Eleuna

di Nana_Osaki_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo ***



Capitolo 1
*** Capitolo Primo ***


Eleuna

"Il coraggio dei vinti e la gloria dei vincitori dinnanzi ad un evento memorabile è ciò di cui necessita un vero Eroe, che sia un semidio o che sia nato da una donna non ha alcuna importanza. E se tali doti siano proprie di un uomo non sono poi così grandi doti, ma se gloria e coraggio stanno nel petto di una donna la carta deve far posto al suo nome. Ma ricordate questo: il passato talvolta è come un pesante fardello da cui vorremmo per sempre liberarci e non dà pace, perseguita e opprime, soffoca e sfinisce. Quando l’Eroe crederà di aver per sempre dimenticato si ripresenteranno i medesimi ricordi e lì, piegato sulle proprie ginocchia, cadrà."



E così scrisse l'oracolo su di un vecchio papiro riposto in un piccolo scrigno in legno, ricoperto da stoffe pregiate color rosso scuro e nero corvino, con venature in oro e argento che conferivano ad esso una certa importanza. Il vaticinio è stato dato dall'Oracolo di Delfi, noto per le sue grandi doti da indovino, si dice che sia infallibile tanto quanto la potenza degli dei olimpici. E tra le alte e massicce colonne doriche di quel tempio antico, costruito sulle vecchie rovine del tempio di Apollo, si cela una profezia che rimarrà nascosta negli anni e agli occhi onniscienti del tempo implorerà pietà.
Non so scrivere, non conosco altre lingue al di fuori del mio dialetto ma non mi è permesso usarlo, le mie corde vocali vibrano al comando del mio padrone e della mia padrona. Non conosco i miei genitori, non ho amici, non ho nessuna certezza nella mia vita... Anche il mio nome è un immenso e doloroso dubbio.
Poche sono le cose che mi sono concesse fare, una di queste è vivere, avere un tetto sopra la testa che mi protegga dai pericoli che gli Dei olimpici scagliano contro noi esseri mortali o per punirci o per metterci alla prova. Io non conosco il loro volere e non so che destino hanno in serbo per me, ma se nelle loro bocche la parola compassione è recitata non chiedo altro che sia composta per me.
La casa dei miei padroni è un continuo via vai di gente importante come poeti, scultori, aedi e filosofi. Tocca a me servirli e soddisfare i loro bisogni, ma ciò non mi dispiace poiché permetto alle mie orecchie di ascoltare il verbo, alla mia mente di ricordare storie e ragionare su parole che spesso e volentieri non mi sforzavo neanche di capire. Ogni tanto riuscivo a guadagnare qualche moneta ma essi non capivano che ogni grammo d'oro e d'argento che si trova tra le mie mani va e andrà sempre a finire tra gli avidi artigli di chi sta in alto a me.
La solitudine assale i miei giorni, le mie ore e i miei minuti, non ho mai provato altro sentimento al di fuori di questo... Se ciò non fosse vero non ne ho davvero memoria. 
Elèuna! Un'incessante voce chiama il mio nome a qualunque ora del giorno e della notte, con incessante foga e senza alcuna pietà mi vengono assegnati i lavori più faticosi e logoranti come se non avessi alcuna resistenza e soglia del dolore... Come se fossi un pezzo di carne sostenuto da ossa, pronto ad eseguire il volere di chi mi ha comprata.
Il sole, durante il meriggio, splendeva alto e batteva con violenza sul mio capo e su quello degli altri servi che a quest'ora erano nel pieno della loro giornata lavorativa. Non un lieve soffio di vento spirava quest'oggi tra i piccoli cunicoli di pietra della città e nella mia mente riuscivo solo a sperare di poter dissetarmi dell'acqua della fonte verso cui procedevo, portando con un'anfora di terracotta. L'acqua sgorgava dalla fonte e alimentava una vistosa fontana di una certa eleganza dipinta di colori sgargianti che trattenevano figure geometriche che con lo sguardo seguivo. Scorre limpida davanti ai miei verdi occhi che riflettano le lucenti venature e la libertà di quel liquido dissetante. La tocco e percepisco: fresca, fugace, dolce... È la libertà. Riempio la mia anfora senza troppa fretta, stando ben attenta a non far traboccare l'acqua della terracotta rossastra. Osservandola meglio riesco a notare il nero della cottura ed alcuni errori nei temi geometrici come un quadrato diverso dagli altri o un cerchio che assomiglia più ad un uovo. Mi vien da sorridere a notare l'imperfezione delle mani dell'uomo, mi fa sentire meno sola nella mia imperfezione. L'anfora pesa e le mie gracili braccia tremano al peso di questo oggetto. Ma non posso far nulla, non una lamentela, non una parola di troppo. Torno a 'casa', se così posso permettermi di chiamarla, ma come altrimenti? -Eleuna! Rapidamente...- La mia padrona, sottolinea con un tono di voce più forte e fastidioso "rapidamente", ma io rimango inespressiva -... Porta del vino ai nostri clienti- poi abbassa lo sguardo e osserva l'acqua chiusa tra le mie braccia ed improvvisamente esclama -Ma ancora qui?! Oh per gli Dei, l'acqua non serve più! Portala nelle cucine, sapranno loro cosa farne- Non ho parole da spendere neanche pensieri nella mia mente, fisso solo per qualche istante il mio riflesso sull'acqua. Se piangessi le mie lacrime salate si mescolerebbero con il dolce dell’acqua, ma la quantità sarebbe così minima che nessuno le percepirebbe. Sorrido e proseguo. Altri servi mi porgono le piccole anfore con il vino composto da due parti di acqua e una di vino, questo per permettere a chiunque lo beva di mantenere una certa lucidità. –A te, Eleuna!- mi dice Apòlones porgendomi il vino, il ragazzo aggiunge anche un occhiolino che un po’ mi aspettavo. E’ il più audace dei servi della famiglia, la sua schiena è coperta dalle cicatrici causate dalle fruste e dalle bruciature, ma lui riesce a vantarsene sostenendo di avere come una sorta di armatura composta da croste, pelle dura, calli e sangue coagulato; Io lo trovo piuttosto disgustoso ma per non farlo notare mi limito a sorridere.


