La vita è così...

di _Pulse_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Arrivo inaspettato ***
Capitolo 2: *** I gemelli ***
Capitolo 3: *** Sacrificarsi per i sogni ***



Capitolo 1
*** Arrivo inaspettato ***


1

Arrivo inaspettato

 

Sapete che vuol dire stare in silenzio, con gli occhi chiusi, sentendo il proprio corpo, il battito del proprio cuore e il proprio respiro, magari nell’ombra di una stanzetta illuminata solo da una piccola finestra, nella solitudine? Ecco, lei era così.

Era sdraiata sul suo letto, in silenzio; lei, il suo corpo e la sua musica. La sua mente viaggiava, pensando a mille cose diverse, da quelle più belle della sua vita non proprio uno spettacolo a quelle peggiori. Passava da un argomento all’altro, senza un senso apparentemente logico, ma con una spensieratezza assoluta. Contenta di quello che stava facendo: il niente. A volte le piaceva fare nulla, si rilassava molto e stava lontana da tutto il resto, isolandosi dal mondo.

Il suo corpo, fermo immobile, si rilassava, i muscoli riposavano, mentre la sua mente lavorava senza sosta. Milioni di omini lì dentro si davano da fare per soddisfare un cervello difficile come quello. 

La musica, la musica era quella che le piaceva, le piaceva e la faceva stare bene con sé stessa, era la sua medicina quando le cose andavano di merda, era tutto ciò che le serviva per sopravvivere in un mondo ingiusto come quello, dove le guerre incombevano, l’ecologia non era un granché e le discriminazioni raziali erano ormai sul quotidiano. Lei andava avanti, ma come pochi si caricava sulle sue spalle tutti i problemi del mondo, e soffriva perché non poteva farci niente. Era insofferente verso l’intera umanità, perciò la maggior parte delle volte cercava l’isolamento totale. Meglio soli che mal accompagnati.

 

***

 

Uffa… Che pizza…

Pensò un ragazzino sull’età dei tredici anni, entrato in quella casa, assieme al gemello e alla madre, scortati da una donna, circa dell’età di quest’ultima.

“Ciao Simone! Che bello rivederti!”, aveva accolto la mamma dei gemelli.

“Ciao, anche per me! Come stai?”

Le due donne erano nel salotto, che si scambiavano i convenevoli, dopo due baci sulle guance, con dietro i gemelli che si guardavano e si parlavano solo con gli occhi.

Ma chi ce l’ha fatto fare?

Beh, sicuramente meglio di stare dai nonni!

Il gemello biondo rabbrividì al pensiero delle ramanzine della nonna e a tutti quei pizzicotti sulle guance.

“Sto bene, grazie. Tu, tutto a posto, ti trovo benissimo.”

“Grazie.”

Simone si girò verso i figli con un sorriso e li abbracciò per le spalle, mettendoseli ai fianchi.

“Ragazzi, vi ricordate di lei? No, eravate piccoli…”

“Sì, veramente degli scriccioli! Guardatevi adesso! Come siete cresciuti!” Passò le mani sulle testa ad entrambi, sorridendo.

No! Merda! I capelli no!, pensò il gemello dai capelli corti e mori, accuratamente in piedi sulla testa.

Quella mattina ci era voluto un sacco di tempo perché i capelli rimanessero in quello stato, e ora tutto il suo lavoro era sfumato in un secondo. Tutto per colpa di un’amica di sua madre, che non sapeva nemmeno chi fosse di per sé e quale ruolo avesse avuto nella loro infanzia, sapeva solo che sarebbero stati ospiti, lui e il fratello, a casa sua per una settimana perché loro madre doveva andare via per lavoro.

Avrebbero tanto voluto restare a casa da soli, ma Simone glielo aveva vietato assolutamente, facendo una scenata di quelle che si fanno una volta nella vita: “Voi non rimarrete mai a casa da soli per un’intera settimana! Almeno fin quando non sarete maggiorenni e liberi di uscire da queste mura!

Ma almeno erano in città: loro abitavano in campagna, e odiavano la campagna. Adesso che erano in città, anche se per solo una settimana, non potevano lamentarsi più di tanto. Era l’unica consolazione.

E adesso si ritrovavano lì, con valige al seguito, uno in una situazione piuttosto imbarazzante.

Cercò inutilmente di tirarsi su i capelli, facendo un’espressione buffa con il viso, mezza lingua fuori dalla bocca, come se stesse facendo un’opera d’arte.  Il gemello, vedendo la scena e la faccia del fratello, se la sghignazzava alle sue spalle.

 

***

 

Lei aveva una visione un po’ pessimista della vita, una concezione di essa del tutto differente rispetto ai ragazzi della sua età. Poteva restare giorni e giorni in quel silenzio, in quella sua pace interiore, senza mai uscire di casa, a pensare al senso della vita, perché l’umanità la disgustava in quel modo. Forse la colpa per la sua mentalità differente era dovuta al modo in cui era cresciuta, troppo in fretta, non capendo mai che voleva dire amare la vita.

Ma anche un cervello così evoluto aveva bisogno di energie e, in effetti, aveva un certo languorino.

Si alzò dal letto e si infilò i pantaloncini e una maglietta forse troppo lunga e larga per il suo fisico snello, per questo la usava solo in casa.

Appena uscita dalla sua camera sentì delle voci differenti da quella di sua madre. Avvicinandosi al salotto, le sentì meglio, e ce ne fu una in particolare che la paralizzò del tutto. Non ne sapeva il motivo, ma era così.

Si scosse, riprendendo il controllo del suo corpo, e decise di guardare in sala, anche se aveva uno strano nodo in gola e i brividi. Appena varcò la soglia del soggiorno, si paralizzò di nuovo, vedendo una donna, bella, alta, dai capelli ricci, che parlava accanto alla madre.

Non sapeva chi fosse, ma quella donna fece scattare qualcosa nella sua mente, come un ricordo lontano, sfuocato, in bianco nero, proprio come i vecchi film.

Era la festa del suo compleanno, compiva tre anni. Vide il viso giovane di una bella donna, sorridente, con in braccio due bambini appena nati, identici. Vide sua madre al suo fianco, che la stringeva da dietro, con le braccia intorno al collo, mentre un suo ditino era nella manina di uno dei piccoli. Improvvisamente notte, le urla dei suoi, ancora una volta a litigare, lei che si copriva le orecchie.

“Ehi, mamma! Non ci avevi detto che la tua amica aveva una figlia!”, disse il gemello biondo, nella realtà, prendendo la manica della madre.

“Finalmente! Eccoti! Dove ti eri cacciata?!”, chiese l’altra donna, la madre della ragazza, mettendosi le mani sui fianchi.

Ma lei non la sentì neppure, guardava Simone, completamente impietrita sui suoi passi. Simone, dal canto suo, guardava lei, con le lacrime agli occhi.

Il ragazzino moro si sentì stringere il polso: era la madre che lo teneva, come se volesse sentire qualcuno, per non sentirsi sola. Le due si guardarono ancora un po’, in silenzio, la ragazza, sedici anni appena compiuti, era quasi a bocca aperta, da quanto l’aveva sorpresa quella sua reazione tutt’altro che volontaria.

“Eva…”, mormorò Simone, sull’orlo del pianto, mollando il polso del figlio minore e andando ad abbracciare la ragazza, quasi di corsa.

Eva, era quello il nome della sedicenne, presa alla sprovvista, rimase con le braccia aperte, non capendo ciò che la donna voleva dirle con quell’abbraccio. Quelle braccia che la stringevano forte, le conosceva nel suo inconscio, ma non ricordava. Non ricordava nient’altro oltre a quello che aveva rivissuto nella sua mente come un flashback.

Improvvisamente l’istinto di abbracciare Simone, stringerla, sentire quel profumo dolce che le aveva ricordato casa. Eva si lasciò andare alla salda stretta della donna e ricambiò, mettendogli le braccia intorno al collo.

I gemelli si guardarono: non capivano. Chi era quella ragazza? Perché loro madre sembrava aver ritrovato una figlia perduta? Ma soprattutto, perché quella ragazza sconosciuta abbracciava loro madre? E in quel modo… come se fosse sul serio sua mamma.

Ora, ora che Simone la stringeva, ora che Eva stringeva Simone, Eva era riuscita a ricordare. Aveva sbirciato anche il viso di sua madre, sorrideva e un velo di lacrime luccicava nei suoi occhi scuri. Non la vedeva sorridere da quando Simone, la sua migliore amica, era uscita dalla loro vita, anzi, da quando loro erano uscite dalla vita di Simone, trasferendosi in Inghilterra, per ben tredici anni. Ora erano tornate, di nuovo in Germania, di nuovo da Simone, che, a quanto sembrava, non le aveva per niente dimenticate. Anzi, sembrava aver sofferto molto la loro mancanza in questi anni.

Simone si staccò dall’abbraccio e le prese le spalle, cercando di non piangere, di trattenere le lacrime. Anche Eva aveva quell’istinto di piangere tra le sue braccia, ma non poteva lasciarsi andare, non avrebbe offeso il suo orgoglio per questo. Non piangeva mai, perché avrebbe dovuto farlo in quel momento? Appunto, non lo avrebbe fatto. Così si era imposta.

La donna le accarezzò i capelli, con l’affetto di una mamma, quell’affetto naturale che Eva non aveva mai ricevuto dalla sua di mamma, tutto per colpa di suo padre. Tutto per colpa sua. Forse anche un po’ da quello derivava la sua insofferenza verso il genere umano. In quegli istanti, in quella dolcezza, pensò che ne valeva la pena di vivere solo per le persone come Simone, solo per quelle.  

Appoggiò una ciocca dei suoi capelli lunghi, lisci e biondo scuro sulla sua spalla, sorridendo con amarezza, poi il suo sguardo si posò negli occhi di Eva, impietrita, completamente immobile davanti a lei.

“Eva, lei è Simone, ti ricordi di lei?”, le chiese dolcemente la madre.

Eva non ebbe la forza di rispondere. Simone non ci badò troppo e le prese la mano, la avvicinò ai gemelli.

“Eva, loro sono Bill…”

Bill, il gemello moro, con i capelli (una volta) in piedi, trucco nero sugli occhi e un piercing sul sopraciglio, le porse la mano esibendo un sorriso tipico da bambini.

“Ciao”, disse timidamente, mentre la ragazza gliela stringeva.

Ora era più che sicura che i bambini che aveva in braccio la versione giovane di Simone, nel suo ricordo, erano loro. Due minuscoli bimbi identici, che ora lo erano un po’ meno. L’altro ragazzino, accanto al moro, stese la mano ancora prima che la madre facesse il suo nome.

“Tom, piacere”, la prevenì lui, sorridendo.

Era apparentemente diverso dal gemello, aveva i capelli biondi, al contrario del fratello che li aveva neri, e portava i dreads. Inoltre si vestiva stile hip hop, maglia e pantaloni larghi, non come l’altro, che portava una maglietta attillata nera e dei jeans altrettanto stretti.

Eva fece un mezzo sorriso e alzò un sopracciglio, stringendogli la mano.

Fai l’indipendente, ragazzino?

Avevano entrambi la faccia da ribelli, ma Bill conquistò subito la sua simpatia: sapeva riconoscere ad occhio le persone con le quali poteva avere speranze di comunicazione, ed erano poche.

Bill era una delle poche persone con cui si sentiva in dovere di comunicare espressamente le sue idee, lui sarebbe rimasto ad ascoltarla, ne era certa, e quindi non avrebbe sprecato fiato inutilmente. In più, Bill aveva qualcosa nel suo sguardo, qualcosa di irresistibile, quel misto tra innocenza e mistero. E per concludere era quello tra i due che si vestiva più simile a lei, colori scuri e accessori stravaganti.

“Scommetto che vi divertirete assieme”, disse la mamma di Eva, sorridendo ai ragazzi.

Che vuol dire che ci divertiremo?, si chiese Eva.

Ecco che notò le valigie dei gemelli all’entrata, solo allora l’illuminazione.

Questa… è opera tua, mamma.

Non ne sapeva niente, sua mamma non le aveva detto niente, né dell’arrivo di Simone né dei gemelli e della loro permanenza in casa loro. Il suo umore cambiò all’improvviso, guardò la madre con rabbia. Però si limitò a quello, perché di dare spettacolo anche davanti a Simone non le andava proprio.

Promemoria: litigare con mamma dopo che Simone sia lontana almeno dieci chilometri.   

