Portraits of modern lives

di Osage_No_Onna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L’ estranea (Melissa) ***
Capitolo 2: *** La cavallerizza (Marfisa) ***
Capitolo 3: *** La dea in terra (Angelica) ***
Capitolo 4: *** La volontaria (Dalinda) ***
Capitolo 5: *** La schermitrice (Bradamante) ***
Capitolo 6: *** L' omone (Orlando) ***
Capitolo 7: *** L' ombra (Ruggiero) ***
Capitolo 8: *** La studentessa straniera (Fiordiligi) ***
Capitolo 9: *** Il nerd (Astolfo) ***
Capitolo 10: *** Il kenshi (Brandimarte) ***
Capitolo 11: *** L' uccel di bosco (Olimpia) ***
Capitolo 12: *** La barista (Alcina) ***
Capitolo 13: *** La bibliotecaria (Logistilla) ***
Capitolo 14: *** La modella (occasionale) (Ginevra) ***
Capitolo 15: *** Il poeta (Ariodante) ***
Capitolo 16: *** L' amico di tutti (Cloridano) ***
Capitolo 17: *** I gemelli (Grifone e Aquilante) ***
Capitolo 18: *** La classicista (Isabella) ***
Capitolo 19: *** L' ecologista (Medoro) ***
Capitolo 20: *** Il nonno (Atlante) ***
Capitolo 21: *** Lo skater (Ferraù) ***
Capitolo 22: *** La queer (Fiordispina) ***
Capitolo 23: *** Il dongiovanni (Sacripante) ***
Capitolo 24: *** Il viaggiatore (Guidon Selvaggio) ***
Capitolo 25: *** L' atleta (Doralice) ***
Capitolo 26: *** Il disegnatore (Leone) ***
Capitolo 27: *** L’ Adone (Rinaldo) ***
Capitolo 28: *** La regina delle nevi (Ullania) ***
Capitolo 29: *** L’ aromantica (Orrigille) ***
Capitolo 30: *** Il corridore (Agramante) ***
Capitolo 31: *** Il musicista (Zerbino) ***
Capitolo 32: *** L' anima “sbagliata ***
Capitolo 33: *** Lo studente di Taiji (Argalìa) ***
Capitolo 34: *** Il pugile (Mandricardo) ***
Capitolo 35: *** Il figlio del mare (Rodomonte) ***
Capitolo 36: *** La confidente (Ippalca) ***
Capitolo 37: *** Il ***
Capitolo 38: *** Il fratello minore (Ziliante) ***
Capitolo 39: *** Il fratello minore (Ziliante) ***



Capitolo 1
*** L’ estranea (Melissa) ***


Ritratto n˚ 1: L’ estranea
 

Non aveva mai pensato di poterla vedere per davvero.
Conosceva soltanto il suo nome, pronunciato quasi per caso da un amico del fratello che poi non aveva certo risparmiato il fiato nell’ enumerare le sue stranezze: non aveva comunque voluto sentire quella voce ingiustamente disgustata e aveva solo capito che quella ragazza era un lupo solitario, con il naso greco sempre immerso in un libro e gli occhi torvi.
Ma, ad osservarli meglio, lei si accorse che quegli occhi verdi come l’ erba appena nata non erano crudeli, semmai ombrosi e velati di tristezza, ma in fondo alle pupille danzava ancora una scintilla dolce e quieta. Si ritrovavano incastonati in un volto delicato, perfettamente ovale, di un biancore lunare, ed incorniciati da una folta massa di capelli mossi e neri come l’ebano: quasi non si capiva se Madre Natura le avesse donato quel contrasto per far risaltare più gli uni o gli altri.
Intorno al collo girava un cordino nero al quale era appeso un ciondolo con il simbolo di un segno zodiacale (lei non riusciva a capire bene quale fosse), mentre alla vita, circondata da una cintura in cuoio, oscillava un ciondolo ligneo sul quale era disegnato un pentacolo.
Anche quella volta leggeva e la ragazza, avvicinatasi a lei, non poté fare a meno di osservare il movimento rapido degli occhi che scorrevano le righe e la rilassatezza delle sue membra.
Aveva un non so che dell’ energia serena dell’ ape intorno al favo.
Quando finalmente alzò lo sguardo e si accorse della sua presenza, le sorrise con un sorriso triste e un po’ fuori allenamento che le spezzò il cuore, ma lei ricambiò quel gesto e la salutò con la mano, per poi sedersi vicino a lei come per una sorta di tacita intesa.

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Capitolo 2
*** La cavallerizza (Marfisa) ***


Ritratto n˚ 2: La cavallerizza


Quando non si sapeva dove trovarla, novantanove volte su cento bisognava dirigersi alla scuola d’ equitazione. E lì bastava guardarla per capire quale fosse il turbine di energia che spirava in lei: quando non si allenava per una gara di corsa ad ostacoli o di dressage, correva a briglia sciolta lungo tutto il perimetro del campo, l’espressione estasiata e crucciata allo stesso tempo di chi vorrebbe oltrepassare i limiti ma non può e quindi impiega, almeno finché costretta, tutte le sue energie in quello spazio circoscritto.  
Nulla da stupirsi, dunque, se aveva chiamato Mist il suo cavallo.
E se non aveva dei lunghi capelli che frustavano l’aria dietro di lei, perché non appena crescevano sacrificava quella seta nera sotto i colpi delle forbici, quel che colpiva maggiormente gli spettatori era il suo corpo scolpito, i muscoli che guizzavano sotto il sole cocente del primo pomeriggio, la pelle color caffè e la fila di denti bianchissimi e perfetti che i suoi sorrisi rivelavano.
Il suo era il fascino dell’ amazzone libera e contenta, nonché fiera di questa libertà; della lottatrice ben conscia della sua forza; della viaggiatrice che non vede confini.
In un lampo si concluse quella corsa scatenata e condusse per le redini il suo cavallo, quel magnifico frisone nero a lei così simile e compagno di una vita, alle stalle.
Dieci minuti dopo fu vista uscire da lì in un fruscio di pantaloni leggeri da hip-hop.

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Capitolo 3
*** La dea in terra (Angelica) ***


Ritratto n˚3: La dea in terra
 

Il suo nome correva per la bocca di tutti i ragazzi del suo quartiere, da chi confessava di voler farle almeno un complimento per “saggiare il terreno” a chi consigliava loro di desistere e si lamentava della sua freddezza. Lei ne era consapevole, ma non gliene importava niente.
Lei era superiore e di fronte a quelle inutili avances rideva sprezzante e scappava via.
E se si trovava di fronte a delle teste calde, consigliava loro di leggere la parola impressa in caratteri cubitali dorati sulla sua maglia rossa preferita: dovevano ficcarsi bene in testa che non si sarebbe mai piegata alle loro richieste.
Eppure, per quanto potesse essere sdegnosa e calcolatrice, per quanto spesso le augurassero di patire ciò che lei faceva soffrire loro, la sua bellezza era la più potente calamita per gli sguardi di quelle zone.
Era un’ immigrata di seconda generazione e questo spiegava il cognome cinese. Parlava ancora la sua lingua madre e spesso la adoperava quando veniva presa da emozioni improvvise. Aveva il corpo flessuoso del giunco, color della madreperla, occhi marroni dal delizioso taglio allungato, le labbra sottili color del corallo e lunghi, lunghissimi capelli neri e mossi che le danzavano attorno ad ogni movimento: era la sua figura seducente a spingere i suoi mille spasimanti ad assistere ai suoi saggi di ginnastica artistica e non un reale interesse verso di lei, per quanto non si potesse negare che la sua interpretazione di Orinoco Flow avesse molti elementi fuori dal comune.
Tutte le volte che li sentiva sperare in un suo abbassamento al loro livello, nemmeno fosse una dea, non poteva fare a meno di commiserarli: ancora non avevano capito che lei era al loro livello, ma aveva anche un cervello con cui pensare.
Che la spingeva a mantenersi la sua indipendenza.


 

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Capitolo 4
*** La volontaria (Dalinda) ***


Ritratto n˚4: La volontaria



Prima di uscire di casa legava il suo caschetto rosso in due codini che le davano un’aria più infantile di quanto non lo facessero già il viso rotondo, le guance colorite e il suo corpo pienotto avvolto in vestitini dai colori pastello. Erano in pochi a non vedere, almeno una volta o di sfuggita, quel visetto lentigginoso e sorridente che porgeva volantini con gesti affabili, si occupava degli esseri a quattro zampe del vicinato o, quasi novella netturbina, aiutava a ripulire le strade.
Tutti provavano un grande affetto per lei in modo del tutto spontaneo ed anche solo vederla lavorare alacremente, accompagnata dal ritmo di semplici filastrocche o motivetti da carillon, infondeva nell’ animo un gran senso di simpatia e calore umano.
Chi avrebbe mai potuto dire che quella figuretta delicata e gentile soffrisse tanto?
La sera, esausta dopo un’ intera giornata di lavoretti e stremata dalle urla, dai capricci, dalle richieste di una nidiata di sorelline e fratellini, si buttava stremata sul letto e piangeva.
Piangeva tutte le lacrime che poteva versare fuori dagli occhi grigi chiedendosi perché mai sua madre fosse morta così presto, perché suo padre non rientrasse mai all’ ora giusta, cosa avesse fatto di male per essere trattata in quel modo orribile da colui che riteneva la sua anima gemella.
Tanti punti interrogativi e come al solito nessuna risposta.
E se non piangeva da sola ci pensava la musica a riportarle alla mente che in fondo camminava sola in un viale di sogni infranti, che la Verità appartiene al passato e che la Speranza e il Futuro in fondo erano solo fiabe crudeli narrate da chissà quale bardo sadico.
Ma forse era proprio per questo che ogni mattina si alzava con la voglia di diventare lei stessa il cambiamento che avrebbe voluto avvenisse…

 
 

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Capitolo 5
*** La schermitrice (Bradamante) ***


Ritratto n˚5: La schermitrice

L’ adolescenza per lei si stava avviando alla fine e, dopo tanti anni di semplice complicità, anche suo fratello dovette ammettere che ormai, a diciassette anni, la sorellina stava diventando una donna affascinante.
E affascinante lo era anche sotto quelle felpe informi che era solita portare; anche se, sotto la camicia, il petto rimaneva ancora quello acerbo di quando aveva tredici anni.
Perché poteva contare sulla sua cascata di riccioli biondi che le ombreggiavano, persino quando erano legati in una grossa coda di cavallo, le spalle e la schiena; sugli occhi azzurri ma niente affatto scialbi e vuoti, anzi molto espressivi, sia che scintillassero irati sia che fissassero pensosi; sul fisico agile della gazzella.
Nonché su una notevole prontezza di riflessi che da sempre la accompagnava in pedana, tra il clangore dei fioretti e i passi strascicati dei compagni con cui rideva a crepapelle.
La scherma era la sua filosofia di vita e da abile schermitrice si comportava anche con gli altri, senza risparmiarsi stoccate e finte quando servivano.
Era allegra ed energica e forse era per questo che piaceva a tutti i suoi amici maschi: aveva persino imparato a suonare la chitarra elettrica per sostenere il fratello nel suo tentativo -andato in fumo- di mettere su una band.
In tanti l’amavano o credevano di farlo, ma anche lei, alla stregua delle ninfe del mito dedite solo alla caccia, declinava con gentilezza tutte le offerte. All’ ennesimo racconto di rifiuto il fratello aveva riso, scrollato le spalle e l’aveva soprannominata “Diana”.
E il solo ragazzo di cui poi avrebbe ricambiato i sentimenti la vedeva come tale, e come tale l’ammirava silenziosamente, da lontano, sgranando i grandi occhi marroni.

