Ave et vale

di Eneri_Mess
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mission 00. Dirge ***
Capitolo 2: *** Mission 01. Le paure di Maha ***
Capitolo 3: *** Mission 02. Davian e Sibeal ***
Capitolo 4: *** Mission 03. Devil May Cry ***



Capitolo 1
*** Mission 00. Dirge ***


ATTENZIONE: qualche nota prima di iniziare per spiegare Rating e Avvertimenti.

 

La storia è segnalata come Rossa per la possibile presenza di linguaggio fine, scene violente e di sesso (“possibile” in quanto ancora non scritte, ma contenute nella trama mentale dell’autrice).

 

La fanfiction conterrà anche tematiche shoujo-ai (amore tra donne), che non sono ancora certa si trasformeranno in yuri.

 

Inoltre, importante, in questa fanfiction troverete TEMI RELIGIOSI trattati e adattati per esigenza alla trama. Dato che questa è semplicemente una storia di fantasia non è mia intenzione offendere nessuno né gettare infamia sulle Sacre Scritture. Amen.

 

Buona lettura!

 

 

 

 

 

Disclaimer: se vi dicessi che Devil May Cry è mio mi credereste?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ave et vale

 

when the life falls from the sky

 

 

˜

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Signore Dio chiese alla donna: « Che hai fatto? »

Rispose la donna: « Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato la mela ».

 

[Genesi 3-13]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mission 00. Dirge

 

 

 

Fuori si era fatto buio, quando Dante riaprì gli occhi.

L’odore della carta stampata si insinuò in modo fastidioso nelle sue narici, facendogli contrarre seccatamente gli zigomi pallidi e rilassati. Con un gesto del tutto calmo e ancora sonnolento, si levò il settimanale dalla faccia, buttandolo alla cieca sulla scrivania.

Continuava ad avere sonno, quel tipo di intorpidimento tipico delle mezze stagioni: un po’ per colpa dell’indecisione del tempo, un po’ per il gelo che spirava ovunque con spifferi e ululati da dannati dell’Inferno. Un’ironia, avere quelle voci inconsistenti e innocue a danzargli intorno e a penetrargli spiacevolmente nelle ossa. Tutto ciò portava una noia atroce, sommata all’inesistenza, anche minima, di lavoro.

Morale della favola, il Cacciatore di Demoni richiuse gli occhi, assestandosi sulla sedia quanto bastò a trovare una più comoda posizione per il nuovo, ozioso sonnellino.

Il cielo rumoreggiò in quel momento, forte e potente come la dinamite di un palazzo in demolizione. Nessun lampo illuminò la grande e sciatta stanza, rischiarata soltanto dai lampioni della strada, quest’ultima spruzzata a scatti dal lampeggiante neon carminio del Devil May Cry.

Dante non si fece cogliere di sorpresa, registrando indolente il rombare del tempo senza troppa importanza. Non aveva in programma d’uscire; in caso, c’erano degli avanzi da riscaldare, e il frigorifero abbondava di birre. L’unica – quasi basilare – necessità che aveva, che agognava in realtà, era quella di scacciare il prurito alle mani che da lì a cinque settimane lo aveva impigrito abbastanza da rendergli fastidiosa anche la sola azione di alzare la cornetta del telefono e chiamare la pizzeria a domicilio.

Perfino chiedersi che fine avesse fatto Trish, volatilizzatasi da un giorno all’altro, si era rivelata presto una preoccupazione troppo dispendiosa di energie da assecondare. Era adulta e demone, di cosa doveva stare in pensiero?

Quando due boati temporaleschi consecutivi invasero le pareti dell’agenzia, la mente del mezzodemone, a un passo dal riposo, riprese appieno i contatti con il presente nel breve lasso di tempo che il lampo del primo tuono impiegò ad abbagliare l’ampia stanza.

Le suole degli stivali poggiarono terra nello stesso momento in cui la scintillante Ivory fu puntata senza esitazione verso la finestra dinanzi la scrivania, il mirino fisso sulla nuca di chi aveva avuto la geniale idea di disturbarlo.

Una nuova folata di vento portò con sé le prime gocce di pioggia contro le superfici trasparenti e sporche dell’agenzia. Il lieve picchiettio iniziale si trasformò presto nello scroscio di un fiume. Lontano, qualcuno premette forte sul clacson.

« Una buona giornata » disse il Cacciatore, mellifluo, come a voler salutare l’ospite dai capelli dorati ancora ferma di spalle, e al contempo complimentarsi con la piega assunta dalla tetra serata. La solidità quasi etica del grilletto opposta alla pressione controllata del dito, rassomigliava alla ritrosità di un’amante credutasi trascurata. Sia lui, sia la sua adamantina signora, sperarono dunque in un giro di danze.

Tuttavia, l’apparizione non sembrò dimostrare alcuna ostilità. In piedi davanti alla cornice trascurata della finestra, scrutava con curiosità le luci del quartiere, schiudendo inconsciamente le labbra in un tenue ‘ooh’ di stupore.

Ben presto, il semi ghigno di Dante si affievolì, come la rigidità del braccio armato. Cercare di coglierlo di sorpresa era una tattica errata che lo faceva solo incazzare più del dovuto, ma dopo tanti di quei giorni in cui l’unica attività da lui compiuta era stata di stravaccarsi e dormire, il Cacciatore di Demoni sembrò accondiscendere all’apparente innocuità del “nemico”, e quindi abbassare la pistola.

« Non offro un tetto a chi mi piomba in casa senza invito. Soprattutto a chi non entra dalla porta » puntualizzò Dante, prima di aggiungere, con un sorriso accattivante « sempre che tu non abbia da propormi qualcosa di gustoso »; ma fu vagamente convito di essere del tutto ignorato dall’atteggiamento noncurante della giovane, avvicinatasi talmente alla finestra da sfiorarla con la punta del grazioso nasino. Il vetro non si appannò, constatò il mezzodemone facendo spallucce e sospirando rumorosamente. Si decise ad alzarsi e avvicinarsi – senza riporre Ivory nella fondina – per chiarire quella fastidiosa e monotona ouverture serale rivelatasi più una perdita di tempo che un possibile svago.

Pur tenendo in considerazione l’acquazzone, iniziava a ventilare l’idea di farsi una passeggiata nei ghetti della città a caccia di qualche spasso dagli occhi rossi e dalle zanne prominenti, ma i suoi progetti si interruppero quando la donna bionda raddrizzò le spalle rosee, scoperte, scrollando i boccoli serici che le sfioravano. Si volse appena, come se avesse trovato qualcosa di interessante nell’angolo di strada più buio e lontano, e, con espressione assente, parlò, chiara e atona, ignorando la presenza di Dante a pochi passi da lei.

« Guida, o Signore - scandì imperativa – Dio mio, i miei passi al tuo cospetto ».

Un fulmine lampeggiò nel momento di sacro e attonito silenzio che seguì, senza tuttavia alterare le luci e le ombre sulla figura della sconosciuta, rimasta in trance, gli occhi privi di luminosità, come se il tempo e lo spazio non le appartenessero.

Dante sbatté le palpebre, sinceramente disorientato dall’evolversi degli eventi. Le parole pronunciate rimbalzarono prepotenti e confuse nella sua mente, ricollegandosi, a causa di azioni automatiche del suo cervello, a tutte le conoscenze che aveva stipate nella memoria.

Più rapide e sdegnose, però, le sue labbra si mossero a controbattere; ma prima che la gola potesse articolare un qualche suono, un secondo, lesto bagliore cancellò l’ignota intrusa alla vista, lasciando Dante con un palmo di naso.

Il vento ululò sinistramente attraverso i vecchi infissi, beffandosi di lui.

 

 

To be continued?

 

 

 

 

« Nel mezzo del cammin di nostra vita… »

Ene si ritrovò per una selva oscura, che la diritta via era smarrita…! XD

 

Scusate, ma Devil May Cry offre troppi spunti, ed è difficile resistere!

Benvenuti nel solito angolino finale delle note, delle delucidazioni, degli apprezzamenti a Dante, dei ringraziamenti, e di tutto quello che si può discutere qui relativo alla fanfic.

Iniziando dal principio, Ave et vale nasce come ogni altra mia storia dalle mie passioni, questa volta suscitata da Dante e dal suo background, e alimentata da quell’invasata sasukenarutiana di Mecchan, che ha aiutato – e aiuta! – a creare la storia! XD Grassie barabbah! X*

Il titolo latino è ripreso dal Carme CI che Catullo scrisse dopo la visita alla tomba del fratello, e che si conclude con “ave atque vale”, ossia “salute e addio”. La sostituzione di atque con et è una personale licenza poetica (cinque anni di latino mi potranno dare questo diritto, spero!).

La citazione di questo capitolo (essenzialmente un prologo) è tratta per l'appunto dalla Genesi, quando Eva confessa a Dio di aver mangiato la mela, il frutto della conoscenza.

Il titolo della “missione”, Dirge, viene invece dall’inglese e significa “canto funebre”. Questa parola è tratta sempre dal latino (rassegnatevi, il latino è la lingua dell’occulto per eccellenza!) e specificatamente dalla frase pronunciata dalla misteriosa bionda, che in origine era: “Dirige, Dominus, Deus meus, in conspectu tuo viam meam”. Ancora – ahimé – non ho scovato l’antifona ai defunti da cui proviene. Se qualcuno la conosce, si faccia avanti… :D

Credo di essere stata abbastanza prolissa, come al solito!

Per quanto il prologo sia corto, spero in qualche commentino 8)

LET’S ROCK!

 

~ene

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Capitolo 2
*** Mission 01. Le paure di Maha ***


« Gatti selvatici si incontreranno con iene, i satiri si chiameranno l'un l'altro;

vi faranno sosta anche le civette e vi troveranno tranquilla dimora »

 

[Isaia 34-14]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mission 01. Le paure di Maha

 

 

 

Il temporale della sera precedente aveva lasciato dietro sé i rimasugli consumati di cupe nuvolette bigie che, con calma indifferente, si stavano dissolvendo in cumuli color bianco sporco dalla consistenza di lana grezza. Il mite sole sorto quella mattina era pallido e privo di calore, e riversava sui palazzi e sui tetti una luce appena sufficiente a diradare le ombre.

Nelle vie, soprattutto lungo quelle che il sindaco prometteva di riassestare, le pozzanghere infingarde separavano quella che sarebbe stata la solita uniforme massa di individui dediti ad andare ognuno per la propria strada. Le macchine marciavano a velocità sostenuta, incuranti degli spruzzi di acqua sporca che sollevavano, attirandosi le ire e le invettive dei passanti.

Chi invece si sbeffeggiava di entrambe le categorie, zigzagando nell’ingorgo mattutino con l’acceleratore pericolosamente al limite, era un motociclista il cui cappotto rosso sembrava il reale prolungamento della carrozzeria cremisi della Harley che cavalcava. Come fiamme, i lembi della giacca in pelle fendevano l’aria col tipico garrire insistente della stoffa che, unito al rude e seducente rombare del motore, incrementava la già alta adrenalina e spericolatezza del conducente, il cui volto era celato dalla visiera opaca del casco.

« EHI, STRONZO! LA STRADA NON E’ TUA! » urlò qualcuno al suo indirizzo, ma per tutta risposta il Cacciatore si esibì in una spettacolare impennata che attirò l’attenzione dei presenti, tanto che si udì distintamente il rumore di un tamponamento da parte di chi era troppo preso a fissare l’evoluzione del mezzodemone per preoccuparsi di frenare.  

Con un’ulteriore presa del gas, il motociclista filò lontano dai clacson impazziti e dalle grida incavolate di quanti avrebbero perso metà della giornata bloccati nel traffico.

 

 

La fine della periferia si aprì davanti a Dante in un’immensa distesa pianeggiante di campagna umidiccia e scolorita. La grande strada secondaria che portava verso la frazione lì vicina era occupata quasi del tutto nella carreggiata d’ingresso alla città, mentre in uscita il Cacciatore di Demoni poté mantenere la stessa invariata folle velocità, raggiungendo in metà del tempo previsto la piccola Coltrade.

Costretto a rallentare a causa delle strade interne più strette e per l’affluenza di ragazzini suicidi su entrambi i marciapiedi, perse i minuti fino a quel momento guadagnati nel tentativo di non rimanere incastrato tra le poche macchine in marcia – tutte guidate da incompetenti – e di non imbarcare le dozzine di ciclisti che si credevano i padroni dell’asfalto. Seccato, imboccò in fine la strada per cui quella mattina si era svegliato così presto.

Il motore della Night Ros si spense con l’ultimo secco ruggito di una belva che si concede un meritato riposo. Togliendosi dal capo il fastidioso casco, portato per mera utilità, Dante squadrò con una curva contrariata delle labbra la villetta in stile coloniale che spiccava in mezzo a quelle più modeste, ma non meno appariscenti, della larga via suburbana. Non c’era giardinetto non curato, come non mancavano variopinte cassette della posta e due o tre macchine il cui solo specchietto retrovisore sarebbe costato quanto il Devil May Cry.

Ma fra tutte, quella che sicuramente destava più curiosità era la casa a tre piani bianco panna che aveva di fronte. Il solo giardino attirava da sé lo sguardo dei transitanti della zona.

Siepi di ortensie e petunie si trovavano disseminate nelle villette di tutta la via in modo geometricamente noioso, senza una grande varietà di colori, che andavano dai toni dell’azzurro a quelli bianchi, con qualche pallido accenno di viola; al contrario, al numero diciassette facevano mostra di sé, invitanti alla vista, diversi tipi di fiori dagli accesi toni rosso-carminio, con qualche appariscente pistillo giallo. Due bei e rigogliosi meli, con rami lunghi e affusolati, che parevano volersi cercare e intrecciare a mezz’aria, erano situati ai due lati del portico, ombreggiando sulla destra una panchina in ferro dipinta come la casa, a sinistra quello che sembrava un tavolo adibito al giardinaggio, con sopra almeno una dozzina di vasi di pianticelle d’ogni genere.

Un occhio attento avrebbe però scorto dell’altro, qualcosa che non era volontariamente nascosto alla vista, ma che in pochi, dopo essersi soffermati sulla bellezza piena e matura del giardino, avrebbero davvero gradito.