Quando madre e figlia litigavano lì dentro cadevano le mura, si scatenava la terza guerra mondiale.

“Mi dispiace molto, ma io adesso sul serio devo andare.”

Simone guardò l’orologio al polso e si affrettò a riprendere la borsa e il cappotto che aveva lasciato sul divano lì di fianco.

Come? Di già?, pensò Eva con la tristezza negli occhi, guardandola mentre baciava i figli sulle guance.

“Mi raccomando, fate i bravi, eh”, disse sorridendo.

“Mamma, l’hai fatto apposta vero? Ce l’hai già detto mille di volte!”

“Ma io direi anche duemila!”, concluse Tom con un sorriso.

“Sì, ok, però è meglio saperlo bene che non saperlo.”

La madre di Eva accompagnò Simone alla porta, parlando ancora, e Simone che la ringraziava per tenere i gemelli in sua assenza.   

Bill, Tom e Eva si guardarono per un istante. Ora che li guardava bene, riusciva ad accorgersi che i loro lineamenti dolci e morbidi erano identici e anche i loro occhi nocciola uguali. Quei ragazzini le fecero tornare in mente amari ricordi, ricordi che nemmeno credeva di avere.

Non pensava mai al suo passato e quando lo faceva non andava a pensare a due mocciosetti (anche se avevano dell’adorabile, erano pur sempre mocciosetti); aveva affrontato cose ben peggiori e di gemelli non se n’era affatto parlato.

“Ciao ragazzi! Baci!”, Simone soffiò dei baci nel salotto, sorridendo e scappando via.

I gemelli l’avevano salutata con la mano, mentre Eva non aveva fatto proprio un bel tubo. In tutto quel tempo, non aveva detto una sola parola. Era proprio di lei: non sprecava parole e poi non era una chiacchierona. Pure con i pochi amici che aveva parlava poco o niente.

“Eva, vuoi renderti utile nella società? Ecco, ne hai l’opportunità: sistema le valigie di Bill e Tom e falli accomodare. Mica vuoi farli stare in piedi così, no?”, disse la madre di lei, sorridendo.

Eva non sapeva proprio come prenderla: era incazzata con lei, non le aveva detto che avrebbe dovuto condividere casa con due ragazzini, i figli di Simone, una delle persone a cui si era accorta di tenere di più al mondo (che erano già poche), eppure, vedendo la sua gioia, quel suo sorriso che era mancato per troppo tempo sul suo viso, non riusciva a litigarci e ad esserci incazzata fino in fondo.

Eva si lasciò scappare un sorriso, che nascose subito tra le labbra, e andò all’entrata per prendere le valigie dei gemelli.

“Ma va’, lascia stare, facciamo noi. Tu dicci solo dove dobbiamo metterle”, era intervenuto Bill, bolccandole il polso della mano che già aveva preso il manico di una borsa.

Eva lo guardò in viso, stupita dalla sua gentilezza. Ogni minuto che passava si affezionava sempre più a quel bambino, non sapendo nemmeno un motivo sensato.

“Ma che gentile! Si vede che tua madre è Simone. Beh, visto che si era decisa a fare qualcosa nella sua giovane vita, lascia portare a lei ormai quella valigia”, intervenì ancora sua madre.

Ancora una presa in giro verso Eva e lei che non riusciva a risponderle, sarà stato per il suo sorriso contento, sarà stata per la presenza dei gemelli, ma non ci riusciva.

“Ok, va bene. Dai Tom, dacci una mano pure tu, no? O vuoi fare la bella statuina?”, gli chiese Bill, sogghignando.

Altro punto in favore di Bill assegnato da Eva, che sorrise. Prese una valigia dal mucchio e la tirò su, portandola poi con sé in mezzo al corridoio, per poi tornare indietro.

“Scusa mamma, ma dove mi avevi detto che dormivano? Non me lo ricordo… Sai come sono, le cose che mi dici entrano da una parte ed escono dall’altra.” Le prime parole di Eva in presenza dei ragazzini.

“Che bella voce!”, urlò Bill, tappandosi la bocca con la mano, arrossendo, quando notò che tutti lo stavano guardando, compresa Eva, alla quale era rivolto il complimento.

“Grazie ragazzino!”, disse Eva, con un sorriso.

Stava per sfregargli la testa, Bill era già pronto con gli occhi chiusi e i denti stretti per non urlare bestemmie, ma lei si fermò.

“Ehi, non ti rovino i capelli, non ti preoccupare.”

“Per quello che possono essere ancora rovinati…”, aggiunse il fratello facendo un gesto con la mano e sorridendo.

La madre di Eva, intanto, era uscita dalla cucina, ma non aveva ancora risposto alla figlia.

“Allora mamma? Dove hai detto, a me, che li mettiamo?”, chiese, ancora insistendo sul verbo “dire”, cosa che sua madre non aveva fatto.

“Ehm… sì. Sul divano letto. Le valigie portatele in camera tua, ok?”

“Ok”, disse facendo il segno con la mano.

I tre portarono le valigie in camera di Eva. Bill, appena entrato, non risparmiò a nessuno la sua meraviglia e la rese pubblica senza problemi.

“Questa camera è stupenda!” aveva detto, entrando e guardandosi intorno senza fiato. “Wow!”

Le pareti erano colorate di un viola tenue e c’erano poster dei Green Day e dei Placebo attaccati su tutta una parete e sulla porta. Il letto a baldacchino era in mezzo alla stanza, ricoperto da stupende lenzuola e piumoni neri a scheletri bianchi. Il computer portatile sulla scrivania e sopra una mensola solo di cd e dvd. La televisione invece era alla parete, con sotto anche la play-station. In fondo alla stanza c’era una finestra, che dava direttamente sulla piscina del condominio, deserta in quanto faceva ancora freddo. Dall’altra parte c’era l’armadio a due ante, dipinte da Eva stessa di nero, con attaccato un appendino con un vestito nero, con un fiocco rosso scuro intorno alla vita.

Bill si avvicinò ad esso e accarezzò la stoffa morbida del vestito, con gli occhi brillanti.

“Ti piace?”, chiese Eva, mentre metteva la valigia vicina alla parete.

“Un sacco!”, disse Bill con un sorriso, guardando Eva e il piccolo sorriso che aveva sulle labbra.

“L’ho fatto io”, continuò felice la ragazza. Con Bill era un piacere sorridere, e le veniva anche piuttosto naturale.

“Davvero? È bellissimo.”

“Grazie.”

Anche Tom appoggiò le valigie che aveva in mano accanto alla parete, poi si mise dritto sulla schiena, con le mani sui fianchi, guardandosi intorno.

“Ma te lo metti anche?”, chiese malizioso, guardando dall’alto in basso il corpo della ragazza.

“Sì, qualche problema?”

“No, nessuno, anzi! Comunque non so cosa ci trovi in questa stanza, Bill. È buia!” disse, indicando intorno a lui con la mano.

Bill e Eva lo guardarono: il primo con la faccia seria e la seconda con un sorrisetto strafottente.

“Sì, è buia come l’interno del tuo cranio”, rispose Bill, sorridendo e chiudendo gli occhi al fratello.

Adoro questo moccioso!

Eva non poteva crederci. Non si sentiva così felice da un sacco di tempo, e il motivo della sua felicità era nell’aver trovato una persona, un ragazzino, che la capisse.

“Divertente, Bill.”

“Ragazzi! Venite, è pronta la cena!”, disse la mamma di Eva dalla cucina.

“Menomale, ho una fame!”, disse Tom, mettendosi una mano sullo stomaco.

“Tu pensi sempre a mangiare, è inutile”, Bill sorrise scuotendo il capo e raggiunse il fratello accanto alla porta.

Eva rimase a guardarli, mentre uscivano dalla sua camera, parlando tranquillamente. Bill tornò indietro, accortosi che Eva non era con loro. Sbirciò di nuovo in camera sua con la testa.

“Tu non vieni?”, le chiese, sorridendo.

Eva sorrise al piccolino e lo raggiunse.

 

***

 

Era ora di andare a dormire, i gemelli erano già sistemati sul divano letto, mentre Eva ancora vagava per la sua stanza, in preda a uno dei suoi ragionamenti confusi.

Si fece coraggio ed entrò nella camera della madre, che trovò in un pigiamone rosa. Le venne da ridere, ma la questione che voleva affrontare non era una delle più divertenti, perciò non era il caso.

“Eva, tesoro, che cosa c’è?”, le chiese dolcemente la madre.

La madre le indicò di sedersi accanto a lei, sul letto. Eva si avvicinò piano, come se avesse paura di un contatto brusco con la tenerezza. La spaventava moltissimo. Ci era passata da bambina, avendo tutta la tenerezza del mondo, per poi non avere niente. Non voleva sentire ancora quella sensazione addosso.

Si mise seduta sul letto, a gambe incrociate, di fronte alla madre.

“Volevo parlarti di una cosa.”

Parlavano effettivamente poco. Il dialogo non era sicuramente una “dote” di Eva, perché per lei era proprio una dote, e la madre non l’aveva mai aiutata a parlare con lei dei suoi problemi, su quell’aspetto era mancata. Era mancata in molto da quando nella sua infanzia si susseguivano problemi dopo problemi, e tutti all’improvviso.

“Perché non mi hai detto di Bill e Tom? Di… Simone?”

La madre si incupì, il suo sorriso rimase nascosto nell’ombra mentre parlavano.

“Perché… Eva, io… non sapevo come dirtelo.”

“Come?”

“Avevo paura che ti facesse male rivedere Simone, non la vedevi da tanto, credevo che ti avesse fatto ricordare quando…”

“Mamma…”, la abbracciò.

Si era preoccupata per lei, solo ed esclusivamente per lei. Eva non avrebbe avuto problemi a perdonarla, e non sarebbe nemmeno servita una nuova e frustante litigata.

Il loro rapporto era forte, erano molto unite, ma mancava quel qualcosa che Simone aveva cercato di farle capire: l’affetto. Da quando Simone non c’era più stata per entrambe, avevano perso quell’affetto che doveva venire naturale, da madre a figlia. Erano rare le volte che manifestavano apertamente all’altra il proprio affetto. E di sicuro quelle rare volte non era certo Eva a manifestarlo e a cercarlo. Sbagliava. Sbagliava, e di grosso. Così si allontanava ancora di più dalla madre.

Aveva capito tutto questo adesso, grazie all’arrivo di Simone, dei gemelli, di quello che era successo. Ringraziò il cielo perché Simone fosse di nuovo nella loro vita.

“Grazie, mamma”, sussurrò, lasciandosi cullare dalle braccia della madre, ritornando con la mente agli istanti felici della sua infanzia.

“Prego, cucciolotta.”

“Non mi chiamare così, ti prego.”

“Perché? Ti piaceva tanto quando eri bambina!”, la madre sorrise e le fece solletico in pancia, godendosi fino in fondo la gioia che le regalava la figlia.

“Sai che ti voglio bene, sì?”

“Sì, lo so mamma. Anch’io te ne voglio.”

“E comunque scusa se non te l’ho detto… è che…”

“Fa niente mamma, non ti preoccupare”, le stampò un bacio sulla guancia calda e sorrise.

“Quel coso… Ma non ti da fastidio?”, le chiese, prendendole il viso e accarezzandole il labbro inferiore, dove c’era un anellino argentato di metallo freddo, sull’angolo destro.

“No, lascia stare, dai!”, aveva gridato piano, ridendo e lasciandosi cadere accanto alla madre, sul morbido piumone rosa.

“Mamma…”

“Mmh?”

“Posso dormire qui?”, aveva chiesto Eva, sistemandosi meglio accanto alla mamma, sorridendo e accucciandosi al suo fianco.

La madre le accarezzò la guancia, le rimboccò le coperte, ritornando indietro nel tempo, quando ancora erano una famiglia. Ora erano lei e sua figlia, ma non rimpiangeva nulla, era contenta della sua famiglia: la sua unica figlia.

“Certo, certo che puoi.”

Eva stava già dormendo, il respiro regolare, serena. La mamma sorrise e spense la luce, dopo averle donato un morbido bacio sulla tempia, ricordando l’infanzia della sua bimba, rovinata, purtroppo, volata nel vento. Sogni distrutti, desideri infranti. Per colpa anche un po’ sua, forse.

C’è sempre tempo per rimediare.

