4 The Exorcist - Circolo infinito

di Sarah M Gloomy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** 9 ***
Capitolo 10: *** 10 ***
Capitolo 11: *** 11 ***
Capitolo 12: *** 12 ***
Capitolo 13: *** 13 ***
Capitolo 14: *** 14 ***
Capitolo 15: *** 15 ***
Capitolo 16: *** 16 ***
Capitolo 17: *** 17 ***
Capitolo 18: *** 18 ***
Capitolo 19: *** 19 ***
Capitolo 20: *** 20 ***
Capitolo 21: *** 21 ***
Capitolo 22: *** 22 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


1
 
 
 
       Il preside sta parlando. Da che mi ricordo, è la prima volta che l’intero istituto lo ascolta in rispettoso silenzio. Ci sta dicendo frasi precostruite, con voce monotona. La vita è effimera, noi siamo giovani e dovremmo vivere. Perché tutti hanno così paura di dire la verità? È ingiusto. Mary è morta. Punto. Niente vita debole, cuori infranti o che altro. Lo stiamo provando a nostre spese.
Mi sento attrice di una luce riflessa. Nonostante sono in un angolo, sento gli occhi dei miei compagni. Ho sempre creduto di essere nel gruppetto di amiche meno appariscenti, eppure sento il mio nome, vicino a quello della “ragazza morta”. Mary. Lei si chiama Mary. Vorrei picchiare la ragazza che bisbiglia alla sua vicina, tanto per farle capire che la sento benissimo, ma attirerei ancora di più gli sguardi. Invidio Julia, che ha deciso di stare a casa. Scelta più adatta della mia, in ogni modo.
Qualcuno mi sfiora la spalla, entrando nel mio cono d’ombra. Non parla, ma ovviamente Chase si preoccupa della mia salute mentale. Da un messaggio di Julia in mattinata, in cui appunto mi diceva che non veniva a scuola, lei e Chase si erano parlati per tutta la sera precedente. Sì, sono un po’ gelosa. A me non aveva neppure mandato un messaggio.
Ammetto che, in ogni modo, non sarei stata molto di compagnia. Ho passato, almeno credo, tutte le fasi del lutto: ho negato che Mary fosse morta, per quanto già il fatto di averla esorcizzata ha un po’ complicato la questione; poi sono passata alla rabbia, non del tutto esaurita perché sembrerebbe che la mia sorellina del passato abbia premuto il grilletto sulla mia migliore amica; poi ho fatto un patto, del tipo che se me ne fossi andata, tutto quanto sarebbe tornato alla normalità. Sì, non ero nel pieno delle mie facoltà mentali e ora, a mente leggermente più lucida, mi rendo conto che forse non ho neppure superato la fase della negazione. Poi ho continuato la mia escalation con pianti incontrollabili, appianati solo verso mattina in cui ho metabolizzato che Mary è morta.
No. Porcamerda, sono ancora nella fase della negazione barra rabbia. Barra molta rabbia.
Guardo di sottecchi Chase. Disinvolto sta fissando il preside, con la chewing gum in bocca, le mani infilate in tasca. Ha delle leggere occhiaie. Per forza, se sta al telefono con Julia. Sbuffo. «Sto bene.»
Annuisce, continuando a guardare il preside. Tuttavia, si avvicina un po’ di più alla mia spalla, così sento tutto il braccio informicolato da quel contatto piacevole. Abbasso lo sguardo. Il bisbiglio si fa più forte e un docente di un’altra sezione intima al silenzio. «Dovresti andare da Jamar.»
   «Ha bruciato
Dannazione. Sono l’unica scema che ha un buon motivo per rimanere a casa e invece viene a scuola. Devo farmi più furba. Mi accontento di meno idiota e basta.
   «Ne vuoi parlare?»
Scuoto la testa. Interessante. Dall’alto sembra che una scarpa sia più piccola dell’altra. «Nessun problema.»
Il tempo di dirlo e altre parole mi escono dalla bocca, in un bisbiglio incontrollabile. «L’ho uccisa io. Come ho fatto con voi. Cerco sempre di difendere Malachite, ma se nel passato mi fossi comportata con un po’ più di fegato, Malachite non sarebbe vissuta. Non si sarebbe reincarnata e Mary adesso sarebbe al mio fianco a ridere perché il preside ha quella dannata cravatta.»
Lei lo avrebbe trovato divertente. Ora, vedere quel trifoglio alla base mi mette solo nostalgia. Chase mi passa un braccio sulle spalle, attirandomi a sé in un goffo abbraccio. Appoggio la testa al suo petto. «L’ho uccisa io.»
   «No.» Le sue labbra mi sfiorano la testa. Vorrei credergli, ma in cuor mio so che mente. Lui ne è convinto, lo so. Chase non mente. Ma la mia natura è più subdola e, per quanto un controsenso, ho la tendenza a comprendere la realtà meglio degli altri. Io so qual è la verità. Avrei potuto lasciare che giustiziassero Malachite seicento anni fa, quando i nostri genitori morirono di peste. Prima di lasciare il villaggio per unirmi all’Ordine degli Esorcisti avrei potuto ucciderla con le mie stesse mani. Avrei potuto farlo in uno dei miei viaggi verso casa. Ho sempre avuto l’occasione di ucciderla. Forse la vedevo troppo come sorella per non rendermi conto che era marcia fino al midollo. Pure quando ha assassinato ho negato la verità ai miei occhi.
   «Tutto questo non avrà fine, Chase.» Continuo imperterrita, con un bisbiglio sempre più flebile. Non so neppure cosa sta dicendo il preside, se non che è falso, come il dolore di chi è lì e si chiede ancora il nome della “ragazza morta”, come quelli che sono più concentrati sul fatto che Chase mi stia abbracciando piuttosto di comprendere che una sedicenne è stata freddata solo il giorno prima. «Non avrà mai fine. Uccideranno tutti quelli a cui noi vogliamo bene, solo per vederci fare una qualche mossa. E se anche non lo facessero, rimarrebbero a guardarci morire. Gli basta solo aspettare. Non ci sarà mai una vera fine, per noi. Non voglio altre morti sulla coscienza.»
La sua mano indugia sulla schiena. «Non fare in modo che ti distruggano.»
   «L’hanno già fatto. L’hanno fatto quando vi hanno ucciso. Lo stanno facendo ora, uccidendovi come nel passato. Uccidendo un’innocente.»
   «Romperemo il circolo. Nessuno morirà ancora.»
È un’amara consolazione. Mary è morta. Papà non si sa se si risveglia o che altro. Edward è troppo piccolo e ingenuo per capire che il mondo è pericoloso. Tutta la mia famiglia, a mente lucida, mi sembra estremamente fragile. Davvero, come consolazione è disgustosa.
Il preside ha finito il discorso. Chi conosceva Mary incrocia le braccia al petto, gli altri si dilungano in un applauso di commiato. Che cosa mi avrebbe detto, lei? Mi avrebbe sorriso, avrebbe arricciato il naso e come se niente fosse mi avrebbe bisbigliato all’orecchio «Guarda il lato positivo. Niente interrogazione di diritto».
Abbozzo un sorriso, immergendomi nel petto di Chase. Mi stringe a lui e le lacrime iniziano a scendere. Non so neppure in che fase del lutto sono. Forse Wikipedia mi ha fregato e in realtà le fasi sono un pasticcio. Ogni volta che mi sembra di piantare la bandierina su una tappa, ecco che mi ritrovo al punto di partenza.
Rimanere tra le sue braccia, protetta dal mondo esterno, è estremamente confortante. Il mondo può essere cattivo, ma se posso trovare felicità anche in un momento semplice come quello forse vale la pena viverlo. Vale la pena viverlo per lei.
   «Andiamo via. Niente scuola.»
   «Ho segnato la mia presenza.»
Lo sento bisbigliare tra i miei capelli. «Vieni via con me.»
Non si può dire che ha insistito tanto. È palese che ho bruciato scuola perché la prima ora c’ero, la seconda sono scomparsa. Ho mandato un messaggio a mamma, il più sincero del mio repertorio. Forse anche preoccupante, visto che consisteva in un “Non riesco a stare a scuola. Sono in giro”.
Mi abbandono sulla panchina del parco, lo zaino gettato a terra, gli occhi fissi al cielo. È stato lì che, dopo seicento anni, ci siamo riuniti nuovamente come esorcisti. Da quando abbiamo fronteggiato la Città degli Spiriti mi sembra che, come lo ha definito Julia, tutto sia diventato un puttanaio. Quanto è vero.
Chase ha passato un braccio sulla mia spalla, in un gesto confortante. «Forse non sono la persona con cui vorresti stare.»
In realtà, di tutte le persone che conosco non mi viene in mente nessun altro con cui passare una deprimente mattinata. Mi vibra il cellulare e abbasso lo sguardo per leggere il messaggio di mamma. Alzo un sopracciglio. Mi dice che capisce la situazione e di non cacciarmi nei guai. In quell’ultima frase capisco che sospetta che io non sono sola. Ma come le ho già detto, Chase è molto all’antica. Potrei correre nuda davanti a lui e il massimo che otterrei è una vestaglia con cui coprirmi. Infilo il cellulare in tasca.
   «Io voglio che tu sia qui con me.»
   «E non apprezzeresti di più la presenza di quel detective? Quello che ho trovato davanti a casa tua?»
Sbuffo. No, decisamente non voglio neppure sentir parlare di Ridley. «Non lo vedo più. Ha tentato di baciarmi.»
Chase abbozza un sorriso, mentre io lo guardo scandalizzata. Non l’ho dimenticata, perché nel sorriso di Chase vedo un’altra ragazza più maliziosa che chiede delucidazioni in merito. «Non sto scherzando. Ha veramente tentato di baciarmi!»
   «Non ne dubito. È solo bello vederti così ingenuamente sorpresa.»
Sbuffo, arricciando il naso. «Se ti può consolare, ho interrotto ogni rapporto con lui. Quasi. Sai …»
   «Gli hai salvato la vita, lo so. È un rapporto difficile da spezzare.»
   «Quindi è questo che siamo? Un rapporto che è difficile da spezzare?» Chase ha smesso di sorridere, fissandomi con quegli occhi verde penetranti. Davvero, deve avere una scorta di sguardi tenebrosi da mettere in mostra alla prima occasione buona. Tipo quando parlo e dico qualcosa di sconveniente. Sospira. «Non siamo questo, Bel. Non siamo un rapporto difficile da spezzare.»
   «Portandomi via dal villaggio, di fatto, mi hai salvato la vita. Stavo impazzendo nel vedere gli spiriti e nel non fare nulla. Mi sarei consumata piano.»
Emette un altro sospiro, ma ora sorride mentre mi guarda. «Non l’ho fatto per salvarti la vita. Saresti sopravvissuta lo stesso. La piccola bugiarda avrebbe trovato un modo per fuggire da lì e, prima o poi, ci avresti trovato con le tue sole forze. Su una cosa sono sempre stato certo: tu. Ti ho scelto per essere la mia sostituta, Bel, perché mi fido di te. Anche quando tutti i miei sensi mi dicevano che ci avevi tradito, io mi fidavo di te. Non siamo legati da un rapporto difficile da spezzare, perché io ti ho salvato la vita. Avremmo lo stesso rapporto anche se ci fossimo incontrati in altre circostanze. Anche prima di ricordare esattamente chi ero, ti guardavo. Ti cercavo. Siamo legati, è vero, ma non per obbligo. Se rido di te, non è perché trovo la cosa buffa. Rido perché non sei consapevole di quello che fai alle persone intorno a te. Tu, Julia e Eliza siete le donne più forti e affascinanti che io abbia mai incontrato, da seicento anni a ora. Solo tu non te ne rendi conto. Mi prendi in giro per il mio fan club, ma perché credi che tutti i ragazzi di calcio vogliono fare gli allenamenti insieme a quelli di atletica? Riflettici, Bel: a scuola tutti ti conoscono, anche se non ti sei mai presentata loro. Non mettere mai in dubbio quello che sei.»
   «E non devo neppure mettere in dubbio quello che siamo noi? Qualunque cosa siamo?»
   «Ovviamente. E sulla questione del cosa siamo, te l’ho detto. Quando tutto questo sarà finito, manterremo la nostra promessa. Ce ne andremo, troveremo … beh, non più un villaggio ma una città dove vivere. Io e te. Io uomo e tu donna. Senza esorcismi, senza rituali, senza l’Ordine. Solo noi due.»
Mi scosto un ciuffo dagli occhi, portandomelo dietro l’orecchio. È una dichiarazione? Sembra tanto di sì, ma con Chase è tutto un continuo barcollare. Vedrò solo con il passare del tempo, e lo posso fare solo vivendo. Mary mi punzecchierebbe la spalla, dicendomi “che aspetti?” e questo mi fa sorridere. Guardo Chase, sollevando un sopracciglio. «Beh, per iniziare potresti esaudire un mio desiderio. Non ti preoccupare, è qualcosa che puoi permetterti.»
L’espressione di Chase è tra il divertito e il preoccupato. Mi alzo in piedi, prendendo lo zaino. «All’ultimo appuntamento sei stato abbastanza stronzo, se non ricordo male. Mi devi ancora una cioccolata calda.»
Lui si alza con uno sbuffo. «Davvero? Abbastanza stronzo? Grazie per il complimento.»
Mi incammino, e la sua mano si congiunge alla mia.
Insieme fino alla fine, mi sembra. Per oggi, può bastare quella certezza.

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Capitolo 2
*** 2 ***


2
 
 
 
            Mi arruffo i capelli, già un ammasso informe di dubbia natura. La collana con la croce, regalo di Chase, mi sta ustionando il petto. L’incubo è stato piuttosto vivido, come se l’essere stata bruciata non fosse abbastanza brutto di per sé. Mi avvio verso il bagno. Sto sanguinando ai piedi, e questo è male. La croce benedetta non fa più il suo dovere e sono ritornata a morire, più velocemente di prima. Sarà una goduria a esorcizzare da adesso in poi. Mi aspetto già un quarto spirito fuori dal bagno che mi invita a auto esorcizzarmi. Mi bagno il volto e il collo, provando piacere a contatto con l’acqua gelida. Lie mi ha seguito. Più che vederlo ne sento la presenza. «Una normale nottata, direi.»
Fa pure lo spiritoso. Prendo l’asciugamano e mi tampono il volto. Il mio doppione allo specchio mi guarda con aria sconvolta. Che ci fai sveglia? Non me lo chiedere. Anzi. Chiedimelo pure. Il nostro corpo lo sa. «Cosa stai pensando?»
   «Che la prima volta la morte è arrivata prima.»
Appoggio la fronte al lavandino. Sto bene a contatto con la ceramica fredda, con l’acqua. Tutte cose che con il fuoco non vanno per niente d’accordo. Emetto un suono strozzato, vedendo che sono riuscita a macchiare i pantaloni. Di nuovo, con il sangue. Le bende non sono abbastanza contenitive, o forse ormai non c’è molto da tenere sotto controllo. Il mio orologio deve essere stanco di scandire il tempo. Beh, reggerò finché le ferite non si estendono ai polmoni. Dopo morirò bruciata e mi aspetto che sia veloce. Questo, almeno, me lo devono. E quindi al diavolo, per la seconda volta, la promessa di una vita insieme a Chase. Secondo me, qualcuno ci sta fissando dall’alto e quando abbiamo una normale giornata adolescenziale … bang! Ci vengono scagliate le piaghe d’Egitto.
Lie si siede sul water, i piedi a penzoloni. «Forse il rituale per la creazione degli immortali prevede che voi moriate nuovamente, come nel passato. Una bella fregatura.»
Alzo la testa quel tanto da lanciargli una penetrante occhiataccia. Dovrebbe dirmi qualcosa che non so. «Ti direi di andare a tenere d’occhio Johannes, ma potrebbe vederti.»
   «Se è lui, sì.»
Il solito vecchio discorso. Io sono convinta che il capo del nuovo Ordine degli Esorcisti, Marco Watson, sia in realtà il nostro vecchio mentore, Johannes. Solo che nulla avvalora la mia tesi. Sappiamo che dall’Italia sono stati trasferiti mobili e materiale che facevano parte delle nostre vecchie vite, e pure una serie di tombe che altro non sono le nostre spoglie mortali.
Sappiamo che l’intero nuovo Ordine è stato costruito su una cattedrale e che, al suo interno, tutto è come il nostro vecchio Ordine si presentava: dalla stanza per le riunioni, alla vecchia biblioteca. Tutto o quasi. Come se fosse stata ricreata dal passato per qualcuno che lì ci aveva vissuto.
Tutto quello che avevo recuperato dalla mia ispezione si era risolto con un nulla di fatto. Carte e conti, che si ricollegavano a neppure un mese prima. Scomparivano nel nulla, o qualcuno era stato abbastanza furbo da intuire che noi avremmo indagati. Siamo consapevoli che tre persone, nel passato, hanno avuto beneficio della nostra morte: Malachite, mia sorella gemella, Johannes, il nostro mentore e l’Inquisitore, il vero artefice delle nostre morti. Nel presente, si sono reincarnati tutti e tre: Marco, Susan e una terza persona, di cui non sappiamo il nome. E l’aspetto fisico. Caro vecchio Inquisitore, ci stai facendo disperare.
E, come ha detto Lie, noi stiamo morendo di nuovo per il rituale di immortalità. Come se il primo non fosse andato a buon esito. Il mio vizio mi legge nel pensiero. «È ovvio che non è andato a buon esito, Dalila. Vi siete reincarnati. Siete riusciti a scappare alla morte del vostro spirito.»
Ora pianto la mia bandierina nella cima della montagna della sfiga. Apro il cassetto dei medicinali, prendo il termometro e mi siedo a terra. Mi slogo un braccio nel tentativo di abbassare l’asticella, poi me la infilo sotto l’ascella con un altro sospiro di sollievo. Per terra è fresco, il vetro è fresco, io sono molto felice. Ho poche gioie nella vita, se basta così poco a rendermi euforica. Già. Davvero poche, se non si considera che sono la seconda al comando con Chase e l’unica a cui il nostro capo ha vietato di fare domande sul decimo esorcismo. Sono ancora convinta che l’occhio di Dio sia un bel modo di mettere in chiaro la situazione a un bel po’ di gente. Sbuffo. Lie socchiude gli occhi. «Hai la febbre?»
   «Mi sento febbricitante. Quindi secondo te reincarnandoci siamo scappati al rituale? Significa che se moriamo ora, è molto probabile che sia per sempre?»
   «Se vogliono portare a termine il rituale dell’immortalità, ovviamente è la prima azione che faranno: impedire che vi reincarnate.»
Appoggio la testa al muro. «Ecco perché ci siamo reincarnati tutti nella stessa città. È il luogo che hanno scelto per essere invincibili.»
   «Non credo che quel Marco abbia detto qualcosa di tanto errato. In effetti, la città di Lubris è l’unione della Luce con le Tenebre. Già nel suo nome è racchiuso l’essere degli esorcisti. Sì, in quel punto Marco ha ragione. La città stessa vi ha eletto come suoi cittadini elitari. Ed è anche un luogo perfetto per far convergere tutta la potenza di un immortale. Ma credo che tu abbia frainteso il termine. E, molto probabilmente, anche loro.»
   «Non c’è molto da fraintendere. Immortale: vuol dire che vivranno per sempre.»
Sorride, e quando lo fa preannuncia una grande catastrofe. «No, bambina.» Dannazione. È più vecchio di me, ma essere chiamata “bambina” da uno che dimostra a malapena dieci anni è sempre dura da ingoiare. «Loro possono morire. Loro potranno vivere la loro vita a tempo indeterminato, ma a determinate condizioni. Ad esempio, loro saranno immuni al fuoco.»
Mi muovo dolorante, controllando l’ora. Le due e mezza sono una pessima ora per parlare di questioni serie. Il mio cervello è inceppato da qualche parte, tra la parte del fraintendere e la loro immunità al fuoco. Muovo la mano, chiedendo un nuovo esempio. «Saranno immuni anche alle armi da taglio … agli annegamenti …»
   «Alla disidratazione.» Borbotto io. Lie mi strizza l’occhio. Devo essere messa così male per un gesto d’affetto di quella portata. Però adesso ha tutto più senso. Stiamo morendo perché la prima volta non è andata come doveva. Ci hanno obbligato, e hanno incluso nel processo anche loro, a rinascere. Hanno una seconda possibilità. Ma sono rimasti agganciati alla vecchia epoca. Se dopo il rituale qualcuno sparasse loro, beh … morirebbero. Perché nessuno di noi è morto con armi da fuoco. Mi sto già immaginando correre loro incontro con una boccettina con dentro il virus dell’ebola e ucciderli con l’infezione. Potrei anche starnutirgli addosso, l’effetto sarebbe lo stesso, anche se meno catastrofico.
Scuoto la testa. A parte piani omicidi difficilmente realizzabili, sappiamo qualcosa in più. Sappiamo anche che almeno uno delle persone reincarnate ci conosce intimamente, perché Malachite, o Susan per questo secolo, ha ucciso Mary. E Mary era la linea di collegamento più vicina a me e a Julia. Con la sua morte, hanno attaccato ben due esorcisti.
Loro, dall’altra parte, stanno aspettando la nostra mossa. Perché ci hanno chiesto di riunirci al vecchio Ordine degli Esorcisti per compiere la nostra missione. E, da come sono andate le cose, dubito che possiamo dare le dimissioni. Si è nell’Ordine per sempre. E per chi si è reincarnato, quel “per sempre” ha un peso eccessivo.
Sfilo il termometro. Lie sibila. «Allora?»
Alzo una spalla. «Mm. Niente. Sto andando in autocombustione. Ho trentotto.»

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Capitolo 3
*** 3 ***


3
 
 
 
          Passiamo davanti al banco e, come per tutta la mattinata, io e Julia siamo inorridite. Il banco di Mary si è trasformato in una toccante litania dei compagni di classe, scuola e da non so chi altro. Alcune frasi sembrano essere state prese da un libro di letteratura, pronte per essere messe sullo schermo di un telegiornale, possibilmente con musica melodrammatica. È vero, non siamo come sempre. La classe è stata taciturna per tutta la mattinata e i docenti, pur non avendoci richiamato, non hanno fatto molto per mantenere viva l’attenzione.
Passo vicino al banco, lo oltrepasso e esco nel corridoio. Lì respiro. Vicino a me, Julia fa altrettanto. «Chi la conosceva bene sa che lo avrebbe odiato. Abbiamo disprezzato ogni telegiornale e ogni trasmissione televisiva dalle medie che piangevano le disgrazie altrui. Perché dovrebbe apprezzarlo ora?»
Abbiamo pomeriggio, quindi mi dirigo verso la mensa. Sono abbattuta, Julia continua con la sua ramanzina sulle trasmissioni per la televisione e io mi sento piuttosto accaldata. Si interrompe un attimo per fissarmi. «E tu? Come stai?»
   «Procedo egregiamente verso l’autocombustione.» Non sono certa che Julia comprenda se ho detto il vero o il falso. Solleva un sopracciglio, mentre sorrido. «E tu?»
   «Annego lentamente, grazie.» L’importante è vedere quel dannato bicchiere. Non importa se pieno o vuoto. Noi lo vediamo.
Essendo una scuola che di norma non faceva tempo pieno, l’istituto si è arrangiato alla meno peggio. Da questa settimana è iniziata la mensa vera e propria. Con pochi spiccioli si può mangiare quello che si vuole. Oddio, quello che la scuola ha messo a disposizione. Ho già dato la scorsa settimana la retta, e me ne pento solo ora. Ci sono tre persone che si ammazzano per dare da mangiare a un branco di studenti senza fondo, mentre una di loro se ne sta in disparte, manipolando con il mestolo quello che sembra un mix di verdure. Non sono vegetariana, ma vista la gente che vuole la carne, il mio corpo ha deciso di essere più animalista. Mi separo da Julia, avvicinandomi alla donna.
Accenniamo a una chiacchierata, molto deludente visto che inizia con uno squillante «ho sentito che è successa una tragedia», a cui fa seguito la mia laconica «sì, era la mia migliore amica». Mi siedo in un tavolo da sola, mescolando il mio pranzo. Da quello che ho capito, ho un’insalata di orzo, un qualcosa che assomiglia tanto a tofu, ma non so neppure cos’è il tofu. Lo tocco con la forchetta e ha l’aspetto molto flaccido. Poi ho delle patatine fritte, le uniche che mi sembrano tutto sommato mangiabili, e una mela. Guardo il vassoio di un ragazzo: lui ha una fetta di torta. Anch’io voglio la torta! Lancio un’altra occhiata alla ressa. Julia è stata fagocitata e ha poche speranze di tornare fuori integra.
Inizio a mangiare. Beh, l’insalata di orzo non è male, anche se preferisco la pasta normale. Il tofu, però, non lo assaggio. Non ho ancora deciso se è solo decorativo o pure commestibile.
Sento un mormorio dalle ragazze al tavolo vicino. Jamar attira come sempre l’attenzione, camminando con quel suo fare lascivo da “sono figo, sono bello, sono amico di un fotomodello” … beh. È pure vero! Philippe è un modello conosciuto e sono molto amici. O lo erano. Mah.
Jamar si siede di fronte a me, senza vassoio. Tanto che gli serve, visto che prende il mio piatto di patatine? Lo guardo scandalizzata, perché ogni cosa che tocca la sporca. Non sta mangiando: sta facendo sesso con il cibo. E le ragazze vicino a noi desiderano entrare nella sua bocca. In tutti i sensi possibili.
   «Le patatine sono un po’ rancide.»
   «Sì, ci ho sputato sopra.» Replico piatta, attaccando il mio orzo.
Lui alza una spalla. «Ho mangiato di peggio.»
   «Strano che mangi con tanta disinvoltura il mio cibo. Con il tuo passato di morto avvelenato, ero convinta che tutto ciò che passasse tra le mie mani fosse da buttare.»
Sorride, allontanando un po’ il piatto. «Da quando ti interessi per me?»
   «Jamar, non siamo mai andati d’amore d’accordo neppure come Dalila e Damide, ma lungi da me voler il tuo male. È un qualcosa che te lo devi ficcare bene in testa. E devi smettere di trattarmi come se avessi la lebbra. È degradante.»
Jamar si sistema meglio sulla sedia, in modo da non sembrare il lascivo gigolò che lascia trasparire al pubblico. Si avvicina a me con fare confabulatorio, bisbigliando. «Vuoi davvero sapere cosa penso di te o lo dici solo per fare bella figura?»
   «Non so che impressione ti sei fatto di me, ma non faccio nulla per sembrare meglio di quello che sono. Ricordi? Sono l’esorcista della menzogna e certe stronzate perbeniste non fanno per me.»
Sembra in qualche modo soddisfatto della mia risposta. Strano, visto che sono stata delicata come un TIR. «Controlla alle mie spalle se arriva Julia o Chase, io farò altrettanto. Non sia mai che veniamo interrotti da qualcuno dei nostri.»
Ora ha tutta la mia complicità. Prende un’altra patatina, mettendosela in bocca. «Mi sono sempre chiesto perché mai, dopo tutto quello che abbiamo passato, tu non hai preso le nostre difese. Lo hai lasciato solo al comando.»
Apro la bocca. È questo che pensa? Io ho preso le sue difese. Quando Chase ha detto che non dovevamo fidarci di nessuno, tranne che di noi stessi, io ne ho parlato. Gli ho detto che era assurdo e anche se la mia difesa faceva lacune da ogni parte, ho cercato di mettermi nei loro panni. Jamar alza una mano, gli occhi puntati su di me peggio di una pistola. «Non l’hai fatto. Quando Titus ci diede l’ordine di rifiutare ogni gioia della vita, tu hai accettato senza riserve.»
Io … cosa? Mi sta incolpando per qualcosa fatto da Dalila? È … direi che è in ritardo di sei secoli! Mi guarda di sottecchi, bisbigliando. «Ti conviene chiudere la bocca. Sembra che stai facendo un pompino.»
Ignoro il commento, la sua rabbia e mi concentro sulle accuse. È vero. Titus ci disse che noi eravamo per prima cosa esorcisti, e poi uomini e donne. Ci impose di rispettare l’Ordine, incuranti dei sentimenti. È vero, non mi opposi. Non presi le loro difese, non pensai minimamente a come potevano prenderla loro. Prendo fiato. «È vero. Non ho preso le vostre difese. Sono stata un’egoista.»
   «Ti sei mostrata per quello che sei. Né più né meno. È la tua natura, no? Solo tu e poi il resto del mondo.»
Sospiro. «Jamar, mi dispiace. Mi dispiace che la scelta di Titus e il mio silenzio ti abbiano … sottratto tua figlia. Mi dispiace. Se la tua relazione con Lartia fosse stata alla luce del giorno, non ci sarebbe stato nulla da proteggere. Sono sincera quando ti dico che sono stata accecata dal mio tornaconto personale.»
   «Ci vedevi come la tua squadra esorcista d’attacco?»
   «Per niente. Ma se non mi era consentito un futuro, non riuscivo a vederlo neppure per gli altri.»
Jamar mi osserva, la patatina a metà tra il piatto e la sua bocca. Sbuffa piano, come se gli costasse ammetterlo. «Avevi un futuro.»
Scuoto la testa. «No. È vero, difendendovi avrei potuto convincere Titus a darvi un futuro. Non ne sono sicura, perché è sempre stato molto fermo su quella decisione. Però no, io non avrei avuto di certo un futuro. Jamar, sei l’esorcista della lussuria. Riesci a metterci in imbarazzo abbastanza facilmente per fingere di ignorarlo.»
   «Gioco solo sull’attrazione. Non so niente di più.»
Abbasso lo sguardo, rigiro l’orzo nel piatto, facendolo navigare tra i cubetti arancioni che immagino siano carote. «Ho detto a Titus che sarei rimasta al suo fianco, anche solo come un’ombra. Lui non ha mai rinunciato alla guerra, alla nostra missione. Però avevo la speranza che, un giorno, lui riuscisse a vedere la donna che era in me e a stare al mio fianco. Non potevo avere un futuro, Jamar, perché Titus non avrebbe mai rinunciato alla sua missione. Quando ci ha dato quell’ordine …» Alzo una spalla, lasciando la frase a metà. Perché continuarla? Quando ci ha dato l’ordine il mio destino era già segnato: sarei stata con lui, solo come ombra.
   «Dio, che razza di idiota.» Mi trova d’accordo.
   «Ti prometto che prenderò le vostre difese, da adesso in poi.» Lo rassicuro.
   «In quale futuro? Abbiamo i giorni contati.»
Giusto. Allontano il piatto da me. È molto probabile che se incontro uno spirito, poi torni in mensa strisciando, mangiando anche il piatto di plastica se necessario. Ora, però, il mio stomaco è stranamente chiuso. «Giusto per metterti al corrente, visto questo nostro momento di sincerità. Ecco … credo che manca meno tempo di quello che immaginiamo. Diciamo che il mio corpo ha raggiunto i trentotto gradi e che la croce benedetta, che fino adesso ha svolto il suo compito nel circoscrivere la mia morte, abbia esaurito il suo effetto.»
   «Stai morendo.»
   «Stiamo. Io sono solo la prima.»
   «Chase lo sa?»
Di nuovo, distolgo lo sguardo e fisso il piatto di plastica. «Sa solo che non abbiamo molto tempo. È convinto che possiamo impedire le nostre morti. Con lui fingo di crederci ma … non va bene.»
Jamar si prende la testa tra le mani. «Oddio. Non so se trovo più spaventoso essere usato come ingrediente per il rituale per l’immortalità o che il mio volto venga impresso in qualche telegiornale con della musica da staccami-le-palle.»
Non so se odiare Jamar o amarlo. Mi trovo sempre lì, in bilico. E sono costretta a ridere. «Preferisco essere un ingrediente.»
   «Dici? Dannazione, credo che vale lo stesso per me.» Ridacchia, appoggiando la testa sul braccio. Una posizione molto tenera e del tutto indifesa. «Titus era un coglione megalomane. E lo è anche Chase. Però il cuore è tuo, e se ti piace farti del male sei libera di farlo, sorellina.»
Sorrido. «Era da … tanto tempo che non mi chiamavi così. Ti dovrò invitare a un pigiama party a casa mia per festeggiare l’evento. Staresti bene con le codine.»
   «Accetto, se inviti anche qualche ragazza. Carina. E non esorcista. Troppe implicazioni.»
   «Posso darti un consiglio? Non avercela troppo con Julia. Ha sofferto anche lei. Siamo esseri viziosi. Non andiamo di certo famosi per le nostre scelte.»
Lui arriccia il naso. «Non siamo ancora abbastanza nella merda per una mossa così disperata. Al momento stiamo … sondando il terreno. E in ogni modo, tra me e Lartia è stato complicato. Da rabbia e lussuria puoi avere scintille, ma non va mai a finire bene. Orrore, devo aver letto qualcosa su Afrodite e Ares che credo riassuma bene la nostra situazione.»
   «E il marito di Afrodite, Efesto: chi è?»
   «Ovviamente Warren. L’hai mai visto alla mattina, prima di mangiare? Un orrore allo stato puro. E parlando di Warren, credo che al ragazzo non sia indifferente la subdola Eliza. C’è rimasto male quando è stato detto che Sura e Johannes se la intendevano.»
   «E nel passato non hai mai sospettato nulla?»
   «No. Pensavo che Sura facesse buon uso del dito.»
E io ci parlo pure con lui. Allontano la sedia dal tavolo, con espressione disgustata. Sono felice che abbiamo appianato un po’ le divergenze. Meno felice nell’essermi dimostrata debole agli occhi di una persona come Jamar, ma se Lartia ha visto qualcosa di buono in Damide, forse la vedrò anch’io. Un giorno. Non riuscirò mai più a vedere Eliza con gli stessi occhi, lo so.
Il ragazzo davanti a me alza lo sguardo, mettendosi più composto. Un atteggiamento troppo rigido e pacato per essere solo consapevole che sono ancora uno dei capi dell’Ordine. Giro appena la testa, per vedere Chase fermo alle mie spalle. Spero che non abbia sentito nulla, anche se per l’ultima parte della conversazione il mio ruolo è stato molto passivo. «Ho un piano.»
Dall’altra parte, Jamar commenta. «Ecco, adesso siamo nella merda.»

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Capitolo 4
*** 4 ***


4
 
 
 
