In nomine fratris.

di heysassenach
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Promesse e bugie. ***
Capitolo 3: *** Una visita inaspettata. ***
Capitolo 4: *** Il messaggero. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Villa dei Medici a Careggi,
7 Aprile 1492.

Le coperte gravavano come macigni sulle sue gambe ormai devastate dalla malattia. Qualcuno aveva tentato di convincerlo che sì, sarebbe sopravvissuto, ma Lorenzo de'Medici aveva smesso di credere a quelle inutili chiacchiere da molto tempo, ormai. Aveva smesso di illudersi, e si era circondato di quei pochi visi amichevoli per trascorrere al meglio le ultime ore della sua esistenza terrena. Da qualche giorno era sprofondato in un torpore tanto innaturale, che ogni suo dolore pareva solo una eco distante, un vago ricordo. Era come se la sua anima si fosse già distaccata dal corpo, ma per qualche assurdo motivo esitava ad abbandonare la sua mortale dimora.
Se anche il vento che gonfiò le tende della finestra aperta era freddo, lui non se ne accorse. Immerso com'era nel bozzolo tiepido del suo letto, osservava gli astanti con distaccato affetto, come fosse uno spettatore della sua stessa agonia.
Le avevano tentate tutte. Ma nell'ultimo mese, quella che prima era ancora una remota possibilità, si era trasformata in un'incontestabile ed assoluta certezza. Marzo volgeva già al termine, quando aveva comunicato la sua decisione: lasciare Firenze e ritirarsi a Careggi, lontano dal caos e dalle responsabilità della politica cui aveva consacrato la sua esistenza. Gli occhi azzurri del suo amico Poliziano si erano sgranati in quello che pareva essere un misto di consapevolezza e terrore. «Ma...», aveva boccheggiato il poeta, «non puoi. Che ne sarà di Firenze?».
Lui aveva riso, per quanto quello che era affiorato dalle sue labbra fosse più simile ad un rantolo di dolore, che ad una risata. «Io sto morendo, amico mio», aveva detto con tutta la naturalezza che riusciva ad ostentare, «che cosa mai potrebbe farsene Firenze, di un moribondo?». E a quella domanda, Agnolo Poliziano aveva farfugliato qualcosa su un famoso medico, che di certo avrebbe guarito il suo signore. Ma al suo male non c'erano cure. Nell'ultimo mese le sue condizioni erano peggiorate a tal punto, che Lorenzo non si stupiva del gruppetto sempre crescente di persone che vegliavano su di lui, in attesa dell'ora in cui la Morte sarebbe venuta a prenderlo. A volte fingeva di dormire, troppo debole anche per aprire gli occhi, e li sorprendeva a tenere delle vere e proprie veglie di preghiera. Poi, non sapeva come, gradualmente scivolava nell'incoscienza di un mondo onirico in cui la morte appariva ancora lontana.
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«Mio signore?», domandò una vocetta esitante a lui sconosciuta. Lorenzo aprì un occhio appannato, e vide una figura sfocata china su di lui. Mugugnò qualcosa ancora in preda ai deliri del sonno, prima di mettere a fuoco un volto che era certo di non aver mai visto prima. «Chi siete?», chiese issandosi faticosamente su un gomito per vedere meglio il suo interlocutore. Non poteva avere più di venti, al massimo venticinque anni. L'ossatura leggera, quasi femminile del volto, tuttavia, lo faceva rassomigliare più che altro ad un bambino troppo alto, con guance rosee e lunga ciglia nere.
«Il medico, mio Signore», annunciò altezzosamente il giovane, apparendo involontariamente ridicolo. Lorenzo fece una smorfia rassegnata. Quanti poteva averne visti, finora? Ogni giorno bussava alla sua porta qualche ciarlatano che prometteva guarigioni miracolose. Ma alla morte non si può sfuggire, una volta che questa ha iniziato a calare sulla sua preda.
«Ebbene. Ritenete di potermi guarire?». Nonostante avesse parlato con un filo di voce, il suo sarcasmo non passò inosservato all'onnipresente Poliziano, che gli scoccò un'affettuosa occhiataccia da oltre la spalla del nuovo arrivato. Questi, d'altra parte, sembrò non cogliere la vena di scetticismo nella sua voce, perché annuì energicamente. «L'ultima frontiera della medicina, direttamente dall'oriente, mio Signore». Lorenzo si lasciò cadere sui cuscini, rassegnato. Fece un cenno con il capo e quello continuò: «una nuova pozione. Adatta a un grande signore come voi, naturalmente». 
«Naturalmente», gli fece eco Lorenzo studiandone il volto da efebo. Se quella nuova diavoleria ne avrebbe provocato la morte, perché tardare? Tanto valeva mettere fine alle sue sofferenze una volta per tutte. Il grande uomo che era stato era morto da tempo, il fisico possente infiacchito dalla malattia al punto da ridurlo a un invalido. Non c'era stato giorno, nell'ultimo anno, in cui ogni fibra del suo corpo non gli avesse fatto male come fosse costantemente e ripetutamente dilaniata.
«Fate di me tutto ciò che volete, mi rimetto alla vostra esperienza». Ammesso che ne avesse mai avuto alcuna, riflettè Lorenzo fissando le esili mani del medico armeggiare con i lacci di un piccolo sacchetto. Quelle che riversò nella ciotola però non erano affatto le foglie o le spezie che si era aspettato. Al loro posto, in una rumorosa cascata madreperlacea, fecero la loro comparsa decine e decine di minuscole perle di fiume. Lorenzo si schiarì la voce, notando distrattamente lo sguardo altrettanto perplesso di Poliziano, il quale si era fatto più vicino per osservare meglio. Non c'erano dubbi che quel medico fosse opera sua. «Perdonate l'indiscrezione, messere», esordì il poeta prima che il suo signore potesse aprire bocca per dar voce ai suoi pensieri, «siete sicuro che quelle...ehm... perle, siano necessarie?»
Il giovane distolse lo sguardo dal dosaggio delle perle solo per rivolgergli uno sguardo infastidito, per poi mutarlo in adulazione quando si soffermò su Lorenzo: «Vi sembrerà un rimedio un po' atipico, mio signore», spiegò, ignorando lo sguardo ora indignato di Poliziano, «ma vi assicuro che è efficace. Cura tutti i mali! Ovviamente», e qui ammiccò verso il moribondo come se stesse per rivelare il segreto dell'elisir di lunga vita, «solo in pochi se lo possono permettere. E voi siete uno di quei pochi fortunati, signore». Le sue labbra si dischiusero nel sorriso meno rassicurante che Lorenzo avesse mai visto. Si chiese se non fosse in fondo una fortuna, possedere denaro sufficiente per pagare una pozione che certamente lo avrebbe condotto alla tomba il prima possibile. «Procedete, allora», ordinò con un filo di voce. Il giovane era appena tornato a concentrarsi sulla macinazione delle perle, il cui sgradevole rumore ricordò a Lorenzo quello degli scarafaggi schiacciati, quando un braccio gli artigliò l'esile polso. «No». Gli occhi azzurri di Poliziano erano serrati in una maschera d'ira, e sembravano dardeggiare come un falò in una notte buia. «Seguitemi fuori, ho bisogno di parlarvi». Il tono era perentorio, cosa assai rara per un uomo dall'indole mite come il poeta. Il giovane medico mugolò, liberando il braccio dalla stretta ferrea. I suoi occhi incontrarono quelli rassegnati di Lorenzo, in cerca d'aiuto. Ma un uomo prossimo alla morte non ha interesse alcuno ad ostacolare il volere delle persone care. «Fate come vi dice», disse accompagnando l'ordine con un cenno del capo, «come vedete, io sono impossibilitato a scappare». Sorrise a fatica, mentre le spalle del ciarlatano scomparivano dietro la porta.
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«Gli accordi non erano questi». Avvolto in una sontuosa veste di velluto nero, Agnolo Poliziano sembrava la morte in persona. Non si preoccupò del mantello che gli svolazzava alle spalle mentre camminava nervosamente per il corridoio, né tantomeno si premurò di osservare il benché minimo rispetto per l'uomo nella cui professionalità aveva riposto estrema fiducia. Si voltò in un turbinio di tessuti, simile ad un grosso pipistrello, piantando gli occhi fiammeggianti sull'uomo, che parve farsi piccolo piccolo.
«Ci deve essere stato un fraintendimento», azzardò il medico, ritrovando d'un tratto tutta la boria che gli era venuta meno nell'ultima mezz'ora, «ma vi assicuro, messere, che posso tranquillament..», ma Agnolo Poliziano lo interruppe. Torreggiava su di lui come un grosso avvoltoio, infuriato, per giunta. «Voi», disse puntandogli contro un dito accusatore, «farete meglio a sperare che funzioni. Non vi ho pagato per uccidere l'unico uomo capace di tenere in piedi questa città».
Il medico fece un passo avanti, il volto improvvisamente paonazzo per la rabbia. «Ma non capite? Quell'uomo è già morto. Non avete sentito i presagi che ne hanno annunciato la morte?».
Il poeta serrò i pugni, prese un bel respiro. Non era mai stato un uomo violento, e non intendeva diventarlo ora. Aveva bisogno di tutto il suo sangue freddo.
«Ma certo. Un uomo del vostro spessore intellettuale crederà sicuramente alle sciocche chiacchiere del volgo, non è vero? Ad ogni modo l'avete detto, il mio signore è bello che morto», avanzò anch'egli di un passo, sovrastando l'esile giovane, «quindi, dato che non potete guarirlo, a cosa devo la vostra ripugnante presenza?»
«Non ho detto che non posso farlo, infatti. Voi mi sottovalutate». Con un ghigno di scherno ad incurvargli le labbra carnose, il giovane oltrepassò il poeta, immobile come una statua di sale. «Badate bene, dottore: fate solo un passo falso, e vi ritroverete a giacere in una fredda tomba prima del tramonto». Non si voltò, ma poteva percepire l'esile sagoma del medico sgusciare nella camera da letto con un sorrisetto sul volto.
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Una volta, da bambino, Lorenzo aveva perso una scommessa. Ricordava ancora il sorriso trionfante del suo amico Duccio, il figlio dello stalliere, nel comunicargli la sua penitenza. Si trattava di piccolezze, all'epoca, ma per un bambino essere costretto a una tale umiliazione era destabilizzante. Ma Lorenzo de'Medici non poteva tirarsi indietro, non davanti a quei coetanei che lo consideravano solo un nobile rammollito. Così, nel giubilio generale, si era ritrovato a mangiare la prima cosa non commestibile che gli era capitata a tiro: un pugno di sabbia. La sensazione stridente e sgradevole era la stessa che stava provando adesso, quarant'anni dopo, sul letto di morte. Persino il suo corpo, per quanto malandato, non riusciva a sopportare un simile oltraggio: Lorenzo fece appello a tutte le sue restanti facoltà fisiche e mentali per non vomitare. Di certo, l'intruglio che di lì a poco avrebbe avvelenato il suo corpo era ben più pregiato di un pugno di sabbia. Ora il giovane medico lo fissava come se si aspettasse di vederlo saltare giù dal letto con la rapidità di una rana.
«Lasciatemi». Lorenzo si stupì di quanto flebile fosse la sua voce. Si rigirò nelle coperte, nel suo bozzolo protettivo, quasi dimentico dei dolori a cui ormai aveva fatto l'abitudine. Vide il giovane chinarsi in segno di saluto, i lucidi capelli neri scintillanti alla luce delle lampade. Sparì dalla sua vista così come era arrivato, e lui si ritrovò a fissare la parete levigata nel punto in cui un momento fa c'era il giovane. Qualcuno aveva tirato le tende per consentirgli un migliore riposo. Lorenzo si chiese se, effettivamente, quella non fosse l'ultima volta che chiudeva gli occhi. Ma proprio quando la stanchezza parve prendere il sopravvento,il suo sguardo stanco indugiò su un oggetto poggiato alla parete. Come aveva potuto non vederlo?
Il ritratto era di piccole dimensioni, rispetto agli altri dipinti che aveva insistito per portarsi dietro da Firenze. Il giovane di profilo aveva un'espressione austera, e gli occhi abbassati. La sua figura risaltava contro il blu dello sfondo, mettendone in evidenza i lineamenti decisi sotto una zazzera di riccioli neri. Lorenzo si ritrovò a sorridere al ricordo dei capelli indomabili del suo fratello minore. Non lo vedeva da quattordici anni, eppure riusciva ancora a ricordare la sua voce, la sua risata.
Nella penombra della stanza parve calare un silenzio innaturale. Lorenzo de' Medici chiuse gli occhi e attese: magari presto avrebbe rivisto suo fratello.

