Ricordi 1

di simocarre83
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** VIVO PER LEI ***
Capitolo 2: *** SE TELEFONANDO ***
Capitolo 3: *** PENSIERI & PAROLE ***
Capitolo 4: *** Quando la banda passò ***
Capitolo 5: *** Teorema ***
Capitolo 6: *** La Notte ***
Capitolo 7: *** Un giorno bellissimo ***
Capitolo 8: *** LEFT OUTSIDE ALONE ***
Capitolo 9: *** BASILICATA IS ON MY MIND ***
Capitolo 10: *** SERE NERE ***
Capitolo 11: *** Tutti qui ***
Capitolo 12: *** Come mai ***
Capitolo 13: *** Il Gatto e la Volpe ***
Capitolo 14: *** Memorie ***
Capitolo 15: *** La linea sottile ***
Capitolo 16: *** WELCOME TO MY TRUTH ***
Capitolo 17: *** ANGELO ***
Capitolo 18: *** Sabato Pomeriggio ***
Capitolo 19: *** Se adesso te ne vai ***
Capitolo 20: *** L'Amore conta ***
Capitolo 21: *** Il meglio deve ancora venire ***
Capitolo 22: *** L'isola che non c'è ***
Capitolo 23: *** La Vita è Adesso ***
Capitolo 24: *** Una notte e forse mai più ***
Capitolo 25: *** Fotoricordo ***



Capitolo 1
*** VIVO PER LEI ***


Ricordi1_1

1 – VIVO PER LEI

Ricordo ancora quel giorno come fosse ieri.

Era incominciato benissimo. L’ultimo giorno di scuola. Quello più bello. A quel tempo ero considerato un secchione; non che lo fossi. Me la cavavo. In tutte le materie. Sì, forse in educazione fisica qualche problemino, ma non grossi. Nulla che non si potesse risolvere in sede di scrutinio con gli altri professori. E ne uscivo sempre con un sette. Nonostante questa fama, anche per me quello era il giorno migliore dell’anno scolastico. Poi, che io avessi qualche motivo in più per essere contento, quello era logico.

Erano almeno due settimane che non facevo niente a scuola. Medie riposte in cassaforte, a parte fermarmi qualche pomeriggio per aiutare qualcuno dei miei compagni, chiunque avrebbe potuto accorgersi a fatica della mia presenza in classe.

Delle mie esperienze scolastiche in quel periodo ricordo solo una cosa brutta. Un “disprezzo” che mi ero portato dietro dall’inizio dell’anno precedente, da quando avevo incominciato le scuole superiori. Più di ogni altra cosa, odiavo essere considerato un “lecchino”. E purtroppo il mio carattere timido ed introverso mi spingeva ad essere gentile e affabile con chiunque avesse un minimo di autorità, fosse anche stata la bidella. Rispondevo con cortesia a tutti, facevo qualunque compito scolastico mi veniva richiesto, ma era solo buon’educazione. Non travalicavo mai il confine tra le buone maniere e la carineria sfacciata di chi vuole ottenere qualcosa in cambio dalle buone azioni che compie. Purtroppo non tutti i miei compagni comprendevano queste cose. E con l’andare del tempo qualcuno aveva anche incominciato a considerarmi, come dicevo, un “lecchino”. Ma poco mi importava.

Se c’era una cosa che a 15 anni avevo già incominciato ad imparare, purtroppo anche sulla mia pelle, era che gli amici possiamo sceglierceli solo noi, e nessuno può costringerci ad essere suo amico. Col tempo avevo capito che se certi miei compagni non si prendevano la briga di conoscermi e capire perché mi comportavo così, forse non meritavano la mia amicizia. Come risultato ero quel genere di ragazzo che di amici ne ha pochi. Pochi ma buoni. Anche quei due, tre compagni di classe che consideravo come tali, lo erano veramente. Gli altri? Se mi consideravano un lecchino, o un secchione, non potevo farci niente. Non si può cambiare la testa delle persone, se queste non lo vogliono. E forse a quei miei compagni di classe conveniva comportarsi così. Forse no. Forse ci provavano un certo gusto. Ma non mi importava più di tanto. Soprattutto quel giorno. L’ultimo.

Ben più importanti, per me, erano gli amici che consideravo tali. Per loro stravedevo. Sarei stato disposto a fare quello che era necessario pur di aiutarli. Sempre e comunque. L’unica cosa che non facevo, per nessuno, era scendere a compromessi con i miei principi, quelli morali con i quali ero stato educato dalla mia famiglia. Una famiglia un po’ strana, di certo diversa, ma una famiglia che mi stava crescendo nel migliore dei modi.

Nato a Milano ma non con quelle origini, a quasi tre anni persi mia mamma, e la mia famiglia cambiò definitivamente, da quel momento. Cresciuto con un padre solo, e con i nonni paterni per buona parte della mia infanzia, a 15 anni ancora non sapevo cosa significasse accusarne il colpo. Per me quella era una famiglia normale. Anche dopo che, qualche mese prima di quell’ultimo giorno di scuola, mio padre aveva sposato un’altra persona e dai due che eravamo, ci siamo ritrovati in sei, io con due fratelli e una sorella acquisita. L’unico risultato tangibile fu che, da quell’anno, cercai anche di trovare e mantenere un posto e un’identità in quella “nuova” famiglia.

Per me quella era una situazione normale, un po’ diversa ma che pur sempre rientrava nella normalità delle cose. Le giuste regole della casa mi fecero imparare le buone maniere, un buon comportamento, che però, ogni tanto, causa l’adolescenza nel pieno dei suoi anni, aveva bisogno di uno sfogo. Avevo ormai imparato a controllarmi per nove mesi. Poi, però, con la fine della scuola, sapevo che le cose avrebbero dovuto forzatamente cambiare. Così arrivava la mia valvola di sfogo.

Pochi giorni, quando non poche ore dopo la chiusura delle scuole, ero ormai abituato, da anni, a partire con i miei nonni verso la meta delle vacanze. I miei nonni avevano infatti avuto l’ottima idea, quando se ne andarono dal paesello di nascita (alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso), di acquistare una casa in un paesino vicino, non più in collina, come Pisticci, in provincia di Matera. Ma al mare, in un piccolo paese ad una trentina di chilometri dall’altro. Il paese si chiama Policoro. Sempre in provincia di Matera. E dopo trent’anni era diventata una città di diciassettemila abitanti, a tre chilometri dal mare, nel pieno della riviera del Metapontino.

Quello che, per molti altri, compresi alcuni miei parenti, era solo un paesino sperduto dove niente e nessuno avrebbe avuto mai un interesse ad andarci, per me, che ci passavo mediamente due mesi e mezzo ogni anno, costituiva la perfetta valvola di sfogo.

Il mare tutti i giorni, i giochi, gli amici, veri amici, il sole e tutto quanto nella mia mente di quindici anni avesse potuto rappresentare il massimo per una vacanza; ecco, quella era la mia valvola di sfogo. Così, a parte i principi, quando ero a Policoro mi divertivo come un matto, me la prendevo comoda, passavo tutte le sere con i miei amici, e da almeno un paio d’anni a quella parte anche con le mie amiche, in modo sempre più interessato alle amiche e disinteressato agli amici. A quindici anni si può ancora credere che le due cose debbano necessariamente viaggiare separate.

Almeno fino all’anno precedente le cose erano andate così. Poi quell’anno era successa una cosa. Che mi aveva fatto ritornare bambino a Policoro. Quell’anno, quel giugno, a Policoro sarei sceso solo per gli amici. Non più per le amiche.

Perché a Milano, nella primavera precedente, era successa una cosa che mi aveva fatto perdere l’interesse nei confronti delle amiche, completamente soppiantato, sotto quel punto di vista, dall’interesse nei confronti di un’unica persona. A Milano, della mia stessa età, molto più bella di qualunque altra persona potessi mai aver visto in vita mia. Visto e apprezzato.

Ma di Maria vi parlerò più tardi.

Quell’estate, quindi, un po’ mi dispiaceva lasciare Milano. Sapevo che ci saremmo potuti sentire quando e come volevamo. Però non sarebbe certamente stata la stessa cosa.

Era così finito quell’anno scolastico. Il giorno seguente sarei partito per Policoro. Prenotazione già effettuata, solo poche ore e avrei fatto valere il mio diritto di viaggiatore sul treno che mi faceva, dopo 12 ore di estenuante viaggio, scendere alla stazione di Policoro.

Addio Milano! Addio famiglia acquisita! Addio, anzi no, Arrivederci Maria! E tanti saluti.

Quell’anno, mi ero impegnato anche con le ripetizioni a ragazzini più piccoli, di matematica e scienze, mettendo da parte un po’ di soldi che sarei stato felice di usare, quella sera stessa per un cellulare, e nel corso di tutte le vacanze per divertirmi e svagarmi con i miei amici.

Scoprii che, almeno per quanto riguardava il cellulare, non ce ne sarebbe stato bisogno. Appena arrivato a casa, dopo essermi riposato, fu mio padre, in nome suo e di mio zio, a regalarmi un cellulare. Pregustai, subito, la spesa ingente in ricariche telefoniche per telefonare a Maria, che avrei volentieri consumato. Con Maria mi ero sentito e salutato poche ore prima. Ma, anche solo per la necessità di darle il nuovo numero di telefono, decisi di inaugurarlo con due chiamate.

Una, la prima, a Lei, ovviamente.

La seconda alla persona alla quale tenevo più di tutte a Policoro. Ad un vero Amico. A Giuseppe.

Credo che, per cominciare, vi abbia detto tutto il necessario.

Tranne forse una cosa della quale spesso mi scordo, quando mi capita di parlare ad altri di me: mi chiamo Simone.

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Eccoci di nuovo qui. qualcuno (ma non molti) potrebbe chiedere: "Ma perché prima la metti, poi la cancelli, poi la rimetti?". Presto detto: ufffff!! questo è quanto.

Chiunque di voi leggesse questa storia per la seconda volta, mi farebbe piacere ricevere un vostro parere.

Per tutti gli altri... beh... mi farebbe piacere ricevere un vostro parere.

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Capitolo 2
*** SE TELEFONANDO ***


2 – SE TELEFONANDO

“Pronto?” rispose la voce femminile dall’altra parte del telefono.

Ecco. Lo sapevo. Perché non risponde mai lui, al telefono e risponde solo quell’antipatica di Antonella, sua sorella? Anche se aveva due anni meno di me, Giuseppe, a quel tempo poteva oltre ogni dubbio considerarsi il mio miglior amico. Nati nello stesso mese, Agosto, io 1 anno 11 mesi e 20 giorni prima di lui. Lui esattamente 1 anno 11 mesi e 20 giorni dopo di me, se preferite. Ma quando scendevo a Policoro, già da qualche anno a quella parte, la differenza di età si era ridotta. Almeno in rapporto alle nostre età. Giuseppe poteva considerarsi a tutti gli effetti un vero amico.

Potevamo, almeno sportivamente e scolasticamente considerarci complementari. Lui scolasticamente preparato, ma meno di me. Io sportivamente goffo, molto più di lui. Diciamo che quello che non vincevo mai contro di lui a calcio, me lo riprendevo a dama. Anche perché, nei pomeriggi che passavamo insieme, a casa mia o a casa sua, purché al fresco, di più non lo si usava il cervello.

L’anno seguente lui avrebbe dovuto incominciare la seconda superiore. Liceo scientifico. Io già me la cavavo più che bene all’Istituto Tecnico Industriale del paese in cui vivevo. Però guai, d’estate, a parlare di scuola. A meno di non fare i compiti insieme, ognuno per conto suo, ma nella stessa camera, per riuscire ad essere pronti a giocare alla play station subito dopo aver finito la “razione quotidiana” di studio che ci costringevano ad assumere.

La sorella, invece, ha cinque anni più di me. È antipatica, ma antipatica, che, come avrebbe detto un comico dei miei tempi, se si fosse messa allo specchio, l’immagine riflessa gli avrebbe sputato pure lei in un occhio. Almeno così la pensava la parte bambina della mia mente fino a quel momento. In realtà era una ragazza ventenne come tutte le altre, che, forse, se la tirava un po’ troppo, ma neanche più di tanto. Fatto sta che avrei preferito cento volte che mi rispondesse la madre di Giuseppe, piuttosto che la sorella. E infatti avrei dovuto capirlo subito che quella non sarebbe stata una bella telefonata. Più imbarazzato che altro, quindi, risposi.

“Ciao Antonella! Sono Simone! C’è Giuseppe?” risposi.

“Ciao Simone! Si è qui! Te lo passo!”

Sentii il telefono appoggiarsi sul mobiletto. Pochi secondi dopo Giuseppe era al telefono.

“Ciao! Come va?”

“Ciao! Che vuoi?”

“Niente! Volevo solo sentire come stavi, dirti che arrivo dopodomani e salutarti!”

“Ah! Vabbè, se hai finito, che adesso ho da fare?!”

“Ah! Ciao!”

“Ciao”

Il tono, persistente e ritmato, che fuoriuscì dal telefono per qualche altro secondo, mi fece capire che dall’altra parte avevano attaccato.

Non so se vi è mai capitato di avere una conversazione del genere con un vostro amico. Ecco, non ve lo auguro. Quel profondo senso di frustrazione, mista a sbalordimento e rabbia che si prova era, a quel tempo, una prova a cui l’amicizia doveva sottostare. Ma pur sempre una prova.

Il problema non stava tanto nelle cose che mi aveva detto. Capitava anche di trattarci peggio di così. Ma sempre per scherzo. Era il tono che mi lasciava interdetto. Giuseppe era molto più gentile e solare di me. Praticamente mai l’avevo sentito di malumore. E anche quelle poche volte in cui sapevamo che aveva litigato con qualcuno, con noi si era sempre comportato egregiamente. Praticamente con noi non si era comportato mai così.

Mai.

Tranne una volta.

Questo ricordo, di quell’ultima volta in cui si era comportato così con noi, però, fece aumentare la preoccupazione invece che guarirla.

Ma procediamo con ordine.

Prima di tutto è doveroso spiegarvi chi intendo quando uso il “noi”. E potete stare certi che, ogni volta che a Policoro userò il “noi”, mi starò riferendo a noi quattro. Io, Giuseppe, e gli altri due.

Circa cinque anni prima che tutte queste cose entrassero nella mia vita, nella via dove abitava Giuseppe si era spostata un’altra famiglia. Marito, moglie e due figli, Francesco e Emanuele. Emanuele aveva un anno meno di me e Francesco un anno in meno di Giuseppe. Non fu subito amicizia, ma quasi. Nel corso di una memorabile partita a nascondino (avevo 9 anni) fu assolutamente chiaro che saremmo diventati amici. Veri amici.

E le cose andarono esattamente così. Con Francesco e Emanuele si creò l’amicizia. E da quel momento in poi, noi quattro divenimmo inseparabili, come era accaduto fino a quel momento tra me e Giuseppe. Con ciascuno degli altri tre, ognuno di noi, si sentiva di parlare di qualunque cosa. Durante l’inverno io e Giuseppe, a cui si aggiungevano in conoscenza gli altri due, ci scrivevamo con cadenza settimanale. Durante l’estate, poi, dal pomeriggio fino alla sera tardi, a parte una piccola pausa per cenare, stavamo sempre insieme.

Al mattino no, semplicemente perché forze e potenze superiori ci spingevano ad andare al mare in lidi diversi. Con “forze e potenze superiori” mi riferisco a genitori e nonni. E non riuscivamo a vederci. Anche se quell’anno avevamo deciso di provare a chiedere a questi ultimi di incominciare ad andare al mare da soli.

E già il fatto che Giuseppe avesse risposto dopo pochissimi secondi al telefono, mi fece pensare. Di solito, a quell’ora, Giuseppe era in giro con Francesco e Emanuele. O al massimo sotto casa a chiacchierare o a fare una partitella a calcio. Ma di certo, alle 19 della sera, Giuseppe poteva essere ovunque tranne che a casa. Invece aveva, come dire, risposto troppo presto per essere normale.

E poi c’è il ricordo.

L’anno precedente, avevo appena finito di mangiare e ero in casa, aspettando di sentire qualche voce che mi facesse capire che anche i miei amici avevano finito di mangiare. Sentii il portone di casa di Giuseppe che si apriva e richiudeva dietro di lui. Uscii e corsi nell’altra strada. Avevo appena girato l’angolo, quando mi accorsi della situazione. C’erano Amaraldo e Dorian che stavano importunando Giuseppe. Lo stavano strattonando, sfruttando la superiorità numerica. Accortomi della situazione corsi fin giù e spostai di peso il primo, mettendo contemporaneamente in fuga il secondo. Anche Amaraldo se ne andò, preso alla sprovvista dal mio arrivo. Rimanemmo da soli io e Giuseppe.

“Che cosa volevano da te?” gli chiesi.

“E a te che te ne importa?” mi disse, guardandomi con uno sguardo che non avrei mai dimenticato. Trapelava solo il profondo e sincero desiderio di proteggermi da quella situazione. Io fui colto alla sprovvista da quella reazione e mi fermai cercando di cambiare discorso. Dopo una mezz’ora di malumore, fu lui stesso a chiedermi scusa. Però quell’avvenimento mi rimase impresso.

Amaraldo e Dorian erano due fratelli di origine albanese, nati e cresciuti a Policoro. erano coetanei rispettivamente di Emanuele e Francesco e di solito bazzicavano le vie vicino a dove abitavano con una terza persona, Salvatore, un altro ragazzino, coetaneo di Giuseppe. Da due anni Amaraldo, Dorian e Salvatore avevano incominciato a prenderci in giro e stuzzicarci, quasi nel tentativo di farci fare a botte con loro. Senza mai riuscirci, ma andandoci spesso molto vicini. Dall’estate del ’97 si era unito a loro anche un altro ragazzo. Michele.

Michele, mio coetaneo, fino a quel momento il mio miglior amico. Poi, pochi giorni di comportamento “strano”, una furiosa litigata e non aveva mai più voluto avere qualcosa di buono a che fare con noi. La prima volta in cui avevo perso un’amicizia in modo così strano. La prima volta in cui l’avevamo persa tutti la sua amicizia. Da cinque, gli inseparabili passarono a 4.

Uno si era separato.

E da quel momento fu una lotta alla pari. Quattro contro quattro.

C’è da dire che correva una profonda differenza tra Noi e Loro.

Eravamo coetanei e più o meno forti nella stessa maniera. Ma loro erano una banda. Avevano come capo indiscusso Michele che, essendo il più grande, aveva preso facilmente il controllo della situazione. E avevano un obiettivo, osteggiare qualunque nostro tentativo di vivere una vacanza tranquilla. Almeno così credevamo.

Noi quattro eravamo amici. Questo eliminava qualsiasi capo indiscusso; il fatto che fossi il più grande era solo il motivo per cui davano più peso alle mie parole, ma non mi ero mai permesso di dare degli ordini a chicchessia, e nessuno aveva mai accettato di fare quello che diceva qualcun altro in virtù di un vincolo di ubbidienza. Mai. E mai sarebbe accaduta una cosa simile.

Il motivo per cui vi sto raccontando tutte queste cose, dovreste averlo già immaginato. Nel preciso istante in cui uscii dall’ipnosi scaturita dal tono persistente e ritmato che fuoriusciva dal telefono non appena Giuseppe me lo sbatté in faccia, capii immediatamente che era successo qualcosa di abbastanza serio, ma che aveva avuto, inevitabilmente, origine da parte di Michele, Amaraldo, Dorian e Salvatore. Ne avrei saputo di più una quarantina di ore dopo, una volta arrivato a Policoro, ma le cose stavano sicuramente così.

Ed ovviamente, dopo una mezz’oretta, mi arrivò proprio il messaggio che tanto aspettavo, da Giuseppe: “CIAO SMN.SCS X 1a MA QI C’è QLK PROB.VORREI KE NON SCENDESSI ADESSO,MA SO KE NN PSS IMPEDIRLO.BN VGG. CIAOCIAO” (Ciao Simone. Scusa per prima ma qui c’è qualche problema. Vorrei che non scendessi adesso, ma so che non posso impedirlo. Buon viaggio. Ciao ciao).

Il vero problema era che questo, unito a tutte le emozioni di quell’ultimo giorno di scuola, invece di farmi passare la voglia di scendere, me l’accrebbero enormemente. E quelle altre 24’ore passarono molto lentamente.

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NdA : Secondo capitolo. grazie a chi ha letto il primo, chi ha recensito il primo, chi ha aggiunto il primo alle storie seguite. Fatemi sapere cosa pensate anche di questo. 

GRAZIE!!

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Capitolo 3
*** PENSIERI & PAROLE ***


3 – PENSIERI E PAROLE

Per me, ogni anno, il viaggio per Policoro, iniziava in un preciso istante: una volta entrato nella Stazione Centrale di Milano. Non appena sentivo, per la prima volta, la voce dell’annunciatore elettronico della stazione, quello che annunciava i treni in arrivo e in partenza, ero in vacanza.

Quella voce mi piaceva troppo. Soprattutto per ciò che quella voce rappresentava. Partenze e arrivi altrui, partenze proprie, incontri, gente che va, gente che viene, io che partivo. Per Policoro. Ecco perché quella voce mi piaceva, perché era l’ultima cosa che mi separava dal treno per Policoro. Dal mio pensiero felice.

Anche quella sera fu così. Avevo prenotato un posto sul treno delle 23. Era tutto pronto per passare le successive dodici ore e mezzo di viaggio. Alle 11:39, speravo, il treno mi avrebbe mollato a Policoro, per continuare la sua lenta ed estenuante corsa fino a Crotone. Un viaggio indimenticabile.

Vi è mai capitato di guardare un film o un documentario che parla dell’India, in cui si vedono quei treni dove le persone si mettono anche sui tetti o fanno viaggi di centinaia di chilometri semplicemente aggrappati al treno con il corpo quasi completamente fuori da quest’ultimo? Ecco, se solo vi fosse successo qualche volta di prendere il famoso Espresso “Freccia del Levante”, che collega ogni notte Milano con Crotone, avreste potuto stentare a riconoscere le differenze. Addirittura avreste potuto riscontrare qualche similitudine nel colore della pelle dei viaggiatori. In quel periodo dell’anno, poi, era semplicemente un delirio riuscire anche solo ad attraversare una carrozza. Ecco perché, ogni volta che scendevo, mi dovevo preparare mentalmente ed emotivamente, fare esercizi di respirazione, soprattutto cercare di escludere, o almeno attutire, il senso dell’olfatto. O, più semplicemente, mi procuravo un raffreddore, almeno per avere il naso tappato e non essere costretto a respirare quell’odore, che, forzatamente dopo otto, nove ore di viaggio, più o meno quando mi risvegliavo, dalle parti di Foggia, era diventato parecchio pesante.

In parte anche per causa mia, devo ammetterlo, ma cosa volete farci, dopo tutto quel tempo passato in uno scompartimento nel quale, se tutto andava bene, c’erano 6 persone, senza aria condizionata e, se andava male, pure con il finestrino rotto, fate il conto che iniziavo a sudare dopo sei minuti scarsi che ero salito sul treno e le temperature raggiungevano i quaranta gradi tranquillamente. Insomma, avrei voluto vedere voi.

Così, quella sera, sceso dall’auto alla stazione centrale, sapevo di avere davanti a me dodici ore e mezzo di “carro bestiame”. Sapevo che non sarebbe stata semplice.

Fortunatamente, l’aria condizionata funzionava, e i bagni non erano intasati. Almeno per le condizioni igieniche fu quasi una passeggiata.

Per la compagnia, come al solito variegata, non mi potevo neanche lamentare. Da Milano a Rimini, c’erano nel mio stesso scompartimento altre cinque persone: due anziane, marito e moglie, il primo che russava e la seconda che recitava il rosario; e c’era una mamma con i due figli, una ragazzina di dodici anni che più o meno in corrispondenza della partenza del treno si era messa ad ascoltare musica a palla, nelle cuffiette che potevano tranquillamente non esistere, e un bambino di quattro che definirlo una peste era fargli un complimento. A Rimini, la madre con i due figli scese e salirono due ragazze e un ragazzo, tutti sulla ventina che arrivavano fino a Sibari. E la situazione si tranquillizzò un pochettino. Verso Ancona mi accorsi che il sonno stava prendendo il sopravvento, e mi concessi un trecento chilometri di riposo. Alle otto precise, non appena partiti da Foggia, mi risvegliai.

Solo allora mi accorsi che i due vecchietti ci avevano lasciati. Nel senso che erano scesi a Foggia. Eravamo rimasti in quattro. E con una buona probabilità saremmo rimasti così fino alla mia meta.

Intanto il paesaggio, fuori, era completamente cambiato.

La sconfinata pianura Padana, aveva lasciato il posto ad una collina che lentamente digradava verso il mare. Azzurro. Come il cielo. Anzi, se possibile, nelle giornate veramente serene e con l’aria secca, un mare che era addirittura meno azzurro del cielo. Poco prima di lasciare il mare per “colpa” del promontorio garganico, poi, quell’ambiente cambiava nuovamente: di nuovo pianura, con solo gli appennini in lontananza, ma senza il mare. Però il cielo, quello, rimaneva sempre uguale e costituiva la differenza maggiore che caratterizzava le due pianure. Ricordo che solo nel sud della penisola ho avuto più di un’occasione di osservare un cielo che potesse definirsi inequivocabilmente “celeste”. A Milano è impossibile. In altri posti pure, ma solo l’Italia costiera può considerarsi a tutti gli effetti “con un cielo privato”, come cantava una canzone del primo decennio del Duemila.

Lentamente ci avvicinammo a Bari. Poi Gioia del Colle e Taranto. E lì il vero cambiamento. Dopo l’estenuante attesa di quei minuti, tempo che cambiassero la motrice, sostituendo quella elettrica con ancora una a gasolio, il treno ripartì. A quel punto la puzza delle raffinerie poste tra la ferrovia ed il porto lasciò il posto al profumo dei pini mediterranei e degli eucalipti che costeggiavano la ferrovia. La carrozza dove ero, di prima classe, non permetteva di abbassare i finestrini. Però quegli odori me li immaginavo tutti.

A quel punto, e definitivamente almeno per me, il paesaggio cambiava nuovamente. Sempre pianura, ma a poche decine di metri dal mare. In certi punti, il terreno scendeva improvvisamente per lasciare il posto all’uscita di un sottopassaggio pedonale che portava, attraversando la ferrovia, direttamente i bagnanti in spiaggia. Ed oramai, trattandosi delle 11 passate, di “traffico” ce n’era parecchio. Mi veniva quasi voglia di tirare il freno di emergenza e buttarmici, in quella distesa fresca e maestosa. Sapevo comunque che sarebbe certamente accaduto il giorno seguente, e nel posto per me migliore. Quindi si trattava solo di avere un po’ di pazienza.

Il treno si allontanò per l’ultima volta dalla costa poco prima di arrivare nella stazione di Metaponto. La prossima volta che avrebbe rivisto il mare, quel treno, avrebbe già avuto un passeggero in meno in quello scompartimento. Sarebbe accaduto solo dopo Nova Siri, una volta entrati nell’ultima regione delle otto attraversate, la Calabria. Il passeggero in meno ero io. E non potevo che esserne estremamente felice.

Finalmente il treno, pochi minuti dopo essere partito da Metaponto, incominciò nuovamente a rallentare. Io presi lo zaino e la valigia, salutai i tre miei ultimi compagni di viaggio e mi appressai alla porta della carrozza.

Finalmente la vista di quella costruzione che si ergeva, imponente, sulla strada statale posta ad una ventina di metri più in basso, il castello baronale, mi diede la conferma del fatto che ero arrivato. Prima il passaggio a livello della strada che portava al Lido “Torremozza” uno dei 3 lidi di Policoro, poi una frenata un po’ più decisa, mi fecero capire che ero arrivato all’ultimo chilometro. Lentamente il treno rallentò, per poi fermarsi.

Inspirai profondamente quell’aria viziata del treno, pochi secondi prima che le porte si aprissero. Scesi praticamente in apnea. Lentamente buttai fuori l’aria. Ero perfettamente cosciente che il prossimo passo, quello della nuova inspirazione, sarebbe stato il suggello della fine del viaggio. Attesi di non poterne più con trepidazione, ansia e piacere estremo. Finché non sentii i polmoni bruciarmi. Poi gli permisi di fare nuovamente il loro lavoro.

Aria nuova entrava nelle mie narici e nella gola. Un’aria che, lo sapevo, mi avrebbe fatto rinascere. In quel preciso istante, qualunque malattia mi avesse colpito, solo poche ore prima, alle vie respiratorie, con quel respiro sarebbe miracolosamente scomparsa. L’aria di mare, l’aria salmastra, il profumo pungente dei pini, e quello delicato e balsamico degli eucalipti, avrebbe raggiunto quell’obiettivo con il minimo sforzo da parte mia. E si sarebbe risvegliato il Simone assopito da 10 mesi di scuola e Milano.

Almeno, questo era quello che riuscivo ad immaginare. Peccato che a volte la realtà diverge malauguratamente dall’immaginazione. E infatti mi bastarono pochi processi logici per giungere alla conclusione che avevo fatto due errori.

Il primo era illudermi di respirare l’aria di Policoro a neanche venti metri da una motrice ferroviaria a gasolio che da sola inquinava più o meno come tutte le automobili di Policoro. La puzza era tremenda, i polmoni ormai intasati e dovetti aspettare almeno una decina di minuti buoni per levarmi dalla bocca l’aroma pesante del fumo di scarico del motore diesel della locomotiva.

Il secondo era che avevo chiesto ai miei nonni di non venire a prendermi e non mandare nessuno. Volevo, gli dissi, guadagnarmelo da solo l’arrivo a Policoro, giusto quell’anno che per primo mi aveva visto arrivarci da solo, senza i miei nonni, partiti la settimana prima per la stessa meta. Capii immediatamente che si era trattato di un tragico errore.

Perché è vero che a Milano, con l’afa e tutto quell’inquinamento, trenta gradi giornalieri vengono avvertiti dal nostro corpo quasi come quaranta. Però quando arrivi a Policoro, e tra capo e collo, scendi da una carrozza condizionata a 23 gradi fissi, e ti ritrovi, di botto, a 42°C, qualcosa succede…

…E quando, come accadde in quel preciso istante, ti accorgi che l’unico pullman che ti può portare in un minuto a casa tua è appena ripartito dalla fermata vicina alla stazione, e quindi capisci che te la devi fare veramente a piedi fino a casa…

…Tanto più che l’ultima traccia di vita, il cellulare l’ha data circa due ore prima, quando hai deciso, altruisticamente e amorevolmente, di dare il buongiorno alla persona che ami più di tutte per poi darle l’impressione di averle chiuso il telefono in faccia quando si è spento, lui e la batteria, proprio nel bel mezzo di un complimento romantico. E quindi non puoi neanche avvisare i nonni di mandare qualcuno a prenderti…

…Se poi consideri che il treno aveva già fatto una buona mezz’ora di ritardo, e, seppur famelico sedicenne, non hai mangiato dalle otto della sera prima, perché in un treno del genere mangiare sarebbe stato passibile di una condanna sicura a morte per infezione…

Volendo usare un eufemismo simpatico, iniziai a parlare da solo, e per fortuna, perché non so quanto altri avrebbero apprezzato le mie parole simpaticamente rivolte al macchinista, alla locomotiva, al pullman, alla batteria, al cellulare ed al Sole.

Decisi di darmi da fare e capii che l’arrivo a Policoro, quell’anno, avrei dovuto sudarmelo nel vero e proprio senso della parola. Dopo circa dieci minuti, uscii dal sottopassaggio che passava sotto la strada statale che costeggia Policoro, ed entrai in città. La maglietta sarebbe stata più bagnata solo uscita dalla lavatrice e, per quanto stavo sudando in quel momento, sembrava proprio che la sua sorte fosse stata decisa inequivocabilmente. Per fortuna, una volta entrato in paese, l’ombra delle prime case mi rinfrancò un attimo.

Passai vicino al caseificio dove venivamo mandati giornalmente da mia nonna, io o mio nonno, a comprare le mozzarelle, poche ma sempre fresche.

Passai vicino ai giardinetti che dividevano la parte più vecchia della città, dalla parte meno vecchia della città. Ma d’altra parte sarebbe stato storicamente e politicamente scorretto parlare di una parte “nuova”.

Vidi l’insegna del panificio dove avrei sicuramente fatto incetta di focacce, calzoni e panzerotti. E poi finalmente le quattro strade senza uscita per le auto, via Bari, via Duni, dove pensai a Francesco ed Emanuele, che abitavano lì. E via Lomonaco. Dove abitava Giuseppe. Alzando un po’ il collo potevo addirittura scorgere un po’ delle inferriate marroni delle finestre del bagno e della camera da letto di casa mia, che davano su quella stessa via.

Pochi metri ancora e poi sarei arrivato alle scale che conducevano alla quarta via, la via dove abitavo io, via Berlingieri, dal nome della famiglia di baroni che aveva avuto in possesso quelle terre sin dal tardo Medioevo e fino al Risorgimento.

Feci appena in tempo ad accorgermi di un movimento sospetto dietro di me, che una mano si appoggiò sulla mia spalla.

“Solo una persona sapeva che stavo arrivando!” dissi, voltandomi.

“Bravo! Hai capito subito che ero io, vero?” disse.

“Ciao Giuseppe!” risposi sorridendo, preoccupato però del suo stato d’animo.

“Non ti abbraccio, visto come sei conciato!” disse ridendo, indicando le chiazze bagnate sulla mia maglietta.

“Grazie dell’accoglienza! Comunque lo so anche io che ho bisogno di una doccia! Ma tu sei arrivato prima che io arrivassi a casa!” risposi.

“Vai pure! È meglio, per tutti e due!” rispose, continuando a prendermi in giro, Giuseppe.

Se non altro, quella conversazione mi fece capire che Giuseppe era ritornato amichevole e scherzoso come sempre. E comunque di buon’umore. Era la cosa che mi interessava di più.

Feci per voltarmi, quando Giuseppe richiamò ancora la mia attenzione.

“Prima che vada devo chiederti una cosa!” disse ancora Giuseppe.

“Dimmi tutto!”

“No! Meglio che te lo dica dopo, volevo solo chiederti se mi vieni a trovare dopo esserti riposato. Non preoccuparti dell’orario” E questa volta era serio. Io non potevo fare altro che rispondere come potevo, dovevo e volevo fare. Come volevo fare da almeno 40 ore.

“Va bene! Ma è qualcosa che ha a che fare con la mia chiamata e il tuo sms dell’altra sera?”

“Si!” mi rispose. Si voltò e se ne andò.

Soddisfatto il bisogno di una conferma, mi ricordai immediatamente degli altri bisogni primari che dovevo soddisfare: lavarmi, mangiare e dormire, almeno per iniziare correttamente quella vacanza. In meno di dieci secondi arrivai a casa, dove i miei nonni mi attendevano ansiosamente. Prima ancora di entrare in doccia ci pensarono loro a farmi lo shampoo per non aver caricato abbastanza il cellulare prima della partenza.

È vero che il cellulare l’avevo lasciato sotto carica dalla sera prima e per tutto il giorno seguente, ma parlare con Maria era comunque stato sufficiente per scaricarlo. Certo era, però, che non avrei mai, per nessun motivo al mondo, rivelato il vero motivo per cui avevo il cellulare scarico. Come non l’avrebbe mai fatto ogni normalissimo quindicenne o sedicenne nella mia stessa situazione.

Mi gustai per qualche minuto il fresco di quella casa, poi, nell’ordine, mi concessi la necessaria doccia, le attese mozzarelle di contorno del pranzo, ed il meritato riposo.

Verso le due, finito di mangiare, mi sdraiai sul letto. Quei due minuti che mi parve di aspettare insonne, si rivelarono gli unici due minuti insonni delle tre ore seguenti, nei quali ero rimasto effettivamente sveglio. A conferma di ciò, la volta successiva che guardai l’orologio posizionato sul comò, vidi che erano da pochi minuti passate le diciassette.

Passati quei due o tre secondi necessari al completo ripristino dell’attività cerebrale, capii che potevo fare solo una cosa. Immediatamente feci lo squillo a Giuseppe, per fargli capire che ero sveglio e pronto per parlare. Mi rispose con un sms, nel quale mi diceva che era a casa, quindi che potevo andare, e mi chiedeva di passare da sotto, cioè non dalla strada, ma dallo scivolo pedonale. Compresi immediatamente che quell’incontro doveva rimanere segreto, e non dovevano venire a conoscenza di quell’incontro persino Francesco e Emanuele, che infatti avrebbero potuto vedermi se fossi arrivato da Giuseppe seguendo la strada e quindi essendo costretto a passare sotto il balcone di casa loro.

Avvisai i miei nonni e uscii. Fuori il sole era caldo, forse un pochino meno della tarda mattinata, quando ero arrivato a casa. Solo che si era alzato un vento, proveniente dall’entroterra, secco e bollente. In giro, a quell’ora, solo qualche macchina incominciava a circolare. Forse qualche turista intraprendente che voleva andare al mare, a rischio della propria vita, o quantomeno della salute.

Neanche quindici secondi dopo essere uscito, mi presentai a casa di Giuseppe. Era solo in casa, il padre era già tornato in officina dopo la pausa per il pranzo e la madre con la sorella erano andate a trovare una parente dall’altra parte di Policoro.

“Ciao! Come va?” mi disse quasi indifferente Giuseppe.

“Bene! Sicuramente meglio di come stavo quando ci siamo visti l’ultima volta!” risposi sorridendo.

Anche Giuseppe mi rispose con un sorriso. Solo che, a differenza di quella stessa mattina, quel sorriso non mi convinceva per niente. Si vedeva che era nervoso. Ci sedemmo in cucina. Giuseppe mi offrì un tè freddo, che accettai più che volentieri. Poi, cosciente del fatto che era decisamente arrivato il momento per scoprire qualcosa di più su quello che stava accadendo, decisi di rompere gli indugi.

“Allora che cosa è successo? Intendo con Michele e gli altri?!” dissi.

“Chi ti ha detto che c’entravano loro?!” chiese.

“Nessuno, a parte te. Chi vuoi che abbia sentito in questi ultimi due giorni?! E poi ti sei comportato con me nello stesso modo solo un’altra volta. E c’entrava Amaraldo. Per quale motivo non dovrebbe centrare anche questa volta?” risposi, prendendo questa volta seriamente in mano la situazione.

Giuseppe, dapprima senza parole, rimase qualche secondo a guardarmi.

“Va bene! Hai ragione. È che quando sento anche solo parlare di loro quattro mi viene il nervoso” disse. Aveva abbassato lo sguardo. Mi sembrò quasi che si stesse vergognando per quello che gli stava succedendo. “È’ successa una cosa che ci ha fatto un po’ preoccupare a tutti e tre, io, Francesco ed Emanuele”.

Allora era vero. Il problema erano ancora Michele e gli altri tre. E questo poteva significare solo una cosa. Guai. Come tutte le volte che di mezzo c’erano quei quattro. Giuseppe mi porse un foglio aggiungendo che “ne è arrivata una copia anche a Emanuele e Francesco. Subito dopo ci siamo visti e abbiamo deciso di andarci”. Il foglio conteneva un invito a recarsi ad un particolare indirizzo il giorno seguente. Era firmato da tutti e quattro i nostri “nemici”. La data dell’appuntamento erano 3 giorni prima della famosa telefonata.

“Ci siamo andati” continuò Giuseppe “e poco dopo arrivarono anche loro quattro. Ci dissero che da quel momento noi tre abitavamo nel loro territorio ed avremmo dovuto ubbidire a qualunque cosa ci avessero chiesto di fare. Senza discutere. E la prima cosa che ci chiedevano era di non avere più alcun rapporto con te”.

“E per questo che mi hai risposto in quel modo l’altra sera?” gli chiesi, quasi mettendomi a ridere.

“No! È che ero così nervoso che ho reagito così. Infatti vedi che appena è stato possibile, te ne ho parlato?” disse.

“Ma voi non gli avete fatto niente?” chiesi ancora.

“No! Eravamo in inferiorità numerica e sinceramente ci hanno proprio preso alla sprovvista!”

“Ma non avete neanche detto niente?” incalzai.

“Neanche! Che gli dovevamo dire?” rispose Giuseppe “a parte che loro hanno finito e se ne sono andati senza neanche lasciarci ribattere”.

“Che cosa avete deciso di fare?”

“Ancora niente. Adesso che ci sei tu siamo sicuri che non ci succederà nulla di male. Ma quando tu te ne andrai? A settembre rimarremo di nuovo soli!” disse Giuseppe. E a quel punto compresi il perché di tutta la preoccupazione del mio amico.

Finché rimanevamo in  parità numerica, eravamo sicuri di poter combattere, almeno, ad armi pari. Ma a settembre, quando sarebbero ritornati in tre, che cosa avrebbero fatto? Di certo Michele e gli altri gliel’avrebbero fatta pagare anche per quello che avrei potuto fare io nel corso dell’estate. Era, evidentemente, una situazione delicata.

“Allora… visto che non ci siamo ufficialmente ancora visti” dissi “stasera, quando voi starete fuori come al solito a chiacchierare, Michele e company arriveranno sicuramente a darvi fastidio. A quel punto interverrò anche io cercando di risolvere immediatamente la situazione con le buone, ma al tempo stesso ripristinando la parità numerica, casomai le cose dovessero precipitare. Sono sicuro che non hanno le spalle coperte. E non sono abbastanza duri da continuare questa storia se vedono che noi ci opponiamo con il giusto carattere. Ecco perché avrei preferito che aveste detto qualcosa”.

“Speriamo che tu abbia ragione. Allora ci vediamo stasera?” chiese Giuseppe.

Bevvi le ultime due gocce di tè e me ne andai. Effettivamente mi accorsi di come e quanto Giuseppe fosse preoccupato per quello che stava accadendo. Si vedeva come mal sopportava quella situazione che erano stati costretti a subire, ma aveva abbastanza paura per agire con le maniere forti. Almeno adesso che c’ero anche io forse poteva esserci qualche speranza in più di risolvere le cose, pacificamente o meno. La cosa che, comunque, mi preoccupava più di tutte era che Giuseppe era ancora piccolo, troppo piccolo, per capire quando era il caso di fermarsi e non andare avanti e quando era necessario procedere oltre con le parole e con le azioni. Capii che, nel momento in cui sarei dovuto intervenire, quella sera stessa, la scelta dei tempi sarebbe stata fondamentale. Perché il rischio era che Giuseppe avrebbe potuto tirare troppo la corda, e le cose si sarebbero complicate velocemente. Mentre, perché il mio piano potesse riuscire, avrebbero dovuto correre quasi il rischio di prenderle prima che potessi intervenire in loro aiuto. Rientrai a casa e rimasi con i miei nonni a chiacchierare per quelle successive due ore. Poi, verso le sette e mezza di sera, come al solito, sentii la voce di Francesco che chiamava Giuseppe. Andai in bagno e da lì, dietro l’inferriata ben chiusa della finestra, al di fuori della consapevolezza della mia presenza da parte dei miei amici, mi misi ad ascoltare quello che accadde.

Francesco, Emanuele e Giuseppe si salutarono. Incominciarono a parlare del più e del meno. Poi, da dietro l’angolo della via, sbucarono Michele, Amaraldo, Dorian e Salvatore.

Quelli lì non avevano avuto neanche il coraggio di muoversi in parità numerica. E questo non era buono. Significava che avevano già sospettato qualcosa, o così volevano farci credere, e che quella sera sarebbe finita alle mani. Dalle scuri della finestra vidi chiaramente Giuseppe che si voltava verso lo scivolo pedonale. Ancora non era il momento, però, per giungere in loro aiuto. Volevo, dovevo vedere dove avevano intenzione di arrivare i nostri nemici.

“Abbiamo saputo” esordì Amaraldo, “che il vostro amichetto è qui!”

Giuseppe si voltò di nuovo, questa volta verso la finestra del mio bagno. Per un attimo mi spaventai. Sembrava quasi che Giuseppe sapesse che mi trovavo lì, proprio dietro quella finestra. Cosa impossibile, pensai. Nessuno sapeva del mio segreto. Nessuno mi poteva vedere da quella posizione. Nessuno sapeva che l’avevo fatto altre volte.

Non perché volessi spiare i miei amici.

A quindici anni la timidezza mi spingeva ancora a non avere neanche la faccia tosta di presentarmi qualche volta a casa loro per chiamarli giù a giocare. Il risultato era che mi posizionavo vicino alla finestra del bagno o della camera da letto e quando vedevo o sentivo che erano usciti mi fiondavo anch’io a raggiungerli. Così qualche volta si erano stupiti del mio tempismo ma non erano mai arrivati a conoscere la verità. Almeno, così pensavo che stessero le cose.

“Spero per voi che non siate stati così idioti da parlargli!” continuò Salvatore, sbattendo il pugno destro con il suo palmo sinistro, con tono di sfida.

Giuseppe si rivolse nuovamente verso lo scivolo.

Mi dispiaceva vedere Giuseppe e i miei amici in difficoltà.

Ma capivo che ancora non era il momento. E speravo che anche Giuseppe stesse condividendo la mia idea.

Fu la volta di Dorian. “Dovremmo farvi molto male se fosse accaduta una cosa simile”.

E poi non accadde più nulla. Solo un prolungato e persistente silenzio. Ecco, fu durante quel silenzio che capii che stava succedendo qualcosa di brutto, molto brutto. Soprattutto per un motivo. Adesso Giuseppe non guardava più da nessuna parte, all’infuori degli occhi di Michele. E questo non andava per niente bene. Stava per fare la scemata, ne ero sicuro. Stava per aprire quella bocca nel modo peggiore possibile. Nel preciso istante in cui mi accorsi che aveva lo sguardo fisso su Michele, compresi che aveva staccato il cervello dalla bocca. Stava partendo in quarta. Avrei voluto urlargli di guardare da qualche altra parte, di distogliere lo sguardo, di non cascarci. Ma non potevo. E capii che comunque non mi avrebbe neanche ascoltato.

“E se anche fosse?” se ne uscì Giuseppe. Silenzio.

“Allora” rispose Michele “credo che stasera ci divertiremo!”, fece, avvicinandosi lentamente a Giuseppe, fissandolo negli occhi. Distrasse solo lo sguardo quando nella penombra della casa che si trovava al loro fianco udì una porta che sbatteva.

La porta che sbatteva ero io. Ero uscito come un pazzo da casa, lasciando intontiti anche i miei nonni.

Michele era a poco più di un metro da Giuseppe. Francesco e Emanuele, inconsapevoli di ciò che stava veramente accadendo si erano posizionati davanti a Giuseppe. Si erano poi spostati lasciando la strada a Michele, quando imperterrito continuava ad avanzare.

Ora Michele era a poco meno di un metro da Giuseppe. “Forse dovrei romperti il naso” disse, continuando a fissarlo. Una goccia di sudore spuntò dalla tempia di Giuseppe. E, finalmente, la mia testa spuntò dallo scivolo pedonale.

“Forse dovresti prendertela con uno della tua stessa età” gli dissi sopraggiungendo. Michele si fermò. Giuseppe ricominciò a respirare, Francesco e Emanuele sentirono le gambe cedere ma fecero il possibile per non farlo vedere. Sapevano che la crisi era passata. Loro.

Sebbene ci fosse così poco spazio tra Giuseppe e Michele, mi inserii tra i due.

Non appena arrivai in quella posizione, cercai di esibirmi nel peggiore e più arrabbiato sguardo che avessi mai lanciato a Michele, che incominciò a indietreggiare. Quello sguardo non poteva e non doveva lascare adito a dubbi. Michele doveva capire che avevo deciso che quello era il momento per risolvere una volta per tutte la questione. Che sarei arrivato, per quella volta, fino in fondo. E Michele sapeva di non avere scampo.

Tutte le volte che, anche se da amici, avevamo fatto finta di fare a botte, anche le volte in cui poi ci facevamo prendere un po’ di più la mano, Michele non aveva mai vinto. Ero più forte di lui. E la stessa cosa poteva dirsi per le altre tre coppie di coetanei, schierati su fronti opposti. Abbassò lo sguardo, arrossì, in parte per l’umiliazione di quel rovesciamento di fronte, in parte per la rabbia che aveva dentro e sapeva di non dover e poter esternare.

“Andiamo!” furono le uniche sue parole dette, a denti stretti. Si voltò e neanche trenta secondi dopo che ero comparso sulla scena i nostri quattro nemici se ne erano andati con la coda fra le gambe.

Appena girarono l’angolo, Francesco e Emanuele si gettarono amichevolmente addosso a me ringraziandomi e salutandomi. Io ci misi tre secondi a farlo. Poi con la stessa faccia tesa e incupita che avevo sfoderato con Michele, mi avvicinai a Giuseppe.

S: “Ma sei cretino a rispondergli così?”

G: “Eh! Tu non arrivavi, non sapevo che fare!”

F: “Scusa ma come facevi a sapere cosa stava succedendo e che doveva arrivare?”

G: “Ci spiava dalla finestra del bagno come fa sempre. Non eravamo d’accordo che dovevi arrivare appena arrivavano Francesco e Emanuele?”

S: “Non ho fatto in tempo perché sono subito arrivati gli altri quattro. E a te cosa costava fare buon viso a cattivo gioco?”

F: “Scusate ma, Simone, tu ci spii?”

G: “Non è il momento! Dovevi arrivare in tempo! Mi sono preso un colpo quando ho visto che non arrivavi!”

S: “Dovevo vedere come andava a finire. Se avessi pensato per un attimo solo che eravate in inferiorità numerica forse avresti, giustamente, concluso che era meglio non farla quell’uscita esasperata ed eroica!”

F: “Si ma tu ci spii dalla finestra del bagno!?”

S: “Sentito Giuseppe? Non è il momento! Giuseppe: non fare mai più un errore del genere!”

“Mii! Oh! Grazie per l’aiuto! Sapere che finiva così avrei preferito farmi picchiare da Michele che da te!” Disse Emanuele, serio; ma la sua frase ottenne il risultato opposto. Perché dopo qualche altro secondo di silenzio, tutti, con una sincronia eccezionale, scoppiammo in una grossa e sonora risata.

La serata passò più o meno tranquillamente. Finalmente potemmo parlare senza nasconderci, senza temere nulla. E questo ci spinse a chiacchierare sempre più amabilmente. Visto che ero stato smascherato da Giuseppe, confidai ai miei amici l’abitudine che avevo di “spiarli” dalle finestre di casa mia. Però spiegai loro anche il motivo e nessuno ebbe ragioni di lamentarsene.

Quella serata si concluse. Salutai i miei amici e ritornai verso casa, questa volta dalla strada che facevo normalmente. Risalii la strada della casa di Giuseppe, presi la prima traversa e poi ridiscesi verso casa mia. Appena girato l’ultimo angolo ebbi quasi un giramento di testa. Mi appoggiai al muro. Era quasi mezzanotte. Nonostante avessi a pochi metri sia i miei nonni che i nostri vicini, riuscii a non farmi accorgere di nulla. Appena arrivato a casa mi misi sul letto.

Me l’ero vista proprio brutta. Era vero che ero riuscito a reggere il gioco con gli altri tre fino ad allora, per quasi tre ore. Ma adesso, nella solitudine del letto, e prima ancora in quella del breve viaggio di ritorno a casa, avevo risentito tutto il peso di quell’esperienza sulle mie spalle, ancora troppo piccole per potermi permettere di portarla tutto solo. Quella sera per la prima volta avevo avuto veramente paura. Ne avrei avuta ancora, e molto più forte, di paura. Ma io ero una persona tranquilla. Con l’intelligenza e l’astuzia ero sempre riuscito ad evitare di fare a botte. E quella era una cosa della quale potevo ben vantarmi in una scuola come la mia, nella quale la rissa era la maggior causa di sospensione per gli studenti, compresi alcuni miei compagni di classe.

Certo era che, quando sentii Giuseppe pronunciare quella frase, quel “E se anche fosse?”, istintivamente mi ero gettato in aiuto dei miei amici.  Ero sicuro che, se non lo avessi fatto, Michele avrebbe potuto facilmente e tranquillamente fare del male agli altri tre. Soprattutto a Giuseppe, che l’aveva sfidato così apertamente. Michele sarebbe arrivato al punto di rompergli il naso, a Giuseppe. E, per quanto fossi arrivato dai tre assolutamente pronto a passare alle mani se la situazione lo avesse richiesto, non ero assolutamente certo di potermi guadagnare la vittoria. D’altra parte con Michele non avevamo avuto più nessuno scontro. E sarebbe bastato un po’ di esercizio in più e qualche mese di vantaggio sulla naturale crescita fisica per avere velocemente la meglio su di me. Mi parve allora strana la reazione di Michele. Però era stata la meno attesa, ma di certo migliore di qualunque altra avessi potuto immaginare: la fuga. Perché era scappato? Forse neanche lui era così sicuro della sua forza. Indipendentemente da questo, però, mentre procedevo lungo lo scivolo pedonale, me lo ero chiesto tante, tantissime volte: -ma chi me lo fa fare?-

La risposta migliore era “l’amicizia”. Certamente i miei amici avrebbero fatto la stessa cosa se fosse accaduto il contrario. Ma solo l’adrenalina che avevo nel sangue poteva avermi spinto a terminare lo scivolo e fare tutto quello che avevo fatto dopo. E non era stata l’amicizia l’unica cosa che aveva scatenato la scarica di adrenalina. Ero anche profondamente arrabbiato con Michele. Era ormai troppo tempo che non lo capivo più. Ero assolutamente sicuro del fatto che non avevo mai provato quelle sensazioni e una paura simile.

Mi ricordai di quando una volta, mio padre, parlandomi di quando avrei potuto trovarmi in situazioni simili, mi disse chiaramente come dovevo comportarmi. Mai incominciare a fare a botte, mai provocare. Ma, nella malaugurata ipotesi di subire un attacco, difendersi picchiando, forte e bene. E quello ero stato disposto a fare in quel momento. Se Michele m’avesse attaccato, io non solo mi sarei difeso, ma sarei stato disposto a farlo fino al punto di far passare una volte per tutte a quei ragazzini la voglia di darci fastidio. Altrimenti non sarebbe servito a nulla, esattamente come prenderle come un bambino. La cosa che mi spaventò di più fu che provavo quella sensazione per la prima volta in vita mia. E, se da una parte mi vergognavo molto di quei sentimenti, d’altra parte avevo compreso che, tanto, prima o poi, sarebbe dovuto arrivare il momento di farlo. Meglio a Policoro con un mio coetaneo e altri tre mocciosi, che a Milano con qualche bullo maggiorenne della mia scuola, come, per’altro, era successo proprio a Vito e Nicola.

Forte di questa opinione, riuscii finalmente a trovare la calma emotiva e mentale necessaria per addormentarmi. E ci riuscii.

 

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“Perché non ha picchiato subito quell’idiota?”

“Non lo so, Capo! Forse ha iniziato a capire che non è poi tanto un idiota”

“Va bene! Allora, quando inizi ad avere la certezza che non si tratta solo di rispetto ma inizia ad avere paura di lui, passa pure alla fase due”

“Ok Capo!”

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NdA : Buoangiorno! Ecco il punto di non ritorno (anche se ce ne saranno parecchi nella storia). i giochi sono fatti. Mi raccomando: fatemi sapere cosa ne pensate... ciao!

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Capitolo 4
*** Quando la banda passò ***


4 – QUANDO LA BANDA PASSO’

La cosa strana era che, sebbene legati da una forte amicizia e dal desiderio di passare del tempo insieme, non è che ci riuscissimo spesso, oltre all’appuntamento fisso e improrogabile delle sere. Durante la mattinata non ci vedevamo mai, spalmati, come eravamo, sui lidi di Policoro, inconsapevoli della presenza degli altri del gruppo al mare e altrettanto desiderosi di andarci. Il pomeriggio in realtà, a parte me e Giuseppe che riuscivamo a stare insieme spesso, avevamo solo da un anno incominciato a studiare insieme, anche se materie e libri diversi.

Sostanzialmente, l’unico periodo della giornata in cui riuscivamo a stare insieme era la sera. Più o meno verso le sette e mezza, con l’aria un po’ più fresca, ci si trovava fuori casa di Giuseppe e si incominciava a giocare o chiacchierare con le altre ragazze vicine di casa, soprattutto Annalisa e Francesca. Poi alle otto spaccate io ricevevo la chiamata dei nonni, per la cena e non ci si vedeva per un’oretta buona, perché prima mangiavo io, poi verso le otto e mezza, anche i miei amici. Alle nove ci si trovava di nuovo tutti insieme e si stava insieme fino a mezzanotte.

Quando si era più piccoli a giocare a palla, nascondino, e tutti i giochi da bambini. Essendo la via di Giuseppe una strada chiusa e circondata da due schiere di case, era un posto sufficientemente tranquillo e che non permetteva il passaggio delle macchine. Ogni anno, verso la metà di Agosto, ci si organizzava addirittura la tavolata e ci si mangiava la carne, magari guardando alla televisione qualche incontro sportivo. Trenta persone, cinque o sei famiglie che si divertivano fino all’una, le due, senza disturbare nessuno.

Poi, verso i miei dodici, tredici anni, avevamo incominciato a passeggiare, con gli altri per le strade limitrofe, oltre che semplicemente utilizzarle come territorio per giocare a nascondino. Finché ci accorgemmo che quelle strade erano troppo grandi per essere il territorio di una partita a nascondino. Cioè una persona, da sola, non riusciva mai a vincere contro quelli che si nascondevano. Il risultato fu che ci annoiammo sempre di più di giocarci.

Un giorno, a Emanuele, venne un idea pazza: unire “nascondino” con “Guardie e ladri”. Cioè invertire i ruoli del nascondino. In pratica uno si nascondeva e gli altri lo dovevano, in quell’immenso territorio, scovare e prendere. Vinceva il gioco chi riusciva a rimanere nascosto per più tempo.

Sembrava un gioco come tutti gli altri, ma con il tempo rivelò alcune caratteristiche e peculiarità di ciascuno di noi.

Ad esempio sia Francesco che Emanuele impararono con quel gioco, a pedinare e seguire, senza essere scoperti, qualcuno.

Giuseppe imparò a trovare sempre una soluzione alternativa per evitare una certa situazione, come quando si ingegnava a trovare una via di fuga per non essere acciuffato dagli altri. E ci riusciva praticamente sempre.

Io accrebbi la mia capacità di soluzione di problemi, di osservare e di esaminare tutte le variabili per trovare la via migliore per agire.

Soprattutto tutti imparammo a lavorare in gruppo. E apprezzammo il piacere di farlo. Così tanto, che dopo un estate di gioco, quando avevo tredici anni, quindi due anni prima di quello dei fatti che vi sto raccontando, dovemmo stabilire delle regole, perché nessuno più voleva andare a nascondersi, amando di più il gusto di partecipare con tutti gli altri alle ricerche.

Francesco suggerì una soluzione semplice alla questione. Bastava che ad uscire fossimo, a turno, tutti. In ordine alfabetico.

Gli unici a non essere d’accordo con questo gioco, che ci faceva scorrazzare da soli per quelle vie, erano i vari genitori e nonni. Per tranquillizzarli, anche se avevamo già acquisito quell’arroganza adolescenziale da pensare che non ce ne sarebbe mai stato bisogno, decidemmo che in caso qualcuno di noi si fosse trovato in pericolo, avremmo dovuto fare tre fischi brevi e ravvicinati. Le ragazze erano quelle che sapevano fischiare meglio. Questo segnale, annullava automaticamente la mano, interrompeva il gioco e faceva muovere tutti verso il luogo da cui era stato emesso il fischio. Regola che, comunque, non ci era mai capitato di dover utilizzare, se non per rassicurare i vari genitori e nonni.

Qualche sera dopo il mio arrivo, eravamo, appunto, a giocare a nascondino al contrario. Era quasi mezzanotte, il che significava che nel nostro “campo di gioco” passava solo una macchina ogni tanto. Era il mio turno. Sebbene, come tutti gli altri, provassi più gusto nel cercare che nel nascondermi, stavo provando diverse tattiche che mi permettevano di vincere la mia stessa tattica di ricerca che usavo quando ero dall’altra parte. Insomma, combattevo contro me stesso. E stavo pure vincendo, perché erano dieci minuti buoni che mi ero reso assolutamente invisibile dallo sguardo dei miei amici, soprattutto quello attento di Emanuele. Quello era più o meno il momento in cui iniziavo ad annoiarmi. Di solito a quel punto mi stufavo di essere cercato, se ci arrivavo, e trovavo il modo di farmi trovare. Così poi toccava ad Annalisa, che veniva puntualmente trovata entro i primi trenta secondi. E poi passava il turno di Emanuele, che, sotto quell’aspetto, era un osso duro.

Secondo i miei calcoli, avendo visto passare, proprio qualche secondo prima, Giuseppe dalla via che stava più in alto rispetto a quella nella quale mi trovavo, capii che nessun’altro avrebbe potuto trovarmi prima di un paio di minuti, perché Giuseppe, il più acuto ed il più veloce del gruppo, veniva mandato alla mia ricerca da solo. Quindi tutti gli altri sarebbero stati praticamente dall’altra parte del campo di gioco. E Giuseppe difficilmente sarebbe ritornato sui propri passi, se non insospettito da qualcosa che, comunque, non avevo fatto.

Udii nitidamente due fischi. Il terzo fu strozzato. Sobbalzai, quando compresi da che direzione stavano arrivando. Ero indubbiamente il più vicino. Quindi mi avvicinai lentamente all’incrocio. Riuscii a sporgermi appena per vedere quello che stava succedendo. E rabbrividire. Dorian aveva preso Giuseppe e, dopo avergli sferrato un pugno in pancia lo teneva premuto contro il muro. Al suo fianco c’era Michele. I due erano, evidentemente da soli. Compresi che la paura che avevo provato solo pochi giorni prima non era niente a confronto con quella che stavo provando in quel momento.

Che cosa volevano da Giuseppe?

E gli altri avevano sentito i fischi? Tutti e tre?

E se la risposta a quest’ultima domanda era affermativa, quanto ancora avrei dovuto attendere per ricevere l’aiuto e l’appoggio di Francesco e Emanuele?

Purtroppo quelle domande, nella mia mente, rimasero per pochissimi secondi, soppiantate immediatamente dallo spavento e dal dolore per un pugno allo stomaco, e un coltellino puntato alla pancia subito dopo da Salvatore. Una mano mi prelevò dal nascondiglio improvvisato che era stata quella via. Era Michele. Puntandomi lui, a questo punto, un coltellino al viso, mi costrinse a raggiungere Giuseppe con le spalle contro il muro.

“Bene! Abbiamo qui il capo! E siamo anche in superiorità numerica!” disse Salvatore ridendo mentre la stessa sensazione del coltellino la ebbe Giuseppe, vedendo di fronte a sé Dorian.

“Cosa pensate di farci?” chiesi con il tono più calmo che mi venne fuori in quel momento.

Michele mi buttò una sbuffata di fumo di sigaretta addosso. Aveva anche incominciato a fumare adesso? Pensai in un momento di lucidità.

“Farvela pagare!” disse. “Avete qualche idea?” propose ai due ragazzini che si era portato dietro in quella che stava sempre più prendendo la forma di una vendetta.

“Sfiguriamoli, con il coltellino o con una sigaretta!” fu la proposta di Salvatore.

“Rompiamogli il naso a tutti e due” quella di Dorian.

“Avevo in mente qualcosa di meno doloroso, ma più umiliante!” aggiunse Michele.

Io e Giuseppe ci guardammo attoniti. La paura non aveva smesso di crescere. E sentimmo contemporaneamente cederci le gambe quando Michele continuò.

“Stasera tornate a casa nudi!” fu la semplice e lapidaria sentenza di Michele. Seguita da un ordine. “Spogliatevi!”.

Per un attimo mi parve di non aver capito bene la loro richiesta. Se in un qualsiasi altro momento, una cosa del genere sarebbe stata ampiamente fuori discussione, in quella situazione rasentava l’inverosimile. Cosa voleva dimostrare Michele con quell’azione? La sua supremazia nei nostri confronti? La loro forza? O voleva semplicemente umiliarci? Giuseppe, lo sapevo, non avrebbe mai acconsentito facilmente a fare una cosa del genere. Anche se il coltello dalla parte del manico che avevano in quel momento era un buon deterrente per la disubbidienza. Ma perché? Che bisogno c’era di umiliarci così?

Ebbi un flash-back. Mi ricordai che quattro anni prima, quando ero in prima media, era successa proprio una cosa del genere. Un mio compagno di classe, un mio amico, almeno così credevo, nel giro di qualche giorno aveva incominciato a prendermi in giro, prima leggermente, poi con prese in giro sempre più pesanti. Aveva incominciato a fare il bullo con diversi di noi in classe, me compreso. E alla fine di una lezione di educazione fisica, davanti a tutti i miei compagni di classe, mi ordinò di spogliarmi completamente. Fortunatamente in quell’occasione la fine dell’incontro fu fischiata dal professore che risolse la questione.

Qui, però, professori non ce n’erano. Scuole neanche. C’erano i coltellini, però. Ed eravamo in due contro tre.

Passai pochi secondi immerso in quei pensieri che, grazie ancora una volta alla nostra amicizia, bastarono.

Due rumori cupi, due coltelli che tintinnavano cadendo dalle mani dei loro proprietari, il lamento di dolore di entrambi. Dorian e Michele si inginocchiarono per un momento in preda al dolore alla mano destra che era evidentemente contusa. Fortunatamente io e Giuseppe eravamo in preda ad una paura fortissima ma non nel panico, perché in un momento prendemmo in mano i coltelli. Salvatore purtroppo aveva già iniziato la fuga, anche se un sasso velocissimo raggiunse anche lui, questa volta sul sedere, e lo fece saltare, urlare e correre via più velocemente. Giuseppe non lo rincorse neppure, poi con una complicità sempre esistita gli bastò uno sguardo con me per capire quello che era successo.

“Allora li avete sentiti anche voi i fischi?” chiese Giuseppe.

“Si! Anche l’ultimo, che ci ha preoccupati ancora di più. Così siamo accorsi, ma eravamo dall’altra parte del campo di gioco e soprattutto siamo dovuti, per sicurezza, passare da casa! Direi che abbiamo fatto bene!” disse Emanuele.

“Benissimo! Anche se adesso anche i nostri nemici sanno della vostra mira infallibile con la fionda. Spero per questo che non cercheranno di scappare”.

Francesco, che, dopo aver disarmato con la fionda Dorian aveva anche ricaricato e colpito Salvatore, ricaricò nuovamente la propria arma. Emanuele, che aveva disarmato Michele, immediatamente dopo averla ricaricata, continuava a tenerlo sotto tiro. Giuseppe fece alzare Dorian. Puntandogli il coltello allo stomaco e forte della mira di Francesco, gli fece un’offerta che non poteva rifiutare. “Se te ne vai ora, forse non ti accadrà nulla”.

Dorian non se lo fece ripetere due volte. Appena Giuseppe abbassò l’arma corse via, lasciando solo Michele e prendendosi anche lui il suo sasso sul sedere. Io feci alzare Michele e conservai il coltello in tasca. I due fratelli, da ormai pochi metri di distanza, lo tenevano sotto tiro ed io e Giuseppe sapevamo, come d’altro canto lo stesso Michele da qualche secondo poteva ben immaginare, che ogni tentativo di fuga o di aggressione nei confronti di uno dei due avrebbe comportato il pericolo di farsi male sul serio. Guardai negli occhi Michele e sorrisi. Ce l’eravamo vista proprio brutta. Menomale che Francesco e Emanuele erano arrivati giusto in tempo. Ma ora che il pericolo era passato, era andata via la paura ed era rimasta solo la rabbia per quello che Michele e i suoi avevano voluto e provato a farci, era giunto il momento di dargli una lezione. Una di quelle lezioni che non avrebbe mai più dimenticato. E parlai.

“Così volevi umiliarci davanti a tutti? Beh! non ci sei riuscito! Ti è andata male! Prima di tutto i nostri amici si sono dimostrati veri amici. Sono accorsi in nostro aiuto e non hanno esitato un solo istante per agire con le loro migliori risorse, per salvarci. Poi complimenti per i tuoi amici. Non hanno esitato un solo istante per scappare e lasciarti da solo. Beh! Con degli amici del genere facevi bene ad avere paura di me l’altra sera. Non riesci a farti rispettare neanche da quelli che consideri tuoi sottoposti. Come pensi di meritarti il rispetto di noi, o farci paura?”

Michele, che all’inizio aveva retto lo sguardo, ora l’aveva nuovamente abbassato e le braccia penzoloni ai fianchi dimostravano la sua debolezza in quel momento. Se non fisica, sicuramente emotiva. Io me ne accorsi e, in un impeto di benevolenza, avevo quasi deciso di lasciarlo andare. Ma accadde qualcosa che mi fece cambiare idea. Michele, forse anche in preda di un pizzico di vergogna per quella situazione così capovolta e perché comprese che, almeno per quanto riguardava l’amicizia, avevo ragione, disse una cosa.

“Tanto prima o poi succederà che ti troverò da solo. Guardati le spalle, perché quando meno te lo aspetti ti trovo e ti ammazzo di botte!” e alzò lo sguardo verso di me. Se solo l’avesse fatto prima di dire quella frase, si sarebbe morso la lingua pur di non usarla così male. Avevo fatto appena in tempo a ritornare solare e simpatico come sempre. Come ero sempre stato anche con lui, quando eravamo amici. Solo che, appena sentito quella frase, di nuovo per quella serata, cambiai espressione.

Ora ero arrabbiato. Molto arrabbiato. Anzi, ero arrabbiato come non lo ero stato mai nei primi sedici anni della mia vita. Perché, per la prima volta in vita mia, avevo capito pienamente le parole di mio padre. Capii cosa significava “picchiare forte e bene” in quella situazione. Capii che avevo sbagliato, perché con persone del genere, per quanto il passato possa in qualche caso costituire un’attenuante, sebbene l’amicizia che ci legava fino a due anni prima fosse forte e genuina, ormai, le parole, per quanto pesanti e serie come quelle che avevo appena detto, non servivano a molto. Capii che era il momento di lasciare spazio alle azioni. Ponderate, si, ma il segnale doveva essere forte. Quasi istintivamente, quindi, la mia espressione facciale ritornò quella cattiva e da bullo che avevo visto tante volte in certi miei compagni di classe e che ora dovevo, per forza, mostrare anche con lui.

“Bene! Te la sei cercata. Stavo per lasciarti andare, come con gli altri, punendoti come gli altri. Francesco, o Emanuele, o entrambi, ti avrebbero fatto la stessa cosa che hanno subito i tuoi soci e tutto sarebbe finito lì. Ma con questa ultima frase hai commesso un grossissimo errore. E adesso la paghi. Con la stessa moneta che volevi farci pagare. Ragazzi? Mirate alla testa!” dissi, rivolgendo questa ultima frase ai due armati. I due eseguirono immediatamente. Capirono che a quella distanza l’avrebbero ammazzato, ma non avremmo mai permesso che accadesse una cosa del genere. Era solo un modo per dissuadere Michele dal giocare brutti scherzi.

“Visto che prima sei stato tu a pensare ad una cosa meno dolorosa ma più umiliante, adesso ci passerai tu. Se tra due minuti non sei completamente nudo, i due, al mio fianco, lasceranno partire il colpo, e ti faranno molto male, se non peggio!” conclusi.

A Michele veniva quasi da piangere. Sia per la situazione, che per l’umiliazione che avrebbe provato di lì a poco. Ma vedendo lo sguardo deciso di tutti e quattro i suoi nemici non poté fare altro che ubbidire. Neanche un minuto dopo, rosso in volto e con le mani a coprirsi d’avanti, era nudo, come ordinato, davanti a noi. I vestiti accatastati in un mucchio al suo fianco. Giuseppe quasi divertito da quella situazione palesemente vittoriosa per noi, tirò fuori il cellulare per fargli una foto. Feci appena in tempo a bloccarlo.

“No! Questo è un comportamento tipico di loro. Potremmo farlo e avremmo di che farlo vergognare per tutta la vita. Ma noi non siamo come loro. Merita una lezione, ma voglio dargli l’opportunità di cambiare atteggiamento e non costringerlo con i ricatti a farlo” dissi.

Michele guardò la scena e avvampò ancora di più. La rabbia e l’imbarazzo dovuti all’umiliazione fisica che stava subendo, si erano uniti all’umiliazione morale di quelle frasi, che adesso lo colpivano peggio dei sassi con cui avrebbero potuto colpirlo quei quattro ex-amici. Perché loro avevano veramente pensato di fargli fare quella fine. Compresa di foto e ricatti e umiliazioni conseguenti. Adesso invece, l’unica cosa che voleva era tornare a casa.

“Posso andare?” fu l’unica frase che gli uscì.

“Aspetta” disse Giuseppe.

Si avvicinò ai vestiti di Michele, frugò nei pantaloni, prese il portafogli, il cellulare, sfilò la cintura, e prese le scarpe. Prese infine l’accendino dalla tasca della camicia, lasciando nella stessa tasca le sigarette. E accese l’accendino.

“Digli addio!” disse, rivolgendosi a Michele, e contemporaneamente dando fuoco a tutti i vestiti e alle sigarette in essa contenute. Neanche un minuto dopo i vestiti erano completamente bruciati. Appoggiò il resto dei possedimenti di Michele ai piedi di quest’ultimo e gli diede il permesso di andare. Questi prese la sua roba, e, cercando di coprirsi come poteva, scappò via. Appena voltate le spalle, Emanuele e Francesco rilasciarono il loro colpo. E mentre Michele correva via, iniziando a nascondersi tra le macchine, divennero quasi immediatamente ben visibili due chiazze rossastre sui suoi glutei. Appena scomparso dalla loro vista, io e Giuseppe gettammo immediatamente a terra dietro una macchina i coltelli. Francesco e Emanuele abbassarono le armi, riponendole in tasca. Ognuno se ne andò verso casa sua, stranamente senza alcuna voglia di parlare. Prima di dividersi, però io sentii il bisogno di farlo.

“Quello che abbiamo fatto oggi, in nessun altro caso dovremo farlo. Spero solo che questo estremo rimedio abbia messo fine a questo discorso!”. Evidentemente questo servì a rasserenare gli animi degli altri tre. Ci sentimmo tutti e quattro uniti in quel pensiero e con quella speranza. Di veder finita una volta per tutte quella storia. Ma le emozioni, per quella sera, erano veramente state troppe. Ce ne andammo, quindi, ciascuno a casa propria.

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Buongiorno/sera/notte a tutti!! tornati dalle vacanze, questo è il quarto capitolo. Attendo ansiosamente di sapere cosa ne pensate!!! CIAOOO

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Capitolo 5
*** Teorema ***


5 - TEOREMA

Michele si nascose dietro ad una macchina. Aveva fatto poche decine di metri, ne mancavano più di duecento, prima di arrivare a casa sua. Ebbe un’idea. Avendogli lasciato il telefono, avrebbe potuto telefonare ad uno dei suoi per farsi portare qualcosa. Forse, visto che Amaraldo conosceva sua madre, poteva mandarlo, senza destare troppi sospetti, a casa sua, a prendergli qualcosa per rivestirsi. Prese il cellulare e aprì la rubrica.

-Bastardo fino in fondo! Mi ha cancellato tutti i dati del telefono!- pensò un istante dopo, vedendo fallire il suo piano.

Sentì dei rumori. Dei ragazzini, avranno avuto l’età di Salvatore, 13 anni. Stavano per passare proprio vicino alla macchina dove si trovava rannicchiato. Fortunatamente erano in mezzo alla strada, perché sarebbe bastato che fossero sul marciapiede e che nel frattempo passasse un’auto dalla strada per farsi vedere, o da loro o dal conducente dell’auto. Decise che sarebbe stato meglio infilarsi sotto la macchina, per non farsi vedere. Avrebbe aspettato lì finché fosse stato possibile. Poi, a notte fonda, avrebbe corsoil più velocemente possibile verso casa sua. Sperando di non incontrare nessuno. Passò un quarto d’ora; poi vide delle scarpe conosciute. Era Amaraldo. Finalmente qualcuno che veniva a cercarlo. Si sporse un attimo e gli fece un cenno. Amaraldo quasi non lo riconobbe, ma quando lo vide gli prese un colpo. Gli corse incontro e man mano che si avvicinava sempre più capì anche la gravità della situazione. Gli venne perentoriamente ordinato di non avvicinarsi ulteriormente.

“Vai a casa mia, entra nella mia camera e prendimi un paio di pantaloni e una camicia. Immediatamente!” disse Michele.

Amaraldo tornò indietro e due minuti dopo era di nuovo a quella macchina, con i vestiti del suo capo. Il tempo di infilarsi i pantaloni e Michele uscì, conquistando nuovamente la libertà di muoversi come e dove voleva. Senza neanche ringraziare, spedì Amaraldo a casa e gli intimò di non raccontare a nessuno quello che era successo. Se ne tornò a casa anche lui. Fece appena in tempo a tornare a casa, che corse in bagno per vomitare. Stette per dieci minuti buoni in bagno, sudando freddo e nella morsa impietosa di un mal di testa atroce.

-Me la pagheranno! Me la pagheranno tutti! Voglio fargliela pagare per tutto quello che hanno fatto!- furono le uniche cose che pensò con la testa ancora riversa sul gabinetto. Si riprese, fece una doccia e se ne andò a letto. Quella giornata era stata troppo anche per lui.

Il mattino seguente venne svegliato da sua madre per andare al mare, ma lui le disse che non si sentiva bene e che sarebbe rimasto a casa. Poco prima che sua madre e sua sorella se ne andassero sentì di nuovo bussare alla porta della sua camera.

“C’è Amaraldo che è venuto a trovarti, sei presentabile?” chiese sua madre.

Nessuna risposta.

Visto che anche a lei non andava a genio il comportamento del figlio in quegli ultimi mesi, la madre lasciò Amaraldo alla porta della camera di Michele.

“Vedi tu se riesci a farlo ragionare un po’” disse al ragazzino. E se ne andò.

