Of All People (You)

di effewrites
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** you came in like a wrecking ball (no seriously dude what the fuck) ***
Capitolo 2: *** step 1: do not be a jerk. step 2: don’t fail step 1 for fuck’s sake ***
Capitolo 3: *** concept: me, getting my shit together ***
Capitolo 4: *** when all I needed was the truth ***
Capitolo 5: *** new life who dis ***
Capitolo 6: *** mhhh whatcha say ***
Capitolo 7: *** walking to the club like whatup i got social anxiety so i really wanna go home ***
Capitolo 8: *** this could be us but you sleepin' ***



Capitolo 1
*** you came in like a wrecking ball (no seriously dude what the fuck) ***


 
SETTEMBRE

you came in like a wrecking ball (no seriously dude what the fuck)



Vorrei poter dire di aver letto abbastanza fan fiction ambientate in college immaginari da essere emotivamente preparata a qualunque scenario possa presentarsi davanti a me quando scenderò dall’autobus. Vorrei poterlo dire, davvero. Non è un caso se ho trascorso l’ultima settimana a casa a New York a leggere pagine su pagine di letteratura gratuita scroccando la connessione wifi dello Starbucks a pochi passi da casa mia. Vorrei dirlo. Lo giuro. Ma sono consapevole del fatto che nessuna fan fiction avrebbe potuto prepararmi a questo.

“Porca merda,” mormoro, strabuzzando gli occhi mentre premo le mani contro il vetro del finestrino. L’autobus si ferma e l’autista chiama il nome della fermata, per cui scuoto il capo e mi sbrigo a raccogliere la mia valigia e la giacca che ho usato come cuscino durante il viaggio. Percorro il corridoio tra i sedili fino a raggiungere la porta d’uscita, e prima di scendere mi volto a salutare l’autista con un cenno della mano. E’ stato gentile prima, quando sono salita alla stazione. E ho deciso di lasciare la vecchia me, quella scontrosa, a casa.

Le porte si chiudono alle mie spalle e l’autobus riparte, lasciandomi sola ad ammirare la maestosità dell’Olympia University.

Due ragazze camminano sul marciapiede, ridendo tra loro. Mi scosto per lasciarle passare, ma loro deviano comunque il loro percorso e si avviano verso uno dei palazzi laterali passando per il prato. Scompaiono dalla mia visuale dietro ad un albero, lasciandomi nuovamente sola. Tiro un po’ più vicino a me la mia valigia. Quando una brezza leggera scompiglia le foglie degli alberi che decorano il viale decido d’indossare la giacca – la finta pelle nera ha un doppio effetto quando scivola sulla pelle nuda delle mie braccia: mi riscalda e mi fa sentire più forte. Un po’ più tosta. E’ il potere delle giacche di pelle, un potere di cui sento di aver bisogno mentre mi avvio verso quello che credo sia il palazzo principale del campus, accompagnata dal rumore delle ruote del mio trolley sui ciottoli del viale.

E’ ora di pranzo, per cui non c’è quasi nessuno in giro salvo qualche studente che cammina svelto nei corridoi o controlla gli avvisi affissi alle bacheche che incontro più di una volta nella mia ricerca di qualcuno a cui rivolgermi per chiedere indicazioni riguardo alla stanza che occuperò per i prossimi mesi.

L’Olympia è fottutamente enorme, ragazzi. Non sono una cima quando si parla di arte, ma il fatto che vi siano colonne ovunque, insieme a statue di marmo a grandezza naturale di personaggi vestiti di tuniche e con sguardi austeri, mi dà l’illusione di trovarmi in qualche costruzione neoclassica. Linee pulite ed eleganti ovunque si posi il mio sguardo. Marmo e legno sono i materiali che predominano. Le pareti hanno colori chiari, dei bianchi perlati tendenti a tonalità più calde quando vengono illuminati dalla luce del sole. Con i miei abiti neri risalto come una macchia d’inchiostro su di un foglio bianco.

Dopo un quarto d’ora di vagabondaggio solitario decido di prendere coraggio e intercetto una ragazza che arranca nella mia direzione portando tra le braccia una colonna di libri talmente alta che a stento riesco a vederla in viso. L’unica parte di lei che riesce a sbucare al di sopra dei libri è una crocchia disordinata di capelli rosso fragola.

Mi sento quasi in colpa mentre la fermo, domandandole se sa indirizzarmi vergo la segreteria. La ragazza mi rivolge un singolo sguardo prima di abbassare di qualche centimetro le braccia, in modo tale da non avere la visuale coperta. Mi dà le indicazioni che mi servono, parlando lentamente e ripetendo più volte le direzioni che devo prendere nonostante il peso che si porta dietro spingerebbe chiunque a essere sbrigativo, ma prima che io possa ringraziarla chiedendole se ha bisogno di una mano la ragazza sorride e riprende a camminare a passo svelto.

Oh, be’.

Trovare la segreteria è molto più facile adesso. Scopro con un moto di stizza di esserci già passata davanti almeno due volte, ed entrambe le volte non me ne sono accorta perché non vi è nessun cartello a indicare che quella minuscola, misera porta nascosta tra un ficus benjamin e la statua di una capra sia l’entrata della segreteria.  

Sospiro silenziosamente. Sono stanca e affamata, e il braccio inizia a dolermi per aver trasportato il trolley per ore intere da questa mattina all’alba. Ma, mentre le mie dita sfiorano la fredda maniglia della porta, sono anche calma. Serena. Non lascerò che il mio umore venga guastato da qualcosa di così –

“WOAH!”

La maniglia sfugge alla mia presa e in men che non si dica mi ritrovo spintonata all’indietro. Sbilanciata anche dal peso del trolley inizio a cadere, e tutto prende a scorrere a rallentatore: ci sono io, inclinata pericolosamente all’indietro, con una mano ancora sporta in avanti, e il mio primo istinto è di aggrapparmi a qualcosa. Qualunque cosa. Ma le mie uniche opzioni in questo momento sono la statua di una capra o una maledettissima pianta.

Chiudo gli occhi mentre le mie dita si stringono intorno a un ramo del ficus benjamin, con l’unico risultato di farlo cadere insieme a me. Per cui, oltre al cadere con il culo per terra, inciampando tra l’altro nella mia stessa valigia, mi ritrovo con una pianta in faccia e un forte dolore all’altezza del naso. Ahia.

“Oh mio Dio,” sento mormorare al di sopra di me, ma le foglie sul viso mi oscurano la visuale. Qualcuno alza la pianta caduta, e registro distrattamente la sensazione di essere ricoperta di terreno. Senza le foglie davanti agli occhi vedo un ragazzo alto, bianco cadaverico, con un’espressione impietrita in viso. “Stai bene? Oddio, merda, mi dispiace! Sei sbucata dal nulla!”

Io sarei sbucata dal nulla?!” esclamo. “Mi hai letteralmente travolta!”

Il biondo boccheggia qualcosa, apre e chiude la bocca come fosse un pesce, ma l’unico suono che arriva alle mie orecchie è quello di un cellulare che squilla. Alzo una mano a toccarmi il naso e chiudo gli occhi quando una scarica di dolore mi attraversa il viso. Si tratta di un dolore sordo, però, e sotto le mie dita non mi sembra ci sia nulla di rotto. Se avessi afferrato la capra, anziché la pianta, forse adesso starei raccontando una storia diversa.

Quando guardo di nuovo di fronte a me il ragazzo è scomparso. Fottutamente incredibile. Sgrano gli occhi per via della rabbia e dello stupore di fronte alla sua vigliaccheria e faccio per rialzarmi con una smorfia, ed è allora che un paio di braccia mi aiutano a rimettermi in piedi.

“Cielo, stai bene? Ti sei fatta male?”

Davanti a me c’è quella che credo possa essere la ragazza più bella che io abbia mai visto nel corso dei miei diciannove anni di vita. I suoi grandi occhi azzurri contornati da ciglia lunghe e folte mi scrutano con apprensione. Le labbra piene sono arricciate in una piega preoccupata. Dai suoi capelli neri e luminosi giunge al mio naso pesto un profumo di gelsomini che per qualche assurdo motivo sembra rendere il dolore più sopportabile. Wow.

“Penso di aver ucciso la pianta,” biascico, e la ragazza mi guarda confusa prima di aprirsi in un sorriso.

“A nessuno piaceva quella stramaledetta pianta,” mi dice. “Vieni con me.”

***

La ragazza si presenta come Silena Beauregard.

“Talia Grace,” rispondo. “E grazie per avermi accompagnata in infermeria.”

Silena scuote il capo, sprigionando altre ondate di profumo dai suoi capelli. “Nessun problema. E poi era sulla strada per i dormitori.”

Prima di lasciare la segreteria maledetta per accertarmi di non aver riportato ferite gravi per via della caduta ho insistito per domandare a chi di dovere informazioni riguardo la mia stanza. La segretaria, lanciandomi strane occhiate, mi ha procurato una pianta del campus e mi ha segnato la strada per giungere al dormitorio, dandomi poi la chiave d’accesso magnetica della stanza 235.

“Le tue compagne di stanza sono già arrivate,” mi ha informato la segretaria. Ha poi stampato alcuni documenti da farmi firmare, e poi si è sporta verso di me per suggerirmi con fare confidenziale di passare per l’infermeria a far controllare il mio naso.

Ho deglutito. Le ho detto, sentendomi vagamente in colpa nonostante i residui di rabbia, che mi dispiaceva per il ficus che ho fatto cadere.

Lei si è stretta nelle spalle e mi ha risposto che tutti odiavano quel ficus.

“Quiiindi,” mormora Silena, fermandosi a gettare le carte dei sandwich che abbiamo comprato in uno dei bar lungo la strada per far calmare i nostri stomaci. “Starai nel dormitorio della zona nord, giusto? Il Poseidon. Come me,” sorride, e si tratta di un sorriso talmente genuino che sento le orecchie arrossarsi. Non so se Silena sia gentile di natura o se la pietà per le mie recenti disavventure la stia spingendo a essere carina nei miei confronti, ma in ogni caso il suo atteggiamento è… confortante.

“Non sapevo neanche vi fosse più di un dormitorio, a dire il vero,” rispondo, grattandomi il naso. L’infermiere di turno ha giudicato opportuno spruzzarmi una qualche sorta di spray ghiacciato sul naso per poi piazzarci sopra un enorme cerotto, che adesso inizia a pizzicare. Silena nota i miei gesti e, con le sopracciglia aggrottate, scaccia via la mia mano dal viso intimandomi di lasciar stare la medicazione.

“Be’, c’è il Poseidon a nord e l’Hades a circa una ventina di minuti a piedi da qui,” dice, mentre ci avviciniamo sempre di più al Poseidon, un palazzo bianco di dimensioni notevoli che si curva lievemente intorno a un prato con una piccola fontana in pietra nel centro. “I docenti che restano nel campus hanno le proprie abitazioni nella zona a ovest più esterna, e anche molti degli studenti sono pendolari. Due dormitori bastano e avanzano.”

All’interno, il dormitorio è in netto distacco rispetto all’edificio principale dell’università. Si tratta chiaramente di una costruzione moderna, con porte scorrevoli attraverso le quali si entra nell’atrio, molto simile alla hall di un qualunque albergo. Silena mi indica la strada che porta alla zona relax, dotata di televisione comune e diversi divani e poltrone, e mi suggerisce quale delle macchinette poggiate contro il muro distribuisce gli snack migliori. Ci avviciniamo poi al bancone della reception per comunicare le mie credenziali al ragazzo di turno. Il tipo digita velocemente sul computer e prende la mia chiave per magnetizzarla. Silena sorride ancora ed esclama: “Siamo nella stessa ala!” quando, recuperata la chiave, ci avviamo verso gli ascensori. La mia stanza è al secondo piano, ma la prospettiva di usare le scale ora come ora mi atterrisce.

Il chiacchiericcio di Silena mi distrae abbastanza da allontanare dalla mia mente l’idea che sto per incontrare le mie compagne di stanza, vale a dire le persone con cui volente o nolente dovrò trascorrere il resto dell’anno. Una parte di me si trova a fantasticare su come sarebbe stato essere compagna di stanza di Silena, se non altro per il fatto di aver già rotto il ghiaccio.

Quando le porte dell’ascensore si aprono, alzo il mento e mi auto convinco che andrà bene, e se anche così non fosse allora be’, non sarà la fine del mondo. Sono in quest’università per prendere una laurea, e posso farlo anche se detesterò le mie compagne di stanza. E poi si tratta solo per un anno. Appena avrò abbastanza soldi da parte, prenderò anche io un appartamento fuori dal campus.

“Andrà bene,” mi dice Silena, come se avesse letto nei miei pensieri. La sua stanza, seppure nella stessa ala della mia, è in un corridoio diverso. Prima di lasciarmi andare mi stringe in un abbraccio, cogliendomi totalmente di sorpresa.

So di essere rigida tra le sue braccia, e per quanto mi sforzi non riesco a ricambiare il suo abbraccio. Anzi, cerco di allontanare il viso. Ma Silena non pare esserne turbata, e dopo avermi salutata con un cenno della mano s’incammina verso la sua destinazione.

Sono di nuovo sola.

Il display del mio telefono – uscito miracolosamente inerme dalla caduta di poco fa – segna le tre del pomeriggio passate, e nonostante ciò nel corridoio risuonano voci concitate. Riprendo a camminare, stringendo in una mano il manico del trolley, che pare essere divenuto in queste ultime ore un prolungamento del mio braccio, e nell’altra la chiave magnetica della mia stanza. 235.

Mentre le ruote della valigia scivolano placidamente sul linoleum del pavimento, realizzo che le voci che risuonano per tutto il corridoio provengono esattamente dalla stanza 235.

Questa intera giornata sembra essere una sfida alla mia pazienza e ai miei buoni propositi.

Il click della serratura è appena udibile quando inserisco la carta magnetica, e non appena apro la porta ho un déja-vu di questa mattina – solo che a travolgermi adesso non è una persona fisica, ma le urla delle persone che stanno occupando la stanza.

Due ragazze. La prima che cattura la mia attenzione è anche la più massiccia: alta e muscolosa, mi basta gettarle uno sguardo per intuire che è il tipo di persona con cui non bisogna fare gli idioti. I suoi capelli castani sono tirati indietro da una bandana rossa, all’incirca dello stesso colore del suo viso contorto in un’espressione furiosa.

La destinataria di quello sguardo deve essere la mia seconda compagna di stanza. E’ più minuta rispetto all’altra, ma il suo viso abbronzato trasmette la stessa determinazione. Parla muovendo le mani e la testa, e la cosa deve crearle fastidio perché a un tratto usa un elastico che porta al polso per fermare i capelli ricci e biondi in una coda di cavallo.

“Il fatto di essere arrivata per prima mi dà il diritto di occupare la stanza singola, punto! Fattene una ragione, scricciolo!” esclama Bandana. La bionda stringe i pugni così tanto che mi sembra di vederli tremare, e oddio, porca puttana, vi prego non ditemi che mi troverò nel mezzo di una rissa il mio primo giorno qui all’Olympia.

“Ti sto dicendo che sono comunque arrivata prima io, ma ho avuto il buonsenso di non iniziare a marcare il territorio, perché sarebbe stato semplicemente un comportamento da rozzi e–”

Mi stai dando della rozza?!

Lascio sbattere con forza la porta alle mie spalle. Il rumore improvviso fa sobbalzare le due ragazze, distraendole momentaneamente dalla loro lotta territoriale. Ben consapevole della mia espressione impassibile, le scruto in viso una per una, cercando di placare il sordo rimbombare nel mio cervello che oramai non so più se sia dovuto alla stanchezza per il viaggio, alla caduta o al fatto di essere apparentemente in stanza con due persone che non sanno essere fottutamente civili.

“Sei la terza inquilina?” domanda infine la bionda.

Annuisco lentamente.

“…che ti è successo alla faccia?”, domanda Bandana con una smorfia in viso.

Sono a un tanto così dall’esplodere.

“Te lo spiego subito,” mormoro. “Mi sono svegliata alle quattro del mattino. Alle cinque e mezzo ho raggiunto la stazione del treno. Dopo sei ore di viaggio scendo dal treno solo per salire sull’autobus che mi ha portata al campus. Ho vagato come un’anima in pena alla ricerca della segreteria, stanca e affamata, e quando finalmente l’ho trovata un coglione mi ha gettata per l’aria per poi sparire, e nel mentre mi sono fatta cascare in faccia una cazzo di pianta enorme. Ma la scelta era tra quella e una capra di marmo, per cui non mi lamento.”

Bandana lascia sfuggire dalle labbra un fischio. La bionda fa per dire qualcosa, ma la interrompo alzando una mano.

“Ora, mi sembra di capire che il problema sia una stanza singola. Non m’importa nulla di chi la occupa. Non la voglio neppure. Ma adesso andrò a crollare sul primo letto che troverò, e qualunque problema abbiate a riguardo rimarrà non discusso fino a quando non avrò in corpo almeno otto ore di sonno e un paio di antidolorifici.”

Mi faccio strada per la stanza, registrando distrattamente il fatto che sia un salone relativamente spazioso con due porte in legno che occupano una parte del muro. La mia mano si posa sulla maniglia della porta più vicina, e nessuno mi ferma quando la apro e la richiudo alle mie spalle.

Le persiane sono alzate quel tanto che basta per distinguere la figura di un letto. Singolo.

Mi ci lascio cascare su mentre un verso gutturale mi risale dalla gola, e l’ultimo suono che sento prima di addormentarmi è quello dei sussurri delle mie compagne di stanza attraverso la porta.

***

So già cosa direte. “Ma Talia, perché hai lasciato New York, la Grande Mela, per trasferirti in un’università così lontana da casa? Non stai rimpiangendo le tue scelte?”

Punto uno. Smettetela di chiamare New York ‘la Grande Mela’. Solo i turisti lo fanno. Ed è solitamente per questo che vengono riconosciuto come turisti e conseguentemente truffati. Punto due. Ho i miei motivi, okay? Non ficcate il naso in questioni private. E punto tre… in fin dei conti, dopo questo burrascoso inizio le cose si sono calmate.

Con le mie compagne di stanza – Clarisse quella con la bandana, Annabeth la bionda – siamo giunte alla conclusione che siccome mi troverò presto un lavoro e studierò principalmente in biblioteca la stanza doppia per buona parte della giornata sarà da considerare come una singola. Questo ha ammorbidito Annabeth, che ha lasciato la singola effettiva a Clarisse.

Di conseguenza, adesso che ancora non c’è un granché da fare al campus, mi ritrovo a trascorrere buona parte del mio tempo con Annabeth.

Non è male come tipo. E’ iscritta al corso di Architettura, con un focus minore in Filosofia Classica. Una strana combinazione, ma da come ne parla sembra entusiasta di cominciare.

Il giorno successivo al mio arrivo è l’ultimo prima dell’inizio dei corsi. In un modo o nell’altro, la mia vita universitaria ha inizio.

***

“Merda merda merda merda merda merda merda!”

Le porte dell’ascensore si chiudono davanti ai miei occhi. Non so quale forza soprannaturale mi aiuti a trattenere la bestemmia che si fa strada spontaneamente verso le mie labbra. Decido di prendere le scale.

Non sono propriamente in ritardo per la prima lezione della giornata. Sono già nel padiglione, tanto per cominciare. Ma a quest’ora dovrei essere già in aula, non quattro piani più giù. Non è colpa mia. Ce l’ho nel DNA il Fattore Ritardo.

Decido di prendere le scale. Il mio sprint mi porta a salire i gradini quasi due a due, e per qualche miracolo quando arrivo al quarto piano, le porte dell’aula dove si terrà il corso di Psicologia 1 sono ancora aperte. L’aula è sorprendentemente più piccola di quanto mi sarei aspettata, sebbene mantenga la disposizione a spalti. L’ambiente è luminoso e moderno. Mi dà una sensazione positiva.

La porta da cui sono entrata è sul fondo dell’aula, in alto, per cui riesco a vedere che i banchi sono stati tutti già occupati. O quasi tutti.

A circa metà dell’aula c’è un posto libero. Lo fisso con insistenza mentre mi ci dirigo con velocità, sperando che nessun’altro abbia puntato la mia stessa preda. All’estremità del banco è seduto un tipo con le braccia incrociate sul ripiano per scrivere e la testa abbandonata su di esse. Forse sta dormendo. Non sarebbe tanto strano, considerato che sono le otto e mezzo del mattino. Ma mi sta ostruendo il passaggio, per cui allungo una mano e scuoto la sua spalla.

“Scusa… hey?” lo chiamo. Il ragazzo sobbalza e alza il viso verso di me. “C’è un posto libero, ti dispiace se – !”

Le parole mi muoiono in gola.

TU!” esclamiamo all’unisono. L’unica differenza è nel tono di voce: il suo è sorpreso, mentre il mio è a dir poco furioso.

“Tu sei lo stronzo di ieri,” realizzo, guardandolo in viso mentre istintivamente alzo una mano a sfiorare il cerotto che mi ricopre il naso – non lo stesso di due giorni fa. Uno più piccolo e discreto, per nascondere il livido formatosi sul mio naso.

Lo stronzo mi guarda. Ha gli occhi di un celeste molto chiaro e una cicatrice biancastra su un lato del viso. Non riesco a credere di averlo incontrato una seconda volta.

“Posso spiegare,” dice lui, alzando le mani davanti a sé nell’universale segno di scuse. Io incrocio le braccia al petto, nell’universale segno di ‘sono a un tanto così dallo spaccarti a mia volta la faccia’.

“Sono tutta orecchi,” lo incito, ma proprio quando lo vedo aprire bocca sento il rumore di una porta che si chiude e il vago mormorio che ha fatto da costante sottofondo fino ad ora svanisce di colpo. Mi volto e noto un uomo di mezza età in giacca e cravatta fare il suo ingresso in aula.

“Buongiorno e buon inizio semestre qui all’Olympia University,” esordisce l’uomo, quasi certamente il professore.

Lo stronzo con la cicatrice si sposta, sedendosi il più lontano possibile da me mentre prendo posto accanto a lui. Tiro fuori la penna e il mio blocco per gli appunti, e prima di rivolgere la mia attenzione al professore gli lancio uno sguardo torvo.

Non è finita qui. 
















Note: Inizio con il dire che questa storia non è betata per cui, per favore, se ci sono errori segnalatemelo e provvederò a correggere :( 
Ho inserito l'avvertimento OOC perché sono anni che non scrivo in questo fandom e temo di essere un po' arrugginita. Ma non riesco a stare troppo tempo lontana dai miei Taluke MI CAPITE VERO?!?! 

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Capitolo 2
*** step 1: do not be a jerk. step 2: don’t fail step 1 for fuck’s sake ***


 
 
ATTENZIONE: Il POV adottato il questo capitolo è quello di Luke.

step 1: do not be a jerk. step 2: don’t fail step 1 for fuck’s sake

Per quanto mi sforzi, non riesco a trovare una via di uscita a questa situazione che non mi faccia passare per un idiota. Me ne sto seduto cercando di occupare il minor spazio possibile, con le sopracciglia aggrottate mentre il professore inizia un discorso introduttivo al corso. Faccio oscillare la matita tra due dita senza mai farla sbattere contro la superficie del banco. Ogni tanto, quando mi sento abbastanza intrepido, con la coda dell’occhio rivolgo lo sguardo alla ragazza seduta accanto a me.

Quattro volte su cinque, lei mi sta già guardando.

Fingo indifferenza, ma in realtà cerco di sprofondare nella felpa che ho indosso in questo momento. Non so se a fomentare i sensi di colpa che mi aggrovigliano lo stomaco sia il cerotto che le copre il naso e che spicca di netto sul mare di lentiggini che le costellano la faccia, oppure la sua corporatura minuta rispetto alla mia. Merda. Avrei potuto farle davvero, davvero male…

Grugnisco, una lamentela che tento di soffocare sfregandomi il viso con le mani. Un tizio seduto nella fila davanti a me si volta e mi lancia uno sguardo sconcertato. Cerco di ignorarlo.

Una veloce occhiata alle lancette del vecchio orologio che porto al polso rivela che sono passati solamente poco più di quindici minuti da quando la lezione è cominciata. Ho ancora almeno un’ora da trascorrere in quest’aula, seduto accanto a una ragazza che, potenzialmente, mi odia.

