Il Regno dei Draghi di Eilan21 (/viewuser.php?uid=167267)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciotto ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannove ***
Capitolo 20: *** Capitolo venti ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventuno ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventidue ***
Capitolo 23: *** Capitolo ventitré ***
Capitolo 24: *** Capitolo ventiquattro ***
Capitolo 25: *** Capitolo venticinque ***
Capitolo 26: *** Capitolo ventisei ***
Capitolo 27: *** Capitolo ventisette ***
Capitolo 28: *** Capitolo ventotto ***
Capitolo 29: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Capitolo uno ***
Svezia,
443 d.C.
La
notte dal manto stellato era da poco scesa sul fiordo, cancellando
anche le ultime sfumature rosse lasciate dal sole al tramonto. Il
vento era mite e increspava solo lievemente le acque scure della baia
su cui si affacciava il castello di Ingelstad. Ma vi era un'altra
luce nel cielo, qualcosa di inatteso ed inquietante. Una cometa,
dalla lunga coda violacea, sembrava bruciare attraverso la volta
celeste. In lontananza certo, ma non abbastanza da non essere notata
da occhio umano.
La
principessa Arianrhod rimase immobile alla piccola e stretta finestra
su cui davano le sue stanze. Con le piccole mani strette alla
balaustra di granito, lo sguardo fisso al tremendo spettacolo che le
si parava davanti, Arianrhod si accorse a malapena della mano
concitata che le afferrava la spalla, inducendola a voltarsi.
“Principessa!
Che fate? Non dovete fissare quell’orrore!”, fu il
richiamo
atterrito di Caitlin. “Rientrate immediatamente!”.
La giovane
cameriera afferrò la mano della principessa e la condusse
dentro.
“Principessa,
non posate più lo sguardo su uno di quei…quegli
abomini”,
continuò Caitlin portandosi all’altezza del viso
della bambina e
guardandola negli occhi per sottolineare la gravità delle
sue
parole.
“Sono
opera del demonio, non lo sapevate?”
Nonostante
i suoi quattro anni Arianrhod non si fece affatto intimidire e,
liberandosi della presa della sua serva, alzò il mento con
fare
altezzoso. “Non sono affatto opera del demonio! Il demonio
non
esiste, è solo una sciocca superstizione di voi
cristiani… l’ha
detto mio padre! Io voglio guardare la cometa quanto mi pare e
piace…e se non la smetti racconterò a mio padre
quello che hai
appena detto!”
Caitlin
sembrò vacillare: presa dalla sua foga religiosa per un
momento
aveva dimenticato di essere semplicemente una serva e di essere al
cospetto della principessa. Re Jörundr aveva accolto alla sua
corte
molti cristiani provenienti dalla Britannia, lei stessa faceva parte
di questa schiera; tuttavia lui rimaneva un devoto pagano,
così come
lo era l’intera penisola scandinava, e non tollerava che al
suo
popolo – e soprattutto alla sua famiglia – venisse
insegnato il
cristianesimo. Caitlin sapeva per esperienza che Jörundr I,
della
Casa Reale degli Yngling, detta la Stirpe del Drago, era un sovrano
giusto e tollerante, che aveva fatto crescere in pace e
prosperità
la Svezia per vent’anni; ma era pur sempre convinto che il
cristianesimo fosse solo un mucchio di credenze irrazionali e riti
bizzarri.
“Perdonate,
principessa”, mormorò Caitlin con un inchino.
“Non si ripeterà
più.”
Arianrhod
sorrise, soddisfatta. La bambina era
stata educata fin dalla nascita ad avere piena consapevolezza della
sua posizione privilegiata.
Il
Duca Fjölnir di Silverdalen entrò nello studio
privato del re,
seguito dall’Arcidruido Sveigder.
“Ci
avete fatto chiamare, Sire?”
Re
Jörundr sedeva nel suo scranno intagliato, dietro il tavolo da
lavoro ingombro di carte e libri. Si alzò faticosamente,
trascinando
la gamba fasciata. Il re era un uomo massiccio e imponente, con
penetranti occhi azzurri.
“Grazie
per essere venuti, amici miei”, disse il re poggiando una
mano
sulla spalla del Duca Fjölnir.
“Sire
non dovreste affaticarvi in questo modo. Perché non vi
sedete di
nuovo?”, disse Fjölnir in tono premuroso al suo re
che, prima di
tutto, era per lui un caro amico.
“Ti
ringrazio Fjölnir, ma presto avrò parecchio tempo
per riposarmi,
mio malgrado… aspettate ad obiettare, perché
sarebbe inutile. So
che il mio destino è segnato.”
“Ma,
sire…”, protestò l’Arcidruido
Sveigder.
“Non
dite nulla, mio caro amico. Vi assicuro che sto morendo, non mi
restano che pochi giorni…e tutto per una stupida scaramuccia
con un
gruppo di predoni norvegesi…” Jörundr
sospirò di disappunto
sfiorando la dolorosa ferita alla gamba.
Era
accaduto due settimane prima: nonostante le proteste dei suoi
consiglieri, il re aveva voluto guidare di persona un piccolo
contingente dell’esercito ad annientare dei razziatori che
stavano
mettendo a ferro fuoco dei villaggi dell’ovest.
Sconfiggere
i predoni era stato un gioco per i soldati ben addestrati, ma il re
era stato ferito alla gamba da una freccia. La ferita, che non era
più di un graffio, si era però infettata prima
che il re potesse
far ritorno al castello ed essere curato.
“E’
una notizia riservata, per ora. A conoscere la verità siamo
solo noi
tre e pochi fidati guaritori. Ma non dubito che presto
l’intera
corte ne sarà a conoscenza”, proseguì
il sovrano.
“Non
sarà certo da noi che lo sapranno, sire”
affermò con decisione
Sveigder.
Il
re fece un gesto, come a dire che questo non era mai stato in
discussione.
“Tuttavia
non è per me stesso che sono preoccupato, bensì
per mia figlia
Arianrhod. Lei è la legittima erede al trono di Svezia, se
il
bambino che la regina partorirà non sarà un
maschio…”
“Vedrete
che la vostra consorte vi donerà un maschio forte e
sano…”,
disse Fjölnir tentando di sembrare convincente.
A
quelle parole al re tornò subito in mente il viso di bambino
di
Njöror, il suo adorato primogenito. Il principe
Njöror era nato
poco dopo le sue nozze con la principessa Drott, figlia del re Dan di
Danimarca.
A
dispetto della differenza d’età – Drott
aveva quindici anni meno
di lui – e delle motivazioni politiche che avevano dettato il
matrimonio, Jörundr amava molto sua moglie. E quando era
venuto al
mondo Njöror, un bambino sano e bello, la sua
felicità era stata
completa. Tre anni dopo era nata Arianrhod, adorata e viziata dal
padre in ogni modo. Ma, prima che Arianrhod compisse tre mesi, una
febbre aveva portato via il principe ereditario, tra lo sconcerto del
regno.
La
regina, distrutta e addolorata, aveva riversato le sue attenzioni
sulla figlia superstite, così come suo marito. Due anni dopo
la
morte di Njöror era venuto al mondo un altro bambino, che
però non
era vissuto a sufficienza nemmeno per avere un nome. Adesso Arianrhod
aveva quattro anni, e la regina era agli ultimi mesi di gravidanza.
Jörundr sperava con tutte le sue forze che si trattasse di un
maschio; un maschio sano e forte cui nessuno avrebbe messo in
discussione il trono.
Come
risvegliato dai suoi pensieri, il re si girò verso i suoi
consiglieri.
“Sì…deve
trattarsi di un maschio…altrimenti…”
“Altrimenti,
sire?”
“Altrimenti
sarà la guerra civile. Sapete bene che ci sono molti nobili
potenti
che tramano alle mie spalle e vorrebbero vedermi morire senza un
erede maschio per mettere le mani sul trono di Svezia. Mia figlia
è
ancora una bambina, non ci vorrebbe molto per attentare alla sua
vita…un pugnale, del veleno in una coppa... La mano dietro
tutto
questo? C’è solo l’imbarazzo della
scelta: il Duca Aun, il
Nobile Gisle… oppure mio fratello Erik, la vergogna del mio
glorioso padre. So bene che è il burattino di Aun. Mio
fratello non
è mai stato altro che un vile, troppo meschino perfino per
avere il
coraggio delle proprie azioni.”
Fjölnir
conosceva il principe Erik da quando erano entrambi bambini, e
condivideva senza riserve il pensiero del re.
“ll
Duca di Skillingaryd usa la posizione del principe
all’interno
della famiglia reale per i suoi loschi scopi”,
commentò in tono
duro.
“La
Guardia Bianca tiene d’occhio le loro mosse da molti anni,
mio
signore, e queste informazioni non sono certo nuove per il duca e
me”, aggiunse Sveigder.
“Lo
so bene, Sveigder… e tuttavia speravo non si giungesse mai
alle
circostanze attuali. Se io morissi senza un erede maschio, sarebbe
ciò che i miei nemici – Halfdan e Erik prima di
tutti –
aspettavano da molto.”
“Qualunque
cosa possiamo fare per servirvi, sapete che lo faremo, mio
signore”,
disse solennemente Fjölnir portandosi la mano al petto.
“E’
così, sire. Noi vi siamo fedeli, e finché avremo
vita non
permetteremo ai traditori di Svezia di averla vinta”, gli
fece eco
l’anziano Arcidruido.
“Mi
fido solo di voi, amici miei. E vi chiedo un giuramento…lo
farete
per il vostro re?”
Fjölnir
e Sveigder si inchinarono all’unisono.
“Qualsiasi
cosa ci chiederete, sire, la risposta è
sì.”
Il
re fece loro cenno d’alzarsi, con lo sguardo colmo di
silenziosa
gratitudine.
“Dovete
giurarmi che, quando non ci sarò più,
proteggerete la principessa
Arianrhod a costo della vostra vita.”
Angolo
Autrice: Ciao a tutti! Ho voluto imbarcarmi in questa nuova
storia, ambientata in un'epoca storica un po' ostica, quasi come un
esperimento. Nel raccontarla mi baso su molti fatti storici, ma la
mia protagonista, Arianrhod, è frutto della mia fantasia. Il
contesto comunque è autentico. Sono curiosa di sapere se
questa
storia potrà piacervi, e in ogni caso mi piacerebbe sapere
cosa ne
pensate.
A
presto,
Eilan
|
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Capitolo 2 *** Capitolo due ***
Erano
trascorsi solo due giorni dall'importante conversazione che il re
aveva avuto con i suoi due fedeli amici. Nessuno si sarebbe aspettato
che accadesse così presto, ma, senza alcun preavviso, la
regina
Drott entrò in travaglio. Fu un travaglio lungo e difficile
che durò
un giorno intero. Le levatrici riuscirono a fatica a far venire al
mondo una bambina già morta. Anche per la sovrana non ci fu
nulla da
fare: dopo il parto sopraggiunse una febbre puerperale che la
portò
alla morte in soli due giorni.
Arianrhod
accompagnò il padre in testa al corteo funebre di sua madre.
Nella
bella cornice di una scogliera che dava sul mare, Drott, regina di
Svezia, nata Principessa di Danimarca, fu posta sulla pira funebre.
Indossava una lussuosa tunica nera con una sopravveste dello stesso
colore corredata da molti gioielli preziosi; i lunghi capelli biondi
erano acconciati in due pesanti trecce, raccolte ai lati del capo, e
sormontati da una coroncina d’oro. Accanto a lei era stato
posato
il corpicino della figlioletta, avvolto in un telo ricamato. Entrambe
erano coperte da un sudario nero trasparente.
Mentre
i corpi della moglie e della figlia bruciavano sulla pira, il re
Jörundr aveva il viso contratto e sconvolto. Avrebbe voluto
piangere
mentre stringeva la mano della sua unica figlia superstite, ma non
voleva mostrare le sue emozioni di fronte all’intera corte,
riunita
per il funerale.
Infine,
le ceneri vennero raccolte in un’urna lavorata, che venne
posta
nella nicchia di un imponente mausoleo di forma conica, costruito con
blocchi di pietra dura, e voluto dal re appositamente per sua moglie.
Il monumento si affacciava sul mare, che Drott aveva amato
moltissimo.
Arianrhod,
vestita elegantemente di una tunica verde con la sopravveste color
ruggine, non comprese pienamente ciò che stava succedendo,
che non
avrebbe più rivisto sua madre. Probabilmente si aspettava,
con
l’ingenuità dei suoi quattro anni, che Drott
sarebbe ricomparsa il
giorno seguente come se niente fosse per prenderla in braccio e
stamparle un bacio su entrambe le guance, come faceva sempre.
Dopo
aver dato l’ultimo saluto all’adorata moglie,
Jörundr si
allontanò zoppicando vistosamente, sorretto e aiutato dal
Duca
Fjölnir di Silverdalen, sotto lo sguardo indagatore
dell’intera
corte. Fjölnir non poté fare a meno di rabbrividire
per il mormorio
che l’avanzare del re aveva provocato nella schiera di nobili
presenti. Non avevano più molto tempo ormai.
Pochi
giorni dopo il funerale di sua moglie il re fu costretto a letto
dalla febbre. L’infezione lo stava portando alla morte
più in
fretta del previsto. Diversi guaritori si susseguirono al capezzale
del re, impegnati a cercare di salvargli la vita, invano.
Verso
la mezzanotte Jörundr si spazientì e
cacciò fuori dalla stanza
tutti i guaritori e i cortigiani che gli stavano attorno come
avvoltoi su una preda, e ordinò di mandare a chiamare
l’Arcidruido
Sveigder e il Duca Fjölnir.
Quando
i due uomini si inginocchiarono al capezzale del loro sovrano,
Jörundr bruciava per la febbre e era madido di sudore. I suoi
occhi
erano velati, e il Duca, che aveva visto tante volte la morte in
faccia, sapeva cosa stesse a significare. Deglutì a vuoto,
la paura
che gli attanagliava la bocca dello stomaco.
Il
re parlò con un filo di voce, ma i suoi amici erano pronti a
cogliere ogni sua parola.
“Ora…
dovete onorare… la vostra promessa”, disse con
fatica
sollevandosi sui gomiti e guardando i due uomini negli occhi.
“Lo
faremo, sire”, mormorò l’anziano
Arcidruido con occhi umidi di
pianto. Jörundr era stato per lui come un figlio. Suo padre
Yngvi
era stato il suo migliore amico, e lui il suo più fedele
consigliere. Aveva visto il principe Jörundr crescere,
diventare un
uomo e poi - in un giorno al contempo triste e felice per Sveigder -
succedere al padre e sedere sul Trono del Drago. L’Arcidruido
era
stato uno dei precettori del giovane erede al trono per
volontà di
Re Yngvi; si era occupato anche di suo fratello minore Erik, anche se
con risultati molto più deludenti. A Erik decisamente
mancavano le
buone qualità che erano invece così vive in
Jörundr.
Il
re fece uno sforzo immane per riprendere a parlare.
“Ascoltate”,
mormorò, “qualunque cosa sia
necessaria… per proteggere
Arianrhod… dovrete metterla in atto. Credo che
sarà necessario…
portarla lontano dalla Svezia… almeno per alcuni
anni”.
“Avremo
bisogno della Guardia Bianca”, disse Fjölnir e il re
annuì.
“Promettetemi
che un giorno… riavrà il trono che… le
spetta”, gli occhi del
sovrano erano annebbiati dalla febbre ma la sua mente era ancora
lucida.
“Anche
se questo dovesse costarci la vita”, affermò il
Duca con
solennità.
Il
re indirizzò agli amici un sorriso colmo di gratitudine, poi
ricadde
sui cuscini privo di coscienza. Sveigder e Fjölnir dovettero
richiamare i guaritori perché si occupassero del re, poi
scivolarono
via nella notte silenziosa.
Prima
dell’alba appresero che il Re di Svezia era morto.
Arianrhod
fu svegliata nel cuore della notte. Una mano la scuoteva
delicatamente, e la bambina sbatté le palpebre assonnate.
Aprendo
gli occhi, si accorse che la donna che aveva davanti non era Caitlin,
come si sarebbe aspettata. La giovane bambinaia cristiana era stata
sostituita da una delle cameriere più fidate della regina,
una donna
di mezza età di nome Hejör. Arianrhod, abituata a
vederla insieme a
sua madre non si allarmò: ancora assonnata,
lasciò che la donna la
vestisse e la prendesse in braccio. Istintivamente la piccola
principessa le poggiò il capo sulla spalla, come era
abituata a fare
con sua madre. Dopo averla rassicurata con una carezza, Hejör
la
condusse fuori dalla sua stanza. Guardandosi a destra e a sinistra,
come se temesse di incontrare qualcuno, Hejör scese le scale,
e poi
altre ancora e ancora. Nel dormiveglia Arianrhod si rese conto che
stavano scendendo fin nei recessi del castello.
Alcune
guardie, di ronda davanti alle stalle, si diedero il cambio, e
Hejör
attese trattenendo il fiato, nascosta dietro una colonna. Non appena
la guardia, che sarebbe ripassata da quel punto entro novanta
secondi, fu andata via, la donna si precipitò giù
per le ultime
scale che l'avrebbero condotta nelle stalle.
Un
cavallo nitrì quando la serva e la principessa fecero il
loro
ingresso e questo svegliò del tutto Arianrhod. Fu abbastanza
lucida
da notare che nelle stalle, di solito deserte a quell'ora, vi erano
alcuni cavalli fuori dei loro recinti. Erano stati sellati e
preparati e ad attendere il loro arrivo c'erano anche
l’Arcidruido
Sveigder e il Duca di Silverdalen, accompagnati da alcune guardie
armate che indossavano tutti un uniforme bianca con il simbolo del
drago della Casa Reale di Svezia. Arianrhod aveva sentito vagamente
parlare della Guardia Bianca, l’organizzazione militare di
fedelissimi della Stirpe del Drago, ma non aveva mai visto uno dei
suoi guerrieri.
Ad
un cenno del Duca Hejör mise a terra la bambina.
L’Arcidruido si
chinò a parlare alla Principessa che, confusa e insonnolita,
si
stropicciava gli occhi con le mani.
“Ascoltate,
Altezza”, esordì Sveigder, “è
desiderio di vostro padre che voi
partiate con questi uomini. Conoscete il Duca Fjölnir, vero?
Lui è
un caro amico di vostro padre ed avrà cura di voi. Avete
capito,
Principessa?”
“E
mio padre? Verrà con me?”
Sveigder
scambiò un'occhiata significativa con il Duca, poi fece un
profondo
respiro.
“Più
avanti” disse, riuscendo miracolosamente a suonare
convincente.
“Più avanti vostro padre verrà da voi,
ma nel frattempo voi
dovrete ubbidire al Duca e fare il volere del re. Rendetelo fiero di
voi.”
Arianrhod
rimase a bocca aperta qualche secondo, quindi annuì
esitante. Si
lasciò sollevare sul cavallo governato da Hejör;
gli altri uomini,
con il Duca in testa, montarono i loro cavalli e, in fila indiana e
silenziosamente, uscirono nella notte.
La
cavalcata dello sparuto gruppo durò alcune ore, ma Arianrhod
non si
lasciò sfuggire neanche un lamento: doveva essere coraggiosa
per non
deludere suo padre, per il quale nutriva una smodata ammirazione.
Nonostante la testa le ciondolasse dal sonno, non si arrese, e rimase
sveglia per tutta la durata del viaggio.
Nel
tardo pomeriggio giunsero in vista della piccola baia di Bergkvara,
sulla costa sud della Svezia.
Ad
attenderli in una piccola insenatura era ancorata una nave. Era una
nave di medie dimensioni, capace di portare un nutrito numero di
soldati, mantenendo al contempo una velocità superiore a
quella
delle navi mercantili. Arianrhod la osservò a bocca aperta:
ai suoi
occhi infantili la nave sembrava enorme, ed era la prima volta che
viaggiava per mare. Non sapeva dove sarebbe stata portata, ma intuiva
che quello sarebbe stato il viaggio più lungo che avesse mai
intrapreso nella sua giovane vita.
Il
Duca Fjölnir ordinò di caricare i pochi bagagli e,
senza troppi
indugi, Arianrhod e la sua scorta vennero fatti salire a bordo. In
breve tempo la nave fu pronta a salpare. Hejör chiese alla
Principessa se volesse dormire un po’ nella sua cuccetta, ma
lei
scosse la testa chiedendo di poter stare ancora un po' sul ponte
della nave, nonostante gli occhi quasi le si chiudessero.
Il
sole stava sorgendo sull’azzurra distesa d’acqua
marina,
colorandola di sfumature rossastre. La Principessa Arianrhod -
inconsapevole che quella stessa notte era divenuta regina, seppure
senza un trono - osservò dalla prua della nave la sua terra
natia
farsi sempre più lontana e infine scomparire
all’orizzonte.
D’impulso agitò nell’aria la sua piccola
mano in segno di
saluto.
Angolo
Autrice: Rieccomi! Spero che questo capitolo, anche se di
passaggio, vi sia piaciuto.
Ci
tengo a dare un paio di cenni storici: Drott, la regina di Svezia,
è
un personaggio storico. Figlia del re Dan di Danimarca, è
una figura
avvolta nell'oscurità e di cui si sa poco o niente, incluso
chi
abbia sposato. Ho pensato di sceglierla come moglie di Jorundr
perché
il loro rango e la loro epoca di nascita coincidono. Gli Yngling, la
Stirpe del Drago, governava davvero la Svezia, e i nomi dei re che
trovate, inclusi quelli dei successivi usurpatori, sono tutti
storici. Ma qui si ferma la nostra conoscenza, perché di
avvenimenti
più approfonditi, di mogli e figli, non si fa cenno. Infine,
tutti i
nomi svedesi che troverete nel racconto sono nomi realmente usati
all'epoca. L'unica licenza poetica me la sono presa proprio con
Arianrhod, il nome di una dea britanna associata alla luna.
Ringrazio
tutti per le recensioni!
Alla
prossima,
Eilan
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Capitolo 3 *** Capitolo tre ***
Britannia,
461 d.C.
Ciaran
parò un affondo di sua sorella, mettendo la spada di taglio.
Nonostante avesse tre anni in più di lei e fosse fisicamente
molto
più forte, il giovane era visibilmente affaticato sotto i
colpi che
Ainslee gli indirizzava con incredibile maestria. La ragazza si
muoveva in maniera armoniosa e letale, con una tecnica degna di un
cavaliere addestrato. Ciaran e Ainslee si sfidavano alla spada da
quando erano bambini, ma le volte in cui Ciaran era riuscito a
battere sua sorella si contavano sulle dita di una mano. Eppure
avevano avuto entrambi lo stesso insegnate: il loro padre, Eachann,
che era un fabbro appassionato dell’arte della spada; ma
Ainslee
sembrava avere un dono innato che Ciaran, per quanti sforzi compisse,
non era in grado di eguagliare.
Quel
pomeriggio caldo e assolato di giugno i due ragazzi erano nella
stalla della fattoria dei genitori, impegnati in un finto duello con
due spade di legno. In teoria, la frescura in cui era immersa la
stalla e la brezza che soffiava attraverso le porte spalancate
avrebbero dovuto rinfrescarli. In pratica il finto duello, che
entrambi prendevano incredibilmente sul serio, li affaticava e li
faceva sudare. Ogni tanto un affondo di uno dei due fratelli centrava
una delle balle di fieno che erano state ammucchiate in cataste
ordinate alla fine della trebbiatura. Le spade finte sollevavano
spruzzi di paglia che finivano invariabilmente nei capelli e fra gli
abiti dei due accaniti contendenti.
Quando
Ciaran e Ainslee cozzarono contro lo steccato di legno uno dei
cavalli nitrì, spaventato, ma poi si calmò
subito, riprendendo a
brucare il proprio fieno. Perfino gli animali erano abituati ai
combattenti dei ragazzi ormai, e non ci facevano troppo caso.
Ciaran
si preparò a un altro affondo quando Ainslee, spiazzandolo
completamente, lo schivò compiendo un breve giro su se
stessa. Si
portò così al fianco del fratello e
riuscì a fargli perdere
l’equilibrio. Ciaran cadde sulla paglia e prontamente Ainslee
gli
torreggiò sopra, puntandogli la spada alla gola.
“Se
fosse stata una spada vera saresti morto, fratellino!”,
esclamò la
ragazza con una risata.
Anche
a Ciaran venne da ridere, nonostante fosse stato sconfitto per
l’ennesima volta da sua sorella minore. Ma non era un ragazzo
orgoglioso, e chi lo conosceva lo aveva visto perdere le staffe forse
due volte in tutta la sua vita.
“Va
bene, va bene mi arrendo”, disse con finto tono implorante.
“Solo
per questa volta!”, lo ammonì scherzosamente
Ainslee.
Ciaran
si schermò gli occhi con la mano per guardare la sorella.
Nel caldo
sole di mezzogiorno sembrava che Ainslee riflettesse la luce,
irradiandola a chi gli stava intorno. Se avesse dovuto trovare una
parola per descrivere sua sorella Ciaran avrebbe scelto
“argentata”.
I lunghi capelli erano di una sfumatura di biondo talmente chiara che
pareva argento, perfino le ciglia e le sopracciglia erano dello
stesso colore. E gli occhi erano di azzurro simile al ghiaccio. Tutte
sfumature abbastanza insolite per la popolazione di quei luoghi della
Britannia.
Per
il resto Ainslee era una ragazza di diciotto anni molto simile alle
sue coetanee, se non per il temperamento impetuoso e ostinato che la
caratterizzava. Non si lasciava intimidire facilmente, riusciva a
tenere testa a chiunque e non mancava di testardaggine. Spesso non
riusciva a frenarsi dal rispondere per le rime, anche ad uomini
più
anziani, cosa che era considerata davvero sconveniente per una donna.
Sua madre Gwenael le rimproverava in continuazione questo suo
comportamento sfrontato, e nei momenti in cui la faceva arrabbiare
arrivava a definirla “la sua disperazione”.
I
due ragazzi si gettarono a sedere sulle balle di fieno, ancora
ansanti, poggiando le spade finte accanto a loro. Rimasero in
silenzio qualche secondo; Ciaran notò che sua sorella stava
riflettendo. Se ne accorgeva perché aggrottava sempre le
sopracciglia quando pensava intensamente. Sapeva che avrebbe solo
dovuto attendere che lei gli facesse la domanda che aveva a fior di
labbra.
“Ciaran?”
disse, spostando lo sguardo su di lui.
“Sì?”
“Tu
pensi che mi sposerò mai?”
Ciaran
non rimase spiazzato dalla domanda. Anzi, si chiedeva perché
Ainslee
avesse impiegato tanto tempo a formularla. Da anni ormai, la ragazza
guardava le sua amiche prendere marito, una dopo l'altra, persino
mettere al mondo dei figli, e non aveva potuto far altro che
rallegrarsi per loro e restare in disparte.
“Io...
credo che nostro padre stia solo aspettando il pretendente
giusto.”
“Non
prendermi in giro! Sai che non è così. Conosce
Owainn da una vita,
lo considera quasi un altro figlio... eppure ha rifiutato qualsiasi
proposta lui gli abbia fatto. Non capisco cosa abbia in mente per me.
Fra poco sarò talmente vecchia che nessun uomo mi
vorrà più!”
Ciaran
rise, scuotendo il capo. “Non credo proprio! E comunque non
dirmi
che avresti davvero voluto sposare Owainn?” Forse non era
molto
lusinghiero da parte sua non considerare il suo migliore amico degno
di sua sorella, ma per quanto Ciaran volesse bene ad Owainn era
pienamente cosciente dei suoi difetti. Uno spirito ribelle come
Ainslee non sarebbe mai andato d'accordo con l'ottusità di
Owainn;
l'amico voleva una moglie obbediente e sottomessa, e inoltre non
brillava particolarmente per intelligenza.
Ainslee
intanto stava riflettendo sulla domanda di Ciaran. Non che ci avesse
riflettuto molto, ma aveva pochi dubbi. “No, non credo
proprio. Non
mi piace, e anche se gli sono affezionata alcuni suoi comportamenti
non mi piacciono affatto.”
Appunto,
pensò
Ciaran.
“Arriverà
anche l'uomo giusto per te, sorellina”, la
rassicurò
abbracciandola. “Ma non lui e non adesso.”
“E
tu?”
“Io...?”
“Tu
pensi che ti sposerai mai? In realtà devo confessarti che
odio
pensarlo, non vorrei che lasciassi la fattoria.”
“Prima
di tutto mettiti in mente che non lascerò mai la
fattoria” sorrise
Ciaran. “Non ti libererai di me così facilmente!
Se mai dovessi
sposarmi sarà mia moglie a venire ad abitare qui. Non voglio
certo
rinunciare a proseguire il lavoro di papà.”
Ainslee
gli indirizzò un sorriso complice che Ciaran
ricambiò. Poi sembrò
incupirsi.
“E
poi, sai... ho già trovato la donna che vorrei come mia
moglie, ma
lei non ha scelto me.”
Ainslee
sfiorò con le dita il braccio del fratello.
“Mi
dispiace, io... ho provato a parlare ad Enid, ma lei...”
“Non
era necessario, sorella.”
“L'ho
fatto per te. Anzi, ho il rimorso di non aver fatto abbastanza, che
avrei potuto fare di più... in fondo è la mia
più cara amica...”
“Lei
amava un altro, non c'è altro da aggiungere”
Ciaran fu secco. “Non
posso costringerla a provare qualcosa per me, e non voglio. Da quando
si è sposata, non ho fatto altro che augurarle di essere
felice.”
“Questo
lo so. Tu sei l'uomo più buono e dolce che abbia mai
conosciuto”
disse lei posandogli un bacio sulla guancia. “E sono sicura
che
troverai la ragazza più bella, più buona e
più... bé, più tutto,
che esista da qui ad Alba*!”
In
quel momento la voce della madre che li chiamava rimbalzò
fra le
pareti della stalla, interrompendo i loro discorsi.
“Ragazzi,
dove siete? E’ pronto e vostro padre è
già in tavola”, gridò
Gwenael affacciandosi alla porta della stalla.
I
due giovani abbandonarono le spade e si affrettarono verso casa,
consapevoli che Eachann rientrava in casa solo il tempo necessario
per mangiare e poi tornava alla fucina.
“Finalmente!”,
li apostrofò Gwenael come misero piede in cucina,
“e guarda come
siete ridotti! Ainslee, hai la paglia nei capelli e sei tutta sudata!
Non è così che dovrebbe comportarsi una ragazza
in età da marito…”
Si
avvicinò alla figlia per sfilarle dei fili di paglia dai
capelli.
“Ora non c’è neanche tempo per andarvi a
lavare, altrimenti si
raffredderà tutto!”, continuò a
brontolare.
Eachann,
già seduta a tavola di fronte a una scodella di zuppa
fumante, non
poté fare a meno di sorridere. “Su cara, sono solo
dei ragazzi e
non mi pare una grande tragedia, no?”
Ma
sua moglie fece finta di non sentirlo e fece cenno ai figli di
sedersi mentre portava il pane in tavola, continuando a borbottare
tra sé.
“Padre,
avete finito quella spada che vi ha commissionato il figlio del
governatore della provincia?”, chiese Ainslee con la voce
colma
d’ammirazione, improvvisamente dimentica del cibo che la
madre le
aveva messo davanti.
“Quasi.
Quel riccone pazzo ha voluto una spada che nemmeno i Cesari
avrebbero
potuto desiderare.”
rispose, ignorando l'occhiataccia di Gwenael per il modo in cui aveva
definito il figlio del governatore. “L'ha voluta con intarsi
in
oro, nientemeno! Bé, finché è suo
padre a tirare fuori il denaro,
per me può chiedermela anche intessuta con i baffi di
lucifero in
persona!”
Ainslee
e Ciaran non riuscirono a trattenere una risata. Era risaputo che il
governatore e la sua famiglia erano tra coloro che si erano
convertiti alla nuova fede, e Eachann non aveva grande stima dei
cristiani o dei loro Vescovi, e non ne faceva mistero. Li trovava
pittoreschi, come li
definiva spesso. In quanto al figlio del governatore, ciò
che aveva
sentito e appreso di lui, bastava a classificarlo come un ragazzo
viziato e borioso.
“In
ogni caso è una delle spade più elaborate a cui
abbia mai lavorato,
e io e tuo fratello ci siamo rotti la testa per trovare un modo di
creare quell'elsa così elaborata senza rendere la spada
troppo
pesante. Bilanciarla bene poi è stato anche peggio. Comunque
riuscirò a finire entro domattina se tuo fratello
tornerà alla
fucina con me, questo pomeriggio”.
“Mi
sono allontanato solo per un paio d’ore!”,
protestò Ciaran sulla
difensiva, addentando contemporaneamente un pezzo di coniglio.
“Chissà
se Ainslee riuscirebbe a batterti anche nella costruzione di una
spada?”, disse Eachann strizzando l’occhio alla
figlia.
“Non
mettere queste idee in testa ad Ainslee, Eachann. Una ragazza della
sua età deve aiutare in casa e non
fare un lavoro da uomo”, intervenne Gwenael brusca.
Quel
pomeriggio Ciaran andò a lavorare con il padre nella fucina,
mentre
Ainslee rimase come al solito ad aiutare sua madre nella gestione
della fattoria. Oltre ad alcuni campi coltivati, la famiglia aveva
diversi animali: mucche, maiali e polli. La fattoria e
l’officina
di fabbro di Eachann consentivano alla famiglia di vivere
agiatamente. Oltretutto Eachann era un fabbro di grande talento, e
fin da lontano la gente veniva a richiedere i suoi servigi. Le spade
da lui forgiate erano veri capolavori d’artigianato, e mai un
cliente era rimasto deluso del risultato, neppure i più
ricchi o i
più esigenti.
Intenta
a raccogliere le verdure per la cena, Ainslee ne mise alcune nel
cesto, poi si raddrizzò asciugandosi la fronte col dorso
della mano.
I capelli le davano impiccio nei movimenti, anche se li teneva
legati. Ma sua madre non le aveva mai permesso di tagliarli, anche se
lei avrebbe tanto voluto farlo e gliene aveva chiesto spesso il
permesso. Ma Gwenael sosteneva che i capelli lunghi erano
ciò che
rendeva bella una donna, che la bellezza era la cosa più
importante
per una ragazza in età da marito, e che nessun uomo
l'avrebbe mai
voluta se avesse avuto l'aspetto di uno spaventapasseri appeso in un
campo di grano. Fosse come fosse, quella pesante treccia che le
sbatteva sulle gambe irritava Ainslee come non mai, e la spingeva a
chiedersi che importanza potesse avere per lei tutto questo se i suoi
genitori non avevano intenzione di trovarle marito. Ainslee si
fermò
ad osservare sua madre a pochi passi da lei, china nell'orto, la
chioma ingrigita e la schiena curva. Un sorriso di tenerezza le si
dipinse sul volto, nonostante le amare riflessioni. Anche se spesso
la trovava troppo rigida e severa – più nei suoi
confronti che in
quelli di Ciaran, a dire il vero – Ainslee amava molto sua
madre.
Nonostante
volesse molto bene ad entrambi i suoi genitori, Ainslee sapeva che
non erano stati loro a metterla al mondo. Su questo loro erano stati
sempre molto chiari. D’altra parte non avrebbero potuto
tenerlo
nascosto in ogni caso: Ainslee era talmente diversa
nell’aspetto da
loro da spiccare come un lupo in un recinto di pecore.
In
Britannia convivevano diverse etnie: i discendenti dei romani avevano
i classici lineamenti spigolosi e i capelli neri e ricciuti; i
discendenti del Piccolo Popolo, gli antichi abitanti dell'isola che
vivevano come selvaggi, pitturandosi di azzurro quando andavano in
battaglia, e nutrendosi esclusivamente dei frutti spontanei della
terra, erano piccoli di statura, con la pelle olivastra e i capelli
neri; i discendenti dell'antica stirpe reale erano alti e con i
capelli di un tipico oro rosso. Ma Ainslee non sembrava appartenere a
nessuna di queste stirpi. Il suo aspetto era del tutto particolare, e
lei si era spesso domandata da dove potesse essere venuta e chi
fossero i suoi veri genitori.
Non
appena aveva raggiunto l’età per capire, Eachann e
Gwenael le
avevano spiegato che era una trovatella e che era stata abbandonata
nei pressi della loro fattoria da qualcuno che probabilmente non
aveva i mezzi per prendersene cura. Ma non per questo –
sottolineavano i suoi genitori – loro l’amavano di
meno, e
Ainslee non aveva veramente mai potuto dubitarne.
Quella
sera a cena Eachann annunciò che la famosa spada con intarsi
in oro
commissionata dal figlio del governatore era finalmente pronta, e
chiese a Ciaran di andare in città il giorno seguente per
consegnarla.
“Domani
c’è anche il mercato”, intervenne
Gwenael, “Dovresti portare a
vendere i nostri prodotti”. Una volta al mese, quando
c’era il
grande mercato di Eburacum**, la famiglia portava lì la sua
mercanzia.
I
prodotti della fattoria si vendevano meglio lì che non al
piccolo
mercato del loro villaggio.
“Dovrò
partire all’alba, credo…”, disse Ciaran.
“Perché
non porti con te anche Ainslee?”, propose Eachann.
“Davvero,
padre? Oh magari, mi piacerebbe tanto. Vorrei tanto rivedere
Eburacum”,
esclamò Ainslee battendo le mani, felice come una bimba.
“Ma
sì, perché no? Ormai sei una donna, e a tuo
fratello servirà un
aiuto in più per scaricare la merce”, rispose suo
padre in tono
bonario.
Ainslee
gli buttò le braccia al collo e lui sorrise, intenerito.
Più
tardi però Eachann prese da parte Ciaran.
“Stai
attento ad Ainslee, figliolo”, gli disse, “sai di
cosa parlo,
vero?”
“Sì
padre”, mormorò il giovane facendo un cenno di
assenso.
Comprendeva a cosa si riferisse suo padre: l'aspetto così
insolito
di Ainslee attirava spesso degli sguardi, non necessariamente
malevoli, più che altro curiosi, pensava Ciaran, ma suo
padre
sembrava sempre stranamente preoccupato che la sorella potesse
attirare troppa attenzione su di sé. Così aveva
preso l'abitudine
di chiedere a Ciaran di tenderla d'occhio quando si allontanavano da
casa, ma non aveva mai voluto spiegargliene esattamente il motivo. Le
sue risposte erano sempre state vaghe, e avevano scoraggiato Ciaran
dal porre ulteriori domande.
Angolo
Autrice: Eccomi di nuovo a voi! Spero che il nuovo capitolo
vi
piaccia, l'ho modificato varie volte prima di esserne soddisfatta.
Come al solito ringrazio tutti quanti per le recensione. Come si
dice... they mean the world to me!
Alla
prossima,
Eilan
|
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Capitolo 4 *** Capitolo quattro ***
Buio.
Oscurità e silenzio. Gli unici due elementi che sembravano
circondarla, le uniche due forze che sembravano muovere quel mondo
sconosciuto. Ainslee ne era avvolta e si sentiva completamente persa.
Improvvisamente si accorse che il silenzio era stato interrotto da un
suono particolare. Sembrava un lamento o forse un pianto. Il pianto
di... un bambino, probabilmente. Le ci vollero alcuni secondi per
comprendere che quel suono veniva da lei, che era lei che
singhiozzava sommessamente. E non era nemmeno più buio. Come
aveva
fatto a pensarlo? Vedeva in maniera sfocata, era vero; ma solo
perché
le lacrime le offuscavano la vista, impedendole di vedere
chiaramente. Fece uno sforzo di volontà per asciugare le
lacrime.
Aveva paura di ciò che avrebbe trovato in quell'ambiente
sconosciuto, ma tutto era meglio che restare nella cecità.
Si
asciugò gli occhi con le mani, e non impiegò
molto ad accorgersi
che erano diverse, più piccole, più tenere. Le
mani di una bimba.
Ecco perché il suo pianto le era sembrato così...
infantile.
Eppure
quell'Ainslee che non riconosceva, quell'Ainslee bambina, non
sembrava stupita della condizione in cui si trovava. Era una parte di
sé che le era sconosciuta, ma era proprio lei, lo sentiva.
Si
trovava in un luogo strano, un luogo che avrebbe giurato di non aver
mai visto in vita sua, se non fosse che le sembrava stranamente
familiare. Era un castello: un grosso castello in pietra con strette
feritoie come finestre e arazzi alle pareti. Sembrava un luogo un po'
scuro, come lei immaginava dovesse essere un castello.
Delle
figure apparvero improvvisamente intorno a lei, serve, a giudicare
dall'abbigliamento. Le gridavano frasi sconnesse, che lei afferrava
solo a tratti.
“La
troveremo, principessa!” “Vi prego non
piangete!”
Ainslee
non capiva a cosa si riferissero. Da qui il sogno diventata confuso
fino al momento in cui una bellissima dama faceva il suo ingresso,
portando in mano una bambola. La dama si chinava ad abbracciarla e le
porgeva la bambola. Guardandola Ainslee la trovò familiare:
una
bambola di stoffa con un ricco abitino di seta tagliato su misura.
L'aveva chiamata Bron. Da quale parte della coscienza scaturiva quel
nome?
E
la dama... lei le era altrettanto familiare. Anzi, a voler essere
precisi, assomigliava a lei. Le assomigliava moltissimo. Era bella,
bionda e con un sorriso dolce come il miele. Tra le sue braccia
Ainslee si sentiva al sicuro. Quella donna era la sua casa.
“Mamma!”
la chiamò, con un moto di gioia.
Dei
colpi leggeri alla porta svegliarono Ainslee di soprassalto,
interrompendo bruscamente quello strano sogno. Non riuscirono
però a
cancellarle dalla mente due cose: la bambola di stoffa e il volto di
quella donna. Quei due elementi erano impressi a fuoco nella sua
mente e Ainslee quasi provò rammarico per il fatto di essere
stata
strappata a quel sogno così appagante.
“Ainslee,
è quasi l'alba, dobbiamo partire!” la
chiamò la voce di suo
fratello Ciaran al di là della porta. Ainslee fece un
sospiro
profondo e, cercando di ricomporsi, rispose: “Arrivo subito,
dammi
un minuto.”
L'acqua
fredda che aveva attinto la sera precedente al pozzo per riempire il
catino con cui si lavava la rinfrancò e, con ancora le
palpebre
appesantite dal sonno, si sfilò la veste da notte e
indossò la
tunica di stoffa che poteva allacciarsi da sola grazie alle stringhe
sul davanti.
Ancor
più svelto di lei, Ciaran già l'attendeva sul
carro, che aveva
provveduto a caricare con i prodotti da vendere al mercato: lana,
uova, latte e verdure, nonché la preziosa spada avvolta in
più
pezze di stoffa da consegnare al suo committente.
Si
misero in cammino mentre l'alba rosata faceva capolino da dietro le
colline. Il vecchio cavallo che trainava il carro procedeva a ritmo
moderato, guidato da Ciaran che stava a cassetta con la sorella al
fianco. La lunga lucente treccia bionda di Ainslee le sbatteva sulla
schiena ad ogni sobbalzo del carro, mentre lei stringeva le dita al
legno del veicolo per non cadere.
Il
carro stava attraversando il villaggio e Ciaran stava facendo un
cenno di saluto ad alcuni conoscenti, quando i due giovani udirono un
tonfo alle loro spalle e si voltarono all’unisono.
Si
accorsero con stupore che tra i sacchi e le casse era salito al volo
Owainn.
“Ehilà
Ciaran!”, salutò portandosi alle spalle dei due
ragazzi e
poggiando spavaldamente le mani sulla spalliera della cassetta.
“Dove
vai oggi, amico mio?”
Ciaran
rise. “Ti pare il modo di salire su un carro, Owainn? Se
rompevi
qualche giara di latte chi la sentiva mia madre?”
Owainn
diede una grossa pacca sulle spalle dell’amico.
“Non preoccuparti
sembro un orso ma sono delicato come una fanciulla!”
Ainslee
guardò il giovane colosso e sorrise tra sé
ritenendo la sua
affermazione alquanto improbabile.
“Scusa
se non ti ho salutato subito, mia adorata”, disse Owainn
scherzosamente prendendo una mano di Ainslee tra le sue grandi e
ruvide. “Diventi ogni giorno più bella…
e se consideriamo che ti
conosco da dieci anni ormai è facile fare le debite
proporzioni!”
“Sei
sempre il solito adulatore, Owainn!”, ribatté la
giovane. “Come
sta Enid?”
La
migliore amica di Ainslee – l'amore non corrisposto di Ciaran
- era
anche la sorella minore di Owainn.
“Bene,
la gravidanza procede per il meglio, e lei e suo marito sono molto
contenti”.
Ainslee
gettò un'occhiata preoccupata a Ciaran, che
deglutì visibilmente ma
non disse nulla.
“Mi
fa piacere sentirlo. Anch’io sono felice per lei”,
rispose con
cautela.
“Dove
ve ne andate a quest’ora?”, chiese di nuovo Owainn.
“Al
mercato di Eburacum”, rispose Ciaran, “per caso
vuoi unirti a
noi? Mi farebbero comodo un altro paio di braccia”.
Owainn
scosse la testa. “No, sono solo di passaggio. Approfitto del
vostro
carro per arrivare a casa. Sono stato alla bottega del
conciatore…
mio padre ha bisogno di nuovi finimenti per il cavallo”.
“In
ogni caso potevi farci segno di fermarci invece di salire come un
ladro”, ribatté Ainslee.
“Ah,
pungente come sempre! Così mi piaci! Beato l’uomo
che ti domerà”,
rise Owainn scuotendo la grossa testa sormontata da riccioli castani.
“Sul serio Ciaran, quando pensi che tuo padre si
deciderà a darmi
in moglie tua sorella?”
Ciaran
si accorse che, nonostante il tono del ragazzo fosse scherzoso,
c’era
una nota di desiderio nella sua voce che lo mise subito in allarme.
Si
girò appena verso l’amico e disse: “Mio
padre non vuole saperne
di trovare marito a mia sorella… mi dispiace, ma credo che
dovrai
desistere dal tuo proposito Owainn!”
“Neanche
per sogno, mia adorata. Lotterò per te fino alla
morte”, disse in
tono ironico rivolto a Ainslee.
Ainslee
alzò gli occhi al cielo, frenando l’impulso di
assestare un calcio
ad Owainn. Sua madre la pregava continuamente di non comportarsi
impulsivamente e di essere sempre posata ed educata, e lei faceva
ogni sforzo per seguire il suo consiglio.
“Ecco
casa tua”, disse Ainslee sollevata, indicando con il dito.
“Sei
capace di scendere al volo o devo buttarti giù io?”
“Non
sia mai! Ho troppa paura di te…”, rise il grosso
Owainn saltando
giù dal carro, non appena Ciaran ebbe frenato il cavallo
davanti
alla costruzione di pietra su due piani dove abitava con i genitori,
con la sorella e con suo marito.
Enid
uscì di casa non appena udì il rumore del carro e
rimase ad
attenderli sulla soglia. Il ventre rotondo non passava certo
inosservato e, quando le fu di fronte, Ciaran fece di tutto per
guardare da un'altra parte.
“Ciao
Ciaran” mormorò lei con voce dolce, e poi rivolta
all'amica
“Ainslee! Saranno settimane che non ci vediamo!”, e
le gettò le
braccia al collo. Le due amiche si abbracciarono teneramente.
Ainslee
allontanò Enid di un palmo per poterla osservare meglio.
“Santo
Cielo, questo bambino cresce a vista d'occhio! Quanto manca al
termine?”
“Poco
più di tre mesi... ho una paura matta all'idea del
parto!”
“Te
la caverai splendidamente” la rassicurò Ainslee.
“Non conosco
una ragazza forte come te.”
“Speriamo
sia come dici tu” sorrise Enid. “Vi fermate con
noi?”
“Non
possiamo Enid, grazie” intervenne in fretta Ciaran. Era
chiaro che
avrebbe voluto essere ovunque piuttosto che lì.
“Stiamo andando ad
Eburacum.”
Enid
cercò lo sguardo di Ainslee che annuì in
conferma.
“Perché
non vieni da me, domani? Potremmo cucire qualche fascia per il
bambino” disse abbracciandola di nuovo. “Se vuoi
mando Ciaran a
prenderti.”
“Non
ce n'è bisogno, mio padre deve recarsi da Gralon domani
mattina
presto. Mi farò dare un passaggio da lui.”
“A
domani, allora!” salutò mentre Ainslee stava
salendo sul carro.
“Ciao
Ciaran, grazie del passaggio”, aggiunse Owainn salutandoli
con la
mano mentre il carro si allontanava.
I
due fratelli salutarono a loro volta attraverso la nuvola di polvere
che si sollevava al loro passaggio.
Eburacum
era la grande città che Ainslee ricordava dalle sue
precedenti
visite. Nulla sembrava cambiato: un unico, grande assembramento di
esseri umani in uno spazio che, pur essendo oggettivamente grande,
lei trovava troppo piccolo per così tante persone. Le
mancava il
respiro e lo spazio aperti dei grandi campi del suo villaggio. Nel
giorno di mercato poi, la piazza principale si riempiva
all'inverosimile. Centinaia di bancarelle con tendoni colorati che
vendevano la merce più disparata: cibo, stoffe, oggetti di
artigianato, pasticci di carne e pagnotte appena sfornati che
solleticavano il naso in un effluvio di aromi.
“Fame?”
le chiese Ciaran con un sorriso, notando la sua espressione.
“Un
po'” rispose lei, “Ma è ancora presto,
c'è tempo per mangiare.”
Dopo
aver aiutato il fratello a scaricare il carro, lo lasciò a
contrattare con i mercanti che di solito acquistavano i loro
prodotti, e se ne andò a fare un giro per il mercato,
sentendo di
sfuggita la raccomandazione di Ciaran a non allontanarsi troppo e di
fare attenzione.
Dopo
aver passeggiato qualche minuto, Ainslee si fermò davanti ad
una
bancarella che vendeva fiaschette di cuoio, nastri e pettini
intagliati. Prese un pettine di legno chiaro su cui era intagliato un
uccellino: era un oggetto davvero ben fatto, osservò,
rigirandolo
tra le dita. Era quasi sul punto di decidere di acquistarlo quando si
sentì tirare per la manica.
Voltandosi
si trovò faccia a faccia con una donna anziana, vestita di
abiti
colorati. Ainslee la riconobbe subito: era una veggente, una di
quelle donne che si potevano trovare in qualsiasi fiera in Britannia.
Avevano molto successo perché la gente credeva che potessero
davvero
prevedere il futuro, e il loro borsello non era mai privo di monete
di rame.
“Bella
signora” gracchiò la vecchia. “Bella
signora”, ripeté quando
non ottenne risposta, “vuoi che ti predica il futuro? Solo
una
moneta per te.”
“No,
grazie...” declinò Ainslee con gentilezza, e fece
per voltarsi di
nuovo.
Ma
quella insistette e stavolta le si attaccò alla tunica.
Ainslee
sbuffò seccata. Sapeva che non si sarebbe liberata
facilmente della
donna, così prese una moneta dal borsello che aveva
attaccato alla
cintura e glielo mise in mano, rassegnata.
La
donna la gratificò con un sorriso sdentato, poi le prese una
mano
tra le proprie e, con gesti lenti e misurati – e,
pensò Ainslee,
un po' teatrali – si mise a studiarla.
Dopo
qualche attimo di silenzio, insolito perché le veggenti ci
tenevano
a sbrigarsi così da poter accumulare più clienti
possibili in una
giornata di lavoro, la donna lasciò inaspettatamente cadere
la mano.
La
guardò negli occhi in un modo che inquietò
Ainslee. In quel
momento, nonostante la confusione e le voci che riempivano l'aria
tutto intorno a loro, le sembrò che ci fossero solo lei e la
vecchia.
“Tu
non sei quella che sembri!” disse la donna in un sibilo.
“C-come?”
Ainslee era genuinamente confusa.
“Non
sei quella che dici di essere!” questa volta la donna aveva
alzato
la voce, e il proprietario del banco da cui Ainslee stava ammirando
il pettine qualche attimo prima, si fermò a osservarle.
“Calmatevi
signora, io...” cominciò la ragazza, ma la
veggente non le fece
nemmeno terminare la frase.
“Riprenditi
i tuoi soldi, non li voglio!” esclamò mettendole
in mano la moneta
che aveva ricevuto poco prima. Poi si allontanò in fretta,
sparendo
tra la folla.
Ainslee
avrebbe voluto chiederle spiegazioni, ma era ancora troppo confusa e
spiazzata per pensare di correre dietro alla veggente. Non sapeva
spiegare il nesso, ma alle parole della donna le era improvvisamente
tornato in mente il sogno che aveva fatto quella notte, e che le si
era ripresentato spesso negli ultimi mesi.
“Tutto
bene, ragazza?” la voce del mercante alle sue spalle la fece
sussultare, strappandola ai suoi pensieri.
“S-sì...
almeno credo. Non capisco che volesse quella donna...”
Il
mercante si abbandonò ad una risata. “Quella
è mezza matta
figliola!” esclamò portandosi il dito alla tempia.
“Come tutte
le veggenti, se volete il mio parere. Non posso credere che la gente
creda davvero a queste sciocchezze!”
“Sì,
probabilmente avete ragione” mormorò Ainslee.
“Ma
certo che ho ragione! Non fatevi rovinare l'umore da quella vecchia
strega.” Poi aggiuse, ritrovando il suo spirito affaristico:
“Allora, lo volete quel pettine, sì o
no?”
L'alba
di un nuovo giorno sorse sulla fattoria di Eachann il fabbro, e
trovò
la sua figlia minore già sveglia e in preda alle
riflessioni. Aveva
sognato di nuovo quella donna bionda: troppo per essere una
coincidenza. In più, questa volta si erano aggiunti altri
particolari. La donna l'aveva chiamata con un nome strano che al
momento non riusciva a ricordare, ma a cui nel sogno aveva risposto
prontamente, come se lo conoscesse da sempre. E le era sembrato che
ci fosse anche un uomo, ma era apparso per una frazione talmente
breve del sogno che Ainslee riusciva a ricordare solo che aveva una
cicatrice sul viso e un cerchio d'oro intorno alla fronte.
Dalla
finestra aperta della sua stanza udì il rumore di un carro
che si
fermava nel cortile della fattoria e scese in fretta ad accogliere
Enid. Le due amiche salirono insieme le scale che portavano alla
stanza di Ainslee chiacchierando del più e del meno.
Ainslee
mostrò ad Enid il pettine che aveva acquistato il giorno
prima, e
alla richiesta dell'amica le raccontò come era andata la
visita ad
Eburacum, che avevano venduto tutta la loro merce e che avevano
tardato a tornare perché una ruota del loro carro si era
rotta e si
erano dovuti fermare in città per farla sostituire. Omise
però
l'episodio dell'anziana veggente, senza una ragione apparente.
Quell'episodio era ancora troppo strano e confuso nella sua mente
forse, per poterlo tradurre in parole che avessero un senso.
“Quindi
ti ha convinto a comprarlo?” sorrise Enid divertita,
rigirandosi il
pettine tra le mani.
“Come
potevo resistere a tanta affabilità?” sorrise a
sua volta Ainslee.
“E
il figlio del governatore? Ha apprezzato la spada?”
“Oh,
moltissimo. Ne era entusiasta. Non faceva che ammirarne gli intarsi.
Avresti dovuto vedere che razza di casa possiedono! Per non parlare
del modo in cui era abbigliato. Quel ragazzo deve costare un
patrimonio a suo padre. Ma è evidente che il sale che ha in
zucca è
molto inferiore al suo gusto nel vestire.”
“Poveri
noi!” rise Enid.
Poi
le due ragazze cominciarono a cucire le fasce per il bambino di Enid,
concentrandosi su quel lavoro di precisione ed evitando di parlare
per qualche minuto.
Ma
c'era un pensiero che tormentava Ainslee e, dopo una breve lotta
interiore, giudicò che poteva parlarne a Enid senza
problemi. Se non
con lei, con chi altro avrebbe potuto mai parlarne?
Così
le raccontò tutto del suo sogno ricorrente. Della donna
bionda, del
castello sconosciuto, della bambola Bron.
Enid
ascoltò tutto attentamente, poi disse con cautela:
“Non hai
pensato che possa trattarsi di un semplice sogno? O di uno scherzo
della tua mente?”
Ainslee
doveva ammettere che ci aveva pensato, ma che piano piano aveva
finito con lo scartare questa ipotesi.
“E'
come se conoscessi quella donna. Mi è familiare capisci? So
che
suona assurdo, ma la bambola, il suo nome, il fatto che ricordi ogni
dettaglio di lei... è come se fosse un oggetto che mi era
molto
caro. Ma io non possiedo nessuna bambola come quella, ne sono certa.
Ho anche frugato nella cassapanca dove mia madre ha riposto i miei
oggetti e i miei abitini da bambina. A lei non l'ho detto, ho cercato
quando non c'era. Ma non ho trovato nulla che assomigliasse a quella
bambola. A dir la verità non conosco nessuno che possegga un
oggetto
simile a quello. E' una bambola vestita della migliore seta... chi
potrebbe possedere qualcosa così?”
Enid
scrollò le spalle. “Probabilmente è
solo un sogno...”
“Ma
lo faccio continuamente da mesi e mesi” le fece notare
Ainslee.
“Pensi che possa trattarsi di qualcosa che riguardi i miei
veri
genitori?”
L'amica
non poté replicare perché in quel momento si
udì un trambusto
sulle scale, rumore di passi concitati, grida... qualcuno stava
correndo. Le due ragazze balzarono in piedi proprio mentre la porta
della stanza si spalancava.
Apparve
Ciaran, visibilmente sconvolto e agitato.
“Ainslee!
Enid! Presto venite con me, dobbiamo scappare!”
“Ciaran!
Ma cosa...?” cominciò Ainslee, ma le parole le
morirono sulle
labbra. Enid lanciò un grido spaventoso.
La
bocca di Ciaran si contrasse in una smorfia da cui cominciò
a
gocciolare del sangue. Anche Ainslee urlò mentre Ciaran
cadeva a
faccia in avanti, il corpo scosso da orribili sussulti, rivelando
l'elsa di un pugnale che gli fuoriusciva dalla schiena. Un uomo, che
era rimasto all'ombra della porta, fece un passo avanti e si
chinò
su Ciaran, strappandogli il pugnale dalla schiena.
Guardò
le ragazze con un ghigno malvagio. “Ora tocca a
voi” disse.
Angolo
Autrice: Ciao a tutte/i carissime/i! Non ho molto da dire su
questo capitolo, c'è voluto un po' ma alla fine ho trovato
una
stesura che mi soddisfaceva abbastanza. Spero che piaccia anche voi,
mi raccomando fatemi sapere cosa ne pensate! Grazie come al solito a
tutti coloro che recensiscono/seguono/leggono ecc.
A
presto,
Eilan
|
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Capitolo 5 *** Capitolo cinque ***
Enid
era visibilmente terrorizzata e istintivamente si teneva la pancia
con le mani, nel tentativo proteggere quella creaturina non ancora
nata. Ainslee era rimasta senza fiato, come se tutta l'aria che aveva
nei polmoni le fosse stata strappata via. Fissava scioccata il corpo
del fratello steso sul pavimento. Avrebbe voluto correre ad
abbracciarlo, voltarlo a faccia in su e guardarlo negli occhi. Non
riusciva a credere che fosse morto, non poteva essere vero. Il suo
adorato fratello, che solo fino a pochi attimi prima era giovane e
pieno di vita.
Avrebbe
voluto fare tante cose, ma la paura la spinse a indietreggiare,
spingendo Enid dietro di lei. Non era riuscita a proteggere Ciaran, e
si sentiva stranamente in colpa, come se davvero avrebbe potuto fare
qualcosa per impedire che accadesse. Nella sua mente confusa, e che
ancora si rifiutava di accettare del tutto ciò che era
appena
accaduto, Ainslee sapeva solo una cosa: che se esisteva la minima
possibilità di salvare Enid e suo figlio, lo avrebbe fatto,
a costo
di sacrificare la sua vita.
L'uomo
che avevano di fronte – l'assassino – era alto e
robusto, con i
corti capelli biondi che non addolcivano di un'unghia il volto
crudele e segnato da molte cicatrici. Alla cintura portava un nutrito
numero di armi, ma evidentemente giudicò superfluo cambiare
l'arma
con cui aveva ucciso Ciaran per quelle due sciocche ragazzine. Si
limitò a pulirla dal sangue passandola sui pantaloni,
sottolineando
il gesto con un ghigno orrendo.
Poi,
quasi in maniera perversamente pietosa, voltò il corpo di
Ciaran con
il piede.
“So
cosa stai pensando... cosa gira in quella tua bella testolina. Non ci
credi che il tuo fratellino sia morto vero? Mi dispiace, ma io non
sbaglio mai un colpo. Se può consolarti non ha sofferto.
È il mio
lavoro uccidere in fretta.” Sembrava compiaciuto da quella
sua
abilità, e lei si chiese che razza di mostro si nascondesse
dentro
quell'uomo.
Ainslee
deglutì visibilmente, e quando alla fine trovò il
coraggio di
spostare lo sguardo sul fratello, incontrò gli occhi azzurri
di
Ciaran che la fissavano spalancati e senza vita.
Tuttavia
in quel momento la sua mente registrò a malapena
l'informazione.
L'adrenalina che la teneva tesa e vigile, percorrendole il corpo come
una scarica continua, non dava spazio alle emozioni. Se avesse ceduto
alle emozioni sarebbe morta.
Eppure
sembrava che lei e Enid fossero già come morte, condannate
inesorabilmente alla stessa fine che aveva colto il povero Ciaran. E
tutto questo senza conoscerne la ragione.
Le
ragazze indietreggiarono ancora verso il letto di Ainslee, che era
posizionato contro il muro. Quando toccarono la parete con la schiena
ebbero un sussulto, ma Ainslee era ben decisa a tenere l'amica dietro
di sé. Come cercando un'immaginaria via di fuga
allargò
istintivamente le braccia, e le sue dita sfiorarono il comò,
tastando un oggetto a lei familiare. Era il fuso che usava per filare
la lana, ed aveva una punta molto tagliente. Con una mossa svelta lo
afferrò e lo nascose dietro la veste.
L’assassino
si avvicinava lentamente, l'arma in pugno, pregustando la facile
impresa che gli si presentava davanti.
Due
ragazze indifese e inermi, strette all'angolo, l'unica via di fuga
inaccessibile: non pensava che un lavoretto così ben pagato
potesse
rivelarsi talmente semplice.
Ainslee
non sapeva se reagendo avrebbe trovato una via di fuga o avrebbe
semplicemente prolungato la sua agonia, ma doveva tentare. Non si
sarebbe lasciata uccidere – o peggio - con tanta
facilità.
Quando
l’uomo le fu abbastanza vicino scattò,
piantandogli con forza il
fuso nel punto più vulnerabile del viso che
riuscì a trovare.
Quando la punta gli lacerò la pelle, l’assassino
si mise a urlare
come un animale ferito, cadendo a terra e dibattendosi come una furia
per il dolore. Il sangue caldo dell'uomo schizzò sulla veste
chiara
di Ainslee, mentre lei restava qualche secondo con il fuso in mano,
prima di scagliarlo a terra. La ferita che gli aveva inferto gli
attraversava metà del viso e si aggiungeva alle molteplici
cicatrici
che l’uomo già portava sul volto, segni
inconfondibili della sua
professione di mercenario assassino.
Ainslee
approfittò di quell’attimo per fuggire trascinando
con sé una
Enid scioccata dalla vista del sangue, mentre le mani
dell’uomo
ferito cercavano di ghermirle alla cieca.
Senza
quasi riprendere fiato corse giù per le scale, tenendo
l'amica per
mano, temendo che, se non l'avesse tenuta vicina, sarebbe potuta
svenire da un momento all'altro. In fondo alle scale ebbe un tuffo al
cuore, e si fermò come paralizzata. Ai piedi della scalinata
giaceva
sua madre in una pozza di sangue, con una profonda ferita al petto.
Nonostante il pericolo che incombeva su di loro, Ainslee fece il
gesto di chinarsi per carezzare i capelli macchiati di sangue di
Gwenael. Enid dovette intuire dove fossero diretti i pensieri
dell'amica, e questa volta fu lei a strattonarla per trascinarla via.
“Tua
madre non avrebbe voluto che ti facessi ammazzare!” le
gridò. “Non
possiamo fare niente per lei adesso, e se restiamo qui
quell'assassino ci farà a pezzi!”
Il
trambusto che si udiva dal piano di sopra indicava che l'uomo, ancora
in preda al dolore e al furore, stava cominciando a reagire, e
presto, anche se mezzo accecato dal sangue, le avrebbe inseguite.
Ainslee
non rispose all'appello di Enid, ma sembrò averlo capito;
sembrò
che le parole dell'amica avessero penetrato il suo bozzolo di
confusione e dolore. Incespicando nella fretta di correre fuori, le
due ragazze si trovarono nel cortile esterno della fattoria.
Enid
fece per correre via, ma teneva ancora nella propria mano quella di
Ainslee, che improvvisamente le fece resistenza.
“Andiamo!”
gridò Enid esasperata, temendo che Ainslee stesse di nuovo
agendo
irrazionalmente, come era capitato pochi secondi prima.
Ma
questa volta Ainslee era lucidissima.
“No,
ascoltami e non protestare” disse tenendo l'amica, che
tremava
leggermente, ferma per le spalle. “Quest'uomo cerca me, o
qualcuno
della mia famiglia. È venuto fin qui apposta. Se scappiamo
insieme
ci prenderà; il villaggio è troppo distante
perché possiamo
raggiungerlo e chiedere aiuto prima che lui raggiunga noi.”
“Ainslee...”
“Ma
se tu ora scappi da sola, non ti darà fastidio”
continuò
imperterrita la ragazza. “E potrai correre a chiedere
aiuto...
avverti tuo fratello... Owainn mi aiuterà.”