Sinistri e inquietanti, agli angoli del perimetro, in mezzo ad alcune aiuole come fossero stati semplici tronchi scuri e lucidi, quattro totem sorgevano statici, e ad una seconda occhiata – forse – buffamente chic. Se fossero stati realmente semplici pezzi di legno da collezionisti fanatici.

Dante entrò facendo scattare la serratura del basso cancelletto. In un attimo, sentì addosso diverse paia di occhi spirituali e sgradevoli presenze a vorticagli intorno come moscerini, ma invisibili, impalpabili e dannatamente intoccabili. Con uno sbuffo irritato, scorse senza dar loro troppo peso gli sguardi dei totem, bagliori rossi accesisi nelle orbite vuole e incavate dei volti oblunghi dai connotati cesellati.

« Siete davvero seccanti » borbottò di pessimo umore, tenendo le mani serrate in tasca perché il desiderio di stringere l’elsa della Rebellion lo stava torturando. Non che un suo attacco con la spada avrebbe sortito qualche effetto contro quelle presenze, in fondo non ostili nei suoi confronti, ma dannatamente noiose.

Si mosse in direzione del portico, costantemente seguito dal corteo di spiriti che infestavano il bel giardino, rimasto composto e silente come se in realtà si trattasse di un quadro impressionista. Neanche col tempo di masticare qualche malaparola all’indirizzo delle presenze fluttuanti, che il mezzodemone si ritrovò sotto la veranda improvvisamente da solo, senza più bisbigli trascendenti e leggeri brividi sottopelle per i contatti ultraterreni.

Corrugando la fronte liscia, il Cacciatore di Demoni premette il citofono, senza tuttavia distogliere lo sguardo dalle tre maschere artigianali che ornavano i lati della porta d’ingresso. Stilizzati e volontariamente deformati, lo fissavano il muso di una iena, i dentini aguzzi di un coccodrillo e, sulla trave superiore, il becco di un’aquila. Dante sorrise loro, ghignando. Una mossa sbagliata da parte sua e finalmente avrebbe avuto un po’ di divertimento. Solo che si sarebbe trovato dalla parte del torto, e non era poi così eccitante combattere contro le entità protettrici della casa.  

Quei pensieri durarono un attimo. Al di là dell’uscio, in ebano, sentì ciabattare rumorosamente prima che la porta venisse spalancata di malagrazia.

Ok, ad aprire non fu chi si aspettava.

Dante si soffermò appena sul volto della ragazzina che aveva davanti, cercando di mettere insieme i pochi ricordi che possedeva di lei. Carnagione color cioccolato, capelli nerissimi stretti in piccole treccine, arroganti occhi verde acqua. Non dimostrava più di tredici anni. Al contrario, la suddetta, dopo aver squadrato dalla testa ai piedi il mezzodemone con espressione corrucciata, si tolse una delle cuffiette del walkman e si voltò indietro, dando poco delicatamente fiato ai polmoni:

« MAMMA! C’E’ IL SIGNORE COI CAPELLI BIANCHI CHE ASPETTAVI! »

Dalla cucina si sentì qualcosa di pesante cadere per terra, seguito da un’imprecazione. Meglio di così non poteva iniziare, pensò il Cacciatore, entrando e lasciandosi sbattere alle spalle la zanzariera e la porta di casa. La tredicenne che aveva fatto gli onori di casa si era defilata prima che i rimproveri della madre potessero raggiungerla.

« Escitene con un altro urlo del genere, Dalila, e vedi come ti faccio passare questo atteggia- oh » la sgridata si interruppe quando la donna, intenta a pulirsi le mani sul grembiule, giunse nell’ingresso, costatando che ad ascoltarla c’era soltanto il mezzodemone. Sorrise improvvisamente, con calore. « Ciao! » 

Forse Dante si sarebbe concesso un saluto altrettanto affabile. In fin dei conti, Maha era una delle poche persone che per lui più si avvicinava a un’amica, dopo essere stata una buona compagna di bevute e di piccanti nottate in gioventù. Ma questo accadeva più di quindici anni prima.

« Non voglio nemmeno pensare a quanto tempo è che non ti fai vivo. Sei rimasto il solito pigro perdigiorno » l’accusò bonariamente Maha, scuotendo la testa e di conseguenza le finissime treccine, tenendo le mani ferme sui fianchi.

Come prima, Dante avrebbe risposto, a tono, se non fosse stato che la sua attenzione, dall’arrivo della donna, fosse stata catalizzata dal suo ventre. Decisamente rotondo.

Finalmente un ghigno, che si figurò più come una finta smorfia sdegnata, si aprì sul volto del mezzodemone.

« Ti sei lasciata incastrare di nuovo dal tuo principe, baby? »

Il suo tono e il suo sguardo accattivanti indussero la futura partoriente a guardarlo per qualche lungo istante, prima di scoppiare a ridere con voce argentina e melodica, senza un apparente motivo.

Si avvicinò a Dante, ondeggiando appena per via del pancione, e riprese a guardarlo dall’alto in basso, stampata sul viso un’espressione birichina. Con un dito affusolato, dalla pelle morbida e scura come cacao, accarezzò il lieve strato di barba che il Cacciatore aveva lasciato crescere sotto il mento. Parve compiaciuta.

« Ricordo un ragazzino poco più giovane di me che si divertiva a fare lo spaccone spericolato e l’esibizionista – le sue palpebre si assottigliarono appena sugli occhi verde acqua, sempre divertiti – un bamboccio che di punto in bianco mi chiese se ero all’altezza di una notte di fuoco con lui. Un modo di sedurre discutibile ».

Il sogghigno di Dante si adeguò a quel bizzarro gioco di ricordi. Oh sì, anche lui aveva chiari in testa quei momenti, che con una donna bella come Maha avrebbe replicato seduta stante, se quindici anni non fossero passati a cambiare le cose.

Il dito della padrona di casa picchiò affettuosamente sulla punta del naso di Dante, riportandoli entrambi al presente.

« Ora che non ho più l’età per ricevere certe avance – sospirò fintamente a malincuore – mi tocca sperare che il mio vecchio latin lover si faccia vivo, oltre che per lavoro, anche per due chiacchiere ».

« Così va il mondo dolcezza » si strinse nelle spalle Dante.

Maha lo guardò stralunata, prima di agitargli davanti alla faccia lo stesso dito di prima in segno negativo.

« Ah-ah, signorino, manco per niente. Così gira il tuo di mondo, razza di ghiro affetto da bradipismo acuto! »

Scoppiò subito a ridere, di nuovo cristallina, prima che lui potesse replicare. La risata si sciolse pian piano, mentre la donna teneva una mano aperta sul pancione, come a sorreggerlo, e con l’altra si appoggiava al braccio di Dante, visibilmente più a suo agio.

Con un ultimo singulto, Maha riprese il controllo di sé.

« Vieni, ho la tua signora bruna che ti aspetta di là ».

Detto questo, fece strada attraverso il salottino arredato con mobili in vimini scuro,  imbottiture e i tendaggi chiari, proseguendo in un corridoio con almeno quattro porte, fino alla stanza che dava sul retro del giardino. Lo studio di Maha.

La porta scivolò sui cardini senza un rumore, sebbene sembrasse vecchia di almeno due secoli. Sul legno opaco erano stati incisi disegni che avrebbero avuto bisogno di una lunga e paziente occhiata per essere decifrati. A Dante tuttavia bastò varcare la soglia per avvertire la sottile elettricità che permeava l’ambiente. Incantesimi di protezione.

Le quattro pareti che delimitavano il lucido parquet erano nascoste da una lunga scaffalatura, alta fino al soffitto, che correva in circolo da un lato dell’uscio all’altro. In ogni ripiano, da quello più basso, che conteneva ampi cassettoni con pomelli cesellati, a quello più alto, erano stipati ogni sorta di libro, boccetta colorata o, all’apparenza, cianfrusaglia. Diverse maschere tribali, fissate ai margini congiunti di ogni scansia, dominavano la scena come le telecamere di un caveau, seguendo con le orbite vuote ogni singolo movimento.

Al centro della camera si trovava un’enorme scrivania, massiccia e anch’essa finemente elaborata nei minimi dettagli. Il piano era ingombro, ma in ordine, di ogni sorta di oggetto, di cui molte piccole statuine grottesche, altri volumi, qualche rotolo di pergamena, e quelli che sembravano amuleti di perline, con lacci spessi di pelle e pendenti in legno, metallo e cuoio. C’era un profumo pungente che aleggiava nell’aria, una fragranza in fin dei conti rilassante che sapeva di unguento.

Il mezzodemone, tuttavia, per quando l’ambiente risultasse tranquillo, non si lasciò ingannare, e avvertì nitidamente altre presenze aggirarsi e – non c’era nemmeno da scommetterci – controllarlo attentamente.

Intanto Maha, che appariva calma e pacifica nel suo ciondolare involontario, raggiunse un armadio e tirò giù da una delle mensole una valigetta di acciaio delle dimensioni di una scatola per scarpe, che depose sulla scrivania prima di lasciarsi scivolare sul morbido cuscino della poltrona dallo schienale alto e rigido dietro ad essa. Sorrise a Dante, facendo scattare le chiusure del coperchio.

Anche il Cacciatore piegò le labbra, ma in un sogghigno compiaciuto, rientrando in possesso della sua amata Ebony senza troppi preamboli. Strinse la mano sul calcio dell’arma, rigirandosela soddisfatto davanti gli occhi concentrati a riconoscerne ogni dettaglio. Era come nuova.

La padrona di casa rise sotto i baffi, poggiando i gomiti sulla superficie lignea e intrecciando delicatamente le dita affusolate, sfiorando col mento il polso sinistro mentre fissava il mezzodemone.

« Le prestazioni del tamburo sono state migliorate, come quelle della molla di recupero: la velocità del proiettile è aumentata e il rinculo è stato ulteriormente smorzato » spiegò la donna, borbottando ogni parola alla stregua di una litania che sembrava essersi imparata a memoria. Fu il turno di Dante di farsi scappare due risate all’indirizzo della ex-compagna, sedendosi a modo suo su una delle sedie davanti la scrivania. « La struttura è stata rifatta completamente con una lega più resistente… » concluse lei pensierosa, fissandolo mentre continuava a rigirare la pistola, e la gemella Ivory, tra le mani, stravaccato come se si trovasse al Devil May Cry.

« Un lavoretto niente male » commentò l’altro con un fischio, lanciandole un’occhiata che una qualsiasi donna avrebbe interpretato come un invito esplicito. Peccato che Maha lo conoscesse bene, e sapesse altrettanto bene che in quel momento il Cacciatore di Demoni aveva in testa solo le sue due letali dame. Corrugò la fronte, sciogliendo gli angoli della bocca in un nuovo sorrisetto saputo e condiscendente.

« Mi è passata la voglia di sapere come hai ridotto quella pistola a un colabrodo » disse, più a se stessa, ma allo stesso tempo mossa da una certa curiosità. Da quando Ivory ed Ebony erano nate, non avevano quasi mai avuto bisogno di una manutenzione così pesante come una totale ricostruzione. In fondo, erano le migliori armi che suo marito avesse mai sfornato alla D.E. Industry, benché lavorasse per il governo e quei modelli fossero per un privato.

Dal canto suo, Dante smise di giocherellare, tornando a fissare Maha con una certa serietà. La donna non ci mise molto a indovinare l’argomento, notando come l’aria di fosse, impercettibilmente, addensata.

« Mi è capitato tra i piedi un mezzodemone impazzito » iniziò il Cacciatore senza alcun preludio, il tono che per una volta non sembrava oscillare su nessun sentimento particolare. Neutro.

L’espressione di Maha si assottigliò appena, come gli occhi, fattisi attenti.

« E’ stato lui a ridurla – e levò la pistola nera – in quel modo ».

La bruna non replicò subito, registrando le parole e riflettendo, poiché si trattava di una questione delicata. Era già molto raro, quasi un evento unico, imbattersi in una creatura per metà umana e per metà demoniaca… se questa poi dava segni di squilibrio, la faccenda poteva evolversi in qualcosa di molto, molto pericoloso. Non erano tanti quelli che prendevano seriamente in considerazione le potenzialità di un mezzosangue.

Dante ne era la prova.

« Ha creato problemi? »

Il Cacciatore fece spallucce, dissimulando l’iniziale gravità della storia.

« A parte tentare di fare una strage in un buco per tossico dipendenti, sbavando in giro che anche lui voleva la “madre”... no, niente di speciale » disse, sottolineando la pacatezza degli eventi con un gesto noncurante della mano guantata.

Maha allentò la tensione, respirando a fondo. Tuttavia, il mezzodemone riprese subito a parlare.

« L’unico problema » cominciò di nuovo, lento e senza alcuna vena ironica « è che non ci sono stati altri problemi, dopo ».

Lo sguardo di ghiaccio di Dante fissò, con apparente disinteresse, la reazione sul viso della donna, che rimase contraddetta.

« Ti sbagli » fu di fatti la sua risposta, mentre scrollava la testa mora a occhi chiusi, umettandosi le labbra.

Il Cacciatore inarcò le sopracciglia, curioso. Ma prima di lasciarla continuare, intervenne ancora.

« Stai per dirmi com’è che hai triplicato la presenza di spiritelli in ogni angolo della casa? »

« Ti sei interessato alla cronaca ultimamente? » domandò di rimando Maha, senza alcuna ombra di divertimento. Stava dritta con la schiena, quasi irrigidita, tenendo entrambe le mani sul ventre avvolto dal grembiule e dalla stoffa rubino del vestito pre-natal, rifinito a mano con perline e ricami in stile africano.

Dante le scoccò un’altra intensa occhiata, prima di gesticolare ancora al vuoto, in un chiaro segno negativo. Era il lavoro che veniva da lui, mica il contrario; e di certo non si sarebbe messo a spulciare le pagine di un giornale in cerca di persone bisognose dei suoi servigi. La TV, dal canto suo, si era definitivamente scassata sotto le sue manate aggiusta-tutto. Quindi, di quello che era successo nel mondo, a lui non erano giunte voci.

Con un altro sospiro, in parte vibrante di una preoccupazione malcelata, la padrona di casa raccolse le idee per esprimersi chiaramente.

