Rebellion war

di Tiferet
(/viewuser.php?uid=73448)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** capitolo primo ***
Capitolo 3: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 4: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 5: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 6: *** Capitolo quinto ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


- Prologo-

Antefatti della Ribellione

 

 

All’origine del Mondo e dell’Universo l'Onnipotente era un’unica forza che governava e sedeva su un trono nel bel mezzo del Nulla.

Aveva tutti i poteri del Bene insiti in lui, e riusciva a guardare al Passato e al Futuro. Ahimè, era il Presente che lo preoccupava. Si sentiva così triste che, un giorno, decise di creare Qualcosa.

Si tolse una piccola particella di luce e la gettò nell’immensità del vuoto, dove si replicò migliaia e migliaia di volte. Le particelle di luce si fusero insieme e crearono una grande esplosione, dalla quale si divisero due universi: l’Universo Materiale e l’Universo Spirituale.

Con grande zelo, l’Altissimo creò il Paradiso e gli Angeli, entità di puro spirito a sua immagine e somiglianza. Donò loro tutte le Virtù, che si divisero.

Donò loro la capacità di poter comunicare tra loro con voci melodiose, la luce intensa che brillava per ognuno, e dodici ali ad ognuno di loro.

Erano una corona immensa che volteggiava attorno a lui.

- Miei figli spirituali, vi Amo. Vi ho creati affinché possiate divertirvi e gioire per ogni cosa. Vi ho dato entità di puro cuore, e con quel cuore risplenderete sempre di più. Amatevi tra di voi, e io sarò felice di guardarvi-, disse loro.

Gli angeli erano felici, ma un giornochiesero al Padre di tutti nuovi fratelli.

- Oh, mio Eterno Signore-, disse il più bello, invocandolo. Aveva capelli neri che gli arrivavano alle natiche e un corpo scolpito. Era l’angelo più desiderato dagli angeli dell’amore carnale e spirituale. Pregava con gli altri il Padre, a testa china. – Ti chiediamo di rendere bello anche l’Universo Materiale. Creaci dei nuovi fratelli, e noi mostreremo ai Materiali la via del Bene-.

Dio guardò quell’angelo splendente. Era così bello, lo ammetteva persino lui, che gli rispose con la voce del cuore.

- Tu sarai Lucifer, e per te farò un uomo e una donna che abiteranno quel luogo che ho impiegato sette giorni e sette notti per rendere così bello, e che voi Angeli, figli prediletti, avete colorato con tanta diligenza-.

Detto ciò, l’Onnipotente creò dal fango e dalla terra un uomo, che somigliava a lui molto più degli Angeli. Non aveva ali, poiché l’avrebbe sfigurato. Era così bello che se ne innamorò. E da lui creò una donna, con lunghi capelli neri e un paio di occhi dal color dei lapislazzuli, tirandola dal costato dell’uomo.

- Tu sarai Adamo-, disse all’uomo, - e tu sarai Eva. Voi vivrete qui, sul Paradiso Terrestre, a metà tra Cielo e Terra. Potete fare tutto quello che volete, ma non dovete mangiare dal melo che c’è qui-.

Se ne andò, e si ritirò.

Ogni giorno che passava, guardava interessato quegli uomini che si affannavano a cercare di sopravvivere, evitando scrupolosamente il melo.

Non si accorse, però, del malcontento che aveva generato nel suo vecchio figlio prediletto, Lucifer.

L’Angelo si aggirava pensieroso per tutto il Paradiso, quando incontrò Lilith, un bell’angelo dalle fattezze pronunciate e un paio di labbra carnose e rosee.

- Lucifer-, lo chiamò lei. – Cosa succede?-

- Il Signore nostro Padre dedica tutto il tempo ai nostri fratelli materiali, che sono sicuro lo tradiranno non appena manderà gli Angeli a far loro compagnia-.

Lilith gli sorrise, concordando.

- Sarebbe bello se Adamo tradisse l’Onnipotente, non scegliendo Eva, ma peccando di lussuria- continuò il bell’angelo, che iniziava a perdere piano la lucentezza, mentre permetteva alle Tenebre di entrare nel suo cuore.

E così, Lilith, in accordo con Lucifer, scese sul Paradiso Terrestre e tentò Adamo, giacendo con lui.

Questo episodio fece adirare Dio, che chiamò a rapporto Lilith e Lucifer davanti a tutti gli altri angeli.

Li cacciò dal Paradiso, condannandoli a vivere per sempre insieme ad Adamo ed Eva.

- No!- rispose Lucifer, alzandosi e guardando il Signore in volto, rimanendo estasiato.

- Lucifer! Osi disobbedirmi?- tuonò adirato l’Altissimo.

- Oh, Signore. Sì, io oso. Perché passate il tempo a dare la Vostra attenzione a due esseri che non valgono niente e che possono tradirvi? Perché non dedicate la Vostra attenzione a noi umili servitori e fedeli figli da quando ci avete creato? Lilith non ha fatto altro che dimostrarvi la fragilità della volontà dei Materiali-, disse superbamente.

- Lucifer, con questo atteggiamento ti stai dimostrando un Angelo invidioso, e in questo posto l’invidia non è contemplabile-, gli rammentò. – Senza ricordarti che non avevi alcun diritto di guardare il Mio Volto-.

- Signore!- continuò Lucifer alzando la voce, - io sono potente quasi quanto voi, me lo dovevate!-

Adirato sopra ogni dire, e deluso dal suo bellissimo figlio, si intristì nel vederlo trasformarsi in un essere che di bello e divino non aveva più niente. Vide la sua anima oscurarsi e cadere giù sulla terra.

Mandò gli altri angeli sulla terra per insegnare agli uomini i piaceri del lavoro e dell’amore.

Lilith, invidiosa che Adamo avesse preferito Eva a sé, scese sulla Terra e andò a trovare Lucifer.

- Dobbiamo tentare gli uomini, affinché quel posto in cui stanno sarà a loro precluso-.

Guardarono in alto e videro una terra, a metà tra Terra e Cielo, dove vivevano beati i Materiali e dove gli Angeli insegnavano loro come vivere in armonia.

Lilith, così, mutò la sua forma in un giovane bello e aitante, che diede ad Eva una mela, donandogliela come il frutto per la più bella. Eva, che non conosceva malizia, andò da Adamo e gliene offrì un pezzo.

Quando Dio se ne accorse, notò che era la mela colta dall’albero proibito.

Si adirò così tanto che comandò a Camael, uno splendido angelo dai capelli biondi come il grano e possente come una montagna, di cacciare i suoi figli prediletti dal Paradiso, dando a Eva la possibilità di fare figli, ma partorendoli con dolore, e ad Adamo il dovere di vegliare su Eva e sui suoi figli e di lavorare con fatica.

Si ritirò triste, mentre gli angeli, che scendevano per aiutare i figli di Adamo ed Eva, e tutta la loro progenie, cadevano in tentazione.

Quando si accorse che gli Angeli cadevano, Dio li divise in categorie.

Ai Serafini diede il compito di salvaguardare il suo trono, donando loro sei ali in tutto. I Cherubini avevano quattro ali ed erano posti accanto al suo trono. I Troni portavano, quando lo desiderava, il Suo trono nel Cielo; erano dei mutaforma: ruote per trasportare il trono, angeli per il resto del tempo.

Nel cerchio sottostante vi erano le Dominazioni, che riferiscono gli ordini ricevuti dai Serafini, dai Cherubini o da Dio stesso, agli angeli di Coro inferiore. Insieme a loro c’erano le Potestà, custodi della Storia, le Virtù, che osservano gli uomini.

Nell’ultima gerarchia vi erano i Principati, angeli guardiani delle nazioni e delle contee, e tutto quello che concerne i loro problemi e eventi, inclusa la politica, i problemi militari, il commercio e lo scambio. Uno dei loro compiti era quello di scegliere chi tra l'umanità potesse dominare. I Principati erano accompagnati dagli Angeli, ovvero l’ordine più basso tra la gerarchia celeste, che erano inviati agli uomini come messaggeri della Divina Volontà.

Infine c’erano gli Arcangeli, che erano pochi eletti dai vari Ordini, che si erano distinti per diligenza, caparbietà, e fede in Dio, e donò loro tre paia di ali splendenti dai colori sgargianti.

Tutti gli Angeli si impegnarono da allora, in una lotta contro i demoni, angeli caduti che avevano perso la fede in Dio, cedendo al peccato.

E mentre l’umanità è tuttora divisa tra Bene e Male, continuamente tentata e riportata sulla retta via, all’interno del Cielo Dio si era ritirato da tempo, rimuginando pensieroso sugli sbagli che aveva compiuto.

Le legioni degli Angeli, capeggiati da Michael, andavano e tornavano dalla Terra, dove si combattevano le battaglie, al Cielo. Talvolta vincevano, talvolta si ritiravano strategicamente, e quando succedeva Michael era davvero inavvicinabile.

Riusciva ad avvicinarlo un unico angelo.

 

 

*Angolo della scrittrice*

Ed eccomi qui, con una storia non proprio idilliaca, che narra di un amore che già da come nasce non fa presagire nulla di buono. Spero che vi piaccia. Aspetterò vostri commenti, siano essi buoni o meno. Presto troverete anche il primo capitolo.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** capitolo primo ***


Capitolo primo

 

 

Tafriel passeggiava al fianco di Haniel, uno splendido angelo androgino dai capelli biondi e così lunghi che parevano confondersi con il campo di grano dove si trovavano.

Entrambi vestiti con lunghe toniche dalle stoffe cangianti e leggere, i due angeli parlottavano tra di loro.

Tafriel era convinta che chi non conoscesse la vita nel Paradiso non avrebbe mai potuto immaginare che era un po’ come la vita sulla Terra. A dirla tutta, era la vita sulla Terra che somigliava alla vita in Cielo, e questo grazie a quegli angeli che avevano il compito di guidare nelle azioni i mortali. Quanto ai mortali, era difficile che conoscessero la vera identità delle persone con cui parlavano o che frequentavano.

Ed era proprio sulle persone che si frequentano che Haniel e Raziel ci mettevano lo zampino.

Haniel, l’arcangelo delle passioni terrene e del coronamento sessuale della ricerca del completamento di due persone, era un angelo solare, che quando guardava tutti con quegli occhi azzurri pareva che quasi riuscisse a capire le voglie sessuali di una persona. A dirla tutta, le conosceva tutte, nei minimi particolari. Quanto a Raziel, era tutt’altro. Era l’arcangelo dell’amore incondizionato, e a volte era in conflitto con l’Androgino.

Era molto complicato il loro rapporto, perché si amavano, ma allo stesso tempo si detestavano benevolmente, e quando scappavano liti divine su chi fosse il più splendente, Tafriel scappava sempre. Era convinta che più parlassero a quel modo, più Belfagor assumesse potere.

