Lynlee

di kway831
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Partenza ***
Capitolo 3: *** La panca di pietra ***
Capitolo 4: *** Fuoco nel bosco ***
Capitolo 5: *** Alba sulla prateria ***
Capitolo 6: *** Novembre ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Le montagne si alternavano al di là del finestrino lucido dell'Hogwarts Express, incurvandosi minacciose sul passaggio delle rotaie come enormi gatti a caccia di topi. Nessuno aveva mai notato quella somiglianza — nessuno, eccetto Emily Crown.
Era una mattina qualsiasi di un primo settembre come tanti altri e lo sguardo di Emily Crown vagava distrattamente lungo rocce ed alberi, lasciando che il paesaggio le scorresse indistinto davanti agli occhi. Una cravatta blu e bronzo le scintillava sul maglioncino, poco sopra lo stemma di Hogwarts, ma fu nascosta dal mantello non appena la ragazza appoggiò stancamente la testa ad una mano. La verità era che Emily Crown, una quattordicenne Corvonero simile ad altre decine di quattordicenni Corvonero in viaggio per Hogwarts, si stava annoiando a morte.
L'unico vero problema di quella povera ragazza era che, per prima cosa, amava le regole. Per seconda, odiava le persone.
In realtà di solito erano le persone ad odiare lei. Era anche vero però che lei si trovava miglior compagnia nei suoi libri, nel suo gufo, nel taccuino dove annotava tutte le cose eccitanti che le accadevano nella sua meravigliosa vita da sfigata quattordicenne Corvonero. Poco importava che fosse ferma alla prima pagina.
Il treno sferragliò con qualche scossone. Non passò molto tempo prima che la porticina del compartimento si aprisse con un flebile cigolìo.
Era la strega con i dolci.

«Qualcosa dal carrello, cari?» chiese in tono affabile.

Mentre Emily rifiutava con un cenno del capo e un debole sorriso, i due Tassorosso con i quali divideva il compartimento ordinarono invece ogni ben di Dio, riempendosi la bocca di Cioccorane e Gelatine Tutti I Gusti Più Uno con la voracità di due piccoli maiali. Emily dovette distogliere lo sguardo per non vomitare.
Decise quindi di spostare la sua attenzione di nuovo sul paesaggio che scorreva sempre uguale oltre il finestrino. Per ignorare i rumori rivoltanti delle mascelle dei due Tassorosso, cercò di concentrarsi sugli alberi che riempivano il versante delle montagne: snocciolò a mente tutti i nomi tecnici che ricordava, per poi delineare le conformazioni del tronco, la forma dei aghi e foglie, la profondità delle radici in un terreno arido come quello...
E così li vide. Fu un attimo.
Gli occhi azzurro vivo di una bambina che la guardavano dall'alto di un ramo. Emily sbattè con forza le palpebre. Non era possibile.

«L'avete vista?» gridò nervosamente ai due Tassorosso, picchiettando sul vetro. I ragazzini, che erano tutti impegnati ad ingozzarsi di dolci, si limitarono a guardarla con aria di compatimento.

«Per le mutande di Merlino, l'avete vista o no?» ripetè in un ringhio stizzito.

«Io ho visto solo una Corvonero con qualche rotella fuori posto» disse uno.

«Già» rincarò l'altro. «Emily Crown, che odia le persone ma ama le regole».

Li sentì sghignazzare come due Troll, ma Emily non ci fece caso. La sua attenzione era ancora rivolta ai boschi.
Probabilmente aveva visto male, o il riflesso delle foglie l'aveva ingannata. Forse quegli occhi azzurro luminoso appartenevano solo ad uno scoiattolo o ad una volpe. O ad un lupo. D'altra parte, di bestiole che si nascondevano nei boschi ce n'erano tante. E perchè mai qualcuno avrebbe dovuto nascondere una bambina in un bosco?
Comunque fosse andata, il treno aveva proseguito nel suo percorso e di quegli occhi azzurri, che Emily avesse visto giusto oppure no, non c'era più traccia.

«Cosa hai bevuto, Quattrocchi, del Whiskey Incendiario?» sghignazzò uno dei due Tassorosso.

«Taci, imbecille» rispose Emily.

E dalla tasca tirò fuori penna, inchiostro e taccuino, lo aprì alla prima pagina e cominciò a scrivere.
Nessuno immaginava che Emily Crown, sfigata quattordicenne Corvonero che odiava le persone e amava le regole, avesse visto giusto.





Note dell'Autrice: Buonsalve a tutti, sono tornata! Approfittando delle vacanze natalizie ho deciso di buttar giù un'altra storia. Per chi se lo stesse chiedendo, Emily Crown NON sarà un personaggio centrale della storia... o almeno, non per i capitoli più prossimi.
Questa fan fiction sarà un po' diversa dalle precedenti per alcuni motivi:
1) Ho già in testa gran parte della trama, quindi dovrei riuscire ad aggiornare più spesso... o almeno spero.
2) Introdurrò una caterva di nuovi personaggi. Siete avvertiti.
3) Il linguaggio e i temi trattati saranno un tantino più violenti e Angst. Be', lo sapete che il fluff non è mai stato il mio forte.
4) Anche se probabilmente non si noterà, mi sto sforzando a fare i capitoli più lunghi (questo è il prologo, quindi non conta).

Il primo capitolo vero e proprio uscirà (spero) tra poco meno di una settimana. Diciamo che la storia sarà divisa in “scene” che riguarderanno da una parte i soliti protagonisti (Remus, Tonks, l'Ordine, ecc.) e dall'altra dei nuovi personaggi. E, per esigenze di trama, nei primi capitoli dovremo trascurerare un po' i nostri eroi. Invoco umilmente perdono.
Per ultima cosa, come molti di voi anch'io scrivo per migliorare! Quindi se vi va di lasciare pure una piccola, piccolissima recensione mi fareste davvero felice. Ogni critica, speculazione o lancio di patate è ben accetto!
Vi auguro un sereno 2017, e con questo vi saluto. Ciao e alla prossima,
Kway





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Capitolo 2
*** Partenza ***


«Corri, Bunny!» rise Lynlee a pieni polmoni.

Bunny non se lo fece ripetere due volte. Un secondo dopo si era precipitato in strada, saltando a due a due i gradini della lunga scalinata di pietra, e in un attimo era scivolato via nel vicolo che si apriva sulla destra. Sfrecciava come una lepre, lui — glielo dicevano spesso anche le Facce Ruvide, e le Facce Ruvide non sbagliavano
mai. Superò di corsa un paio di streghe, prima di notare un vecchio seduto in un angolo del marciapiede con una bottiglia fra le mani fargli l'occhiolino. Un sorriso gli affiorò sulle labbra di Bunny mentre si lasciava alle spalle la bancarella dei Manufatti Magici del signor Zaphyrus Bowley, un altro mago dall'aspetto estremamente antipatico, e scoppiava a ridere scuotendo debolmente la testa.

«Fermati, ragazzino!».

Se solo non fosse stato così impegnato a svignarsela, Bunny si sarebbe volentieri voltato a far loro una bella linguaccia. Ne sarebbe valsa la pena, sì, se non altro per la soddisfazione di vedere le loro facce contorte e livide di rabbia sotto i baveri dei costosi mantelli. Incompetenti, maiali, stupidissimi maghi: non vedeva l'ora di raccontarlo ad Akemon. Lui sì che era
forte in quel genere di cose. Il migliore, forse. Chissà se un giorno sarebbe riuscito a diventare come lui?
Il flusso dei suoi pensieri fu interrotto quando ancora non aveva voltato l'angolo che lo separava dal mercato, un secondo prima che la sua testa esplodesse in mille volte di fumo argenteo. Fu un sibilo che attraversò l'aria a pochi centimetri dal suo orecchio ad attirare improvvisamente la sua attenzione. Bunny balzò di lato giusto in tempo: lo Schiantesimo mandò in frantumi una mattonella che si trovava appena sopra la sua spalla.
Ora non sorrideva più, Bunny. Si guardò attorno per un attimo, senza smettere di correre, mentre con un balzo scavalcava un muretto e sgusciava nella folla del mercato.
Quando i due maghi voltarono l'angolo, il bambino era già scomparso.


***

Quella sera la riunione dell'Ordine della Fenice era finita tardi. Remus aveva fatto appena in tempo a mettere piede fuori casa quando si scontrò con una massa di folti capelli rosa spento.

«Oh» mormorò solamente. «Tonks»

«Scusami» si affrettò lei.

«No, scusami tu. Ero sul passaggio».

«Hai ragione».

Scese un silenzio alquanto imbarazzante, interrotto brevemente solo dal passaggio di un gufo solitario tra i tetti.

«Io stavo giusto per...» iniziò Remus.

«Oh, sì, anch'io» disse Tonks. «Possiamo fare un pezzo di strada insieme».

«D'accordo».

Camminarono in silenzio uno accanto all'altra per un tempo che parve infinito, lungo tutta la strada che portava al Paiolo Magico. Poi Tonks allungò una mano e, senza dire una parola, afferrò quella di Remus, lo spinse con la schiena contro un muro di mattoni, si aggrappò e lo abbracciò.

«Non farlo» gemette, stringendolo forte. «Ti prego, Remus, non andartene».

«Tonks...» iniziò Remus.

«Ti prego, farò qualsiasi cosa...».

Remus non rispose.

«Parlerò con Silente, se lo vuoi. Basta solo che tu me lo chieda, e io...»

«Tonks, ascoltami» rispose dolcemente Remus, cercando a fatica le parole. «Ci sono cose vanno al di là del nostro potere».

«Sciocchezze. Sai bene che Silente potrebbe impedirti di partire».

«Ma non lo farà. Ed è giusto che sia così».

A Tonks sfuggì un sorriso amaro mentre scioglieva l'abbraccio. Si sfregò le mani a disagio, senza osare guardarlo negli occhi.

«Devi molto a quell'uomo, non è vero?»

Sulle prime Remus non rispose — e Tonks si sentì serrare il cuore nel petto. Non era giusto, per Merlino, non era giusto per niente.

«Vedi» disse poi lui, stringendosi nelle spalle. «Avevo dieci anni quando iniziai a capire che Hogwarts non sarebbe stata posto per me. Come ogni bambino sognavo il cielo incantato della Sala Grande, le tribune del campo da Quidditch, gli incantesimi, le sciarpe a due colori e qualche amico con cui parlare. Dovetti aprire gli occhi sulla realtà e mettere da parte tutto quanto».

Remus sembrò esitare. Abbassò lo sguardo.

