Battle Games

di Giuu13
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due ***
Capitolo 3: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quattro ***



Capitolo 1
*** Capitolo Uno ***


Erano le dieci e trenta, la prof. di italiano stava facendo un ripasso su alcuni poeti in previsione della verifica. Dalla finestra entrava la luce del sole che picchiava sulla schiena di alcune ragazze, stese sui banchi a dormicchiare, mentre un altro gruppetto di ragazzi, nascosti dietro zaini e astucci, giocava con il telefonino o messaggiava con qualche amico lontano. Astrid aveva il viso piegata sul libro di testo, teneva gli occhi socchiusi facendo finta di seguire quello che la prof. stava leggendo, era stanca. Il giorno prima era andata a letto tardi, verso mezzanotte, per poter finire di vedere un programma in televisione; le era sembrata una buona idea, ma in quel momento non ne era più tanto sicura.
Bussarono alla porta e senza aspettare un invito a entrare, due uomini la aprirono e fecero il loro ingresso. Avevano un completo scuro, portavano dei sottili occhiali da sole sul naso e a un orecchio avevano un bluetooth; erano entrambi abbastanza maturi, forse sulla quarantina, ma uno aveva già delle ciocche grigie tra i folti capelli neri. Questo, che sembrava il “capo” da come si muoveva sicuro e da come l’altro seguiva ogni sua mossa, fece un passo avanti guardandosi intorno, osservando ogni alunno presente.
«Avete bisogno di qualcosa?» chiese la prof. alzando le sopracciglia, visibilmente irritata dal loro ingresso poco educato. Quando era infastidita accompagnava sempre ciò che diceva con acidità e con voce quasi stridula.
L’uomo, senza degnare la prof. di uno sguardo, fece un altro passo e si fermò davanti la prima fila di banchi; guardò Clarissa dall’alto, proprio davanti a lui, e storse la bocca in una sorta di ghigno, o sorriso.
«Tra di voi c’è una ragazza di nome Astrid Rizzo, che fa boxe, atletica leggera e frequenta una palestra del suo paese. È la miglior atleta della provincia, detiene tutti i record dei test scolastici femminili e ha qualche record anche in una o due discipline maschili. Nei test attitudinali ottiene sempre il massimo dei punti in logica. Eccelle in storia dell’arte e in inglese e per quanto riguarda le altre materie è nella media. Eccetto matematica, perché è una frana, ha quattro»
Alcuni ragazzi si voltarono verso Astrid, che era più che sveglia, ormai; le ragazze che dormivano avevano alzato la testa e fissavano gli uomini e la compagna di classe. La prof. guardò Astrid e vedendola confusa si avvicinò all’uomo.
«Cosa volete da lei?»
Ignorandola ancora, l’uomo chiese: «Allora, c’è o non c’è? Chi è?»
Astrid alzò la mano.
«Sono io, ma ho smesso boxe qualche tempo fa e per quanto mi faccia piacere essere definita la miglior atleta della provincia, penso che sia un po’ esagerato. E poi non ho quattro in matematica, ma quattro e mezzo»
L’uomo sorrise e tornò accanto al collega, che non aveva fatto un movimento da quando erano entrati.
«Devi venire con noi»
Astrid strizzò gli occhi e arricciò labbra, la cosa le sembrava strana, molto strana. Da quando la gente andava a prelevare studenti a scuola senza avvisi? Non aveva fatto niente di male.
«Scusate un attimo, ma avete qualche ordine per entrare nella mia classe disturbando la lezione? Avete documenti o distintivi per giustificare il vostro disturbo?»
L’acidità e il fastidio ormai erano palesi nella voce acuta della prof.
Il secondo uomo, quello silenzioso, mise una mano in una tasca interna della giacca.
«No, ma abbiamo questa»
Dalla tasca della giacca tirò fuori una Beretta 3032 Tomcat, che puntò subito contro il viso della prof., la quale sbiancò non appena il suo cervello realizzò cosa stava succedendo. Alcune ragazze lanciarono delle urla e una o due scoppiarono a piangere; dei ragazzi si alzarono in piedi per riflesso, facendo cadere le sedie. Una ragazza si alzò mettendo le mani sopra la testa e disse: «Con calma, con calma».
Astrid era rimasta inchiodata alla sedia, non aveva mai visto una pistola dal vivo e il fatto di averla così vicino le metteva paura, soprattutto vedendo contro chi era puntata.
«Ok, ok, va bene. Ma perché devo venire con voi?» la voce le tremava appena, era riuscita a mantenerla piuttosto salda, nonostante tutto. Non pensava di essere così fredda.
L’uomo brizzolato sorrise tirando le labbra sottili.
«Beh, è carino che tu lo chieda. Vuoi davvero saperlo?»
Se voleva davvero saperlo? Che domanda stupida era? Certo che voleva saperlo!
Annuì senza distogliere lo sguardo dalla pistola, ancora puntata contro la prof. che nel frattempo si era appoggiata alla cattedra, non si reggeva più in piedi per la paura.
«Glielo dico o no? In fondo prima o poi dovranno saperlo, gli diamo l’anteprima?» chiese all’altro, che annuì divertito scuotendo un po’ la pistola. Ogni movimento dell’arma faceva sobbalzare la donna, che si teneva le mani al petto, il libro che aveva prima tra le mani era caduto e dimenticato.
«Ritenetevi fortunati, ragazzi! Sto per rivelarvi qualcosa che il resto del mondo saprà solo tra qualche giorno»
Si sporse in avanti e portò una mano alla bocca.
«La vostra carissima compagna Astrid prenderà parte a un programma speciale, insieme ad altri ragazzi. Abbiamo selezionato tutti i partecipanti in base alle capacità fisiche e intellettive, insomma, abbiamo fatto una cernita di tutti i giovani italiani tra i diciotto e i venticinque anni scegliendo solo i migliori»
Le parole non erano poi così brutte, sembrava lodare le qualità dei ragazzi, ma la voce, il tono e il sorriso storto dell’uomo facevano paura, non portavano niente di buono.
«Beh, Astrid, le tue capacità intellettive sono piuttosto nella media» disse con tono deluso, «ma quelle fisiche, ragazza mia, sono spettacolari! Sei una delle migliori, potrei anche puntare su di te»
L’uomo armato, educatamente, avvertì con un colpo di tosse il collega che stava divagando troppo.
Il brizzolato gli lanciò un’occhiata e si sistemò la giacca, il sorriso sparì dal suo volto.
«Conoscete tutti Hunger Games?»
Alcune teste si mossero per far cenno che sì, lo conoscevano.
«Bene, il programma è qualcosa del genere»
Astrid era pietrificata. Nadia, la sua compagna di banco, si voltò a guardarla e scoppiò a piangere, non poteva crederci. Le strinse un braccio e appoggiò la testa contro la sua spalla, ma Astrid era una statua, non si muoveva, non respirava neanche, era sconvolta. La ragione, però tornò in fretta.
«Impossibile, non potete fare davvero una cosa del genere. Nessuno ve lo permetterà»
Un piccolo sorriso le increspò le labbra. Era tutto uno scherzo, spaventoso e poco divertente, data la pistola, ma era uno scherzo. Chi avrebbe permesso qualcosa del genere?
«Noi non abbiamo bisogno del permesso di nessuno. Nessuno sa della nostra esistenza, né del programma, sarà una sorpresa per il mondo intero»
Astrid scosse la testa. «Io non voglio venire con voi»
L’uomo con la pistola abbassò l’arma e la professoressa riacquistò un po’ di colore in viso, fece qualche passo indietro finché non batté le spalle contro la parete dell’aula.
«Hai una sorella minore, se non sbaglio» la voce dell’uomo era bassa, ma piacevole da sentire. «Essendo tua sorella potrebbe avere le tue stesse potenzialità fisiche, possiamo prendere lei nel programma, non c’è problema»
Astrid fu profondamente scossa da quelle parole dette con fredda calma, dal viso inespressivo dell’uomo, che inclinò la testa e alzò le sopracciglia. «Allora?»
Il cuore rallentò, sentiva ogni battito potente che partendo dal petto arrivava a ogni fibra del suo corpo. Appoggiò una mano contro la fronte di Nadia e con delicatezza la spostò. Si alzò facendo strisciare le gambe della sedia, producendo un cigolio fastidioso; serrando la mascella e chiudendo le mani a pugno andò davanti ai due uomini.
«Io ancora non ci credo» disse in un sussurro.
«Oh, ci crederai. Più avanti sarai costretta a crederci» disse l’uomo più vecchio mettendole una mano sulla spalla, con fare paterno. Il gesto disgustò Astrid, ma cercando di scrollarsi di dosso quella fastidiosa presenza sentì la presa farsi più forte.
«Beh, è stato un piacere, buon lavoro e buona giornata» disse infine l’uomo che trascinò la ragazza fuori con sé.
La porta venne chiusa dall’uomo con la pistola, che si sedette sulla cattedra guardando l’insegnante e i ragazzi. Accavallò le gambe, appoggiò l’arma accanto a sé e fece un segno con il mento alla donna ancora contro il muro.
«Continui pure, tra poco me ne vado. Voglio solo assicurarmi che nessuno di voi chiami la polizia, per ora»
La donna scosse la testa, le mani strette al petto e gli occhi lucidi, le tremavano le labbra e il viso non era tornato ancora al suo caratteristico colorito roseo.
«Questa è una giornata come le altre, la pagano per insegnare, quindi insegni»
Mosse una mano e fece ruotare la pistola sulla superficie del tavolo in modo che la canna fosse rivolta verso di lei. La prof. venne scossa da un brivido e con uno scatto si abbassò, prese il libro da terra e lo aprì a casaccio; diede un’occhiata alle parole, ma queste sembravano farsi gioco di lei, tremavano, ruotavano e le lettere ballavano scambiandosi di posto. Si schiarì la voce e guardò i suoi studenti, i suoi tanti bambini, spaventati a morte, in lacrime e con gli occhi sbarrati; Nadia stava ancora piangendo piegata sul banco dell’amica, le sue spalle erano scosse da potenti singhiozzi. Ogni gemito della ragazza era una fitta al suo povero cuore.
«Bene, se volete riprendere i vostri posti» disse guardando i ragazzi ancora in piedi. Si sedettero lentamente, chi guardando la prof. e chi l’uomo in nero.
«Dove eravamo arrivati? Ah, sì, al romanticismo»
Sfogliando il libro alla ricerca della pagina giusta, una lacrima le bagnò il polso. Si ordinò di calmarsi, doveva dare forza e coraggio a questi ragazzi, non disperazione, dannazione!
Lesse il testo con un tono di voce quasi normale, ma la maggior parte dei ragazzi aveva il viso abbassato o piangeva, erano tutti molto pallidi e la presenza dell’uomo non aiutava.
«Sì? D’accordo, ricevuto, scendo subito»
La voce dell’uomo colse tutti di sorpresa, li fece sobbalzare.
«Tranquilli, non voglio farvi del male. Vi siete spaventati?» fece un brutto sorriso, poi si alzò sistemando la sua pistola in tasca, aveva una mano ancora sul bluetooth.
«Adesso vado, buona giornata»
Uscì dalla classe senza dire altro, lasciando tutti di stucco, increduli. Davvero era andato via? Potevano chiamare la polizia quindi?
La professoressa gettò il libro a terra e corse alla borsa, sulla sedia dietro alla cattedra, tirò fuori il cellulare e compose il numero della polizia. Non appena dall’altra parte risposero, cominciò a parlare a raffica raccontando tutto quello che era successo; un ragazzo stava messaggiando freneticamente con il padre per metterlo al corrente, due ragazze piangevano in un angolo stringendosi. Nadia provò per la terza volta a chiamare Astrid, ma il telefonino dell’amica era irraggiungibile e per la frustrazione scagliò il cellulare a terra. 