Sorrise benevolmente a Haniel e si strinse le spalle.

- Non saprei dirti. Azrael è sempre così impegnato con quelle carte burocratiche che scrive per il Signore Innominabile, che non ha mai tanto tempo per me- ammise afflitta.

Se gli angeli avessero un cuore ben definito dentro di loro come gli umani, probabilmente in quel momento avrebbe sentito una fitta al petto.

Haniel annuì piano.

- E con…?-

Tafriel lo guardò scandalizzata.

- Oh ti prego, Haniel! Non dire niente! Hai promesso- esclamò l’arcangelo, cancelliere del cimitero delle entità spirituali probe e improbe.

L’altro sorrise e le fece l’occhiolino.

- Ogni promessa è debito, cara la mia Tafriel. E poi ti dovevo un favore- ridacchiò lui.

Sembrò che la bellezza di Tafriel splendesse ancora di più quando ricordò quei grandi occhi castani in cui ardeva una forza indicibile, e i capelli corti e ribelli il cui colore si avvicinava molto al rosso fuoco, che parevano incendiarsi ogni volta che tirava fuori la sua spada che ardeva di Fede in Dio.

Cercò di non pensarci, ma i suoi pensieri erano così forti che non ci riuscì del tutto.

- Di certo Azrael non è un grande amante, ma per lui tu eri il meglio a cui potesse aspirare. Quanto a te…- la squadrò.

Tafriel sentì quello sguardo desideroso, che l’angelo aveva sempre, sul suo corpo perfetto, coperto solo dal leggero velo della tunica color delle nuvole.

Si strinse una mano al petto, per cercare di coprire pudicamente le sue forme armoniche.

- Abbiamo fatto un gran lavoro su di te, Tafriel-, continuò Haniel.

L’angelo si portò i capelli bruni dietro le orecchie, mentre un leggero rossore le tingeva le gote pallide.

- Non vorrai rinfacciarmi ancora quanto abbiate lavorato tanto e bene per farmi tornare in vita, vero?- lo stuzzicò la donna angelo.

Haniel si portò una mano alle labbra sottili e rosa pallido.

- Potrei farlo. Ho sbagliato solo a renderti così pudica con le persone che non sono tuoi amanti-, si lamentò sorridendo.

Tafriel rise e corse via, a braccia aperte, accogliendo in un abbraccio muto ed espressivo l’aria che soffiava sempre di più. Quello significava solo una cosa.

Finalmente era tornato.

Si voltò verso Haniel e gli sorrise.

- Permetti?- chiese, educatamente.

L’Androgino rise sonoramente e le fece segno di andare.

- Farei un torto a me stesso se non ti lasciassi andare, cara-, le urlò dietro.

Tafriel era troppo impegnata a percepire la presenza del suo amato, che neanche lo stette a sentire, né tento di ascoltare le parole che le avesse rivolto. Era anche l’angelo dell’amor carnale, ma proprio di sentimenti non sapeva nulla. Non poteva immaginare come stesse bene quando era con Lui. La sua aura si illuminava, e pareva che nel Paradiso ci fossero solo loro due.

Ricordava come all’inizio era stato tutto così confuso. E invece eccola lì, che si avvicinava sempre più al luogo in cui era atterrato l’esercito di Dio, sceso in Purgatorio per respingere l’attacco di alcuni demoni che erano riusciti ad oltrepassare i limiti.

Le ali di tutti quegli angeli erano un turbinio di piume luminescenti e non permettevano neanche alla sua vista più sviluppata dei mortali di distinguere le varie forme. Solo quando tutti gli angeli le ebbero ritratte, intravide un angelo che brillava più degli altri.

Era una visione che riusciva a togliere il fiato persino a lei, cancelliere duro ed inflessibile del cimitero degli angeli.

 

- Anche questa missione è riuscita-, esclamò Michael non appena ebbe ritratto le ali. Sembrava quasi annoiato dal prospetto della vita che l’avrebbe aspettato in quel posto completamente noioso, circondato solo da Serafini e Cherubini che, solo perché ruotano attorno ai piedi del Grande Signore, si credono di essere chissà chi. I Dominatori poi, li odiava completamente. Certo, quando gli ricordavano che era il momento di sterminare i demoni era contento di vederli, ma per il resto potevano anche rimanere nelle loro stanze. O, al massimo, si sarebbe accontentato di non sentire la loro puzza di azoto ovunque si girasse in quel posto.

Posò una mano sul suo fianco sinistro, e ghignò nel sentire il fodero della spada che quasi vibrava al suo tocco. Quella spada era anche la sua maledizione, perché doveva trattenersi davvero quando l’indossava a non sfoderarla per qualsiasi stupidaggine. Afferrò una sigaretta, mentre Zophiel e Zadkiel si avvicinavano a lui.

- Oh, Michael. Come devo dirtelo? Fumare quella robaccia non ti farà star bene-, gli fece notare Zadkiel.

- Di certo non mi ucciderà-, ribatté lui, mentre avvolgeva quell’angelo in una nuvola di fumo grigio trasparente, quasi come se si trovasse dietro un vetro sporco, molto sporco. – Piuttosto, avete anche stavolta adempiuto al Suo Volere. Soddisfatti?-

Li guardò divertito, mentre si scambiavano un’occhiata imbarazzata.

- Michael, abbiamo segnato tutte le nostre mosse, come sempre-, disse Zophiel, senza pensare molto all’ altezzosità che caratterizzava quel ragazzo, che di anni umani ne dimostrava poco più di una ventina.

- Chiediamo di poter sciogliere le nostre schiere-, continuò Zadkiel.

Michael fece loro segno di andare con la mano, insofferente.

Aveva sentito l’odore della sua donna, e non voleva impiegare il tempo in quelle pratiche burocratiche che odiava davvero.

- Siete efficienti, miei cari Dominatori. Ora però lasciatemi in pace, okay? Ho bisogno di ritrovare un po’ me stesso. Torno nelle mie stanze-, affermò boriosamente alzandosi e continuando a fumare tranquillamente la sigaretta stretta tra indice e medio della mano destra. Riusciva a sentire la carta che s’accartocciava a poco a poco, e questo lo faceva stare bene e tranquillo con se stesso. Tranquillo, però, sempre relativamente al momento di tornare in campo contro i demoni, che stavano diventando furbi e iniziavano ad organizzarsi.

Si allontanò, camminando tranquillamente fuori, tra gli angeli, che si guarivano l’un l’altro scambiandosi amore e tutte quelle cose là, che piace fare loro. Che esseri patetici!

Vide la sua donna, il suo angelo, fermo in mezzo a quel campo di grano. Quei capelli castani risaltavano ancora di più, lunghi e dritti sulle sue spalle, coprendo le sue forme.

Le sorrise, e vide in lontananza ricambiare il suo sorriso.

Era bellissima, e non vedeva l’ora di stringerla al suo petto. Quelle settimane parevano essere stati mesi, se non anni, lontani dalla sua bella.

Riprese a camminare come se nulla fosse.

Finì quella sigaretta, e per il nervosismo se ne accese un’altra. Perché era sposata? Non era proprio pensabile. Era così attraente che era impossibile che fosse stata una volta promessa e ora sposata all’angelo della Morte, Azrael. Lui era così spocchioso e vecchio, sempre dietro una scrivania e a fare da avvoltoio ai Mortali, mentre lei era così giovanile, allegra, passionale, bella, decisa…

Incontrò un paio di angeli di grado inferiore, e non si degnò di salutarli. Entrò nelle sue stanze sbattendo la porta. Si guardò attorno e tutto pareva come l’aveva lasciato. Il letto a due piazze con le coperte tirate (probabilmente era passato qualcuno di buona volontà – e ce n’erano davvero in Paradiso – che gli aveva fatto arieggiare la stanza) era sempre illuminato per metà dalla luce che sempre spendeva, sotto delle finestre arcuate grandi con le tende rosse che donavano alla stanza un piacevole luogo in penombra.

Era il suo rifugio, con tutte le armi in esposizioni e il Libro dei Libri, la Storia di tutti gli Angeli.

Si avvicinò al leggio, aprendo il Libro all’ultima pagina, vedendo le parole comparire con inchiostro nero sulle pagine ingiallite.

 

“E i demoni salirono in Purgatorio, trascinando con sé le anime in cerca di Perdono. Il grande Arcangelo della Fede, potente, seguito da altri Angeli pieni di Fede, scese allora dalle divine dimore e con l’ardore della sua lama incandescente insegnò la forza del Signore Dio nostro, che tutto può e tutto vede. Le loro anime disoneste e pesanti furono stroncate e rinacquero sotto nuova luce, più oscura di prima, smarrite e senza ricordi, nel grande Cimitero Celeste, sito lontano dai Cieli e dalla Terra, impossibile alla vista sull’Eden, riposo delle anime giuste che una volta erano state Mortali …”

 

Sorrise e chiuse, mentre le scritte ancora si mostravano. Probabilmente nel “grande Cimitero Celeste” la sua donna aveva il suo bel daffare.

Si stese sul letto, afferrando da sotto la tunica da combattimento il suo caro pacco di Lucky Strike red, comprato di contrabbando, fingendosi un uomo. Posò il filtro tra le sue labbra e guardò la punta, desiderando che si accendesse da solo. Prese lo zippo e inspirò, sentendo l’odore forte della sigaretta diffondersi ovunque, dandogli un senso di sollievo.

- Fai presto- sussurrò tra sé, mentre la sigaretta tra le sue labbra si muoveva su e giù.

 

 

Spalancò le sue ali del colore delle nuvole, e scese dal campo di grano.

Con l’arrivo di Michael, aveva anche molto da fare. Amava vederlo tornare, ma quando andava al cimitero ogni volta era una storia diversa.

Atterrò elegantemente, ritirando le ali, che le sentì rimpicciolirsi, e si avvicinanò ai cancelli. Stranamente pareva tutto tranquillo.

Ogni anima, che ormai non aveva più distinzione, né grado, né alcun ricordo, entrava in quei cancelli dopo essere segnati. Molti di quelli che una volta erano stati angeli e caduti entrarono tra quei cancelli, aspettando che qualcuno li facesse uscire.

La rinascita era un complesso processo, di cui si occupavano alcuni Angeli superiori, come i Cherubini. C’erano anime a cui avrebbero donato il ricordo, altre che invece avrebbero dovuto imparare tutto daccapo.

Si avvicinò a Lorhi, un angelo dal viso giovane, che era intento a scribacchiare qualcosa su un grande registro.

- Quanti ne abbiamo registrati?-

Il ragazzo alzò lo sguardo sul Cancelliere del Cimitero Celeste, con sguardo stanco, ma tranquillo e fedele.