“Non si preoccupi signora!” rispose rispettosamente Amaraldo. Attese poi che la donna uscisse e chiudesse la porta di casa, poi bussò alla porta del suo amico.

“Miché! Posso entrare?”

Anche lui non ottenne nessuna risposta. Più indispettito che preoccupato, allora, aprì la porta. Entrò nella camera in penombra. La tapparella, quasi completamente abbassata e la finestra aperta facevano ombra e lasciavano entrare ancora un po’ di aria, solamente tiepida, del mattino. La camera di Michele non era una novità per Amaraldo, che l’aveva vista la sera prima, quando era venuto a prendere i vestiti. Si era già accorto di alcuni particolari, come l’ordine e il pulito che la caratterizzavano, pure troppo per un sedicenne.

Quella figura, sdraiata sul letto, supina, con le mani dietro la testa e i piedi incrociati, con un pantaloncino e una maglietta che in quel periodo dell’anno bastavano e avanzavano come pigiama, sembrò accorgersi solo dopo qualche secondo della presenza del suo amico. Poi la mente ritornò alla sera precedente e tra sé e sé si chiese se anche Amaraldo l’avrebbe lasciato solo in quella situazione. Ritornò serio. “Che vuoi?”

“Niente! Volevo vedere come stavi. Ieri mi sembravi piuttosto turbato. Poi Dorian mi ha raccontato quello che è successo. E avendoti visto di persona, dopo, ho collegato e ho capito il resto. Cosa pensi di fare?”

Michele si sedette sul letto. Si stiracchiò e sbadigliò. Si alzò e andò in bagno, come se niente fosse. Come se in camera sua non ci fosse stato nessuno e come se non gli fosse stata rivolta alcuna domanda. Dopo venti minuti ne uscì, in accappatoio, lavato e rasato. Andò in cucina, si versò il caffè che era rimasto nella caffettiera, e lo bevve, amaro.

Ritornò in camera sua tirò fuori da un cassetto il costume da bagno e una maglietta.

“Esci!” disse ad Amaraldo. Questi però non uscì. Michele era rivolto verso il muro, Amaraldo alle sue spalle e di spalle. Non potevano vedersi. Però Amaraldo scorse in quell’ordine, dato dal suo capo, un brivido. Come se gli stesse dicendo di uscire con le lacrime agli occhi. Effettivamente, ed improvvisamente, Michele si accasciò a terra cedendo ad un pianto sommesso e doloroso.

Amaraldo sorrise per qualche secondo, pensando a quanto quella persona fosse debole, debosciata, inutile. Peccato che proprio quella persona, in quel momento, era la chiave di tutto, quindi doveva reggere il gioco. Il sorriso, allora, si spense e un’espressione preoccupata e coinvolta comparì sul suo volto.

Immediatamente Amaraldo si avvicinò a Michele.

“Esci per favore!” disse nuovamente Michele. Piangendo. Ma Amaraldo si avvicinò a lui, gli mise una mano sulla spalla e lo fece rialzare. Si sedettero entrambi sul letto.

Michele, per la prima volta, sentì l’estremo bisogno di qualcuno che gli stesse vicino. Fortunatamente c’era Amaraldo. Come era sempre accaduto in quegli ultimi anni. Pianse per qualche altro minuto. Raccontò al suo amico tutto. Di come gli fosse sembrata un’ottima idea quella suggerita da Amaraldo stesso, cioè quella spedizione punitiva verso i loro nemici, che prima trovarono Giuseppe e poi catturarono anche Simone. Di come era accaduto il ribaltamento della situazione e di come arrivò al punto di esultare per aver visto la sua figura da sotto quella macchina. Quello di qualcuno che lo poteva togliere da quella situazione imbarazzante.

“Certo” aggiunse, calmandosi, “se invece di andare a giocare a calcetto fossi venuto con noi, adesso forse ci sarebbero stati loro in questa stessa situazione e noi avremmo riso alle loro spalle per una vita”.

“Lo so! Ma non preoccuparti! Gliela faremo pagare!” disse Amaraldo.

Un velo di paura coprì il volto di Michele, mentre un brivido gli scese lungo tutta la schiena.

“No! Non voglio fare niente! Per me sono un capitolo chiuso! Facessero quello che vogliono! Non li disturberemo più!”

“Come!? Loro ti hanno umiliato in quel modo! Ti hanno anche fatto male fisicamente oltre che emotivamente. Anche a mio fratello e Salvatore. Non possiamo fargliela passare franca” rispose immediatamente Amaraldo, vedendo, per un attimo, fallire il suo compito.

“No! Non mi interessa! Devo chiarire una volta per tutte il discorso con Simone. Ho aspettato troppo e mi sono lasciato prendere la mano. Questa storia deve finire subito. Anzi! Non vengo neanche al mare. Forse sono ancora in tempo a correre a casa sua e parlare con lui!”

Certo, se fosse accaduta una cosa del genere, non osava lontanamente immaginare le conseguenze per lui. Doveva fare qualcosa. E subito. Mise una mano sulla spalla dell’altro. Abbassò la voce, e avvicinò lentamente il viso a quello dell’altro. Esattamente come era stato addestrato a fare. Sapeva che avrebbe funzionato.

“Hai ragione” gli disse a voce quasi invisibile. “Ma pensa a quello che ti hanno fatto. Pensa a come ti sei sentito quando ti hanno fatto spogliare e scappare via. Pensa a quello che sentivi mentre davano fuoco ai vestiti. Pensa a come ti senti ogni volta che vedi Simone! Te l’ho detto tante volte. Io ti voglio bene. Avrei preferito esserci io al tuo posto, ieri sera, piuttosto che vederti soffrire così. Te l’ho già detto tante volte. Tu sei molto migliore di Simone. Sei meglio di tutti loro messi assieme. Noi insieme possiamo fare qualsiasi cosa. Nessuno può, né deve permettersi di fermarci. Neanche una piccola persona come Simone. Quello che ha fatto ieri è imperdonabile. Deve pagarla. E devi essere tu a fargliela pagare. Rispecchia semplicemente l’ordine naturale delle cose. Il più forte sottomette sempre il più debole. Tu sei il più forte. Noi siamo i più forti. E nessuno, neanche quell’infimo animale che tu chiami Simone, deve permettersi di mettere in dubbio questo!”

Michele lo osservava fisso negli occhi. Amaraldo gli aveva preso la testa fra le mani e l’aveva costretto a fissarlo. Quegli occhi riuscivano incredibilmente a incutergli timore. Ogni volta che il suo amico aveva quello sguardo, Michele veniva preso da un sentimento di paura e debolezza. Però, la logica stringente di tutte le cose che Amaraldo gli diceva mentre lo guardava così, l’aveva sempre dissuaso dal reagire violentemente. Probabilmente se qualsiasi altra persona si fosse solo azzardata a guardarlo così, l’avrebbe sicuramente picchiata. Ma Amaraldo no. Quello sguardo rivelava una forza, una convinzione che lui a volte non aveva, ma che grazie a quello sguardo aveva sempre riacquistato. Ripensò per un attimo a Simone. Lui non si sarebbe mai permesso di arrivare anche solo a quel punto. L’amicizia tra loro due era stata molto diversa. Simone era stato l’unica persona che aveva sempre e tranquillamente visto come un suo pari. Fino a quell’estate del 1997. Poi Amaraldo gli aveva aperto gli occhi. Poi Michele aveva capito che un vero amico ti rispetta sempre e comunque. Non mette in dubbio le tue opinioni, come aveva fatto Simone quel giorno. Un vero amico ti appoggia sempre e comunque. È al tuo fianco anche quando le cose non gli vanno a genio. E Amaraldo gliel’aveva dimostrato. E Simone, infatti, ne aveva approfittato proprio in quell’occasione. Di nuovo Michele abbassò lo sguardo. Aveva ancora una volta capito che Amaraldo aveva ragione, che non valeva la pena di ricucire quella relazione che si era interrotta due anni prima. Perché Simone non avrebbe capito. Perché Simone non voleva capire. Perché Simone, da essere inferiore che aveva dimostrato di essere, allora come l’ultima occasione nella quale si erano incontrati e scontrati, poche ore prima, non poteva capire che uno come lui era destinato a cose più grandi di quel gruppo di persone che, impropriamente, aveva considerato amici fino a qualche anno prima.

“Simone! Quell’infame! Giusto! Me la devono pagare tutti!” disse Michele quasi urlando, riacquistando immediatamente tutto il suo vigore, per poi calmarsi nuovamente, questa volta in preda allo sconforto più totale: “ma come facciamo? Sembra che ogni volta riescano sempre a farla franca!”

“Riescono a farla franca contro di noi!” aggiunse Amaraldo.

“Che intendi dire?”

“Che noi ci siamo sempre mossi per prenderli in giro, per umiliarli, mai per fargli del male!”

“Per forza! Quei quattro ci ridurrebbero a polpette se lo facessimo! Sai come la penso!”

“Allora dobbiamo farci aiutare!” concluse Amaraldo.

“No! Te l’ho già detto l’altra volta. Quelli no!” esclamò Michele. Era escluso mettere di mezzo persone ancora più pericolose.

“Allora, la prossima volta che quei quattro danno fuoco ai vestiti e ti lasciano nudo in mezzo a una strada, perché tanto riaccadrà, non metterti a piangere, perché la colpa sarà un po’ anche tua, che ti sarai abbassato al loro stesso livello. E non cercare il mio aiuto, perché preferisco avere un cane per amico che te, se non dimostri di farti valere” disse Amaraldo, con lo stesso sguardo, questa volta scattando in piedi e chiudendo le braccia incrociate davanti al petto. Quel giorno aveva deciso di smuovere le cose. Aveva deciso che era ora di arrivare fino in fondo con Michele.

Più di ogni altra cosa, a quel punto, vinse la paura di perdere anche quell’amico, innegabilmente l’unico vero amico che aveva. Si fece coraggio, rimanendo per qualche altro secondo in silenzio. Poi continuò: “dici che loro ci potrebbero aiutare?!”

“Ne sono sicuro!”

Passò ancora qualche minuto. Intanto si erano sdraiati entrambi sul letto, uno al fianco dell’altro. Entrambi con le mani dietro la nuca. Solo che mentre Michele aveva gli occhi rossi dal pianto di poco prima e fissi sul soffitto, Amaraldo li aveva chiusi e lo stesso sorriso malvagio di pochi minuti prima aveva fatto nuovamente capolino sul suo viso.

“E va bene!” rispose Michele, convinto anche a sorridere, a quel punto.

“Così gliela facciamo pagare una volta per tutte. Definitivamente!” fu l’ultima parola di Amaraldo. Michele si drizzò in piedi.  Amaraldo pure. Un  nuovo sguardo di intesa volò immediatamente tra i due.

“Io ho già il costume. Ti aspetto fuori, muoviti che fra 5 minuti passa il pullman”.

Amaraldo uscì dalla camera di Michele, chiudendo la porta dietro di sé. Michele ci mise meno di un minuto a finire di vestirsi, prese lo zaino e corse da Amaraldo che lo stava aspettando. Arrivarono al pullman giusto in tempo per non perderlo. Sul pullman incontrarono anche Dorian e Salvatore e insieme, mentre Michele gli raccontava le ultime decisioni prese, arrivarono al mare.

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“Capo, si è convinto! Avevi ragione!”

“Lo sapevamo! Il Teorema funziona sempre! Fagli odiare qualcuno e vincerai una battaglia, dagli l’opportunità di vendicarsi e vincerai la guerra. Ottimo lavoro! Tienilo sempre sotto controllo. Ma non dirgli, per nessun motivo, il vero obiettivo!”

“Ok Capo!”

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Buongiorno a tutti!! grazie a chi segue questa storia e un grazie a chiunque volesse/voglia/vorrebbe/vorrisse recensirla... :-) 

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Capitolo 6
*** La Notte ***


6 – LA NOTTE

Proprio una notte di luna nuova gli doveva capitare? Non che avesse paura. Almeno, una cosa del genere non l’avrebbe comunque rivelata a nessuno, nemmeno ad Amaraldo. Il problema era che non si vedeva un tubo. Solo due grilli erano ospiti di quell’ambiente. Sopraelevato e, per questo motivo, ancora più buio.

Dal castello era possibile vedere la strada statale, con le luci delle macchine e dei camion che viaggiavano su quella dorsale da Nord a Sud e viceversa. Dalla statale il castello era una semplice macchia nera regolare che si stagliava su un cielo appena meno nero.

Dal castello i treni erano dei lunghi bruchi luminosi che si muovevano in lontananza. Dai treni il castello neanche si vedeva.

E dire che avevano provato ad illuminarlo. E ci erano anche riusciti, per qualche giorno. Poi dei ragazzini sconosciuti si erano divertiti a colpire tutti i lampioni e ci erano riusciti, facendolo cadere nuovamente nel silenzio del buio. E quando la luna era completamente oscurata o quando era nuvoloso, faceva ancora più paura. Per qualche tempo il luogo divenne anche covo di spacciatori e drogati, ma poi venne soppiantato dalla pineta della spiaggia, molto più estesa e anche più sicura. Di notte, soprattutto d’estate, salire da quelle parti avrebbe dato troppo nell’occhio.

Amaraldo gli aveva consegnato una lettera in cui gli avevano spiegato che Loro avevano deciso di incontrarlo e tutto quello che avrebbe dovuto fare. Per filo e per segno. I Tre Fratelli volevano incontrarlo! E per quel motivo Michele era lì, quella sera, proprio al castello. Proprio al loro covo. A parte i tre fratelli (di 16 anni Cosimo, 14 anni Massimo e 12 anni Giovanni) di cui era composta la banda, le voci dicevano che aveva al suo interno altre due persone, ma nessuno sapeva chi fossero. E se volevano, con le minacce o i soldi che guadagnavano facendo dei “lavoretti” per altri, potevano ottenere qualsiasi cosa. Ecco per quale motivo ancora non erano stati incarcerati. E tra qualche ora anche lui avrebbe avuto il suo posto in quella banda.

La lettera diceva che a quell’incontro doveva andare da solo. Niente scuse, niente sotterfugi, niente imbrogli. Disubbidire a quella condizione gli avrebbe negato definitivamente l’accesso a quella banda e soprattutto avrebbe scatenato nei suoi confronti le ire dei Tre Fratelli, peggiorando in maniera esponenziale la sua ormai già debole situazione.

Il sentiero che conduceva all’entrata del castello che gli era stato indicato nella lettera era pochi passi davanti a sé. Un piccolo sospiro, non di sollievo ma di incoraggiamento, e fu all’ingresso. Appena entrato, come da istruzioni, alzò le mani. Immediatamente sentì la punta di un coltello che gli premeva sulla gola. Due mani fulminee lo perquisirono e gli levarono dalla tasca del pantalone il coltellino che era tornato a prendersi al luogo della sua umiliazione. Avanzò di qualche passo. Venne bendato con un fazzoletto. Infine, sebbene completamente impossibilitato a riconoscere chiunque gli fosse passato davanti, dopo qualche secondo percepì che una luce era stata accesa.

Silenzio. Completamente. Facendo il conto delle mani che l’avevano perquisito e di quella che gli puntava il coltello addosso, dovevano esserci minimo due persone in quella stanza. Ma non le sentì.

Come gli era stato detto da Amaraldo, sentì due mani appoggiate alle sue spalle. E due mani gli afferrarono le braccia. Ancora solo due persone. Contemporaneamente “vide” un’ombra che passava davanti a lui. Erano in tre. Cosimo parlò. Evidentemente quello posto davanti a lui. Gli altri due non sarebbe mai riuscito a riconoscerli, anche se probabilmente potevano essere i due fratelli più piccoli.

“Vediamo quanto sei intelligente. Quante altre persone ci sono oltre a te in questa stanza?”

“Tre” rispose.

Un punta di coltello più fastidiosa al suo fianco, gli fece capire che aveva sbagliato.

“Anzi quattro!” rispose subito dopo, recuperando.

“E bravo Michele!” rispose ancora Cosimo. Lo conosceva di vista, per quello che riconosceva la voce.

“A parte me e i miei due fratelli non dovrai mai sapere quante altre persone fanno parte della banda. e non dovrai neanche sapere chi sono gli altri componenti” aggiunse Cosimo.

Così Michele aveva capito che c’erano per forza altri componenti della banda, visto che erano in quattro, almeno uno in più dei Tre Fratelli.

“Sappiamo chi sei e di cosa hai bisogno” disse una voce, che però non aveva mai sentito. “Sappi che se farai il giuramento sarai sotto il controllo completo dei Tre Fratelli e dovrai eseguire senza discutere i nostri ordini”

Michele ci pensò un attimo. Un ultimo dubbio passò per la sua testa, se fosse tutto giusto quello che stava facendo. Poi anche lui, pensando a quella che era stata la sua vita negli ultimi 3 giorni, capì che non poteva andargli peggio di così. E lo fece.

“Io, Michele, giuro sulla mia vita che rimarrò leale e ubbidiente alla banda dei Tre Fratelli fino a quando questi lo riterranno opportuno. Non li tradirò mai, ubbidirò a qualunque loro ordine senza discutere. Che io possa morire per difenderli o per non averlo fatto”.

“Bevi!” ordinò Cosimo. un bicchiere gli toccò il labbro inferiore. Ubbidì e bevve quella che sembrava acqua, leggermente zuccherata. Per un attimo ebbe paura che potesse essere una pozione magica, dandosi poi dello stupido per avere, anche solo lontanamente, pensato una cosa simile.

“Stai fermo!” fu l’ordine successivo. E lui ubbidì anche a quell’ordine.

Poi ci fu il silenzio. Non riuscì a capire quanto tempo stava passando. Forse due minuti forse dieci. Non aveva alcun riferimento in quella stanza. Quindi ubbidire all’ultimo ordine era qualcosa che gli veniva naturale. Poi, iniziò a sentire gli occhi pesanti ed un leggero giramento di testa. Come quando gli era capitato, l’ultimo Natale, di bere troppo vino di suo zio. Poi le gambe, di colpo, cedettero. Sentì un tonfo a terra, senza neanche rendersi conto che era proprio lui a cadere. Poi il silenzio. E il buio.

Si risvegliò in quello che, quasi immediatamente, comprese essere uno dei vicoli nelle vicinanze del castello. Riprendendo quasi immediatamente le forze, si alzò in piedi. Non sapeva nulla di quello che era successo dopo aver bevuto da quel bicchiere. Però era assolutamente sveglio e cosciente. corse immediatamente verso casa, percorrendo quel mezzo chilometro che lo separava dalla sua abitazione e dal suo letto. Arrivò nella sua camera che erano quasi le due. Era eccitatissimo per quello che era appena successo. Sognava già la sua futura e ormai certa vittoria contro i suoi nemici.

Prima di andare a letto si concesse una doccia. Appena finito tornò in camera sua, si levò l’accappatoio e, guardandosi allo specchio, rabbrividì. Adesso aveva capito perché l’avevano drogato e fatto addormentare. Proprio su entrambi i fianchi, in corrispondenza di quello che sarebbe stato l’elastico delle mutande o del costume, quindi completamente invisibile a chiunque, vide un tatuaggio con la figura che incuteva più timore a tutti i giovani di Policoro. Il suggellamento di quel giuramento: tre figure umane stilizzate.

Era a tutti gli effetti un membro della banda dei Tre Fratelli. Ne andava fiero. Avrebbe lottato per loro, combattuto per loro, se necessario anche ucciso per loro. Sarebbe addirittura morto per loro. Durante la notte pensò alle immaginarie missioni che sarebbe stato chiamato a compiere e alle persone che avrebbe visto soffrire. Pensò a quello che aveva anche solo sentito sui Tre Fratelli. Solo che, mentre prima sentire cose del genere lo faceva rabbrividire, stranamente, notò che quello che stava pensando ora non lo faceva assolutamente soffrire, che sicuramente non avrebbe sofferto per le sue malefatte. Poi pensò alle azioni punitive che potevano avere in mente i Tre Fratelli nei confronti del suo ex amico. Bastarono pochi secondi con quel pensiero, però, per passare “dalla stella alla stalla”.

-M-ma che sto dicendo! Rubare, picchiare, torturare! Questo è quello che mi faranno fare. Questo è ciò che dovrò fare da ora in poi. Cosa ho fatto!? Mi sono messo nelle mani di quei tre esseri spregevoli! Non è possibile che Amaraldo mi abbia fatto fare una cosa del genere! Anche la voglia di vendetta! Anche l’odio per Simone non mi avrebbe mai spinto a fare una cosa del genere. Perché sono stato così stupido. Così idiota. Ho giurato fedeltà a delle persone malvage!-

Fu questo il suo pensiero, che lo fece cadere in un pianto sommesso quanto disperato. Prese il cellulare, e nonostante l’ora, decise di chiamare Amaraldo. Il cellulare era spento. Aveva bisogno di qualcuno con cui parlare. Almeno per qualche altro minuto. Gli passò per la testa di chiamare addirittura Simone. Poi, ripensare a quello che era successo negli ultimi giorni lo fece arrivare ad una conclusione. Capì quello che gli aveva detto Amaraldo, quello stesso pomeriggio. Gli aveva detto che secondo lui, che non era mai entrato nella banda dei Tre Fratelli, essere un componente di quella banda era la più grande dimostrazione di superiorità che un abitante di Policoro potesse avere. Capì che quella sofferenza e quel rimorso che stava provando in quel momento, erano forse l’ultima traccia di inferiorità, o di uguaglianza che provava nei confronti di coloro che, fino a pochi minuti prima, aveva continuato a considerare i suoi simili. Capì che l’onore che aveva ricevuto era veramente una dimostrazione di superiorità. Che non aveva più nulla da temere. Capì che, anzi, erano i suoi nemici che dovevano temere di avere lui contro.

Capì che aveva acquisito un potere enorme. Concluse che, dopo tutto, neanche coloro che erano nella banda da più tempo soffrivano di problemi di coscienza. E, sicuramente, non soffrivano neanche i Tre Fratelli quando facevano del male ad altri. Così, pur rendendosi conto del fatto che sempre di male si stava parlando, non si preoccupò di quello che stava facendo, anzi non pensò neanche che stava sbagliando, ma solo che avrebbe vinto.

Per la prima volta, quella sera, ritornò a pensare, allora, al vero obiettivo per cui era entrato nella banda. Simone doveva pagargliela cara per quello che gli aveva fatto. Ripensò alla sua vita. Grazie ad Amaraldo, aveva capito che quelli lì erano così infantili, ancora con quei giochi da bambini. Era ora che anche il suo ex amico, Simone, crescesse un poco. Era ora di dargli una sonora lezione. A tutti e quattro.

Poi l’ultimo brivido gli attraversò la schiena: -E se Simone quel giorno avesse avuto ragione? Se sono io che mi sto sbagliando? In fondo Simone mi conosce da quando eravamo piccoli. Non abbiamo mai fatto a botte seriamente e se qualche giorno fa è arrivato al punto di volerlo fare con me, era forse perché sapeva di essere assolutamente dalla parte giusta?-

Questo lo preoccupò, non poco. Poi, ritornando con la mente a due anni prima, pensò che, effettivamente, quello che gli era successo in quel pomeriggio estivo, era un’ulteriore dimostrazione di quello che pensava: Simone era semplicemente un essere inferiore. In quanto tale andava trattato, in quanto essere inferiore doveva pagare per ciò che aveva fatto. Così, sebbene in tutta quella storia ci fosse, ancora una volta, qualche cosa che non quadrava completamente, si convinse definitivamente di essere dalla parte della ragione.

E, per la prima volta dopo 3 giorni schifosi, si addormentò felice e sereno.

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E così ecco prese le parti, decise le cose, delineati gli schieramenti... Mi raccomando! Recensite, gente, Recensite!!

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Capitolo 7
*** Un giorno bellissimo ***


7 - UN GIORNO BELLISSIMO
Vi è mai capitato di essere a letto, al termine di una giornata, e di pensare: “Oggi è stata proprio una giornata bellissima!”? Ecco, quel 6 Luglio 1999, a me, stava per accadere la stessa cosa. Mettermi a letto e pensare “Oggi è stata proprio una giornata bellissima!”. Questa era la mia previsione a breve termine, almeno un’oretta prima di ritirarmi a casa, dopo aver salutato i miei amici. Purtroppo, spesso, le cose non vanno come vogliamo. Spesso le cose finiscono in un modo peggiore. Decisamente peggiore. Ma procediamo con ordine.
Francamente i presupposti per una fine del genere c’erano tutti. Erano passate tre settimane da quando ero arrivato a Policoro. Mi ero completamente inserito nella compagnia. Come ogni anno. Stavamo riuscendo a vederci anche di pomeriggio. Nonni e genitori si erano accorti che il clima sereno e rilassato di noi quattro a studiare insieme era incredibile, soprattutto in considerazione del fatto che ciascuno andava in una scuola diversa e sicuramente avevamo compiti diversi da fare. Però, dalle tre alle sette di sera, ci vedevamo a casa di Francesco e Emanuele e, stranamente, studiavamo. Con serietà ed impegno. In realtà il nostro impegno era semplicemente il risultato di un accordo: avevamo deciso di fare quella settimana piena zeppa di lavoro, così avremmo quasi potuto finire i compiti. In cambio, avevamo chiesto a nonni e genitori di continuare a “studiare” anche in seguito.
In quel modo, finiti i compiti, potevamo avere l’assicurazione di stare insieme anche gli altri pomeriggi. Io, che ero quello meno carico di compiti, avevo finito verso il quarto giorno. Seguito da Emanuele e Francesco il giorno seguente. Giuseppe, che doveva cominciare il liceo, aveva ricevuto dalla scuola media una mole pressoché impressionante di esercizi, quindi era proprio carico. Però anche lui finì l’ultimo compito di storia due giorni dopo Francesco.
Quindi erano già un paio di giorni che non stavamo aprendo un libro. Giocavamo a carte, alla play station, a quello che ci veniva in mente. A Giuseppe era pure balenata in testa l’idea di giocare a “nascondino al contrario”, ma faceva decisamente troppo caldo. Allora ci eravamo rinchiusi in casa. L’importante era stare insieme. E ci stavamo riuscendo alla grande.
Quel pomeriggio avevamo appena finito di fare merenda. Stavamo pulendo a terra e sul tavolo il macello che avevamo combinato a lanciarci i semi dell’anguria. Menomale che ci riunivamo a casa di Francesco e Emanuele e non c’erano i loro genitori, entrambi al lavoro in quelle ore, altrimenti potevamo solamente immaginarci le urla della madre dei due per quello che avevamo combinato.
“A voi è capitato di vedere ancora quei quattro?” chiesi. A tutti era parso di aver visto almeno uno dei quattro qualche volta, ma nessuno di loro li aveva mai fermati.
“Bene! Significa che la lezione l’hanno capita. Speriamo che continui così” conclusi “però un po’ mi dispiace di quello che abbiamo fatto a Michele. In fondo non se lo meritava”.
“Penso che si sia trattato di un atto difensivo” era l’idea di Emanuele. “Loro avrebbero fatto la stessa cosa se non peggio. Pensa se fossimo arrivati solo due minuti dopo”.
Io e Giuseppe ci guardammo. Comprendemmo che Emanuele aveva ragione. Effettivamente, se i due fratelli fossero arrivati tardi, ci avrebbero trovato  in chissà quali condizioni. Avemmo entrambi i brividi. Eravamo fermamente convinti di essercela cavata per un soffio. Non valeva la pena pensarci troppo su.
“Speriamo solo” aggiunse Francesco “che quei quattro non stiano pensando a qualcosa di ancora peggiore e che non la eseguano quando Simone se ne sarà andato. E comunque c’è ancora una cosa che non ho capito. Perché erano in giro solo in tre? Voglio dire, noi eravamo in superiorità numerica e siamo riusciti a mantenere il controllo della situazione. Ma se ci fosse stato anche Amaraldo a quest’ora forse le cose sarebbero andate diversamente. Dov’era? perché non era con i suoi amici?”
“Non lo sapremo mai” risposi “anche se non sono tanto sicuro di definirli amici. Mi sembra più un rapporto di lavoro! Visto anche come si sono comportati Dorian e Salvatore. Quando ne hanno avuto l’opportunità hanno preso e se la sono data a gambe levate”
“Non ne sono tanto sicuro”. Questa volta era Giuseppe che parlava. Io non potevo saperlo, perché non abitavo a Policoro, ma Amaraldo e Michele sembravano veramente amici. A differenza degli altri due, Amaraldo avrebbe probabilmente difeso Michele a qualunque costo. Si sarebbe preso un sasso in testa al posto suo, se fosse stato necessario. “Quello che non mi convince, invece, è la storia della superiorità numerica. È impossibile che non ci abbiano pensato. Gettarsi solo in tre in quella spedizione punitiva mi sembra una mossa decisamente troppo poco astuta. Anche per loro. Ci sto pensando ormai da un po’. Ho come l’impressione che quei tre erano troppo convinti di essere più forti. Come se fossero sicuri di essere più numerosi di noi”.
“Cosa te lo fa pensare?” chiesi, in parte stupito dell’intuizione del mio amico, in parte interessatissimo a sapere come continuava il suo ragionamento.
“Ti ricordi il giorno che sei arrivato? Quando tu ti sei messo tra me e lui? Da come ti guardava, anche un bambino avrebbe capito che aveva chiaramente paura di te. Se vi foste incontrati in mezzo ad una strada deserta, certi di essere solo voi due, avrebbe implorato pietà e avrebbe solo sperato di saper correre più veloce di te. Ma non si sarebbe mai buttato in una rissa. Era sicuro che non ne sarebbe uscito vincitore. Invece, l’altra sera, tre contro due, evidentemente, era un rapporto che offriva una certa sicurezza, accresciuta dai coltelli”
“Beh! ma noi c’eravamo” fu l’osservazione di Emanuele.
“Per fortuna!” concluse Giuseppe. A quel punto, però, fui io ad intervenire. Avevo apprezzato tantissimo Giuseppe ed il suo ragionamento. Logico e chiaro. Quasi inconfutabile. Solo che non poteva lasciarlo a metà.
“No! Scusate! Giuseppe, non puoi fare un ragionamento così sottile, così raffinato e poi uscirtene a metà strada con un ‘per fortuna!’ da quattro soldi” e tutti i miei amici mi guardarono stupefatti. Soprattutto Giuseppe. Per lui il suo ragionamento era finito lì.
“Ma perché? che cosa dovremmo pensare ancora?” chiese.
“Seguiamo un attimo il ragionamento di Giuseppe” e attaccai. Gli altri tre sapevano che quando facevo così era decisamente meglio seguirmi. Mi piaceva soprattutto farlo quando qualcuno di loro non sapeva risolvere un problema di geometria. Ci rimuginavo su un po’, poi gli occhi mi brillavano e a matita abbozzavo tutta la dimostrazione della soluzione del problema. Neanche fossi una stampante, senza tornare indietro e senza fermarmi. E la cosa che li stupiva ogni volta era che, alla fine, il risultato era sempre quello giusto. Così compresero che stavamo per scoprire qualcosa di importante sui nostri nemici, e per questo motivo prestarono tutta l’attenzione possibile, seguendo il mio ragionamento.
“Partiamo dal presupposto che Michele, Dorian e Salvatore fossero assolutamente certi di avere a che fare solo con noi due, me e Giuseppe. Si sono sbagliati. Ora, per me e Giuseppe è sicuramente stata una fortuna che siate arrivati voi. Ma per loro non può essere stata semplice sfortuna. Perché se erano così certi della superiorità numerica è perché qualcuno li ha convinti del fatto che voi non c’eravate”
“E chi sarebbe?” chiesero i tre uditori contemporaneamente.
“Non lo sappiamo! E speriamo di continuare a non saperlo” fu la mia conclusione.
Ci stavamo godendo la vacanza come mai prima d’ora. Non temevamo l’intervento di nessuno. Anche perché, come ci eravamo appena detti, non li avevamo più visti. Erano quasi le sette. Uscimmo con i nostri zaini dalla casa di Francesco e Emanuele e ci dirigemmo ognuno a casa propria.
Varcato l’uscio di casa, infine, ricevetti una notizia a dir poco fantastica. I miei nonni mi dissero che sarebbero tornati a Milano il giorno dopo e mio padre gli aveva detto che, se avessi voluto, sarei potuto rimanere a Policoro da solo per la settimana che rimaneva prima che tutta la mia famiglia scendesse da Milano. Bastarono pochi secondi per realizzare tutte le cose che avremmo fatto con i miei amici: sicuramente li avrei invitati a dormire da me e diverse volte avremmo mangiato insieme. Sarebbe stata un’avventura fantastica.
Il bello di quella sorpresa era che ancora i miei amici non sapevano niente. A questo ci pensarono i miei nonni. Infatti, ad un certo punto, mia nonna uscì di casa e chiese a Giuseppe dove fosse sua madre. Giuseppe gli rispose che al momento non era in casa ma che, se avesse voluto, avrebbe potuto riferire a lui. Lei, allora, gli disse che voleva semplicemente andare a trovarla per salutarla prima della partenza. Immaginate quale fu la sorpresa per Giuseppe e gli altri. Dapprima erano convinti che non sarei rimasto, e quindi per un po’ si dispiacquero, ma poi, quando vennero a sapere meglio come stavano i particolari, rimasero molto contenti. E come loro, anch’io.
Quello stava diventando veramente un giorno bellissimo.

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Buongiorno a tutti. Eccoci ad un altro capitolo. Grazie a tutti quelli che stanno seguendo questo racconto, e soprattutto a tutti coloro (come Noisy che si stanno prendendo il tempo di recensirla e anche di darmi delle loro impressioni e idee sullo sviluppo della storia interessanti e stimolanti). Purtroppo a causa di problemi con il computer ho dovuto cancellare NVU e per il momento utilizzerò l'editor di EFP. Da qui i cambiamenti sul carattere e sull'impaginazione. vedrò come fare in futuro.
Alla prossima

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Capitolo 8
*** LEFT OUTSIDE ALONE ***


8 – LEFT OUTSIDE ALONE
La sera stessa passammo tutto il tempo a chiacchierare sui progetti che volevamo realizzare una volta rimasto solo in casa: sarebbero venuti a suonare il campanello in piena notte, forse saremmo riusciti anche a mangiare insieme e qualche volta anche a dormire insieme.
Stavamo parlando proprio di quello quando Francesco ed Emanuele videro arrivare il loro padre, e se ne andarono perché non lo vedevano da una settimana.
Pochi secondi dopo un motorino sfrecciò per la via principale.
A mia insaputa, quel motorino avrebbe cambiato la mia vita. Di certo avrebbe cambiato la mia giornata. Ancora prima di sapere che quello non sarebbe più stato un giorno bellissimo, udii il motorino che curvava, che entrava nella traversa della nostra via e si fermava subito dopo l’incrocio della via in cui eravamo. Vedemmo, poi, un ragazzino scendere dalla via e venirci incontro. Aveva il casco, non se lo era tolto, ma Giuseppe lo riconobbe comunque e sorrise per quella visita inaspettata.
“Angelo! Ciao!” gridò immediatamente Giuseppe. Era un suo compagno e non si vedevano da che era finita la scuola. Tirai un sospiro di sollievo e mi rilassai.
“Ciao Giuseppe. Stasera un ragazzino mi ha avvicinato e mi ha consegnato questa busta per te. La busta è scritta al computer, quindi non ho potuto riconoscere la calligrafia, e il mittente non c’è. Scusa ma ora devo andare. È da stamattina che sono in giro e devo andare a casa. Ciao. Poi uno di questi giorni organizziamo una partita di calcetto”.
Riprese la via e se ne andò, esattamente come era arrivato. Giuseppe, che non aveva mai avuto troppi segreti con me, aprì immediatamente la lettera. Era scritta a computer. Erano tre semplici righe. Sembrava niente di particolare. Giuseppe velocemente le lesse, richiuse la lettera e salì a casa sua.
In pochissimi minuti, rimasi da solo, fuori da casa di Giuseppe, dal quale cercai qualche spiegazione. Citofonai a casa sua e, come al solito, ebbi accesso immediato. Parlai brevemente con la madre di Giuseppe, le dissi che c’era mia nonna che la cercava e ottenni il permesso di salire in camera di Giuseppe. Avanzai per le scale e, trovandomi di fronte alla porta, non feci altro che bussare. “Avanti” fu l’unica risposta che udii dall’altra parte. Molto timidamente, entrai e richiusi la porta dietro di me.
Trovai Giuseppe sdraiato sul letto. Con lo sguardo fisso verso il soffitto, col viso impassibile e pallido. Tutte e tre (posizione, sguardo e viso) che non richiedevano nessun particolare potere per farmi capire che c’era decisamente qualcosa che non andava.
“Cos’hai? Qualche problema? Vuoi parlare di cosa c’era scritto nella lettera?” chiesi, con la dovuta cautela.
“Cosa c’è scritto. Non l’ho buttata, non preoccuparti. Non farei mai una cosa simile. Sarebbe troppo rischioso”.
“In che senso?”.
“C’è chi ha pagato per molto meno. Ora, per favore, lasciami stare. Devo dormire”.
“Non avresti dovuto parlare di che?”, chiesi ancora, sicuro di ottenere una risposta chiarificatrice.
“Non devo parlare di quello che c’è scritto nella lettera. Non tentare di fregarmi con quella tattica. Ti conosco troppo bene. Ciao”.
Liquidato così velocemente, mi mancarono le parole per aggiungere qualcosa. Salutai, chiusi la porta dietro di me, scesi le scale e uscii da quella casa.
Mi ritrovai così, di nuovo, da solo in mezzo a quella via. Immediatamente mi accorsi che da sotto lo scivolo pedonale che stavo per percorrere giungevano le voci di due ragazzini che parlavano.
Chiamatelo sesto senso, chiamatela eccessiva prudenza, non lo so. Semplicemente ebbi paura. Avevo il dubbio che fossero appostati e che stessero aspettando proprio me. Evidentemente però, non era il caso di andare a chiederglielo.
L’unico passaggio libero per casa mia, quindi, era la strada superiore. Iniziai a camminare in quella direzione, solo che mi accorsi che la luce del lampione che si trovava sulla strada principale aveva fatto scoprire l’ombra di un’altra persona che mi stava spiando da dietro l’angolo.
Questo altro particolare mi convinse completamente del fatto che tutti loro fossero lì per me.
Mi fermai. Fortunatamente ero ancora vicino alla finestra di casa di Giuseppe e il padre di Giuseppe, che vedeva la televisione in cucina, poteva offrire una certa protezione in caso di pericolo. Questo mi diede il tempo di pensare il più velocemente possibile ad una via di fuga.
E poi mi venne un’idea. Giuseppe, qualche giorno prima, sfruttando la regola del nascondino al contrario che ci impediva di entrare nelle porte delle nostre case, per sfuggirci, entrò in casa sua dalla finestra della cucina e uscì dalla finestra che dava sull’altra strada. Ovviamente la regola fu cambiata.
Ma non era il momento, quello, di ragionare sulla portata legale della soluzione di Giuseppe. Quella furbata non fece altro che darmi lo spunto giusto per elaborare il piano della mia fuga da quella situazione che si faceva sempre più pericolosa.
Era vero che i miei nonni non tanto sentivano. Ma era altrettanto vero che, se telefonavo a mio nonno, potevo dirgli di aprire la finestra della camera da letto ed entrare direttamente in casa da lì, come peraltro avevo fatto anche in altre occasioni.
Fortunatamente rispose mio nonno. Gli chiesi di aprire la finestra. Lui lo fece e pochi secondi dopo era al sicuro in casa mia. Una volta dentro, però, telefonai a Giuseppe. Era inevitabile. Tutte e tre le volte nelle quali era accaduto che Giuseppe mi avesse risposto male c’erano di mezzo Michele e i suoi. Ero certo che le cose stessero così anche questa volta. Rispose la madre di Giuseppe. Con la scusa di voler fare una sorpresa a Giuseppe, le chiesi di passarmelo dicendo che ero un suo compagno, Angelo, che doveva informarlo sulla prossima partita di calcetto. Lei stette al gioco e chiamò il figlio. Giuseppe ci mise pochi attimi ad arrivare al telefono.
“Ciao Angelo. Senti, ho avuto un problema e non so se potrò darti una mano a organizzare il torneo di calcetto di quest’anno”.
“E chi se ne importa, sono Simone!”.
“Cosa vuoi da me? Ti ho già detto di lasciarmi stare. Non ho assolutamente intenzione di parlare. Perché mi hai telefonato?”.
A quel punto, che di stress, ne avevo accumulato tanto in quei giorni, risposi: “Non chiederlo a me. Chiedilo piuttosto a quei ragazzi che erano sotto lo scivolo e dietro l’angolo della tua via. Non avevano intenzioni molto piacevoli. Stavano aspettando me. Non dirmi che è una coincidenza lasciarmi solo. Sicuramente, ed è questo il motivo per cui ti ho telefonato, la lettera doveva dirti qualcosa che io non dovevo sapere. Qualcosa che non doveva sapere nessuno di noi tre. Ora non tirare fuori la solita storia del troppo pericoloso perché non ci casco più. Voglio sapere tutto. Qualcuno, oggi, ha cercato di farmi qualcosa che non era sicuramente solo insultarmi. Non permetterti perciò di tirare fuori altre scuse e dimmi quello che c’era scritto sulla lettera! Subito!”.
Immaginai dall’altra parte della cornetta Giuseppe che, senza voce, per non incorrere nell’ira di sua mamma, pronunciava una parolaccia, poi che avvampava diventando tutto rosso. Il tutto nel giro di due, massimo tre secondi. Ma quel tempo bastò.
“Va bene. Vieni di nuovo qui e ti spiegherò tutto. Per passare porta tua nonna a casa mia. Non ti faranno niente con tua nonna. Ciao”. Attaccò. Compresi che doveva essere successo qualcosa di veramente grave e immediatamente presi mia nonna e l’accompagnai dalla madre di Giuseppe. Per la strada non vidi più nessuno. Erano scomparsi. Probabilmente, non avendomi più visto, se ne erano andati. Questo non fece altro che avvalorare l’ipotesi che quelle persone fossero lì proprio per me. In pochi secondi fummo a casa di Giuseppe. Sua madre accolse mia nonna ed io salii direttamente in camera di Giuseppe.
Per poco, non mi scontrai con Giuseppe. Entrammo in camera da letto e Giuseppe chiuse la porta dietro di sé.
“Scusa per prima” dissi, ritenendo doveroso ammettere di aver esagerato “ma non ne potevo più. Non sai la paura che mi sono preso quando ho visto quelle persone e mi sono reso conto che aspettavano proprio me e che non lo facevano per salutarmi”.
“Si, ma tu non sai la paura che mi sono preso io quando ho letto la lettera che mi avevano dato. Adesso te la do, ma sappi che lo faccio semplicemente perché ormai non serve più allo scopo per cui l’avevo ricevuta” e, così dicendo, mi porse la lettera. Che aprii e lessi in un sol fiato:
“Se vuoi vivere ancora per molto tempo non dire niente, sali in casa. Se Simone sale a casa tua non dirgli niente. Se non ubbidirai verrai al più presto punito come tu ben sai. Non cercare di fregarci, se vuoi vivere ancora per molto tempo”.
Questo era il testo della lettera. Sotto c’era anche un disegnino di tre omini stilizzati. La richiusi e la riconsegnai al legittimo destinatario. “Ho capito tutto quello che dice questa lettera, ma perché dovremmo avere paura? Non può essere qualche scherzo?” fu la semplice domanda che gli feci. Non poteva trattarsi di una semplice bricconata di qualche nostro amico mattacchione che aveva messo in piedi quella messinscena per farcela fare sotto e poi finire tutto in una bella risata?
“No. Per due motivi: prima di tutto lo stile. Scrivere la stessa frase all’inizio e alla fine della lettera. Poi i tre bambini stilizzati, un segno che nessun abitante di Policoro vorrebbe vedere scritto su una lettera indirizzata a lui”.
“Una specie di firma?” azzardai, cercando di lasciar intendere di aver capito, anche se ancora non avevo capito proprio niente.
“Non una specie di firma, purtroppo. La firma. Quella che incute più timore di tutti. Chiama immediatamente Francesco e Emanuele e digli di venire qui. Digli di stare molto attenti e di fare il più presto possibile”.
Ancora stupito per quella ferma presa di posizione di Giuseppe che non lo aveva mai caratterizzato, telefonai ad Emanuele. Pochi minuti dopo erano informati anche loro delle ultime novità.
Iniziò così un’animata discussione sulla questione.
“Ma veramente non sai chi firma in quel modo? Veramente non sai chi sono i Tre Fratelli?” mi chiese Francesco stupito di quella novità.
“No!” risposi timidamente, stringendo le spalle, come per far capire che non c’era niente di male a non sapere chi fossero quei “Tre Fratelli”.
“Sono i tre capi della banda giovanile di Policoro. La più malfamata e la più pericolosa di tutte. Non bisogna avere mai a che fare con loro, se si vuole vivere calmi e tranquilli”.
“Ma non starete un po’ esagerando? Non vi sembra un po’ troppo, considerarli così pericolosi?”.
“Pensa quello che vuoi ma, se Michele ha parlato con uno di loro tre, faremmo bene a preoccuparci seriamente e tu faresti bene ad andartene su a Milano, piuttosto che rimanere qui solo”.
“E se Michele fosse stato affiliato a quella banda da prima di quella serata? Non hanno agito prima, perché proprio ora?” chiesi.
Di nuovo Emanuele “Impossibile. Sono certo che quando ci siamo visti l’ultima volta, quella sera, non faceva ancora parte della banda!”
“Ripeto che secondo me state un po’ esagerando”.
“No!” aggiunse Emanuele “Non pensarla così. È più grave di quanto pensi. Qualche tempo fa erano state diffuse le foto di un ragazzo scomparso. Voci di corridoio della scuola dicevano che erano stati i Tre Fratelli a rapirlo. Si dice che l’avessero torturato fino ad ucciderlo, ma nessuno seppe mai niente con certezza, né dove sarebbe stato nascosto il corpo. Poi, dopo qualche giorno, le bocche furono tappate con lettere simili a questa. Anche io ne ricevetti una. Il tempo fece in modo di cancellare ogni traccia. Ma ogni tanto, di notte, mi capita ancora di ripensare a quei momenti, e non sono assolutamente calmo, neanche il giorno dopo. Convinto ora?”.
“Tu stesso hai detto che si tratta di voci di corridoio”.
“Si, ma il corpo non è stato più ritrovato. Non se ne è saputo mai più niente; e poi le lettere non possono semplicemente essere delle finte. Simone, e penso di parlare a nome di tutti e tre, abbiamo paura. Siamo preoccupati. Non ci era mai capitata una cosa del genere e neanche avremmo voluto che ci capitasse”.
“Hai ragione, ma purtroppo è capitato. Non ci sono più possibilità di risolvere questo problema pacificamente. Se tutto va bene tra poco il tempo cancellerà tutte le nostre preoccupazioni”.
“Ok! Speriamo che le cose vadano così. Adesso cerchiamo di mantenere un basso profilo e non fare stupidaggini” concluse Emanuele.
Ci fu un attimo di silenzio. Poi, presi l’unica decisione possibile. Anche se con una rabbia indescrivibile dentro di me, continuai: “Allora penso che sia meglio che me ne vada. Non voglio mettere assolutamente a rischio la vostra e la mia incolumità. Almeno fino a quando non si saranno calmate le acque penso proprio che non ci rivedremo più”.
“Simone” disse Emanuele “Non vogliamo che tu te ne vada. In fondo non è colpa tua o nostra se ci siamo ritrovati in questa condizione. Le cose sarebbero dovute andare a finire così. Avremmo dovuto prima o poi incontrare un ostacolo maggiore di noi che ci avrebbe sconfitti. Purtroppo le cose sono finite così. Ci dispiace di averti fatto passare delle vacanze così”.
“Non vi sto imputando la colpa di niente. Però salutiamoci. Non sto scherzando. È bene che vada via. Non prendetela per codardia. Io non sono fatto per continuare in un modo così pericoloso questa battaglia”.
Preferii non permettere più a nessuno di aggiungere qualcosa che mi avrebbe fatto soffrire inutilmente. Semplicemente uscii da quella porta, ridiscesi velocemente le scale e altrettanto velocemente presi la strada di casa. I miei nonni erano già andati a dormire. Chiusi la porta. Non era ancora tardi. Decisi perciò che avrei telefonato quella sera stessa a mio padre per dirgli che sarei ritornato pure io a Milano, e che poi avrei deciso se fosse stato il caso di ritornare a Policoro in un secondo momento. Mio padre giustamente volle sapere il perché di quella decisione, ma non volli dirgli niente. Ci lasciammo.
Una telefonata più o meno della stessa durata avvisò anche Maria dell’accaduto.
Decisi di uscire un po’. Rimasi davanti a casa mia, seduto sulla  panchina a pensare. Da lontano si potevano scorgere le ultime macchine che procedevano lungo il corso. Pensai a quante belle cose avevo fatto a Policoro, a quante emozionanti avventure di bambino avevo passato con Giuseppe e i suoi compagni, quando giocavamo a nascondino, con anche altri amici. Pensai soprattutto all’amicizia che mi univa a Giuseppe.
Pensai anche all’amicizia che mi aveva legato per molti anni anche a Michele e a come fossero cambiate repentinamente le cose in quegli ultimi due anni. Cercai ancora una volta di capire quello che poteva essere successo senza giungere a delle conclusioni ragionevoli. Sentivo di essere ancora ignorante di molte, troppe cose, per capire la verità. Alcune mi si presentarono quella sera stessa come domande. Altre sottoforma di dubbi. Col senno di poi direi che, sebbene mancassero ancora troppe cose per giungere ad una soluzione definitiva di quella situazione, ci ero incredibilmente vicino. Le domande erano quelle giuste. Le lacune erano quelle che avrei dovuto colmare. Ma obiettivamente ne avevo ancora troppe, di lacune, per giungere alla vera soluzione.
Finché dall’angolo della via vidi spuntare Giuseppe. Con calma arrivò fino alla panchina dove ero seduto.
“Sono venuto per parlare con te, da solo” furono le uniche parole che disse prima di sedersi al mio fianco.
Rientrai un momento in casa, presi due bottigliette di Coca-Cola, le stappai, riuscii, porgendone una a Giuseppe.
Da lontano sembravamo due uomini che sorseggiavano una birra mentre si interrogavano sui massimi sistemi o parlavano di donne. In realtà eravamo due ragazzini con in mano una bottiglietta dal contenuto assolutamente analcolico, che avevano voglia di parlare di quella giornata. Bella, fino a un’ora prima. E brutta, troppo brutta per quegli ultimi sessanta minuti.
E ancora ero troppo riservato e troppo emozionato per parlare con un’altra persona dei miei sentimenti verso le ragazze. Dei miei sentimenti verso una ragazza. Insomma, di Maria.
“Grazie, perché anche io avevo voglia di pensare e farlo con te è sicuramente meglio” gli dissi abbozzando un mezzo sorriso. “È per questo motivo che mi hai trovato qui e non a letto”
“Senti. Non cerchiamo di nasconderci dietro delle maschere. Io e te siamo entrambi poco convinti di quello che stai facendo, e soprattutto siamo poco convinti del fatto che quello che tu stai facendo sia la cosa migliore. E allora perché farlo?”.
Mi resi immediatamente conto del repentino cambiamento dei toni di quella conversazione. Ed iniziai a convincermi del fatto che Giuseppe potesse veramente aver cominciato ad essere il ragazzo saggio che avrei conosciuto successivamente. Decisi quindi di dargli qualche spiegazione in più. Anche perché sapevo che aveva interpretato correttamente la mia situazione. E a lui, come a nessun altro, proprio non potevo nascondere il fatto che avessi un bel po’ di paura.
“Giuseppe. Vedi, il discorso non è cosa sia meglio fare, ma che cosa sia meno dannoso. Anch’io, come hai potuto ben notare, sono molto dispiaciuto e molto triste al solo pensiero di dover ritornare su a Milano dopo neanche un mese di permanenza qui a Policoro. Ma, credimi, io sono il primo a dire che se non fossi stato pienamente sicuro di fare queste cose per il bene mio e vostro, non le avrei mai fatte”
“Ma perché pensi di farlo per il nostro bene?”
“Tu mi hai sempre conosciuto come un ragazzo che, benché, pacifico, non si lascia mai scoraggiare dalle difficoltà. Questo non è vero. Sono semplicemente vissuto in una città grande, dove la maggior parte delle difficoltà che abbiamo già affrontato insieme sono delle cose normalissime che mi era già capitato di affrontare. Questa invece è un’esperienza nuova anche per me. Una cosa che mi è successa mi ha fatto pensare. I Tre Fratelli hanno fatto in modo di farvi andare via prima di farmi qualsiasi cosa. Probabilmente il motivo è che con voi non hanno niente da dire. Vogliono semplicemente fare del male a me. E ribellarmi a questa loro decisione potrebbe mettere voi in condizioni di reale pericolo. E queste sono due cose che mi fanno paura. Quindi l’unica cosa che mi sento di fare in questo momento è lasciare il campo di battaglia. Diciamo che si tratta di una ritirata strategica. Perché, per quanto non avrei mai voluto trovarmi in una situazione del genere, vorrei tanto ritornare in futuro qui a Policoro e risolvere questa situazione una volta per tutte sicuro di non provocare ulteriori problemi e felice di poterne parlare dopo insieme”.
Giuseppe vide nel mio sguardo qualcosa. Capì che non era possibile in quel momento aspettarsi da me qualcosa di più importante e coraggioso. Si accontentò del mio breve accenno alla paura e di quel raggio di speranza che avevo cercato di dargli.
“Non mi hai convinto. Però ti ringrazio. Vorrei tanto che fossero qui anche Emanuele e Francesco, perché anche loro avrebbero sicuramente voluto ringraziarti. Scusa se ho dubitato della tua buona fede”
“Non preoccuparti. Sappi solo che un posto nel mio cuore per Policoro e per voi ci sarà sempre, e, anche se non ci rivedremo per un po’ di tempo, state sicuri che quando ritornerò le cose in un modo o nell’altro saranno cambiate”.
Tutto si concluse poi con un abbraccio, così denso di emozione e di significato che nessuna parola può descriverlo. In quell’abbraccio c’erano quattordici anni di lunga amicizia, che di sicuro nessuno avrebbe mai potuto rompere. Ci lasciammo e, mentre osservavo Giuseppe che se ne andava, notai che aveva anche passato la mano sugli occhi, probabilmente inumiditi dalla situazione improvvisa nella quale ci eravamo venuti a trovare in poche ore, e decisi di rimanere un altro po’ a pensare nel tentativo di convincermi che quella era veramente la decisione migliore.
Era giusto quello che stavo facendo? Avrei potuto prendere una decisione diversa? Fu allora che mi convinsi del fatto che era l’unica cosa che si poteva fare. Fu allora che, seppur dispiaciuto per quello che stava per succedere, decisi che era comunque la cosa migliore da fare. Ormai avevo capito quello che era giusto e quello che era sbagliato e, sicuramente, rimanere lì, non era la cosa più giusta. Era vero: il motivo più importante per cui me ne andavo era la paura. Compresi però che andarmene non era la cosa migliore, ma la cosa meno dannosa. Per tutti. Il giorno dopo sarei partito da Policoro, e, probabilmente non avrei più visto quella città per un anno.
Il giorno della partenza lo passai in casa. Non volli vedere nessuno. Solo verso sera, come era mia abitudine fare prima di andarmene, andai a casa di Giuseppe per accomiatarmi con lui, con la sua famiglia e con Francesco ed Emanuele. Ancora una volta cercarono di convincermi a rimanere, ma solo una cosa mi sentii di dirgli ancora in relazione a quel discorso.
“Non preoccupatevi. Da adesso in poi non avrete più problemi. In fondo lo sappiamo tutti e quattro: vogliono mandare via me. Voglio però che per quanto sia possibile rimaniamo ancora amici e risolviamo ancora insieme i problemi”.
Detto questo, me ne andai. Le valigie erano già pronte e non avrei dovuto fare altro che prenderle e andarmene. E quello feci.
Il treno partì in orario. Pensando il contrario Giuseppe e gli altri cercarono di raggiungermi prima della mia partenza, ma arrivarono in stazione poco dopo che il treno aveva iniziato a muoversi. E non li vidi neanche.
La conferma di quello che gli avevo detto arrivò dopo qualche giorno. Infatti un’altra lettera giunse a Giuseppe. Immediatamente la fece leggere ai suoi due amici. Diceva che i Tre Fratelli avevano ritirato le “accuse” contro di loro e che se io non mi fossi fatto più vedere da quelle parti non sarebbe successo niente. Lessero la lettera con il nodo alla gola. Non avrebbero mai voluto che tutte quelle cose accadessero, ma ora si sentivano molto più rilassati al solo pensiero che tutto era finito. Il peggio era passato. Anche se senza di me, avrebbero cercato di seguire le mie istruzioni: non sarebbero stati tristi ma avrebbero cercato di godersi quello che rimaneva dell’estate. D’altra parte erano ancora a metà Luglio. Nello stesso tempo fecero pervenire una copia della lettera anche a me nella quale erano contenuti anche i loro ringraziamenti e una lettera speciale nella quale mi salutavano e mi dicevano tante cose belle.
Non vollero neanche più parlare di Michele e la sua banda. Questi, infatti, non si erano fatti più vedere, forse perché gli era stato ordinato così dai loro tre nuovi capi. Erano infatti entrati a far parte della banda dei Tre Fratelli, e adesso dovevano, anche loro tre, ubbidire ciecamente a quello che questi gli ordinavano.
Qualcosa che cambiava, però, c’era. E cioè che noi stavamo crescendo. E che quando si cresce difficilmente si è sottomessi a quello che ci ordinano gli altri, soprattutto se non siamo proprio d’accordo. Giuseppe aveva visto in me una debolezza che non aveva riferito agli altri. Ma mi aveva anche visto profondamente deluso per la mia stessa impotenza.
Sapeva, quindi, fino in fondo, che io non mi sarei arreso a Policoro. aveva capito che la battaglia era rimandata e che, definitivamente, la guerra non si era conclusa. Che era, semplicemente, come tutte le estati, rimandata all’estate successiva. Cercò però di reprimere i suoi dubbi comportandosi con me come sempre, scrivendomi e ogni tanto telefonandomi. Sempre, però, ho avuto l’impressione che Giuseppe volesse fare di tutto per evitare di farmi rimuginare il passato e pensare al futuro.
Io ero riuscito a convincere mio padre che preferivo rimanere a Milano con i nonni invece di scendere nuovamente con il resto della famiglia. Così passò l’estate e ricominciai la scuola felicissimo di aver ritrovato i miei compagni, e con alcuni di loro me la sentii di parlare di quello che era successo.
In particolare ad Alessandro, il mio miglior compagno di classe, raccontai proprio tutto l’accaduto. Lui, che solitamente non era di carattere così mite come me, disse immediatamente che se fosse stato al posto mio li avrebbe “ammazzati” a tutti di botte. Mi misi a ridere. Pensai che fosse una fortuna, per lui, non essere al posto mio. E che tutto era finito bene.
Tutto sommato avevo fatto la scelta migliore. Avevo mantenuto l’incolumità dei miei amici e la mia.
Come spesso accadeva, la scuola e altre attività mi distrassero a tal punto da riuscire a farmi smettere di pensare a certe cose.
E fu meglio così.

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Buongiorno a tutti!! eccoci giunti ad un punto di svolta. ringrazio tutti/e coloro che hanno recensito fin qui questa storia (compreso  alessandroago_94 che sta azzeccando QUASI tutti i miei pensieri e intenzioni per il futuro)... e al prossimo capitolo!!

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Capitolo 9
*** BASILICATA IS ON MY MIND ***


9 – BASILICATA IS ON MY MIND
Finché mantenevo la mente occupata nelle attività scolastiche, non pensavo ad altre cose. Bastava concentrarmi sullo studio e sui problemi che avevo a Milano per non pensare a Policoro e non permettere ai pensieri di accavallarsi in una girandola pericolosa di fantasie e domande. Perciò, sin dall’inizio della scuola sapevo che la prima vera grande prova l’avrei dovuta affrontare a Natale.
Già qualche domenica in cui non avevo niente da fare mi era costata tanti sforzi e tanta fatica per tenere sotto controllo i pensieri. Mi accorgevo che, soprattutto se restavo a letto un po’ di più la mattina, o facevo fatica ad addormentarmi la sera, con la mente viaggiavo immediatamente a mille kilometri di distanza. A quello che era successo. A quello che mi avevano fatto e a quello che era diventata la mia vita, un esilio forzato al di fuori del mio pensiero felice: Policoro.
Così cercavo di tenere sempre la mente occupata su argomenti diversi. E quando ero mentalmente troppo stanco per farlo, mi dedicavo all’attività fisica. Fu in quel periodo che maturai una vera passione per il nuoto. Evitavo di sentire qualsivoglia notizia sulla Basilicata o sulla stessa Policoro. Anche la lettura diventava pericolosa. Fu sempre un quel periodo che incominciai ad apprezzare i saggi scientifici, soprattutto di carattere matematico. D’altra parte erano quanto di più lontano da un libro di avventura potessi leggere, e decisamente impedivano alla mia fantasia di viaggiare.
Vi lascio solo immaginare la tortura che dovetti subire quando mi offrii di aiutare mio fratello a fare un compito di letteratura e scoprii che il compito verteva su “I ragazzi della via Paal”. Fu uno dei pomeriggi peggiori della mia vita. Era quasi la metà di dicembre e in poche ore avevo cancellato 4 mesi sforzi mirati a non pensare a nulla che potesse anche solo lontanamente assomigliare alla mia esperienza. Alle sei di sera finimmo il compito e da quell’ora non tornai a casa dalla piscina neanche per mangiare.
Poi arrivò il momento peggiore: era una delle mattine più fredde di quell’anno. Alle otto meno un quarto mio padre mi lasciò all’ingresso della scuola e si diresse velocemente al lavoro.
Per quanto fossi in uno stato di ansia da prestazione scolastica per quello che mi aspettava, quella era una giornata che poteva considerarsi “bella”. Le prime due ore ero impegnato nell’ultimo tema dell’anno. La successiva avevo un’interrogazione di elettrotecnica, ma ero assolutamente preparato, quindi accettai con gusto la sfida per vedere se riuscivo a superare l’otto all’orale che avevo preso due mesi prima. Poi tre ore di laboratorio. Ma essendo l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale, sicuramente non avremmo fatto nulla.
Le prime tre ore passarono tranquillamente. Poi, nelle ore di laboratorio mi rilassai, forte del mio otto e mezzo in elettrotecnica.
Avendo ricevuto il permesso dal professore di passare un po’ di tempo in internet, mi collegai alla mia casella di posta elettronica. La aprii e in effetti c’era un messaggio. Lo lessi e mi sentii mancare, tanto che dovetti chiedere al professore il permesso di uscire un attimo. Una volta fuori dall’edificio scolastico cercai di fare il punto della situazione.
Intanto nel laboratorio tutti si chiedevano che cosa avesse di così particolare quel messaggio. Io, infatti, non avevo semplicemente chiesto con riservatezza al professore di uscire: mi ero alzato, avevo di corsa attraversato tutto il laboratorio per arrivare al banco del professore, mi ero quasi ammazzato inciampando in un paio di sedie e, affannosamente, avevo chiesto ad alta voce al professore di uscire.
Non riuscivano a capire il motivo di tutta quell’agitazione. In fondo erano solo quattro righe. Poi c’era un logo, una figurina, ma a nessuno sembrava che ci fosse qualcosa di particolare dietro tutto questo. Anche quello che c’era scritto non era niente di particolare:
“caro Simone. Siamo veramente felici di risentirti. Non credo che tu ci conosca. Ma noi si. Non ci dimenticheremo mai di te. Sei troppo importante per noi. Guai a te se provi a scendere a Policoro a Natale, caro Simone”
Poi ad Alessandro venne in mente che cosa avrebbe potuto essere e decise di assicurarsene. Stava suonando l’intervallo, quindi uscì anche lui dall’aula e mi raggiunse fuori dall’edificio scolastico, mentre io, con addosso solo una felpa, mi stavo “rinfrescando” le idee.
“Non dirmi che sono loro” chiese Alessandro, accendendosi una sigaretta e porgendomela.
“Che fai?! Quante volte te lo devo dire che non fumo?” risposi con veemenza. Alessandro fece un tiro e si sedette al mio fianco. Solo allora continuai.
“Si! Ne sono sicuro”
“Come fai?” mi chiese.
“Il logo. Non è un logo, come qualcuno ha pensato che fosse. È una firma. Tre bambini stilizzati sono la firma della banda dei Tre Fratelli. E poi la stessa frase, ad inizio e fine della perentoria comunicazione. Sono sicuramente loro. Come hanno potuto sapere il mio indirizzo di posta elettronica?”
“Ma soprattutto, cosa vorranno ancora da te? Non sei stato tu a dirmi che anche se te ne eri andato, Michele e gli altri non hanno più disturbato i tuoi amici? Perché adesso che stanno incominciando queste vacanze loro vogliono tenerti lontano da Policoro?”
“Non lo so. Forse vogliono assicurarsi che non faccia il furbo. Anche se c’è, in effetti, qualcosa che non mi convince. Non riesco però a capire ancora bene qual è il particolare che non quadra”
“Forse rivedendo il messaggio potrai fare più mente locale della situazione” mi consigliò Alessandro. Facendomi capire di essermi spiegato bene.
“Non sto parlando del messaggio! In generale. C’è qualcosa che mi sfugge, qualcosa che so di non aver considerato” risposi.
“Si ma qui non ti rinfreschi la mente, te la congeli. Che ne dici se rientriamo?” chiese, gettando nel cestino il mozzicone appena spento della sigaretta.
Ritornai in fretta nel laboratorio e al mio computer. E osservai di nuovo tutto il messaggio. Ma niente.
Come spesso accade, fu una frase detta accidentalmente a illuminarmi. Ad un certo punto un mio compagno, completamente disinteressato a tutto quel discorso, disse una frase che non avrebbe avuto alcun significato per me, in qualunque altra situazione, ma che in quel caso mi aprì letteralmente gli occhi. Disse, ad alta voce, la frase di un comico cabarettista abbastanza famoso in quegli anni: “Le so tutte!”.
Niente di strano, eppure quelle tre parole rimbombarono nella mia mente ed aprirono uno spiraglio in tutto quel casino. Solo che non volli dare a vedere nulla. Cancellai il messaggio ed arrivai fino alla fine della giornata scolastica. Le vacanze erano iniziate e non le avevo mai aspettate così ansiosamente. Appena arrivai a casa, decisi che era arrivato il momento per sapere qualcosa di più su ciò che era successo quel giorno. Decisi di telefonare a Giuseppe.
“Pronto”
“Ciao sono Simone da Milano”
“Simone! Ciao! Come stai? Spero bene. Com’è il tempo lì? Come mai te ne sei andato così in fretta, e senza lasciarti salutare?”
Era la madre di Giuseppe. Lui aveva preferito non dirle niente e probabilmente aveva fatto bene.
“Buongiorno signora, sto bene, grazie. Per il resto è una storia lunga. Per favore, può passarmi Giuseppe? Gli devo dire una cosa”
“Subito” fu la risposta della donna. E, dopo pochi secondi, si sentì la voce di Giuseppe al telefono.
“Che cosa vuoi?”
“Dalla risposta deduco che anche a te è arrivata la comunicazione dei Tre Fratelli! Come va?”
“Si mi è arrivata. Anche a Francesco e Emanuele è arrivata. Me l’hanno appena detto. Ma tu avevi intenzione di scendere a Natale?”
“No! E a questo punto speriamo di rivederci alla fine dell’anno scolastico. Senti, che tu sappia, Emanuele ha avuto qualche rapporto con i Tre Fratelli in passato?”
“No! Lo saprei altrimenti! Anzi lo sapremmo tutti, ma perché me lo chiedi?”
“Perché ho come l’impressione che sappia troppo. Da come ci ha parlato delle cose successe in passato con i Tre Fratelli”
“Si, Simone, ma quelle sono cose che sanno tutti. Voci più o meno tendenziose relative al passato. Alcune vere e proprie balle!”
Mentre da lontano si sentiva la madre di Giuseppe che lo sgridava per i modi e le parole, feci a Giuseppe un’altra domanda.
“Giuseppe, ma se tu sapessi qualcosa me lo diresti, vero?”. Avevo bisogno di sapere che potevo, nonostante tutto, contare ancora su di loro. E Giuseppe rispose nel modo giusto.
“Guarda che chiunque può impedirci di giocare a nascondino o uscire insieme la sera, ma l’amicizia tra noi quattro rimane e rimarrà sempre la stessa”.
“Grazie! Ci sentiamo!”
“Di niente! Ciao!”
E quella telefonata finì. Quelle erano proprio le cose che avevo bisogno di sentire. E quella fu una giornata decisamente particolare. Iniziai a pensare di poter ritornare a Policoro tranquillamente l’estate successiva.
Ma soprattutto iniziai a pensare ad una cosa legata a Policoro. La proposi a Maria e lei ne fu entusiasta. E quelle vacanze passarono a Milano. Giocai con il computer, guardai la televisione e soprattutto ne approfittai per studiare, dal momento che quei pensieri mi avevano portato via un sacco di tempo utile.
Uscii anche. Andai a Milano con Maria e mi gustai fino in fondo la nevicata che coinvolse tutta la regione per ben due giorni. Non mi ricordavo di avere mai visto così tanta neve a Milano. Ebbi anche il piacere di parlarne con Giuseppe che sentii spesso, ma al quale non rivelai la sorpresa che gli avrei fatto in estate. Che avrei fatto a tutti loro. Poi finì l’inverno e passò la primavera.
Il tempo passava velocemente e così in poco più che qualche istante nella mia mente, mi ritrovai all’inizio di Giugno. Come gli altri anni, sempre, ogni volta mi capitava in quel periodo di soffrire di una vera e propria crisi di astinenza verso Policoro. Anche in quell’occasione presto avrei potuto riprendere la vita normale delle vacanze scendendo. Almeno, questo era quello che speravo vivamente. In più non ricevetti più alcun messaggio dai Tre Fratelli. Questo mi consolò, perché mi sentii autorizzato a scendere nuovamente a Policoro.
Stranamente, però non avevo più sentito neanche Giuseppe. Almeno dalla fine di Aprile. Però non me ne preoccupai più di tanto. La vera fonte di gioia fu la notizia che mio padre mi diede il giorno stesso della fine della scuola. Visti i miei buoni voti, e riconfermandomi la sua fiducia, dal momento che i miei nonni erano già scesi un mese prima ma poi dovevano risalire per gestire delle visite specialistiche, dal giorno stesso del mio arrivo a Policoro, avrei avuto nuovamente l’occasione di rimanere da solo in casa, fino all’arrivo dei miei genitori ad agosto.
Sarei partito Lunedì 16 Giugno, e rimasto a Policoro, da solo, almeno per un mese e mezzo. Almeno, così aveva pensato mio padre. In realtà avevo ben altre intenzioni, ma era troppo presto per renderle pubbliche. Fui, ovviamente, felicissimo per quella notizia.
Policoro, incredibilmente, era ritornato ad essere il mio pensiero felice. Anche se con tutto il macello successo l’anno prima qualche piccola disillusione mi aveva colto. Adesso sapevo che non tutti i ragazzi come me sono bravi ragazzi. Anche a Policoro. Ma non me ne preoccupai più di tanto.
Il giorno stesso della partenza, quando ero già sul treno, mandai un messaggio a Giuseppe. “SONO SUL TRENO PER POLICORO”. E anche quel messaggio, come tutti gli altri, non ricevette una risposta. Ma ero felice lo stesso.

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Eccomi di nuovo!! :) Grazie ancora a tutti voi per sostenere questo racconto e soprattutto per recensirlo. Un'opinione è sempre importante: stimola le facoltà di ragionare, ci fa prendere delle decisioni importanti, ci suggerisce addirittura di cambiare qualcosa, rende migliori e dona anche quel pizzico di sicurezza in più, quando necessaria. GRAZIE!!

