We're both sinners and saints

di vincey_strychnine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***



Capitolo 1
*** I ***


I

 

 

NB: le parti in corsivo, almeno per primi due capitoli, sono flashback. Buona lettura!

 

Agosto 1983, Bologna, Italia

Era l’una inoltrata, perciò dovevano essere le nove di sera, a New York, e allora perché diavolo Peter non rispondeva al telefono?

Piegai la testa di lato per sorreggere la cornetta del telefono contro la spalla mentre nervosamente frugavo nello zaino alla ricerca delle sigarette. Fuori dalla cabina telefonica, uno degli ultimi temporali estivi dell’anno si stava abbattendo sulla città, l’acqua si riversava a grandi scrosci dal cielo notturno e dalle grondaie straripanti, le strade nere come fiumi in piena ed il frastuono della pioggia e dei tuoni quasi copriva il suono proveniente dal telefono. Tre, quattro, cinque squilli a vuoto.

“Rispondi, ti prego… Cristo Pete, prendi su il telefono per l’amor di Dio…”

 

“Ale, non dire stronzate, non possiamo fumare qua dentro, lo sai.” Mi ero affrettata a strappare il sacchetto di plastica contenete un paio di grammi di purple haze dalle mani del mio amico.

“Dai, ti prego… non lo vedi che sta venendo giù il diluvio universale, fuori? E’ una canna e basta, tua madre mica sentirà l’odore” rispose Alessandro guardandomi speranzoso.

Sospirai guardando fuori dalla finestra della cucina: era vero, quegli ultimi giorni di libertà prima dell’inizio della scuola non avevano neppure avuto la decenza di essere soleggiati. Sembrava che l’autunno fosse arrivato in anticipo, specialmente quella sera. “Non se ne accorgerà mai, dopo apriamo le finestre.. E’ l’ultima canna delle vacanze, non ha senso fumarla fuori con questo vento se..”

“Va bene” tagliai corto io. Alessandro sapeva sempre essere persuasivo. Mi fece l’occhiolino da sotto il casco di capelli castani.

L’avevamo appena accesa quando era arrivata mia madre, tutta agghindata e ancora mezza ubriaca dopo la serata con gli amici.

 

“Sì, pronto?” la voce di Peter arrivò fredda e meccanica dalla parte opposta del ricevitore.

“Pete, sono io.”

“Oh, Dio, ma che è successo? E’ notte fonda in Italia, perché mi chiami da una cabina?”

“Pete, io.. ho litigato con mamma.”

“Ancora? Che cosa hai fatto stavolta?”

“Niente, niente di che.. una festa mi è sfuggita un po’ di mano, tutto qui.” sapevo che Peter non si sarebbe preso la briga di chiamare mia madre per avere conferma, non erano in buoni rapporti e poi lui si fidava ciecamente di me. “Solo che, ecco, era un po’ su di giri e.. insomma Pete credo che mi abbia cacciata di casa sul serio, stavolta.” Era un’abitudine, per mia madre, trovare un motivo per cui io non fossi all’altezza del resto della famiglia e conseguentemente minacciare di mettermi alla porta. La scuola, le brutte compagnie, la musica sempre troppo alta.. ogni scusa era buona.

 

“Fuori di qui, tutti e due! Drogati del cazzo, tu e il tuo amico.. bella gente che si trova in quel tuo liceo di merda!” gridò, ancora avvolta nella pelliccia. Non avevo resistito dal

ribattere: “I miei amici li scelgo io, stronza! Non credo proprio di essere una drogata del cazzo per una canna, mammina cara. O devo ricordarti delle pillole all’efedrina che ingoi come se fossero zuccherini con la scusa che ti levano la fame?” Non potevo credere alle mie stesse parole, erano mesi che morivo dalla voglia di dirglielo in faccia. Ma fu la goccia che fece traboccare il vaso: lo schiaffo arrivò, più violento del previsto, e subito mi sentii bruciare il viso. Come paralizzata, rimasi con i piedi piantati sul parquet del salotto, portandomi una mano al viso, e mi resi conto che uno degli anelli di mia madre doveva avermi graffiata, perché sulle punte delle dita mi ritrovai delle piccole macchioline rosse e appiccicose. Mi fissò con gli occhi spalancati, senza sapere bene cosa fare.

Senza dire una parola, afferrai lo zaino consunto che avevo lasciato in salotto e, seguita da Alessandro che camminava a testa bassa, mi diressi fuori dalla porta e giù per le scale del palazzo. Basta, non potevo resistere un minuto di più in quella casa.

 

“Dovresti provare a parlarci, sai che non diceva sul serio” Oh Petey, sei sempre così ragionevole, così buono e onesto. Mi chiedevo in continuazione cosa ci avesse visto in quella squilibrata di mia madre quando, una ventina d’anni prima, si erano incontrati un’estate. Lui era un brillante ragazzone americano, un’eccellenza di Harvard, un solido, atletico giovane uomo dalle sane abitudini, e lei? La figlia di un ricco imprenditore che, avendo già un posto assicurato nell’azienda di famiglia, non aveva di meglio da fare che spendere i soldi di papà in orologi di Cartier e provare nuove diete allucinanti che le permettessero di assumere tutte le droghe legali in circolazione. Eppure, Peter si era innamorato di lei. Quando un paio di anni dopo gli era arrivato dall’Italia l’invito al matrimonio, gli si doveva essere spezzato il cuore. O perlomeno, questo era quanto immaginavo: non ne parlavamo mai. La sua bella Italian girl era rimasta incinta di un amico di un amico e adesso se lo sposava. Il matrimonio fra i miei non era durato molto, divergenze inconciliabili, così avevano decretato gli avvocati, e sapevo che mia madre mi accusava, seppur magari inconsciamente, di aver rovinato la sua vita. Del resto se non fossi arrivata io non si sarebbe sposata, e avrebbe potuto ancora fare quello che voleva.

“Pete, la conosci mamma.. non mi vuole e non mi ha mai voluta. Ora voglio solo andare via di qua.”

 

Appena fuori, per strada, Alessandro mi abbracciò senza proferir parola. Mi staccai infastidita: non volevo la sua compassione. Mia madre ci aveva cacciati entrambi, era vero, ma lui aveva la sua bella famigliola da cui tornare adesso. Avrebbe anche potuto ospitarmi, sapevo che non avrebbe rifiutato, ma per qualche stupido motivo non volevo che lo facesse. Detestavo l’idea di dipendere da qualcuno, fosse mia madre o il mio migliore amico. “Niente abbracci, drogato del cazzo. Fumiamoci questa canna e basta, okay? Come se non fosse successo nulla.” E così facemmo. Riparati sotto un portico fumammo in silenzio e poi Alessandro si voltò a guardarmi di nuovo con quell’espressione compassionevole stampata in faccia. “Vai a casa, Ale. E’ quasi l’una, i tuoi si staranno preoccupando.”

“E tu cosa farai?”

“Qualcosa mi verrà in mente.”

Gli mandai un bacio volante prima di voltarmi come ero solita fare con i miei amici: era parte del personaggio che mi ero creata in quei quattro anni di liceo, così lontano da come ero io veramente che stentavo a riconoscermi.

“Non fare cazzate.”

Mi girai a guardarlo un’ultima volta continuando a camminare a ritroso: “Vai a casa.”

 

“Ti servono dei soldi?” chiese Peter dopo un lungo silenzio

Nonostante lui e mia madre non si parlassero più da anni, per qualche motivo Peter aveva sempre insistito a tenersi in contatto con me, quasi fossi la figlia che la sua bionda moglie cardiologa non poteva dargli, e così con gli anni era diventato come un secondo padre, a rimpiazzare il mio che era letteralmente sparito dopo il divorzio: all’inizio Peter mandava solo costosi regali per Natale e per i compleanni, poi aveva insistito per pagarmi i libri scolastici e cose simili, poiché mia madre pur disponendo di un ingente patrimonio non spendeva volentieri i suoi soldi per me. Quella stronza… mi ero sempre sentita strana, fin da quando alle elementari tutti i miei amici sbandieravano i loro panini preparati da mammina, i colletti del grembiule stirati da mammina, i compiti fatti assieme a mammina e mammina che veniva a prenderli da scuola sulla sua Fiat vecchia decrepita ma calda e accogliente, con i giocattoli e le briciole di cracker incastrati nei sedili posteriori, mentre io attendevo irrequieta l’arrivo della baby-sitter di turno. “Mi rifiuto di essere una donna di casa” diceva mia madre con quell’orgoglio anni Settanta da finta donna emancipata. “Non cucino, non lavo, e non pulisco il tuo naso moccicoso.” Bella roba, eh? 

Non mi ero mai sentita a casa nel nostro appartamento, così come non mi ero mai sentita tagliata per quella città che grande era solo di nome, e tantomeno per l’Italia. Non mi piacevano la sua mentalità, i suoi politici, e nemmeno i suoi paesaggi. No, non volevo città medievali e dolci colline: volevo andare lontano, bruciavo dal desiderio di vivere in un Paese enorme, così grande che il fuso orario cambiasse da una zona all’altra, con grandi città pulsanti di vita, autostrade immense, deserti di polvere rossa e grattacieli, e libertà, e musica…

Un’idea all’apparenza pazzesca si fece strada nel mio cervello, prendendo una forma sempre più nitida, e un nome, anche. America. California.

“No Pete, niente soldi” spensi la sigaretta pestandola con la punta di uno stivale.

“Solo un biglietto aereo per Los Angeles.”

Il tempo messo a disposizione dal centralino stava scadendo. Peter, un po’ titubante, mi promise che avrebbe prenotato un posto sul primo volo. Mi offrì anche uno dei suoi appartamenti a Santa Monica, che normalmente affittava per l’estate, ma rifiutai: volevo l’America vera, quella dei motel e delle notti di strada che tanto decantavano i miei musicisti preferiti, quella degli Eagles, di Tom Waits, dei Ramones, non una sua qualche versione patinata vista dal vetro di un attico. Mi sarei trovata un lavoro, avrei avuto una vita mia. Era il sogno americano, o no?

“Prenditi cura di te, Rebecca.”

Riattaccai ed uscii dalla cabina telefonica sentendomi mancare l’aria. Rimasi ferma a specchiarmi nel vetro per un paio di secondi: sotto l’occhio destro, sul graffio provocato da mia madre stavano ricominciando a formarsi goccioline rosso vivo come capocchie di spilli. Mi resi conto allora che stava ancora piovendo ed in una corsa a perdifiato raggiunsi la fermata dell’autobus più vicina.

Corri per la pioggia, o corri perché scappi da qualcosa?

La corriera che portava all’aeroporto era una delle poche che effettuavano corse notturne, ed era praticamente vuota. Decisi di sedermi vicino al finestrino e cominciai a razionalizzare la mia decisione: Los Angeles, la città dei miei sogni, che vibrava di rock n’ roll, di lustrini e opportunità, mi aspettava. Nello zaino, una stecca di Marlboro rosse, qualche lira (abbastanza, una volta cambiate in dollari, da resistere in un motel a buon prezzo finché non avessi trovato un lavoretto), Big Sur di Kerouac e il walkman con la mia amata cassetta registrata in una serie di pomeriggi infinita all’inizio dell’estate. Indossai le cuffie, e subito la chitarra acustica a me tanto familiare attaccò: Going To California dei Led Zeppelin, mi parve quasi un segno del destino.

Spent my days with a woman unkind

Smoked my stuff and drank all my wine.

Le vie del centro sfrecciavano davanti ai miei occhi. Addio per sempre, non mi mancherete.

Made up my mind to make a new start

Going To California with an aching in my heart.

