Rebellion war di Tiferet (/viewuser.php?uid=73448)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** capitolo primo ***
Capitolo 3: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 4: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 5: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 6: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
- Prologo-
Antefatti della
Ribellione
All’origine del
Mondo e dell’Universo l'Onnipotente era un’unica forza che governava
e sedeva su un trono nel bel mezzo del Nulla.
Aveva tutti i poteri del Bene insiti in lui, e
riusciva a guardare al Passato e al Futuro. Ahimè, era il Presente che lo
preoccupava. Si sentiva così triste che, un giorno, decise di creare
Qualcosa.
Si tolse una
piccola particella di luce e la gettò nell’immensità del vuoto, dove si replicò
migliaia e migliaia di volte. Le particelle di luce si fusero insieme e
crearono una grande esplosione, dalla quale si divisero due universi: l’Universo
Materiale e l’Universo Spirituale.
Con grande zelo,
l’Altissimo creò il Paradiso e gli Angeli, entità di puro spirito a sua immagine
e somiglianza. Donò loro tutte le Virtù, che si
divisero.
Donò loro la
capacità di poter comunicare tra loro con voci melodiose, la luce intensa che
brillava per ognuno, e dodici ali ad ognuno di
loro.
Erano una corona
immensa che volteggiava attorno a lui.
- Miei figli
spirituali, vi Amo. Vi ho creati affinché possiate divertirvi e gioire per ogni
cosa. Vi ho dato entità di puro cuore, e con quel cuore risplenderete sempre di
più. Amatevi tra di voi, e io sarò felice di guardarvi-, disse
loro.
Gli angeli erano
felici, ma un giornochiesero al Padre di tutti nuovi
fratelli.
- Oh, mio Eterno
Signore-, disse il più bello, invocandolo. Aveva capelli neri che gli arrivavano
alle natiche e un corpo scolpito. Era l’angelo più desiderato dagli angeli
dell’amore carnale e spirituale. Pregava con gli altri il Padre, a testa china.
– Ti chiediamo di rendere bello anche l’Universo Materiale. Creaci dei nuovi
fratelli, e noi mostreremo ai Materiali la via del
Bene-.
Dio guardò
quell’angelo splendente. Era così bello, lo ammetteva persino lui, che gli
rispose con la voce del cuore.
- Tu sarai
Lucifer, e per te farò un uomo e una donna che abiteranno quel luogo che ho
impiegato sette giorni e sette notti per rendere così bello, e che voi Angeli,
figli prediletti, avete colorato con tanta
diligenza-.
Detto ciò,
l’Onnipotente creò dal fango e dalla terra un uomo, che somigliava a lui molto
più degli Angeli. Non aveva ali, poiché l’avrebbe sfigurato. Era così bello che
se ne innamorò. E da lui creò una donna, con lunghi capelli neri e un paio di
occhi dal color dei lapislazzuli, tirandola dal costato
dell’uomo.
- Tu sarai Adamo-,
disse all’uomo, - e tu sarai Eva. Voi vivrete qui, sul Paradiso Terrestre, a
metà tra Cielo e Terra. Potete fare tutto quello che volete, ma non dovete
mangiare dal melo che c’è qui-.
Se ne andò, e si
ritirò.
Ogni giorno che
passava, guardava interessato quegli uomini che si affannavano a cercare di
sopravvivere, evitando scrupolosamente il
melo.
Non si accorse,
però, del malcontento che aveva generato nel suo vecchio figlio prediletto,
Lucifer.
L’Angelo si
aggirava pensieroso per tutto il Paradiso, quando incontrò Lilith, un
bell’angelo dalle fattezze pronunciate e un paio di labbra carnose e
rosee.
- Lucifer-, lo
chiamò lei. – Cosa succede?-
- Il Signore
nostro Padre dedica tutto il tempo ai nostri fratelli materiali, che sono sicuro
lo tradiranno non appena manderà gli Angeli a far loro
compagnia-.
Lilith gli
sorrise, concordando.
- Sarebbe bello se
Adamo tradisse l’Onnipotente, non scegliendo Eva, ma peccando di lussuria-
continuò il bell’angelo, che iniziava a perdere piano la lucentezza, mentre
permetteva alle Tenebre di entrare nel suo
cuore.
E così, Lilith, in
accordo con Lucifer, scese sul Paradiso Terrestre e tentò Adamo, giacendo con
lui.
Questo episodio
fece adirare Dio, che chiamò a rapporto Lilith e Lucifer davanti a tutti gli
altri angeli.
Li cacciò dal
Paradiso, condannandoli a vivere per sempre insieme ad Adamo ed
Eva.
- No!- rispose
Lucifer, alzandosi e guardando il Signore in volto, rimanendo
estasiato.
- Lucifer! Osi
disobbedirmi?- tuonò adirato l’Altissimo.
- Oh, Signore. Sì,
io oso. Perché passate il tempo a dare la Vostra attenzione a due esseri che non
valgono niente e che possono tradirvi? Perché non dedicate la Vostra attenzione
a noi umili servitori e fedeli figli da quando ci avete creato? Lilith non ha
fatto altro che dimostrarvi la fragilità della volontà dei Materiali-, disse
superbamente.
- Lucifer, con
questo atteggiamento ti stai dimostrando un Angelo invidioso, e in questo posto
l’invidia non è contemplabile-, gli rammentò. – Senza ricordarti che non avevi
alcun diritto di guardare il Mio Volto-.
- Signore!-
continuò Lucifer alzando la voce, - io sono potente quasi quanto voi, me lo
dovevate!-
Adirato sopra ogni
dire, e deluso dal suo bellissimo figlio, si intristì nel vederlo trasformarsi
in un essere che di bello e divino non aveva più niente. Vide la sua anima
oscurarsi e cadere giù sulla terra.
Mandò gli altri
angeli sulla terra per insegnare agli uomini i piaceri del lavoro e
dell’amore.
Lilith, invidiosa
che Adamo avesse preferito Eva a sé, scese sulla Terra e andò a trovare
Lucifer.
- Dobbiamo tentare
gli uomini, affinché quel posto in cui stanno sarà a loro
precluso-.
Guardarono in alto
e videro una terra, a metà tra Terra e Cielo, dove vivevano beati i Materiali e
dove gli Angeli insegnavano loro come vivere in
armonia.
Lilith, così, mutò
la sua forma in un giovane bello e aitante, che diede ad Eva una mela,
donandogliela come il frutto per la più bella. Eva, che non conosceva malizia,
andò da Adamo e gliene offrì un pezzo.
Quando Dio se ne
accorse, notò che era la mela colta dall’albero
proibito.
Si adirò così
tanto che comandò a Camael, uno splendido angelo dai capelli biondi come il
grano e possente come una montagna, di cacciare i suoi figli prediletti dal
Paradiso, dando a Eva la possibilità di fare figli, ma partorendoli con dolore,
e ad Adamo il dovere di vegliare su Eva e sui suoi figli e di lavorare con
fatica.
Si ritirò triste,
mentre gli angeli, che scendevano per aiutare i figli di Adamo ed Eva, e tutta
la loro progenie, cadevano in tentazione.
Quando si accorse
che gli Angeli cadevano, Dio li divise in
categorie.
Ai Serafini diede
il compito di salvaguardare il suo trono, donando loro sei ali in tutto. I
Cherubini avevano quattro ali ed erano posti accanto al suo trono. I Troni
portavano, quando lo desiderava, il Suo trono nel Cielo; erano dei mutaforma:
ruote per trasportare il trono, angeli per il resto del
tempo.
Nel cerchio
sottostante vi erano le Dominazioni, che riferiscono gli ordini ricevuti dai
Serafini, dai Cherubini o da Dio stesso, agli angeli di Coro inferiore. Insieme
a loro c’erano le Potestà, custodi della Storia, le Virtù, che osservano gli
uomini.
Nell’ultima
gerarchia vi erano i Principati, angeli guardiani delle nazioni e delle contee,
e tutto quello che concerne i loro problemi e eventi, inclusa la politica, i
problemi militari, il commercio e lo scambio. Uno dei loro compiti era quello di
scegliere chi tra l'umanità potesse dominare. I Principati erano accompagnati
dagli Angeli, ovvero l’ordine più basso tra la gerarchia celeste, che erano
inviati agli uomini come messaggeri della Divina
Volontà.
Infine c’erano gli
Arcangeli, che erano pochi eletti dai vari Ordini, che si erano distinti per
diligenza, caparbietà, e fede in Dio, e donò loro tre paia di ali splendenti dai
colori sgargianti.
Tutti gli Angeli
si impegnarono da allora, in una lotta contro i demoni, angeli caduti che
avevano perso la fede in Dio, cedendo al
peccato.
E mentre l’umanità
è tuttora divisa tra Bene e Male, continuamente tentata e riportata sulla retta
via, all’interno del Cielo Dio si era ritirato da tempo, rimuginando pensieroso
sugli sbagli che aveva compiuto.
Le legioni degli
Angeli, capeggiati da Michael, andavano e tornavano dalla Terra, dove si
combattevano le battaglie, al Cielo. Talvolta vincevano, talvolta si ritiravano
strategicamente, e quando succedeva Michael era davvero
inavvicinabile.
Riusciva ad avvicinarlo
un unico angelo.
*Angolo della scrittrice*
Ed eccomi qui, con una storia non proprio
idilliaca, che narra di un amore che già da come nasce non fa presagire nulla di
buono. Spero che vi piaccia. Aspetterò vostri commenti, siano essi buoni o meno.
Presto troverete anche il primo capitolo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** capitolo primo ***
Capitolo primo
Tafriel
passeggiava al fianco di Haniel, uno splendido angelo androgino dai capelli
biondi e così lunghi che parevano confondersi con il campo di grano dove si
trovavano.
Entrambi vestiti
con lunghe toniche dalle stoffe cangianti e leggere, i due angeli parlottavano
tra di loro.
Tafriel era
convinta che chi non conoscesse la vita nel Paradiso non avrebbe mai potuto
immaginare che era un po’ come la vita sulla Terra. A dirla tutta, era la vita
sulla Terra che somigliava alla vita in Cielo, e questo grazie a quegli angeli
che avevano il compito di guidare nelle azioni i mortali. Quanto ai mortali, era
difficile che conoscessero la vera identità delle persone con cui parlavano o
che frequentavano.
Ed era proprio
sulle persone che si frequentano che Haniel e Raziel ci mettevano lo
zampino.
Haniel,
l’arcangelo delle passioni terrene e del coronamento sessuale della ricerca del
completamento di due persone, era un angelo solare, che quando guardava tutti
con quegli occhi azzurri pareva che quasi riuscisse a capire le voglie sessuali
di una persona. A dirla tutta, le conosceva tutte, nei minimi particolari.
Quanto a Raziel, era tutt’altro. Era l’arcangelo dell’amore incondizionato, e a
volte era in conflitto con l’Androgino.
Era molto
complicato il loro rapporto, perché si amavano, ma allo stesso tempo si
detestavano benevolmente, e quando scappavano liti divine su chi fosse il più
splendente, Tafriel scappava sempre. Era convinta che più parlassero a quel
modo, più Belfagor assumesse potere.
Sorrise
benevolmente a Haniel e si strinse le
spalle.
