandosi lungamente su di me, già pronta per cominciare il nuovo lavoro e vestita di tutto punto: salopette blu scuro, scarponi antinfortunio e coda di cavallo alta in testa.
  • Ma che branco di rammolliti. State andando a rilento come delle lumache.  -  sbottò il secondino, entrando con la solita espressione disgustata in viso, prima di indicarmi con un cenno.  -  Date il benvenuto alla vostra nuova compagna di lavoro.
  • Cosa? No, non se ne parla nemmeno.  -  scattò contrariato John Abruzzi facendo un passo in avanti.  -  Io non ho dato il consenso, lei non è dei nostri.
  • Oh si che lo è. Da questo momento in avanti questo delizioso bocconcino vi terrà compagnia per ben due ore pomeridiane al giorno. Ordini dei piani alti John, mi dispiace.
La mia improvvisa comparsa sulla scena non sembrava aver riscosso grande successo. Nessuno dei sei operai aveva accolto la notizia con entusiasmo, tutt’altro, erano rimasti a fissarmi a bocca aperta con un’espressione indecifrabile e assolutamente non amichevole.
  • Ehi capo, io questa qui non ce la voglio.  -  continuò perentorio il mafioso.  -  Sono sempre io che gestisco il laboratorio o è cambiato qualcosa?
L’insistenza del detenuto non piacque molto al capitano delle guardie.
  • Non ho capito bene. C’è per caso qualcosa dell’ordine che ti è appena stato impartito che non ti sta bene?  -  si avvicinò minaccioso ad Abruzzi, mentre appoggiava una mano sul manganello fissato sul fianco.  -  Perché se è così, dillo subito… Ricordati una cosa feccia di un galeotto che non sei altro, se non fosse per l’assegno mensile che mi passa il caro Falzone, tu qui saresti meno che niente, esattamente come il resto dei tuoi compagni.
Stranamente Abruzzi non reagì nel modo che mi ero aspettata e che gli era tipico. Rimase freddo di fronte alla sfrontatezza del secondino, da vero mafioso.
  • La ragazza farà parte del vostro gruppo di lavoro, ordini del direttore Pope. Qualcun altro vuole presentare le sue lamentele?... Nessuno?... -  Tacque e aspettò, guardando ad uno ad uno i sei uomini. Non arrivò nessuna protesta.  -  … Allora è deciso.
Mentre ricambiavo lo sguardo adirato e torvo dei sei operai, desiderai che Bellick potesse rimanere lì a tenermi d’occhio. Ero sicura che appena la guardia si fosse chiusa la porta alle spalle, quei sei delinquenti mi sarebbero saltati addosso per sbranarmi.
  • Beh Sawyer, buon divertimento!  -  concluse l’infido secondino lanciandomi un’occhiata divertita, prima di lasciare la stanza.
Il silenzio che seguì parve eterno.
Non che mi fossi aspettata una festa di benvenuto, un applauso caloroso o altro del genere ma diamine, non riuscivo proprio a capire perché la mia presenza li sconcertasse tanto.
  • Mi sa che abbiamo un problemino, Einstein.  -  sbottò C-Note rivolgendosi a Michael.
Mi concentrai su quest’ultimo in cerca di appoggio. Nonostante tutto quello che era successo ero convinta che alla fine avrebbe capito. Con mia grande sorpresa non lo trovai. La sua espressione si era irrigidita a tal punto da diventare inintelligibile. Guardava davanti a sé senza dire nulla. Era come se all’improvviso, vedermi comparire in quella stanza gli avesse rovinato la giornata, come se gli avessi appena fatto un terribile affronto che non poteva essere sanato con delle banali scuse.
  • Io questa mocciosa la strozzerei con le mie mani!  -  abbaiò Abruzzi, avvicinandosi pericolosamente a me.
La mia prima e istintiva reazione fu quella di indietreggiare, ma Lincoln intervenne in mio soccorso frapponendosi tra me e il mafioso per scongiurare il pericolo, prima di parlare come paciere della situazione.
  • Adesso calmiamoci, qui non si strozza proprio nessuno.
  • E bravo il nostro cavalier servente, adesso però qui c’è una signorina di troppo, secondo te come dovremmo risolvere il piccolo inghippo?
  • Tu stanne fuori T-Bag!  -  continuò Lincoln, puntando il dito contro il pedofilo.
  • Adesso basta, abbiamo perso fin troppo tempo. Rimettiamoci al lavoro.  -  ordinò improvvisamente Michael lasciando i suoi compagni disorientati.
Negli occhi di Lincoln e in quelli degli altri quattro operai lessi un evidente confusione, come se non avessero capito o aspettassero che Michael desse loro delle disposizioni più precise per andare avanti.
 
“Ma che strano, credevo fosse Abruzzi a coordinare i lavori.”
  • E che cosa dovremmo fare?  -  domandò C-Note.
  • C’è ancora parecchio lavoro da fare, dobbiamo finire di fissare le nuove pareti di carton gesso e non possiamo chiedere certo a Gwyneth di farlo.
Era come se tutto il gruppo si muovesse attorno a Michael, era lui il centro di gravità.
  • Non sarò un peso morto per voi, Michael dimmi cosa devo fare e come posso esservi d’aiuto.  -  intervenii.
  • Potresti andartene via.  -  sentii mormorare Fernando alle mie spalle.
Cercai di ignorare il commento, ma ci rimasi ugualmente male. Pensavo che almeno Lincoln, Michael e Sucre sarebbero stati dalla mia parte, invece sui loro volti leggevo le stesse espressioni contrariate e infastidite che avevo subito notato in quelli di Abruzzi, Bagwell e C-Note, e non ne capivo il motivo.
  • Gwen, visto che al momento non c’è niente che tu possa fare, puoi iniziare a ripulire questi attrezzi.  -  riprese il ragazzo di fronte a me, recuperando un secchio di attrezzi da lavoro sporchi di cemento e colla che appoggiò sul tavolo lì accanto.  -  All’esterno del magazzino, sul retro, le guardie hanno sistemato una cisterna d’acqua. Puoi usare quella per pulirli.
Non potevo credere alle mie orecchie, mi stava sbattendo fuori con quella stupida scusa per tenermi comunque lontana da quella stanza.
Per un momento restai a fissarlo palesemente seccata, ma il ragazzo non fece una piega, come se quella richiesta non nascondesse alcun secondo fine. Che altro si sarebbe inventato per sbattermi fuori? Mi avrebbe chiesto di caricare fuori i secchi stracolmi di calcinacci o avrebbe semplicemente sporcato di proposito quegli attrezzi perché potesse liberarsi di me il più a lungo possibile?
Sbuffando amareggiata, feci un passo avanti per avvicinarmi al tavolo e recuperare il secchio pieno di attrezzi. Sarei andata alla cisterna a fare come aveva detto Michael senza rifiutarmi o lamentarmi, sarei rimasta anche tutte e due le ore a ripulire quegli attrezzi se questo poteva far sentire meglio lui e i suoi compari, ma il pomeriggio ancora sarei tornata in quella stanza e anche quello successivo, e quello dopo ancora, fino a quando li avrei costretti ad accettare che io ero parte del gruppo. Non avevo nessun motivo di sentirmi in colpa, io avevo lo stesso diritto che avevano loro di lavorare in quella stanza.

All’improvviso percepii uno stranissimo click sotto il mio piede, quindi mi bloccai. Non che ci fosse nulla di strano in un pavimento irregolare, in quella stanza erano stati fatti dei lavori di ricostruzione, c’erano calcinacci e travi accatastati un po’ ovunque, ma ciò che aveva attirato la mia attenzione era che la moquette spessa e scura era ancora quella vecchia, precedente all’incendio, e quindi quel pavimento non avrebbe dovuto essere irregolare. Cos’era quella sporgenza al centro della stanza? Una botola? Un’asse di legno? Perché nessuno lo aveva notato? 
  • C’è qualcosa che non va?  -  mi domandò Michael, vedendomi impalata con una mano sospesa verso il secchio.
Cinque paia di occhi si voltarono improvvisamente a guardarmi, ciò che però piantò nella mia mente il seme del dubbio fu l’occhiata repentina che Sucre lanciò verso i miei piedi.
Mi stanno nascondendo qualcosa…” pensai tra me, prima di afferrare il secchio e voltarmi verso l’uscita.
Feci attenzione a ripetere gli stessi passi che avevo fatto nell’avvicinarmi e un nuovo click suonò sotto il mio peso quando passai sopra quella sporgenza così ben nascosta.
 
Per ripulire tutti gli attrezzi impiegai quasi 40 minuti perché per scrostarli dovetti immergerli nell’acqua e aspettare che lo sporco ammorbidisse, e con la colla impiegai il doppio del tempo perché sarebbe servita dell’acqua calda e invece l’acqua all’interno della cisterna era addirittura gelata. Finii per scheggiarmi un paio di unghia e farmi venire i geloni nelle mani.
Quando tornai al magazzino trovai i miei nuovi compagni di lavoro impegnati nelle loro occupazioni, e praticamente non mi notarono quando rientrai poggiando il secchio con gli attrezzi puliti sul tavolo, o almeno così mi parve. In compenso notai una sostanziale differenza in quella stanza, rispetto a quando ero uscita: il tavolo era stato spostato più indietro. Adesso si trovava esattamente sopra il punto che avevo ormai classificato come sospetto.
Per tutto il resto dell’ora successiva, non feci praticamente nulla se non guardarli lavorare. Ogni tanto notavo Lincoln e Sucre lanciarmi qualche occhiata, come per accertarsi che fossi ancora lì, per il resto quel lunghissimo turno di lavoro trascorse tranquillo, silenzioso e mortalmente noioso.
Alle 17 in punto una guardia venne ad avvertirci che il lavoro era finito e venimmo condotti ognuno nelle proprie celle. Nessuno dei sei uomini mi degnò di un solo sguardo e quando la guardia ci riportò nel Braccio, Michael e Sucre tirarono dritto su per le scale e non mi salutarono. 
 
La mattina dopo la temperatura esterna era diminuita di ben 9 C°.
  • Ehi Charles.  -  esclamai raggiungendo il vecchio Westmoreland in cortile.
Da qualche minuto era cominciata la prima ora d’aria della giornata.
  • Ciao Gwen, ti va di farmi compagnia facendo una partita?  -  mi sorrise, indicando la Dama pronta sul tavolo.
  • Mi piacerebbe, però devo avvertirti, non sono capace a perdere.
  • Correrò il rischio.
Il vecchio spinse la Dama verso di me, passandomi le pedine rosse perché le sistemassi in posizione, mentre prendevo posto e lui iniziava a sistemare le sue nere.
Era un secolo che non giocavo a quel gioco, sarebbe stato divertente.
  • Che fine hanno fatto i tuoi amici, come mai non sei con loro?  -  domandò, facendo la sua prima mossa. In tutta risposta scrollai le spalle.  -  Non dirmi che tu e Michael avete di nuovo litigato?
Feci svelta la mia mossa, evitando volutamente di guardare Charles negli occhi.
  • Diciamo che al momento… non parliamo molto.
  • Scommetto che la sorpresina di ieri pomeriggio non è piaciuta a tutti.  -  Spostai una delle mie pedine verso l’avanzata e Charles ne approfittò per eliminare due rosse rimaste scoperte.  -  Ti avevo consigliato di tenerti fuori dai guai, non di buttartici in mezzo con tutte le scarpe. Ovviamente non sono affari miei, ma come ti è venuto in mente di sfidare la collera di Abruzzi e farti ammettere nella “tana del lupo”?
  • Abruzzi non è un problema, adesso ne ho la certezza assoluta. Credevo che avrebbe fatto fuoco e fiamme una volta che Bellick mi avesse accompagnata nella stanzetta delle guardie, invece è stato mite come un agnellino. All’inizio credevo che fosse lui il capo branco, invece ho notato che il suo ruolo è incredibilmente marginale. E’ Scofield che manda avanti i lavori, è lui la mente di tutto.
  • Mi sembra di aver capito che Michael prima di essere arrestato, lavorasse come ingegnere edile.
  • Si, ma non è questo il punto. Michael potrebbe anche aver gestito la Building Corporation e questo non basterebbe a fare di lui il leader di quel gruppetto di galeotti, soprattutto con Abruzzi nelle vicinanze. No, se il mafioso ha accettato di lasciare a Michael le redini del gruppo, significa che stanno combinando qualcosa.
Riuscendo ad eludere tutte le mie difese, Charles fu il primo a giungere a Dama.
  • Era proprio a questo che mi riferivo dicendoti di stare in guardia.  -  riprese il vecchio.  -  Il problema della prigione è che è molto facile lasciarsi coinvolgere da situazioni sbagliate.
  • Michael non mi sembra proprio il tipo con una mente facilmente suggestionabile, però magari mi sbaglio. Quel farabutto di Abruzzi deve in qualche modo averlo abbindolato.
  • Non potrebbe trattarsi del contrario?

    La domanda mi sorprese.  -  In che senso?
Avanzando indisturbato all’interno della mia metà campo, Westmoreland si aggiudicò un’altra delle mie pedine, ma non riuscì ad evitare che anch’io giungessi a destinazione. 
  • Nel senso che, come hai detto tu stessa, Michael non sembra un tipo che si lasci abbindolare facilmente.
Sorrise e andò nuovamente a Dama convinto di avere ormai la vittoria in pugno, a me invece la voglia di giocare era improvvisamente passata.
A quel punto feci una pausa, guardando Charles dritto negli occhi, così che il gioco potesse rimanere sospeso.
  • Charles, che cosa sai che io non so?
  • Lo sai come ho fatto a sopravvivere 35 anni qui dentro? Limitandomi a tenere sempre occhi e orecchie aperte e facendomi gli affari miei.
Sapevo cosa volesse dire. Sapeva qualcosa certamente, ma non voleva immischiarsi in faccende che non lo riguardavano. Previdente come al solito, ecco perché io stavo faticando tanto a sopravvivere quei tre miseri mesi.
  • D’accordo… aiutami a capire Charles, perché io in questa storia rischio di perderci il sonno.
L’uomo mi restituì uno sguardo serio, quasi preoccupato.  -  E’ per Michael, non è vero? Perché sei così ossessionata da quel ragazzo?
Risposi senza pensarci.  -  Perché lui mi ha mentito.
Il vecchio sospirò. Sembrò rifletterci un momento, poi all’improvviso piegò la testa in avanti, concentrato apparentemente sul gioco.
  • Mettiamola così,  -  disse alzando finalmente gli occhi  -  ho sentito molti detenuti sognare di lasciare Fox River, pianificare fughe e andarsene… ma sinceramente non avevo mai sentito nessuno parlarne il giorno stesso della propria incarcerazione.
Valutai l’informazione molto attentamente, muovendomi nervosamente sulla sedia.
Alla fine scelsi saggiamente di rimanere in silenzio.
  • Come ti ho già detto, Michael a me sembra un tipo in gamba, però dovrebbe imparare a tenere per se certe proposte pericolose. Il giorno in cui quel ragazzo è venuto da me dicendomi di volersene andare da Fox River, ho pensato che fosse impazzito. Era entrato da meno di 24 ore e già pensava ad un modo per svignarsela.
  • Quando parli di svignarsela, intendi… evadere?
  • Beh penso di si, per questo l’ho giudicato folle. Fox River è un carcere di massima sicurezza, nessuno è mai riuscito ad evadere… voglio dire, anche tralasciando i continui controlli diurni e notturni, bisogna considerare la sorveglianza, le guardie sulle torrette, l’alto muro di recinzione…
  • Perché Michael avrebbe dovuto parlarti di una cosa del genere?  -  lo interruppi coinvolta.
Charles scrollò le spalle.  -  Probabilmente perché voleva che anche io prendessi parte alla fuga.
  • Si, ma per quale motivo?
  • Come tutti, anche Michael credeva che fossi D. B. Couper e che avessi un milione e mezzo di dollari fuori ad aspettarmi.
Il racconto di Westmoreland aveva dell’incredibile e certamente avrebbe spiegato molte cose sul comportamento di Michael, come il motivo che lo avesse spinto a prendere in considerazione quella possibilità e persino il coinvolgimento di Abruzzi, però tante altre cose non quadravano. E se Charles si fosse immaginato tutto? Era molto più probabile che il vecchio avesse trasformato una frase buttata lì a caso per costruirci una storia. Gli anziani amavano quel genere di cose. Ma se fosse stato vero?
All’improvviso mi tornò alla mente il ricordo del pomeriggio precedente. Mi ero avvicinata al tavolo per recuperare il secchio con gli attrezzi da pulire, quando sotto il piede avevo percepito un irregolarità nel pavimento che non avrebbe dovuto esserci. Ero uscita per mettermi al lavoro e quando ero tornata, avevo trovato il tavolo spostato e sistemato proprio sopra il punto sospetto, forse per evitare che qualcun altro ci camminasse sopra.
Coincidenze su coincidenze.
  • Charles, tu pensi che Michael abbia ancora le stesse intenzioni di quando è entrato?
  • Personalmente non m’interessa e faresti meglio a non interessartene nemmeno tu… oh, ma guardate chi si vede!
Ruotai gli occhi alla mia destra e all’improvviso capii perché il vecchio avesse cambiato così rapidamente espressione e discorso. Due occhi color del cielo si posarono su di me, e Michael mi sorrise. Non mi ero aspettata di vederlo comparire, non mi ero neanche accorta che si fosse avvicinato, ma nel momento in cui era comparso alle mie spalle avevo avvertito una specie di sfarfallio dalle parti del cuore.
  • Allora non sono l’unico incapace di vincere contro Gwyneth.  -  esclamò il ragazzo, avvicinandosi.
  • Guarda che la ragazza ha le pedine rosse, forse ti confondi.  -  lo informò Charles ancora convinto di avere la vittoria in pugno.
  • Perché non dai un’occhiata alla disposizione delle pedine. Mi dispiace Charles, ma non hai scampo. La prevalenza di neri è piuttosto evidente, ma le tue Dame sono solo due, mentre quelle di Gwen sono più numerose e hanno bloccato ogni tua via di fuga. Questa tattica di gioco è molto efficace quando si hanno poche pedine in campo.
Mentre Westmoreland fissava la scacchiera per dare riscontro alle parole del nuovo arrivato, Michael tornò a sorridermi amichevolmente. Uno sguardo del genere sarebbe riuscito a far perdere la concentrazione a chiunque. Per fortuna non avevo ancora dimenticato il modo freddo col quale mi aveva trattata il giorno prima. Quindi distolsi lo sguardo velocemente.

“Perché doveva essere così incredibilmente attraente e arguto e così maledettamente misterioso?”  
  • Non c’è niente da fare, Gwyneth è imbattibile  -  mormorò sconfitto Charles, giungendo alle stesse conclusioni del ragazzo.
  • Non sono imbattibile, sono solo brava.
  • Perché non provi una partita con me.  -  mi propose Michael con aria di sfida.
  • Sono stanca di giocare.  -  risposi freddamente.
  • Concedimi solo una partita.
Per evitare che si percepisse il mio improvviso malumore, mi alzai pronta ad andare via.
  • Te l’ho detto, sono stanca e comunque non mi va. Però magari puoi chiedere ai tuoi amici se hanno voglia di farti compagnia, scommetto che il Principe della Cupola e il Sergente Sodomia non vedono l’ora di sfidarti ad una bella partita a Dama.
Forse avrei dovuto tenere per me le mie esplosioni di acidità data la presenza di Charles, ma purtroppo la rabbia accecava la mia capacità di giudizio e più di ogni altra cosa, non riuscivo a sopportare quei continui cambiamenti di rotta.
  • Guarda che posso spiegarti tutto.
  • Lo immagino, daltronde le tue spiegazioni sono sempre così esaustive.  -  Senza aspettare che replicasse, mi voltai verso Charles:  -  Grazie per la partita, ci si vede in giro.  -  poi, mi allontanai a grandi passi senza voltarmi più indietro.
Ovviamente Michael mi seguì.
  • Potresti aspettarmi per favore e starmi a sentire?
  • No, non ci penso nemmeno.
  • Guarda che non ti seguirò per tutto il penitenziario scongiurandoti di perdonarmi.
  • Nessuno te l’ha chiesto.
In realtà non era davvero mia intenzione distanziarlo, non pensavo neanche di tenergli a lungo il broncio, volevo soltanto tenerlo sulle spine per vendicarmi. Solo quel tanto che bastava a farmi sentire meglio.
  • Senti mi dispiace, so perché sei arrabbiata. Hai ragione, ti ho mentito. Non volevo che tu venissi ammessa nella stanzetta delle guardie, per questo non ho parlato con Abruzzi. Stavo solo cercando di evitarti un mare di guai, credimi.
All’improvviso mi bloccai di colpo e mi voltai per guardarlo dritto in faccia. Michael, ancora intento a seguirmi, non se lo aspettò e quasi mi venne addosso.
  • Perché non provi ad essere sincero per una volta. E’ un’altra la ragione per cui tu e i tuoi amici non mi volevate tra i piedi.
Le sue sopracciglia si corrucciarono quasi toccandosi.  – Di che stai parlando?
  • Che te lo dico a fare? Tanto ricominceresti a mentirmi, preferisco risparmiarmela.  -  risposi scocciata ricominciando a camminare lungo il cortile.
  • Forse non mi crederai, ma io voglio essere sincero con te.
Non so se mi avesse colpito più il suo tono dolce e sincero o la sua perseveranza, ma a quel punto decisi di fermarmi e concedergli il beneficio del dubbio. Volevo soltanto la verità, nient’altro. Avevo scoperto da Charles che Michael fin dal suo primo giorno a Fox River aveva cominciato a tramare qualcosa e a parlare di volersene andare. Avevo visto con i miei occhi il rapporto tra Michael e John Abruzzi consolidarsi giorno per giorno. Avevo scoperto casualmente un’irregolarità nel pavimento della stanzetta delle guardie il giorno in cui ero stata ammessa come operaia, purtroppo però non avevo potuto constatare personalmente che sotto la spessa e sporca moquette ci fosse qualcosa di sospetto. A onor del vero, tutte quelle informazioni, aggiunte all’inesorabile esecuzione di Lincoln che si sarebbe tenuta di lì a 10 giorni, non facevano altro che avvalorare l’ipotesi che Michael fosse coinvolto in qualcosa di grosso, ma non avevo uno straccio di prova per dimostrarlo. L’unica cosa che restava da fare era affrontare il ragazzo di petto e convincerlo a vuotare il sacco. Ma come potevo essere sicura che alla fine non ricominciasse a mentirmi?
  • Vuoi essere sincero con me? Allora dimmi perché hai fatto di tutto per tenermi lontana dalla stanzetta delle guardie.
  • Volevo solo proteggerti.
Lo trafissi con un’occhiataccia.  -  Volevi proteggermi da cosa esattamente? Da quei due psicopatici che ti diverti a portarti dietro o dal vostro simpatico progetto di evasione?

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Capitolo 16
*** Il momento della verità ***


Il viso di Michael era impallidito in modo spaventosamente fulmineo.
Aspettavo ancora che il ragazzo si decidesse a rispondermi, che confermasse o smentisse la bomba a mano che avevo appena sganciato, ma questa volta avevo la netta sensazione di aver fatto centro.
  • Ma… ma che dici? Di che evasione stai parlando?  -  mormorò con espressione estremamente tesa e prevenuta.
  • Oh, è inutile negare l’evidenza, tu e i tuoi amici state scavando nella stanzetta delle guardie per evadere. Pensavi davvero che non l’avrei scoperto?
Lo vidi accigliarsi, prima che una traccia di irritazione, forse di rabbia, balenasse nel suo sguardo.
  • Non sai di cosa parli. Non c’è nessuna evasione.
  • Bene!
Feci dietrofront e ripresi imperterrita la via del cortile, sicura che Michael avrebbe finito col seguirmi. A costo di formulare ipotesi a vanvera fino alla mattina seguente, sarei riuscita ad estorcergli una confessione, e questa volta sapevo anche come fare.
Come avevo previsto, eccolo di nuovo al mio seguito.
  • Aspetta Gwyneth… parliamone.
  • Sono stanca di parlare.
Visto che non accennavo a fermarmi, il ragazzo mi afferrò per un braccio, costringendomi a voltarmi e guardarlo in faccia.
  • Gwyneth, per favore.
  • Facciamo così,  -  esclamai sfoderando uno sguardo furbo  -  tu mi racconterai tutto e risponderai alle mie domande e io in cambio prometto che terrò tutto per me. Se farai il furbo e proverai di nuovo a mentirmi, io spettegolerò tutto al caro Bellick e sai che lui farà dei controlli. Ora, è possibile che io mi sia sbagliata, è possibile che non ci siano buchi in quella stanza, ma dubito che voi sei abbiate comunque il tempo di celare eventuali tracce prima che io abbia convinto il capitano a controllare, ti pare?
  • Questo a me suona tanto come un ricatto.
Feci spallucce. Non sapeva ancora fino a dove sarei stata disposta ad arrivare per ottenere la verità, ma lo avrebbe scoperto presto.
  • Probabilmente lo è.
Per una manciata di secondi Michael si limitò semplicemente a fissarmi. Speravo stesse vagliando la possibilità di giocare finalmente a carte scoperte.
Alla fine, continuando a tenere gli occhi serrati, gli angoli della bocca gli si tesero in un sorriso e finalmente parlò:
  • Ti propongo una controfferta.
  • Non è una proposta trattabile.
  • Beh, io ho una condizione. Risponderò alle tue domande e ti dirò tutto quello che vuoi sapere, ma anche tu dovrai rispondere alle mie domande ed essere sincera.
  • Hai una bella faccia tosta a voler trattare con me nella situazione in cui ti trovi, lo sai? Così va tutto a mio sfavore, e poi la maggior parte delle informazioni già ce le ho.  -  bofonchiai.
  • Prendere o lasciare. Se vuoi la verità questa è la mia condizione.
Condizione un accidente! Lo avevo praticamente in pugno, ormai avevo così tante prove a sostegno della mia tesi che avrei potuto scoprire da sola la verità. D’altro canto sarebbero comunque rimaste delle domande in sospeso, dubbi che solo lui avrebbe potuto chiarire.
  • Aahh maledetta curiosità! E va bene,  -  cedetti  -  ma faremo una domanda per uno e se mi accorgo che stai mentendo, non mi farò alcuno scrupolo a gridare ai quattro venti quello che ho scoperto. Sei avvertito.
  • Andata.
Ricominciammo a camminare, questa volta più lentamente. Ero molto sorpresa che Michael si fosse deciso a parlare. Ero convinta che si sarebbe arrabbiato, che avrebbe negato fino alla morte. Non certo che cedesse così facilmente.
  • La prima domanda spetta a me e ricordati che hai promesso di essere sincero. Parlami dell’evasione. Perché la stanzetta delle guardie?
Il ragazzo si fece serio.  -  Devi sapere che progetto questa evasione da circa un anno. L’ho studiata nei minimi dettagli affinché riuscisse. 
  • Lo hai fatto per Lincoln, non è vero?
  • Non potevo lasciarlo morire. Ho messo a punto questo piano allo scopo di tirarlo fuori prima che venisse giustiziato. Non è stato semplice, ma ho potuto farlo perché la società per la quale lavoravo prima di entrare a Fox River, un anno fa ricevette l’appalto dei lavori per la sostituzione delle condutture interne di questo edificio. Ho avuto modo di visionare la pianta dell’intero penitenziario e anche quella dei canali sotterranei, e quando ho scoperto che Lincoln sarebbe stato trasferito proprio qui per scontare il resto della pena, mi è venuta l’idea dell’evasione.  -  Mi lasciò un istante per digerire l’informazione e proseguì.  -  Purtroppo per me si trattava di una pianta molto complicata, impossibile da memorizzare. I vari tunnel sotterranei che avrei dovuto usare per mettere a punto il mio piano fanno parte di un enorme reticolato, molto simile ad un labirinto. Basterebbe sbagliare direzione solo una volta per perdere la strada, e a quel punto non ci sarebbe praticamente modo per tornare al punto di partenza. Per questo ho deciso di tatuare la pianta dell’edificio sul mio corpo.
  • Il tatuaggio!
Sorrise.  -  Si… il tatuaggio. Si tratta della pianta della prigione alla quale è stato apportato un disegno perché non fosse visibile ad un semplice colpo d’occhio.
 
All’improvviso era tutto incredibilmente chiaro. Ecco perché la prima volta che avevo visto la porzione di tatuaggio sul braccio di Michael avevo avuto la sensazione che si trattasse di un disegno sovrapposto.
Ero a dir poco basita. Avrei potuto immaginare di tutto, ma quello che avevo appena sentito andava ben oltre la mia spiccata immaginazione.
Stavo pensando se fosse il caso o meno di chiedergli di farmi dare un’occhiata più da vicino a quell’incredibile capolavoro, quando il ragazzo, smontando il mio entusiasmo, disse:
  • Adesso veniamo a te. Io ho risposto alla tua domanda, ora tu devi rispondere alla mia.
  • In realtà tu non hai affatto risposto alla mia domanda, non hai detto nulla sulla stanzetta delle guardie…
  • Non starai mica cercando di rimangiarti la parola spero.
Sbuffai irrequieta. Non ero pronta a lasciar cadere il discorso. Avevo centinaia di domande da fargli e nessunissima voglia di rispondere alle sue, però gli avevo dato la mia parola.
  • E va bene, spara!
  • Voglio sapere chi sei veramente.
  • Credo che tu lo sappia.
  • Quindi avevo ragione, sei quella giornalista del Chicago Tribune e il tuo vero nome non è Sawyer, ma Hudson.
  • Perspicace come al solito!  -  esclamai.  -  Vinci un set di padelle per l’intuizione, ora possiamo tornare al piano di fuga?
  • Ehi, tu hai solo appoggiato le mie deduzioni, non hai ancora risposto ad una vera e propria domanda. -  si lamentò contrariato.
Oh, ma quanto la faceva lunga!
  • Va bene, va bene ma sbrigati per favore, non abbiamo tutto il giorno.
  • Perché ti hanno arrestata?
  • Passo.  -  risposi sbrigativa.
  • Non puoi… passare.
  • E chi l’ha detto? Michael, sul serio, fammi un’altra domanda.
Abbassò gli occhi frustrato, ma non riuscii a farlo demordere.  -  Come vuoi. Perché ti hanno assegnata ad una sezione maschile?
  • Nessuno ha scelto per me, sono stata io a scegliere di venire a Fox River.  -  Avrei tanto voluto chiudere lì l’argomento, ma sapevo che Michael avrebbe preteso una spiegazione più precisa.  -  Vedi, la mia non è una condanna grave dal punto di vista giuridico, tra meno di tre mesi sarò fuori di qui…
Michael sfoderò uno sguardo interrogativo che gli fece corrucciare le sopracciglia.  -  Tre mesi? Sei finita in un penitenziario di massima sicurezza per una condanna a tre mesi? E come hai fatto a farti registrare sotto falso nome?
  • Tempo scaduto tesoro, è di nuovo il mio turno di battuta. Allora, il piano di fuga, come funziona?
Sospirò e per un momento guardò altrove, ponderando la risposta.
  • La mia cella è il punto di partenza. Avevo bisogno innanzitutto di studiare il percorso e creare le condizioni per poter evadere senza intoppi, e per fare ciò ovviamente avevo bisogno di lasciare la mia cella, così mi sono creato un’ apertura. Ho svitato il lavandino e mi sono creato un passaggio che mi permettesse di girare indisturbato tra i condotti di aerazione e i passaggi sotterranei. Partendo dalla mia cella posso arrivare ovunque io voglia… o quasi, e con Sucre a fare da guardia, nessuno si accorge della mia assenza.
  • Ecco spiegata la partecipazione di Sucre all’evasione  -  mormorai, constatando l’ovvio.
  • Esatto. Il punto d’arrivo è l’infermeria. E’ l’anello più debole della catena. La stanza delle guardie è il punto di collegamento, si trova esattamente a metà tra la mia cella e l’infermeria. Partiremo da lì quando avremmo finito di scavare e io avrò preparato il terreno per la fuga. Raggiungeremo l’infermeria, toglieremo la grata alla finestra e scavalcheremo il muro esterno.
  • Un gioco da ragazzi! -  esclamai, senza nascondere il sarcasmo nella mia voce.
In effetti, presentato così, il piano suonava piuttosto fattibile. Michael sembrava aver calcolato ogni minimo dettaglio. Adesso capivo perché Abruzzi avesse accettato di chinare la testa e affidare i lavori nella stanzetta delle guardie a Scofield. Era lui che giostrava i fili, era lui il capogruppo di quei cinque galeotti senza speranze.
  • Adesso tocca a te, Gwen… una volta per tutte, dimmi per quale reato ti hanno condannata.
Anche questa volta avrei voluto semplicemente passare, ma c’eravamo ripromessi sincerità e Michael fino a quel momento aveva mantenuto la sua promessa. Ne ero sicura. Si era fidato di me, ma io potevo fidarmi di lui?
Qualcosa di assolutamente inspiegabile dentro di me diceva che potevo farlo.
  • Io… ho commesso una sciocchezza.  -  dissi, cercando di trovare le parole giuste.  -  Dal mio punto di vista, assolutamente giustificabile, certo, ma comunque una sciocchezza. Immagino tu abbia sentito parlare dell’inchiesta sulla concessione di appalti effettuata nel Wisconsin.  -  Annuì.  -  Beh, io mi sono occupata di quell’inchiesta e probabilmente sarebbe stato meglio non farlo, perlomeno non mi troverei qui.
Stavo raccontando i fatti miei ad un perfetto sconosciuto, da non credere.
  • Il mio patrigno è un investigatore privato.  -  ripresi  -  Ogni tanto vado a trovarlo e lo aiuto con i casi arretrati… a volte è divertente. Un giorno arrivò la telefonata di un cliente. Ci chiese di indagare sugli affari interni di una società di costruzioni in cambio di una grossa somma di denaro e ovviamente accettammo. In poco tempo scoprimmo tutta una serie di traffici illeciti legati a quella società, come appalti concessi illegalmente sotto proficue donazioni di denaro. Poi una mattina intercettammo una telefonata, e scoprimmo che le donazioni provenivano da una società del Wisconsin il cui diretto responsabile era l’allora governatore Carl Adelphi.
  • Quindi siete stati voi ad occuparvi del caso prima che partissero gli arresti da parte della polizia. Quell’inchiesta ha sollevato un gran polverone. Immagino la soddisfazione.
  • Mica tanto. Il fatto è che quando il caso è passato alla polizia, loro si sono concentrati solo su Adelphi e sui suoi stretti collaboratori, tralasciando tutto il resto, ma la verità è che l’inchiesta su Adelphi era solo un fuoco di paglia. Lui era solo una pedina in un gioco molto più grande di lui.
  • Che vuoi dire?
  • Voglio dire che Adelphi era solo una marionetta nelle mani di qualcuno che agiva nelle retrovie, qualcuno che stava e sta ancora molto in alto… lo si potrebbe definire il classico intoccabile. Io e il mio patrigno, Keith, lo avevamo capito e abbiamo continuato ad addentrarci nelle ricerche finché abbiamo scoperto dei collegamenti tra le fila del governo.
Arrischiai un’occhiata al suo viso per capire se mi stesse seguendo. Michael sembrava interdetto.
  • Quando parli di governo, ti riferisci…
  • Al governo americano, esatto. E chi conosci di intoccabile tra le fila del governo?
Il ragazzo batté le palpebre più volte.  -  Sono accuse molto grosse. Hai delle prove di quello che stai dicendo?
 
All’improvviso sembrava diventato profondamente scettico.
  • Dico, questo ti sembra un luogo di villeggiatura? Secondo te perché mi trovo in carcere?  -  sbottai.  -  Le prove c’erano, ma purtroppo erano insufficienti. Quando io e Keith scoprimmo di aver imboccato una strada pericolosa, fummo costretti a fare un passo indietro. Keith voleva ritirarsi dal caso. Secondo lui avevamo già fatto abbastanza e dovevamo accontentarci dei risultati ottenuti, ma io non ero d’accordo, volevo proseguire, volevo a tutti i costi sbattere in prima pagina i veri colpevoli. Così decisi di continuare le indagini da sola, agendo come reporter del Chicago Tribune. Fu un mese assurdo per me, non riuscivo ad uscirne, finii addirittura per trasferirmi a Chicago. Keith continuava a pregarmi di lasciar perdere, di tornare a casa, e a dire il vero stavo per farlo, fino al giorno in cui è esploso il caso Burrows che ha rimesso tutto in discussione.
  • E adesso che c’entra mio fratello con tutto questo?  -  mi chiese smarrito.
  • Michael, se non l’avessi capito, è Lincoln la chiave di tutto.
Era stato come sganciare una seconda bomba a mano. A quel punto avrei dovuto intuire che l’accordo di avvicendarci con le domande sarebbe saltato, daltronde sapevo che nominare Lincoln sarebbe stata una pessima idea.
Assalita dalle sue domande, avevo tirato fuori un respiro basso e profondo e cominciato ad osservare le nuvole dense e veloci che sembravano schiacciarci, poi avevo ripreso a parlare lentamente, controvoglia.
  • Senti, io non so tutto. Mi sono trasferita a Chicago dopo aver scoperto un collegamento tra la F.I.L.C.A., la società del Wisconsin, e la Ecofield, società di proprietà di Terrence Steadman. Ho fatto dei controlli e in più di un’occasione è saltato fuori come firmataria di alcuni pagamenti, il nome di Caroline Reynolds, la sorella di Steadman. Secondo alcuni resoconti bancari, la Reynolds ha inglobato milioni di dollari nella società del fratello, soldi che fino a qualche tempo fa risultavano a fondo perduto, il che mi ha insospettito. Esattamente una settimana dopo le mie scoperte, Steadman è stato ritrovato morto nella sua auto, nel parcheggio della sua società, e Lincoln è stato indicato come colpevole. Ma la cosa veramente assurda è che, lo stesso giorno in cui Lincoln è stato condannato, i soldi inglobati nella Ecofield sono scomparsi… Puff! Neanche si fosse trattato di centesimi. Stai seguendo il mio discorso? Quello che voglio dire è che un capitale del genere non può semplicemente sparire così.
  • E quindi cos’hai fatto?
  • Ho tirato le somme e ho capito che la Reynolds c’era dentro fino al collo, ma non potevo accusarla con delle valide prove in mano perché non le avevo. C’erano solo i resoconti bancari, gli estratti conto della F.I.L.C.A., tutti documenti che ho ricavato illegalmente e che non avrei potuto presentare in tribunale. Quando ho provato a raccogliere delle prove concrete, mi sono ritrovata a vagare in un vicolo cieco e così… -  Ancora sentivo riaffiorare la rabbia a quel ricordo.  -  …beh, l’unica cosa che restava da fare era puntare il dito contro chi ritenevo colpevole.
Michael impallidì.  -  Mi stai dicendo che hai accusato apertamente il vicepresidente degli Stati Uniti di frode?
 
Detta così suonava proprio come una cosa mostruosamente stupida.
  • Peggio.  -  ammisi  -  Visto che il giornale non mi ha permesso di pubblicare la notizia, ho pubblicato sul mio blog un’accusa formale contro la Reynolds e i traffici della Ecofield. E’ stata una sciocchezza, lo so, proprio una cosa da irresponsabili tipico di me. Una settimana dopo la mia brillante mossa, sono stata rintracciata e citata in giudizio con l’accusa di diffamazione. Sono stata espulsa dall’Albo dei giornalisti e condannata a tre mesi di reclusione… e poi sono finita qui.
  • Quello che non ho ancora capito è perché.
  • Non ti pare di aver fatto fin troppe domande?  -  mi lamentai scocciata.
  • Non credo proprio. Perché sei finita in un penitenziario maschile e cosa c’entra mio fratello con tutta questa storia? Hai detto che lui è la chiave di tutto ma, la chiave di che cosa?
  • A tempo debito Michael, adesso fammi riprendere fiato. Parlami del gruppetto che ti sei caricato sulle spalle. Non è pericoloso coinvolgere tante persone in un progetto d’evasione?
Il ragazzo sospirò frustrato, ma alla fine si rassegnò ad accantonare le sue domande per il turno successivo e rispondere alla mia.
  • In effetti lo è, più persone sono coinvolte, maggiore è il rischio di essere scoperti. E’ anche vero però che con più braccia a disposizione per scavare, i tempi previsti per l’evasione si accorciano. Dobbiamo uscire da qui prima dell’11 Maggio.
Capii al volo il perché. Quella era la data prevista per l’esecuzione di Lincoln.
  • Rimetterai in libertà quattro delinquenti per salvare la vita a tuo fratello, questo lo sai, vero?
Non era una domanda. Michael se ne rese conto.
  • Non posso farne a meno.  -  rispose con una profondità che mi toccò il cuore.
  • Di chi esattamente non puoi fare a meno? L’unico che ti serve davvero è Abruzzi e adesso ho finalmente capito il perché. Immagino che le conoscenze di un mafioso possano fare comodo ad un gruppetto di detenuti appena evasi… La storia che mi hai raccontato sul testimone chiave al processo contro Abruzzi, era vera?
  • Si, è stato facendo il nome di Fibonacci che ho convinto John a prendere parte alla fuga e ad organizzare un aereo che ci conducesse oltre i confini americani, una volta scavalcato il muro. Ma non preoccuparti, non ho alcuna intenzione di mettere in pericolo la vita di quel pover’uomo. Tra qualche settimana la testimonianza di Otto Fibonacci segnerà la fine dei capisaldi della mafia americana, e a quel punto John non sarà più un problema.
Sembrava molto sicuro di sé. Ecco cosa mi piaceva di Michael Scofield: lui considerava ogni cosa in bianco e nero, le sfumature non esistevano. A volte avevo la sensazione di avere molto in comune con quel ragazzo, altre volte invece sembravamo due mondi a parte, distanti anni luce.
  • Però c’è una cosa che mi sfugge. Che cosa diavolo c’entrano T-Bag e C-Note nel tuo grande piano “prendi il fratellone e scappa”?
Fece spallucce.  -  Tipici inconvenienti del caso. C-Note ha scoperto il buco nella stanzetta delle guardie per caso e, com’era prevedibile, ha preteso di prendere parte al progetto. Per T-Bag è stato diverso.  -  disse, incupendosi improvvisamente.  -  Ha scoperto il passaggio nella mia cella durante la rivolta, con lui c’era anche la guardia che è morta, Bob… E’ stata una bella seccatura lì per lì, non abbiamo potuto evitare che si unisse al gruppo perché minacciava di raccontarlo alle guardie se non l’avessimo preso a bordo.
  • Conoscendolo, la sua non sarebbe stata una minaccia a vuoto.
  • Già, e quel farabutto se n’è approfittato. Ha ucciso Bob perché, come lui, aveva scoperto il nostro piano e noi… non abbiamo potuto denunciarlo.
Lo vidi stringere forte i pugni lungo i fianchi e abbassare lo sguardo. La voce era dura tanto quanto lo era la sua espressione.
  • Mi sento un verme per quello che è successo… è tutta colpa nostra se Bob è morto!
  • Questo non è vero. E’ stato T-Bag ad accoltellarlo.  -  gli dissi, cercando di consolarlo.
Nel momento in cui avevo incrociato i suoi occhi sofferenti, avevo provato l’intensa sensazione di abbracciarlo, di proteggerlo. Il suo tono, così sincero, mi aveva fatto capire che Michael si sentisse davvero in colpa. Non c’era modo di sbagliarsi, non si poteva mentire su quel tipo di sentimenti.
  • Si, è stato T-Bag ad accoltellarlo… è quello che mi ripeto ogni giorno, ma questo non mi fa sentire meglio.
  • Michael, tu puoi salvare Lincoln. Non dovresti sentirti in colpa per le malefatte di quel depravato.
Fu in quel momento che sollevò i suoi incredibili occhi azzurri, intrecciandoli ai miei e facendomi smarrire il filo del discorso. La frase mi morì in gola e non riuscii più a ricordare come avevo pensato di terminarla. Sostenni il suo sguardo finché, percependo il rossore espandersi sulle mi guance, non lo volsi altrove. Solo allora mi impegnai a sciogliere il nodo che avevo nel cervello e a riprendermi.
  • Sei proprio una strana ragazza.  -  disse sorridendo appena.
L’effetto che quel ragazzo aveva su di me era insopportabile. Ogni volta che gli ero accanto, i miei neuroni andavano in subbuglio, reazione che non gradivo affatto.
  • Posso farti un’altra domanda prima che riattacchi con le tue?  -  mi chiese titubante.  -  Adesso che sai del piano e di noi, che hai intenzione di fare?
  • Puoi stare tranquillo, visto che sei stato sincero non andrò a spiattellarlo alle guardie.
  • Non è di questo che parlavo.
Allora poteva trattarsi solo di una cosa:  -  Vuoi sapere se sono interessata all’evasione? La risposta è no.
  • Sul serio?  -  chiese scettico.
  • Te l’ho già detto, la mia è una condanna breve. Non avrebbe proprio senso per me evadere. Voglio uscire di qui e vivere la mia vita in modo spensierato, e non trascorrere il resto dei miei giorni a scappare.
  • Quindi ti farai riassegnare alle cucine?
“Merda, non ci avevo pensato!”
  • Non posso.  -  Sospirai con espressione mesta.  -  A meno che voi non vogliate passare dei guai.
Ecco, adesso si sarebbe arrabbiato”.
  • Il fatto è che per poter convincere Pope a farmi trasferire al vostro gruppo di lavoro, ho dovuto raccontargli di aver avuto dei problemi col gruppo precedente. Se adesso chiedessi di essere riassegnata alle cucine, la cosa desterebbe dei sospetti, senza contare che Pope potrebbe pensare che anche voi mi date dei problemi e prendere provvedimenti. Insomma, non credo sia una buona idea.
  • Maledizione!  -  imprecò a denti stretti.
  • Mi dispiace.  -  dissi sincera. 
  • Non so se te ne rendi conto, ma il problema riguarda più te che noi. Tu sai a cosa andrai incontro se…
  • Si, lo so.
Lo avevo capito dal primo momento in cui Michael aveva cominciato a parlare di evasioni. Restare nel gruppo avrebbe comportato il mio coinvolgimento, ergo, un aumento di pena dai 3 ai 5 anni per un’accusa di favoreggiamento qualora il tentativo di fuga fosse stato scoperto prima della sua riuscita, e lo stesso per un’accusa di concorso in evasione se i sei galeotti fossero riusciti nell’impresa e io fossi stata indicata come persona informata sui fatti.
Proprio un bel casino!
  • Che cosa pensi di fare?
Prima di rispondere, riflettei ancora un po’ sui pro e i contro. C’era una maggioranza schiacciante dei contro.
  • Per quando è prevista l’evasione?  -  gli chiesi.
  • La prossima settimana al massimo.
Annuii pensierosa. Quella era pressappoco una buona notizia.
  • Questo significa che il più del lavoro è stato fatto. La mia unica possibilità è raccontare di non aver mai sospettato niente delle vostre intenzioni. Racconterò che durante il turno pomeridiano voi vi occupavate normalmente della ricostruzione della stanzetta, e che probabilmente progettavate la fuga durante il primo turno, quando io ero assente. Questo ovviamente prevede che la vostra brillante impresa riesca e che non vi facciate scoprire quando nella stanzetta ci sono anch’io. Sarebbe davvero la fine, per tutti noi… questa volta Keith mi farà interdire davvero, me lo sento.
Pronunciai le ultime parole tra me e me, a voce bassissima, sperando che non mi avesse sentita.
  • E’ comunque molto rischioso e tu potresti passare ugualmente dei guai. Non mi va che…
Sorrisi divertita.  -  Non dirmi che sei preoccupato per me. Tu pensa solo a Lincoln. Io cercherò di darvi una mano, così avrete due braccia in più per scavare.
 
Ancora una volta Michael mi puntò addosso uno sguardo scettico.
  • Perché vuoi aiutarci?
Feci spallucce.  -  Lincoln mi ha salvato la vita durante la rivolta. Voglio restituirgli il favore.
 