« Si sono verificati strani casi, in diverse parti del paese. Notizie sparse, che nessuno collega tra loro, ma tutte riguardanti donne e neonati apparentemente morti a causa di tristi incidenti o per negligenza. Alcuni palesemente uccisi da ignoti. Fatti di cronaca che si perdono tra elezioni politiche e sfilate di moda ».

Non una sillaba fu percorsa da altro sentimento se non da un’angosciata serietà. Maha disse tutto senza staccare lo sguardo da quello del mezzodemone, a malapena conscia della crescente inquietudine che le strava facendo contrarre le dita sul pancione.

Quest’ultimo non replicò, lasciando continuare la donna.

« Nessuno – tornò a ripetere – sta vedendo questi eventi in prospettiva. O meglio, può osservarli da un’ottica diversa che non sia quella della “normalità”. Ma c’è qualcosa che si agita nell’aria, ed è una chiara minaccia al nostro mondo ».

« Maha, » sussurrò Dante con uno sguardo indecifrabile « la gravidanza ti rende paranoica ».

La suddetta lo fulminò con un’occhiata, prima di tornare a scuotere la testa, massaggiandosi la fronte con una mano. L’aveva pensato anche lei, all’inizio. Coincidenze. Talvolta era difficile distinguerle da segnali in realtà chiari e tangibili. Era vero che quello che avvertiva intorno, nell’aria, non era nulla di concreto, ma labile e fittizio, tuttavia il suo sesto senso la stava mettendo in guardia. E Dante – disse a se stessa – era uno sciocco a comportarsi da scettico come al solito. Se oltre al fumo non vedeva anche l’arrosto, nulla aveva valore per lui. Uno sciocco, si ripeté, mentre lo guardava alzarsi per andarsene.

« Non tenermi il muso bellezza » celiò il Cacciatore all’indirizzo dell’espressione sostenuta mostrata dalla mora. « Terrò gli occhi aperti. Promesso » continuò, prima di aggiungere fintamente a malincuore. « Si trattasse anche solo di qualche Strige in vacanza ».

« Evita di sprecare il fiato » gli consigliò lei, tagliente, alzandosi a sua volta per salutarlo, ignorando il gesto del mezzodemone che la invitava a rimanere seduta.

Dante ghignò. L’aveva fatta incavolare. Un tempo ci sarebbe scappata una scopata di quelle ad alto voltaggio, da lasciare i segni sulla pelle. In quel momento una maledizione, forse, ma di quelle che pure i principi infernali avrebbero gradito scansare.

Quando si trovarono di nuovo uno di fronte all’altra, separati dal ventre gonfio di lei, Maha sciolse l’espressione irrigidita per pura forza di volontà. Era tesa per una serie di motivi diversi, tra cui quei dubbi che le stavano rendendo sempre più difficile mantenere il controllo e la stabilità psichica che la sua “dolce attesa” richiedeva. Si concesse di stirare le labbra in un sorriso sincero e un po’ stanco.

« Stavo pensando che forse dovresti lasciarmi anche l’Ivory, così che Amiri possa migliorarla come la gemella » disse, senza tuttavia dare corpo al tono, come se avesse pronunciato una qualche futilità. Iniziava a desiderare di sdraiarsi e riposarsi.

Il Cacciatore ponderò qualche attimo la proposta, prima di estrarre dalla fondina la pistola bianca, soppesarla, e lasciarla sulla scrivania. In fondo, se in quelle ultime settimane c’era stata una calma così piatta da risultare mortalmente monotona, qualche altro giorno senza una delle sue punte di diamante dal grilletto rapido non avrebbe significato un gran cambiamento di routine. Dormire, pizza, dormire.

« Ma invece di aspettare un mese, passa prima a riprendertela. Sai che Amiri da la precedenza alle tue manutenzioni ».

« Forse perché non vuole che gironzoli attorno alla sua sexy mogliettina? » la prese in giro il mezzodemone guardandola con un’espressione eloquente e interessata allo stesso tempo.

Dopo un fugace momento di disorientamento, un accenno di risa, trasformatosi presto in una vera e propria risata, sbrogliò definitivamente il malumore della donna, che dovette appoggiarsi di nuovo all’ex-compagno per non perdere l’equilibrio.

« Come tu » cominciò Maha, passandosi le dita sugli occhi « riesca ancora a considerarmi sexy in queste condizioni... »

« Il tuo principino continua a temere che io possa portarti via, un po’ come ai vecchi tempi » sogghignò Dante, guardandola, di nuovo, con qualcosa di enigmatico nelle iridi chiare.

La padrona di casa lo fissò a sua volta, per lunghi secondi. Sorrise poi di una dolce nostalgia, tuttavia serena.

« Voi uomini siete tutti uguali » disse semplicemente, sporgendosi un poco sulle punte dei piedi per raggiungere la guancia del mezzodemone con le labbra. La sua pelle era fresca, quasi fredda, come sempre lo era stata. Una mano, grande e salda, era posata sul suo fianco ammorbidito dalla gravidanza, ma senza alcuna ombra di possesso. Quindici anni erano realmente passati.

« E tu rimani una provocatrice » le sussurrò all’orecchio con aria saputa, aspirando involontariamente il suo profumo esotico.

Ma Maha non lo stava ascoltando. Ancora aggrappata con entrambe le mani alle sue spalle, schiacciando con una lieve pressione il pancione contro il suo stomaco, fissava con occhi seri e penetranti qualcosa dietro di lui. Quando poté scorgere chi li aveva interrotti, il Cacciatore sbuffò ampliamente, voltandosi con la mano già armata della seducente Ebony.

Gli spiriti protettori della casa erano in fermento, ma… confusi. Tuttavia, si chetarono immediatamente a un gesto della padrona di casa, il cui viso si stava inspiegabilmente tranquillizzando.

« Me la ricordavo diversa, la tua bionda » celiò la donna bruna, priva di una reale nota di divertimento. Stava studiando l’intrusa, senza tuttavia guardarla con ostilità o timore, sebbene si mantenesse semi nascosta dietro il Cacciatore.

« Già, anche io » replicò Dante, senza puntare la pistola, trovando l’idea inutile dato che aveva capito di avere a che fare con qualcosa di sostanzialmente inconsistente. « Ma forse tu sai dirmi cos’è che mi perseguita da ieri sera? »

Intanto, la biondina dagli occhi color delle viole rimaneva ferma e silente a ridosso della porta, le dita intrecciate e abbandonate placide in grembo, e un’espressione curiosa seppur assente sul pallido viso minuto. Sembrava stesse aspettando che i due terminassero di discutere.

Maha si concesse ancora un minuto, prima di dar voce alla propria conclusione.

« Niente di più di un’anima » rispose, lanciando uno sguardo al mezzodemone, che ricambiò inarcando le chiare sopracciglia.

« Le anime non hanno una forma definita ».

La donna si spiegò meglio: « Si tratta di una proiezione. Il suo corpo deve trovarsi in stato vegetativo da qualche parte ». Rifletté un attimo, per poi continuare. « Le streghe sono capaci di astrarsi in questo modo. O meglio, un ristretto numero può riuscirci, e devono essere sicure che qualcuno si prenda cura del loro corpo nel frattempo ».

Il cipiglio del Cacciatore palesava il suo scetticismo nel considerare quella biondina pelle e ossa una strega tanto potente da poter compiere quanto appena descritto.

Si volse di nuovo a fissare la presenza che, a differenza di entrambi, non aveva mai scostato lo sguardo dai due o mutato espressione.

Fu nell’improvviso silenzio che le pallide labbra di quella sottospecie di fantasma di schiusero, come la sera precedente, parlando con una cadenza che intorpidiva i sensi:

« La sua casa sprofonda nella morte, ed il seguirla porta alle ombre. Tutti coloro che la seguono non possono tornare, e trovare ancora le vie della vita ».

Non ci furono luci inattese e abbaglianti ad accompagnare la sua scomparsa. Come era arrivata, così aveva abbandonato la stanza, lasciando Dante e Maha alla pari di due ebeti a fissare uno spazio irrimediabilmente vuoto.

« La strofa di un canto ai defunti e un passo biblico » mugugnò il mezzodemone, riponendo Ebony nella fondina e occhieggiando la brunetta al suo fianco, persa nei propri pensieri. « Ucci ucci, sento odor di cristianucci? »

Maha non aveva la forza di mandarlo a quel paese, ma ponderò seriamente di accollargli alle calcagna un paio di spiriti vendicatori quando, una volta alla porta d’ingresso per i saluti definitivi, il Cacciatore le baciò l’angolo della bocca prima di defilarsi in un turbinio cremisi.

Qualcosa le diceva che l’avrebbe rivisto prima di quanto pensasse.

E prima di quanto suo marito avrebbe preferito.  

 

 

To be continued?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

WOW! Cinque commentini e davvero un caloroso benvenuto :D Grazie mille a tutti!

Rieccoci nell’angolino (s)parliamo della fanfic, senza salamelecchi e preamboli XD

La citazione iniziale è tratta da Isaia e, se non ho capito male, dalla visione che annuncia la distruzione di Israele. Purtroppo non sono ferrata molto in materia biblica, ma mi sto documentando quanto posso! Comunque questa citazione verrà spiegata più avanti! :P

Entrando nel capitolo, ho già introdotto uno dei personaggi spalla, la mammina Maha, un tempo una ragazzaccia che adorava divertirsi con o senza la compagnia del nostro mezzodemone, prima di mettere la testa apposto e sposarsi con il maritino Amiri e avere Dalila. (evviva gli alberi genealogici!) Come si sarà capito, sia Maha che Amiri sono di origine africana: lei è una sciamana, mentre il marito è a capo delle D.E.Industry (Desert Eagle), industrie e laboratori per la progettazione di armi governative. Dato che da sempre si sa che Ebony&Ivory sono state progettate da Dante stesso, ho voluto creare il fabbro che gliele ha realizzate.

Ora le note sui nomi. Al solito, i miei personaggi portano quasi sempre nomi che significato qualcosa, un vizietto che non mi tolgo XD Maha vuol dire “begli occhi”, intesi come ammalianti; Amiri è “principe”, e Dante lo prende appunto in giro chiamandolo principino; Dalila, a dispetto dei suoi modi garbati, significa “gentile”, un bel controsenso XD

Dieci punti a chi indovina da cosa deriva il nome Coltrade XD

La moto di Dante è un’Harley Davidson della serie Night Rod. Sì, nella fanfic c’è scritto Night Ros, ma perché, provando a digitare a occhi chiusi (no comment!) è venuta fuori questa sigla che come storpiatura non mi dispiaceva.

Ultima nota: le Strigi nominate da Dante sono mostri della mitologia classica (“in vacanza” perché originarie appunto dell’Europa, se pensiamo che Dante abiti in un’ipotetica America!). Il loro aspetto è quello, se non ricordo male, di donne alate con artigli e rostri acuminati, coi quali si “riempivano il gozzo” del sangue delle loro vittime, preferibilmente neonati.

Credo di aver detto tutto :D

Ringrazio tantissimo Mecchan, Kid e Haro che hanno letto e commentato il prologo in anteprima! E tutti quelli che mi hanno dato un caloroso benvenuto nella sezione, apprezzando altrettanto il capitolo! Thanks! ^__^

Un bacione!

~ene

 

 

 

 

PS: questo capitolo l’ho postato a così breve distanza perché l’avevo già iniziato, ma del secondo ancora non c’è che la citazione iniziale e il titolo, quindi il tempo di pubblicazione sarà più lungo!

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Capitolo 3
*** Mission 02. Davian e Sibeal ***


Dies irae, dies illa
solvet saeculum in favilla
teste David cum Sybilla.

 

Giorno dell'ira sarà quel giorno
dissolverà il mondo terreno in cenere
come annunciato da Davide e dalla Sibilla.

 

[Dies Irae]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mission 02. Davian e Sibeal

 

 

Avrebbe piovuto di nuovo, incessantemente. Nel cielo, solo il tratto dell’orizzonte a Ovest, verso l’entroterra e le colline, era sciolto dalla presenza insistente delle nuvole temporalesche. Non c’era luna e non c’erano stelle, e non ci sarebbero state. Il buio campeggiava pesante, impenetrabile.

A rischiarare la sera erano i pochi sprazzi di luce che il sole, di un aranciato spento giunto al suo declino, allungava su ciò che riusciva a raggiungere, scivolando inesorabilmente via. A mitigare e sfumare i pochi raggi rimasti era la nebbia, fredda e impalpabile, che aleggiava riflettendo i bagliori artificiali dei lampioni e celando parzialmente il paesaggio.

Sembrava non esserci via di fuga alla tetraggine e al gelo di quella notte imminente.

La Night Ros fendette la densità dell’aria con un rombare altrettanto tenebroso, come a voler chiarire il suo predominio sulle ombre che velavano sinistramente la strada deserta.

Le vie trasandate della periferia erano silenti come poche volte lo erano state. Vecchie e intermittenti insegne al neon segnalavano come aperti i più disparati locali e buchi per divertirsi, ma di clientela in giro ce ne era meno del solito. I pochi che passavano si dividevano quasi equamente in barboni, donne di mondo insensibili al freddo e individui dalle dubbie intenzioni imbacuccati fino al naso.

Odori strani, che non rientrassero tra quelli del putridume dell’immondizia bagnata agli angoli della strada o del fetore che i vicoli più stretti adibiti a latrine emanavano, non ve ne erano. I vapori caldi del sottosuolo, che fuoriuscivano dai tombini, si condensavano nell’aria, rendendo a tratti più pesante e maleodorante la sottile foschia già presente.

Dante proseguì per la via senza più guardarsi in giro e prestando sempre meno attenzione a ciò che lo circondava. Erano tre giorni, da quando era stato da Maha, che vagabondava da mane a sera in lungo e in largo senza una meta o uno scopo precisi. Stava semplicemente assecondando quell’istinto indefinito che si era svegliato dopo l’ultima visita della sua bionda persecutrice e delle sue parole sibilline.

Non era tipo da lasciarsi trascinare nei casini prima ancora che iniziassero, ma sembrava proprio che per quella volta avrebbe dovuto fare un’eccezione. Forse proprio perché gli riusciva difficile voltare le spalle a ben due donne.

