OLTRE IL RECINTO

di revin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vecchie conoscenze ***
Capitolo 2: *** Sotto inchiesta ***
Capitolo 3: *** Ritrovata libertà ***
Capitolo 4: *** Il trio Burrows ***
Capitolo 5: *** Saldare un debito ***
Capitolo 6: *** Bolshoi Booze ***
Capitolo 7: *** Promesse ***
Capitolo 8: *** Colpo su colpo ***
Capitolo 9: *** Come una pedina ***
Capitolo 10: *** Ci sparano addosso... di nuovo ***
Capitolo 11: *** Il video ***
Capitolo 12: *** La confessione di Sara ***
Capitolo 13: *** Salvataggio estremo ***
Capitolo 14: *** Separazione ***
Capitolo 15: *** Questo è un addio? ***



Capitolo 1
*** Vecchie conoscenze ***


Accaparrarsi uno dei giornali per poter leggere in santa pace le notizie del giorno fu il mio primo pensiero appena le porte delle celle vennero aperte l’indomani mattina, dando inizio ad un nuovo giorno a Fox River.

La notizia dell’avvenuta evasione nel penitenziario di Joilet era trapelata presto ai media, tant’ è vero che le 8 foto degli evasi erano state pubblicate a colori e riempivano l’intera prima pagina. 
L’immediata sorpresa arrivò guardando proprio quelle 8 foto. I primi volti che avevano attirato la mia attenzione ovviamente erano stati quelli di Michael e Lincoln, dopodiché avevo scorto indifferente quelli di Sucre, C-Note e Tweener e avevo sospirato delusa nel constatare che anche Bagwell e Abruzzi fossero riusciti nell’impresa, ma all’ultima foto avevo sgranato gli occhi sconvolta.

Mi ero aspettata di riconoscere il volto familiare di Charles in mezzo agli altri e invece mi ero ritrovata davanti gli occhi a palla di Haywire, senza riuscire a capire perché si trovasse lì.
Da quando Haywire era stato accolto nel progetto d’evasione? Non poteva trattarsi di un caso. Michael e gli altri avevano dovuto attraversare il reparto psichiatrico per poter arrivare fino all’infermeria e da quanto ricordavo, Charles Patoshik apparteneva ancora a quel reparto, quindi era possibile che lo schizzato fissato con i tatuaggi avesse seguito il gruppo mentre cercava di raggiungere l’infermeria.
Ero certa che Michael non avrebbe mai accettato di portarlo con sé, a meno che non ne fosse stato costretto. Quello che non riuscivo a capire era che fine avesse fatto Westmoreland. Si era ritirato? Perché non si parlava di lui da nessuna parte? Era possibile -  e molto probabile, data la sua ferita  -  che il vecchio fosse stato catturato durante il tentativo di evasione e che fosse stato portato in isolamento, ma se fosse stato davvero così di lui si sarebbe parlato nei giornali proprio com’era accaduto per Sanche, catturato dalle guardie in cortile proprio mentre cercava di scavalcare il muro.

Non sapevo cosa pensare. Troppi dubbi, troppi punti interrogativi e troppe altre novità di cui preoccuparsi.
La fantomatica evasione non era stata l’unica grande notizia della giornata. Quel giorno, in prima pagina, un’altra sconvolgente notizia aveva scioccato la popolazione americana. Avevo appreso il comunicato in televisione, nel pomeriggio, mentre mi trovavo in sala relax insieme ad altri detenuti che come me si erano lasciati coinvolgere dalla fuga degli 8 uomini diventati improvvisamente i più ricercati d’America. La tv era stata sintonizzata sul solito telegiornale pomeridiano quando la prima notizia d’apertura aveva annunciato l’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti in carica, Caroline Reynolds, in seguito alla morte improvvisa e inaspettata del precedente presidente causata da un attacco di cuore che lo aveva stroncato sul colpo.

In seguito alle nuove circostanze pervenute, la Reynolds aveva preso il suo posto come da regolamento e, in quanto vicepresidente in carica, era stata proclamata 46° presidente americano. Durante il servizio inoltre era stato comunicato che il governatore dell’Illinois, Frank Tancredi, era stato candidato alla vicepresidenza e che risultasse momentaneamente il favorito a ricoprire la nuova e ambiziosa carica.
Sicuramente una notizia che era riuscita a sconvolgere mezzo mondo, oltre che la sottoscritta.
Era stato davvero un bel salto di qualità sia per la Reynold che per il governatore Tancredi, soprattutto considerando che la prima era riuscita a finanziare la sua candidatura alle elezioni con i soldi sporchi del defunto fratello e che fino ad una settimana prima, era stata dichiarata la sfavorita rispetto al suo avversario.

Comunque, nonostante le scottanti novità promulgate dalla stampa e dai media, a Fox River si continuò ancora a lungo a parlare della fuga, a discuterne in giro per i corridoi, a vociferarne in cortile e alimentare il chiacchiericcio a mensa.

A 36 ore dalla fuga, degli 8 evasi non si avevano ancora notizie certe, né tantomeno tracce.
Quella mattina, chiusa nella mia cella come tutti gli altri detenuti in attesa che cominciasse il primo turno di lavoro, avevo deciso di fare il bucato e lavare la mia biancheria quotidiana per stenderla e lasciarla ad asciugare. Stavo sistemando la mia roba su un cordoncino di fortuna, le cui due estremità avevo legato ad una delle sbarre del letto a castello e alle sbarre dell’entrata, quando alle mie spalle sentii una delle guardie ordinare alla postazione di controllo di aprire la cella 93. La mia.
Un secondo dopo, sulla soglia apparvero Stolte e un tipo alto, stempiato, piuttosto robusto e con l’aria da banchiere in giacca e cravatta abbinati. 
  • Signorina Sawyer?  -  esordì lo sconosciuto con accento fermo e autoritario.
  • Si… lei chi è?
  • Sono il sostituto direttore amministrativo di questo carcere. Stiamo svolgendo delle indagini in merito all’evasione di 8 dei nostri detenuti e vorremmo farle qualche domanda.
Inarcai il sopracciglio destro.  -  Sostituto direttore amministrativo? Che fine ha fatto il direttore Pope?
  • Prego, mi segua.  -  tagliò corto l’uomo, facendo strada.
Dietro di lui Stolte aspettò che uscissi, dopodiché mi camminò a fianco fino alla stanza del direttore Pope dove trovai accomodati dietro alla scrivania, un uomo e una donna, entrambi mai visti prima di allora. Mentre venivo invitata ad accomodarmi di fronte a quella che mi parve una commissione d’esame, anche l’uomo stempiato prese posto accanto agli altri due.
Nella stanza, l’agente Patterson vigilò per tutta la durata dell’incontro.
  • Abbandoniamo subito i nomi di copertura e cerchiamo di mettere le carte in tavola signorina Hudson, vuole?  -  iniziò il tizio stempiato senza perdere tempo.  -  Sappiamo che ha utilizzato un’identità fittizia e conosciamo le vicende che l’hanno condotta ad essere detenuta in un carcere maschile. Il direttore Pope si è assunto la piena responsabilità della sua presenza qui dentro, e ci tengo a sottolineare che non è nostra intenzione dare una cattiva immagine di questa struttura, più di quanto non sia già emerso nelle ultime 36 ore grazie alla bravata di quegli 8 delinquenti. Per questo, vorremmo continuare a mantenere segreta la sua presenza a Fox River. 
Annuii soddisfatta. Era quello che volevo anch’io.
  • E’ anche vero però che il compito di quest’assemblea straordinaria si propone di stabilire quali errori siano stati commessi e di inchiodare i colpevoli che hanno permesso a quei detenuti di evadere.  -  Pausa.  -  Signorina Hudson, siamo venuti a conoscenza del fatto che lei trascorresse molto tempo insieme a quegli uomini, in particolare con i due fratelli. Ha mai avuto dei sospetti riguardo alle reali intenzioni del gruppo di evasi?
  • No, neanche per un momento.  -  risposi, senza la minima incertezza.
  • Beh, spero proprio che sia vero e speriamo di poter dimostrare la sua estraneità ai fatti, tuttavia l’FBI ha chiesto di poterla interrogare. E’ per questo che è stata convocata qui.
 Non ero per niente sorpresa. Era ovvio che dopo l’evasione sarei stata una delle prime ad essere interrogata. Non avevo paura.
  • Non ho alcun problema a collaborare. Vi dirò tutto quello che so, però c’è una cosa che non capisco. Perché non è il direttore Pope a occuparsi delle indagini?
  • Dopo essere stato sollevato dal suo incarico, il direttore Pope ha deciso di licenziarsi in sostegno del capitano Bellick che ha seguito la stessa sorte.
Pope e Bellick avevano avuto il benservito? Questa si che era una notizia sconvolgente. Non che mi dispiacesse per quel farabutto di Bellick, ma cacciare via Pope dopo 40 anni di carriera era stato davvero un colpo basso.
  • Posso chiederne il motivo?
Fu la donna bionda seduta al centro questa volta a rispondere.  -  Vede signorina Hudson, lo scopo principale di quest’assemblea, come le diceva il mio collega, è di inchiodare i colpevoli e appurare chi siano i veri responsabili. Ora, è fuor di dubbio che il principale responsabile dell’evasione sia il detenuto Michael Scofield, ma in verità è stata riconosciuta una buona parte di colpa anche al personale interno del penitenziario.  -  Pausa.  -  Era a conoscenza del fatto che il capitano Bellick offrisse appalti di lavoro ai detenuti in cambio di denaro?
 
Possibili ripercussioni per l’odioso Bellick? Ok, potevo rispondere sinceramente.
  • Si, lo sapevamo tutti qui a Fox River.
  • Il capitano ha offerto l’appalto per la ricostruzione del magazzino utilizzato come stanzino delle guardie a John Abruzzi e compagni?
Ulteriori ripercussioni per occhi da lucertola. Bene.
  • Si, lo ha fatto.
  • Torniamo a lei.  -  riprese l’uomo stempiato, guardandomi fisso.  -  Com’è entrata a far parte del gruppo di Scofield e perché il direttore l’ha assegnata ad un lavoro non di sua stretta competenza?
Anche in questo caso mi sembrò innocuo dire la mia personale verità.  -  Perché sono stata io a chiederglielo.  -  spiegai.  -  Ho pregato il direttore di assegnarmi ai lavori di laboratorio perché in questo modo avrei evitato il turno pomeridiano nelle cucine dove alcuni detenuti mi prestavano delle “particolari” attenzioni… Non credo avrete difficoltà ad immaginare di che tipo di attenzioni stia parlando.
  • E perché scelse di farsi assegnare proprio al gruppo di Scofield?
  • Perché per quanto possa sembrare inverosimile da credere, Michael Scofield e Lincoln Burrows sono stati gli unici con i quali io abbia stretto un rapporto di amicizia. Se di amicizia si può parlare.
  • Lei sa che Burrows è stato condannato a morte?  -  continuò, assottigliando gli occhi.
  • Si, certo.
  • Ma lo considerava ugualmente una brava persona… un amico. Considera amichevole l’assassino del fratello dell’attuale Presidente degli Stati Uniti d’America?
La voce baritonale dell’uomo stempiato aveva lo strano effetto di arrivare dritto e diretto fino al midollo.
  • Un uomo accusato di omicidio non perde necessariamente la propria umanità.  -  risposi.
  • Quindi ammette che Pope era solito concedere favori personali ad alcuni detenuti e che Michael Scofield è stato uno di questi detenuti, ottenendo il permesso di accedere a delle aree riservate e trovando quindi il modo per procurarsi la chiave dell’infermeria che gli ha permesso di evadere?
Stavano distorcendo le mie parole per far ricadere la colpa su Pope, il che per me era inaccettabile.
  • No, non ho mai detto questo.
  • Però ha ammesso di aver ottenuto il permesso di cambiare il suo turno di lavoro, e fino a qualche tempo fa lei ha lavorato nella sala mensa insieme ai volontari e dovrebbe sapere molto bene che questo non è un lavoro che può essere assegnato ai detenuti.
  • Questo è vero, però…
  • E’ tutto.  -  troncò l’uomo, distogliendo lo sguardo.  -  Abbiamo concluso con le domande.
Ormai era chiaro. Quegli aguzzini non stavano cercando la verità, ma solo un capro espiatorio.
  • Mi farete trasferire in una struttura femminile?
La bionda seduta dirimpetto si aggiustò gli occhialetti appollaiati al naso e continuò a fissarmi con un’aria di sufficienza.
  • Non credo che ormai abbia importanza.  -  disse.  -  Non vogliamo ritrovarci la stampa addosso a causa di una fuga di notizie. Se ho capito bene, lei sarà fuori da Fox River alla fine di questa settimana. Finirà di scontare la sua condanna in questo carcere fino alla fine e resterà a disposizione della polizia e di questo consiglio amministrativo.
A quelle parole, mi accigliai subito sulla difensiva.  -  Volete farmi altre domande?
  • Non al momento, ma ho il dovere di avvertirla che la sua posizione ad ora non è delle migliori.
  • Mi state incolpando di qualcosa?
  • Gwyneth, Gwyneth, Gwyneth… sembra proprio che tu non sia affatto cambiata. Ti piace ancora lanciare il sasso e nascondere la mano, eh?
Appena udii quella voce alle mie spalle fu come ricevere addosso una cisterna di acqua gelata e per una manciata di secondi non ebbi il coraggio di voltarmi. Presa dalla conversazione, non mi ero accorta che la porta dietro di me fosse stata aperta e che fosse entrato qualcuno.
Non ebbi bisogno di voltarmi per conoscere l’identità del nuovo attore entrato in scena. Avrei riconosciuto quella voce tra mille.
  • Che ci fai tu qui?!  -  sibilai, scattando in piedi come un gatto al quale hanno appena pestato la coda.  -  Che diavolo ci fa lui qui?!  -  continuai con lo stesso tono, questa volta rivolgendomi alla commissione.
Vidi Patterson fare preoccupato un passo in avanti verso di me, ma l’uomo appena entrato gli ordinò di rimettersi al suo posto.
Era tranquillo, rilassato. Avevo di fronte il diavolo.
  • Signorina Hudson, si sieda. -  mi ordinò l’ometto stempiato.  -  Il signor Mahone è un agente dell’FBI e vuole solo farle qualche domanda. 
Non avendo altra scelta, obbedii, ma non risparmiai di mostrare tutto il mio disappunto.
  • Cos’è, il consiglio amministrativo e la polizia locale non bastavano per interrogare questa “pericolosa” ventiquattrenne e hanno mandato a chiamare te?  -  ricominciai, sfoderando un tono sarcastico e pungente per nascondere quanto la presenza di quell’essere in realtà mi mettesse in soggezione.
  • In realtà non sono qui per te Gwyneth, non solo almeno. Non è stato ancora ufficializzato, ma da adesso in avanti sarò io il responsabile delle indagini e della cattura degli 8 di Fox River.
L’inaspettata notizia mi colpì con la stessa forza di una trave di legno piombatami addosso da un grattacielo. Ero stata ufficialmente “spiaccicata”. Non poteva essere vero. Non Mahone, maledizione!
  • Non è un po’ troppo presto perché l’FBI si preoccupi di un gruppetto di detenuti a spasso per l’Illinois?
  • Tra quei detenuti evasi si nascondono uomini che hanno compiuto crimini efferati e il nostro compito è quello di ricatturarli e riportarli indietro.
Sbuffai.  -  Beh, tanti auguri, ma che cosa c’entro io? 
 
L’acidità nella mia voce fu completamente gratuita.
  • Ho saputo che tra i detenuti rimasti, tu sei quella che ha trascorso più tempo insieme agli uomini che sono evasi. Hai lavorato a stretto contatto con loro nel magazzino nel quale è stato ritrovato il grosso buco al centro del pavimento e in molti hanno testimoniato che avessi stretto amicizia con i due fratelli.
  • E allora?
  • E allora voglio farti qualche domanda per assicurare la tua estraneità ai fatti. Potresti persino rivelarti utile per capire dove possano essere diretti quei criminali.
Che spietata falsità! Possibile che in quella stanza fossi l’unica ad accorgersi quanto quell’uomo fosse sprovvisto di buone intenzioni?
  • Spiacente di deluderti.  -  sorrisi sardonica.  -  Non avevo la più pallida idea che Michael e compagnia bella stessero progettando un’evasione. Ho lavorato con loro, è vero, ma solo per poche settimane e per un unico turno al giorno, e per quanto riguarda la direzione che hanno preso, non ne so proprio niente. Scofield e Burrows avranno anche conquistato le mie simpatie, ma non è che trascorressimo il tempo a chiacchierare e intrecciarci i capelli a vicenda… e tanto perché sia chiaro, non ho alcun problema a collaborare con l’FBI e con chiunque altro, ma ti consiglio vivamente di far venire qualche altro tuo collega vestito da damerino perché io non parlo con gli uomini falsi e ipocriti, e ce ne ho uno davanti giusto adesso.
  • Signorina Hudson, contegno!  -  mi riprese uno degli uomini della commissione.
Ancora una volta, il poliziotto che mi stava di fronte intervenì con un cenno della mano per segnalare che fosse tutto a posto, ma senza schiodare neanche un attimo gli occhi diretti e seri dai miei.

Rieccola quell’espressione da “Ho tutto sotto controllo” e “ So esattamente come incastrarti” che ricordavo bene. Me l’ero stampata bene in mente il giorno del processo, mesi prima, e non l’avevo più dimenticata. Era stata la testimonianza di quel maledetto poliziotto che mi aveva descritta come un soggetto disturbato, manipolatore e incapace di distinguere la realtà da semplici costruzioni mentali, a spingere il giudice Lerner a riconoscermi colpevole e a condannarmi a 3 mesi di carcere.
Da quel giorno Alexander Mahone era diventato uno dei nomi sulla mia lista nera, la lista di coloro che avrei distrutto una volta uscita da Fox River. 
  • Gwyneth, non puoi sottrarti all’indagine.  -  riprese Mahone.
Scrollai le spalle, insolente.  -  Allora non ci senti, io non voglio sottrarmi alle indagini, ma non voglio parlare con te. Ci sarà pure qualche altro dannato piedipiatti in giro! Io so che cos’ hai intenzione di fare. Vuoi dimostrare che sono complice dell’evasione.
  • Lo sei?  -  chiese, schioccandomi un’occhiata provocatrice.
  • No, ma tu saresti capace di distorcere ogni mia parola pur di incastrami. Proprio come hai fatto al mio processo, due mesi fa.
Il suo sguardo sicuro non tentennò nemmeno per un istante. Dovevo ammettere che in quell’occasione Mahone stava dimostrando molto più autocontrollo di me.
  • Due mesi fa non ho affatto cercato di incastrarti. Avevi diffamato il vicepresidente con delle accuse pesanti. Eri colpevole e stai continuando a negare le tue responsabilità, proprio come allora.
Incrociai le braccia al petto e voltai la faccia, sdegnata.  -  Può darsi, sta di fatto che non ho nulla da dirti.
  • Gwyneth, non si tratta affatto di uno scherzo. L’evasione di quegli 8 uomini verrà presa da me e dal mio dipartimento in maniera molto seria e ti assicuro che chiunque ne sia stato coinvolto o ne sia in qualche modo responsabile, la pagherà cara. -  Suonava proprio come una minaccia.  -  Ho già avvertito il tuo patrigno. Sarà qui domani mattina.
Tornai a fissarlo, sconcertata.  -  Keith verrà qui?
 
Ecco un’altra catastrofe. Adesso si che ero nei guai. Merda!
  • Già. Ci vediamo domani, Gwyneth.
  • Certo, come no. Tanti cari saluti, Alex.  -  sbottai, voltando faccia e spalle alla porta.
Maledettissimo Mahone. Con lui in giro non c’era da scherzare per nessuno.

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Capitolo 2
*** Sotto inchiesta ***


Dopo essere stata riaccompagnata in cella, la giornata proseguì lenta e mortalmente noiosa, proprio com’era accaduto nella giornata precedente.

L’evasione degli 8 galeotti aveva portato fuori da Fox River un bel po’ di mele marce e reso la mia permanenza in carcere molto più vivibile. Scomparse le molestie di T-Bag e le minacce di Bellick, la vita nel penitenziario era diventata improvvisamente “monotona”.
All’ora di pranzo avevo come al solito raggiunto il mio posto a mensa e afferrato il giornale per aprirlo alla pagina di cronaca, iniziando a leggere incurante dei presenti. In uno degli articoli si faceva riferimento al fatto che l’evasione degli 8 uomini sfuggiti al carcere di massima sicurezza di Joilet avesse sollevato un gran polverone, in particolare perché tra gli evasi spiccava il nome dell’uomo che era stato additato come l’assassino del fratello dell’attuale presidente degli Stati Uniti, assassino che quella stessa settimana sarebbe dovuto salire sulla sedia elettrica. In ragione di ciò, la cattura dei pericolosi 8 era stata affidata all’agente speciale Alexander Mahone, in servizio al Bureau da 14 anni e con alle spalle una decennale esperienza riguardo alla psicologia e alla cattura degli evasi.

Il fatto che il caso fosse stato affidato a Mahone era già di per sé una pessima notizia. Speravo solo che Michael non lo sottovalutasse perché sarebbe stato un grosso sbaglio.
Due mesi prima quando quello strano poliziotto era comparso sulla mia strada, avevo dato per scontato di poter mettere nel sacco lui come avevo già fatto con tutti gli altri, ma avevo commesso l’errore di sottovalutarlo. Non avevo capito quanto quell’uomo potesse essere astuto e attento. C’era qualcosa in lui che mi spaventava. Mahone era in grado di entrare nella psicologia dell’uomo, del criminale in particolare. Non sapevo come ci riuscisse, ma lui riusciva a mettersi nei panni altrui, prevederne in anticipo le mosse. Era un uomo molto pericoloso se schierato dalla parte opposta alla propria. Io lo sapevo bene.

La mattina seguente, come mi era stato preannunciato, venni prelevata dopo colazione e scortata in una stanzetta 3 metri per 6. Dentro, solo un tavolo fissato al muro e qualche sedia.
Sapevo che da un momento all’altro mi sarei vista spuntare quella faccia di bronzo di Mahone e non ero tranquilla. Mai come allora avrei desiderato trovarmi al secondo livello china a strofinare cessi. All’improvviso la mia postazione di lavoro risultava profondamente allettante.
Nell’istante in cui la porta alle mie spalle venne aperta però, sulla soglia non vidi l’odioso poliziotto come mi aspettavo, bensì Patterson tallonato dal mio patrigno, Keith Sawyer.
La guardia ci lasciò immediatamente da soli. 
  • Keith, grazie al cielo!  -  esclamai sollevata.
L’uomo ricambiò il mio saluto a disagio. Era stanco e affaticato dal viaggio, questo era evidente, come d'altronde era evidente quanto fosse seccato all’idea di essere stato richiamato a Fox River prima della mia scarcerazione.
  • Rieccomi nell’Illinois prima del previsto.  -  bofonchiò, evitando volutamente di avvicinarsi e di abbracciarmi come avrebbe fatto in ben altra circostanza.  -  Si può sapere che altro è successo e perché quel dannato poliziotto è ripiombato nelle nostre vite?
  • Non hai letto i giornali? E’ lui che si sta occupando della cattura degli evasi.
  • Ci mancava solo questa.  -  disse, marcando la voce con rabbia.  -  Un’evasione proprio qui a Fox River… e che evasione…
Era proprio arrabbiato.
  • Keith…
  • No, niente Keith! Cristo Santo Gwyneth, manca una settimana alla tua scarcerazione!  - 
L’uomo mi fissò scuotendo il capo con espressione furiosa. Se fossimo stati soli, o meglio, se avessimo avuto la certezza di non essere osservati da qualche telecamera nascosta o diavoleria elettronica simile, Keith avrebbe smesso di trattenersi e mi avrebbe urlato contro.
  • Hai idea del perché Mahone voglia interrogarti?  -  continuò cercando di controllarsi. 
  • Immagino pensi che sia coinvolta nell’evasione e che voglia scoprire se so qualcosa.
Lo vidi assottigliare gli occhi pronto ad aggredirmi.  -  Stai nascondendo delle informazioni relative all’indagine?
  • Noo, assolutamente no!
Se uno sguardo avesse potuto uccidere, il mio sarebbe stato il prossimo cadavere al centro di quella stanzetta polverosa.
All’improvviso, la porta alle nostre spalle venne nuovamente aperta. Io e Keith ci voltammo nello stesso momento verso l’agente speciale Alexander Mahone appena arrivato.
Dal giorno in cui lo avevo conosciuto, non ricordavo di aver mai visto quell’uomo vestito con nient’altro che non fosse un vestito coordinato di tutto punto, lindo e pinto in ogni dettaglio. Nei suoi 42 anni già compiuti, Mahone era senza alcun ombra di dubbio un bell’uomo, di classe. Un viso pulito, affilato come un’accetta e occhi blu marino dallo sconcertante guizzo scherzoso, a tratti addirittura amichevole. Eppure da quell’uomo traspariva una netta contraddizione tra il suo viso e la sua figura che a volte lo faceva sembrare più vecchio di quanto non fosse, non sapevo dire se dipendesse dalla sua professione, dalle esperienze vissute o più semplicemente dall’opinione che avevo. C’era qualcosa di enigmatico in lui, qualcosa di segreto.
  • Buongiorno. Signor Sawyer, grazie di essere accorso come le avevo chiesto, è un piacere rivederla.  -  esordì il poliziotto, sfoggiando modi gentile e affabili e offrendo la mano al mio patrigno a mò di saluto.
Keith non ricambiò il gesto. Aveva ancora un’espressione lapidaria dipinta in volto.  -  Mi comprenderà se non condivido il piacere.  -  Solo lui poteva odiare Mahone più di me.  -  Cerchiamo di arrivare subito al punto, per favore. Perché siamo qui?
 
Il poliziotto indicò le sedie perché prendessimo posto. Né io né Keith ci muovemmo.
  • Come avrà già saputo dai giornali e dalle televisioni, 3 giorni fa da questo carcere sono evasi 8 pericolosi uomini e a me è stato affidato il compito di ricatturarli. Purtroppo, come ci stiamo rendendo conto in questi giorni, l’evasione è riuscita non solo per l’incredibile astuzia e intelligenza del suo ideatore, ma anche per la fiducia mal riposta del direttore Pope, per la disattenzione delle guardie, il coinvolgimento di un membro del personale medico e, come stiamo cercando di accertare, la complicità di qualcuno che ha operato insieme agli evasi dall’interno.
  • La smetta di girarci attorno. Mia figlia è per caso tra i sospettati?
  • Si, lo è.
  • Partendo da quali premesse?
Il federale mi lanciò un’occhiata prima di proseguire.  -  Gwyneth ha fatto parte del gruppo di lavoro inizialmente capitanato da John Abruzzi e poi affidato a Michael Scofield.  -  spiegò, come se la mia colpevolezza potesse trasparire solo da questo dettaglio.  -  Il gruppo fino a poco tempo fa si occupava della ricostruzione di un magazzino andato a fuoco accidentalmente, magazzino nel quale ad insaputa di tutti è stato scavato il passaggio per poter evadere. Sua figlia ha lavorato con il gruppo di Scofield per quasi un mese.
  • E allora?  -  lo incalzò Keith.  -  Gwyneth si è trovata casualmente a dover lavorare con il gruppo che poi è evaso. E’ per questo che la considerate una complice?
  • Errore. La ragazza non si è affatto trovata “casualmente” in quel gruppo. Secondo il direttore Pope, è stata proprio lei a chiedere di farne parte.
Immediatamente Keith si voltò verso di me in cerca di una spiegazione.
  • Devo rispiegarlo per l’ennesima volta?  -  sbuffai, andando a sedermi. Rieccomi sotto processo, impegnata nuovamente a giustificarmi.  -  Si, ho chiesto al direttore di sostituire il turno di lavoro nelle cucine per essere affiancata ai lavori di laboratorio affidati ad Abruzzi, ma avevo un’ottima ragione. Subivo delle molestie belle e buone durante quel turno.
L’espressione eloquente stampata sul viso di Mahone gridava: “E che ti aspettavi?”
  • Non avevo idea di cosa si stesse architettando in quella stanza e non ho avuto alcun sospetto fino a tre giorni fa.  -  continuai.
  • E’ stato scavato un buco nel bel mezzo del pavimento, com’è possibile che tu non abbia visto o sospettato nulla? Eppure per realizzarlo ci saranno volute settimane di lavoro e tu eri in quella stanza con loro.
  • Soltanto per il turno pomeridiano, dalle 15 alle 17. Se chiede in giro, scoprirà che passavo buona parte del turno fuori, accanto alla cisterna. Gli agenti Patterson e Rizzo potranno confermarlo. Inoltre la mattina avevamo turni differenti. Avrebbero avuto tutto il tempo per scavare quel buco senza che sospettassi niente, d'altronde neanche le guardie hanno capito cosa stesse succedendo finché non sono evasi.
Mahone seguì il mio esempio e prese una delle sedie per sistemarsi proprio di fronte a me.
  • Quindi mi stai dicendo che si è trattata di una coincidenza?
  • Sfortunata coincidenza, si.
  • Eppure, a quanto ho saputo, sembra che tu sia diventata molto amica dei due fratelli. Passavi molto tempo insieme a loro. Pope dice che il giorno prima che Burrows finisse sulla sedia elettrica hai chiesto di vederlo, nonostante il regolamento lo vietasse.
  • Non è contro la legge dire addio ad un amico che sta per morire.
  • No, però è contro la legge minacciare il direttore di un penitenziario per convincerlo a sorvolare sul regolamento.
Incassai il colpo senza sapere più cosa rispondere. Immaginavo che Mahone avrebbe adoperato ogni arma in suo possesso per mettermi in cattiva luce, ma sganciare quella bomba in presenza di Keith era stato davvero un colpo basso. Cosa avrei dovuto rispondere?
  • Hai davvero minacciato Henry perché ti permettesse di vedere quel delinquente?  -  mormorò l’uomo ancora in piedi al mio fianco, osservandomi sconvolto.
Nega. Menti. Fingi.
  • Io…  -  Nega. Menti. Fingi.  -  … volevo solo dirgli addio.  -  riuscii a dire invece.
Sapevo che qualunque giustificazione mi fosse uscita dalla bocca, non sarebbe servita a cancellare l’espressione delusa dal viso di Keith.
  • Lincoln è stato l’unico che mi abbia aiutata a sopravvivere qui dentro. -  proseguii sincera.  -  il giorno prima dell’esecuzione che poi è saltata, ho chiesto a Pope il permesso di poter salutare per l’ultima volta il mio amico, ci tenevo tanto, ma lui si è rifiutato…
  • … così l’hai minacciato.  -  mi anticipò Mahone.
  • No, l’ho pregato di riconsiderare la sua decisione.
  • Lo hai minacciato.  -  precisò, tagliando corto.
Mi sentii morire quando Keith distolse lo sguardo, sospirando. Non riuscivo nemmeno a pensare ad un modo per farmi perdonare in quel momento. Questa volta l’avevo combinata proprio grossa.

