Distopia Scarlatta

di Leonhard
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ancora più in su... ***
Capitolo 2: *** Spirito di sacrificio ***
Capitolo 3: *** Nick Hopps ***
Capitolo 4: *** Alla fine del mese ***
Capitolo 5: *** Vorrei... ***
Capitolo 6: *** Sulla scacchiera ***
Capitolo 7: *** Nello scantinato ***
Capitolo 8: *** Il mastro burattinaio ***
Capitolo 9: *** Sguardi ***
Capitolo 10: *** Distopia Scarlatta ***
Capitolo 11: *** Dieci minuti ***
Capitolo 12: *** Scacco Matto ***
Capitolo 13: *** Un Mondo Migliore ***



Capitolo 1
*** Ancora più in su... ***


NOTA DELL’AUTORE:

Infine ce l’abbiamo fatta: benvenuti a quella che è la fic conclusiva di questa serie nata per caso. I ringraziamenti ed i discorsi lacrimevoli ve li risparmio per l’aggiornamento conclusivo, quindi vi auguro una buona lettura, spero un buon divertimento ed un preventivo grazie a tutti coloro che vorranno seguire quest’ultima fatica. Alla prossima, stay tuned
 
Leonhard
 
 
  1. Ancora più in su…
Bogo guardò con occhi soddisfatti la sua scrivania finalmente libera da polvere, quelle penne esaurite che si era ostinato per tanto tempo a non buttare e di quella pila di dossier contenente casi, richieste, denuncie e fascicoli che avevano sempre troneggiato su di lui coperte di polvere e celate macchie di caffè. Aveva sempre sentito che era giusto che fossero lì e quando finalmente era arrivato il momento di dar loro la fine che meritavano si era sentito libero.

Il tritacarte sopra il cestino era fermo, alcuni brandelli di fascicolo erano ancora appesi alle lame interne e l’ufficio, insonorizzato ed isolato dal mondo esterno, era pregno di un silenzio in grado di risvegliare ricordi. Si prese qualche istante per spaziare, perdere di vista il presente fumoso e di una tonalità bluastra sempre più flebile, e tornare in una camera illuminata da un sole caldo che filtrava dalle finestre semiaperte.

Vedeva la scrivania, i libri che lo attendevano ed il vociare degli amici proveniente dal parco sotto casa. Lui non poteva uscire, non poteva giocare: lui sarebbe diventato qualcuno di grosso, di importante, qualcuno davanti a cui tutti avrebbero chinato il capo, incespicato con la lingua, tolto il cappello.

“Sei un bufalo” gli ripeteva suo padre. “Una delle prede più grosse della natura, ma una preda: devi diventare un bufalo predatore”. L’aveva fatta facile il suo vecchio, all’interno della sua divisa decorata al valore militare e davanti alla sua pagella scolastica in cui l’unico voto basso era una B nella condotta aveva scosso la testa e muggito.

“Hai fatto del tuo meglio…” annuiva, con un sorriso finto e la delusione che gli faceva capolino timidamente negli occhi. “Adesso cerca di fare del mio meglio”. E lui era veramente il meglio.

Quella frase l’aveva detta per la prima volta dopo l’ultimo giorno delle elementari e sarebbe stata l’ultima che avrebbe sentito da lui. Loro erano dei bufali: enormi e pacifici, ma inarrestabili quando si lanciavano in corsa. E l’unico modo per non essere fermati mai era cominciare a correre molto presto.

Quel ricordo era il suo diciottesimo compleanno e stava guardando il regalo di suo padre con occhi confusi; la sua vita era sempre stata una corsa verso l’alto, un percorso scolastico eccelso ma che apparentemente non bastava mai. Quello era solo il passaggio da cucciolo a bufalo adulto, altro che torta, regali, feste e cose da mammiferi qualsiasi. Da bufali qualsiasi.

Un bufalo predatore arriva in alto, in testa al branco, e lo guida nella sua corsa travolgendo e distruggendo qualunque cosa sul suo cammino. Un bufalo predatore viene istruito nel migliore dei modi ed ogni fallimento viene severamente punito.

E dall’alto della sua maggior età raggiunta da appena un’ora guardava la domanda di arruolamento nelle forze di polizia già celermente compilata dall’ordinata calligrafia del padre che aveva deciso per lui la strada che conduceva al perfetto bufalo predatore. Lui sarebbe diventato qualcuno, e quel qualcuno era alla fine della strada su cui era stato messo.

Da lì era stata una rapida escalation al successo: ausiliare del traffico, agente, caposquadra, supervisore ed infine capitano del distretto centrare della ZPD. Un ottimo traguardo, ma la voce del suo vecchio

hai fatto del tuo meglio: adesso fai del mio meglio

lo spronava ancora dalla tomba, a spingerlo a continuare. Un bufalo in divisa non poteva essere considerato un bufalo predatore: al limite un capobranco, ma non esisteva che ci si doveva accontentare dei pesci piccoli, delle cariche fugaci che sarebbero durate fino all’arrivo di un bufalo più forte di lui.

La prima tigre che passò sotto la sua finestra pose fine all’attimo: un distinto mammifero, con una sobria cravatta scura ad accompagnare un completo da ufficio notarile. Comparve dalla lieve foschia in cui si era ormai diradata la nube azzurra, accompagnata dalli strilli terrorizzati di un gruppetto di tassi poco distanti, impegnati in un fuggi-fuggi disperato. La tigre li guardava con occhi persi, smarriti: evidentemente non capiva il motivo di tanta paura e palesò il suo disappunto con un gutturale ruggito prima li lanciarsi al trotto verso una strada secondaria.

Sulle quattro zampe.

Sulla scrivania troneggiava la dichiarazione del decesso di Dawn Bellwether accanto al mandato d’arresto per Nicolas Piberius Wilde, una volpe caduta in un irreversibile stato di primordialità. E con lui tutti i predatori che avevano anche solo annusato il vaccino contro gli ululatori.

Nemmeno il suo vecchio avrebbe saputo creargli un branco migliore: gli ululatori non avrebbero mai più funzionato, ma solo una vanesia sconclusionata come quella petulante pecorella poteva usare un trucco così misero per accaparrarsi un gregge da guidare. Lei non era una pecora predatrice, non lo era mai stata, non lo sarebbe mai potuto diventare e dopo l’enorme favore che Wilde gli aveva fatto non lo sarebbe divenuta mai più.

Il pensiero di dimenticarsi di lui per ricompensarlo del favore gli accarezzò la mente per qualche istante, poi la voce del suo defunto padre tornò a tuonare nelle sue orecchie, ti sembra questo il meglio che io farei?, avvertendolo che ormai era in ballo e l’ultima cosa che doveva fare era pestare i piedi ai mammiferi sbagliati.

Era ora di mettersi al lavoro.
 

 
“Nick, la devi finire di fare l’idiota” sbottò Judy, con un misto di ansia, stizza e disperazione nella voce. “L’intero corpo di polizia ti da la caccia: dobbiamo…”.

“WAG” replicò lui.

Ehi! L’agente tuut-tuut!

L’espressione sul muso di Nick era un concentrato di perplessità, puntualizzata dalla testa reclinata di lato. La coniglietta deglutì amaro e prese tra le zampe il suo muso, per nulla abituata ad averlo alla sua stessa altezza.

“Il vaccino contro gli ululatori…” mormorò. “Nick…ti prego, parla: dì il tuo nome, dì qualcosa…”. L’espressione della volpe, da perplessa com’era, passò ad incorniciare un paio di occhi pregni di costernazione.

Wilde. Nick Wilde.

“Nick…” mormorò Judy, ormai prossima alle lacrime. “Tu…non puoi parlare, vero?”. Lui abbassò le orecchie ed uggiolò piano. “E nemmeno stare in piedi…”. Fissò negli occhi la volpe: la guardava con occhi sconsolati, come se fosse colpa sua; sorrise e gli prese la testa tra le zampe, ricambiando lo sguardo con un paio di occhi risoluti.

Per favore non avercela con me…

“Non ti preoccupare Nick” disse con una voce che pregò suonasse sicura di sé. “Non succede nulla: adesso noi cerchiamo un modo di farti tornare come prima”.

Una brusca frenata ed uno schianto, seguito da urla ed una baraonda; dopodiché un suono risuono da fuori la finestra. Judy rabbrividì e scattò verso il vetro. Il fugace pensiero che quello più che un suono fosse un verso ricevette la sua conferma in modo talmente brusco da farle credere di essere più al sicuro lì dentro con un Nick imprevedibile. Di una piccola utilitaria rossa era rimasto solo un bizzarro rottame a forma di ferro di cavallo e del fumo usciva dal vano motore diventato improvvisamente concavo. Attorno all’incidente i mammiferi si spingevano tra loro con occhi pieni di panico, ansiosi di allontanarsi da quel palo della luce.

Dall’auto saltò fuori un puma. Per una frazione di secondo, la coniglietta si domandò il motivo di tanto chiasso: era un comune puma, un operaio a giudicare dalla tuta blu con su il marchio di una fabbrica. Un distinto mammifero che, povero disgraziato, sarebbe arrivato al lavoro in ritardo.

Poi l’animale atterrò sulle quattro zampe dopo un salto che normale sarebbe stata l’unica definizione che non sarebbe calzata per niente. La divisa da lavoro era tesa sui muscoli delle spalle e la bocca era semiaperta, a mostrare una fila di denti che stonava con l’espressione sbigottita e vagamente agitata che lesse in quegli occhi.

Poi aprì la bocca e quello che uscì dalla sua gola fu un verso tagliente, freddo e spietato che fece drizzare a Judy il pelo sulla nuca. Ammettendo a sé stessa il sollievo di non essere in strada in quel momento, rivolse la sua attenzione all’insieme: animali scappavano in tutte le direzioni con la paura cieca che muoveva il loro corpo.

Paura? No, quello che animava i corpi era qualcos’altro. Un qualcosa di molto meno razionale, più istintivo e selvaggio, qualcosa impossibile da imbrigliare che non avrebbe fatto altro che peggiorare inesorabilmente la cosa. Preferì il termine panico, anche se sentiva che era quello sbagliato.

Il termine giusto sarebbe arrivato con il tempo, ma in quel momento si rifiutò nella maniera più categorica di accettarlo come tale. A fatica, si volse nuovamente verso Nick: era rivolto verso di lei, guardandola con occhi perplessi. Le orecchie guizzavano indipendenti in tutte le direzioni ed il naso vibrava leggermente. Si sedette e si grattò la nuca con evidente soddisfazione.

Judy tornò con lo sguardo fuori dalla finestra: il puma si stava guardando attorno, disperato, mentre continuava a ruggire quel verso che tutto sembrava tranne una richiesta di aiuto. Attorno a lui, prede di tutte le specie e dimensioni si accalcavano l’una contro l’altra nel disperato tentativo di mettere più spazio possibile tra loro e quel predatore impazzito.

Si staccò dalla finestra con occhi risoluti: lei non sarebbe sopravissuta al caos che si stava diffondendo e che non si sarebbe fermato e non esisteva che abbandonasse Nick.

Lui aveva bisogno di lei: la pensò così e per la prima volta da quando lo conosceva sentì di avere finalmente il controllo della situazione. Scoprì anche che non le piaceva: non in quel modo.

“Nick” mormorò, avvicinandosi a lui. “Bogo ti sta dando la caccia e la fuori è il caos: non ti lascerò da solo in questo stato a farti catturare. Hai ucciso due mammiferi e dovrai pagare per questo”. Gli passò una zampa sulla testa, Nick piegò le orecchie all’indietro ed un sorrisetto fece capolino sul suo muso solo per qualche secondo.

“Non ti lascio da solo” ripeté. “Verrai con me alla Tana dei Conigli”.

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Capitolo 2
*** Spirito di sacrificio ***


2. Spirito di sacrificio

 
La loro era stata una fuga in piena regola: una di quelle che si vedono solo nei film in bianco e nero, dove i colori sono lasciati alla fantasia, i treni sono a vapore e la sigaretta pizzicata tra le dita del maschi sono segno di signorilità. Le porte del treno si chiusero con un sibilo dietro di loro, ma fu solo quando furono in movimento che Judy si arrischiò a togliere l’impermeabile dalla pelliccia di Nick. Finalmente libera, la volpe si scollò il pelo con un piccolo verso stizzito e mosse qualche passo all’interno del vagone, guardandosi intorno cautamente

Missione compiuta: sarebbe prematuro fare un tuut-tuut della vittoria?

Judy salì sul primo sedile che trovò e guardò fuori; le grida erano talmente tante e talmente intense da passare anche il finestrino del treno. Non finì nemmeno di formulare il pensiero che dalla finestra di un palazzo fiorì la prima esplosione; Judy si accucciò dietro il sedile con un sussulto, senza riuscire tuttavia a distogliere lo sguardo; le urla si fecero più intense, mentre calcinacci e fogli si allontanavano dalle fiamme divampate dalla struttura.

Entrarono nel primo tunnel ed il palazzo in fiamme lasciò il posto ad un muro circondato dall’oscurità. La coniglietta si accasciò sul sedile con un sospiro sconfortato; lanciò uno sguardo a Nick, che la osservava con occhi sbarrati.

“Nick…” mormorò. “Tutto questo…è opera di Bellwether, vero?” mormorò.

Non so a che pensi ma smetti subito! Carotina!

Lei sorrise., allontanando quei pensieri: avrebbe avuto tutto il tempo per crogiolarsi nel rimorso per aver liberato la mente responsabile di tutto quello, ma in quel momento la massima priorità era mettere Nick al sicuro. E l’unico posto in cui poteva farlo era dai suoi.

“Con un po’ di fortuna, il vaccino non è arrivato dai miei” mormorò. “Saranno scettici e preoccupati, ma non farai loro paura. Spiegheremo tutto e vedrai che capiranno…”.

Vieni dalla Tana dei Conigli, giusto?

Il viaggio fu breve ma pregno di un silenzio che mai era esistito tra loro. Judy si rese conto di essere insolitamente silenziosa e si chiese se lo fosse sempre stata: nel loro ufficio, ora che ci pensava, era sempre lui a cominciare a parlare di un argomento a caso, del tutto insensato e fuori luogo ma da cui nasceva una chiacchierata che durava tutto il giorno e che spaziava per gli argomenti più assurdi al punto che alla fine della giornata si chiedevano come erano potuti passare dal parlare delle previsioni meteo alla data di uscita del nuovo Final Fantasy, passando per cose assurde e molto imbarazzanti come la stagione di accoppiamento delle volpi o di quanti conigli le avessero fatto l’occhiolino nell’ultima settimana.

Con lui si sentiva a suo agio e parlava e gli confidava cose che non avrebbe rivelato a nessun altro, nemmeno sotto la tortura dei grattini sulle guancie, cosa che la faceva andare in solluchero. Se poi era lui a farglieli…

È la nostra fermata

La coniglietta si riscosse e si lasciò cadere giù dal sedile. Fuori dalla porta del treno la campagna la accolse con la quiete e la pace che ricordava e di cui, sapeva, sia lei che Nick avevano bisogno. Poco lontano da loro, nascosti dal vagone, il vociare dei suoi fratelli la accolse prima delle loro figure. Tirò un respiro che assomigliava ad un sospiro e si volse verso Nick con un sorriso che pregò essere incoraggiante.

“Capiranno” ripeté. “Forza, andiamo”.

Va bene: sei tu il capo

Uscirono dalla carrozza e si allontanarono dalla linea gialla di delimitazione, poi si fermarono a fissare un grosso gruppo di conigli fermi accanto all’ingresso della stazione: saranno stati almeno un centinaio, tutti che li guardavano. La gioia che avrebbe dovuto trasparire dai loro occhi era nascosta dietro un velo di perplessità e Judy sospettò che Nick ne fosse la causa. La volpe drizzò le orecchie e rimase immobile a fissarli. Due conigli più grandi a capo del gruppo si avvicinarono, uno di loro fece cenno agli altri di non muoversi.

Chissà se quando non riesce a dormire si conta da solo…

Bonnie e Stu si avvicinarono guardinghi ai due, lanciando fugaci occhiate alla volpe alle spalle di Judy, stranamente a quattro zampe. Sospetto…

“Ciao Judy” salutò Bonnie con un sorriso sobrio. Stu non fu altrettanto posato.

“Ehi, Judy non Deludi!” salutò raggiante. Nick emise un singulto divertito, attirandosi un’occhiataccia dalla coniglietta.

“Non azzardarti a ricominciare a parlare proprio adesso” borbottò imbarazzata.

Coniglietta acuta…

“Allora è vero che hai lasciato la polizia” cominciò Stu. “Saggia decisione: con il caos in città non era sicuro per te rimanere a Zootropolis”.

“E voi come fate a…” mormorò Judy, cancellando parte del discorso che si era preparata mentalmente. Bonnie ridacchiò.

“Siamo campagnoli, non ottusi” replicò. “Gideon ha la connessione internet e ci ha informati; volevamo chiamarti, ma poi abbiamo ricevuto il tuo messaggio e siamo venuti direttamente a prenderti, tu e…?”. Indicò con lo sguardo Nick: stava studiando le bancarelle sotto la tettoia della stazione, senza capire il motivo per cui quegli scoiattoli avessero così tanta paura di lui se era seduto e fermo senza far nulla.

“Ah…si” mormorò Judy. “Lui è Nick: vi ho parlato di lui no?”.

“Certamente” rispose Stu, mettendo su un’aria accigliata. “Ma non ci avevi detto che era una volpe”. Questa volta fu turno di Judy ricevere un’occhiataccia da parte del suo ex collega. Gli restituì una fugace occhiata colpevole prima di tornare a rivolgersi ai suoi.

“Beh…sapete che il vaccino sta facendo questo effetto in città, no?” cominciò. “I predatori stanno perdendo l’uso della parola e la capacità di camminare su due zampe, ma non sono pericolosi”.

“Solo perché lui non lo sembra non vuol dire che non lo è” osservò Stu. “Insomma, davvero pensi che sia sicuro portare una volpe in questo stato in una contea popolata solo da conigli? Insomma, lui è

La nemica naturale per eccellenza dei conigli

un predatore e se ha subito l’effetto del vaccino cosa ti fa pensare che non potrebbe avere delle…ricadute ecco”. Judy guardò il padre smarrita, senza credere alle sue orecchie.

“Ma che stai dicendo?” commentò infine. “Lui è il mio collega più fidato…il mio più caro amico! Quando ho avuto bisogno di lui non si è fatto problemi ad aiutarmi e adesso che lui ha bisogno di me…di noi…”.

“Judy…” intervenne Bonnie. “Quello che tuo padre vuole dire è che non possiamo fidarci di una volpe se tutti i predatori che hanno respirato quel fumo blu si sono ridotti così”. Come ogni volta, Judy non seppe cosa rispondere alla madre: raramente apriva bocca per non appoggiare le parole del compagno, ma quando succedeva i suoi discorsi erano sempre così logici, così lineari e levigati che lei non trovava nessun appiglio a cui aggrapparsi. Rimase in silenzio, lasciandosi precipitare nel baratro della ragione. “Non si sanno se ci sono altri effetti collaterali: e se una mattina svegliandosi Nick sentisse il bisogno di ucciderci tutti?”.

“Non capiterà mai!” esclamò lei, ma sapeva che sua madre le avrebbe chiesto delle garanzie che lei non aveva. Poteva dare la sua parola, ma oltre a quella non aveva nulla. E le parole erano aria fritta davanti allo scenario che Bonnie ipotizzava e che Stu si aspettava.

“Nick mi ha salvato la vita…” mormorò. “E non lo lascerò solo. Se voi non vi fidate, lo capisco…ma devo tenerlo d’occhio oppure…”. S’interruppe, spostando lo sguardo su una piccola figura aggrappata ai pantaloni di Stu.

“Guarda papà!” esclamò la piccola coniglietta. “C’è un signor volpe!”. La vocetta era acuta e divertita, mentre i suoi grandi occhi marroncini erano ipnotizzati dalla folta coda di Nick. Lui la notò e la fissò per qualche istante prima di accorgersi dell’oggetto del suo interesse. Cominciò a sventolare la coda esibendo un sorrisetto divertito nel vedere l’espressione incantata della cucciola che seguiva ogni movimento.

“Ginny, torna dai tuoi fratelli” intimò Stu. “Potrebbe essere pericolosa”. L’espressione divertita della volpe si tramutò in un’occhiata stupita per poi essere invasa dallo sconforto. La coda si afflosciò nuovamente al suolo e si sollevò sulla quattro zampe, avviandosi verso le bancarelle con passo lento e ventre basso.

Cercare di articolare parole era una cosa che stranamente non riusciva a fare: era come se la sua lingua fosse paralizzata, certi movimenti gli erano interdetti, persino le sue zampe non lo reggevano e quel gesso che imperterrito gli imprigionava quella che fino al giorno prima aveva chiamato gamba non contribuiva a facilitargli la postura eretta.

Ma capiva. Capiva molto più di quello che diceva Stu Hopps: capiva quello che diceva e quello che intendeva, quello che non voleva e quello che si aspettava. Da Judy e da lui. E lui sapeva che doveva fare quello che aveva sempre fatto con chiunque avesse avuto l’ardire di volere a tutti i costi aver a che fare con lui per un tempo superiore all’acquisto di un ghiacciolo trafficato o ad una divisione dell’incasso quotidiano.

Doveva cambiare le carte in tavola ma a differenza del normale, avrebbe dovuto scegliere di far vincere qualcuno che non era lui. Si fermò davanti ad una bancarella ed allungò il collo sulla merce esposta: roba usata, da cinque dollari a voler fare i ladri, ma ciò che gli serviva era proprio lì a guardarlo con un luccichio che lo costrinse a prendersi qualche secondo per scacciare ricordi non solo dolorosi ma anche fuori luogo.

Ignorando completamente la palla di pelo tremante che con un po’ di fantasia era uno scoiattolo, si allungò sul tavolaccio e prese delicatamente la museruola tra i denti per poi voltarsi verso Stu ed avvicinarsi con movimenti lenti e orecchie basse.
Il coniglio lo scrutava come se non potesse credere ai suoi occhi, Bonnie si aggrappò ad una manica della sua camicia, mentre la piccola Ginny guardava Nick con occhi perplessi, senza capire appieno quello che stava succedendo. Preferì evitare di guardare l’espressione di Judy e si concentrò su Stu, che prese la museruola dalla sua come se fosse dentro un forno.

Il coniglio strinse nelle zampe la museruola: normalmente non ci avrebbe pensato due volte a schiacciarla contro il suo muso e salvare così tutta la sua famiglia, ma con quella volpe era diverso. Sapeva che per un predatore la museruola era tra le poche cose veramente umilianti della vita, ma quell’umiliazione gliel’aveva proposta lui.

In tal caso, quella sensazione che sentiva era giusta? Era giusto che fosse lui a sentirsi umiliato?

“Papà…” mormorò Judy accanto a lui, la voce pregna di una rabbia che nessuno dei presenti aveva mai sentito. “Non oserai mettergliela spero…”.

“Judy…” cominciò Bonnie, ma la coniglietta la interruppe con un’occhiataccia.

“Garantisco io per lui” disse. “Non voglio vederlo con quella cosa sul muso nemmeno…”. Nick guaì e lei si zittì immediatamente. Negli occhi della volpe lesse tutto: lesse che non gli piaceva, che sarebbe stato umiliante,che sarebbe tornato ad avere nove anni con una lampada puntata in faccia ed una divisa da Giovane Scout Ranger addosso, ma che andava bene così, che era la cosa giusta da fare, che lui si stava dimostrando forte perché voleva stare lì. Sapeva che lì sarebbe stato al sicuro. E sarebbe stato bene.

Non mostrare mai il tuo lato debole.

Si volse nuovamente verso Stu e premette delicatamente con il muso il ferro gelido della museruola. Sentendo un sordo dolore al petto, il coniglio gli passò i lacci di cuoio dietro la nuca.

“Fatto” disse, fissando la cinghia. Passò accanto all’orecchio di Nick e si fermò per qualche secondo di più. “Dammi un motivo per togliertela e ti giuro che la distruggerò con le mie stesse mani”.
 


 
Bogo rientrò nel suo ufficio e chiuse la porta, lasciando cadere sulla suo scrivania un plico di fogli, che andò a fare compagnia agli altri sette già presenti. Si sedette pesantemente e ne pescò uno, studiandolo con occhi annoiati.
 
PER UNA CITTA’ PIÙ’ SICURA VOTA BOGO.

Non era ancora arrivato in alto, ma aveva cominciato la scalata e l’aveva fatto esattamente come il suo vecchio avrebbe fatto. Sotto il manifesto una sua foto con indosso la divisa da poliziotto sobria, seria, quasi scocciata ma che dava sicurezza e fiducia; le stesse cose che lui avrebbe preventivamente dato all’animale che in meno di dieci secondi avrebbe bussato alla sua porta.

Scaduti i dieci secondi, l’ultimo pensiero che si concesse fu il ritornello di una canzone che aveva sentito per radio, nella macchina di suo padre.

Freddie Merfury cantava che lo spettacolo doveva continuare: il suo spettacolo sarebbe continuato in quel modo e a lui poteva anche andar bene. Sarebbe arrivato in alto.

Al suo invito ad entrare fece la sua comparsa un grosso lupo dall’aspetto minaccioso con un orecchio mezzo mangiato ed un grosso tatuaggio sull’avambraccio scoperto. Scoprì i denti in un sorriso che sembrò un ringhio.

“Buongiorno futuro sindaco Bogo” disse con voce bassa e rauca. “Voleva vedermi?”.

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Capitolo 3
*** Nick Hopps ***


3. Nick Hopps



Affidarsi ai lupi non era stato un caso né una necessità e tantomeno l’aveva fatto per assicurarsi il loro voto: non aveva bisogno del voto di animali come i lupi quando avrebbe avuto dalla sua il voto di tutte le prede altrimenti dette il novanta percento della città. Con quelle cifre, era quasi ironico parlare di probabilità di vittoria alle elezioni.

Senza contare che i lupi erano predatori e quindi rientravano nella specie di mammiferi che avrebbe voluto opporsi ma sarebbe rimasta una voce inascoltata davanti a tutta quella massa che lo voleva al posto di un leone.

Affidarsi ai lupi era stato il primo dei pochi passi che l’avrebbero portato ad essere il numero uno, ad arrivare in alto la dove il suo vecchio non era mai arrivato facendo del suo meglio. No, quello era ciò che era in grado di fare lui, quella era farina del suo sacco e suo padre non c’entrava assolutamente nulla con quello che sarebbe successo.

Un bufalo predatore

Ma accattivarsi dei predatori in una campagna elettorale contro i predatori richiedeva sacrifici, rivisitazioni, cambi di programma. E nel cambio di programma che in quel momento era in suo potere fare l’unico ad uscirne illeso fu Wolfhart, che anzi ricevette la promozione a capitano.

“Agente Grisoli…McHorn…Snarlow…Delgado…” borbottava, snocciolando le lettere di licenziamento sulla sua scrivania. C’erano tutti, nessuno escluso ed infondo alla pila di buste trovò il profilo di Judy Hopps, il primo coniglio poliziotto. Gli scappò un sorriso: era stata una soddisfazione buttare nel tritacarte il profilo di Nicolas Wilde, prima volpe poliziotto, ma proprio non capiva il motivo per cui l’agente Hopps non gli fosse passato per la testa.

