Appuntamento all'inferno.

di Robszeru
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La selva oscura ***
Capitolo 2: *** La spada di Leonida ***
Capitolo 3: *** Il cataclisma diabolico ***
Capitolo 4: *** Il disordine infernale ***



Capitolo 1
*** La selva oscura ***


Appuntamento all'inferno Capitolo 1. La selva oscura

"Il mondo è caduto, le tenebre hanno preso il sopravvento, il male dell'inferno si rovescerà sulla terra. Catone mi ha tradito, il motivo ancora non lo scorgo ma qualcosa ha causato il suo folle gesto. La distruzione del purgatorio comporterà eventi che non siamo ingrado di prevedere, che non siamo in grado di fronteggiare, e gli uomini sono troppo deboli per capire da che parte schierarsi. Abbiamo bisogno di un'idea, abbiamo bisogno di qualcosa che lui non ha, una vita, solo una vita può sconfiggere la morte, solo un'anima ancora nella sua casa fatta di carne ed ossa, solo un'anima caratterizzata da onore e coraggio. Ciò che è stato è stato, ciò che succederà dipende da noi. Ora, miei angeli, andate e fermate per quanto potete il male nel suo cono di tenebre e oscurità."

Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura

ché la dritta via era smarrita

Sbaglierei se iniziassi il mio racconto in questo modo, e non per un sol motivo. Ma il motivo che più influenza questo punto del racconto è un fatto temporale, ovvero che io non mi trovo nel mezzo del cammino della mia vita, ben si un decennio prima dell'età a cui si riferisce questo celebre verso. Tuttavia ricordo solo il calar della notte fonda ed io segnato dalla serata, tornavo a casa barcollando. Tanto era il sonno e la stanchezza che crollai per terra senza neanche concepire come successe.

Mi svegliai forse qualche ora dopo. Frastornato e confuso mi guardai le mani, sporche di terreno umido e maleodorante. Alzai il capo verso l'alto e mi accorsi che sopra di me i rami degli alberi s'intrecciavano come a formare un tetto naturale, che mi impediva di scorgere il cielo. Le radici monumentali si piantavano al suolo quasi con violenza, come se quegli alberi fossero aggrappati al terreno viscido e irregolare. La fitta rete di querce nascondeva la profondità di quella foresta putrida e copriva ogni squarcio di luce che per pochi attimi riuscivo a cogliere. Mi sembrava quasi di non riuscire a respirare. Nel silenzio spettrale potevo sentire di tanto in tanto degli strani versi animaleschi, inquietanti e senza una precisa provenienza. Nell'aria era visibile uno strato di umidità che pareva colorarsi di rosso ogni volta che qualche raggio di sole riusciva a penetrare l'intreccio di rami. La puzza nauseabonda di putrefazione mi provocava un certo malessere, così decisi che dovevo trovare il modo di tornare alla luce, alla salvezza.

Cominciai a correre per quanto potevo, cercando di non affondare troppo i passi nel terreno spesso e pesante, e di evitare le grosse radici che sporgevano da quel che pareva un mare nero. Più volte inciampai e il mio viso toccò quel terreno in più occasioni, macchiandosi di paura. Ma non persi la speranza, mi alzavo e ricominciavo a correre, dovevo uscire da quel posto di cui ignoravo l'ingresso e il modo con cui vi entrai. Finalmente dinanzi a me, un fascio di luce mi colpì gli occhi, e prima che potessi perderlo mi fiondai nella direzione in cui nasceva. Più andavo avanti più il fascio cresceva, fino a che non riuscì a vedere una via d'uscita che si colorava della luce del sole. Mi lasciai alle spalle il buio pesto, davanti avevo la salvezza e l'incoronazione della speranza mai persa, e della tenacia.

Appena misi il piede davanti all'ultimo arbusto che mi separava dalla luce, balzò con una velocità sovrannaturale davanti a me una creatura selvaggia, una lince. L'animale con i piedi ben piantati per terra puntava lo sguardo verso di me, la sua postura era quella di un predatore che aveva in trappola la sua preda, e il suo manto era folto e ben pulito pur essendo un animale selvaggio. I colori della bestia erano sorprendentemente vivi, e nei suoi occhi riuscivo quasi a scorgere la sete di sangue. Io caddi per terra tanto era lo spavento, e con l'aiuto delle mani strisciavo indetro un pò alla volta. La creatura mi fissava attenta pronta a tendermi un agguato, ma non mi attaccava, quasi sembrava che stesse cercando di farmi ritornare nella foresta come in realtà stavo già facendo. Appena toccai il terreno viscido con le mani, ne strinsi un pò in un pugno e senza neanche riflettere, glielo lanciai sugli occhi per poi cercare di dileguarmi. La bestia però non ci cascò del tutto e prima che io potessi scappare, mi afferrò il braccio destro con la bocca staccandomi brandelli di carne. La paura era tanta che anche il dolore venne meno, ma la creatura accecata dal terreno non riuscì completamente a fermarmi, e sanguinante scappai da quella delicata situazione.

Cercavo di costeggiare i fianchi della foresta per non perdere la luce seminascosta da una collina, che poggiava le sue pendici sui confini della selva. Spaventato e ferito a un arto, avanzavo a fatica cercando di trovare un posto famigliare che mi permetesse di orientarmi, e di trovare la via di casa. Camminavo con la testa china strigendomi il braccio ferito e fù li che udiì un rumore violento, il ruggito di un leone. Mi nascosi tempestivamente dietro ad un masso e sporsi la testa per cercare la fonte di quel grido di battaglia. Proprio un Leone uscì dalla selva, e la sua maestosità era tale che il suo corpo quasi illuminava la strada su cui poggiava le grandi zampe. Quella reale bestia era così grande, troppo per un normale leone, e la sua criniera lucente non presentava imperfezioni. Un esemplare perfetto. Non sembrava lì per caso, cercava qualcosa, annusava ruggiva anche a basse frequenze, ascoltava la terra con le sue zampe, e manteneva la sua posizione come un soldato pronto a difendere il suo re. Io affannato osservai la scena con stupore, il braccio mi faceva davvero male, sentivo di diventare sempre più debole e la vista di un feroce predatore non mi aiutava.

Un tonfo richiamò la mia attenzione, un grosso arbusto si staccò dalle sue radici, e da sotto una lupa dall'aspetto mal concio e i denti macchiati di sangue, si scagliò con disperazione contro il leone. La situazione mi era ormai chiara. Il leone stava difendendo il suo territorio e attendeva il suo nemico pronto a combattere, mentre la lupa affamata cercava qualcosa da mangiare e si spinse troppo nel territorio del leone stesso. La battaglia tra le due belve fù inevitabile. Le due bestie che avevano dimensioni ben più grandi di quelle a cui noi umani siamo abituati, si scontrarono a suon di graffi e morsi, attimi di tregua utili a studiare l'avversario, e con movimenti ben coordinati si attaccavano. Il suolo sotto di loro soffriva le numerose cadute che capitavano ad entrambe le belve. Nel mezzo di quella lotta sanguinolenta il leone, molto più possente della lupa, l'afferrò per il collo con i suoi denti e la gettò vicino al masso dov'ero nascosto. Le due bestie erano talmente concentrate a battersi tra di loro che non fiutarono la mia presenza. Dovevo mettermi in salvo o lo scontro avrebbe coinvolto anche me con un finale tragico. L'unica mia salvezza sarebbe stata quella di tornare nell'oscurità della selva e allontanarmi il più possibile. Così feci dopo che lo scontro portò le due belve ad allontanarsi un pò, accucciato e in silenzio sgattaiolai dal mio nascondiglio di nuovo nella foresta, sperando che le due bestie non mi notassero.

Ero disperato, spaventato, la mia speranza di ritrovare la strada di casa si riduceva a vista d'occhio e come se non bastasse perdevo sangue. Mi inginocchiai e cascai per terra, ancora. Cominciai a pensare, perchè mi trovavo lì, dov'ero, avrei rivisto ancora i miei cari, i miei amici? Cominciai a crogiolarmi nel mio dolore e chiusi gli occhi sperando che tutto ciò fosse solo un brutto incubo.

Un rumore metallico stuzzicò le mie orecchie, alzai la testa lentamente e guardai di fronte a me. C'era una luce, non una luce solare ma qualcosa di più mistico che in qualche modo provocava quel rumore. La luce si faceva sempre più viva tanto da dovermi coprire gli occhi ancora abituati al buio, e una figura prese forma al centro del raggio. Una figura umana. Neanche quella vista mi tranquillizzò dopo quello che avevo passato, ma mi alzai, sempre tenendomi il braccio dolorante, e mi preparai a ricevere quell'uomo che pareva camminare nella luce. Prima che potessi scoprire l'anatomia del suo viso, lui Parlò "sono sorpreso, ma avrei dovuto aspettarmelo, tante cose sono cambiate, persino questa selva è diventata più faticosa". Mentre farneticava la luce si riduceva e riuscì a vederla, la sua faccia, una fisionomia non nuova ai miei occhi ma che non riuscivo a ricollegare a nessuno che conoscessi di persona. "Chi sei?" gli chiesi, "sono colui che venne prima, colui che descrisse agli uomini le terre dopo il trapasso, colui che da vivo vide la dannazione, la redenzione e la beatificazione, guidato dal massimo poeta corressi il mio destino ma non quello del mondo. Fallimentare fù il mio tentativo al cospetto della volontà divina, ma colui che mi chiamò non si arrese come il sottoscritto, cercò il suo secondo tentativo, e lo trovò. Ora giaci segnato al mio cospetto, ma non temere, sono qui per darti le risposte che cerchi" mi spiegò. Io frastornato gli chiesi ancora "perchè mi trovo qui? Cos'è questo posto?" e lui "tu conosci già la risposta ma non ne hai scorto il motivo, tu sai chi sono, ma non lo realizzi, tu hai appreso la via, ma hai paura. Le risposte che cerchi sono nella tua tasca". Mi guardai attorno ancora una volta, e poi mi toccai la tasca destra, era piena. Ne tirai fuori il contenuto, e scoprì una rosa di spine, i petali emanavano una luce rossastra e le spine piangevano gocce di sangue, come il veleno dal pungiglione di uno scorpione. Improvvisamente tutto mi fù più chiaro. "Non sei un folle e non lo sei mai stato, ma sei stato ingannato. Tuttavia, la tua poca fede non ti ha precluso dall'essere prescelto, l'inganno ai tuoi danni è stato congeniato proprio per la tua sincera umanità e sensibilità" mi disse con tono da maestro, ed io replicai "non ho mai voluto che succedesse, ma non ho avuto scelta, la sofferenza era tanta!" e lui mi rispose "sarà ancor di più se non farai niente per liberarti dall'oscurità".