“E
tu che farai? Qui, da sola con quell'assassino?”
“Cercherò
di resistere, o di nascondermi, finché Owainn e gli altri
non
arriveranno ad aiutarmi. Ora va'! Metti in salvo te e il tuo bambino!
Ho già perso mia madre e mio fratello... se per colpa mia
dovessi
morire anche tu non potrei vivere con questo peso.”
Enid
annuì, insicura. Cominciò a correre, incerta,
voltandosi ogni
momento.
“Va',
ho detto! Corri!”
“Resisti”
le gridò Enid di rimando, con gli occhi pieni di lacrime.
“Nasconditi! Arriveremo presto, te lo prometto!
Radunerò l'intero
villaggio, se necessario.”
Finalmente
si decise e cominciò a correre lungo la strada che portava
al
villaggio, senza più voltarsi indietro.
Ainslee
non rimase ad osservarla scomparire alla vista, non ne aveva il
tempo. Aveva gli occhi asciutti e il cuore pesante come un macigno,
ma non aveva il tempo di fermarsi a piangere il massacro della sua
famiglia, o avrebbe condiviso la loro stessa sorte.
Fece
un respiro profondo e decise che la sua unica possibilità di
salvezza era cercare suo padre, che a quell'ora sarebbe dovuto essere
a lavorare nella sua officina. Forse l'assassino non l'aveva trovato,
forse era ancora vivo, e in quel caso avrebbe potuto aiutarla.
Evitando
di rientrare in casa, scelse di attraversare il cortile e poi l'orto,
facendo il giro della fattoria. Con in mente ancora il viso di sua
madre come lo aveva visto poco prima, Ainslee raggiunse la fucina di
suo padre e si precipitò dentro, chiamandolo a gran voce.
Ma
il suo tentativo apparve immediatamente infruttuoso: suo padre
giaceva a terra, anch'egli trapassato dalla ferita di una spada. Il
fuoco nella fornace ardeva ancora, e le fiamme lambivano il crogiolo
pieno di metallo fuso che Eachann aveva preparato poco prima. Nella
mano aperta e senza vita, il vecchio fabbro ancora stringeva le pinze
di metallo che usava per non bruciarsi col fuoco.
Ainslee
stava per cedere alla disperazione. Sentiva che le forze che
l'avevano sorretta fino a quel momento, quelle stesse forze che le
avevano permesso di squarciare la faccia ripugnante di quel bastardo
assassino, che le avevano dato il coraggio di mettere in salvo Enid
anche a scapito della sua vita, che l'avevano spinta a non cedere al
dolore e a non gettarsi piangente sui corpi dei suoi genitori e di
Ciaran, la stavano abbandonando. La velleità di salvarsi
stava
venendo meno. E per quale motivo poi avrebbe dovuto salvarsi? Cosa le
restava per cui combattere? Poteva semplicemente lasciarsi cadere a
terra e raggomitolarsi accanto al cadavere del padre, per essere
protetta da lui nella morte, come aveva sempre fatto in vita. Poteva
vivere di quest'illusione, aspettare che l'uomo l'avesse trovata e
lasciare che finisse il lavoro per il quale era venuto. Aveva reagito
per proteggere Enid e il suo bambino, ma ora... perché non
avrebbe
semplicemente potuto attendere la morte?
Ma
poi qualcosa in lei si ribellò: era simile a un richiamo
ancestrale,
come se qualcosa nel suo sangue, scorrendo nel suo corpo, la
chiamasse all'azione. Quel coraggio che in fondo era sempre stato
presente in lei, la rese di nuovo lucida, vigile e pronta all'azione.
Non poteva farsi massacrare senza reagire, non poteva lasciare che
l'assassino della sua famiglia avesse l'ultima parola anche su di
lei. Se proprio doveva morire, non lo avrebbe fatto raggomitolata su
un pavimento.
Distogliendo
finalmente lo sguardo dal corpo massacrato di Eachann, Ainslee si
guardò intorno.
Alle
pareti della fucina erano appese in bella mostra diverse spade e,
senza pensarci troppo, scelse una delle più leggere, una che
aveva
visto creare da suo padre poco tempo prima, e che aveva ammirato fin
dal momento in cui era uscita dalla fornace. Gli fece fare una breve
rotazione per saggiarne il bilanciamento: era perfetta come quando
Eachann gliel'aveva fatta provare, ammonendola di fare attenzione,
perché quella era una spada vera e non di legno.
Inghiottendo
a vuoto per scacciare il nodo che aveva in gola, Ainslee
uscì fuori
con circospezione, ma la sua prudenza si rivelò del tutto
inutile.
Tre uomini robusti le si pararono di fronte. Due di loro le erano
sconosciuti, ma il viso del terzo era inconfondibile: l'avrebbe
riconosciuto ovunque anche senza il marchio che gli aveva impresso
nella carne con un fuso da lana.
“Ah
sei qui! Finalmente ti abbiamo trovata e ora la pagherai,
puttana!”,
ringhiò l’uomo che aveva cercato di ucciderla. La
ferita ancora
aperta che gli deturpava il viso lo rendeva ancora più
ripugnante.
Il sangue, che ora si era quasi del tutto fermato, gli macchiava
metà
del volto e il collo, facendolo assomigliare a un mostro venuto dagli
inferi. Era evidente che Ainslee gli aveva fatto più danno
di quanto
avesse creduto al momento, quando aveva colpito con la forza della
rabbia e della disperazione. La lacerazione gli apriva in modo
frastagliato l'intero lato del viso, dallo zigomo al mento, e il suo
occhio sinistro era chiuso. Ainslee ignorava se fosse perché
lo
aveva anche accecato o perché non riusciva ad aprirlo a
causa del
sangue raggrumato. Una cosa però la sapeva con certezza:
quell'uomo
gliel'avrebbe fatta pagare cara. Molto cara.
“Sarà
divertente ucciderti, ma ancor più lo sarà
prenderti come quella
sgualdrina che sei!”, continuò l’uomo in
preda a un furore
selvaggio. Sembrava aver perso completamente la gelida sicurezza che
aveva ostentato poco prima.
Quello
dei tre che sembrava il capo lo frenò. “Adesso
basta, Ond. Non
farti prendere dalla rabbia. Dobbiamo finire la ragazza in
fretta”.
Poi
si rivolse a lei. “Non serve a niente che impugni quella
spada, ti
uccideremo comunque, e tu lo sai. Se la posi subito farò in
modo che
Ond non ti tocchi neanche con un dito e ti accorderò una
morte
veloce. Ma se insisterai a sfidarci lascerò che Ond faccia
quello
che vuole di te, e lui non è particolarmente gentile con le
fanciulle tenere e delicate come te. Glielo devo, dopo come lo hai
ridotto”.
Ainslee
rabbrividì, ma cercò di non dare a vedere quanto
fosse spaventata.
Le dita le tremavano mentre stringeva ancora più forte
l’elsa
della spada.
“Come
io
l’ho
ridotto?”, disse con la rabbia nella voce, “voi
avete ucciso mio
padre, mia madre e mio fratello… e se proprio devo morire,
non
morirò senza combattere!”
“Senti,
senti”, rise il capo del gruppo, “la ragazzina ha
fegato. Peggio
per te… Ond puoi prenderti la puttanella e quello che le
farai non
mi riguarda”.
Il
grosso guerriero sfregiato sogghignò di soddisfazione,
mentre già
pregustava la facile preda che aveva davanti.
E'
la fine,
pensò Ainslee guardando Ond avanzare verso di lei.
Cercò di
visualizzare i corpi di Eachann, Gwenael e Ciaran perché le
dessero
la rabbia necessaria ad affrontare il suo temibile avversario.
Quando
l’assassino la raggiunse e fece per afferrarla, Ainslee si
chinò
velocemente sgusciando sotto il suo grosso corpo, e calò la
spada
sul tendine della caviglia, recidendolo di netto.
Ond
si accasciò a terra urlando e per poco Ainslee non
finì travolta
dal suo peso. Riuscì a spostarsi in tempo e, guardando negli
occhi
l’uomo sotto di lei con un odio di cui non si credeva capace,
gli
calò la spada sulla gola con tutta la rabbia che aveva in
corpo. Il
mercenario agonizzò per pochi secondi, mentre copioso il
sangue gli
sgorgava dal collo e gli riempiva la bocca, poi morì.
Gli
altri due uomini, che erano rimasti tranquillamente a distanza,
pronti a godersi lo spettacolo, rimasero come paralizzati quando si
accorsero di ciò che in pochi attimi era invece accaduto.
Sui
loro volti si leggeva lo stupore di vedere una ragazza che sembrava
del tutto indifesa combattere come un soldato addestrato e avere la
meglio su un mercenario grosso il doppio di lei.
Anche
se aveva battuto Ond sfruttando l’effetto sorpresa, Ainslee
non si
illudeva di riuscire a sopravvivere quando gli altri due
l’avessero
attaccata contemporaneamente. Sapeva che l'avrebbero uccisa.
Non
appena si furono ripresi dallo shock iniziale, i mercenari si
lanciarono su di lei urlando. Ainslee seppe di non avere scampo.
Avrebbe comunque resistito quanto avesse potuto e sarebbe morta
combattendo.
Si
stava preparando all’impatto delle lame avversarie sulla sua,
quando udì un grido di guerra e, simile a uno spirito
apparso dal
nulla, un cavaliere sconosciuto si avventò contro i due
assassini
brandendo una grossa spada.
Quelli,
colti di sorpresa e disorientati, reagirono con lentezza al nuovo
attacco. Il cavaliere tenne impegnato il più grosso dei due,
mentre
Ainslee si avventò sul più piccolo. Sfruttando la
sua abilità nel
prevedere le mosse dell’avversario, la ragazza
schivò un attacco
diretto e rientrò subito, piantando la spada nello stomaco
del
mercenario e affondandola con tutte le sue forze. L’uomo si
accasciò a terra con un’espressione di sorpresa
negli occhi,
proprio mentre il cavaliere finiva il suo avversario con una tecnica
meno raffinata ma più potente di quella di Ainslee.
Per
un momento la ragazza e il cavaliere stettero in silenzio, con il
respiro corto e le spade ancora in pugno. Ainslee si guardava la
veste e le mani imbrattate di sangue con espressione attonita, come
se si rendesse pienamente conto solo in quel momento che la sua
famiglia era stata massacrata e che lei aveva appena ucciso due
uomini.
“State
bene?”, le chiese improvvisamente il cavaliere.
Ainslee
annuì, ma era pallida come una morta, e subito dopo
cominciò a
scivolare a terra priva di sensi. Il cavaliere fece appena in tempo
ad afferrarla prima che toccasse il suolo.
Nota
dell'autrice: Ed
eccoci qui, con un capitolo un tantino cruento, lo ammetto, e che
infatti non è stato facile da scrivere. E ora chi
sarà questo
misterioso cavaliere giunto appena in tempo per salvare la
situazione? Non voglio anticipare nulla, tranne che sarà un
personaggio importante nella storia. Ringrazio tutti quanti come
sempre, e vi anticipo che, causa ferie, non so se il prossimo
aggiornamento arriverà proprio puntualissimo, nel caso
scusatemi fin
da ora.
Alla
prossima,
Eilan
|
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Capitolo 6 *** Capitolo sei ***
Fu
il movimento ritmico del cavallo a strapparla al suo stato
d'incoscienza. All'inizio non realizzò dove si trovasse o
cosa fosse
successo dal momento in cui tutto era divenuto nero e per poco non
era crollata a terra come uno straccio bagnato, come se non avesse
avuto più ossa nel corpo. Ma la brezza che le sfiorava il
viso, il
corpo dell'animale che la trasportava, la velocità a cui
viaggiava
ebbero sui suoi sensi l'effetto di una secchiata d'acqua gelata. Un
paio di braccia forti la sorreggevano perché non cadesse da
cavallo,
e la sua testa era poggiata contro la spalla del cavaliere che sedeva
dietro di lei, tenendola, e contemporaneamente guidando il bel sauro
nocciola che li portava entrambi.
Il
corpo di Ainslee reagì talmente d'istinto che fece un
poderoso
scatto in avanti, rischiando seriamente di farla cadere da cavallo.
“Chi…
chi siete voi?”, domandò concitatamente, cercando
di voltarsi per
guardare bene in faccia quell'uomo.
“Vi
ho salvato la vita poco fa” rispose lui. “Non mi
riconoscete?”
Ainslee
dovette ammettere che era proprio la stessa persona, lo riconosceva
senza possibilità di fraintendimento. Peccato,
perché avrebbe tanto
voluto trovarsi davanti qualcuno con cui sfogare la propria rabbia,
magari uno dei tre assassini che aveva ucciso i suoi genitori e
Ciaran. Poi un'ondata di consapevolezza si abbatté su di lei
quando
il ricordo le tornò vivido alla mente. Aveva ucciso quei tre
mercenari. Uno dopo l'altro. Per la prima volta nella sua giovane
vita, aveva ucciso. Non sapeva se il pensiero fosse spaventoso o
piuttosto liberatorio. In un certo senso aveva fatto giustizia. Aveva
vendicato la sua famiglia... e allora perché non sentiva
altro che
rabbia? Una rabbia tale che soffocava persino il dolore pulsante che
sentiva al centro del petto?
“Potrete
anche avermi salvato... e vi ringrazio” concesse non senza
una
certa affettazione. “Ma io non vi conosco, non so chi siete e
non
so cosa vogliate da me. Ma io voglio una cosa da voi: che fermiate
questo cavallo e mi riportiate immediatamente indietro.”
“Non
posso” rispose l'uomo, senza aggiungere spiegazioni. Questo
fece
infuriare Ainslee ancora di più.
“Come
non potete? Fermatevi subito! Se necessario farò la strada a
piedi
senza esservi di peso. Devo tornare a casa mia, al
villaggio...”
“Non
potete tornare, mia signora. È pericoloso per voi, chi vuole
uccidervi è ancora là fuori.”
“Perché
mi chiamate così? Voi avete tutta l'aria di essere un
cavaliere,
mentre io sono solo la figlia di un fabbro.”
L'uomo
non rispose, così Ainslee tornò all'attacco.
“Devo
tornare per vedere se la mia amica Enid sta bene, devo avvertire il
conestabile del villaggio di quello che è successo! E devo
seppellire la mia famiglia...”
“Vi
ripeto che non potete” continuò calmo l'uomo.
“Ah,
non posso eh? Bé, vi giuro che se non fermate subito questo
dannato
cavallo mi butterò di sotto io stessa!”
gridò Ainslee, ormai
completamente fuori di sé. Cominciò ad agitarsi
cercando di
sfuggire alla presa del cavaliere, tanto che lui, imprecando, fu
costretto a rallentare al trotto per evitare che lei cadesse. A quel
punto anche lui aveva perso un po' della sua impassibilità.
“Ma
si può sapere cosa diavolo vuoi fare?” le
gridò di rimando,
completamente dimentico delle formalità. In quel momento lei
gli
sembrava solo una ragazzina isterica e testarda. “Ti
ammazzerai!”
“Allora
lasciami andare subito!” urlò di nuovo Ainslee.
Il
cavaliere tirò le briglie per frenare il cavallo, portandolo
al
passo. Quando furono pressoché fermi Ainslee ne
approfittò per
scivolare giù dalla sella, cadendo rovinosamente nel
tentativo.
Tuttavia non si lasciò abbattere dal dolore al fondoschiena
e dai
lividi che sicuramente si era procurata. Si rimise in fretta in piedi
e cominciò a correre via, lontano da quell'uomo.
Un
tonfo alle sue spalle le confermò che anche l'uomo era sceso
di
sella in tutta fretta e che si era lanciato al suo inseguimento.
Dannazione!
In poche
falcate
l'uomo l'aveva quasi raggiunta. Ma doveva aspettarselo: anche
se
lei non era affatto bassa, l'uomo la superava di parecchio. Non c'era
da stupirsi che per coprire la stessa distanza che lei percorreva in
tre passi, a lui bastasse un'unica falcata.
L'afferrò
per le spalle, inducendola a voltarsi, e i due stettero a guardarsi
per qualche momento, sulla difensiva come due animali selvatici, il
respiro leggermente ansante.
“Ascoltatemi”
disse l'uomo con il rammarico nella voce. Provava compassione per
Ainslee; per tutto ciò che le era accaduto, e per tutto
ciò che
avrebbe dovuto affrontare in futuro. Ma sentiva che se non fosse
stato lui a rompere quel silenzio, lei non lo avrebbe fatto. Sarebbe
rimasta in quello stato di allerta, aspettando il momento buono per
scattare e attaccarlo. Non bisognava sottovalutare quella ragazza
apparentemente fragile; lui ne era stato testimone.
“So
che avete tutte le ragioni per essere spaventata da me, ma vi giuro
che non ho intenzione di farvi del male. Vi ho salvato la vita.
Potete fidarvi di me.”
Ainslee
appariva tutt'altro che convinta. “Ditemi chi
siete.”
“Il
mio nome è Gareth... ma per ora non posso svelarvi altro.
Saprete di
più a tempo debito, ma non da me.”
“Ma
io voglio sapere...”
“Vi
prego, non chiedete. Non posso dirvi altro di me... o di voi.”
Ainslee
non ebbe apparente reazione a quella dichiarazione sibillina.
Cominciava però a calmarsi, e qualcosa negli occhi del
cavaliere la
spingeva a fidarsi di lui.
Con
il respiro finalmente regolare, si allontanò di un passo,
passandosi
le mani sul viso.
“D'accordo,
diciamo che per il momento sono disposta a fidarmi di voi”
disse
fissandolo con sguardo tagliente. “Dopotutto mi avete salvato
la
vita, e vi prego di credere che ve ne sono davvero grata.”
“Mi
fa piacere...”
“Questo
però non toglie che io debba tornare immediatamente
indietro. Perché
volete impedirmelo?”
“Per
la vostra sicurezza.”
“Tuttavia
non volete rivelarmi perché sarei ancora in
pericolo...” Ainslee
stava cominciando davvero a sentirsi esasperata. Le sembrava tutto
così assurdo e surreale che non era del tutto convinta di
non
trovarsi in un incubo frutto della sua mente, e che non si sarebbe
svegliata da un momento all'altro.
Gareth
si passò la mano tra i capelli con un sospiro. Quella
ragazza era
decisamente testarda. “Mi sembra di capire che non mi
ascolterete a
meno che io non vi dia un buon motivo, giusto?”
Ainslee
annuì lentamente.
“Bene,
allora... posso dirvi questo. Quel posto non è sicuro per
voi,
perché quegli assassini non vi hanno trovato per caso.
Qualcuno gli
ha passato informazioni su di voi, qualcuno che sapeva dove
trovarvi.”
“State
dicendo che qualcuno mi avrebbe tradito? Ma è assurdo! E poi
cosa
importava a quegli assassini di me o della mia famiglia?
Perché
diavolo qualcuno avrebbe dovuto essere interessato a noi?”
“Ricordate?
Niente domande.”
Ainslee
sbuffò di rabbia. “Siete impossibile!”
“Sarà
anche vero, ma nessuno avrebbe potuto arrivare a voi se non fosse
stato guidato” replicò Gareth.
“E'
impossibile! Escludo nel modo più assoluto che qualcuno al
villaggio
abbia potuto tradire me o la mia famiglia.”
“Io
vi dico la verità, anche se so che è molto
amara.”
La
ragazza rimase in silenzio qualche secondo. Non sapeva più
cosa dire
per scalfire la sicurezza del cavaliere.
“Non
mi permetterete nemmeno di andare a dare alla mia famiglia una degna
sepoltura? Dopotutto quei mercenari sono morti ormai.”
“Quelli
non erano che l'inizio. A quest'ora sapranno che hanno fallito e ne
arriveranno altri. Non possono essere lontani.”
“Volete
dire che... vogliono uccidere me?” bisbigliò
Ainslee portandosi le
mani al petto. Il suo volto era il ritratto
dell'incredulità, ma lo
scetticismo che aveva provato fino a quel momento aveva lasciato il
posto a una paura nuova. Non era finita. Non era finita affatto.
Gareth
le tese la mano. “Vi prego, fidatevi di me.”
Ainslee
ancora esitava, ma il viso di Gareth era così dolce,
rassicurante...
quei suoi profondi occhi grigi le comunicavano sicurezza. Una cosa
che ultimamente aveva scarseggiato nella sua vita.
“D'accordo,
allora” disse asciutta. “Dove andiamo?”
“Lontano
da qui.”
Quando
furono abbastanza lontani dal villaggio Gareth fece fermare il
cavallo in una radura riparata in mezzo al bosco. La povera bestia
era ormai allo stremo delle forze, e il cavaliere la condusse per le
briglie presso un piccolo corso d’acqua dove poté
dissetarsi e
brucare la tenera erbetta.
Anche
Ainslee scese volentieri da cavallo. Si sentiva male alla vista della
sua veste sporca di sangue e dei capelli impolverati.
Come
leggendole nel pensiero, Gareth tirò fuori un involto dalle
borse
della sella e glielo porse.
“Tenete.
Se andate in quella parte riparata del ruscello potrete lavarvi e
cambiarvi d’abito”, le disse mentre Ainslee
spiegava una veste a
lei molto familiare. Era una delle sue, quella di tela marrone con il
collo e le maniche giallo ricamate con una fantasia geometrica; era
un abito semplice ma di buon taglio. Forse il migliore che aveva
posseduto.
“Ho
preso alcuno cose che pensavo vi sarebbero state utili, prima di
lasciare la fattoria”, aggiunse il cavaliere a mo’
di
spiegazione.
Ainslee
non aprì bocca, mentre percorreva lo stretto sentiero
sabbioso
circondato su ogni lato da cespugli di rovo.
Il
sentiero terminava sulla riva del ruscello, su una spiaggetta
talmente piccola da essere sufficiente appena per due persone sedute
l'una accanto all'altra. Dall'altro lato il corso d'acqua era
riparato da un'alta parete rocciosa, sul cui ciglio crescevano
rigogliosi i verdi alberi del bosco. Quel posto doveva essere
conosciuto a pochi.
Al
riparo da tutto Ainslee si tolse la veste sporca e immerse
tentativamente i piedi nell’acqua. Trovò che era
gelida,
limpidissima e molto bassa, tranne che per una piccola pozza
riparata, che si trovava ai piedi della parete di roccia. Sembrava
che la corrente vivace che percorreva il basso fondo sassoso neppure
sfiorasse quel piccolo angolo fatato. Ainslee vi si diresse, scossa
dai brividi di freddo sempre più intensi. S'immerse fino al
mento e
rimase così, lasciando che il liquido trasparente lavasse
via tutto
l’orrore e il sangue che le marchiavano il corpo e la mente.
Dopo
un tempo infinito si decise a uscire e si avvolse nella veste pulita.
Raccolse i lunghi capelli ancora umidi in una pesante treccia che
avvolse sul capo, e tornò da Gareth.
Il
giovane cavaliere aveva già allestito un piccolo campo:
aveva acceso
il fuoco e cacciato un coniglio, che già si stava rosolando
su uno
spiedo. Il sole era quasi del tutto tramontato dietro gli alberi.
“Stavo
quasi per preoccuparmi. Ce ne avete messo di tempo!”,
commentò il
giovane quando la vide arrivare. “Avete fame?”
“A
dir la verità non molta” rispose laconica Ainslee.
“Preferirei
dormire, se non vi dispiace.”
“Certamente”
rispose Gareth occhieggiandola perplesso. “Monterò io di guardia stanotte.” E pensò: Non mi ha nemmeno
chiesto dove la stia
portando. È strano.
La
mezzanotte era passata da un pezzo quando Gareth, seduto di fronte al
fuoco, sentì un tocco leggero sulla spalla. Con un sobbalzo
si
voltò, vigile, pronto ad affrontare qualsiasi minaccia gli
si fosse
parata davanti. Ma tolse la mano dall'elsa della spada, già
pronta
ad essere estratta dal fodero, quando si accorse che il suo nemico
aveva capelli d'oro argentato, occhi di ghiaccio, e un sorriso che
non lo rassicurava affatto.
“Siete
voi...” constatò con un'alzata di spalle.
“Credevo steste
dormendo.”
Ainslee
assunse un'aria contrita. “Ho dormito abbastanza, non ho
più
sonno. Perciò pensavo che avrei potuto fare il secondo turno
di
guardia, per permettervi di riposare un po'.”
“Non
mi sembra una buona idea.”
“Vi
ho già dimostrato di sapermi difendere, credo. Come potrete
affrontare il viaggio di domani senza nemmeno un'ora di sonno alle
spalle? Ci avete pensato?”
Gareth
aprì bocca per dire qualcosa, poi la richiuse. Ainslee ne
approfittò
per rincarare la dose.
“Vi
sveglierò al minimo rumore, promesso.”
“D'accordo”
acconsentì infine Gareth. “Ma fate molta
attenzione e non
allontanatevi dal fuoco. Sarò proprio qui, accanto a
voi.”
Ainslee
non dovette attendere molto. Gareth aveva il sonno facile, ma
– lei
sospettava – anche leggero. Doveva essere più
silenziosa di una
piuma trasportata dal vento.
In
punta di piedi raggiunse il sauro, che brucava erba poco più
in là.
Quando la vide avvicinarsi con la coda dell'occhio, l'animale
cominciò a innervosirsi, sbuffando dal naso e agitando la
coda.
Ainslee allungò la mano e gli mise sotto il naso una mela
che aveva
rubato poco prima dalle sacche da viaggio di Gareth. Il cavallo
cominciò a masticare soddisfatto, facendosi carezzare sul
muso dalla
ragazza. Una volta che ebbe conquistato la sua fiducia, Ainslee
sciolse la briglia dal nodo che la legava al tronco dell'albero.
Gettò un ultimo sguardo a Gareth, ancora immerso nel sonno.
Per
qualche strana ragione ad Ainslee si strinse il cuore a doverlo
ingannare a quel modo. Ma semplicemente non aveva scelta. Con il
cuore in tumulto condusse il cavallo fuori della radura e dentro il
bosco, dove montò in sella senza paura di svegliare Gareth:
non
poteva sentirla a quella distanza, anche se avesse avuto il sonno
davvero leggero. Poi spronò il cavallo in direzione di casa
sua e
del villaggio.
Nota
dell'Autrice: Ed
eccomi tornata con il nuovo capitolo... scusate se vi ho fatto
aspettare, voglio sempre cercare di essere regolare negli
aggiornamenti, ma quando si mettono in mezzo le vacanze è
difficile
^-^ Che dire... spero che questo capitolo vi piaccia, si inizia a
delineare la figura di Gareth, ma per ora è tutto ancora
misterioso.
Ma non temete, più avanti le cose si faranno più
chiare. La
rivelazione per Ainslee/Arianrhod non è lontana. Ringrazio
tutti
coloro che seguono/recensiscono/ leggono... siete fantastici! Volevo
darvi un'idea di come ho immaginato Gareth, ispirandomi a un attore
che mi piace molto: Michael Vartan (che magari qualcuno
ricorderà in
Alias). Lo trovo assolutamente adatto al mio personaggio, anche
perché ha interpretato Lancillotto in un film basato su un
romanzo
di MZ Bradley, quindi in epoca e contesto attinenti alla storia dato che più avanti ci sarà proprio un crossover con alcuni personaggi delle leggende arturiane.
Ciao
a tutti e alla prossima
Eilan
|
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Capitolo 7 *** Capitolo sette ***
Ainslee
non arrivò in vista del suo villaggio se non più
di un'ora dopo.
Non aveva messo in conto che, col buio fitto del bosco, avrebbe avuto
difficoltà a trovare la strada, e questo l'aveva anche
costretta a
procedere al passo. Il cavallo aveva scalpitato un paio di volte per
protesta contro l'andatura a cui era costretto, ma Ainslee era
riuscita a calmarlo con qualche pacca sul collo e un tono di voce
basso e rassicurante.
Anche
se la stagione estiva era avanzata, l'umidità tra gli alberi
le
aveva fatto rimpiangere di non aver preso con sé anche un
mantello o
uno scialle. Ma non aveva osato frugare tra le bisacce posate accanto
a Gareth per timore di svegliarlo.
Tuttavia
non era stato solo il freddo della notte a farla rabbrividire:
durante tutto il tragitto aveva avuto più volte la
sensazione di
essere seguita. Un fruscio fra gli alberi, qualche ramo secco
spezzato da un passo cauto, e un persistente formicolio dietro la
nuca l'avevano indotta a voltarsi spesso, il cuore che le batteva
come una mandria di tori impazziti. Aveva cercato di scrutare tra le
sagome scure dei cespugli e degli alberi, ma non era mai riuscita ad
individuare niente di preciso. Se c'era davvero qualcuno che la
seguiva era abile a non farsi sorprendere e a mimetizzarsi con
l'oscurità. O forse era lei che aveva sopravvalutato la
propria
abilità, che si era illusa di sapersela cavare da sola
soltanto
perché aveva ucciso due uomini in preda alla rabbia.
Forse
quando sono lucida non ragiono bene come quando sono infuriata, aveva
pensato con una punta di amarezza. E aveva cominciato a chiedersi se
non avesse commesso un madornale errore a voler fare di testa propria
invece di dare ascolto a Gareth. Dopo la terza volta in cui si era
guardata intorno in preda all'agitazione, convinta che qualcuno o
qualcosa la seguisse, aveva cominciato a maledire la sua presunzione.
Cosa diavolo aveva pensato di fare imbarcandosi in quell'impresa? Si
era sentita un pochino più sollevata solo quando aveva
scorto le
prime case del villaggio. Forse, dopotutto sarebbe andata bene. Forse
poteva davvero sperare che non le sarebbe successo niente. Era ancora
convinta che Gareth avesse esagerato nell'esprimere le sue
preoccupazioni. Nessuno desiderava più farle del male dopo
che quei
tre assassini erano morti. E perché mai poi? Lei era solo
una
ragazza di campagna senza nessuna importanza. Probabilmente quei tre
erano stati solo dei briganti in cerca di un facile bottino. In cuor
suo Ainslee sapeva che non era così, ma mise a tacere la
voce del
buonsenso che glielo suggeriva e si crogiolò in questa
rinnovata
sicurezza. E il tradimento? Semplicemente ridicolo! Non avrebbe speso
un secondo di più a considerare quell'assurda teoria.
Dal
punto in cui si trovava, al limitare del bosco che si schiudeva
mostrandole la sua ambita meta, Ainslee poteva individuare con poca
fatica il profilo familiare di quel villaggio che aveva sempre
chiamato casa. Aveva titubato prima di decidere se dirigersi prima
lì, oppure occuparsi della sepoltura della sua famiglia. Ma
poi,
reprimendo un nodo di pianto, aveva concluso che per loro non avrebbe
fatto differenza aspettare un'ora in più. Mentre Enid poteva
aver
bisogno del suo aiuto, così come gli abitanti del villaggio,
nell'ipotesi che Gareth avesse avuto ragione e ci fossero altri
assassini in giro. Ciaran avrebbe voluto che lei si assicurasse che
Enid stesse bene.
Mi
dispiace fratello. Mi dispiace non essere stata in grado di
difenderti come ho difeso Enid. Ma posso fare almeno questo per te. E
spero che quando ci rincontreremo, nella prossima vita, potrai
perdonarmi.
Inspirò
profondamente chiamando a raccolta la sua determinazione, poi fece
per dare di sprone al cavallo per guidarlo verso il villaggio.
Ma
quando si aspettava di prendere lo slancio necessario ad avanzare al
trotto qualcosa la trattenne bruscamente, gettandola giù da
cavallo.
Le braccia di un uomo la tenevano stretta in una morsa d'acciaio.
Ainslee prese a dibattersi furiosamente nel tentativo di liberarsi.
Riempì d'aria i polmoni preparandosi a lanciare un poderoso
urlo, ma
lo sconosciuto le mise una mano sulla bocca per impedirle di gridare.
Non senza difficoltà la trascinò all'indietro
verso un gruppo di
folti cespugli. Il cavallo nel frattempo, spronato da Ainslee un
attimo prima di essere trascinata a terra, aveva proseguito la sua
corsa senza il suo cavaliere, sparendo alla vista.
Sembrava
che l'uomo che la teneva volesse nascondere lei e se stesso, ma non
accennava a lasciarla nemmeno ora che si trovavano al riparo dei
cespugli, acquattati al suolo. Forse temeva che avrebbe gridato.
Ainslee
usò l'unica arma a sua disposizione in quel momento: morse
con forza
la mano dell'uomo e quello si lasciò andare ad
un'imprecazione. Poi
le accostò la bocca all'orecchio e le bisbigliò:
“Ho capito il
messaggio, vuoi che ti lasci. Non c'era bisogno di essere
così
diretta.”
Ainslee
spalancò gli occhi dalla sorpresa. Gareth.
“Ora
tolgo la mano, ma tu non urlare. Non fare il minimo rumore. E
soprattutto non mordermi di nuovo. Ho già sperimentato che
hai denti
aguzzi come quelli di un lupo.”
Quindi
le tolse con cautela la mano dalla bocca, e con altra lentezza la
lasciò andare, come se temesse che lei si comportasse di
nuovo in
maniera imprevedibile.
Ainslee
provava una sensazione a metà tra la rabbia e la paura. Non
era
sicura di quale prevalesse. Il suo petto si alzava e abbassava
affannosamente in quel turbinio di emozioni.
“Cosa...?”
cominciò in un sussurro.
Ma
Gareth si portò l'indice alle labbra, con sguardo
implorante.
Ainslee annuì, facendo segno di aver capito. Rimasero
nascosti
dietro quel cespuglio per qualche minuto, rattrappiti e scomodi come
non mai.
Quando
già Ainslee si chiedeva se sarebbe successo qualcosa,
udirono
distintamente dei passi avvicinarsi nella loro direzione. Erano passi
cauti, non certo di persone in corsa. Ma non facevano molto per non
essere notati. Gareth le fece di nuovo segno di non fare rumore, poi
le indicò con il dito un piccolo pertugio nel cespuglio da
cui
poteva osservare i nuovi arrivati. Ainslee ubbidì e
nell'oscurità
riuscì a individuare le sagome di due uomini. I loro volti
erano
celati da spessi cappucci, e tutto il loro abbigliamento denotava la
necessità di non dare nell'occhio. Alla cintura portavano un
arsenale di armi. Ainslee si tirò bruscamente indietro,
improvvisamente terrorizzata, premendosi le mani sulla bocca. Rimase
così per un tempo che le parve infinito. I due assassini
parlottarono qualche secondo tra di loro, in una lingua sconosciuta.
Era chiaro che cercassero qualcuno, e quel punto Ainslee non poteva
più negare che cercassero lei. Gareth le aveva salvato la
vita di
nuovo, quella vita che lei aveva messo di nuovo in pericolo per colpa
della sua presunzione.
Uno
dei due uomini indicò all'altro le impronte di zoccoli
impresse sul
terreno, quello annuì e disse qualcosa in tono secco. Poi cominciarono a seguire la direzione
presa dal cavallo di Gareth e sparirono nella notte.
Gareth
le fece segno di rimanere ancora nascosta e in silenzio. Ainslee
sentiva ogni muscolo del corpo dolorante nello sforzo di non fare il
minimo movimento. Ed anche a causa della tensione.
Finalmente,
dopo che Ainslee gli ebbe lanciato uno sguardo di supplica, Gareth le
fece segno che erano fuori pericolo e che poteva di nuovo muoversi e
parlare.
L'espressione
del giovane cavaliere era dura, ed Ainslee ne conosceva il motivo.
“Perdonami...”
gli disse in tono mortificato.
“Come
scuse non sono un granché”, commentò
lui “ma le prenderò per
buone. Quando smetterai di considerarmi un nemico?”
Ainslee
fece un debole sorriso. “Ora.”
Quando
lui non poté trattenere un sorriso in risposta, lei
capì che
l'aveva perdonata. Anche se non era sicura di meritarselo.
“Quelli
erano altri due mercenari, non è vero?”
Gareth
annuì, mettendosi in piedi e tendendole la mano per aiutarla
ad
alzarsi.
“Perché
non li hai affrontati? Insieme abbiamo già ucciso due di
loro, e
senza troppe difficoltà.”
Aveva
sempre creduto che un cavaliere dovesse essere eroico in ogni
situazione, senza mai tirarsi indietro di fronte a uno scontro.
“Prima
non ho avuto scelta, ho dovuto affrontare il nemico faccia a faccia
per salvarti. E tu hai fatto altrettanto. Ma non c'era motivo di
mettere in pericolo le nostre vite ora, soprattutto la tua. Un bravo
cavaliere sa quando è il momento di agire, e quando evitare
rischi
inutili.”
E'
la differenza tra coraggio e stupidità, pensò
Ainslee con amarezza. Lei oggi si era comportata stupidamente. Ed
ecco che aveva ricevuto la sua prima lezione. Si rese conto che
Gareth aveva molto da insegnarle.
“Sapevi
che avevo intenzione di fuggire, non è vero?”
“L'ho
capito dal momento in cui hai accettato di seguirmi. Ho evitato di
dormire e ti ho seguita nella foresta.”
“Dunque
eri tu quello che mi seguiva?” Ainslee provava qualcosa di
simile
all'ammirazione in quel momento. Credeva di averlo ingannato, e lui
invece aveva ingannato lei.
“Ero
io. Mi dispiace averti spaventato, ma ho preferito che tu ti rendessi
conto del reale pericolo che corri. Non mi avresti mai creduto se non
l'avessi visto con i tuoi occhi.”
“Cosa
facciamo adesso?” chiese Ainslee quando furono usciti dal
cespuglio. Mentre parlava si tolse i fili d'erba e le foglie che le
erano rimasti impigliati negli abiti e nei capelli.
“Andiamo
via di qua.”
“Ascoltami...
Gareth” disse Ainslee in tono calmo, rendendosi conto che era
la
prima volta che pronunciava il suo nome ad alta voce. “Ho
deciso di
fidarmi di te, e questa volta sul serio. Ti seguirò senza
fare
domande, mi affiderò completamente a te. Non ti
darò più problemi,
te lo giuro.”
“Mi
sembra di sentire un 'ma'...”
“A
due condizioni...”
Gareth
alzò mentalmente gli occhi al cielo. Fu tentato di caricarsi
la
ragazza in spalla, recuperare il cavallo e scappare di lì a
costo di
legarla alla sella. Ma sapeva che lei non aveva tutti torti, come lui
non aveva tutta la ragione. Le aveva chiesto molto quando aveva
preteso che si fidasse ciecamente di lui, senza fornirle la
benché
minima spiegazione. E in un solo giorno lei aveva perduto tutto,
tutto ciò che aveva di più caro al mondo.
“Dimmi
pure. Quali condizioni?”
“Che
tu mi permetta di andare a vedere come sta Enid. Non posso andare via
senza assicurarmi che stia bene.”
“Tutto
quello che posso concederti è di restare nascosta e al
sicuro,
mentre io vado a controllare come sta la tua amica. È troppo
pericoloso per te farti vedere al villaggio. D'accordo?”
“Se
non posso convincerti a mandare me... va bene.”
“E
la seconda condizione?”
“Devi
dirmi tutta la verità.”
Non
avrei dovuto accettare la seconda condizione. Gareth
si maledisse tra sé e sé per averle permesso di
strappargli quella
promessa. Avrebbe dovuto dire di no. Ma in quel caso gli sarebbe
costato molta più fatica convincerla a seguirlo. E poi
riteneva che
lei meritasse di sapere la verità. E al diavolo i suoi
superiori.
Dopo
aver lasciato Ainslee in un luogo sicuro ed aver cancellato qualsiasi
traccia che avesse potuto portare a lei, Gareth si era diretto al
villaggio. Aveva recuperato il suo cavallo, ma lo aveva lasciato
legato ad un albero poco distante. Era più prudente
avvicinarsi a
piedi, silenziosamente, ed evitare di essere notati. Il villaggio non
era niente di più che un assembramento di case di pietra con
lo
spiovente tetto di paglia, che si diramavano dalla piazza centrale,
principale ritrovo degli abitanti. Quando raggiunse le prime case,
Gareth si appiattì contro il muro e strisciò
lungo i vicoli tra un
edificio e l'altro, col favore delle tenebre. Sembrava che le case
fossero deserte, ma forse era solo un impressione dovuta al fatto che
di sicuro a quell'ora gli abitanti del villaggio erano tutti immersi
in un sonno profondo. Ainslee gli aveva tracciato una rudimentale
mappa sul terreno per aiutarlo a trovare la casa della famiglia di
Enid, che doveva trovarsi proprio sulla strada di passaggio.
Il
cavaliere proseguì tra un vicolo e l'altro, incontrando solo
qualche
gatto affamato in cerca di topi e qualche botte vuota che i villici
avevano ammassato fuori delle loro case.
Man
mano che proseguiva però, gli divenne chiaro
perché il paese era
deserto. Non per l'ora tarda, come aveva creduto inizialmente. Una
nutrita folla riempiva la piazza principale: uomini, donne e perfino
bambini. Alcuni tenevano in mano delle torce che proiettavano
tremolanti sfumature di arancio tutto intorno. Al centro della folla
stava un uomo, un giovane poco più che ventenne, vestito in
abiti
eleganti. Sicuramente non un villico. Era chiaramente una figura di
potere, ed era il centro dell'attenzione di tutti i presenti. Lo
sguardo di Gareth fu catturato dalla spada che il giovane aveva al
fianco: raramente gli era capitato di ammirare un'arma di tale
squisita fattura. Non poteva che essere stata creata dal fabbro
più
abile della provincia: il padre adottivo di Ainslee, Eachann. Allora
forse lei sapeva chi fosse quell'uomo.
Gareth
continuò la sua osservazione restando nell'ombra, al riparo
del muro
di una casa. Accanto al giovane stava un altro uomo che recava delle
insegne di comando, forse uno sceriffo locale, e alla sua destra
c'era una giovane donna visibilmente incinta.
Quella
deve essere Enid, pensò
Gareth sollevato. Trovarla era stato meno difficile del previsto. Il
suo aspetto, casomai permanessero dubbi sulla sua identità,
era
identico alla descrizione che gli aveva fornito Ainslee.
Enid
appariva distrutta: aveva gli occhi arrossati dal pianto, anche se in
quel momento erano asciutti. Le sue spalle sussultavano in silenziosi
singhiozzi... o forse si trattava di brividi. Il giovane che la
teneva protettivamente con un braccio doveva essere suo marito. E
accanto a lui stava un altro uomo, alto e grosso, con il capo
sormontato da riccioli castani. Che fosse il fratello di Enid?
Entrambi gli uomini alternavano dolore e furia sui loro volti. Le
altre persone che stavano loro accanto dovevano essere il resto della
famiglia.
La
stessa rabbia e lo stesso sgomento accendevano i volti di tutti gli
abitanti del villaggio.
A
quanto sembrava il giovane, affiancato da due guardie, stava cercando
di rabbonire la folla.
“Sono
stati massacrati come bestie!” gridò un uomo.
“Eachann
era uno di noi” si levò un'altra voce.
“Uno dei migliori!”
“Non
meritava di finire così” gridò un terzo.
“Calma,
calma” intervenne il giovane. “Ho a cuore questa
faccenda quanto
voi. Conoscevo Eachann personalmente, ha eseguito diversi lavori per
mio padre e la mia famiglia. Mio padre mi ha mandato qui non appena
saputo dell'accaduto, ed è sconvolto quanto voi, ve lo
assicuro.
Questi assassini... queste bestie che hanno osato perpetrare un
simile vile atto nei confronti di uno di noi... del migliore di
noi... non la passeranno liscia!”
Un
boato di approvazione si levò dalla folla.
Il
ragazzo se la cava con le parole, notò
Gareth. Chissà
se è altrettanto bravo con i fatti.
“E
la ragazza? Dov'è sua figlia? Cosa farete per
trovarla?”
Una
buona domanda. Ma
Gareth non aveva più motivo di restare ad ascoltare la
risposta. I
suoi sensi addestrati percepivano una minaccia aleggiare nell'aria.
Colui o colei che aveva tradito Ainslee si trovava lì in
mezzo, e
alla notizia che lei era sfuggita al tentativo di ucciderla si
sarebbe messo di nuovo in movimento. Avrebbe fornito notizie fresche
al suo mandante con la velocità di un fulmine. E c'erano
ancora
altri due mercenari che la stavano cercando. Ormai aveva appurato
che Enid era sana e salva, anche se comprensibilmente distrutta per
la sua amica, e non aveva più niente da fare lì.
Scivolò via
silenziosamente come era arrivato.
Angolo
Autrice: Il
pericolo per la nostra Ainslee/Arianrhod non è ancora
scongiurato,
ma per fortuna c'è Gareth (quest'uomo ha la pazienza di un
santo!).
Nel prossimo capitolo avrà inizio il viaggio dei due... per
dove? Lo
scoprirete! Fatemi sapere cosa pensate del capitolo, mi raccomando ;)
Per
chi fosse interessato al genere fantasy voglio segnalare che ho
iniziato una nuova storia originale, che però
avrà un aggiornamento
più lento de Il Regno dei Draghi, che resterà la
mia storia
principale. Se vi va di passare ecco il link:
Breaking the Mist
Un
abbraccio a tutti,
Eilan
|
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Capitolo 8 *** Capitolo otto ***
Le
poche ore di sonno di quella notte portarono ad Ainslee l'ennesimo
sogno sulla donna bionda che credeva di conoscere. E per la seconda
volta vide l'uomo dalla barba folta che le era apparso la notte prima
del viaggio a Eburacum. Ma stavolta ai loro volti amorevoli si
sovrappose quello insanguinato di sua madre Gwenael. Senza conoscerne
la ragione, Ainslee si svegliò alle prime luci dell'alba con
un
forte senso di colpa. Un malessere diffuso la pervadeva, provocandole
la nausea. Improvvisamente scoppiò a piangere in singhiozzi
disperati che la squassarono da capo a piedi. Fu a malapena
consapevole che Gareth le si era avvicinato e la stava stringendo a
sé. Era come se assorbisse il suo dolore e l'alleviasse di
parte del
suo gravoso fardello. Il giovane cavaliere rimase in silenzio, non
disse una parola: aspettò soltanto che il suo pianto si
quietasse da
solo; che da fuoco ardente divenisse una fiamma non certo estinta, ma
dormiente sotto un cumulo di brace. Perché era ovvio che
quel dolore
non si sarebbe esaurito con un semplice pianto, non sarebbe stato
possibile. Non un dolore di quella portata. Ma sfogarlo avrebbe
comunque aiutato.
Ainslee
rimase piegata su se stessa, accartocciata come una foglia autunnale,
finché non ebbe esaurito completamente le lacrime. Quando i
suoi
singhiozzi cominciarono ad acquietarsi, la ragazza si rese conto che
erano le prime lacrime che versava per la sua famiglia. Il giorno
precedente non le aveva concesso nemmeno il tempo di un respiro,
tanto era stato frenetico e denso di avvenimenti. Ma adesso che aveva
avuto il tempo di fermarsi a riflettere, la consapevolezza che i suoi
genitori e suo fratello erano davvero morti si era abbattuta su di
lei talmente violenta da farla vacillare sotto il suo peso.
Un
pensiero che non aveva previsto le attraversò la mente. Li
vendicherò. Chiunque sia stato a fare questo, non la
passerà
liscia. Non so come, non so quando... non so chi... ma giuro su tutti
gli dei che porterò a compimento la mia vendetta.
Darò pace ai loro
spiriti tormentati.
Stranamente
fu un pensiero che ebbe il potere di calmarla e di darle un po' di
nuova forza. Era riuscita a pensare a cosa avrebbe fatto dopo, al
prossimo passo da compiere, evitando di continuare a girare
dolorosamente intorno alle immagini di morte che le affollavano la
mente. Il passato era passato, ed anche se sempre presente in lei,
era stato momentaneamente messo da parte. Domani poteva essere un
giorno diverso, poteva essere il giorno in cui la sua vendetta si
sarebbe compiuta e lei avrebbe ucciso chiunque avesse ordinato la
morte della sua famiglia.
“Stai
meglio?” la voce di Gareth le giunse come da un luogo remoto.
“Sì,
ti ringrazio” mormorò lei asciugandosi gli occhi
gonfi e
arrossati. “Scusami se mi sono lasciata andare in questo
modo.”
Gareth
si allontanò di un passo, ma le posò una mano sul
braccio, come se
avesse improvvisamente timore di toccarla.
“Ne
hai tutto il diritto. Quello che è successo alla tua
famiglia è
stato terribile. Erano brave persone, e non meritavano di finire
così.”
E
forse noi avremmo potuto fare qualcosa per evitarlo, pensò
amaramente.
“E’
stato terribile anche quello che sei stata costretta a fare. Immagino
che sia la prima volta che uccidi un uomo…”
Ainslee
annuì mestamente. “Già. L’uso
della spada mi sembrava molto più
romantico quando mio padre me lo ha insegnato. Tuttavia non ho
rimorso per avere ucciso quegli assassini.”
“Non
devi averne. Ti avrebbero massacrato senza pietà…
e anche peggio.”
Ainslee
gli sorrise, grata per la comprensione. Per la prima volta,
osservando il suo salvatore, si accorse che doveva essere molto
giovane, forse di qualche anno più grande di lei.
Il
volto appariva affilato ma proporzionato, e la bocca sottile, quando
si incurvava in un sorriso come in quel momento, diveniva
accattivante e irresistibile. Portava un accenno di barba, dello
stesso colore castano dei corti capelli ribelli. Era di corporatura
asciutta, con spalle larghe e, come Ainslee aveva già avuto
modo di
notare, era anche alto. Gli indomiti occhi grigi, contornati da
ciglia chiare, rivelavano il carattere orgoglioso e fiero del
giovane. Il suo sguardo così diretto e profondo,
pensò Ainslee,
aveva senza dubbio fatto battere il cuore di più di una
ragazza.
Stupita
dalla direzione che avevano preso i suoi pensieri, Ainslee distolse
lo sguardo bruscamente, sperando che lui non notasse il rossore
soffuso sulle sue guance.
Ma
Gareth sembrò non notarlo, già intento a sellare
il cavallo e a
prepararsi per la partenza.
“Facciamo
bene ad allontanarci ancora un po'. Siamo ancora troppo vicini al
villaggio per i miei gusti”, annunciò aiutandola a
salire a
cavallo dietro di lui.
“Dove
andiamo?”
“Verso
sud” rispose lui partendo al galoppo.
“Sarà un lungo viaggio,
perciò è meglio che tu sia preparata.”
Ainslee
stava per porre un'altra domanda, ma si trattenne. Avrebbe aspettato
un momento più propizio per chiedere tutto ciò
che voleva sapere.
Cavalcarono
per tutto il resto del giorno, nel silenzio quasi totale. Tuttavia ad
Ainslee non dispiacque: poteva osservare con tranquillità i
nuovi
luoghi che incontravano. Raramente si era allontanata da casa sua, e
non aveva mai lasciato il grande nord della Britannia. Il
sud... le suonava così
esotico da sembrare più un luogo narrato in qualche leggenda
che un
posto reale. Si chiese se fosse diverso dal suo nord, se
città come
Londinium* o Glevum**, di cui aveva sentito tanto parlare, fossero
tante differenti dalla familiare Eburacum. Chissà se era
proprio in
una di queste città che erano diretti?
Si
fermarono solo a metà giornata per raccogliere qualche
frutto che
avrebbero mangiato strada facendo. Gareth scherzò sul fatto
che
aveva una fame da lupi, ma Ainslee non aveva mai avuto un grande
appetito e si limitò a piluccare qualche mora raccolta dai
cespugli.
Attraversarono
infinite distese di erba, valli meravigliose, interrotte solo
saltuariamente da sparute macchie boschive e piccoli villaggi. Per
ora niente di diverso a ciò a cui Ainslee era abituata. La
Britannia
sembrava ancora uguale a come l'aveva sempre conosciuta.
Presto
il sole tramontò, e il buio oscurò implacabile
ogni cosa.
Gareth
giudicò che non fosse il caso di proseguire oltre e
cercò un posto
dove fermarsi. Purtroppo non trovarono boschi nelle vicinanze e
dovettero accamparsi presso una casa in rovina, di cui sopravvivevano
solo tre muri crollati per più di metà della loro
altezza.
Erano
troppo esposti alla vista per accendere un fuoco, così
dovettero
accontentarsi di mangiare della frutta e un po' di carne secca che
Gareth teneva nelle bisacce. Nonostante la mancanza di un fuoco la
notte era ben illuminata da una bella luna piena, che proiettava una
luce lattiginosa sulla casa in rovina, e su di loro.
Ainslee
sedette a gambe incrociate di fronte a Gareth, ma un poco distante,
mentre lui appoggiò la schiena al muro di pietra. Lei lo
osservò
mangiare per qualche minuto, senza distogliere mai lo sguardo
indagatore. Gareth cominciò a sentirsi a disagio, ma sapeva
ciò che
lei si aspettava da lui, e sapeva di dover onorare la sua promessa.
La notte era giovane e aveva ancora molto tempo davanti a sé
per
raccontarle tutto.
Fece
un respiro profondo e raddrizzò la schiena, guardandola a
sua volta
negli occhi. Un brivido lo percorse, perché lei era
bellissima, ma
nella luce della luna i suoi capelli sembravano quasi bianchi, il suo
viso di un pallore mortale, e quegli occhi di ghiaccio lo guardavano
come se potessero leggergli nell'anima. Gareth ebbe quasi la
tentazione di allungare la mano per assicurarsi di avere davanti una
donna in carne e ossa e non uno spettro.
“Mi
hai chiesto di raccontarti tutta la verità, ed ho intenzione
di
mantenere la mia promessa.”
Ainslee
fece un cenno di assenso, ma non replicò.
Gareth
afferrò con le dita la tunica bianca che indossava sopra la
cotta di
maglia. “Sai cosa significa questo simbolo?”
Ainslee
lo scrutò attentamente, gli occhi ridotti a due fessure. Lo
aveva
notato prima, ma senza porvi particolare attenzione. Raffigurava un
drago alato, in volo e nell'atto di sputare fuoco. Il suo capo era
sormontato da una corona d'oro che sembrava retta da una mano
invisibile. Sullo sfondo uno stemma a forma di scudo, che contava
diverse stelle dorate.
“Non
lo conosco” disse infine.
“Questo
è il simbolo della stirpe reale di Svezia, gli Yngling.
È a causa
di questo simbolo che sono soprannominati la Stirpe del
Drago.”
“Non
so niente dei sovrani di Svezia. Governano da molto?”
“Da
più di trecento anni. Si dice che il primo re della stirpe
sia stato
addirittura Odino in persona. O almeno gli Yngling amano far risalire
le loro origini al re degli dei.”
“E
chi era in realtà questo Odino?” chiese Ainslee in
tono malizioso.
Gareth
sorrise. “E' più probabile che si vera l'altra
versione esistente:
che fosse un nobile originario di qualche parte dell'Asia, giunto in
Svezia dopo lunghi viaggi. In ogni caso, da allora gli Yngling
governano sul paese, con governi più o meno stabili, ma
quasi tutti
con mano sicura e saggezza. L'ultimo re legittimo è stato Jörundr
ed è morto quattordici anni fa. In gioventù fu un
esule, insieme a
suo fratello minore Erik e al loro padre Yngvi. I tre viaggiarono
molto e i due fratelli si fecero una fama di indomiti guerrieri. I
due principi erano stati costretti all'esilio perché il
trono del
loro cugino Hugleik era stato usurpato dal re norvegese Haki, che
aveva sconfitto e ucciso Hugleik e i suoi due giovani figli nella
sanguinosa battaglia di Fyrisvellir. Il trono di Uppsala*** era
quindi in mano a uno straniero, un usurpatore. Ma appena tre anni
dopo Jörundr
ed Erik
sbarcarono in Svezia con un esercito, e sconfissero Haki nella
seconda battaglia di Fyrisvellir, riconquistando Uppsala.”
“Perché
mi racconti tutto questo?” lo interruppe Ainslee, perplessa.
Ma in
realtà quella storia di battaglie e gesta eroiche la stava
appassionando. Sembrava una di quelle storie epiche che si
raccontavano intorno al fuoco e che tutti ascoltavano con sguardo
rapito. Re Jörundr
doveva
essere stato un uomo di grande valore e Ainslee sentì di
provare
grande ammirazione per lui.
“Ho
un motivo per farlo, fidati di me. Posso continuare?” e ad un
cenno
affermativo di Ainslee, proseguì: “Sul trono
sedette quindi il
legittimo successore, Yngvi, fratello del padre di Hugleik, re Alf.
Alla morte di Yngvi, Jörundr
gli succedette sul trono e governò con altrettanta saggezza
e
capacità di suo padre. Ma Erik cominciò a nutrire
del rancore verso
il fratello quando si rese conto che sarebbe sempre rimasto il figlio
cadetto, che i figli di Jörundr
gli sarebbero succeduti, non lui. Prima sperò che suo
fratello non
scegliesse mai una moglie, cosa che in effetti fece in non
più
giovane età. Erik fu deluso quando infine Jörundr,
dopo una trattativa con il re di Danimarca, prese in moglie sua
figlia Drott. E quando venne al mondo l'erede al trono, il principe
Njöror,
Erik cominciò a
tramare apertamente contro il fratello, cercando anche l'appoggio di
potenti nobili della corte. Si pensa addirittura che la morte
prematura del principe Njöror
sia stata opera di Erik.”
“Deve
essere stato molto triste per il re e la regina perdere un figlio
così piccolo” commentò Ainslee.
“Non ne avevano altri?”
“Ne
ebbero altri tre: due morirono alla nascita.
Un'unica figlia arrivò all'età adulta e vive
ancora oggi.”
“E
dove si trova questa principessa?”
“E'
qui, davanti a me.”
All'inizio
Ainslee credette di aver capito male, di aver frainteso completamente
quello che Gareth intendeva. Forse si era espresso con una metafora.
“Cosa
vuoi dire?” chiese confusa.
Gareth
trasse un altro, profondo respiro. Si avvicinò a lei e le si
sedette
accanto. La guardò negli occhi.
“Ti
sto dicendo la verità, Arianrhod.”
“Come...?”
Ainslee aveva gli occhi spalancati, e scuoteva impercettibilmente il
capo.
“Lo
so che questo è un grosso colpo per te, ma... tu hai
insistito per
sapere la verità.”
Ainslee
lo guardò quasi con rabbia, poi prese a scuotere decisamente
il
capo. “No, no, no... NO!” urlò alzandosi
di scatto e inducendo
Gareth a fare altrettanto.
Nascose
il viso tra le mani, ma senza piangere. Continuava a mormorare quella
negazione tra se e se. Gareth allungò la mano e le
sfiorò il polso
con le dita. A quel contatto Ainslee scoprì bruscamente il
volto e
lo guardò con espressione dura.
“No,
tutto questo è assurdo! Cosa sarei io? Una principessa? Ma
andiamo!
Credi che sia così stupida?”
Gareth
rimase calmo. “Non credo affatto che tu lo sia. E se avessi
pensato
che non fossi in grado di sopportare la verità, stai pur
certa che
non te l'avrei rivelata, promessa o non promessa. Ma tu sei forte,
Arianrhod! Hai affrontato già molte prove dure, e ne
affronterai
ancora in futuro. Ma le supererai tutte... anche questa.”
“Arianrhod...?”
“E'
il tuo nome. E per essere precisi non sei una principessa: sei una
regina. La legittima regina di Svezia.”
“Vuoi
dire che Jörundr
era mio
padre?”
“So
che ti amava moltissimo.”
“E...
cosa è successo dopo? Come sono arrivata nella mia
famiglia?”
chiese Ainslee con voce incrinata. È assurdo!
Davvero sto
accettando la possibilità che tutto questo sia vero?
Gareth
la prese delicatamente per il braccio e le fece cenno di rimettersi a
sedere.
Poi
andò a prenderle un po’ d’acqua, che
Ainslee bevve a piccoli
sorsi.
“Ti
ringrazio, ora mi sento meglio. E scusami se ti ho aggredito.”
“Non
hai nulla di cui scusarti. La tua reazione è più
che
comprensibile”, rispose Gareth, “vuoi che ti lasci
un po’
sola?”
“No.
No, ti prego non farlo. Credo di avere bisogno di un po’ di
compagnia… e voglio che mi racconti tutto”, disse
Ainslee in tono
malfermo.
“Bene,
allora... eravamo rimasti a tuo zio che tramava contro tuo
padre.”
Zio?
Padre? Ainslee
sentiva che sarebbe potuta scoppiare in una risata isterica. Questa
è follia!
Gareth
le raccontò di come sua madre era morta, nel dare alla luce
una
bambina, e di come suo padre fosse morto poco dopo. Di come avesse
provveduto a metterla al sicuro prima di morire, allontanandola dalla
Svezia.
“Mia
madre?” fu una rivelazione che la colpì come un
fulmine. “Drott...
mia madre... era bionda? E bella?”
Gareth
sorrise. “La ricordi?”
“Da
mesi faccio un sogno ricorrente. Una donna bionda, bellissima, dal
volto e la voce stranamente familiari. E siamo in un castello... e
c'è un uomo con noi... forse mio padre.” Fece una
pausa e poi
disse in un soffio, lo sguardo perso nel vuoto: “Lei
è mia
madre...”. Le lacrime le riempirono gli occhi, ed una
scivolò
lungo la guancia, lasciando una traccia salata sulla sua pelle.
Mamma.
Ainslee
si asciugò quella lacrima solitaria, ma per la prima volta
era una
lacrima di gioia.
Poi
le venne in mente un altro particolare. “Arianrhod...
così mi ha
chiamato lei nel mio sogno. Non ero riuscita a ricordarlo fino a
questo momento.”
“E'
il tuo nome: Arianrhod.” confermò Gareth con un
sorriso.
“E
mio padre...” disse Arianrhod, freneticamente ora che i pezzi
del
puzzle cominciavano ad incastrarsi tra di loro. “Mio padre
aveva
una cicatrice sul viso?”
“Come
fai a saperlo?”
“Era
nel mio sogno... tutti loro erano nel mio sogno.”
“Non
era un sogno. Era un ricordo.”
Arianrhod
sorrise, e quel sorriso le illuminò il volto. Non sapeva
perché
provasse tanta commozione, ma era come se un pezzo della sua vita, il
pezzo mancante, le fosse stato restituito. Ora tutto aveva un senso,
quella parte di lei che sapeva essere reale aveva ritrovato la sua
famiglia.
*L'attuale
Londra
**
L'attuale Gloucester
***
Capitale e maggiore città svedese, sede del principale
palazzo reale
Nota
dell'Autrice: Ciao
a tutti! All'inizio il capitolo doveva contenere anche la spiegazione
di ciò che accade dopo che Arianrhod ha lasciato la Svezia,
ma così si
sarebbe probabilmente allungato troppo, rischiando di essere anche pesante da leggere. E quindi ho
deciso di spostare quella parte al prossimo capitolo. Anche
perché
mi è parso più bello concluderlo con le lacrime
di felicità della
nostra principessa. Ho pubblicato un po' in anticipo come avrete
notato, perché domani sono di nuovo in partenza e non volevo
farvi
aspettare altre due settimane per l'aggiornamento (e scusatemi se il prossimo capitolo arriverà con qualche giorno di ritardo :) ). E poi i nostri due
mi imploravano di venire raccontati e l'ispirazione ha preso il
sopravvento.
Volevo
darvi qualche cenno storico: gli avvenimenti che Gareth racconta ad
Arianrhod sono tutti realmente avvenuti. Mi sono permessa di
modificare solo un particolare: il principe Erik in realtà
muore
proprio nella seconda battaglia di Fyrisvellir, combattendo
coraggiosamente, come narrato nella Yngling
Saga
e nelle Gesta
Danorum.
Ho deciso di
farlo sopravvivere e dargli il ruolo del “cattivo”
solo ai fini
della storia e devo riparare con lui, poverino, puntualizzando che
è
stata solo una mia invenzione. Una curiosità sul fondatore
della
stirpe degli Yngling, tale “Odino”. Oggi gli
studiosi lo
identificano con un nobile originario dell'Asia, che pare possa far
risalire le sue origini addirittura alla mitica città di
Troia.
Un'ipotesi ovviamente, ma che trovo davvero affascinante.
Un
abbraccio e alla prossima,
Eilan
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Capitolo 9 *** Capitolo nove ***
“Ma
allora.. tu chi sei?”
La
domanda di Arianrhod giunse tanto inaspettata che Gareth ebbe un
sussulto. Ma avrebbe dovuto aspettarselo, lei non era affatto una
sciocca.
“Sono
un membro della Guardia Bianca, l'ordine di cavalieri creati dalla
stirpe degli Yngling, fedeli ai sovrani nella vita come nella morte.
Il nostro compito è servire e proteggere la stirpe reale, in
ogni
modo ci sia concesso e finché le forze non ci vengano
meno.”
“Proteggete...
me?” chiese Arianrhod scettica. Le sembrava ancora strano che
un
intero ordine fosse votato a lei, anima e corpo.
“Soprattutto
te. Devi capire che hai un valore inestimabile per il tuo paese e per
il tuo popolo.”
“Mi
fai sentire alla stregua di una gemma... o di un qualche altro
oggetto...” borbottò la ragazza, il tono velato da
una punta di
contrarietà.
“Scusami,
non so come meglio esprimere ciò che significhi per la
Svezia, non
sono mai stato un granché con le parole” sorrise
Gareth. “Ma c'è
un fondo di verità in quello che dici. Un sovrano
è prima di tutto
un simbolo per il suo popolo, una figura capace di unirlo sotto
un'unica bandiera e guidarlo verso un obiettivo comune.”
Arianrhod
batté le palpebre, perplessa. Le era difficile comprendere
il
concetto di un intero popolo che ubbidiva ad un unico sovrano
indiscusso. La Britannia era divisa in tribù, ognuna con un
proprio
principe, o re. Li governava un Grande Re, una sorta di comandante in
capo, soprattutto in tempi di guerra, ma ogni tribù rimaneva
autonoma e custodiva gelosamente la propria indipendenza. Ed anche
l'elezione del Grande Re era un costume recente: prima dell'attuale
grande re, Ambrosio Aureliano, ce n'era stato solo un altro.