Devo fare qualcosa, e devo farla adesso: non sono il tipo di persona in grado di mettere da parte i propri pensieri per concentrarsi sull’immediato, in questo caso la prima lezione del primo giorno di università – non esattamente qualcosa che sarebbe furbo lasciar scorrere come sottofondo delle mie elucubrazioni mentali. Tra l’altro, ogni minuto che passa è un minuto in più che mi ricorda come a causa mia questa ragazza si è ferita. E io… non…

Avevo promesso a me stesso che da ora in poi non avrei mai più fatto del male a nessuno. Una fitta alla bocca dello stomaco mi costringe a piegarmi lievemente in avanti, con una mano che stringe nervosamente la stoffa della felpa. Non riesco a credere di aver di già fallito.

“Hey,” mormoro nel voltarmi verso la ragazza. Lei mi guarda con la coda dell’occhio, senza girare il viso verso di me. Scivolo il più possibile verso di lei per poterle parlare a bassa voce.

“Ti devo delle scuse. E delle spiegazioni,” le dico. “Per quanto assurdo possa sembrare, io –”

“Shhh!”

Mi volto verso la fila dietro di noi, dove una ragazza mi fa cenno di far silenzio. Per un attimo la guardo sconcertato, con la tentazione di allargare le braccia con fare allibito. Poi ricordo che siamo in un’aula universitaria, per cui la sua richiesta non è poi così assurda.

D’accordo. Sospiro pesantemente e mi accorgo che la ragazza col cerotto sul naso mi sta ancora guardando. Stringo il labbro inferiore tra i denti e decido che se non posso usare la voce, ovvierò con altri mezzi.

Dallo zaino abbandonato vicino alle mie gambe tiro fuori un blocco per gli appunti, strappando la prima pagina. Su di essa scrivo:

                mi sento una merda sapendo che ti sei fatta male. mi dispiace, lo giuro.

Faccio scivolare il foglio verso la ragazza, che lo adocchia con le sopracciglia aggrottate prima di afferrarlo. Si volta dandomi la schiena per cercare qualcosa nella sua borsa, qualcosa che si rivela essere un astuccio da cui tira fuori una penna. Si china sul banco per scrivere qualcosa, dopodiché mi passa il foglio con un gesto secco. La sua scrittura è appuntita e a primo impatto ho qualche difficoltà nel leggere.

                non sono incazzata perché mi sono fatta male. sono incazzata perché non hai neppure avuto la decenza di fermarti a controllare che stessi bene.

Mordo nuovamente le labbra mentre accuso il colpo. Non posso fare altro: la ragazza ha ragione. Valuto attentamente cosa risponderle, rotolando la matita tra due dita. Poi, con lentezza, come se nel tracciare ogni singola lettera sulla carta la matita diventasse volta per volta più pesante, scrivo:

                ho ricevuto una chiamata importante.

Poi, più sotto, dopo aver stretto le palpebre in una muta lamentela:

                il fatto è che la verità risulterà in ogni caso patetica, e comunque non ci sono scuse. mi dispiace.

Quando la ragazza riceve il foglio e legge la mia risposta, vedo il suo petto gonfiarsi in un sospiro che viene trattenuto molto più del normale. Nell’espirare fa scivolare nuovamente il foglio verso di me, prima di incrociare le braccia al petto.

“D’accordo,” mormora con un filo di voce. Credo sia il suo modo di riferirmi che le mie scuse sono state accettate. La cosa, però, non migliora come mi sento.

Volo con la memoria a quell’istante di due giorni fa, quando mi sono scontrato con lei appena uscito dalla segreteria e prima che potessi rendermi conto dell’eventuale gravità della situazione ho ricevuto la telefonata che avevo aspettato e temuto da quando il giorno prima ero salito sul volo che dal Connecticut mi ha portato verso l’Olympia University.

Non appena ho visto il nome di mio padre sul display, tutto ciò che mi stava accadendo intorno è diventato un semplice rumore di fondo. Adesso sono consapevole di aver bellamente ignorato la ragazza dello scontro, ma sul momento la reazione più logica è stata quella di allontanarmi in fretta e furia per rispondere.

“Papà? Che succede? La mamma sta bene?” ho quasi urlato dopo aver accettato la chiamata. Avevo una fame da lupi, ma in quel momento lo stomaco mi si è chiuso e ho temuto di dover correre nel bagno più vicino per vomitare.

Mio padre, con la sua voce caratteristicamente calma, appena un po’ roca e venata stavolta di una certa urgenza, mi ha immediatamente tranquillizzato. La mamma stava bene, nessuna crisi, non c’era da preoccuparsi. Chiamava per dirmi che aveva trovato i documenti che ho dimenticato a casa, quelli per cui avevo trascorso quasi un’ora negli uffici della segreteria, e che li avrebbe inviati il prima possibile all’università.

Con lentezza, il mondo ha ricominciato a girare.

Adesso potrei dire la verità alla ragazza. Potrei dirle che ho una madre malata che mi aspetta a casa, che ogni volta che il mio telefono squilla mi aspetto che qualcuno mi stia chiamando per dirmi di prenotare il primo volo di ritorno per il Connecticut perché la mamma sta di nuovo male e ha bisogno di me. Potrei dirle che se ho completamente rimosso dal mio cervello l’incidente che ci ha coinvolti è stato perché una diversa preoccupazione mi ha occupato la testa impedendomi di funzionare come un essere umano decente.

Potrei dirglielo, ma mi rifiuto di farlo. Forse perché qui all’Olympia, dove nessuno mi conosce, vorrei evitare di vedermi rivolto quello sguardo di pietà che mi porta alla nausea al solo immaginarlo. Forse perché è qualcosa di troppo personale per essere distribuito in giro come una qualche giustificazione ai miei comportamenti.

“Oh, no,” è la lamentela che mi strappa ai miei pensieri, proveniente dalla ragazza con il cerotto. Sbatto più volte le palpebre, guardandomi intorno per capire a cosa sia dovuta la sua esclamazione.

“Cosa?” domando poi spontaneamente mentre mi volto verso di lei. Ha la testa piegata all’indietro, lasciando esposto il collo. Alza una mano ad indicare il professore, che ci sta dando le spalle in quanto impegnato a scrivere sulla grande lavagna dietro la cattedra.

“Non ascoltavi?” dice la ragazza. “Vuole che svolgiamo un questionario per rompere il ghiaccio. Ugh. Una roba tipo, ‘cosa ti aspetti da questo corso?’ e altre cazzate varie. Deve essere svolto in coppia.”

Annuisco, iniziando a leggere le domande che il professore sta scrivendo. Nulla di assurdo, domande sui dati anagrafici, su aspettative universitarie, motivazioni… facile. Una scocciatura, ma facile. Intorno a me le persone iniziano a voltarsi e a scegliere un partner con cui completare il questionario. La scelta ricade, ovviamente, sulle persone che sono sedute vicine.

Aggrotto le sopracciglia. Con un veloce sguardo alla mia sinistra scopro che il tipo seduto vicino a me ha già trovato un compagno. Anche nella fila davanti e in quella dietro sembrano essere tutti al completo. Per cui la mia scelta deve ricadere forzatamente sulla ragazza con il cerotto.

“Umh,” mormoro, sfregandomi il collo mentre mi volto verso di lei. “Partner?”

La ragazza rimane impassibile per un istante. Poi, sorprendendomi, le sue labbra si tendono in un sorriso. E’ piuttosto forzato e malriuscito per essere credibile, ma è comunque qualcosa.

“Prima iniziamo, prima finiamo,” dice, aprendo il suo quaderno per ricopiare nella sua calligrafia spigolosa le domande date dal professore.

“Vuoi iniziare tu?” le domando, principalmente perché a quanto sembra mi sono perso l’intera spiegazione su cosa dovremmo fare in questo test. La ragazza annuisce.

“Nome?” mi domanda, con un’aggressività tale che vacillo un istante, domandandomi se sia semplicemente il suo modo di fare o se ancora ce l’abbia con me.

“Luke Castellan,” le rispondo, e lei appunta la risposta sul quaderno.

“Corso di laurea principale?”

“Ancora non deciso.”

La ragazza alza lo sguardo dal quaderno. Le sue iridi blu mi scrutano. “Quindi frequenti Psicologia come parte delle classi obbligatorie?”
Annuisco.

“Mh-mh. Okay. Cosa ti aspetti da questo corso?”

“Che mi succhi ogni energia vitale da qui fino alla fine del semestre in cambio di una manciata di miseri crediti.”

La ragazza sorride di nuovo. Solo che stavolta è un sorriso più genuino. “Sii serio.”

“Lo sono! Se preferisci un’altra risposta, puoi sempre scrivere che mi aspetto di esplorare la psicologia umana e capire perché le persone si comportano in determinate maniere.”

“Okay. Perché hai scelto di iscriversi all’Olympia University?”

Abbasso appena lo sguardo. Una delle tante risposte che ho costruito a tavolino settimane fa ipotizzando che prima o poi qualcuno mi avrebbe posto questa domanda si fa strada dal mio cervello fino alla bocca.

“Ha degli ottimi programmi di studio e va decisamente incontro alle esigenze degli studenti.”

“E’ un fottutissimo labirinto,” commenta la ragazza. Rido appena.

Ci sono ancora tre o quattro domande prima che il questionario sia concluso e i nostri ruoli s’invertano. La ragazza m’informa del fatto che bisogna annotare anche il modo in cui viene formulata la risposta, tonalità della voce, sicurezza nel parlare, gestualità. Questo genere di cose. Di nuovo, non sembra difficile.

“Okay, cominciamo allora. Nome?” le domando.

“Talia Grace.”

“Talia?”

“Cosa?” ribatte lei, sulla difensiva. Mi affretto a scuotere la testa.

“Nulla, nulla! E’ un nome inusuale, tutto qui. Corso di laurea principale?”

“Ancora non deciso,” risponde, e mio malgrado mi trovo a rivolgere un mezzo sogghigno al blocco per gli appunti su cui sto scrivendo. E’ rincuorante sapere che non sono il solo a non aver ancora scelto cosa farne della mia carriera universitaria. Tutti quelli con cui ho avuto modo di parlare fino ad ora avevano le idee ben chiare sul proprio percorso accademico.

“Quindi Psicologia è una delle classi obbligatorie anche per te. Okay, andiamo avanti: cosa ti aspetti da questo corso?”

Talia aggrotta le sopracciglia e poggia il busto contro lo schienale della sedia mentre incrocia le braccia al petto. Sbuffa sonoramente, non come se fosse arrabbiata ma come se la risposta alla mia domanda fosse tanto difficile da mandarla in tilt. Scrivo velocemente le sue reazioni sul mio blocco e aspetto.

“Perché facciamo quello che facciamo,” dice infine, annuendo tra sé e sé. “Perché… perché certe persone funzionano in maniera diversa rispetto alle altre. Quali sono i meccanismi che condizionano le nostre azioni senza che possiamo rendercene conto.”

Abbassa il viso per un istante, liberando una mano per mordersi l’unghia del pollice. “Non è tanto diverso da quello che hai risposto tu alla stessa domanda, in fin dei conti.”

Annuisco. Be’, dubito fortemente che le aspettative degli altri studenti in quest’aula differiscano di molto da quelle mie e di Talia. “Perché hai scelto di iscriverti all’Olympia University?”

“Oh, questa è facile! Perché mi ha offerto una borsa di studio, e perché è lontana da casa.”

La mia mano si blocca di colpo mentre sto trascrivendo la risposta di Talia. Stringo appena la presa sulla penna e alzo lo sguardo sulla ragazza, adesso distratta nello sbirciare le risposte di una coppia seduta nella fila davanti la nostra. E’ una fortuna che non si accorga che la sto guardando. Non riesco a impedire che la mia espressione si adombri almeno un po’. Dalla prontezza della sua risposta Talia sembra entusiasta di essere lontana da casa, mentre io, se avessi avuto scelta…

Le pongo anche le restanti domande, e quando finiamo il questionario tra di noi scende il silenzio tipico delle collaborazioni forzate tra persone che non si conoscono. Intorno a noi una buona parte dei presenti sta ancora lavorando, per cui cerco di rubare un po’ del tempo per controllare ciò che ho scritto e correggere eventuali errori.

Talia non cerca di avviare una qualche conversazione. Se ne sta lì, seduta con le gambe accavallate nonostante il poco spazio tra le sedie e i banchi, legge qualcosa sul suo cellulare con fare annoiato. Ad un tratto, però, starnutisce. 

“Ouch!” esclama subito dopo, cosa  che spinge le persone nelle vicinanze a voltarsi verso di lei. Talia si massaggia il naso, coprendolo con
entrambe le mani, ed eccola di nuovo: i sensi di colpa alla bocca dello stomaco.

“Fazzoletto?” mi domanda, con gli occhi che saettano verso di me. Mi chino a raccogliere il mio zaino da terra e prego di aver effettivamente portato con me un pacchetto di fazzoletti. Quando lo trovo, lo apro e lo porgo a Talia.

“Ti fa male quando starnutisci?” le domando, osservandola di sottecchi mentre con gesti attenti tampona le narici con un fazzoletto. Lei annuisce e io mi stringo nelle spalle.

“Mi dispiace. Mi dispiace davvero tanto, io –”

“Smettila con questa storia,” m’interrompe seccamente. Si soffia il naso e poi si volta a guardarmi, le sopracciglia scure calate sugli occhi e la testa appena inclinata. “Ti dispiace, l’ho capito. Ti sei scusato e ho accettato le tue scuse, eppure hai un’aria tanto avvilita che stai facendo sentire me la stronza della situazione. Il che è sbagliato, perché sto davvero cercando di essere una persona gentile.”

Cerco di ridere, ma noto con piacere che la mia risata sembra essere un gesto spontaneo e non forzato. “Considerando che appena mi hai visto mi hai dato dello stronzo e adesso mi stai quasi confortando, direi che ci stai riuscendo.”

Talia aggrotta ancor di più le sopracciglia e mi pare che un vago rossore le colori le guance lentigginose. “Non ti sto confortando. Ti sto ricordando che a nessuno piace fare amicizia con una lagna.”

“Woah, una lagna? Stavo solo cercando di essere gentile!”

“Ci stai provando troppo.”

“Non prenderò lezioni di gentilezza da qualcuno che mi ha dato dello stronzo a prima mattina.”

“Piccola merda,” mormora Talia a denti stretti. “Ma se hai appena detto che ci sto riuscendo, a essere una persona gentile!”

Scoppio a ridere, non posso farne a meno. E Talia ride insieme a me.

***

Al termine della lezione consegniamo i questionari al professore. Non ho idea di cosa lo spinga a voler visionare dei lavori a cui non verrà neanche attribuito un voto, ma quando lascia l’aula con i fogli tra le braccia ha l’espressione felice di un bambino la mattina di Natale.

“Credo gli interessi sapere con che tipo di studenti ha a che fare,” dice Talia mentre infila lo zaino in spalla. “Dare una sbirciata nelle nostre menti.”

I nostri corsi successivi sono in due padiglioni diversi. La nuova lezione di Psicologia 1 si terrà direttamente tra una settimana. Vorrei chiedere a Talia quali altri corsi segue, per scoprire quando e se la rivedrò, ma prima che io possa farlo lei mi saluta frettolosamente e sparisce nella fiumana di studenti che abbandonano l’aula, lasciandomi solo.

Il resto della giornata scorre lentamente nonostante la frenesia del primo giorno che pare aver raggiunto ogni matricola, tra cui me. Muoversi tra i padiglioni è un buon modo per esplorare il campus, scoprire quali sono i posti migliori per mangiare qualcosa e incontrare nuove persone. Tutto sommato è un buon primo giorno.

Rientro al dormitorio nel primo pomeriggio. A quest’ora l’Hades è tranquillo e silenzioso, e l’unico rumore che si può ascoltare è il cinguettare degli uccelli fra gli alberi che circondano il palazzo.

“Hey,” saluto i miei coinquilini quando entro nella stanza. Lascio cascare lo zaino ai piedi del divano prima di dirigermi verso il minifrigo nel piccolo angolo che abbiamo improvvisato come cucina. Abbiamo solo una teiera elettrica, il minifrigo e un mobile adibito a dispensa: nella cucina comune del piano c’è un frigorifero più grande, un congelatore e persino un forno a microonde. Ci sarebbe anche un piano cottura, ma non sembra funzionare. Sui fornelli è stato attaccato con un nastro adesivo un foglio di carta con su scritto un grande e grosso “NO”. Nessuna spiegazione. Solo NO.

“Heilà,” mi saluta Beckendorf, con uno degli scatoloni del trasloco che ancora occupano la stanza tra le braccia. “Sopravvissuto al primo giorno?”

Non gli rispondo immediatamente, limitandomi ad annuire mentre agito la bottiglia di Kool-Aid che ho messo in frigo la sera prima. Prendo grandi sorsate della bevanda. Beckendorf ride.

“Ethan dice che quella roba è disgustosa.”

“Hey!”

Forse sentendosi chiamato in causa, forse per via di una tempistica perfetta, Ethan fa capolino dalla sua stanza per rivolgere un’occhiataccia a Beckendorf. Ha un occhio solo, ma è un asso nel lanciare sguardi velenosi alle persone. Mi sono bastati pochi giorni di convivenza per scoprirlo.

“Non ho mai detto che è disgustosa,” dice, andandosi a sedere su una delle poltroncine accanto al divano nel salone. Si sistema la benda che porta sull’occhio e che gli sta arruffando i capelli scuri. “Solo che è piena di zuccheri e chissà qualche altra porcheria chimica.”

Beckendorf scuote la testa. “Sembri mia madre,” dice, il che mi spinge a ridere e per poco non mi strozzo con il Kool-Aid. Il fatto è che Beckendorf è un gigante afroamericano dall’espressione perennemente torva nonostante sia una persona gentile, mentre Ethan è asiatico e con una corporatura più asciutta. E’ strano immaginarlo come sua madre.

“E’ stata una giornata non male,” rispondo finalmente a Beckendorf, riponendo poi la bottiglia nel frigo prima di ritirarmi nella mia stanza. Mentre chiudo la porta sento Ethan che accende la televisione e la lamentela di Beckendorf: “Non un altro programma di cucina, per favore!”

Con la porta chiusa la maggior parte dei rumori vengono bloccati all’esterno.

Le persiane sono ancora abbassate, come le ho lasciate stamattina. Le alzo e apro la finestra per far arieggiare la stanza, come mi diceva sempre di fare mia madre quando ero solo un ragazzino. Poi, esausto, mi lascio cadere sul letto ancora sfatto. Le lenzuola sono fredde ma accoglienti.

Resto così per un po’, con gli occhi chiusi e una brezza tiepida che mi scompiglia i capelli. Il silenzio mi permette di ripensare alla mattinata appena trascorsa.

Riapro gli occhi, fissandoli sul soffitto bianco. Un’idea mi è balzata in mente. Non è nulla di strano, in fin dei conti, ma resto immobile a valutarla ancora per qualche minuto. Alla fine prendo il mio cellulare dalla tasca e clicco sull’icona che mi porta all’homepage di Facebook.

Clicco sull’icona di ricerca.

Digito ‘Talia Grace’.









Note: l'idea di scrivere sia con il POV di Talia che con quello di Luke mi attirava davvero tanto, per cui da questo momento si alterneranno. Anche questo capitolo non è betato (sigh!) e cercherò di ricontrollarlo più volte per scovare tutti gli errori - volevo però poterlo postare entro oggi, in modo tale da rendere gli aggiornamenti con i nuovi capitoli settimanali. GRAZIE GRAZIE GRAZIE alle persone che hanno recensito, inserito la fanfiction tra le preferite e le seguite! Mi avete resa davvero tanto felice e motivata per continuare questa storia <3

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Capitolo 3
*** concept: me, getting my shit together ***


concept: me, getting my shit together


La vita qui all’Olympia inizia ad assumere una sua routine. Una routine piuttosto diversa da quella che avevo immaginato.

“AHIA!”

“Shhh, se ti muovi così tanto potrei finire col farti davvero male.”

“Silena… sei davvero certa di quello che stai facendo?”

Silena si volta verso Annabeth, allontanando così le sue malefiche pinzette dal mio viso. Ne approfitto per portare le mani davanti al naso, proteggendo tutta l’area che va dalla fronte fino alle labbra. Con un pollice asciugo anche furtivamente una lacrima che si sta formando all’angolo dell’occhio destro.

“Avvicinati,” dice Silena, seria come ancora non l’ho mai vista da quando ci siamo conosciute. Annabeth vacilla sotto l’autorità del suo tono, ma alla fine muove un passo verso di noi. “Guarda le mie sopracciglia e dimmi cosa vedi.”

Annabeth aggrotta le sue, di sopracciglia, e si avvicina ancor di più a Silena. Le osservo dal basso, seduta sulla sedia che abbiamo spostato davanti la finestra della nostra stanza. I loro volti sono talmente vicini che i loro nasi quasi si sfiorano.

“Sono perfette,” giudica infine Annabeth, allontanandosi, e Silena annuisce.

“Esattamente. Quindi sì, sono certa di quello che sto facendo,” afferma, voltandosi poi nuovamente verso di me mentre brandisce le pinzette come fossero un’arma. Non posso farne a meno: un gemito mi sfugge dalle labbra.

“Ma guardala! E’ terrorizzata!” incalza Annabeth al mio soccorso, proprio mentre con un moto di coraggio esclamo: “Preferisco avere un monociglio piuttosto che farmi torturare!!”

Silena mi guarda per qualche istante, poi sospira e alza le braccia al cielo. “D’accordo, d’accordo,” mormora, allontanandosi per riporre i suoi strumenti di tortura nella piccola trousse che ha portato con sé dalla sua stanza. “In fin dei conti il grosso del lavoro l’ho fatto.”

“Tutto okay?” mi chiede Annabeth, passandomi uno specchietto con cui posso controllare l’operato di Silena. Lo prendo con riluttanza, orientandolo in maniera tale da poter osservare la parte superiore del mio viso. E’ difficile, però, esprimere un giudizio: i lividi e i graffi che ancora persistono lungo il mio naso oscurano la pelle. E’ per questo che non mi ero accorta di aver bisogno di ritoccare le mie sopracciglia fino a quando non ho incontrato Silena questa mattina.

“Tutto okay,” rispondo alla mia compagna di stanza mentre le restituisco lo specchietto, che lei infila nella tasca dei jeans prima di lasciar spazio a Silena che, non lasciandomi il tempo di afferrare la situazione e reagire di conseguenza, inizia a spalmarmi qualcosa sulla pelle martoriata.

“Rilassati,” mi dice, con un tono di voce tale da non lasciarmi altra opzione se non obbedirle passivamente. “E’ solamente della crema lenitiva.”

E’ trascorsa meno di una settimana da quando sono arrivata all’Olympia, e se qualcuno mi avesse detto anche solo un mese fa che avrei trascorso la mia prima mattinata libera con le mie compagne di dormitorio a farmi depilare le sopracciglia avrei riso con fare sarcastico per poi declassare tale ipotesi come impossibile.

E invece.

In tutta onestà, non so dire se le mie aspettative riguardanti la prima settimana universitaria al campus fossero realistiche oppure orientate a un rassicurante pessimismo, dovuto alla filosofia di vita per cui aspettandosi il peggio sempre e comunque la realtà effettiva diviene improvvisamente molto più positiva.

L’aver incontrato Silena è di certo stato un momento determinante, sarei sciocca e ingenua a negarlo. Sono sincera quando dico che fino ad ora non ho mai avuto vere e proprie amicizie nella mia vita. Avrei voluto, ovviamente, ma determinate circostanze hanno reso davvero difficile stringere legami affettivi con persone della mia età. E’ normale, quando si hanno diverse priorità, diverse… situazioni.

Credevo che Silena mi avesse aiutata così tanto il primo giorno solo per estrema gentilezza – è un anno avanti a me, per cui forse sentiva come suo dovere il fare da guida alle matricole. Poi però si è presentata qualche mattina fa alla porta della mia stanza, con in mano una scatola di cioccolatini e le labbra tese nel più radioso dei sorrisi.

“E’ un regalo di benvenuto, per farti scordare i casini dell’altro giorno,” mi ha detto. E’ entrata nella stanza e da quel momento ancora deve passare un’intera giornata senza che lei arrivi a trascorrere anche solo pochi minuti qui insieme a noi.

Lo giuro. Questa ragazza è davvero troppo buona per essere reale.

“Hey,” mormora Annabeth, spintonando leggermente la mia caviglia con la punta del piede. Alzo lo sguardo su di lei, che mi mostra l’orologio che porta al polso. “Se non ci muoviamo faremo tardi. Dobbiamo attraversare il campus per arrivare a lezione.”

Annuisco.

***

Silena resta nella nostra stanza ad aspettare il ritorno di Clarisse, uscita presto questa mattina per andare a correre. Per qualche motivo che sfugge alla mia comprensione Silena sembra aver preso Clarisse in particolare simpatia, e ciò ha preso quest’ultima talmente contropiede da farle abbandonare il modo di fare così impetuoso e parecchio indisponente con cui si è posta con chiunque dal giorno del suo arrivo. Credo che in un qualche modo Silena la spaventi, con la sua gentilezza e quella personalità frizzante. E’ divertente vederle interagire.

