Someone to save you

di nikita82roma
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Beautiful Day ***
Capitolo 2: *** Hold my hand ***
Capitolo 3: *** With Arms Wide Open ***
Capitolo 4: *** The Hardest Part ***
Capitolo 5: *** Wrecking Ball ***
Capitolo 6: *** You can count on me ***
Capitolo 7: *** Mistake ***
Capitolo 8: *** Don't speak ***
Capitolo 9: *** Sacrifice ***
Capitolo 10: *** Precious ***
Capitolo 11: *** I'm a Mess ***
Capitolo 12: *** You Should Be Here ***
Capitolo 13: *** Tallulah ***
Capitolo 14: *** Fear of the Dark ***
Capitolo 15: *** I still haven't found what I'm looking for ***
Capitolo 16: *** 16 Not Today ***
Capitolo 17: *** Home Again ***
Capitolo 18: *** A Hard Rain's A Gonna Fall ***
Capitolo 19: *** All I Want ***
Capitolo 20: *** Crash! Boom! Bang! ***



Capitolo 1
*** Beautiful Day ***


It's a beautiful day
Sky falls, you feel like
It's a beautiful day
Don't let it get away

Aprii piano la porta di camera e guardando verso il letto un sorriso enorme riempì il mio volto: Tony e Nathan dormivano esattamente nella stessa posizione con la stessa espressione imbronciata e ad osservarli attentamente si notava anche che respiravano simultaneamente. La mano sinistra di entrambi sbucava fuori dal cuscino e non potei evitare di soffermare lo sguardo su quella di Tony dove la fede scintillava riflettendo i raggi del sole pomeridiano che filtrava dalle tende della camera. Era passata una settimana dal giorno del matrimonio, eravamo tornati da quella breve fuga alle Bahamas e tutto sembrava come sempre, tranne che per quel piccolo cerchietto sulla sua mano. E sulla mia, conclusi il mio pensiero osservandola.
La stanchezza di quella settimana così intensa emotivamente e non solo si faceva sentire, avrei voluto anche io sdraiarmi sul letto e dormire un po’, ma l’idea di svegliargli mi fermò, quindi mi accoccolai sul divano con l’intenzione di leggere un po’. Avevamo ancora qualche giorno di ferie prima di tornare a lavoro e mai come in quel momento ne fui sollevata.
I giorni alle Bahamas erano stati perfetti, nonostante il risveglio di quella mattina con le notizie da Israele e Washington: lo avremmo affrontato poi, quando saremmo tornati a casa, quando ne avremmo avuto voglia.
Con Tony ci eravamo accordati di non parlarne, di lasciare tutto fuori, di non farci condizionare e di vivere quei giorni solo per noi. 
E lo abbiamo fatto.  Correre fino al mare buttarci tra le onde e baciarci fino a quando la pelle non era totalmente raggrinzita e allora ci siamo stesi sulla sabbia ed abbiamo ricominciato lì. Passeggiare sul bagnasciuga al tramonto e rimanendo abbracciati guardare il sole tuffarsi nel mare, cenare a lume di candela passando tutto il tempo a guardarci tenendoci per mano senza dire nulla, mangiando come se fosse un brutto contrattempo che interrompeva i nostri sguardi. Fare colazione insieme a letto imboccandoci a vicenda giocando con il cibo stuzzicandoci. Giocare con la schiuma nell’idromassaggio, sulla veranda, soffocando i gemiti quando il gioco diventava più intimo per non farci sentire dai vicini. Ridere, parlare, ballare, stare in silenzio. Amarci. In tutti i modi, senza pensare che non era il momento adatto, senza la paura di essere interrotti, senza preoccuparci di non fare troppo rumore. Sentirsi veramente come due ragazzi in luna di miele, per pochi giorni senza preoccupazioni, ma tornare genitori tutte le volte che prendevamo il telefono per chiamare Nathan, che non sembrava nemmeno troppo preoccupato dalla nostra assenza, ma sempre felice di sentirci e di raccontarci tutte le belle cose che faceva con Gibbs. Non ci aveva mai chiesto, in nessuna telefonata, quando saremmo tornati e Tony sorridendo diceva che se lo avesse saputo avremmo potuto fermarci anche qualche giorno in più. La verità, però, era che quando stavamo tornando a casa, dall’aeroporto, non vedevamo l’ora di vederlo, perchè ci era mancato tantissimo ad entrambi, anche se non ce lo eravamo mai detto.
Incontrammo Gibbs per pochi minuti appena rientrati a casa. Nel salutarlo incrociammo i nostri sguardi. “Ne parliamo poi” mi disse, ma non lo avevamo ancora fatto. Non c’era fretta, avrei voluto sapere qualcosa in più, ma non era più di vitale importanza sapere quello che era accaduto e perchè. Avevo altre priorità adesso, lo avevo capito dopo tanto tempo.

Un contatto morbido e caldo sulla mia guancia mi fece aprire gli occhi, avevo ancora il libro che avevo preso per leggere aperto sul mio petto, alla stessa pagina. Mi stropicciai gli occhi e guardai la finestra, era buio.
- Ho dormito così tanto? - Chiesi a Tony che si era accovacciato vicino al divano e continuava a darmi fugaci baci sul viso. 
- Sì dormigliona. È ora di cena e con l’ometto di là pensavamo di andare a mangiare fuori, che ne dici?
- Ci facciamo portare qualcosa a casa? - La voce impastata dal sonno faceva capire il perchè di quella mi a richiesta.
- Se lo preferisci, va bene. - Sorrise.
- Sì, non ho proprio voglia di prepararmi ed uscire, preferisco passare il tempo con te - gli dissi tirandomi su e portando entrambe le mani dietro la sua testa, avvicinando a me per baciarlo come si deve. - Ordini tu? - Gli chiesi staccandomi malvolentieri dalle sue labbra - Io vado da Nathan.
Mi fece un cenno di assenso e andai a giocare con Nathan a costruire improbabili torri con le costruzioni, deluso per la mancata uscita serale, con la promessa che avremmo recuperato il giorno dopo. 

Qualche mattina dopo Tony era seduto al bancone della cucina scorreva tra le pagine di web di siti per animatori per feste per bambini
- Ziva, pensavo… cosa organizziamo per il compleanno di Nathan?
- Tony c’è tempo per pensarci no? - Risposi senza prestargli troppa attenzione
- Beh, è settimana prossima, se dobbiamo organizzare qualcosa o invitare qualcuno… - A quella risposta mi allarmai
- Settimana prossima? 
- Qualcosa non va? - Chiese distogliendo lo sguardo dal computer ed osservandomi perplesso
- Che giorno è oggi?
- 10, perchè?
- Perchè credo che abbiamo un problema…
- Cioè? - Chiuse il portatile osservandomi più attentamente. Alla parola problema i suoi sensi si erano allertati.
- Io… ho perso veramente la cognizione del tempo… Non ci ho pensato, non ho fatto caso quando eravamo fuori… - Balbettavo, non sapevo cosa dire e come dirlo. Mi sentivo una stupida ragazzina adolescente.
- Ziva, che c’è? - La sua voce più che preoccupata era spazientita perchè non gli comunicavo l’origine del problema.
- Ho un ritardo Tony, 6 giorni. - Sputai fuori le parole velocemente e dalla sua riposta temetti che non avesse capito il senso. 
- E’ tanto o poco? Non sono esperto - Era calmo, mi stupiva e mi rendeva felice.
- Sono sempre puntuale Tony. Le ultime due volte che ho avuto un ritardo… - Non finii la frase, lui si alzò e mi venne davanti. Mi portò una mano sul viso e spostò una ciocca di capelli.
- Hey, che c’è? Non sei felice?
- Sì, certo… Sarebbe bello… Ma… è sempre qualcosa di… grande. Non pensavo così presto… - Dissi sinceramente.
- Te l’avevo detto che io e te insieme siamo la salvezza del genere umano dall’estinzione! - Rise
- Tony come riesci a fare lo stupido anche adesso? - Avrei voluto essere più arrabbiata di quando effettivamente gli risposi sorridendo anche io.
- Perchè se non lo faccio mi viene un’attacco di panico, e poi perchè così ridi anche tu e mi pare ne hai bisogno. Dai vieni qui, fatti abbracciare. - Mi cinse i fianchi e mi avvicinò a lui. Appoggiai la testa sul suo petto mentre mi accarezzava la schiena.
- Dobbiamo esserne sicuri, voglio dire, è solo un ritardo, potrebbe anche non essere, anche se per me sarebbe strano, però con lo stress per il matrimonio, la vacanza, non lo so… 
- Shhh che vuoi fare?
- Andiamo a comprare un test? - Gli chiesi allontanandomi appena per guardarlo in volto.
- Mi sembra un’ottima idea! - Ebbi la sensazione che, qualunque cosa gli avessi chiesto, mi avrebbe risposto così.

 

——————

 

Il silenzio nel breve percorso tra la casa e la farmacia era carico di tante cose: paura, speranza, inquietudine. Camminavamo mano nella mano e non era una cosa usuale, ma era stata Ziva a prenderla appena usciti di casa, quando eravamo ancora nell’ascensore e non l’aveva più lasciata. Così tenendola stretta avevo cominciato con il pollice ad accarezzare il dorso della sua mano, lasciando che fossero i gesti a parlare per noi.
Arrivati davanti alla farmacia mi chiese di aspettarla fuori, come se si vergognasse di avermi lì mentre comprava quel test. Uscì poco dopo con la scatolina nella borsa. Le chiesi se era tutto ok, mi rispose solo facendo un cenno con la testa.
Tornammo a casa, sempre in silenzio, sempre tenendoci per mano, che Ziva aveva cercato e ripreso appena avevamo ricominciato a camminare.
Avevamo ancora un po’ di ore prima di dover andare a riprendere Nathan all’asilo, Ziva da quando eravamo rientrati a casa si era seduta sul divano facendo roteare la scatolina tra le mani con lo sguardo basso.
- Ok, dimmi cosa c’è - le chiesi bloccandole le mani
- Niente. - Rispose con lo sguardo sempre basso. Le alzai il viso per obbligarla a guardarmi.
- Non mi mentire, che problema c’è Ziva? Hai deciso tu che ti sentivi pronta per provarci.
- Lo so. 
- C’hai ripensato? Lo hai fatto solo per farmi contento? - Ero triste e deluso.
- No, Tony, no! - Liberò una delle sue mani dalla mia presa e mi accarezzò
- E allora? Da quando mi hai detto del tuo ritardo sembra che ti sia capitata una disgrazia. Ti vedo così e non riesco nemmeno ad essere felice… 
- Ho solo paura.
- Di saperlo o del dopo.
- Del dopo.
- Se intanto vediamo se è vero, che ne dici? Così poi ci preoccupiamo insieme - cercai di farla sorride inutilmente. Si alzò, di scatto, nervosa ed andò in camera diretta nel nostro bagno. La seguii ma mi bloccò prima di entrare con lei e la aspettai seduto sul letto fissando la porta in attesa che lei uscisse e lo fece poco dopo.
- Allora? - Le chiesi
- Dobbiamo aspettare.
- Ah. Non so come funziona.
- 3 minuti.
- Ok. - Sospirai
Appoggiò lo stick sul comodino e si sedette vicino a me. Cercai la sua mano e la tenni tra le mie.
- Sembra che aspettiamo una condanna a morte. - Asserii spezzando quel silenzio
- Scusami è colpa mia. È solo che ora sto ripensando all’ultima volta. Non voglio che gli succeda niente. Non lo voglio mettere in pericolo.
- È di questo che hai paura?
- Sì. - La risposta fu quasi un sussurro.
- Non gli succederà niente. - La rassicurai. Era una promessa stupida, non potevo saperlo, però lei ne aveva bisogno.
- Doveva essere un momento bellissimo questo. - Disse amareggiata mentre appoggiava la testa sulla mia spalla.
- Lo è. - Le lasciai la mano per accarezzare la sua schiena. - Anche io ho paura. Tu sai già cosa aspettarti, io no.
- Non so nemmeno io cosa aspettarmi. È tutto diverso adesso. Ci sei tu.
- Uhm… se preferisci me ne vado per un po’ di mesi e ci vediamo a caso risolto. - Le dissi sorridendo.
- Non ci pensare nemmeno Agente Super Speciale. Questo è anche il tuo caso.
Sembrava decisamente più tranquilla. Non avevamo ancora guardato il risultato ma già parlavamo come se fosse scontato che fosse positivo. Lei lo aveva detto dall’inizio, da quando si era resa conto di che giorno era lei era sicura che fosse incinta, non c’era bisogno che lo diceva lo capivo da come ne parlava, come un dato di fatto, non una possibilità. E così quando si staccò dal mio abbraccio e si voltò a prendere lo stick, bastò il suo sorriso nel vederlo per farmi capire che non si era sbagliata, perchè una mamma lo sa, se lo sente forse, nel momento in cui se ne rendo conto crea un contatto con il suo bambino che reclama spazio nel suo corpo e prima ancora nella sua mente. Era in piedi davanti a me con il test in mano, me lo diede ed io cercai di capire cosa dovevo leggerci, perchè per me il suo volto era molto più chiaro delle lineette.
- E’ ufficiale - mi disse - abbiamo un nuovo caso. - Era felice, non aveva smesso di sorridere da quando aveva visto il risultato. Non so se le paure che l’avevano attanagliata fino a poco prima erano scomparse o erano semplicemente diventate di minore entità rispetto alla felicità che provava, però ora sorrideva felice e a me importava quello. Alzai le mani per prenderla ed avvicinarla a me, ma nel toccarla ebbi un attimo di esitazione, come se improvvisamente avessi paura di farle male, di fare qualche casino. Fu lei a prendere le mie mani e a condurle verso di se, avvicinandosi in modo che la potessi abbracciare. Si posizionò in piedi tra le mie gambe ed appoggiai la testa sul suo ventre chiudendo gli occhi. Lei cominciò subito ad accarezzarmi i capelli rimanendo in quella posizione a lungo.
- Tony - mi disse staccandosi dal mio abbraccio e tornando a sedersi vicino a me - dobbiamo pensare a come dirlo a Nathan e poi dobbiamo parlare con Gibbs.
- Sì, dobbiamo parlare con Gibbs. - Ripensai a quello che era accaduto a dicembre ed era necessario che il capo sapesse subito la novità. - A Nathan lo vuoi dire subito o aspettiamo un po’?
- Preferirei aspettare che vada tutto bene, per dirlo a lui ed anche agli altri. Non sopporterei di dover un’altra volta…
- Shh non dire nulla. Aspetteremo. Lo diciamo solo a Gibbs, a lui dobbiamo dirlo.

Così quel pomeriggio prima di andare a prendere Nathan all’asilo passammo in ufficio, con la scusa di salutare tutti prima di tornare a lavoro dopo pochi giorni, visto che le nostre ferie stavano finendo. Mandammo un messaggio a Gibbs, per avvisarlo che dovevamo parlargli e così dopo aver salutato tutti, fatto un veloce racconto della luna di miele e del rientro a casa, risposo alle solite domande di rito su come ci si sente da sposati e rievocato qualche momento della cerimonia, ci spostammo con il capo nella sala riunioni, ma una volta dentro Gibbs non ci diede la possibilità di parlare e cominciò lui.
- Avete saputo quello che è accaduto il giorno che siete partiti, vero? - Rimanemmo spiazzati, perchè lui era evidentemente convinto che eravamo lì per parlare di Orli Elbaz
- Sì, Gibbs - rispose Ziva - ma non è importante sapere di dettagli.
- Sono morti tutti i membri del Mossad coinvolti in questa storia. - Conitnuò Gibbs - Tranne una persona.
- Chi? - Chiesi mentre Ziva e Gibbs si scambiavano occhiate interrogative e nessuno parlava. Mi dimenticai completamente il motivo per cui dovevamo parlare con lui  e mi agitai. Loro sapevano qualcosa che a me sfuggiva. - Allora? Si può sapere chi è che manca e perchè è così importante?
- La persona che mi aveva pedinato. - Ziva mi rispose prima di Gibbs e prese la mia mano sotto il tavolo. 
- È importante? - Chiesi 
- Lo è Tony -  intervenne Gibbs, poi guardò ancora mia moglie come a chiedere il permesso per poter parlare e la cosa mi preoccupò ancora di più. Ziva appoggiò le nostre mani unite sulla sua gamba e fece cenno di sì a Gibbs - La persona che seguiva Ziva era Gabriel Rivkin. 
Mi voltai di scatto a guardare Ziva come a cercare una risposta a quel nome nei suoi occhi, ma lei li abbassò.
- Rivkin - scossi la testa - cos’è, un parente?
- Il fratello - disse Gibbs.
- Il fratello di Rivkin… E voi da quanto lo sapete?
- Da un po’
- E perchè non mi avete detto nulla Gibbs? Non ero tenuto a saperlo io?
- Non ho voluto io che te lo dicesse - Disse Ziva sempre con lo sguardo rivolto verso il basso - Non volevo che reagissi così.
- Così come Ziva? Così preoccupato? Così arrabbiato? Che devo fare, ne devo ammazzare un altro per difendervi adesso? - Lasciai la sua mano e mi alzai andando verso la finestra. Guardavo fuori stringendo i pugni per la rabbia. Ogni volta che sentivo quel nome era riaprire una vecchia ferita, una delle più dolorose.
- Tony per favore… - la voce di mia moglie era quasi implorante.
- Per favore cosa Ziva? Perchè è tanto importante che non è stato eliminato? Ma soprattutto perchè è più facile eliminare il direttore del Mossad che Rivkin?
- Tony, siediti! - Mi ordinò Gibbs ma lo ignorai. Ci guardammo per un po’ poi continuò, facendo finta di nulla mentre rimanevo sempre vicino alla finestra, ora rivolto verso di loro ad osservarli. - Gabriel Rivkin è una scheggia impazzita, era stato dislocato negli Stati Uniti ma da tempo non risponde più al controllo di Tel Aviv. Mette le sue competenze al servizio del miglior offerente o per affari personali. Al momento non siamo ancora riusciti a determinare la sua posizione. Non ci stiamo lavorando solo noi se questo ti fa stare più sicuro.
- No Gibbs, non sto più sicuro sapendo che chi ha pedinato e organizzato l’agguato a mia moglie è in giro ed è uno psicopatico parente di Rivkin. Dopo quello che ha passato, dopo quello che è successo, come faccio ad essere tranquillo Gibbs? Dimmelo! - Gli urlai avvicinandomi a loro e andando dietro la sedia dove era seduta Ziva abbracciandola. Ripensavo alla sua paura di questa mattina ed all’improvviso la stessa paura si impossessò anche di me. - Io non posso permettere che accada ancora!
Gibbs assistette impassibile alla mia sfuriata.
- Hai finito Tony? - Mi chiese solamente quando smisi di parlare, ma prima che potessi rispondere, fu Ziva a parlare e a rivelare a Gibbs il motivo per il quale eravamo lì.
- Gibbs, noi oggi in realtà non eravamo venuti per parlare di questo.
- Ok, di che si tratta allora?
- Sono incinta. Lo abbiamo scoperto poco fa e abbiamo pensato questa volta di dirtelo subito. Lo sai solo tu e vorremmo che per ora non lo dicessi agli altri, vorremmo far passare un po’ di tempo, per essere più tranquilli. - La voce di Ziva era ferma, sembrava non tradisse nessuna emozione nel fare quell’annuncio, come se fosse una normale comunicazione di lavoro. Rimasi perplesso per quella reazione, era così diversa da quella donna che poco prima era spaventata e timorosa.
- Non ti preoccupare Ziva, hai fatto bene a dirmelo subito. Tony, nessuno permetterà che accada nulla questa volta. 
Gibbs si alzò, si avvicinò a Ziva, le diede un bacio sulla fronte e poi mi appoggiò una mano sulla spalla
- Congratulazioni ragazzi. - Uscì lasciandoci lì da soli. Strinsi le braccia più forte intorno al corpo di mia moglie e lei portò le sue mani sopra le mie.
- Non vi succederà niente Ziva. Te lo prometto.
 

