From a Black Hole in My Mind

di ScrumptiousChaosKing
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

A volte penso a tramonti osservati su mondi diversi da questo. Immagino come deve essere guardare il sole calare dall’orizzonte di Marte, su quella distesa di colline rosse e polvere, il silenzio infinito, la notte perfetta, senza artificiale a sfregiare la superficie, senza rumore a spezzare atmosfere da sogno.

Qui le auto passano indisturbate lungo la strada larga sotto il balcone. Io sono rannicchiata in un angolo, osservo ascoltando il mondo passarmi sotto come se nulla fosse. Potrei anche fingere di non esistere, solo una macchia indistinta nella giungla affamata qui attorno. Ovunque.
Non valgo niente. Affondo spesso nelle paludi dell’autocommiserazione, spegnendo nervosa sigarette sul davanzale ammuffito della finestra.
L’appartamento che abito non è né grande né piccolo, incastrato a metà di un palazzo qualsiasi a Miami. Il mio stipendio basta per permettermi di vivere con un tetto sopra alla testa.

Credo di soffrire di carenza di affetto, o qualche tipo di disturbo improbabile. Trascorro il mio tempo immaginando cose che non esistono, fingendomi diversa. Nuovo nome, nuova identità. Nuovi amici. Qualcuno che non pensi che io sia pazza, anche se forse lo sono davvero.
Chiamo mia mamma due volte alla settimana. Parliamo di tutto e di niente, so che le fa piacere. Anche a me, ma non lo ammetterò mai ad alta voce.
“Lauren, come va? Esci con qualcuno?” Me lo chiede sempre col tono speranzoso di chi già mi pensa, tra vent’anni, sola nella mia stanza buia ad accarezzare un gatto grasso e pigro dalla coda folta e il muso schiacciato.
Rispondo sempre e solo con un secco no. Non mi interessa fingere di essere diversa da come sono.

Non più, almeno.

Non vivo reclusa, non pensate sia davvero così. Esco. A volte. Con poco entusiasmo. Però lo faccio.

La mia amica Normani - forse l’unica che ancora non mi abbia sfanculata - suona alla mia porta ogni venerdì, cercando di convincermi a trascinare il mio culo svogliato fuori di casa, per andare a ballare, o a bere, o al cinema. Qualsiasi cosa pur di non lasciarmi a ristagnare nel vuoto deprimente di questo condominio.

E’ lei che bussa anche adesso, insistente, mentre io finisco la sigaretta e la spengo sul pavimento piastrellato del balcone, per poi lasciarla lì, senza preoccuparmi di cercare il posacenere. Mi alzo per andare ad aprirle la porta e sono ancora in tuta, col trucco sfatto e i capelli legati in una coda che deve essere inguardabile, dalla faccia che fa lei appena mi vede.

“Lauren.”

Dice solo quello, e non ha bisogno di aggiungere altro.

La sua disapprovazione diverte quel lato di me che gode segretamente della mia sciattezza. Non so se sono depressa o solamente disperata, ma non penso abbia molta importanza.

Sono in attesa di un miracolo che risvegli il mio cuore atrofizzato dal suo letargo. Non so se mai accadrà.

Ricordo Lucy e i suoi baci con rammarico, so che mi mancano. Ma non li voglio. Non voglio rincorrere memorie ormai perdute. Gli anni migliori della mia vita sono scivolati via, lasciandomi sola con un groviglio insulso di sensazioni consunte, che iniziano a andare a male nella cantina mentale in cui le ho confinate.

“Lauren, vestiti. Lo sai da una settimana che stasera ti porto in quel posto nuovo…!”

Quel posto nuovo non è nuovo. Normani sa che le novità sono - insieme all’alcool e alle vertigini leggere che mi regala la nicotina - tra le poche cose che mi risvegliano, per circa due nanosecondi, dall’apatia che mi caratterizza, così finge che posti vecchi e stravecchi siano nuovi, e io fingo di crederle. Mi piace vedere i suoi occhi accendersi quando vede i miei rasserenarsi.

Non so cosa abbia fatto di buono nella vita per trovare lei, ma ne sono lieta.

“Mettiti qualcosa di decente per favore, sususu!” Mi incita, mentre scivolo nella mia stanza e quasi sparisco nell’armadio, cercando dei vestiti che non ho. Sia io sia lei sappiamo che alla fine indosserò sempre lo stesso abito nero con le stesse scarpe su cui mi è accaduto di vomitare una volta, una sera che ero particolarmente ubriaca.

Passa un’ora prima che io sia sufficientemente presentabile, abbastanza da convincere Normani a lasciarmi uscire di casa.

In strada l’aria è calda e l’atmosfera elettrica. Mi sembra quasi di sentire una scossa lungo le braccia.

La notte è tutta attorno a noi, le ore ci si snodano di fronte come un sentiero inesplorato, un bastimento carico carico di chissà cosa, chissà dove, con chissà chi. Mi sembra di giocare a Cluedo, solo che qui non si tratta di indagare sulla morte di qualcuno.

Chissà quali braccia mi stringeranno stanotte. Spero solo siano calde.

E’ questo che mi manca. Un abbraccio in grado di riavviare i miei battiti. Di accelerarli. Di solito tutto questo non dura oltre l’orgasmo.

Vorrei riscoprire la dolcezza di appartenere a qualcuno da amare sinceramente. Qualcuno che sia l’unico.

Arrivate dentro al locale, ore 00.24, la folla è già intenta in una danza erotica da delirio. Io e Normani ci facciamo strada nella calca e arriviamo al bancone. Prima di fare qualsiasi cosa ho bisogno di un cocktail. Tipo per forza. Devo sciogliere i miei nervi snob o sembrerò un tronco di legno circondato da un’orda di scoiattoli sotto acidi.

Le mie labbra si stringono attorno alla cannuccia del primo Long Island e faccio un sorso. Sento il sapore della vodka sopra tutti gli altri. Sorrido a me stessa come se questa fosse una cosa magnifica.