 

***

 

“Tomi? Tomi, stai dormendo?”, chiese sussurrando Bill, avvicinandosi al corpo del fratello, nel letto.

“No, perché c’è qualcuno qui che non mi fa dormire”, rispose, mettendosi meglio le coperte fino al collo. Il fratello non aveva detto altro, così si girò verso di lui e sorrise.

“Che c’è Bill? Dai, dimmi tutto.”

Anche Bill sorrise. Si avvicinò di più al gemello e si mise con la testa sotto al suo mento, sentendo il calore del suo corpo, il suo cuore nel petto.

“Che ne pensi di Eva?”

“Eva?”

“Si, Eva.”

“Mmh… Beh… In che senso?”

“Come in che senso? Ti ho fatto una domanda. Che ne pensi?”

“Di sicuro non si può definire una che parla molto… A cena non ha spiccicato una parola.”

“Sì, vero.”

“Poi… che devo dire?”

“Io la trovo simpatica, è forte.”

“Dici questo solo perché ha la stanza buia?”

Bill gli puntò il dito sul petto, mentre le braccia del fratello lo abbracciavano teneramente.

“Primo, quella stanza non è buia. E secondo, no. Non lo dico per quello. Anche se non parla molto, penso che sia una ragazza diversa dalle altre, non so se capisci.”

“Si veste strana come te?”

“No. Ha un qualcosa in più… che ne so.”

“Poche idee e soprattutto confuse, vero fratellino?”

Erano completamente al buio nel salotto. Nella casa regnava il silenzio e sembrava che gli unici svegli nella notte fossero loro, insieme, come volevano essere. Loro e nessun altro.

“Forse.”

“Beh, sai che ti dico? Io la trovo… intrigante. Sì, è l’aggettivo giusto.”

“Dio, Tom, sei sempre il solito!”

“Aspetta. Insomma, non ti viene anche a te la voglia di scoprire com’è? Fa così tanto la silenziosa… la misteriosa, che… boh, che ne so… ti attira. A te no?”

“A te ti attirano tutte, Tom.”

“Perché mi piacciono le ragazze!”

“E che vuol dire?! Anche a me, ma non sono ossessionato come te. Vorrei vederti tra un po’ di anni.”

“E io vorrei vedere te. Secondo me ti fanno Santo. Il Santino Bill…”  

“Piantala Tomi!”

“Ok, ok. Allora sei soddisfatto? Possiamo finalmente dormire?”

“Va bene, ma solo se restiamo così.”

“E va bene…”

Tom mise meglio Bill fra le sue braccia, in modo tale che anche lui fosse comodo, si diedero la buona notte e si addormentarono, insieme, nella notte.


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Nota: Nuova ff (in verità vecchia perchè l'ho scritta un mucchio di tempo fa) solo per voi! Che ne pensate?
Grazie a tutti in anticipo... Vi voglio bene *__*    
 _Ary_

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Capitolo 2
*** I gemelli ***


Nota: Grazie alla mia Socia, ovvero Scarabocchio_ , ti voglio tanto bene!! Quante recensioni mi hai lasciato, sono contenta sì! Eheh.. XD E poi Grazie di cuore anche a niky94 *Non te ne perdi mai una, eh?* Grazie!!
Grazie anche a tutti quelli che hanno semplicmente letto, mi fa piacere!! ^^ Un bacio, Ary

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2
I gemelli

 

Eva si svegliò accarezzata dal tessuto setoso e fresco del piumone, dolcemente, sentendo il profumo della mamma. Aprì gli occhi e non vide nessuno accanto a sé. Si mise seduta di scatto sul letto e si guardò intorno. Vide l’ora sulla sveglia digitale sul comodino. Chiuse gli occhi e appoggiò le mani sulle ginocchia, cercando di rilassarsi.

Cazzo, quanto si fa odiare a volte quella donna. Ma come si fa?! Perché non mi ha svegliata?!  

Si alzò, spostandosi le coperte di dosso, e corse in salotto. Forse una parte della gara riusciva a vederla.

Se è già finita la uccido!

Accese la tv. Senza staccare gli occhi dallo schermo, indietreggiò e si mise seduta in fondo al divano letto.

Non c’era stato nulla da fare. Ormai la gara di scherma era finita. Mancavano pochi secondi. Si alzò di nuovo e andò in cucina. Vide un biglietto attaccato al frigorifero, grazie alla sua calamita preferita: un teschietto che faceva la linguaccia.

“Buon giorno cucciolotta! Sta mattina dormivi così bene che non ti ho svegliata. Mi ha fatto piacere ieri parlare un po’ con te. Grazie. In frigo ci sono le lasagne già pronte, devi solo metterle nel microonde. Mi raccomando, fai la brava e occupati dei gemelli. Ti voglio bene, mamma.”

Eva si diede un ceffone in fronte, chiudendo gli occhi. Come poteva essersene dimenticata? I gemelli.

Ritornò in sala e li vide ancora addormentati sul divano letto, appiccicati.

Ma guarda un po’ te se mi tocca fare da babysitter a due ragazzini…

Prese il telecomando e scanalò un po’ alla tv, con un bicchiere di latte in mano.

 

***

 

Tom si svegliò sentendo il rumore della televisione. Si stropicciò gli occhi e si guardò intorno. Quella non era la sua camera. Si ricordò che erano da un’amica di loro madre.

Vide il fratello accanto a sé, rannicchiato come un gatto. Sorrise e poi buttò l’occhio verso l’orologio appeso alla parete. Le nove e mezza.

Così presto? Che amaro risveglio…

Lasciò che gli occhi si richiudessero, ma poi sentì la sigla dei Puffi alla tv, che gli ricordò subito suo fratello Bill. Era certo che quella fosse stata la prima canzone che aveva cantato in vita sua. Si alzò sui gomiti con il sorriso sulle labbra e quasi non rimase a bocca aperta.

Cosa dicevo? Che era un amaro risveglio? Beh, ritiro tutto! Questo è un dolce, dolcissimo risveglio!

Eva era in piedi, accanto al tavolo, che guardava che c’era in tele a quell’ora di mattina, ancora in “pigiama”. Addosso aveva semplicemente il reggiseno e le mutande, nulla di più e nulla di meno. I capelli biondo scuro che le arrivavano fino in fondo alla schiena, lisci e leggeri.

Tom scosse il fratello accanto a sé, con il sorriso sulle labbra. Bill si rigirò un po’ di volte prima di rispondere al gemello.

“Uhm?”, fu la risposta di Bill ai numerosi scossoni di Tom. “Cinque minuti, mamma.”

“Ma per favore! Bill, svegliati. C’è una cosa che devi vedere assolutamente.” 

“Che cosa?”

“Apri gli occhi e vedrai da te.”

Bill, curioso come un bambino, aprì gli occhi e guardò dove stava guardando Tom. Guardò Eva a bocca aperta, senza riuscire quasi a respirare, mentre il fratello, tranquillissimo, se la mangiava con gli occhi senza subire minimamente alcun effetto.

“Eva!”, disse Bill, riprendendo il controllo di sé, ma senza mandar via l’espressione facciale visibilmente sorpresa.

“Ciao Bill, che c’è? Perché mi guardate così?”, chiese Eva, notando che la guardavano dall’alto al basso. Tom che sorrideva e scendeva e saliva percorrendola tutta, Bill che più la guardava più arrossiva, più arrossiva più cercava di non guardare.

“Dovresti vestirti, sai?”, disse ancora Bill.

“Ma che dici?!” Tom tappò la bocca al fratello, facendolo risdraiare violentemente sul letto. Eva si guardò e si accorse che era praticamente mezza nuda davanti a due tredicenni.  

Perfetto, ci mancavano solo dei ragazzini in fase di pubertà!

Eva sbuffò contrariata a quello che aveva detto Bill.

“Scusa, ma questa è casa mia, perciò se mi va vado in giro anche nuda. Ok?”, rispose al minore dei due.

Tom si illuminò e balzò seduto sul letto, guardandola gioioso, quando ancora Bill si doveva rialzare dal letto.

“Per me non c’è nessun problema!”, disse Tom.

Eva lo guardò sollevando un sopraciglio, con un mezzo sorriso sulle labbra.

Capito il piccoletto? È così che girano le cose con te? Mmh, peccato che tu  abbia solo tredici anni.

Notò subito delle differenze nei due: Tom era quello più intraprendente in tutti i sensi, doveva essere un bel tipo pure con le ragazze; mentre Bill era quello dolce e timido.

Nonostante il carattere fermo e deciso di Tom le piacesse molto, il suo preferito era comunque Bill. Avrebbe tanto voluto innamorarsi di un ragazzo come lui, ma sapeva che non sarebbe mai potuto accadere.

“Ma sei scemo?!”, lo rimproverò ancora una volta Bill.

“Zitto, che è meglio. Una volta che puoi approfittarne… Guarda, quella è una ragazza. Poi vieni a me a chiedermi le cose…”, disse Tom sogghignando.

“So perfettamente da me com’è una ragazza! E non mi ricordo di essere mai venuto da te a chiederti come fossero!”, urlò Bill diventando rosso in viso. Eva, a quel rossore, si addolcì e la preferenza verso di lui continuava a salire.

Bill, puoi venire tranquillamente  a dormire nel mio letto tutte le volte che vuoi, capito?  

Eva si levò pensieri sconci dalla testa, nei quali centrava il piccolo Bill e cercò di distrarsi in qualche modo, andando in cucina a prendere i biscotti. Il suo cervello e la sua dignità si rifiutavano di pensare in quel malo modo, e non voleva nemmeno essere considerata una pedofila, perciò decise proprio di cancellarli dalla testa. Tornò in sala e si mise al tavolo, mentre sul canale dello sport, sul quale aveva girato Tom, che aveva il telecomando in mano, stavano mandando i replay dei colpi più belli della sfida di scherma che lei si era persa. Si piazzò nel posto da cui vedeva meglio e mentre mangiava guardava la tv.

“No, merda, quel colpo no! Come ha fatto a non accorgersene?”, disse stringendo il pugno sulla superficie in legno scuro del tavolo.

“Ti piace la scherma?”, chiese Bill, alzandosi dal letto e raggiungendola, sedendosi di fronte a lei. Eva si limitò ad annuire con la testa.

“Beh, potresti anche parlare…”

“Non te l’ha mai detto nessuno che non si parla con la bocca piena?”, disse Eva, dopo aver ingerito interamente il biscotto. “E prima avevo la bocca piena. Scusa se sono educata.”

“Ah ah Bill… incominci subito a farti riconoscere!”, disse Tom, sogghignando e riaccucciandosi sotto montagne di coperte.

“Non lo ascoltare”, si difese Bill, facendo un gesto con la mano. La guardò e sorrise, chiudendo gli occhi. Eva si sciolse sul tavolo: si tenne una mano con la testa e sorrise addolcita.

“Cosa vuoi per colazione, Bill?” gli chiese, ricomponendosi.

“Ahm… il latte.”

“Nel biberon. Ah, e non dimenticarti il bavaglino!”, disse Tom ridendo, da sotto le coperte.

Eva non lo sopportava. Provava un odio profondo verso le persone così, che offendevano come passatempo, anche se magari era solo per scherzare, le dava comunque sui nervi.

“La pianti? Finiscila di fare lo sbruffone.”

Tom uscì dalle coperte e la guardò stupito, sedendosi sul letto.

“Il latte caldo o freddo?”, chiese ancora a Bill, sorridendogli, ignorando il gemello.

Tom la guardò fare tutta la dolce con il fratello, mentre a lui lo aveva persino sgridato, in un certo senso.

Non si vede proprio che è il tuo preferito, pensò.

Era uno che solitamente non se la prendeva per queste cose, soprattutto se centrava Bill, ma non sopportava i favoritismi inspiegati. In fondo lui non le aveva fatto niente per meritarsi quel trattamento, come da eterno secondo.

“Caldo è meglio, grazie.”

“Va bene.” Dopo di ché lei si diresse in cucina a preparargli il latte.

“Dimmi una cosa, Bill”, incominciò Tom, alzandosi dal letto. Era a petto nudo, solo con dei pantaloni di una tuta addosso, che usava per dormire. “Come mai Eva si comporta così con te?”

“Così come?”, chiese, girandosi verso il fratello.

“Come se non si notasse che sei il suo preferito!”

“Il suo… preferito? Io non…”

Eva tornò in sala con due tazze in mano, interrompendo i gemelli, che la guardarono in silenzio. Appoggiò le tazze sul tavolo, una di fronte a Bill e una accanto a lui. Mise sul tavolo anche dei cereali e dei biscotti, poi si fermò e guardò Tom.