“Chissà se Silena proverà a improvvisarsi estetista anche per Clarisse,” mormora Annabeth tra sé e sé mentre camminiamo in direzione dell’edificio in cui si trovano i nostri prossimi corsi.

Mi stringo nelle spalle. “Non lo so e sono contenta di non trovarmi lì con loro per scoprirlo.”

Annabeth ride appena e poi rimaniamo in silenzio.

E’ inaspettatamente piacevole. Non conosco Annabeth da molto tempo, ma quando sono in sua compagnia non sono sopraffatta dal bisogno di mantenere viva la conversazione. Credo che sin dalla prima giornata che abbiamo trascorso insieme nella nostra stanza sia venuto a instaurarsi quel silenzio che, lungi dall’essere sintomo di imbarazzo reciproco per mancanza di argomenti di cui chiacchierare, rispecchia quella familiarità tra amici di vecchia data che non hanno bisogno di riempire ogni istante trascorso insieme con parole spesso vuote e inutili pur di mantenere aperto il discorso. E’ quel tipo di silenzio che dice “la tua compagnia mi piace e mi fa sentire abbastanza a mio agio da non farmi temere i momenti di vuoto”.

Davvero, non so come sia possibile. L’ultima volta che mi sono sentita così in compagnia di qualcuno è stato anni fa con mio fratello. Jason. Ugh.

“Talia?” mi chiama Annabeth. “Tutto ok?”

Alzo lo sguardo su di lei, confusa. I suoi occhi puntano sulle mie braccia, che ho incrociato al petto curvandomi su me stessa senza neppure rendermene conto. I miei muscoli sono tesi, per cui mi sforzo di assumere una postura più rilassata e scrollo le spalle, indirizzando ad Annabeth un sorriso.

“Scusa. Un po’ di cose per la testa,” le dico, conscia di quanto suoni come una giustificazione fin troppo debole e vaga. Annabeth, però, sembra comunque abboccare.

Attraversiamo una parte di campus poco frequentata a quest’ora, costeggiando prati di un verde brillante che emanano il profumo fresco dell’erba tagliata da poco. Seduti all’ombra degli alberi oppure ai tavoli che occupano i piazzali che si alternano ai prati vi sono alcuni studenti, quasi tutti impegnati a chiacchierare tra di loro. E’ ancora troppo presto perché si cominci ad utilizzare il tempo libero per studiare; l’atmosfera ne risente, trasmettendo un senso di placida calma che mi penetra fin dentro alle ossa allontanando dalla mia mente qualunque pensiero negativo.

Quando arriviamo a destinazione, mi sento nuovamente carica di energie e buoni propositi.

“E’ la prima volta che ho lezione in questo posto,” dico ad Annabeth mentre attraversiamo il piazzale per entrare in un edificio che, visto da fuori, sembra consistentemente più piccolo dei padiglioni in cui si sono tenuti i corsi nei giorni scorsi. Ha un’aria più vissuta e antica, con la facciata principale composta da marmi smussati e dipinta di un rosso amaranto che ha ormai perso la sua brillantezza divenendo opaco. Ai due lati del portone d’entrata vi sono due statue, sempre in marmo, rappresentanti due donne.

Annabeth è troppo incantata ad ammirare il palazzo per rispondere alla mia osservazione, e approfitto di questo momento di distrazione per scrutarla con curiosità.

Non mi piace giudicare le persone dal loro modo di apparire, è qualcosa che detesto profondamente. Riconosco, però, che Annabeth rappresenta fisicamente il prototipo di ragazza della California. Alta, abbronzata, con quei riccioli biondi che, in questo momento così come la maggior parte del tempo, sono arruffati in una frettolosa coda di cavallo.  E’ indubbiamente bella, per gli standard comuni. Ma adesso, con gli occhi luminosi e un sorriso estasiato sulle labbra mentre contempla la facciata del palazzo, Annabeth risplende di una bellezza spontanea con cui nessuna abbronzatura o nessun taglio di capelli riusciranno mai a competere.

Quando si accorge che la sto guardando arrossisce di colpo, portandosi un pugno chiuso davanti la bocca per mimare un colpo di tosse. Rido della sua reazione.

“Scusami,” mi dice con aria imbarazzata. “Credo di essermi incantata per qualche istante.”

“Guardi i palazzi con la stessa passione con cui io guardo i cheeseburger,” scherzo. “Devi essere davvero appassionata di architettura. Chi sono quelle?” domando poi, indicando con un cenno del capo le due statue. Annabeth è abbastanza vicina a una di quelle da sfiorare con reverenza il marmo chiaro.

“Lei è Atena,” mi spiega. “Mentre quella alla tua sinistra è Pallade.”

Aggrotto le sopracciglia, osservando prima una statua e poi l’altra con fare confuso. “Credevo che Pallade fosse uno degli appellativi di Atena, non direttamente un’altra persona.”

Annabeth si apre in un sorriso talmente profondo da farle comparire due fossette sulle guance. “Ti spiego tutta la storia, se vuoi!”

E’ così che nei pochi minuti che impieghiamo a trovare le nostre rispettive aule all’interno dell’edificio scopro che Annabeth, oltre all’architettura, nutre un profondo amore per la mitologia greca. Devo letteralmente tapparle la bocca con una mano per convincerla a lasciarmi entrare in aula, e solo dopo avermi strappato la promessa che ci vedremo al termine dei corsi alla mensa del padiglione più vicino è abbastanza soddisfatta da fuggire lungo il corridoio per non tardare a lezione.

***

Non mi sono addormentata a lezione. Lo giuro.

E’ vero che generalmente sono il tipo di persona in grado di appisolarsi in posti in cui non si dovrebbe sonnecchiare, ma stavolta ero sveglia. Abbastanza sveglia da trovare disturbante il russare del ragazzo seduto di fianco a me.

Il punto è che fermandomi a chiacchierare con Annabeth, quando sono arrivata in aula il professore aveva già occupato il posto alla cattedra, per cui mi sono infilata nel primo posto libero in ultima fila. Tutti sanno che l’ultima fila sprigiona forze mistiche in grado di distrarre persino il più diligente degli studenti: il chiacchiericcio delle file più avanti impedisce di ascoltare senza difficoltà le parole del professore, la presenza di tanti altri ragazzi spinge a guardarsi intorno per studiare i vari volti e via dicendo. Tra l’altro, a mia discolpa, questa lezione è risultata essere particolarmente soporifera. Introduzione al corso e quant’altro. Roba teorica. Nulla che il libro di testo non riporti già tra le sue pagine.

Ho finito col poggiare la testa sul banco, usando le mie braccia incrociate come cuscino. Solo per riposare gli occhi. Lo giuro.

“Hey,” mormoro al tizio che sta russando quando la lezione giunge al termine. Mi strofino gli occhi con una mano, cercando di non far sbavare troppo il trucco – speranza vana. Quando ritiro la mano, le dita sono velate di nero.

Grugnisco, infastidita, e siccome il ragazzo non sembra ancora svegliarsi inizio a scuoterlo per una spalla. Questo sembra spezzare finalmente l’incantesimo, e il tipo si volta a guardarmi con aria confusa. I suoi capelli neri sono appiattiti nelle direzioni più disparate.

“La lezione è finita, pensavo fosse ora di svegliarti,” gli dico.

Il ragazzo aggrotta le sopracciglia e quando si rende conto della situazione si passa entrambe le mani tra i capelli. “Merda. Ohhh, merda. Mi sono addormentato?” sbadiglia.

Non riesco a trattenere una risata. “Stavi anche russando. Ma credo di averti sentito solo io.”

“Odio i turni serali a lavoro,” grugnisce il ragazzo mentre raccoglie il suo zaino. “Non valgono i crediti che promettono.”

“Lavori qui in università?” gli domando, interessata. Trovare un qualche tipo d’impiego rientra effettivamente nelle cose che intendo fare prima che la sessione d’esami cominci e mi privi di qualunque prospettiva di tempo libero.

Il ragazzo annuisce. Ci alziamo, dirigendoci verso l’uscita dell’aula. “Già, nella biblioteca. Voglio dire, non è male come situazione. La paga è ottima, considerato che per la maggior parte del tempo devo solamente star seduto a una scrivania, ma con il fatto che siamo a corto di personale ci stiamo dividendo i turni scoperti.”

Oh. A corto di personale. Paga ottima. Interessante.

Sto per chiedere qualche informazione in più quando un tizio barbuto con delle stampelle inizia a sbracciarsi nella nostra direzione. “Percy! Hey, Perce!” urla, e nell’agitare una delle sue stampelle semina il panico tra coloro che gli passano vicini.

“Grover!” esclama il ragazzo vicino a me, e fa per raggiungerlo salvo poi voltarsi a guardarmi. “Hey, grazie per non avermi lasciato a dormire, umh…”

“Talia,” mi presento. “A buon rendere.”

“Grazie, Talia. Ci si vede in giro! Oh, io sono Percy, comunque!” dice lui, prima di correre dal suo amico.

Resto a guardarli sparire tra la folla per qualche minuto prima di sistemare il mio zaino in spalla e avviarmi verso la mensa, dove ho preso appuntamento con Annabeth. Una veloce occhiata al display del telefono mi dice che il mio corso è finito con più di una mezz’ora di anticipo. Il mio stomaco, che inizia a brontolare dalla fame, ne è grato.

Mentre cammino in direzione del padiglione valuto tra me e me la possibilità di fare domanda per un lavoro alla biblioteca dell’università, e nel tempo che mi ci vuole per giungere alla mensa decido che provare non costa nulla. Cercherò più informazioni nel fine settimana.

La mensa non è tanto piena quando faccio il mio ingresso in sala. Credo sia dovuto al fatto che sono in anticipo per via del mio corso precedente. Oh, be’: l’importante è essere qui adesso.

Ora, so che la maggior parte delle mense universitarie dello stato sono l’incubo di noi ragazzi – o almeno, la maggior parte delle mense dei licei lo sono. Personalmente, ho sviluppato una tattica per riuscire a trovare sempre qualcosa di commestibile da mettere sotto i denti: resta sul semplice.  

Dopo aver recuperato un vassoio inizio a costeggiare i vari espositori, ignorando i piatti dall’aria troppo complicata. Scelgo le cose più semplici, seguendo la teoria che meno un prodotto è stato lavorato e meno possibilità ci sono che sia stato reso immangiabile. Fino ad ora questa tecnica non mi ha mai delusa.

Con il mio vassoio adesso carico faccio scorrere lo sguardo sui vari tavoli, sperando di individuare la chioma bionda di Annabeth. Non mi sembra però di vederla. Cammino per la sala, temporeggiando nella speranza di vederla comparire da un momento all’altro, ma la vicinanza al cibo sta rendendo il mio stomaco sempre più impaziente. Sono ormai rassegnata a pranzare da sola quando finalmente individuo una faccia conosciuta. Metto da parte qualunque esitazione mentre cammino in linea retta fino al tavolo che ho puntato, e quando lo raggiungo mi lascio cascare senza troppi convenevoli sulla panca per sedersi.

Il ragazzo con la cicatrice alza lo sguardo dal suo cellulare. “Hey!” mi saluta.

“Hey a te,” sorrido, intimamente sollevata dal fatto che mi abbia riconosciuta. Se non l’avesse fatto mi sarei trovata in una situazione alquanto imbarazzante. “Luke, giusto? Ti dispiace se mi siedo qui?”

“Di solito la gente lo chiede prima di sedersi e iniziare a mangiare,” dice Luke. Mi blocco mentre sto portando un boccone di cibo alla bocca con la forchetta e lui scoppia a ridere. “Scherzavo, scherzavo! Non mi dispiace affatto.”

“Ottimo. Perché se anche ti fosse dispiaciuto ormai non mi sarei più alzata,” controbatto dopo aver mandato giù il boccone.

Luke resta ad osservarmi per qualche secondo, e proprio nel momento in cui la cosa inizia a mettermi a disagio, dice: “Hai tutta l’aria di qualcuno che sta morendo di fame.”

“Imparare mi mette appetito.”

Be’. Imparare. Che parola grossa.

Continuo a mangiare in silenzio, troppo occupata a riempirmi lo stomaco per fare conversazione o per prestare attenzione a Luke, che vedendomi presa a divorare il mio pranzo tira nuovamente fuori il telefono. Non scherzo quando dico che lo osserva ininterrottamente fino a che non allontano il mio vassoio, sazia e felice, e anche allora sembra riluttante a mollare la presa sul cellulare.

E’ diverso da questa mattina con Annabeth. Adesso il silenzio comincia a pesare.

“Hey,” cerco di richiamare la sua attenzione. “Non ti ho neanche chiesto come stai.”

Luke, che ha mantenuto un’espressione neutra per tutta la durata del mio pranzo, si apre in un sorriso. “E dire che sei sempre tu quella che cercava di essere una persona gentile.”

Agito una mano, con una smorfia che mi si disegna sul viso. “La gentilezza è sopravvalutata.”

“Sto bene,” risponde lui, annuendo piano. Poi inclina appena il capo, guardandomi attraverso le sopracciglia chiare della stessa tonalità dei suoi capelli biondo grano. “Tu… sta guarendo. Il naso, dico.”

Annuisco. “Visto? Non era nulla per cui continuare a scusarsi,” ribatto con un sogghigno. “Non resterà nessuna cicatrice.”

Le spalle di Luke sobbalzano per un istante per via di una sua secca risata. “Che fortuna,” dice, indicando con un gesto della mano la linea biancastra che gli attraversa il lato destro del viso.

“Oh, giusto. Che ti è successo alla faccia?” gli domando, e accade una cosa strana. Qualcosa cambia nella maniera in cui Luke mi sta guardando. Nei suoi occhi celesti e nella piega delle sue labbra vedo sovrapporsi diverse emozioni, che s’inseguono sul suo viso in una misera manciata di secondi. Mi domando se Luke sia a conoscenza di quanto sia facile leggergli in faccia ciò che sta pensando.

Vedo stupore. Vedo rabbia. Vedo vergogna. Vedo anche una scintilla di curiosità. E’ mentre apro la bocca per dirgli che non deve per forza rispondere alla mia domanda che la sua voce si sovrappone alla mia – “E’ una lunga storia”, dice – e contemporaneamente sento qualcuno chiamare il mio nome.

Alzo lo sguardo, individuando in pochi istanti chi mi ha chiamata.

“Annabeth!” esclamo, alzando un braccio verso di lei. “Vieni a sederti qui con noi!”











Note: raga lo so. Lo so. Odio anche io i capitoli "filler" in cui non succede nulla di entusiasmante, ma ce n'era bisogno per poter far evolvere pian piano i rapporti tra i vari personaggi. Tra l'altro è la seconda settimana di fila che riesco a pubblicare entro il fine settimana e un po' mi commuovo. La prossima settimana invece non ci sarà nessun aggiornamento perché sarò fuori città per un concerto *A*
In tutto questo, sto pensando di alzare il rating della fanfiction da giallo ad arancione, perché be'... dopo aver steso per bene l'intera trama della fanfiction mi sono resa conto che alcune scene potrebbero richiedere un rating più elevato... ;)
Vi lascio poi il link al profilo facebook che utilizzo per cazzeggiare ( click!
 ) così, se vi va, potete aggiungermi e -- non so, cazzeggiare con me? 
Tanti baci xx

 

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Capitolo 4
*** when all I needed was the truth ***


when all I needed was the truth
( Over My Head - A Day To Remember )




“Oh, giusto. Che ti è successo alla faccia?”

La sensazione è quella che si prova quando si sogna di cadere. Quando scendendo le scale salti un gradino e per una frazione di secondo vieni sopraffatto dall’incertezza del non avere più la terra sotto ai tuoi piedi. Si potrebbe pensare che dopo più di un anno ne abbia avuto di tempo per abituarmi a domande del genere… se solo qualcuno avesse effettivamente domandato spiegazioni riguardo la mia faccia.

A casa, tutti sapevano. La città non è poi così grande, il quartiere è poco più di un buco. E la notizia dell’incidente ha avuto abbastanza risonanza da diffondersi a macchia d’olio grazie alle bocche dei miei vicini di casa. Avevo temuto che una volta lasciato tutto per recarmi all’Olympia qualcuno avrebbe iniziato a lanciarmi sguardi curiosi, a domandare, a voler sapere. Ho scoperto però che di fronte a un viso sfigurato molto spesso le persone tendono ad abbassare lo sguardo, nella maggior parte dei casi, o a sorridere e far finta che non ci sia una profonda cicatrice bianca ad attraversarmi il lato destro della faccia.

Sotto al tavolo, stringo in pugno le mani che ho poggiato sulle mie gambe.

So che tutte queste persone non lo fanno con cattive intenzioni. Anche Ethan e Beckendorf, quando ci siamo conosciuti, non hanno aperto bocca riguardo la mia cicatrice. Forse per educazione, o forse perché non ancora abbastanza in confidenza con me per sentirsi a proprio agio nel domandare. Forse perché credevano che avrei preferito così.

Non so dire se sbagliassero o meno. Se una parte di me si sente rassicurata ogni qual volta le persone che incontro ignorano la cicatrice, un’altra parte vorrebbe che qualcuno domandasse per scoprire la storia dietro questo maledetto solco bianco che mi ricorda costantemente chi ero. Cosa ho fatto. Perché me lo sono meritato.

Talia Grace mi sta guardando. I suoi occhi di un blu irreale sono fissati sul mio volto senza alcuna traccia di malizia o malsana curiosità, mentre aspetta la risposta alla sua domanda.

“E’ una lunga storia”, riesco a dire, temporeggiando, ma la mia voce è talmente flebile che si mischia con quella di qualcuno che, alle mie spalle, chiama il nome di Talia. Lei si raddrizza sulla sedia, facendomi realizzare quanto si sia sporta verso di me sul tavolo della mensa.

“Annabeth!”, esclama, alzando un braccio per indicare le sedie ancora vuote intorno al tavolo. “Vieni a sederti qui con noi!”

C’è un misto di delusione e sollievo che mi pervade quando realizzo che il momento adatto per rispondere alla sua domanda mi è passato davanti e non sono stato in grado di afferrarlo e farne buon uso.

Veniamo raggiunti da una ragazza bionda e abbronzata che credo di aver già visto di sfuggita durante qualche lezione in università. Talia scala di un posto verso le sedie vuote e la ragazza occupa il posto che lei lascia libero, cosicché ci ritroviamo seduti faccia a faccia. Ha i capelli raccolti in una crocchia disordinata e cascante. E’ carina.

“Vi conoscete già?”, domanda Talia. Scuoto il capo, adesso quasi riluttante ad aprir bocca. Lei annuisce. “Okay, allora: Luke, lei è Annabeth, una delle mie compagne di stanza. Annabeth, lui è Luke, il motivo per cui il mio naso è stato viola fino a ieri mattina.”

“Dovresti davvero smetterla di presentarmi così alle persone,” non riesco a fare a meno di borbottare, al che Talia corruga le sopracciglia scure in una smorfia.

“E’ la prima volta che lo faccio,” puntualizza. “E comunque rilassati, Dio mio, stavo solo scherzando,” aggiunge poi, afferrando quel che resta di un pezzo di pane avanzato dal suo pranzo per strappar via la mollica. Per un attimo penso voglia tirarmela addosso. Poi, però, Talia la lascia cadere nel suo piatto.

“Credo che il tuo senso dell’umorismo non faccia proprio per tutti, Talia,” interviene Annabeth con una risata, e le sono segretamente grato perché percepisco come un mutamento d’atmosfera. Il viso di Talia si distende in un ghigno.

“Non posso darti torto,” le dice, e Annabeth annuisce tra sé e sé prima di rivolgere su di me il suo sguardo. Sta ancora sorridendo.

“Ci siamo già incontrati da qualche parte?” mi domanda.

Mi stringo nelle spalle. “Può essere,” le rispondo. Cominciamo ad elencare reciprocamente i corsi che frequentiamo, tentando di capire quali classi abbiamo in comune – alla fine risulta essere il laboratorio di Letteratura Inglese, tenuto da uno strano docente con un’evidente ossessione per le camicie con stampe di dubbio gusto. Si fa chiamare Professor D, e per qualche motivo né io né tantomeno Annabeth riusciamo a ricordare quale sia il suo nome completo.

Il corso che abbiamo in comune offre nuovi spunti di conversazione, per cui Annabeth ed io continuiamo a conversare mentre lei mangiucchia il sandwich che ha comprato per pranzo. Scopro che è facile parlare con lei: è intelligente senza essere arrogante, spiritosa senza mai cadere nell’inadeguato.

Talia, intanto, resta in silenzio. Mentre noi chiacchieriamo ci osserva, e ad un tratto indossa la giacca di pelle scura che aveva poggiato sulla spalliera della sedia prima di prender posto al tavolo. Se la stringe indosso come se avesse freddo, e lanciando uno sguardo fuori da una delle grandi finestre della mensa noto che il cielo si è ricoperto di grossi nuvoloni scuri. Probabilmente pioverà.

E’ mentre ho ancora lo sguardo rivolto al cielo che qualcosa mi colpisce alla tempia. Sobbalzo e abbasso gli occhi sul tavolo, dove una pallina fatta di mollica di pane sta rotolando sul tavolo fino a cadere per terra. Talia sta sogghignando. Quest’espressione le fa comparire due fossette sulle guance.

“Siete noiosi,” esordisce, raccogliendo il suo zaino prima di alzarsi. “Davvero noiosi. Parlare di corsi durante le pause dovrebbe essere universalmente vietato.”

“Dove vai?” domanda Annabeth. Talia alza una mano a indicare il cielo coperto.

“Ho cose da fare, e vorrei cercare di non essere per strada quando comincerà a piovere.”

Annabeth corruga le sopracciglia e le labbra le si arricciano in una smorfia. “Ho ancora un altro corso. Vengo con te: vorrei evitare di star seduta in aula per altre due ore completamente inzuppata dalla pioggia,” dice, accartocciando la carta del suo sandwich e alzandosi dal tavolo per andarla a gettare nel cestino della spazzatura. Mi alzo anche io: non mi va di restare ancora in mensa, se sarò da solo.

“Vieni con noi?”

Distolgo lo sguardo da Annabeth, voltandomi verso Talia. Mi si è avvicinata mentre ero distratto e adesso mi sta guardando con uno sguardo furbo e calcolatore, ma è difficile prenderla sul serio dal momento che così da vicino mi rendo conto di quanto sia più bassa di me.

Mi stringo nelle spalle. “Immagino di sì.”

***

Comincia a tuonare non appena mettiamo piede fuori dalla mensa.

Il viso di Annabeth viene attraversato da una smorfia avvilita, ma quando Talia se ne accorge la prende letteralmente per mano e comincia a camminare a passo svelto attraverso la fiumana di studenti che si stanno affrettando a trovare riparo prima che cominci il temporale.

Siamo fortunati, più o meno. Quando la pioggia comincia a scendere a fiotti, prendendo a scrosciare dal cielo con violenza immediata, abbiamo appena raggiunto le arcate dell’edificio in cui si tiene il corso che Annabeth deve seguire.

Talia lascia andare un lungo fischio.

“Be’,” dice, rivolgendosi ad Annabeth con un sorrisetto. “Appena in tempo.”

“Non avrete intenzione di tornare ai dormitori sotto questa pioggia, spero,” mormora la bionda, adocchiandoci con aria sospetta. Controlla poi l’orologio che porta al polso, voltandosi verso la porta d’entrata alle sue spalle.

Guardo la pioggia che continua a scendere. Voler attraversare il campus con un tempaccio del genere sarebbe da folli, ma non possiamo neanche passare il resto della giornata bloccati qui. “Aspetteremo che spiova,” dico infine, e con la coda dell’occhio vedo Talia annuire. “Non preoccuparti per noi. Se devi andare a lezione…”

“Mh, mh,” risponde Annabeth. Alza le braccia a stringere la coda di cavallo in cui sono raccolti i suoi capelli biondi, e nel mentre mi sorride con un fare che non saprei come descrivere se non complice. “Cerca solo di far arrivare la mia compagna di stanza a casa sana e salva.”

“Tch,” fa allora Talia, aggrottando le sopracciglia. “Ti ricordo che è colpa sua se sono finita in infermeria ancor prima che il semestre cominciasse.”

Mi porto istintivamente una mano davanti al viso e grugnisco, per poi dire a Talia: “Non lascerai mai che questa faccenda venga dimenticata, non è così?”

Lei incrocia le braccia al petto. “Mai.”