“Pronta a lanciarti in pista?”

“Non lo sono mai, lo sai benissimo”

Normani mi guarda con il solito sguardo di disapprovazione, appollaiata su uno sgabello. Io e lei stiamo aspettando la stessa cosa, cioè lo scioglimento dei ghiacci polari che albergano nella mia anima.

Facciamo conversazione distrattamente mentre i miei occhi saettano da una parte all’altra della discoteca. Non sono molto brava a fissare la gente mentre sto parlando, mi sento ridicola; oltretutto le luci stroboscopiche della disco mi confondono e il volto della mia amica ai miei occhi sembra scomporsi e deformarsi fino a sembrare una delle macchie di Rorschach. Forse questa cosa è patologica. Se facessi delle sedute con uno psicologo vorrei parlargliene.

Quando il peso si solleva un po’ dal mio petto, quel tanto che basta per distrarmi dalle riflessioni opprimenti del mio cervello in caduta libera, prendo per mano Normani e la trascino con me nella bolgia infernale. E’ arrivato il momento di lasciarsi andare, entrambe lo sappiamo. A metà serata ci perderemo di vista e domani mattina verificheremo di essere vive entrambe. La prima che si sveglia scrive all’altra, sperando di riuscire a svegliarla tramite qualche genere di contatto telepatico.

A Normani piace svegliarsi con la gente con cui va a letto. Ci fa addirittura colazione a volte, quando sono particolarmente gradevoli.

Io scappo appena ho la forza di farlo.

Se non mi gira troppo la testa.

Normani ha trovato il suo cavaliere per questa notte mentre la voce di Rihanna strillava “Baby this is what you came for”. Io sono scappata dalla massa di corpi in movimento per rifugiarmi al bancone e regalarmi istanti di pace con un secondo Long Island. Mi sarebbe piaciuto cambiare gusto, ma perché poi.

“Ehi, anche tu sola?”

La voce di una ragazza sconosciuta a distrarmi dal mio tentativo di richiamare l’attenzione del barista a qualche metro di distanza da me, disturbato da un gruppo di ragazzi forse e dico forse minorenni a cui dovrebbe chiedere i documenti giusto per star tranquillo e mi giro con fare turbato, le sopracciglia aggrottate a sottolineare il mio disappunto.

“No, sono con una mia amica… Che al momento…” mi interrompo, cercando il viso di Normani tra la folla, ma ovviamente non riesco a scorgerla.

 “Beh, probabilmente al momento la sua faccia sta venendo risucchiata dal tizio conosciuto poco fa in camicia bianca e sorriso ammiccante.” le rispondo, sovrastando di poco il volume allucinante della musica.

La sconosciuta è di fianco a me e continua a sorridere come se stesse girando la pubblicità di un dentifricio. “Io sono Camila”

“E chissenefrega” vorrei risponderle. Ma stasera mi sento magnanima. E forse la ragazza è troppo carina per maltrattarla così, quindi opto per un pacato “Io sono Lauren”.

I miei occhi cercano nel volto di Camila indizi per quel modo di fare amichevole.

“Posso offrirti da bere, Lauren?”

Sembra quasi speranzosa.

E’ strano sentirmi fare questa domanda da una così. Sono abituata a tampinatori seriali con l’aria dell’uomo che non deve chiedere mai che ti si avvicinano di soppiatto e si aspettano di comprare i tuoi favori con un drink, invece lei… Lei sembra una fatina capitata per sbaglio nel regno dei troll. Un angelo inciampato all’inferno.

Per questo accetto.

Perché vuole bere con me. Cosa ci fa qui da sola. Comincio a lanciare domande a raffica mentre sorseggio il mio tanto agognato cocktail e la guardo con interesse. Lei scrolla le spalle e continua a sorridere.

Il suo shot di vodka è già finito, il bicchiere è appoggiato sul tavolo in attesa di essere portato via.

“Lei mie amiche stanno ballando, ma io non ho voglia” risponde con semplicità.

Vorrei sapere tutto di lei per qualche malsana ragione che non voglio indagare e penso che dovrei almeno portarmela a letto.

Forse è così gentile solo perché è in cerca di un’amica pigra che non abbia voglia di dimenarsi come un’ossessa in mezzo a una ressa di gente sudata. Forse ha deciso che è la sera giusta per provarci con una ragazza e il destino l’ha portata da quella giusta.

Quella che si alzerebbe da questa sedia scomoda e si farebbe portare a casa anche subito, nonostante il Long Island non sia ancora finito.

Camila indaga cercando di scoprire dettagli della mia vita che in ogni caso non le racconterò, per paura che mi venga a cercare. Mi sfiora una mano e il mio braccio si infiamma.

In questo locale fa caldo come se fossimo in mezzo al deserto sotto il sole cocente e la mano di questa ragazza è bollente e il suo sorriso è sexy. Lo capisco quando uno sguardo è un invito silenzioso e lei sta gridando con gli occhi che mi vuole tra le sue coperte.

Non so quando né come ma di lì a venti minuti la sto baciando sui sedili di un taxi e lei parla affannata e non capisco quello che dice tanto sono presa dalle sue labbra. Sono morbide come zucchero filato e sanno di alcool e qualcosa di indefinito, tipo lucidalabbra al qualcosachenoncapisco. Non sono brava a distinguere i gusti.

“Ti voglio” lo dico senza nemmeno accorgermene, lascio che esca dalla mia bocca in un sussurro strozzato. La sento sorridere e sento una sua mano percorrere la mia coscia, calda e rassicurante e eccitante allo stesso tempo.

Ride piano, dolcemente. “Con calma” mormora, così vicina al mio orecchio. Mi accarezza. Un brivido parte da lì e arriva alla base della mia schiena. Le sue labbra percorrono la mia pelle, umide e piacevoli e penso di stare sfiorando l’estasi anche solo così.