——————

 

Nathan era più loquace e attivo del solito mentre nè io nè Tony riuscivamo, colpevolmente, a catalizzare le attenzioni su nostro figlio. Eravamo persi nei pensieri di quel giorno tra il bambino in arrivo che ancora dovevo metabolizzare e le notizie su Rivkin che lo avevano turbato più di quanto volesse far vedere. Nathan in auto mentre andavamo verso casa non smetteva un attimo di parlare.
- Ometto, che dici se andiamo al parco e poi a mangiare fuori stasera?
Ovviamente il suo urlo di gioia risuonò per tutto l’abitacolo e lo rese ancora più eccitato guardai Tony con aria interrogativa e lui per tutta risposta appoggiò la sua mano sulla mia gamba, carezzandomi appena. Sapevo che quando faceva così voleva che mi fidassi di lui. Provai a rilassarmi per quei pochi minuti che ci separavano dal parco.
- Non ti preoccupare - mi disse mentre entravamo nell’area giochi - Ci sto io con lui, tu aspettaci là - e indicò una panchina vuota proprio vicino alle altalene. 
Non mi andava che mi considerasse da subito una malata, una che non si potesse occupare del proprio figlio solo perchè incinta, però la realtà era che la mia non era stanchezza fisica ma mentale e mi sentivo tremendamente in colpa per non riuscire a passare del tempo con Nathan come avrei voluto e dovuto. Tony invece si lasciava coinvolgere, lo spingeva come piaceva a lui e sicuramente gli raccontava qualcosa di buffo, perchè ridevano entrambi. 
Alla fine quella sua decisione improvvisa era stata un toccasana, mi sembrava quasi che mi stavo rilassando. Mi piaceva vedere mio marito vestito una volta tanto informale giocare con nostro figlio al parco. La t-shirt nera appena aderente fasciava il suo fisico che ultimamente sembrava un po’ più asciutto degli ultimi tempi e i jeans chiari esaltavano il sedere che non mi era mai stato indifferente. Sorrisi di me stessa nel trovarmi a squadrare mio marito al parco mentre giocava con nostro figlio e mi guardai intorno per vedere se c’era qualche altra donna che lo stava osservando. Ecco, ero anche gelosa. Poi quando Nathan evidentemente si era stancato dell’altalena e Tony lo sollevò per metterselo sulle spalle, la maglietta si alzò leggermente e il mio sguardo fu catturato dal quel luccichio metallico dietro la schiena. Mi alzai di scatto e lo raggiunsi. Invitai Tony ad accompagnare nostro figlio a giocare con gli altri bambini nel castello gonfiabile e mi allontanai qualche passo con lui, quel tanto che bastava per non essere in mezzo agli altri genitori che osservavano i figli giocare.
- Cosa ci fai con una pistola quando giochi con Nathan? - Ero furiosa, ma dovevo mantenere un tono basso e calmo per non dare nell’occhio.
- Per sicurezza. - Rispose fermo
- Sicurezza di cosa? Una pistola dietro i pantaloni ti sembra una cosa sicura quando giochi con un bambino e te lo carichi sulle spalle?
- Sicurezza tua. Sua. Nostra. C’è in giro un pazzo che non si sa cosa vuole da noi, mi pare il minimo.
- Non voglio che ci siano pistole in giro quando c’è Nathan, te l’ho già detto Tony.
- Io non voglio che Nathan corra pericoli perchè non ci possiamo difendere. Se fossi stata armata, con Jordan, sarebbe andata diversamente.
- Me lo vuoi rinfacciare?
- No, è un dato di fatto Ziva. Non avresti avuto problemi a liberarti di loro da sola. Lo so io e lo sai benissimo anche tu. Due delinquenti comuni ed un folle non ti tengono testa. - Disse quell’ultima frase sorridendo, come per farmi un complimento, ma il mio cervello non recepiva nulla di tutto ciò come qualcosa di positivo.
- Non mi va che giochi con Nathan armato - Ripetei tralasciando tutto quello che aveva detto.
- Ok, stai tu con lui, io mi allontano, se non ti fidi. - Era amareggiato e infastidito. Si stava allontanando quando lo fermai per un braccio.
- Ehy scusa…
- Tranquilla Ziva. - Provò a liberarsi
- No, non sto tranquilla. Soprattutto non mi va che lasci perdere così. Mi dispiace, ma lo sai quello che penso sulle armi e su nostro figlio.
- Con il lavoro che facciamo e con la nostra vita non lo potremo tenere sempre al di fuori da tutto. Ha già vissuto situazioni abbastanza spiacevoli ed è meglio se veda una pistola addosso a me o a te che qualcuno che gliela punta contro, no? - Il suo ragionamento era logico, ma la mia paura di vederlo crescere in mezzo alle armi era qualcosa di innata. Tony sembrò leggermi dentro. - Non le deve usare le pistole, non si addestrerà per entrare nel Mossad da adolescente, non sarà la sua vita, ok?
Nathan stavo uscendo dal castello gonfiabile
- Vai a mettergli le scarpe - dissi a Tony
- Non gli sparo, te lo prometto - mi fece l’occhiolino e si accovacciò davanti a nostro figlio aiutandolo a sistemarsi. Quell’improvvisata al parco era riuscito a scaricare le sue batterie naturali ed ora piagnucolava per farsi portare in braccio e lo presi facendogli appoggiare la testa sulla spalla. Tony mi guardò come se stessi facendo chissà quale fatica immane e lo fulminai con lo sguardo.
- Non cominciamo eh! - Lo ammonii - Sto bene, ce la faccio a portare mio figlio, rilassati. Quando non ce la farò sarai il primo a saperlo e a farti carico di tutto! - Lo rassicurai.
- Sai che non ci credo, vero? - Rispose rassegnato.
- Fai bene! - Gli risposi ridendo allungando il passo verso la nostra auto.

 

 

NOTE: Rieccomi. Dove eravamo rimasti? 
Ah sì, alla carneficina degli agenti del Mossad, Tony e Ziva che corrono sulla spiaggia finalmente sposati. Tutto è bene quel che finisce bene, però poi si ricomincia e allora…
No, niente, questo capitolo ve l’ho lasciato un po’ ancora immerso nella gioia della fine dell’altra storia e cominciamo con qualcosa di positivo, in tutti i sensi :D Felici della news?
Però un pochina di tensione ce l’ho dovuta mettere con la scoperta di Rivkin :)

La storia è sempre scritta alternando i punti di vista di Tony e Ziva ma forse più avanti ci potrà essere anche quello di qualcun altro… Chissà… Una cosa che ho un po’ cambiato è raccontare di più la storia attraverso i ricordi dei personaggi, soprattutto per collegare degli spazi temporali che altrimenti sarebbero noiosi a farli tutti con botta e risposta e descrizioni, spero vi piaccia questa novità che avevo già cominciato un po’ negli ultimi capitoli dell’altra storia.
Beh, buona lettura e armatevi di pazienza, perchè credo che anche questa long sarà molto long, però gli aggiornamenti saranno meno frequenti rispetto all’altra, perchè mentre quella era pronta e solo da sistemare, questa la sto proprio scrivendo.

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Capitolo 2
*** Hold my hand ***


This life don’t last forever (hold my hand)
So tell me what we’re waitin’ for (hold my hand)
We're better off being together (hold my hand)
Than being miserable alone (hold my hand)

Il pomeriggio al parco aveva stancato Nathan più di quanto potessimo pensare. Mangiò meno di metà hamburger prima di addormentarsi sul divanetto del ristorante sotto casa, con la testa sulle gambe di Ziva che gli accarezzava i capelli. Nemmeno lei a dire la verità aveva mangiato più di tanto, giocava con il cibo, martoriandolo con la forchetta, spezzando e riducendo quasi in poltiglia quel trancio di salmone che aveva ordinato. 
- È già morto. - Le dissi prendendole la mano che impugnava la posata
- Chi? - Rispose come se l’avessi destata da qualche pensiero lontano
- Il tuo salmone. Sarebbe meglio che lo mangiassi
- Non ho molta fame in realtà. - Disse allontanando il piatto pressoché intatto da davanti a se.
- Stai male?
- No, non ho semplicemente fame. - Si era risentita della mia domanda. Ci guardammo un po’ senza dirci nulla - Non sono malata Tony, sono incinta.
- Lo so. Scusami. Io mi preoccupo, non so come comportarmi a dire il vero. Però sento che c’è qualcosa che non va, ti vedo.
- Mi dispiace per prima, al parco. - Disse tristemente dopo un po’ 
- Dispiace anche a me. Ma sono preoccupato Ziva. Per te e per la nostra famiglia. Non vorrei che vi accadesse qualcosa, a nessuno di voi tre.
- Non lo voglio nemmeno io e non sai quanto questo pensiero mi angosci adesso. Devo ancora metabolizzare la cosa. Domani godiamoci l’ultimo giorno di ferie, poi lunedì chiamo il mio ginecologo per prendere appuntamento per una visita.
- Vuoi evitare di pensarci ancora per un giorno?
- Tony, come faccio a non pensarci! Voglio solamente dire di non discutere, di non arrabbiarci, come adesso.
- Ok, ok. Ci penseremo da lunedì.
- Mi accompagneresti?
- Se lo vuoi sì.
- Certo che lo voglio, perchè non dovrei volerlo. - Riprese la mia mano stringendola.
- Non lo so, magari volevi essere da sola, più tranquilla.
- Se ci sei tu sono più tranquilla.
- Bene - sorrisi addentando un pezzo della mia bistecca. - Però mangi qualcosa? - Le chiesi quasi supplicandola. Sorrise, riavvicinò il piatto e mangiò un po’ di quella poltiglia di salmone con le verdure al vapore.

Nathan continuò a dormire in braccio a me nel breve tragitto che ci separava da casa. In ascensore Ziva si appoggiò alla mia spalla e chiuse gli occhi, in attesa di arrivare all’ultimo piano. Entrati a casa prese nostro figlio dalle mie braccia e lo portò in camera sua, avrebbe avuto bisogno di un bel bagno, ma evitò. Gli mise solamente il pigiama, spogliandolo e rivestendolo con calma, per non svegliarlo. Si lamentò un paio di volte, ma continuò a dormire mentre lei rimaneva con lui, seduta solo a guardarlo dormire, come faceva sempre quando era triste o qualcosa non andava. Era un campanello quello, che ormai riconoscevo benissimo. Se Ziva aveva un problema, si rifugiava in nostro figlio. Volevo entrare per starle vicino, chiederle cosa la turbasse, ma sapevo che mi avrebbe risposto che andava tutto bene, come sempre quando non voleva parlarne e se era lì con lui, vuol dire che non voleva farlo.
Andai in camera mi diedi una rinfrescata e poi mi misi a letto a leggere qualche notizia sul notebook, aspettando che venisse a dormire. L’attesa si protrasse più di quanto pensassi, un paio di volte almeno fui tentato da andare a vedere se andava tutto bene, ma evitai. Se c’era una cosa che avevo imparato era darle i suoi spazi. Quando decise di raggiungermi in camera, mi fissò per qualche istante prima di andare in bagno, forse si aspettava che le chiedessi qualcosa, ma non lo feci, le sorrisi solamente e lei andò in bagno forse ancora più turbata da questo mio atteggiamento. Chiusi il computer e lo riposi nel cassetto del comodino. Uscì dal bagno e si mise seduta sul bordo del letto, senza dire nulla.
Si spogliò, lentamente, avrei potuto pensare anche che volesse provocarmi, se non avessi saputo che quella non era proprio la serata adatta. Si mise solo una tshirt, era giugno ma faceva già abbastanza caldo. Aspettai che si sdraiasse, poi quando si voltò a guardarmi aprii le braccia e lei si avvicinò, appoggiandosi a me. Teneva la testa appoggiata tra il mio petto e la spalla, la avvolsi nel mio abbraccio e mai come in questa giornata, tante volte, mi ero sentito di volerlo fare. Abbracciarla, proteggerla, dal mondo e dai suoi fantasmi che ora la stavano assillando. Ora era arrivato il momento di parlare.
- Se questa sera non ti ha calmato nemmeno Nathan è qualcosa di serio.
- Che vuoi dire?
- Pensi che non mi sono accorto che quando sei nervosa vai da lui e lo guardi dormire?
- Non ci faccio nemmeno caso - Era imbarazzata
- Come mai questa sera non ha fatto effetto?
- Perchè è per lui se sto così.
- Che succede a Nathan? - Mi tirai su preoccupato, lei si accorse che mi ero irrigidito e mi passò una mano sul petto rassicurandomi
- A lui nulla, sono io.
- Non capisco Ziva…
- Quando Nathan è nato lui era tutto per me. Io avevo solo lui e lui aveva solo me. È stato un rapporto totale, sotto tutti i punti di vista, lui dipendeva da me ed io da lui. Lui era la mia àncora, più di quanto io non fossi la sua. Ho paura di non riuscire ad amare questo bambino nello stesso modo e nello stesso tempo ho paura che dandogli tutte le attenzioni di cui avrà bisogno Nathan si possa sentire trascurato. Mi sento male per questo, perchè so che sono dei discorsi sbagliati. Mi sento in colpa verso questo bambino se non potrò dargli tutto l’amore che si merita e che dovrebbe avere. Mi sento una pessima madre. - Parlava con la voce spezzata, come se stesse per piangere
- Tra gli effetti collaterali della gravidanza c’è anche questo?
- Cosa, le crisi di pianto? - Mi rispose tra le lacrime che non riusciva più a trattenere
- No, quello lo so, anche se non ho esperienza. Mi riferivo al vaneggiare. Sei una madre fantastica per Nathan e lo sarai anche per lui o lei. Perchè ti devi angosciare con cose così assurde? Quello che è stato con Nathan è stato diverso, ok, ma questo non vuol dire che non amerai questo piccolino. E nessuno dei due sarà trascurato, lo so. Al massimo trascurerai me, lo so già. - Le dissi sorridendo
- Ti amo.
- Cosa ho fatto stasera per meritarmi tanto? Addirittura una dichiarazione così, da te, non me l’aspettavo. - Sdrammatizzare era la cosa migliore in quel momento e sembravo essere riuscito nell’intento di farla rilassare
- Quello che fai anche adesso, mi fai stare meglio.
- Sono qui per questo, è tra i doveri dei mariti far star meglio le mogli quando sono in crisi.
- Sei un ottimo marito allora.
- Grazie, lo so. Che ne dici se domani portiamo Nathan allo zoo?
- Va bene… 

Ebbi la sensazione che la sua risposta sarebbe stata quella qualsiasi cosa avessi proposto, perchè probabilmente nemmeno mi stava più a sentire. Si accoccolò meglio sul mio petto, cingendomi la vita con un braccio, la sentii più rilassata e poco dopo si addormentò. Le diedi un bacio sui capelli, spensi le luci e anche io mi lasciai vincere dal sonno. Quella lunga, intensa, giornata era finalmente finita.

Andammo realmente allo zoo il giorno successivo, fu una giornata intensa e divertente, con Nathan che correva da una parte all’altra per vedere tutti gli animali. Ascoltammo varie spiegazioni da parte del personale del parco sulla vita degli animali e nostro figlio rimase affascinato soprattutto dai gorilla e gli oranghi e fece sorridere tutti quelli che stavano vicino a noi, quando un cucciolo si aggrappò alla madre stringendola forte e lui disse a Ziva che faceva come lui con lei. Quella dichiarazione così spontanea di Nathan non la lasciò indifferente, lo prese in braccio e lui immediatamente si strinse a lei. Tutti i discorsi e le sue preoccupazioni della sera precedente mi tornarono in mente e fu così anche per lei a giudicare da come cambiò la sua espressione.
Proposi di cambiare zona, di andare verso i leoni, le tigri e gli altri grandi felini. Ziva lo rimise giù e lui ricominciò a correre. Spingendo il suo passeggino ebbi la sensazione che sarebbe stato utile solo per appoggiarci le nostre cose fino a quando non sarebbe crollato esausto.
Una leonessa si prende cura dei propri cuccioli tenendoli al sicuro vicino a se, strofinando il muso ora verso uno ora su un altro. Nathan si avvicinò meravigliato nel vedere questi grandi animali, la leonessa ruggì quando un maschio si avvicinò a lei e ad ai cuccioli, proteggendoli tra le sue zampe.
- Secondo me la mamma è più simile alla leonessa - gli dissi, guardando Ziva
- Perchè? - Mi chiese lui curioso e stupito dell’affermazione
- Lo vedi come protegge tutti i suoi cuccioli e come si arrabbia quando si avvicina qualcuno che non vuole?
- La mamma non si arrabbia - rispose lui tranquillo.
- Ah no? Tu non hai mai visto la mamma arrabbiata arrabbiata? - Scosse la testa negando - Beh allora sei fortunato, perchè quando la mamma si arrabbia, ruggisce anche più forte della leonessa! 
Guardò serio Ziva che sorrideva divertita e poi me.
- Tu l’hai vista arrabbiata?
- Sì, tante volte. Ho anche avuto paura!
- L’hai fatta arrabbiare tu?
- Qualche volta… - dissi sorridendo e guardando Ziva che mi guardava a sua volta
- Più di qualche volta Nathan… Tuo padre era insopportabile!
- Ero. Quindi non lo sono più!
- Non provocare Tony!
Lui osservava il nostro battibecco scherzoso prendendoci fin troppo sul serio.
- Papà, non far ruggire mamma!
Scoppiammo entrambi a ridere
- Vieni qui leoncino - gli dissi  prendendolo in braccio - E’ ora di andare a mangiare, se no la leonessa si arrabbia!

Mangiammo tutti hot dog e patatine e parlammo anche della festa di compleanno di Nathan, che condizionato da quella giornata, disse che la voleva con gli animali. Ero preoccupato per il poco tempo a disposizione per organizzare la sua festa, ma ero altrettanto deciso che tutto fosse grandioso come si aspettava.
A metà pomeriggio, come preventivato, la stanchezza di impossessò di Nathan che si addormentò nel passeggino mentre tornavamo indietro. Era stata veramente una bella giornata ed eravamo riusciti a godercela a pieno e Nathan era rimasto entusiasta dello zoo e degli animali, tanto che ci  fece promettere che saremmo tornati presto per vedere come crescevano i leoncini.
Il giorno seguente tornammo noi a lavoro e nostro figlio nella versione estiva dell’asilo, fatto di tanti giochi all’aria aperta. Durante la pausa pranzo approfittammo io per trovare una location adatta per il compleanno di Nathan ed al secondo tentativo trovai quello che cercavo e Ziva per parlare con il suo ginecologo che le fissò le analisi per la mattina seguente e la visita due giorni dopo. Mi sembrava un tempo eccessivamente lungo da sopportare, anche perchè avevamo deciso di comune accordo di non parlarne più fino a quando avremmo visto il suo ginecologo. Ziva a parte una sonnolenza maggiore non aveva alcun sintomo, niente nausee nè stanchezza. Paradossalmente questo stare bene la preoccupava. Fu così che la sera prima della visita, mentre eravamo a letto e stavamo per dormire, si volto verso di me e si sfogò.
- E se non sono incinta? Se non c’è nessun bambino?
- A me fare pratica e riprovarci non dispiace
- Tony, dico sul serio…
- Anche io!
- Ci ho pensato sempre in questi giorni, mi sento bene, troppo bene…
- Avevi detto di non pensarci fino alla visita.
- Non potevo non pensarci.
- Potevi parlarmene prima, potevi dirmelo, no? - La rimproverai affettuosamente. - Ci ho pensato sempre anche io. A lui e soprattutto a te, perchè ti vedo che non sei tranquilla e secondo me non ti fa bene.
- Tony, io lo voglio questo bambino - sembrava volermi rassicurare.
- Certo che lo vuoi, lo so. Ora dormi però, ti devi riposare. 

