Dead Drop

di AquilanteMalabestia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

Che tu creda a ciò che stai per leggere, che tu prosegua la lettura o meno, mi è del tutto indifferente.

Non sei che un dettaglio, un passaggio superfluo del mio piano per non andare fuori di testa. Quel che conta è che io metta per iscritto ogni cosa, sperando di intrappolare nella carta l'orrore che mi sta avvelenando.

D'altronde, non posso pretendere che una cosa del genere venga anche solo presa in considerazione da chiunque abbia un minimo di buon senso; pertanto sono cosciente che chiunque trovi questi fogli, nella migliore delle ipotesi, li giudicherà come uno scherzo o – peggio - il parto di una mente folle.

E forse, nel secondo caso, non sarebbe lontano dalla verità.

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Capitolo 2
*** I ***


J. ed io eravamo vecchi amici. A dir la verità, J. è sempre stato il mio unico amico. Fin da bambino ho sempre trovato grande difficoltà a socializzare: non ero mai stato particolarmente popolare, spesso passavo le mie giornate in cucina a studiare e, quando terminavo i miei compiti, rimanevo per ore alla finestra, sognando ad occhi aperti un divertimento che, tanto, il calcetto, le partite  a Street Fighter nelle sale giochi o a casa di altri, le canne o la discoteca non avrebbero saputo darmi.
J. invece era il tipico ragazzino vivace e socievole,  talmente socievole da essere stato l'unico mio compagno di classe ad aver avuto il coraggio di rivolgere parola a "quel bambino pallido e strano" che sedeva all'ultimo banco, in fondo alla fila. Oltre ad essere mio compagno di scuola, J. era anche mio vicino di casa. Dopo la laurea trovai lavoro in una casa editrice in un'altra zona della città e persi i contatti con lui per ben tre anni. Quel giorno stavo proprio pensando al mio amico quando il telefono mi fece trasalire.  Era  J. La mia felicità nel risentirlo fu enorme. Mi chiese se volevo venire a pranzo da lui, quel sabato. In mezz'ora di macchina arrivai nel mio vecchio quartiere: ricordo che lasciai l'auto nella piazzola di parcheggio a pochi metri da casa, dove fino a dieci, quindici anni fa si riunivano i tossici del circondario disseminando il terreno di siringhe. Il cielo era una sola distesa bianca, perfettamente in tono con gli alberi ormai spogli, l'asfalto solcato da crepe e buche e imbrattato da un colloso pasticcio marrone di fango e foglie morte, nonché con l'intonaco scolorito e scrostato degli edifici, tra cui il casermone dalla tonalità ormai indefinibile che un tempo chiamavo casa. Casa nostra non era cambiata di una virgola. Otto piani di finestre in due file perfettamente uguali - alcune con le serrande  visibilmente abbassate da anni - sovrastati dal tetto tempestato di nere antenne della TV collegate agli appartamenti da lunghi cavi bianchi che pendevano davanti alla facciata e s'infilavano sotto le finestre, suggerendo un tempo alla mia immaginazione di bambino che io vivessi in uno strano, immenso galeone in cui gli impianti televisivi  erano in realtà le corde e i tantissimi alberi. Trovai al primo colpo il cognome sulla targhetta del citofono  e un sussurro, appena percettibile nel ronzio dell'apparecchio, mi chiamò per nome con tono interrogativo. Alla mia risposta il portone scattò rumorosamente.

Entrato nel condominio, fui colto da una languida stretta allo stomaco, un misto di nostalgia per il passato e disagio. Soprattutto disagio.

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Capitolo 3
*** II ***


I miei sentimenti avevano il colore delle pareti grigio-verdi opacizzate che seguivano la tromba delle scale diventando ad ogni piano più marcate da scarabocchi, tag e scritte varie; e l'odore pastoso, stantio che lì aleggiava uniforme ad ogni piano e, con gli anni, aveva finito per impregnare il mio naso riaffacciandosi anche quando mi trovavo in luoghi del tutto normali. Neanche l'effetto spettrale di amplificazione dei suoni si era attenuato, col tempo. I rumori e le voci della quotidianità, di famiglie che preparano la tavola e si accingono a mangiare, rimbombavano distorti e vagamente inquietanti. Avevo vissuto in una nave fantasma.