Riconobbi l'uomo che mi parlava, era Dante Alighieri, e il destino e le mie azioni in qualche modo, mi portarono dove lui mosse i suoi primi passi verso la sua celebre impresa, la selva oscura. Lui era molto più alto di me e i suoi vestiti erano proprio come tutti i dipinti lo ricordano. In qualche modo le sue parole enigmatiche mi portarono a cogliere il significato di tutto quello che mi era accaduto. La rosa che portavo nella mia tasca ne era una prova, e osservandola, tutto mi tornò nella mente come un lampo di luce negli occhi. Mi ero liberato del sentimento più forte che un uomo possa provare, l'amore, e lo avevo riversato in forma di sangue in quella rosa, l'unico oggetto che tenevo in mano quando successe. "E' stato per colpa di una ragazza, soffrivo troppo per lei" dissi io, e prima che potessi continuare il sommo mi interruppe e disse, "non una ragazza ha mai avuto tale potere, poichè solo un essere può nutrirsi di tanta sofferenza e non rigurgitarla. Ciò che ti ha fatto perdere la strada è stato un artifizio diabolico, una creatura infernale, un demone del re dei dannati, che ha preso sembianze umane servendosi di una ragazza e ha corrotto i tuoi sentimenti". La ragazza di cui raccontava Dante e che io prima di lui citai, riuscì ad aprirmi il cuore con la sua dolcezza e con la sua bellezza. La sua chioma rosso splendente era sintomo del potere che risedeva nella sua anima e pian piano, cominciò a nutrirsi del mio amore e della mia energia positiva. Il nome della ragazza era Giorgia. "Aprire il cuore per buttarci dentro il veleno!" esclamò il poeta. L'artifizio di cui parlava Dante una volta compiuto il suo volere, abbandonò il suo ospite inacidendo il suo animo, e il suo aspetto. "Ora nella città dannata pieno di potere risiede, con tutto ciò che di buono ti apparteneva" Disse il sommo rivolgendosi al demone, e continuò "così come il mondo che ha perso i suoi martiri vanamente e ora risiedono tra i dannati sperando che l'umanità risponda ai loro insegnamenti, per rovesciare il giudizio divino" e io gli chiesi "cosa devo fare sommo?", e lui mi rispose posandomi la mano sulla spalla "devi prima salvare te stesso. L'inganno diabolico ti ha oscurato l'anima ma finchè terrai la rosa con te, avrai speranza". Il sommo mi spiegò che nella rosa c'era il mio amore caricato di energia negativa, un sentimento molto forte che può causare sofferenza a chi lo prova, ma che in qualche modo spaventa le creature più ripugnanti. "Se quella rosa dovesse finire nelle luride mani del demone, o del suo creatore in persona, per te non ci sarebbe più nulla da fare, continuerai a vivere dimenticando l'amore, e un'altra divina impresa fallirà" mi spiegò il sommo, "come posso rimediare?" gli chiesi scoraggiato e lui fece un sospiro e cominciò "ancora una volta sentirò i loro lamenti, ancora una volta dovrò assaporare la paura della dannazione, ancora una volta sarò al cospetto delle atrocità di cui si serve la giustizia divina, ancora una volta dovrò guardare negli occhi l'oscurità incarnata in un essere maledetto e dannato dalla mano di Dio in persona, ma che non smette ancor di portare terrore. Ti aiuterò ragazzo, e ti guiderò nella città dolente, ti traccerò la strada nelle viscere dell'inferno, perchè tu possa vedere e toccar con mano la giustizia divina, e quanto questa possa essere spietata ma giusta! Ti mostrerò i nove cerchi della dannazione, inversamente proporzionali tra grandezza e gravità dei peccati, arriveremo nel cerchio più basso e costringerai Lucifero a mostrare il suo demone, così che tu possa mettere fine ai suoi respiri e riprenderti ciò che è tuo!". Io fui per un attimo spaventato e affascinato, ma l'impresa pareva assai ardua, e come la nascita di un campo di grano in una ripresa ad alta velocità, così le domande mi sovrastarono la mente; "sommo, come farò a convincere Lucifero a mostrare il suo demone? Come ucciderò il demone?" e lui che cominciò a mostrarmi la direzione, si voltò ancora verso di me e mi disse con aria speranzosa "Te lo mostrerò", e poi dalla sua veste estraette un libro il quale mi porse con genitilezza, e continuò a dire, "Questo è il tuo diario, nel quale racconterai la tua impresa, e se vorrai potrai scriverci le tue memorie di vita passata". Fui lusingato del dono che il poeta mi avanzò, poichè quel diario simboleggiava l'esortazione del sommo nei miei confronti, a raccontare di un'altra divina impresa, come lui stesso fece a suo tempo. Quasi non mi sentivo degno di questa sorta di staffetta passata proprio tra le mie mani, e mi domandavo se anche Dante prima di me, avesse provato gli stessi sentimenti, la stessa sensazione di non essere pronto per un'avventura simile, non per paura, ma per rispetto a chi ancora in vita merita tale onore. Il fardello del destino dell'umanità, o ciò che di buono era rimasto, ora era nelle mie mani.
Io ero fermo ad ammirare il diario donatomi che aveva la copertina di pelle nera, fino a quando Dante attirò la mia attenzione dicendomi "avanza ragazzo, la strada è lunga!".
Dante mosse i suoi passi nella direzione opposta alla collina dove vi trovai le bestie, ed io diedi uno sguardo indietro un'altra volta, come a voler vedere la luce del sole prima di scendere nell'oscurità, poi seguì il sommo.

Mi affiancai a lui sempre tenendomi il braccio ferito. Dante si fermò, mi strappò la manica destra della felpa e me l'avvolse attorno alla ferita per cercare di fermare il sangue, e disse "la mia guida arrivò prima a prendermi, fui più fortunato" io lo guardai grato e lui continuò "dovrai guarirla se dovrai brandire una spada".

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Capitolo 2
*** La spada di Leonida ***


Un sogno o un incubo? Verità o realtà? Lungo il cammino tortuoso della selva, Dante mi illuminò su alcuni argomenti filosofici che aveva maturato dall'aldilà osservando il mio mondo. Una discussione nata alla vista di una strana creatura, non pericolosa o agressiva, ma simbolica e singolare, e dall'aspetto piuttosto malconcio. "Dimmi sommo, cos'è quella creatura?" chiesi al poeta, e lui con lo sguardo colmo di rancore mi spiegò "era un bradipo una volta, il suo prezioso sapere lo ha consumato. Vedi, lui vedeva ciò che ad altri sfugge, la cosidetta verità, quel mondo che si cela dietro la realtà, quel momento in cui ci troviamo soli con noi stessi e ci chiediamo se abbiamo risposto bene a delle domande, se fossimo ben vestiti, se avessimo potuto fare di più per apparire come ciò che vorremmo che la gente vedesse in noi, una realtà costruita sul nostro viso che ha fatto di noi degli attori in questo mondo. Molti sono vittime di questo circolo vizioso ignorando che le cose più importanti sono ben altre, alcuni provano piacere nel celarsi dietro la realtà perchè si vergognano della verità o la temono, e altri conoscono il vero ma non lo vivono. Quei pochi come te che hanno abbandonato le abitudini futili della realtà, non fanno molto per istruire gli altri a fare lo stesso perchè credono che non capirebbero o semplicemente per pigrizia, anzi, spesso vi immedesimate in loro per il timore di essere presi per emarginati. Quella creatura simboleggia la tua colpa, il tuo peccato, l'errore di aver avuto paura di mostrare ad altri il tuo sapere ed il tuo esserti crogiolato in esso con la stessa pigrizia di quel che resta di quel bradipo, finendo poi per amare la tua solitudine".

Ecco, ora sapevo perchè il sommo quando ha mosso prima di me i suoi passi nel mare nero riempì il suo cuore di dubbi, ma lui fù un uomo importante in vita, poeta, filosofo, politico non chè cavaliere, tuttavia i suoi dubbi erano fondati. Chi prima di lui attraversò l'aldilà da vivo compì in vita azioni memorabili. "Dimmi sommo, non intendo offendere la volontà divina, ma una domanda mi punzecchia la mente, se tu uomo politico e filosofo fosti scelto, perchè ora l'onnipotente sceglie me, infedele, peccatore e senza nessun titolo onorevole?" e lui mi rispose ancora una volta fermando la nostra marcia, "fui sorpreso al nostro incontro, io mi ritrovai in queste terre in un'età matura e piena di esperienza, eppur il mio animo non fù pronto per intraprendere il viaggio. I tuoi dubbi sono umani ma non esistono contrapposizioni alla volontà divina, poichè egli scioglie un nodo oggi per ricomporne due domani. Il male si è diffuso tra la tua gente, nel tuo mondo. Le cariche che siedono al dì sopra non agiscono come benefattori e la corruzione ha raggiunto il limite. La grazia divina ha dovuto cercare nei meandri del mondo per trovare qualcuno che ancora avesse il cuor puro e spinto da una motivazione personale. Egli vide in te un'anima pura ma macchiata dall'oscurità e decise, combattermo il fuoco con il fuoco".

Concentrai ancora una volta il mio sguardo verso il bradipo che ancora giaceva lì sofferente, e dissi "sommo, non mi coprirò di vergogna come quella creatura, non sceglierò la neutralità, ora che l'onnipotente mi chiama devo rispondere, e se servirà a salvare il mondo, darò la mia stessa vita". Dante accennò un sorriso e riavviò la nostra marcia. La mia mente pian piano ragionava su alcune parole e frasi costruite dalla mia guida, e con alcune domane cercai di congiungere i punti, "sommo, mi hai parlato di una spada" e lui disse "non così in fretta ragazzo, chi vivrà vedrà". Deluso dalla sua risposta formulai un'altra domanda, "sommo, cosa intendevi quando dicevi che le cariche che stanno al dì sopra nel mio mondo non agiscono per il bene?" e lui "la curiosità non è peccato, tuttavia ci può portare a destini crudeli, e alle volte le cose vanno scoperte al momento giusto". A quel punto non mi permisi di formulare altri quesiti dato che la sua ultima risposta l'avrebbe potuta utilizzare per qualsiasi altra domanda.