 

—————————

 

Con la scusa di dover organizzare alcune cose per la festa di Nathan, alla quale erano invitati anche tutti i nostri colleghi oltre i compagni dell’asilo, per la quale invece Tony aveva già delegato tutto a personale più esperto di noi, quel giorno prendemmo il pomeriggio libero per andare dal mio ginecologo.
La sala d’attesa sembrava troppo piccola per contenere l’ansia di tutte le coppie presenti, con donne più o meno avanti nella gravidanza a giudicare dalla varie pance e padri tutti più o meno ansiosi. Tony non era un’eccezione. Aveva cominciato a fare un gesto che non gli avevo mai visto fare prima, si rigirava la fede nervosamente.
- Ti sei pentito? - Gli dissi scherzando appoggiando la mano sopra la sua, lui mi guardò un po’ perplesso come se non avesse capito quello che gli stavo dicendo, assorto nei suoi pensieri aveva sentito la mia voce ma non aveva capito una parola di quello che avevo detto.
- Eh? 
- Stai torturando la fede.
- Ehm sì, sono un po’ nervoso…
- Non sei l’unico - gli indicai con la testa un uomo in fondo alla sala che muoveva ripetutamente una gamba e si strusciava le mani sulle gambe. - Per me è il colpevole, lo potremmo anche far confessare in questo momento, qualsiasi cosa. - Sorrise e mi strinse la mano.
- Non pensavo mi avrebbe fatto questo effetto - ammise candidamente - per te è diverso, ci sei già passata.
- Per me è diverso perchè ci sei tu.
Non finimmo il nostro discorso perchè l’assistente del dottor Wood mi chiamò. Tony non si alzò, rimase seduto, allungami la mia mano e lo esortai ad alzarsi. Mi seguì felice.
Ci accomodammo alla scrivania dove il dottore consultava la mia cartella clinica.
- Bene signora David, mi hanno consegnato le sue analisi confermano che lei è incinta. Per il resto sono perfette, quindi non si deve preoccupare.
Io e Tony ci stringemmo la mano, guardandoci e sorridendo appena un attimo, poi tornammo attenti su quello che ci stava dicendo il dottore, sugli integratori da assumere e su alcune precauzioni da adottare.
- Signora David, immagino che non abbia cambiato lavoro, vero?
- No, dottore. Però ho già avvisato il mio capo. Niente lavoro sul campo.
- Era proprio quello che volevo dirle, visto i precedenti. - Tony strinse di più la mia mano, un gesto istintivo e vidi i suoi occhi cambiare espressione. Il dottore non si accorse di nulla e continuò ad aggiornare la mia scheda con le varie informazioni che gli davo alle sue domande. Mi disse che secondo i suoi calcoli approssimativamente ero incinta di 5 o 6 settimane. Mi prescrisse altri esami da fare e mi diede appuntamento per una visita di controllo dopo 2 settimane raccomandandosi di chiamarlo se avessi avuto qualsiasi tipo di disturbo.

Uscimmo dallo studio mano nella mano, prima di andare a riprendere Nathan avevamo ancora del tempo ed andammo nel nostro parco, sulla nostra panchina. Mi appoggiai a lui che subito mi cinse la vita con il suo braccio per stringermi di più, mentre mi dava un tenero bacio a fior di labbra e senza rendercene conto, ci trovammo con le nostre mani intrecciate sul mio ventre, a proteggere e coccolare la piccola vita che stava nascendo. C'eravamo solo io e lui e ci stavamo parlando senza dirci nulla. Per le chiacchiere, per programmare il futuro, per i discorsi pratici c'era tempo. Ora era solo il tempo di essere vicini, di essere noi. Renderci conto di quello che ci stava accadendo non praticamente, ma emotivamente, accettarlo, metabolizzarlo e capire che era vero, che non era una proiezione, ma era lì, sotto le nostre mani, così piccolo che non si sarebbe visto nemmeno con un'ecografica ma c'era e stava cominciando a vivere. Sentivo le mani di Tony tremare impercettibilmente mentre stringeva le mie e poi aprile, per sfiorare appena la mia maglietta e carezzare la sfoffa con le dita. Cercai di nuovo le sue labbra, ma lui aveva chiuso gli occhi e non se ne accorse. gli diedi quindi solo un leggero bacio sulla guancia che lo sorprese. Era un gesto al quale non era più abituato, ma dal sorriso che mi regalò lo aveva apprezzato. Appoggiai la testa sulla sua spalla e chiusi gli occhi per qualche secondo anche io.
Era tutto perfetto.

 

 

NOTE: Dopo che ho visto la fine serie della 13° stagione sono abbastanza turbata. Mi scuso per l’attesa, ma continuare a scrivere non è stato facile, lo stato d’animo con cui scrivevo, soprattutto questi capitoli che dovevano essere gioiosi, era diametralmente opposto e credo che un po’ abbia risentito anche la riuscita dalla storia stessa, dove la notizia è stata accolta con dubbi e preoccupazioni. 

Il capitolo non è riuscito proprio come speravo ed è anche un po’ più corto rispetto ai miei standard, però avevo bisogno di pubblicarlo per mettere un punto all’ultima settimana e andare avanti.

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Capitolo 3
*** With Arms Wide Open ***


… I’ll show you everything 
With arms wide open 
Well I don't know if I'm ready 
To be the man I have to be 
I'll take a breath, take her by my side 
We stand in awe, we've created life …

 

Il compleanno di Nathan riuscì perfettamente: nonostante i pochi giorni a disposizione per organizzarlo, Tony aveva saputo regalare a nostro figlio una bellissima festa in un giardino dedicato proprio ad organizzare party a tema per i bambini. Nathan si divertì molto con i suoi amici dell’asilo a giocare tra i vari gonfiabili che riproducevano gli animali della jungla e a tuffarsi nelle vasche con le palline colorate o sui tappeti elastici, ma più di tutti amava essere al centro dell’attenzione di grandi e bambini e a scartare tutti i regali ricevuti. Da chi avesse ereditato quel tratto del carattere egocentrico non c’erano dubbi, era tutto suo padre e da quando stavano insieme era riuscito anche ad accentuarlo.
Un’area del giardino più isolata, vicino a dove era stato allestito il buffet, era stata arredata con molti divani e tavoli bassi, dove gli adulti potevano riposarsi ed osservare i bambini giocare. Tony era sempre più premuroso ed attento, il pomeriggio, per essere metà giugno, era molto caldo e mi portava continuamente bevande fresche e qualcosa da mangiare, poi tornava ad intrattenere i genitori degli amici di Nathan. 
Gael si mise seduto vicino a me, mi appoggiò una mano sulla gamba e mi guardò un po’ osservandomi attentamente.
- Tutto bene Ma Chère?
- Sì, Gael, benissimo, perchè?
- Ti vedo diversa dal solito… 
- No, va tutto bene, stavo solo pensando.
- Uhm… non me la racconti giusta tu, sai? A cosa pensavi?
- Ad un anno fa. Ti ricordi?
- Certo, ed avevo ragione io.
- Sì, avevi ragione tu, Gael.

Aveva ragione lui. Un anno prima, per il compleanno di Nathan, era tutto diverso e non avevo idea di come e quanto sarebbe tutto cambiato. Eravamo solo io e lui, in spiaggia a Tel Aviv. Niente feste, solo noi due, a giocare sulla spiaggia e nell’acqua, dalla mattina fino alla sera, quando eravamo stremati e siamo rimasti sdraiati sull’asciugamano e a lui piaceva stare così ad ascoltare le storie che inventavo per lui. Gael ci trovò così in spiaggia, abbracciati, quando ormai il sole stava tramontando, chiedendoci cosa facessimo. Gli raccontai che era il suo compleanno e passavamo la giornata insieme al mare. “Già due anni, come passa il tempo…” Osservò Gael. Troppo velocemente pensai guardandolo. Si era addormentato vinto dalla stanchezza. Gli accarezzai la fronte scostandogli i capelli dal viso. “Mi comincia a chiedere dove è il suo papà, sempre più spesso” gli confessai. Gael mi disse solamente che avrei dovuto farli conoscere, perchè non era giusto tenerli separati. Sapevo già da allora che aveva ragione ma era difficile e pensavo che non avrei sopportato un rifiuto da parte di Tony. Gael lasciò perdere tutti i suoi piani per la serata e rimase con noi, Nathan si svegliò poco dopo, andammo a mangiare in un ristorante vicino al porto e poi a prendere un gelato per la gioia di mio figlio. Era stata una serata perfetta, se solo al posto di Gael ci fosse stato stato Tony.

- Ziva, tutto ok?
Non mi ero nemmeno accorta di essermi persa totalmente nei ricordi.
- Sì, stavo solo ripensando a quella sera.
- Sicura che non c’è altro?

L’arrivo di Tony interruppe la conversazione. Era il momento della torta con le foto di rito con noi e con gli amici e poi fu il momento salutare tutti i nostri ospiti che man mano tornavano a casa, caricare i regali in macchina ed andarcene anche noi. Nathan che per tutta la festa era stato sorridente e felice, appena rientrato a casa si rabbuiò.
- Cosa c’è ometto? - Gli chiese Tony prendendoselo sulle ginocchia mentre guardavano un cartone in tv, ma lui non rispondeva. Mi andai a sedere vicino a loro, preoccupata che potesse essere accaduto qualcosa durante la festa della quale non ci eravamo accorti. 
- Piccolo, cosa è successo? Perchè questa faccina triste?
- Io volevo un regalo… - disse lui timidamente alla fine
- Cosa volevi? - Tony, tra le altre cose, gli aveva regalato la nuova divisa del Barcellona personalizzata con il suo nome e lui era stato felicissimo quando aveva scartato il pacchetto.
- Lo avevo detto! Volevo una sorellina, come Brandon! E papà me l’aveva promesso! 
- Quando te l’ha promesso papà? - Gli chiesi non prima di lanciare un’occhiata a Tony 
- Quando mi avete lasciato con Gibbs. Papà ha detto che mi prometteva che cercava la sorellina per me. - Mi venne da ridere al pensiero che Tony potesse aver detto una cosa del genere a nostro figlio per convincerlo a lasciarci partire. Avrei voluto ucciderlo in quel momento, ma tra lui che mi guardava preoccupato e Nathan che era tutto imbronciato in braccio a lui, non so chi mi faceva più tenerezza. Poi io e Tony ci guardammo. Avevamo deciso di aspettare a dirglielo, però adesso, la mia convinzione stava vacillando. Mi fece cenno di sì con la testa ed io ricambiai il suo gesto. Presi Nathan e lo misi seduto sulle mie gambe, in modo che mentre ci parlavamo potesse guardarmi. Tony si avvicinò a me e mi abbracciò.
- Papà aveva ragione. Però per avere una sorellina o un fratellino ci vuole tempo. Ma sai, il tuo fratellino o la tua sorellina già c’è, solo che è piccolo piccolo e non si può ancora vedere.
- E dov’è?
- E’ qui. - Presi le sue manine e le appoggiai sul mio ventre, tenendole sotto le mie.
- Nella pancia? - Chiese Nathan perplesso.
- Sì, nella pancia - gli risposi sorridendo. - Anche tu eri qui prima di nascere. - Nathan non capiva, però sorrise, finalmente. Tony appoggiò la sua mano sopra le nostre.
- Sei contento adesso? - Gli chiese suo padre
- Sì. Però io voglio che sia una sorellina.
- Nathan, però questa cosa non la devi dire a nessuno nessuno, capito? - Gli dissi
- Perchè? 
- Perchè è un segreto solo tra noi tre. Adesso è piccolino e lo dobbiamo proteggere noi e non lo dobbiamo dire a nessuno, e tu devi fare il bravo e non far stancare la mamma, capito?
Lui annuì e poi si buttò letteralmente in mezzo a noi per farsi abbracciare e coccolare, per chiudere nel migliore dei modi quella giornata di festa.

 

—————————

 

Pensavo che mantenere la cosa tra noi sarebbe stato molto più semplice, ed invece mi ritrovavo spesso anche in pochi giorni, a rischiare di far capire tutto a tutti, anche solo con un gesto. Mi dispiaceva non rendere partecipi i miei amici di quello che stavo provando, perchè se avessi potuto avrei voluto gridarlo a tutti, ma capivo la preoccupazione di Ziva, la sua voglia di aspettare e di tenerlo per noi. Lo avevamo detto a Nathan e nonostante la felicità di condividere con lui quel momento, dopo se ne era quasi pentita. “E se non andasse bene? Come faremo a spiegarglielo? Ci rimarrà malissimo, siamo stati troppo precipitosi”. Ci misi tempo a farle capire che non doveva sempre pensare al peggio, che sarebbe andato tutto bene, Nathan avrebbe avuto il suo fratellino o sorellina e saremmo stati tutti e quattro felici insieme.
Tim non mancò occasione per farmi notare come fossi più affettuoso e protettivo nei confronti di Ziva, riuscii senza poco imbarazzo a dire che era dovuto al fatto che mi sentivo ancora in luna di miele, spiegandogli che, anche per lui, dopo il matrimonio sarebbe cambiata la percezione delle cose e di sua moglie. Non sembrava molto convinto della mia spiegazione e mi disse che non pensava che sarei mai cambiato così tanto, ma ne era felice.
Mi ritrovavo a pensare in gran parte dei momenti in cui non facevo nulla, a come sarebbe stato passare quei mesi ad aspettare la nascita di nostro figlio. Cominciai mentalmente a fare i conti su quando sarebbe dovuto nascere, in base a tabelle e calcoli tutti miei e nella mia mente avevo stabilito che sarebbe dovuto nascere a fine gennaio. Sfogliavo il calendario e mi sembrava decisamente troppo lontano. Troppo tempo da aspettare, come avrei fatto? Io ero uno che non era capace di aspettare, lo avrei voluto già qui, adesso, ora. 
Una sera mentre eravamo a letto e stavamo per dormire, lo dissi anche a Ziva, scherzando, che mancava troppo tempo prima che il nostro bambino sarebbe nato ed avrei voluto che nascesse prima. Lei si sollevò e mi guardò così seria che mi sentii piccolo piccolo. 
- Non pensare mai più una cosa del genere. - Mi disse in tono deciso. Io non capivo che cosa avevo detto di tanto grave nell’esternare la mia voglia che quei mesi passassero velocemente. - Non voglio passare quello che ho già vissuto quando è nato Nathan, troppo piccolo da poterlo anche abbracciare per giorni.
- Scusami Ziva, sono un idiota. Non volevo dire questo, solo che sono già così impaziente… 
Mi sentivo veramente un idiota per quella frase detta in modo così sbagliato, non avevo pensato minimamente a quello che mi aveva raccontato di quando era nato Nathan e sicuramente tutto volevo tranne che farle rivivere un’esperienza del genere o anche solo ricordargliela. Lei, dal canto suo, si accorse che aveva esagerato con quella reazione così dura e si distese di nuovo, avvicinandosi a me.
Sentivo il suo respiro regolare sul mio collo, mentre le accarezzavo la schiena. Avevo così tanta voglia di lei faticavo a trattenermi dal fare l’amore con lei in quello stesso momento, ma poi pensavo al bambino e non sapevo se sarebbe stato possibile o no, non ne avevamo nemmeno parlato con il ginecologo. Le baciai la fronte indugiando con le labbra sulla sua pelle più del normale poi sospirando mi spostai da lei.
- Pensi che non mi sfiorerai più fino a quando non sarà nato il bambino? - Mi disse maliziosa accarezzandomi il petto dopo aver fatto scivolare una mano sotto la mia tshirt
- Non… non… non so se possiamo… per lui dico… - rispondo balbettando, sembrava avesse letto i miei pensieri. Sorrise e mi baciò sulle labbra lentamente con estrema dolcezza. - Così non mi aiuti però. Le dissi mentre mi lasciava riprendere fiato.
- Non vuoi fare nulla, vero? - Mi guardò delusa.
- Vorrei essere sicuro che non sia un problema. - Le accarezzai il volto - non ho molta esperienza di questo.
- Nemmeno io, l’altra volta non era proprio tra le mie preoccupazioni - sorrise appoggiandosi di nuovo sul mio petto. - Però lo chiederai tu al mio ginecologo eh!
Spalancai gli occhi, lei rise e si sollevò per baciarmi di nuovo. Gli avrei chiesto qualsiasi cosa.

Ci saranno talmente tante cose da fare che nemmeno ti accorgerai di quanto tempo manca” Ziva mi ripeteva sempre questa frase ogni volta che mi vedeva controllare con impazienza il calendario e fare i conti. In effetti non aveva tutti i torti, sembrava ieri che avevamo fatto la prima visita ed invece erano già passate quasi 3 settimane e quel pomeriggio Ziva avrebbe avuto un nuovo controllo e mi aveva detto, sicuramente anche la prima ecografia. Fortunatamente non aveva grandi problemi con nausee mattutine, solo un po’ di fastidio agli odori più forti, in compenso però vedevo che cominciava a stancarsi molto più facilmente. Mi piaceva prendermi cura di lei, andarle vicino e massaggiarle per qualche minuto le spalle: lei lo gradiva, anche se non dava mai la soddisfazione di dirlo ed io cercavo di farlo il più possibile, anche quando eravamo a lavoro e non c’era nessuno che ci osservava. Odiava che le chiedessi spesso se stava bene o se aveva bisogno di qualcosa, ma non potevo farne a meno, anche rischiando di subire le sue occhiatacce e i suoi rimproveri.
L’appuntamento dal dottor Wood era subito dopo pranzo e Ziva, per evitare che proprio quel giorno la nausea dovesse presentarsi all’improvviso decise di non pranzare, nonostante io non fossi per niente contento di questa decisione e mi feci promettere che subito dopo la visita saremmo andati a mangiare qualcosa.
La sala d’attesa era sempre molto affollata, riconobbi un paio di coppie presenti anche l’altra volta una delle quali credo avrebbe partorito da lì a pochi giorni, erano due ragazzi giovani e lui abbracciava la sua donna teneramente e con una mano non aveva smesso un attimo di accarezzarle la pancia, non si guardavano, ma entrambi guardavano le loro mani che si sfioravano in quelle dolci carezze e sorridevano. Mi sentivo un po’ imbarazzato nell’osservali, come se stessi rubando un momento privato, ma era una scena così bella che non potevo non guardarla estasiato, pensando a quando avrei potuto fare anche io la stessa cosa.

Il dottor Wood leggeva attentamente tutti i referti che gli aveva portato Ziva delle analisi fatte in quei giorni. Confrontava i dati con delle tabelle sul suo computer che io cercava di sbirciare non riuscendo a vedere quasi nulla e comunque non capendoci niente, ma dovevo in qualche modo ingannare quei minuti di attesa. Picchiettavo con le dita sulle gambe che muovevo nervosamente in attesa che si decidesse a dire qualcosa. C’era qualche problema? Eppure la sua faccia mi sembrava rilassata, se ci fosse stato qualcosa che non andava sarebbe stato minimamente corrucciato no?
- Le sue analisi sono ottime, i valori tutti nella norma, direi che può continuare assolutamente così. - Finalmente aveva parlato - Mi raccomando solo di non esagerare con gli sforzi e di stare attenta.
- Certo non si preoccupi. - La voce di Ziva era calma e rilassata, non capivo come facesse.
- Bene, adesso vediamo di capire con precisione di quante settimane è. - Fece cenno a Ziva di sdraiarsi sul lettino dietro il paravento ed io rimasi seduto alla scrivania girandomi per cercare di sbirciare qualcosa. - Signor Di Nozzo, lei non vuole vedere suo figlio?
Mi alzai come una molla e raggiunsi Ziva che rideva di me. Il dottore mi disse di sedermi sulla sedia vicina al lettino e così feci. Accese il monitor, prese la sonda e spalmò del gel sulla pancia di Ziva che allungò una mano verso di me, guardandomi dolcemente ed io la presi. 
Il dottor Wood spostava la sonda lentamente, poi si fermò e con il mouse cominciò a segnare dei punti sullo schermo.
- Eccolo qui, lo vedete? - Ci chiese facendo roteare il cursore del mouse intorno ad un area con delle chiazze bianche e nere. Guardai Ziva sorridere mentre io rimanevo perplesso non capendo nulla. Il dottore capì il mio stato d’animo e mi spiegò - E’ questo, quello bianco e mi indicò il punto dove era la testa e dove si stava sviluppando il corpo. Rimasi imbambolato a guardare lo schermo, osservando come fluttuava nelle immagini così poco definite quell’esserino che ora era tremendamente reale, non solo un segno in più su un test o una riga su un referto medico. Era lì, si muoveva. Strinsi la mano di Ziva e lei si voltò a guardarmi e proprio in quel momento un rumore riempì tutta la stanza e tutta la mia testa. Un battito veloce. 
- E’… - ma non riuscii a completare la frase
- Sì, è il battito del cuore. E’ normale che la frequenza sia così alta. E’ forte, sta bene, state tranquilli.
Lui parlava ma la mia mente non stava registrando una parola, ero concentrato solo su quel battito. Passavo lo sguardo tra il monitor, il volto ed il ventre di Ziva. Il dottor Wood stampò una copia dell’ecografia, poi spense la macchina e scomparve sia l’immagine sullo schermo che il rumore del suo battito. Mi sentii improvvisamente vuoto. Avrei ascoltato quel suono per sempre fino a quando non fosse nato. Porse dei fazzoletti a Ziva per pulirsi, ma prima che si tirasse su per farlo, ci pensai io a togliere delicatamente i residui di gel dalla sua pelle e prima che si alzasse la baciai per poi tornare insieme alla scrivania.
Il dottore controllava i dati ricavati dall’ecografia e ci disse che a questo punto era già entrata nell’ottava settimana e che quindi, secondo i suoi calcoli, nostro figlio sarebbe nato intorno al 10 di febbraio. Dovevo attendere ancora di più di quanto pensavo io.
Il dottor Wood ci stava congedando, quando prima di salutarlo gli feci la fatidica domanda. Lui sorrise del mio imbarazzo e mi rassicurò che non c’erano problemi, l’importante era non esagerare e non essere troppo irruenti. 
- Tutto quello che fa bene alla mamma fa bene anche al bambino - concluse il ginecologo mentre stavamo uscendo ed ora era Ziva ad arrossire.

