L'ombra della vita

di Red Moon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ricerca ***
Capitolo 2: *** Ricordi ***
Capitolo 3: *** Rilfessioni ***
Capitolo 4: *** La porta ***
Capitolo 5: *** Nuovi Amici ***



Capitolo 1
*** Ricerca ***


Era una mattina come le altre. La luce filtrava da una finestra sul soffitto della casa che aveva scelto come rifugio per quella notte. Guardò in alto. Il sole era pallido, sembrava malato, quasi che quell'epidemia avesse contagiato anche lui. Si alzò e sbirciò da una finestra. Niente. Le strade erano deserte. Bene, poteva arrischiarsi ad uscire. Uscì e scese le scale che conducevano al vialetto, poi s'incamminò circospetta lungo la strada. La sua meta era il parco che si trovava nel centro della città . Forse ci avrebbe trovato qualche anatra. Di questi tempi trovare cibo non era cosa facile. Era da più di un mese che non incontrava altri sopravvissuti ed era affamata. Arrivata ad un incrocio svoltò a destra senza pensarci troppo: non possedeva una cartina della città e perdere tempo era l'ultima cosa da fare. Passò davanti ad un vecchio cartellone pubblicitario, sopra c'era la foto di una coppia sorridente che in una stupenda giornata di sole giocava a palla con la figlia. Sotto c'era la scritta “Vacanze in paradiso”. Peccato che ora quel posto assomigliasse più all'inferno. « Chissà se posso fare domanda di rimborso...» , si chiese mentre scavalcava un'automobile rovesciata. « Probabilmente no...» , pensò con un sorriso amaro sulle labbra. Due anni prima quella malattia si era diffusa in tutto il mondo in pochi mesi. Nessuno era riuscito ad individuarne con certezza l'origine e i casi d'infezione erano aumentati ogni giorno in maniera così esponenziale da cancellare ogni traccia del focolaio iniziale. Il rapido decorso e l'alto tasso di contagio non avevano permesso ai medici di preparare un vaccino efficace o una terapia adeguata. In più tutti i contagiati erano morti nel giro di poche ore. Poco dopo che il loro cuore si era fermato i neo defunti avevano iniziato a risvegliarsi. Questo era successo al cinquanta per cento della popolazione mondiale. Ma non solo. Alcuni degli infetti erano stati seppelliti nei cimiteri e non si sa come il virus si era trasmesso a tutti i corpi precedentemente inumati. Perciò il numero dei necrofagi era aumentato a dismisura. Ad un certo punto il virus aveva cessato di diffondersi per via aerea e i contagi erano cessati. Inoltre, poiché questi “morti viventi” si nutrivano esclusivamente di carogne, gli stati abbassarono la guardia e ridussero i fondi destinati all'eliminazione del virus e all'abbattimento dei contagiati. Nonostante ciò l'opinione pubblica si oppose in quanto affermava che quegli esseri non potevano essere pericolosi per i cittadini e che ucciderli sarebbe stata una crudeltà. Quando durante una conferenza internazionale il rappresentante delle Nazioni Unite aveva precisato con una battuta che tecnicamente gli infetti non sarebbero stati uccisi perché già morti le tensioni esplosero. Ci furono manifestazioni di associazioni animaliste ed ecologiste che organizzarono cortei in difesa dei non morti sostenendo che anche loro avevano diritto ad un posto nel mondo. Proteste simili esplosero in tutto il mondo e le già esigue forze di polizia in caricate di riunire e distruggere i contagiati erano state richiamate per riportare all'ordine le folle di manifestanti. Insomma, un casino. Ma non era che l'inizio. A tre mesi dallo scoppio dell'epidemia il virus era mutato ancora una volta. Tutti quei docili cadaveri ambulanti si erano trasformati in creature assetate di sangue. Inizialmente avevano aggredito solo animali, ma non ci era voluto molto perché iniziassero ad attaccare anche gli esseri umani. Era stato il caos. Una strage. Le stime erano state disastrose. Del cinquanta per cento dei sopravvissuti alla prima pandemia il trenta per cento venne divorato vivo, il quindici per cento venne ferito e si trasformò nelle creature dalle quali fuggiva, dimostrando che così che ora il contagio si trasmetteva attraverso i fluidi corporei: saliva, sangue, liquido lacrimale, etc. Del rimanente cinque per cento il quattro per cento sopravvisse in comunità più o meno grandi e l'uno per cento si dimostrò immune al contagio. Sfortunatamente non immune ai denti di quelle cose.

Era passato un anno da quegli avvenimenti.