Non so quale famelico bisogno mi spinga, ma è disperato e incontrollabile, devo avere questa ragazza per questa notte. Sono mossa da una necessità impellente che mi spinge addosso a lei, dentro di lei, ovunque attorno a lei. Nemmeno guardo dove siamo quando entriamo in casa sua, camera sua potrebbe essere la stanza dei giochi o una camera delle torture, non mi importa, lascio che lei mi spinga sul letto e tengo gli occhi chiusi mentre mi spoglia.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Buon Natale a tutti e grazie a tutti quelli che seguono la storia o che hanno semplicemente letto il primo capitolo! :)
 
Capitolo 2

Sono cresciuta in una famiglia numerosa, rumorosa. Per questo apprezzo il valore del silenzio, credo. Mentre i miei genitori non erano in grado di trascorrere più di cinque minuti zitti, io passavo interi pomeriggi immersa in una calma quasi irreale.
Mi piacciono l’immobilità della notte, la freddezza della solitudine. Mi piace quando, la mattina presto, nei giorni di pioggia, non si sente altro che il picchiettare delle gocce sulle finestre, o il soffiare del vento sulle tapparelle. La luce azzurra della radiosveglia che tengo sul comodino è una delle mie cose preferite. Dà un volto nuovo alla mia stanza, misterioso.

Ora sono sveglia nel letto di Camila ed è già mattina. Anche qui il mondo sembra immobile. Probabilmente siamo molto in alto. Non so che ore siano e non mi voglio muovere. Ho un suo braccio stretto attorno alla vita. In flash ordinati tutta la notte appena trascorsa si manifesta davanti ai miei occhi. Ogni carezza, ogni tocco, mi bruciano sulla pelle come se li stessi sentendo ora.

Camila dorme col volto disteso e quel braccio che mi abbraccia e non mi sembra quasi più una sconosciuta qualsiasi, e vorrei non scappare senza salutare, vorrei intrattenermi in questa stanza bianca in cui il sole filtra attraverso tapparelle non completamente abbassate e tende sottili.

E’ questo pensiero che mi fa trovare la forza d’alzarmi.

Se non me ne voglio andare, è necessario che me ne vada. C’è qualcosa in me che credo si romperebbe se rimanessi qui con Camila.

Una strana paura che non riesco a classificare che si avvolge come edera attorno al mio cuore. Fatico a respirare.

Raccolgo vestiti borsa e scarpe e esco scrivendo un messaggio a Normani. “Sono ancora viva, tu?”

Le emoticon di Whatsapp mi sorridono amichevoli e le trovo vagamente sinistre, scappo a casa senza più controllare senza più controllare se Normani mi abbia risposto.

Quello che vorrei sono giorni di letargo in cui non dovermi sentire una formica ossessiva e terrorizzata che s’affretta per le strade del mondo. Mi chiedo come si percepisca il mondo quando si vive solo d’estate. Se si attenda di più quest’ultima o l’inverno.

Chissà se Normani è sopravvissuta. Chissà se rivedrò Camila. Se si ricorderà di me domani, o tra una settimana, tra un mese. Sento riaffiorare il suo nome dal mare dei miei pensieri confusi.

Vorrei aprire la porta di casa e trovarla dietro di essa, in attesa. Chissà se si è risvegliata. Se pensava sarei rimasta. Non le ho lasciato nemmeno il biglietto. Nemmeno il mio numero.

Il senso di colpa che provo quasi m’infastidisce. Non sembrava il genere di ragazza da storie di una notte. Mi sembra di averla usata per ottenere la mia dose di oblio.

Chissenefrega.

La televisione vuole rifilarmi sederi volanti e Bronson, l’amico che non avevo. Io voglio vedere uno di quei programmi per i feticisti dell’orrore mediatico, uno di quelli in cui si parla di omicidi reali. La morte mi distoglie dai problemi della mia vita, dai miei complessi, dalle mie ossessioni. Perché è tutto così triste.

Il telefono vibra e tiro un sospiro di sollievo sapendo che Normani non è stata rapita da un folle maniaco.

Chissà come sta Camila.

Non leggo il messaggio e continuo a fissare pubblicità orrende nella finestra lobotomizzatrice della tv.

Il telefono comincia a vibrare insistentemente e io seguito a ignorarlo. Sono in stato semi catatonico incollata al tubo catodico. E’ solo alla settima chiamata che afferro il cellulare svogliatamente e rispondo.

“Dove sei andata ieri?”

“A casa di una.”

Normani sembra quasi agitata. “Sei andata via presto.”

“Sono andata via al momento opportuno. Tu cosa hai fatto?”

Lei inizia a raccontarmi e io la ascolto in silenzio. Uno dei miei pochi talenti è ascoltare. Non provo alcun fastidio nello stare zitta per ore mentre qualcun altro parla, anche se ammetto che a volte mi perdo nel mio mondo e dimentico di star avendo una conversazione.

Appurato dopo due ore che Normani non rivedrà il tizio di stanotte, chiudiamo la chiamata.

Vivere nel mio cervello è un’afflizione continua senza ragioni. Qualsiasi cazzata mi evoca una pena incontenibile. Alla televisione insulsi dibattiti sulla chirurgia plastica mi distraggono dalla ricerca di serial killer.

Pensando a mia madre che mi teme il prequel di una gattara zitella, rifletto sul fatto che mi piacerebbe prendere un gatto. Avrei compagnia in casa. Qualcuno che dorma nel mio letto, magari.
Non affettuoso quanto Camila ma comunque carino.

Cosa c’entra Camila.

Tremo al pensiero che cominci ad apparire come un fungo nel giardino dei miei pensieri. Già lo fa.

Vorrei indurmi il coma e dormire per anni.