Quella non era proprio tutta la verità, ma perlomeno non gli avevo mentito. Era vero che avevo ancora un debito nei confronti di suo fratello. Che Lincoln fosse colpevole o meno, non desideravo certo la sua morte, ma in verità non volevo aiutarli per pura bontà d’animo.
Poi improvvisamente vidi il ragazzo lanciare un’occhiata alle mie spalle e sospirare, quindi mi voltai anch’io.
Accanto all’entrata le guardie si erano già radunate per richiamare i detenuti e ricondurli nel Braccio.
  • Dobbiamo andare. Ci vediamo più tardi a mensa? Ho ancora parecchie cose da chiederti.  -  disse, mentre ci incamminavamo, come il resto degli uomini sparpagliati in cortile, in un’unica direzione.
  • Vale lo stesso per me, però se non ti dispiace preferirei rimandare le confidenze a quando siamo soli.
  • Come vuoi. Questo vuol dire che passeremo un bel po’ di tempo insieme.
Di nuovo fui costretta a distogliere lo sguardo dal suo, troppo intenso.
  • Sembra proprio di si, signor Scofield.

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Capitolo 17
*** La nuova operaia ***


Non ero sicura di cosa dovessi realmente provare dopo le sconvolgenti rivelazioni di Michael.
Preoccupazione? Paura? Rabbia? Erano tutte ottime sensazioni, allora perché non riuscivo proprio a smettere di sentirmi soddisfatta e a sorridere come un emerita idiota? Mi ero appena fatta coinvolgere in un progetto d’evasione, diamine! Avrei dovuto sentirmi frustrata…si, frustrata era una buona sensazione, come anche disorientata, terrorizzata, angosciata. Ma io non riuscivo mai a provare le sensazioni giuste di fronte agli eventi che mi si presentavano davanti. Avrei voluto (dovuto, più correttamente) darmi dell’irresponsabile demente e sbattere la testa al muro fino alla mattina seguente, invece il nuovo giorno si affacciò alla cella numero 93 con un grosso sorriso stampato in volto.
Il sorriso della donna più soddisfatta di tutta Fox River.
Alle 11 tutti i detenuti si recavano ai rispettivi lavori. Io avrei dovuto raggiungere la mensa per occuparmi, come di consueto, della disposizione dei tavoli e del bancone in vista del pranzo, invece venni richiamata in infermeria per gentile richiesta della cara dottoressa Tancredi.
Al mio arrivo, trovai l’impettita dottoressa stranamente taciturna e non del suo solito umore neutrale. La novità mi sorprese, ma decisi di non badarci più del necessario e volsi lo sguardo verso la finestra, distrattamente.
Adesso capivo perché Michael avesse scelto l’infermeria come punto strategico per attuare il suo piano. A meno di un metro dalla finestra, partiva un grosso cavo metallico, probabilmente uno dei cavi elettrici principali dell’intero penitenziario. Arrivava esattamente oltre al muro di cinta, distante dalla finestra dell’infermeria circa 50 metri, e si collegava ad uno dei pali della luce esterni. Quasi sicuramente Michael e compagni avevano intenzione di utilizzare proprio quel cavo per arrivare al muro, e oltrepassarlo. Certo, prima però avrebbero dovuto raggiungere l’infermeria e togliere l’inferriata alla finestra. Il giovane ingegnere aveva messo appunto proprio un buon piano. Quando Michael aveva definito l’infermeria, l’anello più debole della catena, avevo capito subito a cosa si stesse riferendo. Quella stanza non solo era collegata al muro di cinta con un grosso cavo ma, come avevo già avuto modo di constatare, era anche un punto poco visibile dalle quattro torrette di controllo ai lati del carcere. Se il gruppetto fosse evaso di notte, nessuno si sarebbe accorto di loro. Sarebbe bastato fare attenzione al passaggio delle sentinelle in cortile che avveniva a orari prestabiliti, ma per il resto, se messo in atto nel dettaglio e cronometrato al minuto, quel piano era assolutamente perfetto, e quando nel pomeriggio tornai nella stanzetta delle guardie finalmente accolta come parte integrante del gruppo, non potei fare a meno di convincermene ulteriormente.

Era decisamente tutt’altra cosa parlare di scavare un buco e vederlo realizzare sotto i miei occhi. Più osservavo quel grosso varco al centro del pavimento di cemento diventare profondo, più mi sembrava assurdo che avessi accettato di collaborare per far evadere sei galeotti da un penitenziario di massima sicurezza. Era la cosa più pazza che avessi mai fatto in vita mia, ed era ancora più pazzo il fatto che, pur consapevole dei pericoli a cui sarei andata incontro, io mi sentissi eccitata… si, proprio eccitata al pensiero di cominciare quella nuova avventura.
Funzionava così: ogni componente del gruppo doveva occuparsi di qualcosa, svolgere un compito che in base ai turni veniva scambiato, in modo tale che tutti potessero lavorare e nessuno potesse lamentarsi. Generalmente c’era chi si occupava di scavare  -  la larghezza del buco ammetteva solo una persona per volta  -  chi si occupava dei lavori di ristrutturazione della stanzetta e chi si appostava fuori, fungendo da sentinella nel caso in cui fosse sopraggiunta una guardia.
Lì tutti erano utili, ma nessuno era veramente indispensabile, tranne Michael ovviamente. Lui era l’unico ad avere la mappa della prigione tatuata sul corpo e quindi il solo che sapesse come muoversi in quel labirinto di cunicoli e gallerie sotterranee. 
  • Non per voler marcare necessariamente la parte del sospettoso, ma siamo proprio sicuri che la ragazzina sia affidabile e non vada a spettegolare in giro i nostri piani in cambio di uno sconto sulla pena?  -  insinuò malcelatamente il mafioso, fingendo che non fossi presente.
Nonostante Michael avesse spiegato al gruppo il motivo della mia partecipazione alla loro folle impresa, Abruzzi non aveva smesso un attimo di porsi in modo prevenuto nei miei confronti. Mi odiava davvero. L’unica cosa positiva era che adesso aveva smesso di guardarmi come un’appestata. Per un problema in meno di cui occuparsi però, ce n’era sempre uno di cui non ci si riusciva proprio a liberare: T-Bag.
  • Io trovo che la nostra amica qui possa apportare un notevole contributo alla causa.  -  esclamò lascivo il depravato.  -  Ci voleva proprio qualcuno che allietasse le nostre dure giornate di lavoro.
Era un’idea fissa la sua. Davvero una bella impresa trascorrere due lunghe ore in sua compagnia senza perdere le staffe.
  • Comincia a starmi alla larga!  -  sbottai con odio. Era lui il mio unico problema.
  • Oh ma quante storie, adesso facciamo parte dello stesso gruppo. Tu ed io dovremmo sotterrare l’ascia di guerra e diventare amici.
Alzai gli occhi al cielo, scostandomi da lui e da quella sua espressione mielosa che mi dava letteralmente il voltastomaco. Avrei potuto fare amicizia persino con un licaone inferocito, ma mai con quello squallido individuo.
  • Perché invece di dare fiato alla bocca non prendi il mio posto e continui a scavare?  -  s’intromise all’improvviso Lincoln, rivolgendosi a Bagwell con tono duro come l’acciaio.
  • Ehi, volevo solo metterla a suo agio.
Lincoln fece un passo verso di lui con fare minaccioso.  -  So che cosa volevi, quindi te lo ribadisco ancora una volta in caso tu sia troppo stupido per ricordarlo: scava e sta alla larga da Gwyneth!
 
Se non avessi saputo per certo che Lincoln fosse dalla mia parte, persino io avrei avuto paura. Al posto di T-Bag, non so se avrei trovato il coraggio di replicare di fronte ad una minaccia del genere. Era stata davvero una bella fortuna fare amicizia con un tipo come Burrows e averlo come alleato. Sapeva essere davvero convincente quando voleva.
Il pervertito sembrò condividere le mie stesse opinioni in merito e si fece da parte, prendendo l’attrezzo e il posto di Lincoln all’interno del fosso.
  • Su, vieni con me, diamo il cambio a Sucre.  -  mi ordinò Burrows, aprendo la porta per far rientrare Fernando che fino a quel momento era rimasto di guardia.
Non me lo feci ripetere ed uscii insieme a lui, richiudendomi la porta alle spalle.
  • Grazie.  -  gli dissi quando fummo soli.
  • Di niente. Avevo qualcosa da farmi perdonare.  -  rispose senza guardarmi, mentre soffiava sulle mani a coppa aria calda per riscaldarle.
  • Davvero?
  • Sono stato un tantino scorbutico con te in questi giorni.
  • Un tantino, eh?
Rise.  -  Mi dispiace. Sono contento che Michael ti abbia messo al corrente, non mi andava di continuare a mentirti… troppo faticoso… e poi sono più tranquillo quando ti tengo sott’occhio. Però, proprio non riesco a capire. Se non hai intenzione di evadere, perché ti ostini a voler rimanere?
 
“Per avere risposte” avrei dovuto dire, invece scrollai semplicemente le spalle.
L’uomo mi sorrise di nuovo, e io intravidi l’opportunità di rivolgergli qualche domanda innocente.
  • Senti Lincoln, adesso che so tutta la verità sul vostro piccolo progetto, mi toglieresti una curiosità?
  • Certo, dimmi.
  • Mi hai detto di essere stato condannato ingiustamente perché sei innocente e io, davvero, vorrei crederti ma è difficile. Senza offesa, ma se chiedessi lo stesso ad ogni detenuto rinchiuso qui dentro, i 3 quarti di loro mi risponderebbe allo stesso modo. Fammi capire. Ho bisogno di qualcosa di più della tua parola per crederti. A quanto è stato detto, tu ti trovavi in quel parcheggio la notte in cui Steadman è stato trovato morto.
  • Ero lì, si.  -  ammise sconsolato.  -  Dovevo dei soldi ad un tizio, così per estirpare il mio debito accettai di fare un lavoro per lui. Mi disse che avrei dovuto trovarmi in quel parcheggio ad un orario specifico e che avrei dovuto far fuori un uomo, ma non disse chi fosse. Mi procurò l’arma e mi convinse ad agire.  -  Per un momento sembrò che la gola gli si seccasse e allora la voce gli venne meno, ma si riprese.  -  Quella sera ero terrorizzato, volevo tirarmi indietro e mi fumai uno spinello per darmi la carica… poi arrivò l’auto di Steadman. Mi feci coraggio, mi diressi verso l’auto e lo vidi ricoperto di sangue, con la testa appoggiata al volante… morto.
  • Aspetta. Steadman era già morto quando sei arrivato?
  • Si, non sono stato io a premere il grilletto. Non l’ho ucciso io.
Era da folli credere ad una storia del genere.
  • Lincoln, il video di sorveglianza del parcheggio ha ripreso te mentre sparavi contro Terrence Steadman ancora seduto nella sua auto.
  • E’ un falso. Quel video è stato manomesso!!  -  rispose risoluto alterandosi, prima di bloccarsi di colpo per guardarmi indispettito.  -  Ma tu come diavolo fai a sapere di quel video? Non lo sapevo neanch’io finché non me ne ha parlato il mio avvocato.
Ops! Presa in castagna. Urgeva una buona scusa da appioppargli. Confessare di aver raccolto informazioni su di lui e sul fratello non mi sembrava una buona idea.
  • Michael non ti ha detto che facevo la giornalista prima di essere arrestata?
  • Beh no, solo che sospettasse che tu avessi lavorato per quel giornale famoso… -  Sembrava sinceramente allo scuro. Michael aveva mantenuto la parola per una volta, tenendo per sé quello che ci eravamo detti.  -  … E’ così che hai scoperto del video?
  • Già.  -  mentii.
  • Puoi anche non credermi, ma quel video è falso. Qualcuno ha voluto far ricadere la colpa su di me per usarmi come capro espiatorio, dopodiché se l’è presa con la mia famiglia per mettermi a tacere.  -  Il suo volto si indurì all’istante, gli tremavano le mani. Si calmò quasi subito respirando a fondo.  -  Il mio unico obiettivo adesso è uscire di qua e riabbracciare mio figlio.
  • A proposito, come sta?
  • Per ora sta bene, ma ne ha passate tante. E’ solo un ragazzo. Non so proprio come ringraziarti, se non avessi parlato con lui per assicurarmi che stesse bene, penso proprio che sarei impazzito.
  • Non è stato questo gran che, credimi. Ho solo dovuto flirtare un po’ con una delle guardie. Se penso che invece tu ti sei fatto pestare a sangue dal gruppetto di T-Bag per salvarmi, mi sento ancora in colpa. Questa a confronto è una sciocchezza.
  • No, non lo è. Gwen, forse non te ne rendi conto, ma quello che hai fatto probabilmente mi ha salvato la vita. -  Lo fissai confusa, senza capire.  -  Se non avessi parlato con L-J, non credo proprio che sarei riuscito ad aspettare un’altra settimana per uscire da qui. Sicuramente avrei fatto una sciocchezza e se anche fossi riuscito a non farmi sparare addosso, avrei finito col mandare all’aria il piano di Michael e sarei finito su quella maledetta sedia. Sono io a dovermi sentire in debito con te, non il contrario… ecco perché ho assoluto bisogno di potermi fidare di te. Ho bisogno di uscire da qui, devo proteggere mio figlio. Voglio solo saperlo al sicuro. Lui è stato messo in mezzo, ma non c’entra niente.
Lo sguardo di Lincoln era così intenso mentre parlava, i suoi occhi verdi, solitamente così mansueti, sembravano scintillare. Era poco probabile che l’uomo avesse inventato quella storia di sana pianta per impietosirmi. Era chiaro che Lincoln amasse molto suo figlio e che volesse proteggerlo.
  • Sembra quasi che tu mi abbia portato qui fuori per dirmi questo.  -  dissi, valutando attentamente la sua reazione. Non mi ero sbagliata infatti, era proprio come avevo pensato.  -  Ti capisco. Immagino che nella situazione in cui ti trovi, non sia facile fidarsi di una perfetta sconosciuta.
  • No, non lo è, ma Michael si fida di te e io mi fido del suo giudizio. Il problema è che non c’è di mezzo soltanto la mia vita. Le persone a cui tengo sono coinvolte. Se tu ti lasci scappare una parola sull’evasione, sarà la fine per tutti.
  • Sta tranquillo, è anche nel mio interesse tenere la bocca chiusa adesso che sono coinvolta anch’io. 
Che strana situazione. Collaboravo con un gruppetto di detenuti ad un progetto di evasione, stringevo patti con un condannato a morte e col suo schizzato fratello e mi affezionavo pure a loro. Doveva essermi dato di volta il cervello.
Guardai Lincoln dritto negli occhi e questa volta gli parlai col cuore:
  • Io non so cosa tu abbia fatto, non so se sei colpevole o innocente. Io giudico in base a fatti concreti e, per quanto io non riesca proprio ad immaginarti come un assassino, so che al momento tu non puoi offrirmi fatti ma solo parole. Però è anche vero che mi sei stato d’aiuto quando T-Bag mi ha creato dei problemi e mi hai salvata dalle grinfie di quei delinquenti durante la rivolta, perciò… conta pure sul mio aiuto.
  • Grazie.  -  rispose, quasi si fosse appena tolto un grosso masso dal cuore. Poi di colpo aggrottò le sopracciglia, lanciandomi un’occhiata tra l’ironico e il sospettoso.  -  E così non credi che io sia innocente, eh?
Feci spallucce.  -  Credo che tu ci creda… certo, se tu potessi provarlo…
  • Secondo te se potessi provarlo sarei rinchiuso qui dentro?
A pensarci bene la situazione di Lincoln, escludendo l’omicidio e la condanna a morte, era molto simile alla mia. Come me si proclamava innocente, ma non aveva le prove per dimostrarlo. Come me stava cercando di risalire da una situazione assurda, ma c’erano troppi nemici da contrastare e troppe poche spalle alle quali aggrapparsi.
Se Lincoln non aveva ucciso Terrence Steadman ed era stato davvero incastrato, allora qualcun altro aveva premuto il grilletto, forse qualcuno che avrebbe tratto profitto dalla morte del fondatore della Ecofield. E se per caso i traffici tra la Ecofield e la F.I.L.C.A avessero in qualche modo avuto a che fare con l’omicidio di Steadman? Dovevo assolutamente saperne di più.
  • Hai detto che il video che ti inchioda come colpevole è stato manomesso, secondo te, perché qualcuno voleva incastrarti, ma consideriamo i fatti: perché qualcuno dovrebbe far ricadere la colpa di un omicidio che non hai commesso su di te? E soprattutto chi?
Lincoln piegò la testa di lato e rifletté concentrato, mentre io aspettavo.

“Forza amico, dammi qualche dritta!”

Improvvisamente l’uomo si fece più vicino, guardò a destra e poi a sinistra per assicurarsi che nei paraggi non ci fossero guardie in avvicinamento. Dall’altro lato del campo, Louis Patterson stava controllando i detenuti intenti a completare i lavori di rastrellamento esterno. 
  • Io non so chi possa guadagnarci a volermi morto e perché, ma secondo i miei avvocati Terrence Steadman non era proprio il sant’uomo che tutti credevano.
  • Che vuoi dire?  -  chiesi perplessa.
  • Steadman non si è sempre occupato di affari propriamente legali. Qualche tempo fa la sua società è stata accusata di frode, e sembra essere opinione comune il fatto che molti avrebbero trovato conveniente sbarazzarsi di Steadman una volta per tutte. Ognuno di loro potrebbe aver voluto addossare la colpa a me per allontanare i sospetti da sé.
Un campanellino aveva tintinnato nella mia testa alla parola frode. Avevamo appena imboccato il sentiero giusto.
  • Esattamente contro chi stiamo puntando il dito?  -  chiesi, sperando che questo potesse incoraggiarlo a darmi qualcuno dei dettagli che tanto bramavo.
  • Al momento contro nessuno, però i miei avvocati possono provare cosa sto dicendo.
  • E allora perché non usano queste prove per dimostrare la tua innocenza? Cavolo, manca una settimana alla tua esecuzione!
Senza accorgermene avevo alzato la voce. Lincoln sospirò triste.
  • Non è ancora abbastanza, ci sono solo ipotetici nomi di sospettati, mentre servirebbero prove risolutive.
  • Rinviarla?
  • Neanche.
  • Ma questa è una cosa…
  • Shhh!!  -  mi zittì all’improvviso, tirandomi all’interno dell’anticamera del magazzino.  -  Arriva una guardia!
Lincoln avvertì il gruppo all’interno della stanza con due colpetti di avvertimento alla porta, poi si voltò nuovamente verso di me.
  • Va dentro e fa finta di niente come gli altri, fingi di lavorare.
Non me lo feci ripetere. Mi ero lasciata coinvolgere così tanto dal discorso da non accorgermi dell’avvicinarsi di Louis verso il magazzino. Come sentinella ero veramente un disastro. Per fortuna Lincoln aveva tenuto gli occhi aperti per tutti e due.
Dentro, in pochi secondi, tutto era già stato rimesso a posto, il buco era stato coperto con l’asse di legno, la moquette era stata risistemata, il tavolo posizionato al suo posto. Ero rientrata giusto nel momento in cui gli operai tornavano ai loro posti di lavoro per fingersi in piena attività, quindi mi unii a loro, mostrandomi indaffarata tanto quanto il resto dei miei compagni. Due minuti dopo, Louis entrò nella stanza, interrompendoci.
  • Forza ragazzi, tutti fuori!  -  ordinò il secondino, piazzandosi all’ingresso con entrambe le mani sui fianchi.
Sei facce stranite indirizzarono su Louis la stessa identica espressione.
  • Che succede capo?  -  chiese Abruzzi.
  • Uscite fuori e sistematevi nell’angolo, forza, non fatemelo ripetere.
  • Ma capo, il nostro turno non è ancora finito.  -  continuò C-Note, visibilmente preoccupato.
  • Niente storie, fate come ho detto.  -  Louis non sembrava intenzionato a darci ulteriori spiegazioni.  -  Raggiungete quell’angolo e restateci finché non vi chiamo.
Costretti ad obbedire, uscimmo come ci era stato ordinato e andammo a piazzarci nell’angolo di fronte al locale caldaie, ad aspettare. I minuti passavano e attorno a me cominciai a sentire l’ansia dei miei compagni crescere. Tutti ovviamente si chiedevano se Louis ci avesse interrotti perché sospettasse qualcosa dell’evasione.
  • Questa cosa non mi piace. Che cosa starà combinando là dentro?  -  sbottò Abruzzi, cominciando a camminare avanti e indietro.
  • Calma, se avesse scoperto qualcosa, avrebbe già dato l’allarme.  -  La voce di Michael era molto calma a dispetto della sua espressione corrucciata. Cercava di tenere tranquilli i suoi uomini, ma nel frattempo non riusciva a schiodare gli occhi dall’ingresso del magazzino.
  • Mi piacerebbe sapere perché ci ha chiesto di uscire.  -  Anche Lincoln era preoccupato.
  • Ragazzi rilassatevi, Louis se la sta solo spassando con Becky. Tra mezz’ora al massimo saranno fuori.  -  esclamai ammiccando.
Ero sorpresa che nessuno si fosse accorto della presenza della segretaria del direttore nell’anticamera del magazzino. Avevo dato per scontato che almeno Michael avesse intuito le intenzioni del secondino, invece appena avevo pronunciato il nome di Becky, sei paia di occhi palesemente sorpresi e ignari si erano posati su di me con aria interrogativa, come se avessi appena svelato uno dei sacri misteri biblici.
  • Ma dai, non ditemi che non ve ne siete accorti!  -  Alzai gli occhi al cielo.  -  La segretaria del direttore, Becky, era nascosta nel magazzino, dietro uno degli armadi. Louis ci ha chiesto di uscire perché potesse sgattaiolare insieme a lei nella stanzetta. Quei due se la intendono da un po’. Di solito Louis raggiunge Becky nell’anticamera dell’ufficio del direttore dopo che quest’ultimo è uscito, ma probabilmente oggi Pope resterà nel suo ufficio un po’ più a lungo… che c’è?  -  chiesi improvvisamente, stupita dall’espressione sbigottita e scettica che mi stavano rivolgendo tutti.
  • Si può sapere come fai a sapere tutte queste cose?  -  mi domandò Sucre, sollevando un sopracciglio ad arco.
  • Tengo orecchie e occhi ben aperti, e comunque, per essere sei speranzosi detenuti in via d’evasione, non siete poi così attenti. Non vi siete nemmeno accorti della presenza di Becky dietro l’armadio. Per non parlare di Louis. Non avete notato la fretta con la quale ci ha sbattuti fuori?  -  Nessuno rispose.  -  Davvero? Non avete guardato la sua camicia?
  • E adesso che c’entra la sua camicia?  -  sbuffò Lincoln.
  • Siete proprio senza speranze! Louis aveva la camicia perfettamente stirata. Secondo voi è possibile non spiegazzare la camicia dopo 5 ore e mezza di turno? E’ ovvio, l’aveva appena cambiata perché aveva dato appuntamento a Becky.
  • Secondo me tu non ci riesci proprio a non mettere il naso nelle faccende che non ti riguardano.  -  bofonchiò Abruzzi, facendomi arrossire.
Solo allora sentii la risata di Michael alle mie spalle.  -  Ma perché vi sorprendete tanto? E’ riuscita a scoprire da sola che stavamo progettando un’evasione e volete che non si accorga che tra la segretaria di Pope e Patterson ci sia del tenero?
 
Ignorai la frecciatina sarcastica del ragazzo, adesso visibilmente più tranquillo, con un’alzata di spalle. Avevo la sensazione che tutti loro mi vedessero come una ficcanaso e non è che la cosa mi entusiasmasse gran che.
Restammo a lungo ad aspettare, stretti nelle nostre tute blu da operai, incapaci da sole di ripararci da quel vento gelido che penetrava fin nelle ossa. Circa 30 minuti dopo, come avevo predetto, Louis uscì dal magazzino, seguito da Becky con uno scarto di tre secondi.
  • Visto, ve l’avevo detto!  -  esclamai soddisfatta.
  • Ma che figlio di puttana!!  -  sbottò Lincoln.  -  Lui se la spassa con la segretaria e noi aspettiamo i suoi porci comodi, congelandoci al freddo.
Concordavo in pieno col mio amico.
  • Forza, assicuriamoci che non abbiano combinato guai.  -  disse Michael, incamminandosi verso il magazzino.
Ormai era chiaro che Louis non sarebbe più tornato a chiamarci. La sveltina con la segretaria gli aveva fatto completamente dimenticare di noi. Non c’era tempo per continuare ad aspettare, avevamo del lavoro da fare. Lo scavo doveva essere completato entro quel pomeriggio, perché l’11 Maggio ormai era alle porte e a Lincoln mancavano solo pochi giorni prima della fatidica esecuzione.

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Capitolo 18
*** Gelosa ***


Ci impiegammo più del previsto a completare gli scavi e a creare il passaggio che permettesse di raggiungere la galleria sotto la stanzetta delle guardie, ma quando gli ultimi detriti precipitarono e il passaggio divenne agibile, fu come assistere ad una festa. Ci furono sorrisi, strilli di entusiasmo e sulle facce di tutti lessi un’indicibile soddisfazione. Infondo, quel varco aperto verso la libertà rappresentava una speranza non solo per Lincoln che era stato condannato a morte, ma anche per uomini come Bagwell e Abruzzi. Avendo uno o più ergastoli da scontare, non sarebbero mai riusciti ad uscire vivi da Fox River se non avessero conosciuto Michael Scofield. Personalmente, ritenevo abominevole rimettere in libertà individui simili, ma d'altronde non stava a me giudicare, non sarei certo stata io a portarmeli dietro come una zavorra alle calcagna.
  • Stolte in avvicinamento, ricoprite tutto!  -  ci avvertì Bagwell, segnalando l’arrivo di una guardia.
Accantonato l’entusiasmo, rimettemmo nuovamente tutto a posto nel giro di dieci secondi e ricominciammo a fingere di lavorare come bravi operai. Quando Keith Stolte fece il suo ingresso nella stanzetta, ognuno di noi stava svolgendo il proprio compito con una convinzione che avrebbe piegato persino il secondino più scettico. Eravamo dei bravi attori.
  • Scofield, ci sono visite per te.  -  esordì pratica la guardia, rivolgendosi al ragazzo piegato accanto ad un secchio di calcestruzzo appena preparato.  -  E’ tua moglie.
Fu come un fulmine a ciel sereno. Quelle tre parole mi sprofondarono nel cervello, lentamente, una alla volta, mozzandomi il respiro.
Moglie, ripetei nella mia testa, mentre dirigevo uno sguardo assolutamente sconcertato verso Michael.
Doveva trattarsi di uno scherzo, nessuno mi aveva detto che Michael avesse una moglie. Lui non ne aveva mai fatto parola e d'altronde, neanch’io avevo letto nulla in proposito sul suo fascicolo. A pensarci bene però, le informazioni che Keith aveva reperito per me, si riferivano a prima dell’incarcerazione di Lincoln, ossia più di un anno addietro. In un anno potevano accadere un sacco di cose… sposarsi, per esempio.
Moglie, maledizione.
Non so perché la cosa mi desse così tremendamente fastidio. Io e Michael avevamo appena deciso di fidarci l’uno dell’altra, lui mi aveva messa al corrente dell’evasione, inoltre conoscevo praticamente a memoria il suo fascicolo. Però del fatto che fosse sposato non ne sapevo niente.
Mentre guardavo il ragazzo venir scortato da Stolte alla sua inaspettata e misteriosa visita coniugale, non riuscii ad impedirmi di chiedermi che tipo fosse la fantomatica signora Scofield. Me la immaginavo alta e carina… magari pure bionda.
 
Dio, fa che non sia bionda!
  • Deve roderti parecchio l’idea che il tuo amichetto abbia ottenuto una visita coniugale, eh? Dovresti vedere che espressione da cane bastonato hai.
Senza che me ne accorgessi, Bagwell mi era apparso di lato, cingendomi le spalle con fare intimo. La sua presenza, inaspettata oltre che sgradita, mi aveva fatto trasalire.
  • Toglimi subito le mani di dosso!  -  scattai, spingendolo via.
  • Oh, ma che caratterino! Lo sai che sei proprio carina quando diventi gelosa.
Alzai gli occhi al cielo e provai ad ignorarlo, rimettendomi a radunare mucchietti di detriti per nasconderli dietro le pareti di cartongesso, mentre gli altri tornavano al varco sul pavimento. Speravo che T-Bag, scoraggiato dal mio silenzio, decidesse di piantarla, ma forse stavo dimenticando con chi avevo a che fare.
  • Scommetto che in questo momento il boyscout se la starà spassando con la sua dolce mogliettina, non credi anche tu tesoro?  -  Sorrise sfacciato, gironzolandomi attorno come una fastidiosa zanzara.  -  Le visite coniugali vengono concesse solo alle coppie sposate e immagino tu sappia come si utilizzi il tempo in queste occasioni…
  • Basta T-Bag.  -  ordinò Lincoln raggiungendoci.
  • Stavo solo cercando di consolare la nostra amica, non dev’essere una cosa bella immaginare il proprio uomo tra le braccia di un’altra donna.
  • Michael ed io non stiamo insieme!  -  sbuffai con voce bassa, cupa.
Ero molto vicina a perdere le staffe, cosa che, trattandosi di T-Bag, non mi stupiva affatto.
  • Scusami. Credevo di si.
Poche persone al mondo riuscivano a farmi smuovere i nervi come ci riusciva quell’uomo. Avrei tanto voluto saltargli addosso brandendo un martello in mano, solo per togliermi la soddisfazione di cancellare dal suo volto quell’odioso sorrisetto sardonico, pensato proprio allo scopo di provocarmi.
Non potendo più accanirsi contro di me a causa dell’intervento provvidenziale di Lincoln, il pedofilo dovette ripiegare sugli altri due compagni. Mentre aspettavamo che Michael tornasse, il discorso slittò su un nuovo argomento provocatorio: le differenze di razza, e visto che C-Note era l’unico afroamericano presente nel gruppo e Sucre era portoricano, tra i tre iniziò subito un acceso dibattito che però feci fatica a seguire, presa com’ero dai miei pensieri.
  • Che succede Sawyer? Non dirmi che te la sei presa per le provocazioni di quell’idiota.
Alla mia destra, Lincoln aveva iniziato a trafficare con i pannelli di cartongesso, fissandomi in attesa di una risposta.
  • Figurati.  -  grugnii.  -  Senti un po’, tu lo sapevi che Michael ha una moglie?
  • Non proprio, no.
  • E la cosa non è un po’ strana? Voglio dire, forse si è trattato solo di una trovata… si, una delle sue. Magari quella che è venuta a trovarlo è… beh, non è davvero sua moglie.
Lincoln scrollò le spalle.  -  Può darsi, però così dai l’impressione di pensarci troppo e rischi di dare ragione al depravato.
 
Sospirai a disagio e tornai al lavoro. Infondo Lincoln aveva ragione. Perché ci stavo ancora pensando? Non erano certo affari miei. No, non lo erano. Eppure, quando 20 minuti dopo Sucre fece capolino dalla porta avvertendoci del ritorno di Michael, mi sentii stranamente a disagio, come se per qualche motivo sentissi di avercela a morte con lui, ma non riuscissi a ricordarne il motivo.
  • Hai fatto presto… com’era la sala trastulli, amico?  -  esclamò Fernando alla comparsa del suo compagno di cella.
  • Non ora, Sucre.  -  rispose Michael scontroso.
  • Io ti ho raccontato tutto di me e tu non mi hai raccontato che hai una moglie…
Non ero l’unica evidentemente ad essere rimasta spiazzata dall’inaspettata notizia che Michael fosse sposato. Lo stavamo guardando tutti incuriositi, quasi ci aspettassimo di sentirgli raccontare i dettagli del suo incontro.
  • Non. Ora.  -  sillabò in risposta il ragazzo perché il concetto fosse chiaro a tutti.
Non sembrava che l’incontro fosse stato dei più soddisfacenti. Forse non era andata come lui aveva immaginato… o come io mi stavo sforzando di non immaginare.
  • Ora che i lavori di scavo sono stati terminati, ho bisogno di utilizzare il passaggio per mettere a punto gli ultimi dettagli prima della fuga. Voi dovrete restare qui di guardia.  -  riprese Michael serio.
  • Ehi no, non se ne parla, che facciamo se nel frattempo arriva una guardia e non ti trova?  -  obiettò C-Note allarmato.
  • Dovrete cercare di prendere tempo. Se vogliamo accelerare i tempi e sapere esattamente quanto ci servirà per raggiungere l’infermeria e scavalcare il muro, dovrò andare là sotto e Gwyneth verrà con me.
Sollevai di scatto la testa sentendomi improvvisamente tirata in causa. Non me l’ero aspettata.
  • Cosa? Io?  -  chiesi spiazzata.
  • Esatto. Voglio che qualcuno impari a memoria la strada oltre a me, nel caso io sia impossibilitato a condurvi fino al luogo della fuga.
  • E perché proprio la ragazzina? Voglio venire io lì sotto.  -  si lamentò C-Note.
Michael gli rivolse un’espressione irremovibile.  -  Ho detto Gwyneth! Senza la pianta della prigione non è per niente facile muoversi tra le gallerie sotterranee, basta poco per perdersi. Gwyneth, a differenza vostra, ha una memoria fotografica, significa che per lei sarà più semplice ricordare il percorso anche senza la mappa davanti. Ecco perché voglio che sia lei a venire, così se per qualche motivo io non potessi accompagnarvi, almeno potrete cercare di convincerla a farvi da guida.
 
A quella brillante spiegazione ad effetto nessuno poté appellarsi, quindi fu deciso che io e Michael ci calassimo attraverso il passaggio. Michael scese per primo, poi aiutò anche me dal basso, così che potessi atterrare tra le sue braccia graciline piuttosto che finire col sedere per terra.
  • Sta tranquilla, presto gli occhi si abitueranno all’oscurità.  -  mi rassicurò mettendomi giù, prima di cominciare ad incamminarsi con me a fianco.  -  Quante volte hai bisogno di percorrere il percorso fino all’infermeria per memorizzarlo completamente?
  • Una volta basta e avanza.
Sentivo il rumore dei miei passi incerti e di quelli più sicuri di Michael, risuonare nel vuoto di quello spazio ignoto e stretto. La galleria riusciva a contenere a stento due persone in larghezza, presto però lo spazio si fece più ampio.
  • Una volta sola? Sul serio? Wow, scommetto che a te non sarebbe servito tatuare la mappa di questo posto sul corpo.
  • Decisamente no, troppo appariscente.
A poco a poco gli occhi cominciarono ad abituarsi alla penombra, come preannunciato da Michael. Fu in quel momento che notai il sorriso appena accennato del ragazzo.
  • Certo, ora capisco perché sei riuscita a battermi per ben due volte a scacchi… ti ricordavi esattamente ogni singola mossa fatta?
  • In pratica si. E’ una cosa… naturale per me, spesso non ci faccio caso.
  • Si capisco.
  • Così, questo è il percorso per raggiungere l’infermeria?
  • No.
  • Allora dove stiamo andando?
  • Al deposito dove tengono i nostri effetti personali.
  • Ovvio. Chissà perché non ci sono arrivata subito.  -  esclamai sarcastica.
  • Devo recuperare delle cose che mi appartengono, poi torneremo subito indietro.
  • E quando mi mostrerai il percorso per l’infermeria?
  • Beh, non ho nulla in contrario a mostrartelo, ma è un po’ complicato arrivarci. C’è da arrampicarsi e noi non abbiamo tempo.
Lo fissai aggrottando le sopracciglia.  -  E allora per quale motivo mi hai portata qua sotto?
  • Perché pensavo che volessi spiegazioni riguardo a mia moglie e che non me le avresti chieste con gli altri presenti.  -  Arrossii come una ragazzina fino alle punte dei capelli quando mi resi conto di essere stata presa letteralmente in castagna.  -  Adesso siamo soli. Dai, chiedi pure.
  • Guarda che ti sbagli!!  -  L’imbarazzo mi fece ribattere con voce stridula.
Sorrise, come se sapesse il fatto suo.  -  Davvero? Non sei neanche un tantino curiosa?
 
Maledizione, aveva capito tutto di me!
 
Giunti accanto ad una scala, Michael si fermò guardandomi dritto negli occhi con quel suo sguardo, quello che non riuscivo a sostenere a lungo senza arrossire, quello che riusciva sempre a mettere a nudo i miei pensieri, quello che, mio malgrado, avevo imparato ad adorare.
Prima che potessi anche solo pensare ad una risposta da dargli, il ragazzo mi sorrise di nuovo, comprensivo.
  • Si chiama Nika.  -  riprese.  -  Lei è arrivata in America dalla Repubblica Ceca in cerca di lavoro, ma senza permesso di soggiorno. Un giorno la conobbi per caso, seppi che degli uomini volevano sfruttarla per soldi e decisi di aiutarla.
  • Non la conoscevi nemmeno.
  • Già, ma aveva bisogno di aiuto.  -  si giustificò, voltandosi per proseguire lungo la rampa di scale.  Lo seguii.  -  L’ho sposata il giorno prima di andare a rapinare quella banca e di farmi arrestare. Volevo solo che ottenesse la carta verde e che fosse libera. Nient’altro.
A quel punto avevamo ormai raggiunto uno dei corridoi interni del penitenziario, accedendovi attraverso un ingresso di sicurezza riservato al personale sanitario. Percorrendo le gallerie sotterranee avevamo risalito il penitenziario, ritrovandoci nell’ala est di Fox River. Doveva trattarsi di una zona poco controllata e soprattutto poco trafficata. Non incontrammo nessuno nei paraggi. Poco più avanti, ci ritrovammo di fronte ad una porticina priva di serratura, regolata da un sistema di apertura a tessera magnetica.
  • Fantastico! E adesso come pensi di entrare?  -  mormorai scoraggiata.
Non avrei dovuto chiederlo. Lo guardai esterrefatta, mentre tirava fuori una tessera magnetica dalla tuta, la faceva strisciare attraverso il sistema elettronico e apriva la porta senza far scattare l’allarme.
  • Sono ufficialmente sbalordita!  -  confessai a bocca aperta, entrando insieme a lui nel deposito.  -  Adesso per favore spiegami, perché mi sono persa.
  • Come ti ho già detto, la società per la quale lavoravo prima di essere arrestato, alcuni anni fa ottenne l’appalto per dei lavori qui a Fox River  -  iniziò, girando per gli scaffali con il naso all’in su per passare in rassegna i vari contenitori etichettati.   -  Quando ho sottratto tutte le documentazioni, oltre alla mappa del penitenziario, ho trovato anche i vari codici di sicurezza, tra cui quello di questa stanza.  -  Lo vidi prendere, tra le altre, una busta di carta gialla, controllarne il contenuto e infilarsela dentro la tuta, prima di tornare indietro.  -  Non ho dovuto far altro che procurarmi una tessera magnetica, copiarci il codice corretto e depositarvi sopra un adesivo affinché passasse per una carta di credito. Dopodiché l’ho consegnata a Nika, chiedendole di farmela avere al momento opportuno. Era questo il nostro accordo: carta di credito in cambio della carta verde. Oggi è venuta a trovarmi qui a Fox per consegnarmela, tutto qui. 
  • Oh.  -  mormorai, cercando di soffocare il sollievo, incredibilmente confortante, alla notizia di quel matrimonio di convenienza.
Proprio mentre cercavo di mascherare il sorriso soddisfatto sulla mia faccia però, Michael se ne accorse, così fui costretta a sviare la sua attenzione con la domanda successiva:
  • Ma scusa, che cosa sei venuto a cercare qui dentro?
  • I miei effetti personali. Prima di tentare la fuga ho bisogno di sapere esattamente quanti minuti avremo per raggiungere l’infermeria, togliere l’inferriata, scavalcare il muro tutti e 6 e scappare prima del successivo turno di guardia.
  • A-ah. E come pensi di scoprirlo?
  • Semplice, costruendo un congegno che registri i turni di guardia sotto l’infermeria.  -  L’occhiata scettica che gli lanciai, lo convinse a spiegarsi meglio.  -  Servirà soltanto un piccolo registratore e un orologio d’oro che attivi il meccanismo. Non è complicato.
“Non è complicato”, diceva lui, eppure chissà perché la ragazza col quoziente intellettivo più alto era sbalordita e senza parole, mentre il galeotto con la fissa per le evasioni costruiva congegni temporali con un registratore e un orologio. Cominciavo seriamente ad avere dei dubbi su chi dei due fosse il vero genio tra noi.
Quando tornammo indietro, Michael cercò di spiegarmi come fosse possibile costruire un congegno di registrazione con timer incorporato finché, giunti nelle vicinanze del passaggio, udimmo le voci concitate di 5 uomini che stavano discutendo animatamente e ci affrettammo. Una volta risaliti nella stanzetta delle guardie, il gruppo si calmò ma la tensione restò palpabile. Non avevo idea di cosa fosse accaduto durante la nostra assenza, ma avevo la sensazione che si fosse scatenato l’ennesimo “Tutti contro T-Bag”.
Chissà cos’altro aveva combinato.
  • Se continuate a parlare così forte le guardie vi sentiranno. Vi si sentiva dalla galleria.  -  si lamentò Michael, mentre ricopriva il passaggio con l’asse di legno e la moquette.
  • Oh ma sentitelo!  -  sbuffò Bagwell, incrociando le braccia al petto.  -  Per il boyscout è tutto divertimento mentre noi qui sopra ci spacchiamo la schiena.
  • Nessuno ti costringe a rimanere.  -  sbottò scocciato Lincoln.
Il pervertito continuò a fissare Michael con sdegno.  -  Io faccio parte del progetto tanto quanto voi, sia chiaro, ma non ho ancora capito chi abbia eletto come nostro capo il qui presente signor Scofield. Per caso ci hai scambiati per i tuoi operai personali?
  • Piantala di lamentarti T-Bag!  -  Anche Abruzzi sembrava averne sentite già abbastanza.
Niente da fare, il pedofilo era partito in quarta e sembrava avercela a morte con Michael.
  • Prima te ne vai a spassartela nella sala trastulli con tua moglie, poi trascini con te in mezzo alle gallerie la sgualdrinella…
  • Ehi!!!  -  esclamai stizzita, sentendomi tirata in causa con un appellativo non proprio educato.
  • … ho l’impressione che per te sia tutto piacere e che il lavoro pesante spetti solo a noi.
Seguì un breve silenzio, durante il quale Michael e Bagwell si sbirciarono a vicenda, sostenendo l’uno lo sguardo dell’altro con fare minaccioso. La tensione crebbe. Tutti noi, immobili e in attesa, aspettavamo che uno dei due facesse la prima mossa ma con mia grande sorpresa non esplosero liti, non volarono imprecazioni, né tantomeno minacce. Veloce com’era iniziata, finì. All’improvviso, Michael distolse lo sguardo da T-Bag e continuò a fare quello che stava facendo, come se quest’ultimo non avesse nemmeno aperto bocca, come se non esistesse.
  • Il turno di lavoro sta per terminare.  -  disse senza scomporsi, rivolgendosi al resto del gruppo.  -  Dobbiamo ancora finire di rimettere a posto gli attrezzi. Forza.
Non ci furono più lamentele. Ognuno di noi si diede da fare per rimettere la stanza a posto, prima del ritorno della guardia. Ero sicura che il disinteressamento di Michael nei confronti di T-Bag fosse servito a fargli abbassare la cresta e che per un po’ l’uomo l’avrebbe piantata di infastidire gli altri, ma dovetti ricredermi quando lo vidi avvicinarsi a me con la scusa di raccogliere e radunare gli ultimi attrezzi.
  • Vi siete divertiti là sotto tu e il ragazzino, eh?  -  ricominciò viscido.
  • Non ne hai idea!  -  rimbeccai acida, allontanandomi.
  • Che ne diresti di far divertire anche noi adesso? Infondo facciamo parte della stessa squadra.
Fece qualche altro passo verso di me e ci ritrovammo a pochi centimetri di distanza.
Per qualche ragione, ormai avevo capito che quel gongolare maligno in realtà non fosse affatto diretto a me, ma servisse a provocare Lincoln e Michael, che purtroppo al momento non ci stavano guardando.
  • Perché non provi a lasciarmi in pace?
  • Potrebbe piacerti.  -  continuò, affondando il naso tra i miei capelli e facendosi pericolosamente vicino.
Dovetti spingerlo via con forza.  -  Sei disgustoso!
 
A quel punto avevamo ormai attirato l’attenzione di tutti.
  • Sei di nuovo vicino a lei?  -  sbottò Lincoln alterandosi.  -  Cos’è, devo darti una lezione per farti entrare in testa che devi restarle alla larga?!
  • Sto solo scambiando due parole con la mia amica.  -  si giustificò con una gran faccia tosta, prima di rivolgersi nuovamente a me e aggiungere sottovoce  -  Ma quanto la fai lunga! Sei solo una sgualdrinella come tutte le altre.  - 
E prima che potessi allontanarmi da lui, mi prese alla sprovvista, passandomi accanto per palparmi il sedere con forza. Dovetti raddrizzarmi di colpo per spingerlo lontano da me.