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Capitolo 2
*** Capitolo Due ***


Usciti da scuola salirono sul retro di un furgoncino nero lucido, sembrava appena uscito da una concessionaria. Astrid era seduta tra l’uomo brizzolato e quello armato, che li aveva raggiunti pochi minuti dopo. Il furgone stava viaggiando piuttosto velocemente, le curve le prendeva male e Astrid era costretta ad appoggiarsi contro l’uno e poi l’altro uomo ed ogni contatto le faceva salire la rabbia.
L’uomo in nero più vecchio prese una valigetta metallica da sotto il suo sedile e ne tirò fuori una fialetta, ma che, a ben vedere, la ragazza capì essere una siringa.
«Dammi il braccio»
«No»
L’uomo la guardò sorpreso, non si aspettava un rifiuto così categorico, non dopo quello che aveva visto quella mattina.
«Ho detto di darmi il braccio»
«E io ho detto di no. Chiunque stia guidando è un incapace, non sa tenere la strada, prende i dossi a una velocità elevata fregandosene; in questo modo, puoi bucarmi qualsiasi cosa» disse Astrid indicando la siringa con gli occhi.
L’altro uomo, alla sua destra, la bloccò in una sorta di abbraccio e le prese il polso sinistro girandole il braccio verso l’alto. Astrid cercò di divincolarsi, ma la presa era di ferro e la stretta intorno al polso le faceva male, non sentiva più la punta delle dita. Senza alcuna delicatezza, gli ficcarono l’ago nell’incavo del gomito e premendo lo stantuffo le iniettarono quel liquido opaco; un calore soporifero prese a scorrere per tutto il braccio, poi raggiunse il petto e cominciò a sentire tutto il corpo caldo. La testa iniziava a pesarle e faticava a tenere gli occhi aperti, anche i pensieri si stavano appesantendo, si annebbiarono e infine crollò nel buio di un sonno indotto.
Si svegliò in una stanza buia, era sotto delle coperte morbide. Quando aprì gli occhi pensò di essere a casa, ma guardandosi intorno non riconobbe i mobili, quella non era la sua stanza, quello non era il suo letto. Le tornò tutto in mente in un unico doloroso istante. Si toccò il braccio ricordandosi dell’ago e si alzò per cercare un interruttore; vagò per la stanza tastando i muri, ma sembrava non esserci nulla per accendere una dannata luce. Trovò la maniglia di una porta, ma era chiusa a chiave e tutte le spinte e le botte che tirava contro il suo metallo non servirono a niente: la porta non si aprì e nessuno andò da lei. Con le mani protese avanti a sé cercò di tornare al letto e quando sentì la stoffa delle lenzuola si sedette costringendosi a pensare.
Avevano davvero detto Hunger Games? Cosa volevano dire? Doveva uccidere qualcuno per sopravvivere? Doveva affrontare della gente? Era un “gioco” in cui, tra tutti i partecipanti, ne poteva rimanere in vita solo uno?
«No, col cazzo»
Tirò un calcio al letto e il metallo dei sostegni produsse un suono prolungato. Tutto quel silenzio e quel buio rischiavano di farla impazzire. Si morse l’interno del labbro fino a farsi male, fino a sentire il sapore del sangue sulla lingua. Si sdraiò e sotterrò la testa sotto il cuscino obbligandosi a mantenere la calma, a non urlare, a non tirare pugni a qualsiasi cosa.
Dalla disperazione, nemmeno si accorse di star scivolando nuovamente nel sonno.
Questa volta, a svegliarla furono delle mani che la scuotevano, mani non propriamente delicate.
Il suo cervello, avendo già immagazzinato tutto quello che le era successo, la fece scattare in piedi e spingere lontano la figura vicino a lei. Era un uomo che indossava una tuta nera rinforzata, aveva una cintura di munizioni e un fucile in spalla; degli occhiali scuri, simili a quelli che si usano per sciare, coprivano metà volto, mentre la bocca era coperta da un tessuto scuro, sembrava imbavagliato. Indossava un casco, anche quello nero, e solo guardando meglio Astrid capì che davanti a sé aveva una donna: la tuta aderente le segnava le curve appartenenti solo a una donna, e da sotto il casco spuntavano ciuffi di capelli scuri, lunghi. La donna le afferrò un braccio e la trascinò fuori dalla stanza, illuminata. Forse la stanza aveva un pannello di controllo esterno ed erano altri a decidere quando tenerla al buio e quando alla luce. Quella in cui aveva dormito era una stanza comune, con un letto, una scrivania sgombra e un armadio (presumibilmente vuoto) del tutto comuni; c’era qualche brutto quadro appeso alle pareti e contro una di esse era sistemato un mobile su cui torreggiava uno specchio enorme e un peluche di un coniglietto rosa; non c’era nessuna finestra, ma in un angolo del soffitto c’era un condotto d’aerazione automatico, controllato dall’esterno.
Astrid era terribilmente stufa di essere presa, strattonata e condotta in posti sconosciuti, così prese la mano della donna e se la levò di dosso facendole capire che l’avrebbe seguita, ma da sola, senza bisogno di essere trasportata e trascinata. La donna chiuse la porta della stanza e le fece segno di camminare davanti a lei. Il corridoio che attraversarono era bianco, così bianco da far male agli occhi. Astrid si chiese se era per quello che la sua “custode” portava gli occhiali. Sul corridoio si affacciavano altre porte identiche alla sua. Che dietro ci fossero altre stanze, con altri partecipanti al gioco? Aveva anche notato che non c’erano finestre lungo il cammino. Il corridoio si divise in tre strade, una a destra, una a sinistra e una continuava dritto; la donna le toccò il gomito destro, così Astrid svoltò in quella direzione. In un modo completamente privo di senso e irrazionale, Astrid trovò carino quel gesto, il toccarle il gomito per indicarle la strada; la sua custode era stata delicata e le aveva appena sfiorato il gomito per dirle dove andare, senza urlare, senza puntarle il fucile contro la schiena e soprattutto senza strattonarla.
Pensò che quel pensiero era l’inizio della pazzia, sentiva che rischiava seriamente di impazzire.
Dopo varie svolte, indicate sempre da quel tenero tocco ai gomiti, si ritrovarono davanti una porta di metallo a due ante, anche quella bianca. Due dita toccarono la schiena di Astrid invitandola a proseguire. La ragazza sospirò, perché quel gesto le piaceva, la rassicurava, quasi, ed era gentile. Aprì le porte e si ritrovò in un’enorme sala, che doveva essere una mensa, perché c’erano diversi tavoli circolari e quello che sembrava il bancone per il self-service. In un angolo vuoto della stanza il pavimento era rialzato, sembrava quasi un palco su cui esibirsi, ma anche lì c’era un tavolo.
Un uomo sbucò da una porta dietro il bancone brandendo il più falso e bianco dei sorrisi. Era alto poco più di Astrid, era tarchiato, ma si vedeva nella struttura del fisico che quello era stato un corpo muscoloso e atletico, una volta. Aveva un accenno di barba e i capelli corti e radi, aveva un bel principio di calvizie.
Si avvicinò con passo molleggiante, sulle sue scarpe da ginnastica bianche e con il tacco interno.
«Astrid, giusto? Sei la prima! Ma è giusto così, la prima che arriva qui deve essere anche la prima a conoscermi, no? Io sono Max»
Allungò la mano, diversi anelli d’oro abbracciavano le sue dita corte, e strinse delicatamente quella che Astrid aveva alzato per educazione. Non sapeva ancora dove si trovava, cosa effettivamente doveva fare, tanto valeva fare tutto ciò che riteneva normale. Sospettava ancora in uno scherzo molto ben organizzato. Si guardava intorno aspettandosi che qualcuno di sua conoscenza saltasse fuori urlando “Fregata! Sei su Scherzi a Parte! Ah, ah, ah”. Non vedeva ancora nessuno, però.
«Accomodati pure, aspettiamo anche gli altri e poi cominciamo, ok?»
Ad Astrid cominciava a dar fastidio il suo modo di parlare, fare domande senza effettivamente aver bisogno di una risposta.
Senza aver detto ancora una parola si diresse verso il tavolo più lontano dall’entrata e mentre camminava si voltò per guardare la sua custode, ma di lei non c’era traccia, non era nemmeno entrata nella stanza. Si sedette e incrociò le mani sul tavolo. Non sapeva più a cosa pensare, aveva la mente vuota, totalmente prosciugata. Alzò il viso non appena sentì la porta aprirsi e osservò il nuovo arrivato. A entrare fu un ragazzo sulla ventina, alto e slanciato, le braccia erano due grissini e le gambe magre sbucavano dai bermuda verdi; i capelli avevano dei riflessi così biondi che davano l’impressione che indossasse un caschetto d’oro. Si guardò intorno spaventato e curioso, era sorpreso di trovarsi in una mensa. Quando gli occhi dei ragazzi si incontrarono ci fu un momento di immobilità, poi il nuovo arrivato le voltò le spalle e si sedette al primo tavolo sulla destra. Astrid lo osservò con la coda dell’occhio: muoveva le gambe freneticamente e si contorceva le dita dall’ansia, guardando la porta in attesa degli altri ragazzi. Venne raggiunto da Max che si presentò, gli disse più o meno le stesse cose che disse ad Astrid, in più gli diede una pacca sulle spalle per tirarlo su di morale. Sembrava abbattuto. Chi non lo sarebbe stato sapendo che di lì a poco avrebbe dovuto partecipare a uno pseudo Hunger Games?
«Ehi, Astrid!»
La voce di Max riecheggiò nella sala distraendola dai suoi pensieri.
«Questo qui è Daniele! Gran bel ragazzo, no? E tu che ne dici di Astrid, non è carina? Oh, forse è troppo lontana?»
Stava per invitarli ad unirsi, a sedersi allo stesso tavolo, ma il portone si aprì di nuovo e fece la sua entrata un altro ragazzo che guardò i presenti con aria confusa.
«Ehilà, Davide! Come te la passi?»
Max gli strinse calorosamente la mano e lo condusse al tavolo di Daniele. Sembrava che Max conoscesse tutti i ragazzi, neanche fosse un vecchio amico dei loro genitori.
Nessuno aveva ancora detto una parola, né Astrid, né i due ragazzi che si studiavano a vicenda; alla fine, Daniele allungò una mano presentandosi a Davide, che ricambiò la stretta accennando appena un sorriso. Era indeciso se andare a presentarsi anche con la ragazza seduta in fondo alla sala, ma sembrava chiusa nei suoi pensieri e poi la porta si aprì ancora vomitando una nuova figura.
Timidamente entrò una ragazzina esile, sembrava piccola, in realtà aveva almeno diciotto anni: i capelli erano legati in una lunga treccia castana, aveva un leggero abito scuro e dei sandali ai piedi. Ogni suo movimento produceva tintinnii vari, aveva i polsi coperti da braccialetti metallici. La ragazza guardò i ragazzi e poi Astrid e si sedette ad un terzo tavolo accavallando le gambe sottili; si passò una mano sugli occhioni per asciugarsi una lacrima incastonata tra le ciglia.
In quel momento Astrid notò qualcosa di strano in lei e la fissò per circa cinque minuti senza distoglierle gli occhi di dosso; al collo aveva un collare argentato con due piccole lampadine ai lati. Guardò Daniele e Davide e anche loro avevano i collari metallici; si toccò il collo e lo sentì freddo e duro. Anche lei aveva quell’aggeggio. Mise una mano in tasca per controllare la situazione con la telecamera interna del telefono, ma si ricordò che le era stato confiscato appena messo piede sul furgone che l’aveva portata in quel posto sconosciuto. Strinse i pugni sotto al tavolo maledicendo tutto quello che stava accadendo, mentre con lo sguardo osservava il solito rituale di Max che si presentava e scherzava con il prossimo. Altri ragazzi aprirono il portone ed entrarono e Astrid cominciò a contarli e ad osservarli uno per uno, analizzando le loro varie reazioni: una ragazza bionda e alta - poteva essere benissimo una modella per quanto fosse bella - entrata nella stanza si era coperta la bocca con una manina smaltata e aveva lanciato occhiate tutt’intorno, sorpresa; una ragazza in tutto e per tutto normale – occhi scuri, capelli scuri di lunghezza media, corporatura nella norma, viso sufficientemente armonioso – si era tolta gli occhiali, li aveva puliti con un lembo del maglione e se li era rimessi, andando poi a sedersi vicino alla ragazzina con la treccia. Nella stanza erano in ventitré, dodici ragazze e undici ragazzi, e si erano formati già dei gruppetti che chiacchieravano di tutto ciò che gli veniva in mente. Le ragazze al tavolo di Astrid stavano parlando di un film appena uscito al cinema, che volevano assolutamente vedere per via di un attore, mentre dei ragazzi parlavano di calcio e videogiochi. Astrid storse il naso piangendo internamente, pensando che si ritrovava immersa negli stereotipi più comuni e diffusi.
«Ehi»
Astrid si era sporta verso Ester, la ragazza di carnagione scura seduta accanto a lei.
«Che c’è?»
«Lo hai già notato?» le chiese indicandosi il collo.
Ester si toccò il collo e trovando quello strano pezzo di metallo spalancò gli occhi guardandola preoccupata.
«Che cos’è? Che. Cosa. È»
Astrid scosse la testa e tornò al suo posto guardando gli altri ragazzi. Come facevano a non accorgersene? Eppure neanche lei ci aveva fatto subito caso, solo dopo aver visto Adele se ne era accorta.
Il punto è che, essendo tutti preoccupati per la situazione in generale, nessuno aveva badato all’abbigliamento degli altri, e poi non c’erano specchi in cui potersi guardare, nemmeno nelle stanze.
«Perché ci sono queste lucine?» chiese Ester toccando i lati del suo collare e guardando quello di Astrid. «Anche le mie sono una verde e una rossa?»
«Sì, quella verde è accese, quella rossa no. Anche le mie sono così?»
Ester annuì e guardò tutti i collari della stanza, sembrava che tutte le lampadine verdi fossero accese; non emanavano una gran luce, era un flebile bagliore, ma si notava.
Nel frattempo erano entrati un ragazzo e una ragazza: lui era alto e aveva un fisico d’atleta, era stato chiamato sicuramente per quello, e i capelli scuri erano scompigliati, come se avesse avuto una battaglia con il pettine, mentre la ragazza aveva la corporatura di un maschio, aveva delle spalle larghe da nuotatrice e i capelli tinti di rosso erano corti e sparati verso l’alto.
«E lei è Rebecca, ragazzi!» urlò Max al gruppo.
Tutti dissero un cordiale «Ciao, Rebecca!», eccetto Astrid che credeva che fosse tutto uno scherzo e si stava innervosendo, il gioco è bello quando dura poco e loro erano lì da ore. Guardò l’orologio che segnava le cinque e mezza; non sapeva se della mattina o di sera, quel posto era privo di finestre e niente dava un indizio se fosse giorno oppure no.
Entrarono due ragazzi contemporaneamente, non era mai successo, e insieme si sedettero senza degnare nessuno di uno sguardo. Erano incredibilmente alti e muscolosi, avevano delle spalle e delle braccia da far paura: ricevere un loro pugno voleva dire morte certa, poco ma sicuro.
Una ventina di minuti dopo, quando un ragazzo smilzo che annegava nella sua maglietta di tre taglie più grandi si sedette, Max passò tra i tavoli regalando sorrisi a destra e a manca, fece anche qualche occhiolino. Alzò le braccia al cielo ridendo, sembrava contagioso, perché anche alcuni ragazzi ridacchiarono guardandolo dirigersi verso il palco in fondo alla sala. Quando fu lì sopra venne raggiunto da alcuni uomini e donne in tuta scura, i “custodi”, e con le mani invitò i ragazzi ad avvicinarsi e a mettersi in fila.
Tutti si sistemarono davanti a lui in un’unica ordinata fila, sembravano dei perfetti soldati e così Astrid, che detestava quel tipo di conformismo e uguaglianza, incrociò le braccia al petto e storse la testa. Anche a scuola, quando i professori dicevano di guardare un’immagine su un libro o qualcosa alla lavagna, lei guardava da tutt’altra parte, fuori dalla finestra, per terra, la porta; gli dava enormemente fastidio quel movimento unico che si creava quando qualcuno con una certa autorità diceva di fare qualcosa ad una folla. Odiava la folla che obbediva.
«Bene, bene. Allora, sapete tutti perché siete qui, giusto?» chiese Max facendo scomparire il sorriso dalle labbra.
Gli occhi dei ragazzi tornarono scuri, ricordandosi il perché di tutto quello.
«In realtà no»
Si voltarono tutti verso la figura che aveva appena parlato, Mattia, un ragazzo che non sembrava avere qualità fisiche speciali, in compenso aveva l’aria di avere un gran cervello.
«Allora ve lo spiegherò per l’ultima volta, quindi aprite bene le orecchie»
Max prese un profondo respiro e camminando avanti e indietro per il palco cominciò a parlare.
«Voi ragazzi siete stati scelti per un  programma antigovernativo, ribelle e rivoluzionario. Dovreste esserne onorati. Non dirò il nome dell’organizzazione perché non vi interessa e perché sicuramente non la conoscete: nemmeno l’FBI o la CIA, o il KGB o chiunque altro sa della nostra esistenza»
Mentre parlava gesticolava e per ogni parola detta sputava litri di orgoglio e fierezza.
«Vogliamo dimostrare al mondo, a tutti i governi del mondo, che la sua azione educativa è fallimentare. FALLIMENTARE! Vogliamo dimostrare che creano ragazzi repressi, aggressivi e violenti; vogliamo far vedere che le loro azioni portano solo caos e danno vita a mostri come voi»
Astrid stava ascoltando incredula, aveva letteralmente la bocca aperta per la sorpresa, nell’ascoltare la stupidità delle parole che Max stava vomitando in giro per il palco. Osservò i custodi che non battevano ciglio (non letteralmente, avevano quei cavolo di occhiali super coprenti in faccia) e si sorprese nel vederne qualcuno annuire compiaciuto; sentì Ivan alla sua sinistra borbottare un «Ma che cazzo sta dicendo».
«…e quindi dovrete mostrare la vostra mostruosità. So che ne siete in grado. Abbiamo scelto i migliori: quelli pompati dall’attività fisica che i governi apprezzano tanto, i cervelloni che i governi lodano e premiano ogni anno. Merda! Siete tutti delle merde del governo!»
