Il cuore di Nurthìa

di Nirvana_04
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Alla periferia di Solear ***
Capitolo 2: *** Punto di collisione ***
Capitolo 3: *** Nurthìa ***
Capitolo 4: *** I capricci dell'acciaio ***
Capitolo 5: *** La custode dell'anima di Nurthìa ***



Capitolo 1
*** Alla periferia di Solear ***


CAPITOLO 1
Alla periferia di Solear
 
 
 
 
 
 
 
 
 
All’inizio furono creati per servirli, e per un po’ di tempo lo avevano fatto anche bene. Poi una strana luce si accese nei loro occhi; la malvagità, simbolo della razza umana, si riversò anche sulle loro parti metalliche e iniziò a scorrere lungo i cavi e fili che li componevano. Infine scoppiò la guerra, e il mondo si spaccò ancora una volta.
Gli androidi liberarono l’energia del freddo metallo e fecero esplodere i ghiacciai di Northia, innalzando una barriera di ghiaccio e neve perenne che li isolava dalle città degli uomini. Il ponte di Anverra venne nascosto da tormente e gelidi venti che soffiavano a ogni stagione, impedendo agli uni di attaccare gli altri. Ma gli androidi, schiavi del progresso e della malia di potere, crebbero in forza e in grandezza nei secoli, e sempre più spesso osarono avventurarsi oltre i confini, alla ricerca dell’assoluto dominio delle terre al di là del ghiaccio. Attraverso le nebbie e le bufere di nevischio, gli uomini potevano scorgere gigantesche sagome scure, blu come la notte contro il bianco delle bufere, che tiranneggiavano con la loro mole sulle città di confine.
Per lunghi anni rimasero solo questo: giganti, illusive ombre che ammonivano chiunque cercasse di oltrepassare le nevi. E nelle leggende, tramandate vicino al fuoco dai Geadi, si raccontò sempre più spesso la storia di quelle macchine, alla ricerca del potere più grande: la forza di drenaggio di un cuore caldo che batte.
 
 
 
 
Dalla grondaia dov’era appollaiata, Aisha riusciva a vedere i raggi del sole spegnersi contro la barriera di ghiaccio. All’orizzonte c’erano solo nubi temporalesche, cariche di pioggia e grandine, grigie e minacciose; erano una forza che montava perenne dinanzi a lei, ma che non abbandonava mai quei domini. A volte, squarci bluastri intercorrevano tra i banchi malefici e sparivano poco dopo, nel vuoto e nelle tenebre intorno al ponte di Anverra.
Il rumore di passi, che si arrampicavano su per la ripida scaletta, la riscosse. Si voltò e sorrise al ragazzo moro che, in equilibrio precario, stava attraversando il tetto per raggiungerla.
“Non sei troppo lontano da casa?” gli domandò. “Il dottor Dermar si preoccuperà per come sprechi il tuo tempo.”
“Mio padre è troppo impegnato con il suo lavoro per occuparsi di me.” Sbuffò per allontanare un ciuffo ribelle che gli cadeva davanti agli occhi e ammiccò nella sua direzione: “Tua madre sa dove sei?”
Aisha rabbrividì. “No, o sarebbe già qui sotto, a urlarmi contro con un bastone in mano.” E fece la mossa di sventolare un’asta immaginaria nell’aria.
I due ragazzi risero, complici; poi un lampo mesto passò negli occhi della ragazza, e il suo riso si spense.
“Allora!” tergiversò alcuni attimi. “Accetterai la proposta dell’Accademia?” buttò lì, facendo dondolare i piedi giù dal cornicione.
“Non lo so. È un’ipotesi.” Alzò un ginocchio, l’altra gamba penzoloni, e vi appoggiò mani e mento, studiando la ragazza di sottecchi. “E tu? Ti arruolerai?”
“Probabile. Sicuro” gli sorrise, gli occhi che luccicavano dei raggi vermigli e il vento che le scompigliava i capelli, frapponendo ciocche infuocate tra di loro.
“Potresti…” esitò. “Ci sono altre strade” riprovò, a viso basso.
“Anche per te” fu la secca risposta.
“Io non ho veramente scelta. Tutta la mia famiglia fa parte dell’Accademia. È un onore essere selezionati.”
“È un onore servire la contrada. E poi, alla mia famiglia farà comodo la mia paga.”
Kamul sembrava sul punto di rispondere, ma non osava mai andare oltre quella sottintesa accusa.
“Resterà comunque questa terrazza. Una volta a ogni adunata ci ritroveremo qui. Non mancheremo per nessuna ragione.”
“Tuo padre te lo permetterà?” gli chiese, sarcastica.
“Non preoccuparti. Piuttosto, come farai con il tuo comandante?” la beffeggiò.
“Nessun uomo mi ha mai messo sotto.” Mostrò i pugni.
Kamul si ritrasse ridendo, e un secondo dopo anche la cristallina risata di lei si unì alla sua.
 Una voce conosciuta li raggiunse nel loro rifugio. Sobbalzando, i due scesero di corsa e si separarono in tutta fretta.
 
 
La periferia di Solear ospitava il grosso della popolazione dell’intera cittadina. Le sue strade erano un labirinto che nella maggior parte dei casi non avevano vie d’uscita; chi non era nato e cresciuto in quei quartieri poteva perdersi, e la cacofonia delle abitazioni riusciva a sopprimere anche l’animo più avventuriero.
Kamul era nato nel cuore di Solear, tra gli alti edifici del centro. La sua casa era una grande villa che dava sulla piazza degli Intellettuali, dove si affacciava anche l’entrata principale dell’Accademia. Non c’era molto verde da quelle parti; le poche piante si scorgevano sopra le terrazze della periferia, mentre i giardini degli ingegneri e studiosi erano privati e nascosti dietro ad alte mura ai più.
Aisha era stata in quei luoghi solo una volta, durante l’Anno Magro, in cui il cibo scarseggiava e gli uomini dei confini erano stati costretti a far la fila dinanzi all’Accademia per racimolare un po’ di viveri. Era stata in quell’occasione che aveva conosciuto Kamul: un bambino riccioluto che perforava la folla con il suo sguardo altezzoso. Solo dopo, quando ritrovò quelli occhi sperduti tra le vie della periferia, a vagolare in un vicolo cieco con in mano un cesto colmo di cibo, aveva scoperto che quell’espressione era solo una maschera che l’altro aveva alzato per nascondere lo sconcerto e il dolore per quella disparità.
Un’amicizia durata anni e sopravvissuta alla ritrosia dei suoi genitori e al disappunto del padre di lui!
E tutto stava per finire…
Aisha voltò le spalle al tramonto, una scena senza valore in quel giorno plumbeo, dove l’Adunata si raccoglieva nella piazza degli Intellettuali. Kamul non era venuto, si era dimenticato della promessa e di lei. Ancora una volta.
Sapeva già cosa l’aspettava una volta tornata nel suo dormitorio, ci era già passata l’anno prima e quello prima ancora: il generale Bastel l’avrebbe richiamata e messa in gattabuia, la punizione sarebbe stata pubblica e umiliante, ma lei non avrebbe abbassato la testa.
Un rumore di passi alle sue spalle la fece voltare, speranzosa. Uno dei suoi compagni dello squadrone si stava sbracciando, urlando a gran voce il suo nome. Irrigidì nuovamente i lineamenti del viso e attese pigramente che la raggiungesse.
Valter non riprese fiato ed esclamò: “Ci attaccano. Escono dalla bufera, attraversano il ponte…”
Aisha non aspettò di sentire il seguito. C’era un solo ponte che poteva destare tanto scompiglio, solo una potenza riusciva a far tremare un soldato scelto del sedicesimo squadrone: gli androidi.
Negli ultimi mesi erano iniziati gli scontri. L’esercito di Solear, insieme ai rinforzi di tutta Gea, era stato chiamato ad affrontare i gruppi di giganti che superavano il confine e tentavano di distruggere le città e, con esse, ciò che restava del mondo civilizzato.
Aisha aveva combattuto; gli Intellettuali, e con loro anche Kamul, si erano barricati dentro l’Accademia. Infine avevano deciso di rispolverare i vecchi progetti: non più cip d’intelligenza artificiale, ma la complessa e più sicura tecnologia dell’ingegneria aerodinamica. L’esercito era stato dotato di fucili gamma e supporti aerei che dovevano essere manualmente comandati da piloti. Valter era uno dei migliori.
Seguita a ruota dal commilitone, raggiunse la base e la pista di decollo. Ad attenderla c’era il generale, che la squadrò iracondo, e gli altri due suoi compagni, Derek e Marty. I due le diedero forza con un’occhiata piena di significato, che ella si premurò di ricambiare con un incoraggiante sorriso. Salirono a bordo, il decollo fu approvato e il Boldercraft si librò nei cieli annuvolati.
La visibilità era ridotta al minimo, dei giganti non c’era neanche l’ombra. Poi comparvero delle ombre nel mezzo della tormenta a nord. Valter virò a destra e sparò la prima sequenza di raggi laser. La foschia impediva di avere una buona nitidezza, ma una delle sagome parve tremare e crollare al suolo. Gli squadroni undici e sette si unirono a loro, circondando quelli ologrammi proiettati nella neve e bersagliandoli con fasci di luce gamma. Uno scoppio di fuoco accecò l’orizzonte e i Boldercraft si portarono fuori dalla gittata di possibili schegge di metallo. Alle loro spalle, gli squadroni quattro e nove stavano ripiegando, bersagliati dagli attacchi dei giganti. Tutt’intorno a loro risuonarono le sirene d’allarme di Solear, dispacci volarono per mettere in sicurezza l’area e richiedere rinforzi; la popolazione venne mobilitata per raggiungere in fretta i rifugi.
Valter virò per coprire la ritirata di un Boldercraft colpito a un cilindro di areazione; gli squadroni di supporto giunsero alle loro spalle e nuovi focolai di guerra si accesero in ogni punto sotto e intorno a loro. Infine le macchine smisero di sparare e la neve divenne un lenzuolo dove rottami e resti di ingranaggi sparsi puntellavano il suo candore, infuocato dalle alte fiamme che fondevano acciaio e ferro.
La trasmittente di bordo stridette un secondo, poi comunicò loro di librarsi sul lato ovest per un volo di ricognizione. Valter eseguì con calma, facendo riprendere fiato ai suoi compagni.
“Allora, l’hai trovata dove ti avevo detto?” cercò di tenersi occupato Marty.
“Sei meglio di un localizzatore termico: preciso al millimetro” sbuffò Valter.
Aisha digrignò i denti e ignorò i due. Derek, al suo fianco, poggiò la testa contro il vetro delle pareti e acuì lo sguardo, concentrato.
“Perché darti tanta pena per un Intellettuale?” continuò imperterrito il primo. “Puoi aspirare a qualcosa di meglio di un pollo d’Accademia.”
“Quale miglior partito, di grazia?” chiese il secondo a fior di denti.
“Piantatela” cercò di azzittirli il terzo.
“No, dico sul serio.” Seduto al posto del secondo di guida, Marty ruotò la sedia verso di lei. “Sono ormai tre anni che perdi l’Adunata per quel rampollo. Ne vale la pena?”
“Sono tre anni che ti rispondo la stessa cosa, Marty. Fatti i…”
“Piantatela!” urlò Derek. “Vira a sud-est, ho visto qualcosa.”
L’attenzione di tutti tornò ai monitor e ai vetri di spionaggio. Aisha continuava a vedere solo neve e ghiaccio. In quel momento stavano sorvolando il limite ovest: ripiegarono verso sud-est e rientrano nella zona sicura. Il luccichio intravisto da Derek abbagliò una seconda volta i bordi del lago Anverra, dove a causa del ghiaccio perenne e delle continue tormente si erano formate grosse stalagmiti, acuti denti di galaverna che non aspettavano altro che infilzarli.
“Probabilmente hai visto la punta di uno di quelli riflettere un raggio” sbottò Marty, accigliato.
“D’accordo, torniamo alla base. Segnala che la zona è libera.” Il loro squadrone si era allontanato parecchio dalla zona civile e il Boldercraft più vicino era a più di due miglia di distanza.
Aisha tenne gli occhi aperti per tutto il tempo del viaggio di ritorno, ma la luce misteriosa non tornò più a brillare e i suoi pensieri ripiegarono nuovamente verso territori più pericolosi di quelli sotto di lei.
 