- Non saprei
dirti. Azrael è sempre così impegnato con quelle carte burocratiche che scrive
per il Signore Innominabile, che non ha mai tanto tempo per me- ammise
afflitta.
Se gli angeli
avessero un cuore ben definito dentro di loro come gli umani, probabilmente in
quel momento avrebbe sentito una fitta al
petto.
Haniel annuì
piano.
- E
con…?-
Tafriel lo guardò
scandalizzata.
- Oh ti prego,
Haniel! Non dire niente! Hai promesso- esclamò l’arcangelo, cancelliere del
cimitero delle entità spirituali probe e
improbe.
L’altro sorrise e
le fece l’occhiolino.
- Ogni promessa è
debito, cara la mia Tafriel. E poi ti dovevo un favore- ridacchiò
lui.
Sembrò che la
bellezza di Tafriel splendesse ancora di più quando ricordò quei grandi occhi
castani in cui ardeva una forza indicibile, e i capelli corti e ribelli il cui
colore si avvicinava molto al rosso fuoco, che parevano incendiarsi ogni volta
che tirava fuori la sua spada che ardeva di Fede in
Dio.
Cercò di non
pensarci, ma i suoi pensieri erano così forti che non ci riuscì del
tutto.
- Di certo Azrael
non è un grande amante, ma per lui tu eri il meglio a cui potesse aspirare.
Quanto a te…- la squadrò.
Tafriel sentì
quello sguardo desideroso, che l’angelo aveva sempre, sul suo corpo perfetto,
coperto solo dal leggero velo della tunica color delle
nuvole.
Si strinse una
mano al petto, per cercare di coprire pudicamente le sue forme
armoniche.
- Abbiamo fatto un
gran lavoro su di te, Tafriel-, continuò
Haniel.
L’angelo si portò
i capelli bruni dietro le orecchie, mentre un leggero rossore le tingeva le gote
pallide.
- Non vorrai
rinfacciarmi ancora quanto abbiate lavorato tanto e bene per farmi tornare in
vita, vero?- lo stuzzicò la donna angelo.
Haniel si portò
una mano alle labbra sottili e rosa pallido.
- Potrei farlo. Ho
sbagliato solo a renderti così pudica con le persone che non sono tuoi amanti-,
si lamentò sorridendo.
Tafriel rise e
corse via, a braccia aperte, accogliendo in un abbraccio muto ed espressivo
l’aria che soffiava sempre di più. Quello significava solo una
cosa.
Finalmente era
tornato.
Si voltò verso
Haniel e gli sorrise.
- Permetti?-
chiese, educatamente.
L’Androgino rise
sonoramente e le fece segno di andare.
- Farei un torto a
me stesso se non ti lasciassi andare, cara-, le urlò
dietro.
Tafriel era troppo
impegnata a percepire la presenza del suo amato, che neanche lo stette a
sentire, né tento di ascoltare le parole che le avesse rivolto. Era anche
l’angelo dell’amor carnale, ma proprio di sentimenti non sapeva nulla. Non
poteva immaginare come stesse bene quando era con Lui. La sua aura si
illuminava, e pareva che nel Paradiso ci fossero solo loro
due.
Ricordava come
all’inizio era stato tutto così confuso. E invece eccola lì, che si avvicinava
sempre più al luogo in cui era atterrato l’esercito di Dio, sceso in Purgatorio
per respingere l’attacco di alcuni demoni che erano riusciti ad oltrepassare i
limiti.
Le ali di tutti
quegli angeli erano un turbinio di piume luminescenti e non permettevano neanche
alla sua vista più sviluppata dei mortali di distinguere le varie forme. Solo
quando tutti gli angeli le ebbero ritratte, intravide un angelo che brillava più
degli altri.
Era una visione
che riusciva a togliere il fiato persino a lei, cancelliere duro ed inflessibile
del cimitero degli angeli.
- Anche questa
missione è riuscita-, esclamò Michael non appena ebbe ritratto le ali. Sembrava
quasi annoiato dal prospetto della vita che l’avrebbe aspettato in quel posto
completamente noioso, circondato solo da Serafini e Cherubini che, solo perché
ruotano attorno ai piedi del Grande Signore, si credono di essere chissà chi. I
Dominatori poi, li odiava completamente. Certo, quando gli ricordavano che era
il momento di sterminare i demoni era contento di vederli, ma per il resto
potevano anche rimanere nelle loro stanze. O, al massimo, si sarebbe
accontentato di non sentire la loro puzza di azoto ovunque si girasse in quel
posto.
Posò una mano sul
suo fianco sinistro, e ghignò nel sentire il fodero della spada che quasi
vibrava al suo tocco. Quella spada era anche la sua maledizione, perché doveva
trattenersi davvero quando l’indossava a non sfoderarla per qualsiasi
stupidaggine. Afferrò una sigaretta, mentre Zophiel e Zadkiel si avvicinavano a
lui.
- Oh, Michael.
Come devo dirtelo? Fumare quella robaccia non ti farà star bene-, gli fece
notare Zadkiel.
- Di certo non mi
ucciderà-, ribatté lui, mentre avvolgeva quell’angelo in una nuvola di fumo
grigio trasparente, quasi come se si trovasse dietro un vetro sporco, molto
sporco. – Piuttosto, avete anche stavolta adempiuto al Suo Volere.
Soddisfatti?-
Li guardò
divertito, mentre si scambiavano un’occhiata
imbarazzata.
- Michael, abbiamo
segnato tutte le nostre mosse, come sempre-, disse Zophiel, senza pensare molto
all’ altezzosità che caratterizzava quel ragazzo, che di anni umani ne
dimostrava poco più di una ventina.
- Chiediamo di
poter sciogliere le nostre schiere-, continuò
Zadkiel.
Michael fece loro
segno di andare con la mano, insofferente.
Aveva sentito
l’odore della sua donna, e non voleva impiegare il tempo in quelle pratiche
burocratiche che odiava davvero.
- Siete
efficienti, miei cari Dominatori. Ora però lasciatemi in pace, okay? Ho bisogno
di ritrovare un po’ me stesso. Torno nelle mie stanze-, affermò boriosamente
alzandosi e continuando a fumare tranquillamente la sigaretta stretta tra indice
e medio della mano destra. Riusciva a sentire la carta che s’accartocciava a
poco a poco, e questo lo faceva stare bene e tranquillo con se stesso.
Tranquillo, però, sempre relativamente al momento di tornare in campo contro i
demoni, che stavano diventando furbi e iniziavano ad
organizzarsi.
Si allontanò,
camminando tranquillamente fuori, tra gli angeli, che si guarivano l’un l’altro
scambiandosi amore e tutte quelle cose là, che piace fare loro. Che esseri
patetici!
Vide la sua donna,
il suo angelo, fermo in mezzo a quel campo di grano. Quei capelli castani
risaltavano ancora di più, lunghi e dritti sulle sue spalle, coprendo le sue
forme.
Le sorrise, e vide
in lontananza ricambiare il suo sorriso.
Era bellissima, e
non vedeva l’ora di stringerla al suo petto. Quelle settimane parevano essere
stati mesi, se non anni, lontani dalla sua
bella.
Riprese a
camminare come se nulla fosse.
Finì quella
sigaretta, e per il nervosismo se ne accese un’altra. Perché era sposata? Non
era proprio pensabile. Era così attraente che era impossibile che fosse stata
una volta promessa e ora sposata all’angelo della Morte, Azrael. Lui era così
spocchioso e vecchio, sempre dietro una scrivania e a fare da avvoltoio ai
Mortali, mentre lei era così giovanile, allegra, passionale, bella,
decisa…
Incontrò un paio
di angeli di grado inferiore, e non si degnò di salutarli. Entrò nelle sue
stanze sbattendo la porta. Si guardò attorno e tutto pareva come l’aveva
lasciato. Il letto a due piazze con le coperte tirate (probabilmente era passato
qualcuno di buona volontà – e ce n’erano davvero in Paradiso – che gli aveva
fatto arieggiare la stanza) era sempre illuminato per metà dalla luce che sempre
spendeva, sotto delle finestre arcuate grandi con le tende rosse che donavano
alla stanza un piacevole luogo in penombra.
Era il suo
rifugio, con tutte le armi in esposizioni e il Libro dei Libri, la Storia di
tutti gli Angeli.
Si avvicinò al
leggio, aprendo il Libro all’ultima pagina, vedendo le parole comparire con
inchiostro nero sulle pagine ingiallite.
“E i demoni salirono in Purgatorio, trascinando con sé
le anime in cerca di Perdono. Il grande Arcangelo della Fede, potente, seguito
da altri Angeli pieni di Fede, scese allora dalle divine dimore e con l’ardore
della sua lama incandescente insegnò la forza del Signore Dio nostro, che tutto
può e tutto vede. Le loro anime disoneste e pesanti furono stroncate e
rinacquero sotto nuova luce, più oscura di prima, smarrite e senza ricordi, nel
grande Cimitero Celeste, sito lontano dai Cieli e dalla Terra, impossibile alla
vista sull’Eden, riposo delle anime giuste che una volta erano state Mortali
…”
Sorrise e chiuse,
mentre le scritte ancora si mostravano. Probabilmente nel “grande Cimitero
Celeste” la sua donna aveva il suo bel
daffare.
Si stese sul
letto, afferrando da sotto la tunica da combattimento il suo caro pacco di Lucky
Strike red, comprato di contrabbando, fingendosi un uomo. Posò il filtro tra le
sue labbra e guardò la punta, desiderando che si accendesse da solo. Prese lo
zippo e inspirò, sentendo l’odore forte della sigaretta diffondersi ovunque,
dandogli un senso di sollievo.
- Fai presto-
sussurrò tra sé, mentre la sigaretta tra le sue labbra si muoveva su e
giù.
Spalancò le sue
ali del colore delle nuvole, e scese dal campo di
grano.
Con l’arrivo di
Michael, aveva anche molto da fare. Amava vederlo tornare, ma quando andava al
cimitero ogni volta era una storia diversa.
Atterrò
elegantemente, ritirando le ali, che le sentì rimpicciolirsi, e si avvicinanò ai
cancelli. Stranamente pareva tutto
tranquillo.
Ogni anima, che
ormai non aveva più distinzione, né grado, né alcun ricordo, entrava in quei
cancelli dopo essere segnati. Molti di quelli che una volta erano stati angeli e
caduti entrarono tra quei cancelli, aspettando che qualcuno li facesse
uscire.
La rinascita era
un complesso processo, di cui si occupavano alcuni Angeli superiori, come i
Cherubini. C’erano anime a cui avrebbero donato il ricordo, altre che invece
avrebbero dovuto imparare tutto daccapo.
Si avvicinò a
Lorhi, un angelo dal viso giovane, che era intento a scribacchiare qualcosa su
un grande registro.
- Quanti ne
abbiamo registrati?-
Il ragazzo alzò lo
sguardo sul Cancelliere del Cimitero Celeste, con sguardo stanco, ma tranquillo
e fedele.
- Dieci demoni e
sette angeli- riportò tranquillo.
Gli
sorrise.
- Andiamo sempre
peggio, eh? L’altra volta i demoni erano di più-
constatò.