Fuori, la pioggia scrosciante lavava via la calura di quegli ultimi giorni d’Agosto e ogni traccia di quella vita che non avevo mai sentito mia.

 

 

Note dell’autrice: Beh, eccomi qua. Salve. Saranno almeno quattro anni che voglio scrivere qualcosa sui Motley e finalmente mi sono decisa a farlo. Mi scuso per questo capitolo d’introduzione un po’ lungo in cui per di più non compare nemmeno un membro della band, ma volevo rendere la storia più o meno credibile e poi non ci sarebbe gusto se i protagonisti arrivassero tutti subito, o no?

La storia comunque sarà incentrata su Nikki e sulla protagonista, che avete già avuto modo di conoscere in questo capitolo, ma ci saranno ovviamente anche gli altri componenti della band.

Cercherò di pubblicare il più regolarmente possibile e pubblicherò il secondo capitolo appena avrò scritto il terzo, spero nel giro di una settimana o meno.

 Nel frattempo, spero che la storia vi piaccia (e che qualcuno la legga, più che altro).

A presto,

Vincey

PS: mi scuso per la mancanza dell’umlaut nel nome della band, ma la tastiera del PC non ce l’ha :’)

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Capitolo 2
*** II ***


 II

 

L’aria dentro al locale era stagnante di fumo, gli altoparlanti trasmettevano una roba inascoltabile, qualcosa di psichedelico o proto-punk, non avrei saputo definirla bene, ed ovunque erano accatastati vinili di ogni tipo. Ci doveva essere stato, un tempo, un tentativo di ordinarli in base al genere, e c’erano ancora le targhette con le scritte: POP, MOTOWN, HEAVY METAL, NEW WAVE… ma era evidente che ora quell’ordine era andato allegramente a quel paese. I muri erano talmente coperti di locandine e poster che non se ne vedeva l’intonaco ed in alcuni punti gli annunci di lezioni di chitarra per principianti mezzi strappati si sovrapponevano ai volti di Dylan ed Elvis. 

Il proprietario, che presumevo essere il Robb citato nell’insegna ‘ROBB’S EMPIRE RECORDS’ che troneggiava fuori dal negozio, era un uomo sulla cinquantina che non sembrava mai essersi ripreso del tutto da Woodstock e se ne stava appoggiato al bancone leggendo, o meglio, dormendo su una copia di Rolling Stone del mese precedente.

 

Los Angeles si era dimostrata all’altezza delle mie aspettative fin dal momento dell’atterraggio: scintillava talmente tanto da chiedersi se pervaso il cielo e la terra non si fossero scambiati di posto e se quella fosse davvero una città o piuttosto una galassia, la superstrada si dipanava in ogni direzione come la scia luminosa di una cometa e gli agglomerati più grandi sembravano supernove infuocate.

Non potendo spendere i soldi per un taxi, avevo optato per una corriera greyhound, economica e piena di persone in cerca di fortuna come me. Che poi, io forse nemmeno cercavo la fortuna: cercavo soltanto una vita, che fosse come volevo io. Lontano dai tappeti persiani e dalle sbronze di mia madre, lontano dal piovoso Nord Italia, e cosa c’era di più lontano se non l’America?

 

Tossii un paio di volte per attirare la sua attenzione e Robb si svegliò di soprassalto e mi puntò addosso gli occhi gonfi ed inespressivi.

“Sì?” mi chiese con la voce impastata dal sonno.

“Ha davvero una selezione impressionante qui,” gli dissi, sfoderando tutto il brio di cui ero capace. Ed era vero, in quel minuscolo negozio di dischi sul Victory Boulevard c’era di tutto, dagli ultimi successi radiofonici a pezzi da collezione usati a singoli di complessi punk pressoché conosciuti.  “Dev’essere difficile gestirla da solo.” Robb mi guardò stralunato, cercando di capire se lo stessi prendendo in giro.

“Oh sì,” mi rispose infine allargando le braccia, “guarda quanta gente che c’è!” Mi guardai attorno: ero l’unica cliente nel negozio, e a giudicare dalle persiane mezze abbassate dovevo essere la prima che entrava quel giorno nonostante fossero le quattro passate e di sabato pomeriggio, per di più.

“Magari ti serve una commessa..” azzardai io, fingendo di non cogliere il suo sarcasmo. L’uomo scoppiò a ridere come se avessi appena raccontato la barzelletta più divertente del mondo, intervallando alle risate colpi di tosse grassa e rantoli.

“Senti, bellezza, so dove vuoi andare a parare, ma credimi, qui sono di troppo persino io,” mi disse quando si fu ripreso.

 

Il motel dove mi fermai era nella San Fernando Valley, non lontanissimo da Hollywood, ed era gestito da un’anziana donna che sembrava non si fosse mossa da dietro alla reception per almeno trent’anni, tant’era decrepita. Forse, nemmeno l’arredamento veniva cambiato dalla stessa quantità di tempo, a giudicare dalle tende gialle sbiadite della mia camera da letto.

Non poteva fregarmene di meno: era economico e non richiedeva dati personali di alcun tipo, il posto perfetto per una fuggitiva come me. Da cosa diavolo fuggivo poi? Nessuno sarebbe venuto a cercarmi, a nessuno importavo abbastanza. Forse Alessandro si sarebbe chiesto che fine avevo fatto, e a scuola si sarebbe fatto un gran parlare di come ero scappata nel cuore della notte ed ero sparita. Magari sarei diventata una leggenda per i ragazzini del primo anno, chi lo sa.

Ci avevo messo quasi una settimana ad abituarmi all’idea di essere in un altro Paese, e per buona metà di questa avevo dormito tutto il giorno nel minuscolo e scomodo letto in ferro battuto del motel, per poi rendermi conto che dovevo trovarmi un lavoro se non volevo finire a vivere letteralmente per strada.

 

“Me la cavo bene con le persone, riuscirei a vendere qualsiasi cosa, persino questa merda che stiamo ascoltando ora.”

“E’ uno dei miei album preferiti dei Pink Fairies,” mi guardò truce. Bella figura di merda.

“La prego, mi serve un lavoro..” Non avevo intenzione di demordere. La musica era l’unica cosa di cui sapessi abbastanza, non sapevo fare i conti e non avevo qualifiche di nessun tipo per altri lavori, e i soldi iniziavano a scarseggiare. Sentii gli occhi bruciare, chiaro segno che stavo per mettermi a piangere come una bambina. Robb dovette accorgersene, perché addolcì lo sguardo.

“Ti piacciono i New Animals?” mi chiese poi. Riflettei un secondo cercando di ricordare chi fossero e dove li avessi già sentiti nominare, cosa abbastanza difficile data l’ansia che avevo di dare la risposta sbagliata: erano un complesso underground anni ’60 di quelli che Ale mi costringeva ad ascoltare quando eravamo strafatti. 

“Oh sì, tanto. Li ascoltavo sempre con un mio amico e…”

“Paga minima, lavori dal lunedì al sabato. Dalle nove alle sei e mezza, anzi sette perché il negozio lo chiudi tu. Io sto di sopra a catalogare i nuovi arrivi e scelgo la musica da ascoltare, tu servi gli stronzi alla cassa. Cominci lunedì.”

Provai l’impulso di abbracciare quell’hippie dai capelli unticci, ma riuscii soltanto ad emettere un suono strozzato che doveva assomigliare ad un grazie.

“Non ringraziarmi, ti annoierai a morte..”

 

Avevo deciso, ora che ero in un altro Paese e in un’altra vita, che sarei stata anche un’altra persona. Il mio nome vero, così borghese e tradizionale, si portava dietro troppi ricordi passati, troppe delusioni. Mentre pensavo al nome che mi sarei scelta, in un pomeriggio torrido sdraiata a pancia in su nella stanza del motel semibuia, mi era venuta in mente Strychnine, una canzone dei Cramps che ascoltavo sempre un paio d’anni prima, un pezzo allucinante sulle droghe ululato dalla voce cavernosa di Lux Interior sulla chitarra graffiante di Poison Ivy, una canzone trascurabile di per sé, ma adoravo il suono del titolo. Strychnine, stricnina: uno dei veleni più letali presenti in natura, suonava bene anche come nome. Suonava bene per una come me. 

 

“..Strychnine. Mi chiamo Strychnine.” 

 

**

 

In meno di un mese ero riuscita a farmi benvolere da Robb, e il compito alla fine era stato abbastanza facile: la mia storia di scappata di casa alla ricerca del sogno americano lo faceva impazzire, diceva che gli ricordava lo spirito della Summer of Love a cui aveva preso parte e che non mancava mai di raccontarmi per filo e per segno nei rari momenti in cui scendeva dal magazzino, e per andare d’accordo con lui era sufficiente fare tutto il lavoro sporco mentre lui se ne stava al piano superiore immerso nei suoi amati vinili e non contestare mai le sue scelte opinabili sulla musica di sottofondo. I clienti erano scarsissimi e, quando c’erano, o si trattava di attempati signori in cerca di regali per i nipoti o di appassionati di qualche genere specifico che passavano ore a spiegare con quell’aria da tuttologi la differenza tra il punk americano e quello inglese, per ammazzare il tempo avevo preso a fumare il doppio rispetto al passato e in un giorno particolarmente noioso mi ero persino messa a riordinare tutti i dischi esposti e pulire ogni anfratto di quel tugurio. 

Quel sabato, dovevano essere le cinque nemmeno, come al solito c’era calma piatta e non si vedeva nessuno da un paio d’ore. Robb doveva sentirsi più smielato del solito, perché non ascoltavamo altro che Juice Newton dalle nove del mattino, una scelta bizzarra persino per lui. Seduta al bancone, fumavo la millesima sigaretta del giorno fissando senza osservarla davvero la gigantografia di Janis Joplin sul muro dietro la cassa e dondolavo la testa al ritmo di Angel Of The Morning, quando all’improvviso entrò un cliente. Per un bel po’ lo fissai senza dire nulla mentre camminava lento e dinoccolato leggendo i titoli sugli scaffali: era alto, circa uno e ottantacinque, portava un paio di jeans consunti e un chiodo di pelle gli fasciava le spalle, mentre una massa di capelli lunghi e corvini gli copriva parte del volto. Da come era conciato e dal sorriso sardonico con cui osservava tutti i dischi da più di cinque minuti, cominciai a temere che avesse intenzione di rubarne uno. Raccolsi coraggio a due mani e nonostante qualcosa in lui mi intimorisse, decisi di parlargli.

“Posso aiutarti? Cerchi qualcosa in particolare?” Gli chiesi cercando di nascondere il tremore nella mia voce. Si voltò e venne verso il bancone. Quando mi fu di fronte notai le sue iridi verde chiaro coperte dalla frangia che mi fissavano senza pudore.

“No, no, sto solo dando un’occhiata.” Ai dischi o a me? pensai, mentre tentavo di sostenere quello sguardo. Alla fine persi la battaglia e abbassai gli occhi sul pacchetto di sigarette con cui stavo nervosamente giocherellando, sentendomi le guance in fiamme.

“A dire il vero, potresti fare qualcosa per me. Sì, ti scoccerebbe cambiare questo schifo? Juice Newton non si può proprio sentire.”

Lo guardai di nuovo: aveva uno stupido sorrisetto stampato in faccia come se credesse di aver appena fatto l’osservazione più sagace della storia. Feci una smorfia: “Lo so, lo so. Ma la musica la sceglie il capo, non posso contestare.”

Si piegò verso di me e mi tolse il pacchetto dalle mani, sfilandone una Marlboro. “Ti scoccia?”