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Capitolo 6
*** L' omone (Orlando) ***


Ritratto n˚6: L’ omone


L’ ora di educazione fisica era il suo regno: era il più veloce, il più agile, il più forte, sempre un passo avanti agli altri, con sole due degne rivali, due amazzoni di classi differenti e diversissime anch’ esse, le reincarnazioni in corpo umano di Yin e Yang.
Se poi si parlava di rugby, allora si creava il vuoto attorno a lui: difficilmente si resisteva alla sua azione da tre quarti centro e se non era ancora stato chiamato a giocare come tre quarti ala destra era a causa dei suoi temibili placcaggi.
Faceva quasi paura quando lo si vedeva stagliato in campo, gli occhi che ardevano, con le sue spalle larghe.
Ma chi lo conosceva bene sapeva che quel telamone in realtà aveva un animo insolitamente sensibile, cavalleresco addirittura quando si parlava di ragazze: bastava vederlo reggere la porta alla bella cinese, mentre la fissava, estraniato da tutto il resto del mondo, e lei oltrepassava la soglia rivolgendogli solo un “Grazie”.
Faceva anche una certa tenerezza di ritorno dalle vacanze estive, il suo periodo preferito, che passava attaccato al padre naturale come le cozze allo scoglio: un altro caso in cui si dimenticava completamente della realtà circostante e veniva assorbito solo dagli affetti. Ritornava a casa pienissimo di aneddoti sul genitore e solo di lui parlava, incessantemente: lui ha detto, poi ha fatto, mi ha portato, e siamo stati…
Per quanto la sua voce profonda e non esattamente musicale e la banalità dell’oggetto della conversazione facessero sui compagni l’effetto di un trapano, lo lasciavano sfogare, consci che presto tutto sarebbe tornato alla normalità e una volta sì e l’altra pure si sarebbe lamentato del padre adottivo, commiserando la madre che era stata quasi costretta a sposare “la feccia umana della peggior specie”.  

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Capitolo 7
*** L' ombra (Ruggiero) ***


 
Ritratto n˚7: L’ ombra


Solo chi aveva buone relazioni con lui poteva dire chi fosse veramente, per gli altri era un buon amico e un ottimo compagno, ma allo stesso tempo una presenza eterea e silenziosa che si muoveva ai margini della realtà con i passi morbidi ed aggraziati del gatto. Guardava tutto da lontano con occhi sereni e come una divinità benigna si limitava a sorridere e sussurrare (o forse a riflettere?).
Ma la sua apparente calma nascondeva una personalità estremamente ricettiva, legata alla realtà circostante e alle suppliche e alle grida di ribellione di chi veniva sottovalutato, combattiva e leale ma allo stesso tempo quasi troppo sensibile.
Semplicemente amava la tranquillità, la natura, i piccoli attimi sereni che la vita sapeva donare, ma sapeva anche combattere anche con ardore sul campo.
Era solito sedersi, avvolto sempre negli stessi jeans e felpe, sopra i muretti e intrecciare ghirlande di fiori con le sue mani olivastre, ossute ma dai tratti delicati; oppure guardava il cielo, con la testa castana e ricciuta che svettava sopra quelle del resto degli scolari.
Era sensibile, non si poteva negare, e forse era per questo che riscuoteva l’ approvazione degli sguardi femminili che, talvolta con suo grande imbarazzo, era costretto ad affrontare quasi tutti i giorni. Ma lui si trovava bene con i compagni maschi, unica eccezione la sorella gemella che però non gli assomigliava affatto, né per aspetto né per temperamento, che tuttavia sentiva come un altro sé stesso.
Sognava inoltre di poter avvicinare quella ragazza con la pelle di latte i cui occhi azzurri e i ricci color del grano gli danzavano sempre davanti agli occhi, da quando l’aveva vista; ma tutte le volte che provava ad avvicinarla o voleva farlo la Timidezza ripiantava le tende del suo cuore e gli faceva dirigere i suoi passi indietro.
Sospirava chiedendosi come avrebbe mai fatto uno come lui a conquistare quella ninfa energica dei boschi e, finché poteva, cercava di memorizzare ogni dettaglio di lei, sentendosi risuonare la sua risata spontanea e cristallina come un rivo d’ acqua…

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Capitolo 8
*** La studentessa straniera (Fiordiligi) ***


Ritratto n˚8: La studentessa straniera

 

“Asa ga kuru no ka?
Yoru ni naru no ka?
Mayoi nagara hikari wa hokorobite…[1]

Quando si sentivano melodie di questo tipo si poteva essere sicuri che la studentessa giapponese si stesse avvicinando: vuoi per la voce dolce, vuoi per la melodia o le parole misteriose eppure profonde, anche se non capite, in molti si fermavano ad ascoltarla.
Certo, fisicamente non era bellissima, incarnava perfettamente lo stereotipo della donna nipponica: pelle chiara, capelli liscissimi e nerissimi con tanto di frangetta, graziosi occhi a mandorla marroni, fisico ossuto e poche curve.
Ma c’era qualcosa nel suo modo di fare che affascinava gli altri, e quel qualcosa era il connubio tra il rigore orientale e la rilassatezza tipica del Sud dell’ Europa: al suo arrivo per un po’ era rimasta disorientata da quella che ai suoi occhi era l’ incuria della città, si era quasi scandalizzata per il perenne ritardo dei mezzi pubblici ed era rimasta sinceramente stupita della rilassatezza dei giovani, tanto più spensierati e “liberi” dei suoi compagni di scuola.
E quella libertà aveva voluto apprenderla ad ogni costo, imparando così a salutare gli amici con una pacca sulla spalla o con un cenno della mano, tralasciando il solito inchino, e a ridere forte; assaporando inoltre la deliziosa sensazione di libertà e nullafacenza di un giorno libero.
Il suo perenne stress sembrava stare scomparendo, anche se talvolta il suo lato più volenteroso le diceva ancora di rinunciare alle scampagnate e passava intere giornate sulla scrivania a danno della sua salute.
Aveva il nome del giglio e come quel fiore era bella, semplice e delicata. Così sembrava a tutti che, nonostante potessero comunicare con lei solo in inglese, già le si erano affezionato, e soprattutto al suo ragazzo, che ammirava silente i suoi capelli neri mossi dalla brezza dalla sera.
 

 


[1] “Verrà il giorno?
E la notte svanirà?
La luce irrompe proprio quando medito su queste domande…”
Questi sono alcuni versi della canzone "Kimi no Gin no Niwa" ("Il tuo giardino d' argento") delle Kalafina.

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Capitolo 9
*** Il nerd (Astolfo) ***


Ritratto n˚9- Il nerd

A scuola era ovviamente il migliore: ordinato, preciso, diligente, era quello che disponeva le file dei banchi per i compiti in classe, spesso in modo da garantire passaggi d’ informazioni sull’ imminente versione, ma guai a cercare di tirargli via il foglio!
Aveva un certo pallino per la matematica, la chimica, la fisica, insomma tutto quello che c’era di concatenato e preciso che gli spiegasse in che modo l’Universo girasse.
Aveva letto Galileo e Copernico, si era entusiasmato per la teoria sulla Terra di Giordano Bruno ed era andato a vedere la sua statua in Campo de’ Fiori a Roma, sapeva illustrare a menadito la differenza tra lenti divergenti e convergenti e l’effetto Doppler.
Recentemente aveva tagliato i capelli rossi, che prima teneva mossi e lunghi appena sotto le clavicole, e aveva cambiato anche gli occhiali, dal momento che le lenti si erano fatte troppo pesanti per la montatura… dopotutto, dopo nove anni di miopia e la successiva insorgenza di astigmatismo era più che normale.
Casa sua era un’ enorme biblioteca che tuttavia non bastava a contenere tutti quei volumi, quindi anche in bagno o sul ferro da stiro era possibile trovare questo o quel trattato di astronomia o l’ ultimo numero di una rivista scientifica. Usufruiva poi di un maxischermo al plasma e di una invidiabilissima collezione di classici del cinema, con una certa predilezione per i film di Bergman: non di rado invitava gli amici a vederli a casa sua oppure li proponeva durante la settimana autogestita della scuola, durante il suo cineforum.
Questo era il suo mondo. L’ amore non lo cercava e per ora nemmeno gli interessava: lasciava che il Caso facesse la sua parte mentre lui disegnava figurine stilizzate di pegasi ed ippogrifi a decorare le pareti della sua stanza.  