Mahone proseguì implacabile.  -  Beh, immagino non dovrei sorprendermi. Minacciare il direttore di un penitenziario, farsi rinchiudere nella sezione maschile, fare amicizia con un condannato a morte. Sono tutte cose che ti si addicono. Non mi stupirei affatto se si scoprisse che hai anche aiutato quei detenuti ad evadere.
  • Evitiamo queste insinuazioni signor Mahone, o la prossima volta che vorrà interrogare mia figlia mi presenterò con il nostro avvocato.  -  sbottò minaccioso Keith. 
Il poliziotto accolse la protesta con diplomazia e si concentrò nuovamente su di me.
  • Toglimi una curiosità Gwyneth, tu pensi che il direttore abbia in qualche modo favorito Scofield, oltre te, permettendogli di accedere a delle aree riservate del carcere?
  • No, Pope non lo avrebbe mai fatto.
  • E invece ti sbagli. Michael Scofield ha lavorato per tre ore a settimana ad un progetto personale del direttore. Spesso veniva addirittura lasciato solo nel suo ufficio.
  • E’ per questo che è stato licenziato?
  • Pope è stato disattento, ha sottovalutato l’astuzia di quel ragazzo, si è lasciato manipolare… e non soltanto da Scofield.  -  Quell’ultima frecciatina sembrava preparata appositamente per la sottoscritta.  -  Quel che più importa comunque è che se Scofield ha avuto accesso alla stanza del direttore, è possibile che abbia avuto modo di procurarsi il codice e la chiave dell’infermeria che poi gli hanno permesso di portare a termine il suo piano. Pope però giura di non essere mai stato in possesso né del codice, né della chiave. C’è chi pensa che sia stata la dottoressa Tancredi a lasciare la porta aperta a Scofield e compagni perché potessero evadere. Sembra che la dottoressa avesse una cotta per Scofield. E’ vero?
Feci spallucce.  -  Questo dovrebbe chiederlo alla dottoressa.
  • Lo farò quando Sara Tancredi verrà dimessa dall’ospedale.
La notizia riuscì a catturare la mia piena attenzione.
  • Ospedale?
  • Esattamente. La sera stessa in cui i detenuti hanno scavalcato il muro, la Tancredi è stata ritrovata nel suo appartamento in fin di vita, a causa di una presunta overdose. Probabilmente si è sentita in colpa per aver lasciato la porta aperta al suo innamorato.
Quindi alla fine la dottoressa aveva deciso di aiutare Michael. Lui le aveva raccontato tutto e le aveva chiesto aiuto per suo fratello e lei lo avevo accontentato. Il motivo per cui lo aveva fatto era piuttosto scontato. Sara aveva messo a rischio carriera e reputazione decidendo di lasciare la porta dell’infermeria aperta per il gruppo di evasi. Per quale altro motivo avrebbe dovuto farlo se non perché provava qualcosa per Michael?
  • Adesso come sta?  -  chiesi ancora scossa.
  • Si è ripresa stamattina. Presto verrà interrogata e sapremo com’è andata.
  • Che cosa rischia?... intendo…per quello che ha fatto.
  • Se ha davvero fatto quello che pensiamo, la dottoressa rischia un’accusa di favoreggiamento e concorso in evasione, ma in fin dei conti stiamo parlando della figlia del governatore candidato alla vicepresidenza. Nel peggiore dei casi trascorrerà una notte in cella e sarà costretta a seguire un programma di riabilitazione per tossici.
Più scoprivo nuovi particolari, più mi rendevo conto di quanto la sera dell’evasione avesse segnato una profonda svolta per un bel po’ di gente.
Mi dispiaceva molto per ciò che era successo alla Tancredi. Non mi era mai stata particolarmente simpatica, però mi stavo rendendo conto di avere in comune con lei molto più di quanto volessi ammettere. Entrambe amavamo lo stesso uomo.
  • Non ne sapevo niente, mi dispiace.  -  dissi rattristata.  -  Comunque non credo potrò essere d’aiuto a fare luce sul rapporto che legava la Tancredi a Scofield.
Per un lungo istante vidi Mahone fissarmi divertito, quasi come se fosse arrivato ad una qualche personale conclusione che solo lui aveva intuito.
Rise.  -  Lo devo ammettere Gwyneth, quando penso di aver capito tutto di te tu mi smentisci puntualmente.  -  Si passò una mano sul volto, continuando a sorridere.  -  Ci sei cascata anche tu, non è vero? Ti sei lasciata raggirare da quel detenuto proprio com’è successo alla Tancredi.
  • Che sta insinuando?
  • Che è piuttosto ovvio quello che stai facendo. Tu lo stai proteggendo. Io credo che tu sapessi già dell’evasione. So bene di cosa sai essere capace con quel tuo cervelletto da studentessa di college e so quanto sai essere intuitiva. Hai scoperto che Scofield e compagni stavano progettando di evadere e invece che raccontarlo alle guardie, hai deciso  di utilizzare l’informazione a tuo vantaggio, ma a quanto pare Scofield è stato più furbo di te. Prima è riuscito ad ingannare Sara Tancredi con qualche parolina dolce facendole credere di amarla, poi ha fatto lo stesso con te per assicurarsi il tuo silenzio… e magari il tuo appoggio, è così? Ti sei lasciata fuorviare dalle belle parole di un detenuto, aiutando lui e i suoi amici ad evadere?
  • No, sei completamente fuori strada! 
Ecco perché ero spaventata a morte all’idea che Mahone prendesse parte a quella indagine. Oltre ad aver già avuto a che fare con me, era un uomo incredibilmente perspicace.
  • Non vi rendete conto di cosa avete fatto.  -  continuò imperterrito, alzando la voce.  -  Avete contribuito a rimettere in libertà dei criminali, degli assassini. Ieri un uomo innocente è stato ritrovato morto nel suo studio medico. Si trattava di un medico indiano che ha avuto la sfortuna di imbattersi in Theodore Bagwell. La prima vittima dopo nemmeno 24 ore che era tornato in libertà. Se quel pazzo fosse rimasto a Fox River, quel pover uomo sarebbe tornato sano e salvo dalla sua famiglia.
  • Adesso la smetta!  -  troncò Keith, prendendo le mie difese.  -  Gwyneth non ha nulla a che fare con l’evasione di quegli uomini. Non è responsabile delle vili azioni di quei criminali.
Era vero. Non ero responsabile di ciò che stava accadendo fuori e dei crimini commessi dagli evasi, però in parte Mahone aveva ragione. Era anche grazie al mio contributo che quegli uomini erano fuori. Pur di aiutare Michael e Lincoln avevo permesso che criminali del calibro di Abruzzi e Bagwell tornassero in libertà e quel pensiero mi faceva sentire colpevole.
  • Questo è tutto da dimostrare.  -  rispose tagliente il poliziotto, i suoi occhietti furbi di nuovo su di me.  -  Oggi sarà interrogato nuovamente Manche Sanchez, uno degli uomini che tre giorni fa ha tentato la fuga e l’unico che è stato ricatturato. Sai cosa significa questo?
Scrollai le spalle.  -  Che quel poveretto farà una lunga vacanza riposante in isolamento?  -  provai, accennando del sarcasmo.
  • No, significa che se dovesse saltare fuori il tuo coinvolgimento, le ripercussioni potrebbero non essere così leggere come lo saranno per la figlia del governatore.
Eccolo il caro vecchio Alex, sempre pronto a fare di me il suo capro espiatorio personale. Ero convinta che pur di placare il suo animo tormentato sarebbe arrivato anche a dichiarare di avermi vista con i suoi stessi occhi scavare quel buco. Purtroppo ne era capace.
  • Per l’ultima volta,  -  ricapitolai con convinzione ed evidente fastidio.  -  non avevo idea che quegli 8 stessero progettando di evadere, non so se Scofield e la dottoressa avessero una relazione e non ho mai sentito parlare di questo Sanchez!
  • Hai idea di dove possano essere diretti?
  • No!
  • Scofield e Burrows non hanno mai accennato a qualche luogo che avrebbero voluto raggiungere dopo la prigione?
  • Mai preso questo argomento.
  • Ma insomma, di cosa parlavate durante le vostre interminabili conversazioni in cortile o a mensa?
Ecco quella che in genere definivo una mezza verità.  -  Perlopiù di come arrivare vivi al giorno successivo.
 
Mahone mi lanciò uno sguardo contrariato, ma non aggiunse nient’altro. All’improvviso la porta della stanzetta venne aperta e un uomo in giacca e cravatta con gli occhialini, fermo sulla soglia, fece cenno a Mahone perché uscisse un momento. Doveva trattarsi di un altro agente dell’FBI, probabilmente un subordinato. Il poliziotto uscì dalla stanza come gli era stato chiesto e vi rimase non più di due minuti, dopodiché rientrò nuovamente calmo e pronto all’azione.
  • Signor Sawyer, Gwyneth, abbiamo finito. Purtroppo devo scappare, la caccia agli evasi non lascia tregua.
  • Ci sono delle novità?  -  chiesi senza potermi trattenere.
Sorrise sardonico.  -  Sembra che stasera stesso riavrai una tua vecchia conoscenza qui a Fox River.
Il cuore prese a battermi violentemente nel petto.  -  Chi?
  • John Abruzzi, il capomafia.  -  Avrei tirato un sospiro di sollievo se Mahone non fosse stato presente.  -  Immagino sarai di nuovo interrogata dalla commissione nei prossimi giorni. Per quanto mi riguarda, io qui ho finito. Non penso ci rivedremo.
  • E’ davvero finita?  -  domandò Keith, fissando il poliziotto come se al posto di quella domanda avesse voluto chiedere “continuerà a farci la guerra?
Per un attimo pensai che il federale fosse riuscito a leggergli nel pensiero.
  • Non è di me che deve preoccuparsi, signor Sawyer. Arrivederci.  -  concluse, uscendo definitivamente per dare modo alla guardia, ferma sulla soglia, di riaccompagnarmi.
Non mi furono concessi nemmeno 5 minuti per potermi chiarire con Keith e prima di essere riportata in cella ebbi giusto il tempo di salutarlo con gli occhi, ma in cambio ricevetti un’espressione gelida che mi gelò il cuore.

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Capitolo 3
*** Ritrovata libertà ***


La notizia arrivò nel pomeriggio del giorno dopo e lasciò tutti di sasso.
Eravamo in 17, stretti nello stanzino adibito a sala relax dove le guardie concedevano a noi detenuti solo un’ora al giorno per guardare la televisione e conoscere ciò che accadeva fuori da quelle quattro mura. Alla notizia d’apertura del telegiornale delle 13, un telecronista attempato aveva salutato i telespettatori introducendo l’ultimissima da Washington, appena ricevuta dalle agenzie stampa. In basso, i titoli scorrevano sotto i nostri occhi attoniti: “Boss mafioso ucciso durante un’imboscata. E’ caccia aperta ai 7 rimasti”. Dopo aver introdotto la notizia, il giornalista aveva poi mandato in onda il servizio della conferenza stampa organizzata quella mattina. In primo piano, un Alexander Mahone compito e perfettamente a suo agio di fronte alle telecamere, aveva parlato in tono asciutto alla selva di microfoni, spiegando i fatti.
John Abruzzi, padrino della cosca mafiosa americana più sanguinaria degli ultimi cinquant’ anni, dopo essere evaso 4 giorni prima dal carcere di massima sicurezza di Fox River insieme ad altri 7 uomini, era stato attirato a Washington da un suo affiliato, un uomo che aveva lavorato segretamente con l’FBI per tendere una trappola ad Abruzzi e poterlo ricatturare.
Con notevole ipocrisia e faccia tosta, il mio federale preferitoaveva dichiarato di essere riuscito a circondare il mafioso e avergli intimato di gettare la pistola. L’uomo però si era rifiutato e aveva opposto resistenza, puntando l’arma in suo possesso contro la polizia che, per fermarlo ed evitare incidenti, era stata costretta ad aprire il fuoco per prima. La fine di John Abruzzi era stata segnata da una raffica di ben 33 colpi di pistola.
Dovevo ammetterlo, non avrei mai pensato che il primo a cadere potesse essere proprio lui. Non ero mai riuscita a vederlo sotto una luce diversa che non fosse quella del mafioso, del criminale e dell’assassino e non è che al momento provassi una particolare pena per lui, però mi dispiaceva che avesse fatto quella fine.
Chissà come se la stavano cavando gli altri.
Tutto sommato non ebbi molto modo per pensarci perché quello stesso pomeriggio, subito dopo il turno di lavoro, dovetti recarmi in infermeria per il solito controllo. Visto che la dottoressa Tancredi era ormai stata licenziata ufficialmente dati i recenti accadimenti, al suo posto era subentrato un simpatico dottorino fresco di università che si era dimostrato subito molto amichevole. 
  • Mi sembra che il tuo stato di salute tutto sommato sia buono. Hai ancora quei mal di testa che mi dicevi l’altro giorno?  -  mi chiese, dopo aver rimesso a posto gli strumenti per misurare la pressione. Era un tipo molto preciso e ordinato.
  • Si in effetti, ma non è niente di preoccupante. Piuttosto… ha avuto notizie della Tancredi? Come sta?
  • E’ stata dimessa dall’ospedale e credo si sia ripresa bene. Non potrà tornare a praticare la professione di medico tanto presto, non dopo quello che è successo, ma Sara è una ragazza forte. Se la caverà.
Glielo auguravo anch’io nonostante i nostri trascorsi.
  • Senta dottor Amber, ho una domanda da farle. Vede, è già da qualche giorno che non ho alcuna notizia del mio amico Charles e sono un po’ preoccupata. L’ultima volta che l’ho visto mi è parso affaticato per il solito dolore all’anca, dopodiché non l’ho più visto.
Il dottorino parve confuso.  -  Scusami Gwyneth, ma non ho capito di chi stiamo parlando.
  • Charles. Charles Westmoreland, cella 70, Braccio A. Mi chiedevo se per caso non fosse stato trasferito in ospedale per dei controlli…
  • Stai parlando del vecchio che ha tentato l’evasione insieme agli altri 8 qualche giorno fa?
Finsi spudoratamente il più sincero stupore.  -  No… no… Charles non avrebbe mai…
  • E invece si, il vecchio Westmoreland era insieme al gruppo che ha tentato la fuga. Non sapevo che tu e lui foste amici, mi dispiace dover essere io a dirtelo, ma Charles Westmoreland è stato trovato morto nella stanza dell’infermeria la notte dell’evasione. Era gravemente ferito al fianco. Ha perso molto sangue e quando sono arrivate le guardie lo hanno trovato già morto. Mi dispiace.
Questa volta non ci fu bisogno di fingere. Restai immobile sulla sedia a fissare il dottor Amber per qualche secondo dopo aver appreso la notizia, finché mi resi conto di faticare a respirare e l’uomo fu costretto a soccorrermi con un sacchetto di carta per limitare gli effetti della sincope.
Fu un’esperienza terribile. Terribile non avere più aria nei polmoni, come terribile era il pensiero che Charles avesse fatto quella fine e che io ne venivo a conoscenza soltanto adesso.
Sapevo che era ferito, perché non lo avevo fermato? Perché non lo avevo convinto ad andare in infermeria?
Ma la risposta la conoscevo già. Se Charles fosse andato in infermeria, non ci sarebbe stata nessuna evasione. Il vecchio sarebbe sopravvissuto probabilmente, ma Lincoln sarebbe morto. Se Charles avesse scelto di farsi curare, la dottoressa avrebbe stabilito che si trattava di una ferita che il vecchio non si era potuto procurare accidentalmente. Sarebbe andata a riferirlo al direttore che avrebbe certamente avviato un’indagine interna per scoprire il colpevole. In seguito sarebbero stati effettuati dei controlli accurati, l’assenza di Bellick sarebbe risultata più evidente, presto le guardie si sarebbero accorte che l’auto del capitano era nel parcheggio e che l’uomo avrebbe dovuto trovarsi all’interno del carcere. In un modo o nell’altro Bellick sarebbe stato ritrovato e con lui, il grosso buco al centro della stanzetta delle guardie. Inevitabilmente l’evasione sarebbe saltata e quello stesso venerdì Lincoln sarebbe stato legato alla sedia elettrica.

Quante cose si sarebbero potute evitare se quell’evasione non avesse mai avuto luogo: la morte di Charles, di John, di quel medico indiano, l’overdose della dottoressa, il ritorno di Mahone. Avevo la netta sensazione di aver barattato la vita di Charles per quella di Lincoln. Ma perché? Perché era dovuto capitare proprio a Charles? Era un uomo buono, premuroso, un simpatico vecchietto al quale mi ero affezionata. Lui, più di altri, avrebbe meritato di essere libero.
Quella sera, chiusa nella mia cella  pregai a lungo per Charles, augurandogli di poter vivere finalmente la sua vita da uomo libero, ovunque si trovasse. Ma per la verità pregai soprattutto per i vivi, per Michael che mi mancava terribilmente, per Lincoln che come me era precipitato nel caos della sua vita, incapace di trovare una via d’uscita, e per me che trascorrevo la mia ultima notte in cella e che la mattina seguente sarei tornata a vivere. Certo che a ripensare a come ero finita là dentro, a quello che avevo passato e ai pericoli ai quali ero scampata, c’era da sentirsi davvero sollevati che quella fosse la mia ultima notte di prigionia. Non potevo ancora credere di aver affrontato simili vicissitudini ed esserne sopravvissuta. Da adesso in avanti niente più balordi impegnati a farmi cadere il vassoio dalle mani a mensa, niente più sguardi inferociti o occhiate languide, niente palpatine, sorrisetti maniacali e bisbigli molesti. E sopra ogni cosa, niente più T-Bag. Mai più.
 
Fui prelevata dalla cella 93 alle 10 e 8 minuti esatti della mattina seguente. Gli agenti Patterson e Stolte questa volta risparmiarono le manette per scortarmi verso l’uscita. Mentre lasciavo il Braccio A diretta verso il cortile esterno, non potei fare a meno di dare un’ultima occhiata in giro. Volevo che si imprimesse tutto nella mia mente per ricordare per quale motivo non avrei più dovuto rimettere piede in un posto del genere per il resto della mia esistenza. A quell’ora i detenuti si trovavano fuori dalle celle per i rispettivi turni di lavoro, quindi il Braccio era semivuoto. Prima di raggiungere l’uscita riuscii a lanciare uno sguardo verso il primo piano, un rapido colpo d’occhio verso la cella 40, ma fu solo per un momento. Dopodiché le guardie mi consegnarono i miei effetti personali dentro una busta di carta e i vestiti con i quali ero entrata due mesi prima. Jeans e maglietta erano molto più confortevoli di quell’enorme casacca blu che ero stata costretta ad indossare fino a quel giorno col rischio di perderla per i corridoi di Fox River.
Trovai Keith appoggiato al cofano della sua auto, dopo aver varcato finalmente le fredde e desolate mura del carcere.
Dopo gli accadimenti dell’ultima settimana, avevo temuto che Keith non si presentasse, ma poi lo avevo trovato lì fuori ad attendermi a braccia aperte e all’improvviso i miei polmoni si erano riempiti di gioia, oltre che d’aria pura e del dolce sapore della ritrovata libertà. Ma neanche l’eccitazione di essermi lasciata alle spalle il capitolo Fox River poteva impedirmi di notare ciò che era fin troppo evidente ai miei occhi.
Avevamo da poco lasciato Joilet, quando mi resi conto che Keith non era del suo solito umore. La radio suonava in sottofondo e lui era un po’ troppo silenzioso. 
  • Sarà stato un lungo viaggio dal New Jersey all’Illinois, sarai sicuramente stanco. Vuoi che prenda il tuo posto alla guida?  -  chiesi dopo circa 20 minuti di viaggio in assoluto silenzio.
  • No.  -  fu la sua unica risposta.
  • Come vuoi. Comunque possiamo anche fermarci da qualche parte. Nel caso volessi riposare.
Non rispose. Non era da lui adottare quel comportamento freddo e distaccato, non in una simile occasione. Se riuscivo ad immaginare qualcuno saltare dalla gioia per il mio rilascio, quel qualcuno era proprio Keith. Restai il silenzio ad osservarlo mentre guidava senza staccare gli occhi dalla strada, finché ad un certo punto mi rassegnai e decisi di passare il tempo a girare per le stazioni radiofoniche alla ricerca di musica orecchiabile.
All’improvviso la mia attenzione venne attirata dalla voce di Alexander Mahone in sottofondo. Doveva trattarsi delle ultime dichiarazioni rilasciate dal poliziotto ai media, molto probabilmente una registrazione del giorno precedente.
  • … no, non credo di avere nulla da rimproverarmi per quello che è successo…”  -  Avevo alzato il volume proprio su quelle ultime parole.  -  “… Sono state seguite le normali procedure di routine, ma purtroppo gli incidenti sono all’ordine del giorno e bisogna essere pronti a fronteggiarli. David Apolskis, per quanto fosse poco più che un ventenne, era un pericoloso criminale e un evaso e ha tentato di aggredirmi usando la mia stessa pistola. Sono stato costretto a difendermi.”
  • Che cosa succederà ai sei fuggitivi rimasti a piede libero?”  -  era stata la successiva domanda del giornalista.
  • “Nel momento in cui quegli uomini hanno scavalcato quel muro, hanno compiuto una scelta. Vivi o morti quei criminali verranno riconsegnati alla giustizia.”
L’aggiornamento era stato breve e stringato. Quelle poche parole, da sole, erano riuscite a lasciarmi con lo stomaco sottosopra pur non avendo fatto luce sui fatti.
  • Oh mio Dio… David…  -  mormorai agghiacciata.  -  … Che cos’è successo Keith, tu lo sai?
  • I tg hanno divulgato la notizia ieri sera. Si è trattato di una disgrazia.
  • Ma David… è… morto?  -  Keith annuì silenzioso.  -  Oh cielo… io conoscevo quel ragazzo, aveva solo 20 anni. Com’è successo?
  • Mahone è riuscito a beccarlo nello Utah mentre si trovava in una stazione di servizio a fare il pieno all’auto. La polizia lo ha arrestato, dopodiché il ragazzo è stato affidato a Mahone perché lo riportasse a Fox River.Sembra che durante il viaggio il ragazzino sia riuscito ad impadronirsi della polizia che Mahone portava nella fondina e che l’abbia usata contro di lui. Mahone si è difeso e il ragazzo è morto.
Ero sconvolta.  -  Mahone era solo nell’auto insieme a David?
  • Così ha raccontato.
No, ero decisamente più che sconvolta.  -  E questo sarebbe seguire le normali procedure di routine? No, non posso crederci. Mahone ha freddato un ragazzino di 20 anni. Che intenzioni ha? Catturare gli evasi o farli cadere tutti come birilli?
  • Doveva pur difendersi, quel ragazzino voleva sparargli.
  • Questo secondo la sua versione, immagino.  -  sbottai arrabbiata.
  • Non gli credi?
  • No, assolutamente no.  Non riesco ad immaginare David prendere la pistola di un poliziotto per sparargli, lui non era un assassino… scommetto che non sapeva neanche come usarla una pistola. No… non è giusto. So che quegli uomini sono colpevoli e dovrebbero tornare a Fox River, ma Mahone li sta sterminando e non è giusto.
All’improvviso mi resi conto che l’espressione sul viso del mio patrigno era cambiata. Teneva ancora gli occhi serrati sulla strada, ma gli angoli della bocca adesso erano tesi verso il basso e la sua postura si era di colpo irrigidita.
  • Se quegli uomini fossero rimasti al loro posto, tutto questo non sarebbe successo.  -  iniziò duro, cercando il più possibile di moderare la voce.  -  Quei delinquenti si trovavano dentro per una ragione e, per quanto io non nutra una particolare simpatia per Mahone, apprezzo che si stai impegnando tanto in questa causa.
  • Quel ragazzino al quale quello “stinco di santo” ha sparato senza pietà era stato condannato per uno stupido furto. Non meritava certo di morire per questo.  -  replicai stizzita.
  • No, non lo meritava, però se fosse rimasto al suo posto a scontare la propria pena, adesso sarebbe ancora vivo. Mi dispiace Gwen, ma nella vita si fanno delle scelte e la scelta che è stata fatta da quei ragazzi non può essere giustificata. Tra loro ci sono dei criminali che potrebbero fare del male, quel tale… Bagwell, ha già ucciso una persona e aggredito altre due a distanza di una sola settimana dall’evasione e se… se penso che tu sei in qualche modo coinvolta in tutto questo…io…
Ecco qual era il problema. Non c’entravano gli evasi, il problema ero io. 
  • Adesso siamo soli Keith.  -  Si doveva arrivare a quel chiarimento prima o poi, lo sapevamo entrambi.  -  Almeno che Mahone non abbia fatto impiantare delle cimici nella tua auto o tra le cuciture dei miei vestiti, non credo che qualcun altro possa sentirci, quindi forza e coraggio. Puoi chiedermelo.
L’uomo si voltò un momento per guardarmi negli occhi, prima di tornare a fissare la strada.
  • Purtroppo credo di sapere già la risposta.  -  borbottò.
  • Chiedimelo lo stesso.  -  Non si decideva a parlare.  -  Keith, chiedimelo!
  • D’accordo.  -  Prese un respiro.  -  Hai aiutato quegli 8 detenuti ad evadere?
Aveva quello stesso, inconfondibile tono del padre arrabbiato che scopre il figlio con della marijuana nel cassetto e gli chiede se è sua.
Volevo essere sincera con Keith. Lui non era il mio vero padre, ma avevo imparato a volergli bene come se lo fosse. La verità gliela dovevo.
  • Si, l’ho fatto.  -  risposi senza rimorsi.  -  Ho mentito. Sapevo cosa avevano in mente di fare e li ho aiutati. Mi dispiace Keith. So che sei deluso e arrabbiato, ma resta il fatto che un uomo innocente stava per essere ucciso e io non potevo permetterlo.
Contai esattamente due minuti e mezzo di silenzio prima che una brusca frenata bloccasse all’improvviso l’auto, facendo stridere le gomme contro l’asfalto. Per un pelo la mia faccia non si ritrovò spiaccicata sul parabrezza.
  • Hai davvero aiutato quei tizi ad evadere?!!  -  sbraitò in preda ad una rabbia assassina che mi fece trasalire.  -  Non solo hai scoperto cosa stavano architettando e te ne sei rimasta zitta, ma hai addirittura contribuito a rimetterli in libertà? Non ci posso pensare. Quindi tutto quello che ha detto quel poliziotto è vero… Oddio Gwyneth!!!  -  In pieno sfogo, Keith prese a colpire il volante dell’auto con entrambe le mani. Era a dir poco imbestialito.  -  Non ho mai obiettato nulla sulle tue scelte, non ti ho mai imposto le mie decisioni e ho persino accettato quella stupida idea che venissi ammessa in una sezione maschile di detenuti, e tu mi ripaghi così? Mentendomi per far evadere dei criminali? Cristo Santo, io sono stato un funzionario della legge fino a qualche anno fa, lo sai che sarei obbligato ad avvertire le autorità e denunciarti per favoreggiamento e concorso in evasione?!
Per tutto il tempo rimasi in silenzio, mentre Keith si sfogava, imprecava e continuava a ripetere inesorabilmente le stesse cose. Per dieci minuti o giù di lì non fece altro che prendersela con me. Dopodiché se la prese con se stesso, con gli evasi, con la sfortuna, per poi tornare a prendersela con se stesso per aver acconsentito a parlare con Pope del mio ingresso a Fox River e con me, per essermi lasciata impietosire da Lincoln Burrows. Ogni tanto rispondevo con qualche “Hai ragione” e anche “Si, lo so”, ma per il più del tempo in quello stretto abitacolo si sentirono soltanto le urla e le imprecazioni del mio patrigno tanto che, dopo più di un’ora, eravamo ancora fermi sul ciglio della strada poco fuori da Joilet.
  • Va meglio?  -  chiesi, quando mi resi conto che il silenzio era tornato e che l’uomo accanto a me aveva esaurito le sue corde vocali.
  • Non direi proprio. Dovrei raccontare tutto a tua madre. Se sapesse quello che hai fatto…
  • … mi lascerebbe marcire in una cella desolata per il resto dei miei giorni.  -  lo precedetti.
Keith non si lasciò impietosire.  -  E’ quello che dovrei fare anch’io.  -  bofonchiò, guardando dritto davanti a sé e sforzandosi questa volta di tenere a bada la rabbia.  -  Io ci provo a mettermi nei tuoi panni e lo so, eri spinta da buone intenzioni verso quell’uomo, ma ti sei resa conto che col tuo gesto hai contribuito a rimettere in libertà anche degli assassini?
  • Solo tre di loro, dei quali uno è morto.
  • E vogliamo parlare di quello che hai fatto a Henry? Lui ti ha accolto nel suo carcere perché ero stato io a chiederglielo. Ha cercato di venirti incontro, di concederti delle precauzioni per preservare la tua incolumità e tu in cambio lo hai minacciato.
  • Se può farti sentire meglio posso dirti che Pope non è stato licenziato per avermi permesso di vedere Burrows quella volta.
  • Non è questo il punto! Quell’uomo ha cercato di aiutarti, io ho cercato di aiutarti e che cosa abbiamo ricevuto in cambio? Menzogne e minacce?
  • D’accordo, mi dispiace, ok? Mi dispiace immensamente.  -  sbuffai, incrociando le braccia al petto.
Quel discorso mi era stato ripetuto più che a sufficienza.
  • E poi c’è la questione relativa a Mahone. Per il momento non ha scoperto nulla di concreto sul tuo coinvolgimento nell’evasione, ma il fatto che abbia dei sospetti è preoccupante. Dobbiamo solo sperare che quel dannato federale perda per la strada un po’ della propria perspicacia e che la caccia agli evasi lo tenga occupato per il resto della vita. A proposito, chi sa del tuo coinvolgimento in questa storia? Nel caso qualcuno voglia provare ad incastrarti, dobbiamo tenerci pronti.
Keith aveva ragione. Il fatto che fossi stata attenta a nascondere le mie tracce non significava che fossi fuori da ogni sospetto. Chiunque conoscesse la verità rappresentava un pericolo.

Ci riflettei un momento.  -  Tutti i detenuti coinvolti nell’evasione sanno che ho collaborato e che ero a conoscenza dei fatti. So che cosa stai pensando: pur di assicurarsi un compromesso al posto della prigione, ognuno di loro potrebbe decidere di fare il mio nome. Ma al momento gli unici che mi preoccupano sono Bagwell e C-Note. C’è da sperare che quei due non vengano mai presi perché non ci penserebbero due volte a tirarmi in ballo.
 
Vidi Keith sprofondare sul sedile con un sospiro.  -  Ok, ti viene in mente qualcun altro? Pensaci bene Gwen, è molto importante.
  • Solo Charles Westmoreland e Manche Sanchez. Sono i due uomini che non sono riusciti ad evadere insieme agli altri. Manche è l’unico di cui preoccuparsi, anche se fino ad ora non ha parlato.
  • Beh, non significa che non potrebbe vuotare il sacco in futuro. A tempo debito ce ne occuperemo, per il momento non vale la pena bagnarsi prima che piova. Sarai anche scapestrata, irresponsabile e irriconoscente, ma sei pur sempre mia figlia.
Gli sorrisi grata.  -  Grazie Keith.
 
Dopo un po’ rimise in moto senza aggiungere altro e con una manovra sicura puntò di nuovo verso l’autostrada. 
  • Keith, c’è un’altra cosa che devo dirti.  -  dissi qualche minuto più tardi.
L’uomo, subito prevenuto, mi lanciò un’occhiataccia.  -  Che altro c’è?
  • Tranquillo, le notizie sconvolgenti sono finite. In realtà si tratta del nostro viaggio di ritorno… spero che tu non te la prenda, ma io avrei deciso di non tornare a casa con te… si, vorrei tornare a Los Angeles.
  • E per quale motivo?
  • Devo tornare a vivere la mia vita prima che tutto questo iniziasse, prima di Fox River, del caso delle intercettazioni e tutto il resto. Ho bisogno di tempo, ho bisogno dei miei spazi e di starmene un po’ per conto mio, capisci?  -  Con la testa appoggiata al sedile, fissai il tettuccio dell’auto cercando le parole più giuste da dire.  -  La verità è che ho fatto un errore e solo adesso me ne rendo conto. Non avrei dovuto chiederti di intercedere con Pope per me, non sarei dovuta finire a Fox River. Sono stata una stupida Keith, non avevo idea che sarebbe stata così dura… in quel posto ho vissuto l’inferno…
  • E’ proprio per questo che non puoi restare da sola. E’ stata un’esperienza traumatica, hai bisogno dell’aiuto di qualcuno.
  • No, ho bisogno di ricominciare senza avere intorno persone che mi ricordino dove ho trascorso gli ultimi 2 mesi della mia vita.
  • E devi farlo proprio in California?
Bastò il tono provocatorio a farmi intuire cosa stesse pensando.
  • Perché no?
  • Sicura che questa decisione non abbia qualcosa a che fare con quei delinquenti che ti sei lasciata alle spalle? Se vuoi tornare a Los Angeles per frequentare il college mi sta bene, ma sappiamo che gran parte degli evasi adesso si trova a ovest, perciò se per caso hai intenzione di incontrare qualcuno di loro o ti aspettano da qualche parte convinti di riorganizzare una rimpatriata…
  • Keith, la mia decisione non ha nulla a che fare con quegli uomini, te lo giuro. Ho chiuso con questa storia.
Era una mezza verità, ma per il momento sarebbe andata bene. In realtà, contavo di raggiungere Michael in Messico una volta che le acque si fossero acquietate e la faccenda evasione si fosse sgonfiata un po’, però non avevo mentito sul voler tornare in California per rimettere in sesto la mia vita. Non avevo nessunissima intenzione di rintracciare gli evasi per finire di nuovo nei guai.
  • Mmm…non so se devo crederti.  -  sbuffò.
  • Dico sul serio. Basta evasi, basta Lincoln Burrows, basta cospirazioni governative e vendette personali. Basta tutto. Benvenuta nuova Gwyneth, studentessa modello, ragazza assennata e figlia obbediente.
Keith sollevò un sopracciglio nella mia direzione. Non sembrava molto convinto.
  • Ehi, so che non ti ho dato molti motivi per fidarti, ma questa volta ti sto dicendo la verità.
  • Davvero?
  • Puoi scommetterci.
  • Bene, allora mi assicurerò che tu salga sull’aereo giusto e che possa giungere sana e salva Los Angeles, così potrai cominciare a dare fastidio a qualcun altro.
A quelle parole, sorrisi soddisfatta e gli gettai le braccia al collo per dimostrargli quanto fossi felice che avesse capito e che non se la fosse presa per la mia decisione di non tornare nell’Illinois con lui.
  • Piantala, adesso basta esultare.  -  borbottò, sgusciando dal mio abbraccio.  -  Gentilmente questa volta vedi di non fare danni. Non mettermi nella condizione di decidere se farti interdire o meno, perché ti giuro che la prossima volta che combini un simile casino lo farò.
  • No, non lo farai.  -  ribattei, rimettendomi al mio posto.
  • Si invece.
  • No invece.
  • Lo farò.
  • Non lo farai Keith, mi vuoi troppo bene e te ne voglio anch’io.
  • Ti farò interdire, ci puoi scommettere.
Avevamo fatto pace, questo era l’importante. Non riuscivo quasi a crederci, ma ero finalmente libera e molto felice di esserlo.