 

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Capitolo 2
*** Capitolo Secondo ***


Eleuna

 

Capitolo Secondo


 In confronto all’anfora d’acqua, due volte più grande di questa, quella di vino pesa poco e niente ed è un sollievo per le mie braccia, non tremano più ma mi fanno male, sono doloranti così come le mie gambe e i miei piedi. Giungo nel cortile dell’abitazione ove vi si riuniscono gli ospiti: sono divisi a piccoli gruppi, sulla mia destra ci sono i filosofi che, come sempre, si ritrovano a discutere e a non essere d’accordo mai su niente; davanti a me fantasticano i poeti e gli aedi che si scambiano perle di saggezza tra di loro, con la differenza che gli aedi riportano solamente ciò che è già uscito da altre bocche; infine, sulla mia sinistra c’è uno scultore che al momento si appresta a realizzare un busto in pietra che raffigura il volto del padrone, non mi soffermo neanche a guardarlo. Decido di posare l’anfora su un tavolo in legno apparecchiato, noto una seconda anfora vuota e la prendo per evitare che questa occupi spazio e, inevitabilmente, i miei occhi cadono su alcuni cibi posti lì per gli ospiti. Dimenticavo che fosse ora di pranzo, il mio stomaco brontola. –Ehi!- non mi giro, non c’è bisogno, tutti sanno che per chiamare una serva basta chiamarla in tal modo. –Mi stai ignorando? Parlo con te!- ancora niente, sto riordinando la tovaglia che è leggermente più lunga da un lato della tavola, il che mi infastidisce, a dire il vero. Una fredda mano mi si avvinghia al braccio e percepisco subito la differenza di temperatura ma ciò che mi sbalordisce di più è il fatto che quella mano è come la mia: ruvida, dura, secca. Mi volto e noto lo scultore con uno sguardo terribilmente serio e quasi arrabbiato e mi domando che cosa stavolta avessi fatto, forse averlo ignorato? –Padrone non pensavo che rivolgeste a me le vostre parole- dico umilmente chinando il capo e guardandomi i piedi, ho la gola secca, aggiungo –Cosa io, umile serva, posso fare per voi, nobile e abile scultore?- chiedo piuttosto rapidamente, poi taccio. Mi mette parecchio a disagio osservandomi a lungo, guarda i lineamenti del mio volto, il mio collo e poi le mie spalle, io esito e deglutisco nervosamente –Vi prego, rispondetemi- mormoro, vorrei anche fargli notare che mi sta stringendo troppo il braccio ma non posso di certo lamentarmi, che non se ne accorga.... Giunge la mia padrona nel cortile, si distingue da tutti per i suoi portamenti e per i suoi vistosi abiti che oramai conosco tutti poiché tocca a me lavarli, ogni giorno e confesso che mi è sempre venuto un certo desiderio di indossarli. L’uomo mi lascia immediatamente il braccio e provo sollievo, mi scappa un sospiro che spero lui possa non notare, poi il mio sguardo subito si posa ancora su di lui e vorrei tanto farmi scappare una smorfia, ma non lo faccio poiché se qualche occhio indiscreto cadesse su di me passerei seri guai. La mia padrona non è qui per fare qualche annuncio ma solamente per