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Capitolo 10
*** Il kenshi (Brandimarte) ***


Ritratto n˚10- Il kenshi[1]


La sua patria era il Giappone, la terra non dei manga o dei treni in perfetto orario, non del sushi e delle idol; ma dei templi, degli haiku, dei giardini zen e dei samurai. E proprio a loro il giovane si voleva rifare, fin da quando era un bambino, praticando kendo, e ormai era arrivato al primo dan: era arrivato a metà strada e da lì le cose si erano complicate.
Certo quell’ anno in Italia avrebbe ritardato il conseguimento del secondo e questo gli seccava tantissimo: fortuna che aveva trovato un insegnante, gentilissimo, che aveva conseguito un livello d’ inglese e di conoscenza dello sport tale da potergli dare qualche lezione e che lui finiva per pagare nonostante il poveretto gli ripetesse in continuazione che non ce n’ era il bisogno. Si era trovato bene fin da subito in compagnia di quella ragazza nippo-italiana che li aveva accolti all’aeroporto traducendo e dialogando per loro e, quando poteva, la sua ragazza veniva a vederlo durante gli allenamenti, anche solo con la blandissima scusa di portargli gli appunti.
Anche da sotto il men[2] gli spettatori potevano vedere i capelli corvini, lunghi appena sotto le spalle, ma solo togliendoselo le sue iridi azzurre, retaggio di chissà quale antenato di sangue europeo, potevano brillare tranquille nella loro calma energia.
Aveva il fascino dell’ uomo in divisa, lui, e la forza devastante del ciclone che confluiva nel suo shinai[3], ma i suoi occhi erano solo per la figurina trepidante che lo aspettava sempre, sorridendo, al di là della balaustra.
E solo allora da Tigre ritornava Agnello e, dimentico di tutto, correva ad abbracciarla sollevandola tra le braccia muscolose ma magre, per poi andare in spiaggia a godersi lo spettacolo del sole calante.
 


[1] Letteralmente “spadaccino” o “schermidore”, è il termine utilizzato in Giappone per designare chi pratica kendo.
[2] L’ “elmo” che compone la divisa del kenshi.
[3] Altro attrezzo, la spada utilizzata per il kendo.

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Capitolo 11
*** L' uccel di bosco (Olimpia) ***


Ritratto n˚11: L’ uccel di bosco
 
Sul far della sera gli abitanti del luogo sapevano già che, prima o poi, avrebbero visto quella figurina aggirarsi per la pineta, barcollando sui tacchi dodici degli stivali neri e rabbrividendo nel twin-set nero e viola. In molti ancora si chiedevano perché mai quella ragazza con il volto pallido segnato dalle occhiaie girasse a quell’ ora completamente sola, ma chi ci aveva fatto il callo ormai rimaneva indifferente di fronte a quello spettacolo e anche chi provava ad avvicinarla e a chiederle il perché di quel vagare non riceveva altro che un’occhiata indifferente ed un “Lasciami sola”.
Spesso i suoi occhi verdi erano ricoperti dai lunghi capelli rossi, quasi sempre lasciati liberi di ricadere sulla schiena, e le labbra rosse sembravano saper parlare solo alla natura.
O a chissà quale spirito soprannaturale, suo unico confidente e depositario dei suoi dolori.
La famiglia per lei era un’ entità inesistente e sopravvalutata: la madre non l’ aveva mai conosciuta e il padre l’ aveva perso ancora bambina, nemmeno lei ricordava in che modo.
Dei suoi fratelli, il maggiore era morto un anno prima per un incidente stradale, l’altro era finito in ospedale per il troppo fumo e ancora lì si trovava, dibattendosi tra vita e morte.
Di tutte le lacrime che aveva versato, nessuna l’ aveva aiutata a risolvere la difficile situazione in cui si trovava: per questo aveva deciso di non piangere più, per questo i suoi occhi erano spenti, vuoti e secchi.
Per questo passava tutto quel tempo fuori casa e, una volta ritornatavi, non prestava nemmeno più ascolto ai rimproveri di quei genitori adottivi che, se non l’ odiavano, non l’ amavano neppure appieno ed erano troppo distanti.
Se le avesse chiesto di descriversi con una parola, lei avrebbe scelto “Inutile”.
E quella parola avrebbe tracciato per terra durante i suoi mille pellegrinaggi.
 

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Capitolo 12
*** La barista (Alcina) ***


 
Ritratto n˚12: La barista


Uscendo da scuola alle quattro del pomeriggio almeno due volte alla settimana, quasi tutti i liceali del circondario finivano per incontrarsi sempre nello stesso luogo: un bar dalle notevoli dimensioni, quasi tutto sulle tonalità del rosso, e dalle piante di ibisco che troneggiavano, come due gendarmi, ai lati dell’ingresso principale.
Erano soprattutto ragazzi a riunirsi, anche dopo le corrispettive attività sportive, a bere cappuccini d’ inverno e granite d’ estate, oppure anche solo per sorbirsi un caffè, addentare cornetti, comprare pacchetti di chewing gum da portarsi dietro per ogni evenienza, ma anche e soprattutto per fare occhi di triglia alla barista.
Era venuta dalle Bahamas, più precisamente da Long Island, ormai quasi vent’ anni addietro, e si avviava alla trentina: era una bella mulatta dagli occhi color dell’ ambra che scintillavano maliziosi, con labbra carnose, belle curve e la camminata che pareva una danza. Anche solo quando camminava reggendo il vassoio sembrava pronta per scendere in pista e scatenarsi al ritmo di un tango.
Si mormorava che in gioventù avesse tentato la carriera di ballerina e che fosse arrivata persino a New York per affrontare uno stage che però poi non avrebbe passato. Vero era che il pallino per la danza l’aveva e talvolta si esibiva per le feste del paese o per piccole manifestazioni, ma nulla di più.
Ad ogni modo lei piaceva non solo ai ragazzi, dei quali accettava le battute maliziose con una sonora risata, ma anche a molto uomini che potevano permettersi di guardarla solo per un attimo prima di sentirsi conficcare nella carne le unghie delle mogli particolarmente gelose. La donna era motivo di pettegolezzo anche perché non era sposata né aveva intenzione di farlo; ma aveva avuto comunque varie relazioni, anche se non prettamente sentimentali… Evidentemente era troppo per certe famiglie benpensanti, che quindi si tenevano alla larga da lei.
Che di quelle voci, ad ogni modo, non si curava affatto.
La sua vita era la sua, pensava, e anche se non fosse stata capace di viverla in modo “profondo” e “stabile” era lei che decideva cosa farsene.
Aveva un libero arbitrio, in fondo, e lo voleva sfruttare come meglio credeva.  

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Capitolo 13
*** La bibliotecaria (Logistilla) ***


Ritratto n˚13: La bibliotecaria
 

Viveva appartata, lontana dalla città, in un gioiellino di campagna circondato da appezzamenti che, se non biondeggiavano per l’abbondanza di grano, potevano almeno vantarsi della frescura delle fronde verdi d’ estate, dell’ombra dei fichi e degli olivi, dei grappoli d’ uva e dei pampini nel tempo della vendemmia.
Lei amava inoltre circondarsi di fiori: eliotropi, fresie, viole del pensiero, rose tea e rossi tulipani d’ inverno, e ancora gerani, ortensie, narcisi, giunchiglie, calicanti. Era felice della sua vita semplice, piena anche se così lontana dai piaceri della modernità, e non l’avrebbe cambiata per nulla al mondo.
Tuttavia ogni mattina si alzava presto e, dopo una rapida colazione e un rapido saluto alla sua immensa libreria, la si vedeva allontanarsi dal suo paesino lungo quella strada dissestata e si appostava, lo sguardo acuto e attento di una lince, alla fermata del bus. Non sopportava né il cattivo odore né tantomeno lo smog cittadino, si ripeteva sempre che prima o poi si sarebbe abituata e invece non accadeva mai.
Ma le bastava entrare nella vecchia biblioteca del paese, inspirare un po’ di quell’ odore di carta antica e polvere, salutare con un cenno gentile l’antico mobilio e le scartoffie sulla scrivania e spalancare le finestre per sentirsi nuovamente a suo agio.
Amava la cultura e aveva scelto di dedicare ad essa tutta la sua vita, alla ricerca di una virtù che nemmeno lei sapeva definire.
Ogni giorno studenti universitari un po’ nervosi e visi incartapecoriti dall’ età la salutavano sorridendo, ma lei non si accontentava e avrebbe voluto vedere anche personcine più giovani. Magari di quelle che frequentavano il bar della sorella gemella a cui lei somigliava solo fisicamente…
La sua speranza rimase insoddisfatta fino a quando un giorno, per caso, due giovani dall’ aria smarrita bussarono alla sua porta… e fu subito intesa.

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Capitolo 14
*** La modella (occasionale) (Ginevra) ***


 
Ritratto n˚14: La modella (occasionale)
 
 
Compariva talvolta nei dépliant di qualche media catena d’ abbigliamento con indosso i nuovi modelli della collezione, eppure, incredibilmente, non c’era abito che le stesse male.
Sembrava che tutte le fibre del mondo si fossero disposte in modo tale da creare un’armonia intrinseca, per far risaltare il corpo snello e la sua pelle pallida, nonché il viso d’ angelo non accompagnato dalle lentiggini che solitamente contornano e completano il ritratto di un volto dai capelli rossi.
Aveva grandi occhi da cerbiatto, di un azzurro intenso, innocenti e candidi, che toglievano l’ uso della parola per un po’, ma erano in tanti a chiedersi se dietro a quel sembiante angelico si celasse un animo ugualmente puro.
Ed effettivamente la corrispondenza c’era: quel volto da carta patinata apparteneva ad una sedicenne gentile, fin troppo buona, con la testa ancora immersa in fantasie di zucchero filato e cavalieri in armature scintillanti, di principesse e fatine. Una ragazza che rideva tanto e arrossiva ancora più spesso, con la voce che trillava gioiosa ad ogni parola pronunciata e vestiti bianchi pieni di pizzi e fiocchi che la facevano sembrare una bambolina. Piangeva spesso ed aveva un carattere fin troppo arrendevole, per cui era preda facile degli scherzi di ragazzi immaturi, ma a difenderla c’era la ragazza del bosco, come la chiamava lei, che con il suo cinismo e la disillusione bilanciava perfettamente tutto il mondo infantile dell’amica: si erano conosciute per caso e viste insieme creavano un bel contrasto, ma non potevano fare a meno l’una dell’altra.
Nonostante il suo perenne sorriso, di una cosa si lamentava: la maggior parte delle persone che incontrava si fermava solo alla sua apparenza e alla sua relativa fama, le sembrava che davvero in pochi si ingegnassero per capire che fosse davvero.
La faceva stare male, questo, e spesso si chiedeva: “Ma è così difficile?”.
Lei voleva che non lo fosse… e continuava a sperare.