-   Razza di bastardo!!!  -  gridai indignata e pronta a massacrarlo. 
Alle mie spalle improvvisamente percepii un ruggito animalesco, profondo, selvaggio, pieno di furia. Non feci in tempo a voltarmi che Lincoln era già balzato contro T-Bag, bloccandogli braccia e collo e scaraventandolo contro una delle pareti di cartongesso appena sistemate.
  • Che cosa le hai fatto?!  -  gli gridò in faccia con ferocia.
  • Non le ho fatto proprio niente!
Lincoln lo alzò letteralmente di peso con una solida presa sul collo. Gli fece sbattere la testa contro il muro e continuò a fissarlo con una gelida freddezza mentre l’uomo, respirando a fatica, cercava di liberarsi e si lamentava.
  • Lincoln lascialo!  -  intervenii, visto che nessun altro lo fece.
  • Ha bisogno di una lezione.
  • Dai mettilo giù prima che arrivino le guardie. Sono sicura che ha capito.
Lincoln mi diede ascolto e lo mise giù, allontanandosi successivamente. Anche Bagwell, dopo essersi ripreso e sistemato mi passò accanto, allontanandosi. Sul suo viso era ancora impresso il sorriso sfacciato di chi sa di averla fatta franca ancora una volta. L’intervento di Lincoln non era servito a niente, non sarebbe servito nemmeno pestarlo a sangue, minacciarlo di morte o staccargli i denti uno ad uno. Lui era fatto così. Si sentiva in diritto di fare tutto ciò che voleva: torturare i detenuti, uccidere una povera guardia indifesa dopo averla massacrata e pugnalata allo stomaco, e persino palparmi il sedere, trascinarmi per i capelli per tutto il penitenziario e magari chiudermi in uno stanzino, stuprarmi, uccidermi. Per Theodore Bagwell tutto era lecito, tutto era fattibile.
In quel preciso istante mi resi conto che lo odiavo con tutte le mie forze e che avrei voluto ucciderlo con le mani. Per colpa di quel lurido individuo avevo vissuto momenti terribili a Fox River. Lui era la causa di tutti i miei mali. Lo odiavo. Non ne potevo più di guardarmi continuamente le spalle da lui, di avere paura.
Mentre ci stavamo preparando per lasciare la stanza delle guardie, aspettando che uno dei secondini ci raggiungesse per scortarci nelle nostre celle, le gambe mi guidarono verso la carriola che avevamo riempito con tutti gli attrezzi, quindi presi una delle assi di legno ammucchiate sopra, senza dare troppo nell’occhio.
Avevo la mente completamente sgombra quando avanzai di un paio di passi verso T-Bag, posto di spalle. Raccolsi tutte le mie forze e gliela frantumai in testa, distruggendo l’asse in due pezzi. L’uomo cadde a terra tramortito dal colpo senza nemmeno emettere un lamento, mentre cinque facce esterrefatte puntavano i loro occhi sgranati su di me.
  • Ma cosa diavolo ti è preso? Sei per caso impazzita?!  -  scattò C-Note, inginocchiandosi accanto al pervertito, probabilmente per accertarsi che fosse ancora vivo.
Probabilmente lo ero, impazzita. Avevo davvero ucciso un uomo? Mi avrebbero condannata ad altri 30 anni per aver tolto di mezzo un mostro simile?
Con mia grande sorpresa mi resi conto che non m’importava, ma forse era solo perché il mio corpo era ancora saturo di adrenalina e rabbia.
Cosa mi stava succedendo? La mia mente era entrata in modalità stand-by, indecisa, inerte come il resto del mio corpo. Tutto il resto era scomparso, ero sola e ai miei piedi Theodore Bagwell era ancora immobile. Ripresi il senso della realtà, solo quando vidi materializzarsi davanti ai miei occhi il viso di Michael e lo sentii sfilarmi delicatamente dalle mani il pezzo dell’asse di legno sopravvissuto allo schianto. 
  • Va tutto bene… sta calma… Gwen, guardami.
Nonostante avessi il cervello in panne, riuscii a capire che Michael e Lincoln fossero preoccupati per me, ma non capivo il perché. Avrebbero dovuto essere preoccupati per Bagwell piuttosto, era lui quello stecchito a terra. Lentamente, il mio cervello ricominciò a funzionare. Mi occorsero alcuni interminabili secondi per ricordare come si articolassero le parole.
  • Lui è… è…?
Non feci in tempo a completare la domanda che l’uomo a terra, aiutato da C-Note e Sucre, si mise lentamente in piedi, guaendo dolorante. Un rivolo di sangue gli gocciolava dalla fronte larga, ma era vivo e vegeto, solo un po’ stordito. Purtroppo. In fin dei conti non era stato poi questo gran colpo, non era neanche svenuto.
  • Piccola maledetta puttana, hai appena firmato la tua condanna a morte.  -  sibilò il pedofilo, sbattendo gli occhi, furioso.
Il mio volto era una maschera di ghiaccio. Sapevo di aver appena aizzato un dobermann inferocito, ma perlomeno quei dieci secondi che era rimasto steso a terra mi avevano fatta sentire meglio. Ero stata minacciata, picchiata, molestata e persino lasciata a digiuno per colpa di quel depravato.
  • Sparisci immediatamente prima che finisca il lavoro, T-Bag.  -  lo minacciò Lincoln, inchiodandolo con un’occhiata che non ammetteva repliche.
La guardia fece il suo ingresso nella stanza proprio in quel momento, trovandoci schierati su due file opposte a scrutarci in cagnesco.
Nessuno di noi disse più nulla, mentre percorrevamo la strada di ritorno verso il Braccio A, in fila. A poco a poco cominciai a sentirmi pesante, sempre più pesante e mi accorsi, arrivati nelle vicinanze della mia cella, di stare tremando. Smaltita l’adrenalina, la consapevolezza del mio folle gesto aveva cominciato a prendere piede, mandando nel panico i miei neuroni. Avevo dichiarato guerra aperta all’uomo che era riuscito a rendere un mese della mia vita un inferno, e anche se stavo cercando con tutte le mie forze di nascondere ciò che provavo, era piuttosto ovvio che fossi terrorizzata, oltre che spacciata.
  • Non farti spaventare da quello psicopatico, Sawyer. Non lasciare che ti spaventi con le sue minacce. Non si avvicinerà neanche a te, non lo permetterò.
Lincoln ce la stava mettendo tutta per rassicurarmi, ma la verità era che né lui né nessun altro avrebbero potuto proteggermi per sempre.
  • Stai per tornare nella tua cella isolata da tutti per restarci fino a domattina. Come pensi di evitare esattamente che T-Bag si avvicini a me?  -  gli chiesi spavalda, senza riuscire ad evitare però che la mia voce continuasse a tremare.
  • Ci saranno Michael e Sucre.
  • Oh beh, allora non ho nulla da temere!  -  Il sarcasmo non riuscì.  -  Scommetto che hai detto le stesse cose al povero Bob, prima che venisse preso di sorpresa alle spalle e pugnalato. Sappiamo tutti qual è la verità. T-Bag ha avuto così tante occasioni di uccidermi, che spesso mi sorprendo di non essere già finita a mangiare terra e a far compagnia a Bob… senza contare che lui sa tutto sul vostro progetto di evasione, se gli metterete i bastoni tra le ruote, lo spiattellerà ai quattro venti. E’ questa la verità: T-Bag vi tiene in pugno.
  • Gwen, non permetterò che ti accada nulla.  -  mi promise Michael, guardandomi dritto negli occhi.
  • Si.  -  annuii senza convinzione.
Avrei voluto possedere solo la metà della loro sicurezza, avrei voluto mostrarmi fiduciosa, ma mi sentivo a pezzi e per di più mi pizzicavano gli occhi, segno che avessi un gran bisogno di sdraiarmi sulla mia branda, nella solitudine della mia cella, e di sfogarmi aggrappata al cuscino.
  • Vedrai, ti sentirai molto meglio dopo una cena abbondante.  -  aggiunse Lincoln abbozzando un sorriso.
Lo accontentai ricambiando, perché potessero tornare tranquilli alle loro celle, ma quella sera non mi avvicinai nemmeno alla sala mensa. Avevo troppa paura di incrociare nuovamente gli occhi assassini di T-Bag. 

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Capitolo 19
*** Sorelle ***


Quello in teoria sarebbe anche potuto essere l’ultimo giorno della mia vita sulla terra.
Non riuscivo a credere che potesse esistere qualcosa di peggiore delle minacce di morte di T-Bag, capace di rendere ancora più terrificante il mio ultimo giorno di vita. Eppure stava succedendo.

Con un tempismo quasi macabro, il mio nuovo avvocato aveva deciso di presentarsi a Fox River proprio quella mattina.
Appena avevo messo piede nella stanza delle visite, come sempre ben affollata, una chioma di capelli corti del mio stesso colore, il colore della pece, aveva istantaneamente attirato la mia attenzione. Era bastato uno sguardo per riconoscerla. Avevo trascorso troppi anni della mia vita a contemplare, odiare, persino invidiare quel viso, per poterlo dimenticare dall’oggi al domani.
Seduta al centro della sala con un’espressione perfettamente a suo agio rispetto alla maggior parte dei visitatori stipati attorno ai vari tavoli tondi, Cloe Hudson ricambiò il mio sguardo da lontano quando mi vide entrare e liberare dalle manette. Avrebbe potuto sorseggiare un caffè e qualcuno avrebbe facilmente scambiato quell’ala del penitenziario per un bar. La sua presenza attirava l’attenzione come sempre, era impossibile non notarla. La guardavano tutti, chi di sottecchi, chi sfacciatamente. Guardie, detenuti, visitatori. Ognuno dei presenti aveva lanciato almeno una volta uno sguardo verso quella donna bellissima.
Non ci vedevamo da un po’, ma Cloe non sembrava cambiata di una virgola.
  • Credo che tu ti sia sbagliata, questo è un penitenziario non una casa d’appuntamenti.  -  esordii, squadrandola da capo a piedi quando si alzò per venirmi incontro.
  • Invece credo di essere proprio nel posto giusto. In quale altro posto avrei potuto trovare la mia adorabile sorellina?
Si, perlomeno la sua ironia pungente era ancora come la ricordavo.
Feci un passo in avanti e ci abbracciammo.
Attraente e snella, Cloe era dotata di una bellezza un po’ cavallina che il tailleur firmato, studiatamente attillato, l’acconciatura perfetta e le unghia bordeaux scuro appena messo, non facevano che rendere ancora più evidente. Da piccole, le insopportabili amiche della mamma non avevano fatto altro che ripeterci come la natura avesse concesso tanta bellezza alla figlia maggiore e intelligenza alla minore. Poi eravamo cresciute. Cloe era andata all’università, diventando un avvocato di successo, mentre io… ero rimasta la secchiona dedita a cacciarsi nei guai.
Mia sorella mi era mancata. Tra le sue braccia mi sentii improvvisamente avvolgere da un’intensa sensazione di familiare, di “casa”. Mi mancava tanto anche il resto della mia famiglia, o almeno di quell’idea di famiglia che ricordavo. A volte ripensavo al giorno in cui avevo deciso di fare degli Stati Uniti la mia casa per lasciarmi tutto alle spalle, e mi chiedevo per quale motivo avessi fatto una cosa tanto stupida…
  • Tesoro, puzzi di vernice e disinfettante!
… e poi arrivavano frasi del genere e ringraziavo il cielo di essere rimasta nel New Jersey insieme a Keith e Meredith.  
  • Non tutti possiamo permetterci balsamo al profumo di cocco, Cloe.  -  sbuffai, sedendomi.
Anche Cloe imitò il mio gesto.  -  Scusa, non volevo offenderti, è che mi preoccupo per te. Non sembri scoppiare di salute, sei pallida e magra. Neanche un mese in una beauty farm potrebbe salvarti.
La fissai perplessa.  -  Io sono rinchiusa in un penitenziario di massima sicurezza e tutto ciò che riesci a dirmi è che puzzo e che sono troppo magra?
  • Se ti aspettavi un applauso e un’ola da stadio, ho l’impressione che tu debba rivalutare le tue aspettative. Credevo che avessi deciso di vivere negli Stati Uniti per studiare e diventare una brava giornalista, non per metterti a sputare sentenze e farti sbattere in uno squallido penitenziario che puzza di escrementi di topo e sanificante. Tra l’altro, detto tra noi, è stata davvero la mossa più stupida che io abbia mai sentito, accusare il vicepresidente Reynolds di frode senza uno straccio di prova…
  • E tu di fiere della stupidità ne sai qualcosa, giusto?  -  replicai piccata.
  • Si, ne ho fatto stupidaggini nella mia vita, ma perlomeno non sono finita dentro come una dilettante.
Sospirai alzando gli occhi al cielo. Chiedere a Cloe di assumere l’incarico di mio avvocato era stato un terribile sbaglio. Lo avevo detto a Keith. 
  • Se hai davvero intenzione di assumerti il ruolo di mio avvocato, ti consiglio di usare un po’ di quel distacco professionale che, a quanto ne so, insegnano ancora a scuola. Non ho tempo da perdere con te e con le tue stupide prediche campate in aria. Se sei capace di considerarmi semplicemente una cliente bene, altrimenti puoi tornartene in Italia oggi stesso. C’è già chi mi fa sentire una merda qui dentro senza che i componenti della mia famiglia attraversino mezzo mondo per fare lo stesso. -  sbottai alzandomi.
Sarei andata via in quello stesso momento se Cloe non mi avesse fulminata con una delle sue occhiate di ghiaccio, ordinandomi di tornare seduta e calmarmi.
  • Sei un tantino suscettibile, sorellina. Non fare tante storie e stammi a sentire.  -  mi disse, rilassando nuovamente il volto.
Decisi di darle una seconda possibilità e tornai al mio posto. Era pur sempre mia sorella.
  • Keith Sawyer e il tuo precedente avvocato che mi ha ceduto il mandato, mi hanno spiegato per filo e per segno la tua situazione. So tutto ciò che è successo e so anche perché hai chiesto a Keith di mettere una buona parola col direttore di questo penitenziario perché accettasse il tuo ingresso nella sezione maschile.  -  Fece una pausa, fissandomi coi suoi grandi occhi scuri e ancora una volta capii che mi stava giudicando.  -  Ho una buona e una cattiva notizia. La buona notizia è che sono riuscita ad ottenere udienza dal giudice che ti ha fatto condannare. Ho ridiscusso nuovamente il tuo caso con lui, mettendo in evidenza i tuoi evidenti problemi di… comportamento, e questo per fortuna lo ha fatto cedere. Ho ottenuto un accorciamento della pena ma purtroppo, non la tua scarcerazione. Ho fatto del mio meglio, ma sembra proprio che quell’uomo ti ritenga colpevole. Si è seriamente convinto che tu sia un pericolo per la società… immagino che i tuoi precedenti richiami a giudizio non abbiano contribuito ad ingraziartelo.
  • Immagino di no.  -  sospirai.
  • E’ convinto che negli ultimi 3 processi, durante i quali ti sei addirittura presentata senza un difensore, tu non sia stata condannata perché, cito testuali parole: “ hai finito col soggiogare i giudici, infarcendo argomentazioni complicate che hanno confuso le idee e hanno finito con l’ingraziarti la giuria”. Non ho potuto smentire, sarei sembrata terribilmente ipocrita e di parte.
  • Ma tu sei terribilmente ipocrita e di parte, altrimenti che avvocato saresti?
Ignorò il commento.  -  C’è anche una cattiva notizia, come ti dicevo. Purtroppo non ho potuto fare niente per la tua espulsione dall’Albo. La decisione non sarà revocata.
 
La cosa non mi sorprendeva affatto a dire il vero, però non ero preoccupata perché contavo presto di dimostrare la mia innocenza, e una volta che le mie accuse contro la Reynolds fossero state dimostrate, io ci avrei scritto sopra un altisonante articolo e il giornalismo internazionale avrebbe riaccolto a braccia aperte Haley Gwyneth Hudson.
  • Hai parlato di un accorciamento della pena, giusto? Di quanto tempo stiamo parlando esattamente?
  • Di un mese.
  • Significa che tra meno di 30 giorni sarò fuori di qui?
Cloe annuì soddisfatta, allargandosi in un sorriso a 360° che si spense nel giro di pochi secondi quando si rese conto che la mia faccia non aveva assunto la benché minima piega. 
  • Ti prego, non saltare di gioia, infondo che cosa sarà mai ottenere un accorciamento di pena dal giudice rinomato per le sue condanne severe e inoppugnabili.  -  sbottò offesa, incrociando le braccia al petto e voltando la testa, dritta come un fuso, dall’altra parte.
  • Scusa. E’ davvero una notizia fantastica… sul serio… è un’ottima notizia.  -  dissi, cercando di recuperare. 
Ero sincera. Uscire da Fox River ben 30 giorni prima del previsto era davvero una splendida notizia. Cloe aveva compiuto davvero un piccolo miracolo. A quanto avevo sentito dire in giro, il giudice Oscar Lerner era conosciuto nell’ambiente giudiziario come un osso davvero molto duro. Il mio precedente avvocato non era riuscito ad ottenere da lui neanche un’udienza, mentre Cloe era riuscita a convincerlo a rivalutare la mia posizione, ottenendo un accorciamento di ben 30 giorni sulla condanna effettiva. 
  • Cloe ti ringrazio, non pensare che non abbia apprezzato i tuoi sforzi, è solo che ieri ho avuto una pessima giornata e… oggi probabilmente andrà anche peggio.
Dovette notare il mio turbamento, perché subito mi chiese preoccupata   -  Fox River non è come te l’eri immaginata, eh?... Ti va di parlarne?
 
Che cosa avrei dovuto dirle? “Sai sorellina, qui c’è un pazzo maniaco che si diverte a darmi il tormento, e ieri credo proprio di aver perso le staffe quando ho deciso di schiantargli sulla testa un’asse di legno e tentare di toglierlo dalla circolazione”.
Raccontarlo non sarebbe servito a farmi sentire meglio. Io avevo tentato di uccidere un uomo, non avevo neanche riflettuto sulle conseguenze e questo non era da me. Solitamente ero impulsiva, ma non così tanto da commettere un omicidio. La cosa che però adesso mi preoccupava maggiormente, era la reazione che avrebbe avuto il maniaco. Ero certa che non me l’avrebbe fatta passare liscia, Bagwell non era il tipo da farsi fermare dagli scrupoli. Ero praticamente spacciata. 
  • Spero davvero che il problema non riguardi ancora quel Lincoln Burrows, perché è bene che tu lo sappia, quell’uomo è un morto che cammina. Ha i giorni contati.
Sollevai la testa e dimenticai immediatamente T-Bag sentendo pronunciare da Cloe il nome di Burrows.
  • Scusa… ma che intendi?  -  le chiesi, aggrottando entrambe le sopracciglia.
  • Ma si, Keith Sawyer mi ha raccontato che hai scelto di proposito Fox River per incontrare Lincoln Burrows e ottenere delle informazioni da quell’uomo… e poi mi ha anche detto che stai iniziando a farti coinvolgere come al solito.
  • Keith ha scoperto qualcos’altro sulla vicenda Steadman?
  • Si… qualcosa.
  • Beh, che cosa stai aspettando allora? Dimmi tutto!  -  la esortai perché si sbrigasse. Il turno non sarebbe durato a lungo e presto io sarei tornata in cella. Avevo un assoluto bisogno di informazioni.
Cloe sospirò, passandosi una mano tra i capelli perfetti.  -  Keith ha fatto delle ricerche sul presidente della Ecofield, il defunto Terrence Steadman, ma a quanto pare non è saltato fuori niente di rilevante, così lo zelante investigatore privato si è recato direttamente dalla signora Steadman in persona, e sembra proprio che grazie a lei abbia fatto delle scoperte interessanti.
  • Arriva al punto Cloe, non ho tutto il giorno.
  • Avevi ragione. Qualche anno fa Steadman è stato incriminato per frode. Prima che la sua incriminazione diventasse di dominio pubblico, Burrows gli ha sparato.
Impallidii.  -  Oh mio Dio!!  -  esclamai scioccata.  -  Lincoln mi ha detto che molte persone avrebbero avuto dei motivi validi per sbarazzarsi di Steadman… Se davvero quell’uomo stava per essere accusato di frode pubblicamente, la maggior parte degli azionisti presenti nella sua società avrebbe avuto un movente più che valido per ucciderlo.
  • Si, in effetti avrebbero perso un bel po’ di soldi.
  • Mezzo miliardo di dollari, per l’esattezza. Quando sei l’amministratore delegato di una delle società più importanti degli Stati Uniti e per giunta rischi un’accusa di frode, è molto facile che gli azionisti ti voltino le spalle… Steadman potrebbe essere stato ucciso perché la sua incriminazione non venisse resa pubblica.
  • E tutto questo come coinvolgerebbe Lincoln Burrows?
Mi bloccai per un istante, durante il quale la mia mente partorì un pensiero folle, assolutamente insensato ma molto, molto allettante. 
  • Potrebbe non coinvolgerlo affatto… Lincoln potrebbe essere stato messo in mezzo.
Detto ad alta voce suonava ancora più folle e insensato. E non solo a me. Me ne resi conto quando vidi l’espressione di Cloe cambiare all’improvviso. 
  • In che senso “messo in mezzo”?
  • Lincoln dice di essere innocente. Mi ha raccontato cosa è successo quella sera e lui dice di non aver ucciso Steadman, ma di averlo trovato già morto nella sua auto. Dice di essere stato incastrato.
Il sopracciglio di mia sorella disegnò un arco.  -  Fantasioso, non c’è che dire! Haley, parliamo di un condannato a morte. Che cosa ti aspettavi? Era scontato che si dichiarasse innocente.
  • No, io non credo che sia così. Hai sentito il telegiornale negli ultimi giorni? Qualche giorno fa l’ex moglie di Burrows, Lisa Rix, e il suo compagno sono stati assassinati nella loro stessa casa, e sai chi hanno indicato come presunto colpevole? Il figlio diciassettenne di Lincoln, L-J Burrows.
  • Sarà un vizio di famiglia.
  • Lincoln crede che abbiano incastrato suo figlio per ricattarlo e che sia tutta una grande cospirazione contro di lui e la sua famiglia.
  • E tu gli credi?  -  mi chiese in tono accusatorio.
  • Non so più a cosa credere.   -  mi difesi, quasi dovessi giustificare i miei dubbi.
  • Oh ma dai, un condannato a morte che farnetica di un intrigo a sue spese e un ragazzino pregiudicato che rincalca la dose. Non posso credere che tu ti stia facendo raggirare in questo modo. Keith non avrebbe mai dovuto permetterti di entrare in un penitenziario maschile e incontrare quell’assassino. Avrebbe dovuto sapere che ti saresti lasciata coinvolgere. Tu non riesci mai ad essere obiettiva e distaccata. Tutto diventa una questione personale.
La conversazione era appena sfociata sul versante che presto ci avrebbe portate a litigare. Succedeva ogni volta e sarebbe successo ancora. 
  • Non so di cosa tu stia parlando.
  • Sai benissimo di cosa sto parlando!  -  Cercava di non alzare la voce per non attirare l’attenzione, ma stava facendo un pessimo lavoro. -  Non avresti dovuto cacciarti in questa situazione, non avresti dovuto assumerti un incarico tanto impegnativo come seguire un caso investigativo tanto grosso, e di certo non avresti dovuto scontare la tua pena in un penitenziario di massima sicurezza maschile. Tu sai che non avresti dovuto farlo. E’ proprio per questo che mamma non voleva che tu restassi qui negli Stati Uniti. Non sai prenderti cura di te e non dai neanche agli altri la possibilità di farlo al tuo posto. Sei… sei un disastro! 
Socchiusi gli occhi con finta incredulità. Mi sembrava ipocrita persino per Cloe volermi rinfacciare la decisione di restare lontana dalla mia famiglia, quando lei aveva praticamente fatto lo stesso a 18 anni.
  • So di aver fatto degli sbagli, ma io posso gestire questa situazione.  -  le dissi a denti stretti.
  • No, non puoi. Haley, tu sei bipolare! Dovresti vivere una vita che escluda fonti di stress, dovresti evitare le emozioni forti e tu cosa fai? Finisci in carcere?
  • Io… sto bene. Le crisi sono sotto controllo e… -  “Ma perché diavolo mi stavo giustificando?”  -  … sto bene.
  • No, non stai bene e se ti guardassi più attentamente allo specchio te ne renderesti conto. Sembri uno zombie, sei pallidissima, i pantaloni ti si sorreggono in vita per miracolo e stai prendendo troppo a cuore la faccenda Burrows. Ma non lo vedi? Ti stai facendo coinvolgere, presto finirai col fare amicizia con quell’uomo e col fare qualche altra sciocchezza… e quando alla fine lui salirà su quella sedia, tu non potrai impedirlo e avrai un’altra crisi… un altro 50% di probabilità di dare di matto. 
Ero scappata via dai miei genitori perché mi facevano sentire “diversa”, ed ero scappata via da Cloe perché era sempre stata brava a farmi sentire sotto processo. Per loro ero sempre stata un’incompresa, nessuno si era mai fermato ad ascoltarmi sul serio. Io conoscevo i miei limiti, il mio disturbo e tutti i miei innumerevoli sbalzi d’umore, ma avevo sempre cercato di non farmi fermare da questo. Era così sbagliato? Volevo soltanto vivere la mia vita, ma la mia famiglia non aveva fiducia in me. Loro non capivano, non potevano.
  • Tra un mese sarai fuori da qui. Lascia perdere questa storia, lascia perdere Lincoln Burrows.  -  riprese Cloe, adesso più calma e controllata. 
Quando sollevai di nuovo gli occhi su mia sorella, la mia espressione era stata ripulita di ogni più piccola emozione. C’era stato un tempo in cui avrei dovuto dare conto a lei o ad altri ma a pensarci bene, quel tempo ormai era finito.
  • Non lascerò perdere Cloe, quindi mettiti il cuore in pace e ti dirò di più, io credo che Lincoln Burrows sia innocente e non perché io mi sia lasciata impietosire dal suo caso o perché sia diventata sua amica, ma perché a dispetto di tutte le prove che lo inchiodano, esistono dei fatti che attestano che Burrows non era l’unico ad avere un movente contro Terrence Steadman… anzi, personalmente giudico il movente che è stato attribuito a Lincoln davvero banale. Io credo che Steadman fosse diventato un personaggio troppo scomodo da gestire e che per questo sia stato eliminato.  -  Vidi Cloe sospirare e passarsi una mano sulla fronte, ma proseguii imperterrita.  -  Lo so che pensi che io mi stia lasciando coinvolgere troppo, ma io ho la situazione sotto controllo. Ho aiutato Keith col caso delle intercettazioni perché sapevo di poterlo gestire, e se provassi a parlare con lui ti direbbe che ci sono riuscita bene… E’ vero, mi sono accanita con la storia della Reynolds, ma solo perché sapevo di avere ragione e quello che ha scoperto Keith su Steadman ne è la prova. La Ecofield è stata usata come copertura, non ho dubbi, è stata Caroline Reynolds ad inglobare quei soldi nella società del fratello e guarda caso, indovina cosa si terranno a breve qui nell’Illinois… le elezioni!
  • Rallenta, ti prego, queste sono delle insinuazioni belle e buone che da sole potrebbero farti nuovamente condannare. Non hai uno straccio di prova in mano come non ce l’avevi la prima volta.
  • Queste sono delle prove!
Sarei andata in tribunale quel giorno stesso. 
  • Queste non sono niente!  -  rimbeccò, sbattendo il pugno contro il tavolo. Un paio di teste nelle vicinanze si voltarono verso di noi.  -  Ok, diciamo che qualcun altro, oltre a Burrows, avrebbe voluto morto Steadman, ma adesso non ti sembra di esagerare? Prima accusi il vicepresidente di aver inglobato quel mezzo milione di dollari nella società del fratello ad insaputa di tutti, e adesso insinui che lo abbia fatto per finanziare la propria candidatura alle nuove elezioni che si svolgeranno il mese prossimo?  -  Stavo per aprire bocca, ma Cloe non mi permise di emettere un suono.  -  Stai per sparare l’ennesima sciocchezza, quindi ascoltami. Io conosco gli ambienti giudiziari meglio di te e sta certa che se davvero hai ragione, se davvero il caso Burrows si rivelerà essere un colossale imbroglio, chiunque sia il vero colpevole non esiterà a mandarti contro i più pericolosi e spietati avvoltoi. Hai almeno la più pallida idea di contro chi ti stai schierando?
  • Certo che lo so, ma questo non cambia le cose.  -  risposi ostinata.  -  Non solo un uomo innocente sta per essere mandato a morte, ma sono stata messa in mezzo anch’io quando quel dannato poliziotto ha convinto il giudice a farmi condannare. Sono finita in carcere e la mia carriera di giornalista è andata a puttane!! Qualcuno pagherà per questo.
  • E che cosa vorresti fare, sentiamo?
  • L’avvocato sei tu. Dammi qualche dritta.
Sospirò frustrata.  -  Ti ho già dato una dritta: dimentica questa benedetta faccenda. Ho accettato di occuparmi di questo caso perché sei mia sorella e perché quella parodia di avvocato che ti eri scelta era proprio un imbecille. Ho ottenuto il massimo che si potesse ottenere, un accorciamento della pena. Non posso fare nient’altro. Ho ancora il mio lavoro e la prossima settimana tornerò in Italia, quindi qualunque cosa deciderai di fare da adesso in avanti io non potrò aiutarti.
  • Fa lo stesso, me la caverò anche da sola.  -  sbottai.
Ero appena entrata in piena modalità broncio. Cloe alzò gli occhi irritata. 
  • A volte mi chiedo se tu sia ritardata o cos’altro. Secondo te mettersi contro un membro così influente del governo americano non comporterà alcuna conseguenza? Quella donna da sola potrebbe rovinarti. Se quello che sospetti è vero, non pensi di essere un “tantino” in pericolo? Cercheranno in tutti i modi di insabbiare la cosa. Diamine, se hanno davvero coinvolto Burrows facendolo condannare alla sedia elettrica e hanno incastrato il figlio per l’omicidio di due persone, che cosa ti fa credere che si faranno degli scrupoli a mettere a tacere anche te?
Avevo pensato a tutto questo? Mmm…no. Cloe aveva ragione, ma chi avrebbe mai immaginato che quella dannata storia fosse tanto ingarbugliata? Ero partita da uno stupido caso di omicidio con tanto di colpevole e prove al seguito, ed ecco che a poco a poco saltavano fuori complotti, cospirazioni, un mucchio di soldi in attesa di entrare in scena e uno dei governi più influenti e ricchi del mondo a fare da portavoce.
  • Che cosa mi consigli di fare?  -  le chiesi, sentendomi quasi in dovere di farlo.
  • Niente, proprio niente. Scordarti di questa storia sarebbe un’ottima idea. 
Mia sorella aveva sempre odiato le cause perse. Era sempre stata un buon avvocato e si era sempre battuta fino allo stremo delle forze ogni volta che una causa aveva avuto anche una minima speranza. Nel mio caso evidentemente non ne vedeva. Cloe mi voleva bene, lo sapevo. Anch’io gliene volevo, e molto, ma niente poteva togliermi dalla mente che lei continuasse a vedermi giorno dopo giorno come una causa persa. 
  • Ti sono grata per quello che hai fatto per me, Cloe.  -  dissi sincera.
Non ci cascò.  -  Non hai intenzione di darmi retta, vero?
 
Strinsi le labbra e sospirai. Ormai il turno delle visite stava per terminare. 
  • Ho un favore da chiederti… è solo un piccolo, insignificante favore, te lo giuro.  -  Cloe restò a fissarmi in attesa.  -  Porteresti le prove che ha raccolto Keith al governatore Tancredi, a Chicago?
  • Haley…
  • Cloe ti prego, l’esecuzione di Lincoln è fissata per la prossima settimana. Ormai non c’è più tempo. Se riuscissimo ad insinuare nella mente del governatore almeno un piccolo dubbio, forse si convincerebbe a fare delle indagini e potrebbe rimandare l’esecuzione. Lui è l’unico che possa farlo.
  • Non voglio avere niente a che fare con questa storia.
  • Ma sono io che te lo sto chiedendo. Puoi fare questo per me? Sei un bravo avvocato. Se un dubbio del genere venisse insinuato da chiunque altro, Tancredi non lo terrebbe neanche in considerazione, ma tu…  -  Odiavo dover elemosinare l’aiuto degli altri, soprattutto se quel qualcun altro era Cloe.  -  … ti prego.
Per la seconda volta, si passò una mano sulla fronte asciutta. Sembrava davvero combattuta. Forse stava maledicendo la malasorte per averle affibbiato una sorella problematica come me. Sicuramente stava maledicendo se stessa per aver accettato di seguire il mio caso. 
  • Tutta quest’aria di cospirazioni non mi piace. Haley, devo preoccuparmi per te? 
Le sorrisi. Non riuscivo proprio ad immaginare Cloe che si preoccupava per me. 
  • No, sta tranquilla. Cercherò di essere meno impulsiva e ti prometto che al più piccolo sentore di pericolo mi tirerò indietro. Chiederò a Keith e Meredith di smetterla con le indagini. Non mi fido a lasciarli scoperti in campo, se succedesse loro qualcosa per colpa mia non potrei mai perdonarmelo.
  • Seguire il tuo stesso consiglio no, eh?  -  sbuffò alzandosi dalla sedia, quando la guardia informò i visitatori che era arrivato il momento di lasciare l’edificio. Mi alzai anch’io, poi ci abbracciammo.  -  D’accordo, andrò a Chicago a parlare col governatore.
La strinsi ancora più forte.  -  Grazie.
 
Non riponevo grosse speranze sul fatto che il governatore potesse rimandare l’esecuzione di Lincoln sulla base di prove fittizie, che in ogni caso non avrebbero provato la sua innocenza, ma sentivo di dover fare almeno un tentativo. Perlomeno se l’evasione non fosse andata in porto, Lincoln avrebbe avuto un’altra lieve speranza alla quale aggrapparsi.
  • Sai, quando mamma ha saputo che sarei venuta qui negli Stati Uniti e che probabilmente ti avrei vista, mi ha chiesto di convincerti a tornare. Le ho promesso che ci avrei provato, ma non lo farò. Io non credo che tu voglia farlo. 
Per un attimo non seppi cosa rispondere.
 
Distolsi lo sguardo a disagio.  -  Non è che io non voglia tornare… mi mancate, lo sai… Ho bisogno di tempo, tutto qui.
Cloe annuì.  -  Vuoi che gli porti i tuoi saluti?
  • Certo, e abbracciali da parte mia. Non gli hai detto che…
  • Che al momento ti trovi in un carcere di massima sicurezza maschile? Per carità! Vorrei preservare le loro coronarie ancora per qualche altro decennio, se non ti dispiace.  -  Per un attimo mi fissò, prima di scrollare le spalle come per togliersi di dosso un ricordo spiacevole.  -  Mamma e papà parlano sempre di te, anche se raccontano ai vicini di aver cresciuto due spine nel fianco al posto di due figlie. Fanno i sostenuti, ma tutto sommato sono orgogliosi di noi. Mamma ha pianto quando ha saputo che eri stata ammessa alla University of California.  -  Sorrise di nuovo, ma questa volta i suoi occhi neri luccicarono tristi.  -  Beh… cerca di non cacciarti nei guai, Haley… se ci riesci.
  • Gwyneth.  -  la corressi.
  • Prego?
  • Gwyneth. Qui tutti mi conoscono come Gwyneth.
  • Credevo odiassi il tuo secondo nome.
  • Lo odiavo in Italia, ma questa è l’America.
***

Che strano rivedere Cloe. Non avevo pensato molto a lei da quando avevo lasciato l’Italia, ma adesso che l’avevo rivista, mi rendevo conto che la mia famiglia mi mancava. All’improvviso mi chiesi cos’avrebbero pensato i miei genitori di me sapendo dove mi trovavo attualmente, e ringraziai il cielo che almeno per questa volta mia sorella fosse riuscita a tenere magistralmente la bocca cucita. Sicuramente si sarebbero vergognati di me, ma forse si sarebbero vergognati un po’ meno se fossi riuscita a dimostrare che la mia incarcerazione era stata uno sbaglio. Dovevo scoprire la verità per riabilitare la mia reputazione e tornare ad essere una giornalista, però mi servivano delle prove. Ma come ottenerle? Per altri 30 giorni sarei stata “ospite al grand’hotel Fox River”. Rinchiusa lì dentro non potevo fare gran che e non avevo più intenzione di chiedere aiuto a Keith e Meredith. Erano stati coinvolti a sufficienza. E poi c’era la questione della mia sicurezza e l'imminente esecuzione di Lincoln. Che cosa avrei fatto se avessi scoperto che dietro l’omicidio dell’amministratore delegato della Ecofield, si celasse davvero Caroline Reynolds? Ero preparata per affrontare una simile situazione? Ovviamente no. Ero pronta a lasciare che un uomo innocente, che per giunta mi aveva salvato la vita, morisse per colpa di quell’arrivista insediatasi alla Casa Bianca? No, non lo ero e con mio grande rammarico, dovevo anche ammettere che non avevo la più pallida idea di come aiutarlo.

Non appena raggiungemmo il Braccio A, la guardia ci lasciò liberi di raggiungere le nostre rispettive celle. Non mi ero resa conto che fosse appena scattata la prima ora d’aria della giornata.
Quando entrai nella cella 93, per un istante temetti che il cuore potesse balzarmi via dal petto. Sdraiato sulla mia brandina, T-Bag stava sfogliando uno dei libri che avevo preso in prestito dalla biblioteca di Fox River.
  • Senti qua bambolina: “Io so ciò che voglio e ciò che ho fatto, di questo sono libero e responsabile, ritengo responsabili gli altri, io posso dare un nome a tutte le possibilità etiche e a tutti i movimenti interiori che esistono anteriormente ad un’azione…” Chissà che diavolo avrà voluto dire.  -  chiuse il libro e lo ripose al suo posto, alzandosi dal letto.  -  Così ti piace la filosofia, leggi Nietzsche… e io che mi chiedevo perché fossi un tipetto tanto violento.
  • Che fai nella mia cella?  -  sibilai a denti stretti, immobile accanto all’entrata e con ogni muscolo del corpo pronto alla fuga.
  • Volevo solo darti la possibilità di scusarti per ciò che è successo ieri. Mi hanno dato sette punti, lo sai? Sette.
  • Vattene immediatamente!
  • Ehi, ma dove sono finite le buone maniere?  -  esclamò, azzardando un passo verso di me.
  • Prova solo a fare un passo falso e mi sentirai urlare così forte che accorreranno tutte le guardie del penitenziario. Ti ho avvertito.
  • Ma che maniere, ero solo passato a farti un salutino… 
Per un attimo parve che il depravato avesse capito e che avesse deciso di darmi retta lasciando la mia cella, ma fu solo una finta. Quando mi passò accanto, rapido come un gatto, mi piombò addosso riuscendo a bloccarmi la testa contro la parete, mentre spingeva la sua grossa mano contro la mia gola, impedendomi di urlare. 
  • Non hai la minima idea del guaio in cui ti sei messa quando ieri hai deciso di farmi quel bello scherzetto.  -  La sua voce si era fatta di colpo fredda e tagliente proprio come quella di un assassino.  -  Sarai anche sotto la protezione del boyscout e di quel bestione del fratello, ma non dimenticare che loro non saranno sempre con te e noi abbiamo ancora un conticino in sospeso… Ti consiglio di dormire con un occhio aperto la notte, bambolina. 
Sentii la sua mano stringere ancora più forte attorno alla mia gola, finché all’improvviso mi lasciò, uscendo silenzioso dalla mia cella. Era stato solo un avvertimento che era arrivato forte e chiaro a destinazione. Mi ci vollero più di dieci minuti per decidermi a staccarmi da quella parete e riportare i battiti del mio cuore ad un ritmo normale.
 
“Cerca di non cacciarti nei guai… se ci riesci”.
 
Le parole di mia sorella mi ronzarono inopportune nella testa. Quasi mi veniva da ridere al pensiero che Cloe fosse riuscita a preoccuparsi che potessi intraprendere l’ennesima azione legale contro la Reynolds. Ma non era di Caroline Reynolds che doveva preoccuparsi al momento. C’era già T-Bag che riusciva a farmi tremare le gambe come gelatina.
Stavo per lasciarmi nuovamente prendere dallo sconforto. La paura aveva innescato una crisi e con essa tremori, respirazione a singhiozzo, panico… ma all’improvviso, due braccia tatuate mi avevano circondata e stretta in un abbraccio rassicurante e nel giro di qualche minuto ero riuscita a calmarmi da sola.
Non mi ero mai sentita così al sicuro.

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Capitolo 20
*** Mai aggredire una guardia ***


Avrei anche potuto evitare di recarmi a mensa per la colazione e la cena e segregarmi nella mia cella per il resto dei miei giorni, ma non sarei mai riuscita ad evitare
T-Bag.
Lavoravamo insieme nella stanzetta delle guardie. Se aveva deciso di uccidermi, avrebbe soltanto dovuto aspettare l’occasione propizia.
E dire che ero stata proprio io a chiedere a Pope di essere trasferita nello stesso gruppo del depravato, e sempre io, quella che aveva perso la testa  e lo aveva colpito con un asse di legno in testa, contribuendo ad accorciarmi la vita.
Quel pomeriggio, mentre in fila seguivamo Louis scortarci al solito luogo di lavoro, mi sentivo come in processione per un funerale. Sapevo che il faccia a faccia con T-Bag sarebbe stato inevitabile e sapevo che una volta chiusi dentro, ne avrebbe escogitata una delle sue per vendicarsi, indipendentemente dalla presenza di Michael, Lincoln, Garibaldi e Gesù Cristo in persona.

Il sadico mostro camminava davanti a me, al fianco di Sucre, e canticchiava. Percepiva la mia paura e si divertiva.
Una volta entrati nel magazzino, Louis si allontanò. John, che era l’ultimo della fila, si chiuse la porta alle spalle, e fu allora che accadde qualcosa di strano e assolutamente inaspettato. Poco prima avevo notato Michael avvicinarsi alla carriola con gli attrezzi e recuperare da terra un lungo e sottile tubo di metallo, ma non avevo intuito cos’avesse intenzione di farci, finché non lo avevo visto colpire con forza la gamba di T-Bag e disfarsene successivamente mentre quest’ultimo, cadendo a terra, cominciava a gridare e lamentarsi. 
  • Hai capito, vero?
In piedi di fronte al pervertito sofferente, Michael fissò Bagwell freddo e distaccato.
  • Non avresti dovuto farlo… puoi dire addio al tuo piano perfetto… GUARDIA!!!
Rimasi pietrificata e in attesa. Nonostante T-Bag avesse appena minacciato di spiattellare tutto dando l’allarme, Michael non aveva fatto una piega e nessuno dei suoi compagni aveva mosso un dito per fermare l’inevitabile. Ero l’unica a non avere la più pallida idea di cosa stesse succedendo? Evidentemente era così.
  • Fa pure,  -  riprese il ragazzo impassibile  -  ma io non credo che avrai il coraggio di farlo. Sono convinto che tu ci tenga troppo a lasciare questo posto.
Gli occhi azzurri di Michael, limpidi e fissi in quelli piccoli e vitrei di T-Bag, non tradirono la minima emozione, mentre le mie coronarie minacciavano di esplodere da un momento all’altro. Non riuscivo a credere che il mio amico riuscisse a mantenere un simile sangue freddo di fronte alla possibilità di veder andare in fumo la sua evasione.
Fu Stolte il primo a raggiungere il magazzino, attirato dalle urla del pedofilo.
  • Che sta succedendo qua dentro?  -  domandò, accigliandosi istantaneamente nel vedere il detenuto a terra.
Nessuno di noi emise un fiato. Il cuore mi tamburellava nel petto così rumorosamente che temevo potesse tradirmi. Michael non aveva schiodato gli occhi da T-Bag neanche per un secondo. Sucre e Lincoln si erano scambiati velocemente un’occhiata fugace.
  • Allora?  -  rimpolpò la guardia.
  • Nulla capo  -  rispose finalmente T-Bag rimettendosi in piedi.  -  Ho chiamato perché pensavo che mancassero alcuni attrezzi… non li avevo visti.
  • Rimettetevi al lavoro.
Mi parve di ricominciare a respirare solo quando Stolte lasciò nuovamente il magazzino per tornare al suo giro di perlustrazione e Sucre chiuse la porta. Solo allora Michael fece un passo avanti, e senza mostrare alcun segno di inflessione, si rivolse a Bagwell, deciso.
  • Adesso stammi bene a sentire. Faremo anche parte dello stesso gruppo, ma qui dentro sono io che detto le regole. Da adesso in avanti, farai quello che ti dirò di fare o potrai scordarti di mettere piede in quel buco, e un’altra cosa… se proverai anche solo ad avvicinarti di nuovo a Gwyneth, puoi considerarti fuori dall’evasione. Non ti avvicinerai più a lei, non la tormenterai e le girerai alla larga, hai capito bene?
L’ergastolano continuò a fissare Michael a denti stretti ma alla fine annuì, accettando con mia grande sorpresa le condizioni. Non avrebbe potuto fare altrimenti comunque, con Michael che minacciava di escluderlo dall’evasione e Lincoln che gli si era avvicinato, fissandolo come un cane da guardia.
Non potevo credere alla mia fortuna sfacciata. Non solo avevo evitato di venir indicata come complice di un tentativo di evasione  -  avevo davvero temuto che il pazzoide potesse vuotare il sacco quando Stolte era entrato per controllare  -  ma avevo addirittura accorciato la lunga lista di assassini che voleva accopparmi. Ed era stato Michael a togliermi da quell’impiccio colossale.
Ma come gli era saltato in mente di mettere a repentaglio il suo progetto di evasione e la vita del fratello? Era consapevole di avermi appena salvata dalle grinfie di T-Bag? Era in qualche modo possibile che lo avesse fatto per me? Non potevo restare con quel dubbio, dovevo chiederglielo.
La tensione a poco a poco era sfumata, gli operai avevano ricominciato a darsi da fare con i lavori. Approfittai di quel momento per afferrare Michael per un braccio e trascinarlo in un angolo della stanza, dov’ero sicura che gli altri non ci avrebbero ascoltati.
  • Ti rendi conto che ho quasi rischiato l’infarto mentre tu ti atteggiavi ad eroe?  -  bisbigliai, trattenendo a stento la voce.  -  Che ti è saltato in mente?
Rispose disinvolto.  -  Niente, è solo che ieri ho riflettuto su quello che hai detto… che T-Bag avrebbe raccontato tutto se gli avessimo messo i bastoni tra le ruote e che ci tiene in pugno, e ho capito che dovevo fare qualcosa.
  • E che volevi fare? Massacrarlo di botte per convincerlo a stare al suo posto?
  • No, volevo parlargli… e poi stamattina l’ho visto mentre usciva soddisfatto dalla tua cella e ho capito che se non avessi fatto qualcosa, non ti avrebbe mai lasciata in pace.  -  Non riuscivo a credere alle mie orecchie.  -  Quando sono arrivato, tu eri addossata al muro, tremavi… sembravi in trance.
Adesso stavo fissando Michael ad occhi sgranati e a dire il vero, stavo anche facendo a pugni con l’impulso di gettargli le braccia al collo e premere le mie labbra sulle sue… tanto per vedere come sarebbe stato.
Non eravamo soli? Beh, pazienza. Fissai le sue labbra perfette e immaginai il momento al rallentatore. Quel ragazzo mi aveva appena salvata da un incubo, si era preoccupato per me. Michael era il mio nuovo eroe!
  • E’ tutto apposto?  -  mi chiese all’improvviso, preoccupato.
Fu come svegliarsi di soprassalto.  -  Eh?
  • Stai bene? Sei tutta rossa in faccia…
  • Sto bene.  -  mi giustificai imbarazzata.
Ma che stavo facendo? Cloe aveva proprio ragione, mai che riuscissi a non farmi coinvolgere. Quando Michael mi stava vicino, andavo letteralmente nel pallone e adesso sognavo addirittura ad occhi aperti di baciarlo. “ Cristo Santo, è un detenuto!
Ero ufficialmente una stupida. Prendersi una cotta per un delinquente era assolutamente da escludere, per lo più un delinquente dietro le sbarre in procinto di evadere. Dovevo essere impazzita. Trenta giorni. Dovevo resistere solo altri 30 giorni… 30 interminabili giorni.

