I racconti di Babbo Natale

di belle_delamb
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La farfalla ***
Capitolo 2: *** La foresta innevata ***
Capitolo 3: *** L'albero di Natale ***
Capitolo 4: *** La vigilia ***
Capitolo 5: *** Quella strana ombra ***
Capitolo 6: *** Buona apocalisse ***
Capitolo 7: *** Qualcuno mi osseva ***
Capitolo 8: *** La befana ***



Capitolo 1
*** La farfalla ***


Come ogni anno mi ritrovavo a dover cercare l’ultimo disperato regalo, quello a mia sorella. E come ogni anno mi chiedevo: cosa mai potevo fargli? Era ormai la vigilia di Natale e il freddo intenso mi faceva desiderare di tornare a casa il prima possibile, ma non potevo. Ero stata al centro commerciale ma non avevo trovato nulla d’interessante, solo le solite cose, già regalate. Camminando in una via vicino a casa mia, le mani in tasca, pensavo disperatamente a dove potevo andare. E fu allora che lo vidi: un negozietto piccolo e quasi invisibile, le luci che si vedevano appena. Mi avvicinai ad esso e notai che non c’era nessuna insegna. Feci per passare oltre, ma qualcosa in vetrina mi colpì. Una collana con una bella farfalla turchese, proprio il colore che si sarebbe adattato bene agli orecchini che mamma aveva regalato a mia sorella. Ecco il regalo, un salvataggio in extremis. Entrai. La porta cigolò in modo sinistro. Nel negozio c’era solo un lungo bancone e strani oggetti si trovavano sulle mensole. A quanto pareva non trattava solo bigiotteria, sembrava uno di quei negozi per dark.
-C’è nessuno?- chiesi, indecisa se uscire e lasciar perdere la collana.
-Desidera?- chiese un ometto pallido e basso, uscendo da una porta dietro il bancone.
-La collana che c’è in vetrina-
L’uomo annuì e andò a prenderla.
-Non ne ha altre?- chiesi, cercando di scacciare la sensazione d’ansia che mi opprimeva da quando ero entrata lì dentro.
-Qui abbiamo solo esemplari unici- rispose l’uomo, andando al bancone.
La farfalla sembrava quasi reale, come se fosse stata imprigionata in uno strano liquido. E fosse pronta a riprendere da un momento all’altro il volo.
-Quanto costa?-
Il prezzo che mi propose l’uomo era irrisorio per una simile collana e pagai immediatamente, quindi uscii dal negozio con l’articolo, sollevata e felice di poter finalmente tornare a casa.

-Finalmente sei arrivata- disse mia madre quando entrai. Stava sistemando l’albero di Natale, un esemplare enorme con mille palline colorate.
-Mi serviva un ultimo regalo- dissi, nascondendo il mio pacchetto tra gli altri.
-Per Elenoire?-
Mi ritrovai ad annuire. –Sono certa che questo le piacerà- dissi e andai di sopra.

Il regalo non deluse le aspettative di Elenoire che si ritrovò a fissare il ciondolo con la bocca spalancata.
-Bellissimo!- esclamò.
Sorrisi soddisfatta, per una volta mia sorella apprezzava un mio regalo, mi sembrava impossibile.
-Sembra vera- disse Elenoire fissando la farfalla che teneva sulla punte delle dita come se da un momento all’altro potesse spiccare il volo.
-Vuoi una mano a mettertela?- domandai.
-Oh sì, grazie-
L’aiutai, armeggiando un po’ con i gancetti. –Fatto- dissi alla fine.
Elenoire corse davanti allo specchio. –Meravigliosa- disse.
-Ti sta … - le parole mi morirono in bocca quando mi parve di vedere un battito d’ala della farfalla.
Se avessi saputo le conseguenze le avrei strappato di dosso quella collana senza indugio.

La prima anomalia la riscontrai durante il pranzo. Elenoire non toccò quasi cibo, nonostante ci fossero un gran numero di pietanze, sembrava persa nei suoi pensieri.
-Non ti senti bene?- le chiese nostra madre, preoccupata.
-Nulla, non ho fame-
Andò a letto presto.

Il giorno successivo partimmo per la solita gita che facevamo ogni anno, qualche mercatino natalizio e molti acquisti. Elenoire mi parve più pallida del solito.
-Non ho dormito bene- si giustificò.
Ammetto che fui felice di vedere il mio regalo al suo collo, mia sorella dimostrava così che le piaceva per davvero.
Verso metà mattinata, quando ci fermammo in un bar, Elenoire mi chiese di accompagnarla in bagno. Non appena entrammo si appoggiò al lavandino e aprì l’acqua, immergendo le mani tremanti sotto di essa per poi portarsele al volto.
-Tutto a posto?- le chiesi.
-Sì, deve solo essere un po’ di stanchezza-
-Forse è meglio se torniamo a casa-
-Oh no! Questa è una tradizione di famiglia e io non voglio rovinarla-
Mi lasciai così convincere a non intervenire.

Nulla rovinò il resto del pomeriggio, la stessa Elenoire mi parve più sorridente e di buon umore, come se si sentisse meglio. Sbagliavo, l’incubo era appena iniziato. Quella notte infatti sentii dei rumori, nulla di particolarmente allarmante, ma che comunque disturbò il mio sonno. Quella mattina a colazione chiesi a Elenoire se anche lei li avesse sentiti, visto che aveva la camera accanto alla mia.
-Quali rumori? Ho dormito davvero bene- disse, anche se il suo volto pareva raccontare un’altra storia. Aveva la mia collana al collo e mi parve che la farfalla fosse diventata più grande e più brillante.
-Non te la togli mai?- le chiesi sorpresa.
-Oh, mi piace molto- disse lei, sfiorandola.
-Sono contenta- mormorai.

Il resto delle vacanze proseguì in un clima relativamente sereno, uniche pecche furono le sparizioni di alcuni oggetti, come un mio orecchino. Nulla che potesse fare anche solo immaginare che un mostro si fosse insinuato nella nostra casa e che stesse aspettando pazientemente il momento opportuno per svelarsi. Elenoire fu simpatica in quei giorni, forse anche più espansiva del solito, nonostante lamentasse una certa stanchezza. Inoltre sparirono altri oggetti in casa, piccole cose. L’anello di mia madre, il dopobarba di mio padre e un mio bracciale. Alla fine arrivò l’epifania e ricominciò la scuola. Era circa metà gennaio quando avvenne ciò che mi fece capire che qualcosa non andava. Stavo andando a scuola quando incontrai la mia amica Jennifer.
-Hai saputo?- mi chiese subito.
Scossi la testa.
-Hanno trovato morta Kelly Hamilton -
Non dissi nulla, improvvisamente muta dalla sorpresa. Kelly era la migliore amica di mia sorella e le due avevano passato tutto il pomeriggio del giorno precedente insieme. – Cos’è successo?-
-Ieri sera non è tornata a casa, l’hanno trovata stamattina, nel bosco, è stata fatta a pezzi e le sono stati tagliati i capelli, sospettano un maniaco-
E in cuor mio speravo che si trattasse davvero solo di un maniaco.

Quella sera aspettai che Elenoire si fosse allontanata dai nostri genitori per parlarle dell’accaduto. Notai che era più pallida del solito.
-Ho saputo di Kelly – esordii.
-Oh, certo-
-Mi hanno detto che è successo ieri … avete passato il pomeriggio insieme-
-Alla fine no, lei aveva un altro impegno-
Seppi subito che mentiva, aveva una maniera caratteristica di mordersi le labbra quando diceva una bugia.
-Se ci fosse qualcosa che non va, tu me lo diresti, giusto?- chiesi.
-Certo-
Quella notte i rumori furono più forti del solito. Sgusciai fuori dal mio letto e andai in corridoio, scalza. I rumori parevano proprio provenire dalla camera di mia sorella. Mi avvicinai alla porta e ascoltai immobile. Alzai la mano per bussare, ma la riabbassai subito, improvvisamente non certa di voler sapere cosa stesse succedendo là dentro. Con il cuore in gola tornai nel mio letto.

La mattina seguente mi finsi malata. Attesi quindi che mia sorella andasse a scuola ed entrai dentro la sua stanza. All’apparenza tutto sembrava normale. Aprii le tende per far entrare la luce e fu allora che vidi delle macchie a terra. Mi chinai, prendendole inizialmente per delle gocce di frullato alla fragola, quello che piaceva tanto a mia sorella. Non erano frullato, anzi, sembravano terra e sangue. Mi sentii gelare e cominciai la perlustrazione. Inutile dire che alla fine i miei più atroci sospetti divennero realtà: trovai gli oggetti scomparsi in casa e soprattutto delle ciocche di capelli scuri che assomigliavano così tanto a quelli di Kelly. Mi sentii mancare e mi lasciai cadere sul letto di Elenoire. Mia sorella era un’assassina. Non ci misi molto a dare la colpa di tutto alla collana, per quanto questo fosse irrazionale. Non sapendo cosa fare decisi di andare al negozio dove l’avevo presa. Rapida mi vestii e uscii nella gelida mattinata d’inverno. Mi misi a vagare tra le vie, indecisa su dove andare, incapace di ricordare l’esatta ubicazione di quel luogo. Alla fine ci rinunciai e tornai a casa sconfitta. Dove altro potevo andare? Improvvisamente mi venne in mente un’idea. Accesi il computer e feci una ricerca sulla collana. Fu così che finii in uno strano sito, attirata dalla testimonianza di una madre che diceva di aver regalato alla figlia una collana e accanto al testo c’era proprio la foto del ciondolo a forma di farfalla. Lessi rapidamente. La donna raccontava di aver fatto quel regalo alla figlia per il suo sedicesimo compleanno. Lo aveva comprato in un negozio tetro che sembrava essere apparso dal nulla proprio dietro il suo luogo di lavoro. Alla ragazza il regalo era piaciuto subito e da allora non aveva mai rinunciato a indossarlo, tanto da non toglierselo neppure di notte. Poi erano iniziati i comportamenti strani, le sparizioni di oggetti in casa e infine la morte della sua cara amica, trovata massacrata in un parco. Impossibile non collegare questo a ciò che era successo a mia sorella. Restai un attimo a fissare il monitor, pregando di sbagliarmi, poi afferrai il cellulare e chiamai Elenoire. Lei non rispose.