“Ehm… scusami per prima, non so che mi sia preso”, sussurrò, sembrava quasi vergognosa. Tom sorrise e annuì.

“Dimenticati quello che ti ho detto Bill. Fa niente Eva, non importa, capita quando ci si alza male.”

Si trattenne nel sputargli ancora addosso insulti e fece un mezzo sorriso mettendosi a posto la frangia sugli occhi.  

“Ritornando alla scherma…”, disse Bill, mentre il fratello si sedeva accanto a lui per fare colazione. “Come mai ti piace? C’è… è insolito.”

“Beh, mi piace forse perché la faccio da quando avevo sei anni.”

“Allora… giochi. Si dice giochi?”

“Mmh… duelli… che ne so, non ci ho mai pensato. Dovete andare in bagno?”, chiese, cambiando argomento. Bill e Tom si guardarono.

“Io no”, disse un po’ più timido il primo.

“Nemmeno io.”

“Sicuri? Perché quando entro nella vasca da bagno non ci esco per almeno due ore, vi avverto.”

“Semmai la faremo nei vasi dei fiori”, disse Tom, sorridendo mentre girava il suo latte.

Eva rise, quella battuta l’aveva fatta ridere sul serio. I gemelli la guardarono, contenti per averla sciolta un po’.

“Allora ridi pure tu!”, disse Tom, aggiungendosi a lei.

Quei due ragazzini stavano cambiando radicalmente la sua vita, il suo modo di vivere, e tutto con una semplicità senza paragoni. Erano legati da qualcosa, ma non sapevano cosa. Erano un po’ come fratelli, ma inconsapevolmente.

 

***

 

Eva era nella vasca da bagno, immersa in un mare di schiuma, nell’acqua calda, in pieno rilassamento. Chiuse gli occhi e fece delle bolle con la bocca, sott’acqua.

Si sentiva stranamente felice, leggera, libera da quel peso che di solito la attanagliava dentro. Grazie a quelle due pesti forse stava ritrovando la felicità, quella felicità che aveva perso quando si erano separati. Loro non si ricordavano nemmeno di lei, ma neanche lei ricordava molto di loro. Si ricordava solo che erano identici, piccoli e protetti in delle copertine celesti fra le braccia di Simone.

Anche la maggior parte dei ricordi di Simone si erano volatilizzati, ma Simone non si era dimenticata di lei, e glielo aveva dimostrato. Eva per lei era come una figlia, le voleva bene come una figlia, come voleva bene alla madre di Eva, la sua migliore amica.

Il telefono squillò. Squillò per una ventina di secondi, senza smettere. Nessuno che si degnasse di rispondere.

E come al solito, devo rispondere io.

Eva si avvolse dentro un asciugamano bianco, tenendolo sotto le ascelle, e veloce uscì dal bagno, scontrandosi con Tom, che stava passando di lì, forse per rispondere.

“Se, ormai…”, Eva lo superò, gocciolando per terra, e andò a rispondere. I capelli erano ancora fradici e gocciolava davvero dappertutto.

“Pronto?”, rispose.

“Ciao Eva, sono Simone! Come stai? Tutto bene lì? Bill e Tom?”

“Ciao Simone! Io sto bene, grazie. Tu?”

“Bene, bene.”

“Sono contenta. Anche Bill e Tom stanno bene. Tutto ok.”

“Menomale. Forse è il momento che cominci a fidarmi un po’ di più di loro”, ridacchiò. “La mamma?”

“Adesso è al lavoro.”

“Mmh. Capito. Ascoltami… Ieri, quando ti ho vista, non ho capito più niente, non ti ho nemmeno detto che sei diventata così grande… così bella… Anche da bambina eri stupenda, sai?”

“Grazie, nemmeno tu sei cambiata.”

“Ti ricordavi di me?”

‘Vagamente, ma sì.”

“Oh, questo mi commuove.”

“Dai Simone, non ti commuovere inutilmente. C’è qui Tom, te lo passo.”

Prima che inondi casa… Sto grondando!

“Ok, va bene. Mi ha fatto piacere rivederti.”

“Anche a me. Allora ciao.”

“Ciao, baci.”

Eva passò il telefono a Tom, lì di fianco che la stava guardando avidamente da un po’.

La ragazza andò di nuovo in bagno, ad asciugarsi un po’, poi passò in camera sua, per cambiarsi. Dentro trovò Bill, che stava curiosando tra i suoi cd.

“Ehi, che stai facendo?”, gli chiese.

“Niente, guardavo i tuoi cd.”

Beh, in verità lo sapevo già.

“Mmh. Adesso, invece di interessarti dei miei gusti musicali, potresti uscire? Mi devo cambiare.”

Da quando Eva era entrata in camera, Bill non l’aveva guardata una volta, perciò quando la vide solo con un asciugamano addosso, rimase un po’ sbigottito.

“Sì, subito.”

Bill scappò via da camera sua. Andò in salotto, dove vide il gemello poggiare giù la cornetta.

“Ah, Bill, eccoti qua. Mamma ti saluta.”

“Mamma? Ha chiamato?”

“Sì, se ti ho detto che ti saluta, evidentemente…”

“E perché non mi ha parlato?”

“Perché adesso doveva tornare al lavoro. Ha detto che richiama stasera, e il primo a parlarci sarai tu, contento?”

“Ok. Ma perché qui è tutto bagnato?”, chiese, guardando a terra.

“Perché c’è passata Eva.”

“Ah sì, l’ho vista pure io.”

“Mamma cara, che figa pazzesca!”

“Tom! È di là, ti sente!”, urlò a bassa voce Bill.

“E allora? Che senta se vuol sentire. Così sa ciò che penso di lei. E ti assicuro, ci penso molto bene!”

“Ti prego, Tom… Ha sedici anni, tu solo tredici, non hai speranze.”

“Ah Bill, Bill, Bill…”, Tom gli prese la spalla, chiudendo gli occhi. Lo portò seduto accanto a sé sul divano. “Devi sapere che l’età non conta. Quello che conta è…”

“Cosa conta?”, intervenì Eva, parlando con un elastico tra i denti, entrando in stanza. Si fece una coda mentre andava in cucina.

“Ma niente, Eva!”, disse Bill arrossendo.

È sempre colpa tua, Tom!  

“Ma non avete nemmeno… Lasciate perdere.”

Eva prese le due tazze sul tavolo e le portò in cucina, nel lavandino. Mentre lei era a farsi il bagno, quei due non avevano praticamente fatto niente.

Per questa volta passo, ma non intendo assolutamente diventare la vostra schiavetta, sia chiaro.

“Ehi Eva, che si mangia a pranzo?”, chiese Tom, girovagando per il salotto, guardandosi in giro.

Che cosa? Hai finito adesso di fare colazione! Mah… Non sono abituata a dividere casa con due maschi.

Passare da una casa tutta femminile, abitata solo da lei e sua madre, ad abitare con due maschietti era traumatico. Ma, in fondo, ci era anche abituata a fare un po’ da schiava, certo, non a casa sua.

Tom entrò in cucina, volendo una risposta alla domanda, seguito poi dal fratello. Eva si era chinata proprio in quel momento per raccogliere un foglio da terra e sia Bill che Tom notarono un tatuaggio, in fondo alla schiena: era uno di quei tatuaggi tribali, orizzontali, con una il fiore della rosa in mezzo, di colore rosso scuro. Insomma, Eva era la tipica dark-punk, tatuaggi e piercing.

“Che avete da guardare?”, chiese ai gemelli, che era da un po’ la guardavano in silenzio.

Bill scosse la testa e si avvicinò a lei. Le alzò la maglietta sulla schiena e le sfiorò il tatuaggio con le dita.

“Non sapevo avessi un tatuaggio! Va bè, il piercing si vede, però questo non lo avevo notato.”

Eva si girò verso di lui e sorrise.

“Beh, non mi conoscete da una vita.”

Quella frase la fece morire dentro. Come poteva aver detto una cosa del genere? Loro si conoscevano da una vita per quanto la riguardava, ma per loro la frase era la verità. Non si ricordavano affatto di lei, erano piccolissimi quando l’avevano vista per la prima volta, non potevano ricordare.

Perché… perché mi sento così? Sto male, ma non so perché.

“Sai, anch’io vorrei farmi il piercing lì, però sulla parte sinistra”, disse Tom.

“E perché non te lo fai, scusa? Te l’ho detto mille volte!”, si avvicinò Bill.

“Perché ancora non lo so…”

Non ci credo, il ragazzino tanto presuntuoso e pieno di sé ha paura di farsi un piercing?

A Eva venne da ridere, ma bloccò la risata ad un sorriso divertito. Anche Bill sorrideva, ma addolcito. Si avvicinò al fratello e gli mise una mano sulla spalla.

“Se te lo fai tu, lo faccio anch’io, però sulla lingua, ok?”

“Mmh, ci penserò più seriamente allora”, sorrise al gemello.

Quegli occhi identici, profondi uguali, quelle labbra e quel sorriso sincero uguale. In quel momento Eva era riuscita a cogliere le somiglianze spaventose tra i gemelli, erano l’uno la copia dell’altro. Riuscivano a parlarsi anche solo con gli occhi.

“Ritornando al pranzo, che si mangia?”, chiese ancora Tom, prendendo un dito di Eva e stringendolo nella sua mano, facendola andare da una parte all’altra, sorridendo.

-Papà, guada! Tom mi ta tenendo il dito!-

-Ho visto piccolina! Fa così perché sente qualcuno accanto a sé.-

Quello spezzone di dialogo, quelle parole, invasero la mente di Eva, riportandola nel passato, a quel ricordo lontano, troppo lontano. Nonostante fosse lontano, le aveva riaperto una ferita nel cuore, e bruciava maledettamente. Il ricordo della voce del padre l’aveva fatta soffrire, di nuovo.

La stretta di Tom, quella presa… era certa che quella stretta fosse la stessa di quella manina in quel ricordo. Era la manina del piccolo Tom.

Sentì gli occhi inumidirsi, la voglia di piangere, e questa volta non poteva resistere all’istinto, non poteva trattenersi a quella voglia incontrollabile. Ok, la parte debole del suo cervello dominava sul resto, ma non poteva assolutamente lasciarsi andare davanti ai gemelli, ne andava del suo orgoglio.

Si liberò dalla stretta di Tom, con un movimento brusco e senza guardare nessuno, tenendo la testa bassa, scappò in camera sua, sbattendosi la porta dietro di sé.

“Ma che ho fatto?”, chiese Tom al fratello, guardandolo interrogativo.

 

***

 

Eva si tuffò sul suo letto e nascose la faccia nel cuscino fresco, lasciando andare le lacrime.

Era vero, quei gemelli le stavano cambiando la vita, forse in meglio, ma avevano portato con loro ricordi che facevano male in Eva, anche se quella era la prima volta. Non aveva mai sofferto per il suo passato, ma in quel momento stava da schifo, e non riusciva a capirne il motivo. Era colpa, se si poteva definire così, dei gemelli. Loro e del loro arrivo improvviso nella sua vita.

Si asciugò le lacrime passandosi le mani sulle guance, in fretta, sentendo la porta bussare.

“Eva, sono Tom, posso entrare?”

Non aveva nemmeno atteso una sua risposta: era entrato e ora la stava guardando, stando vicino alla porta, con un mano ancora sulla maniglia.

“Di solito qui si aspetta la risposta prima di entrare!”, sbraitò Eva, cerando di nascondere i rimasugli di pianto nella sua voce.

Tom sorrise e uscì dalla porta. Eva non capiva. Poco dopo sentì di nuovo bussare alla porta.

“Eva, sono Tom, posso entrare?”, chiese ancora il biondo. Solo allora Eva capì, sorrise e scosse piano la testa.

“Sì, entra.”

Tom entrò, non più con quel suo sorriso, ma con un’espressione seria, che sorprese molto la ragazza. Non credeva che potesse diventare così serio un bambino come lui.

“Che ti è successo? Sei scappata via… ho fatto qualcosa che non va?”

Tom salì a quattro zampe sul suo letto, raggiungendola. Si mise sdraiato accanto a lei, guardando la stoffa scura sopra di lui, con le mani dietro la testa.

“No, tu non hai fatto niente.”

Sì, hai fatto qualcosa, ma non capiresti.

