A Black Lotus as Night

di Snow_Elk
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Animanera ***
Capitolo 2: *** Passione Blasfema ***
Capitolo 3: *** Incontro Inaspettato ***
Capitolo 4: *** Luce ed Ombra ***
Capitolo 5: *** Tentazione Subdola ***
Capitolo 6: *** Seduzione Demoniaca ***
Capitolo 7: *** Petali Calpestati ***
Capitolo 8: *** Emozioni Sbiadite ***
Capitolo 9: *** Frammenti di Sogno ***
Capitolo 10: *** Risveglio Fatale ***
Capitolo 11: *** Requiem Silenzioso ***
Capitolo 12: *** Bugie e Tormenti ***
Capitolo 13: *** Sussurri Passati ***



Capitolo 1
*** Animanera ***


 
A Black Lotus as Night

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Episodio I- Animanera

Continuava a far scivolare le dita sul bordo del bicchiere vuoto, con estrema delicatezza, osservandone i riflessi ambrati generati dalle candele che ardevano silenziose poco più in là.
Candele che, sparse in tutta la sala tra candelabri ed enormi lampadari, creavano un gioco di luce ed oscurità che si dilettava con le ombre di tutti i clienti del “Picchiere Nero”: aristocratici decaduti che brindavano ai tempi andati, viaggiatori che si scaldavano con bottiglie di distillati dalla dubbia provenienza e guardie fuori servizio che affogavano la stanchezza della giornata tra vino e chissà cos’altro.

C’era davvero gente di ogni genere, aveva adocchiato perfino dei mercenari, alcuni ragazzini che per dimostrarsi forti tiravano giù bicchieri di un liquore che avrebbe fatto bruciare la gola perfino a quel paladino egocentrico di un Vargas, e poi c’era lei:
se ne stava seduta lì da sola, a sfiorare con la punta delle dita i bicchieri vuoti, una, due, dieci, cento volte, senza un motivo preciso e ad amor del vero non si ricordava nemmeno qual’era quello per cui aveva iniziato a bere.

Era sola, e il suo tavolo era isolato, poiché nessuno aveva il coraggio di sederle accanto né tantomeno ne aveva voglia, ma di certo non poteva biasimarli: ormai tutti sapevano che ogniqualvolta lei andava lì a bere non voleva essere disturbata in alcun modo, da niente e da nessuno, e l’ultimo malcapitato che ci aveva provato era finito “appeso” alla parete con la lama della sua falce conficcata nel torace. La stessa falce che giaceva accanto a lei come una compagna silenziosa  e che attirava lo sguardo inquietato di chi ancora non conosceva la sua storia.
Nessuno le aveva mai rinfacciato quell’episodio, tutti temevano le reazioni della “Dea Falce”, e semplicemente si limitavano ad evitarla come la peste o a tacere quando il suo sguardo calava su di loro come una cupa sentenza. Patetici.
L’oste non l’aveva ancora sbattuta fuori a vita dal locale per il semplice fatto che aveva paura o, ancor meglio, perché con quello che spendeva in alcolici lo aveva praticamente reso ricco da fare schifo.

Sospirò, per poi inspirare con gusto quell’insieme particolare di odori e fragranze: l’odore della cera bruciata, l’aroma intenso delle pietanze appena sfornate, i profumi variopinti dei fiori raccolti nei vasi e delle colonie all’ultima moda in cui le nobildonne sembravano farsi letteralmente il bagno.
Le note acri del legno che ardeva nel camino in pietra la riscossero da quel torpore in cui era caduta mentre osservava l’ambiente circostante. Scosse la testa, si passò una mano nei capelli corvini e chiese a Jev, uno dei pochi camerieri che aveva il coraggio di rivolgerle la parola, di raggiungerlo al tavolo. Aveva abbassato un attimo la testa e già la figura snella del ragazzo la oscurava mentre sfiorava con la guancia la superficie ruvida del tavolo.

- Bevuto troppo, signorina?- chiese, trattenendo una mezza risata che gli sarebbe costata  cara.
- Quante volte ti ho detto di non chiamarmi signorina? Chiamami semplicemente Alice, ci vuole così tanto?– lo fulminò con lo sguardo e quello deglutì, sorpreso da quella freddezza improvvisa.
- Beh con questa direi che siamo arrivati a 163 volte, se arriviamo a 200 ti prometto che il prossimo giro lo offro io- il giovane scoppiò a ridere, tornando serio poco dopo vedendo che lei era rimasta impassibile.
- Per gli deì, le hai contate?- scosse la testa, stupita.
-Già, è un passatempo come un altro. Comunque, non pensi di aver bevuto troppo?-
- Non abbastanza, non riesco ancora a vedere tutti e 12 i Guardiani Celesti che mi guardano male, ti pare? Quindi portami un altro bicchiere – questa volta il cameriere rise di gusto e anche lei sorrise, pensando a quanto fosse stata stupida quell’affermazione.
- Un altro Animanera? Sarebbe il settimo- sembrava perplesso.
- Sì, quel liquore è l’unica cosa che non mi fa pensare e poi è dannatamente buono –
- Puoi giurarci, se ti reggerai ancora in piedi quando finisco il turno ci facciamo un altro giro anche io e te. E’ tutta la sera che servo bottiglie di questo cose e non ne ho provato nemmeno un goccio. Ci stai? – ammiccò sorridendo, lei ricambiò.
- D’accordo, ma lo sa tutto il locale che tu reggi come una ragazzina. Ora portami quel benedetto sesto bicchiere – tornò a poggiare la testa sul tavolo.
- Settimo, Alice, settimo –  Jev sghignazzò nel pronunciare quelle parole.
- Quello che è, portami quel bicchiere e falla finita, o giuro che ti appendo alla parete. Chiaro?-
- Sissignora!- un altro mezzo sorriso e lo vide scomparire in mezzo alla moltitudine di frequentatori, occasionali e non, che affollavano la sala principale del Picchiere Nero.

Lo vide riapparire pochi minuti dopo, sempre con quel suo sorriso spavaldo e con la classica faccia da schiaffi che si ritrovava, ma sul vassoio argentato non portava solo il suo ennesimo bicchiere, ma un’intera bottiglia di animanera, nuova di zecca. La guardò incuriosita, mentre la poggiava con garbo accanto alla sfilza di bicchieri vuoti e al candelabro agghindato di cera sciolta.
- E questa? – chiese, indicando la bottiglia.
- Mi sa che hai fatto colpo, sai?-
- Che cosa stai blaterando? –
- Dico che il signore là in fondo, quello coi capelli bianchi e la maschera nera, lo vedi? Bene, quel tipo lì mi ha avvicinato e mi ha detto che offre lui, sia il giro che la bottiglia. Ora non so se hai fatto colpo tu o la falce – le sue risate la investirono come una folata di vento gelido. Per un attimo incrociò lo sguardo del misterioso benefattore  e sentì un brivido correrle lungo la schiena.
- Sparisci! – esclamò, ma poco dopo ci ripensò – Anzi, aspetta, va da quel gentiluomo tanto cortese e invitalo a venire a bere qui con me. Se mi scolo questa da solo rischio davvero di vedere Cardes che balla il can can – per un attimo risero entrambi e Jev, annuendo, si gettò di nuovo nella folla di persone che beveva e ballava.

Lei posò la testa sulle braccia e rimase a fissare il liquido scuro dai riflessi violacei che sembrava inghiottire la luce stessa: come diavolo le era passato per la testa di invitare uno sconosciuto a bere con lei? D’accordo, era stato gentile a offrirle un’intera bottiglia di Animanera, ma non era abbastanza per spingerla a quel gesto così fuori dalla sua personalità.
Imprecò a bassa voce, auto maledicendosi per il semplice fatto di non aver ragionato un attimo in più, lasciando il via libera alla lingua malfamata e subdola dell’alcol. Sospirò, ormai era troppo tardi per tornare indietro, aveva fatto il danno e ne avrebbe pagato le conseguenze, pezzo dopo pezzo. Nel pensare a tutto ciò si scolò in un colpo solo il settimo bicchiere e sentì la gola e i polmoni andarle in fiamme, mentre il sapore dolciastro e tetro dell’animanera le scivolava in gola, lentamente, tirandosi dietro ogni pensiero.

Aveva appena poggiato il bicchiere vuoto quando l’uomo mascherato si accomodò di fronte a lei: indossava un abito elegante nero, con tanto di camicia bianca e cravatta rosso sangue, la giaccia leggermente più scura era abbinata con eleganza alla maschera che gli copriva parte del viso, lasciando però intravedere due profondi occhi rossi che la squadrarono dalla testa ai piedi. I capelli bianchi portati all’indietro incorniciavano un viso dai tratti ben delineati e un sorriso che poteva avere mille significati gli smosse le labbra, quando i loro sguardi si incrociarono.
- Vedo che hai iniziato senza di me – esordì, alludendo al bicchiere vuoto che fino a pochi attimi prima traboccava di liquore scuro. Alice, nonostante la sua natura, si sentì in imbarazzo, senza sapere il perché.
- Avevo la gola secca- si giustificò, distogliendo lo sguardo – Piuttosto, perché mi hai offerto questa bottiglia di punto in bianco? Nemmeno ci conosciamo – in una situazione classica l’avrebbe già appeso alla parete con la sua falce, come da routine, ma c’era qualcosa che la teneva inchiodata a quella sedia, a parlare con quello sconosciuto, a scacciare qualsiasi pensiero violento che avrebbe trasformato la sala in una bolgia di gente che urlava e scappava in tutte le direzioni.
- Bere da soli è triste, dannatamente triste, non trovi? E poi è raro vedere una ragazza bere l’animanera come se fosse acqua, hai fegato, non c’è che dire. Diciamo che ho voluto sfidare la sorte, hai qualcosa in contrario, Alice? – sentendosi chiamare per nome alzò di nuovo lo sguardo e i suoi occhi color ametista incrociarono quelli rossi del gentiluomo. Si sentì mancare, come d’un tratto non fosse più capace di reggere quel liquore infernale: c’era qualcosa in quegli occhi, qualcosa di particolare, il suo sguardo era intenso, penetrante e doveva ammetterlo, ammaliante, come se potesse leggerle dentro l’anima e tutto ciò la metteva a disagio, ma d’altro canto la incuriosiva, e non sapeva spiegarsi il perché.

- Come fai a sapere come mi chiamo? – chiese, usando la scusa di versare da bere ad entrambi per non reggere il confronto con quei due rubini infuocati.
- Credo lo sappiano tutti da queste parti, com’è che ti chiamano? La Dea Falce? – l’uomo afferrò il bicchiere, ringraziando con un sorriso accattivante, e sorseggiò con gusto l’animanera, come se fosse stato il più classico dei liquori.
- Mi hanno dato tanti nomi, diciamo che questo ormai è diventato quello “ufficiale” e che molti altri non sono esattamente dei complimenti-  bevve anche lei, lanciando occhiate qua e là per capire se qualcuno li stesse osservando o meno.
- Lasciali parlare, la gente ama criticare gli altri per non guardarsi allo specchio e vedere gli spettri che si trascina dietro- trasmetteva un senso di sicurezza e quasi di onniscienza a cui non riusciva a dare una spiegazione che si reggesse in piedi da sola, voleva approfondire la questione, scoprire qualcosa in più su quell’uomo.

- Parole molto profonde, non c’è che dire. Ma dimmi, questo filosofo ce l’ha un nome o preferisce continuare a giocare all’uomo mascherato?- non sapeva più se era lei a parlare o l’alcol, eppure continuava a bere, così come continuava a fissare di sottecchi il suo interlocutore.
- Cinica, eh? Mi piace, hai carattere, comunque sì, ho un nome…- si sfilò con delicatezza la maschera, mostrando un volto dalla bellezza senza tempo, dal fascino straziante e levando quel frammento di stoffa che li incorniciava con malizia i suoi occhi sembrarono farsi ancora più profondi e suadenti. Scosse la testa quasi a volersi riprendere da uno stato di trance.
- Puoi chiamarmi Debran – nel pronunciare quella frase le baciò la mano come facevano i galantuomini di una volta e lanciò uno sguardo tagliente e terribilmente profondo che le squarciò il cuore: in quel momento si sentì avvampare le guance e sapeva che non era dovuto al fatto che stava bevendo come una pezza.
- Piac…ehm… piacere di conoscerti, Debran. Com’è che non ti ho mai visto da queste parti? Sei nuovo?- ormai non sapeva più nemmeno lei che cosa stava dicendo, si sentiva accaldata, invasa da emozioni contrastanti e feroci, c’era qualcosa che non andava, ma non riusciva a staccarsi da quegli occhi rossi che continuavano a fissarla senza tregua, quasi in attesa che cedesse, da un momento all’altro.
- Sono stato lontano da Randall per molto tempo, diciamo così, e ora sono finalmente tornato . E tu?– il mondo intorno a lei si era fatto più confuso e oscuro, la sua voce era diventata qualcosa di prepotente, un miscuglio di seduzione e sicurezza, un principio di desiderio. No, non era l’effetto di animanera, no, era qualcos’altro, ma non riusciva a farne a meno, era piacevole, era unica come sensazione.

Continuarono a parlare e a bere per un tempo imprecisato, tempo che lei non sentì minimamente scivolarle addosso, poiché tutti i suoi sensi erano impegnati in quel conflitto interiore che la stava dilaniando, erano tutti presi da quello sguardo rosso rubino, che ardeva come le fiamme dell’inferno. Solo le candele ormai consumate sul candelabro in ottone e la bottiglia di animanera ormai vuota confermavano alla sua mente scossa e confusa che aveva passato almeno due ore seduta a quel tavolo con Debran, ore che le erano sembrate semplicemente minuti.
Non riusciva minimamente a capacitarsi di ciò che stava accadendo, ma il suo corpo e la sua mente sembravano propense a proseguire su quella strada anche se lei si fosse opposta in qualche modo, nonostante l’intera situazione non avesse alcun senso.

- Stai bene? – le chiese il giovane, agitando il bicchiere con quel poco di animanera che era rimasto: a differenza sua lui non sembrava minimamente turbato, confuso, o intaccato da uno dei liquori più distruttivi mai concepiti a GrandGaia. No, anzi, dava la netta impressione di avere tutto dannatamente sotto controllo, con le redini della situazione in mano e quello sguardo calmo, deciso e senza tempo.
- Più o meno- rispose lei, socchiudendo leggermente gli occhi, più sincera del solito, a metà dall’esser lucida o completamente ubriaca, in bilico su quell’oceano di emozioni che era diventata la sua anima. Stava bruciando dentro, senza nemmeno accorgersene.

- Hai bisogno di riposare e non sei nelle condizioni di tornartene a casa, fuori sta diluviando da almeno mezz’ora- quelle parole le giunsero distanti, l’eco distorto di un tempo a cui sembrava non appartenere più, il sussurro di un peccatore che affida la propria anima alla luna e alle ombre della notte – Hai bisogno di riposare, mia piccola Alice…- quell’ultima frase, un altro sussurro che sembrava provenire dalla sua stessa anima aveva lo stesso sapore del sangue, lo stesso profumo di petali di rose calpestate sotto la pioggia.
Non poteva rinunciare, non avrebbe rinunciato, la bottiglia ormai era vuota, i bicchieri anche, così come la sala, e il suo ultimo sospiro spense la fiamma della candela, gettando il tavolo e la sua stessa anima nell’oscurità, mentre i suoi passi leggiadri si dileguavano nel buio, seguendo quelle fiamme che la stavano consumando dentro.
 
 
Fuori pioveva, la finestra aperta lasciava entrare qualche goccia d’acqua che si infrangeva silenziosa sul pavimento. Fuori pioveva, sentiva la sinfonia della pioggia, ma lei non provava freddo, si sentiva bruciare dentro. L’aria fredda le sfiorò le spalle nude facendola rabbrividire leggermente e solo in quel momento si accorse che non aveva addosso il lungo copri spalle, abbandonato chissà dove, chissà come. L’oscurità che la circondava non le permetteva di capire quasi niente, le era entrata in testa, nell’anima, la avvolgeva come nebbia, l’abbracciava come un angelo caduto. Era poggiata contro qualcosa o forse contro qualcuno e quando sentì due mani forti esplorarle il corpo con avidità si sentì mancare. Che cosa stava succedendo?

Due labbra fredde come la morte e calde come il sole le sfiorarono il collo e sussultò, ansimando leggermente mentre una delle mani le accarezzava il seno sopra il corsetto. Socchiuse gli occhi assaporando quella sensazione di piacere che si insinuava nella sua pelle come veleno, un peccato blasfemo che avrebbe macchiato anche il più candido dei cuori. Quando li riaprì trovò  nello specchio dinanzi a lei il riflesso di due rubini che la fissavano nel buio della stanza, uno sguardo che non aveva bisogno di descrizioni, uno sguardo che pretendeva una risposta silenziosa e il suo fiato corto, i brividi che la facevano tremare gliel’avevano appena data. Non aveva scampo, era diventata schiava di una passione insana di cui aveva assaporato solo il principio.
“ Sei mia… piccola Alice” un solo, unico sussurro e poi solo il buio.

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Capitolo 2
*** Passione Blasfema ***


A Black Lotus as Night

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Episodio II- Passione Blasfema

Fuori pioveva, la finestra aperta lasciava entrare qualche goccia d’acqua che si infrangeva silenziosa sul pavimento. Fuori pioveva, sentiva la sinfonia della pioggia, ma lei non provava freddo, si sentiva bruciare dentro.
Quel tale, Debran, l’aveva convinta a salire nelle sue stanze, al piano superiore del Picchiere Nero, con la scusa di farla riposare e riprendere un attimo perché aveva un po’ troppo alzato il gomito con l’animanera e c’era gente che in  un gesto simile ci aveva lasciato le penne e non solo la cena. Ironico, visto che quella era l’ultima cosa che si ricordava prima di ritrovarsi distesa su un letto dannatamente morbido e, complice l’oscurità, quasi infinito.
Si sentiva frastornata, confusa, come se qualcuno l’avesse fatta roteare più e più volte su se stessa, doveva aver bevuto davvero tanto, e sembrava quasi che tutte le energie del suo corpo l’avessero abbandonata, sconvolte da quel suo comportamento così “indecente”.
 
E poi c’era quella sensazione di calore al petto che non l’aveva abbandonata nemmeno per un secondo, una fiamma che bruciava al posto del suo cuore e che stava scatenando un incendio di emozioni nella sua stessa anima. Quanto a lungo poteva ardere in quell’oscurità così cupa e suadente? Dov’era Debran? perché sentiva così tanto la sua mancanza? Dopotutto l’aveva conosciuto solo poche ore prima.
I suoi occhi color ametista saettarono da una parte all’altra della stanza, alla ricerca di un particolare, di qualcosa che le confermasse che si trovava ancora alla locanda, ma il buio inghiottiva tutto con le sue fauci oscure e solo i lampi illuminavano l’ambiente circostante per alcuni, fatidici, secondi accentuandone i dettagli, l’aria intrisa di pioggia, il cuore che le era rimasto in gola.
 
Fuori pioveva e dentro di lei qualcosa urlava di desiderio, spingendola a stringere con forza le lenzuola di cotone candide, a rivoltarsi nei suoi stessi vestiti, a sbottonare con forza il copri spalle nero. Sciolse il fiocchetto viola che teneva unite le due parti e se lo sfilò di dosso, come se all’improvviso fosse diventato pesante, quasi opprimente, lasciando le spalle pallide scoperte, lasciando intravedere il corsetto di pizzo nero che le cingeva il torace con eleganza. Lanciò il copri spalle nell’oscurità della stanza con nonchalance e tornò a fissare il vuoto o il soffitto, passava da uno all’altro con un senso di inquietudine assoluto, non riusciva a darsi pace.
- Debran, dove sei?- aveva pronunciato davvero quella domanda o se l’era solo immaginato? La confusione, l’oscurità, la stanchezza perenne e la sinfonia sinistra e melodrammatica della pioggia non contribuivano in alcun modo ad aiutarla, a farla ragionare a mente lucida. Stava delirando, no, peggio, stava affogando in un oceano di desiderio senza freno.
- Sono qui, piccola mia – sentirsi chiamare a quel modo, in altre circostanze, le avrebbe fatto venire il sangue acido, ma in quel momento la fece quasi sussultare di piacere. Allargò le braccia alla ricerca di quel corpo che ormai bramava senza neanche sapere perché, intravedendo quei due rubini che la fissavano nel buio. Era vicino a lei. Lo percepiva, sentiva il suo profumo.
- Vieni da me, abbracciami, vieni da me – ripeteva quelle parole come una sorta di supplica, come un’invocazione che attendeva di essere esaudita dalla divinità di turno. Perché? Perché stava provando tutto quel desiderio ardente verso quell’uomo? Non aveva alcun senso, solo un paio di occhi rosso sangue.
 
L’uomo  la sovrastò con la sua mole, si sentiva una ragazzina ai primi passi dell’adolescenza a confronto, posando le mani poco sopra le sue spalle: si era levato la giaccia e la camicia bianca sembrava  brillare di luce propria nel buio della stanza, così come i capelli che scivolando leggiadri gli incorniciava il viso dalla bellezza straziante.
Un brivido la scosse fino alle ossa, poteva sentire il suo respiro, l’odore intenso dell’animanera che avevano bevuto insieme fino a poco prima, c’era qualcosa di altamente insano e blasfemo nei suoi pensieri, così come nello sguardo di Debran, che restava in silenzio.
 
La stava osservando, in attesa di qualcosa, un gesto forse? Oppure una frase? No, non stava aspettando nulla, quando l’ametista incontrò i rubini capì che la stava letteralmente spogliando con gli occhi, pezzo dopo pezzo, fino a denudarle l’anima e sentì le sue guance avvampare come le fiamme di una fornace.
- Che cosa vuoi che faccia? – le chiese, con un sussurro, e lei sentì di nuovo quel brivido, freddo sì, ma dannatamente piacevole scivolare veloce tra la sua pelle e le pieghe delle lenzuola.
- Baciami, ti prego, baciami e fammi tua! – esclamò, restando stupita di quello che aveva appena urlato, ma la sua mente era già altrove, il suo corpo si stava per abbandonare ad una passione sfrenata e la sua anima era ormai incatenata a qualcosa che andava ben oltre la sua immaginazione.
- Sarà fatto – le sussurrò  all’orecchio con una nota di sadismo che si dissolse ben presto nell’aria come il fumo di una sigaretta, mentre la tirava a sé afferrandola da uno dei nastrini del corsetto e lei non oppose resistenza, come una piccola bambola di porcellana che attende di essere accarezzata dal suo padrone: le sue labbra si posarono voraci sulle sue, sentì prima l’umido e poi un calore inconcepibile che dalla bocca si spingeva in basso, verso la gola, fino a bruciarle l’intero petto tanto che a confronto l’animanera sembrava acqua e nient’altro.
 
Spinta da una foga indescrivibile lo strinse a sé, bramandolo come un tesoro dal valore inestimabile, affondandogli le unghie nella schiena robusta, mordendogli le labbra carnose, cercando con la lingua la sua, tenendo gli occhi socchiusi per non dover reggere il peso di quei rubini incastonati in quella maschera di seduzione. Sarebbe bruciata tra le fiamme della lussuria più e più volte, per una scelta che non era stata sua, né del liquore, ma che stava assaporando come se non ci fosse stato un domani.
Mentre ancora lei bramava quelle labbra che avevano il sapore dell’animanera lui la respinse dolcemente e posando le mani sulle sue spalle la volse con delicatezza dall’altro lato, dove un enorme specchio ovale le rispediva il suo sguardo confuso, vuoto, ma comunque carico di passione, una piccola ombra viola accanto a quei due rubini che la fissavano incessantemente con una tale intensità che si sentiva in soggezione, sempre di più.
Era seduta sul letto, rigida, con le gambe ricoperte dai lunghi stivali che zigzagavano tra le coperte e le mani poggiate in grembo, irrequiete, desiderose di esplorare quel corpo di cui sentiva il respiro sulla pelle.
 
Debran era alle sue spalle, percepiva la sue presenza quasi ossessiva, ma perché l’aveva fatta voltare verso lo specchio? Perché si era fermato?
Prima che potesse continuare a farsi domande a cui nessuno avrebbe  risposto due labbra fredde come la morte e calde come il sole le sfiorarono il collo e sussultò, ansimando leggermente mentre una delle mani le accarezzava il seno sopra il corsetto, con estrema delicatezza,  sfiorandolo come se fosse stato un oggetto di cristallo, affascinante e fragile al tempo stesso. Socchiuse gli occhi assaporando quella sensazione di piacere che si insinuava nella sua pelle come veleno, un peccato blasfemo che avrebbe macchiato anche il più candido dei cuori.
 