Quando quella sera non tornò a casa mio padre chiamò la polizia per denunciarne la scomparsa. Trascorsero alcuni giorni di angoscia, durante i quali le ricerche furono serrate ma non portarono a nessun risultato, mia sorella pareva scomparsa nel nulla.
-Non tornerà più- sentii mia madre sussurrare una sera a mio padre, quando pensava che fossi in camera mia.
Fu allora che mi venne in mente un posto che Elenoire aveva sempre amato. Tanto valeva fare un ultimo tentativo. Uscii fuori, rabbrividendo per l’aria gelida d’inizio febbraio, e mi diressi verso la casa sull’albero che si trovava in fondo al giardino, nascosta tra le fronde degli alberi. La scaletta pendeva ancora a mezz’aria, proprio come ricordavo. Mi aggrappai ad essa e mi arrampicai. Nella casetta regnava il buio per cui restai alcuni secondi immobile per abituarmi al buio. La prima cosa che vidi fu una strana forma allungata, qualcosa che pendeva dal soffitto. Ci misi alcuni istanti per capire di cosa si trattasse: era come l’involucro di un bruco che sta per diventare farfalla, come quelli che vedevamo nella casa in campagna dei nonni. L’involucro si stava rompendo e io mi ritrovai a fissare ciò che un tempo era stata mia sorella e che ora era una creatura antropomorfa con grandi ali blu. I lineamenti del viso erano solo vagamente riconoscibili. Ci fissammo un attimo, lei con i suoi occhi diventati piccoli e neri. Poi se ne andò, prese il volo e uscì da una delle finestrelle, lasciandomi stordita e tremante.

Sono passati mesi da quando Elenoire se n’è andata. Perché ho aspettato tanto prima di scrivere questo resoconto? Perché è successa una cosa ieri sera. Mi è parso di vedere una ragazza che aveva al collo una collana con una farfalla blu, identica a quella che io avevo regalato a mia sorella. Mi sono fermata incredula. La ragazza mi sembrava pallida. Ho voluto scrivere questo perché voglio che tutti conoscano la storia della collana e di ciò che ha provocato. State quindi attenti ai regali che fate perché ve ne potreste pentire per il resto della vostra vita.

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Capitolo 2
*** La foresta innevata ***


Katherine adorava la vigilia di Natale. Era sicuramente il suo giorno preferito. Più del suo compleanno, più del Natale stesso. Quella vigilia attendeva sdraiata nel letto, il cuore in gola, quando sentì un rumore. Non credeva più a Babbo Natale da anni, però un brivido la percorse e le sembrò di essere tornata, quando a ogni sfruscio sobbalzava e drizzava le orecchie. Scese dal letto e uscì dalla sua stanza. Il corridoio era buio e la stanza dei genitori era chiusa, probabilmente loro non avevano sentito nulla. Scalza si diresse verso il salotto, camminando sulle punte. La stanza sembrava tranquilla, se non fosse stato per la luce spettrale che sembrava provenire dall’albero. Che i genitori avessero dimenticato di spegnere le luci? Si avvicinò all’interruttore, ma con sorpresa vide che era spento. Allora da dove proveniva quella luce? Si avvicinò e notò che sembrava essere emanata da una delle palle. Era forse una di quelle luminose? In quel caso era probabile che fosse rimasta accesa. Fece un passo avanti, decisa a spegnerla per poi tornare a dormire. Rappresentava, ora lo vedeva meglio, una foresta innevata. Appena la toccò fu percorsa da un brivido. La palla era così fredda da fare male, come se si trattasse di ghiaccio puro. La ragazza cercò di ritrarre la mano, ma quella sembrava incollata. Un attimo dopo fu accecata da una forte luce.

Si risvegliò in mezzo alla neve. Vestita solo dalla sua leggera camicia da notte si mise in piedi e si guardò intorno, indecisa sulla strada da prendere. La prima cosa che la colpì fu il freddo, un tale freddo non l’aveva mai sentito in tutta la sua vita. Tremò e si guardò intorno, saltellando, le braccia strette intorno al corpo per scaldarsi, alla disperata ricerca di un rifugio. Si mise in cammino, tra gli alberi ricoperti di neve. Alla fine, proprio in mezzo alla foresta, le parve di vedere una piccola grotta dentro cui sembrava esserci una luce. La parte più atavica di lei pensò che si trattasse del fuoco con cui riscaldarsi, per cui corse in quella direzione, gli arti quasi insensibili per il freddo che andava sempre più aumentando. Non appena entrò nella grotta vide che non era sola. C’era infatti un figura così immobile e bianca da apparire al primo sguardo una statua di ghiaccio, ma poi a ben guardare si vedeva il petto sollevarsi nell’atto del respiro.
-Mi scusi, signore- disse la ragazza.
La figura alzò la testa, rivelando i lineamenti di un bel ragazzo.
-Mi potete dire dove mi trovo?-
-Nel mio tormento-
Katherine, che si sentiva morir di freddo, pensò di aver capito male. –Cosa?-
Il ragazzo ripeté con voce triste.
-E cosa c’entro io?-
-Sei arrivata qua attraverso la palla di Natale, vero?-
-Non sono la sola?-
-Ne sono arrivate molte così-
-E sono andate via?-
-Questo non lo ricordo, ultimamente non ho molta memoria-
Katherine si avvicinò al fuoco, nel vano tentativo di scaldarsi. Aveva molto freddo.
-Deve essere questo gelo, è terrificante, non mi da pace-
-Mi dispiace-
-Non devi dispiacerti, è per colpa mia se mi trovo così, anche se non ricordo più cos’è successo-
-Non ricordi nulla?-
-Un castello e una fanciulla, sì, una fanciulla del volgo, era proprio bella, come voi, aveva un viso dolce e la voce più melodiosa che mai avessi sentito-
-E cos’è successo?-
-Io … credo di averla illusa, era molto triste l’ultima volta che ci siamo visti … poi è morta, è affogata-
Katherine immaginò improvvisamente cos’era successo. Il ragazzo aveva illuso la sprovveduta e lei si era uccisa. Quasi poteva sentire il dolore di quella poveretta.
-Ero un principe … poi è arrivato questo inverno, sono morti tutti, uno per volta, ho visto andarsene i miei genitori e i miei fratelli, i miei servi e i miei amici, sono rimasto solo-
-Mi dispiace-
-Non importa, ormai è passato molto tempo-
-Quanto?-
-Non so-
Katherine si soffiò sulle mani per riscaldarsi. Aveva tantissimo freddo, le pareva di congelare da un momento all’altro. Si strinse nelle spalle.
-Mi piacevano molto le sale da ballo, sembravano fatte d’oro- sospirò –e mi piaceva anche ballare, avrei ballato tutto il giorno e tutta la notte se solo avessi potuto-
-Io non ho mai ballato- sussurrò Katherine e le sue parole uscirono come una nuvoletta di gelo.
-Se volete posso ballare con voi-
Lei annuì. –Almeno mi riscalderò un po’, ho così freddo-
Il ragazzo le andò incontro e la strinse a sé. La fanciulla fu scossa da un brivido. Le sembrava di avere il gelo nelle vene.
-Credo che veniate qui per un motivo, anche se non ho compreso quella- mormorò il giovane –ricordo che qualcuno mi parlò di un modo per spezzare questo sortilegio, per ritornare al caldo-
-Quale?- ormai il freddo l’aveva stretta nella sua morsa.
-Penso un bacio, sì, un bacio di vero amore-
-Come nelle fiabe?-
-Esatto, proprio come nelle fiabe-
E lui la baciò.

Quale fu l’orrore della madre di Katherine quando la mattina di Natale si alzò e trovò la sua adorata figlia per terra vicino all’albero addobbato. Inutile dire che per lei non c’era più nulla da fare. L’autopsia fu fatta il prima possibile: morte per assideramento. Come questo fosse possibile, visto che il termostato segnava ventidue gradi non è ancora stato chiarito e ancora meno si è capito come potesse avere della neve tra i capelli.

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Capitolo 3
*** L'albero di Natale ***


Fuori la neve scendeva abbondantemente il pomeriggio in cui Sarah vide suo padre entrare in casa con il nuovo albero di Natale. Lo fissò sorpresa, non si aspettava una creatura così grande e maestosa, eppure così indifesa.
-Ti piace?- le chiese il genitore.
La bambina lo fissò un attimo sgranando gli occhi, quindi annuì, più per non deluderlo che perché le piacesse davvero. Quel grande albero suscitava in lei un vago timore, ecco la verità.
-Potrai addobbarlo con mille palline colorate- proseguì l’uomo, dandole un colpetto sulla testa –ma domani, adesso dobbiamo andare a mangiare- quindi sistemò l’albero ed uscì dalla stanza.