Uno strano senso
di sollievo si impossessò di lei. I tempi per sconfiggere Satan erano sempre più
lontani, e ciò significava che poteva stare più tempo con Michael, soprattutto
dopo la sua ultima richiesta fatta a Metatron, il segretario dell’Altissimo, un
serafino dai modi duri e bruschi, ma molto
efficiente.
- E’ meglio così,
non trovi?- chiese lui, guardando verso i
cancelli.
- Sì-, si limitò a
rispondere allontanandosi da Lorhi e attraversando i cancelli alti e imponenti.
Andò a controllare le nuove anime che erano tutte ammassate in un angolo, che
cercavano di proteggersi l’un l’altro.
Erano come
bambini, tornati allo stato primordiale, senza che Dio concedesse loro la
Conoscenza. Fece in loro indirizzo il segno della
croce.
- Che la Fede vi
accompagna ovunque vogliate andare. Siete anime pure, e così resterete per un
po’, dimenticando ogni cosa tranne queste mie parole-, recitò meccanicamente,
come se stesse recitando una poesia senza
pathos.
Si allontanò da
quelle anime, osservando le altre anime guardarla come se fosse la prima volte.
Stupide e sciocche anime che hanno scelto la strada di una possibile quanto mai
probabile rincarnazione, dal momento che erano semplici Angeli, e semplici
Demoni. O meglio, neanche Angeli o Demoni, erano solo un ammasso di azoto e
amore che aleggiava senza forma e senza coscienza nell’azzurro
Cielo.
Uscì dal Cimitero
e salutò Lorhi che parlava con altre ragazze
angelo.
- Lorhi, ho
adempiuto ai miei obblighi verso queste anime ignare e pure. Ora lascio tutto
alla tua fidata supervisione-.
Neanche aspettò
che quello le rispondesse, che già aveva spalancato le
ali.
Con una spinta, si
alzò in volo, con il viso alzato contro il vento, che le gettava indietro i bei
capelli scuri.
Stava arrivando
dal suo amato.
- Tafriel!- la
chiamò una voce potente.
Si voltò, fermando
il suo volo verso il Paradiso. Quella voce cupa, forte, che pareva simile a
quella del Grande Signore, apparteneva solo ad un Angelo, e sapeva chi
fosse.
- Azrael, mio
signore-.
Gli sorrise e si
avvicinò a lui in volo.
Ad ogni battito
d’ali sentiva Michael sempre più distante.
Il Dominatore
allungò una mano, coperta da un guanto anch’esso nero, verso di lei, sfiorandole
la guancia con le dita.
- Dov’eri? Ti
abbiamo aspettato alla riunione-.
La riunione! Non
ci credeva, l’aveva dimenticata. Era una riunione importantissima, per decidere
dove avrebbero dovuto mettere le anime ignoranti nel caso il Cimitero Celeste si
fosse riempito prima del tempo.
Si strinse nelle
spalle, guardandolo colpevole.
- Scusa, mio
signore, ma l’ho dimenticato-.
Non fu felice
della risposta, glielo lesse in volto. Quando era adirato, o avrebbe tanto
voluto rimproverarla, non alzava mai la voce, limitandosi a guardarla con
rimprovero, facendola sentire così piccola che per qualche attimo desiderò di
sparire.
Michael, al
contrario, non avrebbe mai fatto così. Avrebbe riso e l’avrebbe abbracciata
dicendo “Ti perdono, Tafriel. In fondo come non potrei farlo? Ti amo, e questo
conta più di ogni riunione”… Beh, ripensandoci non le avrebbe detto proprio così, ma avrebbe detto più qualcosa che
somigliasse a ciò.
- Immagino che sia
davvero dispiaciuta, ma ogni tanto faresti bene a presiedere quelle assemblee.
Hai un posto grazie a me, e già iniziano a dubitare sulla tua fedeltà a me,
Tafriel-, disse sospirando.
- Ma come!-
esclamò lei, indignata, e gonfiando il petto. – Ho sempre servito con fedeltà ad
ognuno di voi, e a te specialmente, Azrael, signore del mio cuore prima che
della Morte. Come possono dire ciò? Perché? Con quale espressione in volto hanno
il coraggio di fare queste affermazioni? E’ uno scandalo! Io non potrei mai!-
saltò su.
Voleva andare via,
correre tra le braccia del suo uomo, quello vero, quello che Haniel le aveva
trovato più consono.
Azrael le prese il
viso tra le mani, e lei guardò in quegli splendidi e profondi occhi neri come i
posti in cui la luce divina non splendeva. Aveva sempre paura quando lo
guardava, ma si faceva forza. Una volta lo aveva amato davvero, e non ne aveva
mai avuto paura. Ora temeva che scoprisse la falsità delle sue attenzioni, ed
era ciò che più odiava. Ma un matrimonio tra Angeli era improrogabile. Non
esisteva un tribunale del divorzio, come in Terra, ed era per questo che un
matrimonio tra angeli non era così diffuso come sarebbe potuto
sembrare.
Gli strinse le
mani e gli sorrise.
- Sono calma. Ho
solo bisogno di stare un po’ da sola-, disse
affranta.
L’Angelo della
Morte annuì.
- Sì, mia bella
cancelliera. Và, ritirati nelle tue stanze, mentre io assolvo ai miei compiti
sulla Terra. Ti cercherò quando sarò
tornato-.
Lei sorrise
piano.
- D’accordo,
allora. E non uccidere troppo-.
- Ho bisogno
di…-
- Sì, sì, lo so.
Se non muore la gente non avremo più anime per i nuovi nati. Penso che sia ora
che il Signore Dio Nostro ne crei delle altre-, rispose lei, un po’
piccata.
- Con il rischio
che le altre diventino Demoni?-
- Potrebbero
diventare anche Angeli- rispose lei, baciando quelle labbra fredde. – Ma ora và,
fa il tuo lavoro, e dopo torna da me…-
- Come sempre-
rispose lui, ricambiando il bacio e planando verso piani
inferiori.
Michael. Aveva
bisogno di Michael.
*Angolo
dell'autrice*
Devo
ammetterlo, cari lettori: questa storia sta appassionando anche me! Ringrazio
Echoes che ha commentato il prologo. E' vero, è solo l'inizio, e dal primo
capitolo non penso abbia capito qualcosa (xD), ma la storia è un crescendo di
suspance e novità mozzafiato.
Spero che
continuiate a seguirmi...
Baci,
baci...
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Capitolo secondo ***
Capitolo
secondo
Se si crede in Dio, non
sempre sembra che si è ricambiati.
Era successo ai Nephilim,
bastardi nati tra Angeli e Mortali. Non erano molto diffusi, in
verità, benché
non pochi angeli fossero stati dannati e cacciati dal paradiso per
essere giaciuti
con degli umani. Solo un angelo aveva dato il seme ed era ancora uno
dei
preferiti del Signore: Raffaele.
L’Arcangelo, dalle grandi
doti curative, aveva aiutato a dare alla luce una splendida fanciulla,
una
bambina così graziosa che pareva splendente, ma allo stesso
tempo così pura che
il padre aveva espressamente chiesto di essere egli stessi il suo
Angelo
Custode.
Il prezzo per quella richiesta
fu caro.
Raffaele era un angelo
senza ali, consapevole di vivere come un immortale sulla Terra, ma in
Paradiso
mai più sarebbe potuto tornare. Quei dodici fuochi
iridescenti che prima gli
spuntavano maestosi dalle scapole erano adagiati in una teca di
cristallo al
centro di una stanza tra le dimore degli angeli, dove alloggiava prima
che
fosse cacciato via.
La bambina, Isfrail,
ignara di tutto, persino del significato del suo vero nome, e della sua
maledetta e insieme benedetta sorte, cresceva sola con il padre. Aveva
avuto
un’infanzia travagliata, perdendo la fede quando la madre le
si allontanò per
sempre a causa di un incidente d’auto. Attorno a
sé percepiva solo confusione,
fino a che non riuscì a sentire la voce di Raffaele
ripeterle di non perdere la
fede, e di essere più forte della tentazione di cadere
nell’oblio.
Si riprese, ma non del
tutto.
Raffaele era preoccupato
soprattutto per la sua piccola bambina. Non poteva far altro che
contemplarla
come un pellegrino. Aveva preso le labbra e il mento dalla madre, e
tutto il
resto da lui. Era stata da sempre oggetto di invidia per quella chioma
lucente
di un colore a metà tra il biondo scuro e in castano chiaro,
che talvolta
assumeva strane sfumature rosa pallido. Aveva un carattere molto
insicuro,
nonostante si ponesse alla gente cercando di dare
l’impressione di una persona dura,
forte e vivace.
Raffaele confidava
ciecamente nel suo sesto senso, che si attivava quando i
“pericoli” erano
vicini.
L’Arcangelo aveva
dimenticato come si volava, ma anche se non poteva tornare in Paradiso,
non
sarebbe comunque volato via pur restando accanto a sua figlia, pronto
ad
aiutarla per mostrarle la strada giusta per arrivare al Paradiso.
Faceva tutto
ciò perché sapeva che i Naphilim potevano
raggiungere la protezione divina.
Infatti, ogni Nephilim di
cui si ricordava, aveva perduto la fede, e, di conseguenza, la via, ed
era
stato condannato a patire il dolore tra le fiamme del regno di Satan.
Essere un
Nephilim non era una cosa facile, perché si rischiava di
cadere più facilmente
in tentazioni.
Quel giorno Raffaele era
davvero preoccupato, sebbene nulla avesse a che fare direttamente con
la retta
via, ma lo era ancor più perchè non avrebbe
potuto agire in alcun modo.
Si era limitato a
guardare la figlia che si vestiva in modo appariscente, mentre cercava
disperatamente di apparire una persona sicura di sé, capace
di prendere il
mondo tra le sue mani e decidere il destino di ogni persona che le
stava
accanto. Quei vestiti marcavano troppo la differenza tra i sessi, che
in
Paradiso non esisteva. Raffaele pensava che ognuno doveva essere
completamento
per l’altro, fonte di sostegno. Ma più viveva
sulla terra, più capiva che le
cose andavano diversamente, perché erano i più
forti a sopravvivere. Chissà se
in realtà quello non fosse un piano divino per ripristinare
un qualche
equilibrio, quello che ricordava a malapena c’era stato prima
della creazione
dei Materiali.
Ad ogni modo, non vedeva
come rientrasse in quel piano il fatto che la figlia dovesse uscire con
un
ragazzo. Si rese conto che, se non avesse voluto far covare alla figlia
sentimenti di odio nei suoi confronti, era ora che le permettesse di
uscire di
casa. Fu molto più sereno quando capì che ci
sarebbero andati anche altri
amici. Nonostante tutto, però, aveva voluto controllare
personalmente che non
ci fosse odore di zolfo nei posti dove dovevano andare, e che il
ragazzo stesso
che avrebbe dovuto accompagnarla non fosse in realtà un
demone.
Sicuro, la lasciò andare,
senza prima donarle un amuleto con un ciondolo a forma di pesce.
- Tienilo sempre con te-,
si raccomandò lui, sulla porta di casa, prima che andasse
definitivamente a
quella serata.