Beh, poco male: una lettera di licenziamento in meno.

Prese il foglio e lo accompagnò dolcemente al tritacarte mentre l’occhio gli cadde distrattamente su un appunto scarabocchiato a zampa al lato del foglio: Quattro Cavalli.

Cavalli: altre prede, altri mammiferi che avrebbero votato per lui. Eccetto per quei quattro cavalli: per un breve periodo, loro erano stati dei bufali predatori che avrebbero potuto dargli parecchio filo da torcere. E se le cose fossero state diverse, non avrebbe permesso a quella piccola scintilla di orgoglio di spegnersi solitaria nella gelida logica del suo piano.

Sbuffò fuori la sua segreta soddisfazione mentre guardava l’attrezzo mangiare la foto della coniglietta sorridente; quattro cavalli di cui uno morto, uno disperso, uno ricercato e poi lei, che era stata così gentile da tagliarsi le zampe da sola.
Povera Hopps: se fosse rimasta nella polizia probabilmente sarebbe stata una discreta spina nel fianco con il suo buonismo, l’intangibile senso del dovere e quello stupida determinazione a rendere migliore una città che sotto sotto era sempre stata

in fiamme

marcia come solo lui era in grado di vedere. Si volse verso la finestra, lasciando che la sua mente da poliziotto facesse un ultimo timido capolino a vedere la luce per l’ultima volta. Zootropolis era marcia fino al midollo ed il caso Tujunga aveva il solo scopo di dimostrarlo; un’intera specie volatilizzata dalla città sotto lo sguardo indifferente di tutti i mammiferi.

Un attimo, indifferente? Ma non prendiamoci in giro: erano stati tutti felici della scomparsa delle volpi quasi portassero un virus letale ed estremamente contagioso con loro. Perché poi le volpi? Erano intelligenti, abili oratori, mammiferi dall’attenzione e dall’acume invidiabile: una volpe avvocato non avrebbe avuto alcun avversario degno anche solo di aprir loro la porta eppure erano stati classificati come intrusi, invasori, cancro della città. Perché? Beh, la risposta era semplice.

Perché sono volpi prede figliolo. Ed i predatori che scelgono di essere prede fanno questa fine.

Bogo scoprì i denti in un ghigno soddisfatto. La sua visione sarebbe stata realtà e la polizia non avrebbe potuto fare nulla per impedirglielo; una città, due rioni e l’unico predatore accettato ed amato dalle prede avrebbe seduto dietro la scrivania del sindaco, dove solo un bufalo predatore come lui meritava di stare.

Più in su, ragazzo: ancora più in su…
 

 
Da brava coniglietta ottusa, Judy non capiva il jazz: per lei era una musica senza continuità, priva di una lineare ripetitività melodica o ritmica a cui aggrapparsi ed attorno a cui far ruotare tutta la melodia. E naturalmente Nick ne andava matto: quando gli aveva detto che per lei erano nulla più che suoni a caso ci aveva messo quasi dieci orridi minuti per accorgersi che il suo broncio era finto e che la sua minaccia di non rivolgerle più la parola era completamente infondata.

La camera era invasa da una Whiplash rielaborata da Bunny Rich*: la melodia riempiva la camera con il suono squillante degli ottoni e contrariamente a quello che suggeriva il titolo era una sensazione di quiete quella che leggeva sul muso di Nick, intrappolato in quella orrida museruola. La volpe tuttavia, rapita com’era dalla melodia, sembrava non farci particolarmente caso: fissava un punto indefinito nell’aria, un particolare inesistente sul muro della sua camera e fu con una strana sensazione di invadenza che Judy gli parlò.

“Il vaccino” mormorò. Nick sussultò impercettibilmente e volse verso di lei un’occhiata smarrita. “Bellwether ha modificato il vaccino…e adesso tu…e tutti gli altri predatori siete in questo stato”. Alzò gli occhi verso di lui mentre l’intro della canzona si ripeteva. “…Nick, è colpa mia”.

Davvero? Per cosa?

“Avrei dovuto ascoltarti…” mormorò ancora. “Stavi lavorando come infiltrato e…se non avessi liberato Bellwether non sarebbe successo nulla…”.

Non sai perdere...

Judy si passò una zampa sul muso e fece comparire un sorriso tirato e terribilmente finto; scese dal letto e prese delicatamente il muso di Nick.

“Rimedierò, te lo prometto: ti farò tornare come prima” disse. “Anche perché mi devi ancora far vedere dove hai preso quelle ciambelle: non credere che me ne sia dimenticata”. La volpe roteò gli occhi, sorridendo divertito attraverso la rete della museruola.
Il suo sorrisetto attraverso l’attrezzo la fece rinsavire: prese la cravatta di Nick e la avvolse delicatamente attorno al suo collo. Negli occhi comparve quella stessa espressione risoluta che la volpe aveva visto tante volte e davanti alla quale sapeva che una parte di lui doveva vivere preoccupata.

“Nick Wilde, tu adesso fai parte della famiglia Hopps” disse risoluta. “E adesso andrò a dire ai miei questa novità: andiamo”. Le orecchie di Nick si abbassarono e si volse verso la porta.

Dopo di te: sei tu lo sbirro...

Fuori dalla porta era radunata la parte della famiglia che poteva sostare nel corridoio ed essere vista. Davanti a quel plotone di orecchie dritte ed occhi nervosi che si volsero immediatamente verso di lui, Nick si sentì in dovere di abbassare leggermente in ventre verso terra, mentre Judy avanzò di un passo mantenendo l’espressione.

“Papà, Nick resterà qui con noi” disse. “Senza museruola”.

“Judy, non è sicuro” obiettò Stu. “Potrà stare qui, ma dovrà indossare la museruola: su questo non transigo!”. A giudicare dagli occhi che aveva, Nick constatò che se avesse ancora avuto dalla sua la parlantina che l’aveva reso celebre alla stazione di polizia avrebbe portato quel coniglio a considerarlo il suo capostipite. La coniglietta tamburellò nervosamente contro il pavimento, coprendo l’assalto di tre cuccioli che saltarono addosso alla volpe.

Nick si ritrovò a pancia all’aria, sovrastato da conigli non più alti della sua zampa che lo guardavano incuriositi ed eccitati.

“Sei una volpe vera?” chiese uno, con voce squillante. “E sei selvaggia? Che forza! Guarda papà: ho domato una volpe selvaggia!”.

“Bill, scendi immediatamente da lui!” esclamò Stu allarmato. “Può farti del male!”.

“E con cosa?” obiettò un secondo, tutto intento a tirargli le orecchie. Judy ridacchiò.

“Nick, ti presento i Trerribili Hopps” disse. “Bill, Ted e Mira: sono cuccioli molto vivaci”. Vivaci era un eufemismo e lui moriva dalla voglia di dirglielo, ma tutto quello che uscì dalla sua bocca intrappolata fu un guaito di dolore quando la piccola Mira si aggrappò ai lacci della sua museruola.

“Corri signor volpe, corri!” esclamò, fingendo di cavalcare verso l’orizzonte. Stu e Bonnie videro distintamente il sorrisetto divertito e l’occhiata risoluta che comparvero sul muso di Nick, ma prima che potessero nuovamente rimproverare i figli lui si mise a trottare per il corridoio facendo sobbalzare delicatamente lo scatenato trio. I tre coniglietti, dopo un attimo di smarrimento, esplosero in tante risate divertite e si accomodarono sulla sua schiena, mentre Mira si aggrappava ad una ciocca di pelo. Percorse tutto il corridoio con le risate dei Trerribili nelle orecchie finché non sentì il peso di uno venir meno; si volse in tempo per vederlo scivolare dalla sua schiena e, istintivamente, parò la sua caduta con la coda.

Ehrm, mi stai pestando la coda…

Il piccolo Ted si ritrovò a terra, circondato da un letto di soffice pelo rossiccio. Rimase paralizzato dalla tiepida sensazione di sicurezza in cui la coda lo stava avvolgendo e si aggrappò alla pelliccia di Nick, sorridendo.

“Che forte!” esclamò. “Ha anche l’airbag!”. Mira giocherellò con il cinturino della museruola e, dopo qualche secondo, lo strumento scivolò via dal muso della volpe. L’aria parve gelarsi, mentre lui prendeva coscienza di non avere più la bocca bloccata; la prima cosa che vide furono gli occhi terrorizzati di Stu, poi una nervosa Bonnie cercare la mano di lui. In ultimo l’espressione tranquilla di Judy mentre annuiva una volta sola, incoraggiandolo.

Si buttò a terra e rotolò, agitando le zampe contro i tre piccoli terremoti, che lo assalirono nuovamente con risate assordanti. Dal gruppo di conigli nel corridoio ne accorsero altri che si unirono al divertimento e presero d’assedio Nick: chi gli tastò il gesso sulla zampa, chi gli tastò le orecchie ed una cucciola particolarmente affettuosa gli abbracciò la coda. Bonnie raccolse la museruola dimenticata da terra e la porse al marito.

“Buttala” disse. Stu la guardò come se fosse matta.

“Ma Bonnie cara…!” protestò, ma lei gli indicò la scena nel corridoio.

“È stato assalito da venti conigli, Stu” osservò. “Se fosse veramente selvaggio, li avrebbe già uccisi: sta giocando con loro e senza museruola”. Si volse a guardare la scena: Nick si era rialzato, ma questa volta aveva sedici coniglietti sulla groppa, uno in testa e tre avvinghiati alle zampe sane, mentre la coda era sempre presa in ostaggio dall’abbraccio della cucciola. “I piccoli si divertono e non si sentono in pericolo: a me basta e avanza per non volerlo mai più vedere con questo aggeggio infernale sul muso”.

Alle orecchie giunsero improvvisamente versi di protesta: Nick si era fermato e guardava in direzione della finestra, ignorando i richiami, le lamentele ed i piccoli colpetti senza energia che Bill gli dava sulla testa. Judy aggrottò le sopracciglia: lo sguardo della volpe era serio, attento mentre le orecchie erano dritte e rivolte verso il vetro.

“Nick?” chiamò. “Qualcosa non va? Che succede?”. La volpe tardò a darle la sua attenzione, rapito com’era dal nulla su cui aveva puntato gli occhi; si volse lentamente verso di lei e la guardo con occhi seri, pensierosi. L’aggettivo perfetto era indeciso, ma in quel corridoio nessuno lo pensò.

Tu hai paura di me?

 

*Conosciuto fuori da Zootropolis come Buddy Rich, famoso batterista jazz (NDA: ebbene si: ascolto anche il jazz)

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Capitolo 4
*** Alla fine del mese ***


4. Alla fine del mese



Un mese. Cosa può succedere in un mese di vita di qualunque mammifero? La risposta giusta era ‘un sacco di cose’, ma la mente di Judy Hopps era focalizzata su poche cose che lei giudicava fondamentali.

In un mese era riuscita a trovare un’intesa con il bruciante senso di colpa che le donava così generosamente incubi atroci su volpi che venivano uccise da conigli e pecore sullo sfondo che ridevano. Si svegliava tutte le notti scattando quasi sull’attenti, facendo saettare lo sguardo terrorizzato in giro per la sua camera e ascoltando il suo cuore battere più velocemente del solito pregando che non si fermasse. Era talmente poco abituata al silenzio della sua casa che i suoi respiri veloci ed irregolari sembravano sbuffi di un gigantesco animale a pochi centimetri dal suo muso. Ed aveva paura, una paura folle di quello che avrebbe visto dietro le palpebre se solo avesse avuto la folle idea di richiuderle. Allora arrivava Nick: entrava nella sua stanza come un fantasma, uggiolando piano la sua presenza, e saltava delicatamente ai piedi del suo letto. I movimenti erano sempre insicuri, sempre timidi e così lontani dalla sagace volpe che aveva conosciuto tempo prima. Lei lo chiamava per nome e lui, quasi come se gli avesse fatto esplicita richiesta, si acciambellava accanto a lei e la avvolgeva con la sua grande e soffice coda facendola sprofondare in una tiepida stasi in cui si convinceva rapidamente che se non si fosse addormentata non se la sarebbe goduta appieno.

In un mese, Nick era stato accolto nella famiglia come uno di loro: i piccoli giocavano con lui e si divertivano da matti, Bonnie gli affidava i figli più vivaci per farli stancare mentre metteva a dormire i più piccoli, persino i Trerribili avevano costruito una specie di “codice d’onore” che prevedeva un limite alla loro vivacità a tratti estenuante.

In un mese, una buona parte della famiglia aveva imparato il linguaggio dei segni, l’unico modo che aveva Nick di comunicare con loro. Si metteva seduto e con le zampe anteriori gesticolava contro il muso, il petto, zampa contro zampa ed accanto a lui puntualmente compariva un coniglio che traduceva con precisione quello che voleva dire.

In un mese la zampa di Nick era perfettamente guarita ed aveva festeggiato la rimozione del gesso con una scrollata della pelliccia ed una corsa verso la collina: Judy l’aveva seguito con lo sguardo e si era chiesta  se fosse sempre stato così veloce. Prendeva velocità abbassando il ventre contro l’erba, le orecchie dietro la nuca e quasi volava su quelle zampe finalmente sane come se non ci fosse mai stato un tempo in cui camminava con disinvoltura per le strade di una grande metropoli come Zootropolis su due zampe.

In un mese, Bogo era diventato sindaco. In una frazione di campagna provinciale come la Tana dei Conigli le notizie arrivavano sporadicamente, ma mai con giorni di ritardo: Judy, appoggiata alla bancarella di ortaggi sfogliava svogliatamente il quotidiano di due giorni prima. Alla notizia era stata genuinamente felice per il suo vecchio capitano e si era augurata che eccellesse anche in quel campo, che rimediasse al disastro che lei e gli altri Cavalli avevano combinato ed allo stesso tempo che non gli venisse in mente di cercare Nick a casa sua: a pensarci bene sarebbe stata il primo posto che avrebbe controllato se lei fosse stata alla scrivania di Bogo e avesse dovuto catturare qualunque animale sulla faccia della terra che escludesse Nick.

Con il passare dei giorni, la parte della sua mente ancora convinta di avere un distintivo da appuntarsi addosso ogni mattina fece notare che c’era qualcosa di strano. Perché avevano diviso la città in due grandi rioni? Perché nelle foto degli agenti di polizia l’unico lupo che riconosceva tra tutti era Wolfhart? E perché proteggevano solo le prede?

Quel giorno il corriere con il giornale non era ancora passato e in fin dei conti andava bene così: Nick correva per i prati, circondato da una trentina di piccoli conigli che zampettavano e saltavano e correvano e sparivano nell’erba alta e tra le piante di sedano e zucchine. Nick era il baby-sitter perfetto a detta di sua madre: aveva sempre il sorriso più grande di tutti gli altri alla prospettiva di correre per la campagna circondato da una scatenata valanga di orecchie dritte e code a batuffolo, sapeva come far divertire i cuccioli senza esporli a pericoli che non fossero perfettamente controllati e, a differenza di Stu, non sentiva più il cuore perdere un battito quando Nick usava i denti per sollevare da terra un piccolo particolarmente disobbediente o che, al contrario, piangeva disperato per una brutta caduta.

Lei sapeva che poteva dormire tra i cuscini di tutti i letti presenti in casa ad affidare la vita dei suoi fratelli a lui e sopprimeva a priori sensazioni, pensieri e nomi a dir poco bizzarri che certe volte comparivano nella sua testa. L’unico pensiero che fino a quel momento era riuscita a far tacere definitivamente, ed in un mese era riuscita a fare anche questo, era stato quello che probabilmente non era molto conveniente che una coniglietta in età da nidiata dormisse avvolta nella coda di una volpe maschio con il primo calore passato da un pezzo.

Il silenzio forzato della sua testa sotto questo punto si era rivelato un’arma a doppio taglio, dato che aveva dato il via ad una serie di equivoci e sparate imbarazzanti nella migliore delle ipotesi: la più celebre e ripetitiva era lasciarsi sfuggire il pensiero che Nick Wilde, ormai da un mese Nick Hopps, era un ottimo padre e se pensava che certe volte doveva ricorrere all’errata corrige in compagnia di genitori e fratelli le veniva una sorda voglia di incollarsi le orecchie al muso per l’imbarazzo.

Eppure lo sentiva lì, da qualche parte dentro di lei: qualunque cosa fosse, qualunque nome portasse, era quell’impulso che la faceva arrossire e balbettare nel correggersi, che la faceva morire di imbarazzo davanti al muso di Nick che ironizzava subito dopo, strusciandosi contro di lei tra le risate di tutti. Ma era anche quello che la obbligava a cercarlo con gli occhi, nonché il principale responsabile del suo sorrisetto inconsapevole che puntualmente nasceva sul suo muso quando lo vedeva ridere come mai aveva fatto da quando lo conosceva.

Nonché quello che la costringeva ad arrovellarsi il cervello sul motivo per cui Nick versava in quella condizione e Gideon Gray era rimasto bipede e logorroico esattamente come prima.

“Ehi batuffoletta” chiamò una voce. Judy si volse e si trovò muso a muso con un lupo: era uno di quelli che aveva visto sul giornale, immortalato nel suo compito di sorvegliare l’ingresso ad uno dei rioni. Ricordava di aver alzato un sopracciglio nel vedere con quanto orgoglio mostrasse i denti all’obiettivo della telecamera ed in quel momento si chiese se l’espressione con cui la guardava in quel momento, saccente ed orgogliosa, fosse la stessa con cui si rivolgesse al suo capo, chiunque esso fosse. “Controllo licenza prego”.

“Ah…ma certo” annuì lei, facendo fremere il naso per ribadire il suo nervosismo. Estrasse dal portafoglio il permesso e l’animale la esaminò a lungo prima di renderglielo con l’espressione fattasi annoiata.

“Tutto in regola, grazie” borbottò per nulla contento di quel verdetto. “Voi vendete solo verdura qui?”.

“Si: produzione propria” annuì lei, cercando di dare al suo sorriso una nota meno nervosa e più cordiale. “Ma non credo che sia di suo gusto, signore”.

“Effettivamente no” replicò lui, guardandosi intorno. “Nulla di personale coniglietta, solo che…”. S’interruppe e drizzò le orecchie. Temendo di sapere cosa avesse visto, Judy seguì il suo sguardo e si ritrovò a fissare un lontano Nick: si era immobilizzato e con lui tutti i suoi fratelli. Il gioco, qualunque fosse stato fino a qualche minuto prima, era precipitato nell’insignificanza e stagliati sulla cima della collina vi erano una miriade di profili assolutamente immobili voltati nella loro direzione.

“Ah…sono i miei fratelli” mormorò lei, ma il lupo si allontanò dalla bancarella con movimenti lenti.

“Quella è una volpe” osservò fremente. “A quattro zampe…che indossa una camicia?”.

“Ehm…beh…”.

“Un attimo, ma quello non è Nick Wilde?”. Era una domanda retorica e Judy lo sapeva: l’unica cosa che riuscì a pensare fu un sommesso e definitivo ‘Game Over’ prima di venir assalita dall’irrefrenabile voglia che quel lupo se ne andasse.

“Non è pericoloso” mormorò lei con l’urgenza negli occhi. “Sta occupandosi di…”.

“Una volpe selvaggia nella Tana del Conigli non è pericolosa?” osservò lui. “E poi, se quello è veramente Nick Wilde, lei sta dando rifugio ad un ricercato: va contro la legge”. Quell’ultima frase vibrò di quella vittoria che aveva dovuto reprimere durante l’analisi della licenza e fu talmente evidente che Judy si chiese come avesse fatto a contenere la sua stizza nel soffocarla.

“Io non…” mormorò. Il lupo infine sorrise; mise in mostra una fila di denti appuntiti e bianchi che brillarono sinistri incorniciando uno sguardo che esprimeva tutta la soddisfazione che provava nel pensare quello che avrebbe fatto di lì a qualche momento.

“Sai, batuffolo? In centrale sei famosa” disse. “Ma certo, il primo coniglio poliziotto: Judy Hopps, no?”. La coniglietta deglutì nervosamente. “Il tuo senso della giustizia era qualcosa di invidiabile: hai risolto il caso degli Ululatori Notturni nel giro di cinque giorni complessivi quando la polizia dopo due settimane brancolava ancora nel buio. Hai scagionato tutti i predatori e di questo ti siamo tutti grati…poi ti sei innamorata di quella volpe, quel…Nick Wilde”.

“Innamorata?!” commentò lei, drizzando le orecchie. “No, io…voglio dire…”.

“Ah, lascia perdere” interruppe lui scuotendo una zampa. “La tua storia con lui è dominio pubblico in città, sai? Almeno tra quelli che ancora parlano, ovviamente. E in effetti avremmo dovuto pensarci che avresti nascosto il tuo amore rossastro a casa tua. Peccato che adesso l’ho scovato e quindi…”. Si volse verso Nick, che non si era mosso di un muscolo. “Nicolas Wilde, in nome della legge ti dichiaro in…”.

Non finì la frase che Judy gli saltò al collo. Non aveva un vero e proprio piano in realtà e sicuramente non aveva pensato che un coniglio non assale un lupo: non lo fa e basta, senza nemmeno stare a chiedersi il perché. Semplicemente si era sentita terrorizzata dalla fine di quella frase, che lei stessa aveva usato così tante volte nella sua carriera ed ogni volta si era sentita il coniglio più grande e forte del mondo.

Ma verso Nick no: una frase del genere rivolta al suo Nick semplicemente aveva meno possibilità di esistere di un coniglio che assale un lupo. L’animale la scrollò da sé con imbarazzante semplicità e si volse verso di lei, mostrando i denti.

“Intralcio alla legge e resistenza a pubblico ufficiale” ringhiò. “E adesso credo proprio che giocherò a giuria, giudice e boia con te”. Fissò inebetita la zampa artigliata alzarsi oltre le orecchie del lupo e si sentì la mente vuota: i riflessi, l’agilità la forza presa dal centro addestramento della polizia di cui era andata tanto orgogliosa per quasi un anno erano misteriosamente svanite dalla sua mente e per quella manciata di istanti si ritrovò ad essere una comune, paurosa, indifesa coniglietta ottusa davanti ad un predatore. Vide la zampa calare, un lampo rosso e poi chiuse gli occhi, attendendo il dolore.
 


Le orecchie erano ovattate, fischiavano leggermente ed erano piene di urla e richiami: chi la chiamava Judy, chi sorellina. E poi i rumori che la circondavano: scalpiccii discontinui, voci minute e profonde, adulte e puerili, che chiamavano con il suono della preoccupazione più pura. Si convinse per un attimo di essere gravemente ferita ma di non sentire alcun dolore, nessun caldo pulsare di sangue, addirittura nessun pelo arruffato.

Poi sentì una voce chiamare “Zio Nick!” ed in quel momento comparve un altro suono che le fece spalancare gli occhi: un suono continuo, fluente e liscio, ma basso e profondo che sapeva di paura, di rabbia e di pericolo. Il lupo aveva perso ogni attrattiva che aveva nei suoi confronti e nei suoi occhi c’era un spaesamento quasi comico, con sottili sfumature di irrequietezza.

A pochi passi da lei, curvo sulle quattro zampe, Nick Wilde faceva da ostacolo al poliziotto: il ventre basso, il pelo sulla schiena dritto, le orecchie piatte e gli artigli che graffiavano il terreno e smuovevano i fili d’erba. Nell’aria, quel suono non cessava né cambiava e sembrava provenire dal muso della volpe.

“Nicolas Wilde…” bofonchiò il lupo. “Ti dichiaro in arresto per l’omicidio di Benjamin Clawhauser e Dawn Bellwether…”. Con uno sprazzo di coraggio vibrò una zampata in direzione di Nick, ma lui saltò all’indietro schivando gli artigli.

Judy ebbe appena il tempo di ammirare l’agilità delle volpi, poi ebbe davanti agli occhi il suo muso e non fu in grado di pensare più a nulla: gli occhi di Nick erano sbarrati e fissi sul lupo, le labbra completamente tirate all’indietro e la bocca semiaperta. Il ringhio investì le sue orecchie con la potenza di un treno in corsa e la paralizzò sul posto, mentre lui si spostava sopra di lei e la circondava con la coda.

Stai indietro!

Poco lontano da lei, i suoi fratelli ed i suoi genitori erano paralizzati ad osservare la scena, senza trovare la forza ed il coraggio di muovere anche solo una zampa. Una miriade di nasi fremevano in preda all’agitazione ed alla paura di come sarebbe potuta finire quella situazione.

Il lupo digrignò i denti e mosse lentamente la zampa verso la fondina. Nick scattò e morse la pistola, strappandogliela dalla cintura; atterrò agilmente dietro il lupo, ma lui fece appena in tempo a voltarsi che fu nuovamente accanto a Judy, facendole da scudo con il suo corpo.

“Aggressione a pubblico ufficiale” mormorò il lupo. “Andrà ad aggiungersi alle tue condanne”. Era evidente che a Nick non poteva importarne di meno: condì il suo ringhio con due latrati che fecero sussultare il lupo e Judy, che afferrò istintivamente la coda della volpe.

“Nick…” mormorò, con voce tremante di paura.

Ogni cellula del suo corpo le urlava di scappare, chiudersi in camera e cacciarsi per buona misura sotto il suo letto, ma con il ciuffo di peli rossi stretto nella sua zampa si sentì di colpo invincibile. Fece per alzarsi ed intimare al predatore di andarsene, ma lui cominciò ad arretrare lentamente verso la macchina.

“Fidati di me, Wilde…” ringhiò, una volta a distanza di sicurezza. “Non finisce qui…per nessuno dei presenti”.

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Capitolo 5
*** Vorrei... ***


5. Vorrei…



Bonnie era accanto a lei, con una zampa sulla sua spalla che le sussurrava parole che avrebbero dovuto tranquillizzarla, assicurarla che non sarebbe successo nulla e che nessuno avrebbe più tentato di farle del male. Erano delle belle parole, ma solo parole: sapevano entrambe che quel lupo sarebbe tornato con il suo branco, contro cui Nick non avrebbe potuto far nulla se non soccombere.

Quel pomeriggio non aveva smesso di ringhiare finché quel tipo non era scomparso all’interno della gazzella della polizia. Allora si era zittito, ma non si era mosso da lei finché non aveva visto l’auto scomparire oltre la collina. Il suo muovere la coda, liberandola dalla presa di Judy, aveva sancito lo scampato pericolo ed era stato investito dalla gioia e dalla gratitudine dei suoi fratelli che ancora in quel momento non era cessata.

Nick era al centro dell’attenzione, con una miriade di coniglietti che lo acclamavano come un supereroe e che raccontavano la scena ai testimoni mancati, arricchendola ovviamente con particolari inutili ed ingigantendola come solo gli occhi di un cucciolo potevano fare: Nick che saltava addosso al lupo e che lo atterrava, Nick che nella colluttazione perdeva una zampa ma che gli ricresceva in tempo per fermare il colpo del suo avversario con una parata da maestro karateka, Nick che guardava fisso il lupo, si frapponeva tra lui e Judy togliendosi degli occhiali da sole e chiedendo con voce fredda e figa se quell’animale sapesse chi avesse davanti perché si, lo shock di vedere la loro sorellina attaccata da un grosso lupo grigio gli aveva fatto momentaneamente tornare la parola.