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Capitolo 4
*** Il trio Burrows ***


  • Signorina Hudson, sono felice di rivederla. Dov’è stata per tutto questo tempo?
​Sorrisi quando mi sentii rivolgere quella domanda per la quinta volta di seguito quel giorno, poi senza alcun indugio risposi, ripetendo all’uomo seduto di fronte a me le stesse identiche parole che avevo ripetuto le precedenti quattro volte.
  • In vacanza, signore. Sono andata a trovare i miei genitori in Italia.
Nel pomeriggio del giorno prima ero atterrata in California sana e salva, proprio come avevo promesso a Keith. Nonostante la stanchezza del viaggio, avevo fatto un lungo giro per la città degli angeli che tanto mi era mancata e fatto un rapido salto al supermercato, finendo per raggiungere il mio vecchio alloggio e trascorrere il resto della serata a mollo nell’acqua calda, prima di infilarmi sotto le coperte pulite e profumate di un vero letto e concedermi il meritato riposo.
La forza dell’abitudine mi aveva spinta giù dal letto alle 7 del mattino, così dopo un’abbondante colazione a base di caffè nero e pane tostato con formaggio e marmellata di ciliegie, avevo tirato fuori dall’armadio l’unica camicia pulita rimastami, infilato i jeans del giorno prima e recuperato da sotto al letto i miei adorati stivaletti color camoscio per lasciare l’alloggio studentesco e raggiungere direttamente l’ufficio del Rettore William Dwight, dirigente della prestigiosa università della California, conosciuta anche come UCLA. Era lì che studiavo.
  • Devo ammettere signorina Hudson che la sua è stata una scelta molto coraggiosa. Prendersi una lunga vacanza proprio nel bel mezzo del secondo semestre, quando le mancano ancora 9 esami da superare e 12 crediti da compensare entro Settembre… Si rende conto che solo per cercare di rimettersi in pari coi suoi colleghi di corso dovrà lavorare per tutta l’estate?
  • Si Rettore Dwight, me ne rendo perfettamente conto.
Mi faceva sorridere che quell’uomo si chiamasse nello stesso modo di un famoso carcere femminile dell’Illinois. Probabilmente sarei finita proprio lì se non avessi optato per Fox River.
  • Bene, mi fa piacere.
Il Rettore Dwight era un uomo alto, con spalle larghe e profondi occhi verdi e con capelli ancora nerissimi, nonostante fosse vicino alla sessantina. Con quei militareschi modi di fare e quella voce autorevole avrebbe potuto essere un soldato delle milizie o un funzionario delle pompe funebri, tranne quello che veramente era.
Alla UCLA quasi tutti lo consideravano una sorta di figura mitologica, un uomo molto impegnato che non perdeva il suo tempo a passeggiare per i corridoi o a chiacchierare con i colleghi del più o del meno. Alcuni iscritti del primo anno giuravano di non averlo mai incontrato, di non sapere nemmeno come fosse fatto. Io, iscritta al primo anno di college, lo avevo incontrato sistematicamente una volta a settimana durante il periodo precedente alla mia incarcerazione. Ero stata una delle studentesse più privilegiate per via del mio impareggiabile quoziente intellettivo, una delle più impegnate in iniziative e attività promosse dall’istituto e mio malgrado, anche una delle più irrequiete a detta dei miei insegnanti. 
  • Crede di riuscire a superare l’anno entro Settembre signorina Hudson, o ha intenzione di concedersi un’altra lunga vacanza per riprendersi dalle fatiche della prima?
Il tono era volutamente sarcastico, segno che il Rettore non avesse gradito la spiegazione strampalata che avevo deciso di affibbiargli. 
  • Niente più vacanze, stia tranquillo. Mi rimetterò in pari, può starne certo. Ho già prelevato le chiavi del mio appartamento in segreteria per riorganizzare il mio ritorno.
Per regolamento tutti gli studenti in possesso di borse di studio potevano ottenere un posto letto nelle consuete case dello studente o campus gestiti dalle Università. La UCLA offriva ai suoi studenti dei monolocali, ma con l’obbligo di riconsegnare le chiavi qual ora ci si dovesse allontanare da Los Angeles.
L’incontro con il Rettore era andato piuttosto bene, ma adesso che ero fuori da Fox River e non ero più una giornalista munita di tesserino e abilitazione, dovevo trovarmi qualcosa da fare per occupare le mie giornate. Innanzitutto avrei dovuto rimettermi in pari con gli altri studenti prima di rischiare di perdere l’anno e la borsa di studio, e questo significava anche doversi cercare un lavoro. Se non altro mi sarei tenuta occupata e avrei smesso di pensare continuamente alle disavventure del passato e cosa più importante, di pensare a Michael.
Potevo concedermi qualche giorno di riposo, forse una settimana o giù di lì, ma poi avrei dovuto decidermi a mettere la testa a posto e fare sul serio.
Si, grosso modo lo giudicavo un buon piano.
Mentre salivo le scale per raggiungere al secondo piano il mio piccolo appartamento, cominciai ad elencare mentalmente tutta una serie di cose, perlopiù attività, che avrei potuto svolgere per far passare il pomeriggio.
Era strano, a Fox River le giornate erano suddivise per turni di lavoro e ore d’aria. Ad ogni momento del giorno i detenuti sapevano dove dovevano trovarsi e cosa dovevano fare, eppure adesso che non c’erano più orari prestabiliti e guardie che mi obbligassero ad alzarmi dal letto anche se avevo ancora sonno, mi sentivo spaesata, come se avessi perso l’abitudine di vivere senza qualcuno che mi dicesse come fare.
Stavo appunto riflettendo sulla maniera più svelta per perdere quelle rigide e fastidiose abitudini, quando all’improvviso il mio occhio cadde sulla porta socchiusa del mio appartamento e tutti i miei 5 sensi scattarono in modalità pericolo.

Ero l’ultima persona al mondo che avrebbe potuto dimenticare di chiudere a chiave il proprio appartamento, quindi se quella porta era aperta poteva significare solo che qualcuno fosse entrato dopo che io ero uscita.
Con il cuore già pronto ad uscirmi fuori dal petto, spinsi delicatamente la porta in avanti, assicurandomi che all’ingresso non ci fossero estranei pronti ad aggredirmi. Poi, d’impulso, cercai a tentoni l’ombrello che sapevo appoggiato in un angolo dietro la porta. In caso d’emergenza sarebbe stato utile avere un’arma a portata di mano.
Proseguii guardinga, passando in cucina e stringendo l’ombrello – arma davanti a me con entrambe le mani.
Probabilmente avrei fatto meglio a chiamare la polizia, ma ero quasi certa che chiunque fosse entrato avesse già lasciato l’appartamento da tempo. Lì non c’era niente che si potesse rubare, a parte qualche confezione di carne surgelata e di focaccia Panpizza. Il bene più prezioso lì dentro era la caffettiera, modello italiano e poi, perché dei ladri avrebbero dovuto scassinare un alloggio studentesco?
Presi il coraggio a due mani e con un colpo secco, aprii la porta della mia camera da letto brandendo l’ombrello come fosse una spada. Lo sconosciuto se ne stava accanto al mio letto con un berretto in testa ed entrambe le mani aperte davanti a sé. 
  • Calma…  -  disse indietreggiando.
Non avevo idea di chi fosse quel tizio, ma di sicuro non aveva nessun valido motivo per aver forzato la porta del mio appartamento ed essersi nascosto nella mia camera da letto. Non gli avrei concesso un minuto di più perché avesse modo di aggredirmi. Ero appena uscita dall’inferno e non mi sarei lasciata intimorire da un ladro da quattro soldi.
Quando stavo per schiantare la mia arma contro il misterioso sconosciuto però, inaspettatamente venni aggredita alle spalle. Due enormi braccia mi bloccarono testa, braccia e arma in un colpo solo, così che non fossi più in grado di muovermi o gridare. Prima che potessi ribellarmi, la voce a due centimetri dal mio orecchio paralizzò ogni mio proposito di contrattacco.
  • Che cosa credi di fare con quell’ombrello? Allora non ti ho insegnato proprio niente a Fox River.
Sgranai gli occhi e quasi mi venne un colpo quando riconobbi l’uomo dietro di me, dopo avermi liberata.
  • Lincoln??!!
Era proprio lui, stentavo a crederci ma quello era davvero Lincoln Burrows. Accidenti!
Non portava più la casacca da detenuto, e con quei jeans e quella camicia bianca sporca di sangue aveva tutto l’aspetto di un fuggitivo con un gran bisogno di una doccia e magari di un po’ di riposo. Il mio amico galeotto mi stava di fronte e a quanto potevo constatare, non si era preso il disturbo di venirmi a trovare da solo.
  • Ciao Sawyer. E’ bello rivederti.
Bello e strano, in effetti. L’ultima volta che ci eravamo visti era stato prima della sua esecuzione, quando avevo dovuto minacciare Pope perché mi permettesse di vederlo. Da quel giorno ne erano successe di cose.
All’improvviso mi resi conto che non avrebbe dovuto trovarsi lì, non nel mio appartamento, diamine! 
  • Ma che diavolo ci fai qui, Lincoln? Non puoi restare, mezzo paese ti sta cercando. Se ti trovano qui in casa mia sarò nei guai fino al collo.
Quella al momento era la mia preoccupazione primaria, visto che ero appena uscita di prigione e mi ero ripromessa di non tornarci. 
  • Lo so piccola, mi dispiace ma ho bisogno del tuo aiuto.
  • Noo Linc, no, non puoi chiedermelo. Sono fuori da meno di 48 ore e tu ti presenti in casa mia forzandomi la porta? E chi cavolo ti sei portato dietro?  -  continuai, squadrando dalla testa ai piedi l’uomo col berretto e il ragazzino che si era materializzato al suo fianco.
Lincoln non perse tempo e fece subito le presentazioni.  -  Lui è Aldo Burrows, mio padre.  -  disse, indicandomi l’uomo alla sua destra, un sessantenne attempato con un fisico atletico e capelli grigi e bianchi sotto un  berretto dei Lakers.  -  Questo invece è mio figlio L-J.  -  proseguì, passando al ragazzino sulla sinistra, copia sputata del padre sia per tratti somatici che per fisico. Se fosse stato alto come Lincoln, li avrei quasi confusi.
 
Aggrottai la fronte, fissando i tre uomini ancora fermi al centro della mia camera da letto.
“Bel lavoro Gwen, e adesso?"
Non c’era bisogno che fosse Lincoln a dirmi quanto fossero nei guai, lo vedevo da me, ma io non ero la persona giusta per poterli aiutare. Ero un ex galeotta anch’io.
  • Perché avete forzato la porta del mio appartamento?
  • Avevamo bisogno di nasconderci. Io, mio padre e mio figlio siamo in pericolo e non mi riferisco ai poliziotti che vogliono sbattermi di nuovo a Fox River…  -  Lincoln mi parlò con il cuore in mano.  -  Te lo giuro Gwen, non avrei mai e poi mai voluto coinvolgerti di nuovo, ma non sapevo dove andare. Le mie foto sono piazzate in tutti gli alberghi, motel e ostelli dello stato.
  • Uff, lo sai che quando ho trovato la porta aperta ho quasi pensato di chiamare la polizia? Non ti ha insegnato nessuno ad essere un po’ più discreto?
Sorrise.  -  Avevo fretta e comunque sapevo che non avresti chiamato la polizia. Un ex galeotto appena uscito di prigione evita se può di avere subito a che fare con gli sbirri.
  • A-ah, molto saggio, sta di fatto che qui non potete stare. Mahone sospetta di me, crede che sia coinvolta nell’evasione e non è escluso che mi abbia fatta mettere sotto controllo, pensando che qualche stupido evaso potesse contattarmi, quindi non è sicuro per voi restare qui e… a proposito, come mi avete trovata?
  • E’ stato uno scherzo!  -  esclamò il ragazzino, sorridendo soddisfatto.  -  Mio padre mi ha raccontato che prima di essere arrestata, studiavi in quella scuola per geni, la UCLA, quindi in segreteria dovevano per forza conservare un tuo recapito. E’ bastato farsi passare per uno studente, raggiungere l’ufficio segreteria, distrarre una delle segretarie e leggere sul computer l’indirizzo di una delle sue studentesse. Niente di più facile.
  • E tanti saluti alla privacy! 
Dovevo ricordarmi di fare quattro chiacchiere col Rettore per far inserire delle password riguardo ai dati degli studenti in segreteria.
  • Gwen, ti prometto che domattina saremmo fuori da qui. Non voglio crearti problemi.
Quando mi voltai verso Lincoln, sul suo sguardo riconobbi la stessa sincerità che aveva usato a Fox River quando mi aveva raccontato di essere innocente e a quei due occhioni da galeotto implorante non seppi proprio resistere. E poi quella era la famiglia di Michael, dell’uomo che amavo, come potevo voltargli le spalle?
  • D’accordo,  -  sospirai conciliante.  -  potete restare qui fino a domattina, ma solo perché con te ho un debito Linc, e poi…  -  Feci una smorfia e quasi mi sentii una stupida per quello che stavo per dire.  -  … sono davvero felice di rivederti sano e salvo.
Stringere nuovamente quella montagna di muscoli era un vero e proprio sollievo. Se ripensavo a tutte le peripezie che avevamo dovuto affrontare io e Michael per evitare che Lincoln arrivasse alla sedia elettrica, quasi stentavo a credere che adesso mi stesse davanti tutto intero.
  • Grazie… grazie di tutto Sawyer.
Annuii sapendo perfettamente a cosa si stesse riferendo.
Visto che avevo riempito il frigo solo di schifezze precotte che si adeguavano perfettamente al mio stile di vita, decisi di fare una spesa più consistente al supermercato sotto casa per preparare una vera cena, mentre Lincoln e la sua “allegra famigliola” si scrollavano di dosso le fatiche degli ultimi giorni. Pensai inoltre di procurare a tutti e tre dei vestiti puliti che servissero a farli passare meglio inosservati, rispetto alle camicie sudate e sporche di sangue che si erano portati dietro.
Per fortuna Keith mi aveva prestato la sua carta per le emergenze.
Più tardi, a cena, misi sul tavolo un paio di ricette italiane, le uniche che mia madre avesse avuto il coraggio di insegnarmi, e dell’insalata. Non avevo idea di come le avrebbero trovate i miei ospiti, ma sospettavo che dopo una settimana di mordi e fuggi nessuno dei 3 avesse tanta voglia di fare lo schizzinoso. Per fortuna nessuno si lamentò.
Fu una cena piuttosto strana. Abituata com’ero a cenare nella mensa di un penitenziario in compagnia di detenuti e guardie vigili ai quattro lati della stanza, mi sembrava pazzesco di essere tornata al mio appartamento di Los Angeles per cenare insieme ad un condannato a morte in fuga e alla sua famiglia di delinquenti. L’ambiente era cambiato, ma la compagnia era rimasta la stessa.
  • Pensate che qualcuno sospetti che siate in California?  -  chiesi ad un certo punto della cena.
  • No, non credo.  -  rispose Aldo Burrows.  -  Dovevamo dirigerci verso il New Mexico, ma gli uomini della Compagnia sono riusciti a scovarci nel mio rifugio in Arizona e siamo stati costretti a proseguire per la direzione opposta.
  • Ah… scusi, ma di quale compagnia sta parlando?
Il padre di Lincoln si voltò verso il figlio, sconcertato.  -  Avevi detto che lei era a conoscenza dei fatti. Lincoln, lei non sa niente!
  • Gwyneth conosce una parte della storia. Purtroppo non ho avuto modo di raccontarle il resto.  -  si giustificò il mio amico.
  • E non dovresti farlo. Non possiamo coinvolgere nessun altro. E’ troppo pericoloso.
Cominciavo già a non raccapezzarmi più. Fino a quel momento avevo pensato che Lincoln si stesse nascondendo da Mahone e dal resto della polizia e dei federali dello stato che lo stavano inseguendo. Perché adesso Burrows – padre tirava in ballo questa misteriosa “compagnia” del quale sembrava tanto terrorizzato? 
  • Che storia è questa? Linc, vuota il sacco!
  • Gwen, mio padre ha ragione. Se ti racconto quello che so, rischi di venire catapultata anche tu in quest’incubo e non è quello che vorresti.  Lo scopo della Compagnia è quello di eliminare chiunque sappia qualcosa. Loro non sanno niente di te perché a Fox River sei stata registrata sotto falso nome, ma se scoprissero che conosci la verità non esiterebbero a farti fuori.
L’atmosfera si era fatta improvvisamente pesante. Era appena stato innalzato lo stendardo della serietà.
  • Ma di che stai parlando? All’improvviso abbiamo dei segreti?
  • Questa volta non si tratta di aggiudicarsi altri 5 anni sull’attuale condanna, rischi di mettere a repentaglio la vita. Quella gente non scherza, credimi.
  • Beh, allora sono fott…  -  Meglio usare termini meno espliciti, ero pur sempre l’unica donna a quella tavola.  -  … fregata. Suvvia non sono cieca, vedo cosa sta succedendo là fuori: la Reynolds, data per sfavorita alle elezioni, che diventa Presidente, Tancredi sul podio per la nomina a vicepresidente che all’improvviso viene declassato, e il suo assurdo suicidio poi… insomma ditemi che cosa sta succedendo. Ho avuto abbastanza a che fare con questa storia per sapere che non si tratta di coincidenze.
Dopo aver scambiato una lunga occhiata con suo padre, Lincoln si decise a spiegarmi.  -  Si, hai ragione, non si tratta di coincidenze. A quanto pare, esiste una società segreta composta da uomini molto influenti del governo che stanno collaborando per raggiungere un qualche ambizioso scopo criminale e che non si fanno certo scrupoli quando incontrano un ostacolo sul loro cammino. Loro si fanno chiamare la Compagnia.
  • E quale sarebbe questo scopo criminale?
  • Non lo sappiamo, ma non deve trattarsi di niente di buono se per raggiungere il loro obiettivo hanno dovuto incastrarmi per l’omicidio di Steadman.
Concordavo.  -  Ma… chi sono esattamente?
  • Sappiamo che ricoprono le più alte cariche del governo e decidono tutto ciò che succede in questo paese: quali leggi approvare, quali guerre combattere… tutto.  -  proseguì Aldo Burrows.
  • Ditemi la verità, Caroline Reynolds è un affiliato di questa Compagnia, non è così?
  • La Reynolds è solo una piccola pedina nelle mani della Compagnia. E’ grazie a loro che è diventata Presidente, loro la volevano lì e tutta la storia della morte di Steadman era solo un complotto per spingere me ad uscire allo scoperto.
  • Lei?  -  chiesi confusa.  -  Credevo che il vero obiettivo fosse Lincoln.
  • No, è me che vogliono.  -  riprese Burrows – padre, mandando in frantumi le mie certezze.  -  Vedi, in passato io ho lavorato per la Compagnia. Dovetti abbandonare la mia famiglia perché il lavoro che facevo non ammetteva nessun contatto e così me ne andai, lasciando Michael e Lincoln ancora piccoli.
  • E poi cos’è successo?  -  chiesi completamente rapita.
  • Decisi di lasciare la Compagnia. Non approvavo i loro metodi così lasciai l’organizzazione, portando con me tutta la documentazione e le prove compromettenti che li riguardava. Mi unii ad altri che come me avevano lavorato per la Compagnia e avevano deciso di ribellarsi e insieme decidemmo di sabotarla, finché loro non colpirono mio figlio. Evidentemente la Compagnia ha creduto che l’unico modo per potermi stanare fosse prendersela con la mia famiglia. Sapevo che per portare a termine la mia missione avrei dovuto accettare che mio figlio venisse sacrificato, ma io… non ce l’ho fatta.
Provai pena per quell’uomo nell’ascoltare il suo racconto, ma soprattutto ero dispiaciuta per Michael e Lincoln. Avevano avuto un’infanzia difficile e non avevo la più pallida idea di come potessero sentirsi, convinti che il loro padre fosse un uomo crudele e insensibile, per poi scoprire all’improvviso di essere stati così tanto a lungo ingannati.
Lincoln comunque era quello che aveva subìto maggiormente il turbolento passato del padre: accusato di omicidio, condannato a morte, incarcerato e poi braccato come un criminale della peggior specie, e tutto per scontare i peccati di un padre che lo aveva abbandonato da piccolo. Eppure, nell’espressione e nella voce di Aldo si avvertiva chiaramente una nota di disperazione. C’era paura, sconforto e pentimento… soprattutto pentimento.
  • Immagino si sia fatto avanti per aiutare i suoi figli ad uscire da questo pasticcio.  -  ipotizzai ad alta voce.
  • Si, il piano è questo.
  • E’ stato mio padre a far arrivare nell’ufficio del giudice Kessler i fascicoli sulla morte di Steadman.  -  mi informò Lincoln in un tenue tentativo di spezzare una lancia a favore del padre.  -  Grazie a lui la mia esecuzione è stata rimandata e Michael ha ottenuto altre due settimane per mettere a punto il piano e farci evadere.
Si, adesso cominciavo a raccapezzarmi in mezzo a quella selva di news scioccanti.
  • E il New Mexico? Perché siete diretti lì?  -  ripresi.
  • Dobbiamo incontrarci con Michael.  -  rispose il mio amico. Il solo sentir pronunciare il suo nome mi fece provare una tremenda nostalgia.  -  Mio fratello ha organizzato tutto per il nostro viaggio a Panama. In New Mexico c’è un aereo che ci attende. Michael ci aspetta per domani in un posto chiamato Bolshoi Booze… però è possibile che il piano cambi.
  • In che senso?
  • Sembra che esistano delle prove che incastrino la Reynolds e dimostrino la mia innocenza. Io e Michael potremmo tornare ad essere liberi e smettere di scappare.
Alla parola “prove”, drizzai le orecchie e rivolsi a Lincoln la mia completa attenzione. Per fortuna non ci fu bisogno di pregarlo a proseguire con le spiegazioni. 
  • Sembra che esista una prova telefonica.
  • Uno degli agenti del nostro gruppo, un infiltrato della Compagnia, è riuscito ad intercettare e registrare una telefonata tra la Reynolds e Steadman che sembra sia avvenuta due settimane dopo la morte presunta dell’uomo.  -  mi spiegò lentamente Aldo.
  • Significa che Steadman è ancora vivo?  -  domandai quasi soffocando per lo shock.
Aldo Burrows annuì. 
  • E questa registrazione di cui parlate è in mano vostra?  -  continuai.
  • Purtroppo no. Prima che potesse consegnarla a noi, il nostro agente è stato preso. Qualcuno lo stava spiando mentre lui, a sua volta, spiava la Compagnia.
  • Chi lo spiava?
  • Il governatore Tancredi.  -  rispose Lincoln. Quel continuo voltare la testa a destra e a sinistra tra Lincoln e suo padre mi aveva provocato il torcicollo.  -  E’ lui che possiede la registrazione. Sappiamo che Tancredi è stato corrotto perché mantenesse il più stretto accanimento contro la mia causa. E’ per questo che ha declinato qualunque possibilità di concedermi la grazia.
Non potevo credere a quello che stavo sentendo, e non perché non lo trovassi possibile. Tutt’altro. Avevo capito fin dall’inizio che dovesse esserci qualcosa di strano in tutta quella storia, sentivo che i miei sospetti su Tancredi fossero reali e che la sua improvvisa candidatura a vicepresidente non fosse un caso.
Dio, stavano per esplodermi le cervella… e non avevo ancora ascoltato il resto.
  • Qualche settimana fa, Tancredi ha fatto mettere sotto sorveglianza il nostro agente.  -  Burrows – padre aveva ripreso la parola, rieccomi voltata a destra.  -  Quando la Compagnia ha scoperto dell’esistenza di quella registrazione, ha disposto che l’analista venisse arrestato, ma prima di essere portato via l’uomo è riuscito a consegnare il nastro a Tancredi. La Compagnia deve averlo scoperto, per questo Tancredi è morto.
Incredibile che qualcuno fosse riuscito ad inscenare un falso suicidio in casa di un politico super sorvegliato come lo era il governatore di uno stato. Evidentemente le persone dietro quell’inganno colossale erano professionisti del governo, altrimenti quella storia si sarebbe sgonfiata molto prima. 
  • Ma insomma, adesso che Tancredi è morto, chi ha la registrazione?
Era il turno di Burrows – figlio.  -  Beh, vista la caccia serrata che stanno dando a Sara Tancredi, la Compagnia deve sospettare che ce l’abbia lei o che in ogni caso sappia qualcosa.
 
Per poco non mi stirai un muscolo per voltare la testa verso il mio amico e guardarlo.  -  Stiamo parlando della stessa Sara Tancredi? La dottoressa di Fox River?
  • La figlia del governatore Tancredi. Si, proprio lei.  -  rispose, lanciandomi un’occhiata interrogativa che feci finta di ignorare.
  • Gesù… se la Compagnia sta dando la caccia a Sara allora lei adesso potrebbe essere in pericolo.
  • Per questo dobbiamo trovarla. Lei è la chiave di tutto, ecco perché dobbiamo raggiungere al più presto Michael. Non credo che vorrà lasciare gli Stati Uniti quando gli avrò spiegato ogni cosa.
  • Noo, non se ne parla!  -  strillai, strisciando rumorosamente la sedia lontano dal tavolo per alzarmi. 
 

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Capitolo 5
*** Saldare un debito ***


All’improvviso mi era parso di soffocare.
Forse quell’accumulo di informazioni era stato troppo da digerire, forse avevo solo bisogno di tempo per mettere in prospettiva quella nuova, inquietante realtà, ma nel profondo sapevo bene di aver avuto quella stupida e irrazionale reazione per un motivo ben diverso.
Sara.
Non so cosa mi fosse preso, le parole erano uscite fuori senza che me ne accorgessi. A quel punto, le espressioni sbigottite dei tre Burrows mi avevano messa a disagio e spinta alla ritirata. Con una scusa banalissima mi ero diretta nella stanza accanto ed ero uscita fuori al balcone per prendere aria.
  • Va tutto bene?
Era Lincoln alle mie spalle, preoccupato per me come sempre.
  • Definisci bene.
  • E’ normale che tu ti senta disorientata. Anch’io quando mio padre mi ha raccontato tutta la storia stentavo a crederci.
Normale sarebbe stato sentirsi disorientati dopo aver scoperto che il governo più grande e potente del mondo stava progettando una cospirazione di proporzioni mondiali.
Anormale era reagire in quel modo dopo aver sentito pronunciare il nome di Sara.
Maledizione a lei! Era troppo pretendere che quella donna uscisse una buona volta dalla mia vita e soprattutto da quella di Michael?
Comunque non era il caso di dire a Lincoln che l’origine del mio fastidio fosse legato al ritorno della donna.
  • Sai, lo avevo capito fin dall’inizio che si trattava di qualcosa di grosso, ma questo supera di gran lunga le mie aspettative.  -  gli confessai invece.  -  Volevo scoprire la verità e dimostrare di aver avuto ragione contro la Reynolds e adesso scopro che, non solo c’è dentro fino al collo, ma è addirittura coinvolta in una cospirazione. Questa storia è più grande di me. Forse è persino più grande di voi. Sarebbe meglio che prendeste quell’aereo per volare dritti dritti a Panama. Non è solo contro gli uomini della Compagnia che dovrete combattere. Tutta l’America vi sta col fiato sul collo. La polizia è già sulle vostre tracce e poi c’è anche quel dannato Mahone… non avete idea contro chi vi siete messi.
  • Quel poliziotto non mi spaventa.
  • Perché non sai niente di lui!  -  insistetti decisa.  -  Io lo conosco bene. E’ a causa sua che sono finita dentro. Mesi fa venni accusata di diffamazione contro l’allora vicepresidente Caroline Reynolds. Non era nemmeno la prima volta che mi accusavano per lo stesso reato. Sai Linc, io ho sempre amato il giornalismo, ma… non ho sempre scritto articoli “politicamente corretti”. Le notizie gonfiate facevano vendere i giornali e facevano fruttare un bel po’ di soldi, soprattutto se riguardavano personalità illustri. Ho fatto entra ed esci dai tribunali non so quante volte, ma me la sono sempre cavata… fino a due mesi fa. Quando ho scritto sul mio blog le accuse contro la Reynolds non avevo intenzione di gonfiare la notizia, avevo delle prove… beh, avevo dei sospetti e quei sospetti oggi si sono rivelati fondati, ma due mesi fa non sono riuscita a dimostrarlo… e poi è arrivato Mahone. Intervenne al mio processo sbucando fuori dal nulla e convinse il giudice che fossi pericolosa. Mi accusò di distorcere la realtà a mio vantaggio e di aver scelto la Reynolds solo perché si trattava di un personaggio pubblico. Cercai di difendermi, ma Mahone riuscì a smontare ad una ad una le mie spiegazioni e a mettermi in cattiva luce. A causa sua il giudice decise che meritavo una lezione e mi condannò a tre mesi di carcere, fissando una cauzione troppo alta perché io o Keith potessimo permettercela.
  • Non avevo idea che tu e quel federale vi conosceste.
  • Non è solo questo, Linc. Io non mi fido di quell’uomo. Quando si prefigge un obiettivo non si dà pace finché non lo raggiunge e il suo nuovo obiettivo è diventato quello di catturarvi. Non si fermerà davanti a niente. Ho sentito dire che all’epoca in cui esplose il caso di Oscar Shales si accanì così tanto che rischiò quasi di impazzire. Prima di conoscere Michael non avevo mai incontrato un uomo come Mahone. E’ molto attento ai dettagli, è scaltro, intuitivo e… credo sia protetto dall’alto.
  • Che intendi dire?
Feci una pausa per raccogliere i pensieri e cercare di fargli capire.  -  Ho fatto delle ricerche su di lui e ho scoperto che dopo il caso Shales, caso che per altro è rimasto insoluto, Mahone ha visto prendere un’improvvisa impennata alla sua carriera. Voglio dire, per un normale poliziotto dell’FBI ci vogliono anni per arrivare dov’è arrivato lui. Non prendi una promozione dopo l’altra, fino ad occuparti di un caso d’importanza nazionale come quello della cattura degli otto evasi dall’oggi al domani, ti pare?
  • Che cosa stai cercando di dirmi, Sawyer?
Guardai verso l’orizzonte, cercando di scrollarmi di dosso quel senso di stanchezza e oppressione che mi chiudeva il petto.
  • Voglio solo che non sottovaluti Mahone, sarebbe uno sbaglio. La Compagnia non è l’unico nemico di cui dovete preoccuparvi. 
Mi aggrappai alla ringhiera e tirai fuori l’ennesimo sospiro. Eccola di nuovo quella sensazione d’impotenza che avevo provato anche a Fox River. Perché non potevo fare niente per aiutare i miei amici?
  • Non essere in pensiero per Michael.  -  disse all’improvviso Lincoln, addolcendo il tono.  -  Non gli accadrà nulla.
A quelle parole, ruotai la testa verso il mio amico, puntandogli addosso un’espressione interrogativa. Non sapevo quanto fosse informato sui fatti o se Michael gli avesse detto di noi, ma nel sentir pronunciare nuovamente il suo nome il cuore mi si sbriciolò in mano.
  • Sta bene?
  • Si, sta bene. Ci siamo separati due giorni fa a Tooele e da allora non abbiamo più avuto contatti, ma sono sicuro che se la caverà. Così… adesso tu e Michael state insieme?
La domanda, diretta e a bruciapelo, mi fece arrossire.  -  Non lo so… cioè… non è che ne abbiamo proprio parlato, e nella situazione in cui ci troviamo non è facile capire cosa c’è tra noi.
  • Però lui ti piace.  -  Era una constatazione, non una domanda.
Ero ancora rossa di vergogna.  -  Beh si… direi proprio di si.
  • Allora sono felice per voi, dico sul serio, perciò adesso che sei fuori da Fox River cerca di prenderti cura di te. Forse Michael non te lo ha dimostrato, ma ci tiene davvero a te.
  • Ti ha detto qualcosa?
  • Chi, Michael? Noo. Mio fratello non si sbottona facilmente, però a Fox River ho notato il modo in cui ti guardava e dopo l’evasione l’ho visto dare un cazzotto a T-Bag solo per averti nominata con apprezzamenti poco carini. Sarò rimasto chiuso in cella per due anni, ma non sono cieco.
Sorrisi rincuorata.
Nonostante i rischi che stavo correndo dando ospitalità ad un evaso, un ex galeotto appena maggiorenne e un reo confesso, ero contenta di aver ritrovato il mio amico Lincoln. Che volessi accettarlo o meno, Lincoln e Michael ormai facevano parte della mia vita, della mia storia. Forse avevo segnato il mio destino nel momento stesso in cui avevo messo piede a Fox River, ma molto più verosimilmente, avevo segnato da che parte stare nel preciso istante in cui avevo incrociato gli occhi azzurro cielo di Michael Scofield e avevo capito di essermi perdutamente innamorata di lui.
 