Sentì una strana
sensazione crescere in lui. Era l’unica figlia che aveva mai
avuto, era egli
stesso il suo angelo custode, e, in più, sapeva bene che una
Nephilim che
odorava così di azoto e purezza era carne davvero prelibata
per i demoni. Aveva
deciso di donarle il proprio amuleto, che avrebbe funzionato contro
chiunque degli
Inferi avesse brutte intenzioni con la sua bambina.
La guardò negli occhi,
che le ricordavano così tanto la Mortale che un tempo aveva
amato, e che amava
ancora tantissimo, e le sorrise incoraggiante.
- Non fare tardi- si
raccomandò.
Isfrail, contenta che il
padre le avesse permesso di uscire con un ragazzo, gli baciò
una guancia senza
dire niente e si infilò nella macchina di Giuseppe, che
l’avrebbe dovuta
accompagnare nel pub più esclusivo di quella
città.
Aveva il cuore che le
batteva forte. Era il suo primo vero appuntamento, e aveva
già sedici anni.
Alla sua età certe tipe che andavano a scuola con lei non
avevano più
appuntamenti, perché dovevano badare ai loro figli. Non che
lei morisse dalla
voglia di diventare madre! Cattolica com’era, non pensava
neanche lontanamente
di fare quelle cose, né poteva pensare che i ragazzi che le
chiedevano di
uscire ci pensassero.
Sentiva, però, che il
padre le stesse nascondendo qualcosa. Credeva in lui, e aveva deciso
che,
nonostante il suo sesto senso, voleva dargli la fiducia che si meritava.
Quando entrò al fianco
del suo accompagnatore nel Buvier, in locale più in di quella cittadina di provincia,
sentì l’odore di fumo che
impregnava la stanza. Sorrise tra sé, benedicendo la sua
salute di ferro.
Ed ora la nuova Isfrail
doveva darsi da fare. La strafottente e sensuale Isfrail doveva fumare
e bere,
e scatenarsi non appena l’ambiente si fosse riscaldato un
po’.
Era solo questione di
tempo, dopodichè avrebbe potuto dare libero sfogo alla
creatura che aveva
creato per fronteggiare la vita con meno timidezza e più
impetuosità.
Un completo silenzio
avvolgeva Tafriel. Era uno di quelli che quando ti circondano, ti
inquietano.
Non c’era alcuna allodola o alcun usignolo o pettirosso a
tenerle compagnia.
Solo in lontananza riusciva a sentire il suono del fiume divino che
scorreva
lento e cadenzato.
Era, però, un rumore
così
distante che a stento riusciva a sentirlo.
Così era il Paradiso:
come un ripetitivo incontro con se stessi; e proprio per questo era il
luogo
adatto ad anime oneste e pure come quelle degli Angeli probi. Chi non
si
sentiva in pace con se stesso, faceva di tutto per scappare.
Tafriel si avvicinava più
velocemente possibile, pensando alle anime nei cimiteri. In quei luoghi
di
ritrovo spirituale, lo sguardo di Dio era più attento e
vigile. Lei, per ora,
Non aveva bisogno si una consulenza con l’Altissimo.
Sospirò sollevata quando,
finalmente, intravide le dimore divine, distanti le une dalle altre,
per
assicurare ad ognuno di loro privacy. Era difficile trovare qualcuno
tra gli
Angeli che amasse la solitudine, ma c’era a chi piaceva.
Entrò in una delle belle
casupole senza bussare.
Vide il suo Michael
addormentato, steso con la sigaretta che gli penzolava tra le mani,
ormai quasi
finita. Gli si avvicinò con cautela e gliela
sfilò lentamente, facendo
attenzione a non svegliarlo.
Una mano l’afferrò al
volo, e due occhi castani la guardavano furenti. Trattenne il fiato
rumorosamente.
Michael si rilassò,
lasciando cadere la sigaretta per terra, che Tafriel tempestivamente
calpestò
prima di essere presa di peso e fatta sedere sulle gambe del
ragazzo-angelo.
Si sorrisero, mentre le
mani di lei accarezzarono gentilmente il suo viso, massaggiandogli la
nuca.
- Ciao Tafriel- disse
lui.
Chiunque l’avesse sentito
parlare, avrebbe pensato che qualcuno si fosse impossessato del corpo
dell’Arcangelo,
talmente era profonda e roca la voce. Tafriel sapeva che non era
così.
- Michael-, sussurrò lei,
felice.
Quante notti lontana da
lui aveva passato a sognare di incontrarlo, e di amarlo fino alla
dannazione.
Sentiva anche in quel
momento l’influsso di Raziel che frenava i loro istinti.
Eppure loro si amavano
non perché così avevano deciso i due Arcangeli
più capricciosi della storia del
Paradiso (forse gli unici), ma perché i loro sentimenti
erano autentici. Non
era stato un colpo di fulmine, piuttosto era giusto parlare di un certo
feeling
tra loro sin dalla rinascita di Tafriel.
- Hai battuto la fiacca
stavolta, eh?!- lo prese in giro.
Il Fedele inarcò le
sopracciglia.
- Come scusa?- chiese,
colto nel vivo.
Lei ridacchiò sincera.
- Mi hai portato solo
dieci demoni …-
Michael sbuffò
innervosito.
- Si stanno organizzando.
E’ sempre più difficile redimere le loro anime-.
Stavolta fu lei a
inarcare le sopracciglia.
- Redimere? Lo sai che..-
- Sì, lo so- la
interruppe. – Non è compito mio-,
continuò, con voce stanca. Si gettò di nuovo
sul letto, con le braccia spalancate. – Eppure dovrebbe
esserlo. Sono io che li
sconfiggo…- si lamentò.
- Stai per caso
rinnegando il tuo essere un Arcangelo?-
- Mai!- replicò con forza
lui, alzando la testa, scandalizzato.
Tafriel sorrise piano, e
si stese accanto a lui, sfiorandogli il corpo con il suo.
Sapeva bene quanto poteva
essere frustrante essere limitati. Se poi lo si aggiunge ad un
carattere focoso
come il suo, allora ritenne che doveva essere grande il sacrificio di
fermarsi
e portare le anime al cimitero.
Chissà il Signore per lei
cosa aveva in serbo.
- Michael-, lo chiamò.
Aspettò che lui grugnisse
in risposta e sorrise quando fu così.
- Chi ero prima di
reincarnarmi?- chiese lei.
L’Arcangelo accanto a lei
fermò il respiro, pensieroso. Lei si alzò per
osservarlo meglio.
- Ho
paura che sia stata un demone, o un angelo caduto. Non lo so, Michael.
Io devo
sapere!-
Ad ogni
parola le sue paure aumentavano, e con esse aumentava la determinazione
di
affrontarle.
L’Angelo
l’afferrò per le braccia e
l’avvicinò a sé.
- Non lo
so, Tafriel-.
Risposta
prevedibile. Era quella di cui aveva più paura.
E se
fosse stata un bugia in verità?
- Non
pensare, però, che ti stia mentendo-, aggiunse lui.
Sorrise,
perché sapeva che lo stava pensando.
- A me
non è dato sapere in cosa vengano reincarnate le anime, ma
se tu sei stata
scelta, il Signore Celeste avrò per te un compito preciso-,
la rassicurò,
accarezzandole la schiena.
Tafriel
sospirò e alzò lo sguardo verso il ragazzo.
- Pensi
che Lui sappia che ora sono qui?-
Silenzio.
-
Probabile-, fu la sua risposta.
La
spostò per guardarla meglio negli occhi. – E pure
se fosse? Se ti ha lasciata
venir qui è perché così vuole-.
Tafriel
sorrise e avvicinò le loro labbra, facendole sfiorare in un
bacio casto, non
come quelli che si scambiavano di solito.
- Spero
che non mi farà mai smettere di tornare qui-, ammise.
Sentì la
mano del ragazzo sfiorarla lungo il fianco, mentre un sorriso malizioso
gli si
dipingeva in volto.
Lei
sospirò, spostandosi su di lui, e ricambiando lo sguardo.
- Che
questo attimi non abbiano mai fine se l’Altissimo
è d’accordo-, disse lui,
avvicinando le sue labbra sul collo della ragazza.
Tafriel
sentì una leggera scossa percorrerle il corpo.
Le ali
si spalancarono ad entrambi.
- Amen-,
sussurrò prima di iniziare a rotolare con Michael nel letto
in un atto che
faceva incontrare corpo e mente, il perfetto connubio delle arti di
Haniel e
quelle di Raziel.
Sulla
Terra, nel Sud Italia, in un paesino dalla collocazione imprecisata, il
Buvier
aveva riscaldato la pista. Nelle gabbie, ragazze poco vestite si
scatenavano a
ritmo di una danza sregolata e note spaccatimpani.
Ben
lontani da quel caos, quattro amici stavano parlottando tra loro,
cercando di
sovrastare il rumore che fuoriusciva dalle casse.
-
Isfrael, dov’è il ragazzo con cui sei venuta?-
chiese una delle ragazze, anche
lei poco vestita.
Isfeal
si guardò attorno e si strinse nelle spalle.
-
Giuseppe? Non ne ho idea!- ammise, bevendo dal suo bicchiere, il terzo.
Non che
le piacesse molto, ma era da copione farlo.
- Che
razza di nome è Giuseppe?- chiese un ragazzo, disgustato.
Isfrael
rise divertita.
- Che
razza di nome è Marco?- lo prese in giro la biondina.
– E’ un nome come un altro!-
difese lei. – Solo perché ha avuto il coraggio di
invitarmi a uscire, col padre
che mi ritrovo. E’ degno di rispetto, anche se il nome non
è di tuo
gradimento-.
Marco,
alto quasi il doppio di lei, si fece piccolo piccolo.
Isfrael
l’abbracciò allegra.
-
Suvvia, non fare così. In fondo non ho detto nulla di male-.
Sentì le
mani grandi del ragazzo sulla sua schiena. Perché non capiva
che le piaceva?
Sospirò così piano che in quel fracasso non si
sentì affatto.
Si
allontanarono l’uno dall’altra, guardandosi per un
attimo. Fecero giusto in
tempo per veder tornare Giuseppe, con l’alito che puzzava
d’alcol.
- Oh,
eccoti qua dolcezza. Vieni con me?- chiese, barcollando.
Isfrael
rise e lo prese per un braccio.
- Vedo
che già vai a tempo-, disse sarcastica.
Non
voleva rovinarsi la serata né per le frecciatine idiote di
Marco, né per l’alito
maleodorante e la scoordinazione del suo accompagnatore (che non stava
per
nulla facendo una bella figura), né per lo stupido ciondolo
che le aveva dato
il padre e rovinava il risultato delle ore che aveva speso a cercare
l’abbinamento
perfetto tra vestiti e gioielli, né voleva pensare a quello
stupido sesto senso
che aveva e le diceva di stare attenta a Giuseppe in quel preciso
istante.
Iniziò a
muoversi sensuale sulla pista da ballo, facendo entrare in
sé il ritmo della
canzone. Sentiva già gli occhi dei più vicini
guardarla interessati.
Stava
andando alla grande. Le ragazze nelle gabbie avrebbero di sicuro
invidiato le
sue mosse libere e i suoi spettatori.
Eppure,
il sesto senso, nonostante i tre bicchieri di bevanda alcolica allo
stato quasi
puro, anzicchè diminuire pareva aumentare sempre di
più.