Improvvisamente la selva si fece meno aspra e fitta e il terreno più secco e praticabile. Una luce attirò l'attenzione della mia guida che si voltò verso di me e mi disse "eccola! Siamo arrivati". Lui con la sua mano mi aprì la strada verso la luce e io la raggiunsi. Era una teca di vetro e la luce nasceva dal suo contenuto, una spada con delle incisioni quasi incomprensibili sulla lama. Poggiai la mano sul vetro della teca e questo si tramutò in cenere. Quei finissimi filamenti di cristallo si riunirono tutti sulle incisioni sulla lama, fino a che quest'ultime si ravvivarono di un'intensa luce bluastra. Presi il manico della spada e la sollevai, contemplai quelle strane incisioni che ora parevano più chiare, e notai che in realtà era greco antico. Dante mi disse a gran voce "quella spada si presenta con le gesta che ha compiuto!", io replicai "è già stata brandita quindi" e lui mi confermò facendomi un gesto con il capo e assumendo una strana espressione soddisfatta. Chiesi ancora al poeta "cosa dicono le scritte?" e lui cominciò "la mano di un re mi ha agitato, la stessa mano che guidò i trecento verso la morte, e che per questo divenne leggenda, la stessa mano che non ha tradito il suo onore pur essendo stato costretto a farlo, la stessa mano che diede la vita per la sua patria". Io riflettei sulle sue parole "re, leggenda, trecento, greco antico", conoscevo già il suo precedente possessore ma faticavo a crederci, e prima che potessi sollevare ogni dubbio Dante mi disse, "questa spada è stata brandita da Leonida I, re spartano che condusse i suoi trecento uomini nella battaglia delle Termopili contro il vasto esercito persiano di Serse. Egli sapeva bene di andare incontro a morte certa, ma ciò non lo fermò convinto che il suo gesto avrebbe dato la forza e il coraggio alla Grecia per respingere l'invasione persiana. Non vendette mai la sua patria nonostante le promesse lusinghiere di Serse, e impugnando la sua spada, Leonida gli dichiarò guerra. Quando il re spartano morì il suo spirito si avvinghiò alla spada che teneva in mano, e questa ne assorbì il potere, un potere fatto della stessa materia di cui sono fatti onore e coraggio, forza e dolore, così da quel momento la spada divenne una sacra reliquia". Io stentavo a credere a tutto ciò, tenevo nella mia mano un'oggetto pregiato, secolare, che racchiudeva in sè la storia, se ci avvicinavo l'orecchio potevo quasi sentire le urla di Leonida. Chiesi al poeta "sommo, ma come mai ora si trova qui?" e lui a me "è un dono della grazia divina con il quale potrai ferire l'artifizio diabolico, e magari ucciderlo". Alla sua risposta fui pervaso da vari sentimenti contrastanti, ma la mia mente dubbiosa non venne meno neanche questa volta, così dissi alla mia guida "sommo, nella mia epoca non è diffusa la scherma, non ho mai preso in mano una spada fin ora, non so utilizzarla" e lui con sguardo rassicurante replicò "lo ben so ragazzo, tuttavia io so come si brandisce una spada e ti insegnerò. Durante il viaggio nella città dolente saremo costretti a fermarci e in quei momenti ci alleneremo", così io lo ringraziai con sincera gratitudine. Non vedevo l'ora di apprendere la scherma dalla mia guida che sarebbe diventata il mio maestro, non stavo nella pelle al pensiero di vedere Dante duellare, così gli chiesi ancora "dimmi sommo, come hai imparato a duellare?" e lui mi rispose "nella mia epoca era quasi una tradizione di famiglia la scherma, e quando mi esiliarono ebbi tempo per affinare la mia tecnica". Mi immaginavo che Dante essendo un uomo intelligente e paziente, preferisse una tecnica più attendista, con pochi colpi ma giusti. Accanto al piedistallo dove sedeva la spada, c'era il suo fodero, lo presi, riposi la reliquia all'interno e proseguimmo il cammino.

Mentre camminavo la mia mente cominciò a formulare nuovamente dubbi, mi chiedevo se fossi stato pronto al momento giusto, se la spada mi sarebbe davvero servita per compiere la volontà divina, se io fossi stato degno della reliquia donatami. Pensavo al fallimento e ciò che avrebbe scatenato, mi sarei perso, il mondo intero si sarebbe perso... tutto in totale anarchia.

Oltre ai dubbi e pensieri, cominciai a sentire la stanchezza, spesso avevo fitte alla mano ferita, mi capitava di sentire un bruciante dolore al petto che si faceva sempre più forte man mano che ci avvicinavamo alle porte dell'inferno. Improvvisamente però, il dolore al petto divenne insopportabile, tanto che richiamai l'attenzione del poeta " sommo, ho bisogno di fermarmi", mi accasciai per terra, la vista cominciò a scarseggiare e l'udito a venir meno. Per un momento fui convinto che stessi per perdere i sensi, quando ad un battito di palpebre mi ritrovai in un altro posto, casa mia. Ero nel mio letto completamente nudo, i muri della mia stanza pareva che ondeggiassero e c'era un intenso profumo di rose. Nel letto coperto di petali rossi, c'era una ragazza dalla chioma anch'essa rossa e splendente, la stessa ragazza scelta dall'artifizio diabolico per ingannarmi, bellissima con una carnagione chiara e le forme del corpo attraenti. Lei, nuda come me stesa sul fianco dandomi le spalle, si voltò guardandomi con espressione dolce e mi disse "cosa c'è amore mio?". La sua voce era flautesca, incantevole, tanto che per un attimo dimenticai la selva, Dante e la mia impresa. La ragazza mise la sua mano dietro la mia testa e mi baciò, in un modo che non si dimentica facilmente, un bacio che ha il sapore dell'amore, un sentimento di cui ne avevo dimenticato l'essenza. Mi guardò ancora e io gli sorrisi, il mio cuore sperava che tutto ciò fosse realtà, che non stavo sognando e che la selva fosse solo un brutto ricordo. Ma improvvisamente sul viso della ragazza apparvero dei tribali, i suoi occhi diventarono completamente neri e le sue labbra si trasformarono in denti aguzzi, le sue mani si riempirono di squame e mi disse con voce stridula e non più dolce "non mi ami più? Non mi ami più!?". La stanza cominciò ad oscurarsi e la ragazza trasformata ormai in un mostro orrendo, sedeva sopra di me bloccandomi le spalle e gridandomi contro, finchè non sentì una voce che mi gridava "ragazzo! Ragazzo!!". Mi svegliai ancora nella selva con Dante, che mi stava tenendo la testa. "Cosa è successo sommo?" gli chiesi io agitato e sudato, e lui a me "non ne sono sicuro, ho visto la tua rosa che splendeva più del solito mentre avevi perso i sensi, forse lui sà", ed io che cercavo di riprendere il respiro gli chiesi "lui chi? Cosa sa? Cosa stai dicendo?". Dante che era sulle ginocchia vicino a me, si alzò e disse "ragazzo dobbiamo andare, non possiamo più perdere tempo", così mi aiutò ad alzarmi e supportandomi ricominciammo a camminare a passo svelto.

Ora i possenti alberi della foresta sembravano senza vita, spogli e scoloriti, e la mia mano che mi pulsava dolorosamente non mi dava pace. Aggrappato alla mia guida, gli domandai "sommo, non posso farcela così, non riesco ad andare oltre" e lui determinato non mi ascoltò e senza rispondermi continuò a camminare e a trascinarmi. Ormai muovevo le gambe per inerzia e sentivo di avere la testa pesante, camminavo con lo sguardo inchiodato a terra e notai che il sangue che perdevo tracciava la nostra via. Alzai lo sguardo per un attimo e fù li che le vidi, delle ombre, sagome scure incappucciate che si muovevano velocemente da albero ad albero. Mi guardai attorno e notai che eravamo circondati da questi strani esseri, così cercai di avvisare il poeta "sommo, le ombre ci stanno inseguendo!!" e lui mi lasciò per terra tempestivamente, sguainò la mia spada e con un coordinato movimento, parò l'attacco di un'ombra che brandiva anch'essa una spada. Dante duellò agevolmente con quell'essere di cui riuscivo a scorgere chiaramente solo le sue mani nere e putride che agitavano la spada, il resto del corpo era quasi areiforme e alle volte intravedevo il suo viso che assomigliava ad un teschio senza pelle. Dante riuscì a scacciare l'ombra ma altre si fecero avanti, praticamente ad accerchiare il poeta che si muoveva accanto a me per difendermi. La situazione si fece tragica, le ombre si avvicinavano sempre di più, eravamo spacciati, quando senza preavviso un cavallo bianco che emanava una luce accecante, saltò le schiere di ombre e con la sua scia luimosa le allontanò. L'animale si fermò vicino a noi e Dante mi alzò e mi aiutò a montarlo, poi montò anche lui in groppa dietro di me e cominciammo a cavalcare velocemente. La vista di quel bellissimo cavallo servì a ridarmi un pò di vigore, la sua chioma bianca odorava di buono e il suo pelo era vellutato. Il mio malessere però, era così pesante da non riuscire subito a notare che sulle spalle il cavallo aveva delle ali, e dopo aver preso la giusta velocità, le spiegò e ci innalzammo velocemente verso il cielo. In volo ripresi un pò d'aria che allungo mi mancò giù nella selva, e la vista di quest'ultima dall'alto era spettrale. C'era il sole, eppure i suoi raggi non penetravano la fitte rete di rami che copriva la selva, tranne che per la parte spoglia. Dante mi stringeva forte per evitare che cadessi, ed io non potevo credere a ciò che stavo vedendo dall'altezza che occupavamo. Dall'alto quella terra sembrava così affascinante e magica, un posto che non mi era per niente famigliare. Anche se fossi riuscito ad uscire dalla selva non sarei mai arrivato a casa, dato che non mi trovavo più nella mia città. Ragionai e conclusi che probabilmente mi trovavo da qualche parte proprio a Gerusalemme, se i miei studi mi avessero correttamente istruito sulla posizione della selva oscura.

Il cavallo alato atterrò finalmente in una zona apparentemente più sicura e meno fitta di arbusti, una pianura circondata da alti colli, ma carente di vegetazione. Dante smontò e mi aiutò successivamente a scendere. Il poeta ripose la spada nella mio fodero e mi chiese "stai bene?" ed io un pò scosso risposi "credo di si". Dante poi si avvicinò al cavallo e lo accarezzò quasi per ringraziarlo, così chiesi alla mia guida "sommo, chi è lui?", e Dante mi rispose "Pegaso, in una forma angelica però. La grazia divina deve averci mandato un'aiuto". Ripensai a ciò che successe e chiesi ancora "sommo cosa erano quelle ombre?" "sentinelle" mi rispose e continuò "a guardia della selva per volontà divina, purtroppo queste creature sono oscure e non fanno differenza tra bene e male, tuttavia nessuno dovrebbe trovarsi in queste terre se non da spirito, per questo ci hanno attaccato" ed io replicai "a cosa servono delle sentinelle mandate dall'onnipotente, se in queste terre non cammina anima viva?", e il sommo ci mise un pò per formulare la sua risposta ma venne interrotto da una curiosa scena, un cavaliere in sella ad un cavallo nero che portava un vessillo senza alcun simbolo o stemma.


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Capitolo 3
*** Il cataclisma diabolico ***


Capitolo 3. Caronte Memorie...
"Correva l'anno 2011, la mia vita era piuttosto strana in quel periodo ma avevo le mie soddisfazioni. La mia carriera musicale andava bene e il mio gruppo divenne la mia passione. Purtroppo però, la mia famiglia stava trascorrendo un periodo alquanto difficile, il mio amato zio malato di cancro, si avviava verso il suo ultimo respiro, tutti i miei parenti cominciarono a prepararsi al peggio. Certo, niente può preparati alla morte di un tuo caro, soprattutto quando questo è una figura importante all'interno della famiglia, e mio zio era più che importante, era un fedele marito, un ottimo padre, la guida di tante persone, era la mia fortuna, in lui riuscivo sempre a scorgere l'essenza della figura paterna, una figura che nel mio nucleo famigliare è sempre mancata.
Purtroppo però a volte la vita può riservarti sorprese agghiaccianti. E' una cosa che dicono tutti, ma quando capita a te, ne scopri il significato solo in quel momento. Ricordo bene il suo ultimo giorno tra noi, una giornata che vorrei dimenticare e contemporaneamente averla impressa nella testa, perchè quando capitano queste cose, l'ingiustizia è tanta che cerchi di trovare spiegazioni logiche proprio lì dove non esistono, e una volta che lo realizzi non puoi far altro che apprendere il meglio da chi ci ha lasciato."