- Dieci demoni e sette angeli- riportò tranquillo.

Gli sorrise.

- Andiamo sempre peggio, eh? L’altra volta i demoni erano di più- constatò.

Uno strano senso di sollievo si impossessò di lei. I tempi per sconfiggere Satan erano sempre più lontani, e ciò significava che poteva stare più tempo con Michael, soprattutto dopo la sua ultima richiesta fatta a Metatron, il segretario dell’Altissimo, un serafino dai modi duri e bruschi, ma molto efficiente.

- E’ meglio così, non trovi?- chiese lui, guardando verso i cancelli.

- Sì-, si limitò a rispondere allontanandosi da Lorhi e attraversando i cancelli alti e imponenti. Andò a controllare le nuove anime che erano tutte ammassate in un angolo, che cercavano di proteggersi l’un l’altro.

Erano come bambini, tornati allo stato primordiale, senza che Dio concedesse loro la Conoscenza. Fece in loro indirizzo il segno della croce.

- Che la Fede vi accompagna ovunque vogliate andare. Siete anime pure, e così resterete per un po’, dimenticando ogni cosa tranne queste mie parole-, recitò meccanicamente, come se stesse recitando una poesia senza pathos.

Si allontanò da quelle anime, osservando le altre anime guardarla come se fosse la prima volte. Stupide e sciocche anime che hanno scelto la strada di una possibile quanto mai probabile rincarnazione, dal momento che erano semplici Angeli, e semplici Demoni. O meglio, neanche Angeli o Demoni, erano solo un ammasso di azoto e amore che aleggiava senza forma e senza coscienza nell’azzurro Cielo.

Uscì dal Cimitero e salutò Lorhi che parlava con altre ragazze angelo.

- Lorhi, ho adempiuto ai miei obblighi verso queste anime ignare e pure. Ora lascio tutto alla tua fidata supervisione-.

Neanche aspettò che quello le rispondesse, che già aveva spalancato le ali.

Con una spinta, si alzò in volo, con il viso alzato contro il vento, che le gettava indietro i bei capelli scuri.

Stava arrivando dal suo amato.

- Tafriel!- la chiamò una voce potente.

Si voltò, fermando il suo volo verso il Paradiso. Quella voce cupa, forte, che pareva simile a quella del Grande Signore, apparteneva solo ad un Angelo, e sapeva chi fosse.

- Azrael, mio signore-.

Gli sorrise e si avvicinò a lui in volo.

Ad ogni battito d’ali sentiva Michael sempre più distante.

Il Dominatore allungò una mano, coperta da un guanto anch’esso nero, verso di lei, sfiorandole la guancia con le dita.

- Dov’eri? Ti abbiamo aspettato alla riunione-.

La riunione! Non ci credeva, l’aveva dimenticata. Era una riunione importantissima, per decidere dove avrebbero dovuto mettere le anime ignoranti nel caso il Cimitero Celeste si fosse riempito prima del tempo.

Si strinse nelle spalle, guardandolo colpevole.

- Scusa, mio signore, ma l’ho dimenticato-.

Non fu felice della risposta, glielo lesse in volto. Quando era adirato, o avrebbe tanto voluto rimproverarla, non alzava mai la voce, limitandosi a guardarla con rimprovero, facendola sentire così piccola che per qualche attimo desiderò di sparire.

Michael, al contrario, non avrebbe mai fatto così. Avrebbe riso e l’avrebbe abbracciata dicendo “Ti perdono, Tafriel. In fondo come non potrei farlo? Ti amo, e questo conta più di ogni riunione”… Beh, ripensandoci non le avrebbe detto proprio così, ma avrebbe detto più qualcosa che somigliasse a ciò.

- Immagino che sia davvero dispiaciuta, ma ogni tanto faresti bene a presiedere quelle assemblee. Hai un posto grazie a me, e già iniziano a dubitare sulla tua fedeltà a me, Tafriel-, disse sospirando.

- Ma come!- esclamò lei, indignata, e gonfiando il petto. – Ho sempre servito con fedeltà ad ognuno di voi, e a te specialmente, Azrael, signore del mio cuore prima che della Morte. Come possono dire ciò? Perché? Con quale espressione in volto hanno il coraggio di fare queste affermazioni? E’ uno scandalo! Io non potrei mai!- saltò su.

Voleva andare via, correre tra le braccia del suo uomo, quello vero, quello che Haniel le aveva trovato più consono.

Azrael le prese il viso tra le mani, e lei guardò in quegli splendidi e profondi occhi neri come i posti in cui la luce divina non splendeva. Aveva sempre paura quando lo guardava, ma si faceva forza. Una volta lo aveva amato davvero, e non ne aveva mai avuto paura. Ora temeva che scoprisse la falsità delle sue attenzioni, ed era ciò che più odiava. Ma un matrimonio tra Angeli era improrogabile. Non esisteva un tribunale del divorzio, come in Terra, ed era per questo che un matrimonio tra angeli non era così diffuso come sarebbe potuto sembrare.

Gli strinse le mani e gli sorrise.

- Sono calma. Ho solo bisogno di stare un po’ da sola-, disse affranta.

L’Angelo della Morte annuì.

- Sì, mia bella cancelliera. Và, ritirati nelle tue stanze, mentre io assolvo ai miei compiti sulla Terra. Ti cercherò quando sarò tornato-.

Lei sorrise piano.

- D’accordo, allora. E non uccidere troppo-.

- Ho bisogno di…-

- Sì, sì, lo so. Se non muore la gente non avremo più anime per i nuovi nati. Penso che sia ora che il Signore Dio Nostro ne crei delle altre-, rispose lei, un po’ piccata.

- Con il rischio che le altre diventino Demoni?-

- Potrebbero diventare anche Angeli- rispose lei, baciando quelle labbra fredde. – Ma ora và, fa il tuo lavoro, e dopo torna da me…-

- Come sempre- rispose lui, ricambiando il bacio e planando verso piani inferiori.

Michael. Aveva bisogno di Michael.

 

*Angolo dell'autrice*

Devo ammetterlo, cari lettori: questa storia sta appassionando anche me! Ringrazio Echoes che ha commentato il prologo. E' vero, è solo l'inizio, e dal primo capitolo non penso abbia capito qualcosa (xD), ma la storia è un crescendo di suspance e novità mozzafiato.

Spero che continuiate a seguirmi...

Baci, baci...

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo secondo ***


Capitolo secondo
 
 
 
Se si crede in Dio, non sempre sembra che si è ricambiati.
Era successo ai Nephilim, bastardi nati tra Angeli e Mortali. Non erano molto diffusi, in verità, benché non pochi angeli fossero stati dannati e cacciati dal paradiso per essere giaciuti con degli umani. Solo un angelo aveva dato il seme ed era ancora uno dei preferiti del Signore: Raffaele.
L’Arcangelo, dalle grandi doti curative, aveva aiutato a dare alla luce una splendida fanciulla, una bambina così graziosa che pareva splendente, ma allo stesso tempo così pura che il padre aveva espressamente chiesto di essere egli stessi il suo Angelo Custode.
Il prezzo per quella richiesta fu caro.
Raffaele era un angelo senza ali, consapevole di vivere come un immortale sulla Terra, ma in Paradiso mai più sarebbe potuto tornare. Quei dodici fuochi iridescenti che prima gli spuntavano maestosi dalle scapole erano adagiati in una teca di cristallo al centro di una stanza tra le dimore degli angeli, dove alloggiava prima che fosse cacciato via.
La bambina, Isfrail, ignara di tutto, persino del significato del suo vero nome, e della sua maledetta e insieme benedetta sorte, cresceva sola con il padre. Aveva avuto un’infanzia travagliata, perdendo la fede quando la madre le si allontanò per sempre a causa di un incidente d’auto. Attorno a sé percepiva solo confusione, fino a che non riuscì a sentire la voce di Raffaele ripeterle di non perdere la fede, e di essere più forte della tentazione di cadere nell’oblio.
Si riprese, ma non del tutto.
Raffaele era preoccupato soprattutto per la sua piccola bambina. Non poteva far altro che contemplarla come un pellegrino. Aveva preso le labbra e il mento dalla madre, e tutto il resto da lui. Era stata da sempre oggetto di invidia per quella chioma lucente di un colore a metà tra il biondo scuro e in castano chiaro, che talvolta assumeva strane sfumature rosa pallido. Aveva un carattere molto insicuro, nonostante si ponesse alla gente cercando di dare l’impressione di una persona dura, forte e vivace.
Raffaele confidava ciecamente nel suo sesto senso, che si attivava quando i “pericoli” erano vicini.
L’Arcangelo aveva dimenticato come si volava, ma anche se non poteva tornare in Paradiso, non sarebbe comunque volato via pur restando accanto a sua figlia, pronto ad aiutarla per mostrarle la strada giusta per arrivare al Paradiso. Faceva tutto ciò perché sapeva che i Naphilim potevano raggiungere la protezione divina.
Infatti, ogni Nephilim di cui si ricordava, aveva perduto la fede, e, di conseguenza, la via, ed era stato condannato a patire il dolore tra le fiamme del regno di Satan. Essere un Nephilim non era una cosa facile, perché si rischiava di cadere più facilmente in tentazioni.
Quel giorno Raffaele era davvero preoccupato, sebbene nulla avesse a che fare direttamente con la retta via, ma lo era ancor più perchè non avrebbe potuto agire in alcun modo.
Si era limitato a guardare la figlia che si vestiva in modo appariscente, mentre cercava disperatamente di apparire una persona sicura di sé, capace di prendere il mondo tra le sue mani e decidere il destino di ogni persona che le stava accanto. Quei vestiti marcavano troppo la differenza tra i sessi, che in Paradiso non esisteva. Raffaele pensava che ognuno doveva essere completamento per l’altro, fonte di sostegno. Ma più viveva sulla terra, più capiva che le cose andavano diversamente, perché erano i più forti a sopravvivere. Chissà se in realtà quello non fosse un piano divino per ripristinare un qualche equilibrio, quello che ricordava a malapena c’era stato prima della creazione dei Materiali.
Ad ogni modo, non vedeva come rientrasse in quel piano il fatto che la figlia dovesse uscire con un ragazzo. Si rese conto che, se non avesse voluto far covare alla figlia sentimenti di odio nei suoi confronti, era ora che le permettesse di uscire di casa. Fu molto più sereno quando capì che ci sarebbero andati anche altri amici. Nonostante tutto, però, aveva voluto controllare personalmente che non ci fosse odore di zolfo nei posti dove dovevano andare, e che il ragazzo stesso che avrebbe dovuto accompagnarla non fosse in realtà un demone.
Sicuro, la lasciò andare, senza prima donarle un amuleto con un ciondolo a forma di pesce.
- Tienilo sempre con te-, si raccomandò lui, sulla porta di casa, prima che andasse definitivamente a quella serata.
Sentì una strana sensazione crescere in lui. Era l’unica figlia che aveva mai avuto, era egli stesso il suo angelo custode, e, in più, sapeva bene che una Nephilim che odorava così di azoto e purezza era carne davvero prelibata per i demoni. Aveva deciso di donarle il proprio amuleto, che avrebbe funzionato contro chiunque degli Inferi avesse brutte intenzioni con la sua bambina.
La guardò negli occhi, che le ricordavano così tanto la Mortale che un tempo aveva amato, e che amava ancora tantissimo, e le sorrise incoraggiante.
- Non fare tardi- si raccomandò.
Isfrail, contenta che il padre le avesse permesso di uscire con un ragazzo, gli baciò una guancia senza dire niente e si infilò nella macchina di Giuseppe, che l’avrebbe dovuta accompagnare nel pub più esclusivo di quella città.
Aveva il cuore che le batteva forte. Era il suo primo vero appuntamento, e aveva già sedici anni. Alla sua età certe tipe che andavano a scuola con lei non avevano più appuntamenti, perché dovevano badare ai loro figli. Non che lei morisse dalla voglia di diventare madre! Cattolica com’era, non pensava neanche lontanamente di fare quelle cose, né poteva pensare che i ragazzi che le chiedevano di uscire ci pensassero.
Sentiva, però, che il padre le stesse nascondendo qualcosa. Credeva in lui, e aveva deciso che, nonostante il suo sesto senso, voleva dargli la fiducia che si meritava.
Quando entrò al fianco del suo accompagnatore nel Buvier, in locale più in di quella cittadina di provincia, sentì l’odore di fumo che impregnava la stanza. Sorrise tra sé, benedicendo la sua salute di ferro.
Ed ora la nuova Isfrail doveva darsi da fare. La strafottente e sensuale Isfrail doveva fumare e bere, e scatenarsi non appena l’ambiente si fosse riscaldato un po’.
Era solo questione di tempo, dopodichè avrebbe potuto dare libero sfogo alla creatura che aveva creato per fronteggiare la vita con meno timidezza e più impetuosità.
 