Uno, due, cinque baci sul collo e ognuno di loro era una scarica di adrenalina, una scossa di lussuria verace che la costrinse ad afferrare con forza le lenzuola fin quasi a lacerarle per non voltarsi e abbandonarsi ai suoi istinti più oscuri e reconditi, a qualcosa che in cuor suo aveva sempre creduto di non possedere.
- Co… cosa vuoi fare? – gli chiese, ansimando tra una parola e l’altra, socchiudendo di nuovo gli occhi mentre lui le scoccava un bacio più intenso e vorace dei precedenti, un bacio che si trasformò ben presto in un morso che la fece sussultare di piacere.
- Voglio che tu veda con i tuoi occhi a cosa ti sei abbandonata, al peccato che stai consumando… inconsapevolmente, tra le braccia di una follia senza volto, mia piccola Alice… - quando li riaprì trovò  nello specchio dinanzi a lei il riflesso di due rubini che la fissavano nel buio della stanza, uno sguardo che non aveva bisogno di descrizioni, uno sguardo che pretendeva una risposta silenziosa e il suo fiato corto, i brividi che la facevano tremare gliel’avevano appena data. Non aveva scampo, era diventata schiava di una passione insana di cui aveva assaporato solo il principio.
 
Sentì le sue mani bramose iniziare a sfilare i vari nodi del corsetto, uno dopo l’altro: la destra che trascinava via i fiocchetti ed ognuno di essi era un brivido lungo la schiena, la sinistra si spingeva più in basso, tra i merletti delle gonne e lei non osava minimamente opporre resistenza. Stava accadendo tutto così in fretta, stava accadendo, ma era tutto così surreale.
Eppure, quando nel riflesso dello specchio vide il suo corpo seminudo e quelle mani che lo toccavano e accarezzavano con un desiderio imprevedibile e subdolo si bloccò di colpo, smise di gemere di passione e il suo sguardo vuoto rimase fermo a fissare quell’immagine dai contorni sfocati e dall’anima oscena.
Un senso di angoscia e di panico si impossessarono di lei, come prima aveva fatto il desiderio di concedere tutta se stessa a quell’uomo,  e continuando a fissare lo specchio mosse le labbra con estrema lentezza:
- Oh mio Dio, che cosa sto facendo? – senza attendere una risposta che non sarebbe mai arrivata si divincolò dalla presa di Debran, che stranamente non fece nulla per fermarla, e si rialzò fissando scioccata l’uomo che le sorrideva come se niente fosse.
- Che cosa aspetti? – disse, con un filo di voce, quelle gocce di fuoco che la stavano dilaniando dall’interno – Scappa – e quella parola si tramutò in un ordine per lei, che scossa dai tremiti e da un’incredulità senza limiti si guardò intorno alla ricerca di via di fuga da quell’incubo. La porta era sbarrata, l’oscurità le impediva di orientarsi bene e la finestra sembrava l’unica via di salvezza.
- Avanti, Alice, scappa! – esclamò Debran lanciando qualcosa contro lo specchio che si infranse in parte, ricoprendosi di crepe, generando una miriade  astratta di riflessi. Con il cuore in gola e la testa che batteva come se stesse per esplodere si lanciò fuori dalla finestra aperta, rotolando a terra per attutire la caduta e imprecando più volte per il dolore lancinante che l’attraversò dalla testa ai piedi.
Si lasciò alle spalle Il Picchiere Nero, Debran e tutto quello che era successo, correndo a perdifiato sotto la pioggia battente,  scomparendo in quel turbinio di acqua e vento, desiderando in cuor suo di essere inghiottita dalla notte stessa.
Non sapeva nemmeno dove stava andando, aveva freddo, era ancora confusa e probabilmente stava girando in tondo senza nemmeno accorgersene.
Stava per fermarsi a riprendere fiato quando inciampò ritrovandosi a terra: era bagnata fradicia, le vesti e i capelli le si erano attaccati addosso e stava letteralmente tremando per il gelo che le era entrato anche nelle ossa.
 
Scoppiò a piangere, in silenzio, stringendosi nelle spalle, e in quel momento non sentì altro che le sue lacrime scivolarle sulle guance come rasoi, neanche una goccia di pioggia, eppure intorno a lei continuava a piovere a dirotto.
Stupita alzò lo sguardo e si ritrovò davanti un uomo vestito in modo elegante, dai lunghi capelli biondo platino, dal sorriso rassicurante e con due occhi ambrati che la osservavano dolcemente. Per un attimo aveva temuto che fosse Debran, ma era qualcun altro e reggeva un grande ombrello nero con il quale la stava proteggendo dalla pioggia. Le si inginocchiò accanto e ricordandosi che parte del corsetto era sfilato, lasciandola seminuda, arrossì e cercò di coprirsi la parte destra del seno col braccio, abbassando lo sguardo. L’uomo sorrise e sfilandosi la giacca gliela posò sulle spalle.
- Non ti preoccupare, Alice, andrà bene, andrà tutto bene –
Fuori pioveva, fuori faceva freddo, il suo cuore sembrava essersi ghiacciato, ma stranamente, incrociando per un attimo quegl’occhi si sentì al sicuro… a casa.

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Capitolo 3
*** Incontro Inaspettato ***


A Black Lotus as Night

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Episodio III- Incontro Inaspettato


Continuava a piovere, ma quella sinfonia di gocce e freddo, di tuoni e lampi si era fatta più taciturna, un leggiadro sottofondo a quell’incontro inaspettato.
Si strinse nella giacca scura, i vestiti fradici attaccati alla pelle la stavano facendo tremare come una foglia e quello che aveva appena passato, insieme all’aver bevuto senza alcun contegno, di certo non l’aiutava. Anzi, il mal di testa peggiorava solo le cose, ogni singolo pensiero diventava una spina che si conficcava nella sua povera testa.
- Come ti senti?- sentiva le gocce d’acqua scivolare dai capelli bagnati fino alle guance, alcune fino al collo, e ognuna di loro era un brivido che faceva gelare il sangue nelle vene.
Strinse ancora di più la giacca, abbassò lievemente la testa e sospirò: ormai in quella notte di tempesta non riusciva più a distinguere cosa fosse reale e cosa fosse frutto dell’immaginazione.
- Alice, come ti senti? -  nell’udire il suo nome alzò lo sguardo e incrociò quegli occhi ambrati, circondati da una cornea nera come la notte stessa.
Erano inquietanti, ma al tempo stesso affascinanti, tenere testa a quegli occhi richiedeva uno sforzo immane, era come trattenere il respiro sott’acqua. Vuoi forse annegare?
- Non bene… - balbettò -… sono stanca- aggiunse, con la vista annebbiata e una stanchezza in corpo che non aveva mai provato in vita sua, nemmeno dopo la più cruenta delle battaglie.
- Che cosa ti è successo? – la sua voce era calda, anche sotto la pioggia.
- Non lo so, dannazione, non lo so!- esclamò, frustrata, allentando la presa sulla giacca, sentendo salire le lacrime. L’uomo rimase in silenzio, si sentivano solo le gocce di pioggia che si infrangevano contro la superficie dell’ombrello.
Fu lei a rompere quel silenzio, con un filo di voce:
- Chi sei? – chiese.
- Ora non ha importanza, devo portarti via da qui o ti beccherai un accidenti- rispose, fulminandola con lo sguardo, lei avrebbe voluto controbattere ma le forze la stavano abbandonando, mentre il freddo l’avvolgeva nella sua morsa di ghiaccio.
Vide l’uomo chiudere l’ombrello, sentì di nuovo la pioggia bagnarle il viso, e l’osservò stupita mentre si inginocchiava per prenderla in braccio: le posò un braccio dietro le spalle e l’altro sotto le gambe, vicino alle ginocchia, con la stessa delicatezza che si può riservare ad un neonato o ad una bambola di cristallo.
Lei gli circondò il collo con le braccia, quasi involontariamente, e posò la testa sulla sua spalla, socchiudendo gli occhi. La sollevò con una facilità inumana.
Ignorando la pioggia battente, si lasciò cullare dai suoi passi per abbandonarsi tra le braccia di Morfeo. L’ultima cosa che vide furono le sue labbra incresparsi in un mezzo sorriso, un fulmine squarciò il cielo e poi ci fu solo il buio.
 
                                                             […]
 
Bloccata. Non riusciva a muoversi, sentiva qualcosa che le serrava i polsi e le caviglie, qualcosa di freddo, metallico. Catene? No, non poteva essere, non voleva crederci.
Provò ad aprire gli occhi, ma non riuscì a vedere niente, se non un’oscurità macchiata di rosso.. L’avevano bendata? Chi? E perché? Sentì salire l’ansia e la paura quando tentò di dimenarsi senza grandi risultati. Bloccata, era davvero bloccata, ogni tentativo di movimento era vano e contribuiva solo a rendere la presa delle catene più persistente e ossessiva, una prigionia che le stava lacerando la pelle e le carni, se non l’anima stessa.
Era coricata su qualcosa di morbido, forse un letto, ma non aveva importanza perché ciò che la spaventava di più era la sensazione di essere completamente nuda e, con ogni probabilità, lo era. Rabbrividì.
- Liberatemi!- urlò, presa dal panico, si era sempre reputata pronta a tutto, ma mai avrebbe immaginato qualcosa del genere, mai.
- E’ forse paura quella che percepisco nella tua voce?- le chiese una voce familiare. Profumo di petali calpestati, di animanera appena versato.
- Debran? Sei tu? Che cosa mi hai fatto?- la confusione e la paura la stavano divorando come due avvoltoi famelici. L’esser bloccata e il non poter vedere la faceva sentire terribilmente fragile, tanto che una semplice carezza avrebbe potuta spezzarla.
- Io? Io non ho fatto nulla. Questa è tutta opera tua, mia piccola Alice-  ogni singola parola rappresentava una fitta al cuore, un respiro in meno, si sentiva mancare e non poteva fare nulla per impedirlo.
- Non è vero, io… io non potrei mai… - si interruppe, sentiva che era vicino, molto vicino, ma ancor più che qualcosa dentro di lei le impediva di negare quella sorta di accusa sottintesa e ciò la inquietava.
- La parte più profonda della tua anima reclama tutto ciò, mia piccola Alice, io l’ho sentita urlare, sta bruciando di desiderio. Mi capisci, non è così? – doveva trovarsi ad un soffio da lei, lo percepiva, e quando sentì le sue fredde mani accarezzarle il corpo nudo, fino a giungere ai seni, sussultò, facendo tentennare le catene.
- Lasciami andare, lasciami andare! – urlò a squarciagola in preda a qualcosa che oscillava tra il terrore più puro e la rabbia più oscura. Debran rise di gusto, continuando a sfiorarla per il solo diletto di vederla rabbrividire ogni volta. Le si avvicinò con le labbra all’orecchio, smuovendo l’aria quel tanto che bastava a farle capire che era vicino, troppo vicino.
- Non posso, mia piccola Alice, perché sei mia… solo mia! – le morse l’orecchio e lei  urlò, alzandosi di scatto da quella prigionia e all’improvviso non sentì più la presa fredda delle catene, né tantomeno la sottile presenza della benda che le impediva di vedere.
Spalancò gli occhi, terrorizzata, accecata dalla luce del sole che filtrava da una grande finestra e percependo che c’era ancora qualcuno accanto a lei esclamò – Falce! – e l’enorme arma doppia lama si smaterializzò tra le sue mani e fendendo l’aria stessa roteò per scagliarsi contro colui che l’aveva imprigionata e umiliata, contro Debran.
Sentì qualcosa di poderoso bloccare il suo fendente, un intenso profumo di rose e infine l’aroma del tabacco che bruciava lentamente. Tutto ciò non aveva senso.
La confusione la attanagliò in una morsa soffocante e quando finalmente la vista si adattò all’intensa luce del sole rimase stupita: niente catene, niente bende, era vestita, coricata in un letto morbido e profumato, e dall’altra parte della falce, dove ci sarebbe dovuto essere Debran e il suo sguardo sadico c’era lo stesso uomo che l’aveva soccorsa sotto la pioggia, quando era scappata dal Picchiere Nero.
Aveva bloccato l’enorme lama violacea tra due dita, come se fosse stato un semplice foglio di carta, la osservava con estrema calma, restando immobile, mentre nell’altra mano reggeva una sigaretta sottile che ardeva silenziosa, rilasciando piccole scie grigiastre che si perdevano tra i raggi del sole. Nel suo sguardo c’era una calma estrema, un intero oceano dorato che non fiatava.
- E’ così che tratti le persone che ti salvano la vita?- un mezzo sorriso smosse quella maschera impassibile che la stava fissando quasi in modo inquisitorio.
- No, è solo che…- aveva appena fatto una pessima figura, una scenata che il comandante dei Loto Nero non si sarebbe mai potuta permettere. Non arrossì solo perché se lo impose con tutte le sue forze, si limitò ad abbassare la testa e  a far sparire la falce in un volo di farfalle dalle ali color ametista. L’altro osservò quel piccolo spettacolo e questa volta sorrise di gusto, tra una boccata e l’altra.
- Un brutto sogno, giusto? – le chiese, porgendole un portasigarette completamente in argento e finemente decorato, notando i suoi sudori freddi. Lei ne afferrò una e sorrise divertita quando l’altro la accese con un semplice schiocco delle dita.
- Come diavolo hai fatto? Vieni forse dal regno di Agni? – aspirò una boccata e si sentì rinascere, dopotutto la stanchezza era diventata l’eco di se stessa e perfino il mal di testa aveva smesso di urlare nella sua mente. Stava meglio, stava decisamente meglio,  tralasciando quel sogno.
- No, diciamo che me l’ha insegnato un vecchio amico. Non hai ancora risposto alla mia domanda – era poggiato contro la parete, braccia incrociate e una camicia piena di merletti che lasciava intravedere parte del petto oltre la cravatta allentata.
- Ah, giusto, comunque sì, anche se lo definirei più un incubo… da quanto tempo sono qui? – un’altra boccata, un’altra occhiata all’ambiente che la circondava: sembrava uno di quei palazzi estremamente eleganti e ben curati che di solito si potevano permettere solo i gran signori di Randall o più grandi rappresentanti della Sala degli Evocatori di Akras. Un lusso sobrio, fatto di drappeggi di seta, mobili in legno finemente decorati, quadri che contribuivano a rendere l’ambiente più confortante e altri oggetti che non aveva mai visto in vita sua, ma che si aggiungevano a quell’armonia di colori e forme.
- Hai dormito per due giorni di fila, dovevi essere stremata, penso che nemmeno Lucius in persona sarebbe riuscito a svegliarti-  scoppiarono entrambi a ridere, doveva ammettere che quella stanza trasmetteva sicurezza e serenità proprio come il padrone di casa, di cui ancora non sapeva nemmeno il nome.
- Non mi hai ancora detto come ti chiami, tu invece a quanto pare conosci già il mio nome, anzi, sembra che ormai lo sappiate tutti- espirò il fumo della sigaretta e lanciò un’occhiata fuori dalla finestra, dove si intravedeva un grande giardino rigoglioso e in lontananza l’Akras Summoner Lab.
- Ormai tutti conoscono le gesta dei Loto Nero e del loro comandante, quindi è normale che il tuo nome sia sulla bocca di tutti. Non trovi?- l’aveva fregata con una sola risposta, doveva ammetterlo- Comunque sia, hai ragione, non mi sono ancora presentato: mi chiamo Xem Von Mindersel, e sono un rappresentante del secondo ordine di Akras, nonché fumatore accanito e qualcos’altro che ora non ricordo. Contenta?- le strappò un altro sorriso, proprio a lei che non era mai stata in vena di fare amicizie che non fossero strettamente necessarie. C’era qualcosa in lei che stava cambiando, l’aveva percepito, era stata solo una sensazione, ma non doveva sottovalutarla, non dopo quello che era successo.
- Immagino che debba ringraziarti per ciò che hai fatto l’altra sera …– pronunciò quelle parole con estrema difficoltà, non era abituata a ringraziare gli altri, piuttosto ad insultarli o a schernirli per bene, prima di dargliene di santa ragione.
- Non l’ho fatto mica per essere elogiato o altro, non devi ringraziarmi, eppure non capisco come la grande Loto Nero si possa essere ridotta in quello stato – sentì il suo sguardo indagatore squadrarla dalla testa ai piedi, ma ancor di più quel nodo alla gola che quasi le impediva di respirare.
- E allora per cosa?  La gente non fa mai nulla gratuitamente, cerca sembra di ottenere una ricompensa, qualcosa in cambio – si era accorta che indossava una lunga camicia da notte color porpora dai riflessi dorati, il che significava che l’aveva spogliata lui stesso, per non farla dormire con quei vestiti fradici. Era stato un gesto educato e rispettoso da parte sua, ma al pensiero di esser rimasta “nuda” e senza sensi davanti a quell’uomo sentì le guance avvampare e distolse lo sguardo dal suo interlocutore, facendo finta di tornare a scrutare l’orizzonte e la skyline della capitale regia.
- Per nulla, avresti preferito che ti lasciassi lì, sotto la pioggia a piangere come una ragazzina? – c’era una velata ironia nelle sue parole, e Alice nell’udirle sentì ribollirle il sangue nelle vene e per poco non spezzò la sigaretta che si stava consumando tra le sue dita con estrema lentezza.
- No, tu non sai cosa mi è capitato, non puoi giudicarsi senza sapere…- sibilò, aspirando un’ultima volta prima di spegnere la sigaretta in un posacenere a forma di drago.
- E allora perché non me lo racconti? O hai paura di farlo, comandante? – quell’atteggiamento spavaldo, l’averla interpellata col suo grado nell’esercito di Akras, non capiva se era semplice educazione mascherata da qualcos’altro o un tentativo dannatamente visibile di farle venire il sangue acido. Si sarebbe odiata per quello che stava per dire, ma non aveva scelta.
- La seconda… - si morse le labbra con forza – Per la prima volta in vita mia, perché sai… di solito sono io ad incuterla negli altri- strinse i pugni, picchiandoli con forza contro la superficie morbida ed increspata delle coperte.
- Non devi fartene una vergogna, Loto Nero, c’è sempre una prima volta, per qualunque cosa. Non trovi? – quel tono pacato e calmo, sembrava miele caldo che arrivava a lenire anche il cuore più sofferente.
- Non chiamarmi in quel modo, quello è il mio nome di battaglia, Alice, Alice andrà benissimo. Comunque sì, immagino di sì- doveva ammettere che nel parlare con Xem l’inquietudine e il caos  della notte della tempesta erano svaniti, dissolti nel fumo delle sigarette, eppure quella sinfonia di confusione continuava a riecheggiare nella sua anima.
- D’accordo, Alice, vedo che impari in fretta – l’uomo le diede le spalle per alcuni attimi e quando si voltò di nuovo verso di lei le lanciò qualcosa che afferrò con sicurezza: erano i suoi vestiti, asciutti, profumavano di bucato appena fatto e se non li avesse già indossati prima avrebbe potuto tranquillamente dire che erano nuovi.
- Hai intenzione di continuare a poltrire nel letto per altri due giorni? Non ti facevo così sfaticata- un sorriso di sfida si incurvò sulle labbra di Xem, mentre si accendeva un’altra sigaretta. Lei sorrise di rimando:
- Non di certo!- esclamò, iniziando a cambiarsi con nonchalance, sentendo scorrere dentro di lei quell’energia che l’aveva sempre contraddistinta e spinta dove gli altri non erano mai arrivati. Si cambiò in fretta e quando fu pronta lanciò uno sguardo al  padrone di casa:
- Grazie per tutto, Xem, dico davvero, non dimenticherò ciò che hai fatto per me – gli sussurrò evocando nuovamente la falce al suo cospetto.
- Non lo metto in dubbio, Alice. Dove andrai ora? – i loro sguardi si incrociarono per alcuni secondi e Alice sentì un leggero tepore invaderle il petto.
- A fare il mio dovere sul campo di battaglia, dove altrimenti? – rispose, con un ultimo sorriso, scacciando ogni pensiero negativo, bramando la battaglia e tutta la sua foga… ignorando che per un attimo nel riflesso della finestra aveva visto Debran e i suoi occhi di fuoco.
 
 
 

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Capitolo 4
*** Luce ed Ombra ***


A Black Lotus as Night

 

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Episodio IV- Luce ed Ombra


In pochi attimi l’enorme falce calò sul povero disgraziato che si era ritrovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, strappandogli via la vita come se fosse stata un semplice indumento malridotto.  Adorava combattere, la faceva sentire viva, libera da ogni pensiero, unico strumento da lei desiderato per potersi sfogare appieno.
Schivò con agilità una piccola selva di frecce e roteò su se stessa con estrema grazia quattro o cinque volte, eliminando altri tre avversari, che si accasciarono a terra come manichini senza vita.

Da quando Maxwell era stato sconfitto dal misterioso evocatore, Mistral era diventata terra di nessuno, l’ennesimo posto devastato dall’ennesima guerra senza senso, quasi GrandGaia non potesse andare avanti senza questo o quel conflitto.
Era la terza volta che si ritrovava a combattere in quella zona, contro le infinite schiere del secondo Dio caduto, Cardes, che aveva avuto la brillante idea di reclamare a sé ciò che un tempo era appartenuto a Maxwell , ovvero le rovine del castello di St. Lamia e tutto il resto di Mistral al gran seguito, o almeno ciò che ne restava.
Tutto ciò non significava altro che tante belle rogne per la sede degli evocatori di Akras, che aveva spedito lei e i suoi  Loto Nero, insieme a due battaglioni dell’esercito, a fermare l’ennesima incursione nemica, tanto per cambiare.

Fece volteggiare la falce per deviare i fendenti di un enorme  spadone  e del suo oscuro padrone, per poi inchiodarlo al terreno con estrema violenza. I suoi uomini stavano facendo un ottimo lavoro, erano stati addestrati per poter affrontare al meglio ogni genere di creature e in particolare gli abomini che gli Deì caduti di solito sguinzagliavo come se niente fosse.
Si piegò sulle ginocchia evitando la luccicante lama di una sciabola e al tempo stesso parò un poderoso colpo scagliato da un minotauro oscuro, facendo scivolare l’enorme ascia  sul bastone opaco della sua falce e lasciando la belva disarmata e in balia della sua foga da battaglia.
Pochi secondi dopo il suddetto minotauro giaceva in una pozza di sangue  con la testa qualche metro più in là. Alice sorrise sadica e riprese a combattere, ignorando le frecce, i proiettili  e i dardi magici che saettavano da una parte all’altra fendendo l’aria, lacerando corpi e armature, distruggendo vecchie rovine e terreni ormai incolti.

Lo scontro stava volgendo a loro favore, qualche altro minuto e quelle bestiacce se ne sarebbe tornate con la coda fra le gambe dal loro insulso padrone, ne era certa, anche perché ormai quel caos informe andava avanti da quasi mezz’ora e non poteva permettersi di perdere altro tempo, ogni minuto in più significava un soldato caduto o ancor peggio uno dei suoi che finiva all’altro mondo.
Balzò in aria, sfruttando per un attimo la spinta delle grandi ali di farfalla che spuntarono violacee dall’armatura nera e atterrò in mezzo ad un gruppo di soldati nemici, spezzando scudi, spade, scatenando il panico come tanto amava fare, uccidendo in un soffio chi osava voltarle le spalle e fronteggiando con gusto chi restava ad affrontarla, in quel misero e disperato tentativo di difesa.
Quella battaglia si stava rivelando facile, troppo facile,  quasi fosse stata una semplice schermaglia buttata lì tanto per essere combattuta, giusto per far morire qualcuno, e non un’incursione vera e propria a favore della conquista di Mistral. Che cosa passava per la testa di quel pazzo di un Cardes? Non che le importasse più di tanto, ma la faccenda le puzzava  di inganno e anche tanto.