Alla vista di quella curiosa scena, Dante esclamò "ci siamo quasi!", ed io chiesi lui "sommo, chi è quello?" e lui "ragazzo, quel cavaliere è la dannazione di chi non prova orgoglio per se stesso, coloro che soffrono ai margini della città dolente. L'indifferenza e il disprezzo nutriti nei loro confronti, gli ricorda di come l'inutilità sia stata la loro condanna". Così c'eravamo, dopo l'ardua e sconvolgente passeggiata nella selva arrivammo finalmente sul sentiero che ci avrebbe condotto alle porte dell'inferno. Durante i miei studi, non trovai nell'opera di Dante la descrizione precisa sull'ingresso della città dolente (apparte la scritta scalfita sopra), non so cosa mi sarei trovato davanti, se un arco, se una porta ricamata con simboli diabolici, se un'apertura in una caverna. Ora che ci riflettevo, molte cose vengono omesse, come la pena degli ignavi che sono costretti a seguire insignificanti bandiere. Bene, ora spaevo chi portava questi vessilli neutri, e cioè dei cavalieri di cui pareva che all'interno della loro armatura, non ci fosse nessuno, quasi un'illusione. Forse anche questo va ricollegato alla pena del contrappasso per gli ignavi, non solo rincorrere insulse bandiere, ma anche dei cavalieri senza volto o personalità. Vederlo lì mi sembrò curioso, così chiesi al poeta "sommo, non dovrebbe trovarsi nell'antinferno a fare il suo dovere?", e lui senza proferire parola salì in groppa a Pegaso e mi invitò a fare lo stesso.

Quell'atteggiamento che a sprazzi Dante assumeva cominciò ad insospettirmi, ma non mi azzardavo ad accendere una discussione dato che era l'unico a cui mi potevo affidare, nonostante i suoi strani comportamenti. Tuttavia, la vista di quel cavaliere fuori dall'inferno non fece che colmarmi di pensieri, così cominciai a maturare un brutto presentimento. La cosa però non mi preoccupava più di tanto in quel momento poichè ne avevo passate tante nella selva, e qualche altro spiacevole inconveniente mi spaventava meno. In più la grazia divina era dalla mia parte, e me lo dimostrò dandomi due preziosissimi doni, la spada e Pegaso.
La zona dove ora galoppavamo era una terra collinare, polverosa, senza un minimo di vegetazione, pareva un paesaggio vulcanico, e più andavamo avanti più il suolo si faceva irregolare. Riuscimmo a trovare di nuovo il cavaliere, così Dante decise di seguirlo sicuro che ci avrebbe portato nella giusta direzione. Quella landa desolata probabilmente fù resa tale proprio durante la creazione dell'inferno stesso, quando Lucifero venne scagliato verso la terra, e probabilmente l'avvenimento causò un incendio o la fuoriuscita di magma. Chiesi al poeta "sommo, cos'è questo posto?","siamo sul tetto della città dolente, vedi ragazzo, questa zona confluisce tutta nel suo centro, dove risiede l'occhio di Sirio" disse il poeta, ed io chiesi ancora "l'occhio di Sirio?","é la rampa che ci porterà nell'atrio della porta dell'inferno" rispose Dante.
Durante la corsa, il braccio ricominciò a farmi male e a pulsare, temevo che stesse andando in cancrena e che prima o poi sarei stato costretto ad amputarlo. Tolsi la manica che avvolgeva la ferita per darci un'occhiata e vidi qualcosa di sconcertante. Le ferite che avevano la forma dei denti della lince, erano bagnate dal mio sangue che si presentava di colore nero, come il petrolio. Quella visione fu un pugno nello stomaco, non sapevo dare una spiegazione, non capivo cosa mi stesse capitando. Diedi ancora un'altra occhiata e notai che la mia pelle era diversa, come se avesse dei segni regolari quasi impercettibili. Al momento pensai che fosse a causa della manica legata stretta, ma quando guardai il braccio sinistro notai che quei segni erano presenti anche lì. Cosa poteva significare, forse la visione avuta nella selva c'entrava qualcosa? Questo non lo sapevo ma tutto ciò mi spaventava, e il non sapere cosa mi stesse accadendo mi rese irritabile.
Più avanzavamo più la polvere aumentava tanto da formare un muro che ci limitò la visuale, abbastanza da perdere il cavaliere, così ci fermammo. "Dobbiamo aspettare" disse Dante,"aspettare cosa?" chiesi, e lui rispose sogghignando "lo vedrai". Nell'attesa Dante mi suggerì di estrarre la spada e di cominciare ad allenarmi", e senza perdere tempo, estraetti la lama e mi preparai ad assimilare gli insegnamenti del sommo. Il poeta iniziò a spiegarmi le basi della scherma, la postura, come tenere la spada, come agitarla e come muovermi. Mi illuminò su alcune tattiche e sul giusto metodo per affrontare psicologicamente vari tipi di avversari. Devo essere sincero, non ero proprio un campione o uno nato per praticare la scherma, ma Dante mi ripeteva spesso che non esistono esclusioni quando si tratta di vivere o morire. In particolari situazioni i nostri sensi involontariamente migliorano il loro operato, il nostro cervello trasmette azioni e comandi che pensavamo non fossimo in grado di compiere, e in questo gioco quasi sempre vince chi ha il sangue freddo. Non so se Dante mi diceva certe cose per incoraggiarmi o se le pensava sul serio, ma in entrambi i casi, riuscì comunque a rinvigorirmi. Il suo modo di brandire la spada era molto elegante, e i suoi movimenti erano chiaramente combinazioni tecniche apprese grazie all'esperienza. Potevo essere fiero di avere un maestro e una guida così eccelsa, ed io ero lusingato di essere un suo allievo. Cominciai ad affezionarmi al poeta.
La notte calò, io stavo seduto con la schiena poggiato sulle gambe di Pegaso, e avevo sete, tanta sete. Dante stava in piedi che si guardava attorno, e per un attimo pensai che si fosse perso, anche perchè spesso guardava il cielo come a cercare l'orientamento attraverso le stelle. Guardava in alto e poi guardava di fronte a sè, e il sommo andò avanti così per un paio d'ore. Io intanto contemplavo il cielo, per cercare di tenere la mente lontana da brutti ricordi. L'atmosfera era magica, la landa desolata era debolmente illuminata solo dalla luce delle stelle, e nel buio pesto lontano dalle luci della città, io riuscivo a scorgere ogni genere di astro o costellazione. Mi persi completamente nella magnificenza dell'universo, nella strana casualità del cosmo. Mi riguardai da ciò in cui avevo sempre creduto sulla creazione, ora che avevo la prova dell'esistenza di un creatore, un'entità molto lontana da quella che ci indottrinano da ragazzi. Ora vedevo il creatore come un architetto dei destini, uno scrittore di una trama intricata, un burattinaio che conosce il futuro delle sue marionette, un essere superiore che agisce comunque per il bene del suo operato.
 Stavo quasi per chiudere gli occhi quando Dante esclamò "eccolo!", ed io spalancai gli occhi verso di lui, che stava indicando qualcosa, un fascio di luce che proveniva dal cielo verso un punto preciso in quel deserto. "Cos'è quella luce sommo?" chiesi a Dante, "è la nostra via" rispose lui, e continuò aiutandomi ad rimettermi in piedi "dobbiamo seguire quella luce". Cavalcammo velocemente verso quello splendido fascio, che si faceva sempre più splendente man mano che ci avvicinavamo. Improvvisamente uscimmo dal muro di polvere e Dante frenò Pegaso. Il poeta disarcionò e si avvicinò per vedere meglio il fascio, che si spostava lentamente, fino a che non illuminò un grosso cunicolo nella terra. "L'occhio di Sirio!" esclamò Dante. Io su Pegaso mi avvicinai a tentoni per osservare. La scena era mozzafiato, una magica luce che proveniva dal cielo illuminava uno squarcio nella terra, il quale sarebbe stato completamente celato se non fosse stato scorto dal fascio splendente. "Questa è la via che ci porterà alle porte dell'inferno, e solo grazie alla splendente luce di una stella noi siamo in grado di vedere l'occhio" disse Dante, ed io replicai "Sirio, la stella è Sirio, l'astro più brillante di tutti", e il poeta ancora "Andiamo ragazzo, non possiamo permetterci di perdere la luce".
Misi i piedi per terra e mi avvicinai lentamente al bordo del cunicolo che era perfettamente circolare, e notai che all'interno c'era una sorta di rampa che scendeva a chiocciola lungo tutto il foro, il quale poteva avere un diametro di quattro metri circa. La luce di Sirio ci permetteva di vedere la profondità dell'occhio, e senza perdere tempo cominciammo ad avanzare lungo la rampa. C'era un forte odore di umido e più si scendeva, più riuscivamo a udire dei rumore seguiti da lunghissimi echi. Mi accorsi che sulle mura fatte di pietra c'erano delle scritte, ma la poca luce non mi permetteva di leggerle con accuratezza, così utilizzai la lucentezza della mia spada per riuscire a decifarle. Erano delle frasi scritte in Latino, una lingua che capivo in parte.

Semita magnitudo non est inventus
in euis possessori, sed in sè. Volo quod vos non potestis quia in aeternum tenebrarum.

"
La via della grandezza non si cerca in chi la possiede, ma dentro se stessi. Chi desidera ciò che non si può desiserare, avrà eterna oscurità" mi tradusse Dante notando che stavo contemplando la frase, e poi continuò "Quando il creatore scacciò Lucifero dal Paradiso, utilizzò queste parole, quasi per maledirlo. Oggi queste parole sono scolpite qui come insegnamento". Rimasi per un attimo sconcertato, in un secondo momento quasi provai compassione per la sorte del maligno, l'eterna oscurità faceva più paura della morte stessa. D'altro canto ciò che spaventa di più l'uomo non è la morte in sè per sè, ma il non sapere cosa gli attende dopo, il dubbio sull'esistenza dell'oltretomba, la paura della dannazione e la speranza della beatificazione. Ma molti sono più preoccupati di risultare perfetti agli occhi delle altre persone, più che ai propri occhi, gli unici che ci conoscono sul serio, gli unici che ci possono guardare per come siamo veramente. "Il primo passo verso la grandezza è riconoscere sè stessi per sè stessi, e poi per gli altri" disse Dante, e io ripensando alle sue parole capì che spesso in vita avevo desiderato quasi essere un altro, soprattutto quando si trattava della mia carriera musicale. Cercavo la grandezza in una dimensione che il mio cervello aveva creato, un prototipo che secondo il mio ideale, sarebbe stato perfetto. Avevo realizzato un prodotto che non era dentro di me, un individuo che cercavo di imitare ma che nel profondo, sapevo di non poter essere. E come disse il sommo, il primo step verso la serenità, è riconoscere sè stessi.
Giungemmo a metà del cunicolo dove riuscivamo finalmente a scorgere la fine, quando senza alcuna spiegazione, Pegaso spiccò il volo e tornò in superficie, lasciando dietro di sè, la scia della sua luminescenza. Forse gli mancava l'aria o si era impaurito, fatto stà che ci abbandonò e fummo costretti a proseguire da soli. Dante mi disse "non ti preoccupare, Pegaso ha il potere di apparire in qualsiasi luogo nel momento del bisogno, lo rivedremo ancora, ne sono certo". Le parole del poeta mi confortarono, come sempre. Pegaso ci aveva salvato da situazioni delicate, e non potevo assolutamente pensare di proseguire il cammino senza di lui. Che creatura fantastica! Il poco tempo passato con lui mi sembrava una vita, e ovviamente mi ci affezionai.
La rampa a chiocciola giunse al termine, e noi finalmente mettemmo i piedi sul fondo del cunicolo, che proseguiva in uno stretto corridoio fatto di pietra, il quale culminava con un'arcata. Superata l'arcata, mi ritrovai spiazzato dal vasto atrio della porta dell'inferno, che pareva l'interno di una cattedrale in stile gotico. L'atmosfera all'interno era mistica e i colori che rivestivano il pavimento di marmo, erano in continuo cambiamento, ma mantenevano sempre colori freddi sfumando dal nero al verde scuro, a seconda del tuo punto di vista. Il tetto era paricolarmente alto e fatto di pietra, attaccato ad esso c'erano tre grandi candelabri uno equidistante dall'altro, e al centro c'era un affresco che ritraeva la struttura del paradiso, come se fosse una prima afflizione ai dannati che passavano da lì, un'occhiata a ciò che non avrebbero mai vissuto. L'atrio era diviso in tre parti; c'era il corridoio centrale che portava all'ingresso dell'inferno, delimitato sui fianchi da dieci possenti pilastri circolari con la base cubica, tutti dello stesso colore del pavimento, cinque sulla destra e cinque sulla sinistra. Mentre agli estremi dei corridoi esterni ergevano delle mura dove c'erano le rappresentazioni di otto cerchi infernali, con tutte le pene inflitte ai dannati, dal secondo al quinto sul muro di sinistra, e dal sesto al nono su quello di destra. Chiesi a Dante "sommo per quale motivo non è ritratto il vestibolo", e lui rispose "la dannazione è più onorevole del destino degli ignavi. Loro soffrono senza essere ricordati". La porta dell'inferno era un maestoso arco gotico che si presentava di colore rosso carminio, avente otto piccole spalle semicircolari divise in entrambi i lati, che confluivano tutte nella sua chiave d'arco a punta. Sul rifianco, seguendo l'arco, c'era la famigerata frase di ben venuto, scalfita nel marmo.