Ciononostante, Maha non era riuscita a convincerlo con i suoi timori. Che in quel momento diverse donne e bambini stessero passando a miglior vita per cause diverse dagli incidenti e dagli omicidi descritti, era un motivo che non stava in piedi. Sapeva che come sciamana la sua vecchia fiamma era tra le migliori in circolazione, ma sapeva anche che in certe condizioni perfino la donna più lucida poteva diventare facilmente apprensiva. Il caro istinto materno.

Sebbene la brunetta non fosse stata sufficiente a farlo schiodare dalla narcolessia in cui era piombato, ci aveva pensato l’anonima anima dai capelli dorati, che nel giro di due giorni gli aveva fatto rivalutare la calma innaturale che da un po’ di tempo vigeva nei dintorni. Non riusciva però a scorgere il possibile legame tra i casi citati da Maha e le parole della sua personale anima errante. Se mai vi fosse stata, una connessione.

Ma dato che ormai con il sonno di quelle settimane le sue batterie sarebbero rimaste cariche per almeno tutto il mese successivo, uscire e farsi un giro per i quartieri suburbani a caccia di indizi era stata l’idea più brillante che gli fosse venuta. Si sarebbe dato alle ricerche, ossia alla parte noiosa della solita azione, con la speranza di inciampare in un demone che almeno bramasse la conquista del mondo umano.

A conti fatti, quella sera, gli sarebbe bastato anche un parassita, un qualche esserino dall’aspetto ripugnante e dalle ridicole intenzioni belliche. Una qualsiasi creatura infernale a zonzo per la sua tetra città.

Forse avrebbe dovuto sbilanciarsi e fare un colpo di telefono a Lady. Come Trish, anche lei non si faceva viva da diverso tempo, e magari proprio perché era impegnata in caccia. Che la sua fama avesse raggiunto livelli tali da dare finalmente a intendere alla fauna dell’Oltre Tomba che non c’era modo di debellarlo? Era un pensiero davvero triste.

Una prostituta ubriaca gli lanciò un saluto provocatorio, strusciandosi lascivamente contro un palo della luce e tirando su la già corta mini che copriva parzialmente le calze a rete e le gambe livide dal freddo. Dante le fece un altrettanto cenno in risposta con un paio di dita, prima di dare gas alla Night Ros e lasciarsi alle spalle la zona est della città.

Il sindaco poteva blaterare orgogliosamente che la sua opera di risanamento aveva tolto di mezzo più del “cinquantasette percento” della malavita che infestava la loro florida urbe. La realtà era che il pomposo faceva passare per eclatanti arresti di poco conto, blitz della polizia in localetti dove circolavano spacciatori dilettanti e il fermo di qualche povera squillo dai tratti stranieri che neanche rientrava in un giro vero e proprio, ma cercava di arrivare a fine mese. I Signori della criminalità se ne stavano relativamente tranquilli, probabilmente facendo loro stessi pressione su quel sempliciotto del Mayor per vie traverse, al fine di tenere i propri traffici al sicuro, ma far vedere al contempo che le cose andavano alla grande.

Quando si passava tre quarti della propria esistenza a stretto contatto con i bassifondi, seppur per scopi ben diversi dall’interessarsi ai giochi di potere, ci si faceva una certa esperienza, e soprattutto una chiara idea del verso in cui girava il mondo. Il bello stava nel fatto che molte delle soffiate sulla presenza di esseri demoniaci in loco gli veniva proprio da quegli scavezzacollo al soldo dei mafiosi.

Si sa, quando si tratta di male, tutto fa brodo. Se a difendere i cittadini c’era la polizia, a salvare il culo dei malavitosi, che per libido stringevano patti con la progenie di Mefistofele, c’era lui. Non che operasse così per qualche tornaconto con quella feccia, ma la gente per bene non vedeva oltre il proprio naso, e un botto in periferia con almeno una dozzina di cadaveri inceneriti era una comunissima fuga di gas. Quindi, a chiedere il suo aiuto da quelle parti erano sempre i soliti gangster.

Le strette viuzze del quartiere dove aveva passato l’ultima parte (infruttuosa) del pomeriggio mutarono presto in strade più larghe e maggiormente curate. Tuttavia, anche la zona Sud-Est non era nulla di eccitante. Scialba, grigia e soprattutto immersa nel silenzio. Da lì iniziava quel genere di persone dedite al lavoro, ma non allo svago, alla vita relativamente tranquilla, sapendo di confinare strettamente con criminali. I negozi scarseggiavano, come i piccoli parchi e le scuole.

Passato il “quartiere di transizione”, si entrava in una parte della città – sempre di periferia – altrettanto dimessa, ma sicuramente più attiva e vitale. I palazzi erano vecchi, anni cinquanta, in via di ristrutturazione, ma già il fatto che solo lì si trovassero due cinema, altrettanto vintage, rendeva l’ambiente colorato e, a quell’ora, ancora sveglio.

Il mezzodemone si dovette fermare per lasciar passare la fiumana di persone uscita in quel momento dall’ultimo spettacolo pomeridiano dello Starlight, che cedette il posto a un secondo nutrito gruppo di, per lo più, cinquantenni dall’aria gioviale.

Tutti troppo impegnati a commentare la pellicola appena visionata, non si preoccuparono di attraversare o meno sulle strisce, compattandosi in una massa in diritto di transito.

Reprimendo un sospiro impaziente, Dante lasciò scorrere impassibile lo sguardo su uomini e donne. Ne mancavano appena una manciata, e lui stava già con la mano pronta sulla manopola di destra, facendo ruggire la sua partner a due ruote, quando, senza preavviso, il suo sguardo ne incontrò un altro, sereno e sorridente, alla fine della strada.

Era lei. L’anima della sua persecutrice. Identica in tutto alle apparizioni precedenti, rimase immobile dov’era, incorporea e fuori dal tempo.

Infischiandosene degli ultimi cinefili in coda, a cui tagliò il passaggio sfrecciando sull’asfalto quasi volesse lasciarci la scia dei pneumatici, il Cacciatore puntò senza esitazioni alla donna.

Si era avvicinato in brevissimi secondi con un acuto rombare del motore al massimo, eppure quel fantasma pareva sempre alla stessa distanza. Si muovevano entrambi, ma l’unico a risentire dello sferzare dell’aria era lui.

Continuò a seguirla e a fissarla imperterrito, aspettandosi da un momento all’altro una nuova frase misticheggiante, sebbene quello non fosse il momento migliore; dubitava avrebbe sentito qualcosa, per quanto nella sua mente si formò l’idea che essendo un’anima, la sua interlocutrice probabilmente gli parlasse direttamente in testa, anche muovendo le labbra.  

Fu dopo dieci minuti di zigzag in vie e stradoni, e a seguito di qualche altro schiamazzo da parte dei poverini a cui continuava a saettare davanti improvvisamente, che il mezzodemone si accorse di dove era stato portato.

Lentamente, come fosse finito in un film dal copione scontato, il profilo della donna ferma dinanzi a lui iniziò a sfumare. Tuttavia, prima di sparire del tutto, le sue labbra si mossero e le sue parole riecheggiarono chiare e cupe lì nel fondo della strada.

« O buon Gesù, esaudiscimi. Dentro le tue ferite nascondimi, non permettere che io mi separi da te. Dal nemico maligno difendimi. Nell’ora della mia morte chiamami, comandami di venire a te, perché con i tuoi Santi io ti lodi nei secoli dei secoli. Amen ».

I penetranti occhi violetti della strega furono l’ultima parte di lei a sparire, come un gatto del Cheshire che abbandona la scena con un sorriso grottesco ed enigmatico, lasciando ben visibile la scritta al neon oltre le sue spalle. Devil May Cry.

Il Cacciatore di Demoni si chiese con un ghigno inquieto quali sarebbero state le prossime battute di quel canovaccio che non prendeva corpo, ma che continuava a gettare fosche ombreggiatura di catastrofe imminente nella sua vita. Ok, non era più uno sbarbatello che prendeva sottogamba qualsiasi intoppo decidesse di finirgli sul cammino, ma tra un nemico di proporzioni bibliche, ben visibile e tangibile, e una minaccia che di consistente non aveva proprio nulla, la faccenda iniziava a mettergli addosso brividi di eccitazione e di nervosismo.

L’indomani avrebbe scovato la reale ubicazione di quella bionda rompiscatole, stabilì tra sé mentre parcheggiava la moto nel retro del locale, avvertendo l’umidità dell’aria farsi pressante e premergli sulla nuca pallida con freddi baci dettati da quel clima davvero poco autunnale. A seguito della pioggia incessante di quattro giorni prima, le temperature erano letteralmente precipitate, sfiorando a malapena i sei gradi anche essendo Ottobre. Non che lui soffrisse in maniera particolare il gelo, ma gli spifferi e la pioggia erano davvero fastidiosi, senza contare che di lì a breve, se i gradi fossero ulteriormente calati, avrebbe dovuto pure fare attenzione al ghiaccio per strada.

Tutti futili pensieri che si eclissarono nell’istante in cui aprì la porta di casa e i suoi sensi captarono nettamente una presenza estranea. Fisica, questa volta. Innocua o meno, lo avrebbe appurato nel giro di mezzo minuto.

Non curandosi dello sbattere della porta alle sue spalle, si diresse con passi sostenuti, seppur tranquilli, verso il grande ingresso che fungeva da ufficio. Le sue mani, istintivamente, erano scattate a controllare le fondine, ma solo una sfiorò il calcio solido e attraente di un’arma, della sua tenebrosa Ebony. Dura abitudine la sua, ma una pistola sarebbe stata più che sufficiente.

Infischiandosene che fosse casa sua – tanto quante volte era già stato demolito quel posto?, spalancò l’uscio con un calcio, ben sapendo che la presenza intrusa lo stava aspettando.

L’atmosfera era pacata, non c’erano sentori di cattive intenzioni ad aleggiarvi. Di fatti, stravaccato sul divano a destra della stanza, il capo rivolto a fissare qualcosa sul soffitto, c’era un uomo. Che il padrone dell’agenzia, in guardia per ogni minimo spostamento, riconobbe in un batter d’occhio.

Tutta la teatralità che la scena avrebbe potuto acquisire si dissolse pateticamente nell’espressione stupita del Cacciatore, rimasto – duro da ammettere – di sasso. Le dita con cui avrebbe sfoderato la sua nera signora restarono intorpidite, appoggiate al calcio, sfiorando la sicura innestata.

L’ospite levò una mano guantata in segno di saluto, senza staccare gli occhi dall’enigmatica volta della casa. Mormorò anche qualcosa, ma le parole uscirono così impastate a uno sbadiglio che il mezzodemone non ne comprese una sillaba.

« Dove la trovo la macchinetta del caffé? » riformulò blando, levando finalmente la testa dalle proprie meditazioni e stiracchiandosi mentre le vecchie molle del sofà gemevamo sotto il suo peso da metro e ottanta passato.

« Nel pub in fondo alla strada » replicò Dante, occhieggiando il tipo con una smorfia che sembrava volesse cedere il posto a un ghigno.

L’altro lo squadrò attentamente con i suoi occhi rossicci, lucenti come fossero stati fatti di duro rubino. Un ricciolo fuori posto, scuro come la pece, sfiorava un lato del naso dalla carnagione naturalmente abbronzata, mentre le labbra sottili accennavano un sogghigno identico a quello del mezzodemone. Rassegnato, fece spallucce, tornando ad accomodarsi, ma fissando negli occhi il suo interlocutore.

« Non sei curioso di sapere perché sono qui? » domandò, modulando il tono come se avesse voluto conversare del tempo, sul viso stampata un’espressione che avrebbe potuto significare di tutto.

Dante capitolò, in un certo qual senso. Piegate le braccia in un gesto menefreghista, fece dietro-front, togliendosi il giaccone e buttandolo addosso all’attaccapanni, a cui l’indumento rimase appeso, ma senza che qualcuno badasse a questa precisione. Il Cacciatore si sistemò a sedere dietro la sua scrivania, battendo di malagrazia gli stivali sul piano di legno, accavallandoli.

« Avanti » bofonchiò per poi dare ampliamente aria alla bocca, maledicendo chi una volta aveva definito lo sbadiglio un fenomeno sociale. « Qual buon vento ti ha portato qui a farti gli onori di casa da solo? » domandò ironico, sebbene sul suo viso vi fosse un malcelato barlume di curiosità, assolutamente dettata dalla noia. Per una volta, una qualsiasi offerta di lavoro gli sarebbe andata bene, anche da un cacciatore di succhiasangue e pelosoni.

Il moretto parve alquanto stranito.

« Mi sembri un po’ sotto tono » giudicò diretto, ma non fu un altro breve commento atto a riempire il silenzio. Le parole che seguirono furono quelle che fecero finalmente breccia nel torpore del mezzodemone, inducendolo a rizzare mente e orecchie. « Non sarà per la totale assenza di Inferi? »

La risposta di Dante lasciò le sue labbra con il suono di chi le aveva ponderate rapidamente.

« Ne sai qualcosa? »

« Qualcosa » rimarcò il primo, non curante del tono, ma con occhi che parlavano da sé. Tuttavia, non aggiunse null’altro sull’argomento, alzandosi dal divano con un movimento fluido; la lunga ed elegante giacca scura si sistemò senza una grinza attorno al corpo scultoreo ma slanciato, vestito da altrettanti abiti di fattura fine e dettagliata. Il gilè di seta blu fasciava il torace senza stringere, ma nemmeno in modo morbido. Sotto di esso, la vaporosa camicia color delle rose risaltava la carnagione e si intonava agli occhi dell’uomo. I gemelli ai polsi, due per ogni lato, erano il muso di un lupo e una croce alternati, entrambi in platino.

« Dove hai detto che è la macchinetta del caffè? » domandò di nuovo, accennando alla porta con una curva delle labbra che era un chiaro invito per il mezzodemone a schiodare il fondoschiena dalla sedia.

Dante roteò gli occhi, alzandosi.

 

 

 

« Da un mese a oggi non si sono visti demoni puri ».

Le parole di Davian Alister viaggiarono attraverso il casino del pub, arrivando tuttavia ben chiare alle orecchie del Cacciatore. Il suo sguardo rubino, incastonato in un’espressione all’apparenza annoiata, era in realtà più serio di quanto Dante si aspettasse. Gatta ci covava alla grande.