Iniziava
a sentire davvero caldo, e il respiro le mancava. Vide Giuseppe
avvicinarla,
afferrarla con quelle mani sudaticce e allontanarla dalla pista.
- Mi
stavo divertendo!- si lamentò, cercando di fermarlo. Aveva
un rumore
fastidiosissimo nella testa.
Cercò
con lo sguardo Marco, che era girato dall’altro lato. Aveva
un’ampia schiena,
con delle spalle grandi. Era così attraente anche da dietro.
Le mani
del suo accompagnatore sui suoi fianchi e le sue spalle contro il muro
la
fecero rinsavire. Il rumore nella testa era così forte che
la stordiva.
Le
labbra di lui si posarono sulle sue, bagnandole senza sosta, mentre
infilava
quelle mani raccapriccianti nei suoi pantaloni stretti.
Voleva urlare,
ma appena aprì la bocca, Giuseppe le infilò
dritto in gola la lingua,
impedendole di fare qualsiasi cosa.
Chiuse gli
occhi, iniziando a pregare Dio di preservarle ancora la
verginità. Stava per
scoppiare in lacrime quando si sentì liberata dal peso del
ragazzo. Aprì gli
occhi e lo vide collassare sotto un pugno di Marco, che la prese per
mano e si
allontanò velocemente, mentre uno dei buttafuori si aggirava
da quelle parti.
Corsero
insieme verso l’uscita, e ancora fino alla macchina del
ragazzo. La aprì e fece
entrare con la forza Isfrael, sbattendo la portiera.
Aveva il
cuore che le batteva così forte, che se lo sentiva in gola.
Sul petto della
ragazza, il pesciolino pesava e bruciava, mentre ancora il rumore non
le faceva
capire bene quel che succedeva. I suoi sensi non erano mai stati
così sviluppati
tanto da stordirla.
La
ragazza giardò l’amico salire in macchina. Che era
successo?
Tutto
era per lei così confuso, e il suo sguardo cercava certezze.
In realtà, cercava
solo la certezza che nessuno l’avesse violata.
Rimase
immobile, sperando che fosse lui a parlare per primo.
Quello
battè entrambe le mani sul volante e inspirò a
fondo. Mise in moto, ingranando
la prima, e partì sgommando, desiderando allontanarsi di
lì il più in fretta
possibile.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Capitolo terzo ***
Premessa:
il nome della Nephilim esatto è
“Israfil”. Mi scuso se per caso ho sbagliato a
scriverlo nel precedente capitolo.
Capitolo terzo
A
Marco non interessava guidare bene. Voleva guidare e basta, per
allontanarsi da
quel luogo. E sapeva che anche lei, Israfil, la dolce ragazzina
spaventata che
si era raggomitolata sul sedile accanto al suo, lo voleva.
Israfil
iniziò a tremare. L’emozione era stata tanta, ed
era arrivata come un pugno
nello stomaco. Neanche le piaceva Giuseppe, quel ragazzo
che… neanche riusciva
a pensarci!
Se,
però, non le piaceva quel ragazzo, perchè aveva
accettato ad uscire con lui?
Per cercare di dimenticare l’unico ragazzo che le piaceva e
che, secondo lei,
non le avrebbe mai chiesto di uscire?
Senza
dire una parola, avanzarono tra le strade illuminate artificialmente.
La
biondina si guardava le mani strette in grembo, mentre pregava tra
sè e sè. Non
importava quali preghiere dicesse, semplicemente recitava quelle che le
venivano in mente, tutte quelle che al momento ricordava. Sperava solo
che i
Santi e gli Angeli intercedessero per lei al cospetto di Dio.
Il
suo sguardo cadde sulla mano grande di Marco che cambiava marcia.
Andavano
veloci, e il motore sotto al cofano urlava arrabbiato, mentre
mangiavano
chilometri e chilometri di asfalto, senza una vera meta.
Risalì
con lo sguardo dalla mano al suo braccio muscoloso, e sul suo viso
concentrato
sulla strada. Era paonazzo, mentre gli occhi neri parevano farsi rossi
quando
la luce li accecava.
Provò
a sussurrare il suo nome, ma non reagì, limitandosi a
prendere una curva
stretta a gran velocità. Israfil sentì il cuore a
mille quando il suo corpo fu
sbalzato all’indietro, contro lo schienale del sediolino
anteriore, rimanendo
senza voce quando vide il muro di un palazzo sfiorare lo specchietto
retrovisore.
Non
l’aveva mai visto così sconvolto, con gli occhi
spalancati e duri.
Si
morse il labbro mentre gli occhi le si riempivano di lacrime per la
paura.
Odiava piangere, ma quando era Marco ad arrabbiarsi con lei, perdeva la
forza
di reagire.
Non
si accorse di aver trattenuto il respiro fino a che il ragazzo non
parcheggiò
di fronte a casa sua. Non aveva voglia di scendere, ma solo di un
abbraccio
rassicurante. Lo guardò, ma lui non pareva intenzionato a
muoversi.
Si
spostò incerta verso di lui, e allungò la mano
per accarezzargli la guancia.
Era così bello, anche nel sentire sotto il suo tocco i
muscoli tesi.
-
Grazie- sussurrò per paura che sentisse.
Si
voltò lentamente verso la portiera, ma non
l’aprì, percependo il ragazzo tirare
un sospiro rumoroso.
Chiuse
gli occhi. Ora arrivava la ramanzina.
- Te
l’ho detto che non mi piaceva-
Israfil
sorrise e lo guardò.
-
No, non l’hai fatto- ribattè tranquillamente.
- Ti
ho detto che uno che si chiama, o si fa chiamare, Peppone non porta a
nulla di
buono, mai!-
Aveva
alzato la voce, e lei alzò un sopracciglio.
-
No. Il tuo unico commento è stato “che razza di
nome è Giuseppe?”- rispose lei,
scimmiottandiolo.
Marco
si voltò per guardarla adirato.
- E’
la stessa cosa! Si chiama parlare tra le righe!-
-
Più che parlare tra le righe, avrei dovuto criptarti,
stupido!- esclamò lei con
lo stesso tono irato, aprendo lo sportello della macchina e correndo
verso
casa.
Non
le importava di non aver chiuso la portiera della macchina, e
né di aver
litigato con Marco. Era così difficile darle un bacio, o un
abbraccio? In fondo
non pareva chiedesse troppo.
Chiuse
rumorosamente la porta dietro di sé, alzando lo sguardo
sull’unico uomo che
avrebbe mai potuto amarla davvero, e di questo poteva starne certa.
Senza
dire una parola, non che ce ne fosse davvero bisogno, corse tra le
braccia del
padre, che la accolsero amorevolmente, stringendola con forza.
-
Bambina mia, vita mia. Cosa è successo?- domandò
l’uomo, preoccupato.
Il
singhiozzi scuotevano il corpo della ragazza. La tensione che aveva
accumulato
le uscì fuori, e lei finì per scaricarla
attraverso quelle lacrime, senza
trattenere gemiti addolorati, causati anche dal cuore pulsante e
dolorante.
Metatron
osservava attentamente le pratiche da sbrigare che erano sulla sua
scrivania,
senza che le avesse in realtà afogliate. Non che ne avesse
gran bisogno, ma era
un modo per allontanare la noia.
L’Altissimo
aveva denotato lui come proprio segretario, e lui ne era sempre stato
compiaciuto.
Ciò significava che Egli si fidava.
Afferrò
quella richiesta, l’unica che non era impilata con le altre.
Era strana ed
interessante il suo contenuto, e si stava dilettando a immaginare cosa
avessero
detto gli altri Serafini.
Qualcuno
bussò alla sua porta, e lui alzò il suo angelico
volto verso la porta della
stanza senza finestre e, nonostante ciò, illuminata. Non si
sapeva come fosse
possibile, ma quella era l’unica stanza dal perimetro
ottagonale, privo di
finestre e pieno di scaffali stracolmi di carte e fascicoli in ordine.
Quelle
che venivano elencati in quella enorme biblioteca non era che un quarto
delle
pratiche sbrigate in soli cinque o sei mesi. La scrivania dietro la
quale era
seduto Metatron, un Serafino dai capelli lunghi e biondi, dello stesso
colore
della luce che rischiarava le pareti e il soffitto, era posizionata al
centro
della sala, con dietro un’alta poltrona con la stoffa color
dell’oro che
ricordava vagamente le poltrone in stile Luigi XVI, e di fronte altre
due
sedie, in uno stile più sobrio e di un colore meno
sgargiante.
-
Avanti- disse il Serafino con la sua voce sottile ed elegante. Con
molta
probabilità conosceva già chi stava per entrare.
Incrociò
le dita, e sul viso comparve un sorriso sornione. Era giunto, infine.
Uno
splendido angelo fele il suo ingresso nella stanza, avvolto come tutti
gli
Arcangeli dalla
luce della sua Fede. A
ben vedere, la sua Luce pareva essersi affievolita in seguito a
quell’increscioso
avvenimento, del quale non amava parlare.
-
Uriele!- esclamò Metatron aprendo le braccia e appoggiando
la schiena alla
poltrona, - che piacere rivederti!-
Quello
si limitò a sorridere, sedendosi su una delle poltrone di
fronte alla
scrivania. Tolse il logoro cappotto che indossava di ritorno dal
Materiale
(chiamata anche Terra), e lo appoggiò su un bracciolo. I
suoi occhi scuri
vibrarono quando incontrarono quelli quasi bianchi del Segretario di
Dio.
Oscurità
e Luce che si contendevano qualcosa che nessuno dei due aveva ancora
nominato.
Loro, però, erano solo due rappresentanti della forza del
Signore, sebbene uno
di loro fosse macchiato da una grave colpa.
-
Metatron- esordì Uriele con la sua voce bassa e profonda,
l’opposto di quella
del Gran Segretario Metatron. – Come mai mi hai convocato?-
chiese senza
indugi.
L’Arcangelo
Serafino che controllava e amministrava gli affari di Dio sorrise ancor
di più.
Allungandosi sulla scrivania. Era compiaciuto per il fatto che avesse
lì il
Bastardo Divino, come molti solevano chiamarlo.
-
Come siamo formali, Uriele-, ribattè Metatron.
Sopra
la scrivania era pronta una teiera di thè con delle tazze
pulite, una
zuccheriera e un piccolo contenitore del latte, tutti decorati
minuziosamente.
Ne versò due tazze e ne offrì una
all’Arcangelo.
Quello
guardò sospettoso il thè, poi scosse la testa,
facendo così ondeggiare i suoi
lunghi e lisci capelli neri, che parevano setosi e contrastavano con la
pelle
diafana.
- Ti
ringrazio, ma non ne ho voglia-, dichiarò a bassa voce.
Metatron,
dopo averne bevuto un sorso dalla sua tazza, posò la tazza
sul piattino, con un
leggero ed armonico “tlack”.
-
Ah, Uriele. Sempre lo stesso, non è così? Ancora
non ti fidi?- sospirò.
- Perché
mi hai convocato?- ripetè Uriele, senza voglia di perder
tempo. Non aveva
alcuna intenzione di rispondere a quella provocazione.
