Numeri

di RuWeasley
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I numeri ricordano ***
Capitolo 2: *** I numeri sono consapevoli ***
Capitolo 3: *** I numeri sono ***
Capitolo 4: *** Subconscio ***
Capitolo 5: *** Lo scricchiolio dell'altalena ***
Capitolo 6: *** La ragazza con i sandaletti ***
Capitolo 7: *** Inerzia ***
Capitolo 8: *** Stanze ***
Capitolo 9: *** Volti ***
Capitolo 10: *** La ragazza dai capelli biondi ***
Capitolo 11: *** Paura ***
Capitolo 12: *** Vuoto delle lacrime ***
Capitolo 13: *** Menzogne dell'io ***
Capitolo 14: *** Pigrizia ***
Capitolo 15: *** Provando a ricordare le parole del silenzio ***
Capitolo 16: *** Julia, che spero non incontri mai il numero 0 ***
Capitolo 17: *** Lo psicologo che racconta menzogne ***
Capitolo 18: *** L'abisso ***
Capitolo 19: *** Prospettive ***
Capitolo 20: *** Società, forse ***
Capitolo 21: *** Arrendersi alla non-importanza ***
Capitolo 22: *** Masochismo dell'es ***
Capitolo 23: *** Silenzio ed urla del numero 0 ***
Capitolo 24: *** Solitudine meritata ***
Capitolo 25: *** Aggressività ***
Capitolo 26: *** Casualità ***
Capitolo 27: *** Falò della mente ***
Capitolo 28: *** Distanza ***
Capitolo 29: *** Tramonto ***
Capitolo 30: *** Notte ***
Capitolo 31: *** Notti prima della notte ***



Capitolo 1
*** I numeri ricordano ***


Oliver Smith - il numero 19

Ricordi.
Immagini sfocate
che mi appartengono.
La voce fredda
che mi appartiene
Inizio a crescere. Inizio a capire le cose. Inizio ad aumentare di statura.
"E' alto 102 centimetri! Sta crescendo!" Esclamano felici i miei genitori.
Continua la mia vita. Le cose si intervallano. Gli avvenimenti, le noie e i momenti felici. Rinchiuso nel mio mondo semiperfetto, interno ma nettamente separato dal resto del mondo,
poco a poco, espando la mia bolla. A volte piano, come semplicemente intenzionato ad avere più spazio, più resipiro. Altre volte violentemente, come se volessi rompere ogni muro, ogni separazione, ed allo stesso tempo ogni protezione. Inizia la mia vita semi solitaria. Inizio ad avere più contatti con più persone. Confuso, nella mia ignoranza, non riesco a comprendere la mia posizione per gli altri.

Ma è solo questione ti tempo.
Il professore inizia a fare l’appello:
-Numero 19; Smith-
-Presente- Rispondo, alzando diligentemente la mano. Ogni giorno.
Vai a scuola e rispondi a quel nome, a quel numero.
Cosa importa del tuo nome? Tu sei Smith. Cosa importa del tuo nome? Tu sei il numero 19.
Ma questi sono problemi di poca importanza. Il mondo nel frattempo cambia intorno a te. Il mondo è grande a differenza tua.
Difatti, la società cambia.
La società viene rivoluzionata.
-Ma cosa puoi capirne tu, sei solo un bambino, diciannove. Piuttosto, avete portato gli esercizi che vi ho assegnato?-
Hai capito? Sei solo un bambino. Ascolta la tua professoressa.
Inizio anche a pormi delle domande.
Percepisco il mutamento.
Percepisco anche i miei genitori in modo diverso. Iniziano a negare ciò che voglio, i miei desideri.
Inizia a coesistere nella loro presenza una irrimediabile tensione.
Iniziano a parlare di meno, e rimangono di fronte alla televisione. Nascosto, dietro al muro della stanza, sporgo la testa.
-Cosa sta succedendo adesso? Perchè siete così?-
-Continua a giocare.- Mi invita mia madre, con la mente attaccata alla televisione. Fredda. Distaccata.
Tesa.
Hai capito che ha detto? Continua a giocare. Non ti interessa. Non ti riguarda.
Gli anni passano. Ora almeno, mi sento grande.
Forse.
-Prendi dei bei voti quest'anno, che altrimenti fai cattiva figura con i professori, ed iniziano a puntarti.-
Ascoltali. Non vorrai diventare mica un numero, vero Diciannove?
Sono diciannove: l'alunno del 7. Ne più, ne meno. Ed anche se meritassi qualcos’altro? Non credo interessi alla professoressa.
Lo sguardo fisso sul sei e mezzo mi distrae leggermente dalle parole atoniche della professoressa.
-E' fuori traccia, ti dilunghi in cose inutili e poco aderenti al comando.-
Hai capito? Ciò che scrivi deve attenersi al comando, ciò che scrivi non deve contenere troppo ciò che pensi;
E' semplicemente inutile.
Continuo così l'anno.
Imparo a memoria e parlo, imparo a memoria e parlo.
Passo le ore di scuola ad imparare a mettere le crocette al posto giusto.
-Questa è cultura!-
Ma cosa vuoi capire, sciocco ragazzino.
Finisce l'anno e l'estate passa come ogni altra.
Ieri ho festeggiato e adesso sono di nuovo con la cartella in spalla.
Mi incammino, curvo e malinconico verso un'altra serie di crocette da mettere, ed incontro lei. Seduta sulla cartella, con una sigaretta in bocca che scribacchia qualcosa su un taccuino con una biro. Rimango incantato ad osservarla. Una ciocca di capelli copre i suoi grandi occhiali neri. Le lunghe dita spuntando dalle maniche di una felpa decisamente più grande della sua taglia, ed i suoi occhi penetrano il mio corpo. Ci fissiamo per attimi eterni.
Smettila di fissarla. Cosa trovi in lei?
Provo a parlarle, impacciato, distratto.
Ed incantato dal movimento della sua penna, le chiedo cosa scrivesse.
-Scrivevo di noi.-
-Noi? Noi chi?-
-Noi. Noi tutti. Facciamo tutti parte di qualcosa-
-Si... Penso di si. Ma di cosa di preciso?-
-La società penso. Tu sai cos'è la società?-
-Si... Credo. La società siamo tutti noi.-
-Non vedi il quadro completamente, quindi. La società non è solo noi. E' qualcosa. Ha qualcosa di tutti noi. Ma non segue tutti noi. Segue il più di noi. E' quel qualcosa che ci dice cosa
fare. Quel qualcosa che ci dice cosa dovremmo pensare. Che ci dice come dovremmo pensare.-

Il mio sguardo sbigottito la sorprende.
Ora è troppo tardi, però. Le mie parole ti appartengono. Ho narrato la tua storia.
Quindi, perchè ora non posso continuare a farlo?

 

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Capitolo 2
*** I numeri sono consapevoli ***


Brianne Crowe - il numero 3

La città è affollata, persone vanno e vengono nel grigiore mattutino.
Vedo volti familiari, facce identiche che si alternano di fronte ai miei occhi. Persone senza volto
Vanno ovunque.
Ma non vanno da nessuna parte.
Senza domani.
Sono tutti uguali
Sono tutti numeri.
Davvero mi devo arrendere a tutto questo?
Davvero?!
Che… Che cosa posso fare?
Arrenditi sussurra la voce.
Quindi è così… E’ questo ciò che dovrei comprendere? Siamo tutti numeri, eh? Siamo tutti uguali, semplici esseri umani da trasformare in automi il prima possibile, è così? Far nascere la pazzia in noi, anzi, reprimerla, uccidere ogni sorriso malsano in una calma perfetta.
Così dobbiamo vivere? COSI’ DOBBIAMO VIVERE? RISPONDIMI!
Mi accorgo tardi di aver iniziato ad urlare. Le persone attorno a me, impassibili, continuano a camminare. Le scintille che escono dal telefono distrutto mi distraggono per alcuni attimi.
Che senso ha continuare?
Arrivo alla scalinata di fronte alla scuola e mi siedo. Rimango indifferente al suono della campanella, ed inizio a scribacchiare il mio taccuino. Ghirigori prendono forma, senza trovare un senso, una via.
Linee casuali che non portano a nulla.
Il tempo non passa, ci annega e rallenta, rendendo flemmatici i nostri movimenti. Vedo passare un ragazzo. I suoi occhi tradiscono molto. Tristezza, insicurezza. Ma bisogna saper guardare fino in fondo. C’era qualcos’altro in quegli occhi, ma ero troppo lontana, troppo distaccata da lui. Il ragazzo mi guarda per attimi eterni, immerso anche lui, nel tempo così viscoso. Si presenta
-C-Ciao… Io sono Oliver, piacere- Mi fa, porgendomi la mano.
-Brianne-
Era tempo che una persona non mi si presentava senza motivo. Pochi attimi dopo mi chiede:
-Che scrivi?-
Evidentemente ignorando i ghirigori sul mio taccuino, provo a spiegargli
-Scrivevo di noi.-
-Noi? Noi chi?-
-Noi. Noi tutti. Facciamo tutti parte di qualcosa-
-Si... Penso di si. Ma di cosa di preciso?-
-La società penso. Tu sai cos'è la società?-
-Si... Credo. La società siamo tutti noi.-
-Non vedi il quadro completamente, quindi. La società non è solo noi. E' qualcosa. Ha qualcosa di tutti noi. Ma non segue tutti noi. Segue il più di noi. E' quel qualcosa che ci dice cosa fare. Quel qualcosa che ci dice cosa dovremmo pensare. Che ci dice come dovremmo pensare.-
Osservo il suo sguardo sbigottito.
Lui sta per diventare un numero.