Finalmente raggiunse un altro incrocio e trovò l'informazione che cercava, anche se un po' sbiadita, sul cartello era ancora leggibile la scritta “Centro di Los Angeles. 2 miglia”. Aumentò il passo, ma proprio quando stava per svoltare l'angolo colse un movimento con la coda dell'occhio e si voltò verso il viale alberato che costeggiava la strada principale. Tra due automobili un cane la fissava. Quando si accorse che lei lo aveva individuato si voltò e fuggì. Lei non perse tempo e si gettò all'inseguimento.

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Capitolo 2
*** Ricordi ***


Il giovane tenente osservava con attenzione la strada sottostante. Doveva concentrarsi su ogni particolare, perché nella situazione in cui si trovavano lui ed i suoi commilitoni ogni più piccolo errore poteva rivelarsi fatale e condurre alla morte. O peggio. Non voleva diventare uno di quei cosi, era terrorizzato solo all'idea, però non poteva permettersi di darlo a vedere. Lo doveva ai suoi uomini, a quelli rimasti almeno...

Era da più di due mesi che si trovava in quell'inferno e aveva già perso sette dei suoi dieci uomini; supponeva fosse una buona media dato che la quasi totalità del genere umano era stata spazzata via dalle infinite orde di non-morti. Ciò nonostante continuava a darsi dell'incapace per aver perso tutti quei ragazzi che ormai conosceva da anni e che avrebbero dovuto essere sotto la sua responsabilità. Era divorato dai sensi di colpa. E prima dei rimorsi per coloro che erano morti veniva l'angoscia di mantenere in vita a coloro che, miracolosamente, lo erano ancora. E poi lui non doveva preoccuparsi solo della sua squadra, sia pur ridotta ai minimi termini, ma anche dei civili che incontravano di tanto in tanto; non lo considerava un obbligo, anche perché non era rimasto nulla della vecchia società e delle sue organizzazioni: molto probabilmente i suoi superiori erano morti e, casomai non lo fossero, non erano certo in grado di trasmettere ordini. Perciò lui faceva ciò che riteneva più giusto: il suo compito era difendere i civili da quelle bestie, ridar loro speranza, perché era quello il compito delle Forze dell'Ordine. Servire e proteggere. E lui avrebbe continuato a farlo, a dispetto delle circostanze. Era sempre stato un po' idealista, lo ammetteva, ma che c'era di male a cercare di fare il meglio, soprattutto in una situazione come quella? Tanto peggio di così...

«Signore! Abbiamo perso il primo piano, che...»

Quelle parole gli riportarono alla mente avvenimenti che ora sembravano distanti anni luce. Solo tre mesi prima lui e quelli che ora erano suoi compagni d'armi non erano altro che giovani reclute di una delle tante accademie militari degli Stati Uniti d'America. Lui aveva già ricevuto il grado di tenente perché aveva frequentato corsi più avanzati grazie alla sua eccellenza in tutte le attività extra scolastiche e non, ma era un'eccezione. La maggior parte dei ragazzi erano tutti giovani sui venti-venticinque anni, i cui padri avevano partecipato attivamente alla vita militare del Paese, che ora si apprestavano a seguire le orme dei genitori. La mattina del giorno in cui li avevano resi operativi si stavano esercitando a rendere e mantenere sicura una determinata zona.

«Allora, tenente, supponiamo che lei ed i suoi uomini vi troviate in un territorio sconosciuto, braccati dal nemico, e che dobbiate...», proprio in quel momento la sirena d'emergenza aveva iniziato a suonare. Lì per lì tutti avevano pensato ad una delle solite esercitazioni, ma ben presto si erano resi conto di essere in errore. Dall'altoparlante la voce di un agitato supervisore aveva strillato che ogni ufficiale e sottufficiale presente in Accademia, insegnate o allievo, sarebbe dovuto essere operativo entro dodici ore dalla trasmissione.

Fino ad allora tutto era sembrato così facile, quasi un gioco, l'unica possibile conseguenza di un errore era stata la ramanzina di un superiore, una lavata di capo che quasi sempre si concludeva con un nulla di fatto. E anche quando la punizione arrivava, non andava mai oltre una settimana di consegna.

Alle dodici in punto era cominciato il via vai di elicotteri che trasportavano le diverse uniti nelle città in cui era necessario il loro intervento. Appena decollati, un'altra voce gracchiante di un colonnello che non avevano mai visto, li aveva informati su quello che sarebbe stato il loro compito: «Ragazzi, il vostro Paese ha bisogno di voi, siamo in una situazione particolarmente delicata e mi aspetto che ognuno di voi faccia del suo meglio per riportare l'ordine nelle nostre città. Non appena arrivati sugli obbiettivi verrete smistati e divisi in squadre, ogni caposquadra avrà sotto il suo comando da cinque a quindici uomini. Una volta a terra vi verranno forniti i dettagli. Siamo comunque fiduciosi nell'affermare che, grazie anche a voi, il nostro Paese uscirà da questa crisi più forte che mai.»

