La Spada e La Ginestra

di BellinianSwan
(/viewuser.php?uid=218680)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Benvenuti a Firenze ***
Capitolo 2: *** L'arrivo ***
Capitolo 3: *** Profumo di lavanda ***
Capitolo 4: *** Una dolorosa filosofia ***
Capitolo 5: *** Profumo di morte ***
Capitolo 6: *** Giro di vite ***
Capitolo 7: *** Aria di Rivoluzione - Parte 1 ***
Capitolo 8: *** Aria di Rivoluzione - Parte 2 ***
Capitolo 9: *** Giochi di specchi ***
Capitolo 10: *** Riunioni ***
Capitolo 11: *** Merletti sporchi ***
Capitolo 12: *** L'amica ritrovata ***
Capitolo 13: *** Un gioiello di raro valore ***



Capitolo 1
*** Benvenuti a Firenze ***





     Era inverno. Il cielo coperto da nubi grigie come il fumo si espandeva sui campi bruciati dal fuoco della guerra. Gertrude poté sentire le narici bruciare all'aria calda e asfissiante e l'odore forte della Morte e del sangue sparsi sull'erba. Quella tetra figura quasi si nascondeva tra le nubi, vegliando quieta sulla miseria degli uomini, tanto avidi quanto stupidi da farsi guerra tra loro per motivi altrettanto futili. Era il mantello di cenere della Morte che, Signora del Tempo, sedeva vigile, spettatrice silenziosa sul trono della Distruzione, fissando coi suoi occhi neri la Vita che finiva sotto di sé. 
La ragazza cercò di respirare, ma non potè sentire l'aria entrare nei polmoni. Ritentò più forte e da quelle labbra rosse ormai aride fuoriuscì un sibilo, poi aprì lentamente gli occhi e vide un sole timido nascondersi tra le nuvole. Improvvisamente un dolore lancinante al fianco. Si accorse di avere la mano poggiata sulla ferita e quando la portò davanti ai suoi occhi, potè vedere che la sua bella mano candida era completamente bagnata di sangue. Lasciò che cadesse sull'erba. Una folata di vento le accarezzò il viso facendo sollevare la polvere dai campi di morti, trasportando con sé le anime dei soldati. Inspirò a fatica quell’aria pesante e maledettamente intrisa di quella morte che aveva da tempo posato i suoi gelidi occhi sulle sue giovani membra, troppe volte aveva sfiorato con il suo bacio letale il suo lungo collo. respirava per lottare, per l’ennesima volta, perché non conosceva altro verbo, da quando i suoi grandi occhi neri erano stati feriti dal sole per la prima volta. L’ossigeno a fatica si diffuse attraverso le sue membra stremate, permettendole di sollevare lievemente la testa. La luce fioca e dolente del cielo invernale filtrava attraverso le spesse nubi che scorrevano sul campo di battaglia, indifferenti all’odore di morte, alle vite falciate sulle quali scorrevano silenziosamente, all’insensatezza del tutto, e colpì i suoi occhi facendoli lacrimare appena. Il grigiore delle nubi la soffocava chiudendole la gola. Socchiuse appena gli occhi e in lontananza riuscì a scorgere una piccola nube baciata dal sole tremolante. Il suo grigiore era sopraffatto da un’aurea quasi cerulea, come il cielo di marzo, come una possibilità rinascere, ma anche come… 

 

***
 

Sdraiato su un fianco, avvolto e quasi soffocato dalla baluginante penombra fece scorrere il lungo indice scarno lungo l’osso che gli delimitava il bacino, altrettanto acuminato. Le sue ossa sarebbero state armi da taglio infallibili, gelide e spietate come i grandi occhi languenti di colei che aveva saputo fare del suo debole cuore mille brandelli, per civetteria o per semplice noncuranza. Ma lui non sapeva ferire, conosceva troppo bene il lancinante dolore causato dalle parole, il loro lento depositarsi nei meandri dell’anima, lo strazio più nero, che si consuma negli interminabili istanti di solitudine, in cui ogni secondo conficca le parole sempre più a fondo, negli abissi più reconditi dell’io per dannare l’anima in eterno. Un rumore sordo lo fece sobbalzare goffamente. Si mise in piedi a fatica, Giacomo, ventinove anni che pesavano come cinque secoli sulle sue ossa, sul suo debole corpo consumato da innumerevoli istanti veloci eppure eterni ed immobili, insensati e tutti uguali, vuoti e impossibili a colmare se non di nulla. Scese le scale lentamente, silenzioso come la morte, il silenzio gli procurava la dolce illusione del non essere, il rumore era irrimediabile sinonimo di esistere, dunque di sofferenza, di morte perpetua. Si affacciò al portone e trovò una lettera ingiallita ai suoi piedi. Sembrava carta preziosa. Si chinò a fatica, chiedendosi se non avessero sbagliato indirizzo. Uno stemma imponente di color verde brillante colpì i suoi occhi stanchi suscitando ulteriormente la sua curiosità.

 

A S.E. il Conte Giacomo Leopardi” inspirò a fondo riflettendo su quanto vuote fossero le parole che precedevano il suo nome, non solamente vuote di senso, ma vuote di vita, vuote di tutto. Proseguì la lettura “Sarei lieto se voi, sommo poeta voleste accettare l’invito a soggiornare nella mia residenza di Firenze, rispondete a codesta missiva e vi fornirò ulteriori dettagli.

Il vostro fervente ammiratore,

Visconte Alcide Degl’Innocenzi”.


Rimirò la bella busta color pergamena, conteneva una possibilità di fuga, un salto nel vuoto certo ma nulla sarebbe stato peggio della permanenza a Bologna. Preparò in fretta i bagagli, dopo fugaci saluti salì sulla carrozza che aveva prenotato lasciandosi alle spalle la “dotta” Bologna che tanto gli aveva arso il cuore. Era una giornata afosa a Firenze, famosa per il suo tempo mite e salubre. Il vento accarezzava delicato il volto della ragazza, che si ostinava a fendere l'aria col moschetto, come se davanti a lei vi fosse un qualche invisibile avversario. I capelli biondi le ricadevano sulla fronte e lungo le guance diafane. 
Quante volte quel vecchio burbero le aveva detto di posare “quell'affare”, perché “non adatto alle bambine”. Aveva sempre “giocato” con le pistole di nascosto e con le varie armi da taglio. Il Visconte non poteva toglierle dalle sue mani perché il vecchio aveva lasciato l'armeria alla sua cara nipote prima di morire ed essendo suo patrimonio, la ragazza passava intere giornate nella sala più grande del palazzo ad allenarsi. Vestiva come un uomo. Camicia, pantalone e corsetto. Lasciava la prima leggermente aperta sul petto per il troppo caldo e si potevano intravedere le fasce che le contenevano il petto in una stretta morsa.
Il padre non poteva vederla in quel modo, era di una belezza divina, avrebbe potuto avere miriadi di spasimanti e invece si ostinava a vivere in quel modo. Ogni tentativo di farle cambiare idea era vano e per il vecchio grassone era diventata una delusione, arrivando a vergognarsi della sua stessa figlia.
Il Conte chiuse gli occhi, per tentare di raggiungere la paradisiaca sensazione di immergersi nell’attimo prima della creazione, nella quiete incondizionata, nel tanto anelato non essere e di unirsi ad esso in eterno. Poteva avvertire le estremità del corpo perdere consapevolezza dello spazio circostante, il rumore della carrozza divenire sempre più lontano, come l’eco di un mondo, di una vita che si stava irrimediabilmente allontanando, tuttavia l’illusione era tanto labile quanto vigoroso era il suo amaro disincanto, presto le belle ville di Firenze avrebbero iniziato a lambire il suo sguardo, altra vita, altro insensato dolore. Sentì un rumore metallico, come uno sfrigolio di lame e si tappò istintivamente le orecchie, invano perché il rumore si avvicinava sempre di più, uccidendolo silenziosamente. 
Inspirò a fondo, il Visconte Degl’Innocenzi, e a fatica posò lo sguardo su quell’esile ma indistruttibile figura che stava scendendo le scale, armata di tutto punto. Per quanto si sforzasse non riusciva ad identificare quella creatura come un germoglio della sua pianta, seppure da lui avesse ereditato il portamento fiero e l’animo animato dal più gagliardo orgoglio. La osservò più attentamente e rabbrividì rendendosi conto di quanto assomigliasse alla moglie. Era come se si fosse presa il suo volto, le sue mani, che da ventitré anni non stringeva e non accarezzava più. Osservò di nuovo quella creatura tanto bella e mostruosa allo stesso tempo, e nonostante i suoi sforzi non riuscì ad avvertire che un flebile tiepido spiraglio di affetto verso quella giovane donna che fin dalla nascita sembrava aver stretto un perpetuo sodalizio con la morte, a causa del quale, in un sinistro baratto sua moglie se n’era andata per sempre, dandola alla luce. Erano stati ventitré anni bui, durante i quali mai, mai aveva smesso di considerarla un’assassina, l’assassina della sua Margherita, un intruso che si era frapposto fra di loro portandogliela via con il più gretto egoismo. Abbassò lo sguardo sconsolato, cercando un po’ di conforto nella missiva che gli era giunta poco prima, se non altro la persona che più stimava aveva accettato di soggiornare da lui Gertrude uscì in fretta, con passo leggiadro e impetuoso allo stesso tempo, il gran duca Leopoldo II aveva chiesto di vederla in privato, mediante una missiva criptica che non lasciava intendere nulla di buono.

- Arriverà una carrozza da nord… ho udito che vogliono attentare alla mia stessa vita…

Gertrude lo fissò attonita, ma senza mostrare alcun timore.

- Non faranno nulla, vostra grazia

Mormorò impassibile.

- Come ne siete tanto certa, se mi è concesso chiedere, viscontessina?

Si scostò leggermente i lunghi capelli biondi e sussurrò.

- E’ semplice. Non avranno più un alito di vita nei polmoni, parola mia.

Una brusca frenata riportò il Conte alla realtà, conficcò le unghie nel sedile imbottito, si sentì scaraventato in avanti con violenza inaudita, rabbrividì all’udire lo scricchiolio sinistro delle sue ossa. La porta si aprì e prima che potesse rendersene conto sentì una gelida lama scorrere sul collo. Per quanto odiasse l’essere, l’esistenza capì di non desiderare altro che vivere. “

- Dosate bene le vostre parole signore, saranno le ultime”

Gli sussurrò una voce terribile e suadente allo stesso tempo.

- Cosa… ci guadagnate? - trovò la forza di mormorare Giacomo - Il rimorso… vi ucciderà. Allontanò impercettibilmente la lama.

- E invece io vi faccio la cortesia di battere il rimorso sul tempo, maledetto traditore!

Giacomo tentò di dimenarsi, ma lei gli strinse i polsi al punto che non sentì più il sangue scorrervi.

- Io… sono il conte…

- Tacete!

Gli sibilò accarezzandogli la gola con la lama del coltellaccio che impugnava saldamente.

- Perché dovrei avere fretta? Meritano di morire di stenti, le fecce umane come voi!

Sentì la lama graffiargli il collo.

- Dicevate? Che siete nobile? - Mormorò sorridendo leggermente. - Beh, sapete di fronte alla morte il vostro titolo vi servirà ben poco…

Una goccia di sangue gli macchiò la camicia immacolata.

- Ditemi il vostro nome, per l’ultima volta.

- Lasciatemi! - Gridò convulsamente. - Sono un uomo di lettere, non ho fatto del male a nessuno!

Gertrude lo osservò stralunata e ritrasse il coltello, ma continuò a cingergli violentemente i polsi.

- Ah, si? E io sono Napoleone. Codardo. Certo che dovete avere un’alta opinione di voi per aver pensato di poter uccidere da solo il granduca… un peccato di presunzione che vi costerà caruccio, Conte.

Giacomo premette la schiena all’indietro in un vano tentativo di schiacciare quel corpo tanto ostile ma percepì una morbidezza inaspettata, come se il suo assalitore fosse… lo sentì dolersi del contatto con le sue ossa appuntite e decise di insistere, aggiungendo anche le unghie. Si voltò appena. Una lunga ciocca di capelli biondi gli si parò dinnanzi agli occhi, sentì di nuovo la lama sul collo.

- Ditemi chi siete, maledetto!

Ruggì Gertrude.

- Leopardi… Giacomo.

Mormorò lui con rabbia. Gertrude lo lasciò immediatamente e coprendosi il volto con il cappuccio del mantello che le copriva le spalle, scese dalla carrozza, in un’improvvisa volontà di fuggire dalla vita, dal mondo. Se il Conte fosse arrivato a lei, suo padre non l’avrebbe perdonata, non stavolta.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** L'arrivo ***


 

 "Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio."
Samuel Beckett



Si era atteso con impazienza l'arrivo del famigerato Conte Leopardi. Non sapeva che aspetto avesse, ma sicuramente si augurava fosse un giovane avvenente. Un miracolo sceso dal cielo disposto a far riprendere a sua figlia i comportamenti ad adatti ad una gentildonna che si rispetti, soprattutto se nobile! Quando il maggiordomo venne nel suo studio ad avvisarlo del suo arrivo, si poté dire d'esser rimasto "leggermente" deluso, ma decise di far comunque gli onori di casa che si devono ad un aristocratico più importante di lui, seppur di un gradino più alto nella classe sociale e soprattutto ad un geniale ed illustrissimo, reverentissimo letterato.

- Illustrissimo signor Conte -incominciò inchinandosi rispettosamente - sono onorato ch'Ella abbia accettato il mio invito nella mia umile dimora... ma... La preg-...

Si interruppe, perché si accorse solo dopo che il Conte sanguinava ed era pallido, soffriva palesemente.

- Per l'Amor di Dio, ma che vi è successo al collo? - chiese spaurito - Necessitate forse di un medico?

Abbassò rapidamente lo sguardo, visibilmente a disagio.

- Ebbene... me ne vergogno terribilmente.... non ho ancora posato piede nella vostra dimora e già vi causo delle preoccupazioni... ho avuto un... - sollevò gli occhi al cielo sempre più a disagio - Un incidente... durante il tragitto...

Il Conte premeva una mano sul collo. E Alcide lo guardava sempre più preoccupato.

- Ma figuratevi, signor Conte! Al contrario, dovrei esser io a provar vergogna! Non è stato di certo un gradevole benvenuto... Ma prego... Si accomodi, non faccia complimenti.

Disse e gli indicò il divano alle sue spalle, nel grande salone in stile rococò.

- Faccio recapitare subito un medico, Eccellenza.

E chiamò un servo, ordinandogli di andare a chiamare un medico urgentemente, infine aggiunse:

- Mi rendo conto che non siete nelle condizioni per raccontarmi che cosa vi sia capitato, ma non vi nego che a stento trattengo la curiosità.

Disse il visconte con voce grave.

- Ovviamente... non siete obbligato, Eccellenza. - balbettò - Potremmo parlarne anche in un altro momento...

Giacomo gemette flebilmente, il sangue usciva senza tregua.

- Sono stato assalito - Mormorò con un filo di voce - un malinteso, un dannato malinteso...

- Oh, Signore benedetto... - gli si avvicinò, porgendogli il proprio fazzoletto. - Conte, tenete, tamponate con questo. Bisogna che premiate sulla ferita, il medico sarà qui a breve. Si direbbe una ferita da lama...

Osservó preoccupato il volto del poeta farsi sempre più pallido.

- Mi credevano l'artefice di una congiura ai danni del Granduca, sapete?

Mormorò l'altro con voce sempre più flebile.

- D-dite il vero? - balbettò il Visconte, cominciando a sudar freddo - Ohibò... ultimamente si sta armati fino ai denti. Corre voce che vogliano sopprimerlo per un colpo di Stato... ma mi auguro sia solo una voce di corridoio...

Aggiunse infine con un sorriso imbarazzato, cercando di giustificare il tutto. Cominciava ad avere già sospetti sulla figlia. Come aveva potuto osare quella scapestrata? Molestare il loro illustre ospite!

- Voi comunque non sforzatevi più... noto con dispiacere che il parlare vi affatica non poco...

Il medico, un uomo basso e tarchiato con due enormi baffi, fece il suo ingresso nella sala e gli disinfettó le ferite raccomandandogli di non sottovalutarne la gravità, fiato sprecato data la sua naturale attitudine pessimistica. Le parole del medico gli scivolarono addosso greci come la pioggia di novembre. I gesti lenti e calibrati del medico indussero a riflettere sull'abissale assurdità del tutto e si chiese se, questo senso dell' esistere apparentemente irraggiungibile fosse precluso solamente ai suoi stanchi occhi che a lungo avevano indagato perdendo di giorno in giorno l'ardore giovanile, quel fuoco che l'amaro disincanto aveva cercato di estinguere per sempre, ma del quale tuttavia era rimasto un barlume.
Posò poi lo sguardo su di un ritratto che lo attrasse magneticamente con cieca irrazionalità. Vide due occhi neri fieri, apparentemente impregnati di uno scopo, di un mordente per cui vivere, allargò lo sguardo all'intera figura e si sentì ancora più solo al mondo, lei, chiunque fosse sembrava esperta dell'arte del vivere, quell'arte che era sempre stata refrattaria ad adattarsi alle sue sgradevoli sembianze. Eppure, uno sguardo più attento mise in luce gli angoli della sua bocca, carnosa e ben disegnata, leggermente piegati verso il basso, in un vano sforzo di resistere.
Il medico gli fasciò il collo e se ne andò subito dopo aver terminato il lavoro. Il Visconte si riavvicinò al suo ospite, che nel frattempo notò avesse adocchiato il ritratto della figlia.

- Quella è mia figlia, Signor Conte...

Giacomo ebbe un impercettibile sussulto, causato dal velato tono di disprezzo con cui il Visconte aveva pronunciato tale parola, con sgomento si rese conto di quanto conoscesse quel latente dispregio, pensò a sua madre, certo che avrebbe risposto nello stesso modo, con agghiacciante rassegnazione. Sentì quella figura nel ritratto vicina, dannatamente vicina eppure distante anni luce, a causa di quella vaga luce che le ardeva negli occhi. Lei nonostante tutto aveva trovato un mordente, o forse indossava una maschera oramai divenuta un tutt'uno con il suo volto fiero.
Alcide non riusciva a capire come mai lo fissasse con quella insistenza, come se vi stesse cercando qualcosa.

- Qualcosa non va, Conte?

- No. Assolutamente.

Mormorò torturandosi accanitamente le labbra inferiori con gli incisivi. Voleva capire, comprendere quel segreto che sembrava poter placare quella bufera che da anni oramai consumava lentamente il suo animo, e di conseguenza il suo fisico, già straziato dagli impetosi studi

- Sarete stanco dal viaggio, mi sono già preoccupato di farvi preparare una stanza, Eccellenza. I vostri bagagli sono già stati disfatti e sistemati. Se e quando avrete voglia di riposare, potrete chiede al maggiordomo... - e mentre parlava si voltò verso la porta alle sue spalle, distante qualche metro, dove stava l'uomo perfettamente eretto, accanto alla porta che, vedendosi indicato, rivolse un profondo inchino all'ospite - ... lui penserà a guidarvi fino alla camera.

Affermò rivolgendogli un gentile sorriso.
Ed il Conte, con passo incerto si diresse verso il maggiordomo, desideroso di offrire un po' di riposo alle sue stanche membra.
Fu un istante, effimero, breve come un battito d'ali, vide un'esile figura sfuggirgli dinnanzi e senti un doloroso tuffo al cuore, quella vaga e indefinita essenza di lavanda aveva già inondato le sue narici mescolandosi all'odore del suo sangue due ore prima, sulla carrozza, era una delle sue poche certezze. Sentì un brivido risalirgli lentamente la spina dorsale, si strofinó gli occhi sospirando lievemente. Forse la debolezza e lo spavento stavano semplicemente avendo la meglio sul raziocinio...
Il maggiordomo lo sentì rivolgere al suo padrone una parola di ringraziamento, prima di vederselo camminare stentatamente verso di sé, provava... non ribrezzo, era... come un sottile timore reverenziale e un'impressione di certo non positiva, vedendo la sua schiena deforme. Quell'uomo poteva arrivargli si e no a metà braccio!

- Prego, Eccellenza... per di qua.

Gli rivolse queste gentili parole con un sorriso altrettanto generoso e ponendo una mano lungo la porta, che tenne aperta, gli fece cenno di precederlo nell'anticamera del salotto, che avrebbero attraversato, per poi salire al piano superiore e raggiungere quella che tra le tante stanze degli ospiti gli era stata assegnata.
Si sdraió impacciatamente, senza togliersi gli abiti, per un istante riuscì persino a sentirsi privo di quel dannato corpo, che tanto odiava e che tuttavia si era trovato a difendere. La solitudine lo strinse di nuovo nella sua morsa, era l'unica donna a non provare ribrezzo nel divenire un tutt'uno con lui, fino ad assorbirgli l'anima. L'unica e la sola.
Gertrude aveva assistito alla scena, in silenzio, guardando da dietro la fessura della porta della sua camera, che aveva lasciato socchiusa per poter vedere.
Vide quell'uomo, così goffo e impacciato, aveva un'andatura strana, oscillante, e quella gobba... Quando si fu calmato tutto, s'infiltrò nella stanza. Voleva vederlo meglio e da vicino. Non sapeva perché, ma le sembrava misterioso. E il mistero è facile che attiri. Si guardò intorno velocemente e si addentrò. Era proprio di fronte alla sua camera. Lo osservò. Muovendosi silenziosa nella stanza. Era proprio lì. Sdraiato sul grande letto matrimoniale. Sembrava un morto, di quanto fosse pallido. Ne osservò la fisionomia. Era magrissimo e piccolissimo. Nella carrozza sembrava più grosso. Rimase una decina di secondi o forse più. Quel tanto che bastasse per imprimere la sua immagine nella mente, poi uscì, richiudendo la porta alle sue spalle.
Il Conte sentì un rumore lontano, ovattato quasi provenisse da un altro mondo, forse si era aperta la porta? Ad ogni modo decise di non permettergli di sottrargli quella quiete immobile tanto vagheggiata durante il giorno. Avvertì qualcosa posarsi su di lui, si portò lentamente una mano al volto, senza aprire gli occhi. Non era nulla di materiale, forse uno sguardo benevolo o una brezza leggera che accarezzó il suo pallido volto sfregiato dalla sofferenza, scavato dalle lacrime. Stette bene, per un istante. Un altro rumore, e di nuovo la solitudine, prepotente aguzzina. C'era qualcosa nell'aria che addolciva il suo respiro, quasi cullandolo. Era un profumo intenso e delicato allo stesso tempo, un lieve profumo di lavanda...
La ragazza andò a cambiarsi, togliendosi la giacca e raggiunse il padre, dopo aver chiesto indicazioni ad una domestica.

- Padre... perdonatemi.

Richiamò la sua attenzione arrivandogli alle spalle, rimanendo sulla soglia del suo studio. Egli stava riordinando la sua libreria.

- Gertrude - pensò di mormorare, anche se la sua voce grave giunse alla figlia come un ringhio. - Vi vedo stanca, mia cara. Avete avuto una giornata intensa oggi, n'è vero?

- Ho fallito, padre. - gli disse non appena terminò di parlare, quasi interrompendolo. - Non sono riuscita nel mio compito. Sono rimasta tutto il giorno a far la guardia all'entrata della città. Ho controllato tutte le carrozze che uscivano ed entravano a Firenze, ma niente. Per fortuna nessun allarme dal palazzo del Granduca. A quanto pare era solo una diceria.

- Ditemi, cara, avete per caso visto il medico uscire di qui?