“Dunque
sei svedese?” chiese infine a Gareth, senza essere riuscita a
ricavare molto da quella riflessione.
“Lo
sono per metà. Mia madre era britanna, e io sono nato e
cresciuto a
Leguvalium, su al nord. Mio padre era svedese ed era anch'egli un
membro della Guardia Bianca. È per questo che io lo sono
diventato.”
“E
perché hanno mandato proprio te a salvarmi? Dov'è
il resto di
questa Guardia Bianca?”
“Quando
ci è giunta notizia che stavi per subire un attacco era
troppo tardi
per mobilitare l'intero ordine. Io sono quello che è
riuscito ad
arrivare più in fretta... o dovrei dire appena in tempo. Il
resto
della Guardia Bianca è già in viaggio per
raggiungerci, insieme ai
nostri comandanti.”
“Ma
chi è che vi comanda? Chi è il vostro capo
supremo?”
“Il
capo supremo, se così si può chiamare,
è il Duca Fjölnir
di Silverdalen, uno dei nobili più potenti in Svezia e
grande amico
del defunto re... cioè, di tuo padre” si corresse
con un cenno del
capo.
“Cos'è
successo dopo che la Guardia Bianca mi portò via dalla
Svezia?”
“Dopo
che sei scomparsa il Trono del Drago è stato usurpato da tuo
zio, il
Principe Erik, il quale era manovrato dal Duca Aun di Skillingaryd,
un altro dei nobili più potenti del regno. Infatti, appena un
anno più
tardi, il Duca ha fatto assassinare tuo zio e si è
installato sul
trono. Otto anni fa Aun venne sconfitto in battaglia e da allora sul
trono di Svezia si sono succeduti altri due usurpatori, prima il
Nobile Halfdan e poi il Duca Ale di Vingåker, che attualmente
governa. Come avrai intuito, questi quattordici anni sono stati un
periodo buio per la Svezia, governata da tiranni usurpatori, lacerata
dalle lotte intestine e dalla guerra che le famiglie più
potenti del
paese stanno portando avanti per ottenere il trono.
In
tutti questi anni il tuo popolo ha atteso il tuo ritorno; ha atteso
perché la legittima Regina di Svezia sieda nuovamente sul
Trono del
Drago e ponga fine alle lotte e ai disordini. Anche se alcune potenti
famiglie hanno voluto questa era del caos tradendo la Casa Reale, il
popolo è sempre stato estremamente fedele agli Yngling, la
Stirpe
del Drago.”
“E’
stato questo Duca Ale a ordinare a quei sicari di
uccidermi…”
mormorò Arianrhod. “E' stato lui che ha
assassinato la mia
famiglia.” Senza rendersene conto strinse il tessuto del suo
abito
nel pugno, fino a farsi sbiancare le nocche.
“Lo
ucciderò” annunciò calma, il volto
impassibile. “Giuro davanti
agli dei che pagherà con il suo sangue per aver versato
senza pietà
quello di mia madre, mio padre e mio fratello.”
Gareth
allungò la mano e la posò su quella ancora
stretta a pugno di
Arianrhod. Con dolcezza le sciolse le dita da quella stretta ferrea.
“La
vendetta ti aiuterà a dare pace al tuo cuore, questo
è certo, ma
non è tutto. Tu sei nata per uno scopo molto più
alto di questo.”
Arianrhod
deglutì, ricacciando indietro un fastidioso nodo che le si
era
fermato in gola.
“Come...
come sono arrivata dai miei genitori adottivi?” chiese con un
filo
di voce.
“Ai
tuoi genitori adottivi fu spiegata ogni cosa: chi eri, come avrebbero
dovuto comportarsi con te. Per fare questo hanno ricevuto dalla
Guardia Bianca una notevole somma di denaro, con la quale credo che
abbiano comprato quella bella fattoria.”
“I
miei genitori lo hanno fatto solo per il denaro?” chiese
Arianrhod.
“Forse
all'inizio fu un fattore decisivo nel guadagnare il loro consenso, ma
puoi credermi quando ti dico che ti hanno amata come se fossi stata
davvero loro figlia. Ma credo che tu questo lo sappia
già”,
rispose Gareth.
Arianrhod
annuì. “Sono stati i migliori genitori che potessi
avere.”
“Se
hanno accettato il denaro è solo perché sapevano
il rischio che
correvano nel prenderti con loro.”
E'
anche colpa mia se sono morti, pensò
la ragazza con lucidità. Se
non fossi mai entrata nella loro vita a quest'ora sarebbero ancora
vivi. Dovunque mi trovi porto la morte: prima i miei veri genitori,
poi i miei fratelli e infine anche la mia famiglia adottiva. Sono
maledetta.
Era
un pensiero malsano, ma Arianrhod non riusciva a scacciarlo, per
quanto ne fosse consapevole e per quanto tentasse.
“Non
angustiarti, mia regina” disse Gareth come se potesse
leggerle nel
pensiero. “Non è stata colpa tua. Nulla che sia
successo fin'ora
lo è stato. Forse quando sarai di nuovo sul trono e dovrai
prendere
decisioni difficili, magari anche apparentemente ingiuste, potrai
sentirti, a buon diritto, in colpa. Ma non ora.”
Tra
di loro cadde improvvisamente il silenzio. Arianrhod se ne stava a
testa china, l'espressione indecifrabile. Per quanto tentasse Gareth
non riusciva più a capire cosa stesse pensando. Infine
decise di
rompere quell'inquietante silenzio.
“Tutti
i predecessori di Ale hanno tentato di trovarti, ma per quattordici
anni hanno fallito nel loro intento. La Guardia Bianca ti ha protetto
bene; anche se eri affidata ai tuoi genitori, noi non ti abbiamo mai
perso di vista.”
“Allora
come mai hanno massacrato la mia famiglia?”, chiese la
giovane
regina con voce tagliente.
Stava
cercando qualcuno da incolpare, Gareth lo capiva. E non aveva nemmeno
tutti i torti. Quei sicari erano passati sotto il loro naso come
volpi astute, e solo per un soffio non erano riusciti nel loro
intento.
“L'unico
modo in cui Ale poteva sapere dove ti trovavi” rispose
conciliante,
ӏ che qualcuno vicino a te abbia scoperto chi eri
veramente e ti
abbia venduta all'usurpatore.”
Arianrhod
fece un gesto con la mano come a escludere tassativamente
quell'ipotesi. “No, questo non può essere. Conosco
la gente del
mio villaggio da sempre, e mi fido di loro ad occhi chiusi.”
Gareth
preferì non insistere. Sapeva che lei sarebbe comunque
rimasta della
sua idea, testarda com'era.
“In
ogni caso ucciderti per il Duca Ale è l’unico modo
per legittimare
la sua posizione. Finché tu sarai in vita lui
rimarrà sempre un
usurpatore e il popolo non l’accetterà
mai.”
Arianrhod
sentì un brivido percorrerle la schiena, e Gareth se ne
accorse.
“Non
avere paura, farò tutto ciò che è in
mio potere per proteggerti. E
il luogo in cui ti sto portando è il più sicuro
di tutta la
Britannia.”
“Dove
siamo diretti?”
“Conosci
l'Isola Sacra di Avalon?”
“Certamente.
Qualche anno fa una ragazza che conoscevo ha scelto di prendere i
voti come sacerdotessa. Ma molti si sono convertiti alla nuova
religione e sempre meno famiglie accettano di mandare le loro figlie
ad Avalon.”
“Quello
che dici è vero, i cristiani stanno divenendo sempre
più numerosi.
Ma l'isola è nascosta tra le nebbie, è separata
da questo mondo
dalla magia delle sacerdotesse, e nessuno può trovarla senza
che
loro lo vogliano. Non c'è posto in cui potresti essere
più al
sicuro.”
“Ho
sentito tante storie su Avalon, mio padre me ne parlava spesso. E
ammetto di aver pensato anch'io alla vita sacerdotale, anche
perché
i miei genitori non sembravano considerare per me la via del
matrimonio. Ho sempre sognato di vedere l'Isola Sacra...”
“E'
una fortuna allora, perché è lì che
andremo e da nessun'altra
parte” esclamò Gareth, battendosi la mano sulla
coscia con uno
schiocco sonoro.
“Perché
ora non dormi un po’? Dovremo ripartire alle prime luci
dell'alba.
Farò io il primo turno di guardia.”
Arianrhod
annuì distrattamente e, senza dire una parola, si
sdraiò su un
fianco.
Gareth
rimase a guardare la sua giovane regina dormire, fino a che il fuoco
non si consumò del tutto e, con un ultimo guizzo, si spense.
Quando
si svegliò Arianrhod ebbe l'impressione di essersi coricata
appena
qualche minuto prima. Non era abituata a dormire all'addiaccio e i
suoi muscoli erano dolorosamente contratti. Inoltre sogni tormentati
ancora agitavano il suo riposo, e il doversi svegliare per permettere
a Gareth di riposare a sua volta non l'aveva aiutata.
Si
stiracchiò con uno sbadiglio e quasi sobbalzò
quando si accorse di
avere un pugnale all'altezza dello sguardo. Gareth si era avvicinato
silenziosamente e le stava porgendo un pugnale dalla parte del
manico. Arianrhod lo prese, incerta.
“So
che avresti bisogno di una spada, ma per ora non ho niente di meglio
da offrirti. Vista la tua abilità con le lame potrebbe
tornarti
utile. E mi raccomando, se se ne presentasse l'occasione, usalo senza
indugi.”
Arianrhod
gli sorrise, grata, infilandosi il pugnale alla cintura.
“Dovremo
procurarci anche un altro cavallo, o il mio da solo non
riuscirà a
portarci fino ad Avalon. Stramazzerà a terra morto prima, e
siccome
a lui ci tengo ci fermeremo al prossimo villaggio che incontriamo per
comprarne uno.”
“Sono
la prima a esserne felice, Gareth” rispose lei con un
sorrisetto
canzonatorio, accettando la mano che lui le porgeva per alzarsi.
“Dal
momento che procederei molto più veloce se fossi io a
guidare il
cavallo.”
“Non
ne dubito” ribatté lui divertito.
Non
passò molto tempo prima che si imbattessero in un villaggio
e ancor
meno ci impiegò Gareth a consegnarle un nuovo cavallo, dal
lucido
mantello nero e dai muscoli guizzanti.
“Tieni”
le disse porgendole le briglie. “E ora vediamo se riesci a
provare
quello che affermi tanto spavaldamente.”
“In
che senso?” chiese Arianrhod alzando un sopracciglio
interrogativamente.
“Non
hai detto che sei capace di battermi in velocità? Andiamo,
allora!”
esclamò saltando in groppa al proprio cavallo e spronandolo
al
trotto, non tanto veloce però che Arianrhod non potesse
avere il
tempo di raggiungerlo.
Lei
rimase sbalordita per qualche secondo, poi con una risata
montò il
suo cavallo e prese a rincorrere il cavaliere al galoppo giù
per la
collina.
Per
la prima volta da quando tutto era successo, si sentiva spensierata e
allegra. Era meraviglioso sentire il vento sferzarle il volto e
gonfiarle l'abito. Ogni volta che i loro sguardi si incrociavano,
nella frenesia della galoppata a briglia sciolta, Gareth e Arianrhod
sorridevano, come se non fosse esistito nient'altro al mondo che quel
momento.
Avevano
già coperto una considerevole distanza in direzione della
loro meta,
quando, esausti, frenarono i cavalli, procedendo al passo.
“Non
mentivi, dunque” commentò Gareth. “Sei
un'abile cavallerizza.”
Arianrhod
alzò le spalle gratificandolo con un sorriso sincero.
“Non direi.
Sei tu il cavaliere... io sono solo la figlia di un fabbro che tu
tenti di far passare per regina.”
Trascorse
un altro giorno di viaggio in quel modo. I due si fermavano soltanto
il tempo necessario per far riposare i cavalli o mangiare qualcosa
velocemente. La sera del terzo giorno si allontanarono dalla strada
costeggiata da muretti di pietra e si inoltrarono nel bosco.
Arianrhod era grata che avrebbero potuto accendere un fuoco,
perché
sentiva disperatamente il bisogno di un pasto caldo. Mangiare more e
carne secca per due giorni poteva rivelarsi avvilente.
Furono
tanto fortunati da non dover nemmeno preparare il posto per il
falò,
cosa che avrebbe portato loro via una buona parte del tempo. Al
centro della radura c'era un vecchio falò abbandonato,
composto di
grosse pietre disposte in circolo, completamente ricoperte di edera
rampicante e altre erbacce. Gareth si dedicò a ripulire il
falò e
raccogliere legna, mentre Arianrhod andò in cerca di radici,
erbe,
bacche e qualsiasi altra cosa commestibile con cui fare una zuppa.
Poco lontano dal loro accampamento notò un cespuglio carico
di
lamponi grossi e succosi. Ne raccolse diversi, ma quelli migliori
erano in alto, fuori della sua portata. Si fermò a
riflettere con le
mani sui fianchi, inclinando leggermente il capo: accanto al
cespuglio cresceva un grosso albero, dal quale un solido ramo si
protendeva proprio all'altezza dei lamponi che interessavano a lei.
La ragazza raccolse le gonne e, agile come un gatto, si
arrampicò
sull'albero e aiutandosi con mani e ginocchia, percorse il grosso
ramo fin quasi al suo estremo. Poi si sedette per avere le mani
libere e cominciò a raccogliere i lamponi che stipava nella
gonna,
raccolta come fosse un canestro.
Mentre
era intenta in questa attività, soddisfatta di se stessa per
aver
ovviato a quell'ostacolo, udì un rumore di passi poco
distante da
lei. Immediatamente vigile, si accovacciò sul ramo,
aggrappandosi al
tronco dell'albero per sporgersi e vedere meglio. Dopo pochi istanti
sotto di lei passò un uomo. Da dove si trovava non riusciva
a
vederlo in faccia o notarne gli abiti. Capiva solo che si trattava di
un uomo con i capelli biondi. Che fosse uno dei sicari che la
cercava? Arianrhod deglutì. Non poteva chiamare Gareth ad
aiutarla o
quell'uomo si sarebbe accorto di lei. Se non altro stavolta non era
impreparata, e poteva sfruttare l'effetto sorpresa. Sfilò
silenziosamente il pugnale dalla cintura e, svelta come un fulmine,
saltò a terra, proprio alle spalle dell'uomo. Fu questione
di un
attimo e lui non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto di cosa
fosse piovuto dal cielo. Arianrhod lo afferrò per la tunica
e gli
puntò il pugnale alla gola, così forte da
procurargli un graffio da
cui stillò una goccia di sangue.
“Dimmi
chi sei e cosa ci fai qui!” sibilò infuriata,
“o non vivrai un
attimo di più!”
Prima
che l'uomo, che aveva alzato le mani in segno di pace - forse
perché
aveva riconosciuto una voce femminile - potesse parlare,
arrivò di
corsa Gareth trafelato.
“Arianrhod
lascialo! È un amico.”
Arianrhod
spalancò la bocca dallo stupore, ma lasciò andare
l'uomo, che si
affrettò a voltarsi per trovarsela di fronte. Ora che lo
vedeva
bene, la ragazza si accorse che sopra la cotta di maglia indossava la
veste con lo stemma degli Yngling, il drago coronato.
“Questa
è la nostra regina?” disse l'uomo ansante.
“Allora possiamo ben
sperare.”
“Arianrhod,
ti presento Ősten,
un altro
cavaliere della Guardia Bianca.”
Arianrhod
chinò il capo. “Mi dispiace avervi
minacciato” disse con
cautela, spostando lo sguardo da un uomo all'altro.
Ősten
s'inginocchiò. “Mia regina...”
mormorò.
Tra
lo stupito e il divertito Arianrhod, tutt'altro che abituata a simili
formalità, gli chiese di rialzarsi.
“Finalmente
qualcun altro ce l'ha fatta a raggiungerci”
commentò Gareth
seccato.
“Non
prendertela con me. Quando sono arrivato alla fattoria eravate
già
partiti da un pezzo e ho viaggiato più veloce che ho potuto.
Vi
stanno seguendo. Dovete raggiungere Avalon il prima possibile, o la
regina sarà in pericolo.”
“Altri
sicari?”
“Sì,
almeno tre. Ho fatto l'impossibile per seminarli ma non ci sono
riuscito.”
“Sicari?”
s'intromise Arianrhod con una strana luce negli occhi.
“Lasciateli
a me, ci penserò io.”
“No!”
la interruppe secco Gareth. “E' troppo pericoloso.”
“Ma..”
“Ti
prometto che vendicherai la tua famiglia, ma non ora e non con dei
semplici sicari.”
Gareth
le rivolse uno sguardo quasi supplichevole, memore di quanto lei
poteva essere avventata e testarda. La tensione tra di loro si
tagliava con il coltello. Arianrhod teneva ancora l'arma sguainata in
mano. Poi rilassò le spalle. “D'accordo, hai
ragione” disse con
gran sollievo dei due cavalieri.
“Allora
dobbiamo raggiungere Avalon entro domani. Se ci fermiamo ora faremo
solo un favore a quegli assassini. Quanto vantaggio abbiamo su di
loro Ősten?”
“Direi
non più di una lega.”
“Ripartiamo
subito. Tu vieni con noi?”
Ősten
scosse il capo. “Ora che so la vostra posizione devo
avvertire il
Duca e gli altri perché vi raggiungano il prima possibile. E
cercherò di rallentare i sicari.”
“Grazie”
disse Arianrhod in un soffio. Ancora trovava incredibile che tutti
quegli uomini si dessero tanta pena per lei.
Lei
e Gareth ripresero i cavalli e continuarono il loro viaggio verso
sud, salutando Ősten che prese la direzione opposta.
Mentre
cavalcavano nel sole morente, stranamente Arianrhod pensò
con
rimpianto al pasto caldo che neppure quella sera avrebbero consumato.
Angolo
Autrice: Eccomi
qui con il nuovo capitolo e scusate il ritardo! Comunque ora che le
ferie sono definitivamente e irrimediabilmente (sigh!) finite non
dovrei avere più problemi ad aggiornare puntuale^^. Spero
che questo
capitolo vi piaccia. Grazie come al solito a chi
recensisce/segue/legge.
Alla
prossima,
Eilan
|
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Capitolo 10 *** Capitolo dieci ***
Il
cammino verso Avalon era reso più agevole da strade comode e
larghe
– lascito dei romani che avevano dominato l’isola
fino a trecento
anni addietro – e solo per dormire il cavaliere e la sua
regina si
fermarono al riparo dei boschi.
Il
sole stava tramontando sul loro quinto giorno di viaggio quando
giunsero al lago che circondava l’Isola Sacra.
Gareth
fermò il cavallo sulla riva, e Arianrhod lo
imitò. Lui notò che
aveva il volto teso e segnato dalla stanchezza. Ma il suo sguardo era
determinato e fiero, e dalle sue labbra non era venuto neppure un
lamento; nemmeno quando avevano dovuto percorrere le ultime leghe in
fretta, senza potersi riposare se non per quelle poche,
indispensabili ore di sonno.
Arianrhod
si girò alla sua sinistra, socchiudendo gli occhi per
riuscire a
scorgere, nella nebbia, il monastero di Ynis Witrin, arroccato sulla
cima di una collina che sembrava dominare il lago. Proprio in quel
momento le campane cominciarono a suonare, interrompendo l'umido
silenzio che permeava la terra, e facendo vibrare l'aria intorno a
loro. Non fu una sensazione spiacevole: le campane ebbero un effetto
calmante su di lei. Quel posto sembrava fin troppo tetro e
silenzioso.
“Le
campane richiamano i monaci ai Vespri”, commentò
Gareth.
“Dov'è
Avalon?” chiese. “E' lì, dove si trova
il monastero?”
“No.
L'Isola Sacra e il monastero sono adiacenti, ma non si toccano. E
mentre gli abitanti dell'Isola possono vedere i monaci, i monaci non
possono vedere loro.”
“Sei
già stato prima sull'Isola?”
“Diverse
volte.”
“E
come la raggiungeremo? Dove si trova?”
Gareth
fece un gesto con la mano. “E' proprio davanti a te. Solo che
non
puoi vederla.”
Arianrhod
rimase in silenzio, in attesa. Sebbene non avesse capito appieno
ciò
che Gareth intendesse dire, decise di avere fiducia in lui.
Ma
i minuti passavano e, nonostante si avvolgesse nel mantello di stoffa
ruvida, l'umidità cominciò a penetrarle nelle
ossa, condensandosi
in piccole goccioline tra i suoi capelli.
“Come
arriveremo ad Avalon?”, chiese infine, in tono spazientito.
“Non
possiamo certo attraversare il lago a nuoto.”
“No.
A quest’ora sapranno che siamo qui e avranno mandato la
barca.”
Sapranno
chi? Avrebbe
voluto chiedere Arianrhod. E
soprattutto... come possono sapere che siamo qui?
“Sai,
in fondo quasi mi dispiace che questo viaggio finisca”
commentò
dopo qualche istante, in tono remoto, quasi tra se e se. “E'
come
se mi lasciassi definitivamente alle spalle quello che avevo creduto
di essere. Come se stessi per aprire la porta su un abisso oscuro e
misterioso, su un futuro incerto...”
Gareth
sentì un nodo serrargli lo stomaco: anche lui avrebbe voluto
che il
loro viaggio non avesse mai termine, nonostante tutto quello che
avevano passato, nonostante tutti i pericoli che avevano corso.
Perché da adesso in poi lei sarebbe stata per lui solo la
regina:
splendida, austera e irraggiungibile. Non sarebbe stata più
Arianrhod,
la ragazza che aveva imparato a conoscere così profondamente
da
quando le aveva salvato la vita.
Gareth
la osservò assorto, ma lei era persa nelle sue riflessioni,
lo
sguardo fisso sul lago, e non se ne accorse. Che stesse già
pensando
a cosa l'aspettava? Ma poteva poi averne davvero un'idea?
Probabilmente no, concluse Gareth. La sua forza d'animo e il suo
coraggio l'avrebbero sicuramente aiutata nelle prove che
l'attendevano, ma prepararla? Questo no, mai.
Come
obbedendo a un muto segnale di Gareth, pochi minuti più
tardi sulle
acque grigie apparve una barca.
Avanzava
tanto silenziosamente che all'inizio Arianrhod neppure la
notò,
scambiandola per un gioco di luci sull'acqua, o il riflesso di un
uccello di palude. Era parata di nero e d’argento e avanzava
silenziosa, quasi sfiorando la superficie. Quando giunse più
vicina,
Arianrhod notò che trasportava tre persone: i rematori, due
uomini
minuti e dalla pelle scura, con il corpo dipinto di azzurro e solo un
perizoma di pelle a coprire la loro nudità. Non aveva mai
visto
uomini come quelli, ma li riconobbe, da ciò che le avevano
raccontato, come appartenenti al Piccolo Popolo della Britannia. In
effetti, sapeva che erano dei ferventi pagani, e molto legati ad
Avalon e ai suoi Misteri.
La
terza persona, che stava accanto a loro a prua, era una donna.
Indossava una veste scura, austera, e portava i lunghi capelli
sciolti.
Una
Sacerdotessa,
pensò Arianrhod sgranando gli occhi, ma non disse nulla.
Quando
la grande barca toccò la riva sabbiosa, sempre senza fare il
minimo
rumore, i due rematori scesero e la tennero ferma, prendendo entrambi
un capo della fune che era legata ad essa. Sembrava stessero loro
dicendo di salire, ma Arianrhod era talmente attonita che
aspettò
che fosse Gareth per primo a smontare da cavallo e condurlo per le
briglie sulla barca. La sacerdotessa non si era mossa dal posto in
cui si trovava, né aveva fatto loro alcun cenno di saluto o
di
riconoscimento. Arianrhod pensò che fosse molto strano.
Erano
davvero così insoliti i costumi presso gli abitanti di
Avalon?
Gareth
le tese la mano per aiutarla a scendere da cavallo. Non che lei ne
avesse bisogno, ma sembrava talmente intimorita da quello spettacolo,
che il cavaliere temeva sarebbe rimasta per sempre in groppa
all'animale, lo sguardo spalancato dalla sorpresa e dal timore. Anche
il cavallo di Arianrhod fu condotto a bordo e lei salì,
sedendosi
accanto a Gareth. La sacerdotessa sembrava ancora inconsapevole della
loro presenza, come se fosse in uno stato di estrema concentrazione.
Le
nebbie cominciarono ad avvilupparli, sempre più spesse e
dense,
rendendo impossibile vedere alcunché. Arianrhod comprese che
si
trattava delle nebbie magiche, che proteggevano e nascondevano alla
vista l’Isola Sacra.
La
barca avanzò silenziosa fino a circa metà del
lago, poi si arrestò
bruscamente. La Sacerdotessa non aveva detto una parola fino a quel
momento. D’improvviso trasse un profondo respiro e rimase
immobile
nella tensione della magia. Nonostante la sua statura minuta, in quel
momento la donna apparve alta e maestosa, e d’istinto
Arianrhod si
aggrappò al braccio di Gareth, atterrita. Lui le sorrise per
rassicurarla e la giovane lasciò immediatamente la presa,
vergognandosi della sua debolezza.
La
Sacerdotessa tese le braccia verso il cielo, con le palme rivolte
all'insù, quindi le riabbassò con un gesto secco.
Improvvisamente
la nebbia calò, e il monastero cristiano scomparve alla
vista,
repentinamente celato. La barca continuò a procedere.
Ad
Arianrhod apparvero finalmente le rive di Avalon. Erano acque calme,
quiete, illuminate dai raggi del sole morente che le rendeva
scintillanti. Moltissimi uccelli acquatici nuotavano al pelo
dell'acqua o su di essa. La visione più maestosa, che subito
colpì
il suo sguardo, fu la collina sacra, sulla cui cima sorgeva il Tor,
un immenso cerchio di pietre di un bianco abbagliante. Tutto intorno
alla collina si avvolgeva un grande sentiero. Gareth le aveva parlato
a lungo di Avalon e ora le sembrava incredibile trovarsi davanti agli
occhi tutte le meraviglie che lui le aveva descritto.
Era
talmente rapita da quella visione che, quando la barca toccò
la
riva, ebbe un sussulto. La sacerdotessa scese, seguita da Arianrhod e
da Gareth, subito dietro di lei. I rematori si occuparono dei
cavalli.
Vennero
loro incontro alcune donne, abbigliate di scuro e con una mezzaluna
azzurra tatuata sulla fronte.
Una
di loro si staccò dal gruppo e venne loro incontro. Gareth
le si
inchinò e altrettanto fece Arianrhod, intuendo chi potesse
essere la
donna.
“Non
c’è bisogno che vi inchiniate a me,
Regina”, disse la
Sacerdotessa. “Siete una mia pari.”
“Voi
siete…?”, mormorò Arianrhod.
“Sì,
io sono Viviana, Somma Sacerdotessa di Avalon e Dama del Lago. E voi
siete la benvenuta qui, Regina di Svezia.”
“E’
un onore per me conoscervi”. La giovane si accorse che,
nonostante
fosse molto più piccola di lei, che la sovrastava con la sua
statura, la profonda saggezza e la calma regalità di Viviana
avevano
il potere di metterla in soggezione.
“Siete
una nostra ospite. Sarete molto stanca, Raven vi
accompagnerà al
vostro alloggio e provvederà alle vostre
necessità”, disse
facendo un cenno a una giovane donna.
“Domani
potremo parlare tranquillamente, e sicuramente ci sarà molto
di cui
discutere. Vi avverto però che Raven ha fatto voto di
silenzio, per
cui non vi risponderà.”
Raven
la prese gentilmente per un braccio e cominciò a condurla
via.
Arianrhod si voltò verso Gareth che era rimasto dove si
trovava.
Avrebbe tanto voluto chiamarlo, dirgli di non lasciarla
sola… ma
poi cosa avrebbero pensato le Sacerdotesse?
Gareth
la seguì con lo sguardo, quasi dolorosamente,
finché un sacerdote
si avvicinò per condurlo alla casa degli apprendisti druidi,
dove
avrebbe alloggiato.
Raven
la condusse silenziosamente verso l'interno dell'isola. Arianrhod
vide molti edifici diversi, da cui entravano e uscivano druidi,
sacerdotesse e alcune giovani donne che sembravano essere novizie.
Avrebbe voluto chiedere spiegazioni a Raven, ma ogni volta si mordeva
la lingua, ricordando a se stessa che la sacerdotessa non le avrebbe
risposto. Attraversarono un frutteto pieno di meli, ognuno carico di
quei deliziosi frutti dalla sfumatura rossastra. Ancora una volta
Arianrhod sgranò gli occhi per la meraviglia.
Appena
superato il meleto, vi era una piccola costruzione, bassa e
più
piccola delle altre che aveva visto fin'ora. Forse si trattava di un
edificio riservato agli ospiti di riguardo.
In
silenzio, Raven portò una veste pulita ad Arianrhod e
l’acqua per
lavarsi. La giovane indirizzò a Raven un muto
ringraziamento. La
Sacerdotessa chinò il capo, poi la lasciò sola.
Nella casa già
ardeva un bel fuoco e su un tavolino davanti ad esso, era imbandita
una cena frugale a base di pane, carne e birra. Arianrhod
sospirò di
gioia a quella vista: poter mangiare con tranquillità,
godendo del
tepore del fuoco, le sembrava un sogno insperato.
Mentre
aspettava con pazienza che i capelli appena lavati si asciugassero al
calore del focolare, si concentrò sulla sua attuale
situazione e su
ciò che l'attendeva.
Arianrhod
si sentiva spossata, come se ogni osso del corpo le dolesse. Ma
più
dei patimenti del fisico, la colpirono quelli dell’animo. Non
se ne
era resa conto finché non si era trovata separata da lui, ma
Gareth
era divenuto, in poco tempo, un punto di riferimento nella sua vita
altrimenti stravolta e alla deriva come una barca nel mare in
tempesta. La sua voce dolce e rassicurante, i suoi espressivi occhi
grigi, la sicurezza del suo tocco… la sua vicinanza in quei
giorni
di viaggio aveva risvegliato in lei sensazioni mai provate prima.
Sensazioni che nessun altro uomo le aveva mai provocato.
Senza
la sua solida presenza rassicurante si sentiva stranamente sola e
vulnerabile. Qualcuno avrebbe potuto dire che una giovane capace di
uccidere due assassini addestrati non poteva certo considerarsi
vulnerabile,
ma il peso che le sue appena rivelate origini le facevano gravare
sulle spalle sembrava schiacciarla.
Lei
Regina di Svezia! Come poteva lei reggere un simile destino, quando
fino a pochi giorni prima era stata solo Ainslee, la figlia di un
fabbro? Cosa volevano che facesse? Che si riprendesse il suo trono,
ciò che le spettava di diritto? Ma in quale modo sarebbe
stata in
grado di riuscire in una simile impresa?
Come
avrebbe voluto risvegliarsi il mattino seguente nel suo letto, nella
fattoria dei suoi genitori…
Eachann
e Gwenael erano morti a causa di quello che lei era, e perseverare
nel conseguimento del suo destino le sembrava un’offesa alla
loro
memoria.
Ma
se avesse rinunciato, non sarebbe stata un’offesa altrettanto
grande nei confronti di quegli altri
genitori,
quelli che l’avevano messa al mondo ma non avevano potuto
allevarla? Non doveva la propria fedeltà anche a loro, e
alla stirpe
regale che lei rappresentava?
Il
fuoco si stava lentamente spegnendo nel camino, quando Arianrhod
sentì che le palpebre minacciavano di chiudersi. Il letto,
invitantemente preparato, le ricordava che erano giorni che dormiva
per terra, all’aperto. Faticosamente, si sdraiò
sul comodo
giaciglio tirandosi le coperte fin sopra la testa. Si
addormentò
immediatamente, di un sonno pesante e senza sogni.
Angolo
Autrice: Ed
eccoci arrivati infine ad Avalon e al crossover preannunciato, quello
con alcuni personaggi arturiani nella versione della Bradley. Ho
cercato di introdurre, senza dilungarmi troppo, la famosa leggenda
inglese dell'isola di Avalon, sulla quale si narra tra l'altro che
giaccia Artù addormentato, il quale si
risveglierà quando
l'Inghilterra avrà bisogno di lui. Ma ovviamente
Artù è ancora di
là da venire all'epoca della nostra storia! :)
Che
dire... spero che il capitolo, pur se di passaggio, vi sia piaciuto.
Grazie a tutti!
Alla
prossima,
Eilan
|
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Capitolo 11 *** Capitolo undici ***
Il
mattino seguente Arianrhod si svegliò presto e, guardandosi
intorno
con gli occhi ancora appesantiti dal sonno, notò che su una
sedia
accanto al letto erano stati lasciati alcuni abiti per lei. Li prese
tra le mani, sentendo la stoffa ruvida a contatto con le dita. Oltre
alla semplice veste scura che indossavano di solito le sacerdotesse
c'erano un paio di calzari morbidi e uno scialle, in caso
l'umidità
della sera e del primo mattino lo avesse reso necessario.
Indossò la
tunica, e impiegò una buona mezz’ora a districare
pazientemente
con il pettine i nodi che le si erano formati nella bionda chioma,
fino a renderla morbida e lucente. Poi raccolse i capelli in due
lunghe trecce, aiutata dalla solerte Raven che si era presentata
mentre lei era intenta in questa operazione, nonostante Arianrhod
protestasse che era sempre stata abituata a cavarsela da sola. Tutte
quelle attenzioni la mettevano a disagio e, solo dopo che Raven fu
uscita per andarle a prendere la colazione, lei si rilassò.
La
sacerdotessa tornò dopo poco, accompagnata da una giovane
novizia –
Arianrhod la classificò come tale perché non
portava la falce di
luna tatuata sulla fronte – con in mano un vassoio.
La
novizia posò il vassoio sul tavolo, e si girò
subito verso Raven,
che le fece un cenno affermativo.
“Mia
signora” disse la ragazza con voce timida. “Raven
vuole che vi
riferisca che la Somma Sacerdotessa richiede la vostra presenza...
quando sarete sistemata, naturalmente.”
Arianrhod
appariva più disorientata della novizia, quando chiese:
“Dove devo
incontrare la Somma Sacerdotessa?”
“Vi
accompagnerà Raven, non appena sarete pronta. La Somma
Sacerdotessa
è nel suo alloggio privato insieme all'Arcidruido
Taliesin.”
La
ragazza si congedò, ma Raven rimase, seduta in un angolo,
silenziosa
e immobile. Quella donna emanava indubbiamente un'aura di calma e
autorevolezza, ma Arianrhod avrebbe tanto voluto sentirne la voce.
Questo l'avrebbe rassicurata sulla sua natura terrena,
perché il suo
atteggiamento la faceva sembrare più una dea che una donna
in carne
e ossa.
Sotto
il suo sguardo attento, Arianrhod finì in fretta la propria
colazione, poi si spruzzò un po’ d’acqua
sul viso per affrontare
il colloquio con la Somma Sacerdotessa e l'Arcidruido.
Prese
un profondo respiro prima di annunciare a Raven che era pronta; la
sacerdotessa scattò in piedi come se non attendesse altro e
la guidò
verso l'alloggio di Viviana.
Arianrhod
entrò con passo incerto. In alcuni momenti aveva mostrato
coraggio,
ma ora non era uno di quei momenti. Si sentiva più
vulnerabile che
di fronte a un nemico con la spada snudata.
“Vi
stavo aspettando”, disse Viviana quando la vide entrare. Fece
un
cenno per invitarla a sedere accanto a lei. Arianrhod si
accomodò, e
solo in quel momento notò che, in piedi accanto al camino,
stava un
uomo di mezza età.
“Questo
è l’Arcidruido Taliesin, il Messaggero degli
Dei”, lo presentò
Viviana. La giovane si alzò di scatto e fece un breve
inchino in
direzione dell’uomo.
“E’
un onore conoscervi, signore”, mormorò.
Taliesin
le prese la mano con fare paterno. “Posso dire lo stesso, mia
signora. E lasciatemi dire quanto mi dispiaccia apprendere della
perdita che avete subito. Siete stata coraggiosa come poche fanciulle
potrebbero esserlo.”
Arianrhod
sorrise, ringraziandolo tacitamente, quindi si accomodò di
nuovo
sulla sedia.
“Ho
appena appreso che la Guardia Bianca sarà qui in pochi
giorni. Nel
frattempo siete nostra ospite e sotto la nostra speciale
protezione”,
disse Viviana con voce dolce ma austera.
“Vi
sono immensamente grata per avermi accolto sull’Isola Sacra,
mia
signora”, rispose Arianrhod.
“Chiamatemi
pure per nome, e io farò altrettanto. Di qualunque cosa
abbiate
bisogno, potete chiedere direttamente a me.”
Arianrhod
esitò, poi aggiunse: “Perdonate se oso chiederlo
ma… perché mi
offrite così incondizionatamente il vostro aiuto?”
Viviana
represse un’esclamazione ammirata nei confronti della
giovane. Non
pensava che avrebbe avuto il coraggio di porre quella domanda. E
invece, seppure con una nota incrinata nella voce, lo aveva chiesto.
Se la discendenza di sangue contava davvero qualcosa, quella ragazza
sarebbe diventata un'ottima regina.
Vedendo
Viviana esitare, Taliesin parlò in sua vece.
“Naturalmente voi
sapete che l’Isola Sacra non può permettersi di
tendere la mano a
tutti i profughi della Britannia, se non altro per ragioni pratiche.
La nostra isola deve restare isolata e nascosta dal resto del mondo:
troppi nemici hanno tentato di distruggerci nel corso dei secoli, e
noi dobbiamo prima di ogni altra cosa preservare i Misteri della Dea.
Ma voi non siete una persona qualunque e, se posso parlare con
franchezza, Avalon ha ogni interesse di vedervi di nuovo salire sul
Trono del Drago.”
“Immagino
che avere come alleata la Regina di Svezia faccia comodo a chiunque,
Arcidruido”, affermò sagacemente Arianrhod, con
voce più sicura
questa volta, sollevando un aristocratico sopracciglio arcuato.
Taliesin
sorrise. “Vedo che siete più scaltra di quanto la
vostra giovane
età possa far sospettare. Come certo saprete, avendo vissuto
qui
quattordici anni della vostra vita, il cristianesimo sta prendendo
sempre più piede in Britannia, differentemente che nel
vostro paese
d’origine. I seguaci della nuova religione disprezzano gli
antichi
dei e vorrebbero vedere distrutti tutti coloro che li adorano. Il
loro Dio è unico, dicono, e tutti gli altri non sono che
falsi
idoli. E’ prezioso per noi che chi siede sul trono di Svezia,
un
sovrano devoto all’antica religione, sia in qualche modo in
debito
con noi.”
Arianrhod
stette un momento in silenzio, intenta a riflettere. “Vi
ringrazio
per essere stato del tutto franco con me. E sappiate che, quando
sarò
di nuovo sul trono, farò di tutto perché il culto
degli antichi dei
sia preservato. Avalon potrà sempre contare sulla
gratitudine e
sull’alleanza della Svezia.”
Un’impercettibile
espressione di sollievo passò sui volti di Viviana e
Taliesin.
“Mia
cara figliola”, mormorò l’Arcidruido,
“se oso rivolgermi a voi
in questo modo, lo faccio solo con l’affetto e
l’ammirazione che
potrebbe avere un padre. Credete in voi stessa, sempre,
perché voi
siete nata per essere Regina. Non dubitate mai della vostra forza,
del vostro coraggio e del vostro valore…”
“Il
giovane cavaliere è già stato a colloquio con
noi” spiegò
Viviana. “Ci ha raccontato tutto ciò che
è accaduto da quando vi
ha trovata. Se siete sopravvissuta fin qui lo dovete anche alla
vostra forza e al vostro coraggio. Avrete bisogno di entrambe per
riprendervi ciò che è vostro.”
Viviana
notò che tutte quelle qualità e altre ancora
albergavano in
Arianrhod, e il fuoco della determinazione che le brillava negli
occhi la rendeva ancora più bella e dignitosa.
“Non
avete obblighi quest'oggi” la informò Viviana.
“E l'isola è a
vostra disposizione, purché siate prudente. Vi chiedo di
raggiungermi nuovamente questa sera: vorrei mostrarvi
qualcosa.”
“Vi
ringrazio... Viviana” rispose Arianrhod ricordandosi appena
in
tempo di rivolgersi a lei per nome.
La
giovane regina ringraziò anche l’Arcidruido e si
congedò da loro,
uscendo nei tiepidi raggi del sole del mattino.
E
ora cosa avrebbe fatto? Dove sarebbe andata? Non conosceva l'isola a
sufficienza da potersi spostare con disinvoltura. Avrebbe certo
potuto chiedere a Raven di accompagnarla o ad una delle novizie. Ma
non voleva distoglierle dai loro doveri quotidiani, e non era neppure
sicura di desiderare la loro compagnia. In realtà sapeva
bene chi
avrebbe voluto con sé, e quel qualcuno conosceva anche
abbastanza
Avalon da poterle fare da guida.
Si
fece indicare dove si trovava l'alloggio degli apprendisti druidi e
si incamminò in quella direzione. Dovette camminare
più di quanto
si era aspettata, perché la parte dell'isola riservata ai
druidi si
trovava sul versante opposto di quella riservata alle sacerdotesse.
Fuori
dal basso edificio in pietra circondato dagli alberi alcuni
apprendisti conversavano tra loro, e non si accorsero della ragazza
che li chiamava finché non fu quasi loro addosso.
Si
volsero con aria stupita, sia per l'aspetto singolare di Arianrhod,
sia per la sorpresa di trovare una donna tra di loro.
“Sto
cercando il cavaliere della Guardia Bianca, Gareth”
spiegò
Arianrhod guardandoli negli occhi senza timore di apparire
inopportuna. “E' arrivato tra voi ieri sera.”
Uno
dei giovani corse dentro e tornò poco dopo con un Gareth
altrettanto
stupito di trovarla lì.
Senza
tante cerimonie la afferrò per un braccio, allontanandola
dall'edificio.
“Non
credo che tu possa presentarti qui, in mezzo ai druidi, come se
niente fosse”, l'ammonì, in tono privo di
severità.
“Perché
no?”
“Per
tutti gli dei, dove sei cresciuta? In mezzo a un bosco?” rise
lui,
toccato dalla sua domanda ingenua. “I druidi non possono
avere
contatti con le donne finché non hanno completato il
noviziato e
preso i voti.”
“Mi
dispiace, non lo sapevo...” mormorò Arianrhod
mortificata.
Possibile che non imparasse mai a riflettere prima di agire? Proprio
ciò che sua madre Gwenael le aveva sempre rimproverato.
“Li
hai sconvolti non poco, temo” disse Gareth. “Guarda
quel ragazzo
come ti fissa ancora. Sembra che debba cadere svenuto da un momento
all'altro!”
Arianrhod
sbirciò oltre la propria spalla e notò lo sguardo
di cui parlava
Gareth sul volto dell'apprendista druido. A quel punto non
poté
trattenere una risata, sperando di essere abbastanza lontana
dall'edificio da non essere udita.
“Mi
sei mancato” disse d'impulso quando quello scoppio di
ilarità si
fu placato. Subito dopo arrossì, non sapendo nemmeno lei
perché.
“Siamo
stati separati solo una notte” ribatté Gareth in
tono neutro. Ma
Arianrhod si accorse che ciò che aveva detto gli aveva fatto
piacere.
“Prometti
che non mi abbandonerai più” disse Arianrhod
all'improvviso,
bloccandogli il braccio. Il suo tono era del tutto serio e indusse
Gareth a fermarsi. Di fronte al suo sguardo stupito, aggiunse, a mo'
di spiegazione. “Senza di te non riesco a sentirmi davvero al
sicuro...”
Gareth
sembrò riflettere sulle sue parole per qualche attimo.
Decise di
prenderle altrettanto sul serio, perché disse:
“Quando sono
entrato nella Guardia Bianca ho prestato giuramento, un giuramento
solenne e inviolabile. Ho giurato ciò che ora tu mi stai
chiedendo,
in un certo senso. Ho giurato di proteggere a costo della vita la
Stirpe del Drago, il suo diritto a regnare, ed ogni suo erede
legittimo e legittimo sovrano.”
“Credi
in quello che hai giurato?”
“Ci
credo. Ci credevo allora e ci ho sempre creduto. Ma forse non
comprendevo davvero ciò che questo comporta; non ho compreso
sul
serio il suo significato. Per questo penso che sia giusto fare un
altro tipo di giuramento. Ma a te, Arianrhod, e solo a te.”
Detto
questo si inginocchiò di fronte a lei, sfilando la spada dal
fodero.
La porse ad una sbalordita Arianrhod dalla parte dell'elsa e disse
con voce grave: “Dimmi cosa vuoi che ti prometta. Dimmelo
adesso.”
Arianrhod
sentì un calore sconosciuto crescerle nel petto insieme al
respiro.
Sentì gli occhi riempirsi di lacrime, ma le
ricacciò indietro.
La
sua voce non vacillò quando disse: “Promettimi che
non mi lascerai
più.”
“Mai,
mia regina”, rispose Gareth con decisione.
“Sarò la tua ombra,
ti proteggerò a costo della mia vita.”
La
bruma mattutina era quasi del tutto svanita, e stendeva il suo velo
pallido soltanto all'altezza del verde tappeto erboso che copriva la
riva di Avalon, fin quasi a toccare l'acqua che la lambiva
pigramente. I fili d'erba erano imperlati di gocce di rugiada, l'aria
era piacevolmente frizzante e lo specchio d'acqua del lago era
talmente quieto da sembrare una distesa d'argento colorata dagli
scintillanti riflessi violacei del sole da poco sorto. Gareth aveva
mostrato ad Arianrhod l'immenso frutteto di mele, vanto dell'isola,
che era nota anche come Isola delle Mele. La ragazza ne
assaggiò i
frutti, dalla polpa acidula e croccante, e li trovò
squisiti, i più
buoni che avesse mai mangiato.
Si
diressero poi verso la riva del lago, dove si sedettero sull'erba
ancora umida, a guardare i cigni che nuotavano fra i canneti, e che
solo di tanto in tanto si arrischiavano ad avvicinarsi a loro.
Arianrhod si rimproverò per non aver pensato di portare un
po' di
pane con sé, ma Gareth le cedette quello che i druidi gli
avevano
dato insieme alla colazione. Gli uccelli, dapprima diffidenti,
cominciarono ad avvicinarsi sempre più, invitati dalle
appetibili
briciole che Arianrhod lanciava loro.
“Sono
davvero degli animali splendidi” commentò ammirata.
A
quelle parole Gareth si voltò a guardarla, finché
lei non se ne
accorse e gliene chiese il motivo.
“Perdonami,
ma hai detto qualcosa che mia madre ripeteva spesso. Amava i cigni, e
si arrabbiava con il mio patrigno quando li cacciava e glieli portava
in casa da cucinare.”
“Non
pensavo si mangiassero. Dalle nostre parti non è
usanza.”
“Nemmeno
da noi è un'abitudine così radicata, ma d'inverno
quando c'è poca
selvaggina, può capitare che si sia costretti a cacciarli.
Dove sono
cresciuto ci sono molti laghi, e quindi sono animali molto
diffusi.”
Gareth
rimase pensieroso per un po', dopo quell'affermazione. Era chiaro che
aver ripensato a sua madre aveva portato a galla dei ricordi.
“Come
si chiamava tua madre?” chiese Arianrhod per tentare di farlo
tornare al presente.
“Morwenna.
Era una donna del popolo, di umili origini, ma possedeva una
sensibilità profonda. Non era capace di far del male neppure
a un
insetto.”
“E
come ha conosciuto tuo padre?”
“Lui
venne in Britannia per conto della Guardia Bianca. Fu così
che
conobbe mia madre e divennero amanti. Nacqui io, ma mio padre non
poteva sposare mia madre perché aveva già una
moglie e un figlio
legittimo in Svezia...”
L'espressione
di Gareth si adombrò, e Arianrhod comprese che quello era un
dolore
profondo per lui.
“Sono
sicura che tuo padre sia fiero di avere un figlio come te”,
gli
disse con voce dolce e fu gratificata da un sorriso che le
scaldò il
cuore.
“Non
posso lamentarmi, in fondo. Mio padre mi ha comunque riconosciuto e,
quando mia madre è morta mi ha mandato a chiamare
perché entrassi
nella Guardia Bianca. Mi ha dato un futuro, in un certo senso si
è
occupato di me. Mi ha dato tutto ciò che poteva.”
Tranne
il suo amore, pensò
Arianrhod. Che in fondo forse era l'unica cosa di cui Gareth aveva
bisogno.
“E
come si chiama tuo padre?”
Arianrhod
lo vide esitare prima di rispondere. “E' morto anche lui. Non
ha
più importanza ormai.”
E
Arianrhod comprese, con assoluta certezza, che mentiva.
Angolo
Autrice: Ciao
a tutti! Eccoci con il nuovo capitolo, in cui si carpisce qualcosa
delle origini di Gareth, che ancora lui però non vuole
rivelare del
tutto. La Guardia Bianca non è ancora arrivata, e per ora la
vita
scorre tranquilla. Cosa succederà ora? Cosa vorrà
Viviana da
Arianrhod, invitandola da lei? Lo scopriremo alla prossima puntata!
^_^
Grazie
a tutt* per le favolose recensioni. E grazie anche a chi
segue/legge/ricorda.
Alla
prossima,
Eilan
ps:
per chi non avesse letto i romanzi di MZB, l'Arcidruido Taliesin
altri non è che Merlino (nella sua versione il Merlino non
è una
persona fisica, ma un'entità che si incarna in un uomo, in
questo
caso proprio in Taliesin).
|
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Capitolo 12 *** Capitolo dodici ***
L'alloggio
di Viviana era illuminato a giorno con delle torce, nonostante
all'esterno fosse già calato il buio. Arianrhod
entrò accompagnata
da Gareth, che si congedò per lasciare alle due donne un po'
di
riservatezza.
Arianrhod
non sapeva di cosa Viviana volesse parlarle, e per la verità
si
sentiva leggermente a disagio di fronte a una donna di tale
autorevolezza e saggezza. Mentre la salutava stringendole le mani, si
augurò un giorno di diventare come lei, come quella piccola
donna
dalla chioma scura e dai lineamenti marcati; di poter guidare il suo
popolo come lei guidava quello di Avalon, e in tempi tanto difficili
per giunta. Ovviamente sempre che fosse riuscita a riconquistare il
trono, prospettiva che per il momento sembrava ancora molto lontana e
improbabile.
“Vieni,
siediti qui con me” la invitò Viviana indicandole
una seggiola
accanto alla sua, di fronte al focolare spento. “Ti dispiace
se
Raven assiste al nostro incontro? Averla vicino mi è sempre
di
conforto.”
“Certamente”
mormorò Arianrhod imbarazzata. La Somma Sacerdotessa
chiedeva il
permesso a lei? Le sembrava ancora paradossale, sebbene Viviana
l'avesse rassicurata di essere una sua pari.
Ma
io sono ancora una regina senza un trono, mentre lei è la
depositaria del volere della dea. Può esserci differenza
più
grande?
Voltando
il capo fece un cenno di saluto a Raven, seduta poco distante da
loro. La donna, muta come sempre, ricambiò.
“Posso
offrirti qualcosa da bere? Abbiamo del sidro che facciamo con le mele
dei nostri alberi. È delizioso.”
“Lo
assaggio volentieri, grazie.”
Raven
riempì loro due coppe da una brocca già ricolma
del liquido
ambrato. Arianrhod ne prese un sorso e lo trovò squisito,
almeno
quanto le mele che aveva assaggiato quella mattina. I frutti della
terra dell'Isola Sacra sembravano essere nati da un suolo mistico,
attraversato dall'energia stessa della terra... e forse era proprio
così.
“Probabilmente
ti starai chiedendo perché ti ho chiesto di venire qui.
Prima di
tutto volevo parlare con te da donna a donna. Trovo che l'atmosfera
sia più rilassata stasera di quanto non lo fosse
stamattina.”
Arianrhod
sorrise, incerta su cosa replicare. Ammettere che era così
le
sembrava una mancanza di rispetto verso l'Arcidruido Taliesin.
D'altra parte ora che il sidro le aveva scaldato le membra e che
Viviana appariva più donna che sacerdotessa, lei si sentiva
molto
più rilassata.
“Il
tuo cavaliere, quel bel ragazzo, non ti perde di vista un'istante a
quanto sembra.” commentò Viviana.
Arianrhod
arrossì, ma cercò di mantenere un certo decoro.
“Mi ha salvato la
vita, più di una volta. Mi è devoto e io gliene
sono immensamente
grata.”
“Non
ho difficoltà a crederlo. D'altronde tutta la Guardia Bianca
ti è
devota, darebbero la vita per te. E a proposito... ho ricevuto un
messaggio dal Duca Fjölnir
di
Silverdalen. Mi ha comunicato che l'armata è in marcia verso
Avalon,
e che saranno qui entro pochi giorni.”
“Entreranno
tutti in Avalon?” chiese Arianrhod curiosa.
“Certamente
no” sorrise Viviana. “Sarebbe troppo chiederci di
trasformare
Avalon in un accampamento militare. Ma vogliamo darti il nostro
appoggio, questo lo abbiamo chiarito. Per questo ho invitato qui una
persona...”
La
sua attenzione venne attirata da un cenno di Raven.
“E'
già qui Raven? Fallo entrare.”
Arianrhod
si alzò in piedi di scatto mentre la porta si apriva,
facendo
passare un uomo. Era basso di statura, con la pelle olivastra e i
capelli neri. Indossava abiti di pelle che lasciavano intravedere le
pitture azzurre che gli adornavano il corpo, asciutto e muscoloso.
Aveva un paio di occhi penetranti che scrutarono Arianrhod
attentamente.
“E'
lei?” chiese senza mezzi termini, rivolgendosi a Viviana.
“Sì,
ti presento Arianrhod, la legittima sovrana di Svezia.”
L'uomo
fece un inchino con il capo, rivelando che sulle spalle portava un
arco e una faretra.
“Arianrhod,
questo è Cynwrig, il capo del Piccolo Popolo. Il loro
territorio è
confinante con Avalon e loro hanno stretto forti legami con i
sacerdoti e le sacerdotesse. Sono fedeli agli antichi dei, e sono
strenui difensori della nostra fede.”
“E'
un onore fare la vostra conoscenza” disse Arianrhod, temendo
di
mettere a disagio l'uomo nel guardarlo letteralmente dall'alto in
basso. Ma Cynwrig non sembrava affatto intimorito o offeso. Guardava
la ragazza negli occhi, da pari a pari, con fierezza e orgoglio nello
sguardo.
“Regina,
l'onore è mio ed anche del mio popolo, che io
rappresento.”
“Il
Piccolo Popolo si è offerto di allearsi con la Svezia e di
mandare
un suo contingente con te, per aiutarti nella riconquista del
trono”
spiegò Viviana.
“Io...
non so cosa dire. Vi ringrazio immensamente per la fiducia che
riponete in me” disse Arianrhod incespicando nelle parole. Ma
poi
prese un respiro profondo e si ricompose, ergendosi in tutta la sua
regalità. “La Svezia sarà sempre al
fianco vostro e di Avalon, in
qualunque futura necessità, e nell'obiettivo di difendere la
nostra
fede.”
Cynwrig
apparve compiaciuto, ma la sua espressione era ancora neutra.
“Tuttavia...”
la interruppe sollevando una mano.
Arianrhod
guardò Viviana interrogativamente in attesa che Cynwrig
continuasse.
Ma la sacerdotessa non appariva sorpresa, segno che conosceva
già le
obiezioni del Piccolo Popolo. Cos'altro non le aveva rivelato? Lo
aveva fatto di proposito?
“Vi
chiediamo una prova, prima di allearci con voi”
continuò l'uomo.
“Dobbiamo sapere se gli dei sono con voi, se possiamo
fidarci, e se
siete degna di salire al trono. So che ne avete diritto per sangue.
Ma presso il nostro popolo questo non significa nulla. Dovete esserne
anche degna, dimostrare che avete le doti necessarie e il coraggio
per farcela. La dea ci parlerà e ci dirà se siete
voi colei che è
destinata a sedere sul Trono del Drago.”
Arianrhod
deglutì, completamente presa alla sprovvista. Le era sempre
stato
detto che il suo diritto a regnare era sancito dal sangue che le
scorreva nelle vene, il sangue di suo padre e di tutti gli Yngling
prima di lui. Ed ora arrivava quest'uomo a dirle che ciò non
aveva
alcun valore per loro. Cosa si aspettavano da lei? Se il suo diritto
basato sulla discendenza di sangue veniva meno lei avrebbe anche
potuto arrivare a scoprire che, per altri aspetti, non era affatto la
regina che tutti si aspettavano, la regina su cui avevano riposto
tante speranze.
“Quello
che Cynwrig ti sta chiedendo” intervenne Viviana, vedendola
in
difficoltà, “è di sottoporti ad un
rituale di solito riservato ai
membri del Piccolo Popolo. È un grande onore
perché quasi mai viene
concesso a uno straniero.”
Un
onore? Arianrhod
avrebbe voluto lasciarsi andare ad una risata isterica. Lei doveva
sottoporsi a qualche oscuro rituale e doveva considerarlo perfino un
onore? Si morse le labbra per non lasciarsi sfuggire neppure una
sillaba che potesse offendere i suoi ospiti.
“Perché
gli estranei non vi vengono sottoposti?” chiese.
“Perché
chi lo superasse entrerebbe di diritto a far parte del Piccolo
Popolo. Diventerebbe uno di noi, unito al nostro popolo da un legame
indissolubile, più forte del sangue”
spiegò Cynwrig guardandola
negli occhi. E poi, prima che lei potesse replicare, si
inchinò
dicendo: “Questa è la nostra offerta, regina di
Svezia. Attendiamo
la vostra risposta entro il prossimo tramonto della luna.”
Poi si
congedò, senza aggiungere una parola.
Quando
fu uscito, Arianrhod sprofondò di nuovo nella sua seggiola,
e rimase
in silenzio, fissando dritto davanti a sé. Viviana le si
sedette
accanto e le mise una mano sul braccio.
“Sei
spaventata?”
“Vorrei
sapere in cosa consiste questo rituale. Tu puoi spiegarmelo?”
Viviana
scosse la testa. “E' un rituale segreto del Piccolo Popolo.
Non
posso parlarne. Lo saprai solo quando dovrai sottoportici.”
“Mi
chiedete di prendere parte a qualcosa che non conosco? Che non so
come funziona? Come posso dare il mio consenso?” chiese la
ragazza,
frustrata.
“Fa
parte della prova. In ogni caso non devi temerla, sei perfettamente
in grado di superarla. Hai coraggio da vendere, e inoltre non
permetterei mai che si metta in pericolo la tua vita. È di
gran
lunga troppo preziosa.”
Quando
lasciò l'alloggio di Viviana, Arianrhod a malapena si
accorse di
Gareth che era rimasto ad attenderla davanti alla porta, nonostante
una pioggerella leggera avesse cominciato a cadere.
“Gareth!
Cosa ci fai qui? Ti sei bagnato” protestò lei,
sorpresa.
“Hai
detto che non avrei mai dovuto lasciarti, no? È quello che
sto
facendo” sorrise lui.
“Non
credevo lo prendessi tanto alla lettera...”
commentò lei, a sua
volta con un sorriso sul volto.
“Cosa
voleva la Somma Sacerdotessa da te? E quell'uomo del Piccolo
Popolo?”
Mentre
camminavano verso l'alloggio di Arianrhod, incuranti della pioggia
che cadeva sulle loro teste, lei gli raccontò della
possibile
alleanza con il Piccolo Popolo e del rituale che le avevano chiesto
di affrontare per ottenerla.
“Certo,
è un rischio...” rifletté Gareth.
“Credi
che sia proprio necessario?”
“Se
vuoi essere una vera regina dovrai intrecciare delle alleanze,
Arianrhod. E farlo richiede dei sacrifici. Il Piccolo Popolo ti
chiede questo per concederti il suo appoggio militare. E anche Avalon
te lo chiede, perché l'alleanza che verrà
forgiata vedrà partecipi
anche loro. Anche se cercano di apparire neutrali, non lo sono. Ci
sono loro dietro tutto questo.”
“Certo,
non hanno un esercito con cui sostenermi, e hanno trovato questo
modo” mormorò Arianrhod tra sé e
sé.
Erano
ormai giunti alla porta dell'alloggio, quando Arianrhod si
fermò e
guardò Gareth.
“Cosa
dovrei fare secondo te? Aspettano una mia risposta entro domani
sera...”
Gareth
la strinse per le braccia. Avrebbe voluto abbracciarla: appariva
così
fragile, bagnata come un pulcino, con i capelli incollati al capo e
grondanti pioggia. Ma lei non era fragile, affatto.
“Ascoltami:
qualsiasi cosa ti chiedano, non ho dubbi che tu ce la possa
fare.”
“Forse
riponi troppa fiducia in me” disse lei con amarezza,
abbassando lo
sguardo. “Forse tutti gli svedesi, la Guardia Bianca, Avalon,
il
Piccolo Popolo... tutti loro mi hanno sopravvalutata.”
Gareth
sorrise. “Puoi credermi quando ti dico che non è
così. E ora vai
ad asciugarti prima che ti prenda un malanno”, disse
sospingendola
verso la porta. Poi sparì, inghiottito dal buio della notte.
“Accidenti,
non ci riesco!” esclamò frustrata Arianrhod, quando la freccia appena lanciata atterrò malamente sull'erba. Cosa
diavolo le era
venuto in mente di voler imparare quell'odiosa disciplina?
Era
tutta la mattina che lei e Gareth, non avendo altro da fare
nell'attesa, si esercitavano a tirare frecce su un grosso tronco
d'albero. In realtà era stato Gareth a proporre di allenarsi
al
combattimento, ma dopo circa un'ora in cui si esercitavano alla spada
– Gareth le aveva ceduto la sua e si era accontentato di un
bastone
– era apparso chiaro che un lungo allenamento per qualcuno
che
possedeva già la loro abilità non era necessario.
Gareth aveva
ancora una volta potuto constatare che Arianrhod possedeva un
notevole talento naturale nel maneggiare l'arma. Era in grado di fare
cose per le quali lui aveva impiegato anni di addestramento. Quando
si era arreso nel cercare di insegnarle qualcosa di nuovo, lei gli
aveva chiesto di addestrarla nel tiro con l'arco, qualcosa in cui non
si era mai cimentata. Avrebbe sempre potuto tornarle utile in futuro.
Ma dopo ore che provava a lanciare una freccia dritta - o almeno a
non uccidere per sbaglio qualche sfortunato scoiattolo di passaggio -
era alquanto esasperata. Riuscire a centrare il bersaglio poi, era
pura utopia! A Gareth veniva da
sorridere nel
notare la sua bocca atteggiata in un’espressione irritata, ma
cercava di non farsi vedere da lei perché sapeva che questo
l’avrebbe fatta infuriare ancora di più. Ma
la incoraggiava
continuamente, dandole consigli, aiutandola con una pazienza
infinita.
All’ennesima
freccia che mancò il bersaglio, Arianrhod lasciò
cadere a terra
l’arco, spazientita.
“Non
posso farlo, Gareth. E’ inutile! Si vede che non è
proprio cosa
per me…”
Gareth
sorrise. “E io invece sono convinto che puoi farcela. Il
problema è
che tu ti fai guidare esclusivamente dalla ragione, mentre per tirare
bene occorrono concentrazione e istinto. Aspetta, ti aiuto io.
Incocca la freccia.”
Gareth
raccolse l'arco e glielo porse, poi si mise alle sue spalle e
l'aiutò
a tendere la corda dell’arco, guidandola passo passo. Con lui
accanto a sé Arianrhod cominciò a rilassarsi
finché non scordò
tutto il resto. Lasciò andare la freccia, senza bisogno che
Gareth
glielo dicesse. Fu come se fosse stato il bersaglio a raggiungere la
freccia, e non il contrario. Poté vederla chiaramente
colpire il
tronco e seppe che ce l'aveva fatta.
Emise
un gridolino di trionfo e, voltandosi, gettò le braccia al
collo di
Gareth senza riflettere. Fu un gesto impulsivo, dettato dalla
contentezza di essere finalmente riuscita dopo tanti tentativi
falliti. Ma improvvisamente si trovò faccia a faccia con
lui, il
viso a pochi centimetri dal suo. I loro nasi si sfioravano e le loro
bocche erano pericolosamente vicine. In un impeto di sconsideratezza
Arianrhod percorse quella breve distanza che li separava e gli
sfiorò
la bocca con la propria. Gareth, rimasto innaturalmente rigido fino a
quel momento, improvvisamente le catturò la bocca in un
bacio
appassionato, in cui entrambi si persero, labbra, menti e anime
unite. Fu una questione di pochi secondi prima che Gareth, come
tornato in sé, si staccasse bruscamente, respingendola con
gentilezza, ma fermamente.
Cercò
di ignorare lo sguardo confuso e addolorato di Arianrhod. Lei lo
guardava come un animale ferito guarda il suo carnefice.
“Mi
dispiace...” mormorò abbassando lo sguardo.
“Non odiarmi, ma
questo è uno sbaglio. Ti prego, dimentichiamolo...”
Lei
cercò di rimanere composta, ma il labbro le tremava
impercettibilmente e aveva gli occhi lucidi. Tuttavia il suo sguardo
non vacillò: cercava lo sguardo di lui, coraggiosamente,
come chi
non avesse altro da perdere. Ma lui continuava a evitarla.
In
un gesto di rabbia impotente Arianrhod scagliò a terra
l'arco che
ancora teneva in una mano, e con tutta la dignità che
riuscì a
racimolare si voltò e si allontano, piantandolo
lì dove si trovava.