« Da nessuna parte. Calma piatta ovunque » aggiunse ancora, mandando giù un sorso del caffè doppio che aveva ordinato.

Il cucchiaino che il mezzodemone si era portato in bocca, con una fragola decorativa del suo Strawberry Sundae, dondolò per tutta la propria lunghezza, mentre le labbra del proprietario riflettevano in una smorfia i suoi pensieri sulla precisazione appena udita. Un flash interrogativo passò attraverso le sue iridi chiare.

« Ai Piani Alti hanno deciso di aprire i Sette Sigilli? » ironizzò il Cacciatore, scuotendo la testa e cacciandosi di nuovo tra le labbra la posata con il gelato.

Sul viso brunito di Davian si aprì una smorfia, a suo modo divertita, che lasciò sfuggire il bagliore perlaceo dei suoi denti, mettendo in evidenza per un istante i canini particolarmente sviluppati. Un secondo sorso di caffè scivolò tra di essi, senza tuttavia intaccarli con alcuna macchia.

« Niente di così catastrofico » replicò, frugando nelle tasche della giacca. Le sue pallide e affusolate dita, lisce e curate come quelle di un chirurgo, estrassero un portasigarette in platino e un accendino circolare in coordinato, lungo e stretto. « Forse peggio » aggiunse, prima che una piccola fiamma baluginasse fiocamente nell’angolo in penombra dove stavano, accendendo il tabacco.

Dante si sistemò un po’ più comodo sulla panca imbottita del pub, annoiato.

« Quanto ancora vuoi chiacchierare, dampyr da strapazzo? Non sono qui per tenerti compagnia ».

Il moro espirò lentamente dalla bocca, tenendo mollemente la sigaretta tra le labbra e stringendola appena, infastidito dalla fretta dell’albino.

Optò però di accontentarlo.

« Mai sentito il nome Ambrosius? »

Si iniziava a fare sul serio.

Quella prima domanda sembrò risuonare con una nota da capolinea: da lì in poi sarebbero potuti iniziare i guai seri, con sommo gaudio del Cacciatore.

« Ignoto » rispose dunque, dopo essersi concesso qualche istante per riflettere.

Il mezzovampiro corrugò la fronte, contrariato.

« Ambrosius Engelicht? Mmh… - meditò un attimo – Nessuno ti ha mai parlato di lui? »

« Sai, le favole non mi hanno mai attirato molto » tagliò corto Dante, portandosi alla bocca un’altra cucchiaiata di Sundae. « Chi è questo tizio? »

« Chi era » rettificò Davian, ciccando nel posacenere. « E’ stato ucciso un mese fa ».

« Commovente » fu il commento sbuffato. « Lasciami indovinare, da un demone, vero? »

« Asmodeus ».

Era questo che voleva sentire. Il resto dello Strawberry Sundae, un misto rosa di gelato bianco e sciroppo alla fragola, fu accantonato in un angolo, mentre un ghigno che sfiorava il deliziato trasfigurava del tutto il volto del mezzodemone. Asmodeus. Il caro Asmodeus. Aveva letto e sentito parlare di lui almeno un centinaio di volte, senza però avere mai avuto il piacere di scontrarcisi di persona.

« Così questo Ambrosius è stato fatto fuori da un re infernale… » riassunse, tamburellando le dita sulla superficie macchiata del tavolo. « Doveva essere una vera spina nel fianco per inimicarsi un pezzo grosso del genere… » di malagrazia riprese a mangiare il resto del gelato, rischiando quasi di tirarselo addosso.

Lo sguardo scettico di Davian non era una risposta alla sua affermazione. Anzi, pareva non averlo udito per nulla.

« Piuttosto, - riprese il Cacciatore – com’è che un dampyr a caccia di succhia-vergini e lupetti mutanti è coinvolto in un caso di demoni? »

Il suddetto scosse la testa con pazienza, tirando un’altra boccata di fumo, accomodandosi meglio sulla panca.

« Mi trovavo a pochi passi dall’epicentro di questo casino, nel Nord della Germania. A Flensburg, per la precisione. C’è stata un’ondata di demoni minori che ha festeggiato la morte di Ambrosius attaccando apertamente la gente e creando un putiferio. Altri Cacciatori sono giunti sul posto, e così ho sentito di questo Ambrosius e mi sono messo a fare qualche ricerca ».

« Che ti ha portato a me » concluse l’altro, seguendo il filo dei suoi pensieri. « Deduco quindi di avere un qualche oscuro legame con il miserrimo. Allora, mi dici chi era? »

La musica del locale invase il silenzio tra i due, mentre Davian spegneva il mozzicone nel posacenere, soppesando con attenzione i propri pensieri.

« Un angelo esiliato » disse, chiaro e coinciso, senza più preamboli, fissando attentamente il mezzodemone, che rispose con un fischio stupito. « Non fu maledetto, ma relegato a vivere sulla Terra, che aveva deciso di proteggere ».

« Proteggere? » lo interruppe Dante, la fronte aggrottata.

Se c’era una cosa che distingueva gli angeli dai demoni, era la volontà, intesa in tutti i sensi. I demoni ne possedevano fin troppo: la loro intera esistenza era votata ad assecondare i desideri, propri e, apparentemente, di quelli sciocchi umani che stringevano patti con loro, senza capire che tutto quello che avrebbero espresso gli si sarebbe ritorto contro, in un malefico circolo vizioso. In fondo, i desideri scaturivano dalla passione, radice primaria dei vizi. Ed era noto che i demoni fossero la quintessenza del vizio.

Sull’altra sponda, invece, si trovavano gli angeli. Di aspetto spesso androgino (quante volte ci si era interrogati sul loro sesso?), la loro già scarsa volontà non era altro che il riflesso di quella dell’Altissimo. Ogni loro azione era in realtà dettata da quell’amore che faceva naturalmente tendere ogni forma del creato verso il Sommo, ultima meta. Era per questo motivo che il piano umano era appannaggio esclusivo delle creature infernali: tra le schiere del Signore, erano davvero pochi gli alati che, incuriositi, scendevano sulla Terra, rischiando di esservi relegati per aver sentito come propri gli stessi sentimenti degli uomini.

Quell’Ambrosius, allora, se aveva provato la volontà di proteggere qualcosa, doveva essere stato vinto dall’interesse che offriva il Mondo peccaminoso e ingenuo degli umani, finendo così esiliato.

Il mezzovampiro riprese il discorso.

« In origine era un Serafino » iniziò a spiegare, distogliendo stancamente lo sguardo e continuando con il tono tipico di chi sta per tenere una lezione di Storia. « Tuttavia, circa duemila anni fa si lasciò coinvolgere dalle beghe terrestri -

Per quando Davian non avesse ancora finito, una molla di intuizione, di consapevolezza, scattò nella testa del Cacciatore quando registrò quelle parole.

- e lasciò il Paradiso per scendere sulla Terra. Acquisì sembianze umane, pur mantenendo buona parte dei propri poteri, e si schierò con gli uomini per ricacciare i servi di Lucifero all’Inferno ».

Il dampyr si fermò solo pochi istanti, ma Dante già si immaginava cosa avrebbe detto. Ora capiva perché avrebbero dovuto sapere chi fosse quell’angelo ucciso.  

« Allora incontrò l’altro leader degli uomini, da tutti conosciuto come il Traditore. Sparda ».

All’albino sfuggì un sospiro pesante, una sorta di gemito represso, che voleva essere il principio di una risata, ma che si spense prima ancora di iniziare.

Suo padre. Per l’ennesima volta. Era diventata una perdita di tempi chiedersi quando quel solo nome - dato che non si trattava nemmeno di un ricordo concreto - avrebbe smesso di assillarlo in ogni momento della sua esistenza. Era una sorta di maledizione: bastava pronunciarlo e qualcosa di catastrofico sarebbe accaduto. Ci aveva quasi fatto il callo, ormai.

« Non mi dire, un demone e un angelo fianco a fianco nella stessa guerra. Magari sono anche diventati amici, eh? »

Davian lo assecondò, stringendosi nelle spalle.

« Qualche pettegolezzo va dicendo che fu Sparda a dare al Messaggero Celeste un nome umano. Ambrosius, per l’appunto ».

Quella risata priva di ilarità e repressa un minuto addietro, scoppiò più fragorosa e spenta per la frase appena udita. Un’assurdità di seguito all’altra, ecco cos’era quella serata.

« Ricapitolando, dovrei – o meglio, avrei dovuto – conoscere questo tizio perché era un ex compagno di battaglia del mio dannato vecchio » riassunse Dante, gesticolando ampliamente con una mano, sembrando quasi un invasato.

Davian annuì pacatamente un paio di volte.

Restarono di nuovo in silenzio, uno coi propri pensieri, l’altro in attesa di sentirli. La musica nel pub era cambiata in una melodia bassa e languida, straziante per le orecchie.  

« Tutto questo… cosa diavolo c’entra con la sparizione dei demoni? »

Era tornato a bomba. A quello che gli premeva di sapere. Il passato di quell’Ambrosius poteva andare a farsi fottere insieme a quello di suo padre. E tanti saluti.

« Non lo so » esordì il mezzovampiro, accendendosi una seconda sigaretta, ma riprendendo prima di essere interrotto di nuovo. « Quello che so è che a una settimana di distanza dalla sua morte, gli Inferi si sono volatilizzati. Si dice – e soffiò fuori una nuvola acre di fumo – che Ambrosius proteggesse qualcosa per conto del Vaticano ».

Dante roteò gli occhi, lasciandosi sfuggire una non ben articolata esclamazione. Ecco annoverata un’altra buona nuova. Fantastico! Non aveva neanche dovuto impegnarsi più di tanto, che una parte della soluzione al suo “problema” si era presentata da sola. Il Vaticano. Un città turistica per molti, una dannazione solo a sentirlo nominare per lui. Porca puttana, quante grane aveva avuto in passato con quelli? Per lui mettere piede in Europa equivaleva a trovarsi circondato da inviati della Santa Sede - armati fino ai denti - che ogni volta lo invitavano con le cattive a sloggiare.

Non contava il fatto che fosse un Cacciatore di Demoni – praticamente il migliore sulla piazza – e che più volte avesse salvato il culo a quel mondo derelitto. No, per la Chiesa lui era ciò che di più ributtante ci potesse essere dopo il Signore dell’Inferno in persona. Un mezzosangue. Un mezzodemone. Un mezzoumano.

Inutile dire che sua madre era stata etichettata come la peccatrice per eccellenza, colei che si era lasciata mettere incinta da un demone e ne aveva partoriti i figli. Solo a pensare a quelle poche volte che aveva avuto a che vedere con quei mentecatti gli veniva il voltastomaco e un’irrazionale voglia di crivellarli di proiettili fino a colorare del tutto le pareti delle loro fottute cattedrali con le interiora.

Prendendo un respiro un po’ più lungo, e storcendo le labbra nell’atto di rimuginare, accantonò i sanguinari pensieri per concentrarsi sulla realtà.

A prescindere dai suoi rapporti con la Chiesa, il fatto che in quella storia rientrasse il Vaticano non portava nulla di buono. Voleva solo scherzare quando con Maha aveva vagliato l’ipotesi che fossero coinvolti i “cristianucci”, in quel puzzle di cui aveva soltanto qualche tassello che non combaciava.

« Sei un pozzo di informazioni » osservò infine, mentre la sua testa continuava a considerava i vari e probabili intrecci. « Sembra quasi che tu abbia preso la situazione particolarmente a cuore » aggiunse noncurante, in tono ironico.

Davian ci impiegò qualche attimo più del dovuto, fissandolo con attenzione, prima di espirare nuovamente i fumi della sigaretta.

« Quando le tue prede scappano, spaventate dall’odore dell’aria, e ti ritrovi senza lavoro, diventi particolarmente curioso riguardo a quello che ti accade intorno » chiarì stizzito, spegnendo la sigaretta prima ancora di essere arrivato a metà. « Questa storia mi sta distruggendo il mercato. Perfino la Transilvania è diventata improvvisamente un luogo di pace e amore » si fermò giusto il tempo di uno sbuffo sonoro, prima di riprendere con lo sproloquio. « Sembra stia avvenendo un esodo verso le zone polari. I Nord estremi di Scozia, Norvegia e Russia si sono improvvisamente popolati di non-morti e ogni altra sorta di creatura oscura terrena, e sinceramente, di infilarmi in un covo brulicante di vampiri e licantropi diventati all’improvviso alleati, non mi attira in modo particolare ».

Dante rispose di nuovo con un fischio acuto.

« Sembra proprio che ci troviamo sulla stessa barca. Ma non so cosa tu ti aspetta da me ».

Il mezzovampiro sorrise con un accenno sinistro nelle labbra sottili.

« Hai centrato il punto. Sono qui per aspettare che avvenga qualcosa. L’ultima scia di demoni è stata avvistata a Sud-Est del Canada, quindi qualsiasi cosa stia succedendo, o si stia muovendo, è in questo continente ».

Di nuovo, lo sguardo del Cacciatore si prese un attimo per contemplare il soffitto su cui si riflettevano le luci colorate del posto.

« Non sai che cosa avesse in custodia l’angelo? »

« Credo qualcosa che in mani sbagliate… »

« Bla bla bla… qualcosa che in mani demoniache annienterebbe il parco divertimenti della Divina Potestate. Un cliché » sbuffò l’albino, alzandosi.   

Pagarono il conto, uscendo nella serata umida e gelida di quella città più silenziosa del solito per l’udito fine di due esseri sovrannaturali.

« Spero tu non intenda mettere tenda da me, perché non ho alcuna intenzione di accollarmi il tuo vitto » dichiarò Dante con la sua più sensibile parte diplomatica.

Fu il turno di Davian di alzare gli occhi al cielo. E parlando di cielo, sembrava dovesse mettersi a piovere.

« Se mi sbatti fuori puoi scordarti tutti i dettagli di questa storia » replicò altrettanto diplomatico.

« Ehi, mettiamo in chia- »

Ma il resto della parola si perse nella nuvoletta di condensa che si spanse dalle labbra ammutolite del mezzodemone. Un ringhio represso seguì subito dopo, mentre il dampyr si voltava per vedere cos’è che li aveva interrotti, non avendo avvertito alcunché se non il freddo attanagliante.