In pochi istanti i suoi dubbi divennero reali: decine di golem oscuri, bardati di tutto punto e armati pesantemente, spuntarono dai varchi oscuri che il Dio caduto soleva usare per il trasporto truppe. Erano alti, grossi, bramavo morte e violenza, ed Alice leggeva nel loro sguardo cupo celato in parte dagli elmi che erano anche incazzati neri. Non si fece stupire troppo da quell’apparizione, dopotutto li aveva già affrontati  e sconfitti in passato e poteva farlo di nuovo, ma qualcosa la sconvolse inaspettatamente: in mezzo a quelle schiere oscure e informi c’era qualcuno, un uomo che ormai conosceva fin troppo e che non poteva in alcun modo trovarsi lì. Debran.
Il giovane sorrise malizioso proprio nella sua direzione, con i suoi occhi color rubino che la trafissero come due lance acuminate, da parte a parte, mentre i golem oscuri marciavano ai suoi lati, quasi ignorandolo, ma senza mai sfiorarlo.
Che se lo stesse immaginando? O era reale? Non poteva saperlo, l’energia che si sprigionava in quel genere di scontri poteva dar vita a qualsiasi cosa, anche ad allucinazioni, ma la domanda era: perché proprio lui?
Sentiva i muscoli bloccati sotto l’armatura, il fiato corto nonostante fosse ferma lì da quasi un minuto e i sudori freddi che colavano dietro la schiena facendola sussultare in silenzio. Che diavolo le stava accadendo?
Non poteva succedere di nuovo, non in quelle circostanze, non in quel momento. Sembrava che il tempo si fosse fermato, che tutto ciò che la circondava fosse sparito, un vago ricordo che viene spazzato via dal vento, ed erano rimasti solo lui e lei, così distanti eppure così vicini.

Sentì la presa sulla falce allentarsi sempre di più finché quest’ultima non cadde a terra emettendo un suono acuto e stridulo, che ben presto si perse in quella sorta di realtà illusoria e confusionaria,e poco dopo si lasciò cadere anche lei sulle ginocchia. La guardava, continua a fissarla, era come se la stesse spogliando con gli occhi, di nuovo, ma ciò che la inquietava di più era che quel pensiero le piaceva.
Debran sorrise, un sorriso sadico e oscuro, e solo in quel momento si accorse che i golem oscuri l’avevano accerchiata, si era spinta troppo in avanti rispetto ai suoi uomini, e si apprestavano a farle rimpiangere di essere nata.
- Comandante, che cosa sta facendo? Faccia attenzione!- sentì urlare uno dei suoi soldati, il tono di voce preoccupato e disperato, era stata una sciocca, una stupida, e come se si fosse risvegliata da un sogno si accorse che non aveva il tempo materiale di recuperare la falce per difendersi dai fendenti che stavano per calare su di lei, uno dopo l’altro. Aveva commesso un grave errore e ne avrebbe pagato le conseguenze.
All’improvviso delle lame luminose precipitarono dal cielo con una velocità inconcepibile, trafiggendo e uccidendo tutti i golem oscuri che l’avevano circondata con estrema facilità. Non poteva credere ai suoi occhi.

Davanti a sé atterrò una giovane donna dai lunghi capelli bianchi e dagli occhi azzurri che infilzò come uno spiedino l’ultimo dei golem sopravvissuti a quella pioggia mortale: indossava un’armatura anch’essa bianca e finemente decorata, un’armonia di acciaio e seta che contraddistingue una e una sola delle eroine che si erano schierate contro le divinità. La dama bianca, la regina delle lame, Sefia.
La guerriera bianca osservò per un attimo i Loto Nero che respingevano con efficacia i golem oscuri, supportati dai battaglioni dell’esercito,  e assicuratasi che la situazione fosse sotto controllo fece calare il suo sguardo gelido e indagatore su Alice che la fissava ancora incredula. Di Debran invece non c’era traccia, scomparso nel nulla, così come era apparso poco prima.
- Ci sono modi migliori per finire all’altro mondo, non trovi? – esordì Sefia, porgendole la mano per aiutarla a rialzarsi. Alice fissò pensierosa la mano, ma invece di accettare l’aiuto la respinse con rabbia, mordendosi le labbra.
- Non avevo bisogno del tuo aiuto…- sibilò, rialzandosi e scuotendo la testa poggiandosi una mano sulla fronte.
- Ah no? A me invece sembrava proprio di sì – continuava ad inchiodarla col suo sguardo di ghiaccio, come stesse cercando di farle sputare la risposta a quella domanda che non aveva nemmeno pronunciato.
- Va al diavolo, Sefia, tu e le tue manie di protagonismo- l’ultima cosa di cui aveva bisogno dopo quello che aveva passato era di esser messa in ridicolo di fronte ai suoi uomini. Non poteva tollerarlo.
- Smettila di fare la ragazzina, Alice, e comportati da donna quale dovresti essere. O sei troppo orgogliosa per ammettere che ti trovavi in difficoltà? Non esser sciocca- la rimproverò la guerriera bianca, mentre le otto spade di luce si erano staccate dai cadaveri dei nemici per tornare a roteare intorno alla loro padrona, pronte a difenderla da qualsiasi cosa.
- Non sei riuscita a proteggere la persona a cui tenevi di più e ora pretendi di proteggere gli altri? Ridicolo- nell’udire quelle parole una scintilla di rabbia illuminò gli occhi della dama bianca e prima che Loto Nero potesse reagire in qualche modo la donna le sferrò un pugno poderoso in faccia, con una violenza tale da farla stramazzare a terra, inerme.

Quell’accesso d’ira durò una frazione di secondo e Sefia ritornò alla sua compostezza e tranquillità quasi innaturali, ma fu abbastanza per dimostrare che dentro di lei c’era ancora qualcosa che non trovava pace.
Alice mugugnò qualcosa di incomprensibile mentre si rialzava, ma la dama bianca sembrò non darle peso e continuò a parlare:
- Ascoltami Alice, puoi scegliere: o rimaniamo qui e giuro che ti farò male, più di quanto immagini per quello che hai detto oppure possiamo finirla e andare a bere insieme un’animanera. A te la scelta- pronunciò l’intera frase con distacco e con una calma disumana.
Alice la fissò per alcuni secondi, senza fiatare, limitandosi a pulire il rivolo di sangue che le colava dalla bocca, poi ad un tratto sospirò e si decise a rispondere.
- Un buon bicchiere non si rifiuta mai…- disse, afferrando la mano che la dama bianca le aveva offerto nuovamente, sorridendo come se non fosse successo niente.
 
                                                               […]
 
Si erano accomodate ad una delle tante locande che adornavano i quartieri bassi della Capitale Regia, zona perlopiù frequentata da soldati in servizio, mercenari e viaggiatori di ogni giorno. Questa volta però si era presa la premura di evitare Il Picchiere Nero, ripiegando su qualcosa  di più tranquillo e semplice quale era La tana del Drago. Avevano ordinato una bottiglia di Animanera ghiacciata e  sedevano una di fronte all’altra, disarmate, con pezzi di armatura abbandonati sul tavolo alla buona.
Alice si stava stiracchiando con nonchalance quando Sefia prese parola:
- Allora, mi vuoi dire che diavolo ti è preso? Non ti ho mai vista in questo stato – il suo tono non era più distaccato bensì dolce, caldo e a tratti premuroso, sembrava un’altra persona.
Alice fissò il bicchiere di liquore e afferrandolo con forza lo tirò giù in un colpo solo, come a volersi fare coraggio bevendo alcolici, la peggiore e migliore idea al tempo stesso.
- Non lo so nemmeno io, Sefia, è da un paio di giorni che non mi sento più la stessa, c’è qualcosa in me che è cambiato o che sta cambiando e non so fino a che punto sia una cosa positiva…- sospirò, riempiendosi di nuovo il bicchiere.
- Che cosa intendi dire? Spiegati meglio ragazza mia o non potrò aiutarti- anche Sefia tirò giù un bicchiere, mostrando per un secondo una faccia disgustata.
- Intendo dire che sto provando qualcosa di profondo per una persona… anzi, peggio, per più di una persona probabilmente e come se non bastasse è successo tutto così in fretta che ancora stento a crederci. Questa cosa mi sta uccidendo, non sono mai stata abituata a tutto ciò… mai… ancor meno a determinate emozioni. Sefia, per la prima volta in vita mia ho avuto paura, per la prima volta in vita mia non so più chi sono- tirò giù il secondo bicchiere, lasciandosi cullare dal calore che si insinuava nel petto.

- Mia cara, quando ci si mette di mezzo l’amore è finita, credimi, nessuno può saperlo meglio di me. Qualunque concezione del mondo che avevamo, qualunque filosofia di vita e quant’altro crolla senza che noi possiamo fare qualcosa. Impossibile? No, è possibile eccome e lo stai provando tu stessa, non è che così?- il suo tono si era fatto quasi materno, in altre circostanze questa cosa l’avrebbe messa a disagio, ma non questa volta.
- Sì…- si limitò a rispondere lei, osservando il bicchiere vuoto e mordendosi le labbra fino a sentire il sapore metallico del sangue, se nemmeno la foga della battaglia era riuscita a calmarla allora  la situazione era davvero pessima.
- Siamo così impegnati a combattere questa guerra infinita contro gli Deì che ci siamo dimenticati di quanto possano essere devastanti determinati sentimenti. Ricorda, Alice, puoi essere anche una divinità o un eroe senza tempo, ma se una di queste emozioni dovesse riuscire ad insinuarsi nel tuo cuore non avresti scampo. La forza, il coraggio o il potere non servono a niente in queste situazioni… a niente. Io lo so fin troppo bene… avevo sottovalutato queste emozioni e a causa di questa mia negligenza stavo per perdere la persona che più amo a questo mondo-  la dama bianca abbassò lo sguardo, svuotando a piccoli sorsi l’ennesimo bicchiere: dopotutto anche lei beveva per non pensare, nonostante fosse una leggenda vivente anche lei soffriva in silenzio, combattendo nell’ombra le sue battaglie personali, di cui nessuno sarebbe mai venuto a conoscenza. Nessuno, a parte lei.

- Come sta Kikuri? – chiese, ripensando alla magra figura che aveva fatto dopo esser stata salvata dalla dama bianca. Quella era stata una mancanza di rispetto e umanità in grande stile, che avrebbe potuto tranquillamente evitare.
- Meglio, è ancora in coma, ho perso il conto dei giorni ormai…- quella risposta giunse con un filo di voce.
- Mi… mi dispiace, Sefia, per prima intendo… non volevo- era una stupida, se lo stava ripetendo in testa più volte, per un suo malessere interiore aveva ferito nel profondo una persona che l’aveva salvata e non era stata la prima volta.
- Tranquilla… comunque sta dando segni di miglioramento, la vado a trovare ogni singolo giorno e aspetto con impazienza il momento in cui si risveglierà. Ho fin troppe cose per cui scusarmi e questa volta niente ci dividerà, non dopo quello che abbiamo passato- la donna accennò un mezzo sorriso, scacciando quel velo di malinconia che la stava per opprimere.
- Lo spero anch’io, è sempre stata una buona amica, nonostante il suo carattere particolare. Spero si risvegli presto- la battaglia a La Veda, Kikuri che si scontrava con Sefia all’ultimo sangue, l’arrivo di Zebra, Kikuri che si sacrificava per  salvare la sua amata, per un momento tutte quelle scene le passarono davanti agli occhi come un flash improvviso. Sentì un tonfo al cuore. Tra le due calò il silenzio, un silenzio breve e fragile.
- Dovrai fare molta attenzione, Alice, molta attenzione- lo sguardo di Sefia si fece persistente.
- In che senso?-
- Nel senso che qualunque cosa sia ciò che stai provando e chiunque siano i diretti interessati è qualcosa molto più grande di te e dannatamente pericoloso. C’è una bella differenza tra l’amore  e quello che stai provando tu, eppure sono molto simili, posso solo dirti questo, il resto dovrai capirlo da sola… nessun’altro può all’infuori di te-  quelle parole le fecero gelare il sangue nelle vene.

- Come fai a dire tutto ciò? - una sensazione di angoscia le bloccò il respiro per una manciata di secondi, facendola tossire lievemente.
- Te lo leggo negli occhi, Loto Nero, molte volte loro ci dicono più di quanto noi stessi riusciamo ad esprimere. Capisci?  Il tuo problema è che ti trovi tra la luce e l’ombra, in  una sorta di Limbo, ma più resterai lì e più soffrirai. Ascolta il tuo cuore, Alice, ma ancor di più ascolta la tua anima- concluse  e si alzò, abbandonando il bicchiere semipieno. Alice deglutì mentre quelle parole le rimbombavano nella testa.
- Aspetta, dove stai andando?- le chiese.
- Dove vuoi che vada?- Sefia sorrise, prima di voltarle le spalle- Da Kikuri-

 

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Capitolo 5
*** Tentazione Subdola ***


A Black Lotus as Night

 

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Episodio V- Tentazione Subdola


Sedeva in silenzio su un vecchio trono decaduto, in una delle sue tante dimore , monumenti dimenticati di un lusso decaduto e fin troppo sfrenato. La sala, immersa nella penombra, si espandeva fin dove l’occhio poteva spingersi tra le decine di colonne, per essere semplicemente inghiottito dall’oscurità. La poca luce che entrava timida tra i drappeggi delle enormi tende non bastava ad illuminare tutto, ma quel tanto che bastava a far capire all’ospite di turno che quel luogo rispecchiava la stessa follia e lussuria del suo stesso padrone.
Sedeva in silenzio sul suo trono, assiso, a pensare, nella mano sinistra  una sigaretta che restava lì inerme a consumarsi da sola, bramando a se le labbra del suo detentore, e nella destra un bicchiere di whiskey mezzo pieno che serviva soltanto ad acquietare l’animo di colui che lo beveva, se non il contrario. La camicia sbottonata, la cravatta slacciata e infine la giacca giaceva abbandonata sul trono stesso, in un equilibrio irrequieto.
 
Una figura minuta fece capolino tra le colonne, muovendosi felina tra una e l’altra, quasi come se non si volesse far vedere da quel re decaduto che continuava a fissare il vuoto in silenzio, quasi non fiatasse.
La ragazza continuò ad avvicinarsi, un tintinnare  di ciondoli, catene, bracciali e strani fermacapelli che si perdevano nella sua folta chioma o in mezzo alle pieghe del grande vestito fatto di pizzi e merletti, rigorosamente nero.
Non appena giunse a pochi passi dalla breve scalinata che conduceva al fatiscente trono si inginocchiò, abbassando umilmente la testa per salutare il suo signore, non senza aver prima lanciato uno sguardo malizioso che avrebbe fatto impallidire anche la più lussuriosa delle donne.
 
- Mio signore Ze…- iniziò con la sua voce da ragazzina stranamente adulta, a tratti inquietante a tratti terribilmente seducente.
- Taci!- esclamò l’altro, sbattendo il  bicchiere con forza su uno dei braccioli, mandandolo in mille pezzi – Quante volte ti ho detto che devi chiamarmi Debran? Quante? Non devi mai e dico mai pronunciare il mio nome o te ne farò pentire. Sono stato chiaro?- continuò, ignorando la mano insanguinata e lo sguardo della ragazza, spaventato e preoccupato al tempo stesso.
- Sì, mio signore. Mi ha chiamato perché vuole dilettarsi con me e il mio corpo o per qualche altro motivo in particolare? Un solo cenno della sua mano e io mi spoglierò- nel porre quella domanda si lasciò dondolare lievemente e nel farlo la catena che penzolava appesa al collare tentennò. Debran la osservò con gusto.
- Il tuo desiderio irrefrenabile  di sesso riesce sempre a stupirmi, mia piccola Lico, sei davvero insaziabile lo sai? Passione, lussuria,  e quell’accenno di follia che rende il tutto più interessante. Non è questo che vuoi?- la catena si smaterializzò nelle sua mano destra e tirandola con forza costrinse la ragazza ad avvicinarsi, ignorando i suoi gemiti di piacere mentre opponeva una lieve resistenza.
- Sì, mio re, il mio corpo ti appartiene, io ti appartengo, fino alla fine- i suoi occhi rossi incrociarono  i rubini di Debran e per un attimo calò il silenzio, dopodiché l’uomo riprese a parlare:
- Avrai ciò che vuoi, la tua sete oscena verrà placata, a patto che tu faccia qualcosa per me- il suo tono di voce era suadente, la ragazza si avvicinò sempre di più, lasciandosi accarezzare, riversando la sua chioma rosa sulle gambe dell’uomo.
- Qualunque cosa…- sussurrò, facendo tentennare nuovamente la catena.
- La nostra piccola Alice è confusa, ha paura,  ma dentro di sé sente il desiderio di placare quella passione inumana che la sta consumando dall’interno. Non è abituata a tutto ciò, il suo mondo è il campo di battaglia, la sua ambrosia il sangue degli avversari, è spaesata, l’ho visto quella sera al Picchiere Nero e forse è proprio questo che mi piace di lei… una Dea della morte che dentro di sé è fragile ed innocente- un sorriso compiaciuto gli increspò le labbra mentre accarezzava la ragazza sulla nuca come se fosse stato un gatto addomesticato.
 
- Intende Loto Nero?  Cosa vuole che faccia?-  lo sguardo di Lico si era fatto complice del suo padrone e con esso il suo sorriso.
- Voglio che tu la seduca, mia piccola depravata, voglio che tu le faccia provare una nuova forma di piacere, che la mandi ancor di più in confusione e, infine, tra le mie braccia- fece un tiro dalla sigaretta ormai consumata e la lasciò cadere, ormai inutile e morente.
- Sarà fatto, mio signore , la sedurrò come solo io so fare – la ragazza si leccò le labbra nel pronunciare quella frase, sfiorandosi con la mano i seni coperti dai merletti.
- Brava, mia piccola Lico, presto ti dirò quando dovrai agire- Debran si piegò in avanti verso di lei e tirando la catena la attirò a sé, baciandola con forza – Ora va e aspettami nelle mie stanze… nuda- la ragazza sorrise tutta eccitata e rialzandosi si incamminò verso la fine della sala, scomparendo nell’oscurità, portandosi dietro il tentennio delle catene e  l’eco della sua risatina.
 
                                                               […]
 
Aveva trascorso gli ultimi tre giorni a riflettere sulle parole di Sefia, su ogni singola frase di quel discorso alla Tana del Drago, ma come suo solito non era riuscita a cavare un ragno del buco, anzi era più confusa di prima, tanto per cambiare. Non aveva più visto Sefia, né Xem, né tantomeno Debran.
Debran. Continuava a vedere quel maledetto spuntare dovunque, per poi sparire come se niente fosse e se non l’avesse conosciuto per davvero avrebbe potuto tranquillamente dire che era diventata pazza, più di quanto non lo fosse già. Ma lui era reale, riusciva ancora a sentire le sue dita sulla pelle.
Debran. Perché continuava a pensare a lui? Perché continuava a sentire quel desiderio irrefrenabile di rivederlo? Nonostante quello che le aveva fatto, nonostante quel sottile strato di paura che le aleggiava intorno come nebbia, voleva incontrarlo, di nuovo.
 
D’altro canto una parte di lei, forse quella più umana ed emotiva, avrebbe voluto rincontrare anche Xem, la sua gentilezza, il suo garbo e quel fascino distaccato e senza tempo che lo contraddistingueva. Che diavolo le era preso? Era passata dal decidere quale armatura o falce usare alle questioni di cuore.
Ridicolo, se sua sorella Elza avesse saputo di questo suo cambiamento,  di tutti i pensieri che si stava facendo per quei due uomini di cui sapeva poco o nulla, beh, probabilmente l’avrebbe spedita tra le rovine di Baiura a suon di calci, dopo averla pestata a sangue per tutta la Capitale Regia, poco ma sicuro.
Scosse la testa, ignorando gli sguardi dei passanti che, di sottecchi, tentavano di immaginare quali grazie nascondessero quel corsetto e quella gonna corta e frastagliata che dondolava ad ogni suo passo. Quel giorno era in versione “abiti civili” ed oltre al corsetto, che lasciava le spalle nude, e alla gonna aveva indossato un paio di calze lunghe che lasciavano intravedere solo una piccola striscia di pelle chiara, per poi perdersi sotto gli stivali pieni di cinte, il tutto rigorosamente scuro, un caleidoscopio di colori che andava dal nero al viola, dal blu notte al grigio opaco. Le faceva terribilmente caldo, nonostante fuori ci fossero solo un paio di gradi, e per questo aveva abbandonato il cappotto e tutti gli altri gingilli che di solito indossava una volta si e l’altra pure, ma non aveva rinunciato al grande fiocco viola con cui si legava i capelli.
 
Svoltò a destra, lasciandosi alle spalle tutte quegli sguardi indiscreti e il vociferare che il suo abbigliamento aveva generato tra i presenti: l’ultima cosa che voleva fare era dimezzare la popolazione della Capitale a suon di falce.
Esattamente non sapeva nemmeno lei dove stava andando o perché, i suoi piedi sembravano conoscere il tragitto e lei si limitava a lasciarsi trasportare come dal vento, con la testa che affogava in quel mare di pensieri e il cuore che si dimenava come imprigionato in una gabbia di rovi.
Svoltò a sinistra, tagliando per un vicoletto dimenticato dagli Deì, tornando per alcuni minuti su una delle strade principali, spingendosi sempre di più verso i quartieri bassi, zona di perdizione e divertimento per chiunque vi si avventurasse. Dove stava andando? E perché? Quella strana sensazione di torpore, la stessa che ti ritrovi a provare non appena sveglio, non voleva abbandonarla in alcun modo e ci mancava poco che iniziasse a barcollare, attirando più sguardi di quanti ne potesse già sopportare.
 
Continuò a camminare, silenziosa e leggiadra come la morte, finché non giunse in un vicolo cieco, anch’esso ignorato e dimenticato da tutti, lontano dallo schiamazzo e dal fiume di gente che imperversava nella strada principale dei quartieri bassi, sede della maggior parte delle locande e delle bettole di Randall, un gran seguito di taverne, pub e luoghi di ritrovo per ricchi e borghesi.
Non c’era nessuno in quel vicolo e perfino la luce del sole sembrava avere paura ad addentrarsi nei suoi meandri, quasi l’oscurità fosse viva, come se respirasse, come se potesse vederti. Si sentiva a disagio in quel luogo, proprio lei che era la personificazione dell’oscurità.
 
- Sapevo che saresti venuta- quella voce, conosceva quella voce, aveva lo stesso effetto suadente e ammaliante di quella notte di pioggia e follia.
- Debran?- si guardò intorno, alla ricerca di quei rubini infuocati, di quegli occhi  che la bramavano e li trovò che la fissavano immersi nel buio del vicolo. Sentì un tonfo al cuore.
- In persona, mia piccola Alice- rispose l’altro, senza muoversi, perfino l’aria sembrava pendere dalle labbra di quell’uomo.
- Che cosa ci fai qui? Perché sono venuta qui? – quella sensazione di calore aumentò in modo inverosimile mentre avanzava lentamente verso di lui.
- Per aspettarti… sicura di non saperlo? Sei qui per me- perse un altro battito, senza riuscire a spiegare come quella voce potesse avere un effetto così forte su di lei.
- Per te… sono qui per te…- i suoi occhi si erano fatti opachi, come se si fossero spenti, ormai a pochi passi da quell’uomo che la stava già divorando con gli occhi.
- Esatto, nessuno verrà qui, ci siamo solo io e te – era abbastanza vicina da sentire quel profumo di petali calpestati e animanera che lo contraddistingueva, inconfondibile ed inebriante come la prima notte, mandava in estasi e confusione tutti i suoi sensi, in tumulto la sua anima.
- Fammi tua, ti prego…– disse con un solo sussurro, afferrando la mano dell’uomo  e poggiandola sul suo seno, il contatto con quelle dita forti le fece scappare un gemito di piacere. Cosa stava succedendo?
- Come vuoi - esordì Debran spingendola contro di sé, poggiando l’altra mano sul suo viso e baciandola prima delicatamente, poi sempre con più foga, mentre la mano prima poggiata sul seno si spingeva a toccare con desiderio quel corpo così caldo e suadente.
 
Alice sussultò e spinse le sue mani sotto la camicia dell’uomo, levandogli la giaccia con brama, toccando quel corpo che sembrava esser stato scolpito nel marmo, sfiorando con la punta delle dita una lunga cicatrice che solcava quel petto per quasi tutta la sua lunghezza, come un’immensa diagonale, uno sfregio che andava a infangare la bellezza astratta di quel corpo, ma che non faceva altro che farla eccitare ancora di più. L’uomo la spinse ancor di più contro di sé, abbandonando le sue labbra affamate di baci per spostarsi a baciare il collo, scendendo sempre più in basso, arrivando anche a mordere, e ognuno di quei gesti era un gemito in più, un altro passo sulla strada della perdizione.
 