Nonostante tutto camminava con le spalle dritte e il mento sollevato,
e Gareth pensò che non era mai stata così bella
come in quel
momento.
Angolo
Autrice: Ed
eccoci qui, siamo giunti a un punto di svolta nella relazione tra
Gareth e Arianrhod. Le cose si fanno difficili per loro, e non
sarà
una passeggiata trovare un punto d'incontro. Ovviamente c'è
un
motivo se Gareth l'ha respinta... ma lei, ancora un po' ingenua, non
lo ha compreso del tutto. Come se non bastasse ha anche tanti dubbi
sul suo futuro ruolo, e ha paura di deludere tutti quelli che
ripongono fiducia in lei. E poi c'è la prova che
dovrà affrontare
per guadagnarsi l'alleanza del Piccolo Popolo... il tempo scorre!
A
proposito di questo volevo dare un piccolo cenno storico su questo
popolo. Praticamente in ogni cultura esiste la leggenda di un popolo
che vive nei boschi, nelle paludi, nei laghi, e che rifiuta i
contatti con gli altri popoli. Ma secondo alcuni storici, come ad
esempio James Gairdner, questa leggenda ha radici nella storia, e
questo popolo non sarebbe altro che una razza di pigmei che viveva in
Galles, Cornovaglia e Irlanda, le tre aree dove questa leggenda
è
più presente. Avrebbero avuto pelle olivastra, capelli scuri
e
sarebbero stati di piccola statura. Tuttavia, anche se desiderosi di
mantenere il loro stile di vita rispettoso della natura, il Piccolo
Popolo sarebbe sceso in battaglia a fianco degli altri popoli
della Britannia qualora ci fosse stato bisogno, dal momento che erano valorosi guerrieri. Questo accade anche nei libri di MZB, e
quindi io ho immaginato che potessero cercare un'alleanza anche con
Arianrhod, nel tentativo di arginare l'avanzata cristiana (essi erano
infatti devotissimi pagani, legati al culto della dea madre).
Scusate
il papiro :)
E
niente, spero che il capitolo vi piaccia e come sempre vi ringrazio
tutti.
Alla
prossima!
Eilan
|
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Capitolo 13 *** Capitolo tredici ***
Quel
pomeriggio Avalon fu di nuovo investita da una pioggia leggera;
l'aria era permeata di umidità, ma anche di un piacevole
tepore. Le
piccole gocce di pioggia creavano un velo traslucido che avvolgeva
l'isola in un abbraccio ovattato. Ogni suono, ogni colore, le chiome
degli alberi, le acque del lago, perfino il dolce cinguettio degli
uccelli, giungevano remoti, attutiti, come se provenissero da una
landa incantata che era separata da Avalon solo da una sottile
barriera.
Arianrhod
notò con amarezza che nulla poteva accordarsi al suo umore
quel
giorno come quella pioggerella fastidiosa che le penetrava nella
scollatura della veste, provocandole un brivido ogni volta che una
goccia le tracciava un sentiero umido lungo la pelle della schiena.
Ma a lei non importava, a malapena ci faceva caso. Quel piccolo
fastidio era un balsamo per lei, perché la distraeva dal
turbamento
che provava nell'animo. La giornata, stranamente cupa per essere
estiva, sembrava comprenderla come forse nessun essere umano avrebbe
potuto fare. Ti capisco, le diceva. So
come ti senti. So
che provi rabbia, tristezza e frustrazione. So cosa si agita dentro
di te. Lui ti ha respinta, non sei niente per lui.
È
vero, avrebbe
risposto lei.
Perché mi ha trattata così?
Lo odio!
Non
è vero, non puoi ingannarmi su questo. Non potresti odiarlo
nemmeno
se lo avessi colto tra le braccia di un'altra.
Arianrhod
non aveva ancora rivisto Gareth da quella mattina. Lui era venuto a
cercarla al suo alloggio, subito dopo quello che era successo tra
loro. L'aveva chiamata attraverso la porta, aveva battuto i pugni sul
legno per farsi aprire, ma lei era rimasta ostinatamente chiusa nel
suo silenzio e non aveva aperto. Quando una novizia era venuta a
portarle delle vesti pulite, due ore più tardi, le aveva
detto: “C'è
un cavaliere qui fuori che chiede di voi, mia signora. Devo farlo
entrare?”
Arianrhod
si era meravigliata suo malgrado per la tenacia che Gareth stava
dimostrando. Per un attimo si era intenerita, e i suoi occhi erano
divenuti lucidi. Poi si era riscossa. No! È venuto
qui solo per
mettersi la coscienza a posto.
“No,
per favore” aveva detto alla novizia. “Ditegli di
andare via. Non
desidero incontrarlo.”
Gareth
a quel punto aveva desistito. Se n'era andato e non l'aveva
più
cercata. E lei non aveva cercato lui.
Aveva
deciso di sfruttare tutta la rabbia che aveva in corpo esercitandosi
tutto il pomeriggio a tirare con l'arco, ignorando la pioggia. A
malapena vedeva il bersaglio attraverso quella cortina di acqua e
nebbia, ma tirava frecce una dopo l'altra, con ferocia e precisione
letale, senza concedersi tregue. Aveva sgombrato la mente da ogni
pensiero cosciente, come, per ironia della sorte, aveva cercato di
insegnarle Gareth. Solo i suoi sentimenti feriti esistevano: la sua
rabbia, il suo dolore, il suo sconcerto. I muscoli delle braccia
presero a dolerle, i capelli erano ormai una matassa umida ed
intrecciata, ma lei non si fermò finché le prime
stelle della sera
cominciarono a punteggiare la volta del cielo notturno. A quel punto
il cielo si era rischiarato, e la pioggia era completamente cessata.
La luna fece capolino da dietro le nubi che si diradavano e Arianrhod
si ricordò di un altra imminente scadenza che l'attendeva. Fino
al tramonto della prossima luna. Quindi fino all'alba del
giorno
seguente. Questo il tempo che le era stato concesso per prendere una
decisione. Ed in cuor suo Arianrhod l'aveva già presa.
Forse,
inconsciamente, il rifiuto di Gareth le aveva tolto gli ultimi
scrupoli. Sapeva che era sciocco, ma si sentiva come se non avesse
più nulla da perdere. Tutti quelli che amava erano morti, a
Gareth
non importava niente di lei... anche se il Piccolo Popolo le avesse
chiesto di sottoporsi ad una prova in cui rischiava di morire, cosa
importava? Gli svedesi si sarebbero trovati un altro pretendente al
trono, e Avalon qualcun altro da sostenere per salvaguardare i propri
interessi. Una piccola parte di lei si stupiva di vederla in quello
stato, intenta a sputare amarezza e cinismo. Ma le spalle su cui
poggiavano tante responsabilità avevano un limite di
sopportazione;
varcato quel limite rischiavano di cedere, di schiantarsi sotto tutto
quel peso.
“Somma
Sacerdotessa” chiamò entrando decisa nell'alloggio
di Viviana,
prima che una delle novizie che la servivano potesse annunciarla.
“Mia
signora!” esclamò una di loro imbarazzata,
correndole incontro.
“Non potete entrare in questo modo!”
“Vi
chiedo scusa” rispose Arianrhod senza vacillare.
“Ma devo vedere
Viviana. È urgente.”
“La
Somma Sacerdotessa non si trova qui...”
“E
dov'è?” chiese lei confusa.
La
novizia sorrise. “Si trova al Pozzo. Volete che vi conduca da
lei?”
Viviana
stava seduta su una roccia coperta di muschio, una delle pietre che
orlavano la fonte che le sacerdotesse chiamava il Pozzo Sacro. La sua
acqua, che scorreva limpida sgorgando dalla roccia stessa, in un
perfetto rivolo argentato, si riversava gorgogliante nella polla
sottostante. Il luogo dove si trovava era noto solo alle
sacerdotesse; neppure i druidi – fatta eccezione per
l'Arcidruido –
ne conoscevano l'ubicazione. Era un segreto che le sacerdotesse
custodivano gelosamente, poiché quello era un luogo sacro,
ed era
quell'acqua che scrutavano in cerca di visioni. Arianrhod rimase
impietrita di fronte alla bellezza di quel luogo, celato da un
piccolo, folto gruppo di alberi, tanto che nemmeno notò che
la
novizia si era discretamente ritirata, fin quando non si
voltò e non
la trovò più al suo fianco. Viviana, seduta di
spalle, non poteva
vederla, eppure evidentemente ne udì i passi leggeri sul
tappeto di
muschio.
“Avrei
comunque voluto mostrarti questo posto prima o poi, mia cara”
disse
senza voltarsi. “Perciò non è un male
che sia accaduto stasera.”
Posò una mano sulla roccia accanto a quella su cui sedeva.
“Vieni
a sederti accanto a me, così potrai dirmi cosa ti
turba.”
Arianrhod
trasalì: come aveva potuto indovinarlo, senza nemmeno
guardarla?
Fece come Viviana le aveva chiesto e si sedette accanto a lei.
“Questo
posto... è bellissimo” disse sinceramente. Non le
venivano altri
aggettivi per descriverlo: ne era letteralmente incantata.
Viviana
sorrise: “Fa questo effetto anche a me, nonostante venga qui
da più
di vent'anni, sai?”
“Allora,
dimmi cosa è successo cara” disse prendendole una
mano fra le
proprie e guardandola in viso. “Sai è buffo, ho
pensato che potrei
essere tua madre... sei così giovane ed io ho già
trentasei anni.
Non ho avuto figlie femmine che siano giunte all'età adulta.
Eilantha, la mia unica figlia, è morta quando aveva pochi
mesi, e
oggi, se fosse ancora viva, avrebbe nove anni. Oh, lo so cosa stai
pensando. L'ho avuta tardi, sì, perché mia madre
esitava a darmi il
permesso di affrontare la prova che mi avrebbe consacrata
sacerdotessa. Ma anche se ho perso Eilantha, ho avuto la fortuna di
crescere le mie due sorelline come se fossero figlie mie.”
“Come
si chiamano?” chiese Arianrhod. “Si trovano qui ad
Avalon?”
“Igraine
e Morgause. No, non sono più con me. Igraine è
andata sposa
quest'anno al Duca di Cornovaglia e ho preferito mandare Morgause con
lei. Non è adatta alla vita sacerdotale, quella
bambina.”
“Sembri
ancora così giovane, Viviana” mormorò
Arianrhod, insicura se la
sua affermazione l'avrebbe offesa. “E mi dispiace tanto per
tua
figlia.”
“Ti
ringrazio”, disse Viviana, abbassando il capo. “Lei
era nata
subito dopo la morte di suo padre, Vortimer, e per me fu un colpo
ancor più duro.”
“Vortimer?
Vuoi dire che il padre di tua figlia era il figlio del vecchio Grande
Re?” Arianrhod aveva una nota ammirata nella voce.
Naturalmente lo
sapeva già, ma non ci aveva creduto del tutto fino a quel
momento:
Viviana doveva essere davvero una donna molto potente.
Viviana
si riscosse dai suoi pensieri velati di nostalgia e rimpianto e le
sorrise: “Allora dimmi: di cosa eri venuta a
parlarmi?”
Arianrhod
prese una profondo respiro. “Ho deciso di accettare di
sottopormi
alla prova che mi ha richiesto Cynwrig.”
La
sua bocca era contratta e il suo sguardo duro. Viviana si chiese cosa
le fosse successo. Aveva perso un po' di quella forza d'animo e
ingenuità che la caratterizzavano, e che rendeva tanto
frizzante la
sua giovane età.
“Ne
sono felice, e lo riferirò a Cynwrig questa sera stessa. Ci
hai
riflettuto bene? Sei pronta a correre il rischio?”
“Non
mi importa di quale possa essere il rischio” rispose dura.
“Non
mi importa neppure di sapere di che prova si tratta.”
Viviana
la osservò ancora per qualche attimo. Quella risolutezza e
quella
tensione emotiva nascondevano qualcosa, forse dolore. La sacerdotessa
cominciò a comprendere di cosa potesse trattarsi. Ma sapeva
che a
lei non avrebbe fatto piacere saperlo.
“Sono
fiera della tua decisione” le disse con un sorriso.
“Ed ora c'è
una cosa che voglio mostrarti. Permetti?”
Arianrhod
annuì, curiosa.
Viviana
le fece cenno di chinarsi sulla polla, poi passò una mano
sull'acqua, increspandone la superficie. Rimase assorta per qualche
momento, tanto concentrata che sembrava trovarsi in uno stato
ultraterreno.
“Vedo
molte cose nel tuo futuro” la sua voce stentorea
spezzò il
silenzio teso ed Arianrhod drizzò le orecchie, sbalordita.
“Ora
tu incarni la Dea nel suo primo aspetto, quello della Vergine, ma
arriverà il giorno in cui lei sarà per te la
Madre, il suo secondo
aspetto. Ma prima di allora vedo battaglie... sanguinose battaglie. I
corvi banchetteranno, i morti copriranno intere piane: i loro
vessilli laceri e macchiati di sangue garriranno al vento del nord,
come macabri simboli del prezzo che dovrai pagare per riavere il tuo
trono. Vedo un giovane guerriero che ti tradirà, proprio
quando meno
te lo aspetterai. E accadrà se ti lascerai trascinare dalla
passione
e dall'impulso. E la Dea nel suo terzo aspetto, quello della Morte,
ti visiterà allora, ma non so quale vita
reclamerà per sé.”
Trascorse
qualche secondo prima che Viviana continuasse.
“Vedo
che dovrai compiere una scelta, una scelta molto difficile, per il
bene del tuo popolo e del tuo regno. Solo allora sarai veramente
regina, in tutto.”
La
sacerdotessa tacque, il respiro ansante. Increspò di nuovo
l'acqua,
ma non riuscì più a scorgere nulla sulla sua
superficie.
Arianrhod
era rimasta a bocca aperta, troppo sconvolta per parlare. Molti
aspetti della visione li aveva previsti. Sapeva che ci sarebbero
state battaglie lungo la via per la riconquista del trono, non era
ingenua fino a quel punto. Ma il modo in cui Viviana le aveva
descritte le provocò un brivido di paura. Quanti uomini
avrebbero
perso la vita a causa sua? Quanti sarebbero morti per far sì
che lei
salisse di nuovo al trono? Tanti, troppi. E i suoi genitori e suo
fratello erano stati le prime vittime.
Le
altre affermazioni di Viviana erano state, per certi versi, molto
più
inquietanti. Chi era il “giovane guerriero” che
l'avrebbe tradita
se lei fosse stata troppo cieca per rendersi conto della
verità? In
che aspetto la morte le avrebbe fatto visita? E quale difficile
scelta sarebbe stata costretta a compiere?
“Non
sforzarti troppo di capire, adesso” le disse Viviana
gentilmente.
“Le visioni vanno interpretate, ed avrai tempo per farlo. E
per
cambiarle, se necessario.”
***
Arianrhod
stava in piedi, diritta e fiera, sulle rive del lago di Avalon. Aveva
indossato una delle vesti che le aveva fatto recapitare il generale
della Guardia Bianca, il Duca di Silverdalen, per prepararla al loro
incontro. La ragazza non aveva mai posseduto una veste tanto bella e
raffinata. Era di color blu notte, con le maniche azzurre che si
intravedevano appena sotto le soprammaniche non molto ampie. Lo
stesso ricamo azzurro veniva ripreso anche sul davanti della veste e
all’altezza dei gomiti.
Ed
era così abbigliata che la Regina di Svezia accolse
l’arrivo della
barca. Viviana e Taliesin erano anche loro lì ad accogliere
gli
importanti visitatori, immobili al suo fianco. Gareth, com'era suo
dovere, stava in piedi pochi passi dietro di lei. L'aveva cercata
più
volte con lo sguardo, ma lei non aveva ricambiato, continuando a
guardare dritta davanti a sé.
A
bordo della barca vi erano sei uomini con indosso delle corazze
lucenti. Scesero uno ad uno e, quando le furono di fronte, si
inchinarono a lei con profonda deferenza.
“Mia
Regina…”, mormorò uno degli uomini.
Arianrhod gli tese la mano e
lui la baciò. Poi si alzò in piedi.
“Sono il Duca di Silverdalen,
vostro servo devoto.”
Quando
poté guardarlo bene in viso, Arianrhod rimase di sasso. Il
duca
sembrava una versione più matura di Gareth, e la somiglianza
tra
loro era inequivocabile.
Non
è possibile... non può essere!
“Questi
uomini sono alcuni dei comandanti della Guardia Bianca, mia
signora”,
aggiunse il Duca Fjölnir indicando gli altri cavalieri. Ad uno
ad
uno gli uomini si inchinarono di fronte a lei. “Il generale
Wanlande, il generale Valbur...” cominciò a
elencare il duca,
indicando gli uomini inginocchiati.
“Ősten!”
lo interruppe di malagrazia Arianrhod, felice di scorgere tra quelle
facce sconosciute una familiare. “Sono contenta che stiate
bene.”
Il
duca e gli altri generali erano lievemente irritati di essere stati
messi in ombra da un sottoposto, ma non lo diedero a vedere, se non
con qualche occhiata nervosa.
“Siete
troppo gentile mia signora” replicò Ősten,
a disagio.
“Non
vi ho ancora ringraziato degnamente per avermi salvato la
vita”
disse, prendendogli le mani. Il giovane arrossì
dall'imbarazzo, ma
non poté trattenere un sorriso di riconoscenza.
“E'
stato un onore, oltre che un dovere, mia regina”
dichiarò
portandosi la mano al petto e chinando il capo.
Poi
si fece avanti Viviana: “Avalon vi da il benvenuto, nobili
cavalieri.”
“Sono
felice di rivedervi Somma Sacerdotessa”, rispose
Fjölnir. “E’
un onore per me essere di nuovo alla presenza vostra e
dell’Arcidruido.”
Taliesin
chinò la testa in segno di ringraziamento.
“Ma
permettetemi di presentarvi mio figlio, mia regina”
intervenne in
fretta il duca, indicando l'ultimo cavaliere della fila, quello che
ancora non le era stato presentato. “Il mio primogenito ed
erede,
Domaldr.”
A
quelle parole Arianrhod poté percepire il dolore di Gareth
anche
senza bisogno di voltarsi a guardarlo. Strinse i pugni per trattenere
l'impulso di correre da lui e gettarsi tra le sue braccia. In quel
momento era completamente dimentica del risentimento che provava per
lui. Qualcosa di più profondo, più bello, e
più vero sopraffece il
rancore. Poteva capire perché tutto questo fosse
così doloroso per
Gareth... ma quello che non comprendeva era perché le aveva
nascosto
la verità.
“Mia
signora” disse Domaldr facendosi avanti con passo audace e
sguardo
sicuro. Aveva un modo di squadrarla che ad Arianrhod non piacque:
troppo sfacciato, troppo... arrogante. “E' un onore
conoscervi.”
Le
baciò la mano trattenendola un secondo di troppo, e
Arianrhod la
ritirò con irritazione. Chi si credeva di essere quel
ragazzo? Solo
perché era il figlio del duca credeva di poterla trattare
con tanta
familiarità?
Mentre
il gruppo si dirigeva verso gli alloggi che erano stati preparati per
gli ufficiali della Guardia Bianca, Ősten
lanciò uno sguardo preoccupato prima ad Arianrhod, al cui
fianco
camminava Domaldr, e poi a Gareth.
***
Gareth
era sollevato dell'arrivo di Ősten. Loro due erano amici di lunga
data e Gareth sentiva che in quel momento aveva bisogno più
che mai
della spalla di un amico. Negli ultimi giorni aveva perso del tutto
la fiducia di Arianrhod, che si era allontanata sempre di
più da
lui. Ed ora che anche suo padre e suo fratello erano sull'isola,
Gareth aveva buone ragioni di credere che il suo umore non sarebbe
migliorato. Parlare con Ősten
avrebbe dato sollievo al suo animo tormentato, anche se neppure a lui
avrebbe mai potuto confidare il tremendo passo falso che aveva
compiuto. Quello mai. A nessuno. L'amico aveva assistito i suoi
superiori nella complicata svestizione delle pesanti armature, dal
momento che agli scudieri non era stato permesso di sbarcare
sull'isola; ed ora era compito di Gareth andarlo a prendere per
condurlo agli alloggi degli apprendisti, dove avrebbero dormito
entrambi. Stava per bussare alla porta dell'alloggio degli ufficiali,
quando si bloccò con il pugno a mezz'aria. Si udivano
distintamente
le voci di due uomini provenire dall'interno, che Gareth
identificò
come quelle del duca e di suo figlio. Sapeva che non avrebbe dovuto,
ma quando uno dei due pronunciò il nome di Arianrhod, non
poté fare
a meno di origliare.
“Non
mi è sembrata molto colpita, padre” stava dicendo
Domaldr, in tono
petulante.
“Sciocchezze!”
replicò il duca. “Saprai farti accettare, ragazzo.
Corteggiala,
fatti apprezzare da lei.”
“Siete
sicuro che tutto questo porterà dei frutti?”
“Non
ho dubbi. Tu sei il candidato più adatto alla sua mano, e se
lei
ancora non se ne rende conto, presto dovrà. E
così tu sarai il
prossimo re di Svezia.”
Qualcuno
lo toccò sulla spalla e Gareth sobbalzò.
“Cosa
stai facendo?” chiese Ősten.
“Ti
pare il modo di arrivarmi alle spalle in questo modo?”
ribatté
Gareth in tono più irritato di quanto avesse avuto
intenzione.
La
conversazione di cui era appena stato involontario testimone lo aveva
colpito come un pugno nello stomaco. Negli intervalli di razionale
lucidità doveva ammettere che quello che aveva detto il duca
era
sensato: probabilmente Domaldr era il candidato più adatto
alla mano
di Arianrhod. Era ricco, potente, e in grado di dare grande appoggio
alla nuova regina. Ma... come si permettevano di parlare di lei in
quel modo? Come se non fosse altro che un buon partito disponibile
per il migliore offerente? Gareth non poteva dare altro nome a quel
sentimento nuovo che era nato in lui... tranne gelosia.
“Tutto
bene, amico?” lo sguardo e il tono di Ősten
erano preoccupati. Raramente aveva visto Gareth in quello stato
alterato.
“Sì...
sì, tutto bene. Perdonami.” rispose Gareth
passandosi una mano tra
i capelli. “Andiamo via di qua.”
Angolo
Autrice: Ed
eccoci all'arrivo della Guardia Bianca. Le cose, se possibile, si
fanno ancora più complicate. Riuscirà la
rivelazione sulle origini
di Gareth a indurre Arianrhod ad essere più comprensiva con
lui? Ora
che all'orizzonte si affaccia quel cocco di papà viziato di
Domaldr
come andranno le cose? Al prossimo capitolo l'ardua sentenza! :) E
poi il rituale ci aspetta! Fatemi sapere cosa ne pensate del
capitolo, e grazie come sempre a tutti, siete fantastici!
Alla
prossima,
Eilan
|
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Capitolo 14 *** Capitolo quattordici ***
Il
rullo dei tamburi saturava l'aria di vibrazioni ritmiche,
accompagnando il tramonto che sfumava sulle acque del lago. Arianrhod
stava al centro del cerchio di persone, vestita di un abito di pelle
che le donne del Piccolo Popolo avevano confezionato appositamente
per lei, i piedi nudi, i lunghi capelli sciolti sulle spalle. Decine
di facce la osservavano, alcune curiose, altre preoccupate. Tra
queste c'era il duca Fjölnir,
che
aveva protestato di non essere stato consultato per la decisione che
Arianrhod aveva preso.
“Mia
signora, avete preso una decisione avventata” le aveva detto.
“Dovevate prima discuterne con me, e con gli altri
generali.”
“L'alleanza
con il Piccolo Popolo ci serve, duca”, aveva tagliato corto
Arianrhod.
“Cionondimeno
sarebbe stato opportuno ascoltare il parere dei vostri
comandanti.”
Arianrhod
lo aveva guardato freddamente e non aveva risposto. Ancora le
riusciva difficile capire perché suo padre avesse
considerato
quell'uomo uno dei suoi più cari amici. Non le sembrava
degno di
tanta fiducia. Suo figlio poi era decisamente insopportabile: da
quando aveva messo piede sull'isola, non l'aveva lasciata un attimo
in pace. Insisteva per accompagnarla ovunque e la inondava di
complimenti. Non c'era stata una volta in cui non era d'accordo con
una parola pronunciata da Arianrhod. E questo non aveva fatto altro
che allontanare ancora di più Gareth da lei. Se solo la
vedeva in
compagnia del fratellastro cambiava discretamente strada, o si
ritirava prima di trovarsi faccia a faccia con loro. Arianrhod non
poteva fare a meno di provare una fitta al cuore tutte le volte che
questo accadeva.
Domaldr
era totalmente diverso da Gareth, quasi il suo opposto. Era
insopportabilmente tronfio e pieno di sé. Era quasi
incredibile che
avessero lo stesso padre. Per questo motivo lei cercava di essere
cortese, ma distaccata nei confronti di Domaldr, dissuadendolo il
più
possibile dal cercare la sua compagnia; ma il giovane sembrava immune
alla sua freddezza.
“Mia
regina...” aveva detto Fjölnir in tono
più dolce. “Arianrhod...
perdonatemi se mi rivolgo a voi per nome, ma dovete sapere, mia cara
bambina, che vi conosco fin dal giorno in cui siete venuta al mondo.
Sono stato tra i primi a tenervi tra le braccia, e vi ho vista
crescere. Vostro padre vi ha affidata a me, e ho cercato sempre di
fare del mio meglio per proteggervi.”
Arianrhod
lo guardava ancora senza una parola, ma il suo sguardo aveva perso
molto della sua durezza iniziale.
Il
duca ebbe il coraggio di continuare.
“So
che probabilmente mi biasimate per la morte dei vostri genitori
adottivi... anch'io mi biasimo, credetemi. Ho una grande colpa da
farmi perdonare, e potete stare certa che farò tutto
ciò che è in
mio potere per riparare. Vi restituirò il trono di vostro
padre,
e...”
“Così
potrete farci sedere il vostro figliolo come mio consorte?”
chiese
Arianrhod, tagliente.
“Io...
mi dispiace, non immaginavo che Domaldr vi fosse tanto inviso, vi
prego di credermi. Ritenevo solo che potesse essere un buon marito
per voi, che potesse darvi l'appoggio di cui avrete bisogno presso la
nobiltà. Non pensavo di indispettirvi in questo modo,
suggerendo a
mio figlio di sondare il terreno con voi a riguardo...”
“Vostro
figlio non mi ha lasciato un attimo di respiro in questi giorni. Se
volete il mio perdono, ditegli di smetterla! Se e quando
sceglierò
un marito, sarà una mia
decisione.”
“Avete
ragione. Parlerò con Domaldr, e state pur certa che non vi
importunerà più. Sapete, mio figlio a volte sa
essere molto
testardo... e viziato. Temo di dovermi accollare gran parte della
colpa per questo”, disse con un sorriso amaro. “Ma
dovete sapere
che lui è il mio unico figlio maschio legittimo, e troppe
volte non
ho saputo dirgli di no. Non sono stato capace di fare di lui un
uomo.”
Arianrhod
non poté fare a meno di essere colpita dalla frase che il
duca aveva
pronunciato. L'unico
figlio maschio legittimo. Si
chiese se dovesse parlargli di Gareth, ma comprese che quello non era
il momento giusto.
“Ho
paura di essere venuto meno alla sacra promessa che feci al mio
re”
continuò Fjölnir “e preferirei morire che
vivere con questa
consapevolezza.”
Arianrhod
scrutò il duca negli occhi, senza riguardi per la sua
anzianità.
Avrebbe voluto leggerci ipocrisia, calcolo o indifferenza. Invece si
accorse che l'uomo era veramente addolorato al pensiero di averla
delusa. Che tenesse veramente a lei, come affermava?
“A
proposito” disse il duca. “Vi ho portato una cosa
che mi è stata
affidata da una persona, quando ci separammo al vostro arrivo in
Britannia. Me la diede la donna che ci aiutò a farvi
lasciare la
corte in segreto. Diceva che un giorno vi avrebbe aiutato a
recuperare la memoria di ciò che siete.”
Così
dicendo frugò nel suo baule da viaggio e ne trasse un
involto, che
porse ad Arianrhod. Lei trattenne il respiro senza rendersene conto,
mentre lo svolgeva. Pochi secondi dopo si trovò tra le mani
la
bambola che tante volte le era apparsa nei suoi sogni, la piccola
bambola di pezza vestita di un abitino di seta di squisita fattura.
Era usurata dal tempo rispetto a quella che aveva sognato, ma non
c'erano dubbi che fosse proprio lei.
“Ma
questa... questa è...”
“La
vostra bambola preferita” confermò il duca con un
sorriso. “Si
chiama Bron.”
Bron.
“Non
vi separavate mai da lei quando eravate piccola, così
Hejör, la
donna di cui vi parlavo, l'ha presa con sé il giorno in cui
scappammo dalla Svezia. Non avrebbe potuto lasciarvela capite? Un
oggetto tanto lussuoso avrebbe destato sospetti, e inoltre lei
credeva che, quando sarebbe giunto il momento per voi di ricordare il
vostro passato, Bron vi sarebbe stata utile.”
Arianrhod
se la strinse al petto, con gli occhi lucidi.
“Vi
ringrazio”, aveva detto in un soffio. E quello era stato il
momento
in cui aveva cominciato ad intuire perché suo padre avesse
dato
tanto valore all'amicizia con il duca di Silverdalen. “Mi
date la
vostra benedizione per affrontare il rituale dunque?”
Fjölnir
sospirò. “E sia. Ma se dovesse accadervi qualcosa,
qualsiasi cosa,
ne risponderanno a me personalmente.”
***
Anche
se il duca aveva accettato con riluttanza che Arianrhod si
sottoponesse al rituale, continuava a guardarla preoccupato,
chiedendosi se non avesse fatto meglio ad opporsi in qualche modo. Ma
di sicuro Viviana e Taliesin non avrebbe permesso che si mettesse in
pericolo la vita della futura regina.
Sentire
su di sé tutti quegli sguardi preoccupati, oppure carichi di
aspettativa e di anticipazione, metteva a disagio Arianrhod.
Chissà
cosa stava pensando Gareth, anche lui presente tra quel pubblico?
Inspirò
ed espirò lentamente, cercando di concentrarsi solo sul
ritmico
suono dei tamburi suonati dal Piccolo Popolo. Le avevano detto che
erano gli stessi uomini che suonavano i tamburi da guerra, durante
le battaglie.
All'interno
del cerchio, di fronte a lei, stavano Viviana, Taliesin e Cynwrig,
abbigliati con vesti rituali. Le sacerdotesse che stavano dispiegate
come due ali al loro fianco intonarono un canto rituale, che avrebbe
dovuto infonderle forza. Decine di torce fiammeggianti erano state
infisse nel terreno e rischiaravano la radura tutto intorno a loro.
Cynwrig
piantò nel terreno la lancia che teneva in mano, e prese un
oggetto
che un membro del Piccolo Popolo gli porse. Si avvicinò ad
Arianrhod
e glielo porse. Si trattava di un coltello cerimoniale, in pietra
lavorata, decorato con un fregio dal significato oscuro. Era un
oggetto molto bello e, dopo averlo rimirato qualche secondo,
Arianrhod lo prese e lo mise alla cintura, perché le
sembrava che
era quello che Cynwrig si aspettava da lei.
L'uomo
attese che un altro membro della sua tribù si facesse
avanti, con
grande cautela. Quest'ultimo era molto anziano, ma camminava senza
esitazioni, tenendo in mano un braciere di terracotta. Dentro di essa
ardeva una piccola fiamma, circondata da un olio profumato.
Cynwrig
parlò per la prima volta dall'inizio rituale.
Pronunciò alcune
parole in una lingua che Arianrhod non conosceva, che furono
accompagnate da un forte rullo dei tamburi, dal canto sempre
più
forte delle sacerdotesse, e dalle rombanti acclamazioni del Piccolo
Popolo. Per un fugace momento Arianrhod si guardò intorno
confusa, e
colse lo sguardo di Gareth, diretto solo a lei, e altrettanto confuso
e preoccupato. Lei si affrettò a riportare lo sguardo su
Cynwrig,
turbata. Cosa aveva detto l'uomo? Cosa volevano che facesse se
neppure glielo spiegavano?
Ma
Cynwig tradusse, prontamente. “Questa fiamma” disse
indicando il
braciere che l'uomo anziano teneva ancora in mano.
“Rappresenta il
cuore del nostro popolo, la sua vitalità, la vita che scorre
sotto i
nostri piedi. Rappresenta il legame che abbiamo con la nostra madre
terra. Essa non deve spegnersi mai, o la luce che ci guida
sarà
anch'essa smorzata.”
“Il
tuo compito è portare la fiamma fin nel nostro territorio,
dall'altra parte del lago, oltre le nebbie, senza che essa si spenga.
Dovrai proteggerla a costo della tua vita, e per farlo avrai solo il
pugnale che ti è stato consegnato. Sarai sola, e potrai
contare solo
sulla tua forza, sul tuo coraggio e sull'aiuto degli dei. Lo
farai?”
Arianrhod
non poté fare a meno di guardarsi di nuovo attorno: lo
sguardo di
Gareth era ancora su di lei. E quello del duca Fjölnir anche,
e lei
non poté non notare la sua preoccupazione.
“Lo
farò. Accetto questo compito”, disse Arianrhod
cercando di tenere
ferma la voce.
“Bene.
Ti aspetteremo all'alba nel nostro territorio.”
A
quelle parole l'uomo anziano le consegnò il braciere, che
lei
accolse con mani tremanti. Poi, senza più guardare nessuno,
senza
più ascoltare i canti, né i tamburi, si
voltò e si avviò verso le
acque del lago.
Arianrhod
cominciò camminando nell'acqua bassa, appena oltre la riva.
Il primo
contatto con l'acqua non era stato piacevole. Era fredda, e le diede
i primi brividi. Quando non fu più in vista della folla, si
fermò,
riflettendo su come raggiungere il territorio del Piccolo Popolo
entro l'alba. Orientarsi col buio sarebbe stato difficile, ma la luce
lunare l'avrebbe aiutata a trovare la strada. Da lontano poteva
vedere la sponda che avrebbe dovuto raggiungere, ma sapeva di non
poter passare via terra, se non fino a un certo punto: le due sponde
erano divise da una striscia d'acqua, che avrebbe dovuto
necessariamente attraversare. Sperava che non fosse troppo profonda;
in ogni caso non era molto larga, e quindi c'erano buone
possibilità
che riuscisse a superarla senza far spegnere la fiamma. Per
raggiungere quella riva avrebbe anche potuto risalire di nuovo la
collina e camminare sulla terraferma, ma questo le avrebbe fatto
allungare il percorso. No, meglio camminare sul bagnasciuga,
costeggiando la collina fino al punto in cui avrebbe dovuto
immergersi in acqua per raggiungere la sponda opposta. Lo sciabordio
dell'acqua che sollevava camminando era l'unico rumore che si poteva
udire nella notte quieta, salvo qualche gufo in cerca di prede e
l'ululato di un lupo in lontananza.
Quando
fu sulla riva che fronteggiava quella opposta, Arianrhod
sospirò.
Non le restava altra scelta. La prospettiva di immergersi in
quell'acqua scura non l'allettava per niente. Notò un gruppo
di
canne che spuntavano dall'acqua e, lavorando un bel po' con il
coltello che le avevano dato, riuscì a staccarne una non
molto
grande.
Prima
un piede poi l'altro, presto si ritrovò immersa fino alle
ginocchia.
I suoi piedi affondavano nel limaccioso fondale, e la sensazione non
era per niente piacevole. Man mano che si avvicinava al centro,
l'acqua diventava sempre più fredda. Arianrhod
rabbrividì: ormai
aveva il vestito quasi completamente zuppo, e realizzò che,
una
volta dall'altra parte, avrebbe dovuto accendere un fuoco per
asciugarsi, o c'era il rischio concreto che congelasse.
Qualcosa
le sfiorò le caviglie e Arianrhod sussultò,
rischiando di far
cadere il braciere in acqua. Riuscì a intravedere l'ombra di
un
animale dalla forma allungata che le girava intorno e un brivido di
disgusto l'attraverso. Ma strinse i denti e andò avanti,
cercando di
ignorare il freddo, il fango e le creature che popolavano il lago.
Ad
un certo punto il suo piede non toccò più il
fondo e lei comprese
che aveva raggiunto il limite massimo in cui poteva proseguire a
piedi. Doveva mettersi a nuotare, ma dovendo reggere la fiamma con
entrambe le mani rischiava di andare a fondo. Finalmente la canna che
aveva portato con sé fino a quel momento le sarebbe stata
utile. Vi
si aggrappò con un braccio, mantenendo le mani unite per
tenere il
braciere; e dandosi una leggera spinta, si mise a nuotare solo con
l'aiuto dei piedi. Non fu un compito facile, e quando finalmente
raggiunse l'altra riva era decisamente stanca. Ma almeno la fiamma
non era stata toccata dall'acqua che l'avrebbe spenta. Stava per
gettare via la canna, quando si rese conto che avrebbe ancora potuto
esserle utile. Scelse un posto dove accendere un fuocherello che
l'avrebbe in parte asciugata, e una volta che il fuoco prese bene si
dedicò a intagliare il bastone fino a renderne appuntita una
delle
due estremità.
Trascorse
diverso tempo prima che si fosse asciugata abbastanza da poter
continuare la marcia. Il territorio di Avalon in quel punto era
coperto di alberi e piuttosto cupo. Con il bastone sottobraccio e il
braciere tra le mani, una sempre più stanca e infreddolita
Arianrhod
proseguì a lungo, finché non fu troppo stremata e
dovette fermarsi.
Sapeva che avrebbe dovuto accendere di nuovo un fuoco per tenere
lontane le bestie, ma era troppo stanca per mettersi nuovamente a
raccogliere legna, e sperava che la fiamma del braciere sarebbe stata
sufficiente come deterrente per gli animali. Inoltre avrebbe riposato
solo qualche ora, giusto il tempo di recuperare un poco le forze. Con
questi pensieri che tentavano di sembrarle rassicuranti, Arianrhod si
rannicchiò su se stessa e si addormentò, con la
preziosa fiamma
accanto a sé.
Il
buio era ancora fitto quando venne improvvisamente svegliata da un
ringhio. Con un balzo fu in piedi, e si trovò faccia a
faccia con
due lupi che la fissavano minacciosi, pronti ad attaccare.
Angolo
Autrice: Ciao
a tutti! Scusate il ritardo con cui ho aggiornato, ma ho avuto
qualche problema in famiglia. Comunque niente di grave e ora sono di
nuovo qui. E' stato un capitolo non facile da
scrivere per me, e non sono sicura di esserne soddisfatta al 100%...
comunque ci ho messo tutta me stessa, e quindi spero che vi piaccia
:)
E
vorrei anche essere riuscita a riscattare un pochino il duca, che non
era mia intenzione rendere così antipatico nello scorso
capitolo.
Quindi spero di averlo reso un po' meglio qui, spiegando le sue
motivazioni. E' un uomo ambizioso certo, ma tiene anche ad Arianrhod.
Grazie
a tutti voi che continuate a seguirmi, siete fantastic*!
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Capitolo 15 *** Capitolo quindici ***
Il
primo pensiero che venne in mente ad Arianrhod, trovandosi davanti i
due lupi, fu di ucciderli per avere salva la vita; un puro istinto di
sopravvivenza si impadronì di lei. L'istinto che guida
l'animale
messo di fronte ad un pericolo. Sfilò il pugnale dalla
cintura e lo
strinse con dita convulse, mentre con l'altra mano brandiva la canna
dalla punta affilata in direzione dei due animali. Non aveva nessuna
intenzione di soccombere, di lasciarsi sopraffare. Rimase di fronte
ai lupi, i piedi ben piantati a terra, per diversi momenti. Sentiva
la pelle ghiacciata dalla paura, ed una goccia di sudore freddo
colarle lungo il viso. Tutto ciò che udiva erano i battiti
amplificati del suo cuore e il sangue che le martellava nelle
orecchie. La luna fece capolino da dietro le nubi proprio nell'attimo
in cui uno dei due animali si fece sotto. Arianrhod fu pronta a
tenerlo a distanza con la punta del bastone, che piantò nel
petto
del lupo. L'animale emise un guaito straziante. Non lo aveva colpito
con tanta forza da fargli seriamente del male, sarebbe stato
impossibile con un'arma tanto lunga. Ma non poteva fare altro: se
avesse dovuto affrontare un corpo a corpo con il pugnale avrebbe
quasi sicuramente avuto la peggio. Non era un'arma che poteva creare
tanto danno da impedire al lupo di affondarle le zanne nella gola.
Quel guaito di dolore la fece regredire dallo stato ferino di pura
sopravvivenza in cui era precipitata. Ebbe compassione del lupo: egli
era solo, come lo era lei, e cercava solo di sopravvivere, come stava
tentando disperatamente di fare lei. Cosa li rendeva poi
così
diversi?
Approfittando
della sua indecisione l'altro lupo, quello ancora illeso, fece per
balzarle addosso, ben deciso a non concederle spazio per un attacco
come aveva fatto il suo compagno. Proprio in quel momento un sibilo
letale squarciò l'aria e una freccia andò a
piantarsi nella coscia
del lupo.
Arianrhod
non perse tempo a porsi domande superflue, come chi fosse stato a
scagliarla o perché. Afferrò un manciata di rami
secchi che aveva
individuato a poca distanza da lei e ne accese un'estremità
servendosi della fiamma del Piccolo Popolo.
Se
io devo proteggerla, lei potrà anche proteggere me, pensò
con ironia.
Raccogliendo
tutto il suo coraggio si fece sotto e cominciò a scacciare
il primo
lupo, che già si stava preparando per un altro attacco,
dimentico
della lieve ferita al petto. Fece il gesto di attaccarlo con la sua
torcia improvvisata e l'animale, alla vista dell'odiato fuoco,
cominciò a indietreggiare. Sembrava combattuto tra l'impulso
di
fuggire e il desiderio di non abbandonare il suo compagno, rimasto a
terra con l'asta della freccia che gli spuntava dalla coscia. Infine,
con un ultimo ringhio impotente, si voltò e fuggì
di fronte alla
sua paura.
Arianrhod
si avvicinò al lupo ferito, troneggiando su di lui.
L'animale
respirava pesantemente, ma non osava muovere un muscolo. Tuttavia,
anche se ferito, poteva essere ancora pericoloso, poteva ancora
cercare di azzannarla se si fosse avvicinata troppo. Arianrhod si
accucciò accanto a lui, cercando di non compiere movimenti
bruschi.
Guardò negli occhi quel povero animale ferito, e i loro
sguardi
furono per un attimo un tutt'uno: occhi d'oro liquido ed occhi di
ghiaccio. Ma il lupo non fece il minimo movimento. Si limitò
ad
osservare quella strana ragazza ed i suoi gesti. Lei gli
passò una
mano sul bel pelo lucido, partendo dal fianco fino ad arrivare alla
coscia, dove si fermò per qualche secondo. Quando gli
strappò la
freccia dalla coscia cercò di farlo con un movimento rapido
e
brusco, che provocasse il minimo dolore possibile. Il guaito del
lupo, tuttavia, lacerò l'aria. Arianrhod fece alcuni passi
indietro,
rapida, con la freccia insanguinata ancora in mano. Come se
l'incantesimo che lo teneva legato a lei si fosse spezzato quando la
freccia era stata estratta, il lupo balzò in piedi, guaendo
di nuovo
quando istintivamente poggiò il peso del corpo sulla zampa
ferita.
Arianrhod
avrebbe voluto poter fare di più per lui. Spalmare quella
ferita con
un unguento di erbe la cui ricetta le aveva insegnato sua madre
Gwenael, fasciarla... ma se anche avesse pensato di avvicinarsi
nuovamente, il lupo la mise in guardia con un ringhio. Non sembrava
davvero intenzionato ad attaccarla di nuovo, neanche se la zampa
ferita glielo avesse consentito. Era più un avvertimento.
Ti
sono debitore, sembrava
dirle, ma
io e
te non possiamo essere che nemici. E proprio perché non
voglio farti
del male, non avvicinarti.
E
zoppicando vistosamente, si voltò e scappò via,
seguendo le tracce
del suo compagno che conducevano nel folto del bosco.
Arianrhod
rimase pensierosa per qualche secondo, poi gettò via
l'ingombrante
bastone che aveva portato con sé fino a quel momento e mise
la
freccia misteriosa alla cintola, accanto al pugnale. Ancora poche ore
e l'alba sarebbe sorta.
***
Viviana
osservava speranzosa la linea dell'orizzonte, che cominciava a
colorarsi con le sfumature rossastre del sole che sorgeva. Che
Arianrhod non ce l'avesse fatta? Scacciò immediatamente
quella
paura. Non era possibile. Mantenne la sua abituale compostezza e la
sua aura di maestosità, mentre attendeva con il fiato
sospeso,
circondata da Cynwrig, dal Piccolo Popolo, dai druidi, dalle
sacerdotesse e dai capi della Guardia Bianca. Anche senza guardarlo
riusciva a indovinare chi doveva avere l'animo più
angosciato tra i
presenti. Poteva anche darsi che Gareth riuscisse a nascondere i suoi
sentimenti a tutti, perfino ai suoi superiori, ma non avrebbe mai
potuto farlo con una come lei.
Ad
un tratto, a spezzare il silenzio carico di tensione, fu il grido
soffocato di una donna del Piccolo Popolo; al suo richiamo molte
altre voci si levarono, e mani cominciarono ad indicare con frenesia.
All'orizzonte cominciò a intravedersi una figura che si
avvicinava
lentamente, con passo affaticato. Arianrhod appariva stanca, provata,
pallida. Aveva graffi sulle braccia e sulle gambe, i capelli
arruffati. Ma stringeva ancora con grande dignità il
braciere tra le
mani, e una fiamma guizzante era chiaramente visibile, perfino alla
luce del sole.
Un
coro di acclamazioni festose si levò da tutti i presenti, in
particolar modo dal Piccolo Popolo, che festeggiava il suo nuovo
membro.
Arianrhod
continuò a camminare fino a fermarsi davanti a Cynwrig, che
non si
preoccupava di nascondere il proprio compiacimento. Con un gesto
solenne, ma con mani tremanti, gli porse il braciere. Cynwrig lo
prese, poi fece un gesto ai presenti per chiedere il silenzio.
“Arianrhod,
figlia di Jörundr,
della
stirpe degli Yngling, ora sei un membro del Piccolo Popolo. Ammiriamo
il tuo coraggio e la tua determinazione. Anche se la strada
è stata
impervia e costellata di avversità, il tuo cuore non ha mai
vacillato. Hai superato la prova che ti abbiamo imposto, e hai
dimostrato di poter usare la fiamma con saggezza ed intelligenza, non
solo per uccidere, ma per mostrare clemenza, portare aiuto, agire in
accordo con le leggi della nostra Madre Terra.”
Ariamrhod
rimase sconcertata. Quello che le era successo era stato forse
orchestrato? Quanto sapeva Cynwrig di quello che era accaduto? E
quanto era opera di Avalon e del Piccolo Popolo? Forse non lo avrebbe
mai saputo, ma era comunque probabile che la freccia che l'aveva
salvata fosse stata scoccata da uno dei loro cacciatori incaricati di
proteggerla da lontano.
Alcune
donne del Piccolo Popolo si avvicinarono a lei portando delle ciotole
di terracotta colme di tintura azzurra. Poi procedettero a dipingerle
il corpo con gli stessi simboli rituali usati dalla loro
tribù.
Quando
ebbero finito, Cynwrig proclamò: “Ora sei a tutti
gli effetti una
di noi, e noi qui giuriamo di unirci alla tua causa e di mostrarti
sempre lealtà e dedizione”. Attese che le
acclamazioni cessassero,
poi le mise al collo un medaglione di bronzo, decorato con un motivo
intrecciato in modo che fosse una linea continua, senza inizio e
senza fine. Non sembrava un oggetto del Piccolo Popolo, ed appariva
anche molto antico.
Come
leggendole nel pensiero, Cynwrig rispose ai suoi dubbi:
“Questo
medaglione fu regalato secoli fa al nostro popolo da una grande
sacerdotessa, in segno di alleanza e amicizia. Ora è giusto
che
venga portato da un membro del nostro popolo che sia anche una
regina.”
I
festeggiamenti furono brevi, ma festosi; Arianrhod ricevette le
congratulazioni di Viviana, di Taliesin, del duca e dei suoi
comandanti. E quando fu chiaro che non era quasi più in
grado di
reggersi sulle proprie gambe, Östen
si offrì di riaccompagnarla nel viaggio di ritorno verso
Avalon.
Gareth ancora si teneva a distanza.
***
Östen
non conosceva Arianrhod da molto, ma aveva imparato a comprendere
quando non era serena. E, seduta accanto a lui nella barca che
scivolava placida sulle acque silenziose, lei appariva apatica,
disinteressata a ciò che la circondava. Certo, poteva
trattarsi di
semplice stanchezza, ma il cavaliere percepiva che c'era dell'altro.
“Tutto
bene mia signora?” chiese infine cercando lo sguardo che lei
teneva
basso, fisso sulle tavole di legno dell'imbarcazione.
Arianrhod
alzò il capo repentinamente, come ricordandosi solo in
quell'attimo
di non essere sola.
“Sì
grazie, Östen,
sei gentile a
preoccuparti per me.”
Lui
non la bevve.
“Se
c'è qualcosa di cui volete parlare...”
“Non
ne sono sicura, sai?” disse lei con un sorriso stanco.
“E' tanto
che non parlo con un vero amico, e sono davvero felice di averti
conosciuto. Tutti gli amici che avevo sono perduti ormai...
appartengono a un mondo talmente lontano...”
Arianrhod
non pensava ad Enid, ad Owainn, a tutti coloro che aveva conosciuto e
amato, da settimane. Ma improvvisamente le tornarono alla mente, e
con loro tutto il carico di dolore e rimpianto che recavano.
“Voi
mi fate onore” rispose Östen, con un leggero
imbarazzo. “Ma oggi
dovreste essere felice. Il rituale è riuscito e abbiamo
ottenuto
l'alleanza del Piccolo Popolo. Questo dovrebbe essere un giorno
fausto.”
“E'
che non capisco perché Gareth mi eviti...” si
sfogò finalmente
Arianrhod. “Il duca è suo padre non è
vero?”
“Io
non posso...”
“Ti
prego, dimmelo! Non voglio essere costretta a ordinartelo.”
Östen
sospirò, sconfitto. “Come lo avete
capito?”
“Sono
identici! Mi stupisce che non se ne siano accorti tutti gli altri.
Cosa sono, ciechi forse?”
“Può
darsi che se ne siano accorti, o può darsi di no”
spiegò il
cavaliere. “Ma non è una parentela di cui Gareth
vada fiero.”
“E'
per questo che non mi ha detto niente?”
“Lui
ne soffre, capite? Si vergogna della sua nascita, e allo stesso tempo
si affligge perché vorrebbe che il padre lo considerasse
allo stesso
modo in cui considera i figli legittimi.”
“Davvero?
È per questo?”
“Gareth
vi è molto devoto, e a dire il vero non capisco nemmeno io
perché
all'improvviso abbia cominciato a starvi lontano...”
Ma
io sì, penso
Arianrhod con amarezza e una punta di rimorso. Forse non avrebbe
dovuto mettere Gareth alle strette con il proprio comportamento
sconsiderato.
“...
ma, vi prego, non siate troppo dura con lui.”
***
Il
luogo in cui Arianrhod preferiva rifugiarsi per sfuggire alla
pressante presenza di Domaldr era la collina del Tor. Amava
arrampicarsi su per il sentiero scosceso che conduceva fino in cima,
e sedersi con la schiena poggiata su uno dei grandi monoliti del
cerchio di pietre ad osservare dall'alto il lago e la bruma
all'orizzonte. Soprattutto quando, come ora, il sole cominciava a
tramontare in lontananza.
Era
trascorso un giorno da quando la prova a cui era stata sottoposta si
era conclusa, dopo la quale Arianrhod aveva dormito dieci ore filate
di un sonno di piombo.
Era
immersa nei suoi pensieri, rigirandosi un oggetto tra le mani, quando
un rumore di passi la fece voltare bruscamente. Possibile che Domaldr
l'avesse seguita fin lì? Forse che le parole con cui il
padre lo
aveva ammonito di lasciarla in pace non avessero sortito alcun
effetto?
Ma
con sollievo misto a sgomento lei si accorse che non era la figura di
Domaldr quella che le si stava avvicinando. Si trattava di Gareth.
Il
cavaliere si fermò a pochi passi da lei e attese. Arianrhod
non si
voltò a guardarlo. Disse solo: “Perché
mi hai evitato fino a
questo momento ed ora sei qui?”
“Non
ti ho evitata...”
“Sei
venuto meno alla promessa di proteggermi.”
“Mai!”
il tono di Gareth rasentava l'indignazione. “Questo mai! Ti
ho
sempre protetta, anche da lontano.”
Arianrhod
allora si alzò in piedi e lo fronteggiò.
“Stai parlando di
questa?” chiese gettandogli ai piedi la freccia che aveva
trafitto
il lupo nella foresta.
Gareth
deglutì. “Come lo hai capito?”
“Mi
sembrava di aver già visto questa freccia da qualche parte,
ma
all'inizio non riuscivo a ricordare. È per questo che l'ho
tenuta,
speravo che prima o poi mi sarebbe tornato in mente. Ed è
successo:
questa è una delle tue frecce. Osi negarlo?”
“Non
lo nego. Ho fatto quello che dovevo per proteggerti.”
“Hai
violato il rituale”, gli fece notare lei.
“Non
ha la minima importanza per me.”
“Perché
non mi hai detto che il duca è tuo padre?”
“Non
lo è.”
“Non
raccontarmi fandonie!” gridò Arianrhod, arrabbiata.
Gareth
sembrò perdere un po' del suo sangue freddo. Si
passò le mani sul
viso, a disagio.
“Cosa
vuoi che ti dica, Arianrhod? Non sono fiero di ciò che sono,
chiaro?” le rispose, frustrato ed arrabbiato a sua volta.
“Sono
solo un bastardo, ecco cosa sono!”
“Ma
questo non ha...”
“Importanza,
forse?” la interruppe lui, secco. “Oh, certo che ha
importanza.
Io non sono e non sarò mai abbastanza per te. Non vedi come
mio
fratello si pavoneggia convinto di poterti avere? Convinto di essere
già il prossimo re di Svezia? Cosa vuoi, dimmi?”
“Voglio
te!” gridò Arianrhod con gli occhi pieni di
lacrime, di rabbia e
di dolore.
Il
silenzio che seguì fu talmente carico di tensione da essere
quasi
insopportabile. Arianrhod poté vedere chiaramente la rabbia
abbandonare d'improvviso il corpo di Gareth. Le sue spalle tese si
rilassarono di colpo. Così le sue braccia, che scivolarono
inerti ai
suoi fianchi. I suoi lineamenti si addolcirono, e i suoi occhi si
riempirono di un sentimento nuovo.
Senza
aver lasciato presagire le sue intenzioni, si avvicinò a
lei, la
prese tra le braccia e la baciò con tutta la passione di cui
era
capace.
Nota
dell'Autrice: Ed
eccoci al momento fatidico! ù_ù Siamo ad una
sorta di svolta nel
rapporto tra Arianrhod e Gareth, aiutati anche un po' da Osten, il
loro “Galeotto” :)
Credo
già dal prossimo capitolo i nostri lasceranno Avalon per
imbarcarsi
nella grande impresa della riconquista del trono... e ci saranno
alcune sorprese. Bene, spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Ringrazio tutti voi che recensite/leggete/seguite.
Alla
prossima
Eilan
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Capitolo 16 *** Capitolo sedici ***
Quel
bacio li condusse ad altezze vertiginose di passione, li rese
incapaci di pensare, completamente schiavi del loro desiderio. Le
loro labbra si incontravano con crescente bisogno, quasi con
disperazione. Quello che stava accadendo tra loro non aveva nulla di
razionale, nulla che appartenesse alla terra sulla quale poggiavano i
pedi. No, Arianrhod e Gareth viaggiavano librandosi in aria, talmente
lontani dal mondo che avrebbe guardato la loro relazione con
perplessità da essere quasi invisibili ai suoi occhi.
Quando
Arianrhod, ancora persa nella frenesia dei baci di Gareth sul suo
collo, cominciò a spogliarlo il cavaliere tentò
di protestare.
“No…
non possiamo. Io ho giurato di proteggerti, non potrei
mai…”,
trovò la forza di dire, tra un bacio e l'altro.
Ma
Arianrhod gli poggiò un dito affusolato sulla bocca,
zittendo ogni
sua ulteriore protesta. Anche la misera barriera che Gareth aveva
cercato di frapporre, cadde inesorabilmente
Con
un piccolo sospiro, Arianrhod si staccò dalle sue labbra,
facendo un
passo indietro. Con un movimento armonioso abbassò la veste
sulle
spalle e la lasciò scivolare ai suoi piedi. A Gareth si
mozzò il
respiro in gola, mentre carezzava con lo sguardo le curve del corpo
di lei. Era veramente troppo per la sua resistenza già
ridotta allo
stremo.
Poi
Gareth scese a baciarla sul collo e sull’attaccatura del
seno,
piegandola all’indietro sul suo braccio. C’era in
lui una fretta
di rivendicarla sua, di lasciare errare le sue labbra a piacimento
sulla bianca pelle di lei. In quel momento non esistevano differenze
di rango, non c’erano né regine né
cavalieri… c’erano solo
Gareth, l’uomo, e Arianrhod, la donna. Lui si
chinò e la sollevò
nelle braccia, e i suoi occhi grigi incontrarono quelli di Arianrhod
con un’intensità che le mozzò il
respiro. La giovane fu vagamente
consapevole del tremito che vibrava nelle salde braccia muscolose di
lui, del suo movimento in direzione del cerchio di pietre, dove
l’adagiò con delicatezza sul mantello che aveva
lasciato cadere a
terra. Erano in un mondo remoto, incuranti
dell’oscurità della
sera che aveva invaso la collina del Tor, delle grandi pietre rituali
che gettavano la loro ombra su di loro, delle stelle luminose che
vegliavano dal cielo.
E
mentre la sera calava silenziosa e il buio oscurava ogni cosa, in
cima al Tor il fuoco che era stato acceso avrebbe potuto illuminare
l'intera volta celeste.
***
“Amore
mio…”, mormorò Gareth quando la
passione fu consumata,
affondando il viso nella massa arruffata e fragrante dei capelli di
Arianrhod e aspirandone il profumo. Lei gli sorrise, felice come non
lo era mai stata in vita sua, e gli passo le dita tra i corti capelli
castani, saggiandone la morbidezza. Poi gli guidò la testa
sul suo
seno, dove lui giacque, ascoltando il battito del suo cuore.
“Come
ti sei fatto questa?”, domandò improvvisamente
Arianrhod seguendo
il contorno della cicatrice che Gareth aveva sul petto.
“Un
paio d'anni fa... fui ferito di striscio durante uno
scontro”,
spiegò lui.
“Hai
combattuto molte battaglie?”
“Non
ancora. Abbiamo combattuto più volte contro le bande di
predoni e i
sicari di Ale, ma non ho mai partecipato ad una battaglia vera e
propria.”
“E
non sei spaventato all'idea?” Arianrhod appariva quasi
stupita.
Gareth
sorrise. “Come tutti, credo. Ma siamo addestrati per questo
fin da
quando siamo bambini, e ci insegnano che è inevitabile dover
uccidere e veder morire... o morire noi stessi.”
“Forse
è questo il mio problema. Non sono stata addestrata per
questo. Sai,
quando Viviana ha scrutato nel Pozzo Sacro per me, mi ha descritto le
battaglie che saranno combattute per consentire a me di tornare sul
trono. E tremo al pensiero che qualcun altro a cui tengo possa morire
per causa mia. Quante altre persone dovranno morire a causa
mia?”
“Per
te, non a causa tua. Per te, perché ti sono devoti,
Arianrhod”
disse Gareth carezzandole una guancia.
Arianrhod
si mise a sedere di scatto. “Ho paura che possa succederti
qualcosa, capisci?”, esclamò prendendosi la testa
tra le mani.
Gareth
l'abbracciò, intenerito. La tenne stretto e le
sussurrò in un
orecchio: “Non accadrà.”
“Anche
questa è una promessa?” sussurrò lei.
“Vorrei
tanto poterti dire che lo è”, rise Gareth.
“Ma stavolta dovrai
solo fidarti della mia sensazione.”
Arianrhod
gli sorrise in risposta, poi si rabbuiò di nuovo. Si strinse
le
ginocchia al petto, tremando leggermente per la sua nudità.
Gareth
l'avvolse premurosamente nel mantello, ma lei a malapena se ne
accorse, rapita dai suoi pensieri.
“Gareth,
io non sono sicura di voler essere regina. Di voler scatenare questa
guerra...”
“Se non
vuoi farlo per te stessa, fallo per tuo padre il re, per tua madre.
Fallo per i tuoi genitori adottivi, che non siano morti invano. E
fallo per il tuo popolo. In quanto al resto... non devi dubitare che
sarai un'ottima regina. Dopotutto sei figlia di tuo padre. Il suo
sangue scorre nelle tue vene e tu lo renderai fiero di te. Sarai la
più grande regina che la Svezia conoscerà
mai.”
Arianrhod
gli sorrise, grata e gli posò un altro bacio sulle labbra.
Gareth lo
ricambiò ignorando quella voce, dentro di lui, che gli
gridava che
quello che stava facendo era una pazzia.
***
Era
quasi l'alba quando Gareth aprì la porta del suo alloggio,
cercando
di non produrre il minimo cigolio, nemmeno il più piccolo
rumore.
Con un po' di fortuna, dentro stavano ancora tutti dormendo.
Superò
gli apprendisti druidi addormentati in punta di piedi. Anche Östen,
la cui sagoma intravedeva nel buio, sembrava profondamente
addormentato. Con un sospiro di sollievo giunse al suo giaciglio,
proprio a fianco di quello dell'amico, e finalmente si
sdraiò, le
braccia dietro la testa e lo sguardo incollato al soffitto. Non aveva
sonno; l'eccitazione di quella notte lo teneva ancora sveglio e
vigile. Si sentiva felice, assolutamente sconsiderato e con il cuore
leggero. Sapeva che non avrebbe dovuto fare quello che aveva fatto,
ma il solo pensiero di Arianrhod nuda tra le sue braccia gli
accendeva il sangue. Anche se non avesse mai potuto esserci niente
tra di loro, almeno aveva avuto quel momento. Poi si passò
la mano
tra i capelli, nervosamente. Che idiota che era! Se
anche non avesse potuto esserci? Non sarebbe mai
potuto
esserci niente tra loro, ed era un povero illuso solo per aver usato
la formula dubitativa. Niente, né ora né mai.
Cercò di
imprimerselo nella mente, anche se poi la sua mente tornava
invariabilmente alla notte appena trascorsa, a loro due in cima al
Tor.
Probabilmente
lei avrebbe finito per sposare suo fratello, o il figlio di un
sovrano straniero, ed entrambi avrebbero preteso di governare in suo
nome. E così l'indipendenza che re Jörundr
aveva desiderato per sua figlia sarebbe svanita. E se avesse scelto
di non sposarsi per mantenere il suo potere esclusivamente per
sé?
Non era poi così strano, la regina Boudicca* lo aveva fatto
quando
suo marito era stato ucciso dai romani. Ed anche Viviana e tutte le
altre Somme Sacerdotesse seguivano questa consuetudine, e governavano
da sole.
“Dove
sei stato tutta la notte?”
Quella
voce familiare non era altro che un bisbiglio, ma fece ugualmente
trasalire Gareth. Il cuore gli balzò nel petto per la
sorpresa, come
solo a un uomo con la coscienza sporca come si sentiva lui poteva
capitare.
Nel
giaciglio accanto al suo, Östen
si era messo a sedere, e lo scrutava accigliato.
Gareth
si mise a sedere a sua volta, fronteggiandolo.
“Da
quanto sei sveglio?”
“Abbastanza
per vederti rientrare dopo un'intera notte passata fuori”
dichiarò
l'amico pacatamente.
“Io...
non avevo sonno. Ho passeggiato.”
“Davvero?
Tutta la notte? Deve essere stata una passeggiata davvero lunga. Hai
avuto il tempo di doppiare tutta l'isola”,
commentò Östen
divertito.
“Ti
prendi gioco di me?”
“Certo,
come tu di me.”
“Che
vuoi dire?”
“Gareth
non puoi ingannare me, ti conosco da una vita. Lo capisco se menti.
”
“Come?”
“Quando
sei nervoso ti passi la mano fra i capelli. Lo hai fatto anche
adesso.”
Gareth
appoggiò i gomiti sulle ginocchia e nascose il viso tra le
mani.
Improvvisamente si vergognò di se stesso, di quello che
aveva fatto,
di come aveva approfittato di Arianrhod, della sua ingenuità
e
innocenza.
Non
riuscì a pronunciare una parola, ma il suo silenzio fu
rivelatore
per Östen.
“Cosa
hai fatto?” disse in un sussurro. “La
regina?”
Gareth
si guardò intorno per assicurarsi che nessuno dei druidi si
fosse
svegliato, ma la stanza era ancora immersa nella penombra e tutti
dormivano.
“Non
ne sono fiero, va bene?” replicò con la
disperazione nella voce.
Östen
mantenne il silenzio per qualche minuto, elaborando i propri
pensieri. Gareth invece rimase a testa bassa. Non osava nemmeno
guardare l'amico negli occhi.