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Capitolo 2
*** Promesse e bugie. ***


Roma, Autunno 1477

Di locande squallide e bordelli, se ne trovano in ogni città. Roma, fiore all'occhiello dello Stato Pontificio, ne era addirittura satura. Una bella contraddizione per una città Santa, riflettè il mercenario, se non fosse che la stessa casta sacerdotale sembrava gradire parecchio. Ripercorse mentalmente la lista dei bastardi di papi e cardinali, mentre oltrepassava a grandi falcate un'osteria che di certo aveva visto tempi migliori.
Non che lui stesso non si crogiolasse nei piaceri della carne, in fondo. Ma da un mercenario c'era da aspettarselo: nessun uomo rischierebbe la vita ogni giorno, senza trastullarsi un po' con quello che i soldi guadagnati per la sua fedeltà possono offrirgli.
Doveva essere giunto al luogo dell'incontro, perché i suoi occhi si posarono su quello che certamente era tutto meno che un abituale avventore di quel posto. Un fiorentino, e anche ricco, a giudicare dai vestiti. Poiché non diede cenno di averlo notato- del resto il mercenario non appariva tanto diverso dal resto della clientela di quella catapecchia- gli si fece incontro.
«Messere», lo salutò liberandosi del cappuccio del mantello, «spero che il vostro viaggio da Firenze non sia stato faticoso».
Probabilmente il suo aspetto doveva essere peggiore di quanto si ricordasse, perché l'effetto sortito sul ricco fiorentino fu quanto di più insperato si potesse immaginare. Vedersi sbucare da un vicolo malfamato un mercenario imponente e coperto di cicatrici, non doveva essere il massimo. Ora l'uomo lo fissava con tanto d'occhi, indeciso se rispondere o scappare.
«Mi...Mi avevano detto che avrei incontrato un...», deglutì sonoramente, prima di  pronunciare con un filo di voce la parola «...conte».
Il mercenario allargò le braccia, esplodendo in una rauca risata. «Deluso?». Adesso poteva vedere meglio il suo interlocutore, illuminato da uno sporadico raggio di sole. Nonostante fosse di mezza spanna più basso di lui, aveva una certa presenza fisica, che lo faceva  apparire leggermente tarchiato. Portava i capelli lunghi, alla maniera dei fiorentini, certamente ben più curati dei suoi, che ormai assomigliavano sempre di più a un groviglio sporco di massa indistinta. Gli occhi color miele lo fissavano ora con un misto di sospetto e divertimento, mentre la bocca era contratta in una smorfia indecifrabile.
«Non è imprudente incontrarsi in pieno giorno?», domandò il fiorentino, con tutto l'autocontrollo che riusciva ad ostentare.  
Il mercenario scrollò le spalle. Del resto, lui stava solo seguendo un ordine, e andare ad un incontro organizzato da Sua Santità era di gran lunga preferibile ad un assassinio in un vicolo buio. Sperò di non diversi ridurre a sgozzare anche questo sconosciuto, o avrebbe dovuto chiedere una ricompensa più alta.
«Questo dipenderà unicamente da voi», asserì con un certo distacco, «ma non preoccupatevi: metà di questi zotici è troppo ubriaca per capirvi, e l'altra metà è semplicemente troppo stupida. Sua Santità sceglie bene i luoghi dove concludere gli affari, messere».
«Oh, lo vedo». Lo sconosciuto arricciò il naso, gli occhi che indugiavano sulle travi annerite dell'ingresso. «Non sono qui per concludere niente, temo», riprese, oltrepassando un uomo più simile ad un mucchio di stracci che a una persona.
Un puzzo di sudore e alcol li travolse, non appena varcarono la soglia. Sebbene l'ora non fosse particolarmente tarda, il locale era già ben popolato. Il mercenario si chiese da quanto, effettivamente, gli uomini già palesemente ubriachi che sedevano ai tavoli non tornassero a casa. Individuò immediatamente il solito tavolo, abbandonandovisi con una tale naturalezza che non si stupì dello sguardo perplesso del fiorentino.
«A proposito, messere: non vi ho chiesto il vostro nome». Quello inarcò un sopracciglio, stupito. «Sua Santità non vi ha accennato niente? Come è possibile?»
«Temo che Sua Santità non si fidi particolarmente del sottoscritto, di questi tempi». Sorrise, suo malgrado, consapevole di quanto potesse apparire sgradevole il suo viso deturpato da profonde cicatrici. Anche quelle, seppur indirettamente, erano merito del Pontefice. «Specialmente dopo la campagna a Città di Castello», fu l'amara conclusione.
In effetti, se ultimamente il Papa aveva fatto a meno del suo fedele servitore in più d'una occasione, la causa era sicuramente quella.
«Abbiamo rischiato di rendere vana un'impresa di riconquista di fondamentale importanza, a causa della vostra scelleratezza», aveva gracchiato l'anziano pontefice, avvolto in un sontuoso pellicciotto bianco che lo rendeva del tutto simile ad un enorme, vecchio ermellino. Il mercenario aveva provato a dare delle spiegazioni, ma ogni scusa sarebbe suonata talmente ridicola che aveva preferito lasciar perdere: quando Sisto IV si metteva in testa una cosa, non c'era modo di fargli cambiare idea.
Il fiorentino gli rivolse uno sguardo interrogativo, invitandolo implicitamente a continuare. «Diserzione», proseguì sbrigativo, «ho visto mio fratello morire davanti ai miei occhi». Non c'era ombra di sentimento nella sua voce roca, solo mera indifferenza, come se la storia che stava raccontando appartenesse a un altro. Intrecciò le dita delle mani, cercando con gli occhi l'oste. «Il fato ha voluto che io fossi il capitano, tuttavia». Lanciò uno sguardo al suo interlocutore, che parve cogliere al volo l'ovvia conclusione. «Diserta il capitano, disertano tutti», completò il fiorentino.
Il mercenario si era volto indietro a guardare le mura della città assediata una sola volta, ma questo gli era bastato per capire che qualcosa non andava. Manipoli di soldati in ritirata sciamavano dalle mura in fiamme simili a formiche in fuga da un formicaio.
Solo in quel momento il mercenario si era reso conto del suo madornale errore. Era tornato indietro a rotta di collo, le lacrime che gli pizzicavano gli occhi per uscire. Era stato uno sciocco, a lasciare che i sentimenti prendessero il sopravvento. Era pur sempre un maledetto capitano di ventura. E i capitani di ventura non se la danno a gambe come femminucce. Gli uomini muoiono, nei campi di battaglia, e lui sarebbe morto così. Ma ora, si sarebbe preso la sua rivincita. Era entrato nella città come in un sogno. La visione dei corpi accatastati come sacchi di patate lo aveva colpito, ma lui era passato oltre. Aveva radunato i suoi uomini e aveva ripreso la città. Ma la sua avventatezza non poteva sperare di passare inosservata.
L'oste era un uomo tanto simile a un rospo, che il mercenario faticava a non scoppiare a ridergli in faccia ogni volta che i suoi occhi si posavano sul corpo tozzo e bitorzoluto. Se non altro era sorprendentemente efficiente, perché nel giro di pochi minuti il capitano si era ritrovato a sorseggiare in silenzio la sua squallida birra, gli occhi indagatori del fiorentino ancora prepotentemente puntati addosso.
«Dunque», disse rompendo quel silenzio carico di interrogativi, «temo di aver interrotto la vostra presentazione. Voi siete?»