Rientrammo poco dopo per tornare dagli altri due Burrows, ma quando raggiungemmo la cucina trovammo la stanza vuota e la tavola sparecchiata. L-J era andato a mettersi sotto la doccia, accettando di buon grado i vestiti puliti che avevo comprato per lui. Burrows – senior si era accomodato in salotto per seguire in tv gli ultimi aggiornamenti sulla caccia agli evasi. Lincoln allora aveva deciso di aiutarmi a riordinare, nonostante fosse palesemente chiaro che stesse per crollare dalla stanchezza. Aveva afferrato uno straccio e cominciato ad asciugare i piatti gocciolanti nel lavello, nonostante lo avessi quasi supplicato di andare a letto.
  • Se penso che fino a qualche tempo fa mi preoccupavo ancora di tenere T-Bag alla larga da te e di non finire sulla sedia elettrica, e guardami adesso: sono a Los Angeles. Non c’ero mai stato a Los Angeles… beh, a dire il vero non mi ero mai spinto più a ovest del Nebraska.
  • Ah, ti ci voleva proprio questa condanna a morte!  -  esclamai sarcastica.
  • Oh si, non vedevo l’ora di fare questa bella gita. Ho sempre amato queste avventure on the road: scappare da una parte all’altra, restare per giorni interi con addosso gli stessi vestiti perché non puoi fermarti da nessuna parte a fare una doccia, ridursi con pochi spiccioli in tasca insufficienti persino per comprare del dentifricio e un dannato spazzolino.
Il tentativo di Lincoln di rimanere sull’ironico fallì miseramente. 
  • Ne avete passate proprio tante, eh?
  • Credimi, non puoi neanche immaginarlo. Prima mi hanno sparato ad una gamba mentre cercavo di tirare fuori mio figlio da quel tribunale di Chicago, poi ho quasi rischiato di saltare in aria quando insieme a Michael abbiamo finto la nostra morte per depistare i federali. Mi sono introdotto nella casa di una brava donna, fingendomi un tecnico della compagnia elettrica, ho pagato un tizio perché picchiasse mio figlio e lo spedisse in ospedale e… -  Si bloccò con un piatto in mano, gli occhi bassi e la voce incrinata dal rimorso.  -  … ho quasi fatto ammazzare L-J in un tentativo di fuga. Gli avevo promesso che non avrei mai fatto lo sbaglio che mio padre fece con me, abbandonarlo, e invece domani dovrò affidarlo a dei perfetti sconosciuti perché se restasse con me rischierebbe la vita.
  • Vuoi dire che L-J non verrà con voi in New Mexico?
  • No. Domani incontreremo degli amici di mio padre in Arizona. Gli affideremo L-J, così forse sarà al sicuro.
Oh povero Lincoln, vederlo così triste mi spezzava il cuore. Era un buon padre, premuroso e attento alla sicurezza del figlio. Potevo solo immaginare quanto potesse costargli quella separazione. 
  • Sono sicura che L-J sa che è per il suo bene. Aspetterà il tuo ritorno perché gliel’hai promesso.  -  dissi, stringendogli un braccio per dimostrargli la mia comprensione.
Sospirò triste, ma dopo le mie parole tornò ad asciugare le stoviglie.
  • E’ tutto diverso rispetto a Fox River… anche tu sei diversa.  -  riprese dopo qualche minuto di silenzio.  -  Stamattina, prima che arrivassi, pensavo di ritrovare la ragazzina pallida e mal nutrita che avevo lasciato a Joilet, la stessa ragazzina spettinata come uno spaventapasseri che camminava per i corridoi, guardandosi le spalle.  -  Gli lanciai addosso la spugna, punta per l’offesa, e lui in tutta risposta se ne uscì con una risata.  -  No, dico sul serio, quasi non ti riconoscevo.
  • Sono sempre io, solo che ho smesso di puzzare di vernici e disinfettante e non porto più quella specie di tendone da circo che continuavano a far passare per una tuta.
  • Si, hai ragione, questa canottiera striminzita ti dona molto di più. Non avrei mai pensato che sotto quella tuta enorme nascondessi una simile… carrozzeria.
  • Lincoln!!!  -  Si stava prendendo gioco di me spudoratamente.  -  Piantala!
  • Spero tanto che Michael se ne accorga presto.
  • Basta!  -  sbuffai imbarazzata, andando a recuperare la spugna.
Rise, ma all’improvviso uno sguardo distante e tormentato gli attraversò il volto.  -  Sawyer, mi dispiace sul serio per tutto questo. Non avrei dovuto ripiombare nella tua vita.
  • Non importa. Te lo dovevo.  -  dissi, scrollando le spalle.
  • Tu non mi devi proprio niente.
  • Si invece, tu mi hai salvata un’infinità di volte a Fox River.
  • E tu hai aiutato Michael a portare a termine l’evasione. Direi che siamo pari.
  • Non saremmo mai pari. Se non fosse stato per te e Michael, non sarei mai uscita viva da quella prigione. Io non potrò mai restituirvi il favore, vorrei davvero fare qualcosa per aiutarvi ma non so come. Non posso fare niente per dimostrare la tua innocenza, non posso sgominare la Compagnia che vi dà la caccia e non posso convincere Mahone a desistere… posso solo preoccuparmi per te e per Michael.
  • Ehi, non le voglio sentire queste cose, chiaro? Se sono fuori e sono vivo è anche grazie al tuo aiuto, e anche Michael la pensa come me. E poi, non dovresti preoccuparti per noi, fin ora tutto sommato ce la siamo cavata.
  • Mmm… fino ad ora ve la siete cavata, ma domani come farete a raggiungere il New Mexico se non siete nemmeno riusciti a proseguire verso sud e avete dovuto prendere la direzione opposta?
Fece spallucce.  -  In qualche modo faremo.
 
Avevo la sensazione che Lincoln stesse sottovalutando il problema. Non ero un’esperta di blocchi e strategie militari, ma al posto del mio amico non sarei stata così ottimista. Raggiungere il New Mexico sarebbe stato tutt’altro che una passeggiata.
  • Hai ragione, in qualche modo farete, ma con il mio aiuto.
  • Cosa?
  • Lincoln, voglio venire con voi domani.  -  dissi, prendendo su due piedi quella decisione.
Un’espressione di ovvia disapprovazione comparve sul suo volto corrucciato.
  • Toglitelo dalla testa. La risposta è no.
  • Perché?
  • E me lo chiedi anche? Se anche volessimo sorvolare sul fatto che stare in nostra compagnia sarà molto pericoloso, stai dimenticando che i federali ci stanno ancora alle costole. Che cosa accadrebbe se ti trovassero con noi?
Presi del tempo prima di rispondere.  -  Non è detto che accadrà.
  • Sawyer, tu non verrai con noi!  -  tagliò corto, prima di gettare il panno sopra il lavello.
Non ero intenzionata a mollare.  -  Avete bisogno del mio aiuto per superare i blocchi dei federali e arrivare in tempo.
  • Vuoi davvero che Mahone scopra che ci stai aiutando e dirami un mandato di cattura anche per te? Ma insomma, la ritrovata libertà ti ha già stancata?
  • Basterà stare attenti. Sei stato tu a dirmi che questo Boshoi Booze è il luogo in cui vi incontrerete con Michael e conoscendo il soggetto, si tratterà certamente di un luogo segreto. Se i federali e gli uomini della Compagnia non sanno dove siamo diretti, non potranno scovarci e se non potranno scovarci, non potranno neanche scoprire che sono coinvolta.
Risultare convincente era ancora una cosa che sapevo fare bene, ma Lincoln era un osso duro.

Lo vidi sospirare seccato.  -  Perché ci tieni tanto a venire?
Non gli mentii.  -  Voglio rivedere Michael.
  • Gli dirò di telefonarti.
  • Non è una buona idea. Le linee telefoniche saranno sicuramente state messe sotto controllo dai federali… e poi non è la stessa cosa. Ormai ho deciso Linc, verrò con voi.
Proprio quando l’uomo stava per replicare l’ennesimo secco rifiuto, suo padre comparve sulla porta, intromettendosi.
  • Oh, Gwyneth viene con noi?
  • No, assolutamente no!  -  ribatté Lincoln irremovibile.
  • Non ascoltarlo, abbiamo già deciso che sarò dei vostri.  -  intervenii testarda.
  • Gwen ragiona, perché pensi che abbia deciso di affidare L-J a degli sconosciuti? Perché so che è pericoloso e non voglio che corra inutili rischi, come non voglio che li corra tu. Se i federali ci scoprissero diventeresti nostra complice e questo, credimi, non è neanche la parte peggiore. Se qualcuno della Compagnia scopre che sei coinvolta, diventerai un bersaglio, proprio come noi.
Anche Lincoln sapeva risultare convincente quando voleva, ma io volevo così disperatamente rivedere Michael che avrei accettato di affrontare federali, soldati e capi di governo anche tutti insieme.
  • Avete bisogno del mio aiuto. Se non siete riusciti a dirigervi verso il New Mexico, significa che Mahone sa che siete diretti lì e avrà già fatto piazzare posti di blocco ad ogni entrata ed uscita e questo che si tratti dell’Arizona, del Colorado, del Texas o dell’Oklahoma.
  • Forse la tua amica ha ragione.  -  s’intromise per la seconda volta l’uomo accanto alla porta.  -  Se non riusciremo a raggiungere Michael in tempo, lui salirà su quell’aereo senza aspettarci.
  • No papà, non permetterò che Gwyneth venga nuovamente coinvolta. L’ho già permesso una volta quando ho accettato che venisse a conoscenza dei nostri piani di evasione e non…
  • Mi sa che hai i ricordi un po’ confusi, amico!  -  ribadii fiscale.  -  Ho scoperto da sola i vostri piani, prima ancora che Michael me ne parlasse, e non sei stato affatto tu a coinvolgermi ma sono stata io ad insistere per far parte dei lavori nella stanzetta delle guardie.
  • Già, ma questa volta non potrai appellarti a Pope, né a nessun altro per farmi cambiare idea.
Sorrisi mordace.  -  Sbagli di nuovo, tesoro. Tuo padre è d’accordo con me e se mi concedi due minuti riesco a convincere anche tuo figlio, così da avere la maggioranza. Fidati, posso farlo. A Fox River ho piegato direttore e guardie con indosso un tendone da circo, immagina cosa riesco a fare con una canottiera aderente.
 
Gli feci l’occhiolino, mentre Lincoln alzava gli occhi al cielo, incapace di replicare. Ad un metro da noi, Aldo si lasciò scappare una risata.
Finalmente la logica dell’argomentazione parve avere effetto. Lo vidi sbuffare stanco e assumere un’aria scontenta, ma alla fine smise di discutere. 
  • Farai tutto quello che ti dirò finché non saremmo arrivati, e dopo aver deciso cosa fare insieme a Michael, salirai sul primo pullman e tornerai qui senza fare storie. E se per la strada incontriamo anche il minimo pericolo, ti abbandono nella prima stazione di servizio che incontriamo e io e mio padre proseguiamo da soli. Prendere o lasciare.
  • Ti prometto che farò la brava… “papà”.  -  scherzai.
Ero al settimo cielo al pensiero che di lì a poco avrei potuto riabbracciare Michael, quasi non stavo più nella pelle. Era un grosso sbaglio e lo sapevo. Avevo giurato a Keith che avrei dimenticato tutta quella storia e che ci avrei dato un taglio con Lincoln Burrows e tutto il suo seguito di problemi, e invece ancora una volta stavo tradendo le sue aspettative. Questa volta però era diverso. Non si trattava di essere avventati e irresponsabili, spinta sulla base di un’ipotesi campata in aria. Se tutta quella storia della cospirazione si fosse rivelata vera, Michael e Lincoln sarebbero tornati ad essere liberi e io avrei ottenuto la mia vendetta contro la Reynolds e Mahone. Avrei riavuto la mia vita prima di Fox River. Magari una vita migliore… una vita insieme a Michael. 

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Capitolo 6
*** Bolshoi Booze ***


La mattina dopo, all’alba, io e i tre Burrows salimmo in auto e partimmo silenziosi, lasciandoci alle spalle l’assolata California.

Fu un viaggio lungo, ma tutto sommato giungemmo in Arizona senza incontrare grossi ostacoli. Lì ci fermammo per la nostra prima tappa.

Come concordato, la collaboratrice di Aldo si presentò all’appuntamento puntuale per prendere con sé L-J con la promessa di tenerlo al sicuro. Non fu un momento facile per Lincoln, né tantomeno per L-J. Ormai avevo imparato a riconoscere gli sguardi afflitti del mio amico e quando gli lessi quell’espressione spenta sul volto al momento dei saluti, mi resi conto di quanto dovesse pesargli quel secondo abbandono. Lincoln voleva bene infinitamente a suo figlio, voleva proteggerlo e per lui avrebbe fatto qualsiasi cosa, persino affidarlo ad una sconosciuta, una bionda sexy di nome Jane che avrebbe potuto garantirgli un futuro.

Quando ripartimmo, l’atmosfera in auto era del tutto cambiata. Lincoln, al mio fianco al posto di guida, continuò a guidare silenzioso finché non superammo i confini dell’Arizona e giungemmo in Colorado. Lì facemmo la nostra seconda sosta per comprare dei panini e riempire la tanica di benzina.
Tornati a bordo, riaprii il mio portatile sulle ginocchia e mi concentrai sulla rassegna stampa delle notizie dell’ultima ora. Potevamo anche superare blocchi stradali e stare attenti perché nessuno riconoscesse Lincoln con noi e ci sguinzagliasse contro i federali, ma per maggiore sicurezza era meglio conoscere le strategie del nemico, e quale miglior modo di spiare il nemico se non attraverso la rete? 
  • Si può sapere cosa stai cercando su quell’aggeggio da ore?  -  esclamò ad un certo punto l’uomo alla guida, forse stupito che fossi riuscita a tenere la bocca chiusa così a lungo.
  • Sto controllando gli spostamenti di Mahone per assicurarmi che non ci si presenti davanti all’improvviso. Sembra che quel fanatico di un poliziotto abbia seguito una traccia che lo ha portato fino in New Mexico, a Gila. Non capisco cosa ci sia andato a fare.  -  risposi pensierosa.
  • Forse ha scoperto i nostri piani.  -  ipotizzò Aldo.
  • Forse ha scoperto del Bolshoi Booze.  -  si accodò Lincoln.
  • Mmm… no, non credo. Qui c’è qualcosa che non mi torna. Linc, non è che non mi fidi di te, ma tu sai esattamente dove si trova questo posto dove dobbiamo incontrare Michael, vero?
  • Certo.
  • Perché sai, ho controllato in rete la mappa del New Mexico e non esiste nessun luogo specifico che risponda al nome di Bolshoi Booze.
  • Lo so.
Odiavo quando si esprimeva in modo così poco esplicito. Quando voleva, Lincoln sapeva essere più stringato di un codice Morse.
 
Aggrottai la fronte.  -  Allora dove diavolo stiamo andando?
  • Il Bolshoi Booze in realtà non è un luogo, per questo non lo trovi sulla mappa. Leggi il nome al rovescio.
Non ero molto convinta, ma feci come diceva. Sullo schermo del mio computer capovolto, osservai attentamente quel nome senza che mi si accendesse nessuna lampadina, ma poi all’improvviso ci arrivai e la soluzione dell’enigma riuscì a lasciarmi di stucco.
  • Oh!
  • Ci sei arrivata?
  • Sono numeri! Il nome Bolshoi Booze letto al contrario dà una sequenza di numeri. Sono coordinate, non è vero?  -  Non attesi la conferma e senza aggiungere altro, digitai subito sulla tastiera le coordinate appena scoperte. La modalità GPS fece il resto, svelando il mistero.  -  Lo sapevo, le coordinate indicano un punto preciso in mezzo al deserto del New Mexico. Quindi è lì che siamo diretti… ma scusa tanto, perché Michael vuole incontrarci proprio in mezzo al deserto?
Lincoln non rispose, continuò a tenere gli occhi fissi sulla strada dritta e arsa dal sole, mentre i miei 180 punti di Q.I. prendevano a remare nella stessa direzione.
Come avevo fatto a non pensarci prima? Lincoln aveva detto che nel New Mexico, oltre al fratello, avrebbe trovato pronto ad attenderlo un aereo che avrebbe permesso loro di superare il confine e arrivare a Panama, ma chi mai avrebbe fatto affari con dei galeotti evasi da appena una settimana e mezzo? La risposta era piuttosto scontata. Conoscendo la sua attenzione per i dettagli e la sicurezza, era impensabile che Michael facesse affari legali col rischio di essere venduto. La sua unica possibilità era di trattare con dei criminali ai quali non sarebbe mai venuto in mente di denunciarli.
  • Dimmi la verità, noi non siamo gli unici che Michael incontrerà in mezzo al deserto del New Mexico, vero?  -  chiesi, conoscendo già la risposta.  -  E scommetto che è molto meglio se non ti chiedo spiegazioni.
  • Brava, l’hai capito.
Qualche chilometro più avanti, incrociammo un posto di blocco, ma superarlo si rivelò piuttosto semplice con il piano da noi ideato. Da quel punto in avanti comunque, Lincoln si decise a cedermi il suo posto alla guida, così risultò un gioco da ragazzi superare indisturbati anche i successivi blocchi federali.
Impiegammo un po’ più del previsto, ma fortunatamente giungemmo a destinazione sani e salvi, senza aver destato sospetti e cosa più importante, senza sbirri alle calcagna.
  • E’ questo il posto.  -  mi informò Lincoln, segnalandomi di accostare accanto al cartello sulla sinistra che riportava la scritta No trepassing.
Feci come mi aveva detto e dopo aver spento l’auto, recuperai le mie cose e scesi guardandomi intorno. Come previsto, lì attorno non c’era nulla se non aridi pianori ondulati e montagne deserte.
  • Voi andate avanti.  -  propose Aldo, prendendo il mio posto alla guida.  -  Trovate il punto esatto segnato dalle coordinate. Io faccio un giro e controllo che non ci siano problemi.
Accordandoci con Burrows – padre perché ci raggiungesse in un secondo momento, io e Lincoln ci incamminammo tra le sterpaglie e l’erba bruciata dal sole alla ricerca di qualche segno di vita.
Erano da poco passate le 4 e il caldo era insopportabile. Dopo qualche minuto di cammino, la maglia leggera mi si era appiccicata addosso come una seconda pelle. Mi auguravo solo che Michael non avesse scelto un posto troppo sperduto per il suo incontro clandestino, perché altrimenti l’afa e l’assenza di vento avrebbero reso ancora più ardua la nostra missione.
  • Scusa la domanda diretta, ma te lo devo proprio chiedere, Linc. Tu sei armato, vero?
L’uomo mi lanciò addosso uno sguardo divertito.  -  Non dirmi che hai paura.
  • Paura? E di cosa? Stiamo solo passeggiando in mezzo al deserto alla ricerca di quel simpaticone del tuo fratellino che non ha trovato di meglio che fare affari con dei balordi. Non c’è niente di cui aver paura. Che può capitarci di male? Che ci si presentino davanti all’improvviso per ritrovarci con una pallottola piantata in fronte a goderci la tintarella in mezzo al deserto del New Mexico?
Lincoln rise del mio sarcasmo.  -  Eri tu ieri quella entusiasta all’idea di venire con noi. Sbaglio o te l’avevo detto che non si sarebbe trattato affatto di una scampagnata?
  • Si, però…
  • Resisti per qualche altro metro. Vedi quella casupola laggiù?  -  All’orizzonte vidi una piccola costruzione in cemento e assi.  -  Deve trattarsi del luogo dell’incontro.
Deglutii in ansia. Da lontano la casupola sembrava proprio un luogo abbandonato e solitario, perfetto per trafficanti e fuggitivi che volevano concludere affari loschi. Da vicino era addirittura più raccapricciante del previsto, aveva tutto l’aspetto di una capanna cadente, col tetto pericolante e i tendaggi al posto di porte e finestre.
All’improvviso, mentre ci avvicinavamo, sentimmo delle voci sul retro. La prima reazione di Lincoln fu di portare la mano alla cinta dei pantaloni dove sospettavo tenesse una pistola, ma quasi subito ci rendemmo conto che le voci che avevamo sentito erano fin troppo familiari.
Una delle due l’avrei riconosciuta fra mille.
Fu allora che comparvero Michael e Fernando Sucre.
  • Bene, vi abbiamo trovati.  -  esclamò Lincoln, raggiungendo il fratello.
Il sollievo apparso sul bellissimo viso di Michael nel ritrovare suo fratello, si trasformò istantaneamente in sorpresa quando riconobbe i miei occhi esitanti, e come me, anche lui si bloccò nel vedermi.
Era strano ritrovarmelo di fronte dopo quello che era successo, dopo l’evasione, eppure era proprio lui, l’uomo che si era portato via un pezzo del mio cuore quasi due settimane prima.
Assaporai tutto di quel momento tanto atteso. Il sole doveva avermi dato alla testa perché avevo la sensazione che Michael fosse molto più sexy di quanto ricordassi: maglietta grigio fumo abbondantemente sudata, pantaloni marroni, berretto in testa e occhiali da sole.
  • Gwen…  -  lo sentii mormorare.
Qualcosa mi diceva che Michael, forse più di me, non sapesse esattamente cosa fare, né tantomeno cosa aspettarsi.
  • … Sei uscita… che ci fai qui? Non saresti dovuta venire.
A quelle parole, non riuscii a fare a meno di provare una fitta di delusione. Michael sembrava arrabbiato. Non era felice di rivedermi? Non avevo fatto altro che pensare a lui notte e giorno da quando c’eravamo separati a Fox River, avevo rischiato di farmi scoprire dai federali per rivederlo e quello era tutto ciò che aveva da dirmi?
  • Mi dispiace… non potevo aspettare che arrivassi a Panama… lo so che non sarei dovuta venire, ma…
Non ebbi il tempo di completare la frase che improvvisamente due braccia mi avvolsero, stringendomi forte e bloccandomi respiro e battito del cuore. Non potevo credere di essere finalmente tra le braccia di Michael.
Dio, come mi era mancato il suo viso, i suoi occhi, il suo sorriso, la sua bocca… ah, come scordare la sua bocca! Stare appiccicata al suo petto era valsa tutta la preoccupazione di quelle settimane e tutto il viaggio fino in New Mexico.
  • Mi sei mancata così tanto, Gwyneth...  -  mormorò baciandomi i capelli, il collo, le labbra, senza permettermi di dirgli quanto infinitamente mi fosse mancato e quanto lo amavo.
  • Hai rischiato un sacco venendo qui, dovevi rimanere al sicuro.  -  continuò, riprendendo fiato.
  • Non voglio rimanere al sicuro, voglio restare con te.
Mi baciò ancora, e ancora. Avrei potuto continuare all’infinito, ma mi ero completamente dimenticata che non fossimo soli. Lincoln e Sucre stavano assistendo al nostro idillio.
  • Ragazzi, vi prego, fa già abbastanza caldo senza dover guardare anche voi.  -  sentii esclamare a Fernando che venne ad abbracciarmi dopo che mi fui staccata da Michael.
Ok, era stato bello, ma ci trovavamo nel bel mezzo del deserto per un motivo. Avremmo dovuto risparmiare le effusioni e l’entusiasmo ad un altro momento.
  • Beh, dove sono i tuoi “amici” messicani?  -  chiese Lincoln, rivolgendosi al fratello.
  • Sono appena andati via.
  • E l’aereo?
  • Partirà tra poco meno di due ore non lontano da qui. E’ tutto pronto.
  • Bene… a proposito, c’è un’altra persona che è venuta con noi.  -  Qualche metro più in là, il motore di un’auto catturò la nostra attenzione, facendoci voltare nella stessa direzione. Aldo scese dalla nostra macchina, calcandosi il berretto in testa e venendo verso di noi.  -  So che non puoi ricordarti di lui Michael, ma quello è nostro padre.
Dalle informazioni che avevo letto, Aldo aveva lasciato la sua famiglia quando Michael era ancora molto piccolo, troppo piccolo per capire cosa stesse accadendo, quindi si poteva dire che quello fosse il suo primo vero incontro con il padre.
Mi sarei aspettata pianti, abbracci, frasi commoventi, magari anche qualche insulto, ma la reazione di Michael a quell’incontro fu totalmente inaspettata.
Sul suo viso era comparsa un’espressione indecifrabile appena aveva capito di chi potesse trattarsi, un misto tra sorpresa, paura e repulsione che non avevo saputo spiegare.
  • Michael, che succede?  -  gli domandai subito preoccupata.  -  Lui è tuo padre.
  • Ci conosciamo già.  -  rispose senza staccare gli occhi dall’ultimo arrivato.
  • Non è possibile, eri troppo piccolo per ricordartene.  -  mormorò Lincoln confuso.
  • Ti dico che ho già visto quest’uomo.
Non lo avevo mai visto così sconvolto. Capivo che fosse spiazzato, ma in realtà non potevo immaginare cosa stesse provando davvero alla vista di suo padre. Avevo letto il suo fascicolo e ascoltato attentamente ciò che lui stesso mi aveva raccontato della sua famiglia, ma c’erano così tante cose che ancora non sapevo. Per esempio, se Michael non aveva mai incontrato suo padre, perché aveva detto di conoscerlo, e perché ne era tanto terrorizzato?
  • E’ vero, io e Michael ci siamo già incontrati.  -  proseguì Aldo.  -  E’ stato molto tempo fa e io…
  • STA LONTANO DA ME!!!  -   gridò il ragazzo al mio fianco quando vide Aldo avanzare verso di lui. Eravamo tutti completamente sgomenti. Non sapevo più cosa pensare.  -  Sei soltanto un assassino!
  • Michael, lascia che ti spieghi…  -  provò Burrows – padre, arrischiando un secondo passo verso il figlio minore.
  • Non c’è niente da spiegare… Ma come hai potuto fare del male ad un altro essere umano?!
  • Non era mia intenzione ucciderlo.
  • Ma l’hai fatto!!!
  • Perché volevo portarti via da quel posto.  -  continuò a difendersi Aldo.
Chissà se ci avrebbero mai spiegato di cosa stavano parlando. Dal loro breve botta e risposta era chiaro che Aldo avesse ucciso qualcuno e che Michael fosse al corrente di quanto accaduto. Forse il ragazzo era rimasto traumatizzato nello scoprire che in realtà suo padre fosse un assassino, ma la sua reazione era stata eccessiva. Doveva esserci dell’altro. Non potevo sopportare di vederlo soffrire in quel modo.
Gli andai incontro, prendendogli la mano perché sentisse che ero lì accanto a lui. In tutta risposta la strinse forte nella sua.
  • Sono rimasto 6 mesi in quel posto. Tu dov’eri?  -  riprese, accusando nuovamente suo padre con rabbia.
  • Non è stato facile trovarti, venivi spostato di continuo.
  • Però poi te ne sei andato di nuovo.
  • Certo, perché tu e Lincoln non potevate rimanere con me. Era troppo pericoloso.
  • Ah già, la Compagnia. Lincoln mi ha raccontato tutto. Hai fatto patire ai tuoi figli un’infanzia da incubo e ci hai abbandonati per seguire la carriera.
Aldo parve sinceramente mortificato.  -  Ho scelto di rimanere nella Compagnia e ho dovuto abbandonarvi perché non veniste coinvolti. Ma poi me ne sono andato. Ho portato con me informazioni che avrebbero potuto distruggere la Compagnia e questo ha fatto di me un bersaglio.
  • POTEVI TORNARE QUANDO VOLEVI!!!  -   gli rinfacciò Michael furioso.
  • No, non potevo perché la Compagnia mi stava cercando, ero diventato una minaccia per loro. E' per questo che se la sono presa con voi, per stanarmi. Adesso però voglio rimettere le cose a posto.
Michael gli voltò le spalle, tremando.  -  Non credo che tu possa farlo, e comunque è tardi.
  • Michael ti prego, ascoltalo.  -  lo supplicai, stringendogli la mano. Capivo perché facesse fatica ad accettare il ritorno di suo padre, ma c’era ancora qualcosa che lui non sapeva.  -  Esistono delle prove.
Non ero riuscita a calmarlo, ma perlomeno adesso avevo la sua piena attenzione.
  • Quali prove?
  • Un video.  -  spiegò Aldo, prendendo al balzo l’occasione.  -  Con questo potremmo smascherare la Compagnia e far scagionare Lincoln da ogni accusa.
  • Non indovinerai mai chi dovrebbe avere quel video.  -  ammiccò Lincoln.
  • Chi?
  • Sara.
Non riuscii a trattenermi dal controllare la reazione di Michael nell’udire quel nome. Era sorpreso, probabilmente come lo sarebbe stato chiunque, ma io ne fui comunque infastidita.
  • Siete sicuri che ce l’abbia lei?
  • Il governo lo crede.
  • Beh, io ho visto Sara due giorni fa. Se ce l’ha lei, non lo sa di sicuro.
Avevo capito bene? Michael e Sara si erano incontrati due giorni prima? Perché?
Dovetti mordermi la lingua per trattenermi dal chiederglielo, la conversazione era troppo seria perché la interrompessi con le mie stupide domande da ragazzina gelosa.
  • Lei dov’è adesso?  -  continuò imperterrito Lincoln.
  • Non lo so.
  • Possiamo rintracciarla?
  • Abbiamo comprato dei telefonini usa e getta a Gila. Ho il suo numero.
Perfetto, di male in peggio!
Altro che mordersi la lingua, avrei dovuto mozzarmela.
  • Ragazzi, spiacente d’interrompervi  -  s’intromise di colpo Sucre, parlando per la prima volta.  -  io ho davvero bisogno di prendere quell’aereo. Non potreste chiamare Sara da Panama?
  • Certo.  -  rispose Michael, adesso visibilmente più calmo.  -  Sarà meglio incamminarsi verso…  -  Non finì di terminare la frase che il ragazzo si bloccò, ruotando gli occhi verso il monticello di terra alla nostra sinistra. Qualcosa evidentemente aveva attirato la sua attenzione.  -  … Avete sentito?
Restammo tutti in attesa di scoprire cosa lo avesse turbato, ma intorno a noi percepii solo silenzio, finché all’improvviso oltre il monticello di terra sentii distintamente un rumore di passi in avvicinamento e terra sdrucciolevole. E non fui l’unica.
Tutti e cinque ci guardammo di rimando, palesemente preoccupati. Di chi poteva trattarsi in quel luogo sperduto? Subito pensai ai balordi messicani coi quali Michael aveva detto di aver fatto affari. Erano stati lì, quindi era molto probabile che fossero tornati. Magari erano in gruppo… magari avevano anche brutte intenzioni… ma la realtà fu di gran lunga peggiore.
Oltre il monticello vedemmo comparire un solo uomo. Se ne stava in giacca e cravatta e occhiali da sole sotto quel caldo rovente e teneva in pugno una pistola.
Bastò la vista di quel singolo individuo a farmi gelare il sangue nelle vene e terrorizzarmi molto più di una carovana di messicani armati fino ai denti.
Per un’interminabile manciata di secondi, provai la terribile sensazione di essere in trappola, sotto tiro, e cosa ben più grave, di essere stata scoperta.
  • Salve ragazzi.  -  esclamò Alexander Mahone, rivolgendo la canna della pistola verso di noi.  -  Ho beccato tutto il gruppo al completo, ma guarda che fortuna. Oggi prenderò un mucchio di piccioni con una fava… NON MUOVETEVI!!!  -  urlò minaccioso.
Non avevo idea di chi avesse avuto il coraggio di muoversi. Non io, di sicuro. Non ricordavo neanche più come si facesse a deglutire.
Alle mie spalle, sentii Lincoln bisbigliare qualcosa verso Sucre o suo padre, ma non riuscii ad afferrare una sola parola.
  • Niente scherzi.  -  Mahone sembrava pronto a premere il grilletto e farci fuori come cani. Se fosse stato costretto, avrebbe sparato, su questo ormai non avevo dubbi.  -  Chissà perché non sono affatto sorpreso che ci sia anche tu Gwyneth, lo sapevo che c’eri dentro fino al collo. Non ho creduto neanche per un momento alla recita del nostro ultimo incontro.
  • Lasciala andare Alex.  -  disse Michael, tirandomi dietro di sé.  -  Tu ed io sappiamo che lei non c’entra niente.
  • Ha fatto una scelta quando ha deciso da che parte schierarsi e aiutarvi, una scelta sbagliata, come quelle che ha sempre fatto.
Lo fissai a occhi spalancati e inconsciamente mi resi conto che non sarebbe finita bene. Era come se sapessi cosa stesse pensando, come se sapessi cosa intendesse fare, perché Mahone non poteva essere arrivato lì per caso. Era impossibile che avesse scoperto il luogo dell’incontro da solo ed era molto, troppo improbabile che fosse arrivato in quel luogo sperduto senza una scorta, armato solo di pistola, per catturarci e consegnarci alla polizia. John Abruzzi e David Apolskis, due evasi di Fox River, erano morti per mano sua. Sarebbe spettata la stessa sorte anche a noi?
All’improvviso, dietro di me qualcuno tirò fuori l’arma e sparò un colpo verso il poliziotto che, per evitarlo, dovette buttarsi a terra.
  • Correte alla macchina, io lo tengo occupato!  -  Era Aldo.
Accadde tutto così velocemente che quasi non me ne resi conto. Sentii una mano afferrarmi il braccio e strattonarmi mentre correvamo a perdifiato, ma non mi preoccupai di capire a chi appartenesse. Nella mia mente, in quel momento, c’era solo il bisogno di raggiungere l’auto e trovare un posto sicuro da quei rimbombanti colpi di pistola che pensavo fossero rivolti verso di noi. La distanza che coprimmo fino alla macchina parve eterna, incolmabile. Mentre correvo, pensavo solo che dovevo coprire quella distanza e poco importava se il cuore fosse esploso nel petto e il sangue mi ronzasse nelle orecchie. Ogni muscolo, ogni tendine era teso, rigido e vibrante per la paura.
Quando tutti e quattro raggiungemmo l’auto credetti di essere salva, ma a pochi metri di distanza da noi stava ancora imperversando la battaglia. Aldo era rimasto indietro per distrarre Mahone e permetterci di giungere alla macchina sani e salvi.
In retromarcia Sucre riuscì a raggiungere Aldo che salì a bordo al volo. I colpi di pistola continuarono ad infrangersi sul mezzo in movimento finché, superato il monticello, fummo ormai troppo lontani perché le pallottole di Mahone ci raggiungessero.
 
Eravamo stati fortunati. Per come si era messa la situazione avevo davvero temuto di finire i miei giorni in mezzo al deserto del New Mexico, invece eravamo riusciti a scappare e lasciarci alle spalle Mahone e la sua pistola. Tutto sommato era andata bene, mi ero detta una volta al sicuro in auto. Mi ero lasciata trasportare  dall’entusiasmo dei ragazzi, ma poi all’improvviso avevo avvertito qualcosa di caldo bagnarmi il fianco e automaticamente i miei occhi si erano abbassati per capire di cosa potesse trattarsi. Solo allora avevo visto il sangue, molto sangue, troppo perché potesse trattarsi del mio e non accorgermene.
  • Oh mio Dio…  -  avevo mormorato con un fil di voce.  -  … Michael, tuo padre è ferito.
Occorse a tutti noi un istante interminabile per reagire, poi un altro occorse per rassegnarci al fatto che non ci fosse più nulla da fare. L’uomo era stato colpito in un punto vitale, stava perdendo troppo sangue mescolato a bile. Sarebbe morto in pochi minuti.