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Capitolo 10
*** SERE NERE ***


10 – SERE NERE
Arrivai a Policoro più stanco dell’anno prima. Se, l’anno precedente, ero riuscito a evitare, per uno strano caso, l’‘effetto Bollywood’ adesso mi ci frantumai in pieno. Treno stracolmo, bagni intasati, aria condizionata mal funzionante. Insomma, tutto era tornato normale. Non valeva più la pena di illudersi neanche per quello. Di certo, arrivato a Policoro, mi feci più furbo dell’anno prima. Niente perdite di tempo in respiri, sudare, camminare. Appena sceso dal treno, mi fiondai alla pensilina del pullman. E riuscii a prenderlo, godendomi quel viaggio di due minuti con l’aria condizionata e un autobus quasi completamente vuoto, visto che a quell’ora ancora non c’era il “ritorno grosso” dal mare. Avevo sentito Maria per pochi minuti e quindi il telefono era carico abbastanza per avvisare i miei nonni del fatto che il treno avrebbe fatto ritardo. Anche se, circa dieci minuti dopo l’arrivo alla stazione di Policoro del treno, ero felicemente sotto la doccia a rinfrescarmi.
Per quanto l’esperienza sfiorata con i Tre Fratelli era stata quasi completamente adombrata dall’aria estiva e marittima di Policoro, c’era però qualcosa che non andava. Per quanto fosse normale che non ci sentissimo per qualche tempo, da quando avevo mandato l’ultima lettera dopo Pasqua, Giuseppe non mi aveva risposto. Né per iscritto. Né telefonicamente. Né via e-mail. Né via piccione viaggiatore, o telegrafo, o radio amatoriale, o con un annuncio sul giornale o con una missiva portata a cavallo, con segnali di fumo, con lettere minatorie. Nulla. E questo non mi faceva piacere per niente quella situazione. Poi il messaggio del giorno prima, a cui non aveva risposto. Poi quel giorno, e di solito, sapendo del mio arrivo, lui voleva essere il primo a farsi vedere a Policoro. Infatti, anche l’anno prima, e nonostante le minacce e i divieti di Michele, avevo rivisto Giuseppe prima addirittura dei miei nonni.
Voleva significare qualcosa? Pur avendo paura della risposta a questa domanda, pur avendo paura che la risposta implicasse in qualche maniera i Tre Fratelli, non potevo fare a meno di porgermela. E la risposta, almeno quella breve, la conoscevo benissimo: Sì. È che non sapevo cosa di così brutto potesse essere successo nelle ultime settimane per provocare quel mutismo da parte sua. Cercai di convincermi che non aveva credito e probabilmente che aveva avuto un impegno improrogabile che lo teneva lontano dai suoi amici per quel giorno. Ma non ero convinto neanche io di quell’ipotesi.
Mangiai e verso le due mi addormentai, stanco del viaggio impossibile. Ed un’ulteriore dimostrazione di questo l’ebbi al momento del risveglio accorgendomi che quel pomeriggio me l’ero fumato con cinque ore di sonno profondo e pesante. Quasi istintivamente consultai il cellulare, per scoprire che da Giuseppe neanche uno smile. Decisi di uscire a fare un giro al castello. Non ci andavo da almeno 4 anni. Mi ricordavo ancora perfettamente quella volta, ad esplorare la parte più nascosta del castello. Mi ci sarei perso, se non foste stato per… decisi che volevo dimenticare quel particolare. In quel momento certe persone non meritavano neanche di essere ricordate. Ero riuscito a non pronunciare quel nome per un anno intero e non volevo neanche pensarlo, se non fosse stato assolutamente inevitabile.
Stavo per arrivare al castello quando, girando un angolo, per poco non mi scontrai con un ragazzino. Timidamente mi scusai e iniziai a ritornare verso casa. Questo ragazzino, che intanto, per questo tratto di strada, mi precedeva, si fermò, si voltò e mi chiese come mi chiamavo.
“Simone!” risposi. “E tu? Ci siamo già visti da qualche parte?”
“Non credo. Comunque mi chiamo Giovanni! Ciao” mi rispose.
Ricambiai il saluto e ciascuno proseguì per la propria strada. Decisi di tornare a casa, ma fui anche parecchio incuriosito da quello che era accaduto. E da quel ragazzino. Decisi quindi di fare una cosa che non facevo, anch’essa, da quattro anni. Seguire quel ragazzino. Continuai per qualche minuto a girare nelle viuzze del castello, quando vidi il ragazzino entrare in una casa. Giunsi fino al cancello e quando vidi il cognome scritto sul citofono sobbalzai, correndo via come un pazzo: senza essermene accorto avevo seguito uno dei Tre Fratelli fino a casa sua. Corsi via cercando prima possibile di ritornare ai più amichevoli lidi del mio vicinato. Almeno, più amichevoli pensando che fossero tali.
Decisi di attraversare la via dove abitava Giuseppe da una posizione più alta, In modo da vederli senza essere visto. Ma quello che vidi era tutto molto, molto strano. Nella via non c’era nessuno. Vidi anche che Emanuele e Francesco erano al balcone di casa loro. Quindi ritornai sulla parallela e corsi velocemente sulla prima traversa, in modo da trovarli ancora sul balcone. Ed infatti così fu. Passai e con la coda dell’occhio li vidi. Mi voltai e li salutai con un gesto del braccio. NESSUNA RISPOSTA. Mi guardavano, fissi, ma non rispondevano al saluto. Ci riprovai.
“Oh! Ciao!!”
Niente. Mi sembrò che Francesco mi facesse un cenno con la mano. Appena se ne accorse, Emanuele lo prese e con forza lo spinse dentro casa, chiudendo dietro di sé la porta del balcone.
Senza neanche pensarci corsi giù, verso casa di Giuseppe. C’era, a quel punto, una sola persona che poteva darmi delle spiegazioni. E a lui le avrei chieste. Non c’erano auto in tutta la via. Evidentemente erano soli in casa. E anche Giuseppe lo era. Suonai insistentemente al citofono.
“Chi è?” fu la risposta: dall’altra parte del citofono c’era proprio Giuseppe.
“Giuseppe! Sono Simone!”. Non feci neanche in tempo a dirlo che il citofono si chiuse. Attesi qualche secondo, immaginando Giuseppe che, dal piano di sopra, scendeva velocemente ad accogliermi. Ma nulla di tutto ciò accadde.
In quel momento, come un fulmine in un cielo già livido di nuvole, un pensiero attraversò la mia mente, già piena di preoccupazioni per quello che stava succedendo. Ritornai con la mente all’ultima sera passata a Policoro l’anno prima. Capii che, come allora, ero solo in quella via. Non c’era nessuno, proprio nessuno, che avrebbe potuto proteggermi in quel momento.
All’improvviso, da dietro l’angolo della via, vidi spuntare due persone. Una non la conoscevo, almeno non di persona. L’altra l’avevo conosciuta pochi minuti prima. Era il ragazzino che avevo seguito. A giudicare dalla fisionomia dell’altro, dovevano essere i due fratelli minori di Cosimo. Erano fermi all’inizio della strada. Mi ero bruciato quella via d’uscita. Sapevo che probabilmente al termine dello scivolo pedonale avrebbe potuto esserci un’altra coppia di persone, come l’anno prima.
Era incredibile come in quell’anno ero riuscito a raggiungere vette sempre più alte di paura. Quasi panico, ma per fortuna non ero ancora arrivato a quel punto, dal momento che, lo sapevo, il panico sarebbe stato peggio di qualsiasi altra forma di paura potevo provare.
Fu strano, anche in quel caso, per me, parlare di fortuna. Non ci credevo, e non ci credo tuttora. Eppure quella fu l’ultima volta che ebbi una fortuna così sfacciata. Perché intanto si erano fatte le otto.
Mio nonno, essendo quasi in partenza, aprì la finestra per chiamarmi. Non fece neanche in tempo ad aprir bocca che schizzai in casa come una molla. Tirando un sospiro di sollievo per averla scampata anche in quell’occasione.
Ancora nell’incoscienza di quello che stava realmente accadendo, mi gustai gli ultimi minuti in compagnia dei miei nonni. Mi avevano lasciato casa pulita, frigo pieno e un’immensa libertà. Tenere la casa in ordine, pulire, sistemare, cucinare, lavare, fare la spesa, erano tutte preoccupazioni che, in quel momento, non mi sfioravano neanche lontanamente. Come qualsiasi mio coetaneo, a quel tempo, pensavo di potermela cavare tranquillamente. Un loro amico passò a prenderli e se ne andarono.
Avevo già mangiato e solo a quel punto mi sdraiai un attimo sul letto a riflettere. E giunsi al vero inquadramento del problema. Evidentemente era successo qualcosa. Evidentemente i Tre Fratelli si erano fatti vivi con Giuseppe, Francesco e Emanuele. Ma perché? La risposta a questa domanda mi venne subito dopo. Perché sentii, pienamente nascosto dalla vista di tutti, quello che accadde in quella via. I passi, veloci e giovani, di due persone. Si fermarono davanti alla casa di Giuseppe. Citofonarono e pochi secondi dopo Giuseppe aprì la porta. Si salutarono sotto voce. Senza dire niente si avvicinarono e si sedettero sul marciapiede proprio sotto la mia finestra a parlare. Ingenuamente.
“Mi dispiace tantissimo non aver potuto parlare con Simone, ma le istruzioni erano quelle e non possiamo permetterci di disubbidire” disse Emanuele.
“Non so se riusciremo a continuare così. Pensate che questo pomeriggio, appena l’ho visto, stavo per salutarlo. Meno male che Emanuele me lo ha impedito, altrimenti non oso pensare a quali conseguenze avremmo potuto avere” aggiunse Francesco.
“Non preoccupatevi. Anche io mi sento male al solo pensiero che il mio migliore amico è in casa e che noi, da qui fuori non possiamo neanche salutarlo” concluse Giuseppe, “ma per il momento questa è l’unica cosa che possiamo fare”.
Altro che “ingenuamente”. Quei tre, adesso ne ero sicuro, l’avevano fatto apposta. Capii infatti che quello era l’unico modo che avevano per comunicare rendendomi edotto di quanto stava accadendo. E avevano sfruttato il momento, sapendo che i miei nonni erano appena partiti e che dopo una serata come quella, evidentemente non avevo tanta voglia di uscire e dovevo essere rimasto in casa. Il citofono e la porta che rumorosamente si apriva e si chiudeva erano l’ottima esca per costringermi ad ascoltare attentamente quello che avevano da dire. Anche perché, detto questo, si separarono ritornando ciascuno a casa propria.
Non sapevo se essere contento di quel tentativo riuscito di comunicare con me, o, seppur perfettamente cosciente di quanto stessero soffrendo, sentirmi deluso e arrabbiato per una decisione del genere presa dai miei tre amici. Alla fine avevano deciso di mollarmi da solo e ubbidire a quelle istruzioni.
Potevo cercare tante scusanti a quella situazione, ma le cose, almeno in quel momento, stavano così. Avvisarmi e farmelo sapere era, per me, qualcosa a metà tra il danno e la beffa.
Da un punto di vista tattico era una pessima scelta. Anche se, vigliaccamente anche io, l’anno prima, con la scusa della prudenza, mi ero comportato nello stesso modo.
In un primo momento, quindi, pensai di essermela cercata. Però, pensai, io ero tornato. Ero lì e se avessero tenuto veramente alla mia amicizia, forse, avrebbero capito che quello era il momento buono per essere tutti insieme lì, uniti a combattere, piuttosto che mollarmi così. Quel ‘se avessero tenuto veramente alla mia amicizia’ che mi balenò in testa in quel momento aprì e mi gettò in un baratro che mi sarebbe costato tantissimo.
Nel comportamento di Giuseppe, Francesco e Emanuele stavo intravedendo il rischio che qualcosa nel gruppo potesse rompersi, e se a rompersi fosse stata proprio quella cosa che l’aveva mantenuto unito, l’amicizia, allora era proprio finita.
Più di ogni altra cosa non volevo che succedesse una cosa del genere. Non volevo che si rompesse quel gruppo che per quasi sedici anni era stato così affiatato. Non lo volevo. Mi era già successo una volta con una sola persona e non mi era piaciuto per niente. Non lo volevo, soprattutto questa volta. Decisi allora che avrei fatto qualsiasi cosa per impedirlo. Non ci sarebbe voluto molto. D’altra parte il telefonino ce l’aveva anche Giuseppe. Decisi semplicemente di mandargli un messaggio, che tanto, prima o poi, avrebbe dovuto leggere. Gli chiesi semplicemente: “PERCHÉ IO?”. Che erano due semplici parole, ma quando Giuseppe lesse quel messaggio, non ci fu neanche bisogno di vedere il numero del mittente per capire chi glielo avesse scritto.
E rispose con poche parole ed un breve commento: “RESISTI, NON CI SENTIREMO PIU’. È inutile che provi a telefonare tanto spengo il telefono”. Quegli ottantanove caratteri furono, per me, i peggiori che potessi mai leggere. In due giorni passati a Policoro, per altro separati da quasi un anno di lontananza fisica, quella banda, composta da persone che neanche conoscevo, era riuscita ad annullare anni di amicizia, che nessuno di noi, fino a pochi secondi prima di saperli scesi in campo, avrebbe mai e poi mai messo in dubbio.
Con quell’sms era finito tutto. Amicizie, giochi, amori, tutto ciò che poteva essere collegato a Policoro, nella mia testa da sedicenne, era finito con l’arrivo, sul mio cellulare, di quel messaggio.
Provai, nonostante il chiaro avviso, a telefonare a Giuseppe. Nessuna risposta. Il cellulare era spento.
Provai a chiamare a casa. Niente.
Chiamai al cellulare di Emanuele. Stesso risultato.
Per la prima volta in vita mia provai un sentimento che avevo solo sfiorato fino a quel momento e che mi faceva paura. Molta paura. Troppa paura. Mi sentii solo. Per la prima volta in vita mia mi sentii veramente solo. Lontano da chiunque potesse anche solo sapere di essere mio amico.
La cosa che mi dava più fastidio non era la solitudine in sé. Era la paura di quello che poteva succedermi per quella solitudine a spaventarmi.
Perché finché attaccavano un gruppo di persone come noi, eravamo pressoché imbattibili contro altri ragazzi della nostra età. Ne ero assolutamente certo. Ma essere solo mi faceva sentire anche indifeso. E se qualcuno spiava la casa? E se qualcuno non faceva altro che aspettare che uscissi da solo per attaccarmi? E se fossero stati in più persone ad attaccarmi? Avrebbero potuto fare di me qualsiasi cosa.
Purtroppo, però, in fondo al baratro di cui ho parlato prima, non ero ancora arrivato.
L’amicizia, per me, fino a quel momento, era stato il sentimento più importante della mia vita. Avevo appena scoperto l’amore. E comunque era ancora un sentimento molto acerbo. L’amicizia, invece, l’avevo fatta maturare nella mia vita, seppur ancora adolescenziale.
Significava che quelli che avevo scelto come amici, come migliori amici, non lo erano veramente? Significava che avevo sbagliato giudizio? Significava che (e questa volta pur con tutta la voglia di non pensarlo neanche il suo nome, dovetti farlo) Michele, quel pomeriggio aveva ragione? Significava che avevo sbagliato tutto? Che quei tre avevano semplicemente sfruttato la mia amicizia per poi disfarsene al momento più opportuno?
Atterrare in fondo al baratro non poteva essere più doloroso.
Per la prima volta, Policoro non era più il mio pensiero felice. Era un paese che non mi apparteneva più. Dove non avevo più alcun legame. Quel pomeriggio mi aveva cambiato la vita. In peggio.
Sentii il bisogno violento di sfogarmi. Vidi la prima cosa che avevo davanti. Il muro. Non lo avevo mai fatto. Caricai tutte le mie forze nel braccio destro. Strinsi il pugno. Non sapevo quello che mi aspettava. Ma avevo bisogno, l’estremo bisogno, di farlo. Si sentì un rumore cupo per tutta la stanza. Seguito da altri due. Alla fine, con le dita doloranti ed arrossate, mi accasciai per terra. In preda alla disperazione.
E Giuseppe, come aveva potuto comportarsi così con me? Dopo tutto quello che avevamo fatto, detto, tutta l’amicizia che ci aveva legati. Dopo avergli dato tante prove della mia amicizia, non ultima la presa di posizione nei confronti di Michele di tre anni prima. Come poteva essersi comportato in quel modo?
In quel turbine di sentimenti e di pensieri, ad un certo punto fui colto da una stanchezza inverosimile. Vidi l’orologio, erano circa le dieci, ed ero già a letto. Mi addormentai. Sognai di essere in una buca profonda, e non riuscire a risalire. Ad un certo punto sentivo passare da lì Giuseppe e gli urlavo di aiutarmi con una corda. In tutta risposta lui mi urlava “Resisti! Non ci sentiremo più”. E buttava nella buca la corda intera, impedendo non solo a me di sollevarmi e uscirne, ma anche a chiunque altro di aiutarmi. Urlai, nel sogno, e mi svegliai improvvisamente. Mi sollevai, seduto sul letto, completamente sudato e ansimante. Gli occhi sbarrati per quell’incubo. Dopo qualche frazione di secondo mi sovvenne che quell’incubo poco si discostava dalla realtà. E lo spavento cedette il posto alla depressione. Ma durò solo per qualche altro secondo. Perché poi un urlo lo udii veramente. Era l’urlo di qualcuno che urla per difendersi ma che, contemporaneamente, riceve un colpo che gli toglie il fiato. E, indubbiamente, l’autore di quell’urlo era Francesco.
Senza neanche pensare alle future implicazioni che quell’azione avrebbe potuto avere nella nostra vita, mi alzai dal letto e corsi alla finestra, spalancandola e buttandomi dall’altra parte. Istintivamente compresi che quello era il tragitto più sicuro per arrivare di là, non sapendo se ci fosse stato qualcuno a spiarmi.
Non c’erano ancora le macchine dei loro genitori. Corsi immediatamente verso Francesco. Era per terra e perdeva sangue dalla bocca e dal naso. In quel momento la porta di casa di Giuseppe si aprì e corsero fuori anche Emanuele e Giuseppe. I due si avvicinarono più velocemente di me a Francesco. E intervenni.
“Così lo soffocate! Lasciatelo respirare! Francesco! Cos’è successo?”
Nessuno rispose. Quel silenzio irreale, a parte il pianto di Francesco, era a dir poco imbarazzante. Poi, però, capii che per quell’amicizia si poteva fare ancora qualcosa. E avevo tutta l’intenzione di questo mondo di farla. Dovevo, mai come prima, prendere in mano la situazione. E feci proprio questo. Avanzai verso Francesco, spinsi ai miei lati sia Emanuele che Giuseppe e lo aiutai ad alzarsi. I due al mio fianco non ebbero neanche la forza di reagire.
“Francesco ha bisogno di cure. Vedete di affrontare la cosa da ragazzi maturi piuttosto che da bambini”. E, così dicendo, l’accompagnai alla mia finestra, che scavalcò, entrando in casa mia, seguito da me. Giuseppe ed Emanuele, visto il modo in cui mi ero imposto, non si azzardarono a ribattere. Anzi corsero verso casa di Giuseppe, richiudendosi dietro il portone.

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Buongiorno! Attendo impaziente di sapere cosa ne pensate!
Grazie delle vostre recensioni e grazie a tutti coloro che recensiranno questa storia o anche semplicemente che la leggeranno!!

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Capitolo 11
*** Tutti qui ***


11 – TUTTI QUI
Con poche ma decise mosse, curai il labbro e fermai l’emorragia dal naso. Francesco capì immediatamente di non meritare neanche una cosa simile da parte mia. E se solo avesse compreso chiaramente il mio sguardo, avrebbe visto dispiacere per quello che gli era successo ma anche profonda rabbia per il comportamento di tutti e tre. Capii che la situazione in cui si trovava Francesco, era ideale per farlo parlare e farmi spiegare cosa era successo. L’unica cosa che poteva fermarlo, in quel momento, era la paura.
Mi dispiaceva farlo. Ma anche a costo di passare per il cattivo della situazione, dovetti alzare la voce. E ordinarglielo.
“Adesso tu mi dici tutto quello che è successo. Voglio i nomi di quelli che ti hanno aggredito e voglio sapere perché. Voglio sapere tutto altrimenti, quant’è vero che mi chiamo Simone, ti do il resto”. Dissi quell’ultima frase per spaventarlo ancora di più. Non l’avrei mai neanche sfiorato. Ma Francesco lo capì immediatamente e mi rispose.
“Tutto è iniziato quando Giuseppe ha ricevuto una lettera dai Tre Fratelli. In questa lettera intimavano a lui e noi di non avere alcun contatto con te, anche se tu fossi sceso. È accaduto circa dopo Pasqua. E da quel momento tu non hai ricevuto più alcuna notizia da noi o Giuseppe, giusto?”. Un cenno affermativo da parte mia gli confermò che aveva ragione e che poteva continuare.
“Oggi quando ti ho quasi salutato, ho pensato che Emanuele avesse fatto in tempo a fermarmi. Ma non c’era riuscito. E per quel cenno di saluto ho pagato”
“E chi ti ha fatto pagare?”
“È questa la cosa strana! Perché è stato Amaraldo e con lui c’era un altro. Che aveva il viso coperto, per non farsi riconoscere da me o da chiunque l’avesse visto”
“Cioè vuoi dire che con Amaraldo non c’era uno degli altri tre? E perché se erano solo in due non vi siete difesi?”
“Non era né Michele, né Dorian né Salvatore, ti ho detto. E Giuseppe e Emanuele non erano con me. Erano in casa di Giuseppe e io li stavo raggiungendo. Hanno fatto appena in tempo ad uscire per vederli scappare. Che cosa potevano fare?”
“Capisco” risposi, anche se, obiettivamente, di tutta quella storia avevo ancora capito ben poco.
“Adesso ho paura di tornare a casa. Ho paura addirittura di Emanuele, perché è stato lui a convincerci oltre ogni dubbio a non parlarti. Anche se anche lui se ne dispiaceva”
“Non preoccuparti! Per questa notte potete dormire qui se lo desiderate, anche tutti e tre. Non c’è alcun problema. Anzi, adesso parlo con Giuseppe e Emanuele e mi sapranno anche loro dire quello che vogliono fare”.
Prima mandai un messaggio a Giuseppe. “SE VUOI CHE ENTRI, APRI IL PORTONE DI CASA TUA!”.
Pochi secondi dopo averlo inviato, sentimmo il rumore del portone che si apriva.
“Allora è vero che da qui si può sentire tutto!” osservò, più rilassato Francesco.
“Si! Sia che lo vogliate oppure no!”
“Allora ti sei accorto che l’abbiamo fatto apposta a scendere a parlare vicino alla tua finestra”.
“Certo! E infatti ho colto al volo l’occasione” risposi sorridendo, cercando di stemperare ancora di più la tensione. La sua. Perché la mia tensione, ripensando al giochino di poche ore prima sotto la mia finestra, non si stemperava per niente. Ma, pur sapendo che avevano sbagliato, stavo incominciando a capire che l’avevano fatto per la paura, fondata o no, dei Tre Fratelli. Appena scontrati con la dura realtà, infatti, erano ritornati sulla strada giusta e avevano deciso di collaborare. Questo mi rincuorò, anche se da qui a parlare di stemperare la tensione ancora ce ne voleva…
Uscii di casa, e di corsa arrivai sotto casa di Giuseppe. La porta aperta mi accolse. Entrai. Le luci erano spente, ma quel poco di luce che arrivava dall’esterno era sufficiente a farmi vedere i due ragazzi, seduti per terra in cucina, in silenzio e visibilmente scossi da quello che era successo. Appena li vidi, mi inginocchiai al loro fianco.
“Ascoltatemi bene. Francesco mi ha raccontato tutto. Adesso è più che mai necessario restare uniti. Visto che i vostri genitori adesso non ci sono, propongo che veniate a passare la notte da me. Casa mia è decisamente la più sicura, perché finché rimaniamo insieme non ci possono fare granché”
“Simone scusa, ci hanno preso alla sprovvista, non sapevamo cosa fare!”
“Non preoccupatevi, di questo parleremo poi. Adesso, Giuseppe, sali in camera tua, e prendi la tua roba. Poi andiamo a casa di Emanuele. Così può prendere la sua. Muoviamoci! Se è come penso non ci stanno spiando e deve passare ancora un po’ di tempo prima che possano riorganizzarsi!”
I due ragazzini, ubbidientemente, fecero tutto quello che gli era stato detto. Quando fummo a casa di Emanuele, mi accorsi che prese anche le fionde.
Solo pochi minuti dopo essere arrivato a casa di Giuseppe, eravamo di nuovo a casa mia, dove Francesco ci stava aspettando ansiosamente.
“Ti prego, perdonami! Non potevo non raccontargli quello che è accaduto nell’ultimo mese!” urlò piangendo Francesco, gettandosi in un abbraccio disperato verso suo fratello.
Io e Giuseppe restammo a guardare quella scena, in parte inteneriti da come Emanuele tentava di calmare suo fratello, in parte ancora più confusi.
“Simone, dobbiamo parlare!” disse Giuseppe di colpo.
“No! Adesso no! Sono stanco morto. Ne parliamo domani. Adesso andiamo a dormire!” risposi.
“Per favore, Simone! Ti dobbiamo spiegare!”.
“Adesso no!” risposi seccato. E andai a letto, voltandomi verso il muro. Ero contento che Giuseppe ed Emanuele avessero scelto di venire di nuovo a casa mia, ma ero ancora arrabbiato con loro. Soprattutto con Giuseppe che consideravo il mio migliore amico. Pensavo sinceramente che avrebbero potuto reagire in modo diverso da come si erano comportati. Quindi, sapendo che la coscienza gli stava già ampiamente rimordendo, volevo semplicemente farlo soffrire ancora un po’. Pensavo di averne il diritto e che se lo meritasse.
Dopo neanche mezz’ora Emanuele e Francesco stavano dormendo. Ne potevo sentire il respiro regolare. Poi, concentrandomi meglio, sentii qualcuno che stava silenziosamente piangendo. Se non fosse stato per il singhiozzo che ogni tanto gli usciva non me ne sarei quasi accorto.
Solo uno stupido non avrebbe capito chi era l’autore di quel pianto sommesso quanto disperato. Evidentemente la mia condanna alla “tortura della coscienza” stava funzionando. Sarei stato quasi soddisfatto, se non fosse stato per un piccolo problema.
Il problema era che quella “tortura” stava funzionando con entrambi: mi stavo sentendo un verme. Sapevo che stava male al solo pensiero di quello che aveva fatto. E io lo stavo lasciando soffrire gratuitamente!? E lui non aveva voluto neanche insistere per parlarmi, quasi come se volesse, lui stesso, punirsi per quello che aveva fatto. Non potevo permetterlo. Quella punizione, se cosi potevo definirla, doveva finire immediatamente. Per entrambi.
Mi voltai, alzandomi. Mi accorsi che Giuseppe stava cercando di calmarsi e di smettere di piangere. Ma per quanto fosse riuscito ad attutire i singhiozzi, tremava vistosamente. Mi sentii ancora peggio per quello che stavo facendo. Era decisamente necessario chiarire quella questione, una volta per tutte, e ristabilire il buon ordine delle cose.
Appoggiai la mano sulla spalla di Giuseppe. Che immediatamente si irrigidì, non muovendosi, forse per timore di essere visto in quella condizione. Fu un leggero accenno di movimento della mia mano sulla spalla che lo sciolse completamente. Si voltò di scatto, piangendo a bassa voce ma senza alcun freno.
“Scusami Simone! Per favore! Sono stato uno scemo! Abbiamo sbagliato a comportarci così con te! Scusami!” disse, tutto d’un fiato.
“Su alzati” aggiunsi “vieni con me”. Quello non era il posto migliore per parlare. Uscimmo dalla casa e ci sedemmo sulla panchina di fronte.
Giuseppe era ancora profondamente scosso per quello che provava in quel momento. Ma vederlo in quella condizione mi intenerì a tal punto da accettare che quella stupidata fosse, appunto, una stupidata, e voler chiudere il discorso una volta per tutte.
“Dai! Non preoccuparti. L’importante è che vi siate accorti da soli del modo in cui vi stavate comportando. Per me la cosa più significativa che abbiate fatto in questi ultimi 3 mesi è stata aprire la porta di casa tua quando te l’ho chiesto. Tutto il resto è stato cancellato da quel gesto. D’altra parte qualcuno, qualche mese fa, mi disse che chiunque può impedirci di giocare a nascondino o uscire insieme la sera, ma l’amicizia tra noi quattro rimane e rimarrà sempre la stessa. Tuttora metterei la mano sul fuoco a dimostrazione di quanto queste parole siano vere. O no!?”
Gli occhi lucidi di Giuseppe dimostravano che ero arrivato a metà del compito che mi ero dato. Decisi di provare a rassicurarlo ancora di più.
“Non sono arrabbiato con te o con Emanuele. Non ce ne sarebbe alcun motivo. Non preoccuparti. Capita a tutti di comportarsi male con gli amici. Capita a tutti di deluderli. Ma non bisogna mai tradirli. E voi non mi avete tradito. L’ho capito da quello che vi siete detti sotto la mia finestra, prima. E questo è bastato! Calmati adesso! Ok?”
Non stavo mentendo. Semplicemente mi stavo rendendo conto che forse ero stato un po’ avventato a considerare quello come l’ultima presa in giro prima della disgregazione completa del gruppo. Probabilmente, se avessi capito prima che avevano bisogno solo di un po’ di decisione da parte mia, avrei aperto quella finestra e risolto la situazione come avevo fatto comunque qualche ora dopo.
Giuseppe si asciugò le lacrime poi fece un bel sospiro e dopo qualche secondo di silenzio, finalmente, sorrise.
“Grazie Simone! La cosa che temevo di più era aver perso la tua amicizia. È vero! Sono stato io ad averti detto quella cosa. E ci credo ancora, ora più di prima. Grazie anche di non avermi lasciato in quella situazione prima. Stavo così male che stavo per scappare” aggiunse Giuseppe. Questa volta più sereno e tranquillo.
Superata la crisi, capii, come con Francesco poco prima, che quella era l’occasione ideale per capire qualcosa di più.
“Senti Giuseppe, ho bisogno di farti qualche domanda. Voglio solo sapere la tua opinione su certe cose, ma è assolutamente necessario che tu mi risponda dicendo tutta la verità e tutto ciò che sai. Te la senti?” chiesi quasi tutto d’un fiato.
“Ma io ti ho sempre detto la verità” rispose Giuseppe.
“Si lo so! Ma per ciò che devo fare ora, è assolutamente necessario che tu dica esattamente quello che pensi, anche se dovesse andare contro al mio ragionamento. Non voglio convincerti di qualcosa. Anzi, la cosa migliore è che tu mi dica se pensi che ci sia qualcosa che non va nelle mie domande. Ok?”
“Ah! Adesso ho capito! Va bene, facciamolo!” e si mise ad ascoltare con attenzione quello che avevo da dirgli. O, meglio, quello che avevo da chiedergli. Perché c’era un tarlo che non mi faceva dormire, almeno dalle vacanze di Natale dell’anno prima. E adesso, nonostante l’ora tarda, dovevo togliermi quel dubbio.
“Mi è sembrato che Francesco avesse quasi paura di Emanuele, quando siete entrati qui, prima. Hai avuto la stessa impressione?”
“Si! Ed è dovuta al fatto che Emanuele ha molta paura dei Tre Fratelli. Evidentemente è stato molto categorico con Francesco. E credo che dopo quell’accenno al saluto, in casa abbiano anche litigato”
“Ma secondo te a cosa è dovuta questa paura?”
“Alle voci che si sentono. Violenza gratuita, punizioni umilianti e degradanti nei confronti di coloro che osano non ubbidire. Tutte queste cose sono risapute tra i giovani di Policoro. Se sapessi quante ne ho sentite! Ad esempio…”
“Si vabbè non mi interessa. Adesso il problema è un altro. L’anno scorso mi hai detto che, secondo te, Emanuele non aveva mai avuto niente a che vedere con i Tre Fratelli. Ne sei ancora sicuro?”
Lo sguardo di Giuseppe, da sveglio e interessato che era, si abbassò. Giuseppe non aveva mai avuto problemi a guardare negli occhi il proprio interlocutore. Anche se aveva paura di chi gli stava di fronte, non abbassava mai lo sguardo. L’unica volta in cui lo faceva era quando riteneva che la verità fosse così difficile da sostenere che era necessaria una “via alternativa”. Non sto parlando di distogliere lo sguardo, quello lo faceva sempre, soprattutto quando pensava a come mettere insieme una risposta chiara e comprensibile; sto parlando di abbassare gli occhi fino a rivolgere lo sguardo fisso al pavimento vicino ai suoi piedi. Bastavano anche solo pochi decimi di secondo, ma che non sfuggivano agli amici più intimi di Giuseppe, che lo conoscevano meglio. In pratica, e questo era uno dei tanti motivi per cui lo consideravo un vero amico, Giuseppe non sapeva mentire. Attese quel secondo di troppo che mi fece capire che dovevo stare molto attento alla particolare interpretazione da dare alla risposta del mio amico.
Solo che la risposta di Giuseppe non venne.
“Oh!? Ci sei!? Tutto ok? C’è qualcosa che non va?” chiesi, preoccupato dall’eccessivo silenzio.
“Si! È che non immaginavo che mi facessi proprio questa domanda!”
“Perché?”
“Perché non so cosa dirti!”
“Quello che ti passa per la testa!”
“Posso chiederti perché me l’hai chiesto?”
“Perché mi sembra tutto molto strano! Ricordi quando abbiamo saputo della discesa in campo dei Tre Fratelli? Ecco, Emanuele sembrava che ne sapesse molto più di noi tutti. E quando si è condensata l’idea che Michele facesse parte della banda? Ci ha risposto negativamente. Ed era veramente convinto della faccenda. Secondo me in questa storia, Emanuele sa più di quello che vuole farci sapere. Cosa ne pensi?”
“Purtroppo ho pensato anche io la stessa cosa. Però in questi mesi ho provato a parlarci con lui, ma è sempre riuscito a schivare le mie domande. E alla fine non se ne è semplicemente parlato più” concluse Giuseppe.
Reggeva lo sguardo. Aveva optato per la verità!
“Grazie!” gli dissi sorridendo.
“Perché?”
“Perché non hai abbassato lo sguardo quasi mai!” risposi.
Giuseppe sorrise. E poi mi disse una delle cose che più mi colpì positivamente. Dimostrandomi come Giuseppe ed io la pensassimo alla stessa maniera su tante cose.
“Se abbiamo una speranza in questa faccenda, è legata al fatto di condividere questo ed altri pensieri con chi combatte con noi. E se non siamo sinceri fino in fondo il rischio è di perdere tempo, risorse ed energie e non ci conviene farlo” fu la risposta di Giuseppe.
-Saggio per i suoi 15 anni- fu il mio pensiero.
Ma durò pochi millesimi di secondo. Poi entrambi vedemmo una scatoletta di tonno volare in mezzo a noi due, attraversando la ringhiera a cui eravamo appoggiati. Ci voltammo. Un ragazzo con un passamontagna, colpito nello stomaco, lasciò cadere la mazza da baseball che aveva sollevato. Dalla sua posizione voleva indubbiamente colpire me. Non facemmo neanche in tempo ad alzarci che quello, coprendosi con le braccia la pancia, corse via, verso il distributore di benzina e da lì perdendosi nelle vie dietro quest’ultimo, lasciando cadere a terra la mazza da baseball.
“Stare fuori la notte fa male!” fu la voce che udimmo da dentro casa mia.
Solo allora, rivolgendo verso l’interno uno sguardo più attento, ci accorgemmo di due figure distinte. Una in ginocchio, l’altra in piedi dietro di lei. Quella in piedi aveva la fionda scarica. Quella in ginocchio l’aveva appena disarmata. L’abbassò. Seguì il rumore di qualcosa simile ad una scatoletta di tonno che cade per terra.
Erano Emanuele e Francesco.
“È proprio il caso di parlare, ma noi fuori non usciamo. Che fate, entrate voi?” fu la richiesta di Emanuele.
Giuseppe entrò subito in casa, seguito, qualche istante dopo, da me, che mi ero preso il tempo di raccogliere la mazza da baseball e la scatoletta di tonno ammaccata.
“Grazie Emanuele! Grazie a tutti e due! È la seconda volta che ci salvate da una brutta situazione. Certo che con la fionda siete dei mostri!” fu la risposta di Giuseppe.
Risposta che non ebbe alcuna reazione.
A quel tempo, anche piccole differenze di età, contavano. La massima dimostrazione di questo erano i litigi.
Se a litigare erano Francesco e Giuseppe, che rimanevano sempre e comunque i due più piccoli, io ed Emanuele cercavamo di calmare la situazione, alleggerirla con battute e frasi pacate. E quasi sempre riuscivamo a sistemare le cose. Ma Francesco e Giuseppe avevano da un bel pezzo imparato che se a litigare eravamo io ed Emanuele, conveniva decisamente andarsene perché sarebbe potuto volare di tutto e non solo le parole. Giuseppe capì che quello era il momento esatto per eclissarsi. Si alzò dalla sedia a cui si era seduto un attimo per riprendere il fiato dopo essere stato quasi ucciso da una scatoletta di tonno, attraversò la cucina e con un semplice “buonanotte” se ne andò, non prima di aver preso di peso e portato con sé Francesco.
“Scusa!”
Questa fu l’unica parola che si udì in quell’istante, pochi secondi dopo che la porta della camera da letto si era chiusa. Di entrambi. All’unisono. I volti di entrambi si rasserenarono. Poi io parlai per primo.
“Scusami! Avrei dovuto parlarne direttamente con te. Ma sentivo che evidentemente era qualcosa che ti faceva ancora parecchio male”.
Poi fu la volta di Emanuele.
“E tu scusami perché quando è incominciata questa storia avrei dovuto saggiamente parlarvene. Invece ho preferito mantenere il silenzio. Avrei dovuto raccontarvi tutto prima”
Restammo ancora per qualche secondo fermi. Poi, e anche questo accadde contemporaneamente, entrambi tendemmo la mano destra. Una stretta di mano, forte, decisa ma altrettanto rilassata e affettuosa, sotterrò l’ascia di guerra appena dissotterrata.
“Grazie per prima!” dissi “Ma perché proprio la scatoletta?”.
“Era l’unica cosa che ho trovato nell’unico mobile che ho avuto il tempo di aprire”
Una risata suggellò ulteriormente la pace tra noi due.
“Simone, è meglio se escono anche gli altri. Voglio raccontarla una volta sola questa storia”.
“D’accordo! Però parliamone domani. Sto morendo dal sonno e oggi di emozioni ne abbiamo vissute fin troppe.
Andammo in camera anche noi. Evidentemente anche gli altri due erano veramente stanchi, perché si erano sdraiati entrambi sul letto matrimoniale e si erano addormentati. Io e Emanuele ci dividemmo il letto a castello e, pochi minuti dopo, i respiri regolari di tutti e quattro erano l’unica cosa che si poteva sentire nella stanza.
Anzi no.
Io e Francesco russavamo.


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BUONGIORNO A TUTTI CON QUESTO NUOVO CAPITOLO! SPERO CHE VI PIACCIA E NON VEDO L'ORA DI LEGGERE LA CONFERMA O LA SMENTITA DALLE VOSTRE RECENSIONI.
ALLA PROSSIMA!

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Capitolo 12
*** Come mai ***


12 – COME MAI
Quel mercoledì 18 Giugno fui io a svegliarmi per primo. Erano le sette e mezza e, cercando di fare meno rumore possibile, mi alzai e mi diressi in cucina per preparare la colazione. Mentre la preparavo, capii sempre di più di essere, nonostante tutto, felice. Quel momento di crisi sembrava superato. Sembrava passata a tutti e tre la voglia di non collaborare. Rispetto a come ero stato la sera prima, adesso stavo molto meglio. Sperai che quel segnale mandato a tutti i nostri nemici, che non eravamo disposti a troncare quell’amicizia, potesse sortire l’effetto sperato e farci passare persino qualche momento in più di tranquillità. Anche perché mancava poco più di una settimana alla seconda parte della vacanza e quel mese di Luglio volevo godermelo. Quella mattina un appuntamento importante ce l’avevamo. Era con Emanuele che aveva qualcosa di decisamente significativo da dirci e non sapevo come avrebbero reagito gli altri e soprattutto quali sarebbero state le conseguenze di quel racconto. Lentamente, comunque prima delle otto, si alzarono tutti e tre gli altri.
I genitori di Emanuele, Francesco e Giuseppe erano andati via per due giorni e la prima cosa che chiesi ai ragazzi fu di avvisarli in modo che avrebbero potuto dormire a casa mia per la notte successiva. I tre promisero di comportarsi bene ed ottennero il permesso tanto sperato.
Facemmo velocemente colazione. Poi, prima ancora di sparecchiare, Emanuele prese la parola e continuò autonomamente il discorso della notte passata.
“Allora, quello che sto per dirvi deve rimanere tra di noi. Nessuno deve mai venirlo a sapere, perché tutto quello che è successo in queste due estati, temo, dipende proprio da me”
A questo punto l’attenzione di noi tre era completamente rivolta verso di lui.
“Due anni fa circa mi trovavo in terza media. E per la prima volta sentii parlare dei Tre Fratelli. La mia classe non era proprio tranquilla. Basti pensare che quell’anno ero capitato in classe con Amaraldo. In particolare un altro nostro compagno, però, dalla famiglia non proprio responsabile, incominciò a prendermi di mira. In preda alla disperazione per le continue angherie arrivai quasi fino al punto di togliermi la vita. Non potevo raccontare niente neanche a casa, perché cosa avrebbe potuto fare un undicenne? E i miei genitori avrebbero tirato su un polverone. Ma poi a scuola ci sarei dovuto ritornare io. Poi, un giorno, incredibilmente, fu proprio Amaraldo a parlarmi. Mi avvicinò e molto amichevolmente, mi disse che aveva a disposizione la soluzione del problema. Entrare a far parte di una banda. Io vidi in quella dritta non un consiglio di una persona pericolosa, ma la soluzione ai miei problemi. Incredibilmente accettai. I Tre Fratelli erano più giovani di ora, ma erano riusciti già a incutere timore a diverse persone. Divenni così un loro affiliato. Feci il giuramento, poi mi diedero da bere qualcosa. Pensavo fosse aranciata, ma evidentemente dentro c’era qualcos’altro, perché mi risvegliai vicino casa mia, circa un’ora dopo. Avevo un tatuaggio su entrambi i fianchi. Erano tre bambini stilizzati. Mi spaventai moltissimo quando vidi quei segni. Ma poi mi accorsi che erano perfettamente coperti dall’elastico delle mutande, quindi nessuno se ne sarebbe accorto, neanche quando a scuola mi cambiavo per educazione fisica. Pochi giorni dopo, con una lettera i Tre Fratelli mi avvisarono che quella sera dovevo andare con loro a risolvere il mio problema. Io ne fui felice. Ma cambiai idea quando mi resi conto di quello che gli stavano facendo. Finì in ospedale, rischiando di perdere un occhio. L’avevano quasi ammazzato di botte. Ma loro conclusero la giornata dicendomi che la prossima volta sarebbe toccato a me partecipare e non solo assistere alla spedizione punitiva. Io gli pregai di non farmelo fare. Ma tre mesi dopo arrivò la chiamata. Semplicemente non mi feci trovare. Paradossalmente non mi fecero nulla. Almeno questo era quello che avevo pensato. Di averla fatta franca. Pensavo che fare qualche capriccio e farmi accompagnare ovunque dai miei genitori avrebbe potuto risolvere la situazione. Feci di tutto per cercare di non rimanere da solo. Ma non fu sempre possibile. Poi accadde l’imprevisto. Iniziammo a litigare più seriamente con Amaraldo, Dorian, Salvatore e Michele. E quando vidi la lettera dei Tre Fratelli non mi ci volle molto a capire che, in realtà, ce l’avevano con me”.
Le reazioni del gruppo a questo racconto furono contrastanti. In generale tutto partì da un grandissimo silenzio. Francesco si gettò in un abbraccio affettuoso a suo fratello. Aver sentito quelle cose l’aveva scosso tantissimo. Emanuele era la persona alla quale teneva di più. Sentirlo raccontare quelle cose, sentirlo debole e indifeso, pensare addirittura ad un gesto estremo, l’aveva spaventato. Non che fosse deluso, ma aveva visto un lato della personalità di suo fratello differente da quello a cui era abituato.
Giuseppe aveva distolto da un bel pezzo lo sguardo da Emanuele e aveva incominciato a osservare le mie espressioni. In realtà cercava una buona ragione per non credere a una sola parola del suo amico. Per un attimo lo sfiorò anche il pensiero che non ci fosse più tanto da fidarsi di Emanuele. D’altra parte era stato un componente della banda dei Tre Fratelli. Avrebbe potuto tradirci in qualsiasi momento. Poi ripensò alla notte precedente. Una persona che lo aveva difeso così non poteva tradirli. Forse. Quella confusione non poteva fargli che male. E infatti si alzò e fece appena in tempo ad arrivare in bagno che vomitò la colazione. Si stese sul letto e rimase immobile per qualche minuto. In realtà, non volendo lasciarlo solo e all’oscuro di tutto quello che ci stavamo dicendo, ci spostammo in camera da letto. E Giuseppe poté in questo modo continuare ad osservare le mie espressioni. Dapprima cercai di essere impassibile. Poi fui sempre più incuriosito, ma mai preoccupato o arrabbiato. E intanto, Giuseppe pensava.
-Non mi ricordo neanche da quanto tempo lo conosco. Dalla nascita, probabilmente, visto che è più grande di me. Quante ne abbiamo combinate, insieme. Di tutti i colori. Sia quando eravamo bambini, a perdere vagonate di palloni sui balconi. Sia poi, quando abbiamo finito di fare giochi da bambini, e abbiamo avuto quell’anno di pazzia, dopo che Michele se n’era andato, a seguire i passanti. Simone si è dimostrato sempre un vero amico-
Osservandolo, mi accorsi di come Giuseppe era sicuramente interessato, come gli altri del resto, a sapere quello che pensavo in quel momento. Solo che la conversazione seguente, tra me e Emanuele sarebbe sembrata quasi deludente.
“Emanuele, puoi farmi vedere i tatuaggi?”
“No. Quelli non erano veri tatuaggi. Erano solo figure disegnate con un inchiostro molto resistente, che si levava naturalmente a suon di docce, ma comunque passavano circa due settimane. Quindi i Tre Fratelli richiedevano che i componenti della banda ogni due settimane si facessero ridisegnare quelle figure. Dovevamo presentarci ai Tre Fratelli, superare una prova decisa da loro, e chiedere che venisse rinnovato il giuramento. Poi ridisegnavano le due figure”
“Chi lo faceva?”
“Un ragazzo col viso coperto. Non parlava mai e non l’ho mai visto arrivare o andare via”
“E accadeva sempre ogni due settimane?”
“Si, giorno più, giorno meno. D’estate anche una volta ogni dieci giorni, dal momento che la pelle era più esposta e con l’acqua di mare l’inchiostro andava via più velocemente. Ma il disegno non scompariva mai prima che quello lì venisse e lo ridisegnasse”
A questo punto Francesco, quasi spazientito, intervenne.
“Scusate, ma abbiamo appena saputo che mio fratello era nella banda dei Tre Fratelli e tu ti preoccupi solo di questo tatuaggio?” fece il ragazzino, alzando la voce. Poi guardò Giuseppe. Cercando la sua complicità. Ma non la ottenne.
Non ottenne alcuna complicità perché Giuseppe, che mi conosceva troppo bene, sapeva che quelle domande non erano poste per caso. Anche perché aveva osservato quelle espressioni, mentre Emanuele raccontava la storia. E quelle espressioni dicevano molto. In effetti, avevo accusato il colpo e ho anche cercato di nasconderlo per un po’. Ma poi, quando Emanuele aveva parlato del tatuaggio, cioè dei disegni, avevo lentamente ma inesorabilmente cambiato espressione. Prima ero evidentemente più interessato alla storia in generale, poi mi ero distratto pensando a qualcosa che avevo già sentito. È vero che quelle domande erano strane anche per Giuseppe, ma a differenza di Francesco, lui era certo che stessi pensando a qualcosa di veramente importante. Non attese tanto per fugare ogni dubbio.
“Francesco” esordii “capisco i tuoi sentimenti. Anche a me dispiace moltissimo per quello che è successo a voi. E soprattutto per ciò che è successo a Emanuele. Solo che sto cercando per quanto è possibile di razionalizzare e non farmi travolgere dai sentimenti. Mi ha incuriosito molto il discorso dei disegni, perché mi ha fatto capire moltissimo di questa storia. Sicuramente più di quello che avrei potuto anche solo lontanamente immaginare dal resto del racconto di Emanuele”
A questo punto Giuseppe pensò di aver capito e volle continuare il discorso.
“Ad esempio ci ha spiegato come faceva Emanuele a sapere con certezza che al tempo dell’attacco a sorpresa, Michele non faceva ancora parte della banda dei Tre Fratelli”
E Giuseppe, effettivamente, aveva capito. E ne ero proprio felice.
“Perché!?” chiese confuso Francesco.
“Perché quella sera tutti noi lo abbiamo visto completamente nudo, e non aveva la benché minima traccia dei tatuaggi” concluse Giuseppe.
“Esatto! Solo che poi mi sono distratto ancora perché mi è venuto in mente un altro particolare” dissi, perché sapevo di essere arrivato più in là nel ragionamento.
A questo punto, però, tutti e tre mi guardarono con aria interrogativa.
Quella parte della spiegazione era indubbiamente significativa. Collocava l’affiliazione di Michele alla banda a dopo quella sera. Ed era sottinteso e pienamente compreso da tutti che evidentemente una buona ragione per cui i Tre Fratelli avevano accettato Michele all’interno della banda era per sfruttare la sua già affermata ostilità nei nostri confronti per colpire Emanuele. Cos’altro potesse ancora esserci da capire, era un po’ più difficile da comprendere.
“Mi è parsa strana una cosa. È strano che a consigliare a Emanuele di entrare nella banda dei Tre Fratelli fosse proprio Amaraldo. Insomma, non c’è niente di strano, ma quello che è strano è che se ci pensate, mentre prima avevamo problemi solo con Michele, è circa da quando Emanuele ha deciso di uscire dalla banda che Amaraldo si è presentato sulla scena con Dorian e Salvatore. Non vi sembra strano?” chiesi ai tre.
“Beh! non è che ci sia tanta scelta tra i giovani di Policoro!” smentì Emanuele.
“Si! È vero. Però ci sono ancora un paio di cose che non mi convincono. Vi ricordate quando l’anno scorso, durante la settimana dei compiti, ci era venuto in mente che forse Michele era veramente sicuro di essere in superiorità numerica?”
“Si! Ma che c’entra?”
“C’entra! C’entra eccome!! Il fatto è che mi è venuto un dubbio. Vi va di vedere se fila tutto?”
“E proviamoci!” disse Emanuele, sedendosi.
Quella era la prova più importante del mio ragionamento, capire se filava anche per i miei amici. Incominciai, incerto su come sarebbe andata a finire.
“Dunque, io sono Cosimo e con i miei altri due fratelli costituisco una banda. Sono ancora piccolo, ma sono un duro e so che, se voglio, posso avere l’appoggio di qualche persona adulta e altrettanto pericolosa, quindi mi lancio in questa avventura. Prima di tutto, non posso essere a capo di una banda composta da due persone. Sarei ridicolo. E non conterei nulla. Ho bisogno di affiliati. Allora inizio a cercarne. Promettendo a chi entra a far parte della banda guadagni facili, vita divertente, e soprattutto protezione. Tempo qualche giorno ho coinvolto un altro mio amico, forse due. Con questi metto su un certo numero di regole per gestire la vita della banda. Disegni, stile di scrittura delle lettere, prove umilianti a cui sottoporre gli iniziati, insomma le solite cose. Quelle che mi fanno riconoscere. Quelle che incutono poi il giusto timore perché quando le voci si diffondono vengono spesso anche travisate e tutto si ingrandisce. Poi, però, ho il lampo di genio. Perché mi accorgo di un modo semplice ed efficace per far fare alle persone quello che voglio. Per avere affiliati, tanti, quanti ne voglio, e soprattutto con la minima fatica. E visto che la banda è ancora poco conosciuta ed è ancora segreta, e l’unico segno distintivo è un tatuaggio che dopo una quindicina di docce scompare, cerco di mantenere un profilo abbastanza basso. Allora mando i miei due amici a fare quel lavoro. Un lavoro lungo, che richiede tanta pazienza, ma quando il risultato è sicuro… prendo uno dei miei due affiliati e lo infiltro. Come? Questo si guarda intorno. Vede qualcuno un po’ debole, qualcuno che subisce le prepotenza di altri. Qualcuno che si vede lontano un miglio che vorrebbe tanto fargliela pagare e vendicarsi, ma figuriamoci se può. Lo avvicina e gli lancia così la proposta di un capovolgimento delle cose. Un opportunità di rivalersi. Ma non gli parla subito della banda. Altrimenti l’altro gli sputa in un occhio e non risolve niente. Gli lascia solo il dubbio. O meglio, la speranza. E poi aspetta che faccia effetto. Quando questo si è macerato per bene, è forse addirittura lui che lo va a cercare e gli chiede in cosa consiste questa ‘possibilità’. Ma a quel punto è così convinto che per il nostro ‘arruolatore’ è una scemata portarlo al cospetto dei Tre Fratelli. Solo che poi, una volta che sei dentro, il lavoro sporco te lo fanno fare a te, non lo fanno loro. Quindi loro si parano le spalle, e quello che ci va di mezzo è il povero scemo che ci è cascato, con tutto rispetto per i presenti, si intende. E secondo voi chi è l’arruolatore?”
Il discorso filava. Filava per tutti e tre. Filava così tanto che tutti e tre, infatti, tirarono fuori lo stesso nome, nello stesso momento, immediatamente dopo la domanda, senza neanche pensarci.
“Amaraldo”.
A questo punto, una cosa che mi piacque tantissimo fu che i miei amici, nel tentativo di collaborare anche loro all’impalcatura di tutto il discorso, tirarono fuori altre idee interessanti e altrettanto valide.
Il primo fu Giuseppe.
“Ecco perché quando ci fu l’ultimo scontro tra di noi Amaraldo non c’era. Evidentemente quello era il fattore scatenante. La goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso per Michele. Dopo di che lui, che era già amico di Michele, non ci ha messo molto a convincerlo”
“In effetti adesso che ci penso, quella sera dovevamo andare via con nostra mamma. Avevamo ricevuto tre buoni omaggio per una pizza e una bibita scontate in una pizzeria che aveva aperto. E mia mamma non si lascia sfuggire queste cose. Per caso quella sera tornò dal lavoro stravolta e con il mal di testa, e rimanemmo a casa, altrimenti non ci saremmo neanche visti quella sera. Avevamo ricevuto quei buoni in una busta non affrancata ma che abbiamo trovato nella cassetta postale. Adesso forse abbiamo capito chi ce li aveva dati” fu il prezioso contributo di Francesco. Perché quella era una cosa alla quale ancora non avevo pensato. avevo messo da parte quel problema ma evidentemente era stato risolto brillantemente da Francesco.
“A questo punto, però, c’è qualcosa che non quadra” disse Emanuele.
“Perché?” chiese Giuseppe.
“Eh! Perché ancora non mi hanno fatto niente. Cioè, mandano la lettera a Giuseppe, picchiano mio fratello, costringono te a tornare a Milano ma a me non hanno ancora fatto niente. È possibile?”
“Effettivamente questo è strano. La prima vittima dovevi essere tu, secondo il nostro ragionamento” continuò Francesco.
“A meno che…” e Giuseppe si fermò per un secondo.
Due secondi.
Al terzo secondo che lo sguardo di Giuseppe era fisso su di me, Francesco e Emanuele si incominciarono a preoccupare.
“Oh!” disse Francesco prendendolo per il braccio e smuovendolo un po’ “Ti senti bene!?”
“No, è che ho avuto come un flash, come se si fosse collegato tutto nel cervello”
“Menomale! Quando sono a scuola mi succede solo verso mezzogiorno” fu la risposta immediata di Francesco.
“Non sto scherzando. Anzi, forse ho capito qualcosa in più di tutta questa situazione!”
“Vorresti, allora, spiegarla anche a noi?” chiesi io. Anche perché a questo punto non sapevo proprio dove volesse arrivare Giuseppe.
“Pensate un attimo alla sera in cui sono comparsi i Tre Fratelli nella nostra vita. Voi, come tutti i venerdì sera, salite immediatamente in casa perché torna vostro padre e, giustamente, non vedete l’ora di passare un po’ di tempo con lui. Io ricevo una lettera che me la fa fare sotto dalla paura, insomma, mi dileguo. Chi è l’unico che rimane solo in mezzo a una strada e, per fortuna, con una cosa che difficilmente sarebbe venuta in mente a chiunque altro, riesce a sottrarsi al quasi certo pestaggio?”
“Simone” fu la risposta di Francesco.
“E ieri a chi i Tre Fratelli ci hanno vietato di rivolgere il saluto?”
“A Simone” e a dirlo fu Emanuele.
“E, sempre ieri sera, a chi stava arrivando la mazzata in testa, prima che una scatoletta di tonno stordisse il nostro assalitore?”
“A me!” dissi.
“Allora non potrebbe essere che la vittima di questo attacco dei Tre Fratelli sia soprattutto tu?” concluse Giuseppe, fissandomi, come aspettando una risposta da parte mia.
Ci pensai un attimo. Di filare, il ragionamento filava. Ma non fino in fondo. Mi permisi di dirglielo.
“Si ma perché proprio io? Io non ci sono per nove mesi all’anno. Non ho fatto niente di sbagliato. A nessuno. Ho sempre e solo frequentato voi, e senza grosse avventure”.
“Perché una cosa è punire Emanuele. Una cosa è distruggerci. Picchiare Emanuele, evidentemente, non interessa più di tanto a quelle persone. Secondo me, soprattutto con la richiesta di aiuto pervenuta da Michele, i Tre Fratelli hanno incominciato a conoscerci meglio. E forse anche a temere che possiamo riuscire a fermarli. Allora hanno messo al primo posto la loro stessa sopravvivenza. Solo che, diciamola tutta: se non fosse per te non avremmo mai potuto affrontare Michele e gli altri con il giusto atteggiamento. E sicuramente, ne saremmo usciti perdenti. Quindi, se loro vogliono avere veramente il controllo del territorio, devono eliminare il problema rappresentato da noi. E per farlo devono prima di tutto eliminare il problema rappresentato da te. Pensavano di esserci riusciti convincendoti l’anno scorso ad andartene. Adesso tu sei tornato e sono sicuro che l’escalation di violenza e di attentati alla nostra incolumità continuerà fintantoché non ci avranno distrutti, emotivamente e, nel caso, anche fisicamente”
A quel punto più nessuno aveva voglia di parlare, di investigare, di pensare. Tutti e quattro capivamo che quella era solo una teoria. Ma, se solo fosse stata verificata, ci avrebbe proiettati immediatamente in una dimensione più ampia. Quelle scaramucce, quei dispetti da bambini, che l’anno prima si erano trasformate in una battaglia, ora stavano diventando una guerra. E fino a quel momento eravamo lì, impotenti, quasi ad assistere alle manovre nemiche, senza poter fare, obiettivamente, molto più che difenderci. Francesco e Emanuele erano bravi con la fionda, ma di fronte ad un attacco serio c’era poco da fare. Noi eravamo solo in quattro, i nostri nemici almeno in otto. Eravamo, quantomeno, destinati alla sconfitta.
Fu proprio a questo punto del pensiero, che compresi la necessità di esprimerlo agli altri.
“Però c’è qualcosa che non mi quadra”
Tutti si voltarono verso di me, ascoltando quello che avevo da dire.
“Partendo dal presupposto che loro hanno una potenza decisamente maggiore della nostra, perché non ci hanno già attaccati una volte per tutte e eliminati?” chiesi e rivolsi la domanda a Emanuele che, teoricamente, doveva essere quello che ne sapeva più di tutti noi.
Questi ci pensò un attimo e rispose.
“C’è solo una spiegazione. Vogliono da te e da noi qualcos’altro. Stanno giocando con noi perché aspettano semplicemente il momento buono per farci quello che vogliono”.
“Già! Ma che cosa? E perché?” chiese Francesco.
“Questo proprio non lo so! Ma sono sicuro che lo scopriremo al più presto” dissi. Accogliendo un sorriso affermativo dagli altri tre.
“Certo, se sapessimo dove vogliono arrivare andremmo dai carabinieri a denunciarli e sistemeremmo tutto” disse Emanuele.
“Ma non lo sappiamo. E finché non avremo le idee più precise noi dobbiamo essere gli unici quattro a sapere cosa sta succedendo. Quindi adesso ritorniamo alla nostra vita normale, facendo le solite cose che facciamo quando siamo in vacanza, stando solamente attenti a dove siamo e con chi stiamo”
“Ma se ieri abbiamo rischiato la vita solo perché eravamo fuori a chiacchierare, come puoi pretendere che le cose siano normali?” sbottò Giuseppe.
“Non ho detto che le cose devono essere normali. Basta che sembrino tali. E ieri ce la siamo evidentemente andata a cercare. Era l’una del mattino e non c’era nessuno in giro. Era logico che avrebbero potuto approfittarne. L’importante è che non ci isoliamo mai e stiamo sempre in mezzo alla gente, dove non ci possono fare del male” conclusi.
Poi decidemmo qualche altra cosa. Sarebbero potuti tornare a casa e potevamo addirittura andare al mare. Ci saremmo rivisti tutte le volte che desideravamo. Ci saremmo parlati come e quanto volevamo. Se qualcuno scopriva qualcosa di nuovo, avrebbe dovuto immediatamente avvisare gli altri. Avrebbe dovuto mandare agli altri un sms con la sola parola “Policoro” e tutti gli altri tre avrebbero dovuto abbandonare immediatamente quello che stavano facendo e arrivare a casa mia appena possibile.
Giuseppe, Francesco e Emanuele se ne andarono al mare, io rimasi un po’ a sistemare casa e poi uscii a fare un giro. Non avevo voglia di andare al mare. Era quasi l’una quando rientrai a casa, e senza neanche mangiare mi concessi il tanto desiderato riposo. Per i primi giorni di vacanza il mio ritmo era quello: concedermi tutto il riposo che volevo, certo di avere tutto il tempo per recuperare il mio smisurato bisogno di mare.
Quei due giorni erano stati micidiali. Avevo dormito poco e fatto e scoperto tantissimo. I dubbi e le domande che mi ero posto la sera prima della partenza dell’anno precedente, però, non avevano ancora ottenuto una risposta. In particolare una cosa. Il problema era che non riuscivo a capire ancora bene di cosa si trattava. Durante le notti insonni di tutto quell’anno mi era successo tante volte di soffermarmi a pensare a quella sera. Tutto l’accaduto. Il messaggio, l’essermi ritrovato da solo in mezzo a quella strada e tutti gli altri avvenimenti. In tutto quello c’era qualcosa che non mi tornava. E quando avevo avuto, per quell’anno, qualche minuto a disposizione mi riconcentravo per capire cosa ci fosse che non quadrava in quella storia. Eppure niente. Non riuscivo ad isolare il punto. Speravo che il racconto di Emanuele avrebbe potuto chiarire nella mia mente quel particolare. Ma non fu così. Anzi, se possibile, rese ancora più pesante il dubbio.
Il problema era che mi ero assolutamente convinto che quello fosse un particolare di importanza capitale. Così importante da tralasciare tutto il resto. Mi arrabbiai con me stesso, perché non riuscivo a coglierne il senso. Poi, ancora una volta, la stanchezza mi vinse. Mi appisolai che erano le due, per quelli che a me parvero pochi minuti. Alle sette mi svegliai. No. Decisamente non erano passati solo pochi minuti. Ma mi svegliai perché mi era arrivato un sms. Lo lessi e, ma solo a quel punto, mi riattivai immediatamente.
Conteneva una sola parola.


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BUONGIORNO A TUTTI E GRAZIE DI AVER LETTO QUESTA STORIA FIN QUI. ALLA PROSSIMA SETTIMANA CON UN NUOVO CAPITOLO, LUNGHETTO, E PER QUESTO NON SO ANCORA SE DIVISO IN DUE. CERTO, POTREI FARMI UN'IDEA DI COSA PREFERITE LEGGENDO UNA VOSTRA RECENSIONE... ;-)
CIAO

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Capitolo 13
*** Il Gatto e la Volpe ***