 

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Capitolo 3
*** I numeri sono ***


Il numero 0

 
Siamo, sono.
Chi lo sa.
Non posso parlare al singolare;
loro possono farlo,
io sono loro.
Loro non sono me,
loro mi conoscono,
io non conosco nessuno.
Non tutti mi conoscono,
ma chi è me
è un numero.
Sono la dipendenza,
la crisi,
il piacere,
il dolore.
Sono la maggioranza;
non sono la minoranza.
La minoranza può essere me.
Tutti possono essere numeri;
io non possono essere tutti,
ma tutti i numeri sono me.
Sono infinito
forse;
forse non lo sono.
La mia stessa coscienza non può definirsi racchiusa,
la mia stessa coscienza è in ognuno di noi.
Posso uccidere,
posso far vivere,
posso uccidere la mente.
Chi mi conosce
non sarà mai più lo stesso.
Chi non mi conosce
non sarà mai un numero:
vivrà felice,
vivrà ignorante.
Io
sono il numero 0.
Noi
siamo i numeri.

 

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Capitolo 4
*** Subconscio ***


Oliver Smith - il numero 19

Sto diventando pazzo?
Io lo sento
Non ho idea di chi sia.
Sin da quando posso ricordare, ho alla mente le sue parole. Fredde, crudeli…
Vere.
Ho vissuto con la sua voce in testa, una voce che da risposte quando non deve e fa domande quando non puoi rispondere.
Sto diventando pazzo?
No.
Ecco, ancora. Forse lo sono davvero.
Ripeto; no.
Tu… Tu puoi ascoltarmi?
Certamente.
Sto lentamente perdendo il senno, sto iniziando a perdere il controllo della mia mente.
Spazientito torno allo studio, la luce della scrivania illumina i fogli, ancora vuoti.
Svogliato, giocherello con la penna, cercando di scacciare quella insolita voce dentro di me. Mi sorprende la mia indifferenza verso la voce. Era una voce conosciuta, ma non familiare.
Come può sorprenderti se io sono te?
Attimi di pausa, silenzio nella mia mente che ora ospitava una nuova voce.
Io non sono te.
Su questo hai ragione.
Non hai appena sostenuto di essere me? Non capisco
Infatti
Io sono te, tu non sei me.
Chi sei tu?
Io sono te.
Tu non sei me.
Io sono te.
Confuso, non riesco a pensare a nulla
Rimango come muto nella mia mente, ormai privato della segretezza del mio pensiero. Non riesco a convivere
Come fai a non convivere con me?
Vivi con me da molto.
Da quando?
Questo non lo so.
Non riesco a sentire la presenza familiare. La sento distaccata, il che mi dissuade dal pensare che io abbia iniziato a parlare da solo.
Non capisco se sia un bene
o sia un male.
Finito di studiare abbandono i libri e il resto del materiale sulla scrivania, incurante delle urla di mia madre. Attacco le cuffie ed esco di casa.
Impostando la musica guardo rapidamente l’orologio. Erano solo le quattro del pomeriggio.
Non sapendo dove andare, mi rifugio dal mio migliore amico. Passiamo ore a giocare ai videogiochi
Spara
Riparati
Ricarica.
Spara
Riparati
Ricarica.
C’è qualcosa di malsano. Eppure continuiamo imperterriti a giocare, a godere della morte dei nostri avversari, incuranti se fossimo noi gli avversari o bot senza mente e senza cuore.
Importava il risultato

Il numero di kill
Il numero di morti
Il numero delle munizioni sprecate.
La nostra gioia si basava sui numeri che vedevamo a pieno schermo, finito il gioco.
Ma in fondo
era solo un gioco.
Il mio migliore amico non è un tipo molto arguto. Non ho idea del perchè sia il mio migliore amico.
Penso però di averla una vaga idea. Non fa domande e mi rallegra.
Ho smesso di cercare qualcuno che mi capisca
Come pretendo di trovare qualcuno che mi capisca quando non capisco gli altri? Come pretendo di saper trasmettere qualcosa quando non riesco a ricevere nulla?
Agli occhi degli altri sono una persona vuota
E agli occhi delle persone vuote non sono altro che uno sfigato.
Personalmente ci sono momenti in cui invidio il loro perenne vuoto interiore. Felicità gratuita perchè convinti di poter andare ovunque. Penso che vivano sotto vuoto. A gravità zero, senza un alto e senza un basso. Senza ideali, senza valori, continuano a muovere i loro arti convinti di cambiare le cose, senza accorgersi che non c’è nulla da cambiare. Ma loro ne sono convinti, e difficilmente smuoverai il loro punto di vista. Ma io continuo a pormi domande, e non faccio che allargare l’abisso in cui io stesso sto per cadere.
Non ho idea se mai ci cadrò
Non ho idea se mai riuscirò a tornare su.
Il mio migliore amico serve per scappare dall’abisso. Se l’abisso continua a logorarmi lui mi cura, con rimedi stupidi, ma efficaci, sebbene questo metodo né prevenga né arresti la mia pazzia, nel continuare ad aprire l’abisso.
L’unica certezza che mi ha dato l’abisso
E’ che se mai cadrò
ci cadrò da solo.

 

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Capitolo 5
*** Lo scricchiolio dell'altalena ***


Oliver Smith - il numero 19

Stavo tornando da scuola, lentamente camminavo per le vie grigie della mia città. Per andare a casa mia bisogna attraversare un vecchio parco, ormai vittima del tempo, distrutto e ricostruito dalla natura stessa. Giostre pericolanti e arrugginite, pali e sostegni distrutti, ormai integrati con la natura. L’edera che attraversava, penetrava i resti di quel parco, dava un sinistro fascino al posto.
Una sola giostra è ancora funzionante, l’altalena. I pali di legno che la reggono sono coperti di edera, ed una delle due altalene è pendente, staccata dalla catena che la sorreggeva. Tuttavia l’altra era ancora sana, nonostante i sinistri scricchiolii che emanava.
La rividi proprio lì, in quell’altalena scricchiolante, con una sigaretta in bocca ed un quaderno tra le mani.
Tratti veloci segnavano i fogli sgualciti.
Vedevo vita tra quei fogli, le pagine ingiallite e conciate.
Vita, pensieri.
Mi avvicinai al parco, forse, per la prima volta. Abituato alle avvertenze di mia madre, mi sono sempre tenuto lontano da quel posto, mi sono sempre tenuto lontano dai guai. La matita
si ferma, e il suo sguardo si alza.

Mi saluta con un cenno del capo, ed io rispondo timidamente.
Mi siedo per terra e mi tolgo lo zaino. Spio il suo disegno. Uno stranissimo arcobaleno che attraversava persone.
La piramide sociale unita da un grigio arcobaleno, dal povero al politico, dall’idiota all’intellettuale, dal popolare al depresso. Stereotipi uniti da una sola cosa, un arcobaleno monocromo
senza inizio e senza fine.

“Tu la vedi?” Mi chiede a mezza voce.
“Cosa?”
“La voce”
Osservo il disegno e le persone che ne fanno parte. Volti spenti, volti grigi.
Un arcobaleno senza colore.
Una luce ormai spenta,
Una voce troppo fredda.
La vedo la voce.
La senti la voce.
Rimango in silenzio per alcuni istanti. Attimi eterni, istanti immersi nella viscosità della mia mente.
“Si, la vedo.”
Parliamo, parliamo per ore. Discorsi astratti o troppo reali e vividi, parole taglienti che segnavano poco a poco la mia mente. Non mi sono mai sentito tanto a mio agio con una persona.
Riesce a comprendere i miei pensieri embrionali e profondi, ed io per la prima volta penso di poter comprendere qualcuno.

A quanto pare
nonostante la mia malinconia
c’è qualcuno disposto ad ascoltarmi e a darmi qualcosa.
Le ore passano in fretta, e ricordo molto tardi del mio pranzo ormai saltato. E salutandola, sento come leggero il mio stomaco vuoto.
Non è felicità, ma per una volta mi sento compreso.
Rincuorato torno a casa, e nella mia mente risuonano alcune delle sue parole, sfocate dai suoi occhi castani.
E nel frattempo, la scuola prosegue. Giorni fotocopiati e registrati, numeri su registri, salvati in archivi.
Siamo pagine, siamo foto.
Siamo parole dette e ricordate.
Ricordate nessuno sa da chi.
Dimenticate da chi conosci.
Siamo fogli, curriculum archiviati.
Da persone convinte che la nostra essenza non sia altro che stupidi dati anagrafici.