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Capitolo 15
*** Il poeta (Ariodante) ***


Ritratto n˚15: Il poeta


 
Era un assiduo frequentatore del porto e del molo, abituato alla compagnia dei gabbiani che seguivano le scie delle navi appena salpate o in manovra d’ attracco così come a quella dei piccioni che beccavano le briciole che i passanti gettavano loro; ma anche dei musei e dei pochi angoli non divorati dal cemento, dei giardini pubblici e degli orti botanici.
Amava le giornate ventose e quelle piovose, l’odore della terra dopo un temporale, le persone sole che vedeva in metropolitana e quelle che gli sembravano appartenere ad un’ altra realtà e su di esse scriveva brevi componimenti, su di un quadernino dalla copertina di sughero, a matita, in modo da poter correggere più facilmente i suoi errori.
Quando poi le sue poesie erano dedicate al mare, le scriveva anche sulla battigia con un bastone e lasciava che il movimento lento delle onde cancellasse alcuni versi. Lo stesso accadeva per quelle sui boschi, mentre quelle dedicate ai passanti o ai pendolari venivano infilate di nascosto nelle loro borse insieme al suo numero di telefono o all’ indirizzo di posta elettronica, nel caso volessero fargli sapere la loro opinione.
Camminava solo lungo il muretto che costeggiava la spiaggia del suo paese sognando scogliere e i fiordi della Norvegia, il fascino delle foreste madri e la vita degli antichi contadini; ma soprattutto che la sua arte potesse migliorare, dal momento che la riteneva ancora troppo bassa per considerarla tale; che un giorno potesse raggiungere il cuore dei suoi lettori; di diventare davvero un poeta e di riunire i suoi simili in un circolo; di poter parlare a quattr’ occhi e di poter far rivivere quelli passati, chiedendo anche loro perché se ne fossero andati così presto.
Il suo Grand Tour era tutt’altro che lungo, anzi era una persona alquanto sedentaria, ma a lui, solo con le parole del silenzio, stava bene così.

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Capitolo 16
*** L' amico di tutti (Cloridano) ***


Ritratto n˚ 16: L’ amico di tutti
 

Aveva conquistato i cuori di tutta la sua classe nel giro di due settimane o poco meno: dal suo sorriso caldo e gioviale sembravano partire tante frecce inevitabilmente destinate a far centro e grazie anche al carattere disponibile e ottimista non c’era davvero da stupirsi se si era fatto amici un po’ ovunque. Le persone amavano parlare con lui, aveva una buona parola per tutti ed era un ottimo conversatore, anche se talvolta la sua sincerità lo metteva nei guai, inoltre aveva una strana capacità di e valutare le situazioni con lucidità.
Era sempre il primo a proporre un’ uscita di gruppo, una grigliata sulla spiaggia o una settimana bianca; era lui che animava le assemblee, le gite in pullman o le foto di classe; era sempre lui che faceva ridere anche le persone più serie o tristi, anche tra i professori, e passava i compiti ogniqualvolta venisse chiesto, era ancora lui a far calmare le acque: l’ aria tutt’ attorno, in questi eventi, risuonava sempre di una sua risata.
Solo una persona gli sfuggiva, quasi non si fosse accorta della sua presenza, ed era guarda caso quella di cui da sempre era innamorato: il suo esatto opposto, il ragazzo dai ricci biondi e gli occhi neri, la statua greca che come tale stava immobile sotto gli alberi ad elucubrare chissà cosa con le labbra serrate.
Quel folletto che viveva in completa sintonia con la natura era il suo sogno proibito, l’ amore colpevole che in fondo non lo era nemmeno poi tanto, facile da pensare ma impossibile da raggiungere se non con la sua voce.
Che ad ogni modo finiva sempre per scivolargli addosso e ritornare al mittente con il movimento lento e monotono delle onde, quando il mare è calmo.

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Capitolo 17
*** I gemelli (Grifone e Aquilante) ***


Ritratto n˚17: I gemelli
 

Vederli separati l’uno dall’ altro era poco probabile, ma non per questo impossibile: per quanto potessero essere simili fisicamente (stessi arti lunghi, stesso colore castano rossiccio dei capelli e stessa pelle color del miele) avevano dei caratteri abbastanza diversi. Davvero due facce della stessa medaglia, complementari e inseparabili.
Il più giovane era un impulsivo, parlava ed agiva prima di pensare e si gettava a capofitto nelle situazioni più delicate, salvo poi ritrovarsi ingarbugliato in una matassa troppo difficile da dipanare. Condivideva insieme a gran parte degli amici nonché compagni di squadra l’amore non ricambiato per una ragazza bella ma volubile e capricciosa, dalla quale tuttavia non riusciva a separarsi anche se sapeva bene di poter essere coinvolto in un estenuante tira e molla. Teneva i capelli lisci e lunghi fino alla spalla, spesso legati in un codino, e si serviva di uno skate per andare a scuola quando lo zaino era troppo pesante.
L’ altro, il più anziano, passava praticamente le sue giornate in sala studio, gli occhiali in bilico sul naso, o in infermeria a medicare con pazienza le ginocchia sbucciate e gli innumerevoli graffi del fratellino. Oltre alla trecciolina che gli sfiorava il collo, i suoi tratti distintivi erano il sitar che portava perennemente in spalla e il suo profondo interesse per la cultura estera, specie per la religione. Portava al collo un amuleto tribale e sperava, una volta arrivato all’ università, di poter fare un Erasmus, magari in Inghilterra o in Spagna.
Purtroppo per lui, l’unica città straniera che aveva visto era Damasco, ed era anche troppo piccolo per poterla ricordare.
Visti insieme creavano un bel contrasto, e anche se talvolta si tenevano il muso per giorni, l’uno sarebbe sempre stato al fianco dell’altro ed entrambi avrebbero sempre porto una mano a chi era in difficoltà.
Sapevano bene che il momento in cui si sarebbero separati sarebbe arrivato presto, ma proprio per questo andavano avanti giorno per giorno cercando di cogliere l’ attimo.

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Capitolo 18
*** La classicista (Isabella) ***


Ritratto n˚18: La classicista
 

Aspettava ogni giorno, avvolta in jeans a zampa e camicette leggere, gli amici davanti al bar Alcyon per scambiare analisi del periodo, soluzioni di disequazioni e chiacchiere. Da sempre affetta da una lieve miopia, da quando aveva cominciato a portare le lenti a contatto qualche ragazzo la vedeva sotto una luce diversa, apprezzandone gli occhi scuri e penetranti da gatta.
Tutti i suoi compagni sapevano che nell’ agendina che portava sempre sottobraccio non erano segnati solo i suoi impegni, ma anche frasi strappate a qualche frammento della lirica greca o latina, spezzoni di canzoni e disegni, molto semplici, a pastello, frammisti alle dediche di vari compagni. Nonostante la mole di compiti per casa era sempre puntualissima e precisa, un vero orologio svizzero, ed anche per quanto concerneva i (pochi, a onor del vero) favori che le venivano chiesti li eseguiva sempre, inappuntabile e rapida, nel minor tempo possibile.
Era una vera e propria fonte di aneddoti divertenti e da secoli cercava di avvicinare i suoi amici a quella che reputava la cultura migliore che ci fosse mai stata e ultimamente stava ottenendo, con sua grande gioia, qualche risultato.
Catullo, Mimnermo, Properzio, Tibullo, Anacreonte: tutti li amava i poeti che parlavano d’ amore, ma la sua preferita era la Decima Musa di Platone, l’ immortale Saffo e i suoi poemi pieni di luce e sentimento, visto sotto ogni sfumatura. L’ aveva anche interpretata per una piccola rappresentazione scolastica, della quale si disse entusiasta per aver indossato finalmente dei panni simili ai chitoni, ma anche un po’ delusa perché non era riuscita a rendere appieno la grandezza del ruolo assegnatole.
Era stata la prima a fare amicizia con la studentessa giapponese, in breve diventata la sua migliore amica: quando le chiedeva perché mai non avesse un fidanzato, lei rispondeva con un’ alzata di spalle che evidentemente anche lei era una piccola mela “alta sul ramo più alto[1].
 
 
[1] Saffo, frammento 105 a.

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Capitolo 19
*** L' ecologista (Medoro) ***


Ritratto n˚19: L’ecologista
 

Usciva sempre per ultimo dalle stanze, dopo aver spento luci ed apparecchi elettronici in stand-by; chiudeva sempre il rubinetto mentre insaponava le mani e spazzolava i denti; se la lavastoviglie non era piena i piatti che aveva usato li lavava manualmente; si ricuciva gli strappi degli abiti e soprattutto veniva a scuola in bici.
Era l’angelo biondo dagli occhi neri… della Natura. Dell’ amore non ne voleva proprio sentire parlare a meno che non fosse quello per la sua vera grande casa. Era sensibile in un modo tutto suo: voleva recuperare il quel contatto con il mondo circostante che sentiva di aver perso insieme a tutti coloro che appartengono alla società moderna, quella dei chip e del cemento. Era per questo che passava i fine settimana al lago, attraversandolo in barca a remi, oppure in campagna insieme al nonno, provando a zappare (e finendo sempre per riempire le mani di vesciche) e rubando limoni e fichi agli alberi posti al confine delle terre. Quando glielo chiedeva, aiutava la bibliotecaria con il giardinaggio e ne ammirava i bei fiori, ma li coglieva solo con la macchina fotografica.
Altra sua grande passione, questa, che gli era valsa un paio di primi premi vinti a vari concorsi: non riteneva i suoi occhi capaci appieno di cogliere la bellezza di certi paesaggi, che sfumava inevitabilmente trasformandosi in ricordo ed in rimpianto pur non meritandolo. Insomma, la stessa sensazione che lui provava guardando la luna e ripensando al maledetto giorno in cui dovette lasciare i genitori tanto lontano per andare a vivere tra lo smog e i palazzi.
Così certe persone pensavano che non “meritasse” di “sprecare” i suoi giorni di giovinezza senza provare almeno un brivido diverso sulla pelle. Chi avrebbe mai detto che a provocarglielo sarebbe la persona più inaspettata, quella che come lui poco si curava di queste cose e che stimava l’indipendenza il suo unico tesoro?
 