Debran iniziò a sfilare i lacci del corsetto, con una lentezza che la stava uccidendo dentro, bramosa di essere posseduta da quell’uomo, dalle sue mani, dai suoi occhi, da tutto. Al tempo stesso lei sbottonò con calma la camicia, gustandosi quel momento come se fosse stato un buon bicchiere di liquore o l’ultima sigaretta di questa vita e dell’altra, il tempo sembrava essersi distorto come non mai e nella sua testa non c’era altro che lui e il desiderio che aveva di farlo suo, di concedergli il suo corpo, completamente.
Uno dopo l’altro i fiocchi si abbandonarono lungo i fianchi della donna, sciolti e inermi, mentre quelle mani avide proseguivano la loro opera di lussuria, alleate dissolute delle labbra che poco più in alto continuavano a riempire quella pelle ghiacciata e immacolata di baci. Ormai mancava poco, davvero poco, e dentro di sé sentiva la sua anima urlare di gioia e desiderio, pronta ad abbracciare quella passione insana che li stava avvolgendo tra le sue fiamme cremisi.
 
D’un tratto però Debran si fermò di colpo, come se quel fuoco che alimentava quei gesti licenziosi si fosse spento di punto in bianco.
- Che cosa c’è?- chiese lei, ansimando leggermente. Lui la guardò dritta negli occhi, mostrando il suo sorriso più sadico.
- Oggi non sarai solo mia, piccola Alice – quella frase la spiazzò, ma prima che potesse comprenderne appieno il significato sentì due mani affusolate e fredde che si posarono sulle sue spalle, facendola rabbrividire, e che la costrinsero a voltarsi.
C’era una ragazza poco più bassa di lei che la fissava con malizia: aveva i capelli rosa raccolti in due enormi boccoli ai lati, fermati da fiocchi neri,  un vestito tutto nero che arrivava quasi alle ginocchia, ornato di merletti e pizzi bianchi, tutta adorna di bracciali e ciondoli. Eppure, ciò che la inquietò di più furono i suoi occhi: rossi, infuocati come quelli di Debran.
Era minuta, sembrava quasi una ragazzina, ma con una forza disumana la spinse contro il muro dove poco prima c’era Debran, facendola sussultare per il dolore, e la bloccò lì col suo stesso corpo, impedendole di reagire in alcun modo, precludendole qualsiasi via di fuga. Si sentì mancare, non riuscendo a credere che tutto ciò stesse accadendo davvero.
- Debran! Che cosa sta succedendo? Dimmelo! – l’uomo era apparso alle spalle dalla ragazza dai capelli rosa e sorrideva sadico, braccia incrociate, camicia ancora sbottonata e sguardo intenso e spiazzante, sembrava essersi posizionato lì per gustarsi al meglio la scena.
- Non rivolgerti così al mio padrone – sibilò la giovane donna, aumentando la presa intorno ai polsi di Alice, spingendola ancor di più contro il muro, strappandole un altro gemito. Riusciva a sentire il seno dell’altra premere contro il suo, era una sensazione strana, dannatamente malata e… piacevole.
- E tu chi diavolo sei?!- sentiva ribollire dentro di sé la rabbia, la frustrazione la vergogna,  sentimenti che si alimentavano a vicenda generando fiamme nere e infime che bruciavano tutto e tutti. La ragazza sorrise.
- Chi sono io? Oh lo scoprirai molto presto…- disse, alzandosi sulla punte.
Alice non fece in tempo a rispondere che le labbra della ragazza si posarono sulle sue, erano morbide e calde, sentì la lingua cercare la sua e, ormai certa di non conoscere più chi fosse, ricambiò quel bacio infernale e senza alcun ritegno –… lo scoprirai molto presto -.

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Capitolo 6
*** Seduzione Demoniaca ***


A Black Lotus as Night

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Capitolo VI - Seduzione Demoniaca



Continuava a spingerla contro il muro, come se di colpo avesse perso tutte le sue forze, proprio lei, la Dea Falce, il Loto Nero, terrore oscuro e nefasto di chiunque se la fosse mai ritrovata davanti sul campo di battaglia.
Continuava a baciarla con ardore, spingendo la lingua contro la sua, senza alcun ritegno, senza alcun contegno, ma ciò che la mandava in totale confusione era il semplice fatto che le piaceva, aveva il gusto della follia, il sapore dolciastro del proibito.
Continuava a toccarla, dovunque, con le sue dita affusolate e stranamente calde, le sfiorava i fianchi, le gambe, stringeva con forza i seni, una morsa di lussuria senz’anima, per poi accarezzarli con estrema delicatezza.
Non le bloccava più i polsi, le sue mani erano troppo impegnate ad esplorare con bramosia quel corpo e lei, lei stava letteralmente iniziando ad affogare in quell’oceano di lussuria sfrenata nella quale era precipitata all’improvviso.
 
La vocina nella testa che le sussurrava di reagire si stava affievolendo, sempre di più, consumata da quegli occhi rossi come il sangue che la fissavano compiaciuti, due immersi nell’oscurità e gli altri due così dannatamente vicini da potersi rispecchiare nei suoi: due rubini incastonati in un cielo color ametista. Sentì le mani della ragazza che scioglievano i pochi nodi del corsetto ancora posti a difesa delle sue grazie, diminuendo sempre di più la distanza tra lei e quel peccato così ammaliante quanto osceno. Perché non reagiva? Perché la lasciava agire indisturbata?
 
Il suo cuore stava battendo all’impazzata, sicura che da un momento all’altro sarebbe esploso, insieme ai polmoni, perché ormai aveva il fiato corto, ansimava.
Una ventata gelida la investì sul petto, facendola rabbrividire, e capì che la peccatrice le aveva abbassato il corsetto quel tanto che bastava a mostrare il seno.
Debran la osservava con quel suo sorriso sadico stampato sulle labbra, immobile come una statua, bello come la morte, silenzioso spettatore di quello spettacolo.
-Chi… chi sei?- riuscì a balbettare, tra un gemito e un bacio, tra un sospiro di piacere e un altro di abbattimento e vergogna. La ragazza fermò per un attimo la sua opera di seduzione blasfema, guardandola di sottecchi:
-Io sono Lico, l’ultima peccatrice- rispose, lanciandole uno sguardo carico di malizia, poco prima di leccarle il seno, arrivando perfino a morderlo, con un desiderio tale che avrebbe fatto impallidire anche la più disinibita delle cortigiane.
 
Quell’azione così improvvisa la fece sussultare di piacere e fu costretta a mettersi una mano sulla bocca prima che qualcuno potesse sentirla gemere a quel modo.
Lico si fermò, gustandosi compiaciuta il risultato delle sue azioni, lasciandole un misero attimo di tregua.
-Come fai? Come ci riesci? Io… non… capisco-formulare quella frase era stato più difficile di quanto avesse potuto immaginare, col fiato corto, un occhio chiuso come se stesse soffrendo e ormai mezza nuda. Patetica.
Lico sorrise e si avvicinò con le labbra al suo orecchio destro spingendo il proprio corpo contro il suo, quasi a rimarcare il fatto che fosse in balia delle sue perversioni.
-Semplice…perché…sono…mezza…demone- pronunciò quella frase con una lentezza devastante, mentre la sua mano sinistra si faceva largo sotto la gonna, per assestarle il colpo di grazia –Perché non mi fermi? Opponi resistenza, Loto Nero, fammi divertire- nel concludere la frase le morse l’orecchio e al tempo stesso quella mano silenziosa si insinuò sotto l’intimo, violandola.
 
Un gemito acuto squarciò il silenzio attorno a loro e una scossa di piacere e orrore la fece tremare come una foglia, spezzandole il fiato e facendole perdere un battito. Il suo sconcerto, misto allo stupore, si riflesse negli occhi rossi della mezza demone, che scoppiò a ridere, continuando la sua opera.
-No! Smettila!- esclamò Alice, ritrovando per un attimo le forze, spingendola lontana da lei – Falce!- urlò, furiosa e frustrata, e l’enorme arma si materializzò tra le mani della sua padrona. Violata da una ragazzina mezza demone e visibilmente psicopatica, no, non poteva concepirlo, figuriamoci accettarlo.
- Me la pagherai- sibilò.
-Oh sì- Lico sorrise sadica, leccandosi le dita –Ora si che ci capiamo- esordì, facendo smaterializzare davanti a sé uno spadone oscuro, che rispecchiava appieno il carattere della sua detentrice. Alice osservò disgustata quel gesto, sentendo ancora quella sensazione di violazione che era stata vivida e orribile fino a pochi attimi prima. Sentì la rabbia crescere dentro di sé, come un incendio incontrollato, pronto a divorare tra le sue fiamme tutto, o forse solo quella peccatrice demoniaca che continuava a fissarla divertita come se niente fosse.
Si guardò intorno esasperata, stringendo con forza in una mano la falce e cercando di rivestirsi alla buona con l’altra, tirando su il corsetto per coprirsi il seno e abbassando le frange della gonna: di Debran non c’era traccia, per l’ennesima volta si era volatilizzato nel nulla, lasciandola da sola in quel vicolo buio insieme a quella psicopatica che, se aveva capito bene, era una sua pupilla o forse ancor peggio era una sorta di schiava a giudicare dal collare in ferro che portava attorno al collo.
 
Quel pensiero le fece rivoltare lo stomaco, per un attimo sentì risalirle la colazione, non si era mai ritrovata dinanzi a qualcosa del genere. Come poteva quella ragazzina lasciarsi comandare a bacchetta in quel modo? Agire con quella follia e spudoratezza? Non osò nemmeno immaginare cosa avesse potuto fare Debran con lei, probabilmente quello che era appena successo non era nulla a confronto. Tuttavia, non era il caso di biasimarla, scosse la testa per scacciare qualsiasi pensiero, lasciando solo quella del volersi vendicare di quella pazzoide.
- Io sono qui che ti aspetto, Piccola Alice – quella voce stridula, da adolescente troppo cresciuta, ma che nascondeva una strana note profonda, la fece rinsavire ancora di più e i suoi occhi violacei si fiondarono sullo sguardo divertito della ragazza.
“Piccola Alice” Debran l’aveva chiamata in quel modo, Debran continuava a chiamarla così e non poteva accettare in alcun modo che quella sotto specie di demone si prendesse gioco di lei anche con quel “nomignolo”. Stava letteralmente perdendo la pazienza.
- Vai al diavolo! – esclamò, lanciandosi all’attacco con tutta la rabbia che aveva in corpo: Lico schivò l’attacco con un’agilità assurda, la falce si conficcò nel terreno, spaccando le pietre della strada, lanciando detriti a destra e a manca, e la peccatrice atterrò divertita sull’asta dell’arma, poggiando lo spadone sulla propria spalla, agitando il seno sotto il lungo vestito nero come se volesse stuzzicarla ancora di più.
- Tutto qui? Mi deludi, piccola Alice- rise ancora, quella risata era snervante, fastidiosa, come una spina nel fianco. La fulminò con uno sguardo carico di disprezzo, stringendo la presa sull’arma, si sentiva come un lupo preso in giro dalla pecora di turno, inconcepibile, ridicolo, frustrante.
- Smettila di chiamarmi in quel modo!-  urlò, estraendo la falce dal terreno con una violenza inaudita e, quando Lico saltò per evitare di sbilanciarsi, Alice roteò l’arma colpendola prima al fianco con l’asta per poi tagliarle la guancia con una delle lame, pochi centimetri e le avrebbe staccato la faccia.
 
La peccatrice atterrò qualche metro più in là, scivolando leggermente sulle ginocchia, stracciando le calze e facendo strisciare lo spadone a terra con forza. Non appena alzò di nuovo quello sguardo sadico su di lei sfiorò con la punta delle dita la ferita sulla guancia e leccò una goccia di sangue che stava scivolando timida verso la bocca.
- Davvero niente male – esordì, dondolando la testa – ma non è abbastanza!-non appena concluse la frase scattò velocemente verso Alice, cogliendola di sorpresa: Lico calò un fendente dall’alto che riuscì a parare usando la falce come scudo, ma la ragazzina continuò ad infierire, con altri fendenti, uno più violento dell’altro, finché non fu costretta ad  arretrare quando Alice roteò su se stessa agitando la falce vorticosamente.
 
Quella tregua durò un attimo: Lico riprese la sua corsa sfrenata, agitando lo spadone come se non avesse avuto peso, finché non schivò la doppia lama della falce, cogliendola senza difese e in balia dei suoi attacchi.
Una spadata le lacerò parte del corsetto e della gonna, ferendola sulla spalla e sul braccio sinistro, il suo tentativo di ritornare sulla difensiva era fallito e ne stava pagando le conseguenze.
Urlò di dolore, ma si morse le labbra per interrompere quel gesto di debolezza, l’ultima cosa che doveva fare era far credere alla sua avversaria di essere in svantaggio, di avere paura, di non essere all’altezza di quello scontro.
Stramazzò a terra, rotolando più volte, quel fendente era stato poderoso e se l’avesse colpita direttamente probabilmente le avrebbe spezzato qualche osso o peggio.
 
Sputò sangue, tentando di rialzarsi sfruttando la falce come un bastone: si sentiva debilitata, come se qualcosa avesse risucchiato tutte le sue energie, ogni singola scintilla della sua forza. Così non aveva senso, così non poteva sperare di vincere, si morse ancora di più le labbra fino a sentire il sapore del sangue. Cosa diavolo poteva essere? Un maleficio? Un sortilegio arcano? O forse erano quegli occhi? Gli stessi occhi di Debran… due rubini maledetti.
- Ora siamo pari, Alice, non trovi? Anzi, non sono soddisfatta, voglio di più- disse con calma la ragazzina, camminando verso di lei in tutta tranquillità, come se sapeva che non avrebbe opposto alcuna resistenza.
Le gambe sembravano essere sul punto di cedere, ogni tentativo di rialzarsi sembrava vano dal principio e sentiva che se non si fosse appoggiata contro la falce probabilmente sarebbe caduta a terra, eppure quelle ferite non erano letali, stava sanguinando sì, ma non così tanto da ridurla in quello stato.
Che lo spadone fosse avvelenato? No, no, stava vaneggiando, la vista si stava offuscando, e i sensi intorpiditi non aiutavano. Lico avanzava.
 
- Ti credevo più combattiva, Loto Nero, più selvaggia, oscura, mi stai deludendo, lo sai?- c’era sarcasmo nelle sue parole e  a tratti faceva più male delle ferite stesse.
- Stai zitta…- sussurrò lei, ritrovandosi di nuovo col fiato corto, qualunque cosa le avessero fatto la stava consumando lentamente dall’interno e non sapeva come fermarla.
- Il mio padrone mi ha parlato così bene di te e ora tu mi deludi? Non ci si comporta così, piccola Alice- ancora quel nomignolo, ancora quella risatina pungente come l’acqua fredda.
- Basta! – fece appello alle ultime forze che le erano rimaste e si rialzò, tentando un attacco improvviso e inaspettato, facendo saettare l’enorme falce di lato: Lico deviò il colpo con lo spadone che, nell’urtare l’arma oscura, si spezzò a metà, facendo conficcare parte della lama a terra e lasciando l’elsa nella mano della sua incredula padrona. La peccatrice lasciò cadere ciò che restava dello spadone e pochi attimi dopo afferrò Alice dal collo, sbattendola nuovamente contro il muro manco fosse stata una bambola di pezza e l’impatto con la parete le spezzò il fiato. Da dove prendeva quella forza? Come poteva una ragazzina, seppur mezza demone, ridurla in quello stato?
 
Era di nuovo a terra, stremata, sanguinante, e Lico si stava avvicinando a lei con la stessa calma di prima, disarmata, la falce era caduta quando lei era stata letteralmente lanciata ed era troppo distante per essere recuperata.
- I miei complimenti, Piccola Alice, mi hai messo in difficoltà nonostante…- si interruppe, come se si fosse accorta che stava per dire qualcosa di sbagliato, qualcosa che doveva restare celato nelle ombre più oscure. Si inginocchiò accanto a lei, ormai sicura che la piccola Loto Nero non avrebbe più potuto fare niente per fermarla, le sollevò la testa posando due dita sotto il mento e la baciò, di nuovo, mordendole la lingua, le labbra, assaporando il gusto ferroso del sangue. Lei non avrebbe voluto, la sua anima le urlava di staccarsi da quel bacio di Giuda, da quell’unione blasfema, ma sembrava aver perso il controllo delle sue stesse labbra, ma non delle braccia: si lasciò scivolare quel tanto che bastava per allungare il braccio destro e afferrare con la mano la stessa elsa che la ragazza aveva buttato poco prima.
 
Bastò un attimo: con la mezza demone impegnata a baciarla lei roteò l’elsa spezzata e la scagliò contro di lei, scaricando tutta la frustrazione e la rabbia che aveva in corpo.
L’espressione di Lico, esterrefatta e confusa, confermò che il suo colpo era andato a segno. La ragazza interruppe quell’ennesimo gesto di lussuria e arretrò, incredula, i suoi occhi rossi sembravano aver perso quella scintilla di follia che li aveva fatti brillare fino a pochi secondi prima: si era portata una mano al fianco sinistro, la veste lacera e sanguinante, l’elsa ancora conficcata nel suo corpo, una piccola pozza di sangue che iniziava a formarsi ai suoi piedi.
Continuò ad arretrare, osservando la ferita e poi Alice, più e più volte, guardando le proprie mani insanguinate, barcollando, passo dopo passo la catena tentennava, finché non fu costretta a poggiarsi contro uno dei muri del vicolo, pallida in viso, il sorriso sadico ormai sparito.
- Non finisce qui… Loto Nero… ci rivedremo- disse, gelida, la voce divenuta un’eco del suo dolore e del vuoto che le si era generato dentro, prima di sparire in un portale oscuro che la inghiottì, lasciando di lei solo il sangue finito contro la parete.
 
Alice si lasciò andare contro il muro, ansimando, ma soddisfatta: nonostante tutto, aveva vinto e quel singolo pensiero bastò ad offuscare tutti gli altri e a strapparle un mezzo sorriso. Rimase lì per alcuni minuti, in silenzio, a guardare quel piccolo campo di battaglia devastato da uno scontro di cui era stata fautrice e vincitrice, ma che non aveva alcun senso e forse non l’avrebbe mai avuto.
Si rialzò: non poteva restare lì o sarebbe morta dissanguata, senza sé e senza ma. Iniziò a vagare per quei vicoli stretti e abbandonati, strade evitate perfino dalla peggior feccia della capitale finché non pensò che poteva anche lei utilizzare uno di quei portali oscuri per evitare di lasciare metà del suo sangue nei quartieri bassi di Randall.
Si concentrò con tutta se stessa sulla prima parete che le capitò a tirò, facendo appello a qualsiasi residuo di energia che le fosse rimasto dopo lo scontro con Lico, e quando finalmente il varcò si aprì vi si gettò a peso morto, senza nemmeno sapere dove sarebbe stata teletrasportata, ma poco le importava, qualsiasi posto sarebbe stato migliore di quello.
 
Quando si ritrovò dall’altra parte finì per sbattere contro un portone finemente decorato e vi rimase poggiata, per il semplice fatto che se avesse tentato di camminare senza un appoggio sarebbe finita a terra seduta stante.
Era ferma lì, ad assaporare l’aria fredda della giornata d’autunno, un dolce torpore che la aiutava a sopportare il dolore delle ferite riportate, quando la porta si aprì e un paio di occhi ambrati immersi nel nero si posarono su di lei:
- Alice? – quella voce sembrava un balsamo curativo sulle sue ferite, aveva lo stesso effetto dell’animanera.
- Ciao… Xem- disse, prima di perdere completamente i sensi.

 
 

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Capitolo 7
*** Petali Calpestati ***


A Black Lotus as Night

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Episodio VII- Petali Calpestati
 

Nota dell'autore: Non sono solito inserire note prima di un capitolo, ma questa volta farò un'eccezione. Voglio dedicare questo VII episodio ad una persona speciale, una ragazza splendida, dolce, intelligente, e... no... altri aggettivi sarebbero semplicemente inutili, ne basta uno e uno solo: UNICA.
Di chi sto parlando? Di JustAHeartBeat
, la mia ragazza. Se sono riuscito ad arrivare fin qui in questa storia, se sono riuscito a scriverla con tanta fantastia, impegno e dedizione ( sono un tipo che non finisce mai le storie, lo so, sono da linciare xD ) lo devo solo e soltanto a lei e a tutto il sostegno che mi sta dando ( senza nulla togliere a tutti gli altri lettori che stanno seguendo la storia e che non finirò mai di ringraziare, ma capitemi, lei è speciale ). Ana, sei una persona meravigliosa, una ragazza fantastica, sono davvero felice di averti trovato e questo episodio... questo episodio è dedicato a TE.

PS: Ho cambiato la copertina, spero vi piaccia, detto ciò, buona lettura :D

Snowstorm



Stessa sala, stesso trono, stessa penombra silenziosa, situazione diversa. La solita sigaretta accesa tra le dita, che nella sua lenta agonia attendeva di raggiungere le sue sorelle abbandonate ai piedi del trono, rilasciava strane scie di fumo che sembravano tremare dinanzi alla sua persona. Forse facevano bene, forse no.
Fece un tiro, poi i suoi occhi si posarono su una delle colonne e rimase a fissarla, in silenzio, come se stesse aspettando qualcosa o forse qualcuno.
- Fatti avanti – disse, rivolgendosi alla ragazza nascosta dietro la colonna.
Lico barcollò fuori dal suo nascondiglio, pallida in viso, con la mano che tentava di fermare il sangue che le aveva ormai imbrattato le vesti e con un sorriso stentato e quasi forzato. I loro sguardi si incrociarono per una frazione di secondo e lei abbassò gli occhi, abbandonandosi contro la colonna più vicina al trono, sfinita, provata dallo scontro con Alice e dalla vergogna bruciante di aver deluso il suo padrone.
 
- Master, mi…mi dispiace. Loto Nero si è rivelata un avversario più temibile di quanto avessi immaginato – esordì, guardando con ribrezzo la mano insanguinata: ogni goccia di sangue che abbandonava il suo corpo bruciava più delle fiamme dell’Inferno, prova concreta della sua cocente sconfitta.
- Mia piccola Lico -  Debran fece un ultimo tiro, lasciando cadere la sigaretta nell’oblio della sua fine – Sei solo stata sbadata. Alice è un avversario temibile, l’hai provato sulla tua stesse pelle -  mentre parlava scendeva i gradini in marmo dirigendosi verso di lei, seguito dai suoi occhi estasiati.
 
- Ma, Master, io non ho potuto… - Debran si portò un indice sulle labbra e Lico si zittì, barcollando ancora di più nonostante fosse poggiata contro la colonna.
- Hai fatto ciò che ti avevo ordinato e questo mi basta – ormai era ad un soffio da lei e Lico poteva osservare le cicatrici sul suo petto nudo, tra le quali spiccava quella che lo aveva quasi ucciso e di cui lui parlava raramente.
- Non vorrai abbandonarmi proprio ora, mia piccola pervertita. O forse sì? – la sua voce era come una sferzata d’aria gelida che poteva ghiacciarti il cuore. Lico deglutì e scosse la testa.
- Bene, in tal caso – la afferrò per la catena e la spinse contro di sé, baciandola con ardore. La peccatrice sussultò, sentendosi attraversare da una scarica di energia oscura che aveva la stessa intensità di un uragano. Indietreggiò stupefatta, sfiorandosi le labbra con le dita, e inciampando sui stessi passi cadde a terra, incredula.
 
- Ti ho salvato la vita, piccola Lico, di nuovo. Non farmene pentire – le disse, dandole le spalle mentre lei continuava a ripensare quel bacio che leaveva devastato ogni cellula del corpo e solo in quel momento si accorse che la ferita al fianco non sanguinava più, si era rimarginata e aveva lasciato solo una piccola cicatrice.
Era questo il potere del suo padrone? Se lo chiese, osservandolo mentre tornava a sedere sul suo trono caduto. Stava per rispondere quando si ricordò di un’informazione che aveva ottenuto prima dell’incontro con Loto Nero. Inspirò profondamente, rimanendo a terra perché le gambe ancora le tremavano.
-Master ho una notizia per lei e sono certa che non le piacerà – doveva moderare le parole o Debran sarebbe stato capace di toglierle la vita con la stessa facilità con cui gliel’aveva salvata.
- Ti ascolto – l’uomo si era fermato a metà della scalinata e si era voltato verso di lei.
 
- La ballerina, è ancora viva… Kikuri è viva, Master, è in coma ma è comunque sopravvissuta alla battaglia di La Veda. Sembra che…- non riuscì nemmeno a terminare la frase che la colonna accanto a lei andò in mille pezzi: Debran era scattato con una velocità disumana verso di lei e con un pugno aveva sfondato la colonna come se fosse stata di burro. Lico rimase immobile, allibita, mentre ancora qualche detrito cadeva accanto ai suoi piedi. Debran la fissò con i suoi rubini nascosti in parte dai capelli che si erano mossi per lo scatto.
- Non nominarmi mai quella puttanella in kimono. Chiaro? Se è ancora viva vuol dire che mi prenderò il gusto di farla uccidere davanti agli occhi della sua amata – Lico non fiatò, qualunque risposta in quel contesto sarebbe stata sbagliata.
- Ora va a farti una doccia e cambiati d’abito, ti ho già visto abbastanza con questi stracci addosso – disse agitando la mano: era un ordine che non permetteva obiezioni.
 