Poi
sentì un tocco gentile sul braccio, e quando alzò
lo sguardo Östen
aveva un'espressione comprensiva, con sua immensa sorpresa. Non che
Östen
non fosse comprensivo, anzi lo era fin troppo. Era l'uomo
più buono
che Gareth avesse mai conosciuto. Solo, non si sentiva degno di
essere guardato con comprensione, e comunque non se lo aspettava.
“La
ami, non è vero?”
La
domanda raggelò Gareth, ma si costrinse a rispondere.
“Che
gli dei mi aiutino... sì.”
Östen
sospirò. “Sai che non potrà mai essere
vero?”
“Lo
so, è stato uno sbaglio.”
“Vuoi
dire che avete...”
“Sì”,
Gareth ammise con riluttanza.
“Allora
non ci resta che sperare che nessuno lo scopra mai.”
***
E
così il momento era infine giunto. Fra poche ore avrebbe
lasciato
Avalon, il luogo che nelle ultime settimane aveva imparato a chiamare
casa. Ma sapeva che era inevitabile. Aveva parlato a lungo con il
duca Fjölnir.
Le aveva spiegato che la partenza non poteva più essere
rimandata.
Avrebbero dovuto approfittare della bella stagione, perché
sarebbe
stato impossibile salpare verso la Svezia se fosse sopraggiunto
l'inverno. Se avessero indugiato troppo avrebbero dovuto rimandare la
partenza fino al disgelo dell'anno successivo.
Arianrhod
aveva chiesto un ultimo favore a Viviana: che, prima della sua
partenza, potesse far realizzare per lei una cotta di maglia leggera,
che non avrebbe faticato a portare nonostante la sua corporatura.
Viviana aveva esaudito la sua richiesta, e i fabbri di Avalon avevano
lavorato intensamente per due giorni per costruirla. Ed ora la teneva
tra le mani, rimirandone l'incredibile leggerezza. Dentro di
sé era
ferma su questo punto: non si sarebbe presentata ai suoi uomini con
sontuosi abiti femminili, né si sarebbe ritirata dalla
battaglia se
ci sarebbe stato bisogno di combattere.
Ma,
per il momento, ripose la cotta di maglia nel suo baule da viaggio,
insieme al medaglione e al coltello donatole dal Piccolo Popolo, agli
abiti che il duca aveva portato con lei e a Bron, che posò
in cima a
tutto con un sospiro.
Fjölnir
si affacciò sulla soglia proprio in quel momento,
accompagnato dal
figlio Domaldr, a cui fece però cenno di aspettarlo fuori.
“Siete
pronta?”
“Sì,
credo proprio di sì...” rispose Arianrhod
gettandosi una rapida
occhiata intorno.
“Allora
ho un'ultima cosa da darvi.” E così dicendo
sfilò una spada che
portava al fianco e gliela consegnò con
solennità.
Arianrhod
la impugnò, a bocca aperta: era la spada più
bella che avesse mai
visto. Era di una finezza, di una maestria impareggiabili. Nonostante
suo padre adottivo fosse stato il fabbro più abile della
provincia
di Eburacum, quella spada non poteva essere paragonata al
più bello
dei suoi lavori. La lama era leggera, resistente e ottimamente
bilanciata. Sull’impugnatura stava avvinghiato un drago
d’oro
lavorato nei minimi dettagli, che aveva due rubini al posto degli
occhi. Altre gemme erano incastonate nell’elsa e nella parte
inferiore della spada.
“E’…
è bellissima”, mormorò Arianrhod
ammirata.
Fjölnir
sorrise. “Fu fatta costruire dal nonno di vostro nonno Yngvi,
e da
allora è sempre appartenuta alla vostra stirpe. E’
l’unico pezzo
del tesoro che mi sono permesso di portare via dal castello di
Uppsala quando lasciai la Svezia, dopo aver dato l’estremo
saluto a
vostro padre. Ora vi appartiene, è vostra di diritto.
Branditela in
battaglia e la vittoria sarà vostra. Re Jörundr
sarebbe stato molto
fiero della sua unica figlia…”
Arianrhod
non riuscì a trattenere una piccola lacrima, che le
scivolò lungo
la guancia.
“Grazie…”,
mormorò, mettendo la spada nel fodero che aveva al fianco.
“E
detto tra noi, Duca Fjölnir, anche voi dovreste essere molto
fiero
di vostro figlio Gareth.” E uscì, lasciando il
Duca a riflettere
sulle sue parole.
*Regina
degli Iceni, vissuta all'incirca tra 30 e il 60 d.C., che
guidò la
più grande rivolta britanna contro gli invasori romani.
Documentata
abbondantemente da fonti romane, nel medioevo venne
pressoché
dimenticata, forse per il suo scomodo ruolo di donna indipendente e
libera. Fu riscoperta e celebrata in epoca vittoriana come eroina
dell'indipendenza del Regno Unito.
Angolo
Autrice: Ciao
a tutti! La partenza è rinviata, anche se di pochissimo...
diciamo
solo fino all'inizio del prossimo capitolo, in cui ci saranno i
solenni addii. Il perno di questo capitolo è ovviamente la
scena hot
tra i nostri due... e niente, probabilmente ve lo aspettavate ^^
Comunque spero che il capitolo vi sia piaciuto e ringrazio tutti
quanti! :*
Alla
prossima
Eilan
|
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Capitolo 17 *** Capitolo diciassette ***
“Mi
mancherai, Viviana”, mormorò Arianrhod prendendo
le mani della sua
amica, appena prima di salire sulla barca che l’avrebbe
portata via
dall’Isola Sacra. “E mi mancherà Avalon.
Tu non puoi immaginare
quanto sia stata felice qui…”
“E
lo sarai ancora”, rispose Viviana baciandola sulle guance.
“Lo
hai visto nel Pozzo Sacro?”
“Non
ho bisogno di scrutare nel pozzo sacro per conoscere ciò che
già
so…”
“Cosa
intendi dire?”, chiese la giovane regina con sguardo
interrogativo.
“Nulla,
non preoccuparti. Le mie sono solo le intuizioni di una donna
saggia... e con saggia intendo non più giovane
ovviamente.”
Arianrhod
sorrise.
“Posso
dirti questo però: la felicità a volte
è a portata di mano. Non
lasciartela sfuggire.”
A
quelle parole Arianrhod arrossì. Sotto lo sguardo intenso di
Viviana
le sembrava di non avere segreti. Era sicura che lei sapesse di lei e
Gareth. Quanto sapesse non poteva dirlo con certezza... e Arianrhod
si augurò che non sapesse proprio tutto.
“Addio,
mia cara bambina” la salutò l'Arcidruido Taliesin.
“Addio
a voi, Arcidruido. Non so come ringraziarvi per avermi accolta ad
Avalon.”
Viviana
rimase ad osservare Arianrhod salire sulla barca, a fianco ai suoi
generali e cavalieri. Si era affezionata a poche persone nella sua
vita – complice anche il suo ruolo che a volte la costringeva
a
prendere decisioni difficili anche per le persone che amava; ma
quella ragazza aveva qualcosa di speciale, e le dispiacque vederla
andare via. In altre circostanze sarebbe stata un'ottima
sacerdotessa.
Poi
la barca sparì nella nebbia e fu così che
Arianrhod lasciò Avalon,
il luogo che le sarebbe rimasto per sempre nel cuore.
***
Il
cammino che intrapresero li avrebbe condotti a Dubris*, dove la loro
piccola flotta li stava aspettando e dove si sarebbero imbarcati alla
volta della Svezia. Avrebbero navigato verso nord, fino ad
attraversare lo stretto di Skagerrak, che divideva la Danimarca dalla
Norvegia e dalla Svezia. O almeno così aveva dedotto
Arianrhod
studiando la cartina fornitale dal generale Vanlande, la sera al lume
di una candela. Scoprì invece con suo grande disappunto che
nessuno
aveva ritenuto utile informarla che la loro prima tappa non era
affatto la Svezia, come lei aveva supposto.
Aveva
dovuto apprenderlo per caso da Gareth e Östen,
mentre tutti e tre cavalcavano vicini a metà della colonna
di uomini
in marcia.
“Credevo
che il duca ti avesse informato”, disse Östen,
sinceramente dispiaciuto. “Dopotutto è
più che normale cercare
l'alleanza della Danimarca per la riconquista del trono: il re
è
vostro zio!”
Arianrhod
lo fissò per qualche attimo, indecisa se infuriarsi o meno.
“Un'altra cosa di cui ero all'oscuro...”
commentò infine, a
labbra strette.
Gareth
notò la sua frustrazione e accostò il cavallo al
suo. Col rischio
concreto di essere notato, le toccò il braccio in segno di
comprensione, guadagnandosi un'occhiataccia da parte di Östen.
Ma Arianrhod gli sorrise, grata per il gesto d'affetto, così
Gareth
decise di ignorare l'indubbia manifestazione di buonsenso dell'amico.
Se lei era felice, non c'era altro che gli importasse.
“E'
così” spiegò in tono gentile.
“Il re Frode è il fratello di
tua madre.”
“Sarà
bello conoscere qualcuno della famiglia, in ogni caso”
commentò
Arianrhod. “Credete che mi concederà il suo
appoggio?”
“Speriamo
proprio di sì” rispose Gareth.
Un
rumore di zoccoli al trotto attirò la loro attenzione. Dalla
testa
della colonna, molto più avanti, stava arrivando Domaldr, in
sella
al suo bel cavallo nero.
“Mia
signora” chiamò frenando il cavallo proprio
davanti a lei, e
lanciando un'occhiata di sufficienza a Gareth e Östen.
“Mio padre chiede se volete raggiungerlo in testa
all'esercito. Ha
qualcosa da comunicarvi.”
“Vostro
padre pensa che io debba correre non appena schiocca le dita, ma non
si degna neppure di comunicarmi che siamo diretti in
Danimarca?”
chiese Arianrhod, gelida.
Domaldr
sembrò preso in contropiede, e rimase a boccheggiare in
cerca di una
risposta, senza trovarla.
“Perché
non informate il duca che la regina preferirebbe che fosse lui a
unirsi a noi?” suggerì Östen
non senza una certa soddisfazione personale.
Domaldr
gli lanciò un'occhiataccia. “Certamente”
replicò con perfetta
cortesia, ma a denti stretti. “Ogni desiderio della nostra
regina è
un ordine... purché venga effettivamente da lei.”
Arianrhod
fece un cenno affermativo, dopo il quale Domaldr non poté
esimersi
dall'eseguire l'ordine, allontanandosi di nuovo in tutta fretta verso
la testa del corteo.
Arainrhod
lo seguì con lo sguardo, valutando l'estensione del proprio
esercito. Erano certamente molti uomini, tutti con indosso lo stemma
del drago. Ma erano sufficienti per realizzare quell'impresa? Anche
con le sue scarse conoscenze militari Arianrhod intuiva di no.
Neppure il consistente drappello di guerrieri del Piccolo Popolo, che
marciava in coda all'esercito, era di proporzioni tali da ribaltare
le sorti di una battaglia.
I
suoi alleati sembravano voler restare separati dalla Guardia Bianca,
ed erano stranamente silenziosi. Da parte sua, la Guardia Bianca
sembrava guardare con diffidenza quegli uomini così diversi
da loro,
così selvaggi nell'aspetto. Si vedeva che non se ne fidavano
completamente. In effetti l'unica persona ai cui ordini il Piccolo
Popolo avrebbe obbedito era Arianrhod, l'unica che fosse a tutti gli
effetti una di loro. Era una grossa responsabilità,
pensò lei
toccando il medaglione che portava al collo, e sperò di
essere
capace di far sì che i due contingenti giungessero a fidarsi
l'uno
dell'altro, con il tempo.
I
suoi pensieri gravosi furono interrotti dall'arrivo del duca Fjölnir.
Arianrhod
si accorse che era sinceramente stupito della sua chiamata. Non
riteneva strano che lei non fosse stata informata della loro
destinazione.
E
all'improvviso lei comprese. Non la prendevano sul serio, ed il
motivo era evidente: era una donna, e per di più una donna
giovane.
Se voleva essere considerata seriamente era lei che doveva dimostrare
le sue capacità. Lamentarsi sarebbe stato inutile, agire
molto più
sensato.
Perciò
non si scompose e, sotto lo sguardo ammirato di Gareth, chiese al
duca di organizzare un incontro fra i comandanti per fare il punto
della situazione.
“Ma
certo, nei prossimi giorni sarà sicuramente
possibile...”
“Stasera”
lo interruppe Arianrhod, decisa. “Non appena avremo allestito
le
tende.”
Il
duca la guardò stupito, ma non poté far altro che
acconsentire.
“Un'altra
cosa, duca” lo chiamò Arianrhod, mentre stava per
andarsene.
“Anche i due cavalieri qui presenti parteciperanno.”
Gareth
e Östen
si lanciarono uno
sguardo sbalordito.
“Sono
i migliori amici che ho al mondo.”
E
con questo aveva messo le cose in chiaro.
***
La
luce delle torce rischiarava la tenda sotto la quale si erano riuniti
i capi della Guardia Bianca, il capo del contingente del Piccolo
Popolo, Morcant, e naturalmente, Arianrhod, che teneva decisamente in
mano le redini della situazione.
Al
centro della tenda, sopra il tavolo, una mappa era spiegata e
già
coperta di piccoli segnalini di legno grezzo che servivano ad
evidenziare il percorso da fare, e il numero e la posizione delle
truppe.
Arianrhod
era appoggiata con le mani sul tavolo e fissava il generale Walbur
che le snocciolava una serie di cifre riguardo gli uomini che avevano
a disposizione, e su quelli che avrebbero forse avuto in futuro.
Alla
destra del tavolo erano allineati tre sgabelli, sui quali erano
seduti in silenzio Domaldr, Gareth e Östen.
“Il
punto è: quanti uomini ad oggi Ale ha più di
noi?” lo interruppe
Arianrhod, senza tema di apparire maleducata.
Walbur
lanciò un rapido sguardo al duca e al generale Vanlande, ma
loro
rimasero criptici.
“Ma
vi ho spiegato che la nostra situazione corrente non è
definitiva
e...”
“Per
favore generale, lasciamo da parte i se e i ma. È il caso di
essere
diretti, non credete? Allora, quanti uomini più dei
nostri?”
Walbur
sbuffò prima di decidersi a rispondere. Appariva contrariato.
“Ale
dispone di un esercito regolare di circa sessantamila uomini. La
Guardia Bianca ne conta diecimila. Il contingente del Piccolo Popolo
altri tremila...”
“Dunque
lui ci supera di quasi cinquantamila uomini?”
“E'
così”, intervenne il duca con riluttanza.
“Non
è molto confortante…”,
osservò Arianrhod.
“Contiamo
sul fatto che una parte dell’esercito regolare svedese
abbandoni
Ale passando dalla nostra parte”, disse Fjölnir.
“La nostra rete
di spie vi sta lavorando da anni. Il vostro esercito è
fedele alla
Stirpe del Drago… ha solo bisogno di un legittimo sovrano
sotto il
quale riunirsi, e combatterà dalla vostra parte.”
“Poi
ci sono i ribelli, mia signora”, s'intromise il generale
Vanlande.
“Gli svedesi che combattono l'usurpatore da anni e che non
aspettano altro che il vostro ritorno.”
“E
questi ribelli sono soldati?” chiese Arianrhod.
Acuta
osservazione, pensò
Gareth sentendosi fiero della sua Arianrhod.
“No,
purtroppo. Si tratta di gente comune: fabbri, sarti, contadini e
qualche membro della piccola nobiltà. Persone che hanno
scelto di
abbandonare tutto per combattere. Vivono in clandestinità e
Ale
tenta di stanarli da sempre.”
“E
come mai non ci è ancora riuscito?”
“Perché
si sono dati alla macchia, e nessuno conosce l'esatta ubicazione del
loro covo.”
“Chi
sarebbe il loro capo?”
“Un
uomo di nome Hogne, un membro della nobiltà terriera a cui
Ale ha
confiscato le terre.”
“Credete
che i ribelli si uniranno a noi senza problemi? E in tal caso quanti
uomini in più avremmo?”
“Sicuramente”
disse Walbur. “Sul fatto che si uniranno al nostro esercito
non ci
sono dubbi, non aspettano altro. Non sappiamo con precisione il loro
numero, ma stimiamo che siano intorno ai diecimila.”
“Così
arriveremmo a poco più di ventimila...”
“Vedrete
che vostro zio accetterà di aiutarvi” intervenne
Domaldr alzandosi
baldanzosamente e avvicinandosi al tavolo. “Dopotutto siete
l'unica
figlia di sua sorella, non potrà rimanere indifferente al
legame di
sangue.”
“Ti
ringrazio Domaldr, ma credo che il re ragioni più per
convenienza
che per sentimentalismi. Se avremo qualcosa da offrirgli in cambio
è
probabile che prenderà in considerazione la nostra
offerta... non è
vero, duca?”
“Ne
sono convinto”, disse Fjölnir
guardando il figlio con aria sconsolata, mentre questi andava di
nuovo a sedersi, imbronciato. “Siete molto acuta, mia
signora.”
“Bene,
abbiamo fatto un primo punto della situazione. Avremo modo di farne
altri prima del nostro arrivo in Danimarca, per cui consiglierei di
metterci in viaggio alle prime luci dell'alba. È
tutto.”
Quando
Arianrhod uscì, con passo deciso, tre paia d'occhi la
seguirono
ammirati. Poi Fjölnir,
Vanlande e Walbur si guardarono e compresero che un unico pensiero
attraversava loro la mente in quel momento. Quella che avevano
considerato solo una ragazzina inesperta e manovrabile, peccando di
superficialità, era fatta della stessa pasta di suo padre e
di suo
nonno. Era una vera Yngling e non era da sottovalutare.
***
Gareth
e Östen
se ne stavano un po' in disparte rispetto ai loro compagni, non
troppo lontani però perché il fuoco non li
scaldasse. Parlavano di
quello che era successo quella sera, ed erano entrambi fieri di come
Arianrhod avesse preso la situazione in mano.
“Non
so te” stava dicendo Östen,
“ma io penso che abbia fatto ciò che era
necessario per mettere in
chiaro che è lei a comandare. È la prima volta
che i generali e il
duca vengono zittiti da una donna e non credo gli abbia fatto troppo
piacere.”
Gareth
rise. “No, credo proprio di no. Ma vedrai che la prossima
volta che
mediteranno di prendere decisioni per lei ci penseranno due volte.
Hai visto la faccia di Domaldr quando Arianrhod lo ha rimesso al suo
posto? Sembrava fosse stato costretto a inghiottire del
fiele...”
Come
se fosse stato chiamato proprio in quel momento dal buio emerse la
voce di Domaldr, e il ragazzo sbucò alle spalle di Gareth e Östen
come un infido serpente.
“Gareth!”
esclamò con affettata cordialità, dandogli una pacca
sulle spalle.
Quest'ultimo
lo guardò gelido. “Cosa vuoi?” chiese
senza preamboli.
Domaldr
continuava a ostentare un sorriso più falso di un sasso
spacciato
per una pietra preziosa.
“Ti
dispiace se parlo un momento da solo con mio fratello?”
chiese,
rivolgendosi a Östen.
Chiaramente non gli faceva piacere il modo in cui questi spalleggiava
Gareth.
Östen
esitò, ma Gareth gli fece un cenno d'assenso e il ragazzo si
allontanò con riluttanza.
“Te
lo ripeto: cosa vuoi?” chiese di nuovo Gareth quando lui e
Domaldr
furono soli.
“Ehi,
quanto fuoco! È questo il modo di trattare il tuo unico
fratello?”
Gareth
non rispose. Avrebbe potuto commentare che Domaldr tirava fuori la
loro parentela solo quando gli faceva comodo, ma sarebbe stato fiato
sprecato.
“Bene,
allora andrò dritto al punto” continuò
Domaldr. “Ho notato come
guardi la regina.”
“Di
cosa stai parlando?”
“Non
sono cieco, Gareth. Ma non so come tu faccia a non renderti conto che
lei non è per te.”
“E
sarebbe per te, invece?” sibilò Gareth, furioso.
“Forse”
disse il fratello con noncuranza. “Perché no? Hai
notato che sarei
un buon partito per lei? Tu cosa potresti offrirle?”
Gareth
tacque. Sapeva che Domaldr aveva ragione su questo punto.
“In
ogni caso, anche se non fossi io a sposarla, sarà qualcun
altro di
pari rango. Non certo tu.”
“Se
non mi temi perché sei venuto a dirmi questo?”
“Solo
perché tu non ti faccia illusioni o ti renda ridicolo,
fratello,
tutto qui. Non hai possibilità con lei”, disse
voltandogli le
spalle e scomparendo nel buio.
Gareth
era incerto se arrabbiarsi o mettersi a ridere.
Se
tu solo sapessi.
*L'attuale
Dover
Nota
dell'Autrice: Ciao
a tutti! In questo capitolo ho avuto un grande dilemma: ero indecisa
sul ruolo che ha il duca, tant'è che ho pensato anche di
riscriverlo
completamente perché so che probabilmente
continuerà a non piacere
molto come personaggio, e non era davvero nelle mie intenzioni.
Però
ho deciso di lasciarlo così, prima di tutto
perché la sua
complessità e le sue zone d'ombra sono qualcosa che mi
intriga; e
poi perché mi sembrava molto più realistico e
consono all'epoca che
stiamo trattando il mostrare come Arianrhod venga sottovalutata a
causa del suo sesso. La ragazza dovrà lottare per farsi
valere,
perfino da coloro che sono dalla sua parte!
Una
piccola curiosità: lo zio di Arianrhod, il re di Danimarca
Frode, è
colui da cui Tolkien – ebbene sì!^^ - ha preso il
nome per il suo
protagonista Frodo.
E
niente, spero che il capitolo vi piaccia e vi mando un grande
abbraccio!
Eilan
|
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Capitolo 18 *** Capitolo diciotto ***
Arianrhod
pensò che non c'era niente di più bello che
svegliarsi dolcemente
cullata dal rollio delle onde, avvolta dal tepore delle braccia di
Gareth. Assaporò quella sensazione di meraviglioso calore
tenendo
gli occhi chiusi, nonostante il sonno l'avesse ormai quasi
completamente abbandonata. Ma voleva mantenerla il più
possibile,
rimandare il momento in cui avrebbe dovuto inevitabilmente varcare
quel sottile confine tra il sonno e la veglia; il momento in cui il
mondo esterno, con i suoi guai, avrebbe bussato alla sua porta per
ricordarle che era ancora lì, presente nonostante tutto,
nonostante
lei facesse di tutto per non pensare a lui.
Gareth
si mosse nel sonno, stringendola di più a lui e Arianrhod
sorrise.
Era così dolce e così bello mentre dormiva, che
le dispiacque
immensamente doverlo scuotere per svegliarlo. Ma l'alba era ormai
vicina, e se voleva avere una possibilità di sgattaiolare
via dalla
sua cabina senza essere visto doveva approfittarne adesso.
“Gareth...”
lo chiamò, posandogli un lieve bacio all'angolo della bocca.
La
sua risposta fu un mugolio di protesta.
“Gareth”
insistette Arianrhod, “è quasi l'alba. Devi
svegliarti.”
“Obbedisco,
mia regina” fu l'ironica risposta di lui, al che lei rise
spingendolo dolcemente via.
Gareth
si sedette sul bordo della cuccetta, infilandosi controvoglia le
braghe.
Arianrhod
lo osservava sdraiata su un fianco, puntellandosi sul gomito. Erano
salpati da Dubris tre giorni prima e la nave maestra, seguita dalle
altre navi della flotta, procedeva a ritmo lento, beccheggiando in
balia delle onde. All'inizio Arianrhod e Gareth avevano tentato di
tenersi lontani l'uno dall'altra, ma dopo due giorni Arianrhod si era
resa conto di non poter più resistere senza Gareth. Sapeva
anche che
se non fosse stata lei a prendere l'iniziativa, lui non avrebbe
più
osato nemmeno sfiorarla. Probabilmente mostrava saggezza agendo
così;
Arianrhod non era così ingenua da non rendersene conto. Ma,
semplicemente, non poteva più stare senza di lui, senza
averlo
fisicamente vicino. Presto sarebbero arrivati in Danimarca e,
circondati da un'intera corte, non avrebbero probabilmente
più
potuto stare insieme.
Gareth
aveva tentato di mostrarsi fermo quando lei lo aveva baciato, in un
chiaro invito.
“Non
dovremmo”, aveva detto. “Quello che ho fatto
l'ultima volta è
stato un tradimento, lo sai vero?”
“Dimentichi
che la regina sono io. Non lascerei mai che ti facessero del
male.”
“Non
è per quello”, aveva replicato lui. “Non
mi importa delle
conseguenze quando tu sei tra le mie braccia. Non mi interessa quello
che potrebbe capitarmi, dovessero anche gettarmi ai pesci. Quello che
mi lacera davvero è che sento di tradire te, di
approfittarmi di
te...”
“Ti
prego, io ho bisogno di te...” aveva detto lei con sguardo
implorante, stringendosi a lui. E Gareth non era stato più
in grado
di dirle di no.
Mentre
continuava a darle le spalle, intento a vestirsi, Arianrhod si
tirò
su e gli circondò il collo con le braccia da dietro. I suoi
riccioli
solleticavano la pelle di Gareth, che sorrise e le carezzò
il
braccio con il quale lo stringeva.
“Vorrei
che non dovessi andare...”, sussurrò lei.
Gareth
sospirò. “Anch'io lo vorrei tanto, amore mio. Ma
siamo già stati
sufficientemente incoscienti negli ultimi due giorni. Non è
il caso
di sfidare la sorte.”
***
Quel
giorno il vento cambiò, cominciando a soffiare nella giusta
direzione. La navigazione, che fino a quel momento era proceduta con
fatica, prese il giusto ritmo. Arianrhod aveva imparato ad amare
l'aria di mare, la salsedine, gli spruzzi delle onde che a volte
potevano raggiungere perfino il parapetto della nave. Aveva presto
superato il normale fastidio che la navigazione con il mare mosso
provocava a chi non era avvezzo a viaggiare per nave.
Quel
giorno, mentre si trovava a prua con Östen,
sperimentò anche quanto poteva essere intenso e sfiancante
il vento
in mare. Deplorò di non aver pensato a legare i capelli,
perché
ora, con suo sommo fastidio, le sbattevano continuamente sul viso e
le turbinavano tutto intorno come una girandola impazzita. Ad
Östen
veniva da sorridere ogni volta che lei imprecava contro quella
scomodità. Allora Arianrhod sorrideva a sua volta e
dimenticava ogni
acredine. Non si poteva negarlo: Östen possedeva la rara
capacità
di infondere positività negli altri. Arianrhod era
fermamente
convinta che non sarebbe mai stata capace di discutere con lui, o
provare rabbia nei suoi confronti. Era praticamente impossibile. Con
Gareth era accaduto, e sarebbe accaduto ancora. Avevano entrambi un
carattere forte, e c'era tensione tra loro: era normale che a volte
litigassero. Östen invece riusciva sempre a metterla di
buonumore e,
con il suo modo di parlare in modo diretto, ma allo stesso tempo
gentile, faceva apparire semplice anche l'ostacolo apparentemente
più
insormontabile.
“Dovrei
proprio decidermi a fare qualcosa con questi capelli!”
esclamò
Arianrhod, rimettendoli a posto per l'ennesima volta.
“Sarebbe
un peccato”, replicò Östen.
“Perché?
Era mia madre a volere che li portassi lunghi. Io non li ho mai
potuti soffrire.”
Il
cavaliere alzò le spalle. “Allora devi fare
ciò che ritieni
meglio per te, non credi?”
Arianrhod
non replicò e rimase in silenzio. Stava seduta sul parapetto
della
nave, saldamente aggrappata ad una delle sartìe.
Già dal primo
giorno aveva abbandonato la lussuosa tunica per un abbigliamento
più
pratico: braghe maschili e stivali. Non le importava di cosa gli
uomini potessero pensare. Non avrebbero comunque contestato la sua
decisione, e in ogni caso quello non era tempo e luogo per
leziosità
femminili, o stoffe pregiate ornate di ricami.
La
nave continuava a fendere le acque a gran velocità, e il
marinaio
addetto al timone le aveva detto che se avessero proceduto di quel
passo, con il vento a favore, avrebbero visto le coste della
Danimarca per il giorno seguente.
“E'
merito tuo se suo padre si è finalmente accorto di
lui” commentò
Östen, appoggiato al parapetto accanto a lei.
“Di
che parli?”, chiese Arianrhod alzando interrogativamente un
sopracciglio.
Östen
fece un cenno con il capo in direzione del ponte che stava alle loro
spalle, dove passeggiavano Gareth e il duca, immersi in una fitta
conversazione.
Arianrhod
non poté fare a meno di sorridere, felice a quella vista.
Aveva
notato anche lei che, negli ultimi giorni, Fjölnir aveva
cominciato
a cercare Gareth, a volerlo accanto a sé al pari di Domaldr.
Ma non
aveva osato sperare di aver davvero contribuito a un tale
cambiamento.
“Buon
segno, non è vero?” disse a Östen.
“Voglio dire, che lo tratti
così...”
“Grazie
a te”, ribadì lui. “Cosa hai detto al
duca per riuscirci? Devi
avergli dato una bella strigliata.”
“Non
ho fatto niente. Credo solo che in cuor suo il duca avesse cominciato
a rendersi conto già da tempo di che razza di asino si
ritrova come
figlio legittimo. È naturale quindi che veda nel suo altro
figlio
tutte quelle qualità che vorrebbe tanto nel primo. Io mi
sono
limitata a dargli un piccolo consiglio.”
“Qualunque
cosa sia, il duca comincia a rendersi conto del valore di Gareth.
Credo che d'ora in poi ignorerà le pretese di sua
moglie.”
“Quali
pretese?”
“La
duchessa non è stata felice di scoprire del figlio
illegittimo del
marito. Ha sopportato che lui lo riconoscesse e provvedesse a lui, ma
non avrebbe tollerato di vederlo crescere in seno alla propria
famiglia. Anche per questo il duca lo ha sempre tenuto a
distanza.”
“Non
posso dire di non capirla, almeno in parte. Deve essere stato
doloroso per lei...” mormorò Arianrhod pensierosa,
lo sguardo
perso su Gareth e suo padre, che parlavano appoggiati al parapetto
della nave. Immaginò come potesse essere dover dividere
Gareth con
un'altra donna, venire a conoscenza di un suo tradimento e doverne
avere anche il frutto sotto gli occhi, giorno dopo giorno.
Il
pensiero le provocò un tale turbamento che
preferì cambiare
argomento.
“Sai
Östen ho pensato che è davvero imperdonabile da
parte mia, ma non
ti ho mai chiesto del tuo passato. Come sei diventato un membro della
Guardia Bianca?”
“Sei
sicura di volerlo sapere?” disse lui con un sorriso.
“Lo capisco
se la mia signora non è realmente interessata alla vita di
un suo
umile servitore.”
“Sciocco!”
rise Arianrhod, dandogli un colpetto sul braccio. “Certo che
sono
interessata. Anzi, è tanto tempo che volevo chiedertelo, e
mi
vergogno di averlo fatto solo ora.”
“Come
vuoi, ma sappi che la mia storia non è certo avvincente come
la tua,
perciò poi non lamentarti che non ti avevo
avvertita.”
“Sei
uno dei pochi veri amici che ho incontrato da quando tutto questo
è
accaduto, Östen.
E non sai
quanto questo abbia significato per me. Mi hai aiutata e mi sei stato
vicino anche quando Gareth si era allontanato da me. Te ne
sarò per
sempre grata e ti ascolterei anche se fossi muto.”
“E'
stato un'onore poterti essere vicino, mia signora. Ho combattuto per
te da quando sono entrato nella Guardia Bianca, ma non avrei mai
sperato che colei per la quale resistevamo fosse una persona tanto
degna della nostra lealtà.”
“Vuoi
vedermi arrossire?” chiese Arianrhod, felice ma anche
imbarazzata
dalle sue parole.
Östen
sorrise, poi ridivenne serio.
“Per
rispondere alla tua domanda, sono entrato nell'ordine sette anni fa,
ero molto giovane, appena diciassettenne. Mio padre era un piccolo
proprietario terriero del sud della Svezia, ma non era abbastanza
importante da avere una qualche protezione contro le mire
dell'usurpatore. Allora non era Ale a governare, ma Halfdan. Halfdan
mise gli occhi sulle terre di mio padre e per riuscire a portargliele
via lo fece falsamente accusare di tradimento. Lo fece giustiziare e
confiscò le sue terre.”
“E'
spaventoso”, mormorò Arianrhod scioccata,
rendendosi conto forse
per la prima volta della gravità della situazione in Svezia.
Non era
più solo qualcosa che riguardava la sua famiglia, la sua
sfera
personale. Riguardava il suo popolo.
“Lo
so”, assentì Östen,
“ma
mio padre non fu certo l'unico; moltissimi piccoli nobili o
proprietari terrieri fecero questa fine. È una pratica
comune ormai
in Svezia; gli usurpatori tentano di accentrare il potere nelle
proprie mani o di sostituire persone scomode con altre di loro
fiducia. Per questo molti si sono dati alla macchia, formando un
esercito di ribelli.”
“Tu
come reagisti alla morte di tuo padre?”
“Io,
mia madre e le mie sorelle eravamo pazzi di dolore. Se avessi potuto
avrei ucciso Halfdan con le mie mani, a costo di venire scorticato
vivo. Ma dovevo pensare anche alla mia famiglia, che ora dipendeva da
me. Non avevamo nemmeno più i mezzi per sopravvivere, e se
fossi
stato da solo mi sarei probabilmente unito all'esercito di ribelli.
Invece fu la Guardia Bianca ad offrirmi rifugio, ad offrirmi un modo
per occuparmi di mia madre e delle mie sorelle, facendo allo stesso
tempo ciò che il mio cuore mi gridava fosse giusto:
rovesciare
l'usurpatore e riportare sul trono la legittima erede. Dopo che ti ho
conosciuta credo con tutte le mie forze in questa battaglia.”
Arianrhod
era rimasta a bocca aperta, un nodo le serrava la gola.
“Mi
dispiace”, disse con voce strozzata. “Mi dispiace
per tutto
quello che hai passato. Per quello che è accaduto a tuo
padre.”
“Tu
hai sopportato ben di peggio”, replicò Östen.
“E in ogni caso abbiamo speranza di cambiare le cose,
no?”
“Lotterò
fino alla morte perché questo avvenga”.
Lo
sguardo di Arianrhod era duro e determinato quando lo disse, e Östen
comprese che lo intendeva veramente.
Angolo
Autrice: Ciao
a tutti! Anche se di passaggio spero che questo capitolo vi sia
piaciuto. Volevo raccontare qualcosa di più sul passato di Östen,
perché è diventato un personaggio molto amato da
voi lettori.
Grazie alla sua testimonianza, e ai pezzi che piano piano Arianrhod
ha messo insieme lungo il suo cammino, la risolutezza della nostra
regina nel volersi riprendere il trono cresce. Anche il duca e Gareth
fanno passi avanti... e niente ci vediamo in Danimarca al prossimo
capitolo! ;)
Grazie
a tutti voi che seguite/recensite/leggete!
Eilan
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Capitolo 19 *** Capitolo diciannove ***
Arianrhod
si sentiva completamente fuori posto alla corte danese, come il
proverbiale pesce costretto a vivere fuori dall'acqua. Il viaggio dal
porto di Odense, e attraverso le vie della città, scortata
dalla sua
guardia personale, aveva arrecato un certo turbamento in Arianrhod.
Forse per l'ambiente sconosciuto nel quale avrebbe dovuto inserirsi,
forse per l'imminente incontro con l'unico membro della sua famiglia
che avesse mai conosciuto, onestamente non avrebbe saputo dirlo.
Odense, la capitale danese, era una grande città portuale,
abituata
a ricevere persone e navi provenienti da fuori. Nessuno
perciò aveva
fatto troppo caso alla piccola flotta che aveva attraccato quella
mattina presto nel porto. Le strade della città, anche man
mano che
si avvicinavo verso il suo centro, erano semi deserte. Non c'era
niente di strano, considerata l'ora tanto mattiniera, ma ad Arianrhod
trasmisero un irreale senso di gelo e di inospitalità,
soprattutto
perché tutti gli edifici e le strette strade acciottolate
erano
avvolti in una fitta bruma. Mentre cavalcava alla testa del corteo,
il duca Fjölnir
accanto a
lei le raccontò ciò che sapeva di suo zio Frode.
Le disse che
regnava da molto tempo, circa vent'anni, e che aveva quattro figli
maschi: il maggiore si chiamava Halfdan, come il precedente
usurpatore di Svezia, ed era erede al trono. Poi c'erano Arnvid e
Øybjorn,
ed il minore Hrolf,
un giovane di poco più di vent'anni. Il regno di Danimarca
era un
regno piccolo, ma molto prospero grazie soprattutto al commercio. La
sua posizione strategica di regno peninsulare favoriva i traffichi
commerciali con gli altri paesi.
Al
castello di Odense Arianrhod e la sua scorta furono ricevuti con
tutti gli onori. Furono informati che il re era momentaneamente
assente dalla corte, ma che avrebbe fatto ritorno l'indomani con i
suoi figli. Ad Arianrhod venne assegnata un'ancella personale e fu la
ragazza a mostrarle la camera dove avrebbe alloggiato. Quando
varcò
la porta la giovane regina sgranò gli occhi di fronte a
tutto quel
lusso. Un letto a baldacchino in legno, circondato da drappi di
stoffa di un rosso scuro, troneggiava nell'angolo, ricolmo di
così
tanti cuscini che Arianrhod si chiese a cosa servissero visto che lei
aveva solo una testa sul collo. Un grande camino, ancora spento,
decorava la parete opposta. C'era perfino un piccolo tavolino da
toeletta. Nell'insieme la stanza non era molto grande per i parametri
di una grande casa nobiliare, ma lo sembrava ad Arianrhod, la cui
stanza alla fattoria dei suoi genitori non arrivava ad essere la
metà
di quella.
“Se
permettete, mia signora, vi farei portare subito un bagno caldo e
delle vesti pulite”, interloquì l'ancella, rimasta
sulla porta in
attesa che Arianrhod le desse ordini “O se desiderate
altrimenti,
chiedetemi pure...”
Arianrhod
si voltò, quasi sorpresa: si era completamente dimenticata
della
presenza della ragazza, tanto era stata presa nell'ammirare quei
lussi così nuovi per lei.
“Sì,
certo, il bagno va benissimo... grazie.”
La
ragazza sorrise, poi chiamò un servitore perché
portasse tutto il
necessario e poi uscì lei stessa. Arianrhod si sedette
tentativamente sul letto, con cautela, come fosse qualcosa di
pericolo. Era morbidissimo, niente a che vedere con la scomoda
cuccetta che aveva avuto a disposizione durante il viaggio da Dubris.
Si
sdraiò, completamente conquistata da quella nuvola di
morbidezza,
quando l'ancella rientrò nella stanza portando qualche
ciocco di
legno, e lei si rimise a sedere di scatto.
“Vi
accendo il camino, mia signora”, spiegò la ragazza
con un sorriso,
notando che Arianrhod si limitava a fissarla senza chiedere nulla.
“Naturalmente”,
rispose lei.
“Ecco
fatto”, disse l'ancella dopo poco, sbattendo le mani per
spolverarle, soddisfatta. Le fiamme nel camino ora guizzavano
allegramente. “Farò portare altra legna dai
servitori, intanto
godetevi il vostro bagno” aggiunse mentre tre servitori
entravano
con una grande tinozza e alcuni secchi di acqua calda.
“Più
tardi vi aiuterò a vestirvi e a pettinare i
capelli.”
La
serva uscì, e non appena la vasca fu pronta, Arianrhod si
immerse.
Vi restò molto tempo, con gli occhi chiusi, i gomiti
poggiati sulle
sponde di legno della tinozza e i polpastrelli che sfioravano
l'acqua. Poi si mise la veste che la serva aveva lasciato sul letto e
si avvicinò al fuoco, che aveva cominciato a smorzarsi.
Cominciò ad
aggiungere ciocchi e a rimestare con il ferro da caminetto, come le
aveva insegnato a fare suo padre Eachann.
In
quel momento si udì bussare alla porta.
“Mia
signora”, la chiamò l'ancella. “Avete
finito? Posso entrare?”
“Vieni
pure!”, rispose Arianrhod.
Quando
la ragazza entrò e la trovò china sul caminetto,
intenta a
rimestare tra le braci e a soffiare per ravvivarle, con le mani
sporche di fuliggine, lanciò quasi un grido di costernazione.
“Mia
signora, no!” esclamò tentando di toglierle il
ferro dalle mani.
“Vi prego, lasciate fare a me. Non è un lavoro per
voi questo!”
“Non
preoccuparti, faccio da sola”, insistette Arianrhod, cercando
di
rassicurare la ragazza che sembrava sul punto di andare in
iperventilazione. “Me la so cavare da sola. Non sono abituata
a che
qualcuno svolga le mansioni al posto mio.”
“Mia
signora, devo insistere!”
“No,
io...”
“Vi
conviene lasciar fare a Gerda. Con lei non la si spunta.”
Arianrhod
e la cameriera lasciarono la presa sul ferro all'unisono e si
voltarono, stupite. Sulla porta stava una ragazza dai capelli rossi e
dal sorriso gentile. Dopo aver osservato la scena per meno di un
secondo, si fece avanti e si prodigò in un solenne inchino
davanti
ad un'attonita Arianrhod.
“E'
un piacere fare la vostra conoscenza, regina di Svezia.”
“Ed
io la vostra. Qual'e il vostro nome?”, chiese Arianrhod,
sgrullandosi le mani dalla cenere e cercando di recuperare un po' di
dignità di fronte a quella bella ragazza così
solenne e amichevole.
“Io
sono Ragnhild Sigeherdottir, figlia del nobile Sigeher di Stormare, e
protetta del re.”
Non
c'erano dubbi che la ragazza fosse proprio ciò chi aveva
detto di
essere. Indossava un abito lussuoso bordato di pelliccia, e i suoi
capelli ramati erano raccolti sul capo in un acconciatura di trecce
davvero elaborata. Al collo portava una collana d'oro ed anche ai
polsi portava bracciali d'oro.
“Io...
è un piacere fare la vostra conoscenza. Perdonatemi se mi
presento
in questo stato.”
“State
benissimo, non dovete preoccuparvi. Non ho molto da fare qui al
castello: se gradite un po' di compagnia mentre Gerda si occupa dei
vostri capelli potrei restare qui con voi.”
Arianrhod
accolse la proposta con entusiasmo. “Mi farebbe molto
piacere.
Essere circondata costantemente da soldati e cavalieri per settimane
e settimane, senza neppure una compagnia femminile, può
essere
davvero alienante!”
“Vi
capisco, sapete” sorrise Ragnhild. “Quando ero a
casa mia, a
Stormare, avevo molte amiche e godevo di molta più
libertà. Ma da
quando abito a corte le giornate sono lunghe e monotone. Ho pochi
amici qui, e soprattutto pochissime amiche in cui posso davvero
riporre fiducia.”
Ad
un invito di Gerda Arianrhod si sedette accanto al camino, sulla
sedia che la serva aveva predisposto per lei. Ragnhild prese a sua
volta una sedia e le si sedette accanto. Gerda cominciò a
spazzolarle i capelli, sfruttando il calore del fuoco perché
li
asciugasse, mentre le due ragazze continuavano la loro conversazione.
“Come
mai vi siete trasferita a corte?” chiese Arianrhod.
“Un
anno e mezzo fa mio padre morì, lasciando le sue terre al
mio
fratellino Rolf, che ha solo sette anni. Allora il re assunse la
nostra tutela, e la tutela delle nostre terre, finché mio
fratello
non avrà compiuto la maggiore età.”
“Dove
si trovano le vostre terre?”
“Molto
più a sud di qui, al confine con la terra dei franchi.
È una terra
meravigliosa, sapete? Il sole splende come in nessun altro posto. O
almeno non come a Odense, dove piove sempre e il cielo è
sempre
tetro e grigio.”
La
nostalgia che trapelava dalla voce di Ragnhild era evidente, e
Arianrhod provò empatia nei suoi confronti.
“Vi
capisco molto bene, Ragnhild. Sono stata portata via dal mio paese
quando avevo solo quattro anni, e quando ormai credevo di essermi
abituata alla Britannia, sono stata portata via anche da
lì.”
Ragnhild
annuì. “Conosco un po' la vostra vicenda. Qui a
corte non si è
parlato d'altro da quando è trapelata la voce che re Frode
aveva
ricevuto una missiva dal duca di Silverdalen. Sapevamo che eravate
ancora viva da qualche parte, ma neppure vostro zio era a conoscenza
del luogo in cui eravate tenuta nascosta e, dopo tutti questi anni,
aveva rinunciato a chiederselo.”
“Lo
immagino.”
“Avete
già fatto colazione?” chiese Ragnhild,
improvvisamente memore di
quel particolare. E quando Arianrhod scosse la testa si rivolse a
Gerda, ancora intenta nel suo compito.
“Gerda,
ti dispiace far portare un po' di pane, carne, formaggio e birra per
la regina di Svezia?”
“Subito,
mia signora”, rispose la ragazza con una frettolosa
riverenza,
prima di uscire quasi di corsa.
Ragnhild
la guardò andare via. “E' una brava ragazza,
Gerda”, commentò.
“Sempre gentile e sollecita, sapete?”
“Me
ne sono accorta”, commentò Arianrhod.
“Forse anche un tantino
troppo sollecita.”
“So
che non siete abituata a grandi corti come questa... almeno non
più.
Ma sapete, qui si aspettano che i nobili non alzino un dito, e vi
consiglio di lasciare perdere le incombenze domestiche se non volete
dare scandalo.”
“Vi
ringrazio del consiglio, lo terrò a mente. Avete ragione:
non sono
più abituata a questo modo di vivere, ma immagino che
dovrò
impegnarmi perché mi venga di nuovo naturale. Se lo
aspetteranno,
soprattutto se riuscirò a riconquistare il mio
trono.”
“E'
proprio questo che si aspettano da voi”, confermò
Ragnhild,
posando compitamente le mani in grembo, sulla bella tunica ricamata.
Poi aggiunse, esitando: “Volete raccontarmi quello che vi
è
accaduto? Se non comporta per voi troppa sofferenza.”
“No...”,
rispose lei, abbassando il capo, e allontanando una ciocca di capelli
dal viso. “Anzi, credo che mi faccia bene parlarne con
qualcuno.”
Alla
calda luce del fuoco, Arianrhod raccontò per la prima volta
tutto
ciò che le era capitato da quando la sua famiglia adottiva
era stata
uccisa, fino a quel momento. Ovviamente omise di raccontarle di
Gareth, classificandolo semplicemente come un amico. Sapeva che non
avrebbe potuto fare altrimenti, ma una parte di lei si sentì
in
colpa. Gareth già le mancava, ed essere separata da lui,
anche se
per poco tempo, la faceva soffrire come non aveva mai creduto
possibile. Se ripensava a come aveva sempre proclamato il suo totale
disinteresse per il sesso maschile, prima di conoscere lui...
“Avete
affrontato davvero giorni terribili”, commentò
Ragnhild con
dolcezza e comprensione. “Dovete essere davvero molto forte e
determinata per affrontare tutto questo da sola.”
“Oh,
ma non sono affatto sola”, sorrise Arianrhod.
In
quel momento Gerda fece la sua ricomparsa, con un vassoio ricolmo di
cibo tra le mani. Arianrhod mangiò di gusto, e nel frattempo
i suoi
capelli finirono di asciugarsi. Gerda glieli acconciò, poi
Ragnhild
le propose di fare una passeggiata per mostrarle il castello.
Arianrhod
accettò con entusiasmo: era tutto ancora così
nuovo per lei, e la
curiosità di conoscere quel mondo di cui era appena entrata
a far
parte era molto forte.
***
Arianrhod
non aveva mai visto un castello così grande, una dimora di
tale
sfarzo. I suoi corridoi erano tortuosi e interminabili, illuminati da
un'infinità di candele accese, un lusso quello che davvero
in pochi
potevano permettersi. Le sale più importanti erano arredate
con
bellissimi arazzi, massicci tavoli di legno con sedie dallo schienale
intagliato, e i pavimenti erano cosparsi di paglia fresca. Nonostante
tutto, il castello scavato nelle nuda pietra – in alcuni
punti del
muro ancora visibile - appariva comunque piuttosto freddo e scuro.
“E'
bellissimo qui”, commentò Arianrhod, sinceramente
ammirata.
“La
Danimarca è un regno ricco nel suo piccolo. Anche i nostri
castelli
a Stormare sono altrettanto belli, anche se non così
grandi.”
“Sai
dove sono stati alloggiati i miei uomini?” chiese Arianrhod,
mentre
continuavano a passeggiare. Il pensiero di Gareth era sempre forte.
“Il
duca e gli altri comandanti hanno degli alloggi privati. I cavalieri
saranno alloggiati nell'ala della guardia del castello. Invece i tuoi
alleati, il Piccolo Popolo, non hanno voluto entrare nel castello.
Tutta la corte ne parla, sai? Hanno preferito accamparsi fuori
Odense.”
Arianrhod
alzò le spalle. “Non mi stupisce, ho imparato a
conoscerli. Ma
capisco che agli occhi della corte possano apparire
eccentrici.”
“Se
non altro le chiacchiere hanno rotto la mia monotonia per qualche
ora”, ridacchiò Ragnhild, aprendo una porticina di
legno che si
era stagliata di fronte a loro, alla fine di uno stretto corridoio.
Arianrhod
si ritrovò sui bastioni, nel punto più alto del
castello,
circondata solo dal cielo azzurro.
“Volevo
farvi ammirare la vista”, spiegò Ragnhild, facendo
un gesto con la
mano verso il vuoto che si stagliava oltre la merlatura.
Arianrhod
si affacciò, e l'intera città di Odense le si
parò davanti agli
occhi. Il reticolato di strade che le era apparso così
labirintico
mentre lo percorreva si mostrò in tutta la sua
semplicità,
punteggiato da innumerevoli edifici, grandi e piccoli. Il porto
lontano delimitava la distesa azzurra del mare. La bruma si era
alzata a metà giornata, e il sole splendeva alto nel cielo.
Le grida
dei gabbiani giungevano penetranti alle sue orecchie, sebbene fossero
lontani.
“Un
bellissimo spettacolo, grazie per avermelo mostrato.”
“E'
un po' il mio rifugio questo”, disse Ragnhild. “Ci
vengo quando
le mura di questo castello mi sembrano davvero troppo strette e mi
manca la mia casa.”
“Sembrate
molto giovane”, disse Arianrhod. “Quando sarete
libera dalla
tutela del re?”
“Ho
diciassette anni, ma resterò sotto la tutela del re
finché non avrò
preso marito, e non so se vostro zio abbia fretta di
trovarmelo.”
A
quelle parole seguì un lungo momento di silenzio
imbarazzato, finché
Arianrhod decise di spezzarlo.
“Raccontatemi
qualcosa di mio zio e dei miei cugini. So che sono quattro
fratelli...”
“Sì,
il più grande, Halfdan, è l'erede al trono. Poi
ci sono Arnvid e
Øybjorn,
che amministrano
delle terre più a sud e non vivono a corte già da
qualche anno.”
“E
il più piccolo?”
“Hrolf...
bé lui non si è visto ancora assegnare nessun
titolo. Ma dovete
capire che in Danimarca un re con così tanti figli va
incontro a più
guai che se non ne avesse affatto. Il regno è piccolo, e
quattro
figli maschi sono tanti.”
“Sono
curiosa di incontrarli di persona.”
“E
lo farete presto: domani saranno qui.”
Nota
dell'Autrice: Macciao
a tutti!^^ Innanzitutto voglio ringraziare ancora una volta tutti voi
che seguite con grande interesse la storia, leggendo e/o
recensendo... siete fantastici! In questo capitolo abbiamo conosciuto
il personaggio di Ragnhild, che avrà una sua importanza nei
prossimi
capitoli. Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto... nel
prossimo faremo la conoscenza della famiglia reale danese!
Alla
prossima
Eilan
|
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Capitolo 20 *** Capitolo venti ***
Quando
le grandi porte della sala del trono si chiusero dietro di lei,
Arianrhod intrecciò le mani all'altezza dello stomaco, prese
un gran
respiro e, un piede dietro l'altro, avanzò lentamente e
dignitosamente verso la pedana che sorreggeva il trono di legno con
intarsi in oro, sul quale era seduto suo zio, il re Frode di
Danimarca.
Simile
ad un fedele prolungamento del suo corpo, al suo fianco, ma appena un
passo dietro di lei, era schierata l'intera delegazione svedese in
pompa magna: il duca, i due comandanti, alcuni altri ufficiali
–
tra cui Domaldr – e, su richiesta della regina, Gareth e Östen.
Tutti indossavano fieramente il mantello con il simbolo del drago,
mentre Arianrhod, in occasione di quell'importante incontro, era
passata per le mani di Gerda, che aveva realizzato per lei
un'elaborata acconciatura mettendoci tutta la sua passione e
abilità.
Un abito lussuoso e alcuni gioielli appartenuti a sua madre che le
aveva consegnato il duca completavano la sua figura. Arianrhod era
rimasta rapita quando aveva visto quella collana d'oro a forma di
mezzaluna e doveva trattenersi per non portare continuamente la mano
al collo per toccarla. Ma il valore materiale di quell'oggetto,
seppure altissimo, non poteva eguagliare per lei il suo valore
sentimentale. Era appartenuto a sua madre; aveva ornato il suo collo
un tempo: tanto le bastava per desiderare di non doverlo mai
togliere.
Sebbene
normalmente detestasse le frivolezze, mentre attraversava la sala del
trono circondata da un silenzio solenne, Arianrhod era felice di
essere abbigliata in quel modo. Ed era infinitamente grata alla
paziente Gerda per averle dedicato tanto tempo e tanta cura, e non
solo perché era obbligata, ma perché l'ancella ci
teneva davvero
che lei facesse bella figura. Quell'aspetto, in quell'occasione, la
proteggeva più di quanto avrebbe potuto fare una corazza in
battaglia. Come uno scudo invisibile l'avvolgeva ammantandola di
regalità, donandole nuova forza e coraggio.
Il
re non attese che lei e i suoi compagni giungessero fin sotto la
pedana e si inchinassero formalmente. Scese dal trono e andò
loro
incontro in mezzo alla sala, tendendo le braccia alla nipote con
cordialità.
“Nipote
mia”, esclamò abbracciandola. “Non sai
che gioia sia poterti
finalmente conoscere di persona. Lasciati guardare... sì,
assomigli
tutta alla mia povera sorella. Mi sembra quasi di poterla riavere con
me.”
Arianrhod
non poté fare a meno di notare la sincera commozione negli
occhi
dello zio, e si rilassò. Era stata talmente tesa per
quell'incontro
che quasi non aveva chiuso occhio. S'immaginava suo zio come un uomo
austero, distante e terribile. E invece era solo un uomo di mezza
età
che, nonostante la corona e gli abiti sontuosi, sapeva ancora
mostrare la sua umanità.
“Sire”,
disse con un piccolo inchino. “Vi ringrazio infinitamente di
avermi
accolto alla vostra corte. E sono davvero felice di poter finalmente
conoscere una parte della mia famiglia.”
“Allora
immagino che sarai altrettanto felice di fare la conoscenza dei tuoi
cugini”, proclamò facendo cenno di farsi avanti a
due ragazzi che
erano in attesa dietro di lui. Uno di loro, decisamente il maggiore,
aveva un bell'aspetto ed era alto, con un'espressione fiera e sicura
sul viso.
“Questo
è il mio primogenito Halfdan, l'erede del mio
regno.”
Il
principe e Arianrhod si scambiarono un inchino. “E' un
piacere
conoscervi, cara cugina”, le disse sfoderando un'affascinante
sorriso.
“Naturalmente”,
aggiunse re Frode gioviale, “con il senno di poi deploro di
aver
scelto questo infausto nome per mio figlio. Ma all'epoca come potevo
sapere che quel figlio di buona donna di Halfdan avrebbe usurpato il
trono di mia nipote?”
Arianrhod
scambiò un'occhiata perplessa con i suoi comandanti, prima
di
schiarirsi la voce e rispondere.
“Non
ve ne avrei fatto certo una colpa, sire”, disse con un
sorriso.
“Non
usare titoli con me, nipote. Sono tuo zio, per Odino! E pretendo che
tu mi chiami come avrebbe voluto la tua povera madre.”
“Molto
bene.. zio.”
“Ed
ora lascia che ti presenti il mio figlio minore, Hrolf. E' poco più grande di te.”
Il
re tese il braccio verso il secondo giovane, un ragazzo molto
più
minuto del fratello, magrolino, quasi curvo nello sforzo di non
alzare mai lo sguardo dal pavimento. Arianrhod pensò che
passasse
quasi inosservato e che, se non fosse stato il figlio del re, gli
abitanti del castello a malapena lo avrebbero notato. Hrolf non
sembrava per niente a suo agio quando suo padre lo spinse avanti e
lui dovette presentarsi. Nonostante le stesse di fronte continuava
ostinatamente a non guardarla negli occhi.
Arianrhod
si sforzò di non lasciar trapelare i suoi pensieri e sorrise
al
giovane principe, che bofonchiò la formula di presentazione
in
maniera quasi intellegibile.
“Mi
era stato detto che avete anche altri due figli...” disse
Arianrhod, rivolgendosi di nuovo al re. Il giovane Hrolf apparve
visibilmente sollevato di non essere più il centro
dell'attenzione
dei presenti.
“E'
così,”, confermò Frode, “ma
gli altri miei due figli vivono nel
sud del paese e vengono a corte raramente ormai.”
Poi
Arianrhod procedette a presentare il duca e gli altri suoi
accompagnatori e il re spese qualche parola per ognuno, tranne che
per il duca con cui conversò più a lungo,
chiedendogli ragguagli
sulla strategia e le future mosse della Guardia Bianca.
“Sire”,
disse infine il duca quando il re fu pago di domande. “Sapete
che
la regina è qui per chiedere il vostro aiuto. Abbiamo
bisogno di
sostegno militare perché lei possa riavere il trono che le
spetta
e...”
“Vi
prego, duca”, lo interruppe Frode gentilmente, “non
è ancora il
momento di parlare di questioni militari. Prima di tutto dobbiamo
festeggiare il ritorno in famiglia della nipote che credevo perduta
per sempre. Stasera indirò un grande banchetto e sarete
tutti i miei
ospiti d'onore.”
Il
duca Fjölnir
trattenne una
replica. Avrebbe dovuto necessariamente rimandare la questione ad un
altro momento.
I
giorni si susseguirono senza avvenimenti degni di nota. Re Frode
continuava a comportarsi cerimoniosamente verso i suoi ospiti
svedesi, e cordialmente con la nipote, ma sembrava non voler ancora
prendere una decisione riguardo la possibilità di impegnarsi
militarmente ed economicamente per appoggiarla. Il duca e i
comandanti spingevano per accelerare la sua decisione, ma il re
faceva orecchie da mercante. Aveva bisogno del suo tempo per
ponderare, e il suo tempo si sarebbe concesso.
Dopo
il primo banchetto ne aveva organizzato un altro; quindi aveva
organizzato una caccia a cui avevano preso parte anche Arianrhod e
Ragnhild, insieme agli uomini. Passando a cavallo per i boschi i
cacciatori si erano imbattuti nel luogo dove erano accampati i
guerrieri del Piccolo Popolo, che avevano però mantenuto le
distanze
da loro, con grande smacco della corte.
Arianrhod
aveva spiegato allo zio che non lo facevano per scortesia, ma
perché
tendevano a non fidarsi di coloro che chiamavano “la gente
alta”.
Il re si era dimostrato incuriosito e le aveva fatto molte domande su
di loro, e su come lei avesse fatto a diventare membro di quel popolo
che tanto diffidava di quelli come loro. Arianrhod aveva risposto
pazientemente a tutti i suoi interrogativi, ma quando lo zio le aveva
chiesto in cosa consistesse il rituale lei aveva risposto che era un
Mistero e che le era proibito parlarne.
Ragnhild,
che aveva ascoltato la conversazione, aspettò che il re si
distanziasse e poi accostò il cavallo a quello di Arianrhod.
“Davvero
hai dovuto superare un rituale per guadagnarti la fiducia di quella
strana gente?”, chiese sbalordita.
“E'
così” sorrise Arianrhod, “ma come hai
sentito non mi è permesso
parlarne.”
“Oh
lo capisco, non preoccuparti”, la rassicurò la
ragazza. “E' solo
che t'invidio: deve essere così eccitante essere fautrici
del
proprio destino. Qualcosa che temo non mi capiterà
mai.”
“Non
c'è niente che ti piaccia di questa corte, di questa nuova
vita?”
Ragnhild
esitò. “No... quasi niente.” Aveva lo
sguardo perso in un punto
lontano quando lo disse, e l'aria trasognata.
Nonostante
quell'episodio avvenuto durante la caccia, in cui Arianrhod era stata
certa che Ragnhild le nascondesse qualcosa, le due ragazze erano
diventate amiche. Era stato quasi naturale per loro che accadesse, in
quelle lunghe giornate di solitudine a corte, chiuse in un mondo che
voleva uomini e donne non sposati quasi sempre separati. Come poteva
andare da Gareth, o lui da lei, senza che qualcuno se ne accorgesse,
senza destare sospetti? Gli unici momenti in cui riusciva a vederlo
era quando andava ad esercitarsi insieme ai suoi cavalieri in
cortile, alla presenza del maestro d'armi del castello; quando
smetteva i lunghi abiti femminili ed indossava le comode braghe e gli
stivali di cuoio. Esercitarsi alla spada era sempre appagante per
lei, ed anche constatare che le sue capacità erano immutate.
Ed era
divertente sfidare Gareth o Östen
ad un finto duello. Quando accadeva tutti i cavalieri facevano
cerchio intorno a loro e tifavano per lei, e non solo per dovere, ma
perché credevano veramente in lei. Arianrhod lo comprendeva
dal
calore con cui la sostenevano: i suoi uomini avevano cominciato ad
ammirarla, a vedere in lei qualcuno da seguire. Questo la rendeva
immensamente felice. Era questo che speravi per me, padre?
Spero
di renderti ancora orgoglioso di me, pensava
in quei momenti. E naturalmente non c'era nessuno che credesse in lei
più di Östen
e Gareth. Gareth che la guardava con infinita dolcezza mista ad
orgoglio e desiderio quando lei vinceva. E lei si sentiva sciogliere
come ghiaccio al sole sotto quello sguardo.
Spesso
ad assistere alle esercitazioni veniva anche Ragnhild accompagnata
dal fratellino Rolf e, una volta, addirittura i due principi Halfdan
e Hrolf.
Fu
proprio quella volta che, in un momento di pausa, mentre si passava
il dorso della mano sulla fronte per asciugare il sudore, nella luce
accecante del mezzogiorno ad Arianrhod cadde lo sguardo sulla sua
amica, completamente rapita ad osservare un uomo in particolare e
dimentica perfino di suo fratello che le tirava la veste. Arianrhod
seguì la direzione del suo sguardo ammaliato e si
trovò a fissare
un inconsapevole principe Halfdan, che si ergeva in tutta la sua
prestanza fisica accanto al minuto ed insignificante fratello.
Arianrhod rimase a bocca aperta. Dunque era quello che le nascondeva
Ragnhild? L'unica cosa che le piacesse della sua nuova vita a corte
era il principe Halfdan? Arianrhod non faticava a crederlo possibile.
Il principe era certamente un bell'uomo, l'erede di un regno... tutte
qualità che dovevano far presa su un'ingenua fanciulla. Che
ne fosse
innamorata?
Più
tardi mise l'amica con le spalle al muro e le chiese senza mezzi
termini se fosse vero che era innamorata di qualcuno.
Ragnhild
non negò. Era troppo candida per farlo.
“Ti
ho vista guardare il principe oggi in cortile: è lui l'uomo
che
ami?”
Ragnhild
abbassò lo sguardo, vergognosa. “Oh Arianrhod...
è così”
ammise infine, torcendosi le mani. “Ma ti prego non dirlo a
nessuno! Suo padre non lo sa, e dubito che approverebbe.”
“Non
lo dirò a nessuno, stai tranquilla. Lui ricambia?”
“Giura
di amarmi. Ed io lo amo talmente tanto! Ma lui è un principe
e tutto
ciò che posso offrirgli io è la dote che il re
riterrà opportuno
fissare per me. Non andrò mai bene per suo figlio.
Cercherà una
principessa, una donna di sangue reale per lui.”
Ragnhild
aveva le lacrime agli occhi e Arianrhod l'abbracciò per
consolarla.
“Ascoltami”,
le disse. “Io non so quanto potrò fare. In questo
momento dipendo
dalla generosità del re forse più di te. Ma sono
sua nipote, e se
avrò solo una possibilità di mettere una buona
parola per te stai
sicura che lo farò.”
“Grazie,
sei così generosa”, mormorò Ragnhild
asciugandosi una lacrima che
le era scivolata sulla guancia. “Ed io che ti ho nascosto del
principe... potrai perdonarmi?”
“Non
hai niente da farti perdonare. Anch'io ti ho nascosto
qualcosa...”
“Che
cosa?”
“A
volte è più complicato amare un uomo qualunque di
un principe”,
sospirò, prima di raccontare per la prima volta a qualcuno
di lei e
Gareth, qualcuno che, era sicura, non l'avrebbe giudicata.
***
Una
densa nebbia fumosa permeava il locale, situato nella zona portuale
di Odensa, affollato di avventori che bevevano birra, giocavano ai
dadi e si urlavano addosso. Gareth riusciva a malapena ad afferrare
ciò che gli diceva Östen in quella confusione
infernale. In quel
momento non ricordava di chi fosse stata l'idea di fare un giro in
città, ma già deplorava di aver seguito i suoi
compagni. Al gruppo
di dieci cavalieri si era unito anche Domaldr, oltre a lui e
Östen.