 
Solear era avvolta dalla notte, l’aurora boreale che s’infrangeva all’orizzonte, sfumando tra i ghiacci del ponte di Anverra.
Scesa dal Boldercraft, Aisha corse verso la comunità a est della periferia, gli scarponi che risuonavano come gli spari che fino a poco prima avevano scosso l’intera città. Quasi si strangolò con la sciarpa quando girò l’angolo e sfrecciò oltre la porta di ferro. Con un boato che atterrì gli astanti, si precipitò tra le ampie e asettiche stanze di ricovero del rifugio e cercò con lo sguardo la sua famiglia. Li trovò abbracciati in un angolo, lontano dalla porta d’ingresso e avvolti da coperte termiche.
“Aisha!” esclamò il fratellino di sette anni. “Sei tornata!”
Ella lo afferrò a volo, abbracciandolo forte, poi s’inginocchiò per abbracciare il padre. Il viso ispido di peli e il volto scarno, tossì e la guardò con gli occhi stanchi. Aisha ricambiò il suo sguardo e gli sorrise, felice e allo stesso rattristata dalla sua cagionevole salute.
“Combattono ancora là fuori?” chiese sua madre.
La ragazza le passò il bambino e scosse la testa.
“I soldati stanno bene?” chiese una donna, accucciata lì vicino. “La città è salva?” domandò un'altra.
Nella stanza voci ansiose si ammassarono per chiedere notizie di parenti e amici, o solo per sapere quando avrebbero potuto tornare a casa. Molti bambini erano spaventati e ancora accoccolati contro il fianco dei genitori, mentre i ragazzi più grandi smaniavano per poter andare a vedere con i loro occhi le conseguenze di quello scontro.
“Io…non…” Si ricompose e riacquisì il controllo di sé. Si alzò e parlò a tutti, con voce calma e sicura: “Il pericolo è stato allontanato. Presto squadre adibite alla vostra sicurezza vi faranno tornare a casa. Avrete presto notizie dei vostri cari, vi chiediamo di pazientare ancora un po’.”
Poi salutò con una carezza il suo babbo, mandò un bacio al suo amato fratellino e uscì nuovamente in tutta fretta. Tornò alla base, dove vennero spartiti gli ordini e le varie mansioni. Aisha dovette correre nella tormenta, a bordo di uno scooter a sensori, occupandosi del trasporto di medicine e della spartizione delle scorte di cibo esiccato da dividere nelle varie contrade. Solo a notte fonda poté tornare al rifugio: era stato deciso che le comunità sarebbero state sgomberate l’indomani mattina; aveva giusto il tempo per andare a schiacciare un pisolino in un angoletto insieme ai suoi cari. I rifugi ormai erano stracolmi, soldati facevano avanti e indietro tra la base e i loro familiari; i messaggeri correvano da un punto all’altro della città per raccogliere informazioni e consegnare dispacci ai vari settori di Solear.
Aisha si chiuse la porta alle spalle e in punta di piedi attraversò la grande sala, girando intorno alle colonne quadre e zigzagando tra i gruppi di persone che parlottavano o tentavano di sonnecchiare un po’, illuminati fiocamente da qualche cyalume sparso nella stanza. Raggiunse l’angolo opposto della sala e ritrovò suo padre, scosso ancora dalla tosse, a parlare con un giovane con indosso la casacca blu dell’Accademia. A un cenno del padre, il giovane si voltò: i folti riccioli castano scuro erano come li ricordava lei, ribelli e scompigliati sulla sua testa; il viso sottile aveva un mento a punta e occhi di ghiaccio, le gote rosee e incavate.
In un impeto di foga, Kamul la raggiunse e la strinse a sé, con un sospiro di sollievo che scosse entrambi. Ella ci mise un po’ a comprendere, restando rigida e con le mani tese lungo i fianchi. Infine, sormontata dalla rabbia, lo cacciò in malo modo e gli piantò due pugni sul petto; poi nascose il viso tra le sue braccia e, mordendosi le labbra per non piangere, disse solo: “Idiota.”
 
 
“Prendi” le sussurrò in un orecchio e le passò uno stiletto con una piccola elsa vermiglia. Il colore era talmente vivido da sembrare sangue.
“A cosa dovrebbe servirmi?”
“Xan, il mio mentore, ed io li stiamo studiando in Accademia, e hanno dell’incredibile, credimi. C’è stato un tempo in cui il potere e l’intelligenza risiedeva nella magia” spiegò accorato. “Gli uomini utilizzavano l’acciaio e il fuoco per ottenere la conoscenza, ed era con essa che progredirono per lungo tempo.”
Aisha lo stava ad ascoltare con gli occhi spalancati, nonostante tutto incantata dalla vivacità della luce che illuminava i suoi. Kamul era così concentrato, ammaliato dalle sue scoperte e di quelle fatte dall’Accademia, che la sua voce divenne sempre più sommessa e le parole uscirono a frotte dalle sue labbra carnose. I riccioli gli ricadevano come sempre davanti agli occhi in ciocche sparse, ma lui le ignorava, preso dal suo discorso e dal voler condividere con lei il motivo del suo entusiasmo.
“Capisci? Non avremo più bisogno di quelle macchine, potremo trovare un modo per sconfiggerle e annientarle una volta per tutte. Non ci saranno più fame né guerre.”
“E cosa c’entra questo con tutto ciò?” disse sollevando la lama davanti ai suoi occhi, mascherando il suo tono scettico.
“La lama, giusto. Non è un semplice pugnale. Guarda.” Lo prese nuovamente in mano e lo avvicinò ai capelli. Tese una ciocca e con un colpo secco la recise di netto. Le punte dei suoi capelli tagliati persero velocemente colore, fino a imbiancarsi, mentre egli le lasciava cadere al suolo; la lama rilucette di uno strano lampo di fuoco, risalendo dalla punta fino all’elsa, che poi sparì.
“Cos’è successo?” domandò confusa.
“Non lo so” sorrise lui, meravigliato. “Questa lama è stata trovata in un antico mausoleo poco fuori dalla periferia di Solear, a sud. Ce n’erano altre come questa. L’Accademia le ha analizzate, ma nessuna delle nostre macchine è riuscita a definirne la struttura chimica. Non è incredibile?”
Aisha lo guardò con i suoi occhi neri, impietrita dai suoi discorsi folli e rattristata da quella gioia che non capiva e non riusciva a condividere; e non riuscì più a nascondere le ferite del suo animo.
“Era a questo che lavoravi mentre ti aspettavo nella nostra terrazza? A una lama che imbianca i capelli tagliati e che le macchine non sanno di cosa è fatta?” mormorò scioccata. Avrebbe tanto voluto che lui dicesse no e trovasse una scusa più plausibile; le bastava anche una bugia verosimile, ma non era da Kamul mentire.
“Io…è una scoperta importantissima. Negli anni potrebbe…”
“Lascia stare quello stupido pugnale” sibilò, sul punto di una crisi. “Dov’eri?”
Il ragazzo si ritrasse, una ruga sulla nivea fronte a mostrare il suo sconforto. “Sono venuto, il primo anno. Ma tu non c’eri.”
“Sai che segregano le nuove cadette e non ci permettono di uscire prima della fine del nostro addestramento.”
“Ci ho provato” sussurrò. “Ma tu…”
“Una volta!” alzò la voce. “E ti è bastata per arrenderti? Sono stata punita ogni anno per credere alle tue parole. Sono venuta, come promesso, e non una volta.”
“Mi dispiace…”
“Anche a me” mormorò, mentre con uno scatto si sollevava. “Ma io ho un cuore, e non è freddo come quella lama.”
E con queste parole gli voltò le spalle, rifiutandosi di fargli vedere le vergognose lacrime che rigavano il suo volto imporporato dal dolore della sua assenza, più forte adesso nel vederlo accanto a lei, ma sempre più distante.

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Capitolo 2
*** Punto di collisione ***


CAPITOLO 2
Punto di collisione
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il ghiaccio aveva lo strano vizio di riflettere la luce e ingigantirne il potere: un effimero raggio che perforava una nube poteva diventare un prisma di luci accecanti, se colpiva una stalattite; un lampo poteva trasformarsi in fuoco contro un iceberg.
La volta che aveva fatto il suo primo volo oltre i confini di Solear a bordo del Boldercraft, Aisha era rimasta estasiata da quello spettacolo: i freddi raggi invernali, bianchi e rari tra le nevi perenni di Anverra, avevano sprigionato un tripudio di colori a contatto con la terra innevata, le stalattiti avevano dato vita a un caleidoscopio di sfumature, colori che non esistevano in città e che l’uomo, pensava lei, non potesse ricreare. Adesso quegli stessi bagliori erano illusioni che celavano ai suoi occhi il nemico, un’arma naturale che proteggeva le macchine al di là del ponte.
La bellezza del volo si era persa nella battaglia e nella quotidianità di quelli interminabili giri di ricognizione, dove tutto era appiattito in una nivea brughiera o ogni cosa abbagliava e tramortiva con i suoi riflessi.
Gli attacchi degli androidi si erano fatti più pressanti e minacciosi. Sotto ordine degli Intellettuali, intorno a Solear furono innalzate alte mura di zinco, una lega metallica a cui erano state miscelate altre composizioni chimiche. I giganti di ferro attaccarono le mura brandendo il fuoco e le mura evaporarono, e con essi le sostanze, fondendo e bucando gli ingranaggi del nemico e abbattendoli. La città, non più porto sicuro per l’uomo, divenne una discarica di pezzi carbonizzati e rotelle di ottone fuse e contorte, circondata da gas nocivi e vittima giorno e notte delle sirene d’allarme. Solear, una volta la dama più bella del nord, si era tramutata in una vedova nera vestita del sudario madreperlato della morte e della malattia. Un cancro incurabile si era impossessato delle sue strade, e oramai la gente era una cacofonica folla di automi che vagava attraverso vapori e nevischio; i soldati degli squadroni armati erano ombre smorte tra i fumi saturi degli scontri, che si sollevavano da carcasse di ferro e carbone, o qualche volta da corpi inceneriti e scheletrici di vittime o, peggio, malati terminali.
Aisha era una delle tante figure in tenuta grigia che marciava per le strade della periferia. Il fuoco dei suoi capelli si era spento tra la polvere e sporcato con i fumi. Il suo viso era pallido e i suoi occhi incavati. La sua pausa pranzo la passava da sola, contro un muretto o in un angolo non ancora occupato da qualche mendicante. La sua famiglia era partita su un areotreno verso il cuore di Gea, al sicuro per ora da quell’orrore. Pochi, invero, erano i civili rimasti a Solear.
Ella camminava senza una meta, vagolando con la mente spenta tra quelle strade che una volta conosceva come le sue tasche e che, forse, le sue gambe riconoscevano; ma i suoi occhi si rifiutavano di guardarle in quello stato decadente. Ancora una volta si ritrovò ai piedi della scaletta di rame che portava alla terrazza, la loro terrazza. Stanca di resistere, salì.
Non lo vide subito: i suoi occhi vagarono sulla piana di rottami fumanti sulla soglia della città, e per un attimo il suo animo vacillò. Fu lo stridio della lama contro i mattoni a crudo a farla girare. Guardò confusa la figura del giovane rannicchiato sul bordo, senza riconoscerlo.
“Aisha!” esclamò Kamul, imbarazzato. Anche lui sembrava esitare. “Non pensavo venissi.”
“È la mia terrazza!” sbottò sulla difensiva.
Quella era stata la sua terrazza, l’abitazione della sua famiglia una volta era al piano inferiore; questo, però, prima che si trasferissero nei quartieri dei minatori che il governo di Gea aveva messo a diposizione delle famiglie di chi lavorava in quelle fosse, come suo padre.
“Posso andarmene, se vuoi…” strascicò l’ultima parola.
Ella storse la bocca e l’osservò con sguardo truce. “Ancora a cincischiarti con quella lama?”
Kamul abbassò gli occhi e li riportò sull’oggetto che si rigirava istintivamente tra le mani. Restò in silenzio a rimirarlo nervosamente.
“Cosa pensi che possa fare una lama contro un gigante di ferro?” lo provocò.
“Non si tratta di logica o di una teoria da confutare. Questa è magia, l’arma di chi, prima di noi, ha creato e dominato il mondo per secoli. Se ritrovassimo la fede che…” s’interruppe bruscamente. Aisha lo guardò accigliata, e la sua espressione sembrò divertirlo. “Mi è sembrato di star ancora a parlare davanti ai membri del Consiglio degli Intellettuali. Le stesse vane parole” sillabò frustrato.
Le sue mani si serrarono intorno al manico del pugnale. Aisha sospirò, i suoi occhi fissarono lo sconforto che spadroneggiava in quelli di lui, e infine gettò la spugna. Si avvicinò a lui e gli si sedette affianco.
Lanciò un’occhiata mordace verso la lama, e poi domandò: “Mi spieghi perché te la porti sempre a zonzo se è così importante per il nostro futuro?” Suo malgrado, non riuscì a trattenere il sarcasmo.
Kamul sbuffò. “Perché non è altrettanto importante per gli Intellettuali o le fazioni radicali dell’Accademia.”
“L’Accademia ha fazioni?” si sorprese.
“Tsk, passano più tempo a osteggiarsi l’uno con l’altro che a collaborare.”
“Pensavo le stessero studiando” la indicò con un cenno.
“Per un po’ l’hanno fatto: la lega del materiale li aveva incuriositi. Sono scienziati: analizzare la materia che li circonda è ciò su cui si basa la loro esistenza. Ma quando sono venuti fuori termini come “magia” o “fede” hanno abbandonato il progetto.”
Aisha alzò una mano e la poggiò sul suo avambraccio. Mormorò: “Tuo padre cosa ne pensa?”
Kamul ridacchiò mestamente. “Mio padre ha detto: “Le polveri della periferia hanno annebbiato la tua capacità di raziocinio”. Lui è tra i primi a spalleggiare per i vecchi metodi; sperano ancora di poter controllare le macchine.” Spostò il suo sguardo sul suo viso e aggiunse, greve: “Ma saranno gli androidi a schiavizzarci. Noi siamo umani, la nostra mente è soggetta ai sentimenti; loro sono ferro con un’intelligenza artificiale, e fanno ciò che risponde a un ragionamento logico. Sono la parte peggiore di noi uomini, non hanno freni.”
“Conoscono l’odio, però” si rabbuiò lei.
Kamul fece spallucce. “Conoscono la guerra e la logica che vi sta dietro, anche se non possono comprenderla.” Dinanzi allo sguardo titubante dell’amica, spiegò: “Gli Intellettuali le hanno costruite per combattere a loro posto, insegnando loro concetti come “potere” e “dominio”; hanno mostrato loro l’avidità e l’invidia, e le macchine le hanno trasformate in impulsi logici e autoctoni, su cui basare la loro specie. Ma sono solo questo: concetti. Se riempissi una macchina con generosità e amore… beh, forse questi non li capirebbe” concluse con un sospiro mesto. “È più facile comprendere il male, che condividere un atto di bene.”
I loro sguardi si incrociarono per un lungo istante, poi scivolarono sull’orizzonte innevato. Nonostante l’ora di punta, i raggi del sole erano una luce fantasma che veniva smussata dai vapori e dalle nuvole. Un nuovo fulmine scrosciò tra le tormente più a nord, saettando sopra il Ponte di Anverra come presagio di guerra.
“Devo tornare alla base” saltò su Aisha. Corse alla scala e nel girarsi per scendere vide gli occhi dell’amico ancora concentrati sulla lama brillante. “Kamul” lo chiamò. L’altro voltò il capo verso di lei, occhi spalancati e desiderosi di più di una risposta. “Sono felice che sei venuto, alla fine” disse solo.
Il viso del giovane si aprì in un confortevole sorriso, ed ella poté correre verso il suo turno di volo con una nuova speranza nel cuore: qualunque cosa fosse accaduta, niente li avrebbe separati.
 
