Wings of Heaven

di guimug
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lakewood - 24 Dicembre 1941 ***
Capitolo 2: *** Ospedale S.ta Johanna – Chicago 11 Maggio 1926 ***
Capitolo 3: *** Carcere di Chicago – un giorno come un altro ***
Capitolo 4: *** Treno Milwaukee – Chicago 11 Maggio 1926 ***
Capitolo 5: *** Ospedale S.ta Johanna – Chicago, 11 Maggio 1926 ***
Capitolo 6: *** Lakewood - 24 Dicembre 1941 again ***



Capitolo 1
*** Lakewood - 24 Dicembre 1941 ***


Lakewood - 24 Dicembre 1941


The angels sang when the baby was born

 

Le luci delle candele diffondevano un chiarore soffuso che si fondeva con quello generato dalle fiamme del camino, il quale ardeva nel soggiorno della villa di Lakewood, evidenziando i contorni del grande albero di Natale addobbato. Candy e Terence stavano ultimando i preparativi per la cena della Vigilia. Quello sarebbe stato un Natale molto particolare, perché i recenti avvenimenti non potevano certo far venire voglia di festeggiare: solo due settimane prima gli Stati Uniti erano stati attaccati a Pearl Harbour e il risultato sarebbe stato un pesante tributo da pagare ad una nuova guerra.

Ovunque nelle strade fervevano attività per arruolare, addestrare ed inviare le truppe contro il nemico e questo ardore aveva sostituito quello ben più consono al periodo natalizio. Gli strilloni con le loro notizie tragiche avevano sostituito i Babbo Natale che raccoglievano offerte, i picchetti militari per gli arruolamenti volontari avevano preso il posto dei cori che cantavano le carole e l’atmosfera di festa sembrava essere solo un lontano ricordo oppure un’ombra appartenente ad un mondo che si era disintegrato la mattina del sette dicembre.

Ma nell’intimità della sua casa, Candy si sforzava di conservare quella spensieratezza che da sempre l’aveva contraddistinta e che le aveva permesso di superare i momenti più difficili. Come Terry e sua figlia Angie, voleva che il Natale di famiglia potesse portare almeno una notte di serenità. Assieme a loro ci sarebbero stati Archie ed Annie, Patty con suo marito, che Candy ancora non conosceva. Ci sarebbe stata anche la zia Elroy, che si era ammalata gravemente nell’ultimo anno, ma che per niente al mondo avrebbe rinunciato a stare coi suoi cari. Candy sapeva, ma non voleva ammettere, che quello sarebbe probabilmente stato il suo ultimo Natale in famiglia.

Ormai era tutto pronto e Terence, ammirando il grande albero, chiamò la figlia.

“Quest’anno sarai tu a mezzanotte a porre sulla cima l’angelo dorato!”

“Perché proprio io? Di solito è un compito che spetta a te in qualità di capo famiglia” rispose Angie con fare leggermente canzonatorio.

“Vero, e non vi rinuncerei per nulla al mondo! Ma quest’anno lo devi fare tu, per ringraziare il Signore ed il tuo angelo custode di averti fatta tornare a casa sana e salva prima che l’inferno si scatenasse su Londra”

Angie ripensò alla partenza frettolosa dalla Royal St. Paul School la mattina dopo i primi bombardamenti tedeschi sulla capitale inglese, la corsa verso Southampton e l’imbarco sul piroscafo che l’aveva riportata a casa la primavera passata. Doveva davvero essere grata al suo angelo custode!

Candy le si avvicinò e la carezzò dolcemente.

“Sai perché ti chiami Angie?” le disse.

“Oddio mamma, non mi racconterai una storia strappalacrime su qualche intervento divino… Non sarebbe da te!”

Candy si rabbuiò mentre Terence scoppiava a ridere: se la ragazza aveva ereditato la bellezza della madre, di sicuro aveva preso il carattere indisponente da lui e di questo ne andava molto fiero, anche se a volte poteva creare qualche problema.

“Angie” le disse il padre “non devi essere così sgarbata con tua madre, non c’è nulla di strano in quello che voleva dirti!”

“Scusa mamma” disse Angie con una smorfietta che fece ridere Candy “Non volevo… mi dici perché mi chiamo così?”

Candy sospirò, quella ragazzina a volte era impossibile! Anche quando si scusava non poteva fare a meno di essere impertinente. Guardò Terence che rispose con un’espressione che sembrava voler dire “E cosa ci posso fare?”.

“Una volta tuo padre mi disse che spesso sono troppo buona, quasi come un piccolo angelo biondo. Allora avevo scoperto da poco di essere incinta ed ho pensato che se lui mi considerava così, allora sarebbe stato giusto affidare la mia bambina alla protezione degli angeli. E cosa c’era di meglio che darti un nome che li ricordasse per sempre? Se ci pensi devi a loro molta riconoscenza se oggi sei qui con noi, e speriamo che continuino a vegliare su di noi, visti i tempi bui che si preparano!”

Candy guardò la figlia, una bellissima quindicenne con i capelli biondi e gli occhi color nocciola, e ripensò al passato. Pensò agli angeli celesti ed a quelli ben più concreti che stavano sulla terra e che la circondavano, e tornò con la mente a quel maggio di quindici anni prima…

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Capitolo 2
*** Ospedale S.ta Johanna – Chicago 11 Maggio 1926 ***


Ospedale S.ta Johanna – Chicago 11 Maggio 1926
 

Angelo, prenditi cura di lei

 

Varcando il portone dell’astanteria, Candy fu assalita da una moltitudine di ricordi. Quanto tempo aveva passato in quell’ospedale quando lavorava come infermiera!