- Sì, Master –Lico annuì e sì allontanò in tutta fretta, lasciandosi alle spalle il cupo silenzio del suo padrone.
Udire il nome della ballerina oscura gli faceva sempre sentire una fitta acuta di dolore lungo tutta la cicatrice, la stessa cicatrice di cui lei era stata fautrice quasi un anno prima tra le rovine di La Veda. La toccò, seguendone i lineamenti ruvidi, faceva male sì, ma non come il non possedere Alice e tutti i suoi segreti.
 
                                                            […]
 
- Alice? – era stesa su qualcosa di morbido, estremamente morbido, e una sensazione di dolce tepore l’avvolgeva come un abbraccio senza tempo.
- Alice, mi senti? – quella voce.
- Xem?- era sveglia o stava sognando? Non voleva aprire gli occhi, insicura di ciò che avrebbe visto, gli ultimi ricordi erano ancora così offuscati, strane fitte di dolore si facevano largo sulla pelle, tra le pieghe del vestito.
Dolore, freddo, intenso, no, non stava dormendo, quegli echi di sofferenza erano reali e poteva ancora sentire la risata stridula e sadica di colei che gliel’aveva inflitta. Lico, la peccatrice.
- Come ti senti?- quella voce calda, profumo di petali calpestati, un profumo che percepiva solo quando era accanto a lui. Aprì gli occhi, strofinandoseli come una ragazzina.
- Come se fossi caduta dall’ultimo piano del palazzo degli Evocatori, è abbastanza esaustiva come risposta? – tirar fuori quella velata ironia quando si riduceva uno schifo, bevendo e non, era diventata una sua prerogativa. Xem rise di buon gusto.
- Abbastanza – un altro di quei sorrisi belli da star male – Possibile che ogni volta che ci incontriamo o ti addormenti o svieni? E’ già la seconda volta – quella frecciatina colpì nel segno e lei arrossì, abbassando lo sguardo, stringendo con forza le coperte.
- Sembra che ci prendi gusto a farmi da infermiere. O sbaglio?- contrattaccò, restando a testa bassa.
- La prima volta ti ho trovata io, lo ammetto, ma questa volta sei venuta a bussare fino alla mia porta ridotta come se avessi combattuto contro gli stessi Deì – Xem si avvicinò a lei, il profumo dei petali calpestati si fece più intenso, e Alice sentì un nodo alla gola.
 
- Che cosa è successo, Alice? Come ti sei procurata quelle ferite? – il suo tono era serio, quasi duro, ma comprensivo al tempo stesso. Ecco il momento fatidico: dirgli la verità? Come poteva dirgli che si era diretta in un vicolo dimenticato dagli Deì per concedersi completamente al più affascinante depravato di Randall, essere quasi stuprata da una ragazzina mezza demone visibilmente psicopatica e infine combattere contro quest’ultima rischiando di fare una brutta fine, vincendo per un colpo di fortuna sfacciata.
No, nemmeno lo scrittore più sadico e fantasioso avrebbe mai potuto concepire una cosa del genere e, se l’avesse raccontato, Xem l’avrebbe presa per pazza, in un modo o nell’altro. Doveva mentire per il bene suo e di Xem.
-Allora? – quegli occhi ambrati che la fissavano la ricossero dai suoi pensieri – Oh, scusami, ero sovrappensiero. Conosci Graham, quel demone a cui Karl l’ammazzademoni dà la caccia da mesi? – il giovane annuì senza staccarle gli occhi di dosso.
- Bene, sembra sia passato ufficialmente dalla parte degli Deì caduti e per dimostrarlo ha deciso di devastare il tempio di Listya. Siamo intervenuti, nello scontro me lo son ritrovato davanti e beh… mi ha ridotta così. Ci siamo dovuti ritirare in fretta, io ero rimasta indietro e per salvarmi la pelle ho usato un portale oscuro. Ho pensato al primo posto che mi è venuto in mente, mi sono ritrovata davanti casa tua e il resto della storia lo conosci già – Xem la osservò in silenzio, probabilmente aveva capito che aveva inventato tutto di sana pianta, ma sembrava non volergli dare alcun peso.
 
Si limitò a sorridere e a poggiare una mano sulla sua:
- Sono felice che tu ce l’abbia fatta…  Graham è un avversario temibile e ben pochi sono sopravvissuti dopo uno scontro con lui abbastanza a lungo da poterlo raccontare- si capiva lontano un miglio che le stava dando corda, accettando quell’insulsa bugia, senza voler sapere i motivi scatenanti di quella messa in scena. Ammirevole. Non sapeva cosa dire, si sentiva terribilmente in imbarazzo, e qualsiasi frase le sembrava fuori luogo.
- Vado a prenderti qualcosa che ti farà sentire meglio. Mi raccomando non svenire di nuovo-  un’altra frecciatina, un altro sorriso, e Xem si allontanò, lasciandola da dola con i suoi pensieri, l’imbarazzo, e quella confusione ormai perenne.
 
Doveva essere rimasta senza sensi per un bel paio d’ore visto che fuori erano calate le tenebre e le lampade ad olio rischiaravano con una luce soffusa l’intera stanza in cui si trovava. Era coricata su un divano, circondata da cuscini, e accanto a lei c’era un tavolino dove si trovavano garze, forbici, alcuni medicinali che non aveva mia visto in vita sua, e una ciotola ricolma d’acqua e sporca di sangue.
Xem si era preso cura di lei, le aveva medicato le ferite per poi fasciarle con la stessa abilità di un medico.  Indossava ancora i suoi vestiti, ma il braccio e la spalle destra, insieme alla fronte erano fasciati, le garze leggermente arrossate, e le facevano meno mano di quanto si sarebbe aspettata.
Nessuno le avevamo mai dedicato così tante attenzioni, a cui non era minimamente abituata, e a quel pensiero le venne una stretta allo stomaco. Sfiorò con la punta delle dita le garze e non si accorse nemmeno che stava sorridendo quando Xem fece ritorno nel soggiorno.
 
- Siamo proprio pensierosi oggi, eh? – chiese, porgendole una tazza fumante, tenendone un’altra per sé.
- Un po’…-  ripose lei, prendendo la tazza e osservandola dubbiosa – Che cos’è? –
- Un infuso di alcuni tipi di erbe che crescono solo nella foresta di Lomass, a Cordelica-
- Ha un buon odore – osservò lei.
- Ed ha anche un buon sapore. Ti sentirai meglio, dicono che queste erbe riescano a curare qualsiasi male, fisico o psicologico che sia –
- Sei davvero troppo gentile con me, non so davvero cosa dire, non sono abituata a tutte queste premure, ho sempre dovuto badare da sola a me stessa da quando io e mia sorella Elza ci siam dovute dividere –ammise, sorseggiando un po’ di quella bevanda calda.
 
- Non sono sempre stato così…- il suo viso si incupì.
- In che senso? –
- Tempo fa il mio nome era temuto e rispettato da tutti, mi chiamavano “Il Creatore” o qualcosa del genere. Nessuno osava sfidarmi apertamente, avevo sconfitto molti grandi guerrieri, maghi, e perfino degli ammazzademoni- si interruppe, osservando le piccole fiamme di alcune candele che ardevano silenziose su un candelabro lì vicino.
Era la prima volta che Xem parlava di sé e del suo passato: o era molto riservato o qualcosa del suo passato doveva averlo turbato.
- E poi? Cos’è successo? – domandò, continuando a bere l’infuso, assaporando quel dolce tepore che le infondeva in tutto il corpo. Aveva ragione, funziona dannatamente bene.
- Poi un giorno giunse un giovane evocatore senza nome e mi sfidò. Io accettai, come avevo sempre fatto, ma dopo lo scontro più cruento della mia vita mi sconfisse. Avrebbe potuto uccidermi, ma non lo fece, mi risparmiò dicendomi che avrei potuto dare ancora tanto a questo mondo, nonostante fossi già caduto una volta. Da quel giorno non sono più lo stesso, sono cambiato radicalmente, e sono diventato quello che vedi tu adesso – sospirò, quei ricordi dovevano bruciare ancora, doveva far male come ben poche cose.
- Mi dispiace – furono le uniche parole che le sembrarono adatte come risposta: non era mai stata brava in quelle circostanze, era una sua mancanza, lo sapeva fin troppo bene e il non poterlo aiutare dopo tutto quello che aveva fatto per lei la faceva sentire inutile. Si morse le labbra, sentendosi terribilmente impotente.
- Non ti preoccupare, ormai è acqua passata e ho accettato questa mia nuova vita, diciamo così – rispose, con un mezzo sorriso e si accomodò accanto a lei.
 
Rimasero in silenzio, a sorseggiare quella bevanda calda che, in quella situazione, sembrava non avere effetto lasciando entrambi assorti nei propri pensieri, nei propri problemi. Si sentiva leggermente a disagio, quel silenzio era quasi opprimente, ma avere accanto Xem la rassicurava, non riusciva a spiegarsi il perché, eppure il suo animo si placava e quei tumulti interiori diventavano solo fantasmi dimenticati.
Finì di bere l’infuso e poggiando la tazza vuota sul tavolino accanto al divano sentì una fitta di dolore al braccio destro: la ferita era ancora aperta e le garze erano diventate letteralmente rosse nel punto in cui si posavano su di essa. Una goccia di sangue scivolò insicura fuori dalle garze e Alice rimase immobile col braccio teso ad osservarla: Xem osservò la goccia e afferrò il braccio, come se volesse pulirlo e cambiare le garze, ma non fece nulla.
 
Alice sentì il cuore iniziare a battere più forte del dovuto, il respiro farsi più pesante, quei diamanti ambrati trapassarla da parte a parte col loro sguardo, mentre loro restavano immobili come se il tempo avesse deciso di arrendersi.
Xem avvicinò il viso al suo braccio e, con un gesto che aveva dell’assurdo, leccò la goccia di sangue con una sensualità tale che Alice si sentì mancare. I loro sguardi si incrociarono e la giovane Dea Falce perse un battito, sentendosi avvampare come se avesse preso letteralmente fuoco. Accadde tutto in un attimo: con la mano sinistra afferrò l’uomo dal colletto della camicia e lo spinse contro di sé, baciandolo con un’intensità e una passione tali che non si sarebbe mai aspettata.
Xem, inizialmente stupito, ricambiò quel bacio improvviso e la strinse a sé, allungando quel gesto tanto folle e inaspettato quanto eccitante e passionale. Dopo alcuni secondi che sembrarono un’eternità Alice si staccò da lui, col fiato corto, lo sguardo stralunato e un tumulto di emozioni in corpo che avrebbe raso al suolo una città se solo avesse potuto liberarsi.Xem la osservò, senza parlare, il suo sguardo diceva tutto.
- Scusami… non dovevo, non so cosa mi è preso- balbettò lei, incredula, abbassando lo sguardo e auto maledicendosi per non aver saputo avere più autocontrollo. Xem restava ancora in silenzio, gli occhi puntati su di lei, un mezzo sorriso sulle labbra.
- Io, non so più cosa stia succedendo, quest’ultima settimana è stata… non so… non saprei come definirla. Sul serio non… - non riuscì a finire la frase: Xem l’aveva stretta a sé, di nuovo, ma questa volta in una presa che non permetteva alcuna resistenza. Prima ancora che potesse rendersi conto di cosa stava succedendo le labbra del giovane si erano già poggiate contro le sue e si abbandonò a quell’inferno di emozioni senza volto né anima, sentendo ancora una volta quel particolare e unico profumo di petali calpestati.
 

 

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Capitolo 8
*** Emozioni Sbiadite ***


A Black Lotus as Night

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Episodio VIII- Emozioni Sbiadite
 
Si era lasciata andare, di nuovo, a qualcosa che fino a poche settimane prima non avrebbe nemmeno saputo immaginare, fantasticando come può fare un ragazzino mentre osserva le nuvole che viaggiano silenziose nel cielo.
Si era abbandonata, di nuovo, a sentimenti ed emozioni che erano più forti di lei, forse della sua stessa volontà, a quelle stesse emozioni che se la giostravano come una marionetta, che bruciavano più dell’inferno.
Le labbra di Xem non bramavano più solo le sue, ma ogni centimetro della sua pelle, del suo corpo, ed ogni singolo bacio era come una scossa elettrica, adrenalina pura che le fece sussultare il cuore, l’anima, che le incenerì ogni pensiero ancor prima che potesse essere formulato.
E lei ricambiava, per ogni bacio ricevuto gliene concedeva due, per ogni carezza delicata lo stringeva ancora di più a sé, per un ogni gemito strappato affondava ancor di più le unghie nel suo corpo scolpito e immacolato come quello di una statua, come quello di un dio.
 
A differenza di Debran, Xem non aveva tentato minimamente di spogliarla, lo stava facendo solo con gli occhi e questa cosa la faceva sentire ancora più eccitata, ancor più desiderata e quasi si vergognò a pensare qualcosa del genere mentre la morsa incandescente della labbra del gentiluomo si chiudeva per l’ennesima volta intorno al suo collo strappandole un respiro estasiato.
Erano lì, avvinghiati l’uno all’altra su quel divano, a scambiarsi baci peccaminosi, a sussurrarsi promesse d’amore, a godersi quei frammenti di un tempo che avevano distorto loro stessi per essere lontani da tutto e da tutti, per non essere disturbati mentre davano sfogo alle loro passioni più recondite, ad un desiderio che non credevano nemmeno di covare nei loro cuori, nelle loro anime lacerate da un sentimento che non aveva un volto, ma solo una voce che urlava di essere soddisfatta.
 
Erano lì, quando si sentì attraversare da una sensazione sgradevole e sconosciuta che la fece rabbrividire come una folata di vento gelido. Allontanò Xem e i suoi baci da sé, a malincuore, e deglutì come se d’un tratto avesse la gola terribilmente secca.
- C’è qualcosa che non va? – le chiese, perplesso, l’uomo.
Lei non rispose, era troppo presa a guardarsi le mani, per il semplice fatto che al posto di due ne vedeva quattro e per giunta sfocate. Allucinazioni? Stanchezza?
- Alice, che hai? – lo sentiva ancora vicino a sé, il suo calore, quel profumo di petali calpestati così intenso e a tratti aspro, era vicino, ma quella che si sentiva assente era lei.
- Non lo so, ti prego, fermiamoci – riuscì a formulare quella banale risposta, che in tutta sincerità non convinceva nemmeno lei, ma l’uomo annuì e la liberò da quell’abbraccio così consolatore e ammaliante. Un attimo prima stava saziando la sua anima con emozioni profonde, surreali, sensazioni color cremisi che ardevano come le stelle nell’oscurità imperatrice della notte ed ora, ora stava fissando sconcertata tutto ciò che la circondava, come se non facesse più parte di quel mondo.
 
- Alice, che ti prende? – della domanda di Xem, intrisa di preoccupazione sincera, le giunse solo un flebile eco, mentre si alzava, facendo cadere alcuni cuscini e parte delle coperte che fino a pochi minuti prima avevano nascosto con estrema fedeltà il loro gioco d’amore e passione.
- Xem… io… mi sento strana – balbettò, barcollando verso il comò più vicino, per avere qualcosa a cui appoggiarsi, per non cadere, perché il mondo intorno a lei iniziava a ruotare vorticosamente, mentre dentro qualcosa si agitava, urlava, la stava letteralmente dilaniando con artigli invisibili.
Sopra il comò c’era uno specchio ovale e quando alzò lo sguardo per vedere lo stato in cui era ridotta rimase sconcertata e un’espressione mista tra stupore e ansia le scolpì il viso tramutandolo in una maschera di angoscia.
 
Xem fece per avvicinarsi, per accorrere in aiuto della sua piccola protetta, di quel loto nero che sembrava che d’un tratto stesse appassendo senza una motivazione ben precisa, ma Alice lo fermò:
- Non ti avvicinare! – esclamò, tenendo la testa bassa, il respiro corto come se avesse corso, una mano poggiata sul comò per non cadere e l’altra premuta sul petto, quasi a voler trattenere il cuore che minacciava di esplodere da un momento all’altro – Per favore - aggiunse, con un filo di voce.
Xem la fissò allibito, incredulo, lo sguardo perso alla ricerca di una possibile risposta a quello strano comportamento. Avrebbe potuto rivoltarla come un calzino, farle sputare il rospo, lo sapeva fin troppo bene, ma non lo fece e questa reazione la lasciò di sasso, mentre tentava inutilmente di riprendere fiato.
 
- Alice…- la chiamò, con una tale dolcezza che si sentì morire dentro: avrebbe voluto saltargli addosso, cingergli il collo con le braccia, lasciarsi andare contro il suo petto e piangere, affondando la faccia nelle increspature della camicia e soffocare nel profumo dolciastro dei petali calpestati. L’avrebbe voluto, con tutta se stessa, ma non poteva, non dopo aver visto quella cosa nel riflesso dello specchio.
- Xem…- sussurrò, trattenendo a stento le lacrime, sopprimendo come poteva l’odio per quello che stava passando, un odio nel quale stava annegando, lentamente.
-Xem mi dispiace…- prima ancora che l’uomo potesse rispondere un varco oscuro si aprì accanto a lei e si lasciò cadere al suo interno, scomparendo nel nulla, lasciandolo da solo coi suoi dubbi e le sue domande.
 
Xem fissò il punto in cui pochi istanti prima si trovava Alice, le piccole bruciature lasciate dal varco oscuro sul comò e il pavimento, infine il divano disfatto dove poco prima stava per fare sua Loto Nero, la Dea Falce, o più semplicemente la donna di cui si era innamorato fin da quella notte di pioggia e fulmini. Sì verso con nonchalance un bicchiere di liquore e dopo averlo tirato giù in un sol colpo lo scaraventò come se niente fosse contro la parete, mandandolo in frantumi. Un mezzo sorriso gli increspò le labbra mentre afferrava la bottiglia, lasciandosi andare sul divano a fissare il soffitto, a domandarsi per quanto tempo quella commedia sarebbe andata avanti. Quanto ancora?
 
                                                            […]
Alice si ritrovò dentro casa sua e più che farla atterrare al centro della camera da letto il varco l’aveva letteralmente buttata sul pavimento con le relative conseguenze e imprecazioni al gran seguito.
Scosse la testa per levarsi quella sgradevole sensazione di mancamento, ignorando il nodo allo stomaco che per poco non la fece vomitare, e si massaggiò con delicatezza le spalle e il ginocchio che erano state le vittime principali di quella rocambolesca caduta. Le ferite causate dello scontro con Lico facevano ancora male, probabilmente sanguinavo ancora, ma quello era l’ultimo dei suoi problemi, aveva cose ben peggiori a cui pensare.
 
La stanza era immersa nella penombra e alcune candele bruciavano silenziose sparse qua e là, ormai consumate e dimenticate. Il disordine regnava sovrano, c’erano oggetti vari e vestiti abbandonati qua e là, pile di libri che minacciavano di crollare come un castello di carte da un momento all’altro e trofei di questa o quella battaglia ormai sbiaditi dal tempo, echi indistinti di un passato glorioso, il suo.
Si rialzò, massaggiandosi le tempie per calmare quel tumulto di pensieri che le stava opprimendo il cervello e si diresse verso il grande specchio a rombo che se ne stava appeso in solitudine sulla parete opposta a quella occupata dal grande armadio a quattro ante.
 
Aveva paura di specchiarsi di nuovo, di rivedere ciò che aveva appena intravisto a casa di Xem, ma non poteva tirarsi indietro, doveva far luce su quello strano avvenimento, su quella sensazione anomala che le si era appiccicata addosso e che le ronzava intorno come una nebbia subdola.
Si avvicinò allo specchio con estrema lentezza e accese due lampade ad olio abbandonate lì vicino per vederci meglio, ma quando alzò lo sguardo per incontrare il suo riflesso si sentì nuovamente mancare: l’occhio sinistro era diventato rosso, un rosso accesso e innaturale, in pieno contrasto con il color ametista che le contraddistingueva gli occhi e, come se questo già non bastasse, parte del suo volto era letteralmente mutato. Che diavolo le stava succedendo? Tutto ciò che stava vedendo non aveva alcun senso.
 
 
Avvicinò una mano per sfiorare quella parte del suo volto che era cambiata, quasi come se la sua stessa faccia non fosse stata altro che una maschera: sembrava una sorta di illusione ottica, ma non era né ubriaca né tantomeno vittima di un qualche sortilegio, ciò che stava vedendo era dannatamente reale.
Per metà faccia era l’Alice di sempre, con il suo sguardo a tratti assente a tratti deciso, quell’ametista incastonata che brillava se colpita dalla luce, i capelli corvini legati nella coda e neri come la notte stessa, quel mezzo sorriso sempre presente.
Ma l’altra parte, era completamente diversa: occhio rosso, un rubino che sembrava bruciare come una piccola fiamma, sguardo malinconico, sulle labbra solo il fantasma di un vecchio sorriso, i capelli sempre neri ma dai riflessi violacei e più scompigliati del solito. Tutto ciò non aveva senso.
Quei particolari, quei dettagli le ricordavano qualcuno, ma non appena tentò di ricordare chi fosse una fitta di dolore lancinante la sconvolse e la costrinse a chiudere gli occhi, mordendosi le labbra e poggiando entrambi le mani sulla testa per cercare quasi di trattenerlo, senza alcun successo.
 
Quando finalmente riuscì a riaprirli era tornata in sé ma lo specchio rifletteva qualcos’altro oltre al suo aspetto naturale e ciò la sconvolse più di quanto non avesse già fatto l’esperienza anomala appena vissuta: nel riflesso si intravedeva una lapide in marmo, circondata da mazzi di fiori, sormontata da una piccola statua che ritraeva un angelo in preghiera, una tomba che portava un nome familiare, il suo.
Arretrò sconcertata, incredula, osservando tutte quelle persone che si fermavano a porgere un ultimo saluto alla Dea Falce, al capitano dei Loto Nero: Mifune, il samurai la cui lama non aveva mai trovato pari, Shida, lo scienziato dalla mente brillante e al tempo stesso inquietante, Sefia, la dama bianca, Kikuri, la ballerina oscura e sua cara amica. C’erano persone che conosceva, altri che non avevamo mai visto in vita sua e tutti si avvicinavano alla tomba per sfiorarla con un dito, mormorare qualche parola, versare una lacrima o lasciare un piccolo ricordo.
 
Tra tutte quelle persone c’erano una in particolare che le dava le spalle, inginocchiata a terra, accanto alla tomba, singhiozzava, piangendo a dirotto, urlando il suo nome, stringendo tra le braccia qualcosa. Ed era come se lei fosse lì, riusciva a sentire la presenza delle altre persone, la loro tristezza, il pianto della ragazza, la pioggia che scendeva copiosamente, era tutto così dannatamente reale, come se fosse entrata nello specchio, nel suo mondo riflesso.
- No…- sibilò, stringendo i pugni, accorgendosi incredula che aveva iniziato a piangere anche lei – No, no, no,no, - tremava, stritolata da un tumulto interiore di emozioni contrastanti.
- Non può essere, io sono viva… sono viva! Non sono morta, è solo una sporca menzogna! – esclamò e accecata dalla rabbia scagliò un pugno contro lo specchio e la sua superficie liscia si riempì di crepe, trasformando il suo riflesso in un orribile kaleidoscopio di sguardi e immagini inumane.
 
Per un attimo osservò la mano insanguinata, ma non se ne curò, e continuò a prendere a pugni lo specchio finché non andò completamente in frantumi.
Era furibonda, e ancor più confusa, stremata da quelle allucinazioni o qualsiasi altra cosa fossero, sconvolta da un’emicrania che la stava facendo impazzire e senza più riuscire a ragionare evocò la falce: furiosa iniziò a devastare la sua stessa camera da letto, spegnendo le lampade ad olio, distruggendo qualsiasi cosa le capitasse a tiro, rimanendo nella completa oscurità, finché non crollò a terra senza più forze, circondata da una distruzione che rispecchiava ciò che aveva provato dentro di sé. Per un’istante sentì che la sua stessa anima era andata in frantumi.
 