"Per me si va ne la città dolente, per me si va nell'etterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Giustizia mosse il mio alto fattore: fecemi la divina podestate, la somma sapienza e 'l primo amore. Dinanzi a me non fuor cose create, se non etterne e io etterno duro. Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate"

Leggere quei versi al cospetto dell'arco infernale mi terrorizzava i sensi, ed io ero ancora vivo. Non potevo immaginare cosa potesse provare un'anima dannata al cospetto di parole che ti demoliscono ogni forma di speranza. Parole che ti fanno desiderare una seconda morte non appena finisci di leggerle. Il modo più crudele che il creatore ha ideato per forzare le anime a inchinarsi al suo cospetto, anche se ormai queste sanno di essere già perdute, ma alle quali non resta altro da fare.
Dante guardandosi intorno, mi spiegò "ragazzo, da qui non si torna più indietro. Poggi i piedi sul pavimento della cappella di Mefistofele. Qui, proprio l'angelo caduto Mefistofele, aveva il compito obbligato di accompagnare le anime dall'occhio di Sirio fino all'arcata infernale, con l'aiuto dei rimorchiatori", ed io gli chiesi "i rimorchiatori?","creature infernali che utilizzano delle fruste per guidare i dannati verso l'atrio", mi rispose il poeta. Fui impietrito dalla scena che mi immaginai all'ultima frase di Dante, in quanto realizzai che le anime dannate cominciano a soffrire non appena abbandonano la loro case fatta di carne ed ossa. Chi potrebbe mai reggere una sorte simile!?
A un certo punto, mentre ammiravo la cappella, qualcosa attirò la mia attenzione, un particolare alquanto curioso. Notai che la porta dell'arcata infernale, era semiaperta da un'anta, ma in quel momento non c'era nessuno che doveva entrare, se non io e il poeta. Mi pareva troppo semplice aver trovato già la porta aperta per facilitare il nostro passaggio. Non potevo credere che nessuno avrebbe opposto resistenza al passaggio di un vivente in un regno dell'oltretomba. La cosa non mi convinceva più di tanto.
Cominciai a ragionarci su quando udiì una voce che chiamava "Dante!", e il poeta si girò dando le spalle all'arcata nella direzione da cui proveniva la voce, e disse "Minosse, eccoci! Siamo giunti". Io sconcertato mi intromisi nel discorso chiedendo al poeta "Minosse? Intendi quel Minosse? Il giudice delle anime dannate?", e l'uomo che richiamò l'attenzione del poeta, rispose "sono proprio io, il giudice dei dannati, ragazzo!". Lo guardai bene, aveva l'aspetto di un cinquantenne magro, con pochi capelli brizzolati, un'espressione misteriosa ma allo stesso tempo rassicurante, e il suo viso si presentava completamente liscio senza un pelo di barba, portava un vestito tutto nero con giacca camicia e pantaolni, sul fianco destro presentava una spada e sul sinstro un grosso coltello ricurvo, e alle sue spalle potetti intravedere la celebre coda. "Sommo, ma Minosse.. qui? Lui non dovrebbe essere qui! Cosa.. cosa sta succedendo?" chiesi totalmente confuso al poeta, ma prima che egli potè aprire bocca, Minosse parlò con una certa delusione "ooh Dante! non glielo hai ancora detto vero?","non volevo spaventarlo, l'ho trovato nella selva che giaceva al suolo, non potevo rischiare che scappasse!" disse il poeta. Ancora una volta mi intromisi, e dissi "Cosa? Di cosa state parlando? Cosa dovrei sapere?", così Minosse lentamente si avvicinò verso di me buttando un'occhiataccia al poeta con i suoi occhi rosso scuro da demone, e poi cominciò a parlare "ragazzo, ciò che ti sto per rivelare non sarà di tuo gradimento, d'altronde è una verità che non piace a nessuno, ma come ha detto Dante, da qui non si torna più indietro. Circa cinquecento anni fà, quando gli uomini cominciarono a superare le colonne d'Ercole, Catone l'uticense compì un atto che causò una tragedia, la quale è conosciuta oggi come cataclisma diabolico!! Il guardiano del secondo regno dell'oltretomba, distrusse il purgatorio condannando tutti i pentinenti alla dannazione eterna, compreso Dante stesso. Ma il peggio è stato in seguito all'evento, quando l'equilibrio naturale che esisteva tra gli inferi e il purgatorio si ruppe. In seguito alla distruzione del monte dei pentinenti, il lago ghiacciato di Cocito si sgretolò, provocando inevitabilmente la liberazione di Lucifero dalla sua dannazione.
Il maligno ormai libero, radunò sotto la sua ombra tutte le creature infernali, demoni, guardiani e anche i dannati più cattivi. Lucifero liberò anche i giganti e con la sua armata, cominciò a risalire la voragine infernale per arrivare sino alla via d'uscita, dal momento che la natural burella era ostruita dalle macerie. Il creatore ovviamente, spedì in maniera tempestiva gli angeli e le milizie celesti per fronteggiare l'armata di Lucifero, che si barricò dietro la città di Dite, e ancora oggi lì combatte contro gli angeli del creatore, in una guerra che dura da più di cinquecento anni. L'angelo oscuro non molla e non mollerà neanche un centimetro, finchè non riverserà l'inferno sulla terra, e l'apocalisse avrà inizio". Io fui completamente impietrito dalle parole agghiaccianti di Minosse, potevo vedere il terrore nei suoi occhi mentre mi parlava. Volsi il mio sguardo verso Dante che aveva un'espressione addolorata, e poi chiesi al giudice dei dannati "Non posso crederci! Tutto ciò è davvero incredibile. Ed io... io cosa centro in tutto questo?" e lui mi rispose "Tu sei stato ingannato da un'artifizio Diabolico, tu hai perso il tuo amore. Lo vedo sai, il tuo sangue.. è nero giusto? Solo le anime che vivono senza amore hanno il colore del sangue nero, e solo delle creaure nascono così, i demoni. Si può dire che adesso tu sia quasi un demone, con la differenza che sei ancora un mortale, un particolare da non sottovalutare. Così il creatore decise com..","combatteremo il fuoco con il fuoco!" lo interruppi io continuando la sua frase.
Cominciai a capire i silenzi misteriosi di Dante, la vista del cavalliere con l'insulsa bandiera fuori dall'inferno, la porta della città dolente semiaperta e le sentinelle nella selva oscura. Ora avevo la situazione chiara ma ciò mi intimoriva il doppio di quello che già ero. Però ancora non capivo qualcosa, così chiesi un'altra volta a Minosse "Perchè mai Catone ha compiuto un tale gesto? Proprio lui che aveva il compito di vegliare sul purgatorio" e lui rispose "Non è ancora chiaro il motivo della sua scelta, ma a mio parere, sperava di accelerare i tempi fino al giorno del giudizio, dove sarebbe finalmente salito in cielo. Ovviamente non sapeva che avrebbe causato tutto questo","E ora dov'é lui.. Catone?" chiesi al giudice, e lui mi illuminò "dopo il cataclisma fù spedito dagli angeli direttamente negli inferi, tra i traditori dei benefattori. Egli non ebbe il tempo neanche di proferire parola".
Mi girai verso l'arcata infernale contemplandola, poi mi guardai il braccio ferito, e provai quasi un desiderio di voler un'altra sorte, un altro destino, e dissi "dunque è deciso. Il creatore mi ha scelto per vincere la guerra... sono il suo prescelto". Realizzai che dentro di me avevo creato involontariamente un mostro, un essere che non è capace di provare amore, una sorte ancor peggiore della dannazione. Fortunatamente però, come disse Minosse ero ancora un mortale, e che la mia maledizione non sarebbe stata eterna, quindi non ero un dannato.
Dante mi poggiò la mano sulla spalla, e disse "ragazzo, il creatore non ti ha solo scelto per vincere la guerra, ma anche perchè la tua vita passata e la tua avventura futura, simboleggiano la seconda possibilità che il creatore dà agli uomini. Un atto che purificherà il tuo destino, e quello dell'umanità!". Come sempre le parole del poeta riuscirono a confortarmi e a darmi coraggio, anche dopo aver appreso la dura verità.
Mi girai ancora verso Minosse e gli chiesi "Perchè tu ora sei dalla parte del creatore?" e lui accennando un sorriso, mi rispose "è stato il creatore a onorarmi con il mio incarico di giudice. Non devo assolutamente niente a Lucifero. E poi il mio ruolo nell'inferno, è tutto ciò che ho!"