13 – IL GATTO E LA VOLPE
Mezz’ora passò. Poi arrivarono tutti e tre, Francesco, Giuseppe e Emanuele.
“Ciao!” dissero, entrando con un sorriso che definire a 32 denti era poco. “Siamo stati al mare fino ad ora. Ma non poteva accaderci niente. C’è sempre stata un sacco di gente. E abbiamo fatto una scoperta fondamentale. Sappiamo chi è il secondo componente della banda e ‘tatuatore’” disse Giuseppe entusiasticamente.
“E come ci siete riusciti?” chiesi, stupito per quella notizia inaspettata quanto positiva.
“Beh! Abbiamo fatto due più due. Tutto è incominciato un’oretta fa. Eravamo in spiaggia e ho visto una persona. Ti ricordi di Angelo, quel mio compagno di classe? Ecco l’ho incontrato. E anche se era ben abbronzato e cercava di nasconderlo non ho potuto fare a meno di notarlo” disse Giuseppe.
Per una volta tanto mi vide pendere dalle sue labbra. Ma durò pochissimo. Perché poi mi si illuminarono gli occhi e proseguii.
“Ho capito!”
“Allora diccelo tu!” chiese incredulo Giuseppe.
“Hai visto un livido che puzzava di tonno in scatola?” chiesi. Ma non sentivo neanche il bisogno di ricevere una risposta.
“Ma come hai fatto?” chiesero Emanuele e Giuseppe.
“Semplice. Appena hai detto il suo nome, poco fa, ho capito subito che era lui il tatuatore. Infatti mi è venuto in mente che per ‘puro caso’ è stato proprio lui a portarti la lettera dei Tre Fratelli la prima sera dell’anno scorso. Non avevo ancora collegato. Poi mi hai detto che era ben abbronzato e ha fatto di tutto per nasconderlo. Il disegno dei Tre Fratelli, ammesso che lui lo abbia, sarebbe stato già nascosto dal costume. Non c’è alcun bisogno di fare di tutto per nasconderlo. Quello che ci ha assalito ieri sera era certamente l’ultimo componente sconosciuto della banda. E come fisionomia era compatibile. Era inoltre l’unico che non voleva far scoprire la sua identità, perché era l’unico che ancora non avevamo in qualche modo collegato alla banda. Ecco il motivo per cui faceva di tutto per nascondere il livido. L’unica cosa che doveva veramente nascondere”, conclusi sedendomi al tavolo e prendendo, contemporaneamente, carta e penna.
“C’era solo Giuseppe in quel momento, ma ci ha detto che si vedeva lontano un chilometro che era impacciato. E solo. probabilmente pensava che non avremmo mai pensato di andare al mare, poco dopo che era successo quello che è successo ieri. È stato troppo sicuro di sé. E anche ingenuo. Già da ieri avevo riconosciuto la stessa figura dietro al ragazzo con la mazza da baseball e il mio assalitore mascherato assieme ad Amaraldo” aggiunse Francesco. E trovò tutti d’accordo.
I tre mi guardavano, mentre con la penna percorrevo il foglio, creando qualcosa dal nulla. Esattamente come quando risolvevo, sempre, un problema di geometria. Mi sedevo con carta e penna e qualunque cosa scrivessi su quel foglio era legge. Era sempre stato così. Ora, invece, stavo disegnando un organigramma della banda dei Tre Fratelli.
In cima c’erano i Tre Fratelli. A capo di tutto e tutti. Poi, sullo stesso livello, almeno secondo quello che avevamo capito fino a quel momento, Angelo, Michele e Amaraldo. E per ultimi, sotto Michele, Dorian e Salvatore. I rapporti di comando erano semplici, tranne per quanto riguardava Michele e Amaraldo. Una linea partiva da Amaraldo e arrivava a Michele ed un’altra faceva il tragitto opposto, partendo da quest’ultimo e arrivando al suo amico.
“Scusa ma che cos’è quel macello tra Amaraldo e Michele?” chiese Emanuele.
“Vi fermate qui a mangiare? Ho comprato dei pomodori eccezionali e se buttiamo quattro spaghetti sono capace di fare un sugo che è la fine del mondo” aggiunsi mentre facevo riposare la mano e soprattutto il cervello.
“Va bene, però ti avvisiamo che oggi abbiamo mangiato solo un panino e dopo una giornata di mare come questa non ci vediamo più dalla fame”
“Non ho mangiato neanche io. E praticamente non mangio da ieri sera, un pezzo di focaccia. Direi che dopo ci potremmo ammazzare di patatine. L’anno scorso i miei hanno lasciato qui la friggitrice” aggiunsi, felice di aver invitato quegli ospiti a casa mia.
Ci mettemmo tutti al lavoro, mentre io continuai anche la risposta che avevo lasciato in sospeso.
“Quel macello tra Amaraldo e Michele, come l’hai chiamato tu, è proprio quello che ci manca per avere un quadro preciso della situazione. Dal racconto di Emanuele sappiamo che Amaraldo è sicuramente nella banda da prima di Michele. Poi si deve essere infiltrato nella banda di Michele e l’ha convinto a far parte della banda dei Tre Fratelli. Ma a quel punto chi comanda chi? Cioè, Michele sa dell’appartenenza alla banda dei Tre Fratelli di Amaraldo? Perché se le cose stanno così, evidentemente Amaraldo ha una certa autorità su Michele. Ma se lui non ne sa nulla, allora è Michele ad avere una certa autorità su Amaraldo? Non credo. Quindi Amaraldo come si pone in tutto questo? Secondo me conoscere questo equilibrio potrebbe tornare a nostro favore”.
“Ma tu ti fidi del cinquanta percento di probabilità?” chiese Emanuele.
“No. Per trarre profitto da questa storia dobbiamo sapere con certezza come stanno le cose. Altrimenti rischiamo di perdere il vantaggio che abbiamo acquisito nei loro confronti”
“E come facciamo a sapere con certezza questa cosa?” chiese Francesco.
“Non lo so!” risposi francamente. Avevo immaginato che quello sciocco di Michele potesse non immaginare niente di Amaraldo, ma obbiettivamente, sarebbe stato tutto più complicato così. Veramente non sapevo cosa pensare.
“Evidentemente le cose vanno sempre e comunque come vogliono i Tre Fratelli” aggiunse Giuseppe. “La domanda fondamentale, perciò, è: cosa fa più comodo ai Tre Fratelli? Sono sicuro che il rapporto tra i due dipende solo ed esclusivamente dalla risposta a questa domanda”.
Tempo che finimmo di mangiare si fecero le nove di sera. Dal momento che nessuno dei quattro aveva alcuna idea al riguardo avevamo smesso di parlarne e ci eravamo fatti distrarre dalla cucina, dalle patatine, dal cibo e tutto il resto. Decidemmo di uscire a fare un giro. Finalmente ebbi occasione di rivedere Francesca e Annalisa. Passai anche a salutare i genitori di Francesco, Emanuele e Giuseppe. Poi scendemmo nel corso. Passeggiammo un po’, mangiammo un gelato nella gelateria vicino alla villa comunale, senza entrarvi, però. Sapevamo che quello era uno dei tre luoghi scelti dai Tre Fratelli come base della banda. Emanuele fece sapere agli altri che le riunioni si tenevano o lì, o in una radura abbastanza separata dal resto dei sentieri del lido “Torremozza”, oppure in un locale diroccato del castello. Girammo per qualche altro minuto e poi ce ne tornammo a casa. Arrivammo che era quasi mezzanotte. Dopo pochi minuti ero a letto. Mi ero accordato con gli altri che ci saremmo rivisti la mattina successiva alla fermata del pullman. Mi addormentai pochi secondi dopo aver messo la sveglia alle otto del mattino seguente.
Quel giovedì 19 Giugno la sveglia suonò. Troppo presto per i miei gusti, ma suonò. Ancora dovevo entrare nel ritmo delle vacanze, quello che mi permetteva di non mettere la sveglia, sicuro di svegliarmi otto ore dopo essermi addormentato. Preparai la borsa e finalmente raggiunsi gli altri per quello che sarebbe dovuto essere il mio primo giorno di mare. E al mare ci andammo sul serio. E ci divertimmo pure. Verso l’una tornammo a casa mia. Ci fermammo a comprare un’anguria gigante e qualche pezzo di focaccia. Mangiammo solo quella. E ci saziammo. Poi ci andammo a riposare in camera da letto. Almeno, ci provammo. Perché dopo pochi minuti cominciò la carovana per andare in bagno, per colpa dell’anguria. Verso le due, quindi, eravamo ciascuno a casa propria.
Si fecero le tre. Mi ero disteso sul letto e avevo aperto le inferriate della finestra della camera da letto, per far passare un po’ d’aria. Stavo leggendo uno dei libri che avevo come compito delle vacanze. E mi stavo domandando come mai a uno come me, a cui la lettura piaceva moltissimo, dovessero costringermi a leggere dei libri noiosi e pesanti, quando avrei potuto benissimo leggere qualcosa di secondo me più interessante. Per questo motivo, anche se ogni tanto mi arrivava addosso un po’ di aria fresca proveniente dalla finestra aperta, l’attenzione per la lettura aveva pian piano lasciato il posto alla sonnolenza.
Suonarono alla porta. Mi alzai, incuriosito dall’identità di colui che avrebbe potuto sfidare un caldo del genere per venire a trovarmi. Senza pensarci troppo aprii il battente della porta. E per poco non mi venne un colpo. Immediatamente richiusi. Mi appoggiai al frigorifero. Indeciso sul da farsi.
L’avevo visto: sapevo chi era. E l’avevo visto pure bene: in quelle condizioni non avrebbe fatto del male a nessuno.
Ma fino a che punto farlo entrare? Fino a che punto fidarsi? Almeno del fatto che fosse solo. Mandai immediatamente agli altri il messaggio “policoro” e poi aprii la porta.
 “Che cosa è successo?” chiesi, avvicinandomi a lui. Poi, abbandonando ogni tentativo di saperne qualcosa di più, lo raccolsi letteralmente da terra e lo presi in braccio. Lo portai in casa e lo adagiai sul letto. Inevitabilmente gli era accaduto qualcosa. Un rumore dalle parti dell’ingresso mi fece capire che erano arrivati coloro che avevo chiamato.
Ma fino a che punto renderli partecipi di quella storia? Ne valeva veramente la pena? Poteva essere meglio aspettare e parlare prima con lui. Poi, in un secondo momento, renderli coscienti della situazione. Optai per questa soluzione di ripiego. Feci appena in tempo a lasciarlo e andai in cucina, premurandomi di chiudere dietro di me la porta.
“Che c’è?” chiesi.
“No! Che hai tu?! Sei stato tu a chiamarci!” rispose Francesco.
“Scusate! Stavo giocando con il cellulare e mi deve essere partito inavvertitamente il messaggio. Scusatemi!” dissi, nel tentativo di lasciar passare una scusa.
I tre passarono qualche secondo a prendermi in giro, Giuseppe ne approfittò per rileggere il messaggio, poi se ne andarono. Chiusi la porta lasciando la parte superiore aperta. Mi fermai ad osservare ciò che accadde. Invece di andarsene insieme, Francesco e Emanuele salirono per la strada principale e Giuseppe discese le scale come per risalire nella sua via dallo scivolo pedonale. Ma appena sceso qualche gradino si abbassò a controllare che i suoi amici avessero girato l’angolo. Poi risalì. E si presentò davanti alla porta, cogliendomi nel gesto di osservare quello che stava accadendo. Purtroppo, per un intelligenza come la sua, quell’atto equivaleva ad una conferma di colpevolezza da parte mia.
Non che non avesse ragione, ma proprio in quel momento avrei volentieri evitato di vederlo fare l’investigatore. Lo feci entrare. Giuseppe entrò e mi si piazzò davanti.
“Che vuoi?” chiesi, quasi nel tentativo di levarmelo di torno. Tentativo, ovviamente, vano.
Giuseppe mi guardò. Serio. “Cosa è successo?”
“Perché?”
“Hai mandato il messaggio. Voglio sapere cosa è successo”.
“Ma vi ho già detto…”
“… una bugia!” intervenne Giuseppe.
Se si fosse trattata di un’altra persona, probabilmente avrei perso la calma. O, quantomeno, se si fosse trattata di un’accusa infondata. È solo che lo conoscevo troppo bene. Quindi sapevo che non avrei retto molto in quello stato, sapendo di essere dalla parte del torto. Cercai di intimorirlo con uno sguardo più severo del solito. Però non ci riuscii. Allora dovetti arrendermi all’evidenza e fare l’unica cosa che doveva essere fatta in quell’occasione. Abbassare lo sguardo.
“Scusa!” fu la conseguente affermazione.
“Prego!” rispose Giuseppe.
“Ma come hai fatto a capirlo?”
“Il mio telefono non ha la composizione automatica delle parole. Quindi quello che scrivo io scrive lui. Ed essendo all’inizio del messaggio, ‘Policoro’ l’ha scritto con l’iniziale maiuscola. Tu, però, per velocizzare la scrittura l’hai sicuramente inserito nel vocabolario del cellulare. Quindi l’hai scritto come l’hai inserito. Quindi con la lettera minuscola. E così ce l’hai mandato. Non solo non era lo stesso messaggio. Ma ti sei pure preso il tempo di scriverlo. Quindi adesso mi dici che cosa è successo, sennò me ne vado e tra un minuto sono qui con gli altri due. E sai che lo faccio” disse Giuseppe.
Attesi qualche altro secondo, nel disperato tentativo di fargli cambiare idea. Ma Giuseppe aveva imparato da me ad essere testardo quando era necessario.
“Va bene!” dissi, arrendendomi definitivamente. “Seguimi”.
Lo portai vicino alla porta e, aprendola, gli permisi di guardare nella camera da letto. Giuseppe entrò.
Mezzo secondo dopo, riconoscendo quella persona, si bloccò. Una serie di sguardi confusi ed offesi partirono da lui, i primi diretti al mio ospite, quelli offesi tutti e solo per me. La frase che pronunciò successivamente, avreste dovuto sentirla.
“Che ci fa, quello, qui?” chiese. Rivolgendosi a me. C’è da dire che me lo disse con una voce distorta dalla rabbia, che se solo “quello” fosse stato da solo, Giuseppe, pur essendo molto più debole di lui, almeno in condizioni normali, probabilmente avrebbe volentieri rischiato la vita per picchiarlo selvaggiamente. Anche nel tentativo di calmarlo un attimo, cercai di spiegargli brevemente la situazione.
“Cinque minuti fa qualcuno ha suonato alla porta di casa. Quando sono andato ad aprire c’era lui. Ho richiuso, vi ho mandato il messaggio e ho riaperto, per trovarlo accasciato vicino alla porta. In faccia non ha nulla, ma evidentemente devono avergli fatto qualcosa. Non si reggeva in piedi. Ho dovuto prenderlo in braccio per portarlo in casa. Guarda come è conciato. Non l’ho mai visto così, neanche l’ultima volta”.
“Diamogli una sistematina!”.
Per un attimo ebbi il timore di capire quello che voleva dire. Ma poi vidi Giuseppe avvicinarlo, e prima di riuscire a fermarlo, vidi che si rivolgeva verso il nuovo ospite e, lentamente e con calma, gli diceva sottovoce di sollevarsi un attimo per permettergli di levargli la maglietta, giusto per vedere quello che gli avevano fatto e cosa potevamo fare noi per dargli una mano.
Accorsi in suo aiuto, e lo sollevai, mentre Giuseppe gli tolse la maglietta. L’“ospite” se la fece levare senza aprire bocca. Era in evidente stato di choc. A Giuseppe scappò una parolaccia quando lo vide. Aveva il torace pieno di bruciature di sigaretta. Il dorso completamente ricoperto dei segni delle frustate che aveva ricevuto. Anche parti sensibili come le ascelle erano state torturate con lo stesso trattamento. Molto delicatamente con una spugna cercai di curargli quelle ferite. Passai anche in quelle parti una crema idratante, cercando di dargli un po’ di sollievo. Quando, con Giuseppe, cercammo di girarlo per trattare nello stesso modo la schiena, mentre lo stavamo mettendo su un fianco, incominciò a lamentarsi, quasi ad urlare.
“Non posso girarmi sul fianco! Mi fa troppo male” esclamò. Era la prima volta che parlava.
Guardandolo, così, faceva pena. Lo riappoggiammo sul letto. Supino.
“Posso?” chiesi, indicandogli il fianco. Forse avevo capito cosa c’era che gli faceva male e quelle macchie che iniziavano ad essere visibili sul pantalone, in corrispondenza dei fianchi, avvaloravano la mia ipotesi.
“Non c’è nulla che voi non abbiate già visto. Solo, vi prego, fate lentamente” rispose costui.
Scostai lentamente il lembo del pantalone. Sotto non aveva biancheria. Mi fece impressione vedere la parte di pelle arrossata e sanguinante al posto dei disegni, che sicuramente, fino a poche ore prima, dovevano esserci al loro posto.
“Beh!” esclamò guardandomi Giuseppe “almeno il marchio dei Tre Fratelli gliel’hanno levato”.
Poi si rivolse al ferito.
“Allora, Michele, che hai fatto di tanto grave per essere stato punito così duramente e essere stato sbattuto fuori dalla banda?”.
“Per favore, vorrei prima parlarne solo con te” rispose, rivolgendosi nella mia direzione.
“Perché?” gli chiesi.
“Per favore. Che cosa vi costa? Ti chiedo solo questo!”
Ci pensai qualche secondo. Michele non poteva saperlo, ma quel favore mi costava. In realtà quel favore poteva costare più a lui che a me. Era difficile assecondare quella richiesta, non tanto per Giuseppe, ma per me. Senza saperlo, infatti, Giuseppe stava giocando un ruolo fondamentale. Giuseppe era la diga che stava fermando la mia ira. Era perché mi vergognavo di farlo davanti a lui e perché non volevo rivelargli tutto quello che era accaduto con Michele e che non gli avevo mai raccontato. Finché Giuseppe fosse rimasto in quella stanza a Michele non sarebbe di certo accaduto nulla di male. Ma se Giuseppe se ne fosse andato, come Michele stesso mi aveva chiesto, nessuno avrebbe più potuto impedirmi di fargli del male. Ed in quel momento ne avevo tanta, ma veramente tanta voglia. Ci pensai un po’. Poi, sapendo che non farlo avrebbe potuto complicare una situazione già difficile, decisi di assecondare la sua richiesta. E volli anche prendermi gioco di lui.
“Va bene! Tu! Vattene! Vai a casa tua e non dire a Francesco e Emanuele che Michele è qui e che ora lo sto interrogando! Per ordine mio non dovete avvicinarvi a casa mia fino a quando non vi chiamo”.
Si drizzò in piedi, annuì, e a passi veloci uscì dalla camera da letto. Feci segno a Michele di aspettare e seguii Giuseppe, urlando.
“Quante volte ti ho detto che devi rispondere a ogni mio comando con “Si Signore!”?”
“Scusa capo. Starò più attento la prossima volta, signore”
“Dopo facciamo i conti per questa mancanza di rispetto! E adesso vattene!”
“Si signore!” esclamò Giuseppe e la porta di casa si richiuse.
Prima di andarsene Giuseppe si voltò e rivolgendosi di nuovo a me, in perfetto silenzio e da dietro le zanzariere, mi fece una linguaccia, correndo via immediatamente dopo. Sarei scoppiato a ridere ma mi trattenni per continuare quello che sapevo essere l’interrogatorio più difficile della mia vita. Ritornando immediatamente in camera da letto.
Prima di tutto è doveroso dirvi che, in condizioni normali, Giuseppe avrebbe cercato di rompermi una delle sedie della cucina sulla schiena se gli avessi detto una cosa del genere seriamente. D’altro canto Giuseppe aveva capito da subito che non stavo parlando seriamente con lui. E, averlo seguito in cucina per, come volevo far capire a Michele, “sgridarlo per la mancanza di rispetto”, mi permise di consegnargli due cose che avrebbero tolto qualsiasi dubbio.
Fin da quando eravamo piccoli, un rapporto più confidenziale aveva legato me, Giuseppe e Michele, rispetto a Francesco ed Emanuele. Avevamo circa dieci anni noi e otto Giuseppe, quando ci inventammo una cosa che in rarissime ma utilissime occasioni ci aveva permesso di comunicare completamente in incognito. Usavamo le carte. Le cinquantaquattro carte francesi, cinquantadue regolamentari più due jolly. Ad ogni numero e ad ogni seme avevamo associato un significato. Quindi, con un po’ di allenamento, riuscivamo a conversare amabilmente senza parlare ma mostrandoci solo delle carte da gioco. Fu così, che le due carte da gioco che gli consegnai mi permisero di spiegargli velocemente e praticamente come stavano veramente le cose. La “ripassata” che si era preso in cucina serviva ad illudere Michele e, molto più semplicemente, a darmi il tempo di cercare le carte e mostrargliele. Tre gesti da parte sua mi permisero di capire che aveva inteso correttamente i segnali che gli avevo lanciato. La prima carta era un Jolly. Significava, praticamente, che stavo facendo quello per prendere in giro Michele. Giuseppe mi fece l’occhiolino e quello fu il primo segno di comprensione. La seconda era un Asso di Picche. Ed era una carta molto importante, perché invertiva automaticamente il significato di quello che gli avevo detto prima. In pratica capì che era come se prima avessi voluto dirgli: “Vai a casa loro e avvisa Francesco e Emanuele che Michele è qui e che sta parlando! Per favore, avvicinatevi a casa mia di nascosto”. Il secondo segno di comprensione fu che Giuseppe mi indicò, con un gesto, la finestra della camera da letto, facendomi capire che si sarebbero appostati lì sotto. Il terzo gesto fu, ovviamente, la linguaccia che chiuse quel discorso silenzioso tra di noi nel modo più simpatico e cordiale possibile.
Giuseppe uscì e, una volta fuori di casa, non poté fare altro che scoppiare a ridere. E si avviò verso casa di Francesco e Emanuele.
Tornai in camera da letto. Cercai in tutti i modi di distrarmi, offrendo a Michele qualcosa di fresco da bere, facendo finta di sistemare un po’ di cose. Intanto, dal movimento delle ombre al di fuori della finestra compresi che Giuseppe e gli altri due si erano posizionati sotto di essa, pronti a venire a conoscenza della storia di Michele, a sua insaputa. Non sapevo se sarei riuscito a resistere e non esternare tutti i sentimenti che provavo in quel momento. E Michele non faceva neanche niente per essermi di aiuto.
“Non immaginavo che fossi così autoritario. Non ti sei sempre vantato del fatto che siete legati solo dall’amicizia e che nessuno comanda sugli altri?” chiese Michele, incuriosito da ciò che aveva visto e sentito solo pochi secondi prima.
“Ci sono ancora tante cose che non conosci di me!” risposi in  maniera più enigmatica ed evasiva possibile. Da una parte quella osservazione mi faceva ridere. Dall’altra notai anche in quelle poche frasi quell’atteggiamento di spavalderia e superiorità che l’aveva contraddistinto negli ultimi anni. E mi innervosii ancora di più. Mi accorsi, però, di come mi guardava. E capii che si sentiva sulle spine per essere rimasto solo con me. Dopo quasi tre anni.
“Allora, perché ti hanno conciato così?” gli chiesi ritornando alla realtà ed alla cosa che ci interessava di più.
Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale Michele abbassò lo sguardo e divenne rosso in volto. Evidentemente, anche solo ritornare a quei fatti di qualche ora prima gli faceva male. Passò qualche altro secondo. Poi rialzò lo sguardo e, anche se fissando il vuoto, incominciò.
“Tutto è incominciato ieri pomeriggio. Ero a casa e improvvisamente è arrivato Amaraldo per dirmi che era assolutamente necessario incontrare Cosimo. Provai a chiedergli ulteriori informazioni, ma mi disse che era venuto Massimo ad informarlo e che era sorto un problema del quale dovevamo parlare. Io mi accontentai di quella risposta e uscimmo per andare al castello. Arrivati nella camera dove teniamo le riunioni, aspettai qualche altro minuto, poi arrivò Cosimo. Mi disse che era successa una cosa gravissima e che era di vitale importanza eliminare dalla banda dei Tre Fratelli il ramoscello più debole e inutile. Immediatamente pensai di essere stato chiamato per eseguire quel lavoro. In realtà pochi secondi dopo ricevetti un colpo in testa e persi i sensi. Mi risvegliai bendato, in un posto che sembrava la spiaggia. Almeno, i piedi erano sulla sabbia e sentivo distintamente e abbastanza vicino le onde. Capii che eravamo alla radura, al lido Torremozza. Ero legato e nudo. Lì Cosimo ordinò ad Amaraldo di conciarmi così. Rimasi con loro fino a tarda notte. Almeno fino a quando non persi i sensi. Poi, quando era ancora presto ma chiaro mi slegarono e mi liberarono. Mi sono fatto a piedi dal lido a qui, soffrendo ogni volta che la stoffa della maglietta o dei pantaloni mi sfregava contro le ferite. Questo è tutto!”
E così si erano liberati di Michele ed erano venuti allo scoperto con lui. Chissà se aveva capito il ruolo di Amaraldo in tutta questa storia, ora. Qualche domanda mi venne in mente. Solo che, purtroppo per lui, queste non potevo fargliele se non da solo. Veramente solo. Attraversai la camera da letto. Mi avvicinai alla finestra e la aprii. Mi avvicinai ai ragazzi che ci ascoltavano da fuori.
“Ragazzi, per favore, voglio rimanere solo con Michele. Per favore ve ne andreste?” chiesi sottovoce.
“Perché?” chiese Emanuele.
“Poi vi spiego! Ma devo parlargli di qualcosa di molto delicato. Il fatto è che mentre raccontava quella cosa, Michele, mi sono venute in mente altre domande. Però non posso parlarvene ora. Mi faccio vivo io quando finisco”
“Ma perché non possiamo stare ad ascoltare?” chiese Giuseppe.
“Meglio di no!” risposi. D’altra parte dovevo parlare con Michele apertamente. E c’erano ancora alcune cose nascoste a tutti gli altri che ci erano accadute. E, per il momento, dovevano rimanere tali.
Vedendomi irremovibile, i tre se ne andarono. Richiusi la finestra e, sembrando più tranquillo di prima, ritornai verso il centro della camera da letto. Un Michele con l’atteggiamento degli ultimi tre anni mi stava guardando di traverso.
“Perché hai acconsentito alla mia richiesta di parlarti da solo, per poi mandarli a spiarci dalla finestra?” chiese.
“Perché la richiesta non era giusta. E per farglielo capire gli ho dato il Jolly e l’Asso di Picche. Ti ricordano qualcosa?”
Michele ci pensò un attimo, poi gli vennero in mente le serate passate insieme a me e Giuseppe e realizzò il codice.
“Ma allora fingevi quando gli hai ordinato di andarsene e l’hai sgridato!” disse, sembrando ancora più offeso.
E lì cambiai atteggiamento. Ormai gli altri dovevano essere lontani e quindi incapaci di intervenire, almeno per i prossimi minuti. Decisi allora di incominciare a prendermi qualche rivincita.
“Certamente! Non siamo una banda, noi. Siamo semplici amici. E Giuseppe, ormai, è il migliore che ho a Policoro. Non mi comporterei mai così con lui. E neanche con gli altri due. Per non parlare degli altri!”
“E funziona?” chiese Michele.
“Finora, stando insieme, non siete riusciti a farci nulla! Né voi quattro, né i Tre Fratelli. Credo che sia un ottimo risultato!” gli dissi con un gran sorriso. Sapevo che sarebbe servito.
Michele arrossì, forse perché capì quello che stavo veramente dicendo, cioè che lui non aveva amici, forse perché gli vennero in mente gli innumerevoli cambi di sorte delle innumerevoli volte che erano quasi riusciti a sconfiggerci, o farci qualcosa di brutto, e che gliel’avevamo impedito. Arrossì soprattutto perché colse l’implicito messaggio, rivolto a lui in maniera specifica e diretta, della frase “Giuseppe, ormai, è il migliore amico che ho a Policoro”.
Mi sedetti sul letto a castello, di fronte a Michele. “E ora che siamo veramente soli” dissi, “ti farò tre domande. Non sono difficili, ma ti devo avvisare che l’unico modo che hai per soddisfare la mia richiesta è rispondere sinceramente. Se mi accorgo che mi stai raccontando una frottola, e lo sai che me ne accorgo, te lo prometto: richiamo i ragazzi e ti rispediamo dai Tre Fratelli. È chiaro?”
Un brivido attraversò la schiena di Michele, che non rispose.
“È chiaro?” gli chiesi alzando ancora di più la voce.
“S-Si” balbettò Michele.
Lo sapevo. Aveva ancora quel problema. Quando aveva paura, veramente paura, balbettava. Era un problema che si portava dietro da quando aveva incominciato a parlare. E quella era una cosa che solo io sapevo, tra i suoi coetanei. In fondo aveva sempre avuto una certa paura di me da quando la nostra amicizia si era interrotta. Non l’avremmo mai ammesso, né avremmo potuto farlo con gli altri, ma segretamente ciascuno nutriva nei riguardi dell’altro il giusto timore e rispetto. Due qualità che al momento opportuno l’avevano sempre trattenuto dall’esagerare con noi negli ultimi due anni. Una volta sola la voglia di vendetta per la sua stessa impotenza l’aveva spinto oltre. Ma un sasso fiondato sulla mano con cui teneva il coltello l’aveva dissuaso dal continuare e aveva fatto finire quella sera nel modo peggiore della sua vita. Almeno fino al giorno prima.
“Bene! L’importante è avere ben chiare le idee!” dissi, cercando di stemperare un po’ la tensione di quegli attimi. Anche se anche per me era veramente difficile farlo. Questa volta Michele era più che mai disposto ad ascoltare fino in fondo le mie domande e a rispondermi con sincerità. Io, d’altra parte, sapevo di non avere molto tempo a disposizione per avere quelle risposte e mi serviva la verità.
“Prima di tutto voglio sapere per filo e per segno che cosa è successo da quando ti abbiamo lasciato solo e nudo in mezzo alla strada quella sera al momento in cui ti sei rivolto ai Tre Fratelli”.
Sebbene la mia richiesta fosse precisa e diretta, Michele mi guardò esterrefatto.
“Beh! che c’è che non va?” risposi ancora più innervosito.
“Niente! Perché vuoi saperlo?” chiese indispettito, come se avessi colpito qualche punto che non aveva voglia di tirare fuori. In realtà capii subito che Michele aveva compreso chiaramente dove volevo arrivare. Con una gran bella dimostrazione di personalità, però, a quel punto, senza neanche aspettare la mia risposta, rispose alla mia prima domanda. Con franchezza e dovizia di particolari. Mi raccontò tutto quello che gli era accaduto. Come si era nascosto sotto la macchina. Che pochi minuti dopo era arrivato Amaraldo. Come l’aveva tolto da quella situazione imbarazzante e anche quello che era successo il giorno seguente, di come Amaraldo gli avesse consigliato di rivolgersi ai Tre Fratelli. E qui si bloccò. Perché, per la prima volta un dubbio consistente attraversò la sua mente. Un dubbio spaventoso. Sulla persona sulla quale, fino a poche ore prima, aveva nutrito il minor numero di dubbi possibile.
“Cioè, mi stai dicendo…?” chiese sorpreso Michele.
“No! Tu lo stai dicendo!” risposi. “A dire la verità noi l’avevamo già immaginato. Non hai mai pensato al motivo per cui, quella sera, lui non era con voi?”
“Mi ha detto che doveva andare a giocare a calcetto”
“E ci è andato?”
“Credevo di si, poi Dorian mi disse che aveva mal di testa e che era rimasto a casa”
“E quando sei rimasto solo non potevi telefonare a Amaraldo?”
“Come facevo? Sei stato tu a cancellarmi la memoria del cellulare! Non ricordo a memoria i numeri di telefono”
“Io non ti ho cancellato nulla!”
“Sicuro?”
“Certo che sono sicuro!” risposi.
Michele mantenne per qualche secondo lo sguardo fisso nel vuoto. Erano tre anni che non vedevo quello sguardo. Pur essendo stati fondamentalmente diversi, in questi anni, Michele era un ottimo studente, come me. Diciamo che in matematica, metterci insieme, non lasciava scampo a nessun problema. E quello era esattamente lo sguardo che aveva quando, come me, mediante quella sottile successione di ragionamenti logici, arrivava alla soluzione di un problema. In quel momento Michele capì che solo Amaraldo poteva avergli cancellato la memoria del telefono, visto che lui era l’unico a cui ogni tanto prestava il suo telefono. E, in quel preciso istante, un altro dubbio attraversò la sua mente. Sempre sulla stessa persona. Paradossalmente, ciò che non aveva voluto confermare a sé stesso fino a quel momento, ora stava prendendo sempre di più dei confini nitidi e distinguibili. E anche le parole che Amaraldo gli aveva detto proprio la notte prima, anche quelle parole sussurrate al suo orecchio prima di togliergli il fazzoletto e ridargli la vista, proprio quelle parole, ora, stavano acquistando un significato spaventoso. Incredibilmente logico, ma estremamente spaventoso. Amaraldo gli aveva detto che per entrare nella banda dei Tre Fratelli gli era stato ordinato di portare Michele fino a quel punto. E lui aveva pensato che si stesse riferendo a quello che gli aveva detto poche ore prima.
A dire la verità, mentre era per strada, quel giorno, aveva addirittura pensato al fatto che quelle parole facessero riferimento alla concitata conversazione che aveva avuto con Amaraldo l’anno prima, quando si convinse a cercare i Tre Fratelli.
Adesso, però, quelle parole stavano assumendo un significato diverso. Un significato che lui aveva voluto nascondersi fino a quel momento, fino a che la sua stessa mente razionale non l’aveva portato a svelare quel pensiero inquietante. Un significato che non avrebbe dovuto riportarlo indietro di un anno, ma di tre. Molto più indietro di quello che pensava. E questo gli stava facendo provare una paura, un terrore che neanche la sera prima aveva provato.
Vedendo la sua preoccupazione ed il suo silenzio capii che il mio piano stava funzionando. Volevo fargliela pagare e mettere fino in fondo alla prova Michele. E quello era solo l’inizio. Infatti subito incalzai con la seconda domanda.
“Ieri e stanotte, c’era qualcun altro con i Tre Fratelli e Amaraldo a torturarti?”
“Si! Un’altra persona!” disse Michele, rilassandosi leggermente per aver cambiato discorso.
“Chi è?”
“Non lo so! L’ho visto altre volte ma, come questa, aveva sempre la testa e il volto coperti, o da un passamontagna o da un cappuccio”
“È quello che vi fa i disegni sui fianchi?”
“Si! Ma come lo sai dei tatuaggi?” chiese stupito Michele, facendo mentalmente il collegamento con l’osservazione mia e di Giuseppe di pochi minuti prima.
“Lascia perdere! Te lo racconto un’altra volta!” risposi, cosciente della necessità di non renderlo ancora edotto sulla storia di Emanuele.
Michele aveva un turbinio di pensieri estremamente preoccupanti che occupava il suo cervello in quel momento. Decise lui stesso di non pensare oltre a quelle cose che gli stavo facendo pensare io. Solo che, quella volta, la soluzione a quel problema fu peggiore del problema stesso.
“La terza domanda?” incalzò Michele, desideroso di continuare, e forse finire, quella serie di domande che lo spaventava a morte. Almeno da quando, tornato in casa mia, aveva ricominciato ad usare il suo cervello, e non quello degli altri. Gli bastò continuare nel suo stesso ragionamento, comunque, per capire che forse sarebbe stato meglio non chiedermi di andare avanti con la terza domanda. Infatti, pochi millesimi prima che io gliela facessi, ci arrivò da solo. Me ne accorsi perché chiuse gli occhi e li strinse disperatamente.
Fu allora che dentro di me provai il vivo desiderio, per la prima volta, di colpirlo. E forse, in quel modo, risolvere una volta per tutte una questione che andava avanti ormai da quasi tre anni e che avrei potuto e dovuto risolvere come andava fatto già tre anni prima.
“Eccola! Perché? Ci molli, mi insulti, te ne vai con qualcuno che, obiettivamente, non conosci, arrivi al punto di mettere volontariamente di mezzo i Tre Fratelli, mettendoti addirittura al loro servizio e poi, quando questo ti dimostra la sua vera natura, arrivando al punto di torturare te, che, fino a pochi minuti prima, lo consideravi il tuo migliore amico, a quel punto ti ricordi della nostra amicizia e vieni da noi a farti curare le ferite. Perché? Non dico andare da Amaraldo, perché penso che tu abbia ancora da parte qualche neurone buono. Ma perché non sei andato da Salvatore, o da qualche altro tuo amico? Perché da me? Cosa vuoi da noi adesso?”
Dalla risposta che mi avrebbe dato, sarebbe dipeso tutto il resto. Ma, sopra e oltre ogni altra cosa, volevo che me lo dicesse, volevo che mi dicesse quella cosa, anche se in ritardo di tre anni, ma volevo che ammettesse di aver sbagliato e mi chiedesse scusa, e non avrei permesso a Michele di muoversi da quel letto, fintanto che non l’avesse fatto.
Michele, prima, stette per qualche secondo con lo sguardo perso nel vuoto. Poi mi guardò, per qualche altro secondo. E lì capì. Poi abbassò lo sguardo. Vidi che stringeva forte i pugni, come se volesse trattenere tutti i sentimenti che provava in quel momento dentro di sé. Solo che non ci riuscì. Non ci riuscì perché lentamente i suoi occhi si bagnarono e una lacrima scese lungo la guancia sinistra, fino al mento. Dal quale cadde sulla maglietta. Quando la vidi, reagii in modo imprevisto. Per entrambi.
Poche altre volte, nella mia vita, dopo quel momento, provai quelle sensazioni. E sicuramente, quella, fu la prima volta in vita mia che accadeva. Avevo perso la pazienza. Mi alzai di scatto, presi Michele per il colletto della maglietta, lo feci alzare ed urlando, gli rifeci la stessa domanda. “Perché sei venuto da me? Che cosa vuoi da me?”
Altre lacrime caddero dal suo viso, mentre ogni due o tre secondi, ripetevo quella domanda con quanta voce avevo. Passarono ancora pochi secondi e lo ributtai sul letto supino, mentre gli premevo le spalle contro il materasso. Mentre con il braccio sinistro gli afferrai il collo, caricai il pugno destro. Sempre urlando, ma ormai con le lacrime agli occhi pure io, glielo chiesi ancora “Perché? Voglio sentirtelo dire!”. Passarono altri due secondi. Vidi che non reagiva. Né per rispondermi, né per difendersi. Allora, con l’adrenalina fin sopra i capelli, per la prima volta in vita mia, un pugno glielo sferrai veramente. In pieno volto. Colpendo il sopracciglio sinistro. Dal quale iniziò ad uscire del sangue.
“Per chiederti scusa!” fu l’unica frase che disse Michele. Ma la urlò. E proprio pochi millesimi di secondo prima di essere colpito. Non riuscii a fermare il colpo. Anche se, forse, non avevo proprio voglia di farlo. Ero fermamente convinto di essere in ritardo di tre anni con quell’azione decisa. Sapevo che quel contatto fisico non era solo inevitabile, ma anche necessario. Dovevo farlo. Era l’unico modo per fargli ammettere quello che sapevo, che avevo capito da tanto tempo ma che non avevo mai sentito dirgli. Evidentemente il pugno, Michele, lo sentì perché incominciò a piangere. Disperatamente.
Immediatamente tornai in me. Vedendo quello che avevo combinato, come avevo reagito e soprattutto cosa avevo fatto, tutto rosso in viso, sudato e con il fiatone per tutta la tensione presente in quella camera, preso anche io alla sprovvista da quella reazione che non mi aveva mai caratterizzato, e colpito più che mai dalla risposta di Michele, mi accasciai a terra, scoppiando a piangere anche io. La scena era durata neanche mezzo minuto. Ma da quando avevo incominciato ad urlare, Giuseppe, appena rientrato in casa sua, era uscito nuovamente e, correndo, si era diretto immediatamente verso la mia. Entrò proprio in quel momento, quando tutto era finito, senza aspettare che il padrone di casa gli desse il permesso di farlo, e soprattutto in tempo per vedere quello che avevo fatto e la mia reazione. E per sentire quello che Michele disse dopo, continuando a piangere.
“Per dirvi che ho sbagliato ad allontanarmi da voi. Ho sbagliato a passare tutto quel tempo con Amaraldo. Ho capito che mi ha solamente usato. E per dirvi che mi dispiace di averlo fatto. Mi dispiace di essermi rivolto ai Tre Fratelli. E che invidio, ho sempre invidiato, la vostra amicizia, il vostro gruppo. Che siete stati gli ultimi amici che ho avuto. E che non sono riuscito neanche a mantenerli”.
Tutto quel trambusto aveva colpito Giuseppe, che mi tese una mano per aiutarmi a rialzarmi. Solo in quel momento mi resi conto della presenza in casa di una terza persona. Ma non ero mai stato così felice di accorgermene. E in realtà non ero mai stato così felice di sentire quello che avevo appena sentito da Michele. Mi alzai, aiutato da Giuseppe, e mi riavvicinai a Michele, che intanto si era anche lui alzato. Lo squadrai, con uno sguardo ancora pieno di rabbia, ma non di odio. Giuseppe era lì. Pronto a fermarmi con qualsiasi mezzo, ed io lo sapevo. E ne ero felice. Feci ancora qualche respiro profondo. Poi, lentamente, mi calmai. Ancora imbronciato, anche se totalmente rilassato e sereno, ripresi a parlare.
“Era questo quello che ti volevo sentir dire. Sono tre anni che cerco di fare in modo che questo accada. Si vedeva lontano mille chilometri che eri profondamente dispiaciuto di averci trattato così, ma anche troppo orgoglioso per dirmelo e chiedermi scusa. Adesso sei, cioè, siamo riusciti a capire perché l’hai fatto” dissi, sedendomi di nuovo sul letto a castello.
“Solo che adesso è troppo tardi!” concluse Michele.
Quell’ultima frase mi colpì moltissimo. Michele mi aveva tradito. Aveva tradito noi e la nostra fiducia. Su questo non avevo il benché minimo dubbio. Aveva tradito il vincolo di fiducia che consideravo la cosa più importante in un’amicizia. Si può non andare d’accordo su tante cose, ma non si deve mai avere il benché minimo dubbio sulla fiducia di ciascuno nell’altro. E ciascuno deve fare tutto quello che è necessario per guadagnarsela. Poi pensai a quell’amicizia, che fino a qualche anno prima era durata, come le altre, nonostante tutto e tutti. E che solo da qualche anno si era interrotta.
Mi venne in mente quando avevo incominciato a seguire le persone e che il primo a cui avevo proposto quella pazzia era stato proprio lui, Michele. Che mi aveva addirittura detto che non era corretto farlo e che ci saremmo cacciati nei guai se solo ci avessero scoperti. Quanto forte era stata l’influenza esercitata da Amaraldo nei suoi confronti? Aveva fatto un cambiamento enorme. Quasi non lo riconoscevo più.
Mi venne in mente anche che quattro anni prima era con Michele che avevo incominciato a vedermi nei pomeriggi estivi per fare insieme i compiti e che avevo ripiegato su Giuseppe quando l’altro si era allontanato da noi e aveva interrotto la nostra amicizia.
Pensai a quell’anno in cui mia nonna non era stata bene e mio nonno non riusciva a portarmi al mare, e che la madre di Michele si era accollata la responsabilità di un altro bambino e si portava al mare suo figlio, sua figlia e me, pur sapendo che avrebbe urlato il doppio per far stare calmi tutti noi.
Fu Michele il solo a cui, per la prima ed ultima volta, avevo confidato che mi piaceva una persona. In fondo quando ero a Policoro, essendo più grande degli altri tre, mi faceva piacere avere uno della mia stessa età con cui parlare. E mi era dispiaciuto tantissimo quando questo si era allontanato da noi. Quando se ne andò da quella compagnia e si unì a Amaraldo e gli altri. Arrivai addirittura il punto di odiarlo per questo.
Ma ora? Era stato lui ad essere ritornato. Era ritornato direttamente a casa mia, aveva ammesso di aver sbagliato, aveva chiesto scusa per tutto quello che aveva fatto, era stato pure disposto a prenderle dalla persona alla quale stava chiedendo scusa. Bastava? O era veramente troppo tardi?
Cosciente del fatto che ormai con Cosimo, Amaraldo, Angelo e gli altri sarebbe, inevitabilmente, stata guerra aperta, scoprire di avere ancora al nostro fianco un alleato come Michele, degno del massimo rispetto per coraggio e forza fisica, non poteva che incoraggiarmi tantissimo. Però…
“Simone, puoi venire un attimo?”
Era Giuseppe che interruppe il mio ragionamento. Mi risvegliai da quella privacy mentale in cui a volte mi piaceva nascondermi e lo seguii fuori di casa.
“Prima mi sono fermato un attimo a parlare con Francesco e Emanuele. Anche io sono d’accordo. Siamo tutti felicissimi di questa mossa di Michele. Se torna ad essere nostro amico, siamo tutti e tre disposti ad accettarlo. Il problema è se lui capisce fino in fondo ciò che significa questo!”
In un cartone animato, in quel momento mi sarebbe caduta la mandibola. Era arrivato alle mie stesse conclusioni!
“Facciamo così! Vai da Francesco e Emanuele e raccontagli quello che hai visto e sentito. Poi raggiungeteci. Io devo dire a lui proprio questo. Te la senti di raccontarlo agli altri due?”
Gli occhi di Giuseppe si illuminarono.
“Basta che quando torniamo non lo troviamo con un altro occhio nero!” rispose sorridendo.
“Non preoccuparti. Non ce n’è più bisogno!” risposi io, ricambiando il sorriso.
Giuseppe partì. Rientrai in casa molto più rilassato di prima. E Michele se ne accorse subito. Per la prima volta un sorriso sottile si affacciò sul suo viso. Lo feci accomodare sul letto. Mi sedetti al suo fianco. Per la prima volta. Dopo tre anni. Se ne accorse. E iniziò a capire. In quel preciso istante i suoi occhi cambiarono espressione. Ritornarono quelli del bambino di tredici anni, prima che litigassimo.
“Ho appena parlato con Giuseppe. Anche loro sono d’accordo. Siamo disposti, tutti e quattro, a cancellare questi ultimi tre anni e riaccettare di stringere un’amicizia con te” e non feci in tempo a continuare.
“Grazie! Grazie Simone! Grazie! Grazie a tutti! Scusatemi per tutto quello che vi ho fatto! Grazie! Prometto che non tradirò mai più la vostra amicizia! Grazie!” disse, urlando con le lacrime agli occhi ed abbracciandomi. Poi il dolore sul petto e sulle braccia si acuì, a causa dell’abbraccio, e desistette. Fui a dir poco felicissimo di vederlo così. Però dovetti ritornare immediatamente serio.
“Ci fa molto piacere che tu abbia reagito così. Però non ho finito!” dissi, vedendo immediatamente dopo Michele ritornare serio ed abbassare lo sguardo.
“Hai ragione. Sono pronto a subire qualsiasi punizione pur di riconquistare la vostra amicizia e la vostra fiducia! Me la merito!” disse coraggiosamente.
“Ma sei scemo!?” mi feci scappare. “Non siamo in una banda, come te lo devo dire. Tu sei nostro amico. Non un nostro sottoposto. Non tratteremmo nessuno così! Fidati! Non permetterei a nessuno di farti del male per punirti per ciò che hai fatto!”. Non ne fui deluso. Compresi solo come l’atteggiamento di Michele era cambiato a seguito di quell’anno passato con i Tre Fratelli.
Anche se, tutto questo, ancora una volta mi fece venire in mente di avere, da un anno, in sospeso un particolare che non mi tornava. Però dovevo concludere il mio ragionamento.
“Non ho finito perché, prima che tornino gli altri, devo dirti ancora la cosa più importante! Mi fa piacere che tu apprezzi nuovamente la nostra amicizia. Però è vero che ritornando nostro amico, diventi automaticamente nemico dei Tre Fratelli e la loro banda. Che significa che potrebbero succederti e succederci cose peggiori, anche di quelle che hai già vissuto. Quindi non ci sentiremmo traditi o offesi se tu, dopo tutto quello che ti hanno fatto passare, decidessi di rimanertene fuori da questa storia, fino a quando non si sarà conclusa. Siamo anche disposti a mantenere segreta questa conversazione e non parlare a nessuno del fatto che sei venuto qui. Posso anche lasciarti qualche minuto per decidere, ma dobbiamo saperlo subito!” dissi, tutto d’un fiato. Poi mi alzai e me ne andai, perché sentii Giuseppe e gli altri che stavano arrivando.
“Siamo tutti felici che Michele sia tornato la persona che era fino a tre anni fa” disse Emanuele.
“Possiamo fidarci di lui?” chiese Francesco.
“Penso di si! Dopo quello che è successo non penso che abbia ancora voglia di fare il gioco dei Tre Fratelli. Gli ho lasciato il tempo di pensare se schierarsi dalla nostra parte o andarsene tranquillo a casa e evitare qualunque contatto con noi fino alla fine di questa storia. Mi è sembrato giusto dirglielo, visto come lo hanno conciato. Comunque, se decidesse di aiutarci, penso che sia necessario dargli qualche altra informazione. Solo in questo modo a lui potranno venire in mente altri particolari. Dite che posso raccontargli quello che finora sappiamo sulla banda? Intendo in relazione a Emanuele e Angelo?”. Sapevo che avrei dovuto farlo, ma volevo che tutti fossero convinti, in modo da evitare ulteriori problemi futuri.
“La mia storia puoi raccontargliela tranquillamente!” disse Emanuele.
“Penso che anche la storia di Angelo, non abbiamo problemi a parlarne! Tanto dopo quello che è successo non credo che abbia problemi a schierarsi definitivamente dalla nostra parte” aggiunse Giuseppe.
“Bene!” allora venite dentro che sentiamo quello che ha deciso. Entrammo tutti e quattro in camera da letto. Dapprima un po’ timoroso, il viso di Michele si rilassò quando Francesco e Emanuele gli strinsero amichevolmente la mano. Confermando, definitivamente, le mie parole di poco prima.
“Allora cos’hai deciso?” dissi. Michele era seduto al lato del letto. Io ero in piedi al suo fianco. Appena dietro di me, verso destra c’era Giuseppe. Dietro di noi, quasi vicino alla porta, i due fratelli ascoltavano con attenzione quello che Michele stava per dire. e l’attenzione non mancava a nessuno. Michele tenne la testa giù. Poi si alzò, non rivolgendoci lo sguardo.
“Mentre mi sottoponevano a quel trattamento, mentre Amaraldo mi sottoponeva a quelle torture, la sofferenza maggiore non era quella fisica. Quando affidi la tua mente e parte del tuo cuore ad una persona, considerandola, sopra ogni altro, il tuo migliore amico, gli dai tutto. Non ho sofferto solo per le torture. Ho sofferto soprattutto per il tradimento. Come prima non ho sofferto per il pugno, ma per il rimorso di avervi tradito. Perché avendo provato su me stesso, poche ore fa, l’esperienza di scoprire di essere stato tradito da qualcuno, ingannato da una persona che aveva la mia fiducia, ho capito veramente come vi ho fatti sentire in tutto questo tempo. La cosa che mi dispiace più di tutto e che è colpa mia. Non dovevo allontanarmi da voi, non dovevo lasciarmi influenzare da quella persona meschina, non dovevo chiedere aiuto ai Tre Fratelli”
Stavo per bloccarlo per ricordargli che non doveva fare nulla nel tentativo di infliggersi una punizione che noi stessi non gli avremmo mai dato. Ma fu lui, con un gesto, a fermarmi. E, finalmente, a quel punto, i suoi occhi riacquistarono tutta la dignità e la forza d’animo che avevo conosciuto in quel ragazzo prima di tutto questo. Finalmente alzò lo sguardo, rivolgendomelo, e continuò.
“Adesso, però, che ho capito veramente cosa è giusto, voglio farlo fino in fondo. Nonostante tutto. E tutti. Sono stato ingannato, è vero. Anche per colpa mia. Ma adesso mi sono stancato. Questa storia deve finire. E deve finire subito. Sono disposto a correre qualsiasi pericolo per la vostra amicizia e per fare ciò che è giusto. Adesso ho finito!” disse. Ed ora ci stava guardando a tutti negli occhi.
Nessuno a quel punto ebbe più nulla da dire. Il silenzio riempì quella camera per qualche secondo. Tutti noi eravamo felici di aver sentito quelle parole. E nessuno riusciva ad esprimere a parole quei sentimenti. Il primo fu proprio Michele.
“Ammazza se meni, però!” disse sorridendo Michele.
“Quando ci vuole ci vuole!” dissi, ricambiandogli il sorriso.
E l’atmosfera si rilassò definitivamente. Dopo qualche altro minuto di chiacchiere Francesco e Emanuele se ne andarono. Tra una cosa e l’altra si erano fatte quasi le sette. Io chiesi a Michele se voleva rimanere a casa mia qualche giorno, fintantoché le ferite non fossero sufficientemente guarite. E Michele acconsentì, chiamando immediatamente sua mamma per informarla della cosa. Invitai Giuseppe a venirmi a trovare dopo cena, per cercare insieme, e con l’aiuto di Michele, di chiarire una volta per tutte quali fossero i dubbi che ancora ci assillavano. Giuseppe accettò prontamente l’invito. Tirai un sospiro di sollievo, mentre lo vedevo allontanarsi. Da quando era successo quello che era successo due sere prima, Giuseppe si stava dimostrando una persona seria e un vero amico. Non che non mi fidassi degli altri. Solo che a volte, per capire le cose, avevo bisogno di lavorare senza essere disturbato. E Giuseppe aveva acquisito la capacità di saper stare zitto quando era necessario e parlare non dicendo cose stupide. Insomma, stava iniziando a maturare mentalmente. Ed io sapevo che in quel momento, avevo assolutamente bisogno di una persona del genere. Una persona che sapeva esattamente interpretare le mie parole dette a metà e le espressioni del mio viso. Una persona che anche io riuscivo a capire, anche quando usava mezze parole o quando non ne usava proprio. Ero convinto che con Giuseppe e Michele al mio fianco, niente e nessuno ci avrebbe potuti fermare. Avremmo risolto insieme qualsiasi problema. Sapevo che con Giuseppe, quella sera, avrei potuto risolvere tanti enigmi di quella storia. Soprattutto quello che ancora mi assillava profondamente. E che ancora non ero riuscito neanche ad inquadrare. Sapevo che quei due mi avrebbero aiutato a dipanare i miei pensieri e farmi capire quanto avevo bisogno di capire per raggiungere la soluzione sperata. Per me erano, praticamente, una variante buona del Gatto e la Volpe. Perché di loro ci si poteva veramente fidare.

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ECCOCI CON UN NUOVO CAPITOLO (E CHE CAPITOLO, AGGIUNGEREI)...
Vi chiedo prima di tutto scusa ma in questi giorni di vacanza è stato difficile inviare il nuovo capitolo ed ho potuto farlo solo ora. in compenso è un po' lunghetto, quindi di ciccia ce n'è!! 
come sempre attendo ansiosamente le vostre recensioni per sapere cosa ne pensate di questo cambiamento...
à la prochaine!!

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Capitolo 14
*** Memorie ***


MEMORIE
“Chi è?”
“Buongiorno! Sono Simone! C’è Michele?”
“Sì Simone, vieni!”
Il portone del palazzo si aprì. Simone entrò, accorgendosi immediatamente della differenza di temperatura. Fuori un caldo pesante, tipico di Policoro in quel periodo, metà luglio. Nell’androne del palazzo un fresco surreale, che molto presto rivelò la sua infida malignità: l’ottantacinque percento minimo di umidità. E Simone, come se fosse una novità, iniziò a sudare.
Salì velocemente al secondo piano dove la porta era già aperta. Entrò e salutò la madre di Michele. Si diresse immediatamente verso la camera del suo amico.
“Ciao! Come va?” chiese distrattamente.
“Ciao! Bene! Stavo studiando un po’, sennò mia madre rompe”
“Ah! Che cosa?”
“Le scatole! Piuttosto, potresti chiudere la porta?” rispose Michele.
“Veramente mi riferivo a cosa stavi studiando, e non a cosa tua madre rompe. Comunque va bene lo stesso” sussurrò Simone. Quel genere di battute aveva sempre messo di buon umore Michele.
Ma purtroppo, non quel pomeriggio.
Simone fece in tempo a prendere dalla madre di Michele i due bicchieri di succo di frutta che arrivarono e appoggiarli alla scrivania del suo amico. Poi si ridiresse verso la porta e la chiuse. Per la madre di Michele non era niente di strano. Non ci fece neanche caso. Ma Simone era lì per un motivo. Un motivo che neanche lui sapeva.
“Allora? Perché mi hai chiamato?” chiese immediatamente Simone. A lui, come al suo amico, non piaceva perdersi in chiacchiere, quando sapeva che era necessario fare qualcosa. Visto che era stato Michele a chiamarlo, voleva sapere che cosa era successo. Da qualche settimana, da quando era ritornato a Policoro con i suoi nonni, al termine della scuola media, si era reso conto che era cambiato. Come se tutto quello che aveva fatto fino a quel momento gli stesse stretto. Simone, Giuseppe e tutti gli altri non avevano cambiato per niente l’atteggiamento che mostravano nei suoi confronti, ma Michele si. Aveva incominciato a uscire sempre meno con loro. Non faceva più i compiti con loro. Quando stava in loro compagnia continuava sempre a lamentarsi di quello che facevano. E Simone aveva seriamente incominciato a preoccuparsi. Anche gli altri, e gli avevano scritto una lettera, nella quale gli chiedevano qualcosa e, riconfermandogli il loro affetto, gli ricordarono che quando voleva loro erano disponibilissimi a stare insieme. Michele, per tutta risposta, aveva mandato un messaggio a Simone e gli aveva chiesto di passare quel pomeriggio a fare quattro chiacchiere. Simone aveva accettato, anche se non sapeva cosa aspettarsi. Soprattutto perché gli aveva chiesto di andarci da solo.
“Che cos’è questa storia?” chiese Michele, porgendogli la lettera.
“Perché?” rispose Simone “te l’hanno scritta i ragazzi! Che problema c’è?”
“Non erano neanche capaci di parlarmi?” chiese stizzosamente il ragazzino.
“Certo che sono capaci di parlarti! Ma devi anche capirli. Sono piccoli, e si vergognavano di chiederti quelle cose!”
“Non riesco a capirli. Sono così infantili! Ancora con quei giochini. Nascondino al contrario! Così lo chiamate, vero?” disse Michele. E Simone comprese immediatamente il messaggio. E rispose immediatamente come doveva.
“No! Così lo chiamiamo. Perché fino all’anno scorso ci giocavi anche tu! Che ti è successo?”
“È successo che non ho più voglia di stare dietro a quei mocciosi. Simone!? Siamo cresciuti! Non abbiamo più tempo di perderci in queste cose!”
“Dici!? Per me invece loro ci considerano degli amici e dei bravi ragazzi e hanno bisogno di noi! E poi ci separano solo pochi mesi! Chi sei tu per considerarti così superiore a loro?”
“E chi sono loro per considerarsi come noi?” rispose Michele.
“Noi?! Io non sono nessuno. E tu chi sei?”
“Sono uno che sta crescendo, e che si sta rendendo conto che forse quelle persone che lo considerano un amico non sono poi tanto amici. Perché non mi valorizzate abbastanza. Perché vi comportate così infantilmente”
“Scusa, ma chi ti ha messo in testa queste cose?”
“E a te che cosa importa?”
Simone si rese conto del fatto che la situazione stava degenerando. Indubbiamente quei ragionamenti non erano tutti farina del sacco di Michele. Ma non sapeva di sue altre frequentazioni. Allora tirò ad indovinare.
“Non è che c’è di mezzo una?” chiese.
“Perché me lo chiedi?” rispose immediatamente l’altro.
“Perché ce l’eravamo detti! Noi siamo amici e negli affari sentimentali non si entra a meno che non lo vuole il diretto interessato. Quindi non credo che tu voglia allontanarti da noi per una ragazza. Basta dircelo, ma è inutile fare questi discorsi che sinceramente non stanno né in cielo né in terra”
“Giuseppe e gli altri ti hanno seccato il cervello! Non ti rendi conto che vogliono tutti farti credere di essere tuoi amici ma poi ti sfruttano solamente? Sei proprio così accecato dalla loro falsa amicizia?”
“Ma chi ti dice che le cose stanno così?” chiese Simone. Stava perdendo la pazienza e Michele lo sapeva.
“Nessuno!” rispose distogliendo uno sguardo a metà strada tra il distaccato e il seccato.
E a quel punto, a Simone, la pazienza scappò.
“Ma non puoi dire certe cose e poi fermarti. Michele, ti prego, se è successo qualcosa dimmelo. Se hai litigato con qualcuno di loro, dimmelo. Se qualcuno ti ha detto qualcosa di sbagliato tra loro, dimmelo e sistemiamo la faccenda. Ma non allontanarti da noi solo perché qualcuno ti ha detto qualcosa o hai dei dubbi sulla sincerità della nostra amicizia. Se qualcuno ti ha messo in testa queste cose, anche se non mi dici chi è, per favore, parlagli. O quantomeno dai il beneficio del dubbio ai nostri amici, che conosciamo da un sacco di tempo. Però, ti prego, non staccarti da noi solo perché ti consideri superiore a noi. Perché questo significa tradire la fiducia che ci fa stare uniti. Significa tradire la nostra amicizia. Non puoi comportarti così con noi!”
E finì di parlare. Michele lo fece parlare poi disse una cosa che non avrebbe dovuto dire.
“Il peggiore di tutti sei tu! Perché finora, per costruirti il tuo mondo, qui a Policoro, ti sei creato un gruppo di persone a tua somiglianza, che vive solo per te! E se qualcuno come me ti dice la verità tu, piuttosto di accettarla, ti fingi un amico per non rovinare il tuo mondo. Sei solo un opportunista, che sfrutta l’amicizia degli altri per i tuoi comodi e continua a fingersi un amico fino a quando non lo contraddici!”
Simone rimase in silenzio per qualche secondo. Mai e poi mai sarebbe riuscito a prepararsi per affrontare una serie di accuse devastanti come quelle. Di certo, ne fu in quel momento più sicuro che mai, Michele stava tirando fuori quello che qualcuno l’aveva indotto a credere. Non sapeva per quale motivo, non sapeva chi, ma le cose stavano certamente così.
“Non ti rispondo perché so che queste cose non vengono da te” rispose tentando ancora una volta di giustificarlo “ma non ti conviene ripeterlo un’altra volta” disse Simone alzandosi dalla sedia e avvicinandosi a Michele. Si alzò anche lui.
In quei pochi secondi nessuno dei due distolse lo sguardo. Finché fu Simone a cedere per primo. I suoi occhi si inumidirono e Michele sfruttò l’occasione per uscire da quella situazione una volta per tutte.
“Per me questa conversazione finisce qui” disse Michele.
Simone sgranò gli occhi. Così l’aveva invitato a casa, l’aveva fatto venire in quell’appartamento che aveva visto un numero infinito di volte, solo per dirgli che quell’amicizia non meritava più di continuare? Tutte le domande che si era posto sul motivo per cui l’aveva detto, sul chi l’avesse indotto a pensare una cosa del genere, tutto finì in pochi decimi di secondo. La rabbia, l’imbarazzo e la profonda delusione per il comportamento di quella persona, lasciarono il posto solo alla tremenda voglia di uscire da quella casa.
“Anche per me!” disse Simone.
Si voltò verso la porta e se ne andò immediatamente. Non aveva neanche bevuto il succo di frutta. Non salutò neanche la madre di Michele. Scese le scale e uscì in strada. Corse via d’un fiato. Tornò a casa.
Non parlò mai agli altri di quella conversazione. Non aveva detto loro neanche del messaggio ricevuto prima. Per lui quella conversazione non c’era mai stata. Non ne parlò mai con nessuno. Più di una volta, nelle settimane successive e nelle altre due estati, Giuseppe, Emanuele e Francesco si erano chiesti il perché di quell’interruzione istantanea dell’amicizia. Ma non seppero mai di quel pomeriggio. Un po’ perché Simone non se la sentì mai di raccontarglielo, un po’ perché segretamente coltivava veramente il desiderio di vederlo tornare.
Dopo qualche giorno Michele, passando per quella strada che l’aveva visto fino a qualche mese prima giocare, ridere e scherzare, incominciò inspiegabilmente a prendere in giro Simone e gli altri. L’anno dopo ancora più pesantemente, e anche con Amaraldo, Dorian e Salvatore a dargli man forte.
L’anno seguente, le cose peggiorarono quando Michele si rivolse ai Tre Fratelli. E in quel momento erano peggiorate ancora, soprattutto per Michele.
 
----O----
Si fa presto a narrare le cose con la terza persona. Purtroppo quello che vi ho appena raccontato era accaduto veramente. Ed era accaduto proprio a me. Adesso, io e Michele stavamo per compiere entrambi 17 anni.
Anche se per un motivo che non comprendevo ancora pienamente, le nostre strade si erano scontrate, e uno dei due aveva preso la botta peggiore. Cosa avremmo fatto non lo sapevo. Però, da quando l’avevo visto davanti casa mia, quel pomeriggio avevo iniziato a cancellare tutti quei brutti ricordi che erano seguiti a quel 13 Luglio 1997. Michele, dalla sua parte, sperava con tutte le sue forze che lo stessi veramente facendo.
Nel momento in cui aveva suonato alla mia porta, aveva deciso che da me le avrebbe addirittura prese, pur di convincermi a cancellare quei tre anni. E infatti, per la prima volta in vita sua, da me le aveva prese.
Però, qualche spiegazione, a quel punto, la doveva dare.
Lo sapeva Michele.
Lo sapevo io.
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NdA: Ogni tanto per abbassare un po' i toni ci vuole un bel flashback!!  :) Grazie a tutti per avermi letto e seguito fin qui. Grazie di nuovo a chi mi ha recensito e, se volete, continuate pure a farlo perché mi fa solo un gran piacere!!
Alla prossima!

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Capitolo 15
*** La linea sottile ***


LA LINEA SOTTILE
Dopo mangiato rimanemmo per qualche minuto a chiacchierare a tavola. Prima dell’arrivo di Giuseppe, era necessario, essenziale, chiarire ciò che non avevo chiarito da quasi 3 anni. Michele aveva avuto un ottimo recupero dal primo pomeriggio. Evidentemente le cure gli avevano fatto molto bene, sia emotivamente che fisicamente. Dolore ne sentiva ancora tanto, ma soprattutto all’occhio. Il mio pugno. Non soffriva più molto per le percosse e le torture del giorno prima. Quando vide il mio sguardo, Michele abbassò nuovamente il suo. Io però continuai a scrutarlo. Per due motivi. Il primo era perché sapevo quello di cui dovevamo parlare in quel momento. Il secondo perché sapevo ciò di cui stavamo per parlare, cioè sapevo che Michele non avrebbe mai potuto impedirmelo. Anche Michele lo sapeva. Fosse stato per lui avrebbe volentieri fatto finta di niente. Ma sapeva che sarei stato io a cominciare comunque quel discorso. Quindi, coraggiosamente e dimostrando una maturità che potevo solo sperare che avesse, fu lui ad iniziarlo.
“Non vorrei farlo, solo che sono talmente sicuro che stiamo per parlare di quel 13 Luglio 1997 che non vale la pena continuare a evitare di farlo. Però devi permettermi di lasciarmi raccontare tutto senza interrompermi e prima devi rispondere ad una mia domanda. D’accordo?”. Non ebbi nulla da obiettare.
“Prima di tutto, dimmi, perché non hai detto niente agli altri di quel pomeriggio?”
In effetti quella domanda mi colse un po’ alla sprovvista. Però la risposta la conoscevo già.
“Per due motivi. Prima di tutto perché speravo che tu fossi un giorno tornato con noi, e sapevo che se avessi raccontato agli altri quello che mi avevi detto sarebbe decisamente stato tutto più difficile. Poi perché se avessi detto delle accuse da te mosse contro di me, avrei permesso a dei dubbi infondati di far breccia nella loro mente. Sapevo che avevi torto marcio. Ho pensato che l’influenza negativa di qualcuno su di te avrebbe potuto influenzare anche loro. E sarebbe stato peggio per tutti. Convinto?” risposi.
“Si. In questi anni segretamente ho apprezzato tutto questo. Prima ho pensato che l’avessi fatto per paura della loro reazione. Ma poi lentamente mi sono reso conto che eravate tutti mossi da vera amicizia. Ma era troppo tardi”
“Va bene! Però adesso tocca a te!” tagliai corto. Volevo sapere subito come si erano svolti i fatti. Ero infatti convinto che, in qualche modo, tutto poteva essere chiarito a partire proprio da quella giornata.
“Dunque, qualche settimana prima del tuo arrivo, mi ritrovai una sera a passeggiare da solo per il corso. Avevo litigato con mia sorella e come al solito i miei avevano preso le sue difese. D’altra parte, con una bambina di otto anni, nessuno avrebbe preso le mie, di difese. Ma a tredici anni come potevo comprendere una cosa del genere… per puro caso incrociai Dorian e Amaraldo. Mi chiesero se mi andava di proseguire con loro la passeggiata. E io accettai. Quell’Amaraldo era fenomenale. Aveva una capacità di conoscermi, di farmi sentire vicino a lui, di includermi nei suoi ragionamenti, che molto presto sembravamo due grandissimi amici. Ci vedemmo qualche altra volta la sera. Ancora le scuole non erano chiuse, tu ancora non eri sceso e con gli altri spesso non riuscivamo a vederci. Comunque presto incominciammo a frequentarci praticamente ogni giorno. I nostri genitori non avevano nulla in contrario. Quindi non ci vidi nulla di strano. Lentamente, però, mi accorsi che incominciava a fare discorsi strani. Prima incominciò a parlare male di Giuseppe. Poi Emanuele e Francesco divennero per lui dei poveri sfigati mocciosi. Poi, quando arrivasti, puntò tutte le sue attenzioni su di te. Continuò a dirmi di non dire niente a voi, che voi non avreste capito e che tutto si sarebbe sistemato. Ma intanto faceva di tutto per farmi capire che di te non c’era da fidarsi. Che eri di un altro posto e tutte le altre cose che poi sciaguratamente ti dissi quel pomeriggio. Che a Milano tutte le cose vanno così. Praticamente ogni volta che ci ritrovavamo insieme, Amaraldo continuava a criticare ogni singola vostra scelta. Dal giocare a nascondino al contrario, fino alle ragazze che frequentavate. Tutto. Così continuai ad essere bombardato da quei ragionamenti e quasi inconsciamente incominciai a pensarci. E a crederci. Fu quello che iniziò a farmi allontanare da voi. Alla fine di tutto ci fu quel pomeriggio”.
Io rimasi in silenzio e immobile per tutto il tempo del racconto. Con lo sguardo fisso nel vuoto. Mi ero fatto una certa idea di tutta quella storia ma adesso iniziavo a vedere con una luce diversa tutto. Michele si voltò improvvisamente verso di me.
“Quando prima vi ho chiesto scusa, ero sincero. Mi dispiace veramente aver causato tutti questi problemi. Mi dispiace aver perso la tua amicizia. La vostra. Mi dispiace aver fatto tutto questo. Sono stato un idiota a credere a tutte quelle balle di Amaraldo. Ma non potevo immaginare che poi sarebbero finite così. D’altra parte non avrei mai pensato che Amaraldo facesse già parte della banda dei Tre Fratelli. Non ho voluto crederci neanche ieri e poi mi sono ricreduto”
Un fulmine attraversò la mia mente a quest’ultima frase.
“Aspetta un attimo. Chi ti dice che quando Amaraldo ti ha avvicinato, tre anni fa, faceva già parte della banda?” chiesi.
“Lui! Stanotte mi ha detto che ero la sua prova di iniziazione. Mi ha detto che se riusciva a portarmi a quel punto avrebbe fatto parte della banda dei Tre Fratelli, e adesso, con tutte le cose che mi hai detto perché non pensare che tutto questo gioco malefico nei miei riguardi sia partito proprio 3 anni fa?”
A Michele bastò il mio volto per capire di non aver bisogno della mia risposta.
Potevo immaginare che Amaraldo fosse una persona subdola e malvagia ma, visto il ruolo che gli avevamo affibbiato, mi sembrava logico concludere che, sebbene quello fosse l’obiettivo principale, lui avesse incominciato a perseguirlo seriamente solo l’anno prima. Però il ragionamento di Michele era valido e incontestabile.
Però questa era una cosa alla quale non avevo pensato prima. Dovevo assolutamente fare il punto della situazione, nonché quattro conti. Perché nel profondo della mia mente, qualcosa non stava tornando più. Presi una matita ed un foglio di carta ed incominciai a scriverci sopra. Come sempre quando facevo qualsiasi punto della situazione.

"Primavera-Estate 1997 – costituzione banda dei Tre Fratelli – iniziazione di Amaraldo.
Estate 1998 – Michele/Amaraldo VS Simone/Co.
Estate 1999 – Amaraldo spinge Michele ad entrare nella banda dei Tre Fratelli.
Estate 2000 – Michele fuori dalla banda."
 
Michele si era appena alzato per incominciare a sparecchiare. Ed io lo lasciai fare. Senza farlo apposta reggevo il foglio a mezz’aria con le mani. Michele si voltò nuovamente verso il tavolo ed inevitabilmente si accorse di quello che c’era scritto dietro il foglio su cui io avevo scritto quella minima cronologia di avvenimenti. Si avvicinò e me lo strappò letteralmente dalle mani.
“Ma che ti prende?” fu la mia reazione, ma poi immediatamente compresi, perché mi accorsi di quello che conteneva il retro del foglio che avevo fino a poco prima tra le mani: l’organigramma che avevamo ricavato della banda dei Tre Fratelli giusto la sera prima.
“Come fate a sapere tutte queste cose?” chiese, stupito, Michele.
“Beh! Diciamo che in questi ultimi tre o quattro giorni ci siamo spremuti le meningi. Ma questo è tutto quello che sappiamo della banda”
“Mi stai dicendo che sapevate già di Amaraldo. Ma come facevate?”
Ci interrompemmo perché Giuseppe era appena entrato in casa. E dall’uscio della porta aveva ascoltato l’ultima frase e si era reso immediatamente conto di quello che stava succedendo. Giuseppe non avrebbe voluto perdersi per nessun motivo quella conversazione. Comprendendo la situazione, continuammo.
“Perché tu non sei stato l’unico idiota che ci è cascato!” fu la mia risposta. Giuseppe mi osservò. Sapeva che avevo il permesso di raccontare quelle cose, ma non sapendo quello che ci eravamo detti prima non sapeva quello che stava per succedere. Poi ripresi in mano la situazione.
“Caro Giuseppe, abbiamo appena scoperto che Michele è stato l’iniziazione di Amaraldo. Per entrare nella banda dei Tre Fratelli Amaraldo doveva farlo litigare e allontanare da noi. E ci è riuscito” e Michele porse il foglio con la cronologia a Giuseppe.
Osservandolo e scoprendo cosa conteneva il retro di quel foglio, cosciente del fatto che Michele l’aveva tenuto in mano fino a qualche secondo prima, riuscì a giustificarsi la domanda di quest’ultimo. Non ritenne necessario approfondire il senso di quello scambio di battute tra noi due.
Giuseppe stava, evidentemente, acquisendo anche l’umiltà necessaria per capire che avevamo il sacrosanto diritto di parlare dei fatti nostri quando lui non c’era. D’altra parte, e Giuseppe non l’aveva scordato mai, prima che Michele incominciasse a comportarsi male con noi, io e lui eravamo molto uniti. Quindi, pur non rendendosi pienamente conto di quello che era accaduto qualche anno prima, conoscendomi, si era fatto un’idea delle prove fatte per riconquistare l’amicizia di Michele. Aveva anche ipotizzato che ci fossimo parlati, ma, per rispetto nei miei confronti, non si azzardò mai a farmi domande alle quali non avrebbe comunque ricevuto una risposta. Concluse i suoi ricordi non appena continuai a parlare.
“Consideriamo Amaraldo il reclutatore della banda. Abbiamo motivo di ritenere che, a seguito di altre situazioni disagiate, sia riuscito a convincere altri ad entrare a far parte della banda. Uno di questi fu Emanuele, che per qualche tempo ne fece anche parte. Poi però ne uscì. Volontariamente. E fino a qualche minuto fa tutto lasciava pensare che Emanuele fosse la causa di tutta questa animosità nei nostri confronti. Però poi sei arrivato tu”.
“Perché? Cos’è cambiato in questi ultimi minuti?” chiese Giuseppe, ma anche Michele a questo punto non si era reso conto del problema.
“Eh! Le date non tornano. Scusa, Emanuele è entrato a far parte della banda nell’anno scolastico 97/98. Solo che in quel momento i Tre Fratelli avevano già incominciato ad agire, fondamentalmente, nei nostri confronti. Con Michele. E sembra proprio che loro non facciano nulla per gioco. Ma sembra che tutto quello che abbiano fatto sia confluito nel nostro gruppo. Come se avessero quasi formato la banda solo per combattere contro di noi. Prima con Michele, poi in qualche modo con Emanuele. Infine di nuovo con Michele, questa volta più seriamente. Non sembra anche a voi?”
Michele e Giuseppe erano rimasti a bocca aperta. In quell’ultima miriade di ragionamenti, avevo evidentemente colto sempre aspetti che loro non erano riusciti a cogliere. Però solo gli altri due ebbero il coraggio di chiedere quello che io non osavo chiedere.
“Perché?” chiesero all’unisono.
“Non lo so! Non ho la più pallida idea di quello che abbiamo fatto per meritarci una cosa del genere! Questa storia mi sembra sempre più una partita a scacchi: gli avversari si contendono i vari pezzi, mangiandoli, come è successo a Michele. Mettendoli sotto scacco, come mi è successo qualche volta. Sacrificando pedine e pezzi per avere più spazio e libertà di movimento, come è successo oggi con Michele e tempo fa con Emanuele. Il problema è che ancora non ho capito chi sono, nelle squadre, i due re. Ancora non ho capito dove vogliono arrivare loro con tutta sta cosa” conclusi. Ed era vero. Proprio non lo sapevo, a quel punto, perché avevano messo su tutto quello spettacolo.
“Ah! Ma chi è quell’Angelo nell’organigramma?” chiese Michele.
“Ah già! Tu non ne sai nulla. Quello è il vostro tatuatore. È un compagno di classe di Giuseppe” risposi, senza neanche farci troppo caso.
“Come l’avete riconosciuto? Con noi è sempre stato con il viso coperto”
“E’ stato lui che mi ha portato, l’anno scorso, la lettera con cui mi intimava di non parlare con Simone e salire in casa fino alla conclusione della spedizione punitiva nei confronti di Simone. E poi abbiamo, come dire, avuto altre opportunità di scontro” e Giuseppe raccontò anche quello che era accaduto solo pochi giorni prima, conclusosi con la difesa di Francesco e Emanuele con le scatolette di tonno.
“Impossibile che sia un compagno di classe di Giuseppe. Ha un anno più di me” fu la risposta di Michele.
Fu lì, proprio in quel momento, che iniziai ad agitarmi. Fu come se quella informazione, per me, giungesse del tutto inaspettata. Era una variabile, l’età di Angelo, che avendola data per scontata, avendolo sempre “conosciuto” come compagno di classe di Giuseppe, non mi aveva interessato neanche un po’ in quella storia. Se Angelo aveva, come disse Michele, un anno più di lui, però, aveva un anno più di me. E questa era una cosa fondamentale. Una cosa così importante non avremmo potuto scoprirla prima. Capii, in quel preciso istante, che forse ci stavamo avvicinando alla conclusione di quel mistero. E mi venne mal di testa.
“No! Ti posso assicurare che Angelo è un mio compagno di classe. Abbiamo incominciato il liceo insieme l’anno scorso”
“E io ti posso assicurare che, se si tratta dello stesso Angelo che dici tu, ha tre anni più di te; come può essere possibile?” chiese Michele.
“Può essere, se ha cambiato scuola!” risposi. “Non ci hai mai parlato?” chiesi poi a Giuseppe.
“Si! Qualche volta. In effetti fisicamente sembra più grande di me, ma non ci ho mai fatto molto caso”
“Hai una sua foto?” chiesi. Non mi spiegai neanche come mi era uscita quella frase. Capii però che avevo un bisogno enorme di vederlo. Dovevo dargli un volto. Un volto che non ero ancora riuscito a dargli.
Il mal di testa mi aumentò.
“Qui no! Posso vedere a casa, nelle foto di classe. Ma non mi ricordo che compaia in nessuna. Strano, ma vero. Non è mai stato presente nei giorni della foto di classe. Non avevo mai fatto caso a questo”
“Ma sai per quale ragione non dovrebbe mai comparire in una foto? Che so! Qualche segno particolare che lo caratterizza sul viso o nel corpo?” gli chiese Michele.
“No! È un ragazzo normalissimo. Ma perché me lo chiedi?”
“Non so! È che mi sembra strano che questo qui conduca una vita normale, alla piena luce del sole e poi quando lavora come membro della banda dei Tre Fratelli si copra sempre il volto. Non sembra strano anche a voi?” chiese Michele. Aveva ragione. Non posso ancora descrivere quanto sicuro fossi ormai del fatto che lui avesse maledettamente ragione. E il mal di testa mi aumentò ancora.
“Forse non si vuole far riconoscere da me come membro della banda dei Tre Fratelli. In effetti quando ci siamo visti al mare ha fatto di tutto per impedirci di vedere il livido che gli ha lasciato Emanuele” rispose Giuseppe
“O forse…” dissi, ma a quel punto mi fermai.
Avete presente quando, per qualche tempo, siete nel buio più completo, e poi aprite una porta o una finestra verso l’esterno e venite inondati dalla luce? Per prima cosa quella luce vi da fastidio. Anche se poi vi fa vedere le cose nei minimi particolari. Vi fa prendere coscienza del mondo intorno a voi. Ecco. Fu esattamente quello che mi accadde. Prima mi spaventai. Eccome se mi spaventai. Perché quel particolare venne a galla e capii che era mia la colpa di quel piccolo particolare. Detto in una sola parola: il casco. Ecco cosa non mi tornava di quello che era accaduto in quella sera: il casco. Poi mi spaventai ancora di più, perché, come avevo previsto, chiarito quel piccolo particolare, aperta quella porticina, il buio completo che avevo addosso era stato inondato di luce. E capii tutto. La testa, ora, mi scoppiava. Cominciai a respirare affannosamente. Tanto che i miei due amici si preoccuparono. Mi agitai, portai le mani al viso, chiudendole su di esso. Avrei voluto mangiarmele quelle mani. I due capirono che ero arrivato alla fine del ragionamento. Ma la mia reazione non lasciava intendere niente di buono.
“Che scemo! Che idiota!! Ma come ho fatto a non capirlo prima. Sono un deficiente!” fu la mia sola continuazione.
“Cosa è successo?” “Che è stato?” chiesero immediatamente i due.
“Sono semplicemente un cretino!” risposi ancora.
“Giuseppe! Vai immediatamente a chiamare Francesco e Emanuele. Poi ritornate immediatamente qui!”
Giuseppe, senza farselo ripetere due volte uscì. A quel punto mi rivolsi a Michele.
“Ascoltami amico mio. Prima che tornino gli altri, devo dirti che mi dispiace per tutto quello che stai per sentire. Non avrei mai voluto che accadesse tutto questo!”
“Ma che stai dicendo? Tu mi hai aiutato finora. Sono io che devo chiedere scusa a tutti voi, te l’ho già detto. L’ho combinata veramente grossa”
“Non preoccuparti. È peggiore la mia. Ma capirai tra un attimo”.
Come una porta si apre e la luce inonda tutto dissolvendo in un attimo il buio, così quel piccolo particolare venne a galla e sistemò definitivamente il mio pensiero. Dapprima mi dette fastidio. Quasi mi spaventò, per la potenza del ragionamento. E mi preoccupò per le possibili conseguenze ed evoluzioni di quelle verità, che solo ora erano tornate a galla. Ma come la luce, dopo averti dato fastidio e averti spaventato, sa curare quei sentimenti illuminando nitidamente tutti i contorni dello spazio intorno a noi, così quel ragionamento, del quale mi stavo convincendo sempre più, mi stava rendendo più forte e più deciso di prima a giocare fino in fondo quella partita. Anche se oramai l’avevo capito che ci sarebbe costata parecchio.

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Buongiorno a tutti! eccoci a questo nuovo capitolo. sì, con il prossimo direi che arriveremo a svelare completamente cosa e soprattutto chi c'è dietro a tutto questo. anche se di indizi ne ho lasciati nei precedenti capitoli (almeno credo... :) ) 
Grazie a tutti per essere arrivati fin qui. grazie per le vostre opinioni e per le vostre recensioni!
Alla prossima settimana!

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Capitolo 16
*** WELCOME TO MY TRUTH ***


WELCOME TO MY TRUTH
L’atmosfera era da “main event”. Tutti e cinque eravamo attorno al tavolo, io seduto a capotavola, Michele di fronte a me. Emanuele e Francesco sul lato lungo vicino al muro, Giuseppe di fronte a loro. Sembrava una di quelle sere di fine estate, quando da bambini organizzavamo una piccola recita a cui dei genitori o nonni annoiati erano costretti ad assistere, nella quale inscenavamo una favola. Se non altro durava 15 minuti e poi tutti insieme andavamo a mangiare il gelato. E finiva lì. Dei quattro invitati allo “spettacolo” di quella sera nessuno sapeva molto di quello che stava per accadere. Erano tutti a metà strada tra la curiosità di scoprirlo e la paura di farlo. Ma tutti sapevamo che saremmo dovuti arrivare fino in fondo a quella storia. Quindi tanto valeva sapere tutto. E poi in quei pochi minuti da quando erano arrivati, io avevo fatto chiaramente intendere di essere veramente in possesso di un ragionamento che stava in piedi.
Quindi tutti e quattro morivano dalla voglia di saperne qualcosa di più.
D’altra parte si fidavano del mio intuito quasi ciecamente. Loro.
Io, però, no. In quella storia avevamo già troppe volte preso dei grandi abbagli. Quindi volevo sapere se il mio ragionamento era giusto. Gli dissi che tutti e quattro dovevano sentirsi assolutamente liberi di attaccare quello che stavo per dire, senza pietà.
Volevo che Francesco, il più piccolo, capisse fino in fondo tutto, e non avesse alcun dubbio, perché il mio doveva essere un ragionamento semplice.
Volevo che la mente arguta di Giuseppe mi facesse notare qualsiasi passaggio logico problematico. Il mio ragionamento doveva essere logico.
Volevo che la mente razionale di Emanuele cercasse tutte le argomentazioni contrarie a quel mio ragionamento per rovesciarlo, se ce ne fosse stato il bisogno. Perché, per esserne veramente sicuro, il mio doveva essere un ragionamento inattaccabile.
E infine volevo che l’intelligenza di Michele lavorasse fino in fondo. Se lui fosse giunto alle stesse conclusioni insieme al sottoscritto, allora quegli indizi, che nella mia mente sembravano così chiari, sarebbero diventati prove. E avremmo capito di essere giunti alla verità.
Appena cominciai a parlare si fece automaticamente silenzio in quella cucina.
Con molto piacere vidi Giuseppe e Francesco inforcare gli occhiali, un gesto che non gli vedevo fare da almeno un anno, impegnati come eravamo stati a risolvere i problemi legati ad atti violenti, più di quelli matematici. Vedendogli compiere quel gesto, mi sentii autorizzato a cominciare.
“Prima, parlando con Giuseppe e Michele, ho paragonato tutta questa storia a una partita a scacchi. Di cui, però, non ero riuscito a stabilire chi fossero i pezzi più importanti: i re di tutte e due le squadre. Adesso, forse, l’ho capito. Sono giunto ad una conclusione. Voglio, però, essere assolutamente sicuro di questa mia idea. E per questo motivo che voglio che attacchiate senza pietà questa mia teoria, per vedere se può diventare un teorema. Inizio col dire che, ma questa è una cosa che in parte noi avevamo già capito, sembra proprio che il re della nostra squadra sia io. Non che ci sia da vantarsi. Semplicemente sono la causa dell’inizio di questa storia e di tutte le azioni conseguenti. Basti pensare, a dimostrazione di ciò, quanto poco i Tre Fratelli si siano interessati di voi, quando io non c’ero. Ma questo ce lo siamo già detto. Il punto è che tutto ciò introduce un’ombra in tutto il discorso. Un’ombra che avrei dovuto riconoscere”
“Il fatto è che, fin dall’inizio, abbiamo affrontato questa cosa con l’atteggiamento sbagliato. Prima di tutto sono stato troppo arrogante e troppo orgoglioso per condividere con tutti voi dei dubbi che mi erano venuti. E di questo vi chiedo scusa. Ma c’è un altro errore, che abbiamo compiuto tutti. Io per primo, naturalmente, ma che è stato gravissimo. Invece di cercare la spiegazione del problema, ci siamo accontentati di scoprirne la soluzione. Ogni volta che abbiamo raggiunto un risultato, ci siamo accontentati di aver risolto quel problema, ma non ci siamo interessati di capire perché quel problema si era formato. Ad esempio, quando abbiamo conosciuto tutti la storia di Emanuele e della sua seppur breve permanenza nella banda dei Tre Fratelli, abbiamo apprezzato che abbia preso la decisione giusta. Ma l’abbiamo solo vista alla luce della cosa che ci interessava di più in quel momento, capire il ruolo che aveva Amaraldo nella faccenda. Non ci siamo posti seriamente la domanda più importante, e cioè: perché proprio Emanuele? O meglio, ci siamo posti quella domanda, ma ci siamo dati anche la risposta più banale: perché in quel momento era la persona ideale”.
“La stessa cosa è successa con Michele. Siamo stati tutti contenti del fatto che sia ritornato dalla nostra parte. Forse nel peggiore dei modi, ma l’importante è che l’abbia fatto. Ma quando ci siamo posti la domanda più importante, perché proprio Michele, anche in questo caso siamo stati troppo superficiali, e ci siamo accontentati della risposta più banale, della risposta più semplice: perché Michele era la persona migliore per raggiungere e fargliela pagare a Emanuele”.
“Così, in tutto questo tempo abbiamo sempre galleggiato, per così dire, invece di andare a fondo nella questione. Quel che è peggio è che abbiamo sempre ragionato dal nostro punto di vista, cercando la risposta alle domande che ci siamo posti, ma mai facendoci delle nuove domande sulla base delle cose che sapevamo. Infatti lentamente ci siamo resi conto che le cose sono sempre state più complicate di quanto e come ce le eravamo immaginate. E sono sicuro di questo anche per quanto riguarda Angelo. Per diversi buoni motivi”.
“Prima di tutto scoprire la sua età, mezz’ora fa, mi ha stordito. Perché ho capito che Angelo risulta essere il più grande della banda. E questo è molto significativo. Poi c’è stato il problema del fatto che nasconde il proprio volto. Tipo con l’attacco di inizio settimana. Mi sono posto questo problema nel preciso istante in cui qualcuno, Giuseppe, ha detto una cosa molto semplice: forse vuole nascondere il volto perché non vuole farsi riconoscere da lui come membro della banda dei Tre Fratelli. Ottima spiegazione. Però ancora una volta stiamo galleggiando, non stiamo andando a fondo della questione. Perché voi mi avete sempre detto che la banda dei Tre Fratelli basa il suo potere sul timore che incute nei giovani proprio grazie alle cose, reali o inventate, che circolano sul suo conto. Non è una setta segreta, e Angelo non avrebbe nulla di cui vergognarsi nel mostrarsi come un componente della banda dei Tre Fratelli. Sembra però che tutti conoscano chi sono i Tre Fratelli, ma non gli altri due componenti della banda”
“Stando così le cose, il motivo per cui Amaraldo e Angelo hanno sempre agito in incognito non deve essere la segretezza della loro identità, ma la segretezza delle loro intenzioni. E per Amaraldo l’abbiamo capito. Convincere con le buone Michele prima e Emanuele poi ad entrare a far parte della banda”.
“In realtà sono due le cose, relative ad Angelo, che mi hanno impegnato non poco la mente. Prima di tutto, il fatto che mantiene nascosta la sua identità anche con dei componenti della banda come Michele e Emanuele, quando ne facevano parte. Stranissimo. Per quale motivo? Capisco nel caso delle spedizioni punitive, ma perché anche alle riunioni della banda nelle quali rimarcare il finto tatuaggio ai fianchi? E non era solo mascherato, era anche sconosciuto. Perché Emanuele, prima di due giorni fa, non ne sapeva nulla, e addirittura Michele non lo conosceva fino ad oggi. Per quale motivo? O meglio, perché far conoscere la propria identità ai Tre Fratelli ma tenerla nascosta a tutti gli altri? Non lo sapevo, fino a un po’ di tempo fa. Non lo sapevo perché non ero a conoscenza del fattore età e di un altro particolare”.
“L’altro era un piccolo, un piccolissimo particolare, del quale, inconsciamente, mi accorsi la prima volta che abbiamo avuto a che fare con i Tre Fratelli, ma che non mi ha fatto dormire per molte notti quest’anno. Soprattutto quando cercavo di capire quale fosse quel particolare senza riuscirci. Anche quest’anno, quando siamo venuti a conoscenza di molti dei meccanismi della banda dei Tre Fratelli, quel particolare che non tornava è diventato, se possibile, ancora più insistente nei miei pensieri. Solo che non sono riuscito ad inquadrarlo. Poi, oggi, c’è stata quella piccola nota di Michele, quella insignificante nota nella quale ha detto che ha tre anni più di Giuseppe, come dire che ha un anno più di me. Perché sapendo che ha un anno più di me, mi è venuta una voglia incredibile di conoscerlo. Di guardarlo negli occhi e capire di chi stavamo parlando. Solo che non l’ho mai visto in faccia. E neanche Michele o Emanuele. L’unico che evidentemente l’ha visto in faccia è Giuseppe. Per forza! Vanno in classe insieme. Infatti quando l’ho incontrato la prima volta, pur avendo il casco, Angelo è stato chiaramente riconosciuto da Giuseppe. Ecco dove stava il problema. Quel piccolo particolare che non mi tornava. Quando Angelo ha portato il messaggio dei Tre Fratelli a Giuseppe, ha pensato bene di non levarsi il casco integrale. Però le altre volte che si sono visti i due, evidentemente il casco non l’aveva, come a scuola o ieri mattina al mare. E allora perché seguire quella consuetudine di nascondersi allo sguardo degli altri anche quella sera? Evidentemente per non farsi riconoscere. Ma non da Giuseppe, perché Giuseppe l’ha riconosciuto. Il problema era non farsi riconoscere da me”.
“Quel piccolo particolare ha coinciso con tutti gli altri. Infatti io ero l’unico presente in tutte le occasioni in cui è comparso. Ed era mascherato. E sono convinto che quando con i Tre Fratelli non c’erano né Emanuele né Michele, Angelo non aveva alcun problema a smascherarsi. Semplicemente perché non c’era nessuno tra loro che potesse avere una qualsivoglia relazione con me, al punto da descrivermelo. Con Giuseppe è costretto a levarsi la maschera, ma evidentemente in tutti questi due anni di scuola insieme ha sempre fatto in modo di rimanere abbastanza defilato e non parlare mai con lui di noi. O sbaglio?” mi fermai un attimo, fino al movimento della testa esterrefatta di Giuseppe che mi fece capire che non stavo sbagliando. Purtroppo.
“Così ci siamo anche levati il problema di rispondere alla prima domanda sul perché deve essere col volto coperto quando è nella banda. Ora ho bisogno di un ulteriore conferma. Michele, è stato Amaraldo a suggerirti di compiere quell’attacco disperato, l’anno scorso, interrompendo il nostro nascondino al contrario?” chiesi improvvisamente a Michele, quasi come se stessi cambiando completamente discorso.
“Beh! Effettivamente lui mi ha raccontato certe sue idee. Ma che cosa c’entra?” chiese Michele, anche lui completamente assorto dal mio ragionamento.
“C’entra! Eccome se c’entra! Significa che dietro a quell’azione c’era la banda dei Tre Fratelli. Significa che anche dietro al tuo allontanamento da noi c’era la banda dei Tre Fratelli. Significa che dietro a tutti i nostri problemi c’è sempre stata la banda dei Tre Fratelli”.
“Grazie! Ci voleva tanto a capirlo!” rispose divertito Francesco. Ma una mia occhiata terrificante lo mise immediatamente a tacere.
“Prego! Il problema è che allora l’unica persona che la banda dei Tre Fratelli ha cercato di colpire sono io. L’unica persona sono io. Scoprire l’età di Angelo mi ha condotto ad un livello di conoscenza superiore della questione. Se Angelo avesse avuto la stessa età di Giuseppe, sarebbe stato più piccolo di Cosimo, più piccolo di Amaraldo. E quindi quanto avrebbe potuto contare in una banda come quella dei Tre Fratelli, dove tutto sembra organizzato con un forte ordine gerarchico? Inoltre sapere che è circa un mio coetaneo, mi ha permesso di capire ancora di più come la pensa. Se dietro ai nostri problemi c’è stata sempre la banda dei Tre Fratelli, e della banda dei Tre Fratelli l’unico che non vuole farsi riconoscere è Angelo, e non vuole farsi riconoscere proprio da me, allora possiamo concludere tre cose. La prima è che Angelo mi conosce. Indubbiamente. Altrimenti perché tutta questa paura di farsi vedere dal sottoscritto e da chiunque potesse descrivermelo? La seconda è ancora più preoccupante anche se ce la siamo già detti: tutto questo macello è stato tirato su dalla banda dei Tre Fratelli per colpire me. E voi siete stati solo vittime inconsapevoli della loro attività” e qui mi fermai, per chiedere conferma ai miei amici se tutto questo era ragionevolmente possibile. Ricevendo, stranamente, una risposta affermativa da tutti. Questo mi rincuorò e mi permise di continuare a cercare la forza per procedere con la terza cosa che avevo capito, quella che mi sembrava più strana e quella che, quasi sicuramente, avrebbe comportato una svolta per gli altri quattro. Permettendo a tutti noi di salire ancora di un livello nella comprensione di quella storia.
“La terza?” chiese Giuseppe.
“La terza cosa è che stando così le cose, e avendo agito in tutto questo tempo sempre e solo nei miei confronti, questo è l’unico motivo per cui esiste la banda dei Tre Fratelli. Praticamente la banda dei Tre Fratelli esiste solo per punire il sottoscritto. Ma se quello che ho appena detto è vero, allora la banda deve essere sotto il preciso controllo di qualcuno che vuole fare del male a me. E se quella persona è Angelo, come abbiamo capito finora, allora non è Angelo a far parte della banda dei Tre Fratelli, ma i Tre Fratelli ad essere affiliati alla banda di Angelo”.
“Cioè vorresti dire che è Angelo il vero capo della banda?” chiese Francesco.
“Si Francesco. Angelo è il vero capo della banda. Una banda che ha messo in piedi a sua somiglianza. Che vive solo per lui”. Quella frase la pronunciai rivolgendomi direttamente a Michele. E lui, Michele, il significato di quella frase lo colse fino in fondo. Perché si ricordava benissimo che quella era proprio la frase che aveva usato con me quel pomeriggio in cui la nostra amicizia si interruppe. Solo che lui l’aveva usata riferita a me. Abbassò immediatamente lo sguardo, nel momento in cui comprese fino in fondo questo. Ma quando lo rialzò, scorgendo il mio sorriso, sempre rivolto a lui, capì che avevamo chiarito anche quel discorso. Capì, finalmente, che ora aveva nuovamente la mia, la nostra fiducia. Che con noi non aveva nulla da temere. E, finalmente, apertamente, ricambiò il sorriso.
Volli accertarmi ancora una volta della correttezza del mio ragionamento ai loro occhi. Perché quello che stavo dicendo cambiava tutto. E per tutti.
Giuseppe aveva capito che quel suo compagno di classe strano, ma né più né meno degli altri, avrebbe potuto essere il loro vero nemico.
Emanuele approvava il ragionamento ma si chiedeva anche perché non aveva capito una cosa del genere quando era nella banda, almeno per quel mese e mezzo.
Francesco si rendeva conto della scoperta capitale ma, come tutti noi, del resto, non riusciva a capire fin dove potessero arrivare i nostri nemici.
Michele era scosso, ma in fondo era soprattutto soddisfatto del mio racconto perché, finalmente, i dubbi che l’avevano accompagnati negli ultimi tre anni si erano dissipati, lo stesso giorno nel quale erano prepotentemente rientrati nella sua vita.
“Giuseppe, tu hai mai parlato con lui di noi? Intendo nell’ultimo anno da quando hanno incominciato ad attaccarci liberamente?” continuai.
“Non mi sembra! Gli ho detto solo della nostra impresa con Michele dell’anno scorso” rispose quest’ultimo.
“Bene! Insomma niente di cui non fosse già a conoscenza!” risposi.
“Molto bene!” rispose Michele. A questo punto l’attenzione del gruppo, compresa la mia, si spostò, interrogativamente, su di lui.
“Scusate!” aggiunse “questo significa che Angelo non sa a che punto dello stato dei fatti siamo arrivati, giusto?”
“Giusto”
“Allora significa che dobbiamo approfittare di questo vantaggio di conoscenza. Qual è la cosa più importante che dobbiamo scoprire di Angelo?”
“Perché cerca di farmi del male?” fu la mia risposta.
“No! Adesso è più importante scoprire chi è questo Angelo. Chi è veramente. E più lo faremo cercando di non farci scoprire, meglio sarà. Perché manterremo il vantaggio”
Era vero. Innegabilmente. Michele aveva detto una cosa alla quale non avevo sufficientemente pensato in quegli ultimi minuti. Come era accaduto in quei mesi, stavo ricadendo nello stesso errore: concentrarmi troppo sui particolari. Mentre era arrivato il momento di guardare le cose veramente da un livello più elevato. Era quello, infatti, l’unico modo per gestire la situazione in modo vincente.
“Ma come facciamo?” chiese Giuseppe.
“Posso fare una proposta?” aggiunse Michele.
“Non puoi” gli dissi, “Devi!”.
Michele non se lo fece ripetere due volte.
 