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Capitolo 6
*** La ragazza con i sandaletti ***


Oliver Smith - il numero 19

Ogni tanto, ci sono giornate in cui vedo il sole.
Un cielo azzurro che mi sembra quasi surreale. La frivolezza nella mia conversazione ogni tanto mi fa sentire bene.
Leggero.
Vuoto.
Parlo di cose semplici con lui. Videogiochi, ragazze, vestiti e fantasie. In un certo senso, gli ormoni a mille dei miei coetanei mi facevano sentire superiore. Sentivo di potermi controllare, nonostante io non vada d’accordo con la mia solitudine. Mi crogiolavo, all’ombra nei miei vestiti neri in cui mi trovavo tanto bene. A volte, vivere d’apparenze mi fa bene. Mi sentivo così a mio agio nei miei vestiti scuri, protetto dalla loro grandezza, protetto dai pregiudizi.
Gente prevenuta dal mio aspetto. Un ragazzo gracile in vestiti larghi, un volto sottile coperto da uno scaldacollo che saliva al naso. I capelli lunghi mi coprivano gli occhi, e solo le mie mani grandi si vedevano durante le giornate d’inverno, nel suo freddo ormai rassicurante.
Mi piace il freddo. Ci si può riparare, ci si può sentire al sicuro.
Nel caldo puoi solo prostarti all’afa, scioglierti poco a poco fino al limite della sopportazione. Odio il caldo.
Mi ritrovo solo dopo pochi minuti. Igor, il mio migliore amico, deve operarsi al cuore. La mia apprensione non lo turba affatto, e mi saluta, come al solito, allegramente.
“Andrà tutto bene, tranquillo”.
Ci diamo il cinque e ci dividiamo, ognuno verso casa propria.
Il sole ancora batte, si ostina a riscaldare nell’autunno ormai inoltrato.
Non voglio tornare a casa, ma non so dove andare.
Per una volta, ho davvero desiderato la compagnia, forse troppo viziato da Igor.
Che, che dir si voglia,
non mi ha mai lasciato solo.
Ho stima per lui.
Non ci sono motivi per cui una persona debba provare rispetto per me, se non per mera educazione. Eppure, lui l’ha fatto, fin dall’inizio.
Vado al parco, alla ricerca di compagnia. Desolato, come al solito, ma sotto una strana luce. Mi avvicino all’altalena vuota e ci trovo attaccato un post-it:
“Ti va di vederci? Alle 18:30 di fronte la scalinata di scuola
-Brianne”
Confuso, mi avvio verso scuola. Come sa che sarei andato al parco?
Alle 18:00 sono di fronte alle scale, immerso nella mia musica. La scorgo distante, i capelli neri legati in una lunga treccia, e nei suoi vestiti riesco a rivedermi. Mi vedo al sicuro, sotto la larghezza dei miei vestiti, dei suoi vestiti. Accanto a lei vedo due ragazze, una bassina, dai capelli corti e rossi; vestita casual e truccata pesantemente.
L’altra invece, è bionda, dagli occhi verdi.
Occhi profondi, grandi.
Occhi impressionati da tutto.
Quasi ingenua, nel suo vestitino beige e nei sandaletti, nel pungente fresco dell’autunno. Portava i biondi capelli ricci sciolti dietro le orecchie, mostrando un sorriso raggiante.
Faccio un gesto con la mano a Brianne e lei corre da me. Mi abbraccia forte, ed io, immobile tra le sue braccia, trattengo le lacrime.
Lacrime senza un senso preciso,
che ti lasciano sulla bocca un sorriso,
amaro
ma che vale più d’ogni altra cosa.
La serata passa in fretta. Parliamo, parliamo tanto. Argomenti casuali ma interessanti, eppure nulla riesce a segnarmi. Una lezione piaciuta e non ricordata.
Una canzone di cui ricordi il ritmo ma non il testo.
Si fanno le dieci e mezza, ed io saluto Brianne e la ragazza dai capelli rossi. Insieme a me si alza anche la ragazza bionda.
“Devo andare anche io, mi accompagni?”
La mia strada è esattamente opposta alla sua.
E ci avviamo, verso casa sua.
Mi parla del suo passato. Un resoconto di lezioni e ricordi felici, sventure riparate e avventure di ogni genere. Mi narra una vita fuori dalla cupola;
mi narra la vita di chi vive, ed io, incantato ascolto ogni sua parola. Mi perdo nelle sue parole, navigo fiumi di parole lasciandomi cullare.
Due ore dopo, sono a casa, osservando il soffitto.
Ricordo ogni parola, ogni sfumatura, ma non ricordo la sua voce.
Una canzone di cui ricordo il testo ma non il ritmo.
Parole con un volto e senza voce,
un volto
nel quale mi sarei voluto perdere
ancora una volta.

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Capitolo 7
*** Inerzia ***


Oliver Smith - il numero 19

Giorni brevi. Lunghi sogni rimpiazzano la realtà, sempre più vivida e violenta.
Ricordi taglienti e impregnati del mio sangue.
La mia dormiveglia perenne compromette ogni mia azione
ogni mio pensiero
sempre più incattivito da tutti gli altri.
Tu sei solo.
IO NON SONO SOLO!    
Mi sveglio urlando. La schiena sudata, fredda.
Vuoto
Solo vuoto per alcuni istanti.
Vuoto per alcuni minuti.
Vuoto per ore, perso.
Sentivo la mia vita che scivolava via da me.
Proseguiva per inerzia.
Il respiro interrotto, singhiozzante. Provo ad alzarmi, e mi siedo sul materasso. Fuori è buio, e casa è deserta. Luci spente, un uniforme nero che aleggiava per la casa. Scendo dal letto e tento di stare in piedi, piedi traditori ed instabili, che a malapena reggevano il mio corpo. Nell’oscurità della casa e nella confusione della mia mente mi faccio strada tra i mobili, d’istinto, avendo sfocato ogni altro senso. Dal frigo, prendo una bottiglia d’acqua. Inizio a tracannare finchè non soffoco quasi, sputando dell’acqua e quasi rigettando il resto. Prendo delle merendine dalla dispensa, e mi lascio sul divano. Gli occhi socchiusi, nel buio generale, sono persi, e rimango a trangugiare le merendine prese poco prima. Non riesco a pensare. C’è solo vuoto, un vuoto ingombrante e pesante.
E rannicchiato, sul divano, riesco solo a chiudere nuovamente le palpebre.
Mi lascio agli artigli del buio, lascio che i suoi sussurri mi raccontino una nuova storia.
Una storia che però
conosco troppo bene.

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Capitolo 8
*** Stanze ***


19

Bianco. E’ tutto così bianco. Le pareti, il letto.
I camici che lo circondano.
C’è però un vetro, che separa gli uomini dalle mani blu da me. Un vetro ed una porta, che nonostante i miei sforzi non riesco ad aprire. Mi siedo esattamente lì, per terra, sulla soglia. Un ritmo dal timbro elettronico mi accompagna.
Sono inesorabilmente legato a quel suono.
Deve continuare.
Deve continuare finchè non si sarà aperta la porta.
Aspetto, e le mani degli uomini sono ormai rosse.
Ho lo sguardo fisso alle mattonelle, uno sguardo spento che vuol spegnere anche la mente, con scarsi risultati.
Negli istanti di pausa del suo cuore
si annidava un gelido silenzio.
Quel silenzio teso
il ronzio del nulla
che penetra nei timpani.
Gradualmente, un brusio si sostituisce all’ormai familiare ronzio.
Parole veloci, che si perdono nell’aria.
Bastò un attimo.
Un battito.
Il suono regolare ora impazzava, e allo stesso tempo diventano chiare le parole dei camici.
Parole chiare eppure mute.
L’apprensione mi volta. Gli occhi sgranati rivolti verso il lettino dove giaceva inerme il corpo di Igor.
Apprensione, timore.
Batto i pugni al vetro, disperato.
Il suono elettronico ormai frenetico.
Solo urla uscivano dalla mia bocca, e continuavo a battere le nocche contro il vetro, senza risultati.
Non posso accettarlo, non posso.
Batto ancora più forte, e le mie urla rimbombano per il corridoio vuoto, e la mia mente, urlante e dolorante, mette a fuoco solo la frenesia del suono.
Le mani ormai sanguinanti tirano ancora pugni, sempre più deboli, tra le lacrime che rigano il mio viso.
La frenesia porta avanti un climax, e la mia mente si innesca, disperata e agonizzante.
I pugni imperversano sul vetro, sporco del mio respiro e del mio sangue, eppure ancora sano.
Finchè
tra le urla della mia mente
il climax non giunge al suo termine.

Un urlo acuto e distorto mi libera dagli artigli. Mi butto giù dal divano e rigetto tutto ciò che avevo in pancia.
Mi accascio a terra, sfiorando quasi il mio stesso vomito.

Perchè devo rivivere tutto questo?

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Capitolo 9
*** Volti ***


Brianne Crowe - il numero 3

Ha il volto scavato.
Le occhiaie che davano freddezza a quegli occhi castani
così caldi
ma adesso assiderati,
bloccati e congelati
mentre tentava di volare.
Passano così le mie cinque ore di scuola.
Il suo volto stampato nella mente, quegli occhi un tempo così caldi, così incerti.
Freddi e feriti.
Appena usciti da scuola, per un momento rimango ad osservare la piazza di fronte a me. Un brusio generale tra le nuvole di fumo.
E proprio vicino al bagliore di una sigaretta accesa
ritrovo il suo volto scavato.
Impassibile, insensibile.
Alterato solo da quel fiore di malinconia
che ha radici molto più profonde.
Un fiore nero, chiuso come se dovesse ancora sbocciare.
Un fiore nero, come le sue pupille, fisse nell’aria.
Accanto a lui, una ragazza.
Aveva tra le dita una sigaretta accesa, tossiva ad ogni tiro, sussurrando parole dalla voce rotta, continuamente, quasi non riuscisse a notare il distacco del ragazzo.
Un piagnucolio prolungato che per qualche ragione il ragazzo continuava a subirsi.
Eppure
nonostante la sua apparente indifferenza
qualcosa si spezza.
“Hai finito di ricordarmi di quanto tu sia superficiale.” Sussurra il ragazzo. La ragazza, alle sue parole scoppia a piangere.
“Aggrappati ai suoi baci, tu hai perso un vanto, io ho perso un fratello.” Con queste parole fa per alzarsi.
“Fratello? Non eri nessuno per lui, stronzo.” Risponde la ragazza, flebilmente, tradendo una voce rotta.
Si fermò alcuni istanti, in piedi.
“Forse” risponde dopo alcuni secondi di pausa.
E lentamente, torna verso casa, con passo flemmatico.
Ed io, ancora non so per quale ragione, lo seguo. Come se volessi parlargli, a quel ragazzo che conosco, ma evidentemente non abbastanza.
So dove stai andando.
Prendo la scorciatoia per il parco distrutto, e mi siedo sulla mia solita altalena. E dopo nemmeno un minuto, eccolo lì.
Camminava a testa bassa, e non mi scorge mentre lo saluto con la mano.
Scendo dall’altalena e corro verso di lui, abbracciandolo da dietro.
“Ciao Oliver!”
Lui gira la testa lentamente, quasi se lo aspettasse.
Dopo avermi visto, rimane silenzioso, per un istante
“...Ciao brianne”
Mi guarda con gli occhi lucidi ed un sorriso amaro stampato sulla faccia.
Si lascia cadere su di me, scoppiando a piangere.
Lo stringo, senza dir nulla.
Ho perso le parole
dopo aver visto
l’amarezza nel suo sorriso.