 
Un completo silenzio avvolgeva Tafriel. Era uno di quelli che quando ti circondano, ti inquietano. Non c’era alcuna allodola o alcun usignolo o pettirosso a tenerle compagnia. Solo in lontananza riusciva a sentire il suono del fiume divino che scorreva lento e cadenzato.
Era, però, un rumore così distante che a stento riusciva a sentirlo.
Così era il Paradiso: come un ripetitivo incontro con se stessi; e proprio per questo era il luogo adatto ad anime oneste e pure come quelle degli Angeli probi. Chi non si sentiva in pace con se stesso, faceva di tutto per scappare.
Tafriel si avvicinava più velocemente possibile, pensando alle anime nei cimiteri. In quei luoghi di ritrovo spirituale, lo sguardo di Dio era più attento e vigile. Lei, per ora, Non aveva bisogno si una consulenza con l’Altissimo.
Sospirò sollevata quando, finalmente, intravide le dimore divine, distanti le une dalle altre, per assicurare ad ognuno di loro privacy. Era difficile trovare qualcuno tra gli Angeli che amasse la solitudine, ma c’era a chi piaceva.
Entrò in una delle belle casupole senza bussare.
Vide il suo Michael addormentato, steso con la sigaretta che gli penzolava tra le mani, ormai quasi finita. Gli si avvicinò con cautela e gliela sfilò lentamente, facendo attenzione a non svegliarlo.
Una mano l’afferrò al volo, e due occhi castani la guardavano furenti. Trattenne il fiato rumorosamente.
Michael si rilassò, lasciando cadere la sigaretta per terra, che Tafriel tempestivamente calpestò prima di essere presa di peso e fatta sedere sulle gambe del ragazzo-angelo.
Si sorrisero, mentre le mani di lei accarezzarono gentilmente il suo viso, massaggiandogli la nuca.
- Ciao Tafriel- disse lui.
Chiunque l’avesse sentito parlare, avrebbe pensato che qualcuno si fosse impossessato del corpo dell’Arcangelo, talmente era profonda e roca la voce. Tafriel sapeva che non era così.
- Michael-, sussurrò lei, felice.
Quante notti lontana da lui aveva passato a sognare di incontrarlo, e di amarlo fino alla dannazione.
Sentiva anche in quel momento l’influsso di Raziel che frenava i loro istinti. Eppure loro si amavano non perché così avevano deciso i due Arcangeli più capricciosi della storia del Paradiso (forse gli unici), ma perché i loro sentimenti erano autentici. Non era stato un colpo di fulmine, piuttosto era giusto parlare di un certo feeling tra loro sin dalla rinascita di Tafriel.
- Hai battuto la fiacca stavolta, eh?!- lo prese in giro.
Il Fedele inarcò le sopracciglia.
- Come scusa?- chiese, colto nel vivo.
Lei ridacchiò sincera.
- Mi hai portato solo dieci demoni …-
Michael sbuffò innervosito.
- Si stanno organizzando. E’ sempre più difficile redimere le loro anime-.
Stavolta fu lei a inarcare le sopracciglia.
- Redimere? Lo sai che..-
- Sì, lo so- la interruppe. – Non è compito mio-, continuò, con voce stanca. Si gettò di nuovo sul letto, con le braccia spalancate. – Eppure dovrebbe esserlo. Sono io che li sconfiggo…- si lamentò.
- Stai per caso rinnegando il tuo essere un Arcangelo?-
- Mai!- replicò con forza lui, alzando la testa, scandalizzato.
Tafriel sorrise piano, e si stese accanto a lui, sfiorandogli il corpo con il suo.
Sapeva bene quanto poteva essere frustrante essere limitati. Se poi lo si aggiunge ad un carattere focoso come il suo, allora ritenne che doveva essere grande il sacrificio di fermarsi e portare le anime al cimitero.
Chissà il Signore per lei cosa aveva in serbo.
- Michael-, lo chiamò.
Aspettò che lui grugnisse in risposta e sorrise quando fu così.
- Chi ero prima di reincarnarmi?- chiese lei.
L’Arcangelo accanto a lei fermò il respiro, pensieroso. Lei si alzò per osservarlo meglio.
- Ho paura che sia stata un demone, o un angelo caduto. Non lo so, Michael. Io devo sapere!-
Ad ogni parola le sue paure aumentavano, e con esse aumentava la determinazione di affrontarle.
L’Angelo l’afferrò per le braccia e l’avvicinò a sé.
- Non lo so, Tafriel-.
Risposta prevedibile. Era quella di cui aveva più paura.
E se fosse stata un bugia in verità?
- Non pensare, però, che ti stia mentendo-, aggiunse lui.
Sorrise, perché sapeva che lo stava pensando.
- A me non è dato sapere in cosa vengano reincarnate le anime, ma se tu sei stata scelta, il Signore Celeste avrò per te un compito preciso-, la rassicurò, accarezzandole la schiena.
Tafriel sospirò e alzò lo sguardo verso il ragazzo.
- Pensi che Lui sappia che ora sono qui?-
Silenzio.
- Probabile-, fu la sua risposta.
La spostò per guardarla meglio negli occhi. – E pure se fosse? Se ti ha lasciata venir qui è perché così vuole-.
Tafriel sorrise e avvicinò le loro labbra, facendole sfiorare in un bacio casto, non come quelli che si scambiavano di solito.
- Spero che non mi farà mai smettere di tornare qui-, ammise.
Sentì la mano del ragazzo sfiorarla lungo il fianco, mentre un sorriso malizioso gli si dipingeva in volto.
Lei sospirò, spostandosi su di lui, e ricambiando lo sguardo.
- Che questo attimi non abbiano mai fine se l’Altissimo è d’accordo-, disse lui, avvicinando le sue labbra sul collo della ragazza.
Tafriel sentì una leggera scossa percorrerle il corpo.
Le ali si spalancarono ad entrambi.
- Amen-, sussurrò prima di iniziare a rotolare con Michael nel letto in un atto che faceva incontrare corpo e mente, il perfetto connubio delle arti di Haniel e quelle di Raziel.
 