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Capitolo 20
*** Il nonno (Atlante) ***


Ritratto n˚20: Il nonno
 

Era il solo vero genitore che avessero mai avuto e tuttora continuavano ad amarlo come tale, facendolo diventare una figura di riferimento non solo per loro ma anche per tutti i loro amici.
Quando aveva deciso di prendersi cura dei due gemelli, i cui genitori erano morti in seguito all’ ennesimo incidente stradale, si avvicinava alla cinquantina, ed ora che ne avevano diciotto stava per compiere settant’ anni.
Aveva dovuto partire praticamente da zero, da solo, non aveva accettato aiuti da nessuno, e se gestire il maschio era stato quasi sempre facile data la sua indole dolce e remissiva non si poteva dire lo stesso per la sorellina: vivace, linguacciuta, a volte manesca e soprattutto irrefrenabile. Non c’era albero nei dintorni della casa che non fosse stato scalato da lei, non uno sgabuzzino che non fosse stato esplorato da cima a fondo, non lite in cui lei non s’ intromettesse.
Spesso tornava a casa piena di graffi e lividi, ma era del tutto insensibile al dolore e sopportava con coraggio ogni tipo di cura. Quando avevano provato ad adottarlo, si era opposto con furore e fermezza ed era riuscita a spuntarla: era la sua bambina, era lui che s’ era affezionato a lei, lui che l’aveva vista crescere e non gliel’ avrebbero tolta così facilmente.
Fattasi adolescente, ne aveva sopportato tutti cambiamenti e varie “fasi”: prima i dreadlocks ai lunghi capelli neri, poi il pericolo che incappasse nel vizio del fumo, gli spinelli con gli amici e infine, con un sospiro di sollievo, la passione per l’equitazione e le partite di basket dietro casa.
Lui era più sensibile degli altri ragazzi e non ci aveva mai sofferto, o almeno non aveva mai sentito lamentele riguardo a questo, ma ora sospirava d’ amore: non poteva che esserne contento, ma aveva allo stesso tempo un po’ paura per quell’ uccellino ancora inesperto che si apprestava a volare fuori dal nido.
 

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Capitolo 21
*** Lo skater (Ferraù) ***


Ritratto n˚21: Lo skater

Il rumore delle ruote sul cemento delle strade era il segnale del suo arrivo.
Dopo una corsa tanto veloce solitamente i suoi capelli erano un disastro, ma gli bastava qualche colpo di pettine per fare assumere loro un aspetto più composto.
Ciò che lasciava gli amici senza parole però non erano la capacità di reggere uno zaino strabordante di libri su uno skate che era probabilmente un quinto del suo peso, né la rapidità nel pettinarsi, ma il suo rifiuto di togliersi dalla testa il suo cappellino preferito: quando era obbligato a farlo teneva il broncio, diceva di sentirsi nudo, eppure la sua chioma mossa e corvina non era affatto brutta.
Persino in casa girava per la maggior parte del tempo a capo coperto, ma a parte questa sua particolarità era un ragazzo come gli altri: odiava fare algebra ma gli erano piaciuta la letteratura medievale e quella romantica, apprezzava la musica metal e il rap, passava il tempo a cincischiare e usciva con gli amici più spesso di quanto non studiasse.
Ma tra gli amici era appunto noto per la sua abilità con le tavole, dal surf allo snowboard passando ovviamente per il suo grande amore: era davvero uno spettacolo mozzafiato vederlo esibirsi in trick che sfidavano la forza di gravità, le rampe ormai gli erano diventate più familiari delle sue tasche. Rivedere poi il tutto alla moviola evidenziava tutta la precisione nei suoi gesti e solo allora si poteva capire dove l’avessero portato otto anni di duro allenamento.
Una volta posati i piedi per terra il volto, fino a pochi istanti prima serio e contratto per lo sforzo, ritornava disteso ed allegro e la sua prossima meta sarebbe stata, ormai lo si sapeva, il bar più vicino.

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Capitolo 22
*** La queer (Fiordispina) ***


Ritratto n˚22: La queer


Non c’era mai stata una metamorfosi più radicale della sua.
Tutti li aveva sacrificati, i suoi crespi capelli castani perennementi rinchiusi in una treccia a spina di pesce, li aveva sfoltiti e ad accorciati: ora le arrivavano appena sotto il collo ed avevano finalmente un movimento più sistemato, ricci com’ erano diventati.
Inoltre rideva, scherzava, alzava la propria voce: insomma completamente un’altra ragazza rispetto a quella timida e dimessa, dagli occhi bassi, vestita con quelle camicette nere, che parlava con voce fioca ed aveva paura del suo vero essere.
Tutto era cominciato all’ uscita di una palestra. Gli schermidori avevano oltrepassato la soglia in gruppo, ridendo e scherzando, ma a colpirla fu quello con i jeans strappati e i corti ricci dorati, del quale s’ era innamorata all’ istante. 
S’ era illusa: non era un lui, ma una lei. Eppure non riusciva a togliersela dalla testa.
Passando sempre più tempo con lei, si era accorta che quella fiamma non aveva proprio intenzione di spegnarsi, anzi guizzava ogni giorno più viva… e si sentiva dannatamente in colpa. La sua compagna nemmeno aveva intenzione di intrattenere relazioni, ma non poteva fare a meno di desiderarla, chiedendo talvolta agli dei che una delle due cambiasse sesso.
Poi il grande inganno: il fratello di lei a lei identico come una goccia d’ acqua s’ era infilato nel suo letto. A lei piacque. Fu uno scandalo scolastico e ci risero su per settimane, mentre lei piangeva come un fiume in piena, ma quella fu per l’opportunità per accettarsi e gridare al mondo la sua verità: la prese per i capelli come si faceva con la Fortuna nel Medioevo.
Ora i suoi occhi splendevano, si ribellava e giocava a baseball. 
La sua storia andava avanti, ma l’amore per l’amazzone con il fioretto non s’ era mai spento e forse un giorno gliel’ avrebbe fatto capire.
Per ora si limitava a garantirsi un posto durante le manifestazioni LGBT: voleva un futuro migliore.

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Capitolo 23
*** Il dongiovanni (Sacripante) ***


Ritratto n˚23: Il dongiovanni
 
Trovare una rosa nello zaino, per le ragazze, significava diventare delle novelle Ercole al bivio e scegliere tra Piacere e Virtù, con tutti i vantaggi ma soprattutto gli svantaggi che ne conseguivano.
Se la strada era quella corta e piacevole allora si diventava una poco di buono, che s’ era meritata il suo male; altrimenti, scegliendo di percorrere quella via alpestre e dura, si diventava immediatamente una "frigida", quella difficile che non si sa godere la vita e che non aveva saputo cogliere l’ attimo.
Ormai però molte si tenevano lontane da quell’ opportunità perché sapevano che, prima o poi, sarebbe giunto anche il loro turno e sarebbero state abbandonate con la più puerile delle scuse.
Si era da pochi anni trasferito lì e già si era lasciato dietro una scia di cuori infranti. Il procedimento era sempre lo stesso: a partire dalla rosa, lasciava alla ragazza interessata centinaia di doni, da semplici ciondoli a ninnoli più costosi, passando per una colazione al bar. Anche l’obiettivo era sempre quello: portarsi la ragazza a letto dopo averla colmata d’ attenzioni, ma da quel momento l’attrazione svaniva. Raramente le sue storie duravano più di tre/quattro mesi ma nessuno gliene faceva mai una colpa, semmai erano le sventurate sue vittime che sempre venivano colpevolizzate, anche perché poi, dopo la separazione, spesso si dimostravano ancora affezionate a lui, quasi non riuscissero ad affrontare la realtà.
Ma ormai le cosa stavano cambiando: quando ci aveva provato con la bella ragazza cinese del quartiere, il sorrisetto freddo di lei l’ aveva lasciato interdetto, ma a metterlo del tutto fuorigioco era stata l’ azione decisa di quella schermitrice rompiscatole che a quanto pare i fatti suoi non riusciva proprio a farseli.
Però era vero, non sarebbero più bastati il suo fisico al contempo asciutto e muscoloso, la pelle chiara e lo sguardo ammaliante per fare conquiste, e lui ancora non lo sapeva.

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Capitolo 24
*** Il viaggiatore (Guidon Selvaggio) ***


Ritratto n˚24: Il viaggiatore
 
La sua figura dalle gambe snelle si stagliava contro il cielo, qualunque sfumatura di colore avesse assunto: albe e tramonti, giorni tersi o burrascosi o semplicemente rannuvolati che fossero, amava guardarlo qualunque emozione esprimesse.
Sin da piccino era convinto che ci fosse una sorta d’ intelligenza a muovere tutto intorno a lui e con il passare del tempo non aveva abbandonato questa tesi, ma l’ aveva ristretta al mondo prettamente naturale, perché ormai era convinto di conoscere fin troppo bene quali regole muovessero il mondo umano e lo disgustavano.
Per questo vagava, spesso senza meta, per il solo piacere di vedere quanto lontano lo avrebbero condotto le sue gambe, oppure si arrampicava lungo i fianchi dei pendii scoscesi o raggiungeva il punto più lontano della scogliera solo per ammirare le onde che s’ infrangevano contro di essa.
Quando usciva di casa nascondeva la chioma bionda sotto un cappuccio e con essa la pelle troppo delicata per prendere sole, ma i suoi occhi grigiastri erano impossibili da nascondere perché in un modo o nell’ altro scintillavano sempre. Altrettanto impossibile era dunque non notarli.
Si lanciava a capofitto in qualsiasi impresa con un entusiasmo invidiabile e con la certezza che, qualunque sarebbe stato l’esito, lui avrebbe fatto del proprio meglio e avrebbe visto e provato qualcosa di nuovo.
Odiava l’immobilità, la quiete ed i suoi viaggi non terminavano mai: ritornava sui suoi passi per vedere un dettaglio che gli era sfuggito, ciò che non aveva visto prima, quel che aveva dimenticato.
Il viaggiatore ritorna, pensava lui, e il viaggio non termina mai.
Ed ecco perché, quando pensavi di averlo visto rientrare, usciva sorridente negli abiti leggeri e camminava lungo i bordi dei marciapiedi o i muretti abbandonati, diretto alla volta del vecchio castello medioevale arroccato in cima alla collina e dimenticato da tutti. 