****

Non avevo fatto altro che fissare l’orologio da circa mezz’ora. Non vedevo l’ora che scattasse la prima ora d’aria della giornata, ero stufa di rimanere in cella. Quella mattina avevo lavato i capelli  -  lo shampoo era di una sottomarca sconosciuta, ma perlomeno non odorava di detersivo per i piatti  -  avevo spazzolato i denti a lungo, avevo osservato il mio viso allo specchio, pizzicandomi le guance finché avevano assunto un colorito meno malsano e avevo indossato maglia e pantaloni puliti con un unico, intermittente pensiero in testa: Michael Scofield. Avevo aspettato con ansia le 13, così che il turno d’aria avesse inizio e io potessi raggiungere Michael, e poi le porte blindate di tutte le celle si erano aperte contemporaneamente e io ero schizzata fuori come una compressa effervescente, rivolgendo subito il naso all’in su verso la 40.
Cinque minuti dopo, eccomi al fianco di Michael, diretti entrambi verso il cortile.
  • Sbaglio o c’è qualcosa di diverso in te oggi?  -  esclamò il ragazzo, osservandomi con la coda dell’occhio.  -  Sembri stranamente… raggiante.
  • Già. Era da un secolo che non mi succedeva.  -  Non riuscivo proprio a smettere di sorridere.
  • Qualche motivo particolare?
  • Mmm… beh vediamo, sono ancora viva e vegeta, il depravato sta rispettando la sua parola e ha smesso di darmi il tormento, tra non molto lascerò definitivamente questo posto… si, direi che ci sono ottimi motivi.
  • Sono felice per te. Hai saputo la novità? Westmoreland ha deciso di entrare a far parte del gruppo. 
La notizia mi sorprese. Ero sicura che a quel punto del piano, quando ormai i lavori di scavo erano già stati completati e i lavori di ristrutturazione a buon punto, Michael non avrebbe coinvolto più nessun altro.
  • Charles tenterà la fuga con voi?  -  Il ragazzo annuì.  -  Perché coinvolgere il vecchio? Sai che potrebbe rallentarvi, senza contare che così sarete in sette.
  • Charles ci serve. Lui è D.B. Couper e una volta fuori di qui ci serviranno i suoi soldi se vogliamo avere qualche minima speranza di cavarcela.
Sorrisi scettica.  -  Credi davvero che il fantomatico ladro milionario sia Charles Westmoreland?
  • Fidati, è lui. Prima di entrare a Fox River ho fatto delle ricerche su quell’uomo, così come le ho fatte su Abruzzi. Prima di venir trasferito, sapevo già chi era ma Charles ha sempre negato, anche quando gli ho proposto di prendere parte all’evasione.
  • Allora perché adesso ha cambiato idea?
  • Non lo so, però finanzierà la nostra fuga, è questo che importa.  -  Giunti ormai al cortile esterno, Michael aveva iniziato a camminare verso la sezione protetta. Lo avevo seguito.  -  Il problema è che, come hai ben detto, adesso siamo in 7 e tutti non potremmo lasciare questo posto.
  • Che vuoi dire?
  • Ho calcolato il tempo che ci vuole per raggiungere l’infermeria dalla stanzetta delle guardie, togliere l’inferriata e scavalcare tutti e 7 il muro. Avremo a disposizione 18 minuti, prima del successivo passaggio delle guardie. Ci vorranno almeno 5 minuti per togliere la grata dell’infermeria e mediamente 2 minuti a testa per raggiungere il muro di cinta e scavalcarlo. Con soli 18 minuti, siamo in troppi. Uno di noi dovrà rinunciare.
Cominciavo a capire il ragionamento. Il piano di Michael era stato calcolato al secondo, non c’era possibilità di sbagliare o tutto sarebbe andato in fumo. Ecco perché le evasioni con molti detenuti fallivano sempre, ma arrivati a quel punto, chi mai avrebbe acconsentito a tirarsi indietro?
  • Rieccoci di fronte all’ennesimo dilemma. La domanda del giorno è: di chi potete fare a meno? Vediamo, tu sei l’unico che possa guidare il gruppo verso la libertà, quindi sei fondamentale. Lincoln è la causa per la quale è stata progettata questa evasione, quindi deve esserci. Charles è il ladro milionario che può procurarvi i soldi per garantirvi la fuga e John il mafioso è l’unico che può procurarvi un aereo. Beh, direi che non è poi così difficile scegliere chi eliminare, anzi se vuoi posso consigliarti il primo nome da scartare.
  • Non è così semplice.  -  sbuffò Michael, intuendo subito a chi mi stessi riferendo.  -  Quando gli altri hanno scoperto il problema, T-Bag si è coperto le spalle con una polizza assicurativa. Ha messo al corrente del nostro piano un suo uomo di fiducia e minaccia di fargli spiattellare tutto alle guardie se gli verrà fatto del male e se non riuscirà ad evadere come si aspetta.
  • Previdente, non c’è che dire.  -  commentai quasi ammirata.  -  Quel tipo ne pensa una più del diavolo. Devi ammettere che non è per niente stupido. E allora C-Note e Sucre?
  • Hanno lavorato duramente all’evasione, soprattutto Sucre, non me la sento di scartarli.
  • Beh amico, i numeri non mentono. In 7 siete troppi. O uno di voi resterà a farmi compagnia o ci resterete tutti.
Quando più tardi Louis ci scortò nella stanzetta delle guardie perché riprendessimo da dove il gruppo aveva finito quella mattina in mia assenza, anche Charles Westmoreland si unì a noi. Ero felice che fosse anche lui del gruppo, Charles mi era simpatico.
Appena la porta venne chiusa, la moquette venne subito spostata e Michael si calò dentro al buco, spiegando di dover ultimare gli ultimi preparativi per la fuga. Nessuno di noi gli chiese spiegazioni.
Quel pomeriggio, con mio grande sollievo, sia Abruzzi che Bagwell non erano presenti. Mentre Sucre, C-Note e Westmoreland si occupavano dei lavori, io e Lincoln uscimmo fuori, occupandoci del primo turno di guardia.
  • Se tutto va bene, tra qualche giorno potrò di nuovo riabbracciare mio figlio, riesci a crederci?
Era la prima volta che sentivo usare a Lincoln parole piene di speranza. Glielo si leggeva in faccia che non vedeva l’ora di tirarsi fuori da quell’incubo e tornare da L-J.
  • Ehi, che cos’è quella faccia?  -  mi chiese all’improvviso, accorgendosi del mio turbamento. -  Non dirmi che ti mancheremo.
Feci una smorfia.  -  Veramente pensavo che non vedo l’ora di liberarmi di voi.  -  risposi, senza la minima convinzione nella voce.
 
Che bugiarda patentata! Odiavo il pensiero di dover rimanere da sola tra quelle quattro mura. Ogni volta che sentivo Michael o suo fratello parlare dell’evasione, il mio stomaco si contraeva.
  • Pensi di riuscire a cavartela da sola?
  • Senza T-Bag e Abruzzi questo posto sarà più noioso di una casa di riposo.
Ce la stavo mettendo tutta per suonare convincente. Sapevo quanto Lincoln avesse preso a cuore la mia incolumità, anche se ancora non riuscivo a spiegarmene il motivo, e non volevo che si lasciasse indietro dei rimorsi.
  • T-Bag e Abruzzi non sono gli unici mostri rinchiusi qui dentro.
Scrollai le spalle.  -  Non rimarrò abbastanza a lungo da poter fare amicizia col resto degli assassini di Fox River, per fortuna. Michael non ti ha detto che tra meno di 30 giorni sarò fuori da qui?
  • Mi ha accennato qualcosa. Sembra che tu abbia delle ottime conoscenze all’esterno.
  • Ci puoi scommettere i tuoi ultimi giorni da galeotto!  -  gli sorrisi e gli feci l’occhiolino.  -  A proposito, volevo dirti che io ti credo… credo nella tua innocenza.
Parve sorpreso.  -  Ah si? Cosa ti ha fatto cambiare idea?
  • Prima di venire arrestata, stavo seguendo un caso parallelo a quello in cui ti sei trovato coinvolto. Anch’io come te sono stata accusata ingiustamente, così i miei amici hanno continuato ad indagare per conto mio, per provare che avessi ragione.
  • E tutto questo cos’ha a che fare con me?
  • Terrence Steadman stava per essere accusato di frode prima di morire, ed è possibile che qualcuno lo abbia ucciso perché la sua incriminazione non venisse resa pubblica. Ammetto che all’inizio, come tutti, credevo fossi stato tu, ma adesso sospetto che tu sia stato incastrato a dovere per dirottare i sospetti dal vero colpevole. Il problema è che finché sarò rinchiusa qui dentro non avrò modo di dimostrarlo.
  • Credimi, è più difficile di quanto sembri.  -  Di colpo la sua voce era calata e uno sguardo distante e tormentato gli aveva attraversato il volto.  -  Sono mesi che i miei avvocati cercano di dimostrare la mia innocenza. Persino Michael ha indagato per un anno, prima di finire qui dentro. E’ un tunnel senza fondo. Chi ha progettato questo complotto sapeva esattamente come nascondere le proprie tracce, sono dei professionisti e il video che è stato utilizzato al processo per mostrare la mia colpevolezza ne è una prova. Fin’ora non è saltato fuori niente che possa dimostrare la mia innocenza e tutti coloro che potevano scagionarmi, che sapevano o sospettavano qualcosa, sono stati eliminati.
  • Ma tu non mollerai, giusto?
Sospirò stanco.  -  Non m’interessa la vendetta, voglio solo uscire al più presto da qui.
 
Dovevo ammettere che ero un po’ delusa. Avevo dato per scontato che anche Lincoln come me volesse la verità, ma forse era solo stanco di combattere contro quel sistema che gli aveva voltato le spalle senza concedergli il beneficio del dubbio. Avrei voluto trovare la forza di fare lo stesso e dimenticare.
  • Geary a ore 12!  -  esclamai, indicando la guardia in avvicinamento. 
Il solito colpetto alla porta avvertì gli operai all’interno della stanzetta di fare presto e rimettere tutto a posto. Due secondi dopo, Charles fece capolino per avvertirci che Michael non era ancora tornato.
  • Come non è ancora tornato? Geary sarà qui a momenti!  -  gracchiai, percependo il sangue defluirmi dal volto.
  • Non siamo pronti, cercate di prendere tempo.
Prendere tempo? Come? Non era come cercare di fare la carina con Rizzo, sorridendogli in modo malizioso. Non era come chiacchierare amichevolmente con Louis per guadagnare qualche secondo in più. Quello era Roy Geary, il fedelissimo tirapiedi del capitano Bellick che aveva iniziato a marcare stretti me e Michael dal primo momento in cui avevamo messo piede a Fox River. Se avessimo cercato di prendere tempo, lui si sarebbe certamente insospettito e avrebbe fatto un controllo. Non potevamo prendere tempo. Impossibile.
  • Gwen, va dentro insieme agli altri.  -  ordinò improvvisamente Lincoln che, al contrario di me, sembrava perfettamente calmo e controllato.
  • Cosa?
  • Ci penso io, tu va dentro. 
Perché era così sicuro? Non mi convinceva affatto e Geary si stava avvicinando inesorabilmente. Davanti ai miei occhi vedevo il momento esatto in cui il secondino si sarebbe accorto dell’assenza di Michael e cosa questo avrebbe comportato. Vedevo le nostre facce colpevoli, il buco al centro della stanza, l’allarme, l’accusa di favoreggiamento… eravamo spacciati… oh mio Dio, eravamo spacciati! Iniziai ad ansimare.
  • Gwyneth, hai capito cosa ho detto? Va subito dentro!  -  ripeté Lincoln, alzando la voce.
  • Ma tu…
  • Vai, mi inventerò qualcosa.
Ubbidii, e prima che Roy Geary potesse raggiungere l’anticamera del magazzino, raggiunsi il resto del gruppo evitando di farmi notare. Nella stanza tutto era stato risistemato, ma Michael non era ancora tornato e se la guardia fosse entrata, a poco sarebbe valso coprire il varco e risistemare la moquette. Come avremmo giustificato l’assenza del nostro compagno di lavoro?
Una manciata di secondi dopo sentimmo le voci di Lincoln e Roy oltre la porta di ferro. Come previsto, la guardia cominciò subito ad insospettirsi trovando una calma, ma convinta resistenza da parte del detenuto fuori ad attenderlo.
Michael non tornava. Ormai era tardi per scamparla. Stavamo correndo tutti un grosso rischio.
  • Dove stai andando?  -  mi rimproverò C-Note, allontanandomi dall’entrata.
  • Vado a dare manforte a Lincoln.
  • Sta buona qua o attirerai ancora di più i sospetti e…
Prima che l’uomo terminasse la frase, percepimmo un urlo oltre la porta e impallidimmo. Senza chiedermi chi avesse gridato e perché, schizzai in avanti spinta dal desiderio insensato, folle, di aiutare il mio amico, ma ancora una volta venni bloccata dal colosso afroamericano alle mie spalle che questa volta, per riuscire a trattenermi, aveva dovuto arpionarmi con un braccio e tapparmi la bocca con la mano libera.
  • Smettila, non puoi fare niente per lui!  -  aveva ripetuto, mettendocela tutta per trattenermi.
Scalciare e dimenarmi come una disperata era risultata una mossa inutile.
Ormai era chiaro cosa fosse appena accaduto. Per riuscire a trattenere Geary, Lincoln era stato costretto ad aggredirlo, forse per prendere tempo o più semplicemente per allontanarlo dalla stanzetta delle guardie. Ma in questo modo c’era andato di mezzo lui.
Il suono di un fischietto, quello di Geary probabilmente, fece accorrere altre guardie nei pressi del magazzino.
Lincoln venne allontanato e portato via e noi fummo salvi.

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Capitolo 21
*** La manipolatrice ***


Michael risalì in superficie con il suo viso sorridente, l'espressione soddisfatta. Le nostre facce al contrario erano scure, esitanti. 
  • Ragazzi ci siamo. E’ per stasera!  -  lo sentimmo esclamare entusiasta.
Non riuscii a reggere il suo sguardo e abbassai gli occhi a terra quando il suo sorriso si piegò all’in giù.
  • Michael… c’è un problema…  -  mormorò lentamente Charles.
     
  • Che cos’è successo? Dov’è mio fratello?
Fu Fernando a spiegargli cosa fosse accaduto in sua assenza e fu quasi un dolore fisico per me assistere alla sua reazione, il suo dolore soffocato, la delusione, la preoccupazione, la rabbia.
Non sarebbe dovuto succedere, non a quel punto, non adesso che mancava così poco alla fuga.
Restammo a lungo in silenzio, in cerca di una soluzione, ma il problema era complicato e non c’era più molto tempo. Tra poco meno di 48 ore, Lincoln sarebbe stato condotto sulla sedia elettrica e prima dell’ultimo incontro concesso ai familiari, al condannato non sarebbe stato concesso di lasciare la cella d’isolamento dov’era stato spedito a causa della sua ultima prodezza. Il piano era stato pensato perché tutto il gruppo partisse dalla stanzetta delle guardie, ma ormai era chiaro che Lincoln non potesse più arrivare né a quella stanza, né all’infermeria.
Era terribilmente frustrante spremere le meningi come limoni e non riuscire a ricavarne alcunché, e il peggio era che le cattive notizie sembravano non avere fine. Poco prima della fine del turno infatti, Bagwell era riapparso, raggiungendoci con la solita faccia da schiaffi… e purtroppo non solo con quella.
  • Ci sono novità ragazzi. Uno dei partecipanti alla “grande fuga” ha appena dato fourfait!
La sua mancanza di tatto gli era quasi costato il linciaggio. Dopo la sua entrata in scena, Michael gli aveva lanciato addosso un’occhiata truce che avrebbe potuto disintegrare anche il granito, ma immediatamente tutti e cinque c’eravamo resi conto che T-Bag non potesse sapere di Lincoln.
  • Di chi parli?  -  gli chiese Michael stranito.
  • Del mafioso ovviamente. Non avete sentito l’elicottero?
Effettivamente avevo percepito il rumore di un elicottero in lontananza avvicinarsi sempre più, poco dopo che Lincoln era stato portato via. Il rumore delle pale rotanti, persistente per una manciata di minuti, si era fatto sempre più tenue, finché si era annullato del tutto. Nessuno di noi aveva avuto il coraggio di uscire a vedere cosa fosse appena successo. Poi era riapparso Michael, Fernando aveva spiegato cosa era accaduto a Lincoln e la sofferenza dipinta sul volto del mio amico mi aveva fatto completamente dimenticare dell’elicottero.
  • Che cos’è successo?  -  chiese Sucre.
  • Qualcuno ha tentato di accoppare il caro John. Chissà, forse quei polli mafiosi suoi amici sono tornati nel pollaio per vendicarsi.  -  rispose spiccio il pedofilo.
Non sembrava che la cosa l’avesse scosso più di tanto, dato il modo in cui ne parlava. Mi chiesi se esistesse qualcosa al mondo che potesse scuoterlo, escludendo il suo orgoglio da galeotto incallito.
  • Beh, poco male.  -  riprese.  -  Era quello che volevamo, no? Convincere qualcuno a tirarsi indietro. Adesso siamo in sei…
  • Veramente siamo in cinque.  -  precisò C-Note.  -  Lincoln è fuori gioco.
Lo fissai inorridendo.  -  Complimenti per il tatto, sul serio.  -  dissi nauseata, prima di voltarmi verso Michael per assicurarmi che stesse bene.
Il ragazzo però sembrava non aver sentito.  -  Dobbiamo rimandare la fuga.  -  disse asciutto.
  • Ehi no, non scherziamo, noi non rimandiamo proprio niente!  -  replicò subito in disaccordo C-Note.
Ecco, ci siamo. Prevedevo fulmini e tempeste all’orizzonte.
  • Allora non hai capito, l’evasione è rimandata se prima non tiro fuori mio fratello da quel buco.
  • Non si rimanda proprio niente invece. Mi dispiace tanto per tuo fratello, che Dio lo benedica, ma ormai è spacciato. Non lo faranno più uscire di là se non per condurlo alla sua esecuzione.
Ero scioccata. Mai vista o sentita tanta insensibilità.
Di lì a poco, com’era ovvio che accadesse, esplose un dibattito fuori misura che vide Michael precipitare nel bel mezzo di un ammutinamento. Per quanto trovassi ingrato quel comportamento da parte del gruppo, infondo non era poi così inaspettato. Anche T-Bag e gli altri appoggiarono il voltafaccia di C-Note e Michael si ritrovò improvvisamente solo contro tutti. D'altronde, avrebbe dovuto prevedere quel risvolto della medaglia quando aveva deciso di fare comunella con dei galeotti.
  • Per quanto mi riguarda, io me ne andrò da qui oggi stesso.  -  proclamò C-Note con evidente spudoratezza.  -  E’ un’occasione imperdibile. Ogni giorno aumenta il rischio che le guardie ci scoprano e io non voglio rischiare tutto per tentare di salvare un solo uomo.
  • Se si tratta di ora o mai più, io scelgo di evadere.  -  continuò Westmoreland a disagio.  -  Anche a me dispiace per Lincoln, credimi, ma ormai non c’è più niente che tu possa fare Michael. Le cose sono andate così. Vieni con noi.
Anche Charles aveva espresso il suo punto di vista. L’attenzione passò rapidamente a Sucre che si limitò a rimanere in silenzio, credo, per una questione di rispetto nei confronti del suo compagno di cella, e a T-Bag che, al contrario, espresse più che apertamente le sue intenzioni di voler proseguire col piano, con o senza il suo ideatore.
La maggioranza venne raggiunta e la decisione presa, ma il caparbio ingegnere edile non sembrò intenzionato a farsi metter in ombra dai suoi compagni.
  • Manderete tutto all’aria… il percorso non è finito!
  • Dobbiamo solo arrivare all’infermeria, togliere l’inferriata alla finestra, scavalcare il reticolato e oltrepassare il muro. Sei stato tu a dire che sarebbe stato facile. Hai fatto proprio un bel lavoro.
Il tono ironico e volutamente provocante del pedofilo arrivò dritto a destinazione, tanto da far perdere le staffe a Michael che gli si gettò addosso, spingendolo contro il muro di cartongesso. La parete instabile oscillò appena non essendo ancora stata fissata a dovere.
Sucre e C-Note dovettero intervenire per dividerli.
  • Fattene una ragione, ragazzo. Tenteremo la fuga durante il turno pomeridiano.  -  rimpolpò la dose quest’ultimo.
  • In pieno giorno? Così rovinerete tutto e vi farete scoprire. Sapete che vi dico, io non vi permetterò di distruggere tutto. Ve lo impedirò.
I toni ricominciavano a surriscaldarsi e non ero certa che sarei riuscita a trattenere il mio amico.
  • E che cosa farai? Denuncerai quello che tu stesso hai progettato?
Quando Michael, con aria minacciosa, fece un passo avanti in direzione del palestrato afroamericano che aveva di fronte, io lo afferrai per la camicia, tirandolo dalla parte opposta. Evidentemente aveva deciso di farsi massacrare di botte per perorare la propria causa, ma non glielo avrei permesso.
Mancava un battito di ciglia perché si scatenasse una rissa.
  • Adesso piantatela tutti quanti.  -  sbottai intromettendomi. Ero stufa di quella congiura. 
  • Il discorso non ti riguarda, dolcezza.  -  cercò di liquidarmi C-Note.
  • Dici? Eppure io sono a conoscenza di quello che accade qui dentro esattamente come lo siete voi. Mi sembra che abbiate espresso tutti il vostro parere, potreste anche concedere a Michael una tregua.  -  poi, voltandomi verso il mio amico, gli dissi conciliante  -  Forza, usciamo. Il turno è quasi finito. Andiamo a schiarirci le idee.
Aprii la porta e attesi di vederlo uscire dalla stanzetta, prima di fare lo stesso e seguirlo in direzione del cortile.
Per un po’ camminammo dritto davanti a noi. Non mi veniva niente in mente da poter dire per rompere il silenzio e rendere più leggero il fardello depositatosi sulle spalle del mio amico tatuato. Ero sempre stata un disastro con le parole quando si era trattato di trovare la cosa giusta da dire e con Michael era ancora più difficile, come difficile era la situazione che si era venuta a creare. Mi sentivo così… inutile.
  • Che cosa devo fare secondo te? -  mi domandò all’improvviso senza voltarsi a guardarmi.
Che cosa si poteva rispondere ad un uomo che stava per perdere il fratello?
  • Non lo so.
  • Tutti hanno detto la loro, tu sei l’unica a non aver espresso nessuna opinione.
  • Vuoi una frase di circostanza o vuoi sapere che cosa farei se fossi al tuo posto?
Quando i suoi occhi tristi incontrarono i miei, capii che una frase qualunque sarebbe andata bene lo stesso. Aveva solo bisogno che lo distraessi dai suoi pensieri. Nient’altro.
  • So già che faresti al mio posto… tu sceglieresti di evadere.
Scrollai le spalle.  -  Probabile. Anch’io come te sarei disperata all’idea di perdere mio fratello… o mia sorella…  -  Per un istante pensai a Cloe e mi chiesi cos’avrei provato se al posto di Lincoln ci fosse stata lei. -  …Michael, so che la decisione non è semplice, ma riflettici un attimo. A meno che non accada un miracolo, Lincoln verrà legato a quella sedia che tu decida di evadere o no. Che cosa farai dopo? Avrai i tuoi 5 anni da scontare e sarai fortunato se non faranno risalire quel buco a te perché in caso contrario, ti verrebbero aggiunti altri 10 anni. Vuoi sul serio rimanere a Fox River per altri 15 anni?
 
Michael non rispose, era tornato a guardare dritto davanti a sé con aria assorta.
  • In ogni caso non trovo giusto che gli altri escano da qui senza di te. E’ il tuo piano.
  • Secondo te c’è un modo per contattare Lincoln o parlargli anche solo per pochi secondi?
Avevo la netta sensazione che non avesse sentito nemmeno una parola di ciò che avevo detto.
  • Sinceramente non ne ho idea. Probabilmente Pope avrà disposto che venga tenuto in isolamento fino alla sua esecuzione, e visto che è anche in punizione, non gli concederanno alcuna visita.
  • Mmm…
Immaginavo le rotelle del suo cervello ruotare vorticosamente, in piena attività.
  • Michael, che cosa stai architettando?
  • Solo un modo per far arrivare Lincoln in infermeria.
  • Impossibile. Essere spedito in isolamento comprende anche il ricevere cure mediche in cella, in modo da non dover essere portati in infermeria.
Le rotelle del suo cervello stavano fumando. Ne ero certa.
  • Penso di aver trovato un modo che ci permetta di evadere stanotte e di includere anche mio fratello… però avrò bisogno del tuo aiuto, Gwen.
***

Non avevo avuto il coraggio di tirarmi indietro quando Michael mi aveva esposto il suo piano, nonostante lo considerassi folle e del tutto a mio sfavore. Io desideravo che l’evasione riuscisse, soprattutto da quando mi ero resa conto che Lincoln potesse essere davvero innocente, e date le circostanze ero ben felice di offrire il mio aiuto, ma questo non comprendeva l’esporsi in prima persona e peggiorare la propria situazione.
Stavo rischiando parecchio e Michael lo sapeva, ma ovviamente non poteva preoccuparsene dato che quella era la sua ultima speranza prima di veder friggere il fratello sulla sedia elettrica.
Mentre Green Rizzo mi scortava dalla mia cella alla stanza del direttore Pope, ripensai a ciò che avrei dovuto fare.
Fino a quel momento il direttore si era dimostrato ben disposto nei miei confronti, concedendomi dei favori che probabilmente non avrebbe mai concesso se fossi stata un uomo o se non fossi stata la figliastra del suo amico di college.

Michael contava sul fatto che anche questa volta Pope si lasciasse convincere a concedermi l’ennesimo favore, ma io non ero molto ottimista in proposito. Non solo temevo che si sarebbe rifiutato, ma cosa ben peggiore, temevo che potesse insospettirsi per la strana richiesta.
La vita di Lincoln dipendeva dalla concessione di Pope e io mi sentivo come sui carboni ardenti, mentre superavamo uno dopo l’altro i cancelli blindati fino ad arrivare all’ala sud del penitenziario. 
  • Ciao Gwyneth  -  mi accolse immediatamente Becky vedendomi arrivare.  -  Ci rivediamo, eh?
  • Già.  -  sospirai.
Ero l’unico detenuto in tutta Fox River che avesse incontrato Henry Pope nel suo ufficio per ben quattro volte nell’arco di un mese. Era un po’ come essere tornata all’università, puntualmente richiamata nell’ufficio del Rettore.
  • Il direttore ti riceverà subito.
  • Ok… e per caso…ahm, sai anche dirmi di che umore è oggi?
La donna parve presa alla sprovvista.  -  Il solito credo.
 
Pochi secondi dopo Rizzo mi liberò dalle manette perché potessi fare il mio ingresso nell’ufficio di Pope.
L’uomo, già seduto dietro la sua scrivania, mi schioccò un’occhiata micidiale appena mossi il primo piede in avanti. Non era certamente felice di vedermi e non tardò a lungo a farmelo notare.
  • A quanto pare le parole “Spero di non rivederla più nel mio ufficio, signorina Hudson” per te non hanno alcun significato.  -  sbuffò seccato.  -  Che cos’è successo questa volta?
Invece di rispondere subito alla sua domanda, cercai di acquietare le acque, per quanto fosse possibile.
  • So di averle arrecato un notevole disturbo signor direttore, e mi dispiace. Non so se ha saputo, il mio avvocato ha ottenuto una revisione della pena imputatami. Tra un mese lascerò Fox River.
  • Si aprano le porte dell’inferno se deciderò di far entrare un’altra ragazzina nel mio penitenziario!  -  esclamò, sollevando le braccia al cielo.  -  Perlomeno sei ancora viva e vegeta e questo mi sembra già un grosso risultato. Allora, cosa posso fare per te Gwyneth che non abbia già fatto?
Feci un passo in avanti, ma non mi azzardai a sedermi visto che non era stato lui a invitarmi a farlo.
  • Ecco… forse le sembrerà una strana richiesta, ma come ben saprà domani sera Lincoln Burrows verrà giustiziato per i suoi crimini e io… beh ecco, io vorrei chiederle se per caso non fosse possibile ottenere un permesso per vederlo…voglio dire, per dirgli addio.
L’uomo non nascose la propria sorpresa.  -  In effetti è una strana richiesta. Che cosa c’entri tu con Lincoln Burrows?
  • Durante questo periodo a Fox River ho avuto modo di conoscere Lincoln, abbiamo fatto amicizia. Purtroppo lui è stato portato via durante il turno di lavoro. Io non credevo che sarebbe arrivato ad aggredire una guardia. Sono sicura che si sia lasciato prendere dal panico, lui non è pericoloso…
  • E’ stato condannato a morte.  -  sottolineò l’uomo, ovvio.
  • Lo so, ma lui è stato molto gentile con me e io vorrei solo poterlo salutare.
  • Signorina Hudson…
Lo interruppi prima che potesse opporsi.  -  So cosa sta per dire, aggredire una guardia è pur sempre un reato grave e il fatto che l’esecuzione sia fissata per domani non gli dà il diritto di diventare violento…
  • Signorina Hudson…
  • …ma cerchi di mettersi nei suoi panni. E’ stata la disperazione a spingerlo a comportarsi in questo modo. Lui non avrebbe voluto fare del male a nessuno.
  • Gwyneth, quello che mi stai chiedendo è impossibile. Lincoln Burrows non potrà uscire dall’isolamento, né potrà ricevere alcuna visita, con eccezione fatta per il prete e per la dottoressa Tancredi. Il detenuto potrà usufruire delle ultime ore serali di domani per poter trascorrere del tempo insieme al fratello, ma non posso concedere lo stesso permesso a te non essendo né un parente, né un conoscente stretto. Mi dispiace molto per Burrows e mi dispiace molto anche per te, che abbiate fatto amicizia è una bella cosa, ma questo è un penitenziario e queste sono le sue regole.
Non avrebbe cambiato idea, ne ero certa. Da una parte avrei voluto girare i tacchi e tornarmene nella mia cella. Ammiravo Henry Pope, era un brav’uomo, il classico incorruttibile. Era un buon direttore e con me si era comportato in maniera quasi paterna da quando ero arrivata a Fox River. Se solo avessi avuto un’alternativa, non mi sarei mai messa contro di lui, non solo perché avrei dovuto trascorrere in quel posto un altro mese e non sarebbe stato intelligente inimicarmi l’unico uomo rimasto dalla mia parte fino a quel momento, ma anche perché provavo nei suoi confronti una sorta di rispetto profondo e sincero. 
  • Torna nella tua cella Gwyneth e se ci tieni davvero a quell’uomo, prega per la sua anima perché ne avrà bisogno.  -  continuò, dando per scontato che la nostra conversazione fosse finita.
Non mi mossi. Restai in piedi a fissarlo, indecisa se restare o andarmene.
Avevo fatto del mio meglio, avevo supplicato Pope perché mi permettesse di arrivare a Lincoln e lui non aveva voluto piegarsi. Che altro avrei dovuto fare se non del mio peggio?
Avevo promesso a Michael che lo avrei aiutato a salvare suo fratello. Non potevo tradirlo.
  • C’è dell’altro?  -  mi chiese ancora, impaziente di liberarsi di me.
Prendendo finalmente una decisione, raggiunsi la sedia di fronte a quella del direttore e mi sedetti con un’accavallata strategica che mi permise di marcare un atteggiamento sicuro e deciso.
Abbandonata ogni traccia di cortesia e comprensione, adesso ero pronta a passare alle maniere forti.
  • E’ buffo che lei lo chieda.  -  L’espressione sul viso del direttore si fece improvvisamente indispettita.  -  Stavo riflettendo su quello che diceva del pregare per l’anima di Lincoln perché, a ben pensarci, se c’è qualche anima per cui bisognerebbe pregare, questa non è certo quella sua. Voglio dire, quel pover’uomo domani notte renderà conto dei suoi peccati davanti a Dio e non dovrà più preoccuparsi degli uomini in Terra che lo hanno giudicato, come invece dovrebbero fare coloro che restano e che hanno la coscienza sporca, le pare?
L’uomo ci rifletté un attimo, palesemente spiazzato. Ero sicura che l’improvviso cambiamento di tono e di atteggiamento in me lo avesse confuso.
  • Non so che cosa dire  -  mormorò semplicemente.
  • Lo immaginavo. Le faccio una domanda. Lei prega per la sua anima, direttore?
Il disagio si trasformò in turbamento.  -  Beh…si.
Gli sorrisi diabolica.  -  Bene, perché suppongo che a causa di quella vecchia faccenda di Toledo gravi su di lei un pesante fardello, dico bene?  -  Feci una pausa strategica.  -  Come diavolo le è venuto in mente di tradire sua moglie con una prostituta messicana? E quel povero ragazzino… aveva solo 17 anni. Che morte orribile.
 
La reazione dell’uomo, come avevo immaginato, proruppe in pochi istanti e qualcosa baluginò nei suoi occhi mentre il viso gli diventava rosso di rabbia.
  • Di che cosa stai parlando?!
  • Suvvia direttore, sa benissimo di cosa sto parlando. E’ stato Keith Sawyer ad occuparsi della faccenda quando due anni fa lei gli chiese di rintracciare suo figlio, nato da un rapporto occasionale con una prostituta dei bassifondi. Dando un’occhiata ai vecchi casi ai quali il mio patrigno aveva lavorato ho trovato un fascicolo denominato “Toledo”. Non immagina neanche la mia sorpresa quando ho trovato la cartelletta con sopra il suo nome.
La mia espressione, così come il mio tono, avevano cancellato qualunque cenno di rispetto e delicatezza per risuonare impassibile di fronte all’uomo sprezzante che mi sedeva di fronte.
Pope era letteralmente fuori di sé. Aveva il mento di fuori e le vene del collo tese come corde.
  • Maledetta figlia di puttana!!! Hai fatto ricerche su di me!  -  sibilò a denti stretti, stringendo entrambe le mani al tavolo della scrivania.
Non mi lasciai impressionare.  -  Dimentica chi ha deciso di includere nel suo penitenziario.
  • Già, ed è così che mi ripaghi? Ricattandomi?
  • Nessuno qui ha parlato di ricatti. Personalmente non ho nulla contro di lei, tutt’altro. Le mie intenzioni sono di finire di scontare la mia condanna da detenuta modello. Non ho alcun interesse a divulgare le informazioni di cui sono in possesso… a meno di non esserne costretta, è ovvio.
  • E dici che non si tratta di ricatto.
Feci spallucce.  -  Io voglio vedere Lincoln Burrows, tutto qui, e lei vuole impedirmelo sulla base di una stupida precauzione di sicurezza che non sarebbe neanche entrata in atto se Lincoln stamattina non avesse aggredito Geary. -  replicai tagliente.
  • Stiamo parlando di un condannato a morte, per Dio! Ti rendi conto che non ho concesso questo permesso neanche a suo fratello? Ricattare un funzionario statale è un reato ancora più grave dell’aggressione ad una guardia. Potrei denunciarti per questo.
  • Potrebbe si, ma io non credo che lo farà.  -  risposi sicura, marcando la mia posizione di controllo.  -  Credeva davvero che sarei arrivata in un penitenziario di massima sicurezza maschile munita di sola buona volontà e sfacciataggine? Ovviamente no. Non amo ricevere sorprese dalle persone di cui mi circondo. Ancor prima di mettere piede a Fox River, avevo già tutte le informazioni che mi servivano sui detenuti, sul personale e ovviamente su di lei. Devo dire che la sua è stata una delle letture più interessanti… quindi la prego, non faccia l’errore di mettersi contro di me. Ho piegato personaggi molto più in alto di lei, gliel’assicuro, e l’ex governatore Carl Adelphi potrebbe confermarglielo.
Era davvero furioso. Sentivo i suoi denti scricchiolare persino dal posto in cui mi trovavo, ma non mi intimidiva affatto.
  • Mia moglie sa tutto della storia di Toledo.  -  ci tenne a precisare, convinto di sminuire il ricatto.
  • Buon per lei.
Per un attimo mi parve che l’uomo tentennasse.  -  Mi stai dicendo che se non ti permetterò di vedere Burrows, renderai pubblica la faccenda di Toledo?
  • Le sto dicendo che odio essere contrariata.
  • Non posso credere che tu mi stia facendo questo. Ho messo a rischio la mia carriera per ammetterti nel mio carcere e limitare al minimo i rischi, e tu hai il coraggio di presentarti qui, nel mio ufficio, a ricattarmi?  -  Rise amaramente, scuotendo il capo da una parte all’altra.  -  E dire che Keith mi aveva avvertito che fossi un tipetto singolare… vuoi sentire le esatte parole con le quali ti ha descritta il tuo patrigno? Ti ha definita un soggetto sociopatico, paranoico e fortemente manipolatore.
  • Keith mi conosce proprio bene!  -  esclamai sarcastica.
  • Quando sei entrata nel mio ufficio la prima volta, credevo che il mio amico avesse esagerato, ma adesso so che aveva ragione. In 40 anni di carriera ne ho visti passare assassini e psicopatici nel mio carcere, ma tu sei di gran lunga la più subdola.
Sollevai entrambe le sopracciglia nella sua direzione, fingendomi oltraggiata.
  • Ma sentite da che pulpito! Lei ha tradito sua moglie con una prostituta dalla quale ha avuto un figlio, lo ha abbandonato lavandosene le mani e lasciando che morisse a soli 17 anni per overdose, e quella subdola sarei io?
Sbattendo un pugno sul tavolo, Pope scattò in piedi con occhi pieni di odio e di risentimento.
  • Non te la darò vinta, piccola stronza!  -  sbraitò, alzando la voce.  -  Vuoi spiattellare il mio passato ai media? Fa pure, ma sappi che anch’io ho le mie carte da giocare e non esiterò un attimo a sbatterti fuori e rivelare la tua vera identità, e allora vedremo quale delle due notizie farà più scalpore.
Non potevo credere alle mie orecchie. Allora era proprio vero che anche l’uomo più integro, se messo alle strette, tirava fuori le unghia.
  • Davvero vuole giocare questo gioco contro di me?  -  Non aveva proprio capito con chi aveva a che fare.  -  D’accordo, faccia pure.  -  esclamai fresca come una rosa.
L’uomo, colto alla sprovvista, non seppe cosa ribattere.
  • La notizia che una ragazza è stata trasferita in una sezione carceraria maschile è già trapelata ai media, direttore, ed era esattamente quello che volevo.  -  Gli sorrisi priva di ogni emozione.  -  Quando uscirò da qui, dimostrerò la mia innocenza e sarò io stessa a rendere pubblica la verità e, come si suol dire… chi ha diffamato, verrà diffamato. Perciò se lei vuole vuotare il sacco subito io non la fermerò, anche se ho la sensazione che vada più a sfavore suo che mio.
Sfidavo chiunque a non considerarlo un discorso convincente e ad effetto. Era ovvio che ormai avessi raggiunto il mio scopo. Mancava poco perché il direttore capitolasse una volta per tutte e all’improvviso, inspiegabilmente, fissando l’uomo che mi sedeva di fronte, mi sentii malissimo.
Era come se a quell’uomo tutto d’un pezzo in un istante fosse stata risucchiata la dignità ed era colpa mia, ero stata io a ridurlo in quello stato.
“Non potevo fare altrimenti. L’ho fatto per Lincoln” ripetei a me stessa per alleggerire il senso di colpa, ma era davvero quello il motivo? Chi volevo prendere in giro? Pope aveva ragione, ero subdola, manipolatrice. Ero fatta così.
  • Mi dispiace per come sono andate le cose, direttore.  -  proseguii lentamente.  -  Non voglio screditarla o giudicarla. Sono solo triste per Lincoln… voglio potergli dire addio.
  • Immagino sia una novità per te, avere degli amici intendo. E’ così che ti comporti con tutti quelli che si preoccupano per te? Pugnalandoli alle spalle?
Sospirai, incassando il colpo. Me l’ero meritata.
  • Non sono quello che crede.  -  ma per quanto ci provavo, anch’io facevo fatica a credere alle mie stesse parole.
  • GUARDIA!!!  -  chiamò forte affinché Rizzo, ancora in attesa nell’anticamera, lo sentisse. Il secondino non si fece attendere e comparve dopo due secondi.  -  Green, accompagna la signorina Sawyer nella sua cella e dì a Geary di venire nel mio ufficio, subito.  -  poi rivolgendosi nuovamente a me, aggiunse  -  Ti permetterò di vedere Burrows, ma solo per 5 minuti, 5 minuti esatti. Ti accompagnerà Geary e resterà con te e Burrows per tutta la durata dell’incontro. Inoltre, sarai perquisita da capo a piedi sia prima che dopo, all’uscita. Questi sono gli accordi.
  • Avete paura che gli lasci una delle mie forcine e che tenti di evadere?  -  Il tentativo di sarcasmo fallì miseramente.  -  D’accordo, per me va bene.
A quel punto lasciai la poltrona. La conversazione era finita, ma il direttore mi stava ancora fissando in cagnesco.
  • Adesso sparisci di qua e non azzardarti a mettere più piede nel mio ufficio.  -  sibilò l’uomo, alzandosi anch’egli per darmi le spalle.
Al mio fianco, Rizzo mi lanciò uno sguardo interrogativo che cercai di ignorare porgendogli i polsi perché mi ammanettasse come da prassi. Quindi lasciammo l’ufficio per tornare nel Braccio dei detenuti.
Mentre percorrevamo i lunghi corridoi, superando uno dopo l’altro i cancelli blindati, ripensai a quello che avevo appena fatto per il bene di un detenuto che conoscevo a malapena. Non sarei più potuta tornare nell’ufficio di Pope, il direttore era stato chiaro, non ero più la benvenuta. Nell’ultimo mese, oltre che sull’aiuto di Michael e Lincoln, avevo potuto contare anche sull’appoggio di Pope e invece adesso, oltre a perdere i miei due amici avrei dovuto fare a meno anche della protezione del direttore del penitenziario. Proprio un bell’affare!
Quello che mi preoccupava davvero al momento era la reazione di Keith. Temevo che non avrebbe capito e che non mi avrebbe mai perdonata per aver ricattato Pope. L’affetto che nutrivo nei confronti di Keith e Meredith era la sola cosa che importasse. Loro non avrebbero mai dovuto sapere del gesto sconsiderato che aveva appena compiuto.

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Capitolo 22
*** L'esecuzione ***


Come ordinato dal direttore Pope, Geary raggiunse la cella 93 e mi scortò personalmente fino alle celle riservate ai detenuti in isolamento, nell’ala sotterranea, buia e terribilmente silenziosa.
Una volta arrivati, procedemmo per un lungo corridoio superando diverse porte, finché all’improvviso il mio accompagnatore in divisa si fermò di fronte ad una pesante porta di ferro massiccio, priva di sbarre, con una bassa apertura rettangolare al centro che poteva essere aperta solo dall’esterno e che al momento era chiusa.
Quando Geary infilò la chiave nel chiavistello per far scattare la serratura, la porta si aprì cigolando greve. Fu allora che lo vidi. Era immerso nella più completa oscurità, seduto a terra, in un angolo, con le ginocchia al petto, le braccia intorno ad esse e gli occhi stretti come quelli di un animale braccato. 
  • Oh Lincoln…  -  mormorai, portandomi una mano alla bocca.
Lo vidi alzare lo sguardo verso di me, ma non ero sicura che mi avesse riconosciuta. C’era troppo buio. 
  • Potreste accendere le luci per favore?  -  chiesi alla guardia.
L’uomo mi rispose con un grugnito.  -  Non è possibile.
  • Il direttore Pope mi ha concesso 5 minuti di visita, potreste almeno accendere una lampadina solo per evitare che mi metta a parlare col muro piuttosto che con quest'uomo.
Geary sbuffò, ma finalmente si decise a collaborare e ordinò alla guardia, in attesa in fondo al corridoio, di accendere la luce nella cella desolata di Lincoln. Nello stesso momento gli porsi i polsi perché mi liberasse dalle manette.
Entrai e la prima cosa che feci fu abbracciare il mio amico dopo che quest’ultimo si fu alzato. Non ci venne lasciata alcuna privacy. Pope aveva ordinato categoricamente che l’incontro avvenisse sotto gli occhi attenti del fedele Geary.
  • Che ci fai qui? Sei venuta per dirmi addio?  -  mi chiese Lincoln con una smorfia.
  • Si, una specie…  -  lo strinsi più forte.  -  … Mi dispiace tanto per quello che è successo.
Ancora non potevo credere di essermi affezionata tanto a quel colosso chiuso e corrucciato.
  • Già, è andata così. Come sei riuscita a convincere Pope a farti scendere quaggiù?
Mi staccai da lui prima di rispondere.  -  Sono stata convincente.
  • Nessuno è così convincente. Non hanno permesso neanche a Michael di vedermi e Pope è uno che rispetta le regole.  -  mi fissò sospettoso.  -  Che cos’hai combinato?
  • Non ho combinato niente. Te l’ho già detto, sono un tipo molto convincente quando m’impegno. Non potevo lasciarti andare senza prima averti salutato. Questa potrebbe essere l’ultima volta che ci vediamo.
Gli sorrisi, sperando che notasse il condizionale all’interno della frase e lo collegasse all’evasione.
  • Tra un minuto esatto si torna in cella, Sawyer!  -  mi ricordò Geary ancora fermo accanto all’entrata.
Decisi di concedermi un ultimo abbraccio, l’ultimo saluto perché Lincoln capisse che gli ero accanto e tifavo per lui e per la riuscita dell’evasione. Prima di staccarmi, gli sussurrai all’orecchio poche parole, cercando di non farmi notare dalla guardia. 
  • Tasca sinistra… Michael dice di prenderla alle 8.  -  per poi concludere a voce più alta  -  Buon viaggio Lincoln, e grazie di cuore per essermi stato amico.
L’uomo rispose piegando l’angolo della bocca in una smorfia, molto vicina ad un sorriso.
  • Grazie a te per avermi creduto.
Ero sicura che avesse capito cosa avevo voluto dirgli o perlomeno che avesse intuito che ci fosse di mezzo lo zampino del fratello. Tutta quella messa in scena era servita affinché io potessi arrivare a Lincoln prima della sua esecuzione e passargli di nascosto una mentina scura che, secondo Michael, avrebbe dovuto far arrivare il fratello in infermeria al momento dell’evasione.
Io avevo portato a termine il mio compito. Adesso era tutto nelle mani di Michael e della fortuna. Dovevo solo trovare il modo per comunicare al ragazzo la riuscita dell’operazione prima che scattasse il secondo turno di lavoro.
  • Capo, potrei avere altri 5 minuti, per favore?  -  chiesi al secondino, dopo aver lasciato le celle sotterranee ed essere risaliti nel Braccio A.
  • Che altro c’è?  -  sbottò scorbutico l’uomo.
  • E’ che stamattina io e il mio gruppo abbiamo fissato le nuove pareti di cartongesso nel magazzino, ma sono stata io a prendere le misure e ho dimenticato di trascriverle.
  • E allora?
  • E allora vorrei passare dalla 40 per ricordarle a Scofield e Sucre, così non dovranno ripetere nuovamente il lavoro e perdere tempo. Purtroppo oggi salterò la prima ora di lavoro per un controllo in infermeria. Per favore. Il capitano Bellick ci ha già rimproverati di metterci troppo tempo, non voglio prendermi un’altra strigliata.
  • D’accordo, ma fa presto.
  • Certo.
Presi le scale e salii fino al piano superiore, dove Michael mi stava aspettando insieme a Fernando, seduto sulla branda più alta. La cella era aperta, come tutte le altre d'altronde. Appena Michael mi vide entrare, la sua espressione si trasformò in una maschera di ansia.
  • Allora?
  • Piano perfettamente riuscito!  -  esclamai soddisfatta, sorridendo sia a lui, sia al suo amico caffelatte.
La maschera di ansia si sciolse.  -  Grazie a Dio! Hai avuto problemi con Pope?
  • Ahm…no, ha acconsentito subito.  -  mentii.
  • Meglio così. E Lincoln come sta?
  • Credo che sia un po’ spaventato, ma sta bene. Adesso posso sapere come avete intenzione di organizzarvi?
  • Cercheremo di prolungare il turno di lavoro per tutta la notte e partiremo dalla stanzetta delle guardie alle 9.  -  mi spiegò sicuro il ragazzo.
Anche questa volta doveva aver calcolato ogni minimo dettaglio.
  • Alle 8 Lincoln ingoierà la mentina e verrà colpito da forti dolori addominali.  -  proseguì.  -  Sospetteranno che si tratti di avvelenamento da cibo e lo lasceranno riposare in infermeria, così quando arriveremo noi, Lincoln sarà già lì e potremo evadere tutti insieme.
  • Sembra un buon piano.
All’improvviso mi resi conto che era arrivato il momento dei saluti e non seppi più cosa dire. Dire addio a Lincoln era stato facile perché sapevo che si sarebbe salvato e che in teoria quella non sarebbe stata la fine, ma adesso che dovevo dire addio anche a Michael, di colpo mi sentivo strana. Ero imbarazzata.
Per un istante restammo a fissarci in silenzio. Sembrava aspettare che dicessi qualcosa; io cercavo di pensare a cosa dire. Poi Fernando con un salto scese giù dalla sua branda e ci fissò entrambi.
  • Ho capito. Tolgo il disturbo.  -  Mi sorrise e lasciò la cella.
La situazione divenne ancora più imbarazzante adesso che io e Michael eravamo rimasti da soli.
  • Beh… ci tengo a dirti che ti sono grato per quello che hai fatto.  -  iniziò.  -  Capisco di averti messa in una situazione scomoda.
  • No, non fa niente… ve lo dovevo… comunque prego.  -  Ero imbambolata dai suoi occhi e mi stavo impappinando a parlare.  -  Spero che vada tutto bene e che Lincoln si salvi… e spero anche che T-Bag inciampi sul filo spinato e precipiti dal muro, ma… per lo più spero che ce la facciate. Perlomeno per Lincoln… e anche per te, certo.
Stavo parlando come una matricola sotto anfetamine. La mia voce suonava stridula persino alle mie orecchie. Dovevo smetterla di dire sciocchezze.
Michael mi rivolse il suo tipico sorriso mozzafiato, capace di fare terra bruciata intorno, e per poco non mi cadde la mascella.
  • Sembra che tu ti sia affezionata molto a Lincoln. Non ti sarai presa una cotta per lui.
Non riuscii neanche ad arrossire per quell’insinuazione che non stava neanche in piedi.
  • No… non è per Lincoln che mi sono presa una cotta.  -  e dopo aver pronunciato l’intera frase, mi resi conto di aver parlato senza pensare e mi sentii un’idiota.
Michael continuò a fissarmi col suo sguardo intenso, dolce, sincero, mentre io ricambiavo con le farfalle allo stomaco in pieno tumulto.
  • Adesso… ehm… devo proprio andare. Buona fortuna.
  • Ciao Gwen. Ci vediamo fuori.
Sarebbe stato bello se il piano avesse funzionato come da copione, ma quella sera il piano non funzionò e me ne resi conto molto velocemente quando alle 10 non sentii ancora scattare gli allarmi di tutto il penitenziario. Il fatto che Fox River fosse immerso nella calma e nel silenzio infondo era un segno positivo, significava che nessun tentativo di evasione fosse ancora stato scoperto, però era anche statisticamente impossibile che le guardie non si fossero ancora accorte della mancanza della grata di ferro alla finestra dell’infermeria.
Esistevano solo due spiegazioni per spiegare quel ritardo: o per qualche motivo il gruppo aveva deciso di rimandare l’evasione, oppure qualcosa era andato storto.
Poi alle 11,05 l’epilogo. Qualcuno fece scattare la serratura nell’entrata ovest del Braccio A. Un secondo dopo, il capitano Bellick, seguito dai 5 operai ancora in tenuta da lavoro, varcarono la porta.
Restai a fissarli senza parole. Era piuttosto chiaro dalla loro presenza lì e dalle loro espressioni deluse e stanche che l’evasione fosse fallita. Che cosa era andato storto? Lincoln non era riuscito ad arrivare in infermeria? Qualcuno li aveva scoperti? Probabilmente no, altrimenti Bellick sarebbe entrato urlando e i 5 uomini sarebbero stati sbattuti in isolamento, e non certo riaccompagnati nelle loro celle con tanto di riguardo.
Non potevo credere che fosse tutto finito in un buco nell’acqua, dopo tutti i preparativi, dopo che ero arrivata addirittura a ricattare il direttore Pope per vedere Lincoln, rischiando di compromettere la mia situazione fin troppo delicata. Cosa ne sarebbe stato adesso di Lincoln?
 