Ora pensare a quel discorso lo faceva sentire stupido, perché allora si era sentito orgoglioso che i suoi superiori riponessero in lui tanta fiducia. Probabilmente invece, mentre quel messaggio veniva diffuso loro se la stavano già svignando, diretti verso una zona sicura, ammesso che ne esistessero.

L'elicottero su cui si trovava era atterrato a Los Angeles e lui era stato messo a capo di un gruppo composto quasi esclusivamente da ragazzi che conosceva, il che, pensava, avrebbe reso tutto più facile. Il loro primo compito era stato scortare un pezzo grosso del settore petrolifero, un certo Peter Carson, che risiedeva in una delle sue tante lussuose ville nei pressi di Fullertown fino a Inglewood, in modo che potesse successivamente essere imbarcato con la sua famiglia su di un aereo del Los Angeles International Airport diretto alle Channel Islands. Il viaggio di andata era stato quasi una passeggiata, nonostante i numerosi incidenti stradali che il piccolo convoglio aveva dovuto evitare. Una volta giunti a destinazione avevano prelevato il Signor Carson ed erano ripartiti alla volta di Inglewood. Durante il viaggio di ritorno però, erano stati avvisati che l'avamposto di Inglewood era stato travolto dai nemici. Tutti i soldati si erano domandati chi fossero questi “nemici”, poiché durante il loro addestramento in Accademia non erano stati messi al corrente degli ultimi avvenimenti. Al che il magnate li aveva brevemente informati sui fatti. I ragazzi erano stati parecchio scettici sulla veridicità di queste informazioni, ma, quando sul tragitto ne avevano incontrati alcuni, erano impalliditi di fronte a tutto quell'orrore. Arrivati a Los Angeles si erano ritrovati nel caos più totale e, dopo aver affidato Carson ai corpi incaricati di occuparsi dei civili, si erano diretti verso l'improvvisato punto di comando situato in quello che probabilmente era un vecchio magazzino. Avevano subito notato che più della metà degli armati presenti all'inizio della missione mancavano all'appello e che tutti gli assenti appartenevano alle squadre che erano poste a difesa dell'avamposto di Inglewood. Tra questi, molti erano loro amici e, nonostante avessero visto con i propri occhi i “nemici”, non riuscivano proprio a capire come quei malati con evidenti problemi di coordinazione potessero aver eliminato intere divisioni di militari armati fino ai denti. Non avevano avuto il tempo di fare domande e, dopo una veloce riorganizzazione delle forze rimaste, erano stati destinati, insieme ad altre tre squadre, alla perlustrazione del territorio presente tra il centro di Los Angeles e Inglewood. Le quattro squadre, denominate Alfa, Bravo, Charlie e Delta, sarebbero partite l'indomani all'alba.

Il termine della missione era fissato per un paio di settimane, ma solo il viaggio di andata ne occupò una intera: le strade erano rese impraticabili da mezzi abbandonati e tamponamenti su vasta scala, senza contare il dettaglio più inquietante, l'irreale silenzio che regnava sulla città. Finché erano rimasti nei pressi del centro i rumori dell'insediamento poco lontano li avevano raggiunti senza problemi e loro non vi avevano prestato troppa attenzione; ma ora ogni scricchiolio li faceva sobbalzare. Incontrarono pochi di quei non-morti e li abbatterono senza troppe difficoltà, ciò li rese un poco più ottimisti su quello che li aspettava. Una volta giunti a Inglewood però, il loro ottimismo si dissolse come fumo in una tempesta. L'odore di putrefazione era ovunque e diventava sempre più forte man mano che si avvicinavano al centro commerciale adibito ad avamposto militare. Nel parcheggio antistante all'edificio giacevano migliaia di corpi con un foro di proiettile in testa. Dentro, lo scenario era ancora peggiore, ampie chiazze di sangue secco ricoprivano il pavimento e, in alcuni casi persino i muri, segno che la lotta era continuata all'interno dopo che le difese esterne avevano ceduto. Perlustrarono la struttura, sprangando nel modo migliore possibile tutte le uscite secondarie e quelle più difficili da sorvegliare. Alfa e Bravo rimasero per garantire la sicurezza dell'avamposto, mentre Charlie e Delta, la compagnia di cui facevano parte, avevano iniziato a retrocedere. La Charlie si era fermata a Windsor Hills e la Delta al Memorial Coliseum, situate a quattro e otto chilometri da Inglewood. Il piano prevedeva infatti che queste compagnie mantenessero sicura la strada per Inglewood affinché i civili potessero esservi trasferiti senza incontrare spiacevoli incovenienti; i militari poi si sarebbero via via aggregati al convoglio principale per continuare a garantire la sicurezza della popolazione. Sfortunatamente la notte seguente allo stanziamento della Delta nel luogo prestabilito i componenti di Alfa e Bravo avevano iniziato a fornire particolari poco rassicuranti tramite brevi collegamenti radio, i non-morti si stavano radunando intorno al centro commerciale e il loro numero cresceva di ora in ora. Poi erano iniziate le raffiche dei mitra, per ore nella note quello era stato l'unico suono a ricordare a tutti l'esistenza di quel piccolo manipolo di soldati che, com'era prevedibile, venne travolto alle prime luci dell'alba. Ma se quella era stata la fine di Alfa e Bravo, che insieme contavano più di sessanta uomini, Charlie e Delta non avrebbero avuto speranze, avevano immediatamente pensato i ragazzi delle due compagnie d'appoggio. Il comandante della Charlie aveva richiesto al comando generale di Los Angeles il permesso di iniziare la ritirata, e quest'ultimo aveva risposto che tutte le unità in missione dovevano rientrare il più in fretta possibile. La Delta si era quindi preparata alla ritirata e attendeva la Charlie nel luogo prestabilito; i quattro chilometri che le dividevano però, inghiottirono la compagnia C e nel giro di un paio d'ore dall'ultima trasmissione anche le detonazioni si spensero. Poi anche la Delta si era divisa,il nucleo iniziale di ventisette uomini che la componeva si era diviso in due gruppi più piccoli : uno, quello del caporal maggiore Robert Harris, comprendeva sedici uomini, tutti già impiegati in operazioni contro i non-morti, e sarebbe dovuta proseguire verso Ovest in cerca di eventuali superstiti di Charlie, Bravo e Alfa; l'altro, quello del Tenente Richard Whyte, composta da dieci ragazzi che non erano mai entrati in contatto diretto con uno di quei morti viventi, si sarebbe dovuto dirigere verso Est per recuperare eventuali superstiti del comando generale.