Quella sera Sarah andò a vedere il nuovo arrivato da vicino. Era così alto che sfiorava il soffitto. La bambina si avvicinò e sfiorò uno dei rami. Le rimase attaccata sulla mano una bizzarra polverina dorata e poi il ramo cadde. Lei sobbalzò spaventata, non avrebbe dovuto toccarlo, non sotto lo sguardo attento dei genitori. Subito s’inginocchiò, voleva recuperarlo e farlo sparire, lo aveva visto in un film, era quello che si faceva in casi simili, far sparire tutte le prove, prima che sia troppo tardi. Individuò subito il rametto e vide anche qualcos’altro. Sembrava un sfera, come se una palla di Natale fosse già stata attaccata, solo che la posizione in cui si trovava era oltremodo bizzarra, nascosta là sotto, dove non si poteva vedere. Allungò il braccio per toccarla. Era dura al tatto, ma anche viscida e poi sembrava di mille colori. Sarah sorrise, le piaceva molto. Guardatasi in giro afferrò la palla e la portò nella propria stanza. Decise di nasconderla in un vecchio scrigno in cui un tempo aveva nascosto il suo diario segreto. Il luogo più sicuro del mondo. Ora le era quasi parso che la palla fosse diventata calda. Chissà, forse era una sorpresa che le volevano fare i genitori. Ridacchiò tra sé.
- Sarah – la chiamò la madre.
La bambina uscì subito dalla stanza e corse da lei. –Eccomi- esclamò, allargando le braccia.
-Tesoro- rispose la donna, stringendola a sé –è ora di andare a dormire-
-Sì, mammina- disse la bambina, baciandola su entrambe le guancie.
-Domani addobberemo l’albero-
-Non vedo l’ora-

Quella notte Sarah fece degli strani sogni. Sognò di avere le ali e di volare sopra una strana città fatta di palazzi sospesi a mezz’aria ed abitata da piccole creature pallidissime e con lunghi abiti, come quelli delle principesse che si vedevano nei film. La neve le sfiorava la pelle, ma non era fredda, anzi, sembrava quasi bollente. E poi iniziò a sentire una voce.
-Tra poco nascerò a nuova vita, tra poco sarò di nuovo parte del mondo-
Sarah si svegliò di soprassalto ed abbracciò l’orsacchiotto che teneva nel letto, anche se ormai stava diventando un po’ troppo grande per giocare con un peluche. O almeno questo era ciò che le diceva il padre. Chiuse gli occhi nel tentativo di addormentarsi e le parve di sentire un ticchettio, come di qualcosa che sbatte dentro un contenitore. Si mise seduta e si guardò intorno, ma non vide nulla, la stanzetta era avvolta nelle tenebre. Si sdraiò nuovamente e si riaddormentò.

Quella fu solo la prima sera caratterizzata da strani sogni. Sarah si ritrovò a fare spesso sogni simili. Volava sempre su città e luoghi dall’aspetto bizzarro, popolati da creature che mai avrebbe immaginato che esistessero e poi sentiva sempre la stessa voce che le comunicava qualcosa, come il fatto che sarebbe rinata presto. Sarah era allo stesso tempo affascinata e terrorizzata da tutto ciò e non riusciva a capire come ciò fosse possibile. E poi una notte si svegliò e vide una strana luce provenire da sopra il comò, meglio ancora, la luce proveniva dallo scrigno dove aveva messo la palla ed il coperchio sembrava pulsare. Spinta dalla curiosità si alzò ed andò a vedere cosa stava succedendo. Con le mani tremanti sollevò il coperchio e restò a bocca aperta. Una piccola creatura alata, quasi una bambolina, stava rannicchiata tra quelli che parevano i resti di un guscio d’uovo. Il piccolo essere aveva i capelli lunghi e turchini ed indossava una strana tunica, che pareva parte integrante di essa, quasi fosse una seconda pelle. Alzò la piccola testa e fissò negli occhi Sarah.
-Finalmente ti vedo nel mondo reale- disse, con una vocina bassa e seducente, quindi si mise in piedi, rivelando un’altezza di circa sette centimetri.
-Chi sei?- chiese la bambina, attratta dalla perfezione di quella piccola creatura.
-Ho diversi nomi, ma tu chiamami Megan -
-Come la mia bambola!-
-Esatto- sorrise, con le labbra rosse come il sangue – Megan, un gran bel nome-

Da quel momento Sarah divenne indivisibile da Megan. La portava con sé ovunque, dentro lo zaino a scuola, dentro la tasca in casa, appoggiava lo scrigno dentro cui lei si rifugiava sul proprio comodino in modo tale di averla sempre vicina. La verità è che Sarah era una bambina molto sola e Megan era l’unica amica capace di capirla per davvero, a parte Jane, ma ora Jane passava un sacco di tempo con le altre, non era più sua amica come prima. Megan comunque la rimpiazzava ampiamente, era simpatica e soprattutto sapeva ascoltarla, insieme a lei pareva che il mondo avesse tutto un altro colore, un’altra consistenza. Era l’amica perfetta.

Un grigio pomeriggio Sarah stava giocando, sola come sempre, con la grande casa delle bambole che si trovava in fondo all’aula di ricreazione. Teneva tra le mani Megan che cercava di non attirare lo sguardo dei compagni di classe della bambina.
-Dove vuoi andare?- le chiesi Sarah –Vuoi ballare con Jacob?- e le mostrò un bambolotto piuttosto insignificante.
Megan scosse la piccola testolina, un movimento discreto.
-Niente Jacob allora, non piace neppure a me … che ne pensi di una bella cavalcata- afferrò un cavallino di plastica.
-Ehi stramba!- disse una voce alle sue spalle, una voce che Sarah conosceva bene –Il cavallo è mio-
-Scusa, Paul – disse, posando a terra il giocattolo, memore di quando lui l’aveva picchiata per aver commesso un simile errore.
-Niente scusa- e il bambino, grande e grosso, la prese per il braccio, tirandola con violenza indietro.
Alla piccola sfuggì un grido, tanto più che la fatina cadde a terra. – Megan – la chiamò, temendo che si fosse fatta male.
-Paura per la tua bambolina?- chiese il suo aguzzino, spingendola a terra.
Sarah si mise a singhiozzare, impotente. L’insegnante non era in aula e quando sarebbe tornata molto probabilmente l’avrebbe ritrovata sanguinante e in lacrime, non c’era nulla che poteva fare per salvarsi. Si preparò quindi a ricevere un pugno quando qualcosa dietro la testa di Paul le fece spalancare la bocca dalla sorpresa. Un attimo dopo il bullo era a terra e caldo sangue scorreva intorno alla sua testa che si era letteralmente rotta in due, come un melone. Diverse urla si levarono lì intorno, i suoi compagni chiamavano a gran voce la maestra, ma Sarah non riusciva a dire nulla, l’unica cosa a cui pensava era la pallida figura di Megan, immersa nel sangue, quasi lo stesse bevendo.

Paul morì prima dell’arrivo dell’ambulanza e tutti pensarono ad un tragico incidente, probabilmente era inciampato e si era rotto la testa. A nessuno in fondo dispiacque per la sua dipartita, era un bambino violento e probabilmente sarebbe diventato un vero sbandato da grande. Sarah però non poteva smettere di pensare a quella storia e soprattutto non poteva non guardare Megan con occhi diversi.
-Qualcosa non va?- le chiese la fatina una volta a casa. Non una goccia di sangue sporcava il suo bel viso.
-Sei stata tu ad ucciderlo-
-Ma io l’ho fatto per te, quel gradasso ti aveva aggredita-
-Non si possono uccidere le persone- disse Sarah, scuotendo la testa.
-Da dove vengo io sì se ti fanno del male- le sorrise, un sorriso animalesco e feroce su quei lineamenti da bambola –vuoi forse dire che avrei dovuto lasciarlo fare?-
-Era proprio necessario ucciderlo? Non potevi solo ferirlo?-
-Avrei potuto, certo, ma dove sarebbe stato il divertimento-
Sarah sentiva il cuore batterle così forte nel petto che temeva che le sarebbe esploso. –Devi andartene-
-Perché?- chiese la fatina, piegando lateralmente la testa –Credevo che noi due fossimo migliori amiche-
-Non in questo caso, se qualcuno scoprisse quello che hai fatto … non voglio neanche pensarci-
-Non lo scoprirà nessuno, tranquilla, e soprattutto tu non mi manderai via di qua, io non posso andarmene-
-Devi, non c’è altra scelta-
-Invece sì, se non vuoi che i tuoi adorati genitori facciano la fine di Paul, capito?-
Un brivido percorse la bambina. –Loro non c’entrano nulla-
-Lo so e non m’importa-

E così Sarah continuò ad ospitare Megan che nel frattempo diventava sempre più feroce. Non era raro infatti che la bambina trovasse tracce di sangue nel piccolo scrigno che era diventato il rifugio della fata e una volta le capitò anche di ritrovare all’interno di esso delle piccole ossa.
- Cos’è?- chiese inorridita.
-Non capiresti, voi esseri umani non potete capire-
Sarah si mise a piangere.
-Pensavi davvero che fossi una di quelle fatine delle fiabe? Io appartengo alla corte oscura, anzi, sono stata cacciata da essa, quell’uovo era la mia prigione, costretta a stare là dentro fino a quando qualcuno non mi avesse trovata e si fosse preso cura di me, io ti sono debitrice, Sarah, lo so bene e non me ne dimentico, ma tu non devi metterti tra me e la mia natura, ho cercato di combatterla, ma il sangue di Paul mi ha ricordato chi sono e non posso fingere di essere altro- e così il discorso si era concluso.
Sarah aveva paura di Megan ed allo stesso ne era affascinata. In fondo era sua amica, aveva ucciso Paul per lei. Ma lei non le aveva mai chiesto una cosa simile. Era una di quelle situazioni in cui non sapeva cosa fare.