 
Sulla Terra, nel Sud Italia, in un paesino dalla collocazione imprecisata, il Buvier aveva riscaldato la pista. Nelle gabbie, ragazze poco vestite si scatenavano a ritmo di una danza sregolata e note spaccatimpani.
Ben lontani da quel caos, quattro amici stavano parlottando tra loro, cercando di sovrastare il rumore che fuoriusciva dalle casse.
- Isfrael, dov’è il ragazzo con cui sei venuta?- chiese una delle ragazze, anche lei poco vestita.
Isfeal si guardò attorno e si strinse nelle spalle.
- Giuseppe? Non ne ho idea!- ammise, bevendo dal suo bicchiere, il terzo. Non che le piacesse molto, ma era da copione farlo.
- Che razza di nome è Giuseppe?- chiese un ragazzo, disgustato.
Isfrael rise divertita.
- Che razza di nome è Marco?- lo prese in giro la biondina. – E’ un nome come un altro!- difese lei. – Solo perché ha avuto il coraggio di invitarmi a uscire, col padre che mi ritrovo. E’ degno di rispetto, anche se il nome non è di tuo gradimento-.
Marco, alto quasi il doppio di lei, si fece piccolo piccolo.
Isfrael l’abbracciò allegra.
- Suvvia, non fare così. In fondo non ho detto nulla di male-.
Sentì le mani grandi del ragazzo sulla sua schiena. Perché non capiva che le piaceva? Sospirò così piano che in quel fracasso non si sentì affatto.
Si allontanarono l’uno dall’altra, guardandosi per un attimo. Fecero giusto in tempo per veder tornare Giuseppe, con l’alito che puzzava d’alcol.
- Oh, eccoti qua dolcezza. Vieni con me?- chiese, barcollando.
Isfrael rise e lo prese per un braccio.
- Vedo che già vai a tempo-, disse sarcastica.
Non voleva rovinarsi la serata né per le frecciatine idiote di Marco, né per l’alito maleodorante e la scoordinazione del suo accompagnatore (che non stava per nulla facendo una bella figura), né per lo stupido ciondolo che le aveva dato il padre e rovinava il risultato delle ore che aveva speso a cercare l’abbinamento perfetto tra vestiti e gioielli, né voleva pensare a quello stupido sesto senso che aveva e le diceva di stare attenta a Giuseppe in quel preciso istante.
Iniziò a muoversi sensuale sulla pista da ballo, facendo entrare in sé il ritmo della canzone. Sentiva già gli occhi dei più vicini guardarla interessati.
Stava andando alla grande. Le ragazze nelle gabbie avrebbero di sicuro invidiato le sue mosse libere e i suoi spettatori.
Eppure, il sesto senso, nonostante i tre bicchieri di bevanda alcolica allo stato quasi puro, anzicchè diminuire pareva aumentare sempre di più.
Iniziava a sentire davvero caldo, e il respiro le mancava. Vide Giuseppe avvicinarla, afferrarla con quelle mani sudaticce e allontanarla dalla pista.
- Mi stavo divertendo!- si lamentò, cercando di fermarlo. Aveva un rumore fastidiosissimo nella testa.
Cercò con lo sguardo Marco, che era girato dall’altro lato. Aveva un’ampia schiena, con delle spalle grandi. Era così attraente anche da dietro.
Le mani del suo accompagnatore sui suoi fianchi e le sue spalle contro il muro la fecero rinsavire. Il rumore nella testa era così forte che la stordiva.
Le labbra di lui si posarono sulle sue, bagnandole senza sosta, mentre infilava quelle mani raccapriccianti nei suoi pantaloni stretti.
Voleva urlare, ma appena aprì la bocca, Giuseppe le infilò dritto in gola la lingua, impedendole di fare qualsiasi cosa.
Chiuse gli occhi, iniziando a pregare Dio di preservarle ancora la verginità. Stava per scoppiare in lacrime quando si sentì liberata dal peso del ragazzo. Aprì gli occhi e lo vide collassare sotto un pugno di Marco, che la prese per mano e si allontanò velocemente, mentre uno dei buttafuori si aggirava da quelle parti.
Corsero insieme verso l’uscita, e ancora fino alla macchina del ragazzo. La aprì e fece entrare con la forza Isfrael, sbattendo la portiera.
Aveva il cuore che le batteva così forte, che se lo sentiva in gola. Sul petto della ragazza, il pesciolino pesava e bruciava, mentre ancora il rumore non le faceva capire bene quel che succedeva. I suoi sensi non erano mai stati così sviluppati tanto da stordirla.
La ragazza giardò l’amico salire in macchina. Che era successo?
Tutto era per lei così confuso, e il suo sguardo cercava certezze. In realtà, cercava solo la certezza che nessuno l’avesse violata.
Rimase immobile, sperando che fosse lui a parlare per primo.
Quello battè entrambe le mani sul volante e inspirò a fondo. Mise in moto, ingranando la prima, e partì sgommando, desiderando allontanarsi di lì il più in fretta possibile.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo terzo ***


Premessa: il nome della Nephilim esatto è “Israfil”. Mi scuso se per caso ho sbagliato a scriverlo nel precedente capitolo.
 
Capitolo terzo
 
 
A Marco non interessava guidare bene. Voleva guidare e basta, per allontanarsi da quel luogo. E sapeva che anche lei, Israfil, la dolce ragazzina spaventata che si era raggomitolata sul sedile accanto al suo, lo voleva.
Israfil iniziò a tremare. L’emozione era stata tanta, ed era arrivata come un pugno nello stomaco. Neanche le piaceva Giuseppe, quel ragazzo che… neanche riusciva a pensarci!
Se, però, non le piaceva quel ragazzo, perchè aveva accettato ad uscire con lui? Per cercare di dimenticare l’unico ragazzo che le piaceva e che, secondo lei, non le avrebbe mai chiesto di uscire?
Senza dire una parola, avanzarono tra le strade illuminate artificialmente. La biondina si guardava le mani strette in grembo, mentre pregava tra sè e sè. Non importava quali preghiere dicesse, semplicemente recitava quelle che le venivano in mente, tutte quelle che al momento ricordava. Sperava solo che i Santi e gli Angeli intercedessero per lei al cospetto di Dio.
Il suo sguardo cadde sulla mano grande di Marco che cambiava marcia. Andavano veloci, e il motore sotto al cofano urlava arrabbiato, mentre mangiavano chilometri e chilometri di asfalto, senza una vera meta.
Risalì con lo sguardo dalla mano al suo braccio muscoloso, e sul suo viso concentrato sulla strada. Era paonazzo, mentre gli occhi neri parevano farsi rossi quando la luce li accecava.
Provò a sussurrare il suo nome, ma non reagì, limitandosi a prendere una curva stretta a gran velocità. Israfil sentì il cuore a mille quando il suo corpo fu sbalzato all’indietro, contro lo schienale del sediolino anteriore, rimanendo senza voce quando vide il muro di un palazzo sfiorare lo specchietto retrovisore.
Non l’aveva mai visto così sconvolto, con gli occhi spalancati e duri.
Si morse il labbro mentre gli occhi le si riempivano di lacrime per la paura. Odiava piangere, ma quando era Marco ad arrabbiarsi con lei, perdeva la forza di reagire.
Non si accorse di aver trattenuto il respiro fino a che il ragazzo non parcheggiò di fronte a casa sua. Non aveva voglia di scendere, ma solo di un abbraccio rassicurante. Lo guardò, ma lui non pareva intenzionato a muoversi.
Si spostò incerta verso di lui, e allungò la mano per accarezzargli la guancia. Era così bello, anche nel sentire sotto il suo tocco i muscoli tesi.
- Grazie- sussurrò per paura che sentisse.
Si voltò lentamente verso la portiera, ma non l’aprì, percependo il ragazzo tirare un sospiro rumoroso.
Chiuse gli occhi. Ora arrivava la ramanzina.
- Te l’ho detto che non mi piaceva-
Israfil sorrise e lo guardò.
- No, non l’hai fatto- ribattè tranquillamente.
- Ti ho detto che uno che si chiama, o si fa chiamare, Peppone non porta a nulla di buono, mai!-
Aveva alzato la voce, e lei alzò un sopracciglio.
- No. Il tuo unico commento è stato “che razza di nome è Giuseppe?”- rispose lei, scimmiottandiolo.
Marco si voltò per guardarla adirato.
- E’ la stessa cosa! Si chiama parlare tra le righe!-
- Più che parlare tra le righe, avrei dovuto criptarti, stupido!- esclamò lei con lo stesso tono irato, aprendo lo sportello della macchina e correndo verso casa.
Non le importava di non aver chiuso la portiera della macchina, e né di aver litigato con Marco. Era così difficile darle un bacio, o un abbraccio? In fondo non pareva chiedesse troppo.
Chiuse rumorosamente la porta dietro di sé, alzando lo sguardo sull’unico uomo che avrebbe mai potuto amarla davvero, e di questo poteva starne certa.
Senza dire una parola, non che ce ne fosse davvero bisogno, corse tra le braccia del padre, che la accolsero amorevolmente, stringendola con forza.
- Bambina mia, vita mia. Cosa è successo?- domandò l’uomo, preoccupato.
Il singhiozzi scuotevano il corpo della ragazza. La tensione che aveva accumulato le uscì fuori, e lei finì per scaricarla attraverso quelle lacrime, senza trattenere gemiti addolorati, causati anche dal cuore pulsante e dolorante.
 