          Il piano consiste nell’entrare nella gabbia dei leoni dopo una settimana di dieta forzata, con un pezzo di prosciutto in mano, dopo un bagno nel lardo. Se non è chiara la metafora, andiamo da Marco a dirgli che siamo disponibili a rientrare nell’Ordine. Sono combattuta tra: è una brutta idea, è un pessimo diversivo e il fatto che è un suicidio di massa.
Dopo scuola ho fatto una capatina a casa, dato un bacio a mamma e sperato di tornare a casa a sera. Ottimo modo di iniziare un pomeriggio. Sono salita nella moto con Chase e, facendo strada agli altri, siamo arrivati nella tana di Barbablù. Dopo la mia ultima esperienza lì dentro, so che le stanze nascondono più di quello che danno a vedere.
Entriamo nella cattedrale e Chase contatta Marco al cellulare. È stata una sua decisione. In questo modo, ha poco tempo di tenderci una trappola. In effetti, non ne ha nessun motivo, visto che apparentemente ci stiamo offrendo su un piatto d’argento. Philippe mi affianca. «Vedo che la tua influenza si è persa nei secoli.»
Alzo lo sguardo. È un po’ difficile, visto che l’idiota di fronte mi ha mandato due foto che lo ritraevano in costume da bagno. Vorrei non sorridere, ma mi scappa un ghigno. Lui corruccia la fronte. «Cosa trovi di divertente?»
   «Se vuoi che ti prenda seriamente non mandarmi tue foto! E poi … credo che Chase stia facendo una deviazione della difesa. Sta mostrando a Marco che siamo deboli e insicuri di fronte a lui, apparentemente ignari di quello che ci sta capitando e, dall’altra parte, possiamo scoprire di più. Mm. Julia direbbe che la migliore difesa è l’attacco. Stesso principio, un po’ più di classe. E, in ogni modo, non ci fidiamo dell’Ordine. È per questo che useremo i nostri nomi del passato.»
Mi accarezza la guancia, sollevandomi appena il mento. «Quindi ho di nuovo di fronte la mia piccola Dalila. Sono eccitato ...»
Chase colpisce la mano di Philippe, che la infila indifferente in tasca. Sta ancora attendendo la risposta di Marco e noi ci godiamo il silenzio di quel posto deserto. Un po’ inquietante come il crocefisso ci sta fissando. Guardo Jamar, che fissa il luogo con rabbia. Anch’io sono stata catturata all’interno dell’Ordine, mentre andavo a svolgere una missione. Ero appena uscita dalla mia cella, quando sono stata colpita e atterrata dalle guardie. Non avevo motivo di ribellarmi. Pensavo che l’accusa fosse di minore gravità. Beh, probabilmente anche gli altri erano stati della mia stessa idea.
Chase appoggia una mano sul mio fianco. Mi sento come l’albero marchiato dal cane. Stessa cosa, solo che lui è più fine e mi tocca solo. Gli hanno finalmente risposto e lui si limita a dire che siamo arrivati.
Dopo un minuto una porta si apre e ne esce fuori un prete. Ha l’aria di essere molto giovane, non più di trent’anni, gli occhi sbarrati dall’eccitazione. È molto nervoso. Ci saluta e un suo sputo va diretto contro Robert, che si scosta con un suono di disgusto. «Voi … voi siete degli esorcisti? Io sono Padre Samuel. Potete chiamarmi così. E il vostro nome ...?»
   «Titus.» Prende parola Chase, con voce sicura. Mi sospinge un po’ in avanti e faccio un po’ di resistenza. No, non voglio. Il prete sputa. «Lei è Dalila. Può parlare con noi.»
Padre Samuel allunga una mano e, come nelle mie più rosee aspettative, la trovo sudaticcia e accaldata. È giovane e magro, ma se continua così avrà un infarto prima dei quarant’anni. I suoi occhi si fissano troppo a lungo nel mio volto. Non sembra male, come persona, se non che è appunto dentro alla tana del leone e il suo coinvolgimento ci è oscuro. Ha il mento molto pronunciato, tipo un’aquila a cui hanno tolto il controllo del cielo. I suoi occhi sono nocciola e le sue labbra sono così screpolate che è un miracolo che non sanguini. Chase ricambia la stretta e, al contrario di me, non si asciuga la mano bagnata sui jeans. Robert sghignazza alle spalle ma a un’occhiata del nostro capo tutto ritorna perfettamente in regola.
Il prete ci precede, parlandoci dell’imponenza della cattedrale e il fatto che è stata costruita ricreando nei dettagli la copia che è in Italia. Mazza che culo. Se non ce lo diceva non ce ne saremmo accorti. Jamar sbadiglia, infilandosi le mani in tasca. Eliza sta rosicchiando quello che sembra essere una focaccia, recuperata dalla sua immensa borsa. Julia la rimprovera, perché è l’unica donna alle mie spalle che può dire «Sura!».
Robert mi cammina così vicino che è riuscito a sfilarmi la scarpa e ora cammino zoppicando un po’. E con quel suo gesto di nervosismo mi ha sfilato un po’ la benda, così mi sembra pure di gocciolare. Sento la spalla massiccia di Warren sfiorarmi, poi quel gioco di “tocca la scarpa” da parte di Robert si ferma. Grazie al cielo. Nel momento di pausa, mentre Padre Samuel ci illustra la particolarità del corridoio senza vie di uscita, mi sistemo la scarpa e impreco perché ho già avuto modo di odiare quel corridoio. Si dà il caso che ho diviso il posto con Warren in un armadio minuscolo proprio dietro quell’angolo.
Non ci portano nella sala delle riunioni. Ho il sospetto che, adesso, noi saremo più attenti a osservare quel tavolo. Socchiudo gli occhi, voltando il capo. Vedo delle ombre che ci stanno seguendo. Anche Eliza li intercetta, borbottando «Dannati vizi».
Sono un po’ rincuorata che, a dispetto di tutto, non siamo così in inferiorità numerica. Certo, in pochi possono dire di essere visibili da tutti, esorcisti o meno, ma è un cavillo che fingerò di non considerare.
Padre Samuel continua a illustrarci il corridoio, fatto di un qualche materiale che ignoro, ridacchiando quando ci dice che, oh, noi quei fatti già li sapevamo.
È la prima persona, escluso Marco, che ci parla come se fossimo figli di seicento anni fa. Il prete si ferma davanti a una porta con il codice. «Vedete questo?» Ha il tono così serio che siamo costretti a dimostrarci colpiti dall’apertura elettronica. «Qui viene digitato un codice, una serie di numeri e lettere che permette l’accesso alla stanza.»
   «No.» Replica Jamar, con un tono serio e preoccupato. «Ai nostri tempi, giovanotto, non c’era nulla del genere!»
   «Sì. E poi che ci diranno? Che la Terra è tonda?» Continua crudele Philippe, rincarato da Warren. «E che gli uomini possono volare? Dove lo mettiamo?»
Chase sospira, guardando il prete. «Siamo figli di due secoli. Conosciamo l’Ordine e siamo informati sulla tecnologia. La prego, digiti il codice.»
Le orecchie dell’uomo sono dello stesso colore delle braci. Però, di positivo, c’è che ha smesso di parlarci della struttura. E sono riusciva a vedere il codice: “esorcisti”. Originale. In effetti come il PIN del mio cellulare ho “0000”. Parlo io, di originalità.
Siamo dentro a un largo corridoio, con molte stanze. È una zona che non ho visitato l’ultima volta, ma in un qualche modo mi mette a disagio. Il pavimento è leggermente inclinato, e questo fa supporre che siamo diretti ai sotterranei. Brutta cosa.
I nostri passi sono gli unici suoni che ci è permesso sentire, tranne il rumore di una goccia che si infrange di rado nel pavimento. Alzo la testa quando una mi colpisce, ma il soffitto è solo carico di umidità. Stiamo andando più in basso. Le pareti iniziano a sformarsi e, da levigate, iniziano a comparire delle rocce smussate. Le luci si fanno più incerte finché seguiamo un leggero barlume, sempre poco più lontano da noi. All’inizio penso sia una questione di eco, poi mi rendo conto che quella luce che si sposta è solo una persona che ci sta facendo strada. I suoi passi di risposta sono mescolati con i nostri.
Finalmente la figura davanti a noi si ferma. Noi procediamo per raggiungerla, scoprendo che è Marco. O Johannes. O il leone travestito da gazzella.
I suoi occhi sono gentili, si appoggiano su di noi come avrebbe potuto fare davvero seicento anni prima. Siamo i suoi pupilli, il suo lasciapassare per il controllo del mondo degli spiriti. Come a scudo, mi ritrovo davanti con Chase, mentre tutti i nostri compagni sono in difesa alle nostre spalle. Siamo due dei capi dell’Ordine, ma fare un passo indietro non è una cattiva idea.
Padre Samuel sorride a Marco, facendo mostra del suo essere ovvio. «Ecco gli esorcisti.»
   «Lo vedo.» Marco ha un tono mellifluo. Di nuovo, mi ritrovo al centro della sua attenzione sapendo che non ho fatto nulla. Perché diavolo si concentra tanto su di me, quando Chase ha più potere? Anche Warren, come corporatura, è più pericoloso di quanto posso essere io. A meno che il pericolo non sia un qualcosa di fisico. Tra tutti, lì dentro, io sono l’unica che è in grado di comprendere se una persona mente o meno. Fra tutti, io ho più influenza a carattere mentale. Okay. Mi sono appena aggiudicata il primo posto tra gli eliminabili prioritari. Probabilmente, per lo stesso motivo ero stata scelta anche in passato.
Marco distoglie l’attenzione da me, indicandoci con la mano libera l’entrata di una nuova stanza. «Volete accompagnarmi? Seguitemi.»
Con la torcia illumina la stanza. Ci deve essere un’apertura di qualche tipo, perché la fiamma danza dispettosa, pur non spegnendosi. Precediamo il prete. Il luogo puzza di muffa, chiuso e qualcos’altro che non so definire. Le mie narici, di risposta, sembrano bramare quell’odore, per quanto in tutta coscienza mi dia il voltastomaco. Marco accende le fiamme delle torce attaccate, con la stessa cura di uno che in un ambiente del genere ci ha vissuto. La sua mano è decisa, non c’è indecisione e non c’è paura in un ritorno della fiammata. Movimenti cauti e posati, nulla di artificioso. Con la scusa di controllare in giro, vedo che i nostri vizi sono rimasti fuori dal pericolo. Fuori dal pericolo? Ho il sospetto però che non sia un’intuizione corretta. Lì è tutto, tranne che sicuro. Mi avvicino a Chase. «Ehi.»
Abbassa un poco lo sguardo, gli occhi due pozzi neri. Una fiammella è riflessa in un occhio, ma non c’è speranza. «Sì. Terra tombale.»
Ecco spiegato il perché il mio corpo è diviso a metà: la parte esorcista sguazza nel mondo dei morti, quella mortale apprezza di più la luce del sole che la terra mista a ossa. C’è dell’altro, però. È come un richiamo. Essendo morti, quello è il luogo che più conviene alla nostra natura. Però ci siamo reincarnati, quindi possiamo definirci in un qualche senso, vivi?
Robert si sta mordicchiando un’unghia, protetto dalla presenza di Warren. Il ragazzo è indeciso se guardare in giro o controllare il più giovane di noi, così da sembrare preda di uno sdoppiamento della personalità in piena regola. Eliza sta masticando qualcosa, Julia è inginocchiata. Le sue mani sono immerse in quella fanghiglia in cui abbiamo camminato. Ammira il sudiciume che le si è incrostato nell’unghia, poi di nuovo le immerge. Jamar è appoggiato alla parete e osserva il soffitto. Una pioggia leggera ci sta investendo e spero che sia solo umidità. Per quello che ne sappiamo, possiamo essere sotto a una falda acquifera.
Mi accorgo solo in quel momento che Philippe è al mio fianco, un po’ discostato da Chase. Mi sta guardando, in attesa di una mia crisi nervosa. No, quella è passata. Ora sto solo cercando di capire che cosa ci facciamo sopra a delle ossa.
Chase sta scrutando Marco, in attesa. «Che significa?»
L’uomo abbozza un sorriso. «Non significa nulla.»
   «Siamo sopra a dei cadaveri. Deve pur significare qualcosa.»
Padre Samuel emette uno squittio e esce dalla stanza con un balzo. Sì. Decisamente lui non ha nulla a che fare con l’Ordine del passato. Se avevo qualche dubbio sul fatto che fosse la reincarnazione dell’Inquisitore, quello è scomparso.
   «Questo è un vecchio cimitero del passato. Non ci sono spiriti che lo infestano e secondo il mio antenato questo significa …»
   «Un negromante in città.» Finisco per lui. Gli esorcisti hanno la capacità di vedere gli spiriti e di farli andare al luogo loro più consono. In linea di principio, quindi, esiste anche qualcuno che può vedere gli spiriti e permette loro di rimanere nel mondo dei mortali. Quello era il principio che avevamo usato nel passato per identificare i negromanti. Di fatto, però, gli esorcisti sono mortali che hanno a che fare con il regno degli spiriti; i negromanti sono degli pseudo spiriti che vivono con i mortali. Quale che sia la loro natura, i negromanti devono essere morti, perché per vivere hanno bisogno degli spiriti. Si nutrono di loro.
Philippe bisbiglia. «Ecco perché ci sono pochi spiriti.»
Marco ci sorride. «Ottima osservazione.»
Se c’è effettivamente un negromante, giustificherebbe l’assenza massiccia degli spiriti. E in parte giustificherebbe quella degli spiriti di livello superiore. Marco continua. «Se siete venuti qui, devo supporre che è per tornare all’Ordine, alla vostra missione. Come primo compito, dovete individuare il negromante.»
Non mi aspettavo una torta con le candeline, ma neppure cercare un ago in un pagliaio. Esorcisti e negromanti si respingono come due magneti opposti. Puoi provarci ad avvicinarli ma, una volta ridotta la forza, scattano dai due versi opposti.
   «C’è qualche indizio?» Julia si pulisce le mani sui jeans, lasciando delle chiazze nerastre. Poco chic, devo ammetterlo, e lo dice una che ha le scarpe immerse in una tomba.
Marco estrae un foglio e me lo passa. «Sembrerebbe che in quella scuola ci sia uno spirito, che compare solo di notte. Gli spiriti non aprono, però, la serratura.»
Chissà perché, prima ancora di prendere in mano il foglio, sapevo che il nome sarebbe stato quello del mio istituto. Troppa fortuna, nella vita.
Troppa, decisamente.

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Capitolo 5
*** 5 ***


5
 
 
 
             Mamma mi sta fissando, come se non mi vedesse. Dall’altra parte, io incrocio le braccia al petto, in segno di sfida. «Bel!»
   «Mamma, ho sedici anni! E Edward entra in camera con un po’ troppa disinvoltura. Ho bisogno della mia privacy. Ho bisogno di chiudermi in stanza, a chiave. Devi capirmi, mamma. Io vi voglio bene ma ... sono un adolescente.»
Mentalmente sto chiedendo scusa a mamma, fratellino, nonna e anche papà. Però non posso muovermi da quelle posizione. Devo chiudermi a chiave in stanza, per limitare al minimo i possibili danni. Mamma continua a fissarmi, gli occhi sbarrati. È come quando le ho detto che mi sarei chiusa in bagno a chiave, per farmi la doccia. Stessa battaglia. Sono grande, ho bisogno dei miei spazi. Solo che chiudersi nella stanza ha un carattere un po’ più ampio. E deve cedere. Deve, perché quella sera devo scendere dalla finestra, con la scala che mi sono sistemata nel pomeriggio, andare a scuola e cercare un negromante. Dubito che potrei uscire di casa, anche se le dicessi una delle mie menzogne. Il tempo è importante e non posso permettermi di tornarmene a casa solo perché è scattato il mio coprifuoco.
La sento sospirare. Sta cedendo. Amabel, non demordere. «Mamma, sono abbastanza grande, credo, per avere i miei spazi. La stanza è uno di quelli.»
   «Non inviterai Chase a dormire di notte?»
   «Io. Cosa? Che … no! Non voglio chiudermi in stanza per quello! Oddio, no!»
La mia faccia scandalizzata la rassicura, anche se … no! Non ci devo pensare neppure, anche perché lui non pensa affatto a quello. E prima di andare oltre forse, ma proprio forse, sarebbe meglio almeno darci un bacio. E ora come ora, quello è certo quanto un mio dieci in algebra. O in tutte le altre materie, visto quanto poco tempo passo sui libri.
Mamma mi stringe in un abbraccio supplementare. «La mia bambina sta crescendo.»
No, mamma. Sto solo cercando di coprire la mia fuga notturna. Mi allontana, asciugandosi una lacrima. È un po’ troppo emotiva. Chissà come reagirebbe se le dicessi che sono un’esorcista. Meglio non pensarci. Mamma mi segue. «Tra te e Chase va tutto bene?»
   «Tra … sì. Bene.» Dico sbrigativa. Prendo la biancheria piegata e la infilo senza pietà dentro un cassetto. Un altro sospiro da mamma, ma decide di non dirmi che così non è sistemata bene. Tanto sono la sola che ci guarda. Ed è meglio la praticità all’ordine. Mamma si siede sul letto. «Ma …?»
Mi preparo lo zaino per scuola. «Niente. Non c’è nulla. Mi è stato vicino … sai.»
   «Ahn.» Il nome di Mary volteggia. Mamma mi sta per dire qualcosa, la bocca aperta in una vocale, gli occhi fissi alla porta. Mah. Mi giro a vedere cosa ha attirato la sua attenzione, però non c’è nulla. Nulla che dovrebbe vedere, visto che mimetizzato nell’ombra c’è Lie. «Io …»
Ho un terribile sospetto. No, vero? Perché oltre a Edward non può esserci anche mamma che vede i fantasmi, no? Lie vive in quella casa! Dove lo nascosto, se praticamente quasi tutta la città continua a vedere i fantasmi? Mamma scuote la testa, alzandosi dal letto e scoccandomi un bacio nella fronte. «Mah. Sarà stata una mia impressione. Tesoro, senti come scotti. Hai la febbre?»
   «No. Però sono un po’ stanca. Volevo chiudermi in camera e andare a letto presto.»
Come con i conigli, mamma sente se anche le orecchie sono calde. No, sul serio? Le orecchie? «Tesoro, però sembra veramente che covi un qualche tipo di influenza. Ti porto il termometro.»
   «No, dai, lascia stare.» Gli viene un infarto se scopre che ho trentotto e che non mi si abbassa. «Sto bene. Sono solo stanca. Notte, mamma.»
La spingo fuori dalla stanza e chiudo la porta a chiave. Mi lascio andare in un sospiro liberatorio. Lie schiocca le labbra. «Tua madre mi vede.»
   «Già. Credi che sia un effetto della Città degli Spiriti?»
   «No.»
Uno. Due. Tre. «Lie, è un ordine. La verità.»
   «Sì, è un effetto della Città degli Spiriti.»
Spengo la luce e urlo buona notte a mamma e Edward. È un miracolo, perché vado a letto alle dieci di sera. Apro la finestra e sono colpita dal freddo. Ovviamente, il giubbino è fuori dalla mia stanza, quindi credo che farò una bella camminata con un semplice maglioncino. «La ritieni una saggia idea andare a cercare un negromante?»
   «Non so. Sto valutando se è meglio buttarmi a letto a dormire e sognare di morire, per poi scoprire che morendo veramente! Almeno così non mi sento inutile.»
Vista dall’alto, la discesa mi sembra tutto tranne che fattibile. La scala è troppo in bilico, io sono deficitaria in quanto a gambe e Lie mi sta ancora fissando come me avessi detto che preferivo sacrificarmi io stessa a Johannes. Sto pure tremando. Devo ricordarmi di prendere tutto l’occorrente, prima di fare il diavolo a quattro per chiudere la porta della mia stanza. «Tu rimani qui e imita la mia voce, se mamma dovesse chiamarmi.»
   «Sono un bambino. Maschio.»
   «Lie, di nuovo. È un ordine.»
Alza le spalle, dilungandosi in una mia imitazione. Spaventoso. «Sissignora.»
Lo sto ancora fissando, con un piede che cerca il primo scalino della scala. «No. Non fare quell’espressione. È … schifo.»
   «Gli effetti della Città degli Spiriti sono imprevedibili.» Mi ignora. «È più che probabile che un po’ tutti gli individui coinvolti in questo avvenimento possano, presto o tardi, vedere gli spiriti.»
   «Grazie per la bella notizia. Hai altre informazioni utili?»
Alza un sopracciglio, guardando giù dalla finestra. «Piede più a destra.»
Ho agganciato la scala. Stringo ancora il davanzale con una mano, mentre l’altra si affretta alla ricerca di un nuovo appiglio. Riesco a scendere, battendo i denti. Giubbino … giubbino. In risposta ho il telefonino! Molto utile, davvero.
Procedo quasi di corsa, sia per scaldarmi sia per riprendere il tempo perduto. Ma soprattutto per scaldarmi. Le strade sono deserte e mi sento in balia delle opinioni altrui. Se qualcuno guardasse fuori dalla finestra, vedrebbe una con delle scarpe ridicole (in camera avevo solo quelle che non uso di solito … e un motivo c’è!), un maglioncino da casa e i capelli sciolti. Più o meno nelle stesse condizioni vado a dormire!
Mi passo una mano sul naso, sentendo che la mia pelle è bollente. Tic tac. Allo scattare del verde attraverso la strada e finalmente arrivo a scuola. Il cancello è chiuso e, vicino all’entrata, si trova Philippe. Rallento. Sono andata via dai ragazzi prima che fosse deciso chi fosse il fortunato esorcista che sarebbe uscito in un incontro negromantico, ma fra tutti non mi aspettavo lui. Di notte non ha, che ne so, un appuntamento con qualche flirt? Una sfilata?
Mi fa cenno con la mano. «Non sapevo facesse così caldo.»
   «Lunga storia.»
   «E che belle scarpe della Barbie.»
Dannazione. Non è abbastanza buio da evitare conversazioni? Mi arrampico per il cancello, tipo scimmietta. Poi scivolo dall’altra parte. Philippe è ancora intento a scavalcarlo, cercando di non recare danno alle parti intime. «Queste cose non le fai in passerella.»
   «Bel, non sei nelle condizioni di parlare.»
Lo lascio lì, in bella vista a fare un’effrazione in prima regola. Prendo dalla tasca una forcina datami da Eliza, niente domande in merito, e una pila minuscola, per farmi luce. Niente domande neppure lì. Dopo un po’ di tramestio, in cui anche Philippe finalmente si è unito, togliendomi la pila dalla bocca, entriamo nell’istituto. Camminiamo al buio, solo con la flebile luce della pila. Non sentiamo rumori, né quella sensazione di repulsione che dovrebbe far seguito a un incontro con un negromante. In effetti, non sento nulla. Philippe punta il cono di luce per le stanze chiuse. Aleggia il profumo del detersivo, cancellando quello più stantio del sudore giornaliero.
   «Bella scuola. Ti fa venir voglia di bigiare
Apro la porta del bagno, senza molta fiducia. Philippe sta illuminando un’altra stanza, ma non ci mettiamo molto a capire che siamo gli unici esseri vivi e morti camminano per quel piano.
Sospiro. Philippe mi illumina, obbligandomi a portarmi le mani al viso per proteggermi. «Perché Marco ci voleva qui, se non c’è praticamente nulla?»
   «Non lo so. Philippe, abbassa quel coso.»
Ridacchia. Ci metti poco a capire che se è amico di Jamar, è perché trovano i doppi sensi dove io neppure sognavo che ci fossero. «Attenta a come parli, o Chase ci metterà in punizione. Anzi. È strano che non sia arrivato qui.»
Illumina il corridoio appena percorso, come se si aspettasse di vederlo arrivare. Inutile dire che è deserto quanto quello di fronte. «No, niente Chase.»
Allungo la mano e prendo la pila a Philippe. Faccio luce al soffitto, seguendo una scia che neppure io posso vedere. Poi, di nuovo, le pareti.
   «I negromanti non attraversano i muri.» Mi fa notare.
   «No, ma gli spiriti sì. Ho avuto l’impressione di essere osservata. Ti sei portato dietro Endive?»
Scuote la testa. «Sono in contatto con lei, ma sta perlustrando fuori dall’istituto.»
   «Io non ho portato Lie, quindi c’è uno spirito che ci osserva.»
Sento un rumore e d’istinto la pila illumina alla ricerca della causa. Philippe mi passa un braccio lungo la schiena, attirandomi a sé. Mi sta proteggendo e sono combattuta tra il chiedergli che diavolo sta facendo e trovare questo spirito. Me ne esce una domanda a metà. «Che cos’è?»
   «Strano che uno spirito faccia rumore.»
Lo fisso, alzando le sopracciglia. È così vicino che sento il profumo del suo dopobarba. Mi sorride e comprendo perché tante ragazze sono cadute tra le sue grinfie. La sua immagine di bello e dannato è molto realistica. «Philippe, lasciami.»
Allenta la presa, ma siamo ancora molto vicini. Già qualcun altro, Maximus nello specifico, ha cercato di proteggermi nel passato. E non credo di averlo apprezzato più di quanto sto facendo ora. «Non ci provare. Cerchiamo da dove viene il rumore. E, Philippe: se mi giro e mi stai fissando il culo, è la volta buona che ti prendo a calci.»
Illumino ogni angolo al pian terreno, ogni pertugio, ogni superficie piana. Eppure non vediamo niente. Se fosse uno spirito positivo, non avrebbe motivo per nascondersi; se fosse uno spirito Caino, sarebbe più intenzionato a farci fuori. E se si nasconde, sembra proprio uno spirito dotato di intelligenza.
Saliamo le scale, illuminando ogni superficie. Philippe è stranamente silenzioso alle mie spalle. Forse l’ho attaccato con troppa violenza. Comunque non mi sento in colpa.
Continuo a puntare la pila al soffitto, con la speranza che non ne esca uno spirito. Se qualcuno cerca di sfondare il soffitto e atterrarmi davanti, dignità o meno, io mollo tutto e scappo come se non ci fosse un domani. Al diavolo pure il negromante. «C’è puzza di zolfo.»
Tiro su con il naso e, in effetti, mi sorprende non averlo sentito prima. Non so se mi fanno pensare alle terme o a una discarica a cielo aperto. Mi dirigo sicura verso l’aula di Chimica. È l’unica, in quel piano, che giustificherebbe quel tanfo. La porta è socchiusa e dei rumori soffusi provengono dal suo interno. Punto la torcia contro il muro, in modo da vedere cosa succede dentro, senza che sia visibile il riflesso.
Ci sono tre persone, al suo interno, illuminati appena dalle candele. Non sono spiriti. Giro appena la testa, chiamata dal dito di Philippe che mi picchietta sulla spalla. Oh. Ecco uno spirito. Guardo la stanza ed ecco spiegata la seduta spiritica.
Sbotto. «Non è un negromante. Sono tre idioti.»
Philippe apre la porta, facendola sbattere contro il muro. Sarebbe una scena divertente, se tutti e cinque non fossimo delusi. Il mio compagno incrocia le braccia al petto. «Seduta spiritica?»
Sono tre ragazzi, mai visti prima. Non sono della mia scuola e hanno tutto l’aspetto di essere dei collegiali. Hanno un aspetto un po’ da nerd. Uno di loro ha aperto pure un fumetto e stanno cercando di riprodurre la scena di un qualche manga. Entro nella stanza, calciando una candela e spegnendola. Di colpo, come se avessi spento un interruttore, l’odore di zolfo scompare, lasciando solo il sentore della fiamma estinta.
Ci stanno fissando, interdetti. «Voi … voi non dovreste essere qui.»
Deve essere il capetto di quella piccola congrega. Philippe ridacchia. «Ma sul serio? Voi, invece, sì?»
Sono tutti e tre a disagio e, da come mi guardano, non hanno mai visto una donna. Arretro di un passo, un braccio di Philippe si appoggia alla mia spalla, con fare confabulatorio. «Hai capito, bellezza, noi non dovremmo essere qui. Questi nerd, invece, possono invocare i fantasmi.»
   «Noi … e voi come fate a saperlo?»
Beh, non devono essere molto svegli, perché tutto lì parla di invocazione. Scuoto la testa. «Su. Sparite. Andatevene prima che faccia io un’invocazione. Su. Ora.»
I tre ragazzi prendono il loro materiale e se la svignano. Sì, decisamente non sono svegli perché un calcolo veloce e potevano intuire che sto bluffando, che siamo in minoranza e che decisamente non dovremmo essere neppure noi lì.
Guardo Philippe. «Negromanti: zero.»
   «Idioti: tre.» Risponde lui.
Lancio un’occhiata al nostro nuovo amico. «Spiriti: uno.»

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Capitolo 6
*** 6 ***


6
 
 
 
         Finalmente è sabato. Mamma lavora alla mattina, ma non importa. Io posso dormire, mangiare, dormire di nuovo e studiare. Sono una delle poche persone al mondo che trova rilassante studiare. Fino alle cinque, orario in cui dovrei avere parenti a casa, la giornata è tutta per me.
Mamma ha riallacciato, non so il perché né in che modo, i rapporti con la sorella di papà. Zia Margharet, dopo l’incidente che ci è capitato, è scappata dai radar della famiglia. Non si è fatta più sentire, né ha chiesto come sta papà di salute. Almeno per i primi tempi, una chiamata di cortesia ce la doveva. Invece, ha saputo da nonna che papà è rimasto coinvolto in un incidente e “ciao mamma”, “addio fratello”, fatto le valigie e scomparsa. Non la ricordo. Sì, per telefono un po’ la sua voce, una chiacchierata e finita lì. Mamma ha detto che da piccola giocavo con mia cugina. Ignota anche lei. Poi le ho tirato i capelli e una ciocca mi è rimasta in mano. Forse è stata in quell’occasione che papà mi ha dato una sculacciata tanto forte da non riuscire a sedermi. O forse per un’altra mia birichinata. Ricordo il dolore al sedere, però.
Guardo il cellulare, in cui compare il nome di Chase. Deve esserci un qualche sensore di genere nello zaino, perché ogni volta che lo apro capita qualcosa. Rispondo alla chiamata. «Ciao.»
   «Ciao. Aspettavi la mia chiamata?»
   «Perché dovrei? È il mio unico giorno libero.»
Sospira, e mi si scioglie ghiaccio, voglia di studiare e qualcos’altro. «Julia mi ha detto che deve studiare per un’interrogazione per lunedì. Quindi lei non ci sarà. Devo dare per scontato che mancherai anche tu all’incontro di oggi?»
   «Che genere d’incontro?»
   «Per lo più perlustrativo. Ancora non vuoi dire che cos’è successo a scuola con Philippe?»
   «Niente di che.» Andare a dire a Chase che un trio di stupidi ha cercato di invocare gli spettri non è auspicabile. Alzerebbe un vespaio per un nulla di fatto. «Ma dove sei? Sento uno strano rumore.»
   «Sotto casa tua.»
Mi alzo dalla sedia, scostando la tenda. In effetti, vedo Chase al cellulare. Il giardiniere mi fa “ciao” con la mano, segando con l’altra il ramo già incrinato. Spiegato pure il rumore strano. Sbuffo. «Sì. Dammi un minuto. Però solo per mezza giornata. Devo studiare anch’io.»
Ci metto davvero poco, anche se più del tempo ipotizzato, per mettermi un paio di jeans decenti e un maglioncino. Mi infilo il giubbino e mando un messaggio a mamma. Solo per metterla in guardia che se torna a casa e non trova nessuno, non sono stata rapita dagli alieni. Sto solo studiando con loro. E per convincerla meglio, ci metto pure una faccina felice alla fine.
Il ragazzo mi sta aspettando, guardando il lavoro del signore. Dovrei pure ricordare il nome, è nella lista delle persone da contattare del condominio, ma come sempre certi nomi mi entrano in un orecchio, vanno nelle montagne russe della mia mente e se ne escono altrettanto velocemente. Fatto. Ci metto poco.
Ci incamminiamo. Il giro è effettivamente perlustrativo. Nessun obiettivo generale. Robert e Eliza sono andati a un indirizzo datogli da Marco, alla ricerca di questo fantomatico negromante. Inizio pure a dubitare della sua esistenza. Può essere un modo artificioso di Marco per tenerci impegnati. Ci sta riuscendo bene. L’unica perplessità che rimane è che appunto la città è scarsa per quanto riguarda la presenza di spiriti di livelli inferiori. Mi aspetterei di trovare più primi livelli a Lubris di quanti non ne incontriamo di solito. All’opposto, di spiriti Caini ne abbiamo a vagonate.
Julia deve studiare, di conseguenza mi ritrovo con Chase, Warren, Jamar e Philippe. No comment sulla compagnia.
Per una questione o per l’altra, e vorrei proprio conoscere le questioni, mi ritrovo a perlustrare una via con Jamar. Davvero: fuori le questioni! La strada è trafficata, non ci sono spiriti in bella vista. Nessuna strana sensazione. È solo un normale pomeriggio di fine novembre. Le mani sono dentro le tasche, al calduccio ricoperte dai fazzoletti con cui mi sono soffiata il naso. Sarà poco igienico, ma il fine giustifica i mezzi.
Jamar calcia una lattina, una signora con un barboncino (e, diciamocelo, il cane è vestito di più e pure meglio di me) lo guarda altezzosa. «Bene. Perlustrato. Torniamo dagli altri.»
Vorrei riprenderlo. No. Sono troppo stanca oggi. Per calmare il freddo e l’insofferenza, entriamo dentro a un locale affollato. Io e Jamar occupiamo un tavolo, mentre gli altri vanno a recuperare le cibarie. Lo osservo, vedendo che ha le labbra più bluastre di quanto ricordavo. Ricambia il mio interesse, passandosi un dito sotto al mento. «Ahn, queste? Sono i segni d’amore di una qualche donzella.»
   «Avvelenamento.» Replico, distogliendo lo sguardo. Chase si siede vicino a me, passandomi un panino con non so quali ingredienti. Lo addento prima che tutti abbiano preso posto. Warren si siede davanti a me, tirando fuori il suo portafoglio e quello che non è di sua proprietà. Mi passa delle carte. «Vedi se posso recuperare qualcosa.»
Appoggio il panino sulla salvietta, sfogliando le carte. «Hai un bancomat? Perché qui ho un codice.»
Philippe si calca meglio il cappellino sulla fronte. Possiamo vedere solo la parte inferiore del volto. Se i clienti del locale sapessero che sotto quello si nasconde un modello famoso, immagino che saremmo bersagliati da mille fan. Bofonchia, contrariato. «Guarda te, se devo pranzare con dei ladri.»
Chase mi picchietta con un dito sul panino. Lo addento di nuovo. Poi guardo le carte. E poi mi chiederò pure perché non mi faccio tanti scrupoli. Eppure i soldi non mi sono mai mancati a casa. Né mi è mai mancato l’affetto. Se andassi da uno psicologo, direbbe di certo che la mancanza di una figura genitoriale maschile mi ha lasciato molte lacune, tanto che non riesco a distinguere il bene dal male. Io però so qual è il bene: esattamente l’opposto di quello che fa Warren. E di quello che sto facendo io.
Philippe sbocca. «Il negromante non esiste.»
   «Non abbiamo trovato un fantasma in tutta la mattinata.» Fa notare Chase, controllando al cellulare se Eliza gli ha mandato un messaggio. Niente: alto mare anche per loro.
   «Beh. È una giornata no.»
Jamar schiocca la lingua, fissandolo. «Giornata no? Sì, può essere. Siamo in una città super affollata, con un passato da Città degli Spiriti, dove muoiono persone tipo … che ne so, dieci al giorno? Venti? Di più? Di meno? … di questi molti hanno questioni sospese e noi abbiamo una giornata no? Hai perfettamente ragione.»
Warren ridacchia sul suo secondo panino. Sono disgustata dal mangiare con i ragazzi. Stanno buttando dentro tutto il cibo, ingurgitando coca cola a vagonate e io sono ancora impegnata con il terzo morso. E io sono pure una che ha parecchia fame!
Philippe continua. «Okay. Esiste il negromante. Dov’è?»
   «I negromanti sono i nostri opposti.» Dico con calma, aprendo il panino e controllando cosa sto mangiando. Con calma lo richiudo, trovandomi quattro paia di occhi che aspettano me. «Loro ci evitano, perché sappiamo cosa sono. Siamo contrari alla loro esistenza e, anche se non siamo favorevoli all’omicidio, facciamo tutto il possibile per limitare la loro evoluzione. È ovvio presupporre, quindi, che siano in posti che noi di rado frequentiamo. E, poiché loro ci sono, noi troviamo quella zona sgradevole.»
Jamar corruccia la fronte. «Hai circoscritto la ricerca a circa il novanta percento della superficie terrestre.»
   «Bene. Quale zone evitate?» Domanda lecita di Chase.
Io? Maiden Street: pessimo quartiere, prostituzione alle stelle, spaccio in salita e criminalità in genere abbastanza elevata. Dubito che la motivazione sia delle migliori. Warren ha l’aria di uno che si sta spremendo le meningi in bagno. Non so se ridergli in faccia o dargli una sberla. Si rilassa, alza una spalla e addenta con un ultimo morso tutto il panino. Philippe sorseggia la sua coca cola. Coca cola? Qualcosa mi dice che c’è lo zampino di Chase, perché in tutte le interviste fatte, il modello non aveva mai un qualcosa di analcolico. «Ultimamente Lenape non è il quartiere migliore in cui passerei il tempo.»
   «I casini sono mortali.» Replica Jamar. «Sparatorie, furti. È un Medioevo nei tempi moderni, ma sono questioni mortali. Non hai un rifiuto per quella zona.»
   «Vai allora a Lenape.»
Il ragazzo brontola qualcosa, mangiucchiando il panino. Mi sento osservata da Warren, così gli cedo il mio ed evito il suo stalkeraggio culinario. Chase riassume la questione. «Bene. Andiamo a Lenape, solo come giro perlustrativo. Non voglio nessuna mossa avventata, solo con quattro esorcisti a disposizione. Bel, tu torni a casa.»
Ho avuto il sospetto che ne fossi estromessa da quando ci ha conteggiato sbagliati. «Mi stai mandando via perché sono femmina?»
   «No, perché lunedì hai un compito.»
Beh, allora sì, me ne torno a casa. Dopo aver ringraziato per il panino i ragazzi, anche se avrei fatto meglio a cercare il povero derubato e ringraziare lui, mi dirigo verso casa. Il pomeriggio è tranquillo. Non c’è Lie, non c’è rumore, il telefonino rimane stranamente silenzioso per tutto il tempo e, ovviamente, sono annoiata.
Mi ritrovo a fissare senza vederla una pagina. Ho ancora il quaderno di Mary, con tutti i suoi appunti di diritto. Dovrei riportarlo alla famiglia, ma poi della mia amica non mi rimarrebbe altro. Appoggio la testa al tavolo, seguendo con un dito il contorno delle parole. La prendevamo in giro perché aveva la brutta abitudine di premere tanto con la penna sul foglio. Potevi leggere le parole a due pagine di distanza. Sorrido al pensiero.
Non siamo mai andate al concerto degli Amantine, il gruppo di Jamar. Mi sembra lontano un secolo il tempo in cui, andando a scuola, cercavamo di scappare dall’ira di Julia. Oppure lei che si lamentava del fratello, dei genitori troppo permissivi con lui. Le avevo detto che saremmo rimasti vicini alla sua famiglia. Con che coraggio posso andare da loro? Me lo spieghi, Mary?
Appoggio la testa sulla mano, iniziando a fare un esercizio di algebra. È più facile dello studiare, perché nei calcoli sono veramente una frana. Troppi numeri mi mandano in pappa il cervello, quindi devo essere attenta e non mi devo distrarre. L’ho appena pensato che una mosca mi passa davanti. Ci metto dieci minuti a inseguirla prima, a cercarla di fare uscire dalla finestra poi, e ad ammazzare le altre cinque che sono entrate quando ho fatto uscire una di loro. Con molta fatica, riesco poi a studiare diritto. Sono più o meno preparata. Certo, escludendo la crisi di pianto avuta negli appunti di Mary.
Mamma torna a casa trafelata. Ho appena preparato la tavola, ovvero messo una tovaglia pulita e sistemato il centrotavola, il divano è in condizioni dignitose e gettato i giochi di Edward nella sua stanza. Mio fratello si butta sul divano, e i cinque minuti di lavoro per sistemare le pieghe sono stati sprecati.
Appoggia le borse della spesa su una sedia libera, guardando con occhi esperti alla ricerca di ditate sospette. Passata l’indagine. «Bel, saranno qui a momenti. Ho incontrato Anna e non mi lasciava più andare via.»
Non so chi è Anna, ma sono felice che mamma sia tornata a casa prima della guerra con i parenti. Mi passa un sacchetto di patatine, che svuoto dentro a una ciotola di vetro. Ho già preparato i bicchieri su un vassoio. Lo zio non dovrebbe essere uno degli invitati. Quindi io, mamma e Edward riusciremo a gestire due ospiti.
Suonano. Mamma si mette in posizione, guardando le borse. Le prende tutte con una mano, sistema con l’altra la tovaglia e mi ordina di aprire la porta. La vedo scomparire per nascondere la spesa.
Apro la porta nel momento in cui mamma compare al mio fianco, con un sorriso mieloso e trascinando con sé un poco collaborante Edward.
Sono un’idiota. Nonna, a casa, ha un ritratto di Dalila. Lei stessa mi ha detto che è una nostra antenata. Già lì dovevo fare due più due. Dalila non è solo il mio passato. Io non sono solo la reincarnazione di Dalila; sono anche sua figlia, o per lo meno figlia di qualcuno che era strettamente legato a Dalila. Calcolo semplice? Sono un’idiota.