I giovani si erano imbattuti quasi subito in gruppi più o meno numerosi di civili che, essendo in fuga dal centro città, avevano fortemente sconsigliato loro di avventurarvisi per qualcuno che sicuramente era già morto. Alla fine qualcuno aveva comunque preferito rimanere con i militari ed il loro gruppo era cresciuto fino a comprendere all'incirca una trentina di persone, troppe, che concentrate nello stesso luogo non avevano potuto fare a meno di produrre un rumore proporzionato al loro numero che aveva finito per attirare i non-morti. In una notte tutto si era consumato, il piccolo perimetro aveva ceduto sotto quella moltitudine di assalitori ed i giovani soldati erano venuti a conoscenza con orrore di come quei mostri potessero aver fatto sparire tanta gente. La divoravano viva. Ciò che per molti dei sopravvissuti era un dato acquisito si riversò su di loro con tutta la forza di un orrore inaspettato ed inimmaginabile.

A pensare a quella notte gli venivano ancora i brividi, non distava più di tre settimane da quel freddo pomeriggio, ma quei ricordi sembravano appartenere ad un altra vita...Si trovavano in quella palazzina da ventisei giorni, vi si erano barricati per sfuggire ai non-morti,ma ben presto anche la fame e la sete si sarebbero aggiunte alle loro già numerose preoccupazioni.

«Signore! Il primo piano! L'abbiamo perso! Che cosa...»

«Ho sentito, Ben. Per ora limitatevi a sigillare ogni possibile punto di collegamento tra primo e secondo piano.»

«Già fatto, Signore.»

«Bene, c'è altro? Ah a proposito Ben, nessuna notizia del vecchio Jack? È da un po' che non si vede...»

Il vecchio Jack era un dalmata appartenuto ad una squadra dei Vigili del Fuoco, o almeno questo era quello che avevano pensato quando l'avevano trovato, poco prima di rifugiarsi in quell'edificio. I Vigili che l'accompagnavano se l'erano dimenticato nel furgone, e lui era rimasto lì, silenzioso, spaventato dai versi terribili che provenivano dall'esterno; ma quando aveva sentito le loro voci, aveva iniziato ad abbaiare come un pazzo ed era balzato fuori non appena avevano aperto le porte del furgone. Inizialmente avevano pensato di mangiarlo, ma poi, essendosi resi conto del suo avanzato addestramento avevano deciso di utilizzarlo come mezzo di comunicazione tra loro e l'altra gruppo della Charlie. La maggior parte delle radio era andata perduta e le batterie delle rimanenti si erano esaurite nel giro di un paio di settimane, avrebbero potuto saccheggiare qualche negozio, ma la prospettiva di morire per un paio di batterie non aveva allettato nessuno, quindi si era deciso per il cane. Il piano si era subito rivelato un successo, i canidi infatti, apparivano immuni al contagio e, sebbene un po' malconcio, il vecchio Jack ritornava sempre alla base con la risposta del caporal maggiore Harris.