Annabeth scoppia a ridere e ci saluta prima di dirigersi a passo svelto all’interno dell’edificio. “E’ stato davvero un piacere conoscerti, Luke,” mi dice. Il sorriso con cui le rispondo resta sulle mie labbra anche dopo che lei va via, ed è una bella sensazione. Fisso le nuvole grigie in cielo in silenzio fino a che non mi accorgo che Talia mi sta osservando.

“Cosa?” domando spontaneamente.

La sua risposta giunge accompagnata da un’alzata di spalle: “Nulla.”

“La tua non è la faccia di una persona che non sta pensando nulla.”

“Lo prenderò come un complimento.”

Sospiro e scuoto il capo, perché mi sembra d’intuire che Talia sia il genere di persona che vuole avere sempre l’ultima parola e di conseguenza sarà sempre inutile controbattere. La mia reazione la fa ridere, e sebbene solitamente i comportamenti come il suo mi irritino, mi rendo conto che sto mio malgrado ridendo insieme a lei.

Credo sia perché Talia mi sembra genuina nel suo modo di fare. Senza malizia. Senza cattiveria.

Restiamo in silenzio, poggiati con la schiena contro una delle grandi colonne del porticato. I vari corsi devono essere già iniziati dal momento che la zona, salvo qualche studente di passaggio, è deserta. Il rumore della pioggia è un sottofondo gradevole. Nell’aria inizia a diffondersi il profumo del terreno bagnato.

“Hey,” mormora ad un tratto Talia, con voce così bassa che quando abbasso lo sguardo su di lei mi domando se abbia parlato davvero o se l’ho solo immaginato. “Senti, io… se prima, quando ti ho chiesto della cicatrice, sono stata inopportuna… scusa. Non volevo essere invadente.”

La sua voce, mi accorgo, è rauca e più profonda di quando parla con un tono più alto. Si combina in maniera strana con il rumore della pioggia. Mentre mi parla, il suo sguardo vaga per lo spazio circostante senza mai fermarsi su di un punto fisso. Alzo una mano a sfregarmi il collo, soppesando le parole da usare per risponderle.

“Non sei stata invadente,” le dico. “Mi hai colto di sorpresa, questo sì, ma non devi scusarti. A dire il vero, mi ha fatto quasi piacere sentirti nominare la cicatrice in maniera così aperta. E’ stato come una boccata d’aria fresca.”

I suoi occhi sono puntati su di me, adesso. Riesco a sentirlo anche se non la sto guardando.

“Di solito la gente finge che non ci sia nulla che non vada nella mia faccia.”

“Ma è vero. Non c’è nulla che non va nella tua faccia. Merda, è una cicatrice, non chissà quale deformità,” ribatte Talia, in qualche modo mancando completamente il punto di ciò che avrei voluto intendere. “Anche mio fratello ne ha una. Di cicatrice, dico. E’ sul labbro, se l’è fatta quando da bambino ha avuto la geniale idea di cercare di mangiare una spillatrice. Ogni volta che la vedo mi ricordo di quanto io sia stata terribile come babysitter.”

Talia ride, portandosi una mano davanti alla bocca come a sopprimere la risata – solo che poi la stringe a pugno e la preme contro le labbra, e potrei sbagliarmi, potrei star proiettando su di lei tutte le mie frustrazioni, ma mi sembra che per un istante la sua fronte si corrughi in una maschera di velata tristezza.

“Forse è questo il problema delle cicatrici,” le dico. Poggio la nuca contro il marmo freddo della colonna. “Ogni volta che le guardi non puoi fare a meno di ricordare cosa le ha create. E magari il ricordo è abbastanza nauseante da trasformarle in vere e proprie piaghe.”

“Wow. Profondo,” dice Talia. Mi volto a guardarla e un sogghigno strafottente è tornato sul suo volto, ma il suo sguardo è gentile. “Quindi questo significa che la mia domanda sul cosa ti sia successo rimarrà priva di risposta.”

Le sorrido, ma resto in silenzio. Talia capisce.

***

Passa una ventina di minuti prima che il cielo si apra abbastanza da permetterci di tornare ai dormitori senza inzupparci di pioggia dalla testa ai piedi. Talia dice di dover andare in biblioteca, che è comunque sulla strada per arrivare all’Hades. Quando poi le nostre strade si dividono giunge il momento di salutarci.

“Ah, aspetta!” le dico non appena mi ricordo di ciò che volevo chiederle. “Hai un profilo su Facebook, per caso? Volevo aggiungerti. Non so, può essere utile per comunicare in qualunque evenienza.”

Talia inclina il capo e scosta una ciocca scura di capelli da davanti al viso. “Nope,” risponde. “L’ho avuto per qualche mese un paio di anni fa, poi l’ho eliminato. Posso darti il mio numero di telefono però.”

Annuisco e le porgo il mio smartphone, osservandola digitare velocemente sullo schermo prima di restituirmi il cellulare. “Mandami un messaggio appena puoi, così salvo anche io il tuo.”

***

          To: Talia – hey sono luke, questo è il numero

***

Il telefono vibra nella tasca dei miei jeans quando sono ormai davanti all’Hades. Immagino sia la risposta di Talia al messaggio che le ho inviato, ma quando la vibrazione continua capisco che si tratta di una telefonata. Prendo il cellulare dalla tasca; sul display c’è il nome di mio padre. Stringo le labbra in una sottile linea tesa prima di rispondere.

“Pronto?”

“Luke. Come stai? Prima che tu dica qualunque cosa qui va tutto bene,” dice mio padre. Sospiro, portando la mano che non regge il telefono al volto per premere tra due dita la parte superiore del naso. Ho dovuto promettere a me stesso che avrei cercato di contenere il senso di angoscia che ancora mi assale quando ricevo una telefonata da parte dei miei genitori: non mi fa bene tutto questo stress, così come non fa bene alla mamma sapere che sono ancora preoccupato per lei. L’ultima volta che le ho parlato le è bastato ascoltare il mio tono di voce quando ho risposto per intuire il mio malessere.

Mio padre ed io parliamo per qualche minuto delle solite cose mentre passeggio davanti all’entrata del dormitorio. Faccio rotolare un sasso davanti a me colpendolo con la punta della scarpa e racconto a papà com’è andata la prima settimana in università, come mi trovo con i miei compagni di stanza, se ho già deciso quale sarà il focus della mia laurea.

Qualcosa, però, mi puzza. Dalle risposte monosillabiche di mio padre capisco che questa non è una semplice telefonata per scambiare due chiacchiere. Mi ha telefonato per un motivo, ne sono quasi totalmente sicuro, quindi prendo in mano la situazione chiedendogli se c’è qualcosa che deve dirmi.

La sua risposta è un sospiro. “Luke,” mi dice, con la sua consueta voce calma. “Si è svegliato.”

Immediatamente la presa sul cellulare si fa più stretta.

Deglutisco. Non c’è bisogno che gli chieda di chi stia parlando. “Quando?”

“Tra ieri notte e stamattina. E’ ancora molto debole, ma le sue condizioni sono stabili e i medici si dichiarato ottimisti.”

“Mi fa piacere,” dico. E poi, perché mi sento tremendamente, schifosamente in colpa ad aver ridotto tutto il mio sollievo e la mia gioia di fronte a questa notizia in tre misere parole, aggiunto: “Davvero, io— sono davvero felice.”

“Lo so, Luke. E anche lui lo sa. Ha chiesto di te.”

Il sassolino che stavo facendo rotolare si ferma sotto la suola della mia scarpa. Tiro indietro il piede e lo colpisco con tutta la forza che ho in corpo, scagliandolo con violenza verso un cespuglio nelle vicinanze. “Cosa gli è stato detto?”

“Che sei partito, nulla di più e nulla di meno. Esattamente come hai chiesto tu. Ma Luke,” dice mio padre, e so già anticipatamente quali saranno le sue prossime parole. “Prima o poi dovrai affrontarlo. Lo sai, vero?”

“Certo che lo so,” mormoro, ingoiando la rabbia e il disprezzo che gorgogliano dentro di me. “Devo andare, adesso. Ho da studiare,” mento, ma mio padre è più che lieto di lasciarmi andare. So che queste conversazioni sono difficili per lui tanto quanto lo sono per me.

Una volta premuto il tasto per chiudere la chiamata ficco nuovamente il telefono nella tasca dei pantaloni ed entro a passo svelto nel dormitorio. Mi sforzo di mettere da parte ciò che ho appena saputo per poi metabolizzarlo stasera, quando sarò da solo nel mio letto e potrò lasciare che qualunque reazione alla notizia prenda il sopravvento. Non voglio che i miei compagni di stanza intuiscano che è successo qualcosa e comincino a fare domande.

Salgo le scale due gradini alla volta, ed è questo il massimo dello sfogo che mi concedo prima di giungere alla porta della mia stanza. Dovrò farmelo bastare. Anche perché mentre recupero la chiave dallo zaino e apro la porta mi rendo conto che abbiamo ospiti. Tempismo perfetto, maledizione.

“Insomma, Charlie!”, esclama qualcuno – una ragazza, a giudicare dalla voce. Corrugo istintivamente le sopracciglia: chi diavolo sarebbe Charlie? “Una tradizione è una tradizione, che ti piaccia o no, e la tua mi sembra la stanza più grande e adatta.”

“Anche quella di Travis Stoll è grande.”

“Vuoi davvero organizzare una festa da Travis, Charlie? Ne sei proprio sicuro?”

Beckendorf, seduto sul nostro divano, si prende il capo tra le mani e grugnisce con aria avvilita prima di alzare lo sguardo su di me, quando chiudo la porta della stanza alle mie spalle.

“Luke!” esclama. “Luke, ti prego, aiutami a convincere Silena che non possiamo organizzare una festa nella nostra stanza.”

La ragazza seduta di fianco a Beckendorf arriccia le labbra in una smorfia contrariata, ma anche così resta probabilmente la persona più bella che io abbia mai visto in tutta la mia vita. Resto a fissarla, incantato dalla maniera in cui i suoi lunghi capelli scuri le scivolano sulle spalle, incantato dai lineamenti così delicati e perfetti del suo viso e da quegli occhi circondati da folte ciglia arricciate; seppur da lontano riesco a vedere che le sue iridi sono di un azzurro acceso – non un blu elettrico come quelli di Talia, ma altrettanto ipnotico.

La ragazza si schiarisce la gola con un colpo di tosse ed è allora che noto come Beckendorf le stia tenendo un braccio intorno alle spalle con fare protettivo. Oh.

“Perché dovremmo organizzare una festa nella nostra stanza?” domando. Maledizione. L’ultima volta che una ragazza mi ha fatto questo effetto avevo tredici anni ed ero in piena tempesta ormonale.

“Perché,” risponde la sconosciuta, alzandosi dal divano per poi dirigersi verso di me con una mano tesa. “E’ tradizione che ogni anno al termine della seconda settimana del primo semestre vengano organizzate delle piccole feste, e quasi ogni volta è all’Hades che si festeggia. Al Poseidon le stanze sono più piccole e non abbiamo la zona cucina. Sono Silena, ad ogni modo, la ragazza di Charlie.”

“Charlie?”, domando nello stringerle la mano. Beckendorf, dal divano, alza una mano per indicare sé stesso.

“La gente si fa sempre problemi a chiamarlo Charles o Charlie,” ride Silena, rivolgendo poi uno sguardo affettuoso a Beckendorf. “Non capisco davvero perché.”

“Sono Luke,” mi presento allora. “E per quanto riguarda la festa sono d’accordo con Charlie.”

Neanche lo sguardo tradito che Beckendorf mi lancia quando lo chiamo con questo nomignolo riesce a cancellare il sogghigno che ho in viso.

“Voi ragazzi,” dice Silena, “cambierete idea. Potete scommetterci.”

***

          From: Talia – yooooo salvato : ) 









Note: Raga, mi sa che dovrò modificare l'introduzione aggiungendo +Lunabeth alle ship presenti in questa fanfiction. Perché mi piace soffrire. Perché anche se Taluke e Percabeth sono le ship principali, un po' di angst ci vuole sempre... no? Comunque, ci tenevo a fare un minimo di chiarezza (e giustificare l'innegabile OOC *coff coff*) riguardo Luke. Come scoprirete man mano che la fanfic andrà avanti, nel suo passato è accaduto qualcosa che l'ha lasciato traumatizzato e con enormi sensi di colpa. Questo, ovviamente, va a incidere sul suo carattere, sulla sua introspezione e sul modo di relazionarsi con gli altri. MA TRA L'ALTRO! La festa che Silena nomina a fine capitolo sarà uno degli eventi principali della prima parte della fanfiction, oltre che il punto d'avvio per diverse storyline! :D Mi sono resa conto che ho pianificato davveeeero tante storyline diverse e cercherò di incastrarle tutte l'una nell'altra senza risultare pesante o ridondante. Il prossimo capitolo è previsto come al solito per il prossimo fine settimana, dunque aspettatevi un aggiornamento tra venerdì e domenica. Un grazie a tutti quelli che hanno commentato, inserito la fanfic tra le preferite, seguite e ricordate <3 mi rendete davvero felice!
P.S. La canzone linkata a inizio capitolo è una delle ispirazioni per il Luke di questa fanfiction!

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Capitolo 5
*** new life who dis ***


new life who dis



                From: Sconosciuto – hey sono luke, questo è il mio numero

Sogghigno e getto il telefono nella tasca più esterna dello zaino, avendo cura poi di richiuderla tirando la cerniera. La ricezione qui dentro è pessima, per cui risponderò non appena uscirò da questo posto – se mai riuscirò a farlo.

La biblioteca dell’Olympia University potrebbe essere descritta con un’unica parola: grande. Il soffitto è talmente alto da permettere alla biblioteca di svilupparsi su due piani: in quello superiore vi sono principalmente tavoli e scaffali ricolmi di libri, mentre in quello inferiore troneggia al centro della stanza una statua di quello che sono sicura sia Atlante, in ginocchio mentre regge sulle proprie spalle il mappamondo più grande che io abbia mai visto fino ad ora. Resto a bocca aperta. La statua è in marmo. I suoi toni chiari contrastano piacevolmente con l’intenso e scuro marrone degli scaffali in legno lucido e dei vari tavoli. A sorreggere il piano superiore, che si affaccia su quello inferiore, vi sono eleganti colonne greche.

Seguendo il profilo delle colonne, il mio sguardo viene attratto in alto verso il soffitto. E’ allora che strabuzzo gli occhi, e sono quasi certa che la mia mascella si arrenda alla forza di gravità lasciando che la mia bocca si apra in un’espressione stupefatta.

Il soffitto è quasi interamente in vetro, con una griglia di infissi scuri ma sottili che non disturbano la veduta del cielo così offerta. Anche se al momento tutto ciò che si può vedere sono nuvoloni scuri, è comunque una vista mozzafiato. Tutto intorno alle finestre, poi, sono dipinte sinuose figure di donne, che dall’abbigliamento deduco appartengano al periodo dell’antica Grecia.

Sento qualcuno tossire alla mia destra. Mi volto, notando finalmente quella che probabilmente è la postazione del bibliotecario. Una ragazza dall’aria particolarmente familiare sta sistemando le foglie di una piantina posata sulla scrivania, e mi rivolge un sorriso cordiale ma impostato quando si accorge di avere la mia attenzione.

“Posso aiutarti?” mi domanda, sistemandosi poi una ciocca di capelli biondo fragola dietro l’orecchio. Parla con un tono di voce basso, ma le sue parole riecheggiano comunque per la sala. Mi avvicino. Adesso arriva la parte difficile.

“Hey, sì, umh… ciao, innanzitutto. Sono Talia,” mi presento. Cerco di apparire il più disinvolta possibile. Le prime impressioni, quando di cerca un lavoro, sono estremamente importanti. “Ho sentito dire in giro che qui in biblioteca siete a corto di personale, per cui mi chiedevo se per caso non steste cercando qualcuno da assumere.”

E’ dura non assumere un tono supplichevole, ma hey: dopo anni e anni trascorsi a cercare di accaparrarmi posti di lavoro part time nei dintorni di casa a New York credo di aver fatto mia l’arte del non lasciar trasparire la propria disperazione. Certo, certo, direte voi, “Talia, non credo proprio tu sia davvero così disperata! Questo è solo il primo lavoro che hai adocchiato, se anche andasse male ne troveresti altri,” e davvero, in parte avete ragione. Ma è impossibile ignorare che lavorare in biblioteca significherebbe non dover lasciare la zona del campus, il che mi aiuterebbe a risparmiare tempo prezioso per studiare.

La mia borsa di studio non si mantiene valida per la sola forza di volontà. Ho bisogno di mantenere una media alta.

La ragazza, in tutto ciò, mi sta osservando con occhi sgranati – una tonalità chiara di verde, tendente al nocciola – e un’aria tra l’emozionato e il combattuto. Inclino il capo. Lei si morde il labbro.

“Okay,” dice finalmente, per poi guardarsi intorno con fare circospetto. “Sarebbe poco professionale da parte mia chiederti se sei davvero sicura di voler lavorare in questo posto e metterti così facendo in guardia, per cui non lo farò.”

Aggrotto le sopracciglia. “Ma… indirettamente l’hai appena fatto.”

“Mi chiamo Katie,” esclama allora la ragazza ad alta voce, ignorando il mio sconcerto. Si china ad aprire un cassetto della scrivania, da cui tira fuori quello che ha tutta l’aria di essere un modulo. Katie recupera una penna e comincia a scribacchiare qualcosa sul foglio.

“Hai esperienza lavorativa in quest’ambito?” mi domanda nel mentre.

Scuoto il capo. “Non specificamente in una biblioteca, ma ho lavorato per qualche mese negli archivi del mio vecchio liceo un paio di anni fa. E ho lavorato anche in diversi negozi in cui principalmente dovevo occuparmi di sistemare merce sugli scaffali.”

Katie annuisce. Mi chiede il mio nome completo, data di nascita, quali corsi frequento. “Se il tuo modulo verrà approvato, avremo bisogno dell’orario completo delle classi che segui per poter incastrare i turni,” m’informa, poi però si stringe nelle spalle. “Ma potresti darmelo anche adesso, dal momento che quasi sicuramente verrai assunta. Non si è ancora proposto nessuno e, davvero, ci sono troppi turni per troppi pochi impiegati.”

“Come mai questo lavoro viene snobbato?” domando. In me inizia a serpeggiare il dubbio: forse avrei fatto meglio a informarmi per bene prima di precipitarmi qui a cercare di farmi assumere. Stringo la presa sul mio zaino mentre Katie si prende il capo fra le mani.

“Sei una matricola, quindi è normale tu non lo sappia. E’ per l’incidente dell’anno scorso,” dice con un sospiro, prima di indicare il soffitto vetrato. “Qualcuno ha lanciato una palla da volleyball contro la vetrata sul tetto e l’ha ridotta in frantumi, il mappamondo sulle spalle del nostro amico li al centro è cascato e ha iniziato a rotolare per la biblioteca. Sembrava di trovarsi in un pinball gigante. Abbiamo spazzato via schegge di vetro per settimane.”

“…una palla da volleyball…”

“Già,” annuisce Katie. Mi lancia poi uno sguardo, e forse la mia espressione turbata la convince ad aprirsi in un sorriso genuino. “Quando avrai trascorso qui all’Olympia più di un anno imparerai a non stupirti più di nulla. Una volta hanno perso un toro per le strade del campus.”

“Cosa ci faceva un toro per le strade del campus?!”

“Non chiederlo a me!”

Alzo una mano a grattarmi la fronte, rimuginando su ciò che ho appena scoperto. “Quindi la gente non sceglie di lavorare qui per paura che crolli il soffitto?” domando.

“…il soffitto è solo la punta dell’iceberg, a dire il vero. Diciamo che la storia di questa biblioteca è stata sempre abbastanza travagliata,” spiega Katie. Una parte di me vorrebbe sapere di più riguardo questa faccenda, ma un’altra parte, quella più giudiziosa, preferisce rimanere all’oscuro di tutto. Almeno così non avrò ripensamenti. Spero.

“Tch, gli incidenti non mi spaventano,” dichiaro con (falsa) spavalderia.

Katie alza le mani davanti a sé. “Allora considerati pure assunta. Devo far visionare il modulo al Professor Chirone, il referente per la biblioteca, ma sono certa che non avrà nulla da ridire. Anzi, potremmo di già iniziare a stilare i tuoi turni per questo semestre, che ne dici?”

***

“Uccidimi. Ma sii veloce, per favore.”

Luke mi lancia uno sguardo sconcertato mentre occupo il posto vuoto di fianco a lui, lasciando poi cadere la testa sul banco. La fronte mi sbatte contro la superficie dura e fredda, e se fossi fisicamente meno provata forse – forse – mi lamenterei per il dolore. Per come stanno le cose adesso, invece, mi limito a mugugnare qualcosa senza però muovermi di un millimetro. Qualcosa mi colpisce la spalla, e mi volto quel che basta per vedere un lungo dito di Luke che continua a punzecchiarmi con fare circospetto.

“Non saprei,” dice. “Dal tuo aspetto credo non ti resti comunque molto da vivere.”

“Ti rifiuti di porre fine alla mia agonia?”

Luke si stringe nelle spalle, prendendo poi a scarabocchiare qualcosa sul bloc notes che tiene aperto davanti a sé. “Chi o cosa ti ha ridotta in questo stato?” mi domanda.

Mi siedo in maniera più consona e mi guardo intorno. L’aula è meno piena della settimana scorsa, e il professore non si è ancora fatto vivo. Sono arrivata con maggior anticipo di quanto credessi.

“Ho trovato un lavoro,” inizio a spiegare, togliendomi la giacca per poter mostrare a Luke i miei avambracci nudi. Stendo le braccia davanti a me e sulla pelle chiara risaltano alcuni lividi. “In biblioteca,” aggiungo.

Luka guarda prima le mie braccia, poi il mio viso. Corruga le sopracciglia chiare e apre la bocca come a voler dire qualcosa, ma poi serra le labbra. “Sai cosa? Sono sicuro ci sia una spiegazione valida. Forse non logica, ma di certo valida. Sono tutto orecchi.”

Sorrido a labbra chiuse, perché oggettivamente nulla di quello che è successo in biblioteca ha del logico. Inizio a raccontare, allora, di come sono stata assunta in quattro e quattr’otto nel luogo dell’Olympia che conta più inspiegabili incidenti di qualunque altro ambiente dell’università, e di come nel giro di pochi giorni abbia avuto modo di rimpiangere amaramente la mia scelta – ma esagero volutamente. Non rimpiango di essere stata assunta.

A lavorare in biblioteca siamo davvero pochi: c’è Katie, ovviamente, insieme a una sua amica di nome Miranda che puntualmente, quando arriva per cominciare il suo turno, porta con sé qualche strano snack vegano che offre a tutti i presenti; c’è un ragazzo di nome Travis, che a detta di Miranda si è fatto assumere solo perché ha una grassa, grossa cotta per Katie da quando hanno cominciato l’università, e ovunque vada Travis segue suo fratello Connor, che pur non lavorando con noi è una presenza fissa durante i turni di suo fratello; c’è Percy, il tipo con i capelli neri che ho conosciuto al corso, e il suo amico Grover che lo segue come un’ombra e che, forse, è la mia persona preferita in quel covo di matti.

Il fatto è che sono tutti davvero forti, ma in particolar modo i ragazzi tendono ad essere anche estremamente rumorosi. Ciò che più mi preme è riuscire a conciliare il lavoro con lo studio, per cui ho cercato di far combaciare i miei turni con quelli di Grover, che è di certo più silenzioso e tranquillo degli altri – quando non si trova con Percy, almeno.

La maggior parte dei miei turni, ad ogni modo, sono quelli che coprono gli orari meno richiesti come le prime ore del mattino o le ultime della sera; specialmente adesso che gli esami del primo semestre sono ancora lontani è difficile che si presenti qualcuno in momenti del genere, cosa che rende il lavoro mille volte più semplice.

“Faccio ancora fatica a comprendere dove s’inseriscano i tuoi acciacchi in tutto questo,” m’interrompe Luke con una risata, e lo rimprovero perché non mi piace essere interrotta mentre sto parlando. Lui alza le mani in segno di scuse, ma dalla sua espressione non sembra scusarsi davvero. Oh, be’.

“Ci sei mai stato, in biblioteca?”, gli dico. “Alcuni libri sono enormi. Enormi, ti dico. E, umh, ecco, abbiamo ideato un metodo per trasportare più velocemente alcuni volumi dal primo al secondo piano. Percy prende i libri dagli scaffali del secondo piano, mentre io, sotto--”

Luke sbatte le palpebre, impassibile. “Dimmi che non vi siete lanciati i libri da un piano all’altro.”