controllare la situazione e vedere come lo studio e il lavoro dei presenti proceda, cose che a me non interessano, insomma, io mi occupo di servirli e non di controllarli. Lo scultore con una certa rapidità si accosta alla mia padrona mantenendo quello sguardo serio che penetra in profondità come se riuscisse a leggerti nella mente e questo più che mai aumenta la mia tensione. Mi indica. Sudo, le mie mani sudano. Divento nervosa. Cerco di ricordare tutto ciò che ho fatto e non ho fatto oggi, ieri e il giorno ancora prima ma non trovo l’errore, non riesco a capire e mi sento confusa. Mi vien da piangere se penso alle possibili frustate che potrei ricevere. Sento il dolore, lo percepisco distintamente sulla mia schiena e si espande e penetra fino alle ossa, mi possiede. Non sento cosa stanno dicendo, maledizione! Riesco a notare la padrona annuire, cosa vuol dire? Mi chiedo. Si avvicinano a me e lei mi sorride –Eleuna- pronuncia il mio nome e io chino il capo rispondendo –Mia padrona- lei si volta verso lo scultore che continua a mantenere il solito sguardo di pietra, freddo. La donna riprende a parlare –Lo scultore Aris ha chiesto di poter utilizzarti come modello per una sua scultura- lo guarda compiaciuta, probabilmente è soddisfatta di scambiarmi con chi le pare per guadagnare soldi in più –Lo scambio durerà due mesi, non di più. Forza, vai e ricorda le buone maniere, un passo falso e sai bene quale sarà la punizione- non la osservo in volto ma so perfettamente qual è la sua espressione in questo preciso istante, sta semplicemente prestando un suo oggetto, è questo che sono per lei e per tutte le persona che ora osservano il mio gracile e bianco corpo, che osservano quanto io sia logorata dal tempo e dalle attività che svolgo nonostante la mia età, sedici anni, sedici anni di non vita. Annuisco due volte per mostrare di aver capito e ora aspetto altri ordini e direttive dai due che giocano a scambiarmi. La padrona riprende –Aris prendetevela pure, ricordate i termini stabiliti- io non so quale siano questi termini, non mi spetterebbe conoscerli? In fin dei conti si sta parlando di me. Lo scultore, serio in volto annuisce e frettolosamente mi afferra di nuovo per il braccio con una stretta ancora più rigida e –Andiamo- mi dice, solamente, e cerca di trascinarmi via senza neanche darmi il tempo di completare l’incarico che mi era stato assegnato dalla mia padrona. Per qualche istante temo di cadere ma poi riesco a stabilizzarmi e ad adeguarmi al passo dell’uomo che, senza voltarsi per guardarmi, continua ad avanzare verso l’uscita dell’abitazione. Provo a sussurrare –I vostri…- ma mi interrompe bruscamente –Quegli strumenti mi sono stati prestati dai tuoi padroni, non mi appartengono e dunque resteranno qua- poi mi guarda con uno sguardo che sembrerebbe sereno ma non escludo che sia stata io a non aver visto bene –Ora taci- torno silente e abbasso lo sguardo.

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Capitolo 3
*** Capitolo Terzo ***