Chiese cercando di non mostrarsi alterato voltandosi verso di lei e tenendo i sottili occhiali da lettura sopra il naso adunco, mentre la guardava da sopra le lenti.

- No, padre.

Rispose lei scuotendo appena il capo, fissandolo dritto negli occhi.

- Non è venuto per me... anche se dubito ve ne importerebbe... diciamo pure che Sua Eccellenza il Conte Leopardi ha avuto... come dire... un viaggio alquanto movimentato.

Lei sollevò il capo come per accentuare la curiosità che in realtà non aveva.

- Ah sì? Ed è già arrivato, Padre? So che lo aspettavate con impazienza.

- Sì... appunto. - Sibiló con sdegno. - Ma... suvvia mia cara, non mi sembra il caso di tediarvi con le mie questioni che, senza dubbio sono bazzecole rispetto all'imprescindibile ruolo che rivestite voi nella società... Ve ne prego, parlatemi della vostra missione, perché mai è fallita?

Sollevò un sopracciglio biondo.

- Beh, padre... vi rammento che apprezzo molto la letteratura, soprattutto quella dei giorni d'oggi. Grazie a voi. - fece una pausa e poi riprese - A proposito, padre... come vanno i vostri affari? Si parla bene della vostra... "roba". Sono felice per voi.

Terminò abbassando lo sguardo e sollevando le sopracciglia.

- Avete un'abilità innata nel volgere il discorso dove più vi è di comodo. Come voi credete, e sottolineo, credete di essere a conoscenza dei miei affari, io ho buoni informatori circa i vostri... errare è umano, sapete? Ma perdonare no, solo Dio può farlo a parer mio, mi sembra corretto rammentarvelo. Cosa volete da me, figlia ingrata? Pensate alla vostra coscienza e al peso che la condannate a portare ogni giorno, anziché perdere il Vostro tempo a immaginare congetture per incastrare me, vostro padre, colui che vi ha cresciuta, sfamata!!!

- Non voglio tornare su questo argomento, padre. Sapete bene come la pensi su di voi... e sulle modalità rousseauniane della mia educazione. Ebbene non esigo che voi mi perdoniate. Il perdono equivale alla pace e non è certo la pace a regnare... né tra di noi, né nel Vostro cuore. - ridacchiò appena, con la sua voce grave e melodiosa al contempo - Diciamo che... ho sbagliato carrozza.

Incrociò le braccia al petto, sorridendo con aria di sfida mentre si appoggiava con la spalla al cornicione.
Inspiró a fondo, Alcide, con la precisa volontà di sottrarle la maggiore quantità di ossigeno possibile. Sollevò un sopracciglio grigio, la rabbia lo consumava piano, ardendo silenziosamente nei meandri più riposti della sua anima. Si rese conto di essere stato l'artefice della sua distruzione, si era condannato, quella dannata notte senza luna in cui l'aveva concepita. Si era costruito da sé la gabbia, ma non per questo ne sarebbe stato prigioniero. Con gelida indifferenza puntò gli occhi su quel corpo, ora più che mai estraneo.

- Non ne avevo dubbi. - sibiló sommessamente, assottigliando le labbra per la stizza. - Certi errori si fanno una volta sola, però. Aggiunse, senza battere ciglio.

- Oh... - rise divertita e beffarda, rimanendo sullo stesso tono. - Alcide Degl'Innocenzi che dà una tregua? Cos'è, l'arrivo del vostro amato poeta vi ha reso generoso, quest'oggi?

Continuava a sfidarlo. Le piaceva torturarlo e ancor di più fargli perdere la pazienza, facendogli assottigliare le labbra ancor di più di quanto non fossero-
Il Visconte sentì la rabbia mescolarsi ai suoi fluidi corporei e scendere piano, come le gocce sui vetri appannati durante le giornate d'autunno che era solito trascorrere leggendo le poesie di colui che pur nella sua grandezza non aveva disdegnato di soggiornare da lui. Sentì la rabbia raggiungergli le viscere, o forse era odio? Ad ogni modo negarlo non faceva che peggiorare la situazione. Sua figlia era un pericolo, soprattutto per il suo ospite.
Gertrude sorrise di più, ridacchiò ancora. Sentiva bene la sua rabbia. Tirò fuori il suo pugnale e lo rigirò tra le dita, sfiorando il filo della lama coi polpastrelli.

- Non dovete temere... più tardi cercherò di chiarire la questione... - Disse osservando la lama limpida e lucente. - E cercate di calmarvi, paparino... - enfatizzò quel nome in modo dispregiativo - ... non vorrete beccarvi un malore, alla vostra età.

E scoppiò a ridere sguaiatamente.

- Voi non chiarirete nulla.

Mormorò con la surreale tranquillità di un vulcano prima di una violenta eruzione. inspirò con rabbia e le si avvicinò fino a che non avvertì il debole calore del suo respiro.

- Non permetterò che si sappia che il sangue del mio sangue ha quasi ucciso Sua Eccellenza Giacomo Leopardi. Mi sembra superfluo aggiungere che l'essere vostro padre mi procura un'indicibile onta.

Si accarezzò il mento, impassibile. La fissò di nuovo negli occhi, senza provare assolutamente nulla.

- Voi non avete assalito quella carrozza, intesi?

Le si avvicinò ulteriormente, imponendosi di mantenere la calma di fronte a quello sguardo beffardo.

- Vi proibisco di rivolgere la parola a Sua Eccellenza, in caso contrario, le porte di questa dimora si chiuderanno davanti a voi per sempre.

Lei, di tutta risposta lo guardò impassibile, per tutto il tempo.

- Carissimo papà. Voi che dimostrate tanto odio e ribrezzo verso di me... voi che avete tanto sostenuto i metodi d'educazione da un uomo che rinchiuse tutti i figli suoi in un orfanotrofio... Ditemi, cosa fate voi per guadagnarvi un minimo di riguardo da me? Cosa fate per cercare di ripristinare quell'affetto ch'io vi dava quand'era ancora in fasce? Eh?!

Lo guardava mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime.

- Cosa? Ditemelo!

Gli urlò in faccia e subito corse di sopra, trattenendo il pianto in petto.
Alcide strinse i pugni fino a sentire un dolore lancinante, qualunque cosa pur di sovrastare quell'enorme voragine che aveva impietosamente ridotto a brandelli la sua anima, e il suo cuore, si perché in quell'istante non vide l'impertinente e supponente Gertrude rinfacciargli I suoi limiti, bensì sua moglie alla quale Gertrude non aveva sottratto solo la vita ma anche l'intelligenza, l'arguzia e il modo di atteggiarsi. Giacomo udì al di là della porta uno straziante pianto convulso, si mise a sedere stropicciandosi gli occhi dolenti. La ferita gli pulsava sinistramente. Conosceva bene il rumore che produceva un cuore a brandelli. Avrebbe voluto esser lì, anche se non era affar suo perché il dolore é il comune aguzzino di ogni forma vivente, anche se nutre una particolare predilezione per il genere umano. Sarebbe andato a fondo di quella questione, oramai aveva deciso.
Scoppiò a piangere solamente quando fu sola. Chiusa nella sua stanza. Non doveva farsi vedere da lui. Non doveva farsi vedere debole. Non ne poteva più di quell'odio insensato che durava da vent'anni. Suo padre era tutto ciò che le rimaneva della sua famiglia. Realizzò solo dopo che il Conte stava riposando nella stanza proprio di fronte alla sua, così cercò con tutte le sue forze di calmarsi e asciugò le lacrime. Pregò che non l'avesse sentita e che suo padre, cosa molto improbabile, non l'avesse seguita.

                                                                                               
                                                                                                
Jean-Auguste D. Ingres  -  Portrait of Monsieur Bertin (Louis-François Bertin)

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Profumo di lavanda ***



Le donne sono fatte per essere amate, non capite.
O. Wilde


Si stropicció gli occhi frastornato, le ossa gli scricchiolavano terribilmente, uno strano torpore lo assaliva, come se le sue povere ossa non avessero tratto giovamento da quella lunga notte.
Si cambiò in fretta gli abiti, dato che era vestito di tutto punto dal giorno prima e scese di sotto con passo incerto, consapevole di dover consumare la colazione circondato da estranei.
Fu una notte lunga ed insonne per Gertrude e di sicuro anche per il Visconte. Non aveva fame. Si fece portare in camera solo una brioche e poi si rivestì. Una nuotata forse l'avrebbe rilassata. Seduto rigidamente su di una polverosa sedia imbottita, con il busto perfettamente eretto, Alcide affondava rabbiosamente i denti nel pane tostato, dilaniando il sottile strato di burro che lo sovrastava. Avrebbe voluto altro per la sua vita, un altro copione, altri personaggi. Aveva sentito sua figlia uscire sbattendo l'enorme portone d'ingresso, una dilaniante inquietudine gli mordeva l'anima nonostante i suoi continui tentativi di assopire la sua coscienza, autoconvincendosi che era sua figlia ad essere una mela marcia. Intravide il suo ospite scendere goffiamente le scale e sollevato diresse lo sguardo verso di lui, con gli occhi luccicanti di ammirazione. Forse per un quarto d'ora i pensieri l'avrebbero lasciato in pace.

- Buongiorno, Eccellenza.

Esclamò il Visconte in un'estenuante parvenza di normalità, che Giacomo immediatamente smascherò, conosceva bene l'arte di fingere.

- Buongiorno, Vostra Grazia.

Rispose Giacomo con la sua voce fioca. Non aveva affatto voglia di nutrire il suo corpo deforme, ad ogni modo, per non disgustare il Visconte decise di portarsi qualcosa alla bocca.

- Avete dormito bene, Conte?

Giacomo si schiarì leggermente la voce, quale domanda migliore per iniziare a sodisfare la sua curiosità?

- Abbastanza bene, Vostra grazia, anche se stanotte mi è sembrato, pensate un po' di udire un pianto sommesso attraverso la porta..."

Vide il Visconte impallidire leggermente e indugiare un poco per poi riacquistare il tipico atteggiamento sicuro e imperturbabile.

- D-dite davvero? Beh, non proveniva dalla nostra dimora, Conte, ve lo posso garantire...

Stava palesemente mentendo, ne era certo.

- Probabilmente è stata una mia allucinazione causata dalla debolezza... - Aggiunse Giacomo, determinato a volerne sapere di più. - Sarò ben lieto di leggervi alcuni dei miei componimenti, Visconte, tuttavia noto che avete una splendida tenuta, forse potrei trarre ispirazione dall'ambiente naturale circostante...

Era sempre stato dotato di eccellente diplomazia.

- Oh, esimio, il vostro aprezzamento mi lusinga, sarò ben lieto di mostrarvi la mia tenuta, che si estende fino alle colline, sempre che la mia presenza non sia d'intralcio alla vostra ispirazione, s'intende!

Giacomo dilatò lievemente gli angoli della bocca, non era un sorriso, no, era semplice compiacimento di fronte alle sue abilità dialettiche.

- Non mi siete affatto d'intralcio... sarò ben felice di passeggiare con voi, nel pomeriggio... Stamane potrei passeggiare un po' rimanendo nelle vicinanze, così da non interferire con i vostri impegni mattutini.

Il Visconte lo guardò con profonda ammirazione.

- La vostra discrezione è ammirevole, ad ogni modo sappiate che li avrei rimandati volentieri.

Giacomo masticò lentamente una piccola fetta di pane tostato, dopo un minuto di totale silenzio rispose :

- Anche la vostra disponibilità lo è, ma credetemi non è necessario.

Congedò il Visconte e uscì da un'entrata secondaria, incuriosito da alcuni rumori secchi, che sembravano provenire da un casolare a cento metri dal palazzo.
La fanciulla, nell'armeria, sfogava la sua rabbia contro uno dei manichini di legno presenti nella sala. Quel manichino aveva le "braccia" rotanti, collegate ad un meccanismo a molla che dopo un determinato numero di volte che venisse colpito lo scudo o la spada, si azionasse, facendo roteare la parte superiore, in modo da simulare un contrattacco.
Giacomo, con molta cautela aprì leggermente la porta d'ingresso sperando che il rumore all'interno superasse il debole scricchiolio della porta. Deglutì a fatica, estraneo a quella furia o meglio ad una sua esternazione. Sentì gli occhi bruciargli enormemente, feriti da un sottile fascio di luce che colpiva la porticina, tuttavia con enormi sforzi riuscì a mettere a fuoco quel corpo esile eppure agilissimo e a rendersi conto che si trattava di una giovane donna. Si sentì profondamente turbato ma contemporaneamente avvertì la curiosità solleticarlo sempre di più, irresistibilmente. Richiuse la porta con molta cautela, deciso a comprendere cosa avesse sottratto la dolcezza, i boccoli e l'abito lungo a quella giovane. Capì che c'entrava il visconte, e voleva saperne di più, come se non riguardasse soltanto lei... anche la sua vera natura aveva dovuto cedere agli eventi funesti che la sorte gli aveva preparato negandogli anche la speranza. No, qualunque cosa fosse capitata a quella giovane donna, ora riguardava anche lui. Sentì la porta aprirsi e si nascose impacciatamente dietro ad un cespuglio... la vide uscire, sudata fradicia
Una volta uscita dall'armeria, Gertrude pensò che fare un bagno nel ruscello fuori città non sarebbe stato una cattiva idea. Inizialmente aveva pensato di portare il suo cavallo con sé, ma non era così distante, quindi avrebbe potuto andare a piedi. Si allontanò verso est, tenendo la giacca sul braccio e una volta raggiunto il bosco, si tolse gli stivali per poter camminare a piedi nudi sull'erba bagnata di rugiada. Inspirò l'odore della Natura e un sorriso le fu spontaneo. Sciolse i lunghi capelli biondi dal nastro che li teneva legati a coda e si avvicinò al ruscello limpido, camminando tra le macchie di luce che filtravano dalle fronde degli alberi e si spogliò. Lasciò tutto sulla riva, rimanendo con solo la camicia indosso, che le arrivava fin sopra le ginocchia.
Il Conte non seppe spiegarsi il motivo esatto per cui, vedendola uscire dall'armeria non era riuscito a fare a meno si seguirla, sentiva solo che la vicenda di quella fanciulla oramai riguardava anche lui. La vide liberarsi dei vestiti e istintivamente deviò lo sguardo, si sentì avvampare. Si avvicinò alla riva del ruscello, osservando di sottecchi i movimenti aggraziati della fanciulla, non sembrava solamente rinfrescarsi quanto cercare disperatamente di lavarsi via un sengno indelebile, istintivamente si sporse verso quell'acqua nella quale anche lui, inconsciamente desiderava immergersi totalmente, Sentì il suo corpo inclinarsi terribilmente fino a che cadde goffamente nel ruscello con un tonfo secco.
Lei stava rinfrescandosi sotto il fluire delle fresche acque del ruscello, quando sentì qualcosa cadere in acqua, dall'altro lato del ruscello, subito cercò di avvicinarsi, quando vide un uomo riemergere energicamente prendendo una grossa boccata d'aria. Ne approfittò del fatto che fosse ancora non completamente cosciente per prenderlo dal busto di peso, sollevandolo e poi riportarlo sulla riva, facendolo stendere. Ma era... era il Conte? Che ci faceva lì? Si asciugò alla bene e meglio e si rimise le braghe, lasciando la camicia fuori, che era ancora inzuppa d'acqua. Ne prese un lembo dell'orlo e lo strizzò tra le mani, per poi legarlo attorno alla vita, il tutto senza lasciarsi sfuggire neanche un secondo il Conte di vista.
Egli ansimó piano, tossendo l'acqua che aveva ingoiato, sobbalzó quasi spaventato dalla visione sfocata e tremolante di quella figura che immediatamente le parve terribilmente familiare. Sentì una leggera fragranza di lavanda, la stessa aveva inondato le sue narici sulla carrozza in quegli istanti densi di morte. Non poteva essere stato assalito con tanta veemenza da una fanciulla dai lunghi capelli biondi, sebbene in armeria avesse dimostrato abilità solitamente sconosciute ad una donna.

- Perdonatemi, signorina - mormorò a fatica tossicchiando altra acqua - temo di avervi già incontrato, ma non rammento la circostanza...

Gertrude si legò i capelli e si chinò su di lui e gli sfiorò le labbra sottili con un dito, schiudendo le proprie, così rosse e carnose.

- Voi non mi avete mai incontrato...

Il contatto con la sua pelle liscia raffreddata dal contatto con l'acqua gli provocò un lieve sussulto, un sudore gelido gli imperló la fronte pallida, le sue guance divennero rosso acceso anche se era troppo debole per rendersi pienamente conto del gesto compiuto dalla fanciulla, sentì il cuore risvegliarsi dal solito torpore che già era stato brutalmente scosso il giorno prima in carrozza. Si toccò la benda sul collo, era fradicio e la ferita aveva ripreso a sanguinargli un poco. Fissó lo sguardo negli occhi profondi di quella fanciulla che con tanta determinazione si prodigava a piegare le sbarre di quella gabbia che il fato il suo sesso e la sua condizione avevano impietosamente preparato per lei. Vide come un tentennamento in quella disumana determinazione, come una lacrima sfuggita alle sue lunghe ciglia, ma forse era solo una goccia d'acqua del ruscello...

- Signorina, insisto, io vi ho già visto.

Non riuscì a trattenere una lacrima che le uscì fuggitiva e solcò di tutta fretta la guancia bagnata, quasi avesse paura d'esser scoperta. Gertrude non seppe che altro fare se non prostrarsi davanti a quell'uomo così piccolo e pure così grande, persino più grande di lei, da farla sentire una formica. Una piccola insignificante formica. Si piegò sul suo petto, piangendo e stringendo tra i pugni i lembi sul petto della sua giacca.

- Vostra Eccellenza, sono stata io... perdonatemi, vi prego... perdonatemi, io non sapevo... non volevo... E' stato un equivoco... un terribile equivoco...

Ripeteva singhiozzando tenendo il capo chino su di lui.

Giacomo spalancó gli occhi esterefatto anche se in cuor suo sapeva fin dall'inizio che era stata lei. Non provò rabbia, no. Provò una sfrenata stima nei suoi confronti nonostante avesse attentato alla sua stessa vita. Avvicinò una mano tremante al volto della giovane, sfiorandolo appena.

- Non... temete, io non ne farò parola con nessuno! - Mormorò Giacomo con il cuore in gola. - Io... io vi ammiro, infinitamente.

Esclamò posando il palmo della mano sulla ferita che gli doleva incredibilmente.
Lei sollevò lo sguardo quando sentì la sua mano posarsi sulla propria guancia. Gli sorrise appena a quelle parole, ma quel sorriso si spense quasi subito perché lo vide sfiorarsi la ferita.

- Mi dispiace, Eccellenza, per la ferita... e l'acqua di sicuro non aiuterà a farla rimarginare.

Si alzò e lo aiutò a fare lo stesso.

- Venite, staremo per un po' all'armeria, fa sempre caldo lì, soprattutto in questo periodo. Se ci vede mio padre... chissà cosa penserà!

Esclamò infine sollevando gli occhi al cielo, ma terminando con un sorriso divertito al pensiero di quel vecchio che andava su tutte le furie, assottigliando ancor di più quella bocca fine come il filo d'una lama. Il che non faceva molta differenza con la sua lingua. Altrettanto affilata.

- Non fatevene un cruccio, Viscontessina, le ferite mortali che mi straziano sono invisibili e al contrario di questa non si rimargineranno, si sono aperte come voragini inghiottendo come belve fameliche il mio tempo migliore, lasciandomene miseri brandelli che assumono i contorni sfocati di un passato che ogni giorno m'appartiene di meno, alcune volte dubito della mia stessa vita...

Con grande sforzo tentò di rimettersi in piedi, un brivido gli scese lungo la spina dorsale, la lieve brezza non si conciliava bene con i suoi abiti fradici. Gertrude scoltò le parole di quel poeta. Improvvisamente sentì d'avere anche il cervello d'una formica, ma poi si riprese perché lo vide tremare. Aveva sentito della sua salute cagionevole e non avrebbe voluto che si ammalasse per colpa sua. Gli poggiò la sua giacca sulle spalle e lo prese a braccetto.

- E' meglio se ci sbrighiamo..

Su indicazione della fanciulla si accomodó pensieroso sul rudimentale sofà che gli aveva indicato, la vide frugare in un piccolo armadio e porgergli degli abiti asciutti, rigorosamente maschili. Non voleva essere indiscreto ma la curiosità lo solleticava torturandolo crudelmente

- Avete buon gusto nel vestire, lo penso realmente.

Disse infine sperando di avvicinarsi al suo segreto.

Gertrude sorrise a quel complimento.

- Non ho mai amato le gonne. Perdonate se non è comodo, so che siete abituato a ben altro, ma almeno... qui potrete riprendervi e asciugarvi. Vado a prendere delle bende asciutte, voi cambiatevi pure.

Il Conte arrossì leggermente, e quando si fu accertato di essere solo iniziò a togliersi cautamente i vestiti. Nessuno l'aveva mai visto nudo, a parte sua madre quando era un neonato, nessun essere umano avrebbe potuto reggere a tanto ribrezzo, ne era certo, lui stesso si premurò di strizzare violentemente gli occhi, come al solito per sottrarre loro quella visione ripugnante. Sentì un rumore secco, come una porta che sbatteva e l'assillante idea che la fanciulla fosse uscita solo allora lo pugnalò violentemente al petto. Lei lo vide cominciare a spogliarsi, ma non guardò per discrezione, vedeva solo la sua sagoma chiara dalla coda dell'occhio mentre si metteva una giacca asciutta, per poi uscire. Dopo qualche minuto tornò da lui, con delle bende e dello spirito. Il poeta era già rivestito, aveva lasciato la camicia aperta e la cravatta sciolta attorno al collo, in attesa del cambio delle bende. Si sedette accanto a lui, rivolgendogli un dolce sorriso e con gesti delicati gli tolse le bende bagnate. Una volta asciugata la parte con un panno, disinfettò la ferita tamponando sul taglio con altrettanta delicatezza.

Il poeta si stupì della dolcezza che la fanciulla custodiva gelosamente, sepolta da una fredda coltre d'acciaio, più tagliente delle sue stesse armi e si convinse che anche lei per sopravvivere ad un mondo crudele e aguzzino aveva dovuto appiccicarsi addosso una maschera. Si stupì di quella dolcezza che gli veniva rivolta, era fermamente convinto di non meritarla. Voleva ringraziarla ma l'improvvisa felicità gli impediva di parlare, nessuno prima d'ora si era preso cura di lui, si limitò a sorridere sperando che quell'istante non finisse mai. Lo vide sorriderle, anche se inizialmente si lasciò sfuggire dei sibili e allora la ragazza, un po' intimorita tentò di fare più piano e lui la guardava sempre con più dolcezza. Quando terminò gli rifasciò il collo e quasi istintivamente gli richiuse la camicia e gli fece il nodo alla cravatta, lisciando poi con le mani il colletto della giacca, stirandolo. Giacomo la osservò attentamente, per sottrarre al vortice dell'oblio quegli istanti in cui la natura e la vita sembravano mostrargli quella clemenza che mai da quando il sole aveva ferito i suoi occhi per la prima volta aveva conosciuto.

- Questo pomeriggio leggerò a vostro padre qualche mio componimento, mi sembra il minimo per ringraziarlo dell'inaspettato ma graditissimo invito. Sapete... - le confessò abbassando la voce - Mi lusinga molto che un uomo di valore come vostro padre apprezzi i miei componimenti ma... ve lo dico con tutta sincerità... non trovo nulla di grande nella mia poesia che non sia lo sconforto di fronte all'arido vero della nostra esistenza. Forse vostro padre ha piena consapevolezza del dramma del vivere...