Le corsie, i corridoi e perfino quell’odore penetrante di disinfettanti le erano talmente familiari che in un certo senso la facevano sentire a casa. Lì, dopo il tirocinio alla scuola Mary Jane, aveva imparato il duro lavoro che comporta il doversi prendere cura delle persone che soffrono, aveva sperimentato la fatica dei turni di notte ed aveva conosciuto tante persone diverse.

Aveva rincontrato Albert, che vi era stato portato ferito ed affetto da una grave amnesia. Lei lo aveva curato e restituito alla salute e, chissà, forse era stato proprio in quel periodo che aveva cominciato a nascere il loro amore… Albert, ancora adesso faceva male pensare a come la sua vita era stata portata via per un maledetto regolamento di conti fra bande rivali in cui si era trovato coinvolto suo malgrado.

Ma forse era stato un passaggio necessario, uno di quegli strumenti strani di cui si serve il destino per realizzare il suo disegno. Infatti la disperazione seguita alla morte di Albert aveva innescato una serie di eventi che l’avevano riportata a chi da sempre era stato l’uomo della sua vita

Tutte queste cose passavano per la mente di Candy, ma all’improvviso un crampo al ventre le ricordò il vero motivo per cui era lì. Chiamò un’infermiera che passava.

“Mi scusi, mi chiamo Candice Andrew Granchester, ho bisogno di aiuto… Credo che il momento sia arrivato!”

La ragazza, una tirocinante a giudicare dallo sguardo leggermente spaurito, la guardò prima negli occhi e poi, notando il pancione, fece quasi un salto.

“Oh Signore! Ecco si sieda… Io vado a chiamare la caposala… Non se ne vada!”

“E dove vuoi che vada?” pensò Candy divertita, rivedendosi un po’ in quella ragazzina alle prime armi. Poi si sentì in dovere di rassicurarla.

“Non si preoccupi, credo che ci vorrà ancora un po’ di tempo. Faccia pure con calma, io l’aspetterò qui”

La ragazza annuì e l’accompagnò verso una comoda poltroncina e poi, facendo frusciare la divisa inamidata, sparì verso l’interno dell’ospedale. Accomodandosi Candy pensava a quando aveva scoperto di essere incinta, ed a come l’inizio di quella gravidanza era stata travagliata con il subdolo piano ordito da Neal per separarla da Terence e dalla famiglia Andrew. Ma tutto gli si era ritorto contro ed il ragazzo era finito in galera, Candy non aveva più avuto notizie di lui ma ogni tanto pensava a cosa facesse o come vivesse in un ambiente come quello di un carcere. Non gli serbava rancore, lei non ne era capace; come altre volte si scoprì a mormorare una preghiera perché un angelo ponesse la sua mano sul capo di quello scapestrato.

Passarono circa dieci minuti e la giovane infermiera si ripresentò da Candy spingendo una barella in compagnia di una collega.

“Ecco signora, si accomodi qui! Questa è la caposala, si prenderà cura di lei!”

Candy alzò lo sguardo ed incontrò quello di un’altra infermiera, ma questo era molto più deciso attraverso le lenti di un paio di occhiali. Un’espressione seria, ma nel contempo amichevole, le delineava il viso incorniciato da capelli neri raccolti a coda di cavallo. Nonostante gli anni, Flanny Hamilton sembrava avere il dono di non cambiare mai!

“Ciao Candy” la salutò cedendo ad un sorriso, cosa rara per lei che godeva della fama di essere una persona fredda come il ghiaccio “Allora, è arrivato il momento?”

“Flanny! Ma sei proprio tu! Sapessi come sono felice di vederti!” esclamò Candy, facendo però una smorfia per l’arrivo di un’altra contrazione “Sei tornata a Chicago e non mi hai detto nulla! Da quanto sei qui?”

“Non da molto, saranno due mesi o poco più. Il dottor Leonard aveva bisogno di una nuova caposala e si è ricordato di me. Mi ha scritto a New York per farmi la proposta ed io ho accettato.”

Candy sorrise alla su ex collega, anche se non erano state mai delle grandi amiche lei aveva sempre avuto il massimo rispetto per Flanny e per la dedizione che metteva nello svolgere quel difficile compito. Non avrebbe potuto chiedere di meglio in un momento simile.

“Sono felice che ci sia tu ad assistermi, pensa che sono dovuta venire qui da sola… Almeno avrò vicino una faccia amica… un angelo custode.”

“Come da sola? E Terence dov’è?”

“Terence sta arrivando, gli ho telegrafato a Milwaukee dove era impegnato con la sua compagnia e lui ha preso il primo treno… Ma sarà qui solo fra qualche ora ed io non potevo certo aspettare. Meno male che il sig. George era a Lakewood e mi ha accompagnata con la macchina, ma ora è dovuto andare via per avvisare la zia Elroy, quindi in questo momento sei l’unica persona conosciuta qui dentro!”

Flanny le sorrise ancora, era contenta che Candy facesse affidamento su di lei.

“Non preoccuparti, ora andiamo in reparto” e spingendo la barella entrò nei recessi dell’ospedale.

 

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Capitolo 3
*** Carcere di Chicago – un giorno come un altro ***


Carcere di Chicago – un giorno come un altro

 

I feel I’m fallin’ apart cause I know
I’ve lost my guardian angel


 

 
Grigio. Questo era il colore dominante della cella che Neal continuava a misurare nervosamente. Quattro passi per lato per un totale di dodici passi di perimetro, ripetuti ossessivamente per ore ed ore ogni giorno come una bestia che, allo zoo, ha perso il contatto con la realtà. Lui, ricco rampollo di una famiglia dell’alta società, era stato condannato a dieci anni di carcere solo per aver cercato di far valere i diritti che, a suo dire, gli dovevano essere riconosciuti per merito della sua posizione sociale.