Un tempo avevo cassetti di pensieri ordinati. Alle superiori imparavo senza sforzi. Poi ho iniziato a scivolare lentamente nell’atrofia cerebrale. I miei pensieri sono diventati lenti e pigri, e per quanto conservi in me qualche sporadico moto intellettuale e qualche fugace momento di arguzia, provo un sentimento generalizzato di noia che mi impedisce di godermi qualsiasi cosa, dai libri, agli amici, all’amore.

Per questo non mi fermo mai. O meglio, per questo non inizio nulla.

La monotonia e la ripetizione uccidono la mia volontà di far funzionare le cose.

Forse per questo sono scappata da casa di Camila.

Per non rovinare momenti perfetti con le luci dell’alba che delinea profili e traccia contorni e mostra dettagli che tra le ombre notturne rimangono invisibili.

Non mi accorgo nemmeno del tempo che passa nelle giornate così, in cui rimango chiusa in casa aspettando che arrivi la notte e poi il giorno e la notte e poi l’ennesimo lunedì in cui ritornare alla vita. A rilento.

Lento. Lento. Lento.

Come il ticchettio della lancetta dei secondi appeso al muro. Non so nemmeno leggere le ore così, cosa me ne faccio. Lo tengo gelosamente perché era di mia nonna, è
decorato e mi ricorda del tempo che passa. Mi ricorda che l’esistenza è scandita dalla convenzione del calcolare le ore e non dai respiri che faccio.
 


Ho trascorso le ultime angoscianti ore della vita a fare fotocopie con la peggior fotocopiatrice del mondo. Se avessi voluto fare il tecnico delle stampanti non avrei intrapreso la non poi così luminosa carriera che ho intrapreso, avrei fatto altro e il mio sedere avrebbe evitato di appiattirsi sulla sedia scomoda davanti alla mia scrivania.

Ogni volta che appare la luce rossa che segnala l’errore di sistema l’istinto di polverizzare la macchina a calci si fa più forte.

Perché non possono farla riparare.

Anche io dovrei farmi riparare. Perché non esiste un tecnico per esseri umani. Non un medico o uno psichiatra. Un vero e proprio aggiustatutto che ripari cuori infranti e occhi stanchi. Che raddrizzi i pensieri sbagliati prima del corto circuito.

Dicono che il tempo curi qualsiasi ferita, ma non è vero.
E’ solo una convinzione consolatoria per rassegnati. A volte il tempo non fa altro che lasciare incancrenire il dolore. Lo fa diventare più grosso, più brutto. Dà al dolore un potere che non avrebbe altrimenti.

La mia sofferenza è statica ma continua. Non cresce e non decresce. E’ invadente, fastidiosa.
Ci tiene a ricordarmi che quello che ho detto, fatto e sbagliato non verrà mai lavato via. Anche le cose che mi sono lasciata alle spalle hanno lasciato i loro segni.

Ci è voluto così tanto per crescere, così tanta fatica. Mi ha corrosa. Tutto non è altro che un infinito, incessante avvicendarsi di disgrazie che avvengono solo nella mia testa.

Anche questa fotocopiatrice.

So che è esagerato, che ho un problema. Ogni evento ha la sua carica drammatica. Ogni secondo sulla terra mi dà solo afflizione.

Preferirei non vivere.

Scappo fuori dal palazzo all’ora di pranzo con l’intenzione di prendere un caffè, entro nel solito bar. Fa caldo e vorrei andare a dormire. Invece Normani è lì che mi aspetta, sorridente.

“Lauren!”

Replico stancamente salutandola.

“Allora, com’è stato venerdì sera?”

“Folle!” Esclamo, senza entusiasmo. “Ho conosciuto questa ragazza carina. Ci sono andata a letto. Me ne sono andata.”

“Una cosa nuova insomma” Mi sorride, ignara della sensazione bruciante che sento allo stomaco. Un orrendo ribollire di sensi di colpa. Vorrei davvero incontrare Camila ora. Non so cosa farei esattamente, ma mi basterebbe guardarla.

“Come sempre” Sorrido anche io, facendo finta di niente.

“Per il resto, va tutto bene?”

“Ho passato la mattina ha litigare con la fotocopiatrice.”

“Coinvolgente.”

“Molto.”

Le nostre conversazioni sono sempre così. Poche parole, a meno che Normani non abbia qualcosa di interessante da raccontare. Io parlo troppo solo se sono ubriaca.

Oggi faccio fatica a trattenermi però. Un vomito di frasi romantiche riguardo la notte con Camila minaccia di esplodere incontenibilmente dalla mia bocca. Come si fa a provare nostalgia di qualcuno che nemmeno si conosce, con cui praticamente non si ha parlato.

Mi consolo pensando che deve essere il desiderio di provare nuovamente le stesse sensazioni. Se Camila si fosse chiamata Genoveffa e fosse stata bionda non sarebbe cambiato nulla.

Non avrebbe avuto quelle mani, quegli occhi e quelle labbra, certo. Ma non sarebbe cambiato nulla, perché nonho conosciuto nulla di più del corpo di Camila. E di ragazze belle ce ne sono tante, lei non è l’unica sulla faccia della terra.

Io, per esempio, sono fichissima.

In ogni caso, la mia pausa pranzo finisce piacevolmente, perdendomi nelle pacate conversazioni con la mia migliore amica. Le tonnellate di paranoie che mi schiacciano si alleggeriscono momentaneamente.

E’ sempre bello quando succede.

Un evento sensazionale e piacevole.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Ciao a tutti, grazie a chi fin ora ha letto la storia o l'ha preferita, eccetera! Grazie di cuore :)
So che non è particolarmente allegra o vivace, dato che è tutta raccontata da un cervello che pensa e vive gli istanti uno a uno! Spero comunque che sia scorrevole, o un minimo piacevole ahahah.
Questo capitolo è un forse un po' corto ma necessario!
Alla prossima :3
 

Capitolo 3

Giovedì.

Oggi è un giorno importante.

Non solo perché è quasi una settimana da quando ho passato la mia notte di follie insieme a Camila, ma anche - e soprattutto - perché oggi ho deciso di andare a prendere il famoso gatto, per poi telefonare a mia mamma e annunciarle che ho avviato la collezione.