Non appena mi ebbe aperto la porta, capii che J. era l'unica macchia di colore nell'uniformità del contesto. La permanenza nel palazzo, se aveva spinto me ad andarmene appena possibile, non aveva per nulla scalfito la sua grande vitalità. Aveva il magnifico aspetto di un trentenne perfettamente realizzato: la barba incolta ma curata, i capelli biondi raccolti in una discreta coda (mentre io ero quasi calvo) e il modesto appartamento di famiglia mantenuto in condizioni decisamente migliori di quanto non facessero i suoi genitori quand'erano ancora in vita. Non si respirava certo l'aria di vecchio che permeava il resto del palazzo e l'appartamento in cui sono cresciuto. Ma un leggero odore di tempere e vernici: chiacchierando con lui, venni a sapere del suo lavoro di grafico e pittore professionista. J. era sempre stato bravissimo a disegnare e da adolescente si divertiva spesso a rendere il vicinato partecipe del suo talento, riempiendo le strade del quartiere di colorati graffiti che più di una volta gli avevano provocato grane con la legge. La cordialità sincera di un J. maturo ma non irrigidito dall'età adulta, il modo in cui si dimostrava felice di rivedermi, il fatto che nei suoi discorsi quel giorno non accennasse mai al mio brusco taglio di contatti con lui, mi suscitarono una certa vergogna. Dopo la morte di mio padre il nostro appartamento, il palazzo, l'intero quartiere presero a sembrarmi un solo grande carcere: tante gabbie infilate una nell'altra. Con mia madre in clinica, i giorni trascorrevano identici in una casa al di fuori della realtà, perennemente immersa in un silenzio irreale in cui echeggiavano solo i rumori della strada e quelli disturbanti del palazzo. Così avevo visto quell'offerta di lavoro come un'ancora di salvezza e cercato immediatamente un buco lontano da tutto e tutti. È che a lungo andare mi ero convinto che tutto ciò mi stesse corrompendo, inquinando dentro. Ma come potevo dire al mio unico amico che il nostro legame, il quale pensavamo fosse indissolubile, si era dissolto con la semplice inerzia, per il desiderio di eliminare quel groppo nel fondo dello spirito che era inevitabilmente legato anche all'unica persona che mi avesse dato sollievo, aiutato a sopportare le mie idiosincrasie, sostenuto in ogni momento impossibile e che ora aveva voluto rincontrarmi senza alcun rancore, quasi che la colpa del mio allontanamento fosse sua? Mentre parlavamo della sua carriera artistica, J. mi chiese se sapevo cos'era il dead drop. Avevo letto qualcosa. Se non sbaglio, gli dissi, consiste nell'inserire una chiavetta USB tra due mattoni o in un buco nel muro e poi fissarla con del cemento, lasciando fuori solo la "spinetta", cosicché tutti possano connettersi al drive usando un portatile e inserirvi i file che si vogliono condividere con chiunque utilizzi il drive in futuro. J. mi disse di star inserendo in alcuni muri della città dei dead drop contenenti foto di suoi quadri e graffiti: un sistema alternativo per far conoscere le sue opere. Mi disse poi di aver trovato un dead drop in un luogo davvero inaspettato. Prima ancora che mi rivelasse di quale luogo si trattava, un brivido mi percorse le schiena e un'inspiegabile sensazione di malessere mi artigliò lo stomaco. Per una frazione di secondo ebbi l'impressione che qualcosa fosse dietro di me. Il bordo dell'orecchio destro cominciò a pizzicarmi: mi succede tutte le volte che mi sento in pericolo. Evidentemente dovetti divenire molto pallido, perché J. si preoccupò del mio stato e mi chiese se andava tutto bene. In uno stato simile allo shock, mi diressi verso il bagno senza dire una parola. Mi sciacquai il viso. Dietro di me sentivo l'assillo di quell'elettricità statica che mi avverte di una presenza minacciosa alle mie spalle: non solo le orecchie ma tutti i muscoli facciali sembravano percorsi da una corrente di inquietudine; e l'inquietudine aumentava al pensiero della sua totale mancanza di motivo. Non ebbi il coraggio di alzare gli occhi verso lo specchio. Sapevo che non ci avrei visto la mia faccia.

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