La mattina del 9 Maggio, mi svegliai con una strana inquietudine addosso. Non ero riuscita a chiudere occhio tutta la notte, tormentata dal miliardo e mezzo di domande che mi frullavano in testa e dal pensiero logorante di ciò che sarebbe accaduto l’indomani.
Alle 9 esatte ero schizzata in cortile alla ricerca di Michael per avere delle spiegazioni, ma dopo aver praticamente rivoltato tutto il circondario e l’intero Braccio senza successo, mi ero dovuta accontentare di Charles, seduto sulla sua branda, solo e sconsolato.
  • Avreste già dovuto trovarvi oltre i confini dell’Illinois a quest’ora.  -  esordii, dimenticando tatto e buone maniere.
L’espressione palesemente sconsolata del vecchio non fece una grinza. Sembrava così stanco. Neanche se fosse stato travolto da una mandria di buoi inferociti avrebbe potuto avere aspetto peggiore.
  • C’è stato un problema.  -  disse soltanto.
  • Beh, questo è ovvio. Che cos’è successo?  -  chiesi, sedendogli accanto.
  • Il passaggio sotto l’infermeria, quello che Michael aveva corroso per farci passare, è stato sostituito con un condotto da 7 centimetri e non siamo riusciti a creare nemmeno una crepa. Abbiamo dovuto rinunciare.
  • Com’è possibile che non vi siate accorti della sostituzione?
Non appena formulai la domanda, mi resi conto di averla posta all’uomo sbagliato. Era a Michael che avrei dovuto chiederlo, lui aveva progettato la fuga.
  • Credo… non lo so, probabilmente qualcuno dev’essersi accorto del vecchio condotto danneggiato, richiedendo una sostituzione rapida.
Davvero una bella sfortuna, e dire che erano quasi riusciti nell’impresa.
Per un istante fissai Charles che ricambiò il mio sguardo, preoccupato. Non stava più pensando all’evasione adesso, ma ad un problema molto più urgente. Lincoln.
  • Mancano meno di 15 ore all’esecuzione.  -  constatai pensierosa.
  • Già.
  • Che cosa farà Michael?
  • Credo che stia cercando di prendere tempo.
Mi feci attenta.  -  Come?
Scrollò le spalle.  -  Non so come farà esattamente, ma non è intenzionato a lasciar morire il fratello.
 
Di questo ne ero certa anch’io, ma non contribuiva a sminuire le mie preoccupazioni. Sapevo che Michael non si sarebbe arreso, lui poteva ancora salvare Lincoln… o perlomeno lo speravo.
Ero certa che l’ansia mi avrebbe uccisa.
Alle 21,30, dopo che i detenuti vennero fatti rientrare nelle loro celle e chiusi dentro per la notte, cominciai a farmi prendere dal panico. Non ero riuscita a sapere niente da Michael, niente su Lincoln, e stavo impazzendo. Mancavano soltanto 2 ore e mezza. E se Michael non avesse trovato un modo per fermare l’esecuzione?
Se solo non mi fossi lasciata coinvolgere. A ripensarci, mi sembrava a dir poco impossibile essermi presa tanta pena per un delinquente qualsiasi, conosciuto in carcere, del quale non ero nemmeno sicura fosse innocente. Non ero una grande sostenitrice della pena di morte e probabilmente per questo avrei dovuto provare rabbia, orrore, disgusto. Ma quello che stavo provando in quel momento andava ben oltre la rabbia, l’orrore e il disgusto. Ero chiusa in una cella con delle sbarre all’ingresso, ma mi sentivo ugualmente soffocare, quasi fossi rimasta intrappolata in uno sgabuzzino largo un metro per un metro, privo di luci e di finestre.
Alle 23,30 avevo già percorso la breve distanza che separava le sbarre della porta al lavandino, ben 663 volte. Non potevo restare ferma. Sedermi era fuori discussione. Dormire, un’utopia.
L’ultima mezz’ora fu la peggiore. Cominciai a sudare freddo, poi a spogliarmi per il caldo. Pregai per Lincoln , per finire un minuto dopo ad imprecare contro me stessa e la mia dannata debolezza a lasciarmi coinvolgere. Pregai di nuovo e restai con il fiato sospeso per un lasso di tempo che mi parve infinito, finché l’orologio non segnò mezzanotte e un minuto esatto.

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Capitolo 23
*** Nuovo percorso ***


Mi svegliai stordita e piuttosto confusa e capii immediatamente che quella non era la mia cella. C’erano troppa luce e troppo silenzio ed erano esattamente 5 settimane che continuavo a svegliarmi nella penombra della mia squallida cella, tra borbottii e schiamazzi mattutini.
Mi tirai su a sedere, consapevole di trovarmi in infermeria. La tendina bianca accanto al lettino sul quale ero stata adagiata, non avrebbe trovato alcuna spiegazione in qualsiasi altra stanza del penitenziario. Adesso, dovevo solo cercare di capire come fossi arrivata lì e soprattutto perché. Non ricordavo niente. Avevo mal di testa e una gran fame, proprio come dopo una colossale sbronza o una delle mie abituali crisi.
  • Ben svegliata, signorina!  -  esclamò l’infermiera Katie, tirando quasi del tutto la tendina.
  • Buongiorno.
  • Non avevo mai visto nessuno dormire tanto quanto te. Come ti senti?
  • Affamata. Che ci faccio qui?
Mi sorrise gentile.  -  Le guardie ti hanno trovata riversa per terra nella tua cella.
  • Mmm… devo essere svenuta.
  • Si, è così. Ricordi cos’è successo?
A ricordi non ero messa molto bene. Feci cenno di no con la testa.
  • Ricordi se ti sei sentita male o a che ora è successo?
Stavo per ripetere il gesto, quando una spietata lucidità mi piombò addosso con la forza di uno schiaffo.
“Merda, certo che ricordavo l’ora!”
Avevo atteso che l’ora dell’esecuzione arrivasse e molto probabilmente ero crollata sotto il peso dell’ansia. Immediatamente il mio pensiero andò a Lincoln. Era vivo? Era morto? Dovevo saperlo.
  • Mi dispiace, non ricordo cosa sia successo.  -  dissi, balzando giù dal lettino alla ricerca delle scarpe.  -  Sarà meglio tornare in cella… o in qualunque altro posto dovrei trovarmi in questo momento. A proposito, che ore sono?
  • Mezzogiorno passato, ma… non puoi andartene, la dottoressa Tancredi sarà qui a momenti per visitarti.
Trovai le scarpe sotto il lettino e le infilai senza neanche allacciarle.
  • Oh, la dottoressa capirà. Le dica che passerò più tardi.
  • Ma…
  • Grazie Katie!  -  conclusi, schizzando via come un fulmine.
Per una volta il tempismo sembrava essermi venuto incontro. A quell’ora i detenuti erano tutti riuniti in sala mensa, quindi era molto probabile che ci avrei trovato Michael, o in alternativa Fernando o Charles, insomma, qualcuno che potesse spiegarmi cosa fosse accaduto la sera precedente.
Grazie al cielo individuai subito la testa rasata di Michael, seduto proprio in compagnia del compagno di cella e del vecchio Westmoreland in uno dei tavoli della fila centrale, piuttosto che al solito in fondo alla sala.
Ero davvero parecchio affamata e in ben altra situazione avrei perso qualche minuto in più per riempire il vassoio con una doppia razione di tutto, ma questa volta non volevo sprecare neanche un secondo. Dovevo sapere cos’era successo a Lincoln. Afferrai dal bancone due panini sigillati e una bottiglietta d’acqua e raggiunsi i tre uomini quasi di corsa.
  • Gwen finalmente!  -  esclamò Michael, vedendomi arrivare.
Ignorai la sorpresa nel suo tono e gli sguardi perplessi dei presenti e puntai gli occhi solo sul ragazzo.
  • Lincoln?!
Rispose in fretta.  -  Sta bene, per ora.
  • Sul serio?
Ero riuscita ad appoggiare panini e acqua sul tavolo, ma non mi ero ancora decisa a sedermi.
Michael rispose con una smorfia che interpretai come un sorriso di assenso e all’improvviso sentii il sollievo correre veloce e impetuoso nel mio sangue, tanto che per un momento, mi parve di essere sul punto di svenire. Di nuovo.
  • Oddio, sono così felice di sentirlo. Quindi il tuo piano ha funzionato.
  • Non proprio.
  • Cioè… non sei stato tu a far rimandare l’esecuzione?
  • No, a quanto pare sono sopraggiunte nuove prove riguardo alla morte di Terrence Steadman che potrebbero far scagionare mio fratello. Il giudice Kessler ha disposto il rinvio dell’esecuzione di due settimane per esaminare le nuove prove e decidere il da farsi.
Non riuscivo a credere alle mie orecchie, ero senza fiato. Charles e Sucre ascoltarono il resoconto interessati, ma molto meno sconvolti di me. Dovevano aver già sentito la storia. Solo allora mi accorsi di non aver ancora preso posto, quindi scelsi di accomodarmi accanto al vecchio, proprio dirimpetto a Michael.
  • Davvero un gran bel colpo di fortuna!  -  esclamai, non so se più sollevata o felice.  -  Però c’è una cosa che non mi convince: perché queste prove sono emerse solo adesso? E di cosa stiamo parlando esattamente?
Michael scrollò le spalle.  -  Non lo so.
  • Sono stati gli avvocati di Lincoln a trovarle?
  • No, sembra che qualcuno le abbia infilate sotto la porta del giudice Kessler mezz’ora prima che Lincoln fosse legato alla sedia elettrica, sparendo successivamente senza lasciare tracce. La telefonata che ha bloccato l’esecuzione è arrivata esattamente un minuto prima che la corrente venisse attivata.
  • Devo ammetterlo amico, questa storia è davvero pazzesca.  -  mormorò Sucre, abbandonando per un momento la forchetta sul vassoio.
  • Fernando ha ragione,  -  appoggiai  -  tutto quello che è successo è inverosimile. Che cosa sta succedendo?
Senza rendermene conto, cominciai a rimuginare per conto mio. Forse con l’esecuzione di Lincoln alle porte avevo accantonato per un attimo i miei propositi di scoprire la verità e vendicarmi, ma di certo non avevo dimenticato di essere finita in quel tugurio ingiustamente.
Era possibile che quei nuovi e inaspettati risvolti potessero stravolgere le sorti di Lincoln e permettermi di provare la mia innocenza? Di quali prove si trattava? Più i giorni passavano, più la vicenda Burrows e il conseguente omicidio di Steadman si articolava in una serie di dubbi e interrogativi che faticavo a credere potessero trovare risposte.
Chissà chi era il personaggio misterioso che aveva consegnato le prove, e perché mai l’aveva fatto? Perché non si era fatto avanti prima? Com’era coinvolto nella faccenda?
  • Aaaahh… non ci capisco più niente! -  sbottai, stracciando l’involucro di plastica che avvolgeva uno dei miei panini.
Il mio stomaco brontolava e gridava vendetta, esattamente come la mia mente piena zeppa di domande e io avevo soltanto due miseri panini. Poi notai che Michael non aveva ancora toccato nessuno dei piatti che aveva riposto sul vassoio, e il mio stomaco riprese a rumoreggiare.
  • Ti dispiace se assaggio un po’ della tua purea?  -  gli chiesi, fingendomi disinteressata.
  • No, prendila pure.
Non me lo feci ripetere. Iniziai cercando di controllarmi, ma anche con tutta la buona volontà, finii per spazzolare purea e panino in pochi bocconi. Michael mi passò anche la sua ciotola di piselli e funghi e lo ringraziai di cuore per avermi letto nel pensiero.
  • Allora, adesso che si fa?... Voglio dire, che cosa ne sarà della vostra fuga?  -  ripresi, scartando il secondo panino.
  • Per il momento siamo fermi.  -  mi aggiornò Charles.
  • In che senso fermi?
  • Il fatto è che non possiamo più usare il passaggio sotto l’infermeria.  -  mi spiegò Michael, rispondendo al posto di Westmoreland.  -  Se intervenissi di nuovo sul condotto, qualcuno potrebbe insospettirsi e sarebbe comunque un lavoro inutile visto che il nuovo condotto è molto più stretto del primo.
  • Allora perché non provate un nuovo percorso?
  • Non è così semplice.  Se vogliamo riuscire ad evadere, dobbiamo arrivare all’infermeria. Il problema è che l’unico altro percorso che dalla stanzetta delle guardie porta all’infermeria, attraversa il reparto psichiatrico e non esiste un tunnel sotterraneo che ci permetta di raggiungere quel reparto. A 36 metri dal punto di partenza il percorso s’interrompe, questo significa che se vogliamo avere qualche speranza di farcela, dovremmo uscire fuori in cortile attraverso il tombino e fare una bella passeggiata di 50 metri fino al reparto psichiatrico.
  • E questa è la parte da suicidio!  -  commentò sarcastico Sucre.  -  Hai sentito il sapientone qui? Vuole proporci un’occasione di jogging per arrivare più presto al Padr’Eterno, altro che fuori da Fox River. E il problema più grosso non è nemmeno questo.
  • Perché, c’è un problema più grosso?
  • Si tratta del nuovo percorso.  -  riprese Michael avvilito.  -  Ieri sera sono andato in perlustrazione per studiare il nuovo tragitto e assicurarmi che fosse praticabile, ma al ritorno mi sono ustionato una spalla e l’ustione ha compromesso definitivamente proprio la parte relativa al percorso che dovremmo seguire sotto al reparto psichiatrico. Stamattina ho provato a ricostruirlo a mente, ma è impossibile. Senza la planimetria non riusciremmo mai ad orientarci là sotto, e se non riusciremo a ricostruire il percorso e raggiungere l’infermeria… -  sospirò stanco  -  … non potremmo evadere.
La sfortuna continuava a perseguitare Michael e il suo gruppo, incredibile!
Se non fosse stato tragico per le sorti di Lincoln, sarebbe stato quasi comico. Così adesso Michael non aveva più la planimetria per il nuovo percorso, a Lincoln mancavano soltanto due settimane e il piano d’evasione era momentaneamente rimandato. Se solo Michael non si fosse ustionato…già, ma quando diavolo aveva avuto il tempo di ustionarsi?
  • Michael, posso farti una domanda?  -  chiesi all’improvviso, rielaborando nella mia mente le informazioni appena ricevute. Ero sicura che qualcosa non quadrasse come dovesse.  -  Hai detto di esserti ustionato ieri sera, ma com’è possibile? Ieri ti trovavi all’ultima visita con tuo fratello. Quando, di preciso, sei uscito in perlustrazione?
  • Ti sbagli, quello è successo due giorni fa. Io mi sono ustionato ieri sera.
  • No, non è possibile… io ieri sera ero…  -  mi bloccai all’istante, mentre un dubbio sconcertante si materializzava nella mia mente.
“Oh cavolo… oh cavolo, oh cavolo, oh cavolo.”
Michael, e adesso anche Sucre e Charles, continuarono a guardarmi con aria perplessa.
  • Ieri sei sparita per tutto il giorno. La tua cella è rimasta vuota. Credevo che ti fosse capitato qualcosa, ho persino chiesto alle guardie, che ovviamente non hanno voluto darmi informazioni. Ero preoccupato.
Ero troppo presa dai miei terrificanti pensieri per dare retta a Michael o a chiunque altro. Ero rimasta incosciente dalla sera dell’esecuzione a quella mattina, avevo dormito per ben 36 ore. Mi era capitato di avere delle crisi più intense di altre e di svenire, ma mai di dormire per un giorno e mezzo. Eppure avevo preso regolarmente le mie pillole, ero sicura che i miei disturbi di comportamento fossero sotto controllo… lo erano, giusto? Forse avevo accumulato un bel po’ di stress a causa di ciò che era accaduto a Lincoln. Un rapido colloquio con la dottoressa comunque, avrebbe chiarito ogni dubbio.
  • Mi dispiace se ti sei preoccupato, sto bene.  -  risposi, cercando di risultare convincente.  -  Sono rimasta in infermeria, per questo non ero in cella.
Michael mi fissò indispettito.  -  Tutto il giorno?
  • Già, brutta giornata… problemi di donne, sai.  -  mi alzai, pronta nuovamente a correre via.  -  Adesso devo proprio andare. Ci vediamo più tardi alla stanzetta delle guardie e, non preoccuparti per il percorso, ok? Troveremo una soluzione, vedrai.
Alle 15 in punto, il gruppo venne riunito al completo per essere scortato al solito magazzino, solo Lincoln non poté essere dei nostri perché ancora chiuso in isolamento.
Appena arrivata, fui sorpresa nel constatare quanto i lavori di ristrutturazione fossero avanti. Con i nuovi pannelli di cartongesso già fissati, quella stanza risultava essere molto più luminosa e spaziosa del previsto. Il fatto che i lavori fossero quasi terminati però non era una notizia positiva. Al punto in cui eravamo, non saremmo riusciti a prendere in giro ancora a lungo le guardie, ormai la ricostruzione andava avanti da troppo tempo. Massimo una settimana e avremmo dovuto consegnare quella stanza linta e pinta, proprio come prima dell’incendio o qualcuno avrebbe potuto sospettare che stessimo prendendo tempo per ragioni sconosciute e sospette.

L’atmosfera all’interno del gruppo era drasticamente cambiata, si era fatta silenziosa, pesante. Quello che però saltava all’occhio, era l’evidente malumore di Michael. Mentre tutti gli altri si erano già messi al lavoro, il ragazzo si era sistemato in un angolo, in disparte, a crogiolarsi nei suoi pensieri. Mi ero accorta col passare del tempo che nessuno gli si era avvicinato, nessuno si era soffermato a guardarlo o chiedergli se avesse fatto qualche passo avanti col piano. Qualcosa nella sua espressione, li aveva convinti a restare a debita distanza. Gli avevano creato attorno il vuoto, una bolla di spazio che nessuno osava invadere. Tranne io.
  • Stai ancora cercando di ricostruire il tatuaggio?  -  gli domandai dopo essermi avvicinata a lui e aver buttato un occhio sul foglio che aveva davanti.
  • E’ tutta fatica sprecata. Se provassi a ricordare a memoria un elenco telefonico, di sicuro avrei più fortuna.  -  sbottò, continuando a tracciare linee e diagonali che per me non avevano assolutamente senso.
  • Mi dispiace di non esserci stata ieri. Forse se mi avessi portata con te avrei potuto ricordare il percorso al tuo posto.
  • La fai semplice. Per poter percorrere i 50 metri che separano il tombino al centro del cortile fino al reparto psichiatrico, ho dovuto camuffarmi con una divisa da sorvegliante… non avrei potuto portarti con me, non è stato per niente facile. Credevo di aver risolto il problema, ma poi mi sono ustionato e mandato tutto a puttane!
Spiccava tutto il suo nervosismo in quelle parole pronunciate con rabbia. Quasi non lo riconoscevo.
  • Beh, posso fare qualcosa per aiutarti?  -  mi offrii disponibile.
  • No, non puoi.
  • E dai Michael, troveremo una soluzione. Se noi adesso…
  • Gwyneth, ho detto no!  -  gridò, usando un tono duro come l’acciaio che non aveva mai usato con me.  -  Come pensi che possa ricordare anche solo una galleria se continui a distrarmi?
Ero arrossita piccata quando tutti i presenti avevano sollevato gli occhi verso di noi.
  • Volevo proporti una soluzione, non distrarti.
  • Vuoi prendere il mio posto e tracciare il percorso al posto mio?  -  continuò pungente.  -  Certo, se avessi avuto il tuo super cervello, a quest’ora non mi troverei nella posizione di dover ricordare uno stupido percorso al quale ho lavorato per mesi, ma… io non sono te!
  • Ma… che dici…?
  • Ho passato mesi a studiare le planimetrie di questo posto, ricalcarle, studiare ogni singola via che portasse all’infermeria e adesso è come se…  -  scagliò la penna che teneva in mano lontano da sé, con rabbia.  -  … come se fossero trascorsi dieci anni!
A quel punto preferii allontanarmi e seguire l’esempio degli altri. Michael al momento non aveva bisogno di aiuto, ma solo di tempo per ritrovare lucidità e concentrarsi. Sapevo che non avrei dovuto prendermela per ciò che aveva detto. L’angoscia accumulata in quei giorni e l’attesa per quella maledetta evasione e per l’avversa fortuna che continuava ad ostacolare lui e il fratello, lo stavano logorando.
No, non avrei dovuto prendermela, eppure non riuscii ad impedirmelo. Quelle parole, vere o istigate dalla rabbia, erano arrivate a destinazione e mi avevano ferita proprio perché era stato Michael a pronunciarle.
Quando, un minuto dopo, Louis Patterson varcò la porta del magazzino, trovò tutti noi immersi diligentemente nel nostro lavoro. Per fortuna quel giorno non era servito spostare la moquette perché Michael non aveva avuto bisogno di recarsi nuovamente in perlustrazione tra i condotti e le gallerie sotterranee, così non avevamo dovuto affrettarci come forsennati per nascondere il buco.
  • Sbrigatevi a finire di pitturare qui dentro, dovete terminare entro oggi, il vostro lavoro qui è finito.  -  ci informò l’agente.
La prima brutta notizia della giornata era appena arrivata con la forza di uno schiaffo.
Tutto il gruppo ovviamente restò di sasso. Avevamo dato per scontato di avere ancora una settimana a nostra disposizione e invece venivamo sbattuti fuori e avvertiti proprio durante l’ultimo turno di lavoro.
  • Ma capo, noi non abbiamo ancora finito. Stiamo ancora pitturando e c’è ancora la moquette da sostituire.  -  intervenì C-Note.
  • Quel lavoro non spetterà a voi. Bellick ha chiamato dei professionisti, vuole un lavoro fatto bene.
Di male in peggio. Quella era una vera catastrofe.
  • Quando dovrebbero arrivare questi professionisti?  -  s’intromise Charles.
  • Domani.  -  rispose pronto Louis, lasciando successivamente il magazzino.
Per un paio di secondi tutti e sei restammo in silenzio a fissarci a vicenda, probabilmente chiedendoci perché quella sfilza di catastrofi continuasse a piombarci addosso a ripetizione.
L’angoscia generale cominciò a gravare nella stanza come una nebbia pesante.
  • Ora si che abbiamo un vero problema.  -  esclamò T-Bag  -  Domani arriveranno i moquettisti e quando sposteranno il tappeto, troveranno un bel buco.
  • Niente paura, basterà richiuderlo.  -  disse Michael.
Di colpo sembrava aver ritrovato la sua innata lucidità. Questo era un buon segno.
  • Ma lo abbiamo appena scavato.  -  si lamentò C-Note.
  • Non dobbiamo richiuderlo definitivamente. Servirà solo del compensato e del cemento a presa rapida. I moquettisti non si accorgeranno di niente. Quando saremmo pronti per l’evasione, basteranno solo pochi colpi e il passaggio sarà di nuovo agibile.
Quella era una buona soluzione in effetti, ma non dovevamo dimenticare che ci restavano meno di due ore prima di tornare nuovamente in cella e perché il piano riuscisse, il buco doveva essere coperto e fatto asciugare entro quel lasso di tempo.
Ci mettemmo subito al lavoro. Mentre Michael e Sucre pensavano alla preparazione del composto e io aiutavo C-Note e Charles a spostare il tavolo e tirare il tappeto in un angolo, Bagwell uscì fuori per controllare che non venissimo interrotti.
Ovviamente fu una speranza vana.
Prima che potessimo preparare il compensato e ricoprire il buco, un colpetto alla porta ci avvertì che dovevamo rimettere tutto a posto. Quindi riposizionammo asse, tavolo e moquette e nascondemmo il secchio col cemento a presa rapida.
Dalla porta apparve Bellick, accompagnato da un detenuto, David Apolskis.
Gli occhietti piccoli, lattiginosi e viscidi del capitano delle guardie, vagarono a lungo in giro per la stanza ricostruita e rimessa a nuovo, prima di rivolgersi a noi.
  • Sapete, questa stanza sta venendo proprio bene. Siete una squadra così in gamba che ho deciso di aggiungervi un altro paia di braccia. Ecco il vostro nuovo compagno di lavoro.  -  esclamò soddisfatto, dando una pacca sulle spalle al ragazzino al suo fianco perché si facesse avanti.
Nonostante il suo atteggiamento sicuro e spavaldo, era piuttosto ovvio che David non si trovasse del tutto a suo agio con la decisione del capitano Bellick di integrarlo al nostro gruppo. Probabilmente non era stata sua l’idea di prendere parte ai lavori, ma anche se fosse stata di Bellick, perché assumere un altro operaio se davvero quello era il nostro ultimo turno di lavoro?
Quella situazione non mi convinceva per niente.
  • Capo, non credo che avremmo bisogno di un altro operaio. Oggi consegneremo la stanzetta per l’arrivo di domani dei moquettisti.  -  intervenii, pentendomene immediatamente.
Lo sguardo truce che il capitano delle guardie mi puntò addosso, bastò per farmi sentire del tutto inopportuna.
  • Nessuno ha chiesto il tuo parere, piccola stronza.  -  grugnì il sadico secondino, prima di sfoderare il suo irritante sorrisetto verso di noi.  -  Spero che vi troviate bene con il vostro nuovo compagno.
La seconda brutta notizia della giornata non aveva tardato ad arrivare.
Dopo che Bellick si fu allontanato, appioppandoci l’indesiderato ragazzino, tutti noi tornammo ad occuparci dei lavori, ma il compito si rivelò più difficile del previsto. Il nervosismo di Michael, in breve, si era diffuso a tutto il gruppo e David si era trasformato inevitabilmente nell’inconsapevole capro espiatorio. Il ragazzo ovviamente non poteva capire perché tutti continuassero a rivolgergli occhiatacce o perché il suo arrivo fosse stato accolto con tanta freddezza, come d'altronde neanch’io a mio tempo avevo capito, entrando a far parte del gruppo. Il problema era che avevamo poco tempo, il buco doveva essere richiuso entro quel pomeriggio, ma con Tweener presente non potevamo portarci avanti. Non avrebbe potuto scegliere momento meno adatto per piombare in quella stanza.
  • Qualcuno dovrebbe andare a pulire i pennelli. Così è impossibile lavorare.  -  si lamentò ad un certo punto C-Note, adottando la vecchia tattica che un tempo era stata usata su di me per spedirmi fuori.
  • Direi che per ordine di importanza e di arrivo questo compito spetti a te, ragazzo.  -  continuò T-Bag, prendendo la palla al balzo.
Quasi avessimo ricevuto un ordine, tutti noi ci muovemmo per radunare tutti i pennelli sporchi e infilarli in un secchio che poi venne consegnato al giovane Apolskis.
Era palesemente evidente che le nostre vere intenzioni fossero quelle di sbatterlo fuori e David non era stupido. Chiunque al suo posto si sarebbe reso conto di essere indesiderato ed era strano constatare come la scena si ripetesse così bene, anche senza la sottoscritta a subirne le conseguenze.
  • Come devo fare?  -  chiese il ragazzo scocciato.
  • Ti faccio vedere io dove lavarli, vieni.  -  dissi, accompagnandolo fuori fino alla cisterna dietro al magazzino.
Visto che non potevo fare gran che per aiutare Michael e gli altri con i lavori, avrei potuto cercare di trattenere Tweener fuori dalla stanzetta delle guardie il più possibile.
La verità era che quell’atmosfera fredda mi metteva a disagio, forse perché a differenza del resto del gruppo io non rischiavo di veder svanire l’unica possibilità di lasciare quel posto. Li capivo e capivo soprattutto quanto tutto ciò fosse importante per Michael, però anch’io volevo che l’evasione riuscisse e che Lincoln ne uscisse vivo.
  • Ho l’impressione di aver rovinato il divertimento a qualcuno oggi, presentandomi al magazzino.  -  cominciò a borbottare David, immergendo le braccia fino al gomito per inumidire i pennelli sporchi.
Ero rimasta a fargli compagnia con la scusa di aiutarlo, ma in realtà volevo solo fargli perdere tempo.
  • Non devi prendertela, non ce l’hanno con te. Sei solo l’ultimo arrivato.
  • Si come no! Hai visto le occhiatacce che mi hanno puntato addosso? Sembrava quasi avessi invaso il loro spazio.
  • E’ stato così anche per me. Prima che arrivassi, ero io l’addetta al lavaggio degli attrezzi. Perlomeno a te sono capitati i pennelli, io invece mi sono scorticata le unghia a furia di strofinare via colla e cemento nell’acqua gelida.
  • Non lo so… -  riprese Tweener pensieroso.  -  …e se stessero complottando qualcosa?
A quell’insinuazione, staccai gli occhi dal pennello che stavo fingendo di pulire e li puntai sul ragazzo. Non capivo se si trattasse di una domanda buttata a caso o se David sospettasse seriamente qualcosa.
  • Che intendi dire?
Solo che il loro comportamento è sospetto. Quei 5 sono sempre insieme, confabulano tra loro e tengono alla larga gli altri come se nascondessero qualcosa. Tu non hai notato niente?
  • Non so a cosa ti riferisci. Da quando sono entrata nel gruppo, ho passato più tempo qui fuori al freddo che lì dentro a lavorare…
  • E non ti sembra strano? E’ come se volessero tenerci il più possibile lontano da quella stanza.
Altro che domanda buttata a caso, Tweener era appena arrivato e già aveva iniziato a fare domande pericolose. Meno male che quello sarebbe stato il nostro ultimo turno di lavoro insieme.
  • Non so se quei 5 abbiano qualcosa in mente e personalmente preferisco non immischiarmi. Secondo me il motivo per cui ci tengono alla larga è un altro.
  • Quale?
  • Ma ci hai visti? Tu avrai si e no la mia età e io per giunta sono una ragazza. Invece di là chi abbiamo? Il pedofilo che ha fatto fuori quei 6 studenti in Alabama, l’ex soldato dell’esercito che ha disertato, il vecchio condannato per omicidio colposo aggravato e i due ladruncoli. E vogliamo dimenticare i due tizi che hanno lasciato recentemente l’allegro gruppetto? Non riesco proprio a capire perché ci trovi qualcosa di strano nel fatto che ci tengano alla larga.
  • Veramente a me sembra che l’unico che tengono alla larga sia io. Sei tu quella che ha fatto amicizia con Scofield e Burrows.
Il tono accusatorio con cui pronunciò quelle parole mi fece scattare sull’attenti. Che cosa voleva insinuare?
Forse mi sbagliavo, ma qualcosa mi diceva che l’improvvisa comparsa di Tweener non fosse casuale. Era chiaro che mi avesse studiata a lungo altrimenti, tra tutti i galeotti presenti a Fox River, perché si sarebbe dovuto interessare a me e alle mie amicizie? E poi faceva strane domande. Aveva dei sospetti sull’evasione? Era possibile. Forse voleva scoprire quali fossero le vere intenzioni di Michael e compagni per prendervi parte, o magari c’era sotto qualcos’altro ed eravamo tutti in pericolo. Dovevo assolutamente parlare a Michael dei sospetti di David, prima che il nuovo problema assumesse proporzioni enormi e ingestibili.
Attesi qualche altro minuto, continuando a lavorare insieme a Tweener perché il ragazzo non pensasse che volessi squagliarmela, poi con una scusa lo lasciai alla cisterna e tornai alla stanzetta in costruzione.
  • Michael, dobbiamo parlare.  -  iniziai, entrando proprio in quel momento.
Il ragazzo, impegnato insieme a Sucre a ripreparare il composto di cemento e acqua, aveva sollevato gli occhi verso di me pronto ad ascoltare, ma l’immancabile colpetto alla porta riuscì ad interromperci ancor prima di cominciare.
Alle imprecazioni di Michael era seguito il solito angoscioso tran tran: nascondi il secchio, prendi l’asse, tira il tappeto, sistema il tavolo. Quel continuo leva e metti era una vera e propria faticaccia!
Ad interromperci questa volta era stato l’agente Geary.
  • Il vostro turno di lavoro qui dentro è finito. Forza, tutti fuori, mi servite mezz’ora in cortile.  -  ordinò l’uomo, infliggendoci la terza brutta notizia della giornata.
  • Capo, l’agente Patterson ci ha ordinato di finire di pitturare.  -  si oppose C-Note, visibilmente preoccupato.
  • E io vi sto ordinando di lasciar perdere e uscire in cortile. Non fatevelo ripetere… Scofield, Pope ti aspetta nel suo ufficio, e tu Sawyer, vieni con me.
  • Non vado con gli altri in cortile?  -  chiesi stranita.
  • No, il capitano Bellick vuole parlarti.
Non era un buon segno che l’odioso “occhi da lucertola” volesse vedermi. Bellick non aveva mai mandato a chiamare nessuno se non per minacciarlo o costringerlo a fare qualcosa. Di lui c’era da fidarsi esattamente come di Bagwell.

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Capitolo 24
*** Avversa fortuna ***


  • Oh Gwyneth, accomodati!
Era ironico come provassi lo stesso identico senso di gelo corrermi lungo la schiena ogni volta che incontravo sulla mia strada uomini rivoltanti e rozzi come il capitano Bradley Bellick. Era come una specie di avvertimento. Nel momento in cui avevo varcato la soglia della stanza, trasformata in provvisoria stanza-ristoro delle guardie da quando il gruppo di Michael aveva iniziato i lavori al vecchio magazzino, sulla mia pelle avevo percepito quell’identico senso di gelo, nonostante l’uomo mi avesse accolta con cortesia ostentata.
  • Capitano, voleva vedermi?
  • Siediti… mangia qualcosa.
Togliendo i piedi dal tavolo, l’uomo mi aveva invitata a servirmi quasi fossimo ad un fast food, indicando con un ampio gesto del braccio panini e patatine sistemate in buste di carta lì accanto.
  • No grazie.
Tutta quella gentilezza accresceva solo il mio disagio.
  • Siediti ho detto!  -  mi ordinò, inchiodandomi con un’occhiata che non ammetteva repliche.
Dovetti obbedire.
  • Ti starai chiedendo certamente perché ti ho fatta chiamare. -  continuò, moderando nuovamente il tono.  -  Vedi Gwyneth, ho un lavoretto molto importante da assegnarti e penso che tu più di altri sia perfetta per quello che ho in mente.
L’intrinseco doppio senso e l’intensa occhiata lasciva che aveva lungamente posato su di me, erano bastate a farmi pensare subito al peggio. Per fortuna si era spiegato in fretta.
  • Gwyneth, voglio che cominci a guardarti intorno e che tu faccia rapporto a me su ciò che succede là fuori. Voglio che diventi i miei occhi e le mie orecchie.
  • Perché lo sta chiedendo a me?
  • Perché io voglio che in particolare tu tenga le orecchie aperte quando sei in compagnia di Scofield e dei suoi amici. Voi credete che io sia stupido, ma la verità è che è da quando quell’avanzo di galera tatuato ha messo piede qui a Fox River che sta architettando qualcosa. Io lo so, lo percepisco. Voglio sapere che cos’ha in mente.
Ma che diavolo stava succedendo? Prima Tweener, poi Bellick. O quel giorno tutti avevano improvvisamente sviluppato una buona dose di perspicacia, oppure il piano di Michael stava cominciando ad alimentare qualche sospetto di troppo. Gran bel problema se era Bellick a sospettare.
  • Capo la prego, non mi metta in questa situazione. Ho già faticato un bel po’ per cercare di integrarmi e se vuole la verità non credo nemmeno di esserci riuscita. Se qualcuno scoprisse che faccio pure la spia, mi darebbero in pasto ai cani… non voglio farlo.
Bellick abbandonò del tutto la falsa cortesia per puntarmi addosso lo sguardo più truce posseduto in repertorio. All’improvviso le mie gambe divennero della stessa consistenza della gelatina.
Si alzò dalla sedia e mi venne incontro lentamente, come una bestia pronta all’attacco.
  • Ti rendi conto che potrei rovinare i tuoi giorni qui dentro e renderli letteralmente un inferno, vero?
  • Certo che me ne rendo conto, ma l’alternativa è peggiore.  -  Mi tremava la voce.
L’uomo aveva raggiunto un livello di collera talmente alto che il labbro inferiore aveva preso impercettibilmente a tremargli. Evidentemente non era abituato a sentirsi rifiutare un ordine da parte di un detenuto.
  • Ascoltami bene piccola puttanella, tu farai come ti ho detto. Mi riferirai per filo e per segno tutto ciò che tu e i tuoi amichetti del laboratorio vi raccontate, hai capito? Sarai anche la cocca del direttore, ma qui gli ordini li do io e se ti rifiuterai di fare quello che ti ho chiesto, allora te la vedrai personalmente con me.  -  Senza abbandonare neanche per un attimo la sua aria minacciosa, la bocca del lurido verme sfiorò il mio orecchio.  -  Renderò la tua vita un tale inferno che sarai costretta a chiedere pietà in ginocchio, questa è una promessa!
Non so quale forza sovraumana mi trattenne dall’afferrare la caffettiera appoggiata sul mobiletto alla mia destra e schiantargliela in testa. L’impresa avrebbe comportato un’aggravante sulla mia attuale condanna, ma perlomeno mi sarei tolta quell’enorme soddisfazione.
Possibile che tutti i sadici pervertiti comparissero sul mio cammino? Non avevo fatto in tempo a gioire per essermi liberata di T-Bag che subito mi piombava addosso Bellick.
Non potevo fare quello che mi era stato ordinato, non potevo tradire Michael e Lincoln.
Non potevo semplicemente dire no grazie perché altrimenti Bellick me l’avrebbe fatta pagare, non potevo chiedere aiuto a Michael perché ne aveva già abbastanza per la testa e non potevo ricorrere a Pope dopo la nostra ultima conversazione.
Ero nei guai fino al collo. Che novità!
  • Adesso sparisci!  -  sbottò  il secondino, tirandomi per la maglia perché mi alzassi e sgombrassi in fretta l’ufficio. Mi spinse fuori dalla porta in malo modo e mi inchiodò con l’ennesima occhiata glaciale.  -  Non provare a fregarmi o il tuo prossimo alloggio sarà l’isolamento.
Le situazioni assurde sembravano proprio la mia specialità. Non bastava l’imminente esecuzione di Lincoln, il fatto che 2 giorni prima fossi collassata, dormendo per ben 36 ore o che continuassi a mettere a rischio le mie coronarie a causa di quell’evasione che neanche mi riguardava. No, certo che no.
Non bastava che la mia presenza insieme a quel gruppetto di detenuti rischiasse di farmi scoprire e accusare di concorso in evasione.
Non bastava che dovevo continuamente guardarmi le spalle dai detenuti molesti.
Ci mancava solo che l’odioso capitano delle guardie si accanisse contro di me per completare l’opera. E la giornata non era ancora finita.
Quando alle 19,00 in punto le celle vennero aperte per permettere ai detenuti di recarsi in sala mensa, la prima cosa che notai uscendo dalla 93, fu Charles accanto all’entrata della sua cella, insieme a C-Note, Sucre e T-Bag, riuniti al completo. Li avevo raggiunti.
  • Ragazzi, che succede?  -  chiesi immediatamente, notando le loro espressioni scure.
Fu Sucre a rispondermi.  -  Abbiamo un problema.
  • Un altro? Ma che diavolo! La sfortuna più nera vi perseguita. Comincio a sentir pronunciare queste tre parole un po’ troppo spesso ultimamente. Dov’è Michael?
  • In isolamento.
Il sangue mi defluì dal volto.  -  Cosa? Come?  -  Sembrava stessi delirando.  -  Perché?
  • Non lo sappiamo.  -  continuò Charles mesto.
  • Adesso abbiamo problemi più gravi.  -  s’intromise C-Note.
  • Più gravi di Michael in isolamento?  -  Non mi sembrava possibile.
  • Proprio così. Non siamo riusciti a richiudere il buco nella stanzetta delle guardie. Aveva detto che ci avrebbe pensato Michael, ma adesso lui non può più farlo.
  • Beh? Occupatevene voi. Non si può sempre contare su Michael, altrimenti voi che ci state a fare?
C-Note mi rivolse un’occhiataccia.  -  Per te è facile parlare, ormai il turno di lavoro è terminato. Come facciamo ad arrivare in quella stanza se siamo chiusi…
 
All’improvviso l’uomo lasciò la frase a mezz’aria, ruotando gli occhi verso Fernando. Anche noi tre seguimmo il suo stesso esempio. Il povero Sucre, a quel punto, non ci mise molto a capire di essere stato appena eletto all’unanimità il candidato ideale per la missione. 
  • Non direte sul serio. No… io non posso… non posso farcela da solo.
  • Si che puoi, tu sei l’unico con un cesso aperto sul mondo esterno.  -  replicò secco T-Bag.
  • Dovrei raggiungere la stanza delle guardie, coprire il buco e tornare indietro per la conta? In venti minuti è impossibile. Senza contare che dopo aver finito il lavoro, rimarrò chiuso dentro in quella stanza.  -  continuò a lamentarsi.  -  Come farò a tornare nella mia cella? Se mi beccano, penseranno subito ad un tentativo di evasione e mi daranno altri 10 anni.
  • Probabilmente Michael aveva intenzione di utilizzare il tombino che c’è di fronte il reparto psichiatrico per tornare in cella.  -  dissi, ripensando alla conversazione che io e Michael avevamo avuto a pranzo.
  • Già, peccato che io non possa fare lo stesso perché non ho una planimetria tatuata addosso. Se mi beccano è la fine!
Povero Sucre, era proprio con le spalle al muro. Doveva portare a termine una missione impossibile senza l’aiuto di nessuno, rischiando di essere beccato dalle guardie e vedersi appioppare altri 10 anni sull’attuale condanna o nel migliore dei casi, venir spedito in isolamento. Stava rischiando molto e capivo le sue preoccupazioni. Tuttavia, se il buco nel magazzino delle guardie non fosse stato richiuso, tutti noi avremmo corso dei rischi.
  • Ricordati, entro domattina dev’essere tutto pronto.  -  rimpolpò C-Note, prima di allontanarsi per dirigersi a mensa.
  • Amico, fai in modo che non ti becchino.  -  esclamò con un sorrisetto T-Bag, seguendo l’esempio dell’ex militare.
A quel punto anch’io e Charles ci voltammo per andare, ma Sucre mi afferrò il braccio sinistro per trattenermi.
  • Aspetta Gwen ti prego, non andartene anche tu. Tu e Michael avete lo stesso cervello da laureati, non potresti darmi una mano?
  • E come?
  • Consigliami qualcosa che non mi faccia scoprire.  -  mi supplicò.
Feci spallucce.  -  Mi dispiace Fernando, sul serio, ma non saprei proprio cosa consigliarti e poi ho già i miei problemi a cui pensare, come per esempio cercare di far uscire Michael dall’isolamento perché questa dannata evasione vada in porto e Lincoln salvi la pelle.
 
Ero scoraggiata e stanca per tutto ciò che era accaduto quel giorno, però riuscivo ancora a lasciarmi intenerire dai grandi occhi color nocciola del mio amico portoricano.
 
Sospirai e lo presi a braccetto.  -  Vieni, andiamo a fare il pieno di carboidrati… proverò a spiegarti come arrivare dalla tua cella alla stanzetta delle guardie, ma per quanto riguarda il ritorno dovrai pensarci da solo.
 
La mattina seguente, le notizie arrivarono fresche e aggiornate fin dalla prima colazione: succo d’arancia, pane tostato e brutte notizie. E dire che avevo pensato che il giorno precedente fosse stato uno dei giorni più deliranti della mia vita. La sfortuna più nera ormai ci era piombata addosso con tutte le scarpe, era un dato di fatto, e anche il nuovo giorno si prospettava ricco di catastrofi.
  • Sucre è in isolamento.  -  mi aggiornò Charles, raggiungendomi al tavolo insieme al disertore dell’esercito e al pedofilo.
Da cosa si capiva che quella sarebbe stata una pessima giornata? Dal fatto che stavamo facendo colazione tutti e quattro insieme, un evento mai visto da quando mi trovavo a Fox River.
  • Proprio quello che ci mancava.  -  sbuffai  -  A questo punto, tanto varrebbe farsi sbattere tutti in isolamento e chiedere a Michael di pianificare la fuga da lì.
  • In effetti non sarebbe una cattiva idea.  -  mormorò Bagwell con un sarcasmo fuoriluogo che riuscì solo a peggiorarmi l’umore.
  • La cosa più importante, per il momento, è che sia riuscito a portare a termine il lavoro prima di essere beccato.  -  continuò Charles.
  • Come lo sai?  -  gli chiesi.
  • Perché i moquettisti sono arrivati stamattina alle 7 e non hanno ancora dato l’allarme e prima, mentre uscivo dalle docce, ho sentito due guardie parlare del nostro amico e del fatto che resterà in isolamento per 48 ore. Questo significa che non gli è stato riconosciuto nessun tentativo di evasione.
  • E bravo l’amico portoricano, allora non è così stupido come sembra.  -  esclamò il solito inopportuno T-Bag.
  • Sta tranquillo, il primato per la stupidità è ancora tutto tuo.  -  replicai pungente.
Sembrava trascorso un secolo da quando trascorrevo le mie giornate a Fox River guardandomi le spalle, con la paura di ritrovarmi accanto il depravato. Avevamo fatto un bel passo avanti. Adesso facevamo colazione insieme, organizzavamo evasioni e ci scambiavamo commenti pungenti velati di sottile ironia. Solo un paio di cose probabilmente non sarebbero mai cambiate: il fatto che non avrei mai smesso di odiarlo e che lui volesse ancora saltarmi addosso per farmi la festa.