Invece tutto gli si era ritorto contro, la piccola orfana era riuscita a metterlo alle corde e, cosa assai più grave, persino i membri della sua famiglia si erano rifiutati di appoggiarlo. Questa era la cosa che più lo aveva fatto soffrire: quando in compagnia di sua madre aveva lasciato la villa di Lakewood per far ritorno alla residenza dei Legan, dove sarebbe arrivata la polizia a prelevarlo, la donna si era chiusa in un ostinato silenzio che mal celava il disprezzo per il figlio che, con il suo agire sconsiderato, aveva minato l’onorabilità della famiglia.

“Mamma” aveva chiesto Neal mentre questa lo chiudeva nella sua stanza “Non crederai davvero a tutte quelle sciocchezze?”

La donna lo aveva gelato con un’occhiata carica di odio proferendo solo poche parole: “Taci! Da questo momento non sei più mio figlio!”

Eppure il piano che aveva ordito sembrava perfetto, Candy sarebbe stata rovinata e scacciata dalla famiglia Andrew e la sua vendetta per essere stato rifiutato sarebbe stata completa. Chissà perché la zia Elroy aveva invece voluto prendere le difese di quella trovatella?

Un’altra cosa che lo faceva soffrire era l’essere stato abbandonato anche dalla sorella Iriza, che era sempre stata la sua compagna di nefandezze, ordendo piani diabolici ai danni di Candy. Le aveva scritto dal carcere ma lei gli aveva risposto sprezzantemente intimandogli di non cercarla mai più, anzi di dimenticare completamente la loro parentela visto che una ragazza di buona famiglia non poteva permettersi di vedere il suo nome accostato a quello di un volgare galeotto.

Solo suo padre aveva dimostrato un certo interessamento alla sua misera sorte, se per affetto o semplicemente per dovere non era dato saperlo, ma di sicuro era stato l’unico ad assistere al suo processo e ad andare a trovarlo in carcere ma Neal, accecato da un rancore profondo che ormai nutriva per tutta la sua famiglia rea, a suo dire, di averlo abbandonato  non aveva mostrato di gradire questo atteggiamento del genitore ed in occasione della sua ultima visita aveva deciso di troncare anche questo ultimo legame.

“Padre!” aveva esclamato Neal calcando l’accento sulla formalità del tono “Desidero che non veniate più a visitarmi. Non ho bisogno del vostro falso interessamento!”

“Neal” aveva replicato suo padre “perché mi dici questo?”

“È colpa vostra se sono finito in questo stato miserevole! Vostra e delle vostre scelte! Siete stato voi a portare in casa nostra quella piccola orfana, ed è da allora che sono cominciati tutti i miei guai e, quando sono finito nel baratro a causa sua, non avete fatto nulla per aiutarmi, ma siete rimasto passivo ad assistere alla mia distruzione! Non so che farmene di un padre simile!”

Il signor Legan era rimasto profondamente addolorato dalle accuse mossegli dal figlio, sentiva di non meritarle ma capiva anche che, se solo fosse stato più presente nella vita familiare invece di viaggiare continuamente per il mondo, forse avrebbe potuto prevenire molti problemi. Era uscito dal carcere con questo peso sul cuore, mentre Neal era tornato nella sua cella con la consapevolezza di essere rimasto veramente solo.

Ormai era parecchio tempo che non aveva contatti col mondo esterno e le uniche occasioni per scambiare qualche parola si limitavano ad occasionali dialoghi con gli altri detenuti che però mostravano di non gradire molto la sua compagnia, non considerandolo appartenente al loro mondo. Del resto anche in carcere un Legan godeva di un trattamento che, se proprio non era di riguardo, di sicuro presentava dei vantaggi rispetto a quello dei comuni detenuti: cella singola, possibilità di ricevere posta e visite senza dover passare dalle rigide maglie della censura ed altre cose che lo facevano sembrare, agli occhi degli altri carcerati, un piccolo signore.

Non che lui ne approfittasse. Anzi, dopo il litigio col padre quella stanzetta era diventata tutto il suo mondo e non ne usciva che in rarissime occasioni, subendo anche lo scherno delle guardie carcerarie che non si lasciavano scappare l’occasione per accanirsi contro un simbolo di quell’alta borghesia a cui loro mai avrebbero potuto appartenere.

Tutto questo aveva minato l’umore del giovane che, pian piano, aveva cominciato a scendere negli abissi della depressione ed ora era lì, a girare come un folle per i quattro metri per quattro della sua cella in compagnia dei suoi fantasmi. Di colpo si fermò e lo sguardo gli cadde sulla piccola branda. Sotto il materasso c’era lo strumento che gli avrebbe permesso di essere finalmente libero! Per mesi ad ogni cambio di lenzuola aveva conservato una piccola striscia di tessuto, non troppo grossa in modo che non si notasse subito ma sufficiente, unendola ad altre ed altre, per intrecciare una robusta corda.

No, non aveva intenzione di evadere! Del resto la corda era lunga due metri soltanto e la sua cella era al quarto piano, sarebbe fuggito da ben altra prigione, da quella galera che era diventata la sua mente e quella notte sarebbe stata finalmente quella giusta. Dall’esterno giunse un suono di campane, le chiese si stavano preparando a celebrare ancora una volta il miracolo della nascita del Salvatore. Nemmeno si era accorto che era la vigilia di Natale. Neal pensò all’ironia del togliersi la vita proprio la notte precedente la ricorrenza che più di tutte la esalta, ma forse era proprio la scelta giusta ed il suo gesto avrebbe avuto ancor più significato.

Infilò la mano sotto il materasso e carezzò il canapo. Stava per estrarlo quando una guardia batté violentemente con il manganello sulla porta della cella abbaiando:

“Legan! Mettiti in ordine, hai una visita!”

“Non voglio vedere nessuno!” rispose Neal “Mandali via, chiunque siano!”