- Mio padre è un uomo duro e senza cuore. Fa così solo per farsi credere sensibile alla cultura... ma si sa che la poesia non è per tutti. - confessò per poi fare spallucce e rialzarsi. - Voi siete libero di fare quel che volete, ovviamente, non sarò io ad impedire che rispettiate i vostri impegni.

Giacomo non rimase affatto sorpreso dalla risposta.

- Anche... - sospirò dolorosamente - anche mia madre è sempre stata... - quelle parole gli uscivano dal cuore ma sembravano straziarlo - Non importa.

Concluse tenendo le braccia conserte e e il capo reclinato.

- Avete detto che la poesia è per pochi... voi credete di farne parte?

Azzardó senza sollevare lo sguardo

- Io... non saprei, ma di sicuro sono più sensibile di mio padre. - rispose lei poggiando le mani sui fianchi - Ma comunque... secondo me è meglio che riposiate e che stiate più alla larga possibile da lui. Non fa per voi. Non comprenderebbe.

Giacomo rimase attonito di fronte a quel suggerimento perentorio ma sentito, ricolmo di lacrime strozzate e di dolori affogati, sminuzzati dietro alla maschera.

- Quasi nessuno comprende... noi esseri umani siamo dotati di linguaggio e pertanto flagellati dall'incomunicabilità insita nelle parole.

Si alzò a fatica.

- Non ho ancora avuto il piacere di sentire il vostro nome...

Le chiese mentre la vedeva voltarsi verso l'uscita, poi si girò appena verso di lui con un sorriso dolce e divertito.

- Gertrude.

E si dileguò lasciandolo indietro mentre si allontanavano dall'armeria. 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Una dolorosa filosofia ***



Senza le illusioni non ci sarà mai grandezza di pensieri,
nè forza, impeto e ardore d'animo,
nè grandi azioni che per lo più son pazzie.




Gli piaceva quel nome, racchiudeva una latente dolcezza coronata di spine. Si rese conto che si era fatto tardi e che a breve il visconte avrebbe chiesto di lui. Rifletté sulle parole della fanciulla riguardo al padre e pensò che stava per offrire i suoi più intimi moti dell'anima ad un estraneo che amava si la sua poesia ma non la persona che fremeva di sdegno per la gelida crudeltà del tutto, a lui importava del conte Leopardi grande poeta, non di Giacomo. Abbassò lo sguardo. Non solo a lui... un'orda di sconforto gli tolse il fiato. Forse Gertrude voleva solo salvare il salvabile e farsi perdonare... forse non le importava davvero di lui. Forse nemmeno a Carlo e Paolina, in fondo non l'avevano scelto, era capitato che fosse loro fratello. Forse era proprio vero, tolte le abilità poetiche tolte il titolo non restava altro che Giacomo, un povero uomo malato. Ora ne era certo, per quanto qualcuno amasse Leopardi, di Giacomo non importava niente a nessuno. Sentì le lacrime annebbiargli la vista, tirò su col naso e dopo un profondo respiro tornò a fingere, senza smettere di pensare che era troppo vero l'affetto di quella fanciulla per essere stato dettato da un mero senso di colpa.

Quel pomeriggio si trascinò lento. Troppo lento per i suoi gusti. Fin quando arrivò la sera e l'ora di coricarsi dopo la cena. Gertrude si recò nella sua stanza e dopo una buona mezz'ora poté vedere il Conte fare lo stesso, sbirciando dalla fessura della porta socchiusa. Aveva un sapore amaro in bocca, come se avesse inghiottito del fiele. Cercò disperatamente di distrarsi dall'idea che nulla di esistente o di immaginabile avrebbe potuto saziare la sua voragine. Eppure seppur per poco era stato bene quella mattina... forse bastava poco, molto poco a spegnere quell'inguaribile strazio. Sentì un lieve cigolio alla porta e si trascinó goffamente di fonte ad essa. Sfiorò il legno con il palmo della mano e capì che qualcuno stava facendo lo stesso dall'altra parte. Ebbe voglia di convogliare la sua debole vista nella stretta toppa della serratura come quando, fanciullo, spiava sua madre mentre pregava con la viva speranza di essere notato. Si mise in ginocchio, a fatica e socchiuso l'occhio sinistro vide quest'ultimo magneticamente attratto dallo sguardo profondo di Gertrude. Sobbalzó per l'imbarazzo ma contemporaneamente si rese conto di non riuscire ad ordinare alle sue gambe di rimetterlo in piedi. Gertrude si distolse dalla porta e su girò di spalle tamburellando un dito sulla bocca, riflettendo. Infine uscì e lo raggiunse. Se lo vide davanti, in ginocchio, poggiato sulle mani. Subito si chinò su di lui.

- Eccellenza.. che avete? State male?

Chiese preoccupata poggiando una mano sulla sua spalla, pronta a reggerlo, semmai avesse voluto rialzarsi.

- Perdonatemi - mormorò a fatica, quasi in lacrime - Non chiamatemi più Eccellenza o Conte... - pensò di essere preso per pazzo. così aggiunse - Questi appellativi decorano la forma, voi mi sembrate detestare quest'ultima, non cedetele ve ne prego. Mi avete quasi privato della mia funesta vita. Mi avete visto lottare per difendere qualcosa che ogni giorno chiamo aberrante. Chiamatemi Giacomo, voi non siete vostro padre, vi prego.

La supplicó afferrando delicatamente la sua mano per rialzarsi.

- Siete voi che sembrate odiarla tanto.

Lo guardò sconvolta per tutto il tempo e lo aiutò a rialzarsi.

- Perdonate me... non avrei voluto né dovuto attentare alla vostra vita.

Lo guarò con gli occhi colmi di lacrime.

- Voi avete attentato alla mia vita in nome di un ideale, non sapete quanto vi invidio... darei tutto per poter credere ancora in qualcosa oltre all'angosciosa infinitezza del nulla...

- So che molto probabilmente io sono la persona meno adatta per questo genere di cose. - cominciò con aria sognante. - Ma la vita ci preserva tante sorprese e quando meno ce lo aspettiamo... beh, viene qualcuno o qualcosa che ci stravolge tutto. Irrompe nella nostra anima come un Attila furioso e combina un putiferio. Se in senso positivo o negativo? Beh... questo lo scopriremo solo vivendo.

Lo guardò mantenendo il sorriso sulle labbra e lui non poté fare a meno di ricambiarlo, sebbene fosse appena accennato, quasi impercettibile.

- Parlate di un'esperienza o di un'illusione, se mi è lecito chiedere?

- Ci sono illusioni che durano una vita, Eccellenza. Le esperienze ci segnano, ma non sono eterne. Se sia la prima o la seconda non lo so. Dipendiamo dalle Moire e la nostra Vita è nelle loro mani.

- Vi porrò un'ultimo quesito... Vi siete mai sentita vittima di un destino aguzzino, costretta a recitare un canovaccio che vi disgusta ma che non potete rifiutare, perchè è la vostra vita e perchè come tutti, temete la morte?

- Io non temo la morte. La sfido. La affronto. La sbeffeggio. Ogni giorno. E il mio canovaccio l'ho già stabilito tanto tempo fa. Nessuno viene ad apprezzare la mia recitazione, ma non m'importa. È il mio teatro e recito come voglio. Sono io stessa aguzzina del mio stesso Destino. Gli sto andando contro. Avversa. Io vado controvento e andare controvento è solo per i più coraggiosi. Gli altri sono il vento. Io l'ostacolo.

Leopardi la ascoltò senza nemmeno respirare, era esattamente il modo in cui si era proposto di agire varcata la soglia dell'adolescenza, ma ora che le sue speranze si erano fievolmente assopite, pur serbando in lui quell'impeto guerriero in grado di cambiare i destini avversi non trovava più le energie per alimentarli di fuori di lui.

- Ammiro la vostra forza d'animo, non deve essere stato semplice e indolore per voi

diventare ciò che siete...

- Mi è già bastato mio padre a rendermi la vita difficile.

Sospirò.

- La sofferenza è una dura maestra, non c'è dubbio. Anche io ero in disaccordo con mio padre su molte questioni, per non parlare dell'intransigenza di mia madre... vi comprendo appieno... deve essere stato duro con voi.

Rispose lui torcendosi le lunghe mani affusolate e candide come la neve.
Gertrude lo fissò in quei suoi occhi celesti che sembravano celare un mare in tempesta, nel quale erano pochi gli scogli a cui potersi aggrappare.

- Eccellenza, bisogna sempre rialzarsi. Nonostante tutto. Bisogna ribellarsi. Combattere contro gli ostacoli, e se non ce la facciamo da soli, vedrete che prima o poi arriverà qualcuno disposto ad aiutarci, che ci accetterà per come siamo e che apprezzerà il nostro teatro e la nostra recitazione. Bisogna solo saper riconoscere questo diamante in mezzo a migliaia di schegge di vetro.

La ascoltò concentrandosi sulle sue esili mani, così apparentemente innocue, così avvezze al sangue e senza distogliere lo sguardo aggiunse:

- E se si incontrasse qualcuno con cui non sarebbe nemmeno necessario recitare, ma mettersi a nudo totalmentesenza temere la propria distruzione?

Teneva le mani compostamente giunte sulle gambe. Le loro mani si sfioravano appena, senza volerlo, ma era un contatto delicato come un sussurro. A pochissimi millimetri. Etereo. Ma dannatamente piacevole.

- Chi siamo noi per distruggerci di fronte al nulla? Noi stessi siamo nulla. Nati dalla polvere, un giorno torneremo ad esser polvere. Dobbiamo lasciarci trasportare quando il cuore ce lo implora e fermarci quando la nostra mente è stanca. E poi, cos'è la Vita se non un immenso teatro? Un teatro in cui non si fa altro che improvvisare, Eccellenza. Ci pensate?

Giacomo annuì mestamente.

- Improvvisiamo perché veniamo gettati sulla scena all'improvviso, con indosso una maschera che nemmeno abbiamo scelto e che il pubblico vede ancor prima di noi stessi... improvvisiamo per sopravvivere agli sguardi famelici del mondo, e come a teatro temiamo il calare del silenzio. Ma se una volta nella vita vi capitaste di incontrare qualcheduno che vi rivolgesse non lo sguardo supponente di chi sta in platea ma lo sguardo perso di un attore che come voi è costretto a recitare per salvarsi e senza maschera vi chiedesse di scendere dal palco, per un secondo voi abbassereste la vostra mostrandogli le vere sembianze della vostra anima?

Le chiese con voce tremante senza allontanare le mani da quelle della fanciulla, che forse stava cominciando a capire dove il poeta esattamente volesse andare a parare. Sorrise dolcemente e gli prese le mani nelle sue. Apprezzando il contatto con la pelle liscia e morbida del poeta. Quelle mani l'affascinavano. Così scarne e bianche. Delicatissime al tocco.

- Allora quell'attore dovrà essere abbastanza arguto da esser capace di farmi abbassare la maschera.

Continuò a guardarlo dopo qualche secondo di silenzio e aggiunse.

- Ma prima devo accertarmi che questo attore abbia davvero gettato la maschera, prima di togliere la mia.

Un improvviso rossore gli inondó le guance, si sentiva vivo, dopo tanto tempo sentiva la vita irrorare le sue membra aride, quasi con furia.

-La noia, la disperazione l'abisso sono stati gli abili sarti che hanno sfigurato il mio volto, sordi alle mie convulse grida di strazio hanno continuato a cucire sul mio volto quella maschera che tanto somiglia alla morte. L'eterno fanciullo imprigionato sotto di essa sta morendo per asfissia...

Le disse tutto d'un fiato, con voce strozzata, stringendole convulsamente le mani, sottraendo loro un po'di calore, un po' di vita. Lei lo ascoltò rimanendo calma, continuando a sorridergli con dolcezza.

- Eccellenza... le sofferenze della Vita vi avranno pure sfigurato, come dite voi, ma tante volte le maschere sono come gli abiti. Servono per abbellire o imbruttire, ma non costringono chi le indossa ad adeguarsi ad esse. Siamo noi che scegliamo. Siamo liberi. La nostra anima lo è. Siamo noi che inconsapevolmente a volte la imprigioniamo. La chiave l'abbiamo sempre in mano, dobbiamo solo trovare la serratura giusta. E poi, Eccellenza, non è la maschera a soffocare il fanciullo. Siete voi. L'uscita è proprio davanti a lui. Guidatelo. Liberatelo.

Gli disse sfiorando con un pollice il dorso della sua mano fredda, che adesso sentiva prendere calore.

- Se è la Vita ad avervi costretto, adesso vi spinge a fare l'opposto. A rimediare.

Lui la guardò come il naufrago che, sul punto di mollare la zattera oramai vinto dalla sete e dallo sconforto, per farsi inghiottire dal mare e improvvisamente riafferra saldamente quel misero pezzo di legno perché vede un brandello di terra in lontananza. Giacomo vide fugacemente la possibilità di salvarsi e decise di non rinunciarvi, non quella volta.

- Forse avete ragione voi, forse quel fanciullo è agonizzante ma non ancora defunto. Ho come la sensazione di non dover temere nulla ad abbassare la maschera... ma forse è solo un'ingannevole illusione... Voi... l'avete mai abbassata? Chiese infine in un impeto incontenibile.

- No, Eccellenza... con me non dovrete temere nulla. Io vi proteggerò.

La sua bocca si allargò in un dolce sorriso e gli lasciò una mano per sfiorargli una guancia scarna e pallida.

- Non l'ho mai abbassata, la mia, semplicemente perché l'ho fatto sin da quando ci siamo incontrati al ruscello. E non è un'illusione... tutto questo è vero.

- Ditemi come potete non soffrire, enormemente, se voi senza maschera siete veramente questa quando vi macchiate le mani di sangue...

Le chiese avvicinandosi un poco a lei, davvero non riusciva a comprendere come in quell'esile figura potessero essere contenute due persone così diverse.

- Ci si fa l'abitudine, Eccellenza. E' il mio lavoro. Mi pagano per questo.

- Non sentite nulla quando uccidete persone che non hanno colpa alcuna, che magari hanno la colpa di essere nate in un'altra patria? La guerra non fa altro che peggiorare le intollerabili sventure cui già ogni essere umano è soggetto...

- Dunque voi non amate la guerra.

Le disse fissandola nei grandi occhi neri.

- Nessuno ama la guerra, Eccellenza. Non qui, almeno. Ma adesso basta parlare. Ero venuta a darvi la buona notte e sono già passate tre ore. - ridacchiò - Avrete bisogno di riposare... siete un po' pallido. Vi farà bene una dormita. Mi dispiace di avervi trattenuto così tanto.

- La colpa è mia... vedete... mi è capitato raramente di parlare così a lungo con qualcuno di argomenti che esulano dalla letteratura e dalla filosofia.

- Beh, allora Eccellenza, dato che noto sia stato di vostro gradimento... potrete parlare con me ogni qual volta lo desideriate.

Il poeta arrossì impercettibilmente, le sorrise questa volta più apertamente.

- Domattina leggerò alcuni miei componimenti a vostro padre, se voi foste presente, beh diciamo che... sarei piacevomente lusingato... Beh... buonanotte.

Si limitò a farfugliare, riscaldato da un acceso rossore alle guance

​- Con immenso piacere, Eccellenza! Buonanotte.

E si dileguò. Giacomo si addormentò in fretta, rivivendo nella sua mente i piacevoli istanti appena trascorsi. Si sentiva stranamente in pace col mondo e con se stesso, come da fanciullo. L'indomani mattina Gertrude si alzò presto e si fece un bagno. Ne approfittò per riflettere ancora su quale deliziosa persona fosse il Conte Leopardi. Aveva ancora impressa nella mente la sua bocca sottile e i suoi occhi. Sulle sue mani poteva ancora sentire quelle dita scarne stringere, quando quel pover'uomo, preso dall'impeto della sua vitalità repressa, esternò tutta la sua sofferenza e per un momento fu quasi un altro uomo. Il Leopardi che avrebbe dovuto essere. Ma gli era rimasto ben poco di quel Leopardi. Il Giacomo aitante con gli occhi languidi da fanciullo e il sorriso dolce. Non era di certo aitante, ma Gertrude era sicura di non aver mai incontrato un uomo così dolce in vita sua. Si asciugò e mise una divisa pulita.
S
i alzò impacciatamente in piedi, con la consapevolezza di non avere nulla in più del visconte e soprattutto di Gertrude che sembravano pendere dalle sue labbra. Si assomigliavano maledettamente, padre e figlia in quell'istante. In fondo i.suoi versi erano forgiati dalla più nera sofferenza, la stessa che aveva caricato il moschetto di Gertrude

- Mi auguro... possiate gradire codesto mio componimento decisamente autobiografico.

Mormorò con la sua voce fioca, visibilmente a disagio. Sentì un lieve disgusto percuoterlo, sentí che stava dando in pasto la sua sofferenza ad un uomo annoiato e deluso dalla figlia. Sapeva che il visconte avrebbe trovato alquanto sollazzevole la crudeltà che la natura e la sorte gli avevano sempre manifestato. Abbassò gli occhi, in un disperato tentativo di fuga, poi sopraggiunse l'amara rassegnazione e non poté far altro che schiarirsi debolmente la voce e iniziare a darsi in pasto ai suoi ascoltatori "d'in su la vetta della torre antica..." iniziò a declamare; Gertrude lo fissò attentamente come se, in altro modo stesse raccontando una storia a lei troppo familiare, la sua. Continuava ad ascoltarlo come incantata. Il Visconte restava seduto a tenersi il mento tra due dita. Quando finì, la fanciulla applaudì sorridendogli dolcemente.

- Fantastica. Come sempre, del resto. Ancor di più se letta dal suo autore!

Giacomo si sentì travolto da un'ammirazione piacevole, ma dal retrogusto amaro. Non sapeva razionalmente spiegarsi il perché, forse pronunciare quei versi sofferti ad alta voce aveva dato loro un'inquietante concretezza, che ora pesava maledettamente sul suo debole cuore. Sollevò lo sguardo con surreale lentezza e, senza riuscire a parlare a causa dell'enorme peso che gravava su di lui, abbandonó il salone di tutta fretta, lanciando uno sguardo fugace, sospeso nell'eternità a, Gertrude, come ad accennarle una tacita supplica di perdono. Il suo sorriso si spense.

- Ma che gli ha preso?

Sbottò Alcide alzando lo sguardo sulla figlia, che era in piedi al suo fianco

- N-non lo so, padre... - balbettò Gertrude - Vorrei tanto saperlo. Ieri sembrava così entusiasta... Volete che vada a cercarlo?

Alcide sapeva benissimo che la figlia sapeva cosa gli fosse preso, erano state molte le,volte in cui Gertrude da piccola aveva abbandonato la tavola in occasioni importanti, lasciando sbalorditi gli ospiti. Si strinse nelle spalle, Alcide e inconsciamente incolpó la figlia dello strano comportamento del Conte. Sì, era colpa dell'assalto e dei barbari modi che aveva utilizzato per rimediare, peggiorando la situazione a detta sua.

- Entusiasta dite? Io direi piuttosto piacevolmente fuori di sé - Sibiló con disumana freddezza - E' tutta colpa vostra!

Sbottó improvvisamente oramai posseduto dall' ira.

- Colpa mia?! - ripeté Gertrude guardandolo esterrefatta. - Ogni volta che che succede qualcosa qui dentro è colpa mia! Se se n'è andato forse non stava bene! E comunque non potete giudicare così senza conoscere la situazione! Voi vivete forse nella mente del Conte? No! E nemmeno io! Quindi adesso col vostro permesso io vado a controllare.

E si dileguò lasciandolo ai suoi deliri. Chiese ad una domestica e le rispose che lo aveva visto salire di sopra. Gertrude, una volta giunta al lungo corridoio del piano superiore, cominciò a chiamare piano.

- Eccellenza...?

Aprì piano la porta della sua stanza, che trovò socchiusa, bussando delicatamente sul cornicione.

- Eccellenza...

Chiamò ancora, a bassa voce, per non essere indiscreta. Giacomo cercò la voce per risponderle, lo voleva più d'ogni altra cosa ma la sua bocca non volle saperne, si sentì strozzare ed emise un semplice rantolo, sostenendosi il busto con entrambe le mani appoggiate ad un mobile.

- Eccellenza. Oddio... - lo vide in quel modo e corse a sostenerlo. - Che avete? State male? Chiese velocemente, guardandolo impaurita e preoccupata.

- Perdonatemi... - Riuscì infine a mormorare, ansimando. - Leggendo quella poesia... mi crederete pazzo... mi è caduto il mondo addosso.

Non si trattenne più e scoppiò in un convulso singhiozzo. Gertrude sospirò più sollevata e lo strinse delicatamente a sé.

- Giacomo... - azzardò dopo aver fatto tanta fatica per avere il coraggio di pronunciare quel nome. - Non avete nulla di cui scusarvi. State tranquillo. Non è successo nulla, va tutto bene..

Cercò di rincuorarlo, non sapendo fino a che punto quelle parole potessero consolarlo.

- Potrete parlare più tardi con mio padre, se non vorrete più leggergli le vostre poesie. Sono sicura che comprenderà... o almeno lo spero. Nel frattempo... non pensateci più. Calmatevi, su...

Si strinse convulsamente a lei, quasi fosse l'unico appiglio alla vita rimastogli e si calmò un poco.

- Perdonatemi. Voi... mi capite?

Una grossa lacrima tiepida precipitò sulla camicia della fanciulla.

- Non è colpa di vostro padre, sono io... - Appoggiò delicatamente la testa contro alla sua spalla e aggiunse: - Vi ritiene colpevole di ciò, non è vero?

- Non importa...

Gli sorrise dolcemente e poggiò timidamente una mano sul suo capo.

- Non pensateci più... gli passerà presto. E poi...

- Non è giusto che voi soffriate, anche solo un misero istante per colpa mia.

Mormorò beandosi del calore che la mano della fanciulla gli stava tramettendo

- Ma no... - sorrise - Io non soffro per voi. Io soffro con voi. Siamo così diversi, eppure così simili... non ci rimane che sopportare, no?

- Aimè si... ma... mi mi auguro Gertrude che la sorte per voi prepari un disegno ben più gradevole di quello che ha tessuto per me, credetemi, al contrario del sottoscritto voi lo meritate.

- Vi ringrazio, ma... chi lo sa che la sorte non preservi qualcosa pure per Voi... Domani, o fra un anno... Ogni tanto bisogna lasciar correre i nostri problemi.

- Io... non credo che... - Ispirò a fondo. - Forse avete ragione ma... non è così seplice per me... ad ogni modo ora scenderò di sotto, devo delle scuse a vostro padre...

Si sentì l'orologio a pendolo della stanza suonare. Erano le cinque.

- Si è fatta l'ora del té... sicuramente starà già bevendo. Un momento perfetto per approfittarne. Voi ne volete?

- Non posso rifiutare...

Mormorò lui sorridendole timidamente, ancora imbarazzato per ciò che era accaduto prima. Lei sorrise contenta dandogli una leggera pacca sulla spalla.

- Su, andiamo. Mio padre ci starà aspettando.

- Perdonatemi Visconte, non so che cosa mi sia preso...

Mormorò non appena raggiunsero la sala da pranzo, con la precisa intenzione di scomparire seduta stante. Intervenne Gertrude, proprio mentre terminava la frase.

- Sua Eccellenza stava poco bene, padre. Mi sono assicurata che si riprendesse.

Giacomo annuì visibilmente a disagio. "Non si sentiva bene per una ragione ben precisa, conte se posso permettermi" Disse il visconte ancora rubicondo

- Padre, basta, vi prego...

Lo supplicò.

