E così, questa, è la nostra storia...

di Tsukuyomi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Qual è il tuo nome? ***
Capitolo 2: *** Morsi ***
Capitolo 3: *** Domande ***
Capitolo 4: *** Cibo, sogni e viaggi ***
Capitolo 5: *** Duerme ***
Capitolo 6: *** Buongiorno! ***
Capitolo 7: *** Scontri e incontri ***
Capitolo 8: *** Amici? ***
Capitolo 9: *** Fobie e passato ***
Capitolo 10: *** Gemelli ***
Capitolo 11: *** Riflessioni e timori ***
Capitolo 12: *** Milo in azione ***
Capitolo 13: *** Le petit Camus ***
Capitolo 14: *** Les enfants terribles ***
Capitolo 15: *** Un nuovo cosmo ***
Capitolo 16: *** Ramón ***
Capitolo 17: *** Ultimi arrivi ***
Capitolo 18: *** Al completo ***
Capitolo 19: *** Si riparte ***
Capitolo 20: *** 4 - La locanda dei morti ***
Capitolo 21: *** 8 - Cuspide ***



Capitolo 1
*** Qual è il tuo nome? ***


capitolo 1 -Dove sono? Perché questo signore mi ha portato qui? Dove sono mamma e papà?
Non sono più tornati a casa … e la nonna? Forse non dovevo scappare quando è caduta,
ma dovevo trovare aiuto a tutti i costi … se fossi rimasto lì, buono, loro sarebbero tornati …
Forse si sono arrabbiati e per questo non sono venuti a cercarmi. Ma chi è questo signore qui? E’ gentile … -

Era estate, il sole splendeva alto sulla città di Atene. Le strade erano colorate dalle vetture in coda e i marciapiedi erano un brulicare
frenetico di persone. Nessuno sembrava sentire particolarmente il caldo, nessuno tranne lui.
Era reduce da un viaggio in aereo di dodici ore e, nonostante la meraviglia dovuta a tante cose nuove e affascinanti, era stanco.
Quando arrivò all’aeroporto, accompagnato da quell’omone gigante che lo aveva portato via dall’orfanotrofio, pensò di sognare.
Guardò divertito e incuriosito gli hangar, le persone che spingevano i carrelli colmi di valige, le hostess con le loro divise eleganti e sobrie,
i capitani nelle loro divise maestose e importanti. Gli sembrò di essere in un’altra dimensione.
L’aeroporto era grande e luminoso. Ancora non aveva capito dove si trovava, non aveva mai visto in vita sua un posto del genere.
Ogni sua domanda e perplessità su quel luogo strano venne fugata quando il gigante, che fino ad allora gli aveva tenuto la mano,
lo prese in braccio per mostrargli gli aerei. Il bambino non riuscì a trattenere la sorpresa e restituì a quell’uomo tutte le gentili parole
incomprensibili che gli aveva rivolto. Non sapeva cosa gli dicesse , però parlava tanto, in continuazione e lo faceva con voce gentile.
Non lo conosceva, lo vedeva per la prima volta, però gli piaceva. Si era mostrato molto gentile con lui premurandosi di portargli
un piccolo dono: una macchinina giocattolo, da corsa, rossa e azzurra.

Mentre i due attendevano che il volo venisse chiamato, il bambino si divertiva a far sfrecciare il suo bolide tra le caviglie degli altri passeggeri,
anche loro in attesa.
Quando furono sull’aereo l’omone lo fece sedere accanto al finestrino e cercò di intrattenerlo indicandogli tutto quello che
scorreva sotto il loro sguardo. Il piccolo vide gli altri aerei diventare sempre più piccoli, il mare, le coste e i contorni della terra che pigramente
cambiavano fino a cedere completamente il passo al mare e poi di nuovo alla terra. L’adulto parlava nel mostrargli tutto il visibile anche se era
cosciente che il piccolo non avrebbe capito neanche una singola parola. Forse fu meglio così, la voce dell’uomo era marcata da una sottile vena
di tristezza che fu comunque colta. Il piccolo doveva salutare la sua terra natale.

Dopo un po’ guardare fuori dal finestrino diventò noioso e il piccolo trovò più interessante disegnare mentalmente dei percorsi sul sedile davanti
a lui, sul finestrino, sulle sue gambe e sulle gambe di quel signore che lo accompagnava e che accettò di buon grado i suoi giochi partecipandovi
a sua volta. Sistemò i braccioli dei due sedili per fare una piccola rampa di lancio, in modo che la macchinina potesse saltare nuovamente sul sedile
di fronte al bambino.
Il pargolo dava l’impressione di divertirsi un mondo e commentava sprezzante e allegro quel gioco, suscitando la risposta e l’ilarità dell’accompagnatore.
Se solo fossero riusciti a capire quello che si dicevano.
Trascorse un paio d’ore dal decollo fu servita la cena e i due mangiarono con gusto, giocarono un altro po’ con la macchinina e poi il bimbo
crollò in un sonno beato e tranquillo. Il gigante, un ragazzo portoghese dall’altezza e dalla muscolatura spropositata, con i capelli scuri e la pelle
annerita dal violento sole greco, allungò una mano per fare una carezza al bambino che ormai vagava per meravigliosi mondi. Si addormentò
a sua volta.
Arrivarono ad Atene attorno alle nove del mattino e salirono su un taxi che li portò dentro la città. Il viaggio in vettura durò quasi un’ora e mezza,
trascorsa a mostrare gli scorci della città al bambino. Il gigante interruppe il discorso che stava facendo al piccolo e pagò il tassista.
«Tenga il resto. Arrivederci. »
«Arrivederci. Buona giornata. »
Scese dal taxi giallo portando giù dalla macchina il bambino con la pelle chiarissima e delicata, i capelli biondi e due occhi grandi, azzurri e profondi.
Aspettò che il taxi ripartisse e prese il bambino per mano. Lo tirò a sé con delicatezza e gli disse con voce allegra:
«Hai visto? Siamo stati fortunati. Non abbiamo impiegato molto per arrivare al Grande Tempio. Ti troverai bene qui. Il Gran Sacerdote dice che
sei un bambino speciale e che molto probabilmente, sempre che ci abbia visto giusto, diventerai un cavaliere. Magari diventerai un cavaliere d’oro,
chi può dirlo? Certo, l’allenamento è duro e tu sembri così delicato, ma mai sottovalutare nessuno. Per ora resterai un po’ di tempo al Santuario,
ci sono altri bambini come te e ne arriveranno altri, magari ne troverai qualcuno che parla la tua lingua. Sai che il Santuario è una specie di comunità
multietnica? Ci sono un sacco di persone di tutto il mondo, io per esempio sono portoghese. Naturalmente dovrai imparare il greco. E’ indispensabile
Ma sono sicuro che ci metterai pochissimo. Noi stiamo andando lì – l’uomo si fermò per indicare al bambino il luogo dove erano diretti - povero piccolo,
sei tutto rosso. Hai caldo vero? Tranquillo, siamo quasi arrivati. Non capisci una parola di quello che ti sto dicendo, vero? »
Il piccolo si voltò verso quell’uomo, enorme e statuario con la pelle scura, colorata da quel sole crudele.
Dopo averlo fissato per qualche istante il bambino aprì bocca, e con la voce resa un po’ roca dall’arsura parlò.
«Jag förstår inte. [Non ti capisco.]»
«E’ il tuo nome? » chiese l’uomo, sempre più incuriosito dalla musicalità di quella lingua a lui totalmente sconosciuta. Sperava ardentemente
che il bambino riuscisse a capire che voleva sapere il suo nome. Infatti, incredibilmente, nessuno sembrava conoscere il nome di quel bambino.
«Jag förstår inte! »
«Ti chiami "Iogfestinte"? »
«Vad?
»
«Ah, ti chiami Vad?! E’ un bel nome, suona bene. Lo sai che puoi cambiarti il nome? Se ti va puoi inventartelo oppure puoi chiedere al
Gran Sacerdote qual è il tuo nome celeste. Ognuno di noi ne ha uno, ma non interessa a tutti conoscerlo. Dopotutto non è il nome che fà
la persona, o forse mi sbaglio? Tu che dici piccolo vichingo? »
«Vart tar du mig? [Dove mi stai portando?]»
«Ehi piccolo, quanto parli! »

Il bambino aveva avuto una risposta alla sua domanda, ma non capiva cosa gli dicesse quell’uomo e l’uomo non capiva quello che diceva lui.
Era stanco dal viaggio, ma soprattutto stava morendo di sete. Era tutto sudato. I capelli lunghi gli si appiccicavano fastidiosamente sul collo e
sulla fronte, le gote erano rosse dalla calura e si stava innervosendo, non riusciva a comunicare. L’eccitazione del battesimo dell’aria era svanita.
Provò a parlare di nuovo.
«Var är mina föräldrar? Där ska vi? [Dove sono i miei genitori? Dove andiamo?]»
«Piccolo, mi dispiace davvero tanto. Non ho la minima idea di cosa tu mi stia chiedendo.»
«Jag behöver vatten. Jag har varma och törstiga. Kan jag få ett glas vatten? [Ho bisogno d'acqua. Ho caldo e sete. Posso avere un bicchiere d'acqua?]»
«Guarda! Siamo arrivati, sei contento?»

Camminarono ancora per un po’ tra rovine e turisti curiosi. Finalmente si addentrarono nel Santuario, che sembrava fosse una zona preclusa
alle altre persone. In quel luogo strano, sembrava che il tempo si fosse fermato. Il biondo si guardava intorno, pensava a quanto fosse diverso
quel posto dalla sua Luleå, certo il mare c’era anche se lontano, ma c’era anche quel caldo asfissiante che gli aveva tolto tutte le energie.
Non aveva mai sentito un caldo del genere, non credeva neanche che potesse esistere. Voleva tornare a casa dai genitori e continuare la vita
che aveva condotto fino a qualche mese prima.
Non si sentiva minacciato ne da quel mistico luogo ne dal gigante che gli teneva la mano. L’uomo si era dimostrato gentile e oltre a instillargli
sicurezza gli dava l’impressione di non essere troppo sveglio.
Il bambino scrutava attentamente il paesaggio strano nel quale era immerso, senza capire dove fosse, e gli piaceva: era tutto così bello, così antico,
così maestoso...così grande.
«Vieni con me, ti faccio conoscere il Gran Sacerdote in persona. E’ un grande onore sai?»
«Skulle du ge mig lite vatten?[Mi daresti un po' d'acqua?]»
«Poi ti porterò un po’ d’acqua, sembri affaticato.»
Entrarono in un tempio gigantesco dove trovarono due uomini vestiti con delle lunghe tuniche scure. Portavano delle maschere e degli elmi terrificanti.
Cominciò a tremare.
«Kalimera. Gran Sacerdote, Cavaliere dell’Altare. Ho portato quel bambino svedese. Eccolo.”

L’uomo che lo aveva condotto in quel luogo sciolse la mano da quella del bambino e gliela posò su una spalla, in segno di incoraggiamento,
spingendolo delicatamente a fare un piccolo passo in avanti.
Il bambino si rese conto che sarebbe rimasto solo con quei due mostri e si aggrappò con tutte le sue forze alla gamba del suo gigante,
sussurrò «Jag är rädd.[Ho paura.]» e scoppiò in un pianto inconsolabile e disperato. Tra i singhiozzi pronunciava qualche frase incomprensibile e
cominciò ad urlare a pieni polmoni.
«MAMMA! VAR ÄR DU? [Mamma! Dove sei?]»
Le escandescenze del bambino erano dovute alla vista di quelle due figure alte, imponenti e inquietanti. Vestivano degli elmi terrificanti,
ornati con fregi e immagini di draghi. Il portoghese cercava di calmare il bambino, provava a parlargli e a staccarlo dalla sua gamba.
La tenacia del bambino fu grande, resistette all’uomo che, dopo qualche tentativo, decise di desistere dall’impresa a causa del timore
di far del male al piccolo.
«Mi dispiace, non capisco. E’ stato buonissimo per tutto il viaggio. Ha parlato un sacco ma non so cosa mi abbia detto. Inoltre ha giocato
sereno con una macchina che gli ho regalato, perdonatemi se non vi ho chiesto il permesso prima, ma mi è sembrato un gesto carino, non
mi conosceva e…»
«Hai fatto benissimo João, te lo sei fatto amico. » lo interrupe uno degli uomini.
Le due figure si stagliavano prepotenti all’interno di quella sala un po’ spartana, ornata da fregi
e colonne, rischiarata da una tenue luce.
«Ha ripetuto spesso ‘Vad’, ma non so cosa voglia dire. Magari è il suo nome, ma non ci spero. »
Per pochi istanti sembrò che la quiete calasse nel tempio. Lo sguardo terrorizzato del bimbo non accennava a staccarsi da
quelle due figure terrificanti e ansimava, in silenzio, indeciso se riprendere ad urlare e piangere o lasciarsi andare in balia dei futuri eventi.

Il Gran Sacerdote fece un passo avanti per avvicinarsi al bambino, ma questi trovò nuove energie e si abbandonò nuovamente ad un pianto
colmo di angoscia e preoccupazione che interrompeva per urlare qualche frase.
«Inte kommit närmare! Gå bort!! [Non avvicinarti! Vai via!]»
Il Gran Sacerdote non si fece intimorire dalle grida ma fermò i suoi passi. Con voce gentile provò a verificare se quella parola ripetuta
dal bambino fosse il suo nome, benché avesse la certezza che fosse qualche intercalare.
«Vad? [Cosa?]»
«Vad? Förstår du mig? [Cosa? Mi capisci?]» il bambino sembrò calmarsi nel sentire quella parola familiare, il pianto si placò un poco, ma solo per il tempo
che gli fu necessario a capire che non avevano la minima idea di quello che stava dicendo. Il Gran Sacerdote fece un altro passo avanti,
seguito dal suo vice, ma dovettero fermarsi nuovamente.
«Nej! Gå bort!! Glida bort det där! [No! Vai via! Togliti quella cosa!]»
«Ma che ha da urlare tanto?
» chiese Arles un po’ stizzito.
«Lo so io. Ha paura, non ci capisce e le maschere non aiutano a farlo calmare. »
Mentre il Gran Sacerdote parlava si sfilò la maschera e l’elmo. Guardò il bambino dritto negli occhi e gli sorrise. Il bimbo arrestò il suo
pianto quando vide che sotto quella maschera tanto brutta e spaventosa si celava un uomo, un uomo con gli occhi di un colore quasi innaturale,
ma dolci. Il volto era severo e i capelli spettinati, lunghi e verdi. Arles tenne la maschera e si allontanò farfugliando qualcosa a proposito della
salvezza delle sue orecchie, ma nessuno ci fece caso.
«Ok, proviamo a ricominciare. Ti spavento ancora? »
Sion non si spiegava per quale motivo non conoscesse il nome di quel bambino. Non era mai accaduto prima. Qualche notte prima,
mentre si trovava all’Altura delle Stelle, vide il volto di quel bambino. Non gli venne detto il nome, ma sapeva che era figlio di una coppia
giovanissima che si era dovuta indebitare fino al collo per aprire una piccola attività, sapeva che erano riusciti ad aprire il vivaio che tanto
desideravano e che erano riusciti a costruire una serra che avrebbe permesso loro di far fiorire ogni tipo di fiore, ma soprattutto le rose.
La madre di quel bambino aveva un profondo amore per le rose e il padre invece era capace di farle fiorire anche nel deserto. Il bambino
aveva ereditato entrambe le caratteristiche dei genitori. La sua peculiarità non era solo legata alle rose, infatti, possedeva anche un'incredibile
resistenza ai veleni. Sion era a conoscenza delle dinamiche della morte dei genitori del piccolo svedese, aveva visto la vettura accartocciata a
bordo strada ed era a conoscenza che la giovane coppia morì sul colpo.
Le stelle gli comunicarono anche che i giovani genitori erano orfani e che nessuno si sarebbe potuto occupare di quel bambino, lo informarono
dove venne portato il bambino, dove era ubicato l'orfanotrofio. Sapeva che il bambino rimase orfano a quattro anni e che trascorse il suo primo
compleanno senza i genitori. Le stelle gli mostrarono anche il volto del pargolo, che riconobbe appena vide. Ora il Gran Sacerdote era intenzionato
più che mai a scoprire il nome di quella creatura delicata, concluse la frase con un flebile suono che doveva risultare uno sprono a parlare ancora.

Il bambino non rispose, alzò la testa a cercare l’approvazione dell’uomo che lo aveva condotto lì. Gli strinse la mano sulla gamba pizzicandogli la
carne e lo fissò implorante. Voleva essere portato via. Arles tornò senza la maschera e con un grosso bicchiere di acqua fresca. Si inchinò in modo
da guardare il bambino negli occhi e glielo porse. Non gli sembrava veroin, finalmente poteva bere. Afferrò il bicchiere dalle mani di quell’uomo,
farfugliò rapidamente «Tack» e bevve avidamente. Aveva tanta sete, dovuta al caldo e alla fatica del pianto.
Quando ebbe finito porse il bicchiere all’uomo che era stato tanto gentile da portarglielo e sorrise.
«Oh, ma sai che sei molto più carino quando sorridi? Quando urli come una volpe isterica ti deformi tutto! »
«Arles – lo rimproverò Sion – lui non ti può capire, ma io sì. E’ solo un bambino, sii clemente…»
«Lo so che è un bambino … un bambino che urla come una volpe isterica. »
Gli adulti si lasciarono andare ad una risata e il bambino li guardava curioso e cominciò a chiedersi se non ridessero di lui.
Ma non gli importava granché.
Dopo diversi minuti trascorsi ad ascoltare quelle parole nuove e a fissare quei volti particolari e così diversi tra loro,
il biondo svedese dovette tenersi lo stomaco che brontolava prepotente. Sembrava che i grandi non avesse sentito i lamenti dovuti ai
morsi della fame, per cui dovette ingegnarsi in modo che la loro attenzione ricadesse nuovamente su di lui. Afferrò il lembo della mastodontica
t-shirt indossata da João e la tirò a se, iniziò a saltellare e disse: «Jag hunger. [Ho fame]».

Gli adulti lo accontentarono e si abbassarono tutti e tre in modo da guardarlo negli occhi. Non sapevano quello che il bambino
dicesse e fu provvidenziale l'intervento di Arles.
«Sembra inglese. Credo abbia fame.»

Sion avvalorò la tesi del vice e decise di portare il bambino alla mensa con loro, congedando il portoghese.


Il Gran Sacerdote e il Cavaliere dell'Altare si recarono nella vasta sala adibita al ristoro tenendo il bambino, tra di loro, per mano.
Si sedettero e attesero di essere serviti. Sion e Arles ripresero i loro discorsi riguardanti al bambino mentre il piccolo ingannò il tempo
giocando con la macchinina.


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Spero che questo primo capitolo sia di vostro gradimento, aspetto critiche, suggerimenti e anche parolacce da chiunque vorrà
sprecare un po' del suo tempo a recensire.

Per quanto riguarda lo svedese, chiedo venia a ogni svedese morto e vivente per aver violentato in questa maniera la loro lingua.
Grazie a chiunque leggerà!


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Capitolo 2
*** Morsi ***


Capitolo 02 - Morsi Due guardie semplici si avvicinarono al tavolo occupato da Sion, Arles e il piccolo. Vi posarono sopra due grossi vassoi ricolmi di cibo.
Il bambino sgranò gli occhi nel vedere tante pietanze e, con l’acquolina in bocca, si riempiva le narici degli ottimi odori. I due adulti lo  guardavano e gli porsero un vassoio affinché potesse scegliere quello che preferiva. Non si fece pregare ed indicò con sicurezza una  bistecca fumante, estorcendo loro un sorriso. Mentre gli adulti prendevano i piatti e si servivano continuarono a dialogare del pargolo che sedeva al loro tavolo, visibilmente affamato.
«Sion, ma all’orfanotrofio, non avevano i documenti di questo bambino? »
«No, è stato portato e abbandonato davanti al portone. Si sospetta che sia stato un barbone, ma non si ha la certezza. Inoltre, tutte le persone a cui abbiamo provato a chiedere sembrava che lo vedessero per la prima volta in vita loro. Con persone intendo i vicini di casa. L’unica persona che sembrava conoscerlo, oltre ai genitori, é morta. »
«Strano. »
«Già. Molto strano. »
Sion e Arles discutevano con tono triste. Erano ovviamente dispiaciuti del fatto che quel bambino, come tutti gli altri bambini del Santuario, fossero dei prescelti. Significava che avrebbero avuto una vita dolorosa, come loro due avevano già sperimentato sulla propria pelle.
«Sion, dimmi dei genitori del bambino. Come sono morti?»
«Brutta storia amico mio. I genitori di … del piccolo, rientravano dalla Finlandia e hanno perso il controllo della macchina. Sono morti sul colpo. »
«Con chi era il bambino?»
«Con una vicina di casa, un’anziana donna che aveva quasi adottato i genitori e lui. – indicò rapidamente il bambino -  Teneva spesso il piccolo con se,stando a quello che ho scoperto. E’ morta la stessa notte dei genitori del bambino. Probabilmente, essendo un prescelto, deve aver percepito qualcosa di strano e deve essersi svegliato  nel cuore della notte. La, diciamo nonna, del bambino è caduta dalle scale ed è morta anche lei. Da qui in poi non so niente. Probabilmente il bambolotto è stato trovato da qualcuno per strada ed è stato portato nell’orfanotrofio dove ho mandato João.»
«Povero bambino. Ha solo cinque anni ed ha già vissuto tanti eventi traumatici.»
Scuoteva la testa, Arles, a sottolineare la tristezza che gli suscitava il piccolo e gli mise davanti al naso il piatto da lui scelto.
«Già …  - sospirò Sion – speriamo almeno di riuscire a scoprire il suo nome il prima possibile.»
«Mi stupisco. Come facciamo a non saperlo? »
«Non lo so, davvero. Sono sconcertato da questa storia. Non è mai accaduto prima. Potrei chiedere alle stelle il suo nome celeste e potremmo chiamarlo con quel nome. Ma il punto è: lui capirebbe che,anche se non l’ha mai sentito, è il suo nome? »
«Non credo, è piccolo. » sospirò Arles.
«Oh, l’età non conta troppo alle volte. Sembra molto sveglio. » Sion sembrava sicuro delle sue parole.
«Sion, non lo metto in dubbio, ma a cinque anni ancora non ci si sa tagliare la carne da soli, non ci si sa allacciare le scarpe e non si sanno fare molte altre cose,  non possiamo pretendere che capisca una lingua che non ha mai sentito da un momento all’altro e che capisca al volo il suo nome celeste solo perché glielo diciamo noi».  Nel parlare Arles si avvicinò al piatto del bambino e, prendendo coltello e forchetta, iniziò a tagliare la succulenta bistecca che vi troneggiava sopra.
«Jag kan göra detta genom att själv. » il bambino prese il suo coltello e la sua forchetta e cominciò a tagliare la carne in piccoli pezzi. Quando ebbe finito posò il coltello sulla parte superiore del piatto e cominciò a gustare il pasto. Nel mentre i due adulti lo guardavano sbigottiti.
«Ehm, dicevi scusa? » lo punzecchiò Sion.
«Niente, niente.»
 Una volta finito il pranzo, Sion condusse il bambino in una piazza interna al Santuario. Era circondata da olivi ultrasecolari, con i rami grandi e contorti che s’intrecciavano per creare un riparo fresco e rigoglioso. Sion gli lasciò la mano e gli fece cenno di aspettare con le mani e, solo quando il bambino annuì, si allontanò.
 -Così è questo il caldo? Ne parlava sempre papà perché il caldo fa fiorire le rose che piacciono a mamma, ma lui è bravo e le fa fiorire anche in mezzo alla neve … ma come fanno i fiori a vivere così, qui  il sole scotta e brucia. Dov’è mamma? Non la vedo da tantissimo ormai e neanche papà. Perché non sono più tornati? Forse mi sono comportato male. Sì, si sono offesi perché ho staccato il petalo di quella rosa bianca che mi ha regalato mamma. Non volevo però. Forse quel signore è andato a chiamarli e sono qui. Voglio tornare con loro a casa. Sono salito anche su un aereo. Che bello! E’ stato fantastico vedere le cose da lì sopra. Tutte le cose che mi sembravano enormi, viste dall’aereo che vola diventano minuscole. Chissà se potrò rifarlo. Non mi è piaciuta quella macchina gialla, però c’era fresco dentro. Ma non torna quel signore? E il signore che mi ha regalato la macchinina dov’è? Quando siamo andati a mangiare è sparito. Volevo mangiare con lui perché mi fa ridere, parla sempre e parla in modo strano. Ho sonno. Speriamo che il signore coi pulsanti in fronte torni presto. -**
 All’ombra di un ulivo, il biondo pargolo svedese si stiracchiò e si sedette, poggiando  la schiena contro un muretto che delimitava la piazza, mentre pensava agli ultimi due giorni e a tutti quegli eventi che lo avevano travolto. Non sapeva ancora,coscientemente, di essere orfano ma in cuor suo sapeva già che non avrebbe più riabbracciato i genitori e che non si sarebbe più beato delle loro carezze. Erano stati bravi nell’educarlo, non lo avevano viziato troppo e gli avevano insegnato ad essere indipendente da subito. Gli avevano spiegato cos’era la morte quando era morto il suo criceto, gli parlavano quasi come si parla ad un adulto spiegandogli con calma le cose ma cercando di mantenere in lui l’ovvia innocenza della sua età. Sapeva quando e come doveva lavarsi e vestirsi. Faceva tutto da solo sotto la dolce supervisione dei genitori che non mancavano di lodarlo ogni volta. Gli piaceva farli contenti e ricevere complimenti.
Il lungo viaggio e il pianto convulso che lo avevano stremato e, ora, anche il pancino pieno gli imponevano di abbandonarsi tra le braccia del dio del sonno, che lo avrebbe cullato al posto dei genitori. Si addormentò stringendo tra le mani la sua macchinina. Sion mancò solo per pochi minuti, al suo ritorno sulla piazza non lo vide.
«Oh Atena, mia dea … non dirmi che è scappato.» esclamò Sion preoccupato.
Si guardava intorno e si girava con piccoli movimenti convulsi.  Pensava già alle prese in giro di Arles “Ti sei perso il bambino? E noi dovremo dormire sonni tranquilli perché tu vegli sul Santuario?”. Fortunatamente il bambino era rimasto lì. Doveva sempre obbedire agli adulti che conosceva e di cui si fidava: altro prezioso insegnamento.
«Eccolo là» trasse un sospiro di sollievo e si  avvicinò al corpicino rilassato del bambino.
«Ma … dormi! Devi essere distrutto. – sorrise Sion carezzandogli i capelli finalmente asciutti dal sudore – Beh, credo che ti lascerò qui. Se ti ci sei addormentato vuol dire che ci stai bene e inoltre è il posto più sicuro del mondo. Manderò qualcuno a prenderti tra un po’. Risposa birbante, riposa tranquillo.»
Sion si alzò e si allontanò per tornare al tempio all’ingresso del Santuario. C’erano altri arrivi previsti per quella giornata.
João, dopo aver lasciato il piccolo alle cure del Gran Sacerdote e del Cavaliere dell’Altare, decise di tornare alla propria abitazione e di pranzare lì, dopo una doccia ristoratrice. Anche lui era provato dal lungo viaggio. Dopo essersi rinfrescato sotto il fresco getto d’acqua e dopo essersi rifocillato uscì con l’intento di trovare il suo coinquilino. Voleva raccontargli del bambino. Non sapeva che anche il giovane con cui divideva la piccola casa era partito, poche ore dopo di lui, per andare a recuperare un altro prescelto. Curiosò per tutto il Santuario, senza trovare l’amico. Nell’esatto istante in cui meditava di tornare a casa e abbandonarsi tra le lenzuola udì delle urla. Le grida provenivano dall’ingresso del Santuario.
A passo svelto si diresse verso la sorgente delle grida e, con immensa sorpresa, trovò un compagno alle prese con un bambino.
«Accidenti! Toglietemi questo mostro di dosso! Aiutatemi o lo ammazzo.»
«Calmati, Dioskoros. E’ solo un bambino» disse João con tono calmo.
«Un bambino?! Questo è un bambino!? E’ posseduto. Non puoi capire che razza di viaggio mi ha fatto fare. Continuava a dimenarsi come un pazzo. Non so neanche più quante volte ho temuto che qualcuno chiamasse la polizia. E vagli a spiegare che non l’ho rapito.»
Dioskoros lottava per immobilizzare quel bambino che sembrava avere la meglio, era agile e si divincolava come un serpente. Ogni volta che il soldato credeva di essere riuscito ad immobilizzarlo, il piccolo riusciva a voltarsi e ad affondargli i denti nei muscoli.
«Ah ah ah, ma tu non sei quello che vuole un’armatura d’oro? Non sei capace di badare neanche a un ragazzino. » Il gigantesco portoghese prendeva in giro il compagno, sebbene non lo avesse mai ritenuto tale.
«Provaci tu pezzo di bifolco! Ahia, molla la presa belva. E’la decima volta che mi morsica.»
 Dioskoros  era  una normalissima guardia del Santuario di Atena,un soldato semplice. Aveva 34 anni, capelli neri e occhi nocciola. Aveva il volto ricoperto da una folta barba lunga. Non era cattivo, ma era totalmente privo di ogni capacità per interagire con gli altri esseri umani. Non aveva tatto e non dimostrava mai gentilezza. Non riteneva che la gentilezza fosse una qualità necessaria ad un soldato. Era semplicemente stupido.
Ora aveva le braccia ricoperte di morsi profondi e lottava come un dannato per cercare di tener fermo quel piccolo guerriero che riusciva ad avere la meglio su di lui. Non voleva fargli del male ma non intendeva continuare a ricevere morsi e calci.
Il soldato scelse di fare il viaggio di ritorno in Grecia in nave. Un viaggio durato due giorni, che si rivelò orribile per il bambino. Dioskoros, infatti, pensò che tenerlo chiuso nella cuccetta della nave lo avrebbe fortificato. Tornare in Grecia con l’aereo significava compiere un viaggio di poche ore, e lui voleva dare una prima lezione al bimbo. Quale lezione migliore di quella? Il pargolo aveva imparato una cosa fondamentale però: quell’uomo era un emerito stronzo.

«Di certo non si può dire che lo spirito guerriero gli faccia difetto. Vero Dioskoros? » incalzò il gigante.
«Non stare lì impalato. Vieni a darmi una mano. Cretino. »
«Ok, ok, ma non scaldarti. Gli fai male così, per forza poi ti si rivolta contro. Gli tengo  le gambe ferme, tu allenta la presa sulle braccia però. E attento ai denti, se ti da un altro morso morirai dissanguato. Certo che ti ha conciato per le feste. »
«Volevo vedere a te alle prese con questo animale. Ma dove ha vissuto, nella giungla? »
«¡Dejame asqueroso! ¡Cabron!»
«Ah, parli anche! Non hai fatto altro che grugnire fin’ora. »
«Dai Dioskoros, è che tu non ci sai fare coi bambini, l’hai chiaramente terrorizzato. Magari è uno dei prescelti per vestire una delle armature d’oro. Potrai vantarti di essere l’uomo più morsicato da un Cavaliere d’oro. Il bambino che ho portato io ha fatto le bizze solo quando ha visto il Gran Sacerdote e Arles in veste ufficiale. Chissà cosa gli sembravano quelle maschere. Povero piccolo, chissà se sta bene…»
«João, lo vuoi tenere fermo? »
«¡Te he dicho de dejarme, burro! » il bambino parlava a denti stretti, era pronto a difendersi in tutti i modi, non avrebbe lasciato ulteriore possibilità di essere trattato come un animale.
« Dioskoros, non stai facendo altro che spaventarlo. Cerca di essere più gentile. »
«Gentile? GENTILE!? Ma lo vedi? Ha fatto così tutto il viaggio.»
« Dioskoros, vuole che lo lasci andare. »
«Col cazzo. Questo ragazzino è posseduto. Non lascerò che mi salti alla gola. »
«Dai, lo tengo io, tu lascialo. »
Il bambino sembrò calmarsi per qualche istante, lasciando ai due adulti il tempo di parlare senza dover urlare per coprire la sua voce.
«Neanche per sogno. Senti, tu che lo capisci, cosa sta dicendo? E soprattutto, come fai a capirlo? »
«Parla spagnolo. Sta dicendo che vuole che lo liberi.»
«Parlate la stessa lingua quindi, digli che se mi dà un altro morso gli stacco la testa. Mi sta dicendo solo di lasciarlo? »
«Non parliamo la stessa lingua. Io parlo portoghese, razza di ignorante. Cos’altro dovrebbe dirti poi? »
«Magari mi sta insultando. E quando hai imparato lo spagnolo? »
«Ho viaggiato parecchio da ragazzino e feci amicizia con alcuni ragazzi spagnoli. »
«¡Que te jodan, jilipollas! ¡DEJAME! » Il bambino riprese ad agitarsi e scalciare. Emetteva degli strani suoni gutturali negli sforzi in cui si imbarcava per cercare di liberarsi, somigliando davvero ad una belva feroce.
«Mi sta insultando vero? Spesso le prime parole che si imparano in una lingua straniera sono le parolacce, no? Presumo che tu le conosca e presumo anche che me ne abbia detto parecchie. Dovremmo lavargli la bocca col sapone. Ahia! Mi ha morso di nuovo. »
«Non ti ha insultato, tranquillo. »
«João, dimmi la verità.»
«Ok, ti ha dato dell’asino. »
«Solo? »
«Sì. »
«Mi stai mentendo? »
«Sì.»
«Bene.»
«¿Adónde me estais llevando? » il bambino continuava a divincolarsi e urlava. Era chiaramente terrorizzato, ma a quanto sembrava la paura non lo immobilizzava, anzi, lo rendeva più combattivo e aggressivo.
Il portoghese bloccò saldamente le gambe del bambino spagnolo, stanco di quella scena patetica.
«Senti, lasciamelo un secondo, forse riesco a calmarlo un po’. »
«Goditelo João, non ne voglio più sapere niente. Il mio dovere l’ho fatto - Dioskoros mollò la presa e se ne andò di corsa – e ora  vado a farmi fare un’antirabbica. »
«Vale  chico. Tienes que calmarte ahora. » disse con tono fermo e pacato.
Al sentire pronunciare quelle parole, il bambino si fermò e guardò negli occhi quel gigante che lo teneva stretto a sé. Sorrise e cominciò a parlare.
«¿Me entiendes? »
«Si. Yo soy portugués y hablo un poquito español. ¿Còmo te llamas? »
«Shura Manuel Kotipelto Ruiz».  Dopo aver detto il suo nome completo, scoppiò a piangere.
Il gigante lo abbracciò più forte che poté, cercando di non fargli male. Cercò di consolarlo ma il bambino non aveva intenzione di calmarsi. Aveva appena affrontato due giorni di viaggio in nave, e li aveva trascorsi rinchiuso dentro una cuccetta. Non c’erano finestre e non aveva neanche potuto vedere il mare. Si era arrabbiato quando, poco dopo la partenza, aveva capito che avrebbe viaggiato per tutto il tempo lì dentro e da solo. Aveva cominciato a gridare. L’uomo che lo accompagnava faceva la sua comparsa per portargli qualcosa da mangiare e da bere, ma Shura non aveva mangiato o bevuto niente di quello che gli aveva portato quel tizio. Nella cuccetta c’era un piccolo bagno e aveva bevuto dal lavandino. Ogni volta che andava a controllarlo gli urlava contro, ma non capiva cosa. Che viaggio orribile aveva appena affrontato, e non solo, la vita di Shura, in poco più di una settimana era cambiata radicalmente.
«Shura, ¿cuàntos años tienes? » João cercò di far parlare ancora il bambino, sperando che potesse tranquillizzarlo.
«Seis».
Il bambino rispose con la voce rotta dal pianto e tirò su col naso. Si grattò la testa e si stropicciò gli occhi che pizzicavano per le abbondanti lacrime. Il gigante gli mise una mano sulla testa e gli scompigliò con dolcezza i capelli già spettinati provocando un sorriso di risposta seguito da un abbraccio pieno di gratitudine. La belva si era trasformata ora in una tenera creatura bisognosa di affetto  e protezione.
«Chissà che viaggio ti ha fatto fare quel  ‘mamóm de mierda’, povero piccolo»
Shura aveva capito solo ‘mamóm de mierda’ e si mise a ridere girando la testa di lato, come a voler confermare la tesi del gigante, che vedendolo non trattenne le risate.
«Sei buffo, piccolo! »
«¿Què?» disse inclinando la testa di lato.
«¡Estas gracioso!»
Nel sentire quello che per il bambino era un complimento arrossì e nascose il volto abbassando la testa per  poi lasciar sfuggire un sorriso. Teneva le mani sui pettorali del gigante che si era inginocchiato per poterlo guardare negli occhi.
Ora era il turno di Shura. Avrebbe posto lui le domande.
«¿Còmo te llamas? »
«Yo soy João y tengo veintinueve años. »
«¿Porque estoy aquì? »
«Porque tu eres un niño especial»
«¿Especial? ¿Porque soy especial?  »
«Fuiste elegidos por las estrellas. »
«¿Estrellas? »
«Si, te daras cuenta en futuro. » concluse.
Shura annuì sicuro di aver capito niente. Lo stomaco brontolò violentemente. Non mangiava da due giorni e moriva di fame. Nel sentire il suo stomaco protestare vivamente girò la testa all’indietro e fece finta di niente, ma il gigante si mise a ridere, si alzò e lo prese per mano.
«Vamos a comer algo. »
«Si, tengo hambre. »
«¿Has comido hoy? »
«No. No he comido nada. »
«Ci avrei giurato »
Il piccolo spagnolo lo guardò sorridente. Non gli interessava sapere cosa gli aveva appena detto. Ora erano amici e si fidava di quell’omone tanto alto da toccare la luna con un dito.
João lo portò attraverso una serie di tempi enormi che si stagliavano prepotenti verso il cielo, finché non giunsero alla mensa. C’erano solo due compagni che finivano di rassettare. Un uomo e una donna. Il Grande Tempio non aveva niente di diverso rispetto a un'ordinaria caserma, eccetto l’aspetto. Le guardie e i cavalieri di basso rango svolgevano a turno tutti i compiti. Erano poche le figure specializzate. I cavalieri d’oro svolgevano principalmente la  funzione di presiedere al proprio tempio e prendevano parte alle missioni particolarmente difficili, i cavalieri d’argento erano gli esecutori di gran parte delle missioni e si preoccupavano di addestrare le matricole, i cavalieri di bronzo avevano pressoché gli stessi compiti dei cavalieri d’argento. Spesso la cooperazione maestro-allievo durava nel tempo. Vi erano le persone che non riuscivano ad ottenere un’armatura. Chi decideva di restare al Grande Tempio nella speranza di migliorare le proprie doti combattive svolgeva tutti i compiti che un comune soldato semplice svolgeva in una normale caserma. Altre figure specializzate nel Santuario erano le nutrici, donne che potevano non vestire la maschera, infermieri e medici, cuochi e alcuni insegnanti. La formazione culturale dei nuovi arrivati era affidata prevalentemente al maestro loro assegnato e spesso, i ragazzi, dovevano partire per altre destinazioni per poi tornare ad Atene per il torneo di assegnazione dell’armatura.


* Jag kan göra detta genom att själv = posso farlo da solo
** Traduzione simultanea dallo svedese.

Rubrica “Impariamo qualche insulto in spagnolo”
*¡Dejame asqueroso! ¡Cabron! = Lasciami schifoso! Bastardo!
*¡Te he dicho de dejarme, burro! = Ti ho detto di lasciarmi, asino!
*¡Que te jodan, jilipollas! = lett. Che ti fottano, stronzo!
* mamóm de mierda = pezzo di merda

Voglio ringraziare tutti coloro che hanno deciso di sprecare un po' del loro tempo nella lettura del primo capitolo,che subirà qualche correzione al fine di eliminare qualche errore inguardabile, e a chi ha voluto lasciare due righe.

Grazie a RedStar12 che mi ha aggiunto tra gli autori preferiti, che ha segnalato la fic come preferita e per la recensione.
RedStar12. Hai indovinato! Forse ho dato troppi indizi :P Certo che compariranno Milo e Camus e, sarà un incontro indimenticabile, o almeno, per loro è stato indimenticabile ^_^
Camus. Sono felice che l'arrivo del biondino ti sia piaciuto. E dell'arrivo di Shura che ne pensi?
miloxcamus. Lieta che l'idea dell'infanzia dei gold ti sia piaciuta. Spero di riuscire a descriverli al meglio ^_^

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Capitolo 3
*** Domande ***


Capitolo 03 - Domande, domande, domande e ancora domande

«Dov’è che stiamo andando? »
«Ad Atene.»
«Perché? Io sto bene qui. »
«Perché vogliono che ti porti lì.»
«Chi? »
«Il Gran Sacerdote.»
«E chi è? »
«Il rappresentante della dea Atena in terra, come il papa qui in Italia
«E chi è Atena? E’ come Dio? »
«E’ una dea»
«Ma Dio è maschio»
«E Atena è una donna»
«Ma non è Dio»
«No, il Dio che venerano in Italia è un maschio, noi veneriamo Atena, dea della Giustizia. »
«E perché? »
«Cosa perché? »
«Perché la veneriamo? »
«Perché ognuno venera la divinità che preferisce, con la quale si identifica di più. »
«E che vuol dire? »
«Cosa? »
«Identifica»
«Ma ci vai a scuola? »
«Devo iniziare a settembre le elementari. Però so scrivere il mio nome, se vuoi te lo scrivo. »
«Dopo, dopo»
«Poi te ne dimentichi»
«Di cosa mi dimentico? »
«Di farmelo scrivere»
«Va bene, scrivilo qui»
«Dove? »
«Sul mio braccio»
«Perché? »
«Perché non ho un pezzo di carta»
«Poi tutti sanno come mi chiamo»
«E io gli dirò che è un tatuaggio e non il tuo nome»
«Ma chi ci crede»
«Ma perché dovrei avere il tuo nome scritto sul braccio? Al massimo la gente penserà che è il mio nome o di qualcuno a cui tengo. Scrivi tranquillo»
«No, lo scrivo sulla carta»
«Ecco! – Galgo bloccò e raccolse un pezzo di giornale che svolazzava seguendo il vento – Tieni. »
«Ci voleva tanto? » 

-Atena, dammi la forza di non tirargli il collo... Atena aiutami.-

«Fatto»
«Angelo Selvatore? »
«Quella è una “A”, ma sai leggere? »
«Si che so leggere, ma sembra una “E”, tu sai leggere? »
«No»
«Allora sono più affidabile di te. Questa è una “E”. »
«Però conosco tutto l’alfabeto e so riconoscere una “A” da una “E”. Però forse hai ragione, è un po’ storta.»
Entrarono all’aeroporto.
Galgo stava reprimendo istinti omicidi su istinti omicidi. Come poteva, un bambino così piccolo essere così indisponente, insolente, arrogante, logorroico, petulante, pedante, sarcastico? Ma un bambino di sei anni, poteva essere sarcastico? Non lo avrebbe mai creduto possibile, eppure ne aveva la prova vivente accanto. Quel bambino era strano anche fisicamente. Aveva i capelli bianco-grigiastri, come quelli dei vecchi, e gli occhi rossi, come i conigli. Sembrava albino, ma non poteva esserlo con quella pelle così scura. Inoltre aveva delle occhiaie spaventose, si trovò a domandarsi se dormisse abbastanza. Ma non era il momento di preoccuparsi. Dovevano prendere un aereo e si misero in fila per fare il check-in. Davanti a loro c’era una coppia giovanissima con un bambino di pochi mesi tra le braccia. Le persone avanti a loro erano tutte girate a guardare e coccolare questo bambino di una bellezza eterea, irreale. Anche Galgo ne era rapito. Angelo no. Quando si accorse che anche il suo accompagnatore guardava incantato il pargolo disse:
«Che bello! Un bambino piccolo! Non ne avevo mai visto uno! Che emozione! »

-Sarcastico pungente il pargolo. Speriamo di arrivare presto ad Atene- bofonchiò Galgo tra sé e sé, ma cercò di ignorare il commento di  Angelo, che in risposta alla mancata sgridata,  girò la testa di lato riperdendosi tra i suoi pensieri.

«Ehi, fermo un attimo – disse girandosi di scatto verso l’uomo – ti sto seguendo e non so nemmeno chi sei, chi mi assicura che tu non sia uno di quei maniaci che rapiscono i bambini? »
«Mi chiamo Galgo»
«Ecchemminchia di nome è? »
«E’ un nome come il tuo»
«No, il mio ha un senso. Secondo mia madre»
«E che senso avrebbe?»
«Io sono un angelo che deve salvare le anime della gente»
«E ci credi?»
«Io no, ma lei si, o almeno ci credeva»
«Che altro vuoi sapere Angelo Salvatore di anime?»
«Non prendermi in giro. Fosse per me mi chiamerei in un altro modo»
«E come?»
«Ci sto ancora pensando. Quando trovo un nome che mi piace te lo dico»
«Bene, ora stai buono che tra un po’ tocca a noi»
«Quanti anni hai?»
«Tra un attimo, prima passiamo il check-in»
«Quanti anni hai?»
«Aspetta di essere al di là di quel cancello e te lo dico»
«AIUTO!! MI HA RAPITO!!»

 Tutti i presenti si girarono di scatto verso il bambino e il suo accompagnatore, che arrossì violentemente. Quando la sua faccia cominciò a tendere al violetto , Angelo continuò:

«MI HA RAPITO IL PUPAZZO»
Tutti ripresero il filo dei propri pensieri e si rimisero a fare quello che facevano, chi leggeva, chi parlava e chi faceva nulla.
«Ma sei impazzito?»
«Impara a rispondere alle mie domande, posso farti arrestare se voglio»
«Ma quando esco di galera, tra quarant’anni vengo a cercarti e ti ammazzo»
«Tra quarant’anni io sarò grande e tu vecchio. Vincerò io e finirai stecchito.» Finita la frase il bambino si lasciò andare ad una risata terrificante. Galgo si trovò a rabbrividire davanti a lui, così piccolo eppure  adulto, impavido e incosciente, superbo e cattivo. Chi diavolo stava portando in terra di Grecia?
«Ora rispondi, quanti minchia di anni hai? »
«Ventisei, contento?»
«Almeno hai risposto, ma non ho finito. Da dove vieni?»
«Dalla Grecia, te l’ho già detto»
«Ma allora sei totalmente tonto. Di dove sei? Sei italiano?»
«No, sono irlandese»
«E dove minchia è l’irlandesia?»
«Irlanda»
«Come vuoi, se ti piace di più possiamo chiamarla così. Dov’è?»
«Al nord»
«E la Grecia?»
«Rispetto all’Italia?»
«Sì»
«A ovest sud-ovest»
«Vicino all’Africa?»
«Più o meno»
«Più o meno quanto?»
«Più o meno di una marea di chilometri»
«Cos’è un chilometro?»
«Un’unità di misura»
«E cosa misura?»
«La distanza»
«In Irlanda parlate italiano? »
«No, parliamo inglese»
«E perché parli italiano? »
«Perché ho vissuto in Italia per qualche anno prima di spostarmi ad Atene»
«E cosa facevi? »
«Studiavo archeologia»
«Cos’è l’archiolongira? »
«AR-CHE-O- LO-GI-A»
«Sì,sì come vuoi, ma cos’è?»
«E’ la scienza, la materia che si occupa di studiare le civiltà del passato e tutto quello che ha avuto a che fare con l’uomo. Studia le cose vecchie. E’ molto bella e affascinante come materia, dovresti provare ad interessartene in futuro, impareres ... » venne interrotto da un annoiato Angelo
«Sisì, ho capito, non mi interessa la storia della tua vita»

 Galgo continuava a reprimere istinti omicidi su istinti omicidi. Perché avevano assegnato a lui il compito di andare in Sicilia a raccogliere quel pezzo di delinquente? Come aveva fatto a non saltargli addosso e strozzarlo?
Quel ragazzino parlava a più non posso, commentava tutto quello che vedeva in modo sprezzante e si divertiva a prenderlo in giro.
Però, una cosa la doveva ammettere. Era curioso. Galgo aveva sempre apprezzato la curiosità, per lui era la spinta verso il miglioramento personale. E forse Angelo era più curioso di lui. Però, allo stesso tempo era un bambino totalmente strano, sembrava che fosse geloso delle sue curiosità. Un paio di volte lo aveva notato mentre si faceva rapire dagli oggetti. Quando aveva visto il tabellone dei voli e degli orari ci si era infilato sotto e lo aveva fissato per diversi minuti. Sembrava lo stesse smontando con gli occhi per verificarne il funzionamento. Quando lui si avvicinò, Angelo si girò di scatto e fece due passi allontanandosi. Non osò chiedere ‘Come funziona’, forse lo aveva capito guardandolo, o forse era troppo orgoglioso per ammettere che non sapeva come funzionasse. No, non era orgoglioso fino a quel punto. O meglio, era ovvio che quel bambino emanasse orgoglio allo stato puro, aveva la consapevolezza di essere speciale e l’aveva stampata in faccia, ma non sembrava fosse quell’orgoglio malsano di chi ha timore di ammettere una debolezza. Quel bambino gli faceva drizzare tutti i peli. Chi era? Che capacità aveva?
«Ehi ciccio, tocca a noi, muoviti»
«Eh?»
«Ma sei sordo? Lo vedi il tizio che ti fa cenno di muoverti?»
«Ah, sì. Hai ragione.» La mente di Galgo si impossessò di nuovo del suo corpo e si diresse dall’uomo che lo invitava a proseguire.
«Sì, buonanotte.» sospirò scuotendo la testa il bambino, seguendo l’adulto.


Ringraziamenti a: Mymoon96 e Camus per aver messo la fic tra le preferite, a whitesary, roxrox e Gufo_Tave per aver aggiunto il mio piccolo "parto" tra le fic seguite.
And now: RedStar12, Mymoon96, roxrox, Camus, Gufo_Tave, miloxcamuswhitesary grazie infinite per le recensioni e per i complimenti! Ho paura di fare qualche spoiler nel rispondere, per cui, se dovesse succedere, perdonatemi!
RedStar12. Aphrodite non è ancora il guerriero che hai conosciuto poichè deve ancora crescere, ha solo cinque anni il pargoletto! Diamogli un po' di tempo. Poi deve ancora imparare il greco, povero bimbo, col tempo diventerà il condottiero velenoso come le sue rose che abbiamo imparato a conoscere. Per Milo e Camus dovrai aspettare ancora un po', spero di riuscire ad aggiornare con la frequenza di un giorno si e un giorno no ancora per qualche tempo. Magari a giugno leggerai di loro ^_^
Mymoon96. I tuoi amori arriveranno più avanti, il viaggio nel passato è appena iniziato ^_^
roxrox.  Shura, da bravo spagnolo, è caliente e focoso. Inoltre non gli piace proprio che gli vengano messi i piedi in testa. Ha già la stoffa del condottiero.
Camus. Mi fa piacere che apprezzi Sion, ho voluto dargli un'aria risoluta ma dolce. Dopotutto ha già la sua veneranda età, quindi se ti dovesse capitare di vederlo un po' svampito è l'Alzheimer. 
Gufo_Tave. Grazie per aver speso qualche parola per recensire, sono felice che la fic ti piaccia. So che possa sembrare strano che non ci sia nessuno che parli svedese, ma il Santuario è ancora a corto di organico, considerando che Atena ancora non si è reincarnata. Altri bambini avranno problemi a interagire e comunicare tra di loro e con gli adulti. E' una comunità multietnica ma è ancora all'ennesimo inizio, tra una guerra sacra e l'altra ^_^ 
miloxcamus. Son contenta che ti piaccia il modo in cui  sto descrivendo i futuri Gold. Come vedi questo è una sorta di capitolo di transizione. Si racconta una piccola parte della vita di Shura nella sua assolata patria e si presentano due nuovi personaggi. Nel prossimo capitolo forse arriverà un nuovo terzo personaggio  seguito da un altro futuro Gold.
whitesary. Chiedo perdono per non aver messo la traduzione di tutto nel capitolo precedente. Vedrò di farmi perdonare mettendo il significato delle frasi proferite da Shura e
João nei prossimi capitoli ^_^ Inoltre sono felice di aver risvegliato il tuo istinto materno, spero di continuare a farlo con i futuri arrivi.

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Capitolo 4
*** Cibo, sogni e viaggi ***


Capitolo 04 «Buongiorno ragazzi. Sempre indaffarati, eh? » trillò il gigante mentre si avvicinava ai compagni tenendo per mano il nuovo arrivato.
«Ciao João, come sempre! » rispose il ragazzo.
«Non è per caso che è avanzato qualcosa da mangiare per questo piccolo? »
«Un altro bambino? Due in una giornata, si stanno dando da fare con i reclutamenti. Oggi il Gran Sacerdote e il suo vice hanno pranzato con un bambino biondo biondo. Sembrava un bambolotto da quanto era bello. » mentre finiva la frase, la donna si allontanò verso le cucine per verificare che fosse rimasto qualcosa da mangiare.
«Sì, lo conosco. Sono andato io a prenderlo in Svezia. Non siamo ancora riusciti a scoprire il suo nome. »
«E questo piccolo chi è? » chiese incuriosito l’uomo.
«Shura. Saluda chico»
«Hola» alzando la mano
«Yàsu Shura» ricambiando il saluto.
João si era reso conto che il nuovo saluto aveva lasciato il piccolo spiazzato, si guardava intorno con aria interrogativa e lo fissava come se gli chiedesse chiarimentii. Gli spiegò che l’uomo con cui parlava aveva ricambiato il saluto, con una semplice frase.
«Yàsu es lo mismo que hola, en griego».
«Yàsu» ripetè lo spagnolo annuendo alla spiegazione del gigante e rinnovando il cenno.
«Allora – continuò il gigante – C’è qualcosa da mangiare per questo pargolo? Non ha ancora mangiato oggi e ha sprecato un mucchio di energie per morsicare Dioskoros.»
«Allora è lui la belva di cui parlava! Ma se è un angioletto. Ma dove lo ha fatto viaggiare quella bestia? E’ tutto sporco, povera creatura. Che sfortuna che ha avuto a fare il viaggio con quell’idiota. »
«Già, basta conoscere Dioskoros per immaginare il modo in cui  l’avrà trattato. E se tratti qualcuno come una bestia, questo qualcuno si comporterà come una bestia. Soprattutto se è un bambino di sei anni. »
«Il solito cazzone, insomma»
«Sì, il solito. » confermò il portoghese.
La  donna col volto coperto da una maschera si avvicinò a Shura e João portando con sé dei panini.
«Mi spiace João, non c’è altro. Tra un po’ verranno per iniziare a preparare la cena e potrò rimediare qualcos’altro. – porse i panini al compagno - Fai una cosa, portalo dietro le arene di combattimento degli apprendisti, c’è un grosso pesco pieno di frutti, non gli dispiacerà mangiarne qualcuno.»
«Grazie Akylina»
«Gracias señorita»
«Oh, che carino. Tieni – mentre porgeva al bambino una caramella portò l’indice dell’altra mano davanti al naso -  non dirlo a nessuno»
«Gracias» sollevò le braccia per tenerla ferma e stampò un grosso bacio su quella maschera tanto fredda.
«Oh oh! Akylina! Hai fatto colpo – la prese in giro João – qualcuno si è innamorato! »
Shura arrossì tremendamente, capì che si parlava di lui.
«Siete solo invidiosi perché a sei anni è più uomo di voi due messi insieme. E scommetto che tra qualche anno farà strage di cuori, mentre voi resterete buttati in un angolo a rosicchiarvi le falangi. – si inginocchiò e abbracciò forte il bambino che ricambio velocemente e con la stessa intensità – Ignorali Shura. »
«Non capisce quello che gli dici. Però capisce che se una donna ti abbraccia devi ricambiare di corsa, prima che lei cambi idea» João si divertiva a punzecchiare la giovane.
«Visto João? E’ arrivato un nuovo sfidante! »  disse l’altro uomo ridendo, continuando il gioco ormai iniziato.
«Già! Ma come dargli torto? »
«I bambini sono fortunati, ricevono un sacco di coccole da tante belle donne e non c’è bisogno che promettano qualcosa. Voglio tornare bambino così Akylina abbraccerà anche me» Leurak era partito. Il gioco sarebbe durato ore.
«Leurak, scommetto che eri antipatico anche da bambino. » lo rimbrottò lei.
«Dai Akylina, sto giocando. E poi secondo me sei anche brutta. »
«Visto? Simpatico come una porta in faccia. E poi mi hai già vista in faccia! Non fare il finto tonto. »
«Dai ragazzi, basta ora. Qualcuno deve mangiare. » fortunatamente João riuscì ad interrompere il battibeccare dei due amici, sperando che la pausa durasse abbastanza per far mangiare un boccone al bambino.
«Aspetta João, devi tradurmi una frase in spagnolo in modo che possa dire una cosa al bambino. »
«Se posso, non è la mia lingua. »
«Lo so, tu sei portoghese, no? Ma forse sei in grado di aiutarmi. Io ti dico la frase e tu me la traduci all’orecchio, in modo che non la senta da te. Ok? »
«Proviamo. »
«…»
«Posso aiutarti.» sorrise João avvicinandosi alla compagna d’armi e cominciando a bisbigliarle all’orecchio. Immediatamente lei cominciò a parlare al bambino.
«No te pares delante de los obstáculos, las estrellas te ayudaran en tu camino. Buena suerte. Mi avrà capito? – rivolgendosi all’amico – ho paura di avere una pessima pronuncia. »
Il bambino fece un passo avanti e la guardò. Disse poi, con tono solenne:
«No he entendido tus palabras, pero espero que no te defraudarè. »
«Che ha detto? »    
«Che non ha capito un tubo. Ma spera di non deluderti»
«Sono sicura che riuscirà a diventare cavaliere João, me lo sento» Akylina era sicura delle sue parole. Sapeva nel profondo del suo cuore che quel bambino era speciale.
«Lo spero per lui. Noi andiamo a mangiare ora. Ciao e buon lavoro»
«Ciao»fu la risposta in coro di Akylina e Leurak.
«¡Vàmonos chico! »
«¡Vale! »
Prima di voltarsi a seguire l’omone, Shura si voltò a guardare quei ragazzi che riprendevano pigramente a lavorare e cercò di riprodurre gli stessi suoni di João:
«Sciao buono lavor» e lo rincorse.

Akylina e Leurak scoppiarono a ridere per la simpatia mostrata dal bambino nel suo maldestro tentativo di salutarli nella loro lingua.
«Certo che è proprio quello che noi in Mongolia chiamiamo ‘simpatica canaglia’! »
«Diciamo così anche qui in Grecia, Leurak.»
«Davvero?» si finse sorpreso.
«Sì, e lo sai bene»
«Non si può mai scherzare con te, stronza!»
« Ante gamisù!» rispose lei facendo la linguaccia che non poteva essere vista dal compagno, ma lui aveva imparato a conoscerla e sapeva quali smorfia facesse l’amica dal modo in cui si inclinava la maschera.
«Sì, stronza - e le restituì il verso – senti un po’, tanto per non perdere l’abitudine a farmi gli affari tuoi e del prossimo in generale, che hai detto al bambino? »
«Perché ti interessa?»
«Te l’ho detto, per non perdere l’abitudine.»
«Non te lo dico.»
«Ti vergogni?»
«Ma sei scemo!? – arrossì violentemente, ma lui non poteva vederla  – Di cosa dovrei vergognarmi?»
«Di quello che ti sei fatta tradurre. Ammettilo.»
«Volevo solo parlare al bambino»
«Sisì, dicono tutti così. La verità è che ci stavi provando con João»
«Leurak, che fai, studi da Dioskoros?»
«Non c’è bisogno di offendere, all’amore non si comanda.» dovette abbassarsi per schivare una sedia scagliatagli contro.
«Vedi che sono andato dritto a bersaglio? – salì su un tavolo brandendo la scopa come una spada – niente sfugge al grande Leurak»
«Grande tra una ventina di centimetri.»
«Vedi? Sei acida come uno yogurt al limone.»
«Non sono acida.»
«Sì che lo sei. Ogni volta che lo sei mi rinfacci di essere basso, e inoltre, dalla frequenza con cui mi fai notare la mia incredibile altezza direi che riesci ad essere acida quasi 23 ore al giorno.»
Akylina ignorò le parole dell’amico, si sentiva strana da qualche tempo e neanche la comicità dell’amico riuscivano a destarla da quello strano stato in cui era caduta. Disse solo una frase, a bassa voce.
«Hai iniziato tu.»
«Dai, scusa. E’ che mi diverte paurosamente prenderti in giro. Mi dici cosa ti sei fatta dire?»
«Scusa tu.»
«Allora, me lo dici o devo pregarti in qualche lingua dimenticata?»
«Gli ho detto di non fermarsi mai davanti agli ostacoli e che le stelle lo avrebbero aiutato a superarli. Infine gli ho augurato buona fortuna.»
«Ma perchè non gli hai detto solo buona fortuna? Potevi auguragli di divertirsi al limite.»
«Non credo che avrà mai l’opportunità di divertirsi. E’ un prescelto. Non avrà vita facile.»
«Lo so anche io questo, ma perché fasciargli la testa prima che se la rompa?»
«E’ bene che sappia a cosa va incontro»
«Non lo metto in dubbio, ma è appena arrivato al Santuario e il suo arrivo non è stato dei migliori. Fortuna che non ti ha capito. Secondo me pensa di essere finito in un manicomio.»
«Non dimenticherà quello che gli ho detto. Lo capirà in seguito.»
Leurak capì. Doveva mandare avanti la tesi dell’amica se  voleva sentire almeno una risata.
«Dai Akylina. Non essere triste. Lo capirà e sarà un grande uomo, un eroe. Le sue imprese finiranno nei libri di storia e tu potrai vantarti di essere stata baciata dal grande eroe, dal nuovo Eracle! Non è mica da tutti!»
«Non sono triste.»
«Infatti ti stai piegando in due dalle risate per le cazzate che ti racconto. Dai, sbrighiamoci a finire qui. Poi ti porterò in città e ti offrirò un gelato. Niente al mondo fa tornare il buon umore come un bel gelato!»
«Leurak, ci vuoi provare con me?»
«E come potrei, tu ormai sei fidanzata con un eroe! Non potrei mai reggere il confronto, per quanto sia molto più bello, simpatico e incredibilmente più alto di lui.»
«Peccato»
«Eh già … aspetta, ci staresti se ci provassi?»
«Lanciami la sedia»
«Donna! Rispondi!»
La ragazza iniziò a ridere, ignorando i lamenti del collega che era riuscito nel suo intento. Ripresero a lavorare continuando a scherzare tra loro. Si conoscevano da qualche anno ormai. Erano coetanei. A differenza di molti, loro due non parteciparono mai a nessun torneo di assegnazione di armatura. Avevano bisogno di sentirsi utili, e lo erano. Erano conosciuti in tutto il Santuario e apprezzati da tutti. Tra i due si era creata una forte amicizia e generalmente il loro ottimismo, anche davanti alle situazioni più tragiche, risollevava l’umore di tutti. Legarono in particolare con João e il suo coinquilino irlandese, con i quali cenavano spesso o comunque passavano delle serate piacevoli. Tutti sapevano che da lì a pochi anni Atena si sarebbe reincarnata e questo significava che il tempo dei giochi sarebbe finito. Avrebbero dovuto combattere anche loro, assieme ai futuri guerrieri dorati. Loro si auguravano solamente che tutti i bambini che arrivavano lì avrebbero avuto l’occasione di combattere e soprattutto di tornare a casa, vincitori o vinti, e poter condurre anche se per poco tempo delle vite apparentemente normali.
Akylina e Leurak era arrivati al Santuario seguendo amici che inseguivano la leggenda di Atena. Avevano semplicemente colto l’occasione per visitare la Grecia lui e Atene lei.
Leurak aveva 17 anni quando arrivò al Santuario tre anni prima. Si era introdotto di nascosto seguendo un ragazzo coi capelli rossi. Quando scoprì di essersi intrufolato in un luogo impregnato di mistero e leggenda chiese il permesso di restare, dimentico degli amici e di tutto il resto. Akylina arrivò l’anno successivo. Appena maggiorenne colse l’occasione di recarsi ad Atene e vedere il Partenone. Disse ai genitori che sarebbe rimasta via solo un fine settimana, ma non tornò mai più a casa. Aveva incontrato João che giocava con due gemelli fuori dal Santuario e rimase a guardarli. Quando loro si allontanarono per rientrare, lei li seguì come  in trance, e come Leurak espresse il desiderio di restare lì. Si rivelarono entrambi ottimi soldati.

-

All’ombra del gigantesco ulivo il piccolo svedese sognava la sua terra e i suoi genitori. I ricordi più dolci che aveva gli si manifestavano sottoforma di sogni.
Dormiva un sonno beato, turbato solamente da piccoli scatti muscolari.
Sognava come se stesse rivivendo i momenti che tanto lo avevano reso felice. Le tenere carezze materne e i sonori baci paterni.
Correva inseguito dai genitori per la calda e umida serra, costruita con tanti sacrifici, tra le decine di piantine esotiche che sembravano non voler crescere per timore del freddo. Un attimo dopo riposava tra le braccia dei genitori, l’attimo successivo ancora ingaggiava una finta lotta col il padre che gli sorrideva.
Aiutava poi il padre a piantare i semi nella terra, avendo cura di non sporcarsi, cercava di spostare i grossi sacchi di terriccio finendo sempre con le gambe per aria. Non demordeva e ritentava.
Il sogno era vivido. Sorrideva mentre Hypnos continuava a tenerlo tra le braccia, lo cullava e lo esortava a continuare nella visione.
Ma i sogni dolci lasciavano irrimediabilmente spazio agli incubi.

Si svegliò di soprassalto, nel cuore della notte. Una sensazione di oppressione gli pesava sul torace e il cuore pompava a tutta forza. Dormiva dalla vicina di casa quella notte. Lui e i genitori erano stati quasi adottati da quella buffa signora alla quale la vita non aveva concesso figli e che l’aveva lasciata sola troppo presto. Il marito era morto da tanti anni. Quando la giovane famigliola si trasferì nella casetta accanto alla sua storse il naso. Immaginava già il rumore che l’avrebbe tenuta sveglia e che l’avrebbe disturbata. I bambini piccoli sono  troppo rumorosi. Non si mostrò gentile verso di loro.
Un giorno, il piccolo si rese conto di essere osservato dalla donna, mentre giocava in giardino. Era estate e le rigide temperature invernali avevano lasciato spazio al tiepido sole di luglio. Si avvicinò al piccolo steccato che separava le due proprietà.
«Ciao signora, perché sei arrabbiata?»
La donna sussultò nell’udire il bambino che le rivolgeva la parola, ma continuò nel suo ostinato silenzio e gli volse le spalle. Il piccolo non demorse, si fiondò in casa e prese una rosa da un vaso in cucina, sapeva che la mamma non lo avrebbe sgridato per quel gesto. Tornò di corsa dalla signora, ma lei era tornata in casa. Non si perse d’animo e si fece strada nel giardino fino ad arrivare alla porta d’ingresso. Bussò e quando venne aperta la porta porse il fiore accompagnato da un gran sorriso. Da quel momento l’anziana donna cambiò il suo comportamento nei confronti di Åsa, di Alex e soprattutto verso il loro bambino. La famiglia s’ingrandì.

A dicembre, Åsa e Alex avevano affidato il loro piccolo alla cura della “nonna”, curiosi di vedere l’aurora boreale. Il viaggio verso la Finlandia era stato lungo e il loro pensiero, che costantemente si poggiava sul figlioletto, lo rese ancora più lungo. Sarebbero mancati cinque giorni. Non lo avevano mai lasciato da solo per tanto tempo e partirono con rammarico.
Durante il viaggio di ritorno, la strada ghiacciata rese impossibile mantenere il controllo dell’auto, che uscì fuori strada con una vorticosa serie di capriole. Nel momento esatto in cui il cuore di Åsa smise di battere venne raggiunto da quello del marito e il piccolo si destò di colpo sicuro che il suo cuore avesse saltato un battito. Respirava affannosamente e gli venne naturale lasciarsi andare ad un pianto consolatore. Scese dal letto e si diresse verso la stanza in cui riposava la nonna. La svegliò con le lacrime agli occhi.
Lei lo fece salire sul letto e tentò di consolare quel pianto, chiedendogli di raccontarle l’incubo che aveva disturbato il suo sonno. Il piccolo non riusciva a parlare, la voce, strozzata dal pianto e spezzata dai forti e profondi respiri, restava inchiodata nella gola. Aveva un attacco di panico.
Dopo aver raccomandato al bambino di non muoversi, si alzò per portargli un po’d' acqua. Accese la luce delle scale e iniziò a scenderle. Inciampò in un lembo della camicia da notte. Alla perdita di equilibrio seguì rapidamente una violenta caduta, bloccata dalla porta d’ingresso. Pochi minuti dopo raggiunse la coppia che aveva avuto il cuore di adottare “un’insopportabile vecchia”, come diceva lei. Esalò l’ultimo respiro fissando la sagoma del piccolo che correva verso di lei e chiuse gli occhi.
Lui la chiamò con tutta la voce che aveva, ma  non ottenne risposta. Sembrava che dormisse nonostante la posizione scomposta. Era notte fonda. Il bimbo non sapeva come comportarsi in quella situazione e uscì di casa, con solo il pigiama addosso. Corse per le strade di Luleå, con le lacrime agli occhi e col fiatone. Doveva trovare soccorso, ma dove? L'aria notturna invernale era gelida, il vento gli sferzava la delicata pelle del viso come se fosse fatto di lame, sentiva i piedi e le mani formicolare ma non arrestò la corsa. Doveva trovare aiuto a tutti i costi. Quando esaurì il fiato si poggiò ad un lampione, il suo pianto disperato, colmo di inadeguatezza e insicurezza,  somigliava ad un urlo di dolore e svegliò un barbone che dormiva poco distante. La figura dell'uomo comparve davanti al bambino e con la voce ancora impastata dal sonno, ormai interrotto, gli disse:
«Che hai da urlare tanto moccioso?»
Non lo degnò di attenzione. Cercava con lo sguardo una macchina della polizia, qualcuno che potesse davvero aiutarlo. Inoltre non doveva rivolgere la parola agli sconosciuti. Continuava a singhiozzare mentre prendeva atto che era impotente, non avrebbe potuto fare nulla.
«Ehi. Smettila. Dovresti essere a letto a dormire, che accidenti ci fai in giro a quest’ora? I tuoi genitori sanno che sei scappato?»
Genitori, non fu una parola accolta con gioia e scatenò nel bambino una nuova crisi di pianto, isterico.
Il barbone si rese conto che il bambino non si sarebbe calmato facilmente, tornò al suo giaciglio e arraffò una coperta consunta. Lo avvolse in quel telo sudicio con fatica e lo prese in braccio, cullandolo a lungo. Quando il piccolo decise di potersi fidare, con calma fece scemare la foga delle lacrime e si addormentò tra le braccia dell’uomo.
L’uomo rimase col bambino per qualche ora, tornando al suo lurido giaciglio. Quando si fece l'alba si diresse, col piccolo sempre stretto tra le braccia verso il bar che lo accoglieva tutte le mattine. Era diventato amico del proprietario e lo aiutava come poteva in cambio della colazione.
Una volta dentro il locale parlò col proprietario, sperando che conoscesse il bambino almeno di vista.
«No, mai visto. Ma sveglialo che facciamo mangiare anche lui.»
Consumarono la colazione in silenzio, il bimbo non proferì parola. Si era chiuso in una sorta di mutismo, dal quale si sarebbe riscosso solo qualche mese dopo.
Il barbone lo condusse davanti al portone dell’orfanotrofio e prima di lasciarlo di nuovo solo gli disse:
«Appena mi allontano bussa. Ti faranno entrare e ti tratteranno bene. Dimentica la mia faccia e dimentica il nostro incontro, noi non ci siamo mai visti. Lycka till, lilleman
Gli sorrise e gli rivolse un ultima carezza prima dii voltarsi e incamminarsi verso un dedalo di vicoli che si trovavano dalla parte opposta della strada. Il pargolo, avvolto nel lercio sudario,  guardò l’uomo sparire tra le case e poi, obbediente, fece quello che gli era stato detto di fare. Ma non scordò mai quel volto.
Il sonno del piccolo si era fatto agitato. Ancora non aveva superato il trauma della separazione dai genitori e dalla nonna, benché si mostrasse abbastanza sicuro di sé. Purtroppo il suo subconscio, spesso e volentieri, proiettava le sue paure e i suoi dolorosi ricordi nei sogni. Dopo qualche scatto e qualche calcio tirato all’aria, si immerse nuovamente nella tranquillità. Di nuovo sognava i suoi giochi con la mamma, il papà e la nonna.

-

Galgo e Angelo salirono sull’aereo. Il moccioso era estasiato dalle dimensioni del mezzo.
«Cavolo, quant’è grande! Come fa a volare?»
«Eh già» rispose Galgo distratto
«Pianeta Terra chiama...com’è che ti chiami tu?»
«Galgo»
«Ah già, mi ero già dimenticato il tuo nome, eppure mi sei simpatico.»
«Ti sono simpatico? E a cosa devo questa simpatia?»
«Non mi hai ancora sgridato»
«Aspettavi che ti sgridassi?» chiese stupefatto.
«Si» annuì con veemenza il bambino.
«Perché?»
«Perché ho cercato di farti arrabbiare in tutti i modi, soprattutto con tutte le domande cretine dov’è questo, cos’è quello, come funziona, dove si compra, dove finisce, dove inizia, a cosa serve, perché esiste e tu non mi hai sgridato ma hai risposto a tutto.»
«Pensavo che se chiedevi era perché non sapessi» Galgo stava per rimangiarsi i pensieri complimentosi rivoltigli poco prima a proposito della sua curiosità.
«Certo che lo sapevo, o almeno, non tutto. Alcune cose le ho chieste perché non le sapevo, come dove si trovano l’Irlanda e la Grecia, che lingua si parla in Irlanda e altro, ma altre cose le sapevo, come cosa misura il chilometro».
Si rimangiò di volersi rimangiare i pensieri e con lentezza cerco i posti che gli erano stati assegnati. Quando si sedettero si ricordò di rispondere al piccolo viaggiatore.
«Ah – rispose – va bene. Posso farti qualche domanda io, ora?»
«Dopo che cominciamo a volare. Voglio vedere quello che succede.»
«Va bene, vieni, siediti al posto mio – si alzò cedendo il posto vicino al finestrino al bambino – da qui vedrai meglio»
«G-grazie» borbottò leggermente imbarazzato.

Angelo era sconcertato da quella gentilezza. Nessuno era mai gentile con lui. All’inizio soffriva per quei comportamenti di ripugnanza mista a paura che gli erano riservati. All’orfanotrofio le suore si erano dimostrate cattive nei suoi confronti, ne aveva sentite alcune dire che lui era il figlio del diavolo, che quegli occhi non erano umani et similia. Quanto aveva pianto quando aveva capito che la discriminazione che subiva era dovuta tutta al suo aspetto. Non aveva deciso lui di nascere con gli occhi rossi e i capelli bianchi. Anzi, secondo quello che dicevano le suore era nato così per volere di Dio quando cercavano di consolarlo, anche se senza troppo interesse. E se Dio l’aveva voluto così, perché pensare che fosse il diavolo? Aveva deciso che non gli interessava più quello che pensavano gli altri di lui. Non aveva mai fatto del male a niente e a nessuno, era un bambino tranquillo e ben’educato quando, due anni prima, era stato portato all’orfanotrofio. Si era dimostrato solamente un po' asociale e apatico. Inoltre  non era sereno a causa dei brutti sogni che faceva  tutte le notti. Sognava i morti e col tempo cominciò a vederli anche da sveglio. Gli incubi notturni non gli permettevano di dormire che poche ore a notte, con risultato che si stancava facilmente durante il giorno, tanto da risultare apatico, e che aveva delle vistose occhiaie nere sotto gli occhi. Era un bambino buono quello di due anni prima, obbediente e gentile. Peccato che il suo aspetto bizzarro gli avesse precluso ogni tipo di relazione sociale con gli altri bambini e gli adulti. Venne emarginato da subito ed fu vittima di brutti scherzi da parte degli altri bambini. Un giorno due bambini, che come lui erano orfani, ridussero a brandelli  l’unica foto dei genitori che aveva, sotto il suo sguardo. Angelo impazzì di rabbia e si avventò su quei due bambini con una furia paragonabile solo all’eruzione di un vulcano.  Si era premurato tempo prima di portarsela appresso, quando quel vicino di casa fece irruzione a casa sua e lo portò via. Stette per qualche mese da lui, finché le figlie non convinsero il padre a portar via ‘il mostro’. 
Inutile dire che la colpa di quell’evento  ricadde solo ed esclusivamente su di lui. Quello fu l’inizio della distruzione. Diventò violento, strafottente e perse tutta l’educazione dimostrata in precedenza. Era il figlio del demonio dopotutto e, quindi, perché non comportarsi come tale?

Ora era lì, pieno di gioia nel vedere come la città si allontanava e diventava piccola mentre l’aereo si alzava in volo. Che spettacolo meraviglioso!
«Galgo! Galgo, hai visto? »
«Cosa?»
«Com’è tutto piccolo da quassù? Il mare però è più grande»
«Le cose cambiano in base alla prospettiva»
«Prospettiva?»
«Sì, l’angolo da cui osservi, per farti un esempio stupido: guardami – si mise di profilo – tu ora mi vedi così, ma se tu ti sposti – si girò a guardarlo dritto negli occhi – mi vedi in modo diverso»
«Prospettiva … sembra interessante...»
Galgo sorrise nel vederlo assorto in chissà quale pensiero. Fece per mettersi a sfogliare una rivista che trovata nella tasca del sedile che aveva di fronte quando Angelo gli tirò la manica della camicia.
«Che c’è?» chiese dolcemente, voltandosi a guardare il bambino negli occhi; profondi e  particolari. Tristi e colmi di odio e frustrazione. Non erano gli occhi di un bambino. Era seduto con le gambe incrociate sul sedile e con le mani si teneva le caviglie.
«Galgo, posso farti una domanda?»
«Certo che puoi, chiedimi quello che vuoi»
«Secondo te io sono brutto?»
«Brutto?» strabuzzò gli occhi, chiedendosi se avesse sentito bene.
«Sì, brutto … come il demonio.» Rispose lui come se fosse una cosa ovvia. Cosa c'era di più brutto del demonio?
«Ma che stupidaggini vai dicendo? E comunque no, non sei brutto. Sei particolare.»
«Perché son particolare?»
«Perché hai i capelli bianchi come la neve, gli occhi rossi come il fuoco più caldo e la pelle ambrata. Sei unico. Tutto ciò che è unico è bello.»
«Io sono bello?»
«Sì, anche se non mi intendo molto di uomini. Son più bravo con le donne.»
«Mi piaci …  ed è strano, perché non mi piace mai nessuno. Devo andare in bagno.» Angelo interruppe il discorso, cercando di esporsi il meno possibile. Aveva imparato che far trapelare troppe cose portava a mostrare cose che era meglio nessuno sapesse: le debolezze.
«Ehm … ti devo accompagnare?»
«Ma sei scemo? So far pipì da solo.»
«Calmo calmo, non volevo offenderti. Intendevo se devo accompagnarti fino alla porta...»
«No, so camminare con le mie gambe, dimmi solo dov’è il bagno, altrimenti lo chiedo a quella tizia con il culone»
Galgo arrossì violentemente, mentre la coppia che sedeva accanto a loro sulla linea centrale dell’aereo si mise a ridere rumorosamente.
«E’ quella porta lì, la vedi?»
«Sì.»  Il bambino si diresse sicuro verso la porta ed entrò.

Galgo si trovava a pensare cosa potesse aver passato quel bambino. Si promise che gli avrebbe chiesto tutto quando il bambino sarebbe tornato dal bagno. Certo che era davvero particolare. Gli faceva una tenerezza immensa vedere come quel bambino cercasse di nascondere i suoi comportamenti infantili, cercando di comportarsi come gli adulti che aveva conosciuto fino a quel momento.

Dopo qualche minuto tornò dal bagno, grattandosi la nuca.
«Ti sei lavato le mani?» azzardò Galgo.
«No – rispose sarcastico - ho deciso di lavarmele passandotele sulla faccia. Ma che razza di domande fai? Tu non te le lavi le mani dopo?»
«Scusa, ho pensato che essendo piccolo ci fosse bisogno di ricordarti alcune cose. Ho sbagliato. Colpa mia, scusami.» Il giovane aveva capito che la gentilezza lo spiazzava. Non c’era abituato. Non sarebbe stato un grosso problema mostrarsi remissivo al bambino.
Angelo rimase senza parole. Era stato sgarbato con Galgo, ma aveva imparato a fare così per essere lasciato in pace.
«Scusami, tu. Ti ho risposto male.»
«Fa niente. Toglimi una curiosità però, dove hai imparato tutte quelle parolacce?»
«Me le ha insegnate il tizio che consegnava la frutta all’orfanotrofio. Io lo aiutavo a scaricare le cassette e lui mi dava sempre qualcosa»
«Ti dava soldi?»
«No, frutta. Non mi servivano i soldi. Non potevo uscire dall’orfanotrofio io. Neanche per le gite. La gente aveva paura di me secondo le suore. Avevo solo il permesso di uscire per aiutare il tizio della frutta.»
«Come mai sei finito in orfanotrofio?» Galgo colse al volo l’occasione di farsi raccontare qualcosa della sua vita.
«Mi ci ha portato il vicino di casa» rispose Angelo con nonchalance.
«Il vicino di casa?»
«Si, i miei genitori sono spariti. Sono rimasto un sacco di tempo a casa da solo, ma non sapevo come, cosa e dove mangiare una volta finite le cose che erano in casa e mi son ricordato che mio padre andava nel pollaio a prendere le uova e le portava a mia madre. Ma non sapevo cosa ci faceva mia madre, io le mangiavo cotte con loro, ma come si cuoce un uovo? Tu lo sai?»
«Si, se vuoi ti insegnerò»
«Sì grazie, non mi piacciono crude, hanno un cattivo sapore e sono viscide.»
«Già, ma forse dovrai mangiarle crude ogni tanto, sono un concentrato di proteine e fanno crescere i muscoli»
«Allora io sono diventato una proteina. Ne ho mangiate un sacco crude»
Galgo si lasciò andare ad una risata di cuore, com’era ingenuo quel bambino ora, sembrava davvero un bambino, forse per la prima volta da quando lo aveva conosciuto.
«Perché ridi?»
«Niente, hai fatto una faccia buffa quando hai detto che eri diventato una proteina, ma scusami. Continua a raccontare. Ma forse prima è meglio se ci beviamo qualcosa. – le hostess stavano offrendo da bere ai passeggeri e Galgo colse l’occasione - Come lo vedi un bel succo di frutta fresco?»
«Lo vedo bene. Ho caldo.»
 Si voltò a guardare  la hostess, che lentamente si avvicinava, e si accorse con stupore che tutti i passeggeri vicini avevano ascoltato il racconto del bambino. Erano basiti e nei loro occhi si poteva chiaramente leggere la pena che provavano per lui. Anche Angelo se ne accorse e tornò adulto di colpo.
«Quest’aereo è pieno di gente che non si fa gli affari suoi. Cos’è, non vi sembro io? » mise su un’espressione minacciosa e accigliata. Che avevano da guardare?
«Tranquillo piccolo, continueremo a voce bassa in modo che non ci possano sentire»
«Va bene. Dov’è la culona?»
«Qui dietro. Tra un po’ arriva. Ma non dirlo ad alta voce, potrebbe offendersi»
«Tu sei un mito» gli disse il bambino, mostrandogli un sorriso che mostrava gratitudine e adorazione.
«U-u..un mito? Io? Perché?»
«Perché non mi hai rigirato la faccia con una sberla. In orfanotrofio ero già in punizione da almeno un’ora per aver detto ‘culona’ due volte. Magari la prima passava liscia, ma la seconda era uno scapaccione se andava bene. »
«Non sei più in orfanotrofio adesso, anzi stiamo andando in un posto dove non si bada troppo alle parole che si usano, almeno tra di noi. Ovviamente al Gran Sacerdote ci si riferisce con le giuste parole. Sai che ti dico? Ti insegnerò anche le parolacce in greco.» Galgo aveva capito: le parolacce gli piacevano.
«Wow, ci sto!» rise Angelo, pregustandosi il momento in cui le avrebbe usate.

Galgo era un ragazzo estremamente timido e non usava mai parolacce, se non raramente in casi disperati. Ma quella promessa doveva essere l’inizio di un’amicizia con un bambino che, a sei anni, aveva preso la stessa quantità di porte in faccia che una persona normale prende in tre vite. Voleva aiutarlo. Magari, una volta ad Atene, avrebbe potuto prenderlo sotto la sua ala, essere il suo primo maestro.

«Desidera qualcosa da bere,signore?» disse sorridendo la ragazza, mostrando il carrello con le varie bevande. Era interessata a quel giovane con i capelli rossi e lunghi.
«Volentieri, cosa avete da proporre? Succo di frutta?»
«Certo, purtroppo come succo ho solo pesca e pera, come lo vuole?»
«Angelo, – disse voltandosi verso il bambino -  come lo vuoi?»
«Alla pesca»
«Due alla pesca, grazie»
La hostess rimase impietrita nel rendersi conto che quel ragazzo che si apprestava a corteggiare fosse accompagnato da un bambino. Non poteva chiedergli se era il figlio. Semplicemente rinunciò all’idea di passare del tempo con lui una volta ad Atene. Anche se lui avesse accettato le sue avances non aveva la minima intenzione di trascorrere anche un solo minuto in compagnia di quel bambino, le incuteva paura. Avrebbe continuato a guardarsi intorno, l’aereo era pieno di uomini dopotutto. Prese la grossa caraffa di plastica e riempì un bicchiere a metà e uno fino all’orlo. Era chiaro che il bicchiere pieno fosse per l’adulto e quello a metà per il bambino. Li porse entrambi a Galgo, che diede al bambino quello pieno. La ragazza accennò una smorfia di disappunto per quel gesto, poi continuò il suo lavoro, passando ai passeggeri dei sedili davanti.