«Ma tu sei pazzo!» gridò Christian scuotendo la testa. Fece qualche passo indietro allontanandosi dal folle sul palco, continuava a scuotere la testa. «Stai dicendo un sacco di cazzate. Voglio dire, ti senti mentre parli? Governi? Azione educativa? Mostri? Ma che stai dicendo?»
Astrid poteva vedere gli occhi spaventati e scioccati del ragazzo da sopra la spalla di Nicol, alla sua destra, mentre parlava.
«Mio caro Christian, non sono cazzate, ma la pura realtà. Appena usciti da questo edificio dovrete cominciare ad ammazzarvi a vicenda, ne dovrà rimanere uno solo. È così che funziona la dimostrazione, esperimento, gioco, come preferite chiamarlo. Personalmente, preferisco l’ultimo. Quando il “sopravvissuto” vincerà, le nazioni capiranno che cosa hanno creato, perché voi siete i loro figlioli, siete il loro futuro. Gente mostruosa come voi sta governando, dirige le più grandi imprese del mondo, ma noi metteremo sotto il naso dei bravi cittadini la crudeltà vostra e dei governanti. La mostreremo a tutto il mondo»
«Ma vaffanculo!»
Christian alzò il dito medio verso Max e fece un altro passo indietro per andarsene, ma non riuscì a fare di più. Si sentì uno sparo e la testa di Christian scattò all’indietro, le gambe cedettero sotto il suo peso e crollò a terra. Nicol cadde urlante in ginocchio, graffiandosi gli occhi, sentiva delle gocce calde sul viso. Il corpo di Christian era disteso a terra scomposto, le gambe erano piegate sotto il corpo e le braccia spalancate, come se stesse provando a fare un angelo in quella pozza di sangue che si stava creando sotto di lui; il viso era piegato e la bocca era aperta in un urlo muto di terrore. Gli occhi erano due sfere opache, avevano perso il loro colore; tutti i ragazzi alla sua sinistra erano sotto il suo sguardo vuoto.
Qualcuno disse «Oddiosantissimo» e poi scoppiò in un pianto trattenuto.
«Nicol. Alzati immediatamente. Non è necessario che tu rimanga lì seduta»
Max guardava la ragazza con disinteresse, come se lei stesse facendo qualcosa di davvero, ma davvero inutile ed evitabile. Vedendo che quella non accennava a muoversi puntò la pistola nella sua direzione.
«Se non ti alzi subito farai la sua fine»
Astrid si chinò e la tirò su per le ascelle, Nicol era un peso morto, ma lo sarebbe stato letteralmente se non si fosse alzata immediatamente. Non si reggeva sulle proprie gambe e le braccia erano abbandonate lungo i fianchi, sembrava non voler reagire a nulla, continuava a piangere disperatamente.
«Su, Nicol, non fare così. Sta dritta o quello ti ammazza» le sussurrò all’orecchio Astrid. Non era faticoso tenerla, aveva un fisico slanciato da ballerina.
«Se non stai su farai la fine di Christian. Vuoi una pallottola in fronte?»
Nicol scosse la testa e si raddrizzò, teneva la testa bassa continuando a toccarsi il viso per pulirlo dalle gocce di sangue.
Tutti erano girati verso il cadavere di Christian, lo guardavano senza riuscire a fare altrimenti: tutto quel sangue non lo avevano mai visto dal vero, ma solo in televisione, si riusciva a sentire addirittura l’odore del sangue nell’aria. Qualcuno all’estremità sinistra della fila vomitò, si sentiva lo scrosciare disgustoso del liquido sul pavimento, i colpi di tosse del povero ragazzo che non riusciva a smettere.
Gli occhi privi di luce di Christian le stavano dando alla testa, Astrid aveva l’impressione che la stessero guardando dicendole “La prossima sarai tu, attenta”.
«Signore, posso chiudergli gli occhi?»
Max la guardò sorpreso, ma annuì. «Ti danno fastidio?»
Astrid esitò guardando ancora il ragazzo steso a terra, la pozza che si ingrandiva.
«Allora? Ti fanno schifo? Ti danno fastidio?»
«Vorrei farlo riposare in pace»
Max sbuffò mostrando tutto il suo disgusto e disse: «Cristiani». Con un cenno della mano le diede il permesso di muoversi.
Astrid si avvicinò a Christian e gli si inginocchiò accanto. Non era cristiana e non credeva in nulla, ma aveva bisogno di chiudergli gli occhi: voleva davvero che riposasse in pace (al paradiso, o a qualcosa di simile, ci credeva), ma aveva bisogno anche di non avere più quegli occhi puntati addosso e voleva verificare che fosse effettivamente morto, e non che fosse uno stupido e macabro scherzo. La speranza è l’ultima a morire.
Deglutendo decise di sistemare il corpo in maniera più comoda, così liberò le gambe da quella posizione e gli mise la mano destra sul cuore e la sinistra sullo stomaco e con mano tremante gli chiuse gli occhi. Finalmente si sentì libera da quello sguardo. Guardandolo, poteva sembrare addormentato, se non fosse stato per quel foro sulla fronte. Un rivolo di sangue gli solcava il viso scendendo lungo una guancia e sotto la sua testa la pozza era enorme e l’odore di sangue, di metallo, era terrificante, le faceva venire il voltastomaco. Astrid si chiese come diavolo facesse a non vomitare, a non piangere e a non urlare, probabilmente lo shock le aveva bloccato qualsiasi tipo di reazione. Il volto di Christian era pallido, il ragazzo era morto. Morto. Nessuno scherzo, nessun Scherzi a Parte, solo la realtà.
Il suo sguardo cadde sul collare, poi si voltò verso gli altri ragazzi che stavano osservando la scena e tornò con gli occhi a Christian. Aveva visto giusto, adesso capiva. Sul collare del ragazzo la lucina verde era spenta, quella rossa invece brillava. I collari degli altri avevano la lampadina verde accesa e il cadavere quella rossa: luce verde, vita e luce rossa, morte.
«Torna al tuo posto, Astrid»
La ragazza fece come le aveva ordinato Max, tornò al suo posto con la braccia conserte.
«Beh, uno è andato. Consideratevi fortunati, avete un nemico in meno. Poi, mi piacciono i numeri pari e voi eravate dispari, ora è tutto a posto»
Sorrise e tese la pistola a un custode.
«Meglio se la tenete voi, la tentazione di ammazzare questi stronzetti è molto alta»
Ivan lanciava delle brevi occhiate al cadavere, ancora non riusciva a smettere di farlo; Nicol aveva smesso di toccarsi il viso, ma lo teneva basso per poter piangere in santa pace, senza essere guardata; Davide sentiva il sapore del vomito in bocca, non voleva fare altro se non sciacquarsi.
«Dove eravamo arrivati prima dell’interruzione? Ah, sì! Allora, appena finirò di parlare dovete raggiungere quella porta lì dietro, la vedete?»
Tutti si voltarono in quella direzione, ma non Astrid che rimase ad osservare Max. L’uomo la guardò e per un instante il suo volto divenne una maschera di freddezza e crudeltà, poi tornò quello di prima, sorridente, sadico, pazzo. «Sbucherete in corridoio e dovrete entrare nella stanza di fronte a questa, in cui starete fino a che i miei uomini non vi scorteranno nelle vostre stanze. Vi farete una doccetta e poi tutti a nanna!»
Batté le mani entusiasta, come un bambino felice di aver appena ricevuto un nuovo giocattolo.
«Spero non abbiate il sonno leggero, perché stanotte si comincia! Ai piedi del letto troverete una sacca contenente cibo e acqua per alcuni giorni e un’arma adatta alle vostre capacità e potenzialità. Le abbiamo scelte con cura quasi maniacale, quindi spero vi piacciano»
Sembrava davvero che la sua felicità dipendesse nell’apprezzamento delle armi da parte dei ragazzi. Aveva gli occhi lucidi di orgoglio per il lavoro svolto.
«Un segnale vi farà capire che il gioco è cominciato. Quando sarete fuori dalle vostre camere dovrete seguire i corridoi illuminati. Quelli al buio sono off-limits, chiaro? Chi si troverà in quelle zone morirà. Volete sapere anche come, immagino»
Sorridendo scese dal palco con un agile balzo, dopotutto non aveva perso la sua abilità di un tempo. Si spostò guardando i ragazzi negli occhi, poi i loro collari. Qualcuno, capendo, si portò le mani al collo terrorizzato, strattonando il pezzo di metallo.
«Oh, no, caro, non si possono aprire se non con un segnale dal pannello di controllo. Però hai capito: quei collari sono delle bombe. Sono inseriti dei chip in grado di indicarci la vostra posizione e se farete qualcosa di sbagliato come tentare di scappare o fermarvi nelle zone buie, beh, quel coso vi farà saltare la testa»
Diede una pacca sulla spalla al ragazzo, Loris, e si allontanò camminando con le mani intrecciate dietro la schiena, come un uomo che senza pensieri osserva il cielo limpido di fine primavera.
«Mi sembra di avervi detto tutto. Se mi viene in mente qualcosa ve lo comunicherò: ci sono amplificatori sparpagliati qua e là, fuori di qui. Quando avrò voglia di parlarvi, o quando ne avrò bisogno per farvi sapere qualche piccola variazione di gioco, mi sentirete, non vi preoccupate. Ora potete andare»
Alzò le mani in un gesto di liberazione, ma chiuse subito i pugni gridando: «No! Ho dimenticato di dirvi che non appena il gioco comincerà, stanotte, dovrete cominciare a uccidervi. Siete autorizzati, o meglio, obbligati a farlo non appena lascerete le vostre stanze. Ecco la prima regola: se non c’è almeno un morto nei corridoi farò attivare le bombe dei vostri collari e cinque di voi, scelti a caso, moriranno»
Dopo un momento carico di silenzio teso, aggiunse: «Ora potete andare, grazie»
Nessuno dei ragazzi si mosse, lo shock delle informazioni ricevute era troppo. Nicol riprese a piangere e Ivan a scuotere la testa e dire parolacce a go go. A un cenno di Max, che aveva ancora le mani in aria, i custodi scesero dal palco e con qualche spintone e minaccia fecero fare dietro front ai ragazzi indirizzandoli verso la porta. I custodi aprirono la porta dell’altra stanza e spinsero i ragazzi dentro a forza, dopodiché un rumore metallico indicò la chiusura automatica della porta.
Quella in cui i trenta ragazzi si trovavano era una stanza più piccola rispetto alla prima, ma abbastanza grande da permettere loro di muoversi: c’erano tre poltrone, due tavoli e diverse sedie, uno scaffale pieno di giochi da tavola e qualche mazzo di carte; a terra c’era un invitante tappeto e una bottiglia di vetro vuota. Astrid la osservò dubbiosa. Che volessero indurli a giocare al gioco della bottiglia?
Il muro di fronte all’entrata non esisteva, o meglio: al suo posto c’era un’immensa vetrata che ricopriva completamente la superficie della parete e al di là del vetro si poteva ammirare un panorama spettacolare. Un bosco rigoglioso e verde si estendeva davanti all’edificio, gli alberi alti raggiungevano la vetrata (finalmente scoprirono di essere a qualche piano di altezza) e il cielo era di un bel color arancione. Erano le sei del pomeriggio, quindi. Una porta dava su un’altra stanza, ma anche quella era chiusa a chiava, probabilmente.
Un ragazzo alto e magrissimo, con i capelli ondulati fino alle spalle, fece qualche passo e prese dallo scaffale una scatola rossa.
«Chi vuole giocare a Saltinmente
Adele, accarezzandosi la treccia si avvicinò a lui indicando un altro gioco.
«C’è anche Twister, io preferisco questo»
«Ok, chi gioca allora?»
Qualche mano si alzò timidamente, altri si allontanarono e si sedette sulle poltrone a chiacchierare; ovunque si stavano formando dei gruppetti, ma Astrid non riusciva ad avvicinarsi a nessuno, pensava ancora a Christian e al fatto che gli altri invece avevano già dimenticato. O forse no, si disse, forse stavano solo cercando di non pensarci, di andare avanti e sconfiggere la paura per qualche momento, stavano solo fingendo che fosse tutto normale e che quella fosse una festicciola tra amici.
«Vogliono farci fare amicizia»
Astrid spostò lo sguardo alla sua destra, dove c’era Lucas che guardava gli altri in modo indecifrabile. Era più alto di lei, aveva le spalle e le braccia muscolose; aveva la schiena perfettamente dritta, il portamento era quasi regale, nonostante le braccia incrociate al petto e il broncio in viso. Il suo modo di stare in piedi e la sua postura le ricordavano molto quelle di Chiara, una sua compagna di classe che faceva tiro con l’arco da parecchi anni. Possibile che lui facesse lo stesso sport, magari a un livello più alto?
«Cosa vuoi dire?»
Lucas guardò la ragazza e poi indicò la stanza con una mano.
«Vogliono rendere i giochi più divertenti» disse sussurrando, sembrava avesse paura che qualcuno lo potesse sentire. «Vogliono che ci sia più difficile ammazzarci l’uno con l’altro, vogliono aggiungere colpi di scena e intessere relazioni. Vogliono creare dei legami tra noi per vederli poi distruggere, da noi»
La cosa aveva un senso e Astrid l’aveva sospettata nel momento in cui Max le aveva presentato Daniele.
Annuì al ragazzo, poi disse: «Capito» e se ne andò verso la vetrata scavalcando un ammasso di corpi intento a giocare a Twister ed evitando gli inviti di alcune ragazze ad unirsi a loro in chiacchiere. Astrid aveva sempre evitato la compagnia femminile, anche se delle amiche le aveva, preferendo quella maschile: alle chiacchiere preferiva i fatti; preferiva stare con i ragazzi che faceva e disfacevano, che combinavano casini, piuttosto che con le ragazze che parlavano e basta.
Astrid prese dallo scaffale un mazzo di carte e si sedette al tavolino vicino alla vetrata; sistemò le carte preparando una partita di solitario. Sorrise pensando al fatto che quel mazzo era stato messo in quella stanza per unire tante persone nel gioco, ma lei lo stava usando per un solitario.
Lucas era rimasto sulla porta con le braccia incrociate ad osservare i suoi compagni di sventura, chiedendosi chi di loro avrebbe accettato il gioco e ucciso e chi, come lui, avrebbe invece rifiutato le regole.
I suoi occhi caddero sui due ragazzi seduti vicino alla vetrata, dalla parte opposta in cui si trovava Astrid, che parlavano e ridevano. Erano Laerte e Claudio e per loro immensa sfortuna erano amici. Erano amici ancora prima di entrare nel gioco, lo si capiva da come parlavano, da come si muovevano in confidenza l’uno con l’altro, dal fatto che fossero entrati nella sala mensa insieme e non separatamente come tutti gli altri. Le sue erano solo congetture, ma si fidava sempre di se stesso.
Quella situazione, quel cadavere a pochi metri da lui, le risate e le parole delle persone davanti a lui gli stavano facendo saltare i nervi, lo stavano stressando e innervosendo; poteva sentire un miscuglio di emozioni – frustrazione, paura, rabbia, tristezza, disperazione – e adrenalina circolargli in corpo. Aveva anche notato delle telecamere nascoste e il fatto di essere spiato non gli piaceva più di tanto.
Un ragazzo attraversò la stanza e picchiettò contro la schiena di Astrid, intenta a un solitario.
«Potresti prestarmela un attimino?» chiese indicando la sedia su cui lei era seduta. Astrid annuì e si alzò curiosa, si chiese a cosa gli servisse una sedia per “un attimino”.
Il ragazzo, Giulio, fece cenno ad Astrid di spostarsi e afferrò lo schienale della sedia con entrambe le mani, poi fece due giri su se stesso acquistando velocità, infine scagliò la sedia contro la parete di vetro con tutta la sua forza. La sedia si ruppe in vari pezzi, una gamba volò da una parte e un’altra raggiunse lo scaffale sfiorando la testa di una ragazza, ma la vetrata era intatta, non aveva neanche un graffio. Al momento dell’urto, Astrid aveva notato che il vetro si era piegato sotto il peso della sedia, ma poi l’aveva spinta via, distruggendola; le sembrò una scena da cartone animato.
Neanche un minuto dopo entrarono due custodi e Max, che scuotendo la testa si avvicinò a Giulio.
«Ci sono delle telecamere, sai? Abbiamo visto cosa hai appena fatto e non avresti dovuto. Potrei farti saltare la testa in questo momento attivando il collare, ma il gioco non è ancora cominciato, perciò…»
Allungò una mano per ricevere una pistola da un suo uomo, ma quello si avvicinò all’orecchio di Max e disse: «Signore, non possiamo permetterci altre morti prima del tempo. Sono pari e in giusto equilibrio, se ne eliminiamo un altro noi, la dimostrazione potrebbe saltare»
Max sospirò e infilò le mani in tasca. «Va bene, hai ragione. Ma possiamo punirlo, giusto? Fate voi»
Uscì dalla stanza con passo lento e con una mano diede il via libera ai due custodi che si avventarono su Giulio. Uno di loro lo prese per il colletto della maglia e facendo esattamente quello che aveva fatto poco prima Giulio con la sedia, lo scaraventò contro la vetrata. Anche in questo caso, questa si piegò e poi respinse il corpo gettandolo a terra. Sul pavimento, Giulio si strinse nelle spalle, non riusciva più a respirare per il colpo e all’arrivo di un calcio allo sterno si piegò dolorante di lato, si chiuse a riccio mentre degli scarponi di cuoio lo pestavano, avendolo scambiato forse per un pallone.
Astrid si intromise quasi subito mettendosi tra i custodi e il corpo rannicchiato di Giulio, tese una mano intimandogli di fermarsi.
«Volete ammazzarlo voi? Non avete, però appena detto che dobbiamo rimanere tutti in vita?»
I custodi si ricomposero e quello più basso le tirò uno schiaffo.
«Puttana»
Astrid premette una mano contro la guancia, gli occhi già umidi per la rabbia e l’affronto, ma non rispose alla provocazione lasciandoli uscire. Qualcuno volle sapere se stava bene, lei annuì e gettando uno sguardo a Giulio tornò al suo solitario.
Davide si alzò dal tappetino su cui stava giocando a Twister e si ravvivò i capelli.
«Non avresti dovuto farlo. Sei stupido?»
Giulio si sedette premendosi le mani contro i fianchi e respirando a fatica. Sorrise e si voltò verso di lui.
«Le avevo viste le telecamere»
Anche Lucas sorrise dal fondo della stanza.
 