Minosse stava per aprirmi la via verso l'ingresso infernale, quando un rumore agghiacciante che proveniva dall'arco dell'occhio di Sirio, attirò la nostra attenzione. Preoccupati ci girammo verso l'arco di pietra e Minosse subito estraette la spada che diede a Dante, mentre lui si armò del coltello ricurvo. Anche io estratti la spada ma subito Dante mi suggerì di nascondermi. Non lo ascoltai perchè volevo lottare dal momento che avevo realizzato che ci saremmo trovati più volte in queste situazioni, quindi avevo bisogno di trovare il mio coraggio, così ignorai il poeta e rimasi lì. In un batter d'occhio dall'arco di pietra sbucarono degli esseri che purtroppo avevo già incontrato nella selva, le sentinelle. Le ombre spettrali armate di spade, si lanciarono a gran velocità verso di noi, e subito il poeta e Minosse cominciarono a duellare. Il giudice pur parendo un uomo segnato dall'età, era molto abile con il suo coltello, veloce, tattico, in poche mosse riusciva a liberarsi dei suoi avversari. La sua tecnica era sopraffina e il coltello che brandiva era perfetto per il stile di combattimento. Dante duellava con ogni sentinella che provava ad avvicinarsi a me, mentre io rimanevo in posizione di guardia alle spalle del poeta impaurito. Improvvisamente una sentinella riuscì a raggiungermi e a sferrarmi un colpo, che però a fortuna riuscì a parare, solo che la potenza della mazzata ricevuta mi fece precipitare al suolo. La sentinella si avvicinò verso di me per darmi il colpo di grazia, ma venne tempestivamente colpito alle spalle dal coltello di Minosse, lanciato con abilità proprio da quest'ultimo.
Io terrorizzato strisciai dietro una colonna per proteggermi, perchè sapevo di non essere ancora pronto ad una cosa simile, non lo ero decisamente. La battaglia avanzava quando io cominciai a sentire delle fitte lancinanti al mio braccio ferito. Mi stavo sentendo improvvisamente debole, la stessa sensazione che avevo provato nella selva. Sporsi la testa per osservare la battaglia ma il dolore non mi permetteva di essere lucido, in più cominciai a vedere ombrato e a respirare a fatica, fino a quando mi ritrovai in un altro posto.
Ero sotto un'impalcatura, probabilmente nella piazza della città in cui vivevo. Mi stavo proteggendo dalla forte pioggia e per strada non c'era nessuno. Le gocce di pioggia avevano un sorprendente colore rosso amaranto, e le carreggiate erano quasi allagate. Sotto quell'impalcatura al mio fianco c'era lei, Giorgia, la ragazza dai capelli rosso splendenti. Ciò che stavo vedendo era un ricordo, ovvero il primo bacio che io e Giorgia ci scambiammo. Un'appuntamento sotto la pioggia, una cosa troppo romantica per essere autentica. Tutte le circostanze mi portarono a credere che Giorgia potesse essere la ragazza giusta, e ogni pensiero di questo genere non lasciò scampo al mio cuore, ormai perso. Ricordo che quella sera, Giorgia mi raccontò dei suoi problemi di autostima, della sua orribile esprienza d'amore precedente, di come il suo ex ragazzo la picchiava e di come lei si provocava dolore fisico per metabolizzare le sofferenze morali. Ricordo che mi disse che aveva il timore che il suo passato potesse condizionare il nostro rapporto, ma io la tranquilizzai subito dicendole che in realtà, dopo quello che mi aveva raccontato sulla sua vita, io mi sentivo ancora più vicino a lei.
Poi improvvisamente si mise a piovere e fummo costretti a ripararci sotto un'impalcatura. La situazione era perfetta e non persi neanche un secondo per approfittarne, così le presi le mani, e la baciai. Nella visione che stavo avendo, l'atmosfera che c'era intorno a noi era praticamente lo specchio delle sensazioni che provai non appena le mie labbra toccarono le sue, e lei brillava, brillava di potere, e più il nostro bacio si intensificava più l'odore di rose che c'era nell'aria aumentava. Ancora una volta dimenticai che in realtà mi trovavo al cospetto dell'arcata infernale con Dante, poichè il mio unico desiderio era quella di concedermi completamente a quel ricordo, sperando che si potesse rivelare veritiero. Con la mia mano dietro la sua schiena, potevo sentire il suo respiro pesante, come quello di qualcuno a cui gli batte forte il cuore a causa della troppa euforia che sta provando, tutte cose a cui io sono vulnerabile. La sua caratteristica di mostrare fisicamente ciò che aveva dentro era una cosa che amavo particolarmente. Era come se io avessi il potere di percepire le sue sensazioni, le sue emozioni, i suoi piaceri.
Quando le nostre labbra si staccarono la guardai intensamente negli occhi lucidi. Ci guardavamo sorridenti senza dire una parola, e insime pregammo perchè la pioggia non fosse mai cessata. Ad un certo punto però dal cielo cominciarono a cadere fiamme che si sostituirono alle gocce d'acqua, sempre più frequentemente, le quali non appena toccavano terra, si tramutavano in figure umane prive di vesti e mal ridotte, come quelle dei dannati all'inferno. La strada si riempì di queste figure che pian piano, alzandosi a fatica da terra e gridando di dolore, avanzarono verso di noi. Spaventato strinsi Giorgia a me per proteggerla, ma notai che il suo corpo aveva qualcosa che di strano. Poco alla volta si stava trasformando in una sostanza che pareva pece bollente, il quale si stava riversando su di me bruciandomi le braccia. Il dolore era davvero lancinante che cominciai a gridare e a correre fuori dall'impalcatura per strada, esponendomi alla pioggia di fuoco. Avevo le braccia e il petto completamente sciolti e il fuoco dal cielo cadeva su di me provocandomi una forte agonia. La mandria di dannati che si riversava nelle strade ore mi circondava, e con cattiveria e terrore cominciarono ad ammassarsi su di me non lasciandomi via di scampo o modo per respirare. Nel panico totale e nell'agonia, mi risvegliai improvvisamente nella cappella di Mefistofele, con una strana sensazione di bruciore alla gola, come se avessi respirato del fumo da un incendio. Forse quelle visioni non erano poi tanto solo delle proiezioni celebrali. Cosa poteva mai significare, che cosa mi stava accadendo?
Stavo cercando di rialzarmi quando Dante venne verso di me e mi chiese "tutto bene ragazzo?", ed io "sono un pò sconvolto. Ma dove sono le sentinelle?", e lui "sono riuscito ad opporre resistenza e le ho mandate via, ma torneranno quindi dobbiamo muoverci". Guardai casualmete verso il centro dell'atrio, e vidi Minosse che giaceva al suolo, privo di vita, così chiesi al poeta "sommo... Minosse!! Cos'è successo?","ho cercato di salvarlo, ma prima che riuscissi a estrarre la tua rosa per spaventare le sentinelle, loro lo avevano già accerchiato. Non ho potuto fare niente". Mi avvicinai al corpo di Minosse lacerato dai colpi inflitti. Lo ringraziai per avermi difeso con la vita, per avermi mostrato la giusta via e per essere stato schietto con me al momento opportuno. "Sono onorato di essere stato prezioso per un individuo di alto rango come il giudice dei dannati. Possa il creatore accoglierti per essergli stato fedele, sempre" dissi inginocchiato davanti al corpo del giudice dei dannati. Chiusi gli occhi di Minosse e mi girai verso Dante, che aveva ancora la mia rosa tra le mani, e gli chiesi "perchè le sentinelle sono scappate quando hai estratto la mia rosa?" e lui "la rosa contiene il tuo amore maligno, un forma d'amore molto potente che ha effetto sugli umani come su altri esseri. Le sentinelle o le creature infernali, nate senza amore, hanno il terrore del sentimento stesso poichè è opera del creatore, e tutto ciò che egli tocca inquieta il male".
Vedere Minosse morto mi provocò una sensazione di ingiustizia. Non desideravo che altri dessero la vita per me, non volevo che la mia incapacità di difendermi da solo potesse essere la causa di morte di coloro che avrebbero deciso di guardarmi le spalle. Non sarei più riuscito a vivere sereno, se fossi mai uscito vivo dall'inferno.