Mi stringo nelle spalle. “Ok. Non te lo dirò.”

Inaspettatamente Luke scoppia a ridere, e mi coglie talmente di sorpresa che sobbalzo sulla sedia. Scuote la testa tra sé e sé e mi limito ad osservarlo. Quando ride, la cicatrice che ha sul viso si deforma e crea tante piccole rughe d’espressione.

“Smettila di ridere di me. Ti tiro un pugno,” mormoro aggrottando le sopracciglia, ma non posso tener fede alla mia minaccia dal momento che il professore fa il suo ingresso in aula. Sospiro, tirando fuori il materiale necessario per seguire la lezione.

E’ solo la seconda volta che si tiene il corso di Psicologia, per cui buona parte delle letture che il professore spiega dal libro di testo sono introduttive, nulla per cui si necessiti un estremo sforzo di attenzione. Per la maggior parte del tempo mi limito ad appuntare qualche termine chiave, o a segnare la spiegazione di qualche passaggio particolarmente ostico. Perdo il conto delle volte in cui Luke si sporge verso di me per sbirciare come si scrive una determinata parola, o per ricopiare parte dei miei appunti.

E’ poco prima che la lezione finisca che la mia attenzione viene improvvisamente stuzzicata.

“…e se deciderete di svolgere questo progetto, concludendolo per tempo, circa il 50% dell’esame finale verrà influenzato dal vostro lavoro, se valutato in maniera positiva. E’ necessario trovare un partner per sviluppare il progetto, ma in casi eccezionali accetterò anche gruppi di massimo tre persone. Chi fosse interessato è pregato di contattarmi via email prima della prossima lezione. Potete andare, grazie per la vostra attenzione. Ci vediamo la settimana prossima.”

***

“Ohhh, avanti! Potrebbe essere un’ottima opportunità!”

“Talia, no. Per quel che se sappiamo, quel progetto potrebbe essere qualcosa di noioso e inutile che ci ruberà solamente del tempo.”

“Ma è il 50% del voto finale!”

“No. E tra l’altro perché non me l’hai detto subito dopo la lezione?”

Entro nella stanza, salutando Annabeth con una mano prima di gettarmi a peso morto sul letto, stesa di schiena. Qualcosa mi preme dolorosamente contro il fianco e con una smorfia sposto l’oggetto incriminato – il caricabatterie del cellulare – lontano dal mio corpo.

“Perché dovevo correre a un altro corso,” rispondo, anche se sarebbe più onesto aggiungere che avevo bisogno di preparare delle motivazioni abbastanza valide da per sostenere la mia proposta. “Avanti, Luke! Sei l’unica persona che conosco, lì in mezzo!”

“E’ Luke?” domanda Annabeth, seduta alla sua scrivania con un enorme libro aperto davanti a sé e una notevolissima varietà di evidenziatori tutto intorno. “Salutamelo!”

Sogghigno. “Annabeth ti saluta e dice che dovresti partecipare al progetto con me.”

Vedo Annabeth spalancare gli occhi e arrossire appena, prima di esclamare a voce abbastanza alta da essere sentita anche da Luke: “Non ho detto nulla del genere!”

“Mhhh questi rumori di sottofondo, deve esserci qualche interferenza.”

“Saluta Annabeth da parte mia,” ridacchia Luke dall’altro capo del telefono. “E dille che non credo alle tue bugie per ottenere quello che vuoi.”

“Dovreste scambiarvi i numeri di telefono, così queste cose potresti dirgliele di persona,” suggerisco, con un sorriso sornione che si allarga sul mio viso. L’espressione imbarazzata e infuriata di Annabeth è l’unico avvertimento che mi viene concesso prima che la bionda afferri un cuscino dal suo letto e me lo lanci addosso.

“Promettimi almeno che ci penserai?” rido, rilanciando il cuscino contro Annabeth. La colpisco alla nuca e lei mi fulmina con lo sguardo, avvicinandosi al mio letto con sguardo minaccioso.

“Talia—”

“Promettimelo!”, esclamo. Annabeth mi afferra per i fianchi, ben sapendo quanto siano una zona per me sensibile al solletico, e comincia a pizzicarmi. “Sto per morire, non puoi negarmelo!” riesco a dire prima di scoppiare a ridere. Cerco di calciare via Annabeth, ma lei evita i miei colpi.

“Umh, tutto bene lì?” gracchia Luke al telefono.

“Promettilo!”

“Promesso!” lo sento sospirare. Quando chiudo la telefonata, mancando più volte il tasto esatto perché attraversata da spasmi di risata, Annabeth la smette di torturarmi. Mi tiro a sedere.

“Credo che tu gli piaccia,” dico alla mia compagna di stanza. Lei si stringe per un attimo nelle spalle prima di tornare a sedersi alla sua scrivania e riprendere a studiare.

***

                To: Luke – ci hai pensato? : )

                From: Luke – oh mio dio

                From: Luke – è passata solo mezza giornata

                From: Luke – è tardi, vai a dormire, ne riparliamo domani

                To: Luke – non riesco a dormire se non ho una risposta

                From: Luke – la gente normale conta le pecore quando non riesce a dormire

                To: Luke - > : (

                To: Luke – c’era la statua di una capra quando mi hai investita

                To: Luke – le pecore somigliano troppo alle capre

                From: Luke - ???

                From: Luke – ok senti, andrai a dormire e mi lascerai guardare la tv in pace se ti rispondo adesso?

                To: Luke – il piano era quello

                From: Luke – ok allora. Parteciperò al progetto con te

                To: Luke - : D  : D  : D

***

La vibrazione del telefono mi sveglia di soprassalto.

E’ un risveglio brusco. Non ricordo di essermi addormentata. E’ tutto buio e silenzioso nella stanza. Ho freddo perché mi sono addormentata senza infilarmi sotto le coperte. E il telefono continua a vibrare.

Quando i miei occhi riescono a mettere a fuoco il nome che compare sul display, il mondo si ferma per un istante. Accetto la chiamata.

“Mamma,” mormoro in un sussurro spaventato. “Mamma, è notte fonda.”

“Ma mi mancaaavi, Tallie,” è la risposta di mia madre, appena udibile nel rumore di fondo. C’è musica e c’è gente che parla ad alta voce. Le parole di mia madre si allungano sulle vocali, trascinandole dietro di sé in una parlata che è come impressa a fuoco nella mia mente.

“Dove sei?” domando mentre mi alzo dal letto. Ogni traccia di rintontimento sembra essersi dissolta. Annabeth mugugna qualcosa e si volta sul suo letto, dandomi la schiena, ma resta addormentata. In punta di piedi esco dalla nostra camera e poi dalla stanza, usando lo zaino della palestra che Clarisse ha lasciato nell’ingresso per bloccare la porta e non rimanere chiusa fuori.

“Mi manchi,” biascica la mamma dall’altro capo del telefono. Stringo i pugni. Il mio corpo è entrato di riflesso in tensione.

“Ti ho chiesto dove sei.”

“Con amici,” la sento ridere, una risata graffiante e rauca. Poggio la schiena contro il muro del corridoio e prendo un respiro profondo. Mentre espiro, scivolo lentamente fino a ritrovarmi seduta per terra mentre guardo il soffitto.

“Sei ubriaca,” sussurro. Con una mano chiusa a pugno premo contro la mia fronte. “Sei ubriaca, cazzo, ed è tardi e dovresti essere a casa adesso.”
Mamma mugugna qualcosa che potrebbe essere “ipocrita”, ma non ne sono sicura, perché non riesco davvero ad ascoltare nulla di quello che sta dicendo.

Non è solo perché è ubriaca e le parole le si sciolgono nella bocca facendole parlare una lingua che non conosco. Non è solo perché il rumore di sottofondo rimbomba nella mia testa, assordandomi come se premuta contro il mio orecchio ci fosse una cassa e non il cellulare.

E’ perché mi manca l’aria e non riesco a respirare. Sto tremando. Mi guardo intorno alla ricerca di un cestino della spazzatura perché la nausea ha preso ad attanagliarmi il ventre e i conati di vomito potrebbero arrivarmi da un momento all’altro.

E’ sempre strano svegliarsi e scoprire che gli’incubi esistono anche nella vita reale.

“Talia? Taaaliaaa,” è la cantilena di mia madre.

“Mamma, per favore, torni a casa?” chiedo con un filo di voce, detestando ogni istante in cui mi sembra di essere tornata una bambina spaventata. “Per favore, solo… chiama un taxi e torna a casa. Puoi farlo, mamma? Per me? Uh?”

Mia madre ride ancora e poi singhiozza. “La mia bambina,” dice, affetto e scherno che si mescolano in una combinazione malsana nella sua voce. “Hai ancora così bisogno di me, non è così?”

Forse è talmente ubriaca da non ricordare neppure che mi trovo a sei fottutissime ore di distanza da lei, e che quando tornerà a casa troverà solo un appartamento vuoto. Forse. Ma questo non mi ferma dal risponderle: “Già. Fai presto, ok? Stai attenta. Mandami un messaggio appena rientri.”

“Ti voglio bene, Tallie.”

“Anche io, mamma,” mormoro, ma la chiamata viene interrotta ancor prima che io inizi a parlare.

Resto sola. Io e il silenzio.

Il cuore continua a battermi a un ritmo innaturale nel petto, e non c’è nulla che io possa fare se non inspirare, espirare, ripetere. Inspirare, espirare, ripetere.

Il cellulare segna le 2:43 di mattina e un messaggio non letto.

                From: Luke – felice di renderti felice : )

Inizio a piangere lì, nel corridoio. Dove non c’è nessuno che possa vedermi.  









Note: ho tardato un po' con questo capitolo per tanti motivi diversi. Il primo motivo è sicuramente Haikyuu!! ;___; ho tipo divorato un episodio dopo l'altro e adesso sono schiava delle fanfiction, Se poi a ciò aggiungiamo anche un vago calo d'ispirazione per scrivere... eh. Ma mi sono ripromessa di essere il più puntuale possibile con questa fanfiction!
La prossima settimana non ci sarà un nuovo capitolo, per cui vi auguro anticipatamente buona Pasqua! <3
Ancora un grazie di cuore a tutti coloro che hanno inserito la fanfic tra le preferite, le ricordate e le seguite e a coloro che hanno commentato.

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Capitolo 6
*** mhhh whatcha say ***


 
mhhh whatcha say




“Per l’amor di Dio, che ci fai tu qui? A quest’ora?”

Talia si stringe nelle spalle e s’infila tra il mio corpo e lo stipite della porta, scivolando con grazia all’interno dell’appartamento. Nel fare ciò si libera della tracolla che ha indosso e la lascia cascare sul divano con un lancio la cui precisione mi lascia stupito.

“Non ti ho invitata a entrare, lo sai?”

Talia si volta verso di me, con i suoi grandi occhi blu sgranati che mi osservano con un’innocenza troppo vistosa per essere genuina. “Devo usare il bagno.”

“Ma— non puoi usare il bagno adesso!”

“Devo, Luke!”

“…è quella porta,” indico dopo un attimo di esitazione, e l’espressione innocente di Talia si trasforma in un sogghigno vittorioso prima che quella piccola creatura malvagia sparisca dietro la porta del bagno. Resto per qualche istante impassibile, forse nel tentativo di metabolizzare la situazione.

Sono le nove di mattino dell’unico giorno, senza contare i weekend, in cui non devo svegliarmi a orari indecenti per scappare a seguire qualche corso. Questo, però, non mi ha fermato dall’alzarmi dal letto un paio di ore fa per andare a correre, perché correre mi è sembrato il modo migliore per scaricare la tensione accumulata negli ultimi giorni con l’inizio vero e proprio del semestre e, soprattutto, per smaltire le quantità davvero sconsigliabili di fast food e merendine che Ethan, Beckendorf ed io abbiamo iniziato a consumare. La dura vita dello studente universitario.

Per cui ecco, sono andato a correre. Un giro non troppo lungo della zona intorno al dormitorio, immersa nel silenzio e nel fresco vento mattutino. E’ stato rigenerante permettere al mio cervello di spegnersi del tutto, anche se per poco tempo, e lasciare che fossero i muscoli delle gambe a guidarmi e a richiedere tutte le mie energie e la mia concentrazione. Ecco, forse più che rigenerante dovrei definirlo liberatorio. Potrebbe diventare un’abitudine.

Una volta rientrato in camera, stanco e sudato, ho poi scoperto che i miei coinquilini erano ancora rinchiusi nelle loro rispettive camere, cosa che mi ha dato modo di reclamare immediatamente l’utilizzo del bagno.

Vedete, fino a poco fa la giornata non si prospettava solo “bella”, ma avrei osato dire “fantastica”. Perché i bagni al dormitorio Hades hanno il lato negativo di essere collegati a un sistema di riscaldamento dell’acqua che… fa acqua da tutte le parti. Per favore, è mattina. Non potete pretendere dei giochi di parole migliori da me quando è mattina.

Ad ogni modo, sono stato il primo tra i miei inquilini a usare la doccia. O meglio, lo sarei stato se dopo tre miseri minuti di un meraviglioso getto bollente diretto sulle schiena per sciogliere i muscoli qualcuno non avesse iniziato a bussare insistentemente alla porta dell’appartamento.

Ci penseranno Ethan o Beckendorf, ho pensato lì per lì. Ma il tempo passava e i colpi alla porta, piuttosto che cessare, aumentavano d’intensità. Con un grugnito frustrato ho chiuso il getto d’acqua, sono uscito dalla doccia e dopo aver afferrato un asciugamano per coprirmi sono andato a controllare chi avesse deciso di rischiare il linciaggio a quest’ora del mattino.

Di ciò che è accaduto dopo siete già stati messi al corrente.

Sospiro, stringendomi indosso l’asciugamano e pregando che Talia esca dal bagno il prima possibile. La mia pelle è ancora umida per via della doccia e dai capelli bagnati gocce d’acqua cominciano a scivolarmi lungo la schiena, facendomi rabbrividire. Forse è il caso che vada a recuperare una tshirt dalla mia stanza, ma il rumore dello scarico del gabinetto mi suggerisce che il bagno sta per liberarsi.

“Grazie al cielo!” esclama difatti Talia quando poco dopo esce dal bagno, con le braccia allungate sopra la testa per distendere i muscoli. “Sapevo che c’era un motivo se tu ed io ci siamo conosciuti, e quel motivo è che un giorno avresti salvato la mia vescica dall’esplodere.”

“…”

“Oh, avanti, non fare quella faccia!”

Non ho sinceramente idea di quale faccia Talia stia parlando, ma aggrotto le sopracciglia e mi passo una mano sul viso. L’altra mano va a stringere la presa sull’asciugamano che ho intorno ai fianchi e allora, solo allora, quel minimo di pudicizia che mi resta va a ricordarmi che non dovrei starmene praticamente nudo con una ragazza nella stanza. Percepisco un vago calore diffondersi dal collo alle orecchie e spero che Talia non noti il mio arrossire.

“Be’,” inizio a dire, “se non c’è nient’altro che ti serva…”

Talia sgrana gli occhi in un’espressione supplichevole e impanicata che blocca le mie parole sul nascere. Quando poi Talia ricomincia a parlare lo fa con una nota di urgenza nella voce. “A dire il vero… potrei restare qui per un po’? Solo per un po’!”

La sua richiesta mi coglie di sorpresa. Ma, d’altra parte, Talia ha iniziato a cogliermi di sorpresa già nel momento in cui si è presentata qui. Spero segretamente che io non debba iniziare ad abituarmici. “Non hai una tua stanza?”

“Ce l’ho,” mormora lei. “E’ solo che… per favore?” ribadisce. Mi guarda e ogni nota scherzosa sembra essere sparita dal suo sguardo; la sua fronte pallida è aggrottata in una maniera che definirei genuina. “Ho dei libri per studiare nello zaino, posso sedermi sul divano o anche per terra a leggere e non darò fastidio.”

La maniera in cui le sue labbra imbronciate si muovono a malapena per mormorare queste parole è quasi… tenera. Il comportamento di Talia mi ricorda quello dei miei cugini più piccoli in quelle rare volte in cui la famiglia si riunisce – principalmente per Natale o per altre festività. Quando la mamma era in condizioni migliori, queste rimpatriate avvenivano con più frequenza. Erano più allegre, anche.

“Luke?” mi chiama Talia. Devo ancora darle una risposta. “Se preferisci che me ne vada è okay. Tornerò in biblioteca, o magari mi fermerò in un parco.”

“Resta,” le dico con un sospiro. Non mi sfugge il repentino cambio di postura di Talia, che raddrizza le spalle e la schiena per guardarmi. “Non è affatto un problema. Solo, umh, adesso vorrei tornare in doccia prima che i miei compagni di stanza–!”

Il rumore di una porta che si apre cigolando mi costringe a interrompermi e a voltarmi. Parli del diavolo.

“’Giorno… oh,” mormora Beckendorf. Deve aver notato Talia nel bel mezzo di uno sbadiglio, perché è rimasto con la mano davanti alla bocca aperta e un’espressione confusa in volto. Quando abbassa la mano, poi, abbassa anche lo sguardo sugli abiti che indossa – una t-shirt con il logo di una qualche band rock e un paio di boxer blu decorati con tante piccole fiammelle. Beckendorf guarda di nuovo Talia e poi arrossisce. “Oh,” ripete.

“Woah,” ribatte Talia indicando la maglia di Beckendorf a occhi sgranati. “La tua maglia è troppo forte!!”

“Io, umh, grazie?” risponde Beckendorf. Sembra rilassarsi per via del complimento al suo outfit. “L’ho comprata al loro ultimo concerto.”

“Oh mio Dio! Li hai visti suonare dal vivo?!”

Le guance di Talia sono appena più rosee del solito quando si volta verso di me per dirmi: “Perché non mi hai detto di avere un coinquilino che ha visto uno dei miei gruppi preferiti dal vivo?”

“E Luke,” mi chiama poi Beckendorf, “perché non mi hai detto che ci sarebbe stata una ragazza nella stanza stamattina? Pensavo fosse una regola non scritta, amico: io ti avverto sempre quando Silena resta qui a dormire.”

“Conosci Silena?” domanda Talia, interrompendomi prima che io possa urlare per la frustrazione di avere a che fare con lei e Beckendorf nello stesso istante.

“E’ la mia ragazza!” esclama Beckendorf, con gli occhi che s’illuminano come ogni volta che si parla di Silena.

“E’ una mia amica!” risponde Talia con altrettanto entusiasmo e quasi la stessa luce nello sguardo.

“Perché state urlando,” subentra Ethan, con tono monocorde.

Ha aperto la porta della sua stanza e ora da lì sbuca solo la sua testa, con i capelli scuri in disordine e l’immancabile benda sull’occhio. Ethan scruta attentamente i presenti, soffermandosi in particolar modo su Talia che alza una mano per salutarlo. Lo sguardo di Ethan si posa poi su di me.

“Luke,” dice, con tono assonnato e monocorde. “Perché non mi hai detto che avresti avuto una ragazza in stanza? Beckendorf avverte sempre.”
Beckendorf allarga le braccia come a sottolineare le parole di Ethan. E’ allora che decido di aver raggiunto il limite. Alzo le mani di scatto, in segno di resa, abbassandole poi sull’asciugamano quando lo sento scivolare appena lungo i fianchi.

“Come ho potuto anche solo pensare che sarebbe stata una bella giornata!” esclamo, forse con più amarezza di quanta non ne stia provando effettivamente. Marcio a lunghi passi verso il bagno mentre dico: “Vado a chiudermi in doccia come avrei voluto fare prima che questo teatrino avesse luogo e ho intenzione di restarci a lungo. Ah, e tanto per la cronaca,” aggiungo quando già sto chiudendo la porta del bagno. “Talia si è invitata da sola!”

L’ultima cosa che vedo prima di chiudere la porta è Talia che si porta una mano alle labbra per lanciarmi un bacio con lo schiocco.

***

Per puro capriccio, e per sottile vendetta nei confronti del karma e dei miei compagni di stanza, impiego forse più di quanto avrei dovuto per uscire dalla doccia. A mia discolpa, sciogliere i muscoli con i getti d’acqua calda è una delle sensazioni migliori del mondo. I minuti che trascorro lì, in piedi nella doccia a non pensare a nulla se non a quanto le mie dita si stiano raggrinzendo, sono un regalo che spontaneamente faccio a me stesso.

Non sono ancora così crudele da consumare tutta l’acqua calda a disposizione per oggi, per cui a malincuore esco dalla doccia e comincio a rivestirmi. Strofino i capelli con un asciugamano, lanciando poi un veloce sguardo allo specchio prima di uscire dal bagno per assicurarmi di avere un aspetto decente. I miei occhi non si attardano sulla mia immagine riflessa per più di pochi secondi. C’era un tempo, prima della cicatrice, in cui in preda a uno sfrenato narcisismo sarei stato capace di trattenermi a lungo davanti a una qualsiasi superficie riflettente per controllare la mia immagine; adesso si tratta soltanto di sguardi fugaci, pratici. Mi va bene così. Tutto tempo guadagnato.

Quando apro la porta del bagno mi accorgo che il mio stomaco ha cominciato a brontolare prepotentemente e ricordo che da quando ho aperto gli occhi questa mattina devo ancora mettere qualcosa sotto i denti. Mi dirigo allora alla piccola dispensa che abbiamo improvvisato nella stanza e che contiene beni fondamentali quali fette di pane imbustate e burro d’arachidi.

“Vuoi qualcosa da mangiare?” domando a Talia, seduta comodamente sul divano con un libro aperto sulle ginocchia. “Oppure continui a sgranocchiare la penna?”

Talia sobbalza, allontanando l’oggetto incriminato dalla bocca per poi guardarlo con aria sconcertata. Sogghigno nel recuperare della marmellata di dubbia qualità dal minigfrigo.

“Nah, ma grazie lo stesso,” dice lei, posando la penna mangiucchiata tra le pagine del libro per poi metterlo da parte. “Oh, ha chiamato tuo padre mentre eri in bagno!”

Mi blocco sul posto, con una fetta di pane di già in mano e il barattolo di marmellata nell’altra. Devo richiamare a me parecchia concentrazione per evitare che il barattolo sfugga alla mia presa e si schianti al suolo.

“Cosa?” riesco a domandare.

“Hai lasciato il cellulare sul tavolo e ha preso a suonare…”

“Hai risposto?”

“Sì. Cioè, il fatto è che ha chiamato due volte: la prima ho lasciato squillare a vuoto, ma quando ho visto che insisteva ho pensato che magari fosse qualcosa di urgente, per cui—”

Chi ti ha dato il diritto di farlo?”

Mi rendo conto di quanto sia velenoso il tono delle mie parole nel momento stesso in cui le lascio sfuggire dalle mie labbra. Ripongo con qualche fatica il barattolo di marmellata nella dispensa; le mie mani stanno tremando. Deglutisco.

La parte consapevole del mio cervello è entrata in allarme e mi sta gridando di darci un taglio, perché sto avendo una reazione spropositata a qualcosa di poco conto; Talia non aveva alcuna cattiva intenzione. Il problema è la scarica di panico che mi attraversa la schiena e che mi manda in allarme.

Respira, Luke, cerco di impormi. Non mandare tutto a puttane.

“Wow,” mormora Talia, sopracciglia corrugate e braccia incrociate al petto. “Non mi aspettavo di certo un grazie, ma pensavo che ti avrei fatto un favore.”

“Be’, non l’hai fatto,” controbatto, irritato di riflesso alla reazione di Talia. “E’ una questione di privacy, maledizione!”

“Luke, tuo padre stava chiamando non una, ma più volte!” ribatte Talia, la sua voce improvvisamente più acuta e violenta. “Da dove vengo io questo significa che è successo qualcosa, o che chi sta chiamando ha urgente bisogno di te!”

“Non è così,” sibilo tra i denti, per poi stringere i pugni nel tentativo di recuperare la calma. “Che cosa ti ha detto mio padre?”

“Solo di lasciarti detto che vorrebbe lo richiamassi. Davvero, Luke, non capisco perché te la prendi tanto, quando–”

“No,” sbotto, frustrato dal fatto di stare avendo questa discussione con Talia, eppure incapace di incanalare il mio turbamento in qualcosa che non sia uno scontro. “Non capisci, proprio come è chiaro che non capisci concetti basilari come il non ficcare il naso tra i fatti altrui. Cristo, chi diamine ti credi di essere per rispondere al mio telefono?”