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Capitolo 7
*** 7 ***


7
 
 
 
         Mamma mi sospinge un poco, come per dirmi che starsene imbambolata davanti ai parenti non è buona educazione. Mi allontano dalla porta per farle entrare. Da piccola dovevo essere un fulmine, perché le avevo già tirato i capelli. La zia sospinge mia cugina verso di me, con fare cospiratorio, imitata da mamma. Guardo mia zia. Gli stessi occhi intensi di papà, seppur il fatto che se ne sia lavata le mani e sia scappata dalla malattia del fratello non me la faccia amare particolarmente. Ha il mento volitivo di nonna, i suoi tratti spigolosi. E il paragone finisce lì. Si vede che sono parenti, ma ha i capelli di un rosso sporco, o di un nocciola rossastro. È più calcolatrice, meno affettuosa. È il guscio di una donna che sa quello che vuole e non si fa tanti scrupoli per ottenerlo.
    «Susan, lei è tua cugina Amabel.»
Puttana. Stringo i denti e il sorriso deve essere simile a un attacco apoplettico. Susan mi sorride. «È un piacere conoscerti, Amabel.»
Oh, che bello. La mia sorellina del passato è la mia cuginetta nel presente. Quando si dice spina nel fianco. O supposta nel culo. «Sì.»
Mamma mi pungola e, quando la guardo, mi lancia uno sguardo pieno di domande. E di delusione. Ovviamente sono maleducata. Tralasciamo che Mary è stata uccisa da lei, la ragazza che mi sorride. Torno a guardare Susan. Occhi liquidi, viso quasi abbronzato dalle lentiggini, capelli rossi: sembra una ragazza come tante altre. Al polso, i miei occhi ne seguono il contorno, il marchio del peccatore che io stessa le ho impresso prima di morire. Inghiotto il veleno. «Anch’io sono felice di conoscerti, Susan.» Puttana.
Le volto le spalle, prendendo il cellulare. “Vieni a casa mia subito. Per piacere. Ti prego.” Ha tutto il tono di essere una richiesta disperata, ma spero che Chase abbia un pochino di tempo per me.
Su un vassoio sistemo le bottiglie e offro da bere: zia Margharet vuole del the freddo, Susan della coca cola corretta acido. Le sputerei sul bicchiere, ma mamma è troppo vicina e poi, che figura ci farei? Spero con tutto il cuore che Lie rimanga ovunque esso sia, perché in casa l’aria sta diventando tremenda. Edward, il più fortunato, si è fatto strizzare e fare i complimenti, poi si è ritirato a giocare con dei videogiochi. Susan ci sta guardando con un po’ troppa insistenza. Sta scegliendo le sue vittime?
Sono seduta in posizione rigida, mamma si inumidisce le labbra alla ricerca di argomenti di conversazione.
Di nuovo, mi sento vulnerabile davanti a lei. Posso aver camminato con i miei compagni al pomeriggio, posso usare alla grande la Falce, esorcizzare spiriti di livello superiori, e davanti a una ragazzina mingherlina io sono del tutto impotente.
Sospiro, cercando di calmarmi. Susan, o Malachite che sia, non attaccherebbe mai delle persone davanti a me. Troppo vulnerabile. Fisicamente, sono più forte di lei. Psicologicamente, ha carte migliori delle mie. La zia mi osserva di sottecchi. Sarà la famigliarità con il diavolo in persona, ma non mi piace neppure lei. Mi dà l’impressione di potermi scrutare e controllare come meglio crede. In effetti, ha gli stessi occhi indagatori della nonna. Solo che la nonna non mi ha mai dato l’impressione di potermi usare. «Amabel, sei diventata grande.»
Già prima dell’incidente di papà, due anni fa, non la ricordo una figura presente. Forse una di quelle persone che ai compleanni vedi che parlano con gli adulti. Quasi sfocata. A detta di mamma, quando eravamo molto piccole io e Susan giocavamo insieme. Immagino che se una tua nipote tira i capelli a tua figlia, non diventa la tua preferita. Mi limito a sorridere. Sì, sono diventata grande. Sì, sono cresciuta da quando tu hai voltato le spalle a papà. La vita va avanti per tutti, no? Lei continua. «Quanti anni hai? Se non sbaglio sei nata poco dopo di Susan, no? Quindi … sedici anni?»
Di nuovo, lei è nata prima di me. E che cavolo. Mai una volta che provo il brivido di essere io la più grande. Mi inumidisco le labbra, pronta per una rispostaccia. Troppo presto mi arriva un pizzicotto di mamma. Legge bene, nel pensiero. Mi massaggio la gamba e guardandola storta. Offre delle patatine a Susan, che le accetta con sorrisi e convenevoli. Oh, cara. Fuori da casa mia!
Mi si deve leggere tutto in volto, perché mi arriva un pestone al piede. Emetto un gemito, piegandomi in due. Porcamerda. Mi si deve essere aperta una ferita, o direttamente spappolato il piede. Una fitta di elettricità pura si propaga lungo le vene, fino ad arrivare all’inguine. Ora sto buona. Mamma mi appoggia una mano sulla schiena. «Tesoro, stai bene?»
Dai suoni che emetto sto avendo le doglie di un parto gemellare. Stringo i denti. «Sì. Bene. Informicolato il piede.»
   «Meglio se ti sgranchisci le gambe. Vai a prendere in dispensa le patatine.»
Alzo gli occhi per vedere la ciotola ancora piena. Mi alzo dolorante, zoppicando un poco. Poi, con le patatine come trofeo, mi siederò vicino a zia. La dispensa, inesistente in casa, è in realtà la stanza di mamma e papà. Non avendo potuto mettere via le borse della spesa per l’arrivo provvidenziale della famiglia, mamma le ha accantonate in camera. Detto così è troppo squallido, quindi vado in dispensa, attraversando lo spazio architettonico soggiacente la mia reggia privata e la stanza adibita all’igiene. Sì, suona tutto meglio.
Zampetto imprecando a ogni passo. Mi guardo il piede, dove una chiazza rossastra ha attraversato la stoffa dei calzini. E non avevo neppure parlato. Agguanto un pacchetto di patatine con cipolla, godo al pensiero dell’alito di Susan e zia, e mi scontro con mamma. «Bel, comportati bene.»
   «Non ho aperto bocca!» Sibilo adirata. Sarà una mia sensazione, ma ho la certezza che il dolore mi esca dalle labbra.
   «Comportati bene.»
Sbuffo. «Spero che venga Chase. Gli ho chiesto di passare per casa.»
Mamma abbozza un sorriso. Okay. Direi che il ragazzo ha conquistato alla grande parte della mia famiglia. «Oh, bene. Così ti comporti bene.»
Prende le patatine che ho in mano, portandosele dietro. Controllo il cellulare. No, Chase non mi ha risposto. Una parte di me se lo aspettava. Non può lasciare tutta la sua missione, la sua ragione di vita, perché io ho una crisi isterica di qualsiasi genere.
Mi siedo sulla sedia, troppo tardi mi rendo conto che non è il posto più adatto. Con mosse da contorsionista, riesco a mettere in salvo entrambi i piedi. Se casualmente mi comportassi male, eviterei il dolore causato da mamma. Zia Margharet mi osserva, Susan ridacchia. Niente pensieri malvagi. Farei prima a darmi fuoco con un accendino. «Sei proprio diventata una bella ragazza. Immagino che hai già un fidanzatino.»
Fidanzatino? Perché c’è l’errata convinzione che tutto quello che è adolescenziale o per bambini sia piccolo? “Non ti preoccupare, senti solo una punturina” e invece ti tirano via il sangue come i vampiri. “Oh, è una feritina da niente”, dopo che hai imbrattato quattro pacchetti di fazzoletti e consumato tutte le lacrime. Adesso ho pure il “fidanzatino”. Chase ha diciotto anni, non sei!
   «Fidanzato?» Il tono in cui lo ha detto Susan mi fa accapponare la pelle. Fidanzato significa legame emotivo. E legame emotivo, scacco matto. Di nuovo, se mi muovo male Chase diventa una loro vittima. Non usa neppure sotterfugi. Me lo dice chiaramente.
Mi muovo a disagio. «E ... e tu, Susan? Ti ho visto con le tue amiche in centro.»
Adesso è il suo turno ad essere a disagio. È chiaro che non ha detto a sua madre di avermi visto. Io, di risposta, posso sempre dire alla mia che non la conoscevo. Ed è pure vero, guarda un po’. «Hai visto Amabel? Perché non me l’hai detto? Strano che tu non l’abbia riconosciuta.»
Ora sto gongolando. L’ho messa in difficoltà. Fa un sorriso striminzito, che non convince nessuno. «Volevo farle una sorpresa.»
Non serve il mio vizio per sapere che mente. Mi porto una mano alla bocca. «Oh. Mi dispiace tanto. Mi sarebbe veramente piaciuto saperlo prima. La mia amica si è comportata in maniera un po’ cafona, ma non le è piaciuto quando le hai versato il caffè nella giacca.»
Susan sbarra gli occhi, sua madre incrocia le braccia al petto. «Hai da dire qualcosa, signorinella?»
Solo per questo, offro di nuovo il piede martoriato a mamma per farmi colpire. Sono distratta dal campanello e dalla voce di mamma. «Forse è Chase.»
Controllo di nuovo il cellulare per scrupolo. Susan sta imbastendo una qualche scusa e, alla fine della giornata, potrei pure avere in tasca i soldi per la giacca di Julia. Potrei pure fare metà con lei, visto che non è stato sporcato nulla. Apro la porta. Ed è Chase.
Appoggio una mano al suo petto, sospingendolo fuori e chiudendomi la porta alle spalle. «No, va via.»
Alza un sopracciglio. «Come, scusa? Mi hai fatto fare mezza città di corsa e poi mi cacci?»
Il mio cuore salta un battito: mezza città di corsa per me? E con frasi del genere come può pretendere che non mi sciogli per lui? «Sì, scusa. C’è … Malachite è mia cugina ed è in casa mia. Si chiama Susan e assolutamente devi andartene. Mamma ha già parlato di te … sei già nella sua lista nera. Vattene.»
   «Lista nera
   «Sì, come …» Mi muoiono le parole in bocca, ma il labbro inferiore mi trema così tanto che non c’è bisogno di dire il nome di Mary. Chase sospira, stringendo la mano ancora appoggiata a lui. «Bel, sono già nella lista nera, te lo ricordi? Sono a capo degli esorcisti.» Appoggia una mano sul mio collo, sotto all’attaccatura dei capelli. «E ora ho un buon motivo per rimanere con te. Fammi entrare. Sarò educato, anche se immagino che tu abbia già dato il meglio di te.»
Abbozzo un sorriso, entrando in casa e trascinandomelo dietro. Edward alza la testa dalla televisione, lo saluta per poi scomparire in qualche mondo animato. Mamma gli sorride, ma sono la zia e Susan che si comportano più stranamente. Zia si alza in piedi, abbozza un sorriso sbilenco e gli stringe la mano. È chiaro che volesse che il mio “fidanzatino” fosse meno appariscente. Dall’altra parte, Susan ha puntato gli occhi su una possibile vittima. La mano di Chase sulla schiena mi fa apprezzare che lui sia lì. Le avrei già strappato lo scalpo.
La visita non può durare a lungo. Me lo sono ripetuta fino alle sei e mezza, incrociando dita delle mani, capelli, frange della tovaglia e qualunque cosa mi capitasse nelle mani. Ho sperato che mamma non fosse gentile da invitarle a mangiare lì e, grazie al cielo, hanno un impegno. Mamma e zia si stanno dicendo che devono sentirsi più spesso. È arrivata con due anni di ritardo.
Susan sorride a Chase, scostandosi i capelli dal viso. «Beh, spero di vederti in giro.»
   «Spero di no.» Replica il ragazzo, con il tono più amabile. Con disinvoltura, allunga la mano e scosta la manica del braccio destro. Lì, il segno è vivido come appena fatto. «Se fossi in te cercherei di nascondere il marchio.»
Susan arretra di un passo, coprendosi con la mano la ferita. L’arrivo provvidenziale della zia le impedisce di ribattere, mi mette tra le mani un centone, scusandosi per la maleducazione della figlia e chiedendomi di restituirlo alla mia amica. Cena per tutti! Annuisco seria, poi si chiudono la porta e io posso tirare un sospiro di sollievo. Intasco i soldi.
   «Chase, andiamo a prendere delle pizze. Mangi con noi?»
   «Veramente non vorrei … sì, grazie per l’offerta.» Il cipiglio riottoso di mamma si trasforma in un sorriso. Va a recuperare le borse in camera da letto, mentre io mi siedo sul divano con Chase. Edward è così vicino alla televisione che tra poco lui stesso salta al suo interno e si mette a fare come il mostriciattolo. A cosa sta giocando? L’unico che conosco è Super Mario, e mi sento troppo vecchia se glielo faccio presente.
Mi raggomitolo, prendendomi le ginocchia e stringendole al petto. «È passata.»
   «Mm.» Chase sta osservando la chiazza di sangue sul mio piede e, prima che riesca a nasconderlo, fa in modo che il mio arto gli sia in grembo. Sono rossa pomodoro. Mamma sta trafficando con la spesa, Edward gioca, quindi sono del tutto indifesa. Mi sfila il calzino, oddio che vergogna, e guarda il bendaggio ormai inzuppato. Il mio piede sembra tanto sofferente. Chase lo sfiora appena, lo muovo in un uno scatto doloroso, prima che con delicatezza mi rimetta il calzino. Glielo sfilo, recuperando ben poco della mia precedente dignità. «Jamar mi ha detto della tua temperatura.»
Non è carino parlare dei segreti altrui. Come un gufo, mamma compare dietro di me, puntando il telecomando. «Edward, basta. Hai giocato abbastanza.»
Dal gioco psichedelico si passa al telegiornale, con i brontolii di mio fratello. «Ma non ho salvato la partita!»
   «Basta. Da quando siamo tornati a casa non fai altro che stare davanti a quel marchingegno. Fila a lavarti le mani e prepara la tavola.»
Parte abbastanza contrariato. Sorrido, fissando prima mio fratello, poi Chase. Sta ascoltando seriamente il telegiornale. Parlano di certi disordini, in Lenape. È un quartiere che ultimamente fa concorrenza a Maiden Street. «Dobbiamo risolvere i problemi di quella zona.»
   «Spiriti?»
   «Spiriti.» Conferma lui. E dai casini, sono anche Caini.

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Capitolo 8
*** 8 ***


8
 
 
 
       A mamma ho detto che ho un appuntamento con Chase. Ho preso uno zaino con un cambio d’abiti. Spero di non averne bisogno, ma se ho ricominciato a peggiorare, sono più che convinta di essere in grado pure di auto-esorcizzarmi. Alzo una spalla e infilo pure una bottiglietta d’acqua. Non si può mai sapere.
Lo zaino è un po’ troppo gonfio. Me lo carico in spalla. Edward è andato dalla nonna, mamma ha delle commissioni, Lie sta gironzolando per casa. È un po’ agitato per tutta questa questione che i mortali lo possono vedere. Io sono solo preoccupata perché due della mia famiglia lo vedono.
   «Pronta?»
   «Direi di sì.» Segno tutto nella mia check-list mentale.
Lie si siede su una sedia. «Sicura che devo venire con te?»
   «Sono spiriti Caini, Lie. Sì, sono sicura. Non so quanti siano, ma se Chase ci ha mobilitati tutti, non mi aspetto una giornata tranquilla e rilassante.»
Riapro lo zaino, controllo se ho dimenticato qualcosa. Ho infilato dentro solo un maglioncino, vecchio almeno quanto quello che indosso. Non mi aspetto di imbrattare i pantaloni. O forse me lo aspetto, ma non trovo l’utilità di portarmi via peso ulteriore. Già così, anche se lo zaino è piccolo, in battaglia mi potrebbe essere d’impiccio. Mi rigiro il telefonino in mano, infilandolo in una delle tasche laterali. Anche quello è inutile. Se mi trovassi a fare un esorcismo e mamma mi chiamasse, mi dispiace per lei, ma non le risponderei.
Mi guardo in giro. Beh, l’unica speranza è di tornarci ancora lì. E con questo, direi che la mia dose di ottimismo si è persa. Chiudo la porta di casa, infilo le chiavi dentro alla tasca, così che se perdessi lo zaino sono a piedi di tutto. Ottimo.
Chase mi sta aspettando. Ha un paio di pantaloni vecchi e ha preferito lasciare a casa il giubbino. Fino a lì abbiamo avuto lo stesso pensiero. Ci aspettiamo tanto movimento da non sentire il bisogno di coprirci dal freddo. Sta guardando il telefonino, così mi avvicino di soppiatto. Non alza neppure lo sguardo. «Ciao Bel.»
   «Chase.»
   «Tutto bene?» Alza lo sguardo, come per controllare che non porti segni visibili di ferite notturne. Sono peggiorata, sì. Sono mentalmente instabile, sì. Glielo dico, no.
Mi sgranchisco le spalle. Lie si deve essere acquattato da qualche parte, preferendo uscire a battaglia incominciata. Tipico atteggiamento di vizio timido e doppiogiochista. «Sono pronta per la nostra gita a Lenape. Ho sempre sognato di andare in un quartiere malfamato, in mezzo alla guerriglia.»
Infila il cellulare nella tasca. Solo per quel sorriso la giornata merita di essere vissuta. «Sono contento che la prendi con tanta filosofia. Andiamo al nostro quarto appuntamento?»
Accordo il mio passo con il suo. «Quarto? No, aspetta un attimo, furbetto. Noi non abbiamo neppure avuto un terzo appuntamento. Se non sono mal informata, quando mi hai offerto la cioccolata calda non era un terzo appuntamento. Era solo un modo per recuperare il secondo. Su queste faccende non transigo.»
   «Capisco.» Abbozza appena un cenno con le labbra. «Quindi con Philippe? Era il primo appuntamento quello della scuola?»
I piedi si fermano, ma Chase continua a camminare. Non ho mai avuto appuntamenti con Philippe! Non l’ho neppure mai visto in quella maniera! Sul serio, l’esorcista della menzogna e quello dell’invidia sono una pessima accoppiata. Sempre. In battaglia, negli esorcismi e, sì, anche nella vita reale. «Io non sono mai uscita con Philippe. Quella sera dovevamo trovare un negromante, a scuola.» Sono costretta a correre per raggiungerlo. «Chase, dovevamo trovare un negromante!»
   «Siete voi due che non volete dire quello che è successo.»
   «Okay.» Un corno. La situazione è imbarazzante, anche perché devo difendermi da un qualcosa che non ho fatto. Beh, brutti stupidi, colpa vostra perché volevate fare l’evocazione. «Tu, però, non ti devi arrabbiare. Abbiamo fatto prendere loro paura, quindi dubito che ci riproveranno. Quella sera abbiamo trovato tre ragazzi che tentavano di fare l’evocazione di uno spirito di qualche genere. Nell’aula di Chimica.»
Chase stringe le labbra. Ne viene fuori qualcosa tipo «Brutto …». Scuote la testa. «Non è quello che ha detto Philippe.»
   «Beh … non so che ti ha detto Philippe, ma questa è la verità. Okay, ho appena metabolizzato che sono una che mente perennemente, ma fidati: non mento in questo. Io e Philippe: no! Assolutamente.»
   «Credo in te, diffido di lui. Tranquilla.»
   «Ahn.» Mi sfuggiva pure che tra Chase e Philippe non corresse buon sangue. Il ragazzo mi appoggia una mano sulla schiena, così da obbligarmi a camminare più velocemente e da farmi schizzare il cuore in gola. Sospira, come se gli costasse fatica. «Tanto lo verresti a sapere comunque. Ero convinto che te lo avesse già detto Philippe.»
Cosa? Sono curiosa. Chase si inumidisce le labbra. «Secondo Philippe, con me intorno tu non riesci ad esprimere al meglio le tue capacità. In tutti i sensi. Vorrebbe che stessi più lontano.»
   «E a lui cosa interessa?»
   «È innamorato di te.»
Fortunatamente Chase guida la mia camminata, perché mi sarei fermata a cercare di comprendere come mi fosse sfuggito. Sì, ho notato che c’era qualcosa che non andava in Philippe. Prima della nostra morte, le missioni che svolgevamo insieme erano state minime. Non lo appressavo per svariati motivi, ma non avrei mai detto che lo odiavo. Come già detto, invidia e menzogna sono una pessima accoppiata. Però anche solo il fatto che abbia tentato di proteggermi, incurante di tutto …. Chase ha il mento rigido, come se non gradisse il livello della nostra conversazione. «Lo è da … almeno seicento anni.»
Okay, sia come Dalila sia come Amabel faccio veramente schifo a interpretare i comportamenti altrui. Davvero. «Chase, io …»
   «Ne riparliamo in un altro momento.»
Non occorre. «No, a me non piace Philippe. A me …»
   «Finalmente siete arrivati.» Jamar imbocca la via, venendoci incontro. Vestiti vecchi, senza giubbino: nessuno, al momento, si aspetta una bella giornata. Mi accorgo che la mano di Chase si allontana dalla mia schiena, infilandosela in tasca. Non abbiamo ancora finito di parlare e, da un’occhiata che ci lanciamo, intuiamo che sarà un nostro prossimo argomento di conversazione.
Chase annuisce, superando Jamar. Mi viene lanciato una strizzata d’occhi e so che se in battaglia mi vengono strani istinti lussuriosi, spiriti Caini o positivi, io ammazzo Jamar.
 
                                                             † † †
 
            Lenape è, o era, un bel quartiere residenziale. Quello dove le persone vogliono prendere casa, perché non è tanto lontano dai negozi e dal caos del centro ma, allo stesso tempo, ha abbastanza a disposizione lì da essere esso stesso considerato una città. È ad un passo dalla comodità e, allo stesso tempo, è fuori dal caos. Mi accorgo che siamo entrati in zona guerriglia per due motivi: uno, siamo tutti e otto, e due, il piccolo market all’angolo è stato sfondato e i prodotti in svendita sono accartocciati a terra come i giochi di Edward.
La polizia ha indetto un coprifuoco ma, alzando lo sguardo, credo che gli abitanti si siano dati letteralmente alla fuga. Ha un aspetto molto post apocalittico. Schiocco un dito e Lie mi compare vicino, richiamato da chissà quale energia. Guardo Robert, sollevando un sopracciglio. A me è sempre piaciuto Sloth, perché non puoi veramente odiare uno che in battaglia, in una riunione o in qualsiasi situazione ti dica «stanco», raggomitolandosi come un bruco. Non puoi, perché ti fa tenerezza, anche se in cuor tuo sai che con Robert sei nella merda. La forma corporea di Sloth è quella, dopo la sua materializzazione corporea, di un uomo di una certa età, obeso, con le gambe e le braccia così grosse che il mio bacino ne può contenere solo uno. Vicino al suo esorcista, sembra decisamente un orso con il suo piccolo. Una coppia che non ti faranno mai paura. Oh, che parlo a fare? Il mio vizio è un bambino!
Chase controlla un negozio di elettrodomestici, dove l’unico televisore funzionante sta trasmettendo un servizio sulla zona in cui ci troviamo. Spero che non ci siano giornalisti appostati in qualche angolo, perché è dura spiegare che ci facciamo lì. Le immagini sono vecchie: mostrano un quartiere ancora florido, probabilmente nello stesso periodo dell’anno prima. Al momento, non vedo nessun preparativo per le feste natalizie. «Bene. Dividiamoci e perlustriamo la zona.»
   «Warren, con me.» Dico velocemente. Mi trovo addosso lo sguardo sia di Philippe sia di Chase: al primo dico vaffanculo, al secondo idiota. Non sarò stata limpida come l’acqua, ma un po’ di intuito dovrebbe averlo, no? Si vede lontano un miglio che sono innamorata di quell’idiota del nostro capo! E prima di tutto devo mettere in chiaro che non provo nulla per Philippe. Con entrambi, a quanto sembra. Sospiro, incamminandomi con Lie e Warren. Sono la prima del nostro micro-gruppo per la maggior esperienza e, anche, perché sono l’unica che non si comporta come un pesce fuor d’acqua.
   «Non mi voglio intromettere, ma c’è stato un momento un po’ di gelo.»
   «Appunto: non intrometterti.» Calcio una vetrina con il vetro già frantumato in parte, sporgendomi per entrare. L’aria puzza di una strana elettricità, ma non sembra quella degli spiriti. Non ci metterei la mano sul fuoco, ovviamente. E neppure quella dei negromanti. Entro, facendo attenzione a non ferirmi. Warren, alle mie spalle, si dilunga in un’imprecazione perché non ho aperto di più la vetrina. Gli è probabilmente sfuggito che sono molto più piccola di lui. Forse era un centro estetico, o un parrucchiere. Ci sono delle poltroncine, ma non gli specchi. O se c’erano sono stati distrutti.
Una pianta è stata rovesciata a terra. Qualche anima di buon cuore deve aver colto l’occasione per sgraffignare l’incasso, perché le impronte sul terriccio sono abbastanza esaustive. Warren borbotta. «Ecco. Siamo arrivati tardi. Cassa vuota.»
Guardo il soffitto, ma a parte pezzi di muro pericolanti è tutto al sicuro. «Warren, ti sfugge un piccolo particolare. Noi qui siamo i buoni.»
Scosto da un tavolo delle riviste. Sono state messe troppo in ordine. È, di fatto, l’unica premura che si sono lasciati dietro. Mi sistemo lo zaino sulle spalle, guardando dietro di me. Warren sta controllando nello sgabuzzino, Lie è fuori e si guarda tranquillamente la suola delle scarpe. Avarice neppure si degna di comparire. Niente farebbe presupporre un qualche pericolo imminente. Ho preso le riviste e le sto guardando, quando il mio occhio cade sul tavolo. Con qualcosa di rosso, sangue?, è stata segnata una grande ics. «Warren, Marco sa che siamo qui?»
Perché mi è venuto in mente in un momento del genere? Lo sento grugnire. «No. O sì? So solo che Marco ha parlato di Lenape con Chase. È anche per quello che ieri abbiamo perlustrato la zona.»
Ecco perché l’odore. «Esci da qui. È una trappola.»
Lascio le riviste e un colpo al ventre mi fa sbalzare oltre la porta, sfiorando con il polpaccio quello che deve essere il vetro infranto. Cado nell’asfalto con la schiena e, anche con lo zaino, sento la bottiglietta d’acqua infilarsi nei reni. È una trappola. Mi metto a carponi tremante. Dannazione, è una trappola. Sanno che siamo qui, sapevano che seguendo quello strano odore io sarei entrata a controllare. Urlo. «Warren.»
Il ragazzo si butta a terra, a una decina di centimetri da me, evitando per un soffio un tavolo sopra la sua testa. Dannazione. Jamar e Julia arrivano di corsa in nostro soccorso, richiamati dal mio urlo. Sto cercando di mettermi in piedi, Warren mi tira su con un solo braccio. Bene. Ho già rotto una manica e dobbiamo ancora iniziare. Julia ha gli occhi sbarrati. «Cosa?»
   «È una trappola.» Mi tolgo lo zaino, lanciandolo a Lie. Come nelle migliori aspettative, l’oggetto gli passa attraverso e riesce a prenderlo solo al terzo tentativo. Mi pulisco la bocca con il dorso della mano. «Sanno che siamo qui. Non dobbiamo entrare dentro gli edifici.»
   «Cazzo.» Jamar scatta, probabilmente ad avvisare anche gli altri. Non sono l’unica che ha sentito quello strano odore e ad esserne attratta.
Dal negozio c’è un movimento, un tintinnio di uno spirito. L’odore serviva a mascherare la loro presenza. Dove cavolo la vendono l’essenza-maschera-spiriti? È un ragazzino, poco più giovane di me e Julia, sorridente. In condizioni normali, gli avrei stretto la mano e saremmo stati amici. Lì, tutto ci è avverso. Anche il suo sorriso flemmatico, la sua postura pacata: lui è un nostro nemico. Warren biascica. «È un quarto, vero?»
   «Settimo.»
Già quello preannuncia che siamo messi male, perché Lie non dice nulla solo perché gli sei simpatico e tu lo chiedi. Nulla. Meno che mai ad altri. Deglutisco e comprendo la situazione meglio di quanto vorrei. «Andate ad aiutare gli altri.»
   «È un settimo.» Dice Julia, come se quello mi facesse cambiare idea.
Scandisco meglio le parole. «Andate. A. aiutare. Gli. Altri. Ora.»
Warren scatta dietro a Jamar e, dopo un po’ di titubanza, anche Julia. Il ragazzino esce con calma dal negozio. Passa attraverso il vetro, il che è un’ingiustizia, visto che mi sono pure graffiata, e non distoglie gli occhi da me. «Dalila? Un piano sarebbe l’ideale.»
Io non ho mai piani. Sono istinto e Lie questo lo deve sapere. È per quello che le prendo sempre. Mi avvento sul ragazzino. Ci sono pochi fatti positivi, in uno spirito Caino, settimo livello incluso, ma il fatto che siano corporei per noi è molto vantaggioso. Gli mollo un pugno, rompendomi il polso nel contraccolpo e lasciandolo praticamente indenne. Con qualche mossa forzata riesco ad agganciare le mie gambe intorno al collo dello spirito e, usando il polso dolorante e l’arto sano, lo getto a terra sotto di me. Devo guardare più spesso mio fratello giocare ai combattimenti al computer, perché sono fantastica a fare le sforbiciate. Così, sotto di me, il ragazzino continua a sorridermi. Ancora per poco. Metto le mani a formare un triangolo. «Settimo esorcismo: imposizione.»
Gli sono così vicino che non vedo neppure il colore delle catene. Vanno direttamente al suo interno, ma il suo ghigno non si estingue. L’esorcismo è vuoto, come un guscio a cui a me non è concesso accedere. Non è normale. Devo avere una visione, un pensiero di qualche genere. Io devo sapere chi è il ragazzino davanti per poterlo far ascendere, per quanto questo legame forzato mi infastidisca. Mi piego in avanti, per proteggermi. Sento una chiazza che si espande nel petto e delle ustioni salirmi lungo la gamba. Dannazione. Anche per me, quella è una reazione troppo esagerata per un esorcismo di quel tipo. La collana al collo sembra sfrigolare a contatto con la mia pelle nuda. Il ragazzino mi sorride, i suoi occhi delle perle nere. Non lo sto esorcizzando. Eppure tutto mi fa dire di sì.
Non scompare, non ascende e io sono sopra di lui, con il mio stesso esorcismo che mi arroventa le gambe. Hanno fatto qualcosa, lo so, per cui non posso esorcizzarlo in modo normale. Lascio la mano sinistra in quella posizione, a formare un lato e mezzo del triangolo. Non so in che modo ma riesco a mantenere l’esorcismo, mettendo la mano destra sul volto dello spirito. Sento il suo gelo, la sua forza e la rigidità delle sue membra. Copro con la mano quel volto, nascondendomi il sorriso. Bisbiglio. «Sangue dei Serafini.»
E non so in che modo, con quale forza e neppure a che prezzo, attivo parte del nono esorcismo. Sboccia come un coltello arroventato nel mio petto, mi dilania ma posso vedere lo spirito ascendere in un urlo sempre più alto. Senza visioni, senza redenzione. Crollo a terra, stringendomi le braccia al petto. Oddio. Sento Lie che si avvicina. Spero che sia lui, perché non riesco a muovermi. Lo stesso dolore che provo di notte, le stesse scottature che mi fanno gemere di giorno. Rimango ferma, in attesa che tutto taccia. In attesa di poter morire, perché il dolore è insopportabile. «Dalila.»
Devo alzarmi, devo combattere. Come in un lungo tunnel riesco a emergere, dapprima con il sedere. Striscio come un serpente, finché ho solo le spalle a terra. Sto ansimando e non sono ancora in piedi. Faccio perno le braccia per allontanare il terreno da davanti, un getto di sangue che proviene da non so dove macchia l’asfalto. Alzati, stupida. Andiamo.
Mantengo per qualche secondo la posizione inginocchiata, traballante come un filo sospinto dal vento. Di nuovo, cerco di raggiungere il cielo e mi ritrovo in piedi. Sanguinante, dolorante, ma in piedi. Mi incammino verso gli altri, prima zoppicando, poi imprecando a ogni falciata che colpisce il terreno. Corri. Corri.
Non devo né guardare né tanto meno pensare alle mie ferite. Uno, non mi aiuta. Semmai perdo la concentrazione. E due, non mi serve a nulla. Non è che se le guardo queste magicamente scompaiono.
Vedo Robert usare la Falce contro uno spirito, spero contro un quarto livello, quando vengo sbalzata lontano dal terreno. Atterro su qualcosa di più morbido dell’asfalto. E anche più sboccato. «Eliza!»
Mi appoggia una mano sulla testa, abbassandomi verso il suo petto. Un’altra serie di innovative imprecazioni le escono dalle labbra. Qualcosa ci passa sopra alle teste. Okay. Sono stata salvata da qualcosa che volava e non mi sarebbe piaciuto colpire. La ragazza si alza in piedi, aiutandomi. «Tutto bene? Sei …»
La sua espressione non è delle migliori, quindi abbozzo un sorriso. «Fantastica come sempre. Lo so. Un veloce ragguaglio.»
   «Siamo nella merda.» Domanda stupida la mia, risposta un po’ troppo vaga la sua. Mi ritrovo ad annuire, facendole cenno di andare. Non abbiamo tempo di pensare a inezie su come siamo messi. Uno spirito mi attacca, scivolo di lato ed evito per un soffio la sua coda. Senza tanti giri di parole posso dire che è un sesto livello, un bel toro più grosso di me. Allungo la mano e la stringo su Lie. Siamo davvero nella merda, se mi è appresso ad ogni passo. La Falce si materializza tra le mie mani, faccio una breve torsione con le spalle e colpisco il muso di quello spirito. Una ferita gli si apre, obbligandolo a grugnire e a cacciare via il sangue color pece. Lascio Lie in tempo per mollare una ginocchiata sotto al grugno. Perdo probabilmente la rotula. Una chiazza di nero mi macchia i pantaloni, gli scivolo sotto per evitare uno dei corni. Apro le braccia sotto al suo ventre. Anche se in ginocchio, il freddo del suo corpo mi sfiora appena i capelli. «Sesto esorcismo: profondità del ricordo.»
Passivamente mi trovo a subire i ricordi altrui. Sono costretta a seguire l’onda, ma temo di perdermi. Sono stanca e, davvero, quella passività per quanto dolorosa mi fa solo ringraziare di potermi riposare, anche se per poco. Alzo un ginocchio e mi spingo di lato, in modo che l’ascensione dello spirito metta fine al nostro combattimento e mi permetta di averne un altro.
Sento un urlo, giro appena la testa per vedere Chase, a una trentina di metri da me, arrancare piano, facendo ascendere lo spirito. Si piega in avanti, vomitando un getto di sangue.

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Capitolo 9
*** 9 ***


9
 
 
 
      Chase …. «Bel!»
 Warren sta soccombendo sotto una serie di colpi da parte di quello che deve essere un quinto livello. Di norma non mi preoccuperei per lui, ma non si può spostare, perché sta usando il suo stesso corpo per proteggere quello di Jamar. C’è una scaletta delle priorità e, stringendo i denti, so che anche Chase vorrebbe che mi comportassi così. Il quinto livello è uno spirito nero e corrotto, senza volto e con le estremità gelide e sinuose. L’ho provato a mie spese e so quanto male può fare essere colpiti. Warren non si oppone, guardando con un occhio Jamar che tenta di alzarsi. Qualcosa non va alle sue gambe, perché una è ... dannazione.
Mi avvento su Jamar, tirandolo per un braccio. Uno spirito, la cui mano attraversa l’asfalto, gli ha agganciato la gamba e gli strappa la pelle per impedire una sua fuga. Non urla, ma decisamente non trova la questione divertente. Tuttavia, capisco anche il silenzio di Jamar. Qualcosa di diverso da un avvertimento ci farebbe perdere la concentrazione. Lo sento stringere i denti, nel tentativo di reprimere i gemiti, mentre una mano è agganciata alla sua Falce.
Non ce la faremo. La verità mi colpisce con forza. Non abbiamo speranze. Lie è di nuovo al mio fianco perché la speranza sta vacillando. È una fiamma così flebile che basta un nulla per spegnerla. E i miei pensieri la stanno distruggendo. «Dalila, l’ottavo esorcismo.»
Il mio corpo non reggerà. La mia mente lo sa. Però, indipendentemente da tutto, io mi fido di loro. Credo in ognuno degli esorcisti, nella nostra forza, nella nostra unione. Lo credo anche se siamo messi così male che nessuno punterebbe un centesimo. Io punto tutto su di noi.
Mi inginocchio vicino a Jamar. Sento i suoi occhi fissi sul mio volto, il mio respiro che cerca la quiete. Farà male. Già in condizioni ottimali, in passato, era doloroso. «Muoviti.»
Strisciando, arretra di un paio di metri, trascinando con lui quello spirito recalcitrante. Non a sufficienza. Appoggio le mani per terra, sentendo le piccole scosse dei combattimenti. Chiudo gli occhi. «Warren, spostati.»
E lo so che mi ubbidisce. Lo so perché abbiamo imparato a conoscerci. Nelle assurdità, ci fidiamo. Abbasso la testa, sempre con gli occhi chiusi, perché è indifferente vedere la situazione o sapere se lo spirito mi attacca o meno. Non importa. Quando sono pronta, che sia in mezzo a un combattimento o in fin di vita, sono pronta. Lie mi appoggia una mano alla spalla. È il segnale. «Ottavo esorcismo: spirale del Cherubino.»
Mi trovo immersa nell’occhio del ciclone. Anche con gli occhi chiusi sento l’increspare del vento e i capelli che mi si sciolgono dalla coda. Li sento frustrarmi il collo, librarsi nell’aria e poi apro gli occhi. È inevitabile, perché devi vedere quello che succede. È nella mia natura. Le catene sono mescolate con il mio stesso sangue, in una spirale eterna di sangue e ferro che vortica intorno a me, esorcizzando qualunque spirito sia nelle vicinanze. Il mio vizio è vicino perché sto consumando tutta l’energia che ho in corpo. E anche qualcos’altro. Alla fine vedrò quanto mi sono lasciata indietro.
Le ustioni mi salgono lungo le gambe, solleticano l’inguine e, di nuovo, si arrampicano. E poi sembrano calmarsi, o il dolore che arriva al ventre mi fa dimenticare tutto il resto. La testa mi scoppia, troppe informazioni, una miriade di pensieri si accavallano nella mente, di spiriti arrabbiati, stanchi o semplicemente presenti.
Poi calma. La calma prima della tempesta, quando sai che hai raggiunto il massimo. E non è vero. Perché di nuovo ritorna tutto: il mio corpo, la mia mente, la speranza in un domani e il dolore. Quello fa male. L’ottavo esorcismo è quello più ostico per noi, non perché un ottavo livello è difficile da sconfiggere. In fin dei conti, adesso come adesso lo apprezzerei. L’ottavo e il nono esorcismo sono quelli più odiosi perché permettono di esorcizzare molti spiriti contemporaneamente. Io sto esorcizzando Lenape, con tutto quello che ne deriva. Dolore, rancore e sì, anche memorie di spiriti che ci odiano.
Crollo nel terreno e bacio l’asfalto. Lie è vicino, inginocchiato. Non parla perché sa che non saprei rispondere. Un minuto. Un minuto per pensare che sono viva, per ricordare i limiti della mia mente. Ho esorcizzato parecchi spiriti e il mio corpo ne porta i segni. Inevitabile. Apro gli occhi e vedo i frammenti grigi. Piccoli sassolini sembrano staccarsi e avere vita loro. Warren si sta alzando in piedi a fatica, ma tutto sommato sembra stare bene. Riesco a girare la testa. Sospiro. Anche gli altri si stanno rialzando, scombussolati. Siamo vivi. È una verità che non posso ignorare.
Mi muovo a disagio e mi metto a sedere. Con un’altra vincita contro la mia forza di volontà, mi alzo in piedi. Sono più o meno ferita. Ho smesso di contare da dove perdo sangue e con quanta intensità. Sento freddo e caldo. Ancora non so come mi reggo in piedi, se non che le catene sembrano circondarmi, di nuovo. Non le vedo, quindi so che è solo una mia impressione, ma non ne posso fare a meno. Ho combattuto come avevo fatto di rado. Tossisco e un getto di sangue colora il terreno davanti a me. Porcamerda. Le ferite si sono estese fino al bacino. Le sento solleticare la base dei polmoni. Mi sembra di respirare il mio stesso sangue. Accenno un passo. Chase … Chase! Dopo aver visto che lo colpivano, l’ho accantonato in un angolo della mente. Di nuovo, come in passato, non posso farne a meno. Inizio a camminare, arrancando con fatica, alla sua ricerca. Titus che si alza in piedi, Chase che si fida di me, Titus dopo il nono esorcismo, Chase durante gli appuntamenti. Ho la mente completamente in confusione, presente e passato si mescolano.
Lo vedo, disteso a terra mentre tenta di alzarsi. Sono al suo fianco. Nel petto, una chiazza rossastra si sta aprendo a fiore sulla maglia verde. Non riesco a distogliere gli occhi. È una brutta ferita. È una ferita maledetta? Temo di sì. Come lo spirito che non potevo esorcizzare, anche quella ferita è stata inferta allo scopo di bloccarci. Appoggio la mano al suo petto, sentendo il battito del suo cuore. Un piccolo uccellino che tenta disperatamente di uscire dalla gabbia di un corpo mortale. Sta ansimando e respira a fatica. «Stai fermo.»
   «Dobbiamo …»
   «Abbiamo cacciato gli spiriti.» Mi odio: sto parlando a bassa voce come fossi al suo capezzale. Inghiotto di nuovo del sangue che mi è uscito da un nuovo colpo di tosse. «Ora pensa a rimetterti.»
Si abbandona sul terreno. Non è da lui quel segno di debolezza, non è da lui lasciar trasparire la sua vera essenza. Sorride. «Sono messo male?»
   «Ti ho visto messo peggio.»
   «Per piacere, …» Alza una mano, sfiorandomi la guancia. Socchiude gli occhi, come se avesse incontrato qualche traccia di sangue anche in me. O qualcos’altro. Se non è sangue, forse sono lacrime. «… smettila di piangere. Sei tu l’esorcista con maggiore esperienza.»
Non mi sono neppure accorta di singhiozzare. Scuoto la testa. «Dannazione, Chase, non dirlo neppure per scherzo.» Sta ansimando e, lo so, io lì non posso fare nulla per lui. Urlo. «Chiamate l’ambulanza! Chiamatela subito!»
Warren mi fissa inebetito. Sto ringhiando e se non avessi paura di lasciare la presa, avrei colpito qualcuno. «Vi ho dato un ordine!»
Si risveglia, incamminandosi con il cellulare. Continuo a premere con la mano sulla sua ferita. Non so che fare. Ho sedici anni e non mi hanno mai spiegato che fare in una situazione del genere. Peggio. Sono messa anch’io male da non sapere quanta forza sto imprimendo e se è abbastanza per lui. Chiedere al sangue di tornare all’interno del suo corpo, per quanto è quello che mentalmente sto già facendo, non sembra utile. «Mi chiedo … mi chiedo perché noi non ci abbiamo mai provato.» Sorride. Come diavolo fa? In una situazione del genere, perché Chase sorride? «Noi due. Non ricordo perché io e te non siamo mai stati insieme.»
Sto singhiozzando e non faccio neppure più finta di trattenerle. «Ti pare il momento di parlarne?»
   «Io non ho nulla da fare.»
Tiro su con il naso. «Noi … in passato era vietato, no? Dovevamo essere … essere puri, avevamo una vita di … di privazioni. Ti … ti ricordi la nostra promessa? Quando la guerra sarebbe finita potevamo avere un futuro. E oggi … non ne ho la più pallida idea. Forse perché … perché io sono una stronza bugiarda. Non lo so perché.»
Abbozza un sorriso, mentre il mio cuore piano piano va in frantumi. Spero di morire prima di lui. Non voglio rimanere sola. La fiamma della speranza si sta estinguendo. Di nuovo. Almeno questo: Dio, non farlo morire prima di me. Ti prego. Se hai un po’ di pietà per noi, non farlo morire prima di me. «Bella coppia: la bugiarda e l’arrogante.»
Sto premendo forte al suo petto, e nonostante tutto il sangue esce peggio di un fiume. Ho le mani imbrattate, sto tremando, combatto con le vampate di calore e non posso in alcun modo allontanarmi. Sono certa che la vita di Chase dipende dalle mie dita. Se lo lasciassi, sarebbe la fine. Stringo le labbra, perché ci sono tante cose da dire e ognuna di quelle non rende giustizia. Non gli sto dicendo addio. Devo sforzarmi di credere che andrà tutto bene.
Appoggia la mano sul mio collo, passando un dito sulle guance. «Devi prendere in mano l’Ordine. Ti ascolteranno. Si fidano di te almeno quanto in passato si fidavano di Dalila.»
   «Sei tu il capo.»
   «Non ho il tempo né la forza per consolarti, Amabel, quindi sta zitta e ubbidisci. Non devi permettere a Marco di entrarti in testa. Devi trovare l’Inquisitore. E devi prendere in mano l’Ordine, devi proteggerli come avresti fatto in passato. Non importa se non ti senti sicura: so che farai il loro bene.»
Chiudo gli occhi. Mi bruciano e sono presa da singhiozzi. «Chase, io …»
   «Non mi stai lasciando andare. E non è colpa tua. Mi pento solo di una cosa. In tutto questo tempo, io … non ti ho mai baciato.» La sua voce flebile, ansima ormai per ogni parola.
Apro gli occhi per vedere che sorride. Tanto le mani sono coperte di sangue, tanto il suo volto perde colore. Le sue labbra, ormai, sono quasi blu. Tirando su con il naso, appoggio dolcemente le mie sulle sue, per staccarmi quasi subito. Lui abbozza un sorriso. «Un bacio deludente.»
   «Ti bacerò come si deve quando ti rimetterai in piedi.» Appoggio la testa alla sua spalla. «Ho avuto seicento anni per amarti, non pensare che ti lascerò qui.»
   «Lo hai detto.» Sbuffa piano, la sua mano scende dal mio volto e accarezza la mia, ancora appoggiata al suo petto. Guardo Warren, che sta ancora chiamando. Perché non si sbriga? I suoi occhi, però, sono consapevoli della verità. Ritorno a fissare Chase, così vicino al mio viso da poter sfiorare la guancia con la punta del naso. Ogni attimo che non incrocio i suoi occhi mi sembra un secolo passato lontano da lui. «Mi piacerebbe rinascere uomo. Io uomo e tu donna. Senza … senza esorcismi, senza reincarnazioni, senza passato. Solo io e te. Avrei … avrei dovuto non odiarti, in quegli appuntamenti. Tu hai sempre creduto in me.»
   «Chase, abbiamo altro tempo per stare insieme. Usciremo e … e avrai tutto il tempo per criticare il fatto che sono una stupida sociopatica bugiarda, mentre tu uno psicopatico arrogante. Abbiamo una vita, davanti. È solo una ferita. Dall’uomo in grado di attivare il nono esorcismo mi aspetto molto di più.»
Gira appena la testa, quel movimento lo ha prosciugato della sua energia. Sta boccheggiando e mi rendo conto che lo sto perdendo. Di nuovo, l’uomo che amo sta scappando da me e non ho la forza di tenerlo al mio fianco. «Loro si fideranno di te. Devi proteggerli.»
Riesco ad annuire, le sue labbra secche sfiorano la mia fronte. Mi sento singhiozzare forte. Io non piango. Non è da me mostrare la debolezza e di certo non posso farlo davanti a lui. Eppure è davanti a lui che sto mostrando quanto sono umana, quanto il suo dolore lacera la mia anima. Mi sollevo un poco, appoggiando di nuovo le mie labbra alla sua bocca. Lo sento sorridere, prima che la sua mano abbandoni la sicurezza della mia e si appoggi al mio collo.
   «Chase.» Lo scuoto un poco. La presenza massiccia di Warren al mio fianco è rassicurante. Tiro su con il naso, appoggiando la mano insanguinata al suo volto, dove l’ultimo eco del sorriso non si è estinto. «Chase.»
   «Amabel.» Una voce mi chiama alle mie spalle.
No. Una mano mi solleva, allontanandomi da lui. Non voglio. Cerco di mantenere il contatto con il suo petto, anche se non si abbassa. È importante che prema sulla ferita. È importante. Devi essere forte, mi ha detto. Come posso, quando tutto il mio mondo è andato in frantumi? Quando Mary mi ha lasciato, e prima di lei suo fratello mi ha costretto a fare qualcosa che ancora mi pento? Chase, apri gli occhi. Per me. Ti prego. «Bel, saranno qui a momenti.»
Non mi importa. Perché dovrebbe interessarmi? È tutto finito. Il tempo sta scadendo, i miei giorni sono quasi finiti. L’uomo che amo sta guardando il cielo, immobile. Volto appena la testa, per vedere Robert piegato in due, che piange. È un dolore sincero, vorrei poterlo esprimere così. I miei occhi sono umidi, mi bruciano, mi fa male la gola e al petto è stato distrutto qualcosa. Le lacrime si sono seccate sulle guance. No. Non posso mostrarmi debole. Devo essere forte anche quando tutto quanto mi dice che è stupido. È inutile.
Philippe si avvicina e, prima che possa respingerlo, mi abbraccia. È così facile essere abbracciata da una persona che sai volerti bene. È piacevole, anche se sai che non provi quel suo stesso sentimento. È egoistico, perché io sto piangendo per un altro ragazzo. Dovrei essere forte. No. Lo devo essere.
È vero, io sto morendo. Ma se mi fermo, non è la mia vita che butto al vento. È la loro. Mi allontano da Philippe con dolcezza e, allo stesso tempo, con decisione. Deglutisco e cerco di cacciare dentro, ancora per un poco, il dolore. Allungo la mano verso il terreno, bisbiglio al vento. «Lie.»
La sua piccola mano si congiunge alla mia, sono ferita anche alle braccia perché la punta della Falce si conficca a tradimento nel terreno.