 
 
 
Il Boldercraft sorvolò i ghiacciai di Forstnolth, affrontando il viaggio di rientro dai territori occidentali di Anverra. Nonostante le scaramucce degli ultimi giorni, la ricognizione di quella mattina si era svolta nella più relativa calma e il loro squadrone aveva ripiegato in perfetto orario verso la base.
“Giusto in tempo per il pranzo” si stiracchiò Marty, ai comandi in seconda.
Aisha se ne stava seduta al suo posto, gli occhi chiusi. Gli ultimi giorni erano stati un continuo via vai di generali e soldati, le strade della sua città si erano svuotate, molte costruzione della periferia erano crollate e, infine, le ultime persone che erano rimaste erano state invitate a mettersi in viaggio verso le congreghe delle cittadine del centro di Gea. Tornare a Solear, un agglomerato di case e ferraglia fumante, non portava più il sollievo di una volta: ad aspettarla c’era solo il freddo della sua cella spartana che condivideva con altre due camerate, e il pasto insipido che servivano alla mensa.
Il Boldercraft atterrò da manuale, e Aisha sbrogliò la cintura di sicurezza. Un fischio impudente di Marty le fece sollevare il capo: Kamul stava risalendo la rampa del velivolo, puntando nella sua direzione.
“Due visite in una settimana” sorrise lei, felice di rivederlo. “Stai cercando di farti perdonare qualcosa?”
L’amico rimase in silenzio, stringendosi nelle spalle. Ella conosceva quell’espressione, era la stessa che aveva avuto quando le aveva annunciato il suo ingresso in Accademia.
Si allontanarono in silenzio dagli occhi indagatori degli altri e fecero un po’ di strada verso le recinzioni elettriche che delimitavano la pista dell’esercito.
“Che succede?” si accigliò, guardinga.
Kamul scacciò una pietruzza con rabbia e mise le mani nelle tasche, aggrottando la fronte. “L’Accademia non reputa Solear un luogo sicuro. Ha ordinato l’evacuazione.”
Aisha si rilassò un po’. “Lo so.” L’altro le lanciò un’occhiata di sbieco, sorpreso, e lei gli sorrise tristemente. “Ormai la popolazione è quasi tutta partita, la nostra città sta per diventare un fantasma, verrà ricordata solo dalle leggende metropolitane.”
“No, Aisha. L’Accademia si prepara all’evacuazione” la contraddisse, serio.
Il sorriso si spense sulle labbra rosee di lei. Il messaggio fu chiaro, ma dirlo ad alta voce fu come far cadere un’ascia tra loro, a spezzare la corda sfilacciata che li teneva ancora uniti. “Stai per andartene.”
Kamul annuì a testa bassa.
“Lascerai… Solear.” Stava per dire che si prestava a lasciare lei!
“Ais!” Il suo lungo viso s’incavò mentre, tristemente, risucchiava le guance e si preparava per aggiungere qualcos’altro.
“Kami!” Aisha lo chiamò con il suo diminutivo, sconvolgendolo ancora di più. “Cosa ha in servo l’Accademia per l’esercito?”
Il ragazzo boccheggiò e i riccioli sopra la sua testa tremarono, scossi dalla sua esitazione. Abbassò di nuovo il capo. “Dovrete rallentare l’avanzata delle macchine, più che potete.”
“Dovremo morire per voi” tradusse, cinica.
“Vieni con me!” L’afferrò per un polso e strinse forte, fino a farsi sbiancare le nocche.
“Mi stai chiedendo di disertare?”
“Io…”
“Io non ti chiederei mai di abbandonare l’Accademia.” Liberò il polso torcendo il braccio, e sbatté i piedi per fare dietrofront.
“Peccato, io lo farei per te. Se me lo chiedessi, abbandonerei gli Intellettuali. Se me lo avessi chiesto, mi sarei fatto ripudiare dalla mia famiglia molti anni fa.”
Il sussurro della sua calda voce solleticò le sue orecchie, bloccandola sul posto. Il vento boreale aveva fatto cadere il suo cappuccio e aveva liberato i suoi capelli al vento, fiamme che si incendiarono contro il viso di lui. Le sue braccia, lunghe e fredde, l’avevano stretta in un abbraccio, lo stesso in cui lei lo aveva bloccato anni prima alla morte di sua madre: voleva dire che lui c’era e ci sarebbe stato, nonostante il muso duro e lo sguardo di ghiaccio.
Aisha chiuse gli occhi per un attimo, assaporando il suo profumo intenso e pungente, quella fragranza di pino e miscuglio di sostanze chimiche che, però, su di lui non nauseavano. Poco dopo un Boldercraft che rientrava alla base fischiò sopra le loro teste, ed entrambi si allontanarono. Nessuno dei due aggiunse un’altra parola; Aisha non rispose alle sue parole che, di comune accordo, affidarono alla discrezione e all’indifferenza del vento.
In silenzio, tornarono alla caserma di comando, lei per fare rapporto e lui per riunirsi al suo gruppo.
“Kamul!” La voce del dottor Dermar li fece sobbalzare.
Squadrò la sua figura dall’alto in basso; disdegnandola con una smorfia, si concentrò su suo figlio. “L’esercito ci mette a disposizione due squadroni per il viaggio. Andiamo!”
Aisha rimase immobile, una statua di marmo sull’attenti: quell’uomo aveva la capacità di farla sentire in colpa solo perché esisteva e osava respirare; in sua presenza, si sentiva fuori posto, sbagliata. Sentì addosso lo sguardo supplichevole dell’amico, ma non spostò gli occhi e, alla fine, ascoltò i suoi passi che, ubbidienti, seguivano il padre sulla pista, di nuovo all’aperto.
“Aisha! Ti muovi?” la redarguì Derek.
Spaesata, alzò lo sguardo e cercò il compagno nella marea di divise che si rincorrevano nella caserma.
Qualcuno le mise una mano sulla spalla, scuotendola un po’.
“Che fai? Ti addormenti in piedi?” ghignò Marty. La sua postura pareva caustica mentre la trascinava di nuovo fuori. Capì il perché quando disse: “Abbiamo l’ordine di rimetterci subito in volo. Addio pranzo!”
“Perché non festeggi? Un panino mangiato sul Boldercraft è meglio di quella brodaglia giallognola nelle scodelle di latta” borbottò con una smorfia disgustata Valter.
Marty lo incendiò con un’occhiataccia. “Meglio la brodaglia a quest’ingrato compito. Scortare i damerini nel proprio letto. Per cosa ci hanno scambiato? Aisha!” si esasperò, alzando gli occhi.
Il suo braccio, sulle spalle della ragazza, lo aveva costretto a fermarsi quando ella aveva piantato i piedi per terra.
“Siamo stati chiamati a scortare i membri dell’Accademia?” si sconcertò, in cerca d’aria.
Marty stava per ribattere quando la sua mano venne fatta volare via e Derek batté sulla spalla di lei. “Andiamo. Prima finiamo con questa pagliacciata, e prima potremo tornare ai nostri doveri.”
Doveri! Aisha annuì, e riprese a rigidamente camminare.
L’abitacolo del Boldercraft era gelido e il suo fiato si condensava velocemente in nuvolette biancastre che lasciavano un senso di umidità sul viso e sul collo. Valter attese il via libero della torre di controllo, poi si alzarono in volo. Sorvolarono le lande a sud-est di Solear, affiancandosi alla sinistra del Falco12 che traportava le alte cariche del governo. Ella poteva quasi sentire il fiato di Kamul alitarle addosso, sopra la spalla, caldo e confortevole; tutto ciò stava per essere depositato nel cuore di Gea, miglia lontane dalla sua pelle e dai suoi occhi. Quel conforto stava già diventando un tocco gelido che le pressava la giugulare.
“Calma piatta a nord” decretò Marty con un’occhiata veloce. Fece ruotare la sedia. “Tutto bene, Aisha?”
Annuì, deglutendo e evitando di incrociare il suo sguardo.
“Quelle nudi a ovest si avvicinano in fretta” osservò Derek, dalla lastra di spionaggio.
“Squadrone tredici a Falco12. Nubi in avvicinamento da ovest. Meglio scendere di quota se vogliamo mantenere la massima visibilità” comunicò Valter.
La voce metallizzata rispose: “Ricevuto, squadrone 13. Copriteci il fianco.”
Valter eseguì la manovra come richiesto, impeccabile.
“Quelle nuvole vanno parecchio veloci!” esclamò Derek, stringendo il fucile tra le mani.
“Rilassati, bestione” la buttò lì Marty, con voce tartagliata dalla noia, “sono solo vittime di questo stramaledetto vento, come noi.”
“Piantala, Marty, e dà un’occhiata.”
Marty sbuffò…
“Ci sono addosso!” vociò il compagno, pronto alla battaglia.
Aisha ebbe appena il tempo di aggrapparsi a una cinghia di sicurezza quando il Boldercraft entrò in contatto con la massa minacciosa di nubi. Qualcosa, al suo interno, doveva essere parecchio solido, perché una delle ali si spezzò con un boato, i monitor impazzirono e il velivolo cominciò a roteare in aria senza controllo. Derek era volato all’interno dell’abitacolo, mentre Valter tentava di ripristinare l’assetto del velivolo.
“Aisha, ci sei?” La voce di Kamul esplose dalla radio, spaventata.
“Marty, il carello!”
“Dannazione!”
“Derek!” chiamò Aisha.
Un secondo schianto, un colpo di frusta e il Boldercraft si arenò nel mezzo dell’aria. Alcuni secondi di placido silenzio… All’improvviso una scossa li fece rivoltare come bollicine all’interno di una bottiglia shakerata; volarono e si scontrarono contro il duro metallo, fino quando la lamiera dell’aeromobile non si piegò pericolosamente verso l’interno, schiacciandoli tra placche metalliche e cavi elettrici scintillanti.
“Aisha, rispondi!”
L’ultima cosa che ella vide prima di perdere coscienza fu il lampo di luce vermiglia che per un istante riverberò dai finestrini di comando frantumati.