Quello si schiarì la voce e raddrizzò la schiena, mettendo in mostra il superbo orgoglio di chi è particolarmente fiero del nome che porta. «Francesco de'Pazzi, messere». Le sue labbra sottili si arricciarono in un sorriso baldanzoso, mentre con sommo coraggio si accingeva a dare un primo sorso all'intruglio che doveva essere birra.
«Pazzi», gli fece eco il mercenario, pensieroso. «Dovete essere ricco forte, eh? Cosa posso fare per voi, messere?».
Francesco lo studiò divertito, per niente sorpreso dal rinnovato interesse per la sua persona da parte di un uomo che metteva a rischio la sua vita per un mucchio di fiorini.
«Innanzitutto, capitano, ditemi chi siete».
«Oh beh», fece il mercenario protendendosi a sua volta in avanti, «Giovan Battista, Conte di Montesecco. Capitano di ventura, mercenario... Per un po' di fiorini posso anche ballare, sapete?»
Francesco de'Pazzi ridacchiò, scuotendo la testa. Era un buon inizio, pensò il Montesecco. Cosa mai poteva volere un nobile fiorentino, da uno come lui?
«Bene...conte. Sono qui per proporvi un affare».
«Sono tutto orecchi, messere. Ditemi chi devo far fuori», lo esortò il capitano senza troppi preamboli. Del resto, era così che funzionava. Qualcuno lo mandava a chiamare, gli offriva denaro per ammazzare un rivale- spesso un rivale in amore- e lui eseguiva. Non c'era suono più dolce del tintinnio di una borsa carica di fiorini mentre si allontanava dal luogo di un'imboscata.
Francesco liquidò la sua proposta con un gesto annoiato della mano. Un grosso rubino baluginò alla luce ambrata delle torce.
«No, no. Non si tratta di questo... Non solo, almeno», aggiunse, in risposta al suo sguardo confuso. «Avrete capito che la questione è delicata, immagino. Non ho intenzione di rivelarvi tutto in un luogo come questo», asserì lanciando un'occhiata disgustata al tavolo accanto, «ma per ora ho solo una richiesta. Recatevi a Firenze».
Il Montesecco lo fissò per qualche istante, confuso. «Tutto qui?»
«Penserete che Firenze è una signoria a tutti gli effetti», proseguì Francesco de' Pazzi con una certa noncuranza, «ma non è così».
«Vi ascolto».
Il fiorentino abbassò la voce, mentre i suoi lineamenti decisi si contraevano nella tipica espressione di chi ne sa una più del Diavolo. «È tutta apparenza. I Medici si sono circondati di amici fidati, sapete, ma quelle assemblee sono fasulle». Fece una pausa d'effetto, e riprese: «È sempre lui, che prende le decisioni».
«Lui?»
«Lorenzo de' Medici», spiegò l'uomo, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. In effetti, il nome di Lorenzo de' Medici aveva acquisito una fama via via crescente, nel corso degli ultimi anni. Persino a Roma era giunta voce dei licenziosi banchetti che si divertiva ad organizzare per la sua illustre cerchia di amici. Tesorieri dello Stato Pontificio, i Medici erano certo una famiglia interessante, soprattutto agli occhi di un mercenario. Il Montesecco si chiese che diavolo poteva aver fatto Lorenzo de' Medici per rendere necessario un viaggio tanto lungo e faticoso.
«È il veleno della nostra città», spiegò l'uomo, scuro in volto.
«Correggetemi se sbaglio, messere, ma ero certo di aver udito dell'unione delle vostre famiglie», asserì il Montesecco.
«Dite il vero. Un terribile errore». Francesco battè seccamente il calice vuoto sul tavolo lercio. «Ma forse potrà tornarci utile».
«Smettete di parlare per enigmi e dite cosa devo fare io a Firenze», ribattè il conte con un'impazienza che nemmeno lui sapeva di avere. Francesco de' Pazzi lo guardò in cagnesco, indeciso se ricambiare un simile, irrispettoso atteggiamento con la stessa moneta, ma un attimo dopo i suoi lineamenti si distesero in un sorriso sornione. «Andate a parlare con Lorenzo, e scoprite cos'ha in mente. Dite di essere lì per conto del Papa, e proponetegli la questione del recente decreto sull'eredità», disse, avvampando per la foga.
«Quanto, precisamente, Sua Santità sa di tutto questo vostro macchinare?». Il conte fece per ordinare un'altra birra, ma ci ripensò. Aveva bisogno di pensare lucidamente.
«Oh, amico mio», spiegò Francesco con il medesimo sorrisetto, «È proprio sua l'idea».
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Una marea di domande gli vorticavano in testa, evanescenti e sfuggenti come dita di fumo. Fu costretto ad appoggiarsi al muro per non cadere: se avesse perso i sensi in un vicolo come quello, di certo non avrebbe rivisto l'alba. Brancolando nella semioscurità, si ritrovò a svoltare in una via più ampia ed illuminata. Aveva solo una vaga idea di dove si trovava, ma era certo che la bettola chiamata 'casa', non doveva essere lontana. Ed infatti eccola lì, con i suoi infissi di legno ammuffito e il suo aspetto decadente. Il Montesecco si ripromise di restaurarla, un giorno, sebbene spendere i soldi in vino e puttane fosse più gratificante. Come tutti i buoni propositi da ubriaco, se ne sarebbe dimenticato la mattina dopo.
Si era appena abbandonato nel suo giaciglio, quando una voce gli parlò nell'oscurità. «Ma guardati», lo rimproverò con una nota di amaro sarcasmo nella voce cristallina, «ho visto morti con più energia».
Lui si rotolò tra le coperte roteando gli occhi, stizzito. «Giulia», mugnugnò lamentoso, «che diavolo ci fai qui?».
La figura avanzò verso il fascio di luce tremula che filtrava dalla finestrella. Il Montesecco riuscì a scorgere un sorriso increspare le sue labbra a cuore. «Non vuoi che stia qui?»
«No. Voglio solo dormire, accidenti a te».
Lei lo ignorò con tutta la naturalezza del mondo, e proseguì: «Ti ho aspettato per ore. Credo di essermi anche addormentata, a un certo punto», cinguettò, fresca come una rosa. La luce fioca ne illuminava solo in parte i lineamenti delicati, ma la sua bellezza era tale da rendere la stanza meno buia, agli occhi del Montesecco.
«Sei vestita come una puttana».
«Se non lo fossi, credi che qualcuno mi pagherebbe?», lo rimbeccò lei, lisciandosi le gonne in un gesto di stizza.
«Dimmi cosa vuoi e vattene». Il mercenario si rizzò a sedere, strabuzzando gli occhi.
«Soldi», fu la secca risposta di lei.
«Ti sembro un uomo ricco? Guarda questo posto, per Dio!». Nonostante il suo tono di voce fosse leggermente alterato, lei sembrò non farci caso. «Non m'importa. Sai bene che sono incinta», replicò decisa, una mano che accarezzava protettiva la leggera rotondità del ventre, «e che questo figlio è tuo».
La sua risata spezzò la quiete della notte. «Sei una puttana. Vai con decine di uomini ogni notte, non può essere mio».
«Invece sì», insistette lei, «so che è così. Non negare l'evidenza, tu mi ami e io amo te». La sua voce era rotta dal pianto, e il Montesecco fece appello a tutta la sua forza di volontà per non scaraventarla fuori a calci.
«Se è amore, quello che provi per me, ora te ne andrai e mi lascerai dormire». La prese per un braccio, scortandola alla porta. «La notte è ancora lunga: va' e guadagnati da vivere».
Chiusosi la porta alle spalle, il buio calò su di lui e lo avvolse. Ebbe appena il tempo di biasimarsi per aver bevuto troppo, prima di scivolare in un sonno senza sogni.