                                                             […]
 
3 Giorni Dopo
 
L’Ospedale di Nostra Signora della Misericordia, che in verità altro non era che Maria l’Angelica, era a dir poco imponente e se avesse dovuto trovare da sola la stanza che stava cercando probabilmente si sarebbe persa, più e più volte.
Raggiunse silenziosa uno dei banchi informazione e dopo essersi sorbita lo sguardo perplesso e curioso dell’infermiera posta dietro il bancone si fece forza per pronunciare quella semplice domanda:
- Dove posso trovare la paziente D-34? – a causa dei continui scontri l’ospedale era stato costretto a catalogare i pazienti con lettere e numeri, usare i nomi era diventato troppo caotico. L’infermiera le scoccò un’occhiata prima di calare lo sguardo sul registro che aveva davanti.
- D-34? Terzo piano, seconda zona degli alloggi, terza stanza a destra subito dopo aver attraversato il corridoio principale. Chiaro? - nel pronunciare quella frase non la degnò nemmeno di uno sguardo, troppo presa da tutte le scartoffie che circondavano il registro dei pazienti.
 
Alice annuì e si incamminò di tutta fretta verso la sua destinazione e, dopo aver sbagliato ugualmente due volte il percorso, finalmente la raggiunse. La porta era aperta e si poteva vedere l’interno della stanza: per lo più era vuota, fatta eccezione per alcuni piccoli mobili bianchi, varie strumentazioni mediche e un grande letto su cui giaceva una donna dai capelli corvini come i suoi, ma più corti.
Aveva alcune flebo collegate ad entrambe le braccia, una mascherina collegata ad un enorme macchinario alle sue spalle e aveva i polsi e la fronte fasciate, così come parte del torace. In fondo alla stanza c’era un piccolo divanetto su cui qualcuno probabilmente aveva dormito più volte a giudicare dai cuscini, dalle coperte, e da altri oggetti che erano stati abbandonati lì dal loro proprietario, qualcuno che vegliava sulla donna.
 
Sul comodino accanto al letto c’erano alcuni oggetti personali della paziente, tra cui due che attiravano particolarmente l’attenzione: un kunai e una rosa nera come la morte che sembrava non poter appassire mai.
La donna sembrava essere caduta in un sonno profondo, gli occhi chiusi, il corpo immobile, le lunghe dita affusolate inermi sulle lenzuola e il torace che si muoveva ad intervalli regolari, seguendo il suo respiro soave. Era viva sì, ma in coma.
Alice si avvicinò, osservandola con gli occhi lucidi: era passato quasi un anno da quel tragico giorno e non l’aveva più vista da allora, non era mai riuscita a farsi coraggio per andarla a trovare, un po’ per paura un po’ per altro, ma ora era lì, proprio davanti a lei e non sembrava esser passato nemmeno un singolo giorno.
Si sedette accanto al letto e posò la mano fasciata sulla sua, trattenendo le lacrime:
- Sono tornata, Kikuri, sono tornata…-

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Capitolo 9
*** Frammenti di Sogno ***


A Black Lotus as Night

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Episodio IX- Frammenti di Sogno

Note dell'autore: Rieccomi gente! Mi scuso con tutti i lettori per la lunga assenza, ma l'università mi ha fregato parecchio tempo e non avendo un portatile in appartamento ho dovuto aspettare di ritornare a casa per poter ricopiare e quindi pubblicare l'episodio ( mi sto attrezzando per risolvere questo problema il prima possibile ). Come se non bastasse ho avuto anche un periodo da "blocco dello scrittore" che penso conosciate tutti e sapete quanto sia fastidioso <.< Comunque sia siamo giunti all'episodio IX e questo è un episodio particolare, leggendo capirete il perché, non voglio fare spoiler xD Spero che l'episodio  vi piaccia e che ripaghi la lunga attesa. Buona lettura!
Un abbraccio

Snowstorm

Kikuri giaceva davanti a lei in un religioso silenzio che ormai andava avanti da mesi, interrotto solo a tratti dal suo lieve respiro, quasi impercettibile, eppure era una delle poche cose che dimostrava che era ancora viva, nonostante tutto.
Strinse ancora di più la sua mano fasciata, era calda e delicata, nessuno avrebbe mai potuto pensare che quella mano aveva stroncato centinaia di vite, la stessa che l’aveva sorretta e aiutata tante di quelle volte da aver ormai perso il conto.
Era andata a trovarla per un motivo ben preciso, parlarle, ma quasi le sembrava ingiusto disturbare il suo riposo, quel sonno perpetuo in cu era caduta per salvare la propria amata. Kikuri aveva avuto il coraggio di prendere una decisione, di fare una scelta, accettandone tutte le relative conseguenze.
Lei avrebbe fatto altrettanto o sarebbe scappata via come una codarda che non sa gestire nemmeno i propri sentimenti?
Era lì proprio per capirlo, per sfogarsi con una donna che ormai vedeva come una sorella maggiore da quando era stata allontanata da Elza.
- Elza…- pronunciò quel nome a bassa voce, manco fosse stato il nome di un demone, e l’ennesima fitta di dolore alla testa la trafisse come un dardo incandescente ma al tempo stesso gelido. Scosse la testa, confusa più che mai, e si riprese: non era arrivata fin lì per sedersi su una sedia a rimuginare sui propri pensieri.
 
Inspirò profondamente, fece appello a tutto il coraggio che aveva in corpo e iniziò a parlare, come non faceva da tanto, troppo tempo:
- Kikuri, so che puoi sentirmi anche se non puoi parlare, ma il solo starti acanto mi rassicura e forse parlare con te mi farà trovare una risposta, una soluzione. Tentare non nuoce, vero? Sto impazzendo, Kikuri, letteralmente, per qualcosa che fino a poco tempo fa nemmeno calcolavo: l’amore, o comunque qualcosa di vagamente simile. Possibile che sia così straziante? Come posso essermi innamorata così velocemente di un uomo e al tempo stesso desiderare di essere…ehm…sì, ecco, posseduta da un altro? Tutto ciò non ha alcun senso, vero? Ho provato a cercare una risposta, ci ho passato intere notti in bianco, e nonostante tanto impegno eccomi qui, ancora ad arrovellarmi tra dubbi e incertezze. Uno schifo.
Mi hanno insegnato a combattere, ad usare la falce come se fosse un’estensione del mio corpo, a non temere alcun avversario, a non aver paura di niente sul campo di battaglia, eppure… non mi hanno mai insegnato a gestire le emozioni e penso che ne sto pagando le conseguenze, pezzo per pezzo-  si interruppe un attimo notando che stava stringendo con troppa forza la mano della ballerina, un chiaro sintomo della rabbia che stava crescendo in lei, una piccola fiamma che attendeva di trasformarsi in un devastante incendio.
 
Si alzò e si diresse verso la grande finestra che illuminava la stanza e rimase immobile ad osservare la skyline della capitale, palazzi su palazzi che si sfidavano a vicenda a chi arrivava a sfiorare di più la volta del cielo. Osservare quel paesaggio immenso faceva sembrare lei e i suoi problemi piccoli e insignificanti.
Sospirò, lasciando scivolare la punta delle dita sul vetro, e riprese a parlare, raccontando di come aveva conosciuto prima Debran e poi Xem, di come quella notte la sua vita era cambiata per sempre, se in meglio o in peggio questo era ancora da decidere.
Si soffermò su alcuni dettagli, su come si erano evolute le situazioni, intrecciati i rapporti, tralasciando alcune parti che la imbarazzavano al solo pensiero, azioni di cui si sarebbe vergognata praticamente per sempre, lei che aveva spazzato via battaglioni interi e devastato città senza alcuna pietà o ritegno.
Più che una parte della sua vita sembrava che stesse riassumendo la trama di un romanzo rosa e questa osservazione le strappò un mezzo sorriso. Quando finalmente concluse di narrare quella sottospecie di odissea sentimentale, stanca di fare avanti e indietro per la stanza, si riaccomodò accanto alla ballerina, sentendosi già più leggera quasi si fosse tolta un peso dal cuore.
Avrebbe voluto anche parlarle dell’altro problema che l’affliggeva, ciò che aveva visto nel riflesso dello specchio, ma il non aver dormito per tre giorni di fila iniziava a farsi sentire: le palpebre si erano fatte dannatamente pesanti, la vista un po’ sfocata e la classica stanchezza da post battaglia infernale le gravava addosso come un macigno.
Così, non appena si posò un attimo sul letto per “riposarsi giusto cinque minuti”, finì per sprofondare in un sonno profondo, ignara del fatto che neanche tra le braccia di Morfeo avrebbe trovato riposo, non come sperava, non questa volta.
 
                                                                […]
 
Di nuovo quella sgradevole sensazione di essere legata, no, non poteva aver fatto lo stesso sogno per l’ennesima volta. Aveva bisogno di guardarsi intorno per capirlo, per cercare una qualsiasi conferma, ma non poteva, la benda color porpora le copriva gli occhi, proprio come l’ultima volta, abbandonandola in quell’oscurità sconosciuta, indefinita e dai riflessi rossastri.
Sapeva che stava sognando, che si era addormentata accanto a Kikuri per colpa delle notti insonni, ma nonostante ciò c’era qualcosa che la inquietava e non poco. L’unica nota positiva a suo favore era il semplice fatto di avere ancora tutti i vestiti addosso, ma in curo suo sapeva che quella quiete non sarebbe durata a lungo, proprio come i suoi poveri vestiti.
Una voce calda, decisa, e fin troppo familiare gliene diede subito conferma:
- Bentornata nel mio mondo, mia piccola Alice –
Avrebbe voluto insultarlo, riempirlo di ingiurie e spaccargli la faccia per ciò che le aveva fatto ma non ci riuscì e le uniche parole che le uscirono dalla bocca la sconvolsero:
- Mi sono mancate le tue mani, le tue labbra, mi è mancato tutto di te. Riprendiamo da dove eravamo rimasti? – disse, consapevole che le sue labbra si erano mosse per formulare quella richiesta insana, emblema di un peccato nero come la notte, rosso come il sangue, andando contro ogni singola goccia della sua volontà.
- Con immenso piacere – rispose l’uomo e sentì il suo respiro sulla pelle, era vicino, dannatamente vicino, proprio come l’ultima volta.
Sentì le sue labbra umide socchiudersi sul collo e rabbrividì, scossa da una scarica di piacere che non tollerava, ma che al tempo stesso bramava con tutta se stessa.
- ma questa volta senza alcun incantesimo subdolo…- iniziò a sussurrarle nell’orecchio ed ogni parola era una fitta al cuore, un respiro mancato.
- Sono stanco di tutta questa messa in scena teatrale, abbiamo giocato anche abbastanza, è arrivato il momento che tu reagisca, sarà divertente – non appena concluse la frase si sentì attraversare da una scarica di energia anomala, percepì che il suo corpo e la sua coscienza le appartenevano di nuovo, ma quel desiderio di piacere blasfemo e lussurioso continuava a far sentire il suo canto nei meandri della sua stessa anima, implacabile, ossessivo.
 
- Maledetto bastardo! Che cosa mi hai fatto? Avanti, parla! – esclamò, fuori di sé, ricolma di rabbia e rancore, di un odio viscerale verso quell’uomo che l’aveva usata come una marionetta per soddisfare le sue maledette perversioni. Debran rise di gusto, la sua risata sembrava riecheggiare dovunque.
- bene, bene, bene. Allora è questo il carattere tutto pepe e spavalderia del Loto Nero, eh? Non che il lato docile da schiavetta sempre disponibile mi dispiacesse, ma così è decisamente più interessante – esordì, strappandole le maniche del vestito, lasciando le braccia scoperte e in balia delle sue labbra e di qualcosa che sembrava una lama molto sottile.
- Razza di maniaco, che cosa stai facendo? Toglimi questa dannata benda e liberami!- sentiva le sue labbra, sentiva quella lama sfiorarle la pelle scatenando fitte di dolore che duravano un battito di ciglia e lei era completamente impotente.
- Liberami! – urlò, dimenandosi, facendo tentennare le catene che la tenevano a bada nella loro crudele morsa metallica.
 
- Una preda che fugge e tante di difendersi dona maggiore soddisfazione, non è così? – il suo tono di voce era caldo e pacato mentre le lacerava il corsetto, scoprendole il seno –Una laura ricompensa, non trovi? – le chiese sadico, mentre le sue mani si insinuavano tra i resti del corsetto, strappandole sussulti di piacere e urla di rabbia al tempo stesso. Stava per riempirlo di insulti, ma prima che potesse aprir bocca le labbra di Debran si chiusero sulle sue in un bacio che bruciava come l’inferno.
Le sue dita scivolavano da una parte all’altra del suo corpo e per ogni brivido le catena vibravano spaventate, mentre dentro di sé sentiva quel desiderio urlare a squarciagola e reclamare ciò che chiedeva.
Debran si staccò dalle sue labbra, lasciandola con l’amaro in bocca, nel vero senso della parola: poteva sentire il sapore dell’animanera, un insieme di gusti che ridestava troppi pensieri, troppe emozioni.
Quel bacio improvviso le aveva mozzato il fiato tanto che non riusciva più a parlare, sentiva soltanto il suo cuore che batteva all’impazzata e il fatto che stesse ansimando come una ragazzina.
 
- Mi sei costata così tanto tempo e fatica, mia piccola Alice, non puoi nemmeno immaginare quanto – le stava girando intorno, percepiva i suoi passi – Una giovane donna fuori da qualsiasi canone, una bellezza fatale, un carattere che fa scappare la maggior parte degli uomini… - i suoi passi si interruppero, probabilmente era di nuovo davanti a lei.
- Un cuore tanto gelido e oscuro da non conoscere né accettare l’amore –
- Va al diavolo, Debran, tu e la tua follia – sibilò, col respiro greve, la mente a pezzi e l’anima in tumulto.
- Dimmi, come si sente la coraggiosa e impavida Dea Falce nell’essere legata e impotente? La tua spavalderia qui non serve a nulla e credo che tu ormai l’abbia capito… - iniziò a lacerarle le gonne, pezzo dopo pezzo, per poi afferrarla per le gambe – Voi essere umani siete così cocciuti, ignorate fin troppe cose – era in balia delle sue perversioni, si sentiva abbattuta, sconfitta, prossima al panico.
- Ti prego… non farlo – lo implorò, conscia di quello che sarebbe accaduto di lì a poco.
- Ricordi che cosa ti avevo detto? Niente più scenette teatrali – sentì la lingua che le sfiorò i seni, la possente mano destra che ne stringeva uno mentre la sinistra si spingeva nell’inguine, tra le cosce, abbattendo qualunque difesa le fosse rimasta.
Tentò di urlare ma dalla bocca non le uscì nemmeno un filo di voce, tentò di dimenarsi ancora una volta ma ormai le forza l’avevano abbandonata e così Debran la fece sua, definitivamente.
 
                                                            […]
 
Non voleva minimamente pensare a quello che le aveva fatto, era solo un sogno, un dannato sogno, ma lui era ancora lì, proprio davanti a lei.
- Direi che è arrivato il momento che tu mi veda per come sono realmente. Non è affatto giusto usare delle maschere, vero? Ma credimi, ho avuto i miei buoni motivi – concluse sfilandole la benda che la rendeva “cieca” e quando finalmente i suoi occhi si riabituarono alla luce delle torce ciò che vide la turbò nel profondo: Debran era davanti a lei, i capelli argentati sospinti da una brezza impercettibile, i due rubini incastonati di nero e la camicia completamente sbottonata.
 Aveva la carnagione rossastra, un rosso svilito, smorto, attraversata da tatuaggi lineari e non, del colore del sangue, che gli ricoprivano il torace, il volto, praticamente tutto.
Due enormi corna ricurve gli spuntavano dalla fronte, emanava un’aura oscura che ben pochi potevano vantare e il suo sorriso sadico completava il ritratto… un ritratto inconfondibile.
Lo stupore sul volto di Alice si mescolò ben presto all’inquietudine.
- Non può essere tu eri…-
- Morto? Quasi, ci ero andato vicino, ma fino a prova contraria sono proprio qui, davanti a te – si avvicinò e le sfiorò la guancia con la lama, ferendola – Io sono Zebra, il Dio Folle, mia piccola Alice… e questo, questo non è affatto un sogno -.

 

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Capitolo 10
*** Risveglio Fatale ***


A Black Lotus as Night

2s1582s

Episodio X- Risveglio Fatale

L’ultima frase l’aveva sconvolta più di qualunque altra cosa fosse accaduta in quelle ultime settimane. Un colpo di grazia da manuale.
Tutto iniziava ad avere un senso, da quella notte al “Picchiere Nero” fino a quell’ultimo fatidico sogno. Un incubo nitido come l’acqua.
Zebra, uno degli esseri più sadici, malati e oscuri che GrandGaia avesse mai conosciuto era ancora vivo, sopravvissuto alla battaglia di La Veda, e l’aveva usata, soggiogata, divertendosi con lei come con una bambola senz’anima e senza coscienza.
Semplicemente disgustoso.
 
La risata di quel bastardo le risuonava ancora nelle orecchie, un ronzio perenne ed estremamente fastidioso: come aveva potuto farsi fregare a  quel modo? Perché non era riuscita a far nulla, a capirlo prima?
Si sentiva una stupida, una ragazzina alla mercé di uno psicopatico, e non poteva torrerarlo. Non più.
- E’ forse odio quello che leggo nei tuoi occhi? Affascinante – quella voce era più velenosa del cianuro, si sentiva invasa da una rabbia incontrollabile, qualcosa di così forte da corrodere ogni singola cellula del suo corpo.
Zebra rise nel vederla in quello stato e le sfiorò di nuovo le gambe con la punta della lama. “Basta”.
 
Strinse con forza i pugni e iniziò a tirare le catene, dimenandosi come una belva in gabbia, lanciandogli addosso tutti gli insulti che conosceva, mentre lui continuava a ridere nel vedere quella scena.
- Patetico, Alice, patetico – la schernì e ciò non fece altro che alimentare la sua rabbia: afferrò con furia le catene, ignorando il dolore dellle ferite e della violenza appena subita, tirando con tutte le sue forze finché uno degli anelli non cedette alla tensione.
Bastò un attimo: la catena si spezzò, agitandosi nell’aria come una frusta impazzita, e ben presto la sorella gemella la seguì in quella strana danza.
Strinse ancor di più la presa e senza pensarci due volte usò le catene come un’arma per attaccare Zebra.
Il demone si lasciò colpire, senza provare a schivare le frustate, mentre le tenebre calavano su di loro, improvvise e nefaste.
Prima che potesse capire cosa stava succedendo, troppo accecata dall’ira, si ritrovò circondata da quella malsana oscurità, le catene persero la presa su Zebra, sgretolandosi e sentì la sua voce perdersi nell’oblio:
- Non serve dormire per vivere un incubo, mia piccola Alice –
 
                                                                [...]
 
Aprì gli occhi e la luce del sole la accecò: era ancora lì, poggiata con la testa sul letto, la mano stretta intorno a quella di Kikuri, il silezio surreale che regnava nella stanza.
Era tornata nel mondo reale, riuscendo a fuggire dalla folle prigionia di Zebra, ma sentiva il bruciore dei tagli sulla pelle, i sudori freddi sulla schiena, la sensazione sgradevole di essere stata violata senza alcun ritegno.
Quel bastardo non mentiva, tutto ciò che era accaduto in quella specie di incubo era reale e lei ne portava i segni distinti addosso.
 
Scosse la testa per levarsi la nebbia dai pensieri, la stessa sensazione di una sbronza a mente lucida, e guardò Kikuri: non si era mossa di un centimetro, dopotutto non poteva, ma si ritrovò ad invidiare quella sua immobilità, quella tranquillità perpetua.
Tranquillità, ce n’era troppo nella stanza, a dir poco surreale, e nessun suono proveniva dall’esterno e dal resto della struttura.
Troppo tranquillo anche per un dannato ospedale.
 
Evocò con un sussurro la falce udendo dei passi distinti che si avvicinavano alla porta e si allontanò dalla ballerina, pronta a dare il “benvenuto”  allo sconosciuto.
La maniglia ruotò leggermente e la porta si aprì con una lentezza angosciante.
Trattenne il respiro, percependo la stessa tensione che aleggiava nell’aria e si lanciò in avanti per bloccare sul nascere qualsiasi reazione.
Roteò la falce per far prendere un colpo allo sconosciuto, chiunque fosse, ma una lama di luce fermò il fendente con una piccola pioggia di scintille.
Lame di luce, la dama bianca. Sefia.
 
Fece scomparire la falce nella nube di farfalle e guardò perplessa la donna, che ricambiò, mostrando preoccupazione.
- La senti? – le chiese e Sefia annuì – Si, sono venuta proprio per questo. Non va bene, non va affatto bene – rispose, guardandosi attorno, senza muovere un muscolo.
- Cosa pensi che sia? E’ vicino, troppo vicino -  anche lei prese a cercare con gli occhi, senza sapere esattemente cosa.
- Non so cosa sia, ma... – le parole le morirono in gola. Sovrastate da un sibilo che sembrò far vibrare l’aria stessa.
 
In un battito di ciglia, tempo di un respiro mancato, la parete che dava sulla strada principale si infranse come un vetro, massacrata da una forza imponente, facendo sussultare l’intero ospedale come una grande bestia.
Calcinacci e mattoni volarono in tutte le direzioni come proiettili vaganti, mentre crepe sinistre avanzavano sul resto della stanza simili a serpenti, e in quello stesso istante vide Sefia scattare verso Kikuri per proteggerla col suo stesso corpo.
Lei invece si era limitata ad inginocchiarsi per evitare i resti della parete, disintegrando con la falce qualunque cosa puntasse al letto della ballerina, in attesa di guardare in faccia il pazzo che li aveva attaccati.
 
Sefia era troppo occupata a sincerarsi delle condizioni della sua amata per accorgersi che due gocce di fuoco la stavano squadrando, passando poi alla ballerina e infine soffermandosi proprio su di lei.
Quegli occhi, il suono di una risata stridula e irritante.
La peccatrice, Lico la mezza demone.
 
Non solo non mostrava i segni del loro precedente scontro, in cui l’aveva quasi spedita all’altro mondo, ma sembrava più forte di prima e brandiva un’enorme ascia bipenne. La stronza sorrideva.
- Sefia pensa a Kikuri, quella piccola bastarda è mia! – esclamò senza perdersi in altri pensieri, ignorando il caos scoppiato nell’ospedale e scagliandosi con furia contro la mezza demone con la falce che riappariva in tutta la sua eleganza fatale.
Con un salto disumano divorò la distanza che le separava, ma con estrema facilità la ragazzina roteò l’ascia e bloccò il suo colpo: non appena le due armi si toccarono una piccola onda d’urto le spedì nei versi opposti, generando una breve pioggia di fiammene nere.
Oscurità, quella dannata arma, se non la ragazza stessa, era intrisa di energia oscura, la sua fonte di potere, la sua essenza.
 
Atterrò su ciò che restava del pavimento e lanciò uno sguardo dietro di sè: Sefia stava usando le sue lame come uno scudo e fissava preoccupata le strumentazioni.
Se anche una sola di quelle macchine smetteva di funzionare Kikuri sarebbe potuta morire.
Si morse le labbra e ripartì all’attacco contro Lico, che nel frattempo si era messa a pulire le vesti dalla polvere come se niente fosse.
Scagliò la falce verso la mezza demone e quest’ultima la schivò con agilità, ma ancor prima che potesse reagire il suo gancio destro l’aveva presa in pieno volto, scaraventandola contro l’edificio accanto.
 
Lico scoppiò a ridere mentre la falce si staccava dalla parete diroccata per tornare dalla sua padrona.
La ragazzina trascinò a terra l’ascia e con forza bruta la fece calare su di lei, un attimo e la falce sussultò sotto il peso della possente arma: l’impatto la destabilizzò e si ritrovò con un ginocchio a terra, mentre il terreno sotto i suoi piedi cedeva.
La piccola bastarda stava dimostrando una forza e una velocità che non le appartenevano.
Lico aumentò la pressione e sentì il ginocchio affondare nei calcinacci.
 