«Buono?»
«Si, ma non è fresco. Grazie.»
«Di cosa?»
«Di avermi dato il bicchiere con più succo»
«Figurati, sei più piccolo ma scommetto che sei più assetato di me»
«Segui la storia del ‘dai da mangiare agli affamati e da bere agli assetati’?»
«Solo se chi ha sete e fame mi sta simpatico – mentì – tu?»
«No. Io ho sempre dovuto cavarmela da me. Se ci son riuscito io ce la può fare chiunque, anche il più stupido degli scemi.»
«Tu ce l’hai fatta da solo perché sei forte e non ti sei lasciato sconfiggere dalle circostanze. Altri non hanno la stessa forza.»
«Allora dovrebbero morire.»
«Morire? Addirittura?»
«Conta solo la forza. E’ l’unica cosa che fa in modo che tu sia rispettato e che nessuno cerchi di darti fastidio e metterti i piedi in testa. Se mi comportavo bene all’orfanotrofio sarei rimasto il giocattolo degli altri.» Angelo si era incupito, forse si era resoconto che il suo non era un comportamento giusto, ma era l’unico che gli permetteva di essere lasciato in pace.
«Non confondere il rispetto con la paura»
«Perché c’è differenza?» chiese svogliato.
«Sì.»
«Me lo insegnerai?» chiese il bambino alzando lo sguardo a cercare gli occhi del suo interlocutore.
«Certo, ti insegnerò tutto quello che so, se tu vorrai.» sorrise il rosso.
«Voglio.»
«Allora sarai mio discepolo. Angelo Salvatore, discepolo di Galgo!»
«No, troverò un altro nome. Non mi piace il mio nome.»
«Te lo svelo un segreto?»
Segreto è la parola magica capace di focalizzare l’attenzione dei bambini, anche se Angelo pendeva già dalle labbra di Galgo.
«Sì!»
«Galgo non è il mio vero nome. E’ un soprannome.»
«Un soprannome? E che significa?»
«E’ una parola portoghese. Significa ‘levriero’.»
«E perché ti chiamano levriero?»
«Perché sono veloce.» Gonfiò il petto e vi battè sopra il pugno.
«Poi facciamo una gara?»
«Certo, appena ti sarai sistemato andiamo a fare una corsa»
«Ti straccerò cane!» lo stuzzicò Angelo
«Vedremo - sorrise accomodante - ragazzino.»
I due si misero a ridere e continuarono a scherzare per un po’, finché il discorso non tornò sul passato del  bambino.
«Senti Angelo, mi dicevi che sei rimasto da solo a casa per un mucchio di tempo. Come mai il tuo vicino di casa non si è accorto prima che eri solo?»
«Perché casa sua era lontana, vicino per modo di dire»
«Ah, ma vivevi in campagna?»
«Sì, avevamo le galline, i maiali e anche le pecore e le capre. Avevamo un mucca ma ce la siamo mangiata, era vecchia. Lo sai che avevo un cane?»
«E come si chiamava?»
«Cane»
«Cane? Il tuo cane si chiamava ‘cane’?»
«Si, lo chiamavo ‘cane’.»
«E che cane era?»
«Un cane pastore. Era tutto bianco e gigante. Era bello, mi ci divertivo un sacco»
«Che fine ha fatto?»
«L’hanno avvelenato»
«Mi dispiace»
«Per cosa?»
«Per il cane»
«Poco male, è morto da tanto, poco prima che sparissero i miei»
«Ah…e, il tuo vicino di casa cosa fece?»
«Io dormivo nel letto dei miei genitori, lui è entrato in casa e mi ha portato via. Mi aveva detto di prendere qualche vestito e quello che ritenevo importante e presi una foto con me e i miei genitori. Poi mi ha portato a casa sua e son rimasto con lui e la sua famiglia per qualche mese, poi mi ha accompagnato all’orfanotrofio cercando di spiegarmi che non potevano più prendersi cura di me. Però la moglie non era molto d’accordo, si era messa a piangere un sacco quando il marito mi portava via. »
«Ce l’hai ancora la foto? »
«Si, la porto sempre con me. La vuoi vedere? »
«Certo, se per te va bene»
«Sì, così vedi che bella era mamma»
Angelo infilò un mano in tasca e tirò fuori dei pezzi di carta stropicciati, li stirò ad uno ad uno e li dispose ordinatamente sul tavolino che fuoriusciva dal bracciolo della poltrona finché l'immagine non prese forma. Era uno squarcio di vita familiare classico, i genitori e il loro bambino ai piedi di un grosso albero. Angelo era abbarbicato sulle spalle del padre e teneva stretta la mano della madre. Non si chiese chi fu a scattare quella foto, ma chiese solamente il motivo per cui era ridotta in tanti pezzi.
«Perché è tutta rotta?»
«Perché due bambini dell’orfanotrofio l’hanno strappata per farmi arrabbiare»
«E ci sono riusciti? A farti arrabbiare, intendo.»
«Sì»
«Cosa gli hai fatto?»
«Li ho picchiati, non avevo mai picchiato qualcuno.»
«E ti è piaciuto picchiarli?»
«Sì. Volevo ridurli come loro avevano ridotto la foto. Non ho altro dei miei genitori.»
«Ti capisco, li avrei picchiati anche io» gli disse Galgo.
«Sono stato punito. Mi hanno picchiato con una corda sulle gambe. Fa male la corda.»
«Lo immagino» sorrise comprensivo.
«Non ti hanno mai picchiato?» Angelo voleva sapere se le botte facevano parte dell’educazione di tutti.
«Non con la corda»
«Io non ero mai stato picchiato prima. I miei genitori non mi hanno mai picchiato. E’ stato brutto, ma sono stato bene dopo.»
«Come bene?»
«Era un modo per essere considerato. »

Galgo sbiancò. A quattro anni, si comportava volutamente male per illudersi di avere un po’ di attenzione. Quanta pena gli faceva quel bambino. Non aveva fatto nulla di male e si era trovato ad affrontare una situazione che alla lunga avrebbe fatto cedere anche un adulto. Si trovò a pensare che non avevano  niente in comune. Galgo aveva avuto una vita perfetta. I genitori vivevano in Irlanda e periodicamente andava a trovarli, certo, non sapevano che aveva ripudiato il Dio che gli avevano insegnato a venerare da quando era piccolo, non sapevano che non faceva l’archeologo ad Atene, ma tutte le foto che lui spediva loro con uno sfondo di vestigia di templi antichi  spingevano a credergli. Non gli piaceva mentire, soprattutto ai genitori, ma la segretezza era fondamentale. Si trattava di un culto morto da secoli per chi non ne faceva parte. Loro avrebbero visto la loro dea. Non avrebbero creduto alla sua esistenza sulla fiducia. Avrebbero potuto vederla incarnata, parlarle e guardarla negli occhi. Sarebbe successo presto, mancavano pochi anni.

«Comunque tua mamma era davvero bella, un bel viso … dolce …»
«Oh sì, era dolce, mi faceva un sacco di coccole»
«E tuo padre?»
«Mio padre mi faceva sempre il solletico e giocavo alla lotta con lui. Era fortissimo! Mi sollevava con una mano sola sopra la sua testa. Ora la metto via però, non voglio perderne un pezzo.»
«Quando arriviamo ad Atene te la rimetto insieme e magari cerchiamo una cornice. Ti va?»
«Davvero puoi aggiustarla?»
«Sì, non sarà come nuova, si vedranno gli strappi ma sarà un pezzo unico»
«Grazie! Davvero. E’ importante.»
«Di niente, ci si aiuta tra amici.»
«Amici? -  gli occhi di Angelo si aprirono dalla meraviglia. - Siamo amici?»
«Certo! »
Galgo gli porse la mano e Angelo batté il cinque. Era il suo primo amico.

Dopo aver ufficializzato la nuova amicizia, Angelo si voltò a guardare il mondo sotto di loro e Galgo rigirò in mano la rivista che avrebbe voluto sfogliare all'inizio del volo. Pochi minuti di silenzio si frapposero tra loro prima che un gioioso Angelo si mostrasse eccitato per la vista di una città.

«Ehi Galgo, guarda fuori» -  si spostò in modo che il ragazzo potesse vedere fuori dal finestrino.
«Quella è Atene. Siamo quasi arrivati»
«Così possiamo fare la gara»
«Sì, vero. Ma prima conoscerai il Gran Sacerdote»
«Com’è il Gran Sacerdote?»
«E’ alto, ha gli occhi viola e i capelli verdi e le sopracciglia a pallino dello stesso colore degli occhi. E’ un uomo particolare.»
«Capelli verdi? Ma son veri?»
«Sì»
«Non ho mai visto uno coi capelli verdi»
«E io non avevo mai visto nessuno con gli occhi rossi.»
«Vero, neanche io. Solo io ce li ho. E quando scendiamo dall’aereo?»
«Tra pochi minuti»


Un po' di spagnolo:
*Saluda chico = Saluta.
*Yàsu es lo mismo que hola, en griego =Yasù è la stessa cosa di hola, in greco.

*Gracias
señorita =Grazie signorina.
*No te pares delante de los obstáculos, las estrellas te ayudaran en tu camino. Buena suerte.
= Non fermarti davanti agli ostacoli, le stelle ti aiuteranno nel tuo cammino. Buona fortuna.
*¡Vàmonos chico! = Andiamo piccolo!
*¡Vale! = Va bene!

Un po' di greco (parolacce, ovviamente)
*
Ante ghamisù!= Vai a quel paese ^_^ ma con una connotazione leggermente più volgare.

Un po' di svedese
*Lycka till, lilleman = Buona fortuna, ometto.

Ecco il nuovo capitolo del passato dei piccoli Gold!
Ringrazio vivamente shura 4 ever che ha aggiunto la fic tra i preferiti, e tutti coloro che hanno lasciato una recensioncina al precedente capitolo:
roxrox. Grazie per le tue gentilissime parole, mi hai fatto arrossire ^///^! Sono felice di averti fatto innamorare di Death, è il mio Saint preferito, seguito a ruota dal focoso Shura. Ci tengo a farlo amare XD
Gufo_Tave. Sono felice che tu abbia solo rischiato la vita, Death Mask ha sempre un effetto letale
stantuffo. Ciao! Grazie mille per la recensione e per i complimenti, mi fa davvero piacere che ti sia piaciuta. E di questo nuovo capitolo che ne pensi? ^_^
RedStar12. Carissima, in questo capitolo, come avrai già letto se sei arrivata a leggere i ringraziamenti (:P) tu e whitesary avete una sfidante! Sarà una dura lotta, ma cercherò di affidarti almeno Milo, e ovviamente Shura a whitesary! Death Mask continuo a tenerlo io anche se legato in un angolo, a momenti davvero non lo si sopporta ^_^ Che ne pensi di come la storia va avanti? A giorni ti manderò un'e-mail con un elenco di frasi da tradurre a dir poco vergognoso, per cui preparati! Un bacione!
Camus. Anche io la penso esattamente come te, anche se Kurumada, alla fine dei conti, non ha caratterizzato quasi nessuno dei suoi personaggi. L'idea per la fic l'ho avuta mentre riguardavo per l'ennesima volta la saga di Asgard, creata per dare a Kurumada il tempo necessario affinché potesse mandare avanti la saga di Poseidon. Tutti i cavalieri di Odino hanno un passato che viene mostrato a chi guarda in modo da capire il perchè dei loro comportamenti. Fammi sapere che ne pensi di questo nuovo capitolo ^_^

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Capitolo 5
*** Duerme ***


Capitolo 05 - João decise di seguire il consiglio dell’amica e s’incamminò con Shura verso le arene, gli diede uno dei panini in modo che potesse cominciare a mangiare quando si sentì chiamare.
«João. Eccoti. »
Il portoghese si voltò e vide il Gran Sacerdote che, a passo svelto, gli andava incontro.
«Quel bambino che ti segue è quel bambino spagnolo che era stato affidato a Dioskoros? »
«Si eminenza, ma non andavano per niente d’accordo e visto che riesco a interagire con lui ho voluto prenderlo sotto la mia ala. Mi spiace. Non avrei dovuto.»
«E’ la seconda volta che ti scusi per aver fatto una cosa sensata, direi che sarà meglio che io affidi a te tutti i nuovi arrivi. Dovrebbe arrivare anche un bambino italiano entro la giornata o al più tardi domani. Te la senti di caricarti la responsabilità di tutti e tre? »
«Certamente. Ne sarei contento e sono onorato della fiducia che riponete in me. »
«Come si chiama questo pargolo? »
«Shura»
«Diga» intervenne il bambino sentendosi nominare.
I due adulti scoppiarono a ridere colpiti dallo zelo del bimbo che li guardava con un sopracciglio alzato, chiedendosi il motivo delle risate.

«Vedo che è arrivata un’altra sagoma. Avresti dovuto vedere che figuraccia ha fatto fare ad Arles il bambolotto. »
«Lui è già un rubacuori, avrebbe dovuto vedere quante coccole si è fatto fare da Akylina »
«Bene, vedremo cosa combinerà l’italiano allora!»
«João ¿puedo comer el otro trozo de pan? »
«Tieni»
«Non ha mangiato?»
«No, è la prima cosa che mette sotto i denti oggi. Non sono riuscito a procurargli altro e visto che il pesco dietro le arene è carico di frutti, ho pensato di dargliene qualcuno. »
«Buona idea. Ho bisogno di sapere alcune cose riguardo il viaggio. Sai, conoscendo Dioskoros temo che l’arrivo di questo bambino non sia stato dei migliori. Chiedigli com’è stato, è durato due lunghi giorni.. »
«Shura ¿còmo fue el viaje? »
«Feo. Ese tio me dejò todo el viaje en la cabina. »
«Dice che è stato brutto e che Dioskoros l’ha lasciato da solo in cabina per tutto il viaggio. »
«Sospettavo una cosa del genere, ma speravo anche che non arrivasse a tanto.A questo punto mi chiedo anche se abbia mangiato.»
Il portoghese domandò immediatamente al bambino, senza aspettare che Sion gli ponesse apertamente la domanda.
«¿Comiste algo dentro del viaje? »
«No. El tio me traìa de comer pero fue antipático. No me ha dicho nada con voz gentil y gritò siempre y yo no he comido nada. »
«Non ha mangiato perché Dioskoros gli urlava e gli stava antipatico. »
«Bene. Dioskoros subirà la giusta punizione, magari sarà la volta buona e imparerà a non agire di testa sua. E’ un periodo delicato per questi bambini, sono arrivati  al capolinea della loro infanzia, non voglio che subiscano più traumi del necessario.»
Sion si rattristò al pensiero dell’ennesima generazione di guerrieri. Il fato raramente si mostrava clemente con qualcuno di loro e non tutti riuscivano a superare indenni i numerosi shock. João informò il Gran Sacerdote della piccola vendetta che il bambino si prese nei confronti dell’accompagnatore e raccontò la scena dei morsi, ritrovandosi a sorridere. Dopotutto aveva fatto bene.
«Oh dèi dell’Olimpo. Abbiamo un bel peperino tra le fila! Senti João, ho lasciato il pargolo svedese alla piazza degli ulivi, si è addormentato e non ho avuto il cuore di svegliarlo. Andresti a svegliarlo tu più tardi? Poi mi raggiungerai al Tempio, bisogna portare i bambini nel dormitorio e assegnarli dei vestiti puliti. E magari fargli anche un bel bagno, ne avranno sicuramente bisogno - indicò Shura - soprattutto lui. »
«Se mi da il permesso di portarli alle terme, penserò a tutto io. »
«Hai carta bianca João, finché non padroneggeranno il greco sarai loro tutore. »
«Andate ora, le pesche vi aspettano»
Il portoghese salutò con cortesia il Gran Sacerdote che tornava verso il tempio e si rivolse poi al bambino.

«¿Shura, te gustarìa comer algunos melocotones?»
«¡Seguro que si!»
«¡Entonces vàmonos !»
Il gigante e il bambino si diressero verso il pesco carico di frutti e ne mangiarono diversi. Quando il piccolo si sentì sazio guardò implorante il gigante e, senza bisogno che lo chiedesse apertamente, João intuì quale poteva essere la richiesta. Lo sollevò senza compiere il minimo sforzo e lo mise seduto su uno dei rami più bassi. Bassi per João, ad un metro e novanta da terra.
Shura giocò per un po’ appollaiato sul ramo col suo amico gigante, finché non fu l’ora di andare a svegliare l’altro bambino.

« Shura ahora tenemos que ir a despertar un niño que duerme debajo de un otro àrbol. Vamos.»
«¿Otro niño? ¿ Quièn es? » chiese incuriosito Shura, tra le braccia di João che lo riportavano a terra.
«Un niño sueco».
I due s'incamminarono verso il luogo in cui lo svedese riposava.
«¿Y còmo se llama?» Provò a domandare Shura, con la testa inclinata di lato.
«No sé» al sentire quella frase il bambino strabuzzò gli occhi e si chiese come il gigante non sapesse il nome di un bambino che si accingeva a presentare. Non capiva, ma si rese conto che forse poteva chiedere al nuovo amico dove si trovasse.
«João, tengo una preguntita. ¿Dònde estamos? »
«En Atenas»
«¿En Atenas? ¿ Y dònde està Atenas? »
«En Grecia. ¿ Sabes dònde està la Grecia? »
«No, no sé. »
«Lo aprenderàs»
«Vale» non continuò a domandare e riprese a rosicchiare un nocciolo di pesca.

Il sole era ancora alto, la meridiana segnava quasi le cinque del pomeriggio. Il bambino non sembrava soffrire particolarmente il caldo, anzi sembrava a suo agio. Poche gocce di sudore gli imperlavano la fronte lasciandogli dei solchi chiari nel volto sporco di terra. Il portoghese seguiva il bambino con lo sguardo, si distraeva facilmente facendosi rapire dalla moltitudine di cose che vedeva. Si perse nei suoi pensieri mentre Shura inseguiva una cavalletta.

 -Dioskoros andrebbe bandito dal Grande Tempio. È arrogante e sprezzante nel modo più negativo possibile. Nessuno gradisce particolarmente la sua compagnia e inoltre non è in grado di trattare con nessun essere vivente. Mi rendo conto che sia cattivo ma semplicemente stupido. Shura è stato affidato a lui poiché il Grande Tempio è a corto di organico, altrimenti sarei andato io stesso a prenderlo in Spagna. Chissà qual è la storia di questo bambino. Glielo chiederei ma non vorrei rievocare brutti ricordi, soprattutto considerando che ha passato due giorni chiuso dentro una stanzetta a bordo di una nave e, conoscendo Dioskoros, probabilmente si trattava di un cargo. Però vorrei sapere come ha fatto a sporcarsi così … sembra che si sia rotolato per terra … guarda come salta, sembra una capra.-
Avevano da poco attraversato un tempio e si accingevano ad entrare in un altro, João mostrava a Shura le statue di Atena e dei vari eroi che prendevano parte al mito. Il piccolo lo ascoltava volentieri, ma parlava poco.

Una volta fuori dall’ennesimo tempio João si riperse nei propri pensieri e il bambino ricominciò ad inseguire insetti e scoprire il nuovo mondo nel quale si trovava.
- Certo che ha un mucchio di energie. Mi rattrista pensare che, dal momento che si trova qui, non abbia più nessuno al mondo. Chissà quando è rimasto orfano … e lo stesso vale per l’altro piccolo. Almeno vedrò come sta. Poveri bambini. Avete un futuro così pesante davanti a voi. Mi auguro che siate in grado di affrontare tutto. Molti prima di voi non ce l’hanno fatta, non sopporterei la vista di altre vite così giovani spezzate. -

Per lui era stato diverso. Era andato al Grande Tempio di sua sponte seguendo un’antica leggenda. Era scappato di casa a quindici anni, non sopportava più la sua situazione familiare. I genitori erano eccessivamente fedeli al loro credo, potevano essere tranquillamente chiamati  bigotti. Sembrava che fossero rimasti nel medioevo. Lui era uno spirito libero, curioso di conoscere il mondo. Voleva viaggiare e imparare tutto il possibile. Il mondo è grande ed è calpestato ogni giorno da una moltitudine di persone, perchè ridursi a vivere in un paese di poche centinaia di anime quando si ha a disposizione un intero pianeta? Lui voleva andare via e girare. Niente lo avrebbe fermato. Nemmeno i genitori, che considerava psicolabili, sarebbero riusciti ad impedirgli di vivere il suo sogno. Aveva il timore di poter diventare come loro un giorno, dopotutto si sa che chi va con lo zoppo …
Aveva deciso che da solo sarebbe stato meglio, ma non fu mai solo. Incontrò tante persone durante  il suo lungo percorso. Da un paesino di frontiera tra il Portogallo e la Spagna era arrivato a piedi in Grecia, ad Atene.
 Trovò l’entrata del Grande Tempio e il Gran Sacerdote in persona ad attenderlo. Appena varcò la soglia, segnata da due vecchie colonne malconce udì una frase: «Kalos orisez João» . Lo stava aspettava il suo arrivo.
«Non conosco il greco. Non capisco.» – fu la sua risposta.
Quella figura imponente, ricoperta da una tunica scura come la notte più profonda gli fece cenno di seguirlo e lui obbedì. Si guardava attorno incuriosito e sopraffatto da quell’aria così antica e solenne che aleggiava nel Santuario. Scoprì in seguito che venne accolto dal Gran Sacerdote in persona.
L’uomo mascherato gli mostrò le terme e in qualche modo gli fece intendere che poteva recarvisi ogni volta che lo riteneva opportuno. Lo condusse alla mensa e gli porse un vassoio, indicandogli di prendere posto nella fila e mangiare.
Finita la cena lo raggiunse e lo portò nei dormitori, gli indicò un letto e una sorta di  armadietto di legno. Ne staccò la targhetta e scrisse il nome del nuovo arrivato.
«João, - lesse l’uomo mascherato prima di rimettere la targhetta sull’armadietto – kalinihta.»
Cominciò gli allenamenti il giorno dopo e piano piano, col tempo, imparò il greco. Era dannatamente dura stare lì. I ritmi erano impressionanti, non si aveva un attimo per se stessi. Si era fatto un sacco di amici col tempo, persone sulle quali sapeva di poter contare sempre, come Akylina, Leurak e il “ruivo”,  e altre da evitare, come Dioskoros.
Gli spiaceva pensare che quei bambini avrebbero dovuto affrontare le stesse cose che aveva già affrontato lui, soprattutto perché lui l’aveva scelto ed era grandicello per poterlo capire, ma lo avrebbero capito e accettato di buon grado dei bambini di cinque-sei anni? Il destino si era già dimostrato fin troppo crudele con loro, strappandoli all’amore e all’affetto dei genitori e catapultandoli  in una nuova dimensione.

João si riscosse dai pensieri del suo addestramento quando udì il bambino cantare. Non saltava più da una parte all'altra come pochi istanti prima, ma procedeva lento fissandosi i piedi ondeggiando leggermente  la testa a destra e a sinistra. Aveva perso interesse per gli insetti e la scoperta di quel luogo.
Lo seguiva con lo sguardo e lo ascoltava canticchiare a bassa voce. Il portoghese colse solo poche parole, dopotutto non  conosceva bene lo spagnolo, ma si rese conto che al bambino riportavano alla mente un mondo che aveva conosciuto e che non gli apparteneva più.

Duerme, duerme y sueña a tener
una vida sin la tentación,
de delirios, de oro y poder,
de juzgar, aunque exista razón.

Aveva ragione João. Nella mente del bambino si susseguivano rapidamente tanti ricordi, alcuni lontani e altri vicini, troppo vicini perché potessero lasciarlo indifferente. Pensava alla mamma che gli cantava questi versi, tutte le sere prima di andare a dormire. Si ricordò di averle detto una volta:
«Sono grande ormai, non c'è bisogno che continui a cantarmi questa ninna nanna.»
La madre, con un sorriso di sfida, gli rispose che non c'erano problemi. Se lui era grande e non voleva più la ninna nanna lei non gliel'avrebbe più cantata.
La notte successiva, mentre lei gli rimboccava amorevolmente le coperte lui disse:
«Ho cambiato idea. Me la canteresti ancora?» E Ines con un sorriso acconsentì a quella richiesta.
Quanto gli piaceva l'ora di andare a dormire. La madre prendeva sempre posto accanto a lui, coricata su un fianco, e lo riempiva di dolcezze e attenzioni mentre gli cantava quelle parole che tanto somigliavano ad una preghiera. Il padre si sedeva sempre per terra, accanto al letto, pronto ad afferrare i piedi del figlio e a torturarglieli col solletico prima della ninna nanna, che anche lui ascoltava volentieri addormentandosi, a volte, con la testa all'indietro sulle gambe del piccolo. La buonanotte durava sempre un'eternità.

La avaricia es la esclavitud
del alma y de la libertad.
Que no te bese nunca la envidia,
que no te abracen el odio y el mal

Si ricordava dei tanti insegnamenti fattigli dai genitori.
Gli dicevano sempre di comportarsi bene nei confronti di tutti. Non doveva causare tristezza. Non doveva essere egoista, non doveva suscitare invidia e tantomeno provarla per qualcun altro.
La madre fu la sua prima maestra e gli insegnò presto a scrivere sotto sua esplicita richiesta, nata con l’intenzione di fare un regalo.
«Come si scrive "spada"?»
«Spada? Perché vuoi saperlo?»
«Perché mi piacciono le spade.»
«E...?»
«Voglio fare un regalo a babbo.»
Ritornava con la mente a quando andavano tutti e tre insieme a giocare sulle sponde del Tago. Di quando col padre acchiappava insetti e lucertole per il solo gusto di spaventare la mamma. Quando ascoltava il padre che suonava la chitarra con una passione tanto intensa da lasciarlo senza parole. Quanto amava quei pezzi di flamenco.
«Ehi piccolo, chiudi la bocca o ci entreranno le mosche.»
«Eh?»
«A cosa pensavi?»
«Alla chitarra, voglio suonarla anche io»
«E dov'è il problema? Vieni qui e impariamo subito!»

Rammentava dei giochi e della sfide. Delle serate spensierate passate a giocare in casa, col padre che lo lanciava in aria e lo sollevava fino al soffitto, delle urla disperate della madre, terrorizzata che si potesse fare del male. Di quando andava nella fucina del padre e si faceva rapire dagli attrezzi e dal clangore del martello sul metallo.
«Cos'è questo?»
«Un maglio speciale.»
«Perché è speciale?»
«Non può essere usato per plasmare il metallo. E' troppo grande e pesante.»
«E tu non ce la fai a sollevarlo?»
«Certo che ce la faccio. Guarda! E tu?»
«Ce la farò.»
Duerme, duerme y sueña con ser
de tu mejor tesoro el guardián:
el amor que yo en ti he volcado
de eso tienes mucho que dar»

E' vero che un pensiero tira l'altro. Ma lui non era riuscito ad essere il suo tesoro più bello. Il solo pronunciare la parola “tesoro” e il ricordare la fucina lo riportarono alla sera in cui perse tutto. Ora non gli era rimasto nulla. Aveva solo quei versi che avrebbero continuato a ricordargli quella notte. Lui ci provò. Provò con tutte le sue forze a custodire il suo tesoro, ma fallì.

No te engrandezcas con la riqueza,
ni te apoques con la pobreza.
Que ni la derrota ni el fracaso te impidan
ver que mañana otro día será

Stava male, una lacrima corse giù lungo il viso lasciando l’ennesimo solco più chiaro. Gli mancavano i genitori. Gli insegnarono a non arrendersi mai, ad andare sempre avanti. Lui sarebbe dovuto essere il fautore del suo destino. Si ricordava di come la madre lo esortasse ad essere sempre positivo, a non lasciarsi trasportare dagli eventi, a combattere e, se necessario, rischiare. Sempre.
«Piove. Io volevo andare al fiume.»
«Andrai domani.»
«Volevo andare oggi.»
«Non mettere su il broncio. Ci son tante cose che si possono fare a casa. Devi solo deciderti.»
«Non so che fare»
«Sei triste perché volevi andare al fiume o perché non c'è il sole?»
«Perché non posso andare al fiume e perché piove.»
«Il cielo piange perchè sei triste. Sorridi e domani ci sarà il sole.»
«E se piove ancora?»
«Non pioverà.»
Duerme, duerme, aquí estaré,
las nubes serán tu colchón.
Que ni el viento ni la brisa te dejen
de acariciar, pues tú eres mi Don
Duerme, duerme y sueña a tener...

Gli dicevano sempre che loro non sarebbero mai andati via, che sarebbero rimasti sempre al suo fianco. Bugiardi!  Non avevano più lo stesso significato quelle parole e quei versi che sussurrava al vento. Non immaginava più di poter davvero dormire sulle nuvole come faceva nell’istante prima di addormentarsi seguendo il testo della nenia, ma vedeva banchi di nebbia scura avvolgerlo fino ad inghiottirlo. Non si immaginava più a contrastare le difficoltà che avrebbe incontrato, ma vedeva la nebbia trasformarsi in mani pronte a ghermirlo e portarlo via.

Quando Shura pronunciò l'ultima parola di quella canzone, si asciugò la lacrima e si sentì chiamare dal gigante. Aveva già pianto troppo, era ora di essere forte. Sarebbe andato avanti.

«¿Shura, que canciòn es? »
«Mi nana. »
«¿Nana? ¿Que es una nana? »
«Es mi canciòn de cuna, mi mama me cantaba esta canciòn antes de dormir y me mimaba siempre. » spiegò il bambino gesticolando come se fosse ovvio cosa fosse una “nana”. Si comportava come se fosse felice e spensierato, ma nel suo petto era in corso una guerra dura e sanguinosa.
«Ah…vale. »
«¿Tu mama cantaba nanas? »
«No, mi mama rezaba»
«¿Rezaba? ¿Porque rezaba? »
Il bambino lo guardava con la testa inclinata di lato. Aveva capito che inclinava la testa quando s’incuriosiva. Non aveva voglia di spiegare a Shura che aveva avuto due genitori che erano rimasti fermi nel medioevo  in piena Inquisizione, quindi sorrise e disse:
«¡Mirame! ¡Soy alto! » sperando che la sua altezza potesse distrarre il bambino.
«Eres un gigante – allargò le braccia e poi le girò in verticale quasi per misurarlo – yo soy pequeño. ¿Cuanto mides? »
«¡Dos metros y veinte! »
«¿Dos metros y veinte? ¡Es una cosa de cojòn!» il bambino sembrò rendersi conto solo in quel momento di quanto fosse alto l’uomo che seguiva ormai da diverse ore. Due metri e venti: l’altezza dei giganti.
João cominciò a ridere come un pazzo nel vederlo così meravigliato e lo esortò a proseguire il cammino.
«Vamonos chico. Tenemos que despertar el niño sueco»
«¿Porque no lo dejamos dormir? Si duerme es porque està cansado. »
«Dormirà esta noche. »
«Vale, entonces vamos.»

-

Angelo tornò a guardare fuori dal finestrino e si godette l’atterraggio così come si era goduto il decollo. Quando fu ora di scendere fissò Galgo negli occhi e si lasciò andare ad un sorriso carico di gioia e di aspettative. Fantasticava su quello che avrebbe fatto qui, in terra straniera. Aveva un amico, per la prima volta in vita sua aveva una persona su cui fare affidamento, senza che questa fosse il padre o la madre. Gli piaceva potersi fidare di un altro essere umano. Scesi dall’aereo vide tutte le madri che prendevano per mano i figli e istintivamente portò la sua  a prendere quella dell’adulto. Era arrossito. Non aveva mai preso la mano di nessuno se non quella dei genitori. Nessuno si meritava quel gesto. Galgo sì, gli aveva dato fiducia e l’aveva trattato con gentilezza. Al momento era l’unica persona sulla faccia della terra per lui.

Galgo si meravigliò quando sentì la manina del bambino farsi strada tra le sue dita fino a stringerle e lui ricambiò subito la stretta, senza voltarsi a guardarlo e senza dire nulla, e di questo Angelo gli fu grato.
Non riusciva ancora a farsi un’idea chiara di quel bambino. Aveva addosso una maschera pesante, fatta di crepe rimesse insieme alla ben’e meglio. I sentimenti di quella creatura non erano mai stati presi in considerazione dagli adulti che lo circondavano, eccetto i genitori. Era troppo piccolo per proteggersi da solo dalla cattiveria gratuita guidata dalle apparenze e dai pregiudizi ed era troppo piccolo per fermarsi a pensare per quale motivo venisse  trattato a quel modo ed era troppo piccolo per il potere che gli si manifestava. Era troppo adulto per avere sei anni. Galgo sperava che il piccolo potesse  riacchiappare almeno una piccola parte di quell’infanzia che gli era stata portata via. Lui avrebbe fatto in modo che, almeno per un po’, quel bambino capisse il significato di "essere bambini".

«Angelo, vuoi prendere il taxi o il pullman?»
«Il taxi, non ci sono mai salito»
«Perfetto»
«Senti, ho ipotizzato che fosse una specie di pullman, ma in realtà non so cos’è un taxi. Cos’è?»
«E’ una macchina gialla con la scritta taxi sopra. Ti porta dove devi andare e poi tu lo paghi per il passaggio»
«Ah, mi aspettavo qualcosa di meglio»
Galgo rise quando vide la delusione del bambino, forse si aspettava un’astronave.
«Ecco, ne stanno passando alcuni. Chiamalo tu.»
«Come lo chiamo?»
«Alza il braccio»
Angelo lasciò la mano dell’amico e alzò il braccio, dietro di lui Galgo fece lo stesso. Il taxi si fermò davanti a loro, l’autista scese per aprire il cofano in modo che potessero mettere dentro le borse e gli aprì la portiera.
«Sali. – gli disse Galgo – tranquillo, non ti lascio da solo.»
Sembrava che Galgo avesse capito il timore del bambino. Aveva paura che se fosse salito per primo la macchina sarebbe ripartita senza che l’altro avesse avuto il tempo di salirci a sua volta.
« Che puzza che c’è. Cos’è quest’odore?»
«L’aria condizionata, è quest’arietta fresca.»
«Puzzolente ma bella» fu il commento del bambino.

Galgo si rivolse in greco all’autista, davanti ad un Angelo basito che interrogò immediatamente l'adulto riguardo quella lingua strana::
«Che lingua è? Dovrò impararla? »
«Sì, dovrai impararlo – gli sembrò di vedere un lampo di disperazione negli occhi dell’italiano - Te lo insegno io. Non è difficile.»
«Ok » Angelo era sconsolato, il greco sembrava difficile eccome.

-Cazzo, come faccio a farmi capire? Non posso imparare il greco in due giorni. Mi chiedo come facciano a capirsi tra di loro. Penserà la stessa cosa il tizio che guida sentendo parlare me e Galgo. Che schifo. -

I pensieri di Angelo furono interrotti da Galgo.
«Yàsu Angelo.»
Il bambino lo guardò inebetito e disse: «Ho capito il mio nome.»
«Ti ho detto ‘Ciao Angelo’. Ripeti dopo di me. Yàsu.»
«Yàsu»
«Bene, “Yàsu  è il saluto che rivolgerai a me e agli altri bambini. Al Gran Sacerdote dirai “Yàsas” o “Kalimera”. Ripeti.»
«“Yàsu” a te e “Yàsas” o “Kalimera” a chi è più grande.»
«Bravissimo» e scompigliò quei capelli corti e bianchi. Angelo apprezzò quella carezza e la ricambiò al nuovo amico arruffandogli i lunghi capelli rossi, sebbene quella cascata riccioluta fosse già totalmente spettinata.


* Diga= dimmi
*¿Puedo comer el otro trozo de pan? = Posso mangiare l’altro pezzo di pane?
*¿Còmo fue el viaje? = Com’è stato il viaggio?
*Feo. Ese tio me dejò todo el viaje en la cabina. = Brutto. Quel tizio mi ha lasciato dentro la cabina per tutto il viaggio

*¿Comiste algo dentro del viaje? = Hai mangiato durante il viaggio?
*No. El tio me traìa de comer pero fue antipático. No me ha dicho nada con voz gentil y gritò siempre y pues no he comido nada.= No. Il tizio mi portava da mangiare ma era antipatico. Non mi ha detto niente con gentilezza e urlava sempre e allora non ho mangiato niente.
*¿Shura, te gustarìa comer algunos melocotones?= Shura, ti piacerebbe mangiare qualche pesca?
*Shura ahora tenemos que ir a despertar un niño que duerme debajo de un otro àrbol. Vamos.= Ora dobbiamo andare a svegliare un bambino che dorme sotto un altro albero.
*¿Otro niño? ¿ Quièn es? = Un altro bambino? Chi è?
*Un niño sueco = Un bambino svedese
*¿Y còmo se llama?= E come si chiama?
*No sè = non lo so
*João, tengo una preguntita. ¿Dònde estamos? = Ho una domandina. Dove siamo?
*En Atenas = Ad Atene
*En Grecia. ¿ Sabes dònde està la Grecia?= In Grecia. Sai dov’è la Grecia?
*Lo aprenderas= lo imparerai
*Vale= Va bene

*¿Que canciòn es? = che canzone è?
*Mi nana.= La mia ninna nanna
*Es mi canciòn de cuna, mi mama me cantaba esta canciòn antes de dormir y me mimaba siempre. = E’ la mia ninna nanna, mia mamma mi cantava questa canzone prima di dormire e mi coccolava sempre.
*¿Tu mama cantaba nanas? = Tua mamma cantava ninna nanne?
*No, mi mama rezaba= No, mia madre pregava.
*¡Mirame! ¡Soy alto! = Guardami! Sono alto!
*Eres un gigante, yo soy pequeño. ¿Cuanto mides? = Sei un gigante, io sono piccolo. Quanto sei alto?
* ¡Es una cosa de cojòn!= E’ fantastico!
*Vamonos chico. Tenemos que despertar el niño sueco = Andiamo piccolo, dobbiamo svegliare il bambino svedese.
*¿Porque no lo dejamos dormir? Si duerme es porque està cansado.= Perché non lo lasciamo dormire? Se dorme è perché è stanco.
*Dormirà esta noche.= Dormirà questa notte.

*Kalos orisez =Benvenuto. Purtroppo non so se ho reso bene la pronuncia, ovviamente il traduttore scrive in greco, per cui, se è sbagliato correggetemi ^_^
*Kalinihta = Buonanotte.
*Yàsu = Ciao (se si da del tu)
*Yasas = Ciao (se si da del lei)
* Kalimera = Buongiorno

Ecco a voi il quinto capitolo! Che ne pensate?
Spero che la storia continui ad essere di vostro gradimento. Perdonate la prepotenza d'intrusione della canzone, ma non ho davvero resistito. La ascoltavo mentre "partorivo" il passato di Shura e non sono riuscita a trattenermi dal condividerla. Si tratta di "Duerme" dei Mägo de Oz. Per chi ha o ha avuto difficoltà con il mio pessimo spagnolo o con lo spagnolo in generale, ecco la traduzione:

Duerme, duerme y sueña a tener /una vida sin la tentación, / de delirios, de oro y poder, / de juzgar, aunque exista razón.
Dormi, dormi e sogna di avere / una vita senza la tentazione, / di deliri, di oro e potere / di giudicare, benché ve ne sia ragione.

La avaricia es la esclavitud /del alma y de la libertad. / Que no te bese nunca la envidia, /que no te abracen el odio y el mal.
L'avarizia è la schiavitú /dell'anima e della libertà./ Che non ti baci mai l'invidia, / che mai ti abbraccino l'odio e il male.

Duerme, duerme y sueña con ser / de tu mejor tesoro el guardián: / el amor que yo en ti he volcado /de eso tienes mucho que dar
Dormi, dormi e sogna di essere / il guardiano del tuo miglior tesoro /dell’amore che ti ho dato, di quello hai molto da dare (a tua volta)

No te engrandezcas con la riqueza, /ni te apoques con la pobreza. / Que ni la derrota ni el fracaso te impidan / ver que mañana otro día será.
Non ti ingrandire con la ricchezza, / non intimidirti con la povertà. / Che né la sconfitta né il fallimento ti impediscano / di vedere che domani sarà un altro giorno.

Duerme, duerme, aquí estaré,/ las nubes serán tu colchón. / Que ni el viento ni la brisa te dejen /
de acariciar, pues tú eres mi Don. / Duerme, duerme y sueña a tener…
Dormi, dormi, io starò qui,  / le nuvole saranno il tuo materasso./ Che né il vento né la brezza  smettano / di accarezzarti, perché tu sei il mio Dono. / Dormi, dormi e sogna di avere…

E ora: GRAZIE  a tutti i lettori silenti (tanti ^_^) e GRAZIE INFINITE a chi ha lasciato una recensione!
RedStar12. Sei stata la prima a recensire/commentare! Grazie per i complimenti, il sostegno e l'aiuto che mi dai ^_^ Appena posso ti spedisco il piccolo Milo e in bocca al lupo :P. Ti mando le frasi col bambino!! Un bacione!
Camus. Grazie, grazie! Sono contenta che ti piaccia la fic e il modo, volendo, "un po' buttato lì a caso"  che utilizzo ti piacciano. Spero di riuscire a rendere al meglio il motivo dei loro caratteri, e ti assicuro che non è troppo facile ^_^  Cosa pensi di questo capitolo?
whitesary. Dato che tu sei l'esperta in campo "Shura", che ne pensi del suo recente passato? Considerando che la tua offerta di fare la baby sitter è sempre valida ti spedisco il piccolo "cabrito" (capretto), se vuoi anche qualcun'altro basta chiedere, l'importante è che mi rimanga Death Mask, anche se senza Shura sarà un po' triste. Grazie per i complimenti ^_^
Gufo_Tave. Sono contenta che ti sia piaciuto il capitolo precedente e mi auguro ti piaccia anche questo. Se hai appunti da fare o consigli da dare, contattami pure! Grazie mille per i tuoi interventi!

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Capitolo 6
*** Buongiorno! ***


Capitolo 06 - João, seguito da Shura, entrò per primo nella piazza degli ulivi. Respirò a pieni polmoni l'aria profumata di macchia mediterranea e mare e si guardò intorno alla ricerca del piccolo svedese. Lo vide appoggiato ad un muretto, all'ombra e al fresco, mentre riposava.
«¿Shura, porque no lo despertas tu?»
«Vale»
Shura si avvicinò trotterellando al bambino che ronfava beato seduto sotto l’albero. Appena gli arrivò davanti si voltò a cercare João, che era rimasto all’ingresso della piazza e osservava la scena da lontano.
Come svegliare un bambino che non ti conosce? Lo guardò dormire per qualche minuto. Il volto di quel bambino sconosciuto era sereno, rilassato. Si sentiva in colpa a dover interrompere i suoi sogni, sembrava un angelo, o almeno lui, gli angeli, li immaginava così: con i lineamenti delicati, la pelle chiara, i capelli biondi e lunghi e gli occhi azzurri. Certo, lui ancora non sapeva di che colore avesse gli occhi il dormiglione, ma li immaginava azzurri.

Lo fissò a lungo e infine si decise. Allungò una mano e la poggiò sulla spalla dell’altro. Lo scosse leggermente mentre gli sussurrava «Amigo, tienes que despertarte».

Il biondo svedese socchiuse piano gli occhi e mugugnò di  frustrazione nell'abbandonare i sogni. Si scostò dall’albero e si stropicciò gli occhi con forza. La macchinina che stringeva in mano scivolò via. Nell'urto con il marmo che pavimentava la piazza una delle ruote schizzò via.
Il biondo pargolo aprì gli occhi di colpo e raccolse la macchinina, era deluso e arrabbiato per il giocattolo rotto. Alzò lo sguardo per vedere chi lo aveva svegliato e vide un bambino con i capelli neri come la pece che scattò a rincorrere qualcosa. Arrivò fino al centro della piazza, raccolse qualcosa e tornò dall’altro bambino che si guardava intorno per trovare la ruota.
In quel frangente non era interessato all’altro bambino. Voleva solo aggiustare la macchinina regalatagli dal gigante.
Lo spagnolo si sedette incrociando le gambe accanto al futuro amico. Lo guardò a lungo, perdendosi in quello sguardo così bello e puro e immergendosi nell’azzurro di quei grandi occhi. C’aveva visto giusto, erano azzurri.
Improvvisamente gli porse il pugno e spostò le dita.
«La rueda »
«Tack» sussurrò lo svedese e prese la ruota dalla mano di Shura.
Provò a rimontarla, ma le sue piccole mani erano ancora troppo inesperte e poco precise. Possedeva ancora tutta la goffaggine, tipica dei bambini, che imparavano ad usare il proprio corpo.
Shura aveva poggiato le mani sulle gambe e guardava l’altro al lavoro. Gli porse la mano facendo intendere di lasciar provare lui solo quando il piccolo svedese sbuffò, non riuscendo a fare quello che voleva e abbassò le braccia caricando quel gesto di tutta la sua frustrazione.
Accolse volentieri l’offerta d’aiuto e porse la macchinina e la ruota all’altro.
Shura si alzò, si mise esattamente davanti a lui e iniziò ad armeggiare col giocattolo rotto. Quando ebbe finito poggiò la macchinina a terra e la spinse verso il proprietario, che esplose in una risata fragorosa e contagiò anche l’improvvisato meccanico.

João nel frattempo li guardava e sorrideva. Forse sarebbe nata una bella amicizia. Era contento nel vedere quei due bambini che parlavano una lingua diversa cercare di interagire. Fisicamente erano l’uno l’opposto dell’altro. Uno coi capelli color del sole, l’altro coi capelli come la notte più scura e cupa. Uno con gli occhi del colore del cielo diurno, l’altro del colore del cielo di notte. Uno con la pelle candida dovuta alla mancanza di sole e l’altro con la pelle scura dovuta alla costante presenza del  sole. Yin e yang. Era ovvia la totale innocenza dell’uno e la malizia tipica di chi ne ha combinate di tutti i colori dell’altro.

«Vem är du? »
«No entiendo lo que dices»
Silenzio. Si guardavano e non parlavano più, d’altronde non si capivano.
João decise che era il momento di avvicinarsi ai due, si sedette su un muretto poco lontano.
«Shura, intenta a descubrir còmo se llama. Nadie sabe su nombre»
«¿Còmo?»
«No se»
«Vale, intentamos»

Shura guardò il bambino svedese negli occhi.
-Come faccio a scoprire il tuo nome? Non ci capiamo e non posso chiedertelo. Accidenti. Non è una cosa che posso fare. Certo che è una situazione strana. Come faccio a farmi capire da te? Come faccio a farti capire che voglio sapere il suo nome?  -
La mente di Shura era in fermento, doveva riuscire a strappargli il suo nome. Cercò di ricordare se in vita sua si fosse mai trovato in una situazione simile e si ricordò di un mendicante che andò ad elemosinare del cibo a casa sua tempo prima. Era sordomuto e comunicava per iscritto. Si era fatto insegnare qualche gesto del linguaggio dei segni e in particolare il gesto che indicava la spada. Per farlo capire all’uomo aveva indicato una spada. Avrebbe potuto funzionare. Shura sperò che il biondo capisse il gioco.
Prese la macchinina la indicò e disse “Coche”, si alzò e andò a toccare l’albero che si stagliava accanto al muretto sul quale era poggiato lo svedese e disse “Àrbol”. L’altro bambino lo seguiva incuriosito con lo sguardo e si rese conto che l'altro gli diceva i nomi delle cose nella sua lingua e lo imitò.
Prese la macchinina dalle mani dell’altro e disse “Bil”, toccò l’albero e disse “Träd”.
João nel frattempo fissava la scena, curioso di sapere dove volesse andare a parare lo spagnolo.
Shura provò a ripetere le parole dell’altro, alla fine si indicò e disse «Shura».
L’altro bambino gli toccò il petto e ripetè il nome, s’indicò a sua volta e disse «Tyko».
Ce l’aveva fatta. Un bambino di sei anni, in dieci minuti, con un gioco, aveva scoperto il nome del bambino senza nome. João era sconcertato.
Si avvicinò ai due per presentarsi come si doveva allo svedese, ma venne preceduto dallo spagnolo che gli toccò una gamba, lo indicò e disse «João».

Tyko si avvicinò al gigantesco portoghese, lo guardò e imitando i gesti di Shura disse «João». Ritoccò lo spagnolo mentre ne pronunciava il nome e rifece lo stesso col gigante, come a voler imprimere al meglio i loro nomi nella sua mente.

«Piacere Tyko! Dobbiamo andare ad informare il Gran Sacerdote! Finalmente sappiamo il tuo nome! Seguitemi. Shura sígueme con Tyko.»
Shura prese la mano di Tyko e lo tirò a se, facendogli intendere di seguirlo.
Tyko strinse la mano dello spagnolo e si fece trascinare. In quel momento lo avrebbe seguito fino alla fine del mondo. Gli piaceva. Gli piacevano quei capelli neri completamente spettinati, e gli piacevano i suoi occhi, neri come l’abisso ma luminosi e ruggenti. Lo vedeva come una sorta di selvaggio. Non sapeva neanche lui perché, ma lo immaginò a correre in un bosco, salire sugli alberi e saltare da roccia a roccia. Percepiva l’immensa energia che emanava. Non avrebbe saputo spiegare a nessuno perché quel bambino gli piacesse. Shura, dal canto suo, era estasiato e rapito dall’alone di estrema purezza che emanava lo svedese. Era così candido che si ritrovò a pensare di poterlo sporcare prendendolo per mano... e non voleva. Tra i due fu una sorta di colpo di fulmine. Si erano scelti con uno sguardo.
João si voltò a guardare che facevano i bambini. Sorrise di cuore quando li vide mano nella mano che si scrutavano con la coda dell’occhio.Yin e Yang.
Si fermò e aspettò che i due bambini compissero quei pochi passi che li separavano. Avrebbe dovuto occuparsi lui di loro e anche di un  terzo bambino proveniente dall'Italia. Forse sarebbe arrivato in nottata.
Meditò di domandare al Gran Sacerdote il permesso di far dormire i tre nella casa che occupava. Aveva una piccola casetta ai margini del Santuario, una di quelle casette riservate ai cavalieri che ne facevano richiesta. Lui divideva quella casa con un altro cavaliere: un ragazzo irlandese di qualche anno più giovane di lui, con una cascata di riccioli rossi e gli occhi di un verde tanto intenso che ricordavano delle pietre preziose.
Nel mentre che pensava alla richiesta che avrebbe fatto al Gran Sacerdote i suoi pensieri tornarono al giorno in cui conobbe Miach. Uno studente di archeologia che si era da poco trasferito in Grecia.

Miach entrò dentro il Santuario senza rendersene conto e si aggirava meravigliato tra i templi. Era totalmente perso nella contemplazione di quelle antiche vestigia da non accorgersi della presenza di un’altra persona. Sentì una voce profonda rimbombare:
«Chi sei? Come sei entrato?»
All’improvviso la figura di un gigante si stagliò dinnanzi a lui.
«Da lì. – ingenuamente indicò l’ingresso, non pensava di aver fatto qualcosa di male, dopotutto aveva tutto il diritto di stare lì in quanto studente di archeologia - E comunque sono uno studente di archeologia. Tu sei uno di quegli attori che fanno le rievocazioni storiche vero?»
«Rievocazioni storiche?»
«Beh, sei vestito come un soldato greco di 2500 anni fa. Non dirmi che ti vesti sempre così, o penserò che tu sia un po’ – con l’indice descrisse dei cerchi veloci all’altezza della tempia – toccato»
«Ma come ti permetti? Non hai risposto alla mia domanda. Chi sei?»
«Oh perdonami, a volte dimentico le buone maniere, ma qui è tutto così…così…magnifico… - sospirò e tese la mano al ragazzo che lo fronteggiava – mi chiamo Miach.»
Il gigante afferrò la mano che gli veniva porta, la strinse e si presentò a sua volta.
«João»
«João? Non sei greco vero?»
«No, sono portoghese, ma ormai vivo qui da diversi anni.»
«Ehh… ti capisco… Atene è una città così bella. Antica e moderna allo stesso tempo, in pochi passi riesci a tornare indietro di migliaia di anni. Vorrei restare anche io, ma purtroppo il mio permesso di studio dura solo sei mesi e non so se riuscirò a rinnovarlo.»
«Ehm, si. Come sei entrato?»
«Beh, l’ingresso è uno solo. Secondo te?»
«Lo so che l’ingresso qui è uno solo ma non è visibile per la gente normale»
«Lo vedono solo i matti? Scusascusascusa…battutaccia.»
«Sei buffo, devo ammetterlo. Ti spiacerebbe seguirmi?»
«Ti seguirei volentieri, ma devo tornare con i miei compagni, sai, dopotutto sono nel bel mezzo di una lezione, non posso perdere troppo tempo, magari ci scambiamo i numeri e possiamo sentirci …»
«Se non mi segui con le buone, dovrò usare le cattive. Perdonami, non sembri pericoloso, ma è legge che ogni intruso che riesca a penetrare nel Santuario venga portato al cospetto del Gran Sacerdote. Devo farlo.»
«Santuario? Gran Sacerdote? Mi stai prendendo in giro vero? Si, divertente. Comunque se non vuoi che ci scambiamo i numeri non fa nulla. Speravo di esserti simpatico, sono arrivato qui da poco e non conosco ancora nessuno. Beh, è stato un piacere, ci vediamo eh.»
«Fermo. Non costringermi a colpirti. Davvero, non voglio farti del male. Seguimi, per favore.»
João con un movimento rapidissimo si era portato davanti all’irlandese bloccandogli la via. A quel punto Miach con una serie di finte scartò un incredulo João e riprese la strada verso l’uscita.
«L’hai voluto tu.» tuonò il gigante mentre concentrava il suo cosmo in una serie di fili a forma di serpente che fuori uscivano dalle sue dita. I serpenti si aggrovigliarono attorno alle gambe del ragazzo che ruzzolò per terra, inebetito, sorpreso, basito da quello che accadeva. - Ma che razza di effetti speciali usano qui?- fu il suo unico pensiero.
Il portoghese si avvicinò al corpo dell’altro, che nel frattempo era completamente avvolto da quei fili luminosi che avevano perso le sembianze di rettile e lo caricò su una spalla.
«Mi spiace, ti avevo avvertito. Hai scelto tu le maniere un po’ più brusche.»
«Brusche? Brusche? Brusche è un eufemismo. Mi sono quasi rotto la testa per colpa tua. Ora lasciami andare o ti denuncio per aggressione e sequestro si persona.»
«E a chi mi denunci?»
«Come a chi? Alla polizia, no?»
«Sei davvero buffo Pel di Carota.»
«E tu sei stupido come tutti i giganti. Chi cresce troppo in altezza non sviluppa il cervello lo sai?»
«Sei anche uno spasso»
«E tu un… un…»
«Un?»
«Non lo so, ci sto pensando»

Mentre battibeccavano si ritrovarono al cospetto di Arles. João posò il corpo, legato, del ragazzo con cura, in modo da non fargli più male del dovuto e si inginocchiò rispettoso.
«Cavaliere dell’Altare, questo ragazzo è riuscito a penetrare all’interno del Santuario, non credo sia pericoloso ma mi è sembrato doveroso portarlo qui»
«Ottimo lavoro, cavaliere d’Argento della Freccia. »
«Grazie signore»
«Eh? Fermi fermi fermi. Che accidenti sta succedendo qui? Esigo delle spiegazioni. Cavaliere dell’Altare?Cavaliere dell? Santuario?»
«Sei tu a doverci dare delle spiegazioni – proruppe Arles - sei penetrato in un luogo sacro.»
«Luogo sacro? Le rovine del Partenone? Sentite, c’è qualcosa che non torna in questa rievocazione storica e comunque non posso restare a giocare con voi. Liberatemi.»
«Giocare? Ragazzo, non prendere alla leggera i guai in cui ti sei cacciato»
«Guai? Ma nei guai ci siete voi, vi denuncerò alla polizia, vi farò arrestare e farò buttare via la chiave. Questo si chiama sequestro di persona.»
«Giovanotto, modera il tono. Tra poco arriverà il Gran Sacerdote, sarà lui a decidere come comportarsi nei tuoi confronti.»
«Gran Sacerdote? Oh mamma mia, sono capitato in mezzo ai pazzi. Da quand’è che vi fanno uscire liberamente dai manicomi? E soprattutto chi cazzo è il Gran Sacerdote? E soprattutto slegatemi!!»
«Non verrai slegato finché non ti placherai. Il Gran Sacerdote è il rappresentante in terra della dea Atena. Dea della giustizia.»
«So chi è Atena. Quindi siete l’ennesima setta religiosa?»
«Setta? Il culto di Atena esiste da migliaia di anni. Non permetterti mai più a lasciarti andare a simili blasfemie. – intervenne João – Non ne sei al corrente ma ci devi il culo.»
«Non vi ho mai chiesto si salvarmi il culo, per cui non vi devo proprio un bel niente. Siete voi che dovete darmi delle spiegazioni sul mio rapimento. Volete un riscatto? Cascate male, sono povero in canna.»
«Riscatto? Ma per chi ci hai presi? Per volgari criminali?»
«Sì, mi hai rapito»
«Io ti ho chiesto di seguirmi, e ti ho avvertito che nel caso ti fossi rifiutato sarei passato alla forza.»
«Infatti mi capita tutti i giorni di incontrare degli attori pazzi che emettono fili di luce…dalle…dita…e mi…legano…ho capito, nel cadere ho sbattuto la testa, sono svenuto e mi sono immaginato tutto. Ovvio. Pensare che per un attimo ho creduto veramente di averti visto sbrilluccicare come una lucciola e lanciare fili luminosi dalle mani.»
«Non hai sognato. Quello che credi sogno è realtà»
«Eh? Ah, ho capito. E’ una specie di trucco cinematografico, ovvio che non mi puoi dire come hai fatto, non si svelano mai i propri trucchi.»
Arles ascoltava annoiato il botta e risposta dei due. Attendeva solamente l’arrivo del Sommo Sion.
João, in piedi, fissava a braccia conserte Miach che nel frattempo era riuscito a sedersi.
«Guardati. Con cosa sei legato?»
«Con dei fili di luce»
«Appunto, ti sembra un sogno? Ti sembra un trucco?»
«Sicuramente saranno fibre ottiche o roba del genere. E comunque slegami. – si fece rotolare fino ai piedi del gigante – dai, prometto che rimarrò qui buono buono e ascolterò tutte le fesserie che mi direte, ma non cercate di vendermi qualcosa. Ho pochi soldi e mi servono per tornare a casa mia, abito dall’altra parte della città e inoltre vorrei riuscire anche a mangiare per i prossimi giorni.»
«Mi chiedo come tu abbia fatto ad entrare qui… non trovo spiegazioni. Sei completamente andato.»
«Slegami. Per favore?»
«Sommo Arles, cosa consigliate di fare?»
«Io lo lascerei così fino all’arrivo del Gran Sacerdote, ma ha promesso di non fuggire e non mi sembra pericoloso. Slegalo pure.»
«Graziegraziegrazie! Forza razza di bisonte. Slegami.»
João sbuffò e sciolse i sottili filamenti di cosmo che imbragavano Miach.
«Ma cosa … non ti sei avvicinato per scioglierli e soprattutto che fine gli hai fatto fare? Svelami il trucco, ti prego. Prometto che non lo dirò a nessuno.»
«Le corde  che cingevano il tuo corpo altro non erano che prolungamenti del mio cosmo.»
«Cosmo? Dove si compra? Lo vendono in negozi specializzati? Costa molto? Perché mi stai parlando di effetti scenografici, vero?»
Miach cominciava a credere a quello che gli veniva detto. Cominciava a credere che quell’uomo lo avesse legato col pensiero, cominciava a credere a tutto quello che vedeva. Ma non voleva accettare la realtà. Com’era possibile tutto questo? La sua parte razionale rifiutava quello che gli stava accadendo.
«Il cosmo è energia. Energia concessami dalla costellazione cui appartengo.»
«A quale costellazione apparterresti scusa?»
«E’ una storia lunga da spiegarti.»
«Vai avanti João, - intervenne Arles -  il Gran Sacerdote si è recato all’Altura delle Stelle. Hai ancora del tempo»
«Ecco bravo – Miach si sedette per terra con le gambe incrociate e posò i gomiti sulle ginocchia, unendo le mani in un comodo intreccio che avrebbe ospitato il suo mento – ti ascolto.»
«Conosci il mito di Chirone?»
«Chirone? Il figlio di Crono e di una ninfa marina?»
«Sì, proprio lui.»
«Beh, so che era un centauro particolarmente saggio ed esperto di medicina, oltre che un ottimo guerriero.»
«Esatto. Ti ricordi com’è morto?»
«Mi pare di ricordare che sia stato ucciso da Eracle.»
«Precisamente, Eracle non voleva ucciderlo in quanto il mito vuole che sia stato suo discepolo. Un altro centauro, Folo,  però ideò un piano, secondo lui geniale, per uccidere Eracle. Gli offrì il vino appartenente alla riserva comune di tutti i centauri e quando questi videro l'eroe dissetarsi con ciò che gli apparteneva  I  si infuriarono e attaccarono l'eroe. Vennero respinti con un nugolo di frecce. Purtroppo una di quelle frecce colpì la zampa di Chirone, anche se  non prese parte all’attacco. Eracle estrasse la freccia, ma era avvelenata.»
«Vero, le frecce bagnate nel sangue di Idra. Velenose.»
«Chirone non poteva morire poiché era figlio di Crono e la ferita non si sarebbe mai rimarginata provocandogli sofferenze indicibili ed eterne. Il centauro scambiò la sua immortalità con Prometeo, che aveva perso la sua in seguito ai contrasti che ebbe con Zeus. Alla fine Chirone venne trasformato da Zeus stesso in costellazione perché potesse sempre averlo vicino. Questo è il mito.»
«Si, ma tu che c’entri con Chirone?»
«Io indosso l’armatura del Centauro, e dall’omonima costellazione traggo la mia forza. Quando concentro il mio cosmo sulle dita creo dei serpenti luminosi. Li hai visti no?»
«Sì che li ho visti, ma cosa c’entrano col Centauro?»
«Mi sorprende che uno studente di Archeologia non conosca un mito così importante. Chi fu a insegnare al Dio della medicina, la medicina stessa?»
«O santi numi. Chirone fu il precettore di Asclepio, figlio del Dio Apollo!»
«Esattamente.»
«Wow… potrei scrivere un fantastico romanzo fantasy su queste cose che mi hai raccontato. Diventerei ricco.»
«Ora sai e sei tenuto alla segretezza. Oltre al fatto che non ti crederebbe nessuno se tu andassi in giro a raccontare quello che ti detto, non ne avresti comunque l’occasione. Ti verrebbe cancellata la memoria.»
«Ah, niente best-seller allora. Peccato. Ma tornando a noi, quindi tu sei un medico?»
«Sono un curatore, sono in grado di curare qualunque tipo di ferita, ma ovviamente se abusassi di questa mia capacità finirei col perire. Quindi non pensare di chiamarmi ogni volta che ti sbucci un ginocchio.»
«Ah. Ah. Ah, molto simpatico.»
«Ora basta, il Gran Sacerdote sta arrivando.» Proferì Arles, che rimase per tutto il tempo inchiodato dov’era.
«Ma come fai a sapere che sta arrivando?»
«Percepisco il suo cosmo, come João d’altronde.»
«Ah già, ovvio. Come ho fatto a non pensarci prima. Quindi potete comunicare col pensiero?»
«Sì.» risposero in coro Arles e João.
«Beati voi, risparmierete un sacco sul telefono. »

Tacquero per qualche minuto e il Gran Sacerdote fece il suo ingresso nella sala. Parlò subito.
«Miach, benvenuto tra noi.»
«Come conosci il mio nome?» sbiancò il giovane, intimorito dalla maestosità dell'uomo e dalla voce profonda.
«Me lo hanno detto le stelle. Mi hanno avvertito del tuo arrivo. Benvenuto al Santuario di Atena.»
«Grazie, sono onorato di questo... – guardò storto João – benvenuto meno violento, ma io mi son ritrovato qui senza capire come, mi son state raccontate delle cose incredibili, conosci il mio nome perché te l’hanno detto le stelle e … non è che potreste gentilmente chiamare un’ambulanza? Credo di aver bisogno di un ricovero urgente in psichiatria.»
Sion si mise a ridere e si avvicinò al giovane che era rimasto seduto sul pavimento.
«Mio giovane amico, tu sei un prescelto dalle stelle. Quasi sicuramente verrai investito di un’armatura. Avrai bisogno di addestrarti alle arti del combattimento però, e non solo. Dovrai conoscere la storia del Santuario e, col tempo, prenderai coscienza del tuo compito. Devi solo accettare il tuo destino.»
«Il mio destino?»
«Sì, João arrivò qui diversi anni fa. Lo accolsi io in persona, esattamente nello stesso luogo dove vi siete incontrati. Si fidò di me e mi seguì, senza che parlassimo la stessa lingua. Ora, capirai che sei avvantaggiato in questo rispetto a lui. Conosci già il greco, e conosci la storia. A te la scelta. Ti fermerai qui al Santuario per allenarti e indossare un’armatura?»
«Io … veramente … non credo che … oh, al diavolo. Sì. Voglio restare.»
«Cosa ti spinge ad accettare, ragazzo?»
«Non lo so, ma di certo non la mia parte razionale. E’ come se nel profondo del cuore io sentissi di appartenere a questo luogo.»
«Benvenuto Miach.» Intonarono contemporaneamente Sion e Arles.
«Benvenuto Ruivo!»
«Che?»
«Rosso»
«Devo dirtelo, dal profondo del cuore. Non.Ti.Sopporto.»
«Vieni, vieni. Ti mostrerò il Santuario.»
«Che fai, mi ignori?»
João s’incammino seguito da Miach.
«C’è la mensa, ci son le terme e i dormitori. Inoltre ci sono varie arene per i combattimenti, piano piano imparerai a districarti in questo dedalo di corridoi, tranquillo.»
«Non c’è dubbio, mi ignori volutamente.»
Sion richiamò l'attenzione dei due ragazzi.
«Aspettate. João, vorrei che ti occupassi tu dell’addestramento di Miach. E’ adulto e non mi sembra il caso di farlo allenare con i bambini. Sarai il suo maestro.»
«Sì, signore. Agli ordini. »
I due uscirono fuori dal tempio. E s’incamminarono verso i dormitori.
«Hai sentito? Sarò il tuo maestro. Se seguirai i miei consigli  indosserai sicuramente un’armatura. Magari la vestirai d’argento. Saremo di pari grado.»
«Quanti gradi ci sono?»
Il portoghese spiegò dell’esistenza delle armature di bronzo, d’argento  e delle 12 d’oro. Gli parlò dei cavalieri d’oro, spiegandogli anche che erano detti “Cavalieri dello Zodiaco”, in quanto le dodici armature d’oro rappresentavano i segni zodiacali. Gli disse che solo l’armatura d’oro della Bilancia aveva un cavaliere, pluricentenario, che viveva in Cina. Solo il Gran Sacerdote conosceva quell’uomo, poiché furono compagni d’arme e che, in passato, Sion stesso fu il Cavaliere d’oro dell’Ariete.
«Non mi hai detto che potrei diventare anche un cavaliere d’oro, perché?»
«Vedo che stai attento – lo prese in giro – beh, vedi … non puoi diventare un cavaliere d’oro. Prima di tutto sei troppo vecchio. In secondo luogo i futuri cavalieri d’oro devono essere giovani perché il loro addestramento è molto più lungo e difficile, ed infine bisogna essere prescelti. Molti bambini in tutto il mondo nascono con un cosmo particolarmente forte. Noi facciamo in modo di trovarli e fargli fare un primo addestramento. Inoltre è necessario avere lo stesso segno zodiacale dell’armatura che si indosserà. Magari sei una bilancia e hai perso in partenza, come me. E poi, se fossi nato per diventare un cavaliere d’oro saremo venuti a cercarti molto tempo fa. Tanto per curiosità, che segno sei? »
«Bilancia.»
«Appunto, hai perso in partenza.»
«L’ho capito. Ma spiegami un’altra cosa: se questi bambini predestinati nascono con un cosmo così forte, come mai non andate a prenderli subito?»
«Beh, il cosmo comincia a manifestarsi dai tre ai cinque anni. In rarissimi casi prima e spesso dopo. Inoltre, sembra che questi bambini debbano avere quello che noi comuni mortali chiamiamo “un’infanzia di merda”. Secondo i nostri  storici si tratta soprattutto di orfani che hanno dovuto attraversare situazioni molto pesanti e difficili. Chi non riesce a superarle ovviamente farà una brutta fine durante l'addestramento o ai tornei di assegnazione. Sembra che i cavalieri d’oro, oltre a dover avere uno spirito … diciamo … particolarmente puro, debbano conoscere la sofferenza e l'ingiustizia sulla propria pelle. In questo modo saranno in grado di riconoscere immediatamente le ingiustizie e porvi rimedio. Imparerai tutto tranquillo. »
«E chi si preoccupa! – stette in silenzio qualche minuto – torneo di assegnazione dicevi, ovvero?»
«Chi ambisce ad un’armatura deve combattere contro gli altri pretendenti. Se vince, e l’armatura lo accetta, diventa cavaliere. Questo vale per tutti i gradi. Dovrai combattere anche tu probabilmente.»
«Bene. Questa notizia mi devasta dalla gioia. Ma continua a chiarirmi il concetto: hai detto “se l’armatura accetta il cavaliere”, mi stai dicendo che devo fare a botte e che, oltre a rischiare al minimo la paralisi totale, rischio di essere rifiutato da quello che dovrebbe essere il mio trofeo?»
«Sì.»
«Ma in che bel posto sono finito.»
«Puoi sempre andartene.»
«No, non mi rimangio la parola data. Ma tanto vale che mi prepari psicologicamente ad una lenta e dolorosa morte.»
«Esagerato, se ti comporti bene potrei sempre curarti.»
«No, grazie. Se dovessi morire nel guarirmi, il tuo fantasma mi tormenterebbe e mi rinfaccerebbe in eterno che sei morto per salvarmi. Passo.»
João scoppiò a ridere e diede una pacca sulla spalla di Miach che rischiò di cadere a terra.
«Sei simpatico Ruivo.»
«Grazie. Mi cureresti la spalla che mi hai appena fratturato?»
«Aspetta a domani per iniziare a lamentarti. Scoprirai di avere muscoli che non credevi di avere.»
«Oh, ti ho già detto di quanto sono contento?»

João aveva lo sguardo perso nel vuoto e lui era perso in lontani ricordi. Shura si accorse che la mente del gigante vagava in chissà quali mondi lontani e lo riportò al presente.
«Hombre ¿que pasa? »
«Nada. Vamos. »
Continuò a camminare, lentamente, lanciando una sguardo ai piccoli che lo seguivano come se fossero la sua ombra senza lasciarsi la mano.
Sembrava di stare dentro una favola: il gigante buono che portava con se due bambini, che avrebbe protetto a costo della vita. Un bel quadro.

-

Sion e Arles avevano da poco occupato una grande stanza in uno dei templi vicini all'ingresso del Grande Tempio. Da tempo il Gran Sacerdote non soggiornava nel tempio che avrebbe dovuto presiedere, era impegnato a dirigere la ristrutturazione di alcune zone del Santuario e a stilare piani d’addestramento per i bambini. In quei giorni il Santuario era privo di protezione, ma d'altro canto non vi era pericolo di attacchi a sorpresa da parte di qualche divinità e non vi erano rivolte da sedare in nessuna parte del mondo.
Sion stesso era contento di ciò e sperava di riuscire a godere il più possibile di quella piccola e momentanea pace. I suoi pensieri venivano però costantemente interrotti da Arles, che si era addormentato su una vecchia seduta impolverata e russava beato.
Il Sommo, onde evitare di strozzare l’amico e collega per la salvezza della sua igiene mentale, uscì dalla stanza meditando di fare una capatina al tredicesimo tempio, per lui luogo di pace e silenzio.
Mentre si chiudeva la porta alle spalle avvertì chiaramente il cosmo di João varcare la soglia del tempio. Lo attese.
«Buonasera Sommo Sion»
«Buonasera João, vedo che ti porti dietro i nuovi arrivi. Hai scoperto il nome del bambino?»
«Sì, signore. Il bambino si chiama Tyko»
«Ja?» intervenne il bambino sentendosi chiamato in causa.

I due adulti sorrisero inteneriti.
«Grazie ad Atena – volse gli occhi al cielo Sion – Tyko e Shura. Vedo che hanno già fatto amicizia a giudicare da come si tengono la mano. Ma dimmi, come sei riuscito a estorcergli il nome?»
«Non sono stato io. E’ stato Shura. Gli ho chiesto di provare di scoprirlo e ce l’ha fatta. E’ un bambino molto intelligente.»
«Così sembra, João. Però voglio sapere come ha fatto. Potremmo usare la stessa tecnica se dovesse ricapitare un episodio simile in futuro. Anche se, sinceramente, spero non si ripeta.»
«Non ci crederete. Ha indicato delle cose chiamandole nella sua lingua, poi si è indicato e ha detto il suo nome. Tyko ha capito il gioco e ha fatto lo stesso.» João raccontava divertito la scenetta dei bambini. Sion dal suo canto era incredulo. Era così semplice.
«Non ci credo. Nessuno di noi adulti ha pensato una cosa del genere. Ho paura che impareremo più noi da loro che loro da noi. L’importante è che ora conosciamo il nome del bambino. E’ quasi ora di cena João, portali alla mensa e riempitevi lo stomaco.»
«Sì, signore. Avrei una richiesta.» azzardò il cavaliere del Centauro.
«Ti ascolto.»
«Ci sarebbero problemi se i bambini dormissero da me questa notte? Non capiscono una parola di greco e non vorrei che si sentissero esclusi tra gli altri bambini.»
«Fai pure Cavaliere. Hai carta bianca, come ti ho già detto. Fai quello che ritieni più giusto.»
«Grazie signore. Shura, vamos a cenar.»
«Si»
João si voltò e s’incamminò ripercorrendo i propri passi.
I due bambini restarono fermi a guardare il Gran Sacerdote. Sion ricambiava lo sguardo incuriosito e appena mosse un passo per avvicinarsi a quei bambini, che si stringevano la mano, li vide sorridere e fare un cenno di saluto con le mani libere prima di correre dietro al gigante.

Mentre i tre si dirigevano verso la mensa, Angelo e Galgo arrivarono al Grande Tempio. I turisti camminavano tra i resti di antichi templi e fotografavano ogni particolare. L'italiano sgranò gli occhi nel vedere tante persone e si sentì come un pesce fuor d'acqua. Non ebbe mai l'occasione di abituarsi alla folla e ne era intimorito, anche se abile nel nasconderlo.
«Ma è pieno di gente qui! »
«Tranquillo, dove andiamo noi ci sono meno persone. Per ora.»
«Bene, perché non mi piace la gente»
«Non sarai così asociale al Santuario, anzi, scommetto che ti farai subito degli amici.»
«Non credo. Cosa vuol dire asociale? Perchè sono asociale?»
Galgo ignorò volutamente la richiesta di spiegazioni e incalzò:
«Staremo a vedere. Anzi, facciamo una scommessa. Se ti farai degli amici dovrai abbracciarmi, altrimenti farò il giro del Santuario con te sulle spalle, di corsa. Ci stai?»
«Ci sto. Preparati a correre»
«Preparati ad abbracciarmi»
«Sisì! Tanto vinco io»
Galgo gli fece la linguaccia e scimmiettò «Sisì! Tanto vinco io»
«Non vale! Non puoi farmi il verso»
«E chi me lo impedisce?»
«Io!»
«Eh, ma devi prendermi prima.»
Galgo si lanciò in corsa lenta verso l’entrata del Santuario e il bambino correva dietro di lui lasciandosi trasportare dalle risate.
Entrarono nel Santuario, un posto sotto gli occhi di tutti e che nessuno riusciva a vedere. Solo chi aveva una sorta di invito vedeva l’entrata. Un invito divino. Galgo lo aveva sempre avuto in tasca, ed entrò per caso la prima volta. I soldati semplici venivano scelti dai guerrieri che già vestivano l'armatura o entravano casualmente, seguendo gli abitanti di quello strano posto, ignari di quello che avrebbero trovato, come Leurak e Akylina. Ma chi entrava difficilmente andava via.

«Andiamo dal Gran Sacerdote»
«Ci andiamo di corsa?»
«Vuoi correre?»
«Sì. Mi piace correre.»
«Benissimo mio giovane discepolo ed amico. Al passo! E … di corsa!»
Continuarono la corsa tra le colonne e i templi, schivarono cavalieri, ragazzi e bambini. Angelo non fece troppo caso al paesaggio che gli scorreva attorno, si rese conto che era tutto così vecchio lì, ma aveva una gara a cui pensare. Doveva vincere la corsa.
«Ehi piccolo, lo sai che sei veloce? Magari un giorno potresti addirittura battermi, ma dovrai allenarti come si deve! »
«Mi allenerò tutti i giorni finché non sarò più veloce di te, ci puoi contare!»
«Bravo, così si parla»
Galgo rallentò la corsa fino a fermarsi e indicò un tempio al bambino.
«Dobbiamo entrare lì. Dentro troveremo il Gran Sacerdote che ci aspetta e forse anche Arles, il Cavaliere dell’Altare, è il vice del Gran Sacerdote.»
«Cavaliere?»
«Sì, cavaliere. Siamo paladini della giustizia. E forse lo diventerai anche tu.»
«Paladino? Io?»
«Sì, sarai amato e rispettato da tutti. Le cose cambieranno, non saranno più come le conosci.»
«Qui siete tutti cavalieri?»
«No, alcuni sono semplici soldati.»
«Tu sei un cavaliere?»
«Si. Sono un cavaliere d’argento.»
«Cos'è un cavaliere d’argento?»
«Ti spiegherò più avanti tutta la gerarchia, ma per il momento ti dico che ci sono tre categorie di cavalieri: bronzo, argento e oro. Io sono un cavaliere d’argento, prendo ordini dai cavalieri d’oro e dal Gran Sacerdote e impartisco ordini ai cavalieri di bronzo. Per ora non devi sapere altro, abbiamo tempo, tranquillo. Entriamo.»
Galgo aveva già imparato a proprie spese che quel bambino sarebbe andato avanti a fare domande per ore. L'unico modo per evitarlo era dargli una nuova curiosità su cui "lavorare": come vedere il Gran Sacerdote. Entrarono.

Trovarono Sion nei corridoi. Erano trascorsi pochi minuti dalla visita di João.
«Bentornato Galgo!Vedo che hai trovato Angelo.»
Angelo tremò nell’udire quella voce così marziale e avvolgente. Avrebbe fatto qualunque cosa gli fosse stata detta. Si meravigliò ancor di più nell’udire il proprio nome scandito tra quelle parole sconosciute.
L'irlandese s’inginocchiò e si rialzò velocemente. Si udirono il rumore dei cardini di una porta, un leggero vociare e il rumore dei passi di due uomini. Ora poteva vederli chiaramente. Riconobbe subito il Gran Sacerdote dalla descrizione fattagli da Galgo e dedusse che l’altro uomo fosse Arles. Rimase impietrito davanti a quelle figure così austere, avvolte da tuniche scure.
«Sì, questo è il bambino che mi avete dato in consegna.»
«Com’è andato il viaggio?»
«Bene, signore. Ho stretto amicizia col bambino. »
«Ottimo, Galgo. Abbiamo avuto dei problemi con Dioskoros e il bambino spagnolo, ma fortunatamente l’intervento di João ha fatto si che il danno non fosse irreparabile.»
«Capisco signore. – Tese una mano verso il piccolo e gli fece cenno di accostarsi a lui – Questo è Angelo.»
Il Gran Sacerdote si inginocchiò davanti al bambino, lo guardò negli occhi e sorrise.
«Yàsu Angelo»
«Yàsas». Non aveva dimenticato.
Il Gran Sacerdote fu sorpreso dal saluto in greco, si mise a ridere e si voltò verso il cavaliere d’argento a cercare spiegazione.
«Mi son preso la libertà di insegnargli a salutare in greco. Perdonate il mio zelo.»
«Perdonare? Hai fatto benissimo. Ah, se al Santuario fossero tutti come te e João potrei andare in pensione.»
Risero tutti, tranne Angelo che non aveva capito una parola.
«Galgo, avete cenato?»
«No signore.»
«Recatevi alla mensa. Cenerete allo stesso tavolo di João allora. Ci saranno anche il bambino spagnolo e il bambino svedese. Provate a farli interagire. Almeno ora sappiamo come si chiama.»
«Sì, signore»
Galgo non si chiese cosa significassero le parole "ora sappiamo come si chiama". Aveva fame e, come lui, anche Angelo.

-

Il gigante e i pargoli, una volta arrivati alla mensa, occuparono un tavolo.
João mise seduti i bambini e disse a Shura di restare lì, lui sarebbe andato a parlare con le nutrici per informarle della decisione presa dal Gran Sacerdote riguardo il loro pernottamento e poi a prendere da mangiare. Sarebbe tornato in poco tempo.
Lo spagnolo annuì alla richiesta. Tyko si preoccupò nel vedere andare di nuovo via il gigante e fece per scendere dalla sedia, ma fu prontamente bloccato dal moro, che lo afferrò per un polso e gli fece segno di no con la testa. I due bambini si fissarono a lungo negli occhi, perdendosi l’uno nello sguardo dell’altro. Tyko si rassegnò ad obbedire al bambino che gli aveva tenuto la mano tutto il tempo, infondendogli coraggio. Si sentiva protetto, sembrava così sicuro di sé Shura. Lo invidiava.

Trascorsero un paio di  minuti e cominciavano ad annoiarsi. Non potevano parlare tra loro, non si capivano.
Il piccolo Tyko era un bambino allegro e socievole, logorroico e simpatico. Aveva delle attenzioni particolari per chiunque, spesso si avvicinava ad emeriti sconosciuti se li vedeva tristi e faceva loro una carezza, risvegliando sorrisi stupendi.
Sapeva anche come impiegare il tempo. Vedendo l’amico annoiato  tirò fuori la sua macchinina dalla tasca dei pantaloni, la mise sul tavolo e la spinse contro il braccio che sorreggeva la testa di Shura, svogliatamente sbracato sul tavolo. Sembrava assorto in chissà quali pensieri, ma cercava solamente di resistere al sonno. Scattò nel sentire il metallo freddo del giocattolo contro la pelle. Guardò la macchinina e poi il proprietario che lo invitava a giocare con gli occhi, resi ancor più luminosi da un dolce sorriso.
Shura ricambiò il sorriso cercando di infondergli la stessa dolcezza e spinse la macchinina verso Tyko.
Continuarono lo scambio per un po', alienati dal gioco. Cercavano di cogliersi impreparati, ma entrambi avevano buoni riflessi.
D’improvviso Shura venne sollevato dalla sedia.


*¿Shura, porque no lo despertas tu?= Shura, perché non lo svegli tu?
*Amigo, tienes que despertarte= Amico, devi svegliarti.
*La rueda = La ruota.
*No entiendo lo que dices = Non ti capisco
*Shura, intenta a descubrir còmo se llama. Nadie sabe su nombre = Shura, prova a scoprire come si chiama. Nessuno sa il suo nome.
*Vale, intentamos = Va bene, proviamo.
*Hombre ¿que pasa? = Amico, che succede?

*Vem är du? = Chi sei?
*Tack= Grazie.
*Ja? = Si?

*Miach si pronuncia Meeock

Ecco qui il sesto capitolo e vi lascio con un po' di suspense ^_^
Ho un po' reiventato le capacità inerenti al cavaliere del Centauro, mi dispiace per Babel ma anche le palle di fuoco non è c'azzeccassero troppo con il centauro ^_^

Correggo ora un errore fatto nel precedente capitolo, "vermelho" in portoghese indica solamente il colore rosso che se riferito ad una persona con i capelli rossi diventa "ruivo". Ringrazio per la correzione una lettrice che gentilmente mi ha scritto per mostrarmi l'errore incappando, suo malgrado, in una mia disperata richiesta di aiuto col portoghese. Mille mila grazie ancora!!

I miei ringraziamenti vanno anche a tutti i lettori silenti, a Tikal  e whitesary per aver messo la fic tra le preferite e a chi ha lasciato una recensione:
Saruwatari_Asuka. Ciao! Grazie mille per le gentili parole ^_^ e, visto che ti sei offerta volontaria, appena Shaka metterà piede nel Santuario sarà spedito per direttissima da te ^_^, ma se non vuoi aspettare te lo spedisco prima!
RedStar12. Tesoro sei immancabile! Appena riesco a schiarirmi le idee riguardo le parole che si scambieranno i due ti invio la lista  ^_^ assieme ai baldi pupi che dovrai far parlare :P Certo che due son davvero tanti, ma se riesci a gestirli te li affido entrambi ^_^Un bacione!!
whitesary. Se prometti solennemente di fargli vedere gli amici tutti i giorni non ci sono problemi ^_^  Avrai modo di conoscere ancora meglio Shura nei prossimi capitoli e, oltre al cabrito, anche l'immenso João e non solo! Al prossimo capitolo!
stantuffo. Ma ciao ^_^! Spero di non averti colta nuovamente indaffarata, pensa al lato positivo: più tardi e più capitoli leggi insieme :P L'idea iniziale era quella di raccontare la storia di tutti i gold, spero solo di non perdermi per strada :P Inoltre sono io a doverti ringraziare per aver letto il capitolo e sono davvero felice che la storia ti piaccia. Al prossimo aggiornamento! Un bacio! 

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Capitolo 7
*** Scontri e incontri ***


Capitolo 07 Tyko cominciò ad urlare spaventato e Shura lo seguiva nel coro dimenandosi e scalciando. Due braccia fasciate lo tenevano a mezz’aria.
«Non ti sei ancora calmato allora?» Shura riconobbe la voce.
«¡Dejame!»
«Lämna honom!!»
Le voci dei due bambini si univano nello spavento.
«Per colpa tua sono stato punito moccioso, non credere di passarla liscia. Ti faccio vedere io.»
«João!!! Kom!!» Tyko aveva capito che era il caso di chiamare il loro amico. Urlava il suo nome, mentre i presenti ridevano alla scena di Dioskoros che spaventava il bambino che già una volta lo aveva sconfitto. Nessuno mosse un dito per intervenire.
«Lascialo andare. Fai schifo. Arrivare prendersela con un bambino. Sei ridicolo.»
Tyko si voltò di scatto per vedere a chi apparteneva quella voce a lui sconosciuta. Era un ragazzo, non molto alto, con i capelli neri e gli occhi a mandorla.
«Leurak, non ti hanno insegnato a farti gli affari tuoi?» Dioskoros sfidava apertamente il giovane ragazzo mongolo. Sprezzante gli rise in faccia, ma il ragazzo lasciò cadere la provocazione.
«Dioskoros, se vuoi menare le mani abbi il coraggio di scegliere qualcuno che non sia un bambino di sei anni. Non so se mi fai più schifo o pena.»
«Vorresti sfidarmi nanerottolo?»
«Beh, se ti ha battuto lo scricciolo che tieni in aria posso batterti anche io. Non abbiamo mai avuto occasione di confrontarci. Potrebbe essere questa la volta buona. Ma forse hai paura di perdere con un tuo pari.»
«Pari? Posso batterti con gli occhi chiusi nanerottolo. Torna a casa ora. Ti risparmio una figuraccia.»
«Mi risparmi? A me? Secondo me sei tu che ti vuoi risparmiare l’ennesima figura di merda. Lascialo andare.»
«Neanche per sogno. Non ha capito la prima lezione. Capirà la seconda.»
Attorno ai due uomini e ai due bambini si era formato un muro di persone che seguiva divertito la scena. Shura continuava a dimenarsi come se fosse un pesce tirato fuori dall’acqua.
Leurak non era forte, ma riusciva a nascondere la paura e mostrare una faccia tanto spavalda in grado di intimorire per l’eccesso di sicurezza. In realtà era tutto meno che sicuro, soprattutto delle sue capacità.
«Lezione? Ti riferisci al viaggio che gli hai fatto fare? Neanche le bestie si trattano così Dioskoros. Molla la presa sul bambino e vieni fuori. Regoleremo i conti io e te.»
«L’unica persona al mondo con cui devo regolare i conti è questo moccioso.»    