- Diglielo maledetta!!!!

Gridò senza sapere che Gertrude avesse già rivelato a Giacomo il tremendo errore. Si portò convulsamente una mano al petto, digrignò i denti e tentò disperatamente di appigliarsi al tavolo, prima di accasciarsi sul pavimento a peso morto, ansimando.

- Cosa, padre, cosa?

Alzò la voce aggrottando le sopracciglia, quando lo vide accasciarsi per terra. Gertrude subito accorse al suo fianco, urlando:

- Padre!!!

Subito lo fece sdraiare supino da che era sul fianco e gli sorresse il capo.

- Padre... respirate... andrà tutto bene. Michelangelo! Michelangelo!!!

Chiamò il maggiordomo con tutta la voce che aveva in corpo e quello accorse tutto ansante.

- Il dottore! Il dottore, presto!

Ordinò urlando mentre sentiva il pianto schiacciarle il petto e quando l'uomo si fu allontanato, si piegò sul padre stringendolo a sé, singhiozzando. Alcide Sentì la voce della figlia, in lontananza come se provenisse da un altro mondo, si stava disperando per lui, nonostante tutto. Le volle immensamente bene, voleva dirglielo ma non poteva. Temette di non poterglielo dire. Mai più.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Profumo di morte ***


Il gelo dell’inverno, 
si confonde col freddo 
del tuo cuore. 

Il dolore lo avvolge 
lame sottili lo trafiggono. 
Sanguina di disperazione. 


Grida d’aiuto non sentite. 
Sogni fatti a pezzi dalla vita; 
la notte sembra fatta per morire.
[...]
Il niente appare meglio 
del presente. 

Il dolore trova pace nel sonno, 
quel domani è un peso troppo grande. 

Un gesto folle, è lui la disperazione;
[...]


Silvana Stremitz- Un gesto folle
                        

“Papà…” Lo chiamò piangendo sfiorandogli il viso “Papà guardatemi vi prego… Aprite gli occhi…” Alcide sentì quella supplica accorata e volle guardarla, fosse soltanto per l’ultima volta, affidando allo sguardo ciò che le parole non potevano più comunicare, ma gli venne negato. Giacomo a fatica si inginocchiò accanto a lui terribilmente afflitto da un tremendo senso di colpa.

Il medico giunse dopo poco e Gertrude, prendendolo fra le sue forti braccia, lo sollevò e lo portarono nella sua camera da letto, facendolo sdraiare. Lo lasciò alle cure del medico e lei aspettò fuori con Giacomo. Si lasciò cadere sulla poltroncina nell’anticamera, prendendosi il viso fra le mani. Giacomo rifletté sull’assurdità della vita. Lui, nientepopodimeno che lui avrebbe dovuto consolare una fanciulla apparentemente indistruttibile dalla vita.  Non poteva e non voleva non farlo. Dopotutto in quell’istante era sola al mondo, non aveva che lui, e lui ci sarebbe stato per lei, sempre. “Non può morire… non può morire” Mormorò per poi scoppiare nuovamente in lacrime. Era così che funzionava per le persone forti. Ogni volta che il muro veniva distrutto si scoppiava e poi, lentamente, quello stesso muro si sarebbe ricostruito. “Non morirà!” Esclamò improvvisamente Giacomo, intimamente convinto che la sorte, per quanto crudele, dovesse avere dei limiti.

“E’ tutto ciò che mi rimane della mia famiglia, è stata colpa mia, tutta colpa mia” il pianto divenne più convulso mentre si piegava in avanti. “Non… è stata colpa vostra… la colpa è mia. Ho saputo solamente gettare scompiglio nella vostra famiglia, meriterei di essere al posto di vostro padre”  Mormorò Giacomo con voce strozzata. Subito sollevò il capo, il viso era umido di lacrime. “Non ditelo nemmeno per scherzo… sono stata io… in ventitré anni ho ucciso mia madre venendo al mondo… io ho sempre mancato di rispetto a mio padre, lui è arrivato ad odiarmi e oggi ne paga le conseguenze, per colpa mia… il suo cuore ha ceduto” Parlava fissando il vuoto davanti a sé.

Giacomo la guardò negli occhi quasi volesse giungere alla meravigliosa visione della sua anima. La immaginò pure come il più splendido dei cristalli, anche se irrimediabilmente frantumata. “Non… avete ucciso vostra madre, non avete scelto voi questa vita. Come potete imputarvi tale colpa?”  Le afferrò una mano tremante. “Mia madre ha avuto un parto terribile per mettermi al mondo e si è vendicata al più che ha potuto con me. Non è colpa vostra, credetemi.” Lei lo guardò per tutto il tempo con gli occhi ancora lucidi, lasciando che le stringesse la mano. Infine quando ebbe finito di parlare rispose dopo qualche secondo di silenzio “Chissà che mi abbia perdonato, ce l’aveva tanto con me per la storia di ieri mattina, nella carrozza…” “Non avreste mai assalito un innocente, ne sono certo. I vostri occhi rilucono della preziosa luce dell’onestà. Avete commesso un errore, ma non certo per indisporre vostro padre. Sono certo che…” Le strinse ancor di più la mano “Voi non avreste voluto far del male a nessuno, tanto meno a vostro padre. Avete attaccato per non essere attaccata, ucciso per non essere uccisa, ma non trovate alcun godimento nel farlo. Ciò fa di voi una persona degna, vostro padre dovrebbe essere fiero di voi, credetemi” Le sussurrò con tono rassicurante. Gertrude cercò si sorridergli dolcemente, più tranquilla. “Siete un uomo come pochi, Eccellenza. Restate sempre così” E si asciugò le lacrime per poi bussare alla porta. Il dottore, lo stesso che lo aveva medicato aprì loro la porta. Giacomo vide colui che l’aveva invitato strappandolo al dolore che Bologna gli aveva mortalmente inflitto coricato sul letto, inerme, oramai incapace di ascoltare qualsiasi suo componimento. Si odiò ferocemente per questo, per la reazione inconsulta provocata dai suoi stessi versi e cercò disperatamente di non pensarci, di non pensare al potere deleterio di quel pensiero fisso. Vide Gertrude pallida come la morte. Si chiese come si potesse essere, anche solo per un istante, crudeli con lei. “Dottore..." Cominciò fissando il padre, che era sdraiato sul grande letto con la schiena appena sollevata poggiato sui grandi cuscini e le coperte che lo coprivano fin sotto il petto. "dDottore, come sta?" E mentre quello iniziava a parlare quasi farfugliando, lo interruppe. "Senza se e senza ma, senza giri di parole, siate diretto e spiccato” "Ha avuto un duro colpo al cuore, viscontessina, sono portato a pensare che vostro padre abbia avuto un infarto cardiaco. Ditemi, soffriva forse di attacchi di ira?” "Sì, dottore." disse mentre la sua voce s'incrinava appena.vivrà? "Ditemi che vivrà, vi prego"

Si accarezzò lentamente il mento, la osservò di sottecchi e mormorò: "Il fatto che viva o meno, Viscontessina, dipenderà esclusivamente da voi, dovreste... come dire… eliminare la fonte dell’ira funesta di vostro padre…” "D'accordo..." sussurrò, poi si voltò verso il Conte. "Eccellenza, se mio padre chiede di me, ditegli che sono andata ad estinguere la fonte della sua ira." Gettò tutte le armi per terra lasciando solo lo spadino legato al fianco “Addio Eccellenza.”. e fuggì fuori senza salutare il medico Giacomo comprese all'istante, conosceva bene quel macigno opprimente che occlude ogni via d'uscita fuorché la morte, troppe volte aveva soffocato il suo corpo ossuto, troppe volte l'aveva sedotto con languide attrattive. "Perdonatemi!!!" gridò al dottore e con enorme sforzo si impose di correre, contro il tempo e la sorte che avrebbero voluto stroncato il tenero stelo di una giovane vita, inquieta come il tuono, ardente come la fiamma viva. Sentì il cuore uscirgli dal petto, voleva chiamarla nel tentativo di fermare quella furia, ma chiedeva troppo al suo povero fisico, debole e minato da innumerevoli malanni. Non gli restava che correre. Gertrude scoppiò a piangere e sfoderò lo spadino, tagliando i bottoni per aprire la giacca. Si aprì la camicia tagliandola al centro, seguendo l'apertura sul petto tagliò le bende sul petto, scoprendo un seno ben fatto, seppur non prosperoso e un corpo scolpito, da sembrare una dea.

Cadde sulle ginocchia, cominciando a recitare il Mea Culpa, mentre le lacrime le solcavano copiose le guance pallide
Giacomo rimase ancora più provato dal gesto di Gertrude, era una sorta di iniziazione alla morte, o forse la certezza di non avere difese di fronte alla lama, passaggio obbligato per! suo padre. Le bastava aver ucciso sua madre, ora che si trovava nella stessa tragica situazione non"avrebbe scelto se stessa. Le si avvicinò da dietro, tremando. "Gertrude... se lo farete vostra madre sarà morta invano. Non fatelo, non siete sola di fronte alla sorte aguzzina, vale la pena vivere fino a che esiste un solo essere umano che ha cura di noi. Non meriterebbe tale sofferenza." La supplicò appoggiando delicatamente i palmi delle mani sulle spalle della fanciulla

"Invece sono sola, Eccellenza. Lo sono sempre stata. Per vent'anni della mia vita ho lottato. Non ho fatto altro che questo. E se il Destino vuole la mia morte, l'avrà. So che questo è l'unico modo per metter fine sia alle mie sofferenze che a quelle di mio padre. Nessuno ha mai avuto cura di me. Non ho motivo di continuare a vivere. Lascerò che la lama mietitrice, spezzi infine la vita di quest'assassina a sangue freddo. Mia madre è morta segnando il mio destino d'assassina. Un'assassina che se si volta ha dietro una scia infinita di sangue. Nessuno soffrirebbe. Nemmeno mio padre. Anzi, gli sto facendo un immenso favore. Ed io non ho nulla di caro." E puntò la lama contro sé stessa e fece per lasciarsi cadere sullo spadino, per mettere fine alla propria travagliata vita.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Giro di vite ***






"Chi si dà all'altro come un soldato si dà prigioniero deve prima consegnare tutte le armi. E così privato di ogni difesa, non può fare a meno di chiedersi quando arriverà il colpo."
M. Kundera - L'insostenibile leggerezza dell'essere






Giacomo la afferrò convulsamente stringendola a sé per allontanarla da quell'arma aguzza, pronta a dilaniare i suoi freschi tessuti. "Ora ho ragione di pensarlo. Non conto proprio nulla, a quanto pare..." mormorò in preda allo sconforto
Si sentì presa e tirata, all'improvviso, sentì il calore dell'altro e quelle braccia che, seppur esili, la stringevano con forza. Rimase inerme, con le palpebre spalancate e gli occhi velati dalle lacrime, arrossati di pianto. Lasciò scivolare lo spadino sull'erba e poggiò le mani sulle sue braccia, chinando il capo in avanti e piangendo come una bambina.
La strinse in un abbraccio forte, come la vita, rendendosi conto che era tutto ciò di cui la fanciulla aveva bisogno, tutto ciò che suo padre le aveva negato, ma anche ciò che Giacomo faceva fatica a dare non avendo mai conosciuto affetto. "Avete fatto una cosa bellissima, quando avete gettato quello spadino." Le sussurrò all'orecchio senza smettere di stringerla. "Anch'io sono solo al mondo ora. Non ho che voi" Aggiunse con voce tremolante.
Ansimò piano Alcide e si rivolse al dottore pronunciando a fatica ogni sillaba. "Dove.. dov'è mia figlia?"
Inspirò a fondo, quasi certo di non poter proseguire oltre. "Ho bisogno di lei" disse in un flebile gemito di sofferenza
“E' uscita un momento, Vostra Grazia, tornerà tosto…” rispose il medico, rincuorandolo. Gertrude sentì le parole del poeta. Non capiva. Cos'era che lo aveva fatto legare a lei in quel modo? Cos'era quella sensazione? “Giacomo... non lasciatemi mai.. vi scongiuro. Siete la persona più cara ch'abbia mai incontrato...”disse con una voce fioca, ancora tremante per il pianto. Si girò nell'abbraccio e lo guardò negli occhi, poi gli cinse i fianchi magri con le braccia, poggiando il capo sul suo ventre, mentre chiudeva gli occhi, abbandonandosi a lui
"Non comprendo come qualcheduno possa aver bisogno della mia presenza... ad ogni modo... Non vi lascerò ve lo giuro. Gertrude..." Aggiunse dolcemente "Sono certo che... vostro padre ha tanto bisogno di voi..."
sollevò lo sguardo “Io ho bisogno di voi...” gli prese le mani e le baciò dolcemente, poi si rialzò e si coprì con la giacca, infine cominciò ad incamminarsi a passo svelto verso il palazzo, asciugando le lacrime sulle maniche e tentando di placare gli ultimi singhiozzi
Rimase come pietrificato dal gesto della fanciulla che nessuno prima d'ora aveva osato compiere. Non disse nulla, per non guastare, con inutili parole quella sublime sensazione di sentirsi amato, la gioia di aver risparmiato un fresco bocciolo giglio dalle tremende forbici di un giardiniere spietato, un bocciolo che avrebbe risanato dalle radici la possente quercia che per anni gli aveva impedito di vedere il sole coprendolo con la sua ombra
Si voltò un'ultima volta prima di solcare l'entrata dal portone portone principale che dava accesso all'ingresso del palazzo e rivolse un ultimo sorriso al Conte, per poi raggiungere in fretta la stanza del padre
Alcide aprì a fatica gli occhi e la vide, pallida come la morte, resistente come la vita. Le sorrise appena, non aveva bisogno di altro, tutto ciò che voleva era sempre stato lì, ma non se ne era mai reso conto “Padre...” gli sorrise dolcemente stringendogli una mano e baciandola più volte “Che spavento mi avete fatto prendere...”
"Anch'io ho avuto tanta paura... mia cara, di non poterti rivedere mai più senza averti detto..." Gli mancò il respiro e boccheggiò "senza averti chiesto... venia" concluse infine con grande fatica
 
“Non parlate... non sforzatevi…” gli posò la mano libera sul viso e lo accarezzò dolcemente “E' già un miracolo che siate vivo. Dovete riposarvi, adesso. Io ed il Conte eravamo così in pena...” sorrise Si era fatto mille crucci e mille sensi di colpa. Appena saprà che state meglio sarà sicuramente più sollevato.
"Che vi avevo detto?" Mormorò Giacomo, compiaciuto dell'avverarsi dei suoi pronostici
 
Sentendo la voce del Conte, che adesso le risuonava all'orecchio melodiosa, si voltò di scatto verso di lui. “Conte... “gli sorrise
"Gertrude..." Si voltò verso di lei come se desiderasse vederla da un'eternità
 
“Stavamo parlando di voi, con mio padre…”
"Pessimo argomento di conversazione, se posso permettermi" Mormorò abbassando lo sguardo.
 
accennò una risata, divertita “Suvvia, Eccellenza... non siate così. Voi siete meglio di quel che credete…” gli sorrise dolcemente cercando il suo sguardo
"Se lo dite voi... vi credo... ad ogni modo sappiate che di qualunque cosa abbiate bisogno per assistere vostro padre, contate pure su di me"
 
"Ti ringrazio mia cara... hai un grande cuore" Mormorò a fatica
 
gli sorrise e gli lasciò un bacio sulla guancia, poi si sollevò e accompagnò il Conte, uscendo insieme dalla stanza.
 
"Immagino vorrete riposare, sarete indubbiamente stanca" Disse Giacomo a bassa voce, con l'intima speranza che negasse la sua affermazione
 
“Vi sembrerà strano, ma... non ho molto sonno, stasera…” sorrise facendo spallucce. Aveva preso l'aria di una bambina. Si sentiva felice.
 
"Se gradite potrei... tenervi compagnia stanotte... chiaramente fino a quando non deciderete di ritirarvi nella vostra stanza, s'intende" Le disse tenendo gli occhi bassi, anche se avrebbe tanto voluto vederla dormire, vedere quali fattezze avrebbe assunto il suo volto una volta sciolto dal raziocinio
Si vergognò terribilmente del suo ultimo pensiero, e arrossì quasi come se avesse espresso quel desiderio ad alta voce
“Mi farebbe molto piacere, sì”. gli sorrise. “Nel frattempo potreste mettervi comodo... dev'essere fastidiosa quella cravatta che preme sulla ferita. Fate come foste a casa vostra, lo sapete già, non v'è bisogno che ve lo dica” ridacchiò
"Certo ma mi sembrava irriguardoso in presenza di una fanciulla... spogliarmi di tale indumento... ad ogni modo vi ringrazio della gentile concessione accordatami, come avete detto voi è insopportabile"
Si allentò la cravatta impacciatamente, con gesti lenti e misurati
sorrise “potete anche andare a cambiarvi, se volete. Io ho proprio intenzione di fare questo.
"Indossare il mio corredo da notte, dite?"
“Sì, perché no? Dovreste essere più comodo in quel modo, no?” Gli ammiccò e ridacchiò ancora per poi allontanarsi
"Se non lo trovate sconvenientemente disdicevole... beh non vi vedo nulla di male"
 
ridacchiò “Suvvia, Giacomo...” lo guardò scherzosamente sensuale “Smettetela di autodegradarvi così. O sarò costretta a cacciarvi…” si mordicchiò un'unghia
 
Sorrise visibilmente a disagio abbassando timidamente lo sguardo. Pensò al volto di sua madre, se fosse venuta a sapere che aveva acconsentito ad una simile indecenza. Si rese conto che quel fanciullo vivace e birichino non era ancora morto di asfissia sotto la pesante maschera... tuttavia un brivido mai provato prima gli percorse velocemente la spina dorsale.
 
“Su, vado a cambiarmi. Non vorrete farvi aspettare...” scherzò e si dileguò raggiungendo la propria stanza.
Indossò la camicia da notte, sentì le mani tremargli, non seppe spiegarsi il motivo, in fondo la fanciulla voleva solamente metterlo a suo agio dopo quanto era accaduto durante la giornata.
Uscì richiudendosi la porta dietro di sè e la vide, indossava una camicia bianca aveva i piedi nudi.
Indossò la sua sottana in seta bianca, assieme ad una vestaglietta leggera, rimanendo scalza. Aveva voglia di giocare, così lo prese per mano. "Dai lumaca, andiamo!" Scoppiò a ridere e gli lasciò la mano cominciando a correre giù dalle scale
 
Giacomo capì che anche in lei era celata una bambina che forse non aveva mai avuto la possibilità di esserlo... decise di abbassare lievemente la maschera, si lasciò trascinare senza trattenere le risate. "Dove mi portate, mia signora?" le disse allegramente
 
In un posto che conoscete bene, vostra grazia! Esclamò soffermandosi alla fine degli scalini, facendo un profondo inchino, sollevando la vestaglietta a mo di gonna, ridendo
 
"Non ditemi l'armeria, ho già avuto modo di assaggiare le vostre armi, e non ho gradito il loro sapore" Mormorò ridacchiando
Rise con lui "Ma no, sciocchino! Ci siete già stato, sì, ma molto più gradevole e non credo che a voi sia piaciuto tanto, però." Gli porse la mano per afferrare la sua mano e incamminarsi insieme
Le sorrise dolcemente e chiuse gli occhi, poi mormorò "A questo punto conducetemi voi, Oramai ho cieca fiducia di voi"
Sorrise e gli prese le mani guidandolo. Lo portò fuori dalla tenuta e raggiunsero il ruscello, che luccicava argentato sotto i raggi lunari e cominciò a recitare
"Oh mia graziosa luna, io mi rammento che, or volge l'anno, venia su questo colle pieno d'angoscia a rimirarti... 
E tu pendevi allor su quella selva Siccome or fai, che tutta la rischiari."
 
"Ma nebuloso e tremulo dal pianto Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci Il tuo volto apparia, che travagliosa Era mia vita: ed è, nè cangia stile, O mia diletta luna..."