Un giorno durante l’ora di ginnastica, uno dei pochi momenti in cui era liberata dalla presenza di Megan, Karol si avvicinò a lei. Karol era stata la sua migliore amica fino a poco tempo prima, quando le aveva preferito le altre compagne di classe, lasciandola da sola con i suoi problemi.
-Tutto bene?- le chiese.
-Non dovrebbe?- le rispose Sarah, chinandosi per raccogliere il peso da lanciare.
-Sei strana in questi giorni, c’è qualcosa che non va-
Sarah non parlò e provò il tiro. Il peso cadde a pochi centimetri da lei.
-Puoi parlarne con me … c’entra forse quella strana bambola che porti sempre con te?-
E Sarah scoppiò a piangere.
-Vieni- Karol la portò in disparte e rimase ad ascoltare tutta la storia sulla misteriosa ospite di Sarah.
-Io non so cosa fare-
-Devi parlarne con i tuoi-
-No! Lei gli ucciderà, hai visto cos’è in grado di fare-
-Allora dovremmo pensarci noi, ho letto da qualche parte che le fate sono allergiche al ferro-
La bambina ricordò di avere una scatola di quel metallo dove riponeva i giocattoli. E se l’avesse chiusa là dentro? Sembrava una buona idea, ma come farla entrare? –Ti prego aiutami-
-Ti aiuterò- esclamò l’amica, posandosi la mano sul cuore –la cattureremo, ora dobbiamo solo studiare un piano-

E quel pomeriggio le due lo misero in pratica. Sarah raccontò a Megan la storia di un lavoro di gruppo per ginnastica per il quale Karol avrebbe dovuto venire a casa sua nel pomeriggio.
-Quella Karol non mi piace- esclamò la fatina, incrociando le braccia.
-Non ne posso fare a meno-
-Certo- borbottò l’altra e volò via.
Karol arrivò puntuale, portando con sé un barattolo dentro il quale, c’era qualcosa a cui, secondo le leggende, le fate non potevano proprio resistere: latte. Il piano era semplice, quasi banale. Attrarre la fatina dentro la scatola di ferro usando proprio quella dolce bevanda.
-Mettiamo il barattolo aperto dentro la scatola, poi fingiamo di giocare, appena lei entra la richiudiamo- le sussurrò Karol all’orecchio.
-Speriamo che non se ne accorga-
-Un po’ di fiducia-
E le due cominciarono a giocare, lo sguardo puntato sulla scatola di ferro. Passarono minuti che a Sarah parvero ore e poi alla fine notò che Megan si era alzata in volo. La osservò, con il cuore in gola, avvicinarsi alla scatola ed alla fine entrarvi.
-Adesso- esclamò Karol e si gettarono entrambe sulla scatola. Non avevano però fatto i conti con la velocità di Megan che riuscì ad uscire un attimo prima di rimanervi imprigionata.
-Tradimento- urlò la fata con tutta la voce che aveva in gola –ed ora me la pagherete entrambe-
-Ti prego … - iniziò Sarah, ma Megan non aveva intenzione di perdonare.
-Ora dovete pagare-

La piccola Betty venne a conoscenza della morte delle compagne Sarah e Karol il giorno seguente, a scuola. Era scoppiato un incendio a casa di Sarah e nessuno si era salvato. Una vera disgrazia e proprio adesso che mancavano un paio di giorni al Natale! Betty stava pensando a queste cose quando vide una bambolina appoggiata nella casa delle bambole. Sembrava proprio la bambola che Sarah portava sempre con sé. Betty s’avvicinò tremendamente tentata a prenderla in mano, dopotutto era così bella, così perfetta, come una vera fata. Forse Sarah l’aveva dimenticata lì e dov’era ora, purtroppo per lei, non le sarebbe servita. Fu questo pensiero a convincere Betty ad agire. Prese la bambolina e la infilò nello zaino. Era certa che sarebbe nata un’ottima amicizia.

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Capitolo 4
*** La vigilia ***


Ricordavo molto bene le storie che mi raccontava mia zia, quelle su un Babbo Natale crudele, che invece che premiare i bravi bambini, puniva crudelmente chiunque secondo lui non si fosse comportato bene. Una creatura terribile che percorreva la notte sulla sua slitta trainata da renne scheletriche, conduttrici nel regno dell’oltretomba, pronto a caricare su di essa chiunque avesse trovato in atteggiamenti equivoci. Ovviamente nessuno credeva a mia zia. Lei era pazza, infatti, ricoverata in un ospedale psichiatrico da quando aveva ucciso il marito, dando la colpa al Babbo Natale dei suoi incubi.
-Mi tradiva, lui sapeva che mi tradiva e che aveva preferito passare la vigilia di Natale con lei piuttosto che con me, lo ha punito per questo, era il mio regalo- era quello che soleva dire quando qualcuno le chiedeva di quella storia. Riguardo tutti gli altri argomenti mia zia era normale, tremendamente normale, se non le si fosse chiesto della morte del marito o di Babbo Natale chiunque l’avesse vista lì non avrebbe capito come una signora così tranquilla e sorridente potesse esserci finita.
Ho sempre pensato che la follia di mia zia fosse una tara ereditaria, qualcosa per cui, prima o poi, sarei dovuta passare anch’io. All’inizio l’idea mi spaventava, ma con il tempo mi sono abituata e questo abituarmi si è accompagnato con uno stile di vita sempre meno regolare. Insomma, ero diventata una ragazza perduta.
Fu così che una vigilia di Natale mi ritrovai, insieme ad alcuni miei amici e a quello che all’epoca era, se così lo posso definire, il mio ragazzo, Nathan, intorno al fuoco su una spiaggia. Il clima era mite per essere dicembre e ci divertivamo bevendo e raccontandoci storie al limite dello scandaloso. A onor del vero ero piuttosto silenziosa quella notte. Il mio sguardo passava dal segno color sangue che il mio rossetto aveva lasciato sulla lattina di birra al cielo stellato sopra di noi. Pensavo alle storie di mia zia e alla follia che mi aveva lasciato in eredità.
-Ed è così che ho rubato la mia prima macchina- stava dicendo Kevin, un tipo con più tatuaggi che cervello, caro amico di Nathan.
-Io una volta ho rubato un camion- intervenne Hilary, strascicando le parole, una ragazza che non riuscivo proprio a comprendere come fosse finita tra di noi e soprattutto come avesse potuto mantenere un aspetto così innocente dopo tutto ciò che le era successo. –Ho chiesto un passaggio, l’ho sedotto e mentre dormiva l’ho spinto fuori e ho guidato il camion- scoppiò a ridere. Era palesemente ubriaca. Non dubitavo che quella notte lei e Nathan sarebbero diventati più che amici.
-Solo un camion?- chiese Laila scoppiando a ridere. Ecco, di lei non si poteva dire che non si adattasse al gruppo. Era scappata di casa quando era solo una ragazzina e da allora non aveva fatto altro che vivere la vita di strada con tutto ciò che questo comporta. –Io ho svaligiato una villa-
-Tutto bene?- mi chiese Nathan.
Mi ritrovai ad annuire.
-Quando vuoi possiamo andare a casa-
-Grazie- gli sorrisi.
Nathan era sempre gentile con me, nonostante ciò io non riuscivo proprio ad amarlo, era troppa la paura d’impazzire e di fargli fare un giorno la fine che mia zia aveva fatto fare al suo amatissimo marito.
-Ehi, che cos’è quella cosa?- chiese Hilary e vidi che indicava qualcosa nel cielo.
Alzai la testa, il cuore in gola, già sapendo cos’avrei visto. Ed infatti la cosa che percorreva il cielo notturno era una slitta trainata da creature dall’aspetto sinistramente scheletrico. Ripensai ai racconti di mia zia e la birra mi cadde di mano mentre osservavo la slitta scendere la cielo e venire verso di noi a tutta velocità.
-Dobbiamo andare- mi ritrovai ad urlare.
Nessuno mi rispose, erano tutti con lo sguardo fisso su di lui. Balzai in piedi, non sapendo cos’altro fare.
Laila fu la prima ad essere colpita da un lungo pugnale che le si conficcò in gola. Osservai il sangue schizzare dappertutto. Dovevamo andarcene immediatamente, prima che ci uccidesse tutti. Afferrai Nathan e lo costrinsi a mettersi in piedi, vincendo la sorpresa e l’orrore, quindi, mentre Babbo Natale colpiva Kevin, lo trascinai dietro di me.
-Che cos’è?- mi chiese correndo al mio fianco.
-Il mostro di cui parlava sempre mia zia, il punitore di coloro che si sono comportati male- e solo in quel momento mi accorsi che stavo piangendo.
-Dobbiamo arrivare alla macchina-
Sentimmo le urla di Hilary, ma nessuno dei due si voltò per vedere cosa stesse succedendo. Arrivammo alla macchina che avevamo parcheggiato sul lungomare. Nathan si frugò in tasca, mentre io osservavo la slitta che rimaneva sospesa a mezz’aria, il cuore che batteva all’infuriata.
-Sbrigati-
-Non le trovo-
-Cosa?- chiesi inorridita.
-Penso di averle perse- era pallidissimo.
-Rompiamo il vetro e la metti in moto, come facevi quando rubavi le macchine-
Nathan scosse la testa. –Io non ho mai rubato in vita mia-
-Ma le tue storie?- chiesi sorpresa.
-Io me le sono inventate per darmi un tono-
Un groppo mi strinse la gola. Erano spacciati. E con la coda dell’occhio vidi la slitta che si avvicinava. Rapida mi tolsi la felpa ed, avvoltala intorno al braccio, spaccai il finestrino. Un’esplosione di dolore mi avvertì che una scheggia mi aveva ferito alla guancia, ma non importava. Entrai ed aprii anche la portiera a Nathan.
-Entra- quindi mi spinsi di lato e mi misi a trafficare con i cavetti sotto il cruscotto. Non ricordavo mai quale dovessi unire per far partire una macchina. Andai a tentativi ed alla fine l’auto finalmente partì. –Veloce- urlai quindi a Nathan che subito fece retromarcia. Partimmo a tutta velocità tra le vie della città. Sbattei contro il tettuccio della macchina e mi attaccai al sedile per non sobbalzare ancora. Dietro di noi sentivo le risate del crudele Babbo Natale che ci seguiva.
-Cosa facciamo?- chiese Nathan.
-Non lo so-
-Tua zia … -
-Non mi ha mai detto come sconfiggerlo-
-Cosa facciamo allora?-
Restai in silenzio ad osservare la strada, gli alti edifici intorno a noi. Mi sentivo in trappola. E poi qualcosa si schiantò sul tettuccio della macchina. Mi sentii spingere a terra e battei violentemente la testa. Successe tutto così velocemente che a malapena me ne resi conto. La portiera di Nathan si spalancò e lui fu trascinato fuori, nonostante le urla. Lo vidi contorcersi mentre il Babbo Natale lo straziava con i suoi artigli, poi fu lasciato cadere a terra ed improvvisamente tutto divenne buio.