Alle otto la seconda porta della stanza si aprì automaticamente e Arianna, interrompendo il suo racconto dell’estate passata in Francia, si affacciò per vedere cosa ci fosse oltre.
«C’è la cena, raga!»
Tutti abbandonarono le loro attività rendendosi conto di essere affamati avendo saltato il pranzo.
Al centro della sala c’era un enorme tavolo rotondo e tutt’intorno trenta sedie esatte, una per ognuno di loro. Davanti a ogni sedia c’era un vassoio e una targhetta con un nome. Ognuno cercò il proprio nome e si sedette, pronto a mangiare in compagnia, divertendosi per l’ultima volta, forse.
«Oh, Albe, ho il mio piatto preferito! Costata di manzo cotta al punto giusto, ci sono anche le patate che piacciono a me»
«Anche io ho il  mio piatto preferito: lasagne e una ciambella alla crema. Sto sbavando!»
«Raga, anche io! Big Mac, McChicken, due patate grandi e coca cola. Ho anche il muffin ai mirtilli, incredibile»
Astrid guardò la sua maccaronara al sugo, il panino per la scarpetta e il dolce al cioccolato e sentì aprirsi una voragine nello stomaco. Non si era resa conto di quanto fosse affamata fino a quel momento, però invece di sedersi al tavolo con gli altri prese il vassoio e si sistemò a terra, davanti alla vetrata che continuava anche in quella stanza. Non voleva pranzare con quelle persone perché non voleva farci amicizia, entro qualche ora il “gioco” sarebbe cominciato e si sarebbero dovuti uccidere a vicenda, non voleva farsi nemmeno piacere qualcuno, non voleva il minimo tipo di legame.
Qualcosa le toccò la gamba e alzando gli occhi vide quelli scuri di Lucas, che teneva il suo vassoio in mano.
«Penso che abbiano cucinato queste cose per farci socializzare a tavola. Tutti sono più felici se mangiano ciò che amano. Però non voglio dargli la soddisfazione di vedermi mangiare il mio piatto preferito preparato da loro. È una cosa stupida, lo so, ma faresti cambio?»
Astrid si impose di far morire il sorriso che le stava nascendo sulle labbra.
«Ho mangiucchiato un po’ il pane, però»
«Non importa»
Si scambiarono i vassoi e Lucas si sedette a mangiare in solitario contro la parete opposta.
Sentendo i commenti acidi degli altri ragazzi per la loro lontananza, Astrid prese una costina tra le mani e cominciò a mangiare con gusto, adorava la carne (mai come la pasta, però).
Quando era ormai al dolce, che consisteva in un dolcissimo e morbido muffin, una voce la sorprese alle spalle.
«Perché non mangi con gli altri?»
 Astrid stava guardando il vento scuotere gli alberi lì fuori, in un certo senso non vedeva l’ora di uscire da quel posto.
«Non mi piace la compagnia, ho voglia di stare sola»
«Bugiarda. Sappiamo che ti piace stare con le persone chiacchierone ed estroverse, per questo il tuo posto era tra Giacomo e Vincenzo»
Astrid si voltò e osservò il ghigno sul volto di Max.
«Ci avete spiato?»
«Certamente. Lo abbiamo fatto per un bel po’ di tempo, tanto da considerarvi i partecipanti adatti»
Il pensiero di essere stata osservata per un sacco di tempo le fece venire i brividi, la fece sentire vulnerabile e nuda, troppo esposta.
«Al tavolo si stanno formando delle alleanze per sopravvivere e tu e Lucas ne siete fuori. Sarete i primi loro obiettivi»
Astrid alzò le spalle riprendendo a dare piccoli morsi a quel delizioso muffin. Sentì Max allontanarsi e pensieri preoccupanti cominciarono a invaderle la mente. E se avesse ragione? E se lei fosse il loro primo obiettivo perché era sola? Forse doveva allearsi con qualcuno, ma allearsi significava fidarsi e in quel fottutissimo gioco non esisteva la fiducia. Un amico potrebbe uccidere nel sonno un suo alleato perché alla fine ne deve rimanere uno solo. Un unico sopravvissuto, non ci sono eccezioni. Finì il muffin convinta della sua scelta, sapeva di poter contare solo su se stessa.
«Perché non stai cenando con gli altri?»
«Perché non mi piace la compagnia»
Max sorrise e si appoggiò con una spalla alla parete guardando il ragazzo.
«Al contrario di Astrid, so che tu dici la verità. Ti piace stare da solo, va bene, ma sappi che al tavolo stanno nascendo le prime alleanze e tu ed Astrid ne siete tagliati fuori. Sceglieranno voi come primi obiettivi perché siete soli. Io alzerei il culo e andrei a trovarmi qualche compagno»
Lucas scosse la testa mandando giù un altro boccone di cheescake al cioccolato (cavolo se Astrid ha buon gusto in fatto di dolci!) e sollevò il viso.
«Possiamo farcela anche da soli, abbiamo corpo e cervello»
«Forse, ma c’è chi ha più corpo di voi e chi più cervello»
Lucas lanciò un’occhiata al tavolo: Roberto era il più grande, aveva venticinque anni e lo aveva sentito dire che praticava boxe da quando ne aveva dieci, era un colosso e aveva sicuramente un fisico più forte del suo; poi c’era Jessica, che con quegli occhi vispi e il viso furbo, era sicuramente la persona con più cervello.
«Un corpo senza cervello non si muove, un cervello senza corpo non può muoversi»
Max uscì dalla sala imprecando, ma nessuno lo sentì, erano tutti troppo impegnati nelle loro cose.
Lucas guardò Astrid, voltata di spalle, e pensò se era abbastanza forte da potercela fare da sola: aveva un fisico allenato, gambe ben sviluppate, forse era una velocista o faceva pallavolo, sotto la maglietta sottile si intravedevano i muscoli della schiena e delle spalle allenati, forse faceva anche lei tiro con l’arco, ma ne dubitava data la postura ingobbita che aveva in quel momento.
«No, non posso» si disse. Aveva cominciato a pensare alle persone dentro quella stanza come dei nemici, li aveva osservati e analizzati, stava calcolando le probabilità di sopravvivenza di ognuno. Stava entrando nel gioco e lui non voleva; aveva pensato di rimanerne fuori evitando di uccidere (ed evitando di essere ucciso, possibilmente).
Finì il suo dolce pensando a casa, a quello che la sua famiglia stava facendo in quel momento.