“Stammi a sentire, damerino” continuò la guardia “questa signora che vuole vederti è venuta in compagnia di un bambino, ed ha allungato a noi guardie una discreta mancia per poterti vedere. Il minimo che possiamo fare è portarti giù da lei, poi sarai tu, se vorrai, a dirle di andarsene, ti è chiaro? Ora muoviti, altrimenti vengo io a prenderti; non vorrai farti vedere dalla tua bella con un occhio nero, vero?” E ridendo aprì la pesante porta di ferro.

Una donna con un bambino? Chi mai poteva essere? Iriza figli non ne aveva e non conosceva nessuno… a meno che? Ma non era possibile. Comunque la curiosità era troppo forte e Neal si accodò alla guardia che, in compagnia di un collega, lo scortò nella stanza del parlatorio.

Lo stanzone, diviso da un grande banco dove i detenuti potevano sedersi ed incontrare i propri familiari, era deserto eccettuata la presenza di una giovane donna bionda con un bambino di circa dieci anni. Neal prese posto sul sedile di fronte a lei.

“Marie! Che cosa ci fai qui?”

“Ciao Neal, come stai?” rispose la ragazza con una voce dall’accento francese “Sono solo venuta ad augurarti buon Natale, se si può farlo in un posto come questo.”

“Beh, hai sprecato il tuo tempo. Io non voglio vedere nessuno, tantomeno te!”

Il piccolo alzò la testa e guardando Neal negli occhi esclamò “Buon Natale, papà!”

“Come papà? Lui sa… Tu gli hai detto?”

“Si Neal, ho pensato che fosse giusto che lui sapesse chi è suo padre, anche se si trova in carcere.”

“Certo, così potrà vergognarsi meglio del proprio genitore, vero?”

“Io non mi vergogno di te!” disse il piccolo Auguste guardando Neal “Tu sei il mio papà e la mamma mi ha detto che quando uscirai da questo posto potremo stare tutti assieme. A me non importa quello che hai fatto, mi basta sapere che io un papà ce l’ho… E che posso aspettarlo.”

Neal guardò il piccolo Auguste, da due anni prima era cresciuto parecchio ed in alcuni tratti si vedeva la parentela: il taglio degli occhi o un particolare modo di inclinare la testa… Sì, era suo figlio.

“Ma lo sai che io devo stare chiuso qui dentro per tanti anni? Cosa ti importa di aspettarmi? Quando uscirò tu sarai grande, cosa te ne farai di un padre avanzo di galera?

“Non so cosa voglia dire avanzo di galera” continuò Auguste “so solo che sei il mio papà e se devi restare qui dentro io posso venire a trovarti, poi quando uscirai ed io sarò grande… Sarò io a badare a te invece del contrario. La mamma mi ha detto che sarà il mio compito”

Qualcosa si ruppe dentro Neal, lui sempre freddo e insensibile si sentì salire le lacrime agli occhi. Voleva abbracciare quel piccolo che veniva forse a restituirgli una speranza, ma il bancone non glie lo permetteva, allungò una mano e carezzò quella testina e poi rivolse uno sguardo a Marie.

“Ci vediamo presto.” le disse con una voce che voleva essere dura ma tradiva la commozione, quindi girò sui tacchi velocemente e si allontanò per non mostrare le lacrime.

“Andiamo Auguste, torneremo ancora”, e prendendo il figlio per mano Marie uscì dalla stanza.

Di nuovo nella sua cella Neal poté finalmente dar sfogo al pianto, un pianto liberatorio che lavava via la disperazione. Non era rimasto solo, là fuori qualcuno ancora teneva a lui e forse gli dava una nuova occasione. Le campane suonarono di nuovo per annunciare l’imminente arrivo del Salvatore ed a Neal parvero le voci degli angeli che venivano a ricondurlo alla vita. In fretta infilò la mano sotto il materasso, prese quella corda maledetta e cominciò a disfarla, non gli serviva più! Da ora in poi sarebbero state altre le corde che l’avrebbero tenuto legato, forse finalmente sarebbero state quelle dell’amore.

 

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Capitolo 4
*** Treno Milwaukee – Chicago 11 Maggio 1926 ***


Treno Milwaukee – Chicago 11 Maggio 1926

 

Se io fossi un angelo chissà cosa farei?

 

 

Il ritmico sferragliare del treno accompagnava il viaggio, i vari passeggeri erano intenti nelle più svariate attività per ingannare la noia: chi leggeva, chi dormiva o chiacchierava col vicino. Solo una persona tradiva una violenta emozione: il giovane stava con la fronte attaccata al finestrino scrutando il paesaggio che scorreva veloce, cercando di riconoscere i paraggi per misurare il tempo che lo separava dall’arrivo a Chicago. Quando Terence aveva ricevuto il telegramma di Candy era subito corso fuori dal teatro, scordandosi a momenti di togliersi il costume di scena. Meno male che un assistente lo aveva richiamato, non sarebbe andato molto lontano vestito da Amleto con tanto di teschio in mano!

Era riuscito a saltare quasi al volo sul primo treno in partenza per Chicago e adesso contava le miglia che lo separavano da sua moglie che stava per regalargli il suo primo figlio (anche se lei era fermamente convinta che fosse una bambina… Ah, le donne!). Non riusciva a credere che finalmente fosse arrivato il momento, ripensava alla sua storia con Candy dai tempi del collegio in Inghilterra fino alla dolorosa separazione ed al ricongiungimento quasi insperato. Candy, l’unica persona che avesse mai amato, colei che gli aveva insegnato il valore di quel sentimento che lui, prigioniero di un orgoglio stupido, cercava di sopire sotto una maschera di arroganza e spavalderia.