Nick roteava gli occhi divertito nell’ascoltare i racconti dei piccoli e nell’osservare lo sguardo rapito degli ascoltatori che sembravano credere veramente ad ogni versione della scena, per quanto favolistica e fantasiosa fosse.

Stu Hopps era accanto alla volpe: anche lui guardava la scena con occhi divertiti, ma lo sguardo che ogni tanto riservava a Nick fu la prima cosa che strappò un sorriso a Judy. Sembrava quasi che fosse tornato anche lui cucciolo e che in quel momento avesse il privilegio di accompagnare il suo eroe. E probabilmente lo era per davvero: Nick era l’eroe della famiglia, che aveva messo a repentaglio la sua vita per proteggere lei. Insomma, quanto ci avrebbe messo quel lupo a metterlo fuori gioco se solo l’avesse voluto?

Lupi grigi…scemo e più scemo

Quella sera, nella sua stanza, Judy guardava la porta chiusa vedendo il muso ringhiante di Nick: ricordava l’effetto che aveva fatto sul suo corpo la paura di quel momento. La paura quella vera, impetuosa e profonda, ancestrale e primitiva. La paura di un bambino verso un mostro, di una preda verso un predatore.

Di un coniglio verso una volpe.

Deglutì, riconoscendo che se Nick avesse rivolto a lei quello sguardo non ci sarebbe stato niente, né in cielo né in terra, che avrebbe potuto darle l’impulso di fare qualunque cosa che non fosse farsi sbranare docilmente. In un certo senso capiva il timore che aveva intravisto negli occhi di quel lupo, quello stesso timore che la prendeva in quel momento davanti alla possibilità di essere lei al suo posto.

Ma lei non si era trovata al posto di quel lupo: lei si era trovata al suo posto, sotto il ventre di Nick ed aggrappata alla sua coda, e voleva dire che tra lei ed il poliziotto c’era una differenza di emozioni larga come quella che c’era tra le condizioni climatiche di Tundratown e Savana Centrale.

Per tutto il pomeriggio aveva giocato il suo ruolo di povera coniglietta aggredita ed aveva guardato con orgoglio Nick indossare le vesti dell’eroe ed aveva ridacchiato lievemente nel vedere con quanta riluttanza rimaneva lì, al centro dell’attenzione di un paio di centinaia di coniglietti.

“Nick, non ti ringrazierò mai abbastanza” aveva detto Stu, prendendo a braccetto una Bonnie lacrimante di felicità. “E scusaci se all’inizio ho dubitato di te: renderti parte della famiglia è poco, ma è tutto quello che posso offrirti quindi…benvenuto nella famiglia Hopps”.

Nella famiglia Hopps. Adesso Nick era un membro della sua famiglia. Un suo fratello? Un cugino, uno zio, un nipote, un genero, un suocero? Come doveva vederlo se non come il suo Nick? Era diventato parte della famiglia e se lui avesse voluto avrebbe vissuto per sempre con loro.

Ma allora perché si sentiva così demoralizzata? Perché quell’aggettivo le sembrava così dannatamente giusto da farle pensare che fosse l’unico che poteva accompagnare il suo nome?

La porta si aprì e Nick sgattaiolò dentro: il passo era felpato, le orecchie basse ed il profilo rasente terra. Camminava velocemente, dando quasi l’impressione di fluttuare e s’immobilizzò davanti alla coniglietta che lo guardava con occhi straniti.

“Che succede?” mormorò. “Non ti ho mai visto così agitato”.

A proposito di non vedersi, che ne dite di dimenticare…di aver visto…me?

Sostò per qualche istante davanti a lei, poi si volse di scatto verso la porta, con il terrore dipinto negli occhi. Veloce come un fulmine, si infilò sotto il suo letto pochi secondi prima che una ventina di fratelli di Judy facessero irruzione nella sua stanza.

“Sorellina, hai visto zio Nick?” chiese una piccola: un fiocchetto rosso ed altri oggetti imbarazzanti erano impugnati contro di lei. Trattenne a stento una risata e scosse la testa.

“No, non l’ho visto” mentì, senza tuttavia riuscire a reprimere un sorrisetto divertito al cospetto dell’immagine di Nick con una spada giocattolo tra le zampe, degli spallacci in plastica gialla accanto alla testa ed un fiocco rosso tra le orecchie. “Non lo state tormentando vero?”.

“Quando mai, sorellona?” replicò uno di essi, guidando poi il gruppo fuori dalla stanza, alla ricerca del loro eroe. Quando la porta tornò chiusa, Judy liberò finalmente la risata e Nick uscì cauto dal suo nascondiglio.

Carotina…mi hai salvato la vita!

“Certo che vestito da Guardiano della Galassia saresti stato fantastico” commentò, rivolgendogli un furbo sorrisetto. Lui rispose con un’occhiataccia nella sua direzione, rabbrividendo al solo pensiero e grattandosi il collo per evidenziare la sua insofferenza.

Il silenzio che seguì sarebbe valso un commento sagace da parte di quella stessa volpe che stava guardando il buio fuori dalla finestra con occhi vigili, quasi si aspettasse di trovare il lupo poliziotto guardarli con odio. Aleggiò quel silenzio fuori luogo che Judy sentì obbligata a riempire.

“Nick…grazie” mormorò. “Oggi, con quel lupo…io…”. Si abbracciò le zampe, rivedendo la scena, rivivendo la paura. “Non so cosa mi sia…insomma, non lo so ecco…”. La volpe balzò sul letto accanto a lei e le si affiancò, lanciandole uno sguardo complice.

Dai, vieni qui…

Sotto lo sguardo affranto della coniglietta, gli sembrò quasi giusto mordicchiarsi un ciuffo di peli sulla schiena con insistenza, probabilmente al solo scopo di strapparle un sorriso: fallì miseramente, ma non per questo interruppe la sua attività.

“Nick…” chiamò Judy; la voce mogia attirò l’attenzione della volpe. “Tu…sei felice qui?”.

È così, al cento per cento

“Sai…un po’ mi mancano i tempi alla ZPD” confessò lei. “Quel poliziotto mi ha fatto ricordare quanto fosse bello lavorare per far diventare il mondo un posto migliore…so che a te basta poter correre e giocare con i miei fratelli ed anche io sono felice che tu ti senta a casa qui…ma quei tempi mi mancano, sai?”. Nick scese dal letto mettendo tra loro una distanza che lei scoprì non poter tollerare, si avvicinò alla finestra e tese le orecchie, scrutando il vetro con occhi attenti.

…magari è grandine?

“Io…non so cosa dire, Nick; io vorrei che tu…non ce l’avessi con me” mormorò Judy, prossima al pianto. “Ho paura che tu possa essere arrabbiato con me…è stata colpa mia…il caos in città e tu in questo stato…e mi mancano soprattutto…le tue battute stupide ed i tuoi discorsi senza senso”. Nick volse un orecchio poi uno sguardo torvo nella sua direzione.

Madame!

La coniglietta spaziò per qualche secondo, in cui il suo corpo dichiarò autogestione: si lanciò al collo della volpe, in un abbraccio che ebbe la forza di sbilanciarlo. Inspirò a fondo il suo odore, sentendolo così familiare che ebbe per un istante il pensiero che ci si sarebbe potuta abituare, se già non era successo. Cancellò l’ultimo freno imposto alle lacrime e singhiozzò contro il suo collo, senza vedere lo sguardo confuso con cui fissava la sua testa.

“Vorrei tanto che tu…tornassi a parlarmi…” singhiozzò con voce umida di lacrime. “Ti prego, Nick…dimmi qualcosa…dimmi che sono una coniglietta ottusa, dimmi che i miei sogni si sono infranti: non mi interessa cosa dici basta che mi parli!”. Sentì la volpe sedersi ed una zampa cingerle le spalle con movimenti impacciati.

Avanti, fai un bel respiro…

Dal pelo del collo si levò un singhiozzo che somigliava ad una risatina e Judy alzò gli occhi: grondavano lacrime ed erano spalancati sui suoi. Con movimenti lenti, passò una zampa sul muso di Nick in una delicata carezza.

“Non so nemmeno io cosa mi prende…” confessò con un sorriso triste. “Non so se posso definirla amicizia questa…questa cosa che sento…”. Le orecchie di Nick scattarono sull’attenti, mentre un’espressione confusa ed sbigottita si palesò in tutta la sua incredulità. “Posso mai essere così…così presa da un mio amico? Sono un coniglio strano se ti dico che…?”.

Lasciò la frase in sospeso, ma la conclusione era nell’aria: aleggiava silenziosa ed incorporea eppure così palpabile ed enorme. Trasmetteva un senso di giustizia ed una innegabile forza che incollava gli occhi di Nick nel viola lucido che non lo lasciava nemmeno per un secondo.

Puoi essere solo ciò che sei

L’orecchio deviò verso la finestra, ma il suo sguardo non riuscì a muoversi dal suo muso. Vide il suo naso fremere ed una lacrima congiungersi con le altre nel pelo umido del muso; ubbidendo ad un richiamo che non poteva essere del tutto naturale, passò la lingua sul suo pelo. Avvertì il lieve sapore salato delle sue lacrime e scoprì l’urgenza di separarla da lui: era stato un gesto stupido, di cui sentiva che se ne sarebbe pentito o peggio ancora che non l'avrebbe fatto.

Si alzò e la depose nuovamente a terra, sospingendola poi verso il letto con occhi gentili. Judy riuscì a distogliere lo sguardo da lui e fissò la sveglia con occhi stupiti e confusi, ma vivi e che brillavano di felicità: le undici e quarantacinque.

So che da qualche parte c’è un negozio di giocattoli che aspetta che tu ritorni nella tua confezione

“Ah…” mormorò lei, subendo il richiamo alla realtà a cui le lancette dell’orologio l’avevano richiamata. “Ehm…beh…io andrei…a dormire, ecco…sì, credo proprio che andrò a dormire”.

Pochi minuti dopo, nel buio della sua camera, si chiese in quale angolo nella sua mente, ottusa a livelli mai raggiunti prima, avesse pensato di poter dormire dopo quello sfogo. Da quanto tempo era che si teneva dentro quelle parole? Quando erano nate e maturate? E perché erano diventate così insostenibili nel giro di pochi secondi? Sentiva la presenza di Nick nella stanza, che la faceva sentire…come? A disagio? Nervosa? Confusa?

Certamente, ma non era la sua presenza a farle provare tutto quello. Lo chiamò piano: non riuscì a vederlo in tutto quel buio, ma si sentiva osservata. Tanto bastava.

“Domani…” mormorò. “Domani mi sarà passata: è solo…stanchezza credo…e malinconia…”.

Ah, voi coniglietti: siete così emotivi…

“Penseremo al da farsi” continuò lei, parlando per far tacere la mente. “Troveremo una quadra e risolveremo questa cosa”. Il silenzio che seguì le fece lo stesso strano effetto che le aveva fatto per tutto il mese l’assenza della battuta pronta della volpe. Ebbe il tempo sufficiente per chiedersi dove fosse la sua coda, per pensare che avrebbe tanto voluto abbracciarla, che si sarebbe sicuramente tranquillizzata con tutto quel pelo a solleticarle il muso, poi si addormentò come se si sentisse esausta e non elettrica per l’imbarazzo delle parole dette pochi minuti prima, per l’angoscia delle parole dette il mese prima e ripetute il minuto passato a cui non aveva la più pallida idea di come tener fede.

La Tana dei Conigli piombò finalmente nel silenzio; Nick alzò nuovamente l’orecchio verso la finestra e osservò il buio oltre i vetri con occhi attenti, incuriositi. Spostò lo guardo sull’orologio, si alzò e, con un sospiro, si avvicinò alla porta. Sostò per qualche momento e si volse: guardò per pochi, interminabili secondi il piccolo rigonfiamento delle coperte che pulsava sotto il ritmo dei respiri di Judy con occhi affranti. Avrebbe preferito rimanere in quello stato per sempre piuttosto che fare quello che doveva.

Forse è un bene che tu non abbia un predatore come collega
 

 
Mira Hopps, a differenza dei due fratelli con cui aveva fondato i temuti Trerribili Hopps, era particolarmente sveglia e ancor più precoce: era stata tra i primi a muovere i primi passi per la casa, a mangiare da sola e ovviamente a sentire la vocazione per i guai, procurati attivamente o subiti passivamente che fossero, ed alimentarla fino a trasformarla in un talento.

E che risate nel vedere le orecchie della madre farsi scure quando ad un certo punto aveva fatto quella domanda, la domanda che tutti i genitori ed i fratelli maggiori temono. Non aveva mai capito se faceva paura più la domanda della risposta, ma pregustandosi il trambusto che avrebbe creato almeno la prima, l’aveva naturalmente fatta nell’unico modo che, sapeva, avrebbe scatenato il panico per i primi spassosi secondi: di getto, senza prendere fiato e con voce innocente.

In quel caso, la domanda era cambiata ma, sapeva, avrebbe avuto lo stesso medesimo effetto. L’idea che il panico conseguente sarebbe durato più di qualche secondo tuttavia non le disegnò il proverbiale ghigno da capo del gruppo sul muso, anzi: le regalò un’espressione con il potere di preannunciare una domanda a dir poco orrida, l’ultima domanda che tutti i presenti in quella casa, a cominciare dai genitori ed a finire ai fratelli più piccoli, avrebbero voluto sentire.

Scoprì a sue spese che non era stata una grande idea piombare nella camera di Judy per fare quella domanda: dal basso della sua eccezionale precocità aveva osservato e tratto le sue conclusioni in quel mese, mentre dava il tormento allo zio Nick.
La sua sorellina, quella stramba di Judy non Deludi, definiva con il termine ‘amicizia’ un rapporto molto particolare; insomma anche lei aveva amichetti, ma era sicura che non guardava nessuno di loro con quello sguardo.

Mira Hopps era straordinariamente precoce e riconosceva negli occhi della sorella l’aspettativa. E la speranza. I dettagli tuttavia non li capiva: era precoce ma non così tanto. E poi, nessuno le aveva mai risposto alla prima domanda.
Piombò nella camera come un tornato e si avventò sulle coperte rigonfie con tutto il suo esiguo peso: Judy sussultò e si mise seduta, riconoscendola e mutando la sua espressione urgente con un rimprovero negli occhi velati dal sonno.

“Mira...” borbottò. “Si può sapere che...”.

“Sorellina” esclamò, prevedendo la sua reazione a quella domanda in modo nitido e scoprendo in quel momento che, a differenza dell'altra, non si sarebbe divertita neanche un po'. “Sorellina,

come nascono i conigli?

zio Nick è sparito”. Judy la guardò per qualche secondo con la stessa espressione assonnata, probabilmente lenta ad associare a quella domanda tutto ciò che la riguardava, significato ed implicazioni incluse. Quando poi il collegamento fu fatto, gli occhi si dilatarono e le orecchie saettarono sull'attenti. Mira finì quasi a terra spinta dall'impeto con cui Judy si alzò.

“Cosa?” commentò. “Nick è...”.

Una consapevolezza sconosciuta la fece voltare verso il suo comodino. La sua abat-jour a forma di orchidea puntava la lampadina spenta sul libro che aveva cominciato a leggere: poco sotto la scritta Piccole Donnole era poggiata la sua penna a forma di carota. Ubbidendo a quella stessa consapevolezza, la afferrò e pigiò il pulsante laterale: quella penna era rimasta a Nick e se era lì un motivo sicuramente c'era.

-Wowow ow-

Niente altro: la registrazione era un semplice latrato. Judy rimase immobile a fissare la penna, il naso fremette per l'agitazione e la perplessità. Riavvolse la registrazione e la riascoltò, come per accertarsi del fatto di non capirci un tubo.

Nella sua camera piombarono i suoi genitori assieme ad una decina di fratelli, tutti con il panico negli occhi, il pelo arruffato e le zampe annerite dalla terra fresca di vanga.

“Nick non c'è” informò Bonnie. “L'abbiamo cercato dappertutto, ma non si trova”. Judy prese in mano la situazione, nonostante la forte voglia di abbandonarsi al panico e correre per la campagna urlando il nome della volpe per tutto il giorno.

“Ha lasciato un messaggio” disse, sventolando a mezz'aria la penna. “Fate venire immediatamente Gideon”.
 

 
“I latrati?” commentò un'ora dopo Gideon: la voce esprimeva il disagio di trovarsi seduto nel soggiorno della famiglia Hopps, con una tazza di the in una zampa, la penna a forma di carota nell'altra ed uno stuolo di orecchie davanti a sé che non avrebbe fatto invidia al pubblico che richiamava un concerto dei Metallicani*.

“Hai conosciuto Nick, no?” puntualizzò Bonnie. “La volpe che si era stabilita con noi”.

“Sì certo” annuì lui. “Non l'ho visto oggi: non sta bene?”. Judy gli spiegò la situazione, cercando di tenere la voce sotto controllo.

“Ha lasciato un messaggio in questa penna, ma sono solo latrati: noi non possiamo capirli e quindi ho pensato che magari tu, essendo una volpe...” disse. Gideon sorrise nervoso.

“Oh” commentò. “Beh si, certo che li capisco: i latrati sono una specie di Esperanto per noi volpi, li capiamo in maniera istintiva, è il modo in cui comunichiamo con i cuccioli quando ancora non sono in grado di parlare, figurati che mio cugino quando era cucciolo...”.

“Me lo racconterai un'altra volta, Gideon” intervenne la coniglietta, interrompendo sul nascere l'ennesimo assalto logorroico della volpe. “Cosa dice?”. La volpe fece partire la registrazione.

-Wowow ow-

il predatore aggrottò le sopracciglia poi fece ripartire la voce registrata, riascoltandola ancora e ancora. Infine scosse la testa.

“Non capisco...” disse. “Non ha senso quello che vuole dire, sembra una specie di codice...”.

“Cosa dice?” chiese Judy, tamburellando nervosamente con la zampa sul tappeto. Gideon le lanciò un'espressione confusa e disorientata, poi parlò.

“Caso Tujunga” borbottò. “Dice solo questo: caso Tujunga”.

Si dice Tujunga!



*Ovviamente esistono anche fuori da Zootropolis, ma si chiamano Metallica

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Capitolo 6
*** Sulla scacchiera ***


Sulla scacchiera



 
Dopo anni di fedele servizio, tre visite dal tecnico e mezz’ora di ricerca infruttuosa, il computer di Judy Hopps si ritrovò improvvisamente privato della tastiera. La coniglietta abbandonò la testa contro la scrivania, frustrata, mentre il pc la guardava sornione dall’alto delle sue venti pagine aperte.

Judy sospirò esasperata, prima di tirare nuovamente su la testa e tornare a leggere gli articoli sullo schermo: il caso Tujunga aveva fatto scalpore per appena cinque giorni: titoli come Volpi scomparse nel nulla, La polizia brancola nel buio e Sempre meno code rosse per le strade le riempivano gli occhi con i loro caratteri cubitali troneggianti sopra degli articoli di cronaca scritti fittamente.

Alla data riportata sull’ultimo articolo pubblicato, le volpi scomparse nel nulla erano almeno un centinaio: maschi, femmine, da operai a telecronisti, e aveva sentito una stretta al cuore quando tra le foto segnaletiche erano comparsi anche musetti di cuccioli. Tutti scomparsi dopo essere entrati nel distretto di Foresta Pluviale, le ultime tracce trovate sempre nei pressi del quartiere di Tujunga.

Poi il nulla.

Sempre, ogni volta, per ogni volpe: impronte, ciuffi di pelo e tracce di vestiti fino a quel quartiere poi più niente, come se arrivate lì le volpi svanissero nell’aria. Quella era stata una settimana frenetica e in parecchie foto aveva riconosciuto il muso perennemente concentrato di Jack Savage e l’espressione corrucciata di Alopex: apparentemente nemmeno lei era mai stata capace di cavare un ragno dal buco.

Cominciava sempre con una volpe qualsiasi, l’ultima era stata una volpacchiotta delle medie di nome Sheryl: era uscita da scuola, tornata a casa e fatto i compiti. Aveva chiacchierato con la madre, giocato alla Myu Sport con il padre e si era fatta raccontare da un amico elefante qualche suo ricordo della Seconda Guerra Mondiale.

In serata aveva cominciato a comportarsi in maniera strana: era diventata improvvisamente silenziosa e inquieta, vagava da una stanza all’altra senza un apparente motivo, controllando fuori dalla finestra come se cercasse qualcuno. Poi aveva preso la porta e nel giro di un ora aveva raggiunto il distretto di Foresta Pluviale. La pattuglia incaricata di sorvegliarla l’aveva seguita di nascosto, ma un leone e un ippopotamo non erano bastati: la piccola Sheryl aveva girato dietro un grosso e frondoso albero circondato di muschio e nei secondi che servirono ai due agenti di seguirla era svanita.

Puf, non c’è più.

Chi parlava di una cospirazione, chi di un racket clandestino, chi addirittura di una malattia: molte associazioni avevano fatto pressione ai piani alti, la polizia era stata letteralmente lapidata di aggettivi molto poco onorevoli ed il sindaco aveva garantito che i migliori agenti dei distretti, nonché la stessa Alopex la Duecento, erano al lavoro per far luce su questo mistero. Il nome della volpe delle nevi aveva avuto il potere di calmare gli animi e la caccia era cominciata a ritmo serrato.

Per una settimana.

Gli articoli successivi nominarono ancora il caso Tujunga, ma con talmente tanta superficialità da mettere quasi in dubbio che una cosa del genere fosse mai successa. Gli enti per la difesa dei diritti delle specie fecero esplodere uno scandalo che durò appena tre giorni, poi si mitigò anche quello: l’ultimo riferimento al caso Tujunga che Judy trovò fu in occasione della promozione di Jack e Alopex.

La coniglietta deglutì secco: la pagina davanti ai suoi occhi era un elenco delle foto delle volpi scomparse, con tanto di nomi ed età. Volpi anziane, cuccioli, arzilli commessi, entusiasti esploratori e caotici gruppi di giovani esemplari la fissavano con sguardi traboccanti di vita e ricordi e serenità. Poi un nome le invase lo sguardo di costernazione, mentre calde lacrime le lucidavano gli occhi minacciando di rompere gli argini.

Priscilla Wilde.

Anche lei la guardava con gli stessi occhi di Nick: brillanti e limpidi, aperti in un’espressione furbesca leggermente sbiadita dall’età. Tutti quegli occhi che la fissavano senza vederla le fecero salire il battito cardiaco a mille e si affrettò a chiudere la pagina web e respirare profondamente, facendo scemare il timore: tutti quegli occhi chiedevano chiarezza, tutti quei musi chiedevano giustizia.

Judy abbassò lo sguardo sul suo quaderno: aveva annotato i nomi di tutte le volpi, assieme ai passi salienti ed agli ultimi luoghi in cui erano state viste. Fissò l’ultima data e l’ansioso nervosismo lasciò il posto ad una furiosa stizza: non sarebbe servito a nulla dopo tutti quegli anni, ma doveva fare chiarezza. Prese la penna a forma di carota e la fissò per qualche secondo, prima di scrivere al fondo dell’elenco il nome dell’ultima vittima del caso Tujunga.

Nicolas Piberius Wilde.

Quella volpe l’avrebbe salvata, a qualsiasi costo.


 
La sua decisione, a ripensarci il giorno dopo, non era stata tra le migliori anzi: lo spettacolo che avrebbe avuto davanti agli occhi quando fosse scesa dal treno l’avrebbe convinta di questo, ma in quel momento, a venti minuti dalla stazione centrale di Zootropolis, studiava lo schermo del cellulare con occhi concentrati, cercando ancora informazioni sul caso Tujunga.

La sua partenza era stata precipitosa, senza bagagli e sorda a quello che Stu Hopps evidentemente considerava ‘il suo buonsenso’ che le diceva che una coniglietta non poteva vagare per una città com’era diventata Zootropolis per cercare una volpe, anche se si trattava di Nick. Lei si era fermata ad ascoltare le sue parole una volta soltanto ed aveva scosso la testa.

“Nick è là fuori ormai da tre giorni” aveva detto secca. “Se ha nominato il caso Tujunga vuol dire che la sua partenza riguarda quel caso: voglio vederci più chiaro”. La sua decisione era presa e non aveva più permesso al genitori di cercare di riportarla sulla retta via dei bravi conigli campagnoli: aveva salutato tutti, preso il treno e partita alla volta della città.

Nella carrozza deserta aveva avuto modo di ripensare tardivamente alla sua impetuosità e chiedersi in un angolo remoto della sua mente se fosse effettivamente stata una cosa saggia. Fissava distrattamente le sua zampe cercando di pensare a qualsiasi cosa che la convincesse che la cosa migliore da fare era scendere alla prima fermata e tornare a casa, senza tuttavia riuscirci.

Nick era da qualche parte la fuori, incapace di esprimersi e di confondersi: quanto sarebbe servito alla folla di prede di individuarlo? Ed il lupo poliziotto? Quanto tempo ci avrebbe messo a radunare un branco e tornare alla Tana dei Conigli? Fu colta dal sospetto che per Nick potesse essere già troppo tardi e che la cosa migliore da fare fosse proteggere la sua famiglia.

Scosse la testa e scese dal sedile, cominciando a misurare la carrozza deserta passeggiando nervosamente. Per Nick non era troppo tardi e la sua famiglia sicuramente si sarebbe potuta difendere da sola: queste due frasi erano degli imperativi che ululavano nella sua testa che non ammettevano obiezioni. L’unica differenza che c’era tra la sua famiglia e Nick era che i suoi potevano parlare.

Guardò la fine del suo viaggio farsi sempre più vicina: la città era ancora grande e lucente, traboccante di promesse e di speranza e, anche se lei sapeva che quella non era la stessa Zootropolis in cui una Judy Hopps era giunta con il sogno di
rendere il mondo un posto migliore

combattere per la giustizia con quel distintivo così faticosamente guadagnato, ai suoi occhi quelle promesse erano sempre lì, ad assicurarle che tutto quello che voleva era presente, da qualche parte in quei distretti, nascosta nelle strade, rinchiusa dietro i luccicanti palazzi ed i ricchi negozi.

E quello che voleva aveva la pelliccia rossa.

Quando il treno si fermò alla stazione centrale e le porte si aprirono con un sibilo, davanti agli occhi sconvolti di Judy apparve la Zootropolis che aveva difeso con tutte le sue forze per mesi. Fuori dalla stazione, i muri erano coperti di graffiti, bidoni dati alle fiamme e strade invase da fogli di giornale, lattine e vetri rotti. Poco lontano, un’enorme grata chiudeva fuori dalla piazza una strada in cui vagava una lince curva sulle quattro zampe. Il mammifero si volse verso di lei, scoccandole uno sguardo che non seppe decifrare.

In quegli occhi lesse tutto ciò che la città era diventata: caotica, fredda e frenetica, incapace di esprimersi, si parlare e di ascoltare. Rimase a guardarla per qualche secondo, poi cacciò un rauco miagolio dicendole qualcosa che lei non capì e si dileguò dietro l’angolo, svanendo per la strada. Judy la seguì con lo sguardo e poi tornò a guardarsi intorno, vedendo la città come pochi secondi prima non era riuscita a scorgere.