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Capitolo 3
*** Capitolo Tre ***


Alle nove esatte furono tutti condotti nelle proprie stanze e chiusi dentro. Sul letto erano adagiati dei vestiti e degli asciugamani e ai piedi del letto, oltre alla sacca nominata da Max, c’erano degli scarponi. In quel momento Astrid vide una porta che il pomeriggio non aveva notato, era la porta del bagno.
Astrid decise di non guardare l’arma che Max e i suoi volevano che usasse per uccidere qualcuno, e si diresse verso il bagno prendendo gli asciugamani. Rimase sotto il getto dell’acqua calda  a lungo, tanto che uscendo aveva tutto il corpo rosso per il calore. Con una certa riluttanza indossò i vestiti che le avevano portato, Max aveva fatto sapere che avrebbe davvero apprezzato vederli vestiti in quel modo, era una sorta di comando nascosto. Non avevano molta scelta. I vestiti comprendevano una maglietta a maniche corte nera, molto semplice, e dei pantaloni verde scuro con decine di tasche. Osservò gli scarponi chiedendosi se avrebbe fatto meglio a metterli o aspettare. Li infilò con rabbia e allacciò le stringhe con scatti nervosi delle mani. Max aveva detto che ci sarebbe stato un segnale a indicare l’inizio di tutta quella pazzia, ma quale sarebbe stato? Non lo aveva precisato, dannazione. Non si stese sul letto perché sapeva che se lo avesse fatto si sarebbe addormentata e dormire era una cosa che non poteva permettersi, quella sera. Da sotto la pila dei vestiti sporchi prese il mazzo di carte che era riuscita a prendere dalla “sala giochi”; aveva cercato di non farsi beccare dalle telecamere e dato che nessuno le aveva detto niente c’era riuscita. A terra cominciò a giocare a solitario in attesa di quel famoso segnale, sperando di riuscire a riconoscerlo. E se non ci fosse riuscita? Le avrebbero fatto saltare la testa?
«No, no, non devo pensare a queste cose, cristo»
Tirò un calcio contro la scrivania e scartò riprendendo a giocare, nervosa.
 
I vestiti erano comodi e leggeri e camminando, i piedi di Lucas si abituarono subito alla forma delle nuove scarpe; fece uno o due salti per la stanza, doveva rimanere sveglio e attivo, doveva essere pronto a scappare via di lì senza essere ammazzato. E senza uccidere nessuno. Inciampò nella tracolla della sacca e per poco non cadde. Si inginocchiò e aprendo la cerniera guardò per l’ennesima volta il contenuto della sacca: dei contenitori con del cibo, due borracce d’acqua, una felpa pesante e la sua arma. Definirla “sua” gli faceva paura, ma guardandola non poteva non sorridere: era un arco, ancora da montare, e c’era una faretra da venti frecce. Ne prese una e con un dito ne percorse il profilo, fino alla punta acuminata e mortale; c’era quasi una freccia per ogni avversario. Avrebbe dovuto montare l’arco subito, perché lui aveva sempre avuto bisogno di tempo e concentrazione e non poteva farlo in un minuto e doveva averlo pronto per il segnale, ma decise che lo avrebbe fatto solo quando si fosse trovato fuori da lì, anche perché usare quel tipo di arma in un ambiente chiuso come lo erano i corridoi sarebbe stato difficile. Chiuse la sacca e si sedette sul letto, in attesa.
 
Rebecca si stava strofinando i capelli con l’asciugamano, mentre osservava intensamente le sue armi appoggiate delicatamente sul letto. Appena entrata in camera si era buttata sulla sacca per vedere quella che sarebbe stata la sua arma e trovandone addirittura due aveva sorriso, la scoperta la confortava e le metteva sicurezza. In mutande e reggiseno si aggirò per la stanza brandendo la sua arma, facendo degli ampi movimenti con le braccia e affondando la lama in un immaginario nemico. Tra le mani aveva un tagliente sai, un pugnale a tre punte, e sul letto c’era il suo gemello, entrambi erano stati lucidati a dovere e le loro else erano ricoperte da nastri colorati, uno blu e uno rosso.
Il suo colore preferito era il blu, le ricordava l’acqua e il mare, la sua piscina e la sua passione. Le importava ben poco di avere un fisico imponente, di avere le spalle larghe e di incutere timore nei ragazzi per questo: lei amava il suo sport, amava l’acqua e nuotare, niente la faceva sentire meglio di una lunga e solitaria nuotata. Prese il sai rosso e lo allacciò alla cintura trovata nella sacca, aveva giusto due agganci per le due armi, ma il sai blu lo voleva tenere in mano, voleva sentire il calore freddo del metallo.
 
In sala computer, qualche piano sotto le stanze dei ragazzi (e il suolo), nella sala di monitoraggio regnava il caos: gente che urlava, che si chiamava e fischiava. Uomini e donne erano divisi in due gruppi: gli uomini erano seduti alle postazioni di sinistra e, uno sull’altro, sgomitando e ridendo guardavano i monitor dei computer, mentre le donne, a destra della sala, ridacchiavano e indicavano i loro schermi.
«Ehi, Letizia, qui c’è una ragazza che ti batte! Avrà minimo minimo la quinta»
«Chi è? Veronica?»
La donna, un’addetta del monitoraggio interno, si avvicinò al gruppo di uomini e si affacciò sulle loro spalle. Sulle schermo di uno dei computer c’era Veronica che si faceva la doccia ignara di essere osservata da decine di occhi, si spalmava il bagnoschiuma sul seno prorompente, che tutti gli uomini osservavano attenti.
«Alla sua età anche io ero così, magra in vita ed esplosiva di seno. Non mi sorprende»
Le sue parole non furono ascoltate da nessuno, erano tutti impegnati ad osservare le ragazze sotto le docce, spiate da telecamere nascoste; la scena di tutti quei pervertiti maniaci metteva un po’ di disgusto a Letizia, che se ne andò ignorando i rigonfiamenti sul cavallo di questi.
«Ehi, Franco, qui ce n’è una piatta, come piace a te»
«Guardate Arianna, dio santo, ha chilometri di gambe e poi…»
Letizia si rimise alla sua postazione, tra due colleghe che ridacchiavano e guardavano i loro computer con gli occhi sgranati; tutte le donne si erano riunite per spiare i corpi atletici e muscolosi dei ragazzi. In quel momento erano sinceramente grate di essere state scelte per quel lavoro, non erano solite rifarsi gli occhi con soggetti di questo tipo.
«Daniela, telecamera cinque, adesso»
«Gin! Ginevra, guarda Roberto, potrei svenire! Telecamere dodici»
«Potresti venire, al massimo»
Le donne scoppiarono a ridere e Letizia con loro; mentre scriveva un rapporto sbirciava gli schermi dei computer, ammirando i ragazzi, triste del fatto di non essere più giovane. Anche osservando le ragazze dai computer degli uomini aveva sentito una stretta al cuore sapendo di non essere più in forma, negli ultimi anni si era lasciata andare. Invidiava da morire i corpi delle ragazze, voleva averne uno così anche lei, e desiderava avere i corpi dei ragazzi per sé.
Con una penna picchiettò contro il computer della sua vicina, Anna, e sorridendo disse: «Daniele è quello messo peggio, considerando gli altri, no?»
Anna rise. «Considerando gli altri sì, ma mio marito alla sua età era orrendo, Daniele è molto meglio»
«Gente, gente! Telecamera numero uno, non c’è nessuno»
Anna digitò sulla tastiera, cliccò due volte su un’icona e apparve l’immagine di un vano doccia vuoto.
«Probabilmente l’ha già fatta e nessuna se ne è accorta»
«Impossibile, sono qui da tutta la sera e non si è ancora visto. È sdraiato sul letto, si è cambiato i vestiti e basta»
«Ti piacciono gli sporcaccioni, eh, Elena? Ti piacciono rozzi, eh?»
Delle altre risate, unite agli ululati degli uomini, riempivano la sala di monitoraggio sotterranea; mentre ai piani superiori i pensieri cupi si stavano moltiplicando.
 