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Capitolo 7
*** Promesse ***


La cosa peggiore in assoluto fu vedere Michael e Lincoln perdere il loro padre per la seconda volta.
Un uomo che fino al giorno prima per me era stato solo uno sconosciuto, mi aveva salvato la vita, salvandola anche a Michael, Lincoln e Sucre. Non avevo avuto molto tempo per conoscerlo, ma avevo intuito che tipo d’uomo fosse. Aldo aveva commesso degli sbagli, soprattutto nei confronti dei suoi figli, ma si era impegnato sul serio per rimediare ed era morto provandoci.
Veder piangere Michael per la morte del padre era stato straziante. Si erano appena ritrovati, giusto il tempo per potersi dire addio per sempre. Era così ingiusto, ingiusto e orribile.
Lincoln e suo fratello decisero di seppellire il padre su un’altura. Mentre i due fratelli si occupavano di scavare la fossa per l’ultimo saluto ad Aldo, io e Sucre rimanemmo in disparte, seduti sul cofano della macchina, per lasciare loro il tempo di piangere in privato il padre da poco ritrovato e troppo prematuramente perso. 
  • E’ così ingiusto.  -  sospirò Fernando accanto a me.
  • Era un brav’uomo. Non meritava questa fine.  -  concordai.
  • Ma come avrà fatto quel maledetto poliziotto a trovarci? Nessuno sapeva di questo posto.
Evidentemente Mahone aveva scoperto il mistero che si celava dietro il nome Bolshoi Booze. Da lui c’era da aspettarselo, anche se…
  • Che cosa farai adesso?  -  continuò il ragazzo, guardandomi preoccupato.
  • Che vuoi dire?
  • Beh, ti ha riconosciuta. Passerai dei guai per questo.
Sucre aveva ragione. Non ci avevo proprio pensato con tutto il trambusto della fuga, della sparatoria e della tragica morte di Aldo, eppure quello era un problema che dovevo cominciare a prendere in considerazione. Adesso che Mahone mi aveva trovata insieme a ben tre evasi, per giunta colta in flagrante, non c’era più nulla che potesse trattenerlo dall’indicarmi come complice.
Avrebbe cercato nuovamente di convincere i giudici che fossi colpevole? Ma certo che l’avrebbe fatto, non aspettava altro. Probabilmente avrebbe anche cercato di accusarmi di favoreggiamento e concorso in evasione, ma per mia fortuna non c’erano ancora prove che dimostrassero il mio coinvolgimento e l’avermi trovata in compagnia di tre ex galeotti non provava affatto che avessi contribuito a farli scappare. Dovevo procurarmi una buona difesa al più presto se volevo contrastare la “minaccia Mahone”, o anche questa volta sarei stata spacciata.
  • Stai rischiando di mettere a repentaglio la libertà per la seconda volta, lo sai? Quando a Fox River dicevi di essere troppo impulsiva credevo che scherzassi. Qui non si tratta di impulsività ma di incoscienza.
Ma sentite da che pulpito!  Ci mancavano solo i rimproveri di uno spiantato senza arte né parte.
  • Scusa tanto, ma tu non sei quello che ha deciso di evadere quando gli mancavano appena 16 mesi da scontare prima della scarcerazione?
  • Avevo le mie ragioni!  -  rispose piccato.  -  La mia donna sta per mettere al mondo il mio bambino e io sto rischiando di perderli entrambi. Io l’ho fatto per amore.
  • E io l’ho fatto per vocazione invece? Secondo te sono venuta nel New Mexico per ammirare le bellezze del luogo?
Fernando sembrò arrivarci solo un momento dopo.  -  No aspetta… lo hai fatto per Michael?
 
Lo fissai accigliata, chiedendomi se una botta di calore non lo avesse fatto rincretinire del tutto.
  • Ma certo! Lo hai fatto per Michael.  -  Sorrise compiaciuto come un ebete. Io sospirai seccata.  -  Però hai rischiato di rimanerci secca.
  • Ma dai, non me ne ero accorta! 
  • Ti sei proprio innamorata del nostro amico, eh? Forte!
  • Oh, ma piantala.  -  sbuffai, colpendolo con una leggera gomitata.  -  Queste ultime due settimane sono state terribili. Non sai che ansia giorno dopo giorno, sapendo che la polizia di mezzo stato vi stava dando la caccia.  Sono proprio senza speranze. L’unico uomo di cui io mi sia mai innamorata è un ex detenuto evaso che dice di amarmi e poi va a Gila ad incontrare un’altra donna.
  • Sara? Noo, Michael non è quel tipo di ragazzo. E’ cotto di te, credimi, io me ne intendo. Ti stai preoccupando per niente.
  • Tu credi? Allora senti questa: il giorno prima dell’evasione, ho beccato Michael e Sara in infermeria che si stavano baciando. Michael dice che non ha significato nulla, ma oggi scopro che due giorni fa lui è andato a Gila ad incontrare Sara. Perché è riuscito a trovare un modo per contattare lei e ha aspettato che fossi io a ritrovare lui?
  • Gwen…
  • Lascia stare.  -  lo interruppi prima di procedere verso un territorio spinoso.  -  Lo sai, non è che non mi fidi di lui, solo non riesco a farmi andare giù questa storia che Sara sia la chiave di tutto e l’unica che possa mettervi fine una volta per tutte. Lei è innamorata di Michael, è così evidente. Gli ha lasciato la porta dell’infermeria aperta perché potesse evadere ed è andata ad incontrarlo a Gila… quindi non dire che mi sto preoccupando per niente.
Non attesi che Sucre replicasse, ma con un salto scesi dal cofano dell’auto e mi diressi verso i miei due amici chini accanto alla sepoltura di fortuna preparata per Aldo.
Michael aveva un’espressione così triste, inconsolabile. Aveva rimesso gli occhiali da sole per nascondere gli occhi rossi e gonfi. A quel punto mi ero avvicinata a lui, poi avevo sentito la sua mano fredda cercare la mia e allora avevo capito quanto in quel momento avesse bisogno di me. Non lo avrei mai più lasciato da solo. Lo avrei protetto dal mondo intero se me lo avesse chiesto. 
  • Mi dispiace tanto per vostro padre, ragazzi… E’ molto triste che sia finita così.  -  dissi.
Michael strinse più forte la mia mano.  -  Non sono riuscito neanche a dirgli quanto gli volessi bene.  -  mormorò con voce rotta.  -  Incredibile come sia stato facile in passato odiarlo, quando avrei solo voluto avere il tempo per conoscerlo. Volevo far parte della sua vita…
  • E lui cominciare a far parte della nostra.  -  completò Lincoln guardando lontano, assorto.
Annuii.  -   Dev’essere stata molto dura per voi crescere senza genitori. Non riesco neanche ad immaginarlo… Dicevi sul serio prima quando hai detto che tuo padre ha ucciso un uomo?

L’espressione di Michael si fece seria e mesta allo stesso tempo, persa in qualche ricordo doloroso che mai avrebbe rimosso. 
  • Avevo 11 anni. Nostra madre era morta da poco e Lincoln era finito in riformatorio, così i servizi sociali mi affidarono a questo… “patrigno”.  -  pronunciò quell’ultima parola con tono disgustato.  -  Lui mi puniva. Mi chiudeva in uno stanzino buio quando non voleva avermi tra i piedi, e quando un giorno provai ad uscire dopo un’intera mattinata rimasto in quello stanzino, lui mi picchiò così forte che persi i sensi.
Mentre ascoltavo in silenzio e ad occhi sgranati il racconto di Michael, cominciai a capire quanto orribile e problematica fosse stata la sua infanzia. Anche Lincoln lo stava ascoltando in silenzio, ma la sua espressione era molto meno esterrefatta della mia. Anche lui doveva averne passate di tutti i colori, ma probabilmente i due fratelli avevano affrontato i problemi in modo diverso. Lincoln, con il suo carattere forte, aveva affrontato di petto la vita e i suoi numerosi precedenti penali lo dimostravano, ma per Michael doveva essere stato più difficile. Lui era mite, sensibile, insicuro. Ora riuscivo a capire meglio il perché del profondo attaccamento sviluppato nei confronti del fratello, lo scopo delle numerose sedute psichiatriche, la sua innata insicurezza, la paura dell’abbandono.
  • Restai in quella casa per 6 mesi,  -  riprese Michael.  -  finché una mattina la porta dello stanzino venne aperta e vidi per la prima volta mio padre. Mi disse che era tutto finito e che era venuto per portarmi via da lì, ma quando misi un piede fuori, vidi il mio patrigno steso a terra in una pozza di sangue, morto. Capii che era stato Aldo a massacrarlo.  -  Fece una pausa per riprendere fiato.  -  Credo di essere rimasto traumatizzato da ciò che ho visto quel giorno e credevo di odiare Aldo per quello che aveva fatto a quell’uomo, ma la verità è che ero contento. Pensavo davvero che quell’uomo meritasse di morire per quello che mi aveva fatto, e così è stato più facile odiare Aldo per avermi fatto scoprire quel lato oscuro di me ed è diventato ancora più facile qualche tempo dopo, quando Lincoln mi ha mostrato una foto di nostro padre. Quella è stata l’ultima volta che l’ho visto… prima di oggi. 
Perché un ragazzo così buono e generoso come Michael aveva dovuto affrontare tante difficoltà nella vita? Lui era un ragazzo onesto, avrebbe meritato una vita migliore, ma il destino sembrava essersi accanito contro quei due fratelli nel modo più ingiusto che potesse esserci.
  • Che cosa facciamo adesso?  -  chiese all’improvviso Lincoln.
Michael scrollò le spalle.  -  Smettiamo di scappare e portiamo a termine ciò che nostro padre ha cominciato.
  • Quindi niente Panama?
Il ragazzo sembrò rifletterci un attimo, ma glielo leggevo negli occhi che aveva già preso la sua decisione.
  • No, niente Panama.
Evidentemente non era ancora arrivato il momento di vivere il nostro amore felice tra le palme e l’acqua limpida delle spiagge messicane. La strada era ancora lunga.
Lincoln lasciò me e Michael da soli dirigendosi verso Sucre, probabilmente per metterlo al corrente della nuova decisione presa. Nello stesso istante Michael mi attirò a sé, strattonandomi per la mano che ancora stringevo forte nella sua. Era di nuovo arrivato il momento dei saluti e nessuno dei due sembrava esserne contento.
  • Dovrei esserci abituata ormai a lasciarti andare per la tua strada.  -  dissi ad occhi bassi.
  • Non posso portarti con me.
  • Lo so, è troppo pericoloso.
  • Già.  -  Mi appoggiò le mani sulle spalle e all’improvviso la sua voce si fece molto seria.  -  Gwen, voglio che torni a casa dalla tua famiglia e che te ne stia al sicuro. Il tuo patrigno in passato non faceva parte delle forze dell’ordine o qualcosa del genere?
  • Si, è stato sceriffo della nostra città per 2 anni.
  • Meglio, sarai al sicuro restando insieme a lui.
Non riuscivo a capire perché Michael fosse tanto preoccupato per la mia incolumità. Era lui l’evaso con i problemi più grossi di questo mondo.
  • Avevo pensato anch’io di tornare da Keith. Adesso Mahone ha le prove che gli servivano per rispedirmi al fresco. Conoscendolo, avrà già allertato il suo dipartimento.
  • No, io non credo. Il suo unico obiettivo siamo noi e non gli interessa affatto prenderci vivi, lui vuole ucciderci.
Restai di sasso.  -  Cosa?
  • Due giorni fa è riuscito a rintracciarmi a Gila e ha tentato di uccidermi. E’ già riuscito nel suo scopo con John e David e adesso vuole fare fuori anche noi e dimostrare di non aver avuto altra scelta.
  • Ma per quale motivo dovrebbe farlo? Credi sia legato alla Compagnia?
  • Non ne sono sicuro, ma se Mahone è davvero in combutta con la Compagnia la nostra unica speranza è trovare Sara, scoprire che cosa le ha dato suo padre prima di morire e fare luce su tutta questa storia una volta per tutte.
All’improvviso quel piano non mi piaceva per niente. Speravo solo che dalla mia espressione non trasparisse troppo quanto il coinvolgimento di quella donna mi disturbasse.
  • Farò come dici tu allora, ma come la mettiamo con la mia famiglia? Non voglio nel modo più assoluto che Keith e Meredith vengano coinvolti.
Michael si fece ancora più serio.   -  Allora sarà meglio che tu li tenga allo scuro di tutto, almeno finché io e Lincoln non avremmo risolto questa faccenda.
 
Lo presi tra le braccia e lo strinsi forte a me, pregando che non gli accadesse nulla.
Odiavo il pensiero di doverlo lasciare andare di nuovo, proprio adesso che lo avevo ritrovato. Odiavo l’idea che rischiasse la vita e che quello potesse essere un addio. Ma sopra ogni cosa, odiavo non poterlo aiutare a combattere quella battaglia.
  • Promettimi che terrai gli occhi aperti.  -  mi sussurrò a due centimetri dalla bocca.
  • Solo se mi prometti che tornerai tutto intero.  -  replicai, premendo forte le mie labbra sulle sue.
Quando si staccò da me, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un foglietto bianco ripiegato e me lo mise in mano. Sopra c’era scritto un numero di cellulare e un indirizzo e-mail.
  • Cardellino.net  -  lessi ad alta voce.  -  Beh, poco male, così quando rischierò di morire d’infarto per la preoccupazione, potrò chiamarti per assicurarmi che siete ancora vivi e chiederti se sei ancora innamorato di me.
  • Mmm… si, è proprio per questo che te l’ho dato.  -  rispose, chiudendomi la bocca con un bacio che avrebbe potuto infuocare persino quel torrido deserto. 

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Capitolo 8
*** Colpo su colpo ***


E così ero di nuovo in partenza.
E dire che mi ero ripromessa di smetterla di spostarmi da un posto all’altro come una nomade, invece ero fuori da Fox River da meno di 72 ore e avevo già attraversato mezza America. Ma infondo, perché mi sorprendevo tanto? Non ero mai stata brava a mantenere le promesse. Per esempio quella fatta a Keith quando gli avevo giurato che in California non avrei incontrato nessuno degli evasi, oppure quando gli avevo assicurato di aver chiuso definitivamente con Michael, Lincoln e tutto ciò che li riguardava. E poi c’era la promessa più importante, quella che avevo fatto a me stessa: non tornare mai più in prigione. Ma neanche quella sarei riuscita a mantenere, perché adesso Mahone sapeva del mio coinvolgimento con 3 degli 8 evasi più ricercati d’America.

Dopo aver salutato Lincoln, Michael e Sucre e aver augurato loro buona fortuna, venni accompagnata alla prima stazione di servizio e lì per fortuna, qualche ora dopo, riuscii a rimediare un passaggio fino in Texas.
Ognuno di noi quel giorno prendeva strade diverse per andare incontro al proprio destino.
Sucre decise di prendere l’aereo e raggiungere il Messico. Era l’unico degli evasi a riuscire a superare il confine. Con tutta la fatica che era costata a Michael quel passaggio, il minimo che poteva desiderare era che non andasse del tutto perduto. Una volta lasciatosi alle spalle gli Stati Uniti, Sucre contava di riconquistare la sua bella chica e vivere felice con lei e col bambino che presto sarebbe arrivato e io gli auguravo dal profondo del cuore di riuscirci.

Al contrario Lincoln e Michael avevano scelto di restare e si erano diretti a nord, alla ricerca di Sara Tancredi e della soluzione al complicato mistero che aveva distrutto le loro vite, mentre io avevo deciso di seguire il consiglio di Michael, avevo raggiunto l’aeroporto di Forth Worth, in Texas, e prenotato un volo di sola andata per il New Jersey per tornare come il figliol prodigo da Keith.

All’uomo prese quasi un colpo quando mi vide presentarmi sulla soglia di casa sua, in pieno pomeriggio inoltrato, senza essere stato nemmeno avvisato.
Indossava la tuta di casa quando venne ad aprirmi la porta e nel vedermi, immediatamente sulla sua fronte apparve un solco profondo. 
  • Dimmi che non ti sei cacciata di nuovo nei guai.
  • No, lo giuro.
Sarei finita all’inferno a furia di raccontare menzogne così ostinate?
Non era da escludere. 
  • Credevo volessi restartene un po’ per conto tuo.
  • Già, ma come vedi sentivo la tua mancanza.  -  dissi spiccia, accomodandomi dentro.
  • E’ successo qualcosa?
Era chiaro che Keith non si aspettasse affatto quell’improvvisa irruzione. Sembrava impreparato, con le braccia conserte e lo sguardo perplesso.
  • Perché, deve per forza succedere qualcosa quando ho voglia di venire a trovarti?
  • Beh, in generale… si.
Durante il volo che mi riportava a casa, avevo pensato seriamente di raccontare al mio patrigno tutta la verità, ma poi una volta atterrata a Newark avevo deciso di non farlo. Michael mi aveva fatto capire che se avessi fatto quella scelta avrei rischiato di mettere in pericolo Keith e Meredith e io non volevo dar loro altri problemi, né tantomeno metterli in pericolo.
  • Sai, ci ho riflettuto a lungo e alla fine ho capito che avevi ragione.  -  continuai imperterrita.
  • A che proposito?
Era il momento di appioppare a Keith la balla apocalittica che mi ero studiata a tavolino durante il viaggio.
  • Non sono pronta. Il college, la competizione, gli esami e poi tutte quelle… palme. Non ricordavo mica che a Los Angeles ci fossero tante palme.
  • E’ comprensibile, sei appena uscita di prigione, hai bisogno di riambientarti a poco a poco. Sono felice che tu abbia deciso di tornare. E’ bello riaverti a casa. Devo solo…  -  Il viso di Keith si rabbuiò per un istante.  -  … beh, poco male.
  • Cosa?
  • Niente di grave, è che qualche settimana fa ho accettato di seguire un caso a Pittsburg e sarei dovuto partire giovedì, ma non fa niente. Chiederò a Perry di occuparsene. Non voglio lasciarti da sola.
  • Non se ne parla nemmeno, tu devi andare!  -  Non potevo credere alla mia fortuna.
  • Ma tu hai bisogno di me.
  • Non morirò mica se resto da sola qualche giorno, ti pare? Non preoccuparti. Và e risolvi il caso, io mi rilasserò un po’ in casa, mangiando schifezze davanti alla tv in attesa del tuo ritorno.
L’uomo sembrava in difficoltà.  -  Sei sicura? Può essere che io stia via anche due, tre giorni.
  • Starò benissimo, fidati. Mi riposerò, organizzerò festini e darò fondo al nostro minibar.
Mi lanciò una smorfia.  -  Ma noi non ce l’abbiamo un minibar.
  • Ah no? Allora dovremmo deciderci a comprarlo.
Ero felice di essere riuscita a tranquillizzare Keith e convincerlo a partire. Se non altro, quando i federali sarebbero venuti a prelevarmi per riportarmi in carcere, lui non sarebbe stato lì ad assistere.
Da tempo ormai ero certa che non sarei mai riuscita a farmi perdonare per tutte le bugie che gli avevo raccontato. Prima o poi, Keith si sarebbe reso conto di aver fatto uno sbaglio a prendersi in casa una piantagrane come me. Era solo questione di tempo.
 
Ero a cena con Keith e avevo appena finito di apparecchiare la tavola e posare il cestino del pane quando il tg della sera diede la sconcertante notizia riguardante gli evasi. Le due facce di Michael e Lincoln, le stesse che da ormai due settimane tappezzavano le prime pagine dei giornali, gli angoli delle strade e le entrate di ogni negozio, riempirono lo schermo della nostra cucina.

“ I due principali evasi, Michael Scofield e Lincoln Burrows sono riusciti nuovamente ad eludere la sorveglianza e sfuggire alla polizia incaricata di trasferire i due pericolosi criminali dal carcere di Las Cruces, dove i due fratelli erano stati consegnati la notte prima grazie all’intervento della polizia di frontiera e dell’agente federale Alexander Mahone…”
 
Facendo quasi volare il cestino del pane, avevo afferrato il telecomando per alzare il volume. La cronista aveva continuato a leggere la notizia, mentre sullo schermo le foto di Lincoln e Michael venivano sostituite dalle riprese video del momento in cui i due fratelli lasciavano il carcere di Las Cruces a bordo di un furgone della polizia.
 
“Secondo alcune indiscrezioni, sembra che la fuga sia avvenuta durante una sosta del furgone cellulare sul quale i due detenuti si trovavano per essere riportati nel carcere di massima sicurezza di Joilet, nell’Illinois, dal quale due settimane prima erano evasi. Approfittando del momento di distrazione della scorta incaricata di supervisionare il trasporto, i due uomini sono riusciti a dileguarsi nei pressi di Albuquerque, senza lasciare traccia. La polizia non riesce ancora a spiegarsi come sia potuto succedere.” 
  • Ce l’hanno fatta di nuovo. Incredibile!  -  esclamò Keith che si era avvicinato a me senza che me ne accorgessi.
Continuai a fissare il televisore, stringendo il telecomando in mano.
La giornalista aveva chiuso il servizio sugli evasi per aprire il successivo relativo a questioni di politica estera. Solo allora Keith sembrò accorgersi del mio turbamento.
  • Tesoro, va tutto bene?
  • Non sapevo neanche che fossero stati arrestati.  -  mormorai con un fil di voce.
  • E’ successo ieri notte. La polizia di frontiera li ha bloccati, probabilmente mentre cercavano di superare il confine. La notizia è stata trasmessa stamattina. Scusa, sembravi così stanca che non ho voluto svegliarti.
Avevo annuito senza ascoltare nemmeno una sillaba, nella mia testa avevano cominciato ad arrampicarsi tutta una serie di scenari possibili. Innanzitutto, come diavolo era potuto succedere? Era troppo pretendere di potersi concedere una dormita di 12 ore filate, senza che saltassero fuori il giorno dopo arresti ed evasioni a fiotti? Evidentemente era troppo. Ero scioccata. Avevo salutato Michael e Lincoln meno di 24 ore prima, com’erano riusciti a combinare così tanti guai in un lasso di tempo tanto breve?

Quella sera cenai velocemente insieme a Keith, riordinai la cucina e mi fiondai di sopra, nella mia stanza, sedendomi a gambe incrociate sul letto dove appoggiai anche il mio inseparabile portatile per dare inizio alla ricerca. Dovevo capire cosa fosse accaduto esattamente.
La lista dei risultati in rete, come al solito, fu ricchissima. Impiegai più di un’ora a leggere e rileggere come i due fratelli Scofield-Burrows fossero stati catturati, arrestati e soprattutto  come fossero riusciti a sfuggire, gabbando non soltanto le due guardie presenti con loro sul furgone che li trasportava, ma addirittura anche le altre 5 auto della scorta. Possibile che una dozzina di uomini addestrati e armati fino ai denti si fossero lasciati “fregare”  -  era proprio il caso di dirlo  -  da un ingegnere e un ladro, per giunta ammanettati? Ok, Michael era in gamba, era riuscito a progettare un’evasione fuori dal comune ma, diamine, non era certo Houdinì.

Continuai a leggere e confrontare insieme le varie informazioni, studiai con cura ogni descrizione. Sembrava che la maggior parte delle testate giornalistiche principali ammirassero l’indiscusso ingegno di Michael, soprattutto rapportato alle recenti evasioni che aveva portato a termine. Erano le stesse testate che denigravano e criticavano il lavoro fin ora svolto dalla polizia in merito alla cattura degli evasi.

In un’intervista realizzata dall’Herald Express di Chicago al nuovo direttore di Fox River, El Pavel, il sostituto direttore aveva dichiarato che, nonostante i recenti accadimenti, la politica del carcere avrebbe rispettato le decisioni giuridiche prese prima dell’evasione degli 8 detenuti. Senza ulteriori rinvii Lincoln Burrows avrebbe ricevuto la pena capitale entro 48 ore dal suo rientro a Fox River, mentre a Michael Scofield sarebbe stata imputata la pena massima dell’ergastolo a causa delle ultime accuse piovute su di lui, sommate alla precedente condanna imputatagli.

Per trattenermi dalla tentazione logorante di afferrare il telefono e chiamare Michael al numero che mi aveva lasciato, cercai di distrarmi leggendo gli aggiornamenti sugli altri evasi.
A dire il vero c’era poco e niente di interessante. Nessuno era stato preso o era morto, il che mi sembrava già piuttosto incoraggiante. L’unica notizia che riuscì a catturare la mia attenzione riguardava Brad Bellick, l’ex guardia carceraria di Fox River, licenziato dopo la fuga degli 8 evasi. A quanto potevo leggere, “occhi da lucertola” era tornato a Fox River, questa volta però in tenuta da prigioniero.
 
Questa si che è bella!
 
L’articolo spiegava che Bellick era stato arrestato qualche giorno prima a Tribune, in Colorado. L’uomo era stato accusato e arrestato per l’omicidio del suo amico ed ex collega Roy Geary con il quale stava collaborando per dare la caccia agli evasi.
 
Ma che diavolo sta succedendo? Va tutto il malora qui! pensai sconsolata, riponendo di lato il pc per stendermi sul letto e meditare.
Mi sentivo strana, turbata. Sentivo che c’era qualcosa di sbagliato in tutta quella storia, nel mio coinvolgimento, nel modo in cui stavo mentendo a Keith.
 
Michael.
 
In mezzo a quel caos riuscivo a pensare sempre e solo a lui. Michael.
Ero come un alcolizzato che continua a ripetersi di poterne uscire in qualunque momento e dentro di sé sa di aver imboccato un tunnel senza uscita. Più le ore passavano, più quel tunnel diventava stretto, soffocante.
 
Michael. Michael. Michael.
 
C’era da impazzire a forza di rimuginare. Dovevo trovare qualcosa da fare per occupare il tempo e credere che prima o poi Michael mi avrebbe chiamata per tranquillizzarmi. Lui stava bene, ne ero certa.
Quella notte, per tutta la notte, tutta la santa notte, cucinai i biscotti. Montagne di biscotti.
Ovviamente non fu una buona idea, non solo perché la cucina non era mai stato un territorio di mia stretta appartenenza, ma anche perché quel comportamento mi rendeva strana e preoccupata agli occhi di Keith e io non volevo che si allarmasse o peggio, che lo collegasse al mio disturbo mentale.

Dovetti impegnare tutto l’intero momento colazione per convincerlo che fosse ancora una buona idea partire per Pittsburg, poi nell’attesa di decidere come occupare il resto del lungo pomeriggio, mi preparai una tazza di caffè, riordinai il bucato e mi decisi finalmente a disfare la borsa che avevo portato con me in California.
Mentre tiravo fuori il cambio d’abiti d’emergenza per infilarlo in lavatrice, gli stessi indumenti che avevo indossato per lasciare Fox River, il notiziario di Canale 11 mandò in onda un nuovo servizio in direttissima.
Si trattava dei recentissimi aggiornamenti sugli evasi Michael Scofield e Lincoln Burrows, in particolare di alcuni spezzoni dei 26 minuti del video girato dai due fratelli e delle loro sconcertanti rivelazioni.
Ancora una volta, in meno di 24 ore, i visi di Michael e Lincoln invasero lo schermo della TV, lasciandomi sbigottita.

Subito dopo la diretta di Canale 11, corsi nella mia stanza ed entrai in rete per visionare più attentamente i 26 minuti completi del video. Al suo interno, in breve, i due fratelli raccontavano, alternandosi, della loro innocenza, di come Lincoln fosse stato incastrato per l’omicidio di un uomo che in verità era rimasto nascosto fino alla notte precedente; si accennava ad un complotto organizzato da un complesso governativo che si faceva chiamare “La Compagnia”, inoltre nel corso del video venne tirato in ballo anche il coinvolgimento in prima persona del presidente Reynolds e quello dell’agente federale Alexander Mahone, che secondo le parole di Michael era stato corrotto allo scopo di uccidere tutti e 8 i detenuti evasi perché convinto che fossero in possesso di prove compromettenti. Era da imputare a lui la colpa per le morti ingiustificate di John Abruzzi e David Apolskis, e sempre a lui si accusava di aver ucciso il latitante Oscar Shales di cui Mahone si era occupato nei mesi precedenti alla caccia agli 8 evasi, latitante che l’opinione pubblica credeva ancora un fuggiasco ma che non sarebbe mai più stato ritrovato.
Infine, 4 minuti e 52 secondi esatti erano stati dedicati alla completa discolpa della dottoressa Sara Tancredi per essere stata messa in una posizione difficile a causa dell’evasione. Nei quasi 5 minuti video dedicati a Sara, Michael le chiedeva di perdonarlo per i problemi che le aveva causato e si assumeva completamente la colpa di ciò che era accaduto.

Nell’arco di pochi minuti il video fece il giro del mondo, ma il governo riuscì a sminuirne la notiziabilità, dichiarandolo privo di fondamento.
La messa in onda di quel video arrivava in un momento molto delicato della caccia agli evasi, fattasi ormai spietata e pericolosa. L’idea di creare quel video per raccontare la verità e mettere a nudo le malefatte del governo era una buona idea, inoltre le dichiarazioni su Mahone, vere o fittizie che fossero, in un modo o nell’altro avrebbero minato la credibilità del poliziotto e questo sarebbe andato senza ombra di dubbio a vantaggio di tutti noi.

Quello che non riuscivo a capire era: perché produrre quel video adesso? Lincoln aveva fatto riferimento a Steadman e al fatto che fosse rimasto nascosto fino a quel giorno, ma cos’aveva voluto dire? Possibile che Terrence Steadman fosse finalmente saltato fuori, e perché Michael continuava a tenermi allo scuro di ciò che stava accadendo? Aspettava che le mie coronarie esplodessero per decidersi a chiamarmi?
Incapace di trovare una spiegazione e la calma necessaria per sedare le mie coronarie, presi il telefono e composi a memoria il numero di Michael.
 
Ho aspettato abbastanza. Adesso basta.
 
C’era la possibilità che dopo l’arresto avvenuto in New Mexico il cellulare gli fosse stato sequestrato e che qualcuno, trovando il mio numero sul display di un fuorilegge, potesse rintracciare la proprietaria del numero e la provenienza della chiamata, ma non m’importava. Dovevo rischiare. All’altro capo, una voce registrata m’informò che il numero da me selezionato risultava spento.
 
Perfetto!
 
Provai una decina di volte, ma il risultato fu sempre lo stesso. Tornai al mio portatile per rivedere il filmato in cerca di messaggi nascosti o possibili significati sfuggiti alla prima occhiata, del tipo: “ stiamo tutti bene” o “ti amo, quindi non farti venire un accidente”, ma non ne ricavai un ragno dal buco. Solo un gran mal di testa.
Verso le dieci di sera, dopo aver riprovato a chiamare lo stesso numero altre 15 volte o giù di lì, mi gettai sul divano e rimasi ad aspettare e pregare che quel dannato telefono squillasse. Ero troppo preoccupata per dormire, troppo preoccupata per trascorrere un’altra notte a preparare biscotti. E poi all’improvviso il cellulare squillò davvero. Ruotò sopra il tavolo liscio a causa del moto vibratorio. Sul display lessi “M” e il sollievo si diffuse in tutto il mio corpo prima ancora che potessi rispondere. 
  • Michael!!! Finalmente.
  • Scusami, avrei dovuto chiamarti prima, lo so.
Meglio tardi che mai, pensai tra me e me.
  • State bene?
Pur non vedendolo, percepii il suo sorriso all’altro capo.  -  Staremmo molto meglio domani. Ci siamo Gwyneth, presto metteremmo fine a questa storia.
  • Avete trovato Sara?
  • Si e stiamo andando a Chicago, ma ho bisogno di parlarti. Pensi di poterci raggiungere domani?
Impallidii.  -  A Chicago?
 
Ma come, non si era detto di rimanere nascosti al sicuro per un po’?
  • Si, è importante. Alle undici, tra la 47esima e S. Clemente.
Per fortuna Keith era già partito, così perlomeno mi sarei potuta risparmiare l’ennesima balla apocalittica da rifilargli. La borsa era già pronta, non avevo neanche fatto in tempo a disfarla.
E dire che mi ero ripromessa di non tornare mai più nell’Illinois. Ecco un’altra promessa che non avrei potuto mantenere.
  • D’accordo, ci sarò. A domani.

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Capitolo 9
*** Come una pedina ***


Arrivai all’appuntamento puntuale come un orologio svizzero.
Il taxi parcheggiò nella prima piazzola libera tra la 47esima e S. Clemente, quando il mio orologio segnalò che mancavano ancora due minuti all’ora concordata.
Ero un po’ nervosa quando scesi dal taxi e pagai, lo ero sempre ultimamente ripensando alla piega che aveva preso la mia vita, ma nell’esatto istante in cui lo vidi arrivare, capii che non avevo nulla da temere. Finché potevo rimanere accanto a Michael, tutto il resto non avrebbe avuto importanza.
  • Grazie di essere venuta.  -  esordì il ragazzo, allargando le braccia per accogliermi.
Erano trascorsi solo tre giorni? Come avevo fatto a rimanergli lontana così a lungo?
A meno di un metro da Michael, Lincoln e un’irriconoscibile Sara Tancredi, aspettavano che arrivasse anche il loro turno. Alla vista di quest’ultima, percepii distintamente un certo malumore, ma mio malgrado provai a controllarmi.
  • Ciao Gwyneth.  -  mi salutò la donna, utilizzando la stessa cortesia che ricordavo averle visto usare anche a Fox River.
Il suo tono era pressappoco lo stesso, ma tutto il resto era decisamente cambiato: viso smagrito, capelli accorciati e scuriti, espressione stanca, da sopravvissuta. Mi ricordava tanto quella che per mesi avevo visto riflessa nello specchio della cella 93. I ruoli si erano invertiti a quanto potevo constatare.
  • Dottoressa.  -  ricambiai a mò di saluto.
  • Puoi chiamarmi Sara adesso. Non sono più un medico.  -  rispose con espressione abbattuta.
  • Allora sei nel club giusto. Tu non sei più un dottore, Michael non è più un ingegnere, io non sono più una giornalista… ognuno di noi non è più quello che era un tempo… capita.  -  esclamai, scrollando le spalle.  Un istante dopo mi voltai verso Michael.  -  Piuttosto, mi hai fatta venire fin qui perché volevi parlarmi e adesso sono qui.
Il ragazzo annuì.  -  Si, ma togliamoci dalla strada prima che qualcuno ci riconosca.
 