Per fortuna il fratellastro non sembrava in vena di litigare quella
sera, impegnato com'era a scolare un birra dopo l'altra. Gareth
invece aveva appena toccato il suo primo e unico boccale, che giaceva
mezzo vuoto e dimenticato sul tavolo di fronte a lui. Vi
passò
distrattamente il dito sul bordo, mentre ascoltava Östen
ripetergli
per l'ennesima volta che avrebbe fatto meglio a svagarsi. E in
effetti dopo i continui inviti dei suoi compagni Gareth
riuscì a
lasciarsi andare, bevendo e giocando a dadi con loro. A metà
serata
birra annacquata dell'oste e il calore della taverna satura di
persone erano riusciti a compiere un miracolo sul suo umore: per una
volta riuscì a non pensare ad Arianrhod e al tormento che
questo gli
procurava. Forse dopotutto non era stata una cattiva idea mettere
piede in quella taverna. I brindisi e le chiacchiere duravano
già da
un po' quando al loro gruppo si avvicinarono alcune prostitute in
cerca di clienti. Mettendo in mostra le generose scollature un paio
di loro abbordarono alcuni dei cavalieri, che si dimostrarono subito
interessati, rispondendo alle audaci attenzioni delle donne. Una
terza invece puntò Gareth, avvicinandosi a lui con fare
provocante e
cominciando ad accarezzargli il petto e il viso.
“E
tu, bello?” gli disse sbattendogli il seno in faccia.
“Non vuoi
venire con me?”
Gareth
l'allontanò da sé senza riguardi.
“No
grazie” rispose con un sorrisetto, sollevando il boccale
nella sua
direzione. “Mi dispiace, ma non sono interessato a quello che
hai
da offrirmi.”
“E
perché?” protestò la prostituta,
mettendo le mani sui fianchi.
“Che c'è, hai già una donna? Non
preoccuparti, non sono gelosa!”
Concluse con una risata sguaiata.
Si
fece di nuovo sotto e Gareth l'allontanò di nuovo da
sé. I compagni
osservavano divertiti la scena e uno di loro gli gridò:
“Ma allora
hai già una donna Gareth! E chi è?”
“Dai
diccelo, dicci chi è!” rincarò un
altro, ridendo dell'imbarazzo
del cavaliere.
I
compagni continuarono a stuzzicarlo finché una voce
improvvisa si
levò dal gruppo. Strusciando rumorosamente lo sgabello sul
pavimento, Domaldr si alzò, ormai ubriaco.
“Ma
certo che ce l'ha!”, gridò nella direzione del
fratello, con
ancora il boccale mezzo pieno in mano. Il giovane era malfermo sulle
proprie gambe e la birra continuava a traboccare da una parte e
dall'altra.
Tutti
i cavalieri si voltarono a guardarlo, interessati e divertiti.
Östen
invece lanciò uno sguardo preoccupato a Gareth.
“E
noi sappiamo chi è, non è vero?”,
rincarò Domaldr guardandosi
attorno.
Gareth
era sbiancato e aveva le labbra serrate.
Fece
un passo nella direzione del fratello. “Domaldr, sei ubriaco.
Straparli”, gli disse tentando di farlo sedere di nuovo, ma
lui
oppose resistenza.
“Lasciami!”
protestò, biascicando le parole. “So badare a me
stesso!”
“Tu
non sai quello che dici!”
“So
esattamente quello che dico!” gridò Domaldr
puntandogli contro un
dito.
Poi
si rivolse di nuovo al suo pubblico in attesa. “Parlo di lei,
cari
signori. Non avete capito di chi? Ma della regina,
naturalmente!”
Il
silenzio calò di botto sulle facce sbalordite di tutti i
cavalieri,
che fissavano invariabilmente i due fratelli.
Improvvisamente
Gareth prese il fratello, più basso di lui, per la
collottola,
sollevandolo fino a guardarlo negli occhi. Il suo sguardo mandava
scintille.
“Rimangiati
quello che hai detto”, gli disse in tono basso e minaccioso.
Domaldr
sogghignò, e disse in un sussurro, perché nessun
altro lo sentisse:
“Anche se noi due sappiamo che è la
verità?”
Gareth
sentì che se qualcuno non lo avesse fermato, sarebbe stato
capace di
picchiare il fratello. E come se lo avesse chiamato, sentì
le mani
di Östen sulle spalle.
“Mettilo
giù, Gareth”, gli disse l'amico con calma.
“Non ne vale la
pena.”
Gareth
trasse un respiro profondo, poi, lentamente, lasciò la presa
su
Domaldr, che crollò sullo sgabello come uno straccio.
Gareth
lanciò un ultimo sguardo distratto alle facce attonite dei
presenti,
poi spalancò la porta della taverna e uscì fuori
nell'umidità del
porto.
“Non
te la prendere!”, gli gridò dietro Östen
raggiungendolo in due
falcate. “Domaldr era ubriaco, se ne sono accorti tutti.
Nessuno
può averlo preso sul serio.”
“Può
darsi”, concesse Gareth, dopo un momento di silenzio.
“Ma chi può
dirlo?”
“Tuo
fratello è geloso di te, non lo capisci? Direbbe qualsiasi
cosa che
ti possa danneggiare.”
“Ma
aveva ragione lui. Questa volta ha detto solo la pura
verità.”
“E
allora che intendi fare?” chiese Östen esasperato.
“Non
lo so ancora. Ma devo trovare un modo per risolvere questa
situazione.”
Angolo
Autrice: Eccoci
qui! Come avete letto re Frode ancora tiene il piede in due scarpe e
temporeggia, ma presto prenderà una decisione. Le cose si
complicano
un po' per tutti, sentimentalmente parlando, e Domaldr si fa sempre
più geloso e fastidioso. Nel prossimo capitolo la situazione
di
stallo arriverà a una svolta... e niente, spero che il
capitolo vi
sia piaciuto!^^
Alla
prossima
Eilan
|
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Capitolo 21 *** Capitolo ventuno ***
Il
duca di Silverdalen era stato abituato dal suo ruolo a svolgere
missioni diplomatiche; a negoziare con nobili, re e uomini potenti.
Era riuscito a mediare molte situazioni in apparenza davvero
intricate. Ora che aveva raggiunto la mezza età, Fjölnir
amava considerarsi sufficientemente realizzato. Aveva rivestito un
ruolo importante in Svezia fino alla morte del suo caro amico
Jörundr,
potendosi
considerare il suo braccio destro senza paura di essere smentito. Il
potere era qualcosa che Fjölnir
teneva nella giusta considerazione, come avrebbe fatto qualsiasi uomo
nella sua posizione, ma non ne era ossessionato. La
lealtà e l'onore venivano prima della spasmodica ricerca del
potere,
ed era con questo spirito che poco tempo dopo aver aiutato Arianrhod
a lasciare la Svezia anche lui aveva preso la decisione di fare
altrettanto. Aveva votato la sua vita, e così quella di
Domaldr, a
riportare sul trono la legittima erede degli Yngling. Era fiero di
esserci riuscito senza mettere in pericolo il proprio potere: la sua
influenza nel nord del paese, dove si trovavano le sue vaste terre,
era rimasta intatta e i suoi possedimenti ben protetti dalla vendetta
dell'usurpatore di turno. Quando la vita a corte si era fatta troppo
pericolosa anche per il suo grande amico l'Arcidruido Sveigder era
stato Fjölnir
a tendergli
una mano e a offrirgli rifugio entro i confini delle proprie terre.
Ed era lì che ancora oggi l'anziano Arcidruido risiedeva, al
sicuro.
I
suoi territori erano amministrati e difesi con saggezza e
abilità da
sua moglie Torunn, la quale aspettava il ritorno del figlio e del
marito in esilio da ben tredici anni.
Domaldr
era un altro paio di maniche: Fjölnir
non sapeva cosa fare con lui. Si era reso conto lentamente, ma
inevitabilmente, che quel ragazzo non era degno di ereditare il
più
importante feudo svedese, né di avere tra le mani un tale
potere.
Era un inetto, uno sciocco. Il duca aveva cercato di non pensare per
anni al fatto che aveva un altro figlio, cedendo al desiderio della
moglie, che male aveva sopportato di scoprire l'esistenza del
ragazzo. Avrebbe potuto anche tollerare il suo tradimento, ma non di
venire umiliata agli occhi di tutti con la presenza di un figlio
illegittimo.
Ma,
ironia della sorte, era stato proprio Gareth a salvare la vita alla
regina e Fjölnir
non aveva
più potuto ignorarlo. Arianrhod stessa lo aveva rimproverato
di
venire meno ai suoi doveri di padre, cosa che lo aveva colpito
più
duramente di quanto lei si fosse resa conto. Soprattutto
perché
avrebbe tanto voluto che Domaldr somigliasse a Gareth. O che fosse
Gareth il suo erede. Ora che aveva ritrovato quel figlio dimenticato
il duca non aveva più intenzione di perderlo, a dispetto di
quali
sarebbero state le reazioni di sua moglie e di Domaldr.
In
ogni caso si riteneva molto migliore come capo della Guardia Bianca
che come padre.
L'unica
pecca nella sua strategia era stata la scoperta da parte di Ale del
luogo in cui si trovava Arianrhod, informazione che la Guardia
Bianca, sotto il suo comando, era riuscita a tenere nascosta per
quattordici anni. Una falla, se così si poteva definire, nei
piani
che aveva così attentamente ideato.
Anche
se se ne attribuiva la colpa e temeva che il traditore che aveva
reso possibile l'assassinio dei genitori adottivi della regina
potesse trovarsi proprio tra le sue fila, Fjölnir
confidava di poter gestire senza troppi problemi qualsiasi cosa re
Frode gli avrebbe proposto di lì a poco.
Il
re aveva voluto incontrarlo privatamente e il duca ebbe solo un
attimo di esitazione prima di bussare alla porta del suo studio
privato. Frode come al solito lo accolse con estrema
cordialità.
“Prego,
mio caro duca, entrate pure”, disse con il sorriso sulle
labbra.
“Accomodatevi”, aggiunse indicando la sedia di
fronte alla sua.
Alla
luce del caminetto acceso Frode se ne stava sprofondato nella sua
sedia, come se non avesse avuto apparentemente nulla di importante da
fare fino a quel momento. Indossava una folta pelliccia d'orso
drappeggiata sulle spalle e un cerchio di bronzo lavorato intorno
alla testa. Osservò il duca accogliere il suo invito ad
accomodarsi,
lisciandosi pensosamente la lunga barba bionda.
“Vi
parrà bizzarro che vi abbia fatto convocare in privato, ma
ritengo
che sia la cosa migliore. Potrete parlare con mia nipote della mia
proposta nei tempi e nei modi che riterrete più
opportuni.”
“Quale
proposta, sire?”
“Quella
che sto per illustrarvi. Non credo che la rifiuterete.”
***
Gareth
non si stupì di venire convocato da suo padre, nelle sue
stanze.
Ultimamente il duca aveva dimostrato di accorgersi della sua
presenza, e perfino di apprezzarlo. Quello che lo stupì fu
aprire la
porta e trovarsi nel mezzo di un incontro tra le più alte
cariche
della Guardia Bianca. Intorno ad un tavolo erano infatti riuniti il
duca, i comandanti Walbur e Vanlande, Domaldr e qualche altro
ufficiale.
“Vieni,
entra Gareth”, lo invitò Fjölnir
con un cenno del capo.
La
reazione di Domaldr non si fece attendere.
“Padre
perché lo hai invitato?”, protestò,
alzandosi in piedi.
“Per
discutere della proposta di re Frode, per quale altro motivo
altrimenti?” rispose il duca in tono pacato.
“Ma
lui non ha diritto di stare qui. Cosa ti importa della sua
opinione?”
Gareth
continuò a restare in silenzio, notando con disappunto che
il tono
di voce di Domaldr cresceva insieme alla sua rabbia.
“Taci,
figlio!”, disse il duca severamente. “Sono io a
decidere cosa è
meglio o non è meglio fare. E sono io a decidere chi deve
trovarsi
in questa sede e chi no.”
“Ma
è solo un bastardo!”, gridò Domaldr in
collera.
Ma
il duca non aveva vissuto metà della sua vita tra campi di
battaglia
e arene di politica per niente. Lanciò a Domaldr uno sguardo
che
avrebbe incendiato una fascina di legna, se ce ne fosse stata una nei
paraggi.
“Adesso
basta, Domaldr”, disse in tono chiaro, scandendo bene le
parole.
“Gareth è tuo fratello, non ti permetto di parlare
così di lui.”
Il
silenzio scese nella stanza, la tensione era talmente densa da
potersi tagliare con un coltello. Domaldr prese a respirare
affannosamente, nel tentativo di tenere a freno la rabbia. Stringeva
il bordo del tavolo tra le mani come se volesse polverizzarlo.
“Mi
rifiuto di stare nella stessa stanza con lui!”
Lanciò
uno sguardo prima a suo padre, poi a Gareth. Infine spinse indietro
la sedia e uscì dalla stanza, schiumando di rabbia. Non
mancò, nel
passare accanto al fratello, di dargli intenzionalmente una spallata.
Gareth
non reagì, si limitò a guardare Domaldr sbattersi
la porta alle
spalle. I suoi sentimenti erano molto confusi in quel momento:
imbarazzo, perché la loro difficile situazione familiare era
stata
così volgarmente messa in piazza; felicità,
perché suo padre lo
aveva difeso e lo aveva apertamente riconosciuto; ed infine senso di
colpa, perché non avrebbe voluto essere la causa di una
rottura tra
suo padre e suo fratello.
“Mi
dispiace che vi troviate in disaccordo per colpa mia, padre”,
disse
avvicinandosi al duca.
Questi
gli sorrise, mettendogli una mano sulla spalla.
“Non
ti preoccupare, figliolo. Vedrai che gli passerà
presto.”
Il
duca si accomodò, invitando i presenti a fare altrettanto.
“Stamattina
ho avuto un incontro con il re, che ha voluto parlarmi a
quattrocchi”, annunciò. “Frode ha
tentennato fin'ora, ma
finalmente ha deciso di mettere in piazza ciò che vuole;
ciò che
pretende in cambio del suo aiuto militare ed economico.”
“Cosa
ha chiesto la vecchia volpe?” domandò Walbur
incuriosito.
Il
duca sospirò. “Vuole la mano di Arianrhod per suo
figlio Hrolf.”
I
presenti si lanciarono occhiate sbalordite, troppo increduli per
essere i primi ad aprire bocca.
Gareth
invece ebbe la sensazione che qualcuno gli avesse dato un pugno nello
stomaco. Si sentiva senza fiato e un dolore sordo gli pulsava nelle
viscere.
“Vuole
il trono di Svezia per suo figlio...” commentò
infine Vanlande.
“Bella mossa da parte sua. Non lo pensavo così
scaltro.”
Fjölnir
annuì. “Ha chiesto il massimo che poteva ottenere.
Un po' d'oro,
che certo non gli manca, e un esercito in cambio di un trono. Non
male, perfino per lui.”
“Ma
perché Hrolf?”, chiese un altro ufficiale.
“Perché proprio quel
ragazzino tra tutti i figli che ha?”
“Perché
Halfdan erediterà il trono di Danimarca”,
spiegò il duca. “
Arnvid e Øybjorn
hanno già
i loro titoli nobiliari e i loro possedimenti. Ma la Danimarca
è un
regno troppo piccolo per trovare una degna sistemazione a quattro
figli maschi. Frode non ha titoli da dare a Hrolf e così
punta a
farlo espatriare. E non solo per un titolo, ma addirittura per un
trono.”
Gareth
non era ancora riuscito a pronunciare un suono. Si sentiva
pietrificato e, sebbene cercasse di ragionare lucidamente, il solo
pensiero che gli turbinava in testa era Arianrhod insieme a un altro
uomo. Per questo quando sentì pronunciare il suo nome venne
colto
completamente alla sprovvista e sussultò visibilmente.
“Cosa...?
Non vi ho sentito padre, scusate...”
Fjölnir
lo guardò interrogativamente prima di ripetere la sua
domanda.
“Ti
stavo chiedendo come pensi che Arianrhod potrebbe prendere una
proposta simile. So che siete molto amici...”
Gareth
sapeva che quel momento sarebbe giunto. Sapeva che Arianrhod non
avrebbe mai potuto essere sua, che avrebbe sposato un uomo
importante. Addirittura un re o un principe, aveva predetto. Ed ora
stava accadendo.
Diverse
paia d'occhi erano fisse su di lui e sapeva che non poteva
mostrare ciò che stava provando in quel momento. Dentro di
sé
urlava, si sentiva strappare l'anima a brandelli. Ma fuori
cercò di
apparire neutrale, indifferente, distaccato. Ma non per se stesso e
neppure per gli uomini che lo guardavano. Per Arianrhod e solo per
lei. Perché se desiderava il suo bene, doveva convincerla a
sposare
un uomo degno di lei, che avrebbe potuto aiutarla a riconquistare il
trono. Se non lo avesse fatto lei sarebbe rimasta per sempre una
principessa in esilio, senza un trono, senza sudditi; solo un'ospite
indesiderata in casa d'altri.
In
quel momento fu contento che Domaldr non fosse lì. Era
l'unico che
sapeva. L'unico che, nonostante la sua ottusità, avrebbe
potuto
smascherarlo.
“Direi
di essere cauti...”, cominciò Gareth, in un tono
che gli parve
sufficientemente neutro. “Lei sa essere molto testarda se
presa per
il verso sbagliato. Ha una grande volontà e
indipendenza...”
“Ce
ne siamo accorti”, intervenne Vanlande con un sogghigno. Ma
c'era
ammirazione nel suo tono, non fastidio.
“Mio
figlio ha ragione”, disse il duca, “la nostra
regina non prenderà
bene questa proposta... all'inizio. Ma noi dobbiamo cercare di farle
capire che è nel suo migliore interesse sposare
Hrolf.”
“Allora
perché non lasciamo che sia Gareth a parlare con lei per
convincerla?” propose Walbur. “Forse solo lui, o il
suo amico...
come si chiama?”
“Östen...”,
gli ricordò Gareth.
“Sì,
giusto. Forse solo uno di loro potrebbe convincerla. Gareth, vuoi
essere tu a parlarle? Che ne dite, duca... è una buona
idea?”
Fjölnir
rifletté qualche istante. “Sì... credo
che, se vogliamo avere una
speranza che accetti in fretta, è la nostra unica
opzione”, disse
lentamente.
“Ma,
padre... volete che sia io a convincerla?”, chiese Gareth,
completamente annichilito.
Il
duca gli mise una mano sul braccio.
“La
nostra regina ci ha stupito positivamente, Gareth. Credo di parlare a
nome di tutti i presenti quando dico questo. È tenace,
coraggiosa,
intelligente... ma ha una volontà di ferro e nessuno di noi
riuscirà
a convincerla che questa soluzione è la migliore per lei.
Solo tu
puoi riuscirci.”
Poi
si alzò, accompagnandolo alla porta.
Quando
fu fuori portata d'orecchio degli altri gli sussurrò:
“E' stata
lei ad aprirmi gli occhi su di te, figlio mio. Le sarò
sempre
riconoscente per questo. Quella ragazza ha davvero tante
qualità.”
“Lo
so, padre”, gli rispose Gareth. “Credimi, lo so
bene.”
***
“Cosa
vogliono che faccia?” Arianrhod saltò su, quasi
urlando.
Gareth,
che aveva previsto la sua reazione, tentò di calmarla.
Sapeva che
non c'erano mezzi termini per comunicare una simile notizia,
perciò
non ne aveva usati.
“Ascoltami”,
le disse dolcemente, prendendola per le spalle. “Tuo zio ha
preso
la sua decisione e se vuoi il suo aiuto i termini dell'accordo sono
questi.”
“Benissimo,
allora non accetterò il suo aiuto!”
“Devi
farlo, non c'è altra scelta. Lui è l'unico che
abbia i mezzi per
sostenerti, l'unico che possa farti riconquistare il trono. Se non
accetterai non avrai una seconda possibilità.”
Arianrhod
si staccò bruscamente da lui e prese a passeggiare
nervosamente su e
giù per la stanza. Gareth continuò a seguirla con
lo sguardo finché
non si fermò davanti al focolare, dandogli le spalle e
poggiando le
mani sulla spalliera di una poltrona.
“E'
questo che vuoi?” disse improvvisamente a voce bassa.
“Vuoi che
sposi un altro? Tutto quello che c'è stato tra noi, ogni tua
parola... era tutto vuoto?”
Gareth
deglutì, ferito. Ma si aspettava che lei glielo chiedesse e
su
questo non poteva mentire, nemmeno per il suo bene.
“Io
ti amo. Ti amo più di me stesso, Arianrhod, ma dobbiamo
guardare in
faccia la realtà. Io non potrò mai darti niente,
niente di quello
di cui tu hai bisogno...”
“Io
ho bisogno solo di te.”
“Lo
sappiamo entrambi che non è vero... sì certo,
all'inizio saresti
felice ma con il tempo mi odieresti perché resteresti
bloccata in
un ruolo scomodo a causa mia. Per colpa mia saresti sempre una regina
senza corona, un'ospite di tuo zio che, nonostante la sua gentilezza,
presto o tardi non mancherà di fartelo pesare.”
“Potrei
sempre tornare al mio villaggio, alla mia vita di prima... e tu
potresti venire con me...” azzardò Arianrhod,
tentando di suonare
convincente.
Si
avvicinò a lui e lo guardò negli occhi.
Gareth
sorrise tristemente, alzando una mano per carezzarle la guancia.
“Amore
mio, mia vita, mia unica gioia... sai anche tu che non è
possibile.
Prima o poi riuscirebbero a trovarti e a portare a termine il loro
compito. Sai che Ale, o qualsiasi altro usurpatore venga dopo di lui,
non ti lasceranno mai vivere in pace. Continueranno a darti la caccia
fino alla fine dei tuoi giorni. Davvero vuoi vivere così?
Nell'eterna paura del domani, arresa al tuo destino, quando invece
potresti esserne l'artefice?”
“Farei
qualsiasi cosa per stare con te”, mormorò infine
lei con gli occhi
lucidi di lacrime. “Non mi importa niente del trono, della
gloria,
della mia stirpe...”
Gareth
si sentì sopraffare dall'emozione e di scatto
l'attirò a sé e la
strinse contro il suo petto. La tenne stretta come se volesse
diventare una cosa sola con lei.
“Questa
è la cosa più bella che tu mi abbia mai
detto” le disse,
posandole un bacio sui capelli. “Ma non posso permetterti di
prendere una decisione simile. Se davvero mi ami devi sposare
Hrolf... e riconquistare il trono di tuo padre.”
Arianrhod
si staccò di nuovo da lui senza dire una parola e
ricominciò a
vagare senza meta per la stanza. Sembrava distratta, preoccupata e
ansiosa. Gareth non l'aveva mai vista così. Dopo un primo
prevedibile guizzo di tempra si era calmata in fretta. Il cavaliere
si sarebbe aspettato rabbia, sgomento, frustrazione da parte sua. Si
era preparato a che lei sfogasse il suo sdegno, che si opponesse, che
lottasse con fierezza come aveva sempre fatto. Che manifestasse la
sua sofferenza con la sua solita impulsività. Ma non si
sarebbe mai
aspettato di vederla così... vulnerabile. Cosa le stava
accadendo?
Decise
di lasciarla stare e vedere questo a cosa avrebbe portato. Ma dopo
un'interminabile momento di silenzio, Gareth cominciò a
sentirsi a
disagio con quel nuovo aspetto di Arianrhod che non conosceva.
“Arianrhod,
stai bene?” gli chiese avvicinandosi e prendendole la mano.
“Vuoi
davvero che sposi Hrolf allora?” ribatté lei senza
guardarlo.
“E'
la cosa più difficile che abbia mai dovuto dire in vita mia,
ma
sì... per il tuo bene devi farlo.”
“Anche
se ti dicessi che aspetto un figlio?”
Nota
dell'autrice: Ciao
a tutt* carissim*! Innanzitutto auguro Buone Feste di cuore a tutti
voi, anche se scandalosamente in ritardo ^^'. Sono in ritardo anche
sull'aggiornamento e chiedo venia, ma l'ultima volta non avevo
calcolato che ci sarebbero state le feste di mezzo. Comunque eccoci
qui, con un capitolo denso di colpi di scena... chi di voi si
aspettava che la nostra Ari fosse in dolce attesa? Sicuramente non
Gareth, che fra un po', tra una rivelazione e l'altra, rischia
l'infarto :D. Sono proprio curiosa di sapere se vi è
piaciuto!
Vi
anticipo che probabilmente anche con il prossimo aggiornamento
sforerò un pochino i tempi, sempre causa feste e annessi e
connessi!
Un abbraccio!
Eilan
|
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Capitolo 22 *** Capitolo ventidue ***
Ragnhild
conosceva Arianrhod da poche settimane, ma il fatto di aver trascorso
quasi tutto il suo tempo libero con lei le aveva avvicinate
moltissimo. In lei la giovane danese aveva trovato una vera amica,
una persona di spessore, non banale come tante dame che popolavano la
corte di re Frode. A lei era riuscita a confidare il suo più
grande
segreto, il cruccio che aveva nascosto a tutti. Ed anche Arianrhod
aveva dimostrato di fidarsi di lei rivelandole il sentimento che
univa lei e il giovane cavaliere, Gareth.
In
un certo senso era una coincidenza curiosa che entrambe soffrissero
per un motivo simile, per un amore che difficilmente allo stato
attuale delle cose avrebbe potuto realizzarsi. Il motivo era lo
stesso, anche se i ruoli erano ribaltati: Gareth era di rango troppo
basso per Arianrhod ed era Ragnhild invece ad esserlo per il
principe. C'era un tacito accordo tra di loro di non parlare
più di
questo doloroso argomento. E in effetti dalla prima volta in cui si
erano confidate a vicenda non ne avevano più parlato,
né avevano
posto domande spinose. C'erano segreti che era meglio non
approfondire. Tutto questo però le aveva unite ancora di
più, le
aveva rese sorelle in un comune destino.
Da
quella mattina Arianrhod però non si trovava da nessuna
parte e non
era da lei quel comportamento. Ragnhild l'aveva aspettata
trascorrendo la mattinata a cardare e filare la lana con le altre
dame, ma con la mente e lo sguardo sempre rivolti alla porta
nell'attesa che lei le raggiungesse. Arianrhod era già
piuttosto
abile in quelle mansioni, che erano state per lei pane quotidiano
alla fattoria dei suoi genitori adottivi. Sapeva anche utilizzare il
telaio per cucire gli abiti, ma era totalmente ignorante sul ricamo,
un'attività di solito riservata alle classi nobili che
potevano
permettersi di perdere tempo in simili frivolezze. Ragnhild aveva
cercato di insegnarle e Arianrhod si era docilmente applicata,
ascoltando gli entusiastici consigli dell'amica. Ma continuava a
ritenere il ricamo un'assurda futilità, completamente fuori
dalle
sue corde.
Comunque
fosse, quella mattina e fino al primo pomeriggio non si era fatta
vedere e Ragnhild aveva trascorso il tempo aspettandola e sorbendo di
malavoglia lo stupido chiacchiericcio e i pettegolezzi delle altre
donne.
Appena
era riuscita a liberarsi era andata ad assistere alla lezione d'armi,
sperando che Arianrhod si trovasse lì. Combattere era
un'attività
che la appassionava infinitamente più di qualsiasi lavoro
femminile.
Gli uomini della Guardia Bianca erano lì e c'erano anche
Gareth ed
il suo amico Östen,
ma
Arianrhod non si trovava da nessuna parte. Ragnhild lanciò
un'occhiata distratta al bel cavaliere che aveva rubato il cuore
della sua amica e notò che, diversamente dal solito,
sembrava avere
un'espressione tesa e preoccupata. Era pallido, la bocca tirata e lo
sguardo distratto.
Ragnhild
decise di avvicinarsi a lui, sperando che almeno lui potesse dirle
dove si trovava Arianrhod.
“Cavaliere”,
lo chiamò con voce timida.
Gareth
sobbalzò. Sembrava seriamente teso, pensò
Ragnhild. Abbassò lo
sguardo sulla piccola figura femminile che gli era apparsa al fianco
e fece un sorriso forzato.
“Oh
siete voi, signora” disse, passandosi una mano fra i capelli.
Ragnhild si chiese se non avesse sperato di vedere qualcun altra in
realtà. “Ditemi, in cosa posso esservi
utile?”
Anche
Östen,
che si trovava al
fianco dell'amico, rivolse l'attenzione a lei. Ragnhild si
sentì
intimidita: non era nel suo carattere riuscire a parlare in modo
diretto alla presenza di altre persone, soprattutto uomini.
“Mi
chiedevo se oggi aveste visto la vostra regina, cavalieri...
stamattina non è venuta nelle stanze delle donne.”
Un
lampo di allarme passò negli occhi grigi di Gareth.
Aggrottò le
sopracciglia ed era sul punto di dire qualcosa, quando Östen
gli mise una mano sulla spalla e lo guardò brevemente prima
di
prendere la parola.
“Avete
già controllato nella sua stanza mia signora? Può
darsi che non si
senta bene oggi e abbia deciso di rimanere lì.”
Ragnhild
annuì, poco convinta. Tuttavia non le costava nulla seguire
il
suggerimento, quindi si congedò dai due uomini e si diresse
verso la
stanza di Arianrhod.
Durante
il tragitto rifletté che Gareth sembrava molto turbato per
qualcosa,
e a disagio ogni volta che Arianrhod veniva nominata. Essendo al
corrente di ciò che c'era tra di loro Ragnhild poteva
comprenderne
facilmente la ragione. Ma perché quella preoccupazione, quel
turbamento nel suo sguardo? Quando Östen
era intervenuto le era quasi sembrato che tentasse di proteggere
l'amico, prendendo le redini di una conversazione in cui lui avrebbe
potuto fare o dire qualcosa di avventato, o magari preoccuparsi per
niente.
Quando
aprì la porta della sua stanza, pochi minuti dopo, Ragnhild
scoprì
con disappunto che Arianrhod non c'era. Il suo letto era stato
rifatto e Gerda stava finendo di rassettare la stanza. Quando
udì la
porta girare sui cardini, la ragazza si voltò.
“Posso
fare qualcosa per aiutarvi, lady Ragnhild?” chiese alla nuova
arrivata.
“Stavo
cercando la principessa, Gerda. Non è qui?”
L'ancella
la guardò confusa.
“No...
è uscita stamattina presto, a cavallo.”
“Da
sola? Ma è pericoloso! Non dovrebbe andarsene da sola per i
boschi
in questo modo”, esclamò Ragnhild preoccupata.
“Se
posso essere schietta, milady”, cominciò Gerda,
“questa mattina
la principessa mi è sembrata molto turbata. Sono preoccupata
per
lei.”
“Sai
perché fosse turbata?”
“Non
lo so, ma spero che torni presto. Non sono tranquilla a saperla
lì
fuori, da sola.”
“Neanch'io”,
disse Ragnhild, più a se stessa che a Gerda.
Guardò fuori dalla
stretta finestra della stanza: si era alzato il vento, che scuoteva
con forza le cime degli alberi lungo il suo cammino.
***
Arianrhod
si strinse nel mantello mentre cavalcava, perché il vento
che aveva
cominciato a soffiare forte le si opponeva con prepotenza. Raggiunse
il bosco che cresceva alle spalle della città, dove era
andata a
caccia con suo zio subito dopo il suo arrivo in Danimarca. L'estate
era ancora al suo apice e le temperature non erano fredde, ma il
vento si stava rivelando davvero fastidioso. Il suo cavallo non lo
gradiva, e glielo faceva capire scartando continuamente,
finché
Arinarhod decise di scendere e condurlo per le briglie. Il bosco
intorno a lei era deserto, solo i piccoli animali che lo abitavano
erano testimoni del suo passaggio. Alzando lo sguardo vide due
scoiattoli dalle sfumature rossastre e dalla lunga coda arcuata
inseguirsi su di un ramo, e alcuni uccelli stagliarsi contro
l'intenso azzurro del cielo.
Solo
il tonfo sordo degli zoccoli del cavallo sul terreno e l'ululato del
vento spezzavano il silenzio e la solitudine che la circondava.
Sapeva che non avrebbe dovuto lasciare il castello da sola, che era
rischioso e avventato. Ma aveva bisogno di stare sola, di uscire da
quelle quattro mura per riflettere sulla decisione più
difficile che
avesse mai dovuto prendere in vita sua.
Era
trascorsa solo una notte da quando aveva rivelato a Gareth
ciò che
non avrebbe mai voluto dirgli. In cuor suo aveva temuto la sua
reazione fin da quando aveva capito di essere incinta. Sapeva che la
notizia avrebbe avuto conseguenze serie.
Appena
gli aveva annunciato il suo stato Gareth aveva dovuto sedersi, per
non rischiare di crollare. Era rimasto senza parole per parecchio,
con il viso nascosto tra le mani.
Lei
gli si era inginocchiata davanti per guardarlo in viso. Quando aveva
percepito la sua presenza accanto a sé lui l'aveva
abbracciata
stretta, nascondendo il viso nella fragranza della sua chioma.
“Perdonami”,
le aveva detto. “Non avrei mai dovuto farti questo. Se
potessi
tornare indietro, io...”
“Cosa
avresti fatto, allora?” lo aveva sfidato Arianrhod. E prima
che lui
potesse replicare aveva aggiunto. “Non è colpa
tua, Gareth... e
non mi pento di quello che c'è stato tra noi.”
“E'
solo colpa mia invece, avrei dovuto stare più attento. Non
avrei mai
voluto che fossi tu a portare il fardello dei miei errori.”
“Cosa
facciamo adesso?” aveva chiesto Arianrhod con voce tremante.
Il
loro bambino era dunque un errore per lui?
“Se
prima avevamo poca scelta direi che ora non l'abbiamo per
niente.”
“Intendi
dire che...?”
“Da
quanto aspetti?”
“Non
lo so con esattezza”, mormorò Arianrhod.
“Poche settimane...”
“Abbiamo
ancora tempo. Devi sposare Hrolf il prima possibile.”
“Dovrei
fargli credere che il bambino sia suo? È il tuo bambino,
Gareth!”
Seppe
di averlo colpito, perché la sua espressione si
trasfigurò di
dolore.
“Non
abbiamo altra scelta, Arianrhod. Se si viene a sapere non potrai
più
sposarlo, non avrai l'appoggio di tuo zio.”
Aveva
ragione. Aveva dannatamente ragione. Fallo per me, le
aveva detto. Arianrhod provò un moto di invidia. Come
riusciva ad
essere così altruista, a pensare solo al suo bene? Riusciva
a
spingerla a sposare un altro solo perché era la scelta
migliore per
lei, anche se significava che avrebbe dovuto rinunciare per sempre a
lei e al loro bambino. Arianrhod non credeva di possedere altrettanta
forza d'animo.
Completamente
assorta nel rievocare la cruciale conversazione della sera prima, la
ragazza si spinse più in fondo nel bosco, seguendo un largo
sentiero, senza quasi rendersene conto. Il paesaggio intorno a lei
sembrava immutabile, un infinito tappeto di foglie secche orlato da
alberi carichi di fogliame che stormiva al vento.
Un
rumore improvviso la ridestò dai suoi pensieri, facendola
trasalire.
Agendo di istinto e con la prontezza dei suoi riflessi, Arianrhod
sguainò la spada degli Yngling che portava al fianco,
puntandola
nella direzione dalla quale proveniva il rumore.
“Chi
è là?” chiese ad alta voce.
Dal
folto dei cespugli uscì una figura nota. Morcant, il capo
del
contingente del Piccolo Popolo, seminudo e armato di lancia.
“Ah
sei tu!” esclamò Arianrhod sollevata, rinfoderando
la spada.
“I
miei esploratori avevano ragione dunque”, disse Morcant.
“Sei
proprio tu che ti aggiri per la foresta. Cosa ci fai qui tutta sola,
anam-madhad?”
Anima
di lupo. Così
l'avevano ribattezzata i suoi nuovi fratelli quando avevano saputo
come era sopravvissuta ai lupi durante la sua iniziazione, e
Arianrhod si era ormai abituata a quell'appellativo.
“Avevo
bisogno di allontanarmi dalla corte per un po'”, rispose al
piccolo
uomo.
“Vedo
che hai dei pensieri, pensieri che ti turbano... vuoi
parlarmene?”
“Ti
ringrazio, ma è qualcosa che riguarda solo me.”
Morcant
annuì sorridendo, per niente offeso dalle sue parole.
“Ti
dispiace se ti accompagno nella tua passeggiata allora? Ho il dovere
di proteggerti, e questi boschi possono essere pericolosi.”
Arianrhod
intuiva che quella era solo una scusa. Morcant sapeva molto bene che
lei era in grado di cavarsela da sola con i pericoli del bosco. Non
l'avrebbero mai sottoposta a quella prova così rischiosa
altrimenti.
Camminarono
per un po' in silenzio. Morcant sembrava del tutto a suo agio nel
bosco; apparteneva ad esso come un albero o un orso.
“Ti
sei comportata come un grande comandante dovrebbe fare, durante il
consiglio. Siamo molto fieri della nostra sorella di sangue”,
disse
ad un certo punto il guerriero. Arianrhod, confusa, impiegò
qualche
secondo a capire che si riferiva all'episodio in cui aveva affermato
il proprio ruolo, di fronte a tutti i suoi generali, colpevoli di non
averla messa a parte del viaggio verso la Danimarca.
“La
forza ci viene dalla saggezza”, continuò Morcant
senza attendere
una replica. “La saggezza ci viene dal comprendere quando
è il
momento di agire, e sopratutto come agire.”
“Vedi
quel ramo?” disse indicando un ramo basso. “E'
secco ed è ideale
per costruire una lancia come la mia. Sarebbe semplice staccarlo dal
suo tronco, ma è anche semplice commettere errori. Se
applichiamo
troppa forza, il ramo si spezzerà a metà e
sarà inutilizzabile; al
contrario, se ne applichiamo poca non otterremo niente. Il ramo
resterà lì dov'è e niente
cambierà.”
“Non
credo di capire cosa intendi, Morcant”, confessò
malvolentieri
Arianrhod.
“Forse
non lo comprendi ora, anam-madhad, ma
questo è normale. Ricordati che se cerchi qualcosa che non
vuoi
trovare, questo finirà per trovare te. Se ti sforzi di
cercare
qualcosa che vuoi con tutte le tue forze è il momento in cui
non la
troverai.”
Arianrhod
era sempre più confusa. Sapeva che quello era il modo di
esprimersi
del Piccolo Popolo, il modo in cui coloro che vi appartenevano
trasmettevano la loro saggezza alle nuove generazioni, ma forse lei
era parte della loro tribù da troppo poco tempo per poterne
comprendere il linguaggio. Comunque Morcant le aveva dato qualcosa su
cui riflettere, anche se al momento le sue parole era oscure per lei.
“Io..
credo di dover tornare al castello ora, Morcant. Mi sono allontanata
fin troppo e cominceranno a cercarmi.”
“Ti
lascio ai tuoi pensieri. Se hai bisogno di noi sai dove
trovarci.”
“Vi
manca qualcosa all'accampamento? Avete bisogno di provviste o
altro?”, gli gridò dietro Arianrhod, mentre l'uomo
già si
allontanava. Dopotutto era lei la loro comandante ed era responsabile
del loro benessere, come di quello di ogni altro soldato o cavaliere.
“Abbiamo
tutto quello che ci serve, grazie anam-madha. Il
bosco è la nostra casa e gli alberi nostri
fratelli”, rispose
l'uomo prima di sparire alla vista.
Arianrhod
rimontò a cavallo. Il vento era calato e il sole del
pomeriggio
proiettava una luce più tenue. Procedendo piano, al passo,
si
diresse in direzione di Odense.
Si
toccò il ventre, lì dove stava crescendo quella
nuova vita, ancora
così fragile e indifesa. Quel gesto la fece pensare ad Enid,
e al
fatto che ora lei si trovava nella stessa condizione dell'amica.
Ormai doveva essere vicina al parto, forse mancava meno di un mese.
All'improvviso
il suo cavallo si impennò sulle zampe posteriori, lanciando
un
nitrito. In mezzo al sentiero era comparso un lupo, come sbucato dal
nulla. Arianrhod calmò il cavallo con delle pacche sul collo
e
qualche parola in tono rassicurante. Il cuore le batteva forte nel
petto, ma non per la paura. Quel lupo era molto simile a quello che
lei aveva risparmiato durante la sua prova, ma non poteva certo
essere lo stesso.
L'animale
la guardava negli occhi senza paura, ma non fece il gesto di
attaccarla.
Forse
non ora, ma presto comprenderai aman-madhad, le
aveva detto Morcant.
Arianrhod
sostenne lo sguardo del lupo finché questi non riprese il
suo
cammino, senza cercare di farle del male né di avvicinarsi a
lei.
I
suoi pensieri erano confusi, mentre cavalcava verso il castello, e le
parole di Morcant ancora enigmatiche. Ma Arianrhod aveva preso la sua
decisione.
***
Dopo
aver lasciato il cavallo agli stallieri andò dritta allo
studio
privato del re. Avrebbe parlato con lui e con nessun altro della sua
decisione. Non voleva nessun intermediario che parlasse per lei
questa volta.
“Nipote!”
esclamò sorpreso Frode, trovandosela di fronte senza
preavviso. “Non
ti aspettavo. Vieni, siediti qui.”
“Ti
ringrazio zio, ma preferisco restare in piedi. Non ci
metterò molto
a dirti quello che devo.”
“Come
vuoi allora, mia cara. Sai che qualsiasi cosa posso fare per te, non
hai che da chiederlo.”
Arianrhod
prese un respiro profondo. “La prima cosa che voglio
chiederti non
è per me, ma per una cara amica.”
“La
conosco?” chiese il re con sguardo perplesso.
“Sì
è la tua pupilla, Ragnhild di Stormare. Vorrei chiederti di
prendere
in considerazione il suo fidanzamento con tuo figlio, il principe
Halfdan.”
Frode
strabuzzò gli occhi dalla sorpresa.
“M-mio
figlio?”
“Proprio
così. I due giovani nutrono forti sentimenti l'uno per
l'altra.”
“E'
strano. Mio figlio non mi ha mai detto niente al riguardo. Eppure lui
non è certo il tipo d'uomo che ha paura di dirmi qualcosa in
faccia.”
“Forse
non lo ha fatto perché pensava che non avresti accettato la
loro
unione...”
“In
effetti vorrei proprio sapere perché dovrei accettare un
simile
legame. Non mi sembra che vada a particolare vantaggio di mio
figlio.”
Arianrhod
sospirò. Si aspettava una simile obiezione da parte del
sovrano. Ma
lei sapeva cosa doveva fare.
“Dovrai
farlo se vuoi che io accetti di mettere Hrolf sul trono di mio padre.
Questa è la condizione che pongo al nostro patto, e ti
avverto: è
inderogabile.”
Frode
parve prima indignato dall'audacia della nipote, ma dopo qualche
secondo scoppiò fragorosamente a ridere.
“E'
così, dunque. Dovevo aspettarmelo. Non sei certo una
sprovveduta,
cara nipote. Lasciami dire che sei la degna erede della tua stirpe e
che chiunque pensi di poterti mettere nel sacco tanto facilmente
resterà deluso.”
“Confido
che tu non lo pensassi, caro zio”, disse Arianrhod con un
sorriso
ironico.
“Mai!
Sul mio onore”, dichiarò il re, portandosi una
mano al petto ed
alzando l'altra in un gesto solenne.
“E
così sia, allora. Tu sposerai mio figlio minore e, se
è quello che
davvero Halfdan vuole così ardentemente, sposerà
Ragnhild.”
“Abbiamo
un accordo, dunque?” chiese Arianrhod tendendogli la mano.
“Lo
abbiamo”, rispose il sovrano stringendogliela.
Nota
dell'autrice: Ciao
a tutti carissimi! Ecco il nuovo capitolo, in cui vengono prese
alcune decisioni importanti. Arianrhod è riuscita ad essere
altruista, proprio come lo è stato Gareth nello spingerla
tra le
braccia di Hrolf. Avrà fatto bene? Che ne pensate? Spero che
il
capitolo vi sia piaciuto!
Alla
prossima,
Eilan
|
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Capitolo 23 *** Capitolo ventitré ***
“Hai
preparato quell'acqua calda, Gudrun?” chiese Gerda nel suo
solito
tono pacato e gentile.
L'anziana
cuoca sbuffò, forse più per i vapori bollenti che
le rendevano il
volto paonazzo che per la richiesta di Gerda. Si era affezionata a
quella ragazza che al suo arrivo aveva guardato con occhio
diffidente. Ma Gerda aveva saputo presto conquistarsi le simpatie
della servitù grazie alla sua dolcezza e
disponibilità, ma anche
alla sua fermezza. Gudrun, che lavorava a corte da più di
trent'anni, l'aveva presa sotto la sua ala e l'aveva aiutata ad
ambientarsi in quell'ambiente nuovo e sconosciuto.
Gerda
veniva dalla campagna ed era giunta a corte un paio di anni prima,
in cerca di un impiego più remunerativo di quello nei campi.
Sua
madre non era più in grado di lavorare a causa di un'artrite
acuta
ed aveva lasciato interamente sulle sue spalle il loro sostentamento.
Nella sfortuna, la ragazza non avrebbe potuto essere più
soddisfatta
della piccola nicchia che si era conquistata nel mondo.
“La
principessa vuole la sua acqua calda, Gerda?” chiese ridendo Borstig,
uno
dei cuochi che in quel momento passava di lì con un
pentolone tra le
mani.
“Sì,
scherza pure Borstig... ma la principessa di Svezia è una
brava
ragazza. Non è presuntuosa e viziata come quelle del suo
rango.”
“Una
vera rarità!”, intervenne una sguattera di cucina.
Gerda
sorrise. “Puoi ben dirlo.”
“Ed
è anche una gran bellezza, se lo chiedi a me”,
disse Borstig,
intento a rimestare nel pentolone che aveva appeso sopra il focolare.
“Peccato
che nessuno te l'abbia chiesto, impiccione!”, lo
apostrofò Gudrun
agitando il mestolo nella sua direzione. Poi consegnò a
Gerda
l'acqua calda che la ragazza avrebbe dovuto portare nella camera di
Arianrhod.
“Grazie
Gudrun”, disse Gerda, facendo per prendere congedo.
“Ehi,
Gerda!” la richiamò la voce di Borstig.
“E' vero che la svedese
sta per sposare il nostro principe?”
“Si
è già sparsa la voce?”
“Non
c'è niente che le orecchie di volpe di Borstig non possano
cogliere”, disse Gudrun ammiccando.
“Taci,
donna!” l'apostrofò Borstig.
“In
ogni caso hai sentito bene Borstig. Lei e Hrolf si
sposeranno.”
“E
che mi dici di te?” chiese la sguattera, asciugandosi le mani
bagnate nel grembiule. “Chi era quel cavaliere con cui ti ho
vista
parlare l'altro giorno? Sembravate molto intimi...”
Gerda
arrossì fino alla radice dei capelli. “Non abbiamo
affatto
parlato. Mi erano solo cadute delle lenzuola mentre passavo e lui
è
stato così gentile da aiutarmi a raccoglierle. Il mio
ringraziamento
è stata l'unica parola che ci siamo scambiati.”
“Suvvia,
lasciala in pace Sigrid!” intervenne Gudrun autoritaria,
vedendo
Gerda in difficoltà. “Devi sempre vedere la
malizia dove non c'è?”
“Sarà...”
disse la sguattera alzando le spalle. “Ma io so quello che ho
visto.”
“Come
quando io ti ho vista insieme allo stalliere, a rotolarvi sul fieno
in mezzo ai cavalli?” chiese Gudrun.
Sigrid
chiuse la bocca e tornò imbronciata a pelare patate nel suo
angoletto, sotto lo sguardo divertito degli altri servi.
“Grazie”,
sussurrò Gerda a Gudrun, e all'occhiolino della cuoca
lasciò le
cucine per dirigersi ai piani superiori.
Arianrhod
aveva trascorso le ultime due notti piangendo e dormendo poco o
niente. Non si sarebbe vergognata di ammettere che aveva tirato fuori
Bron dal suo baule da viaggio, dove la bambola aveva viaggiato
riposta tra gli abiti, e aveva dormito stringendola a sé, in
cerca
di un conforto impossibile da trovare. La decisione che aveva preso,
quella di rinunciare per sempre a Gareth, l'aveva distrutta. Il
dolore era talmente forte da essere quasi fisico e solo quella
piccola bambola sembrava salvarla dall'abisso in cui stava
precipitando. Era sicura che nessuno potesse comprendere fino in
fondo la sua disperazione: né Ragnhild, né Östen...
e non aveva il coraggio di rivedere Gareth per timore che la sua
risolutezza crollasse miseramente.
Nel
dormiveglia tormentato in cui era caduta udì la porta
aprirsi e la
voce di Gerda riempire la stanza, squillante come sempre.
“Siete
sveglia, principessa?”, chiese la ragazza allegramente.
Arianrhod
lottò per non perdere quegli ultimi brandelli di sonno, ma
vi
rinunciò quando Gerda cominciò a versare l'acqua
calda nel catino
per lavarsi.
“Oggi
è una magnifica giornata, sapete?”
continuò l'ancella.
Arianrhod
dubitava fortemente che sarebbe stata migliore di quella precedente,
ma tacque, mettendosi a sedere sul letto ancora insonnolita. La
mancanza di sonno di quegli ultimi due giorni cominciava a pesarle.
“Volete
che vi porti la colazione?” chiese Gerda, fissandola con la
brocca
a mezz'aria.
Al
solo sentire nominare la colazione Arianrhod si sentì
assalire da
un'ondata di nausea mattutina.
“No
grazie, Gerda. Non ho fame.”
“Siete
sicura? Avete un'aria così pallida. Di sicuro mettere
qualcosa nello
stomaco vi aiuterà a sentivi meglio.”
Arianrhod
si limitò a scuotere la testa, cercando di reprimere la
nausea che
aumentava.
“Come
volete..” disse Gerda, dubbiosa. Poi aggiunse, come
ricordando
all'improvviso: “Oh che sciocca che sono! Dimenticavo di
dirvi che
è venuto a cercarvi un cavaliere poco fa...”
Arianrhod
drizzò immediatamente le orecchie.
“Gareth...?” chiese, dimenticando all'istante il
suo proposito di non vederlo più.
“Non
so come si chiami. È alto e affascinante... abbiamo parlato
a lungo,
e... ma dove andate principessa? Non siete ancora vestita!”
protestò Gerda mentre Arianrhod schizzava fuori dal letto,
passandole sotto il naso e oltre la porta nella veste da notte.
“Da
che parte è andato?” chiese in fretta.
“Di
là...” indicò Gerda, presa in
contropiede.
Arianrhod
corse lungo il corridoio e per poco non andò a sbattere
contro il
cavaliere che l'aveva cercata. Fu con un pizzico di delusione che si
accorse che i suoi capelli non erano castani, ma biondi. La sua
delusione si alleviò appena quando riconobbe Östen.
Il
giovane cavaliere alzò un sopracciglio nel notare il suo
abbigliamento, ma non fece domande per non metterla in imbarazzo.
“Östen!”
esclamò la giovane regina. “Come mai sei
qui?” E senza attendere
risposta, aggiunse, più a bassa voce: “Come sta
Gareth?”
“Distrutto.
Esattamente come te, a quanto vedo...”
Arianrhod
fu improvvisamente consapevole di come doveva apparire agli occhi di
chi la guardava. Pallida, nauseata, con dei cerchi scuri intorno agli
occhi a causa della mancanza di sonno, con i capelli in disordine e
gli occhi lucidi. Non certo un bello spettacolo.
“Mi
dispiace”, sussurrò. “So che mi odierai
per quello che ho fatto
a Gareth, e ne hai tutte le ragioni. Ma non potevo fare altro. Ci
sono altre... persone coinvolte, e devo pensare anche al loro
bene.”
E così dicendo si sfiorò inconsapevolmente il
ventre con le dita.
Un gesto che non sfuggì a Östen,
il cui sguardo si raddolcì per poi incupirsi subito dopo.
Aveva
detto a Gareth che quello che stava giocando era un gioco pericoloso,
ma l'amico era troppo accecato dall'amore per dargli ascolto. Come
aveva avuto ragione! Ma Gareth ed Arianrhod erano due delle persone
che aveva più care al mondo, e l'aver avuto ragione non gli
provocava neppure la più piccola soddisfazione. Anzi, si
malediceva
per non aver fatto di più per fermarli finché era
ancora in tempo.
“Io
non ti odio affatto, Arianrhod”, le disse prendendola per le
spalle, con una familiarità che gli sarebbe sembrata
impensabile
solo pochi mesi prima. “Tu avrai sempre la mia amicizia e la
mia
lealtà, così come ce l'ha Gareth.”
“Perché
sei venuto a cercarmi, allora?” chiese Arianrhod con un filo
di
voce.
“Sono
venuto per parlarti, prima che tu commetta un terribile sbaglio. Non
devi dare retta a ciò che ti ha detto Gareth. So che
è stato lui a
spingerti a questo passo, e so che lo ha fatto perché ti
ama. Lui
mette te, la tua sicurezza e la tua felicità prima della
sua. Ma non
devi dargli ascolto. Non puoi sposare Hrolf e rinunciare all'amore
della tua vita. Neanche per le migliori ragioni al mondo.”
Arianrhod,
che aveva trattenuto il fiato sbalordita durante tutto il discorso di
Östen,
cominciò pian piano
ad espirare, lasciando andare la tensione.
“Perché
mi dici questo?” chiese infine. Non sapeva se avrebbe mai
potuto
seguire il consiglio dell'amico, ma gli era infinitamente grata di
aver detto quello che aveva detto. Doveva essere stato difficile per
lui parlare così francamente alla sua regina, eppure l'aveva
fatto.
Per lei e per Gareth.
“Perché
non voglio che tu commetta il peggiore errore della tua vita. Non
può
che venirne infelicità, e questo non vale un
trono.”
“Non
posso promettertelo...” disse Arianrhod con
onestà.
“Promettimi
solo che ci rifletterai.”
***
Quello
stesso pomeriggio Arianrhod sentì che si era ripresa a
sufficienza
per affrontare gli ostacoli che presto le si sarebbero parati di
fronte. Aveva permesso a Gerda di aiutarla a vestirsi e pettinarsi;
questo l'avrebbe aiutata a nascondere il pallore del viso e la
tensione nei suoi lineamenti. Non aveva senso continuare a
nascondersi, ad aggrapparsi ad una vecchia bambola per evitare di
affrontare la realtà. Cosa avrebbero detto di lei i suoi
genitori,
il re e la regina, se avessero potuta vederla in quello stato? A quel
pensiero Arianrhod andò istintivamente in cerca della
collana della
madre e la mise al collo.
“Madre,
dammi la forza”, sussurrò toccando il gelido
metallo.
Il
primo passo era dare a Ragnhild l'annuncio del patto che aveva
stretto con re Frode, dirle che finalmente aveva realizzato il suo
desiderio ed era fidanzata con Halfdan. Il futuro, che per lei si
prospettava cupo, almeno a Ragnhild avrebbe recato un po' di
felicità.
***
Ragnhild
osservava Arianrhod da sopra il suo tamburo di ricamo, con l'ago a
mezz'aria, gli occhi spalancati. Era completamente senza parole
all'annuncio fattole da Arianrhod. Anche se si era diffusa la voce
che la principessa svedese si sarebbe presto fidanzata con il
quartogenito di re Frode, Arianrhod non aveva ancora rivelato a
nessuno dell'accordo stretto con lo zio. La prima a saperlo doveva
essere Ragnhild. Ma perché l'amica la guardava sbalordita e
inorridita? Perché non le gettava le braccia al collo
ringraziandola?
Proprio
in quel momento qualcuno bussò alla porta. Prese alla
sprovvista, né
Ragnhild né Arianrhod risposero con prontezza.
“Principessa,
siete lì? Devo parlarvi...”
“Per
Odino, è Hrolf”, bisbigliò Ragnhild
portandosi la mano alla
bocca.
“Aspettami
di là, nell'altro salotto”, le chiese Arianrhod.
Ragnhild
ubbidì senza fare domande e scomparve dietro la porta della
stanza
comunicante a quella in cui si trovavano, che veniva utilizzata
principalmente dalle dame per il cucito. Arianrhod non poté
fare a
meno di notare che si muoveva come in trance, talmente pallida in
viso da farle temere che sarebbe svenuta da un momento all'altro.
Ma
il principe stava bussando di nuovo, così Arianrhod si
affrettò a
invitarlo ad entrare. Quando Hrolf entrò la trovò
seduta
compostamente. Fece un passo avanti incerto e Arianrhod ebbe qualche
secondo per studiarne la figura.
Il
principe aveva quell'aria perennemente insicura ma, a parte questo,
non era un brutto ragazzo. Era di piccola statura, questo
sì, ma
aveva capelli biondi, due grandi occhi blu che sembravano sinceri e
un accenno di barba che lo faceva sembrare meno ragazzino.
“Principessa”,
disse rivolgendosi a lei. “Volevo parlarvi.”
Arianrhod
si alzò in piedi e gli andò incontro. Lui
ricambiò con un'occhiata
nervosa, ma guardandola dritta negli occhi.
“Mio
padre mi rivelato che presto saremo marito e moglie.”
“E
cosa ne pensate?”
“Ecco...
la notizia mi ha turbato alquanto. Non fraintendetemi, voi siete una
bellissima donna e mi porterete in dote addirittura un
regno...”
Ed
un figlio non tuo, pensò
Arianrhod con una fitta di rimorso.
“...ma
ho pensato che devo essere sincero con voi.”
“Vi
prego...” lo incoraggiò Arianrhod, provando un
moto di ammirazione
per il principe. Lo aveva giudicato senza spina dorsale, ma forse era
stata troppo precipitosa. Hrolf aveva una sua voce dopotutto.
“Vi
sposo perché è ciò che mi chiede mio
padre, ma vi dico
sinceramente che amo un'altra donna.”
“Un'altra
donna?” ripeté Arianrhod sbalordita.“La
conosco?”
“Non
ha importanza”, rispose Hrolf. “Non
rivelerò il suo nome. Non
voglia esporla.”
Ma
Arianrhod non lo stava più ascoltando. Un'agghiacciante
sospetto le
stava strisciando addosso, facendola gelare da capo a piedi.
“Vi
ringrazio di essere stato sincero con me, cugino. Non lo
dimenticherò”, disse prima di correre via,
noncurante di aver
lasciato il principe di sasso.
Corse
fino alla stanza di Ragnhild senza mai fermarsi e spalancò
la porta
senza preoccuparsi di chiedere il permesso.
Nella
penombra non vide immediatamente l'amica. Ne sentiva solo il
singhiozzio sommesso. Seguì il suono fino a superare il
letto.
Seduta a terra, le ginocchia strette contro il mento, Ragnhild
piangeva a calde lacrime. Non mostrò di accorgersi della
presenza di
Arianrhod finché questa non le ebbe toccato il braccio con
le dita.
Allora
sollevò il viso rigato di lacrime verso di lei, ma non disse
nulla.
Arianrhod
si sedette accanto a lei e le passò un braccio intorno alle
spalle.
“Perché
non mi hai detto che non è di Halfdan che sei
innamorata?”
“Quando
mi hai parlato dei miei sentimenti per il principe e del fatto che ti
eri accorta che lo guardavo, pensavo avessi capito che si trattava di
Hrolf...”
Arianrhod
si sforzò di richiamare alla memoria quell'episodio. I due
principi
erano uno accanto all'altro, e lei aveva dato per scontato che fosse
Halfdan quello da cui Ragnhild era stata colpita. Non avrebbe mai
pensato...
“Cos'è,
ti pare impossibile che potessi essere innamorata di Hrolf?”
chiese
la ragazza come leggendole nel pensiero.
Arianrhod
se ne vergognava, ma doveva ammettere che aveva considerato Hrolf
meno di niente senza nemmeno conoscerlo. Era stata sciocca e
superficiale.
“Potrai
mai perdonarmi? Io pensavo di aiutarti, invece ho accettato di
sposare proprio l'uomo che ami.”
“Non
è colpa tua, Arianrhod”, disse Ragnhild
asciugandosi gli occhi.
“Tu hai sacrificato la tua felicità pensando di
donarla a me...
hai fatto qualcosa che nessuno si sarebbe mai sognato di fare per
me.”
Arianrhod
la guardò per qualche attimo. “Sì... e
ora devo rimediare a
questa situazione.”
Nota
dell'Autrice: Eccomi
con il nuovo capitolo... in scandaloso ritardo! Perdono, perdono,
sono stata impicciatissima! :) Comunque ora sono tornata, con un
capitolo che cambia la prospettiva delle cose. Arianrhod, pensando di
fare del bene, ha fatto un gran pasticcio, promettendo di sposare
proprio l'uomo di cui la sua amica è innamorata. Come ne
uscirà
fuori? La risposta alla prossima puntata! :D
Mi
raccomando fatemi sapere che ne pensate.
Grazie
a tutti e alla prossima!
Eilan
|
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Capitolo 24 *** Capitolo ventiquattro ***
“Cara
nipote, aspettavamo solo te!”
Re
Frode era cordiale come sempre, mentre accoglieva Arianrhod appena
entrata nella stanza dove lei e suo zio avrebbero firmato il
contratto nuziale.
Arianrhod
aveva temuto che ci sarebbero state troppe persone presenti, e invece
fortunatamente oltre al re c'erano solo il duca Fjölnir,
Walbur e Vanlande, un paio di funzionari danesi e Gareth, che suo
padre aveva voluto accanto a sé in quell'importante
occasione.
Arianrhod
deglutì nel vederlo: di sicuro non aveva potuto rifiutarsi
di essere
presente, a meno di non dare a suo padre una motivazione valida. Cosa
che, ovviamente, non aveva potuto fare. Se ne stava in piedi accanto
al duca, il viso pallido e serio, ma sempre terribilmente
affascinante. Alla destra di Fjölnir
stava invece Domaldr, con un'espressione contrariata: evidentemente
ancora gli bruciava di aver perso la possibilità di essere
lui il
prossimo re di Svezia. Le sue speranze sarebbero presto andate
completamente in fumo non appena le firme sarebbero state apposte
sulla pergamena. Arianrhod non provava la minima pena per le
ambizioni frustrate di quel ragazzo presuntuoso. Doveva già
preoccuparsi del proprio cuore spezzato, e ancor di più, del
cuore
spezzato che stava per procurare alla sua amica. Ragnhild aveva
insistito per accompagnarla attraverso quel gravoso compito, anche se
Arianrhod aveva cercato di dissuaderla.
“Non
è stata colpa tua, Arianrhod”, aveva insistito
Ragnhild. “Hai
solo cercato di aiutarmi. Hai anteposto la mia felicità alla
tua, e
per questo ti sarò eternamente grata. Ma ora non puoi fare
altro che
accettare il matrimonio. Non devi sentirti in colpa: anche se non lo
sposassi tu, il re non mi permetterebbe comunque di diventare sua
nuora.”
L'amica
la seguiva passo passo mentre entravano nello studio del re, in
quella ampia stanza illuminata solo dal bagliore del grande camino
intagliato nella nuda roccia.
Proprio
come Arianrhod cercava di evitare lo sguardo di Gareth, così
Ragnhild cercava di non guardare Hrolf, che se ne stava accanto al
re, ammantato di un ricco mantello di pelliccia e della disperazione
più schiacciante. Quella stanza, in cui apparentemente tutti
erano
sereni e pieni di aspettative, era in realtà un covo di
sofferenza e
di speranze disilluse.
Il
funzionario del re accolse Arianrhod con un sorriso e un inchino del
capo, quando giunse presso uno dei due grandi tavoli in legno su cui
era posata la pergamena. Gliela porse cerimoniosamente
perché la
leggesse.
Arianrhod
la prese tra le mani tremanti, pregando di riuscire a mantenere il
contegno che ci si aspettava da lei.
“Vedrai
che ne sarai soddisfatta, ragazza!” esclamò
allegro Frode, con un
braccio intorno alle spalle di Hrolf, che era riuscito a sfoggiare un
sorriso di circostanza. “Guadagni un marito ed un regno. Cosa
si
può volere di più?”
“Per
favore, sire, lasciate che la nostra regina lo legga con
calma”,
intervenne il duca diplomaticamente.
“Ma
certo, certo”, rispose il re, conciliante. Era chiaro che
considerava di avere già in pugno ciò che voleva.
Come avrebbe
potuto la nipote rifiutare una simile offerta?
Arianrhod
teneva in mano la pergamena, sforzandosi di leggerla con attenzione,
ma in realtà sembrava vederci attraverso come fosse
trasparente.
Riuscì ad afferrare qualcuna delle condizioni, come il
numero di
uomini e risorse che suo zio le avrebbe fornito, ma tutto sembrava
ronzarle in testa senza che ne capisse il reale significato.
Sentiva
continuamente lo sguardo disperato di Gareth fisso su di lei, lo
sentiva bruciarle sulla nuca. Percepiva il dolore di Ragnhild poco
dietro di lei, e quello di Hrolf. E la causa di tutta la loro
sofferenza era lei, e ciò che stava per fare.
Il
funzionario le porse la penna d'oca intinta nell'inchiostro, con un
gesto incoraggiante. Arianrhod lo fissò inebetita, mentre
afferrava
la penna tra il pollice e l'indice, rigirandosela tra le dita.
Improvvisamente
la sbatté sul tavolo, producendo un rumore secco che fece
sobbalzare
i presenti per la sorpresa.
Raccogliendo
tutto il suo coraggio si voltò verso l'assemblea che
attendeva
ansiosamente.
“Mi
dispiace, non posso”, disse con calma. Le sue parole
provocarono un
brusio di sconcerto.
Si
levarono in protesta le voci del duca Fjölnir
e del re, ma Arianrhod li bloccò con un gesto della mano.