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Capitolo 10
*** 10 ***


10
 
 
 
         Warren arretra di un passo. Impugno l’arma con entrambe le mani, la estraggo usando buona parte della mia forza e la Falce infrange il finestrino dell’auto più vicina. I pezzi di vetro si distribuiscono sui sedili. Alcuni mi colpiscono alla mano. La infilo sanguinante all’interno, aprendo la portiera. Di nuovo la Falce mi si conficca a terra. Indico Warren. «Tu, guida la macchina e portali a casa. Eliza, con me.»
Mi avvicino a un’altra macchina e, con la stessa disinvoltura, infrango il vetro. Lascio la Falce e Lie ritorna alla sua forma umana. Non ho il coraggio di guardarlo, perché lui sa cosa sto provando. Lo sta vivendo a sue spese per la condivisione delle nostre menti. Lo vive, anche se ignora la profondità di un sentimento mortale. Apro la portiera dei sedili posteriori, vado da Robert e, con l’aiuto di Philippe, ce lo trasciniamo in auto. Agguanto il mio zaino, abbandonato ai piedi di un lampione, e partiamo dietro a Warren.
Robert sta singhiozzando. Incrociamo l’ambulanza accorrere dalla corsia inversa, i capelli che danzano al freddo di novembre. Mi obbligo a non pensare. Quando sarò sola, a casa, allora potrò compiangermi. Lì, con loro, sono solo un capo dell’Ordine che … no. Mi guardo gli abiti. Sono inzuppati di sangue mio e di Chase. Stringendo i denti, mi sfilo prima la maglia e poi la canottiera. Il reggiseno sta reggendo tipo un litro di liquidi. Come immaginavo, le ferite sono peggiorate. Le ustioni hanno raggiunto il ventre, con due linee color carne viva. Sto spurgando sangue misto acqua. Cerco di tamponare le ferite. Eliza distoglie la sua attenzione dalla strada. «Per Dio, Bel! Devi andare in ospedale!»
   «Dobbiamo portare Robert a casa.» Il mio tono è pacato. Eliza stringe le labbra e le nocche diventano bianche a contatto con il volante. Non gli va bene. Il problema è solo suo.
Cerco di pulire il sangue, ma sotto al primo strato ne trovo altro, e altro, fino ad arrivare alla mia pelle che continua a sanguinare. Con un rantolo apro il cruscotto. Trovo l’assicurazione dell’auto, delle gomme da masticare, un paio di occhiali da sole e un pacchetto di cerotti. Bene. Prendo la scatola e, aprendola, scopro che è stata usata come rifugio sicuro per tre quadratini. Ne tiro fuori uno, rigirandomelo perplessa tra le mani. «Preservativo.» Mi illumina Philippe.
A meno che non usi i profilattici come lacci emostatici, no grazie, non c’è nulla di utile. Calcio il cassetto, che si chiude uggiolando. Prendo dei pacchetti di fazzoletti, infilandomeli dentro alla carne. Si inzuppano subito. La canottiera, che in ogni modo arrivata a casa butterei via, me la annodo intorno alla vita. Apro lo zaino ai miei piedi. Prendo il maglioncino e la bottiglietta d’acqua esce dispettosa. La prendo.
Fisso nuovamente Robert. È di nuovo preso da una crisi di pianto silenzioso. Le sue labbra sono secche. Stiamo morendo, ma non li lascerò crepare a causa della mia debolezza. Passo l’acqua a Philippe. «Fallo bere.»
Dallo specchietto vedo Philippe passare un braccio intorno alle spalle di Robert. Vedo il ragazzino tentare di dibattersi, ma con l’altra mano Philippe gli apre la bocca e gli butta l’acqua direttamente in gola. Nessun riguardo, nessuna richiesta. Siamo troppo feriti per lasciare indietro qualcun altro dei nostri.
Mi infilo la maglia, tremando di freddo. Macchio anche quella, ma niente in confronto a come ero messa prima. Mi guardo allo specchio. Sono pallida e esangue. Ho chiazze di sangue in volto e sul collo. Con dei fazzoletti tiro via il di più. Philippe ha smesso di dar da bere e Robert, che tossisce per prendere fiato. «Bevi anche tu.»
Ubbidiente esaudisce l’ordine. Mi arriva la bottiglia con meno di metà dell’acqua. La passo a Eliza. «Finiscila.»
Mi lancia un’occhiata veloce. So che ha guardato le mie labbra, e so che sono secche. Lo so perché le sento tirare, perché mi brucia la gola e mostro tutti i segni della disidratazione. Ancora, però, sono lucida. Si mordicchia il labbro inferiore, tornando alla guida e prendendo la bottiglia d’acqua. Anche lei mi ascolta, e mi ritorna in mano una confezione vuota. Butto la maglia lurida dentro lo zaino, controllando il cellulare. Nessuno mi ha chiamato. Non vedo più la macchina di Warren, quindi li sta portando a casa. E non ci devono essere problemi di alcun genere. “Devi prendere in mano l’Ordine.”
Come diavolo gli è venuto in mente? Non sono in grado di prendere nessun tipo di decisione. Lui è il capo. È per questo che sono stata uccisa per prima, no? In effetti no. Sono stata uccisa per prima solo perché posso intuire le menzogne. E Johannes ne doveva dire a vagonate.
Mi porto una mano agli occhi. Sono umidi e non posso piangere. Anche solo trattenere i gemiti di dolore è una sfida ardua. Con un colpo all’autoradio l’accendo, alzando la musica al massimo. Le note di una vecchia canzone romantica mi permettono di imprecare sottovoce, nel tentativo di trovare una posizione più confortevole. E tiro su con il naso. Sembra che il mio tentativo di far passare la cosa inosservata vada al diavolo, perché sento la mano di Philippe appoggiata alla mia spalla. Ho permesso che Chase morisse.
La musica non aiuta. Parla di due che si lasciano. Un po’ come continuare a darsi mazzate in testa e chiedersi perché si sta così male.
Eliza rallenta. Guardo dallo specchietto una di quelle enormi ville, da grandi industriali. Due cani stanno inseguendo la macchina, abbaiandoci. Si ferma davanti al cancello. Il piccolo Robert è figlio di ricchi. Scendo dall’auto, aiuto Philippe e trascinare fuori Robert. Lancio un’occhiata ai ragazzi. Fisicamente sembrano stare bene. «Sbarazzati della macchina. Poi vai a casa.»
Eliza annuisce, partendo con una sgommata. Philippe si prende in spalla Robert. Non ha ferite visibili, ma non ho la certezza che qualcosa non sia stato distrutto. Mi ritrovo in tasca la forcina di Eliza, mai restituita da quella notte. Direi che, una volta tornata a casa, i pantaloni li devo buttare. Riesco a far scattare la serratura, alzo una mano per rabbonire i cani ma inutilmente. Mi si avventano e leccano le mani insanguinate. Direi che sono ottimi animali da compagnia e pessimi cani da guardia.
Socchiudo il cancello, dirigendomi verso la porta d’ingresso. Sarà un bel problema spiegare ai suoi come mai ci trasciniamo il figlio a peso morto. Entriamo in casa. Tutto è silenzioso. L’orologio a cucù vicino alle scale fa un baccano indecente, ma tutto il resto tace. Mi sembra di entrare in una situazione familiare simile. Nessuno mi aspetta a casa. Nessuno aspetta Robert. Sì, nessuno aspetta neppure gli altri esorcisti. Siamo vivi, in eterno lontani dal mondo dei mortali.
Mi guardo a destra e a sinistra. In una casa del genere dovrebbero mettere dei segnali stradali. «Dov’è il bagno?»
Philippe è già stato lì, perché sale le scale con noncuranza. Zoppica un po’. Anche lui è ferito. Mi avvicino a lui, per dividere il peso del nostro compagno, ma scuote la testa. «Ho solo dei graffi.»
Credo che insistere significhi infrangere il suo ego maschile. Ci rimane poco, dopo.
Al piano di sopra va a destra, poi di nuovo a destra, dentro alla prima stanza. Il mio appartamento entra per metà nella camera da letto di Robert. L’altra metà viene fagocitata dal bagno privato. Lo appoggiamo nelle piastrelle color verde acqua. Scavalco con difficoltà il tappeto, anche quello verde, per avvicinarmi o a una piccola vasca strana o a un’enorme doccia. Mi trovo dei pulsanti. Dove sono i semplici acqua calda e fredda? Premo a caso qualcosa, finché un getto bollente mi colpisce il braccio. Premo altri pulsanti, finché riesco ad attivare non volendo l’acqua alle pareti e diventa a una temperatura sostenibile.
Philippe mi fissa dal basso verso l’alto. Sospiro e mi inginocchio vicino a lui. Dapprima tocco appena il volto di Robert, poi gli mollo una sberla. «Ahia.»
   «Stammi a sentire.» Gli occhi di Robert sono sbarrati, si massaggia la guancia rossastra, dove un mio dito inizia già a delinearsi. Le labbra gli tremano appena. «Tu ora entri in doccia, ti lavi e la smetti di compiangerti. La smetti. La prossima volta che ti vedo, pretendo da te un atteggiamento più da esorcista che da mortale.»
Annuisce, si sfila la maglia e io mi ritiro dal bagno. Non voglio vedere il suo corpo torturato. Dio, non voglio vedere il corpo distrutto di nessuno di loro. Mi sorreggo con una mano alla porta, deglutendo. Philippe mi segue, chiudendo la porta del bagno alle sue spalle. La stanza di Robert è diversa. Io conoscevo Oppius. È strano dire di sapere tutto di una persona e, una volta entrata nel suo mondo, vedi che stavi guardano un miraggio. Sulla scrivania ha il biglietto per il concerto degli Amantine. Non credo che ci sarò. Anche se manca poco, credo che dovrò pensare ad altro.
   «Ti porto a casa.»
Faccio cenno di diniego. Mi fa male anche quella. «Sto bene. Rimani vicino a Robert. Mi sembra abbastanza provato.»
   «Lo siamo tutti. Non ci aspettavamo … una battaglia di quelle dimensioni.»
Lenape è stata la nostra Waterloo. Vorrei sorridere e dire che il giorno prima qualcosa dei libri mi è entrato in testa, a parte che ho studiato diritto e non storia, ma le labbra sono sigillate. Non pensare è più difficile di quello che sembra. «Bel.»
Scuoto di nuovo la testa. «No. Sto bene.»
Non ho bisogno che indaghino più a fondo, che scoprano quanto sono debole. Tutto dipende da quello. Mostrare agli altri quello che non sono. Riesco a dargli un buffetto al ventre. «Stagli vicino.»
Mi muovo, seguo la strada, cammino, mi faccio trasportare. Le mie gambe sono come degli automi. Un passo dietro l’altro, un respiro che chiama altra aria. Mi trovo davanti a una porta e, dopo aver sbattuto gli occhi, mi accorgo che è quella di casa. Cerco nella tasca dello zaino la chiave, la infilo e entro. È come l’ho lasciata. Non c’è mamma. Non c’è Edward. Nessuno può vedere lo scheletro che mi porto appresso. Entro in camera, sfilandomi lo zaino. Lo getto a terra, sporco di sangue e terra. Sporco di me. Praticamente devo buttare via tutto, ma mi ostino a rimandare l’inevitabile. Calcio lo zaino, che si infila sotto il letto. Lì non può essere visto. E io ho ancora del tempo per non pensare.
Prendo una vecchia tuta, larga e calda, una serie di bende da dentro l’armadio e l’asciugamano. Vado in bagno. Chiudo la porta e mi sfilo tutto dal corpo. Estraggo fazzoletti inzuppati di sangue, dolore, pelle secca e vestiti da gettare. Potrei ancora essere definita carina, forse, ma il mio stesso corpo è un campo di battaglia. Apro l’acqua, mi infilo in doccia. Il bello dell’acqua è che non sai mai se una persona piange o meno. Il bello del mio essere è che posso ignorare gli stessi miei ordini. Io mento.
Sempre.
E con chiunque.

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Capitolo 11
*** 11 ***


11
 
 
 
             Sono piegata dentro la doccia. Stringo i denti, ma l’urlo mi esce lo stesso. Strozzato, dolorante e vivo. Non è giusto. Non lo è mai. Mi infilo le mani nei capelli, rannicchiandomi in posizione fetale. Perché? Perché? Non abbiamo già sofferto abbastanza? Siamo stati uccisi, abbiamo sacrificato la nostra stessa vita, lacerato i nostri cuori in maniera indelebile. Ci siamo traditi, cercati e persi di nuovo. Abbiamo scoperto a nostre spese il prezzo del tradimento, il senso dell’abbandono, per cosa? Per riviverlo di nuovo, ritrovarsi persi nella stessa posizione in cui eravamo partiti. Di nuovo sola, senza neppure la promessa che, se mai fossi sopravvissuta, avrei vissuto come una donna. Neppure quello mi viene concesso.
Il dolore mi lacera dentro, l’acqua è color sangue e io urlo, urlo perché continuo a mentire. Non avrei in ogni modo avuto un futuro con Chase, né con Titus. È una di quelle storie che nasce già nel segno della sventura. Gli esorcisti non possono mettere la Falce al chiodo, non possono dimenticare quello che sono. Tutto quanto si basava su una menzogna. La missione non sarebbe mai finita. Chase non sarebbe mai stato solo un uomo. Io sarei solo rimasta al suo fianco per il tempo che c’era ancora concesso.
   «Dalila?»
Cerco di ingoiare il mio stesso urlo, ma quello arriva. Doloroso come tutto quello che mi sta capitando. La morte di Mary, prima ancora quella di Carlos, ora Chase. Il mio stesso corpo sta scandendo la sua fine. Sta brillando per l’ultima volta, per spezzarsi come niente. Papà, ancora in coma, un’altra luce che mi vuole lasciare. Non è destino che io gli dica addio. Non era destino neppure per le persone che ho già perso. La voce di Lie, preoccupata, mi giunge lontano come la stessa vita che sto vivendo. Ti prego, lasciami morire in pace. Ti prego.
Di nuovo la voce, tranquilla, al di là delle pareti di vetro. «Dalila, ti supplico.»
Sono lacerata in venti punti diversi, sgorgo sangue, il mio corpo è un terreno bombardato eppure la voce di Lie mi riscuote. C’è la necessità che io esca. Lui sta soffrendo quanto me, perché condividiamo i pensieri. La parte brutta, però, è che lui è sommerso da delle emozioni di cui non conosceva neppure l’esistenza. Mi passo le mani tra i capelli, chiudendo gli occhi all’acqua.
Mi alzo in piedi e, di nuovo, vengo sommersa da qualche forza che mi spinge ad urlare, a rannicchiarmi e a stare lì, per terra. Dannata forza di gravità. Perché è quella, no?
Con mani tremanti mi insapono. Faccio movimenti lenti, ma produco solo schiuma sul rossiccio. E fa male. Dio, se fa male.
Esco dalla doccia. C’è così tanto vapore che non vedo la mia stessa immagine. O forse i miei occhi si dimenticano di tutto, tranne che il lavandino bianco in cui ho appoggiato le mani. Perché se non mi reggo lì, sono certa che non resisterei in piedi. E lo stringo con tanta forza che tutto il sangue sembra scomparire, presentando delle mani pallide, scheletriche, non mie. Sono come uno degli spettri che combatto, uno degli spiriti che ha inferto il colpo di grazia a Chase.
Chiudo gli occhi per fermare il mondo. L’inevitabile verità che sto respirando un’aria che Chase non ha più. La verità che io sono la cugina di colei che ha ucciso Mary, che lei è morta per causa mia. La crudeltà che prima di giudicare Malachite, io ho spezzato l’anima di Carlos e non mi è concesso di giudicare il male altrui.
La mano trema quando prendo l’asciugamano. Tampono il ventre, così da creare uno strano motivo cremisi. Prendo le bende, me le passo con cura sulla ferita più grossa. La stringo tanto da formare un corsetto così stretto che mi fa male pure respirare. Asciugo le goccioline sulle gambe e sulle cosce, acqua misto a sangue, prima di bendare anche quelle. Mi infilo le mutandine, tra un gemito, una lacrima e un’imprecazione. Mando al diavolo il reggiseno e copro le bende con la maglia.
Sono in piedi. Senza appoggi. È una verità così dura che crollo a terra, piegando le ginocchia e fermando la caduta con le mani. Perché le cose così semplici sono pure quelle difficili? Lie è davanti a me. Sento che mi scosta i capelli bagnati dalla fronte, in piccoli gesti lenti e posati. Il suo tocco mi trasmette la stessa elettricità di quando si trasforma in Falce. «Dalila, io non capisco.»
Alzo lo sguardo, per vedere i suoi occhi azzurri chiedere un perché. Il mio piccolo vizio confuso. Il labbro inferiore mi trema. «Io lo amo.»
   «Fa male.»
Con la mano libera si massaggia il petto. È il mio stesso punto. Forse non è il bendaggio stretto che mi impedisce di espandere i polmoni. Stringo gli occhi, poi appoggio di nuovo lo sguardo su di lui. «Lui … lui non c’è più. E fa male.»
   «Non so cosa fare.» Scuoto la testa. Lie smette di sfiorarmi la fronte, emettendo un tremulo sospiro. Devo aver comunicato qualcosa con lui con la mente, ma non so cosa. Sto cercando senza riuscirci di fermare le lacrime, il dolore, l’inconsistenza dell’esistenza. La speranza è la fiamma di una candela ormai spenta. Non c’è futuro. Siamo tutti morti.
Le sue mani sfiorano le mie spalle e riesce ad abbracciarmi. La menzogna non conforta. Può rassicurare, ma la sua principale caratteristica è nascondere la verità. Per gioco, per proteggersi, … non ha importanza. Non incoraggia. Mi bisbiglia all’orecchio. «Devi alzarti. Se tornasse qualcuno saresti in condizioni pessime.»
Si stacca e capisco che per lui è il massimo della sua espressione emotiva. Annuisco e tiro su con il naso. Faccio una palla di indumenti sporchi, appoggiandola vicino al tappeto. Sempre in ginocchio, tiro via il sangue di più che c’è in doccia. Strisciando, percorro la strada fino al salotto. Tra le mani reggo tutti gli indumenti e il mio corpo si chiede se ce la farò a buttarli. Lie me li sfila dalle mani. «Va bene. Per oggi lo farò io.»
Seguo il suo corpicino che si avvicina alla porta e la apre, trascinando con sé tutta la giornata. Se qualcuno che non vede gli spiriti vedesse quella palla di sangue che si muove, che ne sarebbe della nostra segretezza? Non m’importa. Siamo già in una Città degli Spiriti, Lenape ci ha distrutto e, davvero, della psiche di un gruppo di mortali non m’importa.
Mi trascino sul divano, coprendomi con una coperta. Tremo di freddo. E ho le vampate di calore. I denti battono e all’interno il mio corpo si sta cuocendo. Tiro su con il naso, chiudendo gli occhi.
Sono piegata in due. Mi reggo un fianco con una mano, chiedendomi quando riuscirò a resistere. Il mio respiro è come una lama che sega in due il mio stesso corpo. Aria fredda, respiro, aria fredda, respiro. Sento dei passi che mi si avvicinano, poi vedo la punta di uno stivale infangato. «Credete che gli spiriti avranno pietà di voi?»
Deglutisco, il bisbiglio non supera le labbra. Faccio segno di diniego con la testa. No, non mi aspetto pietà. Una mano fredda mi si insinua sotto al mento, obbligando ad alzare il volto. Titus mi scruta, gli occhi ridotti in due fessure minuscole. «Lo credete?»
   «No.»
   «Allora alzatevi.»
Sento degli altri passi, ma fissare gli occhi di Titus è come guardare il sole. Non puoi voler distogliere lo sguardo da tanta rudezza, dalla lucentezza della sua anima. Un bastone interrompe il contatto visivo, facendoci ricordare che ci sono altri, con noi. Johannes obbliga la mano di Titus a rompere il contatto, io abbasso lo sguardo. Il tono è leggero, quello di una normale conversazione. «Suvvia, Titus. State chiedendo troppo. Padroneggiare un ottavo esorcismo non è confacente a una donna.»
Donna? Scruto dal basso verso l’alto il nostro mentore. È Titus a rispondere. «Dalila è in grado di gestire esorcismi ben più potenti.»
Ecco perché ho iniziato a credere di valere di più. Non sono solo una femmina debole. Sono un’esorcista che può essere suo pari. Per quello che mi sono fatta convincere a fare un esorcismo che, in cuor mio, so essere fuori dalle mie capacità. Johannes è della stessa idea. Al momento, è consapevole che sono debole. Per aiutarsi nel stare eretto, infila il bastone nel terreno. «Sarei più propenso se lo insegnaste a Maximus. Di certo lui lo gestirebbe con maggior determinazione.»
   «Non dubito che Maximus potrebbe riuscire a padroneggiarlo, ma ho la certezza che Dalila lo domini.»
Johannes arriccia il labbro inferiore. Mi guarda, ancora piegata a terra. Corruccio la fronte perché, e potrebbe essere una mia impressione, vi vedo dietro lo sguardo di indecisione. Forse paura. Una mano si appoggia alla mia schiena, la voce flebile di Sura mi solletica l’orecchio. «Alzatevi, sorella. Dimostrateglielo.»
Emetto un gemito quando tocco con i piedi a terra. Lei è così forte, o io così magra, che mi solleva ogni volta senza problemi. Incontro il suo sguardo torbido, lo stesso che aveva quando andammo al suo villaggio e ce la indicarono come la strega folle. Per puro miracolo riuscimmo a impedirle l’impiccagione, ma non è mai un bene quando si dice che gli spiriti esistono. La sua mano gelida si appoggia al mio polso. «Dimostrate che anche le donne sono esorcisti.»
   «Bel, stai bene?»
Mi riscuoto, persa nel tempo. La televisione dorme spenta davanti a me, mamma mi sta fissando da sopra al divano. Quindi non sono nella foresta dove per la prima volto ho evocato un ottavo esorcismo. Sura non mi ha appena detto di andare contro Johannes. Eppure mi sembra di essere appena crollata a terra. Mi fanno ancora male le ossa.
Guardo mamma, senza vederla veramente, lo sguardo spento. Mi massaggio il ventre. E ricordo. Sono le bende che mi inducono a non dimenticare. Lenape. La battaglia. Chase.
Mamma deve vedere qualcosa che non va. Appoggia una mano sulla fronte, ritirandola di scatto. «Bel, scotti!» Non sai quanto. Seguo la sua camminata, scompare nel bagno e, quando riemerge circondata ancora da vapore, si siede vicino a me. «Hai male da qualche parte?»
Credo che l’unico punto sano del corpo siano le orecchie. E anche lì non ne sarei molto sicura. Mi infila il termometro sotto l’ascella, il solo movimento mi apre qualcosa nel ventre. Stringo i denti per non emettere un gemito, perché sarei fottuta se mamma indagasse e scoprisse cosa le nascondo.
Mi scosta i ciuffi umidi dalla fronte. «Tesoro, cosa ti senti?»
Hai presente quando ci hanno parlato dell’incidente di papà, mamma? Te lo ricordi quando sei crollata a piangere e la nonna ha fatto in modo che non io sentissi i tuoi gemiti? Te lo ricordi? Sai quello che provo ogni volta che vedo papà, steso su quel letto, accudito dalle mani esperte tue e della nonna, ignorando la parte della mente che chiede se quello è l’ultimo giorno che lo vedrò? Ecco. Provo quello. In tutto il corpo.
Da due anni.
E da oggi è decuplicato.
 
                                                             † † †
 
           Mi sveglio. Fuori è buio e la luce del lampione illumina il copriletto. Sono rannicchiata in posizione fetale, in un bozzolo che ho creato. Ho caldo. E ho male. Guardo la sveglia. Segna le quattro e mezza. Ho dormito quasi tutta la notte, in un sogno agitato e tormentato, ma sono ancora viva. È quello l’importante. O almeno una parte di me lo ritiene tale. Tra le mani reggo la collana di Chase, il suo affetto. Me l’ha data perché io potessi sopportare meglio gli esorcismi. Io devo fare altrettanto con gli altri. Devo permettere loro di sopportare questo schifo. Tiro via le coperte con gesti lenti. Ho macchiato di sangue praticamente tutto. È come se avessi dormito nel mio stesso piscio solo che, beh … è rosso. Lie ha la schiena appoggiata alla finestra, mi lancia una veloce occhiata e poi torna a fissare il paesaggio. Mi lascia il tempo di mettere ordine nella mia mente.
Faccio per prendere il cellulare sul comodino, ma non c’è. Mi inumidisco le labbra, mi inginocchio con calma per terra, ignorando l’umido e il dolore, e agguanto lo zaino. È lurido, esattamente come lo ricordavo. Sangue e sporco sono il suo nuovo colore. Apro la tasca e estraggo il cellulare. Lo appoggio per terra, vicino a quella pozza nera che, nel momento in cui accenderò la luce, non sarà più così tetra. Infilo nuovamente lo zaino sotto al letto. Alle quattro e mezza non occorre che tiri fuori tutti gli spettri. Meglio farlo con le prime luci del mattino. L’Uomo Nero ha molti assi nella manica, ancora.
Nel cellulare ci sono un sacco di chiamate: dieci chiamate da Julia, venti da Philippe. In data di lunedì.
Trattengo il fiato, controllando la data sul cellulare. Sono le quattro e mezza di martedì mattina. Ho perso un giorno di vita. Dopo la battaglia di domenica, ho perso tutta lunedì. È il primo pensiero concreto che faccio. Lie bisbiglia al vuoto. «Sì, è martedì.»
   «Io …»
   «Tua madre ti ha trovata febbricitante. Tra l’altro, hai trentotto e mezzo. Ti ha dato una quantità di farmaci da stendere un bue e sei praticamente entrata in coma. Solo che la signora pensava fosse il tuo modo di combattere un’influenza.»
Guardo il lenzuolo cremisi. Sì, sto peggiorando. Non è positivo avere la temperatura così alta, né che il mio corpo spurga così tanti liquidi. I miei organi interni potrebbero cuocersi. Le mie ferite, ormai, neppure si rimarginano. Lie sospira, sedendosi a terra con un soffuso puff. Ho perso un giorno di vita e ho lasciato i miei compagni inermi, da soli. Ho molto da recriminare come primo giorno da capo.
   «Come stai?»
   «Respiro.» Ed è vero. Sono viva. È tutto quello che mi basta sapere. Di nuovo controllo tutte quelle chiamate che non ho risposto. Ho schiaffeggiato Robert perché non era in grado di reggere il dolore e io mi sono lasciata travolgere. Sono un pessimo esempio. In compenso, sono un’ottima bugiarda.
Mi alzo in piedi, trattenendo un gemito. Mi siedo sul letto, sfilandomi i pantaloni. Sarà un lungo lavoro. Le bende sono intrise del mio stesso liquido e io devo cambiarle. Devo rendermi presentabile.
Lie sospira di nuovo. «Non ti farà mai uscire di casa con trentotto e mezzo.»
   «Non avrò la febbre.»
   «Sono contento del tuo ottimismo, Dalila, ma tu hai la febbre.»
   «Quando mamma si sveglierà, non avrò la febbre.»
Ne sono convinta. Ho due ore per confermare la mia tesi.

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Capitolo 12
*** 12 ***


12
 
 
 
      Sono le sei e mezza. Sto tremando. Lie mi fissa dalla porta socchiusa della mia stanza. Ho fatto il letto alla meno peggio, perché ho bisogno di tempo per nascondere tutto quel sangue. Lo farò quando torno a casa. O un altro giorno. Dubito che per me ci sia differenza tra dormire nei miei stessi liquidi e trovarmici avvolta alla mattina. Forse risparmierei pure lavaggi inutili.
Mamma sbadiglia, avvicinandosi alla mia stanza. Faccio un colpo di tosse per richiamare la sua attenzione. Le impedisco di vedere Lie. Fa un piccolo sobbalzo. «Tesoro, che ci fai in piedi?»
Alzo una spalla, cercando di trattenere i denti che battono. «Mi preparo per andare a scuola.»
   «Tesoro, ieri avevi la febbre molto alta.»
Le sorrido. «Oggi, però, sto benissimo.»
È una bugia bella grossa. Come mi aspettavo, mamma mi sente la fronte e poi le orecchie. Sono gelide. «Mm. Sembrerebbe che non hai febbre.»
Tiro fuori il termometro da sotto la maglia, controllando velocemente di non aver veramente preso la mia effettiva temperatura. «Visto? Trentasei e quattro. Sono una roccia.»
Quello basta a mamma. Sul tavolo deve solo firmare la giustificazione. Una bella nota sul fatto che ero indisposta e che ora sto benissimo. Mi alzo per andare in bagno. Mamma mi volta le spalle e trascino con me i due sacchetti da freezer pieni di ghiaccio. Facile fingere di non aver la febbre. Ne svuoto uno sul lavandino, l’altro nel water, per ottimizzare i tempi. Due iceberg mi stanno guardando dai due poli opposti del bagno. Aspetto che si sciolgano un po’, velocizzando la procedura tirando l’acqua due volte e aprendo l’acqua calda. Quando esco, due piccole noci indifese si stanno liquefacendo con calma. Mamma è pronta per andare a lavoro. Ha il telefono in mano. «Chiamo la nonna. Puoi portare tu Edward a scuola, no?»
   «No, è meglio se lo porta nonna. Ho chiesto a Julia di vederci prima per farmi dare gli appunti di ieri. Scusa.»
Mamma mi sorride, mi accarezza la guancia ed esce di casa. Aspetto che arrivi nonna, poi me la svigno alla chetichella. Infilo le mani in tasca, dove la chiave della mia stanza ballonzola con quelle di casa. Decisamente, meglio che nessuno entri da me. Se Lie volesse uscire, in ogni modo, non userebbe le normali porte.
Mi fermo davanti all’enorme villa di Robert. I cani non alzano neppure la testa, a confermare che come cani da guardia fanno proprio schifo. Il ragazzo esce dopo dieci minuti, con in bocca una pastina e saltando gli scalini all’ingresso. Si avvicina al cancello, apre la bocca per lo stupore, e uno dei suoi cani afferra al volo la pasta. Direi che Robert non ha fatto colazione, oggi. «Bel.»
   «Robert.»
Sta meglio rispetto l’ultima volta che l’ho visto. Non piange, per lo meno. Apre il cancello e se lo chiude alle spalle, dando una grattatina alle orecchie al povero cane che è rimasto a bocca asciutta. «Che ci fai qui?»
   «Sono la tua scorta.»
   «Come faceva Chase.»
Lo ha detto. Una pugnalata al petto, dove c’è il mio cuore, mi fa capire che forse dovevo concentrarmi anche su come reggere la sua scomparsa, oltre che alle mie condizioni fisiche. Tremo. «Sì.»
   «Scusa.»
   «Muoviti, ragazzino. Dobbiamo prendere anche Julia e Jamar.»
Sono decisa a proteggerli tutti, ma visto che tre degli esorcisti neppure vanno a scuola, mi devo accontentare di quelli più giovani. Acconsento che Robert chiami il ragazzo, decisamente il suo rapporto con lui è più benevolo di quello che ha con me, mentre io ragguaglio Julia. La ragazza ci aspetta fuori dal cancello, con lo zaino in spalla e la rabbia impressa. Per Jamar dobbiamo aspettare un pochino. Aveva deciso di bruciare, ma sono stata irremovibile. Julia calcia un sasso. «Ieri non hai risposto a nessuna delle mie chiamate.»
   «Scusa. Non ero nelle condizioni di rispondere.» Ammetto piatta.
   «Ahn sì. E che scusa sarebbe?»
Alzo una spalla, guardandola inespressiva. «Se preferisci che ti dica che sono stata in coma tutta ieri, che il mio corpo sta andando in autocombustione e che se non muoio a breve mi dovranno fare una trasfusione di sangue ti piace di più, lo faccio.»
Robert arretra di un passo. Sta prendendo le distanze perché una delle due molla un cazzotto all’altra, prima o poi. Voglio bene a Julia, ma c’è un buon motivo per cui noi andiamo poco d’accordo. Io: bugiarda; lei: sincera. Io, impulsiva … lei pure, a dire il vero. Terza guerra mondiale assicurata. Sbuffa. «Menti.»
   «No. È dalle quattro e mezza di stamattina che ci penso. Se io dovessi morire, qualcuno di voi deve prendere il comando. Vorrei che fossi tu. Certo, ammetto che non è la scelta migliore visto che sei più impulsiva di me …»
   «Non è divertente, Bel. Non lo è per niente.»
Sospiro. Mi fanno male anche i polmoni, e non significa che mi sto riprendendo da una brutta malattia. È tutto l’opposto. «Pensa quello che vuoi, ma è un dato di fatto. Sei troppo impulsiva, ti arrabbi per nulla e quindi saresti un pessimo capo. Per questo dirò a Warren di prendere il comando e tu sarai la seconda in carica. La cosa positiva è che, avaro com’è, troverà un affronto chiunque si avvicini a voi.»
Davvero. È questo che mi aspetto. Se devo morire, e quello è un dato di fatto, farò in modo che quelli che rimangono in vita, ancora per un po’, siano protetti. Questo glielo devo. Lo devo al mio cuore.
Lo devo al mio orgoglio e, sì, lo devo anche a Chase.
 