Proseguì troppo lusingato dal fatto che la fanciulla conoscesse i suoi versi a memoria ne approfittò del fatto che avesse gli occhi chiusi, per lasciargli una mano e sfiorargli quelle labbra sottili con un polpastrello e poi posò un casto bacio sull'angolo della sua bocca.
Subito dopo gli lasciò anche l'altra mano e rimase silente. Quando riaprì gli occhi lei non c'era più, lo abbracciò dolcemente da dietro. "Questa sera è la nostra sera... non sciupiamola..." Si strinse a lui
"Ho il dannato potere di rovinare ogni cosa, a partire dalla vita di mia madre. Cosa... potrei fare per non sciuparla? Illuminatemi ve ne prego" "Lasciatevi andare, Giacomo... io sono e sarò sempre vostra. In che modo dovete deciderlo voi. Mi piego alla vostra volontà, mio salvatore..." "Io non... non merito tutto ciò ve lo assicuro... ad ogni modo non è il vostro corpo a..." abbassò lo sguardo, dopo quanto aveva detto la fanciulla non poteva che far cadere la maschera, oramai superflua ed ingombrante.
"A far si che io non riesca a sottrarre né lo sguardo nè il pensiero da voi, nemmeno per un istante. Il vostro aspetto è meraviglioso, come l'anima che racchiude al suo interno. È quella che voglio..." mormorò appoggiando timidamente le labbra sulle braccia che gli stavano cingendo il collo. "Volete la mia anima? Ma voi non sapete che è già vostra, Conte..." "Non mi basta. Apritemi i meandri più nascosti di voi, e io farò lo stesso con la mia anima, che vi appartiene probabilmente da sempre" Sospirò e gli si mise accanto, sedendosi con le gambe incrociate. "Se potessi vi darei tutto di me, non solo la mia anima. Ma... lo guardò non è più gradevole che siate voi a sfogliare le pagine della mia anima? Voi che siete un profondo conoscitore di queste cose..."
Il colorito del suo volto era paonazzo, il suo cuore era un cavallo selvaggio al galoppo. "Io non vorrei mai mancarvi di rispetto... io... vi amo, veramente." "Ditemi dunque, qual è il vostro pensiero circa le fanciulle vostre coetanee, circa il loro atteggiarsi?"
"Io non ho abbastanza tempo per osservare le donne, Conte. Semplicemente perché non m'interessa Non ho mai voluto imitarle." "C'entra vostro padre in questa faccenda? Ad ogni modo avete preservato il vostro animo dalla frivolezza che le caratterizza" "C'entra anche mio padre."
Rispose.
"Ditemi tutto"mormorò Giacomo appoggiando la testa alla sua spalla, oramai certo di non suscitare in lei alcun ribrezzo È... è stato sei anni fa. Durante un'esercitazione ci tesero un'imboscata. Eravamo in due a fare perlustrazione mi chiese di coprirlo, una pallottola gli trapassò il cuore." Abbassò il capo per tentare di bloccare le nuove lacrime.
"Tenevate molto a costui, non è vero?" Le chiese assaporando il tepore del suo collo.
"Era il mio migliore amico. L’unico. Gli altri non mi vedevano di buon occhio. Mi guardavano come se fossi un mostro. Ed è questo che io sono. Un mostro.” Si passò una mano sugli occhi.
"Tacete. Questo è ciò che vostro padre, con tutto il rispetto, da quanto ho capito pensa di voi. Ma è soltanto il.suo pensiero... inoltre... io lo so che vi definite tale perché vi imputate la colpa della morte di quell'uomo... Ora ditemi, ditemi quante volte avete desiderato essere al suo posto..."
"Provate a farvi il conto, in sei anni... “gli cinse il collo con le braccia, senza stringere troppo
"Siamo cresciuti assieme. Eravamo fatti l’uno per l’altra.” “Lo amavate, dunque…” Mormorò Giacomo con una velata tristezza. “Quasi… lo capii troppo tardi…” “Ma oramai è acqua passata” Poggiò il capo sul suo. "Potete farmi una promessa?" Le sussurrò accostando le labbra ai suoi morbidi capelli biondi "Certo." Disse asciugando le lacrime con una mano.
"Non desiderate mai più di essere al suo posto, ve ne prego "La strinse a sé gelosamente, terrorizzato all'idea di perderla.
Stette per rispondere, ma s'interruppe sentendo le sue braccia stringerla D'accordo. Ve lo prometto.
Giacomo desiderò che quell'istante non finisse mai più, non voleva congedarla, lasciarla sola nemmeno per qualche ora. Che male ci sarebbe stato se si fossero addormentati insieme, nel bosco, sotto la luna? Si sdraiò sull'erba fresca e piegò le gambe per poter sentire le foglie morbide sotto le piante dei piedi e congiunse timidamente le mani sul ventre, fissando il cielo stellato sopra di loro e le fronde degli alberi luccicanti per via delle lucciole e la luce lunare. Sospirò rilassandosi accarezzata dalla brezza fresca della sera, chiudendo gli occhi.
Giacomo la guardò con adorazione, amava tutto di lei, anche il modo in cui respirava. Si coricò accanto a lei, guardò il cielo lasciandosi inebriare dalla sua immensità, grandiosa e terribile, si sentì come un chicco di sabbia nell'immenso e gelido deserto del tempo, ma durò solo per un istante, dato che subito, istintivamente si volse verso la fanciulla. Ora un punto di riparo, di salvezza esisteva, esisteva davvero. Finse di dormire, fin quando non aprì appena gli occhi, pregando che invece lui li avesse chiusi. Così fu. Ne approfittò per donargli un altro bacio, stavolta sulla guancia e lo abbracciò stringendosi a lui, facendosi piccola mentre poggiava il capo sul suo petto, ascoltando il suo respiro e i battiti del suo cuore. Quel cuore che tanto aveva sofferto per la vita e per l'Amore.
"Io... non voglio congedarmi da voi, stanotte, non fraintendetemi" Le sussurrò all'orecchio dopo un po’ che furono rimasti in quel modo. Gli accarezzò il petto, ascoltandolo. "Gertrude..." Sobbalzò improvvisamente "Dobbiamo rientrare, vostro padre potrebbe aver bisogno di voi!"
"Ma no... ci sono i servi..." mormorò "Siete certa che non abbia bisogno di voi? In fondo potremmo rimanere insieme anche una volta rientrati, io non ho sonno, posso fare uno sforzo..."
Le rispose temendo che il padre potesse lamentarsi della sua assenza.
"Non si accorgerà nemmeno che manco... state tranquillo."
"Quando eravate una fanciullina, si è sempre comportato duramente con voi?" Le chiese sperando che parlarne avrebbe potuto lenire le sue più intime sofferenze.
"Sì, Eccellenza..." "Come sarebbe a dire "Eccellenza"?" Le chiese trasalendo. Gertrude sospirò "Sentite... non mi va di parlare del passato... e non mi va neanche di litigare con Voi..."
Nascose il viso sul suo petto, stringendo appena la sua vestaglia tra le dita.
"Come... come volete, io... non intendevo assolutamente ferirvi, perdonatemi vi prego" Le rispose, consapevole di avere fra le braccia un giunco sottile, rivestito di acciaio.
"Vi prego... stringetemi a voi... ne ho tanto bisogno..." Lo supplicò.
La abbracciò con le poche forze che aveva in corpo, sentì il suo cuore battere sul suo petto, qualunque fossero le profonde ferite infertegli dal suo oscuro passato era certo che insieme avrebbero potuto superare quell'oceano di fiele.
Si fece ancor più piccola tra le sue braccia, stringendosi a lui.
"Voi avete fatto una cosa bellissima, sapete?" Le sussurrò all'orecchio.
“Che cosa?” "Assalendomi mi avete aperto gli occhi, schiudendo le mie palpebre oramai avvezze all'oscurità, mi avete fatto vedere la luce di quella vita che prima avevo in gran disprezzo."
Le disse perdendosi nei suoi occhi, quasi fatati sotto la luce argentea della luna.
Sorrise e si gettò sul suo collo “Vi voglio bene!”
"Anche io ve ne voglio, come non ne ho mai voluto ad alcuna..." rispose anche se ciò che provava in quell'istante era ben oltre un fraterno e amichevole "voler bene".
Lei sorrise dolce e gli accarezzò il morbido bavero della vestaglia
"Rabbrividì al contatto con le sue mani, le afferrò delicatamente appoggiandole sulle sue labbra.
Gertrude sorrise dolce e gli accarezzò il morbido bavero della vestaglia. Gli sfiorò ancora le labbra con un dito, dopo che le ebbe baciato la mano. Il poeta desiderò ardentemente di baciare quelle labbra, quella bocca.
"Promettetemi che tutte le sere d'ora innanzi saranno così " si lasciò sfuggire Giacomo sospirando.
Gertrude trattenne una risata compiaciuta" Ne siete sicuro, Giacomo?"
Chiuse gli occhi, deliziato dal dolce suono della sua voce che pronunciava il suo nome, soltanto il suo. "Sicuro come la morte" concluse posando lo sguardo sulle sue labbra perfette.
"Sapete che non saranno uguali a questa, vero?"
Le accarezzò lievemente la mano sussurrandole:
"Dunque illuminatemi" "Non posso" sorrise "Perché mai no?" Insistette
"Perché non voglio rovinarvi la sorpresa!" Gli ammiccò e si sollevò sopra di lui, reggendosi sulle braccia e lo guardò negli occhi.
Il Conte rimase immobile come pietrificato, incapace di reagire. La guardò con gli occhi sgranati, rigido come uno stoccafisso.
Gertrude avvicinò il volto al suo lentamente. Era come una lenta, straziante agonia. Fino a quando non poté sentire il suo respiro debole e caldo sulla pelle. Sfiorò le sue labbra, rimanendo ad un pelo da esse e poi si distaccò.
"Gertrude, voi sapete accendere bufere nel mio animo" Le sussurrò afferrandola con lo sguardo.
"E ve ne farò accendere altre mille, se sarà necessario..."
Giacomo arrossì completamente, e iniziò a tremare, l'aria della sera si era fatta piuttosto fredda.
Lei se ne accorse, ma non capì subito la causa di quei brividi. Gli poggiò una mano sul braccio "Che c'è?" "Sento un po'di freddo, non sono avvezzo a rimanere fuori per così tanto tempo... ma non preoccupatevene vi prego..." Le disse battendo i denti "Mi preoccupo, invece. Venite, rientriamo, non vorrei vi venisse un accidente..."
Si rialzò a fatica maledicendo la sua salute precaria. Cosa avrebbe pensato Gertrude di lui?
Una volta tornati dentro, lo aiutò a sdraiarsi e lo coprì con le coperte. Si sedette su una sedia al suo capezzale. stanza era calda perché durante il giorno ci aveva battuto il sole. Gli prese una mano tra le sue, accostandola alle labbra. Era fredda. Gli prese anche l'altra per ridare loro tepore. Non distoglieva gli occhi da lui, vedendolo più pallido di prima. Giacomo si lasciò trasportare da quelle sensazioni, si sentiva amato come mai prima d'ora. Le sorrise per rassicurarla circa il suo stato di salute. La fanciulla, di tutta risposta gli sorrise di rimando sfiorandogli il dorso di una mano col pollice e poi si portò la stessa alla bocca, sfiorando la sua pelle con un delicato bacio. Rimaneva china su di lui fissandolo negli occhi. In quei suoi occhi cerulei e languidi.
Le sfiorò i capelli biondi, erano morbidi e lisci come la seta, profumavano di lavanda e fiori selvatici. Non riuscì a smettere di accarezzarli, inebriandosi di quel profumo di vita.
si sedette al suo fianco e poggiò nuovamente il capo sul suo petto, tenendogli la mano.
Le strinse la mano, per convincersi del fatto che non si trattasse di un sogno.
"State meglio, adesso?" "Ovviamente si, dal momento che ci siete voi qui con me" Le disse adorandola con lo sguardo. si sollevò e lo guardò "Ditemi quando desiderate riposare... vi lascerò in pace..."
"Non... voi non dovete lasciarmi in pace, mai. Non ho pace senza di voi" abbassò lo sguardo Voi non potete trovare la pace in me".
Si lasciò sconvolgere dal perturbante suono di quelle parole. "Forse allora non è la pace che cerco..." Mormorò senza osar posare lo sguardo su di lei. “Voi cercate l’amore?” “E voi, Gertrude cosa cercate?” "Non so cosa cerco. E non so dove trovare ciò che mi serve."
"Io cerco la cessazione della sofferenza... l'amore potrebbe essere una meravigliosa conquista in proposito ma anche la più tremenda fra le condanne…”  “Io sono la vostra condanna, Giacomo… la condanna peggiore che abbiate mai ricevuto” lo guardò tenendo il capo abbassato, sollevando solo gli occhi "Allora sarò il primo condannato ad amare la sua pena e ad amarla più della libertà stessa”  “No. Non dite così. Ve ne prego...” distolse lo sguardo, ansimando.
La guardò preoccupato Sforzandosi di comprendere quale sua parola involontariamente avesse sfregiato la sua anima.
ansimò sempre più forte e si mise a piangere ancora, per scusarsi velocemente uscendo dalla stanza
Non poteva finire così, non quella serata. Si alzò in fretta e prima che potesse ritirarsi nella sua stanza la afferrò per un braccio ansimando anch'egli a sua volta, sconvolto del gesto appena compiuto. non si voltò nemmeno, allungandosi dal lato opposto del braccio che lui le tratteneva, nascondendosi con una mano il viso.
"Che... cosa vi fa tanto male?" Azzardò, oramai disperato e incapace di gestire la situazione.
Scosse il capo, scoppiando in singhiozzi.
"Non... fate così vi prego, voglio... voglio soffrire al vostro posto, voi non lo meritate."
Aggiunse sconsolato, poi vedendo che le parole erano inutili chiuse gli occhi e la baciò sulle labbra, a lungo. Gertrude ricambiò il suo bacio e sentì uno strano brivido giù nello stomaco. Quando si distaccò, fuggì ancora, chiudendosi nella propria stanza. Giacomo si ritirò nella sua stanza, con le lacrime agli occhi e la morte nel cuore. scoppiò in un pianto convulso, scivolando con la schiena sulla porta, fino a sedersi per terra.
Giacomo La sentì piangere da dentro alla camera e volle morire. Era colpa sua. Ne era certo.
Sentì bussare energicamente alla porta ma istintivamente si portò un cuscino sopra alla testa, era così dannatamente confuso... che... sentì le labbra incrostate di lacrime "Conte, è permesso?" Chiese Michelangelo garbatamente. "No... anzi si chiedo venia, sono fuori di me stamane..."
Michelangelo abbassò la maniglia ed in un secondo si ritrovò nella stanza del Conte. Si avvicinò al suo capezzale e vide come un campo di battaglia, su quel letto.
"Eccellenza, perdonate il disturbo..." disse inchinandosi "... è appena giunto un biglietto per Vostra Grazia... ve lo poggio sul comodino, così potrete leggerlo in seguito, se adesso preferite riposare ancora un po'." Non appena Michelangelo se ne fu andato si fiondò su quella missiva, che prometteva di distrarlo dalla nottata precedente. Un brivido gli percorse la schiena. Se... fosse stata sua madre a chiedere un resoconto preciso delle sue giornate? Detestava mentire. Si trattava invece d’un invito del ginevrino Giovan Pietro Viesseux a frequentare il suo gabinetto, Giacomo Si Sentì sollevato e compiaciuto dell'invito dimenticando per poco il suo dolore. Avrebbe accettato senza dubbio alcuno dividendo il suo tempo fra il visconte e Viesseux. Scese di sotto per la colazione, sperando di evitare Gertrude. Gertrude era alla fine del tavolo, in silenzio, assieme al padre. Aveva indosso un abito di sua madre e i capelli acconciati in un elegante toupet, che si era fatto fare da una domestica. La osservò di sottecchi, a lungo senza comprendere il motivo di quell'improvviso mutamento. Aveva un'aria assente, gli apparve svuotata e una voragine gli si aprì nel petto. Cacciò lo sguardo nel piatto incapace di affievolire quel dolore straziante. "Buongiorno!"
esordì il visconte sorridente. Gertrude rimase in silenzio, col capo castamente chino. "Buongiorno, vi sentite meglio spero!" Rispose Giacomo sforzandosi di apparire a suo agio.
"Oh sì, vi ringrazio. Soprattutto dopo che la mia cara Gertrude mi ha fatto questa bellissima sorpresa, stamane..." Ridacchiò orgoglioso, sfiorando delicatamente il mento della fanciulla
Il Conte accennò un sorriso, ma era di fiele.
"Visconte..." Mormorò fissando la forchetta a mezz'aria "Sarò ben lieto di leggervi qualunque mio componimento v'aggradi e... volevo dirvi che... beh stamane ho ricevuto una missiva che conteneva un invito dal lustrissimo Viesseux, voi... lo conoscete?" "Oh! Come no! È un mio carissimo amico! È legato moltissimo a mia figlia, da qualche anno abbiamo perso i contatti. So che avesse intenzione di fare questi incontri, sapete... nell'aria c'è rivoluzione." Affermò annuendo.
Il poeta lo guardò stupito ma allo stesso tempo inebriato dalla possibilità di respirare aria di libertà, di cultura quell'aria che la soffocante Recanati gli risucchiava dai polmoni. Ripensò alle parole del visconte e sentì quell'aggettivo, "molto legato" e provò una sgradevole sensazione urticante. Fissò di nuovo lo sguardo su Gertrude, sperando che aggiungesse qualcosa.
Gertrude rimase a capo chino, mettendo in bocca un pezzo di brioche che aveva spezzato con gesti eleganti
Doveva, doveva parlare, non poteva più trattenersi a oltranza "Visconte, posso permettermi di elogiare il magnifico abito di vostra figlia?" Mormorò a denti stretti senza deglutire, con la gola inerme. "Ma certo... " sorrise e le sfiorò i capelli continuando "Oggi la mia bambina ha così l'aria triste, non mi ha voluto dire cos'ha.. e soprattutto come mai abbia deciso così all'improvviso di indossare la gonna"
Guardò Gertrude sperando in uno sguardo, un cenno, un segno di vita. "E' veramente di buon gusto, la vostra gonna, veramente" Azzardò, era un gioco al massacro ma oramai doveva continuare nonostante il cuore che gli balzava in petto, oramai era troppo tardi, la amava, ne era certo....
Gertrude sollevò appena lo sguardo nero sul Conte, rimanendo seria. Poi si voltò verso il padre.
"Padre... col vostro permesso... io andrei."
“ Ma certo, figlia mia.” Giacomo rimase immobile, morire non doveva essere più doloroso... sentì gli occhi bruciargli gonfi di lacrime... le ricacciò dentro a forza. "Rivoluzione, avete detto prima..." mormorò distrattamente al visconte senza riuscire a levare gli occhi da Gertrude.
"Ma sì, per queste nuove situazioni politiche... i liberali."
Qualche anno fa ha inaugurato una nuova rivista... "L'Antologia", mi sembra che si chiami. È interessante, sapete? Beh, non me ne dolgo che il buon Gian Pietro Viesseux non mi abbia invitato. Non m'interesso di politica... né tanto meno sono un uomo di lettere."
Il Visconte continuava tranquillamente, come se andasse tutto per il meglio. Non si accorse nemmeno dell'aria distratta del poeta.
"Pensavo di recarmi lì nel pomeriggio, mentre voi riposerete, ora se gradite posso leggervi qualcosa..." mormorò distrattamente pensando a come volgere il discorso per arrivare a parlare di Gertrude "Oh no, davvero, vi ringrazio molto per la vostra disponibilità, ma tra poco avrò visite..."
Voleva evitare, visto cosa era successo l'ultima volta, a parte il fatto che le visite le avrebbe ricevute davvero. Si sentì completamente perso per un istante. I suoi programmi erano andati miseramente in fumo, mentre il fantasma di Gertrude, delle sue lacrime, del suo comportamento affettuoso ma dannatamente ambivalente restava, e lo uccideva poco a poco. Il Viesseux era la salvezza. Ci sarebbe andato in mattinata...

 
Documento originale autografo di Gian Pietro Viesseux, fondatore della rivista "L'Antologia" e uno dei maggiori sostenitori dei moti liberali (1820-'30) del periodo Rinascimentale.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Aria di Rivoluzione - Parte 1 ***


  

"Per pessimo che sia il governo italiano, ove non si presenti l'opportunità di facilmente rovesciarlo, credo meglio attenersi al gran concetto di Dante: "Fare l'Italia anche col diavolo"."

G. Garibaldi

 

 

La mattina del 30 Giugno 1827, un valletto andò ad aprire la porta del Gabinetto Viesseux, ritrovandosi davanti un giovane alto e avvenente. Di bell'aspetto. Aitante. Aveva l'aria di quegli scapoloni che sapevano gestire in modo equo amanti e lavoro. Si salutarono con un fugace "buongiorno" e il giovane fece il suo ingresso all'interno dell'immobile. L'aria odorava di candele appena spente. Ebbe come l'impressione che il vecchio fosse rimasto in quell'ufficio per la notte. Il valletto neanche lo accompagnò, ormai lo sapeva anche lui: c'era venuto talmente tante di quelle volte, lì dentro, che oramai i suoi piedi conoscevano la strada da soli. Bussò ad uno dei battenti della porta che dall'anticamera portava allo studio. Una voce maschile gli diede il permesso di entrare. Gian Pietro Viesseux si voltò, togliendo da sopra il naso i piccoli occhiali da lettura. Conosceva bene quel giovane.

- Antonio Ranieri! Che piacere rivedervi! Dove siete stato, è da un pezzo che non vi si vede! Spero nulla di grave.

Aveva saputo del suo esilio politico, sapeva che non potesse tornare a Napoli per via dei suoi ideali.

 

 

 

 

Giacomo si incamminò verso Piazza degli Strozzi, fisicamente e moralmente distrutto, una camminata gli avrebbe placato quell'oceano di fiele in gran tempesta. Dopo aver camminato una quindicina di minuti seguendo le sommarie indicazioni del visconte, si rese conto di aver perso l'orientamento.

- Cercate qualcosa?

Gli chiese un uomo di bell'aspetto di una decina d'anni più di lui. Giacomo si ritrasse lievemente sentendosi giudicato, pensava che fosse ripugnante, ne era certo.

- Sapreste dirmi dov'è ubicato l'illustre gabinetto Viesseux?

L'uomo portava un vistoso crocifisso al collo simile a quelli di sua madre.

- Mi sto recando anch'io in quel luogo, potrei avere l'onore di conoscere il vostro nome?

Disse con voce sicura, in un italiano alquanto singolare, Giacomo concluse che dovesse venire dal Nord. Abbassò lo sguardo, terribilmente a disagio.

- Sono... il conte Giacomo Leopardi di Recanati. Voi...?

- Conte Alessandro Francesco Tommaso Antonio Manzoni, di Milano. Ad ogni modo... il vostro nome m'è tutt'altro che nuovo. Io ritengo che codesta città possa giovare al Romanzo ch'ho appena pubblicato e che tuttavia intendo perfezionare, per quanto la perfezione appartenga soltanto a Dio...

- Certo...

Mormorò Giacomo per niente convinto di ciò, e stizzito di sentir ripetere una frase tanto cara alla madre. Camminarono fianco a fianco in silenzio, fino a che giunsero davanti ad un singolare ed imponente edificio. Giacomo era visibilmente emozionato, il conte Manzoni era disumanamente disinvolto, bussò ripetutamente come se stesse per far ingresso in casa di parenti.

Lo stesso valletto andò ad aprire.

- Chi desiderano?

Chiese alternando lo sguardo su quello alto e quello basso.

- Gradiremmo cortesemente parlare con l'illustrissimo Giovan Pietro Viesseux, siamo suoi ospiti. 

Rispose il conte Manzoni lasciando trapelare una certa impazienza.

-Chi debbo annunciare?

Chiese facendoli entrare.

- Conte Alessandro Francesco Tommaso Antonio Manzoni e... Il signor Leopardi.

Mormorò il nome "Leopardi" abbassando la voce, ma era sua intenzione non farlo notare.

- Conte Giacomo Leopardi...

Replicò il poeta con la sua voce fioca. Manzoni lo detestava, velatamente. Una di quelle antipatie a pelle che è difficile scollarsi di dosso, anche facendo uso del più misurato raziocinio.

- Prego, seguitemi, per favore.

E li guidò fin davanti alla porta dello studio. Bussò, aprì ed entrò prima dei due annunciando ad alta voce:

- Le Loro Eccellenze il Conte Leopardi ed il Conte Manzoni.

- Giovan Pietro, che piacere rivedervi!

Esclamò Manzoni allontanandosi da Giacomo. Giacomo si sentì un pesce fuor d'acqua, messo da parte come d'abitudine, Leopardi cercò lo sguardo del Viesseux, ma il fisico prestate di Manzoni lo nascondeva.

- Ah sì! Vi stavo aspettando, miei graditissimi ospiti! Prego, accomodatevi! C'è posto per tutti!

Li accolse così il vecchio Gian Piero Viesseux e si avvicinò a stringere la mano ad entrambi.

Giacomo gli strinse debolmente la mano, prima di averla asciugata sfregandola sui pantaloni, dato che aveva sempre le mani sgradevolmente umidicce.

- Prego, prego... prendete pure posto.

Ripeté, poi si voltò verso Ranieri e lo presentò ai due nuovi ospiti.

- Vi presento Antonio Ranieri, brillante uomo di politica.

Giacomo lo osservò attentamente, aveva l'aria di uno che come il resto del genere umano ha conosciuto amarezze d'ogni sorta e ad ogni modo sembrava felice, davvero felice e sereno, come se nulla avesse potuto minarlo davvero. Accennò un goffo inchino.

- Piacere di conoscervi.

Mormorò tenendo gli occhi bassi.

- Piacere mio, signor Conte.

Nel frattempo Ranieri si era alzato ed era andato a stringere la mano ad entrambi.

- Siete solito frequentare codesto illustre gabinetto di scienza e letteratura?

Gli chiese il poeta recanatese, sempre più incuriosito dalla sua personalità.

- Sì, Eccellenza.

Antonio decise allora di prender posto accanto a quel curioso omuncolo chino e magrissimo, dal volto pallidissimo.

- Permettete?

Chiese indicando il posto accanto alla sua "nicchia", mentre il Conte Manzoni stava intrattenendosi con Viesseux.

- Certamente...

Mormorò Giacomo timidamente.

- Io... non risiedo a Firenze, sono in visita dal visconte Degl'Innocenzi... - Abbassò appena lo sguardo. - ... Il quale mi disse che c'è aria di rivoluzione... - Sorrise appena. - Voi avvalorate questa tesi?

- E come no? Io stesso ne sono vittima, Eccellenza.

Gli rispose l'altro con uno strano accento meridionale.

- Oh Cielo... se... vi andasse di parlarne, io... sappiate che potete fidarvi... non parlo con molte persone.

Replicò il poeta, sempre più incuriosito.

- Figuratevi. I liberali non sono ben accetti ovunque. Il signor Viesseux è uno di questi. Se non ci fosse lui, qui, credo che i liberali fiorentini starebbero altrove...

Ranieri ridacchiò per sdrammatizzare.

- Ne deduco non amiate la nobiltà, conservatrice e reazionaria per natura...