«Sì Signore, lo abbiamo visto proprio cinque minuti fa, ma...non saprei...mi è sembrato di...ah, ma non è possibile...»

«Che cosa non è possibile?»

«Beh, giurerei di aver visto il nostro Jack con un lupo alle calcagna, Signore.»

 

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Capitolo 3
*** Rilfessioni ***


Accidenti! Era stata troppo avventata, avrebbe dovuto immaginare che il cane potesse non essere solo, come sarebbe potuto sopravvivere altrimenti? Era così ovvio! Eppure in quel momento si era lasciata trasportare dalla foga dell'inseguimento, le bastava ripensarci un attimo per rivedere il cane che correva davanti a lei, sempre più vicino, nel silenzio assoluto di quella città deserta poteva sentire il suo cuore che batteva all'impazzata, era spaventato, e lei poteva sentire l'odore della sua paura, poteva sentirne il sapore in bocca...E poi quello sparo aveva rovinato tutto e si era portato via il sogno di un pasto decente dopo giorno e giorni di digiuno. Senza contare che tutto quel baccano avrebbe attirato decine, forse centinaia di non-morti; però un aspetto positivo c'era: quello sparo e, ora che ci pensava, forse anche la presenza del cane, significavano che in quella zona c'erano dei sopravvissuti, proprio come aveva sperato. Doveva assolutamente mettersi in contatto con loro; a giudicare dal luccichio che aveva intravisto sulla cima di un edificio poco dopo la detonazione il o i sopravvissuti dovevano trovarsi nei piani superiori della grande struttura che ospitava la sede della Banca Centrale Di Los Angeles. Almeno così le era sembrato, non poteva esserne sicura al cento per cento, quella era stata solo un'occhiata fugace, un tentativo di individuare il cecchino e di valutare se si trovava alla sua portata. Non appena si era accorta della sua impossibilità ad agire si era data alla fuga, non era sicura che chiunque si trovasse lassù avrebbe gradito ospiti e in più doveva essere cauta: non poteva passare le sue giornate a guardarsi dai morti per poi rischiare di farsi ammazzare da qualche squilibrato con il grilletto facile. Quelli erano tempi duri per tutti e lei sapeva bene che qualcuno si sarebbe potuto spingere ben oltre quello che una volta era considerato il limite; sapeva anche che la continua lotta per la sopravvivenza aveva reso la sua mente più affilata e di conseguenza lei stessa ora era più pronta, più attenta, più reattiva di quanto fosse mai stata, ma, come diceva il detto, era meglio prevenire che curare.

Voleva andare ad ispezionare con cura i dintorni dell'edificio per vedere se riusciva a trovare una via d'accesso sicura, ma prima avrebbe aspettato che scendesse la notte, chiunque montasse la guardia sul tetto non avrebbe potuta vederla e lei si sarebbe potuta muovere indisturbata, o quasi. I non-morti erano un bel problema, ma nessuna di quelle bestie, così come nessuno degli inquilini di quell'edificio, vedeva meglio di lei al buio. Prima, però, il cane. Doveva trovarlo, e in fretta, o il suo stomaco non le avrebbe permesso nessuna esplorazione notturna; un po' le dispiaceva, del resto i cani le erano sempre piaciuti, ma ora non aveva il tempo per le questioni morali, doveva essere pragmatica.

Uscì svelta dal bar in cui si era rifugiata e si diresse verso la Banca Centrale, non si era allontanata molto, giusto quei due-trecento metri che le avevano permesso di fermarsi a riflettere con relativa calma sul da farsi. Appena arrivata di fronte all'edificio si guardò intorno e vide il cane che girava l'angolo alla sua destra, lo seguì con cautela aggirando i pochi non-morti che si trovò davanti. Svoltato l'angolo si ritrovò in un piccolo piazzale, ma del cane non c'era traccia, per un attimo fu presa dal panico e, pensando di averlo perso, si mise a correre in cerchio cercando una qualsiasi traccia del suo passaggio. Poi lo scorse mentre s'infilava tra due auto a qualche decina di metri di distanza, era stranamente lento, forse sentiva anche lui i morsi della fame; riprese a seguirlo, notando che la strada che aveva imboccato conduceva ad una ripida rampa che sembrava s'innestasse alla soletta secondo piano, da lontano non si notava perché un basso fabbricato situato accanto alla banca era utilizzato come appoggio per il punto in cui la rampa svoltava verso sinistra prima di congiungersi con il palazzo. Forse quello poteva essere il suo biglietto d'ingresso, bene, sarebbe stata la prima cosa che avrebbe controllato dopo aver mangiato.