                                                             † † †
 
      Qualcosa me lo aspetto. Chase era un ragazzo che passava difficilmente inosservato. L’entrata a scuola è tranquilla. Nessuno studente che chiacchiera all’ingresso. Forse è quello che mi ha messo in allarme. I miei occhi puntano verso l’armadietto, dove il suo viso mi sorride. Mi immobilizzo. Hanno preso una sua foto, una di quelle poche in cui il suo sorriso non sembra una smorfia tenebrosa e gliel’hanno affissa sopra. Altri fiori, altri peluche, altri ricordi di una persona che ho perso. Come con Mary. Di nuovo.
Jamar appoggia un braccio sulla mia spalla. Mi sospinge lontano dal mio armadietto, con pochi movimenti gentili ma decisi. «Andiamo. Non devi prendere nulla.»
La mano di Julia si congiunge alla mia, mi trascina lontano da quel buco nero in cui sono stata immersa. È tipo un sacchetto che mi hanno messo davanti agli occhi, che hanno stretto forte e mi hanno lasciato per un po’. Non respiro, non cammino se non perché altri mi obbligano a farlo.
Sento una porta che si apre, l’odore di disinfettante e quel buio interno che si propaga anche all’esterno. Qualcuno mi fa sedere per terra, qualcuno mi tiene ancora la mano. La luce viene accesa e io mi ritrovo seduta tra il secchio dell’acqua e la scopa. Jamar si inginocchia vicino a me, mi alza il mento, fa in modo che io lo guardo negli occhi. È serio, è preoccupato. Non c’è malizia, né doppio senso. «Ti farà sentire meglio.»
Julia mi stringe così forte la mano da farmi male. Eppure non mi lamento. Io devo proteggerli. Io non sto provando nulla. Allora perché, a dispetto di tutto, io non mi muovo? Perché quel viso sorridente mi fa tanto male? Perché, se morissi in quel preciso momento, sarebbe una liberazione? «Sto bene.»
Se continuo a dirlo, anche gli altri inizieranno a crederlo. Io sto bene. Jamar annuisce, appoggiando entrambe le mani alle mie spalle. «Non devi proteggere noi. Non noi due.»
Jamar, l’esorcista della lussuria, l’esorcista incapace di provare veri sentimenti. E Julia, l’esorcista dell’ira. Vorrei essere entrambi, dimenticare perché sono così, urlare con il mondo. Mi scuote di nuovo. «Bel, non con noi.»
È come un bisbiglio nella notte, una richiesta. Lascio andare la testa in avanti e trovo un petto caldo. Trattengo il gemito ma sboccia. Sboccia perché è un sentimento genuino, perché non l’ho mai calmato. Sboccia in un ruggito di odio e rimpianto. Puoi tenere a bada il mare che hai dentro, ma quando ne emerge rimani travolto dal tornado di emozioni. Le sue braccia mi stringono in vita, le sue labbra si appoggiano alla mia testa. «Sì. Lascialo andare. Siamo i tuoi fratelli. Non devi per forza essere forte.»
È quella la differenza, allora? Io posso mostrarmi debole? E come faccio, quando tutto il mio mondo è andato in frantumi, quando le mie stesse paure possono lacerare le loro certezze?
Alle mie spalle, Julia appoggia la testa sulla schiena. La sento. Sento il suo corpo che si muove, tira su con il naso e quella sua mano che mi stringe fino a farmi perdere la sensibilità. Sento il suo dolore come se fosse il mio. E Jamar che mi abbraccia forte al suo petto, senza parlare. Non ce n’è bisogno. Stupida. Non sto soffrendo solo io. Siamo in sette che piangono. Che ci piaccia o meno, siamo in sette che hanno perso un compagno, un amico, un fratello.
E poi quello che provo mi esce dalle labbra, senza bisogno di pensare. «Non l’ho protetto.»
Un braccio di Julia aggancia la mia pancia, stringendomi forte. Siamo una specie di Yin e Yang versione gigante, dove non si sa dove inizia e finisce il corpo di uno. «Bel, ci hai salvato.»
   «Non abbastanza.»
   «Smettila.» La voce di Jamar è incrinata. «Smettila. Abbiamo perso lui. Non provare a fare qualcosa di stupido. Noi dipendiamo da te.»
Singhiozzo, ma non posso dimenticarlo. Loro dipendono da me. È per questo che mi sono alzata. È per questo che sono con loro. A costo di affrontare tutti gli spiriti di questo pianeta, dannazione, affronterò anche la sua morte.

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Capitolo 13
*** 13 ***


13
 
 
 
       Non so per quanto il mio corpo reggerà. Mi inumidisco le labbra con la lingua, mentre mamma cerca la lista della spesa dentro in borsa. È tipo quella di Mary Poppins. Tra le mani reggo un ombrello, una bottiglietta d’acqua, un libro e tre pacchetti di fazzoletti. Visto che sta ancora cercando, deve esserci tipo il nostro appartamento al suo interno.
Sorrido, vedendo le sue labbra arricciarsi e sillabare un’imprecazione, tutt’altro che non intuibile. Non so quanto il mio corpo reggerà. Ogni attimo è prezioso. Anche solo il fare la spesa, anche quello, vale la pena di essere vissuto.
Quello è stato il mio primo ordine. «Passate un pomeriggio tranquillo. Ce lo siamo meritati.»
Nessun commento. Ce lo siamo meritati davvero. Cerco di non pensare a come sono arrivata a quel ragionamento, a quanto mi è costato ammettere di essere effettivamente a capo dell’Ordine, a tutto quello che ho lasciato alle mie spalle. Quando sono tornata da scuola ho aspettato mamma. È rientrata prima del solito, forse perché il frigo necessitava una spesa copiosa e la mia malattia l’ha fatta regredire. C’è stato un tempo in cui io ero una bambina e lei la mia mamma. Solo quello. Un tempo in cui era lei a fare la spesa, e non io. In cui era lei che lavava la biancheria e portava Edward a casa quando aveva la febbre. Un tempo che anche papà condivideva con noi.
Quando è tornata a casa mi ha sorriso, l’ho abbracciata e le ho detto che le volevo bene. Lo avrei detto tutti i giorni. Da adesso al tempo che mi rimane. Non do più nulla per scontato. Mamma alza lo sguardo e vede che la osservo. «Hai pietà di me?»
Faccio no con la testa. «Per niente. Ti trovo bella.»
Ed è vero. Mi guarda a occhi socchiusi. «Oggi sei strana.»
   «Sto solo bene.» Il tempo della verità è finito.
La vedo distendere il volto ed estrae quella maledetta lista della spesa stropicciata tra le dita. Un piccolo trofeo per la mamma, un grande passo per l’umanità. Beh, forse non per l’umanità, ma di certo per me sì.
Sento la nuca solleticarmi, come se qualche tipo di vibrazione soprannaturale mi tirasse i capelli. Lentamente mi giro, ma non è l’energia che potrebbe essere indotta da un fantasma. È positiva. Solo che non è proprio nelle mie aspettative incontrarmi faccia a faccia con un’esorcista proprio questo pomeriggio.
   «Tesoro, qualche problema?»
No, nessuno. C’è solo Eliza seduta sul marciapiede, intenta a scomparire. E nulla di Eliza è in grado di passare attraverso la fognatura. È così abbattuta che la fisso un poco, fino a quando l’alito di mamma non mi solletica un orecchio. «È una tua amica?»
Annuisco. Non è un supermercato vicino a casa sua, non è con Warren e non è l’Eliza di sempre. Sono tre buoni motivi per piantare in asso mamma, a dispetto di tutte le promesse che mi sono fatta, e correre da lei. Mamma mi prende per un gomito, trascinandomi. Ha capito la mia indecisione, di questo gliene sono grata, ma in effetti non lo ero sull’andare o no da lei. Il mio problema è appunto dato da mamma.
Ci fermiamo davanti a Eliza. È rannicchiata, le ginocchia al petto. In effetti, è seduta come mi siedo di solito io, viste le dimensioni del suo seno. È vestita elegante, dei pantaloni neri di velluto, stivali con tacchi vertiginosi, una giacca bianca. Non è il classico completo che una si metterebbe per sedersi a terra.
Le sfioro con un dito la guancia. Sobbalza al mio tocco. «Bel.»
   «Ehi.»
Mamma tossisce incoraggiante. Eliza le lancia una veloce occhiata, forse riconoscendo delle caratteristiche in comune, e si alza in piedi. Si scuote lo sporco dal sedere, abbozzando un sorriso tirato. Ne riconosco lo stampo, visto che è lo stesso sorriso che mi impongo di avere anch’io. Falso in ogni sua sfumatura, insomma. «Mamma, lei è una mia amica. Si chiama Eliza.»
Eliza allunga una mano. «Piacere, Eliza Jones.»
Mamma le sorride. «Molto piacere, Eliza. Io mi chiamo Emma.»
C’è qualcosa che non va. La sto osservando quando scioglie la presa da mamma e mi fissa. Ne percepisco il dolore. Corruccio la fronte, perplessa. Non sono in grado di intuire i sentimenti, ma capisco che qualcosa non va. Eliza sospira, abbracciandomi. Cosa succede? Respiro i suoi capelli, un misto di shampoo e alcol. Ha bevuto. Mi sta stringendo a sé per farmi capire che ha un problema. «Sono felice di vederti.»
Mamma è ancora lì, quindi ci sciogliamo dall’abbraccio. Sospiro, abbozzando quel sorriso che è diventato un macigno. «Mamma, ti dispiace se sto con Eliza? Hai bisogno …?»
   «No, no, tesoro. Ci vediamo dopo, no?»
   «Sì, certo. Siamo al bar a prenderci qualcosa da bere.» Le indico il locale proprio davanti all’entrata del supermercato.
Ci facciamo largo, strizzandoci come sardine per entrare dalla porta occupata prevalentemente da una donna con un carrello della spesa. È così intenta a parlare con la sua amica, e a ignorare le nostre richieste di spostarsi, che siamo costrette a contorsioni. Anche così, non siamo quelle che danno più nell’occhio. Una coppia di fidanzati sta facendo i conti con la calcolatrice, guardando lo scontrino, dividendosi la spesa. Un uomo sta sorseggiando una birra, del bar, e mangiando un prodotto della gastronomia, del supermercato.
Indico a Eliza un tavolo. Si siede e io vado alla cassa, dove una cameriera scorbutica mastica la chewing gum a bocca aperta. Ha un’otturazione. Avrei gradito non vedere ogni singolo dente. «Salve, un caffè lungo, due bottigliette di acqua naturale e … un the freddo alla pesca.»
Si passa la gomma da una parte all’altra della bocca, tirando su con il naso. Prende le due bottigliette dal frigo e le appoggia sopra al vassoio, poi si occupa del the e del caffè. L’uomo seduto al banco si sta massaggiando la testa, in evidente stato di agitazione. La ragazza appoggia il tutto sopra al vassoio, porgendomi lo scontrino. Le do i soldi, abbozzando un sorriso. Mi guarda grugnendo, buttando gli spiccioli di resto sul vassoio, rovesciando un po’ di the.
Allora, io capisco che la giornata va di merda. Oggi non sono proprio una fan del sole. Però le ho sorriso. Ho fatto una fatica incredibile, quando vorrei stare a casa, raggomitolata sul letto e coccolata dai miei genitori. Sospiro, un po’ troppo arrabbiata. Qualcosa mi prude in un angolino della testa. La ragazza guarda l’uomo. «Ovvio che tua moglie non voglia stare con un pezzente.»
Ops. Mi volto velocemente, prima che il mio vizio faccia altri danni. Troppo tardi, perché deve essere appena uscito il proprietario del locale. Trascuro il disastro che ho combinato, passando a Eliza il caffè e le due bottigliette d’acqua. Mi ignora, fissando l’uomo infuriato che minaccia di fare cattiva pubblicità al locale. Per lo meno la ragazza, richiamata dal proprietario, ha smesso di masticare a bocca aperta. «Brutta giornata.»
Sì. Far perdere i freni inibitori del linguaggio non mi sembra la miglior azione fatta oggi. Indico a Eliza il caffè. Lei lo sorseggia, facendo una faccia disgustata. «Che schifo. È amaro!»
Non me ne intendo di alcol, ma sono dell’idea che il caffè non zuccherato abbia due effetti: o aiuta la digestione, e smaltisce l’alcol; o dallo schifo induce il vomito … e in ogni caso l’effetto dell’alcol scompare. Appoggio le due bottigliette davanti a lei. «Bevitelo, anche se è amaro. E poi devi finire l’acqua.»
   «Assomigli molto a tua mamma.» Eliza sorseggia ubbidiente il caffè, seppur fa delle facce buffe.
   «Dicono che assomiglio più a papà. Mio fratello, lui è identico a mamma.»
   «Mm.»
Certo che il the freddo quando fuori ci avviciniamo allo zero non è piacevole. Cerco di scaldare il bicchiere tra le mani. «Hai intenzioni di dirmi quello che è successo? Cosa ti ha sconvolto?»
Allontana la tazza, ormai vuota, aprendo una bottiglietta d’acqua. «È stupido.»
   «Nulla di quello che ci capita è stupido.»
Sospira. «Mi frequentavo con un tipo. Sam. Commenti?»
Scuoto la testa, sorseggiando il the. Eliza sembra rincuorata. «Sembrava andare bene. Sembrava. Oggi ha detto che sono lontana, non gli sembra neppure che stiamo insieme. Ha ragione. Quando uscivo con lui con facevo altro che guardarmi intorno, alla ricerca di uno spirito, di voi. Se Warren chiamava, mollavo tutto e andavo da lui. Messa così, mi chiedo perché è durato tanto.» Abbandona la schiena sulla sedia. «Ha un suo senso, il fatto che non possiamo avere una nostra vita.»
   «Eliza.»
   «Titus ci disse che la nostra missione aveva la priorità su tutto. Tutto. Per capriccio mi sono buttata tra le braccia di Jonannes. Dannazione. Aveva ragione.»
Lascio che il suo nome mi laceri un po’ il cuore. Il liquido nel bicchiere traballa, ma la voce regge il gioco. È ferma. «Perché Johannes? Ricordo il giorno in cui mi hai detto di dimostrargli che non siamo solo donne. Perché lui?»
Beve dell’altra acqua. «Volevo corromperlo. Dimostrare che anche lui era umano, che era anche peggio di noi, che anche se donne potevamo tenergli testa. Volevo andare da Titus e dirgli: vedi, lui è il nostro mentore e viene a letto con me. Volevo che fossimo liberi. O forse perché il mio vizio vuole tutto e niente, ma soprattutto vuole quello che è difficile da ottenere. Non so.»
   «Warren è innamorato di te.»
   «No. Maximus lo era di Sura. E non puoi distruggere un tuo amico solo per dimostrare al tuo capo che si sbaglia. Titus, però, non sbagliava. Quando ci ha detto che la missione aveva la priorità, non l’ha detto per farci un dispetto. Lui voleva solo proteggerci. Non era la missione la parte importante. Eravamo noi. Però noi ci saremmo mossi per rispondere ai richiami degli altri, avremmo fatto di tutto per salvare delle anime. È questa la nostra missione. E non la seguiamo perché ci siamo costretti, ma solo perché è la nostra natura. Credo che quando ci hanno … creato … abbiano pensato che eravamo troppo perfetti. Per quello siamo legati ai vizi capitali.»
   «Dubito che Dio sia stato così crudele da averci forgiato in questo modo e, visto che c’era, ci ha messo dentro un po’ di farina viziosa. E siamo lontani dalla perfezione. Siamo controllati dai nostri vizi. La ragazza al banco è stata maleducata, è vero, ma non avevo motivo di ridicolizzarla così.» Sospiro. «E tu, Eliza, sei triste perché Sam è andato via. Non lo nego, ma quando hai bevuto è stato perché ti sei fatta controllare dal tuo vizio. Come quando Robert non vuole fare nulla, o Jamar si dà fin troppo da fare, o Julia si arrabbia per nulla. Smettiamola di girarci intorno: ci piace. Lo facciamo pure bene.»
   «Vorrei non essermi reincarnata.» Finisce la prima bottiglietta d’acqua, aprendo subito la seconda. «Questo mi aiuterebbe a non bere.»
   «Vai da Warren. Lui ti sosterrebbe volentieri.»
   «Perché dovrei? Avrà altro da fare.»
   «Non so come salvarvi. Non so come bloccare il rituale e … e se non ci riuscissi, vorrei che salutaste le persone che amate. Non voglio che date per scontato la loro presenza.» Stupido, egoista.
Mamma picchietta dal vetro, facendomi cenno con una delle tre borse di avviarmi con lei. Avvicino il the a Eliza, invitandola a bere anche quello. «Chiama Warren.»
Le do un piccolo buffetto alla testa, seguendo mamma fuori dal locale. Le prendo una delle borse, solo una, perché di più non ce l’avrei fatta. Mi sono giustificata dicendole che, anche se sto bene, ho i postumi dell’influenza. Sono solo un po’ debole. L’ultima parte è vera.
Mamma mi chiede informazioni su Eliza. «Mm. È una mia amica. Una mia cara amica. La conosce anche Julia.»
   «È più grande di voi.»
   «Sì.» E spero tanto che non abbia sentito quanto puzzava di alcol. Mamma, però, non fa domande. Forse perché intuisce che sto crescendo, forse perché Eliza ha l’aspetto di una giudiziosa. È vero: a parte i furti, un appetito smisurato e il suo essere esorcista, è una normale ventisettenne.
A casa mamma inizia a sistemare tutto negli appositi armadietti. Cerco di aiutarla, ma oggi è giornata di rimodernamento in casa. Questo significa che, come minimo, domani passo tre ore a cercare un pacco di pasta. Alzando le spalle sbircio in camera mia. Lie è appoggiato alla finestra e sta guardando fuori. Sembra che le mie emozioni non lo scombussolano più come la prima volta. Sarà che sto cercando di tenerle a freno, pensando il meno possibile a un certo nome. Un nome che se continuo così mi ritornerà in mente.
Chiudo la porta della stanza, fantasmi e letto insanguinato a parte, e vado in bagno. La tazza del water è gelida, ma piacevole. Mi guardo il ventre, vedendo che la chiazza rosa si sta tingendo di rosso. Le bende dovranno essere cambiate più di una volta al giorno, d’ora in poi.
   «Speravo di trovarvi, Dalila.»
Faccio un balzo, abbassando la tavoletta del water e nascondendomi con la maglia. Il cuore mi batte nel petto e seguo il contorno delle mattonelle, fino alla finestra. Okay. Nessuno in vista. Fuori dalla porta, mamma sta sistemando nelle credenze la spesa. Sento lo scrocchiare della carta. Tutto tranquillo. Mi sistemo meglio, tirando lo scarico e dirigendomi verso il lavandino. Apro l’acqua, guardando il mio riflesso allo specchio. Il mio doppione mi fissa … lui e quello di una donna altezzosa che mi scruta con malcelata benevolenza.

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Capitolo 14
*** 14 ***


14
 
 
 
         Sono immobile, davanti allo specchio, le labbra socchiuse. Praticamente mi sto lavando le mani solo con la corrente. «Arrogance?»
Il vizio di Chase non può essere vivo. Non senza il suo proprietario. Se questo fosse vero, allora lui …. Il riflesso mi ammicca e Arrogance scompare dallo specchio. La vedo formarsi alla mia sinistra in forma umana, solo dopo essersi scomposta in una nube rossastra. Affascinante quella nuova trasformazione … oddio, molto da film fantasy, ma niente male. Chiudo il rubinetto e mi asciugo le mani. Lui è vivo. Lo è per forza.
Arrogance ha la manifestazione di una donna, dai fluenti capelli biondi e occhi pesanti, lo sguardo altezzoso e, solo vedendola, mi viene l’istinto di prendere la patente per investirla. Davvero. Il suo sguardo non può esprimere meglio la sua contrarietà alla mia persona. E spero che l’anima di cui si è impossessata non abbia avuto in vita quell’espressione: sarebbe chiaro il perché l’hanno uccisa.
Guarda il bagno, come se non avesse visto nulla di più disgustoso. Ecco perché non ho capito subito che Chase era Titus: fortunatamente, nel nuovo secolo, aveva smarrito tutta quell’arroganza fastidiosa. Lo era, non ne dubito, ma non così plateale come lo era stato in passato. «Ho bisogno del vostro aiuto.»
Guardo la porta del bagno, chiusa. Non mi va molto avere Arrogance in bagno e Lie in camera. Il numero di mortali, in rapporto, è ridotto in casa. Sospiro, annuendo. «Sì, dimmi.»
   «Dovreste salutare Titus per l’ultima volta.»
La speranza che avevo che fosse vivo, in definitiva, è stata spazzata via come è arrivata. Andata. Solo che ci avevo creduto. Il mio cuore salta un battito o, meglio, ha smesso finalmente di battere. Fisso il vizio davanti a me, arretrando di un passo. «Se Chase è morto, tu come fai a essere qui?»
Arrogance si sfiora con le mani, come se le fosse strano avere degli arti. In effetti, prima la sua forma era quella di una pantera. E sono pure invidiosa: lei, da spirito, ha più seno di me. Ma vaffanculo. «Sì, è strano. Credo che l’intuizione di Titus fosse vera. Queste nuove manifestazioni ci permettono di sopravvivere ai nostri esorcisti.»
Ricordo la conversazione con Chase. Per lui quello era importante. Era stata una delle sue intuizioni e, al momento, non ne vedevo l’utilità. Io sono molto più pratica. Per spostare un oggetto, lo muovo. Per lui non era così semplice. Mi manca la sua mente complicata. Mi manca anche il suo dare ordini assurdi.
Il campanello di casa suona e sento i passi di mamma accorrere. «Quindi mi stai chiedendo di … andare in obitorio?» Arrogance annuisce. Non parla. Spiegarmi il perché devo fare una cosa del genere non è contemplato, giusto?
   «Bel, vieni subito!»
La voce di mamma è tipo quattro ottave sopra al normale. Deve aver rotto un vetro nel condominio, ai piani superiori. Mi aspetto che i cani inizino ad abbaiare per gli ultrasuoni. Indico Arrogance. «Ne parliamo dopo. Nella stanza vicina c’è Lie. Va da lui e restaci. Per Dio, ascoltami!»
Le sue proteste si smorzano all’istante e, naso all’insù, si avvia verso il muro. Dannazione. Che diavolo c’è oggi? Esco dal bagno, praticamente uno scheletro sbiancato. Mamma è pallida, gli occhi sbarrati e mi fissa. Oddio, Lie è uscito dalla stanza e ha attraversato una parete. Il mio cervello inizia a ricercare una possibile spiegazione per qualunque cosa lei possa aver visto. «Che c’è?»
Mamma mi indica la porta, dove Philippe se ne sta appoggiato sullo stipite, evidentemente deliziato. Porcamerda. Quasi quasi preferivo l’eventualità di spiegare a mamma la presenza degli spiriti. Il ragazzo abbozza un sorriso. «Ciao.»
   «Philippe!» Sono del tutto incurante che non dovrei neppure rivolgergli la parola. Soprattutto perché lui non dovrebbe neppure avvicinarsi a casa mia!
Lui mi strizza un occhio. «Mi presenti tua sorella?»
Brutto leccaculo che non è altro. Le sue parole fanno arrossire mamma, ma non m’incanta. Mamma è giovanile, nulla da dire. Dire che è mia sorella: no, per niente. È un bellissimo complimento per lei e un’offesa per me. Vuol dire che dimostro molti più anni. Mi avvicino al campo di battaglia. «Philippe, lei è mia madre, Emma Wright. Mamma, lui è …»
   «Philippe Collins. Sono il cugino del suo ragazzo.»
Mamma ne sembra deliziata. Gli sorride e mi guarda, poi, compiaciuta. Come se grazie a me avesse il suo modello preferito in casa. «Non sapevo che Chase avesse un cugino famoso.»
Sentire di nuovo il nome di Chase, dopo aver quasi creduto che fosse vivo, fa dannatamente male. Il poco colore che mi è rimasto scompare. Philippe si muove a disagio. «Le posso rubare Amabel per un attimo? Devo chiedere un consiglio per un regalo di compleanno.»
In effetti, Chase avrebbe compiuto gli anni. Philippe mi chiude la porta alle spalle, conducendomi giù lungo le scale. Si infila il cappellino, calcandoselo bene sulla fronte. È a disagio, e io con lui. Il nome di Chase è uscito dalla bocca di mamma e nessuno di noi due ha potuto impedirlo. Mi apre la porta, togliendosi la giacca e appoggiandola sulle mie spalle. «Philippe …»
   «Devo parlarti dove non ci vede nessuno.»
Annuisco, portandolo nel retro. Tra gli alberi, la recinzione e il freddo, nessuno verrà a curiosare. Mi raggomitolo nella giacca, mentre Philippe si guarda intorno. Un sacco di perché mi si annidano come un vespaio nella testa: perché Arrogance esiste ancora, perché è venuta da me con quella richiesta, perché Philippe ha rischiato così tanto solo per vedermi. Troppe domande che cercano risposta. Alcune, ne ho la certezza, le conosco. Solo che la mia mente ancora le rifiuta. Il ragazzo sospira. Ha un semplice maglione, non eccessivamente grosso, eppure se ne sta con le mani in tasca. «Fa ancora male.» Mi guarda di sottecchi. «Sentire il suo nome. Ti fa male.»
Mi stringo le braccia. «Sei qui per questo?»
   «Volevo solo vedere come stavi.»
   «Come puoi vedere con i tuoi occhi, sto bene.»
Scuote la testa, una nuvoletta gli esce dalle labbra. «Infatti. Si vede benissimo che sei distrutta.»
   «Philippe, perché sei venuto qui? Davvero.»
Il ragazzo vede un secchio delle immondizie. Si avvicina. È uno di quei grossi recipienti, in cui i condominiali mettono il materiale dell’umido. O lo mettevano. Non ho mai capito, perché è chiaro che nessuno di noi ha mai messo alcunché lì. Io, per prima, infilo l’umido in ogni sacchetto che vedo in casa. Philippe ci guarda dentro, poi lo rovescia sottosopra e si siede. «Volevo semplicemente vederti. So che mi vuoi evitare, e posso anche capire il perché. Non ti sto chiedendo qualcosa, Bel. Solo che non puoi continuare ad allontanarmi.»
   «Non ti sto allontanando.» Mento. La verità è che ce l’ho con lui. Ce l’ho con lui perché prima della battaglia ero arrabbiata con Chase. Ero arrabbiata con Philippe. Ero arrabbiata perché entrambi ignoravano i miei sentimenti. Potevo solo immaginare che ci fosse una qualche disputa molto maschilista e stupida tra di loro, entrambi incuranti che fossi innamorata di Chase. E lui era geloso, possessivo e dannatamente stupido. Tra tutti gli esorcisti, avevo scelto di andarmene con Warren: Eliza avrebbe acceso il radar femminile, Julia aizzato più rabbia, Robert doveva essere protetto e Jamar era scartato per principio. Se non ci fosse stato il suo zampino, forse le coppie sarebbero state diverse. Se Philippe non avesse reso Chase così mortale, forse lui sarebbe ancora vivo. Sì. Volevo che fosse morto Philippe al suo posto. E il pensare quello, davvero, mi faceva male. Mi aveva obbligato a porre nello stesso piano la persona che amo e mio fratello e il mio cuore, nel momento in cui la bilancia cadeva da una parte, ne rimaneva in ogni caso scottato.
Guardo il ragazzo e, dalla sua espressione, capisco che lo sa. Sa che invidio la sua condizione e, questa emozione, è a doppio taglio. Lo percepisce. Mi mordo il labbro inferiore. E non abbasso lo sguardo. «Amo Chase.»
Annuisce. «Lo so. Da parecchio. Per questo sono convinto che è un errore. Con lui è sempre stato complicato. Avresti bisogno di qualcuno che sacrifichi tutto quanto per stare con te. Lui … lui è disposto a farti soffrire solo per raggiungere un suo obiettivo.»
   «Un qualcuno come te?»
Sono spietata, ma Philippe si limita ad appoggiare i gomiti sulle ginocchia. «Non sono così stupido, Bel. Tu non potrai mai provare nulla per me. Mi vedi solo come tuo fratello. Un fratello maggiore, immagino pure fisicamente attraente, ma non ho mai preteso che tu ricambiassi i miei sentimenti.»
   «Philippe, di nuovo: perché sei venuto qui?»
   «Di nuovo, Bel. Sono qui per me. Avevo bisogno di vederti.»
Mi avvicino alla muretta, appoggiando la schiena. Di fronte a lui, con quel piccolo appezzamento di terra a dividerci. Un riassunto perfetto per la nostra situazione. Siamo i due angoli di un triangolo ormai distrutto. Affascinante come la realtà possa essere crudele. «Devi lasciarmi tempo, Philippe. Tornerò come sempre.»
   «Devi lasciarlo andare. Possiamo gestire il casino senza un capo, ma abbiamo bisogno del nostro secondo. Abbiamo bisogno di te. Robert è terrorizzato. Ha visto il tuo corpo e sa che è il prossimo.»
Oh, giusto. Devo trovare la terza reincarnazione del passato, informarmi meglio sul rituale dell’immortalità, fingere con Johannes-alias-Marco che tutto va bene, fingere di cercare quel dannato negromante e pure impedire di morire come nel nostro passato. Da qualche parte, in questa lista, ci deve essere anche l’andare a scuola e non far sapere nulla a mamma, ma credo che sia del tutto fuorviante. Sospiro. «Giusto. Dobbiamo cercare il negromante e capire che è successo a … Lenape.»
   «Hai bisogno di aiuto.»
Sì, ne avevamo bisogno. Guardo Philippe. «Che suggerisci?»
   «A Lenape possiamo andare io e Jamar. No, ascoltami.» Si alza e si avvicina a me con passi fluidi. Appoggia una mano sotto al mento, chiudendomi la bocca e la sfilza di imprecazioni miste a ordini. «Siamo quelli più affidabili per una missione del genere. Siamo essere flessibili e al primo pericolo ce la diamo a gambe.» Non avevo mai visto la velocità della fuga come un punto a favore. Dovevo ammettere, però, che aveva ragione. Continua. «La priorità è scoprire cosa è successo, perché la battaglia sembrava una trappola che non è andata a finire come doveva. Non credo che volessero la nostra morte. Per il negromante, per quanto mi scoccia ammetterlo, non sappiamo nulla. E Marco sarà troppo infuriato nello scoprire che uno degli esorcisti è morto, piuttosto del mandarci lontano da lui.»
Per il momento, concordavo. Sapevo che dovevamo andare in quel quartiere, ma faceva ancora male. È positivo che si siano offerti loro due. Annuisco. «Voglio che mi chiamate quando ve ne andate. Subito e qualsiasi ora. Vi voglio vivi.»
   «Bellezza, stai parlando con il re della fuga.» Riesce pure a strapparmi un pallido sorriso. Così serio, davanti a me, mi incute paura. «Se ti avessi trovato io, per prima … Dio, sono convinto che ti saresti innamorata di me.»
   «Non credo.»
Sorride. «Bellezza, non togliermi via la speranza.»
Mi sfiora con le labbra la fronte. Chiudo gli occhi perché, davvero, se fosse così facile amare qualcuno e buttarsi tra le sue braccia sarei scappata dal suo ricordo ancora secoli fa. «Grazie.»
Philippe si riprende la giacca, lasciandomi da sola a fissare il contenitore ancora rovesciato. Il cellulare nella tasca pulsa e, lentamente, lo estraggo solo per togliere la suoneria. Non so quanto ci metteranno, ma ho la certezza che a qualunque ora mi chiamino mamma non sarà felice.
Mi raggomitolo per terra, portandomi le gambe al petto e rannicchiandomi. Ci penso prima di ricordarmi che è così che ho trovato Eliza. A quanto sembra, non siamo destinati ad avere un amore corrisposto in questa vita. «Dalila.»
Sobbalzo, vedendo Arrogance fissarmi dalla sua superiorità. Dannazione. Mi ero dimenticata che devo pure aiutare un vizio. «Dannazione.»
Lo spirito emette un sospiro accondiscendente. Negromante, obitorio. Negromante, obitorio. C’è un qualche legame che mi sfugge. Mi porto le mani alla testa, allontanando i ciuffi dalla fronte. Rifletti, Bel. Hai un cervello ed è il momento che lo usi. Cosa abbiamo detto dei negromanti? Non cosa so, ma cosa abbiamo detto quel pomeriggio? Siamo arrivati a Lenape proprio seguendo questo ragionamento. I negromanti si trovano nelle zone che noi evitiamo, in zone che troviamo sgradevoli. Loro sono i nostri opposti … loro ….
E capisco. So dove si trova il negromante. Dannazione. So pure che cosa devo fare.

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Capitolo 15
*** 15 ***


15
 
 
 
      Sta diventando troppo facile uscire dalla finestra di notte. Troppo facile è mentire a mamma e dire che si è stanchi. Troppo facile tenere nascosto quello che si vuole fare anche al mio stesso Ordine. Indubbiamente, sono quella legata di più al mio vizio.
Mi friziono le mani, guardando l’obitorio. Sono attratta da lui quanto lo potrei essere da un panino con la muffa. Scavalco il cancello, nascondendomi all’ombra dell’unica macchina. Nella mia testa parte, non voluta, il ritornello di “It’s raining man” e, inutilmente, bisbiglio a me stessa no. “It’s raining man … Hallejulah … It’s raining man …”
Dannazione. Chiudo gli occhi, cercando di scacciare quella momentanea forma di pazzia. Che, tutto sommato, non è neppure tanto sporadica. Sto cercando di entrare in un obitorio, no? Lie sospira. «Dalila, non mi pare il momento.»
Arrogance è scomparsa. Le ho dato l’ordine di controllare la situazione dentro l’edificio che, disgusto a parte, è proprio impersonale. L’ultimo luogo, in effetti, in cui da morta vorrei passare del tempo. Sono rannicchiata contro l’auto, tamburellando contro con la testa. Perché sono lì? Arrogance, dopo estenuanti momenti in cui ho potuto elogiare il mio vizio che al suo confronto non è così stronzo, ha ammesso di aver impedito l’autopsia di Chase. Da qualche parte, un Medico Legale molto confuso si starà chiedendo perché non si ricorda nulla di quel ragazzo. Però lei ha detto che lui mi avrebbe voluto salutare. Già, come se non fosse stato abbastanza brutto vederlo morire. Nel bene e nel male, in ogni modo, avrei dovuto uscire quella sera. Non so se il mio piano funzioni, in effetti aveva una bella ics e una quasi certezza che fosse solo una cagata, ma se lo era … Dio, dovevo salutarlo. Al funerale del giorno dopo non sarei in ogni caso andata.
Solo che non si dice addio a una persona in obitorio.
Mi alzo e, seguendo l’ombra dell’edificio, mi nascondo nella notte. Appoggio una mano alla porta, ma questa si apre senza che io la tocchi. Un uomo, sui cinquant’anni e dai capelli brizzolati, mi sta fissando con sdegno. Rettifico: un’altra persona posseduta si chiederà, l’indomani, cosa è successo questa notte. Perché di una cosa sono sicura, ed è che Arrogance ha il controllo di quel corpo. Si scosta per farmi passare. Un altro punto che avvalora la mia tesi. Mi precede. È una stanza, una specie di cappella, in cui si trovano due bare. Brutto. Molto molto brutto. Me ne indica una, quella sulla sinistra. «Vi lascio soli.»
Lie la segue, e nella stanza rimango solo io, due bare, e lo spirito di uno dei morti che piagnucola guardandosi. «Sono morto … oh.»
Alzo la mano sinistra, senza preavviso. Scusami, ma non piango qualcuno con un fantasma vicino. «Primo esorcismo: catene della purificazione.»
Ascende tra un singhiozzo e l’altro, lasciando la stanza leggermente più reattiva ed elettrica. Sospiro e mi avvicino alla bara. Sta dormendo. È dannatamente pallido ma sta solo dormendo. Nulla in lui farebbe presagire la sua reale condizione. Un leggero ronzio di ventole mi fa capire che stanno mantenendo la sua temperatura bassa. Sfioro il vetro, piano, chiedendomi se voglio toccarlo. Ha gli occhi chiusi, così non posso vedere quegli occhi verdi in grado di radiografarmi. I capelli sono più ordinati del solito, le mani congiunte al petto. No, devo toccarlo.
Facendo perno con le braccia, riesco a spostare il vetro di una decina di centimetri. Vi infilo la mano e sfioro il suo volto. È come toccare del marmo malleabile, solo che non è così morbido come ricordavo. Ed è gelido. Tocco le sue labbra, desiderando vederlo sorridere. «Chase.»
Per quanto ne abbiamo passate tante, lui non mi ha mai ignorato. Appoggio la testa al legno, singhiozzando. Le bare non sono per i morti. Sono per i vivi, per ricordarci di loro. Mai come in quel momento l’affermazione mi è sembrata così vera. A lui non importa nulla. A me, sfortunatamente, fa infuriare il solo fatto che lo tengano al freddo. Tiro su con il naso, tornando a fissarlo. «Stanno tutti bene. Stiamo … stiamo bene. Vedi …» Gli sfioro di nuovo le labbra con un dito, perché so che non lo vorrebbe. Niente di quello che farò è da lui. «… devo farlo, anche se tu lo disapproveresti. Devi capirmi, Chase. E devi capire che io domani non posso venire perché … perché significa dirti addio e non sono pronta. Non sono pronta.»
Mi si sta formando un pensiero in testa, ma lo lascio andare via come è arrivato. Neppure Lie, approverebbe. Come la volta in cui gli chiesi di spiegarmi il decimo esorcismo. Per quanto mi è possibile, devo pensarci il meno possibile. Può essere comprensibile il perché non voglia andare al funerale. Può capire anche il mio rifiuto a lasciarlo andare. Sono mortale, in fondo. In quel frangente, i miei stessi alleati mi sono nemici.
   «Dalila, che cosa stai pensando?»
Mi passo una mano sugli occhi, poi tiro il vetro e copro nuovamente Chase. «Volevo solo salutarlo.»
   «No.» Lie mi si avvicina quatto, gli occhi ridotti in due fessure. Mi ricorda tanto la sua essenza passata. Chissà se può ritornarci. «Ovvio che posso ritornare alla mia vecchia forma, ma non è quello il problema. Salti da un pensiero all’altro.»
È tutto ciò che mi rimane. «Arrogance rimarrà qui.»
   «Sì, ovviamente.»
Lo vedo segnare un punto nella sua tavoletta immaginaria. Sì, sto cambiando ancora argomento. «Dobbiamo andare. So dove trovare il negromante.»
Lie alza gli occhi al cielo, in un gesto molto umano che mi fa strappare un sorriso. «È notte, Dalila.»
   «Un tempo mi avresti detto che il mio compito è svolgere la missione. Non ti importava se fosse giorno o notte, pur che esorcizzassi gli spiriti.»
   «Le condizioni attuali sono cambiate.» Lo vedo guardare la bara e so cosa pensa. Si immagina che al suo posto potrei esserci io, che quello che prova Arrogance lo possa vivere sulla sua pelle. Alzo il mento. Mi sento molto autoritaria, occhi lucidi e guancia bagnate a parte. «Non mi aspetto la tua approvazione. In questa occasione ti lascio il libero arbitrio. Se vuoi venire, fai pure.»
   «Sai bene che andrei all’inferno per te. Questo, però, non significa che io non possa partire maldisposto.» Capito l’antifona. Mi rimane vicino, ma me lo farà pesare. «E dov’è l’inferno?»
   «Maiden Street.»
   «Quindi, fammi capire bene. Vuoi andare a Maiden Street, di notte, a trovare un negromante?»
Annuisco. «Esattamente.»
   «Ti farai ammazzare prima.»
Tutto è relativo e, per quanto mi duole ammetterlo, io ho qualcosa che il negromante vuole. Il problema non è, appunto, se sarò in grado di trovarlo. Sono sicura di dove si trova. Il vero dilemma è quanto sono disposta a perdere per ottenere ciò che voglio.
 