“Oh, no, fai pure, straniero,” risposi sarcastica. Da quando ero arrivata a LA mi ero messa a chiamare tutti quelli che non conoscevo così. Mi sembrava un modo più interessante di rivolgermi alle persone di cui non avevo intenzione di chiedere il nome.

“Nikki,” biascicò tenendo la sigaretta fra i denti mentre la accendeva con uno zippo d’argento.

“Ti prego, sul serio, leva questa merda,” disse poi esalando una boccata di fumo.

Roteai gli occhi e mi voltai ad armeggiare con il giradischi, sentendo gli occhi di… Nikki, nome bizzarro… mai quanto Strychnine, però… sentendo gli occhi di Nikki puntati sul mio fondoschiena. Forse mettere gli shorts quel giorno non era stata una grande idea, ma nonostante fosse quasi Ottobre faceva ancora un caldo infernale.

“Robb mi ucciderà, cazzo,” borbottai, levando il disco e mettendone su un’altro che potesse andar bene a quello squilibrato. Love It To Death, di Alice Cooper. A tutti piaceva Alice Cooper, soprattutto ai metallari come quel tipo.

“Nah, non avrai problemi: sei una bionda figa, il capo non ti dirà nulla,” aveva ancora quella faccia da schiaffi. Spalancai gli occhi e lo fissai dal basso del mio metro e sessanta scarso: “Come mi hai chiamata scusa?” non mi ancora ero abituata ai calorosi apprezzamenti dei giovani di strada di Los Angeles.

“Biondina. Figa.” scandì lui, scuotendo i capelli dal viso.

“Oh, adoro voi Americani,” dissi spegnendo la sigaretta nel posacenere.

“Non sei di qua, vero?” disse Nikki avvicinandosi di più. Troppo vicino, per i miei gusti. Mi soffiò in faccia il fumo.

“A dire il vero, no. Senti bello, o compri qualcosa o te ne vai, come vedi ho un sacco di gente da servire,” dissi gesticolando per mostrargli il locale vuoto.

“Ce l’avete della roba heavy metal?”

“Certo che sì. Non è proprio il mio genere preferito, ma te la faccio vedere,” dissi scivolando da dietro il bancone. Ero così esaltata dall’idea di avere un cliente che per un attimo mi scordai di quanto mi fosse parso arrogante e di quanto mi mettesse a disagio.

“Questi sono i classici, Blue Oyster Cult, Van Halen e simili, quelli gli ultimi arrivi.”

“Ah non ti piace? E che ascolti, di solito? A parte Alice Cooper,” chiese ignorando completamente la mia spiegazione mentre gli facevo strada nel negozio.

“Oh, un po’ di tutto: Sex Pistols, Ramones, Kinks, i Led, amo le Runaways..”

In quel momento, attirato dal cambio di musica e dalle voci provenienti dal locale principale, Robb decise che era ora di risorgere dal suo cimitero di vinili per assicurarsi che non fossi impazzita e non stessi parlando da sola. Una volta mi aveva rivelato che quando si sentiva troppo solo parlava al poster di Dylan. 

Scese le scale con in mano due o tre scatoloni. “Strychnine, non ti pago per ascoltare questo casino e chiacchierare con i..”

Quando mi vide con Nikki, lasciò cadere il carico e un mare di cubetti di polistirolo si riversò ai suoi piedi.

Oh santo Dio.. mi scusi, la sta importunando?” per cinque minuti buoni stette a fissarlo con le braccia ancora a mezz’aria come se gli scatoloni fossero ancora stati fra le sue mani. “La scusi… non abbiamo mai clienti, figurarsi un personaggio del suo calibro, signor Sixx..” disse, pallido in viso e con gli occhi più stralunati del solito.

Lo guardai interrogativa, poi spostai lo sguardo su Nikki, che aveva dipinta sul volto un’aria di imperturbabile soddisfazione, e di nuovo su Robb, che tentava di darsi un contegno.

“Posso fare qualcosa per lei?” gli chiese, ora quasi tremante.

“Robb, torna pure in magazzino, ci stavo pensando io qui..”

“Sì, non preoccuparti,” mi fece eco Nikki. “Ero passato solo per vedere che effetto faceva vedere il nostro nuovo disco sullo scaffale di un negozio. Mi piace farlo, ogni tanto.” Nuovo disco? Forse per la mancanza di ossigeno nel locale o per la sua aria stantia, forse per la voce disperata di Alice Cooper che sbraitava dagli altoparlanti I’m eighteen and I like it yes I like it oh I like it love it like it… ma per qualche motivo faticavo a processare quello che stava succedendo.

Nikki si avvicinò alla sezione dei nuovi arrivi e prese in mano un album, Shout At The Devil, dei Motley Crue. Avevo sentito un paio di pezzi alla radio, ma non sapevo assolutamente nulla di loro. L’hair metal non era esattamente il genere più popolare a Bologna. Quando Nikki lo aprì, nell’interno della copertina quattro ragazzoni iper truccati facevano bella mostra di sé, e uno di quelli gli assomigliava incredibilmente, ma non poteva essere lui. Lo osservai meglio: era proprio lui, stessa massa di capelli neri, stesso piglio arrogante. “Sai che ti dico? Quasi quasi me lo compro. La casa discografica ci manda una copia gratis, ma non c’è gusto a non comprarlo,” disse porgendomi il disco. Robb, ancora allucinato, osservava la scena dal terzo gradino delle scale.

Nikki pagò ed uscì dal negozio: dal vetro lo vidi salire su un’Harley nuova di zecca e sparire in un lampo lungo il Boulevard.

E’ ora di tornare alla solita noia, mi dissi. Quella strana rockstar aveva dato, anche se per una breve ventina di minuti, una scossa a quella monotonia che partendo avevo sperato di aver abbandonato per sempre.

Nemmeno un’ora dopo, il telefono squillò. Wow, un cliente che è pure una rockstar e addirittura una telefonata, quella giornata era decisamente più movimentata del solito.

“Pronto, Empire Records, come posso esserle utile?” chiesi con la voce da segreteria telefonica che avevo messo a punto in quel mese.

“Parlo con la biondina?”

La sua voce mi fece ribollire il sangue nelle vene: riusciva ad essere irritante persino al telefono.

“Sono Sixx.. ehm, Nikki.”

 

Note dell’autrice: Ssssalve! Ecco il secondo capitolo, a meno di una settimana di distanza dall’ultimo (quasi quasi mi commuovo per la mia puntualità) e finalmente ecco Nikki che entra nella storia anche se non proprio con gioia di Rebecca/Strychnine, ma non preoccupatevi, avranno tempo per andare d’accordo..

Ci tenevo a dire che il nome del negozio di dischi è preso da uno dei miei film preferiti, Empire Records (ovviamente) e che invece il negozio in sé è vagamente ispirato a quello di Alta Fedeltà di Nick Hornby, nel caso in cui qualcuno notasse delle somiglianze.

Vincey

Canzoni citate nel capitolo: The Cramps-Strychnine

Juice Newton-Angel Of The Morning

Alice Cooper-Eighteen (ho trovato solo una versione live)

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Capitolo 3
*** III ***


III

 

Lasciai subito stare la farsa della voce squillante da commessa servizievole. Chissà perché, ma avevo la netta sensazione che Nikki non volesse chiedere di mettergli da parte il nuovo singolo di Donna Summer.

“Senti, per caso c’è un accendino d’argento lì da qualche parte? Mi sa che l’ho lasciato in negozio..”

Sembrava sinceramente preoccupato. Mi guardai attorno: effettivamente sul bancone c’era uno zippo come quello che aveva usato lui quel pomeriggio.

“..dovrebbe esserci inciso sopra SIXX, su uno dei due lati.”

Mi rigirai l’accendino in mano, avvicinandolo alla finestra per guardare meglio.

“Sì, mi sa che è il tuo.” Lo sentii tirare un sospiro di sollievo dalla parte opposta del ricevitore.

“Meno male.. non è che riusciresti a portarmelo qui allo studio di registrazione a Hollywood?”

Strabuzzai gli occhi: “Oh, ma certo. Perché io posso tranquillamente mollare il negozio e venire al tuo studio di registrazione senza avere un mezzo di trasporto e per di più di sabato pomeriggio mentre Robb dorme beatamente al piano di sopra, come no. Sono a tua disposizione, rockstar.” Mi pentii subito di essere stata così sarcastica. Anzi, ero stata proprio ai limiti del crudele, ma in fondo, pensai, un tizio famoso come Nikki avrebbe potuto mandare tranquillamente qualcuno a ritirare quello stupido gingillo per lui, perciò pretendere che glielo portassi io era semplicemente ridicolo.

“Okay, okay, non c’è bisogno di scaldarsi tanto,” il suo tono di voce pareva quasi più rattristato che seccato dalla mia aggressione verbale. “Passo a prenderlo… uh, quand’è che chiudete?”

Addirittura sarebbe passato lui a riprenderselo? Diamine, quell’accendino doveva proprio essere importante.

“Alle sette. Non un minuto di più, altrimenti dovrai aspettare fino a lunedì.”

Roger,” rispose lui ridacchiando. “Sai, dovresti scioglierti un attimo, bambolina. Sei troppo acida.”

“Grazie mille per questo consiglio utilissimo, Mr. Simpatia, ma se mai dovessi scegliere qualcuno con cui allenarmi a non essere acida, ricordami di chiamarti per mandarti a fanculo.” Adesso se l’era proprio andata a cercare, ma con quale diritto pensava di potermi dire cosa fare? Però non puoi negare che essere chiamata con dei nomignoli irritanti non è mai stato così allettante come ora

“Passo alle sette, allora.”

Gli sbattei il telefono in faccia senza nemmeno salutarlo: in soli trenta secondi di telefonata era riuscito a darmi sui nervi come nessuno mai. A dire il vero, forse il sangue mi bolliva nelle vene anche perché non riuscivo a spiegarmi come mai quella sua arroganza mi sembrasse, in un certo senso, attraente. Certo, forse era il fascino della rockstar, ma sembrava che ci fosse qualcosa in più in quel ragazzo. Quando era entrato in negozio, quel pomeriggio, gli occhi avevano iniziato a brillargli alla vista di tutti quei dischi, e potevo capirlo alla perfezione. Chissà, forse anche le rockstar si emozionano ancora alla vista dei vinili.

Buttai un’occhio all’orologio appeso al muro: erano quasi le sei, e dopo Nikki non avevamo avuto clienti quel pomeriggio, come al solito. Provai all’improvviso un intenso desiderio che fossero già le sette di quella sera per potermene uscire da qual buco angusto ed andarmene al motel… o per vedere Nikki? No, no, di certo per andarmene a casa dopo una noiosa giornata di lavoro… tuttavia non potevo negare a me stessa di essere indubbiamente intrigata da lui. Desideravo sapere cosa ci fosse dietro i riff violenti e i commenti irriverenti su Rolling Stone che passai quella restante ora ad ascoltare e leggere.