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Capitolo 4
*** La porta ***


Era quasi fatta: tra un minuto l'avrebbe preso. Il cane ormai era esausto e molto molto vicino, poteva vedere con chiarezza una grande macchia scura sulla sua schiena, ecco spiegata la ragione della sua debolezza, uno di quei non-morti doveva essere riuscito a dargli un morso. Il poveretto era anche parecchio magro, non proprio ciò che aveva sperato; aveva tentato di prenderlo quando si trovava all'imbocco della rampa, ma nonostante le apparenze era riuscito a scattare come una lepre, ora ansimava rumorosamente mentre si trascinava sulle zampe traballanti. E poi eccolo, il momento di colpire, si era lanciata su di lui afferrandolo per la collottola, il cane aveva ringhiato debolmente, poi si era accasciato con uno sbuffo, apparentemente morto. Per esserne sicura lei aveva dato un paio di violenti scossoni, finché non aveva sentito l'osso del collo dell'animale che si spezzava. Poi l'aveva trascinato al sicuro, lontano dai non-morti.

 

Il sole l'aveva svegliata riscaldandola con in suoi tiepidi raggi. Stiracchiandosi nella luce mattutina si era rallegrata per la bella giornata che stava per iniziare. Era buffo quanto si poteva diventare ottimisti una volta riempito lo stomaco; sbadigliò pigramente, poi si alzò e si guardò intorno, dal tetto del chiosco su cui era salita poteva vedere diverse decine di non-morti che si aggiravano nei dintorni, probabilmente attirati dalla detonazione del giorno prima. Eppure fu sorpresa: non ce n'erano tanti, almeno non quanti se n'era aspettata; forse in qualche altra parte della città stava accadendo qualcosa di grosso, strano però, perché non aveva notato nulla di inconsueto sulla strada, arrivava da Nord ed era più che sicura che per chilometri e chilometri in quella direzione non ci fossero esseri viventi.

Sgattaiolò tra le auto ammassate ai lati della strada,ma le sembrò strano non aver notato prima quella bizzarra disposizione dei veicoli: sembrava che qualcuno le avesse spinte al margine della carreggiata per permettere un transito più agevole a chi fosse passato di là. E in effetti all'angolo della strada c'era un grosso furgone blindato con il logo della banca sulla fiancata, uno dei copertoni anteriori era scoppiato e intorno alla parte posteriore del mezzo una grande macchia scura era tutto ciò che restava dell'olio ormai evaporato. Arrivata accanto al furgone, si sporse per controllare la situazione (nella strada adiacente), ma un attimo dopo si ritrasse stizzita, accorgendosi che uno dei non-morti più vicini l'aveva individuata e si stava avvicinando con la sua andatura traballante. Era una ragazza sulla trentina e da viva doveva essere stata molto bella, ma ora il bel tailleur beige che indossava era coperto di sangue nella parte superiore e quello che una volta doveva essere stato un viso molto bello era stato devastato da un morso che le aveva strappato la mandibola. Mentre si avvicinava emetteva una specie di rantolo soffocato che le ricordò il suono prodotto da un copertone forato, da far venire la pelle d'oca. Non a lei: la vista di quegli esseri non la sconvolgeva più, e la presenza di qualche decina di loro non l'avrebbe certo preoccupata, ma la loro forza stava nel numero, la loro soverchiante superiorità numerica li rendeva inarrestabili e i loro spostamenti erano praticamente impossibili da prevedere, ed era proprio questo ad angosciarla. Era esasperata: non sopportava che quelle creature innaturali avessero il potere di sconvolgere i suoi piani