Continuo a ripetere a tutti questa storia. Ovviamente nessuno mi crede, nessuno è così pazzo da pensare che esista un Babbo Natale crudele che uccide coloro che si sono perduti durante il cammino della vita, e chi ci crede pensa che se lo avessi incontrato per davvero avrebbe ucciso anche me. Io so perché non l’ha fatto. Non ha voluto spezzare la piccola vita che portavo in grembo.

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Capitolo 5
*** Quella strana ombra ***


Era un freddo pomeriggio di dicembre, la vigilia di Natale, quando io e mio padre ci mettemmo alla disperata ricerca del presepe. Avevamo infatti scoperto che nella casa nuova quello vecchio, essendo troppo grande, non aveva un posto in cui stare.
-Ne troveremo un altro- aveva detto fiducioso mio padre.
Peccato che non ne avevamo ancora trovato uno che gli andasse bene. Troppo grandi, troppo piccoli, troppo elaborati, troppo semplici, inutile ricordargli che la perfezione non è di questo mondo, mio padre quando si mette in testa qualcosa non se la toglie più. Tremante per il freddo lo seguivo lungo la strada, pregando che si sbrigasse a trovare qualcosa di suo gradimento, così da poter finalmente rifugiarci nel calore di casa nostra e dedicarci alla cenetta che mamma stava certamente preparando.
-Intanto non troveremo nulla- continuavo a ripetere.
-Lo sapevo, manchi di speranza-
E lui abbondava d’ottimismo evidentemente. Ognuno la sua pena. Intanto ben presto i negozi avrebbero chiusi e mio padre si sarebbe dovuto arrendere all’evidenza: non aveva trovato nulla. E poi successe l’impensabile.
-Ecco cosa cercavo!- esclamò mio padre, fermandosi proprio dinnanzi ad un piccolo negozio che io non avevo neppure visto. In vetrina c’era un presepe dall’aspetto bizzarro. Infatti non era ambientato dentro una stalla, ma dentro il portico di una villa di epoca vittoriana ed i personaggi parevano ognuno venire da un periodo storico diverso. Antichi romani, dame rinascimentali, c’era un po’ di tutto lì dentro. Inoltre niente bue od asino, solo un unicorno ed un grifone.
-Non dirmi che ti piace quello- esclamai, tra il sorpreso e l’inorridita.
-Non vedi che è tremendamente originale?- e dal tono della voce capii che non avrebbe ammesso repliche. Senza aggiungere altro entrò nel negozio. Io feci per seguirlo ma mi bloccai vedendo che c’era qualcosa di strano nel presepe. Un movimento sul fondo del portico. Aguzzai la vista. Mi era parso di vedere un’ombra, ma ora non c’era più nulla. Scossi la testa ed entrai anch’io nel negozio. Era piccolo, buio e polveroso. Un luogo angusto che on mi piaceva. Mio padre stava già contrattando con il negoziante, un uomo dall’aspetto inquietante.
-Non è in vendita- stava dicendo l’uomo.
-La prego, mi piace tantissimo- gli rispose mio padre.
-Mi dispiace, ma è solo da esposizione- ribatté l’altro.
-Sono disposto a pagarlo qualsiasi cifra-
-Non si vende-
-La prego- e mio padre si buttò in avanti, le mani giunte, come se volesse supplicarlo.
L’uomo dietro il bancone sospirò. Aveva perso la sua battaglia e lo sapeva molto bene. –Va bene, ma deve tenere presente alcune regole-
-Le metterò in atto-
-Prima di tutto deve essere coperto al calar della notte- disse l’uomo –poi non deve mai essere esposto alla luce diretta del sole-
-Promesso- disse sbrigativo mio padre –ora posso averlo?-
- Un’ultima cosa: se uno dei personaggi dovesse spostarsi nessuno dovrà mai e poi mai metterlo in un’altra posizione-
Un brivido mi percorse la schiena. Spostarsi? Potevano spostarsi da soli? Doveva esserci un meccanismo, non c’era altra spiegazione.
-Promesso, non sposterò nulla … allora me lo vende questo presepe?-
-Sì, ma deve ricordare queste tre regole e soprattutto deve tenere ben a mente che non è un presepe-
-Per me lo è-
E così il contratto fu firmato.

Mia madre non approvò l’acquisto e ancora di meno quando scoprì che c’erano tre regole da rispettare.
-La punizione quale sarebbe?-
-Non ho chiesto- disse mio padre, stringendosi nelle spalle e facendo per aprire la scatola dentro cui si trovava il presepe.
-Adesso è buio- gli ricordai.
-Fammelo almeno sistemare sul mobile, poi lo coprirò-
-Non se ne parla- disse mia madre –se la regola è questa non si deve infrangere-
-Va bene, vorrà dire che aspetterò fino a domani per vedere come starà su questo mobile-
-Scelta saggia- intervenni io.
-Già- borbottò mio padre, lo sguardo fisso sulla scatola.

La cena fu più silenziosa del solito. Gustammo le pietanze che mia madre aveva preparato sforzandoci di parlare, ma non riuscendo ad intavolare nessun argomento davvero soddisfacente, probabilmente stavamo tutti pensando al nuovo acquisto.
-Domani siamo invitati dagli zii- ci ricordò nostra madre.
Notai che mio padre corrugava la fronte. Certo, lui e la zia non andavano molto d’accordo. Ovviamente a mia madre, soprattutto in occasione di Natale, non si poteva proprio dire di no.

Quella notte, al calduccio nel mio letto, gli occhi chiusi, mi parve di sentire degli strani rumori provenienti dall’interno della casa, ma non mi mossi. Qualcosa, una sorta di atavica paura, mi costringeva a stare ferma lì. E alla fine, fortunatamente, il rumore cessò e io mi addormentai.

Quando mi alzai, il mattina seguente, il presepe si trovava già sul mobile. Mio padre non aveva perso tempo e l’aveva subito messo laddove secondo lui doveva stare, ovvero in bella vista. Mia madre lo fissando con il suo sguardo dubbioso, non era convinta di ciò che vedeva e non riusciva a fingere il contrario. La capivo molto bene. Quel presepe visto nel nostro salotto sembrava ancora più inquietante di quanto non fosse nella vetrina del negozio.
-Più passa il tempo meno riuscirò a capire tuo padre- borbottò mia madre.
-Diciamo che è molto originale- commentai.
-Già, originale- scosse la testa ed andò in cucina.
Io rimasi a fissare quelle statuette, chiedendomi perché appartenessero ognuna ad un’epoca diversa. La cosa era decisamente inquietante. Mi avvicinai e notai che erano perfette in ogni dettagli, come se un tempo fossero state persone vere. Questo pensiero mi fece rabbrividire. Avevo decisamente troppa fantasia. Inspirai a fondo e scossi la testa. Era solo un presepe bizzarro, ecco tutto.
-Oggi siamo dagli zii?- chiesi a mia madre, entrando in cucina, non sapendo cosa dire.
-Già- rispose lei, mettendomi davanti una tazza di caffelatte.
Annuii ed iniziai a mangiare un biscotto.
-Più lo guardo meno quella cosa mi piace-
-Il presepe?-
Mi fulminò con lo sguardo. –Non è un presepe, non chiamarlo così, il presepe è qualcosa di sacro, quello è un obbrobrio e poi non capisco il motivo di quelle regole, non mi piace per niente-
E presto capimmo la ragione di quelle regole.

Era l’antivigilia di Capodanno quando mio padre decise di mostrare a tutti gli ospiti che avevamo a casa il suo meraviglioso nuovo acquisto nonostante ormai fossero le undici di sera.
-Il negoziante ci ha detto di non scoprirlo- gli ricordai io in un sussurro.
-Le regole sono fatte per essere infrante- fu la risposta che mai mi sarei aspettata da mio padre, uomo dalla mentalità rigida e che non mi aveva mai permesso di tornare a casa dopo la mezzanotte.
Il telo fu rimosso e tutti si ritrovarono ad osservare lo strano scenario. Ed improvvisamente successe qualcosa. Un rivolo rosso parve scivolare fuori dal portico, quasi fosse un fiume di sangue. Uno dei presenti urlò. Mio padre lo ricoprì rapidamente con il telo.
-Deve esserci una reazione chimica- borbottò per giustificare la cosa, ma non ci credeva neanche lui.