Leurak decise che ne aveva abbastanza dei modi di fare di Dioskoros. Un soggetto del genere non era neanche degno di avvicinarsi al Santuario, figurarsi farne parte.
«Mi fai ribrezzo.» mentre pronunciava quelle parole cariche di disprezzo si mise in posizione di guardia e quasi si lanciò all’attacco. Venne preceduto da Tyko, che non sopportò oltre di vedere il suo nuovo amico maltrattato a quel modo.Prese una breve rincorsa di qualche passo e lanciò con tutta la forza che aveva la macchinina, diretta alla testa di quell’uomo che non conosceva e già detestava. Il lancio fu preciso e forte. Leurak sobbalzò nel vedere  la fluidità del movimento del piccolo, gli armoniosi movimenti del braccio stonavano con il ringhio di rabbia e paura disegnato sul volto.
Dioskoros evitò con difficoltà quell’oggetto e  allentò leggermente la presa su Shura. Cercò di avvicinarsi al bambino che aveva osato sfidarlo per assestargli un calcio ma non ci riuscì.
Shura, quasi libero di muoversi, riuscì a rigirarsi nella presa e a infilare un dito nell’occhio di colui che fu il suo accompagnatore.
I presenti rimasero di sasso. Nessuno aveva pensato minimamente che la vicenda avrebbe potuto prendere quella direzione. Il bambino spagnolo venne lanciato via da Dioskoros, in modo che il soldato potesse concentrarsi sull’occhio offeso.
«Non arriverai a vedere un altro compleanno moccioso. E’ la tua fine.»
Dioskoros aveva completamente perso la ragione, non solo era stato sfidato pubblicamente da un compagno, ma era stato sconfitto per due volte di seguito da un bambino.
Shura era caduto rovinosamente per terra sbattendo la gamba contro un tavolo. Si era fatto male, ma si rialzò tenendo la testa inclinata in avanti e fissando il suo avversario. Assunse una posizione di guardia che gli venne naturale e sibilò tra i denti :
«Dejalo en paz, asqueroso. Soy yo tu rival.»
Tyko si mise davanti all’amico e quasi si spaventò nel vederlo. Quello sguardo spensierato che aveva conosciuto era svanito. Aveva davanti un’altra persona. Lo sguardo di Shura era carico di rancore, odio e disgusto. Dioskoros non poteva tollerarlo. Si lanciò all’attacco. Si scagliò con tutta la sua forza contro un bambino.
La sua folle corsa venne fermata da Leurak che gli si parò davanti e gli assestò un gancio sotto al mento. Il colpo lo spiazzò facendolo cadere all'indietro, più per la sorpresa che per la forza effettiva del colpo.
« Non osare mai più levare il pugno su un bambino.» Il tono di voce  di Leurak era crudo e tagliente, non avrebbe permesso all’altro soldato di avvicinarsi nuovamente ai bambini, piuttosto sarebbe morto lì.
«Come ti permetti, mongolo del cazzo. Le vuoi prendere anche tu? Torna a giocare con i passerotti.»
Leurak non perse l’occasione. Gli era stata servita su un piatto d’argento.
«Prenderle? Io? Io sono amico del bambino, perché dovrebbe picchiarmi? - Oltre al danno la beffa. – Lascia perdere Dioskoros. Fatti un favore e vattene dal Santuario. Il Gran Sacerdote non te la farà passare liscia. Hai osato levare la mano contro un bambino … no, che dico … contro due bambini indifesi. Vattene e non tornare. Non abbiamo bisogno di te. E non sono passerotti ma falchi e corvi.»
Dioskoros non sopportò il discorso. Si rialzò e tentò un altro attacco, questa volta diretto a Leurak.

-Sono morto. Addio mondo crudele. E’ stato bello ma è durato poco. Akylina ti voglio bene e so che non  sei brutta considerando che ti vedo in faccia ogni volta che usciamo da qui, bambini mi spiace non essere riuscito a giocare con voi, ci vediamo in un’altra vita.Galgo, João mi mancherete. Ciao mamma, ciao papà vi ho voluto bene. Ciao mie montagne adorate, mi mancate. Ciao miei fedeli falchi e addio miei fedeli corvi. Mongolia mia ti guarderò dall’alto.Ciao a tutti-

Parò i primi colpi infertigli da Dioskoros con facilità, quasi non si riconosceva. Non era mai stato un buon combattente. Si rimangiò il suo testamento. Non amava la prima linea e il combattimento, piuttosto che il palcoscenico preferiva stare dietro le quinte ad allestire la scenografia e assicurarsi che tutto filasse per il verso giusto. Riuscì a colpire l’avversario diverse volte. Fu semplice.
Dioskoros, totalmente annebbiato dall’ira, si lanciava all’attacco senza utilizzare un minimo di strategia. Non servivano berserker tra le schiere dei cavalieri di Atena ma uomini assennati, in grado di elaborare una strategia vincente in poco tempo. Servivano uomini come Leurak.
I colpi di Dioskoros si fecero sempre più forti e insistenti. L’adrenalina, scatenata dal dolore dei colpi di Leurak e dalla rabbia, contribuì a renderlo sempre più furioso. Cominciava ad avere la meglio.

«Che diavolo succede? Smettetela immediatamente.» un’altra voce sconosciuta ai bambini, che si voltarono a vedere a chi appartenesse.
Un uomo con lunghi capelli rossi si gettò nella mischia, cercando di fermare quella lotta.
«Galgo – disse Leurak – stanne fuori, per favore. E’ ora che qualcuno gli dia una lezione.»
«Leurak, non essere ridicolo. Esigo sapere cosa succede. Sono un tuo superiore, hai il dovere di rispondermi.» tuonò il rosso.
Dioskoros s’interruppe ed esortò lo sfidante:
 «Dai piccino, piangi col papà. Io ti aspetto qui, non me ne vado. Ti strapperò quella faccia che ti ritrovi mongolo. Torna tra le montagne.»
«Galgo, questo coglione ha levato la mano contro due dei nuovi arrivati poco fa. Inoltre ha portato uno di loro qui al Santuario trattandolo come una bestia. Dietro di te Galgo. Li vedi quei due bambini? Sono loro. Se l’è presa con loro, ti rendi conto? Voglio che tu mi dia il permesso di spaccare la faccia a questo schifoso, arrogante pezzo di merda. Voglio la tua approvazione come mio superiore e come mio amico. Concedimela Galgo!»
Dopo un attimo di esitazione e dopo aver rimuginato per qualche istante sulla richiesta appena fattagli  Galgo annuì. Capitava spesso qualche scazzottata tra i soldati, ma era la prima volta che Leurak si trovava in quella situazione.
«E sia Leurak. Agisci come credi più opportuno.» Galgo si spostò di lato, portando una mano sulla spalla del bambino che lo accompagnava.
Un soldato si avvicinò al'irlandese e gli fece il resoconto di tutta la vicenda, in modo poco dettagliato e poco accurato per poi tornare a godersi lo scontro.

«Angelo, stai per assistere ad uno scontro tra soldati. Non hanno un cosmo, per cui non sarà nulla di eclatante, ma osserva bene.»
«Sì, ma perché si picchiano? Cos’è successo?» chiese Angelo a braccia conserte, senza distogliere lo sguardo dai due guerrieri.
«Succede spesso che i soldati non vadano d’accordo tra loro e scatenino delle risse, ma vedi i due bambini accanto a te?»
«Sì, chi sono?»
«Anche loro sono arrivati oggi. Ci sono stati dei problemi con loro e il barbuto ha cercato di fargli del male, non conosco i dettagli, mi è stato fatto solo un breve riassunto per il momento. Quello si chiama Dioskoros ed è un poco di buono, il tipico rappresentante della categoria ‘tutto muscoli e niente cervello’, ha osato alzare la mano su quei bambini. Ma a quanto pare sono stati in grado di difendersi da soli.»
«Da soli? – era sbigottito – Ma … sono piccoli … come me …»
«Beh, sappi che anche tu sei fatto della loro stessa pasta. Saresti stato in grado anche tu di tenergli testa.»
«Dici sul serio?»
«Sì. Ora guarda.»

I due sfidanti non si erano ancora mossi. Si guardavano, si scrutavano, si studiavano. Leurak sapeva bene che non gli sarebbe convenuto attaccare per primo. Le capacità combattive di Dioskoros erano superiori alle sue. Aveva da sempre preferito seguire 'la via dell’acqua', optando per  le tecniche difensive e lasciando in secondo piano quelle offensive.
Il suo peso, inferiore a quello dell'avversario, era un punto a suo sfavore e sarebbe stato difficile contrattaccare con delle proiezioni. Ma assecondando i movimenti d’attacco dell’avversario, utilizzando a suo favore la forza sprigionatagli contro, avrebbe potuto vincere.
Leurak, per la prima volta in vita sua, desiderava la vittoria, schiacciare l’avversario. L’unica mossa che gli venne in mente fu quella di rimandare Dioskoros in "modalità berserk". Doveva farlo arrabbiare per evitare che riuscisse ad usare quel poco cervello che aveva.

«Ho il tuo permesso Galgo. Grazie per la fiducia. – disse Leurak, abbandonando la posizione di guardia – certo, non c’è onore nella vittoria contro un uomo già sconfitto da un bambino. Come va l’occhio, Dioskoros, brucia tanto?»
«Leurak, rimpiangerai queste parole.» Dioskoros concluse la frase gettandosi all’attacco, indirizzando il pugno destro contro il volto del ragazzo che lo guardava e rideva, con le braccia mollemente abbandonate lungo i fianchi. Era sicuro che l’avrebbe colpito. Sbagliava. All’ultimo istante, Leurak schivò il colpo con un movimento tanto fluido e naturale che per un istante sembrò essere davvero fatto d’acqua. Il primo punto era suo.

«Angelo, Leurak ha usato una tecnica appartenente alla “via dell’acqua”. Si tratta di tecniche difensive. Usa la forza dell’avversario a suo favore. Le imparerai. Non perdere un istante di questo scontro.» Il bambino si limitò ad annuire, rapito dai movimenti del ragazzo.

Dioskoros cominciava a perdere la lucidità e la calma che aveva riacquistato nella breve pausa di poco prima. Attaccava come un forsennato, senza indirizzare i colpi in nessun punto. Si ritrovò a colpire l’aria. Aveva il fiatone, gli occhi che bruciavano per il sudore e la rabbia. Stava perdendo. Leurak al contrario era rilassato, calmo e tranquillo come un fiume in quiete. Non vedeva nessuno eccetto Dioskoros che continuava ad infuriarsi.
Dopo un istante di esitazione, Dioskoros tornò all’attacco. Eseguì una serie di calci diretti alle gambe del mongolo. La fortuna gli sorrise. Nel lanciarsi totalmente sullo sfidante, riuscì ad assestargli un calcio all’altezza della bocca dello stomaco facendolo vacillare all’indietro,  colse il momento propizio e cominciò a colpire, alla cieca.
«Ma che – si ritrovò ad urlare Angelo – diavolo succede? Stava vincendo. Come ha fatto quello a colpirlo?»
«Angelo, ci sono tante cose che influiscono sull’esito di una battaglia. Tra queste anche la fortuna. Dioskoros ha avuto fortuna riuscendo ad assestare un colpo su tanti tirati a caso. Leurak è molto più bravo di lui. Ma lo scontro non è finito. Guarda, la situazione si sta capovolgendo di nuovo.»

Leurak riuscì a riprendere calma ed equilibrio. Si rialzò dopo aver atterrato Dioskoros con una spazzata.
Mentre il greco si rialzava cercando di seguire lo stesso tempismo dell’altro ricevette un calcio sotto il mento. Cadde e rimase per terra, intontito dal colpo. Il mongolo si allontanò aspettando che l’avversario si rialzasse, ma  non accadde. Aveva vinto.

«E’ finita Angelo. Leurak ha vinto. Ha usato il cervello, non si è fatto prendere dalla paura. E’ rimasto lucido ed è riuscito a sfruttare il primo  momento propizio per riprendere il controllo dello scontro.»
Galgo tirò a se il discepolo e lo cinse con un braccio.
«Vieni ora. Andiamo a prendere da mangiare. Poi potrai fare amicizia con gli altri due.»
«Va bene, ho fame. Bello scontro. Non c’ho capito tanto ma m’è piaciuto.»
Si allontanarono assieme, fianco a fianco, continuando a discutere di quell’incontro appena finito, diretti verso un bancone carico di cibo.

Leurak tremava. L’adrenalina cominciava a scemare e il dolore cominciava invece a farsi sentire. Dioskoros rimase coricato sul pavimento bianco, circondato dai suoi amici che cercavano di farlo riprendere.
«Ehi Leurak, complimenti. Gli hai spento la luce.» ghignava uno degli altri soldati. Leurak in risposta annui rapidamente e cercò di allontanarsi dalla mensa per riprendersi. Non gli era mai piaciuto combattere, ma quello scontro se l’era davvero goduto.

Tyko e Shura, che nel frattempo era tornato un bambino tranquillo, si guardavano intorno alla ricerca di João. Erano passati poco più di dieci  minuti da quando si era allontanato, non avrebbe tardato ancora. Tyko cominciava a rendersi conto che se non fosse intervenuto quel ragazzo, si sarebbero potuti fare molto male. Lo vide allontanarsi barcollante e gli corse incontro, lasciando Shura dove si trovava.
Lo fermò tirandogli i pantaloni. Leurak si voltò e lo vide.
-Cazzo. E’ vero. Mi sono messo in mezzo per salvarli. Me ne stavo andando senza curarmi di loro. Mi faccio schifo da solo.-
Leurak si chinò con fatica all’altezza del bambino che lo abbracciò. Lo prese poi per mano e lo condusse nel punto dov’era rimasto Shura. Scompigliò i capelli del bambino che già conosceva e tentò di riportarli al tavolo dove sedevano quando tutto era iniziato e li fece sedere, prendendo posto, a sua volta, accanto a Tyko che cominciò a piangere, sconsolato.
Non capiva il motivo di quello che era accaduto. Aveva avuto una paura folle di quell’uomo, ma ancor di più aveva temuto per l’incolumità del bambino che conosceva da poche ore. Perché quel tizio ce l’aveva con lui? Shura cercò di consolarlo tenendogli prima la spalla, poi il braccio e poi la mano. Non sapeva come confortarlo. Si avvicinò al volto del biondo e cominciò parlargli con un tono di voce dolce e consolatorio.

Tyko parve calmarsi nell’udire l’altro, ma durò poco.
Dioskoros si era ripreso. Incitato dagli amici si diresse verso Leurak deciso a fargliela pagare.
«Leurak, brutto schifoso, sei morto. Recita le tue ultime preghiere.»
«Basta Dioskoros. Hai perso. Non è il caso di continuare la lotta.»
«Te la fai sotto ora che non c’è più il tuo amichetto? Sei solo un vigliacco Leurak. Sei tu quello che dovrebbe andarsene da questo posto, non io. Io sarò cavaliere d’oro.»
«Non hai ancora capito che non puoi diventare un cavaliere d’oro? Mi fai pena Dioskoros. Se vuoi un’altra lezione ti accontento.»
Leurak si alzò, fece una carezza ai bambini per tranquillizzarli e claudicante si avviò verso il nemico.
Gli faceva male un ginocchio. L’effetto antidolorifico dell’adrenalina era finito. Non sarebbe stato in grado di sostenere il combattimento.
«Eccomi Dioskoros. Continua a dimostrare a tutti la tua stupidità. Non è colpa mia se ce l’hai piccolo, ma è stupido sfogarsi sugli altri – Leurak ricominciò a provocarlo,sicuro che non sarebbe ricascato nel tranello – finalmente capisco il motivo di tanta insicurezza. Ma le dimensioni non sono importanti!»
Dioskoros cadde come una pera matura nella rete. Si lanciò all’attacco. Tyko e Shura corsero nel punto della lotta. Erano stanchi di quella storia ormai.

Leurak era sicuro che la sua vita sarebbe finita lì, in quell’istante. Tenne la posizione di guardia per pararsi il viso e chiuse gli occhi, aspettando di ricevere i colpi che lo avrebbero ucciso. Rifece mentalmente lo stesso testamento fatto solo pochi minuti prima. Non aveva la forza e tantomeno la salute per un nuovo incontro.
 
Non successe nulla. Nessun pugno gli fracassò la testa, nessun calcio gli tolse il respiro, nessuna testata gli devastò il naso.

Con lentezza aprì gli occhi e spostò le mani dal viso. Una schiena muscolosa e dritta si ergeva davanti a lui come una montagna.
«João – esclamò – grazie al cielo. Ma dove accidenti eri finito?»
João teneva un vassoio carico di cibo in una mano e con l’altra cingeva il collo di Dioskoros. Lo aveva fermato con una mano sola.
Tyko e Shura urlarono a gran voce il nome del portoghese, contenti del suo ritorno e del suo intervento. Leurak si riprese dallo spavento e si rimangiò nuovamente le sue ultime volontà. Mise le mani sulle spalle dei bambini e li ricondusse al tavolo dove erano seduti  dieci secondi prima. Una volta fatti sedere si recò a prendere il vassoio che João teneva in mano e cominciò a dividere il cibo per i bambini. Nessuno dei due pargoli accennò a voler mangiare. Fissavano la scena.
João col braccio teso davanti a se teneva inchiodato l’altro, continuando a cingerlo per il collo.
«Beh, che aspetti João? Hai paura ad uccidermi?»
«Dioskoros, stasera stessa richiederò personalmente al Gran Sacerdote la tua espulsione dal Santuario. Sarai bandito e tacciato di tradimento. Hai osato levare la mano su due creature indifese. Su due prescelti.» Il tono di João era fermo e severo. Stava emettendo una condanna.
«Prescelti?» fece eco l’altro con un filo di voce. La stretta non era forte, non voleva uccidere ma solo rendere vano ogni tentativo di attacco o ribellione.
«Sì Dioskoros, non lo avevi capito? Hai alzato la mano su due bambini che potrebbero diventare cavalieri d’oro. Renditene conto.»
«Non raccontarmi cazzate João, non ci credi neanche tu. Sono solo sue mocciosi che hanno bisogno di imparare qualche lezione e prendere qualche calcio in culo.»
«Dioskoros, - intervenne Leurak -  non per sottolinearti l’ovvio, ma l’unico che ha preso calci in culo sei stato tu. Uno ti ha quasi sfregiato con un giocattolo, l’altro ti ha prima ricoperto di morsi e poi ti ha quasi cavato un occhio. Non mi sembrano due bambini normali.»
«Fatti i cazzi tuoi nanerottolo, abbiamo un conto in sospeso» ringhiò Dioskoros, mentre soffocava le ultime sillabe in un rantolo dovuto alla stretta di João che si faceva più forte.
«Questa non la passerai liscia – tuonò il gigante – Dioskoros. Il Gran Sacerdote sta arrivando.»

João non finì la frase. Il Gran Sacerdote si dirigeva a passo svelto verso i due guerrieri.
«Dioskoros, ti dichiaro ufficialmente bandito dal Santuario. Ti verrà cancellata la memoria e verrai spedito il più lontano possibile da qui. Non so cosa mi blocchi dal condannarti a morte, ma ringrazia gli dei. – Sion si rivolse ad altri soldati – Conducetelo nelle prigioni di Capo Sounion. Resterà lì per una settimana. E poi esiliato.»
I soldati obbedirono e trascinarono via il loro compagno che si dimenava. Non riusciva a credere a quello che stava succedendo.
«Mi dispiace Sommo Sion, non avrei dovuto lasciarli da soli. Accetterò qualunque punizione vogliate darmi.» João abbassò la testa in segno di totale sottomissione.
«Va’ da loro João, saranno spaventati. Cerca di tranquillizzarli e di far mangiare loro qualcosa. Non dispiacerti, non si può prevedere la stupidità umana.» Sion si voltò e se ne andò.

Il gigante soffocò uno scatto d’ira colpendo una colonna, l’avrebbe ammazzato se non ci fossero stati i bambini. Prese posto al tavolo.  
Tyko piangeva di nuovo  e Shura tentava ancora di calmarlo. Più li guardava e più si sentiva colpevole. Incrociò lo sguardo con il bambino spagnolo.
«Lo siento Shura. Perdóname»
«No te preocupes, pero Tyko no deja de llorar y no tiene su coche»
«Tranquilo chico» disse accarezzando la testa al bambino.

«Leurak, per favore, potresti cercare la macchinina che aveva Tyko, magari si calma un po’ se la troviamo.»
«Certo João, lascia fare a me.»
«Aspetta Leurak, perché zoppichi?»
«Perché oggi ho massacrato Dioskoros. Ti sei perso il mio epico combattimento. Poi ti racconto tutto. Avresti dovuto vedere quei due. Si sono difesi meglio di me.»
Leurak si alzò dal tavolo e cominciò a guardarsi intorno. Doveva ritrovare quel giocattolo a tutti i costi.
S’inginocchiò sul pavimento continuando la ricerca quando una voce femminile, a lui ben nota, lo punzecchiò:
«Cerchi la tua autostima?»
«Eh?»
«Buongiorno, ben svegliato.»
«Tu non stai bene.»
«Perché, tu si?»
«Molto. Ho appena salvato il tuo fidanzatino da Dioskoros. Avresti dovuto vedere la lotta. Calci, pugni, sberle, testate, sputi, elefanti, insulti, giocattoli … »
«Giocattoli?» Akylina ripeté poco convinta.
«Sì, c’è stata una lotta non indifferente da queste parti. Io mi son sentito in dovere di proteggere l’amore della tua vita per rispetto nei tuoi confronti e …»
«Leurak, che è successo?»
Raccontò all’amica tutta la vicenda, non omise nessun dettaglio. Le raccontò di Galgo, che era tornato con un bambino, dello scontro e della sua vittoria. Ma soprattutto le disse della posizione di guardia assunta da Shura.
«Ti giuro Akylina, non ho mai visto una guardia così … perfetta. Era composto, calmo, freddo … sembrava che avesse calcolato anche i suoi respiri. Ho visto un guerriero, un guerriero vero, non un bambino. Credo che tu ci abbia visto giusto questo pomeriggio. Diventerà sicuramente un cavaliere.»
«Già … ma dov’è ora?»
«Ma ci vedi razza di rincoglionita? Lo vedi? Dietro João, accanto al bambolotto. Anche il bambolotto poi ha spirito combattivo da vendere. Avresti dovuto vedere con quale tecnica ha scagliato la macchinina. Avrebbe fatto di tutto per salvare il tuo fidanzato.»

Akylina non lo ascoltava più, si era diretta verso il tavolo al quale erano seduti João e i bambini.
Si lanciò ad abbracciare il bambino spagnolo che  non ricambiò il suo abbraccio come nel pomeriggio. Doveva consolare Tyko. Gli interessava solo quello.
«João – disse Akylina con tono preoccupato – stanno bene?»
«Sì, il piccolo Tyko è un po’ scosso, - rivolse una tenera carezza al bambino -  ma adesso passa»
«Tyko, è così che si chiama?»
«Sì.»
«Tyko?» – Akylina si rivolse direttamente al bambino e gli sollevò il viso con una mano. Il bambino si fece tirare su il viso e tirò su col naso. S’era spaventato da morire.
«Shhh, non piangere.» sussurrò Akylina e lo abbracciò forte.
Tyko apprezzò il gesto e lo ricambiò aggrappandosi al collo della donna. Dopo qualche minuto di coccole, la donna cercò di allontanare il bambino con dolcezza, era il caso che mangiasse e con lui Shura.
Il biondino non aveva alcuna intenzione di staccarsi e lei fu costretta a fargli un po’ di solletico, al quale il bambino si ritrasse ridendo. Nel vederlo sorridere Shura si consolò e rise anche lui. Akylina prese una sedia e si accomodò tra i due bambini, che in contemporanea le si gettarono addosso.

«Ma possibile che ogni volta che ti vedo sei abbracciata a qualcuno?» Leurak poggiò la macchinina miracolosamente illesa sul tavolo accanto a Tyko.
«Geloso, Leurak?»
«Abbastanza, va bene competere con Zorro qui, ma anche con Siegfried. Almeno un eroe alla volta se non ti dispiace. »
«Leurak, io e te siamo troppo brutti per competere con questi teneri virgulti» anche João si era calmato nel rivedere il sorriso sui volti dei suoi discepoli e cominciò a scherzare.

Akylina portò la cena per lei e Leurak che si lamentava come un bambino per i dolori.
«Ehi ragazzi, ma dobbiamo aspettare Galgo con il bambino?»
«Perché – disse João – è tornato? Strano, non ne ho avvertito il cosmo.»
«Sì, ha cercato di interrompere il combattimento tra me e il coglione, ma l’ho praticamente supplicato di farmelo picchiare. Poi si è allontanato poco prima che arrivassi tu, appena finito lo scontro.»
«Lo aspetterei, ma credo ai bambini sia tornato l’appetito. Bastava qualche coccola.»
«Voi uomini  - disse la donna – non vi preoccupate mai dei risvolti psicologico-sentimentali delle cose. Siete sempre troppo occuparti a misurarvi tra di voi.»
«Hai ragione, hai ragione.» sospirò il gigante.
«Parla per te tesoro – intervenne Leurak con la voce in falsetto – io sono donna quanto te. Solo che sono rinchiusa nell’orribile corpo di un uomo.»
Scoppiarono tutti in una fragorosa risata mentre Leurak continuava la sceneggiata cercando di far fuoriuscire l’uomo che si nascondeva dentro Akylina.
«Leurak datti un contegno, suvvia!» Galgo gli mise una mano sulla spalla e affidò il vassoio con le vivande ad Angelo.
«Ammmore mio! – urlò Leurak e saltò al collo di Galgo – Baciami ora!»
Galgo fu costretto ad un precario casquet dall’irruenza dell’amico, che mise una mano tra le loro bocche e vi stampò un caldo bacio. Subito dopo si ritrasse e fingendosi imbarazzato continuò nella scenetta.
«Galgo! Non così davanti a tutti! Cosa penserà la gente di me?»
«Che sei totalmente scemo. Ma ora basta con le pagliacciate. Ragazzi, vi presento Angelo.»
Angelo che aveva osservato tutta la scena interdetto chiedendosi in che razza di luogo fosse capitato. Non credeva neanche che potesse esistere un posto dove prima si picchiavano a sangue e poi giocavano così. Quando si rese conto che l’amico lo stava presentando, si ricordò il saluto che gli aveva insegnato Galgo poco tempo prima.
«Yàsu» disse tranquillamente. Il suo saluto venne ricambiato in coro dai presenti, eccetto che da Tyko. Lui non aveva ancora imparato a salutare in greco.
«Allora Angelo, quest’idiota è Leurak, la montagna di muscoli e lardo è João, la gentil signorina è Akylina e loro sono … ?»
«Il biondo Tyko e il moro Shura.» disse João, comprendendo cosa servisse all’amico.
«Grazie, allora, il bambino biondo è Tyko e quello moro Shura.»

«Shura,ese chico se llama Angelo. ¿Puede decir su nombre a Tyko tambien?»
«Seguro.» Shura si alzò dalla sedia, sotto gli occhi di Tyko, e si mise accanto ad Angelo. Lo toccò e disse il suo nome, in modo che l’altro potesse capire.
Tyko annuì, fece un cenno con la mano e indicandolo disse «Angelo». L'italiano in tutta risposta fece un cenno con la testa e si voltò perplesso a guardare Galgo, che a sua volta chiedeva spiegazioni con lo sguardo a João.
«Comunicano così.» fu la risposta.
«Bene. Dai Angelo, prendiamo posto e mangiamo!»
«Si, ho fame.»
Angelo e Galgo presero posto allo stesso tavolo. Galgo fece in modo che Angelo si sedesse accanto a Shura, mentre lui si sedette accanto a Leurak.

Cominciarono a mangiare tutti insieme. Gli adulti, tra un boccone e l’altro si raccontavano la giornata e commentavano il comportamento di Dioskoros. I bambini, in silenzio, mangiavano e si lanciavano qualche occhiata. Erano affamati. Angelo e Tyko non avevano più toccato cibo dal pranzo, mentre Shura aveva messo sotto i denti solamente un po’ di pane e delle pesche, dopo due giorni di digiuno.
I cuochi avevano preparato un po’ di tutto, ma quella sera prevalevano i piatti di origine greca: moussaka, gyros, spanakopita e kalamaki. Al Santuario si mangiava tanta carne, fondamentale per i guerrieri che dovevano mantenere una muscolatura forte.
Tyko sembrò apprezzare particolarmente il gyros. Non poteva comunicare il suo apprezzamento per quel piatto all’amico con le parole. Con la forchetta prese una piccola quantità di cibo e aspettò che lo spagnolo avesse la bocca vuota. Lo chiamò dandogli un colpetto sulla mano. Quando Shura si voltò, si ritrovò la forchetta del biondo in bocca. Arrossì per quel gesto. Masticò il cibo lentamente evitando di distogliere lo sguardo da Tyko che lo fissava in trepida attesa di un commento. Quando Shura si accinse a deglutire il bimbo svedese si portò l’indice destro alla guancia e cominciò a ruotarlo avanti e indietro. Shura annuì. Era buono.
Gli adulti smisero di parlare per osservare meglio i bambini.
«Certo che il biondino è proprio carino – disse Galgo – sembra finto. Ed è anche dolce. »
« Sì, è puccioso e coccoloso. – si abbracciò da solo Leurak mentre parlava con gli occhi semichiusi – Sai che sono i fidanzati di Akylina? Però il primo nel suo cuore è lo spagnolo, che ha dimostrato chiaramente di apprezzare le attenzioni femminili. Poi anche lui – indicò Tyko – ha ceduto ai corteggiamenti di Akylina. Non voleva smettere di abbracciarla.»
« Leurak, sei un’idiota. Per quanto tempo andrai avanti con questa storia?» Akylina cominciava ad essere un po’ infastidita dai commenti dell’amico.
« Dai piccina, lo sai che ti voglio benissimissimo. E poi che male c’è? Devi ancora farti cadere ai piedi il terzo. Così potrai dire di essere fidanzata con Zorro, Siegfried e Giulio Cesare. Mica è da tutti.»
«Akylina – s’intromise Galgo – fagliela qualche coccola ogni tanto. Non vedi che ti sta pregando in ginocchio di concedere qualche attenzione anche a lui? »
Leurak divenne rosso in volto e gli amici scoppiarono a ridere. Nel frattempo Shura ricambiò le attenzioni di Tyko con un boccone di moussaka. Leurak nonostante l’imbarazzo continuò a prendere in giro l’amica:
«Credo che ti stiano già mettendo le corna. Sono chiaramente innamorati. Desisti dalla tua impresa donna!»
Ricevette in tutta risposta due scappellotti, uno da Akylina e uno da Galgo. João si dispiacque di essere seduto troppo lontano.
«Scherzavo! Scherzavo! Non picchiatemi, sono fragile e bellino! E sono malconcio, un incontro al giorno basta e avanza per tutta la vita!»
Nel vedere gli adulti giocare tra loro, Tyko e Shura si misero a ridere di gusto e cominciarono a parlare tra di loro, imitando il comportamento tenuto poco prima dai grandi. Solo Angelo restava tranquillo osservando, con una certa diffidenza, il comportamento delle persone sedute vicino a lui.

Tyko e Shura, dopo aver chiacchierato abbondantemente e senza aver capito una sola parola pronunciata dall'altro, si ritrovarono a guardare Angelo che mangiava lentamente. Tyko cercò lo sguardo di Shura e quando lo trovò rimase inchiodato in quelle iridi nere. Si fissarono qualche istante e poi annuirono insieme. Entrambi prepararono un boccone del cibo che si erano scambiati.
Tyko si mise in piedi sulla sedia e si sporse in avanti in modo che la forchetta arrivasse fino al naso del bambino italiano. Shura fece meno scena allungando un braccio.
Angelo rimase bloccato come un sasso. Non si aspettava quel gesto. Si erano appena conosciuti. Fu totalmente spiazzato da quel comportamento. Si voltò a cercare lo sguardo di Galgo che aveva seguito tutta la scena. Quando si rese conto che Angelo non sapeva come comportarsi gli parlò.
« Io accetterei. E’ un gesto carino.»
« … » fu la risposta di Angelo, rimasto per la prima volta senza parole.

Accettò i due bocconi e ringraziò.
«Grazie»
«De nada » fu la risposta di Shura e un sorriso la risposta di Tyko.
«Fermi tutti. Si sono capiti. - esplose Leurak  -  Non c’è dubbio.»
«Grazie a cavolo Leurak. L’italiano e lo spagnolo hanno origine comune. E’ normale che un italiano capisca qualche parola di spagnolo e viceversa » gli spiegò Galgo.

Il gruppo finì di mangiare. João e Galgo uscirono dalla mensa con i bambini mentre Akylina e Leurak si offrirono di sbaraccare il tavolo per tutti. Molti soldati e cavalieri vestivano abiti civili, pronti a trascorrere la serata in città. Il Santuario si svuotava rapidamente.
«Galgo – parlò João – non ho sentito il tuo cosmo quando sei rientrato, come mai?»
«L’ho tenuto azzerato. Non so perché.»
«Com’è stato il viaggio?»
«Bello. Ho fatto amicizia col bambino. Non ho il cuore di portarlo nel dormitorio. Non parla greco, ho paura che si senta isolato, sapessi quante ne ha già passate. Chiederò al Gran Sacerdote che mi venga affidato.»
« Il Gran Sacerdote l’ha già affidato a me, perché non ci prendiamo cura insieme di tutti e tre?»
«Perfetto. Sarà divertente. Sembra che stiano legando in qualche modo.»
«Sembra. Ah, prima che me ne dimentichi. Abbiamo degli ospiti per questa notte.»
«Chi? E me lo dici così? E poi dove vuoi metterli questi ospiti? Stiamo stretti in due.»
«Gli ospiti li hai tutti e tre davanti. Non sono carini? Poi son piccini, dormiranno nel mio letto e io dormirò per terra accanto al tuo.»
«Davvero? Dormiranno con noi? Poveri bambini. »
«Perché poveri?»
«João … russi come un trattore ingolfato.»
«Non è vero!»
«Sì che è vero. Ma stai tranquillo, dormiranno un sonno pesante. Devono essere distrutti. Guarda lo spagnolo … sta crollando. »
«Povero bambino. E’ appena arrivato e ha già combattuto. Perché non gli facciamo fare una passeggiata? Appena digeriscono bagno e nanna. Che ne dici? »
«Dico che dici bene.»
«Ottimo »

Spiegarono ai piccoli come meglio poterono le loro intenzioni e i bambini furono contenti di stare ancora un po’ insieme. Non gli avevano detto che avrebbero dormito tutti e tre assieme. Mentre gli adulti passeggiavano misurando i passi con estrema lentezza i tre bambini davano sfogo alle loro ultime energie. Saltavano,  correvano e  inseguivano le lucciole tentando di acchiapparle. Solo Angelo riusciva a prenderle. Decise di ringraziare del cibo gli altri due, dando loro una lucciola ciascuno.

Prese due insetti e avvicinandosi a Tyko e Shura, fece intender loro di mettere le mani a coppa. Rovesciò in ogni coppa uno di quei particolari coleotteri. Erano già una squadra.
Sembrava che i due avessero ricevuto oro. Rimasero a bocca aperta. Quanto erano belli quegli insetti luminosi! Shura le conosceva già, il padre ne prendeva sempre qualcuna per lui in un barattolo, in modo che lui le potesse guardare per addormentarsi. Tyko invece non ne aveva mai viste. Gli facevano un po’ schifo, aveva paura degli insetti … piccole creature tutte deformi con sei zampe. Ma quella che Angelo gli mise in mano non lo fece rabbrividire, anzi, lo incuriosì.

« Varför denna sak lysa?»
« No entiendo lo que dices.
Te gustan las luciérnagas?»
«
Jag gillar. Angelo, gillar du? Jag vill veta varför lyser. Vet du det?»
« Sono le anime dei morti. Non uccidetele o le anime non vi lasceranno più in pace.»
«Tu idioma se asemeja a mis.»

I bambini parlavano.

«Ehi João – disse Galgo – non immagini neanche lontanamente quanto mi facciamo paura questi bambini. Sembra che si capiscano. Si parlano, si rispondono, commentano in tre lingue diverse. Mi sembra di essere finito in una commedia di Ionesco.»
«A chi lo dici. Sono un po’ inquietanti. Che ore sono?»
«Le undici. Direi che possiamo andare a gettarli in acqua e poi a infilarli a letto. Sono stanchino.»
«Anche io, non vedo l’ora di dormire e credo che i bambini la pensino come noi. Guarda lo spagnolo, non si sa quale forza gli faccia tenere gli occhi aperti. Sta crollando dal sonno.»

 I bambini continuavano imperterriti nel loro discorso senza senso. Galgo e João attirarono la loro attenzione con un fischio e fecero segno di avvicinarsi.  Tyko aprì le mani e fece volar via la sua lucciola, Shura e Angelo fecero lo stesso, poi tutti e tre, fianco fianco si diressero verso gli adulti.
«Ehi Galgo
– disse Angelo – avevi ragione. Sono simpatici. Mi dispiace non capire cosa dicono anche se alcune cose che dice Shura mi sembra di capirle.»
Galgo allungò una mano a scompigliargli i capelli, poi si chinò e lo caricò sulle spalle.

«Io ho sempre ragione ragazzino! Devi imparare ad avere fiducia in me, sono il tuo maestro.»
Angelo  si mise a ridere, si trovava a quasi due metri da terra e vedeva il suolo spostarsi. Era bella quella prospettiva ed era bello quel contatto.
«Hai visto quanto sono forte? – disse Galgo al discepolo – ti sollevo come se fossi una piuma!»
«Per forza – rispose il discepolo – sono piccolo.»
«Non diciamo fesserie. Sei piccolo ma sei pesantissimo – strizzò gli occhi in una smorfia di fatica e cominciò a camminare come se trasportasse duecento chili sulle spalle – guarda che fatica che faccio.»
Angelo era divertito dalla stupidità dell’adulto.

« Vediamo se João vi tiene tutti e tre?»
«Sì! Sì! Dai.»

 Galgo si fermò e scaricò Angelo nelle braccia dell’amico portoghese come se fosse un sacco di patate. Poi sollevò il piccolo svedese e lo mise sulla spalla dell’omone. Infine fece la stessa cosa con Shura.
João fece finta di faticare, provocando le risate dei bambini, che si fidarono del gigante, nonostante la vertiginosa altezza.
«Peccato che siamo già arrivati. – disse l’irlandese – Si stavano divertendo, ma vedrai come li lancio dentro l’acqua ora. Muhauhaua.»
«Facciamo anche noi il bagno con loro? Magari possiamo iniziare ad insegnargli qualche parola di greco.»
«Meglio iniziare domani. Sono stanchi, non si ricorderebbero nulla. Credo…»
«Forse hai ragione. Dai, entriamo.»

Entrarono in un tempio dalle dimensioni straordinarie. Non si respirava bene dentro, il vapore caldo dell’acqua rendeva l’atmosfera asfissiante. Tyko ebbe quasi un mancamento, ma venne sorretto con solerzia da Galgo, che lo prese tra le braccia e lo strinse a se, facendogli intendere di stare tranquillo. Shura e Angelo si guardavano attorno incuriositi da quel luogo. Era pieno di vasconi enormi, colmi d’acqua fumante.
«Pronto per il bagno, Angelo?» disse Galgo al discepolo ancora appollaiato sulla spalla del gigante.
«Bagno? Certo!»

Entrarono in una stanza con delle panche e armadietti di legno, nascosta da alcune colonne larghissime.
«Forza bimbi! Tutti nudi ora.»
Misero i bambini seduti e cominciarono a spogliarsi. Non era un problema farsi capire da Angelo e Shura. Tyko imitò i due bambini e gli adulti, guadagnandosi una carezza.

Una volta nudi si diressero verso una delle vasche più piccole. Raramente venivano utilizzate dai grandi, per cui non avrebbero trovato nessuno. Pensarono male. Una delle vasche era occupata.
«Leurak, ma possibile che sei sempre in mezzo ai piedi?»
«Ciao Galgo – biascicò – sto per morire. Lasciatemi qui.»
«E smettila. Cosa mai sarà.»
«Guarda qua!» Leurak si alzò in piedi mostrando in tutto il suo splendore un corpo scolpito. I fasci muscolari erano di dimensioni ridotte ma compatti. Il fisico era asciutto e nervoso. Indicò un grosso livido sugli addominali.
«Non immagini che male faccia.»
«Povero piccolo – lo prese in giro Galgo – ti sei fatto la bua!»
«Anche se mi prendi in giro fa male. Ho pensato che un bel bagno  mi avrebbe fatto bene e mi avrebbe aiutato a rilassare i muscoli, ma ora che ci siete voi mi tocca litigare. – si avvicinò al gruppo che ancora non era entrato in acqua e tese le braccia – Su, forza!»

Galgo gli passò uno ad uno i bambini che vennero immersi fino al collo e poi entrò a sua volta assieme a João.

Si sedettero lasciandosi cullare dal dolce massaggio dell’acqua calda. Che bella sensazione. Mentre João e Galgo si rilassavano, Leurak giocava con i bambini, schizzandoli e ricevendo a sua volta schiaffi d’acqua calda. Dopo qualche minuto di giochi, Leurak prese un flacone di sapone e ne mise un po’ in ogni mano ai piccoli e agli adulti, in modo che i bambini capissero che avrebbero dovuto fare tutti come lui.

Si insaponò la testa e il corpo e i bambini fecero lo stesso, sotto lo sguardo divertito degli altri due. Una volta insaponato aiutò i bambini lavando loro la schiena, poi si fermò e aspettò di avere la loro attenzione.
«Ena, dhio kai tria!» disse, contando sulle dita. Poi si tappò il naso e si  immerse totalmente in acqua per sciacquarsi.
I bambini divertiti lo imitarono, contando anche loro, ognuno nella propria lingua.

«Uno, due e tre!»
«Un, dos y tres!»
«En, två och tre!»

Una volta che si furono tolti il sapone i bambini continuarono a ridere e schizzarsi.
«Beh, voi che aspettate? Dai!» disse Leurak.
«Dai cosa?» rispose João guardando Galgo, intento ad insaponarsi i capelli.
«Contate e fate quello che abbiamo fatto noi. Nelle vostre lingue.»
«Tu mica hai contato in mongolo. – sbottò Galgo cercando di disincastrare le dita dalla folta chioma  – Perché dovrei contare in inglese?»
«Fallo e non rompere Galgo, dai.»
«Va bene, va bene.»

«Um, dois e três!»
«One, two and three!»

Aveva ragione Leurak. Dovevano farlo. I bambini si divertivano da matti.

Gli adulti uscirono dalla vasca e tirarono fuori i bambini che accettarono l’interruzione del gioco di buon grado, immaginando che presto avrebbero dormito un po'. Erano distrutti.

João aiutò Tyko ad asciugarsi, Galgo fece la stessa cosa con Angelo e Leurak con Shura. 
Si diressero verso l’abitazione che avrebbe ospitato anche i bambini per qualche tempo. Leurak li salutò all’entrata, dirigendosi verso la casa adiacente, che occupava assieme ad Akylina.
I bambini entrarono tranquilli in quella casetta: piccola, accogliente e un po’spartana. 
Vi era un piccolo soggiorno con angolo cottura, una camera da letto e un bagnetto.

Galgo e João infilarono tutti e tre i bambini nel letto del portoghese, che era un po’ più grande di quello di Galgo. Nessuno fece storie. Chiusero gli occhi immediatamente e si addormentarono con la voce del piccolo svedese che si cantava una ninna nanna. Un rituale che aveva imparato a seguire da quando era rimasto solo. L’ora di dormire era sempre la più triste. Gli altri due bambini si lasciarono trasportare nel sonno cullati dalle dolci, incomprensibili parole.

Sov gått, vackra delfin.
Sov gått, jag vita varg...

*¡Dejame!= Lasciami!
*Lämna honom!!= Lascialo andare!
*João!!! Kom!!= Joã!!! Vieni!!
*Dejalo en paz, asqueroso. Soy yo tu rival.= Lascialo in pace, schifoso. Sono io il tuo rivale.
*Lo siento Shura. Perdóname. = Mi dispiace Shura, Perdonami.
*No te preocupes, pero Tyko no deja de llorar y ya no tiene su cochecillo= Non preoccuparti, ma Tyko non smette di piangere e non ha più  la macchinina.
*Tranquilo chico= Tranquillo piccolo.
*Shura,ese chico se llama Angelo. ¿Puede decir su nombre a Tyko tambien?= Shura, questo bambini si chiama Angelo. Puoi dire il suo nome anche a Tyko?
* Varför denna sak lysa?= Perchè brilla?
* No entiendo lo que dices. Te gustan las luciérnagas?= Non ti capisco. Ti piacciono le lucciole?
*Jag gillar. Angelo, gillar du? Jag vill veta varför lyser, vet du det?= Mi piace. Angelo, ti piacciono? Voglio sapere perchè brilla,tu lo sai?
*Tu idioma se asemeja a mis.= La tua lingua si assomiglia alla mia.
*Sov gått, vackra delfin. / Sov gått, jag vita varg... = Dormi bene bellissimo delfino. / Dormi bene bianco lupo...

Con questo capitolo si conclude l'arrivo al Santuario di Tyko, Shura e Angelo ^_^
Grazie a tutti coloro che seguono la storia, in particolar modo a Saruwatari_Asuka che ha aggiunto la fic tra le seguite, a Recchan che l'ha aggiunta tra le preferite e a:
Saruwatari_Asuka. Mi son fatta perdonare per aver interrotto il capitolo precedente in modo brusco? Spero di sì ^_^ e spero anche che questo capitolo ti abbia fatto sorridere come il precedente e che ti abbia fatto tifare per i piccoli guerrieri ^_^ Che ne pensi? Un bacio.
RedStar12. Carissima, grazie per l'aiuto datomi con il francese, tra non molto potrai leggere di Milo e Camus e sarai ripagata totalmente! Bacioni!
whitesary. Ecco il primo incontro tra i tre e non solo! Che ne pensi? Sono felicissima che la storia ti piaccia, davvero, ero sicura che sarebbe passata inosservata invece mi ricredo piacevolmente ^_^  Besitos



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Capitolo 8
*** Amici? ***


capitolo 08 Angelo aprì gli occhi alle prime luci dell’alba. Non aveva mai dormito così tanto. I due bambini che occupavano il letto assieme a lui ronfavano ancora beati. C’erano solo loro nella stanza. Gli adulti si erano alzati.
Scese dal letto facendosi scivolare verso il basso, cercando di non svegliare i compagni di sogni. Uscì dalla stanza entrando nella stanza principale della casa. Trovò Galgo intento a preparare un po’ di caffè e João, con gli occhi ancora carichi di sonno e seduto attorno al tavolo,  fissava un punto non ben definito del muro.

«Buongiorno» azzardò Angelo
«Kalimera!» trillò contento Galgo. João biascicò lo stesso saluto, poco convinto e ancora immerso in una sorta di dormiveglia.
«Devo andare in bagno» disse tranquillamente il bambino.
«Ma certo. – canticchiò l’irlandese  avvicinandosi alla porta del bagno – Ecco qua! Non chiuderti a chiave, non funziona la serratura. »
«Non mi interessa la chiave. Posso stare anche con la porta aperta. Non mi vergogno.»
«Bravissimo! Siamo tutti uomini grandi e forti qui! Non ci si vergogna di niente!»
Angelo aveva già fatto suo un piccolo rituale. Appena sveglio svuotava la vescica,  sciacquava le mani e il viso subito dopo. Quando uscì dal bagno trovò una tazza di latte fresco ad attenderlo sul tavolo.
«Vieni a mangiare. Questa è la prima colazione della giornata!»
«Perché, quante colazioni fate qui?»
«Minimo due – rispose il suo maestro – massimo tre. No, a volte anche quattro. Vedi, generalmente facciamo la prima colazione a casa. Poi andiamo ad allenarci e finito l’allenamento andiamo alla mensa e facciamo una seconda colazione. Poi se si continua con l’allenamento si mangia qualcos’altro anche a metà mattinata. Se si ha molto appetito capita di mangiare qualcos’altro prima di pranzo.»
«Ah, bello così.»
«Non mi sembri convinto.»
«E’ strano. Devo abituarmi a mangiare duemila volte al giorno.»
«Tranquillo, con tutto il moto che farai sarà necessario per non crollare.»
«Che facciamo oggi?»
«Beh, pensavamo di cominciare ad insegnarvi un po’ di greco. Io e João ci rivolgeremo a voi solo in greco e piano piano comincerete a capirci.»
«Va bene.»
«Mangia ora, io vado a svegliare gli altri due.»
«Ok, ma che ha João?»
«Perché?»
«Si è imbambolato.»
«Tranquillo, ci mette sempre un po’ a carburare la mattina. Tra cinque minuti sarà totalmente sveglio, fidati.»
«Mi fido, mi fido.»
Angelo cominciò a consumare la sua colazione, João continuò a fissare il muro e Galgo andò a svegliare i due pargoli.

Dormivano della grossa, quasi abbracciati e con le gambe incrociate. Erano tenerissimi. Quasi gli dispiaceva interrompere i loro sogni, ma non poteva fare diversamente. Quando Angelo si era alzato, i due avevano allargato gli arti ad occupare lo spazio lasciato libero e si erano addossati al muro.
Galgo si sedette sul bordo del letto, li sfiorò con dolcezza e li chiamò a bassa voce.
«Tyko? Shura? E’ ora di svegliarsi.»
I bambini aprirono lentamente gli occhi e cominciarono a stropicciarseli e stiracchiarsi. Si guardarono intorno, cercando di ricordare dove fossero. Furono felici di ritrovarsi. Ma qualcosa non andava. Dov’era Angelo?
«Angelo?» disse Tyko, sicuro che l’adulto avrebbe capito. Galgo in risposta gli fece il gesto che indicava ‘mangiare’. I bambini annuirono e continuarono a stiracchiarsi.
« Mis pierna … me duele. » si lamentò Shura e tirò fuori, da sotto il lenzuolo, la gamba incriminata. Un livido nero troneggiava sulla coscia, poco sopra il ginocchio. La lotta del giorno prima, contro Dioskoros, aveva lasciato i segni. Aveva sbattuto la gamba contro un tavolo quando venne lanciato dall’uomo, dopo avergli infilato il dito nell’occhio. Tyko, nel vedere il livido gli fece una carezza sulla gamba e fece quello che faceva sua mamma quando si faceva male. Era quello che facevano tutte le mamme. Quale rimedio più efficace dei baci? Tyko si avvicinò un indice alle labbra e vi depositò sopra uno schiocco di labbra. Toccò la gamba dell’amico con lo stesso dito e lo guardò sorridente. Galgo, intenerito dalla scena, sorrise e li prese entrambi in braccio, portandoli nell’altra stanza, dove Angelo guardava João che continuava a fissare il muro.

«¡Buenos días!» trillò Shura, mentre Galgo lo faceva scendere.
«God morgon!» fece eco lo svedese.
«Buongiorno.» rispose Angelo.
«Stamattina siamo tutti educati tranne João, che dorme con gli occhi aperti.» Sentenziò Galgo nella lingua di Angelo.
«Come pensi di svegliarlo?»
«State a vedere»
Shura e Tyko si guardavano con aria interrogativa. Cosa aveva  João? Stava male?
Galgo riempì un bicchiere d’acqua e si avvicinò all’amico portoghese. Glielo verso piano sulla nuca e sulla schiena. João si svegliò di colpo suscitando le risate dei bambini.
«Galgo, ma sei diventato scemo?»
«Buongiorno! Sei stato il primo ad alzarsi e l’ultimo a svegliarsi! Complimenti! »
«Che qualcuno ti fulmini.»
«Ma dai, guarda la gioia che ho creato nel farti la doccia – allargò le braccia ad indicare i bambini che si scompisciavano letteralmente dalle risate – mi adorano di già!»
«Continuo a sperare che ti cada un lampo sulla testa.»
«Certo che sei un filo scorbutico la mattina, eh?»

Il discorso venne interrotto da qualcuno che bussava.
«E’ aperto come sempre. Avanti!» incalzò Galgo con voce impostata. Era particolarmente allegro quella mattina.
«Buongiorno allegra marmaglia! - Leurak entrò trotterellando e portando con sé dei biscotti. – Questi ve li manda Akylina che è rimasta tutta la notte in piedi a tenermi sveglio. Sono per i bambini, ma vi concedo di assaggiarli e prometto di non dirle che lo avete fatto. Si è premurata di sottolineare un centinaio di volte che erano solo ed esclusivamente per i bimbi.»
«Grazie Leurak, ringrazia Akylina appena possibile, anzi, perché non vi unite a noi? Li portiamo in giro e gli insegniamo un po’di greco oggi.»
«Io ho un idea migliore – mentre parlava uscì dalla casa e rientrò tenendo qualcosa dietro la schiena – giochiamo a calcio!»
«Ottima idea» trillarono Galgo e João.

Quando tutti ebbero fatto colazione, il gruppo si preparò ad uscire. Si diressero verso un campo incolto che circondava alcune delle arene.
«Possiamo metterci qui – disse Leurak – è riparato»
«Sì, non è male. Dammi la palla.»
Leurak tirò il pallone a Galgo. Appena ricevuto si mise in cerchio con i bambini. Lanciò la palla ad Angelo. Angelo colpì la palla indirizzandola a Shura, che a sua volta la indirizzò a Tyko. Tyko bloccò la palla, andò da Leurak e João che li guardavano e si fece seguire. Giocarono tutti insieme. Passarono qualche ora a tirare e rincorrere la sfera, senza sapere esattamente a cosa giocare. Quando il sole fu abbastanza alto, i bambini accaldati e sudati, cercarono riparo sotto un grosso albero che si stagliava nelle vicinanze, seguiti dagli adulti. Si buttarono tutti per terra ad ansimare per il caldo e la fatica dei giochi.
Galgo, d’improvviso, si tirò su e cominciò a farsi girare la palla sulla punta del dito, a far passare la palla roteante sulle braccia, da un dito all’altro e altri giochetti degni di un circense.
«Insegnamelo! Per favore! Voglio imparare anche io!» Angelo si avvicinò a quattro zampe al maestro, che gli fece mettere l’indice dritto e gli passò la palla che girava veloce su se stessa. Con un’abilità inaspettata la palla continuò a roteare sotto il tocco di Angelo, che cercava di imitare al meglio quello che aveva visto.
«Ah però, perché mi chiedi di insegnartelo se lo sai già fare?»
«Non sapevo di saperlo fare. »
«Ah.»
Il gioco continuò per un po’, finché Angelo non decise di averne abbastanza. Intanto Tyko si era distratto raccogliendo dei fiorellini che sbocciavano attorno all’albero. Erano bianchissimi e profumati, non ne aveva mai visto così. Ne fece un mazzetto che diede ad Akylina, che si era appena aggiunta al gruppo.
«Ma che galanteria! – disse lei schioccandogli un sonoro bacio sulla fronte, anche se attraverso la maschera – Grazie piccolo.»
«Anche io, anche io!» Leurak le porse un fiorellino sperando di ricevere anche lui una parola carina e magari anche un bacio, ma ottenne solo una dolorosa gomitata.
«Ma quanto sei dolce. Nessuna mi ha mai picchiato tanto.»
«Te le cerchi Leurak.»
«Gnè gnè Leurak» le fece il verso, ottenendo solo un’occhiataccia che non poté vedere ma che sentì comunque.
«Ma come fate a vivere assieme? Battibeccate in continuazione. Siete così anche quando siete soli?» chiese João incuriosito.
«Oh no – gli rispose Leurak, e dopo un breve silenzio aggiunse – siamo molto peggio.»
«Mi fa piacere!»  scoppiò in una fragorosa risata il portoghese.

Appena riuscirono a tornare seri, cominciarono ad insegnare qualche parola di greco ai bambini.

La giornata trascorse tranquilla e spensierata. Ricca di nuove parole di una nuova lingua. Quando venivano lasciati da soli i bambini si insegnavano a vicenda la propria lingua, partendo dalle nuove parole greche imparate.

-

Era trascorso un mese ormai. Il caldo sole di agosto accennava ad andarsene, lasciando spazio al fresco sole settembrino.
Galgo e  João si erano adoperati in modo che imparassero il greco il più velocemente possibile. Non fu difficile, i piccoli si dimostrarono svegli e rapidi nell'apprendimento. Aspettavano il momento in cui sarebbero stati in grado di parlare greco con scioltezza.

Quel momento era arrivato, benché a volte incespicavano tirando fuori parole in altre lingue o inventandole.
Da quella notte sarebbero andati a dormire con gli altri bambini nei dormitori. Erano nervosi. In poco tempo avevano vissuto tantissimi cambiamenti, forse non erano pronti all’ennesimo. Stavano bene insieme e avevano stretto una forte amicizia. Erano tutti e tre figli unici e solo ora sperimentavano cosa volesse dire avere un fratello. Solo Shura si era avvicinato ad averne uno vero. Quando la mamma morì, era incinta. Purtroppo la triste sorte della donna fu condivisa dalla creatura che portava in grembo.

Da quando erano arrivati al Santuario, João, Galgo, Leurak e Akylina erano riusciti a creare ai bambini un guardaroba non indifferente. Sapevano che si sarebbero sporcati con una velocità impressionante.
Mentre Galgo e João osservavano i loro discepoli raccogliere i loro vestiti e preparare le borse si scambiarono una fugace occhiata e decisero forse che era il caso di parlar loro.

«Come state bambini?» cominciò João.
«Bene, perché dovremmo stare male?» rispose Angelo alzando un sopracciglio.
«Beh, siete qui da poco più di un mese e siete stati con noi per tutto il tempo. Ora andrete a dormire con gli altri bambini. Magari qualcosa vi turba.»
«No – disse Shura – tanto ci vedremo comunque tutti i giorni, no?»
«Giusto – disse Tyko - siete i nostri maestri. Dovete insegnarci un sacco di cose»
«Ehi João, io e te siamo quasi in lacrime e loro se ne fregano.»
La risposta del portoghese fu un sorriso amaro. Si era abituato a dormire sul pavimento e avere quei bambini sempre attorno lo rendeva felice. Si chiedeva se Atena gli avrebbe permesso, un giorno, di averne di suoi. I cavalieri che erano riusciti ad avere una discendenza, alla fine, non erano riusciti a vederla andare avanti. La vita di cavaliere era estremamente dura e pericolosa. La morte era sempre dietro l’angolo. Non volle pensare che, forse, quei tre bambini sarebbero morti durante la fase successiva dell’addestramento. Anche se probabile.
Si riscosse dai suoi pensieri quando Tyko lo chiamò.
«João, guarda! La macchinina che mi hai regalato!»
Il biondo svedese si avvicinò all’uomo porgendogli la macchinina, che la prese tra le enormi mani e sorrise soppesando il giocattolo.
«Te la presto – disse infine il bambino – me la ridarai quando sarò cavaliere!»
«No dai, tienila tu. Me la darai quando partirai per la seconda parte dell’addestramento e poi verrai a riprenderla»
Quante finte promesse. Non avevano modo di sapere se Tyko sarebbe tornato e tantomeno se João sarebbe stato ancora vivo. Non voleva parlare dei suoi dubbi al bambino, era già fin troppo adulto ed era meglio lasciargli qualche certezza, almeno per un altro po’ di tempo.
«Poi – continuò il portoghese – questa macchinina ti ha fatto fare amicizia con Shura»
Porse il giocattolo al bambino che lo prese e disse:
«Allora ci giochiamo l’ultima volta e poi la nascondiamo. Verremo a riprenderla quando saremo cavalieri.»
Shura sorrise all’idea, Angelo era totalmente disinteressato poiché estraneo ai fatti e gli adulti risero.
«Shura, - lo interpellò Tyko – ti va bene?»
«Seguro. Possiamo fare un percorso e a turno la tiriamo. Possiamo scavare una buca e infilarci la macchinina, magari sotto il pesco»
«Eh bravo il nostro Shura – disse Galgo – sempre zelante e con le idee chiare!»
Andò a scompigliargli i capelli e poi si rivolse ad Angelo.
«Tu che ne pensi?»
«Io  penso di non doverci entrare.»
«Perché?» chiese Tyko, un po’ deluso.
«Noi ci siamo conosciuti alla mensa, allora dovremmo sotterrare anche le forchette.»
Gli adulti si abbandonarono ad una risata che durò diversi minuti. In effetti l’italiano aveva ragione. Avrebbero dovuto seppellire tutte le cose che avevano contribuito a creare quel legame.
«Povere lucciole» intervenne Shura, rendendo ancora più ilare la situazione.
«Bambini avete ragione – intervenne Galgo cercando di soffocare le risate – allora facciamo una cosa, prepariamo un sacchetto e ci mettiamo dentro tutto quello che è stato importante per il nostro incontro.»
João si alzò e andò a prendere un sacchetto di plastica. Torno nella stanza da letto e lo porse a Galgo, che a sua volta lo diede a Tyko che aveva deciso che la gara con la macchinina ci sarebbe stata per cui enunciò il suo piano.
«Chi perde scava la buca. Parteciperemo tutti. Noi tre – disse indicando se stesso e gli altri due bambini – voi due – indicando João  e Galgo – e infine Leurak e Akylina.»
«E cosa ci mettiamo in quel sacchetto?» chiese Angelo curioso.
«La macchinina di sicuro ma sarà l’ultima cosa, ci serve per la gara. Poi una forchetta. La lucciola no, anche se è importante, non voglio ucciderne una.»
I bambini pensavano a cosa mettere nel sacchetto, trascurando le loro borse. Angelo ebbe l’idea di scrivere su un pezzo di carta la parola lucciola, così se ne sarebbero ricordati. Tutti assentirono e gli adulti decisero di scrivere la parola in diverse lingue, una per ognuno di loro e ognuno nella sua.
João e Galgo presero un pezzo di carta e cominciarono a scrivere in inglese e portoghese, Shura sapeva scrivere e scrisse in spagnolo, Galgo scrisse per Angelo in italiano e per Tyko in svedese, sperando di scrivere nel modo giusto. La sera avrebbero fatto scrivere ad Akylina in greco e a Leurak in mongolo.

I bambini finirono di preparare i loro bagagli e uscirono dalla casa dove avevano vissuto  con i loro maestri. Galgo e João non erano troppo sicuri del passo che si accingevano a far compiere ai bambini, ma ormai erano in grado di esprimersi e avrebbero potuto fare amicizia con gli altri.
Entrarono in un grande tempio, pieno di bambini. Gran parte di loro interruppe i  giochi e si precipitò da João e Galgo. Entrambi andavano spesso dai bambini per giocare con loro e si erano guadagnati la loro fiducia. Una marea di piccoli uomini li investì.
«Piano bambini!» trillò il gigante, cercando di bloccare lo scatto di gioia. Era felice di essere uno degli idoli dei pargoli, ma in quel momento era troppo preoccupato per Tyko, Shura ed Angelo.
Dopo aver calmato i bambini, affidarono i tre nuovi arrivati ad una nutrice, che li condusse in quelli che sarebbero stati i loro letti.
«Venite bambini.»
La nutrice era una giovanissima ragazza,con i capelli e gli occhi neri. Shura ebbe un tuffo al cuore quando la vide, per un istante ebbe la certezza di avere di nuovo sua madre davanti agli occhi. Una certezza effimera, che gli lasciò l’amaro in bocca. La donna aveva una voce dolce e rassicurante. Li condusse in una delle tante camerate, ammobiliata con letti e comodini. Il perimetro della stanza era tracciato da una serie di armadi. Ogni bambino aveva il suo spazio, seppur piccolo. Indicò ai bambini i loro armadi e i loro letti. Erano stati sistemati l’uno accanto all’altro. La donna li aiutò a mettere i vestiti negli armadi e poi li lasciò da soli per potersi ambientare. Chiamò via tutti gli altri bambini e con loro si allontanò.

«Mi mancheranno João  e Galgo» sospirò Tyko, seguito dai sospiri di Shura e Angelo che condividevano lo stesso pensiero
«Li vedremo fuori – intervenne Angelo, cercando di cambiare discorso – dopotutto sono i nostri maestri, ci alleneranno loro.»
«Già» la risposta di Shura.
«Avete visto quanti letti? Saranno tutti occupati?» Tyko si guardava intorno, incuriosito da quella moltitudine di brande.
«Spero di no – intervenne Angelo – siamo troppi»
«Io spero di sì – trillò Tyko – magari diventiamo amici di tutti.»
«Non credo – disse Angelo, con la mente che cominciava a tornare a dolorosi ricordi – non ho avuto una bella esperienza. In orfanotrofio non mi sono trovato bene e non ho mai avuto amici. Non credo che andrò bene neanche qui.»
«Ora hai noi – lo interruppe Shura con un sorriso – Noi siamo una squadra e saremo cavalieri. Torneremo qui come cavalieri d’oro»
Angelo non condivideva il buonumore e l’ottimismo dell’amico spagnolo, ma sperare non aveva mai fatto male a nessuno. Se Shura ci credeva, poteva farlo anche lui. Tyko annuì all’idea di Shura e tirò il cuscino ad Angelo.
Angelo fu colpito in piena faccia dal soffice guanciale e restituì il favore.
I tre bambini cominciarono così a giocare e a ridere. Sapevano che erano legati per sempre. Niente li avrebbe mai divisi, neanche la morte.

I giochi furono interrotti da un’altra nutrice che entrava a chiamarli. Era più vecchia dell’altra e anche più antipatica. Non li sgridò, ma li chiamò fuori.
Li condusse in un’arena, dove c’erano tantissimi altri bambini. I tre riconobbero subito alcuni dei bambini che avevano incontrato pochi minuti prima.
Diverse nutrici intrattenevano i bambini più piccoli, mentre i bambini più grandi giocavano per conto loro. I tre vennero condotti dai bambini più grandi, con i quali nacque subito una certa antipatia.
Alla fine i nuovi arrivati restarono per conto loro, finché non arrivarono Galgo e João seguiti da tre bambini saltellanti.
«Angelo! Tyko! Shura! Venite un po’ qui!» trillò l’irlandese facendo ampi cenni con le braccia.
I tre ubbidirono al richiamo e si precipitarono dai loro maestri.
«Vogliamo presentarvi tre dei bambini più simpatici che abbiamo – continuò Galgo – queste due canaglie sono Saga e Kanon, imparerete a non confonderli col tempo e quest’angioletto è Aiolos.  Loro hanno già cominciato gli allenamenti, per cui li vedrete meno spesso degli altri.»
I sei bambini si studiavano e si guardavano sospettosi.
«Noi quando inizieremo  – chiese Angelo – con l’addestramento?»
«Tra qualche giorno mio adorato discepolo! Ora vi lasciamo soli, perché non fate amicizia nel frattempo? Tra meno di un’ora sarà pronta la cena, per cui avete un po’ di tempo.»
Galgo e João s’incamminarono lungo il sentiero dal quale erano arrivati.
Nessuno dei bambini mosse un muscolo, restarono impietriti. Ognuno sul posto. Restarono così qualche minuto. Alla fine una delle tre nuove conoscenze, si avvicinò a Shura e gli tese la mano, sfoderando un grosso sorriso.
«Mi chiamo Aiolos, spero che ti troverai bene qui. Non è male.»
«Shura. Grazie per il benvenuto» la risposta dello spagnolo.
Saga e Kanon seguirono l’esempio dell’amico e si presentarono a loro volta, prima a Shura, poi ad Angelo e poi a Tyko.
Ancora silenzio. Sembrava che davvero non sapessero che dirsi. Fu Tyko a rompere il silenzio.
«Da dove venite?»
«Siamo greci, tutti e tre – rispose Aiolos per tutti. – Voi?»
«Io vengo dalla Svezia, lui dall’Italia e lui dalla Spagna.»
Alla risposta di Tyko cominciarono i commenti degli altri tre bambini, che, pur non sapendo esattamente dove si trovassero quei paesi stranieri cominciarono a far loro domande e a fantasticare, immaginando lontani e perduti luoghi esotici. Angelo si ritrovò a parlare con Kanon, che gli raccontava a grandi linee le gioie e le fatiche dell’addestramento, Saga discorreva con Tyko del sole e ascoltava con interesse la notizia che in Svezia il sole era molto meno violento e che le giornate erano corte, Shura ascoltava Aiolos che tentava di strappargli qualche parola.
Alla fine, con le coppie che si erano formate si diressero verso la mensa, guidati da Aiolos e Shura, che continuava nel suo ostinato silenzio.
Mangiarono seduti allo stesso tavolo, ma c’era un nuovo bambino. Più piccolo.
«Questo è mio fratello – trillò Aiolos – si chiama Aiolia.»
Aiolia subito si diresse da Angelo, attirato dai capelli bianchi. Gli si allungò contro, chiedendogli con gli occhi di essere preso in braccio. Angelo accontentò il bambino, perplesso, non capiva cosa volesse.
Appena  Aiolia venne sollevato si gettò immediatamente ad impastare quei capelli così strani ed inusuali per un bambino. Angelo sorrise, contento di non aver causato il clamore che avrebbe portato all’ennesimo allontanamento. Il piccolo continuava a drizzare piccole ciocche di capelli, arrotolandole e poi scompigliandole, lasciandosi andare ad una risata di tanto in tanto.
Aiolos decise di interrompere il gioco del fratello e di permettere a tutti di mangiare, prendendolo con delicatezza dalle braccia dell’italiano e lo mise seduto.
Non gradì. Cominciò a frignare, incerto se lasciarsi andare ad un pianto sconsolato e consolatore.
«Dai, se Angelo vuole potrai giocare dopo i suoi capelli.» il fratello cercava di calmarlo, ma Aiolia voleva giocare con quei capelli.
Angelo si sentì in dovere di intervenire.
«Dai ci sediamo vicini e giochiamo assieme più tardi.»
Aiolia annuì poco convinto, cominciando a mangiare. La cosa positiva della mensa dei bambini era che loro dovevano solo sedersi e mangiare, non dovevano andare a prendere i vassoi e i piatti come invece toccava fare agli adulti.
La cena procedette tranquilla finché Aiolia non decise di voler giocare anche coi i lunghi capelli biondi di Tyko, trascurando Angelo. Aiolos e Tyko si scambiarono posto per non attirare l’ira delle nutrici su Aiolia.
Finito il pasto,  i bambini vennero condotti nei dormitori.
 Le speranze di Angelo furono esaudite. Erano solo in dieci in quella gigantesca camerata. I bambini sotto i cinque anni, che erano la maggioranza, dormivano in un altro stanzone.
Tutti e sei i bambini si sedettero ognuno sul proprio letto e cominciarono a parlare di come fossero arrivati in quello strano posto che ormai era diventato casa loro.


Perdonate l'intervento dell'altra volta, ma benché le mie notti trascorrano insonni, verso le 4:30 del mattino tendo a non essere troppo lucida :P
La storia continuerà a svolgersi attorno al magico trio per un altro po' e col tempo conosceranno tutti i bambini che in futuro saranno loro compagni d'arme. Per ora abbiamo quattro new-entry  ^_^
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto!

Grazie a Clarysama che ha aggiunto la fic tra le preferite e a Shaka che l'ha aggiunta tra le seguite ^_^
Mille milioni di grazie anche a:
Saruwatari_Asuka. Ciao! Grazie mille per la recensione, mi fa un piacere immenso che ti piaccia la storia. Dioskoros ha avuto la punizione che meritava ed è stato giustamente allontanato da Sion. Mi dispiace aver trattato così male una mia creazione, ma una testa d'osso alle volte ci vuole. Dopotutto doveva cominciare a tirare fuori l'indole guerriera di Shura e Tyko. Son felice che apprezzi la dolcezza di Akylina e la pazzia di Leurak ^_^ Che ti sembra questo nuovo capitolo? Un bacio :*
whitesary. Ecco qui il nuovo capitolo con  un altro lato del piccolo capricorno ^_^ Forse la sua è una delle storie più tristi che ho immaginato, ma quegli occhi a metà tra il folle e il malinconico che ha nell'anime non mi hanno ispirato altro. Spero di farti amare Shura ancor di più, anche se il mio intento segreto è quello di far innamorare il mondo di Death Mask :P Ciao e grazie mille per la recensione ^_^/
RedStar12. Vai tranquilla che probabilmente hai il supporto di tutti e sei autorizzata alla carneficina XD Te l'avevo detto che avresti avuto una concorrente come baby-sitter al Santuario, una dolce concorrente ^_^ A presto, un bacione! P.S. Per il simpatico duo ti farò penare ancora un po' nell'attesa :P
stantuffo. Ciaooo!! Sei troppo gentile ^//^ e non c'è bisogno che ti scusi, davvero! Come avrai letto Milo e Camus arriveranno un po' più avanti, ho voluto dare la precedenza ai più grandicelli per il momento ^_^ e anche loro avranno modo di raccontare la loro storia. Grazie mille e al prossimo capitolo!! Un bacio!

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Capitolo 9
*** Fobie e passato ***


capitolo 09 Dopo che ogni bambino prese posto sul proprio letto si fissarono un po’.
Avevano voglia di conoscersi meglio, ma nessuno di loro sapeva come iniziare.
Cominciarono a parlare del loro passato e del motivo per cui si trovavano al Santuario di Atene.
«Noi, - cominciò Kanon – siamo nati qui. Nostra madre era un cavaliere d’argento, nostro padre non l’abbiamo mai conosciuto. Mamma è morta cinque anni fa, in battaglia. A dir la verità non abbiamo sofferto più di tanto, tutti qui hanno cercato di farci sentire il meno possibile la sua mancanza. D’altronde avevano già fatto lo stesso alla morte di nostro padre.»
Kanon parlava tranquillo, sembrava che l’essere rimasto orfano non lo turbasse più di tanto. Saga invece era triste al ricordo della madre. Le mancava.
I due gemelli, così come Aiolos e Aiolia, avevano avuto la fortuna di non restare totalmente soli. Avevano i fratelli su cui contare. Fortuna che non toccò a nessun altro bambino presente li al Santuario.
Saga, dal canto suo, era incuriosito dall’italiano con i capelli bianchi e gli chiese di raccontargli la sua storia. Angelo trattenne un piccolo sbuffo, si chiedeva quante altre volte avrebbe dovuto raccontare la sua schifosa vita.
«Non so cosa sia successo ai miei genitori. So solo che li avevo davanti a me e che un attimo dopo non c’erano più. Sono rimasto da solo per un po’ e poi un vicino di casa mi ha portato a casa sua, dove sarò rimasto qualche mese. Poi sono stato portato all’orfanotrofio e lì son rimasto finché Galgo non è venuto a prendermi per portarmi qui. Niente di eccitante.»
«Com’è l’orfanotrofio?» domandò Saga.
«Uno schifo.»
«Perché? Cosa ti è successo?»
«A nessuno piacevano né i miei capelli né i miei occhi, venivo trattato male e allontanato dal gruppo in tutti i modi.»
«Perché non piacevano i tuoi occhi? I capelli sono meravigliosi, li vorrei anche io del tuo stesso colore.»
«Perché sono rossi.»
«Rossi?»
Nessuno dei tre bambini aveva fatto caso al colore degli occhi di Angelo. Si avvicinarono tutti e tre a lui per osservare quella rarità.
«No! Ma sono – Kanon cercava un termine adatto per descrivere quegli occhi – fantastici! Non avevo mai visto qualcuno con gli occhi rossi!»
L’entusiasmo di Kanon era condiviso appieno da Saga e Aiolos, e Angelo tirava un sospiro di sollievo. Non incutevano timore ma riscuotevano successo. Forse aveva ragione Galgo. Tutte le cose rare sono belle, se si riesce a capire.
Shura intanto sbadigliava, un po’ annoiato e un po’ assonnato. Tyko guardava, sfoderando un sorriso, l’entusiasmo che si era creato attorno ad Angelo.

Il divertimento dei bambini fu presto interrotto dalle nutrici che li misero a dormire e spensero le luci.
Era la prima notte che Angelo, Shura e Tyko dormivano separati. Lontani.
«Angelo, Shura – chiamò Tyko a voce bassa – mi sento strano.»
«Anche io – rispose piano Shura – c’è qualcosa che non va.»
«Ma allora parli – s’insinuò anche Aiolos nella conversazione, che aveva il letto tra Shura e Kanon – avevo cominciato a credere che fossi diventato muto.»
«Certo che parlo.» commentò Shura un po’ indispettito.
«Sei sempre zitto.»
«Non ho niente da dire.»
«Allora domani farò in modo che troverai qualcosa da dirmi. Buonanotte.»
Aiolos tagliò il discorso chiedendosi se fosse riuscito a smuovere lo spagnolo.
Shura udì il greco che si rigirava tra le lenzuola, in cerca, probabilmente, di una posizione comoda, e tornò al discorso con Tyko e Angelo, che ancora non aveva proferito parola.
Si addormentarono bofonchiando parole senza senso, rapiti dal sonno.

La mattina dopo vennero svegliati e portati a fare colazione. Le nutrici avvertirono i tre nuovi arrivati che avrebbero dovuto fare una visita medica.
Angelo sbiancò al sentir nominare il medico. Aveva un brutto ricordo del signore che andava periodicamente a visitare i bambini dell’orfanotrofio. Il brutto ricordo, più che a lui, era legato alle punture. I mille vaccini che aveva dovuto fare in quel cavolo di posto, e Angelo aveva il terrore delle siringhe e degli aghi. Non ne sopportava la vista. Si sentiva mancare nel vedere qualcun altro ricevere il vaccino e pensare che l’avrebbe dovuto fare lui gli faceva venire in mente solo una cosa: fuga.
I tre vennero condotti in infermeria, dove li aspettavano Galgo e João. Loro sapevano già che ai bambini sarebbe venuta la febbre dopo la visita e andarono lì solo per potersi prendere cura di loro.
«Buongiorno allievi! Pronti per il dottore?»
La risposta di Shura e Tyko fu affermativa, Angelo semplicemente non rispose. Fissava terrorizzato la porta. Galgo si accorse dell’inquietudine che scuoteva il suo discepolo e cercò di tranquillizzarlo.

«Ehi Galgo – João lo chiamò da parte – cos’ha Angelo?»
«Credo che abbia paura.»
«Non avrà paura delle punture? E’ grandicello ormai.»
«Vedremo come si comporterà dentro, spero che non si renda necessario tenerlo fermo. Aggiungeremo un trauma ad un altro trauma.»
«Già. Ah, tale maestro tale allievo.»
«Cosa vorresti insinuare ciccione?»
«Che mi pare di ricordare che qualcuno di mia conoscenza tentò di rifiutare la visita medica.»
«Ne avevo tutto il diritto! Tu mi avevi sequestrato!»
«Ah ah ah. Sei sbiancato quando hai visto quelle siringhe. Quanto ho riso il giorno.»
«Io volevo piangere invece. Spero che Angelo non abbia la mia stessa fobia. Sarebbe un problema, considerando che non si può superare. Puoi farti forza e metterci tutta la buona volontà del mondo, ma niente ti farà smettere di essere terrorizzato da quegli aggeggini infidi e bastardi che ti si insinuano nella carne … reggimi che sto per svenire solo a pensarci …»
«E tu non pensarci, idiota. Rischi di farti sentire da Angelo.»
«Scusa scusa. Hai perfettamente ragione, ma davvero è più forte di me.»
«Lo so bene. Ti ho dovuto legare di nuovo per farti fare quelle iniezioni.»
«Già.  Bastardo. Me lo ricordo ancora. E mi prendevi anche per il culo.»
«Ovvio.»
«Aspetta che trovo un ragno e vedi che ti combino» Galgo ghignava al pensiero di restituire all’amico le prese in giro.
«I ragni fanno schifo – sentenziò il gigante con un’espressione disgustata – sono alieni. Non è di questo mondo ciò che ha più di quattro zampe.»
«Sì, bella scusa. Sei un fifone e non vuoi ammetterlo, tutto qui. Dai, portiamoli dentro. Prima entriamo, prima finiamo e prima ci allontaniamo da quei residuati di tortura medievale.»
João si avvicinò nuovamente ai bambini, rideva ripensando al passato e a Galgo che rifiutava le iniezioni e li incoraggiò ad entrare.
«Forza ragazzi! Tutti dentro.»
Bussò alla porta e la aprì. Il medico era un vecchietto canuto e simpatico. Era esperto e sapeva come trattare con i bambini.
«Buongiorno! Ma quanti bei giovanotti oggi.»
Preparava tre fogli, che erano una sorta di cartella clinica, uno per ogni bambino.
Tyko e Shura entrarono tranquilli e cominciarono a rispondere alle domande che poneva loro il dottore. Nome, età, nazionalità. Angelo rimase fuori della porta, con Galgo alle sue spalle.
«Non entri?» gli chiese l’irlandese con dolcezza, non voleva mettergli fretta.
«Sì – rispose Angelo quasi serafico – ora entro.»
Rimase immobile. Non mosse un muscolo. Cercava di convincersi ad entrare, ma il suo corpo non aveva la benché minima intenzione di muoversi.

Il dottore capì il timore del bambino, ma si rivolse agli altri due.
«Perché il vostro amico non entra?»
«Non lo so – rispose Tyko – vado a prenderlo.»
Tyko uscì e prese la mano di Angelo cercando di farlo entrare, ma il bambino resisteva tenacemente all’altro che lo tirava. Era più forte di Tyko e la paura dona ulteriore forza alle volte. Shura arrivò a dar manforte allo svedese, mettendosi alle spalle dell’amico e tentò di spingerlo in avanti. In due riuscirono a farlo avanzare di un passo.
Lo sguardo di Angelo era di puro terrore. I fantasmi che vedeva in confronto erano fiorellini. Niente di che. Ma il solo pensiero degli aghi …
Galgo intervenne poggiandogli una mano sulla spalla.
«Dai Angelo. E’ un attimo. Mi farò fare tutto quello che il dottore farà a te. In questo modo saremo in due a lamentarci. Ci stai?»
Angelo annuì, ma insistette nella sua immobilità. Non riusciva a trovare il coraggio per varcare quella soglia. Doveva fare solo un passo.

All’improvviso lo sguardo di Angelo cambiò. Nei suoi occhi brillavano un coraggio e una determinazione quasi sovrannaturali.
«Ecchemminchia. Non ho paura.»
Fece quel passo. Entrò nello studio del dottore.
Rispose a quelle poche domande alle quali gli altri due avevano già risposto e si sedette sul lettino. Decise lui di andare per primo. Doveva togliersi il dente. Nessuno aveva detto che avrebbe dovuto fare delle iniezioni, per cui, perché preoccuparsi?
Sbiancò nel vedere il dottore tornare con un vassoio e sopra di esso nove siringhe. Tre contenevano un liquido tendente al rosa, tre all’azzurro e tre un liquido trasparente, simile all’acqua.
Lo sapeva. Lo sentiva. Ne era certo. Ora non poteva più tentare la fuga. Sperava solo che non dovesse farle tutte e nove lui.
Il dottore prese la prima siringa e disinfettò i braccio di Angelo, pronto a fare il suo mestiere, ma venne interrotto.
«A-aspetti – disse Galgo – ho promesso al bambino che avrei fatto tutto quello che faceva lui. Potrebbe preparare una siringa anche per me?»
Il dottore strabuzzò gli occhi e cercando di nascondere la sorpresa gli disse:
«Tu? Tu che fai una puntura? Ma se ti hanno dovuto legare per fartele fare? E non eri un bambino.»
Galgo arrossì violentemente.
«L-lo so … mi r-ricordo quel giorno, purtroppo. Ma se lui ha superato la sua paura, posso farlo anche io, quindi ne faccia una anche a me … p-per favore.»
Le parole di Galgo suonavano quasi come una supplica a non dargli retta, ma aveva promesso ad un bambino, terrorizzato quanto lui dagli aghi, che avrebbe fatto tutto quello che avrebbe fatto lui. E non poteva rimangiarsi la parola data ad un bambino. Non aveva mai tradito la fiducia di nessuno nella sua vita e non avrebbe certo cominciato in quel momento.
Angelo sorrise nel vedere il maestro terrorizzato quanto lui e decise che lo avrebbe fatto. Si sarebbe fatto fare tutte le punture necessarie e  che non avrebbe fiatato. Non poteva e non voleva deludere l’unica persona al mondo che gli aveva dato fiducia. Tutto ma questo no.
Il dottore acconsentì alla bizzarra richiesta di Galgo e preparò una siringa con un placebo.  Dopotutto non aveva bisogno di nulla.
«L-la faccia prima a me. Poi al bambino.»
«No – lo bloccò Angelo – prima io che ne devo fare di più.»
Porse il braccio al medico, girò la testa e chiuse gli occhi tanto forte da fargli male. Cercò di estraniarsi il più possibile. Non doveva pensare che un ago stava per entrargli nel braccio, che stava per sentire il bruciore del medicamento iniettato nel muscolo. No, doveva pensare ad altro. Pensò ai bambini che strapparono la foto dei suoi genitori e questo gli diede la forza di forza di affrontare le punture con maggior serenità.
Il medico fu rapido, aveva la mano leggera e Angelo non sentì niente eccetto il calore delle medicine.
Fu il turno di Galgo, che allungò il braccio e cercò la forza di guardare quello che il dottore faceva. Quando l’ago fu ad un millimetro dalla sua carne urlò:
«No! Aspetti. Non sono pronto.»
Cominciò a respirare profondamente, cercando di tranquillizzarsi e trovare il coraggio di guardare.
«Chiudi gli occhi e pensa a qualcosa che ti fa arrabbiare. Neanche te ne accorgi» un bambino di sei anni, terrorizzato anch’egli dagli aghi  dava consigli su come affrontare quella situazione. Il tutto aveva del ridicolo. Shura e Tyko guardavano divertiti i capricci dell’adulto, e João non era da meno.
Galgo accettò il consiglio del discepolo e chiuse gli occhi. L’iniezione durò un istante, ma per Galgo fu una piccola eternità.

Uscì con Angelo, massaggiandosi il braccio offeso. Shura e Tyko si sedettero sul lettino e ricevettero anche loro le tre iniezioni colorate. Con estrema tranquillità.
«Non sapevo che anche tu avessi paura degli aghi.» Angelo si rivolgeva a Galgo, ancora bianco come un cencio e col sudore freddo che gli imperlava la fronte.
«Non ho paura – rispose ansimante – ho il terrore più nero. L’ho sempre avuto. E’ considerata una malattia.»
«Una malattia? E come si chiama?»
«Belenofobia.»
«Ce l’ho anche io?»
«Sì, ma tu riesci a controllarti molto meglio di me. Bravo Angelo, bravo.»
«Ma stai bene?»
«A dir la verità no. Non riesco a smettere di tremare.»
Galgo si sedette sul pavimento fuori dall’ambulatorio cercando di ritrovare un po’ di contegno.
«Kalimera - trillò Leurak – ma che hai?»
«Niente Leurak, tranquillo. Ma da dove diavolo arrivi?»
«Da lì - rispose il mongolo indicando la porta – si chiama mondo esterno. Devo venire a prendere delle medicine per Akylina.»
«Perché, sta male? Cos’ha?»
«Non lo so, non me ne vuole parlare. Sicuramente si tratta di cose da donne. Io eseguo gli ordini.»
«Sei tutto scemo Leurak.»
«Cambia disco che sei noioso. Ma sicuro di stare bene? Sei un po’ pallido.»
«Sto magnificamente, grazie.»

Shura e Tyko  uscirono dall’ambulatorio e salutarono calorosamente Leurak, correndogli  incontro per mostrargli i cerotti che coprivano le piccole ferite.
«Oh! Ma qui abbiamo dei veri uomini che se ne fregano delle punture. Vero Galgo?»
«Mmmhh»
«Galgo? Riprenditi.»
«Ci sto provando Leurak. Senti, io non mi sento tanto bene, ti dispiace se porto io le medicine ad Akylina e tu accompagni João e i bambini?»
«Tranquillo, non c’è problema. Aspettatemi qualche minuto e andiamo.»

Leurak entrò nell’ambulatorio e, come accennato, dopo pochi minuti fu fuori. Diede a Galgo il sacchetto contenente le medicine per la loro compagna e si avviò con i bambini al dormitorio.
Si sedettero tutti sui letti e cominciarono a discorrere amabilmente tra loro. Passò un po’ più di un’ora e il viso di Tyko si fece completamente rosso. Sudava e tremava lamentandosi del freddo. Gli stava salendo la febbre. João e Leurak lo misero subito sotto le coperte e chiamarono una delle nutrici affinché portasse loro del ghiaccio. La febbre non sarebbe calata prima del giorno dopo. Era l’effetto delle medicine che erano state iniettate ai bambini.
«Cos’ha Tyko? – chiese Shura, preoccupato per l’amico – Ha la febbre?»
«Sì – rispose Leurak, mettendogli una mano sulla fronte -  ed è meglio che ti metti a letto anche tu. Tra un po’ sarai nelle sue stesse condizioni.»
«Perché? Verrà anche a me?» chiese Shura inclinando la testa di lato. Fu João a rispondere questa volta:
« Verrà anche ad Angelo. E’ l’effetto dei vaccini, ma domani starete meglio. Ci siamo passati tutti.»
« Senti João, perché ci hanno fatto quelle punture? » Angelo intervenne.
«In questo modo non vi ammalerete Angelo. L’abbiamo fatto tutti quanti e nessuno di noi si è mai preso un raffreddore.»
«Mi sembra assurdo che ci diate una medicina per non ammalarci e poi ci ammaliamo subito dopo.» Angelo parlava tenendo un leggero broncio. Si sentiva preso in giro.
«Lo so che sembra assurdo, ma poi non vi ammalerete più.»
«Ho capito, ho capito. Mi metto a letto anche io. Anche Shura ha cominciato a tremare.»