 

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Capitolo 10
*** La ragazza dai capelli biondi ***


Brianne Crowe - il numero 3

Non passerà questa giornata se non smetti di osservare.
Un continuo osservare
che si gela
all’incrocio di sguardi.
Ha i capelli biondi corti ed occhi di ghiaccio. Nascosta dalle sue ginocchia, abbracciate al petto, spiava il mondo che la circondava. Posava il suo sguardo per attimi fuggenti e subito distoglieva lo sguardo,  quasi come se si sentisse colpevole, una ladra che in mano non aveva nulla, eppure sentiva di aver preso tanto.
Ladra di un piccolo tesoro
piccolo ed inestimabile
tra cui c’era anche
il mio osservare.

Lo rivoglio, ma non riesco ad averlo. Il mio sguardo rimane fisso su di lei, un intenso scambio
gelido.
I suoi occhi sono innocenti nella loro freddezza
sono innocenti riparati dalle sue ginocchia.
Distolgo lo sguardo, ed inizio a chiudere una sigaretta.
Nell’istante stesso in cui prendo il tabacco in mano e distolgo lo sguardo da lei avverto un movimento.
Non distolgo lo sguardo, ma appena finì di chiudere la mia sigaretta sento una voce.
-Hai una sigaretta?-
un tono interrogativo di una voce sottile
alzo lo sguardo e vedo ancora una volta i suoi occhi
occhi ladri
avvolgenti
freddi.
Senza nemmeno pensarci le do la sigaretta che ho in mano e lei, nel ringraziarmi, si siede accanto a me.
Portava, nonostante il freddo autunnale, una maglietta a maniche corte.
Le sue parole inizialmente mi scivolano via dalla mente. Parole volatili nelle quali mi perdo, incapace di comprenderne il significato, lo spessore, quasi impalpabili. Ma va avanti, e si
addentra nella sua storia. La sua storia invece, riesco a leggerla.

La leggo nei suoi polsi
come se il sangue versato dalle parole taglienti
abbia formato le frasi che le escono dalla bocca.
D’istinto porto le mie mani ai suoi polsi, e noto un dito fasciato.
Il mio silenzio non la turba
la mette a suo agio.
E finite le sue parole, mi ringrazia.
-Come stai?- le chiedo. Non riesco a comprendere il motivo delle mie parole
-Meglio- Mi risponde sorridendo.
Chiedimi come sto
ti prego
chiedilo.
Ti risponderò non lo so
e ne sarò convinta.

 

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Capitolo 11
*** Paura ***


Oliver Smith - il numero 19

Era una sigaretta dopo l’altra che diminuivano i miei problemi
E nel frattempo, diminuivano le sigarette.
Ristabilivo il mio equilibrio
nel peggiore dei modi.
Erano giorni che uscivo solo con Brianne, giorni di romantica malinconia che di romantico non avevano nulla.
Passavamo il tempo seduti per terra, appoggiati alle assi dell’altalena, cullati da un muto silenzio.
Nuvole di fumo che salivano lentamente, e speravo che con sé si portassero tutto.
Poco a poco, le mie urla andavano sfocandosi in quei corridoi troppo bianchi.
Passavamo le giornate, insieme, ad ignorare le nostre giornate, le mie giornate vuote, un limbo dove le cose riprendono il loro posto quasi spontaneamente. Le giornate erano uguali, contavo solamente i filtri che mi rimanevano in mano, fino al giorno in cui in tutta la giornata, me ne rimase solo uno.
Ci sono altre cose che vanno ricordate di quei giorni, che andrebbero ricordate.
So solo che ora Brianne è la mia migliore amica,
so solo che voglio vedere la ragazza dai sandaletti,
so solo che Igor mi avrebbe preso a sberle se mi avesse visto fumare,
e che sono contento di aver buttato l’ultimo filtro.
Brianne è cambiata. Lo avverto, anche fisicamente.
Ora mi guardava dai suoi occhiali tondi
ed i suoi capelli ora stavano così bene sulle mie felpe.
Un nero su un viso pallido.
La frangia a volte copriva i suoi occhi persi.
Persi da troppo tempo;
persi troppo spesso.


So solo che le voglio bene.
Trattengo le lacrime proprio per questo.
Ho paura,
Solo paura.
Ho tra le gambe la sua cartella, che aveva dimenticato al parco.
Ho tra le dita una bustina di plastica
con dentro dei cristalli bianchi.
Porto la cartella a casa mia, con un nodo in gola.
Non voglio che le succeda qualcosa.
Non voglio
non voglio.
Non voglio perdere anche lei.


Ed a chi importa cosa vuoi?

 

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Capitolo 12
*** Vuoto delle lacrime ***


Oliver Smith - il numero 19

“Ma dopotutto, non può fare una cosa del genere, mi sbaglio?
Ha perso il lume della ragione forse,
o non era sua,
sicuramente non era sua
forse…
non sa quel che fa...”


La mia voce isterica ed alterata ora non è altro che un biascico rotto dalle lacrime.

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Capitolo 13
*** Menzogne dell'io ***


Oliver Smith - il numero 19

Chi sono io?
sei un numero
Non sono un numero. Non assomiglio a un numero.
Credo.
Sono intelligente.
Credo.
Riesco a comprendere.
Credo.
Tu sei un numero.
Tu non sei intelligente.
Tu
non riesci a comprendere.
Sei l’ultimo uomo, l’ultimo uomo che non lascerà spazio più a nulla.
L’ultimo uomo che è solo uno dei tanti
siamo tutti così.
Sei lo squilibrio, lo squilibrio che sarà causa stessa del cambiamento.
Della rottura.
E del ritorno all’equilibrio.
Non capisco
Vedi? Cosa vuoi capire?
Sei stupido, sei ignorante e non sei cosciente della tua ignoranza.
Non è vero, lo sono forse più di chiunque altro.
Sei anche egocentrico.
Vergognati, 19.
Io non vedo ne sento l’immagine che mi descrivi.
Non fidarti degli specchi allora.
Sai quali sono i veri specchi?
Le persone.
La loro opinione.
E’ tutto soggettivo, anche la loro opinione, come potrei fidarmi più di loro che degli specchi?
La verità è soggettiva.
Una bugia diventa realtà se ripetuta abbastanza
Una verità diventa bugia se nessuno la ripete.
Cosa centra?
E’ la prova più spicciola che la verità va contro la sua stessa definizione.
Tu sei chi sembri
ecco chi sei.
Tu sei chi sembri.
Io non sono chi sembro, percepisco il mio io.
NO. SEI SOLO INFANTILE, EGOCENTRICO, NON SAI NIENTE DI TE.
Tu sei quello che sembri.
Ciò di cui sei convinto sono solo menzogne dell’io.
Smetti di guardarti allo specchio.
Oppure impara a sputare alla tua immagine
perché è l’unica cosa che merita.

 

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Capitolo 14
*** Pigrizia ***


Oliver Smith - il numero 19


A volte smetto di pensare.
Non capita spesso, ma quando capita il mondo diventa semplicistico.
Tutto diventa chiaro in un pigro modo di vedere le cose.
Non mi fermo a pensare ai problemi intrinsechi che martoriano la mia mente, problemi infondati quanto i miei pensieri stessi, il più delle volte, ma vado avanti, cercando di vedere le cose razionalmente e semplicisticamente, stanco di dubitare anche delle verità più palesi.
Quel momento l’ho avuto subito dopo aver parlato con la ragazza con i sandaletti, Wendy.
Il mio silenzio, il sonno della mia mente durato mesi evidentemente pesavano sulla mia persona.
Erano indubbiamente successe delle cose.
Avvenimenti lasciati correre, nel silenzio.
Lasciati correre tra baci e frivolezze, tra sigarette e risate.
Mi lasciavano vuoto, ma perso in un vapore visibile ma impalpabile nel quale pensavo di aver trovato la felicità.
Non c’è più Igor a farmi notare i miei cambiamenti.
Forse non c’è mai stato.
Ma ora, come ancora assopito dal silenzio avvolgente della mia mente, non riesco ancora ad allargare l’abisso.
Osservo tutto da lontano con uno sguardo spento, attraverso le spesse lenti dei miei nuovi occhiali. Anche il mio aspetto deve essere cambiato.
Anche se alla vista del mio riflesso torna l’angoscioso eco delle sue parole.

Ciò di cui sei convinto sono solo menzogne dell’io.
Smetti di guardarti allo specchio.
Oppure impara a sputare alla tua immagine
perché è l’unica cosa che merita.

Queste furono le ultime parole prima del silenzio.
Eppure, coperto dai capelli lunghi, il mio viso non mi era poi tanto estraneo.
Ma forse
è perchè non mi sono più visto senza occhiali.
 