Grazie a Normani ho trovato qualcuno che dà via dei gattini, e che vuole conoscermi per decidere se affidarmene uno.

Spero di non sembrare una disagiata mentale. Voglio dire, so bene di esserlo, ma l’importante è non sembrarlo.

Mi sento agitata come se stessi andando a adottare un bambino. Già mi vedo a coccolare il mio amico felino su una poltrona davanti al camino.

Al momento non ho una poltrona e neppure un camino, ma sono tutte cose che potrò rimediare in un futuro, nel caso mi trasferissi.

Sicuramente non accenderei il camino qui a Miami.

La poltrona potrei anche comprarla se avessi voglia di buttare via i soldi.

Fortunatamente sono un’attenta risparmiatrice.
Una scialacquatrice saltuaria.

Non ho bisogno di shopping terapeutico o stronzate del genere, io mi deprimo e basta.

Arrivo davanti alla villetta che ospita i mille gattini da affidare, e c’è un’anziana signora che mi osserva da dietro le tendine bianche con aria indagatrice. Proseguo indisturbata il mio percorso fino alla porta dell’abitazione.

E’ la vecchia spiona ad aprirmi.

Sfodero il mio sorriso migliore. “Salve, sono Lauren. Normani-”

“Certo, certo, vieni pure dentro cara”

L’espressione diffidente viene sostituita da una quasi amichevole, e mi faccio strada nell’ingresso, impaziente di vedere le creaturine.

Sono cinque, sono grigiastri, sono bellissimi. Hanno musetti paffuti e si aggirano goffamente per la stanza, giocando tra loro. La signora li guarda come una nonna affettuosa e io mi sciolgo come ghiaccio sotto al sole di luglio.
Vorrei prenderli tutti, ma non posso. Per cui decido di scegliere il più buffo e goffo, che inciampa da solo sulle proprie zampe, come me nella vita.

La signora mi dice che è l’unica femmina.

La chiamerò… Non ne ho la più pallida idea, ci sono così tanti nomi che mi piacciono, ma quando si tratta di darli a qualcuno mi sembra che nessuno sia adeguato. Che tristezza.

Come quando volevo chiamare il mio criceto Fluffy, Batuffolino, Runner, Lexa o Dodò e alla fine l’ho chiamato Criceto.

Una roba tristissima.

Me ne vado col mio nuovo coinquilino infilato in un trasportino prestatomi dalla vecchia, che dovrò assolutamente ricordarmi di dare a Normani per restituirglielo. Forse tra qualche decina di migliaia di anni me ne ricorderò.

Detesto le cose in prestito, perché sono troppo pigra per ridarle alla gente. Per questo non prendo mai libri in biblioteca. Credo che la mia tessera sia la meno utilizzata in assoluto. L’ultima volta che ho prenotato dei libri non sono nemmeno andata a ritirarli, già stanca all’idea di doverli andare a prendere.

Che sbatti la vita.

Mi interrogo su quale sia la cosa giusta da fare a questo punto. Meglio tornare a casa a depositare il gatto e poi uscire di nuovo a comprare tutto l’occorrente o portarmelo dietro al negozio di animali? So che qualcuno di voi si sta chiedendo perché io non abbia comprato le cose in anticipo, tipo ieri. Beh, non l’ho fatto perché sono pigra, come dicevo prima.

Alla fine, per evitare di fare due lunghi e faticosissimi viaggi decido di fermarmi a un negozio per animali lungo la strada, ammesso che ce ne sia uno.

E uno, effettivamente, c’è.

Non so perché io abbia deciso di andare a piedi fino a casa della vecchia gattara, che abita a chilometri e chilometri da casa mia, ma probabilmente è a causa di quelle famigerate, infinite vie tracciate da Dio.

Appena la porta del negozio si apre davanti a me e io metto un piede all’interno del locale, che puzza di cibo per pesci, mi avvio, seguendo le indicazioni, verso il reparto coi prodotti per i gatti. Mi sento piuttosto fuori luogo. Mi guardo attorno con aria persa, chiedendomi se ci siano cibi migliori di altri per mini-gatti e se debba prendere dei giochini e quali e quale lettiera e vorrei prendere a testate una parete per punirmi per non aver cercato prima nessuna di queste vitali informazioni. Ho avuto due sere libere da quando ho preso questa decisione e non mi sono minimamente informata.

Con la signora ho fatto finta di essere una grande esperta di animali domestici, e in effetti lo sono. Per tutti gli animali, tranne che i gatti.

Non ho mai avuto un gatto.

Il felino miagola dolcemente nella sua gabbia da asporto e io mi sento vagamente in colpa.

Fortunatamente, una presenza alle mie spalle mi saluta, cogliendomi di sorpresa.

“Ciao, hai bisogno di aiuto?” Mi chiede una voce amichevole.

Mi giro con espressione tra il grato e lo sconsolato, ma prima di poter rispondere il mio cuore si ferma, stroncato dagli occhi scuri e profondi che mi guardano dritto in faccia e, evidentemente, mi hanno già riconosciuta.

Il mio sguardo si sposta dal suo viso contratto al cartellino posto sopra la sua maglietta verde, che mi sbeffeggia mostrandomi il nome della commessa appena comparsa davanti a me.

Ovviamente, Camila.

Non so se la mia espressione sia più piacevolmente sorpresa o più orripilata, probabilmente entrambe, spero più la prima però. Lo sguardo di Camila è indecifrabile.
“Oddio, tu!” Esclama, dopo i primi secondi di suspense, in cui mi chiedevo cosa sarebbe successo. La tensione è alle stelle. Una scena degna di un grande film d’amore.

No, non è vero.

Vorrei strapparmi i capelli e prendermi a schiaffi e non so nemmeno perché. Deglutisco e sorrido.