«Silente mi ha dato un più di quanto io potrò mai restituirgli. Tu al mio posto avresti fatto lo stesso».

***

La pioggia si abbatteva fitta sulla cittadina di Falmouth, sud della Galles, sud della Gran Bretagna, probabilmente anche a sud di qualunque altro stramaledetto posto al mondo. Chissà come mai dovesse essere tutto tanto a sud. Il nord era la patria dei signori, della felicità, del vestiario di buona fattura; al sud rimanevano i vecchi cani rognosi, le donnacce, i bifolchi che ti sgozzavano in un vicolo solamente per portarti via una misera banconota da venti sterline. Che razza di mondo.
Frank Stubble, che di mestiere aveva fatto per tutta la vita il fabbro e di ferri qualcosa se ne intendeva, grugnì un'imprecazione. Maledetta bussola. L'ago sembrava impazzito.

«Ehi, Will!» ruggì con voce un po' impastata. «Razza di bifolco, questa bussola segna il sud!»

«Sei tu che non sei capace di leggerla, cagnaccio da due soldi» replicò gelido il mago chiamato Will. «E a proposito di cani, Frank, chiudi il becco e continua tener d'occhio la porta del pub. Dobbiamo aspettare il buon vecchio Burnings, ricordi?».

Per tutta risposta, l'altro ghignò fregandosi con foga le mani.

«Eh, già, il vecchio Burnings» commentò. «È un po' che non gli facciamo visita, al vecchio Burnings».

«Piuttosto, ce l'hai il coltello o te lo sei bevuto insieme al whiskey?»

«Sta' tranquillo». E, detto ciò, si picchiettò con un paio di pacche affettuose il tascone interno del pastrano. «Il nostro amico è al sicuro».

«Lo spero per te, Frank, o giuro che ti strangolo con le mie stesse mani».

Will aveva la faccia cattiva e continuava a grattarsi la barba — e Frank sapeva che quando Will faceva la faccia cattiva e continuava a grattarsi la barba non era mai un buon segno.

«Ehi, Will» lo chiamò. «Will, sarai mica nervoso, eh? Sarà un gioco da ragazzi, dico io, tagliare la gola al vecchio Burnings».

«Chiudi quella fogna o giuro che l'unica cosa ad essere tagliata sarà la tua lingua» ringhiò Will, più minaccioso che mai.

Frank si strinse nelle spalle.

«Eh, come vuoi, Will».

Rimasero in silenzio per un po'. La pioggia batteva sulle loro teste come un martello — e Frank Stubble, che se ne intendeva eccome di martelli dal momento che a suon di martellate aveva passato una vita a spezzarsi la schiena, colse l'ironia con una smorfia amara. Ma Will da parte sua non poteva saperne granchè, così non osò aggiungere altro. Per fortuna avevano entrambi il cappuccio.

«Quasi quasi» riprese Frank. «Stasera portavo con me quel grazioso bocconcino della Sally Labbradifuoco. Almeno potevamo riempire l'attesa con qualche passatempo divertente, eh».

Will, con gli occhi a fessura ancora puntati sulla porta del locale, non rispose. Frank emise un grugnito di approvazione. «Insomma, due gambe così non le trovi tutti i giorni, dico bene, Will?»

«Dammi il coltello» mormorò piano Will.

«Come?»

«Presto, idiota, Burnings si è fatto vivo. Il coltello» ringhiò di nuovo, e questa volta aveva davvero la faccia cattiva. Frank si sfilò il pugnale dalla tasca e glielo porse con aria docile.

«E io?»

«Tu rimani qui» rispose Will.

Ma poi successe ciò non sarebbe dovuto succedere. Fu un attimo: all'improvviso ci fu una gran luce e un rombo esplose nelle orecchie di Frank Stubble, che non fece in tempo a cacciare un'imprecazione degna dei più sporchi malviventi di Grimsby che già si era buttato a terra dietro ad un grosso covone di fieno. Un fulmine era andato a schiantarsi proprio lì, poco lontano da dove si trovavano, incendiando un vecchio albero di mele. E ovviamente queste cose dovevano succedere solo a sud di Falmouth, cittadina del sud del Galles, a sud della Gran Bretagna e di qualunque altro stramaledettissimo posto al mondo. Frank Stubble poteva giurarci, mentre malediceva con ogni fibra del proprio essere l'aver oltrepassato la linea di Edimburgo appena due giorni prima.
Accorsero una mezza dozzina di contadini dalle casupole circostanti, si udirono delle grida, delle imprecazioni, qualcuno si offrì di portare qualche secchio d'acqua.
L'unico che per tutto il tempo non aveva mosso un muscolo era Will. Le fiamme si rifletteva nelle sue feroci iridi chiare, e davanti alla vista di quegli occhi da lupo a Frank non restò che farsi piccolo piccolo sull'erba secca.

«C-che cosa facciamo, Will?».

«Ce ne andiamo».

«M-ma Burnings, allora...»

«Siamo arrivati tardi» rispose lapidario Will, conficcando con rabbia il coltello nel covone. «E dopo ciò che succederà stasera, non ci sarà neppure un frammento del suo cadavere da fare a pezzi».

«Che cosa diavolo ti prende, Will?» chiese Frank.

«Sono arrivati gli Auror» rispose cupo Will.




Il rombo di un tuono fece tremare le finestrelle de Lo Stivalaccio, una delle peggiori locande del distretto meridionale di Falmouth, tanto vecchia e malandata da doversi chiedere per quale strano sortilegio riuscisse ancora a stare in piedi. Era stata una settimana dura per il Galles, che affogava in una densa pioggia cupa come in ogni inizio della brutta stagione. E la gente era più nervosa che mai.
Il locale era riempito per una buona metà da uomini di fatica, con le loro caratteristiche braccia irsute e grosse come badili, le facce coperte di folta barba, il cipiglio leggermente offuscato dall'alcol: amichevoli, sì, ma solo tra loro. Del restante facevano parte vecchi ubriachi, streghe dall'aria ostile, forestieri e gente di passaggio che aveva approfittato di un tetto per ripararsi dalla tempesta e — perchè no, trovandosi in una locanda — anche per mettere qualcosa sotto ai denti. A differenza di quanto si potrebbe immaginare, neanche in Galles la gente campava d'aria.

La porta de Lo Stivalaccio si aprì con uno stridore si cardini quando ormai l'ora di cena era trascorsa da un pezzo e due maghi, fradici dalla testa ai piedi per la tempesta, entrarono gocciolando acqua nel locale. Qualcuno sollevò appena lo sguardo dalle proprie carte, altri si limitarono ad abbassare il boccale dalle labbra. La maggior parte della gente non si mosse. Doveva trattarsi, a giudicare dai mantelli di pesante velluto color prugna, di forestieri venuti dalla città — e nessuno da quelle parti amava i forestieri venuti dalle città. Gente del genere sapeva portare soltanto rogna, com'era vero che poco meno di un anno prima in simili circostanze il vecchio Kimberly ci aveva rimesso la pelle.
I due maghi, rivolto un sorriso ed un breve cenno di saluto all'uomo che stava dietro al bancone, si diressero verso un tavolino un po' in disparte. E seduto al tavolino un po' in disparte, davanti ad una zuppa di cavoli chiaramente fredda, stava un terzo mago.
Non doveva avere più di quarant'anni, con la folta barba color castagna e le leggere increspature della pelle vicino agli occhi che lo rendevano simile agli altri uomini di fatica che occupavano il locale. Eppure, a giudicare da come i forestieri da poco arrivati lo guardavano, doveva aver ben poco a che fare con i lavoratori delle campagne di Falmouth.

«Ah, buonasera, Burnings» lo salutò lo sconosciuto più anziano con un cenno cordiale del capo.

L'uomo chiamato Burnings deglutì rumorosamente, sgranò gli occhi, rivolse una rapida occhiata all'uscita e scattò in piedi con la prontezza di un animale. Il forestiero che aveva parlato prima, che per sua sfortuna fu più svelto di lui, lo afferrò per un braccio.

«No, Burnings, non così infretta. Prima io e te dobbiamo fare una bella chiacchierata» disse, e suonò come un ordine. «Siediti».

Con l'espressione più da morto che da vivo, Burnings si sedette. Il fragore di un tuono fece tremare i vetri e qualcuno nel locale grugnì un'imprecazione che aveva a che fare con il maltempo e la possibilità di bersi un goccio di Whiskey Incendiario in santa pace.

«Non immaginerai mai con chi ho avuto occasione di parlare, ieri sera» iniziò il mago, accendendosi con calma la pipa che aveva estratto da sotto il mantello. «Non ti viene in mente nulla, Burnings?»

Burnings negò in fretta col capo.

«Non ti dice niente il nome di Jacob Finn?».

«N-non c-conosco nessun J-Jacob F-Finn».

«Davvero, Burnings? Strano, molto strano. Vedi, chissà perchè aveva delle storie davvero interessanti da raccontare sul tuo conto».

Il poco colore rimasto sul viso di Burnings svanì di colpo.

«Oh, sembrava che non vedesse l'ora di vuotare il sacco, quel vecchio mascalzone» continuò soave il mago, mentre il riflesso del fuoco guizzava nei suoi occhi. «Mi ha parlato di tua moglie... dei tuoi bambini... Quanti anni ha adesso la piccola Lynlee? Quattro?»

«S-State lontano dalla mia f-famiglia» guaì Burnings con la voce che tremava. «O g-giuro c-che vi ammazzo!»

Il mago sollevò gli occhi dalla propria pipa e tirò qualche boccata con estrema calma, sorridendo all'aria impaurita e furente dell'altro.

«Se tu non vuoi aiutarci tu, Burnings, dovremo far visita a tua moglie». Sospirò. «E tu lo sai che le donne sono molto più facili in questo genere di cose. Non costringermi a doverle fare cose spiacevoli , Burnings, se capisci cosa intendo. È nei tuoi interessi. Pensaci». E, fatto un breve inchino, si diressero verso l'uscita del locale.

«Quanto tempo ho, eh?» gemette forte Burnings, ricominciando a respirare solo quando i due forestieri ebbero raggiunto la porta. «Quanto tempo mi dà il Ministero prima di reclamare la mia testa?»

Nel locale scese il silenzio.

«Due giorni, Burnings» rispose piano il mago, fermandosi con la mano sulla maniglia. «Due giorni, non un minuto di più».

E scomparve nel buio oltre la porta. La tempesta, fuori dal locale, infervorava come non mai.