così, da un momento all'altro; troppe volte aveva dovuto cambiare itinerario per colpa loro, troppe volte aveva dovuto abbandonare un possibile pranzo a causa della loro presenza. Ora basta. Era da mesi che agiva con cautela, faceva attenzione, pianificava tutto con la massima cura e preparava almeno due piani di riserva; si era stufata di quella situazione. I suoi diciassette anni le imponevano una spensieratezza ed un'imprudenza che non aveva ancora avuto modo di sfogare. Supponeva che per la spensieratezza non ci fosse più nulla da fare, ma l'imprudenza, beh, quella era tutta un'altra storia. Questa volta non avrebbe perso tempo ad aggirare la minaccia, no, ci sarebbe passata in mezzo. Si guardò intorno in cerca di una possibile arma e a terra, poco dietro al furgone, scorse un fucile. La canna era deformata, come se fosse finito sotto uno schiacciasassi, e sicuramente non avrebbe sparato, ma questo a lei non importava granché. Prese un gran respiro e partì di corsa; arrivata al centro della strada si bloccò e per un attimo rimase ad osservare la scena mentre la sua mente memorizzava il percorso: dritto per cinquanta metri e poi una brusca svolta a sinistra. Ripartì impugnando il fucile per la canna e non appena passò accanto alla ragazza non-morta che la stava puntando le vibrò un colpo sulla testa con tutta la forza che aveva, sentì lo scricchiolio del suo cranio che si spezzava, poi quel cadavere ambulante crollò a terra con un tonfo. Lei continuò a correre, schivando i mostri che allungavano le braccia nel tentativo di afferrarla; osservava i volti dei più vicini, ma tutto ciò che rimaneva di loro un attimo dopo era un'indistinta e confusa macchia di colore alle sue spalle. Era veloce, molto veloce! Dopo aver superato l'ennesimo non-morto scartò a sinistra e salì per la rampa fino ad arrivare davanti alla pesante serranda metallica che bloccava l'ingresso al magazzino. Senza fermarsi spiccò un balzo e si aggrappò all'asta di una delle bandiere che sventolavano appena sopra l'ingresso riservato ai blindati. Stava per darsi la spinta e issarsi sul davanzale della finestra sovrastante, ma si bloccò e rimase lì a fissare la sua immagine riflessa nel plexiglass in cui era inciso il logo della banca. La sera del giorno prima, dopo aver portato al sicuro la carcassa del cane, si era intrufolata in un negozio di abbigliamento e aveva portato via un paio di cose che le erano sembrate indispensabili per non insospettire i suoi nuovi amici: un paio di scarpe da trekking, dei jeans grigi, una canottiera bianca ed un giubbotto di pelle marrone. Aveva provveduto a renderli più vissuti affinché risultassero più credibili, era stata solo una precauzione, anche perché non pensava che in questo nuovo mondo a qualcuno importasse granché dei vestiti. Standosene lì appesa però non doveva proprio sembrare la classica ragazza della porta accanto scampata all'apocalisse dei morti viventi, ma piuttosto un'altra inquietante creatura da cui guardarsi. Si redarguì mentalmente, poi mollò la presa e atterrò sull'asfalto. I non-morti erano vicini e lei sperava soltanto che chiunque ci fosse lì dentro avesse la prontezza di spirito di venire ad aprire la dannata porta prima che quei mostri arrivassero fin lì. Iniziò a battere contro la serranda con i pugni, poi si schiarì la voce e gridò: «Ehi! C'è qualcuno? Vi prego, aiutatemi! Aprite!» Nessuna risposta. Nessun rumore. Niente. Era sicura che l'edificio fosse quello, ma allora perché non rispondeva nessuno? Erano forse ritardati? Possibile che non l'avessero sentita?