Metatron
lo guardò ancora per un attimo, quasi come se volesse
captare cosa pensasse l’Umanità,
ma quello che percepiva era un glaciale silenzio.
Afferrò
dalla scrivania il foglio che fino a qualche minuto prima stava
contemplando,
completamente assorto e incuriosito.
Glielo
allungò da sopra le altre pratiche, che spostò
con un gesto tranquillo un po’
più a sinistra.
- Mi
piacerebbe che ti esprimessi in merito- profferì
chiaramente, abbandonando l’espressione
bonaria, che aveva avuto fino a qualche secondo prima, la quale cedette
il
posto ad una seria e per niente incline al riso.
Nessuno
riusciva a cambiare espressione con la velocità con cui lo
faceva Metatron, ed
era per tutti un vero mistero questa sua abilità, quasi al
pari della
luminosità della sua stanza. Lo si sarebbe di sicuro
chiamato l’Angelo più
incostante del cielo, dal carattere terribilmente volubile, se solo
quell’appellativo
non fosse esattamente uno di quelli di cui andare fiero per vari e
tanti
motivi, primi tra questi il fatto che l’incostanza e la
volubilità erano tratti
che contraddistinguevano i demoni, in particolare il primo demone dalle
sembianze femminee: Lilith, tabù per ogni argomento
lassù nel Regno di Dio.
- E’
interessante-, affermò Uriele dopo aver riletto
più volte quella richiesta,
scritta in maniera impeccabilmente elegante. – Qualcuno che
vuole addossarsi l’oneroso
compito di portare sulla retta via gli Innominabili, nemici nostri dai
tempi
dal principio della Rivoluzione-.
Metatron
lo guardò, soddisfatto solo in parte. Assottigliò
lo sguardo, in attesa che
questi continuasse. Così, però, non fu, e il
mezzo sorriso che si era fatto
strada sul suo volto scomparve nuovamente.
- E’
semplicemente una richiesta di questo genere, o dovremmo temere
qualcos’altro?
D’altronde ci aiuta già in questo caso-,
continuò al porto dell’Umanità.
Uriele
si passò il pollice sul mento, guardando ora il Serafino ora
il foglio che
ancora teneva tra l’indice e il pollice con una leggerezza
tale che qualcuno
avrebbe pensavo che avesse paura di sgualcirlo. Diede
un’ultima occhiata alla
richiesta, e si soffermò sulla firma.
Entrambi
gli angeli erano stati attraversati dalla medesima preoccupazione. E se
lei avesse recuperato la sua
memoria? Se
quello che era stato fatto per sigillarla lì in Paradiso
fosse stato del tutto
inutile?
Eppure
era lì, a chiare lettere leggibili. Una richiesta ufficiale.
- Perché
chiedi tutto ciò a me? Perché non convochi lei e
glielo dici chiaramente?-
domandò l’Umanità.
L’atmosfera
si tese di colpo, sebbene non vi fossero né
ostilità né rivalità da entrambe le
parti. Si percepiva ansia, e sospetto.
Con
un sospiro, Metatron si alzò imperioso. Stando sempre seduto
non si aveva mai
la possibilità di vederlo in tutta la sua grande statura.
A
passi lenti e cadenzati raggiunse la porta, oltrepassando il Bastardo
senza
neanche degnarlo di uno sguardo. Fu come se all’improvviso la
goduria di avere
lì Uriele fosse scomparsa del tutto dai suoi pensieri e
dalle sue priorità.
Sfiorò
semplicemente le porte, che si spalancarono con un tonfo udile.
- TAFRIEL!- tuonò a gran
voce.
Il
suo richiamò destò l’attenzione di
tutti gli Angeli lì intorno e non solo.
Riecheggiò ovunque nelle teste di tutti, acuta e penetrante.
Si guardarono
tutti intorno, spaesati. Era da molto che questi convocasse qualche
Angelo con
tanto zelo, e quel rombo improvviso richiamò tutti
all’ordine.
Nessuno,
però, sapeva perché Tafriel fosse stata convocata
con ardente impazienza e
vivacità.
Quando
si svegliò, Tafriel si ritrovò nella stanza che
tanto ormai conosceva.
Si
mise a sedere e si voltò attorno. Il ragazzo era fermo, in
piedi accanto a una
delle grandi tende che coprivano le enormi finestre della stanza
spaziosa.
Era
bellissimo, con quei capelli castano scuro che gli ricadevano sul
collo, lunghi
e tenuti indietro. Si alzò e gli si avvicinò,
nuda, ritraendo le ali dentro di
sé. Splendeva come non mai, in quella stanza dove la luce
filtrava solo
attraverso le tende che l’Arcangelo della Fede aveva tirato,
lasciando le
finestre libere di far entrare la luce che splendeva
tutt’attorno a loro.
Lo
aspettò nell’ombra, per non andare sotto la luce.
Dove
c’era luce, lì l’occhio divino sarebbe
caduto inevitabilmente. E lui lo sapeva.
Lasciò
che le tende si chiudessero con un suo gesto deciso, e le si
avvicinò,
prendendole il piccolo viso tra le mani e baciandola superficialmente.
Sentiva
quanto fosse calda ancora di sonno al solo suo tocco, ma non gli
importava. La
sua pelle era persino più chiara, e gli occhi risaltavano di
più sul suo volto.
Le piaceva davvero, e non avrebbe mai permesso che qualcuno
gliel’avrebbe
portata via. Come Azrael, ad esempio. Non gli era mai piaciuto come
angelo. Era
troppo cupo per la vivacità di Tafriel, e troppo riservato
rispetto alla sua
passionalità. Non aveva mai pensato che fossero fatti
l’uno per l’altra, ma
Raziel insisteva che così era. Però, almeno
Haniel la pensava come lui. Era
stato un peccato far sposare definitivamente Tafriel e Azrael. Il loro
matrimonio sarebbe durato per sempre, poiché non
c’era morte definitiva per gli
angeli, a meno che Tafriel non si fosse reincarnata nuovamente. Allora,
però,
sarebbe dovuta morire sotto la spada dei Combattenti, e non voleva che
entrasse
in campo. Era un’idea che cercava di non tenere in
considerazione, e se proprio
sarebbe dovuto accadere, era inevitabile per lui pensare di essere egli
stesso
l’assassino della sua Tafriel.
Tutto
ciò era l’opposto di quello che pensava lei, in
verità.
Tafriel
gli sorrise e gli sfiorò le labbra con le sue.
Sentì il forte odore di tabacco
pungerle le narici, e ne dedusse che avesse smesso da poco di fumare.
-
Ben svegliata, Angelo mio- la salutò lui.
Tafriel
si limitò a sorridere. Odiava dover parlare appena sveglia.
Considerava quelle
ore come completamente importanti, in cui riusciva a toccare ancora con
la sua
aura quello che era successo in quella stanza giusto qualche ora prima.
Come
tutti gli angeli, non avevano bisogno di dormire, ma era una giusta e
rilassante occupazione che avevano preso dai Materiali. In fondo, gli
impediva
di pensare a quanto fosse strana la vita che avevano scelto per se
stessi.
Eterni
amanti, senza scampo.
Forse
era proprio questa prospettiva a regalarle un momento per cadere in
estasi
pensando al suo Michael, il suo
Arcangelo.
Michael
si chinò a baciarle le labbra, come per completare quel
rituale, come per
restituirle il bacio che lei gli aveva dato. Le sfiorò una
mano sulla spalla,
per poi scendere lungo il suo braccio snello che ricadeva lungo il
fianco
invitante.
Dovette
farsi forza e distogliere lo sguardo da quelle forme femminili
così
tremendamente provocanti, guardandola negli occhi, che per un attimo lo
spiazzarono. Gli parve di intravedere qualcosa di più
profondo della vita che
lei stava vivendo con lui. Era come se Tafriel avesse qualche segreto
che non
avrebbe saputo rivelargli.
- E’
meglio che ti vesti, prima che cada in tentazione. Di nuovo.-
La
Cancelliera sorrise, e piegò la testa, allungando una mano
verso il petto del
suo Arcangelo.
-
Non mi dispiacerebbe- disse, con una punta di lussuria nella voce
ancora calda
per il sonno.
Bastò
uno sguardo scambiatosi che capirono entrambi che era ora di tornare
alle loro
attività. Sebbene Michael non dovesse fare rapporto a nessun
Angelo dal momento
che nel Grande Libro la sua impresa era già stata
registrata, aveva deciso di
andare a vedere che combinavano le sue truppe. Di sicuro stavano
giocando a
scacchi, il massimo divertimento per i “puri”, o
almeno per chi vuole far
credere di esserlo ancora.
Mentre
si stavano vestendo, una voce, acuta come una freccia che centra
l’obiettivo,
attraverso le loro menti, congelandole. Entrambi si piegarono al suono
squillante di quella angelica e autoritaria voce, che ancora vibrava.
Michael
guardò smarrito Tafriel, ma lei gli sorrise incoraggiante, e
finì di
aggiustarsi la toga di seta.
-
Torno subito- disse, mentre legava dietro la testa i lunghi capelli
biondi in
un’alta coda di cavallo.
Il
suo interlocutore corrugò la fronte, assottigliando lo
sguardo. Con la toga,
che indossava solo quando non doveva andare in guerra, ancora per
metà messa,
bloccò ogni movimento.
-
Tafriel, che succede?-
Dalla
sua voce si percepiva tensione e senso di colpa. Forse era stata
chiamata perché
erano stati scoperti.
-
Nulla di cui preoccuparsi, Michael-, lo rassicurò lei.
Fece
per andarsene, ma l’Arcangelo della Fede la bloccò
con una stretta intorno al
braccio molto forte. Tafriel si voltò, sconvolta.
Sospirò e si allungò a dargli
un altro bacio sulle labbra. Chiuse gli occhi, ed assaporò
per qualche secondo
il suo sapore amarognolo ed acre.
Sentì
la stretta di lui allentare allo stesso modo di come la scia di suono
che aveva
lasciato il richiamo tornò a vibrare.
Appena
ebbe l’occasione, la biondina si liberò e corse
via.
Inutili
furono le proteste di Michael, che si chiedeva perché
Metatron avesse chiamato
lei. Solo lei.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Capitolo quarto ***
Capitolo quarto
Con passo
spedito e sicuro, simile a quello di coloro che già sanno
cosa li attende, la
bella Tafriel, orgoglio di tutti gli Angeli, e specialmente del marito
Azrael,
si recò dal Serafino che più di tutti
interloquiva direttamente con l’Onnipotente.
Molti ne avevano timore, ma Tafriel non ne capiva il motivo.
Come se
nulla fosse successo, bussò tre volte alla porta del
Segretario. Era alta circa
due metri, forse qualcosa in più, ed era di legno dorato; su
di essa si
potevano leggere le imprese di Noè, di Mosè, il
tentativo sventato di Abramo di
immolare il suo unico figlio, e altri episodi narrati dai materiali nel
loro
libro sacro, la Bibbia, che era una semplice imitazione del loro Grande
Libro.
La porta si
aprì.
Fu estasiata
nel vedere quei rotoli di papiro, i libri e i fascicoli che occupavano
in
ordine nei loro scaffali tutte le pareti della stanza, eccetto una.