Gli rispose Giacomo con una punta di ironia.

- Obbeh, non se pò fà di tutta l'erba n'fascio.

Il poeta sorrise, non poté fare altrimenti.

- Non è da tutti sapete pensarla a questo modo? L'ignoranza e la chiusura mentale stanno condannando irrimediabilmente questo secolo, che si dice aperto e moderno...

- Ed è proprio a causa degl'ignoranti ch'io sono qui oggi. I miei ideali erano scomodi e allora... quale pena migliore da infliggere? L'esilio. - Rise ancora, con lo stesso scopo. - Credetemi, Eccellenza. Se ci saranno cambiamenti un giorno, mi auguro d'esser già sottoterra per allora. I cambiamenti portano sempre sofferenze. E ij nun ne pozz cchiù.

- L'esilio?

Giacomo spalancò gli occhi incredulo. Anch'egli era in esilio, volontario dalla soffocante immobilità di un luogo che gli aveva strappato la vita dalle ossa, dalle vene, dall'anima. Ammirava tuttavia segretamente gli esuli che si struggevano per l'amor patrio, quali il Foscolo.

- Mi rincresce enormemente, ad ogni modo ricordate che per quanto i luoghi ci segnino, sono le persone a fare i luoghi. Se trovaste delle buone amicizie, vi sentireste nuovamente in Patria...

- Sicuramente, Eccellenza. Ma vedete... io fuggo spesso e non ho quasi neanche il tempo di farmi degli amici, ché subito debbo spostarmi. Invece... mi auguro di tornare presto a Napoli, dalla mia cara Paolina, mia sorella... È da tanto che non la vedo.

- Anche mia sorella porta lo stesso nome, sapete? Ad ogni modo se l'amicizia può veramente definirsi tale, ritengo che il carteggio possa sopperire alla presenza fisica, ma la vera amicizia è rara, dal momento che richiede costanza e dedizione.

- Esatto, ed è davvero facile ai giorni nostri perdere i contatti.

Il poeta si fissò sul suo viso sereno, nonostante l'esilio, nonostante le lotte ideologiche sostenute.

- Voi amate la corrispondenza?

Chiese a Ranieri.

- Beh, fa sempre piacere ricevere una lettera da qualcuno, soprattutto se un buon amico..

- La corrispondenza non è mai un piacere, è un obbligo, casomai.

Intervenne Manzoni all'improvviso. Anche il Viesseux si unì alla conversazione:

- Ad esempio, io intrattengo una fitta corrispondenza con un caro amico parigino, Claude Fauriel per lamentarmi di varie piaghe che affliggono quest'Italia sì bella e tormentata...

- Abbeh, le cose bell so' sempr accussì. Belle fuori, infernali dentro. E chi ne soffre sono ovviamente i figliuoli suoi. Ma... permettetemi di dissentire, signor conte... - disse Ranieri rivolgendosi a Manzoni - la corrispondenza diventa un obbligo nostro o degli altri se è già iniziata. Ma in casi particolari! Ai giorni d'oggi c'è gente con cui non varrebbe la pena iniziarla. Anzi, se sono loro a iniziare è pur cosa buona e giusta farla morir prima d'o' nascere.

- L'esilio vi ha instillato un po' di cinismo, vedo. Fate riferimento a qualcuno in particolare?

Disse Manzoni accarezzandosi i folti favoriti.

- Ah! Signore mij! - disse l'altro con un sorriso ironico sulla faccia agitando la mano in aria- Ce ne sarebbero di perzone brutte assaje. Ci ho avuto a che fare io stess.

- Il genere umano pullula di zotici e di villani, e quelli della peggior specie non hanno neppure una vanga in mano.

Intervenne Giacomo con tono vago, per non far credere che si stesse riferendo a qualcuno lì presente. Ranieri scoppiò in una risata, seppur composta.

- C'havete raggione, Eccellenza! - disse riferendosi al Leopardi.

- Me ne compiaccio.

Rispose Giacomo arrossendo leggermente e abbassando lo sguardo dato che un raggio di luce filtrato fra le tende gli feriva dolorosamente gli occhi

L'orologio a pendolo all'improvviso suonò le cinque e il vecchio Viesseux si alzò dalla sua poltrona dietro l'elegante scrivania in mogano e chiese guardandosi attorno tra gli ospiti:

- È l'ora del tè. Lor signori ne gradiscono?

- Che tè avete, Giovan Pietro? Ve lo chiedo perché io bevo solo tè inglese.

Disse Manzoni tranquillamente.

Giacomo pensò che qualcosa di caldo gli avrebbe fatto bene

- Se non vi è di troppo disturbo, gradirei volentieri.

Mormorò, ma si stupì della richiesta così puntuale da sembrare disdicevole, però non disse nulla e guardò il cameriere versare il tè nelle tazzine.

- Suvvia... Alessandro, sapete bene che qui si serve solo ottimo tè inglese originale...

Disse Viesseux e poi, approfittando del fatto che Manzoni si fosse girato, si grattò la fronte corrugata e imprecò, cosa che tra l'altro seppe interpretare benissimo Ranieri, che ne fu divertito e sussurrò al Leopardi, senza farsi sentire da Manzoni:

- Ecco, guardate, guardate il povero Viesseux... sta dicendo sicuramente: "Maronn mij, chest pur lu tè 'nglese m' ven a chiedere...

E scoppiò in una risatina sommessa. Anche Giacomo scoppiò in una composta risata liberatoria, Manzoni era pignolo come sua madre Adelaide.

- Mi dicevate del vostro romanzo... - Disse il Viesseux sollevando la tazzina - ... è dunque per questo che vi trovate qui?

Manzoni lo guardò compiaciuto.

- Non è un semplice romanzo. Sarà il collante della nostra povera Italia, in nome di un'unica lingua e di un'unica fede, quella in Signore nostro Gesù Cristo.

- Molto religioso, il Manzoni...

Tornò a constatare sottovoce Ranieri al poeta recanatese.

- È una bella idea, amico mio. - Rispose Viesseux sistemando gli occhiali da lettura sul ripiano della scrivania - Però devo confessarvi non ho ancora avuto il piacere di leggerlo. Vi prometto che lo farò presto.

Gli sorrise, cercando di non offenderlo.

- Chiaramente ci sono degli elementi che ancora non mi convincono, non scarto l'ipotesi che ci saranno modifiche al mio "Fermo e Lucia".

Disse il Manzoni impettito.

- Eppure... ne ho sentito parlare così... bene...

Replicò Viesseux abbassando la voce ripensando alle Operette Morali, che avevano avuto l'esito opposto, mentre posava per un attimo lo sguardo su Leopardi.

- Vi confesso che mi farebbe piacere leggerlo.

Disse Giacomo accennando un sorriso sulle labbra sottili.

- Io non m'interesso molto di letteratura.

Ridacchiò Ranieri.

- Però anche voi vorreste la nostra patria unita... la letteratura non è che un'arma silenziosa...

Rispose Manzoni.

Al termine "arma" Giacomo si sovvenne di Gertrude e aggiunse tristemente:

- Avete ragione, conte, la penna a volte ferisce e conquista più della spada.

- Sicuramente, Eccellenza. Ma io non son bravo ad utilizzarla. Se la letteratura è come una lama in mezzo alla folla, allora la politica è simile a dei colpi di cannone. Dei fulmini a ciel sereno.

Rispose Ranieri.

- ... Ed io preferisco l'artiglieria pesante.

- La politica è uno strumento efficace, che indubbiamente ha assaporato la corruzione di questo secolo ipocrita. Anche io in gioventù avevo ideali patriottici caduti poi miseramente, rendendomi conto che per quest'Italia nostra non v'è speranza alcuna.

Disse Giacomo sconsolato finendo di sorseggiare il tè.

- Non ci sarà mai speranza, fino a quando i pezzi grossi saranno cani e porci.

Antonio fece una breve risata ironica per poi prendere un sorso di tè.

- È l'ascendente borghesia che sta diffondendo falsi valori materialistici. Anche la letteratura, l'arte sono alla mercede del guadagno.

Disse il Manzoni sconsolato.

- Non prendetevela con la borghesia, conte. Perché sono proprio loro a voler dare una svolta al governo. La gente sta cominciando a stufarsi di questi stranieri al comando, per non parlare dei reggenti che resistono. Sono i liberali, conte. Pensate alla parola in sé: libertà. E se parlate del guadagno, credo che non ci sia cosa più giusta. Non sapete quanta gente morta di fame c'è in giro. Qualche tempo fa son stato a Bologna. La notte c'erano gli sciacalli, pronti a prenderti all'assalto. E non pensate che siano solo lì, eh? Il tasso di criminalità è cresciuto a più non posso, signori miei. C'è veramente aria di rivoluzione. I valori stanno perdendo importanza. C'è povertà. Bisogna che l'ideale di Italia unita si diffonda, ma in Italia, ogni qual volta si cerchi di organizzare qualcosa di grosso, tutto va in fumo.

Intervenne Ranieri.

 

- Fine parte I -

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Aria di Rivoluzione - Parte 2 ***


  

- Non potrebbe andare peggio... - mormorò Giacomo sconsolato - ... una cosa è certa, c'è bisogno di nuovi valori in cui credere.

- Ho sentito dire che seppur regni la pace qui a Firenze, il Granduca non lesina sulle spese per la difesa, dicono in particolare che si avvalga della collaborazione di un soldato senza pietà dalla ferocia sconvolgente.

Disse il Manzoni guardando i suoi interlocutori.

- Davvero? - chiese Ranieri - E perché mai?

- La pace che regna tutt'oggi a Firenze è una briciola che si regge sulle punte affilate delle armi da taglio dei soldati del Granduca, ma in particolare di uno di loro. Non ha pietà, è una macchina da guerra che uccide a sangue freddo.

Rispose il Viesseux, pensieroso, Ranieri si voltò allora verso di lui:

- Voi lo conoscete, Signor Viesseux?

- Ne ho sentito parlare, è merito di costui se il Granduca è ancora vivo, lui si occupa principalmente di eliminare chi attenta alla sua vita.

Giacomo teneva gli occhi bassi, contrito.

- Voi non dite nulla? - Chiese Manzoni a Giacomo - Eppure costui è sulla bocca di tutti a quanto pare.

Giacomo strinse convulsamente la stoffa dei suoi pantaloni.

- Signori... vi giuro che non ne so nulla...

- Oh suvvia, che volete che sia... anzi, se appoggerà la nostra causa sarà ancora meglio!

Azzardò Ranieri.

- Non so se il suo mestiere sia la guerra o la politica... forse è solo una semplice macchina di morte.

Rispose Manzoni.

- Beh, sappiamo bene di quanto Sua Grazia non ami la gente stupida al suo servizio. Non è una corazza senza cervello. Anzi.

Intervenne Viesseux.

- Voi dunque lo conoscete?

Esclamò il Manzoni tossicchiando il tè.

- Chi non "lo" conosce, qui a Firenze.

- Io... non capisco come si possa uccidere così, senza ritegno... - Aggiunse Manzoni - Al contrario di quanto sosteneva Machiavelli io non ritengo che il fine possa giustificare i mezzi.

- Non sempre, Eccellenza, non sempre.

Ribatté Antonio.

- Dev'essere un uomo tutto d'un pezzo e senza cuore. - proseguì Manzoni - Io non riuscirei a non provare pietà per i nemici...

- Non incominciamo coi pregiudizi. - intervenne Viesseux, con tono appena alterato. - Io conosco quel ragazzo... e so anche perché ha fatto questa scelta. La rabbia e la vendetta sono delle belve feroci, signori miei, sono capaci di mangiarti il cervello!

Disse muovendo le mani in aria, ai lati della testa.

- Non ne dubito. - Rispose Manzoni con calma.

Il respiro di Giacomo si era fatto più frequente, voleva fuggire, eppure era lì incastrato fra Manzoni e il Viesseux.

- Non sarebbe una cattiva idea poter parlare con lui.

Proseguì quello. Ranieri sentì il respiro di Leopardi farsi più veloce e strozzato, quasi come avesse difficoltà. Si voltò verso di lui mentre gli altri due parlavano tra di loro. Il poeta si teneva l'ampia fronte in una mano e poggiava la mano libera sul petto.

- Eccellenza... oh! Eccellé!

Ranieri lo chiamò ad alta voce scuotendolo appena dalle spalle.

- Aprite la finestra!

Incitò.

Il poeta udiva la voce di Ranieri rimbombare da lontano, sentì mille spilli perforargli il cranio.

- Aiutatemi vi prego...

Mormorò debolmente. Viesseux fece come fu chiesto, mentre Manzoni si avvicinava mantenendo la sua ari austera, ma negli occhi si vedeva bene che fosse preoccupato. Ranieri si alzò e lo fece sistemare al centro del divano, gli aprì la cravatta e allargò il colletto della camicia.

- Vi ringrazio infinitamente, deve essere stata la stanchezza... chiedo venia per il disturbo.

Mormorò Giacomo arrossendo.

- Volete un po' d'acqua?

Chiese Viesseux, in apprensione.

- Ve ne sarei molto grato... - Sussurrò a fatica. - Mi rincresce d'aver interrotto la vostra conversazione...

- Ad ogni modo non sarebbe una cattiva idea parlare con codesto soldato che precedentemente menzionavamo, potrebbe dare un impulso ai nostri ideali patriottici, forse troppo avulsi dalla pratica.

Disse Manzoni dopo aver constatato che Giacomo si sentisse leggermente meglio.

- Basta parlarne, sicuramente quest'argomento ha fatto agitare il Conte Leopardi. Riprenderemo in seguito.

Ranieri tagliò corto, mentre il poeta recanatese, al suo fianco, si riprendeva con dell'acqua fresca. Giacomo non riuscì a spiegarsi per quale strana alchimia quell'uomo conoscesse il linguaggio criptato del suo cuore, decifrandolo con grande semplicità. Non disse nulla, ma lo guardò con la gratitudine dell'amicizia autentica.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Giochi di specchi ***



 

"Si hanno due vite. La seconda comincia il giorno in cui ci si rende conto che non se ne ha che una."

Confucio
 

 

 

Si erano fatte le sette, si sentirono i rintocchi del grande pendolo del salone e Giacomo decise di tornare a palazzo Degl'Innocenzi per non far preoccupare il Visconte, per quanto riguardava Gertrude, la sua unica salvezza era fingere che non esistesse. Congedò Manzoni, Viesseux e Ranieri, con la viva speranza di incontrarlo di nuovo. Gli aveva lasciato una sensazione di tranquillità e di fiducia quell'uomo, seppur non sapesse spiegarsi razionalmente per quale ragione. Fece chiamare una carrozza, la stanchezza gli impediva di camminare, ma fortunatamente rallentava pure il flusso violento dei suoi pensieri. Il Visconte aveva già ordinato che la cena fosse pronta per allora. Non sapeva se e quando sarebbe tornato il Conte, quindi aveva fatto apparecchiare solo per uno.

- Ah, Conte! Buonasera! Com'è stato l'incontro?

- È stato alquanto gradevole anche se non mi sono sentito molto bene, ahimè...

- Perbacco, dite davvero?

Chiese il vecchio, con le orbite spalancate.

- Se volete andare a riposare, siete libero di farlo...

- No, no, non intendo lasciarvi cenare per vostro conto.

Gli rispose l'altro sperando che parlasse di Gertrude.

- Oh, figuratevi, mi sono abituato, ormai. Il Granduca le fa fare spesso la ronda di notte.

- Anche stanotte?

Azzardó il poeta.

- Eh sì, purtroppo.

- Immagino che la cosa desti in voi una certa preoccupazione...

Mormorò Giacomo sbocconcellando un tozzo di pane.

- Beh, fortunatamente non è mai sola.

Rispose il Visconte stentando un sorriso, poi riprese, facendosi serio:

- Vi vedo pallido, Eccellenza, vi consiglio di prendervi un po' di riposo al più presto. Non vorrei che la vostra salute si aggravi.

Ora Giacomo stava veramente male. Si sentì sull'orlo della disperazione.

- In effetti è poco prudente che una fanciulla si aggiri sola in ore tarde... 
Disse Giacomo cercando di mascherare il disagio. Non aveva compreso l'immotivato ed improvviso ritrarsi della fanciulla ed era stato proprio ciò a fargli prendere coscienza di quanto costei fosse diventata per lui una dolce e dilaniante ossessione.

- È da un po' che lo fa... e poi, non le può accadere nulla di grave. Le guardie sono aumentate, in questi anni.

- È l'unica fanciulla ad ogni modo, ed è circondata da uomini... non per accrescere la vostra preoccupazione, stavo ragionando pensando a mia sorella, non m'ascoltate...

Disse Giacomo portandosi una forchettata di broccoletti alla bocca. Non era mai stato particolarmente amante delle verdure, ma per non disgustare il Visconte, si sforzò di ingoiare quei bocconi che il suo povero stomaco cercava di rigettare.

- Oh, beh... è normale che chi le sia affezionato stia in pensiero per lei...

- Ma... in fondo le guardie sono solite comportarsi in modo irreprensibile, n'è vero?

Giacomo lo provocò sottilmente pentendosene subito dopo ma incapace di spegnere la morbosa gelosia che lo consumava. La voleva lì. Ora.

- Che intendete? Non vi seguo...

Chiese l'altro guardandolo corrugato.

- Che... beh anche le guardie sono uomini, no? Ma non importa, sul serio non formalizzatevi su codeste contorte elucubrazioni .

- Sì, sono uomini. Ma mia figlia sarebbe capace di renderli eunuchi senza neanche che se ne accorgano.

Sorrise quello, rassicurante. Giacomo rabbrividì in parte rassicurato, in parte spaventato dalla risposta brutale.

- Non ho dubbi sulle sue capacità difensive. - Ironizzò. - Ho avuto modo di sentire il profumo di quella rivoluzione di cui m'accennavate... mi auguro apra le porte a nuovi valori...

Alcide sorrise e rispose:

- Me lo auguro anch'io, Eccellenza. Ora, se potete perdonarmi, io mi ritiro. Ho avuto una giornata parecchio piena, quest'oggi.

Quando Giacomo vide il Visconte alzarsi, si mise in piedi, lentamente e dopo averlo scrutato abbassò lo sguardo e gli domandò:

- Visconte, nel caso una sera dovessi trattenermi fuori più del previsto, quali sono i luoghi che è solita pattugliare vostra figlia? Deduco siano i più rischiosi...

Disse senza trattenere l'imbarazzo, e il visconte, dopo che gli ebbe indicato le posizioni, si congedò, lasciandolo solo coi suoi pensieri. Abbassò lievemente il capo e rifletté per un momento, non era per nulla propenso a ritirarsi nella sua camera. Desiderava vederla più d'ogni altra cosa. Sentì un lieve rumore scuotere il portone. Il disagio lo abbandonò e senza alcun indugio si alzò per raggiungere in tutta fretta l'androne: stette in cima alla scala, per vedere il portone aprirsi.

- Andiamo, apriti!

Imprecò Gertrude spingendo contro il pesante portone di legno dopo aver attraversato l'ampio cortile interno. Spinse, cercando di non farlo cigolare. Sentiva la spalla prossima alla lussazione, a forza di combattere con le cerniere indurite di quel colosso. Aveva chiesto tante volte che si sostituissero, ma suo padre insisteva che andassero bene quelle. Riuscì ad aprire una delle due ante a metà e ringraziò il Cielo d'esser magra abbastanza da poterci passare. Giacomo poté finalmente vederla, seppur in controluce. I lievi raggi lunari che penetravano tra la pioggia le illuminavano d'argento i contorni. Era bagnata fradicia e gocciolante. Si tolse la feluca, che era stata foderata per proteggerne le piume. Le suole bagnate dei suoi stivali fecero un rumore secco a contatto col marmo del pavimento, mentre scavalcava il gradone che sollevava la porta da terra. Richiuse tutto spingendo con la schiena, pregando che non scivolasse. Si tolse il mantello dalle spalle. Sentiva freddo e l'unica cosa che voleva era starsene sotto le coperte. Sollevò lo sguardo, proprio mentre poggiava un piede sul gradino della scala che dava accesso al pianerottolo. Il poeta sentì il proprio cuore schiudersi, sciogliersi dalla morsa che lo aveva crudelmente attanagliato durante tutta la giornata di fronte a quella visione a dir poco celestiale. In cima al pianerottolo dal quale si dipartivano due rampe di scale che convergevano in quello stesso punto,  la accarezzò con lo sguardo, morendo sul suo esile corpo e sui suoi deliziosi contorni.

- Gertrude... - Mormorò sottovoce. - Ero tanto in pena per voi.

Gertrude non disse nulla, chinò nuovamente il capo sugli scalini e fece per superarlo con passo felpato.

Giacomo abbassò il capo vinto dallo sconforto.

- Io... non comprendo, Gertrude... e ciò mi uccide.

Le disse sperando di smuoverla. Lei, sentendo quelle parole si fermò e si voltò, furiosa.

- Oh, non comprendete?!

Cominciò sbeffeggiandolo.

-Voi... Voi siete la mia rovina, ecco cosa siete! - Ruggì contro di lui. - Venti fottuti anni di servizio andati a puttane! Per colpa vostra!

Gli si avvicinò e gli diede uno schiaffo.

- Continuate a non capire? Forse questo vi aiuterà. Scostumato!

E voltò i tacchi, allontanandosi velocemente e quando raggiunse la sua camera, si chiuse dentro e sospirò di rabbia, lasciando cadere il mantello sul materasso. Si abbandonò sulla sedia davanti allo scrittoio dopo essersi spogliata della giacca. Il poeta rimase immobile convincendosi che era tutto dannatamente assurdo e dilaniante più della sua stessa vita. Rimpianse la noia di Recanati e il sonnolento consumarsi della sua giovinezza. Non c'era più nulla ora. O forse quello era il principio di tutto. Le guance gli dolevano, mai quanto il cuore oramai fatto a pezzi ma ancora vivo, vivo abbastanza da lasciarsi trafiggere di nuovo. Dunque quella non era la normalità, dunque una felicità seppur velata esisteva... Inspirò a fondo e sentì l'orgoglio risalire le sue vene. Nessuno poteva permettersi di umiliarlo a quel punto. Si avvicinò alla porta di Gertrude.

- Aprite, dannazione.

Mormorò poggiando la bocca alla porta

- E perché dovrei?!

Urlò da dietro la porta.

- Adesso siete voi a mentire, voi a non capire nulla, ditemi Gertrude, quante facce avete?

- Voi non sapete nulla di me! Non ne avete il diritto!

- Nemmeno voi avevate il diritto di...

S'interruppe, non voleva dirlo.

- È stata una conseguenza di ciò che avete fatto. Tutto questo è una conseguenza! Statemi lontano!

- Abbassate la voce! - le intimò esasperato - Io non vi ho fatto nulla, fossi stato altra persona...

Si alzò dalla sedia e si appoggiò alla porta con la guancia.  

- Ah, non mi avete fatto nulla? E ditemi voi, allora, cos'era quel bacio di ieri sera. Non l'ho scordato, sapete?!

Disse con tono più basso, seppur rimanesse furiosa.

- Avete iniziato voi, nel bosco.

Le rispose imbarazzato.

- Non ha importanza. E ora andatevene. Sono stanca e ho bisogno di dormire.

- Per voi è tutto un gioco, n'è vero? Per quanto rimpianga la mia fanciullezza, non sono più nello spirito di giocare... per me la questione è chiusa per sempre. Addio.

Le sibilò sperando che lei facesse di tutto per trattenerlo. Proprio mentre stava per entrare nella propria stanza, si sentì la chiave girare nella serratura. Si voltò e vide Gertrude appoggiata alla cornice, con le braccia incrociate al petto, che lo fissava.