***

Stava iniziando ad imbrunire quando lo trovò in una strada alberata di periferia, su una panchina, mentre si rigirava una bottiglia di birra Babbana tra le mani — e in un istante Minerva realizzò che qualcosa non doveva andare del tutto per il verso giusto. Conosceva fin troppo bene Remus Lupin per potersi sbagliare e interpretare diversamente la piega colpevole della schiena, i capelli un po' spettinati, l'espressione terribilmente stanca e tormentata. Ma poi capì di cosa dovesse trattarsi, e un peso le cadde nel petto.

«Non mi aspettavo di trovarti qui» borbottò distrattamente quando gli fu vicino.

Lupin scosse la testa con un lieve sorriso amaro. Furono i suoi occhi sfuggenti e un po' arrossati a rispondere per lui.

«Siediti pure» le offrì con gentilezza, facendosi da parte. «Posso offrirti una birra, se vuoi».

«Paiolo Magico?».

«Io non... non credo sia una buona idea».

Lo vide sorridere ancora, questa volta con più amarezza, forse a mo' di scusa. Di nuovo i suoi occhi non sorridevano affatto.
Minerva sospirò a denti stretti.

«Allontanarti dalla comunità magica prima del tempo non ti preparerà ad affrontare Greyback, Remus» commentò asciutta. All'udire il nome del più feroce lupo mannaro di Gran Bretagna, le mani di Remus si strinsero sulla bottiglia. La McGranitt abbassò gli occhi e, inspirando profondamente, aggiunse con voce più calma: «Alastor mi ha detto che partirai domattina».

«Silente ha deciso» rispose lentamente Remus, senza molta convinzione.

«E dove andrai?»

«Lontano. A Nord».

Tacquero per un lungo istante, lasciando che il vento dell'autunno spazzasse via le foglie ai loro piedi. Un corvo gracchiò in lontananza.

«Minerva» disse dopo un po' Remus, esitando. «Se io dovessi non farcela... Tonks...».

«Non dire schiocchezze, Remus» lo interruppe la McGranitt brusca. «Ce la farai. Devi solo avere fiducia in te stesso e vedrai che andrà tutto bene».

Aveva parlato in fretta, ma non abbastanza da poter ignorare gli occhi di Lupin che si erano sollevati per chiederle ciò che Minerva non avrebbe mai potuto dargli. Risposte.

«Perchè non riesco a crederti?» mormorò con una mezza risata triste.

«Perchè sei il più testardo collega di Difesa Contro le Arti Oscure con il quale abbia mai avuto occasione di lavorare» rispose Minerva.

Ma suo malgrado, pensò con un peso sul cuore, Remus Lupin non aveva mai perso una scommessa.





Note dell'autrice: Buonsalve! Ecco a voi il primo capitolo, pubblicato con un anticipo spaventoso per i miei fidi lettori. Innanzitutto, se siete arrivati fin qui, complimenti: il capitolo è venuto ragionevolmente lungo.
Ebbene sì, signore e signori, questa storia sarà incentrata sulla missione di Lupin nel branco di Greyback — argomento già trattato almeno una quindicina di milioni di volte, lo so — e comprenderà qualche missing moment con alcune piccole (grandi) aggiunte ideate dalla sottoscritta, dal suo gatto e dall'elfo domestico che deambula per casa. Lasciate pure una recensioncina se vi va!
Ciao e alla prossima,
Kway

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Capitolo 3
*** La panca di pietra ***


Nonostante iniziasse a far buio, la via lastricata di fredda pietra nera non smetteva di essere calpestata da stivali di ogni genere: forestieri, mercanti, fattucchiere, giovani streghe con polveri luminose sotto gli occhi e candele accese tra le mani, vecchi maghi dall'aria guardinga, venditori di strani amuleti scintillanti. Lungo la strada nessuno faceva caso ad un uomo seduto all'angolo di un vicolo su una panca di pietra. Teneva la schiena leggermente incurvata in avanti e la punta delle dita unite fra loro, come per meditare, mentre il cappuccio calato sugli occhi ne rendeva i tratti del tutto inespressivi. Dall'ombra emergevano solamente un naso dritto e delle labbra segnate da sottili cicatrici — e decisamente non erano caratteri rari, da quelle parti. Neanche alla piccola Lynlee, occhio di lince, sarebbe mai saltato in mente di notare l'uomo seduto all'angolo del vicolo.

Dall'altra parte della strada, da dietro un gruppo di giovani streghe dagli sguardi maliziosi e dalle candele strette fra le mani, la piccola Lynlee scrutava con un certo disappunto le insegne cigolanti delle locande che si intravedevano appese ai muri. Tra le torce sfavillava un Al Conto Sospeso dall'aria losca e spigolosa, e poco più in là un austero e cupo Kurt's: non era mai stata quei luoghi, nè tantomeno ne aveva sentito parlare. Chiuse gli occhi, sospirò, si massaggiò le nocche e riprese a guardarsi intorno. Si era persa. Si era persa. Si era persa! Oh, se solo la voce fosse giunta ad Akemon! A lei sarebbe toccato subire le prese in giro di tutti i Baffi Rossi, lo sapeva bene, almeno per un'intera luna.
Con la morte nel cuore avanzò un passo cauto, infilandosi nel viavai di mantelli che frusciavano con discrezione lungo il selciato di pietra nera. Era tutto il giorno che camminava senza sosta. Aveva preso la strada per la città che era appena l'alba, e ora che il cielo sfumava dall'indaco al blu notte I piedi iniziavano a pulsare dolorosamente — e come se non bastasse lo stomaco aveva preso a gorgogliare senza pietà: la mano di Lynlee si portò istintivamente a massaggiarsi la pancia. Era così assorta dai propri pensieri che non si pose affatto il dubbio di poter essere d'intralcio a qualcuno.
Così ci mise un attimo a sbattere contro una sagoma rigida dal passo svelto — e un secondo dopo era finita nel fango, il viso a pochi centimetri da un paio di grossi stivali da viaggio di pelle di drago bruna.

«Merlino! Guarda dove metti i piedi, mocciosa!» strillò il mago su tutte le furie. «Cosa diavolo credi di fare col naso per aria in mezzo alla strada, eh? Piccola carogna!».

Lynlee si sentì arrossire violentemente e abbassò gli occhi.

«Mi dispiace, signore» sibilò a denti stretti, sforzandosi di apparire educata. Le mani nel fango le tremavano.

«No, razza di insolente!» sbraitò di risposta il mago. «A me dispiace! Guarda come mi hai ridotto il mantello!»

«È solo un po' di fango, signore».

«Brutta lurida…»

«Io credo» disse allora una voce calma. «che lei stia alzando un po' troppo i toni con quella bambina».

Ancora carponi nella pozzanghera, Lynlee sollevò il visetto sporco di terra al colmo dello stupore.
Era stato uno sconosciuto a parlare, seduto ad una panca di pietra all'angolo del vicolo. Fissava la faccia furente del mago con una certa ironia nello sguardo, gli occhi azzurri che rilucevano sotto il cappuccio.

«Mi scusi?» sibilò il mago.

«Mi ha sentito» rispose lo sconosciuto dalla voce profonda e il tono gentile. «Lasci in pace la bambina e chiudiamo la faccenda».

«Non so chi lei sia, ma farebbe assai meglio a non impicciarsi negli affari degli altri».

Lo sconosciuto sembrò parecchio divertito dalla risposta del mago, tanto da rivolgergli uno sguardo che brillava e un bel sorriso in volto.

«Oh, mi perdoni, ma credo invece che lei farebbe meglio a levarsi dai piedi».

Si alzò con calma dalla panca di pietra e fece per avvicinarsi al mago, ma quello indietreggiò con gli occhi sbarrati. Ci fu un secondo di terrore prima che si voltasse e iniziasse a correre, scomparendo infine lungo la strada senza lasciare alcuna traccia del proprio passaggio. Lynlee scrutò attentamente il volto dello sconosciuto mentre guardava il mago allontanarsi. La sua espressione era indecifrabile.

«Stai bene?» gli schiese allora lo sconosciuto quando il Mago Cattivo se ne fu andato, porgendole una mano per aiutarla a rialzarsi.

Lynlee annuì piano. Aveva le ginocchia sbucciate, il vestito strappato e sporco di fango, le trecce color semola che ondeggiavano al vento freddo del crepuscolo. E come se non bastasse, aveva attirato l'attenzione di uno sconosciuto — forse un altro Mago Cattivo, forse un Uomo Nero, forse ancora un Detentore Della Conoscenza. Ma poteva anche trattarsi di uno Spirito Guida, di un discendente di Fenrir. Di un'altra Faccia Ruvida, magari.
L'uomo le si era inginocchiato di fronte per raggiungere la sua altezza, ma lo sguardo della bambina rimaneva incollato ai piedi nudi e sporchi di terra che continuavano a pulsare.

«Come ti chiami?» le chiese con dolcezza l'uomo.

«Lynlee» rispose lei senza alzare gli occhi.

«Lynlee. È un bel nome».

Il vento le mosse con delicatezza la frangetta disordinata di capelli che le incorniciava la fronte, mentre le guance le si tingevano di un tenue color porpora. Avvertiva lo sguardo dello sconosciuto cercare il suo. Aveva una bella voce, dopotutto, ed era stato gentile con lei. Chissà che aspetto aveva? Oh, Lynlee era maledettamente curiosa.
Fu un guizzo di iridi azzurre, e gli occhi della bambina incontrarono quelli dello sconosciuto.

L'uomo le sorrise con tenerezza. Aveva lo sguardo buono ma intelligente, il cappuccio che prima le aveva addosso tanta paura era semplicemente calato sui capelli, sottili segni chiari che rilucevano su zigomi e labbra. Non doveva avere più di trentacinque anni — all'incirca l'età di quella spaventosa Faccia Ruvida di Will Ferguson.

«Ti fanno male i piedi, non è vero?».

Lynlee esitò prima di abbassare di nuovo lo sguardo.

«Un po'» ammise.

«Capisco» osservò lo sconosciuto. «È normale quando si cammina a lungo senza scarpe. Vieni, siediti qui».

La aiutò ad arrampicarsi sulla panca di pietra all'angolo del vicolo prima di inginocchiarlesi davanti.

«Non sei di queste parti, non è vero?».

La bambina scosse piano la testa.

«Ti sei persa?».

Annuì. Lo sconosciuto tacque per un breve istante.

«Posso riaccompagnarti a casa, se vuoi».