La seconda brutta notizia della giornata arrivò poco più tardi, al consueto controllo in infermeria, dove ad attendermi trovai un’impettita Katie Welsh al posto della solita dottoressa snob.
Quando chiesi perché quest’ultima non si trovasse al suo posto, l’infermiera mi spiegò che durante la notte la dottoressa era stata chiamata per un’emergenza e che non era ancora tornata. Quindi, a costo di suonare invadente, avevo chiesto di che emergenza si fosse trattato. 
  • Uno dei detenuti in isolamento ha avuto un crollo psicologico.  -  raccontò Katie  -  La dottoressa lo ha trovato in stato catatonico, così si è deciso di trasferirlo al reparto psichiatrico… A volte capita che i detenuti perdano la testa. Non augurerei quel posto neanche al peggiore degli assassini.
All’improvviso un brutto presentimento mi aveva chiuso la gola e mozzato il respiro.
  • Non si tratterà mica di Burrows, vero?
Con tutto quello che Lincoln aveva passato, non mi sarei affatto sorpresa.
  • No,  -  rispose l’infermiera.  -  non di Burrows, ma di suo fratello. Scofield.
La notizia riuscì letteralmente a spiazzarmi. Non avevo preso minimamente in considerazione la possibilità che potesse trattarsi di Michael. Certo, gli ultimi giorni erano stati terribili anche per lui, eppure non mi era sembrato che stesse così male. Avevo sottovalutato il suo stato di stress? E adesso?
Sembrava che non ci fosse proprio fine al peggio.
Finii per trascorrere tutta la giornata a preoccuparmi e pensare a Michael, e chiesi per ben due volte di poter parlare con la dottoressa Tancredi in merito alle condizioni del detenuto appena trasferito al reparto psichiatrico. In entrambi i casi mi venne ripetuto che la dottoressa non avrebbe potuto ricevermi, se non nell’eventualità di un’emergenza.
Dopo pranzo, non avendo ancora ricevuto notizie, il mio cervello cominciò a fumare materia grigia. Ero pronta ad inscenare una falsa crisi convulsiva pur di tornare in infermeria, ma prima che potessi commettere una sciocchezza, l’agente Mack Andrews comparve silenzioso all’entrata della mia cella per scortarmi in cortile, in attesa che venisse assegnato a me e ad altri disoccupati, un’occupazione alternativa o un nuovo laboratorio.
Mentre percorrevamo il corridoio laterale fuori dal Braccio A, mi ritrovai a pensare a tutto il casino madornale che era diventata la mia vita negli ultimi mesi. Come ero riuscita a rovinare tutto in così poco tempo? Se mi guardavo indietro ricordavo la mia vita perfetta, la mia famiglia un po’ meno perfetta, la mia carriera, i miei studi, gli amici, Keith, Meredith… e all’improvviso eccomi impigliata in quell’enorme rete a maglie strette: carceri, detenuti e tentativi di evasioni. Che diavolo era successo? Perché non ero come tutte le altre ragazze della mia età? Mentre le mie amiche andavano alle feste per ubriacarsi e svegliarsi la mattina nel letto di uno sconosciuto, io vedevo ovunque cospirazioni e chiedevo di essere ammessa in un penitenziario di massima sicurezza maschile e in un luogo sperduto nel bel mezzo del nulla. Nessuno sano di mente al mio posto avrebbe messo a repentaglio la possibilità di tornare libero a breve per dei perfetti sconosciuti, allora perché io non riuscivo proprio a fare a meno di lasciarmi coinvolgere?
Ok, in parte volevo aiutare Lincoln perché trovavo ingiusta la sua condanna. Lui si era dimostrato essere davvero un buon amico e mi aveva salvato la vita. Avevo finito per affezionarmi al “gigante buono” condannato a morte, ma non era solo per lui che avevo fatto quella scelta pericolosa. C’era dell’altro… o qualcun altro.
Quelle settimane a Fox River mi avevano cambiata, mi sentivo diversa, era accaduto qualcosa di assolutamente inaspettato e terribilmente assurdo persino da ammettere ad alta voce: avevo conosciuto Michael Scofield e mi ero innamorata di lui.
Era inutile continuare ad inventare scuse. Il fatto che non volessi ammetterlo neanche a me stessa non significava che non fosse vero, e il fatto che continuassi a ripetermi che lo scopo di quella follia fosse salvare Lincoln, non significava che fosse l’unica ragione. Non era neanche la ragione più importante.
La mia unica ragione era Michael, era per lui che stavo facendo tutto questo.
Era un pensiero agghiacciante, pazzesco, assolutamente sbagliato, ma era vero: mi ero presa una cotta colossale per un detenuto ed ero certa che questo avrebbe finito per procurarmi soltanto un gran mucchio di guai.
Per il momento comunque il problema più urgente riguardava Lincoln. Non c’era modo di salvarlo senza farlo evadere, e non c’era modo di farlo evadere senza tirare Michael fuori dalla “casa dei pazzi”.
Fu in quel momento, mentre ci avvicinavamo al cortile, che vidi passare alla mia sinistra uno dei detenuti che lavoravano alla lavanderia del carcere. L’uomo, incurante della fila scortata dalla guardia che aveva incrociato, proseguì il suo cammino senza neanche degnarci di uno sguardo, spingendo il grosso carrello di biancheria dritto davanti a sé. In quel preciso istante la proverbiale lampadina si accese, offrendomi la soluzione a tutti i nostri problemi.
Probabilmente il mio piano non avrebbe conquistato i miei compagni, però al momento era l’unica idea disponibile. Meglio accontentarsi, no? Dovevo solo assicurarmi che il giovane ingegnere edile si fosse completamente ristabilito dal suo crollo in isolamento e che fosse pronto a tornare, e per saperlo dovevo parlare con l’odiosa dottoressa Tancredi.
Volevo Michael fuori dal reparto psichiatrico e adesso sapevo anche come farlo uscire, il problema era che non potevo agire da sola, quindi dovevo convincere i tre superstiti di quello strampalato progetto d’evasione a collaborare.
Impresa tutt’altro che semplice.
  • Tu devi essere impazzita! Sarebbe questa la tua soluzione?
  • Si, proprio questa!
  • Beh, lascia che te lo dica, la tua soluzione fa schifo!
Non mi ero aspettata niente di diverso.
Quando a cena avevo raggiunto Charles, C-Note e Bagwell a mensa, incredibilmente seduti allo stesso tavolo, avevo subito immaginato che la loro reazione al piano che avevo escogitato non sarebbe stata positiva, però mi ero convinta che un po’ di spirito di persuasione in più alla fine li avrebbe fatti capitolare.
Li avevo trovati seduti ai loro posti, i volti lunghi e sfatti di chi è stanco delle brutte notizie, e allora mi ero decisa a sedermi in mezzo a loro e cominciare ad esporre la soluzione ai nostri problemi.
  • Non capisco perché la facciate così lunga. Volete che Michael esca dal reparto psichiatrico, giusto? Allora perché tante storie, credevate che sarebbe bastato bussare al portone principale e chiedere che ce lo restituissero? Se vogliamo riaverlo con noi dobbiamo accettare dei compromessi e direi che questo è l’unico compromesso accettabile.  -  spiegai risoluta.
  • Vediamo se ho capito bene,  -  ricapitolò C-Note sporgendosi lungo il tavolo  -  tu vorresti che Scofield raccontasse a Pope che è stato Geary ad aggredirlo e provocargli l’ustione alla spalla?
  • Geary o chi per lui, su chi si faccia ricadere la colpa, per me non ha importanza.
  • E mi ripeteresti il perché?
  • Poco fa ho parlato con la dottoressa Tancredi riguardo al nostro amico ingegnere. Mi ha spiegato che il motivo per il quale Michael è stato spedito in isolamento è perché non ha voluto rivelare a Pope come si fosse ustionato. Il direttore crede che ci sia di mezzo una delle sue guardie, perché la cara dottoressa – detective ha trovato delle fibre di cotone scuro sulla spalla di Michael quando lo ha medicato. Ora, noi sappiamo bene come quelle fibre di cotone blu scuro siano arrivate nella spalla ustionata del nostro amico, e sappiamo anche che si tratta di una delle uniformi delle guardie che Michael ha usato per poter arrivare al reparto psichiatrico per studiarne i condotti sotterranei, ma per fortuna Pope non lo sa e non lo sospetta nemmeno. Ecco perché dobbiamo trovare una buona scusa da appioppare al direttore per spiegare la presenza di quelle fibre.
  • E tu vorresti incastrare uno dei secondini?  -  chiese Charles scettico.
  • Non ditemi che avreste degli scrupoli a farlo!
Non potevo credere a quello che stava succedendo. Volevano far passare me per quella priva di scrupoli e loro tre per quelli sviati da una manipolatrice.
  • Anche se Michael venisse dichiarato pronto per tornare tra i detenuti comuni, verrebbe rispedito nuovamente in isolamento, non potendo raccontare a Pope la verità e saremmo punto e a capo. -  continuai.
  • L’idea di incastrare Geary non mi dispiace affatto, quello è uno stronzo, ma non mi piace quando parli di coinvolgere un altro detenuto nella fuga.  -  borbottò T-Bag tra un boccone e l’altro.
Mi ero aspettata di trovare una certa resistenza da parte di C-Note e T-Bag, ma non riuscivo proprio a capire perché si stessero alterando tanto contro di me. Stavo cercando di aiutarli, e invece loro mi parlavano minacciosi come se stessi cercando di boicottare la loro fuga.
  • Beh, se vogliamo che le accuse di Michael contro Geary siano convincenti dobbiamo creare delle prove, altrimenti sarebbe la parola di un detenuto contro quella di una guardia, e per creare delle prove abbiamo bisogno di un aiuto.
  • Perciò tu vorresti coinvolgere un altro detenuto nella fuga perché ci aiuti a tirare Michael fuori dalla casa dei pazzi?  -  L’atteggiamento di Charles mi sembrava molto più aperto e collaborativo.  -  E sentiamo, a chi avresti pensato?
  • Manche Sanchez.  -  risposi secca.
  • Ma chi, quella palla di lardo che lavora alla lavanderia?  -  ribatté sdegnato T-Bag.
  • E’ l’uomo che fa al caso nostro. Tralasciando il fatto che è il cugino di Sucre, Manche è uno dei pochi che abbia a che fare con i sistemi di stiratura che si trovano in lavanderia ed è quindi l’uomo più adatto a creare le prove che ci serviranno ad incastrare Geary. Senza contare che proprio grazie al suo lavoro, lui può arrivare indisturbato al reparto psichiatrico e avvertire Michael.
  • No, è fuori discussione!  -  troncò C-Note, alzando la voce.  -  Siamo già in troppi, non possiamo coinvolgere nessun altro e non abbiamo nessuna certezza che quel… botolo tenga la bocca chiusa.
A quel punto mi lasciai cadere contro lo schienale della sedia e incrociai le braccia al petto con una nota di disappunto nello sguardo.
  • Sapete una cosa? Io ho fatto la mia parte, ma a dirla tutta quelli che navigano in mezzo alla merda siete solo voi. Ho sentito dire che Bellick e Geary hanno deciso di mettere all’asta la cella di Michael e Sucre…  -  I volti dei tre uomini si fecero improvvisamente più marcati e seri. Quindi la notizia si era già estesa.  -  … e ho la sensazione che questo sia solo uno dei futuri problemi che vi piomberanno addosso.
  • Che vuoi dire?  -  chiese Charles, accigliandosi.
  • Voglio dire che il tempo stringe. La gente comincia a fare domande e Bellick è già sul piede di guerra. Sarà pure uno stupido secondino, ma è dall’inizio che sta col fiato sul collo a Michael e se continuerete a restare qui dentro a girarvi i pollici, prima o poi capirà cosa state architettando.
Dovevo trovare argomentazioni più convincenti per costringerli ad approvare il mio piano, perché avevo la sensazione che il mio tentativo fin’ora non avesse dato grossi risultati.
  • Sentite, venerdì prossimo Lincoln tornerà sulla sedia elettrica e non credo ci sia bisogno di ricordarvi che se quell’uomo muore potrete scordarvi definitivamente di lasciare questo posto. Lo avete visto anche voi come ha reagito Michael l’ultima volta, quando si è parlato di evadere senza suo fratello, no? -  La provocazione sembrò fare breccia nei miei tre interlocutori.  -  Ormai il condotto sopra l’infermeria è inutilizzabile, il che significa che il percorso originario è andato. La vostra sola speranza dipende dal nuovo percorso sotto il reparto psichiatrico che però voi non conoscete, ergo, avete necessariamente bisogno di Michael per evadere.
  • Per essere una che non è interessata alla fuga, ho l’impressione che tu ti stia dando un po’ troppo da fare per tirare fuori dal manicomio il nostro caro ingegnere.
La frecciatina di C-Note riuscì a frenare la mia parlantina, ma non riuscì a far vacillare neanche per un attimo la mia fermezza. Non immaginavano neanche quanto volessi che Michael tornasse nel Braccio A insieme a noi.
  • Allora, volete sentire come ho pensato di organizzare il mio piano o volete continuare a preoccuparvi dei cavoletti di bruxelles che avete nei piatti?
Sorrisi, osservando con un sopracciglio alzato la cena dentro ai loro vassoi ancora intatta.
  • Nessuno ha una proposta migliore?  -  interrogò Charles. Seguì un breve silenzio durante il quale il vecchio tacque e aspettò. Non arrivò nessuna controproposta.  -  Bene, il piano di Gwyneth è approvato.
Quella sera stessa iniziai ad organizzare ogni minimo dettaglio perché il piano da me ideato avesse pieno successo. Parlai personalmente a Manche Sanchez per spiegargli cosa volessimo che lui facesse in cambio della sua partecipazione all’evasione.
Come avevo immaginato, Sanchez, 37 anni a novembre, piccolo, grasso ed estremamente goffo, tanto da essersi meritato all’unanimità dagli attuali residenti di Fox River l’appellativo di “Botolo”, non si era neanche lasciato pregare quando gli avevo chiesto aiuto in cambio di un biglietto di sola andata per la libertà.
Il suo compito sarebbe stato relativamente semplice. Col ferro da stiro avrebbe dovuto bruciare la manica della divisa di RoyGeary, in questo modo, quando Michael avrebbe confessato al direttore di essere stato aggredito dal secondino e che fosse stato proprio lui a bruciargli la spalla e provocargli l’ustione, l’accusa sarebbe parsa credibile.
Il giorno seguente, Michael tornò nel Braccio A proprio come avevo voluto che accadesse, RoyGeary ricevette il benservito dal caro direttore che, dopo aver trovato le prove schiaccianti della sua colpevolezza, aveva deciso di licenziarlo in tronco e Manche – Botolo venne ammesso nel gruppo e messo al corrente di ogni dettaglio dell’evasione.
Al nuovo arrivato precisai solo un’unica, fondamentale condizione, chiarita più che a sufficienza anche al resto del gruppo: io avevo fatto la mia parte, ma in cambio mi aspettavo che nessuno di loro facesse mai il mio nome, per nessuna ragione. Dopo la fuga avrebbero dovuto scordarsi del mio coinvolgimento. Era un grosso rischio fidarsi di un gruppo di detenuti, questo lo sapevo bene, ma d'altronde, nel momento in cui avevo deciso di saperne di più sul progetto d’evasione, ero diventata di fatto loro complice. 

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Capitolo 25
*** Al gran completo ***


  • Allora, sei pronta?  -  esclamò improvvisamente Charles, comparendomi alle spalle appena 5 minuti dopo l’inizio dell’ora d’aria delle 13. Al suono della sua voce pimpante, trasalii, lasciando ricadere sulla mia branda la maglia che avevo iniziato a piegare.
Mi voltai e lo fissai con espressione interrogativa, aspettando che si spiegasse. 
  • Che cosa fai ancora in cella? Non hai sentito la guardia annunciare l’inizio del turno d’aria?  -  proseguì, osservando la pila di roba accatastata sulla branda.
  • Si, ho sentito, ma al momento ho da fare, non vedi? Faccio ordine, tra meno di 2 settimane sarò fuori da qui, finalmente.  -  dissi, quasi mi sentissi in dovere di spiegargli.
  • Ma avevamo stabilito di incontrarci in cortile per discutere il da farsi. A momenti Sucre verrà rilasciato dall’isolamento e Michael vuole radunarci per spiegarci cosa fare.
  • Allora cosa ci fai ancora qui?
  • Ti ho vista ancora in cella e ho pensato che non fossi stata informata.
  • In realtà ho solo deciso di non venire. Quando lavoravamo insieme alla stanzetta delle guardie in un certo senso ero costretta a stare con voi, ma ormai la stanzetta è stata completata e molto probabilmente Michael deciderà di non usare più il passaggio che avete scavato e avrà pensato ad un’altra soluzione, quindi…  -  Charles stava ancora aspettando una spiegazione un po’ più convincente.  -  … Credimi Charles, è molto meglio che io non venga.  -  dissi alla fine, rimettendomi a piegare la roba ammassata sulla branda in basso.
  • Cos’è quest’improvviso cambio di rotta?
Scrollai le spalle.  -  Evito solo di attirare ulteriormente l’attenzione, visto che voi ci riuscite già così bene. Non avete certo bisogno di me. Volevo aiutare Lincoln e ho fatto in modo che Michael lasciasse il reparto psichiatrico e che tornasse per rimettersi al lavoro, del resto potete anche occuparvi da soli.
 
Ovviamente pensavo che farmi vedere il meno possibile insieme a Michael e compagnia bella fosse la decisione migliore, non solo perché così avrei evitato di alimentare sospetti futuri riguardo al progetto d’evasione e al mio coinvolgimento, ma anche perché temevo che Bellick tornasse nuovamente alla carica e mi chiedesse di riferire i dettagli dei nostri incontri.
E poi c’era il motivo più importante, motivo che a quanto sembrava, Charles aveva intuito perfettamente. 
  • Hai già visto Michael da quando ha lasciato il manicomio?  -  mi domandò infatti con tono tutt’altro che disinteressato.
  • Veramente no. Mi hanno assegnata al lavoro alla mensa per entrambi i turni e…  -  sospirai  -  … no, non l’ho visto.
  • Credevo che dopo esserti data tanto da fare per farlo uscire dal reparto psichiatrico saresti stata la prima ad accoglierlo.
Lo vidi piegare appena le labbra in un sorriso e all’improvviso mi resi conto che il vecchio aveva capito di me molto più di quanto io, fino a quel momento, avevo capito di lui. Non c’era da sorprendersi, Charles era un uomo attento, riflessivo, e di certo aveva molta più esperienza di me.
 
Decisi di essere sincera.  -  Io non credo che sia una buona idea.
Comprese al volo a cosa mi stessi riferendo.  -  Perché? Perché è un detenuto? Sai quanto me che Michael è un bravo ragazzo. Quello che sta facendo per suo fratello è straordinario e tu la pensi esattamente come me, l’ho capito… e comunque la cotta per lui non ti passerà solo perché decidi di evitarlo.
 
Come avevo immaginato, aveva proprio capito tutto.
 
Mi sorrise.  -  Forza andiamo,  -  continuò, battendomi una mano sulla spalla per spingermi verso l’uscita.  -  credo che ci sia qualcuno che voglia ringraziarti per quello che hai fatto.
 
Appena giungemmo fuori in cortile Charles, invece che guidarmi verso una delle solite panchine dove in genere lui e il suo gruppetto si riunivano, svoltò subito verso destra, dirigendosi in direzione della palestra. Alcune guardie ci notarono, lanciandoci semplicemente occhiate curiose. Ai loro occhi eravamo solo due detenuti che passeggiavano prendendo una boccata d’aria.
Dopo aver superato le guardie, il vecchio continuò ad incamminarsi verso un piccolo capanno che non avevo mai notato prima, si diede un’occhiata in giro assicurandosi che nessuno ci stesse guardando e aprì la porta, spingendomi dentro a quella specie di baracca cadente e senza finestre.
Capii che si trattava del magazzino per il materiale di manutenzione solo quando mi trovai al suo interno.
Perché fosse stato scelto quel posto per ospitare l’incontro del nostro gruppo, ovviamente sarebbe rimasto un mistero, esattamente come l’interrogativo di come avessero fatto a procurarsi le chiavi di quella bettola fatiscente.
Gli altri erano già tutti presenti.
Appena la porta era stata aperta e io spinta dentro, Fernando era sgusciato rapidamente in mezzo agli altri per venirmi ad abbracciare.
  • Eccola qui l’eroina del giorno!  -  esclamò tutto contento. 
Impalata come un manico di scopa e presa alla sprovvista, non ero riuscita a rispondere all’abbraccio in modo adeguato. Avevo battuto una pacca sulla spalla del ragazzo, a disagio, ma solo per esortarlo a scansarsi.
  • Eroina… beh, non esageriamo…
Poi il ragazzo si era staccato e solo allora mi ero ritrovata davanti il viso fresco e bellissimo di Michael. Nel mio stomaco si era improvvisamente scatenata un’esplosione di fuochi d’artificio e, come un’emerita ebete, ero riuscita solo a sorridergli.
Dopo 3 giorni trascorsi a preoccuparmi per lui e a pensare ad un modo per farlo uscire dal reparto psichiatrico, dovevo ammettere che rivederlo era davvero una bella sensazione. Michael era così… sexy e io così disgustosamente innamorata di lui. Avevo cercato in tutti i modi di negarlo a me stessa, ma ormai era inutile. Non potevo farci niente, era successo. Ero pazza di lui.
  • Ciao Gwen.  -  esordì il ragazzo, avvicinandosi.
  • Ciao… felice che tu sia di nuovo tra noi.  -  “Molto felice”.  -  Com’era il reparto psichiatrico?
Dovevo sforzarmi di comportarmi normalmente, non era il caso di mostrarmi più patetica di quanto già non fossi. 
  • Noioso e, a proposito, grazie per avermi tirato fuori. Hai avuto un’idea fantastica.
Arrossii.  -  Si, beh… avevamo ancora bisogno di te. Ma che cosa ti è successo esattamente? Credevo che Pope ti avesse spedito in isolamento per la storia dell’ustione. Come hai fatto a finire al manicomio?
Michael parve un tantino a disagio di fronte a quella domanda.  -  Si ecco… lo stavo giusto spiegando agli altri prima che arrivaste… io non mi ricordo esattamente cos’è successo quella notte, ma credo di aver perso il controllo e dopo un po’ mi sono reso conto che le guardie mi stavano portando via. Quando ho capito di essere finito nel reparto psichiatrico però, mi è venuta un’idea su come ricostruire la porzione di tatuaggio andata perduta.
  • E cioè?  -  chiese Sucre.
A quel punto la conversazione venne estesa anche al resto dei presenti.
  • Vi ricordate Haywire? Qualche tempo fa le guardie lo avevano assegnato come mio compagno di cella e mi è venuto in mente che in quel periodo lui era stato in grado di ricopiare il mio tatuaggio. Quando Sucre tornò ad occupare la cella 40, Haywire venne rispedito al reparto psichiatrico. Quando, qualche giorno fa, l’ho rivisto ho pensato che potesse ricordarsi del disegno e ricostruire la parte mancante.
  • E c’è riuscito?  -  gli domandai, incuriosita.
  • Si, Haywire ha ricostruito la parte mancante, ma le linee che lo attraversano e che in pratica rappresentano i condotti sotterranei che dovremmo percorrere per arrivare all’infermeria, sono completamente sbagliate… credo che fosse troppo intontito dai farmaci per ricordarle con esattezza, il che significa… che siamo di nuovo punto e a capo.
  • Ma che bella notizia!  -  scattò all’improvviso Bagwell.  -  E adesso sapientone, come diavolo dovremmo fare ad evadere?
  • Non possiamo usare il condotto sotto l’infermeria, non possiamo più contare sul passaggio sotto la stanzetta delle guardie e anche la nostra ultima speranza di proseguire per il manicomio, è completamente andata.  -  continuò scoraggiato C-Note.  -  Adesso che si fa?
  • Non lo so. Potremmo riprovare a intervenire sul condotto sotto l’infermeria.  -  propose Michael, cercando a tentoni una soluzione al nuovo problema.
  • Ma hai detto che non era possibile.
  • Si, lo so cos’ho detto.
  • Senza contare che il tempo per tuo fratello stringe, Michael. L’esecuzione è stata fissata per venerdì.  -    intervenì Charles, infliggendo l’ultimo chiodo.
Cristo Santo, sembrava di assistere ad una di quelle sitcome tedesche piene di struggenti colpi di scena. Rieccoli 4 cani accanirsi contro quell’unico osso. “Concedetegli un momento di respiro,” avrei voluto gridargli  “un problema alla volta, per favore”.
  • A qualcuno, per caso, interessa ascoltare la mia soluzione?  -  m’intromisi, interrompendo di colpo i borbottii alla mia destra e le imprecazioni alla mia sinistra.
L’attenzione di tutti i presenti si concentrò su di me alla parola “soluzione”.
  • Se la tua nuova brillante idea comprende di includere un altro detenuto alla fuga, ti prego, risparmiacela.  -  esclamò sardonico T-Bag.
Michael lo ignorò.  -  Gwen, se hai un’idea dilla, perché al momento io non vedo soluzioni. A cosa stavi pensando?
  • Beh ecco…  -  puntai gli occhi al pavimento, imponendomi di non arrossire, ma ovviamente fu tutto inutile. Gli altri erano ancora in attesa che mi spiegassi.  -  … è un po’ imbarazzante, quindi… non fraintendere la richiesta, ma… dovresti toglierti la maglietta.
Arrossi fino alle radici dei capelli quando vidi Michael inarcare impercettibilmente le sopracciglia di fronte a quella richiesta evidentemente inattesa.
Non mi capitava una situazione così imbarazzante da… beh, un bel po’ di tempo.
  • Che fai ancora lì impalato? Su forza, togliti la maglietta e fammi dare un’occhiata al tatuaggio. Sta tranquillo, non voglio saltarti addosso.
“Però magari…”
 
Superato un primo momento di disagio, Michael cominciò a spogliarsi, forse intuendo che stavo facendo sul serio. Iniziò liberandosi del primo strato, ossia della camicia azzurra a maniche corte che portava sopra la maglia. Dopodiché anche quest’ultima volò via, finché, dopo essersi liberato anche della canotta, non mi ritrovai di fronte il suo fisico mozzafiato davanti agli occhi e un sorriso appena accennato all’angolo della bocca che mi fece scattare sull’attenti ogni singolo follicolo pilifero.
 
“Respira Gwen… ricorda dove ti trovi…”
 
Dovevo concentrarmi sul tatuaggio, era per quello che avevo chiesto a Michael di spogliarsi. Ok, concentrarmi, potevo farlo. Cavolo mi trovavo in un magazzino fatiscente in mezzo ad un branco di galeotti con l’acqua alla gola. Scenario tutt’altro che allettante.
Feci cenno al ragazzo di voltarsi cosicché, sotto la luce dell’unica lampadina al centro della stanza, potessi osservare meglio quella meravigliosa accozzaglia di inchiostro e immagini gotiche stampate sulle sue spalle perfette, sulla schiena liscia, i fianchi scolpiti e senza un filo di grasso e lungo le braccia magre e poco muscolose.
Era la prima volta che riuscivo a guardare quel tatuaggio al completo e lo trovavo bellissimo, suggestivo. Ne era ricoperto in tutta la parte superiore del corpo, esclusi collo e testa.
L’ampia bruciatura alla spalla sinistra, rappresentava un grosso vuoto rossastro, come se una parte del disegno fosse stato cancellato, strappato via. Lì la ferita ancora fresca, aveva iniziato a rimarginarsi e i contorni del tatuaggio sopravvissuti all’ustione si scontravano contro una chiazza di pelle viva che aveva cancellato per sempre l’ala dell’angelo vendicatore intento a trafiggere il demone del male.
  • Posso sapere che intenzioni hai?  - mi chiese Michael, mentre ero intenta a cercare di capire come il ragazzo facesse a leggere la planimetria del carcere in mezzo a quel trionfo di spade, lance, demoni e angeli.
  • Cerco di salvare il vostro piano strampalato, che altro se no?
  • Puoi spiegarti meglio?
  • Credo di poter ricostruire la parte mancante del disegno, ma mi occorrerà qualche minuto per ricordarlo.  -  risposi.
  • Non ho capito bene… vuoi ricostituire il disegno originale?
  • Si beh, posso provarci.
  • Ma non lo hai mai visto.
  • Ma come, significa che non vi siete ancora visti nudi?  -  s’intromise T-Bag con una delle sue stupide frecciatine.
Come al solito, feci finta di non sentire e cercai invece di spiegare a Michael e agli altri perché fossi l’unica in grado di salvare la loro evasione.
  • Ricordi quella volta che Haywire venne a trovarmi nella mia cella per mostrarmi i disegni del tuo tatuaggio?  -  cominciai.  -  Si trattava di piccole porzioni di disegno riprodotte in scala. Haywire era così ossessionato da quel tatuaggio che aveva addirittura riprodotto particolari del disegno più volte. Sosteneva che si trattasse di un percorso per l’inferno e aveva letteralmente riempito il suo taccuino di quelle immagini che hai stampate sul corpo. Il giorno che è venuto a trovarmi in cella è stato lo stesso in cui lo hanno rispedito al reparto psichiatrico. I suoi disegni sono rimasti a me e tra questi c’era anche l’ala dell’angelo  che è venuta via con l’ustione.
  • Ma io ricordo benissimo che tu hai consegnato i fogli a me e che poi io li ho strappati.
  • E’ vero, ma io avevo già avuto modo di esaminarli.
  • Ok, adesso mi sono definitivamente perso.  -  s’intromise C-Note seccato.  -  Che cos’è questa storia? La ragazzina qui, guarda una sola volta un disegno che è stato realizzato da un pazzo schizzato chissà quando, e lo riproduce qui adesso come se niente fosse?
Michael venne subito in mio soccorso, spiegando.  -  Gwyneth ha una memoria fotografica.
  • Questo lo hai già detto, ma questo non spiega come sia possibile una cosa del genere. Ne ho conosciuta gente con una memoria fotografica eccellente e ti assicuro che nessuno di loro era in grado di fare, o dice di poter fare, questa ragazzina.
Avevo la sensazione che C-Note non fosse l’unico che la pensasse in quel modo. Lo avevo capito da come mi guardavano Charles, T-Bag e Fernando.
All’improvviso mi sentii sotto esame, non si fidavano di me. Ma d'altronde non dovevo sorprendermi, non ero una di loro e il fatto che stessi cercando di aiutarli, non mi obbligava certo a liberarmi la coscienza con loro. Non erano miei amici. Non gli dovevo niente.
  • Quello che sono o non sono in grado di fare, non è certo affar vostro.  -  dichiarai ferma.  -  Volete ancora evadere da questo posto? Allora accontentatevi del mio aiuto… e già che ci siete, procuratemi un pezzo di carta e qualcosa per scrivere.
Messi a tacere i 4 curiosi, chiesi a Michael di voltarsi nuovamente, mentre Charles e Sucre mi procuravano un vecchio foglio di giornale e un pennarello nero.
Due minuti dopo ero già al lavoro. Di fronte a me riuscivo a vedere il disegno mancante. Era come se avessi recuperato dentro una scatola di immagini, quella giusta. Vedevo il disegno fatto da Haywire, il foglio che avevo stretto tra le mani, osservato, memorizzato, e potevo rappresentarlo sul foglio di giornale proprio come se lo stessi ricopiando da un foglio guida sotto, anche se quel foglio esisteva solo nella mia mente.
Ogni tanto mi fermavo a fissare quel vuoto rossastro sulla spalla di Michael. Per più di una volta mi azzardai a sfiorarne i contorni con l’indice, verificando che quelli del tatuaggio originale coincidessero con i contorni del mio disegno.
Tracciavo una dopo l’altra le linee guida che dal basso andavano a ramificarsi più in alto, in modo da formare l’intricato complesso e con esso, la planimetria.
Tutte le volte che le mie dita sfioravano la sua schiena, avevo la sensazione che la pelle scottasse. Restavo ipnotizzata dal movimento ritmico del suo torace che si alzava e si riabbassava a ogni respiro.
  • Non per fare il guastafeste, ma a furia di restare imbambolata a fissargli la schiena, non rischi di prendere fuoco?
Le stupide battutine di T-Bag mi ricordavano puntualmente che io e Michael non eravamo soli e che il ragazzo non si era tolto la maglietta per lasciarsi ammirare le spalle.
  • Ehi, sto facendo del mio meglio, ma è un po’ meno facile di quanto possa sembrare.
Che bugiarda! Altro che tatuaggio, riuscivo a pensare solo alle sue spalle e alla sensazione sublime che avrei provato a massaggiargliele.
“Cambia pensiero Gwen, concentrati!”
  • Potremmo cercare di muoverci?  -  si accodò Fernando.  -  Qui dentro c’è un po’ troppa tensione sessuale e si soffoca.
Perfetto, adesso ci si metteva anche Sucre a dare manforte al depravato, ma bene! Tanto non c’era più da preoccuparsi, c’era Gwyneth che faceva il lavoro sporco per loro. Avevo portato fuori dal manicomio l’unico uomo in grado di farli evadere, stavo salvando il percorso che avrebbero dovuto seguire e con esso le loro speranze, insomma, avevo fatto tutto io.
  • Non prendertela dai, stanno solo scherzando.  -  mi disse Michael, cercando di farmi tornare concentrata.
Eppure anche nel suo tono avevo avvertito una punta di sarcasmo. Mi era addirittura sembrato di vederlo sorridere. Stava ridendo di me?
 
Sbuffai.  -  Ancora un po’ di pazienza. Ho quasi finito.
  • Magari dopo che avrai finito con Scofield potresti finire di massaggiare la mia schiena!
Nel tentativo di far cessare quelle battutine pungenti, avevo afferrato un pennello lasciato sopra il tavolo sul quale stavo disegnando e lo avevo lanciato contro T-Bag perché si mozzasse la lingua nello sforzo di schivarlo. Purtroppo non accadde.
In verità non ero davvero arrabbiata. Il fatto che avessero ancora voglia di ridere dopo le ultime 72 ore aveva del positivo, ed era un sollievo constatare di aver risolto se non tutti, almeno gran parte dei nostri problemi.
Venti minuti dopo il disegno fu completato, gli spazi vuoti riempiti e il progetto di evasione di nuovo praticabile. Nell’aria c’era buon umore. Sembrava che la fortuna avesse ricominciato a girare dalla nostra parte. Finalmente.
  • Non so davvero come ringraziarti Gwen, ormai avevo quasi perso le speranze.
  • Credo proprio che tu sia in debito con me, signor Scofield.
Lo vidi ammiccare e lo imitai sollevata.
Dopo aver lasciato il capanno, io e Michael avevamo deciso di fare una passeggiata in cortile e trascorrere il resto del turno d’aria insieme.
Dentro di me sapevo che il tempo a nostra disposizione sarebbe volato via velocemente e che avrei dovuto approfittare di ogni momento per stare accanto a Michael, ma non sapevo esattamente cosa provare. Dovevo essere triste all’idea che non avrei più rivisto Michael? O felice di sapere lui e il fratello lontani da Fox River?
  • Si, credo di si. Quindi adesso mi chiederai qualcosa in cambio perché possa restituirti il favore?
  • Mmm… avevi in mente qualcosa in particolare?  -  gli chiesi sfacciata.
  • Forse.
Avevo gli ormoni completamente in subbuglio o Michael aveva davvero intenzione di provocarmi?
Ah, se quello non fosse stato il carcere!
  • Se avessi saputo che eri in grado di ricordare a memoria il mio tatuaggio mi sarei risparmiato una bella fatica. Di sicuro avrei evitato di perdere tempo con Haywire.  -  continuò, tornando serio.  -  Mi vuoi dire perché non me ne hai parlato subito?
  • Ci ho provato, ma tu non mi hai dato retta.
  • Cosa?  -  si fermò all’improvviso come se davvero non avesse idea di cosa stessi dicendo.  -  Quando?
  • Il giorno in cui Bellick ha accompagnato Tweener nella stanzetta delle guardie. Mi ero avvicinata per darti una mano e dirti che c’erano buone probabilità che ricordassi la porzione di tatuaggio andata perduta e tu hai detto che ti stavo disturbando.
La sua espressione da sorpresa si fece di colpo dispiaciuta.  -  Oddio, è vero, ma io non avevo idea che potessi fare una cosa del genere.
Scrollai le spalle.  -  Non ero sicura di poterti aiutare perché non sapevo quale parte del tatuaggio mancasse e se lo avessi già visto tra i disegni di Haywire. Per questo ti ho chiesto di toglierti la maglietta prima di spiegarti.
  • Gwen sul serio, mi dispiace averti urlato contro. Ero nervoso, tutto stava andando storto e… non avrei dovuto alzare la voce, però tu avresti dovuto dirmelo.
  • Lo so, il fatto è che quando hai detto che non sei come me, io… è stupido lo so, ma me la sono presa. Lo so che non sei come me. La maggior parte della gente pensa che io sia strana, impulsiva, irrazionale… non normale. Non volevo che ti sentissi… ecco si, in soggezione.
Dopo un minuto di silenzio, Michael scoppiò in una sonora risata facendomi sentire una stupida.
  • Davvero pensi che mi senta in soggezione nei tuoi confronti?  -  Annuii e la risatina che ne seguì mi fece quasi morire d’imbarazzo.  -  Gwyneth, non c’è niente di male ad avere una memoria eccezionale come la tua. E di certo non ho mai pensato che tu fossi strana.
Lo scrutai di sottecchi.  -  Quindi non pensi che io mi dia delle arie?  -  “Tanto per esserne sicuri”.
  • No, affatto. Penso che tu sia speciale.
“Speciale”. Non male.
 
Sorrisi lusingata e sollevata al tempo stesso. Adesso che avevo la certezza che Michael non mi vedesse come un fenomeno da baraccone dal quale tenersi alla larga, mi sentivo molto più tranquilla.
Non avrei mai pensato di incontrare un ragazzo come lui a Fox River. A differenza di tutti gli altri detenuti, e probabilmente della maggior parte della gente che avevo conosciuto fino a quel giorno, Michael aveva il dono di mettere a proprio agio le persone. Era facile parlare con lui, aprirsi.
Sarei riuscita a lasciarlo andare quando sarebbe arrivato il momento?
  • A quanto pare ci sono un bel po’ di nuovi arrivi.  -  mormorò dopo un po’, guardando dritto davanti a sé, oltre l’inferriata.
Non ci misi molto a capire a cosa si stesse riferendo il ragazzo.
Lungo il vialetto all’ingresso, si era appena fermato un pullman carico di nuovi detenuti, il che non era una novità dato che ogni settimana continuavano ad arrivare flotte di visi nuovi che venivano sbattuti nelle celle libere come animali da bestiame.
Mentre osservavo il nuovo gruppetto farsi avanti lungo il vialetto, per qualche motivo, uno dei detenuti in tuta arancione e manette ai polsi catturò la mia attenzione. Da lontano non riuscivo a distinguerne perfettamente i tratti del viso, ma l’uomo aveva comunque un’aria molto familiare. Forse era quel suo strano modo di strascicare i piedi o quel suo modo di guardarsi attorno, come uno che è appena tornato da una vacanza e controlla che tutto sia rimasto esattamente identico a come lo aveva lasciato, eppure più lo fissavo, più quello strano individuo mi ricordava qualcuno.
  • Oh mio Dio!!!  -  esclamai all’improvviso, riconoscendolo.
  • Che ti prende?  -  mi chiese il ragazzo alla mia destra, notando la mia espressione scioccata.
Non potevo crederci, eppure sembrava proprio lui.
  • Credo che… ci sia una nostra vecchia conoscenza tra i nuovi arrivati.
Anche Michael a quel punto si soffermò più attentamente sul gruppo che stava avanzando annoiato oltre la cancellata. Nel giro di pochi secondi sul suo viso comparve la stessa espressione esterrefatta comparsa un momento prima sul mio.
  • Ma è… ?
  • Già. 
Credevo che non avrei mai più rivisto quell’uomo, che fosse stato trasferito o che fosse giunto ormai al Padr’Eterno, invece John Abruzzi il capomafia a quanto pare era proprio tornato. E non avrebbe potuto scegliere momento meno adatto per ripresentarsi sulla scena.
 

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Capitolo 26
*** Inaspettato ***


Ero molto curiosa di scoprire come sarebbe stato accolto il ritorno dell’infido mafioso da Michael e dagli altri. Da voci di corridoio avevamo scoperto che qualcuno avesse cercato di fare fuori Abruzzi, tagliandogli la gola con una lametta, ma nessuno aveva ancora scoperto chi fosse stato a lasciare il pover’ uomo più morto che vivo, né per quale motivo l’avesse fatto. Dopo quel violento episodio, John era stato trasportato d’urgenza al più vicino ospedale e tutti noi avevamo dato per scontato di non rivederlo mai più, invece avevamo dovuto ricrederci. John Abruzzi era un osso molto più duro di quanto ci fossimo aspettati.
-    Non ti dà fastidio che sia di nuovo a Fox River e che, oltretutto, sappia del piano?  -  avevo chiesto a Michael, entrando a mensa al suo fianco.
Il ragazzo aveva recuperato due vassoi prima di passarne uno a me, aspettando che mi accodassi alla fila per iniziare a riempirlo di cibo.
-    Ti riferisci a John? Beh no, lo avevamo incluso nel piano fin dall’inizio e il fatto che sia tornato va solo a nostro vantaggio.  -  rispose sottovoce, facendo attenzione che potessi sentirlo soltanto io.
-    A vantaggio di cosa?
-    Della riuscita del piano. Vedi, io posso anche organizzare un’evasione e portare Lincoln e gli altri fuori da queste mura, ma là fuori è tutto diverso. John è l’unico che possa aiutarci a lasciare il paese prima di diventare dei facili bersagli. Hai mai sentito parlare della Top FlySouthers?  -  Scossi piano la testa.  -  E’ una compagnia che effettua voli da piccoli aeroporti del Midwest, come quello a dieci miglia da qui. Li gestisce una società di facciata di Abruzzi. In cambio della sua partecipazione all’evasione, John ha promesso che metterà a disposizione uno dei suoi aerei per portarci fuori dagli Stati Uniti.
Certo, adesso capivo l’importanza che Abruzzi avesse per la riuscita del piano e per le speranze di ognuno di loro, ma proprio non riuscivo ad accettare che un pluriomicida e un mafioso tornasse in libertà. Era una cosa indegna, sbagliata.
Dopo aver terminato di riempire i vassoi, sia io che Michael ci dirigemmo verso il solito tavolo in fondo alla sala dove già precedentemente avevo notato Sucre, in compagnia del cugino e nuovo acquisto del gruppo, Manche. A sorpresa però, il ragazzo scelse di occupare uno dei tavoli liberi sulla seconda fila invece che unirsi a quello del suo compagno di cella, il che mi spiazzò, ma mi fece anche piacere. Non avevamo mai pranzato da soli fino a quel giorno.
I miei neuroni innamorati mi inducevano a pensare che anche lui volesse trascorrere gli ultimi momenti a Fox River in mia compagnia, ma la razionalità sopravvissuta a quello scempio suggeriva che le sue intenzioni fossero altre, per esempio la voglia di stare almeno a pranzo lontano dai suoi compagni di evasione con i quali trascorreva gran parte della giornata.

-    Credi che John sia ancora interessato a prendere parte alla fuga?  -  continuai, prendendo posto accanto a lui.
-    Non lo so, forse dovremmo chiederglielo.  -  rispose, indicando con un cenno della testa il miracolato Abruzzi, diretto proprio al nostro tavolo solitario.
-    Salve ragazzi. -  esordì quest’ultimo, offrendo un sorriso cortese sia nella mia direzione che in quella di Michael.

Si era avvicinato discreto, puntando dritto all’obiettivo, ma non aveva appoggiato il vassoio sul tavolo,  -  buon segno  -  né aveva dato segnale di volersi accomodare, nonostante la presenza di una sedia libera alla mia destra.
Dovevo ammetterlo, adesso che lo guardavo da vicino, notavo una gran bella differenza rispetto a quando lo avevo conosciuto. John era visibilmente dimagrito, aveva tagliato i capelli, non più pettinati all’indietro e lasciati sciolti, ma adesso molto più ordinati, rasati ai lati e lasciati più lunghi sopra. Sulla gola era ben visibile una lunga cicatrice che dal centro arrivava quasi a sfiorare l’orecchio destro. Chiunque gliel’avesse lasciata, aveva avuto proprio l’intenzione di farlo secco.

-    E così sei tornato.  -  esclamò Michael amichevole come sempre, rivolgendosi all’uomo.
-    Già, il Signore ha voluto concedermi questa seconda possibilità.

La sua risposta riuscì a lasciarmi piuttosto incredula. Da quando in qua John era religioso?

-    Sono felice che tu sia qui.  -  proseguì Michael.
-    Grazie. Credo che Dio mi abbia permesso di sopravvivere perché rimediassi ai miei peccati e a questo proposito, volevo chiedervi scusa per quello che vi ho fatto in passato. Voglio scusarmi soprattutto con te, Gwyneth.  -  L’iniziativa mi prese totalmente alla sprovvista, tanto che più di una volta dovetti trattenermi dal voltarmi per assicurarmi che non stesse parlando con qualcun altro alle mie spalle.  -  Sono stato un tantino prevenuto nei tuoi confronti… e scortese, e un uomo scortese con una donna non è degno di meritare un posto nel paradiso dei cieli dopo la morte.

“Ok, stavo decisamente sognando”.

-    Spero tanto che tu voglia accettare le mie scuse.

Non sapevo assolutamente cosa rispondere. Mi stava prendendo in giro? Gli era scattata via qualche rotella? Quello non poteva essere il John Abruzzi che avevo conosciuto al mio arrivo.

-    Ahm… certo… grazie.  -  balbettai a disagio.

Al mio fianco, Michael sembrava incredulo quanto me.

-    Voglio che da adesso in avanti le cose cambino.  -  riprese l’irriconoscibile Abruzzi.  -  A proposito, che ci fate ancora qui? Ero convinto che ormai aveste già varcato il confine.
-    Abbiamo avuto qualche piccolo intoppo.  -  si giustificò Michael, scrollando le spalle.

Negli occhi di John comparve un improvviso lampo di interesse.

-    Stai ancora organizzando?
-    Beh, questo dipende da come l’idea dell’evasione verrà accolta dal nuovo Abruzzi.
Il mafioso ci lanciò uno sguardo deciso.  -  L’anima del vecchio peccatore è destinata a rimanere reclusa tra queste 4 mura. E’ morta. L’anima nuova ha bisogno di essere libera!
-    L’anima del vecchio peccatore aveva un aereo pronto ad attenderci. L’anima nuova potrà fare lo stesso?
Questa volta John sorrise beato.  -  Noè aveva la sua arca, dico bene?  -  e senza attendere la risposta, lo guardammo voltarsi e tornare sui suoi passi per dirigersi ad un tavolo poco più avanti, insieme ai suoi fedelissimi.

Era fuor di dubbio che quello strano uomo avesse subìto un qualche tipo di trasformazione mistica durante la sua assenza. Forse dipendeva dal fatto che fosse sopravvissuto ad un’esperienza molto vicina alla morte. O forse era solo fuori di testa. Ciononostante continuavo a percepire del marcio in lui. Nonostante la sua improvvisa conversione, le scuse e tutto il resto, un mafioso non poteva trasformarsi improvvisamente in un santo. Continuavo a non fidarmi di lui.

-    Ho appena avuto una quasi conversazione con John Abruzzi durante la quale non sono stata né denigrata, né minacciata di morte. Non posso crederci.  -  esclamai con una punta di sarcasmo, dedicandomi finalmente al mio pranzo.
-    Sono sorpreso anch’io. John sembra molto cambiato.
-    Le sue intenzioni di evadere però sono sempre le stesse. Adesso che puoi nuovamente contare sul tatuaggio e seguire le condutture sotto il reparto psichiatrico, quanto pensi che manchi alla fuga?

Fino a quel momento avevo deciso di non sapere nulla sui tempi e sulla durata dei lavori, ma negli ultimi giorni mi ero chiesta spesso quanto tempo ancora avessi a disposizione da passare con Michael. Non volevo trovarmi dal dovergli dire addio dall’oggi al domani. 

-    Non lo so,  -  rispose il ragazzo pensieroso.  -  mancano ancora gli ultimi dettagli. Innanzitutto non ho ancora la più pallida idea di come far arrivare Lincoln in infermeria dall’isolamento. E non ho ancora la chiave. Nel piano originario, il condotto arrivava fino all’interno dell’infermeria, ma se percorreremo i condotti sotto il reparto psichiatrico sbucheremo nell’ala sud, a circa una ventina di metri dalla nostra via di fuga. Questo significa che per entrare in quella stanza ci servirà la chiave. 
-    Il vecchio trucchetto di urtare una delle guardie, sottrargli la chiave e farne una copia, è passato di moda?
-    Purtroppo solo il personale medico ha quelle chiavi.
-    Insomma, quando hai detto ai ragazzi che ormai era tutto pronto, volevi dire che sei ancora in alto mare.  -  Sorrisi un po’ compiaciuta al pensiero di avere ancora un po’ di tempo.  -  Non credo di avertelo mai detto ma io ti ammiro molto per quello che stai facendo per tuo fratello.
Michael mandò giù un boccone di insalata e scrollò le spalle.  -  Non è poi questo gran che.
Avrei voluto farmi una risata.  -  No certo. Anch’io da piccola sognavo di farmi tatuare addosso un’intera planimetria, farmi rinchiudere in un penitenziario di massima sicurezza e progettare un’evasione, nell’eventualità che mia sorella venisse condannata a morte. Era già nei piani!