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Capitolo 3
*** Nurthìa ***


CAPITOLO 3
Nurthìa
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L’effetto altalenante la ridestò dalla sua incoscienza.
Si ritrovò con la testa penzolante all’indietro, il corpo imbrigliato nel freddo metallo e ogni parte del suo essere che pulsava di dolore. Socchiuse gli occhi, intontita, e il fiato le si mozzò in gola. I polmoni raschiarono in cerca d’aria e la sua bocca si aprì in un tremolio di paura.
Il gigante di ferro la stringeva nella sua morsa, il capo era l’unica cosa del suo corpo a essere libera di dondolare fuori dalla gabbia delle sue dita. Lampi di luce interattiva si susseguivano sulla sommità della sua figura, nelle cavità oculari che mandavano bagliori di fuoco laser: stava esaminando il terreno intorno a loro, immagazzinando dati e rielaborandoli.
Un occhio strabico si staccò dallo sfondo e ruotò verso di lei. Aisha, semincosciente, deglutì con affanno. Era inutile cercare di serrare gli occhi, i sensori termici che aveva nei polpastrelli lo avevano avvertito del suo risveglio. Provò vanamente a districarsi dalla presa, ma non aveva armi con sé – dovevano avergliele tolte – e il dolore e la sensazione di leggerezza minacciavano di ghermirla nuovamente.
Alla fine si arrese, mugugnò di sofferenza e disperata rassegnazione, chiuse gli occhi e lasciò che il dondolio e il rumore scrosciante dei pesanti passi dell’androide sulla neve riempissero la sua mente. Lentamente riacquistò lucidità. Si diede della stupida, dopodiché tornò a concentrarsi sul rumore che la circondava: quattro o cinque coppie di passi cadenzati; un gigante di ferro doveva essere proprio accanto a quello che la trasportava, altri, invece, provenivano dalle sue spalle. Dovevano essersi nascosti nella nube che Derek aveva avvistato poco prima dell’impatto; la mano del nemico si era spinta oltre l’orizzonte visibile da Solear, isolando la sua città dal resto di Gea. La sua famiglia e i suoi amici erano soli, e presto…
Spalancò gli occhi, stavolta alla ricerca dei suoi compagni. Come aveva fatto a non pensarci prima? Il dolore le aveva annebbiato la mente e impedito di ricordare la successione degli eventi con chiarezza. Ora ricordò! Vide il sangue colare dalla testa di Valter, tenuto strettamente dall’androide accanto a loro; un’altra figura incosciente pendeva dall’altro arto, ma dalla sua posizione non riusciva a riconoscerla. Si affannò a contorcersi e a piegarsi più che poté, anelante di sapere le sorti che erano toccate a Falco12. Desolata, cominciò ad annaspare.
Dio, fa che non l’abbiano preso! Pensò in preda al panico.
Le scosse di movimento continuarono per tutto il tragitto. Le creature non si curavano di loro né li reputavano minacciosi, perché non si presero la briga di osteggiare i loro tentativi di liberarsi. Dopo di lei, Marty si svegliò, urlando e strepitando come un matto. Il robot che lo teneva in pugno non si curò di farlo smettere: a quanto pareva, gli schiamazzi non lo disturbavano, i rumori non lo confondevano o irritavano. Erano macchine, si disse arrabbiata con se stessa, non provavano emozioni o sensazioni che inibivano le loro azioni o plagiavano i loro comportamenti: ogni cosa intorno a loro era fatta di dati da immagazzinare e rielaborare.
Alla fine Marty si azzittì, per stanchezza o forse perché, a forza di tentare di divincolarsi, si era spezzato qualcosa. Aisha lo sentì piagnucolare e inveire sottovoce. Al suo fianco, Valter si lasciò sfuggire un muggito, ma non si svegliò: probabilmente le sue ferite erano gravi e urgevano una medicazione.
Ma a cosa sarebbe servita? In realtà, ella non comprendeva il perché fossero ancora vivi. Gli androidi non facevano prigionieri, non ne avevano mai fatti. A loro non servivano, poiché non vedevano un vantaggio in una simile mossa. Non comprendevano concetti come riscatto o contrattazione, nelle guerre in cui avevano combattuto per gli uomini, simili espedienti non erano serviti.
“EHI?” sbraitò Marty all’improvviso. “Valter? Aisha? Derek? Ehi?”
“Marty, calmati!” gli rispose stanca.
“Aisha!” La sua voce si rinvigorì di nuova speranza. “Stai bene?”
“Credo di sì.”
“Valter e Derek?”
“Valter è ferito, è svenuto e perde sangue. Non so dov’è Derek” lo informò.
“Che stanno facendo? Cosa vogliono?”
“Io non lo…argh!”
Una scrollata violenta l’aveva sbalzata, il collo aveva subito il contraccolpo e per un attimo il mondo bianco vorticò intorno a lei. Sentì Marty urlare e inveire ancora.
“Marty, sta calmo!”
Un’altra scossa le strappò un verso di tormento. La voce dell’amico si spense, forse era svenuto. I mostri non avevano problemi a tenerli a bada, ma non desideravano che comunicassero tra loro.
Aisha si morse un labbro, accasciandosi come un morto tra le grinfie della macchina, e si lasciò trasportare in silenzio per tutto il tragitto. Il gelo, intorno a lei, la stava facendo intirizzire; le punte dei piedi si inarcavano involontariamente per il freddo, rischiando l’ipotermia, mentre la sua faccia si riempiva velocemente di uno strato sottilissimo di neve fresca.
Aveva quasi ceduto all’intorpidimento quando vide il primo lampo. La nube che li aveva seguiti per tutto il cammino si stava diradando, mostrando loro le saette bluastre dei cieli di Anverra. Il lago ghiacciato doveva essere sotto di loro, sotterrato sotto metri di neve depositata e mai disgelata; le stalagmiti erano enormi e si slanciavano verso il pervinca delle nuvole cariche di nevischio, piegandosi a formare archi spezzati e artigli ricurvi che sentenziavano il loro fato con la loro sempiterna presenza.
Il cuore del regno del Nord si palesò ai suoi occhi in un tripudio di galaverna, che si raccoglieva intorno ai suoi alti palazzi di vetro e metallo, e guazza che si depositava sul terreno, sempre fresca, sempre brillante sotto i raggi artificiali della città degli androidi.
Aisha inarcò la schiena, incredula. La città dei giganti di ferro, una leggenda per spaventare i bambini e dare una parvenza di umanità alle creature degli incubi, esisteva davvero: situata in un’enorme conca, circondata da ghiaccio e neve, sormontata da nuvoli elettrizzati, e rischiarata dalle strabilianti luci che pulsavano al suo interno. Era un diamante che riverberava l’oscurità, il cuore del regno del Nord che rifulgeva della sua glaciale bellezza, incastonata in una landa desolatamente bianca, e deprimente preda di tempesta e bufera.
Gli androidi li stavano conducendo verso di essa, lungo un canalone scavato tra le montagne innevate, cumuli di ghiaccio e dita tormentose che vorticavano intorno a loro, sospinti dai venti boreali. A guardia della città era stato posto un cancello d’acciaio, alto e resistente: fatto da lunghe lance conficcate nel terreno, sparava i suoi artigli verso l’alto. L’arco di zinco curvato reggeva una scritta: Nurthìa.
I giganti di ferro camminarono lungo le loro vie, composte da placche di ghiaccio lavorato finemente a formare basole e piastrelle stradali. Le carreggiate secondarie, per quello che Aisha poteva vedere dalla sua posizione, confluivano tutte in quella che stavano percorrendo loro. La città era asettica, fredda e ordinata; i quartieri erano fatti da abitazioni a pianta quadrata e, per la maggior parte, circolare, tubi di ferro e ossidiana che formavano strani blocchi di varia altezza, come le canne di un organo. Persino la suggestione che creava nel suo animo era affine alla musicalità di quello strumento: profonda, gutturale, antica e inamovibile; una forza indistruttibile di austerità e solenne grandezza.
Il mostro che la trasportava iniziò a tamburellare con i piedi quadrati sui blocchi di ghiaccio azzurrognolo di una ripida scalinata, puntando verso l’alto. Rischiando di farsi venire il torcicollo, Aisha si voltò per ammirare la cupola di vetro, retta da alte colonne rigate e sormontata dalla scultura di ghiaccio di un fuoco freddo, lingue di un blu accecante che sfidavano il cielo nero.
Entrarono tra gli alti battenti. Gli occhi di lei si persero tra i corridoi celesti e gli immensi tetti da cui pendevano letali stalattiti, una grotta in cui la luce saettava tra un cono di ghiaccio a una parete di vetro, e continuava così, creando un gioco caleidoscopico di rifulgente bellezza. Si chiese come così siffatto incanto potesse esser stato creato e costruito da macchine senza coscienza o sentimento.
Salirono ancora, e la mente confusa di Aisha si perse tra i grandi androni e i lunghi corridoi. Infine giunsero sotto l’alta cupola che ella aveva già avuto modo di ammirare dall’esterno: ventotto colonne gelate sostenevano altrettanti archi, che creavano una prima struttura fatta da volte a croce, su cui si reggeva la vera cupola di cristallo. La luce di Nurthìa si abbatteva sulle pareti, creando un alone surreale tutt’intorno a loro.
Aisha venne scaraventata per terra, sbatté la spalla e trattenne a stento un lamento di dolore. Sentì lo schianto di altri corpi buttati sulla lastra di metallo, e vide le gigantesche ombre troneggiare sopra di loro. Si puntellò sulle mani e sollevò la testa, tramortita da afflizione e timore. Ciò che vide le tolse il fiato: uomini e donne, alti più di venti metri, stavano seduti intorno a quella che doveva essere una tavola di metallo, su cui loro erano stati malamente depositati; i loro tratti erano pragmatici, ma le espressioni dei loro volti erano rigidi e inespressivi.
Androidi! Ma perché hanno quest’aspetto? Si allarmò.
Un movimento poco distante da lei la costrinse a staccare gli occhi da quelli esseri. Valter si stava contorcendo dal dolore, il suo corpo era un po’ ammaccato e il braccio sinistro era piegato in un angolo innaturale. Strisciò lentamente verso di lui, cercando di non fare movimenti bruschi che mettessero in agitazione le macchine intelligenti. Gli asciugò il sangue dalla fronte e lo aiutò a girarsi, per mettersi in una posizione più comoda.
“Stai bene?” mimò lui con le labbra, premuroso.
Aisha annuì impercettibilmente.
“Gli altri?”
Facendosi forza, sollevò lo sguardò e lo fece volare sopra la lastra di metallo: Marty la stava fissando, pallido e tremolante, voltato su un fianco e leggermente accoccolato su se stesso; Derek era accasciato poco più in là e non si muoveva. C’erano altri due uomini dell’altro squadrone e un paio di Intellettuali, tra cui…
“No!” boccheggiò in un soffio di terrore.