- Lascia che ti dia una mano! – urlò Sefia alle sue spalle.
- No! Tu devi proteggere Kikuri! – le rispose di rimando lei fissando Lico negli occhi – Questa volta giuro che ti faccio fuori... – sibilò e le grandi ali da farfalla spuntarono dalla sua schiena.
Un solo attimo di distrazione e Lico si ritrovò a volare contro l’ennesimo muro, seguita dalla sua ascia.
Si rialzò e approfittò della breve tregua per riprendere fiato, tempo di assicurarsi che Sefia fosse ancora al suo posto e si gettò di nuovo nella mischia.
La peccatrice sbucò furiosa dalle rovine ancora fumanti, leggermente ferita ma più minacciosa di prima, e in pochi secondi le due armi si incrociarono in un susseguirsi furibondo di fendendti, affondi, parate e schivate.
La mezza demone riusciva a tenerle testa più di quanto si aspettasse ma non si sarebbe arresa, non questa volta.
Schivò con estrema grazia un affondo che l’avrebbe tranciata in due e facendo volteggiare la falce disarmò la ragazzina, ma non bastò: Lico riuscì a recuperare velocemente l’ascia e la pioggia di fendenti ricominiò, più violenta di prima.
 
Il loro scontro stava letteralmente distruggendo gli edifici circostanti, ma fortunatamente qualcuno aveva fatto evacuare la zona o almeno ci stava provando.
Strisciò a terra usando la falce come freno e sospirò: c’era qualcosa che non andava, sembrava quasi che Lico si stesse divertendo, in attesa di altro.
Rotolò a terra per evitare l’enorme ascia e la inchiodò al terreno usando la falce come un martello.
Lico sgranò gli occhi ma la sua mano le aveva gia afferrato il collo.
- Ti ricorda qualcosa? – le chiese, con un sorriso sadico stampato sul volto, e prima che potesse rispondere l’alzò di peso e la sbatté a terra con tutta la rabbia che aveva in corpo.
 
La peccatrice sputò sangue mentre il terreno intorno a lei si riempiva di crepe.
Aveva ancora le dita serrate intorno al suo collo quando la sentì ridere:
- Lo trovi così divertente? – le domandò, puntandole la falce contro il fianco.
La ragazzina continuò a ridere, ignorando il dolore e le ferite.
- Quando avrò finito ti sarà passata la voglia di ridere – stava per infilzarla come uno spiedino ma la ragazzina smise di ridere – Io non lo trovo affatto divertente, rido perché sei cieca, Alice –
- Cos... cosa diavolo stai blaterando? – il suo sguardo era identico a quello di Zebra.
- Non eri tu il mio obiettivo – sorrise sadica – E quella... – lanciò uno sguardo fugace all’ascia - ... quella non è la mia unica arma – prima che potesse capire il senso di quella frase un aculeo oscuro grande quanto un tronco spuntò dal terreno e la investì in pieno, scaraventandola verso l’ospedale.
 
Prima di finire nella stanza accanto a quella di Kikuri riuscì ad intravedere altri aculei oscuri spuntare dal nulla e Sefia che vi si scagliava contro con tutte le lame al seguito:  ora era tutto chiaro, Lico era lì per far fuori Kikuri, colei che aveva quasi ucciso Zebra.
Lei e Sefia non erano altro che un intoppo per la peccatrice che, dopo essersi divertita, aveva tirato fuori il suo vero potenziale.
Spinse via ciò che restava di un letto e osservò sconcertata la scena: Sefia stava volteggiando in aria cercando di schivare e distruggere gli aculei oscuri, continuando al tempo stesso a difendere la sua amata.
Non poteva permettere che le accadesse qualcosa, non dopo ciò che aveva fatto per lei.
Si liberò dalle macerie e facendo appello a tutte le sue forze spiccò il volo, puntando contro Lico, ma gli aculei oscuri le furono subito addosso e si ritrovò a doverli schivare o distruggere.
Era a pochi metri dalla ragazza demone  quando vide Sefia travolta dalla pioggia oscura mentre tentava di difendere ancora una volta le strumentazioni.
La vide scomparire in una nube di detriti e polvere al pian terreno.
 
Ancora più infuriata sfrecciò verso Lico ma il suo fendente fu bloccato da uno scudo oscuro e poco dopo fu investita dalla stessa pioggia di aculei che aveva travolto Sefia.
Si ritrovò a rotolare in mezzo alle macerie, sballottata da una parte all’altra, schiantandosi contro la facciata in rovina di una casa.
L’impatto le spezzò il fiato e sentiva un dolore lancinante che le attraversava tutto il corpo.
Non appena la vista le si schiarì si ritrovò davanti Lico con un’espressione di estrema calma stampata sulla faccia, una maschera di gioia che si trasformò ben presto in un sorriso sadico: un ventaglio di aculei oscuri si spalancò alle sue spalle, una sentenza di morte dall’aspetto affascinante.
Fissava quello spettacolo con gli occhi spalancati, sentendosi impotente di fronte  a quella manifestazione di forza e follia:  di Sefia non c’era traccia, ancora sepolta sotto le rovine di chissà quale edificio, forse ferita gravemente per l’ultimo attacco subito e Kikuri, Kikuri era lì da sola, indifesa.
 
Si morse le labbra per la rabbia e la frustrazione. Lico rise come se percepisse quel suo stato d’animo.
- Non lo capisci? Non ci arrivi? Il mio maestro Zebra mi ha concesso parte dei suoi poteri, è una sensazione meravigliosa, è come se il suo sangue mi scorresse nelle vene... – mentre parlava gli aculei puntarono minacciosamente verso di lei. Che fosse giunta la fine? Una morte davvero ridicola per Loto Nero.
- Pagherai per aver portato così tanto rancore nel cuore del mio signore – sentenziò la peccatrice e lei chiuse gli occhi, pronta ad accettare la sconfitta.
Ma non fu così: udì dei sibili acuti, qualcosa che le sfrecciò accanto facendola rabbrividire, Lico imprecare e un suono atroce di pietra sgretolata e vesti strappate, poi solo il silenzio.
 
Aprì l’occhio destro per guardarsi intorno e vide Lico inchiodata da alcuni kunai alla parete opposta: non era stata ferita  mortalmente ma aveva un’espressione di puro terrore in viso e fissava un punto preciso alle spalle.
- Tu – sibilò rivolta alla misteriosa figura che l’aveva apesa come un quadro.
Travolta da una curiosità insana si vole anche lei e la vide: una giovane donna dai capelli corvini, con addosso un camice d’ospedale, la fronte e le braccia ricoperte di bende e con ancora i tubi delle flebo che le penzolavano dai polsi.
Sei grandi ali nere affilate si stagliavano silenziose alle sue spalle e il suo sguardo era colmo d’odio e rabbia, in netto contrasto con la sua espressione calma.
Non riusciva a credere a suoi occhi, non poteva esser  vero, eppure era proprio lì, Kikuri era davanti a lei.

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Capitolo 11
*** Requiem Silenzioso ***


A Black Lotus as Night

2s1582s

Episodio XI- Requiem Silenzioso

Stupore, forse in questa singola parola si potevano riassumere tutte le emozioni che l’avevano travolta nel trovarsi davanti la ballerina oscura.
Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, occhi sgranati e increduli, il cuore che aveva perso un battito nello stesso momento in cui i loro sguardi si erano incrociati.
Kikuri le aveva concesso pochi istanti, dopodiché quelle due ametiste cupe si erano spostate su Lico e la fissavano con disprezzo e rabbia.
Uno strano silenzio si erano adagiato su tutta la zona, come un velo invisibile che aveva inghiottito tutti i suoni, tutto il dolore, lasciando il passo ad una quiete surreale.
- Kikuri io...- provò ad iniziare ma fu subito interrotta da un gesto della sua mano, senza smettere di guardare con odio la mezzo demone.
- Non adesso, parleremo dopo... ti dirò tutto, ti dirò la verità – quelle semplici parole la pietrificarano: che cosa intendeva con verità? Di cosa stava parlando? Che l’avesse ascoltata davvero mentre era ancora in coma? Ma prima che potesse controbattere Kikuri proseguì – Trova Sefia, ti prego, e proteggila. Ha già sofferto abbastanza – disse e la oltrepassò con calma, facendo tentennare lievemente i cavi delle flebo, puntando direttamente verso Lico che nel frattempo non aveva smesso per un solo secondo di lanciarle insulti e imprecazioni.
 
- Tu, maledetta strega, tu hai osato ferire il mio maestro! Hai osato sfregiare quel corpo perfetto! – andava urlando dimenandosi come una pazza, cercando di liberarsi, con scarsi risultati.
- Non voglio neanche sapere come tu abbia fatto a cadere vittima delle sue lusinghe, ma non importa, non giustificherebbe ugualmente ciò che hai fatto – sibilò la ballerina continuando la sua avanzata, senza alcuna fretta: la sua pelle era ancora pallida, come la neve, i segni della battaglia di La Veda erano ancora visibili sul suo corpo, ma nei suoi occhi brillava una fiamma, una scintilla testimone del suo ritorno.
- Ucciderò te e quelle altre due sgualdrine, farò felice il mio maestro. Ti ucciderò e finalmente amerà me e me soltanto! – continuò ad urlare Lico, riuscendo finalmente a staccare alcuni dei kunai, ma prima ancora che potesse esultare per essersi liberata si ritrovò davanti Kikuri che in un battito di ciglia aveva dispiegato le sue ali oscure ed era scattata verso di lei.
 
- Il tuo maestro ama solo se stesso – sentenziò, poco prima di conficcarle un kunai nella spalla con una violenza inaudita, sfondando il muro a cui poco prima l’aveva appesa. L’intera parete crollò investendo entrambe, ma in quel turbinio di polvere riuscì a distinguere le due figure e la loro folle lotta.
Vide Kikuri sbucare dalla nube di detriti, scaraventata via dagli aculei oscuri, e atterrare poco più in là, rotolando a terra: alcune bende si strapparono, insieme ad una parte del camice, e i tubi delle flebo si staccarono come se privati della vita.
- Kikuri! – esclamò, temendo che non fosse ancora nello stato di combattere contro un mostro come Lico.
- Vai!- rispose lei senza nascondere la rabbia nella sua voce, rialzandosi. Lico stava sfrecciando verso di lei con alle spalle il suo ventaglio di lame. Non poteva abbandonarla a combattere da sola.
- Vai ti ho detto! – urlò nuovamente parando i fendenti della peccatrice usando le ali come uno scudo. Una pioggia di scintille si riversò tutto intorno, mentre Lico continuava senza sosta il suo contrattacco furioso, spinta da emozioni malsane risvegliate dalle parole di Kikuri.
- Tu menti! Tu non sai niente di lui! Nessuno lo conosce come me! Nessuno lo ama come lo amo io! – per ogni singola parola lanciava un fendente, ogni frase era intrisa di veleno, rideva per non impazzire, rideva perché stava impazzendo.
Ogni singola parola distruggeva una parte delle sue convinzioni, con ogni colpo sperava di stroncare la vita di quella donna e le sue menzogne.
Avrebbe reso orgoglioso di lei il suo adorato maestro.
 
Nel frattempo Alice si era rialzata e ignorando con estrema difficoltà lo scontro alle sue spalle era corsa a perdifiato verso il punto in cui aveva visto precipitare Sefia qualche minuto prima. Era tutto immobile, un cumulo di macerie silenzioso.
- Tu... tu non sai niente dell’amore! – esordì Kikuri aprendo le ali con un gesto estremo, cogliendo la peccatrice alla sprovvista. In un solo istante quella sorta di assedio era stato interrotto.
Lico si morse le labbra e stava per ripartire all’attacco ma la ballerina fu più veloce di lei e si becco un gancio dritto nello stomaco che le spezzò il fiato, facendola piegare in due.
- Tu non puoi immaginare quanto ho sofferto – le sussurrò all’orecchio prima di sferrare un altro gancio, sempre nello stomaco, ma più violento. Lico sputò sangue ma non cedette.
- Tu non puoi immaginare cosa ho passato a causa del tuo “maestro” – l’afferrò dal colletto e le diede un altro pugno, questa volta in faccia. Lico rise.
- Sei un’egoista, proprio come ha sempre detto lui. Pensi solo e soltanto a te stessa, sei arrivata a mettere in crisi il sottile equilibrio che c’è tra luce e oscurità pur di soddisfare i tuoi desideri. Sei una peccatrice tanto quanto me – disse, tra una mezza risata e un ghigno.
Kikuri abbassò lo sguardo per un attimo, scura in volto, e riprese a prenderla a pugni senza alcun ritegno, senza alcuna pietà.
- Sarò anche una peccatrice, ma a differenza tua ho chi perdonerà i miei peccati! – esclamò, evocando due kunai. Lico non riuscì a reagire, colpita da quelle parole, e i due pugnali la colpirono al braccio e al ventre, spedendola a rotolare a terra, lasciandosi una scia di sangue alle spalle.
                                                         
 [...]
 
- Sefia! – continuava a levare pietre, calcinacci, resti di travi, ma sembravano non finire mai – Sefia, rispondimi! – della dama bianca non c’era traccia.
- Maledizione, dove sei? – aveva appena spostato ciò che restava di una colonna quando vide una mano insanguinata spuntare da sotto l’ennesimo cumulo di macerie.
- Sefia! – senza pensarci un attimo si fiondò verso il punto e iniziò a spostare tutto ciò che le capitava a tiro, ignorando le ferite, il dolore, la stanchezza.
Dopo un’attesa che le sembrò interminabile vide il suo volto: era svenuta e aveva un’espressione a metà tra la malinconia e la rabbia. Riuscì a tirarla fuori da quella tomba di mura in rovina e la adagiò con delicatezza a terra per sincerarsi delle sue condizioni: era ferita, ma non gravemente, o almeno era quello che sperava. Aveva diversi tagli sulle braccia, sul torace e alcuni anche sul volto, parte del suo equipaggiamento era stato danneggiato dall’impatto e un rivlo di sangue le usciva dalle labbra socchiuse. Non l’aveva mai vista ridotta in questo stato, non era con lei quando la battaglia di La veda si era conclusa, non ricordava quasi nulla di quel giorno.
- Sefia! Sefia rispondimi! – provò a scuoterla leggermente, doveva assolutamente farla riprendere, stare lì non era sicuro, riusciva a sentire distintamente i suoni dello scontro alle sue spalle, quel duello finale tra Kikuri e Lico stava dimostrando una violenza senza pari.
Dopo l’ennesimo tentativo fallito udì un urlo disumano e rabbrividì: non aveva la più pallida idea di cosa stesse accadendo, non sapeva se ad urlare era stata Kikuri o Lico, la sua mente stava già dipingendo tutti i possibili esiti dello scontro in atto e fremeva nel sapere che in quel momento non poteva fare nulla per cambiarne le sorti.
- Avanti Sefia, svegliati, non possiamo stare qui, non c’è tempo – finalmente la dama bianca iniziò a dare i primi segni di vita e dopo qualche minuto aprì gli occhi, fissandola con sguardo confuso.
- Che cosa è successo? – chiese, con un filo di voce. Alice sorrise.
- Kikuri... Kikuri si è risvegliata e ci ha salvate, entrambe – lo stupore sul volto della dama bianca non si poteva descrivere e trattenne a stento le lacrime.
-Adesso dov’è? – si limitò a chiedere, ma i frastuoni della battaglia le diedero una risposta che lei non si sentì di dare. Sefia si asciugò una singola lacrima e dopo essere rimasta in silenzio per alcuni secondi alzò lo sguardo per incontrare il suo:
- Portami da lei, ti prego – vedere due delle più grandi eroine di GrandGaia così fragili le spezzò il cuore. Come si era potuto arrivare a tanto? Come poteva la follia di un singolo essere causare così tanto dolore e sofferenze? Per cosa? Quell’ultima domanda le riecheggiò nella testa come l’eco di un’esplosione.
Guardò Sefia e lo stato in cui era ridotta, i suoi occhi tradivano la preoccupazione, la paura, e quell’amore tanto forte quanto distruttivo che provava per la ballerina oscura, lo stesso amore che l’aveva quasi spinta ad ucciderla per non soffrire più.
Si limitò ad annuire e facendo appello a tutte le sue forze la prese in braccio, come se fosse stata una bambina, e in silenzio religioso si diresse verso il campo di battaglia.

Lico stava tentando il tutto per tutto: ormai non era altro che una marionetta nelle spietate mani della pazzia, della frustrazione e di quella stessa oscurità che le aveva dato così tanto potere.
Quello scontro interminabile aveva devastato non solo tutta la zona circostante ma anche loro due, non solo nel fisico ma anche nell’animo. Kikuri lo sentiva.
La peccatrice sfoderò tutto il suo potere, o almeno quello che ne rimaneva, e si scagliò un’ultima verso la ballerina, con le lame oscure che sembravano tremare, scosse da quelle stesse emozioni che la stavano dilaniando dall’interno.
 
Kikuri inspirò profondamente e dispiegando completamente le sei ali metalliche scattò anch’essa con furia: proprio come in uno scontro tra cavalierei, un duello all’ultimo sangue, quell’ultimo colpo avrebbe deciso le sorti di entrambe.
Lico urlò rabbiosa proiettando in avanti tutte le lame oscure e Kikuri di rimando richiuse le ali come una singola lancia sfrecciando contro quella selva di morte e follia. Un singolo impatto, un singolo sibilo che infranse tutte le finestre degli edifici circostanti e un’esplosione di oscurità e fuoco le inghiottì entrambe, un’esplosione che fu visibile in tutta la capitale e che sembrò scuotere le fondamenta stesse della terra.
 
Quando Alice e Sefia giunsero sul luogo dello scontro lo spettacolo che si ritrovarono davanti era raccapricciante: Lico giaceva a terra, in una pozza di sangue, con quattro delle ali della ballerina conficcate in varie parti del corpo, circondata dalle sue lame oscure spezzate e infilzate nel terreno come tante frecce.
Tutt’intorno si percepiva un silenzio assordante.
Sefia si portò le mani sulle labbra, incredula, mentre Alice si limitò ad abbassare il capo. Per quanto fosse il loro nemico restava pur sempre una ragazzina e vederla in quello stato lasciava senza parole.
Alice notò che anche Kikuri aveva abbassato lo sguardo e fissava il collare della peccatrice, tranciato in due da una delle ali. Lico piangeva, in silenzio, respirando a fatica.
 
Ad osservare la scena sembrava che il mostro fosse Kikuri e non Lico, era qualcosa di surreale, un esito che nessuno si sarebbe mai potuto immaginare.
Fu proprio Lico a spezzare quel silenzio opprimente:
- Mi dispiace...- sussurò e Kikuri sgranò gli occhi – Io...volevo solo che qualcuno mi amasse, non desideravo altro – non riusciva a capire il perché ma quelle parole facevano più male delle ferite che le aveva inferto poco prima.
Alice notò che lo sguardo della peccatrice non era più sadico e folle come lo aveva sempre visto, era cambiato, i suoi occhi sembravano più spenti e... umani.
- Alla fine mi sono dimostrata un’egoista anche io... – tossì sangue e ansimò per alcuni secondi – Ho fatto tutte queste cose orribili solo per compiacerlo, solo per poter provare ancora quel brivido delle sue mani che mi sfioravano- Kikuri non proferiva parola, nessuna di loro parlava, si limitavano ad osservarla, ad ascoltare quella strana confessione.
-Kikuri- la ballerina alzò lo sguardo e incrociò quei rubini opachi sommersi dalle lacrime.
- Avevi ragione – disse, abbozzando un mezzo sorriso.
- Su cosa? – chiese la ballerina,mostrando non più rabbia ma qualcosa di molto vicino alla compassione.-
- Non sei come me. A differenza mia, tu avrai qualcuno che perdonerà i tuoi peccati – concluse e le lanciò un’ultimo sguardo che solo la ballerina riuscì a comprendere appieno. Evocò un kunai e socchiudendo gli occhi pronunciò alcune parole che non riuscì a sentire, conficcandoglielo nel cuore.
La ballerina rimase in quella posizione per alcuni secondi, dopodiché si lasciò andare e stramazzò a terra mentre Alice accorreva verso di lei, tenendo ancora Sefia in braccio.
La dama bianca si lanciò verso la sua amata e la strinse a sé con forza,baciandola e lasciando andare le lacrime e con esse tutte le emozioni che avevano trattenuto per tutto quel tempo. Kikuri ricambiò senza aprir bocca, non c’era bisogno di parlare.
Alice rimase in disparte, non voleva rovinare quel momento, e si avvicinò al corpo inerme di Lico: la peccatrice, nonostante tutto, sembrava sorridere.
Si inginocchiò accanto a lei e le chiuse gli occhi, un ultimo gesto di rispetto che non va negato neanche al proprio nemico.
Se qualcuno si fosse trovato vicino a Kikuri nel momento in cui aveva dato il colpo di grazia a Lico avrebbe potuto ascoltare le parole che avevano strappato un ultimo sorriso sincero all’ultima peccatrice.
- Io perdono i tuoi peccati, Lico-

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Capitolo 12
*** Bugie e Tormenti ***


A Black Lotus as Night

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Episodio XII- Bugie e Tormenti

Il giorno dopo
 
Il cimitero era immerso in una quiete surreale, sembrava che qualunque suono venisse inghiottito dal vuoto, o forse era solo lei che non era molto abituata a quel genere di silenzio, non così profondo, non così’ lungo da costringerti ad ascoltare i tuoi stessi pensieri, e i suoi non le sussurravano niente di buono.
Odiava i cimiteri, le ricordavano la cupa archiettura di Bariura, delle sue immense città cupe, ricoperte di vetrate e statue, le davano un senso di impotenza e qualcosa di vagamente simile alla nausea.
Odiava i cimiteri perché sua madre era sepolta in uno di essi, ricordata da un nome scolpito sul marmo bianco, da una statua priva di calore, dai fiori che lei ed Elza le portavano ogni mese, perché suo padre non voleva vedere quella tomba senza voce, non voleva ricordare. Come poteva dimenticare?
 
Strinse i pugni e si limitò ad osservare il cielo:
era nuvoloso, qualche timido raggio di sole riusciva a oltreppassare quel manto grigiastro, perdendosi in lontanza tra gli edifici e le mura della capitale. Era quasi l’ora del tramonto, ma non c’era calore in quel cielo.
Sospirò, riprese la vanga e in silenzio continuò il lavoro senza troppi pensieri per la testa, dopotutto c’era solo lei in tutto il cimitero e la sua concentrazione era focalizzata sul lavoro, ogni distrazione riportava a galla qualche vecchio ricordo in mezzo a quella foresta di pietra e non le andava di ritrovarsi con un nodo alla gola.
Stava per finire quando si fermò: quel viso pallido sembrava ancora sorridere, un piccolo sorriso quasi impercettibile, non c’era più nessuna espressione sadica, niente sangue, nulla. Non sembrava nenche più lei.
 
- Era solo una ragazzina... – la voce di Kikuri alle sue spalle la fece trasalire e si voltò incontrando il suo sguardo: indossava il suo classico kimono, un kaleidoscopio di colori e forme, ma si vedevano ancora le bende che le ricoprivano parte del corpo. Non si era ancora ripresa dal terribile scontro all’ospedale,  e se doveva essere sincera con se stessa nemmeno lei, ma non tanto per le ferite fisiche, quelle erano il male minore.
Notò che lo sguardo della ballerina era un misto di emozioni indistinguibili, qualcosa che ben pochi sarebbero riusciti a tenere dentro, a mascherare con altro.
- Già – si limitò a rispondere, lanciando un cenno di saluto a Sefia che era accanto alla ballerina oscura: anche lei portava addosso i segni visibili dello scontro, ma la felicità del risveglio della sua amata era la cura a tutti i suoi mali, glielo leggeva negli occhi.
 
Alice riprese a ricoprire il corpo senza vita della mezza demone, con l’amaro in bocca: proprio perché era solo una ragazzina non riusciva a concepire quelle sue azioni, così come non accettava che fosse morta, ma quella situazione aveva richiesto una vita ed era stata sacrificata la sua. Era questo il potere folle dell’amore? Lo stesso che l’aveva condotta a fare il doppio gioco? No, nessun doppio gioco, era stato Zebra e la sua ingannevole influenza a farle fare certe cose, a farle desiderare quelle perversioni senz’anima. Se in tutta quella storia c’era un colpevole, beh, era lui.
- Perché? Perché siamo dovuti arrivare a questo? – si chiese, conficcando la vanga nel terreno e trattenendo a stento la rabbia, una rabbia che non riusciva a comprendere.
- Lico era stata soggiogata, il collare che portava al collo ne era la prova inconfutabile, nonché lo strumento con cui Zebra la controllava a suo piacimento, proprio come una marionetta senz’anima – rispose Kikuri e Alice si limitò ad ascoltare, tenendo lo sguardo basso – ma i suoi sentimenti erano veri, non c’era nulla di corrotto, cercava solo qualcuno che l’amasse, che non la facesse più sentire sola e abbandonata a se stessa. Tutto ciò che ha fatto, Alice, lo ha fatto per amore – proseguì.
 