 
Angolo autrice:
Salve! Se siete arrivati fino a qui, vuol dire che avete sopportato tutto il capitolo, per cui non posso che augurarmi che vi sia piaciuto. :) 
Questa è una storia sulla quale sto rimuginando da un po' di tempo, e che finalmente ho trovato il tempo per scrivere. Tengo davvero molto sia alla storia, che all'idea che mi sono fatta dei personaggi: nella mia testa sono tutti ben definiti, e spero di rendere loro giustizia. Come penso si sia capito, l'intera vicenda ruoterà attorno alle vicissitudini di Medici e Pazzi, visti in egual misura (quindi, dimentichiamoci il discorso buoni/cattivi: per citare il caro Tom Hiddleston, "Ogni cattivo è un eroe, nella sua testa"). 
Il Montesecco è un personaggio più complesso di quanto si possa evincere da questo primo capitolo, non è solo muscoli, cicatrici e fiuto per l'oro, ma in lui c'è anche insicurezza (come si è visto nell'accenno all'assedio di Città di Castello) e una mente brillante (quando non è ubriaco, sia chiaro). 
Per il resto, dato che non voglio tediarvi oltremodo con le mie chiacchiere, vi saluto, vi ringrazio per la vostra attenzione e vi invito a lasciare una recensione: che la storia vi sia piaciuta o meno, è sempre piacevole ricevere consigli e giudizi da chi sicuramente ne sa più di me! Alla prossima! :D
 

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Capitolo 3
*** Una visita inaspettata. ***