----O----

“Ma voi siete matti! Non farò mai una cosa del genere! Scordatevelo!”
Infatti.
----O----

 -Tra tutti, proprio a me doveva capitare una cosa simile?- pensò Giuseppe mentre si accovacciava dietro alla macchina parcheggiata più vicina all’ingresso del palazzo dove abitava Angelo.
-Va bene che per Simone è necessario conoscere contro chi stiamo lottando, ma perché non c’è venuto lui? Io desto molti meno sospetti, ho capito. Ma si tratta pur sempre del capo della banda dei Tre Fratelli! Uffa!!- furono i successivi pensieri, mentre aspettava che Angelo uscisse come ogni mattina per andare al mare. Era più che mai necessario fare meno rumore possibile. Era sicuro del fatto che stesse per uscire. Parlando con lui diverse volte sapeva che di solito andava al mare verso le dieci del mattino. Erano quasi le dieci e un quarto ed il suo motorino era ancora dall’altro lato del marciapiede. La serratura elettrica del portone scattò; una mano afferrò la maniglia della porta e l’aprì. Era Angelo. Giuseppe scattò tre foto mentre Angelo procedeva dal portone di casa sua al motorino e riuscì a fare un bel primo piano esattamente poco prima che si mettesse il solito casco integrale. Pochi secondi dopo il motorino era in moto e accelerava verso il centro di Policoro, e da lì verso la strada per il mare. Passarono una trentina di secondi, poi Giuseppe rimontò sulla sua bici e corse via nella direzione opposta, rischiando almeno un paio di volte di schiantarsi contro altre macchine, immerso com’era nei suoi pensieri e ancora nella sua paura. Dopo aver lasciato la macchina fotografica a Michele, ancora a casa mia, raggiunse immediatamente gli altri per prendere il pullman per il mare.
Io, invece, soffrivo di crisi di astinenza. Adesso che uno spiraglio di luce era appena passato in quella situazione tenebrosa, la parola d’ordine, per me, tornò ad essere, tanto per cambiare, sempre la stessa: mare.
Tornati dal mare, io, Francesco e Giuseppe ci recammo a casa per preparare da mangiare. Emanuele andò da sua zia, che lavorava da un fotografo per procedere subito alla stampa delle foto. Ancora non erano molto diffuse ed economiche le macchine fotografiche digitali, quindi non potevamo scoprire subito come sarebbe continuata la nostra avventura. Emanuele giunse a casa, dicendo che gli era stato comunicato che avrebbe potuto riprenderle sviluppate verso le cinque.
Ormai i genitori dei miei amici si erano arresi all’evidenza ed avevano capito che per i loro figli si trattava di una specie di campeggio cittadino, a pochi metri da casa. Ormai, infatti, vivevano quasi completamente a casa mia. Era una casa vera e propria, con tutti i comfort di una casa, e ad un urlo di distanza. E aveva un numero sufficiente di posti letto. Dopo mangiato ci riposammo per una mezz’oretta. Poi a me passò il sonno. Stavo dormendo troppo poco e troppo male in quei giorni: quella storia mi aveva preso incredibilmente. Pur cosciente del pericolo a cui andavo incontro, ero curiosissimo di scoprire chi c’era dall’altra parte della barricata, a farmi una guerra che fino a quel momento era senza esclusione di colpi. Angelo non l’avevamo più visto, né al mare, né in giro. E questo mi metteva addosso ancora più ansia. Ero arrivato da 4 giorni, ed erano stati quattro giorni di fuoco. Eravamo arrivati a venerdì, scoprendo, sopra ogni altra cosa, tutti quei particolari sulla banda avversa.
Erano le tre e mi alzai. Rimasi a leggere in cucina per qualche altro minuto quando mi raggiunse anche Giuseppe.
“Che hai? Ti vedo irrequieto!” chiese quest’ultimo.
“Che ho? Siamo ad un soffio dalla scoperta più importante di tutta questa storia. Fino ad ora non ho la più pallida idea di chi possa essere questo Angelo. Tu non riesci a farmi una descrizione utile di quella persona. Emanuele ha lasciato tutto a sua zia e ci ha detto che prima delle cinque non avremo notizie. Come faccio a non essere preoccupato? Almeno l’avessi visto al mare, avremmo già risolto molti nostri problemi” domandai.
“Invece non vederlo al mare mi ha fatto ben sperare” rispose Giuseppe.
“Perché?”
“Come perché?! Se non viene al mare non solo significa che tu lo puoi riconoscere, ma soprattutto che ha paura di te! Quello che ci hai detto l’altra sera mi ha colpito moltissimo. Se prima cercava di influenzare la tua vita a Policoro, da quando l’anno scorso ha ufficialmente messo di mezzo i Tre Fratelli, Angelo deve essersi reso conto del fatto che aveva commesso un errore. Volersi mettere così tanto in gioco da essere lui stesso a portarci un messaggio che con buona probabilità lo metteva in relazione con i Tre Fratelli non è stata una buona idea. Secondo me, da quando l’ho visto al mare, Angelo ha iniziato a capire che l’aria sta cambiando. E infatti ha subito scatenato quella che secondo lui poteva essere un’altra scarica di stress per noi: ha fatto picchiare Michele. D’altra parte, una volta mossa la prima pedina e picchiato Francesco, settimana scorsa, Michele non gli serviva più a molto. E l’ha fatto fuori dalla banda. Forse ancora non sa che in questo modo Michele ha ritrovato il coraggio di parlarci e anche quella mossa ha fatto volgere le cose dalla nostra parte”
Osservai Giuseppe. Ancora una volta mi soffermai a pensare come fosse veramente utile collaborare in questa avventura con una persona come lui. Si stava ulteriormente dimostrando un vero amico. Addirittura saggio. Ebbi per un attimo paura di pensare una cosa del genere di nuovo, preoccupandomi che nessun’ombra con una mazza da baseball fosse nei dintorni. Giuseppe sapeva anche confortarmi nel modo giusto. Infatti, non stavo riuscendo a perdonarmi di essere io la causa di tutto. E Giuseppe stava provando in tutti i modi a farmi vedere più vicina possibile la fine di tutta quella faccenda. E questa cosa mi era moltissimo di aiuto. Anche se un’altra cosa mi faceva veramente paura. Da quando avevo sentito i miei amici trovarsi d’accordo con me sullo svolgimento dei fatti, stavo incominciando seriamente a preoccuparmi. Perché avevo incominciato a pormi seriamente la domanda su chi fosse il mio nemico. E sotto sotto, io, una risposta, me l’ero anche data, per quanto assurda potesse essere. Avevo conosciuto solo una persona, in vita mia, capace di comportarsi in questo modo. Capace di insegnare ad altri ad instillare il seme del dubbio nella mente e nel cuore delle persone come aveva fatto fino a pochi giorni prima Amaraldo con Michele. Una persona giovane, ma altrettanto maliziosa, ambiziosa, assolutamente malvagia e profondamente subdola. L’unica in grado di creare una situazione del genere, solo per dare contro a me. L’unica della quale avessi, almeno in un’occasione, avuto veramente paura. E, effettivamente, aveva un anno più di me. E, ma questo poteva essere solo un caso, mi sembrava di ricordare che le sue origini fossero proprio simili alle mie. Insomma, eravamo anche mezzi paesani. Ma mi parve ancora impossibile che le cose stessero veramente così. Passarono solo pochi secondi, quando tutta la casa si rianimò.
“Mi ha telefonato mia zia. Le foto sono pronte e sto andando a ritirarle” fu l’unica frase pronunciata da un Emanuele più che mai sveglio e attivo, mentre usciva dalla camera da letto dove stava riposando fino a qualche secondo prima.
“Aspetta! Vengo con te!” disse immediatamente Giuseppe.
Emanuele acconsentì. Era più sicuro. Anche se si trattava solo di due minuti a piedi, neanche duecento metri. Ed effettivamente dieci minuti dopo i due ragazzi rientrarono in casa, più accaldati che stanchi.
Non persi tempo. Presi dalle mani di Emanuele le foto e le tirai immediatamente fuori dalla custodia cartacea del fotografo. E, purtroppo, quello che vidi non mi piacque per niente. Mi sentii male, peggio, molto peggio di quando avevo scoperto Michele fuori casa mia. Provai a mantenere la calma facendo dei lunghi respiri. Ma quello era decisamente troppo. Dovevo risolvere la situazione una volta per tutte. A separarmi dalla porta c’era solo Giuseppe. Con uno spintone fu a terra e corsi verso l’uscita.
Non avevo tenuto conto di Michele, che ripresosi definitivamente dalle ferite, mi saltò addosso nel tentativo estremo di atterrarmi, pur di fermarmi. E ci riuscì.
“Dove vai? Calmati prima!” esclamò immediatamente Giuseppe.
“Che state facendo?! Perché?” dissi, agitandomi per staccarmi da Michele. E poco prima che ci riuscissi, quest’ultimo riuscì a farmi ancora perdere l’equilibrio e farmi cadere. In quel preciso istante, quando nessuno mi stava più tenendo, con tutte le mie forze mi rialzai e mi lanciai contro Francesco, il più debole, per cercare una via di fuga almeno da quella parte.
L’ultima cosa che ricordo fu Emanuele che mi chiedeva scusa. E poi un dolore intenso alla testa ed il buio.
Mi risvegliai sul mio letto. Michele era seduto sul letto di fianco e stava aspettando quel gesto, ammazzando il tempo leggendo La gazzetta dello sport. Appena rinvenni seriamente, capii di aver perso i sensi per circa quattro ore, perché fuori era ancora chiaro ma le ombre erano ormai lunghe.
“Scusaci, ma si è reso necessario” mi disse Michele.
“La scatoletta di tonno?” chiesi, ancora confuso.
“È ancora viva, se questo è quello che intendi. Tu eri fuori di te. In un’altra situazione non l’avrebbero fatto mai, ma non volevi sentire ragioni. Che cosa pensi di fare ora?” mi chiese.
“Prendermi un’aspirina. Anche due!” fu la mia risposta. Mi alzai. Effettivamente mi faceva malissimo la testa, anche se non sentivo altri disturbi. Presi le aspirine e poi mangiai qualcosa.
Piano piano mi ritornarono in mente tutte le cose successe quel giorno. E la scoperta fatta. Ma ero ancora un po’ stordito da quella scatoletta di tonno, sempre la stessa, che da tre giorni era rimasta sul camino a fare la guardia ai malintenzionati. E l’avevano usata anche contro di me. Anche se ne fui contento, perché se solo avessi raggiunto quella persona in quel momento, avrei corso, inutilmente, un pericolo troppo grande.
Era finito quel giorno. Il giorno seguente avrei spiegato tutto ai miei amici e avremmo ripreso le operazioni belliche. Ora avevo solo voglia di ricadere nel sonno ristoratore e consolatorio che attendevo con ansia. Alle dieci e mezza, ero già addormentato.

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NdA:
Buongiorno e benvenuti in questo nuovo capitolo! Lo so... c'è poca azione ma a questo punto, qualche spiegazione seria ci voleva. Se cercate ulteriori spiegazioni... aspettate una settimana. Se cercate l'azione, invece... pazientate una settimana.
Nel frattempo, opinioni e recensioni saranno ben accette!
Alla prossima! 

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Capitolo 17
*** ANGELO ***


ANGELO
Sabato 21 Giugno 2000. Non dimenticherò mai quella data. Fu l’inizio, spiacevole e spaventoso, della settimana più importante, dolorosa, emozionante ed avventurosa della mia vita.
Eravamo d’accordo che saremmo andati al mare alle dieci. Ma a causa di quello che era accaduto la sera prima, e volendo a tutti i costi conoscere i particolari delle ragioni che mi avevano spinto ad uscire di testa, alle 8 Michele si era alzato e aveva accolto i miei amici in casa mia. Io, per la prima volta mi svegliai dieci ore dopo essermi addormentato e feci appena in tempo per sentire l’aroma invitante del caffè che inondava la casa. Mi alzai. Il mal di testa mi era passato. Non sentivo più lo stordimento ed effettivamente, grazie a quel colpo, ero finalmente riuscito a riposarmi per bene.
La colazione era pronta e, il tempo di sciacquarmi un attimo la faccia, quando uscii erano già tutti pronti a sentire la mia spiegazione. E a questo punto loro non potevano proprio sapere nulla, perché una cosa del genere non l’avevo mai raccontata. A nessuno. Neanche ai miei migliori amici, presenti, peraltro, proprio in quella stanza in quel momento. Fu Giuseppe ad esordire.
“Scusaci per ieri! È che ci hai spaventato. Sia per quello che avresti potuto fare a noi in quel momento, sia per quello che avresti potuto subire da Angelo” disse.
Lo guardai storto; guardai storto anche Emanuele che immediatamente abbassò lo sguardo. Poi mi calmai definitivamente, anche per quello che mi avevano fatto.
“Sono io a dovervi chiedere scusa” dissi “per quello che ho fatto ieri. State tranquilli che se mi aveste lasciato andare non avrei fatto nulla di male, a nessuno di voi, sempre che sia in grado di farlo. E vi devo ringraziare, perché se mi aveste lasciato andare, probabilmente a quest’ora non saremmo qui a parlarne serenamente e tranquillamente, ma avrei subito lo stesso trattamento già riservato a Michele, se non di peggio. Quindi vi devo ringraziare per avermi impedito di fare quella cosa”.
L’atmosfera si rilassò definitivamente. Ma nessuno aveva voglia di sorridere e di chiacchierare amabilmente. Io non avevo neanche voglia di parlare, ma sapevo che era essenziale farlo. Troppi segreti erano rimasti tali in quella storia. Dovevo parlare. E dovevo farlo subito. Quando avevamo aspettato a farlo, io o gli altri, avevamo messo inutilmente in pericolo tutti. Mi costrinsi, e incominciai.
“Si! Come potete ben immaginare, e come avevamo indubbiamente già capito da un paio di giorni, conosco Angelo. E no! Non si chiama Angelo. Si chiama Marco. È incredibile come solo ora mi rendo conto che tutti i particolari dei quali siamo venuti a conoscenza mi avevano, in qualche modo, già condotto da quella parte. Solo che non potevo immaginare che quella fosse la verità. Pensate, la prima volta, l’anno scorso, che mi avete parlato di Cosimo e dei Tre Fratelli, istintivamente, gli ho dato un volto. Quello di Marco. È vero anche quello che ci ha raccontato Michele: ha veramente un anno più di noi, quindi tre anni più di Giuseppe”
Stavo procedendo per strade tortuose e assolutamente inedite per me. Raccontare una cosa del genere, una cosa che, in pratica, neanche io ricordavo così bene, era difficile e doloroso per me. Sarebbe stato doloroso anche per loro ascoltarmi, soprattutto per uno. Guardando Michele mi venne in mente una precisazione necessaria.
“Vi prometto che qualsiasi cosa vi stia per dire, è assolutamente vera e non fa riferimento a voi o a cose che abbiamo già chiarito; ma vi sembrerà incredibile vedere quanto la mia e la nostra storia possano assomigliarsi” dissi, non ancora pienamente compreso dai miei amici, anche se un lampo negli occhi di Michele mi fece capire che aver ritrovato quell’amico era stato un gran bel colpo.
“Avevo iniziato la prima media, e nel farlo, avevo lasciato tutti i miei compagni di classe. Quindi dei nuovi compagni non conoscevo nessuno. Il primo giorno entrai in classe e mi sedetti nel primo posto disponibile, vicino ad un altro ragazzino che aveva ripetuto la prima media. Era un ragazzino come tanti altri. Un po’ introverso e timido, ma simpatico, socievole, insomma, si stava bene con lui. Si chiamava Marco. Col tempo facemmo un po’ più conoscenza e, ad esempio, venni a sapere che le sue origini erano molto simili alle mie, essendo la madre di Milano e il padre di Stigliano. Verso novembre incontrai durante l’intervallo degli altri studenti, di terza, che incominciarono a prendermi in giro. Finché, un giorno, si presentarono mentre stavo chiacchierando con Marco. Incredibilmente, nonostante la differenza di età, Marco riuscì a difendermi. Da quel momento in poi divenimmo inseparabili. Studiavamo insieme, i miei nonni ancora se lo ricordano, quando lo invitavo a pranzo a casa, uscito da scuola e passavamo il pomeriggio a studiare. Marco non aveva più i genitori e viveva con una zia. Ogni tanto mi invitava anche lui a mangiare. Insomma stava nascendo una buona amicizia. Finii l’anno a dicembre convinto di aver trovato un amico vero. A Gennaio, però, tornati dalle vacanze, mi accorsi subito che qualcosa era cambiato”.
“Non ho mai saputo cosa potesse essere successo in quelle vacanze. Ma appena incominciata la scuola, dopo solo qualche giorno, mentre tornavamo a casa, incominciò a farmi dei ragionamenti strani. Mi confidò di sentirsi a disagio con gli altri compagni di classe. Mi disse che sembrava quasi che noi fossimo, come disse, migliori degli altri. Migliori di tutti. Io ero bravissimo a scuola, lui era più forte degli altri. Mi disse che, secondo lui, meritavamo più rispetto da parte dei nostri compagni. Purtroppo, dopo qualche altro giorno, dalle parole passò ai fatti, esigendo quel rispetto con atti di bullismo nei confronti dei miei compagni di classe. Non so per quale motivo, ma mi lasciò in pace, almeno per un mese. La cosa strana era che con me si comportava sempre in maniera assolutamente rispettosa, tranquilla e simpatica”.
“Poi, però, un giorno, verso i primi di marzo, sulla strada di casa, incontrammo quei ragazzini che mi avevano insultato l’autunno prima, quando mi aveva difeso. Avvicinandosi, iniziarono a prendere in giro entrambi. Marco si lanciò su quei ragazzi e fecero a botte. Le prese. A quel punto cercai di separarli, ma mi presi anche io un pugno e piegato a terra dal dolore mi misi a piangere. Per tutta risposta, appena gli altri ragazzini se ne furono andati, Marco prima mi rinfacciò di non averlo difeso, poi mi diede del codardo e del debole per non essere riuscito a picchiarli. Quella stessa domenica, verso le undici mi chiamò e mi disse che doveva parlarmi. Io, anche se con riluttanza, visto quello che mi aveva detto, accettai. Quando ci vedemmo, prima di tutto mi chiese scusa per come si era comportato con me. Poi mi chiese se potevamo rimanere amici. Io accettai, quasi felice per averlo visto cambiare. Poi mi chiese se considerassi importante la sua amicizia, e gli risposi affermativamente. Mi disse che era disposto a fare qualsiasi cosa per me. Ne fui felice. Poi, però, mi disse che anche io dovevo essere disposto a fare qualsiasi cosa per lui. E qui qualcosa che non andava iniziò ad esserci. Gli chiesi di parlare chiaro e lo fece”.
“Ritirò fuori il modo in cui mi aveva difeso e mi disse che sarebbe stato disponibile a difendermi in quel modo sempre e comunque. Però dovevo dimostrargli di essere all’altezza di ricevere la sua protezione. Feci buon viso a cattivo gioco e gli chiesi in che cosa consistesse quell’‘essere all’altezza’. E lui mi rispose. Mi disse che dovevo dimostrargli assoluta ubbidienza. Facendo qualsiasi cosa lui mi chiedeva. In particolare, mi disse che la mia ubbidienza sarebbe stata messa alla prova quanto prima. E che se non avessi ubbidito, avrebbe fatto in modo di farmi passare le stesse cose che faceva ai nostri compagni. Come rubarmi i soldi, umiliarmi davanti agli altri, eccetera. E senza lasciarmi neanche parlare se ne andò”.
“Passò qualche giorno come se tutto fosse tornato alla normalità. Poi, una mattina, a scuola, mi chiese definitivamente quello che avevo scelto. Io ovviamente gli risposi che non trovavo giusto quello che mi aveva chiesto e che non sarei mai stato disposto a scendere a quel livello con lui. E con chiunque altro. Lui sembrò incassare il colpo e se ne andò. Dopo un paio di giorni incominciò con gli atti di bullismo anche nei miei confronti. Mi scomparve per almeno due volte il portafoglio, che ritrovai sul mio banco, senza una lira. Fu lui il primo a chiamarmi ‘lecchino’ e, probabilmente con la forza, costrinse tutta la classe a farlo. Fece anche altre cose che però preferisco non dirvi, perché sono cose umilianti e non aggiungono molto alla storia. Fatto sta che, in più di un’occasione, sottovoce, mi disse che facevo meglio a schierarmi dalla sua parte giurandogli ubbidienza che continuare a subire, e che le cose sarebbero peggiorate. Io cercai sempre di non reagire e lasciar passare. Per più di un mese fui l’obiettivo di continue prese in giro e soprusi. Tornare a casa reprimendo le lacrime non era una cosa che mi veniva bene, e questo, da una parte fece preoccupare i miei nonni e mio padre, dall’altra mi attirò ancora di più le prese in giro di altri compagni, compresi quelli di terza che ripresero a maltrattarmi.  Arrivai addirittura al punto di implorare Marco di lasciarmi in pace, senza però nessun successo. Verso la fine di Maggio, poi, cambiò qualcosa. Iniziai a pensare che qualsiasi cosa mi avesse chiesto di fare, non sarebbe stata comunque peggio di quello che mi stava facendo subire. Decisi quindi di dirgli che ero disponibile a fare qualsiasi cosa mi chiedeva. Qualche giorno dopo mi disse che l’ora della verità era venuta e che il giorno dopo sarebbe stata messa alla prova la mia ubbidienza”.
Dallo sguardo che avevano gli altri miei amici compresi che pendevano completamente dalle mie labbra. Ancora una volta mi chiesi se fosse veramente necessario continuare quel racconto. Ma tutto quello che era successo, tutto quello che avevo sofferto in passato e tutto quello che avevamo vissuto nell’ultimo anno, erano cose che, evidentemente, avevano un legame. Erano collegate, e nasconderle ai miei amici era ormai impossibile. E poi stavo sentendo l’effetto curativo dello sfogo. E questo mi faceva stare molto meglio. Erano cose personali, che non avevo voglia di raccontargli. Avevo già saltato il racconto di certe cose, che potevo tranquillamente tralasciare, ma sapevo quanto sarebbe stato importante, per tutti noi, comprendere chiaramente che tipo di persona era Marco. Così, anche se non avevo più niente contro di lui, non potevo risparmiare Michele dalle conseguenze derivanti da sentire la continuazione di quel racconto.
“Il giorno seguente, al termine dell’ora di ginnastica, eravamo negli spogliatoi a cambiarci. Marco mi si avvicinò e mi sussurrò in un orecchio che era giunto il momento di dimostrargli la mia ubbidienza. Con modi di fare a dir poco militari, mi urlò di mettermi sull’attenti. Io pensai che, se si fosse trattato solo di quello, di problemi non ce ne sarebbero stati. Assistendo a quella scena i miei compagni concentrarono tutta la loro attenzione verso noi due, osservando in silenzio quello che seguì. A quel punto Marco si rivolse a loro, dicendogli che io avevo deciso di mostrargli l’ubbidienza che meritava. E che loro avrebbero dovuto imparare da me e seguire il mio esempio, piuttosto che opporsi a qualcosa che comunque sarebbe stato inevitabile. Fu solo lì che, ingenuamente, incominciai a capire che qualcosa non andava. Cosa c’entravano i miei compagni? Aveva forse fatto anche a loro la stessa proposta? E perché loro gli avevano risposto di no? Perché si erano opposti? Forse perché non erano abbastanza amici con lui da accettare una condizione che ancora mi sembrava particolarmente leggera, pensai. Ero ancora fermamente convinto del fatto che quella potesse essere solo una dimostrazione di amicizia da parte mia nei suoi confronti. Niente di più”.
“Marco mi sorrise e quel sorriso non mi piacque per niente. Mi disse che per mantenere quell’amicizia dovevo prima essere disposto a subire l’umiliazione e la vergogna, ordinandomi, immediatamente dopo, di spogliarmi e rimanere completamente nudo”.
Non avrei voluto farlo, ma fu più forte di me. Ed effettivamente, immediatamente dopo aver detto quello, anche Giuseppe fece la stessa cosa. Entrambi guardammo Michele. Che, sentendosi osservato e mai come prima in imbarazzo, abbassò immediatamente lo sguardo. Stava capendo perché era successo quello che era successo l’anno prima, al termine forzato del nostro gioco del nascondino al contrario.
Ma continuai.
“In quel momento si fece il silenzio nello spogliatoio. Tutti mi stavano guardando per vedere la mia reazione. Stupidamente, solo a quel punto capii che, con Marco, l’amicizia non contava. Voleva solo qualcuno da umiliare e maltrattare. E in quel preciso istante capii che uscire da quella situazione si poteva. Ma andava contro alle regole che, man mano che stavo crescendo, mi avevano imposto di osservare. Dapprima provai con le buone e pregai, implorai Marco di non farmi fare una cosa del genere. Ma lui mi urlò contro e mi disse che se volevo continuare a essere suo amico dovevo ubbidirgli e fare quello che mi era stato ordinato. A quel punto, gli dissi semplicemente e fermamente che non avrei mai fatto una cosa simile. Lui mi si avvicinò e mi urlò a pochi centimetri dal viso, di ubbidire. Io ero pietrificato dalla paura. Quando vidi che stava prendendo l’elastico dei pantaloni della tuta per abbassarmeli, feci una cosa che mai avrei immaginato di fare. Strinsi i suoi polsi e lo costrinsi a levare le mani dai miei pantaloni. Lui si liberò bloccandomi la mano sinistra con la sua mano destra. Riuscii a non farmi prendere anche la destra, con cui gli tirai un pugno sul naso. Tra le urla liberatorie generali, Marco mi lasciò andare, cercando di fermare con tutte e due le mani il sangue che a quel punto uscì copiosamente dal suo naso. E corsi via mettendomi a piangere. Effettivamente alzare le mani su qualcuno mi ha sempre fatto quell’effetto”.
Era incredibile come, anche in quel caso, il mio sguardo si era alzato nuovamente e avevo fissato Michele. Che si accorse di questo e capì fino in fondo la mia reazione di due giorni prima. Così continuai con l’ultima parte del racconto.
“Fu solo con l’intervento del professore che superai la crisi. A seguito di quello che raccontammo, io ed i miei compagni, Marco fu sospeso, cosa che probabilmente avrebbe pregiudicato l’anno scolastico. Lui si trasferì con sua zia. Io presi soltanto una nota sul registro. Che mi costò parecchio, visto che per quella nota litigai anche con mio padre. Ma non gli raccontai mai i motivi che mi avevano spinto a farlo. Come non avevo raccontato tutto il resto. L’ultima cosa che mi disse Marco fu che me l’avrebbe fatta pagare. All’inizio della seconda seppi che si era trasferito in un’altra città, ma mai avrei immaginato che fosse proprio questa la città. Tra l’altro, in quel primo anno di scuola media, gli avevo raccontato di Policoro e dei miei amici, quindi, in realtà, gli diedi anche il materiale necessario per iniziare a vendicarsi. Il resto lo conoscete perché me l’avete raccontato voi. Questo è quanto. La volta successiva che lo vidi, indossava un casco integrale ed era venuto qui dietro per consegnare a Giuseppe la lettera che ci ha fatti arrivare fino a questo punto”.
Dallo sguardo terrorizzato dei miei quattro interlocutori, compresi che avevano tutti quanti capito cosa stava succedendo. Che ci eravamo ficcati, senza neanche saperlo, in qualcosa che era grande, molto più grande di noi.
“Adesso capisco cosa intendevi quando l’altra sera ci hai detto che aveva messo in piedi una banda a sua somiglianza. Che vive solo per lui” disse Michele. “Ma vi rendete conto che, in un modo o nell’altro, è stata la stessa cosa che ha fatto Amaraldo con me? Ha sempre puntato sulla mia superiorità rispetto a voi, sulla mia preminenza e sul fatto che voi mi dovevate rispetto. E quando cercavo di superare i momenti brutti con voi cercando di autoconvincermi di quanto fosse necessario parlarvi e risolvere la situazione in maniera pacifica, passava alle minacce ed alle intimidazioni. E tutta quella banda è fatta così” disse Michele con la coscienza a pezzi per quello che lui stesso era arrivato al punto di volermi fare.
Quello che diceva Michele era vero. Peccato che, quando iniziai a rendermi conto che lui si stava proprio comportando così, per me il “problema Marco” si era risolto da due anni e non collegai le due cose. Ma effettivamente aveva fatto usare la stessa tecnica ad Amaraldo con Michele. E con Emanuele. Fu Giuseppe a riportarci al presente ed alla realtà.
“Ma tu, a questo punto, quanto ritieni pericoloso Marco?” chiese.
“Tanto! Tantissimo!” fu la mia risposta. Sincera. Anche perché, salvo per Maria, non avevo veramente più nessun segreto con loro. E anche quello di Maria, non sarebbe potuto rimanere tale ancora per lungo tempo.
“È vero che ha fatto tantissimi errori. Ma è astuto. Molto astuto. Ed incredibilmente determinato a raggiungere i suoi obiettivi. Pensate che negli ultimi cinque anni ha vissuto solo per questo. Ci si è messo a lavorarci con tutto se stesso. Ed è riuscito a fare tutto quello che ha fatto. Stroncare la mia amicizia con Michele, provare a farlo con Emanuele anche se non ha continuato, farci credere di lottare contro Michele, mostrarsi addirittura a noi, per due volte, senza che noi collegassimo le cose. Meriti, noi ne abbiamo avuto solo due: Emanuele l’ha colpito allo stomaco e quindi avete potuto riconoscerlo in spiaggia. E tutti, prima o poi, abbiamo avuto il coraggio di rimanere uniti e comunicare, invece di isolarci e allontanarci. E errori, lui, ne ha compiuti solo due: scendere da Giuseppe con il casco, e far torturare Michele da Amarlado. Se non fosse accaduto, io non avrei avuto quel dubbio e Michele non sarebbe stato qui. Non avremmo scoperto il ruolo fondamentale di Amaraldo e non sapremmo ancora nulla”
“Giusto! Solo che, a questo punto, dopo aver saputo tutte queste cose, che si fa?” chiese Francesco.
“Non lo so! D’altra parte da quando hanno picchiato Michele non si sono fatti né vedere né sentire. Non vorrei che stessero architettando qualcosa”
“E allora perché non andiamo lì e non gli diamo una lezione una volta per tutte? A che ci serve sapere queste cose se non possiamo usarle ancora a nostro vantaggio?” si lamentò Francesco.
Stavolta però fu Giuseppe a intervenire.
“Calma! A noi queste informazioni servono sempre e comunque! Pensa a quello che ti è successo una settimana fa. Se avessi saputo da tuo fratello quello che era accaduto qualche anno fa, ti saresti comportato nello stesso modo? O ti saresti comportato come tuo fratello?”
“Mi sarei comportato come Emanuele! E allora?”
“Vedi che sapere le cose ti fa agire in maniera diversa? La stessa cosa vale con Marco. Se sapere qualcosa di più in tutta questa faccenda ci permettesse di comportarci in maniera diversa e forse non fare qualche brutto errore, sarebbe meglio, o no?”
“Potresti avere ragione” disse Francesco “ma allora perché non andiamo dai carabinieri a denunciarli?”
“Eh! Perché non abbiamo uno straccio di prova che possa collegare Marco a Angelo ai Tre Fratelli” continuò Giuseppe “Mentre se e quando faremo entrare di mezzo le autorità dovrà essere completamente chiara l’appartenenza di ciascuno alla banda dei Tre Fratelli e tutto quello che la banda sta facendo e ha fatto. Ad oggi i carabinieri potrebbero tranquillamente confondere i Tre Fratelli con un circolo letterario!”.
Giuseppe forse stava esagerando, ma era vero che se Marco aveva fatto tutto con l’attenzione che lo aveva caratterizzato negli ultimi giorni, non sarebbe stato difficile smontare le nostre accuse.
Il silenzio da parte di Francesco dimostrò a tutti che aveva capito il senso e a me una volta in più che Giuseppe era stata, anche in quell’occasione, la persona giusta al momento giusto.
Quindi io sapevo bene tutto quello che era successo in questi anni. Sapevo come si era comportato e come aveva agito Marco. Purtroppo, però, non avevo la più pallida idea di quello che dovevamo fare adesso. Cercai in tutti i modi di ipotizzare che cosa stessero facendo quegli altri. Ma obiettivamente avevo solo 17 anni. Non ci si poteva aspettare da me più di quello che ero riuscito a fare per mantenere quel gruppo e la quasi sua completa incolumità. Figuriamoci di più.  Cosa potevo fare di più? Soprattutto, cosa potevo fare adesso? Sapevo che anche gli altri non avevano altre idee. Però era anche vero che non potevo rimanere così. Ero certo che avrebbero fatto qualcosa. Più che altro ero sicuro del fatto che le azioni nei nostri confronti non si sarebbero limitate alle torture inferte a Michele. E, come quando sei a scuola e la soluzione ad un problema arriva esattamente quando meno te lo aspetti, esattamente dalla persona più improbabile di tutte, nel nostro caso, quella verità arrivò dal più piccolo del gruppo. Anche se non propriamente interpretato da tutti.
“Se io fossi Marco, a questo punto cercherei di fare qualcosa prima possibile. Giuseppe è quasi riuscito a smascherarmi. Farei qualcosa per punire lui. O perlomeno per metterlo fuori gioco”
“Ma grazie! Ma bravo! E perché dovrebbero colpire proprio me?” fu la reazione del ragazzo. Lo stress doveva essere parecchio alto, perché Giuseppe si alzò e si avvicinò con aria di sfida a Francesco. Lo stesso fece lui. Emanuele e Michele cercarono di bloccarli. Ma non ci riuscirono. Solo ad un certo punto, io mi presi una libertà sostanziale nei confronti di Francesco e presi la sua fionda. Emanuele, vedendo quello che stavo facendo, mi imitò. Ciascuno dei due si prese una scatoletta sul sedere con la fionda. Si bloccarono subito. La scatoletta che colpì Giuseppe era quella già usata le due volte precedenti. Cadendo a terra si ruppe. Sporcando tutto il pavimento.
“Bene! Ci mancava solo questa! Adesso potete scegliere: o vi chiedete scusa a vicenda immediatamente e pulite questo macello, oppure chiedete scusa un po’ più tardi e pulite da cima a fondo tutta la casa. Conto fino a tre prima di accettare come definitiva la seconda scelta”
I due ragazzi si guardarono in cagnesco, per poi voltarsi verso di me.
“Uno…”
I due continuarono a osservarmi, mentre io non davo segni di cedimento. Altre volte li avevo “costretti” con queste stesse minacce a chiedersi scusa a vicenda, ma spesso mi ero lasciato muovere a pietà.
“Due…”
Evidentemente questa volta non era una di quelle volte. Quello sguardo severo li colpì definitivamente.
“Scusa!” il primo fu Francesco.
“Scusa!” Giuseppe seguì immediatamente dopo.
Entrambi chiesero scusa a me e agli altri due. Io accettai prontamente e con un grande sorriso le scuse. Poi, nel pieno rispetto della coerenza e della considerazione per i sentimenti dei miei due amici più piccoli, gli passai lo straccio e lo spazzolone. Emanuele e Michele li osservarono divertiti.
“No! Simone! Non puoi costringerci a fare questo!” dissero entrambi sorridendo ma non molto convinti.
“Gli accordi erano questi! Avanti!” dissi seriamente.
“Beh! Però tu non puoi ordinarci a farlo!”
“Ordinarvi no! Ma sapete che su tutto vince il voto del gruppo e se chiedo il voto, finisce due contro tre! Scommettiamo?!”
Gli altri due, super divertiti, si misero a fare il tifo e urlare “Lavate! Lavate!”
Francesco e Giuseppe si guardarono. Presero lo spazzolone, il secchio e lo straccio e lavarono per terra.
Noi altri assistemmo divertiti.
“E la prossima volta che vi comportate così vi faccio pulire tutta la casa, così anche io riesco a godermi queste vacanze” dissi, ridendo.
Quella conversazione finì così. Erano 5 giorni che ero arrivato a Policoro. A parte pensare a cosa di brutto stessero facendo gli altri per farmela pagare, non avevo pensato a molto. Avevo voglia di divertirmi. Era sabato. Sopra ogni altra cosa un pensiero mi stava assillando da qualche giorno: sapevo che tutto doveva finire il più presto possibile. Lei stava per arrivare, anzi, guardando l’orologio mi accorsi del fatto che, più o meno a quell’ora, lei era già arrivata. E avevo talmente tanta voglia di starci insieme che quella situazione doveva risolversi subito. Con o senza un’azione da parte di Marco.
Peccato che, ingenuamente, tutti smettemmo di pensare all’idea di Francesco e la cancellammo dalla nostra mente, man mano che quei due cancellavano dal pavimento le tracce di tonno.

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NdA: Avevo voglia di postarlo, e l'ho fatto... ad ogni modo, finora la fine peggiore l'ha fatta la scatoletta di tonno. Ma, ovviamente, non è ancora finita...
Come sempre grazie per le vostre idee, i vostri pensieri, le vostre considerazioni, che mi danno la possibilità di capire se vi sta piacendo questo racconto oppure no.
Alla prossima (questa volta penso proprio lunedì)!! :)

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Capitolo 18
*** Sabato Pomeriggio ***


SABATO POMERIGGIO

Il resto della mattinata lo passammo al mare. Riuscì a venire anche Michele. E per la prima volta, dopo quattro anni, facemmo un’uscita tutti insieme. Per la prima volta, dopo quattro anni io e Michele eravamo di nuovo insieme al mare. E ci comportammo quasi come quattro anni prima. Creando baraonda per tutto il lido. Ma ne avevamo bisogno. Ne avevamo bisogno per svagarci, per distrarci e per sfogarci. Peccato che il tempo volò. Sembrò passare un’oretta, mentre si erano già fatte le due che prendemmo l’autobus. Dopo dieci minuti eravamo a casa. Giocammo e ci divertimmo anche lì, tanto che, quando se ne andarono gli altri, io e Michele dovemmo pure metterci a pulire e sistemare casa. Alle quattro avevamo finito. E potemmo gustarci anche un po’ di riposo.
Alle cinque, Giuseppe bussò alla porta.
“Che c’è!?”
“I miei vanno via per due giorni. Tornano lunedì sera. Gli ho chiesto se potevo rimanere a casa tua. Mi hanno mandato prima a chiedertelo. Sennò mi mandano da mia zia, a Pisticci”
“A Pisticci?! Meglio se non ti perdo d’occhio!” risposi, ridendo. Giuseppe mi ringraziò e poi corse immediatamente a casa a riferire ai genitori.
Dopo pochi minuti mi arrivò il messaggio: “Tutto ok! I miei partono verso le sette. Appena finisco di preparare le cose arrivo! Grazie!! Ciao!”
Mi faceva veramente piacere. Invitai immediatamente anche Francesco e Emanuele a cena a casa. E accettarono immediatamente. Michele si era spostato a casa mia fino alla domenica. Era andato, la sera stessa che era stato liberato, a casa a prendere il necessario e anche qualcosa da studiare. Stavo lentamente finendo le provviste lasciate dai miei nonni, e, nonostante tutto, quella vacanza stava finalmente assumendo le sembianze di una vacanza. Speravo e sapevo che insieme, noi tre, ci saremmo divertiti un mondo. I genitori di Giuseppe mi stavano assegnando una grossa responsabilità. Buona parte del merito spettava a Giuseppe, che sicuramente mi aveva fatto una bella pubblicità. Ma evidentemente la conoscenza delle due famiglie aiutava.
Alle 18:50 sentii distintamente Giuseppe che salutava i suoi, la madre di Giuseppe che si raccomandava per interminabili secondi con lui. Il motore della macchina si accese, sentii la macchina che partì, e che si allontanò. Il portone di casa di Giuseppe si richiuse. In quel momento mi immaginai il percorso che stava facendo Giuseppe. Salire al piano di sopra. Prendere tutto il necessario per passare la notte da me, in modo da non dover inutilmente andare a riprendere la roba quando gli serviva. Quindi mi immaginai Giuseppe che preparava lo zaino. E che scendeva le scale e apriva il portone. In quel preciso istante sentii il portone di Giuseppe che si apriva. Mi venne da ridere. Quella risata improvvisa spaventò Michele, che si trovava sul letto di fianco al mio e stava leggendo. Quel gioco era mentale. Ma mi divertiva. La porta si richiuse dietro Giuseppe. Lo sentii fischiettare mentre faceva la salita.
Poi, però, non sentii più nulla. Attesi ancora qualche secondo. Ancora nulla. Purtroppo realizzai solo in quel momento che Giuseppe, in quelle circostanze, stava percorrendo quel tragitto da solo.
“No!” esclamai, senza neanche pensarci. E Michele si rispaventò, solo che vedendo me che mi alzavo e correvo fuori di casa, ci mise solo qualche decimo di secondo in più per capire che cosa stava succedendo. Corse fuori anche lui. Io ero già all’angolo della via che osservavo se riuscivo a vedere la sagoma famigliare del mio amico. Nulla.
Corsi come un pazzo verso casa. Intanto Michele non aveva perso tempo e provava a telefonare a Giuseppe. Il telefono suonava ma non rispondeva nessuno. Certo era che non era il momento per usare gentilezza e buone maniere.
“Prendi la bici, vai immediatamente a casa di Francesco e Emanuele e digli quello che è successo: temiamo che abbiano rapito Giuseppe. Dì loro di scendere e perlustrare i dintorni. Appena vedete Giuseppe dovete ricondurlo sotto scorta qui, a casa. Vedrai che non faranno storie” ordinai a Michele. Ma, data la gravità della situazione, Michele ubbidì prontamente.
Intanto avevo preso la bici di mio zio, che la primavera precedente aveva lasciato a Policoro. Dovetti sollevare un po’ il sellino, ma la bici fu pronta in pochi istanti.
“Ma mi ricordo che tu non sapevi andare in bici! Che non ti è mai piaciuto e non hai mai imparato!” osservò Michele.
“Te l’ho già detto: ci sono tante, tantissime cose che tu ancora non sai di me. Adesso però non possiamo parlarne. Muoviamoci!” risposi in tutta fretta.
“Aspetta! Dove vai?” chiese Michele, a questo punto parecchio preoccupato.
“Io vado al castello. Sono sicuro che se l’hanno rapito, anche se non sono arrivati ancora lì, sicuramente è lì che andranno a finire. E io preferisco essere lì ad aspettarli” dissi, non lasciando neanche il tempo a Michele di commentare. D’altra parte non ce n’era bisogno. L’ordine gliel’avevo dato. Non avrei permesso a nessuno di impedirmi di fare quella cosa. Inoltre finii di parlare urlando perché ero già partito. A giudicare dalla velocità con la quale avevo percorso quei venti metri in salita, Michele non sarebbe comunque riuscito a raggiungermi.
Slegò la bici e partì anche lui, solo che, appena girato l’angolo, vide che mi ero fermato. Avevo preso uno zaino da terra, e riconobbe immediatamente che era quello di Giuseppe, dal momento che gliel’aveva visto addosso solo qualche ora prima, di ritorno dal mare. Senza farmi troppi problemi l’aprii e, frugando nelle tasche trovai il cellulare. Mi misi lo zaino in spalla e proseguii per la mia strada, seguito, per un’altra decina di metri, fino alla casa di Emanuele e Francesco, da Michele.
I tre ragazzi perlustrarono palmo a palmo tutta la zona, per circa un’ora, prima di ritornare a casa. Stava ormai facendo buio e non sarebbe stato possibile continuare con efficacia. Tornarono verso casa senza successo.
Dopo un’altra ora, Francesco e Emanuele erano già andati via, Michele mi vide in bici che passavo fuori dalla porta di casa.
“Fatto qualcosa?” chiese immediatamente Michele affacciandosi fuori.
“Al castello non è arrivato nessuno. Da quando sono arrivato io fino a dieci minuti fa non si è fatto vedere nessuno. Non so dove l’abbiano portato. Non c’era nessuna macchina al castello, quando sono arrivato. Quindi non posso sapere con certezza se l’hanno portato al castello prima del mio arrivo. Ad ogni modo ormai è buio. Stare al castello è inutile. Menomale che il cellulare di Giuseppe ce l’avevo io. Lo ha chiamato un quarto d’ora fa sua madre per dirgli che erano arrivati e sentire come andava. Sono riuscito a trovare il sangue freddo di dirgli una bugia e di liquidarla con la scusa che Giuseppe era sotto la doccia e che l’avrebbe richiamato più tardi. Sua madre mi ha detto che non importava e che l’avrebbe chiamato lei domani. Tu hai già mangiato?”
“Io!? E chi ha fame? Mi si è chiuso lo stomaco da due ore! Che facciamo?”
“Niente! È presto per avvisare le autorità, dal momento che non sappiamo neanche se è stato veramente rapito. Nessuno ha sentito né visto niente. E se e quando decideremo di farlo, sarà meglio avvisare i suoi genitori. Anche se…”
“Se cosa?!”
“Non so! Per un attimo ho pensato che fosse anche quella una spedizione punitiva per ‘divertirsi’ un po’ con Giuseppe, per farci sapere che sono ritornati all’attacco e che non vogliono mollarci facilmente. Se stanno così le cose Giuseppe, speriamo, tra qualche ora potrebbe essere di nuovo qui, anche se non so in quali condizioni” conclusi.
“Se è così l’hanno sicuramente portato alla radura. Povero Giuseppe” concluse Michele, nel più assoluto silenzio e con gli occhi fissi nel vuoto a metà tra l’impaurito ed il preoccupato.
Nessuno dei due, a quel punto, aveva più voglia di parlare. Si erano fatte ormai le dieci e Francesco e Emanuele erano ritornati a casa mia. Non sapevamo se gli era successo qualcosa, se qualcuno si era accorto della sua fuga, se non lo avevano già picchiato o chissà cos’altro avevano intenzione di fargli. Non sapevamo neanche se erano stati veramente Marco e gli altri a rapirlo. La serata passò lentamente. Decidemmo dei turni di guarda e si susseguirono senza che nessuno avesse la benché minima voglia di andare a dormire. I miei tre amici notavano che ero realmente preoccupato e che c’era qualcosa in me che non andava. Non osavano pensare alla reazione che avrei avuto se Giuseppe avesse subito lo stesso trattamento di Michele. Sapevano quanto fossi affezionato a lui, la sincera amicizia che ci legava e quanto si sarebbero complicate le cose se fosse accaduto quello che temevamo tutti. Passò mezza nottata e ancora non si ricevevano notizie di nessuno. Eravamo tutti e quattro seduti al tavolo. Io avevo da un pezzo spento la luce e incoraggiato gli altri tre ad andare a dormire, ma loro vollero rimanere svegli per starmi vicino. Io apprezzai il loro gesto e li lasciai fare, anche se per quello che avevo in mente di fare avrei preferito rimanere un po’ solo.
Alle tre e mezza del mattino non si poteva dire che fossimo tutti e quattro svegli. Michele e Francesco avevano appoggiato la testa sul tavolo. Emanuele stava cercando in tutti i modi di rimanere sveglio non imitando gli altri due, ed io ero seduto sulla sedia, immobile, con lo sguardo rivolto verso la televisione spenta.
Il tempo passava.
Si poteva sentire chiaramente il ticchettio dell’orologio che batteva i secondi e la campana della chiesa di Policoro che, in lontananza, rintoccava ormai le quattro e un quarto.
Proprio in quel momento accadde una cosa che rimise in attività tutto il gruppo. Qualcuno suonò alla porta. Ci riprendemmo tutti da quella condizione di sonnolenza ma il primo che si alzò dalla sua sedia, come se stesse aspettando quel momento, fui io. Andammo tutti verso la porta e, non interessandoci di chi ci fosse dietro, aprimmo subito. In giro non c’era nessuno. Guardando meglio, in lontananza, dietro l’angolo della strada, qualcuno stava sbirciando. Ce ne accorgemmo perché, appena Michele volse lo sguardo in quella direzione, una piccola ombra si ritrasse dietro la grande ombra del muro. Lo spettacolo peggiore venne dopo. Da dietro la panca in cemento che dava le spalle alla ringhiera delle scale, sbucò una mano. Poi un corpo si tirò su appoggiandosi alla ringhiera stessa. Era Giuseppe. O almeno quello che ne rimaneva. Aveva il labbro rotto, e sangue gli usciva dal naso e dal labbro. Non avremmo mai voluto vedere un’immagine del genere. Immediatamente uscii, lo presi e lo accompagnai in casa.
Gli demmo una mano a spogliarsi e a sdraiarsi. Gli avevano riservato lo stesso trattamento che era toccato a Michele. Però su tutto il corpo. Sia sopra che sotto. L’avevano solo risparmiato dalla tortura ai fianchi. Ma non dal trattamento con le sigarette. E, da cima a fondo, era completamente ricoperto dei segni dei colpi inferti. Su tutto il corpo. Non avevano risparmiato nessuna parte. Tutti e quattro rimanemmo in silenzio. Francesco corse fuori piangendo. Almeno ci provò, perché, rendendosi conto del pericolo, Emanuele lo bloccò giusto un attimo prima di uscire in strada.
Dopo avergli prestato i primi soccorsi, era già quasi spuntato il sole. Nessuno aveva sonno. Solo Francesco e Emanuele si erano un po’ assopiti durante quei pochi minuti che rimanevano dal mattino. Verso le sette, comunque, erano tutti svegli, o per lo meno in piedi. Giuseppe era l’unico che dormiva ancora, evidentemente sollevato dal fatto di sentirsi nuovamente al sicuro di quella casa; ma non passò molto tempo, prima di voler raccontare quello che era accaduto. Verso le otto Giuseppe, ancora dolorante, si svegliò. Tutti ci dirigemmo immediatamente da lui, che incominciò il racconto.
“Sono uscito di casa e appena arrivato all’incrocio sono stato bloccato da una macchina che era entrata nella via a grande velocità, e aveva inchiodato davanti a me. Ho cercato di scappare ma c’erano tutti e tre i fratelli che mi hanno preso e con la minaccia di un coltello mi hanno silenziosamente fatto salire in macchina. La macchina è partita e ci siamo immediatamente diretti verso “Torre Mozza”. Arrivati al lido si sono fermati. Mi hanno preso e mi hanno portato mediante il sentiero che unisce tutti i lidi ad un centinaio di metri dalla spiaggia. Ci siamo inoltrati nella sterpaglia e siamo arrivati in una radura, praticamente invisibile, sia dalla spiaggia che dal sentiero. Mi hanno fatto spogliare completamente legandomi tra due alberi posti nel centro della radura. Mi hanno liberato un quarto d’ora prima di arrivare da voi. C’erano tutti e sette. I Tre Fratelli, Amaraldo, Salvatore, Dorian e Marco. Non mi hanno chiesto niente. Non mi hanno detto niente. Hanno passato quelle ore solo a picchiarmi, frustarmi e insultarmi. Dapprima incaricarono Dorian e Salvatore di colpirmi con dei rami che avevano tagliato appositamente, con quanta forza avevano, a turno, fino a quando non gli dicevano di fermarsi. Mi sono accorto che lo hanno fatto quasi piangendo, ma non si sono rifiutati di farlo. Poi Amaraldo e Cosimo presero il loro posto e lì è stata durissima. Verso le nove e mezza se ne sono andati, per ritornare quasi alle undici. Intanto erano rimasti solo Amaraldo e Cosimo con me. Verso le undici Marco è tornato, da solo. E hanno ricominciato a colpirmi. Fino all’una di notte. Urlavo ma a quell’ora ormai non c’era più nessuno. Poi verso le due mi dissero che avevo disubbidito ai loro ordini di non parlare con Simone. E mi chiesero che cosa sapevo di loro. Fino a quel momento Marco era stato con il volto coperto. Gli ho detto che avevamo capito che quello col volto coperto era Angelo.  Ricordo come se me lo dicesse ora, quello che mi ha detto allora Marco, levandosi il cappuccio: ‘E ci voleva tanto? Siete solo degli idioti, comunque. devi dire al tuo capo che il prossimo a fare questa stessa fine sarà lui! Pensa che bello passare un anno di scuola insieme l’anno prossimo!?’ Poi mi intimò di non provare neanche lontanamente a chiamare la polizia. E poi si divertì con Amaraldo e Cosimo e le sigarette. Un dolore che non avevo mai provato in vita mia, e che non auguro a nessuno. Verso le quattro mi hanno riportato in macchina. Il resto della storia lo conoscete!”
Tutti noi avevamo gli occhi lucidi, e lo sguardo perso nel vuoto.
Michele provò solo ad immaginare quello che doveva aver passato Giuseppe. Gli vennero i brividi solo a pensarci. Ritornò con la mente a qualche giorno prima. Pensare che, a conciarlo quasi come Giuseppe, era stato quello che fino a pochi giorni prima considerava il suo migliore amico, lo riempiva di rabbia, rancore e odio per tutto quello che stavano facendo i loro nemici. Ma al tempo stesso si sentiva impotente.
Francesco era in uno stato di panico completo da quando aveva rivisto Giuseppe. Pensò che avrebbe voluto volentieri essere da un’altra parte. Ma poi si convinse che tutti avevano bisogno di tutti in questa storia. L’ultima fonte di panico e ansia fu il rimorso di coscienza per quello che aveva appena pensato.
Emanuele era seriamente dispiaciuto per quello che era successo al suo amico. La cosa che lo faceva soffrire di più era che sapeva che avrebbe potuto esserci lui, al posto di Amaraldo, a picchiare il suo amico. Si diede ancora una volta dell’idiota per aver accettato, anche se solo per pochi mesi di entrare a far parte di quella banda.
“La cosa più brutta è stata rendermi conto che è bastata una risposta, peraltro falsa, per farmi riportare a casa” continuò Giuseppe.
“No! Questa è solo un’ulteriore dimostrazione di quanto Marco sia sadico e provi gusto a fare certe cose. Praticamente si era semplicemente stancato di quel passatempo e aveva deciso di lasciarti andare. Per lui è stato un divertimento. Probabilmente avrebbe continuato così fino alla tua fine, se solo si fosse divertito ancora un po’. Farti quella domanda ha solo unito l’utile al dilettevole. Comunque sei stato bravissimo. Non avrei saputo resistere così tanto. Io avrei ceduto prima. Molto prima! Grazie amico mio per quello che hai fatto!” dissi alzandomi e abbracciando Giuseppe, quasi stupito per quello che stava accadendo. Seguirono tutti gli altri, che con abbracci e pacche sulle spalle non proprio apprezzate da Giuseppe, cercarono di consolarlo ulteriormente.
In quell’atmosfera drammatica riuscivo addirittura a mascherare quello che stavo provando in quel momento. Un sentimento che così non avevo mai provato prima. Vedere Giuseppe trattato in quel modo aveva sortito un effetto in me inaspettato e che con enorme fatica cercavo di nascondere agli altri: una rabbia quasi incontrollabile, che per fortuna, non potevo e non dovevo sfogare in quel momento.

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NdA: Buongiorno ed eccomi a raccontarvi un nuovo capitolo. Sempre desideroso di sapere cosa ne pensate!

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Capitolo 19
*** Se adesso te ne vai ***


SE ADESSO TE NE VAI

Con sette ore circa di ritardo era finita quella giornata. Finita in un modo orribile, così brutto e spiacevole, come mai avrei potuto immaginare. Vedere un amico come Giuseppe conciato così, mi fece venire il voltastomaco.
Mai, mai come in quell’occasione provai il vivo e sincero desiderio di porre fine a quella storia una volta per tutte. Feci di tutto per reprimere quello che sapevo essere un desiderio errato: quello di vendicarmi.
Ma a diciassette anni era tutto così difficile. Solo una cosa mi face dimenticare per un attimo quel sentimento: la giustizia.
Era semplicemente giusto fermare Marco. Era giusto fermare quel gruppo di persone che per colpire me aveva fatto e stava facendo tutto quel male ad altre persone. È vero che dalla sera prima sapevo che potevo contare su nuove forze per combattere quella situazione. Ed era anche vero che stavo pensando seriamente a come risolverla quella faccenda. Ormai, a quel punto, non brancolavamo più nel buio. Non avevamo la mente offuscata dall’ignoto. Ormai sapevamo tutto. E ora quello che mi aveva raccontato Giuseppe poteva volgere a nostro vantaggio, anche se bisognava agire con circospezione.
Ma per farlo dovevo sapere ancora un paio di cose.
“Quindi tu non hai detto a Marco che sappiamo che lui è Marco, ma solo che lui è Angelo, vero?” chiesi trattenendo il fiato nell’attesa della risposta.
“Si!” rispose. “dire che sapevamo che era Marco gli avrebbe permesso di capire che sapevamo tutto. Almeno così l’ho lasciato indietro!” mi disse, cercando addirittura di sorridere.
“Bene!” risposi io, sorridendo. “Allora c’è una sola cosa che possiamo fare per risolvere questa situazione!” aggiunsi.
Tutti erano lì. Emozionati. Pronti a sentire il mio piano. Certi che avremmo risolto completamente il problema.
Però dovevo fare le cose con un po’ di calma. Prima li mandai a casa a riposare, salvo Giuseppe, che rimase a casa mia.
Erano le otto passate quando finii di chiarirmi le idee, e dopo aver sentito Maria, e averle anticipato tutto, mi stesi ancora un po’ sul letto. Eravamo su due letti vicini, io e Giuseppe, entrambi sdraiati di fianco, e continuavamo a fissarci. Per quanto fosse ancora mattina, Giuseppe non era riuscito a dormire quasi niente. Ed io con lui.
“Dovevo esserci io al tuo posto!” dissi.
Giuseppe, per quanto dolorante, si alzò immediatamente e mi si avvicinò, sedendosi al mio fianco.
“Non dirlo neanche per scherzo!” disse Giuseppe, ancora sofferente ma seriamente preoccupato per me.
“Perché? Non è vero? Quello lì ce l’ha con me. Vuole me. E invece mi sta lasciando per ultimo. Ha trovato i momenti migliori per attaccare voi, anche tre anni fa, come nel caso di Emanuele. Ma in questo momento io sono rimasto l’ultimo. Almeno avresti potuto salvarti tu. Dovevo consegnarmi da solo nelle mani di Marco. Invece state soffrendo tutti per colpa mia”
“Ascolta, quello che sto per dirti vorrei rimanesse tra di noi, ok?” chiese Giuseppe. Io annuii, cercando di rimanere il più serio e neutrale possibile. Era difficile con Giuseppe, difficilissimo, ma dovevo farlo per il suo bene. Mi ispirava quasi simpatia vedere come in quel caso stesse addirittura cercando di imitarmi.
“Se tu fossi stato rapito avrei fatto la stessa cosa che hai fatto tu. Anche io sarei stato a cercarti finché sarebbe servito a qualcosa. E se ti avessi trovato mi sarei sacrificato al posto tuo. Ma non per diventare martire. È perché tu sei l’unica persona che riesce a tenere unito questo gruppo. Se manchi tu, saremmo troppo incompatibili per formare un gruppo così affiatato come siamo noi adesso. Tu sei l’unico che conosce veramente Marco. L’unico che può combatterlo. Noi, da soli o insieme ma senza di te, non riusciremmo a tenergli testa. Con te, invece, non solo abbiamo risolto questo mistero. Siamo giunti ad un punto di non ritorno, ma le cose sono sempre andate a finire nello stesso modo. Hanno preso ciascuno di noi, da soli, e ci hanno fatto del male. Quando noi siamo insieme, non si sono mai neanche permessi di attaccarci. Finché rimaniamo uniti non ci può accadere nulla. Siamo troppo difficili da battere. E tu sei l’unica persona che può mantenere quest’unità. Sei troppo importante, per uscire da questa faccenda”.
Mi faceva immensamente piacere sentire Giuseppe parlare col cuore e dirmi quella cosa, perché sapevo che aveva ragione. Però mi resi anche conto che il problema era che loro ce l’avevano con me. E se io me ne fossi andato, come l’anno precedente, forse tutto si sarebbe risolto per i miei amici.
Guardai Giuseppe.
“L’unica soluzione per far terminare queste rappresaglie nei vostri confronti è andarmene!” dissi.
Per pochi secondi un silenzio gelido riempì quella camera da letto. Giuseppe si mise seduto sul letto. Lentamente, quel quindicenne stava realizzando cosa stava succedendo. Sorrise, anche se quel sorriso non mi convinse.
“Guarda che non c’è bisogno di scherzare solo per tirarmi su il morale!” disse, certo di aver risolto il problema.
“No, Giuseppe! Non sto scherzando! Se me ne vado, come l’anno scorso, vedrai che immediatamente finirà tutto!” risposi.
A quel punto, Giuseppe comprese che non stavo scherzando. Comprese che ero serio. Serissimo.
E divenne anche lui serio.
Serissimo.
“No Simone! Per favore! Non farci questo! Avevi detto che volevi risolvere questo problema una volta per tutte! Non lasciarci come l’ultima volta!” disse, già quasi con le lacrime agli occhi.
“Ho già deciso, quindi non riusciresti comunque a farmi cambiare idea!” dissi io. Lo stavo facendo soffrire. Ma non potevo fare altrimenti. Mi alzai e tirai fuori la valigia. Giuseppe senza neanche pensarci due volte chiamò immediatamente Michele, Emanuele e Francesco. Che dopo cinque minuti giunsero a casa.
“Ma si può sapere che cavolo fai? Ci lasci ancora qui? Da soli? Come l’altra volta? Bell’amico che sei! Cos’è?! Hai saputo che tocca a te e non vuoi che ti facciano la bua?”
Emanuele, come una furia, entrò in casa, urlandomi contro. Assistei alla scena impotente e in silenzio. Giuseppe fu pronto a scagliarsi contro Emanuele, nonostante le ferite e il dolore che ancora provava, se non che fui proprio io a fermarlo. In quello stesso momento, anche Michele dovette fermare l’altro, ma con un po’ di fatica entrambi ci riuscimmo. Apprezzai moltissimo come Giuseppe, per quanto dolorante e deluso, fosse ancora disposto a difendermi, anche contro qualcuno più grande e più forte di lui.
“Mi sono stancato di averli sempre tra i piedi, pronti a colpirci in ogni momento! Marco ha vinto! Dico a voi la stessa cosa che ho detto prima a Giuseppe. Vedrete che quando me ne andrò, nessuno vi farà più del male. Se non siete d’accordo, fate come vi pare ma sappiate che ne paghereste le conseguenze” aggiunsi, mentre portavo una mano alla mazza da baseball che avevo appena riposto in valigia. Non l’avrei mai usata in quel momento. Ma dovevo fargli capire che parlavo seriamente. E, solo grazie a questa mossa, riportai la pace. Mi dispiaceva tantissimo essere arrivato a quel punto. Emanuele osservò quel bastone per qualche secondo, poi fu costretto a rialzare lo sguardo su di me, dal momento che continuai a parlare.
“Voi potete fare quello che volete. Giuseppe se lo desidera può rimanere qui fino a domani. Domani mattina parto. Che voi lo vogliate o no! Piuttosto che perdere ancora tempo qui preferisco ritornarmene a casa! Ciao!” dissi, cercando di chiudere quella situazione nel modo più crudo e repentino possibile.
I tre, appena arrivati, se ne andarono, chi sbuffando, chi fissandomi rabbiosamente, chi, come Francesco, con occhi in cui era quasi possibile scorgere qualche lacrima. Solamente Giuseppe rimase ancora in casa mia. Mi guardava con gli occhi pieni di lacrime. E sapevo che questo, in questo caso, significava solo una cosa: adesso era veramente arrabbiato.
“Hai tradito la loro fiducia. Te ne rendi conto? Hai tradito la mia fiducia. Hai tradito il tuo migliore amico” mi disse, non appena loro si erano portati a distanza sufficiente per non poter tornare indietro in tempo utile per sentirci. “L’anno scorso ho capito da subito che il motivo per cui te ne andavi era la paura. E poteva anche starci. Non conoscevi i Tre Fratelli, non sapevi cosa volesse dire subire minacce e rappresaglie come ci è successo quest’anno. Ma adesso no! Michele le ha prese! E lui è ritornato da noi! Io le ho prese! Eppure io sono ancora qui! Se l’anno scorso la tua era prudenza, adesso sei solo un vigliacco se te ne vai!” aggiunse. Continuando a parlare senza paura e senza fermarsi.
Non ebbi la forza di guardarlo. Rimasi lì fermo. Immobile. Era riuscito a farmi sentire un verme.
“Ma cerca di capire. Lo faccio per voi. Lo faccio perché se me ne vado, voi non correte nessun pericolo!” dissi, cercando ancora una volta di giustificarmi come meglio potevo fare. Ma sapevo che in quelle condizioni Giuseppe non avrebbe comunque reagito bene.
“Se te ne vai lo fai solo per te. Non per noi. Lo fai perché hai fifa. Non perché ci vuoi proteggere. È inutile minacciarci con una mazza da baseball. Dimostri solo di avere paura della nostra reazione. E comunque ne ho prese abbastanza nelle ultime 24 ore per aver paura di te!”. E intanto, con la manica della maglietta continuava ad asciugarsi gli occhi. Anche se la voce non tremava. Per niente.
“Ma come puoi anche solo lontanamente pensare che io possa colpirti?! Calmati!” dissi. Obiettivamente non avrei mai pensato di poter generare in lui una reazione così forte.
Per la prima volta vidi un Giuseppe veramente, ma veramente arrabbiato che mi spinse con la schiena al muro e, mettendomi una mano alla gola, caricava un pugno che mi avrebbe fatto molto male, se fosse stato scagliato con la sua forza, sul mio volto, facendomi oltretutto sbattere la testa contro il muro. Respirava affannosamente. Quasi alienandomi da quella situazione, pensai al fatto che solo poche ore prima, anche Michele aveva vissuto quella stessa esperienza, ed effettivamente non era proprio piacevole. Anche io non ebbi il coraggio di alzare le braccia per proteggermi. Semplicemente sapevo che stavo meritandomi appieno quel trattamento e tra le altre cose speravo che Giuseppe, a differenza del sottoscritto non avesse veramente voglia di colpire il bersaglio. Anche se di quest’ultima cosa non ero proprio convinto. Finché non mi lasciò libero. Riprendendo quasi a respirare normalmente ma fissandomi ancora con una severità che l’anno prima avrebbe spaventato sicuramente anche il Michele/nemico.
Senza dire nulla, prese tutta la sua roba e se ne uscì da quella casa. Quella cosa mi fece stare veramente male. Mi passò la fame. Anche se speravo di non sortire quell’effetto nei miei amici, sapevo che quella cosa avrebbe scatenato un putiferio. Finii quella sera stessa di sistemare casa per la mia partenza. D’altra parte i miei sarebbero arrivati solo un mese dopo. Per ultimo, telefonai a Maria. E le raccontai tutto quello che era successo in quelle ultime ore. Avevo così tanta voglia di vederla che stavo male al solo pensiero che fosse a pochi minuti di cammino da quella casa e che fosse, ancora una volta, assolutamente impossibile incontrarsi di persona.
Quella sera ricevetti il messaggio peggiore della mia vita. Era di Michele. Diceva:
“Due giorni fa sono stato disposto a prenderle da te per ricostruire questa amicizia. Oggi mi hai deluso come nessuno, neanche Amaraldo, ha fatto. Quello che farai domani mi fa perdere qualunque speranza. Adesso mi sento veramente solo”.
Parole di fuoco, che mi fecero ricordare, per qualche secondo, come mi ero sentito io tre anni prima quando era accaduta la stessa cosa a noi due, ma le parti erano invertite.
Mi fece soffrire tantissimo, ma ero convinto di non poter fare altrimenti.
Dal canto suo, mentre era a casa, Giuseppe, cercò di trovare buone ragioni alternative per la mia partenza, ma senza molti progressi. La domenica sera, semplicemente, gli fece iniziare una nottataccia. Verso le otto del mattino, le ferite erano quasi a posto. Sarebbe stato facile coprirle alla vista dei suoi genitori. Adesso la cosa più importante era riuscire a trovarmi. Anche perché era dalle quattro del mattino, che in preda ad un fortissimo attacco di insonnia, aveva incominciato a pensare seriamente a quello che era successo e si era deciso a fare l’unica cosa che riteneva abbastanza giusta. Fortunatamente arrivò sotto casa mia che stavo per uscire. Uno dei miei vicini di casa mi aspettava con la macchina per portarmi in stazione. Mi fermò solo un attimo.
“Che c’è!? Mi vuoi ancora convincere? Sai che non ci riesci!” gli dissi freddamente.
“No! Volevo solo darti questa. Promettimi che la apri quando il treno è partito, non prima, ok? Poi sentiti pure libero di chiamarmi se vuoi!”
“Ok!”
Seguì un freddo abbraccio e ci salutammo. Non mi piacque per niente quel saluto. Ma capii che era proprio quello che volevo e di cui entrambi avevamo bisogno. La macchina mi accompagnò alla stazione. Il treno stava per partire quando ancora speravo che Francesco, Michele e Emanuele sarebbero venuti a salutarmi.
Ma niente.
Il treno partì. Fece quel kilometro e passò davanti all’altro passaggio a livello di Policoro. E lì vidi la banda quasi al gran completo. C’era Amaraldo, Cosimo, Giovanni e Massimo, i Tre Fratelli, che, vistomi, confermarono la mia partenza e mi salutarono. Ridendo sguaiatamente.
Ovviamente Marco non c’era, ma non me ne preoccupai.
Questo mi diede comunque la conferma del fatto che, almeno io, ero spiato e controllato. Quello era l’unico modo per sapere che ero in partenza. E d’altra parte volevo proprio che lo sapessero. Soprattutto loro.
Tralasciando le cose brutte che stavo pensando in quel momento di quelle persone, mi venne in mente la busta di Giuseppe. La presi dalla tasca dello zaino. La aprii. C’era un foglio scritto a mano:
 
“Ciao Simone,
Voglio scriverti questa lettera perché prima di tutto desidero ringraziarti per tutto quello che hai fatto a me e con me in questa settimana. E’ stato incredibile vedere quello che è successo e quante cose siamo riusciti ad affrontare insieme. Sento di essere cresciuto tantissimo, nonostante tutte le cose che ci sono successe. E devo ammettere che il merito di questo va proprio e soprattutto a te. È per questo che non riesco a capire il tuo modo di comportarti. Mi hai deluso. Non avrei mai pensato che dopo tutto quello che abbiamo fatto insieme, potessi arrivare al punto di lasciarci qui e scappare. Perché è questo quello che stai facendo. Scappare. Ieri mi sono visto con gli altri, e siamo tutti dello stesso avviso. Ci hai deluso. Mi dispiace, ma non c’è proprio nient’altro che possa fare per farti capire quanto siamo dispiaciuti. Teniamo alla tua amicizia e vederti andar via così ci fa stare male. Scusa se io e Emanuele abbiamo reagito in quel modo, ieri. Spero che se dovessi tornare, un domani, a Policoro, potremmo trovare ancora insieme il coraggio per continuare a mantenere viva questa amicizia. Noi ti abbiamo voluto bene e siamo stati decisi, fino in fondo, a darti fiducia. Ma a questo punto non vogliamo dover combattere con te, oltre che con i Tre Fratelli e Marco.
Noi qui ci siamo sempre. Noi. Tu stai scappando, noi no.
Ciao
                                                                                                 Giuseppe

C’era anche una carta da gioco con un post-it appiccicato sopra. C’era scritto “SCEMO” a caratteri cubitali. La carta era un Jolly.
E potevo capirne pienamente il significato.
Si sentiva preso in giro. Quella lettera mi commosse. Quell’amicizia durata una vita aveva vissuto momenti di tutti i tipi. Quegli ultimi giorni, poi, l’avevano messa ancora a dura, durissima prova. Ora la stavo distruggendo. Io. Consapevolmente.
Purtroppo, però, le cose dovevano andare così. Non potevo fare altrimenti. Mi piangeva il cuore a fare una cosa del genere. Soffrivo al solo pensiero di quello che stavano passando i miei amici per colpa mia. Ancora una volta avevo scelto il male minore. Era decisamente quella l’UNICA via sicura. L’unico modo che avevo per risolvere, una volta per tutte, quella situazione. L’orgoglio adolescenziale mi faceva ribollire il sangue all’idea che i miei nemici mi avessero visto scappare nuovamente, andar via, come era accaduto l’anno prima. Ma era necessario. Più che necessario. E, purtroppo, anche se questo significava veder soffrire i miei amici come mai avevano sofferto prima, dovevo farlo, dovevo liberarmi di quel peso che rappresentava la continua consapevolezza di qualcuno che mi stava spiando e che era sempre in agguato, pronto a farmi del male.
D’altra parte avevo evitato fino a quel momento di “sintonizzarmi” sulla stessa lunghezza d’onda di Marco. Però, picchiando Giuseppe, facendogli male come nessuno gliene aveva mai fatto prima, aveva decisamente tirato troppo la corda, sia con me che con i miei amici. Adesso ero stanco, veramente stanco di quella situazione.
Quella storia era cominciata per colpa mia? Io dovevo mettergli fine. Ma i miei amici avevano sofferto troppo in quegli ultimi mesi per metterli di nuovo in mezzo. Ecco perché me n’ero andato. Non avrei mai potuto sopportare nuovamente una nottata come quella nella quale avevamo aspettato che “ci riconsegnassero” Giuseppe. E ormai sapevo fin troppo bene che Marco era capace di cose simili. Così, quello era l’unico modo per fermarlo. Scappare.
Mi giunse uno squillo. Era il segnale. Risposi allo squillo, spensi il telefono e da quel momento in poi, ero fuori dal mondo, da tutto e da tutti coloro che conoscevo a Policoro. Nel frattempo il treno arrivò alla stazione di Metaponto.
E lì, scesi.
Camminai con le valigie fino all’uscita della stazione. La tristezza per la reazione forte dei ragazzi mi aveva fatto propendere per il digiuno, la sera precedente. Quindi stavo morendo di fame, e mi fermai al bar della stazione a comprare un pezzo di focaccia. Il tempo di finirlo e vidi arrivare la macchina che mi avrebbe portato a casa. Anche se a me interessava non tanto la macchina, quanto il ragazzo seduto al fianco dell’autista. E comunque nessuno dei due (la macchina e il ragazzo) vinceva contro la sorella di quel ragazzo.
“Ciao Vito! Come va?” chiesi, mentre quest’ultimo, sceso dalla macchina, mi dava una mano a caricare le valige nel portabagagli.
“Tutto ok! Nicola sta bene e ci aspetta a casa” disse il ragazzo squadrandomi. Arrossii immediatamente. Vito mi osservò. Poi scoppiò a ridere.
“Si anche Maria sta bene!” aggiunse.
“Beh! Come se l’avessi trattata male qualche volta!” gli dissi, a metà tra il divertito e l’offeso.
“Dai che lo so che ti piace!” rispose Vito “però guai ad allungare le mani che te le taglio!”
Entrai in macchina. “Buongiorno signor Giuseppe!”. Salutai rispettosamente il padre di Vito che mi aveva fatto il piacere di venirmi a prendere a Metaponto.
“Il treno è arrivato in orario! Menomale. Da Milano ci può sempre essere qualche problema!” disse il signore, sulla cinquantina.
Squadrai il ragazzo. Guardandolo male. Questo sorrise sotto i baffi (che ancora non aveva) e mi guardò, per tutta risposta, con quella faccia innocente e angelica che preferiva assumere quando aveva combinato qualcosa.
Neanche mezz’ora dopo, scendemmo dalla macchina. Parcheggiata in un giardino privato di una villetta tra casa mia e il centro di Policoro. Insomma, a cinque minuti a piedi dalla casa che era stata la mia dimora fino a un’oretta prima. Entrammo in casa, dove salutai la madre di Vito, e salii con quest’ultimo al primo piano. Lì ci attendeva il fratello gemello di Vito, Nicola. Ci salutammo. Anche lui scherzò un po’ su Maria. Poi le cose si calmarono. Le solite domande di rito sulla salute, genitori e fratelli, e poi ci chiudemmo in camera.
“Allora, Maria ci ha detto un paio di cose, ma tu raccontaci per bene tutto quello che è successo!” disse Nicola.
Iniziai il racconto. Di tutto. compresi i miei precedenti con Marco e quello che era accaduto tre anni prima con Michele. Tutto. Alla fine di quel racconto, Nicola e Vito erano sconvolti.
“Ma perché non ci hai detto niente prima? Perché non ci hai chiesto aiuto, non dico l’anno scorso, perché comunque non eravamo qui, ma almeno la settimana scorsa quando hai ricominciato a frequentare Michele? Non ci sarebbe costato nulla darti una mano, tanto siamo qui da venerdì. E sapevi che l’avremmo fatto!” fu la normale reazione di Nicola.
“Lo so” risposi “ma più di ogni altra cosa voglio tenere lontano da questa storia Maria. Non deve centrare nulla con quello che facciamo. Anche se, ovviamente, sa tutto, non voglio che corra il minimo pericolo. Potete aiutarmi sotto questo aspetto?”
“Certo! Non ci sono problemi! Puoi contare su di noi!” confermò Vito.
Bussarono alla porta. Non ricevendo risposta, la persona dall’altra parte si sentì autorizzata ad entrare. Anche perché aveva sentito che in quella stanza qualcuno aveva smesso di parlare, quando aveva bussato, e per lei quello valeva come un “Avanti!”.
“Ciao!” fu l’unica sua parola. I tre si bloccarono ulteriormente.
Poi Vito e Nicola fissarono quella figura, appena apparsa alla porta. Indossava una maglietta e un pantaloncino chiaro. Aveva ancora i capelli bagnati, evidente segno del fatto che era appena uscita dalla doccia. Il fisico impeccabile e quegli occhi verdi, uniti ai capelli neri, la rendevano una ragazza fantastica.
“Che c’è?” chiese Vito.
“Niente! Volevo salutare Simone. E dirvi che tra cinque minuti è pronto!”
Si avvicinò a me e ci abbracciammo, baciandoci castamente sulla guancia. Mi piaceva da morire. A parte il fisico fantastico, ma i modi di fare, il carattere solare, affabile, gentile, profondamente attraente.
“Arriviamo!” fu l’unica cosa che riuscii a dire. Per il resto rimasi immobile. Fermo. Bloccato. Solo che quella non era paura. Maria velocemente se ne uscì, richiudendo la porta dietro di lei. Uscita, i due fratelli si misero a ridere. Vito prese addirittura un fazzolettino di carta e me lo passò sulle labbra.
“Aspetta che pulisco la bava” disse ridendo.
Effettivamente l’impressione che davo in quel momento, e ciò che avevo appena visto, davano proprio quell’impressione. Solo pochi giorni prima della partenza per Policoro, avevamo parlato seriamente, a Milano, ed avevamo ognuno espresso i propri sentimenti nei confronti dell’altro. Sentimenti corrisposti. Tutto sarebbe stato facilitato dalla vicinanza durante le vacanze. I genitori di Vito, Nicola e Maria erano abbastanza benestanti. Il padre era un dirigente di una delle aziende italiane più importanti, la madre un’insegnante. Ogni estate decidevano un posto dove andare e la madre ed i figli ci passavano due mesi, mentre il padre i primi tre o quattro giorni per sistemare le incombenze più importanti della casa, e i soliti venti giorni ad Agosto. Erano arrivati il giorno prima e per venire a prendermi a Metaponto, i due ragazzi non erano andati al mare. La madre rimase in casa a pulire e sua figlia, Maria, appunto, era andata al mare con la zia, la sorella della madre, in vacanza con loro per due settimane.
“Comunque, ho parlato con mio padre e ha detto che puoi restare da noi quanto vuoi. Quindi fa pure come se fossi a casa tua. Solo che ci dobbiamo arrangiare con i posti e dormire tutti e tre in questa camera, che le altre due sono occupate, una dai nostri genitori e l’altra da Maria e nostra zia”
“Grazie ragazzi per l’ospitalità. Comunque rimarrò massimo per quattro giorni. Poi questa storia sarà finita. Una volta per tutte” fu la mia assicurazione. E ora che c’erano loro, ora che potevo stare con Lei, di dubbi non ne avevo neanche uno.
E scendemmo tutti al piano di sotto per mangiare.
 