“E allora che ti è preso? E poi… hai pianto”, notò, accarezzandole la guancia con un segno lasciato da una lacrima, una riga leggera. Eva guardò quegli occhi nocciola, magnetici, e dopo essersi lasciata andare, si spostò da lui, dal suo tocco, come se avesse paura di bruciarsi.

Tom non capiva. Che avesse paura di lui? No, di che cosa avrebbe dovuto aver paura? Impossibile. Si rimise a guardare il soffitto, con una mano sullo stomaco.

“Alla fine, non mi hai mica risposto…”

“A che cosa?”, chiese lei, guardando i lineamenti dolci del suo viso mentre sulle sue labbra compariva un sorriso.

“Che cosa si mangia?” Tom girò la faccia verso quella di Eva e la guardò. Lei sorrise e sbuffò.

“Come sei stressante! Si mangia quello che c’è in frigo! No, a parte gli scherzi… lasagne, quelle da mettere in microonde.”

“Eh, e ci voleva tanto a rispondere?!”

“No, però…”

“Però cosa?”

Si ritrovarono a pochi centimetri di distanza l’uno dalle labbra dell’altro. Si guardarono intensamente negli occhi, poi Eva gli regalò un sorriso. Tom si avvicinò di più e lei si mise seduta di colpo sul letto, guardandolo inarcando le sopraciglia.

Stava tentando di baciarmi? Dimmi che non è vero.

Si alzò dal letto, spostando una tenda e uscì fuori dalla stanza.

Tom sorrise. La desiderava più di prima, desiderava provare delle emozioni forti con una come lei, più grande. E la sfida che lo attendeva lo rendeva ancora più desideroso. Non sarebbe stato facile strapparle un bacio, ma la cosa lo divertiva parecchio. Non si tirava mai davanti ad una sfida, visto il testardo che era.

 

***

 

“Eva! Ho fame!”

“Sì, adesso mangiamo, sempre se tuo fratello si da una mossa.”

“Tom! Muoviti! Sto morendo di fame! Non vorrai mica avermi sulla coscienza, vero?”

“No, fratellino. Arrivo!”

Tom corse in cucina e guardò il fratello intento a prendere i piatti dalla credenza. Guardò anche Eva, con un sorrisetto. Lei era girata, ma sentiva gli occhi di Tom addosso.

Ragazzino, non hai speranze…

Eva tirò fuori dal frigo la bottiglia dell’acqua e la mise sul tavolo, fregandosene proprio di Tom, non guardandolo neppure.

“Sai, Bill, con il sempre se tuo fratello si da una mossa intendevo che doveva aiutarci, non che doveva venire qui e aspettare di essere servito. Chiaro? Diglielo, sembra che da solo non lo capisca.”

“Oh, ma Tom è sempre così. Devo fargli da traduttore, è come parlare un’altra lingua con lui.” Eva e Bill risero. “Allora Tom, dacci una mano.”

Tom sbuffò e si avvicinò alla credenza, per tirare fuori i bicchieri, mentre Bill era occupato con le posate.

“Non credevo di venir qui a sgobbare.”

“Sgobbare? Questo per te è sgobbare? Ah, caro mio… Tu non immagini nemmeno che vuol dire sgobbare”, disse Eva, scuotendo il capo.

“Scommetto che tu sì, vero? E poi quando ti stanchi troppo ti metti a piangere, ne?”

Eva alzò la testa e lo guardò, seria.

“Che cosa?”

Si guardarono con aria di sfida. Bill guardò i due, quasi preoccupato.

“Ehm… Eva… Tom… Mangiamo? Davvero, ho fame.”

“Sì, forse è meglio”, disse Tom, sedendosi al tavolo.

Eva lo guardò, seria. Aveva cercato di fare il dolce, non aveva avuto ciò che si aspettava e ora si comportava così, sfruttando l’occasione e rinfacciandole un suo momento di debolezza.

Arrogante. Il mio preferito è indiscutibilmente Bill.

“Allora… una settimana…”, disse Bill, visto che si era creato uno strano silenzio nella cucina.

Erano tutti intorno al tavolo, che mangiavano, Bill e Tom con di fronte Eva. Lei rimase in silenzio e mosse il capo su e giù, annuendo.

Sì, così sembra…

Un sospiro scappò dalle labbra di Bill, che riprese a mangiare in silenzio.

“Beh, vediamo il lato positivo. Siamo in città, sempre meglio che la campagna.”

“Perché il lato positivo? C’è qualcosa che non va?”, chiese Bill, guardando Tom. Lui alzò le spalle e rispose con sufficienza.

“No, ma… non avrei immaginato di stare a casa con una ragazza.”

Come se la cosa ti dispiacesse, pensò Bill.

 

***

 

“Mamma!”

Dio come mi sei mancata!

Eva strinse la madre tra le braccia, sulla soglia di casa, visibilmente felice di vederla. La donna invece rimase sorpresa dalla reazione esagerata della figlia.

“Ciao tesoro. Tutto bene?”

“Sì, tutto bene.”

Entrarono in casa e la mamma appoggiò subito il cappotto all’appendino e la borsa sul divano.

“Bill e Tom?”, chiese.

“Sono di là, che suonano.”

Bill, voce, Tom, chitarra, erano abbastanza bravi. E se lo pensava lei allora erano bravi sul serio. Le avevano detto che suonavano da tempo, assieme a due loro amici, due certi Gustav, alla batteria, e Georg, al basso. E, per quanto pazzesco potesse essere, avevano pure un nome: Devilish. Suonavano in giro per Magdeburg, ma fin’ora non avevano riscosso tutto quel gran successo che speravano ogni giorno.         

“Com’è andata la giornata?”

A parte i problemini con Tom?

“Nulla di che. Tutto normale.”

“Mmh. Vi trovate?”

Sì, Tom ha cercato di baciarmi, credo che mi trovi...

“Ehm… è ancora presto per dirlo.”

“Tu, invece? Sei pronta?”

“Un attimo, prendo la borsa e vado.”

“Vuoi che ti accompagni?”

“Dovresti scomodare i gemelli… Lascia stare, vado da sola.”

Eva entrò in camera sua, dove trovò i gemelli, intenti a suonare e a cantare. Subito, appena aveva sentito Bill cantare, aveva pensato che avesse una bellissima voce, ed era così, ce l’aveva bellissima davvero. Anche Tom doveva dire che con la chitarra andava forte. Un duetto vincente. Già loro due da soli potevano fare strada, pensare anche ad una batteria e ad un basso, potevano davvero fare un successo planetario. Così la pensava lei. Però, ancora doveva capire perché proprio la sua camera era stata scelta come loro studio per provare, era ancora da definire.

“Me ne vado subito.”

Ma che dico?! Questa è camera mia!

Prese la borsa e stava per varcare la soglia della stanza, quando la voce di Bill la fermò. 

“Dove vai?”

“Gli affari tuoi?”

“E dai… me lo dici?” Bill le zompò davanti, con gli occhioni da cucciolo, supplicandola.

Curioso il tipino…

“Vado ad allenarmi.”

Tom era rimasto indifferente, era ancora seduto a terra, schiena contro il muro, con la chitarra classica tra le braccia.

“Ah, scherma?”

“Sì, esatto.”

“Mi farai vedere il fioretto?”

“Può darsi…”

“Ok, allora ciao.”

“Ciao.” Eva stava per uscire, quando ancora la mano di Bill la fermò, prendendo la sua.

“Ma non mi saluti?”, le chiese con un sorriso.

“Ti ho salutato adesso…”

Bill scosse piano la testa e le porse la guancia. Eva sorrise e pizzicò con due dita quella guancia invitante.

“Ahi!”, si lamentò Bill, massaggiandosela e guardando Eva sorridendo. Anche sulle labbra di Tom era apparso un sorriso, ma non li guardava.

Eva sorrise ancora e prese il mento di Bill con una mano, gli girò il viso con delicatezza e gli stampò un bacio sulla guancia.

“Contento ora?”

“Si!” Bill sorrise e tornò accanto al fratello. “Ciao!”

“Ciao, peste.”

“Ehi!”

 

***

 

Il rumore dei ferri che si scontrano è adorabile, un suono stupendo. Peccato che io stia facendo schifo.

“Eva, Eva, Eva, basta! Rilassati, è finita. La prossima andrà meglio.”

“La prossima. Intanto, questa è andata di merda.”

“Capita. C’è qualcosa che non va? Magari…”

“No, non c’è proprio nulla che non va.” Eva si tolse il casco dal viso e lo tenne sotto al braccio, mentre con l’altro si asciugava la fronte. “Ho fatto semplicemente schifo, ecco cosa c’è che non va.”

Prese la sua borsa e filò negli spogliatoi. Dopo una bella doccia fredda, per schiarire le idee, si cambiò e tornò a casa, dove l’attendeva sua madre, ma soprattutto… i gemelli. Solo al pensiero di riaverli tra i piedi rabbrividì.

Entrò in casa, facendo un giro di chiave, e si trovò Bill addosso, appeso al suo collo. Eva non potè non guardare in alto e sospirare.

Dio, perché ce l’hai con me? Perché? Perché tutte a me? Uffa!    

“Ciao Eva!”, la salutò la voce acuta di Bill.

“Ciao piccoletto.”

“Da quando mi chiami piccoletto?”

“Da adesso.”

“E perché?”

“Perché mi gira. E adesso scollati da me, potrei picchiarti. Non sto scherzando.”

Bill sorrise e si staccò da lei, ma le rimase di fronte, ora con un ghigno più che un sorriso.

“Che cosa vuoi?”, sbuffò Eva, capendo che il piccolo voleva per forza qualcosa se si comportava in quel modo.

“Mi fai vedere il fioretto?”

Uffa, che palle, Ci mancava solo questa. Che ci trovi di così interessante in un fioretto?!

Eva spostò Bill di peso e si mise seduta sul divano, affondandoci dentro.

“Ciao tesoro! Com’è andata?”, le chiese la madre, spuntando dalla cucina. Eva aprì gli occhi e la guardò esausta, ma ciò nonostante scontenta.

“Ho capito, non è andata bene.”

“Hai fatto punto, cosa che io non ho fatto manco una volta.”

“Allora hai fatto proprio schifo!”, disse Bill, accucciandosi accanto a lei, tirando le gambe vicine. Lei lo guardò con la faccia ancora stanca e piuttosto demoralizzata.

“Grazie Bill, ma non avevo bisogno di sentirmelo dire pure da un moccioso. Lo so perfettamente. Direi che quando vuoi riesci davvero a tirare su di morale.”

“Ma dai! Stavo scherzando! Allora me lo fai vedere il fioretto o no?”

Eva sbuffò ancora e si mise la borsa da palestra blu sulle gambe, Bill che aspettava emozionato. Tirò fuori la spada e gliela fece vedere, tenendola in mano sua. Lei non era molto gelosa, ma guai a chi le toccava il suo fioretto.  

“Wow! Che bello! Posso?” Bill stese la mano verso di lei, chiedendo la spada.

“Non ci penso nemmeno!”, disse lei, allontanandogliela.

“Ma io… Perché no? Guarda che non te lo rovino.”

Non poteva resistere allo sguardo dolce di quel ragazzino, ti scioglieva con una facilità assurda, e lei non era una che si scioglieva con così poco.

“E va bene. Ma ti avverto: un passo falso e ti sbatto per terra, ok?”

“Va bene!”

Eva gli passò delicatamente nelle mani la spada, come se fosse di vetro, e lo guardò attenta per tutto il tempo che l’aveva tra le mani, contento. Riusciva ad emanare le sue emozioni solo con lo sguardo. Era davvero un ragazzino speciale quello, Eva lo aveva sempre saputo.

Bill le ripassò il fioretto, soddisfatto e felice. Una felicità pura, vera, semplice, che Eva non riusciva bene a comprendere.

“Grazie”, le disse, regalandole uno dei suoi sorrisi magnifici, per poi stamparle un bacio sulla guancia.

Eva, per la prima volta in vita sua, arrossì. Era una sensazione del tutto nuova per lei, perciò la allarmò, in un certo senso. Sentirsi la faccia bruciare e un improvviso calore in tutto il corpo non era il massimo, ma si sentiva serena nell’animo. La dolcezza di un bambino, di quel bambino, quante gioie le portava, immense.