Firenze, A.D. 1477
Aveva sempre detestato l'inverno. Il cielo costantemente cupo lo rendeva triste, malinconico, sebbene non lo desse certo a vedere. Agli occhi di tutti lui era sempre stato il principe della gioventù, la perfetta antitesi di suo fratello, che con il suo sguardo spesso corruciato sembrava sempre contemplare verità sconosciute ai suoi simili. Anche lui, Giuliano, spesso si sentiva oppresso, schiacciato da preoccupazioni più o meno futili. Ma il suo viso non tradiva mai le sue emozioni: era diventato un maestro a nascondere agli altri le tempeste che lo laceravano nel profondo, che non gli davano tregua nemmeno la notte, quando insonne si rigirava tra le coperte come fossero fatte di ortiche. Nessuno, nemmeno un uomo acuto come suo fratello riusciva tuttavia a indovinare cosa gli passasse nella mente. C'era solo una persona che lo aveva stupito a tal proposito, riuscendo a fiutare anche la minima ombra di un pensiero negativo dietro quel sorriso sornione che amava indossare a guisa di maschera. E infatti, quella mattina, come tante altre, gli occhi azzurri di Agnolo Poliziano lo scrutarono con un misto di curiosità e preoccupazione. 
Giuliano liquidò la sua tacita domanda con la stessa rapidità con cui l'aveva colta. «Non è niente», disse palesando un improvviso interesse per le briglie del suo destriero. 
«Potrai ingannare quei perdigiorno dei tuoi amici, Giuliano, ma io non sono altrettanto ottuso». Si concesse una pausa, probabilmente per compiacersi di come quella frase fosse suonata alle sue stesse orecchie, e poi riprese: «Quindi, sputa il rospo».
Giuliano non riuscì a trattenere una risata. Appollaiato sul suo ronzino, con le guance arrossate per il freddo e il berretto calcato in testa più del dovuto, il giovane poeta aveva quasi un'aria comica. «Ma come la fai tragica», lo schernì, dando di speroni, «da quando le mie vicende interiori sono diventate così interessanti?».
Poliziano avvampò, spronando il ronzino per stare al passo.  «E comunque, se ti preme saperlo, si è trattato solo di un brutto sogno». 
«Bene», replicò il poeta, poco convinto, «vediamo di sbrigare al più presto questa faccenda, allora. Chi è che dobbiamo ricevere?» 
Giuliano si guardò intorno con aria annoiata. «Un ambasciatore del re di Napoli», rispose, scrutando Piazza della Signoria alla ricerca dei colori blu e oro. 
Poliziano parve sorpreso. «Pensavo che Lorenzo si sarebbe occupato personalmente di un ambasciatore tanto importante», osservò, portando anch'egli la sua attenzione sulla piazza ancora semideserta. 
«Evidentemente non lo è abbastanza. E tu, amico mio, non sei abbastanza informato sulle attività di mio fratello». Giuliano sorrise all'occhiataccia offesa lanciatagli dall'amico, e riprese: «È partito stanotte per Pisa. Ha lasciato me a sbrigare le sue faccende, mentre lui se ne va in... vacanza». La sua voce tradì un'ombra di invidia: starsene rinchiuso in uno studio a ricevere noiosi ambasciatori di pessimo umore a causa del lungo viaggio, era l'ultimo dei suoi desideri. 
«Avrà il suo da fare anche lì, ne sono certo», replicò distrattamente Poliziano, aggrottando le sopracciglia per mettere a fuoco un puntino lontano. Giuliano ne seguì lo sguardo, e lo vide. 
Si faceva strada lungo la piazza, fendendo di quando in quando i piccoli gruppetti di cittadini che incontrava nel suo cammino. Aveva un portamento nobile, il naso dritto e gli occhi feroci. E non era solo. Giuliano si lasciò sfuggire un'imprecazione tra i denti. Era una vera e propria parata regale, con tanto di cavalieri corazzati, stendardi e cavalli bardati. Notò che Poliziano li guardava con tanto d'occhi, la bocca semiaperta per la meraviglia. Poi lo sentì bisbigliare: «Un ambasciatore, eh?». Ma la bocca di Giuliano era asciutta, completamente incapace di articolare una qualsiasi parola di senso compiuto. Come aveva potuto ignorare una cosa tanto...grande? Come un fulmine a ciel sereno si palesò davanti ai suoi occhi il messaggio, ancora perfettamente arrotolato, che aveva dimenticato sulla scrivania. Lorenzo, dal canto suo, negli ultimi giorni era stato troppo occupato nelle sue faccende, e doveva aver omesso quel piccolo particolare. Come al solito. 
Ma doveva tenere fede a sè stesso, doveva gestire la situazione. Si fece avanti con il solito sorriso sornione stampato in faccia, Poliziano attaccato alle calcagna come fosse la sua ombra. 
«Benvenuto nella nostra umile città, mio signore», annunciò, chinando la testa a mo' di saluto. Ciocche di boccoli neri gli caddero davanti agli occhi, e lui se li ravviò con noncuranza. Non appena il suo sguardo si posò nuovamente sui suoi inattesi ospiti, tuttavia, riuscì a cogliere distintamente il disgusto nei loro volti. «Altezza», lo corresse un ometto alla destra del capo corteo, scoprendo una fila di denti giallognoli ed irregolari. Con un altro cenno del capo, Giuliano ripetè: «Altezza». L'uomo taciturno lanciò uno sguardo di sufficienza alla grande piazza, come se fosse trovato lì per caso. Giuliano lo studiò: doveva avere circa trent'anni, quindi non poteva essere lui il re, ma era sicuramente uno dei suoi figli. Il maggiore, probabilmente. Portava abiti in broccato finissimo con i colori tipici della sua casata, una miriade gigli d'oro su sfondo blu che ne ornavano il farsetto. Il mantello era rosso, immenso, e foderato di ermellino. Giuliano non potè fare a meno di lanciare uno sguardo al proprio abbigliamento volutamente spartano, e immaginare quanto potesse apparire misero agli occhi di uno sconosciuto. 
Poiché sua Altezza appariva ancora troppo disgustato per proferire parola, l'ometto continuò: «Sua Altezza reale il principe Alfonso duca di Calabria, figlio primogenito e prossimo nella linea di successione di Re Ferrante I del casato di Aragona», gracchiò con aria di superiorità l'ometto dai denti gialli, lanciando un'occhiata piena di ammirazione al suo signore, che per contro, non gli dedicò più attenzioni di quante ne avrebbe dedicato a un moscerino che gli ronzava intorno. I suoi occhi neri come il carbone si soffermarono anzi su Giuliano, truci e indagatori. Poi, abbandonando ogni forma di convenevole, Alfonso osservò, secco: «Voi non siete Lorenzo de' Medici».
Numerose possibili risposte poco carine vorticarono nella mente di Giuliano, ma, per una volta, non cedette all'impulso di dire ciò che pensava senza riflettere. «No, vostra Altezza. Mio fratello è fuori città». 
Se anche la notizia lo aveva turbato, il volto severo di Alfonso non tradì alcuna emozione. Dopo una manciata di secondi, che a Giuliano parvero ore, disse semplicemente: «Devo tenere udienza con messer Lorenzo, e con nessun altro». Giuliano strinse le redini fino a provare dolore, poi sfoderò il più affascinante dei sorrisi. «Vogliate attendere il suo ritorno, allora. Nel frattempo, se vi compiace, potrete sistemarvi a palazzo Medici». 
Lo sguardo perennemente preoccupato di Poliziano incontrò il suo. E nuovamente, sembrò rispondere alla sua tacita domanda altrettanto silenziosamente. Se c'era una cosa in cui Giuliano de' Medici era sicuro di riuscire, era l'arte di sapersela cavare. E lui non avrebbe mandato a monte i piani della Signoria, e tradito la fiducia di suo fratello, a causa della sua inesperienza. 

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Il duca freddo e taciturno conosciuto la mattina, si era rivelato, nel corso delle ore successive, decisamente insopportabile. Giuliano invidiò la calma e la diplomazia di suo fratello, che certamente avrebbe saputo come gestire i continui capricci di Alfonso, ma soprattutto maledì sè stesso per non averlo semplicemente spedito a Pisa da Lorenzo. Poiché non lo riteneva degno delle sue regali attenzioni, Alfonso gli si rivolse il meno possibile, rispondendo con parole vuote ad ogni sua domanda, e troncando ogni tentativo di sostenere una conversazione in grazia di Dio. Non aveva voluto nemmeno accennare al motivo della sua visita, né agli -a suo dire- importantissimi e segretissimi affari cui urgeva comunicare a Lorenzo. 
Il pranzo si era rivelato una tortura. Nonostante le dispense fossero state completamente svuotate per tale inattesa occasione, Alfonso mangiucchiò appena un po' di pasticcio di montone. Giuliano, dal canto suo, si abbuffò più del solito, giusto per tenere la bocca piena -una buona scusa per non dover rivolgere più la parola a quell'odioso principe. Si rifiutava di credere che quell'uomo fosse vuoto e arido come dimostrava di essere, ma poi gli tornarono in mente le voci che aveva sentito su di lui: che non aveva anima, che era il Diavolo sotto mentite spoglie e via dicendo. Baggianate, chiaramente, ma questo non cambiava le cose. L'antipatia doveva essere reciproca; Giuliano notò inoltre che Poliziano li studiava entrambi con aria ansiosa, come se si aspettasse di vederli arrivare alle mani da un momento all'altro. Ma non sarebbe successo. 
Ogni sua certezza era crollata, e il giovane Medici non sembrava più tanto sicuro delle sue innate capacità persuasive. Poteva affascinare fanciulle e giovani ingenu che lo vedevano come un modello da seguirei, ma il duca era un osso duro. Nel pomeriggio, congedatosi con sommo sollievo dagli ospiti partenopei, Giuliano si ritirò nelle sue stanze: l'unico luogo dove poter pensare, o eventualmente scrivere una disperata lettera di aiuto, pregando che giungesse a Pisa prima che accadesse qualcosa di irreparabile. 
Non badò neanche ai riccioli che  puntualmente gli ricadevano davanti agli occhi, tanta era la foga con cui scriveva. Quando ebbe finito, le mani costellate di macchioline di inchiostro, si lasciò sfuggire un respiro sollevato. I suoi occhi scorsero per l'ennesima volta le parole scarabocchiate alla meglio sul foglio. 