Alle sette in punto Robb se n’era già andato a casa da un pezzo e decisi che avrei aspettato Nikki fuori. Il caldo torrido del primo pomeriggio era sparito e al suo posto una brezza decisamente autunnale rinfrescava l’aria. Il sole aveva appena iniziato a calare, e la fascia più alta del cielo era già violacea, mentre le luci delle poche case su Victory Boulevard erano accese. Mi accesi una sigaretta con l’accendino di Nikki ed approfittai della luce del lampione accanto al negozio per guardare da vicino l’incisione: SIXX, in lettere maiuscole e di gusto gotico. Mi chiesi se se lo fosse fatto fare lui, o se fosse stato un regalo, e perché ci tenesse così tanto da non poter aspettare fino alla settimana successiva per riaverlo. Non riuscivo a capire perché volessi sapere così tanto su di lui, non era simpatico e non era il mio tipo, e probabilmente una volta recuperato quel dannato accendino sarebbe sparito e grazie a Dio non l’avrei mai più rivisto, ma forse proprio per questo sentivo un’urgenza simile di conoscerlo. Sei proprio una ragazzina, una rockstar ti fa due smancerie per di più poco raffinate, ti frega una sigaretta e poi pretende che lo aspetti pure oltre l’orario di lavoro e tu vuoi conoscerlo meglio… imbarazzante, puerile e patetica. Che fine ha fatto la ragazza cazzuta che stappava birre con i denti e usciva solo con i maschi? Ale non ti riconoscerebbe, vergognati, tutta tremante di emozione adolescenziale davanti ad un simile..

“..Ciao, biondina.”

Alzai lo sguardo ed eccolo lì, in tutta la sua sfavillante arroganza californiana, appoggiato ad un’altrettanto sfavillante Harley che sembrava gridasse GUARDATEMI

“Ciao,” risposi con voce monotona evitando di guardarlo negli occhi, lanciando invece una rapida occhiata all’orologio da polso: le sette e cinque.

“Sei in ritardo;” gli feci notare, sempre tenendo lo sguardo incollato alle punte dei miei stivali.

“Lo so, scusami.” Sembrava sinceramente dispiaciuto, e mi trovai a pensare che forse ero sembrata troppo arrabbiata per un ritardo minimo come quello. In fondo, pensai, Los Angeles è una città molto trafficata.

“Per farmi perdonare ti porto a casa, dai.” Finalmente lo guardai, ponderando la situazione. Un passaggio sulla Harley di una famosa rockstar dalla brutta reputazione sembrava esattamente il tipo di cosa per cui ero venuta in California, ma allo stesso tempo temevo letteralmente per la mia vita, e Nikki probabilmente si accorse della mia titubanza, perché aggiunse subito “Non andrò troppo veloce.”

“Credevo che tu andassi troppo veloce persino per l’amore*, rockstar.” Mi pentii immediatamente di averlo detto, non appena vidi un’incredibile soddisfazione ravvivargli il volto con un ghigno strafottente.

“Oooh, qualcuno ha fatto i compiti a casa, vedo…”

“Mi annoiavo.” Bugia, sporca e schifosa bugia… o meglio, la noia non era comunque una scusa soddisfacente a giustificare fatto che avessi passato tutto il pomeriggio ad ascoltare le sue canzoni.

“E comunque, non ho un casco in più.”

“Neanch’io. Facciamo senza.” Ed i suoi occhi non ammettevano repliche. Sospirai, rassegnata, e mi avviai verso la moto.

“Ma guarda, la biondina scontrosa dal passato sconosciuto accetta il mio aiuto!” esclamò Nikki salendo a cavallo del mezzo.

“Non mettere il dito nella piaga,” ribattei, accomodandomi dietro di lui, “non mi stai aiutando, semplicemente non mi va di farmela a piedi con questo caldo.”

Anziché partire, Nikki si voltò a guardarmi in modo perplesso.

“Beh?” sbottai.

“Non penserai mica di farcela senza aggrapparti a me, bambolina?”

Oh no, non oserei mai pensare una stronzata del genere.” Vidi le sue spalle sollevarsi in una rapida risata.

“Strychnine?”

“Sì?” sentirlo pronunciare il mio nome mi diede uno strano brivido.

“Perché allora non ti aggrappi?”

Mi appoggiai controvoglia alla sua schiena, constatando che, per quanto dargliela vinta mi pesasse più del dovuto, non farlo sarebbe potuto costarmi un arto poiché, nonostante la sua promessa, Nikki partì immediatamente sfiorando i cento all’ora. In più non era affatto una sensazione spiacevole, dopo due mesi di calma piatta.

 

**

 

Nikki inchiodò davanti al motel per farmi scendere. Ormai era quasi del tutto buio, fatta eccezione per le luci tremolanti che si riflettevano sulla piscina minuscola e quasi impraticabile del complesso.

“E così è qui che vivi?” mi chiese, spegnendo il motore.

“Già, questa è la mia reggia. Anche se vivere è una parola grossa. Diciamo che ci dormo.”

“Sì, lo so.” 

“Insomma sai tutto, tu. Grazie mille per il passaggio e i dieci infarti che mi hai fatto prendere lungo la via,” risposi, frugando nella borsa finché non trovai il suo zippo, “ecco il tuo accendino, grazie e arrivederci. Speriamo che la sua esperienza alla Empire Records sia stata soddisfacente,” dissi, scimmiottando la voce squillante da cassiera. Per qualche motivo ora volevo solo che quell’incontro finisse il prima possibile e che Nikki se ne tornasse all’inferno, da dove era venuto. Detestavo che mi avesse messa in difficoltà così tante volte quel giorno, che volesse sapere da dove venivo, che avesse visto quello stupido motel e detestavo anche aver accettato il suo maledetto passaggio. Mi avviai verso la porta della mia camera sotto al patio con le chiavi già in mano. Mentre trafficavo con la serratura all’improvviso sentii un bruciore noto invadermi gli occhi, ed inutili ed insensate goccioline formarsi agli angoli. Sollevai la testa e cercai di concentrarmi sulla lampada giallastra sopra la porta attorno alla quale ora si erano radunati milioni di moscerini, nel tentativo di reprimere quelle lacrime immotivate. Sei una stupida, stupida, stupida. Dovevi rimanere a casa con quella tossica di tua madre, a fumarti le canne di nascosto sul balcone. Ma cosa ti aspettavi venendo qui? E all’improvviso capii perché Nikki Sixx mi provocasse tanti sentimenti contrastanti e tanta irritazione. Nikki è tutto quello che tu non avrai mai: fama, libertà e sicurezza di sé stessi, perché sono passati mesi e tu vivi ancora qua, e probabilmente ci morirai pure e nessuno verrà a cercarti, nemmeno la vecchia della reception perché…

“Veramente, avrei qualche richiamo formale da fare riguardo al servizio clienti del negozio, se hai tempo.” Nikki non era andato via, evidentemente, o forse erano passati solo pochi secondi e a me, persa nella rabbia e nella disillusione del momento, erano parsi un vita. Cacciai indietro le lacrime e mi voltai a guardarlo da sopra la spalla.

“Ah sì? Beh, mi dispiace ma siamo chiusi. Potrà rivolgersi al direttore in persona lunedì mattina.”

Nikki fece finta di non aver sentito. “Sì, innanzi tutto il personale, per quanto attraente, è estremamente scortese, azzarderei dire stronzo.”

“Ci scusiamo per il disagio, purtroppo il personale è fatto così e di certo non cambierà per lei, signor Sixx.”

“No, ma potresti venire a bere una cosa con me per farti perdonare.”

Tolsi la chiave dalla toppa e lo guardai: se ne stava lì fermo sotto ad un lampione, con il viso in penombra e la luce artificiale irradiava dietro di lui come un alone mistico. 

“Sono al verde,” risposi senza troppa enfasi.

Nikki si guardò rapidamente attorno prima di identificare l’insegna al neon verde e rossa di un minimarket fatiscente cinquanta metri più in giù.

“Aspetta,” mi disse, prima di sparire a piedi nell’oscurità della strada.

Contro ogni mio principio, sedetti su uno dei lettini di plastica che fronteggiavano la piscina ad aspettarlo. Del resto, che cos’hai di meglio da fare?

Pochi minuti dopo Nikki era già di ritorno non con due birre, ma con una intera cassa da sei di Bud in mano e un’espressione tronfia in volto.

Si sedette di fianco a me con malagrazia. “E’ davvero incredibile quanto siano gentili le persone quando la tua faccia comincia vedersi in giro,” disse allegro. “Tranne te, ovviamente, ma non sapevi chi fossi quindi immagino che abbia senso.” Lo guardai, interrogativa.

“Volevo comprarne solo due, ma mi hanno regalato tutta la cassa. Pazzesco.” E mentre lo diceva sembrava davvero sorpreso. Tolse un coltellino svizzero dalla tasca del giubbotto e aprì una bottiglia, e stava per aprire anche la mia ma lo precedetti, togliendo il tappo con i denti con una certa disinvoltura di cui andavo abbastanza fiera, una mossa perfezionata in anni ed anni di amicizie quasi esclusivamente maschili. Era bello sentirmi un po’ di nuovo me stessa.

Nikki mi guardò ammirato. “Cazzo bambolina, non ti facevo una così…” 

“Non ti eccitare, è solo una stupida birra. So fare di meglio,” lo bloccai io, pensando con un misto di orgoglio e nostalgia a tutte le volte che ero saltata su un’auto in corsa sui viali, o che avevo battuto uno dei miei amici a una gara di bevute.

“Del tipo?” si piegò un po’ verso di me, e per la prima volta quel giorno non sembrava avesse secondi fini, ma che volesse semplicemente ascoltarmi meglio.

“Una volta..” mi sistemai sul lettino allontanandomi impercettibilmente da lui. “…una volta ho aperto una bottiglia di vino con un mazzo di chiavi.” Era la cosa più stupida che potessi dire, nemmeno una delle imprese che valeva la pena di raccontare.

“Classico,” rispose lui. “Basta non far cadere il tappo dentro.”

“Beh, allora l’estate scorsa sono entrata in un vecchio hotel abbandonato forzando il lucchetto con una graffetta.”

“Niente che un qualsiasi ragazzino di strada americano non abbia mai fatto.”

“Oh, ma insomma! Da dove vengo non è una cosa così comune!” esplosi io. “Non sono un fottuto ragazzino di strada, sono un’idiota che ha attraversato un oceano intero e non di certo per stare qui a farmi sfottere da te!” 

Nikki si rabbuiò. Per un po’ guardai fisso dentro il collo della bottiglia, vergognandomi di essermi mostrata così alterata e vulnerabile ad un uomo che conoscevo da meno di dodici ore. Sentimmo un certo movimento all’interno del motel, e pochi secondi dopo dalla finestra al suono dei grilli si aggiunse anche quello di un vinile rovinato. Evidentemente la vecchia ha deciso di dare una botta di vita alla serata, mi dissi, mentre la voce profonda di Tom Waits intonava la prima strofa di Downtown Train. Da quella anziana signora così posata mi sarei aspettata più qualcosa di datato come Frank Sinatra, o perfino un buon vecchio Bing Crosby, data la sua età, ma era innegabile che Tom Waits fosse un sottofondo molto migliore.

Ero lì lì per fare qualche commento sulla canzone quando Nikki, che pareva aver ascoltato il mio sfogo con troppa attenzione, ruppe il silenzio.

“E io cosa sono?” mi chiese rigirandosi in mano il tappo della bottiglia.

“Come scusa?”

“Se tu sei un’idiota che non si fa sfottere da me, io cosa sono?”

Aveva un tono di voce diverso, non era insolente o arrogante. Sembrava solo che volesse davvero una risposta.

“Così a caldo?”

Nikki annuì. “Da tutte quelle stupide interviste sui giornali, dalle nostre canzoni… che cosa ti sembra che sia io?” L’animo poetico. L’Anticristo. Il lato oscuro. Vicious e Rotten racchiusi in una persona sola. Un demone in fiamme. Ma non potevo certo dirgli queste cose.

“Un musicista?”

“Dimmi qualcosa che non mi possa dire anche il mio manager.”

“Beh… tu scrivi i testi e suoni il basso, no?”

Gran bella risposta del cazzo, complimenti.