Calcandosi il berretto in testa, Michael fece strada. Attraversammo per raggiungere un SUV con i finestrini oscurati parcheggiato pochi metri più avanti. Io, Michael e Sara salimmo sui sedili posteriori, Lincoln prese il posto davanti. Seduto al posto di guida c’era un uomo dal viso magro e la pelle tanto bianca che si sarebbe detta marmo. Un nuovo acquisto, probabilmente.
  • E tu chi saresti?  -  domandai subito troppo diretta.
  • Piacere di conoscerti Gwyneth, mi chiamo Paul Kellerman e non vedevo l’ora di fare la tua conoscenza.  -  rispose l’uomo affabile, allungando un braccio per stringermi la mano.
Avevo la netta sensazione di averlo già visto da qualche parte, ma per qualche strano motivo non riuscivo a ricordare dove. Quell’ampia camicia bianca che indossava e il colore, l’aspetto e il taglio dell’abito, tradivano una provenienza straniera. La barba lunga su quel viso così ben curato, dimostrava che come i suoi nuovi amici, anche lui doveva essere in fuga. La marca degli occhiali da sole scelti a pennello e la sfacciataggine nel suo sguardo, che non fosse un magazziniere finito per caso con un gruppo di evasi.
  • Lui è un ex agente della Compagnia che ci sta aiutando a fare luce su questa storia.  -  spiegò Michael, alla mia destra.  -  Due giorni fa ci ha aiutati a scappare e ci ha portati da Steadman. Volevamo usarlo per dimostrare che Lincoln fosse stato incastrato, ma Terrence si è… puntato una pistola alla testa per farla finita.
  • Si è suicidato?!
Il ragazzo annuì mesto.  -  Dopodiché abbiamo creato quel video. Immagino tu abbia avuto modo di vederlo. Il governo è riuscito a sminuire la faccenda, ma noi abbiamo comunque raggiunto il nostro scopo: far sapere al mondo dell’esistenza della Compagnia e far arrivare un messaggio in codice a Sara perché ci trovasse.
  • Fantastico, sono molto felice per voi, ma ciò non toglie che mi trovo in macchina con uno sconosciuto che, guarda caso, è o è stato al servizio della Compagnia che stiamo cercando di distruggere… Non avercela a male Paul, ma ho difficoltà a fidarmi di te.
  • Siamo in due.  -  mi appoggiò Sara imbronciata.
  • Ehi, io sono dalla vostra parte e sto cercando di aiutarvi.  -  replicò il tipo, sfilandosi finalmente gli occhiali da sole così che potessi guardarlo dritto negli occhi.
Nel mio cervello fu come se all’improvviso fosse stata accesa una lampadina. Bastò un istante perché mi ricordassi di colpo dove avevo già visto quell’uomo.
  • Io ti conosco. Tu eri a Denver accanto alla Reynolds durante la campagna elettorale di Maggio… se non sbaglio tu eri la sua guardia del corpo.
Sorrise.  -  Complimenti, mi avevano detto che hai una memoria fuori dal comune. Si, è vero, ero la guardia del corpo di Caroline prima che diventasse presidente. Dopodiché sono stato declassato e cacciato via come uno stivale vecchio e adesso, quella stessa gente per cui ho lavorato sta cercando di farmi fuori, ed ecco spiegato il motivo per cui ho deciso di aiutare i tuoi amici. Prima questa storia finirà, prima tutti noi torneremo alle nostre vite. Il cappio al collo del tuo amico Lincoln cadrà e… chissà, magari la Compagnia smetterà di avere tanto interesse nei tuoi confronti.
 
Se mi avessero puntato una pistola in fronte, forse avrei avuto una reazione meno brusca.
  • E questo cosa significa?
L’uomo seduto di fronte a me non rispose. C’era qualcosa in lui di terribilmente urtante che presto o tardi mi avrebbe fatto perdere la pazienza. Ciò che però mi convinse a preoccuparmi, furono le espressioni corrucciate di Michael e Lincoln.
  • Che cosa mi state nascondendo? Parlate subito!  -  ordinai minacciosa, percependo nell’aria l’inquietante non detto.
  • Sta calma, è proprio per questo che ti ho fatta venire qui oggi. E’ tutto apposto.
Ruotai il volto a destra, imponendomi di restare calma come mi era stato chiesto.  -  Senza offesa Michael, ma l’ultima volta che mi hai detto di stare calma e che era tutto apposto, ho quasi rischiato la pelle. Dimmi che sta succedendo.
  • Beh, la notizia buona è che per il momento non rischi di tornare in prigione perché Mahone non ha raccontato a nessuno di averti vista con noi in New Mexico.  -  s’intromise Lincoln.
  • Come lo sai?
  • Alex collabora con la Compagnia.  -  spiegò l’uomo ambiguo, prendendo la parola.  -  E’ stato assunto per fare fuori i qui presenti Burrows e Scofield, così come tutti quelli che hanno avuto a che fare con loro. Per questo ci sono andati di mezzo anche gli altri evasi e adesso Sara… Beh, a dire il vero il compito di far fuori Sara era stato affidato a me, ma come puoi ben vedere non è un compito che è stato portato a termine.
  • Ti è andata male, Paul!  -  All’improvviso la voce di Sara era diventata come un raschietto per il ghiaccio sul finestrino di un auto.
Voltandomi a sinistra, lessi l’espressione glaciale, volutamente rivolta verso il finestrino e le braccia strette sul petto della donna che mi stava a fianco e allora capii.
Ecco perché quand’ero salita in auto avevo avvertito quell’atmosfera agghiacciante, ecco perché Sara non era riuscita nemmeno una volta a fissare negli occhi il nuovo acquisto seduto al posto di guida. Tra quei due non correva buon sangue, era evidente. 
  • Ma se lo scopo della Compagnia è eliminare tutti coloro che hanno avuto a che fare con Michael e Lincoln, allora sono in pericolo anch’io.  -  feci notare, non molto entusiasta all’idea.
  • Se la Compagnia avesse voluto eliminarti, non saresti nemmeno arrivata in California, puoi credermi.  -  continuò Paul.  -  Tutto quello che so è che il diretto superiore di Mahone, Bill Kim, gli ha ordinato di tenere per sé la notizia del tuo coinvolgimento e di non metterne al corrente l’FBI, e se Kim ha dato un ordine del genere significa che la decisone è stata presa dall’alto, probabilmente dal capo della Compagnia in persona.
Era il suo sorrisetto strafottente e arrogante. Me ne rendevo conto solo in quel momento, era proprio quel suo odioso sorrisetto arrogante ad infastidirmi.
  • E questo dovrebbe farmi sentire meglio?
Di nuovo quel sorriso.  -  Tutto sommato sei l’unica al momento che non rischia la vita. Chiunque altro al tuo posto sarebbe già sottoterra. La Compagnia sa tutto di te. Sapeva già tutto prima che tu arrivassi a Fox River. Quando Henry Pope ha ricevuto la richiesta per la tua incarcerazione nella sezione maschile, inizialmente c’era stato ordinato di distruggerla per evitare che tu potessi venire a contatto con Burrows. La Compagnia pensava che fosse solo questione di tempo prima che tu potessi scoprire della cospirazione, e d'altronde avevi già fatto passi da gigante scoprendo dei soldi della Ecofield e del coinvolgimento di Caroline.
Digrignai i denti, tirando le mie ovvie conclusioni.  -  E’ per questo che mi avete aizzato contro il vostro mastino?
  • Mahone? No, Alex ha fatto tutto da solo. La Compagnia si è occupata di lui dopo l’evasione. All’epoca Alex era ancora un poliziotto modello.
  • Oh, mi piange il cuore!  -  sbottai disgustata.  -  Se non volevate che indagassi a fondo nel caso Burrows, perché mi avete lasciata a Fox River?
  • Perché sono arrivati degli ordini dall’alto. Kim aveva ordinato a me e al mio collega di fare fuori te e Burrows e tutto quello che so è che l’ordine successivamente è stato revocato… almeno per quanto riguardava te. Qualcuno voleva che tu venissi a conoscenza dei fatti… in un certo senso volevamo che tu scoprissi l’intera storia.
  • Ma per quale motivo?  -  intervenì Michael, coinvolto quanto me nella spiegazione.
Kellerman scrollò le spalle.  -  Non lo so, neanche Caroline riusciva a spiegarsene il motivo, so solo che Gwyneth rappresenta una pedina importante per gli alti membri della Compagnia.
 
Quelle nuove sconcertanti scoperte rischiavano di stravolgere totalmente la mia visione della storia. Un momento prima rischiavo di finire in prigione con l’accusa di favoreggiamento e concorso in evasione e quello dopo diventavo una pedina importante sulla scacchiera del nemico.
Non mi piaceva affatto quel nuovo, incontrollabile risvolto.
  • Perché proprio io?  -  gli domandai estremamente seria.
Il sorrisetto arrogante comparve di nuovo agli angoli della bocca di Kellerman.
  • Probabilmente perché qualcuno pensa che le tue incredibili capacità possano essere messe al servizio di qualcosa di più grande e ambizioso dell’evasione di un gruppetto di galeotti…
  • Perché non provi ad essere più chiaro!  -  sbottò Lincoln all’improvviso, afferrando Kellerman per il bavero della giacca.
L’uomo non si lasciò intimidire, era solo molto disturbato per quella reazione.
  • Vi ho già detto tutto quello che sapevo. Io ero solo una guardia del corpo, il mio compito era quello di portare Caroline alla presidenza ed eliminare tutti quelli che cominciavano a fare domande, diventando un pericolo per la nostra causa. Non so quali siano i piani dei ranghi più alti della Compagnia, so solo che la ragazzina ne è inclusa. Avrete capito che Hayley Gwyneth Hudson è unica nel suo genere.
Lincoln strinse ancora di più la presa, tanto che l’uomo cominciò a soffocare.
  • Ma di che diavolo stai parlando?
  • Linc lascialo!  -  ordinai in tono fermo. 
Lincoln poteva anche non aver capito, ma per me invece era tutto assai chiaro.
Attesi che il mio amico lasciasse andare Kellerman e che quest’ultimo si ricomponesse e riprendesse un contegno, prima di rivolgermi nuovamente a lui.
  • Voi sapevate chi ero e che stavo utilizzando una copertura, non è vero?
  • Conoscevamo i dettagli del tuo quoziente intellettivo ancor prima che tu atterrassi in America.  -  rispose.
  • Posso sapere di che cosa state parlando?  -  s’intromise Lincoln spazientito.
Data la sua curiosità potevo solo pensare che Michael non avesse ancora messo al corrente il fratello di ciò che aveva scoperto sul mio conto quando eravamo in prigione.
Per cercare di rimediare, il ragazzo spiegò in breve il segreto che avevo cercato di nascondere tanto a lungo, soprattutto mentre mi trovavo a Fox River. Aveva promesso di tenere per sé ciò che aveva scoperto ed era chiaro che avesse mantenuto la promessa, me ne rendevo conto soltanto adesso, guardando negli occhi il mio amico che dal sedile anteriore, mi fissava come se mi vedesse per la prima volta.
 
Anche Sara era rimasta a bocca aperta.  -  Ora capisco perché Henry aveva deciso di mantenere il più stretto riserbo su tutto ciò che ti riguardava anche con il personale del carcere.  -  mormorò al mio fianco, sbattendo le palpebre, incredula.
  • Mi state dicendo che Gwyneth è… una specie di… genio?  -  continuò Lincoln.
  • In un certo senso lo è. Il caso Hudson è conosciuto in Italia ed è stato presentato in diversi trattati di psicologia, al pari del caso Stephen Wiltshire qui in America. -  spiegò Paul Kellerman.  -  Persone come Gwyneth o Stephen Wiltshire, il ragazzino autistico che riuscì a disegnare l’intera panoramica di New York vista da un elicottero dopo un volo di soli 20 minuti, possiedono una memoria fotografica praticamente perfetta. Uno spazio infinito dentro al quale riporre i ricordi di un’intera vita per poterne usufruire quando si vuole.
  • Si beh… sorpresa! Gli altarini sono venuti a galla, adesso però torniamo al punto principale. Che conseguenze avrà questo sulla mia famiglia? E’ in pericolo?
Il dubbio logorante era sorto nello stesso istante in cui Kellerman mi aveva chiaramente illustrato come la mia vita privata apparisse per la Compagnia simile ad un Bollettino commerciale.
  • Se stai parlando di Keith Sawyer e di sua figlia, per il momento puoi stare tranquilla. Finché i tuoi amici o chiunque altro eviterà di ficcare il naso, staranno tutti bene. La tua fortuna, o la loro, è stata che tu sia venuta a conoscenza della verità una volta fuori da Fox River. Se avessi continuato ad indagare su Caroline appoggiandoti alla tua famiglia probabilmente Keith, Meredith… e chissà, forse anche Cloe, sarebbero giunti dritti al Creatore.
Quel tipo non mi piaceva affatto. Non mi piaceva il modo in cui sorrideva, parlando delle persone a cui tenevo. Non mi piaceva che sapesse di Keith e Meredith e non mi piaceva che mi parlasse come se le novità sulla mia vita lo divertissero. Quando avevo deciso di schierarmi contro Caroline Reynolds avevo pensato di fare la cosa giusta. Quando avevo aiutato Michael a tirare lui e il fratello fuori di prigione, avevo preso in considerazione le inevitabili conseguenze sperando tuttavia di poterle superare, invece all’improvviso scoprivo di essere stata da sempre un pezzo da scacchiera per un gruppo di folli nascosti tra le fila del governo. Come avrei dovuto reagire ad una scoperta simile?
  • Che cosa avete intenzione di fare adesso?  -  chiesi.  La domanda era rivolta a tutti.
  • Possiamo mettere fine a tutto questo e riprenderci le nostre vite, ma abbiamo bisogno di prove che smascherino i complotti della Compagnia.  -  rispose Michael, il tono serio e molto controllato.  -  Il padre di Sara, prima di morire, le ha lasciato una chiave. Non sappiamo se possa portarci a scoprire qualcosa di rilevante, ma dato il modo in cui si sono prodigati per sottrarla a Sara pensiamo comunque che possa essere importante. 
Alla mia sinistra, vidi Sara sfilarsi dal collo un cordoncino con appesa all’estremità una chiave che la donna mi consegnò perché potessi esaminarla.
La studiai attentamente, rigirandomela tra le mani. Non si trattava di una chiave normale per porte o catenacci. Molto probabilmente serviva ad aprire un cofanetto o un armadietto. Era semplice e dorata, con l’imboccatura cilindrica priva di scanalature e un’impugnatura piatta e larga con sopra disegnato un simbolo su entrambi i lati: una corona nera.
  • Conosco questo simbolo, è di un esclusivo club per fumatori qui a Chicago.  -  dissi.
  • Già, come lo sai?  -  Michael sembrava sorpreso che ne fossi a conoscenza.
  • Ho visto questa stessa chiave in mano al padre di un mio amico una volta. Probabilmente era membro di quel club.  -  risposi, riconsegnando la chiave a Sara.
  • Ehi, è perfetto!  -  esclamò Lincoln entusiasta.  -  Potremmo chiedere a quest’uomo di entrare in quel club e recuperare ciò che il padre di Sara ha nascosto nel suo armadietto. Gwen, pensi di poter convincere questo tizio ad aiutarci?
  • Potrei. Il difficile sarà farlo arrivare qui a Chicago.
  • Perché?
  • Perché, a meno che Michael non sia intenzionato a progettare un nuovo piano d’evasione, il caro Aaron resterà occupato per i prossimi 20 anni.
Sul volto di Lincoln si dipinse chiara la delusione.  -  E’ in galera?
  • Proprio così. Fatemi capire, state cercando un socio del club per poter arrivare all’armadietto di Tancredi e recuperare ciò che vi è custodito all’interno, dico bene? Perché non andate voi?
  • Ci abbiamo provato.   -  intervenne Sara.  -  Quando io e Michael abbiamo tentato di arrivare all’armadietto di mio padre, uno dei commensali di guardia ci ha riconosciuti e ha chiamato la polizia.
  • Il Corona De Oro Club è riservato ai soli soci, nessun altro è ammesso. In caso di morte di uno dei soci, il titolo passa inevitabilmente al primo genito maschio che può accettare o meno di prendere il posto del padre, altrimenti un parente prossimo può avere il permesso di prendere gli oggetti personali del defunto socio. Sara era l’unica che potesse arrivare a quell’armadietto, ma non può farlo perché è una ricercata proprio come noi. Dobbiamo trovare un’altra soluzione prima che la Compagnia sospetti qualcosa, ma ci serve il tuo aiuto, Gwen.
Ogni volta che a Michael serviva il mio aiuto, finivo inevitabilmente per cacciarmi nei guai. Mi faceva rabbrividire sentirgli pronunciare quelle parole.
  • Io? E che cosa posso fare?
  • Henry Pope è uno dei soci di quel club. Con quello che è successo, a noi non darebbe mai ascolto ma forse ascolterebbe te. Convincilo a darci una mano. 
Se fosse stata una conversazione meno seria sarei sicuramente scoppiata a ridere. Michael ovviamente non poteva sapere di quanto inadatta fossi a ricoprire quel compito.
  • Volete che io parli con Pope e lo convinca ad aiutarvi?… No, non posso.
  • Sawyer ti prego, in quel club probabilmente c’è l’unica prova che possa scagionarmi e restituirmi la libertà.  -  m’implorò Lincoln.
  • Tu non capisci, Pope non mi ascolterà mai. Se sarò io a chiederglielo, state pur certi che non vi aiuterà. Se c’è una persona che odia più di voi, quella sono io.
  • Credevo che Pope e tuo padre fossero amici. Lui si è sempre dimostrato disponibile nei tuoi confronti, ti ha concesso dei favori che agli altri detenuti non avrebbe mai concesso.
  • Si, è vero  -  ammisi con una smorfia.  -  ma Henry non mi ha concesso quei favori di sua iniziativa, non tutti almeno, diciamo che… sono stata io a convincerlo a farlo.
Notai 4 volti confusi aspettare che mi spiegassi, ma non ne ebbi il coraggio. Il mio comportamento nei confronti dell’ex direttore di Fox River era stato imperdonabile. Era già stata abbastanza dura dover ammettere davanti a Keith, Mahone e alla commissione disciplinare di aver costretto Pope ad appoggiarmi con le minacce. Se lo avessi ammesso di fronte a Michael, lui mi avrebbe vista come la persona orribile che ero e non volevo che accadesse.
  • Sawyer, in che modo lo hai convinto?  -  continuò Lincoln interdetto.
Parlai tenendo gli occhi bassi.  -  Ricordi quando eravamo a Fox River, il giorno prima della tua esecuzione, e tu mi hai chiesto come avevo fatto a farmi concedere il permesso di raggiungerti in isolamento, visto che non era stato concesso neanche a tuo fratello? Ecco… in realtà Pope non mi ha concesso nessun permesso… ho dovuto calcare un po’ la mano.
  • In che senso?
  • Lo ha ricattato. Ovvio.  -  decretò Michael, arrivando alla soluzione prima degli altri.  -  Questo significa che convincere Pope a collaborare sarà un’impresa molto più difficile del previsto, ma resta comunque la nostra unica possibilità quindi ecco faremo: io e Sara andremo a parlare con Henry e proveremo a convincerlo. Lincoln, Paul e Gwyneth, voi vi occuperete di controllare che nessuno della Compagnia si faccia vivo e ci preceda al Corona De Oro Club. Su, muoviamoci.

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Capitolo 10
*** Ci sparano addosso... di nuovo ***


Aspettammo per ore appostati come sentinelle di fronte al club per fumatori come d’accordo ma di Michael, Sara e dell’ex direttore di Fox River non avemmo più alcuna notizia.
Scegliemmo una postazione tattica che ci permettesse di sorvegliare dall’alto l’ingresso del club in modo tale da avere una panoramica più ampia, per questo ci piazzammo sulla terrazza di un grattacielo di fronte.
Grazie alle conoscenze di Kellerman non sarebbe stato difficile riconoscere qualche agente della Compagnia in incognito, almeno così speravamo.

Un’ora e 45 minuti più tardi, la situazione era ancora stabile. Non sapevamo se Michael fosse riuscito a convincere Pope ad aiutarci, l’unica consolazione era che fino a quel momento non avessimo ancora scorto il nemico.
Alla fine, stanca di aspettare, ero andata a sistemarmi in un angolino a rimuginare sulle nuove scoperte fatte nelle ultime ore e sui miei attuali problemi. Ce n’era di carne al fuoco da considerare, le opzioni si sprecavano: Mahone che teneva strette in mano le chiavi della mia salvezza e che avrebbe potuto fregarmi in qualunque momento, la Compagnia che mi teneva d’occhio, probabilmente da mesi, e che sembrava avere un qualche progetto per me, e poi c’erano Lincoln, Keith, Meredith, il mio futuro e nonostante tutto l’unica persona a cui riuscivo a pensare era sempre una e sempre la stessa.
Michael.
  • Pentita di esserti cacciata in questo guaio?
Nell’istante in cui Lincoln si era avvicinato a me, prendendomi sottobraccio con fare affettuoso, gli avevo sorriso per tranquillizzarlo. Kellerman era rimasto vigile per tenere d’occhio il club, a pochi metri da noi.
  • Pensavo a queste ultime settimane.  -  mormorai, guardando lontano il vasto e frenetico paesaggio di Chicago.  -  Sono uscita di prigione convinta che avrei rimesso le cose a posto, e invece 72 ore dopo sono partita alla volta del New Mexico per incontrare degli evasi. Dopodiché sono tornata nel New Jersey e di nuovo 72 ore dopo, rieccomi in viaggio verso Chicago per ritrovare gli stessi evasi. Non sono trascorse neanche 2 settimane dalla mia scarcerazione, eppure rischio di tornare dentro da un momento all’altro e questa non è neanche la parte peggiore. Lincoln, secondo te c’è qualcosa che non va in me?
  • Non c’è niente che non vada in te, non è colpa tua, sei stata messa in mezzo proprio come noi.
  • Ma perché la Compagnia è interessata a me? Che intenzioni avranno?
Lincoln mi avvicinò a sé per farmi coraggio. Sapevo che poteva capirmi.    
  • Ascoltami bene… non m’interessa se quei farabutti hanno messo gli occhi su di te, io non ho assolutamente intenzione di lasciare che ti usino o mettano in pericolo la tua vita, indipendentemente dal tuo quoziente intellettivo, è chiaro? Non gli permetterò di avvicinarsi a te per nessun motivo.
Annuii tra le sue braccia. Era bello poter contare su di lui, la sua sola presenza era di per sé rassicurante. Finché fossi rimasta al suo fianco non mi sarebbe accaduto nulla di male, ne ero certa perché avevo provato la stessa sensazione a Fox River. Lincoln era diventato la mia àncora di salvezza.
Continuammo a tenere d’occhio i dintorni del Corona De Oro Club. Ormai erano trascorse due ore da quando ci eravamo divisi e io stavo cominciando seriamente a preoccuparmi. Forse qualcosa era andato storto, forse Michael e Sara non avevano trovato Pope in casa, forse…
  • Eccoli, ci siamo!  -  scattai, mandando all’aria le mie ipotesi pessimistiche quando riconobbi il SUV percorrere la via principale e fermarsi a pochi metri dal club che stavamo tenendo d’occhio.
Una delle portiere si aprì e ne uscì Henry Pope che, impettito come un pavone, si diresse a passo lento verso il club mentre Michael e Sara rimanevano in auto.
Si poteva leggere tensione e disagio nella rigidità del passo dell’ex direttore anche da un punto d’osservazione lontano come il nostro. Solo quando Pope fu dentro mi rilassai. Presto sarebbe tutto finito.
  • Sapevo che Michael sarebbe riuscito a convincerlo.  -  sospirai, come se mi fossi appena tolta un peso dallo stomaco.  -  Toglimi una curiosità, Paul. Come ci si sente al pensiero di aver servito per anni gente senza scrupoli e aver contribuito a rendere questo mondo più corrotto di quanto non fosse già?
Nell’attesa che il caro Henry compiesse la sua missione, potevo togliermi qualche dubbio e cercare di scambiare quattro chiacchiere col nostro nuovo compagno di disgrazie.
  • Era solo lavoro.  -  rispose l’uomo.  -  Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto solo perché mi era stato ordinato. Tutto qui.
Il modo in cui ne parlava, ricordava vagamente la stupida giustificazione del bulletto che confessa di aver copiato durante un compito in classe. Indifferente e quasi inconsapevole.
  • Tutto qui?!  -  sbraitò Lincoln una frazione di secondo più tardi facendo dedurre a me, e probabilmente anche a Kellerman, di aver toccato un nervo scoperto.  -  Hai tentato di uccidermi puntandomi una pistola contro, hai tentato di incastrare e uccidere mio figlio, di soffocare Sara dentro una vasca piena d’acqua e per colpa vostra… per colpa vostra mio padre è morto…
  • Non era niente di personale.  -  continuò sfrontato Paul.
Era decisamente freddo e insensibile, un vero e proprio soldato. Non avrei saputo dire se provasse o meno dei rimorsi. Chissà se si rendeva conto che Lincoln, furioso com’era, avrebbe potuto spingerlo giù e farlo precipitare fino al piano terra.
  • Prima era solo lavoro, adesso di che si tratta? Vendetta?  -  ripresi incuriosita.
Notando che l’uomo non rispondeva, forse perché disturbato da quella domanda, Lincoln rispose al suo posto.
  • E’ una vendetta contro Caroline Reynolds.  -  Adesso era Kellerman quello al quale era stato toccato un nervo scoperto.  -  L’altro giorno Steadman ha detto che l’amavi.
Non so perché, ma la notizia mi scioccò.  -  Ma dai, questa si che è bella! Paul, ti sei preso una cotta per il Presidente?
  • Steadman era un vecchio pazzo, sapeva solo raccontare idiozie. Come si potrebbe amare una donna che ha sempre messo al primo posto la carriera al posto delle persone a cui teneva?
  • Magari non ci teneva poi così tanto.  -  lo provocai.
La sua reazione fu inaspettata, eccessiva.  -  Che cosa vuoi saperne tu del mio legame con Caroline?! Sei solo una ragazzina.
 
Avevo la netta sensazione che non l’avesse dimenticata davvero come diceva. C’era un po’ troppo orgoglio ferito che trapelava dalle sue parole.
  • In fin dei conti io so come andrà a finire.  -  continuò con tono fermo e rassegnato.  -  Non sopravvivremo, è un dato di fatto. Io morirò, tu morirai… persino tuo fratello Michael morirà, il che è proprio un peccato visto quello che ha fatto per te. L’unica che ha qualche speranza di sopravvivere al momento è questa ragazzina, ma solo perché per qualche strano motivo attira la Compagnia.
  • Io non credo che finirà così.  -  replicai assolutamente convinta.
  • Ah si? E cosa ti da tutta questa sicurezza?
  • Michael Scofield. Io l’ho visto in azione e credimi, non c’è niente che non sia in grado di fare. Personalmente non vorrei essere al posto della tua preziosa Compagnia con un nemico come lui con cui doversi confrontare.
Kellerman ricambiò il mio sguardo, trattenendo una risata.  -  A quanto pare non sono l’unico ad essersi preso una cotta… Chissà come si sente il caro Michael, sapendo che le due donne con cui deve collaborare sono entrambe innamorate di lui.
 
Ecco che tornava ad essere odioso.
  • Sembra che tu non veda l’ora di fare un volo da questa terrazza. 
  • Piantatela… abbiamo un problema.  -  ci interruppe Lincoln, facendosi serio.
Affacciandoci contemporaneamente dalla terrazza, anche io e Kellerman individuammo l’uomo in abito scuro e occhiali da sole appena sceso da una Lancia nera nelle vicinanze del club. Non ci impiegammo molto a stabilire che Lincoln ci avesse visto giusto a interpretarlo come un problema.
  • Conosci quell’uomo?  -  chiesi immediatamente, rivolta all’ex militare.
L’uomo tirò fuori la pistola, digrignando i denti.  -  Si, è della Compagnia. Quello è Bill Kim e noi siamo nei guai fino al collo.
 
Figuriamoci.
L’uomo appena comparso sulla scena molto probabilmente aveva scoperto dell’esistenza del video compromettente ed era venuto a confiscarlo oppure era lì per fermare Pope. In tutti i casi, avrebbe mandato in aria i nostri propositi e noi non potevamo restarcene con le mani in mano. Dovevamo intervenire.
Lanciandoci in una corsa contro il tempo, ci precipitammo giù per le scale di corsa superando due, tre scalini alla volta pur di coprire il più in fretta possibile i 7 piani del palazzo sul quale eravamo saliti. Quando imboccammo la strada, il SUV sul quale si trovavano Michael e Sara era già entrato in azione per sbarrare la via agli agenti della Compagnia.
Nel giro di pochi secondi esplose il caos. Kellerman e Lincoln dovettero lanciarsi in soccorso di Michael, braccato dall’asiatico che rispondeva al nome di Bill Kim, quindi a me restò il compito ingrato di andare a recuperare Pope.
Tenendo ben in saldo tutto il mio sangue freddo, mi lanciai lungo il vialetto per raggiungere il più velocemente il Corona De Oro, mentre i primi colpi di pistola risuonavano alle mie spalle.
Avevo il cuore in gola quando all’ingresso del locale, sgusciai tra due commensali attirati dagli spari e li superai per precipitarmi all’interno.
Sentii uno dei due uomini gridare qualcosa come “Signorina, non può entrare…” ma non ci badai. Dovevo solo trovare Pope e tirarlo fuori da quel club, prima che i miei amici fuori si facessero ammazzare.
Lo trovai seduto in un angolo appartato con un portatile aperto davanti e dovetti trattenere l’impulso di urlare.
  • Ma che diavolo sta facendo seduto qui? Dobbiamo andare!  -  gracchiai stridula come una cornacchia.
  • Signorina Hudson, ma… ?  -  Sembrava piuttosto sorpreso di vedermi.
  • Non adesso Henry, qui ci sparano addosso!
Senza perdere altro tempo, lo afferrai per la manica della giacca per trascinarlo via, ma l’uomo tornò indietro per sganciare dal portatile una chiavetta USB che infilò svelto in tasca. Fu allora che mi accorsi del tipo dietro di noi e della pistola letale che stringeva in mano. Il corpo a quel punto reagì come se fosse stato dotato di volontà propria. Spinsi indietro l’ex direttore carcerario dalla parte opposta rispetto a dove eravamo entrati e presi a casaccio l’unica direzione sgombra da pericoli, pregando che esistesse un’uscita sul retro. Esisteva sempre una “maledetta” uscita sul retro in quei “maledetti” club.

La fortuna decise di assisterci, per una volta. Trovammo l’uscita e il SUV già in moto a pochi metri da noi che raggiungemmo di corsa e praticamente spinsi dentro Pope di forza perché si sbrigasse a salire e farmi posto.
Dal lato opposto anche Kellerman riuscì a raggiungere l’auto in tempo, dopo aver tenuto a bada il suo ex superiore Kim e altri due agenti, ma prima che potesse aprire la portiera, Sara chiuse la sicura e non gli permise di salire. Un secondo dopo, Michael dava gas all’acceleratore per scappare.
  • Allora? Cosa c’era in quell’armadietto?
L’impazienza di Lincoln mi travolse con la stessa forza di un’onda d’urto, ricordandomi il motivo per il quale era esploso tutto quel pandemonio… e mi ero fatta nuovamente sparare addosso.
Mi voltai verso Pope, in attesa che rispondesse. Nella fretta, avevo pensato soltanto a portare me e Pope fuori da quel club e preservare la nostra incolumità, ma non ero riuscita a chiedergli se avesse portato a termine la missione. All’improvviso lo fissai con lo stomaco contratto e le lacrime agli occhi, pronta ad aggredirlo in caso di risposta negativa.
  • Henry, ha recuperato il contenuto dell’armadietto di Tancredi?
Fortunatamente l’uomo annuì.  -  Si, eccolo.  -  disse, consegnandomi una piccola chiavetta USB.
  • Ma questa… è la stessa che stava guardando al club.  -  esclamai inorridita.  -  Lei ha controllato il contenuto di questa chiavetta. Perché già che c’era non si faceva portare anche un tè e un sigaro cubano?
  • Se devo collaborare con una manciata di criminali, voglio almeno essere sicuro di farlo per una giusta causa.
Avrei voluto strangolarlo.  -  Spero che non ne sia rimasto deluso.
  • No, affatto. Adesso questo video è in mano vostra, anche se molti vorrebbero che non fosse così. Io ho fatto la mia parte, ma la cosa finisce qui. Non ne voglio più sapere.
Era riuscito ad incuriosirmi. Adesso morivo dalla voglia di inserire quella chiavetta e guardare il video. Non riuscivo proprio ad immaginare cos’avremmo potuto trovarci.
Accompagnammo Henry a due passi da casa, prima di proseguire per la nostra strada. Michael lo ringraziò per averci aiutati, si scusò di averlo messo in pericolo, ma l’ex direttore di Fox River non mutò minimamente la sua espressione imperturbabile. Si limitò ad annuire. Dopodiché scese dall’auto e si diresse lentamente verso il porticato bianco della propria abitazione.
  • Henry…  - 
L’uomo si voltò sorpreso. Lo avevo raggiunto senza che se ne accorgesse.
  • Gwyneth… che fai ancora qui?
  • C’è una cosa che ci tenevo a dirle.  -  Restò in attesa.  -  Probabilmente le mie scuse non significheranno niente per lei, ma ci tenevo lo stesso a fargliele. Mi sono comportata in modo… immeritevole, mentre lei si è dimostrato buono con me.
Pope non rispose, restò a fissarmi con un’espressione implacabile dipinta sul viso.
  • Mi dispiace tanto Henry  -  continuai, parlandogli con il cuore in mano.  -  Mi dispiace per averla ricattata e per aver contribuito a farle perdere il lavoro 
Immaginando che avrebbe continuato a non rispondere, feci dietrofront per andare via e tornare in auto dove i miei amici mi stavano aspettando, ma inaspettatamente l’uomo parlò.
  • Ti sei cacciata davvero in una brutta storia, Gwyneth. Così rischi di infliggere un grosso dolore a Keith. Lo conosco bene, non capirà.
  • Si… lo so.