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Capitolo 15
*** Provando a ricordare le parole del silenzio ***


Oliver Smith - il numero 19

La pigrizia migliora il mio modo di percepire i ricordi, a volte.
Posso sostituire le emozioni del mio passato a quelle quasi nulle del mio presente.
E, sdraiato sul letto, rivivo vividi i miei ricordi.
Silenzi che meritano di essere ricordati,
silenzi che meritano di essere vissuti
nella nebbia dei ricordi
che cancellano i giorni.

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Capitolo 16
*** Julia, che spero non incontri mai il numero 0 ***


Oliver Smith - il numero 19

Lei poteva anche non esserci, inizialmente.
E’ timida, minuta nel comportamento e nell’aspetto.
Gli occhi nocciola e i capelli castani le stendono un velo di normalità nel quale si nasconde.
Ha dei lineamenti dolci, teneri.
Le labbra sottili che però nascondono una voce squillante.
Le mani paffute che sembrano così piccole tra le mie.

Lei è la mia ragazza ora.
Un affetto nato dalla necessità di cessare la mia solitudine.
Un amore nato solo dopo
che necessitava di ripagare l’affetto
che ora riempe la relazione
insieme a parole ormai perse nella nebbia.
Parole uniformi al silenzio
che tanto voglio ricordare.

Gli occhi socchiusi, quasi spenti nel loro ambire
le labbra perfettamente immobili
ormai stanche di ansimare.
La guardo attraverso i miei occhiali sporchi,
I miei occhi socchiusi, a loro volta, ed un accenno di sorriso.
E lentamente
preme le labbra sulle mie
ancora una volta.
Mi cinge le braccia dietro al collo
e flemmatici
ci stacchiamo
e si lascia cadere su di me
in un abbraccio
in cui ognuno si nasconde tra i capelli dell’altro.

Tra le lacrime
che tra i suoi capelli non ho mai versato
ho fatto l’unica promessa che mai ho voluto mantenere.
Lei non dovrà mai incontrare il numero 0.

La stringo a me
e le bacio la fronte.

 

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Capitolo 17
*** Lo psicologo che racconta menzogne ***


Arabella Foster, il numero 5
Abigayle Foster, il numero 7

 
Una stanza triangolare, tre pareti, tutti specchi. I miei occhi fissano il riflesso di fronte a me, ignorando gli altri due riflessi dietro di me. Mi vedo appena dopo una doccia. I miei occhi struccati, gli occhi grigi come le nuvole fuori dalla finestra che eppure, nella mia stanza, non c’è. Occhi spenti, segnati dalle occhiaie, ed un volto nel complesso impassibile, quasi arreso all’inerzia delle giornate. Ripugno quest’immagine di me così reale, giro la testa di scatto, ed eccomi nuovamente di fronte al mio riflesso, questa volta in una notte di luna piena; i miei capelli fluenti cadono sulle mie clavicole, e degli occhi smeraldo mi fissano, così penetranti circondati dal nero del trucco che li rende così belli. Rimango ad osservarla, osservo i suoi tratti, osservo le labbra carnose ed il piccolo anellino all’angolo della bocca, ma quasi obbligata a distogliere lo sguardo, mi giro, e mi fisso, stampata in uno specchio che aveva solo la mia immagine lontana, sfocata e rumorosa. Questa però, si muove, si avvicina lentamente, e ad ogni passo riesco a metterla a fuoco. Ma nonostante ciò, rimango imbambolata, fissando i suoi occhi e le sue pupille, espanse fino ad inglobare l’iride. Occhi neri e penetranti, che mi fissavano.
Ti fisso
Mi fissa, ma chi è l’immagine?
Sono io l’immagine. Sei tu l’immagine.
Apro di colpo gli occhi, fisso il soffitto, per attimi di ghiaccio che una volta finiti pesano troppo sulle mie palpebre.
Rimango nel dormiveglia per un’altra mezz’ora, prima di riuscire ad alzarmi. Al tocco dei miei piedi al freddo pavimento un brivido mi attraversa.
Mi giro per guardare la finestra, ed osservo il cielo grigio, sopra a palazzi dai colori spenti, e in un attimo, chino la testa verso il basso, dirigendomi verso il bagno. Faccio cadere la biancheria ed entro nella doccia. Dopo essermi risciacquata, esco dalla doccia.
Rimango immobile, fissandomi allo specchio.
Ti riconosco
ed io riconosco te.
Le parole dell’immagine mi parlano, attraverso la mia voce.
Eccolo il mio disturbo.
L’ha detto lo psicologo, sindrome di borderline, disturbo della personalità e sdoppiamento della stessa.

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Capitolo 18
*** L'abisso ***


Oliver Smith - il numero 19

E’ facile pensare quando non si ha nulla da fare.
E’ bello, più che altro. Rimaniamo seduti e perdiamo il nostro sguardo tra le lande dei nostri pensieri.
Quasi un viaggio.
Tra i meandri della nostra mente, tra le nostre fantasie e le nostre paure, tra le nostre certezze e i nostri dubbi.
Qui passo buona parte del mio tempo
senza mai comprendere a fondo
senza mai comprendermi a fondo.
Cammino, nel mio mondo sproporzionato e surreale.
Nel mio pensiero, le immagini sono sproporzionate, simboliche.
Distorte, ma nella loro distorsione vive ciò che io attribuisco a queste immagini.
Nel mio cammino, non trovo oggetti che rispecchiano la loro controparte reale, e forse è la prova della mia incapacità di vedere la pura verità.
Le distorsioni però, non sono sempre chiare e nette.
Tra i sentieri, le zone meno illuminate, spesso celano i sé i miei dubbi, ombre che semplicemente si attaccano alla mia persona finchè io non decido di riporle tra i sentieri, pur di non
sentirne il peso.

Queste ombre sono palpabili. Le avverto e avverto ciò che fanno a me.
Ma sono sfocate, dai colori confusi, e più passa il tempo più possono cambiare radicalmente.
Nella mia mente, il tempo è la radice del cambiamento.
Lo vedo
nell’abisso.
Arrivato alla fine di un sentiero, mi siedo con le gambe a penzoloni nell’abisso.
L’abisso, la parte più affascinante della mia mente.
E’ la mia comprensione della società tutta.
L’abisso fu uno dei fattori che mi portò a pensare che il tempo è la radice del cambiamento mentale.
Anche se, in realtà, l’unico merito del tempo è che consente di rendere vero questo cambiamento.
In una stasi temporale non può avvenire alcun cambiamento
In una stasi spaziale non può avvenire alcun cambiamento. Si equivalgono.
L’abisso è difficile da descrivere. Impossibile, forse.
So solo che ha un centro, una pupilla.
Un’apparenza, un iride.
Ed un mare di falsità, tra cui all’interno si intravedono i capillari di quelle che possiamo solo sperare siano le verità.
Le persone vi si possono trovare nell’iride e nella pupilla. Ci sono stato, nell’iride.
Vi sono solo le persone che conosco, ma sono distorte, come tutto nella mia mente. L’iride è una metropoli, di tutte le persone che ho mai visto, e di ciò che io so di loro.
La pupilla al contrario, è nera come la pece.
La vi è la massa. Il suo pensiero, la sua presenza.
Ed agisce come una nebulosa in tutto l’occhio dell’abisso.
Impone il suo modo di pensare, il suo modo di esistere.
Secondo me, c’è chi conosce l’abisso
e chi ne rimane ignorante.
E sono certo che l’abisso cambia radicalmente una persona.
La pupilla ci cambia.
Perchè è uno scambio.
Noi osserviamo la società e cambiamo la pupilla, ed al contempo, questa cambia il suo effetto sulla nostra persona.
Eppure
io osservo.
Io allargo l’abisso.
Ma fa sempre più male,
la pupilla continua a farmi del male.
Perchè nella fasulla certezza di cui siamo temporaneamente convinti, la pupilla ci dilania,
ci convince della nostra solitudine.
Eppure, siamo noi ad ignorare ciò che vuole dirci.
Siamo noi
sono io.
Sono io a non accettare le sue parole, sebbene potrebbero essere la soluzione a tutto.

Esattamente.
Sei tu
a non ascoltare me, il numero 0.
Io posso aiutarti nella società moderna, sai?

Ma in fondo, so che c’è del sbagliato nelle sue parole.
So che c’è del sbagliato nella società tutta.
So che vale la pena
cercar di rubare un “ti voglio bene”
a chi può volercene davvero.
So che vale la pena
sperare,
sperare in un “come stai?”
piuttosto che vivere in una perfezione inumana
nella quale parole simili non ci toccherebbero.
Forse, io, numero diciannove
posso essere l’apice della nostra società
o il primo errore da eliminare.

Vero, numero 0?


***
N.B. Ho cambiato il nome del protagonista, non riuscivo ad immaginarmi "William Smith" senza pensare al principe di bel air.

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Capitolo 19
*** Prospettive ***


Oliver Smith - Il numero 19

Odio le feste.
Sono opprimenti, affollate.
Sono corpi, volti
ammassati.
Melodie insignificanti dal volume talmente elevato che ci rende insensibili ed inermi.
Parole insignificanti. Vi è solo musica, alcool e libido, di esseri troppo limitati e repressi dalla società stessa fino al punto di accettare lo schifo con cui gli è stato traviato il cervello.
Eppure è la normalità.