 

Caro fratello,
Sebbene mi dispiaccia deludere le aspettative che nutri nei miei confronti, temo di aver bisogno del tuo aiuto. Non mi sognerei mai di chiederti di sostenere un viaggio tanto lungo per questioni futili, proprio adesso che immagino tu sia ancora in viaggio, ma devo farlo. 
Questa mattina è giunto nella nostra città quell'ambasciatore di Re Ferrante che, nella mia ingenuità, mi ero preparato a ricevere. Ebbene, non era un ambasciatore qualsiasi, ma il duca di Calabria in persona, che ho persuaso a sistemarsi a Palazzo Medici, poichè nessun'altra sistemazione mi sembrava all'altezza di un uomo tanto viziato e abituato a un lusso ben maggiore di quello che noi potremmo mai offrire; ma si rifiuta di comunicarmi il motivo della sua visita. Afferma, non concedendomi nemmeno di conversare di cose non legate al mondo della politica, di voler parlare solo con te e di non avere niente da comunicare né a me, né a nessun altro. C'è forse qualche affare di cui sono stato tenuto all'oscuro? Certamente ti renderai conto di quanto la situazione sia scomoda, dal momento che questo principe sembra tanto testardo quanto arido nell'animo. Tuttavia, penso, e spero, che tu sarai in grado di gestire anche un animo tormentato come il suo: del resto, la diplomazia è quella dote che ti eleva al di sopra di tutti gli altri uomini. Io non sono portato per queste cose, e lo sai bene, ma non voglio deludere le tue aspettative, e fino a quando non riceverò tue notizie, tenterò con ogni mezzo in mio possesso di estorcere a quest'uomo tanto strano informazioni in merito a ciò che desidera comunicarti. Naturalmente, se vorrai, sarò ben disposto ad indirizzare la comitiva a Pisa: non voglio crearti disturbo, per quanto necessario. 
Un abbraccio ai miei nipoti e alla cara Clarice, 
tuo sempre fidato Giuliano.

 

Aveva appena apposto il sigillo alla lettera, chiudendola con lo stemma dei Medici che svettava maestoso anche sulla ceralacca, quando un lieve bussare alla porta lo distrasse per un momento dalle sue preoccupazioni. «Avanti», ordinò, senza neanche voltarsi. 
Del resto, non aveva bisogno di voltarsi per capire che quella che aveva appena fatto il suo ingresso nella stanza poteva essere solo una persona. «Cominciavo a temere che non ti avrei vista, oggi», la salutò, continuando a tenere lo sguardo sulla lettera, la mente piena di domande.
Quando posò gli occhi su di lei, però, ogni sua preoccupazione venne sostituita da un'incontenibile gioia. Fu come se un sole gli si irradiasse nel petto, come se il suo cuore fosse stato sostituito da una fiamma viva ed inestinguibile. Era quello l'amore? 
La ragazza se ne stava immobile, meditabonda, il viso rischiarato da un debole sorriso. Non indossava abiti di foggia nobile, e Giuliano immaginò che se il duca di Calabria l'avesse vista girovagare nei dintorni, l'avrebbe sicuramente cacciata via. Del resto, nobile non lo era affatto, anzi. Era la figlia di un carrozzaio, un pover'uomo la cui attività aveva certamente visto tempi migliori. Non avendo avuto figli maschi, quella fanciulla era la sua unica erede, la sua unica ricchezza. 
Giuliano ricordava la prima volta che si era imbattuto in lei. Era passato meno di un anno, ma sembravano passati secoli. 
Si era a maggio, a quel tempo, e i giovani signori della città strepitavano per celebrare la festa di Calendimaggio, l'arrivo della primavera. In tale occasione tutti loro avrebbero dovuto scegliere la dama più bella, e vincerne il cuore appuntando un mazzolino di fiori sotto la loro finestra. Ma a Giuliano non interessava più, l'amore. Anzi, lo fuggiva, dal momento che, a suo dire, il suo cuore era morto con l'unica dama che gliel'aveva portato via. Era passato appena un anno da quando gli occhi di Simonetta Vespucci si erano chiusi per sempre, e ciononostante lui non voleva rassegnarsi a quell'evidenza. Perciò, quel giorno, nonostante l'indole festaiola che spesso ostentava in compagnia, era stato restio a prendere parte ai festeggiamenti. Se n'era rimasto tutto il tempo in disparte, le immagini che scorrevano sotto ai suoi occhi come fossero appartenenti ad un'altra dimensione. Gli schiamazzi, le grida, e le risatine frivole delle fanciulle non erano riusciti a dissipare quella sorta di torpore che permeava ogni singola fibra del suo corpo. Si era finalmente convinto a rincasare, dopo aver assistito all'ennesima scalata di una finestra da parte di uno dei suoi amici, quando, passando per la Via Larga, una piccola folla aveva attirato la sua attenzione. E malgrado la cosa fosse più che normale, in una giornata come quella, non aveva potuto fare a meno di avvicinarsi, non curandosi affatto di portarsi una scorta. 
Oltre le teste degli spettatori, Giuliano era riuscito a scorgere molto distintamente la chioma di capelli corvini, scintillanti alla luce rossastra del tramonto. Lei danzava, danzava con un tale trasporto che Giuliano si era chiesto se effettivamente avesse preso coscienza del semicerchio di persone che stavano ad osservarla. Solo quando il Saltarello era sfumato in uno scrosciante applauso, la fanciulla si era concessa un timido inchino, insieme con la sua compagna di danza. Entrambe avevano fiori intrecciati nei capelli, che ricadevano morbidi sulle spalle, e indossavano abiti modesti. Ma lui non se ne era curato minimamente. Era rimasto fortemente colpito da una scena tanto semplice e ordinaria in quel contesto, e aveva messo da parte ogni forma di buonsenso. Da quel giorno in poi, il suo cuore aveva ricominciato a battere. Era stata una rinascita: le veglie notturne, i corteggiamenti, le arrampicate fino alla finestra della camera. Era determinato a vincere il cuore di Fioretta, e c'era riuscito. E ora, mesi dopo, nel grembo di lei cresceva il suo erede. 
«Ho visto parecchi soldati giù nel cortile», esordì la ragazza abbandonandosi su uno scranno, «che cosa ci fanno? Non sembravano fiorentini». Giuliano stette un po' ad osservarla lisciarsi le gonne con noncuranza, come incantato. Poi il pensiero dei soldati del duca di Calabria e dei suoi soldati tornò dolorosamente a colpirlo come un fulmine a ciel sereno. 
«Lorenzo ha lasciato la città la notte scorsa, e ora mi ritrovo a fare i conti con il figlio del re di Napoli», disse tutto d'un fiato, mascherando con somma maestria ogni suo turbamento dietro un sorriso rassicurante. Fioretta, dal canto suo sgranò gli occhi, sorpresa. «E come pensi di fare?».
Giuliano si strinse nelle spalle, i dubbi che lo travolgevano ancora una volta. Aprì la bocca per rispondere, ma prima che dalle sue labbra affiorasse un qualsiasi suono, un volto fece capolino dalla porta. Non aveva sentito bussare. 
«Mio signore». Da che aveva memoria, Piccarda aveva sempre servito la sua famiglia. Era una donna sulla cinquantina, i capelli grigi raccolti in un'acconciatura alquanto spartana. Tenne lo sguardo ostinatamente lontano dalla fanciulla che sedeva sullo scranno: Giuliano sapeva bene che la donna, come altri della servitù, giudicavano la sua relazione con una popolana oltre che sconveniente, pericolosa. «Messer Iacopo de' Pazzi chiede di vedervi. Dice che è urgente».
Giuliano trasse un respiro carico di rassegnazione. Qualcuno aveva proprio deciso che le cose per lui non sarebbero andate bene, quel giorno. Dopo il duca, ora si preparava ad affrontare anche il capostipite di una casata risentita dalle scelte politiche di suo fratello. 
«Grazie, Piccarda. Lo riceverò subito». 
Strinse i pugni fino a farsi male. Avrebbe risolto anche quella questione, con le buone o con le cattive. O almeno fu questo il suo pensiero, mentre varcava la soglia dell'accogliente studio per addentrarsi nell'ignoto.