Per tutta risposta, Lynlee scivolò giù dalla panca, prese con cautela una delle sue grandi mani fra le dita e iniziò a percorrerne le venature che gli attraversavano il polso. Le sopracciglia dello sconosciuto si sollevarono appena con sorpresa da sotto il cappuccio, ma non parlò. Rimase ad osservarla in silenzio, senza opporsi, mentre i grandi occhi azzurri della bambina accarezzavano ogni piccola cicatrice sul dorso della sua mano.

«Le radici» mormorò la piccola in un sussurro. Non era chiaro se stesse parlando allo sconosciuto o con sè stessa, da quanto la sua voce era appena udibile. «Le radici sollevano le pietre e le fanno cantare».
Lo sconosciuto non rispose, così Lynlee proseguì. «A volte si infilano anche nelle braccia delle Facce Ruvide. È per questo che fanno tanto male». Tacque di nuovo, senza smettere di percorrergli le venature della mano con la punta delle dita. «Si sono infilate anche qui, lo sai?».

Lo sconosciuto le rivolse uno sguardo che la bambina non aveva mai scorto da nessuna parte, serio e dolce come quello di un abaich o di un padre, ma un po' triste.

«Queste radici non ti faranno del male, Lynlee».

«È una bugia».

«Io non racconto bugie».

«Mai?»

«Mai».

La piccola tacque per un lungo istante, come indecisa se credere alle parole di quell'uomo sconosciuto. Poi gli strinse la mano nella sua e sorrise piano con uno sguardo fiducioso negli occhi azzurri.

«È lunga la strada per Dunkeld?».


***

Chiunque al crepuscolo fosse passato per quella stradicciola dagli edifici storti e spigolosi — mago, strega, o Creatura che fosse — avrebbe visto un uomo con mantello e cappuccio mano nella mano con una bambina di poco più di sette anni. Era uno strano spettacolo, da quelle parti: talmente raro che, se solo ci fosse stato qualcuno di buon cuore a passare per caso per quella strada, si sarebbe di sicuro fermato ad osservarli.
Ma non c'era nessuno disposto a tanto, e gli unici stivali che calcavano il selciato di pietra nera appartenevano a figure non esattamente raccomandabili. Gruppetti di streghe agli angoli dei vicoli rivolgevano sorrisi e sguardi maliziosi dalle lunghe ciglia, loschi individui li adocchiavano senza abbandonare l'espressione rude e annoiata. Ad un tratto un ometto dalla testa calva e lucida come un uovo di Drago si avvicinò loro con passo nervoso e un sorriso sdentato sulle gengive.

«Oh, mio buon signore!» esclamò con tono untuoso, aggrappandosi al mantello dello Sconosciuto. «Avete l'aria di chi va in cerca di qualcosa… oh, sì… sciagure, buon signore, inganni… vi occorrerà sicuramente un amuleto contro di essi… Creature malvage popolano le strade per cui siete diretti… oh, sì…»

Estrasse in fretta da sotto il mantello un pendaglio d'argento che portava inciso il disegno di una mezzaluna con delle strane formule che Lynlee non conosceva. Qualcosa di sgradevole le piombò in fondo allo stomaco, la testa prese a pulsare. Si strinse debolmente allo Sconosciuto.

«Non ci occorre» rispose lo Sconosciuto, con una punta di freddezza nella voce che fece rabbrividire l'ometto.

«M-ma, buon signore… un amuleto per la sua bambina… è così graziosa, buon signore, se una Creatura malvagia la dovesse aggredire…»

«Correrermo il rischio».

L'ometto biascicò una serie di scuse incomprensibili e indietreggiò fino a scomparire dietro un vicolo, e con lui se ne andarono anche il mal di testa e le vertigini di Lynlee. Ora che lo Sconosciuto era con lei, poteva anche importarsene di stare alla larga da quegli stupidi maghi venditori di cianfrusaglie stregate. La bambina guardò indietro e lo salutò con una gran linguaccia.

Si voltò di nuovo quando del venditore di amuleti non era rimasto altro che l'ombra, improvvisamente pensierosa in volto.

«Come ti chiami, abaich?» chiese, guardando in alto verso lo sconosciuto.

«I nomi servono agli altri, non a noi stessi» le rispose lui in tono vago.

«Usi parole difficili, abaich».

Lo sconosciuto si limitò a sorridere in silenzio, e il volto di Lynlee si fece ancor più concentrato. Non voleva certo sembrare una stupida, lei, aveva quasi otto anni!

«Ma ogni cosa ha bisogno di un nome» osservò allora con lentezza, scandendo bene le parole come facevano le Facce Ruvide quando volevano dire una cosa importante.

La bambina e l'abaich rimasero in silenzio per un lungo istante.

«Ti chiamerò Alistaire» decise infine Lynlee, gonfiando il petto con orgoglio. «Come il Protettore».

Si sporse un poco in avanti per scorgere il volto dell'abaich e vide che, da sotto il cappuccio, sorrideva guardando la strada.

«È un bel nome» concordò soddisfatto Alistaire.

E l'abaich e la bambina se ne andarolo lungo la strada, mano nella mano, lasciandosi le ombre figlie della periferia alle spalle. Ai loro piedi, tra le pietre nere del selciato, spuntavano ciuffi grigi di muschio.


***

Appoggiata contro il muro di una locanda, una giovane donna dalla polvere luminosa sotto gli occhi rimase ad osservare due strane figure mentre si allontanavano. Un uomo ammantato e una bambina dalle trecce color semola si tenevano per mano lungo la strada. Stavano parlando.

«Ti chiamerò Alistaire» sentì proclamare la bambina con il volto che le si illuminava in un gran sorriso, mentre guardava in alto verso l'uomo. «Come il Protettore!».

«È un bel nome» fu la risposta.

Soffiò sulla candela che teneva tra le mani e, non appena il suo volto smise di essere illuminato, scomparve nella penombra azzurra del crepuscolo. Nessuno udì il rumore dei suoi passi sul selciato. In quell'istante era rimasto solo il fumo di una candela spenta, appoggiata sopra la panca di pietra all'angolo di un vicolo, che si perdeva nel vento dolce della sera.



Note dell'autrice: Buonsalve! Ecco qui il terzo capitolo della storia, sfornato un po' in ritardo rispetto alle iniziali aspettative. Ammetto di aver avuto qualche piccolo ripensamento, qualche grande indecisione, un paio di dubbi e molta, ma molta incertezza. Mea culpa.
Ma, ad ogni modo, eccoci qui! La fan fiction prosegue!
In questo capitolo ho introdotto Lynlee, spero di averla resa abbastanza credibile (se così non fosse siete liberi, anzi, vi pregherei, di lanciarmi Maledizioni, recensioni negative e quant'altro). Per quanto riguarda invece i due personaggi misteriosi… il primo sono abbastanza sicura che possiate arrivarci. Tutti coloro che dovessero indovinare la vera identità del tale chiamato Alistaire riceveranno direttamente a casa propria uno splendido premio via gufo! Ciao, e al prossimo capitolo!
- Kway

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Capitolo 4
*** Fuoco nel bosco ***


Remus raccolse una manciata di rami secchi, li gettò nel fuoco e tornò a sedersi accanto al tronco spezzato di un grosso albero. Doveva essere stato abbattuto da un fulmine, probabilmente durante uno di quei spaventosi temporali estivi che di tanto in tanto riducevano l'intera Gran Bretagna ad una grossa e fangosa pozzanghera, un paio di settimane prima.
Ma l'acqua aveva fatto in fretta ad andarsene, e in quel momento il terreno era umido quel che bastava perchè il muschio fosse morbido e scivoloso sotto gli stivali. Niente pioggia, niente nuvole. Niente di niente. Le stelle brillavano nel cielo di velluto sopra il bosco, oltre le sagome scure e un po' spigolose degli alberi. Remus volse appena il capo verso la bambina che giaceva poco distante, sull'erba secca, e la guardò con occhi spenti.
Le fiamme danzavano davanti al volto addormentato della piccola Lynlee, striandole di rame le lunghe trecce spettinate.
Sembrava un cucciolo di animale selvatico: raggomotolata su se stessa, con i piedi nudi che si sfioravano e le ginocchia sbucciate avvicinate debolmente contro il petto. Il caso aveva voluto che, tra tanti maghi e streghe, nei sobborghi malfamati di Perth avesse dovuto trovare proprio lei, una bambina di sette o otto anni, in cerca d'aiuto. Bambina, sì — e, certamente, anche una piccola mannara. Remus poteva giurarci. Aveva abbastanza esperienza da saper riconoscere un suo simile quando lo incontrava: quelle iridi pallide, quei piccoli graffi sulle braccia e sul volto, quei vestiti stracciati e quei piedini nudi erano segni inequivocabili.
L'avrebbe accompagnata a Dunkeld, a un'ora di treno da Perth. Il tragitto a piedi era lungo, e la mancanza di luce li aveva costretti a fermarsi non appena le tiepide luci del crepuscolo avevano lasciato spazio alla notte; così si erano accampati alla bell'e meglio tra le radici sporgenti di un'imponente quercia dal legno ruvido e scheggiato.
Remus sospirò piano, prese un l'ultimo dei rametti secchi che servivano per riattizzare il fuoco e se lo rigirò distrattamente tra le mani. Aveva all'incirca la stessa lunghezza della sua bacchetta, la stessa consistenza, persino lo stesso peso; chiudendo gli occhi, Remus ne era sicuro, avrebbe potuto percepire la forza della Magia che gli scorreva contro le dita. Ma non lo fece. Era rimasto a guardare il fuoco, il rametto tra le mani, sotto le stelle che con ogni probabilità ridevano delle sue pene e dei suoi segreti.
Quelle stesse stelle che erano rimaste a schernirlo quando, sotto un cielo che sembrava una distesa di diamanti da quanto era splendido e terso, aveva baciato Tonks per la prima volta. Riusciva ancora a percepire il sapore delle sue labbra sulle proprie, l'imbarazzo che ne era seguito, le scuse mormorate a mezza voce, lo stupido pretesto con il quale si era allontanato il più possibile dalla donna che gli aveva fatto perdere la testa. Quella volta, Remus si era vergognato come un cane. Riusciva a stento a non pensare alla sua risata cristallina, ai suoi occhi sinceri che rilucevano tra le ciocche rosa, alle sue figuracce maldestre in casa Weasley, al suo impagabile sorriso.
Si rigirò per un ultima volta tra le mani il rametto prima di gettarlo nel fuoco. Le fiamme che l'avvolsero si riflessero nello sguardo grigio di Remus.