Sono un bastardo. Lo so. Lo so, maledizione, me ne rendo benissimo conto da solo. Sto avendo una reazione amplificata e sto scaricando sulle persone vicine a me tutti i sentimenti negativi che sto provando in questo momento – ho perso il conto delle volte in cui durante la terapia mi è stata ripetuta questa spiegazione. Sto reagendo male perché il solo pensiero che Talia e mio padre abbiano parlato, che papà abbia potuto lasciarsi sfuggire qualcosa di troppo, che tutto quello che ho cercato si lasciarmi alle spalle sia entrato in contatto con la mia vita di adesso… è qualcosa che mi chiude in un black out mentale. Non riesco più a vedere la luce.

Soccombere alla parte peggiore di me stesso non era affatto nei piani.

Per cui sì, mi sto comportando come un bastardo e ne ho l’ennesima conferma nel momento in cui Talia impallidisce e il suo viso si tende in un’espressione ferita. La vedo sgranare i suoi occhi blu, vedo il suo petto alzarsi e abbassarsi per via di respiri profondi. Resto a guardarla mentre scuote il capo per poi mordersi il labbro e tendere le labbra in una smorfia.

“Credevo fossimo amici,” mi risponde. “Ma evidentemente ho frainteso la situazione. Chiedo scusa.”

“Talia…” mormoro, dopo aver strofinato prepotentemente il viso con le mani. “Talia, aspetta.”

Talia raccoglie il libro che stava leggendo e la sua penna smangiucchiata. Li ficca nello zaino che poi infila in spalla. “No, devo andare. O vado via o ti tiro un pugno in faccia, perché non mi piace che la gente mi urli contro. Ci vediamo a Psicologia.”

Non la fermo mentre mi passa davanti diretta all’ingresso, con il rumore delle suole delle sue scarpe che sbattono sul pavimento che sottolinea la rabbia in ogni suo singolo passo. Talia sbatte la porta alle sue spalle quando esce dalla stanza e io resto lì, con le dita che iniziano a farmi male per via della forza con cui le sto stringendo a pugno.

La porta della stanza di Beckendorf si apre con un cigolio. La testa del mio coinquilino sbuca appena.

“Luke,” mormora, “che diamine ti è preso?”

***

                To: Talia – talia scusami mi dispiace sono stato un idiota

                To: Talia – mi dispiace davvero per favore scusami

***

“E la tua amica come sta?” mi domanda mio padre con un tono insolitamente complice nel primo pomeriggio, quando ho finalmente trovato la forza di alzarmi dal letto e di ricominciare a funzionare come un essere umano decente.

“Quale amica,” domando con un sospiro.

“Quella di stamattina!”

Davvero. Non vedo il bisogno di essere così tanto pimpanti.

Ripenso allo sguardo di Talia e alla sua minaccia di tirarmi un pugno. Al suono dei suoi passi mentre esce dalla mia stanza. Alla porta che sbatte. Al fatto che avesse ragione – la chiamata da parte di mio padre si è rivelata essere abbastanza urgente, seppur nulla di preoccupante. Sospiro di nuovo.

“Non è una mia amica.”

“Oh. Qualcosa di più?”

Gli sbatto il telefono in faccia per poi sprofondare con il viso nel cuscino con un grugnito.

***

                From: Papà – Forse non era il caso di fare allusioni.

                To: Papà – non è mai il caso

                From: Papà – Volevo solo dirti che sua madre è passata per casa, oggi.

                From: Papà – Prima o poi dovrai affrontare la situazione.

***

                To: Talia – hey

***

                To: Talia – sei ancora arrabbiata?

 
 
 
 
 
 
                From: Talia – Dobbiamo parlare del progetto di Psicologia. Lunedì dopo la lezione?

***

Se un giorno mi avrebbero detto che io, Luke Castellan, mi sarei spontaneamente svegliato alle sette del mattino di un sabato pomeriggio per andare a cercare per tutto il campus una ragazza, non ci avrei creduto. Tutt’ora, fermo dinanzi l’entrata della biblioteca dell’Olympia in cui Talia lavora, stento a crederci.

Il caffè che stringo tra le mani è ormai divenuto tiepido per via della brezza mattutina. L’ho comprato come offerta di pace sulla strada per il Poseidon, solo per poi scoprire che Talia aveva di già lasciato la sua stanza.

“Mh – dovrebbe essere di turno in biblioteca,” mi ha informato un’Annabeth appena scesa dal letto, con i capelli biondi arruffati e la voce impastata dal sonno. Mi sono scusato per averla svegliata e sono stato ricompensato da un sorriso imbarazzato e un “in bocca al lupo” che mi ha lasciato intendere come probabilmente Annabeth sia al corrente di quello che è successo. Non mi stupirei se così fosse: in fin dei conti lei e Talia sono pur sempre compagne di stanza.

Non tentenno mentre salgo a passo svelto le scale che mi portano all’ingresso della biblioteca – mi costringo a non farlo. Il punto è che sono consapevole del fatto che la situazione venutasi a creare esiste solo per causa mia, e non posso andare avanti così. Non quando sia io che Talia siamo due persone adulte, non quando dovremo comunque avere a che fare l’uno con l’altra per via dello stupido corso di Psicologia e, soprattutto, non quando Silena Beauregard, venuta a conoscenza del litigio, ha passato tutto ieri sera a lanciare commenti passivo-aggressivi nei miei confronti.

“Ed io che speravo di poter invitare Talia alla festa di domani sera,” ha esclamato tutto d’un tratto mentre lei e Beckenford – ma principalmente Beckendorf – portavano in camera buste ricolme di bibite per la sovra citata festa. “Ho provato a convincerla a partecipare ma il suo muso lungo è stato una risposta abbastanza eloquente. Magari non dovrei essere io a chiederle di venire…”

Non avete mai conosciuto cosa sia la vera vergogna se nella vita non siete mai stati oggetto di uno sguardo di disapprovazione da parte di Silena Beauregard.

Ho recepito il messaggio, ad ogni modo, e siccome affrontare la questione per messaggio è tutto fuorché una buona idea, prendo un bel respiro e spalanco la porta d’ingresso alla biblioteca.

L’odore pungente di libro antico è ciò che i miei sensi percepiscono prima di ogni altra cosa. L’odore della carta che ha visto trascorrere decenni e decenni e che è stata sfogliata da dita spesso prive di delicatezza. E’ un buon odore, e si armonizza perfettamente con l’interno della biblioteca, con i suoi mobili in legno e le colonne e l’enorme statua di un tizio che regge sulle sue spalle un globo terrestre. Sento il suo nome sulla punta della lingua, ma non riesco a ricordarlo con precisione.

“Hey!” sento risuonare d’un tratto, e mi volto verso quella che deve essere la scrivania del bibliotecario. Un ragazzo con un sorriso sconcertato e un nido di capelli scuri sta guardando nella mia direzione. “Wow, allora esiste davvero qualcuno che viene in biblioteca di sabato mattina, non era solo una scusa per farci sgobbare ancor di più. Io – umh, sono Percy. Posso aiutarti?”

Annuisco lentamente, continuando a guardarmi intorno. “Luke. A dire il vero sto cercando una persona… Talia Grace. La sua compagna di stanza mi ha detto che dovrebbe essere qui.”

Il ragazzo – Percy – annuisce di rimando e mi indica con un pollice alcuni scaffali in fondo alla biblioteca. “Dovrebbe essere lì a sistemare alcuni tomi nella sezione di Letteratura Greca, puoi raggiungerla se vuoi ma devi lasciare il caffè qui. Scusa,” aggiunge, alzando le mani davanti a sé con una smorfia contrariata. “Cibo e bevande non possono superare la linea nera.”

Abbasso lo sguardo, notando che c’è effettivamente del nastro adesivo nero che attraversa la stanza da parte a parte e che separa la scrivania del bibliotecario dai primi scaffali colmi di libri. Aggrotto le sopracciglia, ma mi rendo conto che si tratta di qualcosa di sensato.

“Ok, allora,” mormoro, posando il caffè sulla scrivania prima di avviarmi nella direzione indicatami da Percy.

Talia è lì, esattamente dove il ragazzo mi aveva anticipato fosse, ma anziché sistemare libri la trovo seduta a terra con le gambe incrociate e un volume dall’aria non troppo antica tra le mani. La osservo per qualche istante e combatto un sorriso nascente sulle mia labbra, perché la scena ha un qualcosa di intrinsecamente adorabile. Anche se, ricordo, questa è la stessa ragazza che ha minacciato di prendermi a pugni qualche giorno fa.

Con un colpo di tosse decido di attirare l’attenzione di Talia, che sobbalza e posa lo sguardo su di me. I suoi occhi sono dapprima confusi, poi sorpresi, e infine diffidenti.

“Luke.”

“Hey,” la saluto. Porto le mani alle tasche dei jeans, stringendomi appena nelle spalle. “Cosa leggi?”

Talia richiude il libro tra le sue mani, mostrandomi la copertina. “Credo sia una sorta di enciclopedia delle divinità greche. Zeus davvero non riusciva a tenerselo nei pantaloni.”

“Non era sposato con la dea della famiglia, o una roba del genere? Era, tipo?”

“Mh, mh. Era. In parte capisco fosse incazzata nera, ma a quanto ho letto anche lei sapeva essere una stronza colossale,” dice Talia. Resta per qualche istante in silenzio prima di inclinare il viso e fissarmi con insistenza. “Che ci fai qui?”

“Ti ho portato del caffè, anche se immagino sia imbevibile dal momento che ho attraversato il campus per trovarti,” confesso. Poi, dopo aver preso coraggio: “E volevo chiederti anche scusa. Per l’altro giorno. Ho reagito davvero male e tu non avevi colpe.”

Talia continua a guardarmi senza parlare, cosa che fa crescere in me una bruciante sensazione di disagio. Sto per aprire bocca e rincarare la dose con altre scuse e addirittura suppliche, se serviranno, quando Talia abbassa lo sguardo e dice: “Ok. Scuse accettate.”

Resto spiazzato.

“…davvero?” domando.

“Davvero,” mi rassicura lei. “Luke, senti: lo capisco. Ho oltrepassato i limiti. Neanche io vorrei che qualcuno s’invischiasse nelle questioni della mia famiglia. Va bene così.”

Annuisco piano, anche se Talia non mi sta più guardando. Mi sento meglio adesso che le ho chiesto scusa di persona, ma mi rendo conto che c’è ancora una qualche pesantezza che mi opprime il petto e che non so come far andare via.

“Quindi… umh… hai da fare stasera?” domando. “Perché c’è questa festa al mio dormitorio e credo di non conoscere un terzo della gente che parteciperà.”

“Sì, Silena me l’ha accennato. Il fatto è che sto avendo orari davvero assurdi tra corsi e lavoro qui in biblioteca, per cui–”

“Vorrei davvero che tu venissi,” la interrompo, dando voce ai miei pensieri senza neanche accorgermene. Quando mi rendo conto di ciò che ho detto, le mia mani volano via dalle tasche dei pantaloni per gesticolare furiosamente: “Voglio dire, fai come meglio credi, non voglio pressarti, ma ho paura che Silena possa vendicarsi su di me se non ci sarai e, umh…”

“Silena sarebbe orgogliosa se scoprisse quale ascendente ha su di te,” commenta Talia scuotendo il capo, ma riesco a percepire una nota di divertimento nella sua voce. Si scosta una ciocca di capelli scuri dal viso prima di dire: “Cercherò di esserci. Anche se conoscendo Annabeth e Silena, probabilmente mi costringeranno a venire.”

“Bene,” commento, rassicurato dalle sue parole, ma ancora non completamente a mio agio. E’ una sensazione strana, perché sento allo stesso tempo l’impulso di andarmene e quello di restare qui insieme a Talia, per cercare di capire cosa ancora io debba fare prima di sentirmi finalmente bene. Quando il silenzio tra di noi si dilunga, però, decido che andar via è la scelta migliore.

“Quindi… a stasera, se ce la farai.”

“Mh-mh.”

“Buon lavoro!”

“Grazie! Ah, e grazie per il caffè. Sei stato davvero gentile.”

***

E’ mentre sto tornando al dormitorio ripensando alla conversazione appena avvenuta che la pesantezza sul mio petto trova una spiegazione logica, quando realizzo che per tutta la durata dell’incontro Talia non mi ha sorriso, e vorrei che l’avesse fatto.
















Note...è passato un mese. Più di un mese. AIUTO MI DISPIACE!!! Dall'ultimo capitolo sono successe così tante di quelle cose (namely: Pasqua, amici in visita, ripresa dell'università, Comicon e annessi cosplay, prove intercorso) e la forza di scrivere, insieme all'ispirazione, è volata via. Spero che questa lunga pausa non abbia portato molti di voi a perdere interesse nella storia, perché come ho già ripetuto più volte sia qui che su facebook, ho davvero intenzione di non abbandonare questa fanfiction, non importa quanto ci vorrà per scriverla. Questo capitolo è un po' più lungo degli altri anche perché non ho idea di quando riuscirò a buttar giù il nuovo capitolo :( la sessione estiva si avvicina e i miei neuroni stanno già impazzendo. 
Parlando di facebook, v'invito sempre ad aggiungermi QUI per rimanere aggiornati sulle fanfiction, ma anche per leggere di me che m'imbarazzo pubblicamente mentre sclero per fandom vari (da mesi ormai le mie ossessioni sono Shingeki no Kyojin e Haikyuu!! e i miei contatti devono sopportare, bless you guys). Spero davvero di riuscire ad aggiornare ALMENO una volta al mese da ora in poi.

 

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Capitolo 7
*** walking to the club like whatup i got social anxiety so i really wanna go home ***


walking to the club like whatup i got social anxiety so i really wanna go home


Alzo lo sguardo dal libro sulle mie ginocchia solo quando sono sicura che Luke abbia lasciato la biblioteca. Allora e solo allora mi concedo di alzarmi in piedi, riponendo il libro che stavo leggendo al suo posto sullo scaffale alle mie spalle. Nel silenzio della biblioteca il suono della suola di gomma dei miei stivali mi accompagna mentre mi dirigo verso la scrivania all’entrata, dove Percy sta fissando con insistenza un contenitore con il logo di uno dei café del campus.

“Hey,” mi dice Percy nel sentirmi avvicinare, e le sue sopracciglia corrugate si distendono. “Pausa caffè? Il tipo che se n’è appena andato l’ha lasciato qui.”

“Sì, l’ha portato per me. Ma puoi prenderlo se lo vuoi.”

Percy poggia un gomito sul tavolo, prendendosi il viso in una mano mentre mi guarda con lieve confusione. “Sicura? Anche se l’ha portato per te?”

Annuisco. “Sarebbe il terzo che prendo da quando ho aperto gli occhi. Non vuoi vedermi in overdose da caffeina, e siamo bloccati qui almeno per un altro paio d’ore. Non sopravvivresti.”

Percy sogghigna, ma mi ringrazia e gli rispondo con un sorriso mentre lo vedo prendere un sorso della bevanda.

Mi sento in colpa. Solo un po’.

***

“Mi annoooio,” esclama Travis, e blocco il cronometro sul mio telefono.

“Sei minuti e quarantanove secondi,” comunico ad alta voce, e intorno a me si alza un brusio dovuto alle lamentele della maggior parte dei presenti.

“Visto?” dice Connor. “Ve l’avevo detto che si era svegliato più paziente del solito. Fuori i soldi adesso.”

“Non riesco a credere di essere diventato oggetto delle vostre scommesse.”

“Quello che non riesco a credere è che tu abbia resistito quasi due minuti in più rispetto al solito prima di iniziare a lamentarti,” ribatte Katie mentre porge una banconota da cinque dollari a Connor. “Volevo comprare qualche snack con quei soldi.”

“Questo è quel che ottieni a scommettere sulle mie sofferenz– OUCH!” esclama Travis, massaggiandosi il fianco nel punto in cui Miranda gli ha appena tirato una gomitata. I due hanno un veloce scambio di sguardi, con Miranda che tenta di farsi capire a gesti quando Travis dà segno di non riuscire a comprenderla altrimenti. Dal momento che Travis mantiene in viso un’espressione sconcertata, Miranda si passa una mano sul viso per poi esclamare: “Fossi in te, Katie, chiederei a Travis di comprare quegli snack al posto mio. Sono sicura che non avrebbe problemi a offrirteli di sua spontanea volontà.”

“Verrà il giorno in cui Travis non avrà bisogno dell’aiuto di Miranda per fare la corte a Katie,” mormora Annabeth al mio fianco, mentre porge anche lei cinque dollari a Connor. “Ma quel giorno non è oggi.”

Rido a bassa voce. “Mi dispiace. Non credevo che chiedendoti di venirmi a prendere ti avrei portata a invischiarti in un giro di scommesse clandestine.”

Annabeth fa spallucce. “E’ okay, posso ancora permettermi di sperperare denaro. La mia vita di studentessa universitaria al verde inizierà, secondo i miei calcoli, tra circa quattro settimane e due giorni.”

“Sei spaventosamente precisa.”

Annabeth si volta verso di me sorridendo. “Sempre meglio essere preparati.”

Concordo con lei. E’ proprio per questo che mi trovo ancora in biblioteca in questo momento.

Il mio turno per quest’oggi è finito già da un pezzo, ma sono riuscita a strappare qualche straordinario che, sommato a quello di stamattina, potrebbe far sì che il mio stipendio sia un po’ più massiccio di quanto teoricamente non dovrebbe essere. Quando Katie l’ha saputo ha storto il naso. “Siamo a malapena all’inizio, perché caricarti le spalle di lavoro? Ne uscirai distrutta.”

Già… non aveva tutti i torti. Con tutto quello che è successo negli ultimi giorni – mia madre e Luke innanzitutto – le ore di sonno che ho accumulato potrebbero contarsi sulle dita di una mano, e gli straordinari in biblioteca stanno iniziando a farsi sentire. Ho chiesto ad Annabeth di pranzare insieme perché so che se non metterò qualcosa nello stomaco al più presto rischio di collassare sotto il peso della caffeina che mi sta tenendo in piedi per pura inerzia.

“Allora,” mi dice Annabeth mentre usciamo dalla biblioteca, lasciando alle nostre spalle il bisticciare di tutti gli altri. “Hai parlato con Luke questa mattina?”

Deglutisco. “Abbiamo parlato.”

Annabeth mi lancia un’occhiata indagatrice. “Quindi non è andata bene…”

“No, no!” la interrompo prima che possa tratte conclusioni affrettate. “E’ andata bene. Abbiamo chiarito, non lo odio o cose del genere. Siamo okay.”

“Silena sarà felice di saperlo,” dice Annabeth mentre annuisce. Una brezza di vento le scompiglia i capelli biondi e lei alza una mano per sistemarne una ciocca dietro l’orecchio. “E ne sono felice anche io.”

“Perché temevi che se avessimo smesso di essere amici ti saresti sentita costretta a prendere le mie parti e quindi non avresti più avuto modo di girargli intorno – non spingermi!”

“Non essere maliziosa! Sono felice perché dopo il vostro litigio avevi un’aria talmente avvilita che persino Clarisse mi ha chiesto se ti fosse successo qualcosa!”

Porto una mano al petto, fingendo estrema commozione. La mia pancia sceglie quel momento per emettere un forte brontolio. Annabeth scoppia a ridere.

“Quindi ci sarai anche tu alla festa di questa sera?” mi domanda poi. Annuisco in risposta, perché sebbene l’unica cosa che io voglia fare stasera è gettarmi sul mio letto e diventare un tutt’uno con le lenzuola, ho troppa paura di Silena per poter darle buca.

***

“Non ho abbastanza paura di Silena per convincermi a partecipare a questa festa.”

Non posso biasimare Clarisse per affermare una cosa del genere. Siamo entrambe ferme davanti l’ingresso dell’Hades, a braccia conserte e con due identiche espressioni contrariate in viso, titubanti di fronte l’idea di addentrarci nel dormitorio dal quale proviene di già il vago rimbombo dei bassi di una canzone che le radio stanno trasmettendo in continuazione in questi giorni.

“Sei ancora in tempo per mollare,” dico a Clarisse, che grugnisce e si volta di scatto verso di me. Nei suoi occhi scuri leggo l’affronto, mentre lei ribatte: “Ti sembro una persona che molla?”

Faccio spallucce. Nessuna di noi due accenna a muoversi per entrare. “Anche se,” mormora Clarisse, le labbra arricciate in un’aria pensierosa, “potrei dare la colpa a te. Dire che ti sei sentita male e ti ho riaccompagnata in dormitorio.”

Mi ritrovo a soppesare per qualche istante la sua proposta. Effettivamente non sarebbe una cattiva idea.

“Già, ma pensi di riuscire a mentire a Silena?” le ricordo con un sospiro. Clarisse sostiene il mio sguardo prima di sbattere con fare frustrato un piede per terra. “E’ quello che pensavo,” aggiungo, decidendo poi in un modo di coraggio di dirigermi a passo spedito verso l’entrata.

“Hey!” esclama Clarisse alle mie spalle, e quando mi volto a guardarla vedo una punta di preoccupazione nel suo sguardo.

“Hey,” le dico a mia volta. “Sai che non devi venire per forza, no? Possiamo anche restare per una manciata di minuti, farci vedere da Silena e poi filarcela in mezzo alla folla.”

Clarisse annuisce, ma trasuda comunque ancora nervosismo. E’ strano vedere una ragazza possente come lei ridursi a un cumulo di ansia per via di una festa, ma chi sono io per giudicarla? Forse è il suo primo party con persone perlopiù sconosciute. Forse semplicemente non è il tipo festaiolo. In ogni caso, non può di certo trascorrere il resto della serata qui impalata di fronte l’ingresso dell’Hades.

“Detesto le feste,” mormora Clarisse, confermando parte delle mie ipotesi.

“Ma vuoi bene a Silena,” le ricordo. Clarisse abbassa le spalle con aria sconfitta. Annuisco tra me e me, riprendendo a camminare. I suoi passi alle mie spalle mi seguono mentre faccio il mio ingresso nell’Hades.

Silena, che ho scoperto essere un ottimo strumento di convincimento quando si ha a che fare con Clarisse, ci ha anticipate insieme ad Annabeth di qualche ora per aiutare i ragazzi a sistemare il piano. Mentre saliamo le scale il suono dei bassi si fa sempre più vibrante, e riesco a riconoscere le voci delle nostre coinquiline nel mezzo del brusio di tutti gli invitati.

Il corridoio, dipinto di un nauseante giallo pallido, è deserto, eccezion fatta per un poster con su disegnato in maniera stilizzata un cane a tre teste che ci accoglie una volta terminata la rampa di scale. Clarisse mi supera e si avvicina al poster – in realtà formato da quattro fogli tenuti insieme con del nastro adesivo.

“Fluffy vi dà il benvenuto al terzo piano dell’Hades,” legge Clarisse, per scuotere il capo.

“Dovrebbe essere Cerbero. Il cane a tre teste, hai presente?” domando avvicinandomi a lei, che si stringe nelle spalle.

“Somiglia di più al chihuahua di mia zia Prudence. Moltiplicato per tre. Decisamente un cane infernale.”

“Talia! Clarisse!”

Clarisse ed io ci voltiamo all’unisono, osservando Silena spuntare dall’unica stanza nel piano senza una porta – la cucina – e correrci incontro con tra le mani due bicchieri di carta rossi dall’aria sospetta. Silena ci travolge in una massa di capelli profumati e glitter sul viso che richiamano il suo top pieno di paillettes, e mi domando se anche Clarisse si senta a disagio per l’aver indossato come me la semplice, classica accoppiata jeans più tshirt.

“Sono così felice che siate riuscite a venire!” esclama Silena, e vedere il suo sorriso radioso e sincero mi fa credere che sia valsa la pena rinunciare a qualche ora di sonno per partecipare a questa festa. “Ecco,” ci dice, porgendo sia a me che a Clarisse i bicchieri che ha in mano. “Raggiungeteci di là, ci sono Annabeth e gli altri! Clarisse, Charlie voleva chiederti qualcosa riguardo un programma di workout di cui ha sentito parlare recentemente? Ne stava parlando poco fa e quindi gli ho detto, ‘Charlie, devi assolutamente parlarle con Clarisse!’ E’ fantastico che siate entrambi interessati al fitness, non trovi?”

Trattengo una risata nell’osservare Silena che trascina letteralmente Clarisse dietro di sé verso la cucina, e ne approfitto per annusare discretamente il contenuto del mio bicchiere. L’odore di alcool mi pizzica le narici. Sospiro, dirigendomi poi anche io verso la cucina, e poggio il bicchiere ancora integro sulla prima superficie disponibile, dimenticando di averlo mai avuto tra le mie mani.