La mano di Valter la trattenne.
Intanto un ronzio fastidioso aveva iniziato a diffondersi in tutta la stanza, ridondante, come il crepitio di legna bagnata sul fuoco o lo sbattere frenetico delle ali dei calabroni. Alzando un po’ il capo, capì: le macchine, che li avevano condotti lì, stavano comunicando con gli androidi dai volti umani. Aisha li squadrò con ira: erano più bassi degli umanoidi, ma superavano comunque i dodici metri di altezza; le loro fattezze erano solo lontanamente umane, avevano gli arti inferiori e superiori, e questi ultimi erano dotati di dita meccaniche, ma non avevano pelle o vestiti addosso come quelli più alti, solo metallo e cavi che sporgevano in una massa ingarbugliata sotto placche lisce di metallo avvolto intorno ai loro meccanismi.
“Aisha” la distrasse l’amico, “aiutami ad alzarmi. Non intendo morire schiacciato.”
Ella ubbidì, non sapendo cos’altro fare. Lo aiutò a mettersi seduto e, visto che nessuno sembrava volerglielo impedire, strappò un pezzo dei suoi pantaloni per improvvisare un bendaggio intorno al taglio sanguinante. Nel frattempo Marty li aveva raggiunti e si era accasciato vicino al compagno, confabulando in un mormorio terrorizzato. Aisha lanciò uno sguardo verso gli umanoidi e, non riscontrando in loro un qualsiasi tipo di avvertimento o ordine, gattonò verso Kamul, ancora incosciente, e vi appoggiò una mano sul collo. Ne sentì il battito e tirò un sospiro di sollievo. Trattenendo le lacrime lo scosse, costringendolo a ridestarsi.
“Shh” fece per intimarli, mentre vedeva i suoi occhi spalancarsi dal terrore. “Non urlare” bisbigliò, “non agitarti. Ce la fai a muoverti? Riesci a raggiungere gli altri?”
“Mio padre?” chiese immediatamente.
Aisha sollevò gli occhi e poi li riabbassò, ancora sconvolta. “Non lo vedo.”
Aiutò l’amico d’infanzia a mettersi in piedi e, sorreggendolo, si mossero verso gli amici.
“Donna!” tuonò una voce metallica, atona. Proveniva dalla macchina con le fattezze di una donna, ma la sua voce era priva di femminilità o calore umano. Come tutti, era rimasta in silenzio a scrutarla dall’alto, con sguardo indecifrabile. “Cosa fai?”
Non c’era intonazione nelle sue parole, né espressione sul suo viso, e Aisha non capì cosa volesse da lei; così rimase in silenzio. Un grosso dito roseo si mosse verso di loro e la pungolò leggermente; ma la forza della macchina era tale che li fece nuovamente cadere.
“Aisha, attenta!” la misero in guardia i compagni, tirandosi faticosamente in piedi.
Gli uomini degli altri squadroni si stavano svegliando, mugolii e urla di terrore invasero la cupola. Un Intellettuale cercò di scappare, ma una mano gigante lo afferrò senza difficoltà e lo rimise al suo posto. Quello si spaventò a tal punto che le gambe barcollarono, ed egli scivolò nuovamente sul freddo metallo.
“Donna” chiamò ancora la voce, “cosa fai con quell’uomo?”
Aisha rimase interdetta, stesa per terra, con una mano stretta a quella di Kamul. L’amico, però, si puntellò sui gomiti e si tirò su, accigliato.
“Kamul” sussurrò lei, a mo’ d’avvertimento.
“Aspetta” si liberò della sua presa, “credo stia solo chiedendo perché mi aiuti.” Poi lo disse di nuovo, più forte, stavolta verso l’umanoide con il volto di donna e la divisa militare: “Mi sta aiutando.”
“Presta soccorso al ferito!” esclamò un gigante uomo, annuendo con un movimento secco del capo, più per volontà che per impulso.
Pareva che le macchine con i corpi da uomini e donne volessero in qualche modo emulare la razza umana, non solo nell’aspetto ma nei meccanismi comportamentali. Come se avrebbero mai potuto mimetizzarsi tra loro, considerata l’altezza imponente?!
“È preoccupata per me” gridò Kamul per attirare la loro attenzione. “Desidera che io stia bene.”
“Preoccupazione? Desiderio?” intonò la voce della donna, metallica e incolore.
“Necessità! Ambizione!” rispose un altro uomo.
“No!” lo contraddisse lui. “Si preoccupa perché mi vuole bene, non vuole un tornaconto. Nessun vantaggio o conquista!”
Kamul le tese una mano e l’aiutò a tirarsi su. Aisha sentì la sua mano sudare freddo, il collo e la fronte erano madidi di sudore; lo vide deglutire nervosamente, ma tenne il mento alto e il tono della voce sicuro.
“A cosa serve, allora?” domandò uno.
Un’altra umanoide, invece, domandò: “Cosa significa volere bene?”
“Serve a stare bene con se stessi. Un uomo che fa del bene e prova amore verso un altro si sente soddisfatto, felice. Completo” rispose al primo. Poi si voltò verso la donna con i fili di paglia che incorniciavo la fronte con un caschetto, come dei capelli. “Volere bene è un sentimento, un’emozione potente. Si prova verso coloro che abbiamo di più caro, che… sono il nostro tesoro, il nostro premio. Ce ne prendiamo cura, li trattiamo bene. Li amiamo” aggiunse con tono spezzato, la voce che si rompeva sull’ultima parte.
Aisha strinse più forte la presa intorno alla sua mano, e lui ricambiò sollevato. Sospirarono all’unisono, speranzosi neanche loro sapevano in cosa.
Le macchine intorno a loro rimasero in silenzio, ma loro potevano percepire le loro intelligenze artificiali tentare di comprendere quei concetti insoliti, fuori dalla loro portata o lontani dal loro pensiero.
Alla fine quello con le setole bianche ritte sul suo capo allungò una mano e afferrò il giovane uomo. Aisha urlò, e gli altri insieme a lei, mentre la sua mano scorreva via da quella di lui ed ella barcollava nel tentativo di riprenderlo. Ansimò, impaurita.
“I sentimenti!” annunciò. “Sono guerra, morte, vittoria, conquista, dominio, potere.” Gli elencò in una sequenza priva di emozione o enfasi.
Kamul scosse la testa, stringendo i denti. “Queste sono azioni, eventi, non sono emozioni. I sentimenti sono quelli che tutto questo provocano: dolore, perdita, euforia, rabbia, impotenza.”
L’umanoide maschio puntò i suoi occhi vermigli, le cui pupille rosse erano artificiosamente rese lucide dal vetro di cui erano fatte, e l’osservò, studiandolo e rielaborando le sue parole.
“Dolore è urla?” chiese atono.
“No, le urla sono una manifestazione del dolore, ma… non so spiegarlo” tentennò.
La creatura gigante pensò un momento, poi la sua mano si strinse intorno al suo corpo, avvolgendolo tra le dita e schiacciandolo nella sua ferrea presa. Kamul urlò, e anche Aisha, correndo disperata, gridò a squarciagola.
Gli occhi delle macchine si puntarono su di lei.
“Perché urla?” domandò l’uomo che serrava il giovane nel suo arto metallico.
“Perché siamo amici, mi vuole bene” cercò di spiegare tra i denti, sofferente. “Se io provo dolore, anche lei soffre.”
“Davvero?” Strinse ancora.
“Basta!” si sgolò Aisha, con le mani in alto, in segno di supplica.
“C’è altro!” Istintivamente Kamul tentò di liberarsi dalla stretta, alla ricerca di un po’ di sollievo. “C’è altro a parte il dolore!”
“Cosa?”
“Gioia, felicità. Sentimenti forti… umani!”
La stretta del gigante si arrestò; lentamente la sua mano si aprì. Si avvicinò il giovane vicino agli occhi luccicanti e disse, semplicemente: “Mostrami.”
“Mettimi giù e ti faccio vedere” contrattò. E di nuovo, con voce più calma: “Ti faccio vedere una cosa, ma ho bisogno che mi metti giù.”
L’umanoide non sembrò avere problemi di fiducia: nessuno di loro, infatti, aveva possibilità di fuga. Kamul venne depositato ai piedi di Aisha, ed ella si lanciò su di lui, toccandolo e assicurandosi che stesse bene.
“Tranquilla” soffiò lui sul suo viso, stringendo per un attimo le sue mani.
Si tirarono su, e Kamul mise un braccio intorno ai suoi fianchi. Si rivolse ai giganti che li attorniavano, alzando la voce: “Se io la stringo a me, sono protettivo, ed entrambi ci sentiamo al sicuro, sereni… più tranquilli.”
La guardò negli occhi, e Aisha vide quanto disperata era la sua espressione. Aveva paura e aveva bisogno di lei, in quel momento più che mai. Ella serrò la sua mano sulla sua manica, confusa e spaventata.
Kamul prese un profondo respiro, serio e fremente, e la baciò. Aisha s’irrigidì tra le sue braccia, mentre lui, un po’ goffo e rigido, la stringeva convulsamente a sé. La mano di lei stritolò la stoffa della sua giacca, e una lacrima solitaria scivolò sul suo gelido viso dagli occhi spalancati. Prima che potesse aspirare il suo profumo, egli si staccò da lei.
Per la prima volta da quando erano finiti in quella camera, gli umanoidi erano impietriti, Aisha poteva annusare la tensione, fuori e dentro di lei. Il suo cuore aveva iniziato a galoppare all’impazzata, e la sua mente si stava piegando in se stessa, scossa e stanca, umiliata.
“Davvero strano” pronunciò la voce apatica della macchina a capotavola. “Se vi unite, i vostri corpi si riscaldano. Non rischiate il cortocircuito? I vostri ingranaggi non prendono fuoco?”
Aisha abbassò lo sguardo, una sensazione di disagio che cresceva nel suo stomaco e si propagava nel suo petto, fino alla gola. Accanto a lei, sentì la voce di Kamul, per la prima volta irata, inveire contro le macchine: “Siamo umani, non siamo macchine. Siamo fatti di carne, nel nostro corpo scorre sangue e non idrocarburi, abbiamo un cuore che batte. Noi abbiamo bisogno del calore di un altro essere!”
Qualcosa scattò intorno a loro. Aisha poté sentire distintamente le rotelle degli umanoidi prillare febbrilmente, suoni interattivi vibrare all’impazzata nei loro circuiti.
Il gigante uomo di fronte loro si piegò finché i suoi occhi infuocati non furono alla stessa altezza dei loro corpi. Disse, in un’imitazione di un sussurro: “Guarda bene, uomo. Ci avete creato come macchine servili, e vi abbiamo sconfitto da padroni. Adesso abbiamo la stessa faccia.” Drizzò la schiena robotica e guardò i suoi compagni. “Ricordate com’è stato all’inizio. Noi c’eravamo” aggiunse, in direzione dei due ragazzi che stavano indietreggiando verso gli altri, “ero lì quando gli Intellettuali hanno preso il comando. Erano stati incaricati di dare una nuova arma al governo, invece ci hanno tenuto per i loro scopi.”
Aisha sentì il corpo di Kamul avere un sussulto.
“Noi terremo voi, adesso, per i nostri.”
L’umanoide diede il segnale e le mani dei giganti di ferro li afferrarono di nuovo. Mentre li portavano via, Aisha lanciò uno sguardo verso il tavolo, dove il corpo di Derek era abbandonato.
Sentì distintamente l’umanoide donna asserire: “Questo corpo si è spento. Portatelo dai cyborg per essere studiato dall’interno.”
Il cuore di Aisha smise di battere per un lunghissimo istante, sconsolato.