Gareth
la guardava allarmato. Cosa ha in mente di fare, per Odino?
“Vi
prego di perdonarmi se la mia decisione giunge tanto tardivamente.
Sono stata a lungo combattuta se accettare o meno la proposta del mio
generoso zio. Ma ora mi rendo conto che non posso. Non mi sento
pronta per scegliere un consorte, né per decidere di far
sedere un
uomo, sia pure mio cugino Hrolf, sul trono che fu di mio padre. Il re
mio padre ha dato tutto perché io un giorno potessi
riprendere il
posto che mi spettava sul trono del drago e non credo avrebbe
approvato che io lo dividessi con qualcun altro, soprattutto
costretta dalle circostanze. Se mai prenderò marito la mia
scelta
sarà libera dal vincolo della necessità. In
queste condizioni non
sono in grado di prendere una decisione.”
Un
silenzio imbarazzato era calato sulla platea dopo la dichiarazione
della giovane regina.
Il
duca, Arianrhod lo vedeva, fremeva per protestare.
Ma
il primo a riaversi dalla sorpresa e a parlare fu re Frode.
“Nipote”,
cominciò schiarendosi la voce. “La tua decisione
mi ha
completamente colto di sorpresa. Capirai che non posso concederti il
mio impegno militare ed economico senza nulla in cambio...”
“Ne
sono completamente consapevole, zio”, ribatté lei
sostenendo il
suo sguardo. “Ed è per questo che ho una proposta
per te e Hrolf.”
***
“Sei
impazzita?” tuonò Gareth arrabbiato, quando
finalmente si
trovarono soli, dopo che l'assemblea si fu sciolta. “Come
faremo
ora con il bambino se non sposerai Hrolf?”
Arianrhod
lo guardò senza scomporsi. “Sposami tu”,
annunciò tranquilla,
come se stesse parlando del tempo.
Alcune
voci provenienti da dietro l'angolo allarmarono Gareth. Stava
arrivando qualcuno e lui doveva cercare di essere più
prudente se
non volevano rivelare il loro segreto ai quattro venti. Prima che i
nuovi arrivati fossero in vista prese Arianrhod per la mano e la
guidò lungo la scala a chiocciola che conduceva al secondo
livello
del castello. Arianrhod si sentiva felice, nonostante avesse compiuto
una mossa davvero azzardata. Felice come non lo era stata negli
ultimi giorni, costretta a fare qualcosa che la ripugnava. Il suo
futuro era ancora precario, era innegabile: non sapeva se suo figlio
avrebbe avuto un padre, ma in quel momento non le importava. Suo zio
aveva accettato la sua proposta, e lei aveva ottenuto quasi tutto
ciò
che si era prefissata. Si era assicurata il sostegno della Danimarca
per la sua impresa, aveva fatto in modo che Hrolf e Ragnhild avessero
un futuro insieme. Forse era stata incosciente, ma la ritrovata
leggerezza che sentiva nel cuore la faceva sentire davvero in pace
con se stessa.
Gareth
spalancò la porticina che dava sui bastioni e la richiuse
alle loro
spalle. Il cortile era deserto e, mentre Arianrhod si sedeva su una
panca in pietra, Gareth le si piantava davanti, le braccia incrociate
sul petto e lo sguardo severo.
“Non
hai risposto alla mia domanda”, gli fece notare Arianrhod.
“Non
posso sposarti.”
“Perché
no? In fondo sei tu il padre del mio bambino!”
Gareth
sospirò, portandosi le mani al viso. Possibile che lei non
si
rendesse conto della situazione e della portata delle sue azioni?
“Se
solo potessi..” le disse in tono più dolce,
attirandola a sé e
stringendola contro il suo petto.
Rimasero
abbracciati a lungo, senza dire una parola. Il vento leggero
sollevava l'orlo del mantello di Gareth e faceva sbattere l'abito di
Arianrhod contro le sue caviglie.
“Sei
stata un'incosciente, lo sai vero?” disse Gareth infine. Il
suo
tono non era più arrabbiato.
Lei
annuì in risposta.
“Ma
sono molto fiero di te per la soluzione che hai trovato. Sei stata
una vera regina.”
“Non
ero sicura che il re accettasse. Per un attimo ho temuto di
no.”
“Perché
non avrebbe dovuto? Il titolo dell'usurpatore a Hrolf in caso di
vittoria. Non è certo cosa da poco, per un re che cerca di
trovare
terre e titoli per tutti i suoi figli. Gli hai offerto il titolo
più
importante di Svezia dopo quello del duca mio padre! Terre a perdita
d'occhio per un figlio che forse non saprà nemmeno
amministrarle...”
“Non
ne sarei così sicura, sai? Anch'io avevo sottovalutato
Hrolf, ma in
fondo è un bravo ragazzo. Me ne ha dato prova anche oggi,
quando ha
annunciato che sarebbe salpato con me alla testa dell'esercito
danese. Era evidente che Frode non lo reputasse all'altezza, ma lui
ha voluto mettersi alla prova ugualmente. E poi chi lo sa? Con
l'appoggio della donna che lo ama, al suo fianco come sua moglie...
potrebbe essere spronato a compiere grandi imprese.”
Gareth
la guardò stupito. “Vuoi dire che...? Ragnhild
è quella donna?”
“Quei
due si amano molto, e sono felice di aver potuto aiutarli a
realizzare il loro desiderio. Una volta che lui sarà duca e
avrà il
potere di decidere della propria vita, potrà sposarla anche
senza
l'approvazione paterna.”
“Sono
fiero di te, amore mio”, le disse lui, posandole un bacio
sulle
labbra. “La mia piccola tessitrice di trame”. E
rise, baciandola
di nuovo.
***
Arianrhod
si stava preparando per andare a dormire, stanca dopo quella giornata
così densa di eventi. Si sedette sulla sedia per pettinarsi
i
capelli, perché Gerda tardava a tornare. Mentre era intenta
a
passare e ripassare il pettine fra le lunghe ciocche bionde, una
farfalla notturna entrò nella stanza attraverso la feritoia
nel
muro, andandosi a posare sulla sua mano.
Arianrhod
la studiò per qualche secondo in silenzio, timorosa che un
movimento
brusco la facesse volare via. Un animaletto tanto piccolo e fragile,
rifletté osservandone i particolari del corpo e delle ali,
proprio
come tutti avevano creduto che lei fosse. Una creatura piccola e
fragile, indifesa, alla loro mercé. Lei aveva dimostrato
loro che si
erano sbagliati, aveva dimostrato al mondo che era in grado di
prendere il posto di suo padre. E lo avrebbe dimostrato ancora e
ancora, finché non avesse riportato la pace e la
stabilità in
Svezia, a quel popolo che ancora sperava nel suo ritorno.
Dei
colpi alla porta la fecero sussultare e la farfalla volò
via,
andando a posarsi sul muro.
“Chi
è?”
“Sono
io... Ragnhild”, rispose la voce familiare.
Arianrhod
si alzò per andare ad aprire all'amica, e questa le
gettò le
braccia al collo non appena l'ebbe davanti.
“Grazie...
grazie!” mormorò, felice. “Non
potrò mai ringraziarti a
sufficienza per avermi regalato la felicità.”
“Sono
stata felice di aiutarti, Ragnhild”, rispose Arianrhod un po'
imbarazzata. “Avrei fatto tutto ciò che era in mio
potere perché
tu e Hrolf poteste stare insieme.”
“Hai
fatto tutto per noi”, dichiarò la ragazza,
ritrovando un po' di
compostezza dopo lo scoppio di entusiasmo. “Prima avresti
sacrificato la tua felicità per permettermi di sposare
l'uomo che
amo. Poi hai trovato la soluzione perfetta per accontentare tutti.
Arianrhod Jörundrdottir,
figlia della Stirpe del Drago... tu sarai una regina senza eguali, ne
sono certa.”
“Lo
spero davvero, amica mia. E se tu sarai al mio fianco anche in questa
impresa, sarà ancora più facile. Mio zio ti
lascerà partire con
noi?”
“Hrolf
finalmente ha trovato il coraggio di parlargli a viso aperto. Gli ha
detto che ama me, e che sposerà solo me. E dal momento che,
una
volta avuto il titolo di Ale, sarà completamente
indipendente dal
padre, Frode ha detto che può scegliersi la moglie che
preferisce,
se non gli importa che io sia senza dote. Hrolf ha detto che non gli
importa affatto che io non abbia neppure una moneta d'oro... e
così
saremo sposati prima della partenza! Oh, Arianrhod, sono
così
felice!”
“Non
puoi immaginare quanto anch'io lo sia per te”, rispose
Arianrhod,
prendendole le mani. “Queste sono davvero notizie
grandiose.”
“Ho
pensato che, dopo tutto quello che hai fatto per me, forse per quel
poco, anch'io posso fare qualcosa per te...”, disse
accennando con
il capo alla porta comunicante con il salotto.
Arianrhod
la guardò senza capire.
“Lui
è di là che ti aspetta”,
spiegò Ragnhild con un sorriso. “Ho
pensato che aveste bisogno di stare un po' da soli, dopo tutto quello
che è successo.”
Arianrhod
stava per aprire bocca per obiettare, ma Ragnhild la zittì.
“Non
temere, non verrà nessuno a disturbarvi. Ho chiesto a Gerda
di
rimanere di guardia alla porta tutta la notte.”
Così
dicendo se ne andò chiudendosi la porta alle spalle.
Appena
una porta fu chiusa, un'altra se ne aprì, e Gareth fece il
suo
ingresso.
Arianrhod
ancora non poteva ancora credere che lui fosse lì con lei,
che
potessero passare la notte insieme senza timore di essere scoperti.
Era la prima volta che accadeva da quando era arrivati in Danimarca.
Gareth
non disse una parola: la prese tra le braccia, la baciò con
passione, ed entrambi cominciarono freneticamente a togliere i
vestiti l'uno all'altra, gettandoli alla rinfusa per la stanza.
Arianrhod stava lottando per sciogliere i nodi della sottoveste, ma
Gareth era talmente impaziente che non attese nemmeno che ci fosse
riuscita. La sollevò tra le braccia e la portò a
letto.
Diverso
tempo dopo, quando ormai erano entrambi esausti e appagati, giacquero
avvolti tra le coperte ammucchiate alla rinfusa, talmente vicini che
la punta dei loro nasi si sfiorava. Gareth cominciò ad
accarezzarle
ritmicamente la lunga chioma argentea sparsa a ventaglio sul cuscino.
Poi, continuando a scendere con la mano, le carezzò la
spalla, il
braccio, il fianco... fino ad arrivare sul ventre, che
sfiorò con
timore reverenziale. La gravidanza non era ancora visibile, ma solo
la consapevolezza di ciò che cresceva sotto la pelle di lei
lo
rendeva inquieto. Aveva evitato di pensare a suo figlio da quando lei
gli aveva dato la notizia, perché in cuor suo lo considerava
suo
solo in parte. Lo aveva generato, ma forse non lo avrebbe visto
crescere. Era suo padre, ma forse lui avrebbe chiamato qualcun altro
con quell'appellativo, l'uomo che Arianrhod avrebbe sposato, l'uomo
che lo avrebbe creduto suo e lo avrebbe cresciuto ed educato.
Gareth
aveva cercato di mantenere un certo distacco da quel bambino, ma ora
si rendeva conto che aveva miseramente fallito. Perché
già amava
quella piccola vita che cresceva nel ventre di Arianrhod.
Percependo
la sua esitazione e il suo timore, Arianrhod gli prese la mano e la
guidò sul proprio ventre, con il palmo aperto.
“Non
devi avere paura di toccarmi. Non mi rompo di sicuro”, gli
disse
con un sorriso.
“Ancora
non mi sembra vero”, mormorò Gareth ammirato.
“Fra
nove mesi lo sarà ancor di più”, rise
Arianrhod.
“Credi
che sia un maschio o una femmina?”
“Non
lo so, non so davvero cosa aspettarmi.”
“Io
vorrei che fosse una bambina”, confessò Gareth.
“Davvero?”
Lui
annuì. “Ho sempre desiderato una figlia. Se poi
sarà bella come
te...”, le disse carezzandole la guancia.
Dopo
che Gareth si fu addormentato, Arianrhod rimase sveglia ancora per un
po' ad osservarlo. S'intenerì nel notare che, anche nel
sonno, lui
le teneva la mano sul grembo.
Era
l'alba quando Östen
bussò
alla porta per avvisare Gareth che era ora di tornare ai loro
alloggi. Gareth si vestì in fretta, salutò
Arianrhod con un lungo
bacio ed uscì, badando che nessuno lo notasse. Östen
era poco più avanti e gli dava le spalle; Gerda era con lui,
i due
erano molto vicini e parlavano fitto fitto, senza dar segno di
essersi accorti della sua presenza. Gareth li osservò per
qualche
secondo sorridendo tra sé e sé, prima di chiamare
l'amico.
***
Il
servitore percorreva i corridoi del sotterraneo, illuminati solo dal
bagliore arancio di poche torce fissate sporadicamente ai muri.
All'uomo non importava, anzi: la scarsa illuminazione lo avrebbe
aiutato a passare inosservato, cosa di cui aveva disperatamente
bisogno. Farsi sorprendere in una situazione simile gli sarebbe
costato molto caro, ma i soldi che quell'uomo gli aveva promesso gli
facevano davvero gola.
Come
aveva promesso l'uomo lo attendeva presso la porta che dava sul fiume
di Odense, un attracco per le imbarcazioni che raramente veniva
usato.
“Sei
arrivato finalmente!” lo apostrofò questi a voce
bassa e
sibilante. Indossava un mantello scuro con cappuccio, che rendeva a
malapena possibile vederlo in viso.
“Ora
sono qui”, ribatté il servitore irritato.
“Mi ci è voluto del
tempo per raccogliere le informazioni che mi avete chiesto, e non
credevo che avreste apprezzato un lavoro fatto a
metà.”
L'uomo
ghignò sinistramente. “Non lo apprezzo io e
soprattutto non lo
apprezza il mio padrone. Cosa hai saputo, dunque?”
“La
spedizione partirà fra una settimana esatta da oggi. Forse
quella
sarà la vostra sola occasione di mettere le mani sulla
principessa...”
“Tu
non devi preoccuparti di questo, non arrovellare quella tua testolina
su simili particolari. Da te voglio solo informazioni. Per il resto
me la vedrò io.”
Il
servitore fornì tutte le informazioni che era riuscito ad
ottenere
su “l'affare svedese”, come lo chiamava lui. L'uomo
ascoltò
attentamente, poi fece una smorfia di disappunto.
“Da
quanto tempo ci hai messo, avrei sperato in qualcosa in
più...”
“Se
non vi va bene”, replicò il servo sulla difensiva,
“perché non
andate voi stesso a procurarvi le informazioni che vi
servono?”
“Non
posso farmi vedere dalla principessa”, disse l'uomo con un
sorrisetto beffardo, “mi riconoscerebbe immediatamente, anche
se è
passato un po' di tempo dall'ultima volta che ci siamo
incontrati.”
Nota
dell'autrice: Eccomi
tornata bella gente!^^
Lo
so, sono in ritardo, ma mi sono resa conto che, con gli impegni che
mi si sono aggiunti, riesco a pubblicare a ritmo più lento.
Diciamo
ogni 2-3 settimane invece di una... purtroppo credo che il ritmo
d'ora in poi sarà questo, ma come penso sempre, piuttosto
che
scrivere qualcosa in fretta e male meglio aspettare un po' di
più e
avere qualcosa di decente. Quindi spero che il capitolo vi piaccia!
C'è stata la svolta tanto attesa, e il gruppo pronto a
partire per
la Svezia è ormai organizzato. Hrolf e Ragnhild saranno dei
nostri... e forse anche qualcun altro.
Che
ne dite del finale? Il traditore è rispuntato ma la sua
identità è
ancora un mistero...
Ho
notato che negli ultimi capitoli c'è stato un calo di
recensioni e
spero che non sia per la qualità della storia. Mi raccomando
anche
se c'è qualcosa che non vi piace o non vi convince fatemelo
sapere... i vostri pareri sono preziosissimi!
Alla
prossima
Eilan
|
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Capitolo 25 *** Capitolo venticinque ***
I
bauli vennero riempiti per la seconda volta, le navi di nuovo
caricate di armi e provviste, gli uomini allertati dell'imminente
partenza. Data la fretta della partenza Arianrhod dovette limitarsi
ad avvisare Morcant tramite un messaggero, perché non ebbe
tempo di
recarsi dal Piccolo Popolo personalmente.
Gerda
raccolse tutti i suoi abiti, la sua spada, la sua armatura, i
gioielli della regina Drott e la bambola Bron, e fece personalmente
il suo bagaglio. Da quando la data della partenza era stata fissata,
Gerda appariva cupa, triste, e Arianrhod cominciò a
domandarsene il
motivo.
Sospettava
che non fosse solo perché si era affezionata a lei e le
dispiaceva
vederla andare via, anche se questo era certamente vero.
La
mattina della partenza giunse accompagnata da una spessa bruma che
avvolse Odense, e che lasciava presagire una giornata calda e serena.
Il vento che avrebbe sospinto le navi attraverso il mare, fino in
Svezia, soffiava vivace.
Arianrhod
si stava vestendo in camera sua, con l'aiuto di Gerda, ma
inorridì
quando la serva le mise sotto il naso una tunica rossa con maniche
ampie e mantello abbinato.
“Non
metterò un vestito, Gerda”, disse decisa.
“E
cosa avete intenzione di indossare?”
“Portami
le mie brache... e una blusa. Mi serviranno anche gli
stivali.”
Gerda
sbiancò, avendo la prima vera reazione da diversi giorni a
quella
parte.
Tuttavia
non ribatté come avrebbe fatto di solito. Arianrhod
notò che si
morse la lingua, trattenendo una replica scandalizzata.
Decise
di spingerla a confidarsi.
“Ho
notato che sembra esserci qualcosa tra te e Östen...”
Seppe
di aver colto nel segno, perché due grandi chiazze rosse
comparvero
sulle guance di Gerda, mentre cercava di negare.
“No...
no, vi sbagliate. Non è così... non
c'è niente tra me e lui, ve
lo assicuro!”
“Peccato”,
disse Arianrhod con noncuranza, “perché avevo
proprio bisogno di
una persona che mi accompagnasse nel mio viaggio, e pensavo che
potessi essere tu. Ma se preferisci rimanere a Odense...”
“No!”
esclamò in fretta Gerda, prima di riuscire a fermarsi.
“Voglio
dire... no, non ci tengo a rimanere qui. Mia madre è morta,
non ho
famiglia e... e voi siete stata così buona e gentile con me.
Vorrei
davvero accompagnarvi come vostra ancella...”
Riprese
fiato dopo quel discorso sconnesso, pronunciato quasi senza prendere
fiato.
“Allora
così sarà”, disse Arianrhod.
“Sono felicissima di averti con
me. Non sei tenuta a dirmi niente, ma sappi che sei puoi rendere
felice Östen,
renderai
felice anche me. Lui è davvero un amico prezioso.”
Gerda
chinò il capo, imbarazzata, e Arianrhod non insistette
oltre. Il suo
sorriso sognante e il suo rossore le avevano già dato
conferma di
ciò che sospettava.
Gerda
tossicchiò, ancora in imbarazzo, ma trovò la
forza di cambiare
argomento.
“Volete
che vi acconci i capelli, ora?” chiese, senza poter
nascondere il
sorriso felice che ancora le incurvava le labbra.
“A
proposito di questo”, rispose Arianrhod, come parlando tra
sé e
sé, “ho deciso di no.”
“Ma
viaggerete scomoda con i capelli sciolti. So che non amate le grandi
acconciature, ma lasciate almeno che vi faccia una treccia...”
“Non
ce ne sarà bisogno”, disse Arianrhod prendendo il
pugnale che
aveva nel fodero. “Tagliali.”
Gerda
rimase a bocca aperta, totalmente inorridita.
“Mia
signora... dite sul serio? I vostri bellissimi capelli! Sarebbe un
delitto tagliarli.”
“Non
li ho mai potuti soffrire, Gerda. Era mia madre a volere che li
portassi così lunghi. Io li ho sempre trovati una
scomodità
incredibile. Vado in Svezia per combattere, non per partecipare a un
banchetto. Questi capelli mi saranno solo d'impiccio.”
Gerda
aggrottò la fronte, come cercando di ricordarsi qualcosa.
Poi si
avvicinò ad un baule, e con un'esclamazione di trionfo, ne
tirò
fuori una paio di forbici.
Le
mostrò ad Arianrhod. “Permettetemi di usare
queste. Il risultato
sarà sicuramente migliore.”
Arianrhod
annuì e si accomodò su una sedia. Gerda le si
mise alle spalle e,
con un sospiro rassegnato, cominciò a lavorare di forbici
sulla
chioma della sua signora.
Ciocca
dopo ciocca, la lunga chioma argentea di Arianrhod cadde sul
pavimento. Dopo che fu arrivata a tagliare all'altezza delle scapole,
Gerda si fermò, le forbici a mezz'aria. Le sembrava un
sacrilegio
tagliare ancora.
Ma
Arianrhod la pensava diversamente. “Continua”, la
incitò in tono
secco.
“Siete
sicura?”
“Sì.
Taglia ancora.”
Solo
quando i capelli le arrivarono alle spalle, fu soddisfatta e disse a
Gerda di fermarsi. La serva le porse uno specchio e Arianrhod si
rimirò compiaciuta. Gwenael sarebbe inorridita se l'avesse
vista in
quel momento.
Perdonami
mamma, non ero fatta per fare la moglie. Non sono come tu mi avresti
voluto.
***
Era
l’alba quando le navi della flotta attraccarono nella piccola
baia
di Sölvesborg, nel sud della Svezia. Il viaggio che avevano
intrapreso salpando dalla Danimarca era stato breve e senza
incidenti. Già nel pomeriggio, le spie mandate in
avanscoperta
tornarono con notizie fresche. Una parte dell'esercito, coloro che
avevano abbandonato Ale per unirsi ad Arianrhod, li avrebbe raggiunti
a Svängsta, a pochi giorni di cammino di distanza.
La
piccola insenatura che ospitava le loro navi si apriva sul fiordo era
silenziosa in quel sereno mattino d’estate. L’acqua
del mare
luccicava sotto i raggi del sole, gli stessi che davano una sfumatura
rosata ai picchi innevati delle montagne che si vedevano in
lontananza, sull’altro lato del fiordo. Ma lì,
dove si trovavano
loro, la neve si era già sciolta mostrando la tenera erba
fresca
puntellata qua e là da piccoli fiori. Le poche capanne del
villaggio
di Sölversborg
si
affacciavano direttamente sul fiordo. L'aria era profumata e fresca,
e Arianrhod la aspirò a pieni polmoni, estasiata.
“Benvenuta
a casa, mia regina”, disse il duca Fjölnir,
sorridendo commosso. Quell'impresa che sarebbe sembrata impossibile a
tanti, era a un passo dal suo compimento. Il cerchio si chiudeva:
aveva portato via un'erede al trono ancora bambina, e ora l'aveva
riportata a casa, ormai donna. Se il suo amico Jörundr
avesse potuto vedere quel momento ne sarebbe stato davvero felice.
L'esercito
proseguì la marcia dopo una breve pausa. Il tempismo era di
vitale
importanza.
Si
diressero verso nord, verso Uppsala, mantenendo un ritmo regolare. In
quelle lunghe ore in sella al suo cavallo Arianrhod poté
ammirare da
vicino la sua terra, le immense vallate ricoperte di boschi di
conifere, le cime innevate, i prati verdi alle pendici dei monti.
Gareth e Östen
le raccontarono di Uppsala, del suo castello e del grande tempio
adornato d'oro che ospitava le statue degli dei: Thor, con Odino, suo
padre, alla sua destra e Frigga, sua madre, alla sua sinistra. Ogni
nove anni, durante il mese di febbraio, avveniva un sacrificio
rituale. Si trattava di un rito, della durata di nove giorni, che
coinvolgeva l'intera popolazione svedese. Ogni singolo albero nel
bosco circostante era considerato sacro e depositario di enormi
poteri, e ad essi venivano appesi i nove animali vittime del
sacrificio.
“Anche
i monarchi vengono incoronati nel tempio di Uppsala”,
concluse
Gareth.
“Credo
di rammentare qualcosa”, disse Arianrhod, tentando di
riportare i
ricordi in superficie. “Qualcosa di quando ero piccola. Un
grande,
magnifico tempio dorato, e una sorta di cerimonia...”
“Ricordi
altro?” chiese Gareth
“Arianrhod
scosse la testa, desolata. “No, mi pare di no. Sono
più delle
immagini senza un filo conduttore. Avrò avuto forse tre o
quattro
anni.”
“Si
tengono altre cerimonie al tempio?” chiese Ragnhild,
interessata.
“Tre
volte l'anno vi si svolge il Blót”,
rispose Östen,
“che significa “rafforzare”. Lo scopo
della cerimonia è
proprio quello di rafforzare il potere degli dei tramite il rituale.
La carne degli animali sacrificati viene bollita, e poi condivisa con
tutti i presenti, che banchettano insieme. Anche le bevande sono
benedette e consacrate dai sacerdoti, i goði,
offrono
la bevanda consacrata a Frigga se è un blót
di primavera o
autunno, e a
Odino, se è un blót
d'estate.”
“Quando
al rito partecipa anche il re, è l'Arcidruido stesso a
officiarlo”,
aggiunse Gareth, “e invece della solita birra, viene
importato
addirittura del vino per l'occasione.”
“Voi
vi avete mai partecipato?”, chiese Hrolf.
“Una
volta, quando ero piccolo”, rispose Östen.
“Lì vidi tuo padre, Arianrhod. E l'Arcidruido
Sveigder.”
“Abbiamo
un rito simile in Danimarca”, disse Hrolf. “Viene
usato per
chiedere fertilità e prosperità per la nostra
terra.”
“Anche
qui. La preghiera che recitiamo è til
árs ok friðar, che
significa “per un anno fausto e pacifico”.
Preghiamo per la
nostra salute, la fertilità della terra, per una vita
serena, e per
la pace e l'armonia fra il popolo e gli dei.”
“E
i cristiani che vivono qui in Svezia? Sono obbligati a partecipare ai
riti?”, chiese Arianrhod.
“Quando
al potere c'era Jörundr
erano liberi di seguire la loro fede, senza temere persecuzioni. Ora,
con Ale, se vogliono essere esentati dalle cerimonie a Uppsala devono
pagare un pesante tributo”, spiegò Östen.
“Anche
tu sarai incoronata lì, Arianrhod”,
esclamò Ragnhild. “Ci
pensi?”
“Dove
è stato incoronato tuo padre”, aggiunse Gareth,
“tuo nonno, e
tutti i tuoi avi prima di te.”
Ma
Arianrhod non stava più ascoltando. Pensava a come avrebbe
cambiato
le cose una volta che fosse stata regina.
***
La
cosa che preoccupava maggiormente Fjölnir
e i suoi comandanti era la necessità di localizzare i
ribelli il
prima possibile, ma senza indicazioni su dove si trovasse il loro
rifugio l'impresa si presentava davvero difficile. Le spie della
Guardia Bianca inviavano regolarmente notizie sui movimenti delle
truppe di Ale, ma ancora non erano riusciti a scoprire niente sui
ribelli e sulla loro ubicazione. Sembrava impossibile stabilire un
contatto con loro.
Fu
quindi con grande stupore di tutti che, il giorno seguente, un uomo
si presentò ai comandanti dell'esercito, dicendo di essere
stato
mandato da Hogne, il capo dei ribelli.
“Lo
abbiamo già controllato, non ha armi addosso”,
disse Walbur
conducendo l'uomo davanti ad Arianrhod.
La
principessa notò che era spaventato, e non poteva
biasimarlo. Il
rischio di essere considerato una spia era concreto. In tempi come
quelli il lusso di potersi fidare senza prove era impensabile.
“Come
ti chiami?”
“Erling,
mia regina. Mi manda Hogne, vi sta cercando.”
“Perché
non è venuto di persona?” lo sfidò
Vanlande. Era ovviamente una
provocazione: tutti i presenti conoscevano la risposta, perfino
Domaldr.
“Non
osa esporsi così tanto, non ancora. La nostra sopravvivenza
dipende
dal mantenere segreta l'ubicazione del nostro rifugio. Solo questo ci
ha permesso di sopravvivere fino ad oggi.”
“Cosa
propone il tuo capo?”, chiese il duca Fjolnir.
“Un
incontro, in un posto sicuro. Vi condurrò io.”
Arianrhod
guardò i suoi comandanti. “Non possiamo spostare
tutto l'esercito,
non nel bosco... dovremo selezionare un piccolo gruppo.
Andrò io,
Gareth, Östen,
Walbur, e una
scorta. Tutti gli altri resteranno con il grosso dell'esercito.
“Credete
sia prudente?” interloquì Fjölnir.
“Non
abbiamo altra scelta.”
“Forse
sarebbe meglio se tu restassi qui”, disse Gareth.
“No.”
Tutte
le teste si voltarono verso Erling, che aveva espresso
quell'obiezione.
“Il
mio capo vuole incontrare la regina” spiegò,
“prima di concedere
la sua alleanza.”
Arianrhod
riportò lo sguardo sul viso dubbioso di Gareth.
“Non abbiamo altra
scelta.”
Arianrhod
montò sul suo cavallo, tra i saluti di Ragnhild e le
raccomandazioni
di Gerda, che rimasero con il resto dell'esercito. Hrolf si
offrì di
accompagnarla, ma Arianrhod gli chiese di occuparsi della situazione
lì, e notò l'espressione di sollievo sul viso di
Ragnhild quando lo
disse. La sua amica odiava essere separata da Hrolf, proprio come lei
odiava essere separata da Gareth.
Il
piccolo drappello di soldati si inoltrò nel bosco, seguendo
Erling
in testa al corteo, in quel mite pomeriggio. Gareth cavalcava
accanto a Östen,
gli davano
le spalle Arianrhod e Walbur, che parlavano tra di loro.
Il
silenzio del bosco che li circondava gli sembrava opprimente, tetro.
Come il triste presagio di qualcosa di spiacevole.
“Ehi,
cos'hai?” gli chiese Östen
strappandolo alle sue riflessioni. “Sei più cupo
di un temporale.”
“Scusami,
è che ho una strana sensazione. Non mi convince
quell'Erling...”
“Ne
sei sicuro?”
“No,
è questo il guaio”, sospirò Gareth,
alzando le spalle. “E' solo
una sensazione.”
Tutto
sembrava tranquillo intorno a loro, niente più del
cinguettio degli
uccelli, dello scalpiccio degli zoccoli dei cavalli e del vociare
sommesso dei soldati che parlavano tra loro.
Eppure
Gareth sentiva che qualcosa non andava. Gettò un'occhiata
all'uomo
che li guidava, il sedicente membro dei ribelli. E con sua grande
sorpresa, proprio in quell'attimo l'uomo guardò alla sua
sinistra,
verso il folto degli alberi. Il tutto si svolse nell'arco di pochi
secondi, ma per Gareth il tempo sembrò contrarsi a
dismisura. Guardò
anche lui nelle stessa direzione e vide ciò che Erling aveva
visto.
Vide coloro a cui stava dando un segnale. Gareth capì ogni
cosa;
comprese che aveva avuto ragione a diffidare e che erano caduti
dritti in una trappola. Ma era troppo tardi per fare qualsiasi cosa.
Un'orda
di uomini a cavallo uscì allo scoperto lanciando grida
selvagge. Non
erano molti, ma abbastanza da restare nascosti nell'ombra in attesa
del momento propizio; abbastanza da avere la meglio sul loro
drappello.
Prima
che chiunque potesse avere una qualsiasi reazione, si schiantarono
contro il fianco della loro colonna, mandando nella polvere uomini e
cavalli.
Gareth
udì le grida di coloro che erano rimasti schiacciati sotto
il
proprio cavallo, le grida di coloro che venivano finiti con le lame,
e sentì l'improvviso, familiare e pungente odore del sangue.
Con
la spada in pugno si preparò a difendersi:
affondò la lama nello
stomaco del primo uomo che cercò di disarcionarlo e,
miracolosamente, riuscì a rimanere in sella.
Quando
ritirò la lama lorda di sangue, notò che Östen
non era stato altrettanto fortunato. Era caduto a terra ed era stato
ferito al braccio; era costretto a impugnare la spada con la sinistra
e cercava valorosamente di parare i colpi che il suo avversario gli
indirizzava con un'ascia.
Gareth
saltò a terra e menò un fendente diretto alla
schiena del
guerriero, che cadde a terra con un urlo lacerante. Il suo sangue
zampillò macchiando il volto e la casacca di Gareth.
“Stai
bene?” quasi gridò ad Östen
per superare il clamore della battaglia.
Östen
annuì, tenendosi stretto il braccio con la mano.
“Non è grave. Ti
devo la vita, amico mio. Vai da Arianrhod adesso!”
Gareth
esitò. “Non posso lasciarti qui
così...”
“Vai,
ho detto! La sua vita è più importante della
mia.”
Per
quanto avrebbe voluto correre da lei, Gareth non avrebbe mai lasciato
l'amico a morire. Schivando un altro attacco, e colpendo a sua volta
l'avversario alla gola, recuperò il suo cavallo afferrandolo
per le
briglie. Aiutò Östen
a salire e poi montò a sua volta. Spronò il
cavallo in avanti,
travolgendo due guerrieri nemici che finirono schiacciati sotto gli
zoccoli. Le loro grida di dolore e il rumore delle ossa rotte
arrivarono ovattate alle orecchie di Gareth.
Frenò
il cavallo solo quando raggiunse la testa della colonna. Solo allora
si accorse che i nemici si stavano ritirando, e se ne chiese il
motivo.
Gli
fu chiaro quando vide Walbur a terra, sporco di fango e sangue
rappreso. Gareth si chinò su di lui e constatò
con sollievo che il
sangue non apparteneva al comandante. Cercò di aiutarlo ad
alzarsi,
ma Walbur ricadde all'indietro con un gemito di dolore.
Östen,
che era riuscito a scendere dal cavallo utilizzando l'unico braccio
sano, si accovacciò accanto all'amico e, con uno sguardo
significativo, sollevò la cotta di maglia del comandante.
Gareth
imprecò quando vide lo squarcio che gli attraversava il
ventre. Era
profondo, e i due cavalieri si resero subito conto che era molto
grave.
“L'hanno
presa”, mormorò Walbur, con un filo di voce.
Gareth
sentì il sudore ghiacciarglisi addosso a quelle parole. Östen
era sbiancato, e non solo per il sangue che aveva perso.
“Dove
l'hanno portata?”
“Non
lo so, si sono allontanati in quella direzione. Quell'uomo non era
ciò che diceva di essere.”
Gareth
strinse i pugni dalla rabbia. “Ci hanno ingannati! E noi
abbiamo
fatto il loro gioco!”
Östen
cercò di tamponare la ferita di Walbur con le mani, ma il
sangue
continuava a sgorgare copioso.
“Ho
fallito il compito al quale avevo votato la mia vita”, disse
il
moribondo in un sussurro. “Credo che stasera sarò
accolto
nell'Helheim.”*
Un
amaro sorriso gli si dipinse sul volto, sempre più terreo.
Infine
Gareth sentì la testa dell'uomo, che teneva sollevata,
accasciarsi
inerme sul suo braccio.
“Sei
morto da eroe, cercando di difendere la tua sovrana”, disse Östen,
chiudendo gli occhi del morto con la mano sinistra. “Sono
sicuro
che stasera sarai accolto da Bragi, nel Valhalla.”**
***
Arianrhod
riprese coscienza lentamente. Un dolore sordo gli pulsava nelle
tempie. Si sfiorò la testa con un dito e lo ritrasse subito
con una
smorfia di dolore.
Ricordò
di essere stata colpita alla testa, aveva perso conoscenza e ora
sentiva dolore ovunque. Era seduta sul pavimento in pietra di una
stanza in penombra. L'unico arredamento era un vecchio letto tarlato,
un catino con un po' d'acqua e un pitale.
Cercò
di mettersi in piedi, ma ricadde seduta con un gemito. Cosa diavolo
le avevano fatto? L'avevano messa fuori gioco con una botta in testa,
ma forse la cavalcata forsennata con la quale l'avevano portata in
quel posto l'aveva lasciata contusa.
Con
uno sforzo riuscì a mettersi a sedere sul letto e,
allungando le
mani fino ad immergerle nel catino, cercò di lavarsi via la
terra,
il fango e il sangue dalle mani e dal viso.
Per
tutto il tempo si diede della stupida per essersi lasciata aggirare
in quel modo. E si torturava non sapendo se Gareth e Östen
stessero bene. Si consolò pensando che almeno Ragnhild e
Gerda erano
rimaste al sicuro con l'esercito.
Aveva
una forte nausea, ma non seppe dire se fosse dovuta al colpo in testa
che aveva ricevuto o fosse una conseguenza della gravidanza.
Il
sole stava quasi per tramontare: Arianrhod se ne accorse dai raggi
rossastri che penetravano dalla feritoia della stanza.
Sentì
dei passi nel corridoio, e il rumore del chiavistello che girava. La
porta cigolò sui cardini quando venne aperta.
Quando
vide l'uomo che era entrato nella stanza, Arianrhod trattenne un
grido.
Conosceva
molto bene quell'uomo. Lo aveva conosciuto fin da quando erano
entrambi due bambini, al villaggio.
“Buonasera,
mia adorata”, disse Owainn con un ghigno.
*Helheim
è il livello più basso dell'oltretomba norreno,
una landa desolata,
battuta dal vento e dalle piogge. È popolato dalle ombre
delle
persone macchiatesi di colpe gravi, come omicidi e tradimenti, ma
anche di coloro che sono morti senza gloria, da codardi.
**Il
Valhalla è il terzo livello dell'oltretomba, dopo l'Helheim
e
l'intermedio Nilflheimer. E' uno dei palazzi di Asgard e residenza
degli eroi morti gloriosamente in battaglia. Bragi è il dio,
braccio
destro di Odino, che accoglie le anime in questo regno.
Nota
dell'autrice: Ciao
a tutti!
Per
questo capitolo volevo innanzitutto dare un paio di cenni. Prima di
tutto sul Tempio di Uppsala: si tratta di un tempio realmente
esistito che si trovava appunto a Gamla Uppsala (ovvero Uppsala
vecchia), la capitale e centro del potere della dinastia degli
Yngling, tant'è che le
più antiche fonti scandinave come la
Yngling saga
e la Gutasaga
si riferiscono ai sovrani di Svezia come "Re a Uppsala". I
riti che ho descritto avevano davvero luogo in questo pregevole
tempio, dalle decorazioni d'oro e adornato con statue dei principali
dei norreni. È altresì storicamente vero che i re
svedesi venivano
incoronati qui e che vi avevano luogo i riti da me descritti.
Purtroppo il tempio fu distrutto nel XI secolo per mano dei cristiani
che erano ormai divenuti detentori la religione principale del paese.
Diverse fonti parlano del tempio di Uppsala, ma le più
importanti
sono le "Gesta
Danorum"
di Saxo Grammaticus, uno storico tedesco del XI secolo, e le "Gesta
Hammaburgensis Ecclesiae Pontificum"
di Adamo di Brema, uno storico e teologo tedesco vissuto sempre
nell'XI secolo.
Poi
ovviamente sulla rivelazione del capitolo: l'identità del
traditore.
Alcuni di voi lo avevano già intuito! :) Nel prossimo
capitolo
spiegherò un po' più in dettaglio i motivi di
questo figlio di
ballerina di Owainn.
Grazie
a tutti voi che leggete e recensite! You are my strenght! ^.^
Baci
Eilan
|
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Capitolo 26 *** Capitolo ventisei ***
“Dannazione,
è stata tutta colpa mia!” gridò Gareth,
furioso con se stesso.
“Ci
ha ingannati tutti, figlio mio. Non essere duro con te stesso.
Credevamo di aver mandato con lei una forza sufficiente a
proteggerla, ma non è stato così. Sono io il capo
della Guardia
Bianca: se c'è qualcuno che ha fallito, quello sono
io”, disse
Fjölnir
mettendo una mano
sulla spalla del figlio.
“Siamo
tutti colpevoli”, tagliò corto Vanlande, lo
sguardo duro e
l'espressione addolorata. Walbur era stato un amico per lui, prima
ancora che un compagno di sventure, e la notizia della sua morte lo
aveva colpito più di tutti. “Ora dobbiamo decidere
cosa fare per
trovarla.”
“Cosa
vi fa credere che Ale non la uccida prima che noi riusciamo soltanto
a capire dove si trovi?” chiese Hrolf.
Il
gelo calò sull'assemblea riunita. Ragnhild si
avvicinò al suo
principe e gli prese la mano.
“Dobbiamo
trovarla in fretta”, gli disse. Era la prima volta che
trovava il
coraggio di parlare di fronte a tanti uomini.
“Ale
si trova molto probabilmente molto più a nord. A Uppsala o
nei suoi
dintorni. Non può essere ancora arrivato qui e quindi
Arianrhod non
è ancora nelle sue mani. Forse abbiamo una piccola
speranza”,
intervenne Östen.
Gli
avevano medicato e bendato il braccio ferito, e ora doveva portarlo
appeso al collo.
“Bene”,
concesse Fjölnir
con un
sospiro. Cercò una delle mappe nella pila di pergamene
arrotolate e
trovò quella gli serviva. La srotolò sul tavolo e
cominciò a
posizionare segnalini.
“Cosa
avete in mente?” chiese Vanlande.
“Non
ci sono molti posti adatti nei dintorni dove possono aver portato la
regina in attesa dell'arrivo di Ale... se questo è
ciò che hanno in
mente.”
“Dovremmo
attaccare in forze, padre?” chiese Domaldr.
“Dobbiamo
trovarla prima di poter pensare a un piano d'attacco. I tuoi uomini
possono esserci utili Morcant. Loro conoscono bene i
boschi...”
“Siamo
al servizio di aman madhad. Faremo
tutto ciò che è necessario per salvarla, ma il
mio popolo non usa
cavalcature come fa il vostro”, disse Morcant.
“Verrete
a piedi?”
“Sappiamo
essere molto più veloci dei vostri fanti, anche se le nostre
gambe
sono più corte delle vostre.”
“E
se Ale avesse dato ordine di ucciderla immediatamente?”
intervenne
Vanlande.
Tutte
le teste si voltarono contemporaneamente verso di lui.
“No...”
mormorò Gareth, scuotendo la testa.
“NO!”
Si
fermò un momento a fissare i presenti, il respiro ansante.
Poi uscì
dalla tenda, scostandone bruscamente i lembi.
Östen
gli corse dietro raggiungendolo mentre già stava sellando il
proprio
cavallo. Cercò di afferrarlo per un braccio, ma Gareth si
sottrasse
sgarbatamente.
“Si
può sapere cosa stai facendo?” gli chiese Östen.
“Sto
andando a cercarla.”
“Da
solo? Sei impazzito?”
“Chiunque
voglia unirsi a me è il benvenuto, ma non
attenderò un minuto di
più. Se necessario batterò questa regione palmo a
palmo.”
Östen
tacque alcuni istanti, prima di chiedere: “Sei arrabbiato con
me,
non è vero?”
“Perché
dovrei?”
“Io
ti avevo detto di pensare a lei e lasciarmi dov'ero. Ti avevo detto
che la mia vita non vale quanto la sua. Sei tu che non hai voluto
ascoltarmi!”
Gareth
si voltò finalmente a guardare l'amico. La sua espressione
di rabbia
si addolcì.
“Non...
non sono arrabbiato con te. È stata una mia decisione, e
comunque
non la rimpiango. Ma lei... lo sai... io, non...”
Gareth
prese un respiro profondo, cercando di calmarsi.
Östen
gli mise una mano sul braccio. “Lo so. Verrò con
te.”
“Non
puoi essermi d'aiuto con quel braccio...”
“Posso
cavalcare, e anche se non posso combattere, se la tengono in qualche
luogo sicuro servirà più l'astuzia che la forza
per tirarla fuori
di lì.”
“Va
bene”, acconsentì infine Gareth. “Östen,
se dovesse succedere qualcosa a lei o a mio figlio, io non potrei
continuare a vivere con questo rimorso...”
Qualcuno
si schiarì la voce alle loro spalle, facendoli sussultare.
Girandosi
di scatto, i due cavalieri si trovarono di fronte il duca Fjölnir,
i piedi ben piantati sul terreno e le mani sui fianchi.
“Padre,
io...”, cominciò a dire Gareth, pallido in viso.
Il
duca lo fulminò con lo sguardo. “Ne parleremo
più tardi”, disse
secco. “Ora ci sono cose più urgenti a cui
pensare.”
“Aspetta”,
lo trattenne Gareth, “posso spiegarti!”
“Non
ora, Gareth. Rimandiamo questa discussione ad un altro momento, o
temo che non avrò la lucidità per salvare la
nostra regina.
Proteggerla era anche il tuo compito, ma a quanto ho potuto capire,
tu hai fatto molto di più...”
Gareth
deglutì. Non poteva ribattere alle parole di suo padre,
né offrire
una valida giustificazione. La vergogna e il senso di colpa erano
troppo forti.
“Come
volete, padre. Verrete con noi?”
“Ci
divideremo. Tu, Domaldr e
Morcant
andrete a nord ovest. Io, Vanlande e Hrolf nella direzione opposta. La
troveremo più in fretta in questo modo. Avrete a
disposizione una
decina di uomini, e noi altrettanti. Sarà più
semplice non dare
nell'occhio e ci muoveremo più velocemente.”
“Duca,
e io?” chiese Östen.
“Tu
sarai il responsabile dell'accampamento fino al nostro ritorno. Non
ci saresti utile con il braccio in quelle condizioni.”
***
Arianrhod
guardava con livore la figura familiare che le stava davanti. Se
aveva creduto di provare odio in passato, si era sbagliata. Quello
non era niente. Aveva creduto di odiare gli assassini dei suoi
genitori, ma ora scopriva che l'odio era un sentimento molto
più
profondo e intenso di quanto avesse pensato.
“Tu!”
gridò, mettendosi in piedi. “Ci sei tu dietro
tutto questo?”
“Non
dirmi che non te lo aspettavi” la prese in giro Owainn,
avvicinandosi a lei. “Non dirmi che in quella testolina vuota
nemmeno per un secondo ti è balenato il
sospetto...”
“Io
mi fidavo di te.”
Owainn
scoppiò a ridere, e Arianrhod sentì gli occhi
riempirsi di lacrime.
Avrebbe voluto tapparsi le orecchie per non dover sentire quella
risata.
“Ti
fidavi di me? Accidenti, Ale ti ha davvero sopravvalutata! Se penso a
quanta pena si è dato per trovarti e ucciderti...”
“Come
hai potuto fare questo? Mio padre ti ha sempre trattato come un
figlio, Ciaran era il tuo migliore amico... come hai potuto lasciare
che li massacrassero?”
“Ammetto
che non sarei voluto arrivare a tanto”, rispose Owainn
alzando le
spalle. “Ma non mi hanno lasciato altra scelta.”
“Di
cosa stai parlando?”
“Tuo
padre non voleva concedermi la tua mano. Ci teneva separati, dovevo
fare qualcosa.”
“Come
hai scoperto la mia identità?”
“Ho
origliato per caso una conversazione tra i tuoi genitori. Tuo padre
aveva rifiutato la mia proposta di sposarti per l'ennesima volta, e
quando l'ho sentito discutere con tua madre sono rimasto nei paraggi
per ascoltare. Volevo capire perché non mi volessero come
genero,
capisci? Doveva esserci un motivo. Certo, non mi sarei aspettato
niente del genere, era una cosa più grossa di quanto avrei
mai
pensato. Troppo grossa per tenerla solo per me...”
“Non
l'hai fatto per me. Credi di prendermi in giro? Lo hai fatto solo per
il denaro!”
“In
parte”, ammise Owainn. “Ale mi ha offerto una
posizione e una
ricca ricompensa. Ma l'accordo era che tu facessi parte del
bottino.”
Allungò
una mano verso di lei e le sfiorò una ciocca di capelli.
“Non
toccarmi!” ringhiò Arianrhod, scostandosi
bruscamente.
“E'
un peccato che tu abbia tagliato quella meravigliosa chioma. Questo
taglio non ti dona. Ma credo che mi accontenterò.”
“Sei
pazzo se credi che Ale manterrà i termini
dell'accordo!” gli buttò
addosso Arianrhod con disprezzo. “Lui mi vuole morta. Lo
vuole
sopra ogni cosa. Non mi risparmierà solo per soddisfare la
tua...
lussuria.”
“Lussuria?
Credi che sia questo?” Owainn divenne improvvisamente serio.
“Non
capisci che io ti amo. Ho fatto tutto questo per poter stare con te e
darti quello che meriti. Ora possiedo terre e un titolo: posso
offrirti tutto ciò di cui hai bisogno. Non avrei mai potuto
farlo se
fossi rimasto un semplice bracciante.”
“Tu
sei pazzo!”
“Sono
pazzo di te, mia adorata.”
“No,
tu sei pazzo e basta! Tutto ciò che hai ottenuto, i tuoi
titoli, le
tue terre, sono macchiati del sangue della mia famiglia. Credi che
potrei mai provare qualcosa per te? Sei solo un vigliacco e mi fai
ribrezzo”, gli disse guardandolo negli occhi, senza
indietreggiare.
Owainn
fu su di lei in pochi attimi e le strinse il mento in una morsa
ferrea. Arianrhod rimase immobile. Poteva vedere le narici di lui
fremere di rabbia repressa, il guizzo di follia che gli accendeva lo
sguardo.
“Sei
fortunata, se solo lo volessi potrei spezzarti il collo con due dita.
Ma non ho ancora deciso di rinunciare con te.”
Finalmente
la lasciò andare, allontanandosi da lei. Ma Arianrhod non
mosse un
muscolo.
“Bene”,
continuò Owainn, alzando le mani.
“Vorrà dire che resterai ancora
un po' in questa stanza a riflettere su cosa preferisci: diventare
mia moglie e una rispettabile suddita di Ale, o affidarti alla sua
pietà sperando che ti conceda la morte veloce che ha
concesso ai
tuoi genitori. A te la scelta.”
Poi
se ne andò, chiudendosi la porta alle spalle.
“Se
pensi che mi lascerà in vita per esaudire un tuo desiderio,
sei più
stupido di quanto pensassi!” urlò Arianrhod
battendo con forza i
pugni contro la porta chiusa. Ma Owainn non raccolse la provocazione,
e lei rimase sola in quella stanza vuota. Si toccò la
mascella
dolorante, su cui già cominciava a comparire un livido
scuro.
Arianrhod
ispezionò con cura la sua cella nella speranza di trovare
qualcosa
di utile alla fuga, ma senza risultati. Si sentiva profondamente
frustrata: le avevano portato via la Spada del Drago e anche il
pugnale di pietra del Piccolo Popolo. Non c'era speranza che potesse
servirsi di un'arma per risolvere la situazione. Allora
cercò di
capire qualcosa sul luogo in cui la tenevano prigioniera. L'unica
finestra che affacciava all'esterno era la feritoia che aveva
già
avuto modo di notare, ma si trovava troppo in alto rispetto a lei.
Con un discreto sforzo riuscì a spostare il letto fin sotto
la
finestra e, salendoci sopra, riuscì a sbirciare attraverso
la
feritoia. Scoprì che la costruzione dove la tenevano era una
casupola ad un solo piano. Non era certo una fortezza, e questa era
una buona notizia. Evidentemente non avevano trovato di meglio nelle
vicinanze. Inoltre Arianrhod sospettava che quello fosse solo un
accomodamento temporaneo: presto l'avrebbero portata a nord, verso
Uppsala. Sempre che non l'avessero uccisa prima.
Tuttavia
a impedirle qualsiasi tentativo di fuga c'era sempre una porta
sbarrata e quattro muri di solida pietra.
Arianrhod
sospirò: non poteva fare altro per il momento, se non
cercare di
riposare e di mantenersi in forze. Il sole era ormai tramontato del
tutto e lei si sdraiò sulla sua brandina, nella speranza di
riuscire
a dormire.
La
mattina seguente, dopo una nottata di sonno agitato, una donna
entrò
nella stanza portandole qualcosa da mangiare. Come si era sforzata di
dormire, Arianrhod si sforzò di mangiare. Il formaggio era
praticamente insapore, il pane duro e la birra annacquata, ma lei
ingollò tutto senza protestare.
Quando
la donna rientrò per portare via il vassoio vuota, Arianrhod
l'afferrò per la manica.
“Cosa
volete da me?” chiese lei, sospettosa.
Arianrhod
quasi non ricordava la sua madrelingua: un po' a gesti e un po'
utilizzando i vocaboli che conosceva, chiese alla donna se poteva
lasciarle il cucchiaio di legno che portava alla cintura. In cambio
le avrebbe dato la spilla d'oro che usava per chiudere il mantello.
Era
uno scambio vantaggioso, e la donna fu quasi tentata di accettare. Ma
poi scosse la testa e cercò di divincolarsi dalla presa
della
principessa, che ancora le stringeva il braccio. Evidentemente aveva
troppa paura di quello che avrebbero potuto farle,
se
lo avessero scoperto.
Arianrhod
avrebbe voluto gridare di frustrazione quando la vide affrettarsi a
chiudersi la porta alle spalle. Si gettò a sedere sul letto,
la
testa fra le mani. Uno ringhio rabbioso le uscì dalla gola,
mentre
afferrava e stringeva il bordo del letto con tutte le sue forze.
Ma
si bloccò quando le sue dita tastarono qualcosa di
interessante. Si
sdraiò supina sul pavimento e scivolò con il
corpo per metà sotto
il letto.
C'era
effettivamente qualcosa di interessante: una grossa scheggia di legno
si stava staccando da quel vecchio letto rotto. Arianrhod la rimosse
con attenzione. Non era lontanamente un'arma, ma forse sarebbe
riuscita a ricavarne qualcosa di utile.
***
Gareth
era felice che Morcant fosse con lui; un po' meno felice che anche
Domaldr fosse della partita, ma aveva tutta l'intenzione di dare
fiducia al fratello, purché lavorassero tutti insieme per
trovare
Arianrhod il prima possibile.
Morcant
stava seguendo le tracce del contingente di soldati che aveva preso
con sé la principessa, e Gareth aveva dovuto riconoscere che
si era
rivelato molto abile. Nessun occhio appartenente alla “gente
alta”
- come loro chiamavano la sua razza – sarebbe stato in grado
di
individuare determinate tracce, e anche per quelle più
evidenti
avrebbe impiegato molto più tempo.
Si
stavano dirigendo in una direzione diversa da quella che il duca
aveva ordinato loro di seguire, ma Gareth aveva deciso che preferiva
fidarsi dell'intuito di Morcant. Domaldr aveva provato a protestare,
ma Gareth l'aveva zittito tanto bruscamente che il fratello non aveva
più osato aprire bocca.
Fortunatamente
era riuscito a convincere Morcant a salire con lui a cavallo, anche
se lui si era inizialmente rivelato molto diffidente.
“La
mia gente non sfrutta altre creature viventi per farsi portare. La
dea ci ha dato gambe funzionanti ed è con quelle che
dobbiamo
spostarci”, aveva dichiarato.
Aveva
ceduto solo quando aveva notato lo sguardo disperato di Gareth.
“Lo
faccio solo per la nostra sorella di sangue. Anch'io sono impaziente
di ritrovarla.”
Avevano
cavalcato per un pezzo in silenzio, finché Morcant, che
cavalcava
dietro Gareth, gli rivolse inaspettatamente la parola.
“Non
è morta.”
“Come?”
chiese Gareth.
“So
che il tuo cuore se lo sta chiedendo. Lo sento tormentarsi in
continuazione. Aman madhad non
è morta.”
“E
tu come fai a saperlo?”
“Perché
io ascolto il mio cuore. Se lo facessi anche tu, lo sapresti.”
“Deve
essere in una di quelle stanze”, commentò Domaldr,
indicando la
casupola che avevano appena raggiunto grazie alla pista seguita da
Morcant. “Ma come facciamo a sapere quale?”
Acquattato
dietro a dei cespugli, Gareth rifletté.
“Ci
sono solo quattro guardie all'ingresso della casa”, disse,
“non
vedo il resto del contingente, che comunque non era numeroso.”
“Ce
ne saranno altre dentro”, obiettò Domaldr.
“Forse
una ventina, fra esterno e interno.”
“Avremmo
dovuto far avvicinare di più i soldati.”
“No”,
intervenne Morcant. “Questa non è una battaglia.
Avremmo solo
attirato inutilmente l'attenzione. Dobbiamo essere rapidi e
silenziosi.”
“Farò
appostare i soldati a poca distanza, così che possano
intervenire
quando ci inseguiranno. Ma è meglio far credere di essere in
pochi:
sfrutteremo l'effetto sorpresa”, disse Gareth.
“Perché
non assaltiamo in forze e basta?” insistette Domaldr.
“Per
gli dei, non capisci che non si tratta di uno scontro in campo
aperto? Cosa gli impedirebbe di uccidere Arianrhod nel tempo che noi
impiegheremmo a entrare in un luogo chiuso con una massa di soldati?
Piuttosto che lasciare che venga liberata le taglierebbero la gola.
Non possiamo rischiare. Una volta che sarà al sicuro con
noi,
potremo anche attaccare e annientarli come vuoi tu, ma sinceramente
non ne vedo l'utilità.”
“Parli
con saggezza, giovane uomo”, disse Morcant soddisfatto.
Domaldr
tacque, sconfitto ancora una volta nella guerra delle parole.
Angolo
autrice: Ciao
a tutti! Ecco il nuovo capitoletto, su cui non ho molto da dire se
non che ne sono abbastanza soddisfatta. Spero che anche a voi
piaccia! Il duca ha scoperto tutto e, come era prevedibile, non ne
è
troppo felice. Riuscirà a capire le ragioni Gareth? Grazie a
tutti
coloro che leggono/seguono/recensiscono, siete fantastici come
sempre.
Alla
prossima
Eilan
|
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Capitolo 27 *** Capitolo ventisette ***
Gareth,
Morcant e Domaldr strisciarono silenziosamente lungo i muri di
pietra, affacciandosi ad ogni angolo per assicurarsi di non essere
visti. Il buio fitto era loro d'aiuto, e le uniche torce che
gettavano un po ' di fioca luce nell'oscurità erano quelle
in mano
alle due guardie all'ingresso della casa.
Gareth
attese che le sentinelle fossero voltate, poi fece un cenno col capo
ai suoi compagni, scivolando alle spalle del nemico.
Con
un solo rapido gesto afferrò la testa della prima guardia e
gli
tagliò la gola. Domaldr fece altrettanto con la seconda
guardia, ed
entrambi gli uomini crollarono a terra senza emettere un suono,
inzuppando il terreno del loro sangue zampillante.
“Ce
ne sono altri dentro?” sussurrò Domaldr.
“Ho
paura di sì. Entriamo con prudenza e, se necessario, agiamo
allo
stesso modo”, rispose Gareth indicando i due uomini morti a
terra.
“Spero
che tu abbia una buona ragione per avermi fatto chiamare nel cuore
della notte”, disse Owainn mettendo piede nella stanza di
Arianrhod.
Lei
se ne stava in piedi, le braccia lungo i fianchi, l'atteggiamento
calmo e e sereno.
“Volevo
parlarti”, disse semplicemente.
Owainn
avanzò verso di lei con un'espressione di giubilo.
“Vuoi
dire che hai riflettuto sulla mia generosa proposta?”
“L'ho
fatto, sì”, disse Arianrhod scostandosi una ciocca
di capelli dal
viso. “D'altronde non ho avuto altro da fare che
pensare.”
“Mi
dispiace, so che questa stanza non è adatta a una donna di
rango
come te. Ma quando sarai mia moglie non ti farò mancare mai
nulla,
te lo giuro...”
Arianrhod
alzò una mano per bloccarlo. “Sì... non
ne dubito”, disse con
un sorriso forzato. “Ed ora sono pronta a darti la mia
risposta...
a una condizione, però.”
Owainn
la guardò sorpreso. “Quale condizione?”
Lei
gli si avvicinò guardandolo negli occhi. “Ma devi
giurare di
dirmi solo la verità.”
“Te
lo giuro”, mormorò Owainn, rapito dall'ondeggiare
dei suoi
fianchi.
Arianrhod
si fermò solo quando il suo volto fu a pochi centimetri da
quello
dell'uomo. Lo vedeva che Owainn era completamente ammaliato da lei.
La fissava cercando disperatamente di trattenersi dal baciarla.
Almeno finché lei non le avesse posto la domanda che le
stava tanto
a cuore.
“Enid
sapeva?”
“C-cosa?”
“Enid
sapeva che mi avevi tradita? Ne era al corrente?”
Owainn
scoppiò in una risata liberatoria. Dal modo serio e solenne
con cui
lei aveva parlato ed agito si era aspettato chissà quale
complessa
richiesta; chissà quale difficile condizione per
acconsentire a
sposarlo. Rispondere a quella domanda invece non gli costava nulla ed
era anche dannatamente semplice.
“Quella
sciocca di mia sorella? No! Lei ti adorava. Se avesse saputo che ero
stato io mi avrebbe ucciso con le sue stesse mani!”
“Bene”,
sorrise lei, posandogli una mano sulla guancia. “Era tutto
quello
che volevo sapere.”
Lo
attirò a se, come se volesse baciarlo, e Owainn
l'assecondò
docilmente.
Quello
che si aspettava era di assaporare finalmente la dolcezza delle sue
labbra, qualcosa che attendeva da tempo immemore. In quei pochi
attimi immaginò come sarebbe stato essere sposato con lei,
con la
donna dei suoi sogni, avendo anche i mezzi per condurre una vita
agiata. Stava per ottenere tutto ciò che aveva sempre
agognato:
ricchezza, potere... e lei.
Tutto
si sarebbe aspettato tranne che sentire la mano di lei scivolargli
dietro al collo, tirarlo bruscamente verso di sé ed essere
colto
talmente alla sprovvista di non avere il tempo di reagire.
Sentì se
stesso gridare di dolore e crollare sul pavimento, con un pezzo di
legno acuminato che gli spuntava dal collo.
Arianrhod
lo osservava dall'alto, immobile, il petto che le si alzava e si
abbassava rapidamente. Aveva temuto di non farcela, di non riuscire a
mantenere il sangue freddo. E invece c'era riuscita.
Owainn
era steso a terra, il sangue che zampillava dalla ferita al collo gli
imbrattava le mani, con le quali cercava freneticamente e alla cieca
di sfilarsi il pezzo di legno che gli lacerava la carne; quel pezzo
di legno che Arianrhod aveva passato ore e ore a rendere più
acuminato affilandolo contro le sbarre di metallo della sua cella.
Presto
le grida dell'uomo avrebbero attirato le guardie e Arianrhod sapeva
di doversi muovere in fretta se voleva approfittarne per scappare.
Frugò
in fretta addosso ad Owainn, ignorando gli insulti che lui le
lanciava inframmezzati a improperi di ogni tipo. Trovò il
suo
coltello di pietra e lo osservò per un attimo. Sapeva che la
ferita
che gli aveva inflitto non era mortale, perché la sua
improvvisata
arma di legno non possedeva l'affilatura di una lama di metallo o di
pietra. In quell'attimo considerò di risparmiarlo.
Ripensò a Enid,
a Owainn quando era bambino... a quando erano stati tutti bambini
insieme, e avevano giocato, riso, pianto, condiviso ogni cosa,
contato gli uni sugli altri. A quando avevano preso due cavalli senza
permesso dalla stalla di Eachann e avevano cavalcato fino al bosco, e
a come Owainn si era preso la colpa per tutti per evitare che i suoi
amici venissero puniti. A quando lui e Enid, nel giorno di festa,
camminavano fino alla fattoria solo per portare agli amici un cestino
con le pere del loro albero. Ma poi ripensò a cosa l'uomo
che si
dibatteva davanti a lei sul pavimento era stato capace di fare al suo
migliore amico. E tutta la sua pietà svanì.
Si
chinò su di lui e guardandolo negli occhi annebbiati gli
sussurrò.
“Questo è per Ciaran e per i miei
genitori.” E gli tagliò la
gola. Owainn si portò entrambe le mani al collo,
agonizzando. In
pochi attimi non rimase più in lui alcuna stilla di vita.
La
porta si aprì e Arianrhod strinse l'elsa del pugnale con
dita
convulse. Deglutì:si augurò a sopravvivere e di
guadagnarsi la via
verso la libertà, chiunque si fosse trovata davanti.
Il
sollievo la sopraffece quando si accorse che si trattava di Gareth,
seguito da Morcant e Domaldr. Si gettò tra le sue braccia e
lui la
strinse.
“Grazie
agli dei!” esclamò il cavaliere. “Stai
bene? Sei ferita?”
Arianrhod
si rese conto di essere macchiata di sangue sul viso, sui capelli e
sul corpetto.
Scosse
la testa, gli occhi lucidi di lacrime. “Non è il
mio sangue”, lo
rassicurò.
“E'
il suo?” chiese Domaldr indicando Owainn steso in una pozza
di
sangue. Arianrhod annuì di nuovo, cercando di ripulirsi il
viso dal
sangue.
“Noi
che credevamo di salvarti... e invece ti eri già salvata da
sola!”
commentò Gareth, strappandole un debole sorriso.
“Non
sarei così ottimista cavaliere”, lo
ammonì Morcant. “Dobbiamo
affrettarci se vogliamo che le guardie dall'altra parte della casa
non si accorgano di niente.”
“Andiamo”,
disse Gareth uscendo con circospezione, la spada sguainata. Arianrhod
lo seguì, stringendo ancora il pugnale. Domaldr e Morcant li
imitarono.
“Dove
sono le guardie?” chiese Arianrhod scrutando il corridoio
deserto.
“Sono
lì”, rispose Domaldr indicando dei corpi stesi a
terra che lei non
aveva notato.