- Mi avete forse preso per una donna qualunque della mia età? Io non gioco più da almeno vent'anni. Non si resta fanciulli facendo una vita come la mia. Come ho detto, voi non sapete nulla di me.

- Eppure avete giocato con me, seppur senza rendervene conto. Sarebbe disonesto negarlo e non voglio credervi disonesta.

Mormorò immergendosi nei suoi occhi.

- Il gioco è finito nel momento in cui vi ho riportato nella vostra camera, Conte. Non ve ne siete accorto.

- Dunque lo ammettete che era un gioco. Santi numi per chi m'avete preso? - Mormorò con una punta di rabbia. - E' sempre stato un gioco, per voi, vi stavate burlando di me, ma arriverà un giorno che qualcuno farà lo stesso con voi, ve l'assicuro.

- Non mi sono mai comportata così con un uomo, sappiatelo. Non ho mai baciato le mani di un uomo, oltre che a quelle di mio padre, nonostante mi punisse ogni giorno. Non ne ho mai accarezzato il viso. Era un gioco, sì. Ma quando mi sono definitivamente resa conto che c'erano di mezzo i sentimenti, allora mi sono resa conto che ciò che voi chiamate gioco, mi stava facendo paura. Perché in quel modo non mi sono mai sentita. 

Giacomo abbassò lo sguardo, si sentì improvvisamente felice, ma non poteva dimostrarsi così manipolabile, rimase serio.

- E non avete paura di infrangere il cuore d'un essere umano?

-Sono abituata ad infrangere qualcosa di più grande, con le mie mani.

- L'abitudine di compiere un'azione non elimina la sofferenza che ne consegue.

Mormorò guardandola negli occhi

- Vedete, Gertrude, molte persone infrangono vite, oggetti, cuori solo per coprire il rumore della propria vita e del proprio cuore che s'infrange ogni secondo, con fratture sempre più insanabili. Non sto dicendo sia il vostro caso, non fraintendetemi, com'avete detto in precedenza, io non so nulla di voi...

- Cosa volete da me, Conte?

- Nulla... oramai. - Le rispose vagamente. - E lo scopo del vostro giuoco qual era, invece? Siate onesta, Viscontessina...

- Non sono per me i sentimentalismi, Conte.

- Non fanno nemmeno al caso mio, a quanto pare... tuttavia v'ostinante a non rispondere...

Disse con una punta di sfida nel tono di voce.

- Ho già risposto. Buonanotte, Conte. 

E gli chiuse la porta in faccia. Giacomo strinse debolmente i pugni, maledicendo quella porta che lo separava da lei. Si sentì piccolo e impotente. Gli occhi gli bruciavano, era molto tardi, si arrese all'idea di offrire un po' di riposo alle sue stanche membra. Riposo, perché di dormire non se ne parlava, la sua mente non gliel'avrebbe di certo concesso.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Riunioni ***


"Se ami qualcuno, lascialo libero. Se torna da te, sarà per sempre tuo, altrimenti non lo è mai stato."

Anonimo

 

 

Passarono i mesi e verso la fine dell'ottobre del 1828, Giacomo Leopardi fu costretto a rifare i bagagli e tornare a Recanati, perché gli era giunta notizia che uno dei suoi fratelli, il minore, Luigi, fosse spirato a causa della tisi. Dopo un fugace saluto, partì alla volta delle Marche. La noia, il lento consumarsi di tre lunghi anni aveva scavato segni di desolazione sul suo scarno volto, del colore della tanto amata luna, che ogni sera baciava per ore. Recanati era l'inerzia d'un esistenza che sgusciava via con le sue fatue ed effimere promesse, con i suoi quotidiani sberleffi. La sua salute era andata peggiorando, e ora non poteva più permettersi che Recanati gli inghiottisse quei miseri brandelli di vita che madre natura gli dispensava, avaramente. Prima d'aver lasciato Firenze, al gabinetto Viesseux aveva avuto modo di conoscere Il Montani, il Capponi ed il Colletta, intellettuali che ruotavano attorno all' "Antologia", persone che oltre al Ranieri gli erano molto care, nonostante il suo crescente e prorompente "pessimismo" l'aveva condotto ad allontanarsi dall'ideologia liberale. Due anni prima, nel 1828 Giacomo aveva tentato una fuga da quel "vivere di morte" confidando nel premio di mille scudi bandito dall'Accademia della Crusca, affidando il suo futuro nelle mani delle tanto care Operette Morali, che tuttavia non conquistarono la giuria al punto da incoronarlo vincitore. La malattia del corpo e la straziante malattia dell'anima che tanto torturava il suo debole cuore lo spinse a chiedere aiuto a Viesseux, il quale, d'accordo con gli intellettuali dell'Antologia, si premurò d'inviargli un sussidio per lasciare Recanati. Se ne occupò Colletta e Giacomo accolse questa possibilità come una benedizione. Salutò fugacemente il padre, con lo strazio nel cuore, quasi presentendo che fosse l'ultima volta che i suoi occhi si posavano su di lui, essere a lui tanto simile e tanto ostile. Non si voltò nemmeno mentre il tramonto offuscava i contorni di quel luogo tanto amato e tanto odiato, che gli aveva dato la vita togliendogliela, consapevole di non tornarvi mai più sentì solo una lacrima rigargli furtiva la guancia pallida e la brezza primaverile che scostava lievemente le tende della carrozza profumava di infanzia, quell'infanzia che da quel momento, insieme Recanati in lui sarebbe morta per sempre.

 Arrivò a Firenze ch'era sera. Gertrude aveva l'ordine di far scortare tutte le carrozze che entravano nella città. Dopo giorni e giorni di viaggio, il Conte era oramai stremato, nonostante le soste. Una figura incappucciata si avvicinò, in groppa ad un cavallo nero come la notte. Le strade erano illuminate da qualche lampione e le mattonelle luccicavano sotto i raggi lunari, umidi dalla pioggia del pomeriggio.

- Chi trasportate? 

Chiese al cocchiere, reggendo saldamente le redini. Sul suo petto spiccava cucito lo stemma del Granducato di Toscana.  

- Conte Giacomo Leopardi di Recanati, signore.

- Dove siete diretti?

- A Firenze città.

Rispose quello, sbadigliando. Gertrude, a sentire quel nome, ebbe un tuffo al cuore.

- Abbiamo ordine di scortarvi. 

Disse poi, girando il cavallo e affiancando la carrozza.

- Chiedete il motivo di ciò, ve ne prego.

Disse Giacomo al cocchiere, egli fece come gli fu chiesto e l'uomo incappucciato avvertì delle precauzioni prese da Sua Grazia il Granduca, in presenza di due casi di aggressione.

- State tranquilli e procedete con calma. 

Giacomo si scorse a fatica dalla carrozza, c'era qualcosa di dannatamente familiare in quell'ordine perentorio impartito dal soldato.Il cappuccio copriva quasi completamente il volto dell'uomo ed era impossibile cercare di scorgerne le sembianze. Nel frattempo la carrozza aveva ripreso il suo cammino. Giunse dinnanzi al palazzo che gli era stato indicato nella lettera, pagò il cocchiere e si fece aiutare con i bagagli. Sentì lo sguardo del soldato che li scortava seguirlo, era troppo stanco per chiedersi la cagione di ciò, così scrollò le spalle e iniziò faticosamente la salita della ripida rampa di scale. Si sentiva vuoto di tutto fuorché dell'inganno d'una piccola latente illusione.

- Cocchiere, state allerta durante il rientro, troverete delle guardie, in giro, se siete in difficoltà, urlate. 

Disse l'incappucciato prima che i due entrassero, poi impennò il cavallo e partì al galoppo, tornando indietro. Giacomo osservò l'incappucciato allontanarsi, invidiò la sua determinazione, il suo ideale la sua salute persino. Si sdraiò sul sofà che trovò nel piccolo soggiorno e a fatica posò lo sguardo sulle grosse travi che sostenevano il soffitto, sembrava il costato di un enorme animale, uno di quelli che popolavano le sue fantasie infantili. Solo allora si rese conto che l'incappucciato emanava un soave profumo di lavanda.

Gertrude s'infilò in un vicolo e scese da cavallo, poi si tolse il cappuccio e fissò la luna che riusciva ad intravedere tra i palazzi. 

- Siete tornato...

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Merletti sporchi ***


"Le corna sono come le scarpe: tutti nella vita ne hanno avuto almeno un paio."
Anonimo 



 

Giacomo si svegliò presto, dopo una notte agitata, popolata di strazianti ricordi e presentimenti. Fece chiamare il cocchiere, per raggiungere il gabinetto di Viesseux.

- Cocchiere, temo saremo obbligati a chiamare la scorta... e beh... il soldato che ci ha scortato ieri, ha fatto un ottimo lavoro...

Disse abbassando lo sguardo.

- Non so dove sia, Eccellenza, mi dispiace. Credo che adesso sia a casa a dormire, dato che ieri ha fatto il turno di notte...

- Capisco...

Mormorò Giacomo pensieroso.

- Dove debbo accompagnarvi, Vostra Eccellenza?

- Vi sarei grato se poteste accompagnarmi al gabinetto Viesseux, dato il pericolo... ad ogni modo, conoscete il soldato che v'ho menzionato in precedenza?

Chiese infine il poeta, arrossendo.

- No, Eccellenza, mi dispiace. Era incappucciato, mi è stato difficile riconoscerne il volto.

- Comprendo, buon uomo, vi ringrazio ugualmente. Ora andiamo al gabinetto Viesseux, devo rendere grazie ad alcuni amici senza i quali non sarei qui ora.

Disse Giacomo con velata tristezza.

 - Subito, Eccellenza. 

E gli aprì lo sportello della vettura, permettendogli di salire. Infine partirono verso il Gabinetto.  Quando arrivarono, Giacomo si trascinò giù dalla carrozza già esausto e strizzando gli occhi ulteriormente indeboliti dalla luce forte che filtrava attraverso le nuvole, vide due figure armoniosamente simmetriche ed eleganti. Si stavano avvicinando al portone, erano un uomo e una donna abbigliati di tutto punto, si avvicinò loro con passo incerto. Morbidi boccoli color castano carezzavano esili spalle bianche come la neve fresca, su una tanto delicata carnagione come potevano non risaltare due labbra rosse come boccioli di rosa che parevano scolpite da Michelangelo.

- Sono esausta, e questo corsetto mi dà tormento...! 

Cinguettò osservando di sott'occhio il suo interlocutore. 

- Ad ogni modo non potete far nulla per me, in proposito... 

Proseguì maliziosamente, ostruendosi la bocca col suo ventaglio di pizzo perfettamente in tinta con i suoi guanti e con l'abito color panna. Giacomo sentì il cuore accelerare inspiegabilmente, si avvicinò ulteriormente e accennò ad afferrare il battacchio per bussare. 

- Acciderbolina! - Squittì la donna - Un ospite di Giovan Pietro di cui non conosco il nome, buon Dio, Alessandro, permettetemi di rimediare! 

L'uomo si avvicinò a Giacomo e accennando un inchino si presentò:

- Sono Alessandro Poerio, patriota e poeta, piacere di fare la vostra conoscenza. 

Giacomo si inchinò a fatica e mormorò:

- Conte Giacomo Leopardi da Recanati. 

Vide gli occhi della donna puntati addosso e arrossì visibilmente. 

- Posso permettermi di presentarvi la contessa Fanny Targioni Tozzetti, moglie dell'illustre chimico e biologo Antonio... 

La donna nel frattempo si era elegantemente seduta su una panca a fianco del portone, con le gambe lievemente distese in avanti per riposare i piedi dai tacchi. Giacomo si avvicinò a lei accennando un inchino ma inciampò maldestramente nei suoi piedi finendo per cadere in avanti. Conficcò convulsamente le unghie nelle cosce della donna e si ritrovò le labbra appoggiate al suo generoso décolleté. Pensò di morire. Si rialzò a fatica e vide che la donna, pur trattenendo a stento le risate non era per nulla sconvolta dell'accaduto, come se fosse particolarmente avvezza a tali evenienze. Giacomo si rimise in piedi paonazzo per la vergogna. 

- Non era mia intenzione, assolutamente, chiedo venia... 

Mormorò quasi in lacrime. Sollevò lo sguardo e vide un cavaliere incappucciato sferzare il cavallo, allontanandosi con furore dalla piazza.  

- Maledetto... Che siate maledetto!

Urlò con voce tremante per la via e il suo grido riecheggiò tra i palazzi e i vicoli, facendo voltare tutti verso di sé. Li aveva visti. Li aveva visti, le aveva baciato il petto! A cosa erano servite le carezze e i baci a quelle sue mani così delicate e candide? Sentì il pianto scuoterle nuovamente le membra dopo tre interminabili anni.

Giacomo inspirò a fondo sperando che i suoi sospetti circa l'identità del cavaliere fossero infondati, ma sapeva benissimo che il suo cuore e il suo istinto non mentivano.

- Voi conoscete i soldati?

Chiese d'improvviso alla donna ansimando lievemente in preda all'ansia

- Certamente, ma... come ho potuto... perdonatemi, contessa... temo di non essere al meglio quest'oggi

Mormorò muovendo rapidamente lo sguardo a destra e a manca.

- Alessandro, n'è vero? Bussate voi, vi prego!

Poerio si riprese dall'accaduto che lo lasciò non poco confuso e si schiarì la voce tornando alla realtà e riscuotendosi. Bussò e un valletto aprì porgendo le solite domande.

- Sono Alessandro Poerio e con me vi sono la Signora Targioni Tozzetti ed il Conte Giacomo Leopardi.

Giacomo si tranquillizzò un poco nel rivedere tutti quei volti amici.

- Non vi ringrazierò mai abbastanza per avermi permesso d'essere qui...

Disse accennando un sorriso, poi si rivolse a Ranieri, felice di rivederlo:

- Ho così tanto da dirvi...

Mormorò con angoscia. Vide che la contessa li stava osservando, sbattendo le lunghe ciglia.

- Oh, Conte Leopardi! Sono lieto infinitamente di rivedervi!

Affermò Ranieri avvicinandosi ai nuovi arrivati e dopo aver stretto la mano a Poerio e aver fatto un galante baciamano alla contessa, s'inchinò davanti al conte, stringendogli la mano.

- Sono passati tre anni. Sembrano un'infinità, n'è vero?

Gli disse sorridendogli gentilmente. A quel punto Viesseux intervenne:

- Il Conte aveva bisogno di trovarsi un impiego e di sentirsi nuovamente a casa... e dove trovare entrambe le cose se non nel mio Gabinetto?

- Certo che siete molto modesto, mio caro Viesseux!

Rispose Ranieri ridendo, suscitando il riso generale.

- Non posso certo negare il mio modesto contributo, tenendo in conto di quanto vi devo... - rispose Leopardi accennando un sorriso. - Per quanto concerne l'Antologia, non ritengo opportuno collaborare, non sarebbe onesto date le mie posizioni ideologiche.

Disse il poeta abbassando poi lievemente lo sguardo.

- Ma nell'Antologia non si tratta solo di politica, amico mio!

Intervenne il vecchio.

- Certamente... vi comunicherò la mia decisione in seguito, ad ogni modo... potete contare sulla mia collaborazione per articoli e critiche letterarie" rispose imbarazzato

- Ma certo, vedremo in seguito!

E così ebbe inizio l'ennesima riunione nel Gabinetto Scientifico-Letterario Viesseux,

- Ho sentito che c'è un nuovo pericolo, in città.

Disse Giacomo al Viesseux, notando lo sguardo di Fanny posarsi su di lui.

- Pericolo? Che genere di pericolo?

Chiese Viesseux sistemando dei libri sulla scrivania.

- Quando Sono giunto a Firenze m'hanno obbligato ad accettare la scorta...

Mormorò quello, tenendo gli occhi bassi e osservando di sottecchi le bianche mani della contessa, ne era irrazionalmente attratto, sebbene se ne vergognasse enormemente

- Ah, sì... beh... nelle scorse settimane ci sono state due aggressioni notturne.

- Aggressioni... a danno di chi? È una mossa politica o semplice brigantaggio?

Chiese Giacomo, allarmato.

- Non si sa ancora. Per adesso le aggressioni sono state troppo poche per poter indagare.

Intervenne Poerio.

- Hanno rubato degli oggetti di valore?

Chiese Ranieri.

- Sì, i sopravvissuti hanno lasciato dichiarazioni in cui dicevano che avessero una benda dal naso in giù, si vedevano solo gli occhi. Sembrano dei ladruncoli. Però non hanno ferito nessuno. Almeno finora...

Continuò Alessandro.

- Ad ogni modo, non c'è nulla da temere, è ancora a Firenze quel soldato senza pietà, n'è vero?"

Disse Giacomo con una punta di curiosità. Viesseux scoppiò a ridere, divertito. Era un modo per rassicurare sé stesso e gli altri.

- Ma certo che sì! Fino a quando il Granduca lo pagherà abbastanza, s'intende. Sapete come sono i mercenari...

Giacomo abbassò lo sguardo.

- I mercenari sono persone volubili, n'è vero? Non che ne abbia avuto esperienza, non ne ho mai conosciuto uno, ad ogni modo di lor si dice ciò.

- Molto, mio caro Giacomo. Molto.

Rispose l'altro per poi prendere un sorso d'acqua dal bicchiere alla sua sinistra.

- Pagano bene costui?

Intervenne Fanny

- Il Granduca non è un datore di lavoro come tutti gli altri...

Continuò il vecchio.

- Che intendete...? Suvvia non fate il misterioso... - squittì Fanny - non vedete com'è interessato il conte Giacomo?

- Mia carissima signora, il Granduca è il Granduca.

Aggiunse Poerio.

- Vi proibisco di provocarmi così... rispondetemi, signori!

Aggiunse stizzita, guardando Ranieri implorante. Quello si voltò verso la donna e sorrise. 

- Ebbeh, signora mia. Cosa volete aspettarvi dal Granduca di Toscana in persona? È l'uomo più potente di tutta la Toscana. Oibò, Voi dovreste saperlo meglio di me, dato che siete di qui. O sbaglio?

La contessa abbassò lo sguardo senza levarsi dal volto il sorrisetto malizioso che l'adornava. 

- In vero, ho avuto modo di conoscere il Granduca in parecchie occasioni, per via di mio marito, s'intende. 

S'affrettò ad aggiungere mentendo visibilmente e Ranieri, vedendo quella situazione irritante, si alzò dal suo posto ed andò a sedersi accanto al poeta. Quella smorfiosa era lì da soli dieci minuti e già gli stava dando sui nervi.

- Conoscete la signora contessa, Antonio?

Chiese Giacomo, felice che Ranieri gli si fosse seduto accanto.

- Solo per sentito dire... - E poi mormorò: - Maronn'o Carmene quant le odio e' femmene accussì.

- Per... sentito dire? Per via del marito, immagino.

- Sì... chell è più cornut di nu cerv."

Giacomo arrossì improvvisamente. 

- Io... veramente credevo fosse conosciuto per i suoi studi di biologia e chimica... non mi dite che questa è la sede in cui tradisce il marito. 

Ranieri scoppiò in una risata divertita e diede una pacca sulla spalla all'amico al suo fianco. 

- Eccellé... - cominciò cercando di trattenere le risate e gli si avvicinò all'orecchio. - Eccellenza, chella va cu cani e porci. Le conosco le femmene comm a' issa. Prima li adesca... - disse facendo un gesto con la mano - e poi se li spolpa vivi.

Giacomo scoppiò a ridere, come non faceva da tempo, da troppo tempo. 

- Ad ogni modo, Giovan Pietro non è a rischio! 

Azzardò, cercando di rimanere serio.

- Tsé. Figuratevi! Chella la carne fresca, si piglia, altroché!

- Sempre uomini d'alto rango ad ogni modo, n'è vero?

Gli chiese, oramai magnetizzato da quella diabolica contessa dai guanti bianchi e dall'anima nera

- Ma che è? Vi piace?

Giacomo arrossì di fronte a tanta schiettezza. 

- Ma... che dite, suvvia nemmeno la conosco... - Incollò lo sguardo al pavimento. - E' forse stato un matrimonio combinato, il suo?

Ranieri sogghignò. 

Non c'è nulla di cui vergognarsi, signor Conte. E comunque, sapete meglio di me come funziona l'ambaradàn, no? I matrimoni combinati sono all'ordine del giorno, nei ranghi come il vostro...

- Non me ne vergogno... anche perchè... come v'ho detto, non la conosco nemmeno - insistette. - Ad ogni modo potrebbe essere questa, la cagione dei ripetuti tradimenti... forse se avesse incontrato chi avvesse saputo amarla davvero, forse...

Mormorò senza distogliere lo sguardo da quei guanti immacolati.

- Voi dite che non avrebbe fatto cornuto il marito suo? Bah, probabile.

Disse il Ranieri, quasi svogliato, guardando gli altri tre chiacchierare tra loro, mentre notava le continue occhiate della diretta interessata.

Giacomo estrasse dalla finanziera alcuni fogli scritti con la sua grafia maniacalmente pulita. 

- Vorrei che prendeste visione di questo mio componimento... - Mormorò porgendogli il manoscritto del "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia". - Il tema predominante è il mistero dell'esistenza, e le domande di senso destinate a riecheggiare insolute dell'immensità del cosmo, infinito e gelido.

Ranieri lo ascoltava mentre vedeva la contessa alzarsi e dirigersi verso di loro, poi lo guardò e prese i fogli.

- Davvero, Eccellenza? Ma... sapete che non ne capisco molto... Ci darò ugualmente un'occhiata, se ciò vi fa piacere.

Antonio non calcolò nemmeno di striscio la contessa, che nel frattempo si stava avvicinando sempre più, e prese a leggere su quei fogli che il poeta gli aveva dato.

- Si, mi farebbe molto piacere che voi leggeste codesto componimento, che, a dispetto di quanto dite voi, sono certo capirete... Ehm... i miei omaggi, contessa. 

Mormorò propendendosi in avanti verso Fanny che si stava avvicinando ancheggiando vistosamente

- Conte... ci siamo già conosciuti, non c'è bisogno di questi inutili e noiosi convenevoli. - Cinguettò. - Vedete il vostro amico? Lui non si degna nemmeno di salutarmi, chi troppo e chi nulla, non ci sono vie di mezzo a questo mondo...

Sospirò tirandosi indietro un boccolo e sbattendo vistosamente le ciglia. Ranieri fece finta di non aver sentito, continuando a leggere, ma poi ci ripensò e sollevò lo sguardo su di lei.

 - Perdonate, Signora Contessa, stava leggendo il manoscritto che sua Eccellenza mi ha gentilmente concesso di leggere. E comunque anche noi due ci siamo già conosciuti, mi pare, o soffrite forse di memoria corta?

Ranieri sorrise, cercando di farlo sembrare uno scherzo, ma infondo era ironico.

 - Direi che il David di Michelangelo è più simpatico di voi, oltre che ad essere più avvenente... - Squittì. - Ad ogni modo... - Inspirò a fondo e posò lo sguardo sul foglio che teneva fra le mani. - ... Posso posarci gli occhi o nutrite la convinzione che la letteratura non sia fatta per le donne?

Sfiorò delicatamente le mani di Ranieri con i guanti di pizzo, fissando Giacomo negli occhi.

- Non ne sono totalmente convinto, Contessa, ma dovreste chiederlo al Conte, non a me.

Rispose senza degnarla d'uno sguardo, senza dare importanza ai suoi tocchi e anzi, smosse le mani per raddrizzare i fogli che si erano piegati col peso. Un sottile modo per farle togliere le dita da sopra le sue, facendo un leggero sospiro.