“Vieni in discoteca sabato?”
“Certo! Domani si sboccia!”
E ridono, ridono di un insensato umorismo.
La normalità.
Sento queste parole oggi, venerdì mattina, mentre sto con la testa poggiata sul banco.
Le ho sentite venerdì scorso.
Le sentirò venerdì prossimo.
Tutto questo è normale.
E nella normalità, tutti trovano sicurezza,
giustizia.
Giustizia che non sono in grado di trovare in altra parte, perchè trovata solo in ciò che la massa condivide.
Conosco persone che invece, quasi come affronto, quasi per il semplice gusto di trasgredire la massa, le regole, vanno esattamente verso lo stereotipo di ingiusto.
Senza ragioni, senza ideali, puro esibizionismo.
Anche se, spesso, c’è la droga dietro quell’esibizionismo.
L’illegal.
Lì vi erano tutti. Lottavano contro le regole, si battevano per l’ingiusto, o almeno così credeva la massa.
Ci sono stato, ad un illegal.
Era al limite di un parco, vi erano delle alte reti di metallo ed una porta artigianale, alta poco meno di un metro e cinquanta.
Dall’entrata si sentiva la musica.
Musica dai bassi incredibilmente potenti, veloci, ripetitivi.
Musica trance, tekno, vecchio stampo.
Vi era un enorme spaziale cementato, dove sparse vi erano le casse, collegate ad una console, dove un ragazzo alto, castano e dai capelli raccolti, cambiava continuamente il ritmo dal
mixer. Tutt’attorno, persone che ballavano, come forsennati, buona parte mossi solamente dalle anfetamine che avevano in corpo. L’aria era impregnata dell’odore di cannabis, e chi
non era a ballare, o in preda alle anfetamine, sedeva nelle zone laterali dello spiazzale, per terra, in piccoli gruppi. Sedevano in cerchio, ed al centro tenevano gli oggetti mezzo
dell’unico loro intrattenimento.

I cerchi erano davvero tanti
ognuno con oggetti diversi,
chi aveva un semplice grinder
e chi aveva le siringhe.
Io facevo parte di uno dei cerchi, ed annebbiato dal THC, per un istante ho pensato di aver trovato la giusta alternativa al suono assordante ed insipido della discoteca.
Quell’istante durò poco più di un secondo,
l’effetto istantaneo
del tabacco misto alla cannabis
il primo tiro
a cui si trattengono i colpi di tosse.
Dopo quei magri secondi mi accorsi di Brianne.
Stava mangiando dei cristalli, per il puro e semplice gusto di far parte dei forsennati che si muovevano a ritmo di quella musica invasante, invadente.
Era la palese prova che le persone non sono abbastanza per se stesse.
Noi non ci bastiamo.
E l’idea che Brianne preferiva le anfetamine alle mia compagnia era la cosa più ovvia e crudele che mi potesse affiorare in mente.
Faceva male, male e basta.
Chiusi quella che fu la mia ultima sigaretta, fino ad oggi.
L’accesi e me ne andai nel silenzio della baraonda assordante,
perchè tra i trip di lsd
e gli orgasmi dell’eroina
si preferisce il silenzio
teso
graffiante.
La musica, per quanto ci provi, non riesce a romperlo.
Scappai, scavalcai quella stramaledetta rete.
Avevo ancora l’accendino in mano, e lo lanciai, con violenza, verso l’illegal.
Loro, noi, siamo l’esempio da non seguire, i tossici, quelli senza futuro.
Ma alla fine, tra loro e chi va in discoteca a bere
a ballare
a fumare
per essere semplicemente come gli altri,
per essere semplicemente normali,
vi è solo una differenza.
Quelli che si iniettano l’eroina
hanno deciso di morire per se stessi,
non per gli altri.

 

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Capitolo 20
*** Società, forse ***


Oliver Smith - il numero 19

E’ una giornata strana, e quasi mi da un senso di deja vu.
So quando ho vissuto questa scena.
L’ho vissuta poco prima di rompere il silenzio
con Wendy.
Lei era seduta accanto a me, nel divano di casa mia, nel quale ora, senza lei accanto mi sento troppo stretto.
Aveva una bottiglia di vodka pesantissima, che portò per tirarmi un po’ su il morale dopo avermi fatto capire quanto assordante ed alienante fosse quel silenzio.
Siamo ancora una volta su questo divano
ed io, dopo aver quasi vomitato tutto quello che era il numero 19, sapevo che questa volta toccava al numero 0.
Non poteva esistere solo in me, ne sono certo.
Ne sono certo.
Ne sono certo anch’io.
Dalla mia bocca escono parole che vanno a formare un discorso disorganico ed arzigogolato.
Nonostante però le stia parlando del numero 0, comunque non le racconto dell’abisso.
Come se fosse qualcosa di mio.
Come se lo sentissi troppo intimo.
So che racconterò anche dell’abisso, prima o poi.
Poi, in quello che fu solo un istante, il numero zero mi aprì a quello che racchiudeva.
La società
forse.

“Non ti rendi conto?”

“Cosa?”

“La società ci bombarda, pensaci. Il numero zero ci bombarda. Siamo circondati da idee, da opinioni, che non sono altro che stronzate giustificate dalla libertà di cui tanto ci crediamo il simbolo. Poniamo noi stesso all’interno di un contesto che alla vista di tutto e tutti è solo uniforme grigio, perchè siamo incapaci di guardare attraverso alla vera piramide sociale, che in realtà, non è che un diagramma di venn, che secondo un principio prende una persona all’apice e secondo un altro prende un’altra persona ancora. Allo stesso tempo, siamo bombardati di menzogne. Menzogne, perchè è questo ciò che ci circonda, è questo il mare in cui ci vogliono affogare, ci vuole affogare. Perchè è l’unico modo per essere al sicuro, forse. Nella società nulla è reale ed allo stesso tempo tutto è reale perchè vero nelle opinioni di tutti. Eppure siamo tutti troppo ciechi per accorgerci delle poche evidenze che esistono in questo pianeta, e siamo talmente imperfetti da non poter comprendere le evidenze di fronte a noi, vedendole sempre in modo diverso. Ed affogando, affogando nel mare di menzogne, noi ci sentiamo felici. Ci sentiamo assuefatti dalle stronzate che ci propongono, convinti di aver trovato la felicità. Rimaniamo attaccati alla televisione, leggiamo libri già scritti milioni di volte e sentiamo note tutte uguali dal testo senza senso.
Non possiamo essere felici
a meno che non ci arrendiamo.
Più andiamo avanti
e più diventa questa la situazione.”

Perdo di colpo la voce, e mi rabbuio. Abbasso lo sguardo e il mio volto inizia a trasparire malinconia.

“Hai ragione, Oliver.
Hai ragione.
Ma è questo quello che vuoi fare?
Urlare e poi… Rabbuiarti?
Arrenderti?
Hai ragione, più andiamo avanti, e più l’unico modo per essere felici è arrenderci, ma credi che siamo già arrivati al punto in cui non c’è più altro metodo? Credi che non puoi più
trovare la scintilla, la ribellione?

Vuoi davvero prostrarti definitivamente al numero zero?”

Improvvisamente, mi sento piccolo. Infinitamente piccolo.
Ed i miei sentimenti combattono
perchè da una parte
voglio solo stare tra le sue braccia,
dall’altro
ripudio l’idea di essere vulnerabile
attaccabile.
Come pensavo fosse Julia tra le mie braccia
se solo non nascondesse un cuore di ghiaccio sotto il suo velo.
Ma ora come ora, l’attrazione ingiusta verso Wendy
e il desiderio di abbandonarsi per l’ultima volta
hanno la meglio.
L’abbraccio
e mi perdo
in un osmosi spirituale,
forse rompendo
le mura dell’animo.

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Capitolo 21
*** Arrendersi alla non-importanza ***


Oliver Smith - il numero 19

Siamo dipendenti dalle persone.
Come fossero droga.
Ne vogliamo ancora, vogliamo essere sempre più assuefatti dalle persone
dalla felicità
che, a volte, ci provoca la loro compagnia.
E’ ciò che ci dissuade dal rimanere da soli
ciò che ci dissuade all’accettare la nostra solitudine.
Ed improvvisamente, le persone sono importanti per noi.
All’apparenza necessarie, un’illusione interna, o un altro metodo per essere come gli altri, con gli altri.
Ma tutti noi, sappiamo solo che è importante per noi stessi, a volte neanche quello, e brancoliamo nel buio, aggrappandoci alla sola speranza di essere importanti per gli altri.
Essere importanti, avere valore.
Il valore
che dissuade gli altri
al non buttarci
come meri oggetti,
che sono forse
tutto ciò che siamo ai loro occhi.
Vogliamo avere del valore
quasi una valuta parallela
dove la domanda e l’offerta sono distorti e contorti
e formano i nostri drammi quotidiani.
Lo squillo del mio cellulare mi distrae dai miei pensieri, e tastando l’asfalto dietro di me, afferro il cellulare.

20:40
Wendy

Rispondo alla chiamata, e Wendy si scusa per la sua mancata risposta ai miei messaggi di qualche ora prima.

“Sei uscito con qualcun altro? Non mi arrabbio, anzi, hai fatto bene. Magari ci incontriamo in giro”

Rimasi un attimo in silenzio, per poi risponderle, con una voce stranamente grave.

“Scherzi Wendy? Sono steso sull’asfalto di un parcheggio ad osservare le stelle che non ci sono. Altro che uscire”

Ci ridiamo un po’ su, e mi promette che ci saremmo visti dopo poco.
E guardando il cielo, malinconico, evito il pensiero di non essere importante per nessuno, ed evitandolo ci cado in pieno, e quasi aspetto.
Aspetto lui.

Non aspettarti mai niente da me.