                                                             † † †
 
            Quando ero piccola, i miei genitori mi hanno fatto capire che i mostri non esistevano. Dentro l’armadio non c’era un’ombra che mi voleva uccidere, sotto al letto non c’era un folletto che mi rubava i calzini. A tempo debito, anche Babbo Natale è scomparso dal radar e ho capito di essere cresciuta. I mostri però esistono. Non sono molto diversi da me. Solo che mi guardano come se in mezzo alle gambe avessi quale tesoro. Alcuni sono perplessi, si chiedono cosa ci faccio lì. Me lo sto chiedendo anch’io. Una battaglia di qualsiasi genere sarebbe di mio gradimento. Non ho paura dei fantasmi. Sono i vivi che mi terrorizzano.
Sono vestita tutta di nero. Jeans neri, maglia nera, giacca nera e, all’occorrenza, guanti viola. La berretta abbinata, troppo infantile, avrebbe attirato di più l’attenzione. Come se non mi occorresse altro. Mi sento scrutata come se fossi in abiti succinti e stessi loro mostrando la parcella.
Philippe mi ha chiamato, quindi il morso allo stomaco si è un po’ allentato. Sono vivi, sono a casa e io gli ho detto che adesso sarei tornata a dormire. Se non fosse andata come volevo, avevo già dato le disposizioni a Julia. Lei e Warren avrebbero preso il controllo dell’Ordine. Pensiero molto allegro, visto quello che sto per fare.
Mi guardo intorno e, tra destra e sinistra, scelgo la via dove un gruppo di uomini si sta sbraitando contro. È la strada che mi fa battere il cuore, quella che voglio evitare. Direi che devo ricercare i posti in cui sono più restia ad andare. Uno di loro alza lo sguardo e mi segue con gli occhi. Stringo le mani dentro le tasche, pronta a usare gli esorcismi anche contro i mortali. Il primo, per quanto usato solo per gli spiriti morti da poco, è la mia unica difesa. Beh, no, in effetti. Ho preso un coltello per affettare da un cassetto e lo tengo infilato nella giacca. Se dovessi accidentalmente cadere, mi infilzerei da parte a parte come uno spiedino. E vorrei evitare di fare del male a degli umani. Per quanto stronzi, direi che questo non mi permette di essere il loro boia. Mi addentro in una via in cui il mio sangue si congela. «Merda.»
Mi nascondo dietro a un cassonetto ancor prima di capire cosa ha fatto sobbalzare Lie. Allungo il collo, guardando. È da un po’ che non lo vedo, per l’esattezza da quanto ha tentato di baciarmi. Il detective Ridley Scott è nell’ombra, ma capisco che è lui. Ha messo su più peso, il che è un bene, diventando un po’ massiccio. Io, al suo confronto, sono sempre stata piccola e magra, quindi adesso la differenza è ancora più palese. Ha un berretto nero. Del suo volto, di profilo, vedo solo l’ispida barca incolta. Sta parlando con qualcuno. Annuisce e si allontana. Mi raggomitolo nella mia postazione. Tra tre … due … mi passa davanti e sono visibile se solo lui voltasse il capo. Non lo fa. I suoi passi sono decisi. Strano, visto che è proprio qui che un suo collega gli ha sparato. Lie mi legge nel pensiero. «È strano.»
   «Già.»
Se avessi più tempo, e non sapessi che la repulsione fosse a livelli stellari, rifletterei sulla questione Maiden Ridley. Solo che … beh, non mi interessa. Mi alzo dal mio nascondiglio, avviandomi lungo la strada deserta. Puzza di putrefazione. Bene. Vuol dire che ho ragione. Mi fermo davanti alla porta da cui Ridley si è allontanato. È un caso. Una parte di me, mortale o esorcista, non capisco, si mette all’erta. Busso, con Lie al mio fianco. Mi appoggio un dito alle labbra. Da qui in poi, lui non parla. Annuisce e mi fido così tanto di lui che rifaccio il gesto una seconda volta, per obbligarlo a non ignorare.
Mi apre la porta un uomo. Vorrei usare parole migliori per descriverlo. Ha la pelle pallida e tirata agli zigomi, un volto di altri tempi. Le labbra sono pitturate di rosso e i suoi occhi febbrili hanno già individuato Lie. Schiude la bocca, le sue mani si stringono alla porta e so che il suo cervello ha già trovato sette modi per uccidermi e una quarantina di vie di fughe. Abbozzo un sorriso. «Se lo avessi voluto, credimi, lo avrei già fatto.»
Ha a una mano una quantità di anelli e braccialetti che il tatuaggio si vede appena. Dei segni, come di un rituale. La sua voce è un bisbiglio mellifluo, le parole gli escono forzatamente lente. «Non mi aspettavo visite.»
   «Mi fai entrare?»
Ovviamente non è quello che vuole. Peccato, perché delle sue emozioni proprio non mi interessa nulla. Gli scivolo vicino, entrando in quella che sembra un negozio d’antiquariato. Sono immersa da oggetti di altri tempi, nascosti tra pacchiane imitazioni e solo sporcizia. Ho un mezzo sospetto che in un qualche modo sia legato alla criminalità. Magari è un ricettatore. «Bel posticino.»
Chiude la porta dietro di me, io seguo i suoi movimenti. Di nuovo, lo vedo sforzarsi di parlare. «Non vi ho invitata a entrare.»
Sorrido e capisco. Parla lento per necessità. Mi chiedo se ne sono in grado, ma meglio che uno di noi si sacrifichi. Cerco di ricordarmi come era in passato e le parole mi escono facilmente, come se non avessi mai smesso di parlare in latino. «Preferisci che parliamo in questa lingua?»
Il suo volto si irrigidisce, come se avessi detto volgarità. «Non la sentivo da tanto.»
Per lo meno parla normalmente in latino. Mi guarda, soppesandomi. «Lei non sa chi sono?»
Ridacchio. «Sì, lo so. Sei un negromante.»
   «Capisco. E sono ancora vivo?»
   «Da quel che sembra.»
Lo vedo puntare di nuovo gli occhi su Lie solo che, beh, non ha l’aspetto di un vizio. E il negromante è perplesso. Continuo. «Da quanto sei morto?»
Mi guarda di sottecchi, poi si concentra di nuovo su Lie. Il mio vizio è immobile, ubbidiente, ma capisco che il negromante è più attratto da lui. Vede solo quello che è: uno spirito che si è buttato tra le sue fauci volontariamente. Potrebbe essere più facile di quello che sembra. «Dal 1800 sono un negromante. Il mio maestro mi ha insegnato a parlare solo in latino. È per questo …»
   «Capisco.»
   «Mi ha detto che voi eravate morti.»
Mi siedo su una sedia, appoggiando a terra un tomo polveroso. Ora che parlavamo, il latino mi esce più fluido e più naturale. «Non sono viva, se è quello che stai insinuando. Sono morta nel 1400.»
Finalmente ho la sua totale attenzione. «Sei un negromante? Ma hai l’energia di un esorcista.»
   «Sono un’esorcista, di questo puoi credere.»
   «Allora, se sei un’esorcista perché io sono ancora vivo? Voi non accettate la nostra esistenza.»
Accavallo le gambe, facendo danzare la punta del piede. «Se sono qui è perché tu puoi darmi qualcosa che io voglio. Non ti preoccupare, è nelle tue capacità. E non obbligo altri a fare nulla, senza il loro tornaconto personale. Vedo che sei attratto dagli spiriti. Io sono un’esorcista. Posso richiamare tutti gli spiriti che vuoi.»
È rigido, come se fosse stato congelato in quella posizione. Solo i suoi occhi si muovono. Sta riflettendo e io ho tutto il tempo. Gli altri sono a casa, stanno dormendo e sono al sicuro. Marco starà complottando qualcosa, ma anche lui è un problema secondario. Si avvicina al bancone, appoggiando una mano sul ripiano. «Bene. Hai la mia attenzione.»
   «Vorrei che tu riportassi in vita qualcuno.»
Ridacchia. «Cosa?»
   «È nelle vostre capacità, giusto? Gli esorcisti possono uccidere i mortali attaccando i loro spiriti. Di opposto, i negromanti possono riportare in vita i mortali.»
   «Noi non riportiamo in vita i mortali. Siamo esseri superiori. Non ci facciamo incantare da questi sentimentalismi.» Socchiude gli occhi. «E nemmeno voi esorcisti. Nel passato eravate in pochi e non andavate famosi per la vostra pietà. Né per le emozioni. Chi vuoi riportare in vita?»
Lie si muove a disagio. Sente i miei pensieri ma non può opporsi al mio ordine. Mi inumidisco le labbra. «È una persona, un ragazzo, a cui tengo.»
   «Esorcista?»
   «No.» Se Lie non si ferma con i movimenti, tutto andrà a puttane. Il negromante mi osserva, soppesandomi. «Quindi gli esorcisti amano. E dopo tutto questo tempo, avete trovato la vostra dolce metà? Non so se esserne disgustato o compiaciuto. Solo per sapervi distrutta, rifiuto.»
   «Rifiuteresti gli spiriti? Perché, ragazzo, io posso impedire che gli spiriti vengano da te. Lo posso fare e lo farò. E senza spiriti, cosa sei? Non vivrai ancora a lungo.»
   «È una minaccia?»
   «Lieta che abbiamo compreso la situazione.»
Il negromante colpisce con un pugno il tavolo, imprecando in una qualche lingua. Forse tedesco. Aspetto … aspetto. Il mio bluff potrebbe essere interpretato per quello che è, il negromante potrebbe essere abbastanza intelligente da sapete che non è in mio potere impedire una migrazione di spiriti, quando lui li chiama a sé. Sto puntando tutto sul suo ego e, da quello che vedo, sul fatto che non è particolarmente intelligente. «E va bene, esorcista. Va bene. Riporterò in vita questo ragazzo. Però devo avere informazioni su di lui.»
Sospiro, snocciolando tutto. Un elenco della spesa non sarebbe stato così complicato. «Chase Lopez, diciotto anni. Verrà seppellito domani mattina. È stato ucciso.»
Il negromante alza un sopracciglio. «Allora non si può fare nulla. Se hanno fatto l’autopsia, il suo corpo è compromesso. Ritornerebbe in vita senza qualcosa e non faccio nulla, se non ho la certezza che sia integra. Se ci sono piccole ferite, nessun problema, ma l’autopsia è qualcosa di più complicato per le mie forze.»
   «Non è stata fatta l’autopsia.» Mi guarda curioso. Ci sono tante cose di cui devo tacere, ma deve avere le informazioni necessarie per salvarlo. «Ti basti sapere che sappiamo convincere gli spiriti alle possessioni. Il corpo del ragazzo è integro.»
Si fida? Mah. Arriccia le labbra. «Bene. Allora se non è un esorcista e se lei mi assicura che non è stato trafugato organo dal corpo, credo che possiamo riportarlo in vita. Domani notte.»
Il mio cuore batte all’impazzata. Lie inclina la testa, in attesa. Faccio un cenno con la testa. «Allora domani sera ci troveremo qui. Mi raccomando, ragazzo: non provare a scappare. A risveglio concluso, avrai tutti gli spiriti che vuoi.»
Ritorna con lo sguardo a Lie. «Nessun assaggio, allora.»
Esco dal negozio. Mi è rimasta attaccata qualcosa della sua natura, perché mi sento viscida e ripugnante come mai prima d’ora. Eppure di cose disgustose ne ho fatte. «Dalila?»
Ignoro Lie. Di tutto ciò che ho fatto, quella è di gran lunga la peggiore. Sono andata da qualcuno che dovrei combattere e l’ho convinto a fare qualcosa che neppure lui avrebbe mai fatto. Ho mentito per ottenere la sua alleanza, perché so che non si possono riportare indietro gli esorcisti. Non senza nulla in cambio. E di tutto, ho dato come pegno le anime dei defunti. Beh, se tutto va come dovrebbe, dell’ultimo punto non mi dovrei preoccupare.

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Capitolo 16
*** 16 ***


16
 
 
 
        Sono di nuovo fuori di casa. La pelle è fredda, l’aria ancora di più. Mi è rimasto qualcosa di quella giornata, come Julia e Jamar che mi fissano nel corridoio, o Robert alla mattina che mi dice che non c’è bisogno che io lo vada a prendere. O Warren ed Eliza al McDonalds, dopo la scuola, che mi sorridono. Ho chiamato Philippe al telefono solo per sentire la sua voce, con la scusa di chiedere come era andata a Lenape. Puzzava di scusa in ogni parola, ma ha retto il gioco. Se non lo reggiamo tra noi, davvero, non ci rimane nulla.
Il negromante sta preparando tutto per un rituale di risveglio. Sono davanti alla tomba di Chase, con Lie in bella vista vicino a me. Non che sia lì volontariamente in silenzio. Sono riuscita a bloccare i suoi tentativi di avvisare gli altri esorcisti con due ordini, dimenticando che i vizi non sono come noi. È riuscito a dire quello che volevo fare a Arrogance, con la speranza che lei fosse più giudiziosa. Con altri due ordini ho annodato la sua lingua. Nessun vizio informato. E il suo piano si è ritorto contro, quando Arrogance mi ha chiesto se stava mentendo. Lei era con me. Nessun ordine per tenerla segregata. È stata mansueta. Si è nascosta dietro a una lapide, perché non sappiamo cosa succederà. Sinceramente, quella notte ho bisogno di tutto l’aiuto possibile.
Con un veloce gesto estraggo il telefonino e faccio scattare la telecamera. Vedrò un po’ buio, ma non devo mandarlo a qualche concorso di cinematografia del paranormale. Con la scusa di controllare la zona, appoggio il telefono su una lapide e lo inclino in modo che riprenda la scena. Vedo la schiena del negromante. Sento anche il rumore delle sue mani che cercano qualcosa nella borsa. Direi che per l’audio il cellulare è okay.
   «Che stai facendo?»
Mi segue con lo sguardo e io mi avvicino a un’altra tomba. Sfortunatamente è quella di Carlos. Dannazione. Tutto mi fa pensare che è una grande cagata. Potrei sempre ritrattare, ma non posso andare avanti così. È Chase il capo dell’Ordine. E io, come sua sostituta, sono dell’idea che è lui che ci deve comandare. Il negromante mi fissa, in attesa. Alzo lo sguardo verso quella notte senza luna, senza stelle. È così nuvoloso che mi sembra di essere immersa in una pozza di nero liquido. Il silenzio è sepolcrale, e non mi rincuora sapere che siamo in un cimitero. Torno a fissare l’uomo. «Niente.»
   «Puoi ancora cambiare idea, esorcista.»
Infilo le mani in tasca, alzando un sopracciglio. Il negromante si gira e continua a trafficare con quella borsa di pelle. Ha impresso dei simboli, a metà tra un rituale e il latino. Da quando siamo arrivati ha solo esplorato il terreno. Chase è stato seppellito in una terra ancora smossa. Mi ha assicurato che il rituale permette di far emergere la persona, come nulla, dalla terra. Non ci saranno tipo voragini o altro. L’unica violenza prodotta sarà la rottura della bara. E dici niente! Estrae una candela. «Per la cronaca, non è detto che ritorni come prima.»
   «In che senso? Sarà cambiato?»
Alza una spalla e la luce si espande tremula. «È morto. È cambiato. Saranno accentuate alcune sue caratteristiche, non so dire se difetti o virtù. Di certo, però, potreste non riconoscerlo. Quando sono riemerso io, sono cambiato. Un tempo non vedevo gli spiriti: ora mi nutro pure di loro. Non mi interessa la loro salvezza, quindi la sua minaccia, esorcista, ha avuto buon esito solo perché per vivere ho bisogno di loro. Ero convinto che voi non li avreste mai usati come merce di scambio.»
   «Ho vissuto troppo a lungo con gli spiriti.» Mi intrometto, flemmatica.
   «Mm. Conversazioni disperate, immagino. Danno la nausea.»
   «Di norma non incontro spiriti chiacchieroni. Si limitano ad aspettarmi o a attaccare.» Di più la seconda parte. Non ricordo grandi conversazioni sulla durezza dell’esistenza.
Mi lancia un’altra occhiata, come se avessi fatto una confessione. «Gli esorcisti sono legati ai vizi capitali, no? Tu che esorcista sei?»
   «Superbia.»
Si gira appena, ammiccando. «Un po’ me lo immaginavo. E quello è il tuo vizio?»
Mi indica con la punta del mento Lie, che è rigido. Sorrido di rimando. «Se lo fosse eseguirebbe i miei ordini, no? Avvicinati al negromante.»
Lie mi guarda con occhi carichi di odio, stringendo le labbra. Piccolo appunto: ho dato a Lie anche l’ordine di non eseguire nessuno dei miei ordini di fronte al negromante. Direi che sono stata fin troppo previdente e ne avevo tutte le ragioni.
Il negromante si alza da terra, scuotendosi dalle ginocchia qualunque residuo. Una parte di me si chiede se sia giusto. Un’altra, e non so quale né con quanta intensità, mi intima a procedere. Lancio un’occhiata al cellulare, appoggiato casualmente su quella lapide, e mi incammino vicino al negromante. Ne sento la repulsione, come la sera prima. Sento il ribrezzo di stare al suo fianco che combatte con la necessità di quel gesto. Il negromante si sposta, in risposta al mio avvicinamento, posizionandosi vicino alla lapide di Chase. Incrocia le mani al petto, in preghiera. Ironico il gesto … disse l’esorcista reincarnata. Ne emerge una litania in latino, breve e quasi cantata. La candela ai miei piedi si spegne e si riaccende un secondo più tardi, con una fiamma più viva. Anche l’aria è cambiata. Ne percepisco l’elettricità e quello strano odore di pioggia in arrivo.
Il terreno balla sotto i miei piedi e mi ritrovo in ginocchio, nel tentativo di capire se il terremoto è effettivo o una qualche risposta a quello che stiamo facendo. Qualcosa si muove sotto di me. Tra le mie dita si sta formando una crepa sospetta che si avvicina alla lapide di Chase. Il negromante è immobile, gli occhi sbarrati quanto potrebbero essere i miei. Qualcosa non va. Non devo essere un negromante per capirlo. Mi fissa, un sospetto inizia a balenargli nella testa. «Co … chi …. Aveva detto che non era un esorcista!»
Arrogance emerge al mio fianco. «Dalila, lo sento.»
   «Mi avete mentito!»
Il negromante tenta di allontanarsi dalla lapide, ma qualcosa lo blocca. Apre la bocca in un urlo di dolore senza suono. Il terreno si apre e inizia a vomitare, a schiumare come un vulcano in ebollizione. Vorrei arretrare di un passo, ma sono inchiodata lì. Qualcosa si è agganciata al mio petto e sta prosciugando qualcosa di mio. Probabilmente, il mio potere di esorcista sta attirando quello di Chase. E quando guardo il negromante lo vedo contorcersi nel tentativo di tenere a sé gli spiriti di cui si è nutrito. Questi scappano, si ribellano, lo torturano. Qualcos’altro ha la meglio e ho dannatamente idea di cosa sia. Arrogance abbozza un sorriso e il negromante esplode in un lampo di tenebre che mi colpisce in pieno e mi fa crollare alle mie spalle. «Porca.»
Lie mi si avvicina. «Mai allearsi con i negromanti!»
Colpisce con la mano qualcosa sopra di me e il cellulare mi crolla in grembo. Mi abbandono in un’imprecazione liberatoria. Blocco la telecamera e me lo infilo in tasca. Lie mi sta ancora fissando e gli mancano le parole. Bene. Perché a me manca il fiato. «Hai la minima idea … sei una …. Come …?»
   «Il negromante?» Biascico.
   «È stato prosciugato del suo potere. Come supponevi, non poteva riportare in vita un esorcista. Questo non toglie che sei stata un’idiota a credergli.»
Il fine giustifica i mezzi. Dannazione, ci credevo davvero. Avevo mentito al negromante dall’inizio alla fine, ma se avessi riportato in vita Chase non mi sarebbe importato nulla. Sono l’esorcista della menzogna: non puoi credere davvero che abbia una qualche forma di moralità ancestrale. Mi sollevo, traballante.
Chase.
Lo vedo, gli occhi chiusi, sopra alla terra tombale. È leggermente smossa, ma non so definire se più o meno rispetto al nostro rituale. Il petto gli si alza e si abbassa al ritmo del suo respiro. Sento un singhiozzo. Oddio, sto pure piangendo. Mi avvicino a lui, ma Arrogance alza una mano. È preoccupata. «Ha sete. Sta morendo di sete.»
A parte il cellulare, non ho nulla con me. Mi avvicino alla borsa del negromante e guardo dentro. Ha due pugnali, perché la fiducia nei miei confronti era alla base del nostro rapporto, e una bottiglietta d’acqua. Bene. È stato gentile. La prendo e mi avvicino a lui. Gli sollevo la testa e lo pungolo. «Chase, apri gli occhi.»
Non è cosciente. Okay, attacco alla Philippe. Gli tengo strette le spalle con una mano, infilandogli l’acqua a forza in bocca. Se dovesse ribellarsi, non ho la forza di bloccarlo. Tentar non nuoce.
   «Deve bere. Deve bere tanto per riprendersi.»
Grazie Arrogance. Di questo me ne sono accorta. Dopo la prima ritrosia, ora Chase beve dalle mie mani con ingordigia. Finisco la bottiglietta troppo presto e frugo nella borsa per estrarne un’altra. Arrivo quasi alla fine, quando Chase emette un gemito. Alzo lo sguardo. Siamo in una zona off-limits. Se ci trovassero, attireremmo troppa pubblicità gratuita, troppe domande e non è quello che cerchiamo. Dobbiamo andarcene da qui e sono l’unica che può farlo. Stringo le labbra, guardando il ragazzo che sta riposando tra le mie braccia. Da domani, lo prometto, il mio obiettivo sarà quello di diventare una pallina muscolosa.
Mi alzo in piedi e cerco di caricarmelo in spalla. Ovviamente, crollo sotto al suo peso. Sono troppo esile e il mio desiderio di ingrassare deve aspettare ancora. Arrogance si avvicina. «Siete troppo magra.»
   «Ma va?» Riesco a dire, con la terra in bocca e le braccia che si dibattono nel tentativo di scrollarmi quel peso morto.
Arrogance riesce a sollevarlo con una mano. La fisso e comprendo. I nostri vizi possono mantenere la loro forma, se non ci toccano le mani. E, essendo parte di noi, loro possono trasportare l’esorcista come nulla. Se ferita, Lie potrebbe portarmi al sicuro. Certo, sarebbe un po’ ridicolo vedere un bambino trascinare un’adolescente, ma è fattibile.
Mi sollevo e l’aiuto a caricarselo in spalla. Agguanto la borsa del negromante. Dobbiamo mantenere l’anonimato sulle nostre esistenze e, soprattutto, dentro potrebbe esserci qualcosa d’interessante.
Arrivata a casa mi arrampico per la scala. Aspetto Arrogance e Chase. Riesco a tirarlo dentro con sbuffi e proteste. Per quel poco, i miei muscoli sono indolenziti. Lo stendo sul letto, scostandogli i capelli dalla fronte. Sta ansimando. Lo obbligo a bere poi, alla chetichella, prendo tre bottiglie di acqua dal frigo e le porto in camera. A intervalli regolari lo faccio bere.
Il suo vizio mi fissa. Lie brontola. Io ho la pelle che scoppia. Agguanto il termometro: trentanove. Dannazione. È l’una di notte e questo nuovo giorno mi fa schifo almeno quanto il precedente. Per lo meno ho qualcosa di cui rallegrarmi.
Non dormo. Fisso Chase riposare vicino a me, dandogli da bere con sempre meno vigore. Non ansima più, sembra solo addormentato. Ad un certo punto si gira su un fianco. È il primo vero movimento che gli vedo fare. Sfioro con le labbra la sua fronte. Profuma di terra e di vivo. «Non mi lasciare.»
Borbotta qualcosa nel sonno.
   «Sta meglio.» Guardo Arrogance che, come me, non distoglie lo sguardo. Ha un’espressione meno altezzosa e, quanto ricambia la mia attenzione, capisco che devo aver guadagnato qualche punto nella sua tabella personale. Piaccio al vizio della Superbia. Sono felice almeno quanto mi dissero in passato che ero l’esorcista della menzogna.
   «Me lo auguro.»
   «Vi devo chiedere scusa, Dalila.» La superbia mi chiede scusa? Devo segnarlo nel calendario. «Credevo che voi foste solo una che parlava e non si interessava a lui. Avete rischiato molto solo per riportarlo in vita.»
Sospiro. «Non mi devi chiedere scusa. Il mio carattere è tale che gli altri diffidano.»
   «Titus si è sempre fidato di voi. Credevo che fosse malriposta. Avete la mia benedizione.»
Cosa? La mano che accarezza i capelli di Chase si immobilizza. «Dubito che arriveremo a tanto.»
   «Vi ha amato in una forma e nell’altra. In qualunque modo lui emerga, sono certa che vi amerà anche così.» È in piedi davanti a me, gli occhi che indugiano su noi due seduti vicini. Sento il calore del corpo di Chase solleticarmi la gamba, la disapprovazione di Lie scuoiarmi viva dalla sua postazione vicino alla porta. «Se permettete, dovete riposare. Posso controllare la vostra famiglia e svegliarvi se ci fossero pericoli.»
Faccio un cenno col capo. «Grazie, Arrogance.»
Si incammina verso la porta e l’effetto della donna altezzosa scompare nel momento in cui passa attraverso il legno. Emetto un sospiro, guardando Lie. «Dovresti imparare da lei.»
   «Non mi aspetto critiche da un’esorcista che si è alleato con un negromante.»
   «Ho portato a termine l’obiettivo e ho ucciso il negromante. Tutto è andato come doveva.»
   «No.» La sua voce è tagliente. «Non è andata come doveva, Dalila. La tua temperatura è salita, non ti sei neppure accorta che stai sanguinando.»
Abbasso lo sguardo, per vedere una macchia scura allargarsi sui pantaloni, dai piedi fino all’inguine. Ora che me lo fa notare, in effetti mi sentivo un po’ umidiccia. Sì, però pensavo che fosse l’esito di forti emozioni, non di un’emorragia in atto! Continua. «E di certo il tuo corpo sarà peggiorato. Non giocherei troppo con la tua vita.»
Sospiro. Lui lo chiama giocare, io dico che ci siamo dati una speranza. Mi raggomitolo vicino a Chase, stringendo la sua schiena. Appoggio la testa vicino a lui, sentendo il suo respiro, i movimenti del suo intestino, il gorgogliare leggero di un futuro. Lui sarà in grado di dirci qualcosa. Lui troverà una soluzione. È una certezza che sfiora la disperazione. «Non ho nulla da perdere, Lie. Lui, all’opposto, può aiutare l’Ordine.»
   «Che intendi fare?»
   «Vivere la giornata. Lentamente. Mi sveglio alla mattina, dico a mamma che non sto molto bene, la convinco che devo stare a casa. Guardo come sta Chase. Vado da nonna e papà. Dico loro che gli voglio bene. Dico a Edward di fare il bravo. Vivo il nuovo giorno.»
Ho tanti dubbi, tante decisioni da prendere che al mio risveglio necessitano di prese di posizioni. Ho accantonato lo scoprire qualcosa su Johannes, Malachite e su questa terza reincarnazione. Anche Ridley si è fatto posto nella mia testa, perché non dimentico che lui ha incontrato il negromante, che lui ha attivato la Città degli Spiriti, che sempre lui mi ha risvegliato.
Ci sono troppi segreti da svelare, ma qualcosa ho fatto. Chase è tornato, ho ucciso il negromante e siamo tornati tutti e otto. Sì. Posso dimenticare il presente ancora per un po’. Stringendolo a me, sì, posso credere di essere una semplice adolescente che ha fatto entrare dalla finestra un ragazzo. Posso crederlo.
Ci credo.

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Capitolo 17
*** 17 ***


17
 
 
 
        Sono rannicchiata. La luce del nuovo giorno mi ha, finalmente, colpito il viso. Rimango immobile, terrorizzata dal fatto che farò tardi a scuola. No. Calma. Ho detto a mamma che stavo male e che non andavo a scuola. Ho chiamato Julia e le ho dato il compito, insieme a Jamar, di andare a prendere Robert. Ho svolto il mio compito, quasi. Dovrei essere io in piedi e non delegare il compito agli altri.
Apro un occhio. Degli occhi verdi mi stanno fissando, pensierosi. Mi manca il fiato. La mano di Chase sfiora il mio viso, concentrato. Non sembra lui, eppure lo è. Ora che lo guardo, vedo l’aria truce del vecchio Titus. Il suo sguardo carico di disapprovazione per un qualcosa che ho fatto. Quasi me lo aspetto criticare perché sono rimasta distesa a letto a lungo, completamente inerme di fronte a un probabile nemico. «Sono Chase Lopez, la reincarnazione dell’esorcista della Superbia, morto nel 1400. Sono tornato in vita … di nuovo?»
Ha la voce roca, le parole sono un misto di inglese e latino che ha mandato in pappa il mio cervello. Mi scosta un ciuffo dal volto, la sua espressione muta lentamente e l’arroganza fa posto al mistero. È passato dalla versione Titus a Chase senza che io parlassi. Pigolo. «Sì.»
Si avvicina. Sento il suo respiro solleticarmi la pelle, trattengo il mio perché non so quanto può essere pesante. Stupido pensare a un’inezia del genere, con una specie di zombie nel letto. L’ho appena pensato, e già me ne pento. Oddio, che sto facendo. Si limita ad appoggiare la sua fronte, tiepida, sulla mia. La differenza di temperatura è parecchio percepibile. Socchiude gli occhi, ricominciando una qualche nenia. «Sono Chase Lopez, la reincarnazione dell’esorcista …»
Lo lascio parlare. Deve essere importante. Posso solo immaginare cosa sia ritornare in vita dopo essere morti, di nuovo. Mi libero un braccio, appoggiando una mano sulla sua guancia. D’istinto la stringe a sé, portandosela alle labbra. «Bel …»
Sa il mio nome. Se la struscia, come se volesse annusare il mio profumo e imprimerlo. «Bel, che cosa hai fatto?»
   «Ho attraversato l’inferno per portarti indietro.» Apre gli occhi, radiografandomi da parte a parte. È in attesa. Intuisco che nel suo cervello il disco si è inceppato nella parte di “sono Chase Lopez, la reincarnazione”. Vorrei avere una spiegazione migliore, ma la verità è squallida quanto semplice. «Mi hai lasciato. Mi hai dato dei compiti che non potevo portare a termine. Io … io sono un’egoista. Ho bisogno di te.»
   «Parlami dell’inferno.»
È dura, ma mi costringo a prendere il cellulare. Fingo di non notare il sangue che mi circonda, il fatto che sguazzo allegramente all’interno dei miei stessi fluidi. Ignoro pure Chase e i suoi occhi, che chiedono altre spiegazioni. Sto morendo non rende l’idea, ma si avvicina molto alla realtà. Gli parlo di quello che è successo dopo la sua morte, del pianto di Robert, della disperazione degli altri, del fatto che io mi sentissi inadatta. Non dico disperata, che sarebbe stata la definizione più azzeccata. Poi spiego la mia intuizione, la mia botta di culo. Lo dico come se mi si fosse accesa una lampadina. Non protesta, anche se le sue labbra sono malignamente tese. Ora che ho iniziato, tutto viene più facile. La presenza di Arrogance, il suo aiuto, la ritrosia di Lie e le mie menzogne. Di tutto, l’aver mentito al negromante mi sembra la parte migliore. Poi gli passo il cellulare, spiegando che il video è stata una di quelle che lui avrebbe detto essere “intuizioni”. Forse è qualcosa di più, o magari era soltanto un modo per dirmi che ce l’avevo fatta. Lo avevo riportato indietro. E se non avesse funzionato, se il rischio del suo risveglio fosse stato quello di prosciugare me … beh, forse vedere il video sarebbe stata la mia richiesta di scusa per gli altri. Chase guarda il video, io chiudo gli occhi perché non sono pronta a rivivere.
   «Hai infranto quasi tutte le regole del nostro Ordine.» C’è una nota d’orgoglio nella sua voce. Nascondo la testa nel cuscino, annuendo. Sì, mi sono alleata con un nostro avversario, ho nascosto la verità agli altri esorcisti e ho vincolato a me un vizio che non mi apparteneva. Direi che non sono la migliore degli esorcisti.
   «Che devo fare, con te?» Mi sfiora con le labbra la fronte. «Grazie.»
   «Figurati.»
Le sue labbra sono ancora premute e, una parte molto grande di me in effetti, chiede che quel contatto non finisca così presto. Si tratta di Chase, però. Lui e il romanticismo vanno d’accordo come l’acqua con il fuoco. Emetto un suono strozzato, che trasformo in un colpetto di tosse quando lui si allontana. «Stai dormendo nel tuo sangue.»
E io che pensavo fosse acqua! Abbozzo un sorriso di convenienza, alzandomi dal letto. Ecco, pensavo di essere messa meglio. I pantaloni, che la sera prima erano neri, hanno chiazze rossastre in più punti. E se vedi il sangue nel tessuto scuro non è mai un buon segno. Faccio scivolare i piedi giù dal letto. Riesco a imbrattare il pavimento e le ciabatte sotto di me con il mio stesso sangue. Oggi sarà una goduria camminare per casa.
Alle mie spalle sento Chase tentare di alzarsi dal letto. Deve avere un qualche problema a livello nervoso, perché le gambe fanno dei piccoli scatti prima di muoversi effettivamente. Lo vedo concentrarsi, finché non si siede al mio fianco. Alza un sopracciglio. «Sei peggiorata notevolmente.»
Lie, traditore, borbotta da qualche punto dietro la porta. «Dalila direbbe che ha portato a termine l’obiettivo. È ininfluente che per riportarvi in vita abbia perso giorni della sua.»
   «Lie, fuori dalla stanza. Ora. È un ordine.»
Lo sento borbottare insulti, prima che la sua presenza si allontani. Brutto stupido. Deve proprio essere sincero quando c’è Chase. Il ragazzo si alza dal letto, con più sicurezza e meno scatti. Si inginocchia, sfilandomi i calzini. Non so cosa si troverà davanti, ma ogni protesta verrà interpretata per quello che è esattamente. Non voglio che veda come sono messa. Non voglio la sua pietà. Meno che mai voglio che si senta in colpa. La scelta l’ho fatta io, nel bene e nel male mi sono presa io la responsabilità. In fin dei conti, per quello che avevo previsto, mi è andata anche bene.
Emette uno sbuffo, tra la disapprovazione e un lamento. Muovo il piede destro. Bene. Sotto a quelle bolle e alla carne viva, i nervi devono essere intatti. Mi duole un po’. Bugia! Mi fa male e devo assolutamente mettere le bende perché se stringo la carne mi sembra di provare meno … tutto. Chase allunga una mano e prende le bende che ho lasciato vicino al letto quanto l’ho riportato a casa dal cimitero. Mi solleva i pantaloni fino al ginocchio. Si scosta, le fasciature in mano. «Togliti i pantaloni.»
   «Non mi spoglio davanti a te!»
Mi fissa, di nuovo con la sua espressione alla Titus. «Non c’è nulla di sessuale. Ti devo fasciare.»
Mi alzo, pericolante. Sì, beh. Quando pensavo a essere in biancheria davanti a un ragazzo, a quel ragazzo in effetti, di solito la parte sessuale era predominante. Ora, lo sfilarmi i pantaloni ha la stessa grazia sexy di nonna che mi chiede di metterle una pomata sulla schiena. Rabbrividisco. Lancio i pantaloni vicino alla porta, sedendomi sul letto. Le mutandine sono rosso sangue, ma l’importante è non fargli vedere che, uno, l’hai notato e, due, che sei appunto in biancheria davanti al ragazzo che ti piace.
Sono delusa, però. Non mi degna di uno sguardo, concentrato com’è sulle mie ferite. Il mio orgoglio, ormai dilaniato, è distrutto ancora di più. Chase procede con un metodo tutto suo. Prima avvolge stretta la benda al piede, aiutandomi a muoverlo con movimenti passivi. Non pretende un’escursione completa, quanto almeno che riesca ad appoggiare il peso a fare un passo. Poi lavora sul polpaccio, ginocchio fino ad arrivare alle cosce. Distolgo lo sguardo, pur non potendo ignorare le sue mani che sfiorano la pelle troppo vicina a una sottile striscia di stoffa. Sospira piano. «Le tue virtù sono al sicuro.»
Non gli dirò mai che sono amareggiata per una frase del genere. Non voglio al sicuro un bel niente. «Bene.»
Se entra Lie e dice qualcosa, è la volta buona che mi esorcizzo da sola. Si alza, distogliendo lo sguardo dalle gambe e fissandomi in viso. In effetti, il mio corpo non è quello che si definisce uno spettacolo. Ora sono una tavola da surf mutilata. Non posso pretendere che abbia qualche pensiero …. «Vado a vedere la situazione a Lenape.»
Mi alzo in piedi. Pessimo gesto. Stringo i denti perché il mio peso è troppo per le gambe. «Non puoi andare a Lenape.»
   «Ci sono delle questioni che necessitano di essere controllate.»
   «Chase non dire cretinate. Dopo quello che ti è successo, Lenape è l’ultimo luogo dove dovresti andare.»
Inclina la testa da un lato, con la stessa espressione che assume il docente di diritto quando mi dice la risposta a una domanda che non sono stata in grado di dare. «C’è sempre un motivo per quello che succede. Lenape non è esente.»
   «Sì, ma …»
Mi sfiora con la mano la guancia. «Ehi, faccio attenzione.»
Sì, e aggiungiamo questo all’infinità di questioni che dobbiamo risolvere. Lenape è stato l’inizio del problema. Distolgo lo sguardo, allontanando la sua mano. Sì, Chase e il romanticismo non vanno d’accordo. Dubito perfino che provi delle emozioni complesse. Se avesse un po’ di empatia, di certo non sarebbe uscito da casa mia, senza aprire bocca.
Se avesse capito il vero motivo per cui l’ho riportato in vita, non avrebbe distrutto il mio cuore. Di nuovo.
 
                                                             † † †
 
            Cerco di ignorare l’ombra di mamma alle mie spalle, guardando Edward giocare. Sono stata una stupida. Mi sono addormentata sul divano dopo essere andata dalla nonna e mamma, al rientro, ha avuto tutto il tempo per mettermi la mano sulla fronte e sentirmi la temperatura. Sono stata un’idiota, così mi sono messa il termometro sotto la maglietta, ho controllato a intermittenza l’asticella, in modo da fermarla a una temperatura ragionevole, e mamma ha ammesso che devo avere una bella influenza. Così mi sorbisco le sue occhiate preoccupate. Non posso neppure uscire di casa e mi tocca stare sul divano, combattendo contro il desiderio di togliermi tutti gli indumenti e correre felice incontro alla notte, con un libro in mano. Ho delle vampate di calore da far concorrenza a una sauna. «Tesoro, ti va bene se facciamo del riso in bianco?»
No, io voglio mangiare cinese. Sorrido a mamma. «In realtà ho fame.»
   «Meglio non appesantire troppo lo stomaco.»
Vaffanculo, Johannes. E vaffanculo pure a Malachite. Di tutto quello che hanno fatto, sorbirmi una cena così misera è la peggior delle punizioni. Qualcuno bussa alla porta e mamma va a rispondere. Giro la pagina del libro, anche se non lo sto minimamente leggendo. Edward borbotta. «Prendi questo!»
Vedo alla televisione una mossa che ho fatto io stessa contro uno spirito. Mm. Magari posso imparare qualcosa per osmosi. Come sto facendo con il libro, in effetti. Una mano gelida mi tocca la guancia, alzo la testa per vedere il sorriso di Chase. «Buona sera.»
Dopo che se n’è andato in quel modo la mattina, ha pure il coraggio di fare l’ironico? Saluta Edward, sedendosi vicino a me sul divano. Sbuffa piano. «Conta fino a dieci prima di offendermi.»
Distolgo lo sguardo, mentre l’omuncolo si getta contro un muro, sfondandolo. Direi che i giochi di mio fratello sono molto realistici. «Trovato quello che cercavi?»
   «Mi aspettavo qualcosa di meglio.»
   «Chase, non ti conviene tirare troppo la corda. Credimi.»
Appoggia una mano sulla mia coscia, trasmettendomi un brivido di desiderio che mal si adatta con il sentimento che sto provando in questo momento. E dannazione, corpo! Un po’ di dignità! «La zona sembra tranquilla. Qualunque cosa ci fosse, è stato richiamato. Sono andato anche nel negozio del negromante. Qualcuno deve averci preceduti, perché aveva tutto l’aspetto di essere stato perquisito.»
   «Non brillava per l’ordine.»
Sorride. «Parlo di fogli strappati, nomi illeggibili e cancellati. Sembra l’opera di qualcuno che nasconda indizi.»
   «L’Ordine sembra coinvolto?»
Alza una spalla, corrucciando la fronte mentre veniva riproposta una tecnica di combattimento. «Era quello che cercavo. Il nome di Johannes o Marco, però, non compariva. O era tra quelli cancellati.»
Mm. Un po’ troppo veloci nella pulizia dell’ambiente. Di certo nessuno sa quello che ho fatto. Non l’ho detto neppure agli esorcisti, quindi sono certa su quel punto. Però, Johannes era stato il primo a ipotizzare la presenza di un negromante in città. La questione mi puzza. Johannes e il negromante, in un’alleanza, non sembra un’idea tanto assurda. E il negromante non avrebbe mai ammesso di aiutare qualcuno che disprezzava. Neppure con dei suoi possibili alleati.
Mamma sorride a Chase. «Ti va bene se andiamo a prendere qualcosa? Ti piace il cinese?»
Borbotto. «Se le dici di no, si arrabbia.»
   «Amabel!»
Perché lui può mangiare il cinese e io mi becco il riso? Perché venti minuti dopo è così che si presenta la questione. Tutti mangiano il cinese, mentre la povera ammalata, ma neanche tanto ammalata, si ritrova a rigirare sul piatto qualcosa di bianco che non sembra digeribile. Il mio stomaco sta alla grande. Anzi. Sarebbe più felice se invece di digerire riso stracotto potesse avere anche lui la sua porzione di cibo spazzatura.
Dopo cena, io, Chase e Edward ci appropriamo della televisione. È un termine un po’ troppo ottimistico, visto che dubito che due persone fossero coscienti quando Spongebob ha deciso di fare un episodio sulla creazione di un panino. La mia dignità si deve essere persa da qualche parte, in questi giorni. Se seguiamo l’episodio, deve trovarsi proprio sotto al cetriolino.
   «È meglio che vada.»
Ci rimango un po’ male, perché avrei voluto più tempo con Chase. E anche una serata senza una spugna gialla sarebbe stata ottimale. Lo ammetto, il mio livello di indignazione è abbastanza elevato. Sono convinta di essere stata trovata meno attraente di un quartiere malfamato. Lo accompagno alla porta. Mamma va in bagno solo dopo aver convinto con urla varie che è il momento anche per i bambini di andare a letto. E Edward è partito per la sua camera dando battaglia. Apro la porta, abbozzando un sorriso di scusa. «Perdona … è un bambino.»
Chase mi prende il gomito con tanta forza che non reprimo una smorfia. Mi getta contro il muro ed emetto un gemito di dolore. Nei punti colpiti, che sono sedere, schiena e testa, domani avrò lividi. «Chase, che diavolo!»
La mano libera si aggancia dietro al mio collo, mi sento sospingere verso di lui e le nostre labbra si incontrano. Mi bacia come ho sempre sognato, con quella passione travolgente che ti lascia inebetita, fa spegnere le stelle e cazzate varie. Sento il suo labbro inferiore solleticare il mio, farsi largo nella mia bocca con decisione. La sua lingua sfiora la mia, e il bacio si trasforma di qualcosa di più passionale. Le gambe mi cedono e Chase è veloce a reggermi, avvicinandomi ancora a lui. Aderiamo al corpo dell’altro come due parti di un intero. Le mie mani riescono ad agganciare la sua maglia, a stringerla. Ci muoviamo in sincronia, con gesti lenti, respirando il profumo altrui, senza imbarazzo. È più naturale anche del respirare. Si stacca, ansimando. Riprendiamo fiato, ma non è quella l’aria di cui abbiamo bisogno. Abbozza un sorriso quando vede che mi alzo in punta di piedi per ritrovare la mia oasi e lui, dolcemente, mi fa aderire alla parete e ricomincia da dove ci siamo interrotti. La sua mano indugia sulla schiena, la massaggia trasmettendomi dei brividi del tutto diversi da quelli di freddo.
Sono solo labbra, sono solo le sue mani, ma sono qualcosa che mi fa bollire il sangue.