Sorrideva mentre pensava a queste cose ed intanto si immaginava come sarebbe stato prendere per la prima volta fra le braccia suo figlio (“Figlia! Sarà una bambina!” gli risuonò nelle orecchie la voce di Candy). Si lasciò andare ad un’allegra risata ed attirò l’attenzione di un uomo seduto nel suo stesso scompartimento. Questi era vestito con indumenti piuttosto frusti che però denotavano un taglio impeccabile, segno che da nuovi dovevano essere stati molto costosi.

L’uomo era mal rasato, accasciato sul sedile in una posa scomposta ed in mano aveva una bottiglia di bourbon da cui, a giudicare dall’odore che emanava, doveva aver attinto già parecchie volte. Quando si rivolse a Terence lo fece con una voce incerta ed impastata, tipica di chi è in preda ai fumi dell’alcool.

“Cosa avrai da ridere poi? Eh, giovanotto? Cosa ti diverte tanto?”

Terence squadrò l’individuo e provò un brivido a vedere lo stato miserevole in cui versava, sapeva bene a cosa conduce l’abuso di alcool. Dopo la separazione da Candy in quella nevosa sera a New York aveva cercato di riempire il vuoto della sua anima con litri di liquore. Invano Susanna aveva cercato di ricondurlo alla ragione, lui non voleva sentire la sua voce, non voleva la sua presenza attorno, solo per il suo alto senso dell’onore aveva accettato di rimanerle vicino, ma la cosa si fermava ad un puro atto formale, una sorta di risarcimento danni per la menomazione della ragazza di cui lui, anche se a torto, si sentiva responsabile e di questo lei, e soprattutto sua madre, doveva farsene una ragione. Aveva cominciato a frequentare i peggiori locali della città dove, oltre a bere, spesso finiva coinvolto in risse feroci. Questa vita ovviamente aveva influito anche sulla sua carriera ed era stato allontanato dalla compagnia Stratford. Non gli aveva dato peso, allontanarsi da loro voleva dire mettere anche parecchia distanza fra lui e Susanna Marlowe; si era unito quindi ad una compagnia di attori girovaghi che recitavano nelle strade o in locali di infimo ordine ed era sprofondato sempre di più nell’abbrutimento fino all’apparizione, una sera, del suo angelo biondo che lo aveva scosso a tal punto da permettergli di risalire la china.

“Allora ragazzo?” continuò l’uomo “Mi vuoi dire cosa avevi da ridere? Per caso mi trovi buffo?”

“Non ridevo per lei” rispose Terence “Stavo pensando a mia moglie, sto andando a raggiungerla perché sta per dare alla luce il nostro primo figlio”

“E così stai per avere un bambino? Gran bella cosa, i figli… Anch’io ne avevo uno, era bello e forte…” disse l’uomo mandando giù un’altra sorsata.

“Aveva? Perché, adesso dov’è?” chiese un po‘ ingenuamente Terence, negli anni venti la risposta era abbastanza scontata.

“Dov’è? In Francia, ecco dov’è rimasto… Falciato dalle mitragliatrici di quei crucchi maledetti! Me lo hanno ammazzato come un cane ed aveva solo diciotto anni, si era arruolato volontario anche se io non volevo, ed è morto sulle rive della Marna!”

Una lacrima scese da quegli occhi semispenti mentre l’uomo la diluiva con un'altra dose di bourbon. Terence tornò con la mente ad un viso noto, un ragazzo un po’ strano con il pallino delle invenzioni che aveva deciso anche lui di arruolarsi come pilota d’aviazione in uno slancio di patriottismo romantico. Povero Stear, quando si era trovato sul campo di battaglia aveva dovuto fare i conti con la cruda realtà della guerra ed era caduto alla sua prima azione. Candy gli aveva detto che aveva esitato a sparare contro un nemico rivedendo in lui il viso di un commilitone ucciso il giorno prima, e questo lo aveva esposto al fuoco di un altro aereo.

“Il mio povero Mark” continuò lo sconosciuto “era il mio unico figlio e quei maledetti lo hanno portato via, quei maledetti tedeschi e quegli ancor più maledetti governanti che hanno permesso al mio bambino di partire per la guerra. Io ero una persona benestante, a mio figlio non mancava nulla… Devono averlo ingannato, lo hanno plagiato! Quella sciocca di mia moglie dice che è stata la volontà del Signore e bisogna accettarla, ma io non ci sto!”

Terence guardava quel poveretto che gli raccontava il suo dolore e si chiedeva se, senza l’aiuto di Candy, un giorno forse avrebbe potuto ridursi in quel modo.

“Ho speso tutto quello che avevo, mi sono ridotto in miseria ma sono riuscito a scoprire chi ha fatto firmare i moduli di arruolamento a Mark. È un colonnello che adesso vive a Chicago ed io sto andando laggiù!”

Terence rabbrividì leggermente “Per fare cosa?” chiese, conoscendo però già in cuor suo la risposta.

“Eh eh… Guarda” e aprendo la giacca mostrò il calcio di un grosso revolver

“Non penserà di ucciderlo?”

“Ucciderlo? No, lui no! Ma so che ha due figlie, due belle ragazze di sedici e quattordici anni. Io andrò a casa sua, lo legherò per bene e poi le ammazzerò sotto i suoi occhi, così che provi anche lui quello che ho provato io quando mi hanno portato via Mark”

Terence fu sopraffatto dall’orrore, mai aveva sentito tanta crudeltà esternata da un uomo. Simili proponimenti facevano spesso parte dei drammi che recitava ma erano solo finzione, sentiva che doveva far qualcosa, ma cosa? Doveva riuscire a toccare le giuste corde dell’animo di quello sconosciuto e doveva far presto, ormai la stazione di Chicago era prossima.

“È sicuro che sia la decisione giusta? Cosa penserà sua moglie di lei?”