- Ti ho visto oggi come guardavi quella coppia dal dottor Wood - mi disse Ziva mentre eravamo a letto
- Come la guardavo? - Le chiesi per capire quello che aveva visto in quel momento mentre mi giravo su un fianco per osservarla meglio mentre parlavamo.
- Estasiato!
- Impossibile - ribattei sicuro
- Perchè?
- Perchè estasiato posso guardare solo te. 
- Eppure eri proprio così. 
- Non era per quello che vedevo, era per quello che pensavo.
- A cosa pensavi, allora?
- A quando lo avrei fatto io a te. A come sarà bello la prima volta che lo sentirò muoversi e che passerò tutto il tempo a volerlo sentire ed accarezzarti. Sarà la prima volta… credo che sarà emozionante per me.
- Lo sarà anche per me.
- Beh, per te non sarà la prima volta.
- Sarà la prima volta con te e la prima volta che qualcuno lo farà.
- L’altra volta non…
- No. Nessuno.
- Perchè?
- Non volevo. Per certe cose non esistono sostituti.
Quello che mi stava dicendo era bellissimo e triste allo stesso tempo. Mi dispiaceva terribilmente non aver potuto vivere insieme a lei tutte queste emozioni e mi dispiaceva, sentendola parlare, anche che non le avesse vissute lei, anche se sapevo che si trattava solo di una sua scelta. Mi prese la mano e la portò sulla sua pancia sotto la maglietta.
- Se vuoi puoi cominciare anche ora ad accarezzarmi e farmi le coccole. - Mi disse con una voce tutt’altro che innocente.
- Se mia moglie vuole le coccole, chi sono io per negargliele?
La accarezzai dolcemente con una e poi anche con l’altra mano, e quando si sollevò le tolsi la maglietta. Mi fermai ad ammirare i suoi seni, più gonfi e sensibili, unico segno visibile per ora del suo stato. Baciai prima uno e poi l’altro e la sentii tremare quando con la lingua disegnai il contorno dei capezzoli. Tra un bacio e l’altro le ripetevo quanto l’amavo e mi piaceva interrompere i baci per guardare il suo viso carico di desiderio.
Facemmo l’amore dolcemente, senza fretta, senza urgenza di arrivare al culmine del piacere, amandoci teneramente tra baci e carezze, sorrisi e sussurri per poi addormentarci abbracciati ancora scossi dal piacere dato e ricevuto.

 

NOTE: E si è scoperto cosa aveva detto Tony a Nathan per farlo andare con Gibbs il giorno del matrimonio :) 
Alla fine cuore di mamma e papà non hanno resistito ed al piccolo di casa gliel’hanno detto. Che dite, sarà un bravo fratello maggiore o sarà geloso del fratellino/sorellina?
Questo è l’ultimo capitolo un po’ di transizione. Dal prossimo cominciate ad allacciare le cinture di sicurezza, si comincia a rientrare nel vivo… 

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Capitolo 4
*** The Hardest Part ***


… Everything I know is wrong 
Everything I do just comes undone      
And everything is torn apart
Oh and it's the hardest part  …

 

Erano già passate alcune settimane dall’ecografia e non passava giorno che Tony non la guardasse a lungo ogni mattina prima appena sveglio: l’aveva messa in camera sul suo comodino proprio per questo.
Lo aveva fatto anche quella mattina, come tutte le altre precedenti e come tutte le altre poi mi aveva svegliato dolcemente tra baci e abbracci. Se c’era una cosa che odiavo della gravidanza e che ricordavo bene dall’altra volta, era il sonno, tanto sonno, che avevo. Sempre. Così adesso era lui a svegliarsi sempre prima di me alla mattina e questa cosa lo faceva divertiva tantissimo, visto che succedeva raramente ed era sempre stato lui quello che dormiva più a lungo tra noi.
Si preoccupava, mentre io mi preparavo in bagno, di svegliare Nathan e fargli fare colazione, poi la preparava anche per noi mentre io lavavo e vestivo nostro figlio. Tony era diventato molto più premuroso e collaborativo, non che prima non lo fosse, ma adesso stava attento ad ogni piccola cosa ed era una sensazione strana avere qualcuno che si prendeva cura di me, come mai era capitato da quando ero bambina con mia madre.

A lavoro erano ormai giorni che cercavamo di trovare notizie su Gabriel Rivkin e sui suoi. Non avevamo trovato molto, se non che, da qualche informazione ricevuta da Tel Aviv, che alcuni fuoriusciti dal Mossad negli ultimi anni, dopo i recenti ribaltoni ai vertici stavano collaborando con lui, formando una sorta di squadra di mercenari senza molti scrupoli, che si muoveva prevalentemente negli USA ma non solo. Di lui, però, nessuna traccia. Avevamo provato a tenere sotto controllo per svariato tempo un tizio che doveva essere in contatto con lui, ma tutto si rivelò vano, non aveva mai fatto nulla di sospetto nè entrato in contatto con terze persone collegate a Rivkin che sembrava un fantasma, non che la cosa mi sorprendesse a dir la verità. Conoscevo bene le sue abilità ed anche alcuni degli uomini che erano insieme a lui. Con alcuni avevamo condiviso addestramento e missioni, sapevano come muoversi e sicuramente negli anni avranno costruito la loro rete di agganci per risultare sempre invisibili. Non sarebbe stato facile trovarli. 
Non c’erano stati casi particolarmente complicati, poche azioni sul campo, ma io comunque non ero mai uscita con la squadra, con la scusa di continuare ad indagare, la maggior parte del tempo, su di lui per tenere i contatti con Israele.

Quella mattina vidi Tony parlare animatamente al cellulare mentre stavo scendendo per andare a prendere i risultati di alcuni esami balistici da Abby di un caso del giorno prima. Non riuscii a sentire quello che diceva ma dalla sua espressione era qualcosa che lo stava preoccupando. Cercai di fare il più velocemente possibile, stoppando ogni voglia di Abby di chiacchierare e lasciandola decisamente di cattivo umore per la mia fretta, ma presi i fogli e tornai di sopra. Tony però non c’era più.

- Tim, dov’è Tony? - Chiesi a McGee indaffarato ad incrociare i dati di diversi conti bancari della moglie del Marine ucciso di cui ero andata a prendere gli esami balistici
- È sceso poco fa correndo, ha detto che aveva ricevuto una soffiata su Rivkin.
- Da solo? - Mi guardai intorno nella stanza, Gibbs non c’era ma Bishop era lì, e mi fece cenno di sì con la testa.

Una soffiata sul cellulare? Perchè avevano dovuto chiamare lui sul suo numero e non chiamare direttamente noi? Non era una soffiata, ne ero certa. Corsi giù per le scale, l’ascensore era troppo lento. Saltai direttamente gli ultimi scalini e mi precipitai fuori, non vedevo Tony da nessuna parte, feci il giro del palazzo ed andai sul retro. 
Tony era lì e qualcuno lo stava minacciando con una pistola. Non si erano accorti di me, ma non volli correre nessun rischio e sparai immediatamente. Un solo colpo sul collo e cadde a terra. Mio marito si voltò in direzione del rumore dello sparo e mi vide, gli corsi incontro per abbracciarlo.
- Tutto bene Ziva, tutto bene… 
Mi stringeva tra le sue braccia e lo stringevo a mia volta, tenendo sempre in pugno la pistola. Gli accarezzai il volto con la mano libera.
- Ho avuto paura. - Gli dissi prima di lasciargli un veloce bacio sulle labbra per poi appoggiare la testa sulla sua spalla. Fu proprio in quel momento che tra le siepi vidi riflettere il metallo di una canna, allontanai Tony dalle mie braccia e sparai. La pistola cadde a terra, ma una sagoma scappò via. Senza pensare a nulla, cominciai a corrergli dietro. 

Correvo più che potevo per non perdere il contatto visivo. Lui correva a zigzag si vedeva che era addestrato, ma quelle strade le conoscevo meglio io. Tagliai un vicolo e riuscii a recuperargli qualche metro, quanto bastava per saltargli addosso e poterlo bloccare. Si liberò dalla mia presa e provò a bloccarmi a sua volta a fino a quando non lo bloccai faccia a terra e lo tenni sotto tiro con la pistola. Respiravo affannosamente non avevo tenuto conto che il mio fisico non rispondeva nello stesso modo di prima.
Lui si girò molto lentamente e lo potei finalmente vedere in faccia.
- Sparami Ziva. Un tempo non avresti avuto rimorsi a farlo.
- Un tempo saresti stato già morto, Arlan.
- Allora fallo no? So che ti piacerebbe che sono anni che lo sogni.
Avvicinai la pistola alla sua tempia. Arlan Gadi mi sfidava ridendo. Oggi come allora.

 

——————————————

 

Eravamo a pochi passi da lei. Ora potevamo sentire quello che le stava dicendo.

- Allora David è proprio vero quello che dicono! Farti scopare dagli americani ti ha rammollito.
- Avrei dovuto ucciderti tanti anni fa. 
- Beh forse sì. Poi però tuo padre avrebbe fatto uccidere te, come ha fatto uccidere tuo fratello. Da te.
- Sei un bastardo
- Ho tante altre qualità, lo sai
- Le avevi forse
- Ho rimediato prontamente, ne vuoi una prova?

- Non lo fare Ziva! - le urlai mentre ero sicuro che stava per sparargli
Sentendo le mie parole si distrasse un fatale attimo perché lui la colpisse sul braccio e le facesse perdere la pistola. Lei reagì e dopo una breve colluttazione gli fu dietro, in ginocchio, bloccandogli il collo in una presa di sottomissione che lo stava soffocando.
- Avanti - le disse con un filo di voce e la poca aria che rimaneva nei polmoni - avanti Ziva, finisci la tua opera

Ci avvicinammo con Gibbs tenendolo sotto tiro con la pistola, lei lo lasciò e io lo ammanettai intimandogli di rimanere in ginocchio. 
- Era nel mio corso di addestramento al Mossad - mi disse prima che le chiedessi niente
- Sì e ci siamo anche divertiti parecchio insieme con la bambina! - disse ridendo l'uomo che vedendolo sembrava molto più grande di Ziva e non era solo per i capelli quasi tutti bianchi cortissimi, ma anche il suo viso lasciava intravedere segni del tempo molto più marcati.
Gli puntai la pistola alla testa
- Mezza parola e ti sparo io
Per fortuna arrivarono presto a prenderlo. Gibbs andò via con loro, non prima di aver lanciato un’occhiata torva a Ziva e ci intimò di raggiungerlo in ufficio subito.

- Ehy aspetta - dissi a Ziva prendendola per un braccio mentre si stava avviando
- Che c'è Tony?
-
 Dimmelo tu, tutto bene, come stai?
- Tutto bene. - La sua voce diceva una cosa, i suoi occhi altro.
- No Ziva, no! Non ricominciare così!
- Tony, sto bene, è tutto apposto, non mi sono fatta nulla. 
- Tu e il bambino?
- Sta bene anche lui.
- Cosa ne sai Ziva? Dovresti andare a farti visitare, per sicurezza. Potevi farti male, potevi ucciderlo. - Le parole uscirono dalla mia bocca più velocemente di quanto il cervello riuscisse a filtrarle. Mi guardò fissa per un attimo, scosse la testa, non disse altro. Si fermo a respirare, profondamente, e temetti che non stesse bene. Mi avvicinai cercando di aiutarla, ma con un gesto mi fece capire di rimanere a distanza.
- Farò una visita dopo, ok? - Rispose stizzita mentre si toglieva la terra dai vestiti.

La ringraziai, non sapevo nemmeno io per che cosa. Per avermi detto che si sarebbe andata a far controllare? Per essere sempre viva? Per aver messo un’altra volta a rischio la sua vita quando era incinta? Per che cosa la stavo ringraziando? Il sollievo nel vedere che stava bene, che apparentemente stavano bene entrambi, svanì quasi subito lasciando il posto solo alla rabbia.
Le porte dell’ascensore stavano per aprirsi, avevamo fatto tutto li tragitto senza dirci una parola. Ziva si era portata un paio di volte una mano sul ventre mentre camminavamo a passo svelto per tornare indietro ed io la osservavo preoccupato, rallentando inconsciamente il ritmo, ma lei non se ne curava e mi superava ogni volta, forse perchè stava veramente bene, forse per non darmi la soddisfazione di farsi vedere in difficoltà. 
Non facemmo quasi in tempo ad uscire che Gibbs ci venne incontro come una furia.
- Ziva cosa ti è saltato in mente? - Le urlò attirando gli sguardi di tutti.
- Non c’era tempo Gibbs, né per chiamare gli altri, né per fare niente di diverso.
- Non dovevi metterti a fare un’inseguimento, né da sola, né con dei rinforzi.
Assistevo impassibile alla discussione. Erano le stesse cose che avrei voluto dirgli io, lo stava facendo lui, con più autorità di me, almeno lavorativamente parlando. Tim e Ellie ascoltavano senza capire cosa stava accadendo, loro non sapevano nulla e per loro Ziva aveva fatto quello che faceva sempre, che aveva sempre fatto, che le riusciva meglio. Ma, soprattutto, lo aveva fatto anche bene e quindi capivano ancora meno la reazione del nostro capo. Non intervennero, mi guardarono in cerca di risposte, ma non sapevo dove sarebbero andati a parare Gibbs e Ziva con quella discussione.
- Gibbs, era troppo importante prendere Arlan Gadi, lui sa cosa sta facendo Rivkin, lo ha mandato lui qui.
- Non sapevi chi fosse fino a quando non lo hai bloccato Ziva! - Lei ammutolì ed abbassò lo sguardo, come una bambina colta in fallo - E comunque ci sono altri modi per avere notizie su Rivkin senza che rischiate la vita tu e tuo figlio inutilmente, lo capisci? Eppure mi pare che ero stato chiaro e che eri d’accordo.
- Ma…
- Niente ma Ziva. Niente ma. Non voglio più che tu faccia una cosa del genere, altrimenti per quanto mi riguarda, sei fuori dalla squadra.
Ci superò e scomparve nell’ascensore. Le aveva detto tutto quello che avrei voluto dirle io, magari non lì, davanti a tutti ed ora sapevano anche loro e ci fissavano sorpresi.
- Beh, ora lo sapete anche voi, sono incinta. - Disse Ziva puntando McGee e Bishop con tono risentito, tanto che i due si sentirono immediatamente a disagio.
- Ragazzi, non vi abbiamo detto nulla prima perché volevamo aspettare di superare il periodo più difficile - cercai di alleggerire la situazione - Però ormai lo avete saputo così. - Allargai le braccia come a scusarmi per la cosa.
- Congratulazioni - disse semplicemente Tim - è una bellissima notizia.
- Sì, lo è - risposi sorridendo, scacciando dalla mente tutte le cose negative e pensando per un attimo solo al bambino. - Scusateci ora, ma accompagno Ziva a fare una visita di controllo.

- Era proprio necessario dirgli dove andavamo? - Mi chiese Ziva appena si chiusero le porte dell’ascensore.
- Non ci vedo nulla di male. Si può sapere cosa hai? Perché glielo hai detto con quel tono? Non è mica colpa loro.
-  Perché mi guardate come se fossi la persona peggiore del mondo?
- Nessuno ti guarda così, è una tua idea, Ziva.
- Lasciamo perdere Tony.
- Come vuoi tu. Come sempre.

Di nuovo silenzi mentre ci recavamo allo studio. 
Avevamo avvisato il suo ginecologo poco prima ma ci ricevette subito. Appena gli raccontò cosa accaduto la guardò con biasimo e la fece stendere sul lettino per farle un’ecografia di controllo. Io rimasi in piedi muovendomi nervosamente fino a quando nello schermo non apparve mio figlio. Il dottore spostava la sonda lungo la pancia di Ziva ed osservava il monitor senza dire niente. Il battito veloce del suo cuore era l’unico rumore presente, nessuno di noi tre diceva nulla e io cominciai ad essere preso dall’ansia. Ziva si voltò a guardarmi ma io spostai subito lo sguardo per non incrociarlo. 
- È tutto apposto, il bambino sta bene, cresce nella norma. Sarebbe comunque meglio evitare certe situazioni a rischio.  - Disse il dottore mentre passava dei fogli di carta a Ziva per ripulirsi. Tirai un sospiro di sollievo e guardando il volto di mia moglie, vidi che anche lei era più rilassata.
- Certo dottore, è stata una situazione al limite oggi, non capiterà più. - Si voltava a guardarmi, cercando l’approvazione a quelle parole che non potevo darle. 
Il ginecologo le consigliò di stare a casa un paio di giorni per riposarsi, perché anche se stava bene aveva sottoposto il suo corpo ed il bambino ad una situazione di forte stress e ci diede appuntamento il mese successivo per un nuovo controllo, “Sperando di non vederci prima per altre urgenze” sottolineò non troppo ironico.