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Capitolo 18
*** 18 ***


18
 
 
 
          Ho gli occhi chiusi, la mente inceppata in qualche pensiero di cui mi sfugge l’entità. Sento solo le mie mani che gli hanno artigliato la maglia, una sua mano a contatto con la schiena, l’altra tra i miei capelli. Il suo profumo è un misto di terra e aroma del take-away. Lascia la presa e si allontana di un passo. «Scusa. Ho perso il controllo.»
   «Non mi lamento se lo perdi più spesso.» Biascico senza fiato.
E sorride. Quel cenno con le labbra, né Chase né Titus, solo entrambi. Vorrei parlare, ma sono imbarazzata per la piega della serata. In bocca ho ancora il sapore di Chase. Sa di pollo, anche. Non mi aiuta a far chiarezza. «Meglio che vada.»
   «Dove?»
Chase alza un sopracciglio. «Troverò un posto per la notte.»
Oh, merda. L’ho riportato in vita. E non può tornare a casa, perché ovviamente i suoi lo hanno seppellito. Gli altri ragazzi non sanno ancora quello che ho fatto, quindi sarebbero abbastanza sorpresi di trovarlo alla loro porta. Sempre, giusto, che l’orgoglio di Chase non rifiuti di essere aiutato da altri a priori. Dallo sguardo che mi lancia, capisco che è sempre stato nelle sue intenzioni dormire all’agghiaccio. La rabbia, sempre latente, prorompe. «Non fare il cretino.»
   «Il cretino
Per due che si sono appena baciati, sembriamo pronti per una battaglia. «Non puoi dormire all’aperto. Morirai di freddo!»
   «Dubito profondamente di essere soggetto a infezioni e malattie, dopo quello che è successo.»
Ho cambiato così tanto il corpo di Chase? In effetti, i negromanti non vanno in ospedale. A fare cosa, poi? Eppure quella sera Chase ha mangiato. Vuol dire che è in parte come un negromante, ma …. «Non sono un negromante, Bel.»
Come diavolo ha fatto sapere cosa pensavo? Alza un sopracciglio, rispondendo di nuovo. «Ti so leggere le espressioni.»
Gli prendo il gomito, prima che il mio viso esprimi fin troppo bene le mie intenzioni. Tutto sommato, che sia sorpresa o che se lo aspettasse, non fa resistenza. Gli chiudo la porta alle spalle, appoggiando un dito sulle sue labbra. Una porta si socchiude di qualche centimetro mentre spingo Chase contro alla parete, facendo scudo con il mio corpo. Importa a qualcuno che è più alto e decisamente più grosso di me? Mi auguro che tutti rimangono in qualunque stanza siano. «Bel?»
   «Sì, mamma. Fai pure. Dopo vado in bagno.»
   «Chase è tornato a casa?»
   «Sì.» Chase si limita ad alzare un sopracciglio. Andiamo: ho detto bugie ben peggiori! La porta del bagno viene chiusa nuovamente, Edward ha acceso la luce nella sua stanza. Vedo le immagini della lampada saettare nel divano. Quell’immagine mi stordisce un momento. Avevo quasi dimenticato quel giorno, quando io e papà siamo andati ai grandi magazzini e l’abbiamo presa. Edward aveva, e l’ha ancora, paura del buio. Così, di notte, accende quel piccolo carillon di luci, perché non saprei definirlo in altre maniere. E quelle immagini che lentamente si inseguono, facendo sgorgare dalle pareti una storia.
Scuoto la testa. Gli occhi sono leggermente umidi e sono costretta a sbatterli più volte. È stupido, ma so che per me non ci sarà un futuro. È davvero idiota pensarlo in un momento del genere. Questo non lo rende meno vero. Noi non siamo destinati ad un futuro.
Trascino Chase, brontolando a mezza voce. Lo faccio entrare nella mia stanza, dove Arrogance e Lie stanno aspettando. La mia camera è un luogo fin troppo affollato. Nessuna protesta da parte loro. Troppo tardi mi rendo conto che, per quello che mi riguarda, i pensieri hanno abbandonato il rimpianto e sono concentrati sulle labbra di un qualcuno. Lie corruccia la fronte, inclinando la testa in uno dei suoi sguardi scrutatori. Sì, direi che in questo nuovo secolo, il mio vizio sta imparando un sacco di informazioni sull’umanità.
Chase si libera dalla presa, incrociando le braccia al petto. Direi che è arrabbiato. Frustrata, alzo le mani al cielo. Di risposta, il ragazzo distoglie lo sguardo da me e fissa i nostri due vizi. Mi concentro su di loro appena in tempo, poco prima che Arrogance apra la bocca e si allontani di un passo da noi, appoggiandosi alla finestra. «Oh.»
Lie alza un sopracciglio, prendendo posto sulla sedia vicino alla scrivania. «Sì. Non saprei spiegare meglio le emozioni di Dalila.»
Non ci vuole uno psicologo per sapere che io e Chase, ognuno nella propria mente, abbiamo imprecato contro i nostri spiriti e dato ordine di andarsene. Per lo meno è quello che ho fatto con Lie e, visto che anche Arrognace se ne esce dalla finestra, deve averlo fatto anche lui. Chase mi fissa, il mento sporgente e le labbra sigillate. È dannatamente simile a Titus.
Dal corridoio arriva la voce di mamma. «Tesoro, ho finito.»
   «Sì, grazie.» È un po’ strano parlare ad alta voce, dopo tutti i nostri tentativi di non farci sentire. Indico a Chase la porta, tornando a quel bisbiglio frettoloso. «Vai a farti la doccia.»
   «E come? Tua madre di certo sentirà due volte la porta del bagno che si apre. Io non dovrei essere qui, Bel.»
Mi friziono la testa. Dannazione. Troppo da pensare e ho pure sonno. Ho anche paura di dormire, visto che la mia clessidra è pericolosamente vicina a svuotarsi, ma tralasciamo il terrore. Il mio cervello ha bisogno di una pausa, o va a finire che prenderò delle decisioni sbagliate. «Okay … okay … okay. Bene. Direi che andiamo in bagno insieme e ci facciamo la doccia.»
Questo è un classico esempio di quello che volevo evitare. Anche a mente lucida, però, quella è l’unica spiegazione. Io sono in condizioni indecenti, tra calore e bende ormai imbrattate. E anche Chase, immagino, non sia lindo e pulito. Solo il giorno prima era ancora dentro a una tomba. Non per niente ne porta ancora l’odore addosso!
Di nuovo non gli do il tempo di rispondere. Esco in corridoio, sbirciando dallo spioncino della porta di mamma. Si è appena infilata sotto le coperte, rannicchiandosi nel suo angolo. Non posso entrare da lei per rubare qualche vestito di papà, ma posso rubarli da uno degli armadi dove tiene vecchi abiti. Facendo il meno rumore possibile apro l’anta. Un piccolo scricchiolio mi mette in allerta e mi dilungo in un bel colpo di tosse per prendere una tuta. Non la guardo neppure. Se è lì c’è un motivo: o è una di quelle super grosse o Chase si troverà vestito come una cimice. «Bel, prendi qualcosa per la tosse.»
   «Sì.» Muovo le braccia per richiamare Chase. Ci infiliamo in bagno e, all’istante, arrossisco. Semplice causa effetto. Ringrazio che Lie non sia lì, perché spiegare quello che provo avrebbe richiesto un bel coraggio. Non ho ancora superato il trauma infantile di mamma e del suo dannato dvd per scoprire come nascono i bambini.
Indico a Chase la doccia, come se ci fosse bisogno di spiegare cos’è. «Bene. Vai prima tu. Non guardo. Mi … mi lavo i denti.»
Mi avvicino al lavello, ignorando il fruscio degli abiti che cadono a terra. Oddio. Prendo lo spazzolino e metto il dentifricio. Mi guardo allo specchio, non calcolando bene la tempistica. Un sedere attira la mia attenzione prima di scomparire tra le ante della doccia. Mi fisso allo specchio, la bocca aperta e gli occhi sbarrati. Beh, l’importante è bloccare Lie e impedirgli di dire qualcosa.
Mentre mi lavo i denti, appoggio l’asciugamano al vetro della doccia, cercando di ignorare il rosa che si presenta opaco. Io sono una persona malata. Non si può gioire dall’aver guardato una persona nuda!
Mi risciacquo la bocca, togliendomi il maglione. Rimango in canottiera e, così, inizio a sfilarmi le bende, mettendole dentro al cesto dell’immondizia. Lì, tra un fazzoletto e il filo interdentale ora c’è un chilo di sangue. Ogni benda che tolgo mi sembra di togliere una parte di me. Sono dimagrita tanto da quando ho iniziato a ricordare, e questo mi fa pensare a quanto devo aver mangiato come Dalila per aver una buona corporatura anche nel 1400. Le ante si aprono, Chase esce avvolto dall’asciugamano.
Bel, non guardargli il petto. Bel, non è educato. Però, dannazione se ha dei bei pettorali. Mi ritrovo lì, imbambolata, a spogliarlo dell’asciugamano con lo sguardo. La ferita al braccio sinistro è solo un segno rossastro, ormai vecchio da mesi. Non lo ricordavo così. La voce di Chase è dura, arrabbiata. «Ti ho lasciato l’acqua aperta.»
Oh. Non me n’ero neppure accorta! Gli indico il mio spazzolino senza dargli spiegazioni, con un dito sollevato a mo’ di ammonizione. Solleva un sopracciglio, come per dire “io? Sbirciare?”. Spero tanto che non sia come me, perché il suo sedere l’ho visto bene! Mi sfilo velocemente i vestiti e mi intrufolo nella doccia. Gioco un po’ con il caldo e il freddo dell’acqua, perché se da un lato mi sto già cucinando con il mio stesso calore, dall’altro mi fa troppo strano farmi una doccia gelata. Inizio a lavarmi e Chase mi appoggia l’asciugamano al vetro. Gli volto le spalle, convinta che il vedere il mio didietro sia meno imbarazzante per me di fargli scorgere qualcosa del davanti. Mi friziono con attenzione le ferite, ma ormai non smettono un secondo di sanguinare. È un po’ imbarazzante farsi la doccia nel proprio sangue. Fa anche schifo.
Esco pochi minuti dopo, avvolta nell’asciugamano. Chase mi volta le spalle. Sono stata brava. La tuta del papà è stata scartata solo perché sulla schiena ha la scritta “se non ti piace la patata, mangia la patatina”. Sono combattuta se stimare a mille papà, o chiedermi chi cavolo gliel’ha regalata. Mi infilo la biancheria pulita e la maglia del pigiama. Subentra il grosso dilemma delle bende.
Chase sospira. «Hai già finito?»
   «Mm. Quasi. Devo fasciarmi le ferite.»
   «Okay. Ti aiuto.»
Si gira, mentre mi siedo senza molta grazia nel bidè. Inutile sperare di avere qualche attrattiva sexy per lui. Sono più che altro una bambolina voodoo che deve essere raccapezzata alla bell’e meglio. Distolgo lo sguardo mentre con meticolosa attenzione, andando per gradi, mi fascia prima una gamba e poi l’altra. Gentilmente si gira, quando io continuo la fasciatura anche nell’addome. Bello schifo.
Per ultimo, acchiappiamo tutti gli indumenti sparsi per terra, chiudiamo il sacchetto delle immondizie e cancelliamo ogni indizio che indichi che in quella stanza ci sia stato un ragazzo o una che sta sanguinando.
Entriamo nella mia camera e Chase si infila sotto le coperte. Mi avvolgo in un asciugamano, in modo da non imbrattare anche lui durante la notte. Mi raggomitolo al suo fianco. È arrabbiato? Molto probabilmente. Il braccio dietro la testa lo fa sollevare un po’ con il busto, la sua espressione è in ombra. L’ultima volta che l’ho guardato, però, non mi faceva i complimenti. Emetto un piccolo sospiro, chiudendo gli occhi. La mia mente parte in automatico, con la lista della spesa: chiuso la porta, continuo con mamma la mia teoria dell’influenza, nonna può portare a scuola Edward. Mi sembra di aver fatto tutto. «È la verità? Mi hai riportato in vita perché non riuscivi a gestire la situazione?»
Ho ancora gli occhi chiusi, ma lo sa che non sto dormendo. È umanamente impossibile addormentarsi in un minuto. E, molto probabilmente, il mio corpo mi ha già tradito. Mi crogiolo al pensiero di poter scappare alla domanda. Non mi pungola, non mi obbliga a rispondere ma non gli posso fare questo torto. «No. Non è solo per quello.»
Taccio. Ci sono un sacco di spiegazioni da dare, troppi scheletri da dissotterrare. Troppi per due come noi. Davvero tanti. Però lui aspetta. Titus non forzava nulla. Attendeva che noi ci spiegassimo. Aspettava che fossimo pronti a parlare. Di nuovo, sono colpita dal fatto che vicino a me, in quel letto, ci siano due persone che si sono fuse. Apro gli occhi. La luce che entra dalla finestra mi permette di vedere il contorno degli oggetti, anche se sono fermamente concentrata sul fianco di Chase, a quell’ombra nera che si trova a un palmo da me. Emetto un altro sospiro, parlando così piano che le parole si confondono con il respiro. «Mi abbandoni continuamente. Non ti importa di cosa lasci dietro. Dai per scontato che io sia forte, quando in verità non lo sono. Davi per scontato che accettassi la tua morte come un dato di fatto, che eseguissi un tuo ordine senza battere ciglio. Non sono così. Sono stanca di essere lasciata indietro.»
   «Bel, io non ho mai voluto lasciarti indietro.»
Continuo come se non avesse parlato. «Mi hai promesso una vita insieme a te. Posso capire che non … non sarà possibile, ma non ti devi permettere di morire prima di me. Non puoi.»
Lo sento borbottare qualcosa, poi girarsi con qualche difficoltà. Siamo in due in un letto che dovrebbe contenere solo una persona. E di norma, questa persona è anche molto piccola. «Vieni qui.» Mi passa le mani intorno alla schiena stringendomi al suo petto. «Non me ne vado.»
Bugiardo. Però, mentre chiudo gli occhi, posso fingere che sia la verità. Solo per questa notte.
 
                                                             † † †
 
            Mi sveglio, i cappelli arruffati schiaffati nella guancia. Sbadiglio, guardando le lenzuola imbrattate. Direi che oggi faccio la lavatrice. Mi alzo dolorante dal letto, sentendo sotto i miei piedi lo scricchiolio di un foglio. Lo prendo. La scrittura di Chase mi avvisa che è uscito un attimo, per fare cosa poi?, e di chiamare gli esorcisti. Reprimo un altro sbadiglio. Prendo il cellulare e chiamo Julia, dicendole di venire a casa mia. Ci dividiamo i ragazzi da chiamare. Da lì a cinque minuti sono certa che tutti saranno a casa mia per le otto e mezza. Giusto il tempo di fare una lavatrice con tutto il sangue che ho ammucchiato in abiti, biancheria e lenzuola in questo giorni. Faccio pure il letto, rendendo la stanza più presentabile di quanto non è di solito. Chissà perché. Sesto senso? Mi aspetto una brutta giornata? Non saprei dirlo. Forse semplicemente mi fa schifo dormire in un posto che puzza di sangue.
Mi sistemo le bende, infilandomi sopra il tutto un paio di jeans vecchi e un maglioncino. Ritorno a dire che devo essere dimagrita parecchio, perché letteralmente ci navigo dentro.
Vado a fare colazione. Tiè! Esultante, prendo un avanzo di pollo alle mandorle e lo mangio così, senza riscaldarlo. Lo dedico al piatto di riso misto colla mangiato la sera prima. Mi preparo una tazza di the, non voglio indagare sul miscuglio che sto creando all’interno del mio stomaco.
Qualcuno bussa alla porta. La apro, reggendo una tazza di the tra le mani. «Jamar, Julia.»
Il ragazzo alza la testa, infilandosi in casa. Julia si guada in giro, alla ricerca di qualcosa. «Mamma è andata a lavoro.»
È più rilassata. «Bene. Come mai ci hai chiamato?»
Jamar si siede in una delle sedie intorno al tavolo, giochicchiando con il cucchiaino che ho usato per mescolare il the. «Non è chiaro? Il capo ha deciso che la scuola non è più importante.»
   «C’è una questione di cui dobbiamo parlare.» Sorseggio il the. Scotta! «Aspettiamo gli altri.»
Julia si appoggia al piano cottura, incrociando le braccia. «Non ci hai chiesto come è andato con la ricerca del negromante.»
Non l’ho chiesto per il semplice motivo che so come è andata. Mi limito ad annuire in modo convincente, facendole capire che tutto verrà a tempo debito. Nei successivi dieci minuti arrivano tutti. L’unico assente, in effetti, è Chase.
Mi metto a lavare le tazze della mattina, più per trovare le parole per dire quello che ho fatto che per mera necessità. Ho riportato in vita Chase? No, mi guarderebbero male. Ho trovato il negromante? A conti fatti, è la notizia meno importante della riunione.
Dove diavolo è Chase? È stato lui a fissare l’incontro! Io mi sarei presa un attimo di tempo per cercare di fare luce su come la prendono i ragazzi. Come a una risposta, qualcuno bussa alla porta. Robert ci fissa uno a uno, come per accertarsi che siamo tutti presenti. «Bene. È arrivato.»
Apro la porta e entra Chase, con il sacchetto di una pasticceria in mano.

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Capitolo 19
*** 19 ***


19
 
 
 
            Sono immobili. Chase appoggia il vassoio di brioches sul tavolo, abbozzando un sorriso. Rispetto al ragazzo appena svegliato del giorno prima che continuava a ripetere “Sono Chase Lopez”, il suo nuovo aspetto gli rende omaggio. Sospetto pure che abbia rubato i nuovi indumenti, perché di certo non indossa più la tuta troppo grande di papà. Mi mordo il labbro inferiore, appena ricordo il bacio tutt’altro che casto della sera prima. Sono del tutto convinta che, in un’altra situazione, la nostra relazione avrebbe subito quel dannato salto in avanti che aspettiamo da seicento anni. Bene: Dalila, non è il momento di pensare a porcate. Come Bel, sono molto giovane e perdere la verginità solo perché il mio ego passato è pronto non mi pare il caso. E dubito fortemente che, questa volta, ci sia in mezzo la lussuriosa presenza di Jamar nei miei pensieri.
Philippe si allontana dal tavolo. «Che diavolo …»
   «Bel.»
Chase pronuncia solo il mio nome, ma io so già cosa fare. Sospiro, estraendo il cellulare. Se avessi saputo che tutti avrebbero visto la mia performance, sarei stata più partecipe, meno di spalle, così da vedere il mio viso e non il mio culo per tutto il video. «Quando Chase è morto, ho scoperto che Arrogance è rimasta legata alla terra. In un qualche modo, il legame tra vizi ed esorcisti è mutato.»
   «Per le manifestazioni corporee?» Mi chiede Julia, corrucciando la fronte.
Annuisco. «Già. È molto probabile che quello abbia aiutato. Ho pensato alla nostra missione, al fatto che quella stessa sera Philippe e Jamar si trovassero a Lenape. Siamo arrivati lì per un errore. Noi puntavamo al negromante, perché si poteva trovare in zone che noi di norma evitavamo. Prima che si trasformasse in terreno di guerra, io non ho mai evitato Lenape. Io ho sempre odiato Maiden Street. Ed era lì il negromante.»
Robert guarda Chase, la mascella che pende sorpresa. «È opera di un negromante?»
   «L’ho trovato, abbiamo avuto un’interessante conversazione e questo è quello che è successo il giorno dopo.»
Lancio il cellulare a Eliza. Gli altri le si riuniscono intorno, osservando il video. Warren solleva un sopracciglio quando arrivano al punto in cui il negromante urla, dilaniato dallo stesso risveglio di Chase. Jamar si avvicina così tanto allo schermo che Philippe è costretto ad appoggiare una mano sulla sua spalla e a intimargli di stare fermo.
   «E come hai fatto a convincere un negromante?» Chiede Robert, curioso.
   «Ho mostrato la parte migliore di me.» Replico con un sorriso.
   «Cioè hai mentito da fare schifo?» Sì, si può dire anche così. Jamar scuote la testa. Ognuno usa le caratteristiche che gli appartengono. Io mento, lui … tromba? Mah.
Eliza sta ancora fissando lo schermo del telefonino, anche se il video non può essere durato così tanto. Gli altri hanno ripreso posto, Chase attende pazientemente. Se fosse per me, avrei strappato il cellulare a Eliza e avrei iniziato subito la discussione. Forse anche per questo è meglio che sia tornato Chase. L’aria si sta calmando. Finalmente la ragazza appoggia il cellulare al tavolo e incrocia il mio sguardo. Sta provando un misto di paura e riverenza. Poi abbozza un sorriso, e mi ricorda la Sura di un tempo, quella che mi diceva di dimostrare a Johannes che non siamo solo donne. Lo so. Siamo molto di più. Lo siamo tutti. Siamo degli esorcisti cazzuti.
Warren appoggia le mani al tavolo, avvicinando la sedia. «Okay. Che mossa facciamo?»
Tutto quanto si basa su come comportarsi ora. Sappiamo qualcosa che Johannes non sa. Da Lenape, ho evitato ogni contatto telefonico. Lui non ha il mio numero, quindi devo essere io a chiamarlo. Perché non l’ho fatto? Perché ammettere che Chase era morto mi avrebbe distrutto? O perché volevo avere una nuova occasione con lui? O perché, al contrario di tutti, sono convinta che il vero nome di Marco sia Johannes e lui non sia una semplice reincarnazione? Non lo so, ma adesso tutto si basa sul cosa fare. Non me ne intendo di giochi di strategia, possiamo dire che faccio schifo in tutto quello che ha anche solo a che fare con la guerra, ma dobbiamo mantenere la calma. Questo lo dice una che viene battuta a Monopoli dal fratello di sette anni. «Philippe mi ha detto una cosa giusta.» Da qualche parte, l’interessato sbocca per l’indignazione. «Ha detto che Lenape è stata una trappola che non è andata a finire bene. Ne sono convinta pure io. Non hanno motivo di volere la nostra morte. Oddio … non hanno motivo di voler anticipare la nostra morte.»
   «Però Chase è stato attaccato.» Bisbiglia Robert, come se sussurrare il fatto lo renda meno vero.
   «Non è stato uno spirito ad attaccarmi. Da quelli mi difendo. Ho sentito un colpo alle mie spalle.» Fisso Chase e lui annuisce. Quella parte deve essersi dimenticato di dirla … come no! Brutto bugiardo: non l’ha detta apposta!
Corruccio la fronte, alzandomi in piedi di risposta. Un attimo … un attimo. «Aspettate. E se Johannes non fosse mai morto …»
   «Ancora con questa storia, Bel!» Si lagna Jamar, attirandosi il mio sguardo e la mia risposta pungente. «Sì, ancora. Sono convinta che Marco sia Johannes, e non la reincarnazione. Comunque, se Johannes non fosse mai morto, potrebbe aver permesso lui che gli altri due, Malachite e l’Inquisitore, si risvegliassero. E se non gli avesse mai detto del rituale dell’immortalità, loro non avrebbero mai avuto l’interesse di volerci vivi.»
   «Spiegherebbe l’odio di tua sorella per te … e perché l’Inquisitore ce l’abbia con il capo del nostro Ordine. Sono legati a emozioni passate e ignoranti su tutto ciò che ci riguarda.» Bisbiglia Eliza. Trascuravo il fatto che tra l’Inquisitore e Titus non scorresse buon sangue, ma avrebbe tutto un senso. Titus era, ed è tuttora, il capo di ciò che l’Inquisitore aborra.
Julia scuote la testa. «No. Ti ricordo che tua sorella ha detto quella frase: c’è un qualcosa che noi esorcisti potremmo fare per fermarli, ma che non siamo disposti a compiere. Non è la frase di una che non sa cosa sta succedendo.»
   «Però l’Inquisitore potrebbe esserne all’oscuro.» Biascica Philippe. «Nessuno di noi, tranne Dalila, ha incontrato Malachite. Tutti, però, nel bene e nel male siamo stati uccisi dall’Inquisitore. Il suo coinvolgimento è stato più pratico. Chi mai crederebbe negli spiriti, negli esorcisti e nei negromanti, se non li avesse visti o non avesse una sorella legati a loro?»
   «Però dal negromante io ho visto qualcuno. Ho visto Ridley.»
   «Il detective?» Chiede Julia, alzando la testa alla ricerca di una pista. I suoi occhi sono duri e la somiglianza con Lartia è più che spirituale. In quel momento sono la stessa persona. «Che diavolo ci faceva da un negromante?»
   «Poteva essere coinvolto in qualcosa. Si tratta di Maiden Street, e il negromante poteva essere un …» Tenta Robert.
   «No.» E tutte le tessere iniziano a sistemarsi. Prendono posto in modo semplice, perché da sempre avevo la risposta davanti agli occhi. Guardo Chase. «No. Lie si è avvicinato a me quando si è reso conto che accettavo di vedere gli spiriti. E il primo spirito che ho visto è stato quello di Ridley. Nel tentativo di aiutarlo mi sono riavvicinata al nostro mondo. E è stata colpa sua se Lubris è diventata una Città degli Spiriti.» Oddio. L’ultimo giorno che ho visto la mia migliore amica, c’era anche lui. «Lui ha visto Mary … Malachite non la poteva conoscere. Lui deve averglielo detto. E ha visto anche te. Sa che sei un’esorcista, conosce Julia perché è una mia amica ma non può sapere che anche lei è un’esorcista!»
   «È il momento in cui ce la facciamo addosso?» Chiede Jamar, dannatamente serio.
Chase gli lancia solo uno sguardo di disapprovazione, per poi guardare me. «Bel, non lo puoi sapere.»
Lo faccio. Imito il suo tic, quello che mi ha lasciato perplessa. Con il pollice tocco le altre dita della mano, come se volessi contare, incatenata in quella monotonia. So anche chi guardare e mi dispiace. Fisso Robert, le sue pupille che danzano seguendo ogni colpo. Capisco di essere nel giusto quando lo vedo sbiancare, arretrando sulla sedia come se fosse appena stato fulminato. Anche Philippe lo nota, perché appoggia una mano sulla sua spalla. «Ehi, tutto bene?»
Robert distoglie a fatica lo sguardo da me, la bocca aperta. «Allora è lui.»
Dannazione. Ho salvato la vita a quello che mi ha ucciso seicento anni fa! Sono parecchio incazzata. E ha pure provato a baciarmi. Infilo le mani in tasca. «Merda. Salvandolo gli ho donato anche la nostra capacità di vedere gli spiriti.»
Jamar scarta l’incarto delle brioches, prendendone una. «Di questo Ridley che sappiamo? Devi spiegarci tutto con calma, Bel. È già un casino capire qualcosa con anime, negromanti e reincarnazioni.»
Agguanto due brioches, passandone una a Julia, che si trova più lontano dal tavolo. Jamar vuole una discussione per punti. «Ho incontrato Ridley quando era uno spirito. Mi ha inseguito, si è avvicinato e mi ha convinto che dovevo aiutarlo.»
   «Perché non l’hai esorcizzato?» Guardo Eliza, chiedendomi la stessa cosa. Cosa ho pensato in quei momenti? Alzo una spalla. «Non lo so. Sentivo che non era giusto esorcizzarlo. Non mi sono fatta scrupoli con nessun spirito, ma con lui sapevo che era sbagliato. Come quando ho esorcizzato un bambino in coma.» Distolgo lo sguardo da Eliza, per fissare Julia. «Anche lì sapevo che era sbagliato, ma non potevo scegliere.»
   «Okay.» Philippe stranamente prende in mano la situazione. «Hai incontrato questo Ridley. Poi?»
È difficile spiegare tutto quello che ho provato in quel primo periodo. Da Chase che sembrava nascondermi qualcosa, a Julia che mi odiava, a Lie che era comparso nella mia vita. La questione di Ridley mi è passata di testa, come un gioco che non meritava particolare attenzione. Scuoto la testa, perché delle parti centrali della storia non ricordo nulla. «So che quando mi sono scontrata con Warren, ho temuto per lui. Sono corsa in ospedale e lui si è risvegliato al mio tocco.»
Warren si pulisce con una mano le briciole della pastina dal mento. «Beh, ammetto che se avessi saputo dell’Inquisitore non mi sarei fatto pregare, ma non avevo motivo di ucciderlo. Fino a oggi, non sapevo chi fosse.»
   «E che significa che lo hai risvegliato toccandolo?»
Chase risponde a Warren e Robert, continuando però a guardare me. «La sua anima ha riconosciuto il pericolo. Siamo legati a Johannes, Malachite e all’Inquisitore. Le loro anime sono legate alle nostre. Significa che se noi li tocchiamo quando sono privi di conoscenza, potremmo indurli a risvegliarsi. Ci temono. Siamo le persone che provano rancore nei loro confronti.»
Philippe mi pungola con una gamba la coscia. «Continua.»
Prendo fiato. «Dopo che si è risvegliato è cambiato. È sempre stato cocciuto e testardo ma … era diverso. In un certo senso mi seguiva, mi pungolava perché ammettessi di essere Dalila, perché seguiva la pista di una ragazza che ...»
Jamar mi interrompe. «Sapevamo già di te, Bel. Julia a quel tempo ci informava.»
Beh, mi sento un po’ oltraggiata, ma cerco di dimenticare che in quel periodo non scorreva buon sangue tra di noi. «Sì … poi mi sono accorta che vedeva Lie e un altro giorno abbiamo subito un attacco. Sono stata costretta a esorcizzare davanti a lui uno spirito Caino. Lui si ricordava di me, vedeva i fantasmi e …» Socchiudo gli occhi. Anche in quel periodo mi ricordo che non mi piaceva la questione. «… voleva esorcizzare. Gli ho spiegato che solo gli esorcisti potevano farlo, ma lui continuava a volermi vedere per avere informazioni in merito. È stato il primo essere umano che ha visto gli spiriti, quindi a tempo debito ho capito che è stato lui il catalizzatore per la Città degli Spiriti.»
   «Come faceva a conoscere Chase?»
Alzo una spalla, distogliendo lo sguardo da Chase. È più facile fissare Philippe, anche se so che gli sto solo facendo del male. «Un pomeriggio Chase mi ha riportato a casa e ha incontrato Ridley. Quando se n’è andato, mi ha chiesto chi era e non ci ho pensato: gli ho detto che era il capo del nostro Ordine. E l’ultima volta che l’ho visto è stato quando sono andata a prendere un quaderno a casa di Mary. Il giorno prima che morisse. Dannazione. Quando mi ha chiesto scusa sapevo che mentiva.»
   «Per cosa ti ha chiesto scusa?» Caro Robert, grazie per la domanda che mi farà detestare sia da Chase sia da Philippe. Mi inumidisco le labbra. «Ha tentato di baciarmi e l’ho rifiutato.»
Jamar ridacchia. «Oh, cazzo. Hai rifiutato l’Inquisitore. Pessimo modo di attirare su di te il suo rancore. Questo è … ahn.»
Trattengo il fiato, abbandonando la testa sulla sedia. Porcamerda. Mary non è morta per darci un incentivo; lei è morta perché io l’ho rifiutato. O forse dal mio rifiuto è nata l’idea …. Non lo so. Quello di cui sono certa è che Mary sarebbe potuta essere viva se io non l’avessi portato da lei. Julia appoggia una mano sulla mia spalla. «Bel, non è colpa tua.»
   «Parole al vento.»
Rimaniamo in silenzio. Sono convinta della mia colpevolezza, ma so anche che non l’ho fatto apposta. Nulla mi faceva sospettare di Ridley. Nulla. O forse un sacco di cose che io ho sempre deciso di ignorare. Non lo so.
Jamar si porta una mano alla testa. Quando le appoggia al tavolo, i capelli gli stanno particolarmente ritti. «Come ci muoviamo?»
Ho un piano. Dannazione. È l’unica cosa che possiamo fare. «Dobbiamo andare dall’Ordine.» Guardo Chase. «Dobbiamo andare da Johannes.»

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Capitolo 20
*** 20 ***


20
 
 
 