In mezzo a quel silenzio spettrale si sarebbe potuto sentire anche il battito d'ali di una farfalla...Poi un'idea che fino ad allora non l'aveva neanche sfiorata si rivelò a lei con tutta la sua forza. E se l'avessero sentita, se l'avessero vista, se sapessero che era lì ma non avessero nessuna intenzione di sobbarcarsi il peso di una bocca in più da sfamare? Era un'eventualità che non aveva preso in considerazione. Si fermò un attimo a riflettere e decise di fare ancora un tentativo, se nessuno si fosse fatto vivo si sarebbe allontanata e avrebbe aspettato un paio di giorni prima di tentare con un approccio più diretto. I non-morti erano sempre più vicini, non aveva più molto tempo. Alzò una mano, pronta a colpire ancora una volta, ma una voce maschile la fece sobbalzare. «Di qua!» La voce veniva da una porticina situata a destra del passo carraio che prima non aveva notato, in effetti era dello stesso colore del muro e, almeno all'esterno, non aveva nessuna maniglia, quindi era facile che passasse inosservata. Lei si tuffò immediatamente attraverso la porta, che si richiuse rapida alle sue spalle.

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Capitolo 5
*** Nuovi Amici ***


« Meglio tardi che mai, ragazzi ». Si piegò sulle ginocchia e sospirò rumorosamente. 
«Ancora un po' e sarei finita sul menù ». 
Si guardò intorno con circospezione e incontrò diversi sguardi preoccupati: un soldato in uniforme che le puntava contro un semiautomatico, probabilmente quello che l'aveva fatta entrare, un altro più indietro che aveva appena tolto la sicura alla propria arma, è una donna bionda, all'incirca sulla quarantina, rannicchiata in fondo alla stanza con un bambino di tre-quattro anni tra le braccia. 
Troppo spavalda, accidenti! 
« Sc-scusate, disse alzando lentamente le mani, non intendevo agitare nessuno... È che quando sono nervosa parlo a vanvera, e nessuno, ehm, nessuno potrebbe definire questa situaz- » 
« Ti hanno morsa? » domandò quello più vicino.
« No, no, non mi hanno morsa ». Vide l'altro che si avvicinava e si affrettò ad aggiungere:  « Ma, naturalmente, capirei se voleste sincerarvi delle mie par- » 
« Non ti muovere ». Mentre il più vicino la teneva sotto tiro, l'altro le si affiancò per darle un'occhiata. Passò l'esame, e quando stava per lasciarsi andare ai sospiri di sollievo, l'uomo le sollevò  il mento.
Non uomo, ragazzo, si corresse mentalmente.
« I tuoi occhi sono strani ».
« Ehm, sì... Sono così quando è nuvoloso...».
« Roger! Lasciala stare, è a posto. » L'ultimo arrivato era sbucato da una di quelle porte d'emergenza ignifughe che pur essendo spesse come delle sequoie non danno segno della loro presenza fino a che non ci si sbatte contro. « I riflessi sono buoni, l'attenzione anche. È evidentemente sana, a quest’ora ce ne saremmo accorti se una di quelle cose l'avesse morsa. Inoltre, questo posto smetterà di essere sicuro molto presto. »
A queste parole tutti si lanciarono occhiate preoccupate.
« Ci muoviamo. Ora. »
« Signore, che ne è di Mathei? » sputò in un sussurro il compare di Roger, guardando dritto negli occhi il suo superiore.
« Sta rinforzando quelle maledetta porta perché regga mentre ce la filiamo, Pierce » lo guardò con aria severa, mentre lui è Roger si rilassavano visibilmente.
« Sarà contento che vi preoccupiate per lui come se fosse vostra nonna malata. Ora via! »
 Guardò nella sua direzione e le rivolse un cenno del capo cui lei non rispose, poi si voltò e corse verso il corridoio alla loro destra, sparendo oltre la curva a gomito.
Pierce si avvicinò alla donna per aiutarla ad alzarsi. Non si reggeva bene in piedi, e una delle sue caviglie assomigliava ad un palloncino. Dall'espressione sulla sua faccia la sua salute mentale non era meno traballante.
Il piccolo sembrava stare bene ma se ne stava aggrappato con tale forza alla madre da costringere Pierce a usare entrambe le mani per staccarlo. Una volta caricatoselo in spalla porse il braccio alla donna per aiutarla a camminare, e tutti e tre si mossero verso le scale.
Rogers li aspettava in cima, accanto alla porta antincendio, fucile spianato, pronto ad affrontare qualsiasi minaccia imminente.
Una raffica di mitra esplose, poi un'altra, appena fuori dalla loro visuale. L'eco dei colpi rimbombò tra le pareti dell'edificio squarciando il silenzio teso come tante deflagrazioni nucleari.
Poi tutto avvenne, rapido come un lampo nell'oscurità, ma anche dilatato nel tempo, ogni istante dolorosamente lungo.
I due soldati svoltarono l'angolo correndo, sostenendosi l'un l'altro, mentre quello che doveva essere Mathei si lanciava occhiate nervose alle spalle.
Lei li fissò mentre si muovevano verso di lei, immobile, con gli occhi sbarrati e il respiro sospeso.
Quando le furono proprio davanti si fermarono, le loro bocche spalancate che tentavano di trasmetterle qualcosa, i loro volti stravolti dalle emozioni che vi danzavano sopra: rabbia, preoccupazione, paura. Le loro voci non arrivavano nel suo limbo, e lei pareva non riuscire a muoversi, a scuotersi da quel torpore.
Poi il primo di quegli esseri girò nel corridoio. 
Muoveva la testa a scatti emettendo schiocchi e rantoli, con un braccio artigliava l'aria davanti a sé mentre l'altro era ripiegato vicino alla testa. I suoi occhi gialli vagavano alla ricerca delle prede che fino ad un attimo prima aveva avuto innanzi.
Ma era soltanto il primo. Dietro di lui, decine di altri lo seguivano, tutti simili eppure differenti in qualcosa, come anime riversatesi fuori da un girone infernale.
Allora si ritrovò catapultata nella realtà, e all'improvviso suoni e odori la colpirono con la forza di una cometa. Girò su sé stessa e si affrettò su per le scale due gradini alla volta, seguita dai soldati barcollanti.
Di sotto la marea di bocche spalancate si era allargata ed espansa ad occupare tutto il locale, e proprio come un'onda si era infranta sulle scale, anche se presto i più intrepidi tra quei dannati avrebbero iniziato ad issarsi su per le scale.
Prima che Rogers potesse aprire il fuoco, il suo comandante glielo impedì: « Fermo. Conserva con cura ogni maledetto singolo proiettile. Questo piano è andato, e presto potremmo averne un bisogno disperato, e quella disperazione gliela si leggeva negli occhi, persino più di adesso. »
La porta antincendio si chiuse dietro al gruppetto con un tonfo, lasciando le anime affamate a gemere per il loro pasto perduto.

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