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Capitolo 11
*** Il video ***


L’unica cosa che restava da fare, visto che avevamo quasi rischiato di farci sparare addosso per recuperare quel video, era scoprirne il contenuto e assicurarci che Tancredi non avesse attirato tanto l’attenzione su di sé e sulla figlia per far passare come prova compromettente una sciocchezza qualsiasi.
Dopo aver accompagnato Pope, ci dirigemmo verso il centro di Chicago e prenotammo una camera in un hotel per starcene tranquilli. Il nostro primo pensiero ovviamente, una volta arrivati, fu di ascoltare la registrazione, quindi ci procurammo un portatile chiedendolo nella hall dell’hotel. Dopo aver inserito la chiavetta USB, tutti e quattro prendemmo posto intorno al tavolo e Michael avviò il file.

Per una manciata di minuti riuscimmo solo a restare nel più completo silenzio, in ascolto di quella sconcertante traccia audio che c’era costata quasi la vita.
Come aveva precedentemente spiegato Aldo Burrows prima di morire, quella registrazione riportava una telefonata avvenuta tra Caroline Reynolds e il fratello Steadman che un’analista dell’N6 aveva rintracciato esattamente due settimane dopo la presunta morte del direttore amministrativo della Ecofield. Ventiquattro ore dopo, Tancredi era stato trovato morto nella sua villa a Chicago, l’analista era sparito e i nastri Ashlon sui quali era stata registrata la conversazione, cancellati dal sistema.

Qualcuno aveva voluto eliminare la prova che la morte di Steadman fosse stata solo una colossale trovata per incastrare un uomo innocente e che la vera responsabile di quel contorto inghippo governativo, oltre alla Reynolds, fosse la Compagnia.
Mai e poi mai avremmo sospettato però che il contenuto di quella traccia audio potesse nascondere un così torbido segreto.
Era sconvolgente, assolutamente impensabile che un personaggio pubblico come Caroline Reynolds, diventata il nuovo presidente degli Stati Uniti, fosse riuscita a tenere nascosto per tanto tempo un simile segreto. 
  • Oh mio Dio…  -  mormorai, a dir poco scioccata.
  • Tutto questo è incredibile.  -  mi appoggiò Sara con lo stesso tono sbigottito.
Nella telefonata avevamo sentito tutti Steadman confidare alla sorella quanto l’idea di dover restare rintanato nel Montana, a 10.000 miglia di distanza da lei lo facesse soffrire. L’uomo le aveva descritto il suo stato d’animo, la sua paura e le aveva ripetuto più volte quanto lo deprimesse stare in quella villa solitaria, nel bel mezzo del nulla. Poi ad un certo punto della conversazione, i toni erano cominciati a diventare sempre più intimi, i particolari sempre più imbarazzanti, troppo diretti e troppo imbarazzanti perché si potesse fraintendere e continuare a credere che il normale amore fraterno non si fosse tramutato in qualcosa di incestuoso.
Per tutto quel tempo, il presidente aveva nascosto uno scheletro nel suo armadio e noi adesso ne eravamo in possesso. 
  • Avete la minima idea dello scandalo che questa registrazione potrebbe provocare se divulgato alla stampa?  -  esclamai, formulando nella mia testa già il titolo in prima pagina.
  • Noi non lo divulgheremo alla stampa,  -  disse Lincoln  -  il governo finirebbe per screditarlo proprio come ha fatto con il nostro video.
  • Si, hai ragione. Forse dovremmo consegnarlo all’ufficio del procuratore e aspettare che…
  • No!  -  tuonò.  -  Non consegnerò l’unica prova che potrebbe scagionarmi completamente nelle mani dello stesso fottutissimo governo che ha cercato di incastrarmi!!
  • Va bene, scusa.
“Sta calmo Burrows, era solo un’idea!”
 
Com’era chiaro che accadesse, in breve esplose un dibattito su quale fosse il modo giusto per procedere e sfruttare quella prova a nostro vantaggio. Era terribilmente frustrante essere in possesso di una prova così scottante e non sapere a chi poterla consegnare per paura di farla finire nelle mani della Compagnia.
Cercai di dare il mio contributo, puntualmente bocciato da Lincoln, quindi decisi di smetterla di intromettermi e lasciare che fossero Michael e suo fratello a decidere il da farsi. D'altronde era la loro testa quella appesa ad un filo e non è che potessi fare gran che per alleggerire il loro carico.
Continuai a fissare lo schermo con al centro la traccia audio in stand-by, riflettendo, quando all’improvviso mi balenò in mente un dubbio.  “E se…” Quindi premetti play per riavviare la registrazione.
 
Michael, al mio fianco, mi fissò confuso.  -  Che cosa fai?
  • Ragazzi… ahm… non so proprio come dirvelo…
I miei sospetti, sfortunatamente, si erano rivelati fondati.
  • Che succede?
Parlai, continuando a fissare lo schermo.  -  Ecco… la data che compare sulla memory kee è la data della copia.
  • Che cosa significa?  -  domandò Sara perplessa.
Sospirai.  -  Significa che la data riguarda il momento in cui il file è stato copiato e non quella in cui la conversazione è effettivamente avvenuta.  -  sollevai lo sguardo, mortificata.  -  Mi dispiace ragazzi, odio dover impersonare il ruolo del dispensatore di brutte notizie, ma è così. Senza la data non possiamo dimostrare che questo sia Terrence Steadman che parla alla sorella dopo il suo supposto omicidio. Potrebbe essere successo anche un anno prima del suo funerale, e visto che non può essere autenticata, purtroppo non può essere usata neanche come prova in tribunale.
 
L’urlo rabbioso che fuoriuscì dalla gola di Lincoln fu una reazione del tutto comprensibile e mi inchiodò alla sedia.
  • Stai scherzando… No, non è possibile! Sei assolutamente certa di quello che dici? Gwen, stai stringendo in mano la mia unica speranza, lì c’è tutto il mio futuro.
  • Vorrei quanto te che questa registrazione vi discolpi. Mi dispiace davvero, ma dal punto di vista legale questa prova è… inutile.
Sui volti di Michael e Lincoln, all’improvviso, scese un profondo senso di angoscia che mi fece piegare le ginocchia. Avrei voluto con tutto il cuore potermi sbagliare, avevo pregato anch’io come loro che quella potesse essere la chiave della loro salvezza, invece avevamo ricevuto tutti una grossa delusione.
Che cosa avremmo fatto adesso?
  • Mi stai dicendo che tutto quello che abbiamo fatto per arrivare qui è stato inutile e che… che sono spacciato? Sarò condannato per sempre a scappare e non potrò tornare mai più da mio figlio per paura di metterlo in pericolo… mi stai dicendo che…
  • Ti sto dicendo che dal punto di vista legale questa prova non vale niente, ma non ho detto che non possiamo usarla comunque a nostro vantaggio.
Riottenni la loro completa attenzione e mi vergognai come un ladro quando Michael sollevò un sopracciglio nella mia direzione.
“Piano subdolo in arrivo. Preparatevi al peggio!”
  • Arriva al dunque, per favore.
  • E’ vero che non possiamo provare la tua innocenza con quel nastro, ma è fuor di dubbio che il suo contenuto costituisca uno dei segreti più sconcertanti nella storia della tresche presidenziali più discusse. Questa è una prova schiacciante della colpevolezza della Reynolds, e io non credo proprio che quella donna sarebbe felice di sapere che i fatti suoi vengano spiattellati ai 4 venti.
  • Quindi vuoi che la ricattiamo?  -  chiese Michael scettico.
Scrollai le spalle, lasciando che il ragazzo traesse da solo le sue conclusioni.
  • Si è vero, potremmo ricattarla, ma in cambio di cosa?  -  obiettò Sara, incapace di trovare da sola la risposta.
Mi trattenni dal sollevare gli occhi al cielo e sospirare per non sembrare maleducata.  -  In cambio dell’unica cosa che la Reynolds potrà concedere sfruttando la sua prestigiosa carica: la…
  • … grazia presidenziale… ma certo!  -  mormorò tra sé Michael, togliendomi le parole di bocca.
Annuii soddisfatta. Meno male che c’era ancora chi capiva al volo.
  • Finalmente potremmo prenderci la nostra vendetta. Faremmo passare a quella stronza le pene dell’inferno così come lei le ha fatte passare a noi. Io sono d’accordo!  -  dichiarò Lincoln, già pronto all’azione.
  • Piano con l’entusiasmo, stiamo parlando del presidente. Come faremo ad arrivare a lei alla Casa Bianca?
Ecco che l’impulsività di Lincoln si scontrava puntualmente con la razionalità di Michael.
  • Non ci sarà bisogno di arrivare fino a Washington. Guarda caso, proprio questo pomeriggio si terrà una conferenza proprio qui, al Grand Carlyles Hotel. La Reynolds sarà presente.  -  lo informai.
Il piano era praticamente già stato deciso. Uno di noi si sarebbe presentato alla conferenza e cercato di avvicinare il presidente. Sarebbe bastato accennare al fatto che eravamo in possesso della registrazione per ottenere udienza da lei, ne ero certa. Una donna ambiziosa come lei non avrebbe mai permesso che il suo segreto arrivasse alla stampa con il rischio di venire screditata o peggio, veder scomparire il proprio impero dopo tutta la fatica che era costato ottenerlo. Caroline avrebbe concesso la grazia presidenziale a Lincoln in cambio della registrazione e ben presto tutta la verità sarebbe saltata fuori.
  • Va bene, andrò io ad incontrare la Reynolds.  -  mi proposi senza pensarci, candidandomi per la missione.
Michael e Lincoln mi schioccarono un’occhiataccia contemporaneamente.
  • Scordatelo. Tu non andrai da nessuna parte.  -  cominciò Lincoln secco.
  • E’ troppo pericoloso. Resterai qui insieme a Sara.  -  lo appoggiò Michael.
Ecco una pessima idea. Rimanere in compagnia di Sara? No grazie, meglio il presidente e le sue guardie del corpo armate.
  • Se qualcosa andasse storto potrebbero ucciderti Michael, a me invece non torceranno un capello se come dice Kellerman sono davvero così preziosa per la Compagnia.
  • Non sappiamo cosa la Compagnia voglia da te, non sappiamo neanche se Kellerman ha detto la verità e io non ti lascerò andare col rischio di non vederti tornare.  -  Stavo per replicare che non avevo alcuna intenzione di lasciargli fare l’eroe, quando Michael mi piazzò una mano davanti alla bocca per zittirmi.  -  Questo è un compito che spetta a me, Gwen.
Che prepotente! Era intenzionato a riabilitare il nome del fratello anche a costo di peggiorare ulteriormente la propria sorte. Inutile cercare di fargli cambiare idea.

Concordato il piano, ci separammo per la seconda volta quel giorno.
Michael si recò alla conferenza alla quale avrebbe preso parte anche la Reynolds allo scopo di ottenere un’udienza e provare a trovare un compromesso con la donna che, a pensarci bene, era la causa di tutti i nostri problemi.
Lincoln uscì dalla stanza insieme al fratello, ma proseguì per il porto. Avevamo bisogno di un piano d’emergenza nel caso la conversazione con la Reynolds non fosse andata a buon fine. Se Michael non fosse riuscito ad estorcerle la grazia presidenziale, lui e il fratello sarebbero rimasti degli evasi e a quel punto, il piano B concordato di prendere il largo per il Messico ci avrebbe fatto comodo. Lincoln si sarebbe occupato del piano B. L’appuntamento per ritrovarci e raggiungere Lincoln al porto sarebbe avvenuto tra la Terza e Racine.

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Capitolo 12
*** La confessione di Sara ***


Circa 20 minuti dopo che Michael e Lincoln avevano lasciato la stanza d’albergo per recarsi ai loro rispettivi appuntamenti, la spossatezza che avevo avvertito subito dopo essere atterrata a Chicago si era trasformata in leggero affanno.
Ero così stanca.
Desideravo soltanto appoggiare la testa da qualche parte e chiudere gli occhi, ma purtroppo non ero sola.
  • L’appuntamento con Michael è tra meno di due ore, giusto?  -  Sara, seduta accanto alla finestra, annuì.  -  Bene, abbiamo ancora un po’ di tempo. Approfittiamone per riposare.
  • Si, come vuoi.
Avevo un forte mal di testa e la presenza di Sara non è che mi facesse impazzire, ma non ci voleva poi un grande intuito per capire che la donna fosse preoccupata. Volevo farmi gli affari miei e non dare peso alla cosa, ma avevo promesso a Lincoln di comportarmi bene ed essere gentile con Sara prima che lui e il fratello ci lasciassero sole, per cui il minimo che potessi fare era condividere parte della sua preoccupazione.
  • Andrà tutto bene, ne sono certa. Mi fido di Michael.
Annuì, continuando a guardare fuori dalla finestra, assorta.  -  Pensi davvero che riuscirà a parlare col presidente Reynolds?
  • Parlare col presidente è la parte più facile. Riuscire a convincerla a concedere la grazia è decisamente più difficile. Ad ogni modo, non vedo l’ora di andarmene da qui, che sia il Messico, la Cina o l’Australia non importa, basta che ci allontaniamo il più possibile dall’Illinois.
  • Questo posto non ti piace, vero?
  • Puoi biasimarmi? Ci troviamo a soli 15 miglia da Fox River, il posto in cui negli ultimi due mesi ho tentato di sopravvivere, sopportando le molestie di T-Bag e le punizioni di Bellick, perciò… no, questo posto non mi piace.
I suoi occhi finalmente ruotarono nella mia direzione.  -  E’ evidente… così com’è evidente che non ti piaccia nemmeno io.
 
Non che fossi sorpresa che Sara avesse notato il modo freddo e distaccato con cui l’avevo trattata, ma non riuscivo a capire perché avesse deciso di farmelo notare proprio in quel momento.
  • Sai, perlomeno adesso capisco perché la mia presenza ti infastidisca, ma tu ce l’avevi con me anche prima, dal primo giorno che ci siamo incontrate a Fox River e non ho mai capito il perché.   -  continuò.
Quell’improvviso scambio di confidenze mi spiazzò e per qualche secondo non seppi cosa rispondere. Sara continuò a studiare in silenzio la mia espressione.
  • Non ho mai nascosto il fatto di avere un pessimo carattere. Mi dispiace di essere stata tanto odiosa quando eravamo a Fox River, non lo meritavi. Però hai ragione, la tua presenza qui mi infastidisce… mi sento a disagio e non posso farci niente.
  • E’ per via di Michael.  -  disse guardandomi dritta negli occhi, e la sua non era affatto una domanda, d'altronde che fosse una ragazza sveglia lo avevo già intuito.
  • Certo che è per via di Michael, Sara. Io lo amo e non riesco nemmeno a pensare di dover rinunciare a lui. Ma questo lo sai ovviamente, anche tu sei innamorata di lui.  -  Neanche la mia era una domanda.
A quel punto anche Sara cominciò a sentirsi a disagio. Era piuttosto chiaro che avessi colto nel segno e ne era dispiaciuta. 
  • Io… non volevo che succedesse.  -  disse.
Avevo sempre saputo dentro di me che Sara provasse qualcosa per Michael. Me ne ero resa conto lo stesso giorno in cui avevo beccato il galeotto e la dottoressa baciarsi appassionatamente nell’infermeria di Fox River, e ne avevo avuto la certezza quando avevo scoperto che l’evasione era andata in porto grazie al contributo di Sara che aveva deciso di lasciare la porta aperta al gruppo di evasi.
Era così evidente. Glielo si leggeva in faccia anche in quel momento, ma un conto era sospettarlo e un altro che lei lo confessasse a cuore aperto in quel modo.
Come avrei dovuto reagire? Che cosa avrei dovuto dirle? 
  • Beh, comunque non devi preoccuparti per me.  -  continuò la donna senza lasciarmi il tempo di pensare ad una risposta.  -  Non sono in competizione con te, Gwyneth. Michael ti ama. Direi che… è già stato sufficientemente appurato chi di noi due lui preferisca.
Rimasi a fissarla imbambolata, mentre Sara lasciava la sedia accanto alla finestra per cominciare a raccogliere le sue cose sparse sul tavolo e infilarle nella borsa.
Aveva un’espressione così triste, quasi le fosse costata tutta la forza del mondo per accettare il fatto che Michael amasse me e non lei. Da un certo punto di vista ero soddisfatta che si fosse resa conto di quanto il mio rapporto con Michael fosse forte, però allo stesso tempo non riuscivo a non provare pena per lei. Sarei quasi arrivata a chiederle scusa se le sue ultime parole non avessero attirato tanto la mia attenzione.

“Non sono in competizione con te, Gwyneth. Michael ti ama.”

Certo che Michael mi amava, ma Sara come faceva a saperlo? Aveva usato un tono troppo sicuro nel pronunciare quelle parole, come se fosse stato Michael stesso a confidarglielo.

“… è già stato sufficientemente appurato chi di noi due lui preferisca.”

Appurato. In che senso? Chi lo aveva appurato? 
  • Hai parlato con Michael di me?  -  le chiesi a bruciapelo, incrociando le braccia al petto.
Sara sospirò senza staccare gli occhi da quello che stava facendo.  -  Non ha importanza.
  • Si che ne ha. Sara sul serio, non credo di aver capito.
  • Non ha più importanza adesso. -  rispose scocciata. Era evidente che avessimo appena imboccato un argomento delicato che non le andava di affrontare.
Cominciai ad alterarmi.  -  Non me ne importa un accidenti se per te non ha più importanza, ne ha per me, quindi comincia col rispondermi così mi faccio un’idea.
 
Sara rimase in silenzio senza riuscire a trovare il coraggio di guardarmi negli occhi. Aveva l’espressione colpevole, era a disagio e certamente avrebbe voluto trovarsi in qualunque altro posto tranne che lì, in quella stanza d’albergo anonima con me.
Non ci misi molto a capire perché stesse reagendo in quel modo. Era successo qualcosa che Sara non aveva trovato il coraggio di dirmi, bisognava capire adesso che cosa e soprattutto quanto fosse grave.
  • Che cosa mi stai nascondendo?  -  chiesi, la mia voce simile ad una lastra di vetro in frantumi.  -  Che… che cos’è successo tra te e Michael?  -  La testa ormai mi faceva così male che credevo potessero esplodermi le meningi da un momento all’altro. Sara continuava a non rispondere e io ero ad un passo dal volermici gettare addosso per fracassarle il cranio.  -  Maledizione Sara, rispondimi!!
  • Ci siamo baciati, ok?!
Fu peggio che ricevere uno schiaffo in pieno viso. Non volevo crederci. Non il mio Michael.
  • Quando?
  • Prima che arrivassimo alla stazione di Evansville. Mi dispiace… non sapevo che voi… Mi dispiace sul serio Gwyneth, credevo che anche Michael ricambiasse i miei sentimenti, ma lui… lui ha detto che non poteva farlo e che è innamorato di te.
E così era successo per la seconda volta, Michael e Sara si erano di nuovo baciati mentre io come una povera stupida mi preoccupavo, sperando che non capitasse nulla all’uomo che amavo.
Lo avevo detto io che non era una buona idea coinvolgere quell’ipocrita di una dottoressa, ma no, doveva essere per forza Sara la chiave della nostra salvezza, doveva essere per forza Sara l’unica donna sulla faccia della Terra a farci arrivare al video che avrebbe potuto riabilitare Lincoln e Michael.
Quello che proprio non riuscivo a mandare giù era il pensiero di essere stata così bellamente presa in giro.
Una furia cieca mi salì alla testa quando le immagini di Sara e Michael, di nuovo appiccicati come sanguisughe, cominciarono ad aggrovigliarsi nella mia mente e premere l’una sull’altra, una sensazione orribile resa ancora più orribile dal dolore lancinante alla testa che aveva fatto insorgere la nausea.

Qualunque cosa avessi fatto o detto in quel momento sarebbe stata quella sbagliata dato lo stato in cui mi trovavo. Dovevo allontanarmi da Sara, uscire per sbollire la rabbia.
Mentre cercavo di digerire la delusione che sentivo salirmi in gola come bile, afferrai la borsa che avevo abbandonato sul divano e mi diressi verso l’uscita, ma in quel preciso istante sentii qualcuno all’esterno infilare la chiave nella toppa per aprire la porta.
Immaginai il momento in cui da quella stessa porta si sarebbe materializzato Michael, tornato probabilmente per prendere qualcosa che aveva dimenticato, perché era impensabile che fosse già di ritorno.
Entrando, avrebbe visto la mia espressione furiosa da vero grizzley dell’Alaska così avrebbe capito che sapevo tutto, che ero a conoscenza del suo piccolo segreto e che non sarebbe bastata una semplice scusa perché lo perdonassi.

Certo, poteva anche trattarsi di Lincoln, tornato in hotel per lo stesso motivo, ma non si trattava né di Michael né di Lincoln e io e Sara impiegammo un secondo e mezzo per rendercene conto quando la porta venne spinta in avanti con forza, bloccata dal chiavistello interno.
Immediatamente, lanciai un’occhiata a Sara che comprese al volo e annuì, quindi anche lei prese la sua borsa e insieme passammo nella camera attigua per nasconderci, prima che il misterioso sconosciuto sfilasse dalla porta il chiavistello ed entrasse.
Forse con tutto quello che c’era capitato eravamo diventate un po’ paranoiche, ma esclusi Michael e Lincoln, chi altri avrebbe potuto avere la chiave? Il personale dell’albergo non si sarebbe mai permesso di entrare con gli ospiti ancora all’interno della stanza. E allora chi? Qualcuno era riuscito a rintracciarci? La polizia? La Compagnia?

Visto che non potevamo scappare usando la porta, ne approfittammo per nasconderci. Sara si infilò veloce sotto il letto mentre io mi intrufolavo dentro l’armadio vuoto, cercando di fare il meno rumore possibile.
Chiusa in quello spazio angusto con i battiti del cuore impazziti e il fiato corto, avevo persino paura a respirare. Il misterioso sconosciuto era vicino, sentivo il rumore dei passi leggeri in sottofondo, sentivo i suoi occhi vagare per la stanza in cerca di qualcosa, qualcuno, ma non avevo idea di chi potesse trattarsi o di come ci avesse scoperte. Avevamo prenotato la camera attraverso i documenti falsi di Sara, quindi era possibile che qualcuno ci avesse riconosciuti.
Trascorsero 5 lunghissimi minuti prima di sentire il rumore della porta d’ingresso venire nuovamente chiusa, più altri due minuti prima che Sara si decidesse a strisciare fuori dal suo nascondiglio per raggiungermi e convincermi ad uscire fuori dall’armadio.
  • Gwyneth, sbrighiamoci ad andare via.
  • Ma… chi era?  -  chiesi col fiatone.
  • Non ne ho idea, ma dobbiamo andarcene prima che decida di tornare.
Era l’idea migliore che avessi sentito quel giorno, nonostante provenisse da Sara.
Prese le rispettive borse, ci dirigemmo di filata verso la porta, ma ad attenderci trovammo una brutta sorpresa.

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Capitolo 13
*** Salvataggio estremo ***


Previsione un po’ troppo ottimistica pensare che chiunque fosse venuto a cercarci, prendendosi il disturbo di controllare un hotel nel quale eravamo registrati sotto falso nome, decidesse di andarsene veloce com’era arrivato. C’era stata tesa una trappola in modo patetico e noi c’eravamo cascate come dilettanti. Che stupide!
Appena Alexander Mahone era saltato fuori da dietro l’angolo puntandoci la pistola contro, sia io che Sara eravamo trasalite spaventate, lanciando un urlo.
  • Ferme. Non muovetevi.  -  ci ordinò il poliziotto col suo solito modo di fare calmo e pacato, tenendoci entrambe sotto tiro.
Non che potessimo fare gran che per scappare. Mahone ci bloccava la nostra unica via di fuga e per di più eravamo disarmate, a differenza dell’uomo che avrebbe potuto farci secche in qualunque momento. 
  • Mettetevi lì, sedute.  -  continuò, indicando il divano con la canna della pistola. Non potemmo far altro che indietreggiare e obbedire. Con Mahone era meglio non fare mosse azzardate.  -  Dov’è Scofield?  -  chiese, guardando me.
  • Non lo so.
Ripeté la stessa domanda a Sara e anche lei rispose allo stesso modo.

Mahone non si arrese.  -  Dove sono Scofield e Burrows?
  • Sono andati via. Michael ha deciso che era meglio così ed è andato via con suo fratello, lasciandoci qui.  -  provò Sara.  -  E’ così. E’ finita.
  • Ah si? E’ finita? Finita come quando hai prenotato un volo per il New Mexico, usando i documenti di una donna morta per andare ad incontrare Scofield a Gila? Oppure come quando siete partiti insieme dalla stazione di Evansville… o no, forse non ti riferivi a te, forse ti riferivi a Gwyneth che si proclama sempre innocente. Lei è sempre innocente. Lei non ha aiutato Scofield e compagni ad evadere, non è andata ad incontrare il suo ragazzo nel bel mezzo del deserto. Gwyneth ha sempre una scusa pronta per giustificarsi…
  • Ehi, adesso piantala, ti stiamo dicendo la verità.  -  sbottai scocciata.
  • No, voi non mi state dicendo la verità. Io voglio sapere dove sono Scofield e Burrows!
  • Bene. Ti do un piccolo indizio: non sono qui!
L’uomo sorrise sardonico.  -  Allora vorrà dire che aspetteremo qui pazienti che ritornino. Adesso mettete i cellulari sul tavolo. Subito!
 
Obbedimmo. Che altro potevamo fare? Avevamo una pistola puntata addosso,  -  tanto per cambiare  -   l’unica cosa logica era aspettare che quel dannato poliziotto facesse una mossa sbagliata. Il problema era che i minuti passavano e noi continuavamo a rimanere degli ostaggi sotto tiro.

Mahone si era appoggiato alla finestra di fronte, dandoci le spalle. Ad ogni minuto che passava, sembrava diventare sempre più nervoso, impaziente, ma a dire la verità anch’io avevo cominciato a sentirmi impaziente. Insieme al cerchio alla testa, da quando era apparso il federale, avevo avvertito anche un fastidiosissimo dolore al petto che mi impediva di respirare come dovevo. Volevo andarmene da lì. Stavo male. 
  • Dobbiamo continuare a restarcene qui, sperando che accada qualcosa?  -  chiesi ad un certo punto, chiedendomi cosa avesse Mahone da fissare così assorto fuori da quella finestra.
  • Perché, hai qualche altro impegno?
  • Non telefonerà nessuno, te l’ho detto. Se ne sono andati.  -  riprovò Sara.
  • Beh, lo scopriremo presto. Aspetteremo che il caro Michael chiami. Io lo spero vivamente perché se non lo farà, sarò costretto ad uccidervi, perciò godetevi gli ultimi istanti di vita insieme e in silenzio, se vi è possibile… chissà che non possa servirvi.
  • E a te cosa servirebbe, Alex?  Sei un uomo intelligente e sai di aver scelto di appoggiare dei farabutti e dei criminali. Ti sei schierato dalla parte sbagliata. Tu lo sai che Lincoln Burrows è innocente e che qualunque sia lo scopo di quegli assassini non è certo dei più nobili.
  • Cosa vuoi che me ne importi? Mi è stato affidato un compito e io devo solo portarlo a termine.
Lo fissai inorridita.  -  Portarlo a termine? Quegli uomini ti hanno assunto per uccidere degli innocenti che non sapevano nulla né della Compagnia, né di tutto il resto. Eri un uomo di legge, mentre adesso non batti neanche ciglio mentre colpisci e uccidi. Che cosa sei diventato, Alex? Un pitbull che esegue gli ordini e fa il lavoro sporco al posto di uomini senza alcuno scrupolo.
Punto sul vivo, l’uomo reagì in modo inaspettato.  -  Che cosa vuoi saperne tu?!  -  gridò  -  Sono una pedina nelle mani della Compagnia, esattamente come lo siete voi. Pensi che mi piaccia questo ruolo? Pensi che mi piaccia essere manipolato?
  • Non so più cosa pensare. Quando ti conobbi mesi fa, nonostante tu mi avessi fatto condannare, pensavo che credessi nella giustizia.
  • Ci credevo. Credevo fermamente nella giustizia, finché un giorno sulla mia strada ho incontrato Oscar Shales. Era un uomo orribile, uccideva e stuprava delle donne senza pietà e io non riuscivo a prenderlo.  -  All'improvviso il tono di Mahone era cambiato, si era fatto assente, come se al posto di raccontare quella storia a me e a Sara, la stesse ripetendo a se stesso.  -  Quelle donne continuavano a morire e io non trovavo il modo di fermarlo. Cominciai a pensare che fosse tutta colpa mia… per questo quando finalmente riuscii a catturarlo non ebbi il coraggio di consegnarlo… non potevo permettere che sopravvivesse…  -  Mi rivolse uno sguardo sofferente.  -  … sono stato costretto a ucciderlo.
Non ne sapevo abbastanza del passato di Mahone, a parte quello che mi aveva accennato Michael e quello che avevo scoperto dal video pubblicato dai fratelli, però dovevo ammettere che sentire raccontare quella storia metteva i brividi.
  • A causa di Oscar Shales avevo perso tutto, tutto ciò a cui tenevo.  -  riprese, adesso più cosciente.  -  Avevo allontanato mia moglie e mio figlio perché mi sentivo un mostro. Per questo quando quell’uomo si presentò davanti a casa mia non fui in grado di rifiutare la sua proposta. Mi assicurò che se avessi accettato di svolgere un incarico per la sua Compagnia, loro avrebbero insabbiato la faccenda di Shales e tutto sarebbe potuto tornare alla normalità. Era solo un piccolo compromesso in cambio di ciò che rimaneva della mia vita…
Avevo la strana sensazione che Mahone stesse cercando comprensione o forse… Cosa? Pietà? Adesso capivo perché Alex fosse passato al lato oscuro. Era stato convinto a lavorare per la Compagnia in cambio dell’archiviazione del caso Shales, ergo, era stato ricattato.
Non sapevo cosa dire. Ero disgustata e allo stesso tempo dispiaciuta per lui anche se in quel momento, il dispiacere era davvero ben poca cosa. Era già la seconda vota che quell’uomo mi puntava una pistola contro e la cosa cominciava a diventare fastidiosa.
  • Quando mi resi conto che ormai eseguivo gli ordini non per tornare dalla mia famiglia ma per proteggerla, era troppo tardi. Tre giorni fa un’auto della Compagnia ha investito mio figlio. E’ finito in ospedale con una gamba rotta e 4 fratture, e sapete perché? Perché mi ero rifiutato di eseguire gli ordini…  -  Strinse i pugni e mi fissò con rabbia.  -  Mio figlio ha solo 7 anni, è solo un bambino… perciò scusa tanto se non riesco a farmi un esame di coscienza quando mi sento dire che sono dalla parte sbagliata.
  • Mi dispiace tanto per la tua famiglia, dico sul serio, ma perché dobbiamo andarci di mezzo noi? Mi stai dicendo che pur di tenere al sicuro la tua famiglia faresti fuori degli innocenti?
  • L’ho già fatto.  -  rispose, questa volta rivolgendomi uno sguardo freddo e inespressivo.  -  Io rivoglio indietro la mia vita.
Disgustata dalla sua risposta scattai in piedi, gridandogli in faccia quanto anch’io rivolessi indietro la mia vita, ma la frase mi morì in gola a causa dello sforzo e dell’affanno sempre più forzato che mi fece concludere con un tremendo attacco di tosse.
  • Oh no… Gwyneth!  -  intervenne Sara, aiutandomi a calmarmi e tornare seduta.  -  E’ in preda ad una crisi respiratoria. Sta male.
  • Falla stare seduta.
Sara suonò terribilmente preoccupata nel pronunciare le successive  parole.  -  Potrebbe peggiorare, dobbiamo portarla in ospedale.
  • Potrai portarcela tu stessa quando il suo fidanzato avrà chiamato.
Scossa dall’affanno, rivolsi a Mahone un’espressione truce, sforzandomi di restare calma, di non arrabbiarmi e soprattutto di non farmi prendere dal panico e peggiorare la situazione. Per un po’ cercai di seguire i consigli di Sara, di regolarizzare la respirazione, inspirare ed espirare ad intervalli di due secondi ciascuno, ma più i minuti passavano più mi trasformavo in una disperata che annaspava aria dalla bocca nel tentativo di non soffocare. Eppure, nonostante il mio stato, non ci misi molto ad accorgermi di non essere l’unica in quella stanza a stare male. Anche Alex non era proprio messo benissimo.
Cercava di non darlo a vedere ma le sue mani tremavano, la sua voce si era fatta sempre più isterica e da qualche minuto aveva iniziato a sudare copiosamente. Finché, ad un certo punto, gli avevo visto tirare fuori dalla tasca interna della giacca una stilografica. Ne aveva smontato l’astuccio e fatto scivolare sulla mano una mentina bianca che aveva messo in bocca e mandato giù senza fare grossi complimenti. Mezz’ora dopo aveva ripetuto il procedimento, ingoiando una seconda mentina.
  • Gwyneth, come stai?  -  sentii Sara a pochi centimetri dal mio orecchio.
Non avevo più la forza per risponderle. Ero fuorigioco, stremata. Sentivo la gola e il petto bruciare, la testa pulsare e ruotare così vorticosamente da distorcere ogni suono, ogni immagine davanti ai miei occhi. Volevo solo che qualcuno mi aiutasse e mettesse fine a quel supplizio, mi sembrava di morire.
  • Riesce ancora a respirare?
Mi sembrava che fosse stato Mahone a parlare, ma non ne ero sicura.
  • Il respiro è debolissimo. Non possiamo più rimanere qui, non ce la fa più. Guardala!
  • Non ci posso fare niente, siete voi che vi siete messe in questa situazione. Mi serve solo che una delle due, quella che ancora respira possibilmente, mi dica dov’è Scofield e tutto finirà molto presto. Stai perdendo solo tempo, Sara. Te ne stai lì a tenerle la testa, aspettando che da un momento all’altro accada un miracolo, ma forse la verità è che non t’importa niente di lei. Tu conosci i problemi di questa ragazzina, non è così? Hai letto la sua cartella clinica a Fox River?
  • Certo, è per questo che sono preoccupata.
  • Se conosci la portata delle sue crisi sai che è al limite. Tra non molto inizieranno gli attacchi epilettici e i polmoni collasseranno. Vuoi davvero lasciare che la tua amica ci lasci le penne per proteggere un uomo che ti ha solo usata perché lo aiutassi ad evadere? Perché è questo che ha fatto, e tu lo sai bene. Michael ti ha fatto credere di amarti perché aveva bisogno di te, ma la verità è che lui e Gwyneth se la intendevano ancor prima che lui scavalcasse quel muro.
Ecco perché non bisognava mai sottovalutare Alexander Mahone. Lui era un asso nello sfruttare quei trucchetti da psicologia inversa per sottomettere l’avversario. Se solo fossi stata in grado di rispondergli per le rime gli avrei fatto vedere come anch’io riuscivo ad essere un asso in quel gioco, ma ormai non riuscivo quasi più a respirare, figuriamoci a parlare. Speravo solo che Sara non si lasciasse raggirare o saremmo state perdute.
Poi all’improvviso, prima che potesse accadere il peggio, il cellulare di Sara prese a squillare e in una frazione di secondo il silenzio scese compatto nella stanza, rotto soltanto dallo snervante trillo del telefono e dal mio costante boccheggiare.
  • Su Sara, rispondi.  -  le ordinò Mahone, puntandole la pistola contro. Sia io che Sara rimanemmo immobili mentre il cellulare continuava a squillare.  -  Sara, prendi quel maledetto telefono e rispondi… RISPONDI!!!  -  gridò questa volta, spazientendosi.
Nei secondi successivi accadde qualcosa di assolutamente imprevedibile.
Spinto dalla rabbia e dall’impazienza di afferrare il telefono prima che smettesse di squillare, Mahone commise lo stupido sbaglio di riporre la pistola di lato per sporgersi verso il tavolo e afferrare il cellulare. Fu la nostra momentanea salvezza. Riuscendo a prenderlo in velocità, Sara riuscì a soffiargli la pistola con un gesto fulmineo, ancor prima che l’uomo avesse il tempo di premere il tasto di risposta alla chiamata.
Il cellulare smise di squillare, sancendo il capovolgimento dei ruoli. Adesso era Sara che teneva Mahone sotto tiro.
Che stupido farsi fregare in quel modo! Ma come gli era venuto in mente di posare la pistola ad un passo dalle due donne che stava tenendo in scacco? Era inconcepibile un gesto tanto sconsiderato da parte di un poliziotto furbo e intelligente come Mahone. Non c’erano dubbi che stesse male per commettere un errore simile.
  • Rimani dove sei.  -  intimò Sara all’uomo rimasto spiazzato probabilmente dal suo stesso errore.  -  Resta fermo e ridammi il cellulare.
Senza aspettare che Alex eseguisse le direttive, gli prese dalle mani ciò che gli aveva preso, continuando a tenere la pistola puntata come una dilettante. Si vedeva lontano un miglio che non ne aveva mai presa una. Le tremava la mano e anche la voce.
Dopo aver recuperato la borsa, Sara mi aiutò ad alzarmi dal divano visto che facevo fatica persino a stare in piedi, quindi ci impiegò il doppio delle energie per sorreggere me e raggiungere l’uscita continuando a tenere il poliziotto sotto tiro.
Grazie al suo coraggio e alla sua prontezza, riuscimmo a sfuggire alle grinfie di Mahone e a metterci in salvo, allontanandoci il più possibile dall’albergo.
  • Gwen, resisti.  -  mi supplicò la donna, occupando in fretta il posto di guida sull’auto lasciataci da Michael e Lincoln.  -  Ci sono io qui con te.
E non so perché ma quelle semplici parole, nonostante venissero da Sara, riuscirono a tranquillizzarmi.