E la mia mente vive attimi di silenzio.
Puro silenzio
che mi fa dubitare dello scorrimento del tempo.
Finchè la malinconica melodia della tristezza non si fa sentire.
Non potevo aspettarmi una risposta da lui, ma l’ho avuta da lei.
L’ho avuta da Julia.
Io non sono importante
e dovrei ricordarmi
che la massa è fatta da persone.
La massa non è così tanto a sé stante.
Quindi forse non conto per nessuno.

Ed anche se Wendy ancora non c’è
sento lei che mi da uno schiaffo.
“Ribellati, cazzo.
Vuoi semplicemente prostrarti così a tutti, alla massa?
Vuoi lasciare le cose come stanno?
Ti credi tanto diverso dai numeri di cui tanto ti credi circondato?
Tu sei un numero, Oliver.”

E le sue parole, non dette, ma allo stesso tempo marchiate su di me, mi dilaniano.
Le ha dette, ma non le ha dette.
Dovrebbero spronarmi a far meglio, giusto?
Dovrebbero aiutarmi?
Sento anche la rabbia, quella che dovrebbe aiutarmi a fare meglio.
E perchè allora
fanno così male?

Ed all’arrivo di Wendy, mi abbraccio a lei e scoppio a piangere.
Ma solo pochi secondi dopo
mi accorgo di star singhiozzando
accasciato a terra

da solo.

Non può andare avanti così. Mi alzo, da terra, sanguinando lacrime, e me ne vado da quel parcheggio.
Scusami Wendy.
Ma se alle persone non importa quello che sono e quello che faccio,
se per le persone
non ho valore
allora posso anche fare a meno di preoccuparmi del loro valore.
Ma ancora non è lucida
la scelta
tra l’astinenza da persone, e la conseguente sicurezza di non esser mai ferito
e la continua assunzione, la continua compagnia delle persone stesse, accettando che per loro, forse, non sarai mai importante.
Non sono sicuro
di volermi arrendere
alla non-importanza.

 

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Capitolo 22
*** Masochismo dell'es ***


Oliver Smith - il numero 19

Mi piace Julia.
Mi piace molto.
Nel suo essere così minuta, leggera, ne trovo una bellezza pura,
una grazia.
Mi piacciono i suoi colori,
mi piace il color cioccolato dei suoi capelli, dei suoi occhi.
Adoravo il suo sguardo
quando sdraiati
indossava i miei occhiali tondi.
Adoravo le sue mani fredde
che facevano rabbrividire la mia spina dorsale.

Adoravo i suoi movimenti. Finchè ne ha fatti.
Bacio dopo bacio
le sue mani erano sempre più ferme,
erano diventate calde
e la mia pelle fredda.

Ed io bramavo,
bramavo i suoi graffi,
bramavo i suoi morsi
pur di sentire qualcosa.

Mordimi il collo finchè si taglia.

Nella osmosi dei nostri corpi
io non trovavo l’osmosi con la sua anima,
ustionato dal suo freddo
quando volevo solo ardere.
Ma il freddo non è aggressivo
il freddo è passivo.
All’angoscia preferivo il dolore
al suo freddo
preferivo le sue unghie,
i suoi tagli.

E l’irrazionalità verso tutto questo
era sulla mia schiena
nuda
pallida.
Ed alla presenza delle sue mani,
quando il brivido scomparve
ed il freddo cominciò ad avvolgermi la schiena
avrei preferito ogni cosa
al freddo.
Al freddo a cui sono tanto abituato
ma a cui non potrò mai esporre la mia schiena.

Mai mi graffiò
mai mi fece realmente del male.
Io non l’avrei ugualmente sopportato.
Ma la sua presenza fredda
fermò le mie mani.
Fermò le mie mani dall’esporre la mia schiena ancora.

E di fronte allo straziante valore
che lei vedeva in me,
io mi sentivo impotente alla valuta dei sentimenti.

Finirono i miei rapporti con Julia,
ed io ero più spaventato dal freddo
che alla sua cecità
verso la mia interiorità,
scoprendo
che quando non si ha nulla con cui coprirsi
possiamo solo volere il caldo.

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Capitolo 23
*** Silenzio ed urla del numero 0 ***


il numero 0


Perchè ti ostini ad essere sordo.
Perchè ti ostini a vivere in questo modo.

Io so il perchè.
Sei tu a non saperlo.
Io non posso parlarti.
Io non vogio parlarti.

Sono cause delle conseguenze, le mie, non domande.
Io non ho alcuna domanda da farti
al quale non so la risposta.

Ti stai rifugiando
nella tua innocenza.
Tu non sei innocente.
La tua maturità non tollera una tale innocenza
da poter ignorare la mia presenza.

La tua maturità non tollera l’ignoranza
in cui potresti trovare la felicità.

Ed allo stesso tempo
La tua immaturità
continua a scappare dall’inevitabile.
 

Hai ancora tanto da capire, numero diciannove.
Non basta la maturità per comprendermi,
non basta l’immaturità per sfuggirmi.

Le urla
non sono altro
che i miei consigli.
Ma non sarà solo il sangue
a convincerti delle mie parole.

 

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Capitolo 24
*** Solitudine meritata ***


Oliver Smith - il numero 19

 

Solo dopo ore di malinconia incomprensibile
e di confusione verso questa,
cercando qualcuno con cui stare,
con cui parlare,
con cui essere me stesso,
mi accorgo di cosa provo.
E’ solitudine
e me la merito.
Solo dopo aver tradito le aspettative delle persone si può essere realmente soli.
Quando la solitudine non è una mia riluttanza verso le persone,
ma la rabbia che queste covano nei miri confronti.
Ed incapace di rompere questa solitudine.
La accetto quasi ironicamente,
con un sarcasmo, un riso, che stona così tanto sul mio volto lacerato.
Mi ritrovo senza giustificazioni e senza nessuno,
senza nulla da fare,
senza nulla a cui pensare.
Perchè la mie scelte errate
non sono un dilemma,
sono una chiara causa
di ciò che vivo.

Cazzo se mi merito tutto questo, me lo sono sempre meritato.
Ipotizzo di essere migliore degli altri in quanto numero cosciente di esserlo.
In quanto numero cosciente del numero zero.
In fondo non sono così solo
non so semplicemente apprezzare quello che ho.
Iniziare a farlo però, implicherebbe una cosa, ovvero accettare incondizionatamente come normale lo schifo con cui veniamo alimentati giornalmente.
 

A volte ci dimentichiamo il motivo reale delle cose che facciamo.
A volte ci dimentichiamo del perchè vediamo film tutti uguali, perchè ascoltiamo sempre la stessa musica, e ci divertiamo sempre allo stesso modo.
Perchè vogliamo ignorare.
Vogliamo abbandonarci al luogo dove i problemi non esistono.
Nessuno di noi è troppo diverso dai tossicodipendenti.
Passiamo ore al computer
passiamo ore davanti alla televisione
passiamo ore a leggere parole già scritte
ed ascoltare note già cantate.
Non perchè ci piaccia
Ma perchè è la nostra droga
E’ la nostra dose giornaliera
di un mondo senza problemi

E tu non sai viverci, nel mondo senza problemi.
Tu non sei nessuno, nel mondo senza problemi.
Tu
sei un problema
del mondo senza problemi.
Non ti senti fuori posto?

Perchè dovrei.
Sono un numero, dopotutto.

E la sua voce soffocò.
Forse non sono ancora un numero.
Forse non lo sono ancora.

Ecco cosa volevo dire a Wendy
del numero 0

 

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Capitolo 25
*** Aggressività ***


Oliver Smith - il numero 19

Al diavolo.
Cammino veloce tra la folla
le strade piene
e il passo deciso, aggressivo.
Cammino con gli occhi in fiamme senza badare a chi mi circonda.
La mia mente ripete una filastrocca senza note e senza rime
nella quale ripone tutto il suo odio

  A nessuno frega un cazzo
  Io non sono nessuno
  Nessuno
  Non merito nulla
  Nessuno merita nulla

Parole prive di senso, solo odio, odio, odio.
L’odio che ribolle nelle vene per i torti che ci vengono fatti continuamente.
E perchè non gli diamo sfogo? Eh?
Mi sgranchisco le ossa delle mani, dilaniando chi incrociava il mio sguardo.
Urla
Al mio aprire la bocca mi schiaffeggio la mano in faccia, e le unghie penetrano lentamente nelle mie guance.
Silenzio.
Devo stare in silenzio.
La tempesta si placa
i torti
diventano chiari.
Scegliamo di amplificare i torti che riceviamo per poter essere aggressivi
per vivere le fiamme
e fondere assieme ad esse
in un’assuefazione
che non viene mai soddisfatta.
E nella sicurezza si riprende a camminare, decisi, con gli occhi in fiamme ed un accenno di sorriso.
Cammino con le lame tra le mani e il sorriso sulla faccia, di chi fa del suo controllo della sua rabbia il suo potere, un potere fragile di cui mi cibo continuamente,
pur di restarne assuefatto.

 

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Capitolo 26
*** Casualità ***


Oliver Smith - il numero 19

Stranamente, ho una sigaretta in mano.
Una sigaretta di chi fuma, una sigaretta di cui ne vuoi ancora, di cui butti solo il filtro.
Ed in tutto questo, sono felice.
Era una sigaretta delle tante, e ne ero assuefatto, perchè forse non ero assuefatto da nulla da troppo tempo.
Da nessuno
da troppo tempo.
Camminavo sui binari delle ferrovie abbandonate, e le nostre mani quasi si toccavano.
Cadevamo ogni pochi passi, ed ogni nostro passo falso era una risata,
ma speravo
di poter prenderle la mano
e camminare.
Arrivare alla fine dei binari senza cadere, l’uno sorretto dall’altro.