Sirius cacciò un ululato. Tonks, a terra, si rotolava dalle risate. Remus sembrò finalmente convincersi ad alzare gli occhi dalla quinta pagina della Gazzetta del Profeta: vide la scena e sospirò.

«Buon Merlino, rido a crepapelle!» ululò Tonks.

«... a crepapalle, vorrai dire» gemette di risposta Sirius, piegato in due sul tappeto. «Giuro che appena riesco ad alzarmi ti Affatturo».


Il ritorno di Sirius era stato come prendere una boccata d'aria dopo dodici anni passati a trattenere il fiato. Grazie a lui era tornato a ridere, a scherzare, a scommettere su chi fosse riuscito a sopportare più a lungo le barzellette senza senso di Tonks senza dar fuori di testa. Perso nell'eco un po' malinconica di quei ricordi, Remus arrangiò un debole sorriso carico di stanchezza. Felpato aveva visto giusto fin dall'inizio.

«Oh, Lunastorta, avanti» disse Sirius con voce soave, fingendosi sorpreso. «Non avrai mica paura di scommettere su una ragazza, vero? A meno che…»

«…Sirius…»

«… a meno che non ci sia del tenero, sotto sotto. Ah, come dici, caro Lunastorta? Ti piace da impazzire ma non hai il coraggio di dirlo al tuo vecchio amico Felpato? Oh, Lunastorta… questo è male. Questo è molto, molto male».

Remus fece per replicare, ma Sirius lo zittì con un gesto della mano.

«Alt, vecchio mio, non dire una parola. Ci pensa Felpato. Cupido al confronto è un dilettante».


La piccola Lynlee si mosse nel sonno e Remus fu costretto a distolgliersi dai suoi pensieri. Non si era svegliata, ma le sopracciglia le si erano fatte debolmente corrucciate. Aveva incurvato le spalle, incassato la testa, e le mani le si erano strette in grembo. Mormorò qualcosa sottovoce. I piedi nudi sfregavano tra loro.
Remus si alzò senza fare rumore, la raggiunse, la scosse delicatamente per un braccio.
Lynlee si svegliò di colpo. I capelli le si erano appiccicati alla fronte madida di sudore. Ci mise un secondo a riconoscerlo, per poi di tirarsi a sedere, riprendere il fiato. Istintivamente guardò il cielo.

«Io non… non volevo disturbarti, abaich» si scusò poi con voce malferma, rannicchiandosi nei propri abiti malconci e tornando a fissarsi i piedi sporchi di terra e polvere.

«Non mi hai disturbato» la rassicurò Remus. «Capita a tutti di avere degli incubi, a volte».

«A volte» ripeterono senza voce le labbra di Lynlee.

Rimasero in silenzio per un po'. Poi la bambina si schiarì la gola e parlò.

***

«Abaich» chiese piano. «Tu non hai paura del bosco?»

«No» rispose l'abaich.

«E del buio?»

«Neanche».

«E dei lupi?»

«Solo a volte».

«Che significa “solo a volte”, abaich

«Significa che ho paura di un lupo soltanto» rispose Alistaire. «Ma un lupo che viene a trovarmi spesso, sempre puntuale. Non ha mai mancato un appuntamento e mi dà un sacco di noie».

«Quanto spesso?»

«Abbastanza».

«E quanto puntuale?»

«Come un orologio».

«E perché ti fa paura?»

«Perché è imprevedibile».

«Oh» rispose Lynlee, e rimase in silenzio per un po'. «Abaich» disse poi. «Ma quanto è grande il tuo lupo?»

«Be', come un leone, più o meno. O una tigre» rispose Alistaire in tono vago. «Perché me lo chiedi?»

«Perché di lupi così grossi non ne esistono» disse la bambina, e tacque di nuovo.

«Be', sospetto non si tratti di un normale lupo» osservò allora l'abaich.

«E di che lupo si tratta, se non è un normale lupo?»

Alistaire scoppiò a ridere, le scompigliò affettuosamente i capelli e rispose: «Fai un sacco di domande, Lynlee».

«Perdonami, abaich» disse allora Lynlee, chinando appena il capo. «D'ora in avanti non parlerò più».

Alistaire le sorrise. Poi si alzò, prese la propria bisaccia allacciata abilmente ad un ramo e ne trasse fuori qualcosa che assomigliava spaventosamente ad una mela.

«Hai fame?» le chiese Alistaire, porgendogliela. Lynlee si fece confusa, ma, senza staccare gli occhi dall'abaich, allungò ugualmente con cautela una mano e la afferrò. Era proprio una mela.

«Posso mangiarla?» domandò Lynlee, confusa e stupita, facendo scorrere gli occhi dal volto di Alistaire al frutto. «Voglio dire, sul serio?»

«Solo se vuoi» fu la risposta.

Lynlee non se lo fece ripetere due volte. Iniziò a divorare la mela come se non mangiasse da una settimana— ed effettivamente la bambina era digiuna fin da quando aveva lasciato il villaggio delle Facce Ruvide, due giorni prima — e quando il frutto finì, ne accettò un secondo da Alistaire, che intanto la osservava con aria impercettibilmente divertita. Lynlee mangiava come un lupo, in tutti i sensi. La mele dell'abaich erano così buone, lo scoppiettio del fuoco così tiepido, le stelle così splendenti, e gli occhi chiari di Alistaire sembravano piccole gocce d'acqua ghiacciata che si perdevano nelle riflesso delle fiammelle. Lynlee lo guardò con attenzione. Aveva qualcosa di familiare, ma non riusciva a capire di preciso cosa…

«Manca ancora un po' all'alba» disse l'abaich, slacciando il nodo che teneva la bisaccia appesa al ramo dell'albero. «Sarà meglio preparare qualcosa da mangiare per domani mattina. Vado a raccogliere qualcosa, d'accordo? Tu intanto riposa. Ci impiegherò poco, promesso».

«D'accordo» rispose Lynlee, accucciandosi a terra accanto al fuoco.

E vide Alistaire scomparire nel buio della notte, oltre le sagome contorte che la luce del fuoco ritagliava in mezzo agli alberi. Una bestia notturna lanciò un grido da qualche parte, poco lontano. Chissà che cosa avrebbero detto le Facce Ruvide non appena i loro occhi spaventosi si fossero posati sull'abaich. C'era qualcosa nel suo tono di voce calmo e profondo che aveva spinto Lynlee a chiedersi se fosse stato una Faccia Ruvida buona, un vero lupo-abaich che avrebbe fronteggiato Greyback. La bambina rabbrividì sul muschio umido. No, Greyback era imbattibile. Greyback: secondo solo alla luna, dicevano. Ma Alistaire era grande. Era forte. Avrebbe potuto farcela.
Ma poi pensava che non doveva affatto essere una Faccia Ruvida, perché le Facce Ruvide non ti aiutavano affatto a rialzarti da terra se cadevi, nè ti offrivano una mela quando avevi fame. No, forse l'abaich era solo uno stupido mago che voleva qualcosa da lei e dal suo branco. O magari non sapeva neppure dell'esistenza di un branco. O ancora, se l'era appena defilata per paura di rimanere da solo con lei nel bosco.
A Lynlee iniziava a far male la testa. Si coricò, chiuse gli occhi. No, l'abaich non era uno stupido mago, e neanche una spaventosa Faccia Ruvida. Era un abaich e basta, concluse: un Grande Buono, un protettore, un padre. E le andava bene così.

***
Fu svegliata dal clangore di metallo che sfregava, e Lynlee aprì gli occhi di colpo. Ciò che vide la lasciò senza parole.
Era giorno. Salda in piedi, accanto al focolare ormai spento, c'era una donna con polveri dorate sotto gli occhi. Puntava una piccola lama sottile alla gola dell'abaich, che aveva alzato le mani in segno di resa con una luce cauta negli occhi. La donna si chiamava Seiche. Era una ghalla, e Lynlee la conosceva bene. La vide assottigliare le palpebre con aria minacciosa.

«Fuori i soldi, forestiero» disse Seiche. Alistaire, che la superava in altezza di due buone spanne, parve non capire.

«Fuori i soldi!» ripetè la donna.

«Non ho nulla con me» chiarì allora l'abaich abbassando le mani lungo i fianchi, e non appena la donna gli premette con più forza il coltello alla gola, aggiunse con voce dolce: «Suppongo mi ucciderai, adesso».

«Potrei farlo» sibilò Seiche, e sulla lama del suo coltello si delineò una striscia rossa di sangue. Alistaire deglutì.

«No!» gridò Lynlee. «No, ghalla! Aspetta!»

Balzò in piedi e in un secondo fu tra i due adulti. Si aggrappò al mantello di Alistaire. L'abaich le posò una mano sulla testa, con gli occhi ancora incollati a quelli di Seiche, e lentamente disse: «Va' via, Lynlee».

«Taci, forestiero» ordinò la ghalla.

«Non è un forestiero!» protestò allora Lynlee.

«Sì che lo è, stupida» sibilò di risposta Seiche. «Prendi i soldi e scappa. Non avresti dovuto portarlo qui».

Lynlee corrucciò la fronte, arricciò il naso e si strinse ancora di più al mantello del suo protettore. «Non è un forestiero. È un abaich. E gli stai facendo male».

«Oh, questo non è ancora niente. Una mossa soltanto e lo sgozzo come un cerbiatto».

«Ghalla Seiche!».

«Ora taci. E quanto a te, forestiero» proseguì la donna senza allentare la presa del coltello sulla sua gola, «dammi una valida ragione per cui io non debba ucciderti».

Una vaga amarezza si dipinse negli occhi chiari di Alistaire.

«Perchè se avessi voluto» rispose guardandola, «lo avresti già fatto».

***

Quello parve l'epitaffio di Remus Lupin, ma per fortuna non lo fu. Seiche si limitò a studiarlo per un lungo istante.

«Dimmi che cosa ci fai in questa foresta».

«Accompagno a casa una bambina».

«Oh, storia commovente. Non c'è che dire».

Gli staccò la lama del pugnale dalla gola, prima di sfiorarlo con un dito nel punto in cui il metallo affilato gli aveva procurato il lieve taglietto. Remus non si mosse.

«Non hai paura, forestiero» osservò in un sussurro, mentre avvicinava il volto al suo orecchio. «Questo gioca a tuo favore».

Poi si infilò il coltello nella cintura, abbassò lo sguardo verso Lynlee e le rivolse un'occhiata che avrebbe fatto rabbrividire Merlino in persona. Remus la sentì stringersi contro il proprio mantello.