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Capitolo 14
*** Separazione ***


  • Va meglio, non è vero?
Sara mi sorrise sollevata e io non riuscii a negarle la mia più totale gratitudine. Si era presa un bello spavento, come me, però superando le mie aspettative era riuscita a mantenere la calma e il sangue freddo e risolvere la situazione. Con un sacchetto di carta e una bottiglietta d’acqua era riuscita ad aiutarmi a superare la crisi e con un vero e proprio colpo da maestro era riuscita a gabbare niente meno che il più corrotto e astuto dei federali.
Adesso eravamo ferme in una piazzola di sosta, a meno di un isolato dall’hotel dal quale eravamo scappate.
  • Si, va molto meglio in effetti. Ti ringrazio.
  • Hai spesso degli attacchi di panico così devastanti?
Giocherellai con il tappo della bottiglietta d’acqua che tenevo stretta tra le mani. Tremavo leggermente, ormai la crisi era superata.
  • Di solito riesco a gestirle.  -  risposi timidamente.
  • Assumi psicofarmaci per combattere queste crisi?
  • Credevo che conoscessi la mia cartella clinica, dottoressa.
  • Si…
  • Sei stata in gamba prima con Mahone.  -  le dissi all’improvviso, cercando di sviare l’argomento su altro.
Sara fece finta di abboccare.  -  Ho fatto del mio meglio. Perciò… pensi che abbia riguadagnato punti adesso che ti ho praticamente salvato la vita?
 
Sapevo che la sua voleva essere una battuta simpatica, un tentativo per strapparmi un sorriso visto che entrambe eravamo appena scampate da una situazione ad alto rischio, ma nonostante avessi rischiato di beccarmi un foro di proiettile in testa ed era mancato poco che smettessi di respirare, non riuscivo a dimenticare quello che mi aveva confidato prima in hotel. Lei aveva baciato Michael, lei era innamorata dell’uomo che amavo e questa non era una cosa che potevo perdonarle, pur salvandomi la vita altre cento volte. 
  • Perché non mi hai lasciata in hotel?  -  le chiesi costernata.  -  Avresti potuto metterti in salvo e lasciarmi con Mahone, e non ti avrei biasimata visto il modo odioso in cui mi sono comportata con te fino adesso.
Mi sorrise materna.  -  Non lo avrei mai fatto.
  • Lo so. So che sei una brava persona… lo sei davvero Sara, per questo forse mi sentirò in colpa per quello che sto per dirti. Sinceramente, quello che hai fatto non cambia le cose, non diventeremo amiche per questo. Michael è molto importante per me, io lo amo e tu hai cercato di portarmelo via. So che c’è qualcosa che vi lega. Tu gli hai volontariamente lasciato la porta aperta per evadere e lui si è sentito in colpa nei tuoi confronti per averti coinvolta ed è venuto ad incontrarti a Gila.  -  Per un attimo parve sorpresa che io fossi a conoscenza dei fatti, ma non disse nulla.  -  Non so da chi dei due sia partito quel bacio, né tantomeno ho intenzione di chiedertelo, ma… ti posso assicurare che non intendo rinunciare a lui per nessun motivo quindi, prova di nuovo ad avvicinarti al mio Michael e ti farò rimpiangere di non avermi lasciata in quella stanza d’albergo insieme a Mahone.
Sara non rispose. Restò immobile, seduta al suo posto a guardare oltre il parabrezza mentre il silenzio lungo e imbarazzante invadeva lo stretto abitacolo, cancellando dal viso della donna ogni traccia di sarcasmo precedente.
Non era mia intenzione minacciarla, non ero un killer, non facevo fuori la gente per uno stupido bacio, ma potevo diventare terribilmente vendicativa quando si mirava a ciò che, di fatto, era mio. E Michael era mio. Era ora che se ne rendesse conto.
Per diversi minuti nessuna delle due fiatò. Probabilmente saremmo rimaste in quelle stesse posizioni per ore se improvvisamente il cellulare di Sara non avesse ricominciato a squillare all’impazzata.

Ovviamente era Michael. Avevo quasi dimenticato che, mentre noi venivamo quasi aggredite e tenute come ostaggi dal poliziotto corrotto, anche Michael era andato a rischiare la vita per riuscire ad incontrare il presidente.
Sara aveva risposto al secondo squillo, aveva atteso qualche secondo, dopodiché la bocca le si era distorta in una smorfia di sorpresa. 
  • Dici davvero? Oh Michael, è fantastico!  -  All’altro capo era seguita la risposta che io non potevo sentire.  -  Certo, è qui con me… d’accordo, arriviamo subito.
  • Era Michael, vero? Che cos’è successo?  -  le chiesi, senza lasciarle il tempo di terminare la comunicazione.
La donna chiuse il telefono e sorrise entusiasta. Ogni traccia di ostilità o imbarazzo tra noi era nuovamente sparita.
  • Michael e Lincoln hanno ottenuto la grazia presidenziale. La Reynolds lo comunicherà a breve, in diretta televisiva. Ce l’hanno fatta. Torneranno ad essere liberi!
  • Non ci posso credere… ce l’hanno fatta davvero.
  • Davvero. 
Finalmente una buona notizia. Avrei voluto urlare dalla gioia. Alla fine i nostri sforzi erano stati ricompensati. Ogni accusa sarebbe caduta e Michael e Lincoln avrebbero potuto smettere di scappare, sarebbero tornati ad essere liberi e io avrei potuto smettere di avere paura di Alexander Mahone.
Non vedevo l’ora di riabbracciare i miei due amici e togliere il fiato a Michael con un bacio della vittoria, e a quel punto poco sarebbe importato che Sara fosse stata presente e ci avesse visti.

Ripartimmo subito mentre accendevo la radio, sintonizzandola sul canale in cui trasmettevano la conferenza al Grand Carlyles Hotel dove a breve il presidente degli Stati Uniti sarebbe salito sul podio per fare il suo discorso. Valeva la pena ascoltare con le proprie orecchie la disfatta della Reynolds ed esultare del grande trionfo. 
  • Dove stiamo andando adesso?  -  chiesi, non riconoscendo la strada.
  • Michael ci aspetta ad Hiland, in un deposito dell’arsenale che costeggia la costa.
Probabilmente anche Lincoln si trovava lì. A pensarci bene, visto che il piano era andato in porto non ci sarebbe più stato bisogno di imbarcarsi per raggiungere Panama. Il tempo di fuggire era finito, il piano B non sarebbe stato necessario.
Ero molto felice che tutto si fosse concluso per il meglio.
Finalmente il momento tanto atteso arrivò. Alla radio, l’inconfondibile voce melodiosa e sicura della Reynolds esordì, salutando i presenti tra giornalisti, politici e ascoltatori, esibendosi in un’interminabile sfilza di convenevoli che riuscirono solo a rendere più incandescente l’attesa. Poi, di colpo, il tono divenne serio e ci rendemmo conto che eravamo vicini al dunque.
  • “E’ appena venuta alla luce una faccenda della quale sento di dovermi occupare con urgenza, ed è mio preciso compito come Presidente di questa grande nazione prendere delle decisioni razionali quando mi si presentano dei fatti, decisioni che non sono a vantaggio mio, ma della gente.”
Nella voce del presidente risuonava gravità, compostezza e consapevolezza.
Mentre ascoltavo quelle parole, non potevo fare a meno di pensare che quel momento avrebbe rappresentato una vittoria non soltanto per Michael e Lincoln, ma anche per me. Avevo dichiarato guerra a quella donna, accusandola pubblicamente sul mio blog, ero finita in carcere per questo e a Fox River avevo meditato a lungo la mia vendetta. Finalmente era arrivato il momento di riscuotere.
Non aspettavo altro che sentirle pronunciare quelle poche parole, solo poche parole che attestassero la sconfitta della Reynolds e la nostra vittoria.

Ma quelle parole non arrivarono mai. 
  • “Signori, dopo averci riflettuto a lungo, mi rincresce informarvi che mi è stata appena diagnosticata una forma tumorale estremamente maligna… ed è per questo motivo… che non sono più nella condizione di poter ricoprire l’incarico di capo dello stato. Nel miglior interesse di questo paese e con effetto immediato, io mi dimetto dalla carica di Presidente degli Stati Uniti d’America”.
Inutile descrivere lo shock che io e Sara provammo dopo aver ascoltato quelle dichiarazioni alla radio.
  • Il presidente… non è… non è più il presidente…  -  mormorai con voce strozzata.
  • Si è dimessa.
  • Merda! Merda, merda, merda!!  -  imprecai rabbiosa, sbattendo i pugni contro il cruscotto.  -  Che cosa abbiamo rischiato a fare la vita fino ad ora? Per niente!
Sara sembrava persino più sconvolta di me.  -  Se la Reynolds si dimette dalla carica di presidente non potrà concedere la grazia… mio padre aveva trovato la prova che incastrava quella donna e per questo è stato ucciso… e adesso quel video non vale nulla.
 
Constatare di aver fallito, di aver rischiato tanto e soprattutto di aver perso delle persone care per niente, lasciava un senso di vuoto e un’indescrivibile amarezza. Non riuscivo nemmeno ad immaginare come avessero preso la notizia delle dimissioni della Reynolds Michael e Lincoln.
Eravamo di nuovo punto e a capo. I due fratelli, e adesso anche Sara, sarebbero tornati ad essere dei fuggitivi e se Mahone avesse deciso di liberarsi la coscienza e informare l’FBI del mio coinvolgimento, al trio ben presto si sarebbe aggiunto un altro elemento. Adesso più che mai, urgeva sparire dagli Stati Uniti e raggiungere il Messico. Raggiunta Panama avremmo potuto riflettere sul da farsi. Il problema però era riuscire ad arrivarci a Panama.
  • Guarda quell’auto blu dietro di noi, Gwyneth.  -  mi disse Sara qualche minuto dopo aver lasciato il centro di Chicago.  -  Ho l’impressione che è da quando ci siamo allontanate dalla piazzola che non ci molla.
Eravamo ferme ad un semaforo e l’uomo seduto all’interno dell’auto che Sara mi aveva indicato e che riuscivo a vedere attraverso lo specchietto, sembrava stesse fissando distrattamente la strada davanti a sé, incurante di tutto il resto. Non era un uomo che desse particolarmente nell’occhio, ma dopo quello che avevamo affrontato nelle ultime ore era meglio non abbassare la guardia.
  • Pensi che ci stiano pedinando?
Studiai attentamente le altre auto in coda al semaforo, utilizzando sempre lo specchietto retrovisore, ma non trovai nulla di sospetto.
Ripartimmo. Sara ingranò la seconda e svoltò verso sinistra diretta ad Hiland.
  • Non lo so. Chi può essere? I poliziotti?  -  azzardò.
  • O la Compagnia. Entrambe ipotesi poco incoraggianti. Prova a girare a destra, vediamo come si comporta.
Non se lo fece ripetere e svoltò a destra come le avevo chiesto. L’auto blu dietro di noi fece lo stesso. Provò a svoltare nuovamente a destra e ancora una volta quella dietro ci imitò. Ormai eravamo quasi arrivati, quella era una strada poco trafficata che proseguiva verso l’arsenale e noi avevamo allungato di proposito il percorso.
  • Merda!  -  imprecai per la seconda volta. Ormai non c’erano più dubbi.  -  Vogliono che li portiamo da Michael e Lincoln, ecco perché non ci hanno ancora intimato di accostare. Ci hanno seguite per tutto il tempo, ma come…?  -  Prima ancora di formulare la domanda, avevo già pronta l’unica spiegazione plausibile.  -  Ma certo. Mahone.
  • Che c’entra Mahone?
  • Ci ha prese in giro come due pivelle e noi ci siamo cascate in pieno.  -  Sara continuava a non capire.  -  Prima in albergo quel farabutto ha solo finto di farsi soffiare la pistola. Voleva che noi ce ne andassimo indisturbate, che ci sentissimo tranquille di averla fatta franca, così lo avremmo portato dritto dritto dai suoi veri obiettivi.
  • Non sappiamo se sia andata veramente così. Avrei potuto sparargli.
  • Sono quasi certa che abbia tolto il caricatore alla pistola assicurandosi che non potessimo vederlo. Fattene una ragione Sara, ci ha solo usate. Quell’uomo è scaltro come una volpe, aveva già pianificato tutto. Ha finto di aver commesso un errore, permettendoti di appropriarti dell’arma. Dovevo capirlo subito che si trattava di una messa in scena. Quello è un agente speciale, un uomo abituato a pianificare anche come soffiarsi il naso. Neanche se fosse stato totalmente sbronzo saresti riuscita a prenderlo di sorpresa.
  • Mi dispiace. E’ tutta colpa mia.  -  mormorò, sinceramente mortificata, continuando a guidare.
Ci stavamo allontanando dal deposito di Hiland per ritornare indietro. Le auto che ci pedinavano erano diventate due. C’erano poche possibilità di uscire da quella situazione scomoda. Non era come fuggire da una stanza d’albergo, i federali ci stavano alle calcagna e noi non potevamo scappare.
  • La colpa è anche mia, avrei dovuto accorgermene.
  • Già, ma tu stavi male. Che cosa facciamo adesso?
Gran bella domanda.
L’auto blu accelerò, recuperando terreno. Non c’era più motivo che si tenesse a distanza. Dentro di me sentivo nuovamente insorgere il panico, veloce e dirompente.
  • Non lo so… io non lo so, non sono come Michael, non riesco a pensare lucidamente quando sono sotto pressione, non sono capace di pianificare strategie vincenti e tirarle fuori dal cilindro come nulla fosse. Abbiamo i poliziotti alle calcagna, quando capiranno che ci siamo accorti di loro ci intimeranno di fermarci e…
  • D’accordo Gwyneth, però calmati.  -  sospirò.  -  Andrà tutto bene, ok? Fidati per una volta.
Mi voltai verso di lei insospettita dallo strano tono che aveva usato e vidi una miriade di emozioni attraversarle il volto, a nessuna delle quali riuscii a dare un’interpretazione.
  • Sara…
L’auto accelerò impercettibilmente.
  • Che stai facendo?  -  chiesi con la gola secca.
  • So che non mi crederai, ma mi dispiace davvero di essermi innamorata di Michael. Capisco che mi odi per averlo baciato, eppure se devo essere sincera tu mi sei stata subito molto simpatica. A Fox River ammiravo la tua forza di volontà e il tuo coraggio, ma non te l’ho mai detto.
Stavo tremando. Perché?  -  Sara… non è il momento per scambiarsi confidenze. Che intenzioni hai?
  • Tu andrai in quel deposito ad incontrare Michael e Lincoln.
  • E come facciamo con i poliziotti?
  • A loro penserò io, tu preoccupati solo di arrivare al deposito e non farti seguire.
  • Certo, come no…  -  sbuffai.
  • Arrivati in prossimità di quell’incrocio laggiù farò una rapida svolta a sinistra, così avrai il tempo di scendere e di nasconderti. Loro seguiranno me.
Avevo capito che si trattava di una stupidaggine ancor prima di ascoltare il piano al completo.
  • Non se ne parla nemmeno, non faremo gesti eroici. O andiamo tutte e due o nessuna.
Sospirò.  -  Gwyneth, non possiamo andare tutte e due. Michael ha fatto una scelta, è innamorato di te. E’ giusto che vada tu.
  • Non voglio farlo!  -  mi opposi fermamente.
Non doveva andare a finire così, non volevo. Potevo anche arrabbiarmi con Sara, odiarla per aver baciato il mio uomo, ma permetterle di sacrificarsi al mio posto no, questo mai.
  • Gwyneth…
  • No, no, noo… ti prego non farlo! Ti sbatteranno in cella quando ti prenderanno e… ti prego Sara, è terribile vivere dietro le sbarre.
Ormai non mi stava più ascoltando.  -  E’ il momento.
  • No, aspetta… aspetta!!  -  gridai invano.
Troppo tardi. Sara aveva già schiacciato a manetta l’acceleratore, svoltando a sinistra. Nel giro di una manciata di secondi al massimo, anche le due auto che ci stavano seguendo avrebbero svoltato nella nostra stessa direzione.
  • Forza scendi!  -  gridò, fermandosi e allungandosi su di me per aprire la portiera e costringermi a fare come diceva.
Non avrei voluto lasciarla sola, non volevo comportarmi da egoista, ma Sara era così determinata e io… avevo così tanto paura di tornare in cella. Si era impuntata a volermi salvare a tutti i costi e non c’era nulla che potessi fare o dire per farle cambiare idea. Lei mi stava offrendo un’occasione, sarebbe stato stupido sprecarla.
  • Grazie.  -  riuscii a dirle mentre scendevo al volo dall’auto e correvo a nascondermi dietro un cassonetto, prima che l’auto ripartisse.
L’auto blu che ci aveva seguite fino a quel momento mi passò accanto una frazione di secondo dopo, insieme ad altre due auto al seguito.

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Capitolo 15
*** Questo è un addio? ***


Il deposito di Hiland non era molto distante da dov’ero stata scaricata.

Avevo impiegato meno di dieci minuti per raggiungerlo e una volta arrivata, era stato facile riconoscere Michael e Lincoln fermi e in attesa sul molo ormai quasi completamente deserto, accanto all’enorme cargo in partenza.
Vedendomi camminare verso di loro, Michael si era staccato dal fratello per raggiungermi. 
  • Finalmente. La nave sta per partire… dove hai lasciato il cellulare?
  • In albergo.  -  risposi quasi senza guardarlo.  “In mano a Mahone, molto probabilmente”.
Appena avevo sollevato gli occhi verso il ragazzo, le ferite ben evidenti sulla parte sinistra del suo viso erano saltate subito all’occhio. Non le avevo notate prima perché Michael aveva alzato il cappuccio della felpa in testa, coprendogli anche parte del volto tumefatto. Ma come lo avevano conciato? Il sopracciglio sinistro era spappolato e l’occhio e il labbro erano gonfi e arrossati.
Povero amore mio, doveva essersi preso una bella scarica di botte. 
  • Non preoccuparti, non è niente.  -  mi rassicurò, interpretando bene la mia espressione.  -  Piuttosto, perché ci avete messo tanto? Dov’è Sara?
  • Abbiamo avuto qualche problema lungo la strada.  -  spiegai, sentendomi ancora mortificata per aver permesso a Sara di andare incontro ad un destino crudele da sola.
  • Che cos’è successo?  -  mi domandò Lincoln che nel frattempo ci aveva raggiunti.
  • Mahone ci ha trovate mentre eravamo ancora in albergo e ci ha teso una trappola. Ci ha fatto credere di lasciarci andare, dopodiché ci ha fatte pedinare dai suoi tirapiedi perché li portassimo da voi. Io e Sara ce ne siamo accorte prima di arrivare qui e abbiamo tentato di portarli fuori strada.
  • Dov’è Sara adesso?  -  continuò Michael con un filo di disperazione nella voce.
Non ebbi più il coraggio di guardarlo in faccia, non volevo leggere la tristezza nei suoi occhi prima ancora di spiegargli cosa fosse realmente successo. Non potevo sopportarlo.
  • Sara mi ha fatta scendere dall’auto perché potessi mettermi in salvo, mentre lei…
Non c’era bisogno che dessi ulteriori spiegazioni, era piuttosto ovvio il seguito, inoltre mi sentivo terribilmente in colpa e non mi sembrò il caso di far presente il fatto che mi fossi salvata a discapito di Sara.
  • Quel farabutto ci sta ancora alle calcagna.  -  sbottò Lincoln, prima di avvicinarmi e prendermi tra le braccia.  -  Perlomeno ne sei scampata. Sei sicura di stare bene? Sei così pallida…
Annuii per rassicurarlo. Erano solo residui della crisi respiratoria avuta neanche un’ora prima. Sarebbe bastato un po’ di riposo e un’abbuffata ipercalorica e sarei tornata ad avere il perfetto colorito cadaverico di sempre, l’equivalente colorito di quel momento.
  • Dobbiamo aiutarla.  -  sentii pronunciare a Michael improvvisamente.  -  Non possiamo partire, non possiamo lasciarla nei guai.
Cosa?! Era serio. Sarebbe rimasto davvero per lei, per salvarla.
  • Credo sia tardi. I poliziotti la stavano inseguendo, probabilmente ormai…
  • Non possiamo lasciarle pagare i nostri errori.  -  ribadì senza lasciarmi terminare.  -  No, non possiamo abbandonarla così.
  • Non dire sciocchezze Michael, non possiamo più rimanere qui. Dobbiamo andarcene e sparire.  -  lo riprese Lincoln, provando a farlo rinsavire.
  • No, io non parto senza Sara.
Fu come ricevere un pugno in pieno stomaco senza preavviso. Quelle parole riuscirono a farmi più male della crisi che poco prima mi aveva ridotta ad annaspare aria per non soffocare. Non erano le parole in sé ad avermi turbata, ma il modo in cui Michael le aveva pronunciate, come se per lui non esistesse cosa peggiore che staccarsi da quella donna, come se tutto il resto all’improvviso non contasse, come se lui… l’amasse.
Forse quella frase racchiudeva in sé una profonda verità che fino a quel momento avevo cercato di negare a me stessa, ma che in fondo era lì davanti ai miei occhi.

Perché ancora volevo negarlo? Michael provava qualcosa per Sara, per quanto probabilmente neanche lui se ne rendesse conto.
Per la prima volta da quando Sara mi aveva lasciata in quel vicolo perché mi salvassi, desiderai essere rimasta io al suo posto a seminare i nostri inseguitori. 
  • Michael ti prego, cerca di ragionare. Anche a me dispiace, ma se restiamo non avremmo più altre possibilità di raggiungere Panama e tutto quello che hai fatto fin ora per portarci fin qui sarà stato utile.
  • Ma lei ha fatto tanto per noi…
  • Si,  -  rispose Lincoln conciliante, rivolgendo gli occhi in lontananza. Poco lontano da lì le sirene della polizia cominciarono a suonare a tutto spiano e tutti e tre ci rendemmo conto che la corsa di Sara doveva essere finita.  -  ma non possiamo fare più niente per lei.
Il richiamo dell’enorme nave da trasporto si levò in aria, segnalando che l’imbarco delle merci fosse appena stato completato e che la partenza fosse imminente.
Michael stava ancora fissando il molo, in direzione delle sirene. Era così assorto, così addolorato che mi si strinse il cuore. Cosa stava provando in quel momento? Era soltanto senso di colpa? Avrebbe avuto la stessa reazione se al posto di Sara ci fossi stata io?
  • Questo è tuo Sawyer.  -  mi disse Lincoln, porgendomi un biglietto per l’imbarco.  -  Avevo preso 4 biglietti, nel caso anche tu e Sara foste volute venire con noi.
Presi il biglietto e per una manciata di secondi restai a fissarlo, incapace di dire una parola.
Era una possibilità quella che mi si stava offrendo, partire per Panama insieme a due ricercati, lasciare gli Stati Uniti, lasciare Keith, Meredith e dare un calcio al passato e alla mia vita più di quanto non avessi già fatto. Ma era davvero quello che volevo? Tutto quello che desideravo era restare insieme a Michael e non dovermene separare mai più. Cosa accidenti mi importava della Compagnia, di Mahone o di diventare a mia volta una ricercata se fossi riuscita a rimanere accanto all’uomo che amavo?
Se solo anche lui mi amasse…
  • Io non vengo.  -  dissi, restituendo il biglietto al mio amico.
Immediatamente, entrambe le sopracciglia di Lincoln si curvarono all’in su.  -  Perché?
  • Perché non voglio. Non posso lasciare tutto e partire alla volta di Panama, dimenticandomi le mie responsabilità. Non posso lasciare Keith senza una spiegazione, si preoccuperebbe e io non voglio che succeda. Lui non lo merita… mi dispiace ragazzi.
  • Ma come farai con la Compagnia? Potrebbero rintracciarti in qualunque momento.
Scossi la testa e gli sorrisi.  -  No, starò bene. Sono così impegnati a darvi la caccia che non avranno tempo di preoccuparsi anche per me.
  • Però…
  • Piantala Linc, ho detto che starò bene.
Mi strinse a sé per la seconda volta.  -  Mi mancherai tanto.
“Oh no, così rischio di piangere”.  -   Mi mancherai tanto anche tu, galeotto.
 
Quell’omone così grosso e pieno di muscoli che mi sovrastava facendomi sembrare una bambina, era diventato così importante per me che quasi stentavo a credere di averlo conosciuto tra i corridoi di un carcere di massima sicurezza. Sapevo che la nostra amicizia era solida, me lo sentivo e non avevo alcun dubbio che un giorno o l’altro ci saremmo ritrovati.
Solo allora trovai il coraggio di voltarmi verso Michael. Aspettava che arrivasse il suo turno e l’espressione dei suoi occhi bellissimi era vuota, così tristi che mi sbriciolai in pezzi solo a guardarlo.
Se avessi cominciato a piangere non sarei più riuscita a smettere e la mia opera di convincimento sarebbe andata a farsi benedire, ma come facevo a restare indifferente di fronte a quegli occhi? Come avrei trovato il coraggio di allontanarmi da lui e dirgli addio?
  • Potremo anche riuscire a raggiungere Panama, ma che senso avrà senza di te?  -  mormorò con il tono di un bimbo sperduto.
Oddio, non dire così”.  -  Forse… non era destino… tutto qui.
  • So che non è quello che volevi. Ti avevo promesso che non saremmo più scappati, che avrei rimesso le cose apposto… hai ragione a pensare che questa non è la vita che volevi…
“La vita che voglio è insieme a te, stupido!” -  Non è questo, Michael. Io ti amo, ma una decisione del genere ti condiziona la vita e io non posso decidere di stravolgere la mia col dubbio che l’uomo che amo…possa amare un’altra.
 
Michael rimase a fissarmi mentre i minuti passavano. Il dubbio che lui potesse amare Sara era un pensiero che continuava ad ossessionarmi ed era giusto che lui lo sapesse. Potevo anche fare finta che il senso di colpa che lui provava nei confronti di Sara per averla indotta a lasciargli la porta aperta, per averla coinvolta nei suoi problemi e per aver permesso che l’arrestassero, si riducesse solo a questo, ma come potevo esserne certa? Non potevo rischiare di innamorarmi di lui più di quanto non lo fossi già, per poi perderlo. Non lo avrei sopportato.
  • Io ti amo…questo è tutto quello che posso dire.  -  mi disse.
E all’improvviso capii che quello era un addio. Non so cos’avesse mosso quella strana consapevolezza, solo, in maniera del tutto inspiegabile sentivo che ci stavamo allontanando, nonostante ci trovassimo ancora a mezzo metro di distanza.
Mi aveva detto che mi amava. Le sue iridi, azzurre più del cielo, erano così dure, chiare e profonde su di me, troppo profonde perché io potessi cogliere una conferma di ciò che mi ero appena sentita confessare.
  • Vorrei che potesse bastare.
Se dentro di me sapevo che lasciarlo andare era la decisione giusta, perché stavo così male? Perché avrei voluto strapparmi dal petto il cuore per far cessare quel dolore?
  • Michael, dobbiamo proprio andare.  -  lo richiamò Lincoln, rimasto in disparte per lasciarci il tempo di salutarci.
Il ragazzo continuò a fissarmi con intensità, come se non avesse sentito.  -  Quando questa storia sarà finita, verrò a prenderti Gwen… aspettami, ti prego.
 
Furono parole di circostanza, pronunciate in modo frettoloso che mi fecero sorridere dell’illusione che riuscirono a lasciare. Era una prospettiva allettante e anche tanto irreale. Nel migliore dei casi, terribilmente lontana.
Attesi che entrambi si imbarcassero e che la nave salpasse, prima di decidermi a schiodarmi da quel molo desolato e tornare a casa.
Quando mi resi conto che la nave era ormai lontana e che ero rimasta sola in quel posto sperduto, spalancai gli occhi, pronunciai il suo nome ma lui non c’era più. Fu in quel momento che al centro del petto sentii un dolore che mi tolse il respiro e mi stupì per la sua forza.
 
“Oddio… Michael”. 

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