La sua espressione, che quasi sempre vertiva sull’annoiato e il menefreghismo, si solidificò in una sorpresa e spiazzata. Un groppo gli scese con fatica in gola, ma senza che il Cacciatore se ne accorgesse.

Anzi, il momentaneo moto di rabbia sfociato in un brontolio acceso dell’albino, fu presto sostituito dall’ennesimo e – non l’avrebbe mai ammesso – arrendevole sospiro.

« Mi sono dimenticato di presentarti la mia nuova fiamma! » esclamò con un raschiare gutturale che sembrava quasi un ruggito. « Questa è la seconda volta in meno di tre ore che viene a farmi visita. E’ una bella bambolina, se non fosse che quando apre bocca non lo fa per dolci paroline ».

Davian, ripreso il proprio self-control, gli lanciò uno sguardo, per poi fissare la biondina apparsa sul ciglio opposto della strada, immobile, limpida e astratta dalla realtà.

« Che intendi? » chiese, piatto.

« Che le piace venirmi a declamare stralci di passi biblici, fottute preghiere, requiem… »

« Sai chi è? » tagliò corto, guadagnando un’occhiata obliqua dall’altro.

« L’anima di una strega ».

« Il suo nome è Sibeal Loxias. E’ una delle figlie del Delfino ».

Dire che alla notizia il grande e grosso Dante ci rimase, fu poco.

Si poteva dire che di idoli, lui, ne avesse ben pochi, più probabilmente perché considerava se stesso un idolo. Ma doveva pure ammettere che Val Delphis, noto come il Delfino, fosse quello prossimo sul suo immaginario podio. Spiegare in poche parole chi egli fosse sarebbe stato un insulto, ma per lui si riassumeva nell’uomo (perché si trattava di un umano in carne e ossa) più forte che avesse mai conosciuto, colui che anni prima l’aveva spinto a decidere della propria esistenza e diventare così un Cacciatore di Demoni.

Scoprire che chi lo perseguitava da quasi una settimana non era altri che la figlia del suo esempio da seguire, lo lasciò un po’ a corto di idee.

« Immagino non lo sapessi » concluse Davian dalla sua espressione inebetita.

« Ora si spiega perché sia in grado di proiettare la sua anima fuori dal corpo » lo ignorò Dante, ragionando. « Ciò non toglie che da quando è apparsa non ha fatto altro che sparlare a vanvera ».

« Shh! » lo tacitò il dampyr con un gesto, fissando il profilo della donna, silente e composto.

Le sue labbra si mossero e la stessa voce delle volte precedenti parlò sibillina:

« Ibis redibis non morieris in bello ».

I suoi occhi, forse la parte più viva del suo essere, brillarono cupi, prima che la sua figura svanisse, lasciandosi dietro soltanto un nuovo sorriso enigmatico dall’aria innocente.

Dall’altro lato della via, immobili come due stoccafissi di fronte al nulla, Dante e Davian continuarono a fissare il punto dove ormai non c’era più nulla.

« Hai mica fatto caso a dove cadesse la virgola!? » ruppe il silenzio il mezzodemone, con un tono petulante del tutto fuori luogo, dando fiato alla bocca e accompagnandosi con un gesto stizzito delle mani.

La serata si chiuse con una bieca occhiata da parte del dampyr.

 

 

To be continued?

 

 

 

 

Ene si inchina fino a toccare col naso per terra, chiedendo venia…

… per il mostruosissimo ritardo.

Più di un mese avete pazientato… e finalmente ce l’ho fatta. Otto paginette di stress per la sottoscritta, di intrattenimento per voi (mi auguro).

E’ quasi un fatto assodato che i secondi capitoli siano sempre una via crucis per la sottoscritta: mai uno che fosse venuto decentemente. Se avete aspettato tanto è perché scrivevo si è no due righe a sera a causa del dialogo tra Dante e Davian che non veniva fuori bene. Non che sia chissà quale risultato questo, ma almeno ho finito. Per i particolari in sospeso, “i buchi” e i dubbi, rimando ai prossimi capitoli. Tutto si spiegherà pian piano!

Ora alcune note riguardo il testo:

Le citazioni vengono rispettivamente dalla prima strofa del Dies Irae, da una preghiera cattolica (Anima Christi) recitata dopo l’Eucarestia, e da uno dei responsi più famosi della Sibilla. A proposito di questo, possono esserci due possibili traduzioni, a seconda di dove cada una determinata virgola: “Andrai, ritornerai e non morirai in guerra”, oppure “Andrai, non ritornerai e morirai in guerra”. Ecco perché Dante se ne esce con quella stupida battuta a fine capitolo :P

Per chi non lo sapesse, il “gatto del Cheshire” sarebbe il famoso Stregatto di Alice in Wonderland. Gloria al sommo Carroll!

Il “fenomeno sociale” in riferimento allo sbadiglio fu un’uscita del mio vecchio professore di educazione fisica XD Una citazione personale a cui sono troppo affezionata XD

Lo Strawberry Sundae è il gelato che Dante mangia in continuazione nell’Anime di Devil May Cry. Non mi pare ne sia ghiotto anche nei videogiochi, però è l’unica cosa che ho ripreso dal cartone.

I Serafini sono invece il coro più alto degli angeli celesti. Essi si trovano a guardia del trono di Dio. Del caro Ambrosius si parlerà e si spiegherà tutto passo passo XD

Questo è quanto :D Il resto rimarrà segreto fino a nuovo ordine!

 

E ora le risposte ai bellissimi cinque commenti:

ikarikun: eh… purtroppo a dispetto di quello che avevi lasciato detto, vi ho fatto aspettare tantissimo :( mi spiace! Però il terzo capitolo l’ho già iniziato! (dato che non riuscivo a finire questo…)

Suehila: il Dante di questa storia è proprio quello del quarto DMC! Ergo, estremamente sexy! (nulla da togliere a quello degli altri… ma qui si è davvero raggiunta l’apoteosi del fascino! **)

Saphira87: speravo proprio che la storia potesse risultare “intrigante e misteriosa” :D Viva il Mystery! :D Sull’inquietante, anche. Pensando a Devil May Cry, le sfumature e i toni cupi, gotici e misticheggianti, sono quelli che a mio parere si mischiano meglio, esorcizzati poi dal carattere di Dante che si diverte come un matto a sguazzare in tutta questa cupezza XD Anche il Latino e i passi biblici sono un tocco assolutamente indispensabile, a mio giudizio. Sono contenta che i rapporti che Dante intrattiene ti siano piaciuti ^^ Davian non ha una personalità così movimentata come quella di Maha, ma mi auguro che evolverà presto sulla retta via.

Fy chan: grazie mille per essere ripassata a commentare ^^!

Teiresias: ecco a chi ero impaziente di rispondere :D Ciao! Spero di non spaventarti con queste prime righe, ma volevo dirti (che tu diretto! E questa non è manco la sede giusta!) che ho quasi finito di leggere la storia che stai pubblicando, e ne sono rimasta piacevolmente colpita :D Vedrò di lasciare un commento quanto prima! Detto questo, sono davvero contentissima che Maha riscuota tutto questo successo! Per l’azione vera e propria ci sarà da aspettare ancora un paio di capitoletti, ma poi si scenderà in campo e inizieranno i guai 8) Per Contrade, la storia è assolutamente stupida: è una contrazione tra Colt (tipo di arma) e trade (commercio); il nome doveva semplicemente evocare il fatto che Dante si reca lì dal suo “armaiolo” XD Cinque punti te li passo, anche perché la mia è stata un’uscita davvero idiota XD

Clown: wow, una classicista come me! Aiuto! XD “Scrivi divinamente”, accidenti se questo non è un commento da palpito! Ed eccoti il seguito, anche se ci ho messo una vita! :D

 

Grazie mille a tutti!

Alla prossima!

~ene

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Capitolo 4
*** Mission 03. Devil May Cry ***


Capitolo per il COW-T 7, terza settimana, prima missione.
Prompt: Le cose non vanno mai come credi
N° parole: 5.065


 
My black backpack stuffed with broken dreams
Twenty bucks should get me through the week
Never said a word of discontentment
Faught it a thousand times but now
I'm leaving home

 
La mia borsa riempita di sogni infranti
Questi quattro soldi dovrebbero bastarmi ad arrivare alla fine della settimana
Senza aver mai pronunciato una parola di scontentezza
Ho combattuto ciò un migliaio di volte
Ma ora me ne andrò
 
[Evanescence – Exodus]
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Mission 03. Devil May Cry
 