- Ci... ci mancherebbe... leggete pure... mi lusinga il fatto che vogliate perdere il vostro tempo sui miei scritti... 

- Chi v'ha detto che è tempo sprecato... - mormorò Fanny quasi ansimando. - Perdonatemi, questo corsetto mi sta torturando, magari potessi liberarmene ora... 

Mormorò fingendosi assorta e guardando Ranieri diritto negli occhi.

- Eh... io non posso aiutarvi. Mi dispiace. - Rispose lui freddamente. - E gradirei leggere in santa pace, se Vostra Grazia non ha nulla in contrario. - Aggiunse guardandola sprezzante e infastidito.

- Siete così presuntuoso da ritenere che avessi chiesto il vostro aiuto? Vi deludo immediatamente... ad ogni modo poi dovete dare quel foglio a me... 

Sorrise compiaciuta posando un tacco sulle scarpe di Ranieri ed egli la fulminò con lo sguardo: 

- Scusatemi. Signora. 

Marcò la parola "signora" scostando malamente il piede, poi si alzò e si allontanò. Si posizionò vicino ad una delle finestre, avendo anche più luce.

Giacomo non capì che cos'era successo e seguì l'amico, scusandosi con la contessa, che lo seguì ridacchiando. 

- Il vostro amico non vuole ch'io legga il vostro componimento, forse è geloso di voi! 

Giacomo divenne paonazzo. 

Ma che dite... nemmeno per sogno, vi passerà quel foglio non appena avrà terminato.

Ranieri sbuffò poco signorilmente e si rivolse al Conte. 

- Conte, permettete 'na parola in privato?

- Certamente ma... prima facciamo leggere alla signora contessa. 

Rispose quello garbatamente, ma visibilmente a disagio. Ranieri porse gli scritti alla donna, con un sorriso forzato sulla faccia, come chi è sull'orlo di una crisi di nervi. 

- Prego, Contessa...

- Vedete che anche voi siete un gentiluomo, quando volete.... peccato vogliate quasi mai, quando avete a che fare con la sottoscritta...

Prese i fogli appoggiando nuovamente le dita sulle sue e lui di tutta risposta allontanò quasi immediatamente la mano, posando la stessa sulla spalla del poeta. 

- Vi prego, Conte...

Disse poi, rinnovando l'invito.

- Andiamo in fondo al corridoio, se v'aggrada.... 

Gli rispose il poeta, sperando che la contessa non vi si soffermasse. 

- Ci assentiamo per un momento, Contessa voi proseguite pure, se non comprenderete qualche cosa, sarò ben lieto di fornirvi una spiegazione...

Disse arrossendo, dopo di che Ranieri lo precedette, assicurandosi che lo seguisse. Quando furono abbastanza lontani, di voltò verso l'amico. 

- Statemi bene a sentire, amico mio, permettetemi la formalità, vi lascio questo consiglio come fossi vostro fratello: non fatevi ammaliare da quella donna. È una strega. Una donna come quella vi prende il cuore e ve lo fa in mille pezzi dopo averlo accarezzato tanto dolcemente. Ho visto come la guardate. È una bella donna, certo. Ma state attento. Lo dico per il vostro bene.

- State... tranquillo... mi lusinga la vostra preoccupazione, e vi confermo che anch'io vi considero un amico. Non cadrò nella sua trappola, anche se sinceramente m'è parso che stesse guardando voi...

- E come potete notare, non m'importa un fico secco di lei. Anzi, tra un po' credo che me ne andrò.

- Stimo la vostra determinazione. Meglio così, non c'è nulla di peggio che soffrire per amore...

- Adesso è meglio che vada a salutare gli altri. Statemi bene.

E gli sorrise dandogli una leggera pacca sulla spalla, sorridendo.

- A presto, Antonio. 

Mormorò il conte dirigendosi verso la contessa che teneva in mano il suo autografo. 

- Cosa ne pensate? 

Le chiese timidamente. 

Solo una persona di grande valore può scrivere cose tanto profonde. - Gli rispose sbattendo le ciglia. - Dev'essere bello avervi in amicizia...- Squittí infine, restituendogli il manoscritto.

Antonio, dopo aver salutato velocemente Viesseux e Poerio, stava uscendo e incamminandosi verso la porta, quando sentì le parole di quella donna e gli fu spontaneo ricordare all'amico l'avvertimento con una leggera gomitata, camuffando il tutto con un nuovo saluto a lui e alla dama. Non si degnò nemmeno di baciarle la mano, fece solamente un veloce inchino e poi si allontanò lasciando il povero Leopardi in pasto a una donna dai costumi poco nobili.

- Sapete, non ho molte amicizie, probabilmente per mio costume... 

Cercò di divagare Giacomo. 

- Vostro marito è molto noto qui a Firenze n'è vero?  

Lei lo guardò intensamente negli occhi. 

- Non parliamo di mio marito, è molto più interessante parlare di voi, un conte poeta che non concede a nessuno il suo sorriso. C'è sempre una prima volta d'altronde... 

Mormorò maliziosamente sistemandosi il décolleté, abbassando la poca stoffa che lo copriva.

- Contessa, non importunante il Conte, per favore! 

Esclamò improvvisamente Viesseux, ridendo.

 - Oh Giovan Pietro, così m'offendete! - Esclamò ironicamente appoggiandosi il ventaglio alla bocca. - Voi adorate parlare con me, n'è vero Conte? 

Giacomo annuí impercettibilmente. 

Si è fatto tardi... temo di dovervi lasciare, contessa... 

Le sfiorò la mano con le labbra e vide Fanny appoggiare con più forza la mano contro alle sue labbra. 

- A prestissimo, spero! 

Concluse lei, ridacchiando.  

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** L'amica ritrovata ***


"Amico mio... se sei da solo... io sarò la tua ombra... se vuoi piangere, sarò la tua spalla; se desideri un abbraccio, sarò il tuo cuscino; se hai bisogno di essere felice, io sarò il tuo sorriso; ma in qualsiasi momento avrai bisogno di un amico, mi limiterò ad essere me stesso."
Anonimo

 

 

Quasi un anno più tardi.

 

 

Giacomo salì rapidamente le scale di palazzo Targioni Tozzetti, stringendo quasi convulsamente fra le mani una serie di manoscritti di grande valore, che aveva procurato con non pochi sforzi, ma il sorriso di lei gli avrebbe fatto dimenticare ogni fatica, era taumaturgico. Incrociò suo marito sullo scalone, si sentì avvampare, data l'occhiataccia che gli penetrò fin dentro alle ossa. Fanny aveva ricevuto alcune amiche nel suo salotto e quel pomeriggio uggioso prendeva tranquillamente il tè in loro compagnia. Giacomo bussò ripetutamente, ossessivamente. Il maggiordomo gli aprì la porta, seccato da tanta insistenza. 

- Ho ciò che volevate, contessa, fino all'ultimo manoscritto autografo. Ne siete contenta, n'è vero? Sono un poco rovinati e sgualciti, ma vi giuro che... insomma posso procurarvene anche altri... 

Iniziò ad ansimare leggermente, le signore presenti arricciarono il naso, stupite da tanta sollecitudine. Fanny gli venne incontro, con un sorriso quasi nervoso sulle labbra rosse come le rose. 

- Conte, vi ringrazio della vostra disponibilità. Con questi ultimi autografi, credo di aver tutto ciò che ho sempre desiderato!

- Dunque... ne siete felice? - Chiese quasi ansimando in preda all'ansia - Se... se volete altro, non esitate....

- Sì, Conte, ne sono davvero felice. E adesso che ho tutto, non credo vi sia più bisogno che veniate a farmi visita... Non ho nulla contro di voi, sia ben chiaro! Ma... sapete... mio marito...Balbettò infine, mettendo su l'aria da mogliettina fedele casta e pura (che non era neanche un po'), sbattendo più volte le lunghe ciglia. Giacomo sentì le labbra tremargli convulsamente, non sapeva nemmeno lui se per il dolore o la rabbia di essere stato sfruttato miseramente e senz'alcun ritengo. 

- Ma io.... non ho mai... - Mormorò, ancora incredulo. - Non importa. 

Concluse con la voce incrinata, e uscì in fretta dal palazzo senza nemmeno salutare, Fanny, dopo che fu accompagnato fuori, si voltò verso le altre donne presenti e si mise a ridere di lui meschinamente con le amiche che ridacchiarono anche loro, sommessamente dietro ai ventagli. Il poeta uscì dal palazzo con passo sostenuto, sentì che le lacrime rigargli il volto senza permesso, rigandogli il volto. Sapevano dell'amarezza dell'umiliazione. Non riuscì a mantenere un pianto composto e dopo poco singhiozzò, inghiottito dalla rabbia e dalla vergogna per gli sguardi dei passanti puntati addosso. Caso volle che Gertrude in quel momento passasse proprio di lì. Si fermò al suo fianco, guardandolo con aria austera da sotto la feluca piumata. Lo fissò semplicemente.In silenzio.

Giacomo si sentì osservato e cercò di andarsene coprendosi con le mani il volto arrossato dal pianto e dall'imbarazzo.

- Eccellenza! 

La ragazza lo chiamò prima che potesse andarsene. Si voltò di scatto, senza togliersi completamente le mani dal volto. Lei gli porse la mano. 

- Venite, vi porto via di qui. 

Lo aiutò a salire sul cavallo e lo accompagnò in un vicolo, un po' isolato, dove non passava nessuno. Scese e lo aiutò a scendere, prendendolo letteralmente tra le braccia di peso.

- Perché piangete?

- Gertrude... - Mormorò fra i singhiozzi. - Temevo di non rivedervi mai più... - si strinse convulsamente alle sue spalle. - Sono uno sciocco. Mi sono reso manipolabile come un balocco ed ora rimpiango molte cose...

- Senza di me, voi siete perduto. Siete un debole. Vi lasciate trattare come un burattino da una donna. - Gli disse dopo che furono scesi, legando il cavallo ad un palo lì vicino. - Che ci fate a Firenze? Siete tornato da Viesseux? 

Erano passati solo tre anni ma in quei tre anni la sua voce si era fatta più profonda. Giacomo sentì un nuovo senso di irritazione percorrergli l vene.

- Non sono affatto debole! Ho commesso un errore, tutto qui. Ad ogni modo... sono tornato a Firenze per tornare a vivere. Recanati mi stava consumando definitivamente.

- Ah. - Incominciò lei incrociando le braccia al petto. - Capisco. Comunque, l'inverno è brutto qui. A volte piove per giorni. Vi conviene prepararvi bene se avete intenzione di rimanere ancora per un bel po'.

Si manteneva leggermente distaccata.

- Vi ringrazio del consiglio... - Mormorò calmandosi un poco. - Da quando sono ritornato, noi... ci siamo già visti?

Non credo. - Mentì lei. - Se volete venire a cercarmi, non vivo più nel palazzo. Sono un Luogotenente e debbo stare il più possibile vicino a Sua Grazia il Granduca.

- E... vostro padre? 

Azzardò Giacomo senza osare guardarla negli occhi.

Gertrude slegò il cavallo e vi risalì. 

- Questa è una zona di servizio, potrete trovare una carrozza che vi riporti a casa. 

Disse dirigendo il destriero verso lo sbocco del vicolo e quando fu in posizione per poter scattare via, rispose alla sua domanda che il poeta le aveva posto poco prima:

- Mio padre è deceduto, Eccellenza.

E mandò il cavallo al galoppo, scomparendo tra la polvere del meriggio.

Giacomo pagò il cocchiere di una carrozza appostata pochi metri più avanti, aveva gli occhi sbarrati, quella giornata era stata troppo per lui. 

- Buon uomo - Chiese al cocchiere. - Le guardie del Granduca vivono a palazzo?

Chiese, pressoché disperato. Aveva paura di non rivederla mai più.

- No, signore. Vivono in una caserma vicino al palazzo.

- Dista molto da qui? 

Aggiunse senza riuscire a calmarsi

- Volete che vi ci porti?

- No... non ora... chiedevo solo se fosse distante dal gabinetto Viesseux... 

Mormorò pensieroso

- Non molto, Signore. Dove volete che vi porti?

Giacomo gli comunicò l'indirizzo dell'appartamento e chiuse gli occhi, abbandonandosi al rumore delle ruote sul selciato. Dopo circa mezz'ora arrivarono a destinazione e la vettura si fermò giusto davanti alla porta. Scese in fretta, desideroso di nient'altro che un bagno e un giaciglio. Avvertiva ostile tutto ciò che c'era lì fuori, un mondo crudele pronto a sfruttare la sua sofferenza per interessi inconoscibili, per vigliacco opportunismo o per meschina civetteria.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Un gioiello di raro valore ***


"[...] Un bacio
non vorrai tu donarmi? un bacio solo
in tutto il viver mio? Grazia ch'ei chiegga
non si nega a chi muor. Né già vantarmi
potrò del dono, io semispento, a cui
straniera man le labbra oggi fra poco
eternamente chiuderà. — Ciò detto
con un sospiro, all'adorata destra
le fredde labbra supplicando affisse.

[...] Due cose belle ha il mondo: 
amore e morte."

G. Leopardi - Consalvo



 

 

 

 

Passarono i giorni, Giacomo continuò a frequentare Viesseux e tutti gli amici, soprattutto Ranieri, col quale presto strinse ancor di più quel legame che si era creato tre anni addietro. Un giorno, vinto dalla nostalgia Giacomo decise di tornare sulle rive del ruscello dove, per la prima volta aveva parlato con Gertrude scorgendo in lei un gioiello di raro valoree dopo aver osservato a lungo quelle acque che risplendevano sotto la luce del sole, decise di fare una passeggiata. All'improvviso però, si sentirono degli spari lontani e delle urla. 

Si avvicinò titubante, nutrendo la remota speranza che si trattasse d'una battuta di caccia. Subito dopo, due uomini su un calesse trainato da un cavallo alla corsa sfrenata, passarono veloci per la strada e subito dopo, qualche metro più distante, passò il cavallo nero di Gertrude che ansimava, sfrecciando per la strada. Tentò di prendere la mira e ne ferì uno al braccio. Quello passò le redini al compagno di sventura e le sparò un colpo. Gertrude sentì un dolore lancinante al fianco e il cavallo, spaventato, si sbilanciò scivolando sulla pietra della strada. La fanciulla per fortuna non batté la testa abbastanza violentemente da svenire, ma si portò una mano alla parte dolorante, digrignando i denti al sole, che la accecava. Adesso che aveva il viso scoperto, si poteva notare una brutta cicatrice che le attraversava l'occhio destro, dal sopracciglio fino a metà guancia.

- Gertrude, santi numi!

Gridò Giacomo precipitandosi verso di lei, le sollevò il capo per farla respirare meglio e le sfiorò il fianco osservando con raccapriccio che la sua mano era rimasta completamente insanguinata.

- Gertrude, vi prego parlatemi! 

Esclamò fissandola. Gertrude riusciva a respirare a stento, la gente si accalcava tutt'intorno. Aprì per un momento gli occhi. Quello solcato dalla cicatrice, il destro, era completamente ricoperto da una patina bianca. Li richiuse perché il sole glieli bruciava crudelmente. Dopo un po' si avvicinò un maresciallo che si fece spazio tra la gente, ordinando agli altri di smorzare la folla. 

- Fate passare, fate passare! Non c'è niente da vedere qui! Circolare!

L'uomo si avvicinò al corpo della donna e vide il sangue sulla mano del conte, per terra e sulla giacca. 

- Mmh... è una brutta ferita. Dobbiamo portarla da un dottore. Signore, ce la fate a trasportarla?

Gli chiese.

- Non credo...

- D'accordo, ci penso io.

- Dovremmo far chiamare una carrozza...!

Esclamò il poeta, con la voce rotta dall'ansia, mentre il maresciallo si avvicinava alla ragazza, ma quello, sentendo le parole del conte, lasciò stare e andò a posizionarsi in mezzo al viale per fermare una carrozza che sarebbe passata di lì.
Giacomo  poi si avvicinò a Gertrude e le accarezzò i morbidi capelli biondi facendo scorrere una mano sulla sua guancia, le tamponò delicatamente la ferita con un fazzoletto che tirò fuori dalla tasca interna della giacca, mormorandole:

- Non temete, Gertrude, ci sono io con voi, non siete sola, non lo sarete mai più... 

Sentì le sue guance perdere progressivamente tepore e sperò che la ragazza ricevesse assistenza al più presto. Mentre la vezzeggiava con dolci carezze, si concentrò sul viso della fanciulla e notò la vistosa cicatrice sull'occhio destro. Non ne rimase affatto impressionato, era ruvida al tatto, come il dolore e il tempo che l'avevano rimarginata. Pensò agli insulsi monili delle nobildonne e concluse che non aveva mai visto gioiello più splendente. Le sollevò ulteriormente il capo e lo appoggiò sul suo petto, per scaldarla.
 Quando giunse la carrozza con grande sforzo la fece salire, grazie anche all'aiuto del maresciallo e comunicò al cocchiere l'indirizzo del suo appartamento. Mise Gertrude in posizione semiseduta sul sedile della carrozza, con la testa poggiata sulle sue gambe, poi estrasse un suo manoscritto dalla finanziera e iniziò a farle vento, non smise un attimo di accarezzarla con le sue lunghe mani affusolate e scarne. Non poteva più fare a meno di sentirla presente, fisicamente. Non si spiegò come avesse sopravvissuto tre anni senza di lei e si rese conto d'essere vissuto di morte, per tre lunghi anni.  

Quando furono arrivati a destinazione, il maresciallo, che li aveva seguiti, si assicurò che giungesse un medico assieme a loro. La fecero sdraiare sul letto del poeta, dato che egli stesso aveva stabilito che la mettessero lì. La spogliarono degli abiti sporchi e il medico poté iniziare l'operazione. Giacomo accese impacciatamente il camino nella minuscola cucina, per mettere a bollire dell'acqua calda come gli era stato chiesto dal dottore. Procurò alcune bacinelle piene d'acqua e si diresse in camera da letto, osservando con ansia il dottore mentre estraeva il proiettile dal fianco sanguinante di Gertrude. La fanciulla respirava lentamente.Riusciva con grande sforzo a trattenere i gemiti per il dolore causatole dalle operazioni del medico. Le lenzuola la coprivano dal bacino in giù e sul petto teneva come sempre le bende che le contenevano e appiattivano i seni.Non riusciva a comprendere dove si trovasse, ma sentiva che qualcuno la stava curando. Teneva gli occhi chiusi. Fu una delle poche volte in cui si ebbe visione, seppur parziale, del suo corpo perfettamente scolpito.
 Giacomo le prese delicatamente una mano, sfiorandola appena con le labbra. Capì di amarla immensamente, più di quanto amasse se stesso. Vide in lei una fanciullezza mai vissuta, una giovinezza rubata e capì che aveva immensamente bisogno d'affetto, di quell'affetto ch'egli mai aveva conosciuto appieno.

La mercenaria sentì l'ago ricucirle la ferita. Era la seconda volta, a distanza di un anno. Non era avvezza a quel tipo di dolore ma di sicuro lo conosceva bene, lo sopportò smorzando i gemiti tra le labbra e riconobbe anche la mano che stringeva la propria, quella mano scarna e morbida: il Conte...Aprì appena gli occhi e cercò di rendersi conto di dove fosse in quel momento: quel luogo le era totalmente estraneo.  

- Gertrude, siete al sicuro ora. Guarirete e vi rimettere presto...

Mormorò Giacomo stringendole la mano. Gertrude, sentendo quelle parole, si voltò verso di lui.

- Conte...

- Sono qui, sono qui.

Le ripeté quello, quasi vinto dalla commozione.

- Dove sono...?

-  Nel... mio appartamento. 

Le rispose non poco a disagio. Mentre parlavano, il medico fasciò la ferita e infine si dileguò. Il maresciallo, che aveva atteso fuori dalla stanza, si assicurò che Gertrude non avesse bisogno di nient'altro e la lasciò sola col poeta.

- Avete bisogno di qualcosa? 

Chiese poi Giacomo, premurosamente. Gertrude lo guardò negli occhi, come incantata dal loro colore celeste così splendido da ricordarle il ciel sereno. Ma sapeva bene che dietro di essi quel cielo era tutt'altro che sereno. 

- Giacomo... Ho sentito così tanto la vostra mancanza...

- Non... esiste parola umana in grado di esprimere quanto strazio m'ha causato la lontananza da voi.

Mormorò lui, tremando. Gertrude si sforzò di tirarlo a sé, tremando anch'ella e si strinse a lui. 

- Stringetemi a voi... vi prego...

Sussurrò. Giacomo non se lo fece ripetere due volte. 

- Non vorrei farvi male, la vostra ferita è ancora aperta. 

Si sedette sul letto accanto a lei, facendole appoggiare il capo sulla sua spalla ossuta, Gertrude gli cinse il collo con le braccia e rispose: 

- Ogni dolore, accanto a voi, passerà... 

E chiuse gli occhi, rilassandosi tra le sue braccia. Giacomo le diede un lieve bacio sui morbidi capelli biondi. 

- Ho temuto di perdervi, tre anni fa, quando abbiamo avuto quell'incomprensione... ditemi che è tutto risolto.

Gertrude, sentendo quelle parole, si distaccò per poterlo guardare negli occhi. 

- E voi ditemi che non avete avuto nessun approccio con quella donna... 

Se fosse stata la Gertrude di tre anni addietro, probabilmente adesso avrebbe avuto già gli occhi colmi di lacrime. Ma il giorno in cui suo padre morì, giurò al mondo e a sé stessa che quella sarebbe stata l'ultima volta che avrebbe pianto. Giacomo la osservò a fondo. 

- Voi siete l'unica a non aver mai provato ribrezzo nei miei confronti... ammetto d'essermi invaghito in quella donna, tuttavia si è trattato di mero opportunismo, non appena ha avuto occasione non ci ha pensato due volte a gettarmi nello sconforto... Ma... aspettate un momento... Voi... come fate a saperlo?

Le chiese infine, stupito. 

- La figura incappucciata ero io...

Rispose lei stringendosi di più a lui.

- Non ho smesso di vegliarvi da quando siete tornato...

- Sapete... non ci volevo credere ma... è come se in cuor mio io abbia sempre saputo ch'eravate voi... non sapete quanto le vostre parole mi riscaldino il cuore, nessuno ha mai avuto a cuore la mia vita... nemmeno mia madre, ve l'assicuro.

Le disse stringendola un poco

- Giacomo... Voi... Voi mi amate? 

Gli chiese lei timidamente, quello esitò a risponderle, quasi timoroso di distruggere l'ultimo frammento della sua anima rimasto integro. Infine annuì tenendo gli occhi bassi, invaso da un'agitazione incontrollabile. 

- Abbiate cura del mio cuore, troppe volte è stato impietosamente pugnalato a tradimento. 

Le rispose con un fil di voce. Allora lei gli prese dolcemente il viso tra le mani, gli sollevò il capo e posò le labbra sulle sue, sottili come il filo rosso che li univa. Quelle labbra che avevano tanto agognato un bacio.

- Anch'io vi amo...

Giacomo ricambiò timidamente accarezzandola, e mentre si baciavano, lei si stringeva di più a lui.

- Giuratemi che ci saranno mille altri momenti come questo. 

Mormorò quasi implorante come se ogni bacio lo rendesse sempre più assetato di affetto del precedente. Gertrude sorrise e lo baciò nuovamente, con più passione. Il Poeta dell'Amore e la Morte si abbandonò a quella sensazione di gioia, senza considerarla più tanto ingannevole. La strinse per paura di perderla. Lei unica ancora sull'abisso.

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2759090