Il ragazzo apprezzò il sarcasmo e sorrise, ma subito dopo il suo sguardo tornò a farsi serio.

-    Che altro avrei dovuto fare? Non potevo restarmene con le mani in mano a vederlo morire. E’ mio fratello. 
-    Siete sempre stati così uniti?  -  gli domandai, spinta dalla curiosità.

A dire il vero, conoscevo già la risposta. Avevo letto i loro fascicoli e conoscevo a memoria la storia dei due fratelli abbandonati dai genitori, cresciuti insieme fin da piccoli e separatisi in età adulta per incompatibilità di caratteri. Eppure, tutte le informazioni che avevo letto non spiegavano come e perché Michael fosse arrivato a tanto pur di salvare la vita al fratello.
All’improvviso nei suoi occhi mi parve di scorgere un’ombra e quando il suo sguardo s’incatenò al mio, vi percepii un accenno di rimpianto e compresi che c’era molto dietro quel suo strano atteggiamento e dietro quelle scelte apparentemente irrazionali. Prima di dirgli addio, avrei voluto saperne di più di quel ragazzo tanto misterioso. Volevo conoscerlo. 

-    Non proprio, no. Prima che Lincoln venisse incolpato per l’omicidio di TerrenceSteadman, i nostri rapporti erano… piuttosto tesi.  -  rispose, appoggiando la forchetta sul vassoio.
-    Sul serio?
-    Praticamente è stato Lincoln a crescermi. Nostra madre morì quando avevo 11 anni e Lincoln 15, e nostro padre se n’era già andato da tempo. Lincoln dovette rimboccarsi le maniche molto presto per prendersi cura di entrambi. Poi un giorno, anche lui decise di andarsene perché era stanco di passare da una famiglia affidataria all’altra. Da quel giorno le cose tra noi sono cambiate.

Le mie fonti coincidevano perfettamente. Michael fino a quel momento aveva confermato esattamente tutto ciò che avevo letto nei loro fascicoli: la morte della madre, l’allontanamento del padre, la decisione di Lincoln di prendersi cura del fratello minore, diventandone il tutore una volta maggiorenne e poi il successivo allontanamento da Michael a causa dei primi problemi con la legge. 

-    Col tempo venni a sapere che mia madre aveva avuto un’assicurazione sulla vita e che il denaro sarebbe stato spartito tra me e Lincoln.  -  continuò assorto nei suoi ricordi.  -  Diventato maggiorenne ottenni la mia parte e me ne andai per la mia strada anch’io. Finii la scuola, mi iscrissi al college…
-    E Lincoln?
-    Non ne seppi più niente per anni e, a dire il vero…  -  abbassò gli occhi turbato.  -  … smisi di preoccuparmene. Le uniche volte che mi cercava erano scuse per chiedermi puntualmente dei favori. Una volta mi chiese addirittura dei soldi per pagare dei vecchi debiti. Poi qualche tempo dopo seppi che aveva trovato un lavoro come magazziniere nella società di Steadman, ma era spesso nei guai e io sempre più stanco di stargli dietro. 

Sospirò amareggiato, bloccandosi di colpo. Io lo stavo ancora fissando con il cuore in gola.

-    E dopo?  -  Ero in attesa di sentire il resto della storia. 
Scosse la testa, riprendendo in mano la forchetta.  -  Lasciamo perdere. E’ deprimente.
-    No, ti prego, voglio conoscere il resto.

“Resto che, tra l’altro, non conoscevo”.

All’inizio sembrò vacillare, tormentato da un qualche dilemma interiore, ma poi all’improvviso il suo sguardo si fece furbo e sul suo viso comparve l’ombra di un sorriso.

-    Facciamo come l’ultima volta.  -  propose.  -  Io rispondo alle tue domande se tu rispondi alle mie.
-    Questo stupido gioco non mi piace.  -  mi lamentai, sporgendo il labbro inferiore come una bambina.
-    Anch’io voglio sapere qualcosa di te, anzi, a pensarci bene io non so praticamente nulla che ti riguardi. Allora, ci stai? E questa volta la prima domanda spetta a me.

Non riuscivo ad immaginare cosa potesse volermi chiedere sulla mia stupida vita. La storia della mia famiglia era banale, così come la storia della mia vita. Non avevo addosso nessun tatuaggio che nascondesse o meno planimetrie o roba simile, non avevo fratelli o sorelle nel braccio della morte e la parte più folle della mia vita l’avevo vissuta lì a Fox River insieme a loro. 

-    D’accordo, fa questa dannata domanda!  -  sbuffai.

Probabilmente sarebbe rimasto deluso, ma perlomeno io avrei avuto la mia storia.
Dal canto suo, Michael sembrava piuttosto soddisfatto per quella concessione.

-    Ricordo di aver letto qualcuno dei tuoi articoli quando lavoravo a Chicago. Se non sbaglio, una volta sei stata persino intervistata per un giornale universitario nel quale hai dichiarato di non essere americana, è così?
-    Hai un’ottima memoria, non c’è che dire. In effetti io sono arrivata negli Stati Uniti soltanto un anno fa. Ho vissuto quasi tutta la vita in Italia.
-    Italiana come Abruzzi.  -  scherzò.  -  Allora avete molto in comune.
-    Spiritoso!
-    Perché sei venuta qui in America?  -  Feci una smorfia e Michael ovviamente fraintese.  -  Si può sapere perché sei così restia a parlare di te?
-    Ci tengo molto alla mia privacy.
-    Non sarà invece perché sono solo un detenuto e non ti fidi di me?

“No, decisamente non era questo il motivo”.

-    Mia madre si è risposata per la seconda volta con un americano conosciuto durante il viaggio post-divorzio con mio padre. -  cominciai, sforzandomi di essere sincera.  -  Era nel New Jersey solo da qualche giorno quando conobbe Keith Sawyer. Si innamorarono a prima vista e naturalmente mia madre decise di trasferirsi in fretta dalla sua nuova conquista. L’anno scorso si sono sposati con rito civile, così ho deciso di lasciare anch’io l’Italia per poter assistere al matrimonio e poter studiare in uno dei tanto declamati college americani. Purtroppo dopo 91 giorni esatti, mia madre si è resa conto che odiava la mentalità americana, e Keith, che non avrebbe potuto sopportare l’irruenza e la superficialità di mia madre un altro giorno di più, così hanno deciso di lasciarsi e sono attualmente in attesa della legale separazione firmata dal giudice. 

Ero certa che a Michael non fosse sfuggita la vena polemica che aveva accompagnato il mio stringato resoconto in risposta alla sua domanda. Non amavo molto raccontare agli sconosciuti gli irrimediabili fallimenti della mia famiglia. Non avevo accettato la separazione dei miei genitori e tutt’ora non riuscivo a perdonare a mia madre la decisione di lasciare Keith, il secondo miglior uomo al mondo, dopo mio padre. 
Avevo sempre criticato mia madre per le sue scelte stupide e impulsive, finché non mi ero resa conto di essere esattamente come lei. La mia presenza a Fox River ne era la prova concreta.

-    Quando mia madre decise di tornare in Italia per dare un colpo di spugna alla sua “scappatella americana”, io scelsi di restare insieme a Keith e sua figlia Meredith. -  continuai.  -  Il nostro rapporto si è raffreddato da allora e quando ci penso mi dispiace, ma qui ormai ho trovato la mia strada… si insomma, l’avevo trovata prima di finire qui dentro.
-    E non ti sei mai pentita della tua scelta di restare piuttosto che di tornare a casa?
Scossi la testa.  -  Non mi pento mai delle scelte che faccio, per quanto assurde, sbagliate, rischiose possano essere.
Sorrise.  -  Come farsi rinchiudere volontariamente a Fox River?
-    Si beh, questa è un’altra scelta folle che a volte mi fa dubitare delle mie facoltà mentali.
-    A volte, eh?

Socchiuse gli occhi e all’improvviso l’intensità del suo sguardo mi bloccò il respiro. 
C’era da perdersi in quei meravigliosi occhi color del cielo. L’infinità di messaggi che vi si potevano leggere era incalcolabile. Ogni sua espressione poteva essere tradotta in mille modi diversi.

-    … e torniamo a te.  -  balbettai, dopo aver ripreso ossigeno.  -  Allora, com’è che ti sei ritrovato a farti tatuare in metà del corpo la planimetria di un penitenziario se tu e Lincoln non eravate più in buoni rapporti e conducevate due vite completamente diverse?

La nuova domanda lo rese nuovamente cupo e pensieroso. Per quanto l’argomento fosse delicato e probabilmente difficile da trattare, Michael faceva molte meno storie di me ad aprirsi. 

-    All’inizio credevo come tutti che Lincoln fosse colpevole. Tutte le prove erano contro di lui. Poi, qualche giorno prima dell’ultima udienza mi raccontarono una cosa che non avevo mai saputo. L’assicurazione sulla vita di mia madre, quella che credevo fosse stata divisa tra me e Lincoln, quella che mi aveva permesso di studiare, laurearmi e comprare un bell’appartamento, in realtà non era mai esistita. Lincoln mi diede quei soldi, raccontandomi della storia dell’assicurazione perché non scoprissi che provenissero da lui, ma se li era fatti prestare da uno strozzino. Quando l’ho scoperto, Lincoln era già stato accusato della morte di Steadman e subito dopo è stato condannato a morte.Mio fratello si era indebitato fino al collo per garantirmi una vita migliore e io invece gli avevo voltato le spalle, non credendogli quando si era professato innocente. E’ tutta colpa mia se Lincoln è finito in carcere.

Ero ufficialmente incredula. Non potevo credere a quello che avevo appena sentito. Quella storia era totalmente nuova per me. Era uno scoop!

-    Aspetta… mi stai dicendo che la grossa somma di denaro che è stata imputata a Lincoln come movente dell’omicidio, è la stessa somma che tuo fratello si è fatto prestare per darla a te?  -  Il ragazzo annuì amareggiato.  -  Cavolo che casino!
-    Da quel giorno ho cercato in tutti i modi di scoprire la verità e di dimostrare l’innocenza di Lincoln, ma non ci sono mai riuscito. Tutto quello che facevo era inutile, continuavo a girare in tondo come un gatto che si morde la coda e nel frattempo la data dell’esecuzione si avvicinava inesorabile. Così, dopo un anno di ricerche e di indagini prive di risultati, ho capito che dovevo intervenire direttamente se volevo salvare mio fratello, così sono finito a Fox River… il resto lo sai.

Mi resi conto di essermi immobilizzata con la forchetta ancora in mano, solo quando Michael terminò la fine del racconto. Quindi, infilai forchetta e verdure in bocca, sforzandomi di ingoiare il boccone. 

-    Non sarà una vita facile là fuori, questo lo sai. Varcare quel muro significherà condannare la tua vita e quella di Lincoln a un continuo guardarsi le spalle. Fuggirete per sempre senza mai potervi fidare di nessuno. 

Era una constatazione cinica e piuttosto cruda, ma era reale ed ero certa che Michael avesse già considerato da tempo i rischi ai quali lui e il fratello sarebbero andati incontro dopo la fuga. 

“Ma guarda di chi dovevo innamorarmi! Un tipo un po’ menoincasinato no, eh?”

-    Dimmi di te.  -  riprese dopo una breve pausa alzando lo sguardo in cerca del mio, deciso a ricominciare con le domande.  -  Che cosa farai una volta fuori da qui? Ricomincerai a diffamare i politici? Scriverai una querela sul Chicago Tribune contro il Presidente?
Sorrisi triste.  -  Non credo che me lo permetterebbero. Sono stata espulsa dall’Albo e questo significa che la mia carriera di giornalista è finita.

Quella era certamente una delle sconfitte più grandi che la vita mi aveva inflitto. Amavo ancora il mondo del giornalismo e non ero riuscita ad accettare di dovermene allontanare. Era stata la mia passione più grande e il mio intero mondo da quando ero arrivata in America. Senza mi sentivo vuota, una parte di me mi era stata portata via ed era solo colpa mia.
Michael dovette intuire il mio turbamento perché di colpo percepii la punta delle sue dita toccare il dorso della mia mano, e quando sollevai lo sguardo per guardarlo negli occhi, restai sorpresa dall’intensità che trasmettevano. 
Cercai di ignorare l’improvviso sussulto nel mio stomaco, ma non accennai a spostare la mano nemmeno di un centimetro. Non volevo perdermi neanche un secondo di quell’intensa scarica elettrica emanata da quel semplice tocco.

-    Sai, stavo pensando a quello che mi hai raccontato l’altra volta. Il periodo in cui ti sei occupata del caso delle intercettazioni a Chicago, corrisponde pressappoco al periodo precedente alla mia incarcerazione.  -  disse, senza schiodare gli occhi dai miei.
Mi costrinsi a parlare senza balbettare come un’emerita idiota. -  Già… che strano, tutti e due a Chicago nello stesso periodo. Chissà, magari ci siamo scontrati distrattamente per strada o incontrati casualmente in un bar senza sapere nulla l’uno dell’altra.
-    No, questo è impossibile.  -  rispose sicuro.
-    Come fai a dirlo?
-    Perché se ti avessi incontrata in un bar, non credo mi sarei dimenticato tanto facilmente del tuo viso.

Per una manciata di secondi che parvero un’eternità, il mio battito cardiaco andò letteralmente in tilt e non ci capii più niente. Dimenticai che quella era la mensa di un carcere e che eravamo circondati da pericolosi detenuti. Vedevo solo i suoi occhi, così intensi da darmi quasi le vertigini, sentivo solo le sue dita, adesso incrociate alle mie quasi si fossero accavallate per caso.
E quello che aveva appena detto? Me l’ero sognata o il tono malizioso che aveva usato era stato intenzionale? Meglio non pensarci. Che diavolo stavo facendo? Flirtavo con il detenuto che voleva evadere, ecco cosa. Dovevo essere impazzita. Quell’uomo a breve sarebbe scomparso dalla mia vita, era una cosa assolutamente stupida e insensata affezionarsi a lui. 
Quasi avessi ricevuto un ordine, distolsi lo sguardo dal suo e contemporaneamente districai le dita per allontanare la mano e nasconderla sotto il tavolo, insieme all’altra. Questa volta non controllai che il ragazzo potesse fraintendere il mio gesto o meno. 
Per un po’ nessuno dei due parlò, però riuscivo ancora a sentirmi i suoi occhi addosso.

-    Credi che… sarebbe stato diverso se non ci fossimo conosciuti in carcere ma in un posto qualunque là fuori?  -  mi chiese serio.
Continuai a tenere gli occhi bassi.  -  Che vuoi dire?
-    Ci saremmo conosciuti scontrandoci casualmente per strada o incontrandoci in un bar e avremmo fatto amicizia?
-    Non lo so.

Quando sollevai lo sguardo, vidi che Michael stava serrando le labbra per soffocare una risata. Avrei voluto sprofondare con tutta la sedia.

-    Che cos’è che trovi tanto divertente?  -  gli chiesi piccata.
-    Niente scusa, è solo che ieri pensavi che fossi io a sentirmi in soggezione nei tuoi confronti.
-    Quindi stai cercando di dimostrare il contrario?

Scosse la testa e sorrise, increspando agli angoli gli occhi chiari. Non ebbi più scampo. 
Non c’era modo di sottrarsi al forte magnetismo che mi attirava a quel ragazzo. Non avevo né la forza, né tantomeno la volontà di oppormi. 
Che cosa c’era di così speciale in lui da rendere completamente inermi le mie difese? Michael era carino, senza dubbio, ma non era certo più carino di tanti altri ragazzi conosciuti prima di lui. Era intelligente, gentile, sensibile, ma tutte le sue buone qualità non spiegavano perché fossi così inspiegabilmente attratta da un ragazzo che aveva molti più problemi di me. 

-    Sawyer, Scofield, sempre insieme come due piccioncini!  -  sentii esclamare all’improvviso al capitano Bellick, avvicinatosi al nostro tavolo per richiamare la nostra attenzione. -  Quante volte ancora devo fischiare questo dannato fischietto, prima che vi decidiate ad alzare il culo da quelle sedie e recarvi ai rispettivi posti di lavoro?

Quell’insulso energumeno era l’unico che potesse mettere fine a quel momento idilliaco con così poca finezza. 

-    La sala non si è ancora svuotata del tutto.  -  gli feci notare, sbuffando senza farmene accorgere. 
-    Non me ne importa un fico secco!  -  ribatté tagliente il secondino, sfoderando la sua tipica espressione da cane da guardia.  -  Scofield, tu hai il controllo in infermeria fra mezz’ora, quindi sparisci. Sawyer, noi due dobbiamo fare due chiacchiere nel mio ufficio. Seguimi.

Sapevo perfettamente a cosa si riferisse parlando di fare “due chiacchiere”. Avrei dovuto sorbirmi l’ennesima strigliata. 
Mentre mi alzavo pronta a seguirlo, notai lo sguardo preoccupato di Michael, ma non potei spiegargli. Riuscii a ricambiare brevemente il suo sguardo, prima di recuperare il vassoio vuoto dal tavolo e incamminarmi insieme a Bellick verso l’uscita.

Come avevo supposto che accadesse, appena entrati nel suo disordinatissimo ufficio, “occhi da lucertola” non perse tempo a mettermi a mio agio, invitandomi a sedermi o a prendere un caffè. Attese esattamente il tempo che entrassi e incrociassi le braccia al petto prima di sistemarsi di fronte a me e attaccare con le domande.

-    Allora dolcezza, che notizie porti?
-    Che notizie vuole sapere?
Bellick non era un uomo che spiccasse per pazienza.  -  Non fare la furba con me, ragazzina. Dimmi cos’hai scoperto su Scofield e sul suo gruppetto di tirapiedi. -  sbottò, diventando subito minaccioso. 
-    Non ho scoperto niente e non so davvero come farle capire che non c’è niente di rilevante nelle nostre conversazioni. Con Scofield parlo solo di sciocchezze e del fratello che sta per essere giustiziato, e i suoi amici mi rivolgono a stento la parola. 
-    Stai mentendo! Ti ho vista l’altro giorno discutere con Westmoreland, C-Note e quel frocetto di T-Bag. Che cosa vi siete detti?

Inevitabile che ci avesse notati. Negli ultimi giorni avevo passato così tanto tempo con loro per progettare il ritorno di Michael dal reparto psichiatrico che mi sarei sorpresa del contrario. 

-    Quello è stato un caso. C-Note mi aveva chiesto dei soldi per prendersi la cella di Scofield e Sucre che Geary aveva messo all’asta. Charles gli doveva dei soldi, per questo c’era anche lui, e poi si è avvicinato anche T-Bag perché credo fosse interessato all’acquisto tanto quanto l’afroamericano. Non so altro.

Per quanto brava potessi essere a recitare la parte dell’ignara ragazzina, dovevo ammettere che Bellick era un osso duro da convincere.
L’uomo prese la lattina di birra appoggiata sul tavolo e ne bevve un lungo sorso, prima di puntare nuovamente i suoi occhi viscidi su di me.  

-    Dimmi chi è stato ad incastrare Geary. Come hanno fatto quei farabutti a far credere che fosse stato lui ad aggredire Scofield?

Espressione da “Casco dalle nuvole” che avrebbe meritato un Oscar. Pronta.

-    Incastrarlo?
-    Si, incastrarlo!!  -  mi sbraitò in faccia, facendo esplodere la lattina che aveva in mano con uno scoppio sonoro. La bibita volò dappertutto, inzuppando a me la divisa e a lui la manica della giacca.  -  Credi davvero che io sia stupido? Cos’è, tu e i tuoi amichetti avete fatto comunella? Non crederti nella posizione di poterti cucire la bocca solo perché la prossima settimana uscirai da qui. Se solo volessi, potrei allungare la tua permanenza di altri 30 giorni per cattiva condotta.

“Ah, brutta mossa il ricatto”.

-    Si, lo so che potrebbe farlo, ma a quel punto il mio avvocato interverrebbe con una notifica e io denuncerei tutto al Tribunale di Stato.  -  Cominciavo davvero ad averne abbastanza di tutti quegli uomini che credevano di potermi infinocchiare con qualche strampalata minaccia campata in aria. Conoscevo i miei diritti.  -  Mi dispiace capitano Bellick, ma ho persone molto competenti a coprirmi le spalle. La mia attuale condanna è stata accorciata di ben 30 giorni e lei non può fare proprio niente per costringermi a restare oltre gli effettivi 9 giorni che mi restano da scontare. Perciò, a meno che il direttore Pope non confermi un mio improbabile atteggiamento insubordinante che mi riconfermi la condanna originale, non penso che possa fare gran che per trattenermi, e conoscendo l’innato senso della giustizia del caro direttore, non penso proprio che abbia la possibilità di spuntarla.

L’uomo ricambiò il mio sguardo facendo stridere i denti. Si era trasformato in pochi secondi in una pentola a pressione pronta ad esplodere, non solo perché ero risultata indifferente alle sue minacce, ma perché ritorcergli la sua stessa arma contro aveva rappresentato una grave mancanza di rispetto.

-    Hai la protezione del direttore, per questo fai tanto la saputella. Bene, visto che ti senti così sicura, ho un’idea su come rendere indimenticabile la tua ultima settimana qui a Fox River… GUARDIA!  -  Tre secondi dopo l’agente Patterson era già nell’ufficio del capitano, pronto a ricevere ordini.  -  Louis, conducila al secondo livello. Oggi Sawyer comincerà un nuovo lavoro.

Sapevo che Bellick avrebbe risposto alla mia sfida e trovato un modo per farmela pagare, ma mai avrei immaginato che sarebbe arrivato a tanto pur di vendicarsi.
Quando, poco dopo, Patterson mi accompagnò al secondo livello consegnandomi camice, guanti e attrezzi da lavoro, lo fissai aspettando di sentirmi dire che era tutto uno scherzo, ma la smentita a quella triste previsione non arrivò. Ero stata ufficialmente sollevata da ogni altro incarico, compreso il turno a mensa, per venir declassata come addetta alla pulizia bagni. Questa volta ero davvero sprofondata sul gradino più basso. Avrei dovuto trascorrere entrambi i turni di lavoro a pulire i bagni dell’intero penitenziario, cominciando il primo turno dopo che tutti i detenuti avevano finito di lavarsi, e occupandomi dei servizi del secondo livello, quelli riservati al personale e alle guardie, durante il turno pomeridiano. 
Quelle decisamente furono le due ore più orribili e umilianti della mia vita. Finii per stirarmi un muscolo a furia di starmene inginocchiata a strofinare le docce intasate e maleodoranti, e quando arrivai ai gabinetti, in più di un’occasione temetti di ritrovarmi a svuotare lo stomaco di ogni residuo di cibo sopravvissuto al pranzo di quel giorno.  
Avrei odiato a vita quella sottospecie di secondino con la faccia da porcellino d’india che mi aveva costretta a tanto.
Alle 5 Patterson venne a prelevarmi per accompagnarmi in infermeria, grazie a Dio. Non ero mai stata così entusiasta di rivedere la bella dottoressa.
Appena arrivati, io e la guardia ci rendemmo conto in fretta che il numero di attentati della giornata doveva essere aumentato. Per i corridoi si era creata una calca di gente e un continuo via vai di persone che entravano e uscivano da una stanza all’altra. Oltre alla dottoressa Tancredi, che non vedevo ancora da nessuna parte, erano stati richiamati altri due medici. Il via vai di detenuti in attesa di essere visitati continuava ad aumentare. Per evitare inutili e noiose attese decisi quindi di chiedere informazioni. Avevo già sprecato abbastanza tempo a far risplendere i servizi igienici di quella fogna e l’ultima cosa di cui avevo bisogno era restarmene in piedi  dietro una porta, aspettando che arrivasse il mio turno.

-    Ciao Katie  -  esclamai ad un’indaffarata infermiera, prima che mi superasse per chiudersi dentro ad una di quelle porte a me sconosciute.
-    Oh ciao Gwyneth, aspetti la dottoressa?
-    Veramente si. Stamattina non era di turno e così ho atteso che tornasse, ma credo di aver scelto un pessimo momento…  -  osservai il corridoio pieno di gente in attesa.  -  … ma che cos’è successo?
La donna sospirò stravolta.  -  Intossicazione da cibo. Oggi la mensa ha fatto una carneficina.
-    Allora sarà meglio che torni domattina.
-    Perché non provi a chiedere alla dottoressa se ha finito. Dieci minuti fa ho visto entrare Scofield, immagino che ormai abbia finito con lui.
-    Bene, grazie.

Che ci faceva Michael in infermeria? Le sue visite erano fissate per il giovedì ed era piuttosto improbabile che anche a lui fosse venuta un’intossicazione da cibo. Quel giorno a pranzo avevamo preso più o meno le stesse cose e io stavo benissimo. Probabilmente si trovava lì per farsi medicare l’ustione alla spalla e farsi sostituire il bendaggio. 
Autorizzata dall’infermiera Katie, feci l’enorme sbaglio di dirigermi verso la stanza dell’infermeria e aprire la porta, nonostante questa fosse chiusa e buona norma confermasse che fosse ancora ritenuto un atto maleducato aprire senza bussare.
Fu come un fulmine a ciel sereno. Nulla avrebbe potuto prepararmi alla visione di quei due, Michael Scofield e Sara Tancredi, impegnati a baciarsi. Il mio ingresso improvviso aveva fatto scattare entrambi come molle nel tentativo di allontanarsi l’uno dall’altra, ma ormai era tardi. Impossibile fraintendere, impossibile non vedere. Li avevo visti baciarsi e quell’immagine difficilmente sarei riuscita a cancellarla dalla mia memoria.
Per una manciata di secondi rimasi impalata a fissarli come un manichino, mano ferma sul pomello della porta e occhi fissi dritti davanti a me. Nessuno dei tre riuscì a spiccicare una sillaba. Poi finalmente riuscii a distogliere lo sguardo e trovare il coraggio di richiudere la porta per tornare dall’agente Patterson. 

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Capitolo 27
*** Ultimo atto ***


Avete mai provato quella sensazione straziante in cui sembra che una voragine vi si sia appena aperta in pieno petto? Vi è mai capitato di sentirvi come se improvvisamente la terra venisse a mancarvi da sotto i piedi e non esistessero appigli a cui aggrapparsi? A volte, pur di non ammettere di aver sperato in qualcosa di assurdo e assolutamente insensato, preferiremmo fare a pezzi il mondo.
Immaginate di provare queste tre sensazioni contemporaneamente e avrete un’idea di come mi sentii io nel momento in cui aprii quella porta e vidi l’uomo di cui ero innamorata, baciare un’altra donna.

Dopo aver colto in flagrante il detenuto e la dottoressa in un incontro ravvicinato del terzo tipo, tornai nella mia cella e ci rimasi fino al mattino seguente, ma il pensiero di quei due non mi abbandonò neanche un attimo. Era stata una scoperta totalmente inaspettata e terribilmente amara che mi aveva spiazzata. Forse la soluzione più sensata sarebbe stata chiedere spiegazioni a Michael, ma mentre riflettevo su quella possibilità mi resi conto che non potevo affrontarlo, non ne avevo il coraggio. Avrei continuato a chiedermi all’infinito che cosa significasse quel bacio o che importanza avesse per Michael, perché io non potevo guardarlo negli occhi e chiedergli di darmi una spiegazione. Che diritto avevo di farlo? Solo perché condividevamo lo stesso segreto e c’eravamo scambiati stupide confidenze, qualcuno per caso mi dava il diritto di interferire nella sua vita privata o peggio, vantare dei diritti su di lui? No, assolutamente!

Michael Scofield era un detenuto con una vita complicata e una famiglia incasinata e io avevo fatto lo stupido sbaglio di innamorarmi di lui.
Ero così arrabbiata… così delusa… così… Maledizione a me e al mio pessimo tempismo!
Perché avevo scelto proprio quel momento? Avrei di gran lunga preferito non vedere. Perché proprio Michael? Fra tutti i detenuti con cui quell’ipocrita di una dottoressa avrebbe potuto trasgredire il regolamento, perché aveva dovuto scegliere proprio lui? E Michael, come aveva potuto baciare Sara? Gli piaceva forse? Era attratto dalle bionde? Da chi dei due era partito quel bacio?

Le domande continuavano ad accumularsi nel mio cervello e io non avevo la più pallida idea di come sgombrarlo da tutti quei dubbi e da quell’immagine abominevole.
Il mattino seguente, prima che scattasse l’ora di pranzo, decisi di prendere il coraggio a due mani, uscire dalla mia cella e recarmi alla cella 40 per parlare faccia a faccia con Michael. Lui sapeva che io sapevo, mi aveva vista quando avevo aperto la porta dell’infermeria, così come mi aveva vista quell’antipatica di una dottoressa, quindi probabilmente chiarire l’accaduto avrebbe fatto contenti entrambi. Lui avrebbe avuto modo di spiegare il suo comportamento inappropriato e io avrei scoperto esattamente a che gioco stesse giocando il galeotto.

Raggiunto il primo piano e la cella 40, entrai sicura e pronta a sfoderare il mio sguardo da “sputa subito il rospo”, ma dentro non trovai altri che Sucre. Il ragazzo era solo, seduto sulla branda in basso, la branda di Michael. Non aveva il solito aspetto rilassato, si massaggiava la testa rasata con entrambe le mani e sembrava che avesse appena ricevuto una pessima notizia. 
  • Sucre… va tutto bene?
Lo vidi trasalire al suono della mia voce e tranquillizzarsi immediatamente dopo aver capito che ero io.
  • Si… no… non lo so…
Vedendolo così agitato e pallido cominciai a preoccuparmi, non era da lui quel comportamento. Andai a sedermi accanto a lui e gli appoggiai una mano sulla spalla per calmarlo. Stava tremando.
  • Ehi, così mi spaventi amico. Che succede?
  • Evadiamo stanotte.
Restai letteralmente di stucco.  -  Cosa?!
  • Bellick ha scoperto il buco nella stanzetta delle guardie. 
“Noooo!!!!!!!!”
  • Per fortuna in quel momento è arrivato Charles ed è riuscito a sistemarlo prima che desse l’allarme,  -  continuò  -  ma ora che Bellick è fuori gioco dobbiamo sbrigarci a tagliare la corda prima che le altre guardie si accorgano della sua assenza.
  • Quando dici che Charles è riuscito a sistemare Bellick, intendi… - Avevo quasi paura a chiederglielo.
  • No, non l’ha ucciso. Quando è venuto a raccontarci dell’inconveniente, insieme al gruppo abbiamo deciso di evadere stanotte. Partiremo da qui alle 7.
  • Dalla vostra cella? Perché non usate il passaggio della stanza delle guardie come avevate programmato fin dall’inizio?
  • Perché non c’è più tempo e perché dobbiamo limitare i sospetti al minimo. Se non ci riusciamo questa volta non avremmo più a disposizione altri tentativi.
Mi ero avvicinata a Sucre per tranquillizzarlo e invece l’inattesa notizia era riuscita a mettere in agitazione anche me. Avevo di nuovo lo stomaco sottosopra e il cervello in panne. Il momento della verità era arrivato molto prima di quanto mi aspettassi e io non avevo ancora risolto le cose con Michael. Non ero pronta per dirgli addio.
  • A me sembra una follia. Alle 8 c’è la conta, lo avete per caso dimenticato? Se partirete alle 7, avrete a disposizione solo un’ora e vi giocherete il vantaggio tempo che avevamo calcolato se foste partiti alle 9 dalla stanzetta delle guardie.
  • Grazie tante, Gwen!  -  sbottò il ragazzo.  -  Prima ero agitato solo al pensiero di essere preso e di dover scontare altri 10 anni qui dentro, invece adesso avrò l’angoscia anche mentre cercherò di evadere. Grazie, grazie davvero!
Stavo facendo un pessimo lavoro, lo sapevo, ma non mi ero aspettata una decisione così repentina. Il fatto che Bellick avesse scoperto tutto era la peggior cosa che potesse capitare. Cosa ne sarebbe stato di me? Lui e Pope avrebbero cercato di far ricadere la colpa anche su di me, accusandomi di favoreggiamento per vendicarsi?
  • Scusami Fernando, è che non ero preparata… scusa. Avete già l’occorrente che vi serve?
  • Se ne sta occupando Michael.
Alzai gli occhi al cielo.  -  Si, come no!

“Michael ci sta pensando eccome. Scommetto che ieri, mentre baciava la bella dottoressa, pensava proprio a questo!”
 
Sucre mi fissò con espressione interrogativa.  -  Scusa?
  • Niente, frase infelice, non farci caso.  -  risposi, scuotendo la testa. Non avevo voglia di spiegargli ciò che avevo visto.  -  Perciò… alle 7, eh? Quindi questa è l’ultima volta che ci vediamo.
  • Beh lo spero, se sai che intendo. 
Lo sapevo benissimo. Se ci fossimo rivisti avrebbe significato il fallimento dell’evasione, prospettiva molto poco allettante per tutti i partecipanti all’epica impresa, visto che di colpo si sarebbero visti aumentare l’attuale condanna di ben 10 anni.
A mensa io e Sucre ci avviammo insieme al solito tavolo dove trovammo tutto il gruppo impegnato nei soliti discorsi, ma di Michael nessuna traccia. Mi informarono che Pope aveva finalmente concesso al ragazzo di trascorrere un’ora insieme al fratello, il che era una buona notizia per Michael e certamente per Lincoln, ma non altrettanto per me. Rischiavo di non riuscire neanche a salutarlo. A peggiorare il tutto, dopo pranzo dovetti tornare ad occuparmi del compito ingrato affidatomi da Bellick.
Arrivata nello spogliatoio per prendere grembiule e guanti, prima di recarmi al secondo livello e continuare da dove avevo lasciato, vidi Charles intento a recuperare dal suo armadietto la tuta blu da lavoro. L’atteggiamento del vecchio mi convinse ad avvicinarmi. Non lo avevo mai visto così pallido e accasciato. Anche a mensa, durante il pranzo, avevo notato che qualcosa non andasse come al solito, ma avevo dato per scontato che come Sucre, anche il vecchio fosse in pensiero per l’imminente evasione. Adesso però non ne ero più tanto convinta.
  • Non dirmi che anche tu sei agitato per l’appuntamento di questa sera.  -  esordii, muovendomi alle sue spalle.  -  Ciao Charles. Sembri stanco.
  • Ma no, solo qualche dolore all’anca. Tu invece?
Finsi di non capire a cosa si stesse riferendo.  -  Io cosa?
  • Hai parlato con Michael? Con il turno di lavoro in mezzo, ti resta davvero poco tempo da trascorrere insieme a lui.
  • Che cosa ti fa credere che voglia passare del tempo con lui?
Sorrise paterno.  -  Sono vecchio ragazzina, non stupido. E’ piuttosto chiaro quello che provi per lui e sono convinto che anche Michael provi qualcosa per te. Dovreste parlarvi prima che sia tardi.
Abbassai gli occhi a disagio.  -  Ti assicuro che non c’è niente di cui parlare.
 
Avrei voluto spiegargli il perché di quel tono mesto e avvilito, avrei voluto confidarmi con lui come con un padre e raccontargli di aver sorpreso Michael baciare un’altra donna. Avrei soprattutto voluto confidargli la delusione che avevo provato in quel momento e che ancora provavo ogni volta che ripensavo a quei due insieme. A dire il vero lo avrei fatto se all’improvviso i miei occhi non si fossero posati casualmente su una macchia rosso scuro sulla camicia dell’uomo, all’altezza del fianco.
  • Ma cosa… ? 
Provai a farlo voltare per guardare meglio di cosa si trattasse, anche se ero praticamente sicura che fosse sangue, ma Charles si coprì allontanandosi di colpo. Dovetti addirittura bloccarlo.
  • Charles, ma tu sei ferito…
  • Non è niente.
Eppure continuava a stringersi sul fianco il giubbotto a jeans per nascondere la macchia e con essa, la ferita. Come avevo fatto a non accorgermene a pranzo? Era evidente che il vecchio stesse male. Era così pallido, sofferente e continuava a muoversi appoggiandosi sul fianco destro.
  • Oh mio Dio, Charles devi andare subito in infermeria.
  • Non dirlo neanche per scherzo.  -  sibilò, zittendomi con un’occhiataccia.  -  Se andassi in infermeria, scatterebbe subito un’indagine interna e io potrei dire addio alla mia fuga. Non c’è da preoccuparsi, è solo un taglio.
No, difficilmente poteva trattarsi solo di un taglio, dato lo stato in cui era. Se il sangue era riuscito ad inzuppare la maglia che indossava tanto da creare una macchia così evidente, molto probabilmente doveva trattarsi di una ferita profonda.
  • Fammici dare un’occhiata.  -  provai, andandogli incontro. L’uomo mi allontanò con il braccio.
  • Ti prego, non rendermi le cose più complicate.
  • E’ davvero così importante per te quest’evasione?  -  gli chiesi, intuendo che fosse tutto là il fulcro della sua ostinazione.
Charles mi restituì uno sguardo determinato.  -  Anche più della mia vita.
 
Non riuscivo proprio a capire. Quando inizialmente Michael gli aveva proposto di evadere, non ne aveva neanche voluto sentir parlare, poi all’improvviso, per motivi sconosciuti che aveva deciso di tenere per sé, l’uomo si era convinto a voler lasciare Fox River una volta per tutte e adesso metteva addirittura a repentaglio la vita pur di evadere.
  • D’accordo… però sta attento. Non so quanto sia profonda quella ferita, so solo che se qualcun altro si accorge che sei messo così male rischi di perdere il treno per il mondo esterno, quindi farai meglio a coprirla bene.
L’uomo mi fissò riconoscente.  -  Grazie Gwen… non te l’ho mai detto, ma hai lo stesso identico colore degli occhi di mia figlia.  -  Sorrise di un sorriso strano, dissonante, che riuscì solo ad accrescere la mia inquietudine.  -  Sei una brava ragazza, Gwyneth. Fai in modo di uscire da qui sana e salva e di non metterci più piede e segui il mio consiglio… parlagli, prima che sia tardi.  -  concluse con un cenno della testa verso la porta alle mie spalle.
 
Quando mi voltai, lo vidi. Michael. Stava entrando proprio in quel momento, preceduto da Sucre e Abruzzi, e dato che lo spogliatoio si era quasi completamente svuotato, non aveva fatto alcuna fatica a notare me e Charles accanto agli armadietti.
Da vera stupida, appena lo riconobbi, arrossii di vergogna con un solo pensiero in testa: darmela a gambe.

Nell’istante in cui i suoi occhi si posarono su di me, distolsi lo sguardo alla velocità della luce e mi voltai nuovamente verso il mio armadietto, fingendo di cercare qualcosa all’interno per non dare a vedere il mio imbarazzo.
Che vergogna! Mancava così poco all’evasione e io mi nascondevo come una codarda. Avrei dovuto parlargli come mi aveva consigliato Charles, chiarire le cose e non comportarmi come la solita ragazzina. Una voce mi diceva di andare da lui e far finta che non fosse successo niente, ma l’altra gridava di dimenticarmi di Michael Scofield e fingere di non averlo mai conosciuto.

Le due voci contrastanti nella mia testa si davano battaglia per arrivare ad una soluzione. Volevo dirgli addio, dirgli che ero stracotta di lui e poi lasciarlo andare, ma d’altro canto quello che avevo visto in infermeria…
All’improvviso la soluzione arrivò da sé. 
  • Gwen, dobbiamo parlare. Puoi fermarti un attimo?
Trasalii quando sentii la sua voce alle mie spalle. Ero impreparata, non pensavo che avrebbe preso lui l’iniziativa.
 
Mi voltai a disagio. -  Ah… ehm… devo raggiungere il secondo livello… non so se…
Si fece serio.  -  Devo dirti una cosa. Evaderemo oggi.
  • Lo so. Sucre me l’ha detto.
Abbandonai grembiule e guanti nuovamente nell’armadietto e mi decisi a seguire Michael in fondo alla stanza dove si era riunito il resto del gruppo. Si erano radunati proprio tutti, quasi si trattasse dell’ultima riunione prima dell’ora X. Escluso Lincoln che anche volendo non sarebbe potuto essere presente perché ancora in isolamento, il gruppo al completo contava, oltre alle vecchie conoscenze, anche l’ultimo acquisto Manche Sanchez e un novellino che, in teoria, non avrebbe dovuto esserci.
  • Mettetevi le divise da lavoro sotto i vestiti. Vi serviranno.  -  esordì Michael, dopo essersi assicurato che nella stanza non ci fossero più orecchie indiscrete.
  • E perché, di grazia?  -  chiese stranito Abruzzi.
  • Perché dopo non avremmo tempo per recuperare…
  • Non era questo che intendevo. Non ti sei accorto che c’è qualcuno di troppo in ascolto?  -  continuò il mafioso accennando a Tweener, in piedi accanto a Michael.
Perlomeno non ero l’unica ad essermi persa i nuovi risvolti sul piano originale. Dovevano esserci stati dei cambiamenti dell’ultimo minuto.
  • Lui viene con noi.  -  chiarì Michael, lasciando tutti di stucco.
La notizia non venne accolta con gioia.
  • Ehi ragazzo, non ti sembra che questo piano stia diventando un po’ troppo affollato?
  • Quando il percorso è cambiato, è cambiato anche il piano. Usciremo tutti e David verrà con noi.
La provocazione aveva subito trovato terreno fertile nella scarsa pazienza dell’ex militare e del pedofilo, ma Michael era riuscito subito a zittire e mettere a posto tutti grazie al suo selfcontrol.
Era alquanto strano che il ragazzo avesse improvvisamente deciso di includere un nuovo elemento nel suo piano iniziale, e senza farne parola con me, oltretutto. Dovevo essermi persa un passaggio fondamentale, o forse ero stata troppo presa dai miei crucci amorosi per accorgermi dei cambiamenti. Eppure la comparsa in scena di Tweener mi puzzava. 
  • Non preoccupatevi, questa volta ce la faremo. Andrà bene.  -  asserì sicuro Michael.
  • Come?  -  s’intromise Fernando, sbuffando.  -  Lincoln è ancora in isolamento e noi non abbiamo ancora né la chiave dell’infermeria, né tantomeno il codice.
  • Quale codice?  -  chiesi confusa.
Fu Michael a rispondere per il suo compagno di cella.  -  Il codice che regola il sistema di sicurezza dell’infermeria. Per entrare in quella stanza ci servirà una particolare chiave che, come ho già detto, è in possesso del personale medico, e il codice di sicurezza che entra in funzione dopo che il personale del secondo turno lascia la stanza.
  • Credevo che il codice di sicurezza scattasse prima del turno notturno, alle 9. Perché questo cambiamento?
  • Perché siamo davvero sfortunati, ecco perché!  -  sbottò T-Bag, sbattendo un’anta d’armadietto rimasta aperta.
Quella non era sfortuna, era la sfiga più nera. Ma si trattava davvero di sfortuna? L’espressione colpevole stampata sul viso di Michael mi fece sospettare che ci fosse dell’altro.
  • Hai già un piano per impossessarti del codice? -  chiesi al ragazzo, sicura che avesse già un piano per rimediare a quell’ultimo intoppo.
  • Veramente no. Forse se avessi avuto più tempo… Sta per cominciare il turno di lavoro e fino alle 5 saremmo costantemente sorvegliati. Ho solo due ore per organizzare tutto e nel frattempo mio fratello è ancora in isolamento, non ho idea di come impadronirmi della chiave dell’infermeria e le guardie hanno già iniziato a chiedersi dov’è finito Bellick.
  • Insomma non siete affatto pronti.  -  In tutta risposta, Michael sollevò un sopracciglio in segno di muto assenso.  -  Ok sentite, penserò io a recuperare il codice. Pensi di poterti occupare di tutto il resto nel tempo che rimane?
  • Ci posso provare, ma tu cos’hai intenzione di fare?
Sospirai, consapevole che quell’impresa non mi avrebbe procurato nient’altro che problemi.
  • Aiutarvi, e spero vivamente che questa sia l’ultima volta perché sono veramente stanca di voi. Faremo così: dopo il turno di lavoro, io e te Michael, ci intrufoleremo attraverso il passaggio che c’è nella tua cella e raggiungeremo la postazione di controllo al secondo livello. Una volta arrivati lì, troveremo la combinazione giusta, però avrò bisogno del tuo aiuto. Purtroppo mi sa che dovremmo saltare la cena.
  • Spiacente di rovinare la tua brillante trovata dolcezza, ti ricordo che la postazione di controllo è costantemente sorvegliata da due guardie che non abbandonano mai il posto neanche per andare al cesso.  -  s’intromise T-Bag.
  • E invece ti sbagli. La postazione rimane vuota ogni tre ore per il cambio dei turni. Lo so perché mi è stato affidato un nuovo lavoro al secondo livello. Di norma le due sentinelle lasciano la postazione alle 17,30 e vengono sostituiti da Wagram e Jefferson fino alle 20,30. Ieri ho notato che i due uomini hanno perso una manciata di minuti alla macchinetta del caffè che c’è in fondo al corridoio, e data la risaputa dipendenza di Jefferson per la caffeina, credo che quella sia ormai un’ordinaria abitudine per la nostra guardia. Questo significa che la postazione resterà scoperta per circa 8-10 minuti, durante i quali noi potremmo agire indisturbati.
  • E tu pensi che sia possibile provare una serie di combinazioni e individuare quella giusta in dieci minuti?  -  sospirò scoraggiato Abruzzi, facendo ricadere le braccia lungo i fianchi.  -  Stiamo parlando di un codice che avrà… quante cifre?...
  • Nove.  -  rispose pronto Michael.
  • Nove cifre.  -  ripeté l’uomo scuotendo il capo.  -  Le probabilità che tu riesca ad indovinare quel codice sono praticamente nulle, anche se avessi a disposizione una giornata intera.
“Rieccoci di nuovo a sottovalutare la piccola Gwen”.
  • Non ci sarà bisogno di indovinarlo e dieci minuti saranno più che sufficienti.  -  replicai, sicura di me.  -  Voi preoccupatevi di prepararvi per bene. Per quanto mi riguarda, farò il possibile perché il mio amico Lincoln esca da qui stasera stessa. Non illudetevi che mi importi qualcosa di nessuno di voi. Recupererò quel codice solo ed esclusivamente per aiutare Lincoln!
Altro che chiarire le cose. Pronunciare quell’ultima, infelice frase era stato come gridare in faccia a Michael che di lui non m’importava nulla, ma non era vero.
Il bacio tra Michael e Sara continuava a bruciarmi e come se non bastasse, stavo nuovamente rischiando la mia libertà per quel gruppetto di delinquenti. Ero proprio un’irresponsabile. Mancava solo una settimana alla mia scarcerazione. Avrei dovuto andare a preparare i bagagli e non mettermi a giocare alle evasioni.