 
« … il cliente da lei chiamato non è al momento raggiungibile. La invi- »
Il ricevitore fu riagganciato bruscamente; in automatico, gli spiccioli non utilizzati caddero tintinnando nel vano del resto, dove due dita frettolose e tremanti li recuperarono, stringendoli con rabbia. Le lacrime continuavano a rotolare sulle guance, seguendo scie ormai consolidate; ma come scendevano, così venivano asciugate senza alcuna delicatezza con la manica della giacca, arrossando la pelle infreddolita.
« ‘fanculo! » imprecò tra i denti, non perché reputasse sbagliato gridare qualche sano volgarismo, ma più si guardava intorno, più desiderava sparire.
La gente fuori dalla cabina del telefono passava, camminava vicino, lontano da lei. Indifferente. Eppure sentiva sguardi addosso ovunque. Sentiva che la fissavano, la osservavano.
Rimanere all’interno di quel servizio pubblico era stupido; le pareti che la circondavano erano trasparenti, vetro, come una vestaglia sexy o una gabbia da circo. Eppure tornare per strada, ritrovarsi nuovamente in mezzo a quella fiumana di braccia, teste, occhi, bocche, gambe, che sapevano dannatamente dove andare, le stava per far venire un attacco di panico.
Il suo respiro era veloce e pesante, mentre la testa scattava alla ricerca di qualcosa che non c’era. Pensieri febbrili, interrogativi su interrogativi, le arrovellavano la mente, senza lasciarle il tempo di poter pensare a qualcosa di concreto, a una soluzione. Una soluzione che non fosse quella di rannicchiarsi da una parte e disperarsi.
Stava già piangendo, senza volerlo, e per si odiò profondamente.
Un rumore improvviso alle spalle la fece voltare di scatto, mandandole il cuore in gola.
« Ehi tesoro! Hai finito o no lì dentro!? Avanti smamma! » brontolò un perfetto sconosciuto fissandola attraverso gli occhiali da sole e la porta della cabina, con la bocca distorta in una smorfia seccata.
Senza spiccicare una sillaba, ma lanciandogli un’occhiata durissima che l’uomo si guadagnò per il tono e le maniere, la giovane raccolse lo zaino nero e si precipitò fuori, urtandolo volontariamente.
« Ma porca… » iniziò quello, ma lei non udì il resto dell’imprecazione, addentrandosi in quella giungla di corpi in movimento.
Dopo un passo e un respiro piuttosto accelerati, che la portarono a sbatacchiare addosso agli altri come fosse stata ubriaca, guadagnandosi altre lamentele, riuscì a calmarsi e a distendere un poco i nervi ormai prossimi allo spasmo. Tuttavia non alzò il volto, marciando spedita con lo sguardo fisso sul marciapiede, come se le risposte che andava cercando potessero venire da lì.
Sì, delle risposte. Fu quel pensiero a bloccare gradualmente la sua folle camminata verso il nulla. E dire che una meta ce l’aveva pure, doveva solo trovarla…
Ma… ma. Cristo, anche sapendo dove doveva andare, cosa avrebbe risolto?
Voleva davvero risolvere qualcosa?
Fu il suo turno di essere spintonata da qualcuno che neanche le chiese scusa. Era a un semaforo, tutti stavano attraversando. Li seguì, ma mantenendo il capo semi-chinato, continuando a guardarsi intorno col cuore che non smetteva di battere furiosamente.
Credeva di aver già toccato l’apice assoluto della solitudine, in passato. Si era sbagliata. Troppo. Non solo ora era sola, ma anche nei guai. Guai che non sapeva nemmeno come classificare. Incubi probabilmente. Ma gli incubi non erano reali, non lo erano mai stati.
Attraversò un’altra strada, con la sensazione di stare girando in tondo. Era stanca, era spossata. Le faceva male lo stomaco e la testa, senza contare la gola che cercava di proteggere col colletto del cappotto. Non pensava avrebbe mai desiderato tanto tornare a casa. Tornare tra quelle quattro mura che aveva odiato, da cui invano era fuggita più volte. Tornare da suo padre…
I suoi piedi si arrestarono prima che lei ne prendesse coscienza. Lasciò che dalla spalla lo zaino le scivolasse lungo il braccio, fermato in tempo solo dalla mano. Anche il suo corpo scivolò, lento, adagiandosi contro la saracinesca di un negozio in vendita con un suono metallico a cui nessuno fece caso.
Dov’è che stava andando?
Era spaventata, sì. Una parte di sé aveva accettato quella paura viscerale, che risaliva ogni muscolo, ogni fibra al solo ricordo di cosa si era trovata di fronte. L’ignoto. Anzi, qualcosa che andava al di là di esso. Un baratro di orrori. Se la sua mente si fosse focalizzata ancora una volta su quelle cose, che stupidamente sperava fossero solo un frutto marcio della sua immaginazione irrazionale, avrebbe vomitato.
Tuttavia, una voce, più inconsistente dei sentimenti che stava sperimentando, continuava ad assillarla allo stesso modo, riecheggiante e acuta, come il gracidare di un corvo.
Sei libera, diceva.
Una realtà. Così questa vocina voleva farla apparire. Come una semplice, basilare e semplificata realtà. Quasi una verità, nuda e ideale. Non teneva conto del sangue, o del terrore, della separazione. Di quello che aveva passato negli ultimi, lunghi giorni. Solo un grido represso, drasticamente tacitato dalla gravità del presente, eppure ancora lì, a dar fiato a un desiderio che avrebbe sempre voluto realizzare. Essere libera.
Ma non in quel modo.
Non con…
Represse un singulto, rischiando di strozzarsi. Basta. Doveva piantarla di piangere. Non aveva mai pianto in vita sua e ora non riusciva a smettere? E solo perché aveva scoperto un altro Inferno? Era un’idiota.
Si guardò intorno, e non scorse niente. Sempre gente che passava, palazzi sconosciuti, clacson e campanelli di biciclette. Non ricordava neanche com’era arrivata lì. L’importante era esserci. Salva, e incolume. E che trovasse quel posto, come suo fratello le aveva detto. Come suo padre le aveva fatto promettere.
Per la prima volta sentì il peso dei suoi ventuno anni, di non essere più una bambina bisognosa della mano di un adulto per rimettersi in piedi. Non che l’avesse mai voluta, quella mano. Ma ora, stringerla, l’avrebbe – e si vergognava ad ammetterlo – rassicurata. Se in quel momento qualcuno le avesse offerto aiuto, forse, si sarebbe sbilanciata ad accettarlo.
Purtroppo pareva non ci fosse alcun passante a coltivare quell’intenzione. Tutti proseguivano, non degnandola di un’occhiata.
A lei andava bene così. Lei non era nessuno, loro erano altrettanto. Era cresciuta volendo cavarsela unicamente per conto suo, e così avrebbe continuato. Avrebbe trovato chi doveva, si sarebbe fatta spiegare quella situazione – a cui non sapeva più che aggettivo affibbiare per descriverla – e poi… poi sarebbe tornata indietro.
Prendere quella decisione era anche più difficile che trovare il coraggio di andare avanti.
Perché sapeva che probabilmente non c’era nessuno ad attenderla.
Appoggiò una mano contro la saracinesca, riacquistando un equilibrio puramente esteriore, e si rimise lo zaino in spalla, anche se ormai era solo l’ennesima parte di sé che si trascinava in giro, pesante ma indispensabile.
Un piede davanti all’altro, in quegli stivali che aveva sempre reputato comodi, ma che ormai l’avevano massacrata e si erano del tutto rovinati, ricominciò a camminare, mantenendosi comunque a una distanza minima dalla massa. Doveva iniziare a chiedere informazioni, si disse con una risoluzione che di vero aveva solo le parole. Anche perché, guardandosi intorno, nessuno dava l’idea di sapere dove si trovasse quel locale. Erano per la maggior parte signore e signori, ben vestiti e tirati a lucido, con occhiali da sole – anche se il cielo era pesantemente annuvolato – e borse alla moda. Dei pochi giovani mischiati a loro, non ce ne era uno senza cuffiette incastrate nelle orecchie.
E lei se ne stava lì, pateticamente, con indosso un cappotto sgualcito allacciato completamente per nascondere i vestiti macchiati, un cerotto sulla guancia - per non parlare di un paio di bendaggi e una quantità di lividi a cui ormai non faceva più caso - e capelli che non erano del tutto annodati solo perché il suo tic nervoso preferito era passarci in mezzo le dita in continuazione. Odiava apparire trasandata, ma arrivata a un certo punto ogni cosa perdeva di importanza.
Per questa ragione, non pensandoci più del necessario, entrò nella caffetteria che si trovò davanti, individuando subito un posto a sedere libero, per niente appartato perché davanti alla vetrina, ma almeno pulito e dall’aria estremamente ristoratrice.
Sedersi e appoggiare la schiena fu un po’ fastidioso, ma dopo qualche secondo tirò un sospiro senza nemmeno accorgersene.   
« Buongiorno, cosa le porto? »
Sussultò sentendo la domanda, e soprattutto la voce, non essendosi accorta del cameriere che si avvicinava. Lo guardò come fosse un marziano, e lui ricambiò con uno sguardo piuttosto interessato, ma anche perplesso, notando il cerotto.
Lo stava già odiando.
« Un succo d’arancia e un sandwich » ordinò, secca e rigida, voltando lo sguardo verso la vetrata.
« Con? » continuò quello, afferrando che non ci sarebbe potuta essere alcuna possibilità d’intesa.
Per lei fu la peggiore delle domande, in quel momento. Un sandwich… a che cosa? Doveva pure pensarci? Uno qualsiasi andava bene, anche perché dubitava l’avrebbe mangiato. Ecco.
« Lasci perdere il sandwich, solo il succo » replicò con lo stesso tono marcato.
La sua testa era pronta a girarsi di nuovo, quando notò in fondo alla grande sala decorata qualcosa che le diede la prima buona idea della giornata.
Alzandosi a mandibola serrata e passandosi una mano sul cappotto per sistemare le pieghe, arrancò di malagrazia tra i tavolini fino all’angolo che aveva scorto, fortunatamente libero. Su un pannello di finto legno scuro, in tinta con il resto dell’arredamento, spiccava l’insegna del telefono pubblico, incassato in un gabbiotto del medesimo colore. Sul fondo, un elenco telefonico sgualcito e sporco di ditate. Quello che stava cercando. Un modo per iniziare a muoversi.
Decidendo in breve, prese il voluminoso tomo e di nuovo a zigzag tornò a sedersi, afferrando subito la bevanda che l’aspettava e tracannandone la metà. Di un amaro da farle strizzare gli occhi.
Cominciava a sentir caldo, essendoci il riscaldamento là dentro, ma non si sarebbe mai azzardata a spogliarsi. Così aprì l’elenco telefonico, sfogliando le prime lettere.
Ciò che la straniva, e in un certo senso faceva apparire quella situazione surreale, quasi fosse uno scherzo di pessimo, ma davvero pessimo gusto, una sorta di allucinazione, era quella ricerca.
Una discoteca. Perché mai avrebbe dovuto cercare una discoteca come se ne dipendesse la sua vita?
Ma non poteva scordare quello sguardo e quel tono da parte di suo padre, intensi e indelebili. Ultimi. Erano un monito, neanche avesse avuto ancora cinque anni e dovesse ricordarsi che agli adulti non si disubbidiva.
Il suo passatempo preferito, ribellarsi. Mandare al diavolo tutto e tutti. Tentare di fuggire, allontanarsi e lasciare chilometri e miglia da quelle carceri che chiamava in puro senso comune “casa”. E poi, puntualmente, trovarsi davanti qualcuno a riportarla indietro, ai litigi, alle urla, alle mezze spiegazioni e alla frustrazione.
All’odio. Ora così pallido e inconsistente. Un’ombra bianca che palpitava appena, mantello regale di quella vocina che inneggiava alla libertà ottenuta.
Aveva sempre cercato il cambiamento. L’aveva sperato. Svegliarsi la mattina in un’atmosfera diversa, come se il mondo avesse perso la propria gravità e tutto si fosse mischiato in una nuova visione, quella giusta. Quella che per anni aveva desiderato ascoltare da labbra famigliari. Sentire cosa si nascondesse dietro a tutto, scoprire i misteri che troppo a lungo erano stati celati, e che avevano reso quasi veleno l’esistenza di tutti loro. Della sua famiglia, composta più da spigoli e pendii, che da braccia aperte e sincerità.
E ora lei dava la caccia a un locale di divertimenti che avrebbe dovuto supplire a tutti i suoi interrogativi. Cosa c’era di sensato in quella realtà a rovescio, ma così diversa da come l’aveva immaginata?
Niente. E niente c’era in quel maledetto elenco del telefono dalle pagine mancanti. Come pensavano sarebbe riuscita ad arrivare in quel posto? Non aveva indirizzi, zone, si era ricordata vagamente il nome della città. Di chiedere informazioni ai passanti non se ne parlava. Non voleva fare la figura della mendicante, come il suo aspetto dava già a intendere. E a breve, altrettanto avrebbe fatto il suo portafoglio. Dubitava sarebbe riuscita a pagarsi un'altra camera d’albergo per più di due notti, perfino nella topaia più abbandonata di quella metropoli in miniatura.
Battere la città da cima a fondo era impensabile. Non era un segugio, ci avrebbe messo troppo tempo, e sentiva di non averne. Continuava ad avvertire su di sé degli occhi che non riusciva a individuare.  
Ma forse doveva soltanto aspettare.
Suo fratello l’avrebbe raggiunta. In fondo, le aveva detto di andare avanti.
E di salvarsi. Che a loro ci avrebbe pensato lui. Che non c’era un minuto da perdere.
Cosa pretendevano da lei?
Da lei, che per la prima volta, voleva rannicchiarsi in un angolo e diventar spettatrice della vita che aveva sempre agognato di vivere.
Lasciò una banconota sul tavolo, ed era già sparita oltre la porta della caffetteria quando il commesso che l’aveva servita la cercò con lo sguardo.
 
 
 
 
Vivere un’esistenza che sembrava dovesse terminare da lì a breve.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il sole declinava.
Dell’intera giornata, quello pareva essere l’unico momento in cui lasciava andare i sensi, rilassandoli nel mentre che fissava quell’arancio diventare rosso, e quel cielo venarsi di colori caldi, pennellate di tempera vivida.
L’orizzonte non era spoglio, anzi, un palazzo le tagliava la visuale, facendo diventare il cerchio del Sole uno spicchio d’arancia. Ma quella metà la illuminava in pieno, gettando sfumature sui suoi indumenti pece. Gli occhi si godevano il tramonto al riparo dietro gli occhiali scuri, indossati più per pietà che per reale utilizzo. Il suo viso tirato, dalle occhiaie rimarcate, era ancora più impresentabile di tutta la figura in sé.  
Aveva camminato tutto il giorno, prima con la sterile speranza di trovare quel che andava cercando; in seguito vagando con un crescente senso di smarrimento che ogni ora diveniva sempre più pressante.
Chi voleva prendere in giro? Era stanca, spossata, e soprattutto sfiduciata. Non avrebbe resistito un altro giorno così. Non sapeva cosa fare. E, soprattutto, perché si fosse ridotta in quel modo.
In fondo ne era consapevole. Nulla di quello che conosceva esisteva più.
La sua casa?
Ridotta in fiamme. Fiamme così nere e folli da sembrare che baluginassero di vita propria. E forse, era proprio così. Era come se qualcuno le avesse cancellate dalla sua memoria, ma ombre, cupe sagome mostruose, si muovevano ancora nei suoi ricordi. Figure… che nulla avevano di umano. Esseri che avevano tentato di afferrarla, di trascinarla, sicuramente di ucciderla e magari di cibarsi dei suoi resti. Ma poi, improvvisamente, era esplosa una luce. Calda, carezzevole, così brillante da accecarla, da farla quasi svenire. Da quel momento la sua mente si era come distaccata, aveva registrato a tratti quello che era successo intorno a lei, rapido e inarrestabile.
Suo padre.
Si convinceva di averlo visto, di averlo scorto in quel bagliore sconfinato, sospeso nel tempo e nello spazio, e che aveva reso la casa un luogo privo di forme, dove solo un immenso cratere brulicante si apriva nel centro. Continuava a figurarselo, anche lui così astratto, dai contorni quasi sfuocati. E continuava a udirlo. Quel che le aveva detto, quel che le aveva fatto promettere, con una voce tonante, una voce esplosale dentro, stordente.
Suo fratello che la portava via, che urlava parole insensate, che le schiacciava la faccia contro di sé, nascondendole la vista.
Lampi bianchi e neri.
Ecco cosa era riuscita a distinguere, prima che la ragione annegasse nell’oblio.
E nulla, ancora, aveva avuto una spiegazione.
Come sempre.
Nella sua vita non esistevano chiarimenti. Tutto doveva essere impenetrabile e oscuro. La verità, così come la normalità, erano concetti che conosceva in modo puramente formale: per lei avevano il significato che descriveva il dizionario. Nessuna emozione, nessuna sensazione, alcun peso o sentore.
Pareva che il sole non si decidesse ad abbandonarla. Così fu lei, voltandogli le spalle e alzando lo sguardo, a ignorarlo, e a focalizzarsi sulla struttura che la sovrastava.
Una cosa che non mancava, in nessuna città, era una chiesa. Il suo rifugio preferito, l’unico posto dove le era sempre stato concesso di andare, ovunque si trovasse, in qualsiasi situazione. L’unico luogo dove sapeva non ci sarebbe stato nessuno a controllarla, dove avrebbe potuto avere i suoi spazi per riflettere e considerare quanto le facesse schifo la propria esistenza.
O meglio, come fosse divenuta ancora più invivibile.
Scivolò all’interno di San Patrizio, chiudendo fuori tutti i rumori che l’avevano accompagnata per l’intera giornata. Dentro, c’era solo silenzio. E il fresco, quasi freddo. Una tranquillità che arrivò quasi come una stilettata, fastidiosa e così ricercata al contempo. Un effetto a cui non si era ancora abituata negli anni.
Compì i primi passi, sentendo come il rumore dei tacchi si diffondesse intorno, colmando l’assenza d presenze nel luogo. Pareva di camminare entro la cornice di un quadro. Nelle navate esterne, due punti simmetrici posti a metà del cammino erano rischiarati dal tremolio delle piccole candele votive. La maggior parte della luce veniva dalle vetrate superiori e non era molta.
Dopo essersi guardata così intorno, come se non conoscesse a menadito i particolari ricorrenti in tutte le case del Signore, ultima meta dello sguardo fu l’altare spoglio e l’ampia croce in legno che lo vegliava.
Irrigidì la mascella, senza motivo apparente, reprimendo le immagini che la sua mente stanca e prostrata intendeva farle rivivere. Optò per sedersi su una delle panche scricchiolanti, coricando lo zaino al proprio fianco e poggiando i piedi sul sostegno di legno della seduta di fronte.
E respirò. Riempì i polmoni e buttò fuori, non volendo intenderlo come un sospiro rassegnato, del tutto arreso al presente. Eppure, non c’era più rabbia in lei. Lo stava accettando. Stava permettendo all’arrendevolezza di vincerla. Era così difficile credere che non potesse farcela da sola, quella volta? Che il crollo delle proprie certezze fosse davvero un peso così insostenibile, e che potesse concedersi il lusso di farsi sopraffare quella volta? Dirsi, ci hai provato, ma questa volta tu non basti da sola.
Pensata così, bruciava. Di qualcosa simile al disprezzo verso di sé, al risentimento più velenoso. Un odio indistinto e imparziale che sgorgava in lei, furioso. Una vampa, tanto che sentì il viso andarle in fiamme, e i denti serrarsi impietosi gli uni contro gli altri.  
Alcuni passi la distrassero. Tirò su la testa, vedendo il prete avvicinarsi. Sorrideva appena con espressione curiosa e benevola.
« Buonasera » esordì il parroco, con quella bonarietà tipica del suo mestiere.
La giovane accennò un saluto con la testa, avvertendo che la propria voce sarebbe apparsa raschiante e terribile, modulata dalla collera. E almeno lì, in quella pace che tuttavia non riusciva ancora a chetarle i sensi, voleva fingere che tutto andasse per il meglio. Che fosse diverso.
Tuttavia, l’espressione dell’uomo mutò gradualmente, mentre i suoi occhi non poterono ignorare le sue condizioni. Quel maledetto cerotto sulla guancia, il suo pallore, e probabilmente anche la rigidità della sua postura. I suoi nervi erano ormai un unico blocco inscindibile e attanagliato.
« Posso… aiutarla? » domandò quindi, increspando la fronte rattristato, forse pietoso, ma con una sincerità che riuscì a sopire il nascente moto di rabbia, ingiustificata, in lei.
In fondo, era tutto il giorno, segretamente, che attendeva quelle parole. In una qualsiasi forma, allusiva o diretta, anche se non l’avrebbe mai ammesso.
Solo, lei non aveva una risposta. Lei aveva un problema, ma qualcosa di cui era incapace di dare una spiegazione. Era incomprensibile per lei. Era spaventoso, per lei.
Non avrebbe disdegnato un consiglio, per una volta. Ma era consapevole che sarebbe stata considerata una pazza. Perché quello che era accaduto… non era niente di umano. Iniziava persino a dubitare che ciò che conosceva, che ricordava, fosse umano.
Tremò. Fu uno spasmo involontario che la scosse da dentro, contraendole viscere e petto. Il prete al suo fianco trasalì anche lui, poggiandole una mano sulla spalla, di cui lei avvertì a malapena la presa.
No, non ce la faceva a pensare a una cosa del genere. Non ne aveva la forza, non ne aveva il coraggio.
Si morse il labbro, così dolorosamente che credette di spaccarselo, di inciderlo coi denti e sentire il sapore ferruginoso in bocca. Anche le unghie, implacabili, artigliarono la pelle delle braccia, stringendo come se non potessero fare altro, come dolorose ancore.
La voce del padre, inginocchiatosi di fianco a lei, non giungeva, non la scuoteva.
Era stanca.
E pianse, lasciandosi andare a quelle ombre torturatrici.  
 