- Dobbiamo parlare Ziva. - Le dissi appena rientrati a casa
- Di cosa?
- Come di cosa? Di quello che è accaduto oggi! Poteva finire male, per te e per il bambino.
- È andato tutto bene, no?
- Poteva non andare tutto bene. Poteva accadere come l’anno scorso. 
- Tu non mi hai ancora perdonato eh? Dì la verità Tony.
- Stai vaneggiando Ziva. Sei tu che non ti sei perdonata. Sei tu che oggi ti sei sentita in colpa per quello che hai fatto, ed attaccare gli altri non ti farà stare meglio.
- Giudicate tutti quello che ho fatto, come se fossi un’irresponsabile, come se non mi importasse nulla di nostro figlio.
- Nessuno ha detto questo! Però sì, sei stata un’irresponsabile. Ma nessuno ti ha giudicato come la peggiore persona del mondo come hai detto prima, forse sei tu che ti senti così, ma non dare la colpa agli altri!
- Se tu non mi avessi distratta, non ci sarebbe stata nessuna colluttazione. Tu pensavi che lo avrei ucciso, è questo che pensi di me, pensi che sono rimasta sempre la stessa, un’assassina che uccide a sangue freddo, vero?
- Non penso questo Ziva, lo sai, ma i tuoi occhi erano pieni d’odio. No, non sapevo cosa stavi per fare. Cosa vuoi dire? Vuoi darmi la cola di quanto è accaduto? Pensi che sia colpa mia?
- No…
- Beh, è tardi, lo hai già detto. Non mi puoi dare la colpa di questo, dei tuoi comportamenti senza alcuna logica e pensare che poi sia colpa mia perché ti ho distratta. Non funziona così.
- Cosa ne sai tu Tony eh? Cosa ne sai tu chi è Arlan Gadi, cosa ha fatto, cosa può dirci.
- No, non lo so, perché del tuo passato non so nulla Ziva, perché tu non ne vuoi mai parlare. Non so chi sia quel tizio, cosa c’entri con te e con Rivkin. Però lo sai che c’è? Ora nemmeno mi interessa più sapere del tuo passato. Perché per colpa sempre dei tuoi fantasmi che riappaiono, oggi poteva succedere qualcosa di grave a te e a nostro figlio. Ma tu sembra che non lo capisci oppure non ti importa. Passano gli anni, cambiano i protagonisti, ma siamo sempre qui, a discutere delle stesse cose. Della tua voglia di vendetta che ogni tanto appare di nuovo, insieme a qualche misterioso personaggio del tuo passato, perché è difficile per te vivere una vita serena e felice, vero? Magari è noioso stare bene con me e i nostri figli. Io vorrei solo questo. Non ti basta? Non ti rendo felice abbastanza? Non è questo che vuoi? Io vorrei una vita diversa con te, una vita felice guardando al futuro non al passato.
- Tony, finiscila di dire cazzate. Non ho scelto io cosa vivere nel mio passato e ti assicuro che di molte cose avrei fatto volentieri a meno. E tu meglio di chiunque altro dovresti saperlo, ed invece stai qui a rinfacciarmelo. Gabriel Rivkin oggi ha mandato Arlan Gadi e un altro per ucciderti. Scusami se ho avuto paura per questo. Scusami se quando me ne sono resa conto sono venuta a cercarti perché ho avuto paura per te. Non sono io che vado a cercare il mio passato. Io avrei voluto dimenticare tutto, avrei voluto veramente che quel giorno con Noah fosse finito tutto. Ma non finirà mai nulla. E se tu non lo puoi accettare, se non puoi accettare che il mio passato fa parte di me, non credo che ci sia un futuro per noi.
- Stai scherzando, vero?
- No. L’hai detto tu, io non posso vivere felice e serena con voi per colpa del mio passato. Tu vuoi questo, io non so se posso dartelo né ora né in futuro. Non posso vivere con qualcuno che mi rinfaccia cose che non posso cambiare, soprattutto non adesso. Ho bisogno di stare tranquilla, per il mio bene e per il suo - disse appoggiando entrambe le mani sul suo ventre dove la gravidanza era appena visibile, ma solo per un occhio esperto - non posso stare con qualcuno che mi accusa e pensa che non me ne importi nulla.
- Cosa stai dicendo? 
- Che ti amo, non hai nemmeno idea di quanto ti amo, ma non posso vivere con l’idea che ogni mio gesto sia giudicato e messo in relazione con quello che è stato. Forse siamo andati troppo di fretta per recuperare il tempo perso, siamo stati sopraffatti dagli eventi e non ci siamo fermati a pensare ai problemi pratici. Pensavamo che bastava amarci per essere felici ma non è così evidentemente. Non sei felice tu e così non lo sono nemmeno io. Mi sono illusa, forse. Ci siamo illusi entrambi.
- Ziva frena, stai precipitando le cose. Ci siamo appena sposati, abbiamo un figlio e un altro che sta per arrivare. Non puoi gettare tutto via per una discussione. Mi sono arrabbiato, ho detto cose che non dovevo, ma cazzo non così! Io sono felice con te, vorrei solo che…
- No Tony, tu hai detto la verità prima. Hai detto che vorresti una vita diversa. Oggi ti ho visto come mi hai guardato. Prima eri impaurito, poi quando è finito tutto ed hai visto che stavo bene, mi guardavi con disprezzo. Anche dal ginecologo, durante la visita, ho provato più volte a cercarti con lo sguardo ma tu ti sei sempre voltato altrove. Avrei voluto anche solo che mi dessi la mano in quel momento. Avevo paura anche io di quel silenzio, cosa credi? Tu però hai dato per scontato che non fosse così, che non avevo bisogno del tuo conforto ed invece ne avevo tremendamente bisogno, ma tu pensavi che non mi importava di quello che stava accadendo. Come lo hai pensato l’anno scorso. E non riesco ad accettarlo questo, non riesco a stare con una persona che pensa che non mi importi di nostro figlio, che pensa che potevo ucciderlo, questo mi hai detto.
- Ho detto una cosa sbagliata nel modo sbagliato. Io ti amo. Non posso perderti così, per questo, non ora… Non così…
- Ti amo anche io. Ma ora ho bisogno di stare tranquilla. Per nostro figlio soprattutto, per non ucciderlo. - Disse le ultime parole scandendole lentamente, per dare maggior enfasi a quello che era stato il mio pensiero.
- Ti prego, ti prego… Cosa vuoi fare Ziva?
- Dammi un paio di giorni, cercherò un posto dove andare con Nathan…
- No, non se ne parla. Nathan ha già cambiato troppe cose nella sua vita, non puoi pensare di spostarlo di nuovo dal suo mondo. Se vuoi stare da sola lo cerco io un posto, tu non ti muovi da casa nostra. - Mi resi conto che nel dire questo mi ero già arreso.

Mi andai a sedere, mi sentivo svuotato. Lei si sedette nella poltrona vicino.
- Non può finire così Ziva. Non adesso. Perché hai paura di essere felice? Perché ti chiudi in te stessa? 
- Perché mi sono sentita ferita, ecco perché mi chiudo. Per non farmi ferire più.
- Io sono sicuro che un giorno capirai che non è così, che non ti voglio ferire e che se l’ho fatto mi dispiace.
- Io lo spero. Lo spero veramente. Tu sei e sarai sempre la persona più importante della mia vita insieme ai nostri figli.
- Lo sai che così non mi aiuti vero?
- Non puoi pensare che posso smettere di amarti. - Mi disse con una dolcezza che contrastava tutto quello che ci eravamo appena detti.
- Non riesco a capirti Ziva. Non ce la faccio.
- È proprio questo il problema Tony.

Ziva uscì, andò a prendere Nathan ed io rimasi a casa a riempire una valigia troppo piccola per riempire tutto quello che avrei voluto portare via: tutto, loro soprattutto. In un baleno, senza rendermene conto, la mia vita era precipitata e non sapevo nemmeno perché. Quella mattina tutto mi sembrava perfetto, non era ancora tramontato il sole ed era tutto finito, avevo solo macerie intorno e non sapevo da dove poter cominciare per ricostruire. Ci eravamo detti più volte di amarci mentre ci stavamo lasciando che nei precedenti mesi. Era tutto assurdo.
Quando Nathan tornò non fu facile spiegargli la situazione, gli raccontammo che dovevo fare un’importante missione segreta e per questo non potevo stare a casa, ma che ci saremmo comunque visti spesso. Cenammo tutti insieme quella sera, come una famiglia normale, quella che non riuscivamo mai ad essere.

- Allora ciao Ziva.
- Ciao Tony.
- Mi raccomando, rilassati adesso, pensa solo ai nostri bambini.
- Sì, penserò a loro. Passa quando vuoi a vedere Nathan, non voglio separarvi, lo sai vero? Noi ci vediamo a lavoro…
- Certo, lo so. Beh, allora ciao… - mi avvicinai per darle un bacio, forza dell’abitudine, ma lei si spostò così le sfiorai solo la guancia.
- Ciao Tony.
- Ti amo Ziva - dissi già fuori dalla porta.
- Anche io - rispose prima di chiuderla.

 

NOTE: Non si è fatto scoprire Tony, non è stato Nathan a farsi uscire qualcosa di troppo, ma è stata l’ultima persona che si poteva immaginare: Gibbs.
Ok, ma poi cosa è successo? Ziva ha paura di essere felice ed è troppo ossessionata dal suo passato, come dice Tony? Oppure è lui che nei momenti in cui discutono si fa venire dubbi su cosa lei vuole veramente e le rinfaccia anche involontariamente eventi del passato? E’ Ziva la prima a sentirsi in colpa per quello che fa, oppure sono gli altri a non capirla? 

Vuole stare tranquilla, vuole stare sola senza smettere di dirgli che lo ama. Una bella contraddizione oppure no? Di certo non potevate mica pensare che sarebbe andato tutto per il verso giusto e sarà un periodo molto complicato per i nostri…
Questo Arlan Gadi chi è? Sembra che lui e Ziva si conoscano bene dai tempi del Mossad…

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Capitolo 5
*** Wrecking Ball ***


… I came in like a wrecking ball 
I never hit so hard in love 
All I wanted was to break your walls 
All you ever did was break me 
Yeah, you, you wreck me  …

Il rumore della porta che avevo appena chiuso rimbombava nella mia mente. Rimasi con le mani sul legno lucido e appoggiai la fronte tra queste. Cosa avevo fatto? 
Avrei voluto riaprirla, dire a Tony di rientrare e se avessi seguito il mio cuore lo avrei fatto. Però nella mia mente oltre il rumore della porta che si chiudeva, rimbombavano anche le frasi che ci eravamo detti poco prima e non lo feci. Ascoltai il rumore dell’ascensore che saliva fino al nostro piano, il bip delle porte che si aprivano, i suoi passi e di nuovo l’ascensore che scendeva, che lo portava lontano. Resistetti alla tentazione di affacciarmi alla finestra per vederlo ancora mentre si allontanava nel buio.
Avevamo fatto tutto troppo di fretta? Era realmente questo il problema? Non riuscivo a darmi una risposta, non sapevo cosa pensare, non sapevo nemmeno perchè, oggi, man mano che parlavamo il terrore si era impossessato di me a tal punto da volerlo allontanare. Avevo veramente paura di essere felice?
Mi sentivo inadeguata. 
Come moglie, come madre e come compagna.
Pensavo che, solo nella solitudine nella quale mi ero sempre rifugiata, potevo trovare quella tranquillità di cui avevo bisogno, nella solitudine che aveva sempre accompagnato la mia vita, che era la mia amica silenziosa, il mio approdo sicuro, lì dove nessuno mi avrebbe giudicato, mi avrebbe accusato per le mie azioni, dove potevo nascondermi da tutti, anche da me stessa.
Avevo paura. Avevo solo paura. Di essere giudicata e di giudicarmi, del mio giudizio prima di quello degli altri, ed il mio giudizio era impietoso.
Avevo sbagliato tutto e continuavo a farlo.
Avevo tutto ed avevo paura anche di questo, di avere tutto di essere felice. Aveva ragione Tony, non ne ero ancora capace. Temevo che qualcuno potesse prendere la mia felicità e distruggerla ed allora lo facevo io, prima che intervenisse qualcun altro. Così ero pronta, mi dicevo, così avrei saputo gestire la cosa.
Tony era un uomo, non era un bambino ed io con lui mi ero comportata come una bambina e non come una donna. 
Ero scappata ancora una volta senza affrontare i problemi, come gli avevo assicurato di non fare più, infrangendo ancora una volta quella promessa.

 

———————————

 

Parcheggiai in quella via così familiare e così estranea allo stesso tempo. Salii le scale portandomi dietro la borsa che avevo preparato in fretta e furia. Quando misi le chiavi nella toppa ed aprii la porta mi sembrava di essere tornato indietro nel tempo ad un’altra vita, ad un altro io. Il mio vecchio appartamento era esattamente come lo avevo lasciato, solo più polveroso ed un po’ più spoglio. Non avevo portato via molte cose da lì, i dvd, qualche foto, la nostra foto. Era quella la cosa che mi era mancata di più appena entrato. Era lì che avevo diretto lo sguardo, come un gesto incondizionato, dove tenevo la cornice con quella foto di noi due insieme che ora era a casa nostra. L’avevo guardata sempre, ogni sera, quando rientravo a casa, nei tre anni trascorsi da solo. L’avevo trovata per caso, in un cassetto della scrivania, appena tornato da Tel Aviv e l’avevo incorniciata e messa lì, vicino alla porta, per avere qualcosa di familiare ad accogliermi.
Aprii le finestre per far prendere aria, quanto tempo era passato dall’ultima volta lì? Due anni, forse, ma potevano essere molti di più per tutto quello che era successo nel frattempo. 
Andai in camera e riposi nell’armadio quei pochi cambi che avevo preso. Li osservai disposti sulle stampelle: erano veramente pochi. Non sapevo se lo avevo fatto per mancanza di tempo o perchè prendere poche cose volesse dire che non sarei rimasto via a lungo, inconsciamente la seconda ipotesi era quella più plausibile. Sarebbe stato per pochi giorni. Questa la mia speranza o meglio dire la mia illusione, ma già sapevo che non sarebbe stato così, non sarebbe stato da lei.
Aveva deciso di andarsene e quando Ziva decide di farlo non è mai per poco tempo. Le altre volte erano passati mesi, addirittura anni. No, questa volta non glielo avrei permesso. Non poteva andare via, fosse stato solo in un altro appartamento, perchè quella fuga avrebbe aumentato il senso di separazione. Io volevo che rimanesse lì, che vivesse la sua quotidianità dove fino a questa mattina avevamo vissuto la nostra, dove l’assenza diventava presenza quando meno se lo aspettava. Non la potevo far allontanare, mettere ulteriore distanza. Poi c’era Nathan, probabilmente non ci aveva nemmeno pensato quando mi aveva detto di volersene andare che sarebbe stato un trauma per lui cambiare tutto di nuovo, ma non per cattiveria o menefreghismo, semplicemente perchè Ziva stava pensando come quella di un tempo, come quella che era sempre stata, quella che fuggiva dai problemi, perchè Ziva era così, se si trovava davanti un esercito lo combatte anche da sola, però non sapeva ancora fronteggiare un battito diverso del suo cuore, nonostante tutto. Sapevo di aver sbagliato, di averle detto cose che non pensavo e di averlo fatto perchè spaventato, perchè non riuscivo a comprendere la sua impulsività, ma non avrei mai immaginato una reazione così forte e non potevano essere state solo le mie parole a provocarla, c’era dell’altro evidentemente, qualcosa che non mi aveva detto, della quale non mi aveva voluto parlare, sicuramente qualcosa che la stava turbando o qualche fantasma del passato che era tornato, con Rivkin, Gadi e chiunque altro del Mossad puntualmente si ripresentava a bussare alla sua porta. 
Il letto era sfatto, cercai delle lenzuola ma non le trovai. Mi spogliai, infilai una tshirt, sbattei il cuscino per far andare via un po’ della polvere accumulata negli anni di abbandono di quella casa e mi buttai sul letto provando a dormire, mi chiesi come avevo fatto per anni a dormire su un letto così piccolo ed ora mi sembrava anche terribilmente scomodo. Magari la mattina dopo mi sarei svegliato e sarebbe stato solo un sogno. Magari.

Due giorni senza vederla, senza sentirla. Mi ero imposto di non chiamarla, anche se la tentazione era stata forte, più volte. Mi chiedevo come stava, se era tutto ok, se veramente da sola era riuscita a trovare quella tranquillità che cercava. Avrei voluto sapere come stava Nathan e pensavo che ne avremmo dovuto parlare, con calma il giorno successivo, anche per come organizzarci per poterlo vedere e passare del tempo con lui. “Non ti preoccupare, non vi separerò mai” mi aveva detto prima di andarmene ed io ne ero sicuro, ma dovevamo capire cosa e come fare. 
Il cellulare squillò proprio mentre ero perso tra i miei pensieri. Il suo nome e la sua foto apparvero sullo schermo. Ziva. In un istante tutti i pensieri più belli e più brutti si alternarono. Voleva che tornassi da lei? Si era accorta che avevamo fatto un errore? Stava male? Aveva bisogno del mio aiuto? Era successo qualcosa a lei, al bambino o a Nathan? Perchè mi stava chiamando?
- Ciao, cosa succede? - Dissi preoccupato tutto d’un fiato.
- Tony, va tutto bene - mi rispose dolcemente per tranquillizzarmi.
- Ok, scusami, mi sono preoccupato… io non aspettavo una tua chiamata… - ero sincero non credevo che mi avrebbe telefonato.
- Hai ragione, Nathan chiedeva di te, voleva sentirti, ti ho chiamato per questo.
- Certo, certo hai fatto bene. Tu… voi… state bene?
- Sì, non ti preoccupare, sto bene. Stiamo bene.
- Se hai bisogno di qualcosa, di qualsiasi cosa, chiamami, ok?
- Lo farò. Ti passo Nathan.
Parlai con mio figlio a lungo. Voleva sapere tutto della mia “missione super segreta” e mi raccontò di tutto quello che aveva fatto in quei giorni. Mi fece un lungo elenco di tutto quello che avremmo dovuto fare quando sarei tornato insieme anche con la sua sorellina, perchè lui era convinto che sarebbe stata una sorellina.
Mi manchi papà e manchi tanto anche alla mamma”. Faticai a trattenere le lacrime e gli dissi semplicemente che anche loro mi mancavano tanto, ma che avrei fatto di tutto per vederci presto. Chissà se il fatto che mancavo anche “alla mamma” era una sua proiezione o se effettivamente Ziva glielo aveva detto. Però poteva averlo fatto anche solo per quieto vivere, non necessariamente perchè lo pensasse. Avrei voluto essere lì a vedere il suo volto mentre lo diceva, sicuramente avrei capito.

La mattina, quando la vidi arrivare e si mise alla scrivania, mi trovai a fissare la sua mano sinistra, per cercare la fede: era sempre lì, dove io l’avevo messa solo poco tempo prima. Tirai un sospiro di sollievo e mi dissi che fino a quando la indossava c’era speranza.
Lo feci quel primo giorno e poi lo avrei rifatto ogni giorno, era la prima cosa che facevo appena la vedevo. In fondo lei la speranza non l’aveva mai negata. Mi aveva detto che mi amava e non mi aveva detto che era finita per sempre. Solo che aveva bisogno di stare tranquilla e che non potevamo stare insieme. Ora. Non sempre, solo ora. Dovevo solo capire quanto sarebbe durato il suo “ora”.

In quei due giorni che era rimasta a casa spiegai brevemente agli altri quello che era successo, chiedendogli di non fare domande nè a me nè a lei, vista la situazione. Si dimostrarono tutti molto comprensivi, come sempre.
Aspettai che si sistemasse, ci scambiammo oltre che un cordiale buongiorno, qualche occhiata, ma quando ci scoprivamo a guardarci, distoglievamo lo sguardo. Mi alzai e la raggiunsi rimanendo in piedi davanti a lei, che per qualche istante fece finta di nulla, poi alzò la testa e mi guardò.
- Ti serve qualcosa Tony?
- Come stai?
- Bene, grazie. 
Il suo tono era cordiale, mi parlava come si può parlare ad un buon vicino, avrei forse preferito che fosse arrabbiata, ma non lo era. Sentirla dire che stare bene, egoisticamente, mi fece male. Non avrei mai preferito che mi dicesse il contrario, ma sapere che stava bene senza di me, mi faceva stare male. 
Lei non mi aveva mai chiesto come stavo, nè ieri sera nè adesso.
- Possiamo parlare dopo, a pranzo? - Le chiesi gentilmente
- Non credo dobbiamo dirci nulla Tony, soprattutto non qui.
- Volevo parlarti di Nathan, di quando posso vederlo, come organizzarci. Magari mentre mangiamo qualcosa… 
- Ah… certo, va bene, a pranzo. - Era veramente sorpresa. Probabilmente si aspettava che volessi insistere a parlare di noi, ed era già partita prevenuta a bloccare ogni tentativo, ma quando gli dissi che era di nostro figlio che volevo parlarle, cambiò completamente espressione, diventando più accondiscendente.
Cercai di non modificare nessuna delle mie abitudini, così a metà mattina, quando andai a prendere il mio solito caffè, le portai il suo tè ed un pacchetto di quei biscotti che le piacevano tanto. Si sorprese del mio gesto quando le appoggiai il bicchiere ed il pacchetto sulla scrivania, mi disse un grazie imbarazzato al quale risposi solo con un sorriso.