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NdA: Buongiorno a tutti! Ecco... idealisticamente qui finisce la seconda parte del racconto e dalla prossima settimana inizia la terza ed ultima. Sono ancora pochi ma significativi capitoli. E poi, nel bene o nel male, questo racconto finirà. grazie moltissimo per le belle recensioni che mi lasciate, grazie per seguirla, grazie per leggerla, grazie per tutto! Buona continuazione di lettura!

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Capitolo 20
*** L'Amore conta ***


20 – L’AMORE CONTA
È quantomeno doveroso fare una piccola precisazione. Quando ho detto delle mie amicizie, ho scritto che non avevo molti amici a Milano. Non che non ne avessi completamente. Ed infatti, Maria a parte, potevo tranquillamente considerare buoni, anzi ottimi amici quei miei due compagni di scuola. Non andavamo nella stessa classe, ma praticamente, ogni volta che potevamo, ci incontravamo. I due ragazzi studiavano nella mia stessa scuola. Ma non ci eravamo conosciuti per quello.
La moglie di mio padre in quel periodo faceva la bidella nella scuola dove lavorava la madre degli altri. Un giorno venne a sapere che questa aveva bisogno di qualcuno che desse ripetizioni di matematica ai figli. Ciò che disse la madre dei ragazzi la colpì a tal punto, da suggerire me a quella professoressa per quel lavoretto. Disse che non aveva trovato in tutta la scuola persone delle quali fidarsi, perché chi dava ripetizioni ai suoi figli sarebbe dovuto andare a casa loro mentre i figli erano soli. E non voleva avere problemi di alcun tipo.
A quel tempo avevo appena iniziato la seconda superiore, e, incoraggiato proprio dalla mia matrigna, decisi di provarci. Ricordo ancora la prima volta che vidi quei due ragazzini, di due anni più piccoli di me, che, pur facendo solo la terza media, cercavano in tutti i modi di mettermi in difficoltà. Senza riuscirci. Pur di far finta di non capire, mi facevano ripetere le stesse cose per decine di volte. Non che non fossero intelligenti. Ma non avevano per niente voglia. Poi un giorno accadde una cosa.
Stanco di quelle continue perdite di tempo, che distraevano me, oltre che loro, rendendo delle cose già noiose, come i compiti di matematica, ancora più noiose, gli dissi chiaramente di finirla. Sembrai evidentemente un po’ troppo nervoso perché, immediatamente si innervosirono anche loro. Le cose stavano divergendo ad una velocità piuttosto critica, volarono parole grosse da parte loro. In qualsiasi altra situazione gli sarei saltato addosso, ma erano in due, a casa loro, e liberi di inventarsi qualsiasi scusa buona per farmi ricadere dalla parte del torto. Allora, cercando al tempo stesso di abbassare la tensione, attivai il registratore installato sul cellulare. Pochi minuti dopo avevo la loro “confessione” sul cellulare.
Intanto la situazione si era calmata. Mi mise alla scrivania e misi in pratica la mia idea. Ci misi dieci minuti, ma ci riuscii.
Circa dieci minuti dopo rientrò a casa il padre dei ragazzi. Avevo instaurato un buon rapporto con i loro genitori, un rapporto aperto e solidale. E questo i ragazzi non potevano immaginarlo. Soprattutto perché non parlavamo mai delle ripetizioni con i genitori in presenza di Vito e Nicola. Ma ogni sera, tornato a casa, scrivevo un’e-mail a entrambi i genitori, che in questo modo avevano una comprensione ben precisa della situazione scolastica dei loro figli e potevano anche darmi dei consigli ulteriori su come comportarmi. Quella volta, però, dissi al padre dei ragazzi quella situazione a voce. Lui mi chiese se avevo in mente qualche idea, qualche “punizione” esemplare. Io gli sorrisi e gliene parlai. Il padre si mise a ridere e mi promise che avrebbe seguito proprio quella linea di condotta. Me ne andai. Era lunedì. Avrei dovuto vedere di nuovo i ragazzi il venerdì. Ebbi perciò tre giorni interi per prepararmi e mi ci dedicai con tutto l’impegno che potevo. E raggiunsi l’obiettivo. Il venerdì sera, finite le ripetizioni, ripresi il discorso lasciato sospeso la volta precedente. I ragazzi, veramente, furono sorpresi di questo, perché nessuno gliene aveva più parlato.
“Allora, ho parlato con vostro padre. Sapete che non potevo farne a meno, quindi gli ho detto del vostro comportamento della volta scorsa. Lui mi ha chiesto di proporre una punizione esemplare. Io ho optato per una punizione matematico-finanziaria e vostro padre si è addirittura complimentato con me. Ho assegnato ad ognuno di voi, 120 esercizi di matematica. Presi dal vostro e da altri libri a mia disposizione. Sono quasi tutti facili tranne qualcuno; e sono su tutta la matematica che avete fatto finora. Comunque avrete di tempo fino a lunedì pomeriggio per risolverli tutti. In pratica il week-end. Lunedì ritirerò gli esercizi da voi svolti. Entro lunedì l’altro li correggerò. Ogni esercizio non fatto o fatto male, corrisponde ad 500 L. Vostro padre mi ha detto che vi da 120’000 L al mese per svagarvi e comprarvi quello che volete. Potete pensare che non sia giusto e non fare gli esercizi? Certo! Mettiamo che non ne fate 40 a testa. Bene. Per tutto il prossimo anno, riceverete al mese, di paghetta, 120’000 – (80x500) L, quindi solo 80'000L. Così imparate a non rispettare il sottoscritto e i vostri genitori, che mi pagano per darvi ripetizioni”
Gli mollai i fogli su cui erano segnati gli esercizi e me ne andai. Tranquillo.
Solo qualche tempo dopo mi raccontarono tutte le cose brutte che avevano pensato di me quel fine settimana. Chiusi in casa. A bruciarsi quel week-end dietro una mole impressionante di esercizi di matematica. Il loro padre gli aveva tolto il cellulare e il computer.
Toccati nel vivo e nel modo giusto, il lunedì pomeriggio, quando ritornai a casa loro, questi mi presentarono i compiti. Il loro padre mi assicurò che li aveva controllati per tutto il tempo. avevano sudato parecchio ma avevano lavorato tra di loro in maniera onesta e corretta. Presi quei fogli e d’accordo con il padre diedi a loro il permesso di passare quelle due ore in internet, mentre controllavo i loro compiti. I risultati di quel fine settimana furono molteplici: i ragazzi impararono a non disubbidire più ai loro genitori, fosse solo per evitare punizioni del genere. Impararono a rispettarmi, anche se a loro sarebbe bastato molto meno. Impararono a fare gli esercizi di matematica, e per questo non ebbero veramente più tanto bisogno di prendere ripetizioni. Non presero mai più in giro un ragazzo più grande di loro, anche quando erano in superiorità numerica. Non fecero solo 6 esercizi in totale. Ma il padre, in maniera severa ma con un esempio perfetto di coerenza, per i dodici mesi successivi gli diede “solo” 117’000L al mese. Quell’anno, poi, i due ragazzi, verso primavera incontrarono qualche altro problemino con degli altri studenti. Io gli diedi qualche dritta, e nacque l’amicizia.
Fu poco dopo questi fatti che, incominciando ad uscire insieme, venni a conoscenza del fatto che loro non erano gli unici figli dei loro genitori. Perché avevano anche una sorella, di un anno più grande, Maria. Fin dalla prima volta che la vidi, mi piacque tantissimo. Almeno fisicamente. Poi, conoscendola meglio, mi piacque ancora di più per il carattere e per le buone qualità. Insomma, non sapevo se si trattasse di qualcosa di passeggero, fatto sta che durava da più di un anno. E, quell’estate, pochi giorni prima del punto della storia a cui siamo arrivati riuscimmo a parlare e accertarci di condividere gli stessi sentimenti. Ci eravamo però resi anche conto di essere troppo giovani per pensare seriamente all’amore. Sotto questo aspetto eravamo, a detta di coloro che ci stavano intorno, parecchio “all’antica”. Ma a noi non importava nulla di quello che pensavano gli altri. Ci piaceva però stare insieme e quelle vacanze sarebbero potute essere le più belle della nostra vita, se non fosse per il fatto che fino a quel momento qualcuno ce le stava rovinando. Ed effettivamente morivo dalla voglia di parlare ai miei amici di Policoro di quella ragazza, ma era tutto molto complicato. E così ritenni opportuno non parlarne, almeno finché la situazione non si fosse risolta. A dirla proprio tutta, mentre a Nicola e Vito, io avevo parlato di quello che era successo e di come i miei amici stavano affrontando quella situazione, con Maria preferivo concentrarmi sui miei sentimenti. Quindi a lei avevo già raccontato tutto, per telefono, ogni sera, da quando ci eravamo ero partito. Nessuno sapeva, perché avevo sempre trovato i momenti giusti per farlo, ma eravamo rimasti sempre a stretto contatto. Più di ogni altra persona, quindi, Maria sapeva come stessero non solo i fatti ma anche le preoccupazioni, le gioie e i dolori del sottoscritto. Così, anche se non eravamo legati da una morbosa dipendenza, provavamo ciascuno la gioia di condividere ciò che ognuno aveva e ciò che ognuno era, con l’altro. Mancava solo una cosa, a noi due. Una cosa che non poteva che mancare a seguito del fatto che ci conoscevamo da relativamente poco tempo. Mancava tra noi quella sintonia che ci permetteva di capire ciascuno i sentimenti dell’altro solo e semplicemente cogliendo quella lieve inflessione dello sguardo. Non che ci mancasse del tutto. Stavamo facendo passi da gigante al riguardo. Solo che, ad esempio, Giuseppe aveva tredici anni di vantaggio, rispetto a Maria, sulla mia conoscenza. E quindi per lui era naturale. Anche se non era la stessa cosa.
Finito di mangiare, i genitori dei tre andarono a riposarsi, mentre noi quattro rimanemmo in giardino, all’ombra, visto il caldo. I due fratelli si diedero da fare con i compiti, che, peraltro, avevano quasi finito. Io e Maria stavamo chiacchierando tra di noi al dondolo. Maria mi raccontò del viaggio e delle sue prime impressioni di quella città tanto raccontata. Il mare le era piaciuto molto, anche se la sera prima si era annoiata, non avendo niente da fare. Sapeva del fatto che avevo avuto un ospite a casa, e, vista la situazione comprendeva anche che non avevamo molte occasioni di vederci, per non destare sospetti. Ora, però, che, ufficialmente, non ero più a Policoro, potevamo stare più tempo insieme. Preferendo non frequentare i locali di Policoro, per non fare brutti incontri, la sera saremmo andati a fare giri negli altri paesi. E ci saremmo divertiti comunque. Di solito la madre di Maria la sera preferiva rilassarsi leggendo, non le piacevano i locali. Sua sorella, invece, era un po’ più divertente. E così, avendo la macchina, aveva già ricevuto dalla nipote la richiesta di andare un po’ in giro. Richiesta accolta immediatamente. Per i trasporti, quindi, non ci sarebbero stati problemi. E a questo punto neanche per il controllo dei quattro minorenni. Inevitabilmente, dopo qualche minuto di piacevole conversazione, questa si spostò sulla storia di Marco. Appena i due fratelli sentirono ciò di cui si stava parlando, si avvicinarono anche loro.
“Allora, pensiamo a quello che dobbiamo fare” continuai. “Prima di tutto, finiamo il discorso di prima. Voglio condividere qualunque cosa con Maria. Però lei non deve mai centrare. In nessun caso. Deve stare fuori da questa storia. Ho troppa paura che possa accaderle qualcosa di brutto. Meno gente sa di lei, meglio è. Addirittura i miei migliori amici di qui non hanno idea che esista. E non devono averne fino a quando non si risolve questa storia. Siete d’accordo?”
Lo sguardo interessato degli altri tre trasmise la giusta impressione della risposta.
“Bene! Detto questo, mi sono rotto le scatole di subirla, questa storia. Marco ha tirato troppo la corda. Oggi è lunedì. Mi sono ripromesso di chiuderla una volta per tutte entro venerdì. E grazie al vostro aiuto sono certo di poterlo fare. Vi va di aiutarmi?”
“Non sapremmo darti una risposta diversa da quella di prima!” fu la risposta di Maria, non rinnegata da Vito e Nicola.
“Bene! Perché ho intenzione di usare veramente tanta fantasia! Ascoltate molto attentamente quello che faremo!”
Visti da lontano noi tre ragazzi e quella ragazza sembravamo solo quattro amici in vacanza. A volte ridevamo, a volte ci prendevamo in giro, certe volte eravamo completamente assorti nel seguire le osservazioni argute di uno di noi.
Visti da vicino, erano due fratelli e una sorella che parlavano con me di qualcosa di emozionante, pericoloso e anche faticoso, per certi aspetti. A volte ridevamo per le mie idee, altre volte si interrompevano per prendere in giro me e Maria, certe volte eravamo completamente assorti nel seguire le osservazioni di ciascuno di noi, avendo ognuno a disposizione il giusto bagaglio di conoscenza necessario per fare delle osservazioni intelligenti su questa storia.
Io, per la prima volta in quei giorni, mi sentivo veramente al sicuro. Al fianco di due amici veri ma abbastanza esterni alla situazione da non poter rappresentare un pericolo per loro stessi. Al fianco di una ragazza fantastica a cui volevo un mondo di bene. E con lei avevo scoperto per la prima volta che una vera amicizia è importante. Ma l’amore conta di più.
Erano circa le quattro. Io e Maria ci separammo nuovamente. Lei, con la zia e i suoi genitori, andò al mare. Io, Nicola e Vito avevano da fare. Dovevamo iniziare a far girare il nostro piano nel modo giusto. Inevitabilmente, la cosa più importante da fare a quel punto, era far capire ai miei amici di Policoro che sì, l’anno scorso me n’ero andato per paura, non per prudenza. Ma a quel punto le cose erano cambiate. Dovevano capire perché dovevo a tutti i costi entrare in clandestinità. Sarebbe stato un po’ complicato, lo sapevo, ma avevo fiducia in tutti e quattro.
D’altra parte, anche se non se ne erano (forse) resi pienamente conto, l’avevo fatto solo ed unicamente per loro.
E grazie ai miei nuovi coinquilini, qualche carta, un po’ di karate e, perché no, un paio di scatolette di tonno, ci saremmo riusciti.

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Capitolo 21
*** Il meglio deve ancora venire ***


IL MEGLIO DEVE ANCORA VENIRE
Bussarono alla porta. Giuseppe era sul letto. Era stato a pranzo da sua zia ed ora era tornato a casa, e stava sonnecchiando aspettando che facesse meno caldo per andare a farsi un giro. Era stato semplice nascondere le ferite. Bastavano un paio di jeans, e una maglietta e se si muoveva abbastanza lentamente nessuno si accorgeva delle smorfie di dolore che ogni tanto tutte quelle botte gli causavano ancora.
Alzarsi dal letto però era tutta un’altra cosa. Infatti si chiese perché farlo. Ma già quella mattinata aveva ricevuto una visita inattesa, quindi era meglio ubbidire al richiamo del campanello e andare a vedere chi era. Con un po’ di fatica si alzò, e andò ad aprire. Era un ragazzo.
“Chi sei?!” chiese preoccupato.
“Non importa! Mi manda una persona di tua conoscenza! Mi fai entrare?” rispose l’altro ragazzo.
“Ma vaff…” e la fine dell’esclamazione fu coperta dal rumore della porta che sbatteva. Era nervoso, ma con tutto quello che gli era successo in quei giorni neanche sua mamma poteva evitargli la parolaccia.
Il ragazzino rimasto fuori aveva saputo, da chi l’aveva mandato lì, che qualora avesse reagito così, cosa molto probabile, avrebbe dovuto prendere la cosa che aveva con sé e infilarla sotto la porta di casa sua. E poi aspettare, se necessario anche dieci minuti. E così fece.
Giuseppe, dopo aver sbattuto la porta, chiedendosi ancora chi potesse essere quel ragazzino, vide qualcosa spuntare da sotto la porta. Era una busta. La prese, l’aprì. Vide il contenuto, sgranò gli occhi, e lo tirò fuori dalla busta. Era una carta. Un Jolly. Anzi, IL Jolly. E un post-it. Sul post-it c’era scritto: “Scemo sarai tu”.
Capì.
Si accasciò a terra e un pianto sommesso, silenzioso, pervase per un paio di minuti buoni il suo volto. E il suo cuore. Capì tutto in quel momento: era stato ingiusto, avventato, cattivo con quel ragazzo. L’aveva trattato malissimo. Ed ora si stava aprendo nella sua mente il vero significato di tutto quello che aveva vissuto in quell’ultima giornata. L’avrebbe sentito il prima possibile. Doveva farlo. Ma intanto, gli venne in mente che fuori di casa c’era una persona che l’aspettava, forse. Sbirciò dalla finestra della cucina. Era ancora lì. Il tempo di sciacquarsi la faccia e corse ad aprire.
Intanto il ragazzino si era appoggiato alla macchina posta immediatamente di fronte a quella porta. Appena sentì la chiave girarsi vide la figura di prima che apriva la porta. E che gli faceva segno di entrare. Non se lo fece ripetere due volte.
“Ciao! Chi sei?” ridisse Giuseppe, con aria quasi del tutto naturale.
Il ragazzino abbassò lo sguardo. Si sentiva quasi colpevole. Notava tantissima somiglianza tra i due, in termini di capacità di trasmettere subito il senso delle loro affermazioni, con il solo entusiasmo che usavano per raccontarle.
“Scusa! È che Simone mi ha detto che non dovevo per nessun motivo pronunciare il suo nome fuori da casa tua. Però mi ha detto che se non mi facevi entrare, dovevo farti i complimenti per la prudenza e consegnarti la busta, che così avresti capito. Comunque mi chiamo Vito”.
“Piacere!” disse Giuseppe mentre chiudeva la porta. Sentire di nuovo quel nome, anche se da qualcuno che non aveva mai conosciuto, lo emozionava enormemente. Cercò di riprendere il controllo della situazione.
“Come sei entrato in possesso di questa carta?” chiese.
“Me l’ha data Simone dieci minuti fa, insieme alla busta e al post-it”
“Dov’è Simone adesso?” chiese Giuseppe.
“Mi dispiace ma mi ha chiesto espressamente di non dirtelo. Se lo sapessi, mettereste inutilmente delle persone innocenti in pericolo” disse Vito, mentre il suo sguardo tornava a esprimere tutto il carattere di un milanese.
“Va bene! Che cosa vuole che faccia?”
Vito gli spiegò brevemente come mi conosceva e quello che era venuto a fare con la sua famiglia a Policoro. Eliminando, ovviamente, qualunque riferimento a Maria.
“Prima di tutto Simone vuole che tu mi confermi che hai capito veramente il motivo per cui ha messo su tutta quella scena” disse Vito.
“Si! Tardi, ma l’ho capito!” rispose Giuseppe. “Stamattina Cosimo e Amaraldo si sono presentati alla mia porta e mi hanno detto che Simone se ne era andato e che fintantoché non ci fossimo più sentiti a noi non sarebbe accaduto nulla di male. Quindi presumo che io gli abbia fatto capire di essere profondamente deluso del comportamento di Simone. Loro mi sono sembrati convinti e se ne sono andati. Se avessi cercato di raccontargli una bugia sono certo che mi avrebbero smascherato. Grazie alla messinscena di Simone, invece, quei sentimenti erano più reali che mai!”
“Bene! mi fa piacere non doverti dire nient’altro!” rispose Vito.
“Non è vero!” continuò Giuseppe, questa volta quasi sorridendo.
“Perché dici così?” chiese Vito. In effetti stava per filo e per segno ubbidendo a quello che gli aveva detto Simone.
“Beh! Appena ho visto la carta ho capito quello che voleva farmi capire. Potevi aver semplicemente seguito le istruzioni per telefono di Simone, che ti diceva di consegnarmi queste cose, se non fosse per il fatto che Simone non mi ha consegnato questa carta, me l’ha restituita. È mia e gliel’ho data stamattina prima che partisse. O che almeno facesse finta”
Anche Vito era dotato di una buona intelligenza. Capì perfettamente perché gli avevo detto di prestare molta attenzione a quello che diceva. Solo così avrebbe potuto mantenere il segreto. E visto che aspettava proprio quella risposta da Giuseppe, continuò.
“Simone mi ha detto che non devi provare a seguirmi e di dirti queste testuali parole: ‘ripensa alla nuova prima volta con Michele e aggiungi la carta mancante’”
Giuseppe ci pensò un attimo. Poi scoppiò in una bella risata.
“Ok! Ok! Messaggio ricevuto! Aspetta un attimo, che usciamo insieme”
Giuseppe si mise le scarpe. Poi uscirono insieme. Salutò Vito. Che risalì per la strada, girando a sinistra. Giuseppe, invece, scese dallo scivolo pedonale, girò a destra e poi risalì dalle scale di fronte a casa mia. In questo modo poté seguire di nascosto Vito. Girò per una decina di minuti a vuoto. Poi però si accorse di essere seguito a sua volta. Era Salvatore.
Solo allora capì quello che volevo veramente dirgli. Anche perché a quel punto Vito era tornato sotto casa di Giuseppe, aveva suonato alla porta e si era voltato verso di lui, facendogli capire che l’aveva scoperto. Infatti seguire quella persona lo faceva stare più attento a tutti coloro che gli stavano intorno. E solo in quel modo poté rendersi conto del fatto che era costantemente sotto controllo. Capì anche che la frase pronunciata da Vito, era significativa. Perché si riferiva a quando lui rivide Michele, dopo la sua aggressione, ed io gli porsi le due carte. Una era il Jolly, che gli avevo appena mandato. La seconda, quella a cui Vito gli aveva detto di pensare, era l’asso di picche. La prima volta quella carta gli fece capire che quello che doveva fare il contrario di quello che gli avevo detto davanti a Michele. Ora, quella carta mancante, gli aveva fatto capire che doveva fare il contrario di quello che Vito gli aveva detto, cioè seguirlo. E solo in questo modo aveva capito che era seguito a sua volta.
-Bene Simone! Ho capito il senso! Non preoccuparti, che quando mi vorrai incontrare saprò come liberarmi di lui- fu il suo pensiero ritornando a casa.
 
---O---

Michele si era già accorto che dalla mattina Dorian lo stava seguendo e quindi lo teneva d’occhio. Ma quel ragazzino che continuava a seguirlo da almeno mezz’ora non l’aveva mai visto. Chi era? Mentre stava tornando a casa si accorse che lo stava raggiungendo.
“Ciao! Scusa posso?” chiese lo sconosciuto a Michele, mentre questo aveva aperto il portone di casa sua. Gli lasciò il portone aperto e lo fece entrare. Michele chiamò l’ascensore. Dal vetro del portone del palazzo vide ancora Dorian che lo stava seguendo. Non era il caso di fare ancora qualcosa. Entrarono entrambi in ascensore.
“Io vado al secondo” gli disse lo sconosciuto. Michele schiacciò il pulsante corrispondente e l’ascensore si attivò. Anche lui abitava al secondo piano. Ma al suo piano, a quell’ora, non c’era nessun’altro. A quel punto si preoccupò seriamente. Scesero dall’ascensore.
“Chi cerchi?” chiese Michele.
“Un ragazzo di nome Michele!” rispose l’altro.
Come una furia Michele gli si avventò contro. “Che cosa vuoi da me? Ti conviene parlare se non vuoi che ti schiacci come una pulce!”
Aveva paura che fosse stato mandato da Marco. Si doveva levare subito quel dubbio. Già in mattinata Michele aveva ricevuto visite. Si erano presentati a casa sua Cosimo e Amaraldo. E gli avevano detto le stesse cose che avevano detto anche a Giuseppe.
Ora gli avrebbe fatto prendere un po’ di paura. Lo tenne premuto per il torace contro la porta dell’ascensore mentre lo minacciava con un pugno. Fino a quando il ragazzino non si stufò. Poi con le giuste mosse di karate, atterrò Michele che non fece neanche in tempo a rendersi conto di quello che stava succedendo, preso alla sprovvista dal suo avversario.
“Me l’aveva detto quello lì che eri un tipo piuttosto impulsivo! Ciao! Mi chiamo Nicola e ti devo lasciare un messaggio. Ma non qui! Dovremmo entrare, se non ti dispiace!”
“Chi sarebbe ‘quello lì’?” chiese ancora intontito Michele.
“Non posso dirtelo qui” rispose Nicola, ancora seduto sul dorso di Michele, “ma mi ha detto di farti vedere queste carte e che avresti capito. Mi fai entrare ora?”
Mentre Michele vedeva le carte che Nicola aveva in mano (un asso di picche e un jolly) quasi gli prese un colpo. Poi un colpo lo diede lui stesso e ribaltò il ragazzino, pur sempre di due anni più piccolo di lui. Rialzandosi, si mise ad osservarlo con un aria sorpresa e al tempo stesso spaventata. Chi era? Cosa voleva da lui? E soprattutto cosa sapeva di Simone? Ad ogni modo, visto che aveva detto di essere stato praticamente mandato dal suo “ex-amico”, decise di fidarsi.
“Allora benvenuto nel gruppo!” gli disse, rialzandosi e porgendogli la mano. Quando anche Nicola si fu rialzato, si salutarono più amichevolmente ed entrarono in casa. Anche in questo caso Nicola raccontò a Michele quello che sapeva di tutta la storia evitando di menzionare anche solo per sbaglio che aveva una sorella.
Michele ascoltò a bocca aperta tutto quello che stava raccontando Nicola. E provò un forte senso di colpa quando si rese conto di aver esagerato, il giorno prima. Ma provò anche un profondo sollievo sapendo come stavano le cose. Perché capì che a quello che era successo quel mattino, alla visita di Amaraldo e Cosimo, probabilmente, non sarebbe sopravvissuto se avesse lasciato trasparire anche solo l’impressione di sapere che Simone non se ne era andato. Ecco perché Simone era stato disposto a perdere la stima dei suoi amici per qualche ora. Per proteggerlo. Menomale. L’aveva capito un po’ tardi, ma l’aveva capito. E al momento buono avrebbe chiesto scusa.
“Bene! Mi fa piacere averti conosciuto!” disse Michele “però adesso mi devi dire che cosa ti ha detto di dirmi Simone!”
“Niente di particolare. E niente che tu non sappia già a giudicare dal modo in cui ti sei accorto di me. Entro stasera Simone ti manderà un sms e dovrai essere pronto a liberarti di quel ragazzino, nel caso!”
“Ma come sai che so che Dorian mi spia?” chiese.
“Mi è bastato guardarti mentre aspettavamo l’ascensore. Avevo già visto che c’era quel ragazzino che ti seguiva e in quel momento ho scoperto che lo sapevi anche tu”
“Ma che cosa ha in mente di fare Simone?”
“Mi dispiace ma non posso dirtelo! Al momento opportuno lo saprai” rispose Nicola. Si alzò, si salutarono e se ne andò. Alla porta di casa Michele gli chiese ancora una cosa.
“Chi sa che Simone è qui?”
Nicola sentì suonare il cellulare e vide che Vito gli aveva fatto uno squillo.
“In questo preciso istante l’ha saputo anche Giuseppe, e tra qualche minuto, se mi sbrigo, lo sapranno anche Emanuele e Francesco” disse, scomparendo dalle scale.
 
---O---

Giunsero davanti al portone di Francesco e Emanuele quando stavano uscendo con la madre.
“Possiamo parlarvi un secondo?” chiesero.
“Chi siete?” domandò Emanuele. Uno dei due era abbastanza robusto, come Emanuele. L’altro era parecchio più robusto di Francesco. Ed erano senza fionda.
Senza perdere tempo, Vito e Nicola tirarono fuori dallo zaino due oggetti e glieli porsero ai ragazzi. Vedendo quegli oggetti fu naturale mettersi a ridere. Vito e Nicola si avvicinarono facendo finta di abbracciarli.
“Simone è a Policoro. Stasera riceverete un messaggio con le istruzioni che dovrete seguire per chiudere questa faccenda una volta per tutte!” dissero, allontanandosi immediatamente.
Francesco e Emanuele si guardarono, poi cercarono di richiamare la loro attenzione. Senza alcuna risposta.
“Non ci hanno detto neanche come si chiamano!” disse Francesco.
“Vabbè!” aggiunse Emanuele, osservando nella sua mano l’oggetto appena consegnatogli, “Tanto credo proprio che li rivedremo molto presto!”
“Sono contento che Simone sia ritornato! Evidentemente quello che Giuseppe e Michele hanno fatto ha sortito l’effetto sperato!” disse Francesco.
“Non credo che le cose stiano così!” rispose Emanuele. “Secondo me Simone aveva già in mente di fare finta di partire. L’ho capito ieri, quando ha preso in mano la mazza da baseball per dissuaderci dal continuare a cercare di convincerlo. La mazza da baseball non è sua. È di Marco. E Simone non se la sarebbe mai portata dietro. Piuttosto l’avrebbe buttata o bruciata ma non l’avrebbe mai rubata. Evidentemente avevo ragione”. Un sorriso di speranza e di buon umore comparve sulla sua bocca.
Ed entrarono in macchina con la madre, che non poté non fare una semplice osservazione:
“Chi sono quei due ragazzini che sono venuti fino a casa nostra per regalarvi due scatolette di tonno?”
I due risposero che non lo sapevano. Ed era la verità.
 
---O---

I due ragazzi tornarono a casa che erano quasi le 18. C’ero ancora solo io ad aspettarli.
“Come è andata?” chiesi appena li vidi aprire la porta.
“Bene! Quel Michele è forte. Pensava che fossi così debole come sembra. L’ho messo al tappeto in un attimo!” disse Nicola.
Io non risposi neanche a quella battuta. Tanto sapevo come sarebbe andata a finire. Infatti la precisazione arrivò dallo stesso Nicola.
“Beh! Poi è stato lui a ribaltarmi. Comunque è stato divertente!”
“Così va meglio!” risposi ridendo.
“L’incontro con Giuseppe è stato quasi inquietante. È stato cinque, sei minuti buoni in casa, dopo che ho infilato la busta sotto la porta. Poi, però, come mi hai detto, ha riaperto e sembrava tutto normalissimo. Quando ti squadra potrebbe capire qualsiasi cosa di te. Menomale che si è abbastanza disinteressato alla nostra storia. Con due domande delle sue mi avrebbe potuto far dire non solo che ho una sorella, ma che gli vai anche dietro” osservò Vito.
“A Giuseppe basta dirgli la verità! O al massimo che non vuoi dirgli altro e il suo rispetto per gli altri fa il resto” commentai; non me la sentivo di spiegargli quello che, secondo me, Giuseppe aveva fatto in quei cinque, sei minuti di “assenza” dall’uscio di casa sua.
“Comunque tutti e due sono stati contentissimi di aver saputo che sei qui. E anche Francesco e Emanuele!” aggiunsero ancora.
“Mi fa piacere!” fu la mia risposta. Ed era vero. Ero rimasto un po’ preoccupato dalla loro reazione del giorno prima. E ci tenevo, in nome della nostra amicizia, a metterli al corrente delle mie vere intenzioni. Almeno, ci tenevo a metterli al corrente della mia presenza, perché, per il momento, le mie vere intenzioni meno persone di Policoro le conoscevano e meglio era. Per tutti.
“Senti! Oggi pomeriggio ci siamo divertiti tantissimo! Non è che possiamo venire con te domani mattina?” chiese Vito. Evidentemente ne avevano già parlato per strada, perché dopo quella domanda, entrambi rimasero ad aspettare la mia risposta.
“Mah! Non preferite andare al mare?”
“Neanche per idea! Non c’è paragone!”
“Ma domani vi dovreste svegliare troppo presto!”
“A che ora?”
“Devo prendere il primo pullman, quindi almeno alle 6!”
I due gemelli si guardarono per tre o quattro secondi, poi annuirono entrambi.
“Va bene! L’avete voluto voi!!!” sorrisi.
Scendemmo, perché intanto erano quasi le otto ed era pronto da mangiare. Dopo mangiato i gemelli chiesero al padre il permesso per la gita del giorno seguente. Poi lo salutarono perché sarebbe partito la sera stessa per tornare a Milano. Terminai quella giornata mandando un messaggio a tutti e quattro.
Giuseppe: “Domani mattina prendi il pullman delle 8 per Pisticci. Ci vediamo su! Fatti seguire!”
Michele: “Domani mattina prendi il pullman delle 8 per Pisticci. Ci vediamo su! Fatti seguire!”
Francesco e Emanuele: “Domani per le 7 e mezza, Giuseppe e Michele partiranno da casa loro per andare al terminal bus. Si faranno seguire da Dorian e Salvatore. Voi seguite loro. Voglio sapere a chi riferiscono gli spostamenti dei ragazzi”.
La serata la trascorremmo sul lungo mare di Nova Siri. Ma verso mezzanotte eravamo tutti a casa per la levataccia del giorno successivo.
Così un’altra giornata era passata. Il lunedì. Quella sera avevo le idee chiarissime su quello che dovevo fare. Sapevo anche quello che dovevo fare nei giorni seguenti. Anche se con qualunque modifica si sarebbe resa necessaria per cause di forza maggiore, nessuno dei nostri nemici avrebbe dovuto sapere che io ero nuovamente a Policoro. Almeno fino al venerdì mattina. Poi l’avrebbero scoperto. Eccome se l’avrebbero scoperto.

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NdA: Buongiorno a tutti! Eccoci finalmente giunti al momento della resa dei conti. i fatti, d'ora in avanti, incalzeranno e spero possa piacervi.
A presto!

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Capitolo 22
*** L'isola che non c'è ***


L’ISOLA CHE NON C’É

La sveglia suonò, implacabile, alle sei meno dieci.
“Oh! Ragazzi! Dai svegliatevi che tra un’ora dobbiamo essere al terminal”. Sottovoce chiamai i due ragazzini che ancora dormivano beatamente.
“Ma sono già le sei? Dai tra dieci minuti ci alziamo!” rispose Nicola.
-Esattamente come avevo previsto- pensai, mentre andavo a lavarmi.
Finii la doccia giusto in tempo. Dieci minuti dopo, infatti, i ragazzi si alzarono. Quando rientrai in camera, i due gemelli mi infamarono per quei dieci minuti di sonno che, secondo loro, gli avevo rubato. Mi divertivo troppo a prenderli in giro. Anche se dovetti aspettare almeno altri tre quarti d’ora, mentre eravamo al terminal bus a fare colazione, per vederli completamente e definitivamente svegli. Solo dopo il caffè al bar del terminal furono più disponibili a conversare. Prendemmo il pullman delle sette e i ragazzi, dopo aver sonnecchiato per un'altra mezz’oretta, incominciarono a farmi domande sui quattro loro nuovi conoscenti.
Così decisi di spiegargli.
“Allora. Giuseppe è il mio migliore amico di Policoro. Ha due anni meno di me, ma dall’anno scorso a quest’anno è cambiato moltissimo. Molto più maturo, molto più serio. Almeno con la testa. Poi in realtà ha ancora quindici anni, quindi ogni tanto si perde nelle sciocchezze. Ma è la seconda persona nella mia vita di adesso a capire chiaramente quello che penso. E, finora, la prima a capirlo al volo. E riesce quasi a fare così con tutti. Gli basta uno sguardo per capirli al volo. Per me è indispensabile nella nostra guerra”
“Michele è stato il mio migliore amico a Policoro per dieci anni. Praticamente eravamo sempre insieme. Se ora penso a quello che ci ha fatto, capisco quanto sia emotivamente distrutto per tutto quello che ci è successo. È vero che certe ferite sono ancora aperte per me e per i miei amici, ma ora mi sento tranquillo con lui. Cioè, la fiducia nei suoi confronti e quasi ritornata quella di un tempo”
“Francesco e Emanuele sono in una situazione difficile. Francesco è il più piccolo. Mi piace che sia stato lui a mettersi per primo in gioco la settimana scorsa e avermi parlato per primo. Ma è pur sempre il più piccolo. Emanuele ha veramente paura dei Tre Fratelli, ma sostanzialmente si è sempre schierato dalla nostra parte. Ma quel è stata la reazione ai messaggi che gli ho mandato?”
“Giuseppe quando mi ha visto si è subito preoccupato, poi quando ha riaperto la porta sembrava stanco, ma incredibilmente sereno. Quando poi gli ho detto il messaggio che gli mandavi, è scoppiato a ridere e solo in quel momento ho capito che si era veramente rilassato” rispose Vito.
“Michele mi è sembrato molto nervoso, ma anche lui, man mano che gli ho spiegato le varie cose, ha capito che poteva fidarsi e poi siamo rimasti bene! Quanto agli altri due non c’è stato tempo di sentirli! Stavano andando via con la madre e abbiamo solo fatto in tempo a dargli le scatolette e dirgli che eri tornato e che gli avresti dato le informazioni necessarie al tempo giusto” aggiunse Nicola.
“Simone, ci sono due cose di quello che stiamo facendo che non mi quadrano. Non potevi invitare a Pisticci tutti e quattro invece che solo Giuseppe e Michele? E poi, perché proprio Pisticci?”
Due domande assolutamente legittime, quanto interessanti, quelle che mi rivolse Vito a quel punto.
“Prima di tutto perché Emanuele e Francesco sono utilissimi a Policoro, oggi. Sono le migliori persone che conosco in grado di pedinare qualcuno senza farsi beccare. E loro devono farlo, perché abbiamo bisogno di sapere a chi vanno a riferire Salvatore e Dorian. Se sono inseriti completamente nella banda o se sono ancora soprattutto alle dipendenze di Amaraldo. Da questo potrebbero anche dipendere le nostre scelte future”
“Beh, ma se fosse stato solo per questo avresti potuto lasciare noi a seguirli, che oltretutto non ci conoscono neanche” osservò Vito.
“Giusto, ma non potete entrare in gioco già voi. Serve che rimaniate sconosciuti, per quanto è possibile. Inoltre tutti e quattro su uno stesso pullman avrebbero potuto insospettire Marco. Avrebbe rischiato di smascherare le mie intenzioni, rivelando immediatamente che loro vanno su quel pullman per incontrarmi. Mentre solo Giuseppe e Michele, con la certezza che Emanuele e Francesco non ci sono, fa nascere meno dubbi. Almeno spero. Ad ogni modo Giuseppe e Michele sono entrambi originari di Pisticci, quindi non ci sarebbe niente di male ad andare a trovare qualche zia e fare il viaggio insieme. Poi diremo a Giuseppe e Michele di trasmettere tutte le informazioni agli altri due” risposi.
“E se Dorian e Salvatore seguissero Giuseppe e Michele?” chiese Nicola.
“Impossibile! Non avrebbe senso seguirli, tanto più che verrebbero smascherati sul pullman. E se io non fossi partito? È fondamentale, per loro, rimanere vicino casa mia!”
“E perché proprio Pisticci?”
“Perché Pisticci è il paese delle nostre origini. Pisticci è il paese dove sono nati i miei nonni e sono vissuti mio padre e mio zio. Ci sono affezionato. Perché l’aria è buona e il cibo pure. Perché è un posto veramente rilassante, l’esatto contrario della caotica Milano e della ormai cattiva aria che tira a Policoro. Non c’è posto migliore per un pacifico scambio di idee”
“Ma tu che li conosci, come pensi che ci dovremmo comportare con Giuseppe e Michele?” chiese Vito.
“Beh! comportatevi con loro come vi comportate con me e vedrete che non ci sarà nessun problema. Sentitevi liberi di fare qualunque osservazione, sia a quello che dico io, sia a quello che dicono loro. E vedrete che vi rispetteranno sin dal primo momento, come in effetti mi sembra che sia accaduto” risposi.
In quel momento il pullman curvò e abbandonò definitivamente l’altopiano su cui sorge Marconia e Tinchi, due frazioni di Pisticci. Da lì si aprì la visuale sul paesello. I due gemelli rimasero a bocca aperta vedendo l’estensione di quel paese, che copriva per intero tutta la parte superiore della collina, con le chiesette che si potevano contare sulle dita di una mano e la chiesa madre e la “terra vecchia” che si stagliavano, come le costruzioni più in alto, su un cielo che più azzurro non si poteva immaginare. I successivi quattro chilometri, i conclusivi, furono un susseguirsi di curve e tornanti, che a volte permettevano ai ragazzi di vedere fuori dal finestrino il burrone sottostante. Raccontai loro di come quella strada fosse spaziosa e agevole, rispetto alla precedente, quella che il pullman percorreva quando ero bambino, molto più stretta e spaventosamente pericolosa. Quando i pullman non avevano ancora il climatizzatore e avevano piuttosto i sedili di pelle, dove le gambe nude dei pantaloncini sudavano come impazzite. Il sole cuoceva quella similpelle, che mi sembrava quasi la pelle del pollo al forno, quella più verso i tagli, che si incrosta ed è croccante quando la mastichi. Solo che ci voleva un gusto spaventoso prima, uno stomaco di ferro durante e solo un buon medico dopo, per riuscire a mangiare quella “pelle”.
Adesso l’aria climatizzata del pullman non rendeva l’idea di quello che avremmo incontrato fuori. Il pullman arrivò, circa quarantacinque minuti dopo la sua partenza, nella stazione dei pullman di Pisticci. Le porte si aprirono e scendemmo.
“Che bel fresco!” disse Nicola.
“È vero! Altro che Policoro!” aggiunse Vito.
“Ecco, godetevelo adesso il fresco, perché tra un’oretta lo rimpiangerete” conclusi. Conoscevo bene quell’ambiente. Era collina. Quindi il fresco, alle otto del mattino, era naturale. Ma quella era anche campagna. E lì di giorno il sole si faceva sentire. Insomma, i gemelli non lo potevano sapere, ma io ne ero perfettamente cosciente: nelle giornate giuste, e quella sembrava proprio una giornata giusta, il sole picchiava e pure parecchio. E visto che ancora non ero stato abbastanza al mare per iniziare ad abbronzarmi e proteggermi, mi ero addirittura portato la crema solare, almeno per il viso e le braccia scoperte. Cercammo un posto dove sederci all’ombra e lo trovammo.
Proprio in quel momento arrivò una telefonata da Giuseppe.
“Ciao! Siete appena partiti? Bene. Siete tu e Michele? Bene! E  Emanuele e Francesco cosa? Li avete visti che vi seguivano? No! Non preoccuparti! Seguivano gli altri due. Allora tra quarantacinque minuti siete qui. Bene! Dai allora ci vediamo! Noi si! Siamo proprio qui alla stazione che vi aspettiamo! Ciao bello! Ciaociao!” e attaccai.
“Bene! Andiamo a fare un giro?” proposi. Ricevendo un sorriso per tutta risposta.
Uscimmo dalla stazione. Facemmo una passeggiata, che dopo qualche minuto divenne un’esotica esplorazione di un paesino mai visto, quando ti coglie inaspettato il gusto di girare un angolo e scoprire quello che c’è dietro. Senza saperlo prima.
Praticamente ci perdemmo in quel groviglio di strade, senza pensare a dove stavamo andando e per dove saremmo dovuti ritornare. Passarono quasi quaranta minuti. Poi ci venne in mente che avremmo dovuto quasi essere al terminal. Iniziammo a camminare a passo sostenuto, per qualsiasi via possibile e immaginabile.
“No! Se mi sono perso a Pisticci è meglio se non glielo dico a mio padre, altrimenti mi prende in giro per altri diciassette anni!” dissi, ma mi stavo veramente preoccupando di non riuscire a trovare più un passaggio per ritornare sulle strade conosciute. Finalmente un passante, l’unico che vedemmo a quell’ora, ci mise sulla strada giusta. Arrivammo alla stazione giusto in tempo per vedere il pullman che arrivava da Policoro che stava girando nel parcheggio.
Le porte si aprirono. Scesero una decina di persone e poi, finalmente, dietro una vecchietta, come sempre vestita di nero e carica di borse della spesa, scesero anche Giuseppe e Michele. Giuseppe appena mi vide corse verso di me e, appena mi fu di fronte, si inginocchiò e baciò la terra. Poi si rialzò.
“Spero che quel disgraziato dell’autista mi abbia visto! Pensavo che ci saremmo addirupati  dalla collina!” disse.
Quando ci riprendemmo dalla risata scatenata da quella scena, ci salutammo. Ed io feci le presentazioni del caso. Sebbene negli occhi di Giuseppe potessi scorgere le sensazioni che aveva provato il pomeriggio precedente, decisi che non era quello il momento per parlarne.
“Questi sono Vito e Nicola, credo che li conosciate già, almeno ciascuno di voi conosce uno di loro, anche se non fa molta differenza tra i due!” dissi.
Vito e Nicola mi lanciarono un’occhiata malvagia, e di nuovo tutti giù a ridere.
“Scherzi a parte! Loro sono due miei amici di Milano che ci aiuteranno a portare a termine questa storia. Sono assolutamente affidabili e sanno anche muoversi bene, in queste situazioni!”
“Eh! Lo so! Mi ha quasi buttato giù dalle scale ieri pomeriggio, questo qui!” disse, sorridendo, Michele, spintonando affettuosamente Vito.
“No, guarda che quello che ti ha quasi buttato giù dalle scale sono io!” osservò l’altro, Nicola.
“Sentite, facciamo così. Per riconoscerli Nicola è quello che ha il neo, con la ‘n’ come Nicola, qui, appena sulla guancia destra. Poi man mano che li conoscerete, sarà più facile riconoscerli, non preoccupatevi!” li rassicurai.
Prendemmo il pulmino che portava nel centro storico di Pisticci, mentre la stazione sorgeva in periferia. Il piccolo pullman correva veloce in quelle viuzze, già più piccole, nelle quali un normale pullman non poteva passare. Giungemmo in Piazza San Rocco, e scendemmo.
“Conosco un posticino tranquillo dove metterci a parlare, è a cinque minuti da qui, a piedi. ci vogliamo andare?” proposi.
“Ok” fu la risposta di tutti e quattro gli altri. Risposta della quale, puntualmente, ci pentimmo tutti quando, dopo cinque minuti ad arrampicarci nelle viuzze strette ed in salita del rione “Dirupo”, giungemmo  nel tanto agognato “posticino tranquillo”, che era sì tranquillo, ma che ci eravamo sudati.
“Siamo… arrivati… però… c’è un bel… paesaggio… qui, eh?!” dissi ansimando.
Effettivamente quella piccola ringhiera, che dava sulla strada sottostante, si apriva su un paesaggio mozzafiato. Da lì era possibile vedere fino a una trentina di chilometri di distanza, e non oltre solamente perché poi c’erano le montagne dell’Appennino. Due valli si univano in quel panorama: la valle scavata in tempi remoti dal fiume Cavone, ormai ridotto a un piccolo ruscello invernale, e la valle del Basento, ricca di vegetazione nel fondovalle, e di petrolio, sotto il fondovalle. In lontananza piccoli paesi dei quali neanche conoscevo il nome, e non solo quello, perché mi ero ripromesso di visitarli tutti non appena patentato. E noi lì, in quell’isola di pace e tranquillità. Un’isola che non c’era a Policoro. Che era impossibile anche solo immaginare a Milano. Lì potevamo parlare tranquillamente e altrettanto seriamente di tutta quella situazione.
Ricevetti uno squillo. Era Emanuele. Lo chiamai immediatamente. Mettendo il vivavoce, in modo da permettere anche agli altri di accedere immediatamente alle informazioni che anche io anelavo di conoscere.
“Allora come è andata?”
“Bene! Li abbiamo seguiti e appena abbiamo visto che Giuseppe e Michele partivano dal terminal, si sono ritrovati e sono andati a riferire tutto ad Amaraldo!”
“Ah! Bene!”
“Aspetta! Non è finita. Menomale che siamo rimasti ad aspettarli. Neanche dieci minuti dopo sono andati al castello. E lì evidentemente hanno riferito tutto a Marco! E poi sono tornati, ma non verso casa loro, verso casa nostra e si sono messi a spiare noi. Non si sono accorti che li stavamo seguendo. Noi siamo ritornati a casa facendo finta di niente. Questo cinque minuti fa”
“Bene! Significa che non siete abbastanza importanti e significativi da essere seguiti e ripiegano su di voi solo quando Michele e Giuseppe non ci sono!”
“Scusa, come sarebbe a dire?!”
“Sarebbe a dire che non vi stavano controllando!”
“Eh! E allora dobbiamo non essere significativi e, come hai detto, non abbastanza importanti?!”
“Oh! Ma che vuoi da me?! Vai a chiederlo direttamente a loro. Ad ogni modo questo non può che farci bene. Perché così so come gestire la prossima parte del piano! Adesso fate pure quello che volete, stasera quando Giuseppe e Michele torneranno, avrete ulteriori istruzioni”
“Ah! ok! Aspetta che ti vuole parlare Francesco” e si sentì il rumore del telefono che si spostava di mano.
“Simone! Ciao! Mi fa piacere che non ci hai abbandonati! Senti, ti volevo chiedere, visto che hai anche i due nuovi componenti del gruppo, non è che questa e la volta buona che gli diamo una bella lezione a questi qui? Non è che possono continuare a fare quello che vogliono!”
Quella voce piena di fiducia e di buon’umore contagiò subito gli altri sei, e scoppiammo a ridere. Ci salutammo e terminammo la chiamata.
Giuseppe si rivolse verso di me, mentre gli altri tre si erano un attimo allontanati. E sussurrò. “Anche io sono felice che non ci hai abbandonati”.
Un sorriso da parte mia gli fece capire che non ce l’avevo con lui per quello che aveva fatto e scritto nei giorni precedenti.
Mentre parlavamo, comunque, fu ben evidente a tutti, dal suono trasmesso in vivavoce, che io avevo ricevuto un messaggio. Finita la conversazione lo lessi e, visto il mittente, persi un paio di minuti a scrivere la risposta.
“Chi ti ha scritto?” chiese Giuseppe.
Nessuno gli rispose. Non avevo neanche sentito quella domanda. Un attimo di silenzio cadde su quel gruppo.
“Lasciamo stare! Torniamo a noi! Simone, come hai intenzione di muoverti?” fu la successiva domanda di Giuseppe.
Io aspettai la conferma dell’invio del messaggio. Poi ripresi contatto con i miei amici. Dopo di che scorsi negli occhi di Giuseppe uno sguardo interrogativo. E definitivamente compresi che non solo era in grado di capire le cose da pochissimi indizi, come avevo detto anche ai gemelli, ma in quel caso c’aveva preso in pieno. Feci finta di niente.
“Che cosa hai detto? Ah! Si! Prima di tutto avete domande su loro due?” chiesi a Giuseppe e Michele. Seguì una bella chiacchierata su Vito e Nicola. Mi chiesero come avessi fatto a conoscerli e se c’era qualcun altro da conoscere. Alla prima domanda risposero i due gemelli. Alla seconda, invece, preferii rispondere di persona, dal momento che, per qualche giorno, la risposta a questa domanda doveva essere ancora negativa.
Ne approfittammo anche per fare un giro per quel rione. E questo fu un ulteriore modo per rinsaldare i vincoli di amicizia tra di noi. Bevemmo un caffè e parlammo anche di altre cose. Quasi come se volessimo dimenticarci di      quello che stavamo passando. Fu una bella mattinata. Avrei tanto voluto che ci fossero anche Emanuele e Francesco, con noi, ma era veramente importante quello che avevano fatto.
Verso mezzogiorno ritenemmo opportuno terminare quella conversazione e ritornare a parlare di quello che avevamo da fare.
“Come ho intenzione di muovermi? Allora, oggi è martedì, siamo giusto in tempo, perché sabato voglio andare al mare e iniziare finalmente questa vacanza che non vedo l’ora di fare. Comunque, ho intenzione di muovere l’attacco conclusivo a Marco e i Tre Fratelli, non appena siamo sicuri delle loro mosse. E l’attacco avverrà a Policoro. Tra il castello, il mare e casa vostra. Sembra più complicato di come in effetti è, ma per arrivare a quel momento, a venerdì sera con tutto pronto, è necessario che seguiate alla lettera le mie indicazioni. Ok?”
“Daccele e noi le seguiamo!” commentò Michele.
“Ecco, il problema è proprio questo! Voi non potete ricevere le indicazioni in questo momento”
“Perché?”
“Perché non possiamo rischiare che qualcuno di voi venga catturato nuovamente dai Tre Fratelli e da Marco e torturato come la settimana scorsa! Così ho deciso che voi riceverete le istruzioni solamente al momento opportuno!”
“Simone, non farlo!” disse qualcuno del gruppo. Era posizionato lateralmente rispetto a me. Ma non ci fu bisogno di voltare la testa per capire chi era.
“No! Ascolta, Giuseppe…”
“No! Ascolta tu, Simone! Ci conosciamo da anni. Sai come sono fatto. Se non mi dici come devono andare le cose, se non ho la visione di insieme delle cose, le cose che faccio non mi vengono bene. E quello che è successo l’altro ieri ne è una prova. Quindi o mi racconti tutto, oppure, per la nostra amicizia, sono costretto a farmi da parte!”
Sembrava evidentemente molto sincero. Io però fui fermo sulla mia opinione.
“Mi dispiace che la pensi così. Ma è troppo pericoloso! In questo caso è meglio se vi limitate ad eseguire certe istruzioni. Poi vedrete che vi sarà tutto più chiaro”
“Ma che fai, adesso, ti metti a trattarci come delle pedine?”. Anche Michele incominciava a scaldarsi. “Sei sempre te a volerci controllare e muovere a tuo piacimento! Noi non siamo pedine! Lo vuoi capire? Noi siamo persone, con dei sentimenti, che stanno prendendo a cuore la nostra situazione e che vogliono lottare per vederla risolta. Non puoi costringerci a farci fare delle cose, partendo dal presupposto di non volerci rendere partecipi di tutto il disegno di insieme!”
“Se vi calmate un attimo vi spiego! Posso?” dissi, fingendo di scaldarmi anche io, cosciente del fatto che quello era l’unico modo per riportare la pace nel gruppo. D’altra parte, contrariamente a due giorni prima, non potevo rimanere immobile e subire quella situazione. A quel punto dovevo parlare e, con calma e gentilezza, costringerli a fare quello che gli dicevo.
Vito e Nicola assistevano evidentemente impotenti a quella situazione. Non conoscevano abbastanza gli altri due per potersi intromettere in quel discorso. Però erano certi del fatto che, tutti e tre, stessimo agendo in buona fede. Giuseppe e Michele cercarono di rimanere in silenzio e ascoltare quello che avevo da dire per sistemare le cose. E infatti continuai, cercando di abbassare la voce e di calmare la situazione.
“Il fatto è che non siete delle pedine! Non vi considero delle pedine! Anzi, ben altro! Voi siete intelligenti e sono certo che se sentiste il mio piano vi accorgereste del fatto che si tratta di un buon piano. Solo che se ne veniste a conoscenza troppo presto, potrebbe succedere che in caso di ulteriore cattura da parte di Marco, anche solo la paura di quello che starà per succedervi potrebbe spingervi a parlare. Invece meno cose sapete, meglio è per voi. Vi chiedo solo, anche per questa volta, di fidarvi di me!”
“E se vieni catturato tu?” chiese Giuseppe.
“Ecco perché mi muovo clandestinamente” risposi. “Fin quando nessuno sa che sono qui, non ho nulla da temere”.
La risposta parve ragionevole.
“Come ci contatterai?”
“Come ho fatto finora. Via SMS oppure incontrando loro”
“E se loro si accorgono di qualcosa e catturano loro due?” chiese Michele.
“Non avrebbero nessun motivo per farlo. Non li conoscono, non hanno nessuna intenzione di mettere di mezzo altre persone, e comunque almeno con Cosimo e quelli più piccoli di lui, sanno come difendersi, come avete visto” fu la mia risposta.
“Scusa ma, se non ci vuoi dire niente e non vuoi che sappiamo niente ora del piano, per quale ragione siamo venuti fin qui?” disse Giuseppe. Era calmo, ma quella domanda aveva un retrogusto di amarezza che mi fece capire che un po’ se l’era presa. Ma a quell’età non potevo pretendere di meglio, anche da una persona matura come lui.
“Perché il piano funzioni, ho bisogno di sapere altre cose da Michele che non ho potuto chiedergli prima. E ho bisogno che ci sia qualcuno che conosce abbastanza bene tutte le dinamiche dei due gruppi per sapermi consigliare al riguardo. E la persona ideale sei tu” risposi.
Giuseppe fu colpito da quella risposta, che riportò, contemporaneamente, anche la calma nel gruppo.
Si era fatta quasi ora di pranzo. Li invitai a mangiare in un ristorante che avevo scoperto con mio padre qualche anno prima. E furono miei ospiti. Durante il pranzo, chiesi moltissimi particolari a Michele del tempo passato nella banda dei Tre Fratelli, soprattutto in relazione al castello, il loro covo. Appena finito di mangiare, per le due, dissi a Giuseppe e Michele di tornare a casa.
“Ma scusa non preferite partire prima voi che siete arrivati prima?” chiese Michele.
“No! Se tutto va come previsto Amaraldo o Marco hanno spedito i due ad aspettare il vostro ritorno a Policoro. Se partiamo prima, arriviamo prima di voi, e loro ci vedono” risposi.
“E finisce tutto in vacca!” pensò ad alta voce Giuseppe. Poi aggiunse quello che, sinceramente, desideravo tanto sentire. “Io mi fido di te! Mi sono sempre fidato di te! Anche se le ultime 48 ore sono state dure. Spero che mantenere il segreto relativamente al tuo piano possa proteggerci da una loro aggressione, perché vorrei non subire lo stesso trattamento dell’altro ieri!”. Un mio sguardo gli fece capire che non era il caso di parlarne in quel momento. Ancora non avevo menzionato tutti quei particolari a Vito e Nicola. Anche se avrei dovuto farlo prima di venerdì. Così Giuseppe cambiò discorso.
“Chi ti ha scritto il messaggio prima?” fece, rivolto a me.
“Nessuno perché?” risposi evasivamente.
“Non è che per caso ci stai nascondendo qualcosa o qualcun altro?”
“No. Ho scritto un messaggio a una persona!”
“A “una”, perché è femminile?”
“A ‘un-a’, perché ‘persona’ è femminile! Guarda che il pullman sta per partire”
“Va bene!”. Giuseppe chiuse la conversazione misericordiosamente.
Poco prima di partire ebbi ancora una cosa da dire a Giuseppe.
“Giuseppe, è vero che tu sai guidare?” gli chiesi.
“Si perché?!” rispose preoccupato Giuseppe.
“No! Niente! Abbiamo bisogno di uno strappo alla regola. Ma vedrai che tutto andrà bene e che ti farò sapere tutto al tempo debito!”
Consegnai una copia delle mie chiavi di casa a Giuseppe chiedendogli di consegnarle a Francesco e Emanuele. Nel mio piano loro sarebbero stati i primi ad uscire di scena e arrivare a casa mia. Ci salutammo e partirono. Due ore dopo, e dopo esserci nuovamente persi nei vicoli di Pisticci, partimmo anche noi tre. Arrivammo a casa che erano quasi le cinque. Saremmo andati a Scanzano, ma quel pomeriggio lo volli passare al mare anche io. Fu solo lì, in spiaggia, che i due gemelli, presi disumanamente in giro da me e Maria, si accorsero di avere “l’abbronzatura del muratore”, con il segno della maglietta sulle braccia e sul collo.
Perché ormai avrebbero dovuto saperlo, il clima è mite, ma il sole picchia forte all’“Isola che non c’è”.

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NdA: Buongiorno a tutti ed eccoci al nuov appuntamento del lunedì! :) spero che anche questo capitolo sia di vostro gradimento e alla prossima!

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Capitolo 23
*** La Vita è Adesso ***


LA VITA È ADESSO

Mi ero scritto tutto, avevo un quaderno dove avevo preso tutti gli appunti su quello che era successo, sulle cose che avevamo scoperto, sul mio piano e sui tempi che avrei dovuto rispettare pur di raggiungere la riuscita del piano entro venerdì. Ad esempio, sapevo che la sveglia, quel mercoledì, non doveva suonare. Da quando il giorno prima eravamo tornati a Policoro dalla gita a Pisticci, avevo parlato con Vito e Nicola e li avevo informati del fatto che non avremmo più fatto nulla insieme, relativamente al piano. Era ormai una collaborazione inutile e anche pericolosa. Qualunque cosa ci sarebbe stata da fare fino a venerdì, l’avrei fatta da solo. E infatti, io, avrei avuto da fare solo nel pomeriggio. Per godermi un po’ di riposo, tutti gli altri partirono per andare al mare. E quel giorno, finalmente, lo dedicai solo a parlare al telefono con Maria. I genitori non l’avrebbero mai fatta rimanere da sola con me a casa. Così comunicavamo a voce che costava meno che per sms. Mentre lei era al mare e io a casa, praticamente non ci sentimmo solo quando lei era in acqua. Al ritorno dal mare continuammo, lasciando i due fratelli a giocare con la play station, fino al pranzo. Poi continuammo, in giardino, sotto il pergolato, mentre Vito e Nicola studiavano. Parlammo per ore. Praticamente continuamente. Le parlai dei miei amici di Policoro, che lei ancora non aveva conosciuto. E poi ci scambiammo semplici ed affettuosi pensieri. Stavo proprio bene con quella ragazza. Non avrei permesso a nessuno di farle del male. Era per quello che lei non doveva c’entrare niente con me, almeno per altri tre giorni.
Erano le quattro del pomeriggio, quando io, Vito e Nicola, lasciammo il giardino per recarci al lavoro, nella nostra cameretta. Per fare quel lavoro era ancora essenziale la loro collaborazione. E comunque, finché fossimo rimasti in quella casa, nessuno avrebbe potuto scoprirci.
“Allora, passiamo alla fase due” dissi.
La “fase due” comprendeva il mettere a conoscenza Marco e i suoi di alcune cose che sapevamo anche se ancora saremmo rimasti in incognito. Significava anche avvisare il resto degli altri del piano, certi del fatto che a quel punto nessuno avrebbe potuto collegare le due azioni.
Vito immediatamente comprese e prese il foglio di carta e la penna.
Si mise alla scrivania ed incominciò a scrivere sotto dettatura.
 