Mi guardò negli occhi da sotto la frangia. “Wow biondina, grazie mille, non sprecarti.”

“Non lo so rockstar, dimmelo tu cosa sei.”

“Sono quello che vedi, bimba.”

“Ah sì? Vuoi dire che non si nasconde nulla dietro agli strati di trucco, alle birre e alle groupie? Vuoi dirmi che questa non è una maschera, che la tua essenza, i tuoi desideri più profondi, sono visibili a tutti alla luce del sole?” Nikki non rispose per un bel po’. Mi stupii della mia stessa audacia e per un attimo desiderai non aver mai detto quelle parole.

“Che cos’è che vuoi davvero, Nikki Sixx?” Eravamo alla seconda birra per me, e la terza per lui. Per quanto fossi abituata a bere, erano mesi che non lo facevo data la simpaticissima legge statunitense che vietava l’acquisto di alcolici ai minori di ventun anni. Probabilmente una domanda del genere era dettata dall’alcol, perché mai mi sarei sognata di chiederglielo da completamente sobria. 

Nikki strinse gli occhi mentre pensava. “Voglio qualcosa di reale. Sì, ecco cosa voglio: gente vera, storie vere. Come la tua, Strychnine. La storia del tuo nome, la storia di quello che hai lasciato a un oceano di distanza. La storia di come hai imparato a stappare le bottiglie con i denti. Del perché mi tratti come se fossi un tuo nemico quando mi conosci solo da mezza giornata. Raccontami la tua storia, ragazzina.”

Durante tutto il discorso non aveva distolto lo sguardo un attimo da me, tanto che sentivo le guance bruciare. Com’era possibile che Nikki fosse riuscito a smascherare tutta la mia farsa accuratamente imbastita di ragazza dura ed indipendente soltanto con le nostre poche conversazioni? Ma soprattutto, perché io gliel’avevo permesso?

Mi alzai dal lettino.

“Magari un’altra volta, Sixx.” 

“Non abbassi la guardia neanche a pregarti, eh?”

“Buonanotte Nikki,” risposi, dirigendomi verso la porta.

“Ti tirerò fuori la tua storia, in un modo o nell’altro… non mi freghi, sai?” lo udii dirmi mentre le nostre strade si separavano.

Mi voltai a guardarlo un’ultima volta mentre saliva sulla sua moto, e sentii quasi come lo sapessi che ci saremmo rivisti, e anche abbastanza presto.

 

Note dell’autrice: Sì, okay, è passato un secolo, lo ammetto, mea culpa. Non ho scuse, tranne il fatto che ho avuto mille pensieri in testa, ma ora è estate e posso ammazzare la noia… cioè, occupare il mio tempo libero scrivendo. Seriamente parlando, ho avuto un blocco creativo di vari mesi causa scuola/vita/viaggi e cose così, però I’m back bitches, con un capitolo che spero ripaghi di tanti (taaaanti) mesi d’attesa.

Ci tengo a ringraziare tantissimo Angie Mars Halen per aver recensito il secondo capitolo di questa storia (sperando che tu legga anche questo anche se arriva un bel po’ in ritardo).

Vincey

 

Tom Waits-Downtown Train

 

*riferimento a Too Fast For Love, ma che ve lo dico a fare? :’)

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Capitolo 4
*** IV ***


IV

 

Il vento cominciò a cambiare verso la metà di Ottobre, portando con sé un vago ricordo dell’Italia. Senza troppa emozione pensai a come, a casa, probabilmente la vita di tutti era ricominciata come sempre dopo l’estate. Di tutti i volti che avevo lasciato quella notte, nessuno aveva ormai più un contorno nitido, nemmeno quello di Alessandro, nonostante gli avessi scritto una lettera poco dopo essere arrivata, per rassicurarlo del fatto che stavo bene. Nulla di quel mondo ormai mi apparteneva più, così come io non ero mai appartenuta a quel mondo.

Contrariamente al mio presentimento, Nikki non si era fatto più vivo da quella sera, e mi ero già convinta che quello che c’era stato, qualsiasi cosa ci fosse stata, non fosse niente più che un curioso episodio da raccontare agli amici. Sai, una volta Nikki Sixx dei Mötley Crüe è entrato in negozio da me e poi mi ha portata in giro sulla sua moto, e mi ha comprato da bere, non è pazzesco? mi immaginavo a raccontarlo alle feste o davanti ad un caffè, o a qualcuno di appena conosciuto per rompere il ghiaccio. Peccato che tu sia qui da un mese e mezzo e non conosca nessuno a parte il tuo capo, mi ricordavo allora ogni volta che pensieri simili mi attraversavano la mente. Dal canto suo, il mio capo aveva iniziato, dal giorno in cui Nikki era venuto al negozio, ad uscire dal suo letargo e ad essere sempre più attivo. Non parlava mai dell’accaduto, ma era come se vedere una celebrità alla Empire Records avesse instillato in lui nuova linfa vitale, e per quanto vedere Robb così mi facesse piacere, la sua iperattività era anche vagamente stressante.

Così, quel giorno, dopo il suo ennesimo giro a vuoto fra gli scaffali non riuscii più a trattenermi.

“Robb, adesso basta! E’ la decima volta che sistemi la sezione dei più venduti, e posso garantirti che spostare Wish You Were Here avanti e indietro come un pazzo non farà comparire magicamente Roger Waters davanti a te!”

Robb si bloccò all’improvviso, per poi voltarsi verso di me con una lentezza esasperante. Mi guardò, interdetto, da sotto le palpebre pesanti e socchiuse. 

“E chi lo vuole Roger Waters? Barrett, quello sì che vorrei che comparisse magicamente..” borbottò poi, mentre il suo sguardo lentamente si perdeva nel vuoto.

Mi sarei aspettata una lavata di capo, un insulto fantasioso, e invece dopo quella frase criptica tornò a voltarsi verso lo scaffale. Scossi il capo, incredula. Forse è definitivamente ammattito, pensai, del resto stare sempre qui dentro non gli fa bene, e nemmeno a me. Per un istante un brivido mi attraversò all’idea che quella sarebbe potuta essere la mia fine, e presa dal terrore del momento azzardai a chiedergli se per caso per la pausa pranzo volesse uscire da quell’antro di fumo, musica e polvere.

Lo vidi interrompere di nuovo il suo lavoro per ponderare la mia richiesta, per poi rispondere con un laconico “Va bene, tanto non ci sono clienti,” che mi lasciò di stucco.

Ero convinta che uno come Robb, tanto asociale da portarsi il pranzo al lavoro e non dire altro che buongiorno Strychnine e io me ne vado fra cinque minuti vivesse diviso tra il negozio e la casa, perciò stavo per proporgli di andare a mangiare qualcosa nella caffetteria a pochi metri dal negozio, dove di solito passavo io la mia pausa, ma quando fummo lì davanti lo vidi tirare dritto, strascicando i piedi nelle sue Birkenstock consunte. 

“Robb, il bar è questo..” gli feci notare, sempre più confusa da quella situazione surreale.

“Nah bellezza, non mangio in quella topaia, io: andiamo in un posto che conosco, muoviti,” mi rispose senza fermarsi e senza nemmeno voltarsi. Lo seguii controvoglia, prospettandomi già un locale etnico, vegano, o qualche altra stronzata californiana messa in piedi una decina d’anni prima quando cose del genere ancora andavano di moda fra quelli come lui.

Contro ogni mia aspettativa, Robb mi portò in un diner sorprendentemente normale, e si fece portare un cheeseburger e delle patatine.

“Avevo una fame..” tentò di giustificarsi quando ebbe spazzolato il tutto nel giro di cinque minuti.

“Eh Robb, ci credo, con tutto quello che hai fumato stamattina.. ah, a proposito, per caso hai cambiato fornitore?” Robb mi guardò assente, senza rispondere, così incalzai.

“Prima stavi sempre in magazzino a dormire, ora non stai fermo un attimo, quindi o hai cambiato roba, o sei stato morso da un insetto radioattivo.”

Lui bofonchiò qualcosa di incomprensibile che venne quasi del tutto coperto dalla voce stridula dello speaker radiofonico trasmessa dagli altoparlanti del locale.

“E dopo la pubblicità, ascolteremo su grande richiesta dei nostri ascoltatori il nuovo singolo di una band che ha cominciato proprio da qui, da L.A. …Too Young To Fall In Love dei Mötley Crüe!”

Come ebbe sentito quel nome Robb si drizzò sulla sedia e vidi nei suoi occhi un’insolita vivacità.

“Niente New Animals alla radio eh, boss?” dissi allora, nel tentativo di ignorare il calore che stava pervadendo la mia faccia. 

“Spero che tu sia stata gentile con Nikki Sixx, quella volta che è venuto da noi..” borbottò lui ignorando completamente la mia constatazione. “..Mi dispiacerebbe se avessi fatto la stronza con uno famoso, sai Strychnine.” Annuii senza capire bene dove volesse andare a parare quel discorso. Del resto, la maggior parte dei discorsi di Robb non andavano a parare da nessuna parte. Dato il mio silenzio, l’hippie continuò: “Sai, credo che lui sia di queste parti.. di Van Nuys, voglio dire. Fino a qualche anno fa veniva a rubare da me, ma quelli erano altri tempi e io gliene dicevo quattro, a lui e agli altri teppisti della zona.. e mica rubavano roba buona eh! Ma io dico, se mi devi rubare dei dischi, almeno prendi che ne so, qualcosa che ti apra la mente, non quelle schifezze punk che..”

Smisi di ascoltarlo: fortunatamente aveva smesso subito di parlare della questione di Nikki, e adesso si era lanciato in un accorato inno alla musica psichedelica, quindi il pericolo era scampato. Il cuore, che aveva preso ad accelerare il battito nel breve istante in cui Robb aveva pronunciato il nome del bassista, ora stava tornando alla sua velocità normale. Spostai lo sguardo fuori dalle vetrate del diner, e lo lasciai correre lungo la strada asfaltata del sobborgo, fra la polvere rossastra e i gli edifici bassi e lunghi intervallati da palme e lampioni: tutti supermarket, negozi di souvenir, capannoni e bar poco frequentati, niente a che vedere con la scintillante ed eccitante Hollywood che avevo visto solo un’altra volta dal giorno in cui ero arrivata.

“..Ma vi conoscete?” Robb mi strappò dalla mia contemplazione.

“Huh?” 

“Tu e Sixx, cioè ti guardava come se ti conoscesse” ed ecco al solo pensiero di come mi guardava… di nuovo che il cuore accelera… mio dio ragazzina, contieniti! Ma poi, perché diavolo Robb deve insistere sull’argomento?

“Oh Robb, quella era la faccia di uno che mi stava facendo i raggi X con gli occhi, non di uno che mi conosce,” mi affrettai a dire io. 

“Hmmm..” Robb non sembrava troppo convinto, come se non si fosse bevuto il mio tentativo di sminuire la storia. Di certo non mi sarei messa a raccontargli di come Nikki aveva tentato di.. di fare cosa poi? Di farsi raccontare i cazzi miei, ecco cosa. No Robb, non ci conosciamo, ma lui per qualche motivo aveva deciso di volermi conoscere, quel giorno.

“..Strychnine credimi, la conosco la faccia di un pervertito che si scopa le ragazze con gli occhi, e la sua non era così,” continuò lui.

Farmi fare la paternale da un soggetto come Robb era davvero l’ultimo dei miei desideri, così tagliai corto. “Come dici tu capo.. comunque, la mia pausa pranzo è finita.”

 

**

 

Nei giorni seguenti andai sempre a pranzo con Robb al diner: non parlavamo molto, e quando succedeva discutevamo di musica. Nel tempo restante mangiavamo in silenzio, ma era comunque meglio che andare al bar da sola. 