La seconda regola fu infranta solo pochi giorni dopo. Mia madre stava pulendo e mi chiese di togliere le tende del salotto per cambiarle. Le avevo appena fatte cadere a terra e stavo per raccoglierle quando sentii uno strano verso, qualcosa a metà tra un gemito di dolore ed un pianto disperato. Non avevo mai sentito nulla di più straziante, quasi qualcuno stesse per morire. Mi guardai intorno e vidi che anche mia madre era stata richiamata da quelle strane grida.
-Cosa sta succedendo?- mi chiese.
-Non … - e poi capii, senza quasi parlare le indicai le statuette che si stavano coprendo il viso con le braccia.
-Oh mio Dio!- esclamò mia madre.
Io rapida presi il telo e le coprii. Le urla cessarono di colpo.
Per alcuni secondi né io né mia madre parlammo. Alla fine fu lei ad affrontare l’argomento.
-Dobbiamo liberarci di quella cosa-
La pensavo esattamente come lei. –Ma come?-
-La riportiamo al negozio-
E fu quello che, perlomeno, cercammo di fare.
- Dov’è?- chiese mia madre, camminando al mio fianco lungo la via.
-Deve essere da queste parti- le risposi io.
Inutile dire che non trovammo mai quel negozio. Era come se non fosse mai esistito. Sconfitte tornammo a casa.
-Dobbiamo buttarlo via- decise mia madre –farlo sparire il prima possibile-
-Sì- acconsentii anche se avevo un terribile presentimento.
Aiutai mia madre a metterlo dentro un sacchetto dell’immondizia, quindi lo buttammo via.
-E anche questa è risolta- esclamò mia madre, tirando un sospiro di sollievo –qualsiasi cosa fosse ce ne siamo liberate-
Il momento di gioia non durò poi così a lungo.

Quella sera mio padre entrò in casa con un enorme pacco. Io e mia madre ci eravamo messe d’accordo su cosa dirgli circa la fine del presepe. Era venuto il proprietario del negozio a riprenderlo, aveva insistito e noi alla fine avevamo ceduto. Semplice ed abbastanza credibile. Mio padre ben presto avrebbe trovato un nuovo passatempo, succedeva sempre così e quel presepe, o qualunque cosa fosse, sarebbe stato solo più un brutto ricordo.
-Eccomi a casa- disse, posando il pacco sul tavolo.
-Quello cos’è?- chiese mia madre.
-L’ho trovato fuori dalla porta, sopra c’è il mio nome, forse è un regalo di Natale con parecchi giorni di ritardo-
Mi avvicinai incuriosita ed osservai mio padre che lo apriva. Quando vidi cosa conteneva per poco non lanciai un urlo. Dentro alla scatola c’era un presepe identico a quello di cui io e mamma ci eravamo sbarazzate. E la cosa più assurda di tutte fu che mio padre non si sorprese del fatto che la sua adorata creatura non si trovasse nel posto che lui gli aveva assegnato, anzi la risistemò subito laddove avrebbe dovuto essere, come se nulla fosse successo. Quello fu l’inizio della fine.

Abbiamo cercato di sbarazzarci del presepe varie volte, abbiamo anche provato a distruggerlo, abbiamo pubblicato ovunque annunci per venderlo, ma nessuno lo vuole, nessuno sente l’oscura attrazione che attira mio padre. Purtroppo so che la sua fine si avvicina sempre di più. L’altro giorno ho a stento impedito che spostasse una delle statuine perché ora, finalmente, ho compreso cosa sono. Quelle fragili statuine un tempo erano persone che si sono imbattute in questo strano oggetto e ne sono rimaste attratte. Ben presto tra di esse ci sarà pure mio padre.

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Capitolo 6
*** Buona apocalisse ***


Mancavano solo poche ore alla fine dell’anno ed io mi accingevo a preparare le ultime cose prima di recarmi al veglione al quale ero stata invitata. Nulla di particolarmente esaltante in realtà, una serata tra amici e poi il ritorno alla vita di tutti i giorni, come sempre succedeva con l’avvento del nuovo anno, come se nulla fosse realmente cambiato. Afferrai la mia borsetta di pizzo, un regalo di Natale di mia zia, quindi lanciata l’ultima occhiata allo specchio ed ai miei tacchi troppo alti, uscii di casa. L’ascensore era rotta, per cui scesi le scale, appoggiandomi al corrimano per non cadere. Mi chiesi perché avessi scelto una casa al quinto piano. Già, era l’unica che mi ero potuta permettere. E proprio quando finalmente uscii dal portone di casa e mi diressi, il più rapidamente possibile, verso la macchina, qualcuno mi afferrò da dietro e mi puntò qualcosa contro la schiena.
-Tu vieni con me, altrimenti ti sparo-
Ed ecco che il mio anno finiva molto male, chissà se sarei arrivata a vedere come iniziava quello nuovo?
-Ti prego, non farmi del male- lo pregai –ti do tutto quello che vuoi, ma non uccidermi-
-Non voglio farti del male, ma tu devi fare quello che ti dico-
-Okay-
-Hai una macchina?-
-Sì-
-Dove?-
E la indicai con la mano tremante. –Andiamo- mi spinse verso di essa, quindi mi fece salire al posto di guida mentre lui si metteva sul sedile dietro il mio. –Se fai la furba ti sparo-
-Okay- avevo le lacrime agli occhi ed il cuore che batteva all’impazzata. Dovevo proprio incontrarlo io quel pazzo?
-Metti in moto, ti dirò io dove andare-
Presi le chiavi dalla borsetta e dovetti fare un bello sforzo per non farle cadere. La mia mente era in fermento, indecisa su cosa fare per salvarsi la vita. Alla fine infilai le chiavi nel quadro d’accensione e le girai. La macchina rombò per poi spegnersi. Solo al terzo tentativo si accese. Ero decisamente troppo nervosa. Seguii le indicazioni del mio rapitore. Un paio di volte pensai di tamponare la macchina che avevo davanti, così da trovare un modo per scappare, ma sapevo bene che non avrebbe avuto altro risultato che quello di peggiore la situazione e magari di farmi sparare. Alla fine non feci assolutamente nulla e mi limitai a continuare a guidare.
-Gira a destra e fermati- disse alla fine il mio rapitore.
Ubbidii, improvvisamente consapevole di essere vicina alla mia fine. E poi lui ricominciò a parlare.
-Senti, non voglio spaventarti, forse sono stato un po’ esagerato, ma non c’era altro modo per salvarci entrambi-
Salvarci? Era proprio pazzo!
-Salvarci dalla fine del mondo- disse lui, come se mi leggesse nel pensiero –a mezzanotte, con l’arrivo del nuovo anno il mondo finirà-
Davvero pazzo! –Come lo sai?-
- Un’antica profezia-
Deglutii, forse quella era la mia possibilità di salvarmi. –E cosa dice questa profezia?-
-Questa notte un meteorite cadrà sulla Terra e la distruggerà, solo chi si troverà nascosto sottoterra avrà una possibilità di sopravvivere-
Beh, almeno non c’erano gli zombie in tutta questa storia. Gli zombie proprio non mi piacevano. –Ora che ti ho portato qua, posso andare? Vorrei passare il giorno dell’apocalisse in famiglia-
-Oh no, tu verrai con me, non posso certo lasciarti sola in pasto alla fine del mondo-
-Mi aspettano, io … -
-Silenzio- urlò il folle –scendi dalla macchina, tu verrai con me-
Ubbidii, chiedendomi come me la sarei cavata. Non era la prima brutta situazione in cui mi trovavo, mi era capitato altre volte di essere in pessime circostanze, ma mai così. Un errore e avrei fatto davvero una brutta fine. Seguii quindi le istruzioni dell’uomo senza dire nulla e così mi ritrovai in una cantina finemente arredata, un riparo sotterraneo con tanto di divani e tavolini, sembrava quasi un normale salottino. Un posto grazioso se non fosse stato per la situazione.
-Siediti-
Mi accomodai su una delle poltroncine e finalmente potei vedere il mio aguzzino. Era più giovane di quello che avevo pensato inizialmente, circa vent’anni, con capelli biondo scuro arruffati che gli arrivavano alle spalle, occhi azzurri arrossati, barba incolta e con i vestiti strappati. In pratica sembrava uno scappato di casa. No, quella storia non poteva essere vera, c’era qualcosa d’incredibile. Non era forse uno scherzo di Miriam? Lei aveva un odioso senso dell’umorismo e quello poteva ben essere il suo nuovo fidanzato visto i tipi strani che si portava a casa. Oppure poteva essere il mio ex che aveva deciso di vendicarsi perché avevo raccontato a tutti di quel suo problemino. Sì, ben presto sarebbero saltati tutti fuori urlando. Aspettai, ma non successe nulla. Il mio carceriere si accomodò di fronte a me, la pistola sempre stretta in pugno. Rimanemmo così per un tempo che mi parve un’eternità, poi lui parlò.
-Come ti chiami?-
- Margaret – e il nome mi uscì in un sussurro appena udibile.
-Bel nome-
-Grazie-
-Io sono Benjamin, per gli amici solo Ben -
-Bel nome- balbettai.
-Il nome di un mio zio, un giorno impazzì-
-Mi spiace- mio Dio, una famiglia di pazzi! Non ne bastava uno, era proprio genetico.
-Il mondo non era disposto a capire, anche lui aveva il dono della preveggenza, proprio come me- scosse la testa, come se fosse stato un povero incompreso –schizofrenia, ecco cosa diagnosticano i dottori a noi che deteniamo questo dono-
-Mi spiace- ripetei, incapace di dire altro.
-Non è colpa tua- mi sorrise ed improvvisamente ebbi un’idea, folle, ma pur sempre un’idea. Nella mia vita ero sempre stata brava in una cosa: ottenere ciò che volevo dagli uomini. Ed ora potevo usare questa mia caratteristica a mio vantaggio. Mi sforzai di sorridere. Potevo farcela.
-Quindi aspettiamo la fine del mondo?-
-Esatto-
-E cosa avverrebbe dopo il meteorite?- mi spinsi un po’ in avanti con il busto per permettere al mio rapitore di osservare il mio decolté.
-Un grande terremoto che distruggerà tutto ed aprirà la terra in due parti-
Inquietante. Mi sforzai di sembrare tranquilla. –E noi? Cosa succederà?-
-Nulla, secondo i miei calcoli qui siamo al sicuro, l’ho visto nella visione-
Di male in peggio. –Io ho paura- dissi, sbattendo gli occhi.
-Non devi aver paura, qua sei al sicuro-
-Lo so, ma ho davvero paura- mi cinsi con le braccia la vita e tremai. Dovevo mettere in atto ciò che avevo imparato al corso di teatro, dovevo dimostrami piccola e bisognosa d’aiuto. Peccato che nelle prove di teatro fosse molto più semplice.
-Ci salveremo, questo posto è sicuro-
Le lacrime mi uscirono senza problemi, bastò pensare alla folle situazione in cui mi trovavo.
-Non piangere- mi si avvicinò.
-Ti prego, posa la pistola- mormorai, singhiozzando.
E questa volta fu lui ad obbedire a me. La posò.
Quello che accadde dopo non si può raccontare, in fondo rimango pur sempre una signora e sono convinta del fatto che non bisogna mai vendersi, nemmeno in caso di estrema necessità … ma a volte la necessità è tale che, ahimè, devo andare contro le mie stesse convinzioni. Mi ritrovai così sdraiata per terra, su una coperta, abbracciata al mio rapitore. Niente sindrome di Stoccolma, sia chiaro, solo un disperato bisogno di sopravvivere. Aspettai che si fosse addormentato. Per tutto il tempo non avevo perso di vista la pistola. Chissà che ore erano, chissà se alla festa si stavano chiedendo perché non ero andata. Probabilmente no, dopotutto non stavo molto simpatica a nessuno degli invitati. Attesi fino a quando il mio aguzzino non si fu addormentato, allora, lentamente, uscii dal suo abbraccio. Scalza lo scavalcai ed afferrai l’arma. Non ne avevo mai tenuta una in mano e mi parve tremendamente pesante. Strinsi i denti, non potevo lasciarla cadere. Inspirai a fondo e, fattami forza, puntai la pistola e sparai. Il proiettile colpì il mio aguzzino alla nuca ed il sangue zampillò ovunque. Girai la testa e vomitai.