«Non sperare di passarla liscia così, piccola cagnetta» ringhiò Seiche. «Questa volta non ci sarà più nessuna ghalla a placare l'ira di Greyback, quando quello vorrà punirti».

Poi si voltò, fece un passo verso il focolare spento e si sedette. Remus, che si era irrigidito al nome del lupo mannaro più feroce di Gran Bretagna, attirò senza volerlo l'attenzione della piccola Lynlee. La bambina gli lanciò un'occhiata interrogativa ma, evidentemente presa da altri pensieri, tornò a rivolgersi a Seiche.

«Mi dispiace molto, ghalla Seiche» mormorò con vergogna, fissandosi i piedi sporchi di terra. «È stata tutta colpa mia. Mi sono persa mentre fuggivo, e l'abaich Alistaire mi ha salvata da un Mago Cattivo. L'ha fatto correre via a gambe levate, capisci? Gli ho chiesto di accompagnarmi fin qui e lui l'ha fatto. Mi stava solo proteggendo».

Seiche sbuffò una risata amara. «Oh, ma certo. Alistaire. Come il Protettore Di Uomini. Hai altro da dire prima che ti appenda per i capelli al ramo di uno stupido albero, ragazzina?».

«Oh, sì, ghalla Seiche» continuò Lynlee a capo chino, mansueta e servile come un agnellino. «Mi ha raccontato che un lupo viene a fargli visita regolarmente».

«E questo dovrebbe forse interessarmi?»

«Certamente, ghalla, dal momento che non si tratta di un comunissimo lupo».

Che Seiche iniziasse a sospettare, glielo si leggeva in faccia. Scrutò dapprima la bambina, per poi passare a Remus.

***

«Non un comunissimo lupo, eh?» ripetè con voce sarcastica, guardando Alistaire. «Così hai detto, Lynlee?»

«Hai sentito bene, ghalla» rispose Lynlee. «Un lupo grosso… grosso come una tigre, ecco, o un leone».

«Un lupo mannaro, insomma» concluse Seiche con perspicacia, alzandosi in piedi.

Nel bosco scese il silenzio. Lo sguardo attento e un po' spaventato di Lynlee passava rapidamente da Seiche all'abaich, e dall'abaich a Seiche. I due adulti si fronteggiavano nel fissarsi con uno strano distacco, quasi studiandosi a vicenda: gli occhi azzurrri di Alistaire contro quelli feroci della ghalla facevano sembrare entrambi due lupi a testa alta — e le due spanne di differenza tra loro accentuavano solamente l'agilità dell'una verso la forza dell'altro.

«Sembri sorpresa» commentò Alistaire, sorridendo appena.

Seiche lo guardava con aria sospettosa. Chiaramente non se l'aspettava.

«Oh, sorpresa? No di certo» rispose. «Piuttosto infastidita, direi. Questo sì. Ma te lo perdono».

Si voltò, raccolse da terra la bisaccia dell'abaich e gliela lanciò indietro senza guardare. Alistaire, alle sue spalle, la prese al volo.

«Torniamo a casa?» domandò Lynlee, trotterellandole dietro.

«Torniamo a casa» ripetè seccata Seiche.

E si incamminarono.




Note dell'autrice: Buonsalve, amici! Eccoci al quarto capitolo. Ogni mistero si è svelato, dunque? Certo che no. Ne vedremo di belle, temo, nei prossimi capitoli…
Ad ogni modo, torniamo a noi. I nomi in gaelico scozzese sono il mio piccolo ed umile omaggio a quella grandissima autrice di nome Trick, che ha scritto di lupi mannari ben prima di me (senza contare, poi, che il suo Remus e la sua Tonks sono a dir poco strepitosi). Ecco qui una breve spiegazione dei termini:

Abaich = "maturo, adulto"
Alistaire = "protettore"
Seiche = "pelliccia" (vedremo più avanti il perché)
Ghalla = "cagna"/"lupa"

Detto questo, recensite in molti! Ci si legge al prossimo capitolo (o, se vi va, con una brevissima recensione!). Ciao,

- Kway


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Capitolo 5
*** Alba sulla prateria ***


Il tramonto si protendeva coi suoi colori sanguigni sulle colline brulle di Perth-Kinross, in Scozia, fendendo il blu della notte con abili pennellate. Di tanto in tanto un uccello solcava il cielo come un dardo infuocato, planava, atterrava sull'erba secca della prateria, beccava la terra in cerca di un vermiciattolo e spiccava di nuovo il volo con versi striduli. L'erica e i rovi scricchiolavano e si spezzavano sotto gli stivali di due adulti; dietro a loro, trotterellava distrattamente una bambina.

Il lupo e la cucciola si incamminano lungo la distesa. Davanti a loro c'è una lupa. La lupa è forte e intelligente, ma non è buona. È imprevedibile. È furba. È una volpe grigia, non un lupo: una volpe sporca e senza maschio.

Lynlee alzò gli occhi. Alistaire si era fermato, guardava lontano. Il vento gli muoveva i capelli.

«Seiche» la chiamò piano, senza voltarsi. «Vieni a vedere».

La ghalla raggiunse l'abaich. I suoi occhi si assottigliarono sull'orizzonte.

«Sembrano cavalli» osservò.

La cucciola è una principessa, il lupo in realtà è suo padre. Ma è un segreto degli stregoni, nessuno lo sa: il lupo è un difensore grande e buono. La salverà dai tutti i mostri.

«Perchè mi hai chiamato così?» chiese Seiche a bruciapelo.

«Come?»

«“Seiche”».

Alistaire si strinse nelle spalle. «Ho sentito la bambina chiamarti in quel modo e ho pensato…»

«Capisco» tagliò corto lei.

Lynlee si era avvicinata ai due adulti, li aveva osservati per conferma e si era messa a sbirciare anche lei verso l'orizzonte. I cavalli, in lontananza, sembravano piccole formiche.

«Si stanno avvicinando» osservò Alistaire.

«Saranno viaggiatori».

«Potrebbero essere predoni».

La risata di Seiche risuonò nell'aria fredda del mattino.

«Oh, non predoni» disse. «Predatori. E non immagini quanto».

Il rumore pesante degli zoccoli sul terreno aumentava. Lynlee strabuzzò gli occhi. Presto si delinearono visi irsuti di barba, sguardi truci, grosse braccia e mantelli che si sollevavano al vento insieme alla polvere. Rabbrividì. Facce Ruvide a cavallo: brutto segno.

***

In men che non si dica gli uomini li avevano circondati. Seiche e Alistaire si guardarono intorno. I cavalli sbuffavano. Il rumore degli zoccoli si alzò nell'aria ventosa della mattina, unito al respiro un po' ansante di qualcuno, i grugniti che incitavano i cavalli a calmarsi, il fuoco delle torce. Un uccello gridò in lontananza.

«Ma che piacevole sorpresa» disse la voce roca di un grosso uomo dalla pelle nera e sudata, due spaventosi occhi azzurri e un ghigno da far accapponare la pelle. «Una cagna, una cagnetta e un forestiero».

«Oh, buongiorno anche a te, Kuumo» rispose freddamente Seiche. «Vedo che vi state dando da fare».

«E sembra che non siamo i soli».

Le Facce Ruvide sghignazzarono, i cavalli a briglie tirate si muovevano nervosi.

«Dovrei punirti per la tua insolenza, dannata cagnetta, lo sai?» proseguì Kuumo, smontando di sella. «Sempre che non ci abbia già pensato il forestiero».

«La cosa ti entusiasma?»

«Oh, non molto, in verità». Sfilò un grosso coltello dalla cintura e se lo rigirò tra le mani, davanti allo sguardo teso e ostinatamente fisso di Seiche. «Ma te lo meriteresti. Quanto a te, forestiero». Alzò pigramente il viso e lo rivolse verso Alistaire. «Cosa diavolo ci fai in questa terra desolata e dimenticata da Dio in compagnia di femmine che non ti appartengono? Dovrei tagliarti la gola per questo, sai…».

«No!» esclamò spaventata Lynlee. «Lui è…»

«Stupida ragazzina!» ringhiò Kuumo avanzando di un passo. «Ti avevo avvertita che se avessi trovato di nuovo il tuo brutto musetto fuori dall'accampamento di Greyback ti avrei spezzato le ossa, o forse ricordo male? Rispondi, lurida schifosa, o giuro che…»

«Lasciala stare» lo interruppe forzatamente Alistaire.

«Cos'hai detto, lurido forestiero?»

«Ti ho detto di lasciarla stare».

Tutti scoppiarono in fragorose risate — tutti, tranne Kuumo, Alistaire, Seiche e Lynlee. L'abaich sembrava teso. Accanto a lui, la ghalla socchiuse gli occhi a labbra strette. Avanzò un passo verso Kuumo, gli accarezzò con delicatezza una guancia ispida di barba corvina, si voltò verso Alistaire e lo indicò con un dito accusatore. Lynlee si sentì mancare il respiro. Fece per stringersi al mantello dell'abaich, ma una mano di Alistaire la respinse fermamente con dolcezza. Gli occhi dell'uomo fissavano cauti ed amareggiati il volto di Seiche: una piega sottile gli era comparsa fra le sopracciglia.

«Non è pazzo» sibilò gelida la ghalla, guardandolo di rimando. «È solo un dannato forestiero, non ha diritto di stare qui. Ma mi ha messo le mani addosso. Deve pagare».

«Taci, bambolina» ghignò Kuumo, afferrandola con le mani unghiose per le spalle. «O ti assicuro che non sarà il solo».

Le risate si fecero più feroci e agitate. Lynlee indietreggiò di un passo, terrorizzata, lanciando un'occhiata ferita a Seiche, che ringhiava minacciosa tra le braccia di Kuumo. Allora cercò disperatamente lo sguardo dell'abaich: Alistaire si limitò ad abbassare gli occhi per rivolgerle una breve occhiata dolce ma terribilmente desolata.

Andrà tutto bene.

«Ora basta» si alzò una voce cavernosa tra le Facce Ruvide.

Qualcuno si voltò, altri sollevavano le sopracciglia con aria sorpresa, altri ancora presero a grattarsi la barba, nervosi ed eccitati per quello che parve l'inizio di uno scontro. In un attimo scese di nuovo il silenzio, rotto solo dallo sbuffare irrequieto dei cavalli. Tutti si voltarono a guardare il proprietario della voce, un uomo grosso quanto un orso e dall'espressione scontrosa, che usciva a grandi falcate dalla schiera degli altri compagni. Lynlee sollevò lo sguardo con timore: non ci mise molto a riconoscere la barba castano-rossiccia che andava ingrigendosi, le spalle larghe, la statura forte e massiccia, gli occhi da lupo, la lunga cicatrice che gli solcava il braccio sinistro. Era Will Ferguson.