Si sentiva piuttosto paranoico stando sdraiato lì senza aver fatto la doccia, cambiandosi solamente i vestiti, ma il pensiero delle telecamere nella sala di svago lo aveva turbato, tanto da credere che ce ne fossero ovunque. Giulio prese il peluche dal suo comodino, lo avvicinò al viso senza il coraggio di sventrarlo per scoprire eventuali telecamere: si limitò a fare la linguaccia, sperando che qualcuno lo avesse visto, voleva dimostrare che lui sapeva.
Non gli dava fastidio mostrare il suo corpo, era piuttosto a suo agio con esso, ma dover fare la doccia sotto sguardi nascosti di chissà chi e di chissà quante persone lo infastidiva, gli provocava ribrezzo e schifo. Prese un profondo respiro e gemette, si strinse i fianchi avvertendo una fitta dolorosa allo sterno. Inarcando la schiena cercò di calmarsi respirando piano e a respiri corti; non si pentiva minimamente di aver buttato la sedia contro la vetrata, solo non si aspettava che lo picchiassero in quel modo, credeva che il compito di quei soldati (erano soldati, no?) fosse quello di garantire la loro incolumità. Un cazzo! Il dolore era diminuito, così Giulio allungò una mano verso il comodino, verso quella cosa che luccicava alla luce della lampada. Era più leggera di quanto sembrasse, era anche facile tenerla per il manico.
«Una sciabola. Quanta fantasia»
Agitò in aria l’arma provocando dei sibili, poi se l’appoggiò contro il petto e si mise in attesa. Le luci si spensero verso le undici, così Giulio dovette alzarsi per non rischiare di addormentarsi.
 
A luci spente certamente non si poteva giocare a carte, così Astrid cominciò a cantare, storpiando anche i testi e le parole in inglese, quando non le sapeva o non le ricordava. Era alla settima canzone quando un ronzio la spaventò facendola sussultare. Proveniva dall’alto, da un punto imprecisato del soffitto buio.
«Salve, ragazzi! Spero non stiate dormendo, perché ho una cosa importante da dire»
Astrid si alzò in piedi, forse era quello il segnale. Aveva un piano per uscire di lì viva e voleva portarlo a termine; la vista le si era abituata al buio, quindi sapeva dov’era l’uscita.
«Premetto che questo non è il segnale, perciò rilassatevi. Volevo solo annunciarvi che non appena ci sarà il vero segnale avrete due ore di tempo per lasciare l’edificio, chiaro? O ve lo avevo già detto? Beh, in sostanza, chi non lascia la propria stanza e l’edificio morirà qui dentro, questa sarà la sua tomba»
La voce di Max era fastidiosamente allegra e rilassata, al contrario di Astrid che aveva tutti i muscoli tesi per l’ansia.
«E mi raccomando, che ci sia almeno un morto, altrimenti ce ne saranno cinque. Fateci divertire, su! Non vorrete che il gioco finisca subito, no? No, che non lo volete! Beh, ragazzi, ora vado, ci sentiremo più tardi, o meglio: qualcuno mi sentirà»
Astrid cominciò a prendere a calci il letto, poi il cassettone vicino alla porta; afferrò la scrivania contro il muro e prese a scuoterla, a spostarla cercando di ribaltarla. Era terribilmente furiosa, era fuori di sé dalla rabbia; non voleva uccidere nessuno e ovviamente non voleva essere uccisa! Fosse stato per lei si sarebbe fatta scoppiare la testa lì seduta stante, ma probabilmente (sicuramente!) nelle altre stanze qualcuno stava già trovando un modo per uccidere tutti i suoi avversari. Alcuni, ne era sicura, avrebbero partecipato al gioco e lei non avrebbe potuto fare niente, avrebbe dovuto combattere per difendersi e avrebbe dovuto uccidere se necessario. O forse no? E se avesse lasciato passare le due ore e fosse rimasta lì? In quel caso non avrebbe dovuto uccidere nessuno e nessuno l’avrebbe uccisa. Beh, certo, poi sarebbe morta comunque, ma almeno sarebbe rimasta un’anima innocente, se così si può dire.
Si sedette sul letto quasi convinta, ai suoi piedi c’era la sacca aperta e all’interno vide brillare la lama del suo pugnale. Aveva un elsa scura e corta, la lama invece era lunga quasi quanto la sua coscia: o era un pugnale molto lungo o una spada piuttosto corta. Era un ibrido. Prese l’arma titubante e se la portò in grembo. Era tanto leggera quanto pericolosa, aveva la lama sottile, ma appuntita; la infilò nel fodero agganciato alla cintura che aveva in vita, poi si prese la testa fra le mani. Non poteva semplicemente decidere di non partecipare al gioco, non ne aveva alcun diritto: non era una questione che riguardava solo lei e la sua vita, ma tutta la sua famiglia, le loro vite. Aveva dei genitori e una sorella, dei nonni, degli zii e dei cugini e non poteva semplicemente fare l’egoista e decidere di morire. Aveva avuto anche un fratello maggiore, morto qualche anno prima in un incidente stradale, si chiamava Marco ed era perfetto, la persona migliore del mondo, o almeno così pensava lei, ma forse era di parte. Sorrise al ricordo dell’amato fratello. Scosse la testa e decise che no, non poteva morire perché la sua famiglia aveva sofferto già abbastanza: i suoi genitori avevano già perso un figlio e sua sorella aveva detto addio già a un fratello, non poteva farlo ancora con lei. Non avrebbe combattuto per vincere, ma perché doveva vincere, doveva tornare a casa.
Alzò lo sguardo e si chiese come avrebbe fatto ad uscire quando il segnale sarebbe giunto, dato che la porta era chiusa dall’esterno. Avrebbero aperto o avrebbe dovuto buttare giù la porta? Le sembrava difficile dato che era rinforzata. Guardò l’orologio, era mezzanotte.
 
Erano le due e ancora non era successo nulla, nessun segnale, niente di niente. Si erano dimenticati di loro? Impossibile, era il loro gioco, quello. Mentre aveva questi pensieri, Arianna si specchiava al buio, la sua figura appena visibile dai suoi occhi abituati all’oscurità. Vedeva il contorno del suo corpo perfetto e slanciato, i capelli che le sfioravano la schiena mandavano dei riflessi chiari nel buio, quasi illuminavano la stanza da quanto erano biondi. Sorrise scoprendo una fila di denti perfetti e bianchi. Sbuffò non potendo vedersi in viso e così tornò al letto, con le mani alzate cercò la testata evitando possibili scontri con i mobili. Tastò il materasso in carca della sua almarada e quando la trovò la strinse al petto. Era la sua arma, era la sua unica possibilità di salvezza, insieme alla sua bellezza, ovviamente. Avrebbe incantato i ragazzi, avrebbe mostrato le gambe o si sarebbe stretta a loro in cerca di protezione, attenta a strofinarsi adeguatamente e a mettere a contatto le parti giuste del corpo e poi li avrebbe pugnalati con la sua almarada, un pugnale piccolo, elegante e appuntito, proprio come lei. Inoltre, Arianna sperava che tra le ragazze ci fosse qualche lesbica, così da poter adoperare il suo piano anche con loro. Rebecca, con quel corpo mascolino e i capelli corti poteva esserlo e forse anche Ester, l’aveva scoperta mentre le guardava il culo nella sala dei giochi. Alzò le spalle indifferente, non le importava con chi mettere in atto il suo piano, l’importante era vincere e tornare a casa e poi aveva sempre provato il desiderio di andare con una ragazza, la incuriosiva la cosa. Chissà com’era baciare una ragazza. Ester aveva le labbra carnose e sembravano così morbide. Sorrise nel buio della notte. Lo avrebbe anche potuto scoprire.
 
Tre e trentasette. La porta della stanza si aprì lentamente emettendo un debole cigolio. Astrid saltò in piedi venendo investita dalla luminosità che entrava nella stanza e dovette coprirsi gli occhi con una mano. Raccolse la sacca e la mise in spalla di traverso stringendo la cinghia il più stretto possibile, era più comoda con uno “zaino” piuttosto che una borsa a tracolla. Non aspettò un momento di più e non appena gli occhi si abituarono a quella luce intensa corse fuori dalla stanza. Doveva essere quello il segnale. Aveva due ore di tempo per uscire di lì seguendo i corridoi illuminati. Aveva fatto i suoi calcoli per l’elaborazione del piano: trenta ragazzi spaventati avrebbero titubato prima di correre fuori dalle stanze per scappare, si sarebbero chiesti cosa fare, dove andare, se attaccare nel caso avessero incontrato qualcuno. Astrid, no. Astrid quelle domande non se le era poste, aveva deciso di attraversare i corridoi per prima, mentre gli altri si affacciavano per controllare la situazione; lei sarebbe stata lontano, fuori di lì, mentre gli altri iniziavano ad uscire dalle loro tane. Ipotizzando di essere la prima, Astrid non avrebbe incontrato nessuno e perciò non avrebbe dovuto attaccare, né difendersi e rischiare la vita; ci avrebbero dovuto pensare gli altri ad ammazzare qualcuno lì dentro, lei non si sentiva ancora pronta. Quel suo comportamento non sapeva se ritenerlo valoroso o da codardi. Molto probabilmente era da vigliacchi sottrarsi così al primo bagno di sangue e lasciare agli altri il problema da risolvere. Ovviamente, pensando a ciò non tornò indietro per scovare qualcuno e pugnalarlo, preferì continuare a correre sotto i fasci luminosi dei neon. Sentiva solo il rumore dei propri passi rimbombare contro le pareti e il battito del suo cuore nelle orecchie. Tum tum tum. L’adrenalina aveva cominciato a scorrerle in corpo non appena aveva visto la porta aprirsi e non accennava a diminuire, anzi, sentiva una carica interna mandarle energia alle gambe facendole fare metri e metri di strada in pochissimi secondi, molto probabilmente battendo tutti i suoi record.
La sua spada-pugnale le batteva contro la coscia, era una presenza insopportabile, sembrava pesante come un macigno. Il corridoio si divise in quel momento in due strade, entrambe illuminate. Come era possibile? Quegli stronzi si volevano davvero divertire. Doveva scegliere, e in fretta. Se avesse preso la strada sbagliata sarebbe dovuta tornare indietro, il che significava incontrare qualcuno e doverlo affrontare. Non poteva sbagliare. Una strada portava a destra e una a sinistra: Astrid aveva una predilezione per la sinistra e i numeri dispari, senza una vera ragione, ma il suo istinto le diceva di prendere il corridoio a destra e così fece. Si ritrovò ben presto davanti a una rampa di scala completamente illuminata e scese i gradini volando, tre a tre; lungo questo nuovo corridoio c’erano delle finestre alte e strette e Astrid poté constatare di essere al piano terra, quindi vicino all’uscita. In quel momento sentì un’eco di passi dietro di sé, era un suono metallico, perciò, chiunque fosse, stava scendendo le scale in maniera terribilmente rumorosa.
Senza voltarsi per controllare chi fosse, Astrid scattò in avanti e dopo poco vide una porta antipanico (che ironia, lì dentro c’erano trenta persone nel panico) e ci si fiondò contro. Fu fuori in meno di un secondo e senza fermarsi corse verso il bosco di fronte all’edificio, sentiva le ali ai piedi e ora sapeva cosa voleva dire “avere le ali ai piedi per la paura”. Questa fottuta paura di morire la stava facendo correre come mai aveva fatto in vita sua, nemmeno nelle gare più importanti a cui aveva partecipato. A saperlo prima avrebbe gareggiato con una pistola puntata alla schiena, o con una minaccia di morte sulla testa in caso di sconfitta.
Raggiunti i primi alberi si fermò per riprendere fiato e non appena lo fece se ne pentì immediatamente: le gambe cedettero e lei cadde a terra esausta, piegata in due respirando a fatica. Sentiva i muscoli delle gambe bruciare per lo sforzo immane e il cuore accelerato per la paura. Strisciò verso un cespuglio e si nascose, aveva bisogno di un momento di riposo, per riprendere fiato e per mettere ordine nei suoi pensieri. Con una mano si coprì il collare, non voleva farsi beccare proprio per la sua lucina verde vita. Inspiro, espiro, inspiro, espiro, dentro, fuori. Ordine, calma. Tranquillità. Niente paura, niente paura. Niente. Paura. Paura. Paura.
 