 
Metatron osservava attentamente le pratiche da sbrigare che erano sulla sua scrivania, senza che le avesse in realtà afogliate. Non che ne avesse gran bisogno, ma era un modo per allontanare la noia.
L’Altissimo aveva denotato lui come proprio segretario, e lui ne era sempre stato compiaciuto. Ciò significava che Egli si fidava.
Afferrò quella richiesta, l’unica che non era impilata con le altre. Era strana ed interessante il suo contenuto, e si stava dilettando a immaginare cosa avessero detto gli altri Serafini.
Qualcuno bussò alla sua porta, e lui alzò il suo angelico volto verso la porta della stanza senza finestre e, nonostante ciò, illuminata. Non si sapeva come fosse possibile, ma quella era l’unica stanza dal perimetro ottagonale, privo di finestre e pieno di scaffali stracolmi di carte e fascicoli in ordine. Quelle che venivano elencati in quella enorme biblioteca non era che un quarto delle pratiche sbrigate in soli cinque o sei mesi. La scrivania dietro la quale era seduto Metatron, un Serafino dai capelli lunghi e biondi, dello stesso colore della luce che rischiarava le pareti e il soffitto, era posizionata al centro della sala, con dietro un’alta poltrona con la stoffa color dell’oro che ricordava vagamente le poltrone in stile Luigi XVI, e di fronte altre due sedie, in uno stile più sobrio e di un colore meno sgargiante.
- Avanti- disse il Serafino con la sua voce sottile ed elegante. Con molta probabilità conosceva già chi stava per entrare.
Incrociò le dita, e sul viso comparve un sorriso sornione. Era giunto, infine.
Uno splendido angelo fele il suo ingresso nella stanza, avvolto come tutti gli Arcangeli  dalla luce della sua Fede. A ben vedere, la sua Luce pareva essersi affievolita in seguito a quell’increscioso avvenimento, del quale non amava parlare.
- Uriele!- esclamò Metatron aprendo le braccia e appoggiando la schiena alla poltrona, - che piacere rivederti!-
Quello si limitò a sorridere, sedendosi su una delle poltrone di fronte alla scrivania. Tolse il logoro cappotto che indossava di ritorno dal Materiale (chiamata anche Terra), e lo appoggiò su un bracciolo. I suoi occhi scuri vibrarono quando incontrarono quelli quasi bianchi del Segretario di Dio.
Oscurità e Luce che si contendevano qualcosa che nessuno dei due aveva ancora nominato. Loro, però, erano solo due rappresentanti della forza del Signore, sebbene uno di loro fosse macchiato da una grave colpa.
- Metatron- esordì Uriele con la sua voce bassa e profonda, l’opposto di quella del Gran Segretario Metatron. – Come mai mi hai convocato?- chiese senza indugi.
L’Arcangelo Serafino che controllava e amministrava gli affari di Dio sorrise ancor di più. Allungandosi sulla scrivania. Era compiaciuto per il fatto che avesse lì il Bastardo Divino, come molti solevano chiamarlo.
- Come siamo formali, Uriele-, ribattè Metatron.
Sopra la scrivania era pronta una teiera di thè con delle tazze pulite, una zuccheriera e un piccolo contenitore del latte, tutti decorati minuziosamente. Ne versò due tazze e ne offrì una all’Arcangelo.
Quello guardò sospettoso il thè, poi scosse la testa, facendo così ondeggiare i suoi lunghi e lisci capelli neri, che parevano setosi e contrastavano con la pelle diafana.
- Ti ringrazio, ma non ne ho voglia-, dichiarò a bassa voce.
Metatron, dopo averne bevuto un sorso dalla sua tazza, posò la tazza sul piattino, con un leggero ed armonico “tlack”.
- Ah, Uriele. Sempre lo stesso, non è così? Ancora non ti fidi?- sospirò.
- Perché mi hai convocato?- ripetè Uriele, senza voglia di perder tempo. Non aveva alcuna intenzione di rispondere a quella provocazione.
Metatron lo guardò ancora per un attimo, quasi come se volesse captare cosa pensasse l’Umanità, ma quello che percepiva era un glaciale silenzio.
Afferrò dalla scrivania il foglio che fino a qualche minuto prima stava contemplando, completamente assorto e incuriosito.
Glielo allungò da sopra le altre pratiche, che spostò con un gesto tranquillo un po’ più a sinistra.
- Mi piacerebbe che ti esprimessi in merito- profferì chiaramente, abbandonando l’espressione bonaria, che aveva avuto fino a qualche secondo prima, la quale cedette il posto ad una seria e per niente incline al riso.
Nessuno riusciva a cambiare espressione con la velocità con cui lo faceva Metatron, ed era per tutti un vero mistero questa sua abilità, quasi al pari della luminosità della sua stanza. Lo si sarebbe di sicuro chiamato l’Angelo più incostante del cielo, dal carattere terribilmente volubile, se solo quell’appellativo non fosse esattamente uno di quelli di cui andare fiero per vari e tanti motivi, primi tra questi il fatto che l’incostanza e la volubilità erano tratti che contraddistinguevano i demoni, in particolare il primo demone dalle sembianze femminee: Lilith, tabù per ogni argomento lassù nel Regno di Dio.
- E’ interessante-, affermò Uriele dopo aver riletto più volte quella richiesta, scritta in maniera impeccabilmente elegante. – Qualcuno che vuole addossarsi l’oneroso compito di portare sulla retta via gli Innominabili, nemici nostri dai tempi dal principio della Rivoluzione-.
Metatron lo guardò, soddisfatto solo in parte. Assottigliò lo sguardo, in attesa che questi continuasse. Così, però, non fu, e il mezzo sorriso che si era fatto strada sul suo volto scomparve nuovamente.
- E’ semplicemente una richiesta di questo genere, o dovremmo temere qualcos’altro? D’altronde ci aiuta già in questo caso-, continuò al porto dell’Umanità.
Uriele si passò il pollice sul mento, guardando ora il Serafino ora il foglio che ancora teneva tra l’indice e il pollice con una leggerezza tale che qualcuno avrebbe pensavo che avesse paura di sgualcirlo. Diede un’ultima occhiata alla richiesta, e si soffermò sulla firma.
Entrambi gli angeli erano stati attraversati dalla medesima preoccupazione. E se lei avesse recuperato la sua memoria? Se quello che era stato fatto per sigillarla lì in Paradiso fosse stato del tutto inutile?
Eppure era lì, a chiare lettere leggibili. Una richiesta ufficiale.
- Perché chiedi tutto ciò a me? Perché non convochi lei e glielo dici chiaramente?- domandò l’Umanità.
L’atmosfera si tese di colpo, sebbene non vi fossero né ostilità né rivalità da entrambe le parti. Si percepiva ansia, e sospetto.
Con un sospiro, Metatron si alzò imperioso. Stando sempre seduto non si aveva mai la possibilità di vederlo in tutta la sua grande statura.
A passi lenti e cadenzati raggiunse la porta, oltrepassando il Bastardo senza neanche degnarlo di uno sguardo. Fu come se all’improvviso la goduria di avere lì Uriele fosse scomparsa del tutto dai suoi pensieri e dalle sue priorità.
Sfiorò semplicemente le porte, che si spalancarono con un tonfo udile.
- TAFRIEL!- tuonò a gran voce.
Il suo richiamò destò l’attenzione di tutti gli Angeli lì intorno e non solo. Riecheggiò ovunque nelle teste di tutti, acuta e penetrante. Si guardarono tutti intorno, spaesati. Era da molto che questi convocasse qualche Angelo con tanto zelo, e quel rombo improvviso richiamò tutti all’ordine.
Nessuno, però, sapeva perché Tafriel fosse stata convocata con ardente impazienza e vivacità.
 
 
Quando si svegliò, Tafriel si ritrovò nella stanza che tanto ormai conosceva.
Si mise a sedere e si voltò attorno. Il ragazzo era fermo, in piedi accanto a una delle grandi tende che coprivano le enormi finestre della stanza spaziosa.
Era bellissimo, con quei capelli castano scuro che gli ricadevano sul collo, lunghi e tenuti indietro. Si alzò e gli si avvicinò, nuda, ritraendo le ali dentro di sé. Splendeva come non mai, in quella stanza dove la luce filtrava solo attraverso le tende che l’Arcangelo della Fede aveva tirato, lasciando le finestre libere di far entrare la luce che splendeva tutt’attorno a loro.
Lo aspettò nell’ombra, per non andare sotto la luce.
Dove c’era luce, lì l’occhio divino sarebbe caduto inevitabilmente. E lui lo sapeva.
Lasciò che le tende si chiudessero con un suo gesto deciso, e le si avvicinò, prendendole il piccolo viso tra le mani e baciandola superficialmente. Sentiva quanto fosse calda ancora di sonno al solo suo tocco, ma non gli importava. La sua pelle era persino più chiara, e gli occhi risaltavano di più sul suo volto. Le piaceva davvero, e non avrebbe mai permesso che qualcuno gliel’avrebbe portata via. Come Azrael, ad esempio. Non gli era mai piaciuto come angelo. Era troppo cupo per la vivacità di Tafriel, e troppo riservato rispetto alla sua passionalità. Non aveva mai pensato che fossero fatti l’uno per l’altra, ma Raziel insisteva che così era. Però, almeno Haniel la pensava come lui. Era stato un peccato far sposare definitivamente Tafriel e Azrael. Il loro matrimonio sarebbe durato per sempre, poiché non c’era morte definitiva per gli angeli, a meno che Tafriel non si fosse reincarnata nuovamente. Allora, però, sarebbe dovuta morire sotto la spada dei Combattenti, e non voleva che entrasse in campo. Era un’idea che cercava di non tenere in considerazione, e se proprio sarebbe dovuto accadere, era inevitabile per lui pensare di essere egli stesso l’assassino della sua Tafriel.
Tutto ciò era l’opposto di quello che pensava lei, in verità.
Tafriel gli sorrise e gli sfiorò le labbra con le sue. Sentì il forte odore di tabacco pungerle le narici, e ne dedusse che avesse smesso da poco di fumare.
- Ben svegliata, Angelo mio- la salutò lui.
Tafriel si limitò a sorridere. Odiava dover parlare appena sveglia. Considerava quelle ore come completamente importanti, in cui riusciva a toccare ancora con la sua aura quello che era successo in quella stanza giusto qualche ora prima. Come tutti gli angeli, non avevano bisogno di dormire, ma era una giusta e rilassante occupazione che avevano preso dai Materiali. In fondo, gli impediva di pensare a quanto fosse strana la vita che avevano scelto per se stessi.
Eterni amanti, senza scampo.
Forse era proprio questa prospettiva a regalarle un momento per cadere in estasi pensando al suo Michael, il suo Arcangelo.
Michael si chinò a baciarle le labbra, come per completare quel rituale, come per restituirle il bacio che lei gli aveva dato. Le sfiorò una mano sulla spalla, per poi scendere lungo il suo braccio snello che ricadeva lungo il fianco invitante.
Dovette farsi forza e distogliere lo sguardo da quelle forme femminili così tremendamente provocanti, guardandola negli occhi, che per un attimo lo spiazzarono. Gli parve di intravedere qualcosa di più profondo della vita che lei stava vivendo con lui. Era come se Tafriel avesse qualche segreto che non avrebbe saputo rivelargli.
- E’ meglio che ti vesti, prima che cada in tentazione. Di nuovo.-
La Cancelliera sorrise, e piegò la testa, allungando una mano verso il petto del suo Arcangelo.
- Non mi dispiacerebbe- disse, con una punta di lussuria nella voce ancora calda per il sonno.
Bastò uno sguardo scambiatosi che capirono entrambi che era ora di tornare alle loro attività. Sebbene Michael non dovesse fare rapporto a nessun Angelo dal momento che nel Grande Libro la sua impresa era già stata registrata, aveva deciso di andare a vedere che combinavano le sue truppe. Di sicuro stavano giocando a scacchi, il massimo divertimento per i “puri”, o almeno per chi vuole far credere di esserlo ancora.
Mentre si stavano vestendo, una voce, acuta come una freccia che centra l’obiettivo, attraverso le loro menti, congelandole. Entrambi si piegarono al suono squillante di quella angelica e autoritaria voce, che ancora vibrava.
Michael guardò smarrito Tafriel, ma lei gli sorrise incoraggiante, e finì di aggiustarsi la toga di seta.
- Torno subito- disse, mentre legava dietro la testa i lunghi capelli biondi in un’alta coda di cavallo.
Il suo interlocutore corrugò la fronte, assottigliando lo sguardo. Con la toga, che indossava solo quando non doveva andare in guerra, ancora per metà messa, bloccò ogni movimento.
- Tafriel, che succede?-
Dalla sua voce si percepiva tensione e senso di colpa. Forse era stata chiamata perché erano stati scoperti.
- Nulla di cui preoccuparsi, Michael-, lo rassicurò lei.
Fece per andarsene, ma l’Arcangelo della Fede la bloccò con una stretta intorno al braccio molto forte. Tafriel si voltò, sconvolta. Sospirò e si allungò a dargli un altro bacio sulle labbra. Chiuse gli occhi, ed assaporò per qualche secondo il suo sapore amarognolo ed acre.
Sentì la stretta di lui allentare allo stesso modo di come la scia di suono che aveva lasciato il richiamo tornò a vibrare.
Appena ebbe l’occasione, la biondina si liberò e corse via.
Inutili furono le proteste di Michael, che si chiedeva perché Metatron avesse chiamato lei. Solo lei.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo quarto ***