“Mia moglie? Lei vive in chiesa pregando tutto il giorno, crede che sia la cosa migliore da fare… Pregare per l’anima di Mark e, pensa un po’, per me perché ritrovi la ragione. Pensa che una volta l’ho sentita chiedere a Dio che mandasse un angelo per fermarmi e farmi tornare l’uomo che ero. Un angelo capisci! Come se quegli stupidoni piumati avessero tempo da perdere” rispose tra risate amare e sorsate di bourbon.

“Sua moglie ha ragione! Abbandoni i suoi propositi finché è in tempo!”

“Ehi, ragazzo! Come ti permetti di dirmi quello che devo fare?! Ma chi sei?!”

“Io sono uno che è già passato nel tunnel dell’alcool e so cosa vuol dire perdere qualcuno che è tutta la tua vita. Ma so anche che questa persona soffrirebbe terribilmente se vedesse in che modo si è ridotto chi diceva di amarlo. Mark non c’è più, ma non l’ha ucciso quel colonnello! È stato ucciso dalla guerra, la peggiore follia che l’uomo può produrre. Ma io so che se c’è un paradiso lui è là che guarda suo padre rovinarsi, e questo non può renderlo felice. E non importa se lei ci creda o no, se ricorda suo figlio lo immagini, pensi a cosa proverebbe se fosse vivo e la vedesse compiere un omicidio efferato. Io non ho il potere di fermarla, potrei denunciarla ma forse non mi crederebbero… Posso solo esortarla a pensare. La prego, pensi!”

Il treno nel frattempo era entrato nella grande stazione di Chicago e, appena si fu fermato, l’uomo scostò con uno spintone Terence e saltò giù dal vagone. Il ragazzo cercò di seguirlo, ma questi scomparve agilmente tra la folla. Terence recuperò il bagaglio e si avviò all’uscita della stazione, passando davanti alla piccola cappella dei ferrovieri voltò il viso verso l’immagine del crocifisso e pensò “Se puoi…”, quindi si allontanò.

L’uomo era nascosto dietro una delle colonne dell’ingresso ed aveva visto Terence fermarsi. Di colpo gli erano tornate in mente tante immagini: di Mark bambino che giocava a cavalluccio con lui, di una vacanza sul lago Michigan fino a sua moglie che, nonostante i dolori e le fatiche a cui lui l’aveva condannata, non l’aveva abbandonato ed ancora pregava per lui. Si avvicinò ad un bidone e vi fece cadere la bottiglia di bourbon ormai quasi vuota e, dopo un attimo di riflessione, anche la pistola. Guardò il tabellone e vide che un treno per Milwaukee sarebbe partito di lì a due ore. In tasca trovò gli ultimi spiccioli per il biglietto e, mentre si avviava allo sportello, guardò nella direzione in cui era scomparso Terence. Forse erano ancora i fumi dell’alcool, forse le fantasie di sua moglie ma si ritrovò a pensare “E se gli angeli non fossero solo biondini con le ali?”

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Capitolo 5
*** Ospedale S.ta Johanna – Chicago, 11 Maggio 1926 ***


Ospedale S.ta Johanna  –  Chicago, 11 Maggio 1926

 

Siamo angeli con un’ala sola

 

 

“Pensi che ci vorrà molto?” chiese Annie a suo marito Archie.

“E come faccio a saperlo? Non mi sono mai trovato in una simile situazione, dovresti essere più esperta tu, visto che sei una donna!”

Annie guardò il marito, si trovavano nella sala d’attesa del reparto maternità del S.ta Johanna dove, dopo essere stati avvertiti da George, si erano precipitati per essere vicini a Candy nel momento in cui sarebbe diventata mamma. Ma ora i minuti passavano e nessuna nuova notizia arrivava da dietro le porte a vetri che separavano il salottino dal reparto vero e proprio. Flanny li aveva rassicurati, dicendo che tutto si stava svolgendo nel migliore dei modi, ma poi era sparita fra le corsie ed era ormai più di un’ora che non si vedeva.

Annie era attraversata da emozioni diverse: da un lato era felice per colei che considerava più una sorella che un’amica, mentre dall’altro l’arrivo di quella nuova vita andava a toccare quel nervo scoperto che era il suo senso di colpa per non essere riuscita a dare anche lei un figlio a suo marito. Ormai erano sposati da diversi anni ma, nonostante i ripetuti tentativi, quel benedetto bambino non voleva arrivare e la ragazza temeva di essere una delusione per il marito e per gli altri membri della famiglia Andrew, così ligi alle tradizioni che avevano sempre voluto una discendenza assicurata soprattutto da ogni rampollo di sesso maschile. Temeva che a causa sua Archie potesse venire mal giudicato, magari perfino ripudiato dai capi famiglia perché incapace di assicurare una continuità al casato… Anthony e Stear erano morti, per non parlare di Albert, e lui restava l’unico erede maschio degli Andrew.

Tutte queste preoccupazioni pesavano sul cuore di Annie e trasparivano dai suoi occhi, Archie si accorse che qualcosa non andava e le prese delicatamente la mano.

“Annie, cosa c’è che non va?”

Lei abbassò lo sguardo e rispose con un filo di voce

“Nulla, solo un po’ di brutti pensieri”

“Oggi non devono esistere brutti pensieri, siamo qui per un giorno di festa. Ma ci pensi? Candy che diventa mamma! Chi si sarebbe immaginato che quel maschiaccio che saltava sugli alberi e lanciava il lazo un giorno avrebbe avuto un piccolo da accudire.” Archie concluse la frase con un’allegra risata.

Annie non riusciva a partecipare all’ilarità del marito, d’improvviso sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Archie si allarmò e la abbracciò stretta.