 
Angolo autrice:

Sono tornata, /per vostra sfortuna/ con un altro capitolo. Credetemi, non so come ho fatto a concepirlo, ed è probabile che me ne pentirò presto. Anche questo capitolo è abbastanza introduttivo: il mio obbiettivo è quello di presentare uno dei personaggi cardine della vicenda, ovvero Giuliano, che è un personaggio molto ben definito nella mia testa (al contrario di Lorenzo, che mi sta veramente facendo entrare in crisi perché una personalità così complessa penso di non averla mai vista). Il duca di Calabria non è proprio una cosa campata per aria, dato che il re di Napoli [SPOILER] prenderà anche lui parte alla congiura, e in qualche modo volevo inserirlo. Se siete arrivati fino a qui apprezzo il vostro coraggio e vi ringrazio, mi farebbe un immenso piacere sapere cosa ne pensate. Ogni critica è ben accetta, si può sempre migliorare. Alla prossima c:

 

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Capitolo 4
*** Il messaggero. ***


I suoi occhi avevano percorso quelle righe scritte frettolosamente pù e più volte. Lorenzo de' Medici avrebbe tanto voluto illudersi che quello che stava vivendo non era altro che un brutto sogno, magari una brutta conseguenza della cena pesante della sera prima, ma sapeva fin troppo bene che non era così. In realtà, c'erano tante cose che avrebbe voluto fare in quel preciso istante: strappare la lettera, gridare, correre a Firenze sulle sue stesse gambe, sbattersi la testa al muro. Ma si rese conto che simili reazioni non avrebbero certo risolto il problema. Un grosso problema, senza dubbio.
Si limitò a schiarirsi la voce, mantenendo un'espressione appena concentrata. « E così mio fratello non ha detto nient'altro?»

Il messaggero scosse la testa, i capelli fradici per la pioggia ancora appiccicati al volto. «No, mio signore», soggiunse con un filo di voce, «mi ha solo intimato di portarvi questo messaggio immediatamente, anche a costo di non riposare». Lorenzo inarcò un sopracciglio. «E ci siete riuscito? Senza riposare?»
L'uomo abbassò di colpo lo sguardo, il volto improvvisamente rosso per l'imbarazzo. «Beh, a dire il vero no, mio signore. Ma non mi sono fermato per più di qualche ora, questo ve lo posso assicurare».
Lorenzo liquidò la faccenda con un gesto della mano. In fondo, si disse, se lui era stato tanto distratto da non lasciare precise disposizioni a Giuliano, un povero messaggero non poteva certo averne colpa.
«Manda a chiamare lo stalliere», annunciò Lorenzo volgendosi verso la finestra, «devo partire oggi stesso».
Il messaggero parlò così piano che l'incessante ticchettio della pioggia sui vetri quasi ne coprì la voce. Lorenzo udì a malapena la porta chiudersi alle sue spalle, preso com'era dai suoi pensieri. Com'era potuto succedere? Come aveva potuto essere così sciocco? Ora chissà cosa sarebbe successo.
Lorenzo de' Medici non era mai stato un uomo particolarmente devoto, ma per una volta non potè che appellarsi a una forza superiore. Perché stavolta neanche lui era sicuro di riuscire a risolvere le cose.

 

Aveva quasi rinunciato a dormire, a costo di viaggiare tutta la notte e sotto la pioggia. Ora non solo si sentiva le dita gelate e le gambe indolenzite, ma la stanchezza pesava come un macigno sulle sue spalle. Tuttavia, quello che si ritrovò davanti quando, stremato, mise piede in Via Larga, fu uno scenario ben differente da quello catastrofico che si era immaginato per tutto il viaggio. Lorenzo tirò un sospiro di sollievo non appena vide suo fratello corregli incontro con il suo classico sorriso sornione stampato in faccia: se non altro non aveva combinato qualcosa di irreparabile... forse.
«Non immagini quanto sono felice di vederti». Giuliano sembrava visibilmente sollevato, ora che le sue giornate angosciate parevano finalmente giunte al termine.
«E io sono felice di vederti tutto intero, se le cose che si dicono sul duca di Calabria sono vere», replicò Lorenzo, godendosi il repentino cambio di espressione sul volto di suo fratello a quelle parole, «evidentemente le tue abilità diplomatiche non sono così scarse come mi hai lasciato credere in passato». Giuliano scrollò le spalle. «Quel che è certo, è che ne ho avuto abbastanza per un po' di diplomazia», annunciò il minore dei fratelli Medici. «Un altro giorno a tentare di comunicare invano con il più antipatico degli uomini, e sarei passato alle mani».

Lorenzo sorrise a quelle parole: nonostante la differenza di età tra lui e suo fratello fosse di soli cinque anni, in quel momento Giuliano gli ricordò sè stesso da ragazzo, quando ancora il mondo della politica non lo aveva coinvolto minimamente e pensava che bastasse tirare qualche pugno alla cieca per risolvere le cose.
Sebbene il sonno cominciasse a farsi sentire, e i dolori alle gambe fossero veramente fastidiosi, Lorenzo trasse un profondo respiro e fece il suo ingresso nella sala dove lo aspettava il suo ospite. Giuliano, che fino a pochi secondi prima aveva continuato a riempirgli la testa di discorsi di ogni genere, sembrava improvvisamente aver perso la lingua.
L'uomo che trovò ad aspettarlo, era proprio degno della sua fama. Il suo sguardo gelido lo trafisse da parte a parte, squadrandolo più e più volte, al limite del disgusto. Le labbra di Lorenzo si incurvarono nel più cordiale dei sorrisi. «Principe Alfonso», lo salutò, chinando leggermente il capo in segno di saluto, «vogliate perdonare la mia assenza in questi giorni. Spero che l'attesa in questo palazzo sia stata cosa gradita, per quanto tediosa».
Il duca si limitò a fissarlo in silenzio per qualche secondo, poco convinto. Poi, finalmente, dopo quella che sembrò un'eternità, si limitò a dire: «E così voi sareste Lorenzo de' Medici».
Lorenzo non perse il suo contegno: nonostante il suo aspetto provato dal viaggio, sapeva che la sua arma più forte erano le parole. Anche se il principe non sembrava affatto un avversario facile.
«Lo sono, infatti. Mi spiace di aver deluso le vostre aspettative, qualunque esse fossero, ma immagino che voi non siate qui per sindacare sulla mia identità».
Alfonso inarcò un sopracciglio, gli occhi azzurri leggermente spalancati dalla sorpresa. Alle sue spalle, Lorenzo sentì Giuliano schiarirsi nervosamente la voce. «No, avete ragione», replicò il principe, le labbra arricciate in un ghigno indecifrabile, «vengo per conto di mio padre, il Re di Napoli. Vengo a discutere affari importanti».
«Questo lo avevo immaginato», replicò Lorenzo sorridendo a sua volta, «perché non vi accomodate e non mi dite di cosa si tratta?».
Lo sguardo gelido del principe fissò un punto oltre la sua spalla. «Sono tenuto a parlare solo ed esclusivamente con voi», asserì Alfonso, il sorriso ormai divenuto solo un ricordo.
«Mio fratello è coinvolto nella gestione degli affari quanto lo sono io». Senza neanche rendersene conto, Lorenzo aveva stretto un pugno fino a farsi male. Fu grato che il principe non se ne fosse accorto ma che anzi, reagì con una risatina. «Sappiamo tutti che non è vero», replicò, tornando a fissare Giuliano, che dal canto suo se ne stava insolitamente zitto. «Allora magari vi hanno comunicato delle informazioni sbagliate». Lorenzo fece appello a tutta la sua cortesia, e ancora una volta apparve credibile.
«Non importa». La voce di Giuliano tremava di rabbia, ma il suo volto non tradiva alcuna espressione. «Se è questo che sua Altezza desidera, ubbidirò volentieri».
Uscì a testa bassa, ma Lorenzo riuscì a intravedere le sopracciglia ben definite di suo fratello inarcate in un'espressione mortificata. Il suo orgoglio era stato ferito, e tra tutte le persone che gli fosse mai capitato di conoscere in vita sua, Giuliano era sicuramente il più orgoglioso di tutti.
Tornò a voltarsi verso l'erede al trono aragonese, i muscoli del volto forzatamente rilassati a simulare un'espressione pacata e cordiale. «Ora che la situazione vi compiace», riprese Lorenzo, «potete conferire con me in totale tranquillità. Sentitevi libero di esternare ciò che avete fatto tanta strada per comunicarmi».
Un sorrisetto fece la sua comparsa sotto i baffi scuri del principe. «Ebbene», cominciò, «in primo luogo, mio padre mi ha incaricato di vedere com'è la situazione qui a Firenze. Non ve lo nascondo, la vostra accoglienza sgangherata mi ha lasciato molto perplesso».
Lorenzo si lasciò sfuggire una risatina. Se per il nervoso o per puro divertimento, non avrebbe saputo dirlo.
«Sono sicuro che mio fratello ha fatto il meglio che ha potuto, con così poco preavviso». Il suo interlocutore inarcò un sopracciglio e riprese: «Beh, ma non si tratta di vostro fratello, messere». Tamburellò distrattamente le dita sul bracciolo della sedia, noncurante dell'espressione di puro stupore sul volto di Lorenzo, «Vedete, si dicono grandi cose su di voi. Che siete un Principe. Che siete l'uomo più ricco, addirittura più ricco di mio padre, il re di Napoli!». Qualcosa si accese nei gelidi occhi di Alfonso, nel pronunciare quelle parole. Si era sporto in avanti, gli occhi fissi sul volto altrettanto incredulo di Lorenzo.
«Forse non dovreste credere a tutte le voci sul mio conto», asserì Lorenzo massaggiandosi il mento. Dove voleva andare a parare, questo emissario tanto importante? «Non sono certo un principe, credetemi. Né penso di essere lontanamente ricco quanto vostro padre, se è questo che vi preoccupa. Ma sono comunque un banchiere, e non vi nascondo che i soldi non mi mancano. E' dunque di questo che si tratta? Siete venuto in cerca di denaro?». Non aveva ponderato attentamente le parole, stanco com'era. I pensieri erano usciti dalle sue labbra prima ancora che potesse valutarne le conseguenze. I tratti raffinati di Alfonso, così in contrasto con quelli molto più aspri di Lorenzo, si contrassero in un'espressione indignata. Aveva quasi l'aria di uno che era stato costretto ad ingerire il più disgustoso dei cibi. Il suo colorito pallido virò al paonazzo in così poco tempo, che Lorenzo ebbe l'assurda impressione di vederlo stramazzare a terra da un momento all'altro.
«Avevo sentito parlare della vostra sfacciataggine, ma mai avrei immaginato di udire queste parole. Vi sembro forse il genere di persona che va ad elemosinare soldi in giro?». Serrò un pugno fino a far diventare bianche le nocche, poi tirò un profondo respiro e aprì nuovamente la bocca per parlare, ma Lorenzo lo interruppe: «Non intendevo certo offendervi. Capita spesso che persone illustri come voi si rechino da me in cerca di un prestito in denaro, non c'è niente di disdicevole in tutto ciò».
Gli occhi di Alfonso lo trafissero per qualche secondo, indagatori. Poi la sua espressione si rilassò. «No, messere. Non sono in cerca di un prestito. Tutto questo non ha niente a che fare con il denaro». Il principe si schiarì la voce, mentre con una mano dalle dita lunghe e sottili frugava sotto il farsetto. Ne estrasse una lettera,