La cosa buffa ed allo stesso tempo assurda di tutta questa storia è che ora sono seduta su una sedia a scrivere questo resoconto e so che nessuno mai potrà leggerlo. Perché? Perché la porta è chiusa con un codice ed io non lo conosco. Ecco qua la mia personale apocalisse, non poter mai più uscire da qua dentro. Buon anno!

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Capitolo 7
*** Qualcuno mi osseva ***


È stato lui! È lui il colpevole ed ora vuole che sia io che paghi, vuole che vada in prigione per lui! Sarebbe una pura follia non credermi, non lo avete visto come guarda? Con quegli occhi che sembrano bottoni ma che in realtà sono pieni di vita. Lui scruta e fissa. Nessuno ha capito quanto è pericoloso, forse nessuno vuole veramente capire. Hanno accusato me di essere folle, di aver ucciso così tante persone. Non è vero, è stato lui e sono disposto a raccontare tutto.

Tutto è cominciato all’inizio dello scorso dicembre. Aveva appena nevicato e la neve ricopriva ogni cosa come un soffice mantello. Era davvero uno spettacolo suggestivo. Io mi ritrovavo alla finestra con il mio blocco da disegno, intento a riprodurre il giardino di casa mia, uno dei pochi compiti che riusciva a rilassarmi. Ero così preso dai miei pensieri che per poco non notai che dei bambini stavano facendo un insulso pupazzo di neve proprio al limitare del mio giardino. Strinsi i denti. Non sopportavo quelle sciocchezze, stupide perdite di tempo, inoltre disturbavano il mio lavoro. Mi allontanai dalla finestra.

Quella sera mia moglie tornò a casa. Era una gran bellezza, con lunghi capelli corvini e sempre un dolce sorriso che le piegava le labbra.
-Hai visto che bel pupazzo di neve hanno fatto i bambini?- mi disse.
- Quell’orrenda creatura?-
-Non dire così, è carino, gli hanno anche messo un cappello ed una sciarpa, credo che diventerà la mia prossima foto di profilo-
A nulla servirono le mie proteste, quello diventò veramente la sua foto di profilo.

Ogni giorno dovetti passare davanti a quel pupazzo di neve, ogni giorno dovetti lasciare che i suoi occhietti, piccoli bottoni neri, mi fissassero e mi giudicassero. Era tutto folle. Dovevo solo aspettare che si sciogliesse e tutta quella stupida storia sarebbe finita. Sfortunatamente non si sciolse, anzi più si avvicinava Natale più il pupazzo di neve mi sembrava diventare più grande e non era solo questo, c’era qualcosa in lui che mi faceva letteralmente rabbrividire. Era come se mi spiasse, come se con quei suoi piccoli bottoni guardasse dentro la finestra per vedere ciò che stava accadendo in casa. Presi presto l’abitudine di tirare sempre le tende.
-Non sei esagerato, mio caro?- mi chiedeva sempre mia moglie.
-Esagerato io? Bisognerebbe buttarlo giù quel coso-
-Stai tranquillo, a breve le temperature saliranno e quel pupazzo di neve si scioglierà, la sua è una breve vita-
Ci avrebbe messo comunque troppo tempo. –Questa notte uscirò e lo distruggerò-
-No!- esclamò lei –Aspetterai che si sciolga, non voglio certo che i vicini ridano di noi-
A nulla servirono le mie proteste, mia moglie non era certo una donna a cui si poteva far cambiare idea, così mi ritrovai a cercare in tutti i modi di evitare il pupazzo, peccato che la cosa non fosse poi così semplice, visto che si trovava praticamente sul vialetto di casa.

E poi cominciarono le scomparse. Alcune persone iniziarono a sparire, senza nulla che le legasse le une alle altre. Uomini e donne, dalle età più diverse, spariti nel nulla, da un momento all’altro, senza lasciare dietro di sé nessuna traccia.
-Ho paura- mi confessò mia moglie una sera.
-Di cosa?-
-Di sparire nel nulla-
-Ma che sciocchezze!- le risposi io ridendo, ma lei era seria, così seria non l’avevo mai vista.
-Ho paura di sparire- disse di nuovo lei, guardandomi negli occhi quasi mi volesse sfidare.
-Non succederà- le promisi.

Fu in quei giorni che notai che il pupazzo si avvicinava sempre di più alla nostra finestra, ogni giorno un centimetro di più. Un’illusione ottica? Forse, ma io ero certo che ci fosse dell’altro, anzi, ero sicuro che fosse coinvolto nella sparizione di tutte quelle persone.
-Follia- disse mia moglie –è un pupazzo di neve, non può essere coinvolto proprio in nulla-
-Razionalmente è così-
-Allora cosa ti turba?-
-Io lo so, ecco la verità, so che c’è qualcosa che non va-
-Non c’è proprio nulla che non vada-
Non sapeva quanto si sbagliava, ma l’avrebbe scoperto molto presto.

Mia moglie scomparve la vigilia di Natale, in una giornata plumbea e triste. Quando tornai a casa e non la trovai compresi che non l’avrei mai più vista. Il pupazzo di neve pareva ridere del mio dolore. Fu un Natale molto triste e sentii molto la sua mancanza, la immaginavo in qualche luogo buio e freddo, in lacrime, sanguinante. Probabilmente mi chiamava, pregava che io corressi a salvarla ed io non potevo aiutarla. Questo senso d’impotenza mi faceva impazzire. La notte andavo in giro come un folle, ricordo ben poco di quel periodo, tanta era l’ansia. E poi successe qualcosa che proprio non riesco a spiegarmi. Una sera presi la decisione di distruggere quel pupazzo di neve, causa di tutti i miei mali. Afferrai un enorme coltello dalla cucina, scelta folle, certo, ma un po’ folle all’epoca lo ero, mi aveva fatto diventare così il dolore per la scomparsa dell’unico amore della mia vita. Colpii più volte il pupazzo, lo feci letteralmente a pezzi, quindi rientrai in casa, lasciai cadere a terra il coltello e mi buttai sul divano dove mi addormentai.

Fui svegliato dai poliziotti. La casa era piena di gente, qualcuno stava urlando. Io avevo una pistola alla testa.
-Lei è in arresto- mi disse un poliziotto ammanettandomi.
Protestai e poi vidi il coltello insanguinato a terra. Da dove venisse quel sangue proprio non lo sapevo. Fui condotto fuori e vidi il mio vicino di casa a terra, in una pozza di sangue, proprio laddove un tempo c’era stato il pupazzo di neve. Chiesi cosa gli fosse successo, io e lui andavamo molto d’accordo, ma nessuno mi rispose.

Ho saputo tutta la storia solo in prigione. Mi accusano dell’omicidio del mio vicino e della sparizione di mia moglie e di altre sette persone. Dicono che sono un assassino a sangue freddo. Io so che non è vero, ma nessuno mi crede, neppure il mio avvocato che mi ha consigliato di ammettere le mie colpe e patteggiare. Io so che è tutta colpa di quel pupazzo di neve, so che è stato lui a fare tutto ciò e che mi ha voluto far incolpare, un giorno lo dimostrerò e allora potrò finalmente uscire di qua e completare la mia vendetta, fino ad allora però dovrò restare qua a scontare una pena che non merito.

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Capitolo 8
*** La befana ***


Scesi sul tetto della casa. Era cambiata dall’ultima volta in cui ero passata di lì, così cambiata che se non fossi stata certa di dove si trovasse avrei creduto che non esistesse neppure più. M’inginocchiai a terra e cercai la vecchia botola, quella che un tempo mi permetteva d’intrufolarmi là dentro. Alla fine la trovai, impolverata, certo, ma esisteva ancora. L’afferrai con entrambe le mani e la tirai su. Si aprì con un sinistro cigolio ed io vi entrai. Era buio là dentro, ma io conoscevo ogni anfratto. C’era stato un tempo, prima del mio apprendistato di stregoneria, in cui ero stata felice in quella casa, mi ero sentita davvero amata. Poi tutto era cambiato. Mark, ecco come si chiamava lui, era stato il mio primo amore.