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Capitolo 28
*** Il bacio che aspettavo ***


  • Non posso credere di essermi proposta di mia spontanea volontà per questa impresa folle.  -  bofonchiai tra me e me, mentre percorrevo insieme a Michael una serie infinita di gallerie buie e strette che avrebbero dovuto condurci fino al secondo livello.  -  A volte penso che un paio di sedute da un bravo strizzacervelli non potrebbero farmi che bene… voglio dire, non è del tutto normale questa perenne propensione a cacciarsi nei guai, giusto?
  • Mi dispiace di averti coinvolta.
  • E’ proprio questo il punto. Tu non mi hai coinvolta, ho fatto tutto da sola. D'altronde sono così pratica ormai nel darmi la zappa sui piedi che riesco persino ad ignorarne il dolore.
Michael continuò a camminarmi a fianco e ad annuire, mentre bofonchiavo parole a vanvera per nascondere il nervosismo che mi dava la sua vicinanza.
Da quando ci eravamo infilati attraverso il passaggio nascosto all’interno della sua cella, il ragazzo si era fatto stranamente silenzioso, tanto che ad un certo punto avevo avuto la sensazione che, oltre ad essere preoccupato per l’imminente evasione, Michael fosse anche un pochino teso.
  • Gwen, non è che voglia dubitare delle tue capacità ma… sei sicura di riuscire a scoprire la combinazione giusta? Lo sai che stiamo rischiando grosso, vero?
  • Si Michael, lo so!  -  Ero in piena modalità broncio e stavo irradiando disapprovazione come un isotopo letale. Dovevo calmarmi.  -  Senza questo codice non potrete evadere e tuo fratello rischierà la vita, ma diamine, tra una settimana dovrei essere fuori da Fox River. Dovrei essere in cella a pianificare il mio futuro e invece sono qui sotto a rischiare la pelle e altri 5 anni di prigione assicurati, perciò si Michael, stiamo tutti rischiando grosso.
  • Perché ti sei proposta se non volevi farlo?
  • Perché tengo a Lincoln.  -  “E a te, idiota!”
  • Quindi riuscirai a …
  • Sta tranquillo, avrai il tuo codice.  -  lo liquidai secca.
  • E come?
Era piuttosto chiaro che Michael avesse bisogno di una spiegazione per essere rassicurato, mentre io volevo solo finire al più presto il lavoro e tornarmene nella mia cella, al sicuro. 
  • Cercherò di accedere al sistema operativo del server. In questo modo, nel giro di un minuto avrò accesso ai dati memorizzati. Il sistema registra tutti i dati inseriti in ogni singolo computer presente e funzionante all’interno del penitenziario. Con ogni probabilità ci troveremo anche il codice di sicurezza dell’infermeria. -  spiegai.
  • Fox River è una struttura pubblica statale. Come farai ad accedere al loro server?
  • Mi è già capitato di fare cose simili.
Michael alzò gli occhi al cielo.  -  Chissà perché lo immaginavo.
 
Arrivati nelle vicinanze di una scala, il ragazzo mi invitò a salire per prima perché potessimo raggiungere il livello superiore. Se il tatuaggio ci aveva indicato la direzione giusta, in cima alle scale avremmo dovuto percorrere solo un lungo corridoio prima di raggiungere l’entrata per il secondo livello. Da lì, solo altri 50 metri ci avrebbero separati dalla postazione di controllo.
  • Siamo arrivati, ecco la porta.  -  dissi indicando una piccola porta in ferro.  -  La postazione dovrebbe trovarsi sulla destra, in fondo al corridoio.
Aprimmo piano la porta e dopo esserci assicurati che la via fosse libera, sgattaiolammo fuori, strisciando con le spalle al muro come ladri.
Avevo i nervi a fior di pelle e continuavo a guardarmi le spalle per paura che qualcuno potesse scoprirci all’improvviso e dare l’allarme.
Evidentemente il cielo volle assisterci, perché arrivammo alla postazione di controllo proprio mentre le due guardie stavano uscendo e così riuscimmo ad infilarci dentro senza essere visti da nessuno.
  • Un gioco da ragazzi, eh?  -  esclamai sarcastica.
  • Non perdiamo tempo. Da questo momento, calcolerò esattamente 8 minuti entro i quali dovrai fare questa portentosa magia e trovare il codice, così ci resteranno due minuti di scarto per tornare al condotto, quindi sbrigati.
  • Ma che pretese!  -  brontolai, sedendomi davanti al computer per cominciare a picchiettare sui tasti in rapida sequenza.
Avevo violato i server di moltissimi computer insieme a Meredith quando si era trattato di dover accedere a delle informazioni riservate che ci permettessero di risolvere casi investigativi, o semplicemente di saziare le nostre contorte curiosità. Io sapevo esattamente cosa fare, il problema era che non avevo tempo per fronteggiare gli imprevisti. Otto minuti non sarebbero mai bastati.
  • Gwen, il tempo stringe. A che punto sei?
  • Purtroppo il sistema di sicurezza del server è attivo. Mi servirebbe molto più tempo solo per riuscire ad individuare la password e accedervi.  -  risposi, continuando ad aprire e chiudere finestre interattive sullo schermo che confermavano esattamente ciò che già sapevo: il piano A era fallito.
  • Che significa? Puoi trovare il codice?  -  mi chiese con voce bassa e venata d’ansia.
  • Ci sto provando!
  • Gwen… mancano 4 minuti!!
  • Rilassati, lo so benissimo.
  • E allora che cosa fai ancora lì? Dobbiamo andarcene.
  • Ma non abbiamo ancora il codice.
  • E come pensi di trovarlo se hai appena detto che c’è una password di sicurezza?
  • Nel modo più classico che esista a questo mondo: tirando ad indovinare.
Chiunque altro al posto di Michael sarebbe come minimo andato nel panico, ma lui no, rimase fermo sulla soglia a controllare che nessuno comparisse all’orizzonte. Certo, non potevo vederlo perché ero seduta di spalle, però potevo sentire tutto il suo nervosismo. Immaginavo le vene del suo cervello gonfie e pronte ad esplodere, anche se non avrebbe mai e poi mai dato a vederlo.
  • Gwen dobbiamo andare, le guardie saranno qui a momenti.
  • Ci sono quasi.
Stavo provando alla velocità della luce tutta una serie di combinazioni a 9 cifre, ma il display continuava a segnalare in rosso la parola “Errato”, eppure io sapevo che doveva essere una di quelle, ne ero certa.
  • Così rischiamo di farci scoprire!
All’improvviso la scritta verde sul display confermò la validità della combinazione. Riuscii a trattenere a stento un urlo di vittoria.
  • Ecco il codice… finalmente! 280891321
Michael si avvicinò, fissando il display ad occhi sgranati.  -  Sicura che sia quello giusto?
Sorrisi soddisfatta.  -  Ci puoi scommettere la tua evasione, e adesso andiamocene prima di mandare tutto in fumo.
 
Ci precipitammo insieme verso l’uscita e prima di mettere un piede fuori in cortile, ci assicurammo che in giro non ci fosse nessuno. Questa volta però non fummo ugualmente fortunati. In fondo al corridoio, Wagram e Jefferson stavano avanzando proprio nella nostra direzione. Non potevamo uscire senza che le due guardie ci vedessero e non c’era posto per nascondersi. Eravamo spacciati.
Tutto il mio sangue freddo andò a farsi benedire alla vista delle due guardie che si avvicinavano inesorabilmente.
  • Che facciamo?... Che facciamo? Che facciamo? Che facciamo?!
  • Calma. Arrampichiamoci nel condotto di aerazione.
  • Cosa?!
Michael mi convinse a non perdermi in chiacchiere, quindi mi affidai completamente al ragazzo che sembrava sapere il fatto suo. Fu il primo ad arrampicarsi. Con vera maestria, tolse la grata del condotto. Facendo forza sulle braccia si tirò su, infilandosi dentro come un gatto, poi quando arrivò il mio turno, mi aiutò a fare lo stesso. Sistemò la grata nell’esatto secondo in cui le guardie entrarono nella stanza e fummo salvi.
Ero sicura di aver visto una scena molto simile in un film, forse Mission Impossibile o roba simile.
Non avrei voluto ripetere quell’esperienza mai più. Non ero in grado di gestire un flusso di adrenalina così forte. Avevo ancora il cuore che mi batteva all’impazzata e le mani tremanti. Se non ci fosse stato Michael a tenere sotto controllo i nervi di entrambi, probabilmente io mi sarei già lasciata sopraffare dal panico e fatta catturare.
  • Tutto bene?  -  mi chiese il ragazzo qualche minuto dopo, ormai al sicuro tra le gallerie nascoste del penitenziario.
Bene un accidente! Mi sentivo come se tutta l’aria nei polmoni si fosse vaporizzata.
  • Si… credo. Ci credevo spacciati. Io me la cavo con i codici, con i numeri, ma non sono fatta per le fughe rocambolesche e le situazioni ad alta tensione.
Sorrise.  -  Te la sei cavata bene invece e a proposito, sono curioso di sapere come hai fatto a scoprire il codice. Credevo non potessi accedere al server per via della password.
  • Per questo ho messo in atto il piano B.
  • Tirare ad indovinare? Era questo il tuo piano B?
  • Non ho tirato ad indovinare a caso.
Mi lanciò un’occhiata perplessa.  -  Ah no?
  • Noo. Sapevo già su quali numeri puntare. Quando il tuo cervello è in grado di memorizzare una quantità illimitata di dati, risolvere questo tipo di problemi è relativamente semplice. Solitamente i codici dei sistemi di sicurezza vengono affidati a coloro che si occupano della supervisione. Prendiamo il codice di sicurezza a protezione dell’infermeria. Si potrebbe pensare che sia il personale medico ad averlo formulato, proprio perché passa gran parte del suo tempo in quella sezione, o che al massimo sia stato deciso dal direttore perché è il capo, invece no. In caso di qualsiasi emergenza, la responsabilità di sbloccare il codice dev’essere di chi supervisiona la sala di controllo ed è per questo motivo che è a loro che viene affidato il compito di scegliere le password.
  • Certo, in questo modo se subentrasse un’emergenza le guardie non rischierebbero di dimenticare le password, essendo stati loro ad inventarle.
  • Esatto. Il più delle volte chi sceglie una password, digita un nome o dei numeri facili da ricordare per evitare di dimenticarli col tempo.
Adesso Michael mi guardava impressionato. -  Come sai tutte queste cose?
  • Credevo di avertelo già detto, il mio patrigno possiede un’agenzia investigativa. Io e sua figlia ci siamo occupati spesso di fare ricerche per conto suo o per conto degli stessi clienti. E’ stata Meredith ad insegnarmi tutti i trucchi del mestiere e come vedi, a seconda dei casi possono tornare davvero utili.
  • D’accordo, fin qui ci sono, ma come hai fatto ad indovinare la password esatta? Voglio dire, un conto è sapere come funziona lo standard di scelta di un codice e come accedere al server di un sistema operativo, un altro è indovinare 9 cifre su miliardi di possibilità in una manciata di minuti.
  • No se conosci chi ha inventato la password.  -  risposi con una scrollata di spalle molto poco modesta. -  A dire la verità, temevo che il server potesse essere protetto da una password. Sarebbe stata una fortuna sospetta non trovare alcun impedimento e, se c’è una cosa che ho imparato da quando vi conosco, è che voi vi portate dietro una sfiga della madonna… non ti offendere, ma siete una iettatura colossale! -  Non replicò. Evidentemente era d’accordo con me.  -  Per questo mi sono premunita. Prima del turno di lavoro, ho telefonato alla mia adorabile sorellina e le ho chiesto di raccogliere quante più informazioni possibili su Wagram e Jefferson e di farmele avere prima della fine del turno. Dopodiché mi sono limitata a prendere in rassegna tutte le informazioni che avevo sui due uomini e a tradurli in numeri. Jefferson, per esempio, è il classico boyscout, tutto casa e famiglia. Voleva fare l’avvocato, ma ha dovuto ripiegare come vigilante notturno e poi ha ottenuto il posto di guardia carceraria vincendo un concorso. E’ stato relegato alla postazione di controllo solo perché se la cava coi computer. La sua più grande passione, oltre all’hockey su ghiaccio, è la figlia Renè. E’ stato facile scoprire le prime sei cifre del codice. Jefferson ha utilizzato la data di nascita della figlia: 28-08-91. Le ultime tre cifre invece mi hanno fatto penare. Ero sicura che riguardassero John Wagram, ma non riuscivo ad individuarle. Quell’uomo ha una storia piuttosto contorta. Si è sposato 3 volte, è diventato guardia carceraria dopo essere stato bocciato all’esame per diventare poliziotto, ma aveva una fifa assassina di passare le sue giornate tra i detenuti, così è stato spedito al secondo livello a far compagnia a Jefferson. Il primo divorzio gli è costato un occhio della testa, circa 32.000 $, senza dimenticare i 1000 dollari che Wagram continua a pagare di arretrati alla sua seconda moglie Darla… ed ecco i restanti tre numeri: 321. Povero Wagram, quei soldi devono bruciargli parecchio se ha deciso di comporci un codice di sicurezza.
 Adesso Michael aveva proprio l’aria di voler dire qualcosa, ma di non riuscire a trovare le parole.
  • Il modo in cui hai recuperato la password è… beh, è… inverosimile. Hai elaborato informazioni su due perfetti sconosciuti e ci hai costruito un codice che, casualmente, si è rivelato quello giusto. E’ incredibile. Che cosa sarebbe successo se al posto della data di nascita della figlia e le cifre delle spese di divorzio, Jefferson e Wagram avessero scelto come codice il loro numero di matricola o il numero civico di residenza?
Gli sorrisi sfacciata.  -  Avrei impiegato qualche tentativo in più, ma ci sarei arrivata.
  • Tu sei davvero incredibile… tu sei… così…
  • Simile a te?  -  lo precedetti, prendendolo in contropiede.
Spiazzato da quelle risposta, Michael mi fissò improvvisamente turbato.
  • Ovviamente conosci la mia scheda clinica.  -  constatò alla fine.  -  Hai raccolto informazioni anche su di me e Lincoln, non è vero?
Non ero sicura di come avrebbe reagito alla verità, ma al punto in cui eravamo non potevo più mentirgli. Non volevo.
  • Si, l’ho fatto.
Annuì tenendo lo sguardo dritto davanti a sé.  -  Quindi quando ti ho raccontato la storia della mia infanzia, sapevi già tutto. Hai fatto solo finta di interessartene?
  • No, a dire il vero non conoscevo i dettagli, ma conoscevo già la vostra storia.
  • E perché non me l’hai detto?
  • Perché non volevo che pensassi che mi stessi approfittando di voi. Quando sono arrivata a Fox River, l’unica cosa che mi importava era vendicarmi di coloro che mi avevano spedita qui dentro, e siccome sapevo che la vicenda di tuo fratello coinvolgeva da vicino il vicepresidente Reynolds, ho pensato di…
  • … diventare amica di Lincoln per ottenere informazioni.  -  mi precedette lui.
Era arrabbiato, glielo leggevo in faccia.
Ormai eravamo giunti in prossimità delle scale che ci avrebbero riportati al primo livello. Stavo cercando disperatamente una buona giustificazione da dargli prima che fosse troppo tardi, ma non mi veniva in mente niente di appropriato. Ok, non era stato un comportamento proprio etico prendere informazioni su di lui e sulla sua famiglia, però alla fine glielo avevo detto, no? E poi ormai che potevo farci? Io ero fatta così ed ero solita fare quel genere di cose.
Per il breve tratto della discesa, né io né Michael aprimmo bocca. Arrivati al primo livello, riprendemmo a camminare l’uno di fianco all’altra.
  • E dai, dì qualcosa…  -  lo esortai, sentendomi profondamente in colpa.
  • Cosa vuoi sentirti dire?
Meglio tastare il terreno.  -  Sei molto arrabbiato?
  • Sono confuso, non arrabbiato. Non capisco perché tu abbia finto con me, credevo avessi imparato a fidarti.
  • Infatti mi fido. Credi che metterei a repentaglio la mia libertà se non fosse così? Ho raccolto informazioni su Lincoln prima di entrare a Fox River e quando ho scoperto che anche tu eri stato rinchiuso qui dentro, ho chiesto al mio patrigno di recuperare quante più informazioni possibili anche su di te. Mi dispiace… credo sia colpa dell’abitudine. Quando ho tutte le informazioni in mio possesso, ho il pieno controllo della situazione e riesco a gestire meglio gli imprevisti. Tu dovresti capire meglio di altri. Hai progettato quest’evasione studiando ogni minimo dettaglio, ogni forma, ogni imprevisto… certo, ogni tanto ti perdi in errori dilettanteschi, ma quello che importa è che sei riuscito a progettare tutto questo con le tue sole forze.
  • Errori dilettanteschi?  -  mi chiese confuso, aggrottando la fronte.
  • Mi riferisco a Tweener. Come ti è saltato in mente di includerlo nell’evasione?
Rispose senza nemmeno rifletterci, come se fosse una cosa ovvia.  -  Era nei guai, aveva bisogno di una mano. Per questo l’ho preso nel gruppo.
  • E non ti ha insospettito nemmeno un pochino il fatto che Bellick abbia scoperto il buco nella stanzetta delle guardie subito dopo che tu hai deciso di raccontare a Tweener dell’evasione?  -  Il ragazzo continuò a camminare al mio fianco senza rispondere.  -  Michael, è chiaro come il sole. E’ stato Tweener a spifferare tutto a Bellick.
  • Lo so.
La sua risposta mi lasciò di sasso.  -  Lo sai?!
  • Certo. So che è stato lui, ma in ogni caso siamo pronti. Se Bellick non avesse scoperto il passaggio forse ce la saremo presa più comoda, ma avevamo comunque intenzione di evadere a breve.
  • Non stasera però, e comunque a me non sembra che siate pronti. Tu non hai ancora recuperato la chiave dell’infermeria, Lincoln è sempre in isolamento, sorvegliato 24 ore su 24, e Charles è addirittura ferito. Non dirmi che non te ne sei accorto. Oltre a rischiare la vita, finirà per rallentarvi o peggio, farvi scoprire. E vogliamo parlare di Abruzzi e T-Bag? E’ da quando John è tornato che quei due non fanno altro che puntarsi come animali. Sembra non aspettino altro che il momento giusto per sgozzarsi a vicenda.
  • Si comporteranno bene, almeno fino a dopo l’evasione.
Quel suo atteggiamento forzatamente calmo non faceva altro che triplicare la mia angoscia. Ero convinta che Michael stesse sottovalutando i criminali che aveva deciso di trascinarsi dietro.
Sapevo che ormai fossimo giunti in dirittura d’arrivo e che non si potesse più tornare indietro, ma troppa fiducia nella divina provvidenza li avrebbe fatti ammazzare. Temevo che qualcosa potesse andare storto e che qualcuno si facesse male.
Ormai eravamo quasi arrivati nelle vicinanze dell’ultimo corridoio, quello che ci avrebbe portati fino alla cella 40. Una volta arrivati, io avrei dovuto salutare Michael e dirgli addio. Alle 7 in punto le nostre strade si sarebbero divise per sempre e quel pensiero mi metteva addosso un’infinita tristezza. Ormai avevamo esaurito tutti gli argomenti di cui parlare. Restavano soltanto quelli imbarazzanti e quelli troppo deprimenti. Il silenzio ci accompagnò per secondi che parvero infiniti.
  • Hai intenzione di chiedermelo?  -  mi domandò all’improvviso.
  • Che cosa?
  • Il motivo per il quale ho baciato Sara. Hai intenzione di chiedermelo o no?
Eccolo, il colpo basso che mi ero aspettata era arrivato. Era assodato che prima o poi avremmo affrontato quell’argomento, ma non mi ero aspettata di doverlo affrontare nel bel mezzo delle gallerie sotterranee di Fox River.
Avrei voluto chiederglielo eccome, ma ammetterlo sarebbe stato troppo imbarazzante.
  • Non mi interessa.  -  mentii.  -  E comunque la cosa non mi riguarda.
  • Hai ragione non ti riguarda, però ieri ci hai visti, dopodiché hai cercato di evitarmi per tutto il giorno.
  • No, non è vero.  -  “Mentire Gwen, mentire fino alla tomba!”
Michael ruotò gli occhi verso di me.  -  Avresti continuato ad evitarmi se oggi non mi fossi avvicinato a te negli spogliatoi, così ho pensato che magari volessi una spiegazione.
  • Sbagliato. Non voglio nessuna spiegazione e tantomeno m’interessa. -  Cercai di mantenermi impassibile, ma i miei muscoli stavano già fremendo sotto il suo sguardo penetrante.  -  Chi baci non è certo un mio problema, è che lì sul momento sono rimasta… spiazzata. Non era mia intenzione evitarti, figuriamoci… perché avrei dovuto?
Stavo delirando. Decisamente.
  • No… non ti ho evitato…  -  continuai imperterrita.  -  …comunque non volevo evitarti… si beh… e va bene, ti ho evitato di proposito, lo ammetto.
  • Incespichi con le parole e a volte ti contraddici quando sei imbarazzata, lo sapevi?  -  esclamò, rivolgendomi di colpo il sorriso mozzafiato alla Michael Scofield, quello che faceva terra bruciata intorno.
Inconsciamente portai una mano sulla mascella per assicurarmi che non mi fosse scivolata a terra.
Ok, era ancora attaccata. Ottimo.
  • Non avrei dovuto evitarti.
  • No, non avresti dovuto perché non ce n’era ragione. Ho baciato Sara per…
  • Michael, non mi devi alcuna spiegazione.
Per fortuna il ragazzo non mi diede retta.  -  Ho baciato Sara per prenderle la chiave dell’infermeria. Volevo rubargliela, ma poi all’ultimo minuto non me la sono sentita. Sara è stata sempre molto gentile con me e con mio fratello. Ha cercato di aiutarmi, di aiutare Lincoln… non potevo prenderla in giro. Sapevo che lei teneva la chiave nella tasca del camice e volevo prendergliela mentre la baciavo, ma non l’ho fatto… e poi sei arrivata tu e hai rovinato i miei piani.
  • Scusa tanto se ho rovinato l’idillio.  -  sbuffai piccata.
  • No, hai capito male. Avevo già deciso di non prenderle la chiave, quindi volevo raccontarle la verità per convincerla a cedermela di sua spontanea volontà, ma poi sei arrivata tu e dopo che hai richiuso la porta lei è andata via. La mattina dopo Bellick ha scoperto il buco, così per affrettare i tempi ho deciso di chiedere aiuto a Nika.
  • Tua moglie?
  • Si. Le ho chiesto di incontrare Sara in privato e sottrarle le chiavi dell’infermeria senza destare sospetti. Nika ha fatto quello che le ho chiesto, ma Sara deve avere intuito qualcosa. Forse ha collegato l’improvvisa scomparsa delle chiavi con l’incontro con Nika. Sta di fatto che, dopo quell’episodio, ha chiesto di far cambiare la serratura alla porta dell’infermeria e ha fatto in modo che il codice dell’allarme scattasse ogni qual volta la porta venga chiusa, piuttosto che alla fine del turno serale com’è sempre stato.
  • Quindi è colpa tua!  -  esclamai, bloccandomi di colpo. Finalmente capivo molte cose.  -  Ecco perché la sicurezza attorno alla stanza dell’infermeria è aumentata così improvvisamente… oddio, mi dispiace… ho completamente frainteso. Io credevo…  -  Situazione imbarazzante di nuovo in arrivo!  -  … si beh… questo significa che tra te e Sara non c’è niente, giusto?
Il sorriso di smentita che apparve sul suo viso riuscì magicamente a sciogliere il grosso masso che fino a quel momento si era depositato sul mio cuore. Non potevo credere di essere stata tanto male per quello stupido bacio. Ne avevo fatto un dramma e invece per Michael non aveva significato nulla. Dio, come mi sentivo sollevata!
Mentre continuava ad osservarmi e sorridere, mi resi conto che dovesse essere piuttosto evidente il sollievo disegnato sulla mia faccia, ma con tutta la buona volontà non avrei saputo come nasconderlo. 
  • Insomma… adesso come pensi di impadronirti della chiave?  -  continuai, affrettandomi a cambiare discorso.
  • Prima che iniziasse il turno sono tornato da Sara. Le ho raccontato tutto e alla fine le ho detto quel che abbiamo intenzione di fare.
Quasi soffocai ingoiando la mia stessa saliva. -  Le hai raccontato della fuga?!  -  Il ragazzo annuì come se avesse appena ammesso di aver cambiato taglio di capelli.  -  Hai vuotato il sacco con la dottoressa e poi mi hai aspettata nella tua cella  come se nulla fosse, consapevole che sarebbe potuta correre a spifferare tutto a Pope? Michael!!!  -  urlai, percependo il panico in agguato.
  • Non c’è da preoccuparsi…
  • Non c’è da preoccuparsi??!  -  sbottai ad occhi spalancati.  -  Tu te ne stai qui a passeggiare qui sotto quando in superficie le guardie potrebbero già essersi appostate nella tua cella coi fucili puntati, in attesa di vederci riemergere.
  • Non dire sciocchezze, il piano non è ancora diventato di dominio pubblico.  -  rispose perfettamente rilassato.
Io ero quasi sull’orlo di una crisi di panico, mentre immaginavo la mia libertà andare definitivamente in fumo e lui sprizzava freschezza e autocontrollo da tutti i pori. Ma come diavolo faceva?
  • Come fai ad esserne sicuro?
  • Perché altrimenti sarebbe già scattato l’allarme e puoi scommettere che ce ne saremmo accorti.
Il ragionamento non faceva una piega.
  • Quindi… la Tancredi non ha parlato. Secondo te questo cosa può voler dire?
  • Non lo so. Forse sta considerando la possibilità di aiutarci. O magari vuole solo farci arrivare all’infermeria così da essere colti sul fatto. Non lo so proprio.  -  disse, forzandosi di suonare rilassato.
Quel suo atteggiamento da “Affronteremo ciò che verrà” proprio non lo capivo. C’era troppa carne al fuoco, troppo da perdere per fare dell’inutile sarcasmo. L’esecuzione di Lincoln, la riuscita dell’evasione, 10 anni in più da scontare a testa, tutto dipendeva dalla scelta della dottoressa di fare la cosa giusta. Al posto di Michael, non so se le mie coronarie avrebbero retto.
Eravamo ancora fermi, l’uno di fronte all’altra. Attorno a noi, rumori metallici e nuvole di vapore rendevano quel tugurio ancora più raccapricciante e spettrale, ma a dire il vero non mi importava. Ero insieme a Michael, solo questo contava. Avrei tanto desiderato che quella galleria continuasse ancora per chilometri, così da poter passare altro tempo con lui. Avrei voluto a disposizione più tempo per chiedergli cosa ne sarebbe stato di lui e Lincoln una volta fuori da Fox River se l’evasione fosse andata a buon fine.
Maledizione, com’era difficile lasciarlo andare!

Che stupida ero stata a perdere tante ore preziose a causa della storia del bacio. Michael aveva baciato la dottoressa solo per sottrarle la chiave, così aveva detto… chissà se era la verità. 
  • Senti Michael…
Un’ondata di vergogna s’impadronì del mio viso quando il ragazzo, voltandosi a guardarmi, restò in attesa.
  • … dimmi la verità, tu… cioè… tu sei proprio sicuro di non provare niente per la dottoressa Tancredi?
  • Non ci posso credere. Ci stai ancora pensando?
Avrei voluto cominciare a scavarmi la fossa dall’esatto punto in cui mi trovavo per l’imbarazzo.
  • Rispondimi e basta. Guarda che è una domanda seria.
Rise. -  La risposta è no. Non potrei mai amare Sara perché sono già innamorato di un’altra donna.
 
A quelle parole rimasi impietrita, troppo sbalordita per elaborare una frase razionale.
Quindi Michael era innamorato di qualcuna. Di male in peggio. Vederlo nella stanza dell’infermeria con le labbra appiccate a quelle di Sara era stato già di per sé un trauma, ma ovviamente con tutto quello che era successo avevo totalmente scartato la possibilità che ad attenderlo ci fosse una donna. Una donna fuori da Fox River.
Cercai di non suonare delusa e stridula quando gli chiesi:  -  Il riavvicinamento con tua moglie vi ha fatto rivalutare il vostro rapporto?
  • No, non parlavo di Nika.  -  Mi fissò dritto negli occhi con il suo sguardo spontaneo e tremendamente sincero.  -  Sul serio Gwyneth, come devo fare a farti capire che tu mi piaci?
Dovevo aver accumulato una dose troppo alta di adrenalina, ancora non smaltita del tutto, perché mi sembrava di aver sentito Michael confessare che gli piacevo.
  • A-ah. 
“Trova una risposta un po’ più sensata, idiota!”
  • Io ti piaccio?
“Idiota, idiota, idiota!!!”
 
Annuì, continuando a fissarmi serio.
Che cosa si aspettava che rispondessi? Che cosa potevo dire? Non poteva essere vero, lui era così tremendamente sexy e intelligente e io… no. Ero banale come poche. Come potevo piacergli?
Il mio cervello era appena sprofondato nel caos.
  • Stai parlando sul serio?
  • Perché sei così sorpresa? Gwen, mi sono sentito attratto da te dal primo momento che ti ho conosciuta. Mi è bastato guardarti negli occhi pochi istanti per rendermi conto che c’era qualcosa di speciale in te. E’ stato come un colpo di fulmine. Dal giorno in cui ti ho vista seduta su quella panca in cortile ho sentito il bisogno di conoscerti, volevo la tua compagnia. Non ti conoscevo ancora, eppure era come se una forza invisibile mi spingesse verso di te.
  • D'altronde ero l’unica donna rinchiusa in un intero penitenziario di uomini.
  • Questo non c’entra. Il primo giorno che ti sei seduta a mensa con noi ho provato il desiderio irrazionale di proteggerti. Sapevo che T-Bag ti avrebbe presa di mira come aveva fatto con me, sapevo che gli altri detenuti non ti avrebbero reso la vita facile e non riuscivo proprio ad immaginare come saresti riuscita a fronteggiarli. Però ce l’hai fatta, hai affrontato ogni problema a testa alta, hai sfidato John Abruzzi, hai messo T-Bag al suo posto e sei riuscita a farti rispettare. Non è da tutti quello che hai fatto. Sei una ragazza coraggiosa…
  • No, non è vero.
  • Si invece. Tu sei speciale e il fatto che non te ne renda conto, mette ancora più in evidenza quanto questo sia vero. Tu credi che la tua unica dote sia la memoria, ma non è vero. Sai affrontare ogni situazione senza darti mai per vinta e cerchi sempre di ottenere ciò che vuoi.  -  Le sue dita sfiorarono la mia guancia, provocandomi un brivido.-  Non ho mai conosciuto una persona come te e non riesco a credere di averla incontrata qui dentro.
Dopo quello che avevo appena sentito fu quasi impossibile schiodare gli occhi dall’azzurro meravigliosamente ipnotico dei suoi. Cercai di dare una forma coerente ai miei pensieri, di valutare con razionalità l’ipotesi che Michael potesse amarmi davvero. Ero pazza di quell’uomo che sembrava contraccambiarmi. Quelle parole erano tutto ciò che avrei voluto sentirmi dire, ma allora perché avevo la sgradevole sensazione che qualcosa stonasse?
  • Perché mi stai dicendo queste cose?  -  dissi in tono estremamente serio, evitando volutamente di guardarlo in faccia.  -  Perché adesso?
  • Perché avevo paura che non sarei più riuscito a dirtelo.  -  Sembrava davvero deluso.
  • E per questo hai aspettato l’ultimo minuto?  -  lo accusai con le lacrime agli occhi.
Come aveva potuto pensare che rivelarmi i suoi sentimenti a distanza di un’ora dalla sua evasione potesse farmi sentire meglio? Era già abbastanza dura doverlo lasciare andare, ma pensare a quello che avremmo potuto avere se ci fossimo conosciuti in circostanze diverse, era infinitamente peggio.
  • Gwen…
  • Tu non puoi dirmi una cosa del genere ad un’ora dalla fuga. Diamine Michael, ma come dovrei reagire secondo te?
  • Mi dispiace.  -  rispose sincero, avvicinandosi per abbracciarmi, mentre ignorava i miei banali tentativi di allontanarlo.  -  Vorrei che fosse diverso.
Al sicuro tra le sue braccia, non riuscii più a trattenere l’angoscia accumulata in quei giorni e finii per sciogliermi in lacrime.
Ok, innamorarsi di un detenuto era stato un errore madornale, ma ormai che potevo farci? Non potevo cancellare quello che avevamo condiviso insieme negli ultimi due mesi. Non potevo impedirmi di amarlo e di pensare a lui. 
  • Odio questa situazione.  -  frignai, asciugandomi il viso con la manica della felpa.
  • Beh, io non la vedo così.  -  esclamò, spostandomi quel tanto che gli permettesse di guardarmi.  -  Lo trovo quasi romantico.
  • Ci troviamo nei sotterranei di un penitenziario di massima sicurezza nel bel mezzo del nulla. Mi spieghi che ci trovi di romantico?
Sorrise in modo malizioso.  -  Semplice. Sono del bel mezzo del nulla in compagnia della donna di cui sono innamorato.
 
Il modo in cui pronunciò quelle parole mi lasciò senza fiato. Lentamente, occhi azzurro cielo penetranti in occhi scuri innamorati, Michael strinse il mio viso tra le mani fredde e mi baciò fino a darmi le vertigini. Il cuore prese a battermi così velocemente da rischiare di esplodere. All’improvviso sentii una sensazione di felicità così intensa da riempirmi il petto, la gola, lo stomaco. Non avevo mai provato nulla di simile con nessuno, quell’uomo mi aveva letteralmente rubato il cuore.
Ecco cosa mi era mancato per tutta la vita, ecco perché avevo sofferto tanto, ecco perché avevo avuto la sensazione di vivere come un guscio vuoto. Non avevo ancora conosciuto Michael.
In 24 anni, mai una sola emozione vera aveva davvero toccato il mio cuore. Avevo vissuto come un automa, incapace di prendere parte alla vita. Decidere di lasciare l’Italia era stato come evadere. Ma quel bacio… Dio se ne era valsa la pena! Se tutto quello che avevo fatto, se le decisioni prese avevano in qualche modo contribuito a conoscere quel ragazzo meraviglioso, allora ne era davvero valsa la pena. Michael mi amava, io lo amavo. Per la prima volta sentivo di avere una possibilità, ed era la vita che me la stava offrendo.
  • Wow!  -  esclamai col respiro accelerato, appena ci staccammo l’uno dall’altra.  -  Devo ricredermi. Mai visto posto più romantico!
Rise, ma senza la minima traccia di buonumore.  -  Gwen, vorrei davvero restare con te.
  • Lo so, devi pensare a Lincoln.
  • Se ti avessi conosciuta in un altro momento… in un altro posto…  -  mi accarezzò i capelli, il viso, mentre prendeva tempo per aggiungere il resto.  -  …Sai, ho intenzione di dirigermi verso il confine se questa volta riusciremo ad evadere. Porterò mio fratello fuori dagli Stati Uniti, fino a Panama.  -  Fece nuovamente una pausa.  -  Una volta che saremmo al sicuro, che ne diresti di… insomma, potresti raggiungerci… e magari restare. Solo se lo vuoi anche tu, è ovvio.
Aveva tutta l’aria di essere una proposta. Non sapevo cosa rispondere.
Se la mia razionalità non fosse andata a farsi friggere, avrei considerato più attentamente i rischi che quella scelta, la scelta di amarlo, avrebbero comportato, ma a dire il vero in quel momento l’unica cosa che mi importava davvero era non essere costretta a dirgli addio.
 
Sorrisi.  -  Panama, eh? Non ci sono mai stata.
  • Neanch’io.
Questa volta fui io a baciarlo. Fu un bacio meno inaspettato, ma molto più coinvolgente e davvero poco prudente. Staccarmi da lui, di nuovo, fu un sacrificio enorme ma indispensabile.
La delusione era scomparsa dal suo viso perfetto e bellissimo, lasciando spazio ad un barlume di speranza.
Sarebbe stato bello continuare a passeggiare mano nella mano e strofinarci alle gallerie di Fox River, ma il tempo correva contro di noi, contro Lincoln. Dovevamo sbrigarci a risalire in superficie perché gli ultimi preparativi per la grande fuga dovevano essere ultimati. Tra poco meno di un’ora, alle 19,00 in punto, nove detenuti avrebbero tentato una rocambolesca evasione che, in caso di riuscita, sarebbe entrata nella storia.
 
“Bella prova Gwen, innamorarsi dell’uomo che tra poche ore diventerà il più ricercato d’America!”

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Capitolo 29
*** La fuga ***


Alle 18 e un minuto tutti i detenuti del Braccio A vennero fatti radunare sulla linea gialla di fronte alle celle e contati uno ad uno, prima di essere rispediti ai rispettivi alloggi.

Michael Scofield della cella 40 fu l’unico tra tutti i detenuti che venne raggiunto da una delle guardie e scortato fuori dal Braccio.
Sapevo che il suo ultimo affare irrisolto riguardava Lincoln, ma non avevo la più pallida idea di come avesse intenzione di tirarlo fuori dall’isolamento e farlo arrivare in infermeria.

In attesa dell’ora fatidica, mi ero seduta in terra accanto alle sbarre e avevo lasciato che la mente vagasse tra le flotte di pensieri che turbinavano irrequieti.
Pensavo e ripensavo all’evasione. Alla sua riuscita o al suo fallimento. Bellick e la dottoressa Tancredi ormai conoscevano la verità, un fallimento avrebbe comportato gravi ripercussioni per tutti noi. Ma se invece l’evasione fosse riuscita? Sarei mai riuscita a ricongiungermi a Michael e Lincoln?
I dubbi si rincorrevano nella mia testa, veloci come numeri da bingo.

Per lo più desideravo che tutto filasse liscio e che i miei due amici ottenessero la tanta agognata libertà, ma in certi momenti, ripensando a criminali del calibro di T-Bag e Abruzzi, mi ritrovavo a chiedermi se avessi fatto la scelta giusta nel decidere di aiutare Michael in quell’impresa. E Charles? Era vecchio ed era ferito. Avrei dovuto convincerlo a restare per il suo bene. Stava rischiando la pelle, oltre che di rallentare il resto del gruppo e mandare all’aria l’intero piano calcolato al minuto.
Nessuno poteva sapere come sarebbe finita, cosa avrebbe atteso oltre quelle mura i 9 uomini che tra meno di un’ora avrebbero tentato la fuga.
C’era una sola certezza: conquistata la libertà, non sarebbe stato così facile mantenerla.
La loro non sarebbe più stata una vita, ma un’intera esistenza fatta di diffidenza, sospetto, paura. Sarebbe stato peggio della prigione.

A meno di 5 minuti dall’ora X, Michael venne nuovamente portato in cella, precedendo l’apertura delle porte di uno scarto brevissimo. I detenuti cominciarono a riversarsi fuori e a prepararsi per raggiungere la mensa e andare a cena. Quello sarebbe stato l’ennesimo pasto che avrei saltato.
Sarei corsa su per le scale fino al piano rialzato se non fosse stato per il secondino di guardia poco lontano dalla mia cella. Non potevo rischiare di attirare l’attenzione o farmi vedere accanto alla cella 40 a così breve distanza dall’evasione, altrimenti qualcuno avrebbe potuto ricordarsi di me e collegarmi alla fuga.
Non potevo fare altro che pazientare.
All’interno del Braccio, vedevo fluire la lunga massa indistinta di galeotti verso l’uscita sud e l’unica cosa a cui riuscivo a pensare, oltre ai minuti preziosi che stavo sprecando e che avrei potuto usare per salutare Michael, era che quell’ultima settimana a Fox River senza i miei amici mi sarebbe parsa un’eternità.

Contai esattamente 11 minuti prima che la guardia si spostasse dalle scale per scegliersi un’altra postazione di controllo. Era proprio quello che stavo aspettando. Appena l’uomo mi diede le spalle, sgusciai come una biscia e percorsi velocemente le scale prima di raggiungere il primo piano. Nella 40 era già stato sistemato il lenzuolo a coprire l’entrata, segno che gli otto galeotti avessero già dato inizio alle danze.
Dopo essermi nuovamente assicurata che nessuno in particolare stesse facendo caso a me, scostai il lenzuolo e m’infilai dentro la cella, rapida e circospetta. Improvvisamente 5 paia di occhi preoccupati si voltarono verso l’entrata, tranquillizzandosi solo dopo essersi assicurati di non essere appena stati scoperti. 
  • Cavolo Gwen, volevi farci morire?  -  borbottò Sucre, ritrovando il consueto colorito in viso.
  • Scusate, non volevo.  -  Sorrisi in direzione dell’uomo più bello e anche lui ricambiò, felice di vedermi.  -  I minuti corrono. A che punto siete?
Nella cella, oltre a Michael e Sucre, anche T-Bag, Tweener e Westmoreland stavano attendendo il proprio turno per infilarsi attraverso il varco dietro al gabinetto, così come immaginavo avessero già fatto anche Abruzzi, C-Note e Sanchez.
Vidi sfilare da sotto il materasso del letto a castello un involucro bianco che Michael consegnò a David, e quest’ultimo seguì l’esempio degli altri, seguendoli lungo la galleria oltre al muro. Poi fu il turno di Charles.
  • E’ stato carino da parte tua passare a salutarci. -  esclamò viscido come sempre T-Bag, avvicinandosi a me mentre aspettava che arrivasse il suo turno. -  Devo proprio dirtelo tesoro, quelle gambe e tutto il resto mi mancheranno da impazzire.
“Ecco una persona di cui certamente non avrei sentito la mancanza”.
 
Decisi di comportarmi bene, d'altronde stavo per dirgli addio una volta per sempre. Se per il resto dei miei giorni fossi stata tanto fortunata da non dover più trovarmelo davanti agli occhi, la mia sarebbe stata di gran lunga una vita migliore.
 
Sorrisi sardonica.  -  Ma guarda, e io che per tutto questo tempo ho dato per scontato che apprezzassi tutt’altro tipo di gambe.

Sbuffai quando lo vidi avvicinarsi a me con fare intimo. Di T-Bag non c’era da fidarsi neanche in prossimità delle ultime battute. 
  • Sparisci da qui o giuro che una ginocchiata tra le palle non te la toglie nessuno, e poi voglio proprio vedere come farai ad oltrepassare il muro e correre fuori. 
Ignorando la minaccia intrinseca, mi appoggiò un braccio intorno alle spalle.  -  Oh piccola, a volte sai essere così scurrile. Sono sicuro che ci rivedremo là fuori.
  • Personalmente pregherò perché tu venga preso e rispedito nuovamente in cella. Gli psicopatici stupratori solitamente durano poco nel mondo esterno. Fammi solo una cortesia, prova a non farti prendere nei prossimi 7 giorni. Per il bene della mia salute mentale vorrei non dover rivedere la tua brutta faccia, Theodore!
Il pervertito si stava preparando a controbattere, ma Michael lo bloccò in tempo, mettendogli tra le mani un involucro di stoffa bianca, - probabilmente la tuta bianca che avrebbero dovuto indossare al reparto psichiatrico per confondersi insieme agli altri detenuti e passare inosservati - prima di spingerlo lontano da me, verso il passaggio.
Era arrivato il momento tanto temuto, il momento dei saluti.
  • E così ci siamo.  -  iniziai, a corto di frasi ad effetto.
  • Si, ci siamo.
Michael sembrava amareggiato tanto quanto lo ero io. Era difficile separarsi, soprattutto dopo aver scoperto ciò che ci univa.
  • Sei riuscito a risolvere la faccenda di Lincoln?
Annuì.  -  Dovrebbe già trovarsi in infermeria.
  • Avrei voluto salutarlo.  -  dissi sincera.
  • Lo avrebbe voluto anche lui.
Nel frattempo era arrivato anche il turno di Fernando che mi salutò con un ultimo abbraccio.
  • Va a riconquistare la tua bella.  -  gli augurai.
  • Lo farò.  -  rispose, prima di raggiungere gli altri dall’altra parte.
Infondo Sucre si era dimostrato essere un bravo ragazzo. Auguravo anche a lui di riuscire nell’evasione e trovare la felicità. Doveva essere un ragazzo davvero molto innamorato se aveva rischiato tanto e deciso di evadere a soli 16 mesi dalla sua scarcerazione. Lo ammiravo molto per il suo coraggio.
Rimasti ormai gli ultimi all’interno della cella 40, io e Michael ci scambiammo una lunga occhiata significativa tenendoci per mano.
  • Dai, non perdere tempo. Ogni minuto è prezioso, quindi vai e sta attento.  -  gli dissi con la morte nel cuore.
  • Sta attenta anche tu.
  • Certo. Forza, non fare aspettare Lincoln.
Lo strinsi a me come se fosse l’ultima cosa importante che mi restasse al mondo, come se in quell’abbraccio potessi trattenere una parte di lui con me.
  • Spiagge bianche e palme a perdita d’occhio, ricordatelo.  -  Era il suo modo per ricordarmi che quello non era un addio.
  • Ci rivediamo a Panama, galeotto.
Completati i saluti, anche il ragazzo si inabissò nel buio delle gallerie insieme ai suoi compagni, e quando il gabinetto venne nuovamente risistemato al suo posto, non mi restò nient’altro che tornare di sotto, aspettare e pregare che tutto andasse per il verso giusto.
Per tutta la durata della pausa e dopo, alla successiva chiusura delle celle, mi sembrò di rivivere nuovamente quella sensazione di angoscia mista ad ansia e paura che avevo provato la prima volta che avevo messo piede a Fox River. Rinchiusa tra quelle quattro mura, sola, in mezzo alla peggior specie di criminali esistenti al mondo, mi ero sentita come un pesce fuor d’acqua e avevo finito per raggomitolarmi come un riccio impaurito.
Anche questa volta avevo paura, una paura diversa che non riguardava più me, bensì Michael e Lincoln.
Potevo pregare per loro, potevo desiderare che Lincoln riconquistasse la sua libertà e riabbracciasse suo figlio o che Charles riuscisse a stringere i denti e scavalcare il muro insieme agli altri o che Fernando riuscisse a riconquistare l’amore della sua vita.
Potevo e volevo credere che un giorno io e Michael avremmo avuto il nostro lieto fine, ma in ogni caso io non sarei stata con loro ad assicurarmi che le mie preghiere si avverassero. Non questa volta.

Avevo seguito un percorso parallelo con un gruppo di galeotti male assortiti e inevitabilmente avevo conosciuto più a fondo le loro storie. Avevo condiviso il loro segreto e mi ero lasciata coinvolgere, rischiando di mettere a repentaglio la mia stessa libertà.
Eppure quella sera le nostre strade si dividevano.
Erano da poco passate le 20 quando sentii scattare l’allarme. Nel lasso di un battito di ciglia, Fox River si trasformò in un inferno. Le guardie vennero radunate e armate fino ai denti alla notizia che nel carcere fosse appena entrato in atto un tentativo di evasione da parte di un gruppo di detenuti.
Vidi secondini correre da una parte all’altra e gridare ordini a destra e a manca, mentre i prigionieri chiusi ancora nelle loro celle, gridavano impazziti. L’allarme aveva inevitabilmente fomentato gli inquilini dell’intero Braccio. Ricordavo che una situazione molto simile si era verificata anche durante la rivolta esplosa la settimana dopo il mio arrivo. Anche il quell’occasione era esploso il caos generale.

Ad un certo punto, i detenuti diedero il via ad un vero e proprio circo, lanciando dalle celle di tutto: carta, vestiti, rotoli di carta igienica. Sentivo le loro urla e il costante frastuono provocato dallo sbattere di oggetti metallici, tazze di latta, solo per il puro piacere di fare rumore e tifare per gli ignoti compagni che avevano avuto il coraggio di fare ciò che a loro non era stato concesso.
Per ore le urla e i frastuoni invasero il Braccio A, e c’era da scommettere che anche nel resto del penitenziario fosse esploso il pandemonio.
Le guardie perlustrarono l’intera struttura. Vennero messe a ferro e fuoco le singole celle dei presunti evasi, scoperto il passaggio nascosto dietro il gabinetto della 40. Ricomparve sulla scena anche il povero capitano Bellick, trovato imbavagliato e legato come un salame nel fosso scavato proprio sotto la stanzetta delle guardie, ma del gruppo di uomini che aveva tentato la fuga non si seppe più nulla neanche a notte inoltrata, quando il caos si era ormai affievolito.

L’evasione era riuscita. In giro non si videro più molte guardie a curarsi dei detenuti all’interno delle celle e nessuno passò come di consueto per la ronda notturna, segno che si fossero già riversati fuori dal penitenziario per dare inizio alla caccia.
Nel mio piccolo microcosmo, chiusa nella totale oscurità della notte, immaginai amici e nemici là fuori, correre a perdifiato nel mondo esterno con il battito ultraccelerato e l’adrenalina a mille.
 
“Michael, Lincoln… adesso è tutto nelle vostre mani”.

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