Al ristorante ordinammo due piatti del giorno: filetto di tonno con le verdure al vapore.
Seduti uno di fronte all'altra eravamo piuttosto imbarazzati. 
- Ti ho portato questa. - Mi disse passandomi la foto dell’ecografia - la guardavi sempre la mattina…
- Grazie. - Le risposi prendendola dalla sua mano - è molto importante per me. Non solo la foto, ma anche che tu me  l’abbia portata. - Abbassò lo sguardo e non ci parlammo per un po’, mentre io continuavo a guardare la prima foto di nostro figlio.
- Come stai? - Mi chiese Ziva interrompendo il nostro consueto silenzio
- Se ti dicessi bene mentirei. Mi manchi, mi mancate. - risposi sincero
- Anche tu ci manchi. - Abbassò lo sguardo. Ripensai alla telefonata con Nathan della sera prima. Glielo aveva detto e lo pensava.
- Anche a te? - Avevo bisogno della certezza.
- Pensi il contrario? - Eludeva di rispondere direttamente, ma avevo capito che si era lasciata scappare più di quanto forse volesse dirmi.
- Non so cosa pensare, non capisco. - Non mi rispose, l'arrivo del cameriere che portava le nostre bevande interruppe quella conversazione che stava prendendo una direzione sbagliata.
- Come volevi organizzarti per vedere Nathan? - mi chiese cambiando argomento mentre sorseggiava il suo succo di frutta multivitaminico
- Non ho problemi, come è meglio per te, vorrei solo evitare di doverlo portare in un'altra casa per passare del tempo insieme, se per te non è un problema, pensavo di passare a casa ogni tanto ti avviso prima così se vuoi puoi organizzarti per uscire.
- Ok… - Ok cosa? Che potevo andare a casa? Che lei sarebbe potuta uscire così da non avere la mia presenza intorno? Glielo avevo detto, è vero, ma con la speranza che dicesse di non preoccuparmi, che non era necessario che se uno era a casa l’altro sparisse, in fondo stavamo dimostrando di poterci comportare come due adulti. Due cortesi adulti estranei, certo.
- Pensavo che quando usciamo potresti accompagnarmi a prenderlo all'asilo, è una bella giornata potete stare un po' insieme prima di tornare a casa, se non hai altro da fare.
- Cosa altro dovrei fare, secondo te? - Le risposti un po’ alterato, ancora immerso nei miei pensieri precedenti. Lei mi osservò stupita di quella reazione stizzita ed io perdendomi nei suoi occhi non riuscii a mantenere il punto e cambiai subito tono - Certo, mi fa molto piacere. Nel fine settimana mi piacerebbe poter passare un po' di tempo con lui, mi posso organizzare per portarlo a pranzo fuori e poi al parco o qualcos'altro, se tu sei d'accordo.
- Non è un problema Tony. È tuo figlio lo puoi vedere quando vuoi.
Portarono i nostri piatti e cominciammo a mangiare silenziosamente, con lo sguardo basso sul nostro cibo. Sembravamo sempre più una coppia che stava per divorziare e discuteva dell'affido del figlio. Mi si chiuse lo stomaco al pensiero.
- Come abbiamo fatto ad arrivare qui? A discutere in un ristorante, come due cordiali conoscenti, degli orari per vedere nostro figlio? Fino a tre giorni fa parlavamo di tutt'altro, del nostro futuro insieme, di quello che noi quattro avremmo fatto. Mi sembra un'altra vita.
Non mi rispose. Allontanò il suo piatto e finì il succo di frutta.
- Ti prego, finisci di mangiare, non puoi saltare il pranzo non ti fa bene. - Quasi la supplicai e mi resi conto che non riuscivo a smettere per un attimo di preoccuparmi per lei, per la sua salute e che stavo diventando ossessivo con questa storia del mangiare, forse era una di quelle cose che le avevano dato fastidio. Stranamente mi diede ascolto finendo sia il pesce che gli asparagi e le patate.
- Vorrei solo che mi dicessi che c'è ancora spazio, da qualche parte, per quello di cui parlavamo fino a pochi giorni fa.
- Lo spero Tony.
Notò che le fissavo la mano.
- Che c'è? - mi chiese
- La fede, la porti sempre. - sorrisi
- Anche tu - Aveva cercato di scoprirlo o lo aveva solo notato?
- Sì. - le mostrai la mia mano
- Non è una cosa che si può fare a cuor leggero. Toglierla, intendo. - Disse seria
- Spero non lo farai mai. - provai a sfiorare la sua mano sul tavolo ma mi fermai un attimo prima per evitare la spiacevole sensazione di un suo rifiuto.
- È ora che torniamo a lavoro - disse controllando l'orologio. Lo feci anche io ed effettivamente il tempo era volato. Pagai il conto e tornammo a piedi in ufficio, parlando di tante cose futili solo per non trovarci in un imbarazzante silenzio. 

 

————————————————

 

Quando uscimmo dall’ascensore insieme ci sentimmo immediatamente tutti gli sguardi addosso dei nostri colleghi. Nessuno aveva chiesto nulla quella mattina, ma i loro sguardi erano più di una domanda. Tony mi aveva detto che aveva spiegato a molto grandi linee qual era la situazione, chiedendo a tutti di non fare domande e che a lavoro, non sarebbe cambiato nulla. Eravamo adulti responsabili, in grado di scindere la vita privata ed il lavoro.
Gibbs non mi aveva più rivolto la parola dalla sfuriata dell’altro giorno, mi guardava serio dalla sua scrivania senza dirmi nulla, nemmeno quello che dovevo fare, era stato McGee ad aggiornarmi sui miei compiti.
Fu quando ritornò dal laboratorio che mi parlò, senza nemmeno guardarmi.
- David, vai da Abby ha delle cose per te. - Mi alzai senza rispondere e obbedii. 

Il laboratorio era, come sempre, invaso dalla musica ad alto volume. Abby, china sul microscopio, non si accorse della mia presenza. Sapevo che mi avrebbe parlato anche di ben altro che di qualche caso e mi sentivo a disagio, volevo rimandare il momento il più possibile, così aspettai in un angolo che si accorgesse lei di me.
Non passò molto che, prima ancora di alzare gli occhi dallo strumento, afferrò con sicurezza il telecomando dello stereo ed il silenzio invase il luogo.
- Da quando in qua entri e te ne stai in disparte aspettando che io ti veda? - Bene, mi aveva visto o sentito, in ogni caso sapeva che ero lì, con aria colpevole, quale, in effetti, mi sentivo.
- Da quando in qua ti accorgi che ci sono e fai finta di nulla? - Provai a ribattere poco convinta. Si voltò a guardarmi e mi fissava seria come non l’avevo mai vista.
- Da quando mi nascondi cose così importanti, distruggi la tua vita e non mi dici nulla. - Asserì contrariata.
- Per favore Abby, non mi va di parlarne…
- Sì, questo lo avevo capito, visto che fai una cavolata dietro l’altra e non dici nulla.
- Cosa hai per me? - Le chiesi riacquistando un minimo di lucidità ricordandomi del motivo per cui ero lì.
- Niente perchè? Cosa doveri avere?
- Non lo so, Gibbs mi ha detto che dovevo venire da te perchè avevi delle cose per me… - Certo, capii da sola che non era niente inerente a nessun caso. 
- Gibbs ti conosce meglio di quanto credi, Ziva. - Disse Abby indicandomi una sedia dove mi sedetti. Non avevo realmente voglia di parlare, anche perchè non sapevo cosa dire, però ero felice di essere lì con lei, che aveva già cambiato espressione, prese un’altra sedia e si mise davanti a me.
- Non voglio parlare di Tony - misi le mani avanti
- Ok… abbiamo altro di cui parlare, no?
- Già… - Dissi portandomi istintivamente una mano sulla pancia impercettibilmente mutata, ma già così preziosa. 
- Allora, voglio sapere tutto! Quante settimane? Quando dovrebbe nascere? Maschio o femmina? - Era tornata già la solita Abby.
- Quasi 12 settimane, dovrebbe nascere intorno al 10 febbraio e ancora non si sa se è maschio o femmina.
- Nathan? Glielo avete detto?
- Sì, il giorno del suo compleanno. Era da un po’ che diceva che voleva una sorellina, quindi abbiamo rischiato e glielo abbiamo detto subito. Lui è convinto che sarà femmina, anzi più che altro vuole che lo sia. È contento, mi chiede sempre come sta la pancia, è diventato premuroso quasi quanto Tony… - Mi morsi il labbro per quello che avevo detto e lei non si fece trovare impreparata raccogliendo le mie parole al volo.
- Quindi Tony è premuroso, eh! - Mi rimproverava, sapevo cosa c’era dietro quella frase.
- Sì, anche adesso. Ma non mi va di parlarne. - Le ricordai quanto detto prima.
- Ziva, sei tu che lo hai tirato fuori, non io!
- Lo so, non è facile ancora.
- Non lo deve essere per forza. Lui ti ama, tu lo ami, perchè dovete farvi questo?
- Ci sono delle cose sulle quali non riusciamo evidentemente a passare sopra, non ancora. Forse abbiamo fatto tutto troppo velocemente da quando ci siamo ritrovati. La storia di Nathan, il matrimonio, il bambino… siamo andati troppo veloci senza riuscire ad assestarci e a sistemare tutto quello che ci aveva tenuto lontani negli anni. Abbiamo fatto degli errori di valutazione, evidentemente.
- È un errore anche il bambino? - Mi chiese seria
- No, Abby, no. - Portai tutte e due le mani a coprirmi il ventre per proteggerlo. - Ora è meglio che vada, se no Gibbs mi manda a cercare. - Le dissi alzandomi. Quella sua frase aveva fatto tornare nella mia mente tutte le ombre del giorno prima. Perchè tutti dovevano pensare che consideravo questo bambino un’errore o che non me ne importasse nulla? Davo veramente questa impressione?
- Ziva, è stato Gibbs a farti venire qui sapendo che non dovevo darti nulla. - Mi fece l’occhiolino e poi mi abbracciò. - Spero anche io sia una bambina - mi disse prima di lasciarmi uscire



NOTE: Spero che dopo questo capitolo le motivazioni e gli stati d'animo post separazione siano più chiari, per quanto lo possano essere in una situazione di confusione emotiva. Gibbs per ora non interviene, non direttamente. E' ancora arrabbiato, ma lo troveremo in seguito. Per ora si "limita" a mandare Ziva a parlare con Abby. Tony e Ziva cercano, nonostante l'imbarazzo della situazione, di avere un rapporto normale e di fare il meglio per Nathan. Nei prossimi capitoli vedremo come materialmente gestiranno la cosa con lui e come anche loro si caleranno in diverse situazioni, in questo essere di nuovo una "non coppia" che però ha un figlio e ne aspetta un altro.

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Capitolo 6
*** You can count on me ***


… You can count on me like one, two three    
I'll be there
And I know when I need it   
I can count on you like four three two       
And you'll be there
Cause that's what friends are supposed to do, oh yeah    …

In quei periodo, almeno dal punto di vista lavorativo molto tranquillo, quasi tutti i giorni Tony veniva con me a prendere Nathan ed in più di un’occasione erano rimasti a giocare un po’ insieme mentre io tornavo a casa. Per lui era piuttosto strano che non stessimo tutti e tre insieme ma Tony gli aveva spiegato che io ero stanca perchè incinta e quindi lo aspettavo a casa e sembrava aver capito la cosa senza fare altre domande.
Fu durante uno di questi momenti di solitudine a casa che chiamai Gael, avevo bisogno di parlare con qualcuno. Parlammo, anzi, parlai a lungo fino a quando Tony non riportò a casa Nathan. Lui non disse molto, mi ascoltava, mi fece solo promettere che ci saremmo visti presto, così approfittai di una sera nella quale Tony portò a mangiare fuori Nathan per invitare Gael.
Arrivò con il suo solito sorriso e le mani occupate da varie buste.
- Bonsoir ma chère
- Gael ma cosa hai portato? Non dovevamo ordinare due pizze? - Gli chiesi mentre con naturalezza appoggiava tutte le buste sul bancone in cucina non standomi nemmeno a sentire.
- Mia cara, avevamo detto una serata come ai vecchi tempi? Non ricordo che la pizza era inclusa no? Quindi adesso tu ti siedi su quel bel divano, ti rilassi e aspetti che io mi intrufolo nella tua cucina per poi raccontarmi tutto. - La sua voce era dolce come sempre, ma nascondeva una punta di rimprovero.
Non mi sedetti, rimasi appoggiata al divano osservandolo scartare, prendere piatti, posate e bicchieri come se avesse sempre vissuto lì.
- Conosci bene la mia cucina eh!
- Ho buona memoria, mia cara e poi tutti più o meno tengono le cose negli stessi posti! Ma tu non dovevi sederti ed aspettarmi?
Sbuffai e lo feci contento, poco dopo cominciò a portare i contenitori sul tavolino davanti al divano. 
Hummus, falafel, shakshuka, burekas di vari gusti, shawarma e insalate.
- C’è tutto? - Mi chiese guardando soddisfatto il tavolo e porgendomi un piatto vuoto - Avevamo detto come ai vecchi tempi, no?
Sorrisi felice. Aveva portato tutti i nostri piatti preferiti che mangiavamo in Israele.
- Ho trovato un ristorante che fa anche take away. - mi disse mentre riempiva il suo piatto - Le falafel non saranno come quelle del nostro chiosco preferito a Tel Aviv, però accontentiamoci, no?
- Sono buonissime - gli risposi mentre ne addentavo una - e sono le migliori che abbia mai mangiato, perchè era proprio quello di cui avevo bisogno.
- Volevo portarti anche il succo di melograno, ma non l’ho proprio trovato, mi dispiace. 
- Gael, ma scherzi? 
- Ricordo che ne andavi pazza! 
- Già, ti ricordi che buoni quelli di Ruth al Carmel Market? Non ho più bevuti così buoni - sorrisi un po’ malinconica
- Nemmeno io, erano eccezionali, secondo me ci metteva qualche ingrediente segreto! - Rise gioioso
Eravamo lì già da un po’, a mangiare e chiacchierare e ancora non avevamo toccato nessuno degli argomenti spinosi. Sapevo che aspettava che mi rilassassi per poi, come suo solito, farmi quelle domande che mi facevano aprire le dighe della mia coscienza. 
- Proprio come ai vecchi tempi, eh Ziva? Tu incinta ed io a consolarti, non pensavo che avremmo rifatto questa scena, non adesso e non qui.
- Nemmeno io Gael.
- E allora?
- Ho avuto paura. Mi sono sentita inadeguata, ho pensato a come stavo quando aspettavo Nathan e mi sembrava che, nonostante tutto, tutto fosse migliore, che da sola fossi più serena, senza nessuno che mi giudicava per quello che facevo, che mi rimproverava se non stavo attenta a questo o a quello.
- Non ti sei mai messa a fare scontri corpo a corpo quando eri incinta di Nathan, almeno da quello che so io. Stanne certa mia cara, lo avessi fatto non te la saresti cavata con poco. Mi sarei molto arrabbiato e non solo io… - Evitò di nominare altre persone alle quali non volevo pensare, ma so che si riferiva a Tamar.
- Da che parte stai Gael? 
- Dalla tua, Ziva. Proprio per questo ti sto dicendo questo. Tu dici che a Tel Aviv era tutto migliore, ne sei sicura? Avevi lo stesso sguardo di adesso, lo sguardo di chi le manca qualcuno ed ancora una volta lo hai allontanato tu. Io non dimentico che i tuoi occhi si illuminavano solo quando parlavi di Tony, per poi diventare sempre tristi subito dopo. Ti ricordi quando mi hai telefonato piangendo la mattina che lo avevi chiamato?

Mi morsi il labbro. Gael aveva ragione. Nella mia mente avevo filtrato solo i momenti migliori tenendo lontano tutto il resto e lui, spettatore sempre presente dei miei alti e bassi, invece si ricordava tutto, soprattutto i bassi, quando era il primo a consolarmi. Ci eravamo conosciuti per caso quando il 21 novembre, come tutti gli anni, ero andata all’Opera. Era una delle prime repliche stagionali della Madama Butterfly di Puccini e trovai seduto accanto a me, questo bel ragazzo, dai modi gentili, che di certo non passava inosservato, attirando l’attenzione di molte delle ragazze presenti. Più di qualcuno ci scambiò per una coppia, essendo entrambi da soli, e ci ritrovammo a guardarci piuttosto imbarazzati un paio di volte. 
Se vuoi dopo possiamo andare a bere qualcosa insieme, visto che tutti pensano che stiamo insieme…” Mi disse sorridendo sfacciatamente 
Mi dispiace, non posso bere” gli risposi per chiudere l’argomento, ma non mi resi conto che quella risposta era più di quanto volessi dirgli. Si accorse, forse, di avermi dato un’impressione sbagliata 
Non ci sto provando. Sono fidanzato e sono gay”. Mi sorprese la schiettezza di quella confessione sottovoce nella platea ormai quasi piena. Gli sorrisi, poco dopo si spensero le luci e cominciò lo spettacolo. A fine di ogni atto ci scambiavamo qualche impressione, mi piacevano i suoi modi era piacevole parlare con lui. Fu a fine spettacolo che mi chiese di nuovo di bere qualcosa insieme. “Non necessariamente alcolico, se non puoi ”. Non so perchè, ma accettai e da lì andammo in un cafè aperto fino a tardi. Ordinammo due tè alla menta e cominciammo a parlare con naturalezza, come se lo avessimo sempre fatto, come se fossimo amici da sempre e non ci eravamo nemmeno presentati. 
Gael Dayan”, “Ziva David” ci presentammo a metà della nostra serata e lui sembrò sorpreso, evidentemente si aspettava altro “David? Allora non sono motivi religiosi per i quali non puoi bere, sai il mio fidanzato è musulmano, sono abituato ad uscite a base di tè e succhi di frutta” la naturalezza con la quale mi parlava di lui, mi spinse a fare lo stesso. Era tanto che non riuscivo a parlare con qualcuno, con qualcuno della mia età. Solo 
No, sono incinta” gli confessai senza sapere nemmeno perchè.
Stai aspettando anche tu il tuo americano che ritorna, come Cho Cho San?” Lui non sapeva con quella frase quanto era andato vicino alla verità, ma in quel momento evitai di parlargli anche di questo. “Perchè lo pensi?” “I tuoi occhi durante l’aria erano molto coinvolti” “Dicono che la gravidanza faccia questi effetti…” fu la mia risposta evasiva. Cominciammo a vederci spesso e a chiacchierare tanto. Gli raccontai della mia vita, del perchè ero quella sera all’opera per ricordare mia sorella e della mia situazione aprendomi come non avevo fatto mai con nessuno, non mi giudicava, mi ascoltava ed io ascoltavo lui, i suoi problemi di dover essere omosessuale ed innamorato di un ragazzo musulmano in una famiglia ortodossa che lo aveva quasi ripudiato per questo. 
Era mattina presto a Tel Aviv quando provai a chiamare Tony, conoscevo Gael da poco più di un mese e mi aveva spronato in tutti i modi a confessargli che ero incinta, perchè secondo lui ne sarebbe stato felicissimo, almeno da come glielo avevo descritto io, e non dovevo preoccuparmi per la sua allergia ai bambini. Così mi convinsi e lo chiamai ma la telefonata non andò come avevo immaginato, anzi non andò proprio, rimasi bloccata a quella voce di donna che aveva risposto e alla sua sullo sfondo. Attaccai e chiamai immediatamente Gael, tra lacrime e singhiozzi che nonostante l’orario venne immediatamente da me con una busta di biscotti alle mandorle caldi appena sfornati.

- Ziva? Mi stai ascoltando? - Le parole di Gael mi riportarono al presente aveva preso l’ultimo burekas - Lo vuoi?
- No, mangialo pure. - Non finii che lo aveva già addentato e non capivo come potesse mangiare così tanto ed essere così magro.
- A cosa pensavi persa nel tuo mondo? 
- A quella mattina e ai tuoi biscotti alle mandorle. Hai ragione, non stavo sempre benissimo.
- Già… Io non credo che Tony pensi effettivamente quello che ti ha detto. 
- Non lo so, alcune volte penso che non mi abbia mai perdonato per tutta questa situazione. Per Nathan, per l’anno scorso e forse nemmeno per come mi sono comportata prima.
- Però, nonostante tutto questo ti ha sposato e mi sembrava felice quel giorno e lo eri anche tu, eri radiosa Ziva, erano due mesi fa, poco più. Sei sicura che sia lui a non averti perdonato? O sei tu che non hai perdonato te stessa? 
Si alzò, andò in cucina lo sentii armeggiare un po’ e poi tornò con due piatti e due cucchiaini.
- Halva parfait al pistacchio. Il tuo preferito. - Mi disse porgendomi il piatto
- Era una vita che lo dovevo mangiare! - Assaporai il dolce tenendo il cucchiaino in bocca, lasciando che la parte cremosa si sciogliesse e sgranocchiando i pistacchi. Gael sorrise a quella scena.
- Sembri una bambina lo sai? 
- È un complimento?
- Sì, lo è. Sarà maschio o femmina, lo sai?
- Ancora no…
- Spero una piccola Ziva. 
- Lo sperate tutti a quanto sento, Nathan in primis, ma spero che non sia come me! - Risi
- Sei meglio di quanto pensi Ziva, basta che te ne rendi conto e non ti distruggi da sola.