La poca vita che c’era per la strada era nervosa e si guardava intorno con occhi attenti, quasi si aspettassero un attacco. Una gazzella comparve dietro l’angolo, si fermò davanti ad una porta coperta di graffiti e scritte e si guardò intorno con urgenza prima di spingere all’interno dell’edificio il cucciolo che teneva per la zampa. Velocemente lo seguì e la porta si chiuse: anche a quella distanza, Judy poté distintamente sentire la chiave girare due volte nella serratura.

“Ma cosa…” mormorò a sé stessa.

“Ehi bambola” chiamò una voce dietro di lei. Un gruppo di torelli la circondò: magliette a righe, giacche nere e pantaloni strappati e sbiaditi. Uno di essi aveva un piercing a forma di anello nelle narici. “Mi sembri un po’ troppo pulita per essere di queste parti”.

“Cosa ti fa pensare che non lo sia stata?” chiese lei incrociando le braccia. Il bovino sorrise.

“Immagino che ti sia persa il meglio” disse. “Questo è il nostro quartiere: se vuoi passare devi pagare il pedaggio”. La coniglietta drizzò le orecchie mentre il branco attorno a lei muggiva piano, facendo commenti su come gliele avrebbero tirate volentieri quelle orecchie solo per vedere la sua espressione mentre riscuotevano il pagamento.

“Non oserai…!” commentò. Il sorriso del torello si trasformò in un ghigno.

“E perché no?” replicò lui. “Questo è il paese dei balocchi se ti accompagni alla banda giusta. E con una ritoccata ai vestiti il tuo branco giusto potrebbe essere il nostro, cara mia copertina di Playbun*”.

“P-Play…” balbettò Judy, afferrandosi istintivamente le braccia.

“Ho un debole per le femmine basse” continuò il mammifero sbuffando dal naso. “E sei fortunata: ho anche rubato un completo di pizzo che…EHI! PRENDETELA!”.

Judy corse via, rifiutandosi di sentire il resto. Corse per la strada senza vedere nulla, scavalcando gli ostacoli in maniera automatica senza soffermarsi su nessun particolare. Nella sua testa si chiedeva perché.

Perché era cambiata così tanto la città? Con il capitano Bogo come sindaco poi…perché per le strade giravano individui simili liberamente? Avrebbero dovuto essere in una cella per quello che avevano fatto e di cui andavano evidentemente fieri: in quei pochi secondi aveva conteggiato almeno cinque reati per cui un paio di mesi in prigione sarebbero stati ad onorem.

Perché stava scappando per una strada che ricordava pulita, luminosa e piena di vita con un branco di tori alle calcagna che vociavano, muggivano e lanciavano bottiglie e lattine nella speranza di colpirla. Svoltò l’angolo e continuò a correre, continuò a non voltarsi indietro, a guardare il degrado ed il marcio che la circondava, a chiedersi quella maledetta domanda

perché?

che imperterrita, implacabile, insofferente esigeva una risposta e la esigeva chiara e veloce. Svoltò un secondo angolo e s’infilò in un piccolo vicolo: gli occhi tornarono a funzionare e Judy poté osservare con terrificante chiarezza il muro di mattoni davanti a lei farsi sempre più vicino, mentre le voci dei bulli dietro di lei non sparivano, facendosi anzi più chiare e più vicine.

“Ah, hai gusto mio piccolo batuffolo” osservò il toro con il piercing fermandosi all’imboccatura del vicolo. “Appartato e romantico, esattamente come piace a me: andremo molto d’accordo”. Judy si volse, dando le spalle al muro: la stazza del mammifero chiudeva la strada fuori e l’ombra si stagliava verso di lei, avvicinandosi sempre di più.

Si guardò intorno, cercando una via di fuga che non c’era. Il cuore nel suo petto sembrava impazzito e l’adrenalina che sentiva scorrerle nel corpo come un fiume in piena le paralizzava i movimenti. I sensi si acuirono e si rifiutò di chiudere gli occhi, certa che dietro le palpebre avrebbe visto il suo immediato futuro: mai avrebbe pensato che il suo ritorno a Zootropolis sarebbe stato sancito con uno stupro di branco.

“Adesso fai la brava: non hai dove scappare” diceva il toro, sempre più vicino, sempre più imponente. “So essere delicato sai? E poi, hai il muso di una a cui potrebbe piacere”. Quell’ultima frase le fece salire la bile, ma prima che potesse fare qualsiasi cosa avvenne il miracolo.

Accanto a lei si aprì la finestrella di un seminterrato ed una figura ne scattò fuori. Judy si sentì prendere per la vita e sollevata da terra, si sentì nell’aria un piccolo scoppio ed il toro svanì in pochi attimi in una coltre di fumo.

“LASCIAMI!” urlò, dimenandosi e scalciando. La figura non allentò la presa e lei si sentì scattare in avanti; pochi secondi e la luce svanì, lasciando il posto ad una penombra quasi confortante. Sentì nuovamente la terra sotto le zampe e sgambettò via dal suo aggressore, prendendo possesso del primo angolino che trovò.

“Agente Hopps…” salutò una voce stanca. Davanti ai suoi occhi, comparvero gli occhi celesti e gelidi di Jack Savage: la camicia, una volta impeccabile, era stropicciata, lacera e senza una manica, i pantaloni erano sporchi di fango e grasso e la testa della lepre era fasciata da una benda con una chiazza rosso scuro sulla fronte. Lo sguardo non era cambiato: lucido, freddo e padrone della situazione.

“Bentornata a Zootropolis”.
 

 

*Sta naturalmente parlando di Playboy

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Capitolo 7
*** Nello scantinato ***


Nello scantinato



 
Il seminterrato era buio e sapeva di muffa. I muri in pietra erano coperti da scaffali pieni di bottiglie di vino e barattoli di sottaceti e cibo in scatola, in un angolo una vecchia bicicletta ingrigita dal tempo con la catena secca ed un cerchione deformato e mobili accatastati coperti da teli bianchi. Jack si sedette su una sedia, che scricchiolò sotto il suo peso, ed invitò Judy a fare altrettanto. La coniglietta si guardava attorno frenetica, il suo naso tremolava la paura che lentamente stava scivolando nello smarrimento, il suo respiro era affannato e le zampe artigliavano il corpo, come difendendolo da un pericolo invisibile e sconosciuto.

La lepre la fissò per un breve momento, poi prese il cellulare e cominciò a digitare sul touch screen rapidamente, come se fosse un messaggio urgente.

“Possiamo stare qui finché la banda non se ne sarà andata” disse. “Non passeranno mai per quella finestrella”.

“Devo aver sbagliato fermata” decise Judy con un tremito nella voce. “Questa non può essere Zootropolis”. Jack la guardò.

“Temo di doverti dare una brutta notizia, Hopps” disse calmo. “Non hai sbagliato stazione: questa è la sola ed unica Zootropolis”.

“No, impossibile” decise lei. Gli occhi che rivolse alla lepre erano dilatati, aperti in un’espressione di indicibile panico. “Io non…non era così…”.

“…marcia?” concluse lui. “Con Bogo al potere e l’effetto del vaccino in pieno effetto, non poteva essere migliore di così: solo peggiore”.

“Ma la polizia!” esclamò. “La polizia cosa…”.

“La polizia è roba di Bogo” rispose lui. “E poi, tutti gli agenti sono stanziati al cancello: devono impedire che delle prede vadano nel rione dei predatori e soprattutto viceversa”. La coniglietta decise quindi di star sognando: una città lucente, pulita e paradisiaca come Zootropolis non poteva ridursi in quello stato nel giro di un mese se non in una realtà che non esisteva, un mondo fittizio che solo nei sogni e nei film poteva esistere. Eppure…

“Il siero contro gli Ululatori…” mormorò. “Ho visto gli effetti su Nick…”.

“Wilde?” commentò lui. “L’hai visto? E come…ah, non importa”. Ritirò il telefono dalla tasca. “Anche io ho respirato quel gas, Judy: come tutte le prede della città, la mia lucidità viene meno quando sono davanti ad un predatore. L’istinto che sento è quello di scappare, di nascondermi nel primo buco che trovo e di non uscire mai più ma loro…loro sono stati colpiti molto più duramente di noi”.

“Non parlano” assentì la coniglietta, sedendosi finalmente sulla sedia accanto a Jack. “E non camminano”.

“Ma sono lucidi” continuò la lepre. “Ruggiscono, ululano, ma non attaccano: scappano anzi. Le prede non si sentivano al sicuro, così abbiamo diviso la città in due rioni: i predatori sono stati stanziati Tundratown e Savana Centrale. Noi ci siamo tenuti la città, ma è rigorosamente vietato addentrarsi nel territorio dei predatori”.

Tundratown e Savana Centrale: fantastico. La mente di Judy, in piena negazione, cercava una spiegazione per i suoi primi dieci minuti in città dopo appena un mese che se n’era andata, una spiegazione in grado di escludere il racconto di Jack, ma ogni ricostruzione che faceva non era credibile oppure portava dritta alla conclusione che gli eventi nel laboratorio di ricerca in qualche modo c’entrassero. In quel momento, la sua attenzione si spostò sulle ultime parole della lepre.

“Io devo andare nel quartiere di Tujunga” disse. Jack le rivolse uno sguardo che mostrava con quanta sicurezza stesse pensando che lei fosse impazzita, condendola con almeno sei ottime ragioni che lo autorizzava a pensarlo. “Devo…raccogliere informazioni”.

“Judy, il quartiere di Tujunga è la zona off-limits della zona off-limits” disse. “Ci sono mammiferi che persino i predatori temono”.

“Devo andarci” replicò lei decisa. “E prima alla stazione di polizia”. Jack sospirò e si strofinò il naso con due dita, come se lei gli avesse appena detto di volersi infilare nella bocca di un leone per controllare se le tonsille fossero gonfie.

“Posso almeno sapere il motivo per cui ti vuoi infilare in una tana di lupi prima di partire alla volta della terra proibita?” chiese.

Judy gli raccontò: gli raccontò di come aveva portato Nick alla Tana dei Conigli e di come lui si fosse conquistato la fiducia dei suoi, parlò di come Nick aveva saputo intrattenere più di duecento conigli tutti i giorni per un mese intero, di come Nick l’avesse protetta per poi sparire in una notte senza lasciare tracce. Jack la studiò senza fare domande, gli occhi non la abbandonarono un solo istante e l’espressione non mutò mai. Terminato il racconto, piombò il silenzio per qualche secondo, dandole modo di accorgersi del sollievo che sentiva nell’aver raccontato tutto, quasi fosse un segreto il cui peso era diventato insostenibile per una coniglietta ottusa ed emotiva come lei.

“Il caso Tujunga…” borbottò lui. “Non esiste nessun rapporto sul caso Tujunga: è stato insabbiato, ricordi?”.

“Si, ma ricordo anche che ci avete lavorato tu e Alopex” replicò lei. Jack sussultò a quel nome: sembrava che il suono riportasse alla memoria ricordi terrificanti, come un incubo da cui si era finalmente svegliato ed in cui non voleva immergersi mai più.

“È complicato” disse lui evasivo.

“Solo se vuoi renderlo tale” osservò la coniglietta. “Semplificalo”.

“Non posso” obiettò ancora Jack. “È coperto dal segreto: sarò processato se ti racconto
”.
“E da chi?”. Quell’ultima domanda lo zittì, ma anche lei si fermò un istante a riflettere: Jack Savage processato per aver raccontato il caso Tujunga. La domanda le sorse spontanea prima che lui avesse modo di cominciare a raccontare, una domanda che in quel momento le fece deglutire la sensazione che forse non era il caso che lei sapesse

cosa fosse successo

i dettagli di quell’episodio. Un caso archiviato solo per essere fatto sparire, un colpevole mai trovato perché avevano smesso di cercarlo ed i testimoni zittiti sotto un giuramento che faceva nascere in quella lepre evidenti segni di nervosismo al solo pensiero di star per tradirlo.

Nick. In ballo c’era Nick, un Nick incapace di parlare, di camminare, di difendersi, da qualche parte solo in quella città divisa dalla paura e scenario di rancore ed istinti di sopravvivenza primitivi. Quella consapevolezza scrollò definitivamente via ogni dubbio: il caso Tujunga doveva essere risolto.

Per lui. Per lei. Per loro, qualunque cosa avesse voluto dire.

“Jack…” mormorò. Si allungò verso di lei e gli strinse una zampa con la sua. “Cos’è successo a Tujunga?”.
 
 

L’agente Howler svoltò a destra, gettando distrattamente un’occhiata al muro dell’edificio d’angolo: il cartello con il nome della via non c’era più e solo un riquadro di intonaco leggermente più chiaro del resto del muro provava la sua esistenza fino a poco tempo prima. Rallentò e passò a velocità minima accanto ad uno spiazzo: il cemento era vecchio, lunghe crepe si diramavano verso dei cesti da basket e quei graffiti multicolore che non erano stati coperti da scritte contro i predatori stavano sbiadendo lentamente, apparentemente senza fretta.

Il cortile era deserto, testimone di una desolazione su cui lui non si soffermò: aveva ancora nelle orecchie il rifiuto del suo capo alla sua domanda di una squadra per un giretto di ricognizione alla Tana dei Conigli. Ringhiò piano al pensiero che la sua ispezione e soprattutto le sue conseguenze avrebbero tardato, anche solo di pochi giorni. Passò il cortile e pigiò nuovamente sull’acceleratore: le strade erano semivuote, fatta eccezione per qualche mammifero che percorreva a passo svelto il marciapiede spingendo il passeggino, trascinando borse della spesa o semplicemente passeggiando incuranti o inconsapevoli del fatto che i borseggiatori, a differenza degli agenti di polizia, erano in ogni strada e, sempre a differenza degli agenti, avevano sempre voglia di entrare in azione.

Howler lasciò perdere la vecchia tartaruga che arrancava con il suo bastone e proseguì per la sua strada come se non avesse visto nulla: aveva ancora davanti agli occhi quei denti, sentiva ancora

il ringhio

l’affronto pungergli l’orgoglio, lo sguardo che quella volpe, quel Nick Wilde, gli aveva rivolto e di come gli avesse strappato di zampa la pistola per poi tornare a difendere il coniglio con un movimento fulmineo eppure fluido, aggraziato.

E soprattutto quella coniglietta. Si era goduto lo sguardo terrorizzato finché l’odore nell’aria non era cambiato: al panico verso di lui si era sostituito il panico verso quello che lui avrebbe fatto alla volpe e la differenza c’era, anche se minima. Era apparsa scandalizzata quando le aveva detto delle voci che erano sempre girate alla stazione di polizia, ma ormai era certo che non erano stati i suoi colleghi a mentire a lui e nemmeno lui a mentire a lei: era lei che mentiva a sé stessa.

Non era affare suo ovviamente, non gli interessava nulla: per quello che lo riguardava quella Hopps poteva portarsi a letto chi voleva di qualunque razza volesse, ma l’affronto che aveva sentito andava lavato, il bruciore che sentiva calmato, la rabbia che lo pervadeva andava estinta.

Estrasse la pistola e la puntò contro un ignaro cucciolo di ippopotamo: passeggiava tranquillo per il marciapiede, assaporando soddisfatto un gelato e reggendo con l’altra zampa un palloncino giallo che roteava per la strada il compleanno di qualcuno.
Howler fu preso dalla solita calma, fredda follia: dove poteva mirare? Dove poteva colpire? Studiò la figura del cucciolo attraverso il mirino della pistola: una pancia così prominente era un bersaglio troppo facile, non avrebbe dato soddisfazione. Allora le zampe? Sarebbe piombato a terra urlando con quanto fiato aveva in gola. Scoprì i denti in un ghigno e fletté leggermente il dito: sentì il grilletto scricchiolare lentamente, il cane tirarsi indietro fino a bloccarsi per una frazione di secondo.

CLIC

Sospirò e ripose la pistola nella fondina: era un cucciolo dopotutto. Un innocente, sovrappeso, rotondo cucciolo che non aveva fatto nulla di male, ancora. E poi, se avesse inserito il caricatore nella pistola avrebbe dovuto denunciare la pallottola mancante: una seccatura che avrebbe implicato scartoffie, bugie, insabbiamenti ed altre scartoffie.

E poi era il caso di tenerli buoni i colpi: presto avrebbe avuto centinaia di bersagli da colpire. Svoltò un altro angolo e continuò il suo giro di perlustrazione, in silenzio, in compagnia dei suoi pensieri.

 
 
Judy percepiva il silenzio, dietro al racconto di Jack che continuava a rimbombarle per la testa: le parole della lepre erano come incise nel suo cervello e non seppe fare altro che fissarlo con occhi assenti per qualche secondo. Lui dal canto suo sembrava tranquillo ma era evidente che evitava il suo sguardo.

“Quindi tu…” mormorò. “Alopex ha…”.

“Erano gli ordini, Judy” disse lui. “Non giustifica l’accaduto, certo…ma era quello che dovevamo fare. Nemmeno Alopex ci ha mai capito qualcosa”. Finalmente tornò a guardarla negli occhi. “Le volpi…svanivano nell’aria: nessuna traccia, nessun testimone, nessun contatto dai rapitori, riscatto, nemmeno i cadaveri abbiamo trovato”.

“Eccetto quello del padre di Nick” ringhiò lei. Jack sospirò poi si alzò.

“Se vuoi andare a Tujunga dobbiamo muoverci” disse. “La strada è lunga e quasi tutta pericolosa: dovremo muoverci di soppiatto e a piedi”.

“A piedi?” commentò la coniglietta, ma non seppe cos’altro aggiungere. La lepre continuò.

“Per la strada sicura ci vorranno almeno tre giorni” disse. “Ma ci arriveremo interi, credo. Quello che accadrà lì però non so prevederlo”. Judy si alzò, risoluta.

“Ci serve qualcosa per il viaggio?” chiese. L’occhiata che Jack le lanciò le diede la risposta prima della sua bocca: entrambe non le piacquero.

“Fortuna, Hopps” rispose. “Ci servirà un mare di fortuna”.

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Capitolo 8
*** Il mastro burattinaio ***


Il mastro burattinaio


 
Dall’alto della sua ottusità, Judy Hopps continuò a domandarsi sull’accaduto nel vicolo per buona parte della strada: come si era arrivati al punto che un piccolo branco di torelli aveva cercato di violentarla in un vicolo? Certo, nei mesi passati come poliziotta aveva sentito denunce ed aveva fatto correre la gazzella della polizia per tentati stupri, ma a distanza di un’ora ancora non sentiva nessuna sirena.

A pochi passi da lei, Jack avanzava per la città: controllava accuratamente dietro ogni angolo, tagliava per stradine laterali e più di una volta entrava in edifici per attraversare un isolato.

“La città non è più quella di una volta Hopps” rispondeva ogni volta che gli domandava il perché, come se quella semplice frase fosse la risposta più ovvia e logica. Dopo un po’ la coniglietta smise di fare domande e si concentrò sul percorso che stavano facendo: Tujunga non era lontana, appena un’ora di treno ma Jack aveva rifiutato di prendere mezzi pubblici con un tono inappellabile.

Ma anche così era semplicemente assurdo il fatto che ci volessero tre giorni per arrivarci, anche a piedi. Passarono la giornata a zampettare da un edificio all’altro, saettare attraverso i cortili ed accucciati dietro ogni possibile nascondiglio per vari minuti, infine Jack si fermò davanti ad un albergo di periferia con un sospiro.

“Qui andrà bene” disse entrando nella porta fatiscente e coperta da scritte ingiuriose verso i predatori. “Ci fermeremo qui per la notte”.

“La notte!” commentò Judy sbigottita. “Jack, dobbiamo continuare: non ho tempo da perdere”.

“Lo troverai” ringhiò lui, scoccandole un’occhiata raggelante. “Uscire di notte non va bene”.

“Guarda che non siamo in guerra” osservò.

“Sei sicura?” commentò la lepre. La spinse nella prima camera libera che trovò e chiuse la porta a doppia mandata. Controllò le finestre e tirò le tende, rendendo soffusa quella poca luce che i lampioni emettevano. Judy guardò stupita l’abbandono che regnava in quella stanza: i letti erano scalzati, i comodini rovesciati e schegge di vetro rendevano il pavimento accidentato come un letto di spine.  “Hopps…la città…”.

“…non è più quella di una volta” concluse lei stancamente voltandosi verso di lui. “Si, questo credo di averlo capito”.

“No, non hai capito nulla” sbottò Jack, improvvisamente nervoso. “Credi veramente che un branco di giovani tori che cerca di violentare una coniglietta sia una cosa così assurda?”. Si sedette sull’unica sedia presente nella stanza.

“Quanto è grave la situazione in città?” chiese lei. La lepre scosse la testa.

“Rioni” rispose. “In questo mese in cui Bogo è salito al potere la città è stata divisa in rioni: fin qui nulla di strano, dati gli effetti del vaccino”. Dondolò sulla sedia lentamente. “I predatori che cercavano di comunicare e le prede che cadevano nel panico più cieco alla loro semplice vista e so di cosa sto parlando.

“La situazione è degenerata quando ci siamo resi conto che non potevamo controllare una città divisa in due con le poche forze che avevamo: molti poliziotti erano predatori e sono stati confinati anche loro nell’altro rione. Il che vuol dire che nell’aria di competenza dei predatori c’è una tranquillità dettata dal militarismo e dal coprifuoco ferreo, mentre da questa parte imperversano le teste calde: quei tori sono stati catturati varie volte per rapina, taccheggio, molestie, aggressione e potrei andare avanti”.

“Ma Bogo!” esclamò Judy inorridita. “Bogo…il sindaco!”.

“Tutto quello che ha fatto il sindaco è stato rifare da zero le forze di polizia per poi potenziarle” disse Jack con una smorfia.

“Beh, almeno questo…” commentò lei. “Poteva far finta di nulla, mettersi al sicuro…”.

“Ha licenziato tutti i tuoi vecchi colleghi” la interruppe la lepre. “Ha messo una taglia sulla testa di Nicolas Wilde ed ha formato un comando della polizia composto da soli lupi”.

Il buonismo di Judy non trovò una giustificazione per ammettere che il suo vecchio capo agiva per il bene della comunità, come aveva sempre fatto. La cercò forsennatamente: aveva bisogno di trovarla, di dirla in tutta la sua semplicità. Aveva bisogno di sentirla per crearsi un appiglio. Le venne in mente solo una cosa.

“Howler…” mormorò.

“Howler è un poliziotto che prende il suo dovere molto seriamente” commentò Jack. “Secondo il suo metro, naturalmente”.

“Ma se…”.

“Adesso vorrei farti io una domanda, Hopps”. La voce della lepre le fece morire la frase in gola: poco male, dubitava seriamente che avesse mai avuto un senso. “Cosa speri di trovare a Tujunga?”.

“Qualcosa che mi conduca a Nick” fu la risposta automatica. Jack sospirò e scosse la testa, evidentemente esasperato.

“Quel quartiere è una giungla” commentò. “Vuoi andare a cercare una volpe dentro una giungla? Hai la minima idea di quanti nascondigli può aver trovato?”.

“Lo cercherò” replicò lei decisa.

“Ti servirebbero settimane” fu la  risposta. “Ammesso che rimanga nello stesso posto. E ammesso che ci arriveremo avremo al massimo qualche ora”.

“Ho un posto sicuro da quelle parti” disse Judy. “Una vecchia conoscenza: è un predatore, ma se sono lucidi mi riconoscerà”. Il buon vecchio Manches le aveva fatto finalmente un favore: era riuscito a farle chiudere la bocca di quella lepre. Jack la fissò per qualche secondo prima di chiederle se fosse sicura della sua affidabilità: quella domanda la percepì come retorica e non se la sentì di rispondere.

“Immagino di non avere altra scelta” borbottò infine. “Ma se vuoi che ti ci porti, devi prima vedere una cosa”. La coniglietta aggrottò un sopracciglio.

“Stai cercando di depistarmi?” chiese. “No perché sono allenata a riconoscerli”. La lepre roteò gli occhi.

“Wilde” commentò. “Chiaro…quasi banale”.

“Che vuoi dire?” commentò lei, scattando in piedi. La lepre glissò l’argomento senza farsi impressionare.

“Voglio che tu veda il municipio” disse. “Non è un depistaggio: richiede una deviazione di una ventina di minuti. Portiamo a termine un’operazione e poi ti accompagno anche alla bocca dell’inferno se è quello che vuoi. Ma per questa cosa ho bisogno di assistenza e tu sei l’unica a cui posso chiedere e, se devo essere sincero, l’unica che vorrei come spalla”.

“Che operazione?” chiese lei. Sul muso di Jack per la prima volta comparve un sorriso: gli incisivi brillarono nella penombra della stanza e gli occhi si ridussero a due fessure, piene di lucida e soddisfacente lungimiranza.

“Duplice in realtà” disse. “Una questione personale che sfocerà in un bel colpo di stato”.

“Vuoi scoperchiare Bogo?” esclamò lei scandalizzata. “La città cadrà nella più completa anarchia”. La mente di Judy, davanti a quella frase, replicò la stessa risposta della lepre, solo qualche istante prima.

“Perché questa cos’è?” commentò lui. “Poliziotti che scorrazzano per la città esercitando una giustizia personale, Bogo che maschera i propri interessi personali con opere per la sicurezza di tutti e malavita libera di circolare per le strade senza freni né ostacoli: come la chiami una cosa del genere Hopps?”.

affari, dolcezza

La coniglietta non seppe rispondere: non riuscì a trovare delle argomentazioni che giustificassero quella desolazione o che avessero il potere di far tornare Jack sulle proprie decisioni. Ma più di ogni cosa sentì, da qualche parte dentro di lei, un fremito che lei conosceva bene: l’aveva conosciuto quando si era innamorata della divisa da poliziotto, quando era partita per il campo di addestramento e quando ne era uscita; durante l’inseguimento con Donnolesi, quando le era stato finalmente affidato il primo caso e quando aveva catturato Bellwether. Senza contare tutte le volte che aveva fregato per bene una certa volpe acuta.

Era proprio quel fremito: la consapevolezza di star facendo la cosa giusta, di battersi per rendere il mondo un posto migliore. E comunque peggiore di quella Zootropolis non sarebbe mai potuto diventare.

“Come agiremo?” chiese infine, rassegnandosi all’evidente necessità di quella deviazione.

“Ho preparato l’occorrente in una stanza del palazzo davanti al municipio” rispose Jack. “Arriveremo sul posto ed aspetteremo che Bogo sia a tiro”. Judy si sentì gelare il sangue nelle vene.

“…a tiro?” mormorò. “Aspetta, non vorrai mica…”. La lepre annuì lentamente.

“Voglio eccome” ringhiò gelido. “E ti dirò di più: sono veramente impaziente”.

Per lei il quadro improvvisamente cambiò: in qualche modo aveva sospettato che si trattasse di fare quello ma la sua mente sempliciotta aveva dato per scontato che Jack non avrebbe mai osato chiederle di aiutarlo. Le orecchie si drizzarono di scatto per poi afflosciarsi mentre lei scosse lentamente la testa.

“Non puoi chiedermi di fare questo, Jack” mormorò. “Io non posso”.