Erano attimi saturi della nostra stessa presenza,
delle nostre stesse azioni.
Per la prima volta, ho sentito la mia solitudine scomparire,
come fosse una semplice bolla di sapone
e qualcuno
l’avesse toccata.
Come se la mia solitudine dall’esterno non fosse altro che una fragile e debole barriera
e dall’interno un muro di specchi che ti facevano credere di esserne fuori.

Ed i nostri passi senza meta
mi facevano sentire libero.
Ero lontano da tutto ed allo stesso tempo parte del tutto.
Allo stesso tempo
osservatore del tutto
insieme a lei.

Nella mia mente, quasi non bastavano le parole,
che creavano un insolita melodia
che faceva da sottofondo ai nostri baci.
Ne avvertivo un significato,
un senso.
Non erano gesti, erano frasi
vedevo tra le sue mani una matita, ed il mio corpo come il suo era un foglio da disegno.
Ci completavamo in una simmetria imperfetta,
ed in quanto tale
incredibilmente bella

E dopo un altro bacio,
dopo un altra parola
cadevamo l’uno nelle braccia dell’altro.
In un abbraccio nel quale entrambi cercavamo di nasconderci tra i capelli dell’altro.
Ma questa volta,
quasi fossimo feriti,
quasi fossimo stanchi.
Non vi si nasconde colpevolezza,
non vi si nasconde la pavidità
nel guardare le mie cicatrici invisibili
eppure troppo pesanti.

 

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Capitolo 27
*** Falò della mente ***


Tra i sentieri, ora, ci sono solo le torce.
Strade buie come il cielo sopra di me
illuminata solo dal fuoco della mia mente.
La musica,
il fragore,
le note che risuonano nella mia mente,
troppo malinconica e silenziosa.
Troppo melensa e masochista.
Semplice festa, allegria,
forse diversa dalla felicità.
Mi si illuminano gli occhi.
Mi cullo tra le note allegre di una chitarra elettrica
e tra i sentieri illuminati
potrei tornare agli attimi di vita precedenti
senza badare alle ore che mi separavano ormai inesorabilmente dalla sua anima.
Senza badare alla malinconia,
alle note di pianoforte
alle parole sagge,
fredde,
senza badare alle regole,
alla tristezza,
alla sensazione di inutilità che vive inesorabilmente nella mente di chiunque.
Ignorare coscientemente, e lasciarsi alle note di una chitarra elettrica,
alle parole di speranza e di ideali
pur conoscendo e cantando
le tristi parole della verità di tutti i giorni.

Non fare nulla di tutto questo
sarebbe un’immediata condanna.

E le urla dilanianti del numero 0
sono lontane quanto taglienti.

Ad occhi chiusi
dondolo la testa a ritmo,
con un sorriso sulle labbra
dalle linee sfocate e scure,
appena visibili nel buio in cui mi trovo.

 

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Capitolo 28
*** Distanza ***


Era l’ultimo scatto.
L’ultimo scatto del mio rullino in bianco e nero.
Ero distante, seduto sulla scalinata della scuola, mentre osservavo Madison, in lacrime, attraverso le lenti del mio obbiettivo. Era abbracciata ad un ragazzo, e da quella distanza, anche io riuscivo ad avvertire il suo nodo in gola.
Qui, vi è la chiave.
La distanza.

La distanza che c’era fra me e lei.
Che c’era fra me, e lui.
Che non c’era più fra lei e lui.

Lui non c’è più
Un treno ha portato con sé la sua vita.
Io mortificato vorrei.
Vorrei esserle vicino.
Vorrei essere vicino, a tutti.
Poter esser d’aiuto.

Ma le distanze non le percorre uno solo.

E l’obbiettivo della fotocamera
per quanto le azzerasse
farebbe arte
della tristezza.
E sebbene sono solito a farlo
questa volta non spetta a me.
Forse non spetta a nessuno
 

Ci sarà una bella differenza tra la scalinata ed il tetto della stazione ferroviaria.
Senza macchina fotografica, rimango semplicemente incantato a guardare le luci notturne.
Sono arrivato alla stazione senza che neanche me ne accorgessi, ed è quasi macabro.

Vedevo vividi
fotogrammi che non mi appartenevano.

Ancora conservo la polaroid del loro abbraccio, eppure, io non sono nessuno,
io sono distante.
Forse non si ricordava neanche il mio nome.
Ma non è importante.
Nella distanza, nessuno ha potere.

Neanche lui.

Ma, ignorando la distanza
ogni ricordo che non appartiene né a me né a nessuno
dilania la mia mente.

Siamo tutti più distanti che mai,
ma che non sia la distanza a dichiarare la nostra insensibilità,
che non sia la distanza a giustificare
uno degli scatti più belli che avrei mai potuto scattare.

Lascio scorrere le ore, steso su un tetto che era troppo vicino al suo sangue,
alla sola compagnia della mia stessa malinconia ingiustificata.
Mi decido a gettare la bottiglia di vetro ormai vuota e scendo dal tetto.
Camminando a testa bassa
quasi guardassi dall’alto
ciò che mi circondava.

Ed in tutto questo
il numero zero
non ha diritto di parlare.
 

Lui
come i numeri
non è sensibile alla distanza.

Lui
come i numeri
Ha solo fatto audience
da una tragedia.

Lui
come i numeri
è stato l’esitare
della mia macchina fotografica.
 

Lui
come i numeri
non hanno diritto
di parlare.

 

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Capitolo 29
*** Tramonto ***


Oliver Smith - il numero 19

 

Le sigarette sono l’alibi della nostra solitudine.
Il silenzio
il silenzio delle nostre sigarette.
C’è solo silenzio.
Quando le nostre urla,
le mie urla,
vanno sfocandosi
ed ogni mia nota
è ormai suonata,
capisco che non c’è altro che silenzio.
vuoto della stessa esistenza.
Mai
è la felicità a parlare

Ed ora, la mia storia deve giungere ad un termine.
Ma la mia storia
non può finire nella luce.
non posso scandire le mie ultime parole
sotto un cielo limpido
ed un sole che splende.
Avrei atteso il tramonto
avrei atteso
che il grigio della città
mi cullasse,
che le luci gialle della città
dessero vita
all’inerzia
delle mie urla,
delle mie note stonate.

Lascerò
che la notte
scandisca le mie ultime parole

 

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Capitolo 30
*** Notte ***


Tra quattro mura

posso finalmente guardare in faccia chi sono.

Non sono chi ero.

Non sono Oliver Smith.

Non sono il numero 0.

Non sono il numero 19.

 

Sono ciò che rimane del silenzio.

Chiesi ad un ragazzo cosa fosse per lui il silenzio. Era notte, sedevamo su un molo con una birra in mano.

 

“Hai mai provato ad ascoltare un suono finché non si dissolve?”

“No… mai.”

“Quello

è il silenzio.”

 

Ora so di cosa parla

Le urla, sfocandosi tra i corridoi

tra le mura

nella foschia della città

mi portano al vero silenzio.

Dopo che il brusio della folla,

il brontolio delle auto,

le note degli artisti di strada

si ammutolirono;

dopo che anche il nostro ansimare

si ammutolì

arrivai alla conclusione.

Questa è la fine.

L’uniforme foschia in cui io sto soffocando.

In cui qualcuno

E’ già soffocato.

 

Mi riferisco a te, numero 3.

Non so come so il tuo numero

tutti sappiamo il nostro numero, in qualche modo.

Io sono il numero 19,

tu eri il numero 3.

Hai scelto il silenzio,

abbiamo scelto il silenzio

A quel punto perdiamo le nostre parole

tra la foschia,

le perdiamo

ammaliati dal suo sorriso,

dalla sua danza.

 

Il silenzio porta i miei stessi occhiali.

Occhi vuoti

non puoi guardare negli occhi il silenzio.

guance scavate,

su cui si posavano dei lunghi capelli neri,

ed un sorriso.

Non so com’è un sorriso

non so disegnarlo.

Ne rimango solo ammaliato.

Potrei immaginarlo però.

Potrei immaginare un sorriso,

il più bello ed ammaliante che si possa immaginare.

 

Quando lei ballava come una forsennata

Mi balenò in mente la verità che non accettai.

 

Non saremo mai sconfitti

alla vittoria del numero zero.

 

Ma una vittoria

ci sarà solo

alla sconfitta.

 

Il numero 0

ha finito da tempo le sue parole,

ed in ciò che mi ha detto

troverò le parole che hanno vissuto nel mio silenzio.

Ritroverò

nel silenzio

le parole del nostro silenzio.

 

Arriverà il giorno

in cui la felicità

non sia l’arma del silenzio

non sarà la felicità

a farci abbandonare.

 

Un giorno

la felicità

sarà il motivo per stare in piedi

per non barcollare.

 

Un giorno

chissà.

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Capitolo 31
*** Notti prima della notte ***


E’ la felicità a farci cadere nel silenzio.

la felicità

è il sorriso stesso del silenzio,

ammalia per attimi eterni

e ci costringe

a farli durare l’eternità più lunga per i nostri effimeri giorni.

La nostra vita.

 

Chi cade nel silenzio

sono coloro che hanno finalmente smesso di urlare

che hanno finalmente smesso di soffrire.

 

Ma nessuno mai smette definitivamente di soffrire.

Nessuno mai riesce a vedere il sorriso del silenzio

senza mai vederlo sfocare.

Non riuscirò ad attendere le mie urla.

Il sangue non si fa mai attendere.

 

Ora

sei finalmente felice,

sei finalmente al sicuro.

Nel tuo ideale

tuo

solo tuo.

 

Impara ad amare

il silenzio.

 

Anche prima delle sue parole

avevo già imparato

ad amare il silenzio.

 

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