        Ho appena detto agli altri che ho deciso di iniziare la mia carriera come coniglietta di Playboy. Deve essere per quello che mi stanno fissando come se stessi scherzando.
È Philippe il primo a riprendersi. «Vuoi che andiamo da Johannes?»
   «Esatto.»
Guarda il vassoio ormai vuoto delle brioches, alla ricerca di risposte. Di nuovo mi fissa. «Che diavolo c’era in quel dolce?! Non possiamo andare da loro!»
   «Beh.» Okay, la mia proposta è leggermente deficitaria in più di qualche punto. Io stessa rimanderei quel fortunoso incontro con il nostro vecchio mentore, ma rinviare non porterà a soluzioni. Semmai ci complica la vita. E, belli, complicarla più di così è difficile! «Tu stesso hai detto che Chase non sarebbe dovuto morire. Quindi non penso che ci faranno del male …»
   «Bellezza, Chase è morto. Senza offesa.» Chase rimbrotta un “figurati” da qualche parte. «E con questa premessa non sono il più felice nell’andare direttamente dall’Ordine, con solo la nostra sensazione che non ci sarà fatto del male.»
   «Giusto. Meglio rimanere qui ed essere certi che ci faranno del male! Rifletti, Philippe. Stiamo morendo tutti quanti. Che senso ha non fare nulla per impedirlo?»
   «No, non sto dicendo di non fare nulla per impedirlo. Ti sto solo facendo pensare al fatto che tu per prima non credi di poter far qualcosa. E anche qui abbiamo la prova, visto che abbiamo la versione zombie del nostro capo. Senza offesa, Chase.»
   «Figurati.» Rimbrotta di nuovo.
Mi alzo in piedi, perché stare seduta non rende abbastanza l’idea della necessità di muoverci. Ora che abbiamo l’ultima pedina del nostro gioco, perché stiamo parlando? «Dobbiamo andare da Johannes e pungolarlo quel tanto che si faccia sfuggire qualcosa. E …»
   «E poi?» Chiede Jamar, gli occhi socchiusi. «E poi che si fa? Ammettiamo che hai ragione, che Marco sia il nostro vecchio mentore. Che facciamo? Praticamente siamo dei reietti dell’Ordine, abbiamo Malachite e questo Ridley che controllano le nostre mosse. E siamo sinceri, non sappiamo di chi fidarci. Siamo il vecchio Ordine, Bel. Per loro siamo dei matusa che hanno casualmente l’aspetto di ragazzi. Sanno che siamo morti nel 1400, sanno anche il perché. E credi che si fideranno di noi, solo perché additiamo il dito contro il loro capo? Vediamo gli spiriti, facciamo gli esorcisti. Questo già ci fa prendere il treno di sola andata per l’ospedale psichiatrico.»
   «Non sto dicendo questo.» Rimbrotto. La verità è che stavo proprio pensando a questo!
Chase sospira e, come un sol uomo, ci giriamo a fissarlo. «Non possiamo rimanere fermi. Su questo ha ragione Bel. Un’unica cosa ho tralasciato di dirvi.» Si sfila la giacca della tuta, mostrando il petto nudo. La cicatrice che ieri mi sembrava vecchia da mesi, ora, è solo uno striscio traslucido. Si rimette la giacca, fissandoci. «Come potete vedere c’è un modo per bloccare il rituale. Ci basta del tempo per capire come impedire che voi moriate. Vi posso salvare. Questo non cambia.» Chase guarda Philippe, duramente. Nei loro sguardi c’è qualcosa che va oltre alle parole e che noialtri siamo esclusi. «Dobbiamo andare da Johannes.»
   «No, non ho detto questo!» Fisso Chase impietrita. «Di certo Johannes sa che sei morto, anche se non glielo abbiamo detto noi. Se c’è veramente Ridley dietro a tutto questo, lui deve averglielo detto. Tu sei il nostro unico asso nella manica.»
Abbozza un sorriso senza gioia. «È qui che discordiamo. Non se ne parla che voi andiate senza di me. Sono il vostro capo.»
   «Sei l’unica persona che in caso di difficoltà ci può tirare fuori.»
   «Un motivo in più per essere con voi nel momento del bisogno. Non sappiamo cosa aspettarci dall’Ordine e siamo rimasti aggrappati all’idea che Johannes era nostro mentore. No, Bel. Verrò con voi.»
Eliza sbuffa. «Siete dei pazzi entrambi.»
Warren appoggia i gomiti alle cosce, scuotendo la testa. «Ci hai insegnato a non farci prendere dalle emozioni. Chase, ha ragione Bel. Se dobbiamo andare da Johannes, tu sei la loro unica incognita. Non sanno di te. Cerchiamo di mantenere questo unico vantaggio.»
Robert sta seguendo il botta e risposta tra tutti, gli occhi sbarrati e la bocca ancora aperta. Vorrei dire anche a lui di stare al sicuro a casa, ma siamo davvero in salvo se stiamo lontani gli uni dagli altri? Dobbiamo assolutamente trovare un modo di … Chase sospira, mollando un pugno al muro. «Ho delle carte da guardare. Bel ha rubato la borsa del negromante. Può esserci qualcosa che ci interessa.»
Dire che gli scoccia non venire è palese. Mi infilo il giubbino, prendendo il telefonino e le chiavi di casa. Non mando nessun messaggio a mamma, perché se scopre che sono uscita mi ammazza. Si dà il caso che io dovrei essere a casa, moribonda, con una bella influenza che mi obbliga a mangiare riso stracotto e tanto riposo. L’opposto di come sto. Eccezion fatta per il moribondo. Lì la descrizione ci azzecca proprio.
Warren sta scegliendo una macchina, tra quelle parcheggiate fuori dai condomini. Un po’ come andare a fare la spesa tra i cassonetti delle immondizie. Lo stesso principio. Si prende anche la briga di scartare una macchina perché è troppo poco appariscente. Già. Non sia mai che l’enorme ics che pende sopra le nostre teste scompaia nel momento in cui saliamo in auto.
Ho imposto di salire tutti su una stessa auto. Sette persone sono un bel numero, ma io e Julia siamo abbastanza piccole per stare sulle gambe di qualcuno. Oddio, non so quanto le gambe di Jamar apprezzino i chili di troppo di Julia, ma anche lei è stata costretta a un dimagrimento forzato. Cerco di ignorare che tutti, nel bene e nel male, abbiamo qualcosa di malaticcio nell’aspetto.
Chase mi stringe il braccio, obbligandomi a rallentare e a fermarmi al suo fianco. Philippe ci lancia solo una veloce occhiata, prima di commentare qualcosa sull’auto. Ho il sospetto che stia cercando di attirare l’attenzione per lasciarci un attimo di tempo da soli. Chase comincia. «Rimango dell’idea che andare senza di me sia stupido.»
E questo, oltre ad averlo già detto, poteva dirlo anche di fronte agli altri. «Sì. Beh … sei il nostro colpo di scena.»
Non ride. Pessimo modo di sdrammatizzare la situazione. «Non mi piace lasciarvi andare da soli. Ho sempre la sensazione di non vedervi tornare.» Mi lascia il braccio, sfiorandosi il suo sinistro e spostando nell’altra spalla la borsa del negromante. «Ora non posso neppure sapere se voi state bene o meno.»
Alzo le spalle. «Hai visto abbastanza del mio corpo per sapere che siamo messi male. E che non sono per niente sexy.»
   «Non direi così.» Riesce a incurvare le labbra. «Lo specchio del bagno ha mostrato un bel corpo. E se non fossi sempre imbrattata di sangue, direi che hai delle belle gambe. Anche se questo potrebbe essere considerato disgustoso.»
   «Chase.»
Mi sfiora con le labbra la fronte. «Lo so. Ne riparliamo quando tornate. Adesso ti devi concentrare su Johannes.»
Gli do un buffetto sulla spalla, seguendo Robert in macchina. «Sì. Faccio il culo nero a quel cazzone.»
Mi siedo sulle gambe di Robert, sia perché quelle di Jamar sono occupate da Julia, sia perché sedermi su Philippe sarebbe abbastanza crudele, per almeno due ragazzi. Chase picchietta con le nocche al finestrino del guidatore, Warren dà un colpo di clacson e partiamo. Me lo immagino, il povero sventurato, che esce di casa e non si ritrova la sua vettura.
Mi muovo a disagio, appoggiandomi ai sedili davanti. Eliza mi lancia solo una veloce occhiata. «Okay. Andiamo all’Ordine. Non occorre che cerchiamo di non farci vedere. Anzi. Più attiriamo l’attenzione, più velocizziamo il tutto.»
Philippe colpisce la spalla di Warren. «Fai un testacoda all’arrivo.»
Jamar ridacchia, mentre io cerco di esprimere il mio disappunto. Beh. In effetti tutti quelli dell’Ordine presenti nell’edificio potrebbero uscire. E sono convinta che i testimoni ci possono aiutare. Di certo non incasinarci. Robert muove le gambe. «Sta scherzando, vero Bel?»
Scuoto la testa. «No, niente testacoda. Ci ammazzi tutti. Appena arrivi dai qualche colpo di clacson. Devono sapere che siamo lì.»
Warren volta all’incrocio, in silenzio. Mentalmente sto sperando che non faccia di testa sua. So che non è nel carattere di Maximus. Fare l’opposto di quello che si dice era in quello di Damide e, fortunatamente, Jamar è lontano da qualsiasi punto dove può combinare qualche casino.
Arriviamo nel piazzale della cattedrale. Ci sono delle macchine, il che ci rincuora nel sospettare che ci possa essere qualcuno di esterno all’Ordine. Come detto, Warren appoggia la mano al clacson e lì ci rimane per più tempo di una semplice suonata di arrivo. Alzo un sopracciglio, ma facciamo in tempo a uscire tutti e lui è ancora lì a strombazzare. Probabilmente, dovunque sia Chase, si starà guardando in giro e cercherà di capire chi sta continuando a suonare.
Warren scende dalla macchina, sgranchendosi le ossa e abbozzando un sorriso. «Solo un colpo di clacson, capo.»
Rimbrotto e ingoio la risposta. Entriamo nella cattedrale. È un mistero sul perché nessuno ci accoglie. Con il rumore fatto, mi aspettavo Johannes in persona alla porta. Senza degnare di uno sguardo al crocefisso, imbocchiamo il corridoio. Sono la prima della fila e sto seguendo una mia qualche intuizione. O sono le voci che mi stanno guidando? Sento un leggero bisbiglio da qualche parte e, arrivata a una porta, la apro con forza. All’interno ci sono parecchie persone.
E c’è pure Johannes.
Un uomo, il più giovane, si muove nervosamente e incontro lo sguardo eccitato di padre Samuel. È quello che, palesemente, è più felice di vederci. Un uomo grassoccio e dal viso roseo come il sedere di un porcello fa un grugnito. È quello, all’opposto, meno contento di sapere che siamo qui. Mi punta un dito grassoccio. «È chiuso. Niente visite guidate.»
Abbozzo un sorriso e fisso Johannes. È impreparato ad accoglierci ma, quando incontra i miei occhi, ha un guizzo e si ricompone. Si alza dalla sua sedia e con tre falciate è al mio fianco. Appoggia le sue mani alle spalle, lo stesso gesto di benvenuto che ci dava ogni volta che tornavamo da una missione particolarmente dura. È il segnale. Lui sa di Chase. Sa della sua dipartita. Philippe si irrigidisce al mio fianco e so che qualcun altro ha ormai avuto la certezza. Siamo tra i leoni.
   «Dalila! Non mi aspettavo una vostra visita!»
Guardo Johannes, poi gli altri. Anche l’uomo porcello abbassa il dito, sillabando il mio vecchio nome. Direi che quelli sono i nostri sostituti di questo secolo. Beh, niente male davvero. Dubito che qualcuno abbia mai visto un fantasma prima della Città degli Spiriti. Qualcuno mi colpisce con una mano il sedere. Una volta o l’altra, Jamar si prende una sberla. «Pensavo lo voleste sapere. Abbiamo trovato il negromante.»
È chiaro che non se lo aspettava. Le sue mani alle mie spalle allentano la presa. Stupito, scioccato, deluso? Molto probabilmente un po’ di tutto. Con una mano scosto le sue. Anche quel gesto, per Johannes, ha il mio stesso significato. Stiamo prendendo le distanze da lui. Come se me accorgessi solo in quel momento, guardo la congrega alle sue spalle. «Direi che abbiamo disturbato l’incontro.»
Johannes alza una mano, padre Samuel invita quelli che si sono alzati a riprendere posto. Sono seduti in cerchio, su delle sedie elaborate, anche se hanno tutto l’aspetto di fare un incontro degli Alcolisti Anonimi. Due di loro, per lo meno, hanno l’aspetto malaticcio e i tremori alle mani di chi è avvezzo a qualche vizio. Ci sorride, invitandomi all’interno del cerchio. In mezzo a tutti quei leoni. Pare notare la nostra titubanza, perché non insiste. Anzi. Con un altro cenno a padre Samuel, le sedie si girano verso di noi. Ci ritroviamo a essere fissati da degli sconosciuti, alcuni non molto felici del nostro arrivo.
Alle mie spalle sento il bisbiglio di Jamar. «Merda.»
Johannes prende posto. «Nessun disturbo per voi. Gli esorcisti sono sempre i benvenuti. Mi dispiace che non ci siano sedie per farvi accomodare.»
Alzo un sopracciglio, Johannes impallidisce. Sì, beh. Il fatto di sentire le menzogne ha i suoi lati negativi. So che mente, quindi …. «Il negromante ci ha dato delle informazioni interessanti.»
   «Informazioni? Di che tipo?»
Sto giocando a poker con delle carte disgustose, con la sola speranza di mentire abbastanza bene. Lascio passare un minuto di silenzio, in cui mi prendo la briga di fissare gli uomini seduti. Dovevo immaginarlo. Johannes è stato sempre molto misogino: neppure una donna. «In uno scontro, a Lenape, Titus ha perso la vita.»
Gli altri aspettano una reazione che so non può esserci. Tuttavia, capisco che qualche cosa non va lo stesso. È Julia che me lo bisbiglia all’orecchio. «Ira.»
Johannes è arrabbiato. Cerca di nasconderlo come meglio può, ma anche i suoi gesti mentono. Stringe i braccioli della sedia con troppa forza, le labbra sono contratte ma non come quelle di una persona dispiaciuta. Sta digrignando i denti. E poi, quando parla, lo sento. Sento la sua menzogna accarezzarmi la pelle, infilarsi sotto gli abiti, bisbigliarmi falsità alle orecchie. Mente. Quel che peggio, non può farne a meno anche se conosce la mia natura. «Mi dispiace molto per Titus. Ho letto che era un bravo esorcista.»
   «Il migliore.» Dice Philippe, e lo pensa. Forse è questo che fa male. Lui che invidia Chase.
Mi avvicino di un passo, facendo cenno con la mano agli altri di non muoversi. Gli occhi di tutti sono puntati su di me. È come quando mi sono trovata per la prima volta in quella Città degli Spiriti, con Maximus. Come quella volta, quando ho dovuto bisbigliare a mezza voce tutto quanto a lui, perché intercedesse per me. Perché ero donna. Perché era un periodo difficile. Perché non ispiravo fiducia. Sento la stessa pesantezza di sguardo. Siamo nel nuovo secolo. E io sono decisamente femminista. «Sembra che il negromante sapesse qualcosa sulla morte di Titus. Siamo stati troppo impulsivi. È stato ucciso prima di poter rivelare tutte le informazioni.»
Due uomini bisbigliano tra di loro. Li osservo per capire se sono con Johannes o si trovano lì per sbaglio. Dal labiale intuisco che sanno molto poco. Per lo meno non sanno che cos’è un negromante. Johannes si avvicina al bordo della sedia, come se volesse spiccare il volo. «Cosa vi ha detto?»
   «Ci ha detto che è stato contattato da qualcuno. Qualcuno che noi conosciamo e che non dovrebbe essere vivo.» Fa rabbia il fatto che effettivamente il negromante poteva dirci qualcosa del genere. Sappiamo per certo che era in contatto con Ridley, solo che quando ho riportato in vita Chase ancora non sapevo del suo coinvolgimento. Cerco di pensare come il negromante. Non posso dirlo di averlo conosciuto bene, sebbene sia stata per causa mia che è morto, però di una cosa sono sicura: conosceva i punti deboli di chi aveva davanti. Sapeva che avrei fatto di tutto per riportare in vita Chase; sono certa che Ridley abbia detto a lui più informazioni di quante Johannes si sarebbe arrischiato a dare. E sospetto che anche il nostro vecchio mentore lo sappia. «Non ha mai detto i nomi, anche se si è fatto sfuggire che sono tre. Tre persone che nel nostro passato hanno attentato alla nostra vita. Due li conosciamo.»
Sto fissando Johannes. Il poco di colore nel viso gli è scomparso, attaccandosi dispettoso agli occhi. Sembrano quelli di un drago che ha trovato la sua vittima. O quelle di un uomo disperato che sa di essere stato messo all’angolo. Sorrido, rassicurante. «Non sappiamo ancora chi possa essere la terza persona.»
Johannes apre la bocca e ne esce una flebile voce. «Chi … chi sono gli altri due?»
Alzo una spalla. «Su uno è solo un sospetto.» Punto tutto sul fatto che ho detto essere un maschio. «L’altra deve essere mia sorella Malachite. Lei stessa mi ha detto di averci traditi. Me lo ha detto nel passato … lo ha ripetuto in questo secolo»
Dalla sua espressione, e dal fatto che conosco mia sorella meglio di quanto apprezzi, so che non gli ha detto che ci siamo incontrate. Tic tac. Di chi ti fidi, ora? L’Inquisitore è già compromesso, ma ora ti trovi anche Malachite. Giro lo sguardo, cercando Julia. Mi abbozza un sorriso e un piccolo cenno con il capo. Ottimo. Abbiamo ottenuto un po’ di informazioni.
Arretro di un passo, dilungandomi in un altro sorriso falso nei confronti di Johannes. «Non abbiamo altre informazioni. Pensavamo voleste essere messi al corrente.»
L’uomo annuisce, portandosi una mano al mento. «Certo certo. Mi raccomando di fare attenzione.»
   «Lo facciamo sempre, quando entriamo nella tana del leone.»
Non l’ho detto con quell’intenzione, ma Johannes ha drizzato il capo e ha compreso più di quello che volevo. Ho usato una vecchia battuta, detta in un momento non molto opportuno, e lui ha capito qualcosa di più. Lui lo sa.
Ha capito che siamo implicati.
Jamar e Warren hanno una pessima tempistica, perché mi volto appena per vederli sogghignare e capisco anch’io. Siamo compromessi.
Da lì in poi, siamo in caduta libera.
 

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Capitolo 21
*** 21 ***


21
 
 
 
       Stiamo uscendo velocemente dall’Ordine. Dopo un po’ di inchini, complimenti vari, direi che stiamo scappando. Ci ritroviamo a passo celere all’entrata, poi tutti e sette scattiamo come se avessimo un diavolo alle spalle. Robert si infila per ultimo nella porta, sbattendosela alle spalle. Se non era chiaro, ora Johannes sa che stiamo scappando da lui. «Cosa è successo?»
Scuoto la testa. Porcamerda. Facciamo un altro scatto selvaggio lungo il parcheggio verso l’auto. «Sa di noi.»
   «Come?»
Apro la portiera e Robert ci si tuffa nel mezzo. Mi siedo sopra di lui con una sorta di tuffo. Jamar e Philippe fanno appena in tempo a chiudere le portiere che Warren è partito con una sgommata. Volevamo un testacoda? Ecco il testacoda. Si infila nella via sterrata, facendoci sobbalzare a ogni buca e non tentando neppure di rallentare. Robert pungola ancora. «Non capisco che diavolo è successo?»
   «Una serie di botte di culo e di doppi sensi interpretati nel modo corretto.» Replica Julia, le mani strette alla maniglia.
   «Ehn?»
Jamar impreca e si massaggia la testa dopo averla sbattuta contro il finestrino. «Robert, come interpreti la frase che facciamo sempre attenzione quando entriamo nella tana del leone?»
Sento Robert alzare le spalle, mentre estraggo dalla tasca il cellulare. «Io capisco che facciamo attenzione quando entriamo nell’Ordine. Non sappiamo di chi fidarci.»
   «Ecco. Sfortunatamente anche Johannes. Adesso sa che non ci fidiamo di lui.»
   «È solo una frase!» Rimbrotta scandalizzato. Sono io a rispondere, mentre il telefono di Warren suona a vuoto. «Solo che l’ho pungolato un po’ troppo per fargli provare delle emozioni. E lui deve aver avuto un qualche sospetto in merito. Per le emozioni?»
Julia risponde. «Incazzato nero.»
   «E invidioso di noi.» Replica Philippe con calma. E mente continuamente, ma quello lo sapevamo già. Dove diavolo è Chase? Gli abbiamo dato il cellulare di Warren appunto per essere reperibile in una situazione del genere! «Vaffanculo, Chase!»
Proprio in quel momento prende la linea e ne segue un secondo di silenzio. «Che casino avete combinato?»
Mi sposto il ciuffo dalla fronte, guardando di fronte a me. «Johannes è coinvolto fino in fondo. Io, Philippe e Julia abbiamo avuto conferme dei sospetti: a voce diceva qualcosa, le sensazioni che avevamo erano contrastanti. Credo di averlo pungolato un po’ troppo, e a una mia battuta sul fatto che facciamo attenzione quando entriamo nella tana dei leoni gli ha suggerito che noi sappiamo di lui.»
   «Merda.»
È piacevole sapere che sa sempre come rassicurare gli altri. Con un ultimo scossone, la macchina smette di sbatacchiare e ci ritroviamo nella strada asfaltata. È troppo presto per tirare un sospiro di sollievo e dire che ce la siamo cavata. «Ora stiamo tornando in città a …» Guardo il contachilometri e alzo un sopracciglio. Direi che stiamo facendo una gara di corsa con Vin Diesel. «… insomma, stiamo correndo.»
Warren lancia delle occhiate a intermittenza allo specchietto retrovisore. «Bel, abbiamo un problema.»
D’istinto guardo alle mie spalle, imitata da tutti i ragazzi. Interessante. Direi che lo sputacchiante padre Samuel non fa parte del gruppo dei nostri sostenitori. Ci sta inseguendo proprio in questo momento!
Padre Samuel è nel sedile posteriore, ma lo si vede chiaramente. Si tormenta le mani e, anche se non ne vedo l’espressione, immagino che quella sia la sua prima e vera azione. Alla guida e nel sedile passeggero al suo fianco, due tipi che fanno concorrenza a Warren per quanto riguarda la stazza. Robert si rigira sul sedile, sento i suoi occhi cercare i miei. Ho il telefonino premuto all’orecchio, Chase che mi chiede spiegazioni. Sto cercando di non pensare che è stata tutta colpa mia. Uno dei due estrae la pistola e vedo la mano sbucare dal finestrino. «Cazzo. Warren, pistola.»
Come non so, ma il ragazzo sterza all’improvviso e il colpo non va a segno. Ci deve essere un po’ di fortuna anche per noi, no? Dietro ci troviamo in un groviglio di corpi, distesa sopra Philippe e le sue gambe, non commentiamo su dove ho il viso, e Julia che sembra spingermi verso un punto di non ritorno. Facendo perno sulla mano libera, tento di sollevarmi. La voce di Chase all’orecchio non mi aiuta. «Pistola? Vi stanno sparando?»
   «Chase, attimo.» Sto tenendo su il mio peso e quello di Julia, e chissà chi altro, solo con una mano infilata tra le gambe di Philippe, un po’ troppo vicino a zone ambigue. Gli lancio una veloce occhiata, per vedere che è ancora sconvolto per la sparatoria. Poi fissa la mia mano, abbozzando un sorriso. Philippe, non in questo momento! Si protende, sento prima Jamar e poi Julia sollevarsi da me. Riesco a rimettermi seduta e a riportare la mano in una posizione più ragionevole. Stringo il sedile di Warren, per evitare di trovarmi in situazioni imbarazzanti. Di nuovo.
   «Sì, eccoci. Allora, ci stanno inseguendo due tipi e padre Samuel. Uno dei tipi ci ha sparato, ma Warren ha sterzato e non ci hanno colpito.»
Non ha senso. Per il rituale noi dobbiamo morire e … e noi stiamo già morendo. Perché spararci? Chase sbotta al mio orecchio. «È assurdo che dobbiate ripetere questo cazzo di circolo.»
Rompere il circolo. Noi possiamo impedire il rituale, ed è un qualcosa di tanto semplice che mi sembra assurdo che non ci abbiamo pensato. La questione non è, come abbiamo sempre creduto, impedire la nostra morte. È impossibile. Possiamo solo modificare il modo. Perché il rituale funzioni, occorre che noi moriamo nella stessa maniera del passato. Ecco perché Johannes era infuriato dopo la morte di Chase. Lui sarebbe dovuto essere l’ultimo. Doveva morire lentamente ed essere mutilato dopo ogni decesso dei suoi compagni.
Sono ancora in chiamata, ma Chase non ha ancora parlato. Lui sta cercando di salvarci. Non c’è redenzione. Non c’è una via di fuga. Lui non può più proteggerci. La mia voce è incrinata, perché di nuovo sto trascinando qualcuno con me. Di nuovo, sarò colpevole. L’unica differenza, in effetti, è che questa volta ne sono consapevole. «C’è un modo per impedire il rituale.»
Philippe mi fissa, corrucciando la fronte. Sento la mano di Robert ai fianchi, nel flebile tentativo di essere rassicurante. Anche Eliza si volta a fissarmi. Ma è Chase l’unico che comprende l’entità della mia frase. «No.»
   «E se fosse l’unico modo?»
   «No. Mi rifiuto di crederlo. Tu non puoi …?»
   «Chase.» Il suo nome lo zittisce, perché riesco a imprimere dentro tutta la dolcezza che fino a quel momento ero sempre riuscita a nascondere. Un bisbiglio, una preghiera, la menzogna di un futuro insieme. Tutto è diventato dannatamente semplice. Tutto sta per diventare ancora più complicato. «Ho ragione di credere che il rituale debba essere fatto a fasi. Io sono la prima a morire. Se è giusto, in ordine siamo io, Robert, Julia, Philippe, Warren, Eliza, Jamar. Infine tu.» È l’ordine in cui siamo morti. Dobbiamo interromperlo. Capisco che anche Jamar ha fatto due più due, perché stringe le braccia a Julia, come se volesse proteggerla da ogni male. La mano che regge il telefonino trema così tanto che mi sembra di andare in ipotermia. Strano, visto che la mia temperatura corporea è costantemente sui trentanove gradi. «Dobbiamo morire in un altro modo, in un altro ordine.»
L’ho detto. Warren non sterza bruscamente, Philippe e Eliza continuano a fissarmi, Robert non interrompe il contatto. Gli unici che ho paura di guardare sono alla mia destra e, quando trovo il coraggio, vedo Jamar con la fronte appoggiata a Julia, e lei che guarda la mano di Warren sul cambio. Poi la vedo sorridere e, finalmente, ricambia il mio sguardo. Non è arrabbiata. Mi dispiace … per loro figlia, per quello che non ci sarà mai, per quello che è troppo tardi per ricreare. «Bel.»
   «Lo pensi anche tu, no?»
Chase rimane in silenzio per una manciata di secondi, poi sospira e pronuncia quel tanto trattenuto «Sì».
Warren sterza bruscamente, imprecando. «Dimmi il piano, Bel, perché quelli continuano a inseguirci.»
Volto il capo, per fissare quell’auto seguirci ancora. Troppo bello il pensare di averla seminata. «Non ci vogliono uccidere. Hanno bisogno di catturarci vivi e lasciarci morire come nel passato.»
   «Nel linguaggio di Bel …» Sottoscrive Philippe con un sarcasmo tagliente. «… questo dovrebbe rassicurarci. In fondo, io morirò decapitato. Di nuovo. E questa volta senza lama!»
Sollevo un sopracciglio, mentre Robert ridacchia. Sì, beh. Lui sarà torturato, quindi non vedo molto il fatto divertente. «Chase, ci sei ancora?»
   «Te l’ho detto. Non me ne vado.»
Rassicurante e preoccupante allo stesso tempo. Ho bisogno che lui mantenga la lucidità, che sia fermo e sicuro, che non si faccia prendere dallo sconforto come quando morì lui. Ecco, se lui non si comporta come ho fatto io sarebbe un bellissimo passo avanti. «Chase, non devi assolutamente farti trovare. Johannes e gli altri dovranno credere che siamo morti. Devono …» Oddio. È così difficile dire cadaveri!
   «Vi devono trovare, ho capito.»
   «E niente autopsia.»
   «Arrogance sarà perfetta per una possessione.»
Cerco di non pensare all’ultima volta che l’ho vista dentro il corpo di un medico legale. Non è confortante. Tuttavia l’auto continua a seguirci e non sappiamo ancora come liberarcene. È ovvio che con la mia performance ho messo in moto qualcosa che non so controllare. Come è palese che avrei fatto meglio a starmene a casa, a cazzeggiare. Avrei posticipato quella sorte per un altro po’.
   «Ti amo.»
In un momento del genere? Apro la bocca, pronta per insultarlo. Quante volte avrebbe potuto dirmelo? Perché diavolo lo fa mentre sto calcolando come ucciderci tutti? Chiudo la bocca, mi inumidisco le labbra con la lingua. Me lo sta dicendo perché è la nostra ultima occasione. È la mia ultima occasione. «Anch’io.»
Fisso Julia, che corruccia la fronte. Lo ha capito? Sospiro, continuando come se niente fosse. «Rimane il problema che non possiamo farci catturare.»
   «E se vi devo riportare in vita come hai fatto tu con me, i vostri corpi devono essere intatti.»
   «Ce la farai a riportarci in vita?» Una nuova speranza inizia a nascere dentro ognuno di noi. Forse non è la fine. In cuor mio, però, so che esiti può avere. Il negromante che ho usato è stato consumato dalla forza di un solo esorcista. Io stessa ho sentito la mia forza attratta da quella di un altro esorcista. Qui stiamo chiedendo a un esorcista di riportare in vita gli altri sette compagni. Anche attingendo alla forza dei nostri vizi, è una missione altamente rischiosa. Però può essere possibile, con un esorcista del calibro di Chase … forse.
Chase mi risponde sicuro. «Sono il vostro capo. Vi riporto in vita.»
   «Molto bene. Io devo essere l’ultima. Devi promettermi che riporterai in vita prima gli altri.»
Dall’altra parte sento un mugugno, tipo un “certo”, ma non indago oltre. Se da un lato io potrei aiutarlo a riportarli in vita, dall’altro nel farlo consumerebbe troppa energia. Su una cosa sono certa: il mio essere esorcista è lievemente inferiore a quello di Chase. Come lui ha in parte prosciugato la mia energia al suo risveglio, così io potrei fare lo stesso con lui. Parlo ad alta voce. «Molto bene. Ora dobbiamo scegliere solo un modo in cui morire, far in modo che i nostri corpi rimangano intatti e … sì, puntare tutto su Arrogance e la possessione del Medico Legale che ovviamente ci dovrà fare l’autopsia.»
Robert avvicina la bocca al mio orecchio, in modo da parlare a Chase. «Possessione? Beh … puoi usare anche i nostri di vizi, no?»
   «Dì a Robert che ho capito. All’occasione farò in modo di usarli. Quello che mi creerà problemi, immagino, sarà Lie.» Borbotta Chase.
Non nego né confermo. Dipende dalla giornata. Faccio un cenno con la testa a Robert, mentre Julia si muove di scatto, allungando una mano e colpendo al mio seno destro. O dove dovrebbe esserci, visto che dalla manata quel poco di tetta si deve essere ritirato dentro al costato. «Ehi, punta verso il fiume Hudston.»
Warren corruccia la fronte. «Ti va di volta il cervello? Non so se te ne rendi conto, ma andare verso Hudston significa passare nelle zone ad alta affluenza di traffico. Forse non ci vedi, ma stiamo andando ai centocinquanta. E quelli sono ancora dietro di noi.»
   «Ubbidisci!»
Il ringhio di Julia fa sobbalzare Warren, e praticamente tutti noi, ma imbocchiamo verso il fiume. Siamo costretti a rallentare e, fortunatamente, il traffico è di impiccio anche agli inseguitori. Chase mi bisbiglia, sempre a contatto telefonico. «Julia vuole farvi annegare.»
Bene. Morte lenta, sicuramente dolorosa visto che impediremo che i nostri corpi sobbalzino in auto, respireremo acqua ma, sì, noi saremmo intatti. Bella idea e pessimo modo di trapassare. «Ti mando il video.»
Interrompo la chiamata e lancio il cellulare a Eliza. Niente addii, troppo deprimenti. E neppure arrivederci, visto che non sappiamo se affettivamente ci sarà un domani. L’ottimismo se né andato da un bel pezzo. «Manda a Chase il video di quando il negromante lo ha fatto risorgere. E mettetevi tutti quanti le cinture.»
Mi alzo sulle gambe, per sporgermi verso il volante. Warren continua la guida, apparentemente disinteressandosi del passeggero vicino a lui. «Dobbiamo avvicinarci al fiume il più possibile. Quando te lo dico, lascia il volante a me.»
   «Ti va di scherzare?»
   «Warren, sono l’esorcista con più esperienza e fino a prova contraria in questa auto sono un vostro superiore. Devi ubbidire ai miei ordini. E poi dubito profondamente che tu voglia essere colpevole di aver ucciso gli altri.» Il labbro inferiore trema. «Blocca le uscite, mettetevi le cinture e preparatevi a morire annegati. Mi dispiace Julia. Per te sarà la seconda volta.»
   «Non ti preoccupare.» Il suo tono mi fa preoccupare eccome.
Sento qualcuno trafficare dietro di me e, quando volto le spalle, vedo Philippe sganciare la cintura a Robert e porgermela. Lo guardo un secondo, prima di farmela passare sulle spalle. Io e Robert siamo agganciati sulla stessa cintura. Probabilmente l’impatto mi farà sballottare all’indietro, ma dubito che i miei chili siano il problema più preoccupante per Robert. Sempre meglio di rischiare danni più importanti non avendo nessun tipo di protezione. Il negromante era stato chiaro: i corpi devono essere i più intatti possibili.
Chiudo gli occhi, cercando di sentire la collana che mi ha dato Chase a contatto con il mio petto. Mi fido di lui. Per quanto posso essere scettica, lui farà del suo meglio. E, in ogni modo, dobbiamo interrompere quel circolo perché non possiamo permettere che il rituale per l’immortalità vada a buon fine.
Una mano mi stringe la mia, ancora agganciata al sedile. La mano sinistra è tesa verso l’ignoto. Guardo Julia, che mi sorride. A lei va bene. Mi dispiace … davvero. Per tutto, mi dispiace. «Ora.»
Warren lascia il volante e io prendo il controllo dell’auto. Per un secondo, un glorioso secondo, penso che sto guidando senza patente. Yuuu! Esaltazione massima. Poi penso che quello potrebbe essere il mio unico momento di gloria con la macchina. Stiamo procedendo per la strada, costeggiando il fiume. Guardo il marciapiede, cercando un punto che possa essere idoneo per quel suicidio di massa.
Okay. La mano sinistra stringe il volante e con un colpo faccio sbandare l’auto. Sfondiamo il guardrail, vedo il fiume bigio avvicinarsi all’auto. L’impatto mi fa abbandonare il volante.
E poi, tutto diventa nero.

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Capitolo 22
*** 22 ***


22
 
 
 
          Mi ritrovo in un ambiente bianco. Sono rimasta per così tanto senza luce e materia che vedere tutto quel bianco mi dà la nausea. Continuo a non aver percezione della mia presenza, solo un orizzonte bianco. Vorrei camminare, ma mi mancano le gambe. Mi ostino a pensare di andare avanti e, all’improvviso, sono davanti a un gruppo di persone. Le definisco così, in mancanza di termini migliori. Hanno un volto e un corpo, ma il loro aspetto cambia così tanto velocemente che non faccio in tempo ad abituarmi a un particolare. Dapprima mi ritrovo davanti a una donna bionda, poi posso avere un anziano calvo. Il colore dei loro occhi, della pelle, dei capelli, il loro stesso corpo è un arcobaleno infinito che si ripete in un circolo senza fine.
   «Sei arrivata.»
Le loro voci sono un’infinità di voci tutte insieme. Bambini, adulti, maschi, femmine. Un’infinità di persone che si sono incontrate per parlare. I loro sguardi, qualunque colore predomini, sono puntati su di me. Sono al centro di una maligna attenzione.
   «Questo tribunale vi giudicherà.»
Mi accorgo di avere un corpo. Mi fisso la mano diafana, così perfetta senza le callosità e la sporcizia del mio tempo. Ho le spalle nude, ma non mi crea problemi. Credo di avere un vestito bianco, ma non distinguo altro. Guardo dietro di me, accorgendomi che una sedia mi sta aspettando. Torno a fissare quelle figure dinnanzi a me. Ho la spiacevole sensazione che il giudizio sarà tutto di parte.
   «Avete commesso molti crimini nella vostra vita.»
   «Crimini?» La mia voce è gracchiante, come quella di qualcuno che non la usa per troppo tempo. La sento mia e, allo stesso tempo, mi è aliena. Una fitta alla testa mi obbliga a chiudere gli occhi. Il fumo mi ha annebbiato i sensi, tossisco e le gambe mi stanno andando a fuoco. Vorrei urlare e non posso.
   «Sì, crimini.»
Cerco di abbandonare il dolore. Sollevo la veste bianca, vedendo i miei piedi diafani perfetti come non lo sono mai stati prima. «Non ho commesso alcun crimine.»
   «Voi negate quello che siete.»
E poi capisco perché quelli mi sembrano persone familiari. Sono tutti gli esorcismi che ho fatto, tutti gli spiriti che ho fatto ascendere. Sono un’infinità. Arretro di un passo e urto la sedia alle mie spalle. «Questo tribunale non emetterà una sentenza giusta.»
   «Questo tribunale è tutto ciò che vi meritate.»
Scuoto la testa. «Ho salvato ognuno di voi. Ho fatto in modo che voi ascendeste e foste liberati dalle pene terrene. Ciò che merito non è rancore.»
   «Voi avete agito per puro vizio.»
   «No.» La mia voce è decisa. «Ho fatto in modo che voi foste liberati dalle catene terrene, ho sacrificato la mia vita per permettervi di ascendere! Questo tribunale non mi può giudicare. Mi oppongo!»
Lo sento. Un cambiamento impercettibile, quasi, se non che me lo aspetto. Chiudo gli occhi al punzecchiare dei piedi, al formicolio che sale lungo la gamba. E quando immagino sia finito, apro gli occhi e guardo il basso. È come il saluto a un vecchio compagno. Sono io e non lo sono, in effetti. Le mie gambe sono ferite, ustionate, imperfette. In un qualche modo quel vecchio corpo mi appartiene. Il problema è sempre stato essere Amabel con la mente di Dalila. Non è più un problema. Non lì. Sono entrambe e, in verità, non sono nessuna.
Alzo lo sguardo per incrociare quelle chimere ribelli che mutano, rimangono uguali. Abbozzo un sorriso, consapevole che la rabbia di Dalila non mi deve appartenere. Io non sono stata bruciata sul rogo. Non necessariamente devo essere arrabbiata. Ho passato la maggior parte della mia vita e della mia morte nel rancore. È ora di andare avanti. Incrocio le braccia al petto. «Fico. Voglio dire, dopo seicento anni siete ancora qui, ad aspettarmi? Pensavo che foste meno stupidi.»
Sono indignati. Una sfilza di volti olografici mi tormenta gli occhi e nessuno di quelle espressioni sembra essere felice di me. Bene. Neppure io lo sono di loro. «Come osi!»
   «Allora, mettiamo in chiaro la cosa. Voi mi avete già giudicato, no? Questo è solo un ricordo.»
   «Voi avete fatto una scelta.» Mi sarebbe piaciuto tanto che la smettessero di parlare con tutte quelle voci. A lungo andare, dava i nervi. «Voi avete scelto di tornare indietro.»
Scuoto la testa. «Na. Non credo proprio di aver mai fatto una scelta del genere. Sono piuttosto cocciuta. Di rado ritorno indietro sulle mie scelte.»
   «Voi avete scelto di ricongiungervi con i vostri compagni.»
   «Sì, questo è più da me.»
   «Noi vi abbiamo punito togliendovi la memoria.» Questo spiegherebbe perché, tra tutti, io non ricordavo il passato. Brutti stronzi. Continuo a fissare quella carrellata di spiriti. Uno di loro, sulla destra, avanza con calma. Si stacca dal gruppo, come per allontanarsi dalla sentenza. E più si avvicina a me, più la sua figura acquista un’unica forma. Sto fissando la copia di Lartia, con piccole differenze. Sto guardando sua figlia. «Voi vi siete macchiata di crimini imperdonabili.»
   «La mia parola contro la vostra. Siete tutti rimasti qui, nei secoli, per cosa? Vi siete mai chiesti, piccoli ingrati, a cosa serviamo? Siamo esorcisti, il nostro compito è quello di permettere una distinzione tra il mondo dei vivi e quello dei morti. E voi, giusto per la cronaca, siete morti. Immagino che siano parole troppo difficili, per spiriti che covano rancore da secoli, no? Okay … diciamo che voi siete una zuppa di cipolle e i mortali una zuppa di patate. Vi ostinate a diventare una zuppa di patate, ma gli unici ingredienti che avete sono le cipolle. Gli esorcisti sono dei cuochi, che vi fanno essere solo una zuppa di cipolle.»
In teoria sono morta, eppure parlare di cibo mi mette appetito. Come, dall’espressione della figlia di Lartia, essere paragonata a una zuppa di cipolle non ha migliorato il suo umore. Né quello degli altri spiriti. Cerco di modificare le frasi, per quanto non posso rimangiarmi il fatto che gli ho dato della cipolla. «Sia chiaro, non sto minimamente cercando di giustificarmi. Solo che è un po’ stupido incazzarsi con me per un qualcosa che siete voi. Quando siete morti, potevate non desiderare con tutto voi stessi di rimanere aggrappati al mondo mortale. Potevate non odiare.»
La ragazza arretra di un passo, il suo volto si sfigura diventando qualcun altro, in una nuova carrellata di immagini. Vedo lo spirito cambiare nuovamente forma e congiungersi al resto della giuria. Non ne ho esorcizzati così tanti! Okay, mi sono data da fare nel passato e nel presente non mi sono grattata, ma lì si va sul ridicolo. E che cavolo! Sono giudicata anche dagli spiriti dei miei compagni esorcisti! «Vi rifaremo la stessa domanda. Volete avere un’altra possibilità?»
So che, qualunque sia la mia risposta, loro si porteranno via qualcosa. La mia memoria, una parte del corpo, la mia sanità mentale. Non tornerò indietro integra. La domanda è: sono in grado di sopportarlo?
Da qualche parte sento una voce che mi chiama. È stranamente familiare. «Bel … Bel.»
Mi chiama dolcemente e alzo gli occhi in quel bianco accecante. Non lo so. Non so se sono in grado di sopportare, ma ho un compito. Me lo ricorda quella voce. C’è qualcuno che mi aspetta. «Sì.»
   «Vi porteremo via il tempo. Patirete il senso dell’abbandono. Anche gli altri hanno scelto.»
Cosa? Gli altri? Siamo stati tutti portati lì e abbiamo scelto di ritornare indietro? E dove è la punizione della memoria? L’abbandono sembra essere qualcosa di più tragico. Faccio per parlare ma nel ventre qualcosa mi fa sussultare e sono sbalzata verso l’alto. Chiudo gli occhi e stringo i denti. Dannazione, fa un male cane.
Apro gli occhi. Sopra di me, il cielo è illuminato dalle stelle. La notte è tutto sommato buia. Intorno a me sento il canto di un grillo, demoralizzato. Un pipistrello plana sopra la mia visuale. Sono distesa su un terreno soffice, come di terra smossa. Ho male tutte le ossa, la gola è un tormento e la mia vista non è mai stata così deficitaria. Il cervello è inceppato. Non so perché sono qui, distesa. Non so che giorno è, o chi è vicino a me. Sento solo l’inconfondibile suono di una persona che parla, quasi supplica qualcuno senza ottenere risposta. Un “ti prego” bisbigliato alla notte. Cerco di muovere una mano, poi mi sorprendo a pensare che è meglio cercare di ricordare la posizione di un dito. Sento il terreno, quindi devo avere per forza un corpo. Quella è l’unica certezza sul fatto che sono viva. Io sono viva. Chi sono, io? Un ammasso di carne, buttata su un terreno, o sono qualcosa di più? Punterei su una centrifuga di ignoto.
Riesco a far ciondolare la testa di lato, per quanto tutto il resto del mio corpo sia lontano dal mio dominio. Una ragazza è distesa poco lontana da me. I suoi occhi sono aperti e fissano l’orizzonte. Indossa dei begli abiti da cerimonia, i suoi capelli neri sono acconciati con cura. Deve essere andata a una qualche celebrazione, ma perché è distesa come me, a terra? La conosco? Il suo petto si alza e abbassa al ritmo di un respiro difficoltoso, come se stesse rivivendo una brutta esperienza.
Una mano stringe la mia. Il suo sorriso. «Julia.»
Di certo non mi ha sentito. È materialmente impossibile perché anch’io ho difficoltà a sentire la mia voce. Io sono Amabel, sono un’esorcista e, non so il perché, sono viva. Sto ricordando che sono morta, di nuovo, annegata. Che cosa provo ogni volta che vedo il fuoco? Ho il terrore, perché tra le fiamme mi è stata portata via la vita. E lei, la mia migliore amica, lei è morta annegata per due volte. Non posso neppure immaginare il dolore. Riesco a muovere la mano. Centimetro per centimetro le mie dita si allungano, si stendono, si avvicinano alla sua mano inerme. Stringo il terreno per darmi forza e poi di nuovo: allungo, stendo, mi avvicino. Sono a un centimetro dalla sua mano, ma da lì non mi muovo. Tutti i miei muscoli sono tesi, in procinto di prendere il volo. Tutto è allungato e pesante. Sono inchiodata nel terreno, ignorando l’odore di morte che ci circonda. Perché il terreno in cui mi trovo è terra consacrata, è la terra di un cimitero. La terra smossa altro non è che il luogo in cui io sono stata seppellita e, ora, mi ritrovo di nuovo lì.
Devo prendere la mano di Julia. Lei non se ne deve andare. Non deve lasciarmi sola come Mary, come Chase … o come io ho fatto con la mia famiglia. Il dolore di chi ho lasciato indietro, di chi se n’è andato con me mi deve stimolare a muovermi di più, a prendere coraggio, a non lasciarla andare. Lei deve rimanere con me, perché quella è la parte più importante. Non rimanere sola.
Poi, senza preavviso, la sento emettere un gemito. E la sua mano si muove, sfiorando la mia.
 
FINE DEL QUARTO LIBRO

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