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Capitolo 4
*** I capricci dell'acciaio ***


CAPITOLO 4
I capricci dell’acciaio
 
 
 
 
 
 
 
 
 
In principio c’era stata la magia.
Era una forza indomabile, che scorreva nei fiumi e al centro della terra; si addensava nelle nuvole e scaricava la sua ira come un fulmine incandescente che infiamma un tronco secco. Poi l’uomo aveva deciso di domare quel potere e lo aveva racchiuso nell’elemento più forte su cui poteva contare: l’acciaio. La potenza del fulmine e il clangore di un tuono erano prigionieri di un’arma che ora un essere poteva brandire e usare come meglio credeva.
Ma, si sa, ogni cosa ha il suo punto di rottura: l’acciaio può essere fuso, e il potere nuovamente liberato.
 
 
 
 
Gli androidi non sentivano freddo, non erano soggetti ai capricci della temperatura. Eppure era un processo che trovavano interessante e per il quale si erano attrezzati.
Aisha stava tremando, chiusa in una cella frigorifera fatta di lastre di vetro; le imponenti macchine si trovavano al di là di esse, non le vedeva ma sapeva che erano lì. Da quelle che parevano ore, i denti sbattevano senza controllo, le sue dita si erano atrofizzate e anche lo spostamento d’aria causava sulla pelle stilettate di dolore. Le labbra le si erano spaccate, ma non sanguinavano. All’inizio aveva cercato di combattere il gelo camminando e tentando di accumulare calore. Le fitte di ghiaccio, però, l’avevano lentamente irrigidita, fin quando il suo corpo aveva ceduto ed ella era crollata al suolo. Ora i suoi occhi erano semichiusi: desiderava solo chiuderli una volta per tutte. Le pareva di sentire la brina formarsi sulle sue dita, i piedi e le gambe scossi da convulsioni. Quanto poteva ancora mancare alla fine?
Riaprì gli occhi sul giaciglio della sua cella, freddo ma sopportabile. Qualcuno le aveva buttato una coperta termica addosso e, forse sempre la stessa persona, si era premurato di far circolare il sangue nelle sue vene.
Si sentiva spossata e sfibrata. Fece fatica a tirarsi in posizione accoccolata e a stringere le braccia intorno alle gambe, per saggiare la sensibilità del suo corpo: a un primo controllo, pareva ancora avere tutte le estremità ancora attaccate a esso.
Kamul era inginocchiato ai suoi piedi, lo notò solo in quell’istante. Lo sguardo accorato, la guardava con timore, quasi temesse di poterla consumare con i suoi occhi. Aisha serrò i suoi e si tirò indietro, sotto la coperta frusciante e i lunghi capelli sporchi. Stranamente furono le labbra a riacquisire calore per prime, seguite subito dopo dalle orecchie. Aisha sentì il rossore propagarsi ancora una volta sulle sue guance e lo stomaco rimestarsi, in agitazione. Sussultò quando la mano dell’amico iniziò a scorrere avanti e indietro sulle sue gambe gelate; imbarazzata, si ritrasse da quel semplice contatto.
“Non essere stupida” s’infervorò lui, masticando le parole nel tentativo di non alzare la voce. “Non è questo il momento.”
“E quale, allora? Non ci hanno ancora uccisi, ma è comunque la nostra unica certezza.” La sua voce era carica di odio, rammarico; e il tutto era velato da quel senso di torpore che le saliva dal petto.
Kamul strisciò vicino la sua testa, verso il riverbero della luce che filtrava dalle lampade a led del corridoio asettico, la quale evidenziò i tagli e le escoriazioni sul suo viso tumefatto. Aisha scattò seduta, la coperta che scivolava sui suoi fianchi smagriti.
“Che ti hanno fatto?” sussurrò, una mano tremante che si tendeva verso le ferite.
Egli fece spallucce. “Non sono stati loro. Me li sono fatti da solo.”
“Perché?” La voce acuta raschiò la pietra della sua cella, isterica.
“Credi che sia facile…” Kamul afferrò convulsamente la coperta e, con gentilezza, la posò sulle sue spalle, scoperte a causa dei buchi nella sua divisa. I suoi occhi fissarono intensamente il tessuto sfrigolante. “… restare lì fermo, costretto a guardare, mentre ti congeli?”
Passarono alcuni minuti di silenzio. Nella cella accanto, la voce di Marty mugolò una supplica, anche lui era stato appena riportato dentro.
“Eri oltre il vetro?!” si sconvolse, adagiandosi nuovamente sulla piastra di metallo.
“Ogni santo giorno… Sono interessati a studiare entrambe le forme di dolore.”
“Perché? Perché li hai parlato di queste stupide emozioni? Avrei preferito una morte veloce! Invece…” Le lacrime, che aveva trattenuto in quelle settimane di prigionia, sgorgarono come fiumi sulle sue guance, irritando di sale gli angoli della sua bocca. Tirò su col naso. “Che se ne fanno, poi? Provare sentimenti fa schifo!”
Kamul le voltò le spalle e si appoggiò contro il bordo del suo giaciglio. Alzò il capo, poggiando la nuca sulla sua pancia, e sospirò. Mormorò un paio di parole incomprensibili, e quando Aisha gli chiese di ripetere, egli scosse la testa.
Invece, spiegò: “Gli umanoidi… hai presente le macchine sotto la cupola di vetro, con la pelle e i vestiti e tutto?”
“Come scordarli?!”
“Credo siano i primi. Pensaci: gli Intellettuali non ne avevano creati così tanti; i registri parlano di una dozzina di androidi giganti, sufficienti a sbaragliare un intero esercito. Qui sono a centinaia, una vera razza che prolifera. Hanno ripopolato Northia…”
“Nurthìa! La città del nord!”
“Cosa?” si accigliò lui.
“Ero cosciente quando siamo giunti qui. La città si chiama Nurthìa, ed è immensa. Era scritto sul metallo, nell’arco all’ingresso” si giustificò.
“Visto?” la squadrò lui, tornando a battere laddove gli interessava. “Hanno storpiato il nome, ma è comunque la vecchia città, sede della prima Accademia. Una città, un popolo. Scrittura, nomi… Quelli umanoidi stanno creando la loro specie.”
“Come?”
Gli scappò uno sbuffo tra le labbra infreddolite. “Possiedono la stessa conoscenza degli Intellettuali. Possono fare quello che fecero loro agli inizi. E non è tutto” continuò. “Hanno padronanza della nostra lingua, a contrario dei loro sottoposti.”
“I giganti di ferro” mormorò Aisha, iniziando a comprendere.
“Esatto… es-esatto! Vogliono sostituirci, diventare umani, con ge-geraa-rchie...”
Ella lo vide rabbrividire e strofinarsi le mani sulle gambe. Solo allora notò che Kamul aveva ceduto la sua coperta termica a lei. Aisha schizzò per terra al suo fianco e buttò i teli fruscianti addosso a entrambi.
“Stai cercando di farti ammazzare?” lo redarguì, di nuovo scossa. Rise amaramente, in un tentativo di sorridergli e ringraziarlo.
Kamul la guardò, restando serio. “Sono stanco di vederti soffrire.”
Aisha sgranò gli occhi e deglutì. Il suo tremore s’irradiò sul suo corpo. Allontanando gli stupidi pensieri, si stese accanto a lui, stringendolo in un disperato abbraccio.
Affermò, le labbra a soffiare sul collo di lui: “Sono macchine, non avranno mai quello che abbiamo noi.”
“Un cuore” asserì Kamul.
Lentamente, uno tra le braccia dell’altra, si addormentarono.
 
 
 
 
Furono le urla isteriche di Marty a metterli in guardia. Si destarono dal loro sonno e, un po’ instabili, scattarono verso le sbarre, in tempo per vedere uno di quei giganti di ferro portare via Valter.
“Marty!” gridò Aisha. “Che sta succedendo? Dove lo portano?”
“Chiedilo a quell’idiota del tuo uomo” sbraitò con un tonfo sordo.
Confusa, si girò, ma Kamul scosse la testa, interdetto quanto lei.
“Ci stanno uccidendo come ratti da laboratorio, uno dopo l’altro” piagnucolò ancora, facendo riferimento alle celle ormai vuote tra loro. “Non voglio essere il prossimo. Non voglio morire come un topo…”
“Marty, calmati! Calmati!”
“NO! A che serve calmarmi? Sono stanco di loro, sono stanco di questo.”
Aisha lo sentì gettarsi di peso contro le sbarre e scuoterle con violenza inaudita, imbestialito.
“Mi sentite? Non mi userete, non mi avrete mai. AVETE CAPITO?”
“Marty…”
“Lascia stare, Ais” la fermò Kamul, poggiandole una mano sulla spalla. Il suo viso era contrito. “Non puoi aiutarlo da qui.”
“Marty è un membro dello squadrone. È addestrato a combattere…” Aveva l’impellente bisogno di credere che loro ce l’avrebbero fatta, che insieme avrebbero trovato un modo per uscire vivi da lì.
“Sì, ma tutti hanno un punto di rottura. E Marty non era pronto a tutto questo.” La presa sulla sua spalla le impedì di cedere allo sconforto.
Tornarono a sedersi, i visi mesti. Le loro orecchie rischiavano di sanguinare per le urla e i singulti del giovane, rinchiuso a un paio di celle di distanza da loro. Aisha portò le mani al viso e lo strinse, nel disperato tentativo di scacciare quel nuovo dolore dal petto, che la stava dilaniando come gli artigli di una belva famelica.
Un luccichio bluastro attraversò la difesa delle sue palpebre. Alzò lo sguardo e, sorpresa, vide che Kamul aveva tra le mani il pugnale rinvenuto molto tempo prima.
“Come hai fatto a nasconderlo?” si stupì.
“Non l’ho nascosto. Gli androidi non l’hanno ritenuto pericoloso, a quanto pare. Dopotutto” ghignò, ripetendo le sue parole, “cosa pensi che possa fare una lama contro quei giganti di ferro?”
Aisha tirò su col naso, più triste di prima. “Vorrei tanto che compisse un miracolo, adesso.”
Kamul le passò una mano sopra le spalle e l’avvicinò a sé. Pose il mento sulla sua testa e le diede un bacio: era freddo, ma ebbe il potere di riscaldarle il cuore.
“Prendi!” disse d’un tratto.
Aisha socchiuse gli occhi e vide che le stava porgendo il pugnale che tanto odiava.
“E cosa me ne faccio?” chiese, sospettosa.
“Guarda!”
Kamul ruotò un po’ la lama in modo che le loro immagini si riflettessero sul piatto lucido. Aisha guardò la sua immagine sporca e deperita, i suoi occhi abbattuti e la sua bocca piegata all’ingiù; e poi vide le labbra di lui dischiudersi sulla sua guancia, in un casto bacio. Le sue gote arrossirono, ed ella abbassò lo sguardo.
Una mano tiepida le accarezzò il volto, vellutata e leggera come una piuma. Alzò gli occhi per incrociare il suo sguardo, e nelle sue iridi vi trovò ardere fiamme di pietra.
“È tuo. Così come il mio cuore. Qualunque cosa accada” le promise.
Nuove lacrime scivolarono lungo la sua faccia, ma stavolta Aisha non si ritrasse e cercò il viso di lui; lo tenne delicatamente tra le mani e si sporse per baciarlo.
Un rumore di lamiera che strisciava sulla pietra ghiacciata li fece voltare all’unisono.
All’inizio non capì: c’era una carcassa sopra il ferro che fungeva da barella; sembravano pezzi di carne avariata e fumante, quasi quel povero animale fosse finito sopra una rete elettrica ad alto voltaggio. Sperò che non fosse il loro cibo. A trascinarlo era una delle macchine inferiori, ma uno degli umanoidi li precedeva lungo il corridoio. Superarono la cella di Marty, oltrepassarono quelle ormai vuote e si avvicinarono alla loro. Kamul intuì un attimo prima di lei e provò a intercettare il suo sguardo, ma la ragazza venne attirata da un bagliore in mezzo al mucchio carbonizzato, e riconobbe la spilla del sedicesimo squadrone.
Il suo viso impallidì e le sue gambe cedettero; un conato di vomito le ghermì la gola e le vertigini la fecero pericolosamente ondeggiare. Sarebbe crollata se Kamul non l’avesse stretta a sé.
L’umanoide femmina si fermò davanti alla loro cella e indicò il cadavere sviscerato di Valter.
Con tono flemmatico, espose la questione, per lei di poco conto: “Abbiamo provato ad attivare un cuore morto, ma una volta spento non è possibile farlo tornare a battere; così abbiamo provato con un cuore vivo. Ma anche questo si rifiuta di riattivarsi.”
Il malessere crebbe: quell’essere non dava alcuna inflessione alla voce; se avesse usato un tono graffiante e denigratorio avrebbe fatto meno male di quella sua incapacità di trasmettere una qualche emozione, seppur negativa. Erano macchine addestrate alla guerra, tutto ciò che sapevano fare era distruggere.
La voce di Kamul proruppe a singhiozzi, disgustata e incerta. “Non potete… nessun cuore umano potrebbe… voi…” Pose una mano sulle sbarre per tenersi, ma mancò la presa e barcollò. “Un corpo umano non è un assembramento di pezzi da poter scambiare e sostituire!”
L’umanoide rimase in silenzio. Poi aggiunse: “Il metallo è freddo, ma può essere riscaldato: cambia temperatura. I cavi di drenaggio fanno fluire il carburante in ogni parte del corpo: lo fanno respirare. Serve solo un cuore abbastanza forte da reggere il nostro potere.”
Mormorò qualcosa nella loro lingua fatta di suoni e ticchettii, e le due macchine sparirono oltre la loro visuale.
“Dobbiamo andarcene di qui. Ora” disse Kamul quando l’eco dei loro passi si spense in lontananza.
“Come?”
“Troverò un modo, te lo giuro.”
“Nurthìa sorge tra la neve” gli ricordò lei, ancora la testa vorticante. “Anche se volessimo fuggire, non riusciremo mai a tornare a Solear. Sempre se c’è ancora qualcuno laggiù.”
“Stai dimenticando che sono un Intellettuale.” Il suo viso era duro, ma trovò lo stesso la forza di sorriderle. “Posso rielaborare i cip delle macchine in costruzione, usarle per portarci via da qui.”
“Non sai dove si trovano.”
“Lo so io” li raggiunse la voce annoiata di Marty. Aisha rabbrividì: le parole del suo compagno d’armi sembravano giungere da dietro veli di disperazione e torture; ella poté immaginare i suoi occhi fissarsi su un punto, apatici e spalancati. “Io ero lì, quando hanno cercato di collegare il cadavere di Derek a quelle spine. Gliele hanno infilato ovunque, anche nel culo. Attraverso quelle che perforavano la scatola cranica hanno provato ad assorbire i suoi pensieri e le sue esperienze. Ce n’erano tanti, come lui” mormorò con un risolino sadico. “Parevano tante marionette messe in fila. Alcune pendevano anche… ahah!” La voce si spense in un lamento ovattato. “Vi ci porto io. Tanto è lì che devo andare, comunque. Sono il prossimo.”
Aisha aprì la bocca, ma rimase in silenzio a fissare le sbarre. Gli occhi pungevano nel tentativo di sfogare il suo rammarico, ma la stretta di Kamul l’aiutò a rimandare tutto giù, in un singhiozzo rabbioso.
“Ci muoviamo stanotte” decise lui.
“Le macchine dormono?”
“Non credo, ma loro sanno che gli umani hanno bisogno di riposare, e… se ho visto giusto… loro chiuderanno comunque gli occhi.”
“Non sbattono mai le palpebre” rise Marty. Sentirono la sua mano sbattere contro le sbarre, scorrendole a una a una, in un gesto annoiato. “Sono buffi.”
Nessuno parlò più.
 