Eleuna

Capitolo Terzo


Giungiamo in una modestissima abitazione nella periferia a sud-ovest della città, dove ad ogni vicolo si alterna un giardinetto, una fontana e alcune piazzette verdi che non mi dispiacciono affatto. Qui riesco a percepire un profumo diverso, non è il solito odore di benessere e ricchezza, ma è odore semplicità e mi piace. La casa dei miei padroni è ricca di piante e fiori di qualsiasi genere ma sono strettamente tenuti in piccoli vasi mentre qui, in queste chiazze verdi la natura ha il più assoluto potere. Aris ha, per fortuna, allentato la presa sul mio braccio ma sono sicura che domani lo troverò nero e violaceo e non avrò come curare quell’ematoma, come al solito… Ma non mi lamento. Entrati, lo scultore chiude la porta alla nostre spalle e io, inevitabilmente, comincio a guardarmi attorno come se fossi appena entrata in un’altra dimensione e un po’è così: ogni piano della casa è sommerso da fogli, pergamene, attrezzi vari per scolpire, materiale scartato, appunti e via dicendo, sicuramente senza tutta questa roba la casa risulterebbe più grande. Percepisco un lieve mal di testa che comincia a farsi sentire.
–Da questa parte- dice in mia direzione con un tono di voce stranamente più rilassato, il che mi tranquillizza. Avanza verso una stanza sulla sinistra della porta di ingresso e io lo seguo senza far domande nonostante non capissi dove volesse condurmi e dentro di me formulo diverse ipotesi. Poi più in là noto un’altra porta che viene aperta ma non riesco bene a vedere cosa c’è oltre poiché è più bassa e stretta di una comunissima e normalissima porta, particolare. Accelero di poco il passo e attraverso la soglia, mi sposto subito di lato, sulla destra, per lasciare che lui possa chiudere quella porticina che dava in una stanza spaziosa e stranamente ordinata, ber decorata, certo nulla in confronto alle grandi sale della casa dei miei padroni ma non commento, non mi importa di questo a dire il vero. In fondo alla sala, la cui forma è rettangolare, sta un divanetto affiancato da due poltroncine e diverse sedie e sgabelli, mentre all’inizio della stanza c’è uno sgabello, una sedia, due blocchi di pietra e un tavolo sul quale sono poggiati utensili per gli scultori. Riesco a riconoscere uno scalpello, un piccolo martello e delle lime. Aris si accomoda e si toglie da dosso una tunica pesante bianca e blu scuro che poggia in una sedia vicina, poi si rilassa e appoggia un gomito sul tavolo e poggia sopra la propria mano il capo e comincia a fissarmi ininterrottamente
–Non posso scolpire una divinità avendo come modello il gracile e imperfetto corpo di una serva qualsiasi, creerebbe scandalo e non posso permettermi di mandare in frantumi la mia carriera- le sue parole sono piuttosto fredde e dette quasi per forza, come se si sentisse in dovere di darmi delle spiegazioni. Mi sorge spontanea una domanda che sto per dire ma riesco a trattenermi, per fortuna
–No, avanti, parla- dice lo scultore che ora osservo, mi faccio coraggio e con un tono umile e basso avanzo la mia domanda –Perdonate la domanda indiscreta… Ma allora per quale ragione avete scelto me come vostra modella se il mio corpo è… Gracile ed imperfetto?-  detto, stavolta non ho tenuto per me niente, ho detto tutto ciò che avevo da chiedere e stranamente mi sento quasi sollevata ma niente sospiro di sollievo questa volta, mi sento ingessata. –Ottima domanda- dice lo scultore, poi continua
–Perché ritengo che scolpire corpi perfetti sia noioso… E poi non posso permettermi una vera modella!- sorride, e quel sorriso sembra sincero, non me lo aspettavo e stranamente ora mi ritrovo anche io a sorridere.
Scorrono diversi, interminabili, secondi di silenzio e riesco solamente a sentire i nostri respiri che si accavallano e il mio cuore che batte con forza e rumoroso si fa avanti come se intendesse uscire dal mio petto e quasi vorrei fermarlo.
–Hai fame?- mi domanda, sono distratta da istanti di riflessioni e non rispondo subito, esitando annuisco timidamente poiché nessuno mi aveva mai chiesto se avessi fame. –Che ti danno a mangiare, di solito?- pronuncia queste parole, lo scultore, e io con una certa freddezza, in automatico, rispondo –Gli avanzi, mio padrone..- esito ancora nel pronunciare le ultime due parole poiché tecnicamente lui non è il mio padrone, o lo è solo per un determinato periodo. –Aris- controbatte e io lo guardo senza capire. Lui ripete ancora –Aris!- mi sento piuttosto confusa, il mio sguardo è perplesso e lui sembra quasi divertito quindi non capisco che si sta prendendo gioco di me. Sorride e poi si spiega –Mi chiamo Aris e non sono il tuo padrone- sostiene.
–Però mi avete affittata!- mi scappano le seguenti parole, escono dalla mia bocca senza che io riesca ad accorgermene e non mi spiego come sia possibile, la punizione per questo potrebbe essere non lieve. Non so per quale motivo lo scultore non dica altro, al momento riesco solo a sperare vivamente di non essere stata fuori luogo ed eccessivamente sfacciata nel dire ciò che ho detto. L’uomo si alza rapidamente e senza guardarmi negli occhi apre la porticina che porta all’ingresso dell’abitazione, la oltrepassa e si avvia verso qualche stanza della casa senza darmi indicazioni.

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