Eva si alzò dal divano e si rimise la borsa sulla spalla, fioretto in mano, e salutò Bill sorridendo. Andò in camera sua, dove si sarebbe sparata i Green Day almeno fino all’ora di cena, come era d’abitudine, ma non fu proprio così. Appena entrata, vide Tom, Il gemello cattivo, che frugava tra le sue cose, nella libreria. Tutto poteva sopportare, tranne che fosse invasa la sua privacy in quel modo.

Impugnò meglio il fioretto e appoggiò delicatamente la punta della spada sotto il mento di Tom, che non si era minimamente accorto della sua presenza, concentrato com’era nel suo intento: trovare qualcosa che l’avrebbe aiutato a scoprire di più su di lei e a capire come prenderla senza fare passi falsi. Purtroppo per lui non ci era riuscito. Non era riuscito a trovare niente, il nulla. Eva doveva essere davvero una tipa riservata, se nemmeno lui aveva scoperto qualcosa.

“Fuori”, disse decisa Eva, indicando piano la porta con la testa, mentre gli occhi di Tom erano spavaldi dentro quelli di lei.

Sorrideva tranquillo, sapendo che comunque non gli avrebbe fatto nulla, se non una sonora ramanzina, di cui lui non avrebbe ascoltato comunque il contenuto.

“Se no che fai?”, la provocò, sogghignando.

Lei fece un sorrisetto strafottente, guardando per un attimo verso la libreria, controllando che tutto fosse in ordine e che non mancasse niente.

“Fuori. E non ci provare mai più”, disse ancora più decisa di prima, ritrovando la serietà.

Tom si spostò con una mano il ferro dal mento e, sogghignando, uscì dalla stanza, in silenzio.

Dopo lo scontro tra lei e Tom, non aveva nemmeno più voglia di ascoltare la musica. Girovagò per la stanza cercando un ispirazione, ma non le venne in mente niente.

“Eva! Che cosa stai facendo?!”, urlò sua madre dalla cucina.

“Niente mamma!”

“E allora, invece di fare niente, perché non metti un po’ a posto il ripostiglio?! Sono mesi che ti dico di farlo!”

Il ripostiglio, eh? Sempre i luoghi più sporchi toccano a me… E va bene, sollevò le spalle con fare distratto e con quella mancata voglia nel viso, visto che non ho proprio nulla di meglio da fare…

“Prima della sfida con il ripostiglio posso andare in bagno?”, chiese Eva sorridendo alla madre.

“Ahm… è entrato ora Bill”, disse Tom, seduto comodamente sul divano.

“A fare?”

“Chiediglielo, magari ti risponde.”

Eva gli fece una linguaccia e bussò in bagno, da cui si vedeva la luce accesa sotto la porta.

“Bill? Qui è Eva, ci sei?”

“Sì, entra, tanto…”

Tom inarcò le sopracciglia e guardò sbalordito verso il bagno.

“Ah! Ti stavi solo struccando…”, disse Eva sorridendo, entrando nel bagno. “Ma come sei carino senza l’ombretto!”, gli pizzicò la guancia, guardandolo sullo specchio. “Così somigli ancora di più a Tom, sai?”

“Certo che lo so!”

“Ok, non ti scaldare.”

Eva aprì il getto dell’acqua del rubinetto e ci ficcò sotto la faccia. Rimase in quella posizione per una decina di secondi, sotto l’acqua gelata, che la aiutò a far passare l’arrabbiatura verso il gemello cattivo. Si asciugò il viso con un asciugamano e si guardò allo specchio. Era da un po’ che non si truccava di nero, stando sempre in casa. Guardò Bill e la miriade di prodotti che già c’erano sulla mensolina di fianco a lui. Trucchi e cose per capelli.

Così piccolo e già si cura in questo modo, davvero ammirevole.

“Che marca usi?”, gli chiese appoggiandosi al lavandino e prendendo la scatoletta dell’ombretto nero.

“Ah… questa… Non è la migliore, però… Io uso questa invece, se vuoi provalo, noti la differenza.” Eva gli diede una sua scatoletta di ombretto e guardò la sua espressione.

“Beh… grazie…”

“Prego Bill, e non fare quella faccia, regalami un sorriso.”

Bill sorrise timidamente.

“Che bello che sei!”, Eva sorrise e gli stampò più volte dei baci sulla guancia, tenendogli il viso tra le mani.

Tutto quell’affetto non era proprio da lei. Si staccò immediatamente e lo guardò imbarazzata, mentre lui sorrideva. Scosse la testa e uscì dal bagno, per rifugiarsi nel ripostiglio impolverato.

C’era, c’era sempre stata e ci sarà, sempre un mucchio di roba lì dentro. Era un piccolo corridoio, corto e stretto, con ai tre lati scaffali di metallo con sopra milioni e milioni di scatole, per non parlare poi dei soprammobili inutilizzati, che comparivano un po’ dappertutto. Fece qualche passo lì in mezzo, tossendo per l’immensa quantità di polvere. Tolse delle scatole da degli scaffali, curiosandoci dentro.

Nulla di interessante, come tutto ciò che c’è in questo buco, d’altronde.

Prese altre scatole dal mucchio e in fondo allo scaffale, nascosta nell’ombra, c’era una scatola più piccola delle altre. La prese incuriosita e ci guardò dentro: filmini. Li trovò subito noiosi, ma già che c’era lesse alcuni titoli scritti a penna sui margini: Natale, Pasqua, Dai nonni, Compleanno di Eva: tre anni!.

Che cosa?

Rilesse più volte l’ultimo titolo, quello che l’aveva lasciata senza parole. Lo prese e lo guardò: avanti, dietro, ai lati, quella cassettina non doveva avere segreti per lei. La scrutò per almeno un minuto, poi si alzò da terra, rimise in ordine tutto, tranne quel filmino, che si infilò nella tasca della felpa.

Uscì seria dal ripostiglio, tenendo la mano in tasca, con in pugno quella cassetta.

“Trovato qualcosa di interessante?”, le chiese Tom con un ghigno, ma lei non lo sentì nemmeno.

Camminò veloce verso la sua camera e si chiuse dentro a chiave. Si mise sul letto e guardò ancora il filmino tra le mani.

Che fare? Lo guardo, anche se so che farà male, oppure non lo guardo?

Eva si alzò dal letto e decise di guardarlo comunque, anche se le avrebbe riportato amari ricordi.

Il filmato partì con la vocina della piccola Eva, saltellante per il salotto, con un vestitino rosa e i capelli raccolti in due codini. Il suo abbigliamento di allora era molto diverso da quello di adesso, radicalmente.

-Tre anni, eh?-, chiese la voce di Simone, che poi venne inquadrata. Accanto aveva una culla, con dentro i gemelli.

-Sì, sì… tre-, disse la piccola Eva, sorridendo e sporgendosi nella culla, cercando di vedere. Simone sorrise e la mise seduta accanto a sé sul divano, poi prese uno dei gemelli in braccio.

Ecco, quella era la scena del suo ricordo.

-Queto chi è?-, chiese Eva, indicando lo scricciolo avvolto nella copertina azzurra.

-Questo è Tom, cara. Dai, metti il dito nella manina, guarda che lo stringe-, l’aveva invitata Simone. Eva sorrise e mise il ditino nella minuscola mano del gemello. La mamma di Eva si avvicinò alla figlia e la abbracciò da dietro, mettendole dolcemente le braccia intorno al collo, sorridendo.

-Papà, guada! Tom mi ta tenendo il dito!-

-Ho visto piccolina! Fa così perché sente qualcuno accanto a sé.-  

Ecco, ancora la frase che aveva sentito nel suo ricordo. Una fitta al cuore le fece chiudere per un attimo gli occhi. Quando li riaprì, vide il padre abbracciare la madre e lei. Si costrinse a non piangere, a guardare come andava a finire, ma il filmato si interruppe e lo schermo del televisore si annerì e poi si fecero tutte le linee grigie e bianche. Nella stanza echeggiava un silenzio malinconico.

Eva guardò la custodia della cassettina che aveva in mano, la strinse con tutta la sua forza, abbassando la testa e stringendo gli occhi. Alcune gocce, alcune lacrime, bagnarono i suoi jeans scuri, lasciando dei piccoli cerchi umidi. Non era riuscita a trattenersi come credeva di poter fare. Si lasciò cadere all’indietro e continuò a piangere, in silenzio, da sola. Lei e il suo dolore.

 

***

 

Era lì da ore, sdraiata sul letto, a guardare in alto, ascoltando a palla la sua musica. Non aveva nemmeno cenato. Non voleva farsi vedere in quello stato.

Si mise meglio le grandi cuffie sulle orecchie e guardò verso il comodino. Vide la cassetta, la prese e se la rigirò all’infinito tra le dita.

Non ho mai sofferto… Perché solo ora? Non capisco.

Tolse lo sguardo dalla cassetta e per caso vide la maniglia della porta muoversi su e giù, come se qualcuno volesse aprire la porta. Ma era chiusa a chiave, non poteva entrare nessuno. Si tolse le cuffie e se le mise al collo. Ascoltò per un attimo, non sentendo comunque niente. Stava per rimettersi le cuffie, quando la voce di Bill e i pugni sulla porta la raggiunsero.

“Eva! Ti prego… uffa… perché non mi rispondi?”

Eva si alzò dal letto, togliendosi le cuffie, che lanciò sul letto, e aprì la porta.

“Semplicemente perché non ti sentivo, avevo le cuffie”, disse a Bill, aprendo giusto quello che serviva per farci uscire la testa. “Beh? Che vuoi?”, gli chiese ancora, visto che lui non accennava a dire nulla.

Lo guardò meglio: aveva addosso una specie di pigiama, lungo e grigio, molto più grande di lui, le maniche gli coprivano le mani senza che lui facesse niente.

Ma che ore sono?

Aveva completamente perso la cognizione del tempo, non credeva fosse già ora di andare a dormire, anche se lei non doveva farlo.

“Ehm… Tom si è addormentato… e… io non riesco a dormire… perciò…”

“Dai, entra.”

Lei gli aprì di più la porta e lo fece entrare. Lui le sorrise ed entrò silenzioso, mettendosi a braccia incrociate, stringendosi le spalle. Aspettò che lei chiudesse la porta e si sistemò sul letto. Eva lo guardò e sorrise, batté due colpi sul letto, accanto a sé. Bill sorrise ancora e salì a gattoni sul suo letto, si accucciò accanto a lei. Lei gli mise un braccio intorno alle spalle, e lo fece appoggiare alla sua spalla.

Era proprio un cucciolo innocente, timoroso, dolce. Che si lasciava coccolare molto volentieri.

“Più ti guardo… più… mi ricordi qualcuno. Ci siamo già visti da qualche parte prima che venissimo qui?”, chiese Bill, guardando il viso di lei. Eva chiuse gli occhi e si fece forza, affrontando quel dolore che sentiva nel petto.

“No, non ci siamo mai visti prima.”

“Eppure… Tu mi ricordi qualcuno, possibile?”

“Mi confondi con qualcun altro allora.”

“Eva, guardami.” Bill le prese il mento tra le dita e le fece guardare i suoi occhi profondi. “Tu stai dicendo un sacco di bugie. Non sono mica scemo, sai? Tu ci conosci, ci conoscevi già. Se no perché mamma ti ha abbracciato così quella volta? Perché tu hai abbracciato lei in quel modo? Lei ti conosceva già, e pure tu conoscevi lei, perciò… parla, ti prego. Chi sei? So di averti già vista, ma non ricordo.”

“Non puoi ricordare. Eri piccolo, e pure io lo ero, non ricordo molto neppure io. Adesso basta, se no puoi anche andartene.”

“Ok, come vuoi.” Bill sospirò e chiuse gli occhi, abbracciandola, mettendole un braccio intorno alla vita.

“Come mai non riesci a dormire?”, chiese dolcemente Eva, accarezzandogli i capelli sulla nuca.

“Pensavo a papà. Ogni tanto capita. I miei si sono separati quando io e Tom avevamo sei anni. Qualche volta ci penso e… ancora mi fa male.”

Separati? Non sapevo che…

Eva non era al corrente che i suoi fossero separati, e non ne sarebbe stata se Bill in persona non glielo avesse detto. Guardò gli occhi tristi del moro, la loro tristezza sincera.

“Oh Bill… mi dispiace… Ma, almeno tu l’hai conosciuto tuo papà.”

Perché? Perché l’ho fatto? Perché gliel’ho detto?