Se non fosse stato per la luce che lo colpì in pieno, mentre si voltava, Lucas non si sarebbe mai accorto del segnale e avrebbe continuato a dormire fino allo scadere delle due ore e quindi all’esplosione del collare. Poi sì che avrebbe dormito, ma per sempre. Non appena si accorse della porta aperta si alzò in piedi e corse verso l’uscita, poi tornò indietro e prese la sacca che stava per dimenticare. Sentiva i muscoli fremere, il cuore battere all’impazzata, quasi volesse bucargli il petto. Non sapeva quanto tempo fosse passato dall’inizio del gioco, sapeva solo di aver perso tempo dormendo e doveva recuperare immediatamente. Vide le altre porte spalancate e le stanze vuote, erano usciti tutti, lui era l’ultimo e doveva affrettarsi. Rallentò a pochi passi dalla sua stanza vedendo una porta chiusa. Chi potrebbe premurarsi di chiudere la propria stanza in un momento del genere? Il metallo della porta era graffiato, delle incisioni abbastanza profonde attraversavano la porta in verticale. Cosa diavolo era successo?
«Lucas, sei ancora qui? Il tempo sta per scadere»
La voce di Max proveniva dagli altoparlanti nascosti nel soffitto, aveva sempre la solita nota allegra, anche se un po’…apprensiva? Il tempo stava per scadere e Lucas non riusciva a pensare ad altro e cominciò a correre per i corridoi seguendo le lampade accese; correva a più non posso, faceva dei lunghi passi e si aiutava con le mani nelle curve, si appoggiava ai muri e si dava lo slancio. Era sicuro di non farcela, di morire lì, di sentire una lieve pressione sul collo e poi più niente. Stava immaginando quello che avrebbe provato nel momento dell’esplosione e non si accorse di qualcosa steso sul pavimento e inciampò andando a finire per terra. La sacca scivolò qualche metro più avanti e alzando il viso Lucas sperò che l’arco e le frecce fossero integri. Corse a recuperala pronto a riprendere la sua corsa, ma prima abbassò lo sguardo per vedere su cosa era inciampato e quando vide, inorridì. A terra, in posizione supina, c’era qualcuno che guardava il soffitto. Teoricamente stava guardando il soffitto, perché il volto era ridotto a una poltiglia informe di carne e cartilagine e sangue. Il corpo era quello di una ragazza, sicuramente, ma Lucas non sapeva dire di chi non riconoscendone il viso. Si coprì la bocca con una mano ricacciando in gola i conati di vomito, chiedendosi perché. Perché. Perché. Intorno alla testa la pozza di sangue si stava seccando, ma l’odore che riempiva l’aria era nauseabondo; come aveva fatto a non accorgersene prima?
«Lusa, Lucas, Lucas»
Sentì la voce metallica di Max ammonirlo dagli altoparlanti.
«Dovresti correre all’uscita, non fermarti a guardare. Manca poco, sai?»
Avrebbe voluto fare come Astrid e chiudere gli occhi a quella ragazza, ma non aveva tempo e soprattutto non aveva più occhi, non si distingueva più nulla del suo volto, era solo una maschera rosso sangue.
Riprese a correre più veloce di prima scivolando un paio di volte per il sangue che gli era rimasto sotto le scarpe; con il pensiero viaggiava a velocità anche maggiore delle sue gambe. Chi era stato? Perché? Aveva deciso di partecipare al gioco allora. Significava che non tutti erano pronti ad evitare di farsi coinvolgere, o forse lui era l’unico che ci aveva pensato. Non poteva crederci. Cosa aveva fatto quella ragazza di così male per meritarsi quella fine orribile? Tutti loro, cosa avevano fatto? Non sapeva neanche chi piangere! Non sapeva di chi era quel cadavere! La trovava una cosa orrenda. Avrebbe dovuto usare l’arco allora, combattere, uccidere forse. No, non poteva. Ma doveva. Doveva? Doveva. I suoi lo aspettavano a casa, sicuro, non poteva abbandonarli. L’unica cosa da fare era vincere quel gioco maledetto e tornare a casa, ma prima doveva uscire di lì. La fila di neon che aveva appena superato cominciò a lampeggiare e dopo una decina di secondi si spense. Voltandosi, Lucas se ne accorse e sbarrò gli occhi terrorizzato. Il corridoio dietro di lui era nel buio più totale, il tempo stava per scadere e lui era ancora lì. Sopra la sua testa la luce brillava a intermittenza, si sarebbe spenta in poco tempo. Finalmente trovò delle scale e le scese volando, saltando i gradini e atterrando ai piedi della scala con un tonfo pesante. Riprese a correre senza più fiato e quando vide la porta antipanico sorrise; la spalancò con tutta la sua forza e non appena fu fuori vide il fascio di luce sull’erba davanti a sé spegnersi. Era fuori, ce l’aveva fatta per un soffio. Cadde in ginocchio e immerse le mani nell’erba assaporandone la freschezza della rugiada. La luna illuminava debolmente lo spiazzo d’erba davanti all’edificio ormai buio.
Lucas si chiese se erano riusciti a scappare tutti e a salvarsi, almeno per quella notte. Ricordando poi quella ragazza sconosciuta affondò le dita nella terra umida, il suo cadavere gli tornò alla mente terribile e vomitò tutto quello che aveva mangiato. Si alzò in piedi barcollando e si diresse il più velocemente possibile verso il bosco alla sua sinistra, c’era poca strada da fare paragonata a quella per il bosco proprio davanti all’edificio: avrebbe dovuto attraversare tutta la piazzola d’erba indifeso, senza coperture né armi. Si nascose dietro i primi alberi e aprì la sacca tirando fuori l’arco e le frecce, che erano fortunatamente interi nonostante la brutta caduta. Riuscì a montare l’arco in dieci minuti, dopo vari tentativi falliti per il tremito delle mani e il sudore che gli faceva perdere la presa. Si sistemò la faretra sulla schiena stringendo i lacci per averla ben salda, poi si incamminò tra gli arbusti con l’arco in una mano. Il gioco era cominciato anche per lui.

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Capitolo 4
*** Capitolo Quattro ***


Sarah aprì leggermente la porta affacciandosi, vide una figura sfrecciarle davanti e si ritrasse automaticamente spaventata, ma quella non sembrava averla notata, infatti continuò a correre attraverso il corridoio. Era veloce e sicura, non aveva aspettato un attimo ed era corsa fuori dalla stanza. Avrebbe dovuto pensarci anche lei, dannazione! Vide un ragazzo, Loris forse, uscire e correre dietro la prima figura. Non era molto brava con i nomi e non le importava più di tanto, men che meno in un contesto del genere. Con la sacca a tracolla uscì in punta di piedi e dopo aver dato un’occhiata in girò prese la strada degli altri due ragazzi, ma ben presto si imbatté in un bivio: destra o sinistra? Guardò prima da una parte, poi dall’altra, chiedendosi dove fossero andati gli altri due. Voleva davvero andare dove erano loro? Se li avesse incontrati cosa avrebbe dovuto fare? Attaccarli, forse? Ma come avrebbe potuto batterli? Aveva intravisto una spada al fianco di Astrid e Loris era uscito dalla sua camera imbracciando un fucile con delle lame nella canna. Che diavolo era? Ma soprattutto come avrebbe potuto anche solo pensare di affrontarli con quella sua frusta? Qualche minuto prima aveva aperto la sacca e prendendo la sua arma in mano aveva pensato, in un primo momento, “Ma che figata!”. E lo era davvero. La frusta era bellissima, di un nero lucente, tipo quella di Catwoman. All'estremità aveva tre punte, quindi era davvero una figata. Sarah aveva però pensato “Ma…io non la so usare” ed era entrata in panico.
Improvvisamente sentì dei passi dietro di sé e con uno scatto imboccò il corridoio di sinistra, sperando in bene e corse. Corse qualche minuto, poi si fermò: il corridoio era per metà al buio. Guardò verso l’alto sperando in una loro accensione improvvisa, ma non successe niente e così fu costretta a tornare indietro.
Tornata dov’era prima si bloccò pietrificata. Poco più in là c’era Davide, con un enorme martello in mano che rallentò la sua corsa fino a fermarsi. Si osservarono per qualche secondo, poi qualcosa scattò nel cervello di entrambi.
“Ci deve essere almeno un morto nei corridoi, altrimenti verranno attivati i collari”
Con un gemito di terrore Sarah si voltò e prese il corridoio di destra, mentre Davide la inseguì brandendo il martello. Pensò di lanciarlo per colpirla, ma se l’avesse mancata avrebbe perso tempo nel raccoglierlo. Mentre correva dietro la figura minuta di Sarah, pensò che ci voleva del tempo per abituarsi a quell’arma, era davvero pesante. Vide la ragazza voltarsi e agitare una mano, come a scacciarlo via, ma Davide aumentò il ritmo della corsa con sforzo. Doveva prenderla, doveva ucciderla per salvarsi e salvare altre persone. Sì, doveva assolutamente ucciderla per salvare tutti, era il prezzo da pagare. Una morte per altre vite. Era giusto così.
Sarah stava ormai piangendo in preda al panico e senza accorgersene andò a sbattere contro un muro con la spalla, barcollò e riprese a correre, ma quell’errore le costò molto caro. Una mano le afferrò la spalla dolorante e la tirò indietro, facendola inciampare a cadere, ma svelta si rialzò evitando un colpo di martello che sgretolò una mattonella.
«No, no! Lasciami stare!»
Sarah urlava disperata agitando la frusta che fendette l’aria sibilando e colpì in pieno viso Davide che indietreggiò stordito. Gli bruciava terribilmente il lato sinistro della faccia e toccandosi la guancia sentì un liquido caldo bagnargli la mano; era coperta di sangue. Guardò con odio la ragazzina davanti a sé che tremava alla vista di quello che aveva appena fatto. Gli aveva sfregiato il viso e sarebbe rimasta la cicatrice! Con un salto le fu addosso e caddero insieme a terra, uno sull’altro. Sarah batté la testa e Davide le ginocchia, ma il dolore alla faccia non gli faceva sentire nient’altro. Lasciò il martello e strinse il collo della maglia di Sarah talmente forte da farsi sbiancare le nocche e prese a scuoterla.
«Hai visto cosa mi hai fatto? Hai visto?»
La ragazza piagnucolava stringendogli i polsi, ma non serviva a niente, Davide manteneva la presa salda continuando a scuoterla.
«Lasciami! Lasciami!»
«Lo devo fare, capisci? Devo ucciderti per forza, non è una mia scelta, ok? Non posso morire, non puoi essere così egoista da far morire cinque persone!»
Detto questo la strattonò più forte facendole battere la testa a terra con violenza, più e più volte, sempre più forte fino a quando i lamenti finirono e quelle mani delicate si staccarono da lui cadendo inerti. Davide si alzò e prese il martello e senza guardare gli occhi azzurri di Sarah le spaccò il naso, gli zigomi, la fronte; colpì tante volte finché non fu soddisfatto del lavoro, fin quando non fu sicuro che fosse morta. Corse via mentre il sangue sgorgava sul pavimento. Se fosse stato più attento (o più in se stesso), Davide avrebbe notato la luce rossa del collare accendersi subito dopo la prima botta contro il pavimento, così da capire che era morta immediatamente ed evitandole quello scempio.
Gli occhi di Sarah erano di un azzurro limpido, erano la parte che lei più amava di sé: ora, quella parte di cui andava immensamente fiera, non c’era più; andata, distrutta, coperta dal suo stesso sangue.
 