Nel giro di mezz’ora tutti e tre i bambini riversavano nelle stesse condizioni. Febbre alta, brividi e deliri. Stavano davvero male e i due adulti non poterono fare altro che cercare di rinfrescarli con il ghiaccio.
Nessun antipiretico avrebbe fatto effetto, bisognava solo aspettare. Quella notte João, Leurak e Galgo, ripresosi dallo spavento, restarono al capezzale dei tre bambini, monitorandone le condizioni.
La presenza degli adulti fu una scusa per altri per poter rimanere svegli più a lungo.
Saga e Aiolos facevano la spola tra i letti dei febbricitanti, controllando che stessero bene e non peggiorassero. Gli dispiaceva sapere che stavano male. Kanon rimase tranquillo, seduto sul suo letto.
«Aiolos – disse Leurak seduto sul letto del bambino – vieni un attimo qui.»
Il bambino obbedì e fu sostituito da uno svogliato Kanon, che davvero non capiva il motivo di tutta quella apprensione.

Leurak era profondamente incuriosito da Aiolos. Sembrava un piccolo saggio. Anche lui, come Saga, aveva dimostrato di avere un cuore tenero e di essere particolarmente solidale.
«Perché non ti metti a dormire, Kanon non mi vuole dare retta. Convinci gli altri e dormite un po' su.»
«No, sono abituato a star sveglio. Inoltre vado a controllare Aiolia diverse volte durante la notte.»
«Perché?»
«Non lo so. La mamma lo faceva. Mio padre è morto prima che Aiolia nascesse e quando lei si alzava la notte per farlo mangiare io mi alzavo con lei. Non volevo lasciarla sola. Era stata tanto male per la morte di mio padre e soffriva ancora. Comunque anche lei cercava di farmi tornare sempre a letto. Ora che ne abbiamo parlato vado a controllarlo. Si scopre sempre durante la notte.»
Finita la frase Aiolos si diresse verso lo stanzone dove ronfavano beati i bambini più piccoli. Dovette tirare su le coperte a due di loro: Aiolia e Milo.
Quando tornò nel suo letto trovò Leurak ad aspettarlo e a porgli domande.
«Aiolos, non ti voglio turbare, ma ti andrebbe di raccontarmi quello che ti è successo? Anzi che vi è successo. Se non ti va non fa nulla.» Leurak era un po’ imbarazzato, mai avrebbe pensato di chiedere ad un bambino di raccontargli la sua storia, ma quei bambini erano così speciali … avevano una forza d’animo infinita e nonostante le avversità erano sempre andati avanti a testa alta e con serenità.
«Certo, cosa vuoi sapere?»
«Com’è morto tuo padre?»
«E’ caduto. Faceva il muratore. Stava costruendo un palazzo enorme e il cordone di sicurezza si è spezzato. Credo che sia scivolato. A noi ce l’ha detto il suo capo, è venuto a casa in lacrime e ha raccontato tutto.  Mia mamma scoppiò a piangere, poverina. Poi dopo il funerale scoprì di essere incinta. »
«Quando è successo tutto questo?»
«Quasi quattro anni fa.»
«E tu sapevi già come si facevano i bambini?»
«Sì, avevo guardato di nascosto un documentario che parlava della nascita dei bambini. Sapevo che avrei avuto un fratello quando lei scoprì di essere incinta. A dir la verità non mi disse nulla se non quando cominciò a crescerle la pancia.»
«Ah. Poi?» Leurak era interdetto. Quasi tutti i bambini, nel Santuario, non erano altro che adulti nel corpo di bambini. Tutti i prescelti si erano dimostrati paurosamente maturi e con dei poteri sconcertanti.
Lui era un essere umano, si era trovato al Santuario per caso, rapito dal movimento dei capelli di Galgo. In Mongolia nessuno aveva i capelli di quel colore. Era la prima volta che li vedeva e si era fatto prendere dalla curiosità senza sapere cosa faceva. Non aveva l’invito per entrare in quel luogo. Eppure c’era riuscito.
«Poi è nato Aiolia. Io aiutavo la mamma come potevo. Poi è morta anche lei, due anni fa.»
«Com’è successo?»
«E’ stata investita.»
«Mi spiace Aiolos. Nessuno di voi ha avuto un’infanzia normale. Davvero … »
«Non dispiacerti. Era destino che accadessero tutte queste cose. Il Gran Sacerdote ce lo dice sempre quando ci vede. La sofferenza e il dolore che si provano aiutano a riconoscerle quando le si incontra. Noi siamo i prescelti dalla dea per porre rimedio al dolore nel mondo, noi faremo in modo che tutti possano vivere in pace e che le ingiustizie, grandi e piccole, cessino di esistere.»
«Non è un discorso che si addice ad un bambino della tua età. Saresti dovuto essere in una casa, con i tuoi genitori, avresti dovuto passare le giornate a giocare e andare a scuola, non ad allenarti, non ad imparare come uccidere.»
«E’ la stessa cosa. La mia famiglia siete voi.»
Aiolos metteva i brividi, aveva già accettato la sua condizione di prescelto ed era già consapevole del suo ruolo nel mondo. Quanti adulti potevano dire di avere le stesse certezze? Probabilmente nessuno. Ma un bambino di dieci anni può pensare alla guerra? Può pensare a come uccidere qualcuno per liberare altri? Per Leurak la giustizia di cui tutti parlavano non esisteva. Cosa c’era di giusto in un bambino che non viveva la sua infanzia? Cosa c’era di giusto in un bambino che soffriva? Cosa c’era di giusto in un bambino che parlava di giustizia e di aiutare i più deboli? Niente. Per Leurak tutto quello non era giustizia. Ma a suo modo accettò anche lui la situazione. Aiutare gli altri era diventato un po’ lo scopo della sua vita. Ma non sarebbe mai riuscito a spezzare una vita per salvarne cento. E continuava a pensare che non c’era niente di giusto nel rovinare cento vite per salvare il mondo. Sarebbe stata vera giustizia che ogni essere umano non pensasse esclusivamente a sé stesso. Per Leurak, la solidarietà e l’onestà portavano alla vera giustizia. Il mondo continuava ad essere sempre ingiusto. Quei bambini altro non erano che altri cadaveri nelle fondamenta di un’utopia.

«Ora dormi Aiolos, controllerò io Aiolia per te. Stanotte veglierò io su di voi, riposa tranquillo.»
«Sì … grazie …»
Aiolos si addormentò subito. Era davvero distrutto. Aveva passato la giornata ad allenarsi e seguiva dei ritmi massacranti. Come lui anche Saga e Kanon crollavano. I due fratelli si misero a letto dopo essersi sincerati un’ultima volta delle condizioni di Angelo, Tyko e Shura. Kanon senza particolare interesse.
I tre adulti, quella notte, vegliarono sul sonno di tutti i bambini, giravano tra i letti tirando su coperte, sistemando cuscini e adagiandoli bene sui materassi.


Ed ecco qui l'ennesimo capitolo, spero che sia di vostro gradimento.
D'ora in poi gli aggiornamenti diventeranno più saltuari (forse), mi aspettano delle settimane di fuoco tra esami di chimica (T_T) e un lavoro massacrante e noioso, ma cercherò di aggiornare durante le mie notti insonni, sempre che non sia tanto stanca da restare a guardare il muro come fa João la mattina. A presto!!

Grazie mille a tutti i lettori e i recensori 
Saruwatari_Asuka. Aggiorno (forse dovrei cominciare a parlare al passato) in tempi record perchè gran parte della storia è scritta da Natale. Solo sei mesi per convincermi a pubblicarne due, mica male no? Ma alla fine sono ancora entrambe in via di sviluppo insieme ad ultra decina XD. Son felice che i goldini ti rallegrino le giornate e mi auguro che i tempi bui passino ^_^ Sei sempre dolcissima e gentilissima nelle recensioni, grazie grazie ^_^, ma veniamo al capitolo! Tyko è un angelo, come Angelo e Shura. Anche secondo me Leurak e Akylina sono fatti per stare assieme (dato che li ho creati io :P) ma vedremo se riusciranno a rendersene conto ^_^ e vedremo anche se João riuscirà ad avere qualche pupo tutto suo. I tempi per le dolcezze e le risate vanno esaurendosi (non subito però) e tutti cominciano a farsi qualche domanda. Anche Leurak che sembrava avere un solo neurone rimbalzante comincia a chiedersi qualcosa. Un bacione!
Camus. Bentornata!! Non c'è nessunissimo bisogno che ti scusi, davvero, hai tutta la mia comprensione accademica. Sono felice che ti sia piaciuto il legame tra i tre pargoletti ^_^ Aiolos comincia già a farsi conoscere e per Aiolia manca ancora un po' di tempo. Grazie mille per la recensione! Ciao!
Gufo_Tave. Hai visto? Ce l'ho fatta a staccarmi da quei tre anche se non completamente. Chiedo venia, ma  DM e Aphrodite sono stati bistrattati un po' troppo da Kurumada e mi son sentita in dovere di rimediare. Soprattutto per Death Mask. Ancora non so se arrivare ad Ep.G, Masami Kurumada e anche Megumu Okada sono due campioni dei plot-hole, per cui forse mi fermerò prima. Staremo a vedere ^_^.  Non dimenticare che i  gold sono ancora bambini e durante la seconda fase dell'addestramento svilupperanno le caratteristiche che li contraddistinguono. Almeno spero di riuscire a farlo ^_^ Grazie mille per l'intervento.
RedStar12. Lo so che sono cattiva ^_^ Ma se sarai paziente sarai completamente ripagata. João è soddisfatto di aver suscitato la tua comprensione mentre Galgo è felice di essere apprezzato. Grazie per la tua costante presenza ^_^ Un bacione!! P.S. Per quanto riguarda lo spagnolo, la mia mail la conosci ^_- e forse i discorsi in francese sono finiti ^_^
whitesary. Certo che puoi coccolare un po' Aiolia, ma attenta a non svegliare le gelosie di Shura :P. Cosa ti è sembrato questo nuovo capitolo? I bambini cominciano a conoscersi, anche se il magico trio riversava in condizioni comatose. Grazie mille per l'intervento, anche tu sei sempre presente ^_^

Scusate lo spam continuato e prolungato di ^_^.

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Capitolo 10
*** Gemelli ***


Gemelli La notte trascorse in fretta per i tre adulti, lasciando loro in ricordo delle marcate e scure occhiaie.
Uscirono dal dormitorio dei bambini con la sola voglia di lasciarsi andare al sonno, ma non era possibile. Non per tutti almeno.
Angelo, Tyko e Shura ebbero il permesso di poltrire per qualche giorno in attesa che la spossatezza, causata loro dalla febbre, svanisse.
Gli altri bambini che dividevano lo stanzone con loro uscirono per andare a fare colazione, per poi dirigersi verso le arene di allenamento.
Kanon, Saga e Aiolos mangiarono in silenzio, seduti tutti e tre
allo stesso tavolo, incerti se prendere o meno il discorso sui nuovi arrivati, in privato. Come se fossero membri del senato, saggi con facoltà di decidere della vita degli altri. Dopotutto erano i più grandi della camerata e da loro dipendeva parte dell’integrazione dei tre malati. Sì, era necessario che prendessero il discorso, almeno per rompere quel silenzio fastidioso.
«A me piacciono – esordì Aiolos – tutti e tre. Anche se li abbiamo appena conosciuti sembrano in gamba e sono dei prescelti come noi. Un domani potremmo formare una squadra. Tutti insieme.»
Saga annuì a quelle parole, con un sorriso stampato sulle labbra.
«Piacciono anche a me. Soprattutto Angelo.», s'intromise anche Kanon nella discussione, deciso a dire la sua.
«Ti piace solo perché ha gli occhi rossi – lo punzecchiò il fratello – e i capelli bianchi. Lo so.»
«Non è vero. Mi piacciono i suoi occhi e i suoi capelli, ma mi sembra forte. Se dobbiamo diventare Cavalieri d’oro è giusto che ce ne sia uno fortissimo.»
Aiolos ascoltava con curiosità le parole che si scambiavano i due fratelli.
«Tu che ne pensi Aiolos? Ti piace Angelo?» chiese Saga.
«Sì, mi piacciono tutti e tre. Ve l'ho già detto. Appena possibile chiederò anche ad Aiolia cosa ne pensa, anche se forse è troppo piccolo per capire a cosa mi riferisco».
Mentre Saga poggiava le posate sul tavolo, dopo aver ascoltato le parole di Aiolos ed averci rimuginato sopra per qualche istante, si premurò di avvisare l'amico riguardo l'incredibile udito di un piccolo, curioso greco che amava trascorrere il tempo con Aiolia.
«Stai attento che non ti senta Milo, o farà di tutto per conoscerli e darti anche la sua opinione in proposito.»
Kanon si limitò ad annuire con forza e con gli occhi chiusi, a voler sottolineare l'espressione che, secondo lui,  non aveva bisogno di parole. Sembrava dicesse "ha ragione". Aiolos rise e tranquillizzò i gemelli.
«Non preoccupatevi, farò attenzione a Milo. Però sembra che anche lui si sia rivelato un prescelto e quindi anche lui ha il diritto di dire la sua.»
Kanon sbuffò e roteo gli occhi all'indietro, per poi aggiungere:
«Ma lo conosci anche tu Milo, è capace di parlarti per ore su cose a caso, non è attendibile.»
«Kanon, anche Aiolos non ha tutti i torti. Proviamo. Vediamo che succede. Ma forse dovremmo fare in modo che lui non capisca che vogliamo la sua opinione in proposito.»
«Fratello, Milo, come Aiolia del resto, ha solo tre anni, come pretendi che possa darti un'opinione giusta o utile sui nuovi arrivati. Dai, è stupido.»
«Che ci costa provare? Se ci sembra che dicano stupidagini basta non dargli retta.» lo ammonì il fratello.

I bambini vennero fatti alzare dai tavoli e
le nutrici si affrettarono a separarli. Alcuni di loro sarebbero stati portati alle arene, altri in alcuni templi in cui avrebbero potuto iniziare ad  imparare a scrivere e a leggere.
I tre ripresero il discorso mentre si avviavano con calma nel luogo in cui avrebbero fatto un’interminabile corsa seguita da esercizi di vario tipo.
«Perché ti piacciono?» Saga era curioso di sapere il motivo per cui all’amico piacessero i tre e non volle demorderse sinché non ebbe una risposta chiara ed esaustiva.
«Non lo so, non c’è proprio un motivo preciso. Lo sento che sono bravi. Andremo d’accordo. E a te perché piacciono, Saga?»
«Per lo stesso motivo per cui piacciono a te. Non lo so neanche io.»
Kanon intervenne nella discussione.
«E se non riuscissimo tutti a diventare cavalieri? Insomma, sappiamo già che solo io o Saga potremmo vestire l’armatura, non sappiamo ancora chi dei due perché dobbiamo ancora combattere. Ma se anche uno di loro non dovesse diventare cavaliere? Sarebbe triste.»
Aiolos e Saga annuirono. Aveva ragione Kanon.
Per loro il momento in cui avrebbero indossato un’armatura si avvicinava sempre di più. Avevano undici e dieci anni e sarebbero partiti presto per i luoghi di addestramento che il Gran Sacerdote avrebbe scelto per loro.
Aiolos si fermò a pensare alla possibilità che potesse dover lasciare da solo il fratello. Aiolia era ancora troppo piccolo e non voleva abbandonarlo. Era l’unica figura familiare rimastagli. Erano soli.
Certo, anche Aiolia sarebbe cresciuto  e forse anche lui sarebbe potuto diventare un cavaliere d’oro.
Non sapevano ancora se anche nel piccolo greco fosse presente quella scintilla divina che gli avrebbe permesso di combattere in nome della giustizia. Aiolos lo sperava con tutto il cuore. Sperava che potessero avere la fortuna toccata ai due gemelli. Significava che non si sarebbero mai dovuti separare e che se fosse successo sarebbe stato per poco. Gli piaceva da morire l’idea di poter dividere tutto col fratellino. Non voleva che Aiolia venisse privato anche della gioia di avere un fratello. Non aveva mai conosciuto il padre e probabilmente non ricordava nulla della madre. In questo era assimilabile ad un altro bambino lì al Santuario, che venne trovato in un campo da Akylina. Lei lo condusse al Santuario senza sapere che in lui già si agitava il potere delle stelle.

Arrivarono all’arena.
Gli esercizi di riscaldamento venivano seguiti dagli aspiranti cavalieri ormai adolescenti.  Aiolos iniziò a correre seguendo il solito percorso, era lo stesso ogni mattina, seguito a ruota dai due gemellini che, anni prima, avevano scoperto di poter comunicare tra loro anche con il pensiero. Alle volte riuscivano anche ad imbucarsi nelle menti altrui, ma non sempre il gioco riusciva.

- Ehi fratello. Non ho voglia di correre oggi.
- Neanche io, ma dobbiamo o non riusciremo a diventare cavalieri se non ci alleniamo tutti i giorni. Li senti anche tu i discorsi che ci fanno, per cui zitto e corri.
- Sono zitto.
- Ah già…senti Kanon … pensi mai alla mamma?
- A volte.
- Cosa pensi?
- Che mi manca un po’, ma tanto anche se stiamo qui a piangere lei non torna.
- Lo so anche io. Ma a volte mi manca davvero tanto. Ti ricordi quando ci portava a vedere gli allenamenti degli altri?
- Sì. Ma ci portava solo perché era lei ad allenare e non ci voleva lasciare a casa da soli.
- E ti ricordi cosa ci diceva?
- Non tanto, ricordo solo il giorno in cui ci disse che potevamo essere cavalieri d'oro.


«Ehi piccoli, venite qui. Sapete una cosa?»
«No, cosa?»
«Oggi è venuto il Gran Sacerdote in persona per parlarmi di voi.»
«Cosa abbiamo combinato questa volta?» Kanon era sicuro dell’ennesima sgridata. La aspettava. I due gemelli ne combinavano di tutti i colori e in molti andavano a lamentarsi dei loro giochi. Quella volta pensò che ne avessero combinata una davvero grossa se il Sommo Sion in persona si era recato dalla madre.
«Kanon…che hai combinato? Anzi, che avete combinato?»
Saga si sentì improvvisamente offeso da quella presa di colpa del fratello e dalle domande materne e sentì un imperituro dovere ad intervenire.
«Niente. Proprio oggi non abbiamo fatto nulla.»
I bambini ricevettero una carezza dalla giovane donna in armatura. Si levò la maschera e si sedette sui gradini di casa, invitando i figli a prendere posto accanto a lei.
«Venite, è importante.»
I fratelli si scambiarono un’occhiata complice e presero posto vicino alla madre: uno a destra e uno a sinistra. Li cinse a sé con le braccia e dopo aver schioccato un bacio sulla testa di ognuno parlò.
«Il Sommo Sion mi ha detto che siete due prescelti.»
«Prescelti per cosa?» chiese Saga.
«Per diventare Cavalieri d’oro. Non vi piacerebbe?»
Gli occhi dei bambini si illuminarono di gioia e iniziarono a parlare tra di loro, in un modo che solo loro capivano. Si erano inventati un modo di parlare che fosse solo ed esclusivamente loro.
«Olletarf, otnetnoc ies?»
«Otrec! Ireilavac omeras! arol odev non.»
«Irtla ilga ehcna olrid omaibbod!»
«Otibus.»
Ad un ascoltatore qualsiasi sembrava che blaterassero sillabe a caso, ma loro si capivano. E anche la madre aveva imparato a capire quel particolare modo di parlare.
«State buoni adesso o non vi dico nient’altro. Lo so che siete contenti, ma agli altri bambini ne parlerete più avanti.»
Obbedirono e ascoltarono le parole che la madre aveva loro da dire.
«Scusa mamma» dissero in coro sorridendo alla mamma.
«Allora avete l’opportunità di diventare cavalieri d’oro. Però c’è un problema bambini miei. Solo uno di voi due potrà vestire le sacre vestigia. Dovrete affrontarvi quando sarete più grandi.»
Saga e Kanon per un istante si oscurarono. Avevano davvero capito bene? Avrebbero dovuto combattere tra di loro sul serio? Nessuno dei due voleva dover affrontare l’altro.
«Non fate quelle facce piccoli. So che possa sembrare ingiusto, ma dovete tenere a mente una cosa. Sempre. Qualunque cosa accada. Promettetemi ora che terrete fede alla mia richiesta.»
«Lo prometto mamma.»
«Lo prometto anche io, come Saga.»
«Benissimo. Vedete, è come se voi foste una sola persona divisa in due corpi. Riuscite a comunicare col pensiero e a mettervi d’accordo tra di voi senza neanche dover cercare lo sguardo dell’altro. Solo uno di voi due potrà essere un cavaliere d’oro, ma voglio che l’altro rimanga sempre accanto al fratello e che niente e nessuno vi possa mai dividere. Promettetelo.»
Kanon e Saga abbassarono lo sguardo. Non avevano capito esattamente quello che la madre chiedeva loro, avevano solo cinque anni, ma in un certo modo avevano colto quello che intendeva.
Chi di loro non avrebbe potuto vestire le sacre vestigia sarebbe dovuto rimanere accanto all’altro e supportarlo come se l’armatura fosse sua.

Rasalhague era un cavaliere d’argento. Aveva partorito i due bambini alla vigilia di una battaglia. Il compagno aveva deciso di andare, benché fosse un semplice soldato. Morì per proteggere il Santuario e i suoi due bambini che vedevano la luce in quel momento. Lei non si diede mai per vinta e dopo lunghe riflessioni decise di tenere i piccoli e provare a dar loro un futuro. Ora scopriva che i gioielli che le illuminavano le giornate erano prescelti. Avrebbero avuto una vita difficile e dolorosa, ma se fossero rimasti sempre vicino le cose sarebbero state più sopportabili.
Pochi mesi dopo aver fatto quel discorso ai figli morì. Il suo ultimo desiderio, sussurrato tra le labbra che vomitavano sangue fu:  «João, prenditi cura di loro finché non saranno in grado di farlo da soli, e poi seguili da lontano. Sempre.» per poi spegnersi subito dopo tra le convulsioni scatenate dalla vita che scivolava via dal corpo.

-

João  aveva assistito alla morte di Rasalhague, una delle donne più forti e stupende che avesse mai conosciuto. Era legata a lei da una forte amicizia che si stava trasformando in qualcosa di più. Fu il portoghese a dare la notizia della morte della mamma ai due gemellini. Fu la cosa più difficile da fare, come poteva fare in modo che accettassero la nuova condizione senza distruggersi di dolore? Avevano solo la madre al mondo e non conobbero mai il padre.
Saga non disse nulla. Kanon proferì un secco «mmh».
João rimase impietrito da quelle reazioni. Neanche una lacrima? Neanche un dov’è mamma?
«Abbiamo capito. Cosa ci succederà ora?»
«Saga, resterete qui al Santuario. Mi prenderò cura io di voi per un po’. L’ho promesso a vostra madre. Siete stati il suo ultimo pensiero.»
«Dove vivremo?» chiese Kanon.
«Assieme agli altri bambini, al dormitorio. Starò io vicino a voi. State tranquilli.»
Non erano preoccupati. Sapevano cosa dovevano fare. Stare sempre l’uno vicino all’altro. Continuare ad essere una cosa sola.

-

Continuarono a correre, sollecitati dalla rabbia che provavano nei confronti della madre. Di recente si erano scoperti ad odiarla, dopotutto li aveva abbandonati. Una mamma non dovrebbe combattere. Questo loro pensiero li colpiva sempre allo stesso momento, senza dar loro una possibilità di sfuggirgli. E, irrimediabilmente, li colpiva sempre immediatamente dopo che ne sentivano la mancanza. Ma affrontavano il dolore in modo diverso.
Saga rifletteva, Kanon sembrava indifferente ma digrignava i denti di nascosto.

Finita l’interminabile corsa, i ragazzini vennero portati in un’altra arena, poco distante, dove li attendevano i cavalieri d’argento e qualche soldato.
Erano ancora troppo pochi i cavalieri perché potessero prendersi cura degli allenamenti di tutti gli aspiranti e i soldati si erano rivelati davvero un aiuto prezioso, soprattutto Akylina e Leurak. Ma quella mattina Leurak non era presente; aveva una nottata in bianco da recuperare.

C’era vento quella mattina.
I morbidi riccioli rossi di Galgo ondeggiavano seguendo il vento, bloccati solamente da un elmo, che impediva loro di ricadergli sul volto. Il suo corpo era protetto dall’argentea corazza per cui combatté anni prima: l’armatura dei Cani da Caccia. Il suo volto era stanco e segnato da pesanti occhiaie scure, che testimoniavano la nottata insonne.
Al suo fianco Akylina, protetta da delle consunte protezioni in cuoio e metallo, le braccia conserte e la maschera opaca che la rendeva innaturale, inumana.
I ragazzini si misero ordinatamente davanti agli adulti, a quadrato e in file da sei alternate, in modo che gli adulti potessero vederli tutti e correggerne i movimenti se necessario.
«Buongiorno.» disse Galgo con voce sicura, saluto ricambiato in coro dai presenti.
Saga, Aiolos e Kanon avevano sempre un posto in prima fila.
Anche se gli allenamenti erano massacranti gli piacevano. Imparavano tante cose riguardo l’anatomia e scoprivano i punti deboli del corpo, come i punti di attacco dei muscoli che lasciavano scoperti i tendini, l’ubicazione dei nervi principali, come dar maggior forza al pugno se il movimento partiva con la mano aperta, ad immobilizzare senza arrecare danno e dolore e imparavano ad uccidere e torturare. Avevano già imparato diversi metodi per uccidere.
Assorbivano ogni parola come se fossero spugne in acqua. Volevano vestire le armature dorate.
«Oggi faremo delle simulazioni di combattimento. Avete già imparato diverse tecniche d’attacco e di difesa.»
I bambini annuirono. Erano pronti ad iniziare.
Galgo e Akylina si misero l’uno di fronte all’altro e si misero in guardia. L’irlandese spiegava ogni gesto che eseguiva. Invitò la giovane a lanciarsi all’attacco e lei obbedì, senza proferir parola.
Simulò un calcio basso, diretto alle ginocchia del rosso, che venne parato senza fatica alcuna alzando la gamba e assorbendo l’impatto con i quadricipiti. Appena la gamba di Akylina colpì il muscolo dell’amico, cercò di farvi perno e assestargli un calcio in pieno volto. Galgo si fece colpire, per dimostrare ai bambini che una piccola distrazione sarebbe potuta costare cara.
I bambini rimasero di stucco nel vedere un cavaliere d’argento colpito da un semplice soldato e per giunta donna.
«Com’è possibile? Come ha fatto a colpirti? E’ una donna e non è un cavaliere.» disse Ankel, un ragazzino russo, anche lui pretendente ad una delle armature dorate.
«Ricordatevi sempre, e dico SEMPRE, di non sottovalutare mai l’avversario. Mai. Mi son distratto. Non ho fatto caso ai movimenti della muscolatura di Akylina e ho dato per scontato che essendo lei una donna avrebbe avuto meno forza fisica di me. Aiolos, vediamo se eri attento. Dove ho sbagliato?»
«Hai sottovalutato l’avversario.»
«Esatto. Saga, cosa avrei dovuto fare?»
«Tenere alta l’attenzione sul corpo dell’avversario e restare concentrato sui suoi movimenti. »
«Kanon, poi?»
« Mai abbassare la guardia e sempre tenere lo sguardo sull’avversario.»
«Benissimo. Ora dividetevi a coppie e simulate tra di voi un combattimento. Cercate di non farvi male, la giornata è appena all’inizio e non è il caso che saltiate l’allenamento.»

«Saga, fai coppia con Aiolos, io voglio confrontarmi con Ankel.»
«Ok fratello, vacci piano. Ricorda, nessuno di noi deve farsi male.»
«Sì, sì.» rispose dando ormai le spalle al fratello e all'amico.
Kanon si diresse a passo sicuro verso Ankel che parlottava con altri ragazzini.
Si erano formati due gruppetti principali nella camerata, dovuti alle reciproche antipatie. Ankel in particolar modo non sopportava la perfezione di quei tre, sempre lodati e considerati da tutti i soldati e cavalieri. Solo perché due di loro erano figli di una loro compagna. Non era giusto. Avrebbero dovuto trattare tutti allo stesso modo. In realtà veniva fatto, tutti venivano sgridati e lodati allo stesso modo. La confidenza che Kanon e Saga avevano acquisito con gli adulti era dovuta solamente al fatto che molti di loro li avevano visti nascere, li avevano conosciuti il giorno in cui vennero al mondo.

«Ankel, vuoi fare coppia?»
«No. Vattene.»
«Dai, Saga fa coppia con Aiolos e io resto solo. Gli altri sono tutti troppo deboli e vincerei subito. Con te ci sarà da divertirsi.»
«Ho detto no. Torna da tuo fratello piagnone.»
«Non puoi non voler combattere e poi dare del piagnone a mio fratello, mi stai provocando. Fossi in te alzerei la guardia.»
Ankel non ascoltò le parole di Kanon che si lanciò all’attacco. Venne colpito in pieno volto da un pugno ben dato. Le nocche di Kanon, ormai allenate e indurite, impattarono con violenza sul naso dell’altro, che iniziò a sanguinare.
«Mi hai rotto il naso!»
«Ti avevo detto di alzare la guardia.»

Galgo e Akylina osservavano la scena da lontano.
«Galgo, dobbiamo intervenire. Kanon e Ankel stanno…»
«Lasciali fare. Se riescono a non farsi male meglio, ma devono imparare a fare i conti anche col dolore. Se si viene feriti in battaglia bisogna  solo riuscire ad isolare il dolore e non farsi distrarre. E’ giusto che imparino. Meglio ora che in guerra, dove imparare una lezione del genere può costare la vita.»
«Cos’hai Galgo?»
«Niente, perché?»
«Sei cupo oggi. Non sei allegro come al solito.»
«Sono solo un po’ stanco, non ho chiuso occhio. Sono rimasto a vegliare sui bambini stanotte. Angelo, Shura e Tyko hanno fatto i vaccini ieri.»
«Capisco.»

Ankel era arrabbiato. Non era stato in grado di difendersi. Fissava inebetito Kanon, nel mentre che cercava di tamponare la fuoriuscita di sangue. Il dolore era pulsante e perse quasi il controllo dei pensieri.
«Forza. In piedi, non abbiamo ancora finito.»
«Non ho intenzione di continuare. Vado in infermeria.»
«Vigliacco.»
«Rimangiatelo.»
«Sei un vigliacco. Hai paura di perdere e scappi. Se qualcun altro ti avesse chiesto di combattere l’avresti fatto. Perché contro di me no? Hai paura perché sai che sono molto più forte di te.»
«Ho paura non perché sei più forte di me, ma per i tuoi occhi. Non sei una persona di cui ci si può fidare. Hai gli occhi di un pazzo, occhi che ho già visto e so riconoscere.»
Finita la frase il piccolo russo si incamminò verso l’infermeria. Kanon rimase impietrito nell’udire quelle parole. Il sentimento di inadeguatezza che provava si faceva sentire più forte che mai. Sentì le lacrime che si preparavano a scendere e le inghiottì. Non avrebbe mostrato una debolezza simile davanti agli altri e soprattutto non davanti al fratello. Aveva capito di essere il più forte dei due e aveva capito che se si fosse mostrato debole ne avrebbe sofferto anche il fratello e questo non lo voleva. Assolutamente.
Non udì i passi di Galgo che gli si avvicinava alle spalle. Era troppo preso a sconfiggere quelle salate gocce di dolore.
«Kanon  che succede?»
«Niente. Ha paura.»
«Io vedo solo una persona impaurita qui. E non si tratta di Ankel ma di Kanon. Vieni con me.»
Galgo 
s'incamminò per una stradina sterrata che conduceva ad alcuni templi, seguito dal piccolo greco che fissava la terra battuta dal maestro, per poi volgersi e parlare ad Akylina da lontano: «Controlla tu gli altri».

- Dove vai?
- Non lo so, mi deve parlare. Continua ad allenarti. Aiolos è un osso duro, stai attento.
- Non preoccuparti per me e non staccare il contatto.
- Saga, non ti preoccupare tu ora e fai del tuo meglio, ne parliamo dopo...

Kanon allontanò la mente del fratello dalla sua, riuscendo a scatenare tutta l’apprensione di Saga che aveva esplicitamente chiesto di restare in contatto, in modo che anche lui potesse sentire quello che i due si dicevano.
Aiolos notò l'ansia del compagno. Non aveva fretta, avrebbero potuto simulare il combattimento anche in seguito, l'allenamento era appena iniziato.
«Saga, se vuoi cominciamo quando torna Kanon.»
«No, combattiamo ora.»
Si fronteggiarono e alzarono la guardia. Si osservarono a lungo, cercando di cogliere i movimenti muscolari che, come insegnava Galgo, avrebbero suggerito il movimento successivo. Le maglie a maniche corte lasciavano intravedere parte dei bicipiti e gli avambracci, i pantaloni non troppo larghi avrebbero permesso ad un attento osservatore di scrutare le contrazioni dei quadricipiti e in particolar modo del sartorio. Aiolos accennò un calcio, una piccola finta atta a verificare se l'altro sarebbe stato in grado di pararlo.
Saga arretrò di un passo. Aveva capito il movimento. Si fissarono un istante negli occhi e sorrisero, invitandosi reciprocamente all'attacco.

Il cavaliere d’argento portò il ragazzino greco in disparte, all’entrata del primo tempio che trovò sul percorso. Non erano lontani dal luogo dove si svolgevano gli allenamenti, potevano addirittura seguirli da lì, benché parte dell'arena fosse coperta da alcune mura.
Galgo si accomodò sui gradini consumati dal tempo e si sfilò l’elmo, lanciandolo al bambino che lo prese al volo, per poi  massaggiarsi con forza gli occhi stanchi e doloranti. Non poteva mancare ai suoi doveri anche se avrebbe voluto riposare almeno qualche ora.
Fu diretto e prese subito il discorso.
«Kanon, perché lo hai colpito così?»
«Così come?» chiese con poco interesse.
«Senza che fosse pronto». Era ovvio quello che intendeva Galgo. Sapeva che anche Kanon sapesse a cosa si riferiva, ma aveva preferito dimostrarsi distratto. Si sentiva un po' in colpa per quel gesto, ma dopotutto Ankel era stato avvertito prima dell'attacco. In quel momento il futuro guerriero pensava solamente a quello che gli era stato detto. Non erano vere le parole di Ankel. Non era pazzo.
Rispose comunque a Galgo, inghiottendo un'amara rabbia che non voleva si manifestasse.
«Ho solo colto il momento propizio, e comunque l’ho avvertito che lo avrei fatto. Affari suoi se non ha alzato la guardia.»
Pensava davvero che il rosso si serebbe bevuto tutto e che non avrebbe più proferito parola, invitandolo a dirigersi nuovamente nel punto di allenamento.
«Ho ascoltato quello che ti ha detto. Che ne pensi?»
Galgo non era stupido, tutt'altro. Poteva ben immaginare come si sentisse Kanon, che rispose con sincerità e con malcelato disprezzo.
«Che è un idiota.»
«Sicuro? A me è sembrato che tu abbia cambiato atteggiamento. Non lo vuoi ammettere ma le sue parole ti hanno ferito e anche in profondità. Kanon, vedi…io sono qui anche per parlare. Non sono solamente il vostro allenatore. Non devo solo insegnarvi l’arte della guerra ma anche forgiare dei guerrieri coscienti di cosa sia la guerra, e questa è senza dubbio la parte più difficile.
»
Galgo trasse un respiro e andò avanti nel discorso, cercando un contatto visivo col greco intento a fissare il gradino sul quale il suo interlocutore era seduto.

«
Ogni torto che subite dev’essere affrontato con serenità e spirito critico. Non so se riuscirai a capire le mie parole, ma non devi lasciarti ferire. In futuro, quando avrai un’armatura e sarai inviato nelle zone di guerra, ascoltare nuovamente commenti e insulti che non sei riuscito a superare ti renderà cieco, incapace di intendere e volere. Farai degli errori di cui ti pentirai. Mi capisci?»
«No.» Reticenza.
«Kanon, parla con me. Dimmi cosa ti ha fatto stare male.»
«Niente, l’ho lasciato andare perché non vale la pena misurarsi con un vigliacco. Sono più forte di lui e non voleva essere sconfitto davanti a tutti.»
Mentre parlava alzò lo sguardo fino ad incrociare quello del suo interlocutore. In fin dei conti non aveva fatto nulla di male e mal tollerava quella sorta di processo, non aveva bisogno di essere giudicato. Galgo, però, sapeva cosa lo aveva colpito come una freccia in pieno petto.
«Hai gli occhi di un pazzo, Kanon?»
«No.» pronunciato con le mandibole serrate in una smorfia che gli deformava il volto e gli occhi sempre fissi in quelli di Galgo.
«Come sono gli occhi di un pazzo? Lo sai?»
«No.» i suoi occhi tornarono a fissare il terreno, come in un'ammissione di colpa.
«Come i tuoi Kanon. Ma anche le persone tristi hanno lo stesso sguardo. Anche chi soffre, chi soffre tanto e non riesce a darsi pace. Tu soffri Kanon, e come te soffre Saga.»
«Come fai a dirlo? Voglio dire, io sono uguale a Saga, ma Saga è completamente diverso da me. Saga piace a tutti, è bravo e ubbidiente, io no. Saga non soffre quanto me. E comunque io non soffro.»
«Kanon, tu hai solo un animo più ribelle, non sei cattivo, ma se mi dici che non soffri possiamo andare. Torniamo all’arena.»
Galgo sperava di aver fatto breccia in quella dura corazza che Kanon era riuscito a crearsi col tempo. Quanto somigliava ad Angelo in quel momento, solo loro due si erano mostrati capaci di negare l'evidenza in quel modo, continuando ad ingoiare tutto il male e la tristezza che incontravano sulla loro strada.
L'unica cosa importante in quel momento era che Kanon riuscisse a comprendere di non essere cattivo e di non essere diverso dagli altri, o si sarebbe isolato sempre di più, rendendo più doloroso un futuro e possibile ritorno sulla strada giusta.
«Combatterai contro di me oggi così vedrò i progressi che hai fatto». Porse la mano al giovane greco, che subito gli porse l'elmo.
«Va bene»
Kanon rispose tranquillo, era felice di simulare il combattimento con il maestro, un cavaliere d'argento.
«Promettimi una cosa prima. Promettimi che penserai a quello che ti ho detto e che affronterai i giudizi della gente con intelligenza, senza farti schiacciare.»
«Lo prometto.»
La risposta di Kanon fu automatica, davvero non aveva pensato a quello che le sue labbra pronunciavano. Voleva solo tornare dal fratello, la cui sola vista, alle volte, aveva la capacità di rimettergli l'animo in pace e togliergli i cattivi pensieri.

Tornarono all’arena e iniziarono il combattimento, sotto gli occhi degli altri bambini che interruppero i loro.
 Era raro che chi allenava si confrontasse così con i discepoli. Galgo incoraggiò Kanon all'attacco ricordandogli gli insegnamenti base. Forse quello sarebbe potuto essere il primo combattimento del greco, il primo combattimento contro una persona notevolmente più forte, preparata, allenata e con maggior esperienza sul campo. Non si lasciò intimorire dalla mole del maestro e cercò immediatamente di dirigere i colpi verso la bocca dello stomaco, magari sarebbe riuscito a colpirlo e spezzargli il fiato per poi riuscire a dominare l'incontro.
Nella mente di Kanon saettavano rapide le possibili mosse e contromosse, era attento e l'armatura dei Cani da Caccia lasciava alla vista una buona porzione del corpo. I fasci muscolari delle braccia erano ben visibili e considerando il loro notevole sviluppo era impossibile non scorgere un minimo sussulto o spostamento delle fibre, che gli avrebbero potuto anticipargli le mosse successive, sempre che non si trattasse di finte.
Saga sorrise nel vedere il fratello concentrato in quello scontro, benché simulato. Vedeva negli occhi del gemello una determinazione e una voglia di dare il meglio di sè quasi nuove. Non lo aveva mai visto così motivato, e tantomeno  lo aveva visto tanto sicuro di sé.
Gli occhi di Kanon presero a brillare di una strana luce, intensa, mentre tentava di affondare qualche colpo all'irlandese, e in quell'esatto istante Saga sgranò gli occhi, incapace di riconoscere il fratello. Ebbe l'impressione di trovarsi davanti una nuova persona.
Quelli non erano i suoi occhi, quello non era il suo sguardo, quel brillio non era mai apparso, prima d'ora, così chiaro e luminoso.
Non durò più di un attimo quella strana luce e nessuno, eccetto lui, parve notarla.
Qualcosa dentro Kanon stava cambiando, destando la sua preoccupazione.
Sussurrò piano poche parole, affidandole al vento e sperando che nessuno le udisse.
«Che succede fratello?»


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Ringrazio tantissimo tutti i lettori silenti, Ricklee e NinfaDellaTerra per aver messo la fic tra le preferite e Spartaco per averla invece aggiunta tra le seguite.

Saruwatari_Asuka. Ciao! Vai tranquilla che i pensieri di Leurak sono i pensieri classici di chiunque quando si è un po' giù di morale, ma passeranno in fretta.
Sono immensamente felice che Leurak ti abbia conquistata, è un personaggio a cui tengo davvero tanto. Galgo si farà conoscere ancora meglio in futuro quando il Santuario comincerà a riempirsi davvero di piccoli guerrieri. Angelo lo adoro a prescindere da tutto. Aiolos, benchè sia un personaggio che non abbia mai potuto soffrire (troppo eroe senza macchia e senza paura), ho cominciato a rivalutarlo. Spero che ti sia piaciuta la descrizione dei due gemellini in questo nuovo capitolo, dove comincia già a delinearsi la personalità più cupa di Kanon. Grazie mille per la recensione e per la tua presenza! Un bacione!
whitesary. Hola! Grazie mille per la recensione. Mi fa piacere scoprire un'affinità tra te e Galgo e che coivolga  i residuati di tortura medievale. A me non fanno paura, ma i ragni e gli insetti si (come Joao), e non poco. Paura che ho dovuto imparare a superare per poter dare un esame, e per superarlo, non solo ho dovuto squartare insetti sotto formalina, ma ho dovuto raccoglierli e fare un insettario...che brutto periodo...Alla fine, ho pensato che la reazione alle fobie sia più o meno la stessa, anche se quella di Galgo l'ho un po' esasperata (rispetto alla mia). Spero che la storia continui ad essere di tuo gradimento! Ciao!
RedStar12. Cara, ci sei semprissimo e ne sono contenta, son felice che Galgo, ti piaccia, così come Joao e Leurak. Non dico niente riguardo ad Akylina, magari non ha nulla o magari si. Si scoprirà col tempo. Ti lascio in attesa della comparsa di Milo. Ciao ciao, un bacione!
miloxcamus. Ma non c'è bisogno che chiedi perdono, ti capisco fin troppo bene. I primi mesi estivi sono orrendamente brutti, mille mila esami da dare e non si ha il tempo materiale per farlo. E' una continua corsa contro il tempo, e il tempo la spunta sempre. Eccoti accontentata, e anche se non ho aggiornato presto perdonami! Baci, a presto!
NinfaDellaTerra. Ciao, mi fa un piacere immenso sapere che la storia ti piaccia, davvero. Spero che anche questo capitolo sia stato di tuo gradimento e che lo saranno anche i futuri. Al prossimo capitolo! Grazie mille per le gentilissime parole, ciao!
Spartaco. Ciao!! Il tuo personaggio preferito (che avevo intuito fosse Mu, considerando le tue fic) arriverà tra non moltissimo. Spero di non deluderti nella descrizione del piccolo tibetano e di non incombere in nessuna punizione. Shaka e Camus arriveranno presto ma non svelo nulla, lascio un velo di mistero.
Sono inoltre vergognosamente felice di averti fatto apprezzare Death Mask (e hai un segno zodiacale stupendo per quanto le mie conoscenze astrologiche si fermino all'elencare i segni in ordine), che di prepotenza è entrato tra i miei personaggi preferiti sorpassando il rappresentante del mio segno zodiacale (povero Aldebaran), e Shura che io stessa non ho potuto soffrire per molti, moltissimi anni. Al prossimo capitolo!

Sperando di riuscire a ritagliare un altro po' di tempo entro il 2029, ciao a tutti!!

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Capitolo 11
*** Riflessioni e timori ***


Capitolo 12 - partenze Appena terminato l'allenamento mattutino, dopo aver lasciato a Kanon la possibilità di affondare qualche colpo, Galgo desiderava solamente potersi distendere per qualche ora nel suo letto e riposare. Gli occhi gli bruciavano maledettamente e la luce del sole lo infastidiva, costringendolo a tenere gli occhi socchiusi.
Non riusciva a smettere di pensare a gemello greco e alle parole che si erano scambiati poco prima. 
Benché lui non avesse la responsabilità, si sentiva dannatamente in colpa per l'accaduto.
Forse avrebbe dovuto  prestare più attenzione ai rapporti che i bambini tessevano tra loro, evitando di dare importanza solamente all'allenamento e ai mille fantasiosi modi che esistono per uccidere.
Si chiedeva se anche Saga provasse l'inadeguatezza che evidentemente affliggeva il fratello minore.
Sarebbe stato un problema gestire i sentimenti di due preadolescenti in fase di ribellione totale e quasi aveva il terrore a pensarci.
L'unico modo che aveva in quel momento per sfuggire a quei pensieri era andare a parlare con qualcuno.
João sicuramente russava beato nel proprio letto, inconsapevole del piccolo dramma che viveva. Leurak sarebbe stato un ottimo consigliere e muro di sfogo, considerando poi che quando stava in mezzo ai suoi adorati pennuti diventava incredibilmente comprensivo, poi dopo la sua discussione con Aiolos, forse anche lui aveva necessità di sfogarsi un po'.

Riuscì a distrarsi guardando il volo dei falchi in lontananza. Sicuramente Leurak si era svegliato e aveva deciso di combinare qualcosa anche lui.
Quanto invidiava l'amico asiatico in quel momento, era riuscito a riposare qualche ora e non aveva dovuto assistere alla triste scenetta di Ankel e Kanon.
Quanto sanno essere crudeli i bambini alle volte, e riescono ad esserlo senza motivo alcuno.

Si diresse verso l'allevamento di corvi e falchi, con intento a non farsi attaccare.
Era pericoloso avvicinarsi senza avvertire Leurak, che avrebbe potuto non rendersi conto che i pennuti si lanciavano alla carica di uno sventurato ed incauto visitatore.
Decise di rischiare, al limite avrebbe riportato a casa qualche ferita e forse un occhio in meno, ma anche dover attirare l'attenzione dell'amico non era semplice visto che quando aveva a che fare col nero piumaggio dei corvi o con quello maculato e castano dei falchi riusciva ad isolarsi come se fosse su un pianeta lontano.

Camminò con calma e sbucò alle spalle del mongolo, intento a dare un pezzo di carne ad un meraviglioso falco pellegrino, un nuovo acquisto a giudicare dalle ridotte dimensioni del rapace, che restava appollaiato sul dorso della mano tendando di affondare gli artigli sulla protezione di tessuto.
Leurak teneva il lembo di muscolo tra i denti e lo offriva al volatile, era necessario che instaurassero un rapporto di fiducia e quello era il modo migliore che avesse imparato dal padre.
«Ciao scemo, attento o rischi che ti cavi un occhio.»
Esordì Galgo facendo sussultare l'amico che non si era accorto del suo arrivo, assorto com'era nel suo mondo.
«'uon 'hionno a he halho»
«Per favore, sputa quella carne. Che schifo. Con quale coraggio permetti al quel piccione di mangiarti dalla bocca?»
Leurak obbedì e consegnò manualmente la razione al rapace che, senza troppi complimenti, lo ingoiò per poi sbattere le possenti ali quasi a voler schiaffeggiare il suo allevatore.
«Tsk, ingrato di un pennuto. - Si rivolse poi a Galgo - Non sono sporchi, anzi. Poi mangiano solo le cose migliori. Chiamali scemi. Ma piuttosto, come mai da queste parti oh nobile cavaliere d'argento appartenente alla gloriosa costellazione dei Cani da Caccia? Sei riuscito a dormire un po?»
«No, dovevo allenare i ragazzi stamattina e infatti sto quasi dormendo in piedi. E' successa una cosa strana stamattina.»
«Cosa? Qualcuno si è fatto male?»
«Più o meno, o meglio, Ankel ha il naso rotto.»
Leurak strabuzzò gli occhi incuriosito. Ripose il falchetto su un piccolo trespolo improvvisato e si accinse a rimuovere la mangala dalla mano.
«Ma perchè non usi il guanto in cuoio? Rischi di farti male con quel coso.»
«Ma cosa dici! Il falco è educato e poi noi asiatici siamo meno fifoni riguardo il dolore. Meglio il tessuto di quello scomodo guanto che usate voi occidentali. Lo sai perchè vi si ribellano i falchi? Perchè con quel guanto eliminate il contatto con loro, issate una barriera e loro si offendono e giustamente vi infilano gli artigli nelle carni...ma non parlavamo di questo. Capita che i ragazzi si facciano male. Meglio il naso di un braccio. Dov'è il problema?»
«Il problema c'è. Glielo ha rotto Kanon, con un pugno che era un capolavoro, però avrebbe potuto evitarlo. C'è stata una discussione tra i due, una discussione che ha lasciato di sasso anche a me, per cui posso solo immaginare come si sia sentito il ragazzo.»
Leurak gettò la mangala da una parte e prese posto su un sasso, invitando l'irlandese a fare altrettanto.
Mentre questi si accomodava si tolse l'elmo e lo rigirò tra le mani prima di iniziare a raccontare per filo e per segno l'accaduto.

«Dici sul serio? Gli ha detto che ha gli occhi di un pazzo?»
In risposta ottenne un verso mugugnato accompagnato da un lento annuire del capo.
«
Accidenti, è un bel rospo da ingoiare.»
«Già, ho provato a parlare con lui e forse ha capito quello che volevo dirgli, ma non ne avrò mai la certezza. Ho cercato di distrarlo dai suoi pensieri proponendogli di simulare il combattimento con me. E' stato bravo.»
Fu il turno di Leurak per annuire.

Anche Galgo cominciava a porsi le domande che si era posto lui solo poche ore prima. Si parlava tanto di giustizia al Santuario, ma vederla era raro. Forse era necessario crederci davvero, desiderarla e sperare intensamente di riuscire a portarla sulla terra. Ma Leurak stava lentamente abbandonando la speranza di un mondo giusto, certe cose si vedono solo nei film.

«Senti Galgo, posso farti una domanda un po' compromettente?
»
«Certo, l'importante è che non mi chiedi di sposarti.»
«Lo sapevo che avresti rifiutato le nozze, bruto! No dai, è importante. Ieri notte ho parlato un po' con Aiolos. Lo conosco da parecchio ormai ma non avevo mai avuto l'occasione di parlarci davvero. Mi ha parlato in un modo che mi ha spiazzato, ha esposto la sua teoria sulla giustizia con una tranquillità che non donerebbe al Gran Sacerdote stesso, figurarsi ad un ragazzino di dieci anni ... ma non so neanche io dove voglio andare a parare.»
«Ti sembra strano che abbia capito cose che a te sfuggono vero?»
«Esattamente. Mi da l'impressione di essere stato assorbito totalmente dal suo ruolo nel mondo. Io non ho ancora capito se ne ho uno.»
«Hai i tuoi passerotti tu. Finchè ti dedicherai a loro sarai utile. Io inizio a dubitare della mia di utilità invece.»
«
Smettila rosso, non ti si addice questo piagnisteo senza senso. Il frignone sono io, non ci sei capace tu, cerca di non rubarmi la scena.»

Restarono in silenzio per qualche minuto, seduti l'uno accanto all'altro a fissare le nuvole in quota che saettavano sulla distesa azzurro intenso. Il cielo segnava il passaggio dall'estate all'autunno. Le giornate si accorciavano ogni giorno di più e assieme a loro sembrava diminuire anche il buon umore dei cavalieri e dei soldati.
Allenarsi durante l'estate era massacrante e il caldo riusciva a togliere qualunque energia, ma gli addestramenti invernali si rivelavano deprimenti. Correre sotto un cielo nuvoloso, plumbeo e minaccioso rendeva nervoso chiunque, farlo sotto la gelida pioggia di dicembre e gennaio riusciva a far dolere ogni singolo osso del corpo, inoltre il freddo pungente che sembrava lacerare la pelle, arrossandola e screpolandola, rendeva il tutto ancora più difficile.
«Ehi Galgo. L'estate lascia posto all'inverno. Un altro ciclo si conclude.»
«Tornerà l'estate.»
«Sì, è vero. Ma dopo l'estate ci sarà un nuovo inverno.»
«Sei deprimente oggi.»
«Sono realista oggi.»

Nessuno dei due aveva troppa voglia di parlare davvero. La presenza di un amico è consolatoria anche se avvolta dal silenzio, e in quel momento, Galgo e Leurak avevano solamente bisogno di avere qualcuno vicino. La silenziosa pace, che donava loro qualche riflessione, fu presto interrotta dal sopraggiungere di un soldato.
Arrivò correndo ed esibendo un rumoroso fiatone che fece contorcere i lineamenti di Galgo in una smorfia di disappunto; un soldato doveva essere in forma, sempre.
«Galgo, ti ho cercato per tutto il Santuario. - il soldato ventilò per riempire i polmoni di ossigeno - il Gran Sacerdote ha bisogno di parlare con te, sembrava urgente, per cui credo sia meglio che ti sbrighi. Lo trovi al tredicesimo tempio.
»
Conclusa la frase e finito il suo compito, il soldato si sedette su un sasso poco distante dai due amici.
«Ho capito - disse l'irlandese alzandosi e riposizionando l'elmo tra i folti ricci - niente nanna oggi. Leurak sappi che è tutta colpa tua, ci vediamo stasera.»
«Divertiti rosso. A stasera.»

Leurak fissò i capelli dell'amico ondeggiare mentre si allontanava in direzione dei tredici palazzi che presto avrebbero visto i nuovi custodi. Com'era ipnotico quel movimento. Sorrise a pensare che si trovava lì, in quel posto, vestito come un antico greco per colpa di quell'ammasso di capelli scarlatti.
«Ehi Leurak, ma quel piccione sta male?»
«Alexandros, quello è un corvo. E sta meglio di te. Sai che farei al tuo posto? Una bella corsetta. Hai la stessa resistenza di un comodino che rotola giù per una scarpata.»
«
Sembra un piccione.»
«Solo perchè non ne hai mai visto uno in vita tua di piccione.»
«Hai anche colibrì?»
«Ti sembra ci sia scritto minizoo qui da queste parti?»

-

Galgo camminava a passo lento, fino a fermarsi davanti alla scalinata che lo avrebbe condotto fino al primo tempio.
Scrutò con attenzione tutti quei gradini, rovinati dal tempo e dalla pioggia. Presto non sarebbe più stato possibile salire quelle scale senza annunciarsi e chiedere il permesso di passare. Pensava a quella piccola masnada di bambini, li immaginava adulti e si chiedeva chi di loro sarebbe diventato custode di questi templi.
Prese coraggio e si avviò.
Aries, Taurus, Gemini, Cancer, Leo, Virgo, Libra, Scorpio, Sagitter, Capricorn, Aquarius, Pisces.
Dodici templi per dodici paladini.
Salì l'ultima scalinata, quella che conduceva dal tempio di Pisces al tempio in cui risiedeva in Gran Sacerdote e nel quale, presto, sarebbe stata presente la reincarnazione della dea.
Il gigantesco tempio sembrava scomparire dinnanzi alla maestosità della statua della Pallade. Così fiera d'aspetto eppure così serena.
Le rivolse un saluto e si accinse ad entrare; Sion lo attendeva.
Lo trovò seduto sul suo trono, intento a massaggiarsi le tempie nell'intento di alleviare un poderoso mal di testa.
«I miei omaggi Sommo Sion.» nel pronunciare la frase si chinò elegantemente fino a far poggiare un ginocchio sul candido marmo che tappezzava la vasta sala del pontefice.
«Buongiorno Galgo, grazie per essere venuto qui il prima possibile, ho una nuova missione da affidarti.»
«Di che si tratta?»
«Devi recarti in Russia, a Mosca per l'esattezza. C’è un altro prescelto.»
 Sion era serafico come sempre, ma  il suo volto dimostrava una certa stanchezza. Nell’ultimo periodo si recava quasi ogni notte all’Altura delle Stelle, con l'intento di percepire i cosmi dei prescelti che si risvegliavano, facendosi sentire sempre più spesso.
«Chi è?» chiese Galgo incuriosito, ma allo stesso tempo infastidito, senza sapere lui stesso il perchè, dalla nuova missione.
«Un bambino  francese. E’ rimasto orfano due giorni fa. Il suo cosmo gli ha salvato la vita evitandogli l'assideramento.»
«Povero bambino. Quanti anni ha?»
«Solo tre. Almeno sarà in buona compagnia.»
«Quando dovrei partire?»
«Domani. Ho già preparato tutto. Tu dovrai pensare solamente al viaggio di ritorno, come consuetudine.»
«Sommo Sion, cosa ci fa questo bambino in Russia?»
«Viaggiava con i genitori su una nave. Mentre la nave si accingeva ad attraversare lo stretto di Bering è accaduto il disastro. Un iceberg. La nave è affondata in poco tempo e tutti i passeggeri e l’equipaggio sono morti assiderati. Tutti tranne questo bambino. Si chiama Camus.»
L'ennesima storia triste.
L'irlandese cominciava a non sopportare più la sua carica. Quanti bambini orrendamente segnati dalle circostanze avrebbe conosciuto e allenato?
I suoi pensieri erano ancora diretti versi Kanon.
«Come l’hanno trovato?»
«Tra le braccia della madre. In acqua. Inutile dirti che per il resto del mondo questo sia un prodigio. Il bambino sta bene, fortunatamente.»
«Possibile che nessuno di questi bambini possa avere un’infanzia normale?»
«Galgo, chi è prescelto dalla dea Atena per vestire un’armatura dorata deve conoscere la sofferenza. In teoria il concetto dovrebbe essere applicato a tutti i cavalieri. Compresi quelli di bronzo e quelli d’argento. Ma c’è sempre una variabile incalcolabile. Il caso non è da sottovalutare. Certo, ammetto io stesso che questa nuova generazione di guerrieri sarà difficile da gestire. Il caso non è stato clemente.»

Sion e Galgo non si guardavano più negli occhi. Entrambi fissavano un punto non ben identificato dello splendente pavimento di marmo, bianco e lucido. Pensavano a tutti quei bambini. Nessuno di loro avrebbe vissuto un’infanzia degna di essere chiamata tale, nessuno di loro avrebbe mai conosciuto la spensieratezza di quei pochi anni che concedono di sbagliare senza subire conseguenze. Nessuno di loro. Galgo si trovava a rimpiangere la sua scelta. Restare al Santuario l’aveva messo in condizione di conoscere tante persone meravigliose, e quasi tutte portavano nell’animo un peso pari al loro amore per la vita. Molti adulti, guerrieri di Atena, erano stati catapultati in una dimensione intrisa di dolore e frustrazione. E lo stesso valeva per tutti i bambini. Galgo avrebbe voluto non sapere. Soffriva, come aveva sofferto quando il piccolo Angelo gli aveva raccontato la sua storia durante il volo. Era stato Angelo stesso ad uccidere i genitori, e ancora non ne aveva coscienza. Con quali parole gliel’avrebbe detto?  Come dirgli che lui  è l’artefice della propria sventura? Non riusciva a darsi pace. Eppure lo avrebbe dovuto dire lui al bambino, dopotutto era il suo maestro.
Galgo sembrò riscuotersi.
«Rifiuto l’incarico.»
«Come? Galgo, questa si chiama diserzione.»
«Non fraintendetemi Sommo Sion. C’è una persona più indicata di me qui al Santuario. Akylina sarà perfettamente in grado di espletare il compito che state affidando a me. Lei è francese da parte di madre. Potrà comunicare col bambino.»
«Sei sicuro Galgo? Akylina è molto giovane ed inesperta. L’incarico è delicato. Non posso permettermi errori.»
«Perdonatemi se ve lo faccio notare, ma mandare Dioskoros a prendere un bambino è stato un grosso errore. Non credo sia possibile fare peggio di lui.»

Sion si sentì toccato da quelle parole, ma Galgo aveva ragione. Aveva commesso un grosso errore di valutazione. Dioskoros era una testa calda.
«E sia. Comunica ad Akylina che domani stesso partirà per Mosca. Galgo, ti riterrò personalmente responsabile di quello che accadrà.»
«Non c’è problema. Andrà tutto bene.»
«Puoi andare ora.»

Galgo s’inchinò ed uscì dal tredicesimo tempio. Attraversò i templi vuoti dei dodici cavalieri d’oro. Era da tanto tempo che il Gran Sacerdote non presiedeva al suo tempio. Dopo tutto, per accogliere i bambini, non era necessario stazionare lì.

Si guardava attorno, scrutò attentamente tutti i dodici templi e immaginò i suoi discepoli al loro interno, con l’armatura addosso. Che fantasia dolceamara. Li immaginava fieri e potenti, col petto rigonfio di orgoglio e sul viso un’espressione di superiorità. Rilucenti e magnifici, imponenti e fieri.
Mentre sorrideva a quelle fantasie si trovò a chiedersi se lui sarebbe vissuto tanto a lungo da vedere i dodici guerrieri dorati.
Arrivato alla prima casa si fermò e guardò il Santuario. Poteva scorgere i dormitori e parte delle arene da lì. Aveva le braccia conserte, il viso alto e la brezza fresca, quasi invernale ormai a smuovergli i capelli vermigli. Si ritrovò a pensare alle brughiere della sua terra, alla pioggia e al cielo quasi sempre grigio. Gli mancava casa sua, soprattutto in quel momento. Il suo animo era turbato. Sarebbe arrivato un altro bambino e dopo di lui altri.
Scese i gradini che lo condussero fino ad un largo piazzale e si diresse verso casa sua.
Trovò Akylina intenta a scagliare improperi contro il costante disordine di Leurak.
«Ma come accidenti fa a lasciare tanta roba in giro? Non sono la sua cameriera, dannazione. Aspetta che rientra e lo attacco al muro. Non la passa liscia questa volta.»
«Buongiorno, di nuovo.» Galgo le si avvicinò con un sorriso amaro sulle labbra.
«Buongiorno di nuovo a te, Miach. Ti vedo cupo, che c’è? E’ successo qualcosa?» Akylina interruppe gli insulti e si mostrò subito seria e preoccupata per l’atteggiamento insolito di Galgo.
«Miach …  da quanto tempo non sentivo il mio vero nome … ero quasi convinto di chiamarmi Galgo. Lo sai che vuol dire il mio nome?»
Akylina scosse la testa in un cenno di dinniego. Non lo sapeva e mai aveva pensato alla possibilità che Miach potesse avere un significato.
«Orgoglioso. Significa orgoglioso in gaelico.»
«E' un bel nome, anche il suo suono è musicale.»
«
Musicale? Miach?! Sembra il rumore che fa un rospo quando viene schiacchiato.- Gonfiò le guance ad imitare una rana e finse di venire schiacciato, fino a pronunciare il suo nome come ultimo turpe suono. Meock! - Sii seria, non è un nome, è una scorreggia.»
Lei non potè fare a meno di ridere sia per l'affermazione che per la buffa imitazione dell'anfibio. Ma si era resa conto che qualcosa non andava nell'amico.
«Cosa c'è -Meock-?» Lo imitò, strappandogli un sorriso.

«Leurak ti sta contagiando con la sua scemenza, chiedi il divorzio finché sei in tempo.»
«Non ci crederai ma ci stavo pensando, guarda che disordine. Vorrei proprio sapere che fine ha fatto.»
«Sta facendo svolazzare passerotti.»
«Come sempre quando non si riesce ad incastrarlo nei turni di pulizie della mensa.»
«Esatto»

Mentre Akylina si perdeva nel verde intenso e brillante degli occhi dell'amico, lui guardava il suo volto stanco riflesso sulla maschera e infine parlò.
«Senti Akylina. Hai una missione.»
Akylina sussultò. Una missione? Lei? Non poteva crederci.
«Davvero? Cosa devo fare? Sarebbe la mia prima missione.»
«Devi andare in Russia.»
«In Russia?» era sorpresa.
«Sì, un altro prescelto. Si tratta di un bambino di tre anni. Si chiama Camus. E’ rimasto orfano pochi giorni fa, è stato ritrovato a galleggiare nelle acque dello stretto di Bering stretto tra le braccia della madre. Il bambino è francese.»
«Mandate me perché parlo francese immagino.»
«Non solo. E’ il momento che anche tu svolga la tua funzione qui al Santuario. Il Gran Sacerdote aveva designato a me questa missione, ma l’ho rifiutata ed ho interceduto per te. Vai Akylina, spacca il culo al mondo e torna col bambino.»
«E se il bambino non volesse seguirmi? Come faccio Miach?»
«Non preoccuparti. Sei stata in grado di comunicare con Shura e Tyko il giorno in cui sono arrivati. Ora sei avvantaggiata, tu e il bambino parlate la stessa lingua.»
Akylina non era convinta. Aveva il timore che potesse accadere l’impensabile. Galgo le parlò con dolcezza e riuscì a convincerla a partire. Anche lei era dispiaciuta per l’ennesimo bambino orfano.
«Vai Akylina. E’ una buona occasione per dimostrare a tutti chi sei. Sei rimasta nell’ombra per troppo tempo.»
«Sì. Proverò. Spero solo di non fallire.»
«Cosa devi fallire? Devi solo portare un bambino da Mosca a qui. Il fallimento non è contemplato perché non c’è la possibilità di fallire.»
«Hai ragione. Grazie Miach.»
«Ma grazie di che. Prepara le valigie piuttosto. Partirai domani.»

Dopo essersi salutati, Akylina seguì il consiglio dell’amico e andò a fare i bagagli. Galgo decise di riposare qualche ora. Raggiunse la casa accanto ed entrò.
Quando si coricò, ripensò al mese appena trascorso, con João a fargli da scendiletto e il letto dell’amico occupato da tre bambini. I suoi discepoli. I loro discepoli. Si era affezionato molto a tutti e tre, ma ogni suo pensiero era diretto verso Angelo. Si addormentò pensando al viaggio in aereo e alla frase che lo sbigottì più di tutto “Io sono brutto?”. Ora anche Kanon sembrava aver bisogno di un contatto umano più serrato. Sperava solo di riuscire a fargli comprendere quanto fosse speciale, come lo erano tutti i bambini del Santuario, e in un modo o nell'altro ci sarebbe riuscito.

-
Mentre Galgo si abbandonava al ricercato e atteso riposo e Akylina preparava il minimo indispensabile per il viaggio, Aiolos si diresse verso le arene destinate ai bambini più piccoli alla ricerca del fratello. Aveva deciso assieme ai gemelli di chiedere anche a lui il proprio parere riguardo i nuovi arrivati.
Lo trovò intento a giocare con Milo e con altri piccoli.
Avevano scavato una piccola buca in uno dei lati dello spiazzo sabbioso e dopo aver stabilito una distanza minima di tiro, ci tiravano dentro dei sassetti raccolti nei paraggi. Il piccolo greco stravinceva, facendo infuriare non poco il piccolo leone, che già iniziava a mostrare tutto l'orgoglioche aveva in corpo, e gli altri bambini, ma d'altronde aveva una mira eccezionale.
Aiolia alzò lo sguardo verso l'entrata e vide il fratello camminargli incontro mostrandogli un sorriso e, dimentico del gioco, lanciò in aria il sassetto e gli corse incontro.
La pietrolina rimbalzò sulla testa del piccolo greco, che lanciò un'occhiata poco gentile all'amichetto.
Aiolos condusse il fratellino nelle camerate che li ospitavano prevalentemente durante le ore notturne, li mise seduto sul letto e gli chiese cosa pensasse dei tre nuovi arrivati. Mentre Aiolia esprimeva pareri poco sensati, il maggiore si rese conto che l'attenzione del fratello era rapita da qualcosa che si muoveva oltre la soglia alle sue spalle. Si voltò ma non vide nulla, anche se intuì di chi si potesse trattare.
Si avvicinò lentamente all'entrata della camerata e di scatto si sporse a vedere chi ci fosse.
La sua intuizione si riveò corretta: Milo.
«Milo, che ci fai qui?»
Aiolos ottenne come risposta solo una scollata di spalle, poi seguita da un'esauriente spiegazione.
«Ero curioso. Che fate? Posso farlo anche io?»
Aiolos colse l'occasione.

«Hai già conosciuto i nuovi arrivati?»
«Nuovi arrivati? Chi sono? Come sono? Sono simpatici?»
«Questo dovrai dirmelo tu quando li conoscerai.»
Milo sfoderò un sorriso atto a far capire al greco che avrebbe fatto di tutto per conoscerli, ma prima avrebbe dovuto scoprire dove si trovavano.
«Tornate alle arene ora.»
Aiolia scese dal letto e si diresse verso Milo, assieme si incamminarono per tornare dagli altri, seguiti dallo sguardo del maggiore.
«Aiolia, io vado. Non dirlo a nessuno.»
«Dove vai?»
 «A conoscere i nuovi.»
«Ma non sai dove sono.»
Milo si soffermò a pensare alle parole dell'amico, finchè non sorrise: aveva appena avuto un'idea.
_______________________

Dopo aver riscritto questo capitolo una ventina di volte ( e senza ottenere i risultati cercati, ovviamente) ve lo presento. Mi scuso subito per il ritardo, ma davvero stavo cercando di sopravvivere a esami (a dir la verità, da ora fino a settembre è finita), lavoro (per un po' ciao anche a quello), insonnia (sempre presente), temperature di 43 gradi (°A°), incendi di varia natura e voglia di non fare un beneamato accidente. Spero che il capitolo risulti di vostro gradimento e vi saluto. Ciao ciao!
P.S. Chi si sta già godendo le vacanze ha tutta la mia invidia, ma vi raggiungerò presto.

Ringrazio con gioia chi segue la fic senza commentare, stantuffo, quinto Livello e Violet Nearina per aver aggiunto la fic alle preferite e a Spartaco che l'ha aggiunta tra le seguite,
riempiendomi il cuore di gioia.
Infine un "gigantorme" grazie a chi ha voluto lasciare una recensione o un commento, che sono sempre graditi:
Ricklee. Ciao! Grazie mille dei complimenti! Non spoilero nulla sulle prossime comparse, ma già da questo capitolo si capisce chi sarà il prossimo goldino, Milo fa delle finte comparsate per il momento e arriverà presto, come arriveranno Shaka, Aldebaran e Mu. Sono felice che ti piacciano Galgo e
João, sono un bel duo assieme. Ma anche Leurak e Akylina non sono da meno (spero almeno). Al prossimo capitolo, grazie mille per la recensione!
Saruwatari_Asuka. Tesoro grazie per la tua presenza costante, sono felicissima che la mia descrizione dei due gemellini ti sia piaciuta, avevo il terrore di fare un pastrocchio incredibile. Anche a me piacciono da morire i gemelli, ma più che altro mi ritrovo ad invidiarli profondamente. Generalmente si tratta di legami così particolari e profondi che per descriverli sarebbe necessario scrivere un trattato (difatti lo fanno e continuano). Mi piace l'idea di non essere mai soli anche quando lo si è fisicamente, ma è meglio che mi fermo o non la smetto più. Per quanto riguarda l'odio dei due per la mamma mi è sembrato un buon motivo per cominciare a distinguere le diverse personalità dei monelli, simili ma diversi. E infine: ebbene sì, Kanon comincia a cambiare, ma è un piccolo cambiamento che a quanto pare è stato notato solo dal fratello, ma solo perchè nessuno meglio di Saga lo conosce. Che ti è sembrato questo capitolo? Un bacione!!
Violet Nearina. Ciao! Grazie per aver letto e commentato, mi fa piacere che la storia sia di tuo gradimento. Alla prossima!!
Spartaco. Ma ciao! Sono felice che il capitolo precedente ti sia piaciuto e spero sia lo stesso per questo. Certo che conosco le tue fic, le ho apprezzate moltissimo. Piano piano verrà mostrato il cambiamento di Angelo/Death Mask, dopotutto è bello che i cattivi abbiano un motivo di esser come sono. Visto che non ti ho fatto aspettare fino al 2029? Ho rinviato l'insurrezione di qualche giorno :P Ciao ciao e a presto!
Camus. Sono felice che ti piaccia il contatto tra i pargoli gemelli, Milo continua a fare le sue comparsate, ma presto si paleserà ufficialmente. Anche Camus è in arrivo.

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Capitolo 12
*** Milo in azione ***


Riflessioni, timori e nuove conoscenze Galgo entrò in casa e si diresse verso la stanza da letto a passo lento, trascinando i piedi. Vide il corpo dell'amico ancora immerso nel sonno, dormiva profondamente, ignaro di tutti i recenti avvenimenti riguardanti Kanon. Decise che gli avrebbe parlato in serata, avrebbe voluto sapere.
Con lentezza si diresse verso il letto e si coricò senza levarsi gli abiti, troppo stanco per la notte in bianco e per gli allenamenti.
Prima di lasciarsi andare al sonno ripensò al mese appena trascorso, alla presenza dei tre bambini in casa e all'amico che aveva svolto funzione di scendiletto.
I suoi discepoli. I loro discepoli, suoi e di João.
Angelo lo aveva colpito nel profondo, lo incuriosiva.
In qualche modo era riuscito a stabilire da subito un rapporto confidenziale col delinquentello;
forse perchè si era recato in Sicilia a recuperarlo, forse perché era riuscito a strappargli  il racconto del suo passato, forse perché aveva trovato un bambino fortemente disilluso dalla vita e dalle persone, poco interessato a cercare un contatto, timoroso di soffrire ancora per stupidi pregiudizi.
Non riusciva a darsi pace.
Continuava a rimuginare sull'assassinio dei genitori di quel bambino, come avrebbe fatto a dirgli che il colpevole era lui? Come trovare le parole per dire ad un bambino una cosa simile?
Non sarebbe riuscito a parlar chiaro ad un adulto su un argomento del genere, figurarsi parlarne ad un bambino di soli sei anni.


Mentre si lasciava trascinare via dal sonno, nell'istante esatto in cui la sua mente iniziò a proiettare tutte le immagini apparentemente senza senso che vengono prima del sonno, prima di scordarle e passare al sogno, rivide il volto di Angelo durante il viaggio. Quell'espressione quasi corrucciata e vergognosa. Quella timidezza innaturale che lo aveva colto in quel momento, mentre gli chiedeva: "Io sono brutto?".
Quella semplice ammissione di insicurezza lo aveva spiazzato. Si era costretto a non pensarci, dopotutto era solo un bambino.
Sarebbe cambiato col tempo, lui avrebbe contribuito a renderlo un uomo; un vero cavaliere.


**

João si stiracchiò nervosamente prima di rendersi effettivamente conto di essere sveglio.
Aprì gli occhi con calma e si dette una sguardo attorno.
Galgo dormiva tanto profondamente da sembrare morto. Il respiro era lento e regolare, profondo e silenzioso.
"Devi essere distrutto" - pensò il portoghese, prima di  trovare la forza di alzarsi e andare a darsi una bella sveglia.
Aveva voglia di scambiare due chiacchiere e pensò di fare un salto nella casa accanto, sperando di trovare i due inquilini.
In pochi minuti si preparò ed uscì, era sicuro che avrebbe trovato Akylina e Leurak in casa, forse intenti a litigare, come sempre.

I due soldati non c'erano. Decise allora che avrebbe fatto una passeggiata e che forse sarebbe andato a trovare Tyko, Shura e Angelo. Dopotutto avevano passato una notte in bianco per stargli vicino, andare a verificarne anche le condizioni era d'obbligo. E niente meglio di una passeggiata aiutava a schiarire le idee.

Si avviò con calma verso i dormitori dei giovanissimi, a passo lento, guardando il cielo che iniziava a farsi autunnale.
La pesante cappa di afa che soffocava il Santuario ogni estate andava svanendo, i contorni dei monti si palesavano e anche il mare iniziava a risplendere di una nuova luce. Una luce nitida e forte.
Il sole era sempre meno caldo e la durata delle ore di sole era in diminuzione. Giornate sempre più brevi e fresche. Arrivava un nuovo inverno, un inverno ricco di eventi e nuove conoscenze. Altri bambini sarebbero arrivati, e dopo di loro altri ancora.

Non gli dispiaceva circondarsi di fanciulli, anche lui tornava bambino con loro. Ma il tempo dei giochi e delle spensieratezze non poteva durare più di qualche settimana, tempo che sarebbe stato dedicato all'allenamento e all'imparare.
Alcuni dei bambini erano già grandicelli e avevano iniziato l'addestramento da diverso tempo: come Aiolos, Saga e Kanon. Altri si accingevano ad iniziare: come Shura, Angelo e Tyko, altri ancora avrebbero dovuto attendere un po'. La speranza di João, la più grande e nascosta, era quella di non vedere arrivare nessun altro bambino, nessun'altra creatura alla quale la vita aveva tolto tutto, troppo presto.

«Ehi gigante, spostati che mi togli i raggi del sole!» trillò una voce alle sue spalle, voce che gli strappò un sorriso.
«Ciao Leurak.» rispose senza voltarsi.
«Come hai fatto a riconoscermi?» chiese fintamente sorpreso.
«Pensi che sia scemo?»
«Sinceramente un po’ sì, ma fammi passare.»
Fu allora che il portoghese si girò e vide l’amico con due corvi appollaiati su un braccio e un falco sulla mano. Si stupì nel vederlo così.
«Fammi passare o mi caveranno gli occhi, sono nervosetti e portarli in mezzo ai bambini ora forse non è una buona idea.»
«E allora non portarceli, genio. »

«Ma sei matto? Ho promesso a Milo che glieli avrei fatti vedere, se non li vede neanche oggi mi assillerà sinché non avrà quarant’anni e sai bene com’è Milo.»
«E’ vivace.» rispose serafico.
«Vivace? Milo vivace!? Vivace è riduttivo, Milo è un tornado!»
«Secondo me esageri, meglio che sia così. Ha solo tre anni ed è giusto che sia pieno di energie.»

«Non lo metto in dubbio, caro il mio armadio lusitano, considerando anche il fatto che la sua presenza in questo posto implica necessariamente il fatto che avrà una vita stupendamente brutta. Adoro quel bambino e lo sai bene, ma sono mesi che ogni santo giorno mi assilla “i corvi, i corvi, voglio vedere i corvi” – mimò la voce e i gesti del bambino – e ogni giorno cerco di rimandare, non vorrei che gli cavassero quei bellissimi occhietti azzurri, ma ora ho deciso, sarà accontentato.»
Parlava velocemente, senza prendere fiato e cercando di rivolgere lo sguardo il più lontano possibile dall’amico. Sembrava uno sfogo quello di Leurak, non un semplice scambio di parole.
João si rese conto dell'inusuale comportamento dell'amico, benché cercasse di mascherarlo.
«Leurak stai bene?» gli domandò preoccupato.
«Uhm, sì. Perché?»
«Dimmi.» 
«Cosa?»
«La verità.»
Leurak abbassò lo sguardo a terra e liberò i pennuti. Sospirò profondamente e si avvicinò a João.

«Non ti si può nascondere nulla, vero?» domandò sorridendo amaramente.
«Certo che mi si possono nascondere le cose, solo che non sei capace a farlo. Tu e Milo vi somigliate parecchio, lo sai? Due uragani sempre in movimento, dispettosi e vergognosamente incapaci di mentire.»
«Milo dice un mucchio di bugie.» brontolò Leurak, incrociando le braccia.
«Anche tu ne dici parecchie, ma non mi sembra che qualcuno si sia mai bevuto qualcuna delle tue fesserie, lo stesso per Milo.»
«Si può sapere che hai contro di noi?»
«Non ho niente contro di voi, anzi, un po’ vi invidio. Avete una fantasia talmente grande e galoppante che riuscite a rifugiarvi altrove per un po’ di tempo. Sì, vi invidio.»
«Ehi, ma che succede al Santuario oggi?»
Leurak interruppe João, solo poco tempo prima aveva avuto una conversazione deprimente con Galgo, e ora, anche il portoghese sembrava essere non troppo sereno.
«Cosa intendi Leurak?»
«Prima ho parlato con Miach, era preoccupato perché Kanon ha dato fuori di matto e-»

Venne bruscamente interrotto dal portoghese.
«Cosa? Kanon? Cos’ è successo, Leurak?»


Il soldato mongolo desiderò essersi morso la lingua.
Per João, Kanon e Saga erano intoccabili. Aveva fatto una promessa a Rasalhague, la madre, anni prima, promessa che aveva intenzione di mantenere.

«Calma João, non è successo niente, solo un litigio tra ragazzi. Non c’è di che preoccuparsi, lo sai come sono.»
«Leurak, devo vegliare su di loro, l’ho promesso a Rasalhague in punto di morte, non posso mancare. Tutto ma questo no.»
«Ti manca, non è vero? Ti manca ancora.»
«Sempre di più Leurak, sempre di più. Sai, credevo che sarei riuscito a far da padre ai suoi figli, ad essere la figura che Goran non è riuscito e non è potuto essere, speravo che le cose sarebbero potute andare bene per tutti. E invece…Rasalhague è morta, ha lasciato due bambini piccoli dei quali dovrei prendermi cura e non riesco. Non posso lasciare che loro, per colpa mia…»

«Smettila di piangerti addosso, razza di letto a baldacchino che non sei altro. Hai fatto del tuo meglio e questo basta. Avranno una vita di merda, rassegnati a questo. Non saranno mai bambini normali e lo sapevi da parecchio tempo, e lo sapeva anche lei. Solo che lei ne era fiera; madre di due prescelti; anche se uno di loro non vestirà mai l’armatura, a meno che il fratello muoia. E anche tu, come Galgo, non sei portato per frignare.»
«Leurak, non puoi capire.»
«Posso capire benissimo. Non ti rendi conto di quanto mi sia pentito di essere rimasto qui. Maledico ogni giorno il momento in cui ho visto i capelli di Galgo ondeggiare a destra e sinistra. Non mi piace quello che vedo, João, non mi piace proprio. Io vorrei vedere tutti questi bambini giocare, gridare, ridere, non li voglio vedere mentre si prendono a pugni e imparano a combattere. Decisi di rimanere perché mi sembrava tutto così bello e diverso rispetto al mondo esterno, ma mi rendo conto che le cose non sono come sembrano. Soprattutto perché mi vesto come Leonida e vivo duemilacinquecento anni dopo di lui.»
«Non perdi mai la voglia di scherzare. Questo mi piace di te, molto. Vorrei avere il tuo stesso spirito, davvero.»
«Scherzo per non mettermi a piangere, solo per questo. Vorrei portare via questi bambini e distruggere questo posto, dire ad Atena di ricontattarli da adulti, quando saranno in grado di decidere, come abbiamo fatto noi. Questo sarebbe giusto. Non hanno libero arbitrio João.»
«Lo hanno Leurak, solo che la loro strada è già segnata, come lo è stata la mia. Io ho scelto di camminare con calma. Loro faranno altrettanto. Decideranno se camminare o correre, se andare scalzi o usare scarpe pesanti. Questo dipende da ogni singolo uomo.»
«Non mi sembra che abbiano facoltà di scelta. Non possono scegliere che fare della loro vita, non possono. Saranno soldati o moriranno nel tentativo di diventarlo. Che scelta hanno in questo?»
«Sono destinati a fare grandi cose Leurak, cose che chiunque vorrebbe poter fare. Sono nati sotto la luce delle costellazioni maggiori, le più importanti, le costellazioni dell’eclittica. Sono nati forti e caparbi, saranno in grado di affrontare tutto e combattere al meglio per Atena, proteggere il mondo e l’umanità.»
«Sarà che io non ho un cosmo, ma non vedo tutto questo splendore nel farmi il culo per salvare il mondo. Lo farei, ma non sono certo che il mondo se lo meriti, ci sono troppe cose brutte là fuori.» disse guardando oltre le mura di confine del Santuario, dove sapeva esserci la città di Atene.
«Leurak,  ancora non comprendi il perché di tutto ciò. Prima accetterai che ognuno di noi ha un posto nel mondo e prima questi pensieri cesseranno di affollarti la testa. Là fuori, in mezzo all’orrore e alla crudeltà, ci sono bambini innocenti quanto quelli che vivono dentro queste mura. Non meritano di avere una possibilità? Ci sono tante persone che non sono in grado di difendersi. Dovrebbero morire?»
«No…non sto dicendo questo, barattolone. Non mettermi in bocca parole che non ho detto. Dico solo che non è giusto che una manciata di bambini deve vivere qui dentro e imparare ad uccidere quando esistono bambini che vivono la spensieratezza della loro età. Tutto qui.»
«Capisco cosa intendi, ma non scordare che anche lì fuori ci sono bambini che muoiono e uccidono. Ci sono guerre ovunque, inequivocabile segno che la venuta di Atena si avvicina. Solo lei può mettere fine a queste ingiustizie. Non c’è tutta l’ingiustizia che vedi, tappo. Coraggio.»

Continuarono a parlare.
Entrambi rimarcavano i punti sui quali non erano d’accordo. Si rimbeccavano amichevolmente, senza riuscire a far ragionare l’altro. Il concetto di giustizia non è assoluto, anche João ne era consapevole, ma voleva che Leurak vedesse quella sorta di equilibrio che andava formandosi tra il mondo esterno e quello interno al Santuario. Il portoghese non vedeva l’ingiustizia dove la vedeva Leurak. Per João il fatto che molti bambini nascessero protetti da una costellazione, e che potessero crescere e formarsi nel Santuario, era da considerare un’ ancora di salvezza. Appiglio non offerto a numerose creature, costrette dal destino ad una vita di sofferenze, senza avere un’opportunità effettiva di rivalsa.
Leurak sembrava non considerare il numero di bambini rimasti orfani in tutto il mondo, o forse il suo limitarsi era volontario.
Si rendeva conto della sofferenza dell’amico nel guardare negli occhi, ogni giorno, tutti quei fanciulli che stringevano amicizia, con l’unica certezza che non sarebbero durate, interrotte dallo spezzarsi delle loro vite. Sarebbero morti giovani. Tutti.
Chi indosserà l’armatura morirà in battaglia, chi non riuscirà morirà nel tentativo di prenderla.

«Dai, - disse Leurak – per i discorsi tristi c’è sempre tempo, per far contento Milo no.»
Il portoghese sorrise. In fondo non era importante quello che pensavano singolarmente della giustizia e tantomeno lo era la loro personale visione della vita. L’importante era la volontà di migliorare le cose, di sacrificarsi perché anche solo una persona potesse stare meglio e sorridere, e Leurak era un mago in questo.
Avrebbe fatto di tutto perché i bambini soffrissero il meno possibile della loro condizione, e come l'amico lui avrebbe fatto lo stesso, così come lo avrebbe fatto ogni abitante del Santuario.
L’unica cosa indispensabile per un guerriero di Atena, sia egli un soldato semplice, un cavaliere d’argento o d’oro o di bronzo, era la volontà di cambiare le cose. L’applicarsi senza remore per un fine superiore: la gioia e la salvezza del prossimo. Non c’era niente di più nobile per João.