Perché stava parlando del suo doloroso passato con un ragazzino? Con Bill le cose uscivano da sole, però era come una liberazione. Man mano che parlava si sentiva più leggera, come se si fosse levata via un peso.

“Che vuoi dire?”

“Che… io non me lo ricordo neppure. Anche i miei sono divorziati. Avevo tre anni. Per questo… non ricordo molto.”

Eva invece ricordava molto bene il giorno in cui si erano ritrovate in due, lei e sua madre. Era una mattina invernale, in casa i suoi genitori non facevano che litigare, ma quella mattina si svegliarono e si accorsero che suo padre non c’era più, sparito con tutte le sue cose. Non un biglietto, non una chiamata, niente. Era come scomparso nel nulla. Ricordava bene anche le lacrime della madre, nascosta in camera, per non farsi vedere dalla figlia. Poche settimane dopo, la partenza per l’Inghilterra, l’addio a Simone, ai gemelli.

“Allora basta mentire. Visto che ci sono, ti racconterò tutto.”

Bill si mise meglio ad ascoltarla.

“Come sai, tua mamma e mia mamma sono amiche. Un tempo erano anche migliori amiche, adesso non lo so. Tua madre per me era come una seconda mamma, stavamo sempre assieme. Poi siete nati voi, poco prima che i miei si separassero. Due gemelli identici. Eravate come… dei fratelli per me… Poi, ci siamo trasferite in Inghilterra… lasciandovi… Non ci siamo visti per ben tredici anni, fino a quando sono tornata qui. Per questo io…”

Parlava con la voce che tremava e, come se non bastasse, aveva le lacrime agli occhi. Ne lasciò scivolare una sulla guancia, piano, in silenzio. Si tirò su a sedere, lasciando Bill, e si asciugò la guancia, impendendosi mentalmente di piangere ancora, e soprattutto in sua presenza. Bill la guardò, le si avvicinò e la abbracciò, tenendola forte a sé.

Oh Bill…

Eva ricambiò la stretta, tenendo quel cucciolo tra le sue braccia, sentendo una sensazione paradisiaca dentro di sé.

“Mi dispiace tanto Eva… Io non credevo…”

“Non importa Bill, non centri nulla tu. Tu non hai fatto nulla di sbagliato… sono gli altri che sbagliano. E gli errori ricadono inevitabilmente sui figli, questa è la vita.”

Dopo quella confessione liberatoria, Eva si sentiva meglio, libera da quelle catene che la attanagliavano ogni giorno da quando c’erano i gemelli.

Bill si era addormentato fra le sue braccia, dove era anche in quel momento, che riposava al sicuro, protetto.

La ragazza guardò la sveglia accanto a sé, sul comodino. Era tardi, e lei doveva andare. Si alzò e prese Bill in braccio, attenta a non fargli male alla testa. Non si era mai resa conto di quanto pesasse in realtà! Era tanto magro, ma trasportarlo non era una passeggiata.

Lo portò in salotto, sul divano letto dove c’era il gemello che se la dormiva alla grande. Lo appoggiò delicatamente e lo coprì con il piumone. Tornò in camera a prendere la borsa e quando tornò diede un’ultima occhiata ai gemelli. Dormivano, vicini, Tom completamente scoperto, con una mano sul petto e l’altra sul cuscino. Muovendosi, aveva scoperto anche il povero Bill.

Eva sorrise e scosse piano la testa, avvicinandosi di nuovo al letto. Li coprì di nuovo, rimboccandoli bene, vedendo un piccolo sorriso sulle labbra di Bill. Gli accarezzò i capelli scuri, spostandoli, e lo baciò leggera sulla fronte. Fece il giro del letto e fece lo stesso con Tom, accarezzandogli però la guancia. Si allontanò e quando aprì la porta, la voce ancora addormentata del maggiore, Tom, la fece girare.

“Dove vai?”, le chiese, alzando di poco la testa dal cuscino. Eva si avvicinò di nuovo e si sporse su Tom, sorridendo addolcita.

“Tom, dormi, è tardi”, gli sussurrò, chiudendogli poi gli occhi con la mano, regalandogli un altro bacio sulla guancia.

Tom si lasciò andare e tornò nel mondo dei sogni, allora Eva uscì di casa.

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Capitolo 3
*** Sacrificarsi per i sogni ***


Nota: Sono di fretta, scusate, quindi posto l'ultimo capitolo (Sì, lo so, è corta, ma non sempre mi vengono lunghe!! Spero che comunque vi sia piaciuta, nonostante la sua breve durata) e ringrazio tutti!! In particolare Scarabocchio_ *TheBest!!* ,  niky94 e Devilgirl89!! Grazie mille <3!!! ^^

Un bacio, alla prossima! Ary

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3
Sacrificarsi per i sogni

 

 

Ora voleva solo dormire, non chiedeva tanto.

Era sdraiata sul suo letto, a pancia in giù, che dormiva, o almeno, ci provava. Aveva tutti i muscoli che gridavano pietà e la testa che scoppiava.

“Eva! Eva, svegliati!”

“No Bill, lasciala. Ieri sera è uscita, e tardi, chissà a far cosa. Mah… non la capisco quella ragazza.”

“Uscita?”

“Si, è uscita.”

Ve lo dico io perché sono uscita! Perché cerco di dare una mano in casa! Ecco perché! Lasciatemi stare… vi prego…

Bill raggiunse il fratello in cucina e lo guardò mentre scaldava il latte.

“Ieri… Eva e io abbiamo parlato un po’.”

“Ah sì? E che ti ha detto?”

“Un sacco di cose. Soprattutto di lei e del suo passato.”

“Mmh? Beh, sembra che si apra solo con te.” Tom spostò il fratello e andò a sedersi al tavolo.

“Non è mica colpa mia, scusa!”

“Nessuno ti sta dando la colpa.”

“Sembra che tu lo stia proprio facendo.”

“È solo una tua impressione.”

“Ho capito… Tu sei geloso!”

“Che cosa?” Tom tossì e guardò il fratello sgranando gli occhi. “Ma che cosa stai dicendo?!”

“È vero, è vero… ammettilo, su. Sei solo geloso che io riesco a parlarci e tu no? Ieri sera mi sono pure addormentato da lei, sai?”

“Piantala. Mi innervosisci se ti vanti così. Vedrai che riuscirò a strapparle un bacio, che lei lo voglia o no. Te lo assicuro. Se vuoi scommettiamo.”

“No, io non scommetto proprio nulla con te.”

“Vedi? Hai paura che vinca.”

“Non ho assolutamente paura! Solo che credo che lei non ti lascerà fare un bel niente.”

“Vedremo.”

“Vedremo.”

Eva, mentre i gemelli parlavano in cucina, si era rifugiata in bagno, visto che con il casino che facevano non riusciva a chiudere occhio.

Si immerse nell’acqua calda della vasca e rimase in ammollo, in silenzio, con gli occhi chiusi, cercando di rilassarsi.

“Ehi, Bill! Hai lasciato ancora la luce accesa in bagno, ne?”

Tom entrò in bagno, visto che la porta non era nemmeno chiusa a chiave e aveva visto la luce accesa. Vide Eva nella vasca.

“Non si bussa a casa tua, vero?”, chiese lei, ferma, per nulla imbarazzata. Tom la guardò e sorrise.

Ma che piacevole sorpresa, pensò il biondo.

“Sì, scusa, ma potresti anche chiuderti dentro.”

“Questa è casa mia, e poi chi te lo dice che io non sia claustrofobica? Tu impara a bussare.”

“Ok, la prossima volta lo farò.” Si avvicinò al lavandino e si sciacquò le mani.

“Allora… Dove sei andata ieri sera?”, le chiese, mentre si asciugava le mani.

“Non sono affari tuoi.”

“Uffa. Io ci provo, ma, oh, non ci riesco proprio con te. Mi stronchi subito.”

“Chiedi cose inopportune. Bill non lo fa mai, se è questo che ti interessa”, sogghignò.

Sul volto di Tom apparve un po’ di rossore, sintomo di rabbia, di gelosia.

“Cos’è, ti vergogni di quello che sei andata a fare? Se non me lo vuoi dire.”

“Credi che io sia una puttana? E anche se fosse? La cosa non ti riguarda comunque.”

“Davvero sei una troia?”

“No.”

“Ah, menomale. Non so perché, ma la cosa mi rincuora.”

“Buon per te. Adesso, se mi fai la cortesia di uscire, io potrei cambiarmi e prepararvi il pranzo, ok?”

“Ok, ma solo perché ci devi preparare il pranzo.”

Quanto non ti sopporto, a volte.

Eva uscì dal bagno con addosso un asciugamano e andò in camera sua. Si vestì e andò in cucina.

“Che cosa volete da mangiare?”, chiese, dopo essersi bevuta una tazza di caffè tutta d’un fiato.

“Pasta!”, urlarono assieme i gemelli.

“Ok.”

Mentre prendeva la pentola, entrarono in cucina i gemelli, che si misero seduti al tavolo, di fronte al piano cottura, cioè a lei.

“Che volete? Perché mi guardate in quel modo?”

“Tom mi ha detto che ieri sei uscita, dove sei andata?”, chiese Bill, a sorpresa di lei.

Ma bene… Tom complotta contro di me e per farlo utilizza anche il mio gemello preferito… Astuto.

“Ho già risposto al tuo adorabile fratellino che non sono affari vostri.”

“Ma perché, scusa? Guarda che ti puoi fidare di noi.”

“Bill, ti odio. Odio te come odio quell’impiastro di fratello che ti ritrovi. Perché è impossibile che a distanza di tredici anni voi riusciate ancora a intenerirmi in questo modo. Basta, cazzo, basta.”

“Prima cosa: Tom non è affatto un impiastro di fratello. Lo adoro, gli voglio un bene dell’anima, perciò se odi lui stai sicura di odiare anche me, perché noi stiamo insieme. Ok? E per seconda: non è colpa nostra se ti inteneriamo. Noi non siamo mai cambiati, siamo rimasti noi stessi. Sei tu quella che è cambiata.”

“Non è vero che vi odio. Vi adoro, ecco la verità.”

Calò silenzio nella stanza. Bill e Tom si guardarono, mentre Eva guardava l’acqua nella pentola. Bill l’aveva stupita, l’aveva stupita ancora, un’altra volta.

Quel ragazzino non finirà mia di stupirmi, ha davvero un cuore d’oro e sono sicura che pure il fratello è così.

“Anch’io ti voglio bene. Solo che… sembri così fredda con me… Che ti ho fatto?”, la sorprese Tom.

Ecco, io lo sapevo. Due gocce d’acqua.

“Non hai fatto nulla consapevolmente. Bill ha ragione: sono cambiata io, ma grazie a voi due, piccole pesti, sto tornando la Eva di tredici anni fa. E Bill ha capito.”

“Sì, ho capito.”

“Ieri sera, sono andata a lavorare.”

“A lavorare?”, chiesero contemporaneamente i gemelli.

“Si, a lavorare.”

“Che lavoro fai? Poi a quell’ora?”, chiese Tom.

“Faccio la cameriera, al Gröninger Bad, e ho il turno serale.”

“Ma perché lavori?”

“Perché… Bill, perché i soldi sono pochi. Io mi pago la scuola di scherma e il resto lo uso per aiutare mamma.”

Perchè il mondo ingiusto da tanto a chi da poco e poco a chi da tanto. È la legge della natura umana. Ingiusta.

“Ah… Ma lei lo sa?”

“Ovvio che lo sa. Sarebbe strano se io mi pagassi la scuola da sola senza lavorare. Però…”  

“Però?”

“Non sa che lavoro faccio e né quando. Credete che me lo lascerebbe fare?”

“Ehm… no.”

“Ecco. Lei crede che da grande farò l’avvocato, perciò…”

‘Mmh, credo fortemente di no.”  

“Dai, è pronto.”

“Tu non mangi?”, le chiesero, visto che si era seduta sul piano della cucina.

“L’idea di mangiare appena sveglia un piatto di pasta non mi fa impazzire.”

“Ok.”

I gemelli iniziarono a mangiare in silenzio.

“Ma… da quant’è che suonate, di preciso?”, chiese.

“Beh… quanto sarà…”, chiese Bill al gemello.

“Mmh… Da quando avevamo sette anni”, disse Tom, dopo aver buttato giù il boccone.

“Ah. Beh, da tanto. Sapete, dove lavoro io ci sono dei gruppi che suonano. Perché non…”

“Ci faresti sul serio far suonare lì?”, chiese eccitato Bill, con un sorriso lungo chilometri.