Viola era seduta nella sua stanza al buio, contro il metallo freddo della porta, si teneva la testa tra le mani e piangeva. Si strappava i capelli dalla disperazione, buttava le ciocche scure sul pavimento e urlava. Tempo prima, avendo visto la porta socchiudersi, si era affacciata per capire cose stesse succedendo; aveva visto Astrid uscire dalla sua stanza senza indugio e correre lontana. Aveva spalancato gli occhi capendo che quello era il segnale, il gioco era cominciato. Tornata dentro aveva preso il suo tubo di metallo, borbottando qualcosa sulla sua inutilità, poi era uscita in corridoio. La porta dall’altra parte del corridoio si era spalancata ed era uscita la figura gracile di Daniele, che sorpreso di vederla era rimasto paralizzato sull’uscio, con una mano sulla maniglia e l’altra impegnata a tenere la sua arma.
Era un bilong, una specie di accetta esotica: il manico era di legno ed era legato a una lama un po’ arrugginita con delle fibre vegetali; sembrava instabile, un movimento e sarebbe andata distrutta, ma l’apparenza inganna.
Avevano sentito delle urla in lontananza e si erano voltati entrambi spaventati e sorpresi, qualcuno aveva cominciato a giocare. Viola, poi aveva alzato il tubo coprendosi il viso per istinto, aveva visto con la coda dell’occhio un’ombra muoversi. Era riuscita a parare un colpo del bilong di Daniele, ma non ci sarebbe riuscita una seconda volta, il tubo si era spezzato in due. Aveva lanciato un urlo vedendo il ragazzo tornare alla carica, poi si era buttata in camera e aveva chiuso la porta per ripararsi. Daniele aveva dato diversi colpi alla porta lasciando graffi e incisioni, poi si era allontanato capendo l’inutilità della sua insistenza. Qualche minuto dopo, assicurandosi che non c’era più nessuno dall’altra parte, aveva abbassato la maniglia della porta, senza successo.
Un solo e semplice «No» le era uscito dalla bocca.
Aveva riprovato ancora e ancora, ma la porta non si apriva, non si smuoveva di un millimetro.
«No, no, non può finire così, non è giusto. Dovevo solo proteggermi. Mi voleva…uccidere. Per favore, aprite» piangendo si era accasciata a terra raccogliendo le gambe contro il petto.
Era rimasta in quella posizione per molto tempo, poi si era alzata a sedere, senza più la forza di piangere o di gridare.
Erano passate delle ore da quando si era chiusa lì dentro? Non poteva saperlo, non aveva un orologio, non era il tipo da indossarne uno. Distrutta, esausta, corrosa dal panico e dalla disperazione era diventata un’ombra di quello che era stata; non le avrebbero mai aperto la porta e lei era destinata a morire tra quelle quattro mura senza avere neanche la possibilità di combattere. Beh, una possibilità l’aveva avuta, pensò sorridendo amaramente, e lei aveva preferito nascondersi in quella stanza piuttosto che affrontare un avversario. Forse era giusto così, forse era stato quello il suo destino sin dall’inizio.
Sentì un ronzio, poi la voce di Max riempì la stanza.
«Lucas, sei ancora qui? Il tempo sta per scadere»
Viola alzò la testa verso il soffitto. Quindi Lucas era ancora lì? Come mai? Gli era successo qualcosa? Ah, ma quindi il tempo stava per scadere. Mancava ancora poco e poi la sua testa sarebbe saltata per aria e il suo sangue avrebbe imbrattato quelle pareti tanto bianche.
I minuti passarono lenti e Viola rimase con la testa abbassata, il mento contro il petto ad aspettare la fine. Se l’aspettava in ogni momento. Ora. Adesso. Adesso esplodo. Ancora un secondo, ora! Ora! Adesso devo morire, non ce la faccio più!
«Anche Lucas è fuori»
La voce di Max tornò ad aleggiare nella stanza, un sottofondo ronzante.
«Ha fatto appena in tempo, avresti dovuto vederlo. Appena ha messo il piede fuori, BOOM, si sono spente le luci dietro di lui. Che culo che ha quel ragazzo, rischia di diventare il mio preferito»
Max rise e per un momento Viola pensò che ce l’avesse con qualcuno vicino a lui e che avesse dimenticato il microfono acceso, ma poi disse: «E invece tu sei ancora qui, ti sei chiusa dentro. Non ho detto che le porte una volta chiuse non si possono più aprire? Non l’ho detto? Ah, no? Mi sono dimenticato, mi spiace»
Dal tono, però non sembrava minimamente dispiaciuto e continuò a parlare a Viola.
«Non attiveremo il tuo collare, non sei nelle zone buie dei corridoi. Sei al buio, sì, ma nella tua stanzetta. Vediamo fin quando sopravvivi»
Detto questo, Viola pensò che avrebbe aggiunto altro, ma la stanza rimase silenziosa.
Si alzò in piedi di scatto, le era venuto in mente qualcosa. Aveva del cibo e dell’acqua nella sua sacca che sarebbero dovuti durare alcuni giorni, quindi poteva sopravvivere per qualche tempo! In qualche giorno, lì fuori si sarebbero ammazzati tutti, eccetto uno che avrebbe vagato in cerca di lei, senza però avere alcuna speranza di trovarla. L’annuncio di Max le aveva ridato una speranza: non le avrebbero fatto saltare la testa, e lei avrebbe potuto continuare a partecipare! Con le lacrime agli occhi per la gioia cercò nel buio la sua sacca. Si mosse a carponi tastando il pavimento, poi il letto; andò in bagno, ma della sacca non c’era traccia. Stava andando nel panico, ancora. Poi ricordò: quando era uscita aveva la sacca in una mano e il tubo nell’altra e quando era stata attaccata da Daniele aveva mollato la presa sulla sacca per impugnare saldamente il tubo. La sacca le era caduta lì fuori. Si buttò a terra e con la testa sul pavimento freddo guardò oltre la fessura del fondo della porta e vide la tela marroncina della sacca, era a pochi centimetri da lei, ma non poteva fare niente per riprenderla. Si tirò su, appoggiò la fronte contro la superficie della porta e pianse le ultime sue lacrime in silenzio.
 
«Zooma sul viso di Viola, non perdere nemmeno una lacrima»
Max era piegato sullo schermo della scrivania e dava ordini ai suoi subordinati lì intorno, ognuno con un compito diverso.
«L’uscita di Lucas l’avete registrata bene?»
«Sissignore, da più angolazioni e diverse distanze»
«La sua è stata un’uscita davvero spettacolare, piacerà al pubblico»
L’uomo annuì al suo capo continuando a pigiare sulla tastiera
 
Tra i cespugli, Astrid stava recuperando le forze poco a poco, sempre con una mano sul collare. Diversi minuti prima aveva sentito dei fruscii tra le fogli e delle voci lontane, poi più niente. La sua decisione di uscire per prima rischiando tutto le sembrava ancora un’ottima trovata: non aveva incontrato nessuno e perciò non aveva dovuto combattere e uccidere, poteva riposare prima che anche l’ultimo dei ragazzi uscisse. Prima di alzarsi e incamminarsi dentro al bosco si mise in ascolto di eventuali nemici nelle vicinanze. “Nemici”. Stava entrando nel gioco sempre di più.
Si scrollò di dosso delle foglie che le si erano attaccate addosso e fece per alzarsi, quando sentì nell’aria un sibilo pesante. Si buttò di lato facendo una capriola su una spalla sola e si alzò velocemente. Il punto in cui si trovava lei prima era stato colpito da un bastone; Vittorio la stava guardando, sopracciglia aggrottate e labbra tirate in un ghigno. Era alto e ben piazzato, i capelli scuri gli arrivavano poco più sotto le orecchie; gli occhi, anche quelli scuri, erano ridotti a due fessure nel tentativo di metterla a fuoco nell’oscurità della notte.
«Sei agile»
«Grazie»
Astrid mise mano al suo pugnale e lo estrasse producendo un rumore metallico.
Vittorio espresse il suo apprezzamento con un fischio, poi indicò l’arma con un cenno della testa.
«Veramente bella. Io invece ho questa, una semplice lancia» disse scuotendo appena l’arma. «L’ho trovata appoggiata sul letto e appena l’ho vista ho pensato che fosse l’arma migliore, ma vedendo la tua…»
Fece un passo veloce in avanti e Astrid ne fece uno indietreggiando, non aveva intenzione di farsi uccidere.
«Appena ti avrò ucciso mi prenderò il pugnale, è giusto che lo abbia io e non tu. È più adatto alle mie capacità»
«Se questo lo hanno dato a me e quella a te, ci sarà un motivo, non credi?» chiese sorridendo acidamente Astrid, muovendo la mano che impugnava l’arma.
«Muori!»
A quel grido, Vittorio si mosse in avanti con la lancia tesa, in un affondo lungo, ma Astrid lo evitò scartando di lato; non era difficile stare lontana da quella punta acuminata, Vittorio si muoveva lentamente per via della lunghezza e pesantezza dell’arma. Velocemente Vittorio mosse la lancia di lato colpendo Astrid su un fianco, mandandola contro un albero. Nell’impatto perse il pugnale che cadde tra qualche cespuglio e Vittorio, approfittando di quel momento di distrazione fece qualcosa di inaspettato con l’arma: prendendo le due estremità tirò e con un suono secco la lancia si divise in due. In mano aveva due piccoli bastoni dall’estremità appuntita e facendoli roteare si avvicinò mostrando un ghigno terrificante. Aveva scoperto quella particolarità dell’arma non appena l’aveva provata nella sua stanza. Una lancia da poter scagliare e trafiggere i nemici a distanza o due speciali bastoni acuminati. Non poteva chiedere di meglio, anche se il pugnale di Astrid lo avrebbe preso volentieri ed era proprio quello che aveva intenzione di fare non appena l’avesse passata da parte a parte con uno dei suoi bastoni.
La ragazza era caduta a terra dopo la botta contro il tronco dell’albero; Vittorio la guardava dall’alto con sguardo di sufficienza, non poteva credere che gli altri fossero davvero preoccupati per lei e le sue capacità: era una semplice ragazza che non riusciva a stare nemmeno in piedi, sembrava anche piuttosto innocua. Dopotutto, però lui era Vittorio, era destinato a vincere, lo diceva anche il suo nome. Vittorio. Era lì per vincere, tornare a casa.
Perso nei suoi pensieri, Vittorio non si accorse che Astrid aveva ripreso in mano il pugnale, che era caduta appositamente per recuperarlo. Il ragazzo alzò una mano per infilzarla contro l’albero, ma Astrid fu più veloce e con un balzo gli fu addosso e gli trafisse il polso con il pugnale. Vittorio fu così sorpreso di vedere quella cosa spuntargli dal polso che nemmeno urlò, spalancò solo gli occhi e aprì la bocca; solo quando Astrid estrasse la lama avvertì il dolore, che si propagò per tutto il corpo fino a farlo urlare. La presa sulla lancia si allentò e questa cadde a terra; si portò la mano al petto e con quella ancora sana cercò di fare altri affondi, ma la potenza e la sicurezza di prima erano svanite. Vittorio sentiva il petto caldo e appiccicaticcio per il sangue che stava perdendo, aveva la fronte madida di sudore freddo per la paura. Tentò l’ennesimo colpo, ma inciampò in una radice di un albero e perse l’equilibrio cadendo in avanti, addosso ad Astrid che aveva la mano ancora tesa. Il pugnale si conficcò nel petto perforando il cuore e portando immediatamente la morte al ragazzo (luce verde, luce rossa), che si accasciò tra le braccia di Astrid. Sembrava quasi che si stessero abbracciando, ma la mano di Astrid era stretta intorno all’elsa del pugnale che non voleva saperne di uscire dal petto del povero ragazzo. Astrid, sporca di sangue fino al polso, rimase in piedi sorreggendo il cadavere di Vittorio; sentiva il sangue continuare a fluire sul suo polso, faceva fatica a mantenere salda l’impugnatura scivolosa. Era talmente scioccata che non si accorse di aver cominciato a piangere sulla spalla del ragazzo che aveva appena ucciso.
Distese il ragazzo sul tappeto di foglie e gli chiuse gli occhi, estrasse il pugnale dal suo petto e gli sistemò le mani come aveva fatto con Christian, in modo anche da coprirgli il foro all’altezza del cuore. Vide la sacca di Vittorio abbandonata al suo fianco e prese le sue porzioni di cibo e acqua; una parte di sé si stava ribellando selvaggiamente a quel comportamento, ma l’altra parte, quella che intendeva tornare a casa a tutti i costi, quella che comprendeva l’istinto di sopravvivenza, gli suggeriva che ne aveva assolutamente bisogno. Si allontanò da quel luogo senza prendere altro. Era entrata ufficialmente nel gioco.
Tra le fronde degli alberi si potevano vedere spicchi di cielo costellati da piccole luci bianche.

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