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Capitolo 25
*** L' atleta (Doralice) ***


Ritratto n˚25: L’ atleta

Se durante le festività girava in vestitini attillati e tacchi inverosimilmente alti sui quali, beata lei, si sentiva perfettamente a proprio agio, ed anche a scuola non era propriamente la ragazza da felpe e jeans strappati, bastava vederla con i capelli riccissimi raccolti in una coda alta e con la tuta addosso per capire che forza incredibile si nascondesse nel suo corpo.
Campionessa di salto in alto e corsa campestre, la sua pelle scura illuminata dal sole era uno spettacolo mentre guizzava qui e là più ratta della folgore, messa tra l’ altro in risalto dal colore rosso intenso della divisa della scuola. Giocava nella squadra mista quando si organizzavano partite di calcio tra classi, gareggiava con i ragazzi per la sua bravura da cestista, in casi estremi si gettava nella tremenda mischia delle partite di rugby guardando con aria di sfida e con un sorrisetto di scherno sulle labbra carnose il tremendo tre quarti centro, colui che aveva osato asserire che quello sport non era “da ragazze”.
Gliel’ avrebbe fatto ben vedere lei, di cosa era capace. Magari sul palcoscenico, al saggio del suo corso di flamenco.
Oltre a quello, però, sembrava che tutta quell’ attività fisica le togliesse le forze per concentrarsi su altro: la sua media, a scuola, lasciava alquanto a desiderare tranne per le materie d’ indirizzo e se riusciva ad evitare la bocciatura era in virtù del suo carattere allegro e gentile. Non che dietro quella facciata non si celasse altro, anzi: amava vedersi corteggiata e sapeva essere parecchio frivola, quando non era in movimento ciò che amava fare era mettersi a chiacchierare senza posa e s’ occupava di moda, non per niente uno dei suoi sogni nel cassetto era diventare stilista.
Eppure, a vederla litigare con il metro e le fettucce, veniva davvero da pensare che il suo futuro sarebbe stato in campo, ma quanto sarebbe durato?


 

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Capitolo 26
*** Il disegnatore (Leone) ***


Ritratto n˚26: Il disegnatore

Era uno dei pochi, in quel circolo di amici, a non frequentare la scuola accanto alla biblioteca, dal momento che non era interessato a quella ma all’ Istituto d’ Arte vicino casa sua.
Sin da piccino aveva avuto una spiccata attitudine per il disegno, concretizzatasi nelle centinaia di disegni che tappezzavano non solo la sua stanza, ma anche il resto della sua casa, e già alle medie, da autodidatta, aveva imparato a fare dei ritratti notevoli e paesaggi all’ acquerello.
Amava inoltre anche variare, un solo stile gli stava stretto: era in grado di passare, nel giro di una settimana, da quello più realistico a quello più stilizzato con uno schioccare di dita. Ultimamente prediligeva quello manga, il suo grande amore da quando aveva scoperto quel genere di fumetti e con essi la cultura giapponese, finendo invischiato anche nel cosplay (il suo preferito era, tuttavia, l’euzone, data la sua origine greca... per quanto non lo fosse appieno, un cosplay).
Nelle sue mani fogli e matite palpitavano di vita nuova e si trasformavano in spettacoli non replicabili in natura, ma animati dallo spirito di quelle dita da fata che imprimevano un loro marchio incancellabile.
Anche i suoi occhi s’ illuminavano di luce più viva quando maneggiava pennini, carboncino, sanguigna, pennelli, l’arte davvero lo trasfigurava elevandolo ad una dimensione superiore.
A suo giudizio, però, i lavori venuti meglio raffiguravano tutti la stessa persona: l’amazzone della metropolitana, la ragazza con il fioretto che tutti i giorni vedeva salire con il borsone bianco in spalla e di cui s’ era innamorato a prima vista.
Schizzava i suoi ritratti partendo dalle foto che le aveva fatto sul suo cellulare, ma la assimilava alle perfette dee greche che non sono più, mettendone in risalto i lati dolci e candidi e ammorbidendone le asperità.
Aveva chiesto ad un ragazzo, di cui non conosceva il nome ma che gli era parso affidabile, di consegnarle un suo mezzo busto ad olio, non sapendo che ferita avesse aperto nel cuore del giovane… In fondo non è forse vero che tutti gli innamorati sono ciechi?

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Capitolo 27
*** L’ Adone (Rinaldo) ***


Ritratto n˚27: L’ Adone

I due fratelli erano ormai le celebrità della scuola: lei l’amazzone dai ricci biondi, tostissima ma simpatica; lui invece il bello e irraggiungibile, ma dal grande carisma, amatissimo nonostante avesse finito le superiori già da un po’.
Aveva un sorriso aperto, solare ma allo stesso tempo malizioso, che conquistava un po’ tutte, e un simpatico volto delicato e velato di lentiggini, occhi nocciola leggermente allungati dallo scintillio improvviso.
Ma a far cadere le ragazze ai suoi piedi era il suo fisico statuario, non palestrato ma in qualche modo affascinante, la pelle color della pesca e come quei frutti morbida e vellutata, i ricci color della fiamma che quasi accecavano esposti alla luce del sole; senza dimenticare il carattere, anch’ esso costituito da quell’ unione di delicatezza e forza che lo contraddistingueva: un mix di cavalleresca gentilezza, desiderio d’ uguaglianza, sfuggente ironia e battute pungenti sapientemente armonizzati in una totalità che mai lasciava insoddisfatti.
Anche chi non poteva vederlo doveva, ad un certo punto, riconoscere la sua attrattiva.
Nonostante i mille sguardi femminili puntati su di lui, aveva già le sue Muse ispiratrici: la sua fidanzata storica, conosciuta alle elementari, una timida ragazza della periferia, discreta, silenziosa ma allo stesso tempo spettacolare come la neve dato il suo carattere esplosivo; e l’ amata sorellina, diversa ma a lui così simile.
Le aveva voluto bene sin dal primo istante, quando l’ una era una bambolina di tre anni infagottata nelle coperte bianche e lui aveva da poco iniziato la prima elementare; l’ unica della sua schiera di fratelli e fratellastri con cui non litigasse ogni tre per due, la sua amata confidente che ora stava sbocciando e che lui stava incoraggiando, perché di sostegni e aiuti non aveva quasi mai bisogno, da quando Cupido aveva bussato alla sua porta.

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Capitolo 28
*** La regina delle nevi (Ullania) ***


Ritratto n˚28: La regina delle nevi


Non propriamente simpatico, il soprannome che le avevano affibbiato, portava alla mente inquietanti ricordi di fiabe d’ infanzia, ma l’intenzione era tutt’altro che cattiva: semplicemente, dal momento in cui l’avevano vista aggirarsi con aria curiosa e spaesata insieme, all’aeroporto, avevano davvero pensato, all’ unanimità, che fosse l’incarnazione di tutto ciò che fosse considerato “nordico”.
Veniva dalla lontana Islanda e come la sua terra era lontana e affascinante, con quella pelle nivea, le labbra sottili, il fisico un po’ tarchiato da eschimese e il viso tondo come una perla, incorniciato da fili d’ oro e nel quale erano incastonati due occhi grigio-azzurri.
Aveva incantato tutti con i racconti delle ossa di balena incagliate vicino alla baia, delle fredde e lunghissime notti di Natale e dei giorni effimeri spesi in gare di velocità sugli slittini e i pattini, ma soprattutto di ghiacci e geyser, cascate e centrali termodinamiche.
Narrava con la sua voce sottile attorno ai falò, in spiaggia, muovendo le mani quasi a modellare con il fumo le figure delle sue storie: comportamento da sciamano che ben si confaceva al suo rapporto con la natura selvaggia.
Saltellava su per le montagne come uno stambecco e aveva una resistenza alla fatica e alle avversità davvero incredibile, a temprarla erano stati gli anni di alpinismo al fianco della madre che di lei aveva fatto una guerriera.
Del padre, di cui pure portava il nome, le era rimasto invece un antico scudo e un tappeto istoriato, tutto fatto di nodini, che portava sempre con sé ed ora era appeso vicino al suo letto nell’ appartamentino che si era trovata. 

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Capitolo 29
*** L’ aromantica (Orrigille) ***


Ritratto n˚29: L’ aromantica
 
Era una fotografa un po’ errabonda, dalla risata facile e dall’ ironia pungente, brillantissima in società e sempre desiderata; sua era la gloria, suoi gli scatti migliori della modella angelo dai capelli rossi e sue le foto che accompagnavano alcuni articoli del quotidiano cittadino nonostante la giovanissima età.
Ma per quanto riguarda il piano affettivo e sentimentale, la sua era una posizione alquanto singolare e certo con le sue azioni non la migliorava: a parte la famiglia sembrava non avere qualcuno che la sostenesse e per quanto riguarda l’ amore era volubile come poche, non riusciva ad avere un fidanzato stabile.
Anche se ritornava sempre dal suo primo amore lo faceva ogni volta con pochissima convinzione, più per noia e per la certezza che lui, cieco com’ era, nonostante si lamentasse spesso della sua incostanza non avrebbe mai avuto il coraggio di lasciarla.
La sua passione amorosa, però, non era mai stata fortissima. Era rimasta in stato latente per molto tempo ed anche quando s’ era accesa non aveva mai divampato con furore, sembrava quasi che avesse relazioni solo per convenzione, perché una ragazza che non era interessata all’ amore era vista come un nuovo mostro di Firenze, ma a lei, davvero, non importava nulla.
E non ci trovava nulla di strano.
Odiava le domande di amiche e amici che le chiedessero il perché di quella “scelta”, alle cui domande rispondeva sempre con una scrollata o un’ alzata di spalle.
Non era una scelta: era andata così. C’ era nata. E se magari non avessero continuato a rivolgerle quegli sguardi a metà tra il terrorizzato e lo scandalizzato, non le avrebbero mai fatto venire il dubbio di essere uno sbaglio che talvolta faceva capolino nei suoi pensieri.