Nessuna
finestra era lì a giustificare lo splendore che rischiarava
la stanza, al cui
centro c’erano due Arcangeli.
Riconobbe
Metatron, ma l’altro gli era completamente sconosciuto,
nonostante avesse
qualcosa di familiare.
Era così
oscuro per essere un Angelo, che quasi ne dubitava la provenienza, ma
poi si
disse che un demone di sicuro non avrebbe sopportato quella luce divina.
Si avvicinò
al centro, e si sedette senza complimenti sulla sedia che gli indicava
il
Serafino.
- Grazie per
essere venuta così in fretta-, esordì Metatron.
Tafriel non
potè fare a meno di notare il suo mento allungato e le
labbra sottili come
ramoscelli d’ulivo. Aveva gli occhi inquietanti,
giacchè l’iride non era
distinguibile dal resto dell’occhio, e ne spiccava unicamente
la pupilla.
- Lascia che
ti presenti Uriele, l’Arcangelo delle Umanità,
Angelo del Pentimento; colui che
si è distinto nella Grande Battaglia al fianco di Michael e
che si è ritirato
per cause andate dimenticate, che nessuno scritto sacro ormai riporta
più;
colui che ora è custode dell’Eden, Patrono delle
Arti e protettore degli
esploratori e degli innovatori-, continuò con la sua voce
squillante, elencando
solo parte delle caratteristiche che contraddistinguevano
superficialmente
quell’Angelo.
Tafriel era
sicura che i suoi timpani, se fosse stata una materiale qualsiasi, si
sarebbero
rotti al suono prolungaro di quelle e di altre parole da parte del
Segretario.
Sorrise cordialmente ad Uriele, soffermando lo sguardo sul collo, dove
una
cicatrice partiva da dietro l’orecchio e affondava nella toga
blu scuro come un
fiume che poi scompare sotto la terra. Non potè non notare
una certa malinconia
nello sguardo che le ricambiava. Si costrinse a parlare e a dire
qualcosa.
- Piacere,
io sono…-
- So chi
sei-, la interruppe l’Umanità.
La
Cancelliera del Cimitero Celeste sobbalzò al suono profondo
della voce di
Uriele, così diversa da quella di Metatron. Era sicura che
non si sarebbe mai
stancata di sentirlo parlare.
Tafriel
aspettò che continuasse, ma lui non aggiunse altro, e
guardò il Serafino come
per indurlo ad andare al dunque.
- Oh, non
stupirti, sorella mia. Uriele è sempre così
sgarbato, e sì di poche parole che
talvolta può dar fastidio, eppur è fedele e ha un
animo onesto. Puoi fidarti di
lui-, aggiunse il biondo, come se sabesse quali dubbi stessero
attraversando la
mente di Tafriel.
Le sorrise,
e dopo neanche un attimo la guardò completamente serio,
senza neanche l’ombra
del sorriso sul viso angelico.
Tafriel fu
spaventata da quel cambiamento repentino d’espressione.
- Non
chiederti perché sei qui, giovane sorella-.
Tafriel,
dentro di sé, si chiedeva solo la necessità per
cui questi la chiamava
“sorella”, a maggior ragione per il fatto che era
la prima volta in vita sua
che si incontravano.
Afferrò la
richiesta che ora le stava porgendo da sopra l’elaborata
scrivania. Era la sua
richiesta, l’avrebbe riconosciuta ovunque.
Stava per replicare
quando Metatron riprese a parlare, impedendole di chiedere qualsiasi
cosa.
- Perché chiedi
di essere trasferita?-
Tafriel
sorrise e gli restituì uno sguardo dolce.
- Voglio
fare qualcosa in più per il Signore Dio Nostro.
Semplicemente aprire e chiudere
il Grande Cimitero, e parlare alle anime che non ricorderanno mai il
mio nome o
le mie parole, per me è frustrante, sebbene svolga il mio
compito assegnatomi
da anni e con tenace Fede. Marciare tra le file al comando di Michael
esercita
un certo fascino dal momento che ho un animo irrequieto, non molto
adatto al
mio ruolo di Cancelliere. Vedere le anime punite mi ha fatto insorgere
l’idea,
forse rivoluzionaria, che davvero tra gli Angeli non ci sono
distinzioni e che
anche un’umile servitrice quale sono io può
marciare per l’Altissimo armata
solo della propria Fede e della fiducia nella Redenzione-, rispose,
mentre si
riscaldava per il discorso audace.
Le guance le
divennero rosse per l’ardore con cui pronunciava quelle
parole, nonostante non
si muovesse dal suo posto. Il Segretario non le toglieva gli occhi di
dosso,
quasi come se volesse captare un segnale che fino a quel momento gli
era
sfuggito.
Il silenzio
scese nella sala, rotto solo dal lieve cigolare della sedia appena
Uriele si mosse,
accavallando le gambe.
Tafriel posò
la richiesta sulla scrivania, abbassò lo sguardo sentendo in
sé le speranze
abbandonarla.
- Ho deciso di
accettare la tua proposta. Và da Michael e avvertilo di
questa decisione, e che
Metatron chiede per te un’adeguata protezione
giacchè un Angelo non è armato
solo della sua Fede- rispose con un ghigno divertito.
Firmò e
timbrò la pergamena.
Si alzò e le
diede le spalle avvicinandosi a una libreria e cercando il posto adatto
per
posizionare la richiesta.
La
Cancelliera bionda alzò lo sguardo che riversava lo stupore
e la gioia in chiunque
incrociasse i suoi occhi.
- Và, e fa come
ti ha detto-, le sussurrò Uriele sfiorandole la spalla con
una mano, quasi come
se avesse timore di toccarla.
Annuì a lui,
sorridendogli.
- Grazie!-
esclamò. Dopo un attimo si era già precipitata
fuori dalla stanza.
Appena le si
furono chiuse le porte dietro, Metatron si voltò e,
pensieroso, raggiunse la
scrivania.
- Dunque,
non pare sia tornata. Quell’impeto con cui ha attraversato le
sacre porte non
era di chi stava progettando di far cadere il Cielo- disse piano, come
se
avesse paura di dire queste parole.
- Così pare-
fu la risposta di Uriele, che appoggiò entrambi i piedi a
terra. – Perché hai
accettato?- domandò, intuendo la risposta.
Metatron gli
sorrise divertito, e guardò l’Arcangelo con il suo
sguardo bianco.
- Sono
curioso Uriele. Sigillata qui ha scalpitato, e vive ora una parvenza di
libertà. Chissà cosa potrà fare, e
cosa deciderà. Prevedo grandi avvenimenti…-
- Non hai
paura che a contatto con loro si
liberi per davvero?-
- Se lo
farà, allora non so più giudicare chi
è deciso e sicuro. Se succederà, Tafriel
è debole e la colpa sarà principalmente sua. Nei
suoi occhi, però, leggo l’antica
forza che gli umani attribuivano agli dei. Forse non accadrà
nulla-.
- E se
accadrà? E’ stato difficile
combatterla…-
Metatron
guardò Uriele, trattenendo le risate.
- Dopo tutto
questo tempo ne hai ancora paura?-
Uriele restò
zitto, abbassando gli occhi e guardando i sandali che gli fasciavano i
piedi.
- Ora
veniamo al motivo per cui ti ho convocato qui- continuò
Metatron.
Uriele alzò
lo sguardo, stupito.
Il
Segretario intuì che probabilmente l’Arcangelo
pensava che a lui servisse solo
un parere.
- Ricordi
Israfil, la figlia di Raphael, giusto? Voglio che la controlli-
sentenziò
assottigliando lo sguardo e incrociando le dita delle mani.
Senza
chiedere alcuna cosa e senza aggiungere altro, il Bastardo Divino si
alzò
raggiungendo la porta. Mise in gesto quotidiano il mantello logoro
sulle spalle.
- Aspetto
nuove-, sussurrò lasciando Metatron da solo a meditare sugli
avvenimenti di
quella giornata.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Capitolo quinto ***
Prima di lasciarvi alla
lettura tranquilla del capitolo, volevo scusarmi con voi per questa
interminabile attesa. Purtroppo gli esami si fanno sentire tanto e
difficilmente riesco ad aggiornare periodicamente, ma state sicuri che
aggiorno
J
Ed ora, buona lettura!
Capitolo quinto
Il
giorno nuovo cominciò,
e il sole penetrava invadente attraverso le sottili e pallide tende che
coprivano le finestre nell’unica stanza
femminile di quella grande villetta nella periferia della
città terrena.
Israfil si voltò, mentre fu inevitabilmente svegliata. Mugugnò con
disapprovazione e si tirò la coperta sulla testa.
Per il resto, nella
stanza era tutto come sempre. Il padre che bussava alla porta, si
avvicinava al
letto della figlia e le accarezzava il corpo amato da sopra le coperte,
posava
la colazione sul comodino e la scopriva piano, le sorrideva e le
baciava la
fronte.
-
Ti aspetto giù-, le sussurrava piano come ogni volta.
E
Israfil, come di consuetudine, allungava la mano verso il bicchiere di
latte e
lo beveva seduta sul letto, con le coperte che le coprivano le gambe.
Scese dal
letto, andò in bagno e, canticchiando un motivetto che aveva in testa
da
quand’era piccola, tolse il pigiama, allontanandolo con i piedi in un
angolino.
Lasciò le l’acqua della doccia scorresse e si facesse tiepida, e nel
frattempo
rimirava e pensava a come avrebbe potuto fare quel giorno i capelli.
Infine li
legò e li alzò, coprendoli con una cuffia, e si infilò nella doccia,
che aveva
i vetri opachi e semitrasparenti. Una volta che si fu tolta da dosso il
sonno,
uscì e si avvolse in un soffice e profumato accappatoio, e tornò in
camera.
Una
volta che si fu vestita con quel bel jeans che adorava e una maglietta
a mezze
maniche aderente, scese giù per le scale e raggiunse il padre nel
salone.
-
Ciao, papà. Io vado!- esclamò, senza rendersi conto che, seduto
comodamente
sulla poltrona di fronte al padre, c’era un uomo sconosciuto, ma bastò
uno
sguardo in giro per fermare la sua corsa a scuola.
-
Buongiorno- disse allo sconosciuto.
Si
sentì arrossare. Non era uno sconosciuto qualunque, uno dei pazzi
teologi amici
del padre, bensì un uomo dall’aura scura, i capelli neri come la notte
e
lunghi, che gli ricadevano sciolti sul collo. Indossava degli abiti non
propriamente adatti a un teologo, ma più a un motociclista sulla
ventina che
sembrava avere l’aria da bastardo: insomma, il tipico ragazzo piacente.
E, a
detta di Israfil, lui era particolarmente piacente, soprattutto con
quegli
occhi scuri come i capelli.
- Buongiorno
a te, Israfil- rispose lui.
Is
fu colpita dalla profondità della voce di lui. Sembrava provenisse
dall’interno
di una caverna profonda. Eppure, le pareva di averla già sentita
qualche volta.
-
Immagino che non si ricorda affatto di te, Uriele. D’altronde era molto
piccola
l’ultima volta che vi siete visti-, si intromise il padre.
Uriele.
Quel nome non le era affatto sconosciuto, ma non ricordava se l’aveva
letto o
sentito da qualche parte. Fatto stava, che continuava a non capire.