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Capitolo 4
*** Il disordine infernale ***


4. Il disordine infernale Ancora una volta sentimmo lo stesso rumore lancinante provenire dall'arcata dell'occhio di Sirio. Dante mi incitò "ragazzo ora dobbiamo davvero andare! Le sentinelle stanno per tornare", ed io spaventato gli chiesi "come sono arrivate fin qui?","ci hanno inseguito, è ovvio!! Siamo stati gli unici che abbiamo incrociato il loro cammino" rispose il poeta.
Dopo un trambusto lancinante, le sentinelle sbucarono un'altra volta dall'arcata, così noi tempestivamente fuggimmo verso la porta infernale e la varcammo. Ci trovammo in un tunnel fatto di pietra che seguiva la forma ad arco dell'ingresso dell'inferno, mentre le sentinelle erano alle nostre spalle che ci inseguivano muovendosi agevolmente nell'aria. Io e il poeta corremmo più forte che potevamo ma le sentinelle ci stavano alle calcagne, così decisi di estrarre ancora una volta la mia rosa di spine, come fece il poeta prima di me. Non appena tesi il braccio per mostrare la rosa, le sentinelle si fermarono impaurite, quindi noi continuammo a proseguire momentaneamente indisturbati. Riuscivo a vedere davanti a me un altro arco da cui proveniva una luce, che probabilmente dava fine a quel lungo corridoio. Non appena varcai velocemente l'uscita, Dante con forza mi tirò a sè, e mi disse "Ragazzo stai attento! Non vorrai morire così". Appena fuori dal corridoio di pietra, c'era uno strapiombo vertiginoso che si affacciava probabilmente sul vasto vestibolo. Se Dante non avesse fermato la mia corsa, probabilmente mi sarei lanciato dallo strapiombo con un ovvio finale tragico. "Una volta che i dannati giungono su questo strapiombo, vengono gettati come se fossero rifiuti. Le anime private della morte, soffrono il dolore di quest'ultima, non appena si schiantano al suolo!" disse Dante, ed io inquietato dalla scena immaginata, mi sporsi per osservare il vestibolo, rimanendo praticamente senza parole. L'antinferno era una vasta campagna bruciata, che presentava una vegetazione ormai morta colmata da grossi tracciati, probabilmente formati dalla corsa eterna dei dannati che inseguono le insulse bandiere. Io mi trovavo forse a cinquecento metri dal suolo, e sopra di me per altri cinquecento metri, c'era un immenso tetto di terra e pietra che copriva interamente il girone degli ignavi. Guardando meglio, notai che nella campagna si stava consumando una battaglia, così chiesi al poeta "sommo, cosa sta accadendo lì giù?" e Dante rispose,"ragazzo, questa è la prima resistenza che oppone il creatore agli esseri infernali, e la stessa cosa la fà Lucifero qui. In questo girone ci sono i dannati dell'antiferno che combattono contro i necrofagi","i necrofagi?" chiesi io, e il poeta "mostruose creature con sambianze umane che si presentano con il corpo putrafatto, e camminano a quattro zampe. Anche se sembrano molto simili a noi, queste creature in comune con le persone hanno ben poco, e il loro unico desiderio è cibarsi di carne umana!". La descrizione dettagliata che mi fece il poeta sui necrogagi mi mise i brividi, ma non più di quando realzzai che il sistema ordinario dell'inferno era ormai perso. Osservando ancora il vestibolo, notai che c'erano i cavalieri con i vessilli neutri, che galoppavano senza meta per tutta la campagna dell'antinferno, ma nessun dannato gli seguiva. Anche i fastidiosissimi insetti che pungevano ripetutamente i dannati, ora vagavano per il vestibolo in maniera totalmente sparpagliata. La guerra aveva causato inevitabilmente la rottura dell'ordine delle cose nella città dolente, così capì subito che il creatore aveva perso il suo totale controllo nel regno dei dannati, lasciando questi ultimi nel disordine bellico. Una situazione delicata che però favoreggiava Lucifero giorno per giorno.
Dallo strapiombo, notai che le fazioni che combattevano contro i necrofagi arrancavano parecchio. Dante mi fece notare che a capo di una di queste fazioni, c'era Ponzio Pilato. Come gli altri ignavi, Pilato si destreggiava bene nella battaglia, ma era circondato da quelle creature mostruose che pian piano stavano per prendere il sopravvento. Vedendo la scena io sentì il bisogno di unirmi alla battaglia, così incitai il poeta "sommo, dobbiamo scendere! Dobbiamo aiutarli!". Dante acconsentì, ma non appena ci mettemo alla ricerca di un modo per scendere nel vestibolo, alle nostre spalle sbucarono le sentinelle che si avventarono con violenza su di noi. Io caddi per terra ad un passo dal bordo del precipizio, mentre Dante con la sua spada cercava con disperazione di fare resistenza. Le sentinelle questa volta erano tre, due delle quali cercavano di spingere Dante giù dallo strapiombo, mentre l'altra si avvicinava minacciosa verso di me. La situazione era davvero delicata. Io mi alzai velocemente e sguainai prontamente la mia spada, ma la sentinella con un attacco rapido, mi disarmò facendo cadere la mia lama giù nel vestibolo. Non mi rimase che estrarre la rosa per cercare di allontanare di nuovo le creature oscure, quando senza preavviso, dall'arco dal quale uscimmo io e il poeta, sbucò Pegaso con tutta la sua lucentezza. Così Io e Dante vedendo arrivare per nostra fortuna il cavallo alato, ci buttammo a capofitto su di lui, il quale si sollevò con destrezza in aria portandoci lontano dalle creature oscure, lontano dal pericolo. Ancora una volta Pegaso ci salvò la vita, e proprio come disse Dante, apparve nel momento del bisogno.
In volo dove quasi taccavamo il tetto di pietra, riuscii a notare che le sentinelle, incapaci di inseguire me e Dante, tornarono indietro da dove erano venute. Ora dall'alto avevo una dinamica migliore della battaglia che si stava consumando nell'antinferno, e sapevo che con Pegaso al nostro fianco, avremmo potuto dare un notevole manforte alle anime del vestibolo, i quali continuavano a battersi a fatica contro i necrofagi. Tra gli ignavi in battaglia potevo facilmente distinguere gli umani dagli angeli, per il semplice fatto che questi ultimi, a differenza degli umani, presentavano delle ali mutilate dietro la schiena, e tutti combattevano a torso nudo, mostrando una fisionomia perfetta. Gli umani invece portavano quasi tutti dei vestiti e si mostravano notevolmente meno eleganti degli angeli nel combattere, ma essendo in maggioranza nella loro fazione, costiuivano una grande potenza.
Un duello in particolare attirò la mia attenzione, una creatura molto simile ad un grosso caprone che camminava su due zoccoli e brandiva tra le mani una lunga ascia, il quale combatteva contro un angelo dai capelli lunghi castani che lottava con una spada. Sorvolando l'area della battaglia, chiesi al poeta "sommo, cos'è quel mostro?" ed egli rispose "quello, ragazzo, è un demone. Queste creature hanno il potere di comandare altre mostruosità come appunto i necrofagi. Sono possenti e dotati di poteri mistici, e possono essere sconfitti solo dagli angeli ancora beati, o con delle sacre reliquie","quindi quell'angelo dannato che lo combatte non ha speranze", replicai io, e il poeta rispose "no, se non facciamo niente per aiutarlo".
La lotta tra i due si stava consumando nettamente a favore del demone, anche se l'angelo era dotato di una grande abilità. Con un colpo micidiale, il demone fece volteggiare l'angelo per poi farlo finire al suolo, disarmandolo e rendendolo vulnerabile. Il demone si stava avvicinando all'angelo per infliggergli il colpo di grazia, quando io e il poeta scendemmo vertiginosamente in picchiata per rovesciare la situazione. Pegaso colpì con gli zoccoli il demone disarmandolo, dando così tempo all'angelo per rialzarsi e riprendersi la spada. Io e il poeta ora eravamo nel bel mezzo della battaglia, tra le grida di dolore dei feriti e gli inquietanti gemiti delle creature infernali
.
Galoppavamo tra i necrofagi da i quali traspirava una nauseabonda puzza di putrefazione, mentre Dante colpiva questi ultimi da i lati di Pegaso. Io diasarmato cercavo di ripararmi quando il demone, che colpimmo attimi prima, si rivoltò violentemente contro di noi caricando Pegaso a un fianco. Io precipitai al suolo e ormai vulnerabile, stavo per essere assalito dai necrofagi, i quali mi avrebbero divorato in pochi secondi. Per mia fortuna, l'angelo che avevamo salvato si mise davanti a me proteggendomi, e respingendo quelle ripugnanti creature con disarmante destrezza.
Ma alle nostre spalle il demone con spirito vendicativo, si avvicinava verso di noi tenendo la sua ascia tra le grosse mani. Sulla fronte la creature presentava una specie di occhio rosso che notai solo in quel momento, quando cominciò a brillare. Improvvisamente tutto divenne buio e sfocato. Le urla della battaglia erano inspiegabilmente sparite e io mi sentì disorientato, come se fossi stato abbandonato. Riuscivo solo a vedere l'occhio rosso del demone sulla sua fronte. Cominciai a sentirmi debole, e le orecchie inziarono a fischiarmi fastidiosamente, come se mi stesse esplodendo il cervello. Poi mi tornò in mente che Dante mi illuminò sui poteri mistici dei demoni, e capì che quella creatura mi stava come ipnotizzando, provocandomi dolore dall'interno per tenermi fermo al suolo e risucchiarmi ogni tipo di enregia. Decisi di tirare fuori la mia rosa per tentare di salvarmi, e così feci. Sventolai il fiore con il braccio teso verso l'alto e riusciì a fare più che salvarmi. Cominciai a rivedere la luce e a sentirmi meglio, mi accorsi che il demone emettendo versi di dolore cominciò ad allontanarsi da me, insieme a tutti i necrofagi. Il grosso demone in un lampo si dissolse nel nulla, mentre le altre ripugnanti creature scavarono delle fosse nel suolo e ci entrarono, svanendo tempestivamente. Tutti si fermarono ad osservare la scena esterrefatti, mentre la mia rosa ancora brillava di potere. L'angelo che cercò di proteggermi si avvicinò verso me e mi chiese "Chi sei tu?", ed io rimasi in silenzio, cercando di trovare le parole giuste per esporre a quella meravigliosa creatura il motivo della mia presenza. Quell'angelo era alto e possente, con un corpo scolpito e lunghi capelli neri, e un viso giovane fermo all'età di trent'anni circa.
Nella mia incapacità di comunicare, Dante si avvicinò per prendere parola, e rispose all'angelo "lui è qui per volontà divina, lui è qui per salvarci tutti, per porre fine alla guerra, per portare tutto all'ordine come all'inizio dei tempi. La sua anima ancora in vita, porterà alla morte il maligno".
Alle parole del poeta, le legioni di ignavi si riunirono intorno a noi, e con mio grande stupore le anime dannate si inchinarono tutte al mio cospetto, come se sapessero del mio imminente arrivo, e combattessero con la speranza di vedermi presto.
Improvvisamente qualcuno con un grido di battaglia disse "Il creatore ci ha mandato il suo prescelto! E' il momento di combattere!", e alle sue parole tutti emisero un grido di guerra per caricarsi. Uno scenario da brividi. Chi urlò fù Pilato che sucessivamente mi raggiunse sorridente, e notai che nella sua mano possedeva la mia spada. Pilato mi porse la lama dicendomi "questa dev'essere tua ragazzo! E' molto bella!" ed io lo ringraziai. Il prefetto romano mi chiese ancora "e adesso cosa si fà?" ed io farfugliando cercavo le parole per rispondergli, evitando di sembrare impacciato o ignorante sul da farsi. Fortunatamente, come un angelo custode, Dante accorse in mio aiuto come sempre, e prese parola per soddisfare la domanda di Pilato, e gli disse "dobbiamo raggiungere la città di Dite, e abbiamo bisogno di tutto l'aiuto possibile" e Pilato rispose "avrete tutto l'aiuto di cui avete bisogno, anche dal sottoscritto. Se volete raggiungere Dite, dobbiamo prima raggiungere la riva dell'Acheronte, ma dovrete convincere il barcaiolo a trasportarvi dall'altra parte","convincere il barcaiolo? Intendi Caronte?" chiesi io, e Pilato annuì. Il poeta confuso chiese al prefetto "di cosa dovremmo convincere il traghettatore?","bè... a traghettare" rispose Pilato a tentoni, e continuò "ormai è fermo alla riva del vestibolo da secoli, e tutte le anime dannate sono ferme lì ad aspettare che si decida a partire" ed io chiesi ancora "ma perchè è fermo lì? E soprattutto da che parte sta?","si dice che abbia paura, e che il suo terrore lo tiene fermo lì nella totale neutralità. E' rinchiuso nella sua plancia ormai da un pò" rispose Pilato.