“Non fare quella faccia, non sei così affascinante senza le luci fluo a illuminarti gli occhi.” Afferma con aria quasi sprezzante.

Mi mordo la lingua per non risponderle. Lei è meravigliosa anche vestita in quel modo orrendo.

“Mmm, ehm, come va?” Le chiedo. Lei alza le sopracciglia in un’espressione che credo sia bene definire incredula. Non so cosa fare.

“Bene.” Taglia corto lei. “Non è un incontro tra amiche, non mi devi parlare per forza. L’ultima volta non è stato necessario, non vedo perché farlo ora. Allora, hai bisogno di aiuto?”

Con un sospiro, cerco di assumere un tono indifferente. Credo di essere in grado di vedere il mio corpo da fuori. Sono quasi certa di stare vivendo un’esperienza pre-morte, o qualcosa del genere. In realtà la mia anima sta fluttuando sopra le nostre teste da qualche parte piangendo per la mia immensa stupidità e cercando di prendere le distanze dal mio cervello.

“Sì, ecco, vedi, mi servono… mi servono le cose per il mio nuovo inquilino.”

Sollevo il trasportino mostrando a Camila il contenuto. Lei squittisce in modo entusiasta.

“Aaaaww, che bello è!” Mi guarda, gli occhi scuri illuminati dalla gioia. “Ma sei bellissimo, ma amore, ma awww”

Mi viene da ridere, ma cerco di trattenermi.

“Cosa ti serve?”

“Ehm, tipo tutto”

Lei pondera un secondo e poi inizia a elencare cose da prendere e i nomi delle marche migliori. Sembra super professionale, quasi quanto una commessa in un negozio d’alta moda. Il modo in cui consiglia i prodotti è adorabile. Sembra una bambina intenta a parlare dei regali di Natale appena ricevuti.

Prende addirittura un carrello per caricare tutte le cose che mi ha praticamente imposto di comprare e mi accompagna alla cassa.

Prima di arrivarci, però, si gira verso di me e mi osserva. Si vede che muore dalla voglia - e dal timore - di farmi una domanda.

Una parte di me sa già quale sia.

“Perché te ne sei andata?”

“Ti aspettavi davvero che una sconosciuta incontrata in discoteca ti avrebbe svegliata portandoti la colazione a letto come una moglie premurosa?”

Lei mi guarda con espressione ferita. Perché le ho risposto in questo modo, in effetti. Perché l’ho fatto? A volte penso che ci sia qualcosa di malvagio in me, qualcosa di malsano. Ho questa tendenza a rompere le cose buone che mi capitano. Tutte. A volte capita alla gente, no? Anche a quella normale intendo… di concentrarsi sulle cose sbagliate, quelle che fanno male, quelle che andrebbero gettate via e rifiutare i cambiamenti positivi.

Beh, io lo faccio in continuazione.

Fatto sta che al momento Camila mi sta fissando come se avessi sventrato il gattino e lo stessi usando come cappello.

“Oh, hai ragione. Scema io che ho pensato che avremmo potuto conoscerci, dopo. Sembravi una tipa a posto Lauren. Evidentemente lo sembravi soltanto.”

“Già, evidentemente.”

Replico freddamente, avviandomi alla cassa senza guardarmi indietro. Sento gli occhi di Camila formare crateri infuocati nella mia schiena. Pago e esco dal negozio.

Non c’è nulla di cui preoccuparsi. Il mio cuore è solo un involucro vuoto. E’ gelido come un ghiacciaio. Non ha pulsazioni, non può essere defibrillato.

Sono morta dentro, e Camila non ha di certo il potere di guarire i morti.

C’è una voce nel mio cervello che mi dice che dovrei tornare indietro e chiedere scusa a Camila. Invitarla a bere un caffè. Se io fossi in lei mi rifiuterei categoricamente, ma non si sa mai, insomma.

Magari riesco ad ammaliarla col mio fascino irresistibile, o qualcosa del genere. La prima volta ce l’ho fatta, no?

Devo arrivare a casa in fretta e gettarmi sul cibo e sulla televisione. Dopo aver sistemato il felino baffuto, ovviamente.
 

 
La realtà è che mi sento un completo, totale e miserabile fallimento. Nonostante io debba andare a lavorare tra poche ore, sono le quattro del mattino e io sono nel mio angolino sul balcone, avvolta in una coperta leggera, perché in realtà non fa freddo.

Sto spegnendo la quinta sigaretta in un’ora e mezza mentre fisso il vuoto davanti a me. I miei sensi sono intorpiditi e ho male alla testa. Ho aspirato troppo a fondo il fumo, ho pensato troppo.

Vorrei uscire di casa ora e andare da Camila, ma non so dove abiti. Oh, no. Sì che lo so, lo so benissimo.

Non è nemmeno lontanissimo, tutto sommato. Non è vicino, ma sarei pronta a fare i chilometri in questo momento, anche solo vederla due secondi e chiederle scusa.
Un’idea patetica si fa strada nella mia testa, ma il lato disperatamente, tristemente romantico di me, compiaciuto, mi incoraggia a portarla a termine, sostenendo che sia l’unico modo per riavvicinarla.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Bene, sono rinata con un nuovo capitolo! Grazie a tutti quelli che leggono/seguono/preferiscono la storia :)
 

Sono le sei e trenta del mattino. Mi sento patetica, ma sono fuori dalla porta di Camila con due brioche prese nel primo Starbucks che ho trovato e due caffè, perché non so minimamente cosa potrebbe piacere a Camila.

Mi sento un incrocio tra un personaggio disfunzionale tratto da un telefilm adolescenziale di serie b e una stalker appena uscita da un episodio di Criminal Minds.

Anche il mio lato inguaribilmente romantico ha battuto in ritirata, lasciandomi qui, davanti alla porta di Camila, a pensare che è prestissimo e mi manderà a cagare. Oppure, peggio ancora, sarà con qualcuno. Qualcuno pronto a fare quello che non ho fatto io una settimana fa.