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Capitolo 30
*** Il corridore (Agramante) ***


Ritratto n˚30: Il corridore

Buying bread from a man in Brussels/ He was six foot four and full of muscles/ I said “Do you speak-a my language?” / He just smiled and gave me a vegemite sandwich/ And he said:/ “I come from a land down under/ Where beer does flow and men chunder/ Can’t you hear, can’t you hear the thunder? / You better run, you better take cover…”
Faresti meglio a correre e a trovare riparo”. E lui per correre correva, tutte le mattine si infilava le scarpe da ginnastica biancoazzurre e letteralmente volava lungo le strade ancora deserte e desolate della periferia, tra i bidoni e i graffiti sui muri, con il vento che gli alitava sulla nuca e sui corti capelli, ma non avrebbe mai trovato riparo.
Non si sarebbe arreso per nulla al mondo: doveva indurre buona parte della gente del luogo a credere nella loro vera bontà, convincerli che non erano pericolosi e mai li avrebbero privati di qualcosa, che fosse la sicurezza o il posto di lavoro.
E lui, figlio africano di genitori africani immigrati, sin da piccino aveva lottato per l’ integrazione. Non sempre gli era andata bene, ancora sentiva sulla pelle scura il peso dei (troppi!) sguardi di disprezzo e commiserazione e delle parole pesanti, degli insulti.
Ai quali sempre aveva reagito con la forza che lo contraddistingueva, persino con la violenza che non sapeva tenere a bada.
Ma degli amici che s’ era fatto lui era il capo spirituale: non per niente il suo nome significava “condottiero”, era carismatico, perfetto oratore, sapeva trascinare le folle, ma non per questo faceva il despota senza cervello.
E, per quanto potessero essere titanici i suoi sforzi di diventare uno dei tasselli della società, non avrebbe mai rinnegato le sue radici. Come avrebbe potuto? Ancora gli mancavano il vecchio sciamano con la zucca piena di semi, il tramonto sul deserto, la sabbia calda che disorienta, le gazzelle e loro corse disperate per la sopravvivenza.
Quella comunione perfetta tra uomo e natura che in nessun mondo occidentalizzato lui la cercava così, falcando il terreno con quei passi da ghepardo, diretto oltre l’orizzonte più lontano, un passo dopo l’altro.
E intanto la canzone, negli auricolari, continuava il suo corso.
“Lying in a den in Bombay/ With a slack jaw and not much to say/I said to the man “Are you trying to tempt me/ because I come from the land of plenty?...”[1]
 
 
[1] Le frasi in corsivo, in apertura e chiusura di testo, sono tratte dalla canzone “Down Under” dei Men At Work.

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Capitolo 31
*** Il musicista (Zerbino) ***


Ritratto n˚31: Il musicista
 
Il palco era il suo regno, il legno la sua casa, le note le sue più care amiche.
Avviato sin da piccino alla musica dato il suo talento precoce, a quasi diciannove anni vantava una formazione invidiabile: dai legni agli strumenti più elettronici, niente con cui potesse intonare anche solo una piccola melodia sfuggiva al suo controllo.
Era partito con un semplice flauto dolce soprano, data la semplicità, ma il suo preferito era sempre stato il violino, così piccolo eppure così ricco, con le sue ampie sonorità che davvero sembravano ricalcare appieno tutte le sfumature dei sentimenti espressi dalla voce umana, quel grande organo che purtroppo non aveva mai pensato di allenare a dovere.
In compenso un organo l’ aveva suonato per davvero: aveva appena sedici anni e l’ avevano incaricato di eseguire una canzone per il coro della sua parrocchia, dal momento che l’ organista ufficiale si era buscato un malanno. Sfiorò quei tasti eburnei quasi con riverenza, aveva paura di sbagliare, ma alla fine tutti lo applaudirono e nella sua comunità divenne una celebrità.
Sperava di potersi dedicare a tempo pieno alla Fonologia, un giorno, per questo aveva accolto con entusiasmo la proposta della sua ragazza di suonare per lei seguendo i ritmi della poesia latina e greca: l’impegno dei due, armonizzato e sapientemente miscelato, produceva degli spettacoli memorabili, con lei che recitava a perfezione coadiuvata dalla sua voce cristallina e lui, con quelle sue dita di fata, che pizzicava le corde della cetra o percuoteva tamburi e cimbali.
Anche semplicemente visti insieme erano davvero una composizione scenografica. Lui poi era ben conscio di fare una figura miserrima affianco a lei, alla quale le origini spagnole avevano conferito un certo fascino, con i suoi corti capelli rossi da scozzese, gli occhi scialbi e la pelle di latte… ma il loro accordo era superiore e finché avrebbero vibrato alla stessa sequenza, producendo la stessa nota, nulla sarebbe andato storto. 

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Capitolo 32
*** L' anima “sbagliata ***


Ritratto n˚32: L’ anima “sbagliata”


Era arrivato alla fine della strada senza capire più nulla di lui, con la sensazione di camminare su dei vetri rotti o su degli stiletti, e i suoi piedi sanguinavano.
Eppure da bambino non aveva avuto di questi problemi, aveva sempre fatto parte della maggioranza e seguiva la massa senza farsi troppi problemi, ma anche ragionando con la sua testa. Uno come tanti, insomma, contento della sua situazione: studente medio, che per un pelo riusciva ad evitare la bocciatura, con tanti amici, sempre con la battuta pronta, anche se talvolta un po’ triviale, per far ridere chi aveva intorno.
Ma all’ improvviso la crisi.
Un giorno si guardò allo specchio e si accorse di non essere mai stato sé stesso.
Si passò le mani tra i ricci biondi, li tirò, prese a pugni il muro rischiando di rompere lo specchio e avrebbe voluto volentieri scoppiare in lacrime, ma si trattenne: aveva un suo orgoglio da tenere alto, da issare e far sventolare perennemente come segno della sua resistenza.
Cominciò così a saltare le lezioni, a rientrare tardi, a rompere i tabù e ad infrangere le regole, ma tutto questo non gli bastava. Ruppe completamente gli schemi quando, per non farsi riconoscere, assunse per un certo tempo un’identità femminile: l’assurda somiglianza con la sorella gemella, che tra l’altro in quel periodo si era pure tagliata i capelli a causa di una ferita, aveva giocato a suo favore fino a quando non aveva incontrato lei.
Un’ altra anima ferita che non riusciva a capire chi fosse e che non si accettava a causa del suo amore proibito. L’ aveva amata fin da subito e la cosa era stata reciproca.
Erano stati bene assieme quella fatidica notte e da lì era partito il loro recupero, ma se lei aveva superato tutti gli ostacoli lui non ci era riuscito.
Ancora lo tormentavano e lo compiacevano i ricci biondi, gli occhi azzurri il corpo tutt’ altro che eccessivamente virile, ma quanto meno aveva ripreso a sorridere e a condurre una vita regolare.
Per ora rimaneva comunque così, in bilico. Avrebbe capito poi, o almeno lo sperava.

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Capitolo 33
*** Lo studente di Taiji (Argalìa) ***


Ritratto n˚33: Lo studente di Taiji


Come sua sorella era straordinaria, anche lui sembrava una figura a dir poco singolare: sempre posato e affabile, sicuro di sé ma mai vanitoso, sempre compassato ma al momento opportuno pronto a sprigionare tutta la sua energia.
Si era avvicinato abbastanza tardi, rispetto ai coetanei cinesi, al Tai Chi: sembrava che la pedissequa ripetizione degli esercizi raccontatagli da loro lo avesse allontanato da quella pratica ancor prima che la conoscesse.
Come tanti altri bambini e ragazzini sembrava più interessato al wrestling che non ad arti marziali semisconosciute, ma l’illuminazione arrivò infine quando lui aveva appena dodici anni: era ad una di quelle detestabili Fiere dell’Oriente, che secondo lui d’ Oriente non avevano proprio niente se non quello che la gente comune s’ aspettava di vedere, e nel cercare la sorella dispersa rimase incantato nel vedere le movenze armoniche e allo stesso tempo energiche dei lao-shi che si stavano esibendo.
Da allora si dava con costanza nello stile Chen, il primo in ordine temporale, e puntualmente ogni giorno si alzava all’ alba per eseguire con solerte diligenza ogni passo, ogni movenza.
Il costante allenamento, oltre alla lieve abbronzatura della pelle madreperlacea, gli aveva apportato notevoli benefici, tra i quali il miglioramento dell’umore e (pare) un miglioramento della circolazione del sangue, nonché una più alta probabilità di prevenire un cancro, ma soprattutto gli aveva insegnato l’autocontrollo: ormai non era più il bambino irascibile di un tempo.
Certi suoi compagni ormai l’avevano preso per una sorta di figura leggendaria e anche lui, esattamente come la sorella con i suoi tanti spasimanti, si burlava di quella stupida divinizzazione: anche un corpo gracile e comune come il suo, con quei capelli neri lisci come spaghetti e gli occhi a mandorla, neri anch’ essi, poteva celarsi un forza incredibile: basta la costanza.