«Torna al tuo posto, Will» ghignò Kuumo, ignorando i soffi agitati di Seiche. «Non vedi che mi sto divertendo?».

«Divertiti all'inferno, allora» fu la risposta. «Hai scelto il momento sbagliato per intrattenere il branco con le tue pagliacciate da due soldi».

Il sorriso sul volto di Kuumo si affilò, gli occhi si allargarono in un'espressione di profonda ilarità, la voce gli cambiò di tono. Lasciò andare Seiche, che cadde a terra con una smorfia furente e sconfitta.

«Oh, sento odore di invidia, Will. Invidia marcia».

«Chiudi quella dannata fogna e ascolta» intimò Will avvicinandosi truce. «Abbiamo un appuntamento a Perth, questa sera, al quale io intendo presentarmi. Se le tue stupide trovate da buffone ci fanno ritardare, giuro che nulla mi tratterrà dal prenderti a calci fino davanti alla tenda di Greyback».

Erano faccia a faccia. Kuumo gli puntò un dito sul petto con fare giocoso.

«Non provare a dirmi cosa devo fare, Will. Non ci provare proprio».

«Allora vedi di sbrigarti» rispose piano Will.

Si guardarono intensamente negli occhi, gelidi e infastiditi, o forse solo un po' annoiati. Tutti gli uomini per un lungo istante di silenzio sembrarono trattenere il repiro. Un cavallo da dietro sbuffò un mezzo nitrito.

«Tagliamogli la gola» decise infine Kuumo.

«Tagliamogli la gola» approvò lanconico Will.

«Prendete la mocciosa. Voglio che guardi».

Accadde tutto troppo rapidamente. Qualcuno l'afferrò dal dietro, strappandola dal mantello dell'abaich, e un istante dopo li avevano separati.
Gridò, scoppiò a piangere, cacciò le unghie nelle grosse braccia che la stringevano, si dimenò con tutte le proprie forze. Fu tutto inutile: la Faccia Ruvida che la tratteneva le mollò un ceffone, e qualcosa di caldo prese a scorrerle sul viso, entrarle in bocca insieme alle lacrime, a percorrerle il collo e sporcarle il vestito.
Al sapore salato si unì quello ferruginoso del sangue. Lynlee tentò di deglutire, ma il pianto le aveva reso il respiro spezzato e tremante. Fece per gridare, ma si ritrovò senza voce. Era finita.

Cedette tra le grosse braccia della Faccia Ruvida, che la sollevò da terra. Sentì l'uomo stringerla a sè, premerle il viso ispido di barba contro il collo e inspirare a fondo con forzata lentezza. Inspirò ed espirò, una volta, due, tre, con l'avidità di un animale. A poco a poco parve calmarsi.

«Non volevo farti sanguinare» mormorò poi in un sussurro profondo, appoggiando la fronte contro la sua testa con leggero affanno. «Perdonami».

Ma Lynlee guardava Alistaire, e il resto non contava. Lasciò che Will Ferguson si sporcasse il naso e le labbra del suo sangue, che le accarezzasse i capelli, che le cancellasse con le dita arrossate le lacrime che le bagnavano il viso. Le forze l'avevano abbandonata.
Allungò la mano verso il vuoto e, scossa dai singhiozzi, guaì piano.

«A'aich…»

Lo circondavano, lo avevano preso. Ormai non c'era speranza per il suo Alistaire, per il suo Protettore.
L'ultima cosa che vide fu Kuumo che gli puntava la punta affilata del coltello alla gola. Alistaire lo guardava dritto negli occhi, immobile, con lo stesso sguardo fermo da abaich che aveva mostrato il giorno prima nei confronti con Seiche.

Poi Lynlee chiuse con forza gli occhi, si coprì le orecchie con le mani, voltò la testa dall'altra parte, e tutto in un istante si fece buio. Pregò che finisse presto. Non voleva vedere il corpo senza vita di Alistaire accartocciato sull'erba secca, la gola recisa sotto il bavero del mantello e una pozza scura che si allargava sotto di lui. Non voleva bagnarsi del suo sangue ancora caldo. Voleva solo tornare a giocare con Bunny e Akemon, scappare via, andarsene lontano da quella prateria, dalle Facce Ruvide e dai loro coltelli maledetti.

La volpe lo ha tradito, e ora il lupo è accerchiato dagli sciacalli. Sono decine, lo guardano con gli occhi malvagi che brillano: ma il lupo è forte e grande, li spaventa e li sconfigge. Gli sciacalli scappano via. Il lupo li sconfigge. Li sconfigge, e loro scappano… salverà la cucciola… corrono via… il lupo li sconfigge… li sconfigge…

Qualcuno le strappò rudemente le mani dalle orecchie, prima di afferrarla per i capelli.

«Ti avevo detto di guardare, dannata ragazzina!» le ringhiò in faccia la voce di Kuumo. «Apri quegli occhi, o giuro che te li cavo con questo stesso coltello!».

Lynlee sollevò tremando le palpebre. La vista era tutta confusa e sfocata, non distingueva nulla che non fossero macchie di colori scuri sul cielo che albeggiava. Kuumo strinse la presa sui suoi capelli e le strattonò il viso verso l'alto.

«Guardalo, il tuo forestiero» lo sentì proseguire col fiato grosso e un ghigno feroce sul volto, indicandolo con la lama del coltello. «Guardalo. E vedi di fare attenzione mentre lo sgozzo, intesi?».

Lynlee si fregò gli occhi bagnati con il dorso della mano. E lo vide.
Le Facce Ruvide lo circondavano, rudi ed eccitate come cani attorno ad una preda, ma Alistaire non le degnava di uno sguardo.
Kuumo ghignò.

«Tienila d'occhio» disse poi a Will, facendo un cenno verso Lynlee. «Voglio che impari la lezione».

«Fa' quello che devi» grugnì di risposta Will. «Ma che sia rapido. Tutto questo sangue mi sta dando alla testa».

Kuumo annuì con un verso, lasciò la presa sui suoi capelli, si voltò e tornò da Alistaire. Lynlee gemette piano.

«N-no… lui… lupo mannaro… per favore…»

«Oh, taci, ragazzina» mormorò Will Ferguson. «Voglio ascoltare».

La voce di Kuumo si alzò nel vento della prateria.

«Abbassa gli occhi, lurido cane».

«L-lupo… come noi…»

«Non hai il coraggio di uccidere un uomo che ti guarda?» sentì mormorare la voce profonda dell'abaich in tono forzatamente gentile. «Mi aspettavo di più dal branco di Greyback».

«N-no… lupo… per favore…»

«Non osare parlare di cose che non conosci, dannato forestiero!» ringhiò Kuumo.

«Uccidimi». Il ronzio degli insetti riempì le orecchie di Lynlee per un lungo istante, e la bambina tacque. Il viso in fiamme le pulsava. Non aveva fiato. «Fallo. Avanti».

«Hai paura, forestiero».

Si sforzò e strizzò gli occhi. Attraverso un velo di lacrime vide Alistaire scuotere impercettibilmente la testa, la lama alla gola e gli occhi fissi in quelli di Kuumo.

«Sei tu ad averne».

«Non sfidare la mia pazienza, lurido cane» lo avvertì Kuumo.

Lynlee si aggrappò debolmente al mantello di Will Ferguson. L'uomo la guardò infastidito.

«No... » riuscì a guaire con un filo di voce. «Ti prego…»

«Si può sapere che diavolo ti prende, ragazzina?».

«Lupo mannaro… come noi…»

Il ringhio di Kuumo fece vibrare l'aria.

«Intendi prenderti gioco si me, forestiero? Abbassa quei luridi occhi quando ti parlo!»

«Kuumo» mormorò ad alta voce Will, guardando con esitazione Lynlee. «Kuumo, aspetta».

Le Facce Ruvide si voltarono di nuovo verso di loro. Will Ferguson, a terra con la bambina stretta tra le braccia, alzò il viso verso Kuumo e Alistaire. Poi lasciò sciolse la presa su Lynlee, si tirò in piedi e li raggiunse.

«Forestiero» disse. Gettò una breve ma eloquente occhiata a Kuumo, appoggiò una mano su quella tesa del compagno che stringeva il coltello, glielo sfilò dalle dita e mormorò: «Sono cicatrici, quelle che ha addosso».

Tutti videro Will Ferguson gettare il coltello a terra con disprezzo, sotto lo sguardo astioso e deluso di Kuumo.

«Ehi, Will» esclamò confuso qualcuno tra le Facce Ruvide. «Che succede? Perchè non lo sgoz…?».

«Taci, Filnan» ringhiò seccato Will, afferrando le briglie di un grosso ed imponente cavallo bruno. Il giovane chiamato Filnan impallidì. «Siamo già fin troppo in ritardo».

Montò in sella e le altre Facce Ruvide lo imitarono. Persino Kuumo, recuperato il proprio coltello e gettato uno strano sguardo su Seiche, seguì di malavoglia i compagni. Alistaire trasse un profondo respiro, le sue spalle si rilassarono. Lynlee balzò in piedi e arrancò una debole corsa.

«Abaich

Alistaire la vide, si accovacciò, e Lynlee si rifugiò tra le sue braccia. Lo strinse con tutta la poca forza che le rimaneva dopo quella terribile mattina. Lui era rigido. Forse non se l'aspettava.

La volpe è sconfitta dalle sue stesse trame, gli sciacalli fuggono via: il lupo e la cucciola sono salvi.

***

Quando ebbe il controllo del proprio cavallo, Will Ferguson lanciò un'occhiata ad Alistaire: lo straniero, che si era accovacciato per consolare in un abbraccio la piccola Lynlee, gli rispose con uno sguardo riconoscente.