Restare.

Alla fine, in preda all’angoscia, suono il campanello.

Ci mette un po’, ma dopo qualche minuto d’attesa, in cui suono di nuovo, la vedo aprire la porta, con il viso stanco e le sopracciglia aggrottate.

“Che cosa ci fai tu qui? Come cazzo sei entrata?!” mi domanda subito, aggressiva.

Io mi mordo la lingua prima di rispondere, e lascio scendere il mio sguardo lungo il suo corpo. Indossa solo una maglietta larga. Devo raccogliere tutta la forza di volontà del mondo per tornare a fissarle il volto.

E’ bellissima.

Anche così.

Appena sveglia, coi capelli spettinati e lo sguardo incazzato.

Io sollevo il sacchetto contenente le cose da mangiare e rispondo con naturalezza. “Sono entrata mentre qualcuno usciva. Ti ho portato la colazione. Scusami per… ieri, non volevo comportarmi da stronza, non so perché ti ho risposto così…”

“Non stavi cercando una relazione, le relazioni non si trovano così, va bene, lo capisco… Lasciami dormire. E’ presto per la colazione.”

Sta per richiudere la porta.

“No, aspetta!”

Lei si interrompe effettivamente, cogliendomi di sorpresa.

Non so esattamente cosa fare, ma alla fine, travolta da un impeto di coraggio che non so da dove sia uscito, cammino verso di lei, praticamente costringendola a spostarsi e farmi entrare. Lei non dice niente, mi guarda entrare, appoggiare le cose sulla prima superficie disponibile e voltarmi verso di lei.

“Lauren?!” Chiede, mentre la fisso, credo con uno sguardo da invasata degno di quello di Crudelia De Mon alla fine della Carica dei 101, quando è in macchina che guida verso la propria disfatta.

Prendo fiato e poi lascio che la forza che mi spinge verso Camila prenda il controllo di me.

La appendo al muro e le afferro saldamente le cosce, mentre lei mi salta in braccio quasi istintivamente, avvolgendo le sue gambe attorno alla mia vita. Non sapevo nemmeno di avere la forza di sollevarla in questo modo, ma buono a sapersi.

Ci guardiamo negli occhi per una manciata di secondi che sembrano racchiudere un intero universo di sentimenti, pensieri e sensazioni e poi ci baciamo.

E’ così intenso che penso potrei svenire. Mi metto quasi a correre con lei in braccio, per poi lanciarla sul suo letto sfatto, ancora caldo, così suo.

Tornando a noi, l’unica cosa che sento in questo momento è il battito del mio cuore impazzito e i nostri respiri che si scontrano sui nostri visi come le onde del mare sulla scogliera.

Se potessi fotografare questo momento in mille istantanee incancellabili, lo appenderei alle pareti della mia stanza, per dormire pensando a uno solo dei pochi momenti piacevoli degli ultimi anni.

Vorrei poter fingere che questo momento abbia un significato, che sia qualcosa di più di un semplice attimo di follia.

Camila è tutto quello che vorrei avere addosso, le sue labbra, le sue mani, la sua pelle, il suo profumo. La stretta dolce delle sue braccia attorno ai miei fianchi che calma ogni ansia in un soffio.

I suoi occhi ora chiusi, mentre attende il momento di sentirmi dentro di lei. Quando la mia mano scivola tra le sue gambe rilascia un respiro, un gemito che risuona nella stanza, accompagnato dai miei sospiri. Siamo avvolte in una specie di nuvola.

“Lauren…”

Lo mormora piano, mi guarda.

“Camila”

Andrei avanti così per sempre. Amo sentire il suo nome, amo essere io a dirlo.
 

 
Siamo sedute una di fronte all’altra al bancone della cucina. Ci guardiamo senza parlare, sorseggiando il caffè ormai non più caldo.

Comprendere cosa stia accadendo nella mia testa è un’impresa. Camila mi sta studiando con aria preoccupata.

“Quindi ora?”

“Cosa?”

La osservo. Non voglio comportarmi da cazzona, ma non so cosa fare.

“Te ne andrai vero?”

Cosa dovrei rispondere? Sto bene lì dentro con lei a respirare la sua presenza.

Ma non so se sia in grado di restare.

La mia inquietudine non è in grado accettare il suo sguardo insistente che mi osserva aspettandosi qualcosa.

Qui è tutto così calmo.

E’ una tranquillità distesa, comoda, che per qualche ragione mi provoca incontrollabile panico.

Scuoto la testa a destra e a sinistra, non trovando le parole.

Lei mi fissa. “Benissimo allora."

Usciamo da casa sua insieme, io la saluto, lei anche. Sembra rassegnata. Sembra sapere che è troppo presto per sperare in passi in avanti.

Ci sono labirinti di dimensioni sconfinate in cui ancora ciondolo, dispersa. Sono come una barchetta alla deriva nel grande mare della vita. L’acqua è piatta e densa come olio e io non avanzo di un millimetro.
E’ una sensazione strana. Come camminare su distese immense di nubi e silenzio. Come foschie che avvolgono boschi canadesi. Mi sembra di vagare confusa tra schiere di alberi tutti identici, con grandi tronchi e rami spogli. Solo foglie sotto i miei piedi. Ricordi caduti, che marciscono nell’umidità putrida della vegetazione invernale a riposo.

A volte vorrei mettere su carta i miei pensieri per poi rileggerli come se non fossero miei. Fingendo una nuova me stessa. Per scorgere dentro di me quale sia il problema che ho dentro, perché vedendomi da così vicino tutto appare così sfocato da non essere riconoscibile.

Camila cercami. Non importa se ti sembro insicura, tu cercami sempre. Voglio notti infinite a respirare nei tuoi capelli la vita. Vorrei dirle così e altre centinaia di cose, ma la guardo soltanto. Le ho lasciato il mio numero attaccato al frigorifero con una calamita a forma di foca, mentre si preparava nel bagno. Spero lo veda.