-
Già. Sono il fratello di tua madre- disse lo sconosciuto.
Is
battè forte le ciglia. Era da tanto tempo che non sentiva parlare della
madre.
Era tutto così strano. Il suo passato tornava a bussare alla loro
porta. Che
strano, il padre gli aveva aperto.
-
Quindi…sei mio zio-, concluse scioccamente lei.
Lo
sconosciuto, anzi, lo zio annuì col capo. Sembrava stesse per
aggiungere
qualcosa, ma il silenzio calò invadente tra di loro. Raffaele e Uriele
si
scambiarono uno sguardo complice.
-
Vorrei parlare con te- interruppe il silenzio Uriele, alzandosi. Era
particolarmente
alto. Is si accorse di arrivargli solo a poco più di metà petto. Il suo
cuore
fece un salto.
Raffaele
guardò il giovane uomo.
-
Non credi che non sia ancora il caso? E poi deve andare a scuola-
ricordò il
padre.
Lo
zio si alzò e fece spallucce.
-
Forza Is, andiamo a scuola-, rispose risoluto.
La
ragazza fu sorpresa che per una volta non avrebbe dovuto prendere
l’autobus e
ringraziò di cuore lo sconosciuto, che così per lei non doveva essere.
Eppure,
che cosa strana. Il padre non le aveva mai detto che la madre avesse un
fratello ancora in vita, e così giovane e attraente per di più.
Mentre
si perdeva in questi e in simili discorsi, prese la cartella e si
avvicinò al
padre.
-
Buona giornata- gli augurò. Questi le sorrise e le baciò le guance.
-
Buona giornata anche a te- fece.
Mentre
si avvicinava alla porta, Is sentì lo sguardo del padre seguirla
ovunque
andasse. Non osava, però, alzare lo sguardo dal pavimento. Si sentiva
in
soggezione, perché oltre a quello del padre percepiva anche quello
dello
sconosciuto. Era come se entrambi temessero per qualcosa, che dovesse
fare
qualcosa o le succedesse qualcosa, era come se fossero entrambi
inquieti e poco
tranquilli.
Decise,
per non sentirsi abbattere, di ignorarli completamente e, una volta
aperta la
porta, si fiondò sul vialetto che attraversava giusto al centro il
giardino e
raggiunse velocemente il cancelletto.
Non
dette che un veloce sguardo al giardino, deliziosamente colorato grazie
ai
fiori che durante l’anno aveva piantato e in estate erano sbocciati.
Purtroppo,
con l’arrivo dell’autunno, tutto tornava a seccarsi. Sospirò e uscì
fuori.
Uriele
subito le fu dietro, e aprì la sua macchina col telecomando. Era una
mercedes
classe e coupè bianco perla. Restò piacevolmente sorpresa. Chi se
l’aspettava
che suo zio fosse così benestante da permettersi quell’auto ancora così
giovane?
Prese
posto sul sedile al fianco del guidatore e abbassò il finestrino. Anche
l’aria
che entrava aveva un buon odore, per niente somigliante a quella piena
di smog
che era effettivamente.
Uriele
mise in moto e partì. La macchina sotto di sé fece quasi le fusa,
partendo
piano.
Per
un po’ regnò il silenzio, mentre la macchina mangiava l’asfalto con
grazia
infinita.
-
Allora- disse all’improvviso Uriele, forse stanco di quel silenzio, -
come va a
scuola?-
Is
lo guardò, stranita. Aveva uno zio lontano, che rivedeva dopo anni e
anni e
l’unica cosa che riusciva a dirle era una domanda sulla scuola? Che
tipo
stravagante, convenne.
-
Oh, tutto bene, anche se non tanto in matematica-
Uriele
fu quasi divertito e deluso al tempo stesso.
-
La maggior parte di voi ragazzi odia la matematica. Invece è proprio
quella che
insegnerò io a scuola tua. Nella sezione E e nella F- informò la
ragazza.
Is
sgranò gli occhi. Non ci credeva. Quindi, al posto della vecchia megera
avrebbe
avuto quell’insegnante? E
per di più suo
zio?
Uriele
non aspettò che dicesse qualcosa perché continuò quasi subito.
-
Preferirei che non si sapesse in giro che siamo parenti. Anzi,
preferirei che
sembrasse che non ci conosciamo affatto-
Lei
annuì. Tutto quello le sembrava strano. Perché mai non si doveva sapere
a
scuola? Probabilmente perché avrebbero pensato che fosse raccomandata.
La
macchina si fermò all’inizio della strada.
-
Ti conviene scendere qui-, l’avviso Uriele.
Lei
lo guardò interrogativa.
-
Altrimenti non si spiega come sei in macchina dato che non ci
conosciamo- le
ricordò.
-
Giusto. Aehm, sì, allora ciao, a più tardi- replicò lei, con l’amaro in
bocca.
Raccattò
le sue cose e scese dalla macchina. Si infilò lo zaino in spalla e
raggiunse a
piedi la scuola. Come al solito, arrivò in ritardo.
Gli
uccellini cantavano felici fuori dall’aula in cui si era rinchiusa già da qualche ora
la ragazza, e,
per impedire che la professoressa la chiamasse, si schiacciò con la
testa
contro il banco, nascondendosi per bene dietro un compagno. Sperava che
prima
di dire il nome, la professoressa desse una scorsa a chi aveva voglia
di essere
interrogato. Che cosa primitiva e da bambina era quella! Infatti, se la
professoressa avesse guardato negli occhi tutti i ragazzi, li avrebbe
scorti
del tutto impreparati. Non lei, però, sempre pronta e preparata, perché
ci teneva
alla sua reputazione. Non le importava se gli altri ragazzi la
chiamassero
secchiona, l’importante era tenere a distanza debita certa gente, ma le
importava
dei complimenti che facevano a lei e al padre i professori e chiunque
intavolasse una qualche discussione con lei. E sapeva che il padre si
sentiva
totalmente fiero di lei quando succedeva, e quello era sempre stato il
suo
obiettivo.
Quel
giorno, però, la voglia di essere interrogata era pari a zero, se non
di meno.
La sua mente era completamente impegnata a pensare a quanto successo
quella
mattina. Era completamente convinta che qualcosa non quadrasse nello
zio. Che
strano chiamare uno sconosciuto zio! No, l’avrebbe chiamato Uriele. Non
potè
fare a meno di pensare che Uriele fosse un nome davvero strano per un
uomo, ma
d’altronde si chiedeva se già qualche parente si chiamasse così per
aver
ereditato quello strano nome.
E
non poté far altro che continuare a pensare che avesse anche degli
strani modi.
Lasciarla a piedi alla fine della strada poi era stata una mossa che
non
avrebbe di certo elogiato. Poteva anche avere tutte le ragioni, ma
perché lasciarla
a piedi quando il padre era convinto che l’avesse portata fino a scuola
indenne? E se in quel frangente le fosse successo qualcosa, come si
sarebbe
discolpato?
Il
suono della campanella la risvegliò dai suoi pensieri.
Si
alzò e camminò in giro all’aula per sgranchirsi le gambe, e scambiando
giusto
qualche parola con i compagni.
Seduto
in silenzio, intravide Marco, sempre seduto dietro di lei, ma con lo
sguardo perso
nel vuoto. Venne un loro amico, e si sedette per parlare con lui.
Sorrise, rise,
annuì e si alzò, seguendolo.
Is,
curiosa, avrebbe voluto sapere cosa stesse passando nella testa del suo
migliore amico, tanto più che dopo quella sera non si erano né sentiti
né visti.
Di solito era lui che, avendo la macchina, passava a prenderla per
andare al
centro commerciale, o semplicemente giocare con lei a casa sua a
qualche gioco
da tavolo. Era capitato spesso che si fosse fermato anche a cenare e a
guardare
un film mentre il padre di lei li lasciava soli giù, fiducioso nella
loro
amicizia. Quando litigavano, era sempre lei a chiedere scusa, ma
stavolta non
credeva affatto che doveva fare lei il primo passo.
-
Signorina!- disse una voce profonda. Le era stranamente familiare.
Si
voltò di scatto, ignorando una domanda fatta dall’amica, e si trovò di
fronte,
con grande sorpresa, Uriele. Stava per controbattere che poteva
chiamarla anche
Israfil, ma qualcosa la bloccò. Forse è stato proprio il ricordo, non
proprio
piacevole, di qualche ora prima a bloccarla.
Annuì
e senza aggiungere altro si andò a sedere al proprio posto.
Osservò
come Uriele si destreggiasse tra i banchi, come se quella fosse la
vocazione di
sempre. D’un tratto, sotto i capelli lunghi, vide una cicatrice. Era
ormai
cicatrizzata da tempo, però pareva che di tanto in tanto si infuocasse,
come se
divenisse improvvisamente rossa. Non ricordava se l’avesse vista prima,
ma sentì
una strana forza richiamarla. Seguì con i battiti del cuore accelerato
a mille
una voce che dentro di lei le imponeva di restare seduta e fingere che
niente
fosse successo, eppure il ciondolo in fondo alla sua collanina, quel
pesce che
le aveva regalato il padre, pareva vibrasse, come a contatto con
qualcosa. Era
una specie di richiamo che, come sempre, non avrebbe dovuto seguire.
Qualcuno
la scosse per la spalla.
Si
voltò di scatto, trattenendo rumorosamente il respiro, e i suoi occhi
incontrarono quelli di Marco, che la guardavano interrogativi.
Il
contatto che si era creato tra tutta se stessa e quella strana
cicatrice si
dissolse all’istante e la mente ora fu sgombra da quelle voci che
sentiva nella
testa. Ora ascoltava solo tante domande. Che cosa era successo? Che
cosa le
stava accadendo in quei giorni? Ma soprattutto, quand’è che Marco era
tornato
in classe?
-
Tutto a posto?- sussurrò, per non essere sentito dal professore, che
intanto
era voltato di schiena e stava riempiendo la lavagna di strani graffiti
che per
tutti sarebbero dovute essere incognite e formule già conosciute.
Lo
sguardo di Marco era preoccupato, e lei fu sollevata. Allora non era
finita la
loro amicizia. Non sapeva perché ma era sicura di quello che pensava.
Gli
sorrise, felice di nuovo di riavere il suo migliore amico al suo
fianco. E
scosse la testa.
-
No, va tutto bene- rispose.
Non
finì, però, la frase che Uriele si voltò ed esclamò:
-
Voi due, là in fondo!-
Si
voltarono verso il professore. Is arrossì violentemente. Era la prima
volta che
la rimproveravano in classe, e un duro colpo al suo orgoglio.
-
Smettetela di chiacchierare e seguite la lezione!- ordinò ai due, per
poi
tornare a spiegare tutto.
Is
lo guardò male. Quando sarebbe tornata a casa l’avrebbe rimproverato
ben bene
lei. Ma come si permetteva? Gonfiò la faccia e assottigliò lo sguardo.
Da fuori
poteva sembrare buffa, infatti la compagna di banco riuscì a stento a
trattenere le risate. Strinse forte i pugni, fino a far entrare le
unghie nei
palmi delle mani.
In
mente ormai c’era un solo obiettivo.
Vendetta.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=360634
|