«Ti dai tanto da fare per i bambini, saranno contenti di giocare con i corvi.» disse.
«Che c’entra?»
«Niente, pensavo ad alta voce. Constatavo che passi tanto tempo con i piccoli.»
«Anche tu se è per questo. E comunque anche loro devono poter divertirsi e giocare, come i loro coetanei, e se non glielo permette la vita glielo permetterà Leurak.» mentre parlava si batteva il pugno sul torace, accompagnando il gesto da un sorriso.
«Vai, Milo ti starà aspettando, io volevo andare a vedere se ai miei protetti è passata la febbre, ma forse è tardi, l’ora della cena si avvicina.»
«Appunto perché è quasi ora di mangiare che dovresti andare. Più tardi passo anche io a trovarli, dopo aver mostrato i corvi a Milo. Ho chiesto a Josie – quella nutrice morettina, carina – stamattina e mi ha detto che avevano ancora qualche lineetta di febbre. Ovviamente per stamattina intendo tre ore fa.»
João si lasciò andare ad una risata mentre Leurak richiamò a sé i pennuti con una rapida serie di fischi, acuti e brevi. Si salutarono e si divisero; ognuno per la propria destinazione: la polverosa arena dei piccoli e il dormitorio dei ragazzi.

Il portoghese era più sereno, le chiacchiere con Leurak, per quanto tristi, riuscivano sempre a tirargli su il morale. Condivideva i dubbi dell’amico, comprendeva quanto si sentisse inadeguato per il ruolo che ricopriva, anche se semplice soldato, ma la sua testardaggine e il suo impegno per far vivere i bambini spensierati era ammirevole.

Quel giorno Leurak aveva svolto la funzione di muro di sfogo già due volte; con Galgo prima e ora con João. Era fuori discussione la vitalità del soldato mongolo, l’unico in grado di trascinare sullo scherzo anche le situazioni più nere. 

Appena giunto nell’ampio spazio terroso, Leurak venne assalito da una valanga di bambini ansiosi di toccare i corvi. Non vedeva Milo, si guardava attorno nella speranza di vederlo e porre fine alle assillanti richieste del bambino.

**

Milo e Aiolia stazionavano circospetti nello stanzone che li ospitava, parlottavano a bassa voce. Milo esponeva all’amico il piano per andare a conoscere i tre bambini.
Non sapendo dove si trovassero, decise che avrebbero curiosato in ogni stanza del dormitorio. Se non li avesse trovati il giorno, in quel momento, avrebbe ripetuto la ricerca ogni giorno. La cosa più importante era non farsi scoprire.
«Devi guardare il corridoio, se le streghe mi vedono mi sgridano.» disse Milo guardandosi attorno in modo circospetto, prima a destra e poi a sinistra.
«Sì, ho capito» rispose Aiolia con un sorriso, sicuro di divertirsi per il gioco.
«Poi sgridano anche a te perché sei qui con me, poi Aiolos perché ci ha portati qui»
«Non è vero! Aiolos ha portato solo me. Tu ci hai seguiti!».
Aiolia era infastidito dalle illazioni di Milo.
«Sono venuto per aiutarti! Siamo amici noi!» si discolpò il piccolo greco, negando la sua curiosità riguardo le faccende dei fratelli.
Aiolia non voleva che il fratello venisse sgridato, benchè non capisse a cosa si riferisse Milo, ma acconsentì quindi alla sua richiesta; avrebbe fatto da palo, chiedendo solo che facesse in fretta.

«Fai in fretta. Aiolos deve allenarmi prima di andare a dormire, e io devo diventare forte come lui.»
«Sì - rispose Milo - tu però stai attentissimo.»
Aiolia annuì deciso.
«Andiamo.» dissero assieme.


S'inoltrarono per i corridoi che li separavano dalla camerata dei più grandi, a passo lento e guardandosi attorno.
Arrivati all'ingresso della sala, Aiolia si nascose dietro una colonna, pronto a fare quello che Milo gli aveva chiesto e ad avvertilo nel caso sopraggiungesse qualcuno.

Milo fece capolino, osservando i letti.
Li vide, ognuno seduto sul proprio letto con i vassoi della cena sulle coperte intenti a parlare. Li aveva trovati.
Il lato positivo della malattia risiedeva interamente nel fatto che i pasti venivano portati in camera, con quasi un'ora d'anticipo rispetto agli altri.

Angelo,era irrequieto, raccontava dell'orfanotrofio agli altri due, soffermandosi soprattutto sulle ripetute zuffe. Tyko rideva divertito e Shura sorrideva dei racconti.

«L'ho preso per ... qui! - disse tirandoi il lembo della maglietta dietro il collo - e l'ho lanciato contro l'amico. Poi è arrivato Vittorio e mi ha spinto contro il muro. Stavo per vincere e poi sono arrivate le suore.»
«E poi cos'è successo?» domandò Tyko incuriosito.
«Mi hanno messo in punizione. Tsk.»
«E cosa ti hanno fatto?» continuò Shura.
«Mi hanno torturato! Le suore si trasformano in mostri con le ali, ali da pipistrello e ti mordono!»

«Bugiardo - esplose Tyko - le persone non si trasformano in mostri. Non si può!»
«Dici così solo perchè non hai conosciuto quelle. Brutte e antipatiche.»

Erano sereni e i sintomi causati dal vaccino erano scemati. Sarebbe stato concesso loro un altro giorno di riposo, poi avrebbero iniziato gli allenamenti e le lezioni con il gruppo.
Il loro legame si era rafforzato, sembrava fossero fratelli.

Milo aveva ascoltato ogni singola parola dell'italiano, ridacchiando per l'entrata in scena che aveva pensato.
Entrò dirigendosi a passo sicuro verso il letto di Tyko, il più vicino alla porta..

Una volta arrivato fissò il biondo, che ricambiò con aria perplessa, e parlò.
«Ciao, io sono Milo. Tu sei nuovo vero?»
«Sì, sono Tyko.»
«Perchè siete qui e non fuori?» domandò curioso.
«Ci hanno fatto i vaccini e ci è venuta la febbre.»
Milo, alla risposta dell’altro, sfoggiò un incredibile sorriso. La notizia della malattia gli aveva dato un'idea a suo dire fantastica.


Salì con fatica sul letto. Il bambino aveva solo tre anni, anche se a giudicare dalla parlantina ne dimostrava qualcuno di più. Una volta sul letto mise la mano sulla fronte dello svedese.
«Non hai più la febbre!»
Mise una mano in tasca e tirò fuori una caramella, il premio per non avere più la febbre. Gliela diede, ottenendo un sorriso come ringraziamento.
Scese dal quel letto per salire su un altro: quello di Angelo.
«Io sono Milo, come ti chiami?»
«Angelo». L’italiano era divertito dal comportamento quantomeno bizzarro del piccolo greco. Sorrise e si lasciò mettere la mano sulla fronte.
«Anche tu non hai più la febbre.»
Anche Angelo ricevette la sua caramella. Ora toccava a Shura.
«Io so-» il piccolo greco venne bruscamente interrotto.
«Tu sei Milo, l’ho capito, l’hai già detto. Io sono Shura.»
«Tu sei antipatico.» Milo c’era rimasto male. Non gli piaceva essere interrotto. Amava stare al centro dell’attenzione e doveva starci a qualunque costo.
Salì comunque sul letto dello spagnolo e gli mise la mano sulla fronte.
«Bravo, sei guarito anche tu. Però non ti do la caramella.»
Scese dal letto e se andò senza dire altro.


**

Solo pochi minuti prima João era entrato nel tempio.
Si diresse tranquillamente verso la stanza dei tre, ma si fermò quando vide una schiena a lui ben nota: quella di Aiolia.
Lo vedeva intento ad osservarsi attorno, mentre girava  continuamente la testa a destra, a sinistra e davanti a lui. Guardava ovunque meno che alle proprie spalle.
Il portoghese, basito, si chiese cosa facesse lì.
Si avvicinò al piccolo, in silenzio, e lo colse di sorpresa sollevandolo per le spalle.
«Preso!»
Il piccolo si spaventò e dopo qualche secondo di immobilità totale si voltò lentamente, fino a sospirare di sollievo nel vedere l'adulto.
«Che stai combinando? Scommetto che sei con Milo. Dov'è?» gli chiese mentre lo poggiava a terra.
In risposta il bambino si portò l'indice davanti alla bocca.
«Ssh!!»
Con un gesto fece avvicinare João er sussurrargli all'orecchio.
«Non dire niente a nessuno, Milo sta conoscendo i nuovi arrivati, se ci scoprono ci sgridano.»
Sorrise il cavaliere d'argento. Capiva la curiosità del moro e la curiosità del biondo.
«Devi tenere il segreto.» continuò Aiolia. Il gigante annuì.

«Certo, però se facciamo la guardia da quella colonna laggiù vediamo da tutte le parti. Andiamo.»
I due si spostarono, ma la colonna, per quanto fosse massiccia, non copriva il portoghese, ma mascherava completamente quella di Aiolia.
D'un tratto Milo si catapultò fuori della stanza, lo fissò, gli sorrise e poi tornò dentro.


**

Shura era totalmente disinteressato ai capricci di quel moccioso. Gli interessava solo uscire da quella stanza. Non riusciva a stare per troppo tempo chiuso dentro lo stesso posto. Quando si ammalava, e viveva ancora a Toledo,  riusciva sempre a sgattaiolare fuori senza che i genitori se ne accorgessero. Quando non riusciva a uscire per qualche minuto, di nascosto, apriva una finestra e respirava un po’ aria fresca. Odiava la reclusione, che fu anche il motivo delle sue escandescenze all’arrivo ad Atene.
«Perché l’hai trattato così? E’ simpatico, poverino, poi è piccolo.»  Tyko rimproverava l’amico completamente appoggiato da Angelo.
Shura non rispose. Sapeva che i due avevano ragione. Si limitò a scrollare le spalle e girarsi. Stava male quel giorno. Gli mancavano i genitori.
Per la prima volta, dal loro omicidio, ne sentiva davvero la mancanza. Mai si era sentito solo come in quel momento. Aveva voglia di piangere, ma era un bambino orgoglioso. Aveva già pianto troppo da quando era arrivato ad Atene. Oltre alla tristezza dovuta alla nostalgia della sua famiglia, si aggiungeva anche il senso di colpa per aver trattato male un bambino che cercava solo di farlo star meglio. Davvero avevano ragione Tyko e Angelo. Non si sarebbe dovuto comportare così. Anche la madre lo avrebbe rimproverato.


Angelo e Tyko osservavano incuriositi il comportamento dell’amico. Era la prima volta, da quando si conoscevano, che si comportava in quel modo. Mentre cercavano uno sguardo di intesa, tra loro, per consolarlo, Milo rientrò di prepotenza nella stanza, di corsa. Sembrava un piccolo tornado. Si mise davanti a Shura, fissandolo negli occhi e gli sorrise beffardo, proferendo:
«Non è giusto che tu non abbia la tua caramella. La febbre ti è guarita, quindi devi avere il premio.»
Milo porse la caramella a Shura. Questi allungò la mano e la prese.
«Grazie Milo. Scusami per prima.»
Il piccolo greco sorrise. Scuse accettate.
«Perché sei triste?»
Shura sgranò gli occhi. Un bambino che aveva appena conosciuto gli chiedeva perché era triste. E lo faceva con l’espressione più dolce e premurosa del mondo disegnata sul volto.
«Non sono triste – rispose poco convinto – sono solo un po’ stanco.»
«Non si dicono le bugie. Ma se non mi vuoi dire perché non ti do altre caramelle.»
Milo passava al ricatto. A Shura non interessavano le caramelle. Non le aveva mai apprezzate troppo. Preferiva il sapore dolce della frutta vera. Però si era reso conto che a quel bambino interessava davvero il motivo della sua tristezza. Che male avrebbe fatto se glielo avesse detto?
«Mi mancano i miei genitori.»
All’udire quelle parole, Tyko e Angelo abbassarono la testa, rapiti da vecchi ricordi. Angelo li vide l’ultima volta due anni fa, Tyko pochi mesi prima. 
«Com’erano i tuoi genitori?» Milo, curioso di come fosse avere dei genitori, chiedeva a chiunque.
«Buoni.»
«Io, i miei, non li ho mai conosciuti. Mi hanno detto che sono stato trovato vicino a questo posto che ero appena nato. Non so com'è avere dei genitori, ma credo bello.»
Shura voleva picchiarsi con le sue stesse mani, ma dopotutto, lui, come poteva sapere della triste sorte di quel bambino?
«Mi spiace Milo, io non volevo fartici pensare»
«A che?»
«Come a che? Ai tuoi genitori.»
«Ma io li ho, non veri, ma non ne solo ho due. Ne ho un sacco – disse allargando il più possibile le braccia – anche il Gran Sacerdote è mio padre.»
Milo sorrideva. Gli altri tre bambini lo guardavano inebetiti. Mai visto un ottimismo del genere in nessuno. Neanche credevano che potesse esistere un bambino così solare e gioioso. Eppure lo avevano davanti.
D’un tratto si sentirono le voci delle nutrici. Cercavano Milo e, a giudicare dal tono di voce, erano davvero preoccupate.

João udì il richiamo delle donne e rapidamente fece allontanare Aiolia, appena in tempo.
Le ragazze comparvero e dopo un rapido saluto si accinsero ad entrare nello stanzone, sicure di trovare lì il piccolo Milo.

Milo non rispose al richiamo. Stette zitto e, portandosi l’indice davanti alla bocca, fece intendere agli altri di non dire nulla a loro volta. I tre sorrisero divertiti e stettero in silenzio. Milo ebbe appena il tempo di nascondersi sotto al letto di Shura. Le nutrici entrarono di corsa nella camerata e si guardavano attorno.
«Come facciamo a perderlo sempre?» chiese una delle due.
«Non siamo noi che lo perdiamo, è lui che scappa in continuazione - rispose l’altra con tono alterato – Bambini, voi l’avete visto? Lo conoscete? E’ un bambino piccolo con i capelli scuri.»
I tre si scambiarono un’occhiata complice.
«Non è venuto nessuno qui» rispose Angelo, stiracchiandosi.
«Vero – Tyko continuò nella bugia – Siamo rimasti soli tutto il giorno.»
Le nutrici, che conoscevano i bambini e i loro modi di fare, non si lasciarono ingannare.
«Diteci la verità»
«Va bene – intervenne Shura – ci hanno portato la cena prima e ora ci siete anche voi. Non siamo rimasti da soli tutto il tempo.»
Le nutrici ebbero la certezza che Milo era sicuramente passato a conoscere i nuovi arrivati, ma probabilmente non era più lì. Andarono via, soddisfatte del gioco di squadra dei bambini e indispettite della loro reticenza.
Appena le nutrici uscirono dalla stanza. Milo fece capolino da sotto il letto di Angelo.
Nessuno lo aveva visto spostarsi. Come aveva fatto a cambiare letto? Non fecero in tempo a chiederglielo che sfrecciò fuori dalla stanza urlando un saluto ai nuovi amici e chiamando le nutrici.
Andò a sbattere contro le gambe di 
João, che lo rimise in piedi e lo fece correre dalle donne.
Gliel’aveva fatta di nuovo. A quanto pareva  Milo amava prendersi gioco delle sue ‘mamme’.
Il bambino aveva un innato senso dello scherzo e adorava le burle. Sarebbe stato sicuramente l’intrattenimento di tutto il Santuario. Persino Sion lo temeva un po’. Non che fosse pericoloso, ma la sua fantasia galoppava talmente veloce che era impossibile prevederne il comportamento. Forse da adulto, in guerra, questo suo lato sarebbe sicuramente stato un punto forte, ma in quel momento, durante la sua crescita e la sua formazione, non era altro che un impiccio per coloro che dovevano prendersi cura di lui.








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E un po' mi  son fatta attendere questa volta.
I prossimi aggiornamenti dovrebbero essere più regolari. Forse son riuscita a dare alla storia la piega desiderata, ma non ci conto troppo, visto che la cambio ad ogni battito di ciglia... Va be' non esageriamo. Un ringraziamento particolare a Ricklee, che con gentilezza e disponibilità, mi ha aiutato a rendere un po' più reali i discorsi tra Milo e Aiolia. 
In attesa dei prossimi arrivi, ringrazio con tutto il cuore tutti i lettori, a miloxcamus e nikkith per aver aggiunto la storia tra le preferite e miloxcamus, LadyBlue e seall per averla aggiunta tra le seguite.

Infine una valanga di gratitudine a chi ha voluto farmi sapere il proprio parere: grazie *_*

Saruwatari_Asuka.
Con te mi ripeterò all'infinito, finchè non ti annoierò a morte. GRAZIE!! Leurak è un po' prezzemolino, con una lingua che taglia e cuce, ma mi piace, soprattutto scrivere di lui. Galgo si è finalmente deciso ad andare a dormire ed è ricomparso João che non poteva non aggiungersi. Il gruppo cresce e le preoccupazioni anche. E hai ragione: sempre a testa alta!! Un bacione!!

whitesary.
Per non aver commentato il capitolo precedente ti verrà inflitta una dolorosissima pena, eh sì.
Molto dolorosa. Moltissimo. Ma anche no.
Galgo è andato a dormire, in compenso riappare il gigante, del quale cominciavo a sentire la mancanza. Il piano di Milo è stato ormai svelato e si è scoperto che è una vera e propria peste, ma in futuro lo vedremo ancora in azione. Grazie di tutto cara, attenta ai tavoli e alle statue, a volte sono pericolosissimi!!

Ricklee.
Tu adori i bambini e io te li descrivo tutti. Chi prima, chi dopo. Grazie mille per i consigli e l'aiuto, io con i bambini non ci vado molto d'accordo, o meglio, loro vanno d'accordo con me e io li sopporto solo per i primi dieci secondi, prima che inizino a fare capricci. Grazie, grazie. Alla prossima!! Un bacione!!

Gufo_Tave.
Grazie mille per i complimenti, sono felice che il capitolo precedente ti sia piaciuto, soprattutto perchè non ero affatto convinta di come fosse uscito. Idem per questo, ma poco male. Ti ringrazio tantissimo e al prossimo. Ciao!

Camus.
Visto che alla fine ho postato?
Leurak è forse il più reale dei personaggi da me creati, non riesce a capacitarsi di quello che vede e la sua insicurezza lo rende davvero umano. Per Camus ti faccio aspettare ancora, ma l'attesa non sarà lunga, prometto. Aiolia non lo maltratterò troppo, avrà lo stesso trattamento riservato agli altri. Il passato di Camus è simile a quello di Hyoga, visto che padroneggia le energie fredde è giusto che sia anche il suo punto forte. Grazie mille per la recensione, alla prossima!!

Spartaco.
Ehilà caro. Beh, per email non avevamo molto altro da dirci, le disquisizioni filosofiche sui primi due oav di Lost Canvas le avevamo fatte. Hai visto il terzo e il quarto? Tienti pronto per il 21 ottobre mi raccomando.
Fortunatamente non ci sono stati tumulti, forse riesco ad arrivare a natale, o almeno spero. Camus è rimandato ai prossimi capitoli, prima facciamo passare leggermente la crisi esistenziale che attanaglia le membra di ogni santo abitante. Grazie mille! Alla prossima!!

miloxcamus.
Sei appena (un mese fa, ormai ) tornata dalla Grecia! Sappi che ti invidio.Per Camus dovrai aspettare, però intanto goditi questa dose di Milo..
Grazie mille e alla prossima!!

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Capitolo 13
*** Le petit Camus ***


Les enfants terribles Poco prima che Akylina si dirigesse all'aeroporto, Sion la convocò per spiegarle in cosa consistesse la missione; l'incontro fu breve e sbrigativo, le disse solamente che sarebbe stata affiancata da un suo vecchio amico, che l'avrebbe aiutata a portare via il bambino dal territorio russo.
Mentre scendeva le scalinate delle dodici case, pensierosa, si scontrò con Leurak che saliva, con l'intento di andarle incontro.
Lui rischiò di rotolare per la scalinata, ma lei fu pronta ad afferrargli il braccio.

«Non ti farebbe male guardare dove metti i piedi, lo sai?» la prese in giro.
«Lo stesso vale per te.» 
«Ehilà, siamo nervosucce. Dai che ti accompagno all'aeroporto, rischieresti di non superare il viaggio senza una dose di mia presenza prima di partire.»
«Mmm.»

Arrivarono in fretta all'aeroporto, entrarono nell'enorme struttura e si diressero a passo lento verso il check-in, in rispettoso silenzio; ognuno perso nei propri pensieri.
«Che hai? Mi sembri triste.» le chiese Leurak, interrompendo il vociare frenetico dei presenti, attutito dalla loro silenziosità.
Non rispose, ancora immersa nelle sue riflessioni.

Il giorno prima, quando Galgo le aveva dato la notizia della sua prima vera missione, aveva gioito. Per un solo istante.
Finalmente avrebbe potuto dimostrare a tutti ciò che era in grado di fare, avrebbe condotto un prescelto in terra di Grecia, finora compito svolto dai Silver e da uno dei soldati più anziani.
Ma fu solo per un secondo.
Non immaginava come avrebbe potuto condurre un bambino in Grecia.
Se si fosse trattato di un comune bambino forse avrebbe avuto meno pensieri, dopotutto lei stessa, inconsapevolmente ne portò uno entro le mura del Santuario.
Non sapeva fosse un prescelto, ma raccoglierlo e portarlo all'interno non fu difficile.
Poi si soffermò a considerare la gravosità del suo compito.
I tre discepoli dei compagni e i bambini che già si trovavano nel Santuario mostravano comportamenti infantili, da bambini comuni, generalmente.
Solo a volte sembravano essere superiori a qualunque cosa, e i quei momenti aveva la certezza assoluta  che quell'infantilismo era legato solo ed esclusivamente alla loro giovane età. Erano già soldati, erano nati soldati.
Con il tempo avrebbero assorbito e accettato completamente la loro condizione, così come avrebbe fatto la creatura che si accingeva ad andare a prendere.
La mente le si affollava di immagini terribili, nelle quali non riusciva a interagire col piccolo, lo figurava mentre scappava, mentre la snobbava e mentre inveiva contro di lei. Erano pensieri assurdi, ne era cosciente, dopotutto si trattava di un bambino di tre anni. Quale motivo avrebbe potuto avere per non prestarle attenzione.
Ma si trattava della sua prima missione importante.
Un incarico delicato ed elitario; finora affidato solo a chi aveva esperienza.
«Ehi, sorda. Mi stai ascoltando?» Sentì la voce di Leurak, inizialmente lontana e soffusa, poi sempre più vicina e squillante.
Quando si sentì strattonare per un braccio, si ridestò come se fosse caduta in un sogno.
Si guardò rapidamente a destra e a sinistra, come se cercasse di ricordare e riconoscere il luogo in cui si trovava.
Si sentì smarrita finchè non incrociò, per un solo e fuggente istante lo sguardo di Leurak.
«Uh, sì, ehm, no. Scusami, dicevi?» disse, scuotendo la testa.
«Che hai?» Le chiese preoccupato il ragazzo. Aveva notato già dalla sera prima che la sua mente era un turbinio di pensieri e insicurezze.
Immaginò che anche lei pensasse ciò che pensava lui, che non fosse sicura di aver fatto la scelta giusta. Mentre tentò di domandarle cosa la impensierisse in quel modo, lei rispose.
«Pensavo al bambino.»
«Bambino? Sei incinta?» iniziò a ridere, sicuro di causare una reazione violenta.
All'affermazione di una presunta gravidanza Akylina scattò, rivolgendo al ragazzo un colpo di borsa.
«E di chi dovrei essere incinta?»
«Galgo? Ho visto come lo guardi.»
«Lo guardo esattamente come guardo te, ilithie
«Attraverso una maschera?»
«Spiritoso.»
«Dai, lo sai che gioco. Potrei anche essere geloso del fatto che tu guardi un altro uomo, ma te la farò passare liscia questa volta, solo perchè ti aspettano un milione di ore d'aereo.»
«Sei geloso? Leurak, cosa stai cercando di dirmi?»
«Che non puoi azzardarti a cercare un altro coinquilino!» scampò alla domanda.
Si misero a ridere prima di ripiombare nel silenzio e nelle preoccupazioni.
«Allora, me lo dici cos'hai?»
«Sono preoccupata. Il viaggio sarà lungo e non so come comportarmi col bambino.» rispose lei mestamente.
«Col bambino ti devi comportare esattamente come ti comporteresti con tutti gli altri bambini del mondo. Smettila con queste seghe mentali e goditi il viaggio. Se non altro potrai riposare un po’.»
«Mi sento insicura. Ho una marea di paure.»
«Senti, le paure sono quelle che ci spingono ad andare avanti tutti i giorni. Superarle e trovarne di nuove è la base della vita.»
«E io che pensavo che fosse l’istinto di sopravvivenza!»
«Sbagliavi, come sempre. Dopotutto da una donna non ci si può aspettare niente di più. Ma da quand’è che potete diventare guerrieri? Dovreste rimanere in cucina.»
Leurak sapeva che il discorso avrebbe fatto infuriare l’amica che gli avrebbe rovesciato sopra una valanga di insulti, ma era l’unico modo che aveva per farle smettere di pensare a quanto si sentisse inadeguata in quel momento. 
Dopo diversi minuti di grida, venne chiamato il volo per Mosca. Doveva andare.
Lui la accompagnò fino al punto d’imbarco e la salutò con un forte abbraccio.
Lei fece un passo avanti, per poi fermarsi e voltarsi a guardare l’amico.
«Leurak … dimmi che sto facendo la cosa giusta.»
«Stai facendo la cosa giusta. E, inoltre, solo un’idiota rifiuterebbe un viaggio spesato. Muoviti che altrimenti l’aereo parte senza di te.»
Akylina sorrise malinconica e si avviò nel lungo corridoio che l’avrebbe portata direttamente a bordo del mezzo. Si sedette e controllò il cellulare. Stava per spegnerlo, come richiesto dal comandante dell’aereo, ma arrivò un messaggio: “Finalmente posso dormire e sfasciare la casa. Avverti quando torni che la ricostruisco. Ah, forse potresti trovare delle piume sul tuo letto al tuo ritorno. Ma non sono stato io.”
Si lasciò andare ad un sorriso, mentre spegneva l’apparecchio.
Leurak sapeva come ridarle il sorriso e sapeva anche come farsi volere bene. Era un ragazzo meraviglioso, sempre disponibile verso tutti e non si tirava mai indietro quando c’era da dare una mano. 
Il volo sembrò durare almeno dodici ore in più della durata effettiva.
Arrivata all’aeroporto di Mosca, ritirò il suo bagaglio e si diresse a passo sicuro verso l’uscita. Chiamò un taxi e si fece portare direttamente all’ambasciata francese, mostrando al conducente un opuscolo dell'amasciata stessa. Il bambino si trovava lì.

Si avvolse nel cappotto appena scese dal Taxi.
Non faceva ancora freddo, ma aveva abbandonato da poco un clima mediterraneo e tiepido a favore di temperature più basse.
Tirava vento freddo, probabilmente proveniente dalla non lontana Siberia. le sembrava che piccole lame le ferissero il viso, spingendola a cercare riparo nel bavero.

Entrò nel palazzo e si diresse verso l'usciere e chiese di un uomo; il contatto di Sion.
L'usciere contattò telefonicamente l'interessato e le chiese gentilmente di aspettare.

Dopo pochi minuti un uomo alto e robusto le si avvicinò.
La scrutò attentamente.
«La signorina Akylina, immagino.»
Lei confermò e tese la mano all'uomo.
Con una stretta decisa si presentò, e venne subito al punto.
«Yuri Sokolov. Sion mi ha spiegato a grandi linee il problema. Un uomo enigmatico, non c'è che dire. La prego di seguirmi, le mostrerò il bambino.»
Prima di voltarle le spalle chiese all'usciere di contattare l'ambasciatore in persona, presentando Akylina come una lontana cugina del bambino giunta appositamente dalla Francia. L'uomo annuì e prese in mano l'apparecchio, mentre Yuri invitò Akylina a seguirlo.
«Il bambino si trova al piano superiore, con lui ci sono alcuni assistenti sociali e un interprete, ma non è intenzionato a parlare. Credo si sia chiuso in un ostinato mutismo, sicuramente conseguenza del forte trauma che ha vissuto. Devi farlo parlare e convincerlo a seguirci, poi penserò a tutto io. Non c'è tempo per espletare il tour burocratico, per cui prenderemo strade traverse.»
«Eh? Mi scusi, ma cosa intende dire?» chiese.
«Il bambino è già stato destinato ad un orfanotrofio, forse ci sono già alcune pratiche di adozione in corso, è necessario agire in fretta. Rapiremo il bambino.»
«C-cosa? Rapire? Ma non basta che lo adotti io?»
Akylina si trovò a domandarsi come Galgo, João e Dioskoros avessero fatto a portar via dalle loro patrie gli altri bambini, pensava che li avessero adottati, in un modo o nell'altro, non aveva preso neanche lontanamente in considerazione la possibilità del rapimento.
«Akylina, Sion mi ha spiegato che questa è la prima missione importante che ti viene affidata, so che sei stata scelta perchè conosci il francese. La maggior parte delle persone che lavora qui è di nazionalità francese, come lo è il territorio. Il tuo compito è semplice: devi fare in modo che il bambino si fidi di te. So da dove vieni e so cosa succede ad Atene, so chi è Sion e so che gli devo un grosso favore. Io penserò a portarvi fuori di qui, non fare domande, fai quello che ti dico e in men che non si dica sarai di nuovo in Grecia, con il bambino.»

La giovane era allibita. Non riusciva a credere che si stesse accingendo ad infrangere la legge.
Era necessario
allontanare gli assistenti sociali e sperare che il bambino si fidasse di lei. Yuri le sarebbe stato accanto tutto il tempo e, sempre lui, li avrebbe accompagnati all’aeroporto. Questi erano gli ordini che gli erano stati impartiti prima di partire dal Gran Sacerdote, preoccupato per la giovane età e l'inesperienza della ragazza.
«Vieni, saliamo al piano di sopra. Ci metteranno molto tempo a controllare i documenti che darò loro, inoltre sono falsi. Non scopriranno l’inganno.»
«Come faranno a non accorgersene, scusa?»
«Quando se ne accorgeranno sarete già in volo. Ho pensato io a fare i biglietti di ritorno per la Grecia. Non preoccuparti. Non correte alcun rischio. Parla solamente francese.»
Akylina annuì.
Sbiancò ed ebbe quasi un mancamento quando realizzò davvero quello che stava per fare. Come avrebbe potuto scappare da un’ambasciata con un bambino? Non poteva fare come nei film. Nei film non si fa mai male nessuno. Non se la sentiva, Galgo e João avevano un cosmo e potevano muoversi molto più velocemente di lei.

Non pensò a Dioskoros, semplicemente, poichè avendo vissuto al Santuario a lungo, sapeva come evitare determinate situazioni e di conseguenza guai con la legge del mondo esterno. Cercò di non cadere eccessivamente preda delle sue paure e seguì silenziosamente Yuri.
 
Cominciarono a salire rampe e rampe di scale. Finché non arrivarono davanti ad una grossa porta di legno lucido. Yuri entrò e lei continuò a seguirlo.
La presentò agli assistenti sociali come una lontana cugina del bambino, puntualizzando la conoscenza del solo francese e si offrì di restare.
Dopo diverse chiacchiere gli assistenti decisero che fosse giunto il momento di mostrare il bambino alla giovane.
La condussero in un'altra stanza, dove era tenuto il bambino.
Camus era seduto su un divano enorme. Giocava svogliatamente con un cuscino, tirandone gli angoli cercando di fargli cambiare forma.
Un’assistente sociale, anziana, sedeva accanto a lui e gli parlava, ma lui non l’ascoltava neppure.
Yuri parlò alla donna che si alzò e si allontanò dalla stanza rivolgendo ad Akylina un sorriso. Akylina ricambiò e prese il posto della donna sul divano.

Camus era un bambino a dir poco affascinante.
Suscitava lo stesso fascino che suscitava Angelo all’osservatore. Il bambino aveva i capelli di un rosso intenso, non come quelli di Galgo, ma se possibile ancora più accesi e vivaci. Il volto era illuminato da due grandi occhi quasi arancioni, con delle sfumature verdi. La pelle bianca e i lineamenti del viso delicati lo rendevano quasi ultraterreno.
Nonostante il fatto che l’anziana donna avesse lasciato il posto ad una ragazza non accennò a distarsi dal suo gioco.
«Salut. [Ciao]» disse Akylina, sperando di riuscire ad attirare l’attenzione del bambino su di se.
Il bambino rispose al saluto senza sollevare lo sguardo.
«Camus, je suis venu te chercher. [Camus, sono venuta a prenderti.]»
Decise di andare dritta al sodo, non avrebbe avuto senso cercare di farci amicizia, non aveva tempo da perdere.
Si apprestava a compiere un rapimento, e doveva farlo prima che all'ambasciata controllassero i documenti per verificarne l'autenticità.
«Où tu m'apportes? [Dove mi porti?]» domandò il bambino sollevando finalmente il volto, schivando il contatto visivo.
«En Grèce.Dans une place où tu trouveras autres enfants comme toi…[In Grecia. in un luogo dove troverai altri bambini come te...]»
Camus si decise ad alzare lo sguardo verso il suo interlocutore. Non aveva ancora cambiato espressione.
«Pourquoi tu m'apportes en Grèce? Je veux revenir à la maison. [Perchè mi porti in Grecia? Voglio andare a casa.]»
Arrivavano i guai. Come dirgli che in Francia non ci sarebbe più tornato perché la sua presenza era richiesta in Grecia? Trovare una spiegazione plausibile almeno per il bambino era un’impresa ardua. Akylina era notevolmente preoccupata per il rapimento che si accingeva a compiere. Invano cercò le parole giuste, finchè non intervenne Yuri.
L'uomo si avvicinò al divano e s'inginocchio all'altezza del bambino, cercò le sue iridi e quando le trovò iniziò a parlare.
«Est-ce que tu ne veux pas devenir un héros comme dans les bandes dessinées? [Non vuoi diventare un eroe come nei fumetti?]»
Il bambino si riscosse. Non si sapeva quale parola in particolare avesse suscitato in lui quella reazione, se fumetti o eroe, ma almeno, ora avevano tutta la sua attenzione.
«Héros? Vraiment?? Est-ce que je peux devenir un héros? [Eroe? Davvero? Posso diventare un eroe?]»
Sì, avevano davvero tutta la sua attenzione. Ora si mostrava interessato e a momenti compariva l’accenno di un sorriso sulle sue labbra.
«Certainement! – continuò Yuri – Vous lutte contre  les mauvais et  sauveras le monde! Mais tu dois faire tout ce qui te dit  Akylina. Elle elle t'apportera en Grèce et tu deviendras là un héros. Tu le sais qu'elle est une guerrière? [Certamente. Combatterai contro i cattivi e salverai il mondo! Ma devi fare tutto quello che ti dice Akylina. Lei ti porterà in Grecia e lì diventerai un eroe. Lo sai che è una guerriera?]»
Camus, attonito, si voltò verso la giovane e le chiese incredulo:
«Est-ce que tu es une guerrière vraiment? Je peux devenir il aussi je? [Sei davvero una guerriera? Posso diventarlo anche io?]»
«Certainement – Akylina era titubante, ma cercò di mostrarsi il più sicura possibile – À Athènes, la ville où je t'apporterai, il y a guerriers beaucoup d'et presque tous mettent des splendides armures. [Sì. Ad Atene, la città dove ti porterò, ci sono dei guerrieri che indossano delle stupende armature.]»
«Je la mettrai aussi si je viens avec toi? [E la indosserò anche io se vengo con te?]»
«Oui – rispose lei – Tu auras une très belle armure! Cependant ne subi pas, nous t'enseignerons à combattre et à battre les mauvais. [Sì. Avrai una bell'armatura! Ma non subito, ti insegneremo a combattere e sconfiggere i cattivi.]»
Si sentiva un po’ stupida a parlare di cattivi e buoni in quel modo, ma non era ancora giunto il momento perché Camus sapesse tutto quello che doveva sapere.
«Est-ce que Camus ira alors en Grèce?[Allora Camus andrà in Grecia?]»
«Oui!» trillò contento il bambino.
«Tres bien Camus, que façon nous? Un bel jeux?[Molto bene Camus,che facciamo? Un bel gioco?]»
«Quel jeux?[Che gioco?]»
«Nous jouons  et se cacher. Mais c'est un cache-cache spécial. Nous devons arriver possible le plus lointain avant qu'ils nous découvrent. Est-ce que tu es bon au cache-cache?[Giochiamo a nascondino. Ma sarà un nascondino speciale. Dobbiamo arrivare il più possibile lontano da qui prima che ci scoprano. Sei bravo a giocare a nascondino?]»
«Certament. Jouons! [Si. Giochiamo!]»

Akylina e Yuri si appartarono per pochi minuti al fine di scegliere il percorso più sicuro per uscire dall’ambasciata.
Yuri suggerì alla donna di prendere il bambino e di chiedere dove fosse il bagno.
Lui li avrebbe raggiunti lì. Non c’era pericolo che la donna e il bambino venissero indirizzati in un altro bagno che non fosse quello designato. Non ve n’erano altri nelle vicinanze. Spiegarono a Camus che doveva dire a tutti quelli che vedeva che doveva fare pipì e che doveva mostrarsi molto impaziente di andare al bagno.
Fino al bagno tutto andò liscio. Camus recitò con maestria la parte che gli era stata assegnata. Una volta in bagno aspettarono Yuri.
Li raggiunse pochi minuti dopo e fece percorrere loro delle scale antincendio.
Dopo aver percorso solo una rampa qualcuno entrò nella tromba delle scale. I tre arrestarono i loro passi di colpo.
«Blyat.» Yuri soffocò un'imprecazione, sporgendosi lentamente per verificare di chi si trattasse.
Sapeva che non sarebbe stato troppo facile uscire dall'ambasciata, ma sperava che i guai non si presentassero.
Aveva dovuto architettare il piano di fuga con troppa fretta, dopotutto Sion lo aveva avvisato solamente due giorni prima.

Non bisognava destare scalpore di alcun genere, nessuno doveva vederli e nessuno doveva domandare dove fossero diretti.
Akylina cercava di trattenere il respiro affannato causatole dal timore di essere scoperta, Yuri era freddo e calcolava già le possibili mosse che avrebbe fatto in caso di scoperta e Camus, semplicemente, partecipava al gioco. I passi rimbombavano in quell’antro angusto. Le scale erano davvero strette e ogni rumore, anche il più lieve, tuonava come una cannonata. Non dovevano fiatare. Nessuno doveva accorgersi della loro presenza lì.
Tutti dovevano continuare a credere che la donna e il bambino fossero in bagno, e che Yuri fosse rimasto nella stanza designata momentaneamente al bambino.
Con un colpo di tosse e il lamentoso scricchiolio dei cardini di una porta, i passi si fecero sempre più lontani. Chiunque fosse quella persona, ormai, non li avrebbe più notati.
Scesero le scale in fretta, dopo aver tirato un sospiro di sollievo.
Le scale li avrebbero condotti ad uno spiazzo che dava su uno dei tanti ingressi secondari dell’ambasciata. Uscirono dall’ingresso riservato ai militari che presidiavano il palazzo. Una macchina li aspettava. Salirono tutti e tre molto rapidamente e vennero condotti all’aeroporto.
Durante il tragitto Camus si guardava intorno parlottando di come fosse divertente quel gioco, Akylina credeva di morire e Yuri, beh, Yuri era tranquillo e discorreva con l’autista.

Arrivarono all’aeroporto e superarono il check-in. Ora erano in salvo. Dovevano solo aspettare un paio d’ore e l’aereo che li avrebbe portati in terra di Grecia sarebbe decollato.
Akylina si tranquillizzò sapendo che, lei e il bambino, erano ormai al sicuro.
«Akylina, j'ai faim. [Akylina, ho fame.]» Camus si teneva con una mano lo stomaco e lo massaggiava, a sottolineare quello che aveva appena detto.
Quasi dal nulla comparve Yuri, che aveva sfruttato qualche conoscenza o qualche tesserino magico, con dei panini e delle bibite. Sembrava che sapesse già quale sarebbe stata la prima richiesta del bambino.
Consegnò le vivande alla donna e le spiegò di non preoccuparsi. Ormai erano in salvo.
«Grazie Yuri, sei stato un aiuto prezioso. Non avrei saputo farmi seguire dal bambino se non fosse stato per te.»
«Non preoccuparti. Dovere. Dovevo un favore a Sion. Ora digli che siamo pari e che ci rivedremo solamente quando torneremo dispari.»
Akylina sorrise conciliante, chiedendosi ancora che razza di rapporto legasse Sion all’uomo che aveva davanti.
Aveva capito che Yuri doveva un favore a Sion. Sicuramente quel favore doveva essere molto grande se Yuri aveva accettato di far fuggire un bambino dalla protezione di un'ambasciata straniera.
Dopo essersi scambiati i saluti di rito, Yuri svanì così come era arrivato.
Fece mangiare il bambino, che assaporò con gusto quel panino che a lei faceva ribrezzo.

Il viaggio di ritorno fu molto più piacevole di quello dell’andata. Quel bambino tanto strano cominciava a sciogliersi.
Sembrava un pezzo di ghiaccio solo qualche ora prima, con un’espressione immutabile come i ghiacci della Siberia sul viso, sembrava osservare tutto con distacco.
Ora parlava e chiedeva alla donna che lo accompagnava della Grecia e di quello che sarebbe stato il suo futuro da guerriero. Akylina rispose volentieri a tutte le domande del bambino e gli spiegò a grandi linee la gerarchia presente al Santuario. Quando parlò dei cavalieri d’oro al bambino si illuminò lo sguardo.
A suo modo aveva già deciso: o cavaliere d’oro o niente. Non avrebbe accettato una sconfitta, non si sarebbe mosso dal Santuario sinché non avesse indossato le splendide vestigia dorate.
Dopo aver mangiato la parca cena che il volo offriva ai passeggeri, il bambino si addormentò, poggiando la testa sulle gambe di Akylina. Lei gli accarezzava delicatamente i capelli vermigli e pensava a quello che doveva aver passato e a quello che il futuro gli riservava. Anche lui, come Shura, Angelo, Tyko, Saga e Kanon, Milo, Aiolos e Aiolia non avrebbe avuto vita facile. Avrebbe dovuto combattere e uccidere, avrebbe dovuto abbandonare l’innocenza che aveva. Aveva solo tre anni Camus, come il piccolo Milo, come il piccolo Aiolia. Come spiegare, anche a lui, che le cose sarebbero state sempre difficili? Come fargli capire che era rimasto solo al mondo perché aveva un futuro nero con piccole striature di luce davanti?
Tra i suoi tristi pensieri perse coscienza, abbandonandosi anche lei al sonno.

Arrivarono ad Atene la mattina seguente.
Leurak li aspettava.
«Ma come facevi a sapere che tornavo oggi?»
«Siccome di te non ci si può fidare, Sion mi ha detto “vai a prendere quella cretina” – gesticolava come un pazzo cercando di imitare un vecchietto – “Donne! Dovrebbero stare in cucina!”»
«Questo l’hai aggiunto tu. Ci scommetto.»
Leurak le rivolse una linguaccia e si concentrò sul piccolo.
Akylina pensò che Yuri avesse contattato Sion per comunicargli la riuscita della missione.
«E questo è il piccolo … il piccolo … il piccolo come si chiama?»
«Camus » rispose lei roteando gli occhi al cielo
«Ciao Camus! Io sono Leurak.»   
«Parla solo francese, non ti capisce.»
«E tu presentami maleducata.»
«Camus, ce garçon est Leurak. Il est un peu sot, ne nous pas faire cas. [Camus, questo ragazzo è Leurak. E' un po' scemo, non farci caso.]»
Camus osservò attentamente il giovane e poi salutò con un semplice «Salut.»

Una volta recuperati i bagagli, i tre si diressero al Santuario. Dovevano presentare Camus al Gran Sacerdote.
I due adulti entrarono nel Tempio “di fortuna” di Sion tenendo il bambino per mano. Lo sollevavano, facendogli credere che avrebbe potuto volare e il bambino si lasciò andare alle risate, ignorando lo strano paesaggio che gli scorreva attorno.
Sion li aspettava sulla soglia e rivolse loro un sorriso di sollievo, considerando la buona riuscita della missione, e tenero allo stesso tempo nel vedere il sorriso splendere sul volto del piccolo francese.
«Buongiorno Sommo Sion»
Leurak e Akylina si inchinarono, volgendo il capo al suolo, senza lasciare le mani del bambino, che per spirito d’imitazione fece la stessa cosa, strappando un altro sorriso a Sion.
«Buon giorno a voi. E così questo bambino è il piccolo Camus. – disse, rivolto a tutti e a nessuno – Akylina, sono lieto del fatto che tu abbia saputo cavartela nonostante la situazione inusuale, ma aspetto comunque un rapporto dettagliato.»
«Agli ordini.» disse la donna con un filo di voce.
Camus seguiva con interesse la conversazione tra i due, curioso di sapere cosa si dicessero. Leurak  si alzò, all’improvviso, e dopo aver salutato si allontanò dalla stanza. Camus seguì con lo sguardo il guerriero, sganciatosi poi dalla stretta di Akylina  gli corse dietro. Lo afferrò per gli abiti e lo trattenne.
Cominciò a parlare, chiedendogli di restare. Leurak tornò sui suoi passi tenendo il bambino in braccio. Non sapeva cosa gli avesse detto, ma aveva intuito quale sarebbe potuta essere la richiesta. Il piccolo francese gli tenne stretto un orecchio tra le dita, mentre diceva ad Akylina che doveva rimanere con loro.
Sion roteò gli occhi al cielo ed affidò il bambino ad i due amici, come aveva già fatto con Angelo, Tyko e Shura.
Leurak ebbe un principio d’infarto nell’udire le parole di Sion, mentre Akylina sembrava sollevata.
Finita la riunione i due si diressero verso la loro abitazione, con Camus ancora tra le braccia di Leurak.
«Ma stiamo scherzando?  - si rivolse il mongolo all’amica - Io non ho la minima idea di come ci si prenda cura di un bambino, soprattutto così piccolo…»
«Stai tranquillo. Me ne occuperò io. Ho fatto la babysitter un sacco di volte prima di venire a vivere qui.»
«Si, ma non verrai pagata e non si tratta di prendersi cura di lui per qualche ora, ma sicuramente almeno sinché non imparerà a parlare greco.»
«Senti, João e Galgo si sono presi cura di tre bambini. Noi possiamo fare lo stesso. E inoltre ne abbiamo solo uno. Siamo in netto vantaggio.»
«Se lo dici tu …» bofonchiò guardandosi i piedi.
Si fermarono un istante, finché Akylina non decise di informarsi sulle condizioni della casa.
«La casa è ancora in piedi, si?»
«Più o meno.» disse accelerando il passo.
«Leurak, cosa hai fatto?»
«Niente! Sono stato bravissimo – si rivolse a Camus che nel frattempo aveva trovato divertimento nel rigirarsi tra le dita un laccetto della maglia di Leurak – vero? Io e te siamo bravi!»
«Je ne comprends pas» disse Camus con un sorriso.
«Che ha detto?»
«Ha detto di stare attento a quello che dici»
«Eh sii seria per una volta in vita tua. Sempre a prendermi in giro.»
«Quello sei tu.»
«Ah già … senti un po’, perché non lo portiamo a conoscere gli altri bambini e i suoi coetanei, l'allegro trio si annoiava in un angolo delle arene, Milo e Aiolia distruggevano uno dei gradini che conducono alle arene. Kanon, Saga e Aiolos lo conosceranno stasera, si stanno allendando. O almeno, prima di venire a prenderti all'aeroporto. Magari sono andati a distruggere qualcos'altro. Milo aveva trovato particolarmente interessante strappare l'erba, ma Aiolia si era fissato col gradino e sai com'è..»
«Sì, sì, mi fai la telecronaca in un altro momento, ma dimmi piuttosto: in che modo dovrebbero capirsi?»
«Li hai visti anche tu i discepoli del gigante e del rosso. Vuoi che lui non sia alla loro altezza. Tsk.  – si rivolse poi al bambino – ti sottovaluta piccolo, dimostrale che si sbaglia.»
«Eh va bene, va bene.»
Akylina ormai si era rassegnata a Leurak e alla sua idea di mostrare il nuovo arrivo subito.

I tre si diressero verso le arene dei giochi. Shura, Tyko e Angelo giocavano per conto loro, separati dal resto dei coetanei. Alla vista dei due volti conosciuti, sfoderarono dei sorrisi stupendi avviandosi, pigramente ad accoglierli.
«Salve bambini!» Leurak era felice di vederli, si era affezionato moltissimo ai tre. Akylina non li vedeva da diversi giorni e si inginocchiò per abbracciarli. Li prese tutti e tre tra la braccia e li strinse forte a sé. L’unico titubante a lasciarsi andare a quel saluto fu Angelo. Non era abituato a quegli slanci d’affetto.
«Ciao» risposero i tre, incuriositi dal nuovo arrivato.
«Lui chi è?» domandò Tyko. Leurak rispose mettendo il bambino a terra.
«Lui è Camus. E’ appena arrivato dalla Russia.»
Nel frattempo il soldato si guardava attorno cercando Milo e Aiolia e di loro neanche l'ombra, come sempre; aveva imparato oramai che la risposta naturale alla ricerca di Milo era non trovarlo.
«Ma dove si saranno cacciati quei due...» disse a bassa voce, continuando a rivolgere lo sguardo per tutta l'arena.

Camus fissava i tre che ricambiavano lo sguardo. Tyko, che fino a quel momento si era dimostrato più propenso ai rapporti sociali con gli altri bambini, alzò una mano in segno di saluto al bambino, che ricambiò. Non proferirono parola. D’altronde non si sarebbero capiti in ogni caso.
Dopo pochi minuti di occhiate intense, Tyko utilizzò l’espediente usato da Shura per estorcergli il nome poco tempo prima. S’indicò dicendo il suo nome. Akylina, intervenne comunicando al piccolo rosso il nome del biondo. Camus sorrise e in uno sprazzo di vergogna, si nascose il volto tra le mani, suscitando l’ilarità di tutti i presenti. Akylina presentò anche Shura e Angelo prima di allontanarsi col francese.
Leurak rimase a giocare con i tre e decise di far fare loro un piccolo allenamento. Cominciò ad insegnargli le posizioni di guardia. I tre imparavano con gioia i nuovi insegnamenti e seguivano con attenzione i consigli e le parole dell’improvvisato maestro.



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Ciao a tutti!! Camus è finalmente arrivato al Santuario e arriverà presto il momento dell'incontro con Milo.
Pochi giorni fa Ricklee ha festeggiato il compleanno, per cui le dedico questo capitolo, anche se dello scorpioncino non v'è traccia! Auguroni!!
Vorrei ringraziare Redstar12 per l'aiuto datomi col francese, e per lo stesso motivo alcuni validi collaboratori esterni che non verranno pagati per i loro servizi.

Grazie mille a tutti i lettori, a Himechan per aver aggiunto la fic tra le preferite e ad araya per averla aggiunta tra le seguite.

Ricklee.
Auguriiiiiiiii!!
Beh, ora che ho fatto il mio dovere, devi aspettare un po' per vedere il primo incontro tra i due terribili bambini, però non ti farò aspettare troppo! Sappiamo già come andrà a finire tra loro, la loro amicizia durerà per sempre, anche se avversari!
Grazie mille di tutto cara, al prossimo! Un bacione :*

miloxcamus.
Qualche scapaccione gliel'avrei allungato sinceramente. Ma in fondo è così tenero e carino che gli perdono tutto, come si può dargli uno sculaccione?
Non si può. No, no.
E finalmente è arrivato Camus. Si, ce l'ho fatta. E' arrivato, e non ti ho fatto neanche aspettare troppissimo!
Un bacione e al prossimo!!

Himechan.
*.*
Oh sante divinità di tutto l'Olimpo!! Ti sei presa la briga di recensire ogni singolo capitolo, grazie mille, di cuore, mi ha fatto un piacere immenso.
Mmm, mi pare di aver percepito una leggera preferenza nei confronti dell'armadio portoghese, come darti torto.
Io amo tutti e quattro i personaggi che ho creato, dal barattolone al tappo, dal levriero alla dama. Sono tutti molto simili nel carattere, ma ognuno di loro si differenzia per la linea di pensiero, o almeno, questa è l'idea di base dal quale sono partita. Poi vedremo se riesco a mantenerla. Anche secondo me tra Leurak e Akylina c'è qualcosa, ma a quanto pare sono troppo presi da altro per capirlo, magari in futuro si decideranno a dichiararsi o almeno a far capire all'altro l'interesse che provano, o magari no. Le vie sono infinite.
Molti dei comportamenti dei piccoli gold sono vergognosamente OOC, ma il tentativo è anche quello di dare una, seppur blanda, spiegazione del motivo che li porterà ad essere come li conosciamo.
Shura nasconde già la fierezza che lo contraddistinguerà e non solo, anche un po' di riservatezza, parla poco ma si fa conoscere attraverso i suoi pensieri, quel delizioso pesciolino che è Tyko, per quanto fragile e tenero, dimostra di avere un caratterino che non va sottovalutato, Angelo è un teppista ancora indeciso se darsi al furto di macchine o passare alle banche, Aiolos è Aiolos, Kanon e Saga sono le "tre" facce della stessa medaglia, Milo è una peste e  Aiolia vive già all'ombra del fratello. Avrà tutto il tempo del mondo per riscattarsi e alla fine, come Kurumada ci insegna tra un buco e l'altro, a cadere dalla padella alla brace per poi saltar fuori dal fuoco. Ho già scritto di amare in particolar modo Shura e Death Mask (Death Mask di più), ma anche Aphrodite. Ah, il terribile trio è il terribile trio. Poi sono particolari assieme. Uno biondo, un moro e un grigio. Direi che sono complementari tra loro. Ma qui li fangirlo alla grande. Li amo e basta.
Passiamo ora ai Mago de Oz: li amo. Con tutta l'anima. Quella dannata Duerme è stata la canzone che ha scatenato il passato di Shura, per tutta la sua durata nel mio cervello si sono susseguite delle immagini, simili a quando, per originalità, ti passa tutta la vita davanti agli occhi. Poi, sarà che cantano una ninna nanna, sarà che la musica è medievale, sarà che cantano in spagnolo, ma erano perfetti.
Ma torniamo ai goldini.
Aiolia è ingenuotto, ma ha solo tre anni. Anche Milo, ma Milo non ha Aiolos. Aiolia sì. Col tempo diventerà come lo conosciamo, e se gli vuoi fare da baby-sitter, il leoncino ti verrà inviato per posta.
Ora, prima di farti il riassunto del capitolo appena pubblicato, risponderò velocemente al tuo quesito.
E' mia intenzione narrare i fatti fino alla "Notte degli Inganni". Però, considerando che metto mano alla fic in continuazione, mai contenta di ciò che scrivo, non so se cambierò idea.
Vorrei delineare al meglio i caratteri dei gold, dare un motivo ad ogni loro comportamento, soprattutto a Death Mask, ma non perchè lo venero, perchè è stato bistrattato dal creatore in modo terrificante. Come lui Aphrodite. Non voglio fare spoiler, anche perchè alla fine potrei cambiare idea come è già successo.
Akylina ha portato a termine la sua missione, nonostante le insicurezze e i timori, Leurak è sempre un gran rompiscatole, ma che mondo sarebbe senza Shur... ehm...Leurak. ^_- [cit.]
Per ora ti saluto e ti ringrazio enormemente per le recensioni, l'appoggio, la gentilezza e la simpatia. Non dovrei farti attendere troppo per il prossimo capitolo, ma meglio che non mi pronunci in merito.
Ancora una valanga di grazie e un bacione!!

whitesary.
Oh mia cara, oh mia cara.
Tu mi sequestri il tavolo? E io sbatto i piedi e ti sequestro tutto Lost Canvas, tutti i numeri in tuo possesso. TUTTI.
Sì. Se li rivuoi devi liberare il tavolo. O ti sequestro anche la statua.
Basta scemenze per almeno un secondo. Momento serietà.
E' stato un discorso difficilissimo da stendere, non volevo farli litigare, anche perchè, senza considerare la presenza o meno del cosmo, Leurak non ha la minima possibilità contro il portoghese. Nessuna, gli basta tendere un braccio e Leurak può colpire l'aria. Ma solo nel considerare il peso dei due, Leurak è morto in partenza.
Lo so, hanno tutti un avvenire un po' nero, ma basta prendere il tutto con filosofia e le cose sembrano meno brutte, qualcuno disse una volta "Alle cose brutte ci si fa l'abitudine", così come al dolore e a tante altre cose. Bisogna riuscire a trovare qualcosa di positivo in tutto e concentrarsi su quello. Col tempo le cose brutte sembrano meno brutte di come erano al momento in cui si sono vissute.
Comunque rivoglio il tavolo anche perchè al momento tendo a sentirmi confusa.

Camus.
Sei sempre gentile e le tue recensioni sono sempre essenziali e vanno dritte al punto. Ah, mi piacciono un sacco.
Come accennato ad Himechan, l'intenzione che mi smuove e mi governa è quella di scrivere fino alla "Notte degli Inganni". Vorrei far prendere loro le armature, farli lottare, allenarsi ognuno a quel paese rispetto all'altro e farli diventare quel che sono. Ma vedremo, potrei sempre cambiare idea, alla fine sono volubile a tendo a farmi trasportare dal vento. Ti ringrazio per i complimenti, sono felice che ti piacciano i primi maestri dei goldini, ma li amo, tanto per ripetermi. Oggi ti ho portato Camus, contenta? Ciao! A presto!

Saruwatari_Asuka.
Finalmente l'irlandese è riuscito ad andare a fare la nanna! Anche io spesso passo le notti in bianco, e quando succede, generalmente le giornate che mi attendono sono paragonabili ad una giornata di lavoro in una miniera di sale. Fortunatamente sembra che per il momento il mio sonno si sia regolarizzato, ma aspetto il prossimo festino sotto casa per lanciare qualche nuova maledizione, non perchè mi tolgano il sonno, ma mi da' fastidio il rumore. Eh, sono strana, lo so.
Ho voluto rendere Leurak eterno insicuro, cosciente di quello che gli accade attorno ma incapace di farsene una ragione.
João e Galgo sono un po' più disillusi, sono coscienti del triste destino dei piccoli, ma cercano di adempiere comunque al loro compito.
Sono felice di essere in grado di mostrarti il loro pensieri e i loro stati d'animo come se fossero reali. Mi piace molto il realismo, il descrivere quello che è e come accade, ma se c'è la fantasia di mezzo non posso essere precisa come vorrei, soprattutto perchè la parte dell'ambasciata è notevolmente campata per aria, ma fa niente!!
Insisto nel ringraziarti. Sempre e comunque. Un bacione e al prossimo!!

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Capitolo 14
*** Les enfants terribles ***


Les enfants terribles Leurak aveva deciso di restare assieme all'annoiato trio per insegnare loro qualcosa.
Mostrò loro le prime mosse che avrebbero comunque imparato nei giorni a seguire, concentrandosi principalmente sulle parate e iniziando a ripetere le frasi che avrebbero sentito per molto tempo, come: “la guardia è la prima cosa che si inizia ad imparare e l’ultima cosa che s’impara”, “sposta quel piede”, “solleva quel braccio”, “ruota la mano”.
I bambini lo seguivano nei movimenti, rapiti dai gesti che col tempo avrebbero imparato a padroneggiare e
dalla fluidità necessaria ad effettuarli.
«Fantastico!» esclamò Shura, felice di muoversi dopo la malattia e  l’immobilità alla quale erano stati sottoposti dal momento che abbandonarono l’abitazione dei due ragazzi che si erano presi cura di loro. Seguiva con interesse le parole e i movimenti del soldato, imitandolo in ogni movimento.
Tyko sembrava più interessato alla forma delle posizioni che all’effettiva correttezza dei gesti. Si muoveva con leggerezza e con calma, benché concentrato ad imitare al meglio le pose che gli venivano mostrate.
Angelo sorrideva seguendo ogni movimento e riproponendolo il più fedele possibile.
Dopo pochi minuti, Leurak mostrò loro qualcosa di diverso, sicuro che avrebbe catturato completamente la loro attenzione.
«Questo è un combattimento simulato.» disse mentre recuperava un calcio frontale con precisione e velocità, dopo aver tirato una serie di pugni.
«Sarebbe?» chiese Angelo inarcando un sopracciglio.
Il soldato sorrise e spiegò con calma.
«Ahhh, fai finta di combattere con qualcuno ma invece sei solo. Potevi dirlo subito.» replicò il bambino girando la testa di lato con fare offeso.
Tyko si lasciò andare ad una risatina, mentre Shura bramava di sapere di più, ignorando il comportamento dell'amico.

«Cercate di seguire i miei movimenti, non vi riusciranno subito forse, però sono le mosse più semplici che conosco.»
Voltò le spalle ai bambini e si mise in guardia, alzando le braccia a proteggere volto e torace e divaricando le gambe.
Si assicurò che i bambini si posizionassero al meglio e poi si mise perfettamente davanti a loro, e quando fu certo di avere tutta l’attenzione del trio, spostò in avanti un piede e con l’altro sferrò un calcio, diretto al fianco dell’ipotetico avversario. Riprese la posizione e mimò una serie di pugni veloci indirizzati all’addome, al torace ed infine al collo dell’invisibile fantoccio. Mentre agiva spiegava ai bambini cosa stesse facendo, in modo che per loro sarebbe stato più facile imitarli.
Ripetè nuovamente i movimenti, questa volta seguito dai bambini.
Simularono il combattimento alcune volte.
«E se il tizio è più alto?» proruppe  Angelo fermando la corsa del pugno e lasciando Leurak con gli occhi sgranati. Non sapeva come rispondere.
«Più alto?» domandò fissando gli occhi scarlatti del piccolo italiano.
«Più alto, come tu sei più alto di me.»
Il siciliano si avvicinò minaccioso a Leurak e mimò al meglio i gesti, colpendolo prima sulla coscia e poi sull’inguine.
Leurak non fu in grado di parare o controbattere.
Non si aspettava una “risposta” del genere.
S’inginocchiò a terra, col fiato spezzato dal pugno in una zona troppo delicata e al momento non protetta dai consueti abiti. Aveva gli occhi spalancati, sentiva il respiro mancare e una forte nausea iniziare a manifestarsi.
«A-angelo – rantolò – avverti prima di colpire…lì…»
«Perché?» domandò il bambino incuriosito.
Shura e Tyko si avvicinarono a Leurak che si accasciava lentamente a terra, preoccupati.
«Stai bene?» domandarono.
Angelo, dal canto suo, a braccia conserte, attendeva  che l’improvvisato maestro si riavesse e gli desse una risposta.
«Ehi, che succede se l’avversario è più alto?»
«Angelo, lo hai appena visto…vinci in un secondo se il tuo avversario è tanto idiota da non pararsi e non prevedere un pugno sulle p… sull’inguine.»
Angelo sorrise beffardo, si guardò il pugno e annuì soddisfatto. Aveva appena sconfitto un adulto.
Dopo pochi secondi un altro dubbio gli sfiorò la mente ed espose il suo problema.
«E se è più basso?»
Leurak, nell’udire la terra calpestata dal piccolo guerriero che si avvicinava nuovamente, scattò in piedi e gli rispose.
«Lo colpisci sui denti, glieli fai saltare e non potrà mai più masticare.»
Shura e Tyko si guardavano curiosi di capire le intenzioni dell’amico.
Dopo alcuni minuti si riebbe, si ricompose e sorrise al bambino.
«Sei forte, piccolo!» gli disse mentre gli scompigliava i capelli d’argento.
«Forte…» ripetè flebilmente osservandosi i pugni serrati.

La lezione fu interrotta da uno scarmigliato e sbadigliante Galgo.
«Che si fa qui?» chiese grattandosi la testa, per poi passare al mento, maledicendo la ricrescita della barba.
«Non dirmi che ti sei appena svegliato.» gli domandò Leurak con un tono da presa in giro.
«Eh, la notte in bianco non ci voleva, ci rimetterò un po’ a ricordarmi come si dorma di notte. Basta non dormire una sola volta per stravolgere le abitudini di anni.» gli rispose con un sorriso atto a mascherare un piccolo moto di vergogna.
«Bravo, tu a dormire e io a lavorare.» insistette Leurak nella sua presa in giro.
«Tu che lavori e non fai svolazzare struzzi!? Tu!? Non ci credo.»
«Gli struzzi non volano, ignorante!»
«Ma tu pur di non lavorare saresti in grado di farli volare. Ma che fate? »
«Mi faccio prendere a pugni da un bambino di cinque-»
«Sei.» intervenne immediatamente Angelo per puntualizzare.
Leurak gli rivolse uno sguardo omicida per poi rivolgersi di nuovo al compagno d’arme.
«Sei anni.»
Angelo, sovraeccitato raccontò a Galgo tutto quello che era accaduto, partendo dall’arrivo del piccolo Camus all’allenamento, concludendo infine con il mirabolante racconto dei colpi assestati all’improvvisato maestro.
«E ha detto che sono forte!!»
Gli brillavano gli occhi mentre raccontava, e il viso brillava di una luce che ancora non aveva visto illuminargli il volto.
L’irlandese scoppiò a ridere, soddisfatto della bravura del proprio allievo.
Parlarono per qualche minuto, sinché non videro Kanon, Saga e Aiolos fare ritorno dalle arene in cui si svolgeva il proprio allenamento. Non molto lontano gli altri ragazzi, visibilmente stanchi e affamati, li seguivano, capeggiati da Ankel.

I due adulti li salutarono con gioia prima di domandar loro come stesse andando l’addestramento.
«Bene.» risposero Saga e Kanon assieme.
«João ci ha insegnato diverse cose nuove.» continuò Saga.
Aiolos si avvicinò a Shura, che ancora ripeteva i pochi colpi imparati.
«Ruota il pugno quando pari.» gli disse, distraendolo dal combattimento.
Lo spagnolo rimase interdetto per un istante e fissò il compagno con fare interrogativo.
Il giovane greco mostrò quello che intendeva, ruotando il polso mentre sollevava il braccio che avrebbe parato un colpo proveniente dall’alto.
«Con la rotazione, fai in modo che il braccio dell’avversario subisca la vibrazione dell’impatto. In questo modo, dopo pochi colpi non sarà più in grado di insistere. Fa troppo male.»
Gli sorrise. Forse era riuscito a sciogliere il mutismo dello spagnolo.
«Grazie.» gli rispose Shura, un po’ imbarazzato e cercando di riprendere l’allenamento.
«Se vuoi dopo cena possiamo allenarci assieme.» propose Aiolos con uno sguardo conciliante.
«Va bene.»
Shura si dimostrava sempre più un bambino di poche parole, esprimendosi spesso con un solo sguardo.
Il greco fu soddisfatto dalla risposta affermativa e si diresse placidamente verso i templi che ospitavano i dormitori e la mensa.
«A più tardi allora.» disse, salutando lo spagnolo con un gesto della mano, senza voltarsi.

Galgo osservò Kanon mentre gli raccontava l’allenamento e tutti i progressi fatti in due giorni.
Sembrava fosse più sereno, ma era ovvio a suo avviso, il leggero complesso d’inferiorità che aveva nei confronti del fratello.
Benché entrambi venissero trattati allo stesso modo, e come loro tutti gli altri ragazzi, sembrava che Kanon sapesse o in qualche modo sentisse quanto fosse speciale il gemello.
Saga aveva meno difficoltà nell’apprendere le nuove tecniche con cui venivano bombardati tutti i giorni, ma quello che maggiormente lo faceva sentire piccolo e inetto era la grande bontà che dimostrava avere nei confronti di tutti.
Kanon stesso più di una volta non aveva esitato nell’estorcere qualcosa agli altri con qualche piccola prepotenza, mentre Saga, esattamente a suo contrario, era solito privarsi per dare agli altri. Fosse un pezzo di pane alla mensa o un consiglio.
Sembrava non fare nessuna preferenza verso i ragazzi che si affiancavano loro nel cammino, mentre lui aveva costruito un leggero cerchio di amicizia nel quale alcuni potevano usufruire di tutti i suoi favori, mentre chi ne era fuori sarebbe potuto morire sotto il suo sguardo che lui non si sarebbe mosso.
L’irlandese scattò nel vedere l’occhiata di disprezzo che Kanon rivolse ad Ankel al momento del suo passaggio. Non era possibile che due ragazzini provassero un tale odio nei confronti dell’altro senza un motivo apparente.
Ankel aveva dimostrato più volte di avere un carattere forte, ma mai aveva visto un tale atteggiamento palesarsi in quel modo. Lo sguardo sprezzante di Kanon fu ricambiato completamente e senza indugio.
Non si dissero una parola, solo un rapido scambio di sguardi per niente rassicurante.
Galgo cominciò a sentirsi di troppo, erano tangibili le scariche di elettricità tra i due bambini, si chiedeva solo se un’antipatia a pelle potesse degenerare fino a quel punto.
I suoi pensieri vennero interrotti dalle nutrici che si avvicinarono a richiamare i ragazzi e a riprendere tutti i più piccoli. L’ora della cena si avvicinava.
Galgo e Leurak rimasero soli e in silenzio nel guardare i ragazzi che, parlottando tra loro, seguivano le giovani donne.
«E quindi ti sei fatto prendere alla sprovvista da Angelo. Vergognati.»
«Vergognarmi? Non credevo che avrebbe fatto così come ha fatto. Io non mi ero mai posto il problema dell’altezza dell’uomo invisibile che picchio.»
«Questo dovrebbe farti capire quanto sono speciali questi bambini.»
«Lo so che sono speciali, ed è stato dolorosissimo apprenderlo. Molto doloroso. Moltissimo.»
Il cavaliere d’argento dei Cani da Caccia si lasciò andare ad una risata, per poi chiedere al compagno come fosse andata la missione di Akylina.
«Bene, ora ho un figlio di tre anni che si chiama Camus e parla solo francese. Prima che me lo chieda tu: sì, vivrà con me e Akylina finché non saprà parlare il greco, grazie. E’colpa tua.»
Spostava i ciottoli dell'arena con un piede mentre parlava, fissando la terra ocra.
«Di che ti lamenti? Non dirmi che non sei in grado di prendertene cura? Stai sempre con i piccoli.»
«Sì, ma non devo preoccuparmi che mangi, che non scarti le verdure, non devo imparare a dirgli “non fare così” in francese.  – trasse un sospiro – Non so come comportarmi. Non ci so fare con i bambini in queste condizioni e ora, grazie alle curiosità di Angelo, probabilmente non potrò averne e quindi non scoprirò mai cosa significa avere un figlio e resta colpa tua perchè Angelo ce lo hai portato tu, qui.»
Galgo si lasciò andare ad un'altra risata, sapeva già che sarebbe stata colpa sua qualunque cosa quel giorno, ma indirizzò di nuovo il discorso verso Akylina.
«Non essere ridicolo. Piuttosto, dove posso trovarla?»
«Non lo so, volevo che il piccolo facesse subito amicizia, o che almeno ci provasse, con gli altri monelli, ma non so cosa siano andati a distruggere Milo e Aiolia.»
«Sempre in moto quei due.» sorrise immaginando a quale passatempo poco costruttivo si fossero dati quella sera.
«Magari è a casa, mi è sembrata provata dal viaggio. Fai un tentativo. Se la trovi è lì, altrimenti spargeremo il Santuario di manifesti promettendo una ricompensa a chi li trova. Ad esempio una serata in mia compagnia sarebbe un premio molto ambito.»
«Wow! Scommetto che tutti si darebbero da fare. Piuttosto vai a farti un impacco freddo, non vorrei che tu non possa riprodurti davvero, che mondo sarebbe senza tuoi discendenti?»
«Non ne ho il coraggio, poi non lo ritroverò mai più...» disse sconsolato, dirigendosi verso la mensa per farsi dare un po’ di ghiaccio. Galgo lo guardò allontanarsi e s'incamminò alla ricerca di Akylina e del nuovo arrivato.

-

Mentre Leurak rimase con Shura, Tyko e Angelo, Akylina fece fare un giro per il Santuario al piccolo francese, speranzosa di trovare i suoi coetanei.
Li vide tutti seduti per terra con le orecchie tese attorno ad una nutrice intenta a raccontare loro una storia.
Sorrise nel vedere che Milo e Aiolia avevano smesso di distruggere il Santuario e ascoltavano tranquilli quello che la giovane raccontava loro.
Quasi nessuno si rese conto del loro arrivo e solo in pochi si voltarono; solo uno si alzò per accogliergli.
La nutrice sgridò il bambino che si era alzato ignorando totalmente le regole che erano state enunciate all’inizio del racconto, ma non ottenne l’attenzione desiderata.
Milo si diresse di corsa, con un sorriso dolce e spensierato, verso il nuovo arrivato e lo salutò calorosamente rovesciandogli sopra una marea di parole.
«Ciao! Io sono Milo, starai bene qui, siamo in tanti e ci trattano bene. Diventiamo amici?»
Akylina, a malincuore, dovette bloccare l’impetuosità del piccolo greco.
«Milo, non ti capisce, parla solo francese.»
«E insegnagli il greco. Cos’è il francese?»
«La lingua che si parla in Francia. »
«E la Francia cos’è?»
«Uno stato. Milo, facciamo così: tu mi dici quello che vuoi dire a lui e io glielo traduco. Ci stai?»
Il bambino annuì contento e cominciò a bombardare di frasi e parole la giovane donna, che lo fermò nuovamente, rimproverandolo.
«Una frase per volta Milo.»
Il bimbo non accettò il rimbrotto e sbuffò sonoramente, incrociando le braccia al petto e mettendo su il broncio.
Si era offeso. Lui si stava solo dimostrando ospitale e gentile nei confronti del nuovo arrivato, non meritava quella strigliata. Girò la testa per sottolineare il suo disappunto e serrò gli occhi con forza. Camus nel frattempo osservava divertito il comportamento di quel bambino allegro e vivace. Sorrideva nel vedere le buffe espressioni e le smorfie che il greco cambiava in continuazione.
Quando Milo decise di esse rimasto oltraggiato per un arco di tempo sufficientemente lungo, girò piano la testa, aprendo solo un occhio, per poter scrutare le reazioni del nuovo arrivato. Gongolò nel vederlo divertito dal suo comportamento.
«Akylina – proruppe impetuoso come suo solito - Digli il mio nome!»
La donna levò gli occhi al cielo chiedendosi quale male avesse fatto per meritarsi tutte le pantomime di Milo e lo accontentò. Si accucciò accanto al francese e parlò.
«Camus, il est Milo [Camus, lui è Milo].»
Il rosso francese annuì e sollevò la mano trillando un allegro «Hé![Ciao!]».
Milo accolse quel gesto di saluto con rinnovato entusiasmo  e iniziò nuovamente a tempestare Akylina di parole da tradurre, quando si rese conto di non aver afferrato il nome del bambino.
«Akylina, come si chiama?»
«Camus»
«Mi insegni il francese? Così posso parlare con lui. Mi piace, ha dei bei capelli.»
Akylina rise alla richiesta di Milo e la accettò annuendo col capo.
Si era accorta che anche Camus era attratto da Milo così come Milo lo era da Camus. Sicuramente sarebbe nata una bella amicizia.
«Se ci tieni si – rispose semplicemente – ma tra qualche tempo lui imparerà il greco. Non c’è bisogno che impari il francese.»
«Ma io voglio parlargli ora» Milo mise nuovamente su il broncio, offeso. Voleva parlare subito a quel bambino e voleva farlo in francese.
Niente gliel’avrebbe impedito.
«Dai Milo, torna dagli altri e segui il racconto. Noi andiamo a fare il bagno e a riposare. Siamo appena tornati e siamo stanchi. Ok? »
«Ok – fece sconsolato  il piccolo greco – ma poi possiamo giocare assieme? Così lo conosce anche Aiolia e giardiniamo tutto. Abbiamo strappato tanta erba e si è rotto un gradino.»
La giovane sorrise e scosse la testa, era arrivato il momento in cui Milo, come ogni volta che lo incontrava, le raccontava le sue mirabolanti gesta. Aiolia, volente o nolente, si ritrovava sempre coinvolto nelle sue malefatte, sebbene anche lui fosse un piccolo tornado. Ma niente in confronto a Milo.
«Milo, come si è rotto il gradino?» chiese, sicura che avrebbe ascoltato una storia incredibile.
«Stavo strappando l’erba ed è venuto via. Aiolia lo ha fermato così – mimò l’impresa erculea dell’altro greco, sottolineando quanto fosse pesante il pezzo di marmo che sosteneva – e io mi sono salvato.»
Il futuro guerriero era convinto che chiunque prendesse per veritieri i suoi racconti e non mancava mai di esagerare un po’.
«No! – esclamò la ragazza – Per fortuna che Aiolia ti ha salvato!»
Non si era reso conto che esagerando in quel modo avrebbe sottolineato la forza di Aiolia e non la sua, ma cambiò rapidamente versione.
«Ma io ho salvato Aiolia! Il gradino lo stava schiacciando e io l’ho preso e tirato via.»
Camus ascoltava senza capire e guardava il piccolo attore mimare l’accaduto. Rideva, tenendo stretta la mano di Akylina, che dopo poco rimandò Milo dagli altri.
«Certo, Milo! Ora vai a sentire il resto della storia.»
Obbedì di buon grado e corse a riprendere posto sul pavimento.
Akylina poté finalmente avviarsi verso casa. Camus non parlava tanto dopo le mille domande che le aveva fatto in aereo, si limitava a commentare le cose che lo incuriosivano.
Quando furono arrivati  nella casetta che la ospitava assieme a Leurak, condusse il bambino nella sua stanza da letto e gli mostrò il letto che avrebbero diviso per mancanza di spazio.
Il bambino storse il naso. Era abituato a dormire da solo e non sembrava ben’intenzionato a dover dividere il giaciglio.
« Pourquoi il y a seulement un lit? Où je dors? [Perché c’è solo un letto? Dove dormo?]»
« Nous dormirons ensemble. - gli disse Akylina con tono tenero – Est-ce que tu ne veux pas dormir avec moi? [Dormiremo assieme. Non vuoi dormire con me?]»
«Non. Je veux dormir tout seul. [No. Voglio dormire da solo.]»
Non sapeva davvero come accontentarlo. Avrebbe potuto sfrattare Leurak dalla sua stanza, ma poi probabilmente, avrebbero dovuto dividere la stessa stanza. Già le battutine su una loro presunta storia d’amore fioccavano numerose al Santuario, non le sembrava il caso di dare ai compagni pettegoli l’ennesimo spunto. Avrebbe potuto chiedere a Leurak di trasferirsi per un po’ da João e Miach, ma c’erano buone possibilità che l’amico rifiutasse di disturbare gli altri.
Non aveva scelta, doveva convincere il bambino ad accettare quella situazione.
«Camus n'est pas place pour mettre un autre lit et je ne saurais pas où en chercher un autre. Allors sois bon et tu résistes pour quelque jour. [Camu, non c’è abbastanza spazio per mettere un altro letto e non saprei dove trovarlo. Sii buono e resisti per qualche giorno.]»
«Non . Je veux dormir tout seul. [No. Voglio dormire da solo.]»
«Plus tard nous en parlons. Maintenant nous allons nous faire le bain.[Ne parleremo più tardi. Ora andiamo a fare il bagno.]»
«Bien!»
Il piccolo francese era contento di lavarsi, sembrava che gli piacesse l’acqua e passò diversi minuti a giocare col liquido trasparente.
Subito dopo la doccia, Akylina lo mise a letto e si sedette su un bordo. Gli fece qualche carezza e aspettò che si addormentasse per poi coricarsi accanto a lui e riposare.
Nel momento esatto in cui il sonno s’impossessava del bambino la donna lo sentì chiaramente sussurrare «Milo est où? [Dov’è Milo?]»
Sorrise nel sentirlo parlare del bambino conosciuto poco prima, sembrava davvero che si fossero trovati. In quell’istante ebbe la certezza che tra quei due bambini si sarebbe instaurata una bella amicizia, speranzosa che potesse durare nel tempo, si abbandonò anche lei sul materasso, raggiungendo in poco tempo il bambino nel regno del dio del sonno.

Dormirono per tutta la sera e la notte; il rapimento, la fuga e il viaggio avevano tolto loro ogni energia e il riposo durante il viaggio non era stato rinvigorente. Si svegliarono alle prime luci dell’alba. Tirava un venticello leggero e fresco che impose loro di coprirsi. Si avvicinarono nel letto senza alzarsi. Rimasero un po’ a crogiolarsi nel tepore delle lenzuola, finché Leurak non fece il suo ingresso nella camera della compagna come un uragano. Portava in mano un vassoio sul quale aveva messo due tazze di latte e dei biscotti.
«Bonjour! – trillò contento – Giù dal letto dormiglioni. Mi avete fatto cenare solo come un cane pulcioso e malato ieri sera, non ve lo perdonerò. Ho dovuto chiedere asilo politico a Galgo e João.»
«Allora non hai mangiato da solo, ilithie.» rispose allungando la mano per prendere la maschera e avvicinarsela, pronta ad indossarla appena mangiato. Durante la giornata precedente non l’aveva indossata, reduce dal viaggio.
Sion si era dimostrato benevolo e non l’aveva redarguita per la mancanza. Benché il Gran Sacerdote tenesse particolarmente che ogni regola venisse rispettata, le aveva tacitamente fatto quella piccola concessione, forse per premiarla per la buona riuscita della missione.
«Sempre acidina appena sveglia, eh? Comunque, che avete fatto ieri pomeriggio mentre mi facevo castrare dai discepoli del rosso e del portoghese?»
«Ho seguito il tuo consiglio e ho portato il piccolo a conoscere gli altri bimbi. Castrare?»
«E’ una storia lunga che forse un giorno ti racconterò. Ma piuttosto, hai visto Galgo ieri? Ti cercava, credo che volesse conoscere il nuovo acquisto del Santuario.»
«No, non l’ho visto. Però ho trovato Milo.» finita la frase Akylina si stiracchiò imitata dal piccolo francese che nonostante i capricci del giorno prima non sembrava disturbato dal fatto di aver diviso il letto.
Leurak porse il vassoio ai due che iniziarono a mangiare con  gusto.
Mentre il piccolo francese si lamentava della temperatura del latte, troppo caldo per i suoi gusti, Akylina e Leurak parlarono dell’incontro tra Camus e Milo e raccontò lui l’impresa del gradino.
«Adoro Milo – disse Leurak – è così spigliato! Inoltre appena sarà un po’ più grande lo prenderò sotto la mia ala e metteremo a ferro e fuoco il Santuario. Oh dèi, ci sarà da divertirsi.»
I pensieri del mongolo già erravano pensando agli scherzi che avrebbero fatto. Venne riportato con i piedi per terra da Akylina, che gli fece notare che Milo si era rivelato uno dei prescelti dalla dea. Avrebbe indossato un’armatura in futuro.
«Quindi? – Leurak le rivolse uno sguardo superbo – Non pensare che chi indossi un’armatura non possa essere amante degli scherzi. Tu sarai la nostra prima vittima. Non dimenticarlo.»
Finita la frase si alzò dal letto, e un salto fu  fuori dalla porta. Akylina tirò un cuscino all’amico, che facendo capolino tra gli stipiti esortò la donna e il piccolo a finire la colazione.

Dopo pochi minuti, i tre erano pronti a recarsi dal Gran Sacerdote, in modo che la giovane avesse modo di raccontare tutti gli avvenimenti per filo e per segno e, forse, domandare a Sion chi fosse Yuri. Leurak aveva deciso di far fare un giro turistico al piccolo prima che il sole autunnale s’imponesse completamente su quello estivo.
Mentre si dirigevano verso il tempio scelto per accogliere i nuovi arrivati, s’imbatterono in una carovana di bambini, in fila a due a due. Camus osservò con curiosità i suoi coetanei e cercò con lo sguardo il bambino che gli aveva fatto le feste il giorno prima.
Non c’era. Chiamò Akylina strattonandole la mano e disse:
«Milo est où? [Dov’è Milo?]»
«Je ne sais pas, il devrait être ici [Non lo so, dovrebbe essere qui.]» gli rispose con tenerezza per poi guardarsi intorno ad osservare tutte le testoline che le sfilavano davanti, coinvolgendo poi anche Leurak nella ricerca.
Sembrava che il piccolo greco non fosse presente.
Fermarono una delle nutrici e le chiesero  dove stavano conducendo i piccoli.
« Li portiamo a fare una passeggiata per il Santuario – rispose la nutrice che accolse per prima Shura, Angelo e Tyko – il Sommo Sacerdote desidera che comincino a seguire qualche lezione dalla settimana prossima e prima che inizino avevamo intenzione di farli svagare un po’.»
La nutrice parlava con un tono di voce tanto dolce che Camus si ritrovò a pendere dalle sue labbra, senza capire neanche una parola. Esordì rivolgendosi alla giovane:
«Où il est Milo? Est-ce que tu le sais?[Dov’è Milo? Tu lo sai?]»
La nutrice si guardò intorno con aria smarrita, ma Akylina fu rapida nel tradurre le parole del piccolo.
«Vuole sapere dov’è Milo. Si sono conosciuti ieri.»
«Oh, Milo! » la giovane scrutò attentamente i bambini e sbiancò non trovandolo. Cominciò a chiamarlo, sperando che il bambino si facesse vivo. Amava sparire e farsi trovare, ma non era il momento migliore per fare scherzi.
La donna greca informò Akylina della mancanza di Milo all’appello e il piccolo Camus si lasciò andare ad un sorriso divertito  nel vedere tutto quello scompiglio. Altre nutrici si misero a cercare il bambino, coinvolgendo alla fine anche Leurak.
Aiolia si guardava intorno, poco interessato all’ennesima sparizione dell’amico, sicuro che sarebbe saltato fuori da lì a poco.
Rivolse una leggera occhiata a Camus, chiedendosi se quel bambino fosse quello che aveva rapito le attenzioni di Milo.
La sera prima gli aveva parlato tanto del nuovo arrivato e dei suoi capelli; rossi come il fuoco e belli.
Il giovane soldato fece una rapida corsa tra alcune rovine e trovò il piccolo intento a correre dietro ad un gattino che si era avventurato nel Santuario.
«Milo! Ti cercano tutti! Che stai combinando?»
«Guarda! Un gatto!»
Leurak si avvicinò al piccolo e si accovacciò al suo fianco.
«E’ molto carino, ma ora dobbiamo tornare dagli altri, sono tutti preoccupati. Devi avvertire quando ti allontani.» il mongolo cercò di rimproverarlo con dolcezza, era normale che un bambino di tre anni si facesse rapire da tutto quello che vedeva. Milo si voltò a guardare l’adulto e abbassando la testa sussurrò con un filo di voce «Sinchòrame. [Perdonami.]»
«Fa nulla, ma ora andiamo.» il soldato scompigliò i capelli della piccola peste e cercò di afferrargli la mano per riportarlo dagli altri. Milo, però, fu lesto nel gettarsi a rincorrere il micio. Non si sarebbe mosso di lì sinché non fosse riuscito a fargli una carezza. Il mongolo prese per lui il gattino e glielo affidò, chiedendogli espressamente di trattarlo bene. Il bambino lo stritolò tra le braccia e schioccò un sonoro bacio sulla testa del cucciolo. Lo rimise a terra e si avviò, in solitaria, verso il luogo da cui era venuto.