Capitolo quarto


 
Con passo spedito e sicuro, simile a quello di coloro che già sanno cosa li attende, la bella Tafriel, orgoglio di tutti gli Angeli, e specialmente del marito Azrael, si recò dal Serafino che più di tutti interloquiva direttamente con l’Onnipotente. Molti ne avevano timore, ma Tafriel non ne capiva il motivo.
Come se nulla fosse successo, bussò tre volte alla porta del Segretario. Era alta circa due metri, forse qualcosa in più, ed era di legno dorato; su di essa si potevano leggere le imprese di Noè, di Mosè, il tentativo sventato di Abramo di immolare il suo unico figlio, e altri episodi narrati dai materiali nel loro libro sacro, la Bibbia, che era una semplice imitazione del loro Grande Libro.
La porta si aprì.
Fu estasiata nel vedere quei rotoli di papiro, i libri e i fascicoli che occupavano in ordine nei loro scaffali tutte le pareti della stanza, eccetto una. Nessuna finestra era lì a giustificare lo splendore che rischiarava la stanza, al cui centro c’erano due Arcangeli.
Riconobbe Metatron, ma l’altro gli era completamente sconosciuto, nonostante avesse qualcosa di familiare.
Era così oscuro per essere un Angelo, che quasi ne dubitava la provenienza, ma poi si disse che un demone di sicuro non avrebbe sopportato quella luce divina.
Si avvicinò al centro, e si sedette senza complimenti sulla sedia che gli indicava il Serafino.
- Grazie per essere venuta così in fretta-, esordì Metatron.
Tafriel non potè fare a meno di notare il suo mento allungato e le labbra sottili come ramoscelli d’ulivo. Aveva gli occhi inquietanti, giacchè l’iride non era distinguibile dal resto dell’occhio, e ne spiccava unicamente la pupilla.
- Lascia che ti presenti Uriele, l’Arcangelo delle Umanità, Angelo del Pentimento; colui che si è distinto nella Grande Battaglia al fianco di Michael e che si è ritirato per cause andate dimenticate, che nessuno scritto sacro ormai riporta più; colui che ora è custode dell’Eden, Patrono delle Arti e protettore degli esploratori e degli innovatori-, continuò con la sua voce squillante, elencando solo parte delle caratteristiche che contraddistinguevano superficialmente quell’Angelo.
Tafriel era sicura che i suoi timpani, se fosse stata una materiale qualsiasi, si sarebbero rotti al suono prolungaro di quelle e di altre parole da parte del Segretario. Sorrise cordialmente ad Uriele, soffermando lo sguardo sul collo, dove una cicatrice partiva da dietro l’orecchio e affondava nella toga blu scuro come un fiume che poi scompare sotto la terra. Non potè non notare una certa malinconia nello sguardo che le ricambiava. Si costrinse a parlare e a dire qualcosa.
- Piacere, io sono…-
- So chi sei-, la interruppe l’Umanità.
La Cancelliera del Cimitero Celeste sobbalzò al suono profondo della voce di Uriele, così diversa da quella di Metatron. Era sicura che non si sarebbe mai stancata di sentirlo parlare.
Tafriel aspettò che continuasse, ma lui non aggiunse altro, e guardò il Serafino come per indurlo ad andare al dunque.
- Oh, non stupirti, sorella mia. Uriele è sempre così sgarbato, e sì di poche parole che talvolta può dar fastidio, eppur è fedele e ha un animo onesto. Puoi fidarti di lui-, aggiunse il biondo, come se sabesse quali dubbi stessero attraversando la mente di Tafriel.
Le sorrise, e dopo neanche un attimo la guardò completamente serio, senza neanche l’ombra del sorriso sul viso angelico.
Tafriel fu spaventata da quel cambiamento repentino d’espressione.
- Non chiederti perché sei qui, giovane sorella-.
Tafriel, dentro di sé, si chiedeva solo la necessità per cui questi la chiamava “sorella”, a maggior ragione per il fatto che era la prima volta in vita sua che si incontravano.
Afferrò la richiesta che ora le stava porgendo da sopra l’elaborata scrivania. Era la sua richiesta, l’avrebbe riconosciuta ovunque.
Stava per replicare quando Metatron riprese a parlare, impedendole di chiedere qualsiasi cosa.
- Perché chiedi di essere trasferita?-
Tafriel sorrise e gli restituì uno sguardo dolce.
- Voglio fare qualcosa in più per il Signore Dio Nostro. Semplicemente aprire e chiudere il Grande Cimitero, e parlare alle anime che non ricorderanno mai il mio nome o le mie parole, per me è frustrante, sebbene svolga il mio compito assegnatomi da anni e con tenace Fede. Marciare tra le file al comando di Michael esercita un certo fascino dal momento che ho un animo irrequieto, non molto adatto al mio ruolo di Cancelliere. Vedere le anime punite mi ha fatto insorgere l’idea, forse rivoluzionaria, che davvero tra gli Angeli non ci sono distinzioni e che anche un’umile servitrice quale sono io può marciare per l’Altissimo armata solo della propria Fede e della fiducia nella Redenzione-, rispose, mentre si riscaldava per il discorso audace.
Le guance le divennero rosse per l’ardore con cui pronunciava quelle parole, nonostante non si muovesse dal suo posto. Il Segretario non le toglieva gli occhi di dosso, quasi come se volesse captare un segnale che fino a quel momento gli era sfuggito.
Il silenzio scese nella sala, rotto solo dal lieve cigolare della sedia appena Uriele si mosse, accavallando le gambe.
Tafriel posò la richiesta sulla scrivania, abbassò lo sguardo sentendo in sé le speranze abbandonarla.
- Ho deciso di accettare la tua proposta. Và da Michael e avvertilo di questa decisione, e che Metatron chiede per te un’adeguata protezione giacchè un Angelo non è armato solo della sua Fede- rispose con un ghigno divertito.
Firmò e timbrò la pergamena.
Si alzò e le diede le spalle avvicinandosi a una libreria e cercando il posto adatto per posizionare la richiesta.
La Cancelliera bionda alzò lo sguardo che riversava lo stupore e la gioia in chiunque incrociasse i suoi occhi.
- Và, e fa come ti ha detto-, le sussurrò Uriele sfiorandole la spalla con una mano, quasi come se avesse timore di toccarla.
Annuì a lui, sorridendogli.
- Grazie!- esclamò. Dopo un attimo si era già precipitata fuori dalla stanza.
Appena le si furono chiuse le porte dietro, Metatron si voltò e, pensieroso, raggiunse la scrivania.
- Dunque, non pare sia tornata. Quell’impeto con cui ha attraversato le sacre porte non era di chi stava progettando di far cadere il Cielo- disse piano, come se avesse paura di dire queste parole.
- Così pare- fu la risposta di Uriele, che appoggiò entrambi i piedi a terra. – Perché hai accettato?- domandò, intuendo la risposta.
Metatron gli sorrise divertito, e guardò l’Arcangelo con il suo sguardo bianco.
- Sono curioso Uriele. Sigillata qui ha scalpitato, e vive ora una parvenza di libertà. Chissà cosa potrà fare, e cosa deciderà. Prevedo grandi avvenimenti…-
- Non hai paura che a contatto con loro si liberi per davvero?-
- Se lo farà, allora non so più giudicare chi è deciso e sicuro. Se succederà, Tafriel è debole e la colpa sarà principalmente sua. Nei suoi occhi, però, leggo l’antica forza che gli umani attribuivano agli dei. Forse non accadrà nulla-.
- E se accadrà? E’ stato difficile combatterla…-
Metatron guardò Uriele, trattenendo le risate.
- Dopo tutto questo tempo ne hai ancora paura?-
Uriele restò zitto, abbassando gli occhi e guardando i sandali che gli fasciavano i piedi.
- Ora veniamo al motivo per cui ti ho convocato qui- continuò Metatron.
Uriele alzò lo sguardo, stupito.
Il Segretario intuì che probabilmente l’Arcangelo pensava che a lui servisse solo un parere.
- Ricordi Israfil, la figlia di Raphael, giusto? Voglio che la controlli- sentenziò assottigliando lo sguardo e incrociando le dita delle mani.
Senza chiedere alcuna cosa e senza aggiungere altro, il Bastardo Divino si alzò raggiungendo la porta. Mise in gesto quotidiano il mantello logoro sulle spalle.
- Aspetto nuove-, sussurrò lasciando Metatron da solo a meditare sugli avvenimenti di quella giornata.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo quinto ***


Prima di lasciarvi alla lettura tranquilla del capitolo, volevo scusarmi con voi per questa interminabile attesa. Purtroppo gli esami si fanno sentire tanto e difficilmente riesco ad aggiornare periodicamente, ma state sicuri che aggiorno J Ed ora, buona lettura!

 

Capitolo quinto

 

 