Le cucine dell’Hades, a quanto mi è stato detto, sono conosciute in tutta l’Olympia per essere state luogo di feste di ogni tipo: sia quelle più classiche d’inizio anno, di Halloween, del Ringraziamento e di Natale, che quelle più insolite, come quando a detta di Katie venne organizzata un party per festeggiare il fatto che uno dei tutor degli inquilini del piano avesse finalmente gettato via il maglione puzzolente con cui si presentava ogni giorno ai corsi. Essendo a conoscenza di ciò, devo ammettere che nella mia mente si erano formate le più assurde fantasie su come dovesse essere effettivamente strutturata una cucina dell’Hades. Fantasie che vengono distrutte impietosamente nel momento stesso in cui metto piede nella stanza.

“Oh,” è tutto ciò che riesco a esclamare. E’ una semplice cucina. Molto più grande di quella del nostro appartamento a New York, ma pur sempre una cucina, con un enorme tavolo nel centro della stanza ricoperto di bottiglie di birra e altre bibite e ciotole di patatine e popcorn. C’è anche un’enorme ciotola trasparente con all’interno del liquido di un colore rosso aranciato che suppongo sia il punch che Silena ci ha offerto. Dal lato opposto rispetto a quello in cui si trovano il piano cottura, il frigorifero e tutto ciò che normalmente farebbe parte di una cucina c’è un televisore circondato su tre lati da divani e poltrone che sembrano aver visto giorni migliori, e in un angolo riesco a intravedere delle casse.

Ah, e poi sì, c’è anche un botto di gente.

Mi guardo intorno, cercando di riconoscere qualche viso familiare dal momento che Silena e Clarisse sembrano essere sparite tra la folla, e sono sul punto di abbandonare qualunque prospetto di socializzazione e fiondarmi al tavolo degli snack quando incrocio un paio di familiari occhi grigi.

“Talia!” esclama Annabeth con un sorriso. Con lei ci sono Percy e Grover, e tutti e tre sfidano la folla per dirigersi verso di me.

“Hey,” li saluto. “Da dove salta fuori tutta questa gente?”

“Silena,” rispondono all’unisono Percy e Annabeth, per poi voltarsi l’uno verso l’altra e sogghignare. Grover, alle loro spalle, alza un sopracciglio e poi scuote il capo, guardandomi con aria affranta mentre cerca di calarsi ancor più sulla testa il berretto che indossa.

“La cucina è terra di nessuno,” mi dice. “Ci stiamo raggruppando nei vari appartamenti per restare un po’ più tranquilli. Gli altri sono già da Beckendorf, noi cercavamo qualcosa da mangiare.”

Percy mi mostra il pacco di patatine che sta stringendo al petto come fosse un bambino. “Missione compiuta. Ora, non per mettervi fretta, ma possiamo tornare dagli altri? Perché il tipo a cui ho soffiato le patatine da sotto il naso si sta aggirando per la cucina con l’aria di chi non si farebbe problemi a strangolare qualcuno.”

“Sono patatine alla salsa ranch,” puntualizza Grover. “Anche io non mi farei problemi a strangolare qualcuno per averle.”

Decidiamo di dirigerci verso la stanza di Beckendorf e degli altri prima che questa festa possa trasformarsi in un ring di wrestling in cui si lotta per un pacco di patatine – seriamente, patatine? Alla salsa ranch? L’unico cibo per il quale combatterei sono i cheeseburger.

L’appartamento dei nostri amici è in fondo al corridoio, dove il suono della musica non è più così forte da farti rizzare i peli sulle braccia al ritmo dei bassi. La porta è aperta, e da dentro arriva il suono di risate e di un altro tipo di musica – qualche gruppo indie che riconosco, ma non seguo con particolare affanno.

“Abbiamo il cibo!” esclama Annabeth nell’entrare. Tutti i nostri amici sono seduti nella zona salone condivisa, chi sul divano, chi su sedie raccattate da chissà dove, chi per terra. Luke, tra i fortunati occupanti del divano, si alza di scatto.

“Talia,” esclama.

“Spero non sia lei il cibo,” borbotta Clarisse. Silena, seduta scoppia a ridere come fosse la battuta più divertente che abbia mai sentito.

C’è un po’ di confusione a seguire, perché tutti i presenti cercano di stringersi alla ben’e meglio per far saltar fuori qualche posto a sedere in più che non sia sul pavimento. Un ragazzo asiatico con una benda sull’occhio si alza dalla poltrona che occupava, minacciando i presenti di riprendersela con la forza se al suo ritorno la troverà occupata, e sparisce poi in una delle stanze che affacciano sulla sala per ricomparire dopo qualche istante con diversi cuscini tra le braccia.

Travis e Connor, occupanti rispettivamente un posto sul divano e una poltrona, si alzano di scatto con una luce sinistra con gli occhi e, afferrato ciascuno un cuscino, decidono di cedere i loro posti per sedersi adesso a gambe incrociate per terra con i cuscini sotto al fondoschiena. Silena si sposta in braccio a Beckendorf, e in un modo o nell’altro riusciamo a trovare tutti un posto relativamente comodo – io striminzita sul divano, Annabeth su di una poltrona insieme a Miranda, Percy per terra sul terzo cuscino fornito da quello adesso so essere il terzo coinquilino di Luke e Beckendorf e Grover su di uno sgabello.

Un ragazzo biondo che non conosco è poi seduto accanto a una mini postazione stereo – un paio di piccole casse collegate a un iPod – e ci sono un paio di altre facce a me sconosciute, ma a parte loro siamo il gruppo della biblioteca e gli inquilini dell’appartamento. La cosa non mi sorprende più di tanto: nei giorni passati, complici alcune amicizie in comune, abbiamo formato un gruppo abbastanza unito.
“Quindi questo sarebbe un party nel party?” domando, più che altro per avere qualcosa da dire.

“Silena potrebbe aver esagerato con i suoi inviti,” spiega Luke, ma Silena si difende immediatamente.

“Non è stata colpa mia!” dice. “E’ che la notizia della festa si è diffusa e tutti gli inquilini del piano hanno deciso di partecipare, invitando i loro amici. Per cui sì, il nostro è un party nel party. Per pochi intimi.”

“Ciò che intende è che quella che doveva essere una serata tranquilla si è trasformata in qualcosa somigliante a un frat party,” interviene Beckendorf. Silena, seduta sulle sue ginocchia, annuisce. “Il che non era nei nostri programmi.”

“Ho visto qualcuno versare altra vodka nel punch,” commenta Connor. “Sono abbastanza sicuro fosse Castor. O Pollux. Non riesco mai a distinguerli.”

“Ora sai come si sente la gente quando ha a che fare con noi, bro,” interviene Travis, e Katie dalla poltrona si lascia andare a una risatina. Travis aggrotta le sopracciglia nel guardarla. “Cosa?”

“Io riesco sempre a distinguervi,” spiega Katie, ma dopo aver detto ciò le sue guance si colorano di rosso.

Da lì la conversazione si spezza e ognuno trova qualcuno con cui chiacchierare del più e del meno, il che, devo ammettere, è molto più rilassante del cercare di intavolare un discorso che coinvolga tutti. Annabeth inizia a parlare con Miranda e con il ragazzo biondo dell’iPod – Will, mi sembra di capire – di come si sta trovando all’Olympia e di quanto siano interessanti i corsi che segue. La loro conversazione procede con tranquillità, con un tono di voce costante, così come quella tra Percy, Ethan e Grover. I fratelli Soll alternano momenti di silenzio ad altri in cui incominciano ad urlare frasi apparentemente senza senso, probabilmente qualche battuta che solo loro riescono a capire. Trovandomi seduta nelle vicinanze di Beckendorf e Clarisse, invece, ascolto il loro discutere sulle routine di workout più efficaci e su quale sia la migliore marca di polvere proteica per qualcuno che debba gestire il budget di uno studente universitario.

Il mio sguardo cade su Clarisse, che con l’avanzare del discorso assume una postura più rilassata, e persino la sua espressione costantemente finisce con l’aprirsi, e sono sollevata dal fatto che sembri trovarsi a proprio agio come tutti gli altri. Silena ascolta ciò che i due hanno da dire, e interviene ogni tanto per mandare avanti la conversazione con domande e osservazioni. E’ brava ad avere a che fare con la gente. Questa ne è solo l’ennesima conferma.

“Hey.”

Sobbalzo quando Annabeth si ferma davanti a me e mi posa una mano sul ginocchio per poi sedersi per terra e guardarmi dal basso. “Tutto okay? Hai l’aria di qualcuno che si è perso tra le nuvole.”

Annuisco, accorgendomi solo in quel momento di essere lentamente scivolata sul divano fino a stravaccarmi occupando ogni singolo centimetro di spazio disponibile, e mi passo una mano sul viso facendo attenzione a non lasciare sbavature nere di makeup per tutta la faccia. Katie, lì vicino, mi guarda con le sopracciglia aggrottate.

“Sta lavorando molto più di quanto dovrebbe lavorare e ha incominciato da quanto, una settimana? Cosa farai quando inizierà la stagione degli esami e ci sarà effettivamente un motivo per fare gli straordinari a riordinare libri? Ti trasferirai in biblioteca?”

“Katie, stai facendo di nuovo la mamma,” la richiama Miranda, senza neanche distogliere lo sguardo dal video che sta mostrando a Will sul proprio telefono. Katie sbuffa, lanciandole un’occhiataccia. “E’ dura essere la persona più responsabile in questa stanza. Ho cercato di convincere Beckendorf a diventare il futuro genitore simbolico, ma ormai le grinfie di Silena lo hanno catturato. Ho buoni presentimenti per Annabeth, però. Gli Stoll le danno ascolto, il che è già più di quanto io sia riuscita ad ottenere da quando mi sono iscritta all’Olympia,” mormora, ma nel momento esatto in cui inizio a sbadigliare il suo sguardo indagatore si posa nuovamente su di me. “Tu. Non ti concederò più turni se il risultato è vederti esausta.”

“Sto bene,” le dico, caricando d’enfasi le mie parole. “Sul serio, mi sono solo svegliata troppo presto questa mattina.”

“Vuoi qualcosa da bere?” mi domanda Annabeth mentre fa per alzarsi, ma la blocco con una mano sulla spalla.

“Yep, ma vado io. Camminare mi sveglierà,” le spiego, per poi aggiungere a voce più alta: “Qualcuno vuole qualcosa dalla cucina?”

“Più patatine,” dice Grover.

“Più punch!” esclama Travis.

“Un impianto stereo migliore?” domanda Will.

Ethan si volta a guardarmi, chiedendomi aiuto con il suo unico occhio visibile. “Meno persone.”

“Vedrò cosa posso fare,” rispondo con una risata, e dopo essermi sgranchita le braccia e le gambe mi dirigo verso la cucina.

La maggior parte della gente che prima occupava la stanza deve essersi ritirata negli appartamenti del piano, perché adesso in cucina sono rimasti solo alcune ragazze impegnate a guardare una replica di Al passo con i Kardashian e un ragazzo che sta scaldando qualcosa nel microonde.

Mi avvicino al tavolo degli snack e delle bibite, versandomi quel che resta di una una bottiglia di Coca-Cola nell’ultimo dei bicchieri di carta per il punch pulito rimasti sul tavolo. Non è più fredda, ma il frizzante e gli zuccheri mi aiutano a sopprimere il sonno che sta tentando di farmi crollare.

E’ mentre sto esaminando ogni bicchiere presente nella stanza nel tentativo di cercarne uno pulito in cui versare il punch da portare poi a Travis che sento qualcuno entrare in cucina, e quando mi volto vedo Luke che si dirige verso di me.

“Hey,” mi saluta.

“Hey,” rispondo. “Katie ti ha mandato a controllare che non mi fossi persa per strada?”

Lui scuote la testa. “Nah, quando te ne sei andata anche Ethan e Miranda hanno chiesto da bere.”

“Oh, trovare altri due bicchieri sarà davvero un’impresa.”

“Non se conosci il nascondiglio segreto,” mi dice Luke con un sogghigno, e non posso fare a meno di affilare lo sguardo e guardarlo con sospetto. “C’è un nascondiglio segreto di bicchieri?” domando.

Luke mi fa cenno di restare in silenzio alzando un indice contro le labbra, dopodiché si dirige verso la televisione. “Scusate, scusate,” dice alle ragazze nel momento in cui passa davanti lo schermo e si sporge dietro di esso, emergendo qualche istante dopo con una nuova stecca di bicchieri tra le mani.

“Un giorno mi spiegherai chi ha avuto la brillante idea di nascondere dei bicchieri e perché è stato necessario attuare la cosa,” esclamo, trattenendo a stento una risata.

“E’ stata un’idea degli Stoll. Hanno detto che nascondere oggetti è una mentalità nella quale si entra quando si comincia a vivere con tante persone diverse che non sempre riescono a comprendere perfettamente il concetto di possesso personale.”

Annuisco, prendendo la stecca di bicchieri dalle mani di Luke per aprirla dall’involucro di plastica che la protegge. Luke rimane a poca distanza da me, e lo vedo tamburellare le dita sul tavolo con la coda dell’occhio mentre riempio i bicchieri puliti con del punch. Mi volto verso di lui, porgendogli i bicchieri in modo tale che non debba essere io a portarli. E’ allora che Luke mi dice: “Sono davvero contento che tu sia riuscita a venire.”

Mi stringo nelle spalle. “Ci sono almeno tre motivi diversi per spiegare la mia presenza in questo momento, ma a dire il vero non avrei voluto perdermi la prima festa dell’anno. Anche se avrei da ridire sulla selezione musicale.”

“Oh? Non dirlo a Will. Credo abbia trascorso tutta la giornata di ieri a preparare una playlist da farci ascoltare.”

“Non è poi così tremenda. Un po’ hipster, ma ho ascoltato di peggio. Di chi è quell’impianto stereo, ad ogni modo?” domando, indicando con un cenno del capo le casse nell’angolo del salone, che oramai hanno rinunciato a far vibrare le mura e hanno un’aria abbastanza triste e impolverata nonostante qualcuno abbia cercato di abbellirle con una ghirlanda di fiori.

“Ah, quelle? Non ne ho idea, le abbiamo rubate.”

Kim Kardashian scoppia a ridere alla televisione. Inclino il capo e fisso Luke con sospetto, per poi portarmi una mano davanti alla bocca. “Non so se sono più preoccupata dal fatto che abbiate commesso un furto o dal fatto che tu lo stia ammettendo con tanta innocenza.”
Luke scoppia a ridere. La pelle intorno alla sua cicatrice si increspa in una serie di piccole rughe. “E’ okay, le restituiremo! Sono del secondo piano, che la settimana scorsa sono venuti a rubare il tavolo dalla nostra cucina,” mi spiega, enfatizzando le sue parole con un colpo della mano sul tavolo. Un bicchiere cade e rotola a terra. “Occhio per occhio, no?”

“La legge del taglione non è la migliore forma di giustizia, ma chi sono io per giudicare?”

“In più,” continua Luke, sempre con un sorriso sulle labbra e una luce scaltra a illuminargli gli occhi, “è un furto solo se ti scoprono. Se non se ne accorgono significa che non avevano bisogno della refurtiva in primo luogo.”

Resto qualche istante ad osservarlo, soppesando questo aspetto del suo carattere che prima d’ora non ero riuscita a cogliere – o forse lui stesso non aveva lasciato trasparire. C’è decisamente qualcosa di intrigante in Luke Castellan in questo momento.

“Ricordami di non invitarti mai nel mio appartamento,” commento solamente, cercando di mantenere un tono di voce neutro e un’espressione che lo rispecchi. Luke si porta una mano al petto, stringendo la t-shirt arancione che indossa. “Mi ferisci,” esclama. Faccio spallucce.

“Ce la faremo a portare cibo e bibite di là senza far cadere nulla?” domando, principalmente per ricordare a Luke che nella sua stanza ci stanno ancora aspettando, ma anziché rispondermi lui allunga una mano verso di me, afferrando la manica della giacca che indosso. Abbasso lo sguardo sulla sua mano prima di spostarlo sul suo viso, le sopracciglia aggrottate in un’espressione chiaramente confusa.

“Hey,” mormora lui. “Lo so che mi sono già scusato per l’altro giorno. Ma mi sembra di non aver detto abbastanza, e – no, no, aspetta. Lasciami finire,” dice nel momento in cui apro la bocca per dirgli che non c’è bisogno di affannarsi tanto. Sospiro con un filo di nervosismo che inizia a serpeggiarmi in petto, perché Luke ha tutta l’aria di volersi addentrare in un discorso cuore a cuore, cosa che mi ha sempre messa a disagio. Almeno, a giudicare dalla sua espressione, Luke è tanto a suo agio in questo momento quanto lo sono io.

“La mia famiglia è… particolare. Quello che mi sono lasciato alle spalle quando mi sono trasferito qui all’Olympia è particolare.” Il suo volto si contorce in una smorfia, come se il termine da lui usato avesse un sapore aspro nella sua bocca. “Io… quando penso a casa mia, non trovo nulla ad aspettarmi nella mia mente se non brutti ricordi. E questo mi fa reagire male.”

“Luke…”

“E davvero, davvero ti giuro che averti aggredita in quel modo mi fa stare uno schifo, perché non ci sono giustificazioni. Sto cercando di porre quanta più distanza possibile tra tutto ciò che è successo e questo nuovo inizio qui all’Olympia, e quando le due realtà finiscono per sfiorarsi io… io…”

Luke.”

La mano che ha afferrato la manica della mia giacca si è stretta a pugno, e riesco a percepire sul mio corpo il lieve tremore che scuote quello di Luke. Il suo viso è arrossato, e non mi sta guardando negli occhi. Nonostante abbia usato un tono di voce estremamente basso per parlare, le ragazze che stavano vedendo la tv devono aver percepito il tono della nostra conversazione e si sono voltate nella nostra direzione, ma tornano immediatamente a concentrarsi sulla televisione quando notano che mi sono accorta dei loro sguardi. Torno a rivolgermi a Luke.

“Quando ho detto di aver capito il motivo dietro la tua reazione ero seria,” gli dico. Cerco di usare un tono di voce gentile, per quanto mi sia possibile, ma c’è una tensione nell’aria che non riesco ad allontanare. Non è colpa di Luke, però. Davvero non lo è. “Le famiglie possono essere qualcosa di tremendamente incasinato, tanto per cominciare. Ne so qualcosa. Non  voglio raccontarti palle dicendo che la tua reazione non mi ha ferita o fatta incazzare, perché lo ha fatto, ma in tutta sincerità? Voglio ancora essere tua amica, e conoscendo me stessa so che ci saranno momenti in futuro in cui potrei comportarmi esattamente come hai fatto tu. Non sono un’ipocrita. Non sono arrabbiata con te. Mi hai chiesto scusa due volte, e lo apprezzo. Le ho accettate. Andiamo avanti, adesso.”

Luke, finalmente, alza lo sguardo. Tutto nel suo apparire, dagli occhi alla linea sottile delle labbra, mostra la durezza di chi porta sulle spalle un fardello troppo grande per le proprie forze, per la propria età, per la propria stabilità. Poi sorride. Le rughe incorniciano nuovamente la cicatrice. Realizzo per la prima volta che Luke è una delle persone più belle che io abbia mai incontrato.

“Sono davvero felice adesso di averti gettato una pianta con tanto di vaso addosso, il primo giorno.”

Per poco non mi strozzo con la mia stessa saliva per via della risata che risale spontanea e violenta la mia gola. “Hai rovinato il momento!”

“Stavamo avendo un momento?”

“Un momento di bonding. Che hai rovinato.”

Luke sogghigna. Sulla soglia della cucina compare Annabeth, che si guarda per qualche istante intorno prima di individuarci e rivolgerci un sorriso, chiedendoci se abbiamo bisogno di una mano o se abbiamo intenzione di creare un party nel party nel party lì in cucina. Tutti e tre insieme ritorniamo nella stanza di Luke, portando con noi cibo e bevande.

“…e quindi questa è la storia di come grazie a un tacchino siamo riusciti a far avere a Will il numero di telefono di quel tipo super dark fissato con le carte da gioco – oh, hey! Rifornimenti!” esclama Travis nel momento in cui riprendiamo i nostri posti insieme agli altri. Will, con il viso di un’intensa sfumatura di porpora, sembra esalare un respiro di sollievo nel constatare che l’attenzione di Travis si sia spostata su di noi. Connor si volta verso di me, fissando la ciotola di patatine che porto tra le braccia.

“Un angelo giunto dal cielo per salvarci. Una creatura celestiale che ci fa dono di nettare e ambrosia,” declama, fingendo estrema commozione quando finalmente afferra un pugno di patatine e se le ficca in bocca.

Ridiamo. Stiamo bene. Ancor più di prima, se possibile.

Dal mio angolino sul divano riprendo ad osservare i miei amici uno per uno, e per la prima volta da quando la mia vita all’Olympia è cominciata mi rendo conto di una verità che avevo negato a me stessa, forse per paura.

Queste mura sono la mia nuova casa. E le persone intorno a me, la mia nuova famiglia. 









Note: SONO TORNATA! HO SCONFITTO LA MALEDIZIONE DEL SESTO CAPITOLO! E' stata una lungha -- lunghissima -- pausa, ma ho giurato a me stessa che avrei portato a termine questa fanfiction. Per cui lo scorso mese ho deciso di prendere il toro per le corna e adesso ho circa sei capitoli già pronti da postare, per cui almeno per qualche mese ci saranno aggiornamenti costanti (anche se subito fortemente qualcuno segua ancora questa fanfiction...) 

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Capitolo 8
*** this could be us but you sleepin' ***


OTTOBRE – NOVEMBRE - DICEMBRE

this could be us but you sleepin’

“Oh,” mormora Katie in un sussurro. “Sta dormendo.”

Mi volto verso di lei, e seguendo il suo sguardo noto Talia, rannicchiata sul divano ad occhi chiusi e con le labbra leggermente schiuse. Il petto le si alza e abbassa con il tipico ritmo del sonno profondo. “Come ha fatto ad addormentarsi nonostante gli Stoll stessero urlando come dei forsennati?” domando.

Katie si stringe nelle spalle, lasciandosi andare poi a uno sbadiglio. “Ve l’ho detto anche prima, si sta spaccando la schiena con dei turni in più in biblioteca. Era normale che crollasse, prima o poi.”

Annuisco. “Dovremmo svegliarla?” domando, ma Katie viene distratta da Miranda che le chiede le chiavi del loro appartamento. La maggior parte delle persone che hanno partecipato alla festa se ne sono già andate, soprattutto chi doveva affrontare la camminata fino al Poseidon. Mezzanotte è passata da parecchio tempo.

Dal bagno giunge il rumore dello scarico, e pochi istanti dopo la porta si apre e Silena e Annabeth tornano nel salone, ridendo tra loro. Le guardo e faccio loro cenno di abbassare il tono di voce, indicando poi Talia.

“Quando si è addormentata?” domanda Annabeth, al che scrollo le spalle.

“Non ne ho idea,” rispondo. “Ma era già esausta quando è arrivata, non è così?”

Le ragazze annuiscono in sincrono. Silena corruga le sopracciglia, tamburellando due dita contro il mento. “Forse è il caso di lasciarla dormire,” propone, e immediatamente l’idea mi rende stranito. Silena deve cogliere la mia confusione, perché poi aggiunge: “Cioè, io resto a dormire da Charlie, per cui posso tenerla d’occhio? Solo se per voi ragazzi non è un problema. Charlie? Che ne dici?”

Beckendorf, seduto in poltrona, dice: “Nessun problema. Magari però dovremmo comunque provare a svegliarla per chiederle se a lei va bene.”

“Se è rimasta addormentata fino ad ora immagino abbia un sonno davvero pesante,” mormora Annabeth. I suoi occhi grigi sono offuscati da un’ombra di preoccupazione. Silena, fortunatamente, interviene a dissiparla.

“Ci penserò io a lei, davvero,” rassicura. “Voialtri non preoccupatevi e tornate pure nelle vostre stanze a dormire, Talia starà bene. E poi si tratta solo di poche ore. Andate a dormire, adesso, e fidatevi di me.”

***

Alle sette precise apro gli occhi, dopo una notte trascorsa nel dormiveglia, sognando che Talia si sarebbe svegliata e nella confusione di non trovarsi nella sua stanza ci avrebbe accusati tutti di rapimento. I miei sogni si rivelano completamente errati, comunque, perché appena apro la porta della mia stanza Talia è ancora rannicchiata sul divano, immersa in un sonno profondo. Due dei cuscini che solitamente si trovano sul divano solo adesso per terra, ma la coperta che ieri sera abbiamo posato addosso a Talia è ancora su di lei a tenerla calda.

E’ diversa quando dorme.