“Beh… si potrebbe fare…”

“Wow! Tom hai sentito?!”

“E certo che ho sentito.”

“E non sei contento?!”

“Sì, ma non ti agitare così! Sembri un matto!”

“Uffa, Tom! E sciogliti un po’! Andiamo a suonare in uno dei pub più frequentati di qui!”

 

***

 

Passarono un po’ di giorni e a casa era tutto tranquillo, come al solito. A volte c’erano dei battibecchi tra Eva e Tom, ma poi si sistemava tutto. C’era affinità tra i due. E più Bill ci faceva caso, più se ne rendeva conto. Ma fino a quel momento, Tom non le aveva ancora strappato il sospirato bacio.

Quel pomeriggio sarebbero dovuti andare al Gröninger Bad, per vedere se li prendevano, con Eva. Lei era come il passaporto del gruppo. Senza lei, niente esibizioni.

“Allora Bill?”

“Sì! È perfetto!” Bill uscì dal bagno e fece un giro su sé stesso, sorridendo. “Come sto?”

“Bene!”

Era già pronto, tutto vestito bene, in nero, e truccato alla perfezione. Aveva usato l’ombretto che gli aveva dato Eva, ed era proprio meglio del suo.

“Grazie ancora, eh…”

“Per cosa?”, chiese lei.

“Per l’ombretto!”

“Ma va’, lascia stare. Piuttosto… Tom?”

“Ah boh, non so dove si è cacciato quello.”

“E va bene… vado a cercarlo io.”

“Ok. Intanto mi sistemo ancora un po’.”

“Mah, per me sei perfetto, ma fai come vuoi.”

Eva andò a cercare Tom. Aveva guardato in salotto, ma non c’era, in bagno neppure, perché c’era Bill. Andò in camera sua e lo vide, ancora, che guardava in mezzo ai libri di quella maledetta libreria, ma questa volta con qualcosa in più: aveva una specie di libro in mano, nero, con un cuore e altri adesivi su di esso. Il diario di Eva.

Lei era una tipa tosta, che faceva tanto la dura, perciò poteva sembrare strano che avesse un diario. Invece, eccolo lì. Nemmeno Tom si aspettava di trovare una cosa del genere.

Eva corse da lui e cercò di prendergli il diario dalle mani, ma lui fece un salto e si allontanò da lei.

“Ridammelo subito!”, sbraitò lei.

“No”, rispose lui.

“Ho detto di ridarmelo.”

“No, non te lo do.”

Eva gli fu di nuovo addosso, Tom indietreggiò, tenendo stretto il diario con una mano. Caddero sul letto, assieme, l’uno sopra l’altro, Eva sopra Tom. Lei soffocò una risata, ritrovatasi a cavalcioni su di lui in una posa non proprio consona ad una pseudo babysitter.

“Senti, moccioso che non sei altro, ridammi quel cazzo di diario”, disse arrabbiata. Anche Tom la guardò arrabbiato.

“Prima levati di dosso!”

“Non mi levo affatto se tu non mi ridai…”

L’espressione di Tom mutò rapidamente mentre lei si sentiva trascinare giù, verso di lui. Eva sapeva di non poterlo fare, era assolutamente da evitare, primo perché lei aveva sedici anni e lui tredici, e secondo passavano la maggior parte del tempo ad odiarsi, ma era così irresistibile in quei frangenti… che non poté opporsi e infatti si trovò a baciarlo.

Che cazzo stai facendo, stupida testa di cavolo che non sei altro?, le disse la sua coscienza, con quel briciolo di intelligenza che ancora possedeva. Ma la scacciò via in un attimo, nonostante lei pensasse che la cosa fosse sbagliatissima.

Si trovò pure sotto di lui, nascosti dall’ombra delle tende intorno al letto, le loro lingue che lottavano come in una discussione molto animata, una delle loro.

Tom le infilò le mani nella maglietta, in fondo alla schiena, lei che continuava a voler dominare, per non perdere il controllo della situazione. Lei, ora che c’era dentro fino al collo, lo considerava solo un gioco.

Non soffriva di solitudine, anzi, come abbiamo detto, a volte cercava l’isolamento totale, ma preferiva sfruttare le occasioni. E per lei quello non era altro che un gioco, che non sarebbe andato oltre il limite.

Ancora stando sopra di lui, giocando passionalmente con la sua lingua, Eva approfittò della situazione per fregare di mano il diario a Tom. Si era divertita, ora basta.

Lo prese e si staccò da Tom bruscamente, scendendo dal letto. Nascose il diario, mentre Tom era ancora dietro le tende del letto a baldacchino e non poteva vedere, e poi lo chiamò.

“Forza moccioso, dobbiamo andare, Bill ci aspetta.”  

 

***

  

Gröninger Bad.

“E così è qui che lavori… è una figata!”, disse Bill entrando.

Sì, peccato che sfruttino un casino e la paga è misera…

Bill si girò verso il fratello, si accorse che guardava Eva con un sorrisetto compiaciuto, mentre lei si guardava in giro cercando qualcuno che sapesse dove fosse il capo.

Ma che ha?, si chiese Bill.

“Allora, io vado a cercare il capo, voi state qui, buoni buoni, ok?”

“Ok”, rispose Bill, annuendo.

Tom si girò la custodia della chitarra tra le mani, tenendola appoggiata ai piedi. Quando Eva fu abbastanza lontana, Bill si piazzò davanti al gemello e lo guardò in faccia.

“Che ti prende?”, gli chiese.

“Nulla.”

“Non è vero. Che è quel sorrisetto?”

“Nulla.”

“Piantala di dire nulla! Non è vero!”

“Ok. Diciamo solo che ho vinto la scommessa.”

“Quale scommessa?”

“Quella che sarei riuscito a baciare Eva.”

“Che? L’hai baciata?”

“Ebbene sì, caro. E non direi che è stato un semplice bacio. Mi ha lasciato fare molto volentieri! Al contrario di quello che pensavi tu.”

“Non ci credo…”

“Credici! È davvero brava a baciare…”

“Ma non ci sarà nulla, vero?”

“Ma scherzi?! Io non andrei mai in giro con una alta più di me! Anche se farebbe un bell’effetto… No, ne vale del mio orgoglio. Volevo solo provarla.”

“E sì, perché le ragazze si provano come i jeans… Se non ti piacciono non li compri, ne?”

“Esatto!”

“Sei proprio un cretino.”

“Può darsi, ma intanto mi sono divertito. Uffa… ma quanto ci mette?”

I due si guardarono e andarono a cercarla. La videro in una stanza, che parlava con un uomo, grazie ad uno scorcio riuscivano ad intravedere da dietro alla porta.

“Ascolti, sono bravi. Ve lo posso assicurare…”

“E se non dovesse andare come dici tu?”

“No, impossibile. Qui è molto frequentato da giovani, e trovarsi in un luogo con della musica nuova, forte, d’impatto, è bello. Ci sarà sicuramente il pieno ogni volta che suoneranno loro. La supplico…”

Tom e Bill si guardarono allibiti.

Lo sta supplicando per farci suonare? Non l’avrei mai detto…

“Ok, va bene. Ma ad una condizione.”

“Quale?”

“Devi lavorare tutte le sere, ovviamente ti alzerò un po’ la paga, ma non più di tanto, visto che faccio suonare i tuoi gemellini.”

“Come? Tutte le sere?”

“Sì.”

“Ma io… io non posso! Come farò con la scuola, la scherma… Stare sveglia tutta la notte per poi fare tutto il resto… non reggo!”

“Allora puoi anche scordartelo. Riportati a casa i gemellini e ciaociao.” L’uomo fece un ghigno e la salutò chiudendo e aprendo la mano.

Eva era rimasta di sasso, i gemelli altrettanto fuori dalla porta, che però volevano entrare e fiondarsi addosso al verme. Si trattennero a vicenda, controllando i loro impulsi maneschi. Poi, il modo in cui li chiamava, gemellini, gli dava ancora più fastidio.

“E va bene.”

Che cosa?, si chiesero Bill e Tom, sgranando gli occhi.

Eva aveva accettato.

“Perfetto, allora possono suonare sin da domani. Arrivederci.” L’uomo si sedette sulla sua sedia girevole e si girò verso il muro, dietro alla scrivania.

Eva uscì incazzata, ma contenta di aver aiutato quelle due pesti. Si ritrovò davanti Bill e Tom, a braccia incrociate.

“Che volete? Ora suonate qui, contenti? Ora andiamo a casa.”

 

***

 

Quanti sacrifici aveva fatto per quei ragazzini e i loro amici, ma un giorno si rese conto che tutto quello che aveva fatto era servito a qualcosa.

Ora, Bill, Tom, Gustav e Georg, più semplicemente i Tokio Hotel, erano sul loro tourbus.

Famosi in tutta Europa e non solo, i gemelli, appena diciottenni, e Gustav e Georg, poco più grandi di loro, avevano un futuro meraviglioso di fronte a loro, che sarebbe durato per l’eternità.

So was wie wir geht nie vorbei (Qualcosa come noi non se ne andrà mai), cantava Bill in una delle sue splendide canzoni, con la sua splendida voce, accompagnato dalla splendida chitarra di Tom, dallo splendido basso di Georg e dalla splendida batteria di Gustav.

Grazie a Eva, grazie ai suoi sforzi, ai turni che ogni sera non volevano più finire, ma permettendo al gruppo di poter suonare in quel pub. Una sera, un produttore discografico era entrato per caso lì dentro e li aveva visti suonare. Da lì, iniziò l’avventura dei Tokio Hotel. La fama e i premi che non finivano mai.

Bill sorrise al finestrino, pensando a quel periodo, a Eva, a tutto quello che avevano passato insieme da quando era tornata in Germania.

“Oddio, Eva!”, disse, guardando il gemello di fronte a sé.

“Merda! Me ne ero completamente dimenticato!”, gridò Tom, affrettandosi a prendere il telecomando e ad accendere la tv.

“Eccola! Menomale… non è ancora finita…”, sospirò Bill.

“Sì, ma è in svantaggio! Dai Eva!”, urlò Tom, come se potesse parlarle dal televisore.

Mai mollare. Bisogna credere nei propri sogni. L’epica frase che Eva ripeteva ai gemelli. E proprio quella frase l’aveva portata così in alto. Olimpiadi. Scherma. Due parole. A buon intenditore poche parole.

Manca davvero poco alla fine… e Eva, alla sua prima partecipazione alle Olimpiadi, per l’oro, è in svantaggio. Ma non tutto è perduto, forza Eva. Porta a casa questo oro per la Germania…

“Cazzo Eva… Se non lo vinci ti pesto!”, disse ancora Tom, rivolto al televisore.

Eva parò il colpo e stoccata. Vantaggio per lei, tempo scaduto.

Ed Eva vince l’oro Olimpico al suo esordio nell’individuale femminile di scherma!

L’esulto nel tourbus, l’esulto di Eva sulla pedana. Si tolse il casco dalla testa e si inginocchiò a terra, mettendosi le mani sulla faccia, chinandosi, appoggiandosi a terra. Il suo allenatore che la raggiunse di corsa e la abbracciò. La aiutò a tirarsi su, la strinse.

“Sì! Ce l’ha fatta!”, esultò ancora Tom, alzandosi in piedi.

Furono momenti di gioia infinita. Eva si sistemò un po’ e si asciugò le lacrime sulle guance, passandosi un braccio sul viso.

Eva, Eva sei contenta?”, le chiese un giornalista televisivo.

Sì, sì che sono contenta!

Deve essere un’emozione fortissima per te… Insomma, prima Olimpiade, già l’oro. E poi, hai appena 21 anni.

Sì, sì, infatti… Mi devo ancora rendere conto di quello che ho fatto… Scusate…” Eva scoppiò ancora a piangere dalla felicità, asciugandosi gli occhi con il dorso della mano. “La felicità è troppa. Ti alleni per anni, poi vinci, è una grande soddisfazione.

A chi la dedichi questa vittoria? C’è qualcuno in particolare?

A… a tutti quelli che hanno creduto in me fino in fondo, ovviamente. A mia madre, soprattutto. E… a due gemelli rompiscatole, che non so se ora mi stanno guardando. Spero di sì, perché se no li picchio”, una risata da parte di Eva. “Ce l’ho fatta anche grazie a loro. Grazie ragazzi.  

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