- Come puoi definire questa follia amore?! – esclamò Alice voltandosi verso di lei.
- Morire per compiacere un pazzo? Uccidere e violentare per ingraziarsi uno psicopatico dalla mente perversa?  - aveva letteralmente urlato quelle domande e si morse le labbra per non fare di peggio.
- Se credi che l’amore sia solo felicità e passione significa che non hai capito nulla, Loto Nero – il tono di Kikuri si era fatto terribilmente serio – Io ho quasi ucciso Sefia perché non riuscivo ad accettare di starle lontano, di non poterla amare perché di due diverse fazioni, tu stai avendo una vera e propria crisi perché il tuo cuore, che tu lo voglia ammettere o meno, è diviso tra due uomini, per quanto uno di loro sia solo una maschera indossata da Zebra. E Lico, lei ha dato se stessa alla persona che amava ed era disposta a tutto pur di avere una piccola chance di essere ricambiata. Davvero non capisci? – l’aria si era fatta improvvisamente pesante, pesante come le parole della ballerina oscura che sembravano tanti piccoli aghi pronti a conficcarsi in tutto il suo corpo.
 
- Tutto ciò non ha senso...- sussurò, ridendo sommesamente, ridendo di se stessa e di quanto era stata sciocca. Sefia voleva avvicinarsi per tranquillizzarla ma Kikuri la bloccò allungando un braccio. – No –
- Possiamo essere eroi, deì e demoni, ma saremo sempre influenzati dalle emozioni e talvolta ne saremo anche schiavi. Non vi è scampo, in tutti questi anni tu sei fuggita, ma era una situazione temporanea, hai solo posticipato qualcosa di inevitabile. E questa tua fuga hai visto a cosa ha portato – Kikuri parlava con una tranquillità inumana, non la stava criticando,  nè giudicando, eppure lei si sentiva chiamata in giudizio come davanti ad un tribunale ancestrale: non le era mai capitato di ritrovarsi in una situazione dove il “nemico” veniva perdonato e la vera colpevole alla fine era lei. Non aveva senso, e se ce l’aveva non voleva accettarlo, non riusciva a concepirlo.
Era ferma lì a cercare di accettare quella verità, se così si poteva definire, che si vide oltrepassare da Kikuri. La ballerina oscura si avvicinò alla tomba e con estrema grazia incise il nome della mezza demone sul marmo bianco usando uno dei suoi kunai, dopodiché si inginocchiò e posò una rosa nera sul cumulo di terra chinando il capo per alcuni secondi.
Quello era un ultimo saluto ad una donna, ai suoi sentimenti e anche alla sua follia d’amore, Kikuri stava offrendo un omaggio funebre alla ragazza che aveva tentato di assasinarla mentre era ancora in coma, le stava offrendo le sue scuse per non aver capito prima che la prima a soffrire era stata proprio lei.
 
Alice si vergognò per come si era comportata pochi minuti prima e rimase in silenzio, qualsiasi parola sarebbe svanita nel nulla, sospinta via dal vento.
Sentì la mano leggera di Sefia che le stringeva la spalla e sorrise, la dama bianca aveva capito come si sentiva e quel gesto era un modo semplice per tranquillizzarla. Kikuri si rialzò e le ripassò accanto ma prima che potesse aprir bocca fu lei a parlare:
- So cosa ti aspetti da me, sapevo che prima o poi questo momento sarebbe arrivato – quella sfumatura di serietà era svanita, quelle parole lasciavano un retrogusto dolciastro – e non mi tirerò indietro, è un mio dovere. Vediamoci alla locanda “Stella del Nord” tra due ore, mi troverai al tavolo in fondo alla sala – concluse  e senza aggiungere altro proseguì verso l’uscita del cimitero e Sefia si limitò a seguirla.
Alice si ritrovò di nuovo da sola in mezzo al dannato cimitero e lanciò uno sguardo alla tomba della peccatrice:
- Sarai l’ultima vittima di questa follia o farò anch’io la tua stessa fine? – chiese pur sapendo che non avrebbe ricevuto alcuna risposta e dopo alcuni minuti abbandonò quel luogo e tutti i ricordi che tratteneva nei suoi rovi.
 
                                                                [...]
 
Due ore dopo
 
Aveva raggiunto la locanda “Stella del Nord” senza troppi problemi e si presentava come una versione più “elegante” e meno caotica del Picchiere Nero, il che le andava più che bene dato che non era una grande amante dei luoghi “nuovi”.
Il sole stava iniziando a tramontare e la sua luce rossastra entrava dalle finestre e rischiarava l’intera sala, creando una strana sinfonia di luci con le candele e le lanterne sparse per l’immensa stanza.
Kikuri era seduta al tavolo in fondo alla sala proprio come aveva detto, accanto ad una grande finestra che dava direttamente sul vuoto e sulla parte bassa della capitale offrendo un piccolo spettacolo per gli occhi.
Sul tavolo c’era una bottiglia mezza vuota di animanera e la ballerina oscura stava tirando giù l’ennesimo bicchiere come se fosse acqua.
- Non dovresti bere a quel modo, non dopo tutto quel tempo passato in coma – la ammonì accomodandosi di fronte a lei con un mezzo sorriso stampato sulle labbra.
- Dopo quello cho ho passato tra La Veda, il coma e il resto berresti anche tu come sto facendo io- rispose la donna versandole da bere  e rimpiendo nuovamente il suo bicchiere appena svuotato.
- Touché, ammetto di aver alzato un pò il gomito dalla fine di quella dannata battaglia, non che mi dispiaccia, ma tavolta non riesco davvero a fermarmi – Alice afferrò il bicchiere con decisione e dopo aver osservato i riflessi ambrati del suo liquore preferito lo tirò giù con gusto, rabbrividendo leggermente mentre la sensazione di tepore l’avvolgeva come un lungo abbraccio.
- Sai c’è stata una volta che...-  stava per raccontare una vecchia figura magra al Picchiere Nero ma fu interrotta.
- Alice – Kikuri aveva poggiato il bicchiere semivuoto.
- Cosa? –
- Che cosa ti turba? -  sì sentì fulminare dallo sguardo della ballerina. Capì che non era andata lì per chiacchierare e scherzare come ai vecchi tempi e di punto in bianco sentì l’ansia e l’angoscia che fino a poco prima di entrare l’avevano accompagnata come due guardie silenziose. Deglutì e buttò giù un altro bicchiere:
- Non so come spiegarlo, ma da qualche tempo ho degli strani mal di testa, o meglio delle fitte di dolore ogni volta che penso a mia sorella Elza... ma non è questo il vero problema – non riusciva a trovare le parole adatte a descrivere quello che sentiva, quello che aveva passato.
- E allora cosa? –
- Un paio di giorni fa ho avuto una sorta di “visione” allo specchio... ho visto me, qualcun’altro e una scena che mi ha terrorizzata, che mi ha... – si fermò, vedendo che le mani le tremavano nel ricordare quel momento, ma doveva farsi forza, non poteva farsi bloccare a quel modo.
- Prima ho visto cambiare il mio stesso volto, per metà ero io, mentre l’altra parte raffigurava qualcun’altro, qualcuno che non sono riuscito a ricordare eppure era così... familiare – Kikuri s’incupì di colpo ma non aprì bocca, continuando ad ascoltarla e al tempo stesso a sorseggiare il liquore.
- Poi la scena è cambiata, c’era una tomba, c’era Mifune, c’eri tu e molti altri volti familiari e su quella tomba c’era il mio nome, Kikuri, il mio nome! – sentì che la voce le tremava e cercò di calmarsi, l’eco delle emozioni che le aveva scatenato quella visione si era fatto sentire in lontananza. Kikuri continuò a tacere.
 
- Che cosa significa quella visione? Perché ho visto quelle cose? Perché mi sembrava così familiare? Era come se riuscissi a sentire la pioggia, il freddo, la tristezza di tutte quelle persone accanto alla tomba. Sto forse impazzendo? E’ un altro dei sortilegi di Zebra? – la brama di risposte la stava divorando dall’interno.
- No – Kikuri abbassò lo sguardò e finì di svuotare la bottiglia di liquore.
- E allora cosa potre.... aspetta! C’era una ragazza che piangeva accanto alla tomba, quando ho cercato di capire chi fosse non ci sono riuscita, ho avuto di nuovo quelle fitte e...-
- Quella ragazza eri tu – Kikuri pronunciò quella frase con estrema lentezza e Alice si bloccò di colpo come se trafitta da una lancia ghiacciata.
- Cosa?! Ma non ha senso, io che piango davanti alla mia stessa tomba? Neanche la mente più perversa potrebbe mai immaginare una scemenza simile – le sembrava di aver balbettato ogni singola parola, ma non vi diede peso.
- Non hai capito, quella ragazza eri tu e stavi piangendo davanti alla tomba di Alice...- la ballerina oscura continuava a tenere lo sguardo basso.
- Ma io sono Alice! – rispose lei come se si stesse difendendo da qualche accusa.
- Quella non era una visione... quello era un ricordo –
- Ma cosa vai blaterando? Avanti Kikuri, l’animanera deve averti dato alla testa e...-
- Alice è morta! Tua sorella è morta!- esclamò la ballerina sbattendo i pugni sul tavolo e alzando lo sguardo: aveva le guance rigate dalle lacrime.
 
Sì sentì mancare e rimase bloccata, come pietrificata, ma al tempo stesso stava tremando, tremare a causa della paura.
- Alice, il Loto Nero, è caduta ufficialmente nella battaglia di La Veda, è stata uccisa da Atro... non dimenticherò mai quel giorno. Sapevamo che ci sarebbero state delle vittime, io stessa pensavo che la mia vita sarebbe finita, ma nessuno avrebbe mai immaginato che quel giorno la Dea Falce sarebbe caduta. Tua sorella...-
- Basta! – urlò scagliando il bicchiere contro il muro e mandandolo in frantumi, i pochi clienti presenti oltre a loro lanciarono qualche occhiata fugace per poi tornare alle loro attività. Nessuno voleva intromettersi in quella discussione.
- Elza...-
- Io mi chiamo Alice! Sono la figlia dell’Imperatore di Bariura, comandante dei Loto Nero, conosciuta come la Dea Falce e mia sorella...- si bloccò di colpo, non ebbe alcuna fitta di dolore, ma solo il vuoto, un tremendo e opprimente vuoto.
- Non ricordi nulla, vero? E’ come se i ricordi ti fossero stati cancellati, non è così? – Kikuri tentava di mantenere un tono pacato. Si sentì morire dentro ma fu costretta ad annuire.
- Quel giorno sei corsa in soccorso di Alice, hai combattuto ed ucciso Atro, ma ormai era troppo tardi: Alice era in fin di vita  e la battaglia infuriava in tutta la città, nessuno poteva fare niente per salvarla, ma tu non riuscivi ad accettarlo. Non ti sei mai ripresa da quel giorno... – ognuna di quelle parole era una pugnalata, frase dopo frase l’intera concezione che aveva di se stessa stava andando in frantumi e con gli occhi sgranati fissava Kikuri incredula.
- Io...sono... Alice. Io sono....- continuava a ripetere quella frase per se stessa o per gli altri??
- Non ricordi nulla perché quando Alice è morta hai deciso di prendere il suo posto. Non potevi accettare che la tua sorellina non ci fosse più e hai deciso di sacrificare la tua vita per lei. Nessuno ha voluto obiettare, eri distrutta emotivamente, e Shida ha accettato di eseguire il rituale. In quel giorno di pioggia tu hai smesso di essere Elza e Alice è tornata a vivere... fino ad oggi- sussurrò indicando uno specchio alle sue spalle e quando il suo sguardo incontrò il riflesso ne rimase scioccata:
non c’era Alice seduta a quel tavolo di fronte a Kikuri, no, c’era Elza, c’era lei, e stava piangendo.

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Capitolo 13
*** Sussurri Passati ***


A Black Lotus as Night

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Episodio XIII- Sussurri Passati

Note dell'autore: Ed eccomi qui, a riaggiornare questa vecchia conoscenza. Mi scuso se son sparito, ma per Black Lotus avevo subito un vero e proprio blocco, poiché questa storia è legata a troppe persone, molte delle quali non fanno più parte della mia vita. Eppure questa storia si merita di arrivare al finale e questo XIII episodio è un altro passo verso l'epilogo. Spero vi piaccia, Buona lettura!

Snow


Quando il mondo ti crolla addosso nessuno lo sente, solo tu, come qualcuno che urla dentro una campana di vetro, è una sofferenza silenziosa che attende di esplodere, devastando quello che resta delle tue certezze.
- Elza – Kikuri la fissava in silenzio, il nome di sua sorella, no, il suo nome, era stato un flebile sussurro presto dimenticato. Lei non sentiva nulla, le chiacchiere degli altri clienti, il crepitare del fuoco, le urla dell’oste che se la prendeva con i camerieri, nulla.
Le uniche cose che sentiva erano il calore delle lacrime, quelle stesse lacrime che le stavano rigando il viso come coltelli affilati.
-Elza, ascoltami...-
-No!- si volse verso di lei con gli occhi arrosati per il pianto.
- Ho ascoltato abbastanza, Kikuri, non trovi?-
- Voglio solo che tu capisca –
- Capire cosa? Che credevo di essere mia sorella e invece lei è morta? Che ho fatto questa scelta sperando di ottenere chissà cosa? Oppure che nessuno in questi anni mi ha detto la verità? – la frustrazione nelle sue parole era palpabile.
- Non hai voluto ascoltare nessuno, abbiamo provato a farti desistere ma non è servito a nulla – rispose la ballerina oscura.
- Io... lasciami da sola, Kikuri, ho bisogno di rimanere da sola –
Kikuri fece per ribattere ma non aprì bocca, si limitò a lanciarle uno sguardo carico di compassione, annuì e la abbandonò.
 
Rimase a fissare il vuoto per un lasso di tempo che le sembrò un’eternità,  lasciandosi cullare dal brusio della sala, per non pensare, perché pensare le faceva male in quel preciso istante, più di qualsiasi altra cosa.
Ogni tanto lanciava uno sguardo allo specchio appeso alla parete e continuava a vedere quegli occhi color rubino, lo sguardo malinconico, i capelli raccolti in due code laterali. Quella era lei? No, non era una domanda, doveva essere un’affermazione: quella era lei, era sempre stata lei, semplicemente ora l’illusione era sparita, non era più cieca e poteva vedere la realtà.
Le lacrime continuavano a scivolare copiose sulle sue guance, non riusciva a smettere di piangere per quanto cercasse di imporselo mentalmente.
Probabilmente quello ero uno sfogo trattenuto per quei due lunghi anni, tutto il dolore che si era portata dentro ora aveva trovato uno spiraglio, come una diga che cede sotto la furia dell’acqua.
- Alice... perché? Ci eravamo fatte una promessa – sapeva di parlare da sola, ma ormai che senso aveva? Cosa poteva importargliene?
Afferrò la bottiglia dell’animanera e riempì il bicchiere fino all’orlo, tirandolo giù senza alcun ritegno: questa volta l’alcol non avrebbe di certo fatto annegare tutti i suoi malesseri ma era comunque qualcosa, quel leggero tepore vicino al cuore, la nebbia nei pensieri.
Il suo cervello stava sbattendo da una parte all’altra  del cranio, come una pallina impazzita, passando da un’ipotesi all’altra, affondando in vecchi ricordi che diventavano sempre più nitidi, volando in mezzo a pensieri di ogni genere.
Male, non voleva pensare, non in quel momento, non era pronta per affrontare tutto quello schifo, per affrontare la realtà o qualsias altra cosa fosse, una piccola tregua tra l’essere Alice ed essere Elza.
- Ehi! – chiamò il cameriere più vicino e non appena il ragazzo sopraggiunse lo afferrò dal colletto della divisa. Il giovane sbiancò.
- Qual è il liquore più forte che avete? – non se ne era accorta ma stava stringendo con forza il colletto e il giovane aveva iniziato a sudare freddo.
- Il... il Respiro Cremisi... signorina –
- Bene, portamene una bottiglia o ti farò capire perché mi chiamano Il Loto... – si bloccò: lei non era il Loto Nero, Alice lo era, non ricordava il suo appellativo, ma qualunque fosse non era Loto Nero.
Lasciò la presa e il giovane annuendo nervosamente corse verso il bancone.
Ritornò pochi minuti dopo, posando la bottiglia e un bicchiere pulito sul tavolo.
- Ecco a lei, signorina, offre la casa – si affrettò a dire scomparando alla sua vista come un’ombra.
Il liquore aveva un nome azzeccato: il colorito che mostrava ricordava il cremisi, come le fiamme che circondava Alexia, la cacciatrice di demoni.
Non si perse in chiacchiere e iniziò a bere, un bicchiere dopo l’altro, sentendosi bruciare dentro come se l’inferno avesse trovato una nuova dimora nel suo cuore, e nel suo fegato.
Se per qualche minuto poteva distruggersi interiormente con le proprie mani lo avrebbe fatto con piacere, finché non avebbre visto quella dannata bottiglia vuota.
 
Quando iniziò a vedere che la sala iniziava a tremare come se colpita da un terremoto capì che era arrivata al limite della sua sopportazione, i suoni ovattati e quel leggero ronzio che sentiva in testa non erano altro che conferme, ma restava ancora un’ultimo bicchiere.
- Andrò in fondo a questa storia – lo tirò giù, sentendo le fiamme lacerargli l’anima stessa, dopodiché si alzò barcollando e aprì il portale oscuro, facendo scoppaire il panico tra i presenti: lo osservò per un secondo e vi si lanciò dentro, abbracciandone l’oscurità perenne.
Pochi secondi dopo spuntò nel cimitero dove quello stesso giorno aveva seppellito Lico. Era di nuovo in quella foresta di marmo silenziosa, ma per un altro motivo.
Iniziò a camminare, cercando di ignorare gli effetti debilitanti della sbronza che si era auto inflitta, barcollando tra una tomba e l’altra, usando la falce come un bastone da passeggio, tanto per non perdere l’equilibrio.
Stava facendo buio ormai, non c’era traccia di altre anime oltre a lei e le luci delle lampade ad energia puntellavano qua e là l’oscurità della notte incombente.
Nonostante le sue pessime condizioni e la semi oscurità riuscì ugualmente a trovarla, spinta dal suo sesto senso o più probabilmente da una sensazione familiare, perché era già stata lì, due anni fa in un giorno di pioggia.
Una tomba in marmo bianco, sormontata da un piccolo angelo in preghiera e circondata da mazzi di fiorie e altri piccoli oggetti lasciati lì in ricordo.
Un tomba bianca in memoria del comandante dei Loto Nero, della Dea Falce: Alice di Bariura.
Si accasciò accanto ad essa, lasciando cadere la falce a peso morto, poggiando una mano sul marmo freddo, sentendo che le lacrime tornavano a rigarle le guance nel silenzio di quel luogo.
- Avevo promesso di proteggerti, di regalarti una vita lontana dalla guerra, dalla morte... invece è stata proprio lei ad abbracciarti per ultima – stava sussurando quelle parole a testa bassa, proprio come se avesse avuto accanto la sorella.

Iniziò a piovere, una pioggia leggera e quasi impercettibile, proprio come quel giorno, quando con Mifune era rimasta davanti a quell’epitaffio a versare tutte le lacrime che aveva in corpo.
No, doveva smetterla, ora che i ricordi iniziavano a farsi più nitidi, ora che lo specchio della sua memoria stava tornando integro, sentiva di aver pianto abbastanza.
- Non hai idea di ciò che mi è successo nell’ultimo periodo, probabilmente mi rideresti in faccia per settimane – parlarle come se niente fosse la faceva sentire meglio, era una sorta di magra consolazione.
Rimase in silenzio, poggiata al marmo bianco,ignorando la pioggia, il silenzio opprimente, tutto. Rimase lì in silenzio, accanto alla persona che aveva amato di più in vita sua.
- Ho cercato di ridarti la vita nel mondo sbagliato, sorellina,farò sì che tutto ciò non accada più – un’ultima carezza, un mezzo sorriso, e il portale oscuro la avvolse nuovamente.
 
                                                       [...]
 
Due giorni dopo
 
Aveva trascorso gli ultimi due giorni chiusa nella biblioteca dell’Accademia alla ricerca di un rituale in particolare, qualcosa che veniva evitato perfino dai maghi oscuri di Bariura, qualcosa di cui anche il padre non voleva parlare.
E quando non si ritrovava a leggere tomi su tomi tornava a bere, per continuare ad affogare i pensieri e concetrarsi sull’unico chiodo fisso.
Aveva cercato di restare il più possibile nell’ombra, di non farsi vedere da nessuno: né dal suo battaglione, né da Kikuri o da Sefia.
Erano giorni che non vedeva Xem e doveva ammettere che sentiva un profondo vuoto dentro di sé ogni volta che ci pensava, un vuoto che poteva avere una sola risposta.
Anche di Zebra non vi era più traccia: dopo la morte di Lico si sarebbe aspettata il finimondo, che una parte della capitale venisse spazzata via dalla furia del Dio Folle, dalla sua rabbia incontrollata. Come avrebbe reagito nello scoprire che lei non era Alice, ma Elza?
Tutt’ora lei continuava a non capacitarsene, continuava a ragionarci giorno e notte, senza darsi tregua, perché era qualcosa di troppo grande da accettare, da metabolizzare, una ferita troppo profonda.
Finalmente trovò quello che stava cercando ed esultò sentendo l’eco delle sue urla perdersi tra gli scaffalli dell’immensa biblioteca. Poco male, in quel periodo c’erano solo lei e la polvere.
Strappò la pagina che le interessava, infischiandose per una volta delle buone maniere, e si incamminò velocemente verso casa sua: aveva abusato negli ultimi giorni del portale oscuro e ne stava pagando le conseguenze tra i mal di testa insistenti e lo stomaco sottosopra ed era meglio evitare di peggiore le cose utilizzando ancora.
Inoltre una passeggiata all’aria aperta le avrebbe fatto sicuramente bene.
 
Una volta raggiunta casa si fece una doccia, per lavarsi via i pensieri e lo schifo che si portava dentro, e si diede una sistemata per essere presentabile: indossava ancora gli abiti di sua sorella, ma poco gli importante, erano l’unica cosa che ancora la facevano sentire lì accanto a lei e di certo non li avrebbe buttati.
Si piazzò davanti allo specchio, quello che non aveva distrutto nella follia di qualche giorno prima, e fissò il proprio riflesso per qualche minuto, studiandolo: per quanto lei e Alice fossero molto simili, c’erano alcuni dettagli che la contraddistinguevano dalla Dea Falce, gli stessi che quel giorno aveva visto nello specchio infranto, gli stessi che ora vedeva completi davanti a sé.
Era come risvegliarsi da un lungo sogno, con la sola differenza che lo shock della scoperta tra sogno e realtà era come minimo centuplicata.
Inspirò con decisione, socchiudendo gli occhi: prima di mettere in atto il suo piano c’era ancora una cosa che doveva fare. Xem, l’uomo di cui si era innamorata, doveva conoscere la verità, la sua vera identità e tutto quello che era successo.
Glielo doveva, anche se si conoscevano poco aveva fatto tanto per lei, l’aveva salvata dall’oblio delle sue emozioni più di una volta.
L’aveva fatta sentire viva, apprezzata, ma ciò che la turbava era una singola domanda: lui si era innamorato di Alice o di lei? Probabilmente l’avrebbe scoperto molto presto.
Prese tutto ciò che le serviva e si lasciò alle spalle casa sua, puntando direttamente verso la dimora di Xem. Non sapeva se l’avrebbe trovato, ma non aveva voglia di aspettare, era dannatamente impaziente.
 
Quando si ritrovò davanti alla porta fu colta dall’incertezza, da un senso di paura e confusione senza volto né voce, con il pugno chiuso a pochi centimetri dal legno della porta. Forse sarebbe stato meglio non fare nulla, lasciare le cose così com’erano, dopotutto troppe persone erano state coinvolte in quella storia.
No, deglutì con forza e bussò un paio di volte. Pochi secondi dopo la porta si aprì e apparve Xem: aveva i capelli ancora umidi, probabilmente era uscito da poco dalla doccia, ma il suo sguardo era sempre deciso e il corpo avvolto da una strana quiete.
- Xem...-
- Ci conosciamo? –
- Sì, ci siamo conosciuti in una notte di pioggia, davanti al “Picchiere Nero” -  le tremò la voce nel rispondere a quella domanda. Lo sguardo di Xem si fece per un attimo perplesso poi sgranò completamente gli occhi.
- Alice? Ma... –
- Sì – annuì con gli occhi lucidi – ma questa sono la vera io, non Alice...Elza -

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