Per il resto, le giornate correvano monotone finché circa una settimana dopo quella strana mattinata del diner, alle dieci del mattino un rombo assordante fece tremare i vetri sottili del negozio. Sollevai placidamente lo sguardo dal registro di cassa e notai, senza farci troppo caso, un’auto sportiva con il tetto abbassato, ferma ma con il motore acceso proprio in mezzo alla strada. Tipico di questi californiani sboroni, pensai, andarsene in giro con il tetto abbassato ad Ottobre e fare tutto questo casino solo per farsi notare. Mi aspettavo già che entrasse un gruppo di ragazzi del college figli di papà ed ero pronta a sfoderare le migliori risposte ai loro apprezzamenti poco lusinghieri, quando ad entrare fu un gigante vestito in modo assurdo, con lunghi ricci scuri, occhiali da sole specchiati e un sorriso a trentadue denti.

“Tu sei Sybille, per caso?” mi chiese praticamente urlando. Lo guardai perplessa.

“No, no, non Sybille.. Sophie!” disse allora lui grattandosi la nuca. Scossi la testa, imbarazzata.

“Senti, lo conosci Nikki, o no?” mi domandò allora, visibilmente spazientito. La sua attenzione era già volata altrove, e ora si stava aggirando per il negozio toccando ogni disco e leggendo tutti i volantini. 

“Sì.. cioè, no. Non saprei dire se lo conosco ma..”

Il gigante mi interruppe: “Biondina parliamoci chiaro, o lo conosci oppure non lo conosci ma ti piacerebbe..” 

“Una volta ci ho parlato, è venuto qua.. e comunque scusa, si può sapere chi diavolo sei?”

Ma il ragazzone non mi rispose. Piuttosto, si precipitò fuori dalla porta e gridò all’uomo seduto al posto del guidatore in auto: “Mars! Mi sa che l’abbiamo trovata Sophie!” Per tutta risposta quello che doveva essere Mars spense l’auto e si diresse verso l’amico.

“Strychnine, idiota. Non Sophie,” disse, dando una leggera pacca sulla spalla dell’altro che lo sovrastava di vari centimetri. Mi squadrò brevemente con i suoi occhi enormi e chiarissimi, restando impassibile.

“Allora che fa? Viene con noi o no? Cristo Tommy, non abbiamo tempo da perdere dietro ai cazzi di Nikki solo perché lui ha il blocco dello scrittore, intesi? Diamoci una mossa.” Mars continuava a parlare come se io non fossi stata lì, e mentre assistevo a quella curiosa conversazione cominciai a mettere assieme i pezzi: Mars e Tommy il gigante erano niente meno che due quarti dei Mötley Crüe, ora che li guardavo meglio li riconoscevo, e per qualche motivo a me sconosciuto erano venuti a cercarmi.

“Però, carino ‘sto posto. Un po’ stretto ma niente male,” Tommy si rivolse finalmente a me.

“Senti bionda, io starei qua anche tutto il giorno piuttosto che tornare in studio ma Mickey qui mi richiama all’ordine, quindi ti scoccerebbe salire in macchina?” Lo fissai, incredula: in quei cinque minuti non avevo proferito parola, ancora troppo sconvolta dalla piega che quella giornata aveva preso. 

“Mi piacerebbe sapere perché mai dovrei venire con voi, scusate la domanda eh,” ribattei allora, svegliandomi dalla mia trance.

“Dai bellezza, non fare la difficile e sali in macchina, te lo spiego mentre andiamo. Non voglio beccare il traffico,” Mick mi prese sbrigativo per un braccio.

Feci appena in tempo a lasciare un biglietto a Robb che già mi trovavo seduta sulla Thunderbird di Mick Mars, lanciata ad una velocità inumana lungo lo stradone polveroso verso Hollywood.

Ora che era arrivato l’autunno le mattine californiane erano abbastanza fresche, e il cielo terso lasciava intravedere in lontananza le montagne che circondavano la San Fernando Valley. 

Dopo un po’ il paesaggio cominciò a mutare e cominciai a notare villette e parchi artificiali, finché non ci immettemmo definitivamente nel caos di Hollywood e finalmente Mick fu costretto a rallentare a causa del traffico.

Ora che non era più concentrato nella guida decisi di prendere la parola: “Sarebbe tanto difficile spiegarmi dove diavolo stiamo andando?”

Tommy si voltò indietro verso di me. “Nel nostro studio, dolcezza,” mi rispose sorridendomi.

“Okay, grazie,” risposi, contenta di vedere finalmente un sorriso che sembrava sincero e non dettato da arroganza o secondi fini. “E di grazia, perché io sto venendo in studio con voi?”

“Sixx ha detto che doveva vederti assolutamente, per trovare l’ispirazione o qualche strozzata simile. Sembrava imapzzito… onestamente, non capisco cosa ci trovi…” Mick rispose monotono senza staccare gli occhi dalla strada.

“Scusalo, lo hanno trattato male da piccolo,” tentò di sdrammatizzare Tommy.

“Nah, nessun problema,” dissi cercando di mascherare il mio tono piccato, “non me la prendo per i commenti di un vecchio.” Tommy scoppiò a ridere. “Nikki aveva ragione, sei davvero una stronza! Il povero Mickey ha solo trentadue anni..”

“E sono abbastanza per fare il culo a tutti voi ragazzini.. bene, finalmente siamo arrivati,” concluse secco il chitarrista, inchiodando davanti ad un edificio dall’aria anonima.

“Muoviti!” Tommy mi trascinò fuori dalla Thunderbird e vedendo la mia confusione mi incoraggiò ad entrare con un colpetto sulla schiena. 

Dentro, lo studio era pulito e ordinato, tutto l’opposto di quello che avevo pensato, ma pervaso da un odore pungente di Bourbon, come se qualcuno l’avesse rovesciato sulla moquette verde scuro. Ebbi la conferma di ciò quando per poco non inciampai nella bottiglia vuota che giaceva a terra.

“Nikki, bello, te l’abbiamo portata!” udii Tommy gridare affacciandosi ad una delle tante porte.

Una voce graffiante gli urlò di rimando: “Era ora! Non ce la faccio più con questo squilibrato. E’ da quando ve ne siete andati che non fa altro che bere. Guardalo, sembra morto! Sixx, cazzo, tirati su idiota! L’hanno trovata, quindi ora farai meglio a resuscitare e fare qualsiasi cosa tu debba fare per scrivere questo cazzo di testo..”

Pochi secondi dopo, mentre la voce di Nikki biascicava qualcosa di incomprensibile, una lunga chioma ossigenata fece capolino dalla stessa porta.

“E’ lei?” chiese il biondo a Tommy, addolcendo il tono rispetto alle grida quasi isteriche di poco prima. Aveva un’aria simpatica, con occhi vivaci e denti bianchissimi.

“Già,” rispose il batterista, “Vince, lei è Strychnine, Strychnine, lui è Vince,” disse indicandomi.

Dopo tanta fretta mi sembrava quasi surreale venire presentata a qualcuno come si usa tra le persone normali. Oh, ma qua non sei fra persone normali. Guardati attorno: questi tre squilibrati ti hanno appena sequestrata e chissà ora cosa faranno. Cominciarono a tremarmi le gambe e provai l’impulso di uscire da quel posto, ma Vince mi rivolse un largo e stucchevole sorriso. “Bene bene, dolcezza,” disse uscendo dalla stanza e venendomi incontro. Si muoveva come se avesse avuto una telecamera puntata addosso. Mi mise un braccio avvolto dalla giacca di raso bianca attorno al collo e mi condusse verso la porta da cui era venuto. “Tristemente sei qua per il mio amico e non per me, ma quando hai finito passa a farmi un saluto, eh?” me lo scrollai di dosso, sempre più preoccupata, e quasi mi precipitai nella stanza, chiudendomi la porta alle spalle. Feci appena in tempo a sentire Tommy che mi gridava “Adesso te lo sorbisci tu il mio fratellone sbronzo!” e subito fui colpita dall’odore di chiuso che aleggiava nella saletta. Nikki era sdraiato scompostamente sul divanetto di pelle chiara, con gli occhi socchiusi e un braccio a penzoloni. “Oooh, che bello, sei arrivata!” gridò. Istintivamente andai verso l’unica finestra della stanza e la aprii, sollevando anche le persiane. Il bassista gemette, protestando debolmente. “Non si respira qua dentro,” mi giustificai io, mentre con lo sguardo cercavo una superficie dove potermi sedere, inutilmente: il tavolino era occupato da bottiglie vuote, posacenere pieni e riviste, e Nikki occupava tutto il divano. Mi sedetti allora a terra accanto ad esso.

“Si può sapere cosa vuoi?” sbottai io.

“Hai già conosciuto gli altri della band?” chiese lui per tutta risposta.

“Per forza, visto che li hai mandati in negozio da me e gli hai detto di rapirmi, psicopatico che non sei altro.”

Nikki aprì un occhio per guardarmi e dovette trovare la mia rabbia molto divertente, perché scoppiò in una sonora risata. “Non stai esagerando? Volevo solo vederti, Strychnine.”

“Potevi passare più tardi, allora. Nikki, praticamente non ci conosciamo, e non hai alcun diritto di farmi prelevare mentre sto lavorando per…” non sapevo nemmeno come finire la frase. Che diavolo voleva fare Nikki Sixx con me di così urgente?

“Ma ti dovevo vedere adesso!” rispose con lo stesso tono di un bambino che cerca di giustificarsi per aver mangiato tutti i dolci della dispensa. “Mi sento ispirato, bambolina. Ma non posso scrivere, se non ho una storia da raccontare,” si girò su un fianco di modo che le nostre facce fossero più o meno allo stesso livello e mi guardò con i suoi occhi verdi e assenti, “quindi tu,” disse piazzandomi l’indice sulla fronte, “mi racconterai la tua storia. Volente o nolente.”

“Farai meglio a farlo, Strychnine,” la voce profonda di Mick mi fece sobbalzare. “Non vorrei aver fatto tutta quella strada per niente.” Mi voltai e vidi che il resto della band stava in piedi sulla soglia a osservare la nostra bizzarra conversazione. Visti così dal basso assomigliavano molto di più a quelle creature che avevo visto nelle foto promozionali sulle riviste, e mi sentii piccolissima.

“Noi andiamo fratello, vedi di.. fare quello che devi,” disse Tommy, mentre Vince salutava agitando le dita. Si voltò a guardarci mostrandoci il pollice alzato e poi tutti e tre se ne uscirono dallo studio.

Restammo solo io e Nikki nell’aria stagnante della stanzetta, mentre dalla finestra udii il rombo assordante dell’auto di Mick che si allontanava. 

Sospirai: mi aspettava una lunga giornata.

 

Note dell’autrice: Rieccomi con questo quarto capitolo un po’ bizzarro ma in cui finalmente entrano nella storia anche gli altri membri del gruppo, anche se per ora ancora solo abbozzati, ma non temete perché ci sarà tempo e modo di approfondirli tutti. Spero che vi piaccia il siparietto su Robb, personaggio che per quanto sembri solo un vecchio hippie un po’ narcolettico in realtà ci tiene alla nostra protagonista.

Chissà come si evolverà la situazione ora che Nikki ha fatto questa mossa molto alla rockstar che vuole tutto e subito.. magari Strychnine si sbottonerà (metaforicamente eh!) e finalmente gli racconterà un po’ della sua vita, o forse no.. 