“Capisco il tuo nervosismo: non hai mai ucciso nessuno” osservò la lepre. “Ma non voglio che sia tu a farlo: è una questione personale, te l’ho detto”. Sospirò e si agitò sulla sedia prima di continuare. “Tu sai già che il caso Tujunga fu insabbiato: in cambio del nostro silenzio, io ed Alopex fummo promossi ad agente segreto e capo investigatore con tutti gli onori possibili”. Storse la bocca come se quella frase avesse un sapore disgustoso. “Ti assicuro che sia io che Alopex detestammo quei nuovi incarichi dal primo secondo: lei resistette qualche mese, poi rassegnò le dimissioni e divenne un’investigatrice privata”.

“Perché avete accettato allora?” chiese Judy. “Potevate rifiutare! Potevate continuare le indagini!”.

“A che pro?” ribatté lui. “La faccenda era insabbiata, non esisteva più. Le volpi rimaste erano pochissime ed hanno mantenuto un profilo basso per evitare di attirare l’attenzione: il tuo amico Wilde non è un’eccezione”. Judy aggrottò un sopracciglio.

“Nick era…” cominciò, ma Jack la anticipò.

“…un trafficante di ghiaccioli” disse. “Aveva i favori di mr.Big: sarebbe potuto diventare uno dei più grandi criminali della storia e ci sarebbe riuscito con la sua astuzia e con quel toporagno a coprirgli le spalle. Un mammifero con questa possibilità perché dovrebbe scegliere un’attività così anonima? Era studiata così bene da essere praticamente legale: un cervello del genere figurati se non avrebbe potuto diventare un signore della malavita..

“Come ti dicevo, ha adottato un profilo basso. E per tornare al discorso di prima, non avremmo mai potuto disobbedire a quell’ordine anche se avessimo voluto”. Deglutì ancora prima di continuare. “Era un ordine impartito direttamente dal Generale attraverso la Feral Bureau of Investigation e la Central Intelligence Habitat: in poche parole, la madre di tutti gli ordini”.

“Se tutto questo è vero…” mormorò Judy, la voce ridotta ad un filo: per quanto ci provasse, proprio non riusciva ad immaginare Jack e Alopex davanti ai mammiferi più potenti del mondo. “Che cosa c’entra Bogo?”.

“Qualche indagine l’abbiamo fatta io ed Alopex” rispose la lepre. “La sorgente dell’ordine era il defunto Generale Hunk Beest, ma l’idea di insabbiare il caso è venuta da suo figlio: un giovane molto promettente allora laureando all’università di legge”.
“Suo figlio?” commentò Judy. Jack annuì con aria grave.

“Si” disse. “Bogo Beest: è stato lui ad insabbiare il caso. E per quanto riguarda Wilde…”. quest’ultima pausa fu diversa: pregna di rancore, ma unito ad una struggente pietà; lo sguardo della lepre spaziò per qualche secondo nell’aria tra i due.

Judy immaginò che lo potesse ancora vedere, con tutti i particolari che aveva descritto nel suo racconto del caso Tujunga, solo il giorno prima. Per quanto ne aveva capito, il caso era ufficialmente cessato con il ritrovamento del corpo del padre di Nick. Sentì le lacrime salire

voi coniglietti, siete così emotivi…

all’idea di un piccolo Nick Wilde davanti a due ufficiali, in attesa di sentire che il padre non sarebbe più tornato a casa; una torsione dello stomaco le strozzò sul nascere il sospetto che forse era stato più grave, che forse quel piccolo Nick Wilde aveva visto il padre ed aveva capito da solo che non sarebbe più tornato a casa. La voce di Jack, purtroppo o per fortuna, la distolse da quei pensieri.

“Suo padre è stato ucciso perché aveva scoperto qualcosa” continuò. “Ma non è stata una vittima del caso Tujunga: quella morte ha messo la parola fine alle indagini sulla scomparsa delle volpi e poche settimane dopo non ricevemmo più denunce di scomparsa. Il caso Tujunga era cessato da solo”.

“Quindi tu pensi che Bogo…” mormorò Judy, inorridita. “Abbia ucciso il padre di Nick?”. Jack scosse la testa.

“Difficilmente sapremo mai chi è l’assassino” disse. “Ma Bogo è il principale responsabile della scomparsa delle volpi: il caso Tujunga è un caso che ufficialmente non esiste e ritrovare piste, indizi e fonti ormai è impossibile”. La frase sfumò nel silenzio, ma la coniglietta capì dove quella lepre voleva andare a parare: Bogo doveva pagare.

E visto il potere di cui si era investito da solo, l’unico modo era quello.

“Io non lo approvo” sentenziò. “Non approverò mai che una vita venga stroncata: Bogo sarà processato e la giustizia farà il suo dovere”. Jack sospirò esasperato.

“Hopps, è lui la giustizia” replicò compassato. “Bogo in questo momento è giudice, giuria e boia: siamo in due contro le più grandi figure delle forze dell’ordine. Hanno insabbiato la cosa quando gli indizi erano ancora freschi: quanto pensi che ci metteranno a far tacere due conigli? E per come è diventata questa città, non ci sarà nemmeno bisogno che si sporchino le zampe”.

“Ma se…”.

“Rassegnati Hopps”. La voce non era cambiata ma una nota vibrante la zittì sul posto, sbattendole sul muso la consapevolezza che il giorno dopo Bogo sarebbe morto. In un modo o nell’altro, Jack Savage avrebbe fatto quello che voleva fare. “Io ed Alopex abbiamo ricevuto onori umilianti, occupato posti che non meritavamo ed ingoiato complimenti troppo amari per troppo tempo: Bogo è il mastro burattinaio ed io gli taglierò prima le mani e poi i fili”.



 
La gazzella della polizia sfrecciava per le strade ignorando bellamente semafori rossi, incroci e rotonde. Howler ansimava al volante, eccitato, percependo la punta della lingua sforargli ritmicamente il mento: guardava la strada vedendo la scena di qualche minuto prima. Era un loop continuo ed ogni volta che la rivedeva si sentiva esattamente nello stesso modo, percepiva le esatte sensazioni.

Le orecchie vibravano ancora per il tuono, gli occhi continuavano a vedere quel fiore rosso ed il profumo della polvere da sparo nell’abitacolo aveva lo stesso effetto di un afrodisiaco. Aveva una voglia di ululare che soverchiava qualunque altro istinto.

L’aveva fatto, il Grande Lupo gli era testimone.

Forse il giorno dopo, più probabilmente nel giro di qualche ora, ciò che era successo in quel vicolo sarebbe stato di dominio pubblico ed immaginare la reazione di tutte le forze dell’ordine non richiedeva tanto sforzo. Il minimo comune multiplo poi era talmente elementare che lo imbarazzava anche pensare ad una seconda ipotesi.

Ma era proprio quello che gli serviva per calmare il prurito. Lenirlo appena però non era sufficiente: doveva farlo sparire, almeno finché non avesse avuto tra le zampe quella tenera coniglietta a Tana dei Conigli. Quella mattina non era più riuscito ad aspettare, convinto che solo un’altra ora in compagnia di quel prurito l’avrebbe fatto impazzire del tutto.

E allora l’aveva fatto. Ed era stato bello.

Non aveva altri aggettivi per descrivere quella sensazione meglio di quanto non facessero il fiatone eccitato, le pupille dilatate e quel turgore che deformava i pantaloni: con tutta probabilità era andato in calore in quel momento e ciò che lo eccitava di più era che non avrebbe nemmeno avuto il bisogno di giustificare quella pallottola scomparsa dal caricatore della sua pistola. Judy Hopps e Nicolas Wilde erano nella sua lista destinatari ed anche se avrebbe dovuto aspettare un bel po’ prima di poterli spuntare ne sarebbe valsa sicuramente l’attesa. Girò lo specchietto retrovisore e guardò negli occhi il suo riflesso.

“Amico mio…” rantolò. “Perché non hai mai sparato contro un indifeso cucciolo di leone? Sapessi cosa ti sei perso in questi anni…”.

Inspirò profondamente gli ultimi effluvi di pirite esplosa e pestò sull’acceleratore: il motore rombò e la macchina scattò in avanti, ignorando il rosso e lo stridio dei freni dell’utilitaria che passava.

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Capitolo 9
*** Sguardi ***


Sguardi


 
Superando l’ennesimo vicolo mantenendosi più bassa di quanto non lo fosse stata, lanciò l’ennesima occhiata a Jack, poco davanti a lei: era rannicchiato dietro il paraurti di un Suv semi-carbonizzato ed scrutava la città oltre l’improvvisata barricata, senza muovere un muscolo.

Era ormai più di un’ora che non pensava a Nick e poteva essere a tutti gli effetti un record da quando era sparito dalla sua camera: coprire l’immagine della volpe con quella di Bogo morto funzionava, anche se non era una cosa che le piaceva visualizzare. Ogni volta veniva scossa da un tremito nell’immaginare i dettagli: i vestiti sporchi di sangue e fango, gli occhi rovesciati all’indietro, un rivolo piccolo ma costante di sangue scendere dalla fronte. Moriva dalla voglia di chiedere ancora alla lepre se era veramente necessario ucciderlo, tentare ancora di convincerlo a cercare un’altra strada, ma per quanto cercasse non riusciva a trovare nessuna argomentazione che potesse aiutarla nello scopo.

Per quanto non approvasse i suoi metodi, Jack aveva ragione: la città era al limite, il potere era corrotto nel midollo e due conigli come loro sarebbero stati sicuramente travolti dagli eventi. Da sola per le strade o davanti a Bogo con il buon senso, lo scenario poteva finire solo con la sua famiglia che piangeva sulla sua tomba.

Una scena che aveva preferito non pensarla nemmeno.

“Non siamo molto lontani” disse la lepre, distogliendola dai suoi pensieri. “Il portone dall’altra parte della strada è di un albergo: ho lasciato due fucili di precisione all’ottavo piano, stanza 162. Si affaccia direttamente sulla piazza del municipio”. Erano lontani dalla strada che portava al distretto di Foresta Pluviale, ma a quanto pare a lui non interessava particolarmente: ora che ci pensava, era una situazione identica a quando aveva indagato sul caso degli ululatori con Nick ops, record infranto. Anche lui il primo giorno aveva vissuto esclusivamente per metterle i bastoni fra le ruote ed era stato perfetto nel suo intento.

Rimasero acquattati dietro la carcassa dell’auto per altri eterni minuti prima che Jack le desse il segnale: saettarono oltre la strada e si buttarono contro il portone, che si smosse quel poco che bastava per farli entrare. Fecero di corsa due rampe di scale prima che il silenzio, rotto solo dall’eco dei loro passi non li convincesse di essere soli in quello stabile. Oltrepassando il quarto piano, Judy si volse verso Jack, dando finalmente voce all’unica domanda che ancora non gli aveva fatto.

“Perché?” chiese. Pose la domanda con una voce troppo alta per essere giudicata sicura ed i due ascoltarono la eco ripetere la domanda all’atrio, attenti a qualunque altro rumore che non fosse il ronzio della caldaia o i rumori del caos oltre le finestre.

“La città non è più quella di…” rispose serafica la lepre, ricominciando a salire.

“Non intendo questo” borbottò lei, interrompendo quella frase ormai automatica: Grande Coniglio, non poteva credere che la formulasse ancora quella risposta!

“E allora cosa?” chiese Jack, voltandosi a guardarla.

“Stiamo andando ad uccidere Bogo” disse, ormai sottolineando l’ovvio. “Per quanto possa essere in futuro un bene, stai privando una città impazzita del suo capo: hai la minima idea di come reagiranno i cittadini?”. Lui la guardò senza dire nulla, aspettando che arrivasse al punto. “Riassumendo il piano, tu stai per uccidere a sangue freddo il capo di Zootropolis, provocare quella che facilmente diventerà una guerra civile tra rioni ed eleggerti responsabile di tutte le vite che verranno messe in pericolo fin quando la situazione non si stabilizzerà in qualche modo: non vorrai mica farmi credere che lo fai solo perché ti hanno detto di insabbiare un caso, vero?”. Lui la fissò per un altro paio di minuti: gli occhi erano fermi, saldamente puntati nei suoi con uno sguardo sterile, freddo. Si volse e salì fino al pianerottolo prima di parlare.

“È per Corsa” borbottò tra sé e sé: Judy non l’avrebbe sentito se in quell’atrio ci fosse stato tutto quel silenzio. “Corsa Vulpes”. Lei capì da tono di essersi spinta troppo dentro un argomento tabù, ma il danno era fatto: non parlò, rimanendo in attesa del silenzio del compagno. Lui continuò.

“Era una fioraia che aveva il negozio sotto il mio appartamento” disse. “Manto color della sabbia, occhi dorati…passavo le ore a guardarla lavorare dalla mia finestra…”. Judy deglutì.

“Era la tua compagna?” chiese. Jack le scoccò un’occhiataccia, come se avesse insultato la sua memoria.

“No” disse, con una voce neutra che mal si sposava con quegli occhi omicidi. “Però non avrei dovuto fare altro che scendere a parlarle. Il nostro era un gioco di sguardi: ci salutavamo, ci parlavamo, commentavamo o tempo o la giornata senza scambiare nemmeno una parola. Non so se una cosa del genere sia realmente possibile, ma la mia sensazione era sempre quella”. Judy annuì senza rendersene conto: sapeva di cosa stava parlando, sapeva che una cosa del genere era possibile ma evitò accuratamente di pensare a qualunque nome o di far sorgere qualche immagine che comprendesse un pelo rosso, una camicia verde, oh, che diamine!

Si fermarono davanti ad una porta: era ancora verniciata e lucida, con qualche scheggiatura qua e là data dal tempo e dal numero di volte in cui era stata aperta, chiusa, sbattuta e calciata. I numeri in alto, sotto lo spioncino, era leggermente opaco e la vernice gialla era saltata in un paio di punti.

Stanza 162. Jack entrò e chiuse la porta dietro Judy.

La stanza ricordava molto l’appartamento di Nick: il divano era coperto da una cerata polverosa ed un aspirapolvere giaceva abbandonato contro il muro; le tende ondeggiavano mosse dal vento e frammenti di vetro rilucevano sotto la finestra sfondata. Il letto era scalzato, le coperte gettate a terra e l’armadio aveva un’anta divelta.

Abbandonati contro il muro accanto alla finestra, due grossi fucili di precisione rilucevano la luce che filtrava attraverso le tende. Judy cercò di non guardarli, ma le due armi le avevano catturato lo sguardo e non lo lasciavano più andare; Jack si sbottonò il primo bottone della camicia e si sedette sul divano, sospirando ed ignorando la polvere: si rilassò per qualche minuto, apparendo all’improvviso come una piccola, indifesa lepre stanca di tutto ciò che la circondava e desiderosa di un po’ di pace.

O di Corsa Vulpes, chiunque fosse stata per lui.

“È una delle volpi scomparse vero?” chiese, più per avere qualcosa su cui focalizzare la sua attenzione che non fossero quei due fucili. “Corsa Vulpes: è scomparsa nel quartiere di Tujunga?”.

“Era nel tombino accanto a quello in cui abbiamo rinvenuto Wilde Senior” disse. “…o perlomeno, quello che abbiamo trovato di lei era li”.

Stagnò il silenzio per qualche minuto. Non alzò lo sguardo per vedere l’espressione che doveva avere Judy in quel momento: quella coniglietta era così odiosamente empatica che se avesse visto su quel muso l’espressione che sospettava, probabilmente si sarebbe arrabbiato e non poco. Controvoglia, si alzò e si piazzò accanto ai fucili, senza tuttavia toccarli.

“Ti dirò una cosa, Hopps” disse, volgendo finalmente lo sguardo su di lei e mordendosi l’interno della bocca quando vide l’espressione che si era aspettato. “Tra me e Corsa non ci sono stati che sguardi, ma per me valgono tutto questo: so che mi capisci, sei nella mia stessa situazione”.

“Nick è mio amico” replicò lei. “Mi ha difesa da Howler: è il minimo che posso fare”.

“Certamente, continua a ripeterti che è solo per questo” disse lui. “Ma tieni a mente questo: qualcuno me l’ha portata via e Bogo mi ha impedito di colpire il responsabile. Anche se è l’unica cosa che questa città  merita, non permetterò che bruci più del tempo necessario”.

Si volse verso di lei e la paralizzò con lo sguardo: la passò da parte a parte, immobilizzandole il corpo come se l’avesse legata ad una sedia. Sotto il gelo di quegli occhi azzurri vide rimestarsi una rabbia antica, evidentemente una compagna fedele con cui aveva condiviso tutti gli ultimi anni. Si sentì soverchiata da tutta quel feroce gelo come se fosse lei la responsabile di tutto ciò che stava succedendo oltre le mura, come se stesse per puntare su di lei quel fucile. Riprese a parlare mentalmente, scolpendole le parole nella testa in modo che mai più avrebbe potuto dimenticarle.

“Ma io l’avessi mai guardata nel modo in cui tu guardi Wilde, darei fuoco al mondo intero” disse lentamente. “E se lei mi avesse mai guardato nel modo in cui Wilde guarda te, lo lascerei bruciare per guardarlo trasformarsi in un cumulo di cenere”.
 


Il sole stava alzandosi in cielo e nella piazza sottostante stava cominciando il subbuglio. Judy si era raggomitolata sul letto e nel giro di qualche minuto era piombata in sonno che nemmeno le sirene dell’allarme generale, suonato poco più di mezz’ora prima, erano riuscite a rompere. Jack si volse a guardare fuori dalla finestra al primo ruggito lontano che sentì; imbracciò il fucile ed appoggiò la canna sul davanzale della finestra, lasciando tuttavia la sicura inserita. Premette il muso contro il calcio e guardò la città attraverso il mirino.

Ormai poteva dirlo con chiarezza: Hopps e Wilde.

Un coniglio che sfida la città in quel modo non poteva che essere un coniglio completamente uscito di testa, oppure con un obiettivo ben saldo in una mente forte e risoluta: proprio nulla da eccepire, Wilde si era scelto proprio un partner con i controfiocchi.

Sorprendente che i due non fossero legati da nulla più di una profonda amicizia.

Si staccò dal fucile solo per scuotere la testa, lasciandosi sfuggire un sorrisetto divertito: quei due erano una squadra prossima alla perfezione e sarebbe stato veramente un peccato rovinarla spingendo il loro rapporto di un passo oltre il consentito. Almeno Wilde lo sapeva, conosceva quel confine, quella linea così sottile da poter essere oltrepassata quasi automaticamente: uno dei due si sarebbe svegliato la mattina e puf: improvvisamente cotto perso del proprio partner. Ma in quel lavoro oltrepassare quella linea era una cosa molto, troppo pericolosa e difficilmente avrebbero tentato la sorte fino a quel punto.

Non si sarebbero fatti male in quel modo, ne era sicuro.

Suo malgrado, il pensiero di Nicolas Wilde passò per la sua mente, ma a differenza degli altri si fermò: rimase fermo davanti ai suoi occhi, quasi sovrapponendosi alla piazza sporca di bottiglie, lattine e fogli di giornale. L’immagine della volpe fu accompagnata da una domanda che finalmente trovò le parole per essere formulata.

Perché non ha creduto a Bellwether?

Jack allontanò la testa dal fucile e con un sospiro abbassò lo sguardo. Dopotutto, aveva passato troppo tempo nelle vesti dell’agente segreto e mentire gli risultava pericolosamente facile. Aveva infilato lui suo padre in quel tombino?
Certo che l’aveva fatto. Il motivo? Beh, non era stato molto diverso da quello che l’aveva spinto a sparare ad Alopex. In quegli istanti l’aveva visto diverso, l’aveva sentito diverso. In quegli istanti era

la nemica naturale per eccellenza dei conigli

una volpe: una volpe straordinariamente pericolosa. Ma una volta a terra, distesa inerme in una pozza di sangue, era tornata ad essere talmente mansueta da fargli rendere conto di aver sprecato dei colpi per prendere una vita che non gli spettava. Aveva posto fine ad una vita che doveva, meritava di continuare per ancora molto tempo.

Ripensò all’espressione che aveva visto qualche ora dopo, davanti al corpo che lui stesso aveva incastrato in quel tombino, sul muso di un cucciolo che avrebbe compreso ciò che gli stava raccontando qualche anno più tardi e che l’avrebbe fregato alla grande per il puro gusto di farlo, senza la minima traccia di una maliziosa, perversa crudeltà che lui avrebbe meritato cento volte più intensa.

Eppure lo sapeva: Wilde non avrebbe fatto nulla per nuocergli. Tra loro due, l’animale pericoloso non aveva la pelliccia rossa.

E poi, con che diritto avrebbe portato a termine il piano? Il taccuino nella tasca posteriore dei suoi pantaloni improvvisamente gli sembrò molto più pesante di quanto non lo fosse stato in quei giorni. Si volse a guardare Judy: dormiva nella grossa con un’espressione serena che non si addiceva per nulla all’ambiente ed alla situazione.

Forse quel taccuino avrebbe dovuto averlo lei?

La sirena suonò di nuovo: un secondo allarme che voleva dire solo una cosa. La situazione era precipitata, qualcuno aveva morso la coda del mammifero sbagliato; si alzò, allontanando con tutte le sue forze quei pensieri dalla sua testa. Il tempo per i tentennamenti era finito, ormai quello che era fatto era fatto

il dado è tratto

e tutto quello che gli rimaneva da fare era sperare che Alopex non avesse preso il suo secondo granchio proprio nel pianificare quell’operazione.

Così semplice nella sua complessità, così granitica nella sua fragilità, così infallibile nella sua precarietà. Si avvicinò alla coniglietta e la chiamò una volta, due volte.

“Hopps” chiamò la terza volta, scrollandola leggermente. Lei aprì lentamente gli occhi, incrociando i suoi: vi lesse per qualche istante una pace che un tempo avrebbe riconosciuta come sua. In giorni ormai lontani, passati alla finestra ad osservare una bottega di fiori. Lo guardò ed in quei secondi la consapevolezza del dove e quando fece ritorno, catapultandola nella realtà e strappandola definitivamente da ciò che aveva visto dietro le palpebre.

Tornò accanto alla finestra, ad abbracciare il fucile, ascoltandola avvicinarsi ed affiancarsi a lui, imbracciando questa volta il secondo fucile.

“Sai, Jack…” borbottò. “Avrei proprio voglia di una ciambella in questo momento”. Ciambelle. Lui non poté darle torto.


 
Bogo si affrettò ad uscire dal suo ufficio; il corridoio era deserto, ma pulito ed ordinato: le pietre e le fionde dei teppisti non erano arrivate a sfondare quei vetri e lui vi si premette contro, guardando la piazza sottostante. I predatori erano in piazza ed una cacofonia di ruggiti, squittii e latrati riempiva l’aria; davanti alle porte d’ingresso i lupi osservavano la scena da dietro le palizzate mobili. E tra loro, quello squilibrato di Howler.

Era evidente che moriva dalla voglia di entrare in azione, di avere tra le zampe un valido pretesto per tirare fuori la pistola e auto eleggersi sceriffo, pistolero, bounty killer o qualunque cosa nel suo immaginario fosse provvisto di pistola e licenza di uccidere.

Sospirò: una cosa del genere era prevista ma per un breve, orribile istante il cervello gli si inceppò e rimase a guardare la scena senza riuscire a capirla appieno. Si sentì come un pesce fuor d’acqua, incapace di qualunque azione che non fosse boccheggiare e muovere spasmodicamente i muscoli. Fece saettare lo sguardo in ogni dove e finalmente vide ciò che non quadrava in tutto quel marasma.

Tra la folla di predatori, curva sulle quattro zampe, una leonessa non ruggiva: dardeggiava l’edificio con occhi famelici e disperati, reggendo tra le fauci un piccolo fagotto inerme color della sabbia. Il cucciolo non reagiva a nulla, le zampe penzolavano assecondando ogni movimento della testa della madre; persino la coda, che solitamente era un’appendice senziente nei cuccioli, era immobile che puntava l’asfalto. Fu colto dalla consapevolezza che quel cucciolo non era particolarmente ubbidiente né stava dormendo ed in quell’istante la situazione degenerò.

Il vetro davanti a lui si demolì con uno schianto, facendo improvvisamente entrare la brezza dell’esterno: fu talmente repentino che sentì freddo per qualche istante, mentre pezzi di vetro dalle molteplici forme e dimensioni crollavano su loro stesse con un assordante scroscio. Sul muro dietro di lui, accanto allo stipite della porta da cui era uscito, fumava un foro bruciacchiato e la brezza che entrava dalla vetrata distrutta portò alla sua attenzione un istante che puzzava di polvere da sparo.


 
Judy assistette alla scena attraverso il mirino del suo fucile: non riuscì a credere ai suoi occhi. Si volse verso il suo compagno, intento a spingere un altro colpo attraverso l’otturatore laterale dell’arma.

“Jack…” mormorò. La sua voce, pregna di desolante rassegnazione, attirò l’attenzione della lepre, che si volse a guardarla. Vide il naso della coniglietta fremere ed un sorriso si dipinse sul suo volto: Judy ebbe genuinamente paura di lui.

“Non ho sbagliato, Hopps” disse a denti stretti. “Anzi, è stato il mio tiro migliore”.

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Capitolo 10
*** Distopia Scarlatta ***


Distopia Scarlatta
 

Uno sparo.

Era stato uno sparo: di questo ne era sicuro. La sua eco risuonava ancora nelle orecchie di Howler, inondandogli il corpo di un flusso caldo e la spina dorsale di un brivido tutt'altro che spiacevole. I muscoli si tesero ed il pelo punse da sotto il colletto, la vista si ampliò ed i suoni divennero più intensi, con una ridondanza mai sentita prima.

Ringhiò un sorriso e si passò la lingua sulla labbra: sapeva da dove era partito il colpo e con un po' di fantasia poteva anche capire chi ci fosse dietro l'arma, ma per arrivare a quel bianco, delicato, morbido collo da stringere tra le mascelle avrebbe dovuto passare per un branco troppo grosso di predatori troppo grossi.

Predatori che davano segni di irrequietezza a quello stesso suono, le cui ultime risonanze andavano disperdendosi nell’aria. Per qualche istante regnò il silenzio, poi dal gruppo dei predatori risuonò il primo ruggito: qualunque cosa volesse dire non doveva essere lusinghiero. A quel ruggito, se ne aggiunse un altro, poi un altro ed un altro ancora e nel giro di pochi minuti nell’aria risuonava un concerto di suoni gutturali, acuti, roboanti e taglienti.

Un secondo sparo fece saltare un piccola porzione di asfalto poco lontano dalla zampa di un puma: quasi fosse un segnale, i predatori palesemente pazzi di rabbia si lanciarono contro il palazzo, contro i lupi, con un’assordante cacofonia di battaglia.

Per i primi istanti, Howler si rifiutò di credere a ciò che vedeva: rimase paralizzato come tutti i suoi colleghi, fissando gli occhi di una iena lanciata verso di loro. In quello sguardo sterile lesse tutto e niente: vide la voglia di giustizia e di vendetta, di amore e odio, di sprofondare nella natura primitiva e di tornare indietro nel tempo a prima di quella infernale nube azzurra. Ed allo stesso tempo non lesse nulla di tutto ciò. Prese spunto dalla iena senza nome e, estratta la pistola, spense quegli occhi per sempre con una singola flessione del dito.