“Ehi piccola, cosa c’è? Cosa sono questi lacrimoni? Spero siano di gioia per l’arrivo del piccolo di Candy, d’ora in poi sarai la zia Annie!”

“Sarò sempre solo questo? Solo la zia per i figli degli altri?” replicò Annie con la voce rotta, ed allora finalmente lui capì quali demoni si agitassero nel cuore della moglie.

“Annie, ne abbiamo già parlato. Non importa se non abbiamo ancora avuto figli, non è colpa di nessuno, è la vita che è così. La cosa importante è stare insieme.”

“Si ma… Cosa penseranno di me gli altri? Diranno che non sono capace di darti un erede, che forse dovevi scegliere qualcun’altra. Forse vorranno che ci separiamo… La zia Elroy!”

Annie trasalì vedendo l’augusta matriarca entrare dalla porta del salottino ed istintivamente si nascose dietro al marito. Archie dolcemente la trasse davanti in modo che potesse salutarla.

“Dai Annie, asciugati gli occhi. Guarda che nessuno ti giudica, sono passati i tempi in cui queste cose erano importanti. Persino la zia Elroy non vi dà peso. Un giorno ne parlavamo e lei mi ha detto: ‘Archie, tu continua starle vicino ed a coccolarla e vedrai che se è destino succederà, e se non succederà avrete comunque vissuto una bellissima vita insieme!’ Quindi vedi che non hai nulla di cui preoccuparti. Dai, ora vieni a salutare la zia.”

Annie guardò il marito con occhi pieni di riconoscenza, lei che era sempre pronta a prendersi a cuore la sorte di tutti spesso si dimenticava di pensare a se stessa. Meno male che qualche angelo veniva a risollevarla quando si lasciava cadere.

Mentre Annie salutava l’anziana signora una specie di terremoto venne a turbare la quiete della sala d’aspetto, un giovane trafelato con in mano una valigia irruppe nella stanza chiedendo a gran voce

“Sono in ritardo? È già nato? Non ditemi che non ho fatto in tempo!”

La zia Elroy si voltò per scoprire l’origine di quel trambusto e quando vide chi lo aveva generato non poté esimersi dall’alzare gli occhi al cielo con aria sconsolata, poi si ricompose nella consueta maschera di solenne autorevolezza.

“Terence Granchester! Ricordati che sei in un ospedale e quindi devi mantenere un contegno consono al luogo! Come vedi siamo tutti qui ad aspettare notizie, Candy è perfettamente assistita dalla sua amica Flanny Hamilton e tutto procede nel migliore dei modi, non c’è quindi alcuna ragione perché tu ti debba comportare come un selvaggio!” esclamò.

Terence rimase per un momento interdetto, poi guardando la signora scoppiò in una fragorosa risata a cui si unirono anche Annie ed Archie, mentre la zia Elroy commentava con un “Ma insomma, un po’ di contegno!”, accompagnato però con un sorriso che, noblesse oblige, si affrettò a nascondere con il ventaglio.

In quella le porte del corridoio si aprirono e Flanny fece la sua comparsa nel salottino, quattro paia di occhi le si rivolsero ansiosi ricambiati dall’infermiera.

“Se volete seguirmi vi porterò da Candy, tutto è andato bene” annunciò.

“È nato!” Gridò Terence “ Dimmi Flanny, è maschio o femmina?”

“E’ una bellissima bambina Terence, sana e forte. Ehi, ma dove vai?”

Flanny provò a fermare lo slancio del giovane che si era messo a correre nel reparto chiamando la sua Candy, era inutile anche provarci e scrollando il capo invitò gli altri a seguirla . Li guidò verso una camera a metà circa del corridoio.

“È qui dentro, mi raccomando di non stancarla troppo e, se vi è possibile, calmate un po’ quel terremoto di suo marito.”

“Grazie signorina Hamilton” rispose per tutti la zia Elroy “Cercheremo di fare il possibile, anche se temo che quel ragazzo sia irrecuperabile” e varcò la soglia seguita da Archie ed Annie.

Sdraiata in un comodo letto Candy appariva provata, ma sfoggiava un enorme sorriso mentre Terence le teneva una mano. In braccio reggeva un involto bianco adorno di pizzo, sembrava solo un rotolo di tessuto ma un leggero vagito proveniente dal suo interno tradiva la nuova vita che l’abitava. Candy salutò la zia e gli amici e poi, scostando un lembo di quel fagotto, mise allo scoperto il visino roseo di una neonata.

“Saluta tutti Angie, questa è la tua famiglia”

Annie non poté resistere e si precipitò vicino al letto per ammirarla da vicino. Quando vide gli occhietti ancora semichiusi e le minuscole manine non riuscì a trattenersi dallo scoppiare a piangere, ma stavolta erano sincere lacrime di gioia.

“Ecco lo sapevo!” proferì Archie “Ora ricomincia a fare la fontana.”

“Taci tu, bruto insensibile!” lo rimbeccò Candy ridendo.

“Posso prenderla in braccio?” chiese Annie.

“Non subito Annie. Non avertene a male, ma vorrei che la prima persona dopo i suoi genitori a prenderla in braccio fosse la zia Elroy. Vuole farmi questo onore, zia?”

La matrona rimase stupita, non si aspettava un tale atto di cortesia e deferenza da parte di Candy, sentì un nodo di commozione salirle alla gola ma si fece forza.

“Se lo desideri, Candy, sarò felice di farlo” rispose.