“Li
avete uccisi tutti?”
“Solo
quelli necessari. Ce ne sono molti altri dall'altra parte ma abbiamo
preferito agire in silenzio e non metterli in allarme.”
“Se
riusciamo ad evitare di essere visti ci risparmieremo un inutile
battaglia”, disse Gareth, facendo loro cenno di seguirlo. I
quattro
camminarono raso muro e riuscirono ad uscire all'aria aperta.
La
notte era mite e il cielo puntellato di stelle luminose. Una brezza
lieve increspava le cime degli alberi e Arianrhod inalò a
pieni
polmoni. Il profumo era quello della libertà. Era la prima
volta che
veniva rinchiusa e, seppure tutta la faccenda non era durata che un
giorno e mezzo, la principessa ora sapeva che cosa significava essere
privati della libertà. La morte era di gran lunga
preferibile ad una
vita in una cella. La morte sarebbe stata preferibile anche ad un
matrimonio con Owainn. Anche se non fosse riuscita a ucciderlo e
fuggire, lui non l'avrebbe mai avuta. Piuttosto avrebbe posto fine
alla propria vita.
Il
gruppo si diresse verso i cavalli e montò silenziosamente in
sella.
Morcant stavolta dovette salire dietro Domaldr, perché
Arianrhod
salì sul cavallo di Gareth.
Improvvisamente
si levarono voci concitate e grida alle loro spalle, e i quattro
seppero che la fuga della prigioniera era stata scoperta. La rabbia
che si intuiva in quelle voci era diretta agli assassini dei compagni
morti, e tutti loro lo percepirono chiaramente.
“Ora
dobbiamo muoverci”, incitò Gareth. “Sei
pronta?” chiese ad
Arianrhod che gli cingeva la vita. Lei annuì e
appoggiò la guancia
sulla sua schiena, come se volesse assorbire il suo calore.
“Ci
verranno dietro!” gridò Domaldr allarmato.
“Noi
saremo già lontani quando si accorgeranno di quale direzione
abbiamo
preso”, rispose Gareth. “Dobbiamo tornare dai
nostri soldati e
poi via verso l'accampamento. Morcant... ho bisogno di te per trovare
la giusta direzione il prima possibile.”
“Conta
su di me, cavaliere.”
***
Quando
giunsero all'accampamento, alle prime luci dell'alba, il primo gruppo
di ricerca non aveva ancora fatto ritorno.
Ad
accoglierli, oltre ai cavalieri e ai guerrieri del Piccolo Popolo,
c'erano solo Östen,
visibilmente preoccupato, e Ragnhild, che cacciò un urlo non
appena
vide Arianrhod. Precipitandosi verso di lei, la la prese
letteralmente fra le braccia non appena Gareth l'ebbe aiutata a
scendere di sella. La giovane danese non aveva mai visto la sua amica
ridotta in quello stato: pallida, provata, esausta e coperta di
sangue.
“Per
tutti gli dei, cosa ti hanno fatto? Vieni, vieni con me cara! Ti
porterò nella tua tenda”, disse facendola
appoggiare al proprio
braccio e scortandola via prima che qualcuno degli uomini avesse il
tempo di pronunciare una parola.
Ragnhild
scostò il lembo di stoffa che costituiva l'apertura della
tenda e
portò dentro Arianrhod, aiutandola ad adagiarsi sulla sua
brandina.
“Aspettami
qui”, le disse, scostandole i capelli dalla fronte,
“ti porterò
subito dell'acqua per lavarti.”
Ma
non ebbe nemmeno il tempo di uscire che quasi si scontrò con
Gerda
che stava entrando in quel momento.
La
ragazza era fuori di sé per la preoccupazione.
“Mi
hanno... mi hanno detto che era qui! Cosa le hanno fatto? La mia
signora!” disse pronta a correre da Arianrhod.
Ragnhild
la bloccò appena in tempo.
“Non
so cosa le abbiano fatto, Gerda”, le disse sottovoce.
“Ma ti
prego, non chiederle niente finché non ne sapremo di
più.”
“Va
bene, milady. Ma ora fatemi andare da lei, ve ne prego. Devo
prendermene cura, devo...”
“Certo.
La tua signora ha bisogno di te, a partire da subito. Ha bisogno di
acqua per lavare via il... sangue. E forse anche di qualcosa da
mangiare e da bere.”
“Subito!
E le preparerò anche uno dei miei decotti calmanti. Ho
raccolto
diverse erbe nei dintorni che ho messo ad essiccare. Tornerò
in un
baleno!”
Corse
via e tornò poco dopo per aiutare Arianrhod a lavarsi e a
cambiarsi.
La principessa rifiutò il cibo, dicendo di non avere fame,
ma
trangugiò tutto d'un fiato il decotto di Gerda, facendo una
smorfia
di disgusto.
“E'
amaro come il fiele”, si lamentò.
“Lo
so mia signora, ma vi farà bene. Vi aiuterà a
riposare.”
E
sotto lo sguardo preoccupato di Ragnhild e Gerda, Arianrhod si
abbandonò ad un sonno profondo e ristoratore.
Quando
si svegliò era trascorsa quasi l'intera giornata e il sole,
che
ricordava ai suoi albori, stava già scomparendo dietro le
colline
ammantate d'erica.
Gareth
e Östen
andarono a farle
visita e la trovarono in compagnia di Gerda e Ragnhild, che non
avevano lasciato il suo fianco per un istante.
“Stai
meglio?” le chiese Östen
afferrando la prima sedia libera e sedendosi accanto alle donne.
Gareth lo imitò.
“Credo
di sì. Sono felice che Gareth mi abbia trovata.”
“Il
merito è soprattutto di Morcant”,
precisò Gareth, “senza di lui
forse non ti avremmo mai trovata in tempo.”
“Allora
lo ringrazierò. E anche Domaldr. Se non fosse stato per voi
ora
sarei morta... o nelle mani di Ale.”
“Siamo
talmente felici di riaverti con noi, Arianrhod”, le disse
Ragnhild
prendendole le mani.
“Siamo
state talmente in pena”, aggiunse Gerda.
“Vi
ringrazio: voi siete le persone più care che ho al mondo.
Non potrei
essere più fortunata di così. Come va il tuo
braccio Östen?
Gerda mi ha detto che sei stato ferito nell'imboscata...”
“E'
una sciocchezza, ma sarebbe andata molto peggio se Gareth non fosse
rimasto con me. Spero di essere presto di nuovo in forma per poterti
servire ancora.”
Continuarono
a parlare per qualche minuto, e Arianrhod mise al corrente anche
l'amico di ciò che le era successo durante la prigionia. A
nessuno
però, aveva detto una parola su Owainn e su ciò
che aveva fatto.
Per tutto il tempo Gareth rimase in silenzio, ma Östen
lo vedeva fremere d'impazienza sotto un'apparente maschera di calma.
Lo
osservò per qualche momento, poi si rivolse alle donne.
“Lady
Ragnhild, Gerda... che ne dite di andare a fare due passi?”,
disse
in tono inequivocabile.
“Ma
certo”, disse Ragnhild alzandosi. “Vado a vedere se
Hrolf e il
duca sono tornati.”
I
tre uscirono e Arianrhod sorrise nell'accorgersi che le mani di Gerda
e Östen
si sfiorarono quando
i due credettero di non essere notati.
Gareth
attese qualche attimo prima di parlare. Seguì con lo sguardo
una
falena che svolazzava intorno alla torcia piantata nel terreno,
rischiando di bruciarsi le ali in ogni momento.
Infine
trasse un profondo respiro e disse: “Arianrhod... chi era
quell'uomo?”
Lei
si voltò a guardarlo: aveva gli occhi lucidi, ma non versava
lacrime.
“Dovevo
immaginare che lo avresti chiesto”, disse con un sorriso
dolce
amaro. “Tu mi conosci più di chiunque altro,
Gareth, e non posso
nasconderti i pensieri che mi turbano. Era Owainn, un mio amico
d'infanzia, e il più caro amico di mio fratello
Ciaran.”
“E'
stato lui che...?”
Arianrhod
annuì. “Avrei dovuto darti ascolto fin dall'inizio
quando tentavi
di mettermi in guardia da qualcuno a me vicino. Giuro sugli dei che
non sarò mai più così
ingenua!”
“Ti
ha fatto del male?” chiese Gareth deglutendo visibilmente.
Aveva
davvero paura a porle quella domanda, ma doveva sapere.
“No,
non mi ha toccata. Sto bene... e anche il bambino sta bene”,
gli
sorrise lei.
Gareth
la strinse a sé, sollevato. “Povero amore mio...
so quanto deve
essere doloroso per te. Ma hai compiuto la tua vendetta: i tuoi
genitori sarebbero fieri di te.”
“Ne
sei sicuro? Me ne vergogno, ma per un attimo ho pensato di
risparmiargli la vita. Non sarebbero fieri di me per questo.”
“E
invece io credo che lo sarebbero ancor di più”,
disse Gareth.
“Come lo sono io. Se la compassione non facesse parte di te
non
potrei amarti così tanto.”
Rimasero
in silenzio per qualche minuto, semplicemente appagati di essere
l'una tra le braccia dell'altro.
Improvvisamente
Arianrhod si staccò da lui, come colpita da una rivelazione.
“Ma
certo!”, esclamò battendosi la mano sulla fronte.
“Cosa
c'è?”
“Quando
ero ad Avalon”, spiegò Arianrhod eccitata,
“Viviana ebbe una
visione per me, nel Pozzo Sacro. Mi disse che un giovane guerriero mi
avrebbe tradito, e lì per lì non capii a chi si
riferisse. Non
compresi neppure il vero significato di quell'appellativo, ma ora lo
comprendo... il nome Owainn nella nostra lingua significa 'giovane
guerriero'. Era a lui, era ad Owainn che la profezia si
riferiva.”
***
Il
secondo gruppo di ricerca era tornato all'imbrunire ed era stato
messo subito al corrente degli incredibili sviluppi. Il duca si era
assicurato di persona che la sua sovrana stesse bene, e le aveva
fatto una paterna lavata di capo sull'imprudenza e sull'eccessiva
fiducia. Arianrhod intuì che stava rimproverando soprattutto
se
stesso e accettò tutto con un mezzo sorriso sulle labbra.
Poi
Fjölnir
andò dritto da suo
figlio.
Gareth
sapeva che presto o tardi avrebbe dovuto rendere conto a suo padre di
ciò che aveva fatto, e il pensiero più
angosciante per lui era di
perderlo proprio ora che lo aveva ritrovato. Di sicuro sapeva di
averlo deluso, e questo fu ancora più palese quando
notò
l'espressione del suo volto.
“Figlio
mio, io avevo fiducia in te.”
Nel
suo tono c'era più stanchezza e rassegnazione, che rabbia.
“Ma
tu hai tradito la mia fiducia, hai tradito il tuo voto... e hai
tradito la Svezia.”
“Padre,
so di averti deluso. Me ne vergogno profondamente... ma io la
amo.”
“La
ami? Non fatico a crederlo, Gareth. Ma questo non ha importanza. Lei
doveva essere sacra e inviolabile per te, e tu le hai messo un
bambino in grembo! Ho addirittura riposto in te abbastanza fiducia da
darti il compito di convincerla a sposare Hrolf... che idiota sono
stato!”
“Ti
prego di credermi quando ti dico che ho fatto tutto il possibile per
convincerla a sposarlo....”
“Non
ti credo!”, gridò il duca. “E quel
bambino non potrà mai essere
altro che un bastardo, è questo che volevi per tuo
figlio?”
La
voce di Gareth era gelida, bassa, quando parlò.
“Era questo che tu
volevi per me, padre?”
Fjölnir
si bloccò, come se qualcosa lo avesse colpito. Tra padre e
figlio
calò un silenzio carico di tensione.
“Hai
ragione”, disse infine il duca con voce colma di stanchezza.
“Io
sono l'ultima persona al mondo che dovrebbe parlarti di
questo.”
E
avvolgendosi nel mantello, si allontanò, il capo chino e la
schiena
curva, come se fosse stata caricata di un grosso peso.
Angolo
autrice: Ciao
a tutti! Che ne pensate del nuovo capitolo? Devo dire che si
è
chiuso in un modo che neanche io mi sarei aspettata, in modo molto
triste per me. Ma ho fiducia che presto il duca accetterà la
situazione e Gareth perdoni suo padre (perché in fondo, per
quanto
lo ami, il rancore per essere stato abbandonato da piccolo è
ancora
vivo in lui). E niente, spero vi sia piaciuto e vi mando un grande
abbraccio!
Ci
vediamo alla prossima
Eilan
|
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Capitolo 28 *** Capitolo ventotto ***
Mentre
l'esercito proseguiva la sua marcia verso Uppsala, il tempo
cominciò
a peggiorare. Dapprima fu una pioggia leggera, che cadeva con ancora
il cielo limpido sullo sfondo. Dagli alberi e dal terreno si levava
un buon profumo di terra umida e di aghi di pino. Poi divenne
più
insistente e fastidiosa: grandi gocce di acqua tiepida che
inzuppavano il terreno e gli abiti dei soldati.
“Credi
che continuerà ancora a lungo?” aveva chiesto
Arianrhod a Östen.
“Temo
di sì, in questa stagione i temporali sono normali. Dovresti
essere
contenta che non sia una fredda pioggia invernale. In quel caso le
gocce d'acqua sembrerebbero aghi gelati. Questa è calda, non
ti
sembra?”
Arianrhod
aveva teso il palmo aperto a catturare qualche goccia e aveva dovuto
dare ragione a Östen.
L'acqua che pioveva dal cielo era tiepida e veniva giù in
grandi
scrosci che non duravano più di una manciata di minuti. Una
pausa, e
poi il ciclo ricominciava.
“Speriamo
solo che il morale dei soldati resti alto”, aveva concluso,
alzando
le spalle.
Le
speranze di trovare Hogne e i suoi ribelli si affievolivano sempre
più. Tutti avevano questa sensazione, ma nessuno aveva il
coraggio
di dirlo ad alta voce.
Durante
il sesto giorno di marcia, durante una pausa dalla pioggia, il duca
Fjölnir
che era in testa al
corteo alzò una mano per arrestare la colonna. Tutti
frenarono i
propri cavalli e Ragnhild chiese: “Cosa succede?”
“Shhh”,
la zittì Fjölnir,
portandosi l'indice alle labbra. Poi fece un cenno ai cavalieri che
gli erano più vicini.
“C'è
qualcuno”, disse indicando gli alberi alla propria sinistra.
“Non
siamo soli.”
Ragnhild
afferrò il braccio di Arianrhod, sporgendosi sul cavallo,
spaventata. Gareth e alcuni altri cavalieri e soldati si avvicinarono
al punto indicato dal duca. Östen
dovette rimanere indietro suo malgrado, a causa della ferita al
braccio.
I
cavalieri si aspettavano di vedere uomini in divisa, soldati armati
fino ai denti, forse perfino cavalli, ma quando gridarono:
“Chi è
là?”, dal folto del bosco cominciarono ad uscire
uomini a piedi.
Non erano soldati, questo era chiaro. Alcuni portavano lunghe barbe
bionde e rossicce, quasi tutti possedevano armi e armature
rudimentali. Casacche di cuoio cucite alla meglio, bastoni appuntiti,
archi ricavati da rami ricurvi, rozze spade di pietra.
I
cavalieri tennero pronte le armi, ma i nuovi arrivati abbassarono le
loro, mostrando di non avere intenzioni ostili.
Uno
degli uomini si fece avanti e si arrestò davanti ai cavalli
dei
comandanti. Doveva essere sulla mezza età e portava
un'ispida barba
bionda. Nel silenzio generale si inchinò poggiando un
ginocchio a
terra e si rivolse ad Arianrhod.
Percependo
la solennità del momento, e rassicurata dalla piega che gli
eventi
stavano prendendo, Ragnhild lasciò il braccio dell'amica.
“Mia
regina...”, disse l'uomo con il capo chino e lo sguardo fisso
a
terra.
“Chi
siete?” chiese Arianrhod con voce decisa.
“Il
mio nome è Hogne, mia signora. E questi sono i miei uomini.
Abbiamo
saputo del vostro arrivo in Svezia ed è da molto che vi
aspettiamo.”
“Siete
davvero voi!” esclamò la principessa, scoccando
un'occhiata
sollevata al duca, il quale la ricambiò. “Vi
abbiamo cercato in
lungo e in largo.”
“Mi
dispiace, ma non possiamo mai allontanarci troppo dalla nostra base.
È molto pericoloso.”
“Chiedi
ai tuoi uomini di deporre le armi”, ordinò lei.
“Già una volta
siamo stati ingannati da un uomo che si spacciava per uno di
voi.”
Hogne
si alzò in piedi e ordinò ai suoi di lasciar
cadere le armi a
terra, cosa che tutti fecero prontamente. Un centinaio di bastoni,
spade e archi caddero producendo una catena di rumori sordi.
“Vi
unirete a noi?” chiese Fjölnir
sforzandosi di non parlare troppo velocemente. Si era accorto che
Arianrhod, non ancora padrona della lingua, aveva dovuto sforzarsi
per comprendere tutto ciò che Hogne aveva detto. Ma aveva
fatto
enormi progressi durante il viaggio, grazie alle lezioni che le erano
state impartite. La memoria della lingua natia stava rapidamente
tornando in superficie.
L'uomo
si batté al petto e gridò il suo assenso, imitato
dai suoi uomini
all'unisono.
“Non
abbiamo atteso altro per quattordici anni, altezza. Dateci solo la
possibilità di aiutarvi a riprendere ciò che
è vostro e scacciare
l'usurpatore.”
***
Era
il pomeriggio dell'ottavo giorno di marcia, quando i comandanti
decisero di appostare il campo base sul fianco di una collina,
riparati dalla strada principale che le truppe nemiche avrebbero
probabilmente percorso. Furono allestite poche tende, perché
la
rapidità era essenziale. Gli esploratori erano tornati il
giorno
prima, riferendo che l'esercito di Ale si trovava a una giornata di
marcia da loro.
Arianrhod
e i suoi comandanti erano rimasti in piedi fino a notte tarda per
discutere la strategia della battaglia.
“Dovremmo
affrontarli frontalmente, mandando avanti la cavalleria”,
propose
Östen.
“Non
avremo vantaggi in questo modo”, ribatté Vanlande.
“Meglio
tenere la cavalleria di riserva o non avremo appigli se le cose
dovessero andare male.”
“Il
problema è che restiamo comunque numericamente molto
inferiori ad
Ale”, disse Hrolf. Un momento di sconfortante silenzio cadde
sull'assemblea dopo questa affermazione.
Arianrhod
si alzò per osservare più da vicino la cartina
stesa sul tavolo.
“Questo
cos'è?” chiese indicando il lato della strada.
Gli
altri comandanti non lo sapevano, ma si fece avanti Hogne.
“Noi
conosciamo molto bene questo territorio”, disse,
“mentre Ale no.
Raramente si è allontanato da Uppsala. Noi invece dobbiamo
conoscerlo a menadito se vogliamo sopravvivere nei boschi. Quella
è
una gola che divide la collina in due.”
“E
dove porta?”
“Sbocca
nella vallata alle nostre spalle.”
“Potremmo
usarla a nostro vantaggio, se loro non la conoscono”,
intervenne
Morcant, rimasto silenzioso fino a quel momento. Hogne, che non aveva
conosciuto lo strano uomo che per pochi giorni, lo guardò
con la
diffidenza del forestiero.
“No,
se la battaglia verrà combattuta nella valle”, gli
fece notare il
duca.
“E
se non fosse così?” propose Arianrhod.
“Cosa
intendi dire?” chiese Gareth.
“Loro
sono più numerosi, giusto? Ma non gli sarà utile
se li bloccheremo
in un luogo più stretto. Come la strada che passa tra le due
colline. È abbastanza ampia per una battaglia, ma non
abbastanza per
consentire grandi manovre.”
“Così
resteremo bloccati anche noi” disse Domaldr.
“Sarà una
carneficina!”
“Ma
noi conosciamo l'esistenza di questa gola. Potremmo dividere
l'esercito in modo che una parte li attacchi dal fianco. Non se lo
aspetteranno...”
“E
se lo prevedessero? Se se ne accorgessero per tempo? A quel punto
avremmo diviso l'esercito per niente e saremo ancora più
indeboliti”, obiettò Vanlande, sentendosi
più competente di
Arianrhod sulle questioni militari.
Lo
sguardo del duca cominciò a illuminarsi mentre rifletteva su
quella
proposta. “Può funzionare...” disse
lentamente. “E' azzardato,
ma credo che non abbiamo molta scelta.”
“Io
e i miei uomini potremmo attendere nascosti oltre il fianco della
collina”, propose Morcant. “La valicheremo solo
quando saranno
presi tra le due forze e li attaccheremo con le frecce, restando
sulla cresta.”
Arianrhod
emise un sospiro tremolante. “Che sia
così”, decise.
“Ma,
mia signora...” tentò di protestare Vanlande.
Arianrhod lo
interruppe.
“Comprendo
le tue obiezioni, ma abbiamo la possibilità di un vantaggio
a fronte
di un rischio. E ho deciso di coglierlo. Non avrebbe senso avere
Hogne e Morcant con noi se non ne facessimo il miglior uso che
possiamo.”
La
riunione si sciolse e tutti raggiunsero i loro giacigli per cercare
di dormire qualche ora prima della battaglia.
“Arianrhod”,
la chiamò Gareth mentre camminava accanto a Ragnhild diretta
alla
loro tenda. Entrambe si voltarono.
Arianrhod
gli sorrise debolmente. “Suppongo che ci siamo. Il momento
è
giunto.”
“Non
sei obbligata a combattere, lo sai. Potresti rimanere qui con
Ragnhild e Gerda... ”
Nel
sentirsi nominare Ragnhild scoccò un'occhiata fugace e
speranzosa ad
Arianrhod. Era chiaro che era d'accordo con Gareth.
“Come
puoi chiedermi questo?” disse Arianrhod, notando a malapena
che
Ragnhild si allontanava con discrezione, lasciandoli soli.
“Non
sono ferita, come Östen
che
è costretto qui anche se vorrebbe con tutte le sue forze
essere sul
campo di battaglia, domani.”
“Perdonami,
non intendevo insinuare che tu non sia pronta per questo. Lo sei,
è
hai tutto il diritto di volerlo. Sono solo preoccupato per te. Se ti
accadesse qualcosa… non potrei vivere senza di te.”
Arianrhod
gli sorrise dolcemente. “Anch’io non resisterei in
questo mondo
senza di te. E proprio per questo, pensi che potrei lasciarti andare
a combattere senza fare anch’io la mia parte? E lo devo anche
ai
miei uomini. Io sono la loro regina e non li
abbandonerò.”
***
“Vedo
qualcosa in lontananza!”, annunciò Domaldr,
indicando l’orizzonte,
dove una nube di polvere si sollevava al passaggio di quello che,
evidentemente, era un grosso esercito.
Arianrhod
alzò una mano verso i suoi uomini, per fargli cenno di
fermarsi. I
fanti si arrestarono subito dopo di lei, e i cavalieri che li
seguivano fecero altrettanto.
“Ci
siamo”, disse il Duca Fjölnir con calma.
“Erano giorni che
aspettavamo che Ale facesse la sua mossa, ed eccolo lì.
E’ uscito
allo scoperto finalmente… evidentemente rappresentiamo una
certa
preoccupazione per lui.”
Il
duca tirò le redini del suo bel cavallo, per accostarsi a
quello
bianco di Arianrhod. Gli altri comandanti stavano al suo fianco,
ognuno saldamente ritto sulla propria cavalcatura.
Fjölnir
spostò lo sguardo paternamente benevolo da suo figlio alla
sua
regina. Non poteva negare di avere provato rabbia e delusione quando
aveva scoperto cosa c'era tra di loro, ma le parole che Gareth gli
aveva lanciato addosso lo avevano fatto vergognare di se stesso, di
come lo aveva trattato. Certo ciò che aveva fatto Gareth era
sbagliato sotto molti aspetti, ma chi era lui per giudicare quando
aveva commesso gli stessi errori e non lo aveva fatto neppure per
amore? Erano giorni che cercava le parole, e soprattutto il coraggio,
di parlare a suo figlio, ma ancora non ci era riuscito. Gareth
sembrava davvero ferito, distante, e Fjölnir
temeva davvero di averlo perso.
L’avvicinarsi
di due cavalieri al galoppo lo riportò alla
realtà, distogliendolo
dalle sue considerazioni. C'erano cose più urgenti a cui
pensare. A
riparare ciò che aveva danneggiato avrebbe pensato quando
tutto
fosse finito.
“Veniamo
da parte di re Ale”, disse uno dei due, fermatosi di fronte
ad
Arianrhod.
“Re?”,
commentò lei in tono sarcastico. “Non sapevo che
bastasse auto
proclamarsi re per esserlo a tutti gli effetti. Di questo passo i
contadini affermeranno di essere duchi e non si potrà far
nulla per
smentirli…”
Gareth,
Domaldr,
Fjölnir e gli altri
ufficiali dovettero reprimere a stento una risata.
I
due messaggeri invece si fecero rossi in volto, umiliati per la
prontezza con cui erano stati zittiti da una donna.
“Volete
ascoltare il messaggio che vi porto, signora?”, chiese
irritato il
cavaliere, fingendo di ignorare le occhiatine di scherno che gli
venivano lanciate dai presenti.
“Dite
pure. Non sia mai detto che la regina non ascolti un suddito che ha
qualcosa da comunicargli.”
“Il
mio signore Ale vi manda a dire che non muoverà guerra
contro di voi
e i vostri uomini, nemmeno contro i traditori che hanno disertato il
suo esercito, se lascerete immediatamente la Svezia per non farvi
più
ritorno.”
Il
sorriso di scherno sul viso di Arianrhod si spense di colpo,
sostituito da un’espressione gelida. Sembrava mandare lampi
dai
profondi occhi azzurri quando, con un piccolo incitamento al cavallo,
si portò più vicino al messaggero.
Lo
guardò negli occhi, mentre involontariamente il cavaliere
indietreggiava di un passo.
Quando
parlò la sua voce era un sussurro minaccioso.
“Vorrei
che fosse chiara una cosa, cavaliere. Questi uomini non facevano
parte del suo esercito, ma del mio. A dire la verità quel
porco del
tuo padrone non può reclamare neppure la
proprietà di un singolo
filo d’erba sul suolo di questo paese… e
pagherà per ogni
singola goccia di sangue dei miei sudditi che ha versato in questi
anni, mentre li terrorizzava con la violenza, la repressione e la
miseria. Quindi riferisci pure al “re” - o con
qualsiasi titolo
fasullo voglia farsi chiamare - che noi siamo pronti e che non ha che
da aspettarci. Hai capito bene?”
Il
cavaliere serrò le labbra, cercando di non dare a vedere
come quella
ragazzina lo avesse impaurito.
“Bene”,
disse con tutta la dignità che riuscì a
racimolare. “Riferirò il
vostro messaggio.”
E
i due uomini si allontanarono al galoppo in una nuvola di polvere.
Gareth
osservava Arianrhod con espressione fiera e ammirata, imitato dagli
altri ufficiali.
Poi
lei si voltò verso il suo esercito, schierato per la
battaglia, e
fece un respiro profondo prima di iniziare a parlare a voce alta, in
modo che tutti potessero sentirla.
“Uomini!
So che probabilmente è la prima volta che obbedite agli
ordini di
una donna, ma io vi prego oggi di non considerarmi tale. Oggi io sono
una di voi e combatterò al vostro fianco!”
Dalle
truppe si levò un grido di approvazione, mentre migliaia di
mani
sollevavano le spade e le lance verso il cielo.
“Ricordate
il nemico che avete di fronte”, continuò
Arianrhod, spronando il
cavallo a muoversi al trotto lungo tutta la prima linea
dell’esercito. “Ricordate che quest’uomo
ha oppresso la Svezia
per anni, affamando le vostre famiglie e ammazzando i vostri cari. Se
volete che la giustizia e la pace tornino a regnare nella nostra
amata terra natia, oggi non abbiate nessuna pietà per quel
nemico!
Combattete al mio fianco!”
I
soldati lanciarono grida ancora più assordanti, mentre
Arianrhod
sguainava la spada del drago e la teneva in alto in modo che tutti
potessero vederla rilucere nel sole accecante. La terra
sembrò
tremare del boato che si levò dall’esercito.
Poi,
guidati dalla Regina e dai comandanti, i soldati cominciarono ad
avanzare verso l’esercito nemico.
Il
Duca Ale si vide arrivare contro le truppe avversarie, e
aspettò il
massiccio scontro frontale a cui il suo esercito era già
stato
preparato.
La
battaglia ebbe inizio con la collisione delle due forze di fanteria.
L'esercito di Arianrhod, inferiore di numero, non poteva avere la
meglio, e infatti cominciò presto a perdere terreno. Ale,
nelle
retrovie, si chiese come quella ragazzina avesse potuto essere
così
sprovveduta. Ghignò, pregustando già la facile
vittoria. Quella
donna gli era costata notti intere di sonno, anni di ricerche e mesi
di intrighi: ora finalmente l'avrebbe fatta finita per sempre con lei
e avrebbe governato la Svezia indisturbato.
“E'
il momento?” gridò Arianrhod al duca, per farsi
sentire al di
sopra del fragore. Lui annuì e fece cenno a Vanlande di dare
il
segnale. Il comandante sventolò una bandiera dal colore
rosso
acceso, e proprio quando l'esercito nemico si sentiva sicuro della
vittoria, grida selvagge si levarono dal fianco della collina, e
dalla gola comparvero migliaia di altri cavalieri e fanti che si
schiantarono contro il fianco dell'esercito di Ale. Poi
indietreggiarono senza preavviso e, ad un altro segnale, una pioggia
di frecce cadde sui nemici, seguita immediatamente da altre raffiche.
Il Piccolo Popolo tirava con una precisione letale, e dalla loro
posizione di vantaggio aveva la totalità dei loro nemici a
portata
di freccia.
Arianrhod
e il duca, che si trovavano l'uno accanto all'altra, si scambiarono
uno sguardo di sollievo nello scorgere lo sbalordimento sul volto dei
nemici, che non si aspettavano una simile mossa. Ora erano attaccati
da due forze separate, una di fronte e una sul lato sinistro, e
sottoposti a un fuoco di frecce. Con una buona dose di fortuna la
loro tattica aveva funzionato.
L’esercito
di Ale subì molte perdite senza riuscire a riportare la
battaglia
nelle proprie mani.
A
quel punto i fanti con le picche, spingendoli ancor più
verso il
centro ristretto del campo di battaglia, riuscirono a circondarli
completamente.
Arianrhod,
che era rimasta indietro insieme al resto della cavalleria, diede
l’ordine e i fanti cominciarono a ritirarsi. Ma
all’esercito
nemico non fu concesso nemmeno un momento per riprendere fiato,
perché subito dopo dovette affrontare lo scontro diretto con
la
cavalleria pesante, guidata dalla regina e dai suoi comandanti, che
si lanciò su di loro falciando uomini e cavalli al suo
passaggio.
Arianrhod
brandiva la Spada del Drago con maestria letale, abbattendo un nemico
dopo l’altro. Anche Hrolf, che si trovava a combattere
accanto a
lei, si stava comportando con coraggio, nonostante fosse la sua prima
vera battaglia, e Arianrhod avrebbe voluto che suo padre e suo
fratello avessero potuto vederlo in quel momento.
Improvvisamente
la giovane si trovò faccia a faccia con un grosso cavaliere
con il
capo celato dall’elmo. Stava per alzare la spada su di lui,
quando
l’uomo la sorprese usando la sua di piatto per disarcionarla.
Arianrhod sentì il duro impatto con il terreno, mentre il
suo
cavallo continuava la sua corsa attraverso il campo di battaglia
senza di lei. Rotolò su se stessa e si rimise faticosamente
in
piedi, constatando che, a parte qualche ammaccatura, non aveva niente
di rotto.
Il
cavaliere nemico si avvicinò rapidamente a lei, brandendo la
spada.
Quella di Arianrhod era rotolata a poca distanza, e lei fece appena
in tempo ad afferrarla e ad alzarla a protezione del viso, mentre
l’arma nemica si abbatteva su di lei.
Ma
l'uomo era molto più grosso di lei e non sarebbe riuscita a
bloccarlo ancora a lungo. Improvvisamente il cavaliere fece un
sussulto e il sangue cominciò a macchiargli le labbra. La
punta di
una spada gli spuntava dal petto, e l'uomo riuscì a
guardarla per un
attimo, prima di accasciarsi a terra. Dietro di lui comparve Domaldr
con la spada ancora sguainata in pugno e l'espressione quasi
sbalordita per ciò che era appena riuscito a compiere.
Arianrhod gli
fece un cenno di ringraziamento, poi si rimise in piedi.
L’esercito
nemico era ormai quasi completamente sconfitto, e il clangore delle
spade e le urla del combattimento si andavano affievolendo. Tuttavia
qualche sacca di resistenza ancora sopravviveva, e fu lì che
Arianrhod si diresse. Attraversò il campo di battaglia,
assestando
qualche rapido fendente ai pochi che cercavano di fermarla.
Dov’era
Ale? Che fosse già scappato?
Arianrhod
pregò vivamente che non fosse così. Doveva
ucciderlo, ad ogni
costo, o non sarebbe mai finita.
Improvvisamente
un urlo si levò alle sue spalle, e lei si voltò
appena in tempo per
vedere un uomo avventarsi contro di lei, brandendo una spada. Colta
di sorpresa, Arianrhod si preparò all’impatto
della lama su di
lei.
“Arianrhod!”,
le parve di sentire la voce di Gareth che la chiamava.
Con
uno slancio disperato, il giovane cavaliere si gettò fra lei
e la
spada nemica. L’arma gli aprì un profondo squarcio
lungo tutto il
fianco, lasciandolo a terra agonizzante, mentre il cavaliere,
rendendosi conto di aver mancato il bersaglio designato, fuggiva via
con le ali ai piedi.
“No!”,
urlò Arianrhod gettandosi in ginocchio accanto a lui. Gareth
le
stava dicendo qualcosa e lei dovette chinarsi per riuscire a
sentirlo.
“Quello
è Ale… inseguilo! Devi ucciderlo!”
“Io
non ti lascio!”
“Va',
ho detto!”
Arianrhod
obbedì, troppo sconvolta per protestare. Si
lanciò all’inseguimento
di Ale, ma quando si accorse che il suo nemico era troppo lontano per
raggiungerlo a breve, ricorse a una mossa disperata.
Sollevando
la spada del drago con entrambe le mani, la lanciò verso
l’uomo
che gli dava le spalle poco avanti a lei, ormai solo e abbandonato
dal suo esercito.
Arianrhod
lanciò la spada con tutta la forza che fu capace di
racimolare,
appellandosi alla sua abilità di arciere per centrare il
bersaglio.
Era un tentativo disperato, perché l'arma era pesante, ma in
quel
momento non aveva altra scelta. Il pugnale di pietra non era
abbastanza affilato per poter penetrare la carne a quella distanza.
La
spada roteò nell’aria e, come se fosse pervasa
dallo spirito dei
re della stirpe del drago che l’avevano brandita in passato e
a cui
Ale aveva fatto torto, lo colpì alla schiena.
Ale
lanciò un grido e si accasciò a terra. Arianrhod
si avvicinò a lui
e, poggiandogli un piede sulla schiena, sfilò
l’arma dalla
ferita., per poi piantargliela nel corpo, ancora e ancora. Non
provò
la pietà che aveva provato per Owainn e non si
fermò finché
l'usurpatore non smise di muoversi.
Quando
tornò di corsa da Gareth, Fjölnir e Domaldr erano
accanto a lui e
il duca gli sorreggeva la testa.
Altri
cavalieri erano andati ad approntare una barella per poterlo
trasportare via dal campo di battaglia.
Il
terreno era coperto dei cadaveri degli uomini uccisi, e
l’aria
pervasa dall’odore della morte e del sangue. Qualche ferito
ancora
si lamentava, sotto la pioggia che aveva cominciato a cadere e i
corvi che volavano in cerchi sempre più bassi nel cielo.
Arianrhod
diede ordine a un ufficiale di provvedere a che tutti i feriti
ricevessero le cure esperte del Piccolo Popolo, poi si chinò
su
Gareth.
Il
duca si fece da parte, cercando di nascondere le lacrime che gli
riempivano gli occhi e che minacciavano di sopraffarlo. Vedere il
figlio giacere al suolo in fin di vita, con il sangue che sgorgava
dalla profonda ferita al fianco, era talmente doloroso da fargli
perdere il suo abituale autocontrollo. Anche Domaldr era preoccupato
e angosciato, ma rimase in silenzio.
Arianrhod
invece aveva il viso inondato di lacrime e non si preoccupava di
nasconderle. Teneva la testa del suo amato in grembo e gli
accarezzava i capelli con infinita tenerezza.
“Amore
mio…”, mormorò. “Amore mio,
perdonami. E’ stata tutta colpa
mia. Ma perché lo hai fatto? Perché ti sei messo
in mezzo?”
Gareth
riuscì a sfoderare un sorriso. “Ti avevo promesso
che ti avrei
sempre protetta, no?”
“Tieni
duro, sta arrivando la barella. Ti prego, resisti!”
Arianrhod
evitava di guardare la profonda ferita che gli deturpava il fianco.
Il cuore le batteva nel petto come una carica di cavalleria, mentre
pregava con tutte le sue forze che i soccorsi arrivassero in tempo.
Gareth teneva gli occhi chiusi, ma lei poteva vedere il suo petto
alzarsi e abbassarsi nel respiro.
Improvvisamente
le tornò in mente la profezia di Viviana. Una parte di essa
si era
già avverata: la scelta difficile che aveva dovuto compiere
in
Danimarca, il tradimento di Owainn... ma la terza parte era quella
che in quel momento suonava più minacciosa. La dea l'avrebbe
visitata nell'aspetto della morte. Il gracchiare di un corvo le
giunse all'orecchio proprio in quel momento, facendola rabbrividire.
Morcant corse di persona da lei, accompagnando la barella.
“Puoi
aiutarlo, Morcant? Ti prego, aiutalo!” gridò
Arianrhod.
L'uomo
esaminò brevemente la ferita di Gareth.
“Proverò
aman madhad. Farò
tutto il
possibile, ma non ti nascondo che è grave.”
“Arianrhod…”,
la chiamò d’improvviso Gareth con voce flebile,
aprendo gli occhi.
Lei
si chinò prontamente su di lui. “Sono qui, Gareth.
Sono qui, non
avere paura… non ti lascio solo.”
“Gli
occhi… non riesco a tenerli aperti.”
Arianrhod
gli prese la mano e gliela strinse convulsamente.
“Credo
che non ce la farò…”,
continuò Gareth.
“No!”,
gridò Arianrhod, con le lacrime che le scendevano lungo le
guance.
“Non farlo! Non lasciarmi sola, resta con me!”
Gareth
la fissò per un momento negli occhi azzurri e disse:
“Ti amo…”
Poi
chiuse gli occhi e tutto divenne buio, e non udì
più Arianrhod
piangere e chiamare il suo nome.
Angolo
autrice: Ciao
a tutti! Lo so mi odierete per aver lasciato un momento drammatico
così in sospeso, ma spero di pubblicare il prossimo
aggiornamento
già settimana prossima, quindi ci sarà da
aspettare meno del
solito... non odiatemi, plz!^^ Avrete notato anche che il capitolo
è
il più lungo fin'ora, ed il motivo è che non
volevo lasciare la
battaglia a metà, mi sembrava di distruggere il climax.
Domaldr
si è rivelato utile alla fine... un po' si sta redimendo,
che dite?
E Hrolf? Meglio di come era sembrato all'inizio? Forse aveva solo
bisogno di un'occasione^^
Vi
annuncio anche che manca poco alla fine della storia. Un capitolo, al
massimo due e sarà conclusa.
E
niente, aspetto di sentire i vostri pareri!
Alla
prossima
Eilan
|
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Capitolo 29 *** Epilogo ***
Uppsala,
462 d.C.
Dalla
massiccia porta di legno della camera della regina provenivano rumori
ovattati.
Solo
di tanto in tanto una serva usciva per andare a prendere altra acqua
o dei panni puliti; ma apriva la porta solo quel tanto che le bastava
per passare, poi la richiudeva immediatamente.
Gareth
stava in piedi davanti alla porta, ma nessuno gli prestava
attenzione. Guardava speranzoso ognuna di quelle donne, sperando che
qualcuna di loro si accorgesse della sua presenza e gli desse qualche
notizia. Gli sembrava di essere invisibile ai loro occhi.
Alla
fine si era gettato a sedere irritati sulla panca accanto alla porta,
e tentava invano di sbirciare oltre le spalle delle serve che
facevano avanti e indietro.
Se
fosse stato in grado di alzarsi con prontezza forse sarebbe riuscito
a vedere qualcosa, ma il tentativo gli sarebbe costato una fitta di
acuto dolore.
Sebbene
fossero trascorsi ormai sette mesi dalla battaglia, la ferita che gli
attraversava il fianco non era ancora del tutto guarita. Lo avevano
ricucito il giorno stesso, mentre era ancora svenuto. Quando aveva
ripreso i sensi, il dolore sordo che gli pulsava all’altezza
del
fianco gli aveva fatto stringere i denti e imperlare la fronte di
sudore; tuttavia non gli aveva impedito di notare che Arianrhod era
sempre lì accanto a lui a tenergli la mano, pronta a
porgergli
dell’acqua o asciugargli la fronte.
Morcant
gli aveva prestato le sue cure e forse era solo grazie alla sua
abilità di guaritore che era sopravvissuto e che la ferita
non si
era infettata. Aveva perso molto sangue, ma quando erano riusciti ad
arrivare ad Uppsala era già fuori pericolo.
Anche
se non velocemente, Gareth si era ripreso del tutto, e lo doveva
anche alle amorevoli cure di Arianrhod.
Anche
se, a distanza di sei mesi, doveva ancora fare attenzione a non
compiere movimenti bruschi e a non sforzare troppo la parte lesa,
poteva dirsi ormai completamente guarito. Era stato quasi un
miracolo, considerata l’entità e la
gravità della ferita.
Cinque
mesi prima...
Da
Uppsala la notizia che la legittima regina di Svezia era di nuovo sul
trono si era diffusa in fretta e, dopo pochi giorni dal loro arrivo,
una folla di persone era affluita al castello da luoghi vicini e
lontani per acclamare la nuova sovrana.
Il
giorno dell’incoronazione sarebbe stato ricordato da tutti
per
molto tempo ancora, come se lo avessero avuto ancora davanti agli
occhi: di fronte all’intera nobiltà svedese e a
moltissima gente
comune, l’Arcidruido Sveigder aveva posato la corona sul capo
di
Arianrhod nel tempio di Uppsala, senza riuscire a nascondere una
buona dose di commozione.
Arianrhod
era splendida quel giorno: la bella veste tinta d’azzurro
dalla
scollatura alta, finemente ricamata, stretta in vita da una cinta
metteva in risalto la sua figura snella e nascondeva quasi del tutto
la lieve rotondità della gravidanza, giunta al quarto mese.
La
sopravveste dalle ampie maniche era di un azzurro leggermente
più
scuro, e i lunghi capelli biondi, lasciati sciolti, sembravano una
cascata di seta argentata e quasi offuscavano lo splendore della
preziosa corona.
Dopo
che Sveigder l’aveva incoronata, Arianrhod aveva giurato
solennemente sulla spada del drago di proteggere e servire sempre la
Svezia. Gareth si era sentito ancora più orgoglioso di lei,
e si era
unito con trasporto all’ovazione generale che era seguita
alle sue
parole.
Morcant
e i suoi guerrieri erano ripartiti subito dopo la cerimonia, ansiosi
di tornare nella loro terra. Arianrhod aveva provato a persuaderli a
restare , ma loro avevano rifiutato. Non potevano stare lontani per
molto tempo da Avalon e dal loro popolo.
“Quando
avrai bisogno di noi mandaci a chiamare”, le aveva detto
Morcant,
“e noi accorreremo dalla nostra sorella di sangue.”
Arianrhod
aveva offerto loro ricompense, ma già sapeva che il Piccolo
Popolo
non aveva interesse per l'oro o le terre. Aveva affidato loro un
messaggio per Viviana in cui raccontava il successo della loro
impresa e li aveva osservati allontanarsi all'orizzonte.
La
sera stessa dell'incoronazione, prima del grande banchetto che si
sarebbe tenuto al castello per festeggiare, il duca Fjölnir
era andato nella stanza di suo figlio.
Stranamente
per lui, Gareth lo aveva trovato a corto di parole.
“Padre...”
gli aveva detto infine, imbarazzato, “così mi
preoccupate. Cosa
dovete dirmi?”
“Gareth,
è molto tempo che mi sono reso conto di averti fatto un
grande torto
quando sei nato. Non avrei dovuto negarti l'amore a cui avevi
diritto, nemmeno per le pretese di mia moglie. Sono stato io a far
soffrire tutti: tu, mia moglie, tua madre... tu non avevi nessuna
colpa e non avresti dovuto patirne. Non ti ho mai chiesto di
perdonarmi, e quindi lo faccio ora.”
Il
duca rimase con il capo chino, come se i loro ruoli fossero
ribaltati, come se fosse lui il figlio che aspettava di ricevere una
benedizione dal proprio padre.
“Padre,
non vi biasimo”, gli rispose Gareth commosso, mettendogli le
mani
sulle spalle. “So che non era vostra intenzione ferire
nessuno, so
che lo avete fatto per amore di vostra moglie. E avete provveduto a
me sempre, anche a distanza. Avete riposto fiducia in me in questi
ultimi mesi, e io l'ho tradita. Anch'io devo chiedervi
perdono.”
E
così dicendo si inginocchiò davanti al duca, il
capo chino a sua
volta.
Il
padre lo fece rialzare gentilmente e, dopo averlo squadrato per un
momento, lo abbracciò.
“Figlio
mio”, disse commosso. “Sono fiero di te. Non sai
quanto di me
stesso da giovane rivedo in te. Non commettere l'errore che io ho
commesso con te e tua madre: non lasciarla andare via. Troveremo un
modo per sistemare le cose.”
Gareth
lo aveva guardato stupito. “Come...? Non vuoi che sia Domaldr
a
sposare Arianrhod?”
“Voglio
che lei sposi un uomo di sua scelta. Che sia anche mio figlio mi
rende ancora più felice.”
Ma
Gareth non aveva seguito il consiglio di suo padre, se non diversi
giorni dopo.
Davanti
alla porta dello studio della regina aveva incontrato Hrolf che ne
usciva sottobraccio a Ragnhild. Il principe stringeva in mano una
pergamena, che mostrò entusiasta a Gareth.
“Congratulazioni!”
gli disse Gareth scorrendo brevemente il documento. “Ora
siete
ufficialmente il duca di Vingåker. Immagino che partirete
presto per
i vostri nuovi domini...”
“E'
così...” rispose Hrolf lanciando uno sguardo
adorante a Ragnhild,
che lo ricambiò. “Ma non prima del nostro
matrimonio.”
“E
quando vi sposerete?”
“Domani”,
rispose Ragnhild, aggiungendo a mo' di spiegazione: “Non
vogliamo
aspettare un giorno di più, dopo aver atteso
tanto.”
“Ci
chiedevamo...”, continuò Hrolf,
“Arianrhod ci ha già dato la
sua benedizione e il suo permesso, come nostra sovrana, di sposarci e
farà da testimone a Ragnhild. Voi vorreste essere il mio
testimone?”
“Sarà
un grande onore, vostra grazia”, disse Gareth sinceramente,
chinando il capo. “E vi auguro davvero di essere felici
insieme.”
Gareth
osservò con un po' d'invidia la coppia raggiante di
felicità
allontanarsi a braccetto e, preso un respiro profondo, entrò
nella
stanza.
Arianrhod
era seduta alla sua scrivania, ma quando lo vide si alzò in
piedi e
corse ad abbracciarlo e baciarlo.
“Vacci
piano”, rise lui. “Non sono ancora così
in forma.”
“Scusami”,
arrossì lei. “Dimentico sempre che devo stare
attenta alla tua
ferita.”
“Vedo
che stai davvero lavorando sodo per rimettere in sesto il
paese”,
commentò osservando la pila di pergamene che si erano
accumulate sul
suo tavolo.
Arianrhod
prese quella in cima e gliela mostrò. Aveva appena posto il
suo
sigillo regale perché il bianco della ceralacca* non si era
ancora
del tutto asciugato.
“Hai
abolito la tassa che i cristiani dovevano pagare per essere esentati
dalle cerimonie religiose...” disse Gareth. “E
quest'altra?”
chiese prendendone in mano un'altra.
“Con
questo decreto ho restituito tutte le terre che erano state
confiscate ingiustamente da Ale. Le prime sono quelle che
appartengono ad Östen”,
sorrise Arianrhod. “Vorresti accompagnarmi da lui? Voglio
consegnargli di persona i documenti e dargli la notizia.”
“Ahem!”
Il
rumore improvviso colse Östen
e Gerda nel mezzo di un profondo bacio. I due si staccarono
imbarazzati, e Gerda arrossì fino alla radice dei capelli.
Arianrhod
e Gareth erano davanti a loro e li guardavano, tentando di apparire
sorpresi.
“P-perdonatemi,
mia signora”, disse Gerda, non osando alzare lo sguardo.
Arianrhod
si piantò davanti a lei. “Ti perdonerò
ad una sola condizione...”
“Quale?”
chiese Gerda stupita.
“Che
sposi al più presto questo seduttore di povere fanciulle, e
che lo
renda molto felice”, disse con un grande sorriso.
La
ragazza era ancora senza parole, quindi la regina si rivolse a Östen.
“Non
hai più scuse per rimandare. Ti ho assegnato le terre che
Ale aveva
tolto a tuo padre, ed anche quelle confinanti, visto che non c'era
nessuno a reclamarle. Come vedi ora hai i mezzi per prenderti cura di
Gerda...”
Östen
la fissò a bocca aperta, poi s'inginocchiò di
fronte alla sua
sovrana.
“Mia
regina, non so come ringraziarti...” le disse baciandole
l'anello.
Ma
lei lo fece rialzare e lo strinse a sé. “Sei il
più caro amico
che ho al mondo, Östen”,
gli bisbigliò in un orecchio. “Non provare mai
più a inchinarti
davanti a me. Io sono e sarò sempre Arianrhod per te,
chiaro?”
Lo
allontanò da sé quel tanto che bastava per
studiarne l'espressione.
“Chiaro”,
rispose Östen
con un
sorriso, mentre Gareth osservava la scena felice.
Il
matrimonio di Hrolf e Ragnhild li vide tutti riuniti il giorno
seguente, al tramonto. Si tenne nella sala dei banchetti. Oltre alla
coppia di sposi, ad Arianrhod e Gareth, e Östen
e Gerda, c'erano anche il duca, Domaldr e Vanlande.
L'arcidruido
pronunciò la formula di rito in presenza dei testimoni, e
Ragnhild e
Hrolf bevvero dalla stessa coppa, furono uniti dalla stessa cintura e
vennero dichiarati marito e moglie. Gli invitati si diressero alla
tavola già imbandita per festeggiare quella cerimonia
privata.
Infine gli sposi furono accompagnati alla loro stanza, e la regina
salutò la sua amica e suo cugino che sarebbero partiti per i
loro
domini la mattina seguente.
“Torneremo
presto, non temere”, promise Ragnhild abbracciando stretta
Arianrhod. L'assemblea si disperse, augurandosi l'un l'altro la
buonanotte. Quando anche l'ultimo degli invitati fu sparito dietro
l'angolo Arianrhod trattenne Gareth per un braccio.
“Devo
parlarti”, gli disse. “Puoi venire con
me?”
Raggiunsero
le stanze di Arianrhod, e lei chiuse la porta alle loro spalle.
“C'è
una cosa che devo chiederti... speravo lo facessi tu, ma non posso
più aspettare. Non possiamo più
aspettare”, si corresse
carezzando la lieve rotondità del ventre. “Vuoi
sposarmi?”
Gareth
trasse un respiro profondo. “Arianrhod, lo sai che non vorrei
niente di più al mondo, ma lo sai che non... non posso. Non
ti ho
chiesto nulla perché aspettavo che tu annunciassi il tuo
fidanzamento da un giorno all'altro. Con Domaldr o con qualche altro
nobile...”
“E'
questo che ti preoccupa?” chiese lei, con le mani sui
fianchi. “Che
non sei nobile? Allora, tieni. C'è un altro decreto che
ancora non
hai letto.”
Andò
alla propria cassapanca, la aprì e ne estrasse un documento
che
Gareth prese con espressione corrucciata.
Nel
leggerlo quasi lanciò un grido. “Io, duca di
Skyllingarid? Non
puoi dare questo titolo a me!”
“Perché
non posso? Apparteneva ad un usurpatore, a un traditore. Io sono la
regina e posso scegliere di darlo a chi ritengo più
degno.”
La
resistenza di Gareth era stata intaccata, ma ancora non
rinunciò ad
obiettare: “Non
hai bisogno di me
per governare. Non hai bisogno di un marito per essere
regina.”
“Non
ti sposo perché ho bisogno di te per governare, o
perché mi fanno
pressioni affinché mi sposi. E neppure perché
aspetto tuo figlio.
Voglio sposarti perché ti amo.”
Gareth
aveva colmato la distanza che li separava, le aveva insinuato la mano
nei capelli e l'aveva tratta a sé per baciarla. Si era
fermato
alcuni attimi, con la bocca già sulla sua.
“Allora
siamo d'accordo”, aveva detto con un sorriso.
La
prima notte di nozze era stata davvero particolare per Gareth e
Arianrhod.
Lei
si era gettata tra le morbide coltri del suo grande letto con un
sospiro di soddisfazione. Ora finalmente potevano stare insieme senza
paura di essere scoperti, senza tendere l'orecchio ogni momento in
ascolto di passi o voci, senza guardare all'alba con timore.
Gareth
l’aveva guardata, immersa tra le calde pellicce che coprivano
il
letto, e aveva sentito il sangue accendersi di fronte allo spettacolo
meraviglioso che era sua moglie. Ma come aveva fatto per chinarsi su
di lei, una fitta di dolore gli aveva squassato il fianco. Era
ricaduto sul materasso imbottito di paglia con un’espressione
di
sofferenza, e Arianrhod era saltata subito su allarmata.
“Perdonami”,
aveva detto lui. “La ferita…”
Lei
aveva sorriso. “Dal momento che è stata mia la
colpa di quello che
ti è successo, è anche mio dovere porvi rimedio,
non trovi?”
Lui
l’aveva guardata interrogativamente. Poi Arianrhod aveva
incominciato a spogliarlo con delicatezza, e infine anche lei si era
tolta i vestiti.
Era
salita sopra di lui, e avevano fatto l’amore così.
Arianrhod con
delicatezza, attenta a non fargli male; Gareth completamente
dimentico – almeno per un po’ – della sua
ferita.
Dopo
aver raggiunto il piacere, Arianrhod si era chinata su di lui,
appoggiando la guancia morbida a quella ispida di lui; i suoi lunghi
capelli erano ricaduti su Gareth, come una morbida cascata di seta
argentea.
In
quei mesi Arianrhod aveva letteralmente rimesso in piedi la Svezia,
riparando ai torti compiuti da Ale.
In
poco tempo era divenuta amatissima tra il suo popolo, e veniva
trattata con rispetto e devozione perfino dai nobili. Tra i suoi
consiglieri aveva voluto Fjölnir e Sveigder, ma anche
Vanlande;
oltre naturalmente a suo marito Gareth. Domaldr aveva lasciato che
suo padre occupasse il posto che gli spettava a corte, ed era tornato
a Silverdalen ad amministrare in sua vece i possedimenti che un
giorno sarebbero stati suoi.
Ragnhild
le scriveva spesso da Vingåker,
raccontandole di come Hrolf si comportava nel suo nuovo ruolo di duca
e di come stava amministrando con successo le loro terre. Sarebbero
tornati a corte per le festività del Blót
di primavera,
l'anno seguente.
Östen
era già partito per rimettere in sesto le proprie terre, che
erano
state trascurate, e riparare la casa in cui avrebbe vissuto con
Gerda. La ragazza però era stata ferma sul non voler
abbandonare la
sua regina finché il bambino non fosse venuto al mondo.
Avrebbe
raggiunto Östen non appena il principino fosse stato al sicuro
tra
le braccia della madre. Arianrhod, pur non avendo fatto alcuna
pressione su di lei per spingerla a prendere una simile decisione ne
fu segretamente grata. Il parto che si avvicinava la spaventava,
anche se non osava ammetterlo neppure con se stessa, e avere accanto
a sé un'amica era una prospettiva tranquillizzante.
Oggi...
Quando
una delle serve uscì per l’ennesima volta dalla
stanza della
regina, Gareth si sentì esasperato.
“Possibile
che debba essere all’oscuro di tutto? Perché
nessuno può fermarsi
un momento a dirmi se va tutto bene?”, sbottò.
Il
Duca Fjölnir gli batté una mano sulla spalla.
“Coraggio,
figliolo”, disse con un sorriso comprensivo. “Ci
sono passato
anch’io e so cosa stai provando. Ma dobbiamo rassegnarci al
fatto
che il parto e la nascita siano faccende da donne, e che i poveri
padri in attesa rivestano un ruolo davvero marginale. Ricordo quando
mia moglie partorì il tuo fratellastro. Una notte e un
giorno ci
impiegò. E io per poco non rimasi ucciso
dall’ansia e dalla
tensione.”
“Dite
davvero?”, chiese Gareth.
“Se
dico davvero! Raccontaglielo tu, Sveigder!”, rispose il Duca
scoppiando in una fragorosa risata.
“Vostro
padre ha ragione, principe Gareth”, sorrise pacatamente
l’Arcidruido. Entrambi gli uomini sedevano sulla panca in
corridoio, accanto al futuro padre in attesa ormai da ore.
“Ricordo
che quando finalmente Domaldr venne al mondo, dovetti chiamare i
servi perché ficcassero il Duca in una tinozza
d’acqua fredda!”
“Cosa?
E perché?”, chiese Gareth.
“Perché
altrimenti sarebbe stato troppo ubriaco anche solo per prendere in
braccio il suo primogenito. Diciamo che l’attesa gioca brutti
scherzi ai giovani padri, e il vostro affogò la tensione in
ben più
di una birra!”, concluse Sveigder.
Gareth
non poté reprimere una risata che gli alleviò
momentaneamente la
tensione.
Arianrhod
era entrata in travaglio la sera precedente, e Gareth pensava che se
non avesse avuto accanto la presenza confortante di suo padre e
dell’Arcidruido, sarebbe finito per impazzire e avrebbe
già ceduto
da un pezzo alla tensione. Forse proprio nella stessa identica
circostanza in cui vi aveva ceduto Fjölnir tanti anni prima,
alla
nascita di Domaldr.
Finalmente
la porta si aprì e gli si avvicinò Gerda.
“Volevo farvi sapere
che tutto sta procedendo per il meglio, principe. Ma dovrete avere
ancora un po’ di pazienza, perché ci
vorrà ancora del tempo.”
“Non
importa, aspetterò”, rispose Gareth di slancio.
“Ma grazie per
avermi informato.”
Gerda
si congedò con un cenno e rientrò subito nella
stanza di Arianrhod.
“Visto,
figliolo?”, disse Fjölnir. “Devi stare
tranquillo. La nostra
Arianrhod è una donna forte e non avrà problemi a
mettere al mondo
questo bambino.”
Eppure
è così magra… pensò
Gareth, senza riuscire a reprimere una punta di preoccupazione.
Le
doglie erano iniziate il pomeriggio precedente, dapprima lievi e
sopportabili; ma quando la sera erano divenute più forti, la
regina
era stata subito portata nella sua stanza ed era stata chiamata la
levatrice.
Gareth
avrebbe voluto rimanere tutta la notte in attesa fuori della porta,
ma quando una delle serve lo aveva visto dormire sulla panca, con il
capo appoggiato contro il muro, aveva insistito perché
andasse a
letto.
“Andate,
vostra grazia”, gli aveva detto spingendolo affettuosamente
verso
le scale. “Non vorrete essere talmente stanco domani da non
riuscire a prendere in braccio vostro figlio, vero?”
Gareth
aveva dormito poco e male, e aveva trascorso tutto il giorno seguente
in attesa, insieme a suo padre e a Sveigder.
Era
la sera del secondo giorno quando, improvvisamente, delle voci
ovattate e dei suoni che si udivano dall’interno della stanza
di
Arianrhod, non rimase che un silenzio innaturale.
Gareth
balzò in piedi allarmato, e trattenne il fiato
finché, chiaro e
distinto, giunse il sano e potente vagito di un neonato.
“Mio
figlio!”, esclamò il giovane, con la voce rotta
dall’emozione.
Fjölnir
sembrava decisamente commosso. “Finalmente ho un nipote! E
con
buoni polmoni a quanto sembra!”
“Andate
dalla regina, duca”, disse Sveigder con un sorriso.
Gareth
seguì senza indugi il consiglio dell’arcidruido, e
bussò alla
porta. Gerda lo fece subito entrare.
Arianrhod
stava seduta nel letto, sorretta da molti cuscini; i capelli erano
raccolti in una grossa treccia, da cui sfuggivano disordinatamente
delle ciocche. Appariva stanca per la lunga lotta che aveva dovuto
affrontare, ma sorrise felice a Gareth, quando lo vide entrare.
Tra
le braccia stringeva un fagotto avvolto in un telo di lino, e Gareth,
agitato e felice com’era, impiegò qualche istante
a capire che si
trattava di suo figlio.
Si
chinò a baciare Arianrhod. “Come ti senti, amore
mio?”
Lei
sorrise. Era pallida, e una lieve pellicola di sudore le baluginava
sul collo e sul petto.
Prima
che lui potesse aprire bocca, gli mise tra le mani il piccolo
fagottino.
“Ma,
io non so come…”, protestò debolmente
Gareth. Ma si bloccò
quando posò gli occhi sul visino grinzoso e adorabile del
suo
primogenito. Si sentì stringere il cuore dalla tenerezza,
mentre gli
accarezzava la testolina, sormontata da una coroncina di capelli
castani, come quelli di suo padre.
“E’
un maschio?”, chiese continuando a rimirare quel capolavoro,
incredulo di esserne proprio lui l’artefice.
“Un
maschio”, confermò Arianrhod.
“Ci
pensi che questo bambino un giorno regnerà sulla
Svezia?”
“E
spero che lo farà con l’aiuto e il consiglio dei
suoi numerosi
fratelli”, disse Arianrhod
“La
prossima volta avremo una bambina”, decise Gareth.
“Bella e
coraggiosa come te.”
“Perché
non vai a dire all'arcidruido che è il momento che consulti
gli dei
per conoscere il nome che questo bambino dovrà
portare?” sorrise
la regina. E guardò con amore suo marito mentre usciva con
il loro
bambino tra le braccia.
***
L’espressione
pensierosa di Viviana si distese in un largo sorriso, perché
lo
specchio sacro le aveva mostrato esattamente ciò che lei
sperava di
scorgervi.
La
limpida polla d’acqua azzurra rifletteva il viso e i lunghi
capelli
neri della Somma Sacerdotessa, rimandandole l’immagine
familiare di
una donna non più giovane.
Il
Pozzo Sacro le confermava ciò che nel suo cuore Viviana
già sapeva.
Il
piccolo principe Egil, che ora era solo un neonato, sarebbe succeduto
alla madre, governando con giustizia e saggezza.
La
Stirpe del Drago sarebbe sopravvissuta per secoli ancora, salda e
resistente come una roccia, sfidando coloro che avrebbero tramato per
rovesciarla.
*
La ceralacca colorata (comunemente il colore scelto era il rosso)
ancora non era stata inventata, perciò era ancora di colore
neutro
(ho ipotizzato qui un bianco).
Nota
dell'autrice: Ed
eccoci
arrivati alla fine della storia, e come sempre quando questo succede,
i miei sentimenti sono dolceamari. Ma è così,
tutto ha una fine, e
posso solo sperare che la storia sia piaciuta a tutti, che vi abbia
intrattenuto e lasciato qualcosa. Sarete content* che Gareth sia vivo
e vegeto e che i nostri ragazzuoli abbiano il loro lieto fine.
Tranquill* non lo avrei lasciato morire, non ce l'avrei proprio
fatta!^^ Ringrazio dal profondo del mio cuore: Innominetuo,
Crilu_98, Morgengabe, Basileus, Ele240785, franci893, Eilonwy of
Prydain, TRIX94, Framboise, Bankotsu90, _purcit_, charly, miciaSissi,
Harmony394, Stella cadente, vento di luce... spero
di non aver dimenticato nessuno! Grazie per avermi lasciato i vostri
pareri, per aver seguito con tanta dedizione, per tutti i complimenti
e le meravigliose parole che mi hanno sempre spinto ad andare avanti
con rinnovata fiducia.
Ringrazio
tantissimo anche tutti coloro che hanno letto, ricordato, seguito e
preferito.
Piccola
nota storica: Il
neonato Egil che compare alla fine del capitolo è il
successivo
sovrano svedese in ordine cronologico (tolta ovviamente Arian, che
è
una mia invenzione).
Prossimi
progetti: Per
ora prenderò una piccola pausa dalle long, ma ho
già qualche idea
per la prossima. Solo non so quando la inizierò. Prima ho in
mente
due OS che spero di pubblicare a breve. Sto anche continuando a
pubblicare una long di genere fantasy, di cui vi lascio di nuovo il
link se ci fosse qualcuno interessato.
Breaking the Mist
Vi
segnalo anche una OS che ho pubblicato pochi giorni fa sempre di
genere storico. Se vi dovesse interessare potete darci un'occhiata
qui: Wind from the North
Un
grande grandissimo abbraccio a tutti e... alla prossima! ;)
Eilan
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