sorprendentemente non troppo spiegazzata. Lorenzo l'afferrò con estrema delicatezza, quasi avesse paura di rovinarla. Ne avvertì l'importanza con un solo tocco: di cosa si trattava? Cosa mai poteva volere il Re di Napoli da lui? Osservò la ceralacca intatta, di un blu intenso, e la ruppe con un gesto secco. La lettera recava la firma del Re in persona. Erano poche righe, scritte in una grafia composta e ordinata. Gli occhi di Lorenzo si soffermarono su ogni singola parola, su ogni singola virgola. Di quando in quando il suo sguardo si spostava su Alfonso, che lo fissava a sua volta, impaziente. «Mi si sta chiedendo di riconciliarmi con il pontefice», riflettè Lorenzo ad alta voce, quasi per essere sicuro che ciò che aveva appena letto fosse vero. I suoi occhi scuri incontrarono quelli di ghiaccio di Alfonso. «Non posso farlo», disse semplicemente.
Il principe aragonese si sporse in avanti e trasse un bel respiro. «Lorenzo, non vi conviene inasprire il vostro rapporto con il Sua Santità. La situazione è più critica di quanto pensiate».
«Ebbene, perché non è il papa stesso a cercare di riappacificarsi con me? Perché deve usare voi?», replicò Lorenzo. Tutta quella situazione era assurda, e sommata alla stanchezza del viaggio, aveva tutta l'aria di essere un brutto, bruttissimo sogno.
«Siete voi che gli avete arrecato un torto non indifferente, non una, ma ben due volte. Nessuno sta 'usando' il Regno di Napoli, messere», Alfonso abbassò lo sguardo, «mio padre vorrebbe evitare di ritrovarsi nel bel mezzo di una guerra».
Lorenzo ripiegò la lettera e si passò una mano tra i capelli. Avrebbe messo da parte l'onore per ritrovarsi i domini papali ai confini? Avrebbe chinato la testa davanti a una richiesta così meschina? No, qui non si trattava di diplomazia. Se qualcuno minacciava la sua libertà, la libertà di Firenze, non si sarebbe piegato tanto facilmente.
«Riferite questo a vostro padre: non ci sarà nessuna guerra. La situazione è sotto controllo...e se Sua Santità vuole che io mi scusi per essermi opposto ai suoi piani di conquista, me lo deve chiedere egli stesso».

Alfonso d'Aragona scosse la testa, sconsolato. «Ci manderete tutti all'Inferno, Lorenzo de' Medici».

 

 

 

 

Angolo autrice:

 

Com'è che si dice? A volte ritornano. Mi ci è voluto praticamente un anno per trovare l'ispirazione per questo capitolo. La mia passione per i Medici purtroppo è inversamente proporzionale alla mia costanza nella scrittura. Mettendo queste cose per iscritto, mi ritrovo spesso ad osservare quanto nella mia testa apparissero decisamente migliori. Ebbene, ci ho messo parecchio tempo, sì, ma devo dirmi abbastanza soddisfatta. Ho partorito un capitolo che probabilmente sarà noioso ma ehi, data la mia deformazione professionale non potevo che farlo il più 'politico' possibile (anche se forse pecco di superbia pensando una cosa del genere).

Lorenzo è stato la sfida più grande, e continuerà ad esserlo. Spero di avergli, un minimo, reso giustizia. Per quanto ci piaccia (a me in primis) pensare a lui come un uomo politico praticamente impeccabile, devo dire che analizzando le sue scelte politiche fino alla Congiura ho notato una buona dose di avventatezza (se così la vogliamo chiamare). In questa enorme licenza poetica che mi son presa introducendo questo 'ultimatum' da parte del Regno di Napoli (che ne sa una più del Diavolo, per ovvie ragioni), ho cercato di mettere al corrente degli eventi anche chi magari ne sa meno di me. Lorenzo si oppose ai progetti di Papa Sisto IV di occupare le piazzaforti di Imola e Faenza, situate sul confine con la Repubblica di Firenze, e si rifiutò di prestargli il denaro necessario ad acquisire Imola dagli Sforza. Ho voluto immaginare un Lorenzo un po' testardo, orgoglioso ed incosciente, ben diverso dal Lorenzo del dopo- congiura.
Giuliano, dal canto suo, si è trovato in una situazione scomoda. Si vede costantemente sottoposto al fratello, anche se questi fa di tutto per considerarlo un suo pari (gli altri purtroppo la pensano diversamente), e la cosa ferisce il suo orgoglio.
Prometto che il prossimo capitolo sarà più avvincente, se siete arrivati fino a qui vi ringrazio immensamente per non esservi addormentati, e vi prego di recensire (anche per scrivermi che fa schifo eh), sono veramente curiosa di sapere cosa ne pensate! Vi ringrazio per il supporto, a presto! (spero)

P.S: il cambio di atteggiamento di Alfonso II d'Aragona è voluto. Mantiene l'atteggiamento dispotico per un po', ma anche lui si rende conto che la situazione è critica e cerca di far ragionare Lorenzo.

 

 

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