Terence prese la piccola e la portò alla signora che, con fare un po’ impacciato, la accolse fra le sue braccia. Allora accadde qualcosa che nessuno si sarebbe mai immaginato, la dura maschera della signora Elroy cadde di colpo ed il suo volto si illuminò di un meraviglioso sorriso, ora non sembrava più l’austera capofamiglia degli Andrew ma solo una nonna che cullava amorevolmente la sua nipotina. Flanny ripassò dal corridoio e ne approfittò per sbirciare dalla porta socchiusa, che bella la scena a cui stava assistendo! Candy aveva una famiglia meravigliosa dove tutti erano uniti e pronti a sostenersi l’un con l’altro. Sorridendo dolcemente richiuse la porta e si allontanò

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Capitolo 6
*** Lakewood - 24 Dicembre 1941 again ***


Lakewood - 24 Dicembre 1941 again​

 

Heaven is a place on earth

 

 

“Ehi Tuttelentiggini, sei ancora fra noi?”

La voce di Terence riscosse Candy dalle sue fantasticherie, si era lasciata andare al ricordo e non si era accorta del tempo che passava. Ora doveva sbrigarsi perché gli ospiti stavano per arrivare. Salì in camera per vestirsi e al momento di scegliere il vestito sentì una voce parlarle.

“Secondo me, quello rosso con le guarnizioni in raso è perfetto”

Si voltò e riconobbe una persona che apparteneva al suo passato. Non era più una ragazzina ormai, ma Dorothy aveva sempre quel fresco sorriso che tanto piaceva a Candy quando, tanto tempo prima, dividevano le dure fatiche a casa Legan.

“Dorothy! Cosa ci fai qui?”

“Mi ha chiamata Terence, ha detto che aveva bisogno di qualcuno che si occupasse dei preparativi per la festa di stasera e, siccome ormai mi sono specializzata in questo campo, ha pensato che ti avrebbe fatto piacere se fossi venuta. Non ti ha detto nulla perché voleva fosse una sorpresa.”

“Quel matto di Terry! Ma sono davvero felice di rivederti!”

Le due donne passarono dei bei momenti a ricordare il loro passato comune, Dorothy insistette per aiutare Candy a vestirsi e pettinarsi come faceva una volta perché diceva che sarebbe stato come fare un tuffo nel passato. Quando Candy fu pronta scese in salotto dove Angie, elegantissima in un abito verde smeraldo, e Terence, in un impeccabile tuxedo, la stavano aspettando.

“Pensavamo non scendessi più, mamma! Dorothy ti ha tenuta impegnata a ricordare i bei tempi andati?”

“Taci, impertinente!” rispose ridendo Candy alla figlia “Sono stata felicissima di rivederla, è stato proprio un bellissimo regalo di Natale. Grazie, Terry” e sfiorò le labbra del marito con un rapido bacio.

Terence cercò di trattenerla ma Candy sgusciò via dalle sue braccia con un’altra fresca risata.

“Ora non è il momento! Gli ospiti stanno arrivando”

“Infatti” aggiunse Angie “Non vorrete che vi trovino appiccicati come busta e francobollo, vero? Sarebbe molto imbarazzante!”

Terence stava per replicare alla figlia, quando il campanello suonò. La famigliola si diresse all’ingresso dove Dorothy stava aprendo la porta, Candy fece gli onori di casa ricevendo Archie ed Annie ed accogliendo Patty, che entrò raggiante al braccio di un bel giovane.

“Questo è mio marito Alfred, è un avvocato di Washington”

Alfred si presentò con cortesia alla padrona di casa e ad Angie, quindi strinse la mano a Terence, Candy prese Patty sotto braccio dicendole

“Complimenti, tuo marito è proprio un bell’uomo. Sei stata davvero fortunata.”

“Sì, Candy. Inoltre lui lavora per il Congresso e si sta facendo una solida posizione negli ambienti governativi. Questo significa che non corre il rischio di venire richiamato… Non potrei sopportare il rischio di perdere ancora l’uomo che amo in guerra”

Candy abbracciò l’amica. Nonostante si fosse rifatta una vita, Patty non aveva mai dimenticato Stear. Il campanello trillò ancora e Dorothy annunciò l’ospite più importante. Solenne nella sua ampia sedia a rotelle, spinta da un George ormai ingrigito, ma sempre devoto alla famiglia, la zia Elroy fece il suo ingresso nell’ampio salone addobbato. La malattia ne aveva minato il fisico che appariva scarno e debilitato ma gli occhi mostravano ancora quella forza d’animo e quella lucidità di spirito che ne avevano contraddistinto tutta la vita. Tutti le si fecero incontro per renderle l’omaggio che meritava, ma la signora pretese che il primo saluto venisse dalla più giovane. Angie si avvicinò e prese la mano della matriarca.

“Buon Natale, nonna Elroy”

All’anziana signora si inumidirono gli occhi come quel giorno di quindici anni prima, quando aveva preso in braccio quella bellissima ragazza per la prima volta. Poi anche gli altri salutarono la zia e finalmente la festa poté cominciare. Dopo la cena venne il momento di riunirsi tutti intorno all’albero per cantare una carola e, mentre le note di “Silent night” riempivano la stanza, Angie prese la scala e pose sulla cima dell’albero un piccolo angelo dorato. La zia Elroy guardò la nipote che compiva quel gesto e per un momento credette di intravedere un paio d’ali anche sulla sua schiena. L’anziana signora sapeva che era l’ultima volta che poteva stare con tutta la sua famiglia riunita, ma era felice di vedere che tutti si volevano bene e che l’armonia regnava. Pensò che perfino Neal, per merito del piccolo Auguste, aveva messo giudizio e, una volta scontata la sua pena, era partito con Marie ed il figlio per il Canada e si era rifatto una vita onesta. Presto avrebbe incontrato i veri angeli e magari avrebbe rivisto Albert, Anthony e Stear a cui avrebbe raccontato che, se c’è l’amore, non c’è bisogno di angeli celesti perché ognuno può essere un angelo per qualcun altro, ed il paradiso può essere un qualsiasi posto sulla terra.

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