Ci eravamo conosciuti durante una giornata nevosa. Io percorrevo la strada, attenta a non affondare nella neve che ricopriva la via e lui era come spuntato dal nulla e mi era venuto a sbattere contro. Avevo alzato la testa, furiosa, pronta a sgridarlo perché era distratto e aveva rischiato di farmi cadere, ma lui mi aveva preceduta.
-Scusa, non volevo- e mi aveva sorriso.
Tutto era nato in quel modo. Mark mi era piaciuto subito, divertente, spigliato, di bell’aspetto. Era stato veramente amore a prima vista, credo anche per lui. All’epoca pensavo che non esistesse sensazione più bella in tutta una vita. Ovviamente mi sbagliavo, ma la gioventù capisce poco.

Che ci fosse qualcosa che proprio non andava in Mark me ne accorsi solo dopo qualche tempo. Era un bel pomeriggio di primavera e stavamo camminando lungo la riva del mare quando vedemmo una giovane sdraiata sulla sabbia. Mark sbiancò e mi spinse via.
-Dove andiamo?- gli chiesi.
Lui ignorò la mia domanda.
-La conosci?-
Non rispose nuovamente e questo mi fece arrabbiare. Poi la donna cominciò a chiamarlo.
-Chi è?- chiesi.
Lui non rispose.
-Chi è?- ripetei, la voce della donna che c’inseguiva.
-Una vecchia fiamma- fu la breve risposta.
Deglutii, ingenua com’ero non avevo mai pensato che potesse aver avuto un’altra prima di me. –Quanto vecchia?-
-Abbastanza-
Non volle dirmi altro. Fuggimmo come due ladri da quella pazza che urlava il suo nome ed inveiva contro di me.

Molte donne a questo punto avrebbero deciso di chiudere la relazione, ma ahimè nessuna di queste è una donna veramente innamorata, altrimenti comprenderebbe che ciò è impossibile. Tanto che quando Mark mi chiese la mano io accettai senza riserve. Ci sposammo in un bel pomeriggio d’estate, quando tutto era così bello che mi pareva impossibile che qualcosa potesse andare male. Ovviamente mi sbagliavo. Il primo anno trascorse relativamente in pace, unica nota di tristezza fu il fatto che non nacquero bambini. Mark fu un marito premuroso ed affettuoso, anche se ogni tanto sembrava strano. C’era qualcosa che non andava. A volte lo trovavo a fissare fuori dalla finestra pensieroso. Altre ancora nascondeva rapidamente dietro alla schiena le lettere che gli erano arrivate. Una volta lo vidi discutere con una donna, nascosto in una piccola via del paese. Qualcosa non andava, certo, ma io non volevo né vedere né sapere. E poi iniziarono gli incidenti, una serie davvero curiosa d’incidenti, soprattutto perché ero sempre io la vittima. Una caduta dalle scale dalla quale fortunatamente uscii quasi indenne, un tentativo d’avvelenamento dal quale mi salvai non bevendo fino a fondo ed infine una carrozza per poco non m’investì mentre facevo una passeggiata per il villaggio. Mark si limitava a dirmi che ero folle ad agitarmi, che non stava succedendo nulla di strano. Anche mia sorella mi aveva detto che non avevo nulla da temere, gli incidenti capitano a tutti. Io però avevo paura ed immaginavo che ben presto sarebbe successo qualcosa di veramente spaventoso. Non sbagliavo. Successe tutto durante una gita con Mark. Stavamo percorrendo un sentiero di montagna. Ricordo bene la brezza che mi sfiorava i capelli, la gioia di poter passare una giornata insieme all’uomo che amavo, prima che mi accorgessi che quello che pensavo fosse un sogno si sarebbe tramutato in un incubo. Sì, perché Mark mi spinse giù da una rupe.
-Mi dispiace, ma amo un’altra, non posso più aspettare-
E mentre volavo giù mi chiedevo chi fosse l’altra e soprattutto se era la ragazza che quella volta sulla spiaggia lo chiamava a gran voce.

La storia si sarebbe potuta concludere in quel triste modo: una moglie morta, un marito addolorato che dopo poco si risposa con un’altra, ma non successe questo. Già, perché io non discendevo da una famiglia normale. Mia madre, prima di sposare mio padre, era infatti una conosciuta strega. Aveva sempre evitato di parlare con me del suo passato, ma io ne avevo carpito dei riferimenti da alcune vecchie del villaggio che facevano gli scongiuri quando la vedevano passare, loro temevano mia madre. Un giorno io e mia sorella avevamo chiesto informazioni e avevamo scoperto che la stregoneria non solo si studia, ma soprattutto la si trasmette con il sangue. Così mi ero sempre detta che un giorno avrei potuto diventare una strega, proprio come mia madre. In quel preciso momento, mentre cadevo, decisi che avrei chiamato a raccolta tutti i miei poteri. E così, chissà come, mi salvai. Riuscii a frenare in parte la caduta e caddi delicatamente al suolo, con solo qualche livido come conseguenza. Sbattei le palpebre, intontita, poi scoppiai in lacrime. Mi sentivo tremendamente ferita, mio marito mi aveva tradita e aveva tentato di uccidermi, in più non avevo un posto dove andare. Tornare a casa era impossibile. Mi misi così a girovagare, seguendo il mio istinto. Ben presto avrei scoperto che non c’è nulla di più potente dell’istinto di una strega. Non so come giunsi ad una piccola capanna, laddove trovai un’anziana signora che se ne stava fuori, nonostante il freddo, seduta su una sedia a dondolo. Non appena le arrivai vicino alzò la testa.
-Ti stavo aspettando- disse.
-Chi sei?- ed osservai le sue rughe, sembrava quasi decrepita.
-Non importa chi sono io, importa chi sei tu, conoscevo tua madre e tu sei identica a lei-
-Conoscevi mia madre?- chiesi, non riuscendo a capire, questo vuol dire che era … una strega?
-Sono stata la sua mentore, l’ho presa sotto la mia protezione quasi fosse una figlia, l’ho allevata all’antica arte della magia, fino a quando lei non ha preferito un mortale qualsiasi a tutto il potere che poteva avere-
-Non è stata una buona idea- mi ritrovai a dire.
-Già, e tu, senza saperlo, hai fatto lo stesso errore-
-Ora sono pronta ad espiarlo-
E lei sorrise, un sorriso felino. –Io sono pronta ad insegnarti molte cose, ad una sola condizione- ed ascoltai quella condizione. Nonostante l’orrore accettai.

Ed infine, dopo un lungo addestramento, ero nella nostra vecchia casa per portare a compimento la mia vendetta. Avevo pensato mille volte a ciò che avrei dovuto fare e avevo scelto il giorno in cui tutto sarebbe accaduto proprio per il suo significato: il giorno dell’epifania, il giorno in cui ci eravamo conosciuti, quando pensavo che ci saremmo amati per sempre. Immaginavo che lui si trovasse in salotto, con chi non lo sapevo, ma potevo immaginare che fosse la donna che me lo aveva portato via. Scesi le scale, un gradino per volta, cercando di non fare rumore. Una luce filtrava dal salotto ed avvicinandomi poter vedere due figure sedute accanto ad un albero di Natale. Riconobbi subito Mark, era lui, anche se pareva invecchiato di molti anni. Accanto a lui c’era una donna sui cui capelli corvini s’intravedevano i primi fili d’argento. Era quella dunque la mia rivale? Storsi il naso, mi sembrava oltremodo insignificante, nulla in confronto a me. Ben presto Mark l’avrebbe pagata molto cara. Con un gesto aprii la porta che sbatté contro il muro annunciando la mia entrata. Subito entrambi si voltarono e quale fu il mio orrore quando riconobbi i lineamenti della mia nemica: mia sorella!
-Tu!- esclamai, non riuscendo ad aggiungere altro.
Lei mi fissò con gli occhi sgranati. – Katherine, dovevi essere morta-
-La sarei stata se non fosse stato per nostra madre- sospirai scuotendo la testa –come avete potuto tradirmi proprio voi due?-
E fu mia sorella, la mia amatissima sorella, a rispondermi. –Ci amavamo, cos’avremmo dovuto fare?-
-Non lo so, ma non capisco perché avete voluto farmi fare questa fine-
-Non c’era altra scelta-
Non attesi altro, era inutile aspettare, con un gesto fulminai prima mia sorella e poi Mark. Avevo progettato lunghe vendette, torture, ma ora mi mancava la voglia, mi sentivo stanca e sconfitta. Mi lasciai così cadere sul divano e scoppiai in lacrime, non riuscendo a sopportare tutto quel dolore.
-Perché piangi?- mi chiese una vocina.
Alzai la testa e vidi una bambina di cinque o sei anni che mi veniva incontro. Assomigliava incredibilmente a mia madre. Lasciai che mi venisse incontro.
-Sei la befana, vero?-
Mi ritrovai a fissarla un attimo quasi senza capire, poi annuii. –Sì, sono la befana e tu verrai via con me- decisi.
Mi aspettavo che la bimba si sarebbe messa a piangere, invece sorrise. –Mi porterai in un mondo pieno di dolci-
Annuii. –Esatto-
La piccola rise e allungò le braccia perché la sollevassi.

Ed ora sono qua a guardare mia nipote che dorme placidamente. Non ho mai visto una creatura più pacifica e mi sembra impossibile che sia il frutto di un amore così sbagliato e crudele. Le ho detto che i suoi genitori l’hanno affidata a me perché diventi una vera strega. Se mi crede o meno non ha importanza. Non penso che le racconterò mai la verità, un giorno le dirò semplicemente che i suoi genitori sono morti in un incidente, non è necessario che sappia ciò che è realmente successo. Una cosa di buono in fondo Mark e mia sorella lo hanno fatto: mi hanno lasciato una figlia.

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