Il terzo boato cancellò l’ultimo baluardo di ragione: in un singolo istante, i lupi estrassero le pistole ed i predatori li assaltarono.
 


Judy rimase paralizzata dallo sguardo con cui Jack le parlò: erano freddi, ma rilucevano di qualcosa molto simile alla follia. Trovò chissà dove la forza di deglutire e la lepre si volse nuovamente verso il fucile, scrutando la piazza attraverso il mirino telescopico.

“Adesso te ne do la prova” disse: rivolse il fucile verso la piazza piena di predatori e, prima che Judy potesse fermarlo, esplose un secondo colpo.

“Ma sei impazzito?!” esclamò sconvolta.

“Forse…” rispose vago lui. “Ma credo che i predatori abbiamo apprezzato”. Nell’aria rimbombò un terzo sparo: la coniglietta guardò disorientata il fucile di Jack, poi capì cosa stava succedendo e, vincendo la sua stessa reticenza a vedere, si affacciò.
La piazza era una dedalo di lupi e predatori: le pistole la fecero da padrone per qualche secondo, poi vennero gettate e fu solo un miscuglio di pellicce multicolore che turbinavano tra loro e ruggiti e guaiti e latrati. La coniglietta rimase immobile a guardare con occhi vacui ed increduli la città

marcia

prendere fuoco esattamente, fu il pensiero, come Jack Savage voleva. La lepre pareva aver perso ogni attrattiva per la baraonda che aveva generato e, staccato il mirino telescopico dal fucile, scrutava l’edificio municipale.

“Bogo è sparito” annunciò. “Starà già urlando ordini dal telefono del suo ufficio”. Si volse verso Judy, che ancora guardava la piazza con occhi assenti, lontana, proiettata nel ricordo di quella stessa piazza invasa dal calore del sole estivo e popolata dal viavai frettoloso e distratto della varietà di mammiferi di cui Zootropolis andava famosa.

Quella stessa piazza che andava macchiandosi di brani di pelliccia e sangue che già annerito dal calore di macchine date alle fiamme. Quando si riscosse fu per lanciare a Jack uno sguardo talmente pregno di rancore da sembrare un coniglio predatore.
“Era questo quello che volevi?” digrignò rabbiosa. “Una guerra civile? Per questo mi hai dirottato qui? Per prendere parte al tuo folle piano?”. La lepre le restituì uno sguardo calmo, lucido, padrone della situazione.

“Guarda ancora la piazza” ordinò a mezza voce. “Guarda di sotto, Hopps”. Lei obbedì, sebbene riluttante. La voce di Jack continuò a scorrerle nelle orecchie, placida e pacata. “Dimmi che quello che vedi non era una cosa che avevi intuito: dimmi che questo abominio primordiale non l’avevi previsto quando hai visto i fucili appoggiati alla finestra.

“Dimmi che c’era un altro modo per soverchiare un potere concentrato su pochi a danno di molti: dimmi che si poteva raggiungere un accordo semplicemente con una chiacchierata con Bogo o che sarebbe bastato aspettare che la situazione si stabilizzasse. Non devi fare altro che darmi un’alternativa a tutto questo ed io scenderò in piazza ad affrontare sulla mia pelliccia le conseguenze di ciò che ho fatto”. Lo sentì allontanarsi dalla finestra, ma la sua voce continuò ad invadere la sua testa come se non ci fosse altro.

“Questo è quello che succede quando l’armonia è inesistente; questo è quello che succede a fare preferenze così sbilanciate, a prendere il potere con i sotterfugi e con la paura. L’hanno fatto i francesi con il loro re, gli italiani con i loro invasori durante la guerra: adesso tocca a Zootropolis”. Judy lo cercò con lo sguardo: era immobile a dardeggiare l’edificio al centro della piazza.

Lo scompiglio, la cacofonia sottostante non accennava a scemare e quell’odore acre di plastica bruciata e gomma fusa stava appestando l’aria: Judy pensò distrattamente che probabilmente altre macchine erano state date alle fiamme, o sicuramente molti cassonetti. Mai avrebbe sospettato che proprio in quel frangente sarebbe riuscita a smettere di pensare a Nick per più di cinque minuti: per quanto si sforzasse, l’immagine del partner non voleva comparire in modo nitido nella sua mente.

Vedeva solo una sagoma rossastra in mezzo a nero e fumo e figure contorte ed indefinite che le dava quello sgradevole odore di fango, fiamme e polvere da sparo delle pallottole esplose. Una distante melodia elettronica risuonò nell’aria, lontana ma non per questo totalmente fuori posto. Sotto gli occhi attoniti di Judy, Jack, estrasse il telefono e rispose senza nemmeno guardare lo schermo.

“Qui Savage” rispose. Pochi secondi e gli occhi si dilatarono: l’espressione sul muso annunciò l’identità del suo interlocutore prima che potesse farlo la sua voce. “…salve sindaco Bogo”.


 
Quella dall’altra parte del piccolo apparecchio era una voce che aveva pensato di non sentire mai più: non che ne avrebbe sentito la mancanza, ma era ovvio che la situazione nella piazza sottostante non poteva che degenerare. Così come era altrettanto ovvio che la sua carriera da bufalo predatore era nata morta o comunque messa molto male. Digrignò i denti e soppresse a forza l’impulso di scagliare il telefono contro il muro più vicino, costringendosi ad un tono di voce professionale e pacato come ad essere padrone della situazione. Come i veri bufali predatori.

“Immagino che sia al corrente della situazione nella piazza del municipio” disse: era una domanda retorica ed entrambi lo sapevano.

-Sì, ne sono consapevole- fu la risposta.

“Posso chiedere il motivo di ciò?” continuò. La risposta dall’altra parte non si fece attendere.

-No, non può- replicò la voce della lepre: anche se lievemente distorta dall’apparecchio, Bogo poté chiaramente visualizzare il suo musetto ghignante. –Ma può intuirlo se vuole-. Lui sospirò, chiamando a raccolta tutta la forza di volontà necessaria in quel momento per mantenere la calma.

“Ha scatenato il panico nella mia città” disse piano, scandendo le parole e badando bene di non perdere il controllo. “Ho disordini nella piazza e probabilmente ne avrò per tutta la città grazie alla sua bravata: lei sa cosa succederà se non arriviamo ad un accordo, vero Savage?”.

-Certo che lo so- fu la risposta. –Ma non scenderò a patti con lei-.

“Posso sguinzagliare il corpo di polizia di tutto il paese contro di lei” annunciò: era incredibile come si sentisse improvvisamente calmo. Si sedette alla scrivania e fece ruotare la sedia, che scricchiolò sotto il suo peso. “Venga nel mio ufficio e discutiamone: è nell’interesse di tutti”.

-In questo momento lei non può sguinzagliarmi contro nemmeno un cucciolo di tartaruga- rispose Jack. –I suoi uomini si stanno divertendo troppo ad ammazzare predatori presi dal panico e credo che nessuno le presterà attenzione: dovrà aspettare che la rivolta sia soppressa, cosa che naturalmente ci darà tempo più che sufficiente per svanire-. Bogo aggrottò un sopracciglio, lasciando che il suo interlocutore continuasse a dare aria alla bocca.

Ci?

-Questa cosa finirà in un modo solo e lei sa perfettamente quale- continuò. –I disordini nati nella città non sono stati provocati da me: io ho solo dato il segnale di partenza-.

“Impeccabile, Savage” assentì lui. Sentiva i latrati, i ringhi ed i ruggiti attraverso la finestra sfondata appena fuori dalla sua porta e gli venne inspiegabilmente voglia di un caffè. “Ritengo che lei abbia fatto molto più di quanto le era stato assegnato”.

Non è solo?

-Non ho fatto nulla che il mio istinto non mi dicesse di fare- rispose Jack. In sottofondo, poteva indovinare dei secchi scatti, come di un fucile che veniva smontato. O caricato. –Lei ha trasformato Zootropolis in una distopia ed io l’ho solamente portata al suo zenit-.

“Come ho già detto, impeccabile” replicò lui. “Adesso mi perdonerà se la lascio ai suoi affari: non voglio più scartoffie da compilare di quante non me ne arriveranno già per questa rivolta. Già che ci siamo, potrei parlare con Hopps?”.

 

Jack le lanciò uno sguardo sterile e poi le porse il telefono; Judy guardò l’apparecchio come se fosse una bomba a mano senza sicura, ma lo prese e lo accostò lentamente all’orecchio.

-Salve Hopps- salutò la voce scocciata di Bogo dall’altra parte. La coniglietta si sentì proiettata indietro nel tempo, all’interno di un assolato ufficio di polizia: non era cambiato nemmeno il tono di voce, che lasciava trasparire tutta la seccatura che l’intera faccenda doveva provocargli.

“Capitano Bogo…” salutò con voce mesta. Avrebbe voluto digli di tutto: aveva la testa talmente piena di domande che non sentì la voce redarguirla sul chiamarlo sindaco e non capitano. Alla fine optò per la singola domanda che più di tutte lampeggiava e vorticava tra la sua testa ed i suoi occhi. “Perché?”.

-Non sono qui per dare spiegazioni, Hopps- replicò lui. –Solo per farle notare che non è stato molto cauto da parte vostra rintanarvi in un appartamento così vicino alla rivolta: non quando un lupo conosce perfettamente il tuo odore-.

Successivamente avrebbe riconosciuto che un tempismo del genere non sarebbe capitato nemmeno se si fossero messi d’accordo: nell’istante in cui Bogo terminò la frase, la porta sgangherata dell’appartamento venne sfondata. La serratura saltò per aria ed i cardini danneggiati cedettero, facendo cadere la porta con un tonfo ed un piccolo sbuffo di polvere ed intonaco scrostato. Sulla soglia apparve il muso stravolto, sbavante e ringhiante di Howler.

“…coniglietta” ringhiò. “Me lo dai l’uovo di cioccolato? Ho fatto il bravo cucciolo, sai? Ho ucciso, desiderato di uccidere, fatto finta di uccidere e poi ho ucciso ancora: visto? Sono un angelo”. Il cellulare cadde dalla zampa di Judy, paralizzata a guardare il predatore immobile alla porta. Sentì Jack poco lontano da lei trattenere il fiato.

“Tu sei pazzo…” sussurrò.

“Facciamo così” propose Howler, muovendo finalmente un passo verso di loro. “Io adesso ti prendo il collo tra i denti e ti uccido; poi ucciderò il tuo compagno e scenderò di nuovo in piazza a sedare la rivolta. Una volta che le acque si saranno calmate, andrò a cercare il tuo peloso tesorino e gli sparo: che pensi, non è una trovata geniale? Eh? Dai, dimmi se non è un piano perfetto!”.

Sentì la resistenza del muro sulla schiena: quando era arretrata così tanto? Era convinta di trovarsi al centro della stanza mentre parlava con Bogo. La divisa del lupo era strappata e stropicciata, il pelo arruffato e macchiato di rosso, la fondina vuota e la radio era sparita. Jack, che lo ricordava alle sue spalle, era magicamente apparso poco lontano da lei, immobilizzato, con gli occhi sbarrati e dilatati ed il naso che fremeva, le orecchie sull’attenti e le braccia che penzolavano sui fianchi, senza un briciolo di forza.

Judy trovò chissà dove la forza di riscuotersi: afferrò la zampa del compagno e studiò la stanza, alla ricerca di qualche via di fuga. La lepre si riscosse e la prima cosa che fece fu tastare con urgenza la fondina vuota sotto l’ascella.

“Niente ferri?” chiese ancora Howler. “Peccato eh?”. Il cervello della coniglietta cominciò a marciare.

Howler davanti a loro. Un appartamento diroccato. Un divano sgangherato e due tavoli. La porta sfondata alle spalle del lupo. Il fucile smontato appoggiato alla finestra. La piazza sotto di loro che ancora ruggiva e guaiva.

E un’altra cosa ancora: un suono lontano che fece fremere le orecchie dei due conigli e scattare in alto quelle del lupo. Un suono allo stesso tempo familiare e sconosciuto, terrificante e confortante, orribile e stupendo. Judy scommise la sua vita e si volse verso la piazza, con il naso che fremeva disperatamente e la speranza negli occhi.

Quel suono sovrastò per un istante tutti i versi ed i rumori della rivolta: serpeggiò destreggiandosi tra mille versi, clangori di tombini e crepitii di aiuole ed esplosioni di parabrezza lambiti dalle fiamme. Colpì le orecchie di tutti ma solo pochi lupi si fermarono ad annusare l’aria, prima di voltarsi verso una stradina limitrofa che costeggiava la stazione di polizia.

Da dietro l’angolo fece capolino Carlile Otocyon.

Scattò fuori dal nulla e s’immobilizzò in mezzo alla strada; gli occhi neutri puntati sulla piazza, le zampe leggermente allargate e la coda sollevata da terra. Tutto ciò che indossava era un vecchio e consunto paio di pantaloncini neri; sull’orecchio sinistro, ciondolava un orecchino. Rimase a fissare la folla che lo ignorava per qualche secondo, poi lanciò in suo richiamo e venne affiancato da un suo simile, poi da un altro ed un altro ancora.

Judy si ricordò della presenza di Howler alle sue spalle quando sentì la sua voce: era attonita, come se anche lui si stesse domandando come fosse possibile. Non era stato che uno dei tanti, ma chiunque si sarebbe ricordato un cognome così nella lista delle vittime del caso Tujunga. I quattro si lanciarono verso la piazza e la stradina dietro di loro vomitò una valanga di pellicce rosse, marroni, grigie, bianche e nere.

“Volpi…” mormorò Howler, dimentico dei due conigli accanto a lui.
 




NOTA DELL’AUTORE:

Sorpresa: non sono morto.

Salve a tutto coloro che hanno avuto la pazienza di aspettare. Voglio scusarmi con tutti per l’attesa e per aver fatto un po’ il “prezioso”: in questo periodo ho dovuto fare un lavoro di rielaborazione dello scritto, cancellare un po’ di parti inedite e sostituirle (certe volte interi capitoli). Mi sono preso questo periodo per cercare il meglio che avessi da offrire: se l’ho trovato, spetta a voi lettori deciderlo.

La buona notizia è che la storia è completamente ideata: tutto quello che devo fare è aggiornarla anche qui sul sito. Ancora pochi capitoli e questa serie arriverà alla sua conclusione; ovviamente lascerò un messaggio all’ultimo aggiornamento, ma ci tengo già adesso a ringraziare tutti coloro che stanno leggendo queste righe per la pazienza e la tolleranza dimostrata.

Alla prossima, stay tuned.
Leonhard

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Capitolo 11
*** Dieci minuti ***


È arrivata la cavalleria.

Quel pensiero era strano sotto molti aspetti; Judy lo analizzò distrattamente, come se fosse di scarso interesse, mentre fissava la valanga rossiccia travolgere la baraonda di mammiferi inferociti nella piazza. Howler sopra di loro sembrava completamente dimentico della presenza sua e di Jack: era un’occasione probabilmente imperdibile, ma il suo corpo non assecondò quel pensiero. Rimase ferma alla finestra, guardando le volpi assalire i predatori ed i lupi, immobilizzando a terra chiunque incrociassero con movimenti guizzanti, bassi sul ventre e i denti lievemente scoperti.

Judy si volse verso il vicolo, verso una volpe in particolare che aveva attratto la sua attenzione. Il manto era di un rosso molto più vivace degli altri e lo sguardo vagava per la piazza e gli edifici circostanti, come se cercasse qualcosa; Indossava quello che restava di una camicia bianca ed una paio di pantaloni stracciati.

Era dritta sulle zampe posteriori.

Howler si concentrò su quella stessa volpe; strizzò leggermente gli occhi, annusò l’aria ed un ghigno gli scoprì i denti talmente stretti da sbiancare le gengive.

“Wilde…” ringhiò, prima di lanciarsi fuori dalla porta.

Judy si riebbe all’istante: quell’opprimente odore da predatore folle del lupo stava svanendo, la consapevolezza che probabilmente non dovevano essere lì aveva fatto capolino nella sua mente assieme al sospetto che a Jack a quell’ora era collassato il cuore.

Oppure era per quello che aveva detto Howler, ma l’immagine di Nick ancora non si decideva a comparire. Si volse verso la lepre, trovandola impietrita a guardare la scena della piazza con occhi assenti, vacui e dilatati. Il naso era immobile fatta eccezione per qualche debole spasmo, unico segno che era ancora vivo.

“Jack…” mormorò. Stentò a riconoscere la sua stessa voce. “Jack, dobbiamo andarcene”. La lepre di mosse solo quando Judy lo prese per un braccio: sussultò e scattò all’indietro come se la sua presa fosse stata elettrica. Le lanciò uno sguardo colmo di panico.

“…cosa?” balbettò.

“Dobbiamo andarcene” ripeté Judy.

“E dove?” chiese lui: stava disperatamente cercando di prendere il controllo della situazione. “Se scendiamo lì sotto non ne usciremo vivi”.

“Siamo in pericolo anche qui” obiettò lei. “Siamo molto più in pericolo qui che laggiù”. Jack sapeva che era vero, ma proprio non riusciva a mettere insieme due pensieri coerenti. Prima i lupi, poi le volpi: non poteva finire bene. Istintivamente si concentrò sull’unico punto saldo della situazione.

“Howler…” mormorò. “…ha detto Wilde. lì sotto c’è Wilde”.

“Lo so” replicò lei. “E sta andando a prenderlo”.

Ed infine arrivò: l’immagine di Nick le piombò nella testa con la potenza di una fucilata. Arrivò l’immagine di Nick assalito da un branco di lupi composto da un membro di troppo; Nick colpito da un proiettile che aveva mancato il suo vero obiettivo; Nick che veniva coinvolto in un esplosione troppo vicina e troppo sbagliata; Nick che veniva raggiunto da un Howler fin troppo ansioso di fare la sua idea di lavoro.

L’immagine di Nick che andava in un posto sconosciuto in cui lei non avrebbe mai potuto cercarlo.

“Jack, io vado la sotto” disse con una fermezza aliena anche a sé stessa. “Se vuoi restare fai pure, ma se vuoi fermarmi allora sparami”.
Svanì oltre la porta sfondata dell’appartamento. Jack non le sparò.


 
Correndo per la tromba delle scale, si accorse di come tutta l’enormità della faccenda fosse in realtà così effimera. Si diede lo slancio sul muro per imboccare l’ennesima rampa di scale; l’immagine di Nick stava riprendendosi tutto il tempo in cui era stata assente, dandole le ali ai piedi ma allo stesso tempo distaccandola dalla realtà in un modo tutt’altro che inquietante.

Quando oltrepassò la soglia, il caos ed i suoni della piazza la investì ma Judy non si fermò: deviò dietro una macchina in fiamme evitando l’assalto di tre volpi contro un grizzly particolarmente agitato e corse verso l’ultimo punto in cui aveva visto la volpe in piedi.

Era Nick. Doveva essere Nick. Le prudevano le zampe al solo pensiero di essere a pochi minuti da lui dopo tutti quei giorni passati nel tentativo di raggiungere la fine del suo viaggio.

Ma dove doveva andare? Ed a fare cosa? Non riusciva a ricordarsi perché avesse preso il treno, il motivo per cui aveva rischiato per così tante volte

ma era successo veramente?

di finire veramente molto male. I piccolo branco di torelli nel vicolo cieco, lo sgattaiolare da un seminterrato ad un tombino aperto, le notti passate alla penombra di una lanterna coperta da un telo pregando che non trapelasse nessuna lama di luce all’esterno, i rumori alieni che l’avevano svegliata di soprassalto così tante volte. Tornata a casa avrebbe dormito per una giornata intera.

La volpe su due zampe era sulla cima di un piccolo cumulo di macerie, osservando attentamente la dedalo poco distante da lei con occhi attenti come se stesse cercando qualcosa. Si fermò davanti a lei ed incrociò i suoi occhi indagatori prendendosi qualche secondo per riprendere fiato. Prima che potesse dire qualcosa che nemmeno lei sapeva per certo, la figura rossastra parlò.

“Hopps? Che ci fai qui?” chiese la volpe. Le orecchie di Judy si afflosciarono dietro la schiena.

“Vixen…” mormorò lei, senza riuscire a mascherare la delusione nella voce. La volpe saltò giù dal cumulo e le balzò al fianco, guardinga.

“Veramente una pessima idea uscire allo scoperto” commentò. “Mi auguro che Savage ti stia coprendo da quella finestra”. Scosse la testa.

“Credo di si…non lo so” rispose Judy, cercando di darsi un tono. “Howler sa che eravamo la dentro”.

“Howler vedrà il suo” replicò la volpe con un ringhio. “Ci sono gli estremi per chiudere le sua cella dentro un’altra cella”. Un latrato alle spalle di Vixen ed una macchia rossa intercettò un lupo alle spalle della coniglietta; i due svanirono dietro un bidone in fiamme, tra guaiti e latrati ed accanto a Vixen comparve una volpe: aveva il suo stesso colore ed un paio di occhi verdi indirizzavano a Judy un’espressione ammiccante.

Avvolta attorno al suo collo vi era una sgargiante cravatta blu a righe rosse.

Ehi! L’agente tuut-tuut!

Davanti a quella volpe, la coniglietta seppe solo rimanere immobile: il naso fremette e sentì salirle un sorriso che non si palesò. Vixen si volse verso il fratello e sul muso le comparve il sorriso di Judy.

“Ehilà Nicky” salutò. “Ce l’hai fatta”. Lui si volse verso la sorella e fece guizzare la coda. “Pazzesco: ti lascio solo per un po’ e qui finisce tutto a ferro e fuoco”.

Ops: non tutti vanno d’accordo

Vixen si fece seria: volse uno sguardo verso il palazzo municipale, fissando la vetrata distrutta dietro cui c’era la porta dell’ufficio di Bogo. Sospirò e si volse nuovamente verso di lui.
“Sei sicuro di volerlo fare?” chiese. “Il tuo branco non potrà proteggerti lassù”.

“Cosa succede?” chiese Judy, distogliendo l’attenzione da Nick.

“Ho mobilitato l’esercito: tra qualche minuto sarà qui” spiegò Vixen. “Dobbiamo portare giù Bogo o faranno irruzione. E visto lo stato della piazza, ci andranno pesante nell’istante in cui scenderanno dai camion”.

“E toccherebbe a Nick andare lassù?!!” commentò lei.

“No: vado anche io” rispose lei. “Nick è ricercato: Bogo gli sparerà nell’istante in cui lo vedrà oltrepassare la soglia, senza contare che è incapace di comunicare. Io devo andare con lui”.

“No” commentò la voce di Jack. La lepre fece la sua comparsa alle spalle di Judy: guardava le due volpi con espressione terrorizzata e stringeva la pistola tra le zampe come fosse un salvagente in mezzo alla bufera. Nick abbassò le orecchie e lo guardò con occhi indecifrabili. “Andrò io con lui”.

“Onestamente, non credo sia una buona idea” replicò Vixen pacata. “È evidente che tu sei troppo coinvolto: non ti permetterò di uccidere Bogo”.

“Se avessi voluto ucciderlo l’avrei fatto dal balcone” replicò la lepre. “E poi, proprio perché sono coinvolto voglio essere io a risolvere questa cosa”. La volpe fece per ribattere, ma lui la fermò. “Senza contare che la situazione in piazza richiede la supervisione di un loro simile: tu non sei stata infettata dal siero e puoi dirigere l’azione, persino intervenire se l’occasione lo richiede”. Abbassò lo sguardo. “…al contrario di me: io qui sono inutile”. Nick si volse verso la sorella.

Anche io glielo ripeto di continuo.

“Va bene” rispose infine. “Hai ragione”.

“Vengo anche io” decise Judy. Gli occhi di tutti andarono a lei: era palese che se Nick avesse potuto parlare si sarebbe opposto, ma la sua decisione venne accolta con pochi secondi di silenzio. Vixen, guardandola, non riuscì a scorgere la coniglietta emotiva ed istintiva che aveva conosciuto quando Zootropolis era ancora…beh, era ancora Zootropolis.

“Ok” rispose semplicemente: inutile fare questioni. Nick si diede una rapida scrollata e scattò accanto ai due conigli. Judy e Jack si ritrovarono stretti alla pelliccia rossastra della volpe, lanciati a tutta velocità verso l’edificio. La coniglietta afferrò la cravatta e la strinse, premendosi contro la pelliccia soffice dell’amico.

La cosa ti fa sentire a disagio?

La cacofonia svanì come per incanto: nelle sue orecchie c’era solo il fruscio del vento e l’odore di Nick le invadeva le narici. Era un odore che sapeva di foglie, di sottobosco e di incuria: un odore selvatico, ma suo. Sollevò lo sguardo oltre le orecchie: correvano a tutta velocità verso la porta del palazzo municipale saltando tombini aperti, dribblando zuffe selvagge e schivando attacchi da parte dei pochi lupi rimasti liberi dalla presa delle volpi.

Si volse appena in tempo a vedere Vixen alle prese con un lupo che assomigliava molto a Howler, poi un piccolo schianto ed il muro interno del municipio chiuse fuori quel caotico mondo. Nick non rallentò: si fiondò per scale, corridoi ed uffici vuoti senza mai rallentare; Judy tuffò nuovamente il muso nella pelliccia rossa e solo quando lo sentì fermarsi sollevò nuovamente la testa.

Jack scese in fretta, nervosamente; Judy saltò giù e Nick ne approfittò per grattarsi la schiena e scrollarsi la pelliccia. Davanti a loro, una grande porta in legno lucido con la maniglia in ottone ed una chiave appesa alla toppa; una targhetta luccicante informava che era l’ufficio del sindaco.

Mayor Bogo Beest.

Tra i tre serpeggiò un silenzio nervoso, attento, concentrato. Jack ebbe il coraggio di dare voce ai pensieri di tutti.

“Abbiamo solo questa possibilità” disse. “Nervi saldi tutti quanti: ci penso io”. Bussò tre colpi alla porta: dall’altra parte, la voce vagamente annoiata dell’ex capo della polizia li invitò ad entrare.

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Capitolo 12
*** Scacco Matto ***


Nella sua testa passava e ripassava sempre lo stesso pensiero: scorreva davanti ai suoi occhi e svaniva oltre il lato destro solo per ricomparire sul lato sinistro ripetendosi sempre, riproponendosi di continuo, in qualche modo pavoneggiandosi come quegli struzzi impomatati che aveva visto nello spezzone di un film su FurTube. Andava e veniva come un sottotitolo, come un messaggio in sovraimpressione con uno schermo blu sullo sfondo; in quel momento non escluse a priori la possibilità di essere definitivamente, irrimediabilmente,

finalmente

uscito di testa. Si distaccò dalla finestra dell’ufficio e si sedette pesantemente sulla sedia del sindaco, riflettendo immediatamente dopo sulla possibilità che in fondo lo era sempre stato. Possibile che il siero modificato avesse come effetto collaterale una forma di follia che obbligava a prendere il potere su una città in quel modo?

Una città che sicuramente lo meritava, ma quel pensiero aveva perso ogni efficacia. Si sentiva spaesato e nonostante la stanza insonorizzata poteva quasi sentire la baraonda che stava ruggendo nella piazza sotto di loro, ben lungi dal suo termine. Ma nonostante tutto non era pentito, quello era l’unico pensiero che sembrava essere lontano anni luce da lui: aveva fatto quello che doveva fare ed avrebbe fatto quello che doveva fare e questa consapevolezza gli donò la sua solita voce annoiata nel rispondere ai tre colpi alla porta.