 
 
 
 
 
Here in the shadows
I'm safe, I'm free
I've nowhere else to go but
I cannot stay where I don't belong

 
Qui nell’ombra
Sono salva, sono libera
Non ho nessun altro posto dove andare, ma
Non posso stare in un luogo a cui non appartengo
 
[Evanescence – Exodus]
 
 
 
 
 
L’aria della sera era ghiaccio nei polmoni.
Imbacuccata nella giacca e con il cappuccio tirato su, tossì un paio di volte, più per i postumi dei singhiozzi e del pianto incontrollato che l’aveva presa, che per sintomi di raffreddamento. Ma presto anche quelli sarebbero arrivati se non avesse trovato un posto caldo per la notte.
Aveva appena lasciato San Patrizio nonostante la bonaria insistenza del prete a rimanere per la notte nel ricovero per i senza tetto e qualcosa di buono da mangiare. Un invito allettante, a cui non avrebbe pensato due volte, se il martellare del suoi pensieri si fosse chetato almeno per un po’.
Era riuscita a calmarsi, a rimettere un po’ insieme i pezzi di se stessa, ma anche questo sforzo non era stato sufficiente a cancellare la confusione e la sottile paura della situazione che stava vivendo.
Si era sfogata piangendo come non faceva da quando era piccola. Da molto si considerava una persona forte, capace e a tratti intrepida. Forse più sconsiderata e stupida, con il senno di poi. La sua esistenza prima era solo una macchiolina inconsistente, come se tutte le sue lotte e ragioni precedenti non fossero state altro che capricci.
Nonostante avesse voluto rimanere seduta in chiesa, magari passarci realmente la notte, e rimandare tutte le sue preoccupazione al giorno successivo, il pallino di sapere e venire a capo di quella situazione irreale e opprimente era stato troppo forte.
Appena era riuscita a calmarsi un poco e a schiarirsi la voce quel tanto che bastava per accennare qualche parola, aveva chiesto al prete se conoscesse il luogo che stava cercando, quella stupida discoteca.
Il Devil May Cry.
C’era stato un attimo di silenzio, e la presa rassicurante del parroco si era irrigidita sulle sue spalle, ma solo per un breve istante. Confusamente lo aveva sentito deglutire forte e le era parso, ma non ne era certa, che avesse sospirato. Con voce atona le aveva detto che il posto che cercava non era lontano da lì, tre isolati in fondo a una strada chiusa, non un luogo per giovani ragazze tuttavia.
Quando lei si era ripresa sufficientemente da riuscire a mettere un piede davanti all’altro e raggiungere il grande portone accompagnata dall’uomo di fede, quest’ultimo l’aveva guardata con un misto di tristezza e pietà. Se le avessero rivolto uno sguardo del genere un paio di mesi prima molto probabilmente avrebbe preso a pugni la persona in questione e chiedendo poi se ci fossero problemi. In quel momento, non poteva che pensare che la si potesse guardare solo che così. Lei stessa si sarebbe biasimata e impietosita della propria condizione, se ne avesse avuto la forza.
Ma il prete sembrava pensare altro, mentre le chiedeva se proprio non intendesse rimanere per la notte ed evitare quel posto, quel Devil May Cry. Ma lei, mesta e stanca, l’aveva ringraziato e se ne era andata.
E se ne era pentita. Mentre camminava spedita e attenta alle strade che incrociava per non sbagliarsi, ripensava a come sarebbe stato facile rimanere e buttarsi tutto alle spalle per una notte. Un posto per dormire, del cibo caldo… e invece la sua testardaggine doveva dar retta ai brividi che le correvano per la schiena, che non erano tutti solo di freddo.
Ma ora che era vicina, sentiva di tremare ancora di più. Sentiva una crescente angoscia farle vibrare il petto, facendole affrettare il passo quasi a farla correre per scacciare la sensazione.
Delle risposte. Risposte, risposte, risposte.
Ma questo significava anche spiegare e rivivere tutto. Mettere una definitiva cesura alla sua esistenza. Perché quello che era accaduto, così all’improvviso, così surreale… non poteva che cancellare la sua esistenza fino a quel momento e farla ricominciare da capo. Lo sentiva in ogni fibra, in ogni respiro e palpitazione. Più i suoi passi erano veloci, più sentiva che la sé che credeva di essere stava sbiadendo, rimanendo indietro.
Svoltò a destra come le era stato indicato. Seguì la fila dei palazzi in mattoni chiari fino alla successiva traversa. Svoltò di nuovo sullo stradone col fiato corto. C’era. Era arrivata ormai, doveva solo trovare la giusta traversa.
Non sapeva che ore fossero, ma la notte sembrava piena. Poche stelle, molte nuvole e quasi nessun rumore nell’aria. Si aspettava di sentire schiamazzi, qualche motore e musica ad alto volume quando trovò finalmente l’angolo che dava sul Devil May Cry.
La stradina non era molto profonda e l’insegna del locale era la prima cosa che spiccava allo sguardo. Rossa, intermittente, con qualche lettera un po’ lenta nel riaccendersi. Una fioca luce filtrava da una delle finestre sul lato, ma la porta sembrava chiusa pesantemente.
Si avvicinò e alzò la mano, le nocche serrate pronte a bussare.
Fu allora che si accorse di tremare follemente, come se fosse stata nuda in quella notte buia. Tremare come quella notte di quasi un mese prima. Tremare di fronte all’ignoto, all’oscurità più fitta, alla paura più pura.
Per un attimo, intriso di follia e di nessuna logica, pensò che bussando a quella porta probabilmente la voragine che aveva inghiottito la sua casa si sarebbe riaperta proprio lì, portando via anche lei, definitivamente.
Prese un respiro tremulo, un risucchio necessario, e inghiottì quei flash insani.
Bussò, una prima volta, debolmente.
Scosse la testa e bussò una seconda volta, più decisa.
Era arrivata. Era lì.
E avrebbe avuto le sue risposte.
 
 
 
 
 
 
 
Oh, show me the shadow where true meaning lies
So much more dismay in empty eyes
 
Mostrami le ombre dove si cela il vero significato
Ancora di più si perde negli occhi vuoti
 
[Evanescence – Exodus]
 
 
 
 
 
 
Il silenzio spettrale del quartiere colmava l’aria di quella giornata senza fine.
Ai suoi primi tentativi di bussare non aveva risposto nessuno. La luce continuava a baluginare dalla finestra e lei si rifiutava di credere che davvero non ci fosse nessuno.
Bussò una seconda volta, attese – non il reale tempo necessario – e ribussò con più foga, il pugno chiuso.
« C’è nessuno!? » urlò contro l’uscio immobile, con una nota retorica che fu incapace di sopprimere.  
Ma non ci furono movimenti, né altro. Calma piatta.
Respirò forte, alzò il braccio come per provare a bussare ancora, ma fermò il gesto gradatamente, fino ad appoggiare senza rumore le nocche chiuse e fredde contro la porta. Ci appoggiò la fronte, chiudendo gli occhi e reprimendo il bruciore delle lacrime. Si arrese, perché era infinitamente molto più facile.
Non ce la faceva più.
Non ce la faceva.
Doveva aver capito male il nome del posto dove doveva andare, si disse di nuovo. Una discoteca? Seriamente una discoteca? Le risposte che voleva, da cui ormai sembrava dipendesse il suo equilibrio psico-fisico, potevano davvero trovarsi in un luogo con un nome del genere, Devil May Cry?
Tirò un calcio alla porta, incurante di farsi male. Voleva solo sfogarsi, trovare qualcuno a cui addossare tutta la colpa.
Suo padre per esempio.
Dov’era suo padre ora? Quello stesso padre che per anni le aveva impedito un’infinità di cose, che aveva sempre voluto tenerla d’occhio dicendo che era per il suo bene… e che ora la spediva dall’altra parte del mondo per cercare un uomo che si sostituisse a lui per proteggerla?
Perché?
Sferrò un altro calcio, seguito da un pugno.
Perché avrebbe dovuto dargli retta? Fino a quel momento non aveva sgarrato di una virgola su quelle ultime parole che le aveva detto. Aveva attraversato quasi un intero paese per arrivare in quella maledetta città di gente sconosciuta. Aveva trovato il posto che le aveva detto, ma non la persona che cercava.
Tutto questo perché era spaventata a morte e non riusciva a realizzare cosa le fosse successo da quando quella voragine si era aperta in casa sua. Ma ora che era a centinaia, migliaia di chilometri da lì, perché avrebbe dovuto continuare a dar retta a quel vecchio, al padre che per tanto tempo aveva detestato? Che l’aveva sempre tenuta in gabbia?
« Maledizione! » inveì, tirando su col naso, combattuta con se stessa, mentre dava l’ennesimo calcio a quella porta inamovibile.
Non voleva più…
« Ehi tesoro, va’ a prendere a calci casa tua »
Una voce la bloccò, facendole spalancare gli occhi e girare di scatto. Per la foga il cappuccio le finì a coprire parte del viso; lei lo ricacciò indietro per mettere a fuoco la figura apparsa dietro di lei. Dovette alzare lo sguardo per guardare in faccia l’uomo di quasi due metri che la sormontava e che la fissava con due occhi azzurro ghiaccio e un’espressione irritata. Tra le mani teneva il cartoccio di un paio di pizze che fumavano nell’aria fredda, diffondendo un odorino più che appetibile.
Doveva essere lui.
Non le era stato descritto nel dettagli ma… era pazza, ma l’aurea che percepiva da lui le smosse qualcosa che forse avrebbe potuto chiamare sesto senso.
Le parole tuttavia le morirono sulle labbra, rapita dalla realizzazione. Fece per parlare, ma l’uomo la scostò di malagrazia per aprire la porta.
Forse, alla fine, qualcosa stava andando nel verso sperato.
« Aspetta! Sei tu Dante? »
Il mezzodemone non la degnò di un’occhiata, di un movimento a conferma, ma invece entrò nel locale. Lei si affrettò contro l’uscio prima che lo chiudesse, finendogli quasi addosso.
« Ragazzina gira a largo e torna da mamma e papà prima che si preoccupino » disse lui, guardandola come fosse un’invasata mentre alzava la mano con cui reggeva i  cartoni tenendoli fuori portata da qualsiasi altro slancio improvviso. Facendo così finì però con lo squadrarla da cima a piedi per un paio di secondi, notando il cerotto, le occhiaie e il pallore della pelle del viso su cui ricadevano i capelli scarmigliati nero ebano. « Il ricovero per i senzatetto è a San Patrizio, due isolati più in là, se ti muovi trovi ancora i maccheroni al formaggio ».
La donna non si scompose di un centimetro, rimanendo salda nella posizione per bloccare la porta. I suoi occhi, notò Dante, traboccavano di collera mista ad angoscia. Sembrava disperata. E a lui i disperati volgevano sempre la serata in peggio.
Ma almeno, ciò che la donna disse, fu una svolta nella monotonia di quelle settimane passate a trangugiare pizza e sonnecchiare.
« Mi chiamo Eva » esordì, dura, quasi tagliente, come a voler sottolineare che non avrebbe preso bene nessun diniego o interruzione.
Era arrivata.
Dante inarcò un sopracciglio, in attesa del resto.
« Eva Engelicht. Ambrosius, mio padre, mi ha mandata a cercarti ».
Dopo un attimo di sorpresa, un sorrisino compiaciuto, e di beffa, si aprì sul volto del mezzodemone.
La cena sarebbe stata piuttosto appetitosa quella sera.
 
 
 
 
 
 
Two months pass by and it’s getting cold
I know I’m not lost
I am just alone
But I won’t cry
I won’t give up
I can’t go back now
Walking up is knowing who you really are
 
Sono passati due mesi e sta facendo più freddo
So di non essermi persa
Sono soltanto sola
Ma non piangerò
Non mi arrenderò
Non posso tornare indietro ora
Svegliarsi è capire chi si è veramente
 
[Evanescence – Exodus]
 
 
To be continued?

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