Le parole del prefetto romano mi fecero capire che la barca di Caronte non era una semplice bagnarola, come avevo sempre creduto studiando l'opera di Dante, ma si trattava di un vero e proprio traghetto. Mi sembrò fisicamente più logico dal momento che in ogni viaggio Caronte avrebbe dovuto traghettare migliaia di anime dannate. Avevo sempre avuto un debole per la figura del traghettatore, e l'idea di doverlo conoscere mi entusiasmava molto. Non so che tipo di personaggio mi sarei trovato davanti, forse davvero un vecchio bianco per antico pelo.
"Approposito, non mi sono presentato. Io sono Ponzio Pilato", disse il prefetto "si lo avevo intuito!" risposi, e continuai chiedendo a Pilato indicando l'angelo che mi aveva salvato "puoi dirmi chi è quello? Quell'angelo?","Lui è Clion, meglio noto un tempo come angelo della protezione, prima di essere stato giudicato dal creatore per la sua neutralità". Dopo aver preso sapienza del nome dell'angelo, mi avvicinai a lui per parlargli "ti ringrazio!", gli dissi e lui "sono io che devo ringraziare te ragazzo. Se non fosse stato per te a quest'ora sarei spacciato. Saremmo tutti spacciati".
Ripensai alla battaglia del vestibolo e nella mia curiosità chiesi a Clion, "cosa ci facevano quelle creature qui?" e l'angelo rispose "sono secoli che ormai Lucifero manda le sue mistiche creature per rovesciare l'inferno sulla terra. Dopo il cataclisma diabolico il creatore ha dato una scelta a tutti gli ignavi del vestibolo. La guerra incombeva e serviva tutto l'aiuto possibile per tenere le tenebre nel suo buco. Quando tutto sarà finito, noi saremo giudicati, ancora. La vittoria significherebbe per noi la beatificazione, il ritorno nel regno dei cieli". Fui commosso dalle parole dell'angelo. Lui mi parlava mentre ripuliva la sua lunga spada dal sangue delle ripugnanti creature, e nella sua voce potetti riconoscere un barlume di speranza, che cresceva sempre di più ogni volta che incrociava il mio sguardo.
Alle nostre spalle, Dante e Pilato stavano pianificando il cammino verso l'Ancheronte, e il poeta ribadiva al prefetto che io, essendo ancora un mortale, avevo necessità di acqua e cibo. Pilato rassicurò il sommo dicendogli che con un pò di fortuna, avremmo trovato quello di cui avevamo bisogno nel traghetto di Caronte. Il prefetto ribadì che se fossimo riusciti a persuadere il traghettatore, egli avrebbe non solo acconsentito a traghettarci, ma anche a darci manforte per continuare il viaggio.
Clion richiamò di nuovo la mia attenzione, e mi disse "ragazzo ho un dono per te! In qualità di angelo della protezione ti offro un oggetto molto particolare". L'angelo mi porse una sorta di spilla d'argento circolare con al centro una ricostruzione di un'ala, e mi disse "questo amuleto ha il potere di sopperire al dolore di ferite di guerra e rimarginarle velocemente. Se ti trovassi in situazioni complicate, ti basterà stringerlo tra le mani e subito qualcuno verrà per soccorrerti". Tenevo in mano l'amuleto quando notai che le ferite sul mio braccio destro, provocate dal morso della lince, si rimarginarono e divennero cicatrici, certo ben visibili ma meglio delle grosse lacerazioni. Sorpreso dall'accaduto, ringraziai Clion con un abbraccio prolungato, e mi rattristai al pensiero che una creatura così gentile e meravigliosa come Clion, possa essere stata dannata dal creatore. Pensai, forse l'angelo non è sempre stato così, forse l'inferno lo aveva cambiato dentro, forse aveva assaggiato il male e come tutti i dannati ora bramava la beatificazione.
Sentì la voce del poeta che mi chiamava "forza ragazzo, siamo pronti, dobbiamo andare!". Salutai Clion con affetto e lui mi giurò fedeltà promettendomi che avrebbe difeso il vestibolo con la sua stessa vita. Pilato decise di proseguire il cammino al nostro fianco, e così decidemmo di rimetterci in marcia.
Passammo in mezzo alle legioni di ignavi che stavano tutti togliendosi di dosso i postumi della battaglia. Gli sguardi dei dannati erano rivolti verso di noi, colmi di speranza e gratitudine, pronti ad attendere buone notizie dai piani inferiori della città dolente.
Eravamo solo in tre, anzi in quattro con Pegaso che ci seguiva e ci metteva un pizzico di buon umore in quella campagna devastata dalla guerra.
Incuriosito da me, Pilato cominciò a farmi delle domande "allora ragazzo, di te so solo che sei il prescelto, ma chi eri prima che venissi coinvolto in questo disordine", ed io facendo una piccola pausa prima di parlare, gli risposi "sono un musicista. Sulla terra ho avuto la fortuna di imparare l'arte della manipolazione del suono, e mi guadagno il mio posto nella società in questo modo. O almeno ci provo". Pilato visibilmente compiaciuto dalla mia risposta, mi disse "non ho conosciuto molti musicisti in vita, ma credo che il fatto che tu lo sia, non è una coincidenza. Al giorno d'oggi voi siete i nuovi poeti e come il creatore fece con Dante, ha scelto la via dell'arte per illuminare il mondo sulle conseguenze della vita sulla terra","suppongo di si, anche se ora è diverso. C'è una guerra" risposi, e Pilato ribattè "hai ragione, ma vedi, la tua qualità è quasi una magia, l'unica magia di cui l'uomo è capace, la musica". Le parole del prefetto mi riempirono di orgoglio e sicurezza, e in parte aveva anche ragione. La musica è una cosa tanto astratta quanto concreta, proprio come la magia.
Poi anche io incuriosito dalla figura di Pilato, che portava un'armatura medioevale, gli chiesi "cosa... cosa hai provato a stare al suo cospetto? Al cospetto di Cristo intendo?", e lui "la verità? Nulla! Non ho provato assolutamente niente, se non la pena di quando guardi negli occhi chi ha paura del dolore, che in realtà era la sua unica paura. La singola cosa che lo distinse dagli altri, fù il fatto che non implorò pietà, non si inginocchiò ai miei piedi nella speranza della salvezza. Lo avrei anche salvato se non fosse stato per la mia difficile posizione politica. Però avrei dovuto capire chi era veramente quell'uomo, e ora mi trovo qui, com'è giusto che sia!". C'era davvero tanto rimorso nella voce di Pilato, ed intuì che dopo la sua dannazione lui ripercorse l'incontro con Cristo per cercare nelle sue parole qualunque cosa che gli avrebbe potuto far capire chi fosse veramente quell'uomo, segnato dalle percosse e dalla flagellazione. "ma dopotutto il mio destino è stato un disegno divino, e non ho potuto fare altro che inchinarmi al creatore" disse Pilato, e le sue parole mi spararono in mente ricordi della mia vita, in particolare del mio povero zio defunto. Ho sempre voluto pensare che la sua morte fosse un disegno divino che io adesso ancora ignoro, l'unico modo che ho per trovare una logica a quello spiacevole evento.
Dopo una lunga ed estenuante camminata nel nulla della vasta campagna secca dell'antinferno, giungemmo finalmente alla riva dell'Acheronte. Eravamo su una collina le cui pendici toccavano il bagnasciuga del fiume, quando assistì ad uno scenario che toglie il fiato. Migliaia di anime dannate denudate e maltrattate, che attendevano il loro turno per essere traghettate, e raggiungere finalmente il proprio cerchio della dannazione. A circa cinquecento mentri dalla riva c'era il mastodontico traghetto di Caronte. Non so descrivere cosa provai nel momento in cui vidi quel maestosto veliero, so solo che rimasi affascinato dalla bellezza del paesaggio. Sentimenti constrastanti mi invasero il cuore, da una parte il terrore per la brutalità con il quale le anime venivano gettate come profughi sulla riva del fiume, dall'altra lo stupore per la maestosità del traghetto e del fiume stesso. Pilato mi disse "ragazzo, benvenuto al cospetto della crociera dei dannati! Una delle meraviglie della città dolente. Nonostante rappresenti l'ultimo viaggio di un'anima dannata, il traghetto toglie sempre il fiato per la sua bellezza", ed io pensai che il prefetto non poteva avere più ragione di così. Capì che a prescindere dal fatto che l'inferno dovesse essere un posto sadico e brutale, il creatore non riuscì a venir meno alla bellezza e alla perfezione della sua mente creativa, plasmando la città dolente in maniera strategicamente elegante e mozzafiato. Forse un altro tipo di dannazione per le anime dell'inferno, le quali non avrebbero mai assaporato neanche lontanamente la creatività benevola del creatore.
Scendemmo lungo l'altopiano e passammo in mezzo alle anime attendenti, le quali avevano lo sguardo inchiodato sul nostro passaggio tra loro. Potevo sentire domande tra i dannati come "chi sono quelli?" o "ma quello è il sommo poeta?" o ancora "cosa ci fà qui un mortale?", così capì che quelle anime erano ignare di tutto ciò che stava accadendo nei piani più bassi dell'inferno, privati della sapienza di un destino ancor più tragico della dannazione stessa. Arrivati al bagnasciuga ci accorgemmo che avevamo bisogno di un modo per raggiungere il traghetto, una cosa che forse avremmo potuto fare in volo con Pegaso, solo che non ci saremmo mai stati in tre in groppa al cavallo alato. Pilato stava cercando qualcosa simile ad un bagnarola che ricordava di aver già visto, quando Dante trovò una corda che finiva dritta nell'acqua, e cominciò a tirarla. Pian piano la bagnarola che Pilato cercava venne fuori dalle acque intatta, come se non fosse mai affondata. Io Dante e il prefetto salimmo a bordo, mentre Pegaso ci avrebbe seguito volando, e così cominciammo a navigare per raggiungere la crociera dei dannati.
L' acqua del fiume era salmastra e scura, tanto da renderci impossibile riuscire a vedere il fondale. Ricordo che il fiume emanava uno strano odore simile allo zolfo. La presenza di quell'odore era piuttosto strana, dato che proveniva dall'acqua.
Più ci avvicinavamo al traghetto più potetti ammirare la bellezza disarmante del veliero di Caronte, illuminata a sprazzi da mistiche luci verdi. Lo scafo si presentava insellato e aveva l'aspetto di un relitto abbandonato segnato dal tempo, ma stava perfettamente a galla. Le vele erano chiuse e l'ancora gettata sulla dritta dello scafo, il tutto a confermare che il veliero era evidentemente inchiodato in quel punto. Quando arrivammo a pochi metri dalla dritta del traghetto, un portellone che stava sul pelo dell'acqua si aprì, e una strana figura apparse sull'uscio. Una creatura vestita da marinaio che presentava il viso di uno scheletro con brandelli di carne putrefatta attaccati al teschio. La creatura inquietante parlò e ci chiese"chi siete voi?" e il sommo rispose "vogliamo vedere il capitano!","il capitano non riceve ospiti!" ribattè la creatura, e Pilato esclamò "neanche un mortale!?". Ci fù un momento di silenzio, e poi la creatura ci invitò a salire a bordo. Mentre guadagnavo l'ingresso del veliero, notai che Pegaso non era più con noi, ma probabilmente ci avrebbe raggiunto più tardi.
L'interno di quel primo ponte era molto simile ad un carcere a due piani tetro e poco illuminato, ed era pieno di marinai spettri che svolgevano classici lavori da uomini di mare. Le celle erano vuote malconce e piene di ragnatele e le sbarre erano arruginite e in parte completamente rotte. Riuscì a captare un rumore simile ad una corda di una chitarra elettrica pizzicata più volte e irregolarmente, che si faceva sempre più intenso man mano che percorrevamo il ponte più basso. Stavamo salendo lungo una scala a chiocciola pericolante per raggiungere il ponte dove c'era la cabina del capitano, quando riconobbi che quel rumore che sentivo era molto simile alla nota Sol, ma era suonata male, pizzicata con troppa violenza e frustazione.
Raggiunto il ponte più in alto, notai che stavamo dinanzi ad una specie di sala di ricevimento con un lungo tavolo da banchetto al centro, sovrastato da un enorme lampadario attaccato al tetto pericolante con un aggancio di fortuna. Le mura sembravano vecchie colme di muffa e ragnatele, e il pavimento era ricamato con grandi rombi bianchi e neri, anche quest'ultimo abbastanza disastrato. In fondo alla sala c'era l'ingresso ad arco per la cabina del capitano fatto di legno ormai marcio. Il marinaio ci disse "il capitano vi sta aspettando" indicandoci l'ingresso della cabina. Il sommo senza perdere tempo strinse il pomello a forma di teschio con la mano destra, e aprì la porta. Non appena questa si spalancò, il suono che sentivo lungo i primi due ponti divenne decisamente più limpido, così capì che quella nota pizzicata proveniva proprio dalla plancia di Caronte. Varcammo la soglia arcale e una figura vestita da pirata capitano con la stessa faccia da spettro come tutti gli altri marinai, che teneva tra le mani una chitarra elettrica mal ridotta, ci accolse. La creatura che stava seduta con le gambe poggiate su un tavolo di legno e la chitarra posata sul suo addome, ci disse "benvenuti sulla mia nave. Io sono Caronte!".

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