Forse la sentirò di nuovo, ma per ora va bene così. Lei non sa nulla di me, se non che sono così disperata da essere corsa a casa sua all’alba dopo una notte insonne e che ho un’amica di nome Normani e un gattino. Che ho abbandonato a casa da solo, ora che ci penso.
 

 
Ci sono attimi infiniti e quasi dolorosi, interminabili. Ho passato una sera in agonia a aspettare una chiamata che non è mai arrivata, aggrappata a una bottiglia di vodka che mormorava parole di conforto scorrendo nel bicchiere.

E’ improvviso il suono del telefono, che spezza questa quiete rotta dal vocio fastidioso della televisione, dai rumori del mondo esterno.

“Pronto?” chiedo con voce incerta.

Sento una specie di risatina in risposta. “Mi hai lasciato il tuo numero stavolta”

La sua voce smuove qualcosa dentro di me. “Dovevo dimostrarti qualcosa”

Lei ride ancora. E’ un suono che ha della poesia in sé. Immagino la sua espressione in questo momento, il sorriso pacifico sul suo volto, quegli occhi scuri illuminati. “Dammi il tuo indirizzo, mi sa che voglio vederti.”

Rimango indecisa per qualche istante. Tra le mie braccia il gattino ancora senza nome fa le fusa delicatamente. È morbido e rassicurante.

Permettere a Camila di venire a casa mia significa aprire una porta di troppo. Non so se voglia concedere a una sconosciuta questo onore.

La mia voce le risponde senza che io me ne renda conto. Le do il mio indirizzo, le chiedo quando intende arrivare.

Lei non dà una vera risposta. “Tu rimani sveglia.” Mi dice.

Continuando a abbracciare il mio nuovo amico felino, mi metto in attesa.

Sono piena di aspettative. Quando suona il campanello scatto in piedi e corro alla porta.

“Ciao” mi dice, sorridendo. Non mi bacia, non mi sfiora nemmeno.

Appoggia sulla prima superficie che vede un sacco di cibo da asporto. “Non so se ti piaccia mangiare di notte. Ma mi sembri il tipo che dorme poco, ho pensato ti avrebbe fatto piacere.”

“Mi fa piacere vederti” Le dico di getto.

E’ colta di sorpresa dalla mia affermazione e mi guarda con espressione indecifrabile. “Per fortuna.”

Poi, come se fosse a casa propria, comincia a guardarsi intorno. Fissa i muri, le tende, i soprammobili e le foto. La cosa mi fa sentire a disagio. Sta esplorando il mio mondo davvero.

Si siede sul mio divano a guardare la tv. Le luci sono spente e il bagliore azzurrino che le illumina il viso risveglia i miei sensi.

“Camila…”

“Cosa, Lauren?”

Io vado a sedermi accanto a lei sul divano, senza toglierle gli occhi di dosso. Lei prima guarda me, poi dirige nuovamente lo guardo sullo schermo di fronte a noi.
“Stavi guardando un documentario sulle orche assassine? Davvero?”

Annuisco mordendomi il labbro inferiore. Lei scoppia a ridere. “Non ti facevo il tipo da documentari. Pensavo ti ubriacassi da sola guardando film d’amore”

“Lo faccio, guardando film dell’orrore però, non d’amore. Non mi piacciono i film d’amore, tutti con le loro trame prevedibili. Incontro-relazione-disastro-soluzione-relazione.”

Lei inclina la testa, mi osserva curiosa. “Cosa ti è successo nella vita, Lauren? Tutti amano i film dell’amore, proprio per poter sognare una vita così. Sono la versione moderna delle fiabe.”

“Ma la vita non è così, nascondersi dietro un’illusione non porta a nulla. L’amore è sopravvalutato e le fiabe sono solo storielle di fantasia nate per preservare intatta nei bambini l’illusione che il bene trionfi sempre sul male e i sentimenti positivi vincano sempre. Tutte stronzate. E non mi è successo nulla di particolare nella vita.”

Si vede che non è d’accordo con me, me lo aspettavo. Si vede anche che non mi crede, ha la faccia di quella che sta cercando di immaginare quale storia terribile mi abbia fottuto il cervello. Ha gli occhi dolci da sognatrice. Me la immagino con una vaschetta di gelato in mano a piangere sui pezzi del suo cuore infranto guardando Bridget Jones, pensando, cercando conforto, che è meglio aver amato e aver perduto l’amore che non aver mai amato.
Io preferisco vivere nella mia casa vuota fumando sigarette e guardando Shameless, osservando il mondo da lontano con sano cinismo.

“Quante cose belle che ti perdi Lauren” mi dice, interrompendo il flusso dei miei pensieri. La guardo incredula.

Quanta gente pensa esattamente la stessa cosa. La realtà è che io non mi perdo niente, non mi precludo esperienze. Semplicemente cerco di non farmi trascinare.

“L’importante è non essermi persa te”

Non è quello che avrei voluto rispondere, ovviamente. E’ solo quello che mi è venuto in mente di dire, un po’ troppo spontaneamente per i miei gusti.

Lei però sembra soddisfatta della risposta, perché appoggia la testa sulla mia spalla. “Pensavo di aver fatto una cazzata a venire qui.” Mormora, fissando la televisione. Mi accorgo che tra le mani ha il gattino ancora senza nome che fa le fusa. L’atmosfera è quasi famigliare, piacevole.

“Non faremo sesso stanotte, non farti strane idee” aggiunge, rompendo il silenzio nuovamente.

Anche se la cosa mi delude un pochino, annuisco. Morivo dalla voglia di accarezzare la sua pelle liscia e dimenticarmi di tutto il dolore che alberga nel mondo, ma non importa. Forse per una sera potrò accontentarmi della dolcezza di un abbraccio, di Camila che dorme rannicchiata come il gattino addosso a me, mentre il documentario finisce e ne inizia un altro, stavolta sullo spazio.
 
 

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