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Ed ecco qui il quattordicesimo capitolo!!
Grazie mille a tutti i lettori e a chi ha voluto lasciare una recensione. Oggi sono di poche parole, approfittatene.

Ricklee.
Dai che non ti ho fatto aspettare troppo! Forse è il primo capitolo dove tutti i personaggi vengono nominati TUTTI! Mi faccio i complimenti da sola.
Tesoro, grazie mille per la recensione e tutto! Alla prossima!
Un bacione!

miloxcamus.
Ma poveri piccoli sculacciati! Però quando ci vuole ci vuole, ma non troppo forte!
L'idea è quella di farli diventare cavalieri all'età decisa da Kurumada, anche se per Shura ho qualche problema visto che l'autore afferma che sia diventato cavaliere all'età di dieci anni, ma nella side-story a lui dedicata si parla di otto anni. Ma credo che seguirò le parole di Masami. Grazie mille e alla prossima, un bacione!!

Himechan.
Tanto per spoilerarti un po' di cose: Yuri si farà nuovamente vivo, ma non ti dico come, dove, quando e perchè. A suo tempo ricomparirà.
Grazie mille per i complimenti, le bacchettate e le immagini *.*! Sei semplicemente e adorabilmente folle!! Voglio Nemo-Jem!
Un bacione!

nikkith.
Eh, cara. Non so se Leurak è innamorato di Akylina, ma direi che sicuramente è molto interessato e anche lei sembra non sdegnare la presenza del giovane scemotto. Ogni cosa a suo tempo!
La pseudo-coppia e Galgo e Jo
ão ti sono grati, e sperano che continuerai a seguirli. Dopotutto ormai il Santuario è quasi al completo. Grazie mille per il commento e alla prossima! Un bacione!

Gufo_Tave.
Grazie mille, i tuoi commenti sono sempre preziosi!
Hai ragione, avrei potuto indugiare un po' di più sulla fuga dalla Russia ma direi che ormai il danno è fatto.
Sono felice che ti sia piaciuto il capitolo. A presto e grazie ancora!!

whitesary.
Le petit Camus, per te il francese è morto e sepolto, per me non è mai nato.
Ti restituisco tutti i numeri di Lost Canvas, e finalmente posso riavere il mio adorato tavolo, però, ahem, non so come dirtelo...ti ho colorato El Cid, in verde e rosa, come se fosse un namecciano.
Non si fa, vergogna. Mi autopunisco.

Saruwatari_Asuka.
Vedi che Death Mask ha un buon motivo per avercela con i computer? Eh, non sbaglia mai lui.
Coraggio su col morale e pensa a quel povero giovine che è Leurak, forse non potrà mai riprodursi, e il mondo senza di lui sarebbe triste. Voglio dire, avremo un idiota in meno, ma avremo in meno un idiota simpatico, il che è vero peccato. Per curiosità, a chi hai associato Yuri? Stai tranquilla e ti spedisco Leurak con un paio di corvacci a casa. Mi raccomando, mai buttarsi giù e sempre a testa alta! Grazie per la tua stupenda onnipresenza!!
^_^
Un bacione! 






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Capitolo 15
*** Un nuovo cosmo ***


m Leurak andò a cercare Milo, mentre Akylina tentò di presentare Camus e Aiolia.
A differenza dell'altro greco, Aiolia si era mostrato appena più reticente e meno curioso riguardo il nuovo arrivato; lo aveva guardato con apparente distacco, comprendendo che fosse il bambino di cui Milo non aveva fatto altro che parlare dal giorno prima.
Lo aveva visto anche lui assieme alla donna guerriero all'arena, eppure era rimasto attento ad ascoltare le gesta dei Cavalieri d'Oro che le nutrici narravano sempre, su espressa richiesta del Gran Sacerdote, e raccontavano non solo di epiche battaglie ma anche di piccoli momenti di vita quotidiana, di allenamenti e di sudore, di amicizia e di rispetto. Spesso le parlavano di diversi cavalieri, fratelli tra loro; non solo di spirito ma anche di sangue, esattamente come lo erano lui e Aiolos.
E quelle storie gli piacevano, non le capiva, non era ancora cosciente di cosa parlassero, ma gli piacevano.
Non si era risparmiato una piccola galanteria nei confronti della guerriera che accompagnava il piccolo francese e le aveva porto uno degli ultimi fiori estivi,
 raccolto tra l'erbetta verde che andava crescendo in tutto il Santuario. L'autunno iniziava a manifestarsi con prepotenza, si sentiva il fresco solleticare la pelle sebbene il sole riuscisse ancora a scaldare. E quel fiore bianco, che svettava tra i fili verde intenso, sembrava chiamarlo.
Camus sorrise nel vedere il gentile gesto e continuò a guardare il greco con curiosità.
Comparvero Milo e Leurak, da dietro una colonna divelta da un tempo immemore e lontano.
«Eccolo!» trillò Leurak mentre teneva la mano del bambino che cercava di fuggirgli dimenandosi.
Acchiapparlo si era rivelata un'ardua impresa che aveva spinto il soldato non solo a pensare che da grande il bambino sarebbe stato inarrivabile quanto ad agilità e velocità ma sembrava che godesse nel rendersi inafferrabile.
Milo sgranò gli occhi alla vista del francese e, incurante dei rimproveri delle nutrici, gli si gettò al collo e gli raccontò tutto quello che aveva appena fatto: del gattino che non voleva farsi prendere e di come poi lo avesse tenuto tra le braccia, per finire con la corsa che aveva fatto fare a Leurak per dimostrargli quanto fosse più bravo e veloce. Camus rideva, contento delle attenzioni mostrategli, ma non comprese neanche una parola, mentre Aiolia s'ingelosiva.
«Ehi  - esclamò Leurak, richiamando l’attenzione delle nutrici – perché non ce lo date a noi per qualche ora? Potrà giocare col nuovo arrivato e fare amicizia. Magari si calma, il tornado.»
Le nutrici si scambiarono velocemente una serie di sguardi. Avrebbero potuto passare qualche ora di tranquillità senza dover rincorrere il piccolo in giro per tutto il Santuario e acconsentirono alla richiesta affidandogli Milo, chiedendo espressamente che avvertissero il Gran Sacerdote.
Conoscevano bene la vitalità di Milo e nel caso si fosse fatto male rincorrendo un camion o cercando di sollevare un automobile per poi restarci incastrato sotto, non volevano esserne responsabili.
Leurak si prese l'incarico di avvertire personalmente Sion e salutò i bambini che ripresero a seguire rumorosamente le nutrici.
Aiolia rimase accanto a Milo, ma la sua attenzione venne presto rapita dal fratello che, in compagnia dei due gemelli, cambiava arena.
La vita degli apprendisti era difficile e dura: allenamenti su allenamenti, lezioni di vario genere e combattimenti.
Mentre una delle nutrici si apprestava a riprendere Aiolia, tornando indietro, Aiolos lo prese in braccio e lo consegnò alla giovane.
«Voglio allenarmi con Aiolos.» disse alla giovane, che sorridendo lo mise a terra e gli afferrò la mano.
«Più avanti leoncino. Tra qualche tempo ti allenerai con tuo fratello, ma per adesso sei ancora troppo piccolo. Vero?» gli disse con voce gentile.
Nel sentire quelle parole il bambino sorrise e strinse il pugno, si sganciò dalla presa e corse in avanti.
«Sono piccolo ma sono più veloce.» provocò la nutrice che non poté rifiutare la gara.
Dopo qualche metro di corsa, si ricordò di non aver salutato l'amico e si fermò bruscamente, rischiando che la donna gli passasse sopra.
Si girò e con ampi cenni della mano rimediò.
Milo ricambiò il saluto per poi girarsi a guardare Leurak che ridacchiava.
«Benissimo. Milo, ti va di venire con noi a fare un giretto sulla spiaggia?» domandò al bambino.
«Si! Davvero andiamo al mare? Possiamo fare il bagno?»
«No, niente bagno. Fa freddo. Forse la prossima volta.»
«Io volevo fare il bagno, ti prego, facciamo il bagno.»
Milo cominciava ad assillare il povero Leurak che riuscì a scampare all’ennesima richiesta tirando in ballo il nuovo arrivato.
«Camus non farà il bagno, perché non gli fai compagnia e restate asciutti?»
«Facciamo fare il bagno anche a lui.»
No, a Milo non si scampava.

Spiegarono ai bambini che Akylina doveva presentarsi dal Gran Sacerdote e che sarebbe rimasta in sua compagnia per un po’ di tempo.
S'incamminarono verso il tredicesimo tempio e attraversarono tutti i palazzi che separavano il Santuario, dimora di soldati e mortali, dall'ultimo tempio, il luogo destinato ad accogliere le spoglie mortali della dea che presto si sarebbe manifestata.
I due soldati presero i bambini in braccio, sicuri che non sarebbero riusciti a salire tante scale. Camus, tra le braccia di Akylina, e Milo, sulle spalle di Leurak, cercavano di afferrarsi le mani, giocando tra loro e facendosi domande in lingue sconosciute, mischiando la propria lingua con qualche sillaba di quella appena udita.
Il piccolo greco aveva già capito che per farsi comprendere avrebbe dovuto accentare tutte le lettere finali delle parole, suscitando l'ilarità di Akylina e lasciando il francese interdetto. Leurak fissava la compagna che sorrideva, senza che lei se ne accorgesse.
All'ingresso dell'ottavo tempio, Milo cominciò a fare le bizze e Leurak dovette metterlo a terra prima che tentasse un salto che forse si sarebbe concluso con la frattura di entrambi i talloni.
Appena toccò il suolo mosse pochi incerti passi verso l'entrata. Si fermò nuovamente e cercò di vedere tutta la facciata della gigantesca costruzione. Perse l'equilibrio nell'alzare tanto la testa, ma la mano di Leurak fu lesta e lo sorresse.
Milo si voltò a guardare il soldato e gli sussurrò, flebilmente:
«E' mio».
Fronteggiò ancora il tempio prima di accingersi ad entrare.
Mosse i primi passi con calma, con la schiena dritta e la testa alta, come se fosse il padrone di quel luogo. Lo ispezionò volgendo rapide occhiate a destra e a sinistra, fino a concentrarsi sulle prime colonne. Ne toccò una, poggiandovi la mano aperta.
Lasciava scivolare il piccolo palmo sul marmo bianco e un po' rovinato dal tempo, ma sempre splendente, con un'espressione di ammirazione e meraviglia totale dipinta sul viso. I due occhi azzurri del bambino brillavano nella semioscurità del tempio sacro: quello dello Scorpione Dorato.
Esitò un secondo prima di sorridere ancora e ripetere, a voce alta questa volta:
«E' mio. Qui è tutto mio.»
Camus interdetto chiese ad Akylina cosa stesse dicendo il nuovo amico e lei semplicemente rispose: «C'est son temple
.[E' il suo tempio.]»
«Pourquoi? [Perchè?]»
«Je ne sais pas. [Non lo so.]»
Akylina comprese in quel momento, e assieme a lei Leurak.
Milo era attratto da quella costruzione. Aveva ignorato completamente le prime sette dimore dei guerrieri dorati, ma quel tempio no.
Era come se avesse sentito una sorta di richiamo, come se le mura gli stessero sussurrando la sua appartenenza a quel luogo.
Akylina lo conosceva meglio di tutti al Santuario, era lei che lo aveva trovato. Un bambino di pochi mesi abbandonato in una delle campagne che circondavano il luogo sacro, nascosto sotto gli occhi di tutti. Tra poco meno di due mesi avrebbe compiuto tre anni, per il momento era il bambino più piccolo, eppure si comportava come se avesse più della sua età effettiva.
Non solo la sua parlantina traeva in inganno, ma anche la sua spigliatezza.
In quel momento i due soldati avevano assistito ad una sorta di miracolo: il bambino aveva appena trovato la sua Casa. Il modo in cui sfiorava le colonne, poco prima di mettersi a correre per tutto il tempio, scatenando un gioco con Leurak che tentava di riprenderlo, mostrava chiaramente il suo senso di appartenenza a quel luogo.
Solo Aiolos e Saga, prima di lui, avevano mostrato una tale predisposizione al difficile compito che li attendeva. Era chiaro il motivo per cui Sion aveva ordinato che i bambini iniziassero il prima possibile gli addestramenti.
Sorrise amaramente prima di richiamare sia Milo sia Leurak all'ordine.
«Sì, signora. Ai suoi ordini.» Leurak si mise sull'attenti, imitato subitaneamente da Milo.
Camus, giocoso, scalciò e chiese di essere messo giù anche lui. Si unì ai due mettendosi in fila e ubbidendo agli ordini di Akyina.
«Allons-y![Andiamo!]» disse con tono sicuro, prima di ripetere l'ordine in greco, dando la precedenza all'ultimo venuto.
Continuarono la scalata, con calma.
I bambini correvano da una parte all'altra, sembrava si stessero sfidando.
Un attimo salivano le scale a zigzag, poi cercavano di salirle saltando su un solo piede, poi cercando di stabilire chi dei due fosse più veloce, tutto senza capirsi.
Al nono tempio, Milo sembrava sofferente e stufo di misurasi con il francese e chiese espressamente a Leurak di fare da giudice.
«Sono più bravo io, vero?»
Il soldato rise e cercò lo sguardo di Akylina.
Fu sicuro di averlo incontrato nonostante la maschera, e fu certo che anche lei fosse d'accordo con la sua idea.
«Non posso dirti chi è più bravo tra voi due.»
«Perchè?»
«Perchè io son più bravo.» rispose mettendosi a correre subito dopo, mostrando palesemente la sua superiorità.
Sapeva che prestissimo quei bambini avrebbero potuto picchiarlo e lasciarlo a terra morente senza affaticarsi troppo.
Non sarebbe uscito bene da uno scontro contro Aiolos o Saga o Kanon.
Anche se il loro addestramento era iniziato da poco, era a conoscenza che il suo livello di preparazione era e restava quello di un comune soldato.
Galgo e João, grazie al loro cosmo, sarebbero stati dei maestri stupendi e in grado di tener testa a quei piccoli fenomeni per diverso tempo.
Lui non poteva fare altro che farli giocare e farsi picchiare, ma se i due amici non gli mentivano, e come loro tutto il Santuario, quei bambini un giorno avrebbero rappresentato la salvezza del mondo. Si costrinse a non pensare alla sua inutilità al Santuario, accettando semplicemente il suo destino, prima lo avrebbe fatto e prima sarebbe riuscito a vedere le piccole bellezze che quello strano mondo fatto di sangue e sudore celava.
La scalata dei templi continuò; i due soldati speravano che anche Camus percepisse quel mistico richiamo udito da Milo, ma non fu così.

Il gruppetto entrò nel tempio e Sion non li fece attendere.
Leurak rimase con i piccoli nell’anticamera e parlò con i soldati che vigilavano sul portone  che donava un po’ di riservatezza all’anziano pontefice. Presentò loro Camus, mentre Milo bramava che tutta l’attenzione del francese fosse rivolta a lui.
I due bambini parlarono a lungo.
Ad ogni affermazione di Milo, Camus rispondeva, e viceversa, intavolando una lunga discussione.
«I soldati sono tanti e anche io combatto. Però sto imparando ma non sono bravo.»
«Où est Akylina? [Dov’è Akylina?]»
«Vieni a dormire con noi?»
«Quand elle retour?[Quando torna?]»
«Aiolia ha un fratello più grande, io no. Tu ce l'hai? Anche Kanon e Saga sono fratelli.»
«Leuhrak?»
«Leurak è più grande.»
Camus si stancò in fretta delle loro frasi senza senso e cercò l'adulto che parlottava.
Gli si avvicinò e tirò il lembo della maglietta.
«Où est Akylina? [Dov’è Akylina?]» chiese triste.
«Ehm, tu devè aspettè che arrivè.» rispose in un improbabilissimo francese, ottendendo solo uno sguardo sconcertato del bambino.
Il mongolo pensò che probabilmente il piccolo credeva fosse completamente scemo.

Akylina raccontava a Sion tutti i particolari del viaggio, della fuga dall'ambasciata e il volo di ritorno.
Teneva un ginocchio poggiato sulla candida pavimentazione del tempio.
«Puoi andare Akylina.» disse alzandosi dal trono.
La giovane sussultò un secondo e richiamò l'attenzione del Pontefice.
«Vorrei porvi una domanda, se mi è possibile.»
«Parla.»
«Che rapporti vi legano a Yuri?» chiese infine, sicura di ottenere in risposta un secco "fatti gli affari tuoi".
«Yuri è un mio vecchio amico. Ti basta sapere questo, mi doveva un favore, tutto qui.»
In fondo la giovane sperava di sentirsi raccontare una storia stupenda e roccambolesca di come fuggirono ad una divinità o ad una guerra. Non sapeva il perchè ma sentiva che Yuri fosse parte del mondo del quale ormai anche lei faceva parte, aveva l'impressione che anche lui avesse un cosmo.
Durante la fuga, mentre caracollavano giù per le scale secondarie dell'ambasciata, fu sicura che un intervento esterno, un piccolo aiuto, li avesse nascosti.
La vicinanza di quell'uomo misterioso fu particolare per tutta la durata della corsa, poi sulla macchina e infine all'aeroporto, quando le consegnò il cibo per lei e il bambino, aveva avuto la sensazione di avere al proprio fianco Galgo o J
oão. Ne era certa.

Non parlò all'anziano Pontefice delle sue sensazioni e si congedò.
«Brava, brava. Che stavi facendo con il Gran Sacerdote? Porcellina!» Leurak non aveva perso l'occasione di punzecchiare l'amica, suscitando l'ilarità dei soldati di guardia che incitarono Akylina all'omicidio con conseguente occultamento del cadavere nei pressi delle mura di cinta.
Si allontanarono tenendo i bambini per mano, mentre parlottavano.
«Ma come ti è venuta in mente quella battutaccia?»
«Quale?» chiese Leurak mentre sollevava Milo per le braccia, per poi sollevare immediatamente Camus. Attraversavano la casa dei Pesci.
«Quella su me e il Gran Sacerdote, per Atena, ha più di duecento anni.»
«E' un uomo piacente, sarà vecchio e decrepito ma ha il suo fascino.» osservava attentamente i comportamenti della ragazza mentre le parlava e non notò nessun cambiamento emotivo, all'apparenza. Maledisse la maschera e l'obbligo di portarla.
Giunsero nuovamente al tempio di Aquarius e questa volta fu Camus a comportarsi in modo strano.
Interruppe i giochi con Milo e Leurak per osservare il tempio. Non era la prima volta che lo vedeva, eppure si comportò come se lo vedesse per la prima volta. Sembrò che sentisse quella sorta di richiamo che aveva fatto sì che Milo restasse tranquillo per due minuti.
Appena giunti al centro della costruzione si sedette per terra, incrociando le gambe.
Guardava dritto, verso l'entrata.
Milo fece una corsa, uscì e rientrò, per poi sedersi accanto a Camus.
I due bambini si guardarono e iniziarono a ridere.
I due soldati si sentirono improvvisamente di troppo. Si scambiarono un'occhiata e continuarono la discesa
per poi dirigersi verso la spiaggia.
Akylina teneva il piccolo francese per mano e Leurak ogni tanto scattava per correre dietro a Milo che riusciva a sfuggirgli.
Giunti sul mare, scelsero un posto riparato dal vento e si sedettero.
«Milo vieni che facciamo un castello.»
Leurak riuscì a distrarre il greco dalle onde e dai gabbiani. Camus rideva in continuazione per la vitalità dell’altro e in poco tempo, entrambi i piccoli, si trovarono a progettare un gigantesco castello. Senza capirsi.
«Faisons nous le grand![Facciamolo grande!]»
«Lo facciamo enorme, così poi lo buttiamo giù ed è più divertente.»
«Attention! [Attento!]»
«Hai dei bei capelli, mi piace il rosso.»
Trascorsero qualche ora ad accumulare sabbia, finché l’opera d’arte non fu conclusa.
«Leurak, ora devi buttarlo giù. Bene però.»
Gli adulti scoppiarono a ridere.
«Milo – chiese Leurak – che vuol dire bene?»
«Che non devi farlo male o non cade tutto. Vero Camus?»
«Il y aie là-bas un navire![C’è una nave laggiù!]»
«Visto, mi da ragione.»
Akylina intervenne traducendo al pestifero greco quello che aveva appena detto il francese, ma Milo la ignorò completamente. La giovane decise allora di chiedere al piccolo se fosse d’accordo a buttar giù il castello che aveva appena costruito.
«Oui.»
«Bene. Siamo tutti d’accordo. Leurak procedi con la demolizione.»
«Agli ordini, signora!»
Dopo che il mongolo concluse il saluto militare prese una breve rincorsa e si tuffò sulla sabbiosa opera architettonica. Milo gridò con gioia, afferrò il polso del nuovo amico e si gettò nella mischia con l’adulto.
Giocarono a rotolarsi per un po’ sulla sabbia. Sinché non fu ora di andare a mangiare.

I tre tornarono al Santuario e presero posto alla mensa degli adulti. Milo, durante il pasto, disse ad Akylina che anche Aiolia avrebbe dovuto conoscere Camus, perché  «Camus è bello e buono, non come gli altri bambini che non giocano perché sennò poi li sgridano.»
Leurak e Akylina non riuscirono a trattenere le risate, suscitando l’ira del piccolo. Alle volte Milo era davvero permaloso. Si offese e girò la testa, smettendo di mangiare. Non dovevano ridere di lui, e non volle udire che Aiolia e Camus si erano già conosciuti.
Leurak cercò di far cambiare idea al greco, invitandolo a continuare a mangiare, ma era davvero ferito.
Camus intervenne. Prese la forchetta di Milo dal suo piatto e gliela mise in mano. Aggiunse poi preoccupato:
«Si vous ne mangez pas mourir alors![Devi mangiare, sennò muori!]»
Akylina riprese a ridere e cadde quasi dalla sedia, rideva in modo convulso e cercava di spiegare al compagno cosa avesse appena detto il piccolo francese. I tre maschietti si scambiarono uno sguardo interrogativo, non capivano cosa ci fosse di tanto divertente.
Dopo una decina di minuti la giovane si riprese. Milo aveva ricominciato a mangiare ubbidendo al francese mentre Leurak iniziava a ridere. Akylina era riuscita a tradurgli la frase.
Finirono di pranzare e decisero di andare a riposare. Trovarono un posticino all’ombra nella stessa piazza che, poco più di un mese prima, aveva vegliato sul riposo di Tyko. Si sedettero e parlarono. Akylina iniziò ad insegnare il greco a Camus sotto l’attenta supervisione di Milo che suggeriva le prime parole da insegnare: giocare, rosso, scorpione, acqua, ghiaccio. Il francese imparava in fretta.

In meno di un mese, grazie all’insistenza di Milo, Camus parlava greco quasi perfettamente. Poteva dormire anche lui con gli altri. Akylina preparò gli effetti personali del piccolo e lo condusse nel dormitorio. Trovarono un sorridente Milo ed un assonnato Aiolia ad attenderli.
«Vieni Aiolia. Devo presentarti.»
Corsero incontro al piccolo e alla ragazza.
«Camus, lui è Aiolia. E’ bravo anche lui. Aiolia, lui è Camus. E’ bravo e bello, hai visto?»
Il biondo greco salutò con la mano il nuovo arrivato, che ricambiò, dicendo solamente:
«Lo conosco già.»
Le nutrici assegnarono il letto al francese che ne prese subito possesso spostando il cuscino. Odiava i cuscini, non li sopportava e finalmente poteva farne a meno. Lo mise ai piedi del letto.
«Perché lo sposti?» chiese Aiolia incuriosito.
«Non mi piace il cuscino. Mi piace dormire senza.»
Non c’era niente da replicare. Intervenne Milo.
«Se non lo vuoi lo prendo io. A me piacciono un sacco, sono morbidi.»
Camus lo cedette volentieri.

-

Trascorsero rapide le giornate tra lezioni e allenamenti.
I bambini seguivano con interesse e curiosità tutto quello che gli veniva insegnato e, alla sera, i più grandi non risparmiavano energie per aiutare i piccoli nell'apprendimento di quello che non avevano capito, aiutando chi era rimasto indietro.
Tra i più grandi nacque presto una sorta di cameratismo: si formarono due gruppi principali che, cordialmente e di nascosto, si facevano la guerra.
Quella divisione invisibile tra i ragazzi non aveva fatto altro che saldare le amicizie all'interno dei due gruppi, separazione costantemente tenuta d'occhio dai maestri e dalle nutrici, per ordine e richiesta del Gran Sacerdote.
Aiolos e Saga, con Kanon in seconda, capeggiavano il primo gruppo, nel quale volenti o nolenti si erano ritrovati a fare parte Angelo, Tyko e Shura.
L'altro gruppo, con altri sette bambini, era comandato da Ankel.
La divisione tra loro era ben visibile: alcuni di loro avevano cambiato letto formando una trincea di letti vuoti tra le due fazioni.
Saga e Aiolos, si mostravano essere buoni capi, controllavano gli altri e li aiutavano in ogni modo.
Aiolos si divideva tra Aiolia, al quale insegnava ogni giorno qualcosa, e Shura. I due avevano stretto una profonda amicizia, ma non solo. Shura quasi venerava Aiolos, così simile alla figura dell'eroe trasmessagli dal padre quando ogni sera gli raccontava qualcosa.
Erano sempre più rari i momenti di sconforto e solitudine, non ne aveva il tempo. Avrebbe fatto i conti col suo dolore più avanti, quando non ci sarebbero stati più allenamenti, quando non ci sarebbe più stato bisogno di controllare che nessuno compisse cattiverie. Seguiva Aiolos, ogni sua parola sembrava giusta e veritiera, inoltre era uno dei più forti di entrambi i gruppi. Imparava rapidamente e, con altrettanta velocità, era in grado di trasmettere le conoscenze apprese.
Saga cercava di seguire il fratello che mostrava un carattere sempre più asociale e che mal si conciliava con il resto del gruppo. Spesso era intervenuto per sedare qualche piccola diatriba, ma lo preoccupava soprattutto l'astio che provava nei confronti di Ankel. Comprendeva l'antipatia, che in parte condivideva, nei confronti del giovane russo, ma non concepiva il comportamento fraterno. Sembrava che Kanon riuscisse ad andare d'accordo con Angelo, che aveva mostrato sempre più spesso il desiderio di diventare forte, il più forte nel gruppo. Non lo preoccupava eccessivamente, ma forse staccarsi sarebbe stato un bene.
Aveva compreso che Kanon si sentiva messo in ombra da lui e non riusciva a non soffrirne. Erano uguali, non c'era differenza tra loro, ma allora perchè quel comportamento? Non aveva più ripensato a quella luce strana che aveva brillato nello sguardo di Kanon. Erano passati due mesi da quel giorno.
Anche Galgo non sembrava ricordarsene, ma in compenso
João sembrava sempre più attento ai loro comportamenti. Spesso li prendeva da parte e cercava di parlar loro, li subissava di domande riguardo i loro stati d'animo, ma sapeva. Capiva che il portoghese lo faceva perchè si sentiva in dovere di farlo, ma non comprendeva il motivo di tutte quelle attenzioni. Non era il caso che si preoccupasse a quel modo per loro. Si ripeteva sempre che più avanti avrebbe capito.
Camus e Milo iniziavano a formare un duo indivisibile, mentre Aiolia aveva cominciato a prestare più interesse verso gli allenamenti.
Il ritmo dell'apprendistato dei più giovani non era serrato come per i più grandi. Benchè sembrasse fosse urgente concludere il prima possibile la fase preliminare dell'addestramento, nutrici e maestri facevano in modo che le lezioni pratiche e teoriche fossero intervallate da piccole sessioni di gioco e svago, mirato comunque a sviluppare intuito, intelligenza e fisicità.
Nei momenti di gioco i tre bambini facevano squadra, dimostrando di aver stretto un legame forte, basato sulla fiducia. La gelosia iniziale di Aiolia nei confronti di Camus era svanita sebbene Milo mostrasse una certa attrazione per il francese, ma aveva capito. Camus era per Milo un fratello, un vero fratello, come Aiolos lo era per lui. Crescevano assieme, conoscendosi ogni giorno di più. In fondo non era male il francese e sembrava essere l'unico abitante del Santuario in grado di tenere Milo a freno, per cui, spesso, le nutrici stesse o i maestri affiancavano i due.
Angelo e Tyko trascorrevano assieme tutto il tempo che avevano a disposizione. Formavano una strana coppia: uno così spipillo e curioso, l'altro più riflessivo e concentrato. Erano due opposti che ben si mescolavano assieme: allegri e rumorosi. Angelo rispondeva ai rimproveri, mostrando un carattere forte e determinato, mentre Tyko faceva semplicemente finta di ascoltare e annuiva, teneva a mente le parole che gli venivano rivolte, per poi usarle il prima possibile contro chi gliele aveva rivolte.
Erano simili. Spesso si riunivano con Shura e si allenavano assieme.
Il gruppo prendeva sempre più coesione, arrivando ad allenarsi tutti insieme sotto la guida dei migliori: Aiolos e Saga.
I loro maestri li seguivano, chi da lontano e chi da vicino. Potevano sempre contare su
João, Galgo, Akylina e Leurak e lo sapevano.
In quel mese, Akylina e Leurak avevano rafforzato ancora il loro legame dovendosi prendere cura di Camus. Galgo e
João, invece, avevano avuto sempre meno tempo per confabulare, sempre pronti ad addestrare le reclute, a dirigere i soldati, aiutare il Gran Sacerdote e rispondere alle sue chiamate. Sion, come faceva ogni notte da molto tempo, si recava a Star Hill e consultava gli astri, li guardava e ascoltava le loro silenziose parole.
L'Altura delle Stelle era uno dei luoghi più sacri del Santuario dopo la sala che ospitava la statua della dea.
Solo a lui era permesso accedervi e controllare la volta celeste, ma nell'ultimo periodo si faceva fare compagnia da Arles.
Si sentiva vecchio come non mai.
Riusciva a precepire il peso dei suoi anni che, come un filo d'acqua che lede la roccia, gli portava via energie preziose. Gli sembrava di percepire lo scorrere del tempo come se fosse liquido, sentendolo scivolare sul corpo.
«Riposa un po', sarai stanco.»
La voce di Arles lo scosse dai suoi pensieri, era calda e rassicurante: la voce di un amico.
«Non posso, potrebbe rivelarsi un altro cosmo questa notte. La rinascita della dea si avvicina Arles, lo sai che significa?»
«Sì, che stanno per arrivare i guai. Ma toglimi una curiosità, se puoi.»
«Ti ascolto.»
Il Cavaliere dell'Altare prese qualche secondo prima di formulare la domanda.
Provava un po' di vergogna a fare una domanda così stupida a Sion, suo caro amico ma anche e Gran Sacerdote, ma aveva la necessità di sapere.
«Com'è la dea?» disse tutto d'un fiato, strappando un sorriso all'uomo che, chino su una piccola meridiana, si tolse la maschera mostrando al tintinnio delle stelle i suoi occhi stanchi, velati di malinconia ed incredibilmente splendenti. Sembrava che potessero illuminare la notte.
«Non posso darti una risposta, la dea è la dea. E' esattamente come ti aspetti che sia.»
«Suvvia, sembra che tu stia cercando di spiegarmi come possa essere Babbo Natale.» rispose ironico.
«Davvero. Io mi aspetto una donna giusta, caritatevole e meritevole di completa fede. In passato lo è stata, l'ho conosciuta e l'ho protetta con le mie stesse mani.»
Portò i pugni, serrati, all'altezza del viso e li fissò a lungo.
Guardò la volta stellata un'ultima volta prima di rispondere nuovamente al suo vice.
«E' giustizia, pace, armonia. E' tranquillità e calore. Averla accanto è come vivere un sogno. Conoscerai presto la purezza che la avvolge, così come percepirai il suo cosmo. Dona la pace dei sensi.»
Arles sorrise a quelle parole, cercando di immaginare come ci si potesse sentire al fianco della dea.
La fede di Arles era salda e forte, mai niente o nessuno avrebbe potuto instillargli il minimo dubbio riguardo Atena. Si era votato, anima e corpo, alla figura della fanciulla guerriera che combatte per proteggere la Terra, sapeva che anche lui avrebbe potuto bearsi di un suo sguardo e che presto avrebbe potuto servirla realmente.
«Ancora pochi anni...» sospirò, incerto se mostrarsi impaziente o gioire della rinascita.
«E' anche guerra, morte, sangue e distruzione.»
«Cosa?» esclamo meravigliato.
«Non fraintendermi Arles, ma la rinascita della dea significa che il mondo sarà presto in pericolo. I sigilli imposti dalla dea agli spiriti delle divinità conquistatrici si scioglieranno presto gettando il pianeta nel caos. Con lei al nostro fianco saremo in grado di scongiurare la fine del mondo, letteralmente. Ma è orribile. Il mio maestro morì sotto il mio sguardo, i miei compagni morirono in modo atroce. Lei non è esattemente la pace, ma la strada che conduce ad essa.»
«Capisco.»
«No, non capisci, non puoi. Ma lo farai, presto.»
Un lungo silenzio, carico di significati per entrambi.
Lo sguardo di Sion si velò impercettibilmente di lacrime, mentre indossava nuovamente la maschera che gli celava il volto da più di duecento anni.
Il ricordo del maestro e dei vecchi compagni fu prepotente a manifestarsi ancora, come spesso accadde da quella guerra.
Tutti gli amici di un tempo erano morti, riposavano nei Campi Elisi.
Ripensava alla volontà di Manigoldo, manifestasi a lui perchè riferisse un messaggio al suo maestro, e lui comprese, capì senza bisogno che il Cavaliere del Cancro si spiegasse. Bastò l'elmo.
Lo stesso copricapo che ora indossava lui: simbolo di potere. Non avrebbe deluso i vecchi compagni.
Rivolse lo sguardo al cielo, pronto a leggere nelle stelle brillanti della fresca notte di settembre. Qualcosa sarebbe accaduto quella notte, e lui era pronto a leggere e a capire.
Arles rimuginava silenzioso sulle parole appena udite: Atena era la via per un mondo migliore, dove trionfasse la giustizia, la pace, la fratellanza.
La via da seguire era irta di ostacoli e dolore, ma era pronto; aspettava da sempre il momento in cui avrebbe potuto venerare la sua dea e combattere al suo fianco.
Le parole di Sion gli avevano rivelato una grande verità: era necessario accettare qualche compromesso, e questo altro non era che la vita di ogni Cavaliere della dea.
«Lo percepisco, Arles.»
Il Gran Sacerdote lo riportò alla realtà. Si alzò e gli si affiancò sollevando lo sguardo ad osservare il cielo.
«Lo senti?» gli chiese afferandogli il polso. Fu come se gli stesse trasmettendo l'energia pura delle stelle, la loro sapienza e la loro eternità.
Arles si sentì pervadere da una nuova energia e, per un secondo, sembrò non avvertire più il peso del tempo, la corsa dell'acqua di una cascata. Per un secondo tutto si fermò: il mondo smise di girare, le stelle si rischiarare la notte, il sole di bruciare e lui di respirare.
Il suo sguardo, istintivamente e senza motivo, si diresse rapidamente verso una delle costellazioni dell'eclittica: un cavaliere d'oro si manifestava per la prima volta.
«Si, Sion, lo sento. E' debole ancora.»
Annuì a quelle parole, continuando a fissare quell'ammasso di stelle nel cielo di fine settembre. La stella principale brillava con veemenza, oscurando le altre.
«Chi devo far convocare?» chiese, pronto a preparare la spedizione di recupero.
«Nessuno.» fu la risposta di Sion.
«Come nessuno?»
«C'è ancora tempo.» disse seraficamente volgendo lo sguardo al Santuario intero che riposava.






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Sion ha percepito un nuovo cosmo e un nuovo prescelto farà presto la sua comparsa. Indovinate di chi si tratta! Sempre che vi vada eh.

Ringrazio tutti i lettori, sakura2480 per aver  inserito la fic tra le seguite e chi ha lasciato una recensione! Grazie, grazie, grazie!!

sakura2480.
Carissima, bisogna pur sorridere in questa vita che di risate tende ad elargirne ben poche! Vediamo di viverla con un po' di allegria e alle spalle di Leurak. Povero, mi spiace che Angelo gli abbia assestato un pugno nei gioielli, davvero. Non farmi troppi complimenti o rischierò di montarmi la testa e non è il caso, sono tutti apprezzatissimi però, sappilo. E s'inizia a citare il Lost Canvas, dopotutto Sion sa', oh se sa', soprattutto sa come porre rimedio ad un'indigestione cosmica. Un bacione!!

Himechan.
I Bastoncini di Capitan Nemo *.*, no, tu vuoi farmi perdere la testa e uccidermi, non puoi, non puoi!! Farò in modo che in tutto il Santuario, soldati, bronze, silver e gold si cibino di queste prelibatezze!
E ti mando tutti i birbantelli per giardinare come si deve in attesa della bakata sul piccione de fuego!! Grazie mille!! Un bacione!!

miloxcamus.
Qui c'è un'altra dose di patatosità scorpionifera. Dai, è un bambino adorabile, rompiscatole come pochi ma adorabile. Perdona il ritardo! Un bacione!

Ricklee.
Cara mia, ecco un altro po' di Milo e Camus, in tutto il loro splendore dorato. Cominciano a piacere anche a me questi pargoletti! Grazie mille, un bacione e alla prossima!

whitesary.
Si, ti ho colorato El Cid, è bellissimo come namecciano e gli ho fatto il mantello color arcobaleno!! Odiami pure, ma ha acquisito fascino.

Saruwatari_Asuka.
Vedrò di fare in modo di salvare i gioielli di Leurak, sperando che non sia troppo tardi. Deve riprodursi, almeno un po'!! Grazie mille, ci sei sempre *.* Un bacione!!

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Capitolo 16
*** Ramón ***


Ramon

Non riusciva a dormire quella notte; dopo essersi rigirato nel letto per un po', facendo attenzione a non svegliare i due fratelli che riposavano al suo fianco, si alzò piano piano e con lentezza, trattenendo il fiato. Non voleva svegliare nessuno ma forse non ci sarebbe riuscito con tutta la buona volontà e con tutto l'impegno del mondo: erano tutti stanchissimi per la giornata da poco trascorsa. Il caldo era spossante e il lavoro della giornata era stato massacrante.
Faceva caldo dentro casa, l'aria era satura d'umidità e avere i corpi dei fratelli addormentati vicini al suo non migliorava la situazione.
La povertà era una condizione che conosceva bene; il cibo scarseggiava e ogni volta che si riusciva ad addentare qualcosa non si sapeva quando sarebbe ricapitato, la casa era stata costruita arrangiandosi al meglio con quello che il padre era riuscito a trovare. Nell'ultimo periodo aveva trovato materiale sufficiente a ristrutturarla, ricostruendo i muri con i mattoni. Purtroppo i lavori si erano dovuti fermare non solo a causa del caldo, ma anche a causa del tempo. Pioveva ininterrottamente da giorni, come spesso accadeva in inverno. Nonostante le copiose precipitazioni le temperature erano altissime, dovute al clima tropicale della regione.
La casa distava qualche centinaio di metri dalla favela di Rocinha, la più grande e pericolosa di tutto il Brasile, poco distante dalla foresta.
I genitori del piccolo Ramón speravano, vivendo distanziati dall'agglomerato di case, assieme a poche altre famiglie, di tenere i figli lontani dalle gang che si contendevano il comando della favela e di tutta la città di Rio. Purtroppo, il fratello maggiore di Ramón: Rubens, era già entrato a far parte dei Comando Vermelho, una delle gang più forti e pericolose.
Lo spaccio di droga e il traffico di armi, seppur rischiosi, erano l’unico modo che Rubens avesse per cercare di far star meglio i genitori e i fratelli, riuscendo a portare a casa qualche soldo.
Ramón, che sin da piccolissimo aveva dimostrato di avere un cuore d’oro, non lasciò mai il fratello maggiore da solo. Lo seguiva ogni volta che si allontanava da casa, impedendogli di svolgere il suo ruolo all’interno della cosca. Benché Rubens tentasse di tenerlo lontano da lui, e soprattutto da alcuni dei capi della gang, si accorse ben presto quanto l'impresa fosse difficile, quasi impossibile; nonostante la tenera età, Ramón, dimostrava già lo spirito che poi lo avrebbe caratterizzato in futuro. Sembrava più grande dei suoi tre anni e mezzo, alto e robusto, e dimostrava giorno dopo giorno di avere un cuore d'oro.
Quando Ramón non riusciva a stare dietro al fratello maggiore seguiva il padre nel suo mestiere di tuttofare, divertendosi a sollevare diversi pesi e a trasportare pezzi di legno e lamiera. Spesso trascinava gli attrezzi paterni in giro per il piccolo spiazzo di terra che aveva adibito a cortile, ma il suo passatempo preferito era quello di spingere il grosso copertone di un trattore da un muro all'altro. Essendo già dotato di una forza fuori del comune non poté non tornare utile al genitore, che si faceva seguire volentieri, anche solo per avere la certezza che non finisse invischiato nei loschi affari del fratello maggiore.
Aveva sonno e sbadigliava con forza, ma il caldo era troppo perchè riuscisse ancora a sopportarlo. Dopo essersi guardato attorno, lanciando uno sguardo ad ogni familiare perso tra i sogni, si passò il dorso della mano sulla fronte e trattenne uno sbuffo, avvicinandosi all'uscita. Una volta fuori dalla sua abitazione cercò riparo dalla pioggia sotto la nociva copertura di eternit che proteggeva l’uscio.
Rimase così, immobile, a fissare le gocce d’acqua che si univano alle numerose pozzanghere generando cerchi concentrici rapidi a svanire.
I lampi squarciarono il cielo illuminando in lontananza la statua del Cristo Redentore che vegliava sulla città, incurante delle difficili condizioni di vita in cui versava gran parte della popolazione.
Era una città strana Rio de Janeiro; in pochi passi si passava dalle agiate condizioni di vita di pochi, che senza ritegno venivano sbattute in faccia a persone che non potevano permettersi neanche la metà del cibo di cui avevano bisogno, ai poveracci che si arrangiavano come meglio potevano, affidandosi soprattutto a quello che la malavita locale offriva.
Altro motivo che spinse i genitori di Ramón ad optare nella costruzione abusiva di una casa fuori dalla favela fu quello di fare in modo che i figli non si trovassero mai coinvolti nei numerosi scontri a fuoco tra polizia e malviventi. Erano frequenti le sparatorie tra gli strettissimi vicoli che separavano le catapecchie addossate e, in quei casi, nessuna delle due fazioni si preoccupava eccessivamente della traiettoria che il proiettile avrebbe potuto percorrere.
I cimiteri erano pieni di tombe che non sarebbero dovute essere lì; tombe di innocenti che avevano avuto la sola sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Solo questo.
A Ramón piaceva la foresta e piaceva la sua casa. Nei pochi momenti davvero spensierati giocava con i bambini che dividevano con lui il piccolo spazio adibito ai giochi tra la favela e la foresta, incuranti dei pericoli dati non solo dalle gang ma anche dalla grande varietà di animali e soprattutto insetti velenosi che abitavano negli alberi o nei loro pressi.
Attorno alla luce fioca data da una vecchia lampadina che colorava il muro grigio di uno strano arancione si muovevano nugoli di zanzare e falene che scappavano alle gocce d'acqua sempre più violente e frequenti. Non sembrava che il piovasco sarebbe cessato presto. Allungò una mano perchè alcune gocce potessero raccogliersi nella piccola concavità formata dal palmo piegato, ridacchiò per il solletico e attese che la mano fosse piena per poi bere il liquido. Non contento fece sporgere anche la testa, tirando fuori la lingua e bagnandosi.
Un rombo lo distrasse dal suo gioco. Era lontano, ma il fragore non scemava.
Sembrava che una mandria di tori stesse correndo giù per i versanti del Pan di Zucchero, facendo vibrare il terreno. Quel tuonare si fece sempre più vicino, sinché Ramón non si voltò a guardare la foresta buia. Udì i versi di alcuni uccelli e poi gli stessi spiccare il volo con difficoltà, la foresta non era più silenziosa. Il frinire dei grilli scomparve coperto dal rombo. Un fulmine illuminò il paesaggio e poté vedere alcuni alberi svanire, adagiandosi sugli altri.
Non capiva. Aveva paura ma allo stesso tempo era incuriosito da quelle stranezze.

Ad ogni esplosione di elettricità vedeva la furia farsi più vicina.
Il fragore si avvicinava sempre più, finché un’onda di acqua, fango e detriti si gettava con violenza su quelle poche case, sradicandole senza fatica.
Tentò di urlare per avvertire chi dormiva del pericolo, ma era troppo tardi. La piena trascinò via le case e con loro gli abitanti.

I disboscamenti incauti avevano reso il terreno cedevole e veniva ora trascinato via dalla corrente causata dal violento e interminabile piovasco, l'onda inghiottiva qualunque cosa si trovasse sulla sua strada. Ramón, trascinato via dalla veemenza dell’acqua, venne sbattuto con forza contro tronchi e detriti che seguivano la corrente. Credette di morire; pensò che l’acqua, alla fine, avrebbe avuto la meglio su di lui.
Si agitava e cercava di tenere fuori la testa per respirare, di prendere qualche convulsa boccata d’aria prima che l’acqua riprendesse a tirarlo sotto. Riuscì ad aggrapparsi ad un ramo che galleggiava sulla superficie della fangosa piena, mentre il torrente proseguiva la sua folle corsa.
La corrente continuava ad imperversare contro di lui. Era sicuro che non ce l’avrebbe fatta.
Le braccia, ormai stanche per i tentativi di tenersi a galla e per la forte presa sul ramo, cominciavano a cedere, scosse da forti tremori muscolari.
Decise di abbandonarsi alla furia dell’evento, rivolgendo il suo ultimo pensiero ai genitori e ai fratelli.
Chiuse gli occhi, col viso rivolto al cielo, e si staccò dal ramo lasciandosi trascinare via.

La corrente lo strappò con violenza dalla superficie inghiottendolo e facendogli sbattere la testa contro un grosso tronco che sembrava lottare per rimanere a galla. Perse i sensi.
Nel vortice subacqueo causato dalla corsa dell’acqua, lo stesso fusto che lo colpì gli si posizionò sotto, riportandolo a galla. Venne protetto dalle stelle quella notte, bruciò, privo di coscienza, il suo cosmo salvandosi la vita.

Non sarebbe morto quella notte, il fato aveva altri progetti per lui.
Il suo corpo, mollemente adagiato sul tronco che lo teneva in superficie, sbatté su un albero abbattuto che sbarrava parzialmente la corsa del fiume, e venne sbalzato su un piccolo terrapieno miracolosamente sfuggito alla furia di acqua e fango. Era in salvo, ormai; rimase lì, privo di sensi.
Dopo molte ore di sonno forzato si destò. La piena aveva fatto il suo corso ormai e andava placandosi.
Ramón era debole e dolorante, si sollevò a forza sulle gambe tremolanti e si allontanò dal corso d’acqua addentrandosi tra gli alberi. Camminò per qualche chilometro, risalendo il percorso del torrente.
Era l’alba ormai. Cercò del cibo rovistando tra le piantine e i cespugli, trovò delle piccole bacche e ne mangiò fino a saziarsi. Riprese a camminare. La notte scese ancora ad avvolgere la foresta, rendendogli impossibile proseguire e riportandogli alla mente le ore precedenti.
Le braccia e le gambe dolevano per i continui sforzi, la schiena, il torace e l’addome erano ricoperti da grossi lividi ed escoriazioni dovuti ai numerosi impatti con i detriti. Sulla sua fronte torreggiava una grossa ferita, pulsante e dolorante.
Si accucciò tra alcuni alberi, ormai marcescenti, e restò lì seduto per molte ore, aspettando che il sole si decidesse a sorgere nuovamente. Il rifugio di fortuna lo avrebbe in parte riparato dall’umidità della calda notte di gennaio. Il tempo si rivelava clemente e le nuvole cominciarono a diradarsi, lasciando spazio alla volta stellata. Gli occhi si fecero pesanti.
Prima di lasciarsi andare all’oblio diede una fugace scorsa al cielo, verso ovest dove i rami erano meno fitti, ammiccava una stella; brillava, prepotente di lasciarsi ammirare in tutto il suo splendore.
La fissò a lungo senza conoscerne il nome, ignaro che in futuro avrebbe adottato lo stesso nome di quell’astro dall’alone arancione. Si addormentò.

La mattina successiva si svegliò ascoltando i rumori della foresta ritrovandosi ricoperto da insetti di ogni tipo. Con calma li spostò, cosciente dell’effetto venefico di alcuni di loro; la madre e il padre erano stati attenti nell’insegnare ai figli a riconoscere quale animale potesse essere un pericolo. Fu fortunato, nessun insetto letale al solo contatto. Si alzò e riprese a camminare, claudicante.
Non sapeva quanto fosse lontano dal luogo che lui aveva chiamato casa, ma era intenzionato a tornarci. Continuò a camminare per diversi giorni, a volte perdendosi nell’intrico dei tronchi.
Trovò infine i resti di quella che fu la sua casa, riconoscendo l’eternit firmata dal padre e colorata dal fratello Rubens. Si mise a scavare con frenesia, ignaro della sorte che era toccata ai familiari, nella speranza di trovare qualcuno. Nella foga e nella concitazione dello scavare tra il fango, detriti e macerie le sue dita iniziarono a sanguinare e le unghie a staccarsi.
I suoi sforzi vennero ripagati quando dalla poltiglia fece capolino un braccio. Scavò fino a dissotterrare l’intero corpo: lo riconobbe.
La madre sembrava dormire pacifica, come se non si fosse neanche resa conto di tutto il trambusto. Il corpo era sporco di fango e i capelli sembravano incollati sulla fronte.
Ramón si coricò accanto a lei, la abbracciò e cercò di svegliarla.
«Mamãe, por favor acorde [Mamma, per favore, svegliati.]»
Non ottenne nessuna risposta, nessun movimento.
Non pianse, non versò neanche una lacrima. Rimase lì a prendersi cura della madre, accarezzandola nel tentativo di pulirle il volto e chiedendole se si sentisse meglio. Le parlava, le raccontava di quello che aveva vissuto, dell’acqua e del fango, della stella che brillava la notte, degli insetti e delle bacche.
«Mãe, você està bem? Ainda està cansada? [Mamma, come stai? Sei stanca?]»

Finalmente arrivarono i soccorsi.
Venne portato in ospedale dove rimase qualche giorno affinché potessero medicarlo e accertarsi della sua salute. Era un bambino forte. Dopo le cure necessarie venne portato in orfanotrofio.
Divenne subito il paladino di tutti i piccoli; era grande, forte e infinitamente buono. Tentava sempre di consolare tutti e di riportare il sorriso sui visi dei piccoli orfani come lui.

-

Sion entrò nelle sue stanze, nuovamente al tredicesimo tempio. Arles stava sfogliando svogliatamente delle carte inerenti le spese del Santuario. Era un periodo di calma assoluta.
«Arles, fai convocare João. Subito.» intimò
Il cavaliere d’argento dell’Altare obbedì e mandò a chiamare il cavaliere portoghese, che in pochi minuti si presentò al cospetto del Sommo.
« João, qualche settimana fa ho percepito un altro cosmo: un altro bambino. Sembrava non ci fosse l'urgenza di andare a prelevarlo per condurlo qui, è stato in grave pericolo ed è sopravvissuto. Devi andare in Brasile e portarlo qui.»
Il gigante accettò l’incarico e partì il giorno stesso. Dopo quasi quindici ore di volo fu a Rio. Trovò senza difficoltà l’orfanotrofio indicatogli da Sion. Era impossibile sbagliare. La costruzione era circondata da un grandissimo giardino popolato da bambini che giocavano tra loro a calcio con una palla fatta di pezzi di stoffa arrotolati e tenuti insieme da uno spago. Fissò lo sguardo su un bambino in particolare. Giocava in difesa e dannatamente bene; sembrava un muro e riusciva ad incutere soggezione nei piccoli campioni che si sfidavano tra risate e urla. Non fu la sua bravura ad incuriosirlo, piuttosto il suo aspetto e il suo sguardo. Per un attimo ebbe l’impressione di vedere se stesso da piccolo.
Senza prestare ulteriore attenzione ai piccoli si recò verso l’ufficio del direttore dell’orfanotrofio e chiese di poter vedere Ramón. Si finse un parente giunto dall’Europa appena venuto a conoscenza della vicenda raccontando di essere un lontano cugino della madre, pronto a prendersi cura di lui. Aggiunse anche di non aver mai visto i figli della cugina, per cui non sarebbe stato in grado di riconoscerlo.
Il direttore, semplicemente, si affacciò alla finestra e chiamò a gran voce il piccolo che, in meno di un minuto, si presentò nell’ufficio.
«Olà
, Ramón, eu sou João. Eu vim te buscar.[Ciao Ramón, sono João. Sono venuto a prenderti.] »
«Para onde me leva? [Dove mi porti?]»

Nell’informarsi della nuova destinazione, Ramón, prese posto nella sedia accanto all’altro gigante.
«Eu o estou levando para Atenas. [Ti porto ad Atene.]»

Dopo aver parlato un po', Ramón accettò di seguire il gigante e corse a preparare le poche cose che aveva. La palla di stracci l'aveva fatta lui e la lasciò ai bambini che lo salutavano mentre si allontanava all'ombra del gigante. Promise loro di tornare con dei veri palloni.
Il viaggio sarebbe stato molto lungo.
Presero un volo diretto da Rio a Parigi, e il tragitto durò poco più di quattordici ore.  A Parigi dovettero attendere l’arrivo della coincidenza. Passeggiarono per l’aeroporto di Roissy. João comprò qualche snack e li fece assaggiare a Ramón che con somma gioia mangiava e si complimentava.
Poco prima che chiamassero per l'imbarco il piccolo brasiliano si guardò attorno e si rivolse a João.
«João
eu tenho que ir ao banheiro. [João, devo andare in bagno.]»
«Banheiro?»
ripetè l'altro strabuzzando gli occhi, cercando di capire per quale motivo Ramón volesse andare da un bagnino. Si guardò attorno spaesato, quando comprese e si diede dello stupido. Ramón per sottolinerare l'urgenza della situazione aveva portato entrambe le mani all'inguine e saltellava.
«Oh, casa de banho! [Oh, il bagno!]» disse infine prendendo il bambino per mano e lo condusse il più velocemente possibile dove il piccolo avrebbe potuto adempiere ai suoi bisogni.

Durante le ultime ore di volo João cercò di spiegare al piccolo Ramón in quale magico luogo lo avrebbe condotto.
Gli raccontò dei cavalieri d’oro, uomini forti e coraggiosi che difendevano l’umanità e la giustizia. Gli disse che sarebbe potuto diventare uno di loro se si fosse impegnato duramente.
Il piccolo brasiliano non perse tempo nel domandare lo scopo dell'esistenza dei cavalieri. La solita pappardella che i Silver erano pronti a snocciolare su giustizia e pace non aveva fatto colpo su di lui.
La domanda gli sorse quasi spontanea: avrebbe potuto evitare che qualcun altro soffrisse le sue stesse pene?
Il portoghese sorrise a quella richiesta e gli scompigliò i capelli. Non sarebbe mai riuscito a farsi una ragione della purezza d'animo di quei bambini, troppo adulti per essere considerati tali e troppo piccoli perché potessero essere presi sul serio. Gli rispose dicendogli la verità: avrebbe potuto.
Gli spiegò rapidamente quali fossero i poteri di un Cavaliere d'Oro e gli raccontò alcune gesta del passato, spesso narrate al Santuario.
Ramón ascoltò ogni parola e la fece sua, sorridendo con decisione.
Avrebbe potuto evitare che altri bambini restassero orfani e avrebbe aiutato chiunque avesse avuto bisogno di aiuto, niente lo avrebbe fermato.
João prese coscienza della bontà del bambino semplicemente guardandolo negli occhi, due pozzi scuri e ruggenti emananti potenza e forza. Sapeva che sarebbe riuscito nel suo intento se fosse riuscito ad indossare l'armatura.
«Descansa. [Riposati]» gli disse dopo qualche minuto, sistemandogli la coperta.
Ramón si accoccolò sul morbido sedile e chiuse gli occhi. Il sonno lo rapì poco dopo, mentre il suo accompagnatore lo scrutava con attenzione.
Riusciva a capire in quali condizioni avesse vissuto il bambino, condizioni difficili e mal tollerabili. Non poté fare a meno di pensare che fosse ad una svolta significativa della sua vita. Continuò a convincersi che fosse giusto che pochi soffrissero per il bene di molti, ignorando la voce di Leurak che gli rimbombava nel cervello. Dal giorno in cui parlarono della predestinazione e della qualità della vita dei bambini, qualcosa era cambiato.
Fuori dal Santuario, in tutto il mondo, ogni giorno morivano centinaia di bambini: chi di fame, chi per la guerra, chi per semplice cattiveria. Lui aveva l'opportunità di forgiare pochi di quei bambini, collaborare - in un modo o nell'altro -  a renderli eroi.
Sarebbe stato un compito tutt'altro che facile, ma se anche loro, come lui del resto, erano prescelti, se anche loro non dovevano fare altro che seguire una strada già segnata e percorsa in precedenza, non avrebbe dovuto fare altro che preparare loro il viaggio, indicandogli semplicemente il sentiero per giungere a quella luminosa via che attendeva i loro passi.
Si lasciò rapire dal sonno conscio che la meta fosse vicina.






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Chiedo immensamente perdono per il ritardo. Vi confesso che ho rimandato la correzione del capitolo per un sacco di tempo. Eh, pigrizia maledetta. Ma ringraziate whitesary e sakura2480, alla fine hanno vinto e hanno corretto loro.
Ed ecco qui un bambinone che in futuro sarà un toro in tutto e per tutto! Grande, grosso, imponente, altissimo, purissimo e brasilianissimo!
Mancano due pargoli che arriveranno praticamente assieme. 
Veniamo all'aspetto linguistico di tutto il capitolo, al fulcro che sorregge ogni singola parola e anche meno: "banheiro" in brasiliano vuol dire bagno, mentre in portoghese significa bagnino. Tutto qui.
Ringrazio le anime pure che hanno letto il capitolo e le anime pie che lo hanno recensito, ovviamente chi ha letto e recensito è pio e puro.
Inoltre ringrazio Isabel di Thule per la sua consulenza linguistica. E' grazie a lei che il mio PERFETTO portoghese ha un senso. E soprattutto, cosa di cui mi vergogno abbastanza, nel capitolo scorso non ho ringraziato la donna che mi ha betato il capitolo allungandomi anche due schiaffi per la pigrizia imperante di cui sono vittima ultimamente. Lo ammetto, fancazzista lo sono sempre stata, ma inizio a superarmi. whitesary, perdona questa sciocca.

Colgo l'occasione per farvi gli auguri di un bel 2010, ricco di tutto ciò che desiderate senza ritegno!

Ricklee.
Ciao tesoro!! Sono felice che Milo e Camus ti piacciano! Effettivamente sono di una dolcezza esasperante assieme e Milo non poteva fare altro che "velocizzare" l'apprendimento di Camus! Hai visto che non ti ho fatto aspettare al nuovo anno? Un bacione!

whitesary.
Io scema. Tu beta e io scema.
El Cid è bellissimo in ogni aspetto, anche in modalità namecciana. Ma Manigoldo versione Mokujin no!! Non si può!! Va bene: ha un po' le doti intellettive di un ciocco di legna, ma a legnosizzarlo tutto no!! Cattiva, cattiva. Baci baci!

Himechan.
Je suì un jeniò del francè. Speakko bene anche l'english. Ringrazio solo di non aver fatto parlare Miach in gaelico, ma lo sai cosa sono capaci di fare gli irlandesi? Sì, oltre a parlare in modo comico: sembrano sbronzi LOL. Sono pericolosissssssimi e sono anche permalosissimi. Meglio non scherzarci troppo!

nikkith.
Sion e Mu arriveranno la prossima volta e sarà amore arietoso a prima vista, ma non dico altro ^^. Per il momento accontentati di un po' di tauresca presenza! Baci e alla prossima!!

sakura2480.
Io ho un moto di imbarazzo non indifferente. Ti ringrazio vivamente per i complimenti che davvero non merito, non so come riesca a mettere due parole assieme e soprattutto quando rileggo ciò che scrivo trattengo i conati. Ma lo sai visto che sopporti le mie turbe assieme a whitesary. Ormai vi siete alleate e mi mandate anche a quel paese. Cattive, cattive. ;_;
Le citazioni lostcanvasiane sono d'obbligo visto che finalmente ci mostrano il passato. Ma ci sarà un capitolo, forse il prossimo o il prossimo ancora dove le citazioni saranno più "pesanti". Devo solo decidere l'ordine in cui postarli! Poi il resto vien da sè. :*

Camus.
Ecco il torello!! Povero scricciolo monociglione del mio
coração.
Io davvero non comprendo come non siano diventati tutti dei Death Mask. Ma Kanon lo comprendo fin troppo bene, insomma è nato e cresciuto con la consapevolezza di essere inferiore al gemello, ed è ovvio che cerchi un riscatto. Se non sarà nella stessa fazione lo sarà nella avversaria. Più sono psicolabili e più mi piacciono! Un bacio!

miloxcamus.
Ah, le marachelle!! Io direi che al prossimo capitolo, che arriverà a ferragosto se continuo a tenere questi ritmi, qualcuno combinerà qualcosa.
Oh sì. Qualcuno combinerà qualcosa che non deve. E qualcun altro pagherà al suo posto. Ma l'orgoglio di futuro saint sove lo mettiamo??

Saruwatari_Asuka.
Siccome aspettavi il tuo piccolo Shaka c'ho messo Aldebaran. Lol, no. Shaka e Mu giungeranno presto e giungeranno assieme, e non ti dico chi si recherà a recuperarli. Ah, che meraviglia. Tra non molto i dodici folli saranno al completo, pronti a dividersi di nuovo e riunirsi poi.
Che vitaccia 'sti pupi ;_; Un bacione

 

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Capitolo 17
*** Ultimi arrivi ***


Ultimi arrivi
India - 19 Settembre di 3 anni prima -

«Sta nascendo!» urlò un giovane uomo, con la pelle ambrata e i capelli neri come la notte più profonda. «Nasce! Sta per nascere!»
I festeggiamenti cominciarono mentre la partoriente veniva condotta in una piccola stanza, pulita e agghindata con fiori esotici, dalle donne della famiglia. Le cognate, le sorelle, la madre e la suocera la esortavano a tranquillizzarsi e ignorare il dolore. Le nettarono la fronte dal sudore e continuarono a offrire una spalla di conforto alla giovane che si apprestava a dare alla luce il suo primo figlio.
Passarono le ore, scandite da lamenti sempre più acuti e sentiti, finché la madre della giovane non le si posizionò vicino e la esortò a spingere.
Sembrava un ordine alle orecchie della giovane, che piagnucolava incapace di sentire ancora le proprie gambe, paralizzate dal dolore.
La fatica del travaglio la stremò.
Desiderò un attimo di riposo, un corpo non attraversato da simili lampi di dolore.
«Forza!» la spronò la madre, mentre trafelata continuava ad asciugarle il collo e il volto.
Supina, obbedì. Prese l'ossigeno necessario e contò i secondi prima di accompagnare la nuova contrazione con una spinta: forte, decisa e dannatamente dolorosa.
Una lacrima sfuggì al suo controllo.
La seguì finché non cadde a terra e in quel momento vide la vita che aveva generato fare capolino tra le cosce ambrate.
Un'ultima spinta. Un urlo profondo. Un'altra lacrima.
Le mani della suocera furono rapide ad aiutare il nuovo arrivato a scivolare fuori; grida di gioia invasero la stanza prima di lasciarsi abbandonare all'indietro sul corpo della madre che piangeva e non tratteneva più le sue emozioni. Chiuse gli occhi; stremata e desiderosa di dormire.
«Gautami! Gautami! Sveglia, guardalo, guarda cos'hai fatto!» la scuoteva la sorella e lei piano, con un piccolo sforzo, aprì gli occhi.
Non ebbe il tempo di vederlo, gli venne messo sul petto nudo, con il cordone ombelicale ancora da tagliare.
Raccolse le forze e lo cinse con le braccia.
La pelle candida del neonato risaltava sulla sua pelle scura.
Il bambino sembrava dormire, non dava segni di vita. Gautami non comprese e chiese disperata l'aiuto della madre, che rideva, inneggiando al dono divino per i tratti somatici del nuovo nato.
«Non si muove, aiuto. Perché? Cos'ha il mio bambino?»
La stanchezza scivolò via dal corpo quando si convinse che il bambino non ce l'aveva fatta. All'improvviso il piccolo sgranò gli occhi, erano cerulei e sembravano riflettere l'immensità del cielo. Dopo qualche leggero movimento delle braccia rise. Una risata delicata e allegra.
«Shaka» sussurrò la giovane, rasserenata dai gesti del pargolo.
«Buddha!» gridò la suocera prima di scaraventarsi fuori dalla stanza e cercare il figlio per dargli la notizia.
Il dio aveva fatto loro dono di un bambino speciale, biondo e candido, così diverso da loro, aveva riso anzichè piangere e aveva aperto gli occhi come se si stesse guardando attorno. Non poteva non essere un dono del cielo.
Il piccolo venne tolto dalle braccia materne e il loro legame fisico venne reciso. Venne lavato e avvolto in morbidi drappi colorati.
Fuori dalla casa dei genitori della sposa, Siddharth, circondato da amici e parenti, ascoltava la notizia della nascita del suo primogenito dalla madre che trafelata, gridante gioia, raccontava senza prendere fiato.
La nonna materna seguì la consuocera poco dopo, col piccolo stretto tra le braccia. Arrivò dinnanzi al genero e glielo porse.
Siddharth lo prese e lo levò al cielo, mostrandolo alla piccola folla maschile che lo attorniava.
Un grido si levò.
«Buddha! Buddha si è reincarnato! Buddha è tra noi!»
Da quell'istante ebbero il via i festeggiamenti per la nuova vita, mentre le due donne anziane riportavano il piccolo alla madre.

Alla sera, mentre il sole si spegneva sul mare, il pargolo venne mostrato ancora alla famiglia e a chiunque volesse ammirare il piccolo miracolo, adagiato tra le braccia materne. Gautami lo guardava orgogliosa mentre le respirava sul petto, con le gote rilucenti agli ultimi raggi del sole d'India.

26 Dicembre
Il caldo era opprimente.
Le viuzze erano brulicanti di turisti che si beavano di nuovi stili di vita e assorbivano con ingordigia le mille curiosità che offriva loro quella cultura millenaria, ai loro occhi completamenti nuova. Si aggiravano curiosi, con le macchine fotografiche spianate pronti a cogliere ogni singolarità.
Mentre loro si affannavano, gli abitanti si godevano la rilassatezza, ridacchiando per la cocciuta frenesia degli occidentali.
Le vacche, magre ed emaciate, pascolavano pigramente per le strade.
Gautami, meravigliosamente avvolta tra i pregiati tessuti arancioni e gialli, cullava il piccolo Buddha. Lo fissava, ancora incredula di essere stata in grado di generare un miracolo. Si guardò attorno, infastidita dal continuo andirivieni dei turisti decise di fare una passeggiata sulla spiaggia. Trasgrediva ad un’importante e antica legge: il marito doveva sempre sapere dove fosse la moglie e soprattutto lei avrebbe dovuto avere prima il permesso del consorte prima di allontanarsi dalla loro abitazione.
Erano già una famiglia atipica, la dote corrisposta per il suo matrimonio  era stata modesta, in fondo aveva avuto la fortuna di essere innamorata dello sposo.
Con cura legò il bambino sulle spalle e si diresse verso la vicina spiaggia, speranzosa di trovare un angolo in cui restare da sola col figlio, immersi nel sole e nella magnificenza di quei luoghi.
A piedi nudi calpestava la sottile rena, alla ricerca di quel piccolo paradiso che anelava. Alzò il volto per farsi baciare dal sole e distolse subito lo sguardo ferito. Rimase qualche secondo col capo chino prima di alzarlo nuovamente, con l'intento di guardare il mare.
Restò colpita dalla stranezza di quello che vide: la distesa d'acqua sembrò scappare dall'orda di turisti che affollava la spiaggia rendendola simile ad un formicaio. L'oceano si ritirò, scoprendo diversi metri di sabbia davanti a lei che, come rapita, mosse qualche passo avvicinandosi alla battigia.
Per la prima volta dalla sua nascita il bambino si lasciò andare ad un forte pianto. Mai, prima di quel momento, Shaka si era discostato dalla divina apparenza che gli era stata donata. Fino a quel momento sembrò essere in grado di comunicare le sue necessità con piccoli e semplici movimenti, rendendo palese un legame tra lui e la madre che aveva davvero del sovrannaturale, come se ci fosse una sorta di telepatia.
In quel momento si agitava, senza che la madre riuscisse a comprenderne il motivo. Si allontanò di qualche passo, rinunciando all'inusuale spettacolo.
Accelerò, fino a mettersi quasi a correre, andando contro alla folla di curiosi che si dirigevano verso la spiaggia per guardare l'oceano. Schivava frotte di turisti pallidi come il suo bambino, che sfoggiavano abiti buffi con scritte strane, con alla mano macchine fotografiche, cellulari e altri apparecchi tecnologici, decisi ad immortalare l'evento.
Dal momento in cui il suo piccolo Shaka aveva cominciato a piangere, una strana angoscia si era impadronita di lei; correva verso casa, trattenendo il pianto. Doveva avvertire il marito e la famiglia di quell'innaturalezza. Andò a sbattere contro un turista, alto e grosso. Venne sbalzata indietro e cadde, riuscendo però ad appellarsi a tutto il controllo di cui era capace per non sbattere la schiena e schiacciare il figlio con il suo peso. Il turista fu veloce ad allungare la mano e a fare in modo che la donna non cadesse completamente a terra. Iniziò a parlare una lingua a lei sconosciuta, con chiaro intento di scuse ma Gautami riprese la sua corsa senza degnare l'uomo di attenzione.
Sentiva di dover scappare. Più scorrevano i secondi e più sapeva di fare la cosa giusta. Presagiva la catastrofe.
Lo ordinava Buddha. Lo chiedeva Shaka.
Quando ritenne di essere abbastanza lontana dalla spiaggia fermò la corsa.
Si voltò a guardare il bambino che aveva smesso di piangere, riacquistando la solita espressione serafica e quasi distaccata; superiore. Trasse un sospiro di sollievo e gli sorrise mentre scioglieva l'imbracatura che lo legava, quando Shaka aprì gli occhi.
Gautami rabbrividì: il pericolo, qualunque esso fosse, non era scampato.
Riprese a correre, verso l'entroterra.
Un boato la costrinse a voltarsi, rallentando la fuga.
Un'onda, gigantesca e veloce, inghiottiva tutto quello che incontrava lungo la strada.
Si fermò e sfilò il bambino dai veli, cingendolo poi contro il petto e offrendo la schiena alla marea. Chiuse gli occhi, permettendo ad una lacrima di fuoriuscire dalle folte ciglia brune e attese.
Sentiva la terra tremare sotto i piedi a causa dell'acqua che le correva incontro. Si lasciò cadere all'indietro appena Shaka strinse la mano sulla sua pelle. L'impatto con la massa d'acqua fu meno violento di quanto si aspettava.
Mentre veniva trascinata via, con Shaka al petto, sorrise. Era convinta sarebbe morta sul colpo; lei e il suo bambino. Lottava contro la violenza della mareggiata e  per tenere la creatura fuori dall’acqua.
Fu un in quel momento che Shaka si illuminò di dorato. Una bolla di cosmo comparve attorno a lui e s’ingrandì fino ad avvolgere anche la madre. Sembrava potessero rimanere a galla in quella protezione divina.
Gautami riuscì ad ancorarsi ad un albero che imponeva la sua supremazia sul mare. Si tirò su e depose tra le fronde il corpo del figlio. Con uno sforzo riuscì ad allontanarsi dal bambino e dall’aura dorata che li avvolgeva. Si lasciò andare alla furia dell’acqua, permettendole di trascinarla via. Non staccò lo sguardo per un secondo da Shaka, finché non chiuse gli occhi.
«Sopravvivi.» pensò, cosciente che il figlio l’avrebbe sentita.
Riemerse e riaprì gli occhi, cercando di guardarsi alle spalle, di scorgere almeno l’albero sul quale aveva deposto la sua vita. Avrebbe voluto piangere, strappandosi i capelli per non essere stata una buona madre, ma rivolse il suo ultimo pensiero al figlio, prima di soffocare.
Le onde tornavano al mare per poi scagliarsi nuovamente sulla terraferma, abbattendo ad ogni passaggio quello che era miracolosamente rimasto in piedi dopo le ondate precedenti. Dopo ore la massa d’acqua sembrò acquietarsi; le acque defluirono nuovamente verso il mare, per non tornare, e verso i fiumi.
Sulla superficie della piena che andava calmandosi galleggiava di tutto, dai corpi agli oggetti. Quando un materasso transitò sotto l’albero dove Shaka attendeva, una piccola esplosione di cosmo lo fece cadere dall’albero, miracolosamente ancora radicato.
Alla notizia del maremoto, molti monaci dei templi vicini si diressero verso le coste per prestare soccorso alle anime sopravvissute.
Dalshim e Mok si erano persi nella foresta che circondava la cittadina. Non era stato per loro possibile utilizzare gran parte delle strade battute a causa dei soccorsi motorizzati che cercavano di raggiungere i luoghi del disastro: il mondo intero si mobilitava per mandare aiuti. Pochi monaci, appiedati, non avrebbero fatto altro che intralciare il via vai, già confuso a causa dei superstiti e dei feriti che andavano a cercare rifugio nei vari villaggi. Decisero quindi di cercare di giungere alla costa per vie diverse, dividendosi sempre di più, fino a formare numerosi gruppi di due persone. Mentre guadavano un fiume ingrossato dalla piena, videro il materasso galleggiare verso di loro. Lo scrutarono a lungo finché non riuscirono a distinguere il fagottino adagiato sopra. Riuscirono a fermarlo e a trascinarlo verso di loro, salvando il bambino da un naufragio in pieno oceano.
Shaka sorrise appena si trovò tra le braccia del più anziano: Dalshim. Notò immediatamente il segno rosso che troneggiava sulla fronte del bambino e lo collegò immediatamente ad una della tante caste, quando si rese conto che non si trattava di un bindhi ma di un segno naturale: una piccola voglia tondeggiante.
«Buddha…» sussurrò per poi voltarsi verso Mok, comprendendo che si trattava di un segno divino. «Messaggero tra la terra e il cielo sarai nel corso della tua vita.» aggiunse, allungando le braccia e osservando più attentamente l’infante.
Ripercorsero la strada a ritroso, conducendo il bambino in un tempio sorto secoli prima sulle rive del Gange.
Appena arrivò al tempio diede direttive affinché il bambino fosse nutrito.
Mok sparì per poi ricomparire recando in mano una missiva.
Dalshim sorrise nel vedere il marchio impresso sulla cera: il marchio del Santuario di Atena, una lettera di Sion.

So che ti recherai a donare aiuto e so anche che tornerai al tempio con un piccolo ospite.
Il bambino appartiene ad Atena, abbine cura finché non sarà il momento. Insegnagli ciò che sai.

Sion

Ripiegò con cura la pergamena e fissò il volto del neonato, e sorrise.
Se ne sarebbe preso cura e ne avrebbe guidato la meditazione, lo avrebbe seguito finché non sarebbe arrivato il momento di condurlo in Grecia.
In pochi mesi il bambino dimostrò essere realmente un dono del cielo, pronunciando le prime parole e iniziando a camminare. Era incredibilmente ricettivo e disposto alla meditazione e alla ragionevolezza. Poteva discorrere con gli altri Buddha, che seguivano la sua vita terrena, dimostrando di essere realmente il filo conduttore tra Terra e Cielo.

Grecia - Dicembre – 3 anni dopo

Sion, come ogni notte, si recò ancora all’Altura delle stelle. Da un po’ era arrivato Ramón dal Brasile. Un altro cosmo si agitava nell’aria. Un nuovo risveglio.
Capì subito da dove proveniva il nuovo cosmo, da un posto che lui conosceva molto bene: la sua patria, lo Jamir.
Come in ogni generazione di santi, almeno uno dei cavalieri sarebbe dovuto appartenere alla sua stirpe. I discendenti di Mu sono gli unici in grado di riparare le armature dei guerrieri della dea, gli unici con poteri psicocinetici tanto forti da poter manipolare gli atomi e la polvere di stelle, da poter forgiare l’orihalcon. Valutò a lungo chi dei cavalieri a sua disposizione avrebbe dovuto mandare per recuperarlo.
Decise fissando il corso della Via Lattea. Fece chiamare Arles.
Il Cavaliere dell’Altare lo raggiunse a Star Hill poco dopo.
«Non dirmelo. Lo so già.» disse nell’affacciarsi alla fredda aria di Dicembre.
«Cosa sai, Arles?»
«Andrai a recuperare un bambino.» rispose tranquillo. Osservò un compasso poggiato su un piccolo piedistallo di marmo, adagiato su diverse carte.
«E come lo sai?»
«Ho imparato da te a leggere le stelle. Non sarò mai alla tua altezza, ma qualche segreto lo rivelano anche a me.»
Sion sorrise conciliante e alzò lo sguardo verso la volta celeste.
«Siamo quasi al completo, Arles. Mancano pochi bambini e presto le schiere saranno complete; almeno quelle d’Oro. Manca così poco al risveglio della dea.»
«Già.»
Non avevano niente da dirsi.
A volte è sufficiente la sola presenza di un amico per acquietare lo spirito. Parole e sguardi sono superflui.
Una leggera brezza si sollevò, facendo ondeggiare i capelli del Gran Sacerdote. Assaporò ogni istante di quel gelido vento venire dal nord.
Le gote pizzicavano e le labbra iniziarono a screpolarsi, quando Arles tossì.
«Sei vecchio per queste cose.» disse Sion, senza abbassare gli occhi dal cielo.
«Io? Quello vecchio sarei io?» ridacchiò. «A tuo confronto sono un bambino, non negarlo.»
«Hai ragione.» ammise volgendosi verso di lui.«E sai una cosa? Ancora non sai leggere le stelle: porterò qui non uno, ma due bambini.»
Si voltò e rientrò nella casupola che lo ospitava durante le notti di osservazione, lasciando Arles da solo.
Dopo un veloce sguardo al mare lontano e invisibile all’oscurità notturna, seguì Sion.

Mancavano pochi giorni al Natale.
Le nutrici erano sempre ben disposte nei confronti dei bambini, ma la decisione di fare un piccolo gioco la presero a seguito di una discussione tra i bambini, ancora spaesati dal trasferimento e forse non ben consci che i fedeli di Atena non festeggiassero il Natale.
Portarono grandi e piccini nel naos di uno dei templi maggiori, e parlarono loro con attenzione e dolcezza spiegandogli come al Santuario di Atena non si festeggiasse il Natale.
Lessero un velo di delusione negli occhi di molti, soprattutto i più piccoli. Eccetto Milo.
«Cos’è il Natale?» chiese curioso, ma nessuno gli rispose. S’impegnò al meglio andando a chiedere ad ogni bambino presente.
«Cos’è il Natale?»
Angelo, Shura e Tyko lo guardarono perplessi.
«Il Natale è…» proruppe Angelo, per poi bloccarsi e chiedere velatamente aiuto agli altri due. «Aiuto. Che cos’è il Natale?»
«L’ho chiesto prima io.» puntualizzò Milo.
«Il Natale è il giorno in cui nasce Gesù.» asserì Shura.
Milo tempestò di domande lo spagnolo, che sembrava conoscere quello che voleva sapere, ma ben presto si rese conto che non capiva.
Lui aveva conosciuto solamente Atena come divinità, la giovane età non gli permetteva di comprendere la presenza di altre deità.
Le nutrici valutarono attentamente le reazioni del gruppo, offrendo loro la possibilità di partecipare ad una piccola caccia al tesoro.
Le temperature si erano abbassate notevolmente, spesso durante la notte si formava uno strato di ghiaccio lungo i lastricati, obbligando i cavalieri ad addestrare i futuri cavalieri all’interno dei templi.
Quel pomeriggio, Sion aveva concesso qualche ora di libertà, lasciando alle donne e ai maestri il compito di aiutare i bambini ad entrare completamente nella realtà di cui avrebbero fatto parte fino alla loro morte.

La caccia al tesoro fu organizzata velocemente, dividendo i bambini in gruppi. Sarebbero stati seguiti in lontananza dalle donne. Angelo rifiutò categoricamente il gioco, preferendo allenarsi da solo e ripassare gli insegnamenti ricevuti, e convinse anche Shura e Tyko ad evitare quello che definiva una bambinata.
Alla fine solo i più piccoli parteciparono, attirati da un premio sconosciuto. Milo era deciso ad ottenerlo, ce l’avrebbe messa tutta e in un attimo decise che i suoi compagni di ricerca sarebbero stati Aiolia e Camus, ma ben presto Aiolia preferì seguire il fratello e continuò l’allenamento.
Parteciparono attivamente quattro squadre, e Ramón prese il posto di Aiolia. Le nutrici prepararono velocemente i bigliettini con gli indizi, consegnarono l’indizio di partenza e si recarono a nascondere gli altri.
Il gioco fu organizzato troppo velocemente perché potesse essere privo di errori, ma ai bambini non sarebbe importato di certo. Le nutrici rimaste con i piccoli li aiutarono nella lettura e nella comprensione dei biglietti, e solo quando tutto fu concluso questi poterono uscire dal naos del tempio.
Dopo qualche ora di ricerche infruttuose e non, Milo, Camus e Ramón giunsero all’ultimo biglietto, seguiti dalla più anziana delle donne. Era la più severa e si era offerta di seguire Milo data la sua vivacità.
Ramón si mostrava essere silenzioso, seguiva con curiosità gli altri due, ma la sua comprensione del greco era ancora limitata e non conosceva ancora l’ubicazione dei vari templi e delle stanze.
Si allontanò con la nutrice quando furono nelle vicinanze delle camerate, chiedendole di aiutarlo a trovare il bagno. Lei lo accompagnò, raccomandando a Milo di non combinare nessun danno e a Camus di tenere d’occhio l’altro e di riferire, eventualmente, se avesse fatto qualcosa che non avrebbe dovuto.
«Secondo me è dentro al materasso.» esordì Milo, appena la nutrice si allontanò con Ramón. Il piccolo francese lo guardò come se non avesse capito.
«Si usa per dormire bene… è il letto. Dobbiamo cercare il tesoro dentro un letto!» spiegò.
Camus cercò di capire.
«Ma non dice che si usa per dormire. Chiede di cosa si parla, non di cercare un oggetto.»
«La nutrice non ci ha detto niente, anzi, ci ha accompagnato a cercare il tesoro. Se ci accompagna a cercare il tesoro vuol dire che il tesoro c’è o ci avrebbe detto che non c’era niente da cercare.» mise il broncio.
Camus annuì e diede retta all’amico.
Si diressero verso le camerate e Milo si gettò sul suo letto, sollevando le coperte e togliendo le lenzuola. Nel materasso c’era un piccolo buco, dovuto all’usura. In poco tempo allargò il buco, facendovi entrare entrambe le mani e iniziando a tirare fuori tutto il morbido contenuto.
Camus iniziò a lamentarsi, ricordando all’amico che rischiava di dover dormire per terra.
La nutrice, accompagnata dal piccolo brasiliano, li cercò con cura e li chiamava. Nessuno dei due rispose.
«Vieni qui Camus!» trillò Milo. «L’ho trovato, avevo ragione!!»
La donna si sporse dentro la stanza e osservò la schiena di Camus che si avvicinava al letto, lo sentì dire qualcosa e perse completamente la pazienza quando vide le condizioni del materasso.
Senza ragionare si avvicinò a grandi passi verso il letto, afferrò Camus per un braccio e gli diede una sonora sculacciata.
Milo saltò giù dal letto e andò a sincerarsi delle condizioni di Camus. Capì che l’amico era stato punito a causa sua e si arrabbiò.
Rivolse uno sguardo rabbioso alla nutrice e uscì di corsa dal tempio, andando a cercare il Gran Sacerdote per riferirgli l’accaduto, ignorando i richiami della donna.
Non sapeva dove andare. Ricordò che Leurak e Akylina lo avevano portato in un grosso tempio in cima ai dodici templi maggiori e pensò di dirigersi lì.
Fortuna volle che Sion si stesse preparando per il viaggio di recupero che avrebbe affrontato da lì a pochi giorni, e lo incontrò intento a lasciare disposizioni ad alcuni cavalieri e ai comandanti delle guardie.
«Gran Sacerdote!!» gridò nel vederlo.
Sion vide il piccolo corrergli incontro, seguito dalla donna e da altri due bambini.
«Devo dirti una cosa.»
La nutrice s’inginocchiò rispettosamente e salutò, trafelata dalla corsa e si accinse a parlare. Fu però preceduta dal piccolo greco.
«Ho fatto una cosa che non dovevo e un mio amico è stato punito al mio posto.» esordì. «Stavamo giocando alla caccia al tesoro e ho sbagliato a trovare il tesoro. Voglio essere punito da te perché tu sei il capo.»
Sion sorrise sotto la maschera che gli celava il volto. E interrogò il bambino, curioso di sapere dove volesse andare a parare.
«Cosa hai fatto?» gli chiese.
Milo si voltò a cercare lo sguardo di Camus e vide la nutrice inginocchiata. Ricordò le buone maniere e s’inginocchiò davanti all’alto Pontefice, e raccontò.
«Ho rotto un materasso per trovare il tesoro.» allungò la mano mostrandogli il bigliettino con l’indizio, e Sion lo lesse ad alta voce.
«Ogni uomo ne ha uno e anche ogni Cavaliere. E’ importante tenerlo stretto e quando succede si dorme bene. Cos’è?» spostò il biglietto e guardò il bambino che gli chiedeva una punizione. Sorrise.
«Milo, chi è stato punito al tuo posto?»
«Camus.»
Dopo poche altre parole, la nutrice tornò al tempio in cui era stato decretato l’inizio del gioco, svelando ai bambini cosa avrebbero dovuto rispondere. Spiegò loro che li aveva accompagnati per i templi affinché formulassero una risposta, ma comprese dopo che l’indizio era troppo ostico per dei bambini di soli tre anni.
Fu felice, e come lei il Gran Sacerdote, che avessero imparato diverse lezioni. Non solo il gioco di squadra, ma anche la presa delle proprie responsabilità. L’orgoglio mostrato da Milo e soprattutto il fatto che non avesse tentato di nascondere la sua colpevolezza era un segno di profonda maturità, che forse solo un cavaliere di Atena avrebbe potuto manifestare a quell’età.

Alla sera Sion si recò a Star Hill, deciso ad interpretare ancora le stelle prima di partire. Senza pensare infilò una mano nella tasca della tunica ed estrasse il biglietto con l’indizio della caccia al tesoro. Sorrise e diede la risposta ad alta voce.
«L’onore. E il piccolo Milo ha dimostrato di averne uno, assieme all’orgoglio.»
Accartocciò il foglio e lo lasciò sulla scrivania prima di uscire ad analizzare la volta celeste. Le stelle annunciavano l’avvenuto risveglio del cosmo di un bambino, sempre lo stesso. Nessuna nuova.
Rientrò nella casupola e si preparò, pronto a partire la mattina successiva.