Meno ruvida. Meno tagliente, senza i suoi occhi blu elettrico che ti attraversano da parte a parte quando si posano su di te. I suoi capelli neri, già scombinati di norma, sembrano un nido d’uccello contro la stoffa chiara del copri divano.

Un uccello prende a gracchiare fuori la finestra del salone. Distolgo lo sguardo da Talia, perché restare troppo a lungo a guardarla mentre dorme mi sembra qualcosa che solo un potenziale pervertito potrebbe avere il coraggio di fare. Decido, piuttosto, di andare a preparare una qualche parvenza di colazione, e dopo aver recuperato una busta di caffè solubile e una tazza dalla nostra piccola dispensa improvvisata mi dirigo verso la cucina del piano, portando con me le chiavi dell’appartamento per non dover svegliare nessuno al mio rientro.

La cucina puzza di alcool. Il tavolo dove ieri sera si trovava la ciotola del punch è il luogo da dove proviene il fetore che rende la cucina, a prima mattina, un posto invivibile. Qualcuno di buon cuore ieri sera ha già provveduto a togliere di mezzo ciotola e bicchieri, probabilmente in vista di un possibile controllo, ma se le macchie che costellano la tovaglia sul tavolo sono di qualche indicazione allora le prove non sono state eliminate del tutto.

Apro le finestre, tanto per cominciare, e anche se la maglia che indosso mi ha tenuto al caldo durante la notte adesso rabbrividisco quando una folata di vento mi colpisce in pieno. Se anche avessi avuto addosso residui di sonno, adesso sono più che sveglio.

Comincio il fastidioso ma ormai vagamente familiare processo dello scaldare l’acqua per il caffè nel microonde della cucina, dal momento che i fornelli sono NO, come non manca mai di ricordare il foglio appiccicato sul ripiano. Nei rari giorni in cui sono l’ultimo a svegliarsi nell’appartamento posso usare la teiera elettrica, ma oggi non posso rischiare di svegliare Ethan con il fischio che quell’aggeggio maledetto emette per avvisare che l’acqua è pronta. E’ qualcosa tipo: “La tua acqua sta bollendo! Sarà meglio avvisarti emettendo lo stridulo grido di accoppiamento di uno pterodattilo!” Non so neanche se gli pterodattili avessero un grido d’accoppiamento, ma il paragone mi sembra particolarmente azzeccato.

Senza contare che anche Talia sta dormendo in salone. Se Ethan riesce a essere svegliato da quel fischio nonostante si barrichi nella sua stanza ogni sera, non oso immaginare come prenderebbe il risveglio Talia. Spero non come Ethan. La prima volta che ho commesso l’errore di usare la teiera mentre stava dormendo ha iniziato a maledirmi in giapponese. Esperienza da brivido.

Il “ding” del microonde interrompe il mio flusso di coscienza. Quasi mi ustiono le dita per recuperare la tazza ormai bollente.

Preparo il caffè seguendo le istruzioni scritte sul pacchetto, aggiungendo forse più polvere del dovuto per ottenere un prodotto finale parecchio forte. Adocchio il barattolo di zucchero teoricamente in comune fra tutti noi del piano e lo uso per dolcificare, dopodiché apro il frigorifero alla ricerca di latte.

“Cosa diamine…” mormoro con aria niente affatto convinta mentre allungo una mano e afferro l’unico contenitore nel frigo che ricordi anche solo vagamente una confezione di latte. Sul serio, ragazzi? Che vi ha fatto di male il latte? Come posso avere una dieta equilibrata se non fate in modo che io possa rubarvi la mia dose di latte quotidiana?

La confezione che ho tra le mani si rivela essere del latte di mandorla. Ho bisogno di latte e mi piacciono le mandorle. Vittoria.

Nel cassetto delle posate trovo un cucchiaino e mescolo alla ben’e meglio il contenuto della mia tazza, ed è mentre sto bevendo il primo sorso di caffè che un rumore ovattato di passi annuncia l’ingresso di qualcuno in cucina.

“Ew,” mormora Talia, strofinandosi il viso con una mano. “Questo posto puzza da fare schifo. E fa freddo. Che ore sono?”

“Buongiorno anche a te,” le dico, osservandola divertito mentre si dirige verso le finestre per accostarle. Alzo poi lo sguardo sull’orologio appeso lì in cucina. “Sette e mezzo, più o meno. Dormito bene?”

Talia mi rivolge uno sguardo che è una via di mezzo tra “chiudi il becco” e “chi sei?”, poi si trascina accanto a me e senza troppe cerimonie afferra la tazza che ho tra le mani. Non faccio neanche in tempo a dirle di fare attenzione perché è bollente che lei ha già preso un sorso di caffè. La sua faccia di contorce in un’espressione di puro disgusto. “Che cos’è questa roba?”

“Caffè,” le rispondo.

“E’ il peggior caffè che io abbia mai assaggiato in tutta la mia vita,” m’informa, subito prima di prenderne un altro sorso. I suoi lineamenti si distendono. “E’ così cattivo che per assurdo sembra buono.”

“Era un complimento oppure stai solo mandando segnali contrastanti?”

Talia si stringe nelle spalle, restituendomi la tazza. Restiamo in un piacevole silenzio per i minuti seguenti, passandoci la tazza e bevendo caffè dai lati opposti della stessa.

“Quindi,” dice poi, quando già il suo viso dimostra un’aria più sveglia. “Perché sono qui e non nella mia stanza?”

“Ti sei addormentata sul divano ieri sera durante la festa,” la rispondo, prendendo l’ultimo sorso di caffè prima di sciacquare la tazza e metterla ad asciugare così da poterla riportare poi nell’appartamento. “Silena ha convinto tutti a lasciarti dormire, e Katie ha minacciato di staccare la testa a chiunque ti avrebbe svegliata. Mi aspettavo che avresti finito con lo svegliarti molto più tardi, a dirla tutta.”

“Volevo, a dirla tutta, ma non volevo dar fastidio.”

Per poco non scoppio a ridere. “Sei la stessa Talia che qualche giorno fa ha fatto irruzione nell’appartamento per usare il bagno? E ora non vuoi dar fastidio?”

“E’ diverso,” dice lei, apparentemente niente affatto turbata per il controsenso.

“Non dal mio punto di vista,” ribatto, prendendo poi la tazza e la confezione di caffè solubile. “Devo tornare in stanza. Oggi è giorno di lavanderia e ho una montagna di panni sporchi da portare a lavare.”

Talia annuisce. Insieme ci dirigiamo nuovamente verso il piccolo appartamento, trovando al nostro rientro tutti ancora addormentati.

“Hey, che modello di telefono hai?” domanda Talia con un filo di voce, e quando le rispondo aggiunge: “Oh. Puoi prestarmi il caricabatteria, allora?”

Annuisco. Apro la porta della mia stanza, recuperando sia il cesto dei panni sporchi che il caricabatteria del telefono. “Vuoi che ti riaccompagni al dormitorio, prima?”

Talia mi guarda con confusione per qualche istante, e quasi le domando se ha bisogno di altro caffè. Poi mi dice: “Vengo con te in lavanderia.”

***

“Non devi pagare tu per sdebitarti!”

“Devo.”

“Non devi.”

“Devo.”

“Non devi!”

“Non devo.”

“Devi! No aspetta – maledizione!”

Talia sogghigna, ficcandomi in mano una banconota prima che io possa rifiutarla. E’ più che altro un gesto simbolico, dal momento che i panni sporchi sono già a lavare all’interno della lavatrice, ma questo non fa nulla per diminuire il cruccio con cui guardo quei soldi. Mi sembra di approfittarmene.

“Rilassati,” dice Talia, sedendosi poi su di una delle lavatrici non in funzione. Mi poggio di fianco a lei con le braccia incrociate al petto, riluttante al sedermi direttamente dal momento che non credo la macchina riuscirebbe a sopportare il peso di entrambi. “Caricali sulla student card e usali per comprarti un caffè e un bagel al bar dell’università, se ti fa sentire meno in colpa.”

“A quanto è la carica del telefono?” le dico, ignorando il suo suggerimento. Talia si volta un istante per controllare la percentuale – è riuscita a trovare una presa per la corrente inutilizzata qui in lavanderia e vi si è fiondata non appena abbiamo messo piede nel locale.

“Credo ci vorrà almeno un’altra mezz’ora. Venti minuti se intanto non uso il telefono. Perché, vuoi che me ne vada? Non sei più felice di avermi gettato una capra di pietra addosso il primo giorno qui in università?”

Sento le guance farsi improvvisamente calde e nascondo il viso tra le mani per evitare che Talia possa intravedere la mia faccia. “Finiscila, okay?” grugnisco. “Volevo dire qualcosa di carino. Tra l’altro potrei aver sottovalutato il tasso alcolico del punch, e dico cose imbarazzanti quando sono brillo.”

“E’ così che si stringe amicizia da dove vieni? Colpendo le persone con statue animali e sperando per il meglio?”

“Sei tremenda,” borbotto, al che Talia si porta una mano al petto e mi sorride.

“Grazie, ci provo con tutta me stessa.”

***

La mattina che segue una sera di festa è sempre caratterizzata da una certa aura di irrealtà che accompagna tutti quanti per qualche ora prima di scemare nella normale quotidianità. Fidatevi di me. Ho partecipato ad abbastanza feste, negli anni passati, da sapere di cosa sto parlando.

Quando torno nella stanza con un carico di panni puliti e asciugati – da solo, dal momento che Talia ha deciso di ritornare al Poseidon – trovo Ethan stravaccato sul divano a guardare un qualche documentario in televisione mentre mangia una merendina. Il suo occhio iniettato di sangue e la sua aria stordita mi fanno pensare che anche il mio coinquilino abbia alzato un po’ il gomito ieri sera, tra birra e punch. Per qualche motivo vederlo così mi fa sogghignare.

“Beckendorf e Silena?” gli domando. Ethan strizza l’occhio e alza una mano come a voler bloccare il suono della mia voce.

“Sono usciti. Forse per fare colazione da qualche parte. Ottimo, perché non avevo nessuna intenzione di restare a guardare le loro smancerie in cucina.”

“Sì, possono essere abbastanza disturbanti.”

“Tu e Talia non diventerete come loro, vero?”

La mia mano, che si era allungata verso la merendina di Ethan con tutta l’intenzione di rubargliene un pezzo, resta sospesa a mezz’aria mentre osservo il mio coinquilino con un’aria stranita. “In che senso?”

“Voglio dire,” aggiunge Ethan, parlando lentamente come si farebbe a un bambino. “Sia Silena che Talia sono a posto, credo, ma la cosa potrebbe diventare imbarazzante se–”

“Ethan,” lo blocco, prima che possa dire altro. “Talia non è la mia ragazza.”

Per qualche istante la voce fuori campo del documentario è l’unico rumore che disturba la quiete della sala.

“No?” mormora poi Ethan, e scuoto violentemente il capo. Ho le sopracciglia aggrottate e mi viene da ridere, il che è una reazione abbastanza strana. Ancor più strano è però quello che Ethan sta suggerendo.

“Talia è una mia amica, e voglio davvero che le cose funzionino con lei. Non in altri sensi, però.”

Ethan resta a fissarmi per qualche altro istante prima di stringersi nelle spalle e tornare a dedicare tutte le sue attenzioni alla merendina che stringe in mano. “Oh. Okay. Deve essere stata solo una mia impressione, allora.”

***

“Non può essere stata solo una mia impressione.”

Sospiro per l’ennesima volta, girando comunque il capo mio malgrado verso Percy, seduto accanto a me alla postazione. La sua espressione è affranta e confusa allo stesso tempo, per quel che riesco a vedere, mentre osserva attraverso la lente del microscopio a nostra disposizione il materiale che dobbiamo esaminare.

“Percy,” gli dico, sentendomi vagamente responsabile per l’angoscia che sta trasudando. “Percy, amico, nella relazione possiamo anche riportare ciò che dici di aver visto, magari a me è sfuggito soltanto.”

Percy allontana il viso dal microscopio, guardandomi di sottecchi. “Hai preso il massimo dei voti al test della settimana scorsa. Io ho preso – ah, è imbarazzante anche solo dirlo, quindi non farmelo ripetere. Non c’è alcuna maniera per cui possa esserti sfuggito qualcosa che invece io ho colto.”

La voglia di sbattere la testa sul banco aumenta esponenzialmente. La combatto. “Perché hai così poca fiducia in te stesso?” domando invece, ma non riesco a dissimulare l’esasperazione nella mia voce. “Perce, se dici di aver visto un movimento anomalo tra le cellulare allora c’è stato un movimento anomalo tra le cellule. Fidati dei tuoi occhi e di quanto hai studiato.”

Percy aggrotta le sopracciglia, lasciando andare un sospiro frustrato. “Lo so, è che… ah, non importa. Okay. Il tempo a disposizione sta per finire in ogni caso.”

Alzo lo sguardo sull’orologio appeso al muro dell’aula di biologia, di un assurdo verde acido che ferisce gli occhi degli studenti quasi più della lentezza con cui le lancette si muovono a segnalare la fine della lezione. Solitamente le lezioni di biologia non sono male, essendo per ora solamente un’introduzione alla materia, ma i momenti di laboratorio sono quelli che meno riesco a sopportare. Restare concentrato a seguire due ore di teoria? Un gioco da ragazzi. Passare alla pratica? Dio, no. Non quando la pratica consiste ancora in osservare campioni di tessuto – sempre gli stessi, tra l’altro. Può diventare noioso a lungo andare.

Il telefono che ho nella tasca dei pantaloni vibra per un istante, avvisandomi di un messaggio. Approfittando del fatto che il professore sia distratto infilo la mano in tasca per rispondere.

                From: Talia – LO SAPEVI CHE OGNI ULTIMO VENERDI’ DEL MESE IN MENSA SERVONO CHEESEBURGERS

                To: Talia – lmao sì

                From: Talia – fottutissimo traditore

“Hey, passi tu la relazione al professore uscendo?” mi domanda Percy mentre infila nello zaino penne e quaderni. Annuisco e prendo il foglio che ha lasciato sul bancone, rileggendo velocemente ciò che abbiamo scritto in precedenza prima di annuire tra me e me mentre prendo il mio zaino e lascio la relazione sulla cattedra insieme a quelle dei miei compagni di corso.

Percy cammina al mio fianco mentre usciamo dall’aula e ci dirigiamo in mensa, perché da quando ci siamo conosciuti oltre ad aver scoperto di seguire lo stesso corso di Biologia abbiamo iniziato a trascorrere più tempo insieme. E’ un bravo ragazzo, è facile stare con lui. O è difficile liberarsi di lui. Questione di prospettive.

                To: Talia – HA HA!

                To: Talia – vieni in mensa?

                From: Talia – sono in biblioteca

Aggrotto le sopracciglia, controllando l’orario sul display del cellulare e fermandomi nel bel mezzo del corridoio. Percy non sembra accorgersene, probabilmente perché Annabeth e Grover sono appena spuntati dall’angolo e si stanno dirigendo verso di lui.

“Luke!” mi chiama Annabeth quando mi vede. Le sorrido, infilando il telefono nella tasca della felpa che indosso e avvicinandomi al gruppo. “Hey. Stai andando in mensa?”

“Credo di no,” rispondo scuotendo il capo. “O almeno non subito.”

“Oh,” esclama Annabeth. Assume un’aria vagamente delusa, cosa che mi porta a stringermi nelle spalle e a evitare il suo sguardo.

“Magari posso raggiungervi lì tra un po? Se voi ragazzi avete intenzione di trattenervi…”

I tre annuiscono. Con la promessa di incontrarli di nuovo in mensa nel giro di un’ora mi dirigo verso la biblioteca.

***

“Cos’è un 3DMG?” domando in un sussurro da sopra la spalla di Talia, che si ritrova a saltare dallo spavento – letteralmente, pur essendo seduta per terra. Si volta verso di me, guardandomi dal basso con una mano sul petto, quella che non stringe il suo telefono in una stretta mortale, e un rossore anomalo sul viso.

“Mi hai quasi fatto venire un attacco di cuore, maledetto!”

Da qualche parte dagli scaffali della biblioteca qualcuno ci intima di far silenzio. Alzo un dito davanti alle labbra a mimare io stesso a Talia di abbassare il tono della voce, e devo sforzarmi dal trattenere uno scroscio di risa quando Talia mima con le labbra in qualche posto poco carino dovrei infilarmi quel dito.

Una volta che Talia si rimette in piedi mi lascio trascinare da lei verso l’entrata della biblioteca, oltre la malefica linea nera che limita l’accesso di cibo e bevande. Sulla scrivania del bibliotecario, occupata in questo momento da Miranda, ho lasciato una confezione con dentro qualche muffin e un bicchierone di tè bollente preso al bar  più vicino – e che nonostante tutto temo sia comunque divenuto tiepido.

“Perché ti infili sempre negli angolini meno frequentati della biblioteca? Trovarti è un incubo,” mi lamento mentre Talia prende un sorso del suo tè e offre un muffin anche a Miranda, che accetta volentieri e chiede a Talia di metterglielo da parte per poi alzarsi e allontanarsi verso gli scaffali.

Aspetto pazientemente che Talia banchetti con ciò che le ho portato prima di ricevere una risposta. “Perché così posso farmi i fatti miei in santa pace senza che nessuno venga a disturbarmi chiedendomi di trovare un qualche libro dal titolo impronunciabile.”

“Talia,” le dico incredulo, “sei consapevole del fatto che lavorare come bibliotecaria significhi aiutare la gente a trovare libri dal titolo impronunciabile?”

Talia sorseggia il suo tè in maniera abbastanza rumorosa fissandomi dritto negli occhi. Allargo le braccia, alzando gli occhi al cielo mentre scuoto il capo.

“Oh, avanti!” si lamenta Talia. Sospiro, ma ho un’idea.

“Cosa stavi leggendo, ad ogni modo?”

Il viso di Talia si colora immediatamente di quell’inusuale sfumatura di rosso. Inusuale perché, in quasi due mesi di conoscenza, le volte in cui ho visto Talia Grace arrossire si possono contare sulle dita di una mano. “Roba porno?” domando per rincarare la dose, senza davvero voler insinuare nulla, ma sgrano gli occhi nel momento in cui Talia sembra farsi se possibile ancora più rossa. Le sue lentiggini spariscono quasi, sopraffatte dal rossore.

“Oh mio Dio,” sussurro. “Era davvero del po—”

“Non era del porno!” esclama Talia. Un ragazzo, seduto ad una delle scrivanie più vicine all’entrata, alza lo sguardo per fissarci con aria sconcertata. Alzo una mano verso di lui in cenno di saluto. Il tipo riporta la sua attenzione al libro aperto davanti a lui con la velocità di un fulmine.

“Non era del porno,” ripete Talia, stavolta a un tono di voce più controllato e con un’aria più tranquilla. “Era una… fan fiction.”

Continuo a osservarla. Continuo a non capire.

“Cos’è una fan fiction?” domando allora. In qualche modo il fatto che la mia domanda sia mossa da genuina curiosità scatena una risata in Talia, che si passa una mano fra i capelli prima di stringersi nelle spalle e rispondermi: “La più geniale e sottovalutata invenzione dell’umanità.”
Inarco un sopracciglio. “Spiegati meglio.”

E quindi. Questa è in breve la storia di come ho dato buca a Percy e agli altri, trascorrendo la mia pausa pranzo in biblioteca a mangiare muffin con Talia e a parlare di fan fiction. Potrei aver assunto espressioni sconvolte per buona parte della conversazione. Potrei esserne rimasto segnato a vita.

“Quindi, ricapitolando,” dico dopo aver bevuto l’ultimo sorso di tè ormai fattosi gelido. “Esistono siti internet in cui chiunque può scrivere storie a sfondo omoerotico che vedono protagonisti personaggi di lavori di fantasia già esistenti.”

Talia arriccia il naso, ridendo. “E’ strano sentirlo dire in questi termini. E non si tratta solo di racconti omoerotici, sebbene quelli siano la maggioranza. Vedilo piuttosto come un enorme archivio di libri gratis da cui attingere, magari? Ci sono generi diversi per soddisfare le esigenze di chiunque.”

Annuisco. Non è qualcosa di così assurdo, in fin dei conti. “Non ti avrei presa per il genere di persona appassionata di cose del genere.”

“Già. E’ abitudine, più che altro,” risponde lei. Resto a guardarla in silenzio aspettando che continui a parlare. Siamo seduti sulla scrivania del bibliotecario, rivolti come meglio possibile l’uno verso l’altra in un cozzare di gambe e ginocchia. Avevamo di essere vicini per poter parlare a bassa voce e perché Talia potesse mostrarmi vari link sul suo telefono, e adesso siamo troppo pigri per tornare a sederci come due persone normali – anche se, devo ammettere a me stesso, è in un certo qual modo piacevole star seduto così insieme a Talia. Conosco persone che detestano il contatto fisico, e non c’è nulla di male in questo, davvero! Ma sono sempre stato una persona fisica io stesso, e questa vicinanza fa qualcosa dentro di me per mettermi a mio agio. E poi Talia ha un buon odore.

“Quando ero più piccola non potevo spendere molti soldi in libri,” inizia a raccontare d’un tratto Talia, cosa che mi distoglie dai miei pensieri. Tiene il suo sguardo basso e parla con tono di voce lieve. Devo avvicinarmi ancora un po’ per riuscire a capire cosa stia dicendo. “Mia madre non ha mai avuto un lavoro fisso, per cui spesso arrivavamo a fine mese con l’acqua alla gola. Mi è sempre piaciuto leggere, ma per molto tempo abbiamo avuto altre priorità rispetto al comprare libri. Il che va bene, non mi sto lamentando, potevo comunque andare alla biblioteca del quartiere. Ma poi grazie a una mia compagna di scuola ho scoperto siti internet come questo,” dice, indicando lo schermo del telefono che stringe tra le mani. “All’epoca mi è sembrata la cosa più strepitosa di questo mondo. Così ho creato un account, ho cliccato su titoli a caso e ho iniziato a leggere. E anche adesso che sono al college e lavoro in una biblioteca ormai è abitudine ritagliare qualche spazio di tempo per leggere fan fiction.”

“…sei davvero carina.”

La testa di Talia scatta verso l’alto e mi ritrovo immediatamente perforato da uno sguardo blu elettrico. “Cosa.”

Oh. L’ho detto ad alta voce. “Cosa – volevo dire – cioè, è davvero carino che tu abbia continuato… a leggere… cose.”

Non so cosa sia preso al mio cervello. Non lo so davvero. Un minuto prima funziona alla perfezione e quello dopo non riesce neanche a mettere in fila due parole. Talia continua a fissarmi, il che mi fa credere di dover dire qualcos’altro, ma non mi fido della mia bocca in questo momento. Carina? Carina? I bambini sono carini, e neanche tutti. I cuccioli di cane sono carini. Non Talia. Talia è forte ed esilarante, non di certo –

“Tu sei carino se pensi davvero che questa cosa mi renda carina,” scoppia a ridere Talia, con un tono di voce scherzoso. La guardo di sottecchi, ma tiro comunque un sospiro di sollievo perché, in qualche modo, non sembra esserci imbarazzo. “O innocente. E’ come se fossi assuefatta a questa roba, non c’è nulla di carino nelle assuefazioni.”

“Almeno non è qualcosa di nocivo per la salute,” provo a scherzare, nonostante un vago senso di disagio aleggi ancora sul mio petto. “Hey, il proteggo di psicologia è da consegnare tra due settimane?”

“Tre,” mi corregge Talia. “Ho quasi finito di scrivere la mia parte, ma dobbiamo lavorare alle conclusioni insieme.”

Sospiro. Il progetto non è stato difficile in sé per sé, quanto piuttosto un lavoro lungo e tediante. Sono felice che la data di consegna si stia pian piano avvicinando.

“Hey,” dico poi a Talia per richiamare l’attenzione mentre scendo dalla scrivania. “Credo di dover andare. Devo attraversare il campus per arrivare al corso del pomeriggio.”

“Mh, mh,” mormora lei. “Oh, e grazie per il pranzo, mamma.”

“Non ruberei mai il ruolo di Katie.”

“Ma Katie sarebbe estasiata di sapere che stai diventando il suo successore.”

“Non sarei una mamma. Sarei lo zio figo.”

“Sei ancora qui? Il tuo corso non aspetta te, sai?”

“Rispetta tua madre!”

La risata di Talia risuona nella mia mente mentre corro verso la classe del corso. E’ una bella sensazione. Mi rende felice.

***

                From: Talia – carino :) :) :)









Note: quando ho detto che sarei riuscita ad aggiornare ogni settimana ho chiaramente mentito.
Ps. se riconoscete il fandom di cui fa parte la fanfiction che sta leggendo Talia VI BACIO

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