“Ah, i tre moschettieri” commentò guardando con occhi neutri Judy, Jack e Nick attraversare con passo deciso e sicuro la moquette dello studio e fermarsi a qualche passo dalla sua scrivania. Non risposero alla provocazione e nello studio aleggiò un silenzio che gli permise di studiare gli intrusi; l’ex-agente Hopps lo guardava con occhi decisi, senza la minima traccia di emozione che non fosse un solenne ed impettito risentimento quasi comico nella cornice della piccola coniglietta. Lo sguardo di ghiaccio di Jack era non meno comico, ma più azzeccato secondo la reputazione che per anni aveva aleggiato attorno al suo nome.

E poi c’era Wilde: una volpe a quattro zampe che palesemente aveva visto giorni migliori, probabilmente tutti iniziati con una doccia ed una pettinata alla coda. Il suo sguardo era neutro, forte e deciso come quello di ogni predatore; Bogo lo riconobbe come lo sguardo di un animale che stava cercando di capire se aveva davanti a lui una preda o qualcosa al cui cospetto era suo dovere stare tranquillo. Jack mosse infine un passo e si schiarì la bocca.

“Sindaco Bogo…” salutò. Lui ricambiò il saluto con un lento cenno del capo.

“Posso fare qualcosa per voi?” chiese. La lepre non ruppe il contatto visivo: se fosse sorpreso, inorridito o infuriato per la domanda o per il suo tono, Bogo non lo seppe mai.

“Avete fatto un bel casino in questa città” disse. “Rioni isolati e malgestiti, unità addette alla sicurezza cittadina assolutamente inadeguate, leggi che sono nulla più che regole non scritte ed una totale assenza di qualsivoglia assistenza: io non sono un genio come poteva essere la Duecento, ma non ho alcun dubbio né vergogna a chiamare tutta questa situazione anarchia. Noi siamo venuti qui dentro a fare una cosa che l’intera città si è palesemente dimenticata di poter fare”.

“E sarebbe?” commentò lui. La risposta fu data con altrettanta neutralità.

“Parlare, Bogo” replicò Jack; si avvicinò alla scrivania e si arrampicò sulla sedia davanti ad essa. “Parlare”.

“Forse voleva dire trattare…” osservò il bufalo. Quel pensiero era tornato, ma questa volta lo sfondo non era blu. Lui fece una spalluccia.

“Lo possiamo chiamare come vuole” disse. “Ma che sia una chiacchierata o una trattativa, bisogna sempre parlare: è ciò che ci distingue dagli animali primitivi”.

“Dai predatori, Savage” corresse malignamente Bogo. La lepre aggrottò un sopracciglio, mentre Judy tamburellò stizzita la moquette con una zampa. “Da quello che mi risulta, Wilde non è di molte parole”.

“Non credo sia nella condizione di fare del sarcasmo, sindaco” rimbeccò freddo Jack.

“E perché no?” replicò lui. “Perché c’è una città nel caos? Perché sono tornate le volpi?”.

“Esattamente, capitano” replicò Judy, guadagnandosi l’attenzione di Bogo ed un’occhiataccia da Jack.  Il Bufalo scoppiò sonoramente a ridere: sembrava genuinamente divertito.

“E quindi dovrei avere una paura matta di ciò che sta accadendo” commentò. “Per favore, Hopps. Dove pensa di essere, nel Montone degli Anelli? La città è sempre stata in preda al caos: il siero, gli Ululatori ed il caso Tujunga sono soltanto gli episodi più eclatanti. La città è arrivata al suo zenit, al punto di rottura e fidatevi, è solo un bene se tutta questa tensione sfocia in questo modo.

“Sì, sono tornate le volpi. Questo non vi fa riflettere? Non vi fa venire la curiosità di sapere almeno dove sono state? E proprio tu Hopps, così palesemente fissata con quel caso, dovresti solo trarne vantaggio da tutto questo: adesso che hai nuovamente al tuo fianco Wilde, non dovrebbe essere un problema fare luce su ciò che è veramente successo”.

“Non occorre, so già cosa è successo” replicò lei, maledicendo subito dopo la sua lingua lunga. Il sorriso del bufalo, tuttavia, non appassì.

“Oh certo” disse. “Posso immaginare che tu conosca il rapporto mai stilato di quel caso: lavorando con Savage e la Duecento immagino che qualche voce ti sia arrivata all’orecchio. Ma non ti sei mai chiesta come sia stato possibile? Non ti è mai capitato di domandarti come sia successa una sparizione di massa del genere di una singola specie animale?”. Si sporse verso di lei; con la coda dell’occhio vide i nervi di Jack tendersi, ma non dedicò loro l’importanza che avrebbe attribuito in altri casi.
“Non ti sei mai chiesta chi ci fosse dietro il caso Tujunga?”.

“Stiamo sviando il discorso, sindaco” s’intromise Savage, pacato. “Non siamo qui per rivangare casi passati”. Bogo assentì e tornò seduto, ma non mancò di riconoscere che il seme che aveva lanciato era atterrato nel posto giusto: non ci avrebbe messo tanto ad attecchire.

“E allora di cosa vogliamo parlare?” chiese.

“Della sua deposizione” fu la risposta. Diretta e brutale, esattamente il genere di risposte che gli piacevano. Sbuffò un sorriso e rimase in ascolto. “Noi le ordiniamo di rassegnare in questo momento le sue dimissioni e di uscire dall’edificio: il ritorno delle volpi è guidato dall’FBI, da cui si farà arrestare per abuso di potere d’ufficio, istigazione a delinquere, tentata strage ed un altro paio di reati a cui sicuramente sapranno dare un nome”.

“E con quale autorità mi ordinate una cosa del genere, se posso?” chiese ancora Bogo. Era tranquillo, come se sapesse di avere il coltello dalla parte del manico. Jack gli restituì uno sguardo glaciale.

“Con l’autorità che lei stesso ci ha conferito” rispose.

“Ah, con l’autorità dei Quattro Cavalli” commentò lui. Si abbandonò contro lo schienale della sedia. “Forse è il caso che vi informi che ufficialmente non siete mai esistiti: già prima non avevate alcun tipo di autorità ed ora…beh, facciamo la conta dei Cavalli sopravvissuti. Abbiamo una lepre disconosciuta e fuggiasca, una ex-poliziotta ed una volpe incapace di esprimersi: in questo momento non avete l’autorità nemmeno per far smontare una bancarella al mercatino delle pulci”.

La zampa di Judy era intorpidita a furia di tamburellare a terra. Era furiosa, era frustrata, era tristemente consapevole che loro non potevano nuocere a Bogo in alcun modo; era sul punto di prendere la rincorsa e fare…cosa voleva fare lei?...quando una zampa volpina si frappose fra lei e la porzione di pavimento davanti subito dopo.

Nick era lì, immobile ed apparentemente calmo. Judy lo studiò come se lo vedesse solo in quel momento: aveva davanti la sorgente di tutti i mali, uno dei pochi mammiferi in grado di indicargli il colpevole della morte di suo padre, eppure era fermo. Guardava Jack perdere terreno in una trattativa che non avrebbe mai vinto con uno sguardo altezzoso e pacato; deglutì pensando che quello era lo sguardo che aveva sempre riservato a Bogo in un tempo apparentemente remoto, quando entrambi indossavano una divisa blu.

Esplose prepotente il bisogno di un contatto con quella zampa, ma fu stroncato dal frastuono di una porta che sbatteva nel corridoio dietro di loro. Un rapido ticchettio di artigli contro il marmo e dalla porta aperta dello studio comparve Howler; il pelo era arruffato, la divisa lacera, gli occhi sbarrati in un’espressione di rabbiosa follia e i denti scoperti allo spasmo. Judy vide il pelo agli angoli della bocca macchiati di rosso.

Di Howler si stava occupando Vixen: cosa le è successo?

Judy ebbe appena il tempo di formulare la silenziosa domanda, poi Nick svanì dal suo fianco in un lampo rossastro. Alla vista della volpe scagliarglisi addosso, Howler trasformò il suo ringhio in un orripilante ghigno poi accolse la carica di Nick ed entrambi rotolarono fuori, svanendo dietro l’angolo con un concerto di ringhi, latrati e guaiti. Judy fece per seguirli, ma Jack la fermò.

“Non farlo, Hopps” disse pacato. “Di Howler si occuperà Wilde”. La coniglietta non si volse nemmeno.

“Sai una cosa, Jack?” disse con voce ferma. Strinse il piccolo pugno, radunando il coraggio di parlare. “Di tutto ciò che ha detto il capitano Bogo fino a questo momento, solo su una cosa mi trova perfettamente d’accordo”. Si volse verso la lepre. “Tu non hai l’autorità per fermarmi”.

“Lì fuori è pericoloso” replicò lui. Come a sottolineare il concetto, dal corridoio arrivò un guaito più forte accompagnato dal rumore di un vetro che andava in frantumi. “Non sei tu a dover salvare Wilde: le cose veramente importanti sono dentro questa stanza, non fuori”.

“Fai quello che devi fare” sbottò Judy. “Se dovessi scegliere tra questa città e Nick, per quanto mi riguarda Zootropolis può anche bruciare”.

“Zootropolis sta già bruciando” rispose Jack. “Comunque è vero: non ho l’autorità per fermarti. Solo, evita di farti sbranare”. Si disinteressò completamente alla coniglietta e si volse nuovamente verso Bogo, che guardava Judy lasciare la stanza con scarso interesse. Saltò sulla scrivania, attirando nuovamente la sua attenzione, si avvicinò e gli abbassò il collo taurino dalla cravatta; con l’altra zampa afferrò un tagliacarte e glielo appoggiò alla gola.

“Oppure possiamo rientrare ognuno nel proprio personaggio, sindaco Bogo” disse. La voce non era più fredda, ma compassata e tradiva un tono tagliente. “Si ricordi che prima del mio ingresso in polizia ero un assassino e ciò che quel lavoro insegna non lo si dimentica nemmeno in cento anni”. L’espressione di Bogo cambiò: il sorrisetto svanì ed un espressione grave gli invase il muso. “Può dare le sue dimissioni e farsi arrestare oppure possiamo raccontare di come un poliziotto, assunto personalmente da lei, nel mezzo di una crisi data dai suoi problemi mentali l’abbia uccisa e di come Wilde si sia prodigato alla cattura ma che, sventuratamente, il lupo era così mentalmente devastato da obbligarlo ad ucciderlo”.

“Non lo puoi fare” costatò lui. Jack sorrise: era maledettamente sinistro.

“Ah no?” soffiò lui. “Howler è su questo piano, Wilde lo sta combattendo e, cosa più importante, in questa stanza non ci siamo che io e lei: è convinto di ciò che ha appena detto?”.

 
Tutto fini in pochi secondi, troppo pochi perché Bogo potesse riflettere bene sulla sua situazione: riuscì solo ad elaborare che, in fin dei conti, Savage poteva effettivamente fare quello che aveva appena detto e molto probabilmente la sua storia sarebbe passata per vera. Vide la sua immagine riversa sulla scrivania con un lungo e profondo squarcio nella gola, quei tre piccoletti che amavano farsi chiamare con un titolo altisonante come i Quattro Cavalli scendere in piazza e dare istruzioni alle volpi perché calmassero definitivamente le acque. Li vide prodigarsi per distruggere tutto ciò che aveva creato e ricostruire una città che non si meritava nulla se non il caos, l’oblio.

Ma vide anche l’immagine della pistola carica e senza sicura che riposava tranquilla nel cassetto della scrivania, a pochi centimetri dalla sua zampa: avrebbe potuto prenderla se avesse giocato bene le sue carte. A tradirlo fu nuovamente il pensiero in sovraimpressione sullo sfondo blu: lo accecò per quel secondo di troppo, necessario a Nick di saettare dentro l’ufficio e buttarlo nuovamente contro lo schienale con una forza tale da strappare la cravatta dalla zampa di Jack.

I nasi dei due animali erano a pochi centimetri di distanza; Bogo era fisicamente incapace di distogliere gli occhi dalla volpe: gli occhi erano sbarrati e pericolosamente piccoli, il pelo irto e scarmigliato, i denti scoperti e quel basso ringhio prolungato mandava zaffate di morte. Ma fu solo quando notò gli angoli della bocca gocciolare sangue che il suo pensiero fisso venne accompagnato dalla paura: una paura ancestrale, primitiva, che mai in vita sua aveva provato.

Un paura che donava finalmente una risposta.

 
Sono un bufalo predatore.
Niente di personale, tesoro.
 



 
NOTA DELL’AUTORE:

Alla fine ci siamo: ci ho messo un bel po’ tra pause e ritardi, ma alla fine ci siamo arrivati.

Naturalmente mi riserverò un altro angolo, ma già da adesso ci tengo a ringraziarvi per il vostro supporto e la vostra pazienza. So che alcuni di voi si sono persi per strada e non posso assolutamente biasimarli, ma i miei ringraziamenti vanno anche a loro, a tutti coloro che hanno letto anche solo un capitolo di questa saga.

Con il prossimo capitolo giungeremo al tanto sospirato epilogo di questa storia: rinnovo l’appuntamento al prossimo aggiornamento, online quanto prima con la speranza che sia una fine degna delle aspettative.

Alla prossima, stay tuned
Leonhard

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Capitolo 13
*** Un Mondo Migliore ***


Un mondo migliore


Giorno 3

L’arresto è risultato di una facilità quasi deludente: il caos era dilagato dalla piazza all’intera città come una pandemia contagiosa e la squadra è uscita dalla porta di servizio del palazzo municipale. Bogo era strano: come un animale rassegnato al suo ultimo viaggio, verso una pensione che sapeva avrebbe odiato ma che era obbligato a vivere.

Era uscito dalla porta e, dopo averci squadrati tutti, era entrato nel camion dell’esercito senza proferire parola; le zampe erano assicurate alla schiena con due fascette bianche e lo sguardo era spento e vacuo. Normalmente l’avrei pungolato con qualche battuta tagliente (sono brava in questo), ma in quel momento tutto quello che sono riuscita a fare è stato aprire lo sportello e lasciare che i militari lo facessero salire spingendolo dentro con le canne dei fucili.

Savage l’aveva osservato sedersi nell’angolo; quando i portelli chiusi l'hanno obliterato dal mondo, ha rivolto a me un’occhiata con cui mi suggeriva di non indagare su ciò che era successo lassù: l'ho assecondato, domando la fitta di protesta che era salita dalla mia spalla. Howler sarà stato anche pazzo da legare, ma non si poteva dire che mordesse male o piano; l’avevo visto cadere giù da una finestra sfondata per andare a morire dietro un cumulo di grossi calcinacci: potevo a grandi linee immaginare il motivo per cui si era fatto un tuffo carpiato giù dall’ultimo piano del palazzo municipale, ma mi sono dovuta accontentare di questo.

Quel camioncino è stato l’unico a lasciare la città: per i giorni successivi il coprifuoco necessario per far calmare le acque senza che dilagasse fuori da quelle mura aveva permesso a malapena ci uscire per i genere di prima necessità. Una volta domata la rivolta nella piazza e nelle vie di tutta la città, Zootropolis è caduta in uno stato di apatica sonnolenza: chiunque si sarebbe aspettato disordini, movimenti politici più o meno estremisti e manifestazioni anche violente, ma nulla di tutto ciò. Complice probabilmente la paura, i pochi mammiferi avvistati per le strade avanzavano spediti ed in silenzio, guardandosi attorno come se temessero un attacco.

I predatori non si comportavano diversamente: erano stati ricacciati nel loro rione violentemente, come fossero degli invasori che avevano sconfinato. Non penso che fosse la soluzione migliore, ma sicuramente è stato un palliativo. L’unica cosa che mi resta da fare è sperare che sia solo provvisoria.

Savage è


 
Le dita di Vixen esitarono, dandole il tempo di chiedersi per la prima volta cosa diavolo stesse facendo. Fece vagare lo sguardo per la camera d’albergo, o quello che ne restava, che si era scelta per quel lavoro: era sporca e rovinata, come tutto nella città. Le pareti scrostate racchiudevano un salottino che due mesi prima doveva essere veramente di ottimo gusto, ora ridotto ad un magazzino di mobili sfasciati e pezzi laceri di tappezzeria con cocci di vetro dappertutto.

Non era esattamente il luogo ideale in cui lavorare ma era un posto nascosto e silenzioso, proprio ciò che le serviva. Aveva steso il rapporto di ciò che era successo in quei giorni e l’aveva spedito alla centrale, ma appena chiuso il documento ne aveva aperto un altro: alla vista della candida pagina digitale, del cursore che lampeggiava sullo schermo, le dita avevano acquisito vita propria. Loro scrivevano e lei leggeva, non c’era un vero e proprio controllo delle parole che comparivano sulla pagina bianca quanto un riflettere che effettivamente esprimevano i suoi pensieri, davano voce alle sue incertezze ed ufficializzavano ai suoi occhi le osservazioni che aveva fatto durante tutta quell’operazione.

Eppure non aveva la più pallida idea del perché stesse scrivendo quelle cose.

Erano righe che non sarebbero mai state lette, parole che non si sarebbero mai espresse: quel documento non era voluto, non sarebbe stato pubblico e sicuramente non sarebbe mai diventato ufficiale ma che aveva ritenuto importante scrivere. Si lasciò sfuggire un singulto al pensiero di come avrebbe reagito Nick all’idea che la sua professionale sorella scrivesse quello che era sostanzialmente un diario personale.

Ma Nick sarebbe venuto a suo tempo: adesso c’era un’altra questione su cui arrovellarsi.

Lanciò un’altra fugace occhiata al documento prima di alzarsi e misurare la stanza fatiscente con ampie falcate. Jack si era chiuso nel palazzo municipale dopo l’arresto di Bogo e quelle rare volte che l’aveva visto confabulava con dei mammiferi dall’aspetto professionale, delle dinoccolate giraffe che poteva giurare di aver visto nel database che riguardavano ingegneri e scienziati.

Dalla parete della cucina cedette un gancio ed un mestolo cadde sul piano scheggiato in marmo: voltarsi e puntare la pistola nella direzione del rumore fu un movimento unico ed involontario. Guardò la stoviglia oscillare pigramente attraverso il mirino per qualche secondo, poi ripose l’arma nella fondina ascellare sospirando il pensiero che quella tensione non se ne sarebbe mai andata. Si volse nuovamente verso il piccolo laptop sul tavolino e le parole ricominciarono a scorrerle davanti agli occhi: si affrettò a sedersi e le dita ricominciarono a volare sulla tastiera.
 


Savage è cambiato: strano sotto certi aspetti, ma gli leggevo negli occhi una determinazione dettata da un’idea. Adesso mi rendo conto che il termine adatto è ‘piano’, ma lì per lì mi ha dato parecchio da pensare. Parecchie volte l’ho visto mostrare a dei mammiferi un taccuino di cui non mi ero accorta, ma non mi ha mai permesso di vederlo; gli effetti del vaccino risvegliano l’istinto, una cosa che evidentemente nemmeno Savage può sopprimere a comando.

Non partecipa ai lavori di ricostruzione e probabilmente non lo farà mai: non mi sento di lodarlo per la dedizione alla sua idea, ma nemmeno di compatirlo per la sua paura. Se devo essere sincera, ho paura anche io.

I lupi sono stati tratti tutti in arresto. Quelli sopravvissuti, certo. Howler è stato solo uno dei tanti, molti sono stati trovati sotto calcinacci, macchine in fiamme e ce n’è stato uno per cui è stato necessario una pala per raccoglierlo: un’esperienza disgustosa che si aggiunge alla lunga lista di cose da non augurare mai a nessuno.

E poi ci sono Nick e la piccola Hoppity: quei due sono uno dei tanti motivi del mio desiderio di chiudere alla svelta questa storia. Ho ragione di pensare che il suo stato e quello di tutti i predatori non cambierà per molto tempo, probabilmente più tempo di quanto me ne sia concesso su questo mondo. Saranno necessari studi e ricerche, esperimenti e tentativi, ma per quanti sforzi si faranno non credo che avrò più la fortuna di sentire mio fratello fare quelle battute stupide che ci facevano tanto ridere da cuccioli.

E poi Judy: l’ultima volta che l’ho vista mi ha informato che avrebbe preso in prestito mio fratello per qualche giorno. Informato, non chiesto. Quella coniglietta è cambiata, non è più la stessa che mi ha urlato sotto mentite spoglie di volere a mio fratello più bene del dovuto e, perché no, del necessario: era seria, pacata, permeata di una sobrietà e di una pacatezza che non ho mai visto in nessun coniglio. Ironico che abbia dovuto assistere da civile al lato peggiore del suo vecchio lavoro; mi domando cosa farà adesso.


 
Si separò nuovamente dalla tastiera: non era tutto, ma già si sentiva stranamente meglio. Era come se si fosse tolta un peso dalla coscienza, come se fosse finalmente riuscita a sciogliere un groppo alla gola di giorni. Il cursore lampeggiava ma il suo richiamo non era più così forte.

Aprì il rubinetto della vecchia cucina e lasciò defluire l’acqua giallastra, riempiendo un bicchiere scheggiato con quella limpida. Lo avvicinò alla bocca, desiderando qualcosa di più forte, magari con un marcato odore di alcol. Aveva scritto di Judy per ultima perché era una cosa da marcare, un particolare che voleva che rimanesse impresso nella sua memoria; avrebbe potuto scrivere di tutti i predatori rispediti nel rione, delle espressioni sul loro muso che esprimevano ciò che non avrebbero mai potuto con le parole. Aprì gli stipetti, rassegnata a doversi accontentare della speranza di una tazza di the prima di tornare al computer.


 
In definitiva non so bene cosa provare al ricordo di tutto quel caos. Orrore, certo, disgusto raccapriccio ed anche un briciolo di vergogna davanti al dato di fatto che la storia è una grande maestra che rimane sempre inascoltata. So la storia di Zootropolis e mi fa paura ritrovarmi a pensare che le intenzioni di Bogo forse erano giuste, magari addirittura buone: il pensiero che i metodi fossero sbagliati mi fa tirare un sospiro di sollievo ma ho paura che sia solo un effetto placebo.

Io non so cosa succederà adesso. Zootropolis è una città disastrata, annichilita dalla sua rabbia ed implosa nel suo malcontento e nella sua cattiva gestione; se veramente Savage ha un’idea mi auguro che sia buona e che riesca a fissare degli argini a questa paura invisibile ma presente che serpeggia tra le strade. Può essere solo una vana speranza ma mi auguro veramente che, con il tempo, Zootropolis torni ad essere la città in cui chiunque può essere ciò che vuole.


 
Era giusto ricordare Zootropolis in quel modo? Era eticamente logico parlare di quella città come una utopia di cui tutti avrebbero sentito la mancanza? Perché lei, onestamente, non l’avrebbe sentita. Si sentì in dovere di aggiungere una riga in fondo.


 
Io sono una volpe.
 


Sospirò: avrebbe dato più soddisfazione scriverla a mano.

Tornò alla riga uno e rilesse tutto ciò che aveva scritto: rilesse con metodo, concentrata nel trovare errori di battitura e correggendo segni di interpunzione. Arrivò alla fine della revisione che il sole ormai era alto nel cielo. In lontananza, il campanile del quartiere informò una città poco più che fantasma che erano le undici e mezza del mattino.

Pochi clic con il mouse e si alzò dalla sedia; afferrò la giacca abbandonata sullo schienale della sedia ed uscì dalla stanza, diretta alla piazza del municipio. Sulla scrivania, l’icona della batteria sul computer stava lampeggiando di rosso: pochi secondi e il desktop sbiadì fino a diventare nero, nascondendo per sempre al mondo l’informazione a schermo che il documento era stato eliminato con successo.

 
--------------- o ---------------
 

Dalle espressioni che vedeva sul muso di tutti i presenti, Jack capì di aver avuto l’idea giusta. Non perché fosse corretta o perché nessuno ci avesse pensato ma perché si era tutti improvvisamente resi conto che era l’unica cosa da fare per riavere indietro un minuscolo barlume della vecchia Zootropolis. Vixen lo guardava con uno stupore grossolanamente contenuto, mentre l’equipe di ingegneri presentava musi di gazzelle completamente sconvolte.

“Fammi capire, Savage” commentò la volpe, facendo un passo avanti. “Un collare?”.

“Un collare” ripeté la lepre con un singolo cenno della testa. “Sarà munito di un altoparlante per la comunicazione con le prede in modo che possano tornare ad esprimersi: lo indosseranno tutti i predatori per almeno cinque generazioni, dopodiché si studierà l’evoluzione delle singole specie tramite i nascituri sperando che torni in loro il processo evolutivo”.

“Non può sperare che un processo evolutivo che ha richiesto secoli torni nel giro di cinque generazioni” commentò una gazzella. “Ciò che è successo è da considerarsi una involuzione a tutti gli effetti: non si può pensare che…”.

“Questo è il motivo per cui ho previsto la scarica” interruppe Jack.

“Ecco, bravo” disse Vixen. “Parliamo della scarica”.

“Immagino sia quella che ti lascia perplessa” osservò lui.

“Non dovrebbe?” replicò la volpe. “Spiegami di nuovo in cosa consiste e cerca di convincermi”.

“Non devo convincere te, Wilde” disse lui con voce ferma. “Ma se proprio ci tieni, la scarica serve per tenere tranquilli i predatori: oltre una certa frequenza cardiaca, il congegno rilascia nel corpo una scarica elettrica non letale ma moto dolorosa per dissuaderle il mammifero a qualsiasi cosa stia pensando di fare”.

“Molto discriminante, non c’è che dire” commentò Vixen. “Perché non riesco a non pensare che una cosa del genere arrivi dal fatto che anche tu hai respirato quel gas?”.

“Puoi pensare quello che vuoi” replicò Jack. Stava giocherellando con una penna e lo sguardo era pacato: stava indubbiamente diventando bravo a contenere la paura dei predatori. Oppure sapeva che Vixen non avrebbe mai fatto nulla per nuocergli: quella consapevolezza doveva dare un forte aiuto nel contenere la voglia di scappare o di spararle oppure di fare tutte e due. “Se proponi una soluzione alternativa a questa, ti giuro che non perderò una parola della tua spiegazione”.

Cadde un silenzio interdetto: Jack poteva quasi vedere i cervelli dei mammiferi sforzarsi di trovare una soluzione alternativa e, consapevole che non l’avrebbero trovata, sospirò. Assecondò il silenzio per qualche minuto poi uscì, annunciando la sua voglia di caffè ed ascoltandola precipitare nell’insignificanza. Si avviò per il corridoio distrutto alla ricerca da un distributore automatico ancora integro e funzionante.

Judy e Nick erano partiti ormai da due giorni. Non le aveva detto dove sarebbero andati né a fare cosa ma erano cose facilmente intuibili; il fatto che avesse smesso di parlarne non aveva sicuramente cancellato la sua determinazione e, se era riuscito almeno ad inquadrare l’ex-agente Hopps, nulla avrebbe mai avuto questo potere su di lei.