Al sorgere del sole di Grecia Sion si teletrasportò nello Jamir, decidendo all’ultimo di non manifestarsi subito all’interno del villaggio, scegliendo una delle tante rupi scoscese. Si fermò in un punto familiare e sorrise nel pensare ad una vecchia amica. Restò in balia dei ricordi per diversi minuti, porgendo un pensiero anche al suo antico maestro. Si riscosse grazie ad una folata di vento. Il prescelto era un bambino di poco più di tre anni e lo avrebbe trovato nella dimora di un fabbro della sua gente. Sapeva che il bambino era orfano e che era stato accolto in casa da un uomo che aveva perso la moglie.
Pensò che il destino era davvero ironico, sembrava che chiunque si avvicinasse a quei bambini dovesse avere la vita segnata da eventi tragici e tristi. Bambini nati per proteggere il mondo e l’umanità.
S’incamminò.
Quando giunse al villaggio non poté fare altro che constatare che il tempo sembrava essersi fermato. In duecento anni non era cambiato niente. Le case avevano sempre lo stesso aspetto, lo stesso i viottoli.
L’aria era fresca e pungente, considerando l’altitudine e l’ubicazione, ma Sion la percepiva stagnante. Aveva troppi ricordi legati a quel luogo, piacevoli e spiacevoli, ma non era interessato a riportarli tutti a galla. Pensò ancora una volta al suo addestramento a Cavaliere d’Oro, pronto a prendere sotto la sua ala il nuovo bambino e ad insegnargli a ridar lustro alle corazze.
I discendenti di Mu avevano un dono particolare: modellare l’orihalcon e la povere di stelle con la psicocinesi. Presto la sua vita avrebbe avuto fine, lo presentiva a prescindere dalla lunghissima vita, e serviva qualcuno che fosse in grado di mantenere lo splendore delle corazze.
Avanzò adagio tra i vicoli, sinché non giunse dinnanzi ad un piccola fucina.
Stringeva in mano un frammento di metallo, metallo che solo lui e probabilmente il bambino erano in grado di manipolare. Entrò e salutò, attendendo che l’uomo che cercava facesse la sua comparsa dal retrobottega. Non attese che qualche secondo.
Il fabbro gli sorrise e ricambiò il saluto con cortesia, mettendo seduto su un bancone un bambino.
«Posso esserle utile?» domandò.
«Assolutamente sì.» spostò dal volto il mantello che lo avvolgeva, mettendo in vista l’unico segno di riconoscimento di cui era in possesso. Quando l’uomo notò le sopracciglia sorrise.
«Non siete un forestiero. Posso aiutarvi?»
«Il bambino che avete con voi è un prescelto. Diverrà santo di Atena, dovreste affidarmelo.» Fu diretto.
Sion non reputò saggio indugiare, avrebbe avuto modo di chiarire ogni dubbio dell’uomo.
«Mi chiedete di affidarvi il bambino, mi sembra una richiesta un po’ azzardata. Da sempre la nostra stirpe è stata fedele alla dea, ma mi perdonerete se non vi credo.» Cercò di tenere un atteggiamento amichevole, anche se la richiesta assurda non solo lo insospettiva ma lo preoccupava. Ancora si narrava nello Jamir, tra la popolazione, vecchie leggende che insegnavano a non fidarsi con troppa leggerezza. Niente gli assicurava che Sion fosse chi diceva di essere, aveva bisogno di prove prima di affidargli il bambino di cui si prendeva cura. «Non me ne vorrete se prima vi chiederò anche di presentarvi, spero.»
Sion sorrise e si spogliò completamente del mantello, mostrando in tutto il suo splendore l’armatura d’oro che era in suo possesso da secoli.
L’uomo rimase a bocca aperta, incapace per qualche istante di articolare alcun suono.
«Ma voi siete…»
«Sion di Aries.» finì per lui. «Avete ora la certezza che io non sia un nemico?»
«Sì.»
Il Gran Sacerdote si rimise il mantello sulle spalle, assicurandolo in modo che coprisse le poderosa corna metalliche che gli proteggevano il collo. Alzò lo sguardo sul bambino e mosse un passo avanti per recarsi da lui, ma il fabbro si frappose.
«Non siete un nemico, ma voglio la certezza che sia un prescelto. E’ l’unica famiglia rimastami.» disse, sollevando un martello.
Era ben conscio che non gli sarebbe servito a niente contro Sion. Lo conosceva, tutti lo conoscevano al villaggio e in tutto lo Jamir.
Sion alzò lentamente il pugno e aprì lentamente le dita, una per una.
«Se volete una prova, provate a forgiare questo. Non ci riuscirete, ma ci riuscirà il bambino senza ausilio della fucina.»
L’uomo sogghignò e afferrò il piccolo pezzo di metallo dal palmo di Sion.
«Se dovessi riuscirci?» domandò rimirando il frammento.
«Me ne andrò.»
L’uomo scomparve nel retrobottega e indossò qualche protezione. Ravvivò il fuoco il tanto necessario perché si generasse una fiamma che reputasse abbastanza forte da fondere il metallo consegnatogli e si mise al lavoro.
Il primo tentativo andò a vuoto; aumentò il calore. Fallì nuovamente.
«Non è possibile. Mi ingannate!» tuonò. Le vene della fronte si caricarono e iniziarono a pulsare visibilmente.
Sion sorrise e chiese che il metallo fosse dato al bambino, ma l’uomo rifiutò.
«Come si chiama il bambino?» chiese Sion, sperando che l’uomo si calmasse e capisse. Conosceva il nome del piccolo, un nome importante per tutta la sua stirpe. Se non avesse acconsentito a dargli il bambino non avrebbe avuto problemi a tornare dopo qualche ora e portarlo semplicemente via, ma non sarebbe stato giusto.
«Mu.» rispose con un sospiro. «Si chiama Mu.»
Il bambino sollevò il volto nel sentirsi chiamare e fissò i due uomini con curiosità.
«Mu, ho bisogno che tu faccia una cosa per me.» esordì Sion sedendosi accanto a lui. Tese la mano verso il padre del bambino e si fece consegnare il frammento di orihalco. «Vedi questo metallo? – gli chiese porgendoglielo dinnanzi – Ho bisogno che tu gli cambi forma.»
Mu annuì. Afferrò l’orihalco e lo tenne in mano.
«Concentrati, concentrati intensamente su di esso.» gli disse. «Devi riuscire a vedere tutti i frammenti che lo compongono e rompere i legami che li tengono uniti. Solo così potrai modellarlo a tuo piacimento.»
Dopo qualche minuto il bambino emise una flebile luce dorata, e solo quando questa si fece più intensa, per poi svanire, il metallo cambiò forma: da semplice blocco a una sfera.
Il fabbro sorrise amaramente.
«Potete portarlo con voi.» disse carezzandogli la testa. «Fate di lui un uomo giusto e un grande guerriero. Non vi chiedo altro.»
Rientrò nel retrobottega, in attesa che l’ospite e il bambino andassero via.
«Tornerò stasera a prenderti. Vai a salutare tuo padre.» e il piccolo corse dietro il genitore.
Nell’uscire dalla bottega Sion levò gli occhi al cielo. In poche ore il sole sarebbe tramontato, scomparendo oltre i picchi a lui tanto famigliari eppure quasi sconosciuti in quel momento; erano anni che non tornava in patria. La vecchiaia ti ha intenerito, pensò.

Appena il sole fu tramontato si recò a prendere il bambino, lo trovò seduto dinnanzi la porta su un sacco. Era pronto a seguirlo.
«Andiamo, Mu.»
Il bambino si alzò lentamente e trascinò il sacco dietro di sé.
«Dove andiamo adesso?»
«In India. Il nostro viaggio è appena iniziato.»


________

Ho romanzato e poetizzato un po' la nascita di Shaka, ma un po' di magia non guasta mai.
Dalshim è "quasi" il nome di un personaggio di Street Fighter: Dhalsim, che a mio dire sarebbe stato benissimo nel mondo in cui ha vissuto Shaka, ma  non volevo che la fanfiction diventasse un crossover, per cui ho spostato una letterina e il monaco che trova il futuro Virgo è solo una mera e lontana ispirazione. 
Grazie a tutti i lettori, ai preferiti e ai seguiti e a chi ha lasciato un commento.
Ho deciso di aggiornare la fanfic mensilmente, più o meno, solo per questioni di praticità.

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Capitolo 18
*** Al completo ***


18 Sion e Mu camminarono tutta la notte.
Non c’era realmente necessità di affrontare il viaggio a piedi e tantomeno di farlo seguendo vie convenzionali, Sion aveva solo intenzione di sincerarsi della tempra del piccolo. Non avrebbe avuto vita facile, come nessun prescelto, ma doveva assicurarsi che il bambino si comportasse come lui sperava. Mu lo seguì sempre, faticando, inciampando e continuando a trascinare dietro di sé il sacco che gli aveva dato il padre. I suoi effetti personali erano pochi e leggeri, solo qualche cambio d’abito e un vecchio cavallo di legno, intagliato appositamente per lui.
Sion camminava silenzioso e Mu dietro di lui a pochi passi di distanza.
Era quasi l’alba quando Mu si decise a parlare e a chiedere, titubante, un secondo di riposo.
«Mi chiedevo quanto tempo avessi intenzione di far passare prima di domandarmelo.» rispose Sion con tono burbero, nascondendo la sua soddisfazione. Non solo il piccolo aveva dimostrato impegno e stoicismo, ma aveva dimostrato di essere in grado di obbedire.  Mu lo guardò, senza aprire bocca.
Il cielo, alla loro sinistra iniziava a schiarire e a mostrare più chiaramente il sentiero. I segni dell’albedo erano sempre più forti; entro poco sarebbe sorto il sole.
«Vieni qui.» lo chiamò.
Mu si avvicinò lentamente. Il sacco che trascinava da ore era rovinato e consumato, poche e indebolite trame ne fermavano il contenuto. Un sasso appuntito sfondò il debole intreccio e il contenuto iniziò a scivolare sulla terra.
Il bambino diede uno strattone al sacco, ottenendo solamente di sparpagliare tutto per strada. Guardò Sion negli occhi e quest’ultimo sorrise flebilmente, restituendo  uno sguardo interrogativo.
Esasperato, il bambino infilò nuovamente il contenuto nel sacco, afferrandolo al contrario e chiudendolo saldamente con le mani dove si era formata la nuova apertura. Solo quando ebbe finito si avvicinò al suo accompagnatore, che lo prese in braccio e si getto il sacco sulle spalle.
«Riposa, ora.» gli disse.
In pochi minuti il piccolo tibetano ronfava, stremato, tra le braccia di Sion che, solo allora, si teletrasportò dinnanzi un tempio sulle rive del Gange.
Ammirò il portone e le mura con curiosità e una scintilla di nostalgia prima di decidersi ad avvicinarsi di un solo passo. Il sole era ormai sorto da qualche minuto, e al tempio sarebbero già dovuti essere tutti in piedi da diverso tempo.
I monaci buddhisti tenevano dei ritmi particolari, che Sion ricordasse; era sicuro che fossero tutti in piedi. Iniziò a preoccuparsi non notando segni di vita evidenti. Strinse il piccolo, guardandosi intorno e cercando un posto dove adagiarlo per andare a controllare. Se ci fosse stato bisogno di combattere, la presenza del piccolo, fosse stato sveglio o addormentato, sarebbe stata solo un grosso problema: avrebbe dovuto evitare che potesse venir colpito dai colpi di entrambi gli schieramenti.
In battaglia era sempre stata consigliabile l’assenza di persone non direttamente coinvolte.
Poco lontano dall’ingresso, troneggiavano diversi massi. Erano grandi e al loro centro costituivano un riparo abbastanza sicuro. Si diresse verso il riparo e una volta giunto in prossimità fece cadere il sacco dalla spalla.
Non percepiva nessun cosmo, ostile o amico, ma aveva imparato col tempo ad essere cauto. Era conscio che si potesse nascondere la presenza del cosmo con l’esercizio. Per un cavaliere esperto era un gioco da ragazzi mascherare la propria forza con le forze che permettevano alla terra di continuare a girare e rimanere viva. Dopotutto, i creatori di tutto erano sempre gli stessi.
Appena lasciò la presa sul corpo di Mu, questi si svegliò. Sbadigliò e assonnato si grattò un occhio.
«Che succede?» chiese, stropicciando l’occhio con forza crescente.
«Ascoltami.» sussurrò Sion. «Devi rimanere qui, fermo e immobile. Qualunque cosa succeda, qualunque cosa accada, voglio che tu non ti muova. Intesi?»
Mu obbedì e si coricò nuovamente, avendo cura di stringersi le ginocchia al petto.
Sion si tolse il mantello e nascose ulteriormente il corpo del bambino, piegandoglielo sopra.
«Mi raccomando. Non muoverti.»
Dopo l’ultima raccomandazione si voltò e si diresse verso il portone. Si incamminò seguendo il muro sinistro. Prima di entrare e sincerarsi della realtà dei fatti, voleva verificare che il tempio non avesse subìto un attacco esterno.
Inoltre, se qualcuno si fosse introdotto nel tempio e avesse avuto un cosmo, o se semplicemente qualcuno fosse in grado di distinguere e riconoscere quella forza ancestrale che i guerrieri votati alle divinità possedevano. Non poteva permettersi di sottovalutare nessuno e nascose la sua presenza.
Completò il giro del tempio e si trovò nuovamente di fronte al massiccio portone ligneo.
Appoggiò lievemente il palmo della mano sulla parte destra del portone. Trattenne il respiro e si piegò leggermente in avanti, pronto a scattare nel caso che qualcuno si apprestasse a scagliare qualche colpo non appena il portone si fosse aperto.
Spinse leggermente.
L a porta si aprì senza fatica, come se qualcuno la tirasse dall’interno. Si preparò all’attacco quando Dalshim gli comparve davanti.
«Namaskar, Sion.» disse con le mani giunte all’altezza del torace in preghiera. Offrì a Sion un leggero inchino e un sorriso.
Sion abbandonò ogni ostilità e dopo aver congiunto le mani al petto, inclinò leggermente il capo.
«Namaskar, Dalshim.» sorrise.
«Mi chiedevo cosa aspettassi ad entrare. Non mi hai mai fatto attendere tanto.»
«Saranno le paranoie di un povero vecchio, ma mi è sembrato innaturale che il portone del tempio fosse ancora chiuso.»
«Sion, mi meravigli. Durante le preghiere del mattino il tempio è chiuso.»
«Hai ragione.»
Dalshim sorrise. «Non ti preoccupare. So perché sei qui. Seguimi, il bambino ti attende. Credo che presagisse il tuo arrivo, ieri notte ha preparato le sue cose, anche se ha poco.»
Sion pensò a Mu che lo attendeva nascosto. Informò l’amico di attendere un istante, ma il piccolo Mu, con il sacco e il mantello di Sion lo raggiunse.
«Un altro prescelto?» domandò il monaco, dopo avergli rivolto un sorriso.  Sion si limitò ad annuire e a riassumere in poche frasi chi fosse il piccolo.
«Andrà d’accordo con Shaka, ammesso che Shaka gli rivolga la parola, è un bambino particolare. In lui brilla un scintilla divina, non solo è nato per prendere il suo posto tra le schiere di Atena e affiancare la dea, ma il suo compito sarà molto più grande e importante di custode di uno dei tempi sacri. Sion, il bambino è incredibilmente ricettivo, aperto alla meditazione e possiede un potere incredibile… e ha solo tre anni.» Non diede al tibetano il tempo di rispondere e si voltò per fare strada al suo ospite.
Sion lo seguì, dopo aver preso il mantello che gli porgeva Mu. Lo indossò nuovamente e celò l’armatura, prese poi la sacca di Mu, che ostinatamente, insisteva a trascinare. La gettò oltre le spalle.
«Di’ un po’, ma non ti avevo detto di rimanere fermo?»
Mu sorrise e rispose: «Non c’era pericolo, parlavi con lui» indicò il monaco. «Scusa se ho disobbedito.»
«Andiamo, dai.» disse Sion precedendolo.

Arrivarono in un grande spiazzo. I muri erano stati costruiti con grandi blocchi di pietra, e il pavimento era ricoperto con lastroni dello stesso materiale. Diverse statue dei Buddha adornavano il luogo intriso di sacralità.
Sul pavimento, seduto a gambe incrociate all’interno del perimetro di uno dei lastroni, un bambino biondo, con occhi chiusi e mani giunte poco sotto l’ombelico meditava. Sion lo scrutò a lungo, Mu imitò il maestro.
«Lui è Shaka.» disse Dalshim laconico.
Al sentirsi nominare, Shaka si mosse lievemente, disgiunse le mani e si alzò.
Indossava la tunica tipica dei monaci, poco avvezzi nel prendersi cura di un bambino tanto piccolo date le dimensioni dell’abito. Il piccolo si diresse con calma verso i nuovi arrivati e appena arrivò davanti a loro, con gentilezza, inchinò la testa e pronunciò un saluto. Sion e Mu risposero.
Mu guardò il suo coetaneo, in piedi davanti a lui. Non capiva perché avesse gli occhi chiusi e chiese a Sion.
«Prova a chiederlo a lui.» lo esortò con tono bonario.
Mu obbedì, domandando in tibetano e Shaka rispose nella sua lingua.
Sion sorrise. Tra i due bambini si era già instaurato un legame. Sembravano comunicare pur senza capirsi, anche se non avrebbe saputo dire cosa avesse risposto l’indiano.
Sion e Mu rimasero nel tempio per qualche giorno, seguendo fedelmente tutte le regole interne. La mattina alle tre iniziava la preghiera e partecipavano come ospiti d’onore ad una delle più antiche tradizioni indiane. Shaka pregava accanto a Mu, aiutandolo nella postura.
I poteri telecinetici di Mu furono d’immenso aiuto per il piccolo, che fu così in grado di far propri i pensieri dell’indiano. Quello che attraversava la mente di Shaka poteva essere visto da Mu.
Per leggere il pensiero non era necessario esprimersi con le stesse parole o con la stessa lingua. L’elettricità che si scambiavano i neuroni veniva tradotta sottoforma di immagini. Shaka, d’altro canto, comunicava col piccolo tibetano attraverso la meditazione, mostrandogli tutto quello che desiderava.

Poco prima della partenza alla volta della Grecia, i due bambini vennero lasciati nel giardino antecedente i dormitori dei monaci. Sion e Dalshim si recarono all’interno di una stanza e parlarono a lungo del piccolo Buddha.
«È prossimo al raggiungimento del settimo senso, Sion. Presto, molto presto, sarà capace di spostarsi alla velocità della luce e potrà indossare le sacre vestigia.» sussurrò, nel portarsi del thé alle labbra.
Sion partecipò alla piccola cerimonia privata con gioia, tenendo stretta in mano la strana tazza.
«Vorrei che fossero un po’ più grandi. Anche se Shaka potrebbe essere in grado di vestire la sacra armatura dal prossimo anno, non indirò il torneo. Ho intenzione di aspettare che anche gli altri ragazzi raggiungano il settimo senso.»
«Comprendo quello che intendi, ma in questo modo rimanderai anche la protezione del Santuario. Potrebbe risultare controproducente per te.»
«Non credo, Dalshim. Il Santuario è protetto dai soldati e dagli altri cavalieri, anche se di basso rango. Ci sono diversi Cavalieri d’Argento che possono provvedere alla protezione del Grande Tempio senza problema alcuno. Non siamo sguarniti. L’ultima generazione di Gold Saint, la mia, è stata decimata nell’ultima guerra contro Hades, duecentoventisette anni fa, gran parte dei mie compagni diventarono cavalieri in giovanissima età. Vorrei che fossero più grandi. Anche un anno di ritardo, rispetto alla scorsa generazione, potrebbe fare la differenza. Non hai idea di cosa siano in grado di fare questi bambini, ne sono ancora inconsapevoli e finché non affronteranno l’addestramento vero e proprio non sapranno cosa sono in grado di fare.»
«Ti sbagli. Ho cresciuto il piccolo Shaka, ho visto di cosa è capace, so cosa è in grado di fare. Posso solo immaginare cosa sarà in futuro. Lo sai che Asmita di Virgo venne addestrato qui? Sulle rive del Gange.»
«Lo so benissimo. Per questo avevo intenzione di lasciarlo qui, ma preferirei insegnargli le tecniche base di combattimento, anche se ricordo fin troppo bene che Asmita se ne serviva raramente. Quasi mai in realtà. Lo stesso sarà per Shaka. Ma al fine di creare un legame tra loro, seppur minimo, vale la pena portarlo via da qui, condivideranno lo stesso destino e credo sia meglio che si conoscano da piccoli. Sarà solo per qualche mese, conto di mandarli nei luoghi scelti per l’addestramento.»
«Ti preoccupi troppo, Sion. Seguiranno la loro strada. Se il loro destino richiede loro di odiarsi, si odieranno a prescindere da qualunque tua azione. Lo sai, non possiamo interferire. Il dolore e la morte fanno parte del cammino umano, è riuscire a sconfiggerli ed elevarsi l’unico modo per sfuggirvi. E sarà possibile sfuggirvi solo quando si comprenderà il senso della vita.»
Sion annuì brevemente, e sorrise nel cogliere tra le righe il sottile tentativo di conversione. «Non rinunci mai, vero?»
«No.» disse con tranquillità. «Il raggiungimento del Nirvana, l’allontanarsi dalle passioni terrene e raggiungere la pace, la comprensione… illuminarsi di conoscenza. Questo è il percorso da seguire. Altrettanto nobile è la protezione del mondo, ma affinché la pace sia raggiunta è necessario allontanarsi da ciò che ci circonda, bisogna osservare le cose con distacco al fine di comprenderle. Tutto ciò che ci crea sentimenti, siano positivi o negativi, che ci coinvolgono – come la lotta per la giustizia – ci allontana dalla comprensione effettiva. Continua la tua battaglia, Sion. Io attenderò.»
Parlarono ancora a lungo, ricordando qualche avvenimento del passato.
Il ritorno in patria fu per Sion motivo di ansia. Erano anni che non pensava al suo passato, al suo maestro, ai suoi compagni e alla precedente guerra sacra che aveva visto decimate le schiere di Atena.
Solo quando fu il momento di andare via dal tempio, prese con se Mu e Shaka.
«Seguitemi.» disse, senza dar loro spiegazioni.
I bambini obbedirono, in silenzio, voltandosi di quando in quando a guardarsi intorno.
Shaka aveva compreso che doveva salutare l’India, i suoi profumi e tutto quello che aveva sempre conosciuto. Andava incontro ad una nuova avventura.
Quando furono abbastanza distanti dal tempio, Sion si avvicinò ai due bambini, arse il suo cosmo e intimò ai piccoli di stare tranquilli. Si concentrò e si teletrasportò, assieme a loro, direttamente nelle stanze del tredicesimo tempio.
Solo allora si liberò del dolce peso dell’armatura, esplodendo in un bagliore dorato.
Come aveva già pensato, mentre li vedeva parlottare nel giardino, i due bambini sarebbero potuti diventare grandi guerrieri. Non si spaventarono e non chiesero cosa fosse accaduto alle placche dell’armatura; dentro di loro sapevano. Col tempo, Mu avrebbe imparato il greco, per il momento poteva fare da interprete lui stesso, Shaka conosceva il greco e non avrebbe tardato ad imparare il tibetano, pensò. Fece convocare due nutrici a cui affidò i bambini, raccomandandosi che non venissero divisi.
Si sedette sul trono appena fu solo. Il viaggio era stato stancante.
«Non ho più l’età per queste cose.» sussurrò a se stesso. Ormai tutti i possibili candidati a vestire le armature sacre erano al Santuario, non gli restava altro che scegliere le destinazioni per l’addestramento vero e proprio. Alcuni si sarebbero potuti allenare al Santuario, ma molti si sarebbero dovuti allontanare parecchio dal Grande Tempio.

Mu  e Shaka vennero condotti nei dormitori. La cena era già stata servita e l’ora di andare a dormire era sempre più vicina. Molti dei ragazzi dormivano già, distrutti dagli allenamenti. Erano tutti apprendisti e l’apprendistato era duro, anche se nulla in confronto all’addestramento vero e proprio.
Milo faticava a tenere le palpebre aperte, ma non aveva la minima intenzione di andare a dormire. Sembrava preferire di gran lunga infastidire Aiolia, che già coricato, desiderava solo lasciarsi andare tra le braccia di Morfeo, e Camus che prestava maggior attenzione alle parole dell’amico.
Le nutrici presentarono Mu e Shaka a tutti. Vennero accolti con sorrisi e sbadigli.
Milo non si lasciò sfuggire la possibilità di avvicinarsi e stringere amicizia, incuriosito. La sua sete di conoscenza sui nuovi arrivati venne spenta immediatamente dall’intervento delle nutrici che spensero le luci, intimando severe punizioni. Il momento in cui sarebbero dovuti partire era vicino, l’indulgenza iniziale doveva essere ormai dimenticata a favore di una mano ferma e toni più severi.

La sorpresa delle nutrici fu grande quando si recarono a svegliare gli apprendisti cavalieri: Shaka sedeva davanti al letto nella posizione del loto. Meditava e il disturbo datogli dalla sveglia lo infastidì, era dura per lui glissare sulle vecchie abitudini. Ricordò gli insegnamenti riguardo l’ira fattigli da Dalshim e respirò a fondo. Per staccarsi dalle passioni umane era necessario tanto tempo e tanta pazienza.
Anche Mu e Shaka vennero portati al campo di addestramento principale, come tutti gli altri. Ebbero la sfortuna di essere gli ultimi arrivati e si sarebbero dovuti ambientare in fretta, senza aver tempo di metabolizzare il nuovo stile di vita.
Galgo aspettava i bambini più piccoli il giorno, aiutato da dieci soldati. Era necessario aiuto per l’addestramento dei più piccoli, troppo vivaci e incuriositi da tutti per potersi concentrare completamente sull’addestramento.
Miach divise i bambini in undici gruppi di tre-quattro bambini, ogni gruppo era capeggiato da un soldato, eccetto un gruppo che era capeggiato direttamente da lui. Decise di prendere immediatamente sotto la sua ala gli ultimi due arrivi, nella speranza di farsi capire.
La prima ora volò rapida, con i piccoli impegnati in una corsa di resistenza e poi in una sorta di percorso, che andava completato sempre più velocemente. La velocità era importante per i piccoli, non solo avrebbero dovuto mantenere dei muscoli abbastanza scattanti e flessuosi, ma i tendini non dovevano indurirsi a causa dell’ingrossamento delle fibre muscolari. Sviluppare i muscoli senza compromettere l’agilità sarebbe stata dura.
Aiolia era particolarmente bravo nell’affrontare il percorso, così come Milo. Camus sembrava poco interessato allo scontro prettamente fisico, Ramón, al contrario, ne era affascinato.
Shaka affrontò il percorso con estrema calma, a passo lento. Quando un soldato gli si avvicinò per intimargli di accelerare, questi finì scagliato contro la parete rocciosa che delimitava l’arena.
«Oh, bene.» si disse Galgo. Avrebbe parlato con il Gran Sacerdote della questione in serata, al momento doveva continuare l’allenamento. Cercò di spiegare a Shaka come avrebbe dovuto affrontare gli ostacoli e perché, ma il piccolo santone non volle sentire ragioni.
Miach sbuffò. Non credeva che sarebbe stato difficile indirizzare i bambini più piccoli verso quello che per lui era diventato ragione di vita. João non c’aveva messo molto a convincerlo in passato, gli era bastato manifestare il suo cosmo e tutti quei serpenti brillanti. Non poteva usare lo stesso metodo con Shaka, sapeva che il bambino gli era già superiore, soprattutto dopo aver visto quell’esplosione che aveva scagliato il soldato contro la roccia, ma non poteva  non agire. Se avesse fatto passare liscia la cosa al piccolo, anche gli altri bambini avrebbero potuto ribellarsi e non fare quello che dovevano.
Le reclute erano al completo, il tempo dei giochi esaurito: ora avrebbe dovuto usare il pugno di ferro, ma pensare di farlo non era semplice come farlo davvero.
Decise di far concludere il percorso anche a Mu, e solo dopo rifarlo fare a Shaka. 
Mu si teletrasportò alla fine del percorso, lasciandolo spaesato e senza sapere come agire. Da un lato si trovò a pensare che i bambini gli avevano disobbedito, evitando di fare il loro dovere come gli veniva richiesto, dall’altro dovette riconoscere che alla fine dei conti il percorso era stato completato. In battaglia sarebbe potuta andare bene l’andatura lenta di Shaka, si sarebbe protetto col cosmo, esattamente come aveva fatto contro il soldato. Mu invece aveva battuto ogni record di velocità, scomparendo da una parte e semplicemente ricomparendo dall’altra.
Avevano superato la prova, ma non nel modo richiesto. Non sapeva come comportarsi e decise semplicemente di studiare i due nuovi arrivi e poi chiedere udienza al Sommo Sion.

Nell’arena vicina João si faceva attaccare contemporaneamente da tutti i ragazzi. Voleva verificare che fossero in grado di elaborare una strategia d’attacco in comune. Le discordanze tra loro, però, rendevano impossibile la formazione di una squadra unita, costringendolo pertanto a dividere eccezionalmente i ragazzi in due gruppi: uno capeggiato da Ankel e uno da Saga. La prossima volta avrebbe preteso la coesione, ma al momento preferì fare in modo che Angelo, Tyko e Shura, ancora troppo inesperti prendessero esempio dai più grandi.
Le capacità del singolo dovevano essere fuse e coese con quelle degli altri, in modo da nascondere al nemico eventuali punti deboli.
Aveva fatto loro l’esempio del guscio di tartaruga: ognuno di loro doveva immaginarsi come un pezzo del carapace.
«Se c’è una falla nel guscio, il nemico la vedrà e colpirà in quel punto preciso. Nascondete le debolezze il tanto giusto affinché non possano essere visibili. La vostra unione, un domani, potrebbe risultare indispensabile perché riportiate la pelle a casa. Attaccate.»
Angelo aveva ascoltato in silenzio, assorto nell’analisi del cavaliere d’Argento.
In quei mesi che era stato al Santuario aveva appreso tante cose, tra le quali come far capitolare un adulto con un semplice pugno. Aveva imparato qualcosa di nuovo, come l’amicizia che aveva stretto con Tyko e Shura, anche se Shura sembrava preferire la compagnia di Aiolos. Non stava male al Santuario, era felice e sereno. All’orfanotrofio non si stava così bene.
Il cavaliere del Centauro richiedeva loro di unire le forze per abbatterlo, non era un’impresa da poco.
Aiolos, Saga e Kanon ridacchiavano e Angelo non capì.
«Che avete da ridere?» chiese, allacciando le braccia al petto.
«Che sarà la trentesima volta che ce lo propone e finora non ci siamo mai riusciti. Per cui ridiamo ora che siamo ancora interi. Attento al suo cosmo, non sai cos’è capace di fare.» rispose con pacatezza Aiolos.
«Ma non dovremmo averlo anche noi un cosmo? Ce ne hanno parlato un mucchio di volte, possiamo usarlo anche noi.» puntualizzò semplicisticamente.
Saga cercò di intromettersi nel discorso, ma fu preceduto da Kanon.
«E ti hanno insegnato ad usarlo?»
«No, però l’ho usato una volta, me l’ha detto Miach. Ho ucciso i miei genitori usando il cosmo. Se solo riuscissi a ricordarmi come accidenti ho fatto, potrei ripetere.»
«Vuoi uccidere João?»
«No, ma voglio sconfiggerlo.» asserì con un ghigno beffardo delineato sul volto. «Ci ha detto di attaccarlo tutti insieme, e oggi ci siamo noi tre in più.» disse indicando se stesso, Tyko e Shura.
I due gemelli si scambiarono un’occhiata interrogativa e sorrisero. «Proviamo.»
Aiolos osservò la scena. Non poteva tacere o non intervenire e, preso dal desiderio di sconfiggere João, acconsentì. Parlottarono un po’, cercando di elaborare una strategia che avrebbe potuto condurli ad una veloce vittoria.
«Ehi, vi ho detto di attaccarmi, non di confabulare!» il portoghese si lanciò nel gruppo, deciso ad attaccare e non dare a nessuno un solo secondo di respiro; in battaglia non c’è tempo per pensare, ma solo per agire. Avrebbero dovuto pensare mentre attaccavano, paravano, schivavano, scappavano e si spostavano, mai mentre restavano fermi, a meno che non si trattasse di una strategia precedentemente elaborata. Con una leggera esplosione di cosmo fece volare i ragazzi a terra.
«Cazzo! Cazzo! Cazzo!» gridò Angelo, riproponendo l’italiano che aveva smesso di usare dal suo arrivo, poco prima di impattare contro una roccia.
«Forza! Fatemi vedere cosa avete imparato in tutto questo tempo! Non vorrete diventare cavalieri d’Oro e non riuscire a battere un semplice Silver Saint?» li prese in giro. Era una tecnica consolidata, anche se poteva rivelarsi controproducente e dipendeva solo ed esclusivamente dall’indole dell’avversario. Alcuni guerrieri si arrabbiavano follemente durante le prese in giro, perdendo lucidità e il controllo sulle proprie azioni, fornendo infine una vittoria facile e veloce. Altri, la minoranza, riuscivano a concentrarsi e mettere a tacere le offese.
«Ti faccio vedere io!» Angelo si alzò e usò la vicina parete rocciosa come trampolino, catapultandosi verso il guerriero con la gamba tesa. João sorrise per l’ingenuità del ragazzino: tentare di colpirlo in pieno volto con un calcio volante era una mossa azzardata e decisamente stupida, non avrebbe mai funzionato. Alzò il braccio per afferrare al volo la gamba e levarlo di mezzo lanciandolo dall’altro lato dell’arena. Non aveva però fatto i conti con gli altri ragazzi. Tyko era rimasto coricato per terra finché Angelo non decise a tentare quel colpo, quando fu vicino al portoghese si lanciò in corsa verso il punto in cui, una volta afferrato e messo fuori combattimento, il siciliano sarebbe atterrato.
La corsa di Tyko distrasse il cavaliere abbastanza a lungo perché i ragazzi più grandi potessero portarsi alle sue spalle.
Tyko ammorbidì la caduta di Angelo e sorrise all’avversario.
João si voltò e si trovò Aiolos e Saga pronti ad attaccare, anticipò di poco il pugno che Aiolos indirizzò al suo addome e schivò per un pelo il calcio laterale di Saga. Dovette ammettere che i ragazzi lo mettevano in difficoltà. Parare il colpo di Saga lo aveva fatto vacillare, rendendo la sua postura meno salda.
Angelo e Tyko gli andarono incontro, e saltarono quando furono a pochi metri da lui, uno a destra e uno a sinistra. Sanno come distrarre il nemico, ottimo, pensò.
Tenere gli occhi su entrambi fu difficile e si trovò presto al centro di un attacco condotto da quattro ragazzini. Parare e schivarli contemporaneamente fu quasi impossibile, ma riuscì.
Quando furono a terra, li guardò con aria di superiorità e gridò: «È questo tutto quello che sapete fare? Mi aspettavo di meglio da degli aspiranti Gold Saint!»
«Non sottovalutarci!» intimò Shura, che fino a quel momento era rimasto in disparte, nascosto nell’ombra. Si palesò e tentò un attacco. Lo spagnolo eccelleva nel combattimento corpo a corpo, aveva imparato in fretta ed era stato in grado di rendere propri centinaia di movimenti.
«Sei lento!» sogghignò il portoghese, mentre parava senza difficoltà una lunga serie di colpi.
Shura si lasciò andare ad una risatina. «Non sono io lento, sei tu che ci sottovaluti.»
João non colse il suggerimento che gli aveva appena dato, continuò a concentrarsi su quei pugni, sempre più veloci e forti. Un secondo prima che la stanchezza e lo sforzo muscolare fosse troppo per Shura per poter mantenere quell’intensità, Kanon balzò da dietro le spalle del gigante sulle sue spalle.
Avevano decretato, prima che fossero interrotti dall’attacco, che per sconfiggere il cavaliere sarebbe bastato portargli via un pezzo dell’armatura e optarono per l’elmo.
Kanon era pronto ad abbassare le mani e conquistare il loro trofeo, quando João lo afferrò e lo scagliò contro il suolo. In quell’istante, gli altri cinque ragazzi saltarono contro di lui: uno di loro sarebbe riuscito a sfilargli l’elmo, onore che toccò a Saga.
Quando fu tutto finito, il portoghese, provato dalla lotta, sorrise e si complimentò con loro. Erano stati capaci di sfilargli il copricapo, lavorando tutti assieme. Non aveva motivo di orgoglio maggiore: era anche grazie ai suoi insegnamenti che vi riuscirono.
Fu poi il turno del gruppo di Ankel, nemico giurato di Kanon e per forza di cause alla fine di quasi tutto il primo gruppo d’assalto, a tentare di sconfiggere il cavaliere d’Argento.
Ci misero un po’ di tempo in più, ma anche loro riuscirono a sfilargli l’elmo.
«Copioni!» sbraitò Angelo. «Era la nostra strategia!»
Seguì un botta e risposta veloce tra lui e George, prima che il portoghese li dividesse, rimproverandoli entrambi.
Gestire i ragazzi diventava ogni giorno più difficile. Alcuni di loro mostravano una forza che aveva dello straordinario, altri ancora la tenevano nascosta, forse incoscienti di possederla. Tyko in special modo sembrava nascondere delle grandi doti, sapeva che aveva una grandissima resistenza ai veleni ed era sicuro che quella particolarità sarebbe stata parte del potere che avrebbe sviluppato in futuro.
Diede loro un’ora di riposo, deciso ad andare a parlare con il Gran Sacerdote. A malincuore dovette ammettere che erano pronti a passare allo stadio successivo: l’addestramento vero e proprio.

«Ehi, ce ne sono due nuovi.» disse Shura, passando davanti all’arena dei piccoli.
«A quanto sembra sono gli ultimi. Dovremmo essere al completo.» intervenne Aiolos, dopo essersi affiancato allo spagnolo.  «Andiamo a conoscerli.»
«Uh? Va bene.»
Il gruppetto si diresse verso i piccoli.
«Ehilà, ragazzi!» Galgo li salutò con calore, andandogli incontro.
Parlarono un po’ della sconfitta di João e Miach raccontò loro quello che sapeva sui due nuovi bambini, senza ovviare sul fatto che il Gran Sacerdote in persona si era mobilitato per andare a prenderli.
«Allora sono importanti.» disse Angelo. «All’orfanotrofio le suore andavano a prendere solo gli ospiti importanti, gli altri dovevano venire da soli.» asserì.
«Non sono più importanti di voi, solo che uno dei due viene dallo stesso paese del Gran Sacerdote e credo che sia voluto andare a lui con la scusa di fare un salto a casa. E durante il viaggio di ritorno ha portato qui anche l’altro. Devo ammettere, però, che mi hanno sorpreso.» si confessò con i ragazzi. Era il loro maestro, ma presto sarebbero stati compagni e con tutte le probabilità del caso lui sarebbe stato un loro sottoposto. «Uno si è teletrasportato, l’altro padroneggia l’uso del cosmo. Ancora non ha raggiunto il settimo senso, ma credo che lo farà presto.»
Avrebbe parlato anche a João di quell’eventualità, ed era sicuro che João gli avrebbe rivolto le stesse parole riguardo il gruppetto che si trovava davanti, basandosi sulle loro parole. Anche per lui non c’erano dubbi, tempo pochi mesi e al Santuario sarebbero rimasti solo i ragazzi che si sarebbero allenati lì.







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Grazie mille a tutti i preferiti, i seguiti, i lettori fissi, casuali, bestemmianti e a chi mi ha voluto lasciare due righe, a Isabel di Thule che mi picchia sempre con quel dannato scettro (che ti verrà nascosto, sappilo) per i pessimi accenti del portogallese. Stavolta però ho usato quello giusto! Ah-ha! Niente scettrate sulla capoccia stavolta!


Himechan.
Mi hai fatto arrossire. LOL. Grazie infinite, sono felicissima che la storia ti piaccia. Il diario del malefico resta ancora interrotto, ma se qualche divinità che passa nelle vicinanze si rende conto di volermi un po' di bene, forse ti faccio una sorpresa "di compleanno"(ogni riferimento a contest esistenti è puramente casuale)! Un bacione!

Ricklee. 
Grazie mille, sei sempre tenerissima!! Un bacione!

miloxcamus.
Milo è uno scemotto, per ora, quando sarà un po' più grandicello metterà la testa a posto. Sono felice di averti anche risolto un dubbio esistenziale riguardo il colore di capelli e occhi di Shaka, sinceramente è l'unica cosa che mi è venuta in mente per non scrivere: è arrivato dall'Inghilterra, ma poi non avrebbe avuto senso che Buddha si reincarnasse in un inglese, soprattutto Sakyamuni. Alla prossima! Un bacio e grazie mille!!

sakura2480.
Secondo me sei troppo buona. Mi lusinghi, ma diciamocelo chiaramente: scrivere non è proprio un mio talento. In compenso, quanto a fancazzismo non mi batte nessuno. Grazie mille! 

whitesary.
La risposta alla tua domanda è nell'introduzione della fic: "la storia è ambientata ai giorni nostri". Un po' me ne rammarico, ma andare a cercare un maremoto in India nel dicembre del 1966 mi avrebbe impegnato parecchio tempo, magari in futuro ristenderò il tutto con la linea temporale esatta, rimandare di così tanto tempo l'incidente di Three Mile Island non è un'ucronia di poco conto.

Saruwatari_Asuka.
Lo hai detto e lo hai fatto: megarecensione per Shaka!
Le recensioni chilometriche sono stupende da leggere, non sai quanto mi piacciano! Per il Natale misteriosamente saltato a Gennaio...beh, vorrei dire che il mio pc è impazzito, che è colpa di EFP che mi incasina tutto o di una qualche entità assirobabilonese, ma la verità è che sono un filo idiota io. Ok, togliamo "un filo". Cerca di capire una povera vecchia rimbambita che si smazza dietro idraulica, chimica e qualcosa di veramente brutto chiamato "assestamento forestale". Farò di peggio quando rimetterò mano all'insettario, fidati. Va' che brava, ancora Shaka! Tutto nella speranza che tu ti distragga. Un bacione e grazie, la tua costante presenza mi fa gongolare in maniera a dir poco vergognosa!

Al prossimo mese!

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Capitolo 19
*** Si riparte ***


19.9 «Il Gran Sacerdote desidera parlarvi» gridò un soldato fuori dalla porta di casa di Miach e João, bussò due volte e attese.
Miach si era alzato dal letto rotolando da un lato e si era trascinato fino all’uscio, camminando senza sollevare i piedi da terra e con gli occhi semichiusi; domandandosi se avesse sentito bene. Un altro colpo alla porta mise a tacere le sue domande. Aprì di scatto, quasi a voler impedire al soldato di assestare un altro colpo sul legno. «Spero che sia dannatamente importante.» soffiò tra i denti, passandosi la mano tra i ricci arruffati.
Il soldato lo guardò allibito e si mise sull’attenti. «Mi spiace, cavaliere. Arles in persona mi manda a chiamarvi. Il Gran Sacerdote vuole vedervi appena possibile, dovete raggiungerlo al tredicesimo tempio.» si spiegò.
Miach mosse la mano a mezz’aria, facendogli cenno di tagliare corto. «D’accordo, d’accordo. Rilassati» gli ordinò. Si stropicciò un occhio. «Sai a che proposito?»
«No, signore. Eseguo solo gli ordini, non chiedo il motivo-»
«Bravo.» disse Miach mentre gli chiudeva la porta in faccia. Pensò di ributtarsi a letto fino al sorgere del sole, ma impattò contro João che si era alzato.
«Chi era?» bofonchiò.
«Un soldato. Il Gran Sacerdote vuole vederci. Il prima possibile. Andiamo a dormire.»
«Veniamo convocati e vuoi tornare a dormire?»
«Il sole non è ancora sorto. È buio pesto là fuori. Non c’è pericolo o ci avrebbero svegliato in altro modo. Ho sonno, io
Il portoghese roteò gli occhi. «E sia, ti sveglio appena fa giorno.»
«Grazie.» biascicò l’altro mentre spariva oltre la soglia.

João si sedette su una sedia in cucina. Si domandò per quale motivo il Gran Sacerdote li avesse convocati. Dalla reazione di Miach, non sembrava essere per una questione dalla quale dipendeva la vita o la morte della razza umana, ma allo stesso modo non approvò il comportamento dell’amico. Non era da lui rimandare il dovere, non quando gli ordini venivano direttamente dal tredicesimo tempio. Poggiò il gomito destro sul tavolo e la testa sul pugno. Che Miach sapesse qualcosa che non aveva ritenuto opportuno comunicargli? In passato, aveva saputo della lite tra Kanon e Ankel da Leurak. Magari il motivo della convocazione era legato ai due gemelli. Che uno dei due si fosse fatto male? Forse qualcun altro dei ragazzi aveva combinato qualcosa. Impossibile, pensò. Se fossero stati necessari dei provvedimenti disciplinari, lo avrebbe saputo prima. Si domandò se qualcuno avesse avuto problemi. Scartò anche quell’ipotesi. Se Saga o Kanon avessero avuto qualunque genere di problema, lui lo avrebbe saputo di sicuro prima del Gran Sacerdote, che quindi non avrebbe avuto motivo di convocarlo. E Miach? Cosa c’entrava Miach? Forse erano stati loro due a fare qualcosa che non avrebbero dovuto e ripassò mentalmente tutti gli avvenimenti degli ultimi giorni, cercando di focalizzare anche il più piccolo dettaglio. Non gli sovvenne niente. Evidentemente, la comunicazione di Sion non aveva niente a che vedere con il loro comportamento o quello dei ragazzi.
Si massaggiò la spalla destra; gli faceva male, forse ci aveva dormito sopra troppo a lungo. Mosse il braccio e descrisse diversi cerchi in aria, sempre più ampi. Il dolore aumentò, ma dopo pochi minuti scomparve.
Sul tavolo erano poggiati dei fogli e una penna. Miach aveva disegnato un animale: un orso a prima vista, ma scrutandolo con maggior attenzione, si rese conto che era un gatto; sorrise. Aveva visto fare dei disegni molto più belli a Milo, e Milo li faceva sulla terra con i bastoncini. Accanto ai fogli, era poggiata una brocca di vino, riempita a metà, e due bicchieri di vetro.
Riempi un bicchiere e sorseggiò il liquido rosso lentamente, per lavare via il sapore del sonno. Deglutì l’ultimo sorso e decise che non aveva di che preoccuparsi: Sion li aveva convocati per una buona ragione, magari non grave come credeva inizialmente, sarebbe bastato recarsi all’ultimo tempio per sapere di cosa si trattava; tuttavia la situazione gli sembrava surreale.
Rimase immerso nei suoi pensieri, finché non udì il canto del gallo. Volse lo sguardo verso la finestra, ma era ancora buio. Spostò lo sguardo sulla brocca e meditò se bere ancora un po’ di vino, ma si rese conto che sarebbe stata una pessima idea. Alzò lo sguardo verso i pensili sopra il piano cottura, forse – pensò – era più saggio aspettare l’alba e poi fare colazione come sempre.
«Ehilà, Sansone!» trillò Leurak, poggiato sul davanzale. «Credevo dormiste ancora.»
«Ci hanno convocato. E Miach dorme.» sorrise al soldato. Sollevò il bicchiere, mostrandolo a Leurak, e alzò le sopracciglia in un tacito invito.
«No, grazie. Non sarei padrone di me dopo un bicchiere di vino.»
«Tu non sei mai padrone di te, Leurak.» poggiò il bicchiere sul disegno di Miach.
«Sei simpatico, bestione.» si grattò il mento e sbadigliò.
«Piuttosto, come mai in piedi a quest’ora?» gli domandò il portoghese.
«Ho una sensazione orrenda. Ho sognato che mi venivano strappate le braccia e non l’ho presa bene. Ma senza braccia non potevo fare niente. Quindi ho pensato di andare a fare una corsetta, ma ho paura di perderle davvero le braccia, adesso» disse, massaggiandosi i bicipiti intorpiditi dalla fredda aria mattutina. «Mi sembri preoccupato.» concluse Leurak.
«È un’impressione, ma perchè non entri? Non riesco a vederti appollaiato lì.»
«E poi posso svegliare Miach?»
«Se ci tieni.»
Leurak sparì dal quadro della finestra per ricomparire qualche istante dopo sulla soglia. Accostò la porta alle spalle e si sedette davanti al portoghese. «Perchè il Gran Sacerdote vuole vedervi? Bel disegno, l’ha fatto Milo?»
«Miach.» rispose João.
«Allora fa schifo.»
«Non lo so.»
«Come non lo sai, si vede che fa schifo. È orrendo! E poi che sarebbe? Un triceratopo?» incalzò Leurak, spostando il bicchiere dal foglio.
«No, non so perché il Gran Sacerdote ci ha convocato. E sì, è davvero brutto!»
Leurak si passò una mano sul mento e allontanò il foglio dal viso. «Pitture rupestri?» domandò.
João sorrise e tornò al discorso precedente, avvertendo Leurak che al sorgere del sole avrebbe svegliato Miach e si sarebbero recati al cospetto del Patriarca.
«È giorno.» affermò Leurak, muovendo la testa su e giù. Vedeva la finestra alle spalle di João.
«Il cielo si sta schiarendo. Ora, posso andare a svegliare Miach?»
João diede il suo benestare e Leurak svanì oltre la soglia, portando con sé uno dei due bicchieri, udì il rumore del rubinetto del bagno e poi Miach imprecare, Leurak ridere di gusto e infine i passi dei due che probabilmente si rincorrevano. Leurak entrò in cucina di corsa, con Miach alle calcagna, e cercò riparo accucciandosi alle sue spalle.
«Aiuto, mi vuole uccidere! João proteggimi!»
« João, spostati! Fammelo ammazzare!» ringhiò Miach, con i capelli bagnati.
«Basta, bambini! Tu, vestiti e andiamo dal Gran Sacerdote, e tu»  girò la testa per guardarsi alle spalle. «Non dovevi andare a fare una corsetta?»
«E le mie braccia?»
«Resteranno attaccate al corpo, fidati!»
«Se non sono gradito me ne vado. Non mi vedrete mai più.» girò la maniglia. «A più tardi!» e corse via lasciando la porta spalancata.
I due cavalieri d’argento, quando furono pronti, si recarono al cospetto del Patriarca. C’erano poche guardie all’ingresso del tempio e solo in due presidiavano il portone della sala del trono.
Si inginocchiarono davanti a Sion, tenendo l’elmo sotto il braccio sinistro. «Vostra eccellenza.» dissero.

 Le nutrici svegliarono i ragazzi passando per i corridoi, suonando un gong. Nell’ultimo periodo, il Santuario aveva iniziato a somigliare sempre di più a una caserma: gli orari si erano fatti decisamente inflessibili, la disobbedienza veniva pagata a caro prezzo e anche le nutrici si erano indurite.
Nessuno dei ragazzi ricordava con esattezza quando quel gong avesse fatto la sua comparsa, ma era profondamente detestato. Shaka corrucciò la fronte e poi aprì appena appena un occhio. Come ogni mattina, la sua meditazione veniva interrotta senza ritegno. Ramón si tirò a sedere con un unico e fluido movimento, e si mise in piedi con gli occhi ancora chiusi. Mu scivolò giù dal letto con tranquillità e leggerezza. Milo si lamentava e Camus sbadigliava. Aiolia dava man forte a Milo.
La più anziana delle nutrici urlò stanza per stanza che tutti i ragazzi si facessero trovare nell’arena dei tornei alle dieci del mattino, dopo aver svolto la prima parte di addestramento.
«Glielo faccio mangiare quell’affare.» borbottò Angelo tirandosi su a sedere. Nelle orecchie aveva ancora la voce stridula della donna che si allontanava elencando le punizioni per chi sarebbe mancato al rendez-vous. Si stropicciò gli occhi e poi si stiracchiò. Shura e Tyko erano già in piedi, davanti a lui e si vestivano. Poteva giurare che Tyko avesse ancora gli occhi chiusi. Saga e Kanon scrutavano attentamente i calzari buttati ai piedi del letto, gli occhi stretti, cercando di ricordare quali fossero quelli di uno e quali quelli dell’altro. Shura e si avviò verso la porta e in quell’istante entrò Aiolos. Si scambiarono un rapido sorriso e uscirono dallo stanzone, seguiti da Tyko e dai due gemelli, che avevano deciso di infilarsi le calzature strada facendo.
«Aspettatemi!» gridò l’italiano.
Li raggiunse di corsa con la maglia infilata a metà, e tutti insieme si recarono come di consueto nell’arena dove Miach li allenava.
Quando arrivarono, notarono immediatamente la mancanza dei maestri.
«Dov’è Miach?» domandò Tyko, guardandosi intorno. C’erano pochi soldati quella mattina, alcuni era certo di non averli mai visti prima. Ispezionò ancora il perimetro dell’arena; scorgeva i compagni di addestramento arrivare, alcuni a gruppi e altri da soli, qualche altro soldato, una nutrice che sembrava intenta a contare le persone dentro l’arena e nessun cavaliere. I più alti in grado in quel momento erano dei semplici soldati.
«Quando siamo noi ad arrivare in ritardo ci fa fare cento flessioni e mille chilometri di corsa in più. Oggi toccano a lui.» borbottò Angelo, per poi sedersi su un gradone e incrociare le braccia al petto.
«Iniziamo lo stesso.» disse Shura. Si levò la maglia a maniche lunghe, esponendo la pelle delle braccia all’umidità mattutina. Gettò la maglia sul gradone, saltellò sul posto una decina di volte per combattere il freddo e partì di corsa.
Angelo, Tyko, Saga e Kanon e Aiolos lo seguirono subito, assieme ad altri praticanti che preferivano faticare piuttosto che tremare. Per la prima volta da quando si trovavano lì, i bambini più piccoli vennero condotti all’arena da Arles in persona, che elargì a tutti un’occhiata e un veloce saluto, prima di ordinare ai piccoli di seguire la corsa. Fece lo stesso con chi si era mostrato recalcitrante a iniziare l’allenamento, minacciando punizioni severe, poi si allontanò lasciando tutto in mano ai soldati che vigilavano sugli allenamenti.
Trascorse mezz’ora prima che Miach facesse il suo ingresso nell’arena; il volto scuro e segnato da profonde rughe d’espressione ben scavate sulla fronte e attorno alla bocca. Sembrava furioso. Si portò al centro dello spiazzo di terra, dove guardò i ragazzi correre, capeggiati da Aiolos e Saga, finché non sopraggiunse anche João. Parlarono tra loro e quando ritennero che la corsa fosse durata abbastanza, Miach chiamò giù i ragazzi.
Gli fece poggiare i piedi sui gradoni e le mani sulla terra.
«Cento flessioni.» ordinò. Si sfilò l’elmo e lo poggiò sul fianco. Con gli occhi seguiva il movimento dei ragazzi, su e giù sulle braccia, e gridava un numero progressivo a ogni rialzata.  João si allontanò dopo avergli dato una pacca sulla spalla e Miach alzò gli occhi al cielo a guardare il sole; si era sollevato e calcolò approssimativamente le nove passate, forse le nove e mezza. Fece fermare gli i ragazzi e lasciò loro qualche minuto per riprendersi, prima di portarli nell’arena dei tornei.
Li passò in rassegna uno per uno; non era l’unico a essere strano quella mattina. I ragazzi sembravano particolarmente affaticati quella mattina, Tyko aveva le guance rosse che risaltavano sulla pelle bianca, il sudore gli imperlava il viso. Gli sembrò sofferente, troppo sofferente rispetto al solito, e come lui gli altri.
«Stai bene, Tyko?» gli domandò, poggiandogli una mano sulla spalla.
Il bambino annuì e prese fiato. «Sono solo un po’ stanco.» si giustificò, passando il dorso della mano sulla fronte e spostando i capelli lunghi dagli occhi.
Passò in rassegna anche gli altri. Erano tutti affaticati; chi più chi meno.
«Miach!» gridò João all’ingresso dell’arena, richiamando la sua attenzione. Agitava la mano.
«È ora.» bofonchiò tra sé e sé, e ricambiò il gesto al portoghese.
Mise in riga i ragazzi e li condusse all’arena.
Era colma. Non l’aveva mai vista così gremita, dovette sgomitare per farsi strada e come lui i giovani che lo seguivano. Spintonò diversi soldati, infine riuscì ad aprire un varco perché i ragazzi potessero passargli avanti e prendere il loro posto sotto al trono.
«Che ci facciamo qui?» domandò Aiolia al fratello, tirandogli la maglia. «Che succede? Non vedo niente!»
Si poggiò al copricoscia di Miach nel tentativo di mettersi in punta di piedi, ma continuava a non vedere. L’irlandese lo sollevò. Il bambino scalciò e diede un colpo di reni, finché non vide il maestro. Si tranquillizzò e lasciò che Miach lo mettesse sulle spalle di Aiolos.
Aiolia faceva domande, ma non lo ascoltava, intento a osservare la folla di praticanti. Sperava di vedere Milo, Camus, Shaka e Mu. Osservò a lungo le teste che aveva davanti, finché non vide una testa ricciola e scura farsi sollevare da Leurak, che notò solo in quel momento, seguito da Camus. Akylina sollevò Mu, Shaka levitò a mezz’aria.
Il brusio dell’arena sembrava uno sciamare d’api. Era impossibile cogliere più di una parola. Iniziava a dargli fastidio e sperò che il Gran Sacerdote arrivasse in fretta e che mettesse fine a quel rumore.
«Ce la facciamo a iniziare?» borbottò.
«Sei impaziente oggi.» affermò un soldato accanto a lui. Lo riconobbe in fretta, aveva fatto parte della combriccola di Dioskoros prima dell’esilio.
«Ma stai zitto!» gli disse, senza dargli il privilegio di guardarlo.
«E sei anche nervosetto.» disse l’uomo, prima di allontanarsi.
Miach non diede peso all’insubordinazione. Presto avrebbe avuto il pretesto per allenare meglio quel soldato, sicuramente carente nel combattimento corpo a corpo. E ne avrebbe migliorato anche la resistenza in corsa. Si sarebbe vendicato un altro giorno.
Il Gran Sacerdote fece il suo ingresso nell’arena, seguito da Arles. Si accomodò sul trono e tese la mano al suo secondo che gli passò un tomo scuro. Lo aprì e diede una rapida occhiata alle ultime pagine. Alzò il braccio destro e la folla ammutolì. Riconsegnò il libro ad Arles, che prese posto accanto al trono, e si alzò. Mosse qualche passo avanti.
«È la prima volta che devo tenere un discorso del genere.» ammise. «Una volta ne ho ricevuto uno, ma sono passati molti anni da allora e non sono sicuro di ricordarlo.»
I ragazzi ridacchiarono.
«Non è importante come vi esponga ciò che ho da dire,» continuò, riportando il silenzio tra la folla. «Non tanto quanto quello che vi dirò. I tempi sono maturi e tutti voi siete pronti per migliorarvi ancora.»
«Ehi, che significa?» Angelo si girò verso Shura.
«Non lo so.» rispose lo spagnolo, infastidito dall’interruzione e dal chiacchiericcio del compagno che lo distraeva, impedendogli di seguire il resto del discorso.
«Come non lo sai? Lo stai ascoltando?» insistette.
«Chiudi il becco!» lo rimproverò Shura, ottenendo uno spintone in risposta. Lo spagnolo barcollò e riprese rapidamente la posizione, non degnò l’amico di una risposta e riprese ad ascoltare le parole del Gran Sacerdote.
«Oggi sarà un giorno importante! Conoscerete i luoghi delle vostre destinazioni, luoghi dove completerete l’addestramento per essere ammessi al torneo.»
Gli astanti iniziarono a parlottare tra di loro. I ragazzi non si aspettavano la notizia così all’improvviso. Avevano creduto di avere ancora qualche mese a disposizione prima di partire. Erano solo a marzo.
«In giornata, conoscerete le vostre destinazioni. Saranno i cavalieri che vi hanno seguito fino a qui a comunicarvele. Avrete il resto della giornata libera per prepararvi. Spero di rivedervi tutti.» concluse.
Volse le spalle alla folla e si allontanò, seguito da Arles.
Tutti i ragazzi si diressero verso i loro maestri, ben presto João e Galgo si ritrovarono circondati.
«Sapete già dove ci manderanno?» chiese Ankel.
«Sì, ma non ho intenzione di dirvelo qui. Siate pazienti.» Miach si passò una mano sul viso, frustrato, con la sensazione di emettere una condanna a morte.
«Pazienti!?» disse Angelo con tono polemico.
«Non è il momento.» Miach gli rivolse un’occhiata gelida. «Allena la pazienza. È un’arte da cavalieri.» e si allontanò.
João rimase lì impalato, con la bocca semiaperta Sospirò, scosse la testa. Che succede, Miach?
«Che accidenti ha?» Angelo si voltò verso di lui.
«Ha dormito poco, non prendertela.» João cercò di giustificare Galgo, ma era sicuro che i ragazzi non si sarebbero bevuti nessuna delle scuse che avrebbe accampato. Si girò a cercare Leurak e lo chiamò con un cenno della testa, assieme si allontanarono dall’arena, che andava via via svuotandosi.
Al suo interno rimasero solo in undici. Seduti sui gradoni, in silenzio, aspettando che i maestri tornassero per comunicare loro le destinazioni assegnate.
«Non voglio andarmene.» disse Tyko. Era seduto con le gambe piegate e si abbracciava le ginocchia. Il mento poggiato nell’incavo tra esse.
«Non dirlo a me.» gli rispose Angelo, seduto accanto a lui, con una gamba piegata sotto il corpo e l’altra in avanti.
«Io sono nato qui.» si aggiunse Milo, seduto all’indiana tra Camus e Aiolia, nel gradone davanti ad Aiolos che, intenerito, gli accarezzò la testa. «Ci tornerai, e come te torneremo tutti.»
«Ma non voglio andarmene lo stesso. È casa mia qui.»
«È casa di tutti noi, ormai. E se Atena vorrà, lo sarà per sempre.»
Si alzò un vento leggero, che portò via le chiacchiere.
Ramón sbadigliò e sollevò lo sguardo a guardare le nuvole spostarsi ad alta quota. C’erano poche nuvole, solo pochi sbuffi di vapore che si spostavano velocemente. Il vento doveva essere forte, lassù.
«Sono stanco di aspettare» sbottò Kanon, dopo un po’. «Non vorranno lasciarci qui tutto il giorno?»
«Forse sì,» gli rispose il fratello. «Magari è parte dell’addestramento. L’hai sentito prima Miach, no?»
«Stare seduti a guardarci in faccia lo chiami addestramento!?»
«Pecchi di impazienza.» s’intromise Shaka.
«Ogni cosa a suo tempo.» concluse Mu.
Attesero ancora. Passò l’ora di pranzo e non si mossero. Ramón si massaggiò lo stomaco e volse la testa indietro, con gli occhi chiusi. Il sole era a picco su di lui, non era molto caldo, ma lo rincuorò l’arrivo della bella stagione e delle temperature alle quali era abituato. Il vento si era placato. La Grecia era davvero fredda rispetto al Brasile. Si lasciò cullare dal tiepido sole, mentre qualcuno dei compagni ancora si lamentava.

Nel primo pomeriggio, Akylina si era messa a cercali. Non li aveva visti alla mensa e si era preoccupata, ma non erano stati gli unici a mancare.
«Eccovi! Vi ho cercato dappertutto.»
«Dappertutto meno che qui. Dove siamo da questa mattina.» puntualizzò Angelo con tono astioso, voltando poi la faccia verso il gradone e coricandosi.
Sospirò. «Avete già avuto le vostre destinazioni?»
«No.» fu Aiolos a parlare. «Miach è andato via subito, e João l’ha seguito poco dopo. Li stiamo aspettando.»
«Che si siano dimenticati di noi?» domandò Camus, rimasto in silenzio fino a quel momento.
«Non si sono dimenticati. Dovete solo dar loro un po’ di tempo. Non è facile per loro lasciarvi andare.» passò una mano tra i capelli. «Hanno, anzi, abbiamo fatto un grosso errore. Ci siamo affezionati troppo a voi tutti. Siete i loro primi, veri discepoli. Dategli un po’ di tempo per accettarlo.»

Sentì che la voce iniziava a tremarle. Prima di mettersi a piangere davanti a loro, si congedò.
Andò a cercare Miach, sicura che lo avrebbe trovato a casa. Bussò piano piano.
Non ottenne risposta e aprì la porta il tanto giusto per dare una sbirciata. Scorse Miach seduto attorno al tavolo della cucina. Entrò.
João gli sedeva davanti, Leurak era in piedi a braccia conserte e li osservava.
«Disturbo?»
«Non parlano.» le rispose Leurak, mentre le andava incontro.
Decisero di lasciarli soli e si recarono all’arena, dove i ragazzi aspettavano ancora.
Leurak non riuscì a tollerarlo ancora, non dopo aver passato delle ore con Miach e João nelle stesse identiche condizioni. Gli faceva male la gola; aveva cercato di strappar loro una parola in tutti i modi, senza riuscirci. Quel silenzio era diventato pesante da sopportare ed era stato felice dell’arrivo di Akylina. Ma dopo qualche minuto in cui tutto gli sembrò estremamente bello, solo grazie alla presenza della ragazza, aveva dovuto ricredersi nel rivedere i ragazzi. Undici bambini che si comportavano nello stesso modo degli adulti. Si sedette tra loro, deciso a dare una smossa a tutti, prima ai ragazzi e poi agli adulti.
«È il gioco più noioso che abbia mai fatto.» disse. «Però siete bravi. Ore, ore e ore senza dire niente.»
«Non è un gioco.» gli disse Tyko. «Stiamo aspettando.»
«E non potete aspettare in un altro modo? Tutti gli essere umani con un po’ cervello ingannano il tempo, soprattutto quando non sanno quanto dovranno aspettare. Qualcuno legge un libro, qualcuno gioca, alcuni guardano gli altri, contano le macchine. Fanno tutti qualcosa, voi, invece, fate il gioco del sasso. Vince chi resta zitto e immobile più a lungo.»
Aiolos ridacchiò. «Hai qualcosa in mente?»
«Io ho sempre qualcosa in mente. Adesso tu ti picchierai con lui.» e indicò Shura. «Saga, tu insulterai Shura. Kanon, tu ti schiererai dalla parte di Aiolos. Fate in modo che sembri vero, e io correrò a chiamare Galgo e João.»
«Vuoi farci punire, insomma.» bofonchiò Camus.
«No, voglio che attiriate le attenzioni dei vostri maestri.»
«Che ci puniranno perché ce le diamo di brutto.» puntualizzò Angelo.
«Dovete partire e vi preoccupate di una punizione? Cosa volete che vi facciano? Al massimo vi mettono in consegna per due giorni, dannazione, svegliatevi!»
«Leurak, adesso basta.» intervenne Akylina. «Ognuno di noi soffre in modo diverso. Abbiamo diversi tempi di reazione. È la prima volta che si trovano in una situazione del genere, stanno pensando a come comportarsi perché le cose vadano al meglio. Non stanno giocando.»
«No, cara! Non stanno pensando: stanno perdendo tempo! Stanno ritardando l’inevitabile perchè questo gli fa male al cuoricino. E lo capisco io che sono l’ultimo degli scemi! Lo sapevamo che sarebbero dovuti andare via. Lo sapevamo dall’inizio. Sono arrivati qui apposta per andarsene. E forse torneranno tutti in pochi anni. Forse vestiranno le armature d’oro, forse ci ammazzeranno alla prima occasione utile. Non possiamo prevedere il futuro, ma sapevamo con assoluta certezza che sarebbero andati via.» si alzò in piedi, fece due passi avanti e fronteggiò Akylina. «Lo sapevano! Cosa pensano, che ritardare ancora la consegna delle destinazioni li faccia rimanere più a lungo? È come meravigliarsi di morire prima o poi! Lo sapevamo tutti!»
Akylina gli diede uno schiaffo. «Smettila!»
Leurak sgranò gli occhi e si portò una mano alla guancia. «Sei impazzita?»
«Credi di sapere tutto? Credi di poter dare un motivo al loro comportamento?» Akylina alzò la voce.
«Stai sragionando.» si massaggiò la guancia lesa. «Io so solamente che comportarsi così, da completi idioti, non aiuterà né Galgo e João a sentirsi meglio, né i ragazzi a partire a cuor leggero. Pensi forse che si stiano divertendo?» si voltò verso di loro e li indicò. «Li vedi? Ti sembrano felici e spensierati come quando sono arrivati? No! Non lo sono, e sai perché? Perché neanche loro vorrebbero andarsene. Non hanno scelto di venire qua e neanche di partire. Eppure lo faranno.»
«Leurak»Akylina alzò le mani in segno di resa. «Non sei tu. Non riesco a capirti.»
«Perché non c’è niente da capire! Ecco perchè non riesci. Devi solo accettare la cosa, come devono fare loro» indicò un’altra volta i ragazzi. «E come devono fare quei due imbecilli!»
Akylina gli diede le spalle.
«Guardami. Non è divertente parlare con la tua nuca», ma lei non si voltò.
Leurak l’afferrò per una spalla e la costrinse a girarsi. «Accidenti, guardami!» urlò.
«Smettila di urlare!» disse, gridando a sua volta. Lo obbligò a lasciare la presa con un colpo secco all’avambraccio. Si voltò di scatto e si levò la maschera. Una lacrima le attraversò la guancia.
«Pensi che dicendo che è inevitabile, allora, tutti comprendano e ricomincino a comportarsi normalmente?» Le tremava la voce.
Leurak si girò verso il gruppo, sperando di trovare qualcuno di loro che gli desse man forte. Nessuno dei ragazzi li guardava. Imbarazzati, ognuno fissava un punto a caso dell’arena, il cielo, la sottile riga azzurra del mare verso la costa, il punto che sapevano essere la statua della dea. Milo trovava interessante strapparsi le pellicine attorno all’unghia del pollice, aiutandosi anche con i denti. Quando si era accorto che nessuno parlava più, lentamente aveva provato a sollevare lo sguardo e sentendosi osservato era tornato alla sua occupazione di eradicazione della pellicina.
Leurak sospirò. «Scusate. Non è da noi.»
I ragazzi sembrarono tranquillizzarsi. Leurak pensò a quanto era strano che affrontassero con calma e risoluzione l’essere orfani e guerrieri, mentre un litigio tra colleghi li aveva messi terribilmente in soggezione.
Tyko tossì, qualcosa gli era andato di traverso. Leurak mosse un passo, ma Shura fu più veloce ad allungare la mano e dare qualche pacca sulla schiena all’amico, che ringraziò e guardò male Angelo. Era il più vicino a lui e non aveva mosso un dito, ma Angelo fece finta di niente e tirò un sassetto in aria, con poco interesse.
«Guardate!» disse Aiolia indicando l’entrata dell’arena dei tornei.
Galgo e João, fianco a fianco, si avvicinavano. Procedevano a testa bassa. Miach stringeva in mano un rotolo di carta, probabilmente contenente le destinazioni di tutti i ragazzi.
«Scusateci per prima.» disse João. «Non ce lo aspettavamo, non così presto e abbiamo agito da pessimi cavalieri.»
«E pessimi adulti.» lo sgridò Leurak, che venne ignorato.
Miach srotolò la pergamena, la rigirò tra le mani due volte, la richiuse e la riaprì. «Qui,» disse, sventolandola. «Ci sono i vostri nomi. Accanto a ogni nome c’è una città, una zona, un villaggio, un’isola, un continente... insomma, un’indicazione su quello che sarà il luogo in cui trascorrerete almeno i prossimi tre anni della vostra vita. Avete superato con successo la prima parte del vostro addestramento, che consisteva semplicemente nel non morire, e ora vi attende la seconda e ultima parte. Sarà la più dura.»
I ragazzi si alzarono in piedi e raggiunsero i maestri sul terriccio. Si misero in fila, con le braccia lungo il corpo. Il viso alto, la schiena dritta e il petto in fuori.
Miach deglutì rumorosamente, passò la pergamena a João e gli si accostò all’orecchia. «Fallo tu, non ce la faccio.»
Il portoghese aggrottò le sopracciglia e lo guardò fisso negli occhi. Aprì la bocca, pronto a sgridare il collega una volta per tutte, a picchiarlo se necessario, ma non riuscì a fare niente di quello che si era appena prefissato.
«Non posso.» ripetè Miach, guardandolo con gli occhi lucidi, sofferenti.
«Lo farai. Sei loro maestro quanto me. Dobbiamo.» cercò di richiamarlo all’ordine, imponendosi di avere anche con Miach il pugno di ferro, ma in quel momento iniziò a rendersi conto di quanto era difficile. Capiva fin troppo bene i sentimenti di Miach, non poteva biasimarlo, ma avrebbe dovuto mantenere un comportamento consono e adeguato al suo rango di cavaliere d’argento. Era sicuro che in tutta la storia del Santuario, nessun cavaliere d’argento avesse palesato un cuore di burro come il loro, che nessun cavaliere avesse mai avuto dubbi sulla legittimità del proprio ruolo, anche se questo consisteva nell’educare alla guerra dei ragazzi così giovani.
«Siamo pronti.» disse Aiolos. Fece un passo avanti. «Vorrei essere il primo a sapere dove dovrò andare.»
João sollevò lo sguardo di colpo e incontrò il sorriso del ragazzo a incoraggiarlo. Cercò lo sguardo di Miach, che gli strappò il foglio dalle mani del compagno e lo controllò. Deglutì. «Resterai qui.»
Aiolos annuì e riprese il suo posto nella fila.
Subito dopo fu Aiolia a fare un passo avanti. «E io?»
Miach immaginò che volesse sapere dove lo avrebbe mandato il destino, se lo avesse separato dal fratello mostrando particolare crudeltà. Sentì il cuore comprimersi, continuare a battere sebbene non ci fosse spazio per farlo. Sentì le forze mancargli e le gambe cedere. Le ginocchia sembravano potersi sbriciolare da un istante all’altro, le sentiva così friabili e delicate. Iniziò a domandarsi come avrebbe fatto a comunicare ad Aiolia un luogo d’addestramento diverso da quello del fratello, a chiedersi come avrebbe reagito nel leggere una destinazione lontana e poi con quale tono avrebbe dato la notizia? Avrebbe voluto che qualcuno lo uccidesse in quel momento, che lo liberasse da quel fardello.
Ebbe l’impressione che Aiolia lo incitasse con lo sguardo. Si mordeva l’interno del labbro inferiore e aspettava impaziente che lui, il suo maestro, gli dicesse dove sarebbe andato.
Gli faceva male la gola, secca. Aveva paura, si era reso conto di provare paura per la prima volta in vita sua per qualcosa di diverso dagli aghi. Cercò di scuotersi, se era riuscito a farsi fare le iniezioni senza dare in escandescenze e mettersi a tremare in un angolino, forse avrebbe potuto allontanarsi dai ragazzi che aveva imparato ad amare come figli, ai quali cercava di insegnare a vivere e non solo a combattere. Non voleva vederli partire, non voleva stare male per anni senza avere loro notizie e temeva il momento in cui sarebbero tornati, se mai sarebbero riusciti a tornare.
Aiolia continuava a guardarlo e a martoriarsi il labbro; ben presto si rese conto che tutti i ragazzi lo fissavano, forse chiedendosi che accidenti avesse.
João gli allungò una gomitata su un fianco, che lo riscosse il tempo necessario a sollevare la pergamena e cercare il nome del bambino.
«Resterai con tuo fratello.» sussurrò poi, togliendosi un macigno dal petto. Quell’oppressione che aveva provato svanì lentamente, lasciando il cuore di nuovo libero di pompare, nonostante l’impressione che la stretta si sarebbe potuta ripresentare più forte.
Aiolia riprese il suo posto nella fila e sorrise al fratello.
Fu il turno di Saga e Kanon. Quando si accorsero di essere avanzati in due, entrambi indietreggiarono, strappando un sorriso a Miach. Avvertì nuovamente la morsa al cuore, il respiro spezzarsi, le gambe tremare. E se avesse dovuto comunicare a loro, a due gemelli, assieme da sempre, da prima di esistere, che si sarebbero dovuti dividere? No, non ci sarebbe riuscito. Incrociò lo sguardo con João che improvvisamente si era fatto pallido. Miach sapeva della promessa, sapeva di Rasalhague e sapeva che João avrebbe dato via le braccia se fosse servito a non dividere i due gemelli. Li vedeva tutti i giorni e aveva già notato quanto sembravano allontanarsi ogni giorno, Kanon era sempre più nervoso e infastidito da tutto, la tristezza che gli si leggeva negli occhi aveva lasciato il posto alla frustrazione. Saga, invece, era sempre più luminoso: aiutava chi aveva bisogno di aiuto, si allenava duramente e lottava duramente per arrivare a vestire l’armatura che sembrava interessare sempre meno al gemello. Eppure la loro forza era simile, erano le due facce di una medaglia, uno yin e yang; complementari e indivisibili, ma qualcosa di intangibile minava la loro vicinanza, qualcosa Saga e Kanon non potevano vedere e del quale neanche immaginavano l’esistenza, qualcosa che invece veniva colta da lui e sicuramente anche da João.
Fu Leurak a richiamarlo all’ordine con un colpo di tosse. «Stanno aspettando» aggiunse.
«Resterete qui anche voi.» e fu come se si fosse tolto dal cuore un altro peso enorme, pari a quello dell’universo.
«Non è poi così dura, no?» lo prese in giro Leurak. «Continuate così e alla fine nessuno di loro andrà via.»
«Magari, non sarebbe male! Chi è il prossimo?»
I ragazzi si scambiarono un’occhiata, quasi per accertarsi di non ripetere la scenetta di Saga e Kanon. Erano tanto preoccupati di andare uno alla volta che nessuno si mosse.
«Chiamo io?» domandò Miach. Visibilmente più tranquillo rispetto al suo arrivo, aveva data tre buone notizie, niente gli faceva prospettare che le cose sarebbero potute cambiare finché non avesse letto tutti i nomi e le destinazioni.
Fu Tyko a fare un passo avanti. La ricerca sulla pergamena durò qualche istante. Miach ebbe un colpo al cuore; quello che temeva era appena giunto. Raccolse tutto il suo coraggio, chiuse gli occhi e parlò piano: «Groenlandia. Villaggio di Thule.»
Tyko non sembrava sorpreso, rivolse lo sguardo verso l’alto a destra, forse cercava di ricordare dove si trovasse la Groenlandia e tornò in fila.
«E io?» fu il turno di Milo.
Miach era turbato per aver dovuto dire a Tyko che sarebbe andato lontano, e non voleva dire ad Angelo quale destinazione gli era stata assegnata, preferiva non saperlo neanche, preferiva rimanere a crogiolarsi nel ricordo del giorno in cui era andato a prenderlo, a sorridere della sua petulanza. Se non si fosse sbrigato a cedere la pergamena al collega, pensò, forse dopo Milo sarebbe stato proprio il turno di Angelo.
«Qui vicino. Isola di Milos, Cicladi Occidentali.» rispose rapidamente, notando a malapena la smorfia di delusione sul volto del piccolo che probabilmente preferiva restare ancora al Santuario, dove aveva sempre vissuto.
Consegnò il foglio a João, ora era il suo turno, e fece un passo indietro, andando a poggiare la spalla contro quella di Akylina che mascherava a stento la sua tristezza.
João non attese che fossero i bambini a farsi avanti, nel tentativo di dimostrare un coraggio che non possedeva. Non per quelle cose. Decise che avrebbe preso in mano la situazione e si sarebbe comportato come si erano comportati gli altri maestri, e come avevano già fatto con l’altro loro gruppo: senza esitare, senza timore. Anche se quello che li legava ai bambini che aveva davanti sembrava essere più profondo e importante rispetto a quello che c’era con gli altri, avrebbe dovuto essere giusto, come si conviene a un santo di Atena, e comportarsi con entrambi i gruppi allo stesso modo. Anche se non sembrava, non stava emettendo una condanna a morte, ma solo la notizia di un cambiamento.
Si era preoccupato per così tanto tempo, ma aveva sempre saputo quello che aspettava i discepoli. Non poteva tentennare ora. Tossì una volta.
«Mu, tu andrai nello Jamir con il Gran Sacerdote in persona, così ha disposto. Angelo tornerai in Sicilia. Shaka, tu in India. Camus: Siberia. Ramón: Brasile. Shura: Pirenei.»
Chiuse la pergamena e la strinse nel pugno.
«Bravissimi!» disse Leurak. Battè le mani e poi diede una pacca sulla spalla a Miach, saltò e ne diede una anche a João. «Non era tanto difficile, vero? Fate i complimenti ai ragazzi, se li meritano. Si sono comportati meglio di noi adulti. Soprattutto Ramón che, stoicamente, ha resistito e non ha detto neanche una parola.»
Ramón ridacchiò e si grattò la nuca. «Non avevo niente da dire.» si giustificò.
«Un silenzio vale più di mille parole!» disse Leurak.
«E non ci sono più le mezze stagioni!» gli rispose Miach.
«Figuratevi che qui una volta era tutta campagna!» intervenne João.
«E la mamma dei cretini è sempre incinta.» concluse Akylina, scatenando una risata collettiva degli adulti, mentre i ragazzi li ignorarono.
«Diceva a me?» Leurak si portò una mano al mento.
«Prova a indovinare.» João ricambiò la pacca ricevuta poco prima.

 Tyko corse verso Angelo e lo fissò dritto negli occhi, mancava poco al tramonto e la sacca era pronta.
«C’è una cosa che devo fare prima di partire.» gli disse.
Angelo lasciò cadere la casacca sul letto, incapace a piegarla, arricciò il naso e poi ne grattò la punta con l’indice. «Io non ti do una mano a fare niente, se è quello a cui punti.»
Tyko allungò la bocca in un sorriso sardonico, che si spalancò infine in un ghigno simile a quelli che Angelo era solito fare, e che mettevano un po’ di timore.
«Non c’è bisogno che tu faccia niente.» rispose. «Devi solo chiudere gli occhi, al resto ci penso io. È una sorpresa!»
Angelo valutò per qualche istante le parole e decise di fidarsi. Incrociò le braccia al petto e chiuse gli occhi.
«Secondo me, hai fatto male a fidarti.» sentì la voce divertita di Shura.
Aprì gli occhi di colpo, quando sentì le nocche di Tyko affondare nella pancia. Non era pronto a ricevere il pugno, aveva gli addominali rilassati e l’unica cosa che sentì oltre al dolore fu solo un prepotente senso di nausea che cercò di concretizzarsi in un conato. Tossì convulsamente, passò il dorso della mano sulla bocca per asciugare il rivolo di saliva. Si sollevò in piedi e inchiodò gli occhi sulla faccia di Tyko che sorrideva sornione.
«Brutto stronzetto!» disse, poi sorrise. «È una promessa?»
Tyko annuì. «A tra tre anni.»
 Si caricò la sacca sulle spalle e si avviò verso l’uscita, sollevando il pugno chiuso all’altezza della testa e senza voltarsi.
Shura avvicinò indice e medio alla fronte e poi li allontanò rapidamente come saluto.
«Sei pronto anche tu?» gli domandò Angelo. Riprese in mano la casacca di lino che non aveva la minima idea di come piegare e la gettò appallottolata dentro la sacca, gettando subito dopo la pettorina di cuoio e le spalline, e diversi rotoli di fasce di cotone.
«Sì. Pronto a tornare a casa.» rispose, adagiandosi sulla spalla un mantello scuro. Si avvicinò ad Angelo e tese la mano aperta, che Angelo afferrò con decisione. Le strinsero reciprocamente e poi conclusero la stretta sbattendo con la spalla destra sulle mani unite.
«A presto, Angelo.»
L’italiano annuì. «A presto.»
Shura passò a salutare Aiolos e Aiolia prima di andare. I due fratelli gironzolavano per il Santuario e lo guardavano svuotarsi. Moltissimi ragazzi si susseguivano sulle viuzze lastricate verso l’uscita del Santuario, nell’antica acropoli del Partenone, dove piano piano si sarebbero mescolati con i turisti.
Lo spagnolo non sapeva bene come salutare Aiolos, con cui alla fine aveva stretto un rapporto molto particolare; non avrebbe potuto salutarlo come Angelo, l’amicizia era diversa, e optò per un semplice arrivederci e la promessa di festeggiare al suo ritorno. Aiolos fu lieto di accettare e gli rivolse parole d’incoraggiamento, rendendo la sua partenza più facile.

Una nutrice piangeva, seduta sul letto di Milo. Era stata una delle prime a venire in contatto con lui quando venne portato al Santuario. Durante i primi mesi aveva pensato di chiedere se sarebbe stato possibile adottarlo, ma le divenne ben chiaro che non si trattava di un bambino normale. Era speciale come tutti lì dentro.
Milo le mise una mano sul ginocchio. «Non piangere.» le disse imbronciato. «Se piangi non riesco ad andarmene.»
La donna si lasciò scivolare dal letto e si inginocchiò sul pavimento. Strinse il bambino a sé. «Promettimi che tornerai.»
«Prometto, ma basta piangere.»
Lasciò andare la presa, tirò su col naso e cercò di calmarsi. «Hai preso tutto?»
«Sì. Devo sbrigarmi a salutare Camus però, parte tra poco.»
«Vai, finisco io di prepararti il bagaglio.» tirò su col naso e si asciugò le lacrime con il dorso della mano.
Milo prese il cuscino che gli aveva dato Camus mesi prima dal suo letto e lo posizionò sul letto del francese. Uscì di corsa dalla stanza e percorse i corridoi dei dormitori in lungo e in largo.
Si recò alle arene, alla mensa e alla spiaggia, poi pensò di avvicinarsi ai Dodici Templi. Schivò soldati, nutrici e ragazzi che si accingevano ad andarsene.
Qualche decina di metri prima della scalinata che conduceva al Tempio dell’Ariete, incontrò Camus che tornava ai dormitori.
«Dov’eri? Ti ho cercato ovunque!» disse affannato.
«Ho consultato qualche libro.» rispose. Continuò a camminare e Milo lo seguì.
«Sei pronto per partire?»
«Sì. Tu?» chiese di rimando.
«Quasi.»
Tornarono nel dormitorio. Sul letto di Milo era pronta una sacca marron scuro e la nutrice era andata via. Il piccolo sospirò, lieto di non dover assistere a un’altra crisi di pianto.
«E questo?» domandò Camus, sollevando il cuscino.
«È quello che mi hai dato quando sei venuto qui.» sorrise. «Me lo ridai quando torniamo.»
Camus fissò Milo, poi accennò un sorriso. «D’accordo.»

Ramón, assieme a Mu e Shaka, guardava i preparativi degli altri ragazzi. Chi doveva partire era in fibrillazione, eccitato per quello che avrebbe incontrato e per le cose che avrebbe imparato. Loro tre sarebbero dovuti partire il giorno seguente, due con il Gran Sacerdote in persona, che aveva intenzione di aspettare che tutti fossero partiti prima di scaricare tutte le responsabilità su Arles. Ramón sarebbe partito nel pomeriggio, muovendo i primi passi fuori dal Santuario assieme al gran Sacerdote, per poi dividersi appena fuori dalle mura.
Decisero, tutti e tre assieme, di allontanarsi dalle stanze per qualche ora, in modo che chi aveva bisogno di prepararsi potesse farlo senza incappare nella loro, magari fastidiosa, presenza.
Si recarono a Capo Sounion, dove Saga e Kanon combattevano con i piedi immersi nella sabbia. Si squadravano e respiravano piano, cercando di controllare ogni singolo muscolo, il respiro e la posizione di guardia, che doveva essere sì perfetta, ma doveva garantire loro la possibilità di passare rapidamente da una posa di difesa a una di attacco.
I tre si sedettero sulla sabbia e osservarono con interesse i movimenti dei gemelli, soprattutto Ramón, che si sentiva lasciato indietro rispetto agli altri, e pensò che forse sarebbe riuscito a rubare con gli occhi qualche segreto dei due fratelli, sicuramente più esperti di lui nella lotta.
Poco dopo arrivarono anche Aiolos e Aiolia, il più grande si unì ai due gemelli, ma alla fine si sedettero tutti assieme e parlarono dei cambiamenti che avrebbero interessato al Santuario quando sarebbero rimasti solo i ragazzi che si dovevano allenare lì. Mu ascoltò quello che le due coppie di fratelli si dicevano, poi domandò se sarebbero stati Miach e João i loro maestri.