Suonarono al campanello, andai ad aprire e c’erano un Tony visibilmente imbarazzato e Nathan che volle subito essere preso in braccio.
- Ciao, non hai le chiavi? - Gli chiesi
- Non mi sembrava il caso. - Si guardò intorno, forse temeva che avessi cambiato qualcosa, ma era tutto come sempre. Si soffermò sulla nostra foto sul mobile dell’ingresso e in quel momento ringraziai di avere Nathan tra le braccia, o avrei abbracciato lui e non potevo, non dovevo. Salutò Gael che era in imbarazzo al meno quanto Tony. Andai a portare Nathan in camera, lo lavai e gli misi il piagiama. Sentivo Tony e Gael parlare dall’altra stanza.
- Papà deve andare via?
- Vuoi che rimanga con te?
- Sì.
- Siete stati bene oggi? - Mi fece cenno di sì muovendo energicamente la testa. Gli diedi un bacio ed andai a chiamare suo padre.
- Vuole che rimani con lui fino a quando non si addormenta. - Gli dissi interrompendoli
- Ok, non è un problema. Vado da lui. - E così fece, chiudendosi piano la porta della camera di Nathan alle spalle.

- Ora è meglio che vado - Mi disse Gael raccogliendo i contenitori vuoti della nostra cena e riponendoli nelle buste. - Nel freezer c’è ancora un po’ di dolce, ti tirerà su il morale.
- Grazie Gael. Di tutto, di esserci ancora.
- Di nulla ma chère, ci rivediamo presto ma tu chiamami quando vuoi. - Non ci fu bisogno di accompagnarlo alla porta, se ne andò da solo mentre io rimanevo in piedi vicino al corridoio a cercare rumori provenienti dalla stanza di Nathan, ma tutto taceva, probabilmente si era addormentato e Tony era rimasto a guardarlo dormire.
Presi un bicchiere d’acqua e mi appoggiai al bancone della cucina, perdendomi ancora una volta nei miei pensieri.

- Sei stanca? - Non avevo sentito Tony uscire dalla camera di nostro figlio.
- Come sempre, questi primi mesi sono un po’ debilitanti.
- Posso fare qualcosa per te? Hai bisogno di qualcosa? - Non c’era voglia di imporre la sua presenza, era solo premuroso.
- Grazie Tony, è tutto apposto.
- Ok, allora io vado. - Mi accarezzò il viso, soffermandosi sull’angolo vicino alla bocca. Era un gesto così istintivo ed intimo che sentii cedere tutte le mie volontà mantenute ferme fino al quel momento e poggiai una mano sopra la sua, accarezzandogli il dorso. - Eri sporca di gelato - mi disse sorridendo ed io ritrassi la mia mano sorridendo a mia volta imbarazzata. 
Era già alla porta e stava uscendo, sentivo ancora la morbidezza della sua mano sul mio volto e pensai a quanto volessi le sue mani ovunque e le sue braccia a stringermi.
- Tony! - Lo chiamai, si voltò lo guardai intensamente, gli avrei voluto dire tutto quello che avevo appena pensato. - Buonanotte.
- Buonanotte Ziva.
Uscì chiudendo piano la porta. Respirai profondamente ed ero convinta che tra gli odori della cena che ancora avvolgevano il soggiorno, c’era anche il suo profumo. Aprii le finestre per far cambiare aria, nonostante entrasse solo il caldo di quella sera d’agosto, ma dovevo respirare aria pulita, non intrisa di ricordi.

 

NOTE: Anche questo è un capitolo un po' più breve del solito, ma credo che più di qualcuno sarà così. 
Il personaggio di Gael sarà un po’ più presente e servirà anche per scoprire qualcosa in più di Ziva e di quello che ha fatto in quel periodo che era a Tel Aviv, lui era con lei ed è stato un amico insolito che le è stato vicino. Perchè Gael e non altri, Gibbs o Abby? Perchè Ziva ha bisogno di parlare con qualcuno che sia dalla sua parte, un suo amico e non qualcuno immischiato nelle loro dinamiche di coppia, almeno per il momento, qualcuno che l’ha conosciuta per quello che era anche quando era sola a Tel Aviv, una Ziva diversa e non solo come l’ex agente del Mossad o l’agente dell’NCIS. Spero che questa scelta vi piaccia.

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Capitolo 7
*** Mistake ***


… Think you made your greatest mistake
I’m not gonna call this a break
Think you really blew it this time
Think you could walk on such a bad lie   …


Tornai nella mia vecchia casa sconsolato. Quegli squarci di normalità se da un lato mi rendevano enormemente felice al momento, subito dopo, nel momento del distacco, erano ogni volta delle pugnalate in pieno petto. Facevano ogni volta più male. Mi sembrava di essere un assetato a cui bagnano le labbra senza farlo bere e la gola bruciava sempre di più per la voglia di dissetarsi.  Non avrei resistito ancora molto. La rivolevo, li rivolevo. Se almeno fosse stata distante e fredda sarebbe più facile, forse, sarei riuscito anche ad arrabbiarmi, invece così no. Non riuscivo nemmeno ad essere arrabbiato, ero inerme e non sapevo cosa fare e continuavamo con questa finta normalità che metteva in imbarazzo anche a lavoro tutti gli altri che faticavano a capire come comportarsi con noi. In tutto questo la cosa che mi preoccupava di più era il comportamento di Gibbs, freddo e distante. Mi sarei immaginato tutt’altro dopo quello che era successo negli ultimi tempi, ed invece da quando aveva saputo della nostra separazione parlava meno del solito, solo se strettamente necessario, senza mai averci chiesto nulla, ma senza nemmeno averci dato mai la possibilità di avvicinarlo per parlare.

In tutta quella situazione avevo dimenticato che a breve ci sarebbe stato il matrimonio di McGee. Fu Palmer una mattina a ricordarmelo, chiedendomi se la sera successiva sarei andato all’addio al celibato di Tim. Non ne avevo voglia, per niente. Non riuscivo a vedermi in un contesto di festeggiamenti di nessun tipo. Non sarei andato nemmeno al matrimonio avessi seguito il mio umore, ma non potevo fare questo a McGee, ci sarebbe rimasto malissimo ed io poi me ne sarei pentito. Alla fine mi lasciai convincere da Palmer, mi feci dare l’indirizzo del locale e la sera successiva andai a festeggiare l’ultima notte da scapolo di McGee.
La festa l’aveva organizzata il fratello di Delilah, era in uno dei locali per i quali lavorava, tra la 9th e F Street: aveva preso tutto il locale e da festa di addio al celibato di McGee si era presto trasformata in un evento vero e proprio. Io ero al piano superiore, dove c’era Tim e molti dei ragazzi che lavoravano all’NCIS, al piano inferiore tanta altra gente che dubito McGee conoscesse. L’alcool scorreva a fiumi, la musica era alta e c’erano tante ragazze che ballavano ammiccanti. Mi misi su uno sgabello al bancone del bar a bere qualcosa, ripensando a quella sera di poco tempo prima, quando io ed il Pivello, soli a casa sua, aspettavamo la mattina successiva quando mi sarei sposato. L’eccitazione, la speranza, la gioia di quella notte era sparita ed il solo pensiero mi faceva stare male su come tutto poteva essere evaporato nel giro di così poco per niente. Non contai più quanti bicchieri di martini mi ero fatto versare, non contai più nemmeno il tempo che passava, non prestai attenzione nemmeno a quella mora che da un po’ mi si strusciava addosso e mi diceva qualcosa all’orecchio che non capivo. Presi un’altro bicchiere e mi spostai incerto verso uno dei divanetti, non so come interpretò la mia mossa, ma dopo poco mi raggiunse, sedendosi vicino a me, esageratamente vicino. Spostai un paio di volte le sue mani troppo intraprendenti e quando si alzò pensai che avesse capito che proprio non mi interessava. 
Tornò poco dopo, invece, con un’intera bottiglia di martini e rabboccò il mio bicchiere, offrendomelo per bere, mentre lei si era direttamente attaccata alla bottiglia bevendo in modo che lasciava poco spazio a quelle che fossero le sue reali intenzioni.
- Sono sposato - biascicai cercando di essere il più comprensibile possibile.
- Non sono gelosa - rispose mettendo inequivocabilmente una mano in mezzo ai miei pantaloni
- Mia moglie ti può uccidere - dissi serio e lei rise, prendendola come un’esagerazione, non sapendo, che, invece, poteva essere proprio così.

Mi svegliai la mattina dopo senza sapere dove mi trovassi. Ero su un grande divano bianco con addosso solo i boxer ed un gran mal di testa. Vidi i miei vestiti buttati per terra, mi piegai velocemente per prenderli e rivestirmi ma fui troppo ottimista sulle mie condizioni e un capogiro per poco non mi fece finire con la faccia sul tavolino di cristallo davanti a me. Mi appoggiai di peso con le mani, facendo rumore. Si aprì una porta e dalla stanza uscì Derek, il fratello di Delilah e poco dopo fece capolino una bionda decisamente poco vestita. Il ragazzo mi guardava e rideva.
- Cosa ci faccio qui? - Chiesi con la voce ancora impastata
- Tony, Tony… Non hai più l’età per certe cose! - Rise di gusto mentre io ero più che preoccupato
- Quali cose Derek?
- Ti sei un po’ ubriacato ieri sera. Quando la festa era finita certo non potevamo lasciarti dormire al club, così ti ho caricato in macchina con l’aiuto di Jane - indicò la ragazza dietro di se - ed Amber e ti ho portato da me, dove dovevo lasciarti? 
- Chi è Amber?
- La ragazza con la quale ti sei strusciato per tutta la serata! Hai buon gusto!
- Io non mi sono strusciato con nessuna ragazza Derek!
- Oh certo certo! - Rideva divertendosi a prendermi in giro, non sapendo che per me tutto quello era un dramma. Mi presi la testa tra le mani, cosa avevo combinato quella sera?
- Dov’è questa Amber adesso? - Chiesi appena riacquistai un minimo di autocontrollo
- Perchè, vuoi rivederla?
- No! Voglio sapere esattamente quello che è successo stanotte.
- Non lo so Tony, io stavo di là a divertirmi, non controllavo quello che accadeva in mezzo alle tue gambe. Ora è meglio che vai a casa, ti sistemi e ti rendi presentabile per il matrimonio di mia sorella questo pomeriggio. - E così dicendo Derek tornò nella sua stanza, lasciandomi lì, come un idiota quale ero su quel divano con più dubbi che certezze. Mi ero appena finito di vestire e stavo per uscire, quando Jane mi raggiunse.
- Ho portato io la tua macchina qua sotto. Non ti preoccupare, non hai fatto niente di male ieri sera qui a casa, eri troppo ubriaco per fare qualsiasi cosa - Rise dandomi le chiavi. 

Uscii scuotendo la testa. Ero un’idiota. Salii in macchina e guardai l’ora era quasi mezzogiorno. Presi il cellulare e trovai tre chiamate di Ziva. Prima di ripartire la chiamai immediatamente.
- Ciao Ziva, dimmi, è successo qualcosa!
- Tony, finalmente, ma che è successo? Dove eri sparito?
- Niente, una mattinata incasinata… Cosa c’è? Stai bene?
- Sì, non ti preoccupare, volevo chiederti per il matrimonio di Tim… Ci vediamo là oggi pomeriggio?
- Certo, Ziva. Solo questo? 
- Sì, solo questo. Perchè?
- No, niente… vuoi… vuoi che ti passo a prendere? Sì, insomma, tu e Nathan…
- Se ti va.
- Certo che mi va.
- Allora ci vediamo alle 4, va bene?
- Va bene, a dopo Tony.
- A dopo Ziva.

“Non è successo niente, non è successo niente” me lo ripetevo mentalmente mentre andavo a casa. Ma io non mi ricordavo cosa era accaduto quella notte. Avrei potuto fare qualsiasi cosa e non saperlo e mi sentivo un verme per questo. Appena arrivato dentro casa mi spogliai e mi buttai sotto la doccia, rimanendoci molto più del necessario, speravo che l’acqua lavasse via anche quel senso di sporco che sentivo dentro di me. 
Arrivai da Ziva in anticipo, le citofonai e mi fece salire. Quando entrai la trovai che ancora doveva prepararsi, perchè per preparare Nathan aveva impiegato più tempo del previsto, visto che come sempre in queste occasioni, non voleva stare fermo. Mi offrii di stare io con lui e finirlo di sistemare mentre lei andava a vestirsi. Mi chiamò qualche minuto dopo, chiedendomi se potevo raggiungerla in camera. Aveva un vestito blu leggermente più chiaro del mio completo, senza maniche, largo a coprire la pancia che cominciava a farsi appena vedere, ma su un corpo sempre atletico come il suo era più riconoscibile. Mi chiese, davanti allo specchio della cabina armadio, la cosa più banale del mondo, se l’aiutavo ad allacciare la cerniera. Ci guardavamo attraverso lo specchio ed io con le mani tremanti per evitare qualsiasi contatto con la pelle nuda della sua schiena, tirai su la zip mentre lei si scostava i capelli. Poi fu un attimo, non pensai nemmeno a quello che stavo facendo, chiusi gli occhi e la abbracciai, portando entrambe le mani sul suo ventre. Lei rimase sorpresa dal mio abbraccio e la sentii irrigidirsi tra le mie  braccia. Appoggiai solo per un istante la fronte sulla sua spalla nuda e poi mi allontanai, andando in bagno per sciacquarmi il viso e riprendere fiato. Era ferma sulla porta e mi stava osservando.
- Scusami - le dissi con il volto ancora immerso nell’asciugamano - scusami, non dovevo…
Si era avvicinata, mi abbassò le mani con l’asciugamano dal viso e lo buttò via. Io guardavo fisso davanti a me, non avrei sopportato il suo sguardo glaciale, ma mi voltò la testa verso di lei e quello che vidi era completamente diverso. Sorrideva. Prese la mia mano e la appoggiò di nuovo sul suo ventre e questa volta ci guardavamo. Non sapevo come interpretare quel gesto.
- Mi trucco e sono pronta. - Mi disse alla fine ed uscii dal bagno, tornando da Nathan che stava costruendo torri con i cubi che distrusse immediatamente appena mi vide solo per il gusto perfido di farmi piegare a raccogliere con lui tutti i pezzi mancanti.

Il luogo dove si sarebbe sposato McGee era fuori città, una grande tenuta con giardino ed una chiesa privata. Gli ospiti erano molti, quasi tutti parenti ed amici di lei. C’erano molti bambini dell’età di Nathan e più grandi ed avevano chiamato un servizio di animazione per intrattenerli. Era tutto super organizzato in ogni dettaglio. Nostro figlio non aspettò nemmeno un secondo prima di andare a giocare con gli altri bambini, mentre noi prendevamo posto in chiesa. Rimanemmo su una delle ultime panche, seduti vicini senza dirci nulla. Avrei voluto chiederle mille cose di quello che era successo prima in camera, ma non lo feci, forse per paura che la sua risposta poi non fosse quella che volevo sentire. Arrivarono Abby e Stevy ad interrompere quel silenzio imbarazzante definitivamente, visto che non smetteva un attimo di commentare qualsiasi cosa o persona vedesse.
Poco dopo arrivò anche Bishop unendosi a noi e quando Tim entrò in chiesa accompagnato dalla sorella, si fermò subito a salutarci, era emozionato come non lo avevo mai visto, lo abbracciamo tutti insieme. Gibbs, Vance, Ducky e Palmer con la moglie erano qualche panca davanti a noi e si fermò a salutare anche loro, per poi andare davanti all’altare ad aspettare la sua futura sposa.
Delilah arrivò puntualissima, accompagnata dalle nipotine che le facevano da damigelle. Derek e Sarah erano i testimoni degli sposi.
La cerimonia fu molto classica intervallata dai canti religiosi di un coro di bambini. Al momento dello scambio delle promesse ebbi un nodo alla gola. Mi voltai a guardare Ziva che fece la stessa cosa verso di me. Le presi la mano, stringendola forte. Avrei voluto portarla via, uscire di corsa da lì, andare in qualsiasi posto potessimo essere solo noi due e dirle che stavamo facendo uno sbaglio enorme, che non potevamo continuare così, facendo finta di niente, perchè non era niente quello che c’era tra noi. Invece rimasi in silenzio, fermo, vicino a lei, accontentandomi di stringerle la mano. 

Nathan rimase a giocare con gli altri bambini per molto tempo. Rimanemmo con Ziva a lungo seduti vicino all’area dove li intrattenevano a guardarlo giocare. Dopo molti mesi ancora alcune volte faticavo a rendermi conto di quel miracolo che era avere quel bambino che era entrato come un ciclone nella mia vita e nel mio cuore sconvolgendomi. Quando, stremato, cominciò a guardarsi intorno cercandoci e ci vide, fece l’ultimo sforzo correndo verso di noi e buttandosi letteralmente in braccio a Ziva. Lo rimproverai bonariamente, dicendogli di fare maggiore attenzione e di non essere così irruente con la madre. Lui sembrò capire, Ziva, invece, mi disse di non essere così apprensivo. Lasciai cadere il discorso, non avevo voglia di discutere, non quel giorno, non ancora. Lo presi poi in braccio per andare verso la sala dove sarebbe stata servita la cena. Nathan mangiò seduto sulle mie gambe, poi volle andare di nuovo dalla madre e si addormentò tra le sue braccia. Andai a prendere due cocktail analcolici all’angolo bar: io avevo già abusato di alcool per i prossimi, molti, giorni e Ziva non poteva bere.

- Come stai? - Chiesi a Ziva mentre sorseggiavamo i nostri cocktail
- Bene, è lui che è cotto - disse accarezzando i capelli di Nathan.
Aspettammo il primo ballo degli sposi, poi salutammo Tim e Delilah e riaccompagnai Ziva e Nathan a casa. Per tutto il viaggio di ritorno non riuscii a non pensare a quanto accaduto nelle ultime ore, dal night club alla casa di Derek, da quel contatto con Ziva alle nostre mani strette in chiesa. Rimase silenziosa per tutto il tempo, ma quando ci fermammo ad un semaforo, mi accorsi che in realtà di era addormentata, così una volta arrivati sotto casa, spensi il motore e rimasi lì, a guardarli dormire.

 

————————————

 

Aprii gli occhi e non capivo dove fossi. Ero tutta indolenzita, poi misi a fuoco e mi resi conto di essere in macchina sotto casa, Tony al mio fianco che mi guardava.
- Da quanto siamo arrivati?
- Da un po’…
- Un po’ vuol dire?
- Quasi un’ora.
- Sei stato quasi un’ora qui a guardarmi dormire? - Chiesi slacciandomi la cintura di sicurezza.
- Un po’ te e un po’ lui… Scusami, non volevo svegliarti.
Appoggiai la mano sulla sua gamba ed lui mise la sua sopra la mia. Mi venne spontaneo cercare il contatto con lui. Mi mancava, negarlo diventava sempre più difficile.
- Dopodomani devo fare un’ecografia, vieni anche tu?
- Certo, non me la perderei per niente al mondo.
- Bene.
- Bene.
- Sarà meglio che andiamo adesso. - Tolsi la mia mano da sotto la sua, ed aprii la portiera, lui feci lo stesso e girò rapidamente intorno alla macchina per aiutarmi a prendere Nathan dal seggiolino.
- Ti accompagno su - mi dissi mentre teneva nostro figlio in braccio
- No, Tony, non c’è bisogno, dammelo. - Fui più brusca di quanto avessi voluto essere.
- Ok - non riusciva a nascondere la sua delusione adagiando Nathan tra le mia braccia.
- Allora a domani.
- A domani Tony.
Rientrò in macchina e si allontanò velocemente prima che entrassi in nel portone e in cuor mio avevo sperato che potesse insistere un po’ di più.