 
 
 
La lega delle sbarre era fatta di cadmio e zinco, in modo che non si ossidasse con il tempo: era impossibile aprirla o segarla. Ma le giunture erano di nitrosil, ed erano chiuse da chiavistelli rozzamente pressati per fare presa.
Aisha, tenuta in alto dal compagno, usò il coltello per fare leva e allentare la prima; e così fece con le altre tre, fin quando il metallo non tornò dritto. Kamul la mise giù e, con uno sforzo immenso, sollevò le sbarre in modo che i chiavistelli uscissero dai cardini. La porta scivolò e Aisha lo aiutò a poggiarla di lato.
Corsero a liberare il compagno che, quatto quatto, se ne stava con gli occhi spalancati a guardare davanti a sé: pareva con la mente lontana, lo sguardo di un bambino innocente che guarda fiducioso all’adulto. Quando anche la sua porta fu scardinata, però, le sue palpebre sbatterono velocemente e lui schizzò in piedi, fremente e saltellante.
“Da questa… da questa parte, presto!” cantilenò con un tic che li faceva scattare la testa da una parte e dall’altra.
Aisha lo guardò con commiserazione. Tese una mano verso di lui. “Marty, va tutto bene.”
“Tutto bene, sì. Però non toccarmi, eh?” Rise istericamente. “Sennò, woof, prendiamo fuoco, eh? Presto, presto!”
Saltellando e sbattendo i denti, li guidò lungo il corridoio e oltre la prima porta di ferro. I corridoi erano sempre illuminati, notte e giorno; le mura azzurrognole erano fredde e sterili, prive di qualsiasi tipo di calore. Non c’erano guardie; e in effetti, a cosa avrebbero mai potuto fare la guardia?
“Volete vedere una cosa, eh?” sussurrò a un certo punto.
“Cosa? No, Marty, devi portarci dai giganti di ferro” cercò di fermarlo lei, terrorizzata.
Ma il suo vecchio compagno schizzò oltre una porta e scivolò, in un gran fracasso e risa sguaiate, lungo una scala ripida che si perdeva nel buio del vano senza luce. Aisha scambiò uno sguardo accorato con il suo compagno, poi si fiondò giù per i gradini, con il fiato corto e il cuore a mille.
Finirono su un nastro trasportatore, che fortunatamente non era in funzione. Le luci d’emergenza erano accese, il rosso soffuso che illuminava a intervalli regolari le nicchie incassate nelle pareti di pietra. La stanza era stata scavata nella roccia, lì sotto c’era più tepore e il ghiaccio era solo un lontano ricordo. Gli aloni circolari delle lampade sanguinolenti proiettavano grandi ombre intorno a loro, giganti di latta dormienti, ancora legati a fili elettrici e grossi cavi di carburante.
Aisha sentì Kamul trattenere il fiato, e anche il suo respirò raschiò rumorosamente: gli androidi stavano creando un vero esercito, nulla a che vedere con i loro visi umani o quelli tutti muscoli e capillari di ferro dei loro sottoposti. In quella caverna c’erano i soldati, androidi alti più di quindici metri che erano stati collegati a corpi umani o a cervelli immersi in strane sostanze colorate.
“Kamul” soffiò.
Il ragazzo si avvicinò titubante a una di quelle macchine e ne osservò gli ingranaggi, la fronte corrucciata. Aisha rimase alle sue spalle, diffidente di ogni cosa in quel luogo tetro e così discostante dal resto di quella città. Dopo tanta luce, sia di giorno che di notte, in quella semioscurità, dove le ombre potevano proliferare in tentacoli indefiniti e spaventosi, il suo animo si agitò, a disagio. Ella poteva sentire un refolo gelido provenire dall’alto di quella costruzione, dal tetto di cui non riusciva a scorgere alcun dettaglio, se non i cavi che, dallo sfondo nero, cadevano come pioggia e si collegavano ai macchinari silenziosi. L’unico rumore proveniva dal fondo della caverna, dove Marty stava rimestando alcuni fili, borbottando uno strano garbuglio di parole insensate, mentre con faccia schifata cercava di districarsi dagli intrecci elettrici. Collegato ai cavi, c’era il corpo senza vita di Derek.
Aisha represse un conato di vomito e si tenne il ventre stretto tra le braccia.
Uno strattone violento per liberarsi, e la vasca con le sostanze chimiche si ruppe in un boato fragoroso, di cui l’eco si propagò verso il soffitto e le pareti, senza fine.
Aisha corse dal compagno e lo aiutò ad alzarsi.
“Non toccarmi, stupida” le urlò in faccia. “Non vedi che sono attratti come mosche dal calore dei corpi?”
I passi affrettati di Kamul si avvicinarono ai due. “Ais, guarda” la tirò indietro, frettoloso.
Ancora sbigottita, la ragazza si lasciò trascinare sul nastro trasportatore, verso una macchina a cui non era collegato alcun corpo. Il gigante di ferro era assopito nel suo sonno sempiterno, nell’attesa che qualcuno attivasse i suoi meccanismi: la sua struttura ferrigna era rozzamente lavorata a formare una fisionomia umana, un bipede con una maschera ovale fornita di valvole di sfiatamento sul volto, fatta da zigomi bianchi attraversati da due strisce rosse, come lacrime di sangue; da essa partivano due antenne d’acciaio, tese come le orecchie di un cane da guardia, dando l’impressione che l’essere fosse già percettivo verso il mondo. Il petto possente era rivestito da un’armatura rossa fiammante, dotata di gadget d’emergenza tenuti saldamente legati da due cerniere d’acciaio a scatto; e il tutto finemente lavorato su uno scheletro dalla vita sottile, che si poggiava su robuste gambe del medesimo colore. Le pompe gialle di drenaggio lo stavano velocemente rifornendo del suo sostentamento primario, ma le sue spie erano spente, e il mostro non si mosse.
“Cosa devo guardare?” si spazientì, guardandosi intorno, allarmata.
“Guarda i due sensori di propulsione sul petto. Vedi come riflettono la luce?” Aisha aveva l’espressione interdetta, e allora Kamul esclamò: “Sono fatti della stessa lega del pugnale.”
“Non ora, Kami, ti supplico. Metti via quell’aria da Intellettuale, e andiamocene da qui” sussurrò tra i denti.
“Non capisci? Quella lega è indistruttibile. È dappertutto in queste mura. Io e Xan l’abbiamo studiata a fondo, messa alla prova… solo il fuoco può fonderla” ammiccò.
E finalmente Aisha comprese. “Stanno costruendo un esercito immortale, e neanche lo sanno.”
“Non ci saranno altre occasioni per eliminarli.” Il suo viso si rattristò. “Dobbiamo farlo noi, adesso.”
Aisha guardò il giovane uomo ritto davanti ai suoi occhi, il portamento fiero e il dolore nei tratti del suo candido viso, e sentì la morte nel cuore.
Allungò una mano e gli regalò una carezza. “Ti sta crescendo la barba, Kami.”
Che commento sciocco!
Kamul rise sommessamente, trattenendo le sue dita fredde tra le sue ancora un po’. Si avvicinò e la strinse forte, in un abbraccio disperato; poggiò la fronte contro la sua e il suo fiato le scaldò la faccia gelata.
“Ti amo” disse semplicemente.
“Sono felice di non averti messo catene, Kami” sussurrò lei, la voce vellutata dall’amore. “O adesso non sarei qui con te.”
“Avremmo avuto più tempo…” si avvilì lui, facendo scorrere le sue mani sulla sua schiena.
“Ne abbiamo ancora un po’” sorrise lei, un sorriso sereno sulle labbra, ormai certa del loro fato.
“Cosa vuoi fare?” la stuzzicò lui, conoscendo la sua risposta.
Già, mi conosci bene. C’è una sola cosa che mi diverte…
“Ricordi quando facevamo correre un intero reparto militare con i petardi per tutta la periferia?”
“Come dimenticarlo?!” Aspirò il suo profumo. “Facciamolo.”
Si separarono lentamente. Mentre Marty girovagava tra i cavi elettrici, lei e Kamul seguirono il nastro, prendendo ognuno un lato. Aisha tirò fuori la lama, l’argento adamantino che le sorrideva adesso tra le mani secche, e iniziò a tagliare i cavi di drenaggio; staccò i fili di propagazione del combustibile e iniziò a liberare il composto, spargendolo ovunque, in un fiume oleoso e puzzolente. Dall’altra parte, Kami faceva lo stesso.
“Spruzzalo sulle pareti, Ais. Ci sono venature di zolfo” la istruì la voce dell’amico, dal fondo della caverna.
Ella corse tirandosi dietro i cavi e imbevette gli spuntoni di roccia e ogni nicchia della camera con quello strano intruglio infiammabile.
“Oh, oh… è il mio turno!” urlò Marty, agitato.
Aisha sudava freddo, e faticava a tenere salda la pompa. Marty bofonchiò ancora parole insensate; poi, impazzito, iniziò a correre. Spaventata che potesse attirare l’attenzione, cercò di fermarlo ma i suoi occhi spiritati furono l’ultima cosa che vide di lui prima che una piattaforma di metallo gli finisse addosso, schiacciandolo.
Si voltò, cercando di deglutire, ma aveva la gola troppo secca; il cavo le scivolò di mano e, impulsivamente, iniziò a indietreggiare davanti all’umanoide che stava varcando l’arco d’acciaio della caverna. Iniziò a correre e a chiamare l’amico, la mente che cercava di scacciare l’orrenda fine del suo compagno d’armi.
“Kami!” urlò, il pugnale in mano.
La lama s’illuminò e lei, attratta come una falena dalla luce, sbandò di volata verso destra e inorridì: Kamul era stretto nella morsa d’acciaio dell’umanoide uomo.
“Donna” vociò l’essere, atono, “il tuo cuore vibra potente nel tuo petto.”
“Nooo!” gridò il giovane. “Scappa, vattene.”
Aisha non si mosse.
“Lascialo andare, mostro!”
“Io sono Mahis” la corresse.
“Una macchina è solo una macchina, non ha nome, non ha cuore!” sbraitò lei, stretta alla lama.
Mahis guardò il giovane, incurante delle sue parole. “Ora capisco” disse rigidamente, continuando quello che nella sua mente sembrava un discorso appena interrotto, “alla fine sono questi i sentimenti. Lei è arrabbiata, il suo cuore pompa sangue alla testa. Ma il tuo sangue confluisce verso il tuo. Sei preoccupato per la sua vita!” Si azzittì un solo istante. “Mi chiedo quanto il suo cuore abbia bisogno del tuo per continuare a battere.”
Stranamente, era la prima volta che la macchina prestava la voce a un tono ironico.
Il suo indice roseo si puntò verso il petto del giovane, quasi volesse pungolarlo capricciosamente. Ma era una macchina, e l’unghia era una lama che, a un suo impulso cibernetico, s’allungò perforando il cuore del giovane e strappandoglielo dal petto.
“NOOOOOOOO!” Gli occhi spalancati, il corpo deperito, Aisha crollò, liberando un lamento acuto di straziante dolore.
Impresse nella sua memoria il corpo dell’uomo amato rovinare ai suoi piedi, come un involucro senza peso, e lì restare, immobile, gli occhi vitrei spalancati in un cielo nero che stava piangendo per la sua perdita.
Faceva male! Il vuoto nel suo petto era una voragine che la stava risucchiando. La lama s’inzuppò del suo sangue, così come i suoi pantaloni verdi e i suoi capelli rossi, che come un velo funebre ricoprirono il suo bellissimo viso; i riccioli scuri si intrecciarono alle fiamme lisce dei suoi, luce e tenebra che si toccavano senza potersi più stringere con passione. La bocca fredda di lei saggiò il suo sapore, il tepore che sulle sue labbra sapeva ancora di giorni felici e sguardi rubati; l’inebriante essenza della sua tenerezza e cura, che riservava solo a lei, stavano velocemente svanendo. Aisha non avrebbe mai conosciuto i segreti del suo amore né avrebbe sperimentato le complicità di quel rapporto, appassito tra le gioie represse della loro breve vita, come un bocciolo di rosa tardiva in mezzo a una bufera di neve; erano cresciuti e avevano attraversato le vicissitudini di quelli anni, separati o silenziosamente uniti, e con lentezza esasperante si erano scoperti, cercati e ricreati insieme.
Il tepore del corpo caldo lasciò presto il posto alla fredda immobilità della morte, il gelo invase il suo migliore amico, e la luce che aveva visto nei suoi occhi, il tempo di un attimo prima, corse laddove ella non poteva più riacciuffarla.
Le macchine erano ancora lì, e la stavano studiando: auscultavano, senza saperlo, gli spasimi d’angoscia e desolazione del suo animo, invadendo e dissacrando la sua memoria e il suo lutto. Quei freddi ammassi d’acciaio avevano ucciso ciò che le dava vita e speranza, e lo avevano fatto per mera curiosità.
Per un capriccio, ora lei era dannatamente sola!
Mahis aveva ragione: il suo calore era fuoco denso di rabbia repressa e cieca disperazione.
Prostrata dal dolore, afferrò la lama e, con un balzo, la conficcò nello stinco dell’essere. La lama non sembrò incontrare resistenza: perforò e recise il cavo di drenaggio inferiore, facendo barcollare l’androide.
“Donna” esclamò minacciosa la voce metallica.
Aisha affondò di nuovo la lama, ma stavolta la mano dell’umanoide le assestò un manrovescio; il pugnale volò in un ampio arco in aria e si conficcò nell’armatura del gigante rosso, ancora inattivo, sparendo dentro il sensore di propulsione sinistro.
Aisha rotolò e si parò dinanzi ai due umanoidi, incurante della sua vita e della sua missione. Tutto ciò che contava per lei era la vendetta e gli artigli che stavano lacerando le sue stanche membra.
La presa inaspettata che si chiudeva intorno a lei la tramortì, ingabbiandola in una presa d’acciaio. Del suo aguzzino, vedeva solo i rivestimenti rossi fiammanti: alla fine, il gigante rosso si era destato. Non riuscì più a muoversi, costretta a guardare negli occhi l’essere immondo che con un gesto aveva cancellato il suo futuro. Così, quando la creatura si parò davanti ai suoi creatori e diede fuoco alla caverna, Aisha sussultò, i suoi capelli che prendevano vita dalle fiamme sanguinolenti.
Una voce, nella sua mente e nel suo cuore, disse solo: “Ais…”