Si ritrovò a fare una spalluccia: lei era diversa da tutta la città e probabilmente non avrebbe accolto la verità con l’indifferenza, ma avrebbe potuto fare veramente molto poco per farla sorgere. Trovò la macchinetta ed inserì una manciata di nichelini prima di essere raggiunto da Alopex; le scoccò uno sguardo attento, sentendo i peli della schiena drizzarsi per riflesso. La volpe se ne accorse ma non ci fece particolarmente caso.

“È un’idea che non approvo” disse. Diretta, su questo non si poteva dire nulla. “Porterà solo discriminazione e diversità: ucciderai per sempre la possibilità di essere ciò che si vuole”.

“Non è mai esistita questa possibilità, Wilde” replicò lui prelevando il caffè dal distributore. “E non mi sto riferendo alle volpi: nessuno ha mai contemplato la sostanziale differenza tra il poter essere ed il poter fare. Un elefante non sarebbe mai potuto entrare nel quartiere dei topi, a meno di voler fare una strage”.

“Questa non è una soluzione, Savage” commentò Vixen. “Controllare i predatori in questo modo non è eticamente accettabile”.

“Allora dimmelo tu cosa si può fare” disse lui, pacato. “Una soluzione per entrambe le cose non c’è: si può insegnare a tutti il linguaggio dei segni, ma le prede avranno sempre paura dei predatori. Si possono separare prede e predatori, ma non cambierebbe nulla dal comando di Bogo. La convivenza adesso è dettata dalla capacità di dare garanzie alle prede e questa è l’idea migliore a cui ho pensato: dimmi che ne hai in mente un’altra”. Silenzio; poteva vedere la voglia di Vixen di ribattere come se l’avesse tatuata sul muso, ma gli occhi gli urlavano la sconfitta. “…ti prego, dimmi che c’è un’altra strada”.

La volpe non rispose mai: si avvicinò alla macchinetta e pagò un caffè per lei. Si sedettero nella zona pausa sorseggiando silenziosamente dal bicchiere di plastica, ognuno nel proprio mondo; i bicchieri vennero gettati nel cestino poco lontano e si alzarono, raggiungendo nuovamente le gazzelle.

“Sarà un palliativo temporaneo, Savage” disse Vixen, rompendo il silenzio. “Un palliativo che non tutti accetteranno a cuor leggero: arriverà il giorno in cui saremo da capo con tutta questa faccenda”.

“Lo so” replicò lui. “Non ci resta che scommettere e pregare che quel giorno arrivi più tardi possibile. Nel frattempo, stai sicura che non ce ne staremo con le mani in mano”.

“Ah, su questo non ho dubbi” commentò lei. “Anche perché con questa idea vedrai se non ti sei guadagnato la scrivania di sindaco della città”. Entrarono nella stanza. Non passarono che poche ore prima che il progetto di Jack venisse accettato: un record che sarebbe entrato nella storia cittadina.
 
 
--------------- o ---------------
 

Seduta sulla carrozza deserta del treno, Judy non riusciva a staccare lo sguardo da Nick: la volpe era acciambellata a terra, poco lontano da lei, a godersi quello che ai suoi occhi doveva per forza essere un meritato sonnellino. Lo invidiò: anche lei avrebbe voluto chiudere gli occhi e scappare da quella realtà, ma il suo cervello non glielo avrebbe mai permesso. Vorticava su sé stesso, sotto il peso di tutte le informazioni che aveva raccolto dal distretto di Foresta Pluviale.

Aveva passato gli ultimi due giorni a raccogliere le testimonianze delle volpi e ormai poteva dire di avere un quadro completo di ciò che era successo: probabilmente era stata l’unica a sbattersi tanto per trovare la verità, nonché l’unica a cui facesse un simile effetto. Aveva trovato le risposte a quasi tutte le domande che Bogo le aveva suggerito nel palazzo municipale e se da un lato la sua curiosità era stata soddisfatta, dall’altro aveva preso consapevolezza di una lezione che non insegnano a scuola o al corso di polizia.

In certi casi, rari ma veri, l’ignoranza è la più magnanima di tutte le benedizioni.

Non senza sforzo, tornò a guardare il suo taccuino: era fittamente scritto con quello che era il rapporto sul caso Tujunga. Le sue scoperte, le testimonianze e le conclusioni erano ufficiali, nero su bianco, e la sua penna a forma di carota aveva dato forfait prima che avesse modo di scrivere le considerazioni personali: quella non sarebbe mai più stata nulla più di un registratore vocale dalla forma estremamente vegetariana. Fece scorrere i fogli, passando in rassegna le correzioni, le cancellature, le righe depennate e le pagine strappate: ce n’era abbastanza per riempire un quaderno intero e non era escluso che l’avrebbe fatto.

Si abbandonò contro lo schienale del sedile, che sbuffò sotto l’esiguo peso del corpo. Non poteva nemmeno pensare alla sua…iniziativa come ad un fallimento perché a conti fatti era stata tutto l’opposto: era partita per far luce sugli avvenimenti nel distretto di Foresta Pluviale ed aveva appena stilato la madre di tutti i rapporti, era partita per trovare Nick e riportarlo a casa ed eccolo lì, a dormire beatamente a pochi passi da lei. Perché doveva considerarlo un fallimento?

Ed anche il fatto di essere cambiata non poteva essere un fallimento, no? Faceva parte della natura cambiare, non era nulla di inappropriato o imbarazzante ma ciò che trasformava un cucciolo in un adulto, che allargava gli orizzonti, faceva evolvere il modo di pensare e di porre sé stessi nei confronti del mondo.
Eppure il punto sembrava essere proprio quello: lei non si sentiva cambiata, ma diversa.

Diversa per dei motivi che, stranamente, comprendevano anche la volpe poco lontana da lei.

Il treno imboccò una galleria e per qualche secondo la carrozza fu illuminata solamente dai led soprastanti. Judy vide il suo riflesso nel finestrino davanti a lei e stentò a riconoscere sé stessa in quel coniglio dallo sguardo serio e pacato, da quel pelo che per qualche ragione ricordava più chiaro, da quella bocca ferma, chiusa in un’espressione neutra.

La galleria svanì come se non fosse mai esistita ed il suo riflesso si perse nella sconfinata campagna della Tana dei Conigli. Il sole era accecante ed il cielo azzurro, invaso da sporadici batuffoli di candide nuvole; nonostante il finestrini insonorizzati, poteva quasi sentire il canto delle cicale che celebravano un’estate che si avviava pigra verso la sua conclusione, il profumo di campagna ed il pungente odore di concime sparso per i pochi terreni esausti. Le scappò un sorriso sollevato, sentendosi finalmente al sicuro e si volse verso Nick, richiamandolo per svegliarlo.

“Siamo quasi arrivati” disse. “Presto saremo a casa”. La volpe rispose con una scrollata di coda ed un sorrisetto divertito.

Bel lavoro, ti adoro.

Le porte si aprirono pochi minuti dopo su una banchina deserta, fatta eccezione solo per Bonnie e Stu: li aveva avvertiti del loro ritorno, pregandoli di non portare i fratelli. Nel vederli, i due si sciolsero in un sorriso commosso.

“Hey, Judi non Deludi” salutò il coniglio, obbligandola a scoccare a Nick l’ennesima occhiataccia.

Non sono stato io

“Ciao papà” salutò lei con un sorriso. “Siamo tornati”.

“Meno male cara” proruppe Bonnie guardandola con un paio di gradi occhi che promettevano fiumi di lacrime. “Eravamo così preoccupati per voi”.

“Lo so” annuì lei. “Scusate se non ho dato mie notizie, ma…”. Si fermò, senza trovare le parole che esprimessero con delicatezza il fatto che non voleva coinvolgerli. La madre, tuttavia, annuì comprensiva.

“Non devi spiegare nulla” disse avvicinandosi. Distribuì un braccio a testa, in un abbraccio rassicurato e rassicurante. “L’importante è che siate tornati tutti e due sani e salvi”. Nick mosse la testa, incastrandola meglio nell’incavo morbido della spalla di Bonnie, mentre Judy ricambiò l’abbraccio, temendo di scoppiare in lacrime nel calore di un abbraccio materno che per qualche orribile secondo a Zootropolis aveva pensato di non meritare più.

Ebbero l’occasione di godere di venti minuti di pura calma, poi arrivarono a casa Hopps, dove vennero travolti da un’autentica valanga di orecchie dritte e nasi frementi. Judy si perse nella baraonda dei fratelli e Nick affondò nella marea di pellicce grigie con un guaito drammatico. Ogni tentativo di calmare gli oltre duecento conigli fu vano e tutto ciò che poterono fare fu elargire baci, abbracci e parole confortanti a chiunque ne manifestasse il bisogno.

Dovevi accompagnarmi alla festa di Oxy!

Domani andiamo a vedere l’ultimo film di Tom Gooise?

Mi sei mancata sorellona!

Ci misero il loro per calmare l’eccitamento di cuccioli che non avevano capito appieno e per calmare gli animi di  quelli che avevano capito fin troppo bene: la sera, al sicuro nella sua camera, Judy sospirò al silenzio  chiuse gli occhi per goderselo a pieno. Si concesse tuttavia solo pochi minuti di dolce far niente, poi si sedette alla scrivania e si mise al lavoro.

 
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Questa è la fine del rapporto sul caso Tujunga. Ho preferito non divulgare questo documento perché non sono più un poliziotto e soprattutto perché, in questo momento, la verità è l’ultima cosa che serve alla nuova Zootropolis. Ho cercato di essere il più fedele possibile, di riportare tutte le informazioni di cui sono entrata in possesso e spero di aver formulato i ragionamenti giusti.

Lascio questo quaderno a chi lo troverà, confidando che sappia decidere cosa farne. La mia sola speranza è che questo caso possa essere un esempio ed un monito affinché episodi simili non si ripetano mai più.
 

 
Alla fine l’aveva fatto: finì di scrivere l’ultimo paragrafo e si abbandonò sulla sedia, stanca ma soddisfatta. Fuori dalla finestra, gli uccelli stavano cantando in coro, celebrando l’alba che si faceva inesorabilmente strada sulla notte. Si concesse un singhiozzo ilare: l’ultima volta che aveva passato la notte alla scrivania era stato durante lo studio per l’ammissione al corpo di polizia. Volse un occhiata al letto: la invitava sotto le coperte, tentandola con quel soffice cuscino e la promessa di qualche ora di placido, salutare oblio.

Con un sospiro, si alzò ed uscì dalla camera. Il sole era sorto da pochi minuti, ma la cucina era già popolata dal centinaio dei fratelli abbastanza grandi da dare una mano a Stu.

“Buongiorno Judy” salutò con un sorriso assonnato: la mattina non era mai stata Judy non Deludi. “Oggi sei mattiniera: è successo qualcosa?”.

“Non sono  riuscita a dormire” replicò lei, sedendosi sulla prima sedia libera che trovò. Il coniglio sorrise e le servì i pancake. Pochi alla volta, i conigli salutarono la sorella con un sorriso ed uscirono diretti ai campi circostanti la casa mentre Stu indugiò ancora qualche secondo alla tavola, guardando la figlia con occhi preoccupati.

“Judds, mi dispiace per come sono andate le cose” disse. “Spero che tu sappia che non è colpa tua e che non devi sentirti responsabile”. Judy guardò il padre come se le stesse parlando in un’altra lingua.

“Papà, ho liberato Bellwether” disse. “Come può non essere colpa mia? Avrei dovuto fidarmi di Nick…e invece ho condannato la città a…questo”. Si alzò: la metteva a disagio il suo sguardo, così comprensivo ed allo stesso tempo sinceramente dispiaciuto. Certo, si era aspettata un discorso simile, ma il fatto che fosse lui a farglielo e non sua madre era…strano: possedeva il potere di distruggere ogni freno esistente, ogni muro eretto. “Avevate ragione tutti: voi avevate ragione quando mi dicevate che un coniglio non può essere un poliziotto, Nick aveva ragione quando mi diceva che non lo sarei mai diventata, persino il capitano Bogo aveva ragione. Non avrei mai dovuto…”.

“Judy…” rimbeccò Stu. Era un rimprovero quello che aveva sentito in quel richiamo, la coniglietta avrebbe potuto giurarlo. “Coltivare carote per tutta la vita mi ha insegnato che il senno del poi è una fregatura: hai ragione, se tu non avessi liberato Bellwether forse tutto questo non sarebbe successo; ma è davvero utile a qualcosa dire una cosa del genere? Il danno è fatto, non si può tornare indietro: puoi solo andare avanti, ma hai facoltà di scegliere come andare avanti.

“Se ti senti in colpa, se non puoi non sentire la responsabilità dello stato della città come solo tuo, allora cerca un modo per convivere con esso: non ti dirò che va tutto bene perché ti direi una bugia. E non voglio dire una bugia all’unica figlia che da piccola mi ha detto di voler rendere il mondo un posto migliore”. Si alzò ed abbracciò Judy, dandole il colpo di grazia. La coniglietta si sentì il cuore distrutto e le lacrime che salivano, lente ma inesorabili, verso i suoi occhi.

L’abbraccio si sciolse troppo presto e Stu la salutò, uscendo dalla porta e sparendo dalla sua vista. Judy ebbe modo di ripensare alle parole del padre, poi saettò fuori dalla cucina in una direzione a caso: le lacrime erano pericolosamente vicine ai suoi occhi e non esisteva pensiero che potesse innalzare un argine abbastanza robusto da domarle. Il suo cervello era in pieno panico e quando scorse in lontananza una grossa forma rossiccia raggomitolata si spense definitivamente, regalandole un tempo indefinito di autogestione.

Si lanciò in quel rotolo di pelliccia senza far particolare caso alle maniere, ai molteplici modi di svegliare una volpe addormentata ed altre cose in quel momento fuori luogo e grottesche. Nick scattò sull’attenti con un guaito ed un verso di sorpresa, guardandosi attentamente attorno prima di notare il piccolo fagotto di pelliccia grigiastra appesa alla coda. Un fagotto grigiastro, pulsante e singhiozzante per la precisione; quando Judy alzò gli occhi verso di lui aveva già versato abbastanza lacrime da inumidirgli il pelo.

Ugh…come osi?

Non ci fu bisogno di parole: la volpe si accucciò nuovamente e Judy si avvicinò al suo corpo, alla ricerca di un rifugio sicuro in cui sfogare le lacrime. Nick la nascose al mondo intero avvolgendola con la coda in un caldo abbraccio e le accarezzò lievemente la testa e le orecchie con il naso, ascoltandola singhiozzare sommessamente ed avvertendo la presa spasmodica sul suo pelo. Nonostante la sua forza, in quel momento non vide altro che una piccola, indifesa coniglietta e gli dispiacque non poter parlare per stuzzicarla un po’: avrebbe funzionato, ne era sicuro. Aveva sempre funzionato.

La famiglia di Judy passò a gruppi; tutti lo videro, lo salutarono ed alcuni cuccioli tradirono la loro voglia matta di giocare con lui, di correre e saltare nel prato e ridere e rotolarsi nell’erba macchiata dalle prime foglie cadute. Nick appoggiò talmente tante volte la testa sulle zampe che ne perse il conto: non gli piaceva rifiutare una bella corsa con quella marmaglia di orecchie a punta, ma la presa di Judy non ne voleva sapere di ammorbidirsi né le sue piccole spalle di sussultare. Aveva abbastanza intuito da capire che quel piccolo fagotto grigio che tremolava e sussultava contro di lui, inumidendo sempre più la pelliccia che la celava al resto del mondo, doveva rimanere invisibile finchè lei non si fosse decisa.

Il soggiorno si svuoto nel giro di un’ora: Judy ancora sussultava sotto la sua coda ma non stava più tirandogli i peli. Guardingo, Nick sollevò lievemente la coda e sbirciò sotto di essa: ebbe appena il tempo di vedere il muso colpevole ed imbarazzato di Judy prima che una zampa tirasse nuovamente giù la coperta rossiccia, facendola nuovamente svanire dall’occhio del mondo.

“Non guardarmi Nick” mormorò una voce soffocata dal pelo. “Puoi…nascondimi ancora per un po’”.

Per la vecchia amicizia?

La volpe obbedì ed il tempo tornò a scorrere: il ticchettare dell’orologio faceva da sfondo ad un ovattato e lontano vociare indistinto di conigli nei campi circostanti la casa. Nick si assopì un paio di volte e da sotto la coda non proveniva altro che silenzio. Fu solo in tarda mattinata che la volpe venne svegliato da un delicato muoversi da sotto il pelo; alzò la coda e Judy gli restituì uno sguardo esausto: gli occhi erano grandi ed arrossati, le iridi viola risaltavano come piccole lampadine ed il naso fremeva di angoscia, rimorso, imbarazzo.

“Grazie Nick…” mormorò. Lentamente si mise seduta, passandosi una zampa sul muso. “Avevo bisogno di…”. Già: di cosa aveva bisogno? Perché le era sembrata una buona idea tuffarsi nel suo pelo? Cosa le aveva detto che in mezzo a tutto quel rossiccio solleticare avrebbe trovato un posto dove sfogarsi senza che nessuno la disturbasse.

Beh, era una delle cose da fare prima di morire

La sfiorò con il muso delicatamente e, quando ebbe la sua attenzione, dipinse il SUO sorriso: Judy, davanti a quell’appuntito ridacchiare, tutto sentì tranne che paura. Nick raddrizzò il collo e le fece vivere il suo personale, privato miracolo.

“…u…i”.

Le orecchie della coniglietta scattarono verso il soffitto come se l’avessero sempre puntato e gli occhi divennero più grandi di quanto non li ricordasse. Gli comparve il sospetto che non avesse sentito, non avesse capito o che non ci stesse credendo: dopotutto, era pur sempre una coniglietta ottusa. Ripeté il miracolo.

“…u…di”. Il muovere la lingua per la ‘d’ era stato faticoso ed anche leggermente doloroso, ma era valso lo sforzo: altre lacrime uscirono dagli occhi di Judy, ma questa volta lambirono un sorriso di genuina felicità.

“Nick, tu…” mormorò. Lui rispose con il suo sorriso beffardo, come a dire

Detto fatto…

‘visto che gran figo che sono?’. La coniglietta singhiozzava di felicità: senza distogliere lo sguardo da lui gli passò delicatamente una zampa sul muso, lisciandogli il pelo con una tale delicatezza che Nick fu seriamente tentato di chiudere gli occhi per godersela appieno.

Ed all’improvviso torno: gli occhi di Judy si animarono di una decisione che non vedeva da giorno ormai. Erano gli stessi occhi dell’ausiliare del traffico che affermava di non essere una coniglietta ottusa, di una pseudo-poliziotta che gli domandava se trovasse divertente rovinarle l’indagine, di una campagnola che gli comunicava la necessità di portare alla polizia l’intero vagone di prove.

Gli occhi di un coniglio che ordina ad una volpe di azzannarla alla gola.

Si alzò e si avvicinò alla porta in tempo per veder entrare Bonnie; la stava cercando con un bicchiere di succo di lattuga in una zampa e una buona oretta di preziosi, insostituibili consigli materni nella testa.

“Judy, cara…” salutò con un sorriso cauto. “Tuo padre mi ha detto tutto: stai bene?”.

“Si mamma” rispose lei: in tutta la sua vita non era mai stata più onesta. “Ho bisogno di parlare con tutti: è una cosa molto importante”.
 
 
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Non era stato compito facile strappare dalla sua famiglia il neo sindaco di Zootropolis in visita a Tana dei Conigli: avevano trovato rifugio su una collina, all’ombra di un grande albero che Stu ricordava in quel posto da sempre. Stavano ancora tirando il fiato quando Judy ridacchiò.

“Sindaco Jack Savage” commentò. La lepre si volse verso di lei come se l’avesse chiamato. “Non suona poi così male”. Lui diede una scrollata di spalle.

“Sapessi quanto mi sta stretto…” commentò. “Non ho mai voluto questa carica, ma mi hanno eletto praticamente per preghiera…”.

“Beh, hai salvato la città dall’implosione e riunificato i mammiferi in appena tre mesi: direi che te la sei meritata” osservò la coniglietta. La lepre era palesemente a disagio, come se stessero affrontando un argomento imbarazzante. O delicato.

“Avrei preferito la pensione…” commentò. “Ma a questo punto immagino che non la vedrò mai”. Si volse verso l’orizzonte. “Non sapevo che da qui si vedesse la città”. Regnò il silenzio per qualche secondo, rotto solo dal delicato frusciare del vento tra le fronde semispoglie dell’albero; poche foglie gialle e rosse resistevano come potevano all’inarrestabile avanzata dell’autunno e attendevano il momento in cui sarebbero fluttuate via, lontano dal ramo a cui erano state attaccate per mesi. Ancora qualche settimana e quell’albero sarebbe stato spoglio, pronto ad accogliere la neve. “Senti, Judy…riguardo al motivo per cui…”.

“Non potevi fare altro” interruppe lei. “Personalmente non approvo il collare, ma è il male minore: spero solo che con il tempo diventi inutile”. Jack la guardo per qualche secondo, poi annuì professandosi d’accordo con lei.

“Cambiando discorso, anche tu ti sei data da fare” disse. Si volse a guardare a distesa erbosa poco sotto di loro: cinque conigli erano acquattati, attenti come durante un agguato. Saltarono all’improvviso, assaltando tre volpi sedute placidamente; rotolarono per qualche secondo, poi si rialzarono e fu il turno delle prede scappare. Le volpi corsero loro dietro e li colpirono leggermente con il muso dopo qualche metro, facendoli barcollare lievemente. “Un convivenza tra volpi e conigli”.

“Le volpi erano tornate a Foresta Pluviale” replicò lei. “Qui ci sono ampi spazi, grandi prati e bel tempo per la maggior parte dell’anno: a Tana dei Conigli c’è spazio più che sufficiente per tutti”. Seguì un silenzio che comunicò a Judy che la sua idea piaceva a Jack quando l’idea di Jack piaceva a lei.

“Chi è il capobranco delle volpi?” chiese infine.

“Si chiama Corsac” rispose. “Ed è molto ben disposto: ha parlato con mio padre e mi sono sembrati molto in sintonia”. La lepre si volse verso di lei.

“Perché l’hai fatto?” chiese. E Judy la sentì. La sentì come la domanda, quella domanda topica attorno alla quale aveva girato l’intera chiacchierata, la domanda che aveva spinto Jack a lasciare Zootropolis anche solo per mezza giornata. Era quel tipo di domanda a cui si è fisicamente, emotivamente, moralmente obbligati a dare una risposta. Jack continuò. “Non sto dicendo che potrebbe arrivare il giorno in cui vi uccideranno tutti e non sto nemmeno criticando la tua scelta: io credo che tu abbia fatto qualcosa di molto bello qui”. Si volse verso il gruppo di conigli e volpi poco lontano: avevano smesso di giocare a guardie e ladri e adesso giocavano ai cowbunnies: le volpi si lasciavano docilmente cavalcare da quei coniglietti che li spronavano al galoppo senza la minima paura.

“Perché noi conigli siamo possessivi” rispose infine lei. “Nick è stato una delle prime persone con cui ho parlato quando mi sono trasferito a Zootropolis ed è l’unico con cui ho avuto un rapporto che non si limitasse al lavoro”. Strinse le ginocchia al suo corpo. “Non voglio che mi lasci da sola”. Lasciò cadere il silenzio: Jack non proferì parola e tornò a guardare le volpi ed i conigli rotolarsi nell’erba, liberando risate ed urletti di gioia nell’aria tiepida.

“Ma soprattutto per una cosa che ha detto mio padre” continuò. “Io sono entrata in polizia perché volevo rendere il mondo un posto migliore. Zootropolis mi ha insegnato che un sogno così infantile non c’è speranza che si avveri: il mondo è quello in cui viviamo, non basta la vita di un coniglio per renderlo migliore. Questo è ciò a cui ho pensato che più si avvicina al mio sogno.

“Non posso rendere il mondo un posto migliore: ho reso il loro mondo un posto migliore, il nostro mondo un posto migliore. Volpi e conigli insieme, che convivono e collaborano in armonia: forse il potere di un coniglio non andrà mai oltre a questo, ma va bene così. Rendere il mondo un posto migliore adesso è compito tuo, Jack”. Si volse a guardarlo: la osservava con occhi neutri, quasi disinteressati, eppure attento ad ogni sua parola. “Questo mio piccolo mondo è diventato un posto migliore: non chiederò di più a me stessa”. Il sorriso di Jack le confermò di aver fatto la scelta giusta.
 

 
A salutare Jack erano venuti in tanti: sorrise nuovamente a tutti loro mentre il treno lo riportava lentamente alla città, alla sua città. Nick lo seguì con lo sguardo, poi fece un enorme sbadiglio provocando l’ilarità di un nutrito numero di cuccioli. Judy gli tirò una giocosa gomitata sulla spalla.

“Non è carino Nick” disse ridacchiando. “Non è proprio carino”. Lui le rispose con un’occhiata sagace.

Andiamo, lo sai che mi adori

Al borgo, i due si congedarono e, quasi fossero d’accordo, salirono sulla collina a guardare il tramonto. Judy, appoggiata placidamente contro la coda di Nick, guardava il prato, pieno di pellicce grigie, bianche, nere, rosse e marroncine. Sorrise, accoccolandosi contro la volpe per cercare una comodità che già aveva.

“Non ho potuto fare di più…” mormorò. Ma nonostante questo pensiero, era felice: aveva il suo posto, aveva il suo mondo e soprattutto aveva il SUO Nick. Non aveva potuto fare di più e questo voleva dire che in quel prato c’era il meglio che aveva da offrire. Nick dissipò ogni possibile dubbio passandole delicatamente la lingua ruvida sulla testa; La coniglietta sorrise a quel gesto, divertita ed intenerita.

Alopex avrebbe sicuramente gradito: quel pensiero le intaccò leggermente la pace e la felicità.

Judy si volse verso la sagoma della lontana Zootropolis. Vixen aveva detto che il cavallo era il pezzo più forte della scacchiera, Alopex aveva scelto un cavallo per guidare gli eventi: forse avevano previsto tutto, forse no, ma in fin dei conti era quasi giusto che fosse stato un cavallo a dare scacco matto e vincere la partita.

E la città, sapeva, avrebbe continuato a bruciare.
 


 
 
NOTE DELL’AUTORE:

Come ogni storia, bella o brutta che sia, è arrivata alla fine. Questo lavoro nato, come ripeto da sempre, per caso, mi ha dato modo indubbiamente di crescere e di formarmi a possibili futuri lavori che sicuramente condividerò ancora con voi.

A tutti quelli che magari si aspettavano altri eventi, magari di natura più romantica, va il mio dispiacere nell’immaginare il disappunto, ma mi piace pensare che se siete arrivati fin qui è stato per curiosità verso la storia e non speranze dell’ultimo secondo.

Con la chiusura di questa storia si chiude anche un lavoro che mi ha mostrato la vostra presenza ed il fatto che, almeno un pochino, il mio stile di scrittura piace: già il salire del conteggio delle lettura me lo prova. Non posso che continuare a ringraziarvi tutti quanti per aver seguito questo progetto.

Mi auguro di avervi divertiti, intrattenuti o perlomeno essere riuscito a scacciare la noia di qualche vostro momento morto. Spero di vedervi nuovamente così numerosi anche nelle mie prossime storie.

Alla prossima, stay tuned

Leonhard

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