“Ciao Angelo,
Vi abbiamo visto l’altra sera fare del male ad un ragazzino alla spiaggia. Siamo pronti ad andare ai carabinieri. Se volete convincerci del contrario sedetevi ad un tavolo del bar del Lido Sirena venerdì mattina alle 11. Dovete esserci tutti e 3 che eravate lì sabato sera. Tu, Cosimo e Amaraldo. Pensateci ma siate puntuali altrimenti alle 11.10 siamo dai carabinieri.
                                                                              I due gemelli”

“Bene!” conclusi “Adesso se vogliono venire lì devono abbandonare il covo! E noi saremo lì pronti ad entrare. Ve la sentite di fare una cosa del genere? Tanto, con Maria sarete al “La Capannina”, quindi non verranno mai in contatto con lei”.
“Non preoccuparti. Anzi sarà divertente!” disse Vito.
“Mi raccomando. Anche se siete in un luogo pubblico, e alle 11 quel lido pullula di persone, ricordatevi che siete sempre due contro tre. Non allontanatevi mai dalla gente! Qualunque proposta vi facciano, ditegli che ci penserete e che vi farete sentire. Non prendete iniziative e non mostratevi eccessivamente nervosi. Devono poter capire che stanno parlando con persone che hanno qualcosa da perdere ma che non hanno mai visto. Quindi delle quali non conoscono nulla! Voi conoscete bene la storia di Giuseppe, vero? Quello che gli hanno fatto e che vi ho raccontato ieri pomeriggio mentre tornavamo da Pisticci?”
“Si, purtroppo si!” rispose Vito.
“Bene! Perché potrebbero voler controllare la veridicità delle vostre affermazioni. Mostratevi disinvolti e naturali nelle risposte. Anche se tutti e due date una risposta, fate sempre in modo che sia sempre e soltanto uno a dare maggiori informazioni. Devono capire che è quello che comanda. Il capo dei loro nemici. Quando avete finito la conversazione ditegli la frase che abbiamo concordato e aspettate che escano dal bar. Appena arrivate da quelle parti, finché non si siedono al tavolo, non fatevi vedere. Poi, appena arrivano, fatemi uno squillo. Mi raccomando, solo a quel punto. E quando loro se ne andranno, e solo a quel punto, fatemi un altro squillo. Noi sapremo che avremo ancora cinque minuti, che è il tempo minimo che ci vuole dal bar al castello. Quando saremo al sicuro e li vedrò arrivare tutti e tre al castello, allora vi farò uno squillo e potrete tornare da Maria. Non prima. D’accordo?”
“Ok! Abbiamo capito! Come facciamo però a consegnare la lettera?”
“Non preoccupatevi che ci penso io” risposi.
Presi la lettera, e la chiusi, presi il telefono e composi un numero.
“Ciao Rocco! Come stai? Senti, mi fai un favore? Io sono a Milano. Tu, però, dovresti venire all’indirizzo che ti dirò e dovresti ritirare un lettera di un mio amico di Policoro, da mettere nella buca delle lettere dell’indirizzo indicato sulla busta, puoi in questo momento? Grazie! No è uno scherzo! Solo che non devi dire che te l’ho chiesto io, ok? grazie! Ti aspetto! La busta vieni a prenderla in via San Gottardo n° 5. Non preoccuparti. Ciaociao!” e chiusi la comunicazione.
“E adesso chi sarebbe questo Rocco?” chiese Nicola.
“È un ragazzino a cui fino a due anni fa, quando ero a Policoro, davo ripetizioni di matematica. Assolutamente estraneo ai fatti! Così inizio a rendergli i piaceri di questa storia, al caro Marco!”
“Scusa, ma a proposito di Marco; perché non ci hai fatto scrivere il suo nome vero?” chiese Nicola.
“E poi? Quello appena vedeva che lo chiamavate con il suo vero nome, collegava subito voi a me. Sono l’unico, per il momento, che potrebbe chiamarlo così a Policoro. E lui ancora non deve sapere che ci sono io dietro a tutto questo. Che dite faccio le altre tre telefonate?”
“Si, dai”
Composi il numero. Rispose Francesco a cui spiegai quello che avrebbero dovuto fare.
“Certo! Non vediamo l’ora” rispose Francesco.
“Bene! Giuseppe dovrebbe avervi dato le chiavi di casa mia, giusto?” conclusi.
“Sì, ce le ha date ieri sera! Ciao Simone!! Per queste cose siamo sempre pronti” rispose anche Emanuele che evidentemente aveva ascoltato tutta la conversazione.
“Bene! Grazie! Ciao a tutti e due!”.
In quel momento udirono il suono del citofono, che preannunciava l’arrivo di Rocco. Vito scese a consegnargli la posta, poi risalì velocemente.
“Che ragazzino simpatico e gentile, mi ha detto che tu gli avevi detto di farsi pagare diecimila lire per quel lavoretto!”
“E tu che hai fatto?” chiesi preoccupato.
“Gli ho dato le diecimila lire, se non altro per la bella idea!” rispose Vito ridendo. Ma divenne subito serio quando mi vide comporre l’altro numero, quello di Giuseppe.
“Ciao! Come stai? Anche noi! Ascoltami attentamente. Venerdì mattina, verso le 10:30 Francesco... Quando avremo finito lì, con Emanuele e Francesco andrete a casa mia ad aspettarmi. Ok?! Ciao!” e attaccai. Componendo, immediatamente dopo, il numero di Michele.
“Ciao Michele! Venerdì mattina alle 10.30 Emanuele… Serve come depistaggio, in modo che le cose accadute non riconducano a te e Giuseppe! Ma è ovvio che non devi dire niente ai genitori di quello che sta succedendo. Fai solo finta e te ne vai al mare, al ‘Lido Sirena’. Lì ti nascondi e aspetti che escano Marco, Amaraldo e Cosimo. Poi mi chiami. Ok? Grazie! Bravissimo! No! Giuseppe è impegnato a fare qualcos’altro. Ok? Ciao! Ciao!”.
“Bene! E anche questa è fatta. Domani mattina ci sarà da lavorare!”
Rimanemmo a giocare tutti e tre con la play station fino all’ora di cena. Poi la famigliola allegra uscì e andò sul lungomare di Policoro, in modo che anche Vito e Nicola si rendessero conto della situazione, mentre io rimasi in casa a leggere quel libro che non avevo mai più toccato dalla “nuova prima volta con Michele” come avevo fatto dire a Vito la prima volta che incontrò Giuseppe.
Alle dieci ero già a letto, e non mi accorsi neanche quando arrivarono Vito e Nicola.
Il mattino seguente era già giovedì. Anche quel giorno, Vito e Nicola con Maria e gli altri andarono al mare. Io invece no! E avevo anche parecchio da fare. Per le undici ero a casa mia. Il fatto di avere le due spie impegnate, mi toglieva il problema, per quei dieci minuti, di dovermi disfare delle guardie per entrare in casa. Casa mia. Quella dalla quale ero partito tre giorni prima.
Entrai. Sapevo di essere lì per un motivo ben preciso. Dovevo fare la pace con una persona. Seriamente. Così chiamai Giuseppe. Ne avevo bisogno. Non solo di Giuseppe, ma soprattutto di sentirlo. Di rivedersi tranquillamente e privatamente per fare il punto della situazione come ero stato abituato a fare nelle ultime due settimane.
“Ciao!”
“Ciao Simone! Che bello risentirti! Sono pronto per domani, anche se ho un po’ paura di guidare!”
“Lo so! Ti capisco! Senti… voglio fare il punto della situazione. Ti va di liberarti di Salvatore e venire a casa mia?”
“Ma tu dove abiti?”
“Non ho detto dove abito. Ho detto a casa mia, sono di qui”
“Ah! Ok! Dai! tra trenta secondi sono lì!”
“Mi raccomando la prudenza!”
“Vabbè, liquidarlo è un attimo. Aspetta!” e attaccò il telefono.
Neanche trenta secondi dopo, sentii Giuseppe arrivare.
“Ma come hai fatto?” chiesi, effettivamente stupito per la sua velocità.
“Eh! Sono uscito dalla finestra del piano terra, quella sull’altra via. Sono così scemi che mi controllano solo dalla porta. Poi mi è bastato vedere da che parte della strada si trovava, ben nascosto, e andare via dalla parte opposta. Pochi secondi fa mi sono affacciato sulla mia via e ho visto che non si è accorto di nulla. Eccomi qui!” rispose sorridendo.
“Fantastico!” esclamai realmente sorpreso per quel piano di fuga perfetto. Gli offrii un tè freddo, poi ci sedemmo a fare quattro chiacchiere.
“Giuseppe, secondo te perché ti ho chiamato qui?” domandai. Fu in quel momento che uno sguardo colpevole si affacciò sul viso di Giuseppe. Aveva indovinato.
“Simone! Devo prima di tutto chiederti scusa per la figuraccia che ho fatto con te domenica. Mi sono comportato malissimo. Quello che ti ho scritto, che tu ci creda o no, però l’ho fatto spinto dalla rabbia, e non perché seriamente offeso. Scusami!” mi disse tutto d’un fiato.
Io lo guardai serio. Poi sorrisi e lui ricambiò quel sorriso. Per la prima volta gli porsi la mano. E per la prima volta lui me la strinse.
“Sono soprattutto contento di una cosa!” dissi, cogliendo di sorpresa anche Giuseppe. “Sono contento perché per la prima volta, pur essendo seriamente dispiaciuto per quello che era successo,  e me ne sono accorto anche a Pisticci, non hai versato una lacrima”.
A quel punto Giuseppe fu ancora più confuso. Ma chiarii subito la situazione.
“Significa che stai incominciando a capire di essere maturo e che, sebbene con il tuo carattere, ma che è meglio affrontarli i problemi che sotterrarli sotto il pianto” dissi. E a quel punto capì. E ricambiò nuovamente il sorriso.
“Aspetta che ci sono altre due cose che devo dirti!” aggiunsi immediatamente dopo.
“Dimmi!” fu la pronta ed ormai pienamente fiduciosa risposta del mio amico.
“In questa ultima settimana, anche se qualche conferma l’avevo già ricevuta l’anno scorso, mi sono accorto della tua maturità, e della tua capacità di gestire anche situazioni complesse. Quello che hai fatto con Marco, poi, l’altra notte, è stato a dir poco eccezionale. Per questo motivo voglio regalarti un attestato della mia fiducia. Va bene?” dissi.
“Grazie! Di che cosa si tratta!?” rispose Giuseppe.
“Siediti, che è meglio!” replicai io. Non fece neanche in tempo a sedersi che incominciai a raccontargli per filo e per segno il piano. Come si sarebbe dovuto svolgere, cosa avrebbe dovuto fare lui, cosa gli altri, cosa avrei fatto io, il ruolo fondamentale di Vito e Nicola, tutto. Al termine del mio racconto Giuseppe era a dir poco estasiato da la complessità e dall’astuzia della mia tattica.
“Wow! È fantastico! È spettacolare!” disse entusiasta.
“Se qualcosa va storto, dimentica tutto quello che ti ho detto!” gli dissi, guardandolo molto seriamente “Perché c’è altro che è arrivato il momento di farti sapere! Molto altro!”
Giuseppe ritornò serio a sua volta. “Dimmi tutto!” esclamò.
“Ti voglio parlare di una persona!”
Giuseppe mi guardò. E lo sguardo era lo stesso che scorsi quando ricevetti il messaggio a Pisticci. Non avevo più dubbi che aveva capito. E non avevo neanche problemi a dirglielo, come sempre.
“E so che non c’è bisogno di rifarmi la domanda sull’articolo “una”, che tanto immagino che tu abbia fatto una pensata che poi è quella giusta”
Giuseppe rise di gusto. Per la prima volta, di gusto, con me, da quando ero arrivato a Policoro la settimana prima.
Allora gli raccontai tutto. O quasi. Perché sentivo troppo il desiderio di condividere quella cosa con qualcuno. Soprattutto con Giuseppe. Gli raccontai tutto, di come avevo conosciuto Nicola e Vito e come da questi avessi conosciuto lei. Gli raccontai di quanto le volevo bene e di quanto quello che avevo in mente con lei fosse serio e bello. Gli raccontai dove stavamo in quel momento e quanto ci eravamo divertiti quei giorni, nonostante la situazione, insieme. Quando finii, Giuseppe vide quanto mi brillavano gli occhi.
“Beh! Sono felice che tu stia vivendo questa cosa. Sono felice che stiate bene insieme e capisco che tu abbia paura di diffondere questa notizia, fino a che i nostri nemici non sono fuori gioco. Ma visto che tutto finirà domani, in un modo o nell’altro, perché me lo dici proprio adesso?”
“Ho bisogno che tu mi prometta una cosa. Se dovesse andare male domani sera, e i nostri nemici dovessero vincere, promettimi che tu scapperai dalla scena e farai tutto il possibile per proteggere Maria e i due gemelli. Loro non c’entrano niente e hanno tutto da perdere da questa cosa. Solo su te posso confidare per una cosa del genere. Ok?”
Giuseppe mi osservò. Non m’aveva mai visto così serio. Evidentemente dovevo essere seriamente preoccupato per quel domani, che ci avrebbe visti ancora così protagonisti. Anche se non sapeva che cosa sarebbe successo. Neanche quello che avrebbe dovuto fare lui, quella sera. Però, solo in quel momento, Giuseppe comprese veramente in cosa consisteva la mia amicizia. Io facevo tanto per loro, e lui avrebbe fatto tanto per me.
“Non dovrà succedere niente. Comunque, come hai sempre fatto, puoi fidarti di me. Ti prometto che farò tutto il possibile, farò anche l’impossibile per proteggere Maria, Vito e Nicola!” concluse Giuseppe.
Lo ringraziai con un abbraccio.
Ci salutammo. Io misi in chiaro che ci saremmo rivisti solo il mattino successivo. Rimase solo un dubbio, nella mente di Giuseppe. Decise di levarselo subito.
“Scusa, Simone, ma perché hai deciso di risolvere tutto domani?”
“Per te!” risposi, come se fosse la cosa più semplice del mondo. E per me era effettivamente così logico. Poi vidi Giuseppe aggrottare la fronte. Mi parve strano che non capisse quello che volevo dirgli. –Sarà lo stress di questi giorni concitati – pensai e decisi di chiarire le cose.
“Scusa, eh! Non ti ho detto di guidare un furgone? Ecco domani è il giorno migliore per farlo. Non ci saranno molti vigili in giro, no?”
“Non ti capisco!” continuò Giuseppe.
“Il mercato?”.
Nessuna risposta.
“Allora, se tu guidi e ti fermano i vigili, finiamo in galera, tanto più visti gli ospiti del furgone. Allora se c’è il mercato, come sempre, tutti i vigili sono impegnati lì, tuo padre è al lavoro e tua madre…?”
“Mia madre che?”
“Tua madre che?! Tua madre è al mercato! Così puoi uscire indisturbato! Va meglio così?”
Questa volta fu Giuseppe ad arrossire e sorridere. Allora ci risalutammo.
Giuseppe uscì e facendosi un giretto, ritornò a casa sua.
Per me, però, quella mattinata non era ancora finita.
Uscii di casa. Ritornata in mio possesso, presi la bici, e facendo un giro assurdo, arrivai al castello. Avevo veramente paura di essere scoperto. Sapevo di doverlo fare, era necessario perché tutto il giorno seguente avesse l’effetto giusto. Tutto dipendeva da quello che avrei trovato lì. Sperando di trovare qualcosa e non qualcuno. Arrivai dal lato meridionale del castello, lasciai la bici una quindicina di metri sotto le fondamenta, mi arrampicai sulla salita ripida che portava al castello e mi ritrovai di fronte ad uno dei tanti ingressi diroccati di quest’ultimo.
Mentre stavamo mangiando, a Pisticci, Michele mi aveva spiegato i particolari della sera della sua iniziazione, e così ero venuto a sapere che quella era l’entrata giusta e che strada avrei dovuto fare, una volta entrato nel castello, per raggiungere il covo dei nostri nemici. Entrai da quella porta. Il locale che mi si presentò davanti mi ricordava una stalla per i cavalli, con gli abbeveratoi e le mangiatoie, e piccoli locali scavati nel muro più interno, probabilmente la parte conclusiva e murata dei box dei cavalli. Ovviamente tutto il ferro ed il legno non esisteva più. Tutti i muri erano ricoperti di scritte irripetibili e disegni indecenti. Per qualche tempo, pensai, doveva essere stato anche un covo di persone interessate al satanismo. Ma erbacce e polvere avevano ricoperto tutte quelle tracce, quindi probabilmente erano solo impressioni di un tempo ormai lontano.
Ero stato molto attento, eppure non avevo visto tracce dell’auto di Marco, né dei mezzi usati dai Tre Fratelli o dagli altri. D’altra parte Michele mi aveva detto che il covo serviva solo per conservare tutti i bottini delle piccole rapine e furti che avevano condotto in quegli anni. Aveva specificato che lui non aveva mai compiuto azioni del genere, ma lì dentro dovevano esserci diversi milioni in denaro e oggetti. Trovai l’ingresso. Nel muro più lungo di quelle stalle era presente una sola porta. Era un ingresso che dava ad una rampa di scale, ripida e buia. Niente faceva pensare ad una qualsiasi connessione alla rete elettrica di quella zona del castello. Prudentemente, però, avevo provveduto a portarmi dietro alcuni oggetti che avrebbero potuto tornarmi utili. Una di queste cose era una torcia elettrica, che presi immediatamente dallo zaino e che accesi. Solo allora mi accorsi del corrimano che permetteva di salire quelle scale senza correre tanti rischi. Afferratolo ebbi la prima conferma del racconto di Michele sul castello. Quel palo di ferro era infatti privo di polvere a differenza di tutto quello che c’era intorno. E questo era un’evidente dimostrazione della presenza di persone che lo usavano in continuazione.
Salii fino in cima alle scale e, seguendo le istruzioni di Michele, mi ritrovai davanti alla porta. Quella porta, completamente colorata di verde, di legno grezzo, era massiccia e pesante, e fatta come la mia. C’erano le imposte di legno che facevano da finestre e la porta vera e propria. Serviva evidentemente a fare in modo che un ospite inatteso si dissuadesse dal fare un giro all’interno. Ma non me in quel momento. In quel momento nulla mi avrebbe dissuaso dall’aprire quella porta. Mentre salivo mi accorsi che dall’altra parte della porta non c’era assolutamente nessuno. Saranno stati tutti al mare, a parte le due scartine che facevano la guardia, neanche troppo bene, a Giuseppe e Michele.
La porta era come quella di casa mia e quindi seppi immediatamente quello che dovevo fare per aprirla comodamente, per quanto fosse chiusa a chiave. Quelle erano chiavi molto semplici. Mi bastò giocarci un po’ con la mia chiave, per “convincere” quella serratura ad aprirsi. E la porta si aprì.
La torcia, una volta entrato, non servì molto. Vidi immediatamente a terra una batteria d’auto, collegata ad un interruttore. Provai a chiudere quest’ultimo, e la stanza fu illuminata dalla luce fioca che usciva da quattro lampadine collegate in serie. La stanza, piccola, e senza finestre, doveva evidentemente essere utilizzata semplicemente come covo temporaneo e deposito per la refurtiva. C’erano solo due armadi appoggiati al muro, e una tavola con quattro sedie. Gli armadi erano pieni di roba. Non vestiti, ma oggetti d’oro, orologi, e tanti, tanti soldi, nei cassetti. Incredibile come quelle cose potessero rimanere nascoste alla vista di tutti e immuni a furti per il semplice fatto che nessuno sapeva che fossero proprio lì. Non ero mai stato bravo a farlo e quindi non mi sforzai neanche di quantificare il valore di quella refurtiva. Ci avrebbero pensato delle persone che, il giorno dopo, avrebbero finalmente fatto il loro dovere. Diedi ancora un’occhiata in giro e poi me ne andai, sapendo che il giorno seguente ci sarei ritornato per spalancarmi la strada all’ultima parte di quel piano. Richiusi la porta e scesi le scale.
Era quasi l’una. Ero quasi arrivato all’uscita del castello quando sentii dei passi avvicinarsi. Qualcuno stava arrivando nella mia direzione. Non sapevo chi fosse, non sapevo cosa voleva, ma sapevo che nessuno doveva scoprire chi ero e cosa ci facevo lì.
Mi buttai in una delle stanze laterali. I passi si avvicinarono ancora e solo in quel momento mi resi conto che non era una, ma erano due le persone che si stavano avvicinando. Mi addossai immediatamente al muro che mi separava dal corridoio del loro passaggio.
“Che pizza quell’Angelo! Vuole che ci vediamo a quest’ora! C’era Dragon Ball! Chissà cos’altro vorrà da Cosimo!”
“Evvabbè, tanto prima o poi anche lui la smetterà di rompere. E comunque finché le chiavi le abbiamo noi, non è che ci fa proprio schifo. Certo, Cosimo ci ha ordinato di andarci solo quando ce lo dice Angelo, ma intanto le chiavi ce le abbiamo noi”
Compresi che si trattava di Giovanni e Massimo e che stavano andando al covo per ordine di Marco. La conversazione tra i due finiva in quel modo.
E questo era molto buono.
Significava, probabilmente, che Marco aveva ricevuto il messaggio indirizzato ad Angelo e che quindi stava preparando il piano per combattere contro questi “Gemelli” che chissà cosa volevano da lui.
Ritornarono in silenzio a salire le scale che portavano alla stanza da me lasciata pochi minuti prima. Quando sentii la porta che si apriva, immediatamente dopo, corsi via, ritornai sul sentiero e mi buttai senza pensarci troppo, nel dirupo sottostante. Graffiato e sporco di terra, ripresi la bicicletta e facendo il giro più lungo dal distributore alle porte di Policoro, ritornai a casa di Maria.
Me l’ero vista brutta. Avevo rischiato tantissimo: tutti i nostri nemici sarebbero stati lì solo pochi secondi dopo che me ne ero andato. Se fossi sceso qualche secondo più tardi, mi sarei ritrovato di fronte i due fratelli di Cosimo. Probabilmente, essendo più piccoli, non ci sarebbe voluto molto a metterli fuori gioco, ma poi sarebbe saltato tutto, clandestinità, segretezza, il piano e la copertura di cui godevo da parte di Nicola e Vito. E non potevo rischiare una cosa del genere. Capii di essere stato imprudente, ma al tempo stesso mi rendevo conto di quanto fosse stato necessario assicurarsi che le cose stessero esattamente come Michele mi aveva detto. Non perché Michele avrebbe anche potuto mentire, ma soprattutto perché le cose sarebbero potute cambiare, e tutto doveva filare liscio.
La famiglia era già tornata dal mare. Era quasi pronto, io feci appena in tempo a cambiarmi dai panni sporchi di terra e lavarmi e andare a mangiare. Il pomeriggio passò tranquillamente. Io e Maria a parlare e Vito e Nicola a studiare prima e giocare poi. Sfidarono me e Maria a briscola, solo per scoprire, almeno per quanto mi riguardava, che Maria era una forza anche in quello. Paradossalmente, quei momenti, che erano tesi e pieni di ansia per quello che sarebbe accaduto solo ventiquattr’ore dopo, si trasformavano in un paradiso quando, al sicuro dagli sguardi e dalla coscienza dei miei nemici, passavo del tempo in compagnia della mia ragazza, e dei miei amici. Erano solo quelli i momenti in cui mi sentivo veramente in vacanza. La sera uscimmo a Metaponto. Tanta gente, tanto divertimento, un giro sul lungomare, una pizza e un gelato. Verso mezzanotte eravamo a casa, pronti per andare a letto. Io, Vito e Nicola, nella stessa camera, ci prendemmo ancora qualche minuto per parlare.
“Pronti per domani?” chiese Nicola agli altri due, mentre, sdraiato sul letto, fissava i puntini di luce formati dal lampadario sul soffitto.
“Certo che si!” rispose Vito. Poi ci pensò un attimo.
“È vero, non ho mai fatto una cosa simile. E ho un po’ di paura. Ma in fin dei conti Simone ha predisposto tutte le cose perché non ci accada nulla” aggiunse poi.
“Beh! Anche io ho un po’ di paura. Soprattutto che le cose possano andare storte. Soprattutto che Marco scopra il nostro diversivo e loro non riescano a portare a buon fine il tutto” confermò Nicola.
“Beh! Non preoccupatevi di questo!” intervenni “io mi fido di voi. Voi vi fidate di me?”
“Si!”
“Certo!”
Risposero entrambi.
“Bene! Allora vedrete che le cose andranno bene. Va bene essere in tensione. Va bene anche avere un po’ di paura! Vi fa produrre l’adrenalina di cui avrete bisogno per affrontare tutto domani con la giusta freddezza. Domani, quando sarete lì, vedrete che il tempo volerà e in men che non si dica, sentirete vibrare il telefono e vedrete che sarò io”
Poi però aggiunsi la cosa che forse in quel momento mi stava più a cuore di dire.
“Comunque, se qualcosa dovesse andare storta, ho raccontato tutto a Giuseppe. Lui sa già che cosa fare. Sa come contattarvi. Anche se è più piccolo di voi, e di Maria, vorrei che ubbidiste lealmente a tutto quello che vi dice di fare. Giuseppe conosce perfettamente tutta la storia e sa come comportarsi qui a Policoro. Non fate niente di vostra iniziativa. Promettetemelo”
Mi ero rimesso seduto sul letto e osservavo Vito e Nicola fisso negli occhi. Non distolsi lo sguardo, fino a quando entrambi non mi confermarono la promessa.
“Bene! Grazie! Veramente! Vi state dimostrando dei veri amici e non so come sarei riuscito a fare tutto questo senza di voi!” dissi.
“Adesso pensiamo a dormire, che domani sarà una giornata molto lunga e pesante, soprattutto per te!” disse Nicola.
Ci demmo la buonanotte e pochi minuti dopo, a parte il mio lento russare, non si sentiva il benché minimo rumore.
Stranamente, tutti noi dormimmo tanto e bene. Erano le otto che suonò la sveglia e mi alzai. Bevvi solo un caffè e quando anche i due gemelli raggiunsero gli altri in cucina, tutti seppero che Maria non stava molto bene e che quindi non sarebbero andati al mare.
“Ma come non sta bene? Noi oggi dobbiamo andare al mare! Abbiamo da fare!” e solo una mia occhiata severa impedì a Nicola di continuare a raccontare il resto.
La madre fu irremovibile. Ci fu qualche secondo di tensione. Io cercai di trovare una soluzione a tutto, poi fu Maria a tirate fuori la soluzione.
“Ma mamma, non possono andare solo loro con la zia al mare?” disse ad un certo punto.
“Io non posso venire, che voglio andare a fare un giro al mercato, ma se volete, potete andare con la zia Anna” aggiunse la madre.
E i due tirarono un sospiro di sollievo. E anche io. Anzi, soprattutto io, che in quei secondi stavo vedendo finire tutto quanto in un nulla di fatto.
“Però” aggiunse la madre rivolgendosi a me “Sai come la pensiamo su certe cose, Simone!”
Compresi immediatamente e chiaramente il senso del messaggio.
“Ma no! Non si preoccupi, vado a casa, che ho delle cose da fare lì e poi devo andare a fare dei giri. Non dovete preoccuparvi per me. Anzi, volevo chiederle, se i suoi figli vogliono, se Vito e Nicola possono venire questa sera a dormire a casa mia. Giusto per ricambiare un po’ l’ospitalità. E scusate se non l’ho fatto prima, ma devo prima risolvere dei problemi, poi mi farebbe piacere avere tutti voi ospiti a casa mia, almeno per una cena!” risposi. La madre di Maria, anche abbastanza stupita per la mia mitezza di temperamento, mi sorrise.
“Ok! Non preoccuparti. Ci pensiamo! Comunque per Vito e Nicola non ho problemi, tanto siete qui a cinque minuti a piedi. Allora ci vediamo a pranzo?”
“A pranzo” risposi mentre mi ero già alzato. Ritornai in camera seguito dai due gemelli.
“Perché le hai chiesto una cosa del genere? Non ti trovi bene qui?” chiese Vito.
“No, anzi! Mi trovo benissimo! È solo che così non si preoccupano se non mi vedono tornare presto stasera”.
I due ragazzi mi accompagnarono, dopo aver salutato le due persone adulte della casa, e ovviamente, dopo aver fatto un salto nella camera di Maria a sentire come stava.
“Niente! Solo un po’ di mal di testa. Devo aver preso un po’ di freddo ieri a Metaponto. Ci vediamo dopo” fu la piccola conversazione tra noi due.
Io chiusi la porta dietro di me. Come sarebbero state diverse le vacanze, se non avessi avuto quel problema! E come sarebbe stato diverso avere quel problema senza una persona così importante come lei al mio fianco! Purtroppo avevo la prima e per fortuna avevo la seconda. Riaprii un attimo la porta.
“Maria, ti prometto sulla mia stessa vita che domani mattina ci rivedremo e sarà tutto finito. E finalmente potremo gustarci questa vacanza come si deve!” le dissi.
Ci scambiammo un ultimo abbraccio. Sapevo che, per il suo stesso bene, quel giorno non avremmo potuto più vederci. Ma ero altrettanto certo di quello che le avevo appena detto. E lei aveva assoluta fiducia in me. E quello mi bastò. Arrivammo alla porta di casa. La zia stava aspettando Vito e Nicola alla macchina. Erano circa le dieci e stava per incominciare la nostra missione.
“Allora, la prossima volta che ci vedremo sarà alla fine di questa storia. Mi raccomando! Fate tutto come stabilito e non abbiate timore!”
Ci fu una veloce ma matura stretta di mano e poi tutti e tre uscimmo di casa. Vito e Nicola entrarono nella loro macchina. Io di corsa andai verso casa mia. L’ultima tappa prima del castello. Per le dieci e un quarto, io ero a casa e Vito e Nicola erano al mare. Chiamai subito Emanuele.
“Ciao! Dimmi!” rispose quest’ultimo.
Stava parlando a bassa voce, il che mi fece capire che probabilmente era già appostato.
“Sei già da Michele?” chiesi.
“Si!” rispose l’altro.
“Allora aspetta che ti faccia uno squillo per partire. Poi avvisa Francesco. Mi raccomando. Dovrete agire con la massima precisione e contemporaneamente, altrimenti sta cosa non riusciamo a farla”.
“Ok! Ciao!” e attaccò. Mi accorsi di quanto Emanuele fosse teso in quel momento.
E come tutti i miei amici fossero pienamente disponibili ad aiutarmi, sia per me, che per loro, per risolvere quella situazione una volta per tutte. Effettivamente, quello che avevo chiesto a Giuseppe, soprattutto per quanto riguardava la guida del furgone, era molto pericoloso, ma avevo pensato anche a quello. Alle dieci e trentacinque esatte, ricevetti una chiamata da Vito.
“Simone! Siamo arrivati al mare e siamo subito arrivati al ‘Lido sirena’. Io dalla spiaggia, Nicola dal lungomare. Effettivamente fa caldo e il tempo è bello. Come ci hai detto tu c’è veramente un sacco di gente! Marco, Cosimo e Amaraldo non sono ancora arrivati. Appena ti facciamo lo squillo, vorrà dire che saranno arrivati”
“Ok! Tu non farti vedere da loro! Appena arrivano, riunisciti prima con Nicola e poi andate insieme al loro tavolo”
“Ma i tavoli del lido sono tutti occupati!” disse Vito, osservando in quella direzione.
“Non preoccuparti. Quando arriveranno loro, un tavolo si svuoterà sicuramente! A dopo!” conclusi.
Passarono altri cinque interminabili minuti. Poi, finalmente i tre ragazzi arrivarono alla spiaggia. Immediatamente Nicola corse sulla spiaggia e raggiunse suo fratello. Prima di presentarsi mi mandarono un messaggio nel quale mi avvisavano che erano arrivati, lasciando però la macchina parcheggiata appena davanti all’entrata del lido. Quindi i tempi di fuga dal mare per il castello si erano sensibilmente ridotti. L’importante era far passare il tempo in qualche modo. Erano le dieci e quarantacinque quando ricevetti il messaggio di Nicola. Fu proprio in quel momento che mi attivai. Eccome se mi attivai. Schizzai in piedi e feci immediatamente lo squillo ad Emanuele. Emanuele mi chiuse il telefono in faccia. Immediatamente presi la bici, e volai al castello, lasciando la bici dove l’avevo lasciata anche il giorno prima. Mentre passavo sotto la strada di Giuseppe, mi accorsi di come in quella strada Giuseppe e Francesco fossero già al lavoro.
 
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Emanuele chiamò suo fratello.
“Fra! Simone mi ha fatto lo squillo, sei pronto?”
“Sono pronto” rispose il fratello.
“1… 2… e 3!”
Al “3” una pietra colpì, con una sintonia quasi da film, Dorian, sotto casa di Michele e Salvatore, sotto casa di Giuseppe. Neanche dieci secondi dopo, Giuseppe era fuori, prese le chiavi del furgoncino. Solo pochi secondi dopo ancora e anche Michele era fuori. Solo che lui prese la bici e partì in quarta verso casa di Amaraldo.
Emanuele, che si era portato dietro scotch e della corda, legò mani e piedi a Dorian, e gli chiuse la bocca con lo scotch. La stessa cosa fece Francesco con Salvatore. Dopo caricò, aiutato da Giuseppe, Salvatore sul furgone. I due ragazzi si fermarono un attimo solo quando, sorridenti, mi videro scivolare silenziosamente e velocemente lungo la strada verso il castello. Giuseppe accese il motore e partirono, lentamente ma decisi, verso casa di Michele.
Alle 10.53 Emanuele chiamò Giovanni, con il cellulare di Dorian.
“Venite te e Massimo da Michele. Stava cercando di uscire, solo che mi ha bloccato minacciandomi di picchiarmi. Io l’ho steso e adesso è qui che perde un po’ di sangue, dovete darmi una mano. Pensate quando lo saprà vostro fratello, che bella figura ci faremo!”
E attaccò immediatamente. Sapeva che l’orgoglio e il desiderio di fare bella figura con il loro fratello maggiore (sia Amaraldo per Dorian, che Cosimo per gli altri due) li avrebbe spinti a voler fare tutto da soli. Giuseppe e Francesco arrivarono appena chiusa la comunicazione. Caricarono anche Dorian nel furgone e poi Giuseppe allontanò il furgone. Emanuele e Francesco si riposizionarono giusto in tempo per l’arrivo degli altri due.
Alle 11.05, Emanuele e Francesco stesero Giovanni e Massimo, e li legarono, imbavagliarono e spinsero sul furgone. Poi salutarono Giuseppe e andarono a casa mia, come da istruzioni.
Alle 11.10 Giuseppe arrivò al castello, avvicinandosi il più possibile all’ingresso delle stalle. Io lo stavo aspettando lì. Giuseppe scese dal furgone, fece il giro e aprì il portellone posteriore, consegnandomi la vista più bella che avrei mai potuto sognare. I quattro ragazzini erano lì sdraiati e addormentati come angioletti.
“Francesco e Emanuele sono stati fantastici!” ripeteva Giuseppe, mentre scaricavamo i quattro dal furgone. Li posizionammo due a destra e due a sinistra della porta che dava sulle scale per il covo. Poi presi la lettera che avevo appena scritto e la imbustai, lasciandola sul primo scalino.
Poi feci un numero di telefono.
“Buongiorno! Ho appena visto delle persone che scaricavano dei ragazzi legati e imbavagliati da un furgone bianco. Ero in bici e non sono riuscito a prendere il numero di targa. Venite subito, al castello, sotto le mura del lato Sud”
Poi mi rivolsi a Giuseppe.
“Grazie Giuseppe. Ottimo lavoro. Adesso torna a casa, ci vediamo più tardi”
Giuseppe non se lo fece ripetere due volte.
Erano le 11.15 quando il furgone correva via per la strada del castello. Neanche un minuto dopo, Giuseppe lasciò il furgone dov’era e rientrò in casa, lasciando tutti inconsapevoli di quello che aveva appena fatto. Quando Massimo e Giovanni se ne erano andati, ero salito immediatamente al covo e avevo preso qualche orologio e qualche gioiello dall’armadio. Mi sarebbero serviti poi. Per la seconda parte del piano. Pedalai fino ad un centinaio di metri di distanza. Poi feci lo squillo a Vito.
Alle 11:20 i carabinieri erano al castello. Presero la busta, la lessero e, mentre venivano prestati i primi soccorsi ai ragazzini che intanto si erano svegliati, corsero immediatamente verso il covo, dove sfondarono senza mezzi termini la porta e dove immediatamente si diressero verso gli armadi, trovandoli pieni di oggetti preziosi e soldi.
Alle 11.25 riscesero.
 
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Michele prima di tutto andò a casa di Amaraldo. Suonò al citofono e gli rispose la madre.
“Buongiorno signora! Può fare scendere Amaraldo? Devo parlargli!” disse.
“Ehm! Michele? Amaraldo non c’è e neanche Dorian! Mi avevano detto che dovevano vedersi con te alle dieci e mezza!” rispose la madre con una voce preoccupata.
“No! Ci dovevamo vedere adesso, ma non sono ancora arrivati, vabbè, quando tornano gli dica che è saltato tutto, io non ho soldi nel cellulare, quindi non posso contattarli di persona!”
“Va bene! Non è che è successo qualcosa?”
“Mannò! Volevamo vederci per andare in bici al mare ma niente di che! Salve”
Sentì il citofono chiudersi. Praticamente dopo tre minuti si ripeté la stessa scena con la madre di Salvatore.
Erano le undici, quando si mise di buona lena a coprire i cinque chilometri che lo separavano dal mare. E giunse al parcheggio più vicino al lido sirena dopo circa venti minuti. Stanco e sudato ma ancora in tempo, per vedere la fine di quella scena, come da istruzioni di Simone. E infatti pochi secondi dopo vide i tre scapicollarsi fuori dal lido, ed entrare in macchina, rossi in viso, e ripartire, non prima di aver pronunciato anche qualche bestemmia a voce tanto alta da farsi sentire addirittura da lui.
Pochi secondi dopo la loro partenza, vide uscire anche Vito e Nicola.
“Che cosa gli avete detto?” chiese, quasi preoccupato.
“Che hanno perso tutto, refurtiva, covo e fratelli! Simone ti aspetta a casa sua” rispose Vito.
Michele rimase di stucco. Ci pensò un attimo poi prese la bici e, dopo avermi fatto lo squillo, pedalò di nuovo verso Policoro. Arrivando verso mezzogiorno a casa mia.
 
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Alle 11 esatte i tre erano seduti ad un tavolino del bar del lido. Si guardavano intorno con aria interrogativa cercando di scrutare nelle persone che gli stavano intorno delle figure che conoscevano, senza molti risultati. Passarono circa dieci minuti quando Nicola si riavvicinò a suo fratello Vito, e insieme proseguirono verso il bar. A una decina di metri di distanza poterono finalmente vedere Amaraldo che dava un colpo di gomito a Marco, che si accorse di loro. Ovviamente avevano collegato il fatto che erano gemelli con la firma del bigliettino che qualcuno gli aveva recapitato due sere prima.
Alle undici e undici si sedettero di fronte ai loro nemici.
“Buongiorno!” disse Marco.
Risposero entrambi gentilmente.
“Allora” esordì Cosimo “Volete spiegarci che storia è questa?”.
“Noi siamo turisti. Sabato sera non riuscivamo a divertirci e ci siamo messi a camminare lungo il sentiero. Siamo quasi arrivati al “Torremozza” come lo chiamate voi. Quando abbiamo notato una luce in mezzo ad una radura nel bosco. Non sapendo chi foste, e che cosa steste facendo, ci siamo avvicinati”
“Come mai non ci siamo accorti di niente?” chiese incalzandoli Cosimo.
“Perché eravate troppo impegnati a frustare e picchiare quel ragazzo” continuò Vito. Che, avevano deciso, doveva avere il controllo della situazione. Nicola invece rimase in silenzio.
“Ci siamo avvicinati e abbiamo visto quello che stavate facendo. Trattare così un ragazzino! Fate schifo!” disse Vito, alzando un po’ la voce.
“Ehi ehi!” lo interruppe Marco “moccioso, vedi di stare calmo. Qualcuno ci potrebbe sentire e ci dispiacerebbe fare a voi la stessa cosa!” disse, fissandolo negli occhi.
Vito, però, non abbassò lo sguardo. “E dove pensate di farlo? È la prima volta che ci vedete, è la prima volta che ci sentite, non sapete neanche da dove veniamo. E soprattutto dove abitiamo qui” rispose questo, con aria di sfida.
“E pensate che sia difficile saperlo?” disse Marco. “Poi in un attimo siamo da voi due e, così solo per divertirci, passiamo qualche ora insieme nella radura, vi piacerebbe? Per non parlare del vostro spiccato accento milanese!”.
Evidentemente lo disse nel tentativo di intimorirli. Tentativo che non ebbe alcun risultato.
“Beh! anche tu, quanto ad accento milanese, non te la cavi mica male!” disse Vito sorridendo.
Marco si fermò, osservandoli attentamente. Cercò in tutti i modi di ricordare dove avrebbero potuto averlo già visto, in considerazione del fatto che avevano riconosciuto quella leggerissima inflessione che ancora si portava dietro dalla sua “precedente vita” milanese.
“Comunque, stiamo tendendo troppo la situazione” disse Nicola, cercando di riportare la calma. E permettendo a Vito di continuare.
“Siamo di Milano, si! Ma di origini siamo di Rotondella! E ci chiamiamo Vito e Nicola, contenti?” spiegò brevemente Vito.
Questa era una inutile verità, perché di origine erano veramente di Rotondella. Ma l’importante era mantenere la storia ancora per qualche minuto. Nicola guardò il polso di Cosimo, l’orologio che si trovava a quel polso, e vide che intanto erano da poco passate le undici e un quarto.
“Sabato sera, dicevamo” continuò Vito “Abbiamo visto tutto. Come l’avete conciato, quello che gli avete fatto. E da quel momento, non sappiamo che fine ha fatto. Certo, se l’aveste ucciso, sarebbe un problema”.
Amaraldo fu il primo a cedere alla tensione e parlare troppo.
“Giuseppe non è morto, è solo a casa sua!” disse, solo per essere fulminato da Marco, che stava incominciando a capire che c’era qualcosa che non andava.
“Sentite” disse “se volete dirci il motivo per cui siamo venuti qui, ditecelo e facciamola finita, almeno con questa sceneggiata”
“Va bene! Ecco, se ci fosse capitato di fare delle foto con il cellulare, e di salvarle su un computer, e poi su un cd, come questo” e con un tempismo magistrale tirò fuori il cd dalla tasca del costume, “cosa sareste disposti a fare per non farci consegnare il tutto ai carabinieri?”
Il silenzio cadde su tutti e cinque. I tre per quello che avevano sentito, i due per quello che stavano per sentire. Marco si appoggiò con i gomiti al tavolo, e fece segno a Vito di avvicinarsi. Questi lo fece. Non troppo preoccupato.
Marco lo fissò negli occhi e sottovoce disse: “Se non ci consegnate quelle foto, tutte le copie che ne avete fatto, e se non lo fate immediatamente, da qui non uscite vivi! E anche se doveste riuscirci, tra la vostra denuncia e il nostro arresto fareste la fine di quel ragazzo. L’avete sentito urlare come una femminuccia mentre giocavamo con le sigarette, eh? A voi facciamo di peggio! Quanto è vero che mi chiamo Angelo”
Vito rimase evidentemente impressionato da quella frase. Da una parte sapeva che erano loro ad avere in mano la situazione. Dall’altra si preoccupò di come quella situazione potesse continuare. Almeno per qualche minuto. Si riadagiò alla sedia, pallido. Gli rimbombavano le orecchie, e per una manciata di secondi si estraniò dal mondo che gli stava attorno. Ebbe un momento di paura mista a schifo per quello che aveva appena sentito. Non era religioso, almeno, non pensava di credere in Dio. Però in quel momento, qualunque altra persona, avrebbe capito che stava pregando. Pregando che quello squillo arrivasse. Perché non sapeva più cosa fare.
“Vi diamo due ore” continuò Marco, “Per consegnarci tutte le foto, poi, carabinieri o no, vi cancelliamo dalla faccia della terra”.
Fu solo allora, dopo qualche altro secondo, quando i tre stavano per alzarsi ed andarsene, che Vito incominciò a credere che, se doveva esistere un Dio, doveva volergli anche un sacco di bene. Perché quello squillo tanto aspettato arrivò.
“Un momento!” disse. Si era preparato e ripassato quelle frasi per due giorni, da quando Simone gli aveva chiesto di crearle, il più sceneggiate possibile. I tre si riadagiarono sulle loro sedie. E Vito, per l’ultima volta, parlò.
“Cari miei, voi vi atteggiate da forti, minacciate violenza e umiliazioni, ma non vi siete neanche resi conto che noi non siamo nessuno. Il vero senso della vostra presenza qui è allontanarvi dal castello. In questo momento persone più furbe, intelligenti e giuste di quanto voi siate mai stati nella vostra vita, hanno consegnato Dorian, Salvatore, Massimo e Giovanni ai carabinieri, insieme a quasi tutta la refurtiva che avete nascosto al castello. In questo preciso istante la banda dei Tre Fratelli è finita”
Poi si avvicinò nuovamente al tavolo, appoggiando i gomiti su di esso e si riavvicinò a Marco. Questa volta improvvisò: “Noi di voi tre non abbiamo paura! Anzi, riceverete presto nostre notizie. Ad ogni modo, prima che scappiate, perché ora scapperete, altrimenti chiamiamo subito i carabinieri anche qui, un amico ti manda un messaggio: Tanti saluti, Marco!”
Quando Marco ritrasse il corpo, non lo appoggiò sulla sedia. Rimase immobile, con lo sguardo fisso su Vito. Quel nome non lo sentiva da tanto tempo. Marco. Nessuno lo conosceva lì con quel nome. Nessuno lo conosceva più con quel nome. Neanche a Milano le persone che conosceva e con cui ancora si sentiva, lo chiamavano più Marco.
“Ma chi siete voi?” balbettò, con una voce debole e tremante. Si alzò di scatto, lasciando cadere la sedia alle sue spalle. I due ragazzi seduti al suo fianco, prima si guardarono a vicenda come per cercare una spiegazione a tutto quello. Non avevano capito ancora quello che era successo. Poi guardarono il loro capo.
Il Sole era coperto da una nube di passaggio, probabilmente una nuvola che preannunciava qualcosa. Una piccola nuvola, che per degli occhi esperti come quelli di un policorese, significava come minimo che nel tardo pomeriggio forse avrebbe fatto un temporale. Oscure nubi si estendevano all’orizzonte. Una piccola nuvoletta si era staccata ed aveva coperto negli ultimi trenta secondi il sole. Ma solo per pochi secondi. Poi si era spostata, sospinta dal vento nel mare aperto. La luce era ritornata. In quel momento, come spesso accade, tutti i bagnanti avevano rivolto lo sguardo all’insù, preoccupati per quell’ombra improvvisa. E un po’ di silenzio aveva pervaso tutta la spiaggia. In quel preciso istante, Vito aveva mandato quei saluti a Marco. Chiamandolo con il suo vero nome. E quella nuvola, con la sua ombra, sembrava una spugna, ripulendo ogni traccia di spavalderia dal viso di Marco, facendo capire a Amaraldo e Cosimo quello che quel ragazzino gli aveva appena detto e cioè che era appena accaduto qualcosa di spaventoso a Dorian, Giovanni e Massimo. Anche gli altri due, allora, schizzarono in piedi. Anche le loro sedie fecero quel rumore fastidioso di plastica che struscia sul cemento.
E le sorti si invertirono. Quell’aria spavalda e coraggiosa che li aveva caratterizzato mentre, solo pochi minuti prima, vedevano quei due ragazzini che si stavano avvicinando, si era trasformata in ansia, preoccupazione, disperazione, scoraggiamento, solitudine, abbandono, incertezza, insomma, paura. Rossi in viso, tutti e tre, persero qualche altro secondo a fissare silenziosamente i due ancora seduti. Per quanto lo sguardo fosse severo e cattivo, i due gemelli estrassero quello stesso “sorriso cattivo” che mi caratterizzava in certe occasioni. Sortendo l’effetto tanto voluto e desiderato. I tre si voltarono e corsero via, scomparendo nel piccolo passaggio che conduceva fuori dal bar ed entrando in macchina, seguiti, dopo qualche secondo, da Vito e Nicola. Appena la macchina fu partita, videro spuntare Michele da dietro una delle auto parcheggiate legalmente di fronte al bar.
“Che cosa gli avete detto?” chiese Michele, quasi preoccupato.
“Che hanno perso tutto, refurtiva, covo e fratelli! Simone ti aspetta a casa sua” rispose Vito.
Michele rimase di stucco. Ci pensò un attimo poi prese la bici e, dopo avermi fatto lo squillo, pedalò di nuovo verso Policoro. Arrivando verso mezzogiorno a casa mia.
Vito e Nicola rientrarono al bar e ordinarono un’aranciata. Avevano sete. Non perché avessero parlato troppo, ma per ciò che avevano appena detto. Rimasero in silenzio, aspettando, ansiosamente, il mio squillo di conferma dell’arrivo dei tre al castello. Squillo che non tardò ad arrivare. Solo allora, corsero più veloci che potevano verso la loro spiaggia, quella all’estrema periferia Ovest dei lidi, lontano da quel luogo del misfatto. Sapevano anche loro che quello che avevano fatto era servito. Poco dopo essere arrivati, mi  telefonarono.
“Ciao! Come è andata?” risposi.
“Benissimo! Tutto come nei piani. Stavamo tirando un po’ troppo la corda, menomale che tu ci hai fatto lo squillo giusto in tempo. E a te come è andata?”
“Francesco e Emanuele sono stati bravissimi! E Giuseppe eccezionale! Un tempismo perfetto. Anche se non ho fatto nulla di ché, è stato divertentissimo vedere di nascosto la faccia dei carabinieri mentre portavano via quei quattro dopo aver scoperto la refurtiva”
“Adesso dove sei?”
“Sto quasi per andare a casa mancano ancora un paio di cose. Avete visto Michele?”
“Si! Sta arrivando anche lui a casa tua!”
“Bene! Giuseppe dovrebbe essere già arrivato! Allora ci vediamo stasera dove sapete!”
“Ok! Ciao!” e Nicola chiuse la comunicazione.
Io rimasi nascosto ben lontano dal castello,  guardando i tre, arrivati da qualche minuto giù dalla salita del castello, che impotenti fissavano il castello, pullulante di carabinieri che si erano ripresi tutta la refurtiva. Amaraldo e Cosimo rimasero tutto il tempo al telefono con i loro genitori a cercare di spiegare il motivo per cui era successo questo. Poi la macchina si accese e si allontanarono velocemente, prendendo verosimilmente la strada per la casa di Marco, l’unico capace, in quel momento, di dargli asilo e protezione, ancora per poco. Solo a quel punto ripresi la strada di casa, ed arrivai quasi a mezzogiorno. Lasciai la bici e, aperta la porta, venni inondato da un profumo fantastico. Un profumo che diceva tante cose di quella storia. Un profumo che mi fece ritornare a metà della settimana precedente, e alla nostra avventura appena incominciata.
-degna fine di avventura- pensai, mentre sentivo nelle narici l’aria saporita del rosmarino e l’aroma inconfondibile del tonno, che stava cuocendo in padella. Proprio in quel momento comparvero dalla camera da letto Giuseppe, Emanuele e Francesco, mentre alla porta suonava e faceva il suo ingresso Michele. Per la prima volta, da liberi, la porta rimase aperta. In quella rimpatriata, lui, proprio Michele, non poteva mancare.
Corsi incontro a Emanuele e Francesco abbracciandoli. Era dalla domenica sera che non li vedevo. E avevamo proprio voglia di rivederci.
Michele si rivolse a me, quasi commosso.
“Ottimo piano! Avevo ragione a temerti, quando eravamo costretti da forze maggiori di noi ad essere nemici. Scusa ancora! Scusatemi tutti!” disse, ancora emozionato.
“Non preoccuparti! L’importante è che sei tornato! Siete stati tutti fantastici! Non è andato storto niente!” risposi.
“Anche Vito e Nicola sono stati fantastici! Dovevate vedere quei tre come sono usciti dal lido e se la sono filata a gambe levate verso il castello!” continuò Michele.
“Sapevo di poter contare su di loro! Sapevo di poter contare su tutti voi!” conclusi.
“Ma…!?” disse Giuseppe guardandomi con aria interrogativa. Assolutamente incompreso da tutti, ma pienamente compreso da me.
“Ah! Si!” dissi “Adesso posso chiamarla!”
Uscii solo per non vedere gli sguardi interrogativi di tutti.
“Giuseppe, racconta!” furono le mie ultime parole, mentre mi riaffacciavo alla porta, prima di uscire sul terrazzo davanti casa. E Giuseppe raccontò agli altri tutto, tranne, ovviamente, dove abitavano in quel momento. Quella era un’informazione che meno persone sapevano, meglio era, almeno ancora per mezza giornata.
“Pronto!” sentii dall’altro capo del telefono. Il mio cuore sobbalzò, solo per il grande desiderio di rivederla.
“Ciao! Come stai? Come va il mal di testa?”
“Meglio, grazie! Dove sei?”
“Sono a casa, sono appena arrivato. I ragazzi mi hanno sequestrato a pranzo a casa mia, temo che ci rivedremo direttamente domani”
“Ah! Ho capito!” disse Maria.
“Non preoccuparti, il prossimo mese e mezzo, e te lo prometto, sarà tutto per noi. Ma o sta cosa finisce adesso o ce la portiamo dietro per troppo tempo. Ti voglio bene!”
“Anch’io! Mi raccomando! Sono appena tornati a casa anche Vito e Nicola e li ho sentiti al settimo cielo! Complimenti!”.
“Ciao!”
“Ciao!”
Click.
“Ti amo!” ma aveva già attaccato. Rimandai quell’ultima frase, capitale, al giorno seguente. Tanto, ne ero sicuro, gliel’avrei detto. Rientrai in casa. Gli altri erano ancora concentrati sul racconto di Giuseppe, tranne Emanuele, concentrato com’era a girare il sugo. Dopo qualche minuto buttammo la pasta, un chilo di pasta, ce la saremmo fatta bastare, ma eravamo così contenti per quello che era successo che morivamo dalla fame. Dopo mangiato, se ne andarono Francesco e Emanuele.
Appena Francesco ed Emanuele uscirono da casa mia, io, Michele e Giuseppe, finalmente soli, passammo alla fase due del piano. Dovevamo, infatti, incontrarci, anzi, scontrarci, con Marco, Amaraldo e Cosimo. E sapevamo di doverlo fare quella sera stessa. Sapevamo infatti che Amaraldo e Cosimo non sarebbero ritornati a casa, e che si sarebbero rifugiati a casa di Marco. Era l’unico posto a cui i carabinieri di certo non avevano fatto visita, rimasti sicuramente all’oscuro della sua identità. Mi sedetti al tavolo con carta e penna e scrissi un altro messaggio.
 
“Ciao Marco, Cosimo e Amaraldo,
Vi abbiamo tolto tutto, famigliari, bottini, orgoglio e dignità. Incontriamoci questa sera alla radura. Alle 20. Se verrete, dovrete essere da soli, come saremo soli noi. Stasera questa storia deve finire una volta per tutte. Noi tre vi aspetteremo fino alle 20.30. poi i due che avete torturato e picchiato chiameranno i carabinieri e li faranno venire lì dove tutto è accaduto. Io ho rubato solo una parte della refurtiva, per farla ritrovare ai carabinieri alla radura, giusto per avvalorare le affermazioni dei miei due amici. a stasera, pensiamo.
PS: Saluti da Vito e Nicola
Simone                          Michele                         Giuseppe "

 
“Ragazzi” continuai, mentre stavo piegando e imbustando quel messaggio “Siete tutti e due sicuri di farla, questa cosa? Siamo ancora in tempo per lasciarli disperati così e braccati dai carabinieri e goderci questa vacanza. Che ne dite!?”
“Siamo arrivati fino a questo punto e non possono rimanere impuniti. Dobbiamo dargli una lezione. Devono pagarla” rispose Giuseppe.
“Devono pagarla per tutto quello che ci hanno fatto” continuò Michele.
“Va bene!” risposi. “Allora facciamolo”.
Presi la busta e la chiusi, portandomela dietro. Presi la bici e pedalai verso casa di Marco. Tutte le finestre erano chiuse, e le tapparelle abbassate, ma da dentro si potevano sentire delle voci. Senza pensarci due volte presi la busta e la feci passare sotto la porta, causando un immediato silenzio. Immediatamente saltai in sella della bici e corsi via più veloce che potevo. I tre non fecero neanche in tempo ad aprire la porta che avevo appena girato l’angolo. Neanche dieci minuti da quando ero partito, mi ritrovai di nuovo a casa.
“E così sono uscito allo scoperto. Adesso sanno che sono qui. Quindi tanto vale andare via immediatamente da qui, non vi sembra?” dissi, cogliendo la risposta affermativa degli altri.
Erano circa le quattro quando prendemmo le bici e con calma ci recammo al mare. Al lido “Torremozza” ancora pieno di bagnanti. Ce la prendemmo con calma e durante quei momenti ci distraemmo anche a ridere e scherzare. Avevamo preso tutto il necessario, quindi eravamo anche appesantiti dalla roba, perciò ci mettemmo circa un’ora. Arrivammo al mare che era ancora molto presto. Circa le cinque e mancavano ancora tre ore all’appuntamento da cui sarebbe dipesa tutta la fine della storia. Evidentemente l’avevamo scampata bella, perché il tempo non si era guastato e il cielo si era di nuovo rasserenato. Fortunatamente. Ci allontanammo dalla strada principale nella direzione opposta rispetto a quella per raggiungere la radura. In quel modo avremmo potuto continuare a divertirci almeno un po’ di tempo prima dell’incontro. Ci facemmo il bagno, chiacchierammo del più e del meno. Era incredibile come i nostri bisogni per stemperare la tensione fossero gli stessi. Praticamente parlare di ragazze. Anche se io avevo occhi, orecchie e cuore solo per Maria. Gli altri due non proprio. A dirla proprio tutta, ebbi più di una volta la netta impressione che il tempo per intrecciare un rapporto con un'altra persona non era mancato a nessuno dei due. Come era accaduto a me.
Erano le diciannove e trenta, quando si concedemmo l’ultimo tuffo. Poi dieci minuti per asciugarci e, bici alla mano, prendemmo la strada della radura. Il sentiero era più visibile dalla radura stessa. quindi lasciammo le bici al loro posto riservato all’ingresso della spiaggia e, zaini alla mano, prendemmo la direzione della radura dalla spiaggia.
“Sono già qui!” disse Giuseppe, segnando quella che evidentemente era la macchina di Marco.
Ormai il sole era parecchio basso all’orizzonte e tutti e tre ci avvicinammo lentamente ma inesorabilmente alla radura. E al nostro destino, anche se fino a quel momento, il destino ce l’eravamo costruiti con le nostre mani. Aiutati dal silenzio delle suole delle scarpe attutite dalla sabbia, ci avvicinammo il più possibile alla radura, in ginocchio, strisciando, per non essere visti da nessuno di loro. L’idea era semplice: avvicinarci il più possibile, di nascosto, uscire allo scoperto cogliendoli di sorpresa e dargli tante di quelle botte, come diceva mio padre, che anche solo la metà sarebbero bastate a fargli passare la voglia di continuare a romperci le scatole.
Semplice ma coraggiosa. Ma d’altra parte, l’idea geniale a coraggiosa ce l’avevamo avuta ed eravamo riusciti a realizzarla la mattina. Quindi eravamo più che soddisfatti della nostra intelligenza: il massimo risultato con il minimo sforzo non era cosa tipica per dei ragazzini e grazie alla collaborazione di tutti ci eravamo riusciti. Ma ora eravamo lì. Avevamo veramente voglia di risolvere quella situazione in quel modo. Per vendicarsi, era il pensiero di Michele. Per coraggio, quello di Giuseppe. Per giustizia, la mia idea.
Se solo avessimo pensato anche agli aspetti più profondi di quello che avevamo fatto, sarebbe stato tutto più chiaro nella nostra mente. Ma a volte, la fretta, la rabbia e la paura sono sentimenti forti. E se anche noi eravamo condizionati da quei sentimenti, nessuno poteva anche solo lontanamente immaginare come fossero esponenzialmente moltiplicati nei nostri nemici. Ed infatti io, Michele e Giuseppe fummo troppo frettolosi di veder risolta una volta per tutte questa situazione. Troppo impauriti per pensare razionalmente e troppo arrabbiati per farlo con prudenza. Il risultato? Ci eravamo portati dietro le mazze da baseball. Troppo poco. Purtroppo ce ne accorgemmo troppo tardi.
La rabbia rende ciechi. Ma non idioti. Quello bisogna esserlo un po’ per natura. Esattamente come, almeno un po’, si nasce cattivi. Devi proprio averlo nel cuore. Deve permeare il tuo carattere. È vero, quando vuoi puoi tirare fuori il tuo sorriso, anche il peggiore, anche il più “cattivo”. Ma se non lo sei per natura, non lo sarai mai veramente. E infatti la rabbia non ti acceca a tal punto da non vedere che ci sono i tuoi tre peggiori nemici seduti sopra un tronco d’albero proprio al centro della radura. Ma l’idiozia, quella sì che non ti fa accorgere che nella radura ci sono solo due nemici e una bambola gonfiabile, dalla dubbia origine. Ma pur sempre un pupazzo. E non te ne accorgi se non quando Amaraldo, con due pistole, sfruttando la silenziosità dei piedi nudi sulla sabbia, ti coglie alle spalle, puntandoti le pistole alla testa, una per Giuseppe e una per Michele. I due più vicini. I due più comodi. Anche la comodità di scegliere le persone a cui puntare le pistole si erano presi. Quando i due ragazzini sentirono il metallo freddo delle pistole alla nuca, si voltarono di scatto, per poi cadere spaventati all’indietro. Amaraldo puntava le due pistole a ciascuno dei miei amici. Io feci appena in tempo a girarmi, e accorgermi di quello che stava accadendo. Amaraldo fece un fischio e solo allora Cosimo e Marco, lasciando cadere la bambola gonfiabile alle loro spalle, si voltarono. Cosimo, raggiungendomi, mi puntò la terza pistola alla nuca. Pochi istanti dopo un colpo secco, col calcio della pistola, alla testa e, contemporaneamente, tutti e tre cademmo a terra, svenuti.
Che idioti eravamo stati. Quanto eravamo stati ingenui. Queste furono le ultime frasi che ripetei a me stesso prima di perdere i sensi cadendo a terra. Nessun accordo tra noi tre, nessuno sguardo complice. Solo lo stesso destino per tutti e tre. Brutto, ma almeno lo stesso.
E si fece buio.


---


NdA: Buongiorno a tutti! In effetti questo capitolo è parecchio lunghetto, ma ho preferito scriverlo tutto. Avrei potuto interrompermi prima dell'inizio dell'azione da parte di Emanuele e Francesco, ma mi sembrava di frenare troppo la suspance. Inoltre ho ancora due capitoli da postare e sono quelli della prossima settimana, perché vorrei finire di postarlo prima di Natale (ed è per questo che in queste ultime settimane ho "accelerato"). Fatemi sapere cosa ne pensate.
A Lunedì!!

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Capitolo 24
*** Una notte e forse mai più ***


UNA NOTTE E FORSE MAI PIU’