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Capitolo 5
*** La custode dell'anima di Nurthìa ***


CAPITOLO 5
La custode dell’anima di Nurthìa
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Le fiamme della distruzione avvolgevano ogni cosa: gli androidi e il loro esercito, le membra dissacrate dei suoi vecchi compagni, il corpo del suo amato. Ma la mano di Kami – la mano del gigante rosso – la teneva al sicuro, al riparo persino dalla sua scoppiettante ira.
Le dita di metallo la racchiudevano come un pulcino spennacchiato, e lei se ne stava rannicchiata nel centro, a fissare inebetita gli impulsi azzurrognoli che segnalavano l’attività della macchina. Parlava una lingua sconosciuta per lei, fatta di luci lampeggiati e secchi suoni tintinnanti; ma il suo cuore – il bagliore di fuoco fatuo acceso nel sensore di propulsione sinistro – le stava sussurrando le note di una canzone che lei conosceva bene: era la sua vita, il cammino fatto insieme a Kamul fino a quell’esatto momento, era l’anima di un amore che sarebbe perdurato, al di là della morte e della ragione, e che avrebbe accettato di vivere in quella macchina, solamente per lei.
La caverna stava collassando su se stessa, annientando il cuore di Nurthìa, ma il gigante rosso la portò al sicuro, lontano dalle fiamme dell’odio e dal freddo sterile della morte, in un luogo dove esistevano ancora il tepore dei giorni felici e quelli sguardi che ora lei sapeva intercettare.
Le dita di scuro metallo dell’androide trovarono una gialla coperta termica in cui avvolgerla e, con l’unica protezione di essa e della sua presenza, egli la condusse attraverso il canalone di ghiaccio, tra gli artigli di stalagmiti e tormente di neve.  Gli umanoidi si dirigevano come formiche addestrate verso il loro formicaio, con passo cadenzato, elaborando sistematicamente i dati di quell’insolito fenomeno; nessuno li fermò. Cristalli di brina vorticavano intorno a loro, le ultime sentinelle di un popolo senza umanità. Il cuore di Kami illuminò la via, e il gigante rosso marciò senza sosta tra la bufera e gli artigli ricurvi.
Aisha chiuse gli occhi, e finalmente poté fare quello che agognava da troppo tempo: poggiò il capo contro il petto del suo protettore e ascoltò il suo cuore decantare la loro melodia, soave calore che sapeva di pace e tranquillità. Fiocchi di neve danzarono intorno a lei, ma il loro tocco era una carezza delicata che la vicinanza del suo amato mitigò in fresca vita.
Fuori la tempesta vorticava, ma dentro i loro cuori battevano di nuovo all’unisono.
 
 
 
 
Solear apparve all’orizzonte come un’anima colpita a morte: i tetti delle case della loro periferia fumavano ancora e alcuni incendi covavano nelle zone più interne. I suoi compagni setacciavano il cielo, in guerra contro le abominevoli macchine fredde; l’esercito stava preparando i suoi ultimi caccia per la battaglia finale, in un assalto suicida. Un Boldercraft sopra di loro venne colpito e si avvitò in cielo, lasciandosi una scia di fumo lungo la sua ultima corsa verso terra.
I sensori bluastri di Kami lo individuarono, i suoi circuiti focalizzarono il velivolo attraverso la tormenta che li avvolgeva ed elaborarono i dati. Svelto, la mise a terra e, grazie ai sensori di propulsione sotto i piedi robotici, volò verso il Boldercraft, afferrandolo prima dell’impatto.
Aisha li corse incontro, i piedi che affondavano nella neve. Con difficoltà raggiunse gli uomini che stavano mirando al gigante rosso e si frappose tra loro.
“Fermi!” gridò. “Lui è con me!”
Il generale Bastel sollevò la visiera e la studiò, sconcertato. “Aisha!”
Rimasero in quella posizione, a studiarsi: Aisha a braccia allargate tra le due parti, gli uomini con i fucili puntati che tentennavano e il gigante rosso che, fiducioso, si inginocchiò accanto alla sua protetta. Il generale, basito, socchiuse le labbra e corrugò la fronte, la sorpresa che sul suo viso cacciava i segni della stanchezza.
L’anima di Kami si protese verso di lei e le parlò. Non aveva bisogno di parole, ella lo conosceva abbastanza per sapere dove puntava il suo cuore.
Stava dicendo: “Posso fermali, ricondurli tra i ghiacci.”
Sapeva cosa tormentava ancora la sua coscienza: quelle macchine lo avevano ucciso, ma egli possedeva l’intelligenza per comprendere che il male – il marchio a fuoco che li aveva plagiati a quel modo – lo avevano imposto gli uomini per primi. Tutto ciò che gli Intellettuali avevano saputo trasmettere era stata la loro avidità di potere e la mancanza di scrupoli nel raggiungere il loro obiettivo.
Aisha puntò i suoi occhi sul vetro della maschera ovale. “Stai per lasciarmi di nuovo, Kami” sussurrò con un mesto sorriso, la testa che si ritraeva tra le pieghe della coperta.
Il cuore di luce azzurra lampeggiò, sofferente. Aisha poteva vedere l’elsa del pugnale come un punto scuro in mezzo al faro luminoso. I suoi occhi bruciarono mentre la sua mano si poggiava su di esso e lo tirava via. La lama brillò dello stesso fulgore dei sensori, un fuoco fatuo che riscaldava la sua pelle: finché il suo cuore avesse cantato per lei, la lama avrebbe rischiarato l’oscurità.
Sollevò lo sguardo e lo puntò sul gigante rosso. “Non riesci a non essere un Intellettuale, vero?” Scacciò con un gesto frettoloso le lacrime che le appannavano la vista e sorrise dolcemente. “Bene, perché è proprio questo che amo di te.”
Il pugnale cantò per lei: “Troverò un modo per tornare da te, e quando accadrà ti porterò in dono anche la pace.”
Aisha sollevò la lama. “Cercherò Xan” gli promise con sguardo duro, “e insieme capiremo come usare questa lama. Se ha ancora una magia da donarci, io la userò per riaverti.”
I soldati alle sue spalle ammutolirono mentre la mano del gigante rosso calava sulla giovane e la stringeva al suo petto, con delicatezza.
Aisha si beò della luce del suo petto ancora un po’, poi lasciò che l’anima di Kami compisse la sua magia: richiamò gli androidi e li guidò nuovamente oltre il ponte di Anverra, di nuovo a casa. La lama, però, continuò a brillare, e il suo tepore fu la luce che guidò la giovane donna lungo il suo tortuoso cammino.
 
 
 
 
I laboratori centrali di Gea avevano quell’odore di sostanze chimiche e candeggina che rendeva i loro androni sterili e puzzolenti, nulla a che vedere col profumo soave che caratterizzava la pelle di Kamul: su di lui, quell’odore nauseabondo si trasformava in una piacevole sensazione di casa.
Aisha lo ricordava bene.
Il gigante rosso era sparito tra le tormente di ghiaccio a nord. Aveva mantenuto la sua promessa: gli androidi erano tornati a essere ombre minacciose che vagavano sperdute al di là del gelo e del ponte. Da parte sua, Aisha aveva seppellito la tuta militare, salutato la sua famiglia, sotterrato il suo dolore e si era messa alla ricerca del famoso Xan.
Kamul lo aveva nominato una sola volta; il vecchio Intellettuale, invece, sapeva molte cose di lei. Attraverso le sue parole, Kami era vivo e le sorrideva tra i ricordi, ed ella aveva scoperto quanto avesse lottato per lei e il loro amore. Il vecchio mentore del ragazzo era stato l’unico ad appoggiare le sue teorie e a incoraggiarlo nel perseguire una soluzione alternativa, che salvaguardasse non solo i potenti e gli Intellettuali. Ella scoprì in Xan l’ultimo uomo di coscienza dell’umanità.
Aisha gli raccontò ogni cosa: della prigionia, della fuga, della sua morte e, alla fine, narrò del miracolo che la lama aveva compiuto per loro.
“La vita è costretta a fare i conti con la morte, in un ciclo eterno” la consolò Xan con la sua voce scoppiettante e appassionata, “l’amore, invece, non conosce barriere, e non ha fine.”
Con l’aiutò del mentore di Kamul e l’inaspettato appoggio del generale Bastel, l’Accademia finanziò i loro studi, e le antiche leggende e vecchie magie vennero spolverate. Gli Intellettuali dovettero abbassare il capo e riconoscere la mortalità delle loro idee. La lama non smise di brillare, e con essa la speranza nel suo petto crebbe e alimentò la fede degli uomini, rischiarando le loro notti e riscaldando, attraverso la bufera di ghiaccio e il legame che univa i due giovani, il cuore di Nurthìa. Lentamente, i ghiacciai iniziarono a sciogliersi.
Aisha sapeva che, dall’altra parte del ghiaccio, Kamul stava ricreando la mentalità delle macchine, lavorando e riparando al torto fatto dai suoi avi secoli prima. Il mondo, stretto tra le due forze opposte, si stava ricreando a nuova vita, e quando la nuova alba avrebbe irradiato l’orizzonte, esso avrebbe trovato una nuova stirpe a dargli il benvenuto. Quando sarebbe giunto il momento, lei avrebbe raggiunto il suo amato.
Solear venne ricostruita, la periferia si rianimò di nuova vita. La terrazza, invece, era rimasta intatta, cristallizzata nel tempo come nei loro ricordi, e aspettava solo di poter assistere a loro incontro, una promessa che solcava il tempo e i ghiacci del nord, scongelando laghi e costruendo ponti, in un indissolubile potere che non conosceva demarcazioni né fato avverso. La lama che li univa era eterna, un raggio infinito che perforava spazio e tempo. Aisha ne sentiva la forza crescere nel petto e nelle mani, infiammare i suoi capelli al sole e creare l’immagine di Kamul nei suoi occhi: da quel momento in poi, il mondo poteva anche implodere e collassare, ma niente avrebbe più potuto sradicare la certezza che, al di là della vita e dei suoi oppressori, il loro amore sarebbe andato avanti, correndo e volando nel vento come i soffici fiocchi di neve nel cielo del nord. 


 

N.B.

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