Degli undici ragazzi, solo quattro sarebbero rimasti al Santuario, e vederli sarebbe stato difficile anche per i vecchi maestri. I ritmi di addestramento sarebbero stati notevolmente più serrati.
João sospirò.
«Non pensarci.» gli disse Galgo. «La cazzata di fasciarci la testa prima di rompercela l’abbiamo già fatta per oggi. Ricordiamoceli bambini per l’ultima volta. La prossima volta che li rivedremo tutti assieme saranno uomini.»
«Pensi che i genitori si sentano così?» domandò.
«Di merda? Sì, penso di sì. Ma i bambini normali non saranno eroi.» ammise Galgo, addolorato. In fondo, avrebbe preferito non conoscerli mai e per sapere che avevano una vita meravigliosa. Poi pensò che sarebbero potuti essere comunque degli orfani, ma cercò di non farsi rovinare la fantasticheria da quel pensiero.
João rise. Sollevò le mani e si sfilò l’elmo. «Hai ragione, ancora.»
Attendevano nei pressi dell’uscita del Santuario. Videro i ragazzi passare uno a uno, prima Camus, poi Tyko, Angelo e Shura assieme.
João si era comportato da perfetto adulto e aveva incoraggiato Tyko a tornare presto. Ripensò a quell'accidenti di macchinina, a quanto era stata basilare per le prime interazioni con gli altri, e a come era stata sepolta come un tesoro. Forse Tyko non se ne ricordava neanche più, ma glielo avrebbe ricordato quando sarebbe tornato al Santuario.
Per Miach, invece, non fu così facile. Non voleva che il suo discepolo se ne andasse. In tutto quel tempo aveva immaginato di essere lui il cavaliere destinato per il suo addestramento, quantomeno per dare una giustificazione logica per essere andato a prenderlo in Sicilia. Invece, la sua scelta era stata casuale, forse perché il Santuario era a corto di organico a quel tempo, forse perché era l'unico che spiccicasse qualche parola d'italiano. Non lo avrebbe mai saputo.
«Mi raccomando, Angelo.» gli disse, scompigliandogli i capelli.
Angelo pensò di sottrarsi a quel gesto, ma non lo fece, riuscendo forse a capire quello che passava per la testa del maestro, che vedeva notevolmente rammollito dal giorno del suo arrivo.
«Tornerò e ti farò a pezzi.» sfoggiò un ghigno.
Il suo comportamento fece sorridere Galgo, che poté solamente promettere al discepolo un rientro col botto. Lo vide allontanarsi, accanto a Shura, che preferì restare in disparte e si limitò a salutare con un gesto della testa entrambi i maestri, ma soffermò lo sguardo su João, ricordando quando lo aveva salvato dalle grinfie di Dioskoros.
Milo sgambettava felice, un po' intimorito per il grosso cambiamento che lo aspettava, ma era sicuro che sarebbe tornato in fretta, forse anche prima di Camus. Non si perse in chiacchiere con i due, così come non aveva fatto neanche l'amico e andò via.

Il Gran Sacerdote aveva lasciato la giornata libera a tutti, di modo che i ragazzi si preparassero alla partenza, e potessero salutarsi.
Bevve un sorso di vino rosso. Ne osservò i riflessi vermigli in controluce verso il cielo e fece roteare il liquido nel bicchiere. Era appena pomeriggio, eppure l’aria al Santuario era cambiata. Sembrava che la notizia che aveva dato quella mattina a tutti gli addestratori dei ragazzi avesse portato via qualcosa. I maestri si erano corrucciati, chi più chi meno, e i ragazzi erano indecisi su cosa provare.
Ai suoi tempi, la predestinazione a cavaliere non sembrava essere così importante come in quegli anni. Quando era solo un ragazzino, gli aspiranti cavalieri arrivavano al Santuari da soli, si trattava di sognatori che inseguivano una leggenda, di persone che scappavano dal loro passato o semplicemente di ragazzi soli ai quali si desiderava regalare un posto nel mondo, ma quella generazione era stata quasi condotta al Santuario con la forza, come se la dea avesse fatto male i suoi calcoli, prevedendo le catastrofi e le battaglie cicliche con qualche anno di ritardo. Soldati e cavalieri erano stati mobilitati per portare al Santuario le future speranze dell’umanità, perché fossero già schierati quando la dea avrebbe fatto la sua comparsa tra gli uomini.
Sapeva già chi sarebbe diventato cavaliere, sapeva già chi ne aveva le capacità e chi no. Si diresse nel punto più elevato del Santuario e osservò gli aspiranti spostarsi per le vie del Santuario, nelle arene, tra le case, piccole macchie scure che si spostavano sul bianco.
«Ti stai pentendo di qualcosa, Gran Sacerdote?» gli domandò Arles.
«Possibile che debba averti sempre intorno?» sorrise Sion.
«È il mio compito.» rispose laconico. «C’è qualcosa che ti preoccupa?»
«No, niente di tutto ciò. Solo un po’ di… tristezza.» prese una pausa. «Credo che sia tristezza. Ho come l’impressione che ci sia qualcosa di sbagliato, come se il tempo non fosse sufficiente.»
Arles ridacchiò e tolse la maschera. «È un problema di voi vecchietti. Avete avuto tanto tempo e vi lamentate che è stato poco, mentre quello che resta è ancora meno.» asserì e si avvicinò.
Uno accanto all’altro, guardarono il Santuario svuotarsi, il lento via vai di ragazzi con le sacche sulle spalle.
Sion bevve un altro sorso di vino e decise di attendere il tramonto lì e vedere tutti andar via. In qualche modo sentiva di doverglielo, quantomeno come scusa per quello che sentiva sarebbe accaduto. Sorrise e soppesò le parole di Arles.
«Parli come se fossi un ragazzino.» gli disse, porgendogli il bicchiere.
«In confronto a te, lo sono.» rifiutò l'offerta con un gesto.
Un corvo planò fino alla statua di Atena e si posò sull’ala della statua di Nike.
«Atena arriverà presto.» disse Sion, voltandosi a cercare lo sguardo di Arles, ma questi non si voltò. Fissò la rete di stradine interne al sacrario e annuì.
«E tu temi che per quel giorno non ci siano cavalieri, mi sbaglio?»
«No. Per niente.» svuotò il bicchiere e guardò il corvo. «Possiamo solo stare a vedere.»
Un fischio sibilò nell’aria fino a svanire e l’animale spiccò il volo, diretto verso l’altura poco distante.
Il futuro che gli raccontavano le stelle era scuro.


__________

Chiedo scusa per il leggero ritardo, cosa volete che sia un anno? Niente se paragonato all'universo.
Grazie a tutte le persone dall'animo puro e immacolato che hanno letto, recensito, inserito tra preferiti, seguiti, da ricordare, da dimenticare etc., mi fa piacere che abbiate avuto la forza di seguirmi fino a qui.
Grazie di vero cuore, e spero che il capitolo sia di vostro gusto!

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Capitolo 20
*** 4 - La locanda dei morti ***


23. Addestramento di DM Tornato in Sicilia, la nostalgia e la curiosità avevano avuto la meglio su di lui; perciò  prima di scalare l’Etna e recarsi nel luogo che le stelle gli suggerivano di raggiungere, aveva deciso di cercare la sua vecchia casa, solo per vedere se le cose erano cambiate. Non si sorprese più di tanto nell'apprendere che niente era più come lo ricordava. La tenuta era diversa e ospitava una nuova famiglia: il pollaio era stato abbattuto per far posto a un rigoglioso prato all'inglese, che si estendeva per buona parte della tenuta fino al primo filare di piante da frutto. Quegli alberi non c'erano, e quelli che invece ricordava bene, come il salice sotto il quale aveva sepolto il cane, erano svaniti.
La casa era stata ingrandita e le era stato cambiato il colore; la vite canadese iniziava ad arrampicarsi lungo la facciata e nel giro di pochi anni forse avrebbe ricoperto la casa intera. Non era più casa, e fu l'unico pensiero che fu capace di formulare.
Indeciso su cosa provare, decise di risalire la montagna. Sentiva di dover costeggiare un pigro fiumiciattolo ingrossato dalle piogge, attraversare il bosco che vedeva arrampicarsi sui costoni in lontananza, forse avrebbe dovuto guadare qualche fiume più grande e più agitato, magari avrebbe dovuto evitare di essere investito da una probabile eruzione, recarsi nei pressi della gola dell'Etna e lì, forse, avrebbe trovato colui che cercava e che lo avrebbe addestrato a cavaliere.
Dopo poche centinaia di passi, affrontati con rabbia, rallentò l'andatura a causa di un fastidio all'addome che andava aumentando. Ebbe l’impressione che qualcuno gli stesse infilando una mano in bocca e cercasse di rivoltargli lo stomaco dall’interno. Le gambe non riuscirono a reggerlo e si piegarono a metà di un passo, le ginocchia si schiantarono sulla terra battuta e avvertì la gola bruciare. Vomitò, preda di conati tanto forti da levargli il fiato. Rimase piegato su se stesso finché lo stomaco non fu completamente vuoto. Con la vista annebbiata dalle lacrime e la gola in fiamme, infilò la testa sotto il pelo dell'acqua.
«Che diavolo è successo? È cambiato tutto.» mormorò. Infilò la testa ancora un’altra volta nel fiume e poi si lasciò cadere all’indietro.
Seduto nel fango, scrutò con attenzione ciò che lo circondava. Si sentì truffato dai ricordi; ricordava così bene quell’albero, e il giorno in cui aveva scavato quella buca assieme al padre. Era così dispiaciuto di aver perduto quel compagno di giochi. Si domandò se non si fosse inventato tutto. Pensò anche di aver sbagliato tenuta, magari la casa che tanto lo aveva turbato era quella di qualcun'altro, e la sua giaceva immobile nel tempo ad aspettare il suo ritorno. Si diede dello stupido, sapeva bene che quella casa era stata la sua. Chissà se il corpo di Cane era ancora sotto quell'albero o se assieme alle radici erano state tolte anche le ossa.
Scavò a fondo nella memoria e ricordò di averlo avuto davvero un cane, non se lo stava inventando e per  la prima volta sentì la mancanza di ciò che aveva conosciuto.
Non gli era mai importato troppo né dei genitori né del cane, tantomeno della sua casa e della proprietà, del fiume e della campagna, ma ora che niente era rimasto a testimoniare quel passato, si accorse di quanto fosse lacerante quel cambiamento. La gola attanagliata in una morsa stretta, i muscoli del viso che si contraevano da soli finché non avvertì il tepore della prima lacrima.
La seconda lacrima scese quando infilò la mano nella borsa per cercare la foto che Miach aveva maldestramente rimesso insieme col nastro adesivo. Guardò il volto materno sorridergli dalla carta.
«Mamma...» sussurrò.
La terza scivolò lungo il naso quando afferrò la fotografia con entrambe le mani, sul margine superiore. La quarta quando la strappò.
Infilò una mano nel fango e ne sollevò un pugno. Poi un altro ancora. Adagiò i pezzi della foto nella melma e la ricoprì. «Sono solo.» si disse.
Si alzò in piedi e asciugò le lacrime con il dorso della mano, sporcandosi il viso.
Riprese la sacca, la buttò sulle spalle e si incamminò trascinando i piedi. Gli mancavano le forze, per quanto si sforzasse di procedere, avvertiva una forza misteriosa trattenerlo a valle. Forse non aveva tutta la forza che credeva di avere, il pugno a Leurak e l'aver portato via l'elmo a Joao non erano più imprese tanto grandi a ripensarci. Le lacrime avevano continuato a cadere, finché le ultime, le più lente, non si erano asciugate sulla pelle. Sì, era debole. Debole, debole, debole.
Procedette trascinando i piedi, assorbendo la coscienza della sua nuova condizione: era solo, davvero solo. Completamente solo e terribilmente debole. Tanto debole da voler negare a se stesso di esserlo.
Attraversò la valle e arrivò finalmente alle pendici dell'Etna. Levò lo sguardo alla ricerca della cima nascosta dalle nuvole e - probabilmente - dal fumo del vulcano.
Si voltò indietro, replicando l'errore dell'Orfeo mitologico. Ora la sua vecchia casa era lontana, non l’avrebbe più vista e non gli avrebbe più ricordato cose spiacevoli. Quindi, forse, avrebbe potuto fare in modo che anche la sua debolezza rimanesse lontana, almeno il tempo necessario per trasformarla in forza. E la solitudine sarebbe diventata un'arma potente.
Sentì abbaiare e gli venne naturale girarsi e guardarsi attorno per cercare il cane. Forse quella zona era più popolata di quello che sembrava, forse c'era un gregge nelle vicinanze e se c'era una gregge, c'era un cane pastore che lo avrebbe attaccato se ritenuto una minaccia. L’abbaio era lontano e veniva dalla montagna; si mosse incontro all’animale. Lo avrebbe zittito lui se avesse insistito con quel verso.
Percorse quasi un chilometro. Il suono che percepiva era sempre uguale, non si era avvicinato e non si era allontanato; sembrava quasi che si spostassero assieme.
«Dove sei, bestiaccia?» ringhiò, carico di voglia di far male e riversare su qualcosa il dolore che provava.
Gli parve di scorgere una sagoma con la coda dell’occhio e si voltò di scatto, ma non vide niente. Eppure l’animale era vicino; riusciva a sentirlo chiaramente. Chiuse gli occhi e si concentrò su quel verso. In quel modo, gli sembrava di poterlo vedere. Era uguale a quello che aveva avuto anni prima.
Riaprì gli occhi e si guardò intorno. Una fiammella azzurra gli vorticava attorno alla testa, per poi procedere a zigzag e fermarsi di scatto. Angelo aprì la mano perché il piccolo fuoco vi si poggiasse e quando avvenne il contatto, ci fu un’esplosione di luce.
Il cane era lì, etereo e privo di consistenza, ma con i tratti di un tempo. Saltava invitando il ragazzo a giocar: fece un giro su se stesso per mordersi la coda, saltò e batté le zampe anteriori sul terreno.
«Cane!» esclamò Angelo, aprendogli le braccia, come quando faceva anni prima. Allora il cane gli poggiava le zampe sulle spalle e lo faceva cadere.
La bestia non rispose come di consueto al richiamo: si limitò ad avvicinare il muso alle dita ella mano destra e tentare una leccata, ma la lingua del cane passò attraverso la mano.
«Sei venuto per accompagnarmi? Bene, andiamo!»
Tenne lontana dalla mente ogni domanda su come fosse possibile la presenza del cane. Se avesse evitato di porsi delle domande, se quelle domande non avessero avuto risposta, poteva significare che non era così solo come pensava. Era vero che i segni del suo passato erano stati cancellati, ma la presenza di Cane era reale per lui. Lo vedeva e lo sentiva. Se Cane camminava al suo fianco e si mordeva la coda, non era più solo.
Il cane lo precedette di qualche passo trotterellando, e assieme si dinoccolarono tra sentieri battuti e passaggi scoscesi.
Al tramonto, Angelo pensò fosse il caso di fermarsi. Si addentrò nella foresta e cercò un riparo. Trovò delle grosse rocce ammassate tra gli alberi, tra di esse c’era spazio sufficiente a ospitarlo. S’intrufolò lì in mezzo e si sedette, Cane si accucciò ai suoi piedi. Si addormentarono subito.
Ebbe molti incubi durante la notte, rivisse il suo passato, poi morì una bambina, affogata nelle acque in piena di un fiume lontano, che stringeva la mano di un vecchio morto da solo nel suo letto, che camminavano diversi metri avanti a un uomo caduto in un burrone. Dopo l’ennesimo incubo, in cui la vita di perfetti sconosciuti gli si dipanava davanti per poi, per poi unirsi al ricordo di quella vista in precedenza, aprì gli occhi di scatto. Il cuore pompava all’impazzata, la fronte era umida di sudore così come gli abiti e aveva i brividi. Uno sciame di lucciole gli danzava attorno seguendto traiettorie semicircolari. Chiuse gli occhi e li riaprì, pensando di dormire ancora.
Non erano lucciole, ma fuochi fatui, e ognuno aveva una storia da mostrargli. Cane era sparito.
Senza aspettare l’alba, Angelo si rialzò in piedi e si rimise in marcia.
Camminò nel bosco, il sentiero rischiarato dalla luce emessa dai fuochi fatui che continuavano a vorticargli attorno.
Al sorgere del sole, i fuochi svanirono. Non li vedeva più eppure continuava a sentirne la presenza, li dove fluttuavano l’aria era più densa ed elettrica. Respirava affannosamente, con la sensazione che la gravità fosse maggiore, eppure non si fermò, procedette per tutta la giornata, nutrendosi in marcia con i frutti che vedeva. Poco prima del tramonto giunse quasi alla cima della montagna. Non sapeva quanti chilometri avesse percorso, ma si trovava sopra le nuvole che il giorno prima gli avevano precluso la vista della cima del vulcano. Non vedendo la valle, non sapeva dire di quanto fosse salito, benché avesse la sensazione di aver raggiunto la luna per quanto aveva marciato.
Trovò una grotta, ampia e scura, che si apriva su una parete rocciosa. La parte che circondava l'apertura era liscia e levigata, granito che sembrava lavorato, e più ci si allontanava più la levigatura diventava grossolana, fino a scomparire del tutto. In quei punti il granito era misto al nero basalto.
Angelo si avvicinò all'entrata e appena fu davanti, Cane riapparve sulla soglia, fece un giro su sé stesso nel tentativo di azzannarsi la coda e corse dentro. Senza farsi pregare, Angelo lo seguì.
Pochi metri dopo l’apertura, un dedalo di gallerie si dipanava verso l’interno del vulcano. Scorse una debole luce brillare nel punto in cui si dirigevano, quando furono vicini Angelo si rese conto di essere giunto in un’altra grotta. La volta di granito era ampia e abbracciava quel posto strano. Procedette fino ad arrivare in un'altra grotta, buia.
«Bene arrivato, ragazzo.»
Si accese un lume davanti a lui, retto da un vecchietto ricurvo che gli sorrideva mostrando la mancanza degli incisivi superiori.
«Ce ne hai messo ad arrivare.» continuò. «Hai fame?»
Angelo si guardò intorno. Pile di libri e torce spente. Due teschi umani, uno sul pavimento e uno sopra un libro.
«Sei muto?»
«No, signore.»
Il vecchietto rise. «Due giorni di viaggio per arrivare da Atene. Gli aspiranti non sono più quelli di una volta.» si diresse verso un cunicolo. «Seguimi.»
Camminava ricurvo e lento, trascinando i piedi; lo condusse in un’altra grotta, più piccola e  illuminata.
C’erano diversi tavoli di legno, artigianali, disposti lungo il perimetro della sala, che reggevano complesse strutture di alambicchi e ampolle.
«Che razza di posto è questo?» domandò Angelo, guardandosi intorno, indeciso se scoppiare a ridere per le stranezze o attaccare.
«Il mio laboratorio.»
«E cosa sei, un dottore?»
Il vecchio rise. Portò una mano al ventre e lo tenne stretto mentre le risate lasciavano il posto a una tosse convulsa.
«Oh, che ridere.» mormorò Angelo. «Risate senza fine...»
Il vecchio si riprese. Estrasse un pezzo di stoffa dalla manica, soffiò il naso e lo rimise a posto. «Sono un negromante, figliolo. Puoi considerarmi un dottore di anime. Un guaritore forse!»
«Che stai blaterando?»
«Se sei qui, significa che le vedi! Che sei capace di guardare oltre la vita, oltre quel sottile confine che separa il mondo degli uomini da quello degli spiriti. Saprai anche attraversarlo, immagino.»
Angelo incrociò le braccia al petto. «Non so di cosa stai parlando.»
Il vecchietto rise ancora.
«Che cazzo avrai da ridere tanto.»
«Come ti chiami, ragazzo?» 
«Angelo. Angelo Salvatore.»
L’uomo, nell’udire il nome del ragazzo, cominciò di nuovo a ridere. «Ridicolo.» concluse.
Angelo aggrottò le sopracciglia. «Se hai finito, puoi anche iniziare con l’addestramento.»
«Non ti si addice questo nome.»
«Lo penso anche io, ma non credo di poterci fare molto.»
«Puoi cancellarlo!» disse sollevando l’indice in alto. «Vieni con me, ti mostrerò una cosa.»
Lo condusse nell’angolo più lontano dall'entrata della sala, gli fece spostare un tavolo. Sotto di esso si trovava una botola chiusa con un coperchio di legno, con le pareti di roccia scendere in profondità e confondersi col buio. Era stretto.
«Passaggio segreto?»
«Zitto, zuccone! Ti ho detto di seguirmi, non di domandare. Impara a rispettare gli ordini.»
Angelo sussultò. Il vecchietto rise ancora. «Ci cascate tutti! Oh, beata e ingenua giovinezza!»
Il vecchio serrò gli occhi e iniziò a brillare di una luce viola e rosata. Avvicinò la mano e sulle pareti apparvero i pioli di una scala. Si calò all’interno del pozzo, sedendosi sul bordo opposto, e si lasciò cadere, solo allora afferrò il primo piolo. Angelo fece lo stesso, ma il pozzo era troppo stretto e ad ogni movimento sbatteva i gomiti contro la roccia dietro di lui, e le ginocchia contro i pioli. Attese che il vecchietto fosse lontano e quando pensò che fosse arrivato, lasciò la presa sul piolo per poi afferrare uno di quelli successivi, facendo così brevi cadute.
Arrivati in fondo, il vecchio scoccò le dita e si accesero due lunghe file di torce ancorate alle pareti. Fiamme azzurre illuminarono la grotta.
«Queste sono anime dei morti.» disse, aprendo le braccia. «Ciò è quello che i morti possono ancora fare nel mondo dei vivi! Ti sembrerà poco, ma non lo è. Gli spiriti non appartengono a questa realtà, a questo mondo, ma molti di loro sono tanto forti e soffrono a tal punto che non riescono ad andarsene. Restano qui, in attesa che i loro patimenti vengano alleviati.»
«Che cosa c’entra con il mio nome?»
L’uomo portò una mano alla fronte e si massaggiò le tempie.
«Figliolo, hai la stessa intelligenza di questo basalto! Se questi spiriti possono oltrepassare la linea dello spazio e del tempo a loro piacimento, cosa vuoi che sia per te cambiare nome? Sono vivi pur essendo morti!»
«Allora? Cosa dovrei fare? Suicidarmi e cambiare nome?»
«Per Atena! Che male ho fatto? »
«Senti, vecchiaccio. Sono qui per essere addestrato a cavaliere e non per ascoltare le tue cazzate su morti e affini. E poi chi accidenti sei?»
«Al Zubanah!» rispose. «Negromante. Tuo maestro e dio in terra. Credevo di avertelo già detto.»
Tornarono in superficie, e quando il tavolo fu rimesso a posto, Angelo domandò quando sarebbe iniziato il suo addestramento.
«È già iniziato, fanciullo.» rispose il vecchio.
«Beh, io non mi sento più forte di prima.»
Il maestro si incamminò lungo un corridoio, le pareti erano ricoperte di muschio, il pavimento era scivoloso e riluceva al chiarore delle torce, condusse Angelo in un altro cunicolo e da lì lo portò fino a una sala chiusa da una porta di legno marcescente, con inserti in ferro arrugginito. La roccia era stata scavata lasciando quella che sembrava essere una culla.
«Dovrai cercarti del pagliericcio o dormire sarà più scomodo del necessario, a meno che non ti piaccia così.» gli disse indicandogliela. «Pensa al tuo nuovo nome nottetempo.» Ridacchiò, chiudendosi la porta alle spalle.
Angelo gettò la sacca sul pavimento e si guardò attorno. Non c’era niente se non quella sorta di rialzo di roccia scavata. Raccolse la sacca, si coricò e la adagiò come cuscino. Era dannatamente scomodo. «Mi sembra di essere in un sarcofago» si disse.
Il suoi pensieri, poi, volarono veloci, riportandogli alla mente la strada da poco percorsa e tutti quei fuochi. Era sollevato di non averne più visto neanche uno dall’accensione di quelle strane torce spirituali. Ripensò al cane e ai genitori, agli alberi e al fiume, al Santuario e ai maestri, agli amici con cui aveva siglato promesse più o meno tacite e scivolò nel sonno.
Il giorno dopo, il vecchio lo svegliò portandogli una scodella contenente un liquido giallastro e puzzolente.
«Che roba è?» domandò storcendo il naso.
«La colazione. Zitto e mangia.»
Obbedì e in pochi sorsi la svuotò. Il sapore non era cattivo come l’odoreaveva lasciato presagire. Somigliava a brodo di pollo aromatizzato con qualche erbaccia che non seppe riconoscere.
«Per ognuna di queste che consumerai, dovrai fare un progresso o ti getterò nella lava e riderò mentre ti contorcerai durante il primo istante, e guarderò la tua carne bruciare e consumarsi.»
Angelo lo guardò sollevando un sopracciglio. «Attento che non sia io a gettarti dentro la lava, vecchio.»
L’uomo sorrise, mostrando il buco tra i denti anteriori. «Mi piaci, ragazzino. Ora andiamo.» e lo condusse di nuovo attraverso la botola, accese le torce con lo schiocco delle dita e seguì la scia luminosa fino a una porta.
«C’è puzza di uova marce.» osservò Angelo, arricciandoi il naso con fastidio.
Il vecchio fece scattare il chiavistello. e la porta si aprì lentamente, mostrando una sala  illuminata da rocce che isolavano una sorta di piscina al centro della sala stessa. Erano vagamente fluorescenti e brillavano di luce propria. L'ambiente così rischiarato era rilassante, peccato per la puzza, pensò Angelo. Lungo le pareti scorrevano numerosi rivoli d'acqua che andavano a gettarsi nella piscina centrale.
Al Zubanah si tolse la tunica e si immerse.
«Certo che sei ridotto male, vecchio.» Angelo rabbrividì nel vedere il corpo del maestro.
Numerose cicatrici disegnavano sull'intero corpo un reticolo chiaro, la pelle rugosa sembrava essere un sacco troppo grande per il contenuto, eppure Angelo, guardandolo ebbe l’impressione che in gioventù dovesse aver avuto un fisico imponente e muscoloso.
«Sono più giovane di quello che immagini e più vecchio di quel che pensi.» gli disse, ridacchiando. «Entra anche tu.» e s’immerse fino alla gola.
Angelo si spogliò, lanciando i vestiti vicino alla porta ed entrò. Al Zubanah gli andò vicino, prima che s’immergesse del tutto, e gli afferrò un braccio. Lo avvicinò al volto e passò un dito sulla pelle tesa dell’avambraccio, saggiando la durezza del muscolo sottostante. Gli prese le spalle e affondò le dita ossute.
«Girati.» disse, lasciando andare la presa.
Osservò con cura la schiena e tastò la scapola destra con un dito, dopodiché lo lasciò andare.
«Con il giusto addestramento dovresti riuscire a sviluppare un’ottima massa muscolare. Hanno fatto un buon lavoro al Grande Tempio.» disse. «Ma non sei al massimo delle tue potenzialità. Hai un petto ampio che può essere sfruttato.»
«Finita la visita?» domandò Angelo con fastidio.
Il vecchio rise. «Mi ucciderai, un giorno o l'altro.»
Quando il bagno fu finito, Al Zubanah condusse Angelo ancora più in profondità, aprì una porta e lo spinse dentro, chiudendola immediatamente.
«Ehi vecchio, fammi uscire!» Udì solo risate oltre la porta. «Mi hai sentito? Ti ho detto di farmi uscire!»
«Uscirai quando sarai pronto.»
Angelo sferrò un calcio frontale nel punto dove c’era il chiavistello, che scricchiolò. Ne sferrò un altro, ma la porta non scricchiolò.
«Usa il cervello, ragazzo! Questa porta non cadrà con un calcio; neanche con cento!» ridacchiò il vecchio.
«Perchè mi hai chiuso qui dentro?» gridò.
«Che domande, per farti uscire! Mi sembra ovvio.»
Angelo colpì la pesante porta con una scarica di pugni, ogni colpo era più forte del precedente e si ferì presto le nocche. Il sangue colò lungo il legno fino al pavimento. Il rumore dei pugni aveva coperto quello che Al Zubanah gli diceva dall'altra parte. La porta non sarebbe caduta, esattamente come gli era stato detto.
«Sei pazzo! Come faccio a uscire se non mi apri?» urlò ancora una volta.
Al Zubanah rise di cuore. «È quello che dicono in molti. Trova il modo per uscire da lì e io continuerò il tuo addestramento, figliolo.»
Una strana sensazione s'impadronì del ragazzo, che avvertì il torace appesantirsi e il respiro spezzarsi, come se avesse qualcosa sopra. Un sentimento simile alla disperazione cercava di rubargli la ragione, ma la contrastò, impedendosi di iniziare a scoppiare a piangere.
«E se non dovessi riuscirci?» balbettò.
«Morirai.» rispose laconico il vecchio. Poggiò una mano sulla porta. «Non cedere alle loro lusinghe. Non farti rapire.»
«Lusinghe?» domandò. «Di chi? Quali lusinghe?»
Non ottenne nessuna risposta. Frustrato, tirò altri calci alla porta, poi una serie di pugni, urlando ogni volta che colpiva il legno con una parte ferita. Non sentì più la voce del maestro.
«Quel bastardo se n’è andato. E mi ha lasciato qui!»
Poggiò le spalle alla porta e si lasciò scivolare fino a sedersi. Vide la sua ombra proiettarsi nel raggio di pochi metri, rendendosi conto che l’unica fonte di luce in quel posto era la porta. Si alzò e mosse qualche passo nell’oscurità. Cane ricomparve davanti a lui e abbaiò.
«Fuori dai piedi!» sbottò Angelo, continuando a muoversi a tentoni. Poggiò una mano sulla parete e avanzò lentamente, senza staccarsi. Si bagnò i polpastrelli con la condensa che ricopriva la roccia. Dopo diversi metri sentì il gorgoglio dell’acqua. Cane lo seguiva fedelmente e in silenzio.
Intuì di trovarsi a un bivio, decise di non staccare la mano dal muro e proseguire. Dopo i primi metri percorsi, il chiarore della porta era svanito e non riusciva a vedere niente se non l'azzurrognola trasparenza del cane. Doveva affidarsi esclusivamente ai suoi sensi, facendo leva soprattutto sull'intuito.
Girovagò a lungo, infine si trovò davanti alla porta dalla quale era entrato. Spostarsi non era servito a molto.
«Non c’è niente qui!» urlò e tirò un colpo di palmo al muro. Cane abbaiò due volte.  
«Che accidenti vuoi tu, eh?» sferrò un calcio alla bestia, ma il piede lo attraversò. «Vecchi pazzi, cani morti, che altro mi manca!?»
La porta si aprì appena.
«Sei deludente ragazzo. Divertente, ma deludente.» il vecchio lo fece uscire. Scuoteva la testa a ogni parola.
Tornarono in superficie, nella grotta-laboratorio. Una volta lì, il vecchio fece un segno su un vecchio calendario, cinque giorni più avanti, poi prese un’ampolla contenente un liquido nero che emanava riflessi rossi. Ne versò una goccia dentro un alambicco pieno di un liquido trasparente. La goccia non si sciolse, rimase sospesa a galleggiare nel liquido. Accese un fornello.
Quando il liquido iniziò a bollire, la goccia nera salì di livello, diventando grande quanto un fagiolo e perdendo la forma perfettamente sferica.
«Che fai?» domandò Angelo, curioso.
«Taci.»
Al Zubanah aumentò la fiamma e la goccia si dissolse. Lungo la spirale di vetro dell’alambicco si formarono molte goccioline rosso brillante, che piano piano scivolavano in un bicchiere.
Quando il procedimento fu concluso, Al Zubanah bevve il liquido. «Stanotte, mi assisterai.» annunciò e poi andò via, lasciando il ragazzo da solo nel laboratorio.
Incuriosito, Angelo si avvicinò agli strumenti. Diede un’occhiata rapida oltre la porta, per accertarsi che il negromante si fosse allontanato. Quando fu sicuro di essere solo, prese in mano il bicchiere e lo sollevò in alto e lo guardò in controluce. Il bicchiere era perfettamente pulito e trasparente. Deluso, lo avvicinò alle naricie annusò, ma non sentì nessun odore.
Quella notte, la luna sorse piena e Angelo seguì l’uomo attraverso i cunicoli. Arrivarono in superficie.
«Resta qui.» gli disse Al Zubanah.
Il vecchio sparì tra i cespugli, dopo pochi minuti comparve Cane, che si sedette accanto ad Angelo e aspettò con lui. Il ragazzo lo fissò e il cane abbaiò due volte.
Era trascorsa poco più di un’ora quando il vecchio tornò. Trascinava un cadavere.
«Dammi una mano.» gli disse, prima che Angelo potesse fare domande. «Prendi la parte di sopra che è la più pesante e io sono vecchio e deboluccio ormai.»
Angelo fece passare le mani sotto le ascelle del corpo e seguì le istruzioni che gli dava il vecchio sui cunicoli da prendere. Giunsero in un’altra sala, a metà strada tra la scia di anime e la sala dall'odore di uova marce. Era una stanza piccola e ben illuminata. Al centro si trovava un altare in pietra e vi adagiarono sopra il corpo.
Il vecchio prese poi un grosso coltello e aprì il ventre del cadavere. Infilò una mano ed estrasse l’intestino. Angelo fece una smorfia di disgusto e trattenne un conato. Sentì le guance gonfiarsi, ma riuscì a trattenersi.
Al Zubanah svuotò completamente l’addome, rimuovendo con cura organi e stomaco e riponendoli in un contenitore di pietra.
«Curioso.» disse, spostando lo sguardo dalla cavità ad Angelo.
«Schifoso, piuttosto.» lo corresse.
«Citrullo! Guarda qui!» gli indicò un punto della spina dorsale. «Vedi questa vertebra? Vedi come spunta dal sangue rappreso?»
«Quindi?»
«Quello sei tu!»
«Sarei una vertebra?»
«No, sei un imbecille! Cosa sai di necromanzia, figliolo?»
Angelo ci pensò su. «Niente.» ammise, sollevando le spalle.
«Da non crederci! Che accidenti hai fatto al Grande Tempio?»
«Combattuto.»
«Non impareranno mai. Ti sei chiesto il motivo per cui quel cane ti segua?»
«Mi è affezionato. Era mio.»
«È tuo ancora adesso. E sai che funzione ha il cane?»
«Abbaiare?»
Al Zubanah volse gli occhi al cielo e  mormorò qualcosa. Abbassò il volto e scosse la testa. «Il cane ha la funzione di psicopompo, è un traghettatore di anime.»
«Aspetta un attimo! Mi stai dicendo che sono morto?»
«Oh Atena, mia dea, perchè hai scelto proprio lui? Perchè? Sono sicuro ci fossero tanti bravi ragazzi lì fuori, il mondo è grande, ma hai posato il suo sguardo su questo giovane che non sa neanche dove poggia i piedi. Perché mia dea?»
«Vecchio rincoglionito, vedi di spiegarti.» ruggì. Iniziava a perdere le staffe.
Il vecchio gli si portò accanto, lo prese sottobraccio e lo portò davanti alla roccia. Descrisse un semicerchio con il braccio davanti a lui, e piano piano accorsero centinaia di fuochi fatui. Presero il loro posto sulla roccia e mostrarono la lava ribollire.
«Lava?» domandò Angelo, cercando di sfilare la mano ossuta del vecchio da sotto il braccio.
«L’Etna. Noi siamo al suo interno, ma troppo in alto per poter vedere davvero tutto questo.»
«E allora? Cosa c’entra con la necromanzia, con il cane, e con la vertebra?»
«Sei troppo frettoloso, se non mi fai parlare non saprai mai la storia. La vuoi ascoltare, sì o no?»
«E ascoltiamola, ma vediamo di non perderci parlando di niente.»
«Io non parlo a vanvera. Stai forse dicendo che parlo a vanvera?»
«No, dico solo che ti mancano diversi giorni della settimana e forse qualche rotella.»
«La vuoi ascoltare, la storia? Vuoi addestrarti e tornare in Grecia vincitore o preferisci tornarci ora e farti ridere dietro anche dai sassi? Cosa vuoi?»
«Forza. Nient’altro che pura forza. Una potere tale da schiacciare gli dei.»
«Ora ragioniamo, per cui taci una buona volta o ti ci butto in quella lava!»
Angelo deglutì e decise che in fondo la mano del vecchio non gli dava fastidio, Al Zubanah fissava la lava.
«Allora? Come continua questa storia?»
«Dov’ero arrivato?»
«Non ci credo! Vecchio, mi stai mettendo a dura prova.»
«Prova! Certo! Sotto questa lava, figliolo, giace il Tartaro. Dove riposano i Titani, uno dei tanti luoghi dove i morti si accalcano per entrare nell’Ade e prendere il posto designato.»
«E la vertebra?»
«Ma perchè ti interessa tanto quello stupido osso?»
«Mi hai dato della vertebra e vorrei sapere perchè.»
«Quella che ho eseguito poco fa è un’antichissima tecnica di divinazione. Io pongo una domanda a un cadavere, e osservando come le vertebre spuntano dal sangue semi rappreso sono in grado di dirti il tuo passato.»
«Chiedi a me se ti interessa il mio passato. Cosa vuoi sapere?»
«So già tutto quello che mi interessava sapere, ragazzo. E tu potresti non essere un testimone attendibile, ricorda. »
Angelo si liberò finalmente della mano del vecchio e fece un passo indietro. « Non attendibile? So cosa mi è successo.»
«Sbagli. Gran parte dei tuoi ricordi è modificata e influenzata dalle sensazioni, dalla nostalgia e dal dolore. Dalla vita stessa. Ricorderai un momento triste molto più triste di quello che è stato, sempre che non sia stato tanto triste da essere stato cancellato per permetterti di andare avanti. I cadaveri non mentono, ragazzo. Non mentono mai.»
«E cosa hai chiesto del mio passato?»
«Se hai usato poteri particolari.»
«Sì, li ho usati.»
«Lo so bene.»
«Allora potevi chiedermelo senza dover uccidere quel poveraccio.»
«Non ho ucciso nessuno, io. È stato sepolto stamattina, e ora tu andrai a rimettere il corpo nella sua tomba.»
Angelo si rifiutò. Al Zubanah gli spiegò che si trattava di una prova. Avrebbe osservato i suoi spostamenti da lontano, saggiando così la sua agilità e la sua capacità di muoversi in silenzio.
Avvolsero assieme il cadavere in un lenzuolo, Angelo se lo caricò sulle spalle e uscì.
Due fiammelle celesti vorticarono attorno all’uomo, fino a posarsi sull’altare.
«È lui, vero?»  domandò.
Le fiammelle esplosero in un bagliore bianco, prendendo le sembianze che avevano avuto in vita.
Annuirono.
«Mi prenderò cura io di lui.» disse loro. «Potete andare, ora.»
La donna scosse la testa.
«Vi ha dimenticato. È solo ormai, è solo da tanto tempo. Lasciate che segua la sua strada, ora.»
L’anima si portò le mani al volto, l’uomo le passò un braccio attorno alle spalle e la strinse a sé.
«So bene che è difficile, ma la vostra presenza non lo aiuterà a essere un uomo migliore di quello che è destinato a essere.»  
L’uomo tese la mano al negromante e scosse la moglie affinché facesse lo stesso. Lei piangeva. Allungò comunque la mano, ma fu Al Zubanah a non accettare.
«Vi lascerò questa notte perché possiate dirgli addio. Vi rivedrete un giorno. Ci rivedremo tutti, prima o poi.»
Le due anime si trasformarono nuovamente in fiammelle azzurre e si inseguirono oltre la porta. Angelo era tornato.

«Ora non sei stupido come un anno fa,» lo prese in giro il vecchio. «Quindi ci sono ottime probabilità che tu sia in grado di attraversare quella porta. Il tuo cosmo è più potente, così come lo sono i tuoi muscoli. Il settimo senso è dietro l’angolo, ragazzo!»
Angelo sorrise, compiaciuto del riconoscimento, e seguì in laboratorio il vecchio, che gli preparò la brodaglia al sapore di pollo e spezie.
«Che accidenti è questa sbobba?»
«Un aiuto» sogghignò. «Diciamo sciamanico!» gli porse la ciotola.
«E che ci devo fare?»
«Berlo, al resto penserà lui.»
Angelo bevve in due sorsi il liquido, poi fu condotto nuovamente alla porta.  «Ci vediamo tra due minuti.» disse, mentre Al Zubanah la chiudeva.
Immerso nella semioscurità, diede un leggero colpo con le nocche al legno. Non sentì niente dietro di lui e immaginò che il negromante fosse andato via.
«Cane?» chiamò, e la bestia si materializzò davanti a lui. «Tu sei uno psicopompo, no?»
Il cane abbaiò due volte.
«E allora psicopompami fuori da qui.»
Il flebile chiarore che emanava il cane, rischiarava le pareti di roccia. Lo seguì come il cane aveva fatto con lui in vita, e oltre. Giunsero al bivio. Un anno prima era rimasto attaccato alla parete, prendendo il sentiero di destra; il cane svoltò a sinistra. La galleria era lunga,  negli ultimi cento metri, la pendenza era così marcata da costringere il ragazzo a scendere di lato, come un granchio. La roccia era scivolosa, avvertì qualcosa di più viscido della roccia bagnata sotto il piede e perse l’equilibrio, scivolando in avanti a battendo il fianco esterno della coscia sinistra.
«Ma dai!!» gridò. «Sono caduto come una bambina!»
Si sollevò poggiandosi alla parete rocciosa. Il cane si sedette. Davanti a lui l’intersezione di molti cunicoli.
«Beh? Dove si va, adesso?» gli domandò.
Cane abbaiò, Angelo sollevò una mano per accarezzarlo. La sua mano sfioro il pelo e un tenue fumo azzurro-grigio si sollevò dal punto di contatto. Cane svanì in una nuvola. La sua essenza si divise ed entrò in ogni cunicolo.
«Che accidenti succede?» spaventato, Angelo, si guardò freneticamente intorno. Il suo sguardo saettò da un’apertura all’altra, ma non seppe scegliere in quale entrare.
Si sedette nel punto in cui si era accucciato l’animale e squadrò con maggior attenzione e tranquillità le possibilità che aveva.
Ripensò alla discesa. “Sotto questa lava c’è il Tartaro”.
Si accorse che il pavimento era tiepido. Controllò, poggiando i palmi, la temperatura della strada davanti a ogni galleria. Scelse di proseguire lungo la più calda di tutte.
Scese ancora in profondità, finché non sbucò in una grotta. Era davanti a un lago di magma che ribolliva. La pelle scottava, il sudore gli colava lungo la fronte, il collo e la schiena. Le braccia erano avvolte da una patina di bagnato.
«E adesso?» si chiese. «Io devo uscire, non devo arrivare al centro della Terra!»
Sputò nella lava, osservò la saliva nebulizzarsi e svanire prima del contatto.
Si trovava su uno spuntone di roccia, sembrava non esserci nessun passaggio, niente che lo potesse condurre oltre il lago. “Il settimo senso è dietro l’angolo”.
Fino a quel momento, era stato in grado di raggiungere il settimo senso solo due volte, entrambe per caso. Non sapeva bene come raggiungerlo un’altra volta, soprattutto con coscienza di farlo. L’addestramento verteva su quello. «Maledetto vecchiaccio, non mi ha insegnato niente di utile!» sbottò. Ripercorse i suoi passi, cercando il punto in cui si dipanavano le grotte. Camminò a lungo, macinando molta più strada di quanta ne avesse percorsa all’andata, ma del punto di partenza non c’era traccia.
Fece nuovamente la strada a ritroso, tornando davanti al letto di magma.
«D’accordo,» mormorò. «Indietro non si torna.»
Dal soffitto, pendevano numerose stalattiti. Una di esse, quasi al centro del lago, sembrava penetrare dentro la lava.
«Quella non c’era prima.» osservò Angelo, chiedendosi se quel nuovo elemento non fosse la risposta che cercava. Comprese di  trovarsi in un luogo vivo, in grado di cambiare aspetto.
Arse il cosmo e il caldo si fece meno opprimente. Spiccò un balzo e si aggrappò alla stalattite più vicina, poi saltò su un’altra, fino ad arrivare al centro.
Avrebbe dovuto saltare più lontano, ora. Dall’entrata la distanza tra quelle due stalattiti gli era sembrata inferiore. Si sporse, sempre abbracciato alla roccia, riuscì a puntellare un piede e si diede lo slancio necessario. Afferrò la stalattite centrale, che svanì sotto il suo tocco, facendolo precipitare nella lava.
Arse il cosmo più che poté e chiuse gli occhi, rannicchiandosi in posizione fetale durante la caduta, incrociando le braccia attorno alla testa.
Aspettava il contatto con il magma, presentiva il dolore che gli avrebbe causato. Immaginava la sua pelle accartocciarsi e bruciare, lasciando esposti i muscoli, poi le ossa. Avrebbe smesso di esistere lì, in una bolla di lava nel cuore dell’Etna. Avrebbe preferito qualcosa di diverso, magari morire al Santuario.
Sentiva il corpo avvolto da uno strano tepore, completamente diverso da quello del magma. Vinto dalla curiosità di vedere cosa gli stava accadendo, spostò le braccia e aprì un occhio. Era completamente immerso nella lava. Un arancione brillante abbracciava completamente il suo campo visivo.
Sono già morto? Si guardò i palmi delle mani, poi i dorsi. Sorrise e aprì anche l’altro occhio. No, non vedo attraverso. Fece una capriola e con un rapido guizzo cambiò direzione, cercando l'uscita dal lago. Un momento, devo respirare! Combattè contro l’impulso di inspirare. Non posso respirare lava! Si tappò il naso con due dita e strizzò gli occhi. Se non voleva morire davvero, avrebbe dovuto lasciar fare al suo corpo, ma non era intenzionato a farlo.  
Qualcosa lo stava proteggendo, gli fu ovvio in quel momento. Ma cosa?
Nuotò per risalire, una volta fuori avrebbe potuto respirare. Per quanto nuotasse, per quanto le sue bracciate fossero poderose, non raggiunse la superficie, che sembrava allontanarsi.
Non riuscì più a trattenere il riflesso di dilatare i polmoni e vinto dall’istinto, aprì la bocca e respirò.
Non accadde niente, poteva respirare. Decise di essere rimasto a mollo nella lava fin troppo a lungo. Era arrivato il momento di uscire, trovare il vecchio e fargli passare la stessa esperienza. Si concentrò. Il cosmo, forse, lo avrebbe aiutato a trovare la strada giusta.
L’arancione lasciò il posto al nero. Miriadi di stelle puntellavano l’oscurità e lui si sentiva risucchiato verso un punto preciso. L’universo scorreva attorno a lui come un fiume in piena. Stelle, pianeti, nebulose gli sfrecciavano accanto. Sono io a muovermi!
Giunse dinnanzi a un’ammasso stellare, gigantesco. Attorno a lui, presero a vorticare un’infinità di fuochi fatui. Gli girarono attorno e si diressero verso quelle stelle disposte come se fossero una porta.
«Sekishiki...» sussurrò.  
Le anime si bloccarono. Il tempo sembrò fermarsi.
«Mekai Ha!» urlò a pieni polmoni.
Un vortice si formò nel punto in cui le stelle erano più vicine e s’ingigantì. Angelo vi saltò dentro, seguito dalle anime.
Aveva piegato lo spazio e il tempo, creando un passaggio verso l’Aldilà. Un terreno brullo e grigio si distese sotto di lui. Una rupe scoscesa a un fianco, una profonda voragine dall’altra. Riconobbe il luogo in cui era già stato. Vi aveva condotto i genitori una volta.
Riconobbe una bambina. Lo aveva tormentato in sogno, mentre si dirigeva verso la dimora del negromante molto tempo prima. Poco distante c’era il vecchio, assieme a lui l’uomo precipitato nel dirupo. Si avvicinò al trio e li invitò a seguirlo fino alla voragine.
«Potete andare.» disse loro, ma bambina - spaventata -  iniziò a piangere.
Angelo si avvicinò e la prese in braccio. La consegnò al giovane, che si tuffò nel baratro stringendola a sé. Il vecchio li seguì subito dopo.
Diede il nome alla voragine nel momento in cui il corpo del vecchio scomparve alla sua vista. «Yomotsu Hirasaka.»
Ripensò al laboratorio del negromante, chiuse gli occhi. Li aprì e si trovò sospeso a mezz’aria sul tavolo da lavoro. Precipitò sugli alambicchi.
«Dannazione! Perchè questa roba è qui?» urlò.
«Io vorrei sapere perchè tu sei qui invece!» gli rispose Al Zubanah, mettendosi le mani tra i pochi capelli rimastigli in testa.
Angelo si guardò intorno, comprese quello che aveva fatto e un ghigno vittorioso gli si disegnò sul volto. «Ho superato la prova!»
Il negromante si avvicinò al calendario e cerchiò il giorno. I giorni precedenti erano segnati con una croce. «Grande invenzione i calendari, non trovi?» gli disse.
Angelo spostò lo sguardo a destra e a sinistra. Poi di nuovo a destra e poi sul negromante. «Ehm, sì. Aiutano a contare i giorni» rispose. Si sedette sul tavolo. «Mi spiace per questo.» Sollevò la spirale dell’alambicco.
«Nove giorni.»
«Eh?»
«C’hai messo nove giorni a uscire dalla porta.»
«Ma se saranno passate al massimo, ma esagerando eh, due ore!»
«Ti sembra. In realtà, sono trascorsi nove giorni. Vedo che sei solo.»
«Siamo solo io e te, qui. Con chi avrei dovuto essere?»
«Avevi un cane.»
«È svanito quando l’ho toccato.»
«Oh. Bene.»
«Ora che si fa? Il settimo senso l’ho raggiunto e mantenuto per nove giorni, direi di essere stato straordinario, senza falsa modestia.»
Al Zubanah raccolse il bacile di rame sul quale aveva da poco incastonato l’apparato di vetro dell’alambicco ormai in frantumi. Lo soppesò in mano, lo lanciò in aria, lo afferrò e lo scagliò sulla faccia del discepolo. «Zuccone! Il settimo senso lo hai raggiunto per un’ora e ventisei minuti, cosa credi di avere fatto? Stupido! Il fatto che in quella grotta il tempo scorra più velocemente rispetto al mondo reale, significa che il tuo progresso è stato ridicolo. Ora devi imparare a viaggiare da qui, dal nostro mondo.»
L’allegria di Angelo svanì. «Quindi è come se avessi fatto niente?»
«Esattamente. Il tuo mondo di appartenenza è questo. Puoi andare dall’altra parte quando ti pare, ma devi imparare a farlo.»
«E come?»
«E che ne so io.»
«Ma sei il mio maestro! Se non lo sai tu chi deve saperlo?»
Il vecchio, raccolse il fornello.
«E non provare a lanciarmelo!» intimò Angelo.
«Sei lento di riflessi, pischello. Vedi di rimediare. Da domani ti sottoporrò a un allenamento molto più duro. Hai grande potenzialità, ma sei pigro e ti accontenti del minimo. Devi aspirare molto più in alto.»
«Aspiro a essere un cavaliere d’oro.»
«Non basta! Devi aspirare a qualcosa di più grande.»
«Un dio?»
«Perchè no? Gli dei possono tutto. O quasi. Un cavaliere d’oro può tanto, ma niente di paragonabile a un dio.»
«Ho sentito di cavalieri d’oro che hanno sconfitto gli dei! La conosci la storia di Manigoldo?»
«Conosco? Ho fatto molto di più! Io ho vissuto la storia di Manigoldo prima che Manigoldo facesse quello che ha fatto! Sono stato suo discepolo.» concluse.
L’espressione di Angelo mutò. Non aveva più dubbi, quell’uomo era completamente pazzo. «Tu vuoi farmi credere di aver conosciuto Manigoldo? Di avere duecento anni?»
«Duecentocinquantanove. Per essere precisi.»
«Ne dimostri mille!»
«Conosci un altro bicentenario, cosa ti sorprende?»
«E chi?»
«Il Gran Sacerdote, uno dei due sopravvissuti alla Guerra Sacra del diciottesimo secolo.»
Angelo si sentì uno stupido.
«Andiamo ad allenarci.» disse. «Ma prima sistema questo macello.»
Sparì oltre la porta. Angelo si sentì piccolo e debole. Il progresso che aveva fatto gli sembrò una minima cosa.

Due anni dopo, Angelo aveva adottato un soprannome.
«Lo hanno detto le stelle.» sostenne quando Al Zubanah gli domandò come mai un soprannome così curioso.
«Ah, se lo hanno detto le stelle... scommetto che si tratta di una previsione!
» ridacchiò fino a farsi venire un brutto attacco di tosse. «Piuttosto, sei pronto a partire?»
Il ragazzo annuì.
«Verrò per il torneo.» concluse il vecchio.
«Davvero hai conosciuto Manigoldo?»
«Sì, sono stato suo discepolo per ben due giorni.» asserì con orgoglio. «Poi è morto. Cerca di non fare la sua fine il giorno del torneo o inizierò a pensare di portare sfortuna. Salutami i tuoi.» Voltò le spalle al ragazzo e questi si teletrasportò fuori dal dedalo di gallerie e si volse indietro per osservare l’entrata di quella che era stata la sua casa per tre anni. Due fiammelle gli vorticarono attorno.
Ormai avvezzo alla loro vista sorrise. Avrebbe dato loro la pace eterna, ma prima che potesse sfiorarle queste presero le sembianze di due persone che un tempo aveva conosciuto bene. La madre e il padre gli sorrisero e lo abbracciarono, facendo in modo che fosse il loro bambino a condurli finalmente nel luogo al quale appartenevano. Una lacrima scese lungo il viso di Death Mask.
Levò lo sguardo verso l’entrata della stramba dimora di Al Zubanah, ma era svanita.
«Vecchio, pazzo e rincoglionito.» sentenziò. Bruciò il cosmo e apparve dietro una colonna divelta, davanti all'ingresso del Santuario, in mezzo a un'orda di turisti vogliosi di souvenir e fotografie.


___________

È giunto il momento degli addestramenti! Da ora in poi, fino al ritorno in Grecia, ci sarà un capitolo per ogni gold saint.
Volevo iniziare con Mu e andare in ordine zodiacale, ma poi i fan dei custodi degli ultimi templi avrebbero avuto da ridire, così ho deciso che sceglierò a caso e caso vuole che il mio preferito sia Death Mask, che di conseguenza è stato il primo sfigato. Se siete interessati a leggere un capitolo prima di un altro, potete comunicarmelo mandandomi un messaggio o scrivendolo in recensione se avete intenzione di recensire.
Grazie di cuore a chiunque legge, recensisce, inserisce qui-lì-là.





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Capitolo 21
*** 8 - Cuspide ***


21 - 8 - Cuspide Milo sedeva su uno scoglio. Al tramonto, andava spesso a guardare il mare e i contorni di Antimilos. Sapeva che oltre quell’isola -  al di là del mare - c’era Atene, il luogo dove era nato e dove avrebbe presto fatto ritorno.
Alla sua destra, il sole svaniva oltre le altre isole.
«Stasera non si mangia?» il maestro gli sbucò alle spalle.
Milo perse l'equilibrio e rovinò per terra. Il cuore batteva all'impazzata, dandogli l'impressione di dover saltare fuori dalla gola. «Mi avete spaventato!» disse.
L’uomo rise. «Suvvia, che razza di cavaliere saresti? Non ti accorgi che ti arriva qualcuno alle spalle. E se fossi stato un nemico?»
«Vi avrei ucciso.» rispose, corrugando la fronte in un cipiglio con delle potenzialità, nel tentativo di mostrare un sangue freddo e una risolutezza che ancora non aveva. Avrebbe potuto spaventare qualcuno un giorno. Si tirò nuovamente a sedere sullo scoglio.
«Da morto?» domandò il maestro con ironia.
Milo abbassò il volto fino a fissare il sasso che aveva tra i piedi, prolungamento di quello su cui era seduto.
Il maestro lo affiancò e si sedette accanto a lui, spingendolo giù con la coscia. Quando Milo toccò terra, l'uomo si lasciò andare a una risata. «Ma che ti sto allenando a fare?»
Milo berciò una risposta, tirò su le ginocchia e vi poggiò sopra le braccia, unendo le mani, arrabbiato. E pensare che era caduto per far felice il maestro. Avrebbe potuto benissimo allungare una gamba e rizzarsi in piedi. Però c'era qualcosa di tenero in quelle ridicole scenette col maestro, qualcosa che gli ricordava il Santuario e tutto quello che di buono era connesso a esso.
Le punizioni, i rimproveri, gli obblighi: tutto era svanito nei ricordi; e non era interessato a recuperarli.
Milo non sapeva, che come lui, tutti erano partiti dopo aver sancito una promessa, solo che Milo era l'unico ad aver avuto dei dubbi sulle sue capacità di tenervi fede. Quando riusciva a essere davvero sincero con se stesso, si rendeva conto di quante cose non sapesse ancora fare.
Al Santuario si era drogato con le storie sui vecchi cavalieri d'oro, quegli eroi che a distanza di centinaia d'anni venivano ricordati come veri e propri salvatori. Aveva scoperto di essere stato uno dei pochi  potersi soffermare in uno dei Dodici Palazzi, e in cuor suo aveva riconosciuto uno strano sentimento di appartenenza. Si era reso conto di essere in grado di ritrovare la costellazione dello Scorpione ovunque essa fosse in cielo, in ogni momento, come se un sottile filo di energia li collegasse.
Eppure, nonostante quei piccoli privilegi che reputava unici e intoccabili, qualcosa gli rodeva lo stomaco e gli impediva di focalizzare quale fosse l'obiettivo ultimo del suo addestramento.
Coscientemente, sapeva che al termine del viaggio - se si fosse mostrato degno - avrebbe indossato un'armatura d'oro, ma qualcosa gli bloccava la strada.
«Milo, cosa rimpiangi?» domandò il maestro, poggiandogli una mano sulla spalla e scuotendolo leggermente.
«Niente.»
«Non sembra. Ogni sera, vieni qui. Ti siedi e fissi il mare. Guardi verso Atene.»
«È solo un posto.»
«Uno come tanti?»
«Già.»
L’uomo gli scompigliò i capelli. «Ci tornerai presto, devi solo impegnarti. Quando mi dimostrerai di essere in grado di possedere appieno il settimo senso e di saperlo gestire, tornerai al Santuario, e dimostrerai a tutti di essere il migliore, l’unico degno dell’armatura dello Scorpione.»
Parlava facile il maestro! Il settimo senso lo rincorreva da tempo, però ogni volta che aveva l'impressione di averlo raggiunto, di essere a un piccolo passo dalla meta, il bersaglio veniva nascosto da una densa nebbia scura. Poteva prendere la mira e tirare a caso, ma non avrebbe mai fatto centro.
Il maestro, nel vedere l'ostinata apatia del discepolo, sospirò e gli strinse i capelli, poi li tirò verso l'alto. «Allora,» avvicinò la faccia a quella di Milo. «Andiamo a procurarci al cena o rimaniamo qui a far niente?»
«Andiamo, andiamo!» gridò Milo, mentre l'adulto lo trascinava lontano dallo scoglio, stretto per i capelli.
Dopo qualche lamentela, il ragazzino ottenne di potersi spostare con le proprie gambe; scesero dalla rupe dove torreggiava lo scoglio e si addentrarono nel cuore dell'isola, tra i tronchi degli alberi.
Tra i rami, s’intravedeva il disco lunare sorgere. Uscirono su una radura e trovarono una gigantesca luna color miele a rischiarare la notte.
Milo rise e corse verso un'altra rupe, poco lontana. «Maestro!» gridò per attirare l'attenzione del maestro, che in riposta gli tirò un sasso sulla testa.
«Vuoi far scappare ogni animale nel raggio di un miglio!?» lo rimproverò, urlando e smorzando la voce allo stesso tempo.
Milo si massaggiò il bernoccolo. «Non c'era bisogno di tirarmi un sasso!»
«La vedo, Milo, non sono cieco. Non inciamperemo, ma sbrighiamoci a cacciare.» disse il maestro, come se stesse rispondendo alla chiamata per vedere la luna, lasciando Milo confuso, che rispose:
«Ho fame anche io.» 
«E non potevi cacciare invece di piagnucolare su quel sasso?!»
«Non stavo piagnucolando!»
«Ti allenavi? Meditavi? Non mi è parso. Non perdere tempo, prima sarai in grado di padroneggiare il settimo senso e prima tornerai al Santuario.»
Milo non rispose e lo precedette nel bosco.
Avanzò silenziosamente, tra gli alberi. Fu attento a non calpestare rametti. Trovò un rifugio sicuro tra un tronco marcescente e un cespuglio, e vi si intrufolò. Si fece circondare dai rumori della foresta.
Chiuse gli occhi e attese.
Un gufo bubolò pochi metri sopra di lui, e poco dopo udì la risposta dell’assiolo. Il gorgoglìo di un corso d’acqua vicino attutiva i rumori più flebili, finché Milo non riconobbe il rumore di passi. Sarà il maestro? Si concentrò fino a visualizzare il cosmo del maestro, a qualche centinaio di metri da lui. Foglie secche calpestate. Quattro zampe.
Trattenne il respiro. I passi si fecero più vicini e non li udì più. Dilatò i polmoni. Immagazzinò aria a sufficienza per una nuova apnea. Sollevò lentamente il braccio destro, portandolo all’altezza degli occhi. L’unghia dell’indice si allungò e mutò colore, diventando rosso pallido. È vicino. Sentì di nuovo il rumore dello spostamento, poi un grugnito. Dietro di me!
Si alzò in piedi, si girò e puntò il dito, verso l’animale. Un sottile raggio rosso illuminò i tronchi degli alberi, ne trapassò due e subito dopo udì il corpo cadere.
Con un salto, si lasciò indietro il tronco che gli aveva offerto riparo e andò a controllare la sua preda. Un cinghiale, proprio come pensava.
Strappò  un ramo di edera che cresceva a spirale attorno a un grosso leccio, e legò assieme le zampe posteriori dell'animale.
Non era molto grande, riuscì a caricarselo su una spalla tirandolo grazie al laccio d'edera.
Tornò alla radura e lì trovò il maestro coricato sull’erba, con le braccia piegate sotto la testa, intento a rimirare il cielo, cercando le stelle che la luce della luna copriva.
«Andiamo a cacciare! Andiamo! E poi faccio tutto io.» borbottò con sarcasmo.
Il maestro si girò e gli sorrise. «Ho trovato una famigliola di cinghiali; non aveva senso ucciderne due, quando uno ci è più che sufficiente per qualche giorno.»
Milo arricciò le labbra e scaricò la preda ai piedi del maestro, che si chinò sulla carcassa e prese tra le mani il muso della bestia. Un rivolo di sangue colava da un forellino tra gli occhi.
«Gli hai trapassato il cervello.» disse. «Vedi che quando vuoi sei in grado di fare qualunque cosa?»
«Io sono sempre in grado di fare qualunque cosa.»
«Tranne padroneggiare il settimo senso.»
Milo si morse la lingua per non rispondere a quella che per lui era una provocazione.
«Torniamo a casa.» disse il maestro. Si caricò il cinghiale su una spalla e precedette il discepolo, che lo seguì come un’ombra.

Macellarono la bestia e cenarono. Attorno al fuoco, mentre Milo finiva di rosicchiare una costola, Kaitos, cospargeva di sale la carne avanzata.
«Domani ti sottoporrò a una prova.» gli disse.
«Va bene.» rispose Milo e osservò l’osso. Non vi era che un brandello di carne ancora attaccato su un lato. Con un solo morso lo strappò e gettò il resto nel fuoco.
«Non mi chiedi il motivo?» il maestro sollevò il volto.
«Volete vedere a che punto è la mia preparazione.»
«Esattamente. Conto di rispedirti ad Atene il prima possibile, non sono fatto per prendermi cura di qualcuno.»
Si alzò e ripose il secchio con il sale in un angolo della casupola, poi tornò a sedersi al centro della stanza, dove scoppiettava il fuoco. Prese il resto della carne e la appese a due ganci che pendevano dal soffitto della capanna.
Milo lo seguì con lo sguardo. «Posso farvi una domanda?»
Kaitos si avvicinò a una cassapanca e tirò fuori un sacchetto di canapa e un piccolo rettangolo di carta. Tornò sedersi accanto al fuoco.
«Dimmi.»
«Siete un cavaliere?»
Incrociò le gambe e poggiò il sacchetto sulle caviglie, lo aprì. «Sì.» estrasse una cartina dal rettangolo e la poggiò su una coscia. «Vuoi sapere a quale costellazione appartengo?» sollevò lo sguardo per guardare il discepolo.
Milo annuì, Kaitos estrasse una manciata di tabacco e lo posizionò sulla cartina. Richiuse il sacchetto.
«Cosa ti suggerisce il mio nome?»
«Balena.»  rispose Milo.
Kaitos sorrise e arrotolò la cartina, finché la sigaretta non fu pronta. La portò alla bocca, allungò una mano verso il fuoco e afferrò un tizzone con i polpastrelli. Accese la sigaretta e lo ributtò tra le fiamme.
Milo sgranò gli occhi. «Come avete fatto?»
«Sei proprio il peggior discepolo che potessi avere!» rise. Fece una tirata e sputò una nuvola di fumo, che si unì a quello del fuoco. Porse la sigaretta a Milo. «Vuoi?»
«No. Fa una puzza orribile.» disse storcendo il naso.
«Sì, hai ragione.» e fece un altro tiro. «Milo, tu hai un cosmo ampiamente più potente del mio, ma non comprendo cosa ti blocchi. Afferrare un tizzone ardente, non è un’impresa sconvolgente, neanche per un cavaliere d’argento. Forse potrebbe esserlo per uno di bronzo, di sicuro lo è per un comune essere umano. Tu non dovresti avere problemi. Prova.»
Milo allungò una mano verso il fuoco. A pochi centimetri da esso, tirò la mano indietro. La agitò un paio di volte e riprovò.
«Non ci riesco.» ammise.
«Sciocchezze! Hai paura di scottarti. Finché non ti entrerà in quella testaccia che tu non sei una persona normale, non riuscirai mai a prenderlo.»
Milo lo guardò come se avesse appena detto una bestemmia. «Persona normale?»
Kaitos fece un tiro. «Sì, tu pensi di essere una persona normale.»
«Io sono un prescelto a diventare un cavaliere d'oro.» disse con orgoglio, sentendosi quasi offeso dall'illazione del maestro. Eppure sapeva che il maestro aveva ragione.
«Io non so cosa ti blocchi, Milo. E a questo punto non ho neanche idea di cosa tu sappia. Se sai di essere un prescelto, se sei cosciente di avere la mano di Atena sulla testa e di essere stato benedetto dalla sua luce, quale cazzo di motivo ti convince di essere tutto meno quello che sei.»
Milo abbassò lo sguardo.
«Guardami in faccia! Ora, tu metterai la mano nel fuoco e prenderai in mano un tizzone. Se sarà necessario dimostrarmi che non sto perdendo tempo, lo inghiottirai intero. E se - per caso - dovessi credere seriamente che sei inutile, ti rispedirò ad Atene domani stesso!»
Volse il palmo della mano verso il fuoco, con velocità, in un gesto che voleva essere sia un invito che un ordine.
Milo soppesò le parole del maestro e allungò di nuovo una mano
«Concentra il cosmo sulla punta delle dita, poi su tutta la mano. Come quando usi la cuspide, o ci provi.» sussurrò.
Milo obbedì e chiuse gli occhi. Il braccio iniziò a brillare. Un cosmo rossastro avvolgeva il braccio, con piccole scintille dorate.
«Concentrati ancora. Di più!»
Strinse gli occhi, corrugò la fronte. La punta delle dita divenne dorata, poi la mano e il braccio. Continuò a concentrarsi finché tutto il suo corpo non emise luce dorata. Allungò ancora una volta la mano finché le fiamme non gli lambirono la pelle e le fasce attorno al polso. Non avvertì il calore del fuoco.
Raccolse un tizzone e lo fece ricadere, soddisfatto aprì poi la mano e la riempì di braci. Le strinse tra le dita e le fece ricadere, le riprese e ci giocherellò ancora.
«Era tanto difficile?» Kaitos diede un ultimo tiro alla sigaretta e la buttò in mezzo alle fiamme.
Milo svuotò la mano. Piano piano, il bagliore svanì.
«Cosa ti blocca, ragazzo?» il tono di Kaitos era più tranquillo. Milo gli aveva appena dimostrato di avere davvero del potenziale e di essere davvero un prescelto.
«Non lo so.»
«Io credo che sia paura. Fai troppo affidamento sulle emozioni, sulle sensazioni e sui tuoi timori. Non devi. Mai. In battaglia, saper tenere lontani i sentimenti, potrebbe voler significare riportare la pelle a casa.»
«Ma come posso fare?»
«Intanto impara a usare il cosmo. Da ora in poi, voglio che tu riesca a padroneggiarlo completamente; espanderlo e contrarlo. Come se fossi sempre in pericolo di vita.» Fissò le fiamme danzare, poi cercò lo sguardo di Milo. «Ora sarà meglio riposarci un po’.»

La mattina successiva, Kaitos uscì di buon ora. Si recò nel luogo dove Milo era solito sedersi al tramonto e distrusse lo scoglio sul quale sedeva. Al suo posto lasciò un grosso cratere.
Andò a svegliare Milo al sorgere del sole. Era intenzionato a far migliorare seriamente il discepolo; ormai era lì da diversi mesi e non aveva fatto nessun miglioramento significativo. Solo di tanto in tanto riusciva a usare la puntura dello scorpione e generalmente ci riusciva dopo essere stato sgridato.
Ogni qualvolta l'orgoglio di Milo subiva un'incrinatura, allora Milo vi poneva rimedio, compiendo imprese straordinarie. L'unica cosa che Kaitos poteva fare era di mettere il discepolo nelle condizioni giuste e fargli comprendere cosa fare.
Sicuramente, non trovare lo scoglio sul quale sedeva, lo avrebbe fatto arrabbiare. Dalla rabbia sarebbe nata la voglia di rivalsa per quell'onta  e forse sarebbe riuscito a insegnare a Milo come controllare meglio il cosmo.
Milo lo raggiunse sulla spiaggia, quando il sole comparve completamente all’orizzonte.
«Ricordi cosa ti ho detto ieri?»
«Sì, che mi avresti messo alla prova.»
Kaitos annuì. «Combattiamo.»
Milo trasalì; Kaitos gli corse incontro e gli tirò un pugno, che lo colpì sullo sterno.
Il ragazzo volò a qualche metro dal punto di impatto e atterrò di schiena. La forza del colpo fu tanta che prima di fermarsi lasciò un solco sulla sabbia.
«Rialzati!» gridò il maestro.
Milo obbedì, ma prima che fosse pronto a combattere, Kaitos si lanciò nuovamente all’attacco. Sferrò un calcio diretto alla testa, ma Milo sollevò le braccia e riuscì a parare il colpo. Venne spinto via, ma rimase in piedi nonostante il contraccolpo. Milo si diede uno slancio, sfruttando l'energia ottenuta dalla parata, e ricambiò il calcio, sfiorando il fianco del maestro.
«Sei troppo lento, Milo! Svegliati!» durante la schivata si girò e allungò una ginocchiata sul costato del ragazzo, che stramazzò a terra.
Si mise in ginocchio, perse quasi l'equilibrio. Premette la mano contro la parte lesa, pochi centimetri sotto l'ascella. La compressione gli aveva tagliato il respiro, e il dolore gli impediva di respirare bene e a sufficienza. Fece leva sulla gamba sinistra, ma questa cedette, risentendo dell'impatto. Si aiutò con una mano e fu di nuovo in piedi, malfermo.
«Colpiscimi. Dimostrami che in questi mesi hai imparato qualcosa. Combatti ancora come un moccioso. Non ti serviranno a niente le nozioni apprese al Santuario se non le applichi! E dovrai migliorarle.» Kaitos lo stuzziccò, nella speranza che la beffa lo facesse reagire. Ritto in piedi, con le braccia incrociate al petto, fronteggiava Milo. «Sei o non sei uno scorpione?» lo punzecchiò ancora.
Milo arse il cosmo. Digrignò i denti, furioso. Come la sera prima, emise un bagliore rossastro che andava ingrandendosi, fino ad abbracciare il corpo nella sua interezza. Mano a mano che il cosmo  bruciava, diventava sempre più definito come forma e come colore. All'improvviso, Milo si trovò dentro una bolla di energia pura rosso scarlatto e a forma di scorpione.
Il ragazzo si lanciò all’attacco: saltò e sferrò un pugno diretto al volto del maestro, che venne parato e trattenuto. Fermo a mezz'aria, in balia del maestro, Milo ne indirizzò un pugno alla gola di Kaitos con la mano libera, ma venne deviato con un colpo di mano verso l'esterno.
Kaitos fu costretto a cambiare guardia e mollare il polso del ragazzino, che grazie a entrambe le mani libere poté iniziare un lungo uno-due contro il maestro, mirando alla testa, alla gola e allo sterno.
Lo scopo era fare male, molto male, e poi imparare da quei dolori durante la guarigione, per soffrire di meno in futuro.
Kaitos  parava i colpi uno dietro l’altro, buttando uno sguardo, di tanto in tanto anche verso le gambe di Milo.
Entrambi stavano bruciando il cosmo, e Milo possedeva qualcosa di incredibile: la facoltà di muoversi alla velocità della luce, dono del raggiungimento del settimo senso.
Anche Kaitos era in grado di usare il settimo senso, per pochissimi minuti e dopo lunghissimi periodi di concentrazione paragonabili all'ascetismo, però aveva imparato a riconoscere quella strana sensazione. Milo si muoveva alla velocità della luce, e per sua fortuna si limitava. Kaitos non capiva se il limite autoimposto fosse dovuto al desiderio di non ucciderlo o fosse qualcosa di cosciente, solo una lezione da discepolo a maestro.
I pugni di Milo divennero una sequenza indistinta, il ragazzo sembrava fermo a mezz'aria. Kaitos non riuscì più a tenere lo stesso livello di concentrazione, e non si accorse del calcio che gli dislocò la mandibola, scagliandolo a terra, di schiena.
Milo rimase sul posto, piegato in avanti, in equilibrio su una gamba sola e l’altra - quella destra - sollevata all’indietro, come fosse il pungiglione di uno scorpione, sbucava dietro la testa.
Kaitos sorrise e si alzò. «Vedo che inizi a capire.»
Mentre si massaggiava il mento, si alzò in piedi, portò i pugni all’altezza della faccia e divaricò le gambe; un riverbero di luce argentata si propagò da lui, infine invitò il discepolo ad attaccare ancora con un cenno della testa. Se non sto attento, mi uccide, pensò.
Osservò Milo attaccare ancora, ma dopo un’altra serie di scambi rapidissimi non fu più in grado di vederlo, si spostava a una velocità di molto superiore alla sua e sembrava non avesse un limite di tempo. Quando Milo rallentò, accorgendosi forse di aver superato il maestro, Kaitos approfittò della distrazione, lo afferrò per un braccio e lo lanciò in aria.
«Kaitos spouting bomber!» gridò, e subito dopo un getto d’acqua si sollevò dalla sabbia, scagliando verso l'alto il corpo di Milo che, una volta raggiunta l'altezza massima, si apprestò a ridiscendere.
Milo cercò di muoversi, sbracciandosi per allontanarsi dall’occhio del mulinello d’acqua che lo aveva imprigionato, ma la corrente era forte e lui si scoprì essere incredibilmente stanco.
Kaitos non infierì oltre e si spostò, lasciando che il ragazzo rovinasse con la faccia nella sabbia.
«Hai peccato di superbia, Milo.» gli disse avvicinandosi. Lo tirò su afferrandolo per il colletto della maglia. «Però sei stato bravo.»
Milo sputò la sabbia e tossì. «Perchè non mi avete colpito?» domandò, dandosi qualche colpo sul torace.
«Perchè devo insegnarti ancora un mucchio di cose. Avrei potuto ucciderti.» Kaitos si voltò. «Rifletti su quello che è successo»  e andò via.
Il ragazzo rimase da solo, seduto sulla sabbia. Il sole era ancora basso, ma accecante se guardato direttamente.
Mesto, decise di fare un bagno: si trascinò sulla battigia e si tuffò in acqua.
Si immerse del tutto, poi si levò con cura la sabbia che gli si era incastrata tra i capelli. Solo quando fu soddisfatto si lasciò andare, lasciandosi trasportare dall'acqua. Galleggiava.
Avvertì una fitta al costato, mosse una mano per toccare il punto dolorante e affondò. Si mise in piedi e sollevò la maglia: un grosso livido si spandeva sul lato del torace.
«Dannazione.» soffiò tra i denti. Faceva davvero male.
Kaitos gli aveva ordinato di riflettere sullo scontro, ma non ne aveva voglia. Si sentiva umiliato per la sconfitta. Dove ho sbagliato?
Aveva cercato di seguire gli insegnamenti, ma aveva sbagliato in qualcosa. Pensò di non avere la stoffa del cavaliere, in fondo non era scritto da nessuna parte che proprio lui sarebbe diventato un cavaliere d’oro. L’armatura dello Scorpione avrebbe potuto volere qualcun altro.
Si sedette sulla battigia, con le gambe allungate. L’acqua massaggiava i muscoli ancora contratti per lo sforzo.
Non sono stato male, l’ho colpito.Mi sono mosso molto più velocemente di lui. Dove diavolo ho sbagliato? si chiedeva in continuazione, e a forza di pensarlo, senza rendersene conto, iniziò a parlare ad alta voce, rivolgendosi sempre a se stesso, ma guardando il mare e il sole tramontare.
Ripassò mentalmente in rassegna le immagini dello scontro. Il calcio ricevuto, la ginocchiata. Le contromosse del maestro. Il suo cosmo espandersi come mai prima di allora.
Sgranò gli occhi e fece una smorfia di delusione. Il suo cosmo non era diventato dorato, ma rosso. Attribuì a quello strano cambiamento di colore la sua sconfitta. Forse il maestro avrebbe potuto spiegargli cosa era successo, e andò a cercarlo. Lo trovò intento a inalzare un muro a secco.
«Kaitos, voi sapete perchè ho perso?»
«Ovviamente.» poggiò una grossa pietra sul terreno, e spinse di modo che penetrasse bene nel terriccio.
«È stato il mio cosmo?»
«No.»
Non si aspettava quella risposta. Era convinto di aver capito.
«Il tuo cosmo non c’entra niente. Eppure mi sembra di averti detto una cosa alla fine del combattimento.» Attese qualche secondo, per verificare che Milo avesse capito, poi continuò: «Mi hai sottovalutato, Milo. Quando hai visto che non ero in grado di starti dietro, anzichè finirmi, hai rallentato. Ti stavi muovendo alla velocità della luce, per me è impossibile vederti per più di un istante se ti muovi a quella velocità.»
«Velocità della luce?»
«Esatto. Avevi la velocità di un cavaliere d’oro, ma non hai voluto colpirmi. Non volevi farmi del male e hai pensato di combattere ad armi pari. Grosso errore.»
«Ma vi avrei ucciso!»
«E allora? Io ho quarant’anni. Ormai sono vecchio per combattere. Non riuscirei a sostenere un combattimento tanto a lungo come potresti tu o un qualunque cavaliere inferiore. Presto la mia armatura verrà assegnata a qualcun’altro.» Fece cadere un grosso sasso e ci si sedette.
«Cosa significa?»
«Alla prossima guerra, io morirò. Quindi devo decidere una cosa e devo farlo in fretta: morire per mano tua, affinché tu sia cavaliere, o morire in battaglia chissà quando, magari ancora più vecchio e inutile. Ma credo di aver già deciso.»
«Combatteremo insieme. »
«Mi piacerebbe. Ma perchè succeda, devi imparare a colpire. Uno scorpione non teme di uccidere quando colpisce. Se non uccidesse, verrebbe ucciso. Lo stesso vale per te.» si asciugò il sudore dalla fronte col dorso della mano.
«Io non voglio uccidervi.»
«L’ho capito, Milo. Per questo ho voluto darti quella lezione poco fa.»
Kaitos si sollevò in piedi, mosse una gamba avanti e accennò un altro passo, ma rimase fermo. «Ma che diavolo!?»  abbassò lo sguardo e si vide circondato da sottili anelli rossi, che emanavano una flebile luce dorata.
«Mi insegnerai ancora?» tuonò Milo. Aggrottò le sopracciglia, la sua espressione divenne rabbiosa.
«Che significa?»
«Rispondi!»
Kaitos rise. «Mi manchi anche di rispetto, ora!»
Milo si concentrò e gli anelli divennero più stretti. Aderirono al corpo di Kaitos, serrandogli il respiro. Arse il cosmo, ma quello di Milo era troppo potente da contrastare.
«Mi allenerai ancora?» ripeté Milo. Le sopracciglia aggrottate e il naso arricciato.
«Immagino che non accetteresti un no come risposta.» scherzò Kaitos, e gli anelli divennero ancora più stretti.
«Mi allenerai?»
«D’accordo, ma solo perché è il volere di Atena e non di uno moccioso viziato e arrogante!»
Milo alleggerì la morsa degli anelli, finché non scomparirono.
Kaitos gli andò vicino e sorrise. «Ci sarà da divertirsi, d’ora in poi.»

Pochi mesi ancora e Milo sarebbe stato pronto, erano trascorsi due anni e qualche mese dal suo arrivo e forse sarebbe stato tra i primi a rientrare al Santuario.
Non disse niente riguardo la roccia distrutta da Kaitos, semplicemente smise di sedercisi sopra nei primi giorni, limitandosi a mandare i suoi pensieri al di là del mare in piedi, e dopo qualche giorno aveva smesso di recarcisi.
Iniziò a usare il tempo per allenarsi e meditare, seguendo alla lettera le parole e gli insegnamenti di Kaitos, che a dispetto dei modi a volte un po' burberi, si rivelava essere sempre più gentile e paterno.
In mezzo al bosco, creò una radura, dove si sedeva dando le spalle a due ginepri e fissava un punto davanti a lui.
Dopo qualche minuto, serrava le palpebre e si concentrava sempre di più, finché non riusciva a trovare quella forza che si agitava in lui. Con il tempo, divenne automatico trovarla. Non aveva più bisogno di concentrazione. Finalmente era padrone del settimo senso. Dal giorno, Milo non ebbe più nessun problema a sprigionare l'energia che la costellazione alla quale era legato gli metteva a disposizione.
L'aveva sognata, ne era certo, anche se il sogno si era rivelato essere troppo ermetico. L'unica cosa che aveva avuto senso era il deserto; lì vivevano gli scorpioni più pericolosi, quelli più forti e temibili e lui era uno di essi. Finché il suo piede sarebbe stato capace di colpire un bersaglio davanti alla sua faccia semplicemente piegandosi leggermente in avanti, finché l'unghia fosse rimasta così com'era diventata quando lanciava Antares, rossa, lunga e lucida, avrebbe fatto quello che ci si aspettava da lui, e lo avrebbe fatto con letale precisione.
Ora, doveva solamente tornare in Grecia, affrontare il torneo e uscirne vincitore, così come aveva promesso spesso, negli ultimi tempi, al maestro.
Quando la data della partenza fu fissata, Kaitos lo raggiunse nella radura.
«Perchè non ti godi l’isola? È l’ultimo giorno che trascorri qui, potresti andare in città a fare un giro.»
«La città la vedrò domani, e sarà Atene!» trillò tirandosi in piedi.
Kaitos sorrise. «Hai capito cosa ti bloccava?»
«Sì. La nostalgia. Non capivo che mi rallentava. Tutte le mie forze le dedicavo nello struggermi in ricordo dei miei amici e del Santuario. Mi ci è voluto un po’ per capire che prima avrei raggiunto stabilmente il settimo senso e prima sarei tornato.»
«Quindi l'orgoglio non c'entrava niente?» lo prese in giro.
Milo rise. «D'accordo, forse sono un po' troppo orgoglioso. E pecco di superbia ogni tanto, prima che lo dica tu.»
I due si allontanarono in direzione della capanna che avevano condiviso fino ad allora, quando Milo si fermò di colpo.
«Che c'è?» domandò il maestro.
«Grazie per aver distrutto la roccia.»
«E di che! Non la sopportavo proprio! Copriva una spiaggia dove le turiste nuotano nude. Era solo un impiccio, lo era sempre stata.»
Fu Milo a sorridere. «Pervertito. Non capisco cosa ci trovi di tanto interessante.»
Il maestro gli poggiò una mano sulla spalla. «Vedi Milo, ci sono cose che un bambino di sei anni non considera, alle quali neanche pensa, ma tra qualche anno sbaverai dietro a ragazze come quelle che fanno il bagno nude, riverserai litri di bava su di loro, le rincorrerai e se il mio allenamento ti ha trasmesso anche la mia fortuna con le donne, ti prenderanno a calci nelle palle.»
Milo si mise a immaginarsi mentre rincorreva le ragazze, rendendosi conto che non gli interessava davvero, ma forse avrebbe dovuto aspettare, come diceva Kaitos.
«Fidati, ragazzo! Tra qualche anno vorrai essere circondato di donne, belle donne con le tette gigantesche.»
«Non mi interessano!» e riprese a camminare.
«Lo dicevo anche io. Poi ho incontrato lei.» per un secondo i pensieri di Kaitos furono succubi della Siberia, dei suoi ghiacci e di una donna che aveva fatto una scelta importante.
«Cosa?» domandò Milo.
«Nulla!»

Il rientro ad Atene fu più clamoroso di quanto Milo si aspettasse. La nutrice che lo aveva preso in affidamento durante i suoi primi giorni al Santuario, lo aspettava all'ingresso dei dormitori con un pacchetto regalo in mano, piccolo e colorato.
Non le parlò, perché sapeva che lei non voleva parole, ma solo un abbraccio, che le concesse.
Scartò il regalo e al suo interno c'era un piccolo scorpione di gomma, in qualunque modo si piegasse, questo riprendeva la forma iniziale.
A Camus piacerebbe una cosa del genere, pensò mentre si riprendeva il cuscino promessa dal letto di Camus. Aveva già in mente un fastidioso scherzo per quando anche il francese sarebbe tornato, non vedeva l'ora.
«Milo!» trillò una voce alle sue spalle. Una voce nuova, che celava però qualcosa di conosciuto. Si voltò a guardare di chi si trattasse e quasi gli venne un colpo.
Era cresciuto ed era cambiato, così come doveva esserlo lui.
«Aiolia!»





____
È il turno dello scorpioncino, per qualcuno è una sorpresa, per qualcun'altro no, ma mi auguro che la lettura sia di vostro gradimento.
Al solito vi ringrazio tantissimo e colgo l'occasione per comunicarvi che d'ora in poi i miei ringraziamenti saranno impliciti: nel momento in cui chiunque - compreso gugol - aprirà la pagina di qualunque cosa scritta da me, avrà la mia gratitudine, la mia gioia nel caso piaccia e le mie più sentite scuse nel caso che faccia vomitare il pranzo di Pasqua del 2001.
Dunque, a meno di non dover fare dichiarazioni bomba, eviterò di "sporcare", e per concludere: grazie mille a tutti.

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