La prima cosa della quale mi resi conto quando ripresi i sensi, ancora prima di aprire gli occhi, fu che ero legato. Ero sdraiato a terra supino, mani e piedi legati con delle corde. Le braccia e le gambe erano divaricate. Il piccolo particolare delle corde che mi legavano gli arti mi face immediatamente ricordare quello che era accaduto. Ancora non avevo aperto gli occhi. Forse era la paura che me li faceva tenere ancora chiusi, facendomi restare uno “sveglio in incognito”, seppur consegnato completamente ai miei nemici. A giudicare dal fresco della sabbia e dell’aria doveva essere tramontato già il sole. E, anche se non aperti, gli occhi non percepivano alcuna traccia di luce. Quindi doveva essere buio. A fine giugno, quel buio si raggiungeva solo verso le dieci e mezza. Fu a quel punto che udii distintamente quello che stava accadendo intorno a me. Alla mia destra ed alla mia sinistra potevo sentire chiaramente degli strattoni. Come se gli oggetti a cui erano fissate le mie mani ed i miei piedi fossero, contemporaneamente, strattonati da altre persone. Capii che dovevano esserci una persona alla mia destra ed una alla mia sinistra. Mi ricordai allora che non ero solo. Fu lì, in quel momento, che aprii gli occhi. Alla mia destra avevano legato Michele. Alla mia sinistra Giuseppe. Nonostante i loro sforzi, quei pioli erano molto ben piantati nel terreno. A nulla servivano quegli strattoni. Lentamente, abituandomi al buio, illuminato solo da un fuocherello, acceso a qualche metro da noi, aguzzai la vista e mi accorsi del fatto che a Giuseppe e Michele erano stati levati i costumi. Solo a quel punto mi accorsi anch’io dello stesso particolare. I miei due amici, risvegliatisi qualche minuto prima di me, erano già in preda al panico. Si agitavano, si contorcevano, probabilmente coscienti della situazione che si era venuta a creare, coscienti del fatto che quei pioli, quelle corde e tutta la loro condizione non lasciavano presagire nulla di buono. D’altra parte, negli ultimi dieci giorni, loro erano già stati in situazioni simili e sapevano che di lì a poco avrebbero potuto provare dolore, molto dolore. Troppo dolore. Cercai di parlare, se non che la progressiva coscienza che stavo acquistando, mi fece accorgere che tutti e tre avevamo un giro di scotch sulla bocca, trasformando quegli urli in deboli mugolii.
Quando videro che anche io avevo incominciato a mugolare, e solo a quel punto, si affacciarono nel nostro campo visivo tutti e tre i nostri nemici.
“Bene! Così vi siete svegliati!” esclamò Cosimo.
“Era ora! Così possiamo divertirci un po’!” continuò Amaraldo.
Dai visi pallidi di Giuseppe e Michele incominciarono copiose a scendere delle lacrime. Sarebbero scese anche dai miei occhi. Il problema era che ero ancora allo stato primitivo di incredulità per la nostra mancanza di intelligenza e di buon senso.
Avrei accettato di perdere in qualsiasi altra situazione. Purché avessi avuto l’opportunità di combattere. Sapevo che quei pensieri erano ancora peggio della paura di Giuseppe e Michele. Perché annebbiavano ancora di più la mia mente e mi impedivano di ragionare. Di razionalizzare. Ad esempio, che cosa avevano in mente di farci? Avrebbero usato quelle pistole che avevano portato con loro? Ci avrebbero uccisi? Ci avrebbero torturati? Ma per avere cosa in cambio? Per raggiungere quale obiettivo? Per un attimo, pur di non pensare a quelle cose, preferii pensare che sarei morto volentieri in modo veloce pur di non soffrire. Ad un tratto, i tre tirarono fuori le pistole e le puntarono ciascuno alla testa di uno di noi. E Marco parlò.
“Adesso, se fate i bravi, noi vi liberiamo la bocca. Però non dovete urlare. D’accordo?”.
Evidentemente tutti e tre dimostrammo di voler collaborare, perché con uno strappo deciso, ci levarono la striscia di scotch. E solo per quello avrei urlato di dolore, rendendomi conto che non mi conveniva farlo, anche solo per la pistola che avevo puntata contro come deterrente.
“Bene!” continuò Marco. “Adesso giochiamo un po’. Io vi farò una domanda. Voi avrete dieci secondi per rispondere. Se lo farete, bene. Passeremo immediatamente alla parte divertente. Se non risponderete entro i dieci secondi, vi rimetteremo il bavaglio di scotch. Ma solo per non essere eccessivamente infastiditi per le vostre urla. Perché per cinque minuti esatti, vi colpiremo con i bastoni che due di voi conoscono già benino. Ovunque ci venga voglia di farlo. Per cinque minuti interi. Pensateci! Dieci secondi per scegliere che ne sarà della vostra vita per i prossimi cinque minuti. Non male eh? Poi vi leveremo il nastro per dieci secondi. Altri dieci secondi per decidere il destino dei successivi cinque minuti. E così fino a quando non parlerete, oppure fino a quando non ci stancheremo. E a quel punto ho tante altre idee per farvi parlare. Appena sfrutterete i dieci secondi di tempo che avrete disponibili per parlare, il gioco finirà, e ci divertiremo per un po’ in qualche altro modo, prima di lasciarvi qui, ad aspettare di essere scoperti da qualcuno domattina” e Marco si fermò, aspettando di vedere la nostra reazione.
Michele guardava Amaraldo, che lo sovrastava, con aria di sfida, ma anche profondamente intimorito di quello che si aspettava. Non sapeva quale fosse la richiesta di Marco. Certo era che se non fosse stato legato, pistola o no, avrebbe combattuto con il suo ex-amico fino alla fine, sua o dell'altro.
Giuseppe piangeva disperatamente. Non aveva smesso di piangere per tutto lo spaventoso discorso di Marco. Sommessamente, ma grosse lacrime gli uscivano dagli occhi. Sapeva quello che stava per succedere e non si rendeva minimamente conto del livello di dolore che avrebbe potuto sopportare prima di soccombere.
Io non avevo mai sentito pronunciare minacce tanto spaventose da parte di una persona. Non so cosa provavo in quel momento. Non avrei voluto rassegnarmi per nessun motivo al mondo, ma non sapevo se sarei riuscito a resistere al dolore che stavo per provare. Prima di tutto, però, avrei sentito la domanda di Marco. Se la risposta fosse stata compatibile, avevo deciso di rispondere a qualsiasi domanda mi avesse fatto. Fondamentalmente, c’era solo una domanda a cui non potevo rispondere. A costo di perdere la vita su quella spiaggia. Speravo, perciò, che Marco non stesse per fare proprio quella domanda.
“Voglio sapere chi sono e dove sono in questo momento Vito e Nicola?”
-Porca vacca… proprio ‘quella’- pensai -certo, anche uno come Marco può arrivarci, che quella è proprio la domanda giusta-
E ci arrivò.
Paradossalmente, a quel punto, per un attimo, non pensai più a Maria e ai ragazzi. Non pensai neanche a me stesso. Pensai a Giuseppe. Sapevo che lui sapeva. E sapevo che, più di ogni altra cosa, non doveva lasciar intendere che sapeva. Altrimenti, per lui, sarebbe stata la fine. E sembrò funzionare, all’inizio.
Pur non guardandoci, o avendo concordato qualcosa prima, tutti e tre rispondemmo e ci comportammo nello stesso modo. Silenzio assoluto. Sguardo fisso davanti a noi. Nessuna flessione della bocca. Nessun volgimento di sguardo. Addirittura Giuseppe smise di piangere. Fui immensamente grato a Michele e Giuseppe, che non mi avrebbero mai tradito, soprattutto sapendo le implicazioni di quella storia. Tradirmi significava anche fare del male a Maria. Lo sapevamo tutti e tre e infatti la risposta fu la medesima per tutti: silenzio.
Furono i dieci secondi più lunghi della mia vita. Ma passarono. E sapevamo, avendo già conosciuto sulla nostre pelle che persona fosse, che Marco non ci avrebbe mai permesso di ritornare sui nostri passi nei successivi cinque minuti. I giochi erano fatti.
“Scotch!” ordinò immediatamente. Gli altri due eseguirono. Si alzarono per conservare le pistole e prendere i bastoni. Si riavvicinarono.
A quel punto mi sentivo veramente perso. Dover uscire da quella situazione tradendo la persona che amavo era assolutamente impossibile. Subire in silenzio quelle torture anche. Inspirai profondamente e trattenni il fiato. Dopo pochi secondi sentii la canna fischiare nell’aria, lo strepitio della canna che toccava la mia pelle e un bruciore terribile sulla coscia destra. Avevano iniziato. I successivi cinque minuti furono un susseguirsi ininterrotto di colpi fortissimi inferti in qualunque parte del corpo. Erano in grado di colpire parti delicate con una precisione ed una forza tremenda. Ricevemmo colpi ai fianchi, sul torace, sul ventre, sulla pianta dei piedi e gli stinchi, sull’interno delle gambe, dappertutto.
Praticamente da subito abbandonammo tutti e tre lo stato di silenzio assoluto acquisito fino a pochi secondi prima. Urlammo come dei forsennati e solo lo scotch ci impedì di far sentire la nostra voce probabilmente fino a Policoro. E cinque minuti in quella situazione furono lentissimi. Parvero dieci anni. Fregandocene della nostra età, e abbandonato quasi immediatamente il coraggio che ci aveva caratterizzato, tutti e tre piangevamo come dei disperati. Comprendemmo quasi subito che guardare dove venivano diretti i colpi serviva veramente a poco. L’unica cosa che ritenni opportuno fare in quel momento fu cercare e stringere forte la mano di Michele e di Giuseppe. Resosi contro della situazione fecero la stessa cosa anche loro. Era l’unico modo che avevamo per comunicare la stima reciproca ed incoraggiarci in quel momento terribile. Eppure, quei cinque minuti ebbero fine.
“Allora! Vediamo se avete cambiato idea e siete disponibili a rispondermi! I dieci secondi partono adesso!” disse Marco.
Gli infami, però, non ci levarono lo scotch. Finiti i dieci secondi, sorridendo per il “giro gratis”, come lo definì in quel momento Marco, ricominciarono con altri cinque minuti.
Alla fine dei cinque minuti, lo scotch lo levarono. Ma, e fui ancora grato ai miei amici per la loro lealtà, con lo stesso risultato di prima. E, anche in quel caso, i dieci secondi volarono.
Di nuovo scotch, di nuovo colpi, di nuovo cinque minuti, di nuovo dieci secondi.
Per altre due volte.
Poi ancora cinque minuti, poi di nuovo i dieci secondi con lo scotch alla bocca: un altro “giro gratis”. A quel punto, però, la sofferenza, raddoppiata dall’impotenza di non poter comunque avere quella possibilità al termine dei cinque minuti regolamentari, giocarono brutti scherzi. E Marco colse subito l’occasione. Michele stava resistendo stoicamente ai suoi colpi, io pure, ma Giuseppe ebbe un momento di esitazione. Aprì gli occhi e voltò la faccia verso di me. E, purtroppo, Marco capì immediatamente la situazione. E decise di cambiare tattica. Ma solo dopo la fine dei cinque minuti. Finiti, tolsero lo scotch a tutti e tre.
Michele emise un urlo, per sfogare il dolore e la rabbia degli ultimi dieci minuti.
In preda al dolore ed alla paura, “Bastardi!” fu l’unica affermazione, pronunciata sottovoce, che rivolsi ai nostri tre aguzzini. Salvo prendermi un’altra bastonata sul braccio da Marco.
Giuseppe, che più o meno al quarto minuto di tortura aveva rivolto lo sguardo verso di me, vedendo i nostri occhi chiusi, ed incrociando subito dopo lo sguardo di Marco, aveva capito immediatamente di aver fatto uno sbaglio. Un enorme sbaglio. Io me ne accorsi perché sentii Giuseppe che, più che urlare, strillava istericamente, e soprattutto mi aveva lasciato la mano. Prima ancora di aprire gli occhi, Marco mi anticipò sadicamente la scoperta che aveva fatto.
“Bene! Abbiamo incominciato a deciderci a parlare, a quanto pare. Bella l’occhiata che ti ha lanciato Giuseppe! Dice molte cose!”
Guardai immediatamente Giuseppe negli occhi. Non l’avevo mai visto così spaventato. E anche Giuseppe poteva dire lo stesso di me. E infatti non ero deluso, non ero arrabbiato, ma impaurito, a quel punto si. Terrorizzato. Terrore di vedere svelato il segreto più importante della mia vita.
La paura non poté che decuplicare, quando Marco si inginocchiò vicino a me e mi sussurrò una cosa nell’orecchio.
“Guarda come mi diverto adesso a far soffrire il tuo migliore amico”
Quella frase mi pietrificò. Cosa aveva in mente di più doloroso di quello che stavamo passando ora?
Marco si allontanò da me, scambiando il suo posto con quello di Cosimo, su Giuseppe. Si inginocchiò vicino a quest’ultimo, mentre ci levavano lo scotch.
“Tu sai tutto, non è vero? Sono amici di Simone? E sai anche dove abitano?” chiese Marco sottovoce.
In quel preciso istante, stringendo la mano di Giuseppe, sentii di fare l’unica cosa che poteva salvarlo da una sofferenza che non sapevo quale sarebbe stata, ma che sicuramente sarebbe stata la più grande mai subita prima.
“Si! È vero! Sono miei amici! di Milano! Quindi perché prendertela con loro due? Sono io che ti devo dare quelle informazioni!” dissi coraggiosamente, cercando di attrarre su di me la pericolosa attenzione di Marco. Senza però riuscirci.
“Lo so, ormai, che tu hai tutte le informazioni di cui ho bisogno. Ma ti conosco troppo bene. Tu non me le daresti mai, queste informazioni. Ma io ne ho tanto bisogno. E visto che adesso sono altrettanto sicuro che anche Giuseppe conosce quelle informazioni, preferisco chiederle a lui. Quindi si cambia gioco!” disse.
Si sdraiò vicino a Giuseppe. E incominciò a parlare, quasi al suo orecchio, cercando di tenere alzato il volume della propria voce solo per permettermi di ascoltare con molta fatica quello che stava dicendo a Giuseppe.
“Caro Giuseppe, penso che tu sia abbastanza intelligente da capire che ti conviene dirmi subito dove abitano Vito e Nicola”. Si alzò, prese un pezzo di lamiera ondulata che era stato abbandonato lì dietro da qualcuno e con forza lo conficcò nella sabbia in corrispondenza del piolo a cui erano legate le nostre mani. Forse iniziavo a capire quello che stava succedendo. E non mi piaceva proprio per niente. Poi Marco continuò.
“Ti racconterò brevemente quello che succederà tra breve. Io so che tu puoi rispondere alla mia domanda. Quindi ti do l’opportunità di farlo in qualsiasi momento. Basta solo la tua risposta alla domanda”
Si fermò e fece un cenno a Amaraldo. Tremai, nel preciso istante in cui vidi quello che stava facendo. Da come Michele mi stringeva la mano compresi che anche lui stava capendo. E si rendeva conto, come me d’altra parte, dell’assoluta crudeltà di quello che stava per passare Giuseppe. Amaraldo aveva preso un pezzo di stoffa e con questo aveva chiuso gli occhi di Giuseppe che cercò, urlando, di dire ciò che evidentemente gli stava più a cuore in quel momento.
“Scusami Simone! Scusa! Perdonami! Non l’ho fatto apposta!” incominciò ad urlare.
“Lo sappiamo! Non credergli! Non sei solo! Non fidarti di lui! Non ascoltarlo! Non concentrarti su quello che ti dirà!” dicemmo sia io che Michele. A più riprese. Cercai di urlare più volte a Giuseppe, che non doveva, per nessun motivo, ascoltarlo. Fino a quando uno schiocco di dita di Marco non fece di nuovo calare il silenzioso bavaglio di scotch sulla bocca di entrambi.
In poco più di un minuto, Marco aveva completamente isolato Giuseppe da noi due. Eravamo sdraiati a pochi centimetri da lui, come prima. Ma ora Giuseppe non poteva toccare la mia mano. Non poteva vederci. Non poteva neanche sentire quello che gli stavamo dicendo. Poteva però sentirci urlare. E incominciò a capire dove stava andando a parare Marco. Poi Marco continuò.
“Adesso tu non puoi vedere e non puoi tenere la mano di Simone. Tra pochissimo Amaraldo e Cosimo ricominceranno a colpire i tuoi due amici. E lo faranno non per cinque minuti, ma se necessario per tutta la notte, fino a quando tu non parlerai. Poi smetteranno le sofferenze di tutti e tre. Perciò quello che è accaduto finora non è stata colpa tua, come ha detto Simone. Ma quello che accadrà a loro, da ora in poi, è e sarà solo colpa tua. Tu l’unico responsabile, tu l’unica persona che può salvarli. Piangi, pregami finché vuoi, ma l’unico modo per interrompere la loro tortura sarà rispondere a quella piccola, unica, innocente domanda”
Ecco quello che stava per fare. Non avevo dubbi sul fatto che fosse la tortura peggiore a cui poteva sottoporre Giuseppe, che respirava a fatica e continuava a piangere e singhiozzare, mentre ebbe un sussulto quando, terminate quelle frasi, il lento e cadenzato rumore dei colpi inferti a me e Michele ricominciò a trapanargli il cervello. Assieme alle urla coperte dallo scotch posto sulle nostre bocche. Beh! Lui sussultò, anche se ce la stavamo passando peggio noi, per qualche secondo. Solo per qualche secondo, però, perché poi Marco cominciò la vera tortura con lui. E a quel punto non c’erano più paragoni.
“Un vero amico protegge e difende i propri amici a costo della propria incolumità. Non permette che soffrano così. Tu a Simone vuoi veramente bene? Perché farlo soffrire così? Si sta contorcendo sotto i colpi di Cosimo. Pensa al dolore che gli stai provocando. Pensa che in questo momento è come se ci fossi tu a torturarlo! Si dice che bisogna essere disposti a morire per gli amici. È questo quello che tu stai facendo? In fin dei conti non si tratta semplicemente di consegnarci persone che non hai praticamente mai conosciuto? Salveresti i tuoi due amici, oltre che te stesso. Invece, ostinandoti a non parlare, come stai facendo, stai torturando i tuoi amici. Li stai facendo soffrire. È solo colpa tua!”
Mentre Amaraldo e Cosimo continuavano a colpirci, Giuseppe stava subendo una forma di tortura più sottile. A tratti addirittura più dolorosa. Da una parte Giuseppe sentiva noi due lamentarci e mugolare sotto lo scotch a causa dei colpi inferti. Dall’altra, le parole di Marco, appena sussurrate al suo orecchio, erano come frustate che lo colpivano direttamente al cuore. Dapprima cercò di non ascoltarlo, come gli avevo detto i poco prima. In fin dei conti, pensò, quello che diceva era una sciocchezza: loro li avevano legati, loro li stavano picchiando, cosa centrava lui? Dove stava la sua responsabilità?
Poi, però, quelle sensazioni lo fecero inciampare nell’errore peggiore che potesse fare in quella situazione. La privazione sensoriale, l’impossibilità di essere stimolato dai suoi amici con i nostri sguardi, addirittura con quella semplice mano che gli stringevo, lo fecero sentire solo. Quello fu il problema. Il vero problema.
Giuseppe incominciò a sentirsi solo. Ed i nostri urli strozzati, iniziarono a sortire l’effetto sperato da Marco. Sentirsi solo in quella radura, alla mercé dei suoi nemici, gli fece, infine, paura. Più che paura. Terrore. Più che terrore. Panico. E Marco infierì.
“Vi vantate tanto di essere amici, inseparabili, e poi sei disposto a vederli torturare pur di non rivelarci un indirizzo? Bell’amicizia quella che vi lega. Almeno quei due stanno soffrendo insieme, ma secondo me tu sfrutti l’occasione di non essere colpito, facendo torturare i tuoi, chiamiamoli, amici pur di salvarti. Sei solo una persona meschina e inutile!”
In quello stato pietoso, le cose peggiorarono improvvisamente. Per uscire da quello stato, infatti, Giuseppe si aggrappò all’unico senso ancora disponibile. Quello che non avrebbe dovuto neanche lontanamente usare. L’udito. Per uscire da quello stato, l’unico modo che ritenne possibile, fu ascoltare Marco. E Marco lo sapeva.
“Se fossi tu al loro posto vorresti che Simone o Michele ci dessero quell’indirizzo? O preferiresti che aspettassero che i brandelli della tua carne incomincino a staccarsi di dosso? Perché è questo quello che succederà tra un po’”
E fu allora che quello che sentì lo toccò a tal punto da fargli perdere la ragione.
Poteva essere che dire a Marco quello che voleva sapere fosse veramente l’unica soluzione a quel problema? Possibile che cedere a quella richiesta potesse veramente far smettere in quel momento esatto le torture inferte ai suoi amici? Allora si che dipendeva tutto da lui. Se quello che stava succedendo, come gli stava dicendo Marco, poteva finire immediatamente dicendogli quel dannato indirizzo, poteva farlo. L’avrebbe fatto per i suoi amici.
Io e Michele, intanto, continuavamo a ricevere colpi su colpi. Michele si chiedeva quanto ancora sarebbe durata quella tortura. Anche io me lo chiedevo, ma mi chiedevo ancora di più quanto ancora Giuseppe avrebbe continuato a resistere. Da quando Cosimo aveva cominciato a colpirmi, non sentivo più quello che Marco stava dicendo. Ma probabilmente Giuseppe, intelligente e furbo, ma pur sempre il più piccolo di noi tre, stava subendo da Marco una tale pressione psicologica ed emotiva, da impedirgli di ragionare. Mi dispiaceva tantissimo che Giuseppe avesse commesso quell’errore. Non l’aveva fatto apposta, la sua malizia non arrivava al punto di comprendere che anche un’occhiata lanciata ad un suo amico in quel momento difficile, nascondeva uno scorcio di verità che a Marco bastava per concentrare tutte le sue furiose attenzioni su di lui. Giuseppe non doveva cedere. Giuseppe non doveva mollare, per quanto quello fosse il momento più difficile della sua vita. In quel momento, piuttosto che pensare ai colpi che stavo ricevendo, al dolore di quelle botte, pensavo a quanto sarebbe stato bello avere dei poteri telepatici. Poter comunicare con Giuseppe e fargli sentire, urlargli tutta la mia amicizia, l’affetto che provavo per lui.
Sapevo infatti che il pericolo maggiore era che lui, nonostante le nostre urla e i nostri lamenti, incominciasse a sentirsi solo. Se fosse accaduto quello, se solo avesse incominciato a sentirsi solo contro i nostri tre nemici, era finita. E avevo capito che Marco lo sapeva ed aveva, sin da subito, con quella privazione sensoriale, provato a farlo. E mentre io e Michele ci divincolavamo in mezzo a quella serie infinita di colpi, Giuseppe, a quel punto, al punto di sentirsi solo, ci era già arrivato e, nonostante tutto, in silenzio, tremante, subiva l’attacco più forte e pesante della sua vita. Da parte di Marco.
-Possibile che in qualche occasione, per proteggere e salvare un amico sia necessario tradirlo? Tradirlo. Quello che sto pensando di fare significa tradire Simone. Significa tradire il mio migliore amico. Significa tradire la sua fiducia e la fiducia di tutti i miei amici. Significa venire meno a una promessa. Quella di proteggere Maria, Vito e Nicola, da tutto e da tutti. Maria: Simone non mi aveva mai parlato in quei termini di una ragazza prima d’ora. Ci deve tenere parecchio. Sto tradendo Simone. Sto tradendo Maria. Sto tradendo tutti i miei amici-
Esattamente questo pensò Giuseppe in quel momento. E quel pensiero lo fece scendere ancora di uno scalino in quel vortice di sentimenti. Facendogli toccare il fondo. Solitudine. Paura. Terrore. Panico. Disperazione. Illusione della salvezza. Senso di colpa. Quello fu il fondo. Giuseppe provò ribrezzo. Non per quello che aveva pensato. Giuseppe provò ribrezzo per sé stesso.
In quel momento ciò che stava sentendo, quello che stava pensando, la sua coscienza, la paura e la sofferenza gli giocarono un brutto scherzo. Perse il controllo e si fece la pipì addosso.
Marco lo vide e sentì di aver vinto. Giuseppe era cotto a puntino.
“Sei patetico! Non vali niente. E non siete neanche amici. Scommetto che ti va bene solo perché non sto riservando a te lo stesso trattamento di loro due. Sei solo un egoista. Uno sporco egoista pisciasotto!” disse, a voce un po’ più alta del dovuto.
In quel momento Michele era troppo lontano per accorgersi di tutto quello che stava passando Giuseppe, ma io no. Io, sentendo quella frase, capii che Giuseppe li aveva passati già tutti gli stati della disperazione che l’avrebbero portato a cedere, altro che evitare di sentirsi solo. Cercai di sollevarmi e vidi chiaramente tutto quello che era accaduto. Mi lasciai scivolare a terra. Sapevo che, con quella reazione, Giuseppe aveva raggiunto il fondo ed era cotto a puntino per parlare. E che, con il bavaglio di scotch, non potevo neanche fare nulla per evitarlo. Sperai solamente che Vito e Nicola potessero essere abbastanza saggi da rivolgersi ai carabinieri non appena fossero venuti a conoscenza della situazione. E mi arresi tra dolore e lacrime.
Come spesso accade quando si è vicini alla meta, quello è proprio il momento in cui la terra ti cede sotto i piedi. Perché la malvagità e il sadismo di Marco gli avevano fatto tirare troppo la corda in quell’ultimo affondo.
Fu, paradossalmente, solo una parola pronunciata da Marco a cambiare le sorti di quel combattimento interiore: “Egoista”.
Giuseppe accettava “ostinato”, “falso amico”, addirittura “pisciasotto”. Potevano essere una buona rappresentazione della realtà di quella sera. Almeno per persone che non lo conoscevano fino in fondo. Ma “egoista” no. Lui non era un egoista. Tutto quello che stava accadendo, poteva esserne anche lui la causa.
Ma non perché fosse egoista.
E qui, Giuseppe, rimbalzò di colpo sulla strada giusta, inaspettatamente per tutti.
Lui non era un egoista. Tutto quello che stava accadendo accadeva perché aveva sbagliato a rivolgermi per quella frazione di secondo lo sguardo. Stava accadendo perché era stato un idiota. E stava accadendo perché non voleva mettere in pericolo persone innocenti come Vito e Nicola. E stava accadendo per mantenere fede alla promessa fatta a me riguardo a Maria. E stava accadendo perché, almeno in parte, ce l’eravamo cercata. Stava accadendo per tutte quelle ragioni. Ma nessuno poteva permettersi di dire che stava accadendo perché lui era un egoista.
L’unica cosa che fece, in quegli ultimi secondi, allora, fu stringere i denti e tapparsi la bocca. E sopportare. Sopportare per un semplice motivo. Sapeva che io mi fidavo di lui. Gli avevo confidato un segreto. Parte di quel segreto, lui non era riuscito a mantenerlo tale. Lui mi aveva, forse, deluso. Ma certamente non mi avrebbe tradito mai. Così, l’uomo che stava crescendo in lui, la persona adulta che aveva incominciato ad essere in quell’estate, straordinariamente molto di più di pochi giorni prima, non avrebbe mai permesso a niente e nessuno di strappargli il resto della storia. Neanche con la forza. E le minacce. O le intimidazioni. E la violenza. E lo disse. Lo disse con tutte le sue forze. Urlandolo.
“Non tradirò mai l’amicizia di Simone. Non lo farò mai!”.
E quella frase solo un sordo non l’avrebbe sentita. L’importante era che io e Michele la sentimmo, la udimmo perfettamente. E diede a tutti e noi tre tanta di quella forza da continuare a subire qualunque cosa, pur di non cedere a quel ricatto, a quelle torture, fisiche o psicologiche. Solo in quel momento, Marco lo capì. Non arrivando neanche lontanamente a capire quello che era realmente successo. Capì solo che ancora non era riuscito a raggiungere il suo obiettivo, anche contro quel bambino, come lo considerava ancora. Disse ai suoi di fermarsi. Immediatamente i colpi cessarono.
Ma non l’interrogatorio. Avrebbe tentato con la soluzione estrema. Sperando in quella. Fece anche togliere lo scotch a me e Michele. Michele, per tutta risposta sputò addosso ad Amaraldo, che lo colpì con un calcio nel fianco. Contorcendosi ancora per il dolore promise che l’avrebbe trovato anche in capo al mondo. Amaraldo sorrise.
“Cambiamo gioco! Ma vi avviso che mi sto stancando di giocare. E se mi annoio non va bene!” disse Marco.
Poi i tre puntarono ciascuno la pistola alle nostre teste. Caricandola.
“Per quello che non ha detto finora, Giuseppe meriterebbe una pallottola in fronte! Ma così non parlerebbe più. E saremmo punto e a capo. E avrei una persona in meno con cui divertirmi dopo”
I tre, che avevano preventivamente accordato una strategia del genere, spararono un colpo di fianco a ciascuno dei tre, sbagliando di poco il bersaglio. Un’altra scarica di adrenalina mi fece aumentare ancora di più la tensione. Soprattutto piangevamo, tutti e tre irrefrenabilmente.
“Conterò fino a dieci, dopodiché vi spareremo, cogliendo questa volta il bersaglio, ponendo fine a tutto. Dopo qualche minuto di atroce dolore, naturalmente. Se non parlerete. Se, invece, uno di voi parlerà, dicendomi quel maledetto indirizzo, finirà l’interrogatorio. Uno…” urlò Marco.
Voltai il mio sguardo verso Michele e Giuseppe. La stessa cosa fecero loro due. L’unica cosa che vidi in quegli sguardi fu il desiderio che quelle torture psico-fisiche finissero al più presto, associato però alla ferma convinzione di non dargli alcuna informazione che potesse mettere in pericolo Vito, Nicola e soprattutto Maria.
“Piuttosto muoio!” fu la mia risposta, condivisa con il silenzio da parte degli altri due.
“Due…” “Tre…”
Silenzio.
“Che idioti che siete! Morire pur di non dire una cosa che potrebbe anche non portare da nessuna parte” sgridò Amaraldo.
“Quattro…”
I tre alzarono impercettibilmente il tiro delle loro armi. E presero la mira.
“Cinque…”
Ancora silenzio.
“Invece di spararmi, liberatemi e vediamo chi è più forte! Così ci si comporta da uomini!” urlò Michele.
“E poi dove starebbe il divertimento? Noi vogliamo vedervi soffrire, sennò non c’è alcun motivo di fare tutto questo. Anzi, a noi dispiace seriamente dovervi uccidere. Preferiremmo molto di più che voi parlaste. Così uccideremmo solo Vito e Nicola. E i loro parenti, ovviamente. Ma continueremmo a godere per la fine della vostra amicizia. Perché dopo una azione del genere, sapere che avete lasciato nelle mani dei loro aguzzini degli innocenti, chi avrebbe più il coraggio di guardarvi in faccia? Sei…”
Silenzio. “Sette…”
Silenzio. “Otto…”
“Maria ti amo!” fu l’unica cosa che ebbi il coraggio di dire, di esclamare in quel momento, rilasciando tutti i muscoli sulla sabbia, arreso a quella condanna.
“E chi sarebbe Maria?” chiese Marco.
“È il motivo per cui non ti dico l’indirizzo di Vito e Nicola. È il motivo per cui non te lo dirò mai” risposi, rassegnato a quel destino. Come ultimo regalo per Marco. Come ultima e inutile confessione a quei ragazzi.
“Bene! Allora quasi quasi ti risparmio la vita! Così poi ti vengo a trovare e ti racconto come mi sono divertito con lei!” concluse sorridendo Marco.
Silenzio. “Nove…”
Mi sarebbe dispiaciuto che il numero seguente fosse l’ultimo suono distinguibile che avrei udito prima della mia morte. Questo fu quello che pensai in quel momento, probabilmente in preda ad una disperazione che non mi permetteva di ragionare, di fare più nulla. Rialzai lo sguardo e osservai Marco negli occhi. La stessa cosa fecero anche Giuseppe e Michele con gli altri due. Non avremmo mai abbassato lo sguardo ai nostri nemici, in quel momento. Se avessero voluto sparare, nessuno avrebbe potuto impedirgli di farlo. Ma l’avrebbero fatto a delle persone che dimostravano il coraggio di continuare a guardarli negli occhi. Aspettammo qualche secondo. Adesso, mentre Marco doveva trovare il coraggio di fare quello che aveva promesso, noi tre avevamo, in un ultimo pazzo impeto di coraggio, tutta la voglia di scoprire se Marco avrebbe dato quell’ordine.
Solo qualche secondo. Poi una serie di déjà-vu.
Il fruscio di un oggetto che taglia l’aria, come quello delle canne con cui ci avevano colpiti tante volte, in quella sera.
Il tonfo di un oggetto che colpisce la carne, come quello che avevano fatto, per innumerevoli volte, proprio quelle canne, proprio quella sera.
Uno strepitio, soltanto simile a quello delle canne che colpivano la nostra carne. Ma diverso nel timbro.
Poi le urla. E quelle ce le ricordavamo benissimo, avendole sentite ed emesse fino a pochi minuti prima. Solo che ad urlare non eravamo noi.
E poi ancora. Di nuovo. Fruscio. Tonfo. Strepitio. Urla. Forti. Quasi disumane.
Già dopo la prima serie le pistole erano volate a un metro e mezzo di distanza. I tre aguzzini erano a terra, accovacciati, in preda al dolore di sentire un polso ed una caviglia seriamente contusi. A terra, vicino a ciascuno di loro, due sassi grossi e pesanti. Quasi senza fare neanche caso a noi tre, due ragazzi, passeggiando, passarono in mezzo a noi. Seguiti da un altro, che passò, come quello prima di lui, tra me e Giuseppe. I tre si posizionarono tra noi ed i nostri aguzzini. La vista offuscata dalle lacrime e dalla disperazione non mi faceva distinguere chi fossero quelle tre figure. Una passò a prendere le pistole, le altre due minacciarono gli altri tre che le successive articolazioni a saltare sarebbero state quelle del ginocchio, se si fossero anche solo preparati a muoversi o reagire. Capimmo immediatamente quello che stava accadendo quando udimmo una voce amica che, da dietro le nostre spalle, ci diceva una cosa che avevo già sentito in un’altra occasione, e che, anche in quel caso, aveva rappresentato la fine del pericolo che incombeva su di noi.
“Quante volte ve lo devo dire che stare fuori, di notte, fa male!? E voi mai a darmi retta! Almeno copritevi le spalle, la prossima volta!” disse la voce dietro di noi. Scoppiammo tutti e tre a ridere, sonoramente e di una risata di sfogo della tensione. Era Emanuele. Davanti a lui, con in mano le pistole appena prese e la fionda con cui tenevano sott’occhio i nostri tre nemici, c’erano Francesco, Vito e Nicola.
“Grazie a Dio siete arrivati! Metteteli fuorigioco per qualche minuto! Almeno il tempo di liberarci!” dissi io.
Immediatamente, come se non volessero sentirsi dire altro che quello, Francesco, Vito e Nicola, si voltarono nuovamente verso i tre a terra e, scaricando un po’ la fionda, tutti e tre colpirono e stesero a terra svenuti Amaraldo, Cosimo e Marco. Poi conservarono in tasca le fionde e corsero subito a slegarci. Noi, appena liberati, dopo aver rindossato i costumi, andammo verso le docce per sciacquarci un po’. Tornammo che al nostro posto c’erano i nostri tre nemici, svegli ma doloranti per i colpi di fionda ricevuti.
“Perché gli avete lasciato il costume addosso?” urlò Michele a Emanuele. Che non gli rispose. Ci pensai io a farlo.
“Ci tieni veramente a levarglielo!?”.
“Perché, loro non hanno fatto la stessa cosa con noi, prima?!” chiese nervosamente.
“E tu vorresti essere come loro? Io non ci tengo”
“Però con me l’hai fatto!”
“Si! Ma perché te lo meritavi!” risposi. “E loro si meritano molto più di quello. Ma io non mi abbasso al loro stesso livello ripagandoli con la stessa moneta! E tu?” chiesi, mettendolo a tacere.
Ma non potendolo fermare. Perché la tensione emotiva e lo stress accumulato fino a quel punto non potevano essere fermati, neanche da uno più forte di me. Michele corse verso Amaraldo ed incominciò a prenderlo a calci. Giuseppe lo imitò con Cosimo, ricoprendolo di pugni. Fin quando si stancarono. In tutto quel tempo io rimasi in disparte lasciandoli stare. Sapendo che nessuno sarebbe comunque riuscito a fermarli. E si sfogarono. Su Cosimo e Amaraldo. Nessuno toccò Marco. Sapevano che quello era un affare che toccava a me gestire. Dopo qualche minuto e un sacco di botte i due implorarono pietà e vennero lasciati stare da Michele e Giuseppe. Che si allontanarono per ritrovare la calma. Io li seguii. Emanuele, Vito, Nicola e Francesco, rimasero nella radura. Curiosi di sapere quello che sarebbe accaduto poi.
Giuseppe e Michele non tornarono prima di essere andati a prendere le mazze da baseball. Appena le videro i tre incominciarono a tremare e pregare, implorare, di non fargli del male. Anche io presi la mazza da baseball. E la lanciai addosso a Marco. “Questa è tua!” esclamai. Era proprio la sua. Si ricordò dell’ormai piccolo e quasi invisibile livido che una scatoletta di tonno gli aveva provocato all’addome, solo la settimana precedente. La mazza gli cadde addosso, colpendolo direttamente sull’addome e sul viso, entrambi scoperti e indifesi dalle mani, troppo lontane, legate com’erano ai paletti nel terreno.
“E adesso ci divertiamo!” dissi, avvicinandomi a Marco. Infilai la mano nella tasca del costume dalla quale estrassi le chiavi della macchina. Le lanciai a Giuseppe che, sapendo cosa fare corse via, scomparendo nell’oscurità.
Dopo un minuto dalla spiaggia, giunse di nuovo Giuseppe, con la macchina di Marco. La parcheggiò direttamente nella radura, a pochi metri dagli altri.
“Ora” esordii “Tu sai che non sono una persona violenta. Non lo sono mai stato. Non ti ho quasi mai toccato, neanche con un dito. Ecco. Questo vale con te. Ma non con gli oggetti di tua proprietà”.
Marco sgranò gli occhi, non appena ripresi la sua mazza e, cominciando dagli specchietti, dai finestrini e dai vetri, distrussi ogni centimetro quadrato della carrozzeria di quella macchina nuova. Che certi suoi amici gli avevano comprato per festeggiare la patente, presa la settimana prima. E che Marco aveva festeggiato sequestrando e “divertendosi” a modo suo con Giuseppe, il sabato prima. Dopo un quarto d’ora di mazzate inferte alla macchina, mi lasciai cadere all’indietro, sfinito ma soddisfatto come non ero stato mai da due anni a quella parte. In quel momento, Vito, con i guanti con cui prima aveva afferrato le pistole, prese il resto della refurtiva che avevo portato via dal covo prima dell’arrivo dei carabinieri, e la nascose sotto il sedile del conducente. E mise le pistole nel vano del cruscotto della macchina. Mentre gli altri procedevano con la demolizione della macchina sotto gli occhi impotenti di Marco, mi allontanai per una decina di minuti. Passeggiai un po’ sulla spiaggia, attento a non entrare in contatto con l’acqua salata, perché conciato com’ero il sale era proprio quello che mi mancava per completare la tortura. Prima di tutto ritornai alla bicicletta. Presi il cellulare e chiamai immediatamente Maria. Per rassicurarla che tutto era a posto. Che non c’erano stati problemi e che ci saremmo rivisti il giorno dopo. Non avevo ancora il coraggio di dirle quello che avevo osato dire davanti alla morte, ma sapevo di volerlo fare con tutte le mie forze.
Lasciai la bicicletta e mi diressi nuovamente a piedi verso la radura. Arrivai che tutti e sei si stavano riposando al fresco appoggiati alla macchina, ormai completamente distrutta, che per una settimana era appartenuta al nostro peggior nemico. E pure lui non è che versasse in buone acque.
“Ragazzi” dissi, rivolgendomi a Emanuele, Francesco e i due gemelli “per favore, lasciateci soli con loro. Andate alle biciclette e aspettateci lì. Tra cinque minuti arriviamo!”
I quattro ubbidirono, lasciandoci nuovamente soli con Amaraldo, Cosimo e Marco. Appena li vidi definitivamente allontanarsi, incominciai quella che sapevo sarebbe stata l’ultima azione nei confronti dei tre ragazzi. Quella definitiva. Almeno per Marco ne ero certo.
“Come dicevo prima a Michele, probabilmente meritereste di essere trattati come avete fatto voi. Anzi, ne sono sicuro! Per fortuna vostra, noi non siamo come voi. Solo per una cosa, sono costretto a farvela pagare” dissi rivolgendomi a tutti e tre. Poi concentrai l’attenzione su Marco.
“Anzi, a fartela pagare. Sai che finché non ho visto le foto scattate ad Angelo, non ho capito che eri tu? In questi anni sono stato tantissime volte da solo, in tante occasioni. Avresti potuto trovarmi in qualunque momento. Torturarmi, fare quello che volevi, e nessuno sarebbe mai arrivato alla conclusione che a farlo eri stato tu. Potevi prendertela sin da subito con me. Avresti fatto la cosa migliore. Se rimanevi nascosto mentre Cosimo o Amaraldo mi picchiavano, probabilmente non avrei neanche capito che dietro tutto questo c’eri tu. Sono troppo ingenuo. E comunque mi ero completamente dimenticato di te. Mi avresti fatto soffrire e quasi sicuramente avrei cercato di sopportare in solitudine le cose che mi avreste fatto. Facendo tutto quello che era in mio potere, per non fare entrare in questa storia i miei amici. Invece, siete stati voi a coinvolgerli. Mi hai fatto soffrire, facendo prima di tutto soffrire loro. Facendo soffrire le persone alle quali tengo di più. Inducendo una persona simpatica e a modo come Michele a diventare un bullo ed un violento. Inducendolo a rompere l’amicizia con noi e andarci contro. Ci hai provato anche con Emanuele ma ti è andata male. Poi hai attaccato tutti quanti noi, usando Michele, per due anni. Poi sei riuscito a separarci, ma solo per un anno scolastico. Infine, due settimane fa, quando pensavi di essere riuscito a causarmi la sofferenza maggiore di tutte, quando pensavi di avermi isolato, non hai fatto i conti con un ragazzo che ha tre anni meno di te. Non hai fatto i conti con Giuseppe, che al momento opportuno ha sempre trovato la forza, il coraggio e l’umiltà di parlare. Allora, invece di prendertela con me, picchiarmi, farmi del male, ti sei attaccato ancora ai miei amici. Quando non ti è servito più, forse perché ti eri reso conto che non è mai stato così cattivo come Amaraldo, l’hai preso e hai torturato Michele in modo indescrivibile. E hai dimostrato tutta la tua debolezza, perché Michele, invece di scappare a testa bassa e allontanarsi da tutti, ha mostrato una forza d’animo incredibile, essendo disposto a chiedere scusa a noi, pur di ritornare nostro amico. Così ti sei sentito alle strette ed hai deciso di puntare su Giuseppe, rapendolo, e facendogli del male. E lui, Giuseppe, l’hai addirittura rispedito da me, facendomi capire qualcosa che ormai avevo già capito. Facendomi finalmente sapere che era con me che ce l’avevi. Poi oggi, hai raggiunto il limite. Posso solo lontanamente immaginare il dolore e la solitudine che sei stato capace di fargli provare. La privazione sensoriale e tutta la violenza usata nei nostri confronti, dando la colpa a lui, è stata la tortura peggiore che potevi inventarti. Complimenti. Hai superato te stesso. A parte che pure superandoti non ci hai raggiunto, perché Giuseppe e prima ancora Michele si sono comportati da veri amici. E perché, finora non sei mai stato capace di causarci veramente danni gravi, mentre a noi è bastata un’oretta di lavoro ben organizzato per decimare la tua banda e mandarne in carcere quattro, di tuoi affiliati. Finora tu hai lavorato, hai tramato, solo per il piacere di vederci soffrire. In effetti, la banda, le rapine, la violenza, le minacce, le torture… tutto solo con il preciso obiettivo di far soffrire me. Ecco! È per questo che sto per fare quello che sto per fare. Non per tutto quello che hai fatto a me. Ma per tutto quello che hai fatto a loro e a tutti gli altri che hai sadicamente maltrattato”
Tirai fuori dalla busta tre bottiglie da un litro e mezzo di aranciata. Una la diedi a Giuseppe e una a Michele. La terza la tenni per me. Aprimmo ciascuno la nostra bottiglia.
“Massì! Brindiamo!” fu l’affermazione spavalda di Marco, accompagnata dalle risate degli altri due.
A quel punto nessuno voleva farlo più di me, quindi sorrisi con quel mio sorriso bastardo. In realtà un po’ mi era mancata quell’espressione a metà tra un secchione e un bullo. Anche io, come Marco solo un’oretta prima, mi sdraiai vicino al mio nemico.
“Vedi?! Sbagli nello stile!! Hai fatto un unico grande errore. Te la sei presa con gli amici della persona sbagliata. Della persona che ti conosce meglio di tutti questi tuoi schiavetti tuttofare che ti hanno seguito in questa operazione. E sai come va a finire?” chiesi.
“… E vissero tutti felici e contenti?” rispose Marco, prendendomi ancora in giro.
“No! È che poi ci rimetti tu!” risposi. E al mio segnale i tre vennero ricoperti dalla testa ai piedi di aranciata. Quasi tutto il contenuto della bottiglia. Ne lasciammo solo un po’. Ci eravamo messi d’accordo prima per fare quello. Io gli avevo detto che ne dovevano lasciare un po’ in ciascuna bottiglia, ma né Giuseppe, né Michele avevano, ancora, capito il motivo.
“Bello! Ci battezzi con l’aranciata? Bella tortura!” esclamò Marco scoppiando in una fragorosa risata. Alla quale fece seguito la risata degli altri due.
“Io non ci trovo niente da ridere. Sentite? La serata e calda e tira un po’ di vento dal mare” osservai. Mi inginocchiai e mi fermai con la testa sulla sua, in modo da poter vedere pienamente la sua espressione. Che non avrei mai voluto perdermi.
“E allora?” chiese Marco continuando a ridere. Anche se a questo punto, come se quelle parole avessero lasciato per la prima volta un segno dentro di lui, lentamente finì la risata e non gli venne più da ridere.
“Ti ricordi quel giorno di settembre in prima media? Quando dalla finestra aperta è entrato uno sciame di moscerini e sei quasi svenuto? Ti ricordi che sono stato io ad accompagnarti premurosamente in infermeria, e che, una volta arrivata, tua zia mi ha spiegato che avevi una profonda ed inguaribile paura degli insetti?”
Nessuna risposta. Marco stava capendo. E, sì, decisamente, quella cosa, ora, non lo faceva più ridere.
“Ecco, tra qualche minuto, uno, forse due, o cinque, ma non molto di più, ecco, tra qualche minuto, tutti gli insetti della pineta e della spiaggia, mosche, zanzare, api, vespe, forse anche qualche calabrone, di certo scarafaggi e formiche, si accorgeranno di voi e del golosissimo aroma che emanate. E verranno a trovarvi. Visto che la compagnia sta aumentando, quindi, noi adesso ce ne andiamo!”
Mentre parlavo vidi Marco cambiare espressione lentamente ma inesorabilmente. L’espressione sfacciata e insolente che aveva avuto fino a qualche secondo prima aveva lasciato il posto ad un’espressione triste. Prima. Poi sempre più impaurita ed indifesa. Volevo fargli provare un po’ dei sentimenti che aveva fatto provare a me per due anni e a Giuseppe negli ultimi giorni. e ci stavo riuscendo benissimo. Stavo per alzarmi, poi mi riabbassai all’altezza di una faccia più che pallida di Marco.
“Ah! Per chiarire, se ti vedo anche solo un’altra volta, anche solo per sbaglio, vicino a me, Giuseppe, Michele, Francesco, Emanuele, Vito, Nicola o qualsiasi altro loro conoscente, o vengo a sapere che per te questa storia non è finita, ti prometto che la mazza da baseball non la userò solo sulla macchina, perché ti do tante di quelle botte che se riesci a raccontarlo a qualcuno ti devi considerare fortunato!”
A quel punto mi rialzai per andarmene.
“Non puoi andartene così! Non puoi lasciarmi così! Vi prego! Liberatemi!”
Presi la solita striscia di scotch e chiusi anche quella bocca.
Noi tre ce ne andammo, mentre Amaraldo, Cosimo e Marco, in preda al terrore più completo, continuavano a cercare di urlare. E a divincolarsi. Ma, come stavano constatando in quel momento, quei pioli li avevano piantati veramente bene. Mentre eravamo a metà strada verso le bici, ad un certo punto, Michele si fermò. Prese e, senza dire niente a nessuno, si girò e ritornò verso la radura. Appena si accorsero della sua presenza cercarono di riacquistare una certa dignità. Michele si avvicinò a Marco e, abbassandosi, si avvicinò ancora di più a lui.
“Io, però, non sono come Simone!” e così dicendo tirò fuori il coltellino svizzero dalla tasca.
Si rialzò e in pochi secondi tagliò le gambe dei tre costumi, sfilandoglieli. Prese le aranciate e le finì di versare su quelle parti appena scoperte del loro corpo. Fino all’ultima goccia.
E fu semplicemente il panico. Alla luce della torcia elettrica che si era portato dietro aveva visto che il corpo dei tre ragazzi era già stato raggiunto da qualche zanzara. I tre mugolavano come disperati. Marco aveva veramente paura degli insetti. Neanche lui si ricordava più di quell’avvenimento accaduto anni prima. Della vergognosa figura fatta con me, proprio quando stava nascendo quell’amicizia che poi non sarebbe continuata. Per colpa sua. Percorse in un paio di secondi tutti i sentimenti che aveva fatto provare a Giuseppe pochi minuti prima. Michele stava per andarsene, quando osservò il corpo di Marco. Ad alta voce, in modo che potessero sentirlo anche gli altri due, esclamò “Almeno Giuseppe le ha prese due volte e soffriva per la tortura psicologica quando se l’è fatta addosso. Tu hai fatto prima!”
Ritornò lontano dalle loro urla, arrivando nuovamente da noi due che lo aspettavamo. Io lo osservai. Avevo capito cosa era successo e volevo dire qualcosa a Michele. Questo si fermò, mi ricambiò lo sguardo severo e mi disse una cosa che, per la prima volta in vita mia, riuscì a farmi stare zitto.
“Non farmi la morale, e non dirmi che hai lasciato l’aranciata nelle bottiglie solo per fargliele bere domani mattina, quando li libereranno” disse, andandosene senza neanche aspettare la mia risposta. Seguito da Giuseppe che non se la sentì di dirmi niente. E seguito da me, che in realtà me la ridevo soddisfatto, perché Michele aveva fatto proprio quello che volevo, e se ne era pure accorto.
Giungemmo finalmente alle biciclette e raggiungemmo gli altri. Tutti e quattro gli altri ci guardarono, sapendo che era sicuramente successa qualcosa, se non altro per i lamenti e le urla strozzate che sentivano in lontananza. Nessuno di loro, però, ebbe il coraggio di chiedere che cosa fosse successo. Montammo tutti in bicicletta e, silenziosamente, percorremmo quei quattro chilometri e mezzo per tornare dalla spiaggia a casa. Francesco e Emanuele a casa loro, gli altri ospiti a casa mia per la notte. Arrivammo che era da poco passata l’una. Vito e Nicola apportarono le prime essenziali cure alle nostre ferite e poi se ne andarono, spiegandomi che era perché la madre gli aveva poi vietato di rimanere a casa mia a dormire perché quella mattina erano arrivati in spiaggia e senza dire niente alla zia erano scomparsi per più di un’ora. Io non potei fare altro che accompagnarli all’uscita, solo dopo averli ringraziati ancora per l’intervento coraggioso ed efficace di un’oretta prima. A quel punto Giuseppe e Michele, ciascuno per il suo, vollero chiedermi qualcosa. Il primo fu Giuseppe.
“Ma quando hai incominciato a elaborare il piano?” chiese Giuseppe.
“L’idea mi è venuta sabato notte mentre aspettavamo disperatamente il tuo ritorno. A grandi linee. Poi l’ho affinata nel corso della settimana. L’unica cosa era che non sapevo come fare ad agire indisturbato. E domenica mattina, ti ricordi quando abbiamo fatto quella chiacchierata a quattr’occhi? Ecco in quel momento mi è venuta l’idea della falsa partenza e del ritorno da clandestino!”
“Fortissimo!” esclamò Giuseppe. In qualche tratto del suo modo di agire dimostrava ancora, inevitabilmente, tutti e solo i suoi quindici anni.
Poi fu la volta di Michele.
“Ma adesso che cosa gli succederà?” chiese.
“L’altra mattina, mentre tutti erano al mare, ho preparato la lettera che ho lasciato fuori dal loro covo per i carabinieri. Lettera anonima. Anche perché Dorian, Salvatore, Giovanni e Massimo, non sanno che siamo stati noi a stenderli. Ho preparato anche una lettera, che ho lasciato nella macchina di Marco dopo che Vito vi aveva lasciato le pistole ed il resto della refurtiva. Nella lettera ho descritto per filo e per segno tutto quello che è accaduto in questi ultimi giorni. Marco stesso sa che non può essere così ingenuo da incolpare me di quello che sta passando in queste ore, altrimenti dovrebbe ammettere tutto il resto. E comunque lo farei io. E sa anche che non gli conviene parlare, perché visto quello che ci ha fatto, può finire in galera con l’accusa di abuso di minore. Quindi di lui non sapremo più niente per un bel po’ di tempo!”
“Almeno ammettilo! Perché non hai svuotato completamente le bottiglie di aranciata alla prima passata?” chiese, sempre Michele tutto d’un fiato, sapendo che, da come avevo reagito in spiaggia, non avevo molto piacere a raccontare una cosa del genere. Io, però ci pensai un attimo e poi gli risposi.
“Semplicemente perché nonostante tutta la sofferenza che ha causato a me in questi anni e a Giuseppe in questi giorni, sono convinto del fatto che tu sia di gran lunga la persona che ha sofferto più di ogni altro in tutta questa storia. E che sapevo che anche cercano di fermarti, non ci sarei riuscito fino in fondo. E poi perché se ti conosco bene, tu, quando sei ritornato, avrai sicuramente tenuto a dire che tu non sei me. Ecco! Volevo che capissero fino in fondo quanto possiamo stare bene nella stessa compagnia pur essendo diversi. Che non è necessario conformarsi tutti allo stesso modo di pensare e di comportarsi, per andare d’accordo. Che non è necessario, per andare d’accordo, crearsi un gruppo di amici su misura” fu la mia risposta. Completa e sincera. Michele, come spesso accadeva, non ebbe la forza di reggere il mio sguardo, in quell’istante. E cercò di cambiare discorso.
“Ma sapete che quando l’ho fatto sono stati presi dal panico? Marco se l’è addirittura fatta addosso!” disse con aria gioviale, come per contagiare il sorriso degli altri due. Senza però riuscirci.
Immediatamente il volto di Giuseppe si adombrò. Gli vennero in mente tutte le cose che l’avevano portato, poco più di un’ora prima, ad avere la stessa reazione. Solo in quel momento, sentendo quelle parole, la paura prima e l’esaltazione per la vittoria poi lasciarono il posto all’imbarazzo ed alla vergogna per quello che era successo. Non tanto per essersela fatta addosso, ma per aver pensato, anche solo per pochi secondi, di tradire me e Michele. Scoppiò a piangere e singhiozzare. Io mi accorsi subito della situazione, ma non feci neanche in tempo ad intervenire che, con molta soddisfazione da parte mia, vidi una scena che non vedevo da anni e che non vedevo l’ora di apprezzare nuovamente. Michele scattò in piedi dal suo letto e si diresse immediatamente da Giuseppe.
“Scusami Giuseppe! Non era assolutamente mia intenzione prenderti in giro! Non mi permetterei mai di fare commenti al riguardo! In quest’ultima settimana tu hai sofferto più di tutti noi messi insieme! E quello che ti hanno fatto stasera è stato disumano! Perdonami se quello che ti ho detto ti ha ferito!” disse, preoccupatissimo, commosso e profondamente e seriamente dispiaciuto da quello che aveva provocato. A quel punto mi alzai. E mi avvicinai anche io al letto su cui giaceva Giuseppe. Appoggiai una mano sulla spalla di ciascuno dei miei due amici e gli sorrisi. Giuseppe in quel momento si calmò e ricambiò il sorriso, ancora bagnato dalle lacrime di pochi secondi prima.
“Oggi è stata una giornata che ci porteremo per sempre dentro. Oggi, la scena di queste ultime due estati è cambiata. Definitivamente. Oggi è cambiato tutto! Tutte le prove di quest’anno passato, la violenza, le paure, i litigi, le incomprensioni, addirittura le torture, tutto è finito ora. Possiamo, con la giusta punta di orgoglio, dire che il merito è stato nostro e di Francesco e Emanuele. È vero che nel corso di questi mesi altre persone ci hanno aiutato, per ultimi Vito e Nicola, ma noi, soprattutto noi cinque abbiamo, contro ogni aspettativa, trovato la forza e il coraggio di sistemare le cose. Non ci siamo mai conosciuti così tanto come in queste ultime settimane. E in queste settimane abbiamo tirato fuori il meglio di noi stessi. E ciascuno di noi ha tirato fuori anche le proprie debolezze. Ma sono queste cose che rendono vivi. Sono queste cose che ci rendono uomini. Se siete d’accordo, nessuno al di fuori di quelli che erano presenti questa sera alla radura, deve sapere i particolari di questa storia!” dissi con un atto di fiducia e di controllo che avrei col tempo imparato a coltivare nella mia vita.
La risposta affermativa di entrambi i miei Amici suggellò una volta per tutte quella amicizia e quell’accordo. La mattina seguente anche Emanuele, Francesco, Vito, Nicola e la stessa Maria, per ciò di cui lei era a conoscenza, avrebbero confermato l’accordo.
Nessuno avrebbe più tirato fuori quella storia. Sebbene tutti noi non l’avremmo mai dimenticata.
Quella fu veramente una notte speciale. Una notte in cui accaddero delle cose che non si sarebbero mai più ripetute. Perché quella notte bastò. Bastò a non farle accadere più. Mai più.
 
---O---
 
Passò quell’estate e fu strano accorgersi che quella fu, contemporaneamente, la più bella e la più brutta estate della mia vita. Fortunatamente, dopo quella notte, l’estate più brutta lasciò il posto all’estate più bella. Con l’arrivo del mese di luglio, incominciammo nuovamente ad andare al mare. Anche se i segni delle botte ci misero un po’ ad andarsene, per i primi giorni il mare non lo perdemmo perché andammo nel tratto di costa tra i lidi, costa piuttosto selvaggia e, a quel tempo dell’estate, frequentata ancora da pochissime persone. Praticamente andammo al mare nel tratto di costa più vicino alla famosa radura, ma non ci mettemmo più piede. Solo Giuseppe, una sera che tornammo a casa dal lungomare con tutti gli altri, riaprì un attimo il discorso, solo per dirmi che la notizia dell’arresto di Marco, Cosimo e Amaraldo era saltata all’occhio della cronaca del paese per lo strano ritrovamento effettuato alla spiaggia di Policoro dei tre ragazzi, fisicamente provati e legati, e della loro macchina completamente sfasciata ma con ancora le pistole e il rimanente della refurtiva.
Nessuno ovviamente sapeva nulla, neanche le autorità, su chi era stato a conciarli così. Almeno per quello, Marco non aveva avuto bisogno di qualcuno che gli dicesse di tacere la loro identità. Con tutto quello che ci aveva combinato, se solo avessimo parlato, come minimo avrebbe visto raddoppiarsi gli anni di galera a cui venne condannato.
Quello fu l’anno del mio unico, vero, grande amore. Perché quella ragazza, Maria, qualche anno dopo, quando entrambi avevamo ventidue anni, me la sposai. Quello fu l’anno in cui la compagnia di amici si allargò immensamente, con l’ingresso in quella compagnia di Vito e Nicola, che ebbero un ruolo importante anche dalle vacanze successive, sia da semplici amici che, successivamente, da cognati.
Con l’arrivo del resto della famiglia a Policoro, non dovetti neanche più preoccuparmi della gestione della casa ed ebbi ancora più tempo per divertirmi con i miei amici.
Quell’estate, però, passò anche. E la scuola, prima, e le vacanze dell’anno seguente, poi, fecero diventare i contorni di quella storia sempre più vaghi nella mente mia e degli altri. L’anno seguente, infatti, non andai a Policoro. Era l’anno della mia maggior’età. E fui invitato a passarlo con la famiglia di Maria, lontano da quei posti. In Spagna. L’estate successiva, quella della maturità, io e Maria ce ne andammo da soli in Grecia. Una vacanza all’insegna del divertimento e dell’affetto tra noi due.
Poi si incominciò a lavorare. E vidi, naturalmente, ridursi le vacanze da tre mesi a tre settimane. E per un altro paio di anni non ci andai neanche in vacanza, così impegnato a risparmiare per mettere su famiglia con la mia ragazza, ormai fidanzata. E incredibilmente, la lontananza riuscì a ottenere il risultato che Marco, nella sua malvagità e con la sua violenza non sfiorò neanche. Smettemmo di sentirci. Non lo facemmo apposta. Solo che crescendo, quei mille chilometri stavano sempre di più facendo la differenza. Per non parlare del fatto che ciascuno dei quattro miei amici, non rimase a Policoro. Giuseppe e Francesco si trasferirono a Bari per l’università e poi vi rimasero per lavoro. E lavoravano parecchio. Così smisero addirittura di frequentarsi benché abitassero nella stessa città. Emanuele andò a Potenza a studiare e poi trovò lavoro a Matera. Michele, dal canto suo, si trasferì con la sua famiglia a Roma.
Insomma, al tempo del mio matrimonio, a settembre del 2005, già non ci stavamo più sentendo da tre anni. Ciascuno di noi, però, nel proprio cuore, serbava ancora quella storia, che nessuno mai raccontò ad altri. Per molti altri anni.
Almeno sedici.

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NdA: Fine!! A parte un epilogo ... che uscirà giovedì! assieme, ovviamente, a qualche commentino in più. A presto!

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Capitolo 25
*** Fotoricordo ***


FOTORICORDO

13/9/2021
Caro diario,
Oggi è stata in assoluto la giornata più strana della mia vita.
È vero, ho solo 14 anni, però oggi sono successe tante di quelle cose che anche solo per raccontarle ci vorrebbe un libro. Cerco di riassumertele brevemente.
Ho incominciato l’ITIS, finalmente. Andare alle scuole superiori non è come andare alla scuola media. Conoscere tutti i compagni e tutti i professori, praticamente daccapo, non è il massimo. E il lunedì è anche un giorno pesante. Due ore di italiano, un’ora di matematica e tre ore (tre ore!!) di fisica. Ma non educazione fisica. Proprio fisica… speriamo di non annoiarmi troppo.
Siamo in 27 in classe e già non mi ricordo i nomi di tutti. A parte il mio miglior amico, Andrea, che è l’unico che conoscevo già dalle scuole medie. Comunque seguire il consiglio di mio papà è stato fortissimo. E sicuro lo seguirò, come mi ha detto lui, per tutta questa settimana. Con Andrea siamo entrati in classe e ci eravamo già messi d’accordo per sederci vicini. Praticamente tutto il giorno non ho parlato con nessuno tranne che con lui. E lo stesso ha fatto lui con me. Però ci siamo guardati attorno. E non immagini neanche quanto aveva ragione papà. Sai quante cose abbiamo capito dei nostri compagni? Ad esempio c’è Antonio, che sta ripetendo la prima. È un bullo. Durante l’intervallo ha avvicinato quasi tutti insultando e costringendo quelli più piccoli di lui a consegnargli due euro a testa. Noi non l’abbiamo fatto perché appena è suonata la campanella siamo usciti e non ha fatto in tempo a chiederceli, ma l’altro mio compagno di banco, Fabio, ce lo ha raccontato. E visto che avevo come l’impressione che lui ne sapesse qualcosa, anche in questo caso ho fatto come mi ha detto mio papà. All’inizio dell’ora successiva ho subito detto al professore quello che era successo. Il professore di matematica ha costretto Antonio a restituire tutti i soldi. Antonio mi ha guardato male per il resto delle ore. Anche se poi non è successo niente.
Ma la cosa veramente strana è successa poco dopo, quando il professore ha fatto l’appello. Avendo appena incominciato a lavorare nella nostra scuola, non aveva avuto il tempo di trascrivere sul suo registro personale i nostri nomi e lo fece dal registro di classe appena risolto la questione di Antonio, facendo contemporaneamente l’appello. Io sono il quinto in ordine alfabetico e anche con i primi, quando li chiamava, si faceva raccontare da loro qualcosa. Solo che, arrivato al mio nome, prima ancora di pronunciarlo, si è fermato. Io, che sapevo già che mi avrebbe chiamato, ho alzato la mano e mi sono fatto riconoscere. Lui, per tutta risposta, mi ha squadrato, e poi mi ha chiesto di parlargli della mia famiglia. Io l’ho fatto ma appena ho detto il nome dei miei, si è alzato e, visibilmente agitato, è uscito dall’aula, rientrando dieci secondi dopo con un mazzo di carte da “Scala 40”. L’ha aperto e mi ha dato una carta, il jolly, chiedendomi di darlo a mio padre e raccontargli poi la sua reazione. A me è sembrato tutto strano, ma il bello deve ancora venire.
Oggi pomeriggio, quando sono arrivato a casa da scuola, ho mangiato e ho parlato con mio padre di come era andata a scuola. Per caso è rimasto a casa, solo perché dovevamo andare a fare la solita visita medica per iscriverci a nuoto. Gli si sono illuminati gli occhi quando gli ho raccontato quello che era successo con Antonio. Poi però mi sono ricordato della cosa ancora più strana, del professore di matematica e della carta, e quando gliel’ho data, per la prima volta ho visto mio padre commuoversi. Prima mi ha chiesto come si chiamava il professore e non ho saputo rispondergli, perché non ce lo aveva neanche detto. Poi mi ha detto “La vedi questa carta? Rimane una semplice carta, finché non scopri la storia che c’è dietro” e mi ha promesso che me ne avrebbe parlato tornati a casa dal medico. Dopo un paio d’ore siamo tornati. Io pensavo che si fosse dimenticato di quella promessa, invece mi ha spiazzato di nuovo. Mi ha detto che in azienda non aveva molto da fare e che si sarebbe potuto occupare tranquillamente di tutto lo zio Vito. Quindi mi disse che il mio professore si chiamava Giuseppe. Poi mi è venuto in mente che mentre ero alla cattedra a spiegargli cosa era successo con Antonio, sbirciando il suo registro chiuso, ho visto che il nome era proprio Giuseppe. Solo che quando ho detto a mio papà che lui si chiamava come me, per tutta risposta mi ha detto queste testuali parole: “no! Sei tu che ti chiami come lui, anzi, tu ti chiami Giuseppe perché lui e tuo nonno si chiamano Giuseppe”.
Solo allora ho realizzato che mio padre lo conosceva bene.
Allora ha incominciato a raccontarmi come mai lo conosceva. E quando e come l’aveva conosciuto. Appena è arrivata la mamma, mentre cucinava, ci siamo spostati in cucina e quando la mamma ha visto la carta, si è commossa anche lei. Allora tutti e due mi hanno raccontato di persone conosciute più di venti anni fa. e mi hanno detto che avrebbero fatto di tutto per rivedere il mio professore di matematica.
Stasera ho conosciuto molto di più i miei genitori. Anche se non ho ben capito una cosa: mio padre mi ha chiesto quando avrò ancora matematica e visto che ce l’ho domani, mi ha detto che devo avvicinare il professore e, quando nessuno mi vede, dargli una scatoletta di tonno. Speriamo bene. Anche se tutti e due mi hanno lasciato intendere di essere veramente convinti che questa cosa possa fargli piacere. Penso proprio che prima o poi verrò a conoscenza di tutta la storia.
Domani ti faccio sapere.
Buonanotte!
Giuseppe
 
---O---

Il giorno seguente, Giuseppe aveva l’ultima ora di matematica. Altre due le avrebbe avute il giovedì. Al termine dell’ora, al suono della campanella, l’aula si svuotò quasi immediatamente. E Giuseppe si avvicinò al professore.
“Oggi avete avuto problemi con Antonio?” chiese premurosamente.
“No!” rispose Giuseppe cercando di sembrare più normale possibile. In realtà Antonio li aveva raggiunti prima dell’inizio della prima ora e minacciandolo, si era fatto dare, sia da lui che da Andrea, i quattro euro, due per il giorno prima e due per quel giorno. Poi, con calma, aveva trovato tutti gli altri e si era fatto ridare i soldi anche da loro. Ma pensò che quel professore non avrebbe potuto aiutarlo. Era troppo strano. Si vergognava come un matto anche di quello che stava per fare. Si vergognò fino a quando non fu proprio il professore ad incominciare a parlare.
“Allora, me la restituisci la carta o devo aspettare che me la portino i tuoi genitori?” chiese amichevolmente.
“Ha ragione! mi scusi! È nello zaino!” rispose rispettosamente Giuseppe.
Andò al suo banco e stava per prendere lo zaino quando udì il suo professore chiedergli una cosa che lo lasciò letteralmente di stucco.
“E già che ci sei, visto che mi piace tantissimo, portami anche la scatoletta di tonno!” disse ridendo.
Giuseppe impallidì. Come faceva a saperlo? Glielo chiese immediatamente.
“La scatoletta di tonno era, per quanto la cosa possa sembrarti strana, la cosa che più di ogni altra mi aspettavo da tuo padre. Digli che mi farebbe piacere rivederli, e che gli devo presentare la mia famiglia, mia moglie, Anna, e mio figlio. Che ha due anni meno di te. Anzi, vediamo se indovini come si chiama?” chiese in una maniera incredibilmente amichevole per un rapporto professore-studente.
Giuseppe ci pensò un attimo. Poi, trovando ragionevole solo una delle innumerevoli risposte possibili, azzardò: “Simone?”
“Sei tutto tuo padre!” esclamò il suo professore.
Il sabato successivo, alle 19, Giuseppe, con la moglie e il figlio erano invitati a cena da Simone e Maria. Quel sabato pomeriggio fu, per i due capifamiglia, tra i più emozionanti mai vissuti.
Giuseppe era veramente nervoso. Quel giorno era al lavoro fino all’una, e questo gli permise di distrarsi un attimo. Ma poi uscì e passò dalla pasticceria, come “ordinato” dalla moglie. Tornò a casa, a pranzo e poi uscì a fare la spesa con la moglie e il figlio. Tornarono verso le quattro. Quelle altre due ore e mezza non passarono più. Ma poi alla fine erano le sei e mezza e ora di partire per raggiungere casa di Simone. Gli batteva forte il cuore mentre, in macchina, raggiungeva quell’abitazione.
D’altra parte, Simone e Maria non erano da meno. Il mattino Maria andò a fare la spesa e Simone dovette andare in ufficio per sbrigare le ultime questioni della settimana. Mandare qualche e-mail, aprire la posta cartacea, fare qualche telefonata, in Cina, per concordare le ultime spedizioni. Uscì giusto in tempo per passare a prendere il figlio e andare a casa, dove pranzarono. Mentre Maria finiva di sistemare dal pranzo, aiutata da suo figlio, Simone andò in cantina a prendere il vino, quello buono, quello che ancora gli forniva suo padre. Salito nuovamente in casa, Simone cercò ancora di sedare l’emozione facendo una cosa che sapeva essere la seconda a rilassarlo veramente; seconda solo al nuoto. Quasi un hobby: cucinare insieme ai suoi famigliari. Guidando le cose quando poteva, assistendo la cuoca migliore che conosceva quando non sapeva muoversi. E tutti e tre, come accadeva sempre in quel caso, si divertirono. Anche se il continuo ritorno alla serata che lo attendeva lo faceva emozionare tantissimo. Rivedere Giuseppe. Dopo quasi venti anni. Chissà quante cose gli avrebbe raccontato. Così, anche se la cucina non lo distrasse a sufficienza, almeno gli fece passare il tempo più velocemente. Erano le sei, quando era tutto pronto. Doveva solo prepararsi, e tutto sarebbe stato all’opera per accogliere gli ospiti.
Alle diciannove spaccate suonarono alla porta. Giuseppe si sarebbe voluto complimentare per quella bella villetta che Simone aveva. Con tanto di giardino. Gli ricordava tanto quella casa dove Maria, Nicola e Vito avevano abitato per quella fantastica vacanza a Policoro. Ma non ci fu tempo. Arrivarono alla porta e di fronte a lui vide il suo studente aprirla. Il ragazzino era visibilmente in imbarazzo, non sapendo come comportarsi con quel professore-strano-super-amico-di-suo-padre.
Il professore fece entrare il figlio, salutato dal figlio del padrone di casa amichevolmente, e la moglie, trattata ancor più educatamente, e poi entrò lui. Nell’ingresso c’era solo lo spazio per loro, un piccolo appendiabiti e le scale che salivano al piano di sopra o scendevano in cantina. E di lato l’ingresso vero e proprio al salotto.
Si prese un attimo di tempo per parlare con il suo omonimo.
“Senti! se sei d’accordo e prometti di non farlo quando ci sono i tuoi compagni, dici di poter trovare la forza e il coraggio di darmi del tu?” chiese fingendosi estremamente preoccupato.
E il ragazzino si sciolse. “Certo!” esclamò con un sorriso a trentadue denti.
“Mamma! Sono arrivati!” urlò. “Entrate pure, che vado a chiamare mio padre!”
Un ambiente ordinato e accogliente si presentò alla loro vista. Giuseppe si rivolse nuovamente verso il ragazzino e sorridendogli continuò a cercare un complice: “Pasta col tonno!” disse, leccandosi le labbra.
“Piace tantissimo anche a me!” rispose l’altro.
Giuseppe e Simone (Junior) si presentarono. E si conobbero. C’erano due anni di differenza tra di loro e si notavano tutti. Ma cercarono di fare quattro chiacchiere alla pari. -Se c’è riuscito una persona adulta con me, perché non posso riuscirci io, a farlo sentire a suo agio?- pensò il più grande mentre si sedevano sul divano.
Maria li accolse a braccia aperte. Anche lei aveva tantissima voglia di vedere Giuseppe e di conoscere Anna. Così anche Anna e Maria, dopo qualche minuto, si sentirono ciascuna a proprio agio.
“Scemo!” disse una voce dall’ingresso. Un fulmine attraversò il salotto, colpendo direttamente Giuseppe.
“Scemo sarai tu!” fu la risposta che diede quest’ultimo, senza neanche voltarsi. Poi si voltò.
Due persone che non si vedono da vent’anni hanno di solito bisogno di squadrarsi un attimo, prima di riconoscersi. Quell’esclamazione di Simone aveva cancellato ogni bisogno di farlo. Un abbraccio lunghissimo coinvolse tutti e due.
“Mi è preso un colpo, quando ho visto la carta” disse Simone.
“Io invece ero sicurissimo della scatoletta di tonno!”
Quello fu l’inizio della serata. Serata che continuò fino a mezzanotte circa, quando gli ospiti se ne andarono.
Semplicemente si svolse in due parti. La prima, mentre mangiavano, nella quale Simone e Giuseppe aggiornarono la loro conoscenza reciproca con i vent’anni che mancavano.
Praticamente si concluse quando Simone, che aveva un ottimo rapporto con suo figlio, confidò a Giuseppe quanto avesse bisogno di qualcuno che lo aiutasse in matematica. Giuseppe si imbarazzò un po’. Rattristendosi, pensò che avrebbe preferito evitare di menzionare certi suoi problemi scolastici al cospetto del suo nuovo professore. Solo che fu proprio il suo nuovo professore a sistemare le cose.
“Sai che alla tua età anche io in matematica non andavo proprio forte? E durante le vacanze estive c’era uno che si prendeva sempre la briga di aiutarmi” disse, rapendo lo sguardo e l’attenzione di Giuseppe. Poi con lo sguardo gli fece capire che si trattava proprio di suo padre.
La situazione cambiò immediatamente. Giuseppe ci pensò un po’. Poi si sentì stranamente coinvolto da quella situazione a tal punto da potersi permettere di confidarsi anche con il suo professore, come ormai si confidava solo con suo padre.
“Fossero questi tutti i problemi a scuola! Posso farvi una domanda?” chiese, anche se era visibilmente imbarazzato per quello che stava succedendo.
“Pensi che sia opportuno parlarne davanti a loro? O preferisci che ne parliamo in un’altra occasione in privato?” chiese serio suo padre.
“No! Io non ho fatto niente di male. È solo una cosa che mi è successa a scuola, e non riesco a capire come comportarmi!” disse.
“Allora, se te la senti, fai pure!” concluse Simone.
“C’è un mio compagno di classe che ha un problema. Si tratta di Andrea” disse, tutto d’un fiato, cogliendo lo sguardo presente dei suoi genitori, che lo conoscevano molto bene, dal momento che spesso era ospite a casa loro, come, del resto lo stesso Giuseppe a casa sua.
“Di che problema si tratta?” chiese Simone. Fu solo per caso che rivolse lo sguardo al suo amico, a quel punto, ma quello che vide gli bastò ben più che una risposta.
Giuseppe aveva cambiato completamente espressione. E pronunciò solo una parola, rivolgendosi al giovane, solo per chiedergliene conferma.
“Antonio?” chiese il professore.
Giuseppe si rivolse verso di lui. Lo osservò, in parte stupito per quello che aveva sentito, soprattutto per essere arrivato subito al nocciolo del problema. E gli parve strano.
“Mi preoccupa, Andrea! In classe c’è un nostro compagno, Antonio, che fa un po’ il prepotente con tutti. Non mi ha mai fatto niente. Probabilmente se mi alzasse le mani lo polverizzerei, ma Andrea entra in crisi ogni volta che quello gli dice qualcosa. Può insultarlo, può dirgli qualunque cosa, ma lui non dice niente e poi va in bagno. Una volta l’ho anche seguito, e l’ho sentito piangere. Io vorrei aiutarlo, ma non so come posso fare. Soprattutto per dimostrarmi un vero amico. Cosa posso fare?” chiese Giuseppe.
In quel momento, in quella stanza, calò il silenzio.
Da quando il ragazzino aveva incominciato a raccontare quelle cose, lo sguardo dei due capifamiglia si era, più di una volta incrociato. Adesso, tralasciando il contatto visivo con il giovane, Simone e Giuseppe si fissavano direttamente.
Il figlio di Simone, appena adolescente, pensò di aver capito. Pensò di essere quasi riuscito a mettere in difficoltà i due ‘grandi’.
“Beh! non mi sembra poi questo gran problema. Sto parlando di bullismo. Non vi saranno mai capitate cose di questo tipo, ma penso che la situazione sia chiara!” disse, fingendo di sorridere, anche cercando, da parte sua, di stemperare un po’ la tensione di quei momenti che a lui parvero addirittura imbarazzanti. Fu Maria che, lanciandogli un’occhiata che da brava mamma diceva tutto, riuscì a farlo tacere. Lei infatti si rendeva conto di quello che stava succedendo. Fino in fondo. Infatti, pur non conoscendo cose che suo marito non aveva mai voluto raccontargli, era perfettamente a conoscenza del patto. Visto che, però, i due principali personaggi di quella storia erano riuniti in quella casa, quella sera, non sapeva proprio cosa sarebbe potuto uscire fuori.
Dagli sguardi che si scambiarono, capirono entrambi ciò che l’altro stava pensando. Tornarono alla loro mente vivide immagini del castello, della radura e di Policoro. Simone pensò che a suo figlio quel racconto avrebbe potuto servire più di un semplice consiglio dato con amore ma distaccato. Giuseppe capì che quella storia sarebbe servita anche al suo, di figlio, che stava entrando in quell’età in cui, quasi certamente, avrebbe affrontato quegli stessi problemi.
Anna, rendendosi conto del fatto che avevano seriamente bisogno di parlare, e ritenendo opportuno che lo facessero da soli, propose a Maria di darle una mano a sparecchiare.
“No! Aspetta!” le rispose “Se conosco bene Simone e Giuseppe, stanno per raccontare una storia bellissima. Una storia di amicizia e una storia che farà tanto di quel bene a mio figlio, che non me la perderei per nessun motivo al mondo! Pur conoscendola quasi in ogni particolare”. E aveva ragione.
Simone e Giuseppe incominciarono a raccontare. Man mano che raccontavano, l’attenzione degli altri si faceva più attiva, sia delle due donne, che dei due ragazzini. Anna non aveva mai sentito quel racconto, ma anche Maria era all’oscuro di alcuni particolari di quella storia. Particolari di cui venne a conoscenza solo quella sera. Altri particolari furono semplicemente non menzionati da Simone e Giuseppe, in accordo al patto stipulato ventuno anni prima. Era incredibile come furono in grado di ricordarsi tutte quelle cose. E come ciascuno dei due era in grado, come accadde più di una volta, di continuare con precisione il racconto dall’istante esatto in cui l’altro l’aveva interrotto.
Al termine della storia in quella casa si poteva respirare un’atmosfera diversa, molto diversa. Anna aveva consumato un pacchetto di fazzolettini di carta, stentando a riconoscere in quel ragazzino l’uomo che solo pochi anni dopo la fece innamorare. Un’ulteriore dimostrazione di come le persone cambiano. Non che Giuseppe fosse peggiorato, anzi. Semplicemente capì il perché di molte sue affermazioni molto decise sulla sua completa avversione alla violenza e al bullismo nelle scuole. Adesso capiva il perché. Maria, man mano che la storia continuava, aveva incominciato ad avvicinarsi al marito, fino a stringersi a lui, soprattutto durante il racconto di quegli ultimi giorni, quelli durante i quali lei e i suoi due fratelli avevano condiviso con gli altri quell’esperienza. Simone junior, lui, ascoltò con attenzione e passione quel racconto. E poi corse ad abbracciare suo padre. Perché aveva voglia di farlo. Perché certe cose le aveva solo lette e aveva già iniziato a pensare che potessero accadere. Ma solo quella sera incominciò a vederle e sentirle così vicine. Giuseppe, da parte sua, non sapeva cosa pensare di suo padre, dei suoi genitori, e dei suoi zii. Aveva sempre considerato suo padre una persona tranquilla. Faceva un lavoro tranquillo, forse fin troppo noioso per lui. Ancora prima che lui nascesse aveva costituito con il cognato, lo zio Vito, quella piccola azienda, che commerciava computer usati, che col tempo si era un po’ ingrandita e aveva permesso alle due famiglie di avere un tenore di vita più che dignitoso. Sua mamma aveva lavorato come segretaria in un’azienda di Milano, poi, con la crescita degli affari dell’azienda di famiglia, aveva incominciato a dare una mano al marito e al fratello, lavorando part-time, più che sufficiente, per loro. Poi, da quell’anno, era passata alla sua passione per l’insegnamento, insegnando italiano e storia nella scuola media che lo stesso Giuseppe aveva appena finito. Lo zio Vito era simpaticissimo e dinamico, ma niente di più. E poi lavorava sempre, come d’altro canto faceva anche suo padre. Lo zio Nicola, invece, quasi non lo conosceva, perché faceva l’avvocato, ma ormai viveva quasi sempre in Francia. Praticamente si vedevano solo un paio di volte l’anno, anche se con la figlia, sua cugina, si sentiva spesso. Si chiamava Emanuela, e adesso stava, forse, capendo il perché. Comunque mai e poi mai avrebbe potuto pensare che i suoi genitori e zii avessero potuto vivere un’esperienza del genere. Per quanto gli fosse dispiaciuto tantissimo sapere quello che era accaduto, gli era servito. Eccome se gli era servito.
Il fatto era, ma la verità la conosceva solo lui, che non aveva raccontato proprio ai suoi genitori come erano andate le cose. Sostanzialmente, era lui e non Andrea a subire le continue angherie di Antonio. Perché gli atti di bullismo e le minacce di violenza da parte di Antonio erano continuate per tutta quella settimana. Soprattutto nei suoi confronti, che aveva difeso la classe quel primo giorno. Era stato il suo migliore amico che, proprio quella mattina, l’aveva rincorso in bagno e l’aveva sentito piangere, silenziosamente, per l’ennesima battuta spinta uscita dalla testa sfrontata di quell’Antonio. In quel momento Giuseppe si vergognò anche per aver pensato che un professore così “strano” come quello di matematica, non potesse anche solo lontanamente aiutarlo in quella storia.
“Comunque non preoccuparti” aggiunse Giuseppe.
“Hai visto… sono cose che capitano a tutti e che si possono risolvere. Soprattutto con l’aiuto di persone più grandi e mature. Ma ce la si può fare anche da soli. Basta che voi restiate uniti e Antonio non vi può fare nulla. A nessuno dei due” continuò Simone.
In quel momento, anche Maria comprese il senso più profondo di quelle parole. “Sentito? Hai dalla tua parte non solo me e tuo padre, ma anche un tuo professore, cosa vuoi di più dalla vita?” disse a suo figlio, cercando di sorridere e tirargli su il morale.
“Ma io cosa centro? Stiamo parlando di Andrea qui, ricordatevelo!” disse Giuseppe, portandosi evidentemente sulla difensiva. Ancora non si sentiva pronto per tirare fuori la verità.
Giuseppe e Simone si guardarono e sorrisero a quella difesa. Passò qualche altro minuto, poi si salutarono per andarsene.
“Beh! speriamo di non vederci, adesso, tra ventuno anni!” scherzò Giuseppe.
“Beh! visto il tipo, non vedo l’ora dei colloqui con i genitori e dei consigli di classe” ribatté Simone.
“Per me il martedì, dalle 11:55 alle 12:45”, rispose Giuseppe “e fuori dall’orario scolastico quando ti pare!”.
“Non preoccupatevi che ci siamo scambiati il numero di telefono io e Anna, altrimenti non vi trovate più” aggiunse Maria.
Poco prima di uscire, quando Giuseppe salutò Simone, gli strinse la mano un po’ più del solito. I tre ospiti uscirono. Simone si voltò, lanciò un’occhiata a Maria che capì immediatamente e gli sorrise. Simone uscì e si offrì di accompagnarli alla macchina.
“Wow! Non ti sei scordato di come sono, allora?” disse Giuseppe.
“Si! Per forza! Con tutte le cose che abbiamo passato assieme! Comunque che cosa dovevi dirmi?” chiese Simone.
“Non ti sei accorto di nulla?”
Simone guardò il suo amico. L’aveva ritrovato! Esattamente come venti anni prima!
“Beh! vediamo se te ne sei accorto anche tu?!” chiese.
“Era una balla!” disse Giuseppe, sicuro. “Non dirmi che non ti sei accorto che la storia di tuo figlio era una bugia? Giuseppe è come me con le bugie!”
Si! Decisamente: Giuseppe continuava ed essere quello che aveva conosciuto per i suoi primi quindici anni di vita.
“Beh! lo so! D’altra parte sono suo padre! È come eri tu a quindici anni. Solo che tu abbassavi lo sguardo. Lui si bagna le labbra con la lingua. Ma lo becco subito!”
Giuseppe sorrise, ritornando con la mente alla storia finita di raccontare pochi minuti prima.
“Secondo te dove ha mentito?” chiese.
“Mah! Secondo me, anche giudicando l’attenzione che mostrava alla storia, direi che il problema ce l’ha lui” rispose Simone.
Anche Giuseppe fu d’accordo.
“Puoi fare qualcosa? A livello scolastico intendo, per aiutarlo!” chiese Simone.
“Sicuramente! Purtroppo meno di quello che vorrei, però! Ad ogni modo, credo che possa esserti utile sapere che, ad esempio, durante l’intervallo, in bagno, gli studenti non possono essere puniti con dei provvedimenti scolastici, per qualunque cosa facciano”
Simone sorrise. Come sempre Giuseppe gli aveva fornito la soluzione a quel problema. Era sempre più felice di averlo vicino. Ed era sempre più felice che suo figlio l’avesse vicino. Improvvisamente riacquistò fiducia anche nel giovane.
“Non preoccuparti! Se conosco mio figlio abbastanza, e lo conosco abbastanza, la soluzione, dopo stasera e dopo quello che mi hai appena detto, la trova da solo!”
Si salutarono. Tornato in casa vide Giuseppe seduto con la testa sulle braccia, sul tavolo, e Maria che cercava di consolarlo parlandogli sottovoce e scompigliandogli un po’ i capelli.
“Credo che dobbiate parlare un po’ voi due. Io vado a letto, ci vediamo dopo” parlò, rivolgendosi a Simone. Al cenno affermativo di quest’ultimo, si alzò e con una carezza salutò suo figlio e salì le scale verso la camera da letto. Entrambi sapevano che avrebbe aspettato Simone anche fino a notte inoltrata, preoccupata com’era da quella situazione, in attesa di sentire cosa si erano detti.
“Ti posso dire una cosa?” chiese Giuseppe, con ancora la testa sulle braccia conserte.
“Certo! Sai che non c’è neanche bisogno di chiedermelo!” rispose deciso il padre.
Giuseppe alzò la testa, rivolgendo lo sguardo verso suo padre. “Che cosa penseresti di me, se venissi a sapere che ero io quello che è corso in bagno oggi, per sfogarsi e non far vedere a tutti che stava piangendo?” chiese tutto d’un fiato.
“Perché, è successo questo oggi?” chiese Simone.
Il cenno affermativo di Giuseppe gli fece capire, ancora una volta, che sia lui che il suo amico non avevano perso il buon fiuto per questo genere di cose. Lo sguardo, forzatamente severo di Simone, che aveva mantenuto fino a quel momento, si sciolse. Un lieve accenno di sorriso gli toccava le labbra, anche se gli occhi rimanevano malinconici e fissi sul figlio.
“Di te non posso che pensare tutto il bene possibile. Quello che ti è successo, succede ogni volta a milioni di ragazzini in tutto il mondo. È successo anche a me, anche al tuo professore di matematica. So che non scenderesti mai nei particolari di quello che ti dice e di quello che ti fa questo, come si chiama, Antonio. Fai bene. D’altra parte, fidati; anche noi non siamo scesi nei particolari del racconto. Però hai fatto ancora meglio a parlarci di questo problema, anche se non vedo tutto quel bisogno di raccontare quella mezza verità su Andrea. Ora, alla luce di quello che ti abbiamo raccontato, cosa pensi di fare? Capisci che non puoi rimanere in questa condizione per cinque anni, no? Devi fare qualcosa!” lo esortò Simone.
Giuseppe, dapprima rinfrancato per la risposta di suo padre, ammise di non saperlo.
“Normale! È successo anche a me quell’anno. Io però posso solo incoraggiarti e appoggiare o meno un’idea che deve essere la tua. Secondo me dormirci sopra ti chiarirà su quello che potresti fare!” rispose, enigmaticamente, Simone. Poi lanciò il messaggio, nella speranza che suo figlio lo cogliesse.
“Ah! Giuseppe mi ha detto una cosa: è vero che durante l’intervallo se ti picchiano in bagno non puoi rivolgerti ai professori?” chiese.
“Si! È una sciocchezza! Ma è così. Perché me lo chiedi?”
Simone non gli rispose. Si alzò e salì a dormire. Spiegò brevemente a Maria quello che era successo, e entrambi si addormentarono sereni. Solo Giuseppe ci mise un po’ ad addormentarsi. Aveva tantissimi pensieri. Quel racconto l’aveva scosso. Anche se aveva capito che ancora non sapeva tutto quello che era successo, quello che gli aveva detto suo padre l’aveva colpito. Cos’altro c’era da raccontare di quella storia? Non lo sapeva, ma la cosa che gli stava più a cuore era capire il perché dell’ultima domanda di suo padre. Poi Giuseppe comprese. Non solo comprese. Quella notte, Giuseppe, capì. Capì perché suo padre aveva rivolto la sua attenzione a quel particolare. Capì che come aveva fatto suo padre anni prima, arrivava un punto in cui l’unica possibilità per difendersi era attaccare. E risolse il suo problema.
Il mattino seguente si svegliò verso le undici e mezza e uscì con Andrea a fare un giro in bici. Comunque, appena suo padre lo vide, capì immediatamente che il problema era risolto e silenziosamente fu orgoglioso di suo figlio. Dopo pranzo una delle prime piogge autunnali lo costrinse a rimanere a casa a studiare e giocare ai videogiochi con Andrea. Dopo cena guardò un po’ di televisione.
Il lunedì mattina arrivò con la solita fretta. Arrivato a scuola, fece le prime due ore di italiano. Poi l’intervallo. Durante l’intervallo, quando il professore non era più in aula, Antonio gli si avvicinò. Per quella che ormai era diventata la solita sfilza di insulti e prese in giro rivolte a quel ragazzino fin troppo strano per lui.
“Guardatelo lo sfigato! Hai ancora paura di me? Corri in bagno, come hai fatto l’ultima volta. Non dirmi che hai pianto! Si vedevano gli occhi rossi quando sei tornato, sabato. Sei solo un povero mongoloide deficiente, che non ha neanche il coraggio di parlare”.
Giuseppe, immobile, aspettò che se ne andasse e lo lasciasse stare, ma Antonio non si muoveva. Si avvicinò anzi sempre di più a lui. Almeno ci fosse stato Andrea, ma era in segreteria! Antonio lo capì. E infierì. “Non c’è neanche il tuo amichetto a difenderti! Cos’è il tuo fidanzatino?” disse.
Tutti i suoi compagni si erano fermati a guardare quella scena. A qualcuno, evidentemente, Giuseppe faceva pena, gli altri sembravano quasi divertiti da quella conversazione a senso unico. D’altra parte Giuseppe non si era mai avvicinato a loro per tutta la settimana precedente. Quasi come se avesse voluto snobbarli. In fondo, pensava qualcuno, se la stava tirando troppo e qualcuno che gli desse un po’ di fastidio ci voleva. Si erano già dimenticati della difesa di Giuseppe davanti al professore della settimana prima.
“Vediamo se sai usare le mani, per difenderti” gli disse, spingendolo verso il muro. E spingendogli le spalle contro di esso.
“Non hai neanche il coraggio per farlo, eh?” chiese ancora più carico Antonio, continuando a burlarsi di quello strano ragazzino che non reagiva neanche. Anche gli altri suoi compagni non capivano. Si vedeva che Antonio era più grande di Giuseppe, ma Giuseppe faceva nuoto da otto anni. Insomma, aveva ragione quando aveva detto ai suoi che l’avrebbe polverizzato se avessero fatto a botte. E questo, Giuseppe lo sapeva. Anche alcuni suoi compagni l’avevano capito. Si chiedevano anche loro, quindi, perché non facesse niente.
“D’altra parte con quel cognome non puoi essere che uno sporco terrone sfigato!” aggiunse.
Giuseppe, cercò più volte di raggiungere l’uscita dell’aula, venendo sempre trattenuto da Antonio. Che lo guardava soddisfatto e contento di come riusciva a umiliare quel suo compagno.
“Questa volta ti lascio scappare. Se scappi in bagno però ti inseguo e ti spacco la faccia. Lo sai che non ci possono punire per qualcosa che facciamo in bagno durante l’intervallo?” disse ridendo. Primo errore: sottovalutare l’intelligenza degli altri.
-Oh! Era ora che dicesse una cosa del genere! Stavo per perdere la pazienza qui. Proprio come avevo previsto- pensò Giuseppe, mentre un lampo impercettibile attraversò i suoi occhi. Quello era il momento di agire. Corse via. Uscendo dall’aula e dirigendosi verso i bagni.
“Allora se l’è cercata!” disse ad alta voce Antonio correndo fuori e dirigendosi anche lui a tutta velocità verso i bagni. Tutti lo seguirono, tutti i suoi compagni di classe avrebbero anche pagato pur di vedere come andava a finire. “Vediamo se avete mai visto uscire così tanto sangue dal naso di uno!” urlò verso gli altri, correndo per raggiungerlo. Secondo errore: essere troppo sicuri di sé.
Giuseppe avrebbe potuto seminarlo come e quando voleva. Dapprima, però, corse lentamente verso i bagni, poi, quando fu sicuro del fatto che Antonio lo stesse inseguendo, accelerò, per costringere anche l’altro a farlo. E l’altro lo fece, per paura che riuscisse ad entrare in bagno e chiudersi dentro prima del suo arrivo. Terzo errore: troppa fretta di picchiare qualcuno.
Perché Giuseppe ebbe giusto il tempo di entrare, fare leva sul lavandino al proprio fianco e girarsi. Giusto in tempo per vedere Antonio che correva verso di lui. A quel punto niente e nessuno avrebbe potuto fermarlo.
Questo, però, era proprio quello che Giuseppe voleva. Più di ogni altra cosa. Che Antonio non si fermasse. Almeno fino al suo piede, che velocemente spuntò dal lato della porta.
Nessuno seppe mai se Antonio, quel piede, lo vide. Certo fu che non lo poté evitare o saltare. Né poté fermarsi. Lo prese in pieno. Spiccando letteralmente il volo. E finendo sul lavandino di fronte all’ingresso. Col viso. Perdendo due denti. E rompendone un’altro. Praticamente i suoi compagni furono tutti testimoni di quello che accadde e proruppero in risa e applausi. Risate per la figuraccia di Antonio. Applausi per Giuseppe, soprattutto, per aver risolto, definitivamente, il “problema Antonio”. Antonio si alzò rintronato dal dolore, tremante dallo spavento e rosso dalla vergogna. Giuseppe lo avvicinò. E gli disse, sottovoce, guardandolo fisso negli occhi: “ad insultarti ci penseranno loro. Io non lo farò mai. Ma se non la pianti di rompere le scatole a tutti con i tuoi modi di fare prepotenti, e non restituisci immediatamente tutti i soldi, ti prometto che questo è solo l’inizio. E guai se racconti in giro quello che è successo”
Girò i tacchi e se ne andò. Il professore dell’ora seguente non seppe niente di quello che era successo, finché non rientrò dall’infermeria lo stesso Antonio. Quando gli fu chiesto cosa gli fosse accaduto, questi rispose che era inciampato durante l’intervallo. Mentre rispose tenne lo sguardo abbassato, ma alla fine lo alzò e osservò Giuseppe. Prese una scatola dallo zaino e la diede al professore.
“Voglio chiedere scusa a tutta la classe, per il mio comportamento. Questi sono tutti i soldi che vi ho preso la settimana scorsa. Dieci euro a testa. Perdonatemi per il mio comportamento. Vi prometto che non lo farò più”
“Non è che questo centra con il fatto che sei inciampato durante l’intervallo?” chiese il professore. Poi guardò il suo omonimo, che gli sorrise. Senza che nessuno lo vedesse, ma in modo che il professore lo notasse, tirò fuori dall’astuccio una cosa e l’appoggiò sul banco. Il professore la vide e scoppiò a ridere irrefrenabilmente. Con una risata che, a parte Antonio, troppo dolorante e umiliato, coinvolse presto tutta la classe.
Mentre tutti si riprendevano dalla risata, Giuseppe, il professore, perdendo i cinque minuti di lezione meglio persi della sua carriera scolastica, scrisse un messaggio a Simone.
“ANTONIO MESSO KO NEI BAGNI. IL BULLO HA CHIESTO SCUSA E HA RESTITUITO I SOLDI A TUTTI. GIUS MI HA APPENA FATTO VEDERE UNA SCATOLETTA DI TONNO… TUTTO SUO PADRE!” 



N.d.A: Buongiorno a tutti! siamo così giunti alla fine di questo racconto. Erano ANNI che ce l'avevo da qualche parte, ed è incredibile pensare come tuttora, dovessi ricorreggerlo, troverei errori, cose che possono essere cambiate, migliorate, scritte in maniera diversa o semplicemente approfondite in base ai sentimenti e alla condizione emotiva che ho ORA.
Grazie a tutti per le recensioni, per averlo seguito, per averlo commentato. Grazie anche a coloro che con i loro pareri, "in forma privata", mi hanno detto cosa ne pensavano, quello che avrebbero voluto leggere nella storia e quello che non gli è piaciuto.
Insomma grazie a tutti voi!
La storia era già scritta e quindi non ho cambiato il racconto sulla base dei vostri (validissimi) suggerimenti. Non ritengo che sarebbe stato comunque giusto. Ma sapete che c'è?
Una storia che è già stata scritta non esiste fino a che non viene letta; è il lettore a dare vita ai personaggi, alle loro azioni, ai loro pensieri. Quando la vita, che il lettore dona a coloro di cui
legge la storia, è molto simile alla vita che ha pensato per loro colui che ne ha scritto la storia, credo che lo """""scrittore""""" abbia raggiunto il suo obiettivo.
Chissà, forse da qualche parte nello spazio tempo incontrerete ancora Simone, Maria, Giuseppe, Anna, Francesco, Emanuele, e chissà forse anche Marco e gli altri. Forse incontrete loro di nuovo su questo sito (magari dal 9 Gennaio :) ), forse li incontrerete per strada, in uno sguardo di una persona a voi nota o sconosciuta, in un altro racconto, in un discorso con vostri amici e parenti. Non importa.
Se qualche volta, in questi 5 mesi, avete passato qualche minuto in loro compagnia e quel minuto vi è parso piacevole, siategliene grati, come loro sono grati a VOI della vita che avete saputo dargli.
S

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