Anche stavolta un grande grazie ad Angie che continua a leggere e recensire, e grazie a tutti gli altri che leggono “nell’ombra”, spero che anche questo capitolo possa piacervi. Bacini,

 

Vincey

 

PS: non importa a nessuno, ma due giorni fa sono stata al concerto degli Aerosmith e boh, è stato bellissimo e ho un po’ pianto e sono fantastici ed è uno dei più bei concerti a cui io sia mai stata, ma vorrei fare luce sulla tragedia costituita dai cazzoni che arrivano e ti fregano il posto che hai tenuto per ore sotto il sole cocente, per ascoltare l’unica canzone che sanno, e poi stanno lì tutto il tempo a braccia conserte ostruendo la visuale con le loro Fred Perry orrende con il colletto alzato. Vi meritate tutto il mio odio e la cenere delle mie sigarette sui vostri mocassini scamosciati ;)

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Capitolo 5
*** V ***


V

 

Era passata una decina di minuti da quando Vince, Mick e Tommy se ne erano andati e Nikki ancora non aveva proferito parola. Si limitava a starsene sdraiato sul divano a peso morto, fissando il soffitto. Cominciavo decisamente a rompermi di quella situazione di “prigionia”, così gli chiesi che cosa volesse da me.

“Quante volte devo dirtelo, Strychnine? Voglio che mi parli di te, punto e basta,” si lagnò lui.

“Ma si può sapere perché cazzo sei così ossessionato da me?” esplosi allora, “Appurato che non vuoi portarmi a letto, perché altrimenti l’avresti già fatto, perché non vai a cercarti qualche altra persona con una storia più interessante? Su di me non c’è proprio un bel niente da sapere, e comunque in ogni caso non verrei di certo a dirlo a te.”

Nikki si tirò su a sedere con una lentezza estenuante, gemendo come se ogni movimento gli fosse costato una fatica incredibile. Dal basso del pavimento dove mi trovavo seduta riuscivo a vedere ogni minimo dettaglio del suo viso schifosamente attraente, gli occhi chiari, il naso dritto e le labbra, per una volta non distese in un sorriso strafottente. 

“Quando ti ho vista al negozio di dischi, quel giorno, beh è ovvio che la prima cosa che ho pensato sia stata che eri decisamente sprecata dietro quel bancone..” stavo per ribattere ma lui continuò: “..poi però mi sono detto che magari c’era un motivo se te ne stavi lì e non sul Sunset Strip a rimorchiare celebrità come avresti potuto fare.”

“E il motivo è che non ho un soldo per comprarmi dei vestiti decenti, o pagarmi un taxi fino a lì,” risposi amareggiata.

“Certo, anche questo è vero, ma non la dai a bere a nessuno, biondina. Sappiamo tutti e due che anche se avessi le possibilità non ti metteresti mai a fartela con gente come noi, con mio sommo dolore.”

“Non farmene una colpa.”

“Io non giudico nessuno, bellezza. Però ecco, tu sei distante anni luce da noi e da tutto.. questo,” disse indicando la finestra aperta da cui entravano i rumori incessanti di Hollywood. “E se non sei venuta a Los Angeles per cercare la fama, allora che diavolo ci fai qui? Ecco, è questo che vorrei sapere.” Quando ebbe finito la frase si afflosciò sul divano appoggiandosi allo schienale e lasciando cadere all’indietro la testa.

Mi alzai in piedi e rimasi per un attimo a contemplare quell’assurdo spettacolo: Nikki Sixx, la rockstar il cui nome era in quel periodo sulla bocca di tutti, autore di testi duri e irriverenti, ora se ne stava lì inerme, come un qualsiasi ragazzo sbronzo ad una festa, a fare domande assurde ad una ragazza nemmeno tanto interessante che aveva visto una sola volta in vita sua e che l’aveva trattato, perdonate il francese, di merda. Titubante, decisi finalmente di dargli una risposta che fosse soddisfacente senza dirgli troppo su di me. 

“Scappo,” risposi semplicemente affondando sul divano accanto a lui. Nikki si voltò verso di me con gli occhi ancora annebbiati dall’alcol ma comunque sfavillanti. 

“Ohh, ma senti! Mi affascinano i fuggitivi.. e sentiamo, da cos’è che scappi? Guai con la legge? Una brutta storia d’amore?” 

Lo colpii leggermente su un fianco. “Niente di tutto questo, rockstar. Come ho detto, non è una storia così emozionante.”

“Sentiamo, allora.” 

“Non così in fretta. Perché invece non mi dici da cosa scappi tu?”

Nikki mi guardò senza capire. “Da un bel niente. Ti sembro uno che scappa? Direi proprio di no,” rispose, allungando il braccio verso una bottiglia di Bombay Sapphire abbandonata sul tavolo. La rigirò fra le mani per poi appoggiarla nuovamente con un sospiro una volta resosi conto che era vuota.

“Sicuro?” incalzai io. “Perché beh, insomma, anche tu hai un nome che decisamente non è quello che hanno scelto i tuoi genitori. E poi tutto quel trucco, e quelle canzoni alla ti faccio il culo brutto stronzo, e cose così.. insomma anche se non scappi mi sembri uno che ha qualcosa da nascondere, o no?” lo vidi sogghignare leggermente.

“Aspetta un attimo, ma qui si parla di te, non di me, Miss Strychnine. Che cazzo sei, una giornalista di Rolling Stone con queste domande?”

Si alzò e barcollando raggiunse il mobile-bar nell’angolo della stanza. Tornò con una bottiglia di Jack piena solo fino a metà.

“Ci servirà un po’ di questo, mi sa,” disse tornando ad accasciarsi sul divano e porgendomi la bottiglia aperta. Presi un sorso. Il whisky scese pesante, lasciando dietro di sé un bruciore amaro.

“Ecco, ora sì che si ragiona. Comunque il nome Strychnine da dove l’hai pescato?”

Buttai giù un altro sorso.

“E’ il titolo di una canzone, ed è uno dei veleni più letali al mondo. Mi sembrava che suonasse pericoloso.” Nikki scoppiò a ridere ed io lo guardai storto.

“Senza offesa, ma tu sei tutto fuorché pericolosa,” disse quando fu di nuovo in grado di parlare.

“Ma cosa vuoi saperne, tu..”

“Lo vedo. E comunque, ho qualche anno più di te.. a proposito, quanti anni hai?”

“Non si chiede mai l’età ad una signora, dovresti saperlo.”

“Aaah, sei minorenne..” disse Nikki con un sorriso beffardo, “Meno male che non abbiamo fatto nulla,” si coprì gli occhi con le mani fingendo vergogna.

“Col cazzo che sono minorenne, diciotto anni compiuti,” risposi allora d’impulso con una certa fierezza.

Alla vista del suo sorriso trionfante mi resi conto di aver commesso un passo falso: l’orgoglio mi aveva fatto abbassare la guardia, e così ora lui sapeva qualcosa in più su di me, senza che io ci avessi guadagnato nulla. Ma ero determinata a giocare quella partita ad armi pari. 

“Non pensare di avermela fatta, amigo. L’età non è altro che un numero scritto su un foglio, non è una cosa così importante.”

“Sapessi in quante me l’hanno detto..” lo zittii con una gomitata.

“Hai finito di picchiarmi? Cos’è, vuoi dimostrarmi che sei una dura?”

Cominciai a capire perché Vince avesse dato in escandescenze quando ero arrivata: Nikki era già fastidioso di per sé, ma da ubriaco era ancora più strafottente del solito.

“Dico solo,” proseguii io sollevando le gambe e incrociandole sul divano, “che ci sono particolari molto più importanti in una persona, piuttosto che l’anno in cui è nata.” Nikki mi imitò assumendo la mia stessa posizione cosicché fossimo uno di fronte all’altra.

“Ad esempio?”

“Beh, ad esempio: quale turba mentale spinge Nikki Sixx, un musicista professionista che potrebbe fare quello che vuole, a passare la sua giornata sbronzo, chiuso in una stanza minuscola con una ragazzina che non lo sopporta, a farle domande assurde senza nemmeno tentare di scoparsela?”

“E chi ti dice che io non ci stia provando?”

“Se questo è il tuo approccio, Sixx, devi decisamente rivedere le tue tecniche di rimorchio..”

“Di solito in realtà basta che io faccia un po’ così, vedi?” si aggiustò i capelli in modo che gli coprissero di più gli occhi e piegò appena la testa all’indietro, esibendo un mezzo sorriso sbilenco che per quanto studiato ad arte era quasi irresistibile. Tuttavia riuscii a ricordarmi a che gioco stavamo giocando e mi scossi rapidamente dai miei bollori adolescenziali.

“Sì, okay grazie mille per questa dimostrazione dal vivo. Però non hai risposto alla mia domanda: perché non mi lasci in pace?”

Nikki alzò gli occhi al cielo: “Non posso farci nulla, Miss Strychnine: sono totalmente ossessionato da te.” Non riuscivo a capire se fosse serio o mi stesse prendendo in giro, comunque capii che a quella domanda non avrei avuto altra risposta, almeno per il momento.

Allora mi venne in mente un gioco che facevo di solito con i ragazzi dopo aver fumato, una stupidaggine stile campeggio della terza media fatto apposta per mettere in imbarazzo le persone.

“Ho un’idea. Facciamo un gioco, ti va?”

I suoi occhi si accesero di nuovo e si protese un po’ verso di me.

“Ci sto. Che gioco è?”

“In pratica, io ti faccio una domanda e tu la fai a me.”

Scosse la testa, confuso: “Ma è quello che stiamo già facendo, no? E’ stupido.”

“Eh no, Nikki. Quello che stiamo facendo ora è che tu ti comporti da idiota e vuoi farti gli affari miei senza dirmi nulla su ti te. Invece così siamo pari, è un do ut des.”

“Un cosa? Parla la mia lingua, ragazzina.” Tendevo a scordare che nei licei al di fuori dell’Italia raramente si studiava latino.

“Lascia perdere. E comunque, ci sono altre regole: non importa come rispondi, l’importante è che tu finisca sempre con una domanda. Capito?”

Rifletté per un momento.

“Capito.” Rimase a fissarmi in attesa che io dicessi qualcosa.

“Nikki, devi finire la frase con una domanda..” gli agitai le mani davanti alla faccia e lui sobbalzò.

“Ah, giusto. Da dove vieni?”

Sapevo in cosa mi stavo mettendo: era inevitabile giocare senza rivelare qualcosa su di sé, ma era anche un buon modo per tentare di scoprire qualcosa su di lui. Qualcosa che non fosse già scritto sulle riviste musicali di tutti gli Stati Uniti, magari.

“Italia. E tu?”

Sgranò gli occhi. “Merda, dall’Italia addirittura! Quando hai detto che venivi dall’altra parte dell’oceano pensavo, che ne so, all’Inghilterra. Non si sente che sei italiana, per nulla. Come hai imparato l’inglese così?”

“Un amico di famiglia è di New… aspetta un attimo! Non mi hai detto da dove vieni! Pensi di poter giocare sporco?”

“Sai Strychnine, il gioco delle domande è uno dei primi che ti insegnano a scuola, ci avrò giocato almeno mille volte. Hai detto che non importa come rispondo.. continuiamo?”

Nikki era raggiante, ma io sentivo la rabbia montare dentro di me: mi stava prendendo in giro. Oltre che un bassista e uno scrittore da paura, era anche un attore da oscar. Avevo davvero creduto per un momento che avrebbe seguito le regole. Certo, però il bello del gioco sta proprio nel cercare di rispondere nel modo più elusivo possibile. O forse speravi che si sarebbe aperto e ti avrebbe raccontato la storia della sua vita? Il gioco era solo una scusa perché sei tu ad essere ossessionata da lui. Non hai pensato ad altro, in queste settimane, e lui invece ti sta solo usando come passatempo, come sfida. Non saresti nemmeno dovuta venire qui.