Il giorno nuovo cominciò, e il sole penetrava invadente attraverso le sottili e pallide tende che coprivano le finestre nell’unica stanza  femminile di quella grande villetta nella periferia della città terrena. Israfil si voltò, mentre fu inevitabilmente svegliata. Mugugnò con disapprovazione e si tirò la coperta sulla testa.
Per il resto, nella stanza era tutto come sempre. Il padre che bussava alla porta, si avvicinava al letto della figlia e le accarezzava il corpo amato da sopra le coperte, posava la colazione sul comodino e la scopriva piano, le sorrideva e le baciava la fronte.
- Ti aspetto giù-, le sussurrava piano come ogni volta.
E Israfil, come di consuetudine, allungava la mano verso il bicchiere di latte e lo beveva seduta sul letto, con le coperte che le coprivano le gambe. Scese dal letto, andò in bagno e, canticchiando un motivetto che aveva in testa da quand’era piccola, tolse il pigiama, allontanandolo con i piedi in un angolino. Lasciò le l’acqua della doccia scorresse e si facesse tiepida, e nel frattempo rimirava e pensava a come avrebbe potuto fare quel giorno i capelli. Infine li legò e li alzò, coprendoli con una cuffia, e si infilò nella doccia, che aveva i vetri opachi e semitrasparenti. Una volta che si fu tolta da dosso il sonno, uscì e si avvolse in un soffice e profumato accappatoio, e tornò in camera.
Una volta che si fu vestita con quel bel jeans che adorava e una maglietta a mezze maniche aderente, scese giù per le scale e raggiunse il padre nel salone.
- Ciao, papà. Io vado!- esclamò, senza rendersi conto che, seduto comodamente sulla poltrona di fronte al padre, c’era un uomo sconosciuto, ma bastò uno sguardo in giro per fermare la sua corsa a scuola.
- Buongiorno- disse allo sconosciuto.
Si sentì arrossare. Non era uno sconosciuto qualunque, uno dei pazzi teologi amici del padre, bensì un uomo dall’aura scura, i capelli neri come la notte e lunghi, che gli ricadevano sciolti sul collo. Indossava degli abiti non propriamente adatti a un teologo, ma più a un motociclista sulla ventina che sembrava avere l’aria da bastardo: insomma, il tipico ragazzo piacente. E, a detta di Israfil, lui era particolarmente piacente, soprattutto con quegli occhi scuri come i capelli.
-  Buongiorno a te, Israfil- rispose lui.
Is fu colpita dalla profondità della voce di lui. Sembrava provenisse dall’interno di una caverna profonda. Eppure, le pareva di averla già sentita qualche volta.
- Immagino che non si ricorda affatto di te, Uriele. D’altronde era molto piccola l’ultima volta che vi siete visti-, si intromise il padre.
Uriele. Quel nome non le era affatto sconosciuto, ma non ricordava se l’aveva letto o sentito da qualche parte. Fatto stava, che continuava a non capire.
- Già. Sono il fratello di tua madre- disse lo sconosciuto.
Is battè forte le ciglia. Era da tanto tempo che non sentiva parlare della madre. Era tutto così strano. Il suo passato tornava a bussare alla loro porta. Che strano, il padre gli aveva aperto.
- Quindi…sei mio zio-, concluse scioccamente lei.
Lo sconosciuto, anzi, lo zio annuì col capo. Sembrava stesse per aggiungere qualcosa, ma il silenzio calò invadente tra di loro. Raffaele e Uriele si scambiarono uno sguardo complice.
- Vorrei parlare con te- interruppe il silenzio Uriele, alzandosi. Era particolarmente alto. Is si accorse di arrivargli solo a poco più di metà petto. Il suo cuore fece un salto.
Raffaele guardò il giovane uomo.
- Non credi che non sia ancora il caso? E poi deve andare a scuola- ricordò il padre.
Lo zio si alzò e fece spallucce.
- Forza Is, andiamo a scuola-, rispose risoluto.
La ragazza fu sorpresa che per una volta non avrebbe dovuto prendere l’autobus e ringraziò di cuore lo sconosciuto, che così per lei non doveva essere. Eppure, che cosa strana. Il padre non le aveva mai detto che la madre avesse un fratello ancora in vita, e così giovane e attraente per di più.
Mentre si perdeva in questi e in simili discorsi, prese la cartella e si avvicinò al padre.
- Buona giornata- gli augurò. Questi le sorrise e le baciò le guance.
- Buona giornata anche a te- fece.
Mentre si avvicinava alla porta, Is sentì lo sguardo del padre seguirla ovunque andasse. Non osava, però, alzare lo sguardo dal pavimento. Si sentiva in soggezione, perché oltre a quello del padre percepiva anche quello dello sconosciuto. Era come se entrambi temessero per qualcosa, che dovesse fare qualcosa o le succedesse qualcosa, era come se fossero entrambi inquieti e poco tranquilli.
Decise, per non sentirsi abbattere, di ignorarli completamente e, una volta aperta la porta, si fiondò sul vialetto che attraversava giusto al centro il giardino e raggiunse velocemente il cancelletto.
Non dette che un veloce sguardo al giardino, deliziosamente colorato grazie ai fiori che durante l’anno aveva piantato e in estate erano sbocciati. Purtroppo, con l’arrivo dell’autunno, tutto tornava a seccarsi. Sospirò e uscì fuori.
Uriele subito le fu dietro, e aprì la sua macchina col telecomando. Era una mercedes classe e coupè bianco perla. Restò piacevolmente sorpresa. Chi se l’aspettava che suo zio fosse così benestante da permettersi quell’auto ancora così giovane?
Prese posto sul sedile al fianco del guidatore e abbassò il finestrino. Anche l’aria che entrava aveva un buon odore, per niente somigliante a quella piena di smog che era effettivamente.
Uriele mise in moto e partì. La macchina sotto di sé fece quasi le fusa, partendo piano.
Per un po’ regnò il silenzio, mentre la macchina mangiava l’asfalto con grazia infinita.
- Allora- disse all’improvviso Uriele, forse stanco di quel silenzio, - come va a scuola?-
Is lo guardò, stranita. Aveva uno zio lontano, che rivedeva dopo anni e anni e l’unica cosa che riusciva a dirle era una domanda sulla scuola? Che tipo stravagante, convenne.
- Oh, tutto bene, anche se non tanto in matematica-
Uriele fu quasi divertito e deluso al tempo stesso.
- La maggior parte di voi ragazzi odia la matematica. Invece è proprio quella che insegnerò io a scuola tua. Nella sezione E e nella F- informò la ragazza.
Is sgranò gli occhi. Non ci credeva. Quindi, al posto della vecchia megera avrebbe avuto quell’insegnante?  E per di più suo zio?
Uriele non aspettò che dicesse qualcosa perché continuò quasi subito.
- Preferirei che non si sapesse in giro che siamo parenti. Anzi, preferirei che sembrasse che non ci conosciamo affatto-
Lei annuì. Tutto quello le sembrava strano. Perché mai non si doveva sapere a scuola? Probabilmente perché avrebbero pensato che fosse raccomandata.
La macchina si fermò all’inizio della strada.
- Ti conviene scendere qui-, l’avviso Uriele.
Lei lo guardò interrogativa.
- Altrimenti non si spiega come sei in macchina dato che non ci conosciamo- le ricordò.
- Giusto. Aehm, sì, allora ciao, a più tardi- replicò lei, con l’amaro in bocca.
Raccattò le sue cose e scese dalla macchina. Si infilò lo zaino in spalla e raggiunse a piedi la scuola. Come al solito, arrivò in ritardo.
 
Gli uccellini cantavano felici fuori dall’aula in cui si era  rinchiusa già da qualche ora la ragazza, e, per impedire che la professoressa la chiamasse, si schiacciò con la testa contro il banco, nascondendosi per bene dietro un compagno. Sperava che prima di dire il nome, la professoressa desse una scorsa a chi aveva voglia di essere interrogato. Che cosa primitiva e da bambina era quella! Infatti, se la professoressa avesse guardato negli occhi tutti i ragazzi, li avrebbe scorti del tutto impreparati. Non lei, però, sempre pronta e preparata, perché ci teneva alla sua reputazione. Non le importava se gli altri ragazzi la chiamassero secchiona, l’importante era tenere a distanza debita certa gente, ma le importava dei complimenti che facevano a lei e al padre i professori e chiunque intavolasse una qualche discussione con lei. E sapeva che il padre si sentiva totalmente fiero di lei quando succedeva, e quello era sempre stato il suo obiettivo.
Quel giorno, però, la voglia di essere interrogata era pari a zero, se non di meno. La sua mente era completamente impegnata a pensare a quanto successo quella mattina. Era completamente convinta che qualcosa non quadrasse nello zio. Che strano chiamare uno sconosciuto zio! No, l’avrebbe chiamato Uriele. Non potè fare a meno di pensare che Uriele fosse un nome davvero strano per un uomo, ma d’altronde si chiedeva se già qualche parente si chiamasse così per aver ereditato quello strano nome.
E non poté far altro che continuare a pensare che avesse anche degli strani modi. Lasciarla a piedi alla fine della strada poi era stata una mossa che non avrebbe di certo elogiato. Poteva anche avere tutte le ragioni, ma perché lasciarla a piedi quando il padre era convinto che l’avesse portata fino a scuola indenne? E se in quel frangente le fosse successo qualcosa, come si sarebbe discolpato?
Il suono della campanella la risvegliò dai suoi pensieri.
Si alzò e camminò in giro all’aula per sgranchirsi le gambe, e scambiando giusto qualche parola con i compagni.
Seduto in silenzio, intravide Marco, sempre seduto dietro di lei, ma con lo sguardo perso nel vuoto. Venne un loro amico, e si sedette per parlare con lui. Sorrise, rise, annuì e si alzò, seguendolo.
Is, curiosa, avrebbe voluto sapere cosa stesse passando nella testa del suo migliore amico, tanto più che dopo quella sera non si erano né sentiti né visti. Di solito era lui che, avendo la macchina, passava a prenderla per andare al centro commerciale, o semplicemente giocare con lei a casa sua a qualche gioco da tavolo. Era capitato spesso che si fosse fermato anche a cenare e a guardare un film mentre il padre di lei li lasciava soli giù, fiducioso nella loro amicizia. Quando litigavano, era sempre lei a chiedere scusa, ma stavolta non credeva affatto che doveva fare lei il primo passo.
- Signorina!- disse una voce profonda. Le era stranamente familiare.
Si voltò di scatto, ignorando una domanda fatta dall’amica, e si trovò di fronte, con grande sorpresa, Uriele. Stava per controbattere che poteva chiamarla anche Israfil, ma qualcosa la bloccò. Forse è stato proprio il ricordo, non proprio piacevole, di qualche ora prima a bloccarla.
Annuì e senza aggiungere altro si andò a sedere al proprio posto.
Osservò come Uriele si destreggiasse tra i banchi, come se quella fosse la vocazione di sempre. D’un tratto, sotto i capelli lunghi, vide una cicatrice. Era ormai cicatrizzata da tempo, però pareva che di tanto in tanto si infuocasse, come se divenisse improvvisamente rossa. Non ricordava se l’avesse vista prima, ma sentì una strana forza richiamarla. Seguì con i battiti del cuore accelerato a mille una voce che dentro di lei le imponeva di restare seduta e fingere che niente fosse successo, eppure il ciondolo in fondo alla sua collanina, quel pesce che le aveva regalato il padre, pareva vibrasse, come a contatto con qualcosa. Era una specie di richiamo che, come sempre, non avrebbe dovuto seguire.
Qualcuno la scosse per la spalla.
Si voltò di scatto, trattenendo rumorosamente il respiro, e i suoi occhi incontrarono quelli di Marco, che la guardavano interrogativi.
Il contatto che si era creato tra tutta se stessa e quella strana cicatrice si dissolse all’istante e la mente ora fu sgombra da quelle voci che sentiva nella testa. Ora ascoltava solo tante domande. Che cosa era successo? Che cosa le stava accadendo in quei giorni? Ma soprattutto, quand’è che Marco era tornato in classe?
- Tutto a posto?- sussurrò, per non essere sentito dal professore, che intanto era voltato di schiena e stava riempiendo la lavagna di strani graffiti che per tutti sarebbero dovute essere incognite e formule già conosciute.
Lo sguardo di Marco era preoccupato, e lei fu sollevata. Allora non era finita la loro amicizia. Non sapeva perché ma era sicura di quello che pensava.
Gli sorrise, felice di nuovo di riavere il suo migliore amico al suo fianco. E scosse la testa.
- No, va tutto bene- rispose.
Non finì, però, la frase che Uriele si voltò ed esclamò:
- Voi due, là in fondo!-
Si voltarono verso il professore. Is arrossì violentemente. Era la prima volta che la rimproveravano in classe, e un duro colpo al suo orgoglio.
- Smettetela di chiacchierare e seguite la lezione!- ordinò ai due, per poi tornare a spiegare tutto.
Is lo guardò male. Quando sarebbe tornata a casa l’avrebbe rimproverato ben bene lei. Ma come si permetteva? Gonfiò la faccia e assottigliò lo sguardo. Da fuori poteva sembrare buffa, infatti la compagna di banco riuscì a stento a trattenere le risate. Strinse forte i pugni, fino a far entrare le unghie nei palmi delle mani.
In mente ormai c’era un solo obiettivo.
Vendetta.
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=360634