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Capitolo 34
*** Il pugile (Mandricardo) ***


Ritratto n˚34: Il pugile


Tutti i giorni, dopo l’uscita da scuola, si ritirava dentro il suo garage per allenarsi, ritornandovi poi immediatamente dopo l’ora di pranzo e la sera, dopo un lungo pomeriggio di studi.
Prendere a pugni il grande sacco rosso da pugilato gli sembrava l’unico modo valido per sfogarsi e far evaporare quell’ aggressività mai latente, nonché la sua unica grande passione: era nata in lui dopo la sua prima ed unica (come aveva stabilito) delusione amorosa, l’atleta della classe accanto lo aveva scaricato dopo averlo visto azzuffarsi furiosamente con un ragazzo riccio dalla pelle olivastra, quasi inerme di fronte alla stazza del kazako. Comunque era stato il suo avversario ad avere la meglio e la consolazione di quella che poi sarebbe diventata la sua fidanzata, “treccia di grano” l’aveva soprannominata il suo amico-nemico, ma la settimana di sospensione se l’erano beccata entrambi.
Una lite la loro scoppiata per un motivo stupidissimo (Quale? Nemmeno lo ricordava…) e che avrebbero potuto tranquillamente risolvere con la diplomazia (e l’altro pure ci aveva provato), ma purtroppo bastava anche solo una sciocchezza per fargli perdere completamente le staffe. In molti, stupidamente, lo ammiravano; c’era chi lo rispettava ma tanti altri di lui avevano una fifa blu, accentuata anche dalla sua perenne espressione crucciata in tratti spigolosi e la grossa cicatrice che, segnandogli il volto, gli aveva anche sfregiato un occhio.
Da quando suo padre era morto, colpito da un proiettile, la sua rabbia era diventata incontrollabile, da allora era stato soprannominato “Il Mostro del Vicinato” e lui non faceva nulla per smentire quella maschera. La sola cosa che riuscisse a calmarlo era il suono della dombra[1] della madre, l’unica persona che sembrava trattarlo come un essere umano e che riusciva, unica al mondo, a far sgorgare calde lacrime di tristezza e pentimento da quei gelidi occhi a mandorla da mongolo.
 
[1] Strumento musicale kazako a corda, molto simile al liuto.

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Capitolo 35
*** Il figlio del mare (Rodomonte) ***


Ritratto n˚35: Il figlio del mare
 
Quando si presentò a scuola e disse che era algerino le bocche dei compagni si schiusero in una O perfetta di stupore: la realtà dei fatti cozzava inequivocabilmente con l’idea che si erano fatti. S’ erano aspettati un gigante con la pelle cotta dal sole, il naso camuso e le labbra grosse e invece s’ era parato loro davanti un ragazzo sì forte, ma non troppo grosso, dalla pelle olivastra, i capelli lisci e il naso aquilino.
Era il figlio di isole che non aveva mai visto, inglobate dalle dighe foranee che vedeva in lontananza quando s’ affacciava sul porto. Era uno dei tanti picchi minori della catena dell’Atlante che gli coprivano la vista del cielo quando s’ affacciava dal balcone e uno dei tanti ragazzi che s’ aggiravano lungo le strade della casbah[1] e giocavano a calcio con palle fatte di stracci acconciati e ricuciti alla bell’ e meglio.
Ma soprattutto era il figlio del mare azzurro che ora lo separava dalla sua patria eppure riusciva incredibilmente a connettere tutte le terre, il grande fiume Oceano dei Greci, che sin da piccino lo aveva affascinato e terrorizzato: era intenzionato a scoprirne tutti i segreti e si sentiva sempre bene stretto in quell’ abbraccio di sale, libero e protetto insieme, eppure non poteva fare a meno di riflettere quando diventava la tomba di quei tanti amici e conoscenti che cercavano di passare il valico nella speranza di una vita migliore.
E si arrabbiava.
Tanto.
La gente del posto sapeva che era meglio non fare certi commenti di fronte a lui di fronte a quelle tragedie altrimenti perdeva completamente il controllo. Era già stato etichettato come “selvaggio pericoloso” da certi vermi schifosi che di fronte a quelli veri davvero non erano degni nemmeno di strisciare: fu quando la sua povera cuginetta non sopravvisse alla traversata.
Quel giorno fu visto passeggiare lungo il molo con i fiori in mano, alla ricerca della pace.
Il mare era mosso.
 
[1] La città vecchia algerina, antica residenza ottomana, oggi caduta in rovina.

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Capitolo 36
*** La confidente (Ippalca) ***


Ritratto n˚36: La confidente
 
Di lei dicevano che era come il suo nome, di una bellezza un po’ all’ antica: ed effettivamente, con quella pelle diafana, i capelli color della paglia e i fianchi larghi a compensare la scarsità di curve del petto davvero sembrava uscita da un quadro del Rinascimento. “All’ antica”, secondo la definizione sprezzante dei suoi coetanei, era anche il suo comportamento: occhi bassi, testa china e una gentilezza che rasentava il servilismo.
Mai una volta che avesse espresso il suo disappunto. Se c’erano poi dei ragazzi nei dintorni le sue guance si tingevano del colore dei papaveri a primavera.
Si diceva inoltre, e queste erano voci fondate, che fosse profondamente credente. Venerava un Dio tutto suo di cui raramente faceva parola con gli altri, ma che al tempo stesso era aperto a tutti, libero dai vincoli di ogni religione, sempre pronto a guidare e ad accogliere come un faro.
Come lei che davvero era la depositaria dei segreti di tutti i suoi conoscenti, perché tutti li sigillava in un angolino del suo cuore… In particolare quelli della sua unica vera amica, una schermitrice dai riccioli biondi.
Tutte le persone che conosceva, tuttavia, finivano per allontanarsi dalla sua orbita.
Lei non si crucciava e restava fedele ad aspettarli anche se, come diceva sempre, “doveva imparare a bastarsi”.
E c’ era quasi riuscita.

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Capitolo 37
*** Il ***


Ritratto n˚37: Il “carceriere”


Nella sua playlist di brani preferiti, sul cellulare, c’era solo un titolo: era una canzone che parlava di strade separate, tentativi andati in fumo di bruciare fotografie e volti dimenticati, ma anche del bisogno -o della voglia- di ricordare il tempo.
Parole che parlavano per la sua anima spezzata.
A vederlo, sempre affabile e cortese con tutti, non si sarebbe mai detto che aveva una grossa macchia nera sul cuore, semmai “solo” un grande tatuaggio raffigurante una chiave sull’ avambraccio sinistro.
L’ unico suo comportamento strano, agli occhi degli amici, era quel suo sorriso sardonico quando si finiva per parlare d’ amore: sembrava si burlasse di loro, ma la piega che assumevano le labbra nel creare quei ghigni era indubbiamente triste.
Non spiegava quel gesto perché non voleva riaprire la sua ferita.
Per uno come lui, le cui sole cose belle erano state il sorriso una volta solare e le fossette ai lati delle guance, ricevere l’ amore di colei che per tutti era la dea delle dee non era che follia.
Aveva trionfato a scapito degli altri, ma per colpa di un’ altra ragazza la miccia della gelosia aveva fatto saltare tutto per aria. Da quel momento si era dimostrato refrattario ad ogni relazione, aveva rinchiuso i suoi sentimenti in cella e lasciato, con la sola eccezione degli occhi verdi e imploranti della nemica, tutto dietro di sé.
Ma allora come mai, a quegli amici che si lagnavano con lui delle loro relazioni, consigliava sempre la chiarezza e la sincerità con un’affettuosa pacca sulla spalla?




[257 parole]
 





 
 


 






 

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Capitolo 38
*** Il fratello minore (Ziliante) ***


Ritratto n˚38: Il fratello minore

 
Non c’ era una grandissima differenza d’ età tra lui e suo fratello, poco meno di quattro anni, ma ognuno dei due viveva per conto proprio nel proprio mondo.
Il primogenito avrebbe presto affrontato “l’inferno degli esami” di ammissione all’ Università e spesso tornava tardi dalle ripetizioni serali; lui invece, che era da poco entrato alle superiori, durante le lezioni di storia dormiva sul banco e prendeva tutti gli appunti in hiragana.
Faceva parte degli adolescenti cool del Giappone, lui, e conosceva come le proprie tasche Odaiba, Shinjuku e il Roppongi.
Vestiva griffato, in stile yankee, e si occupava solo di ragazze.
Il mondo del fratello era davvero troppo lontano, irreale, come un’isola incantata circondata da una fitta nebbia, e talvolta si burlava di lui chiamandolo ronin[1].
Ciononostante quel primogenito troppo compassato era per lui un punto di riferimento e un grande amico, forse il migliore: era sempre pronto a consigliarlo e a confortarlo con il sorriso sulle labbra, nonostante i vari screzi, purtroppo quasi sempre causati da lui; e a passargli con un gesto rapido e rassicurante le mani tra i capelli castani perennemente in disordine.
Bastava loro soltanto uno sguardo, dalle iridi marroni del primo a quelle azzurrognole del secondo, per indovinare i pensieri dell’ altro: finivano spesso con l’ avvicinarsi verso la porta di casa, ridacchiando come due scolaretti, diretti al cinema.
 




 
 


 

 
 

[1] Nome che anticamente veniva dato ad un samurai decaduto; oggi indica uno studente che ha fallito gli esami per entrare all’ Università o un pilota senza scuderia.
 

 

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Capitolo 39
*** Il fratello minore (Ziliante) ***


Ritratto n˚38: Il fratello minore

 
Non c’ era una grandissima differenza d’ età tra lui e suo fratello, poco meno di quattro anni, ma ognuno dei due viveva per conto proprio nel proprio mondo.
Il primogenito avrebbe presto affrontato “l’inferno degli esami” di ammissione all’ Università e spesso tornava tardi dalle ripetizioni serali; lui invece, che era da poco entrato alle superiori, durante le lezioni di storia dormiva sul banco e prendeva tutti gli appunti in hiragana.
Faceva parte degli adolescenti cool del Giappone, lui, e conosceva come le proprie tasche Odaiba, Shinjuku e il Roppongi.
Vestiva griffato, in stile yankee, e si occupava solo di ragazze.
Il mondo del fratello era davvero troppo lontano, irreale, come un’isola incantata circondata da una fitta nebbia, e talvolta si burlava di lui chiamandolo ronin[1].
Ciononostante quel primogenito troppo compassato era per lui un punto di riferimento e un grande amico, forse il migliore: era sempre pronto a consigliarlo e a confortarlo con il sorriso sulle labbra, nonostante i vari screzi, purtroppo quasi sempre causati da lui; e a passargli con un gesto rapido e rassicurante le mani tra i capelli castani perennemente in disordine.
Bastava loro soltanto uno sguardo, dalle iridi marroni del primo a quelle azzurrognole del secondo, per indovinare i pensieri dell’ altro: finivano spesso con l’ avvicinarsi verso la porta di casa, ridacchiando come due scolaretti, diretti al cinema.
 




 
 


 

 
 

[1] Nome che anticamente veniva dato ad un samurai decaduto; oggi indica uno studente che ha fallito gli esami per entrare all’ Università o un pilota senza scuderia.
 

 

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