Schizzai in piedi come una molla e mi diressi a grandi passi verso l’uscita, Nikki tentò di alzarsi ma quando ci riuscì ero praticamente già alla porta dello studio.

“Strychnine dai, non fare la permalosa! Stavo solo giocando un po’, non era quello che volevi?”

Mi voltai di scatto con la mano già sulla maniglia e me lo ritrovai a dieci centimetri di distanza.

“Certo che era quello che volevo, ma non così! Devi giocare pulito Nikki, secondo le regole!”

“Ma io stavo seguendo le regole! Non bisogna per forza rispondere alle domande, dovresti saperlo, sei tu che hai voluto..” mi stava esplodendo la testa, l’ambiente chiuso e il Jack Daniel’s di certo non aiutavano e l’ultima cosa che volevo era discutere di un gioco per adolescenti che avevo avuto la malaugurata idea di proporre.

“Fanculo le domande! Non me ne fregava niente di quel giochino del cazzo, volevo solo conoscerti meglio, idiota! Non sei l’unico che ha diritto a voler sapere. Adesso però scusami, ma voglio solo uscire di qui,” dissi, spingendo la maniglia e trovandomi catapultata nella luce abbagliante della mattina californiana. Tirai su con il naso e solo in quel momento mi accorsi che nel mio scoppio d’ira probabilmente avevo pianto. Era da tanto tempo che non mi ritrovavo a piangere, probabilmente dalla sera in cui me ne ero andata. Nemmeno quella volta in cui Nikki mi aveva riaccompagnata avevo pianto, ero sempre riuscita a trattenermi. Ora però, non potei fare altro che mettermi a camminare sempre più veloce sul marciapiede con la mia sigaretta tra i denti, stringendomi le braccia attorno alla maglietta dei Clash perché in tutto quel casino avevo lasciato la giacca in negozio. Pochi secondi dopo vidi la sua ombra allungarsi su di me: quell’idiota mi aveva seguita. Mi maledissi da sola mentre, non appena lo sentii chiamare il mio nome, mi voltai. Era l’ennesima volta che gliela davo vinta e, esausta, gli chiesi che diavolo volesse ancora, senza però riuscire a guardarlo negli occhi.

“Texas,” rispose lui. Lo guardai scuotendo la testa. 

“Che cazzo vuol dire?”

“Idaho, Seattle, New Mexico, Los Angeles..” proseguì imperterrito.

“Sei impazzito?” gli chiesi. Ormai la mia pazienza era esaurita da un bel po’. Non sapevo nemmeno se si trattasse di una conversazione reale o di un’allucinazione.

“Sono tutti i posti in cui sono cresciuto. Il punto è che non lo so da dove vengo, Strychnine. Quindi, ora mi faresti il piacere di tornare in studio con me e fare la persona ragionevole?”

Per un po’ non risposi, limitandomi a sfregare via le lacrime con le mani e a fissarmi gli stivali, nella speranza che Nikki si arrendesse e mi lasciasse in pace. Quando alzai lo sguardo era ancora lì, e aveva dipinta sul volto un’espressione indecifrabile: non era arroganza, stavolta, e nemmeno autocompiacimento. Era un misto fra serietà e paura, sembrava quasi.. preoccupato.

“Tu, tu stai chiedendo a me di fare la persona ragionevole?” riuscivo quasi a sentire i lampi uscire dai miei occhi. Se fossi stata più alta, probabilmente l’avrei preso a cazzotti. Tuttavia, il suo modo di fare così diverso in quel momento rispetto al solito, e quegli occhi verdi che, nonostante i miei cercassero di fuggirli, sembravano determinati a fissarmi fino a consumarmi, fecero lentamente calmare la rabbia che poco prima mi aveva fatta scappare. Inspirai profondamente.

“Va bene, rockstar. Non me ne vado. Però di sicuro non torno nel tuo stupidissimo studio. Piuttosto ci facciamo un giro.”

Nikki considerò l’idea per qualche secondo, per poi sorridere. “D’accordo, vado a prendere gli occhiali da sole, e torno.”

 

**

 

“Dio, ma la senti questa roba? Non dico che faccia schifo, cioè almeno è musica però cazzo, non se ne può più di questa new wave imbastardita,” sbottò Nikki indicando una ragazzina che passava con una radio portatile che trasmetteva Karma Chameleon a tutto volume.

“Dai, a me non dispiace. Voglio dire non sarà rock ’n’ roll però c’è di peggio. Dovresti sentire le schifezze che danno alla radio in Italia..”

Il molo di Santa Monica non era troppo affollato in quel periodo dell’anno, fatta eccezione per i ragazzini delle superiori che saltavano la scuola per godersi le ultime giornate dal clima gradevole.

Dopo che mi ero calmata, Nikki aveva preso la Harley ed eravamo andati a finire lì, lontano dal casino di West Hollywood. Ora passeggiavamo senza una meta e avevamo deciso, con un tacito accordo, di smettere di farci domande. 

“Dico solo che tutti ascoltano solo questa roba, e si fa fatica a trovare qualcosa di diverso,” proseguì lui.

“Beh ci siete voi, e poi le rock band tipo i Sabbath, e i complessi punk tipo the Replacements eccetera, ci sono mille generi diversi qui, non hai da lamentarti.” Ci fermammo lungo il parapetto del molo a cui mi appoggiai con la schiena.

“Va bene, va bene, hai ragione. Però non hai idea due anni fa di come fosse la situazione. Dico sul serio, tutti andavano pazzi per la new wave e la disco, e sentivi solo i Blondie, a tutte le ore del giorno. Nessuno voleva produrre il nostro primo disco perché facevamo una musica che nessuno capiva. Volevo creare qualcosa che suonasse come un misto tra Bowie e i Sex Pistols chiusi in una stanza con i Black Sabbath. Una cosa mai sentita prima, e alla gente non piaceva.”

“E come avete fatto?” chiesi, contemplando un gruppo di gabbiani che in quel momento solcava il cielo terso.

“Abbiamo raccolto i soldi per conto nostro, sai, cinquanta dollari di qua, dieci di là..” si mise a ridere alla vista della mia espressione scettica.

“Okay, forse qualche dollaro l’abbiamo anche fregato da qualche parte. Ma ehi, volevamo fare del rock, ed eccoci qua. We’re big rock singers, we got golden fingers and we’re loved everywhere we go..” disse, canticchiando l’attacco di The Cover of the Rolling Stone dei Dr. Hook.

Scoppiai istintivamente a ridere ma smisi quasi subito, quando mi accorsi che Nikki mi stava fissando strano.

“Che hai da guardare?” gli chiesi, secca.

“Niente, è solo che.. non ti avevo ancora vista ridere, Strychnine. Non pensavo che tu ne fossi capace.” 

“Sì, beh, ogni tanto capita anche a me.”

“Dovresti farlo più spesso,” proseguì avvicinandomisi un po’.

“Sei bella quando ridi.”

Il candore di quell’affermazione mi fece attorcigliare le budella. Non l’aveva detto con quel suo solito modo sarcastico e arrogante, era una semplice constatazione. Era sincero, e glielo si poteva leggere negli occhi, per quel poco che riuscivo a vederne. Non sapevo nemmeno come rispondere, e guardarlo mi faceva quasi male. Non è roba per te, bella mia. Sì è vero, ti ha fatto un complimento, ma chissà a quante altre lo ha già fatto..

 “Io dovrei tornare in negozio,” dissi allora, un po’ per togliermi da quella situazione e un po’ perché, in fondo, era vero. Sembrava deluso.

“Alcuni di noi hanno un lavoro, sai com’è..”

“D’accordo, se proprio devi.. ti riaccompagno, dai. Così il tuo capo non ti uccide.”

“Robb non lo farebbe mai, mi vuole bene adesso,” risposi, mentre ci avviavamo verso la moto.

“Però..” Nikki si fermò per un istante, guardando il mare insolitamente calmo per quella stagione.

“Però cosa?” notai che non mi stava guardando, cosa strana per lui che di solito non si faceva alcun problema.

“Però non vorrei doverti rapire di nuovo, per rivederti.”

“Allora usciamo, come tutte le persone normali.. ah già, tu non sei normale, dimenticavo. Sei una rockstar.”

“Esatto, appunto. Vieni a sentirci suonare? Sabato al Roxy, sul Sunset Strip.”

“Sì, lo so dov’è il Roxy,” mi sentii avvampare.

“Non avevo dubbi. Parla con Dennis all’ingresso, digli come ti chiami e ti farà entrare nel backstage.”

Lo guardai di traverso: per chi mi aveva presa?
“Non sono una groupie,” per quanto in una parte recondita di me non mi dispiacerebbe esserlo, pensai.

“Lo so. Ma sei una mia amica, e sono sicuro che anche agli altri ragazzi farebbe piacere rivederti,” disse ricominciando a camminare.

“Sì, soprattutto a Vince,” risposi, ripensando a quei tre folli che avevo incontrato poche ore prima.

“Strychnine?” mi chiamò, con tono serio.

“Sì?” lo guardai, in attesa.

“Stai lontana da lui.”

Scossi la testa, ridacchiando: “Agli ordini, capo. Non c’era neanche bisogno che tu lo dicessi, comunque.”

“Bene.”

Mi riaccompagnò al negozio, ed una volta arrivati lo sguardo truce di Robb attraverso la vetrina mi fece capire che non avrei avuto molto tempo per i convenevoli. 

“A sabato, allora,” dissi nervosa.

“Ci conto,” mi rispose, piegandosi per darmi un rapido bacio sulla guancia.

Lo osservai sparire nella luce del pomeriggio, e realizzai che per la prima volta avevo passato davvero una bella giornata con lui. Certo, dopo una sfuriata in piena regola, ma pur sempre una bella giornata. Non sapevo di preciso cosa mi avrebbe aspettata una volta varcata la soglia della Empire Records, e ancor meno sapevo cosa sarebbe successo al concerto dei Mötley il sabato successivo, ma una cosa la sapevo: Nikki mi aveva definito una sua amica, e dio solo sapeva quanto io avessi bisogno di amici.

 

Note dell’autrice: buonaseeera! Ecco che finalmente le cose si smuovono un po’ e la nostra Strychnine, anche se fra alti e bassi, riesce a guadagnarsi un invito niente meno che al Roxy Theater (mica pugnette, altroché!). Ed ecco anche che finalmente Nikki comincia a mostrare un altro lato di sé, anche se solo dopo che Strychnine da in escandescenze, ma come darle torto?

Comunque, da ora inizieranno sviluppi.. ahem, particolari, quindi allacciate le cinture!

Sono stata per un po’ senza connessione, ma se non altro ho scritto un sacco, quindi conto di riuscire a pubblicare almeno un altro capitolo prima di venire spedita in Grecia senza computer né internet la settimana prossima. 

Le frasi di Nikki sugli inizi difficili della band le ho prese da un documentario molto carino sulla nascita dei Mötley che ho trovato su youtube, The Rise and Rise of Mötley Crüe (è in inglese ma vabbè, io il link lo metto lo stesso).

Voi cosa pensate? Nikki considera davvero Strychnine una sua amica, o vuole semplicemente spingerla ad aprirsi e permettergli di scoprire di più su di lei? Fatemelo sapere :) Per ora vi saluto,

 

Vincey 

 

Canzoni citate: Culture Club-Karma Chameleon

Dr. Hook-The Cover of the Rolling Stone

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