Note dell'autrice: Dovrei utilizzare questo spazio per dire qualcosa di serio, e difatti sarà quello che farò… se solo mi venisse in mente qualcosa di serio da dire. Altrimenti vi invito alle solite recensioni buone\cattive\lancio di pomodori e patate\quello che vi pare. Spero che la storia non sia assimilabile ad un omogenizzato di seconda marca (come invece temo); ad ogni modo, lasciatemi un piccolo commentino! Mi fareste strafelice. Intanto grazie a tutta la bella gente che mi supporta, che recensisce e che ha infilato questa umile storia tra le sue preferite, seguite o ricordate.
Ciao e alla prossima,

- Kway


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Capitolo 6
*** Novembre ***


Non appena udì il rumore della serratura chiudersi con un lieve clack alle sue spalle, Tonks tirò un lungo sospiro di sollievo. Finalmente a casa - sempre che casa si potesse chiamare, quel misero posticino al secondo piano del Paiolo Magico. Niente di speciale: un letto caldo, una doccia, qualche mobiletto da due zellini e un maledetto lavandino che gocciolava senza pietà quando lei dormiva. O almeno ci provava. Da quando Remus era partito non riusciva a pensare ad altro che non fossero le sue maniere gentili, il suo sguardo dolce e un po' malinconico, il profilo delle sue spalle, il vecchio mantello da viaggio con cui si rifugiava dal freddo di una vita senza più nessuno, lontano dai maghi, lontano da lei. Tentava disperatamente di non pensarci, di lasciare che il lavoro la tenesse impegnata fino a tardi, per poi tornare lì e affondare la testa sempre più pesante in un polveroso cuscino del Paiolo Magico. Tentava di scivolare nel sonno il più velocemente possibile, ricorrendo persino a tazdi camomilla bollente (lei, che la camomilla per inciso la odiava) pur di riuscirci; e così, mentre era tutta affaccendata a trovare bollitore e bustine, suo malgrado si ritrovava a pensare a lui e al suo modo speciale di preparare il tè. Allora lasciava lì tutto e andava a letto, ma il lavandino gocciolante certo non aiutava a migliorare le cose.

Sospirò, si slacciò il mantello da sopra le spalle e lo gettò senza troppi riguardi su quello che avrebbe dovuto essere un sofà - il quale, per tutta risposta, cacciò un raccapricciante cigolìo.

«Oh, sta' zitto» sbuffò Tonks.

«Oh, sta' zitto» ripetè il divano.

Ecco, ci mancava solo quello: un divano parlante con la mania di fingersi un grosso ed alquanto tarchiato pappagallo. Tonks masticò un'imprecazione, chiuse gli occhi, si massaggiò le tempie e strinse i denti. Calmati, Tonks, va tutto bene. Sei solo un po' nervosa, tutto qui. Fidati di me.

Perché diavolo la sua coscienza aveva la voce di Remus? Bel mistero. Sospirò: Merlino, quanto le mancava. Lo immaginava tra quelle bestie di Grayback, trasandato, con la barba lunga e gli occhi onesti che si opponevano ai più meschini orrori delle periferie. Tonks sapeva di cosa fossero capaci quei mostri. Era nel manipolo di Auror che aveva sorpreso un lupo mannaro assalire una ragazza a Sevenoaks, nel Kent, un paio di settimane prima: la cattura era stata rapida, un gioco da ragazzi, ma talmente discreta da dare a Tonks la vaga impressione che qualcosa non quadrasse come avrebbe dovuto.

«Come è andata a finire la storia del lupo mannaro di Sevenoaks?» aveva chiesto una sera a Kingsley, tornando a casa.

Kingsley non le aveva risposto subito. Sulle prime si era limitato a guardarla come si guarda un uovo di Dorsorugoso sul punto di schiudersi; poi aveva abbozzato una smorfia.

«Non te l'hanno detto?» si era sforzato di rispondere.

Scoprì che lo avevano ritrovato morto nella propria cella due giorni dopo, con le vene dei polsi recise a morsi e gli occhi cavati dalle orbite. Aveva ancora addosso l'odore di quella povera ragazza, dicevano.

***

La prima cosa che Remus vide quando aprì gli occhi fu un vasto cielo Babbano color bianco latte. Sbatté un paio di volte le palpebre, si passò una mano sul viso e scoprì di avere la barba bagnata. Faceva un gran freddo per essere novembre: il fiato si condensava davanti alle labbra in sbuffi di vapore, il terreno era umido e gelato, la brina ricopriva la vasta prateria circondata dai boschi.
Si mise lentamente a sedere, scoprendo che molti degli altri lupi mannari si stavano già affaccendando a tornare alla normalità dopo una notte passata a godere e a soffrire nel sangue dei compagni. Alcuni si preoccupavano di accendere un misero fuoco accanto alla propria tenda, altri si sciacquavano di dosso il sangue con la poca acqua che rimaneva. Molti erano ancora a terra, privi di sensi, e qualcuno battendo i denti gemeva. Sorprese gli occhi di una giovane donna avvolta in un lacero mantello grigio che lo guardavano con sfacciato interesse, forse curiosità, ma subito scomparvero dietro ad una tenda.

Fu a fatica che si levò in piedi, ben stretto nel mantello che in un fugace attimo di lucidità era riuscito a mettere da parte, e avanzò qualche passo un po' zoppicante sulla brughiera gelata. Si sforzò di non fare caso all'erba secca che pungeva sotto i piedi, lasciando invece vagare lo sguardo e l'attenzione al campo.

Poco lontano, Will Ferguson, con un visibile squarcio sulla spalla, stava rimescolando una brodaglia in una grossa pentola sul fuoco. Il cipiglio concentrato e vagamente minaccioso avrebbe potuto facilmente ingannare chiunque, ma non Remus. Quando alzò gli occhi e lo vide, Will arrangiò una smorfia.

«Forestiero» lo salutò.

Remus annuì debolmente e, chiudendo gli occhi e stringendo i denti, si lasciò scivolare a sedere accanto al fuoco. «Cucini?»

«Oh, no. Per la verità cavo conigli da un dannato cilindro».

«Posso aiutarti, se vuoi».

Will sollevò scettico un sopracciglio. «Sai cucinare?»

Remus schiuse gli occhi, e per un momento gli venne persino da sorridere. Guardò Will, e Will guardò lui.

«So cavare conigli dai cilindri» rispose con aria innocente. «e anche cucinare».

«Imbecille» decretò Will, ma Remus vide che sorrideva. «Imbecille e pure forestiero».

«Alistaire».

Remus allungò a fatica una mano e Will gliela strinse.

«Alistaire...?»

«Alistaire e basta».

«Piacere di conoscerti, Alistaire E Basta. Will Ferguson».

Un vento freddo che spirava da nord mosse per un attimo i capelli degli uomini e la polvere ai loro piedi. Lo sguardo di Remus si era perso nel fuoco che scoppiettava senza calore, in quella landa desolata dimenticata da Dio. Poi, come un fulmine a ciel sereno, un pensiero gli attraversò la mente.

«Will» mormorò Remus, alzando gli occhi verso di lui. «Dove sono i bambini?»

L'espressione di Will si fece confusa, e Remus lo vide stringersi nelle spalle.

«Solo la luna lo sa» rispose vago, grattandosi con sovrappensiero la barba, e subito si corrucciò. «E adesso dove hai intenzione di andare?»

«A cercarli» si affrettò Remus alzandosi. «E a portarli qui».

«Puoi scordartelo».

«Quei bambini hanno bisogno di aiuto, Will».

Stava per voltarsi quando Will lo bloccò, afferrandolo saldamente per un braccio.

«Ascoltami bene, Alistaire. Sei un forestiero, d'accordo? Non sai come funzionano le cose qui. Anche se lo volessi con tutto te stesso, non potresti sperare di salvarli tutti. È la legge della natura» abbassò per un momento lo sguardo, e la presa sul braccio di Remus si allentò. «I Baffi Rossi sono l'anello debole del branco, sai. Ad ogni plenilunio alcuni se li prende il fiume... altri muoiono per le ferite... altri semplicemente spariscono. Non vale la pena di affezionarsi».

Remus, irremovibile, lo guardò dritto negli occhi.

«Will» disse soltanto. «Fidati di me».

***

La fanciulla si chiamava Rosie, aveva diciott'anni e si era appena innamorata. Non della Faccia Ruvida a cui apparteneva, sia chiaro. Era stato il forestiero arrivato a Dunkeld da poco a catturare la sua attenzione, con quel suo odore di magia e la sua clemenza verso i Baffi Rossi. C'era qualcosa di inspiegabile in lui che aveva la straordinaria capacità di attirarla e capace allo stesso tempo di metterle in corpo una grande inquietudine. Rosie, al pari di qualunque altra ragazza cresciuta in una comunità di mannari, temeva il potere immenso dei maghi - e quell'uomo ne era intriso. Eppure gli occhi erano quelli di un lupo mannaro, e anche quella cautela nel muoversi era quella di un lupo mannaro. Tutto in lui ricordava gli altri uomini della sua specie. Eppure...
Aveva giudicato saggio abbassare lo sguardo quando il forestiero aveva posato gli occhi su di lei, e subito si era nascosta dentro la tenda che condivideva con altre due giovani ragazze, Annabel e Sora, che al momento non erano ancora tornate dalla notte di caccia. Si sedette in ginocchio sulla propria stuoia, socchiuse gli occhi e respirò a fondo. Quella luna era passata bene, tutto sommato: niente ferite, niente capricci delle Facce Ruvide, niente di niente. D'altronde, ricordare qualcosa della notte appena trascorsa era pressoché impossibile. Così sedette e aspettò.
E aspettò.
E aspettò.

Quando Sora entrò nella tenda, a mattina inoltrata, arrancava e piangeva; i pochi abiti che aveva addosso erano strappati. Rosie le era corsa incontro e l'aveva abbracciata, accarezzandole la testa mentre i singhiozzi le scuotevano le spalle.

«Andrà tutto bene» provò a consolarla.

Sora continuava a piangere, e con una mano sporca si copriva il ventre.






Note dell'autrice: Ehilà, gente di Efp! Dopo una lunga ed imperdonabile assenza, rieccomi qui a rompervi le scatole con un nuovo capitoletto. Sì, lo so, è terribile. Chiedo umilmente venia per il fatto che sia scritto coi piedi, ma a mia discolpa posso assicurarvi che al momento la voglia di mare sta occupando il 97% delle mie funzioni cerebrali. Il restante misero 3% non è coperto da assicurazione, motivo per cui mi tocca trattarlo con tanto affetto e generosità, ricordandomi di non sovraccaricarlo di troppo lavoro inutile.
Ma torniamo alle cose serie. Aspettate! Ma ho davvero qualcosa di serio da dire? Ovviamente no. Volete forse farmi infortunare proprio quel 3% dei neuroni che non è assicurato? Suvvia, non diciamo sciocchezze.

Intanto vi invito a recensire (se vi va), e ringrazio tutti coloro che seguono questa mia umile storiella/la preferiscono/la ricordano/la recensiscono/semplicemente la leggono sotto l'ombrellone.
Ciao, e alla prossima!

Kway (e il suo gatto)













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