Nonostante l’assenza di McGee per la luna di miele, nè Gibbs nè Vance ci fecero storie per darci la mattinata libera per andare a fare l’ecografia.
Oramai quella sala d’attesa stava diventando familiare. I ricordi dell’ultima volta che eravamo stati lì, però erano pessimi. Tony era nervoso mi faceva male vederlo così. Dopo che avevo parlato con Gael avevo capito che tutte le paure che avevo erano solo un mio problema e che non potevo farle pagare a lui, che stare lontani per evitare discussioni e giudizi non mi faceva stare meglio, perchè mi mancava. Mi mancava più di quanto volessi ammettere, sicura che da sola avrei di nuovo potuto affrontare tutto. Quando due giorni prima mi aveva abbracciata, però, avevo capito quanto avessi bisogno di lui. Era difficile ammettere per me di aver bisogno di qualcuno di cui potersi fidare e affidare, minava tutte le mie certezze costruite in una vita in cui in tutte le situazioni avevo sempre dovuto fare tutto da sola e questa cosa mi aveva destabilizzato, avevo qualcuno che avrebbe fatto questo percorso insieme a me non sapevo gestire la cosa, così invece che camminare insieme avevo cominciato a correre da sola, di nuovo. Ora era seduto di fianco a me, con le mani a stringersi le ginocchia, lo sguardo basso, il volto teso. Appoggiai la testa sulla sua spalla e lui si voltò a guardarmi. Capì la mia richiesta silenziosa e mi abbracciò. Presi la sua mano ed incrociai le sue dita con le mie, mentre con l’altra lui mi accarezzava dolcemente sul viso. Il nostro momento di ritrovata intimità fu interrotto dall’assistente del dottor Wood che ci chiamava per entrare. Mi sciolsi dal suo abbraccio, mi alzai dirigendomi verso la porta dello studio, ma Tony mi fermò prendendomi una mano e quando mi girai per capire quale fosse il problema, mi diede un bacio sulle labbra, poi sempre tenendomi per mano, entrammo insieme.

Il freddo del gel servì a risvegliarmi dai mille pensieri che mi avevano per qualche istante portata lontano da lì. Tony si era avvicinato al lettino per vedere meglio lo schermo ed intanto mi accarezzava la fronte e i capelli. Era tornato tutto estremamente naturale tra noi. La sonda si spostava ed il bambino apparve sul monitor insieme al veloce battito del suo cuore. Ora si riconosceva, si vedevano le mani vicino al viso e che muoveva le gambe senza stare fermo un attimo.
- Se continua così tra qualche settimana si farà sentire spesso - disse il dottor Wood osservando i suoi movimenti. 
Mi voltai ad osservare Tony e i suoi occhi lucidi poi tornammo entrambi a vedere lo schermo sorridendo.
- Direi che va tutto bene. Volete sapere il sesso del bambino? - Rispondemmo di sì contemporaneamente. - Bene, allora direi che senza dubbio è una bambina.
Sorrisi e chiusi gli occhi lasciando scendere qualche lacrima fino a che non sentii le labbra di Tony sulle mie ed anche le sue lacrime sul mio volto. Rimase con la fronte appoggiata sulla mia qualche istante, mentre il dottore aveva staccato la macchina e ci aveva lasciato da soli. Appoggiai una mano sulla sua guancia accarezzandolo e lo sentii appoggiarsi di più sulla mia mano, bisognoso di quel contatto. Respirò profondamente, poi si rialzò, mi aiutò a pulirmi e si ricompose anche lui. Il dottore ci aspettava sorridente alla scrivania con due copie dell’ecografia stampata. Ci scusammo, ma lui ci disse che era normale, capitava a molte coppie di farsi sopraffare dall’emozione.

- Ti va di andare a mangiare qualcosa per pranzo? Qui vicino c’è uno dei ristoranti dove lavora Derek - Chiesi a Tony mentre camminavamo tenendoci per mano. Sembrava che avessimo entrambi adesso l’urgenza di essere in contatto.
- Quello che vuoi tu, per me va bene. Hai fame?
- Molta. 
Il ristorante era piuttosto affollato per essere l’ora di pranzo. Tony esagerò nell’ordinare più cibo di quanto ne potessimo mangiare, nonostante la mia molta fame. 
- Nathan sarà felice di sapere che avrà effettivamente una sorellina. - Mi disse con gli occhi che gli brillavano.
- Mi pare che non è l’unico ad essere felice, Tony!
- Sì, sono felice anche io, lo sarei stato comunque, ovviamente, però l’idea di avere una piccola principessina mi rende felicissimo.
- La tua principessa eh? - Gli sorrisi fintamente indispettita
- Sei gelosa Ziva?
- Di lei no - Dissi appoggiando entrambe le mani sulla pancia. - Tony, stavo pensando una cosa…
- Dimmi.
- Vorrei che scegliessi tu il nome. 
- Io? Noi!
- Il nome di Nathan l’ho scelto io, è giusto che il suo lo scegli tu.
- Non dobbiamo compensare nulla Ziva, è nostra figlia, lo scegliamo insieme il nome della nostra principessa.
Gli sorrisi e mi alzai per andare in bagno, lasciandogli un bacio sulle labbra velocemente mentre mi incamminavo alle sue spalle.

Mi sciacquai il viso e mi guardai allo specchio. Mi piaceva quello che vedevo, il mio volto più rilassato e sorridente. Felice. Pensavo che sarebbe andato tutto bene d’ora in poi, per noi, Nathan e la nostra principessa, come la chiamava già Tony.
Ci sono emozioni e sensazioni destinate a durare per sempre. Altre che bruciano velocemente come la fiamma di un fiammifero e finisci per bruciarti le dita. Quando uscii dal bagno e tornai al nostro tavolo quello che vidi era inequivocabile. Una ragazza, mora, molto giovane era piegata su Tony e si stavano baciando. Lei poi alzò lo sguardo e mi vide, sembrò quasi sorridermi. Io mi muovevo incredula verso di loro. Sentii solo le sue ultime parole “Se vuoi rincontrarci chiamami” mentre gli lasciava un biglietto sul tavolo. Mi passò vicino, era una delle cameriere del ristorante riconobbi in quel momento la divisa, fino ad allora non ero riuscita nemmeno a realizzare. Arrivai al tavolo, senza guardare nemmeno Tony presi la borsa ed uscii dal ristorante. Non riuscii a fare molta strada, appena voltato l’angolo mi appoggiai al muro senza riuscire a fare nulla, anche respirare era faticoso.
Tony mi si presentò davanti poco dopo, il suo viso era sconvolto almeno quanto doveva esserlo il mio. Provò a prendermi le mani, ma mi liberai della sua presa con un gesto deciso.
- Non è come sembra Ziva. Non è come sembra.
- Trova una frase più originale Tony.
- Ha fatto tutto lei. Io…
- Vi dovete rincontrare. Vi siete già incontrati? - La mia voce tra gli affanni voleva essere dura ma riuscivo a stento a celare quanto potesse fare male quella situazione
- Sì. All’addio al celibato di McGee
- Perchè Tony? Perchè?
- Ziva, ero ubriaco non mi ricordo assolutamente nulla di quella notte. Mi sono svegliato la mattina dopo a casa di Derek, non mi ricordo niente. Mi hanno detto tutti che ero troppo ubriaco per aver fatto qualsiasi cosa. Lei si strusciava io l’ultima cosa che ricordo è che gli ho detto di non starmi vicino e che ero sposato, ti prego credimi. - Mi stava supplicando
- Potevo pensare qualsiasi cosa, ma non questo Tony. Lo hai fatto per vendicarti?
- Io non avrei mai fatto nulla di quello che tu puoi pensare, mi devi credere!
- Come faccio a crederti se nemmeno tu ti ricordi quello che hai fatto?
- Perchè sono io. Lo sai che non avrei mai potuto. Perchè ti amo.

Quelle poche ore erano state un’isola felice, mi avevano illuso, scaldato il cuore. Ero arrabbiata con lui e con me stessa per averlo allontanato, perchè mi ero convinta che lui ci sarebbe stato comunque ed invece ero stata solo un’illusa ed ora che avevo ammesso a me stessa che quanto mi fosse mancato e quanto avessi bisogno di lui era un dolore lancinante anche solo guardarlo negli occhi.
Mi allontanai da lì, da quel muro, da quella strada e da lui.

 

NOTE: le cose non si sono messe proprio benissimo adesso. Ci sono certi errori che con certe donne è meglio non fare. Un momento di debolezza capita a tutti ed un incontro sbagliato può rovinare quanto appena ricostruito.
Comunque alla fine aveva ragione Nathan è una bambina, almeno di questi siete felici? Ora parte il totonome (io l’ho già deciso)

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Capitolo 8
*** Don't speak ***


… Don't speak 
I know just what you're saying 
So please stop explaining 
Don't tell me 'cause it hurts 
Don't speak 
I know what you're thinking 
I don't need your reasons 
Don't tell me 'cause it hurts   …


Il tempo passa, ti serve solo tempo. Ce la farai.
Me lo ripetevo mentalmente continuamente, come un mantra. Da quando ero scappata via da quella strada e Tony mi sembrava di aver smesso di respirare. 
Avrei voluto correre via, ma le mie gambe erano talmente pesanti che non ce la facevo. Mi sembrava di sostenere un macigno ed era il peso della mia vita pietrificata.
Fermai un taxi e andai a casa. Mandai un messaggio a Tony di prendere Nathan e tenerlo con se quella sera, si sarebbe inventato lui qualche scusa, tanto a mentire era bravo. Avevo bisogno di stare sola. Spensi il telefono e mi misi a letto, chiusi gli occhi, pensavo che avrei pianto ed invece nemmeno una lacrima scese dai miei occhi, non riuscivo nemmeno a sentire dolore, non sentivo niente.
Dormii a lungo. Un sonno scuro, senza sogni, senza incubi. Un sonno non di quelli che rilassano o curano, un sonno vuoto, di quelli che servono solo ad annullarsi. Quando mi svegliai fuori era già notte. Aprii le finestre per far entrare l’aria già più fresca delle notti di fine estate. Passai davanti la camera di Nathan e mi sentii in colpa per aver allontanato anche lui per pensare solo a me stessa, ma che versione di madre potevo dargli adesso? Prima quando stavo male lui era troppo piccolo per accorgersene se piangevo cullandolo mentre lo faceva anche lui. 
La mattina dopo riaccesi il cellulare per avvisare Gibbs che non sarei andata a lavoro. Aspettai l’ora di pranzo e poi andai a prendere Nathan all’asilo.
Passai molto tempo a rispondere alle sue domande sul perchè ieri era stato con il padre altrove e non a casa e perchè io non ero con loro. Le mie scuse sembrarono convincerlo. Trascorremmo il pomeriggio al parco a giocare, godendoci il clima di quelle giornate ancora gradevoli. Avevo chiamato Gael che ci raggiunse lì, così mentre Nathan si scatenava sui gonfiabili avevamo qualche momento per parlare.

- Cosa è successo questa volta Cherie?
- Ho visto Tony baciarsi con un’altra, mentre eravamo insieme al ristorante. - Gli dissi molto calma, fin troppo forse. Gael rimase un attimo interdetto, più dalla mia reazione che dalle parole.
- Per quanto tuo marito possa essere fuori di testa dubito che sia così folle da fare una cosa del genere sapendo che ci sei anche tu. Non fosse altro che per spirito di sopravvivenza, Ziva.
- Gael, non sei spiritoso.
- Non volevo esserlo, era una constatazione. Lui cosa ti ha detto?
- Che è stata lei a baciarlo mentre ero in bagno, ma non è tutto…
- No?
- No. Si erano già visti. All’addio al celibato di Tim. Solo che lui era talmente ubriaco che non si ricorda che cosa ci ha fatto.
- Te lo ha detto lui?
- Sì. Mi ha detto che gli hanno raccontato che non può aver fatto nulla perchè era troppo ubriaco per fare qualsiasi cosa.
- Perchè non gli credi?
- Non cambierà mai. Sarà sempre il solito Tony che fa il cascamorto con la prima donna che gli si struscia addosso. Poco tempo separati ed è successo di nuovo. Cosa devo pensare, che ogni volta che potremmo litigare lui uscirà, si ubriacherà ed andrà con la prima ragazza disponibile?
- Beh, magari se ogni volta che discutete tu non lo sbatti fuori casa, è più facile che non succeda.
- È colpa mia Gael?
- No, ma non è “la prima volta che litigate”, è qualcosa di più. E tu, come sempre, non dai tempo di spiegare, trai le tue conclusioni e emetti una sentenza. Come quando gli hai telefonato e ti ha risposto quella. Tu hai dato per scontato che la sua vita fosse un’altra e hai agito. Ora stai facendo la stessa cosa. Perchè sei insicura, ecco perchè.

Rimasi in silenzio. Gael faceva la sua paternale ed io la dovevo accettare. Lo avevo chiamato io, forse mi aspettavo quelle parole, forse avevo bisogno di qualcuno che me le dicesse. Però facevano male.

- Io mi fidavo di Tony, credevo veramente che lui non mi avrebbe mai tradita.
- E probabilmente non l’ha fatto, Ziva. Però ti fa più comodo crederlo, così ti dai un pretesto per allontanarlo di nuovo. Come fai sempre. Non sei sicura di Tony o di te stessa?
- Non girare le cose Gael.
- Non lo sto facendo, ma il tuo atteggiamento mi fa arrabbiare. Avete un figlio, un altro in arrivo, avete tutto per essere felici e te ne privi per le tue paranoie.
- È femmina, sai? Lo avevamo appena saputo.
- Sei contenta?
- Sì, per me sarebbe stato indifferente, Tony e Nathan, invece volevano una bambina.
- Glielo hai già detto a Nathan? 
- Ancora no… Non so se lo ha fatto Tony, ieri è stato con lui, volevo stare sola.
- Non va bene questo Ziva, non puoi allontanare anche lui.
- Lo so. - Mi alzai ed andai da lui che voleva uscire e doveva rimettersi le scarpe. Lo presi in braccio portandolo con me sulla panchina. Gael ci guardava e non diceva nulla, mentre Nathan come sempre più spesso faceva, passava le manine sulla mia pancia. 
- A chi va un gelato? - Chiese Gael alzandosi ed ovviamente mio figlio non si tirò indietro, così il mio amico si allontanò per andarli a prendere al chiosco lasciandoci un po’ da soli.

- Ieri abbiamo fatto un’altra foto alla tua sorellina, lo sai?
Lui annuì 
- Te l’ha fatta vedere papà? 
Annuì di nuovo
- E sei contento?
Fece di sì con la testa mentre si appoggiava al mio petto continuando a tenere le mani sulla pancia.
- Mamma, ha detto papà che è la nostra principessina. 
- Sì, lo è. Ma tu rimarrai sempre il mio principe, capito? Sempre Nathan, non te lo dimenticare.
- Mamma, ma tu non vuoi più bene a papà? - La voce di Nathan era tremolante, tipico di quando sta per piangere. Mi sentivo tremendamente in colpa, in meno di un anno avevo sconvolto la sua vita talmente tante volte che non riuscivo più a contarle, e lo facevo ancora.
- Sì, voglio sempre bene al tuo papà, ma ora le cose sono difficili, come quando noi eravamo a Tel Aviv e lui combatteva i cattivi.
- Torniamo a Tel Aviv? A casa nostra?
- No, Nathan, rimaniamo qua. Questa ora è casa nostra. Papà sta qui, tu lo puoi vedere.
Non mi rispondeva e teneva lo sguardo basso. Gael da lontano mi chiedeva cosa fare, se prendere i gelati o no, gli feci cenno di sì.
- Piccolo, cosa c’è? Vuoi tornare a Tel Aviv? - Gli feci quella domanda con terrore. Non sapevo se mi avesse detto di sì cosa avrei deciso. Avrei dovuto fare la cosa migliore per i miei figli. Per entrambi e non avevo idea di cosa fosse.
- No. Tutti insieme a casa, con papà.
- Questo non lo possiamo fare ora Nathan. Ma non cambia nulla.
- Invece sì! 
Gael tornò in quel momento con una coppetta di gelato per ognuno di noi, tutti al cioccolato con tanta panna, ma Nathan non lo voleva nemmeno mangiare e lui non era solito nè fare i capricci nè soprattutto rifiutare il gelato.
- Perchè non vuoi mangiare il gelato?
- Perchè no.
- Lo sai che non è una risposta. 
- Voglio che me lo compra papà. 
- Amore, te l’ho già detto, papà non c’è adesso. 
- No. È colpa tua e colpa sua. - Disse indicando la mia pancia e in quel momento sarei voluta sprofondare. Dissi a Gael se ci poteva lasciare soli e lui se ne andò salutando Nathan che non lo considerò nemmeno.
- Nathan non è così. 
- Sì. Papà è andato via per colpa tua e sua.
- Chi ti ha detto questo? Papà?

Nathan fece cenno di no con la testa e gli chiesi più volte se era sicuro, ma negò sempre. Percepivo l’ostilità di Nathan ed era una cosa del tutto nuova. Sembrava non volesse comunicare con me in nessun modo rifiutava adesso anche di stare in braccio. Era sceso e si era seduto vicino a me sulla panchina, buttando il gelato a terra. Lo sgridai, perchè non potevo fare finta di nulla e lui alzò ancora di più il suo muro. Tornammo a casa e non disse più una parola. Lo lasciai tranquillo sperando che si calmasse, ma quando era già passata da un po’ l’ora di cena e continuava a rimanere chiuso in se stesso senza giocare nè mangiare seduto in camera sua, mi lasciai da parte il mio orgoglio e chiamai Tony.

 

—————————————————————————

 

Quello che avevo potuto constatare in quelle settimane è che dopo il cambio di gestione, il locale sotto casa che faceva cibo d’asporto era nettamente peggiorato, oppure quello vicino casa nostra era decisamente migliore e mi ero abituato male. Ma, molto più facilmente, in quella casa mi faceva schifo un po’ tutto, a cominciare da me stesso. Le avevo giurato che ero cambiato, che per lei avrei cambiato la mia vita. Glielo avevo detto a Tel Aviv quattro anni prima, glielo avevo ripetuto l’anno scorso e l’avevo convinta. Alla prima occasione le avevo dimostrato il contrario. Avevo tradito la sua fiducia, prima di aver tradito mia moglie ed era la cosa peggiore. Quando tutto sembrava andare per il verso giusto avevo distrutto tutto, tirato un sasso sullo specchio della nostra felicità e mandata in mille pezzi, come mi sentivo io.
Sapevo che non mi avrebbe dato modo di spiegare, che ogni discussione sarebbe stata inutile anzi che non ci sarebbe proprio stata. So che per lei il problema non era se ero stato a letto o meno con quella ragazza, il tradimento che le faceva male era un altro: quello della sua fiducia, quello che il Di Nozzo da una botta e via non esisteva più, che nella mia vita c’era solo lei e che io alla mia età ero finalmente cresciuto, ero diventato un uomo affidabile, non un ragazzo idiota che per una delusione si butta nell’alcool prima e tra le braccia di una ragazza facile subito dopo. Non ero stato nulla di tutto quello che avevo promesso di essere e non avevo nemmeno combattuto per noi, facendole capire quando non volessi perderla. Ero rimasto passivo alle sue decisioni dandole anche l’impressione che non valesse la pena lottare per lei e per la nostra famiglia. Ero stato un vigliacco, su tutti i fronti, l’avevo accusata di avere paura di essere felice e di chiudersi perchè si sentiva ferita ed avevo fatto lo stesso. Anzi, avevo fatto peggio.

Quando risposi al telefono non ci fu spazio per i convenevoli, Ziva venne subito al sodo: “Devi venire a casa si tratta di Nathan”. Mi si gelò il sangue, ma lei mi tranquillizzò dicendo che stava bene e non era accaduto nulla.
Presi le chiavi al volo ed uscii direttamente con la tuta senza perdere nemmeno un secondo.

- Allora, che succede? - Le chiesi appena entrato in casa
- Diciamo che io e tuo figlio abbiamo discusso per causa tua - mi rispose ironica ma non troppo
- Cioè?
- Dice che è colpa mia e della sua sorellina se tu te ne sei andato.
- Tecnicamente, almeno sulla prima parte ha ragione, no?
- Tony per favore… E’ in camera sua, non gioca, non mangia, non parla. Niente. Da oggi pomeriggio. Può anche essere arrabbiato con me, ma non voglio che pensi che sia colpa sua. - Dissi portando una mano sulla pancia.
- No, certo Ziva… Non deve pensarlo di nessuna di voi due.
Mentre stavamo parando, probabilmente aveva sentito la mia voce ed arrivò correndo chiamandomi. Si buttò letteralmente tra le mie braccia e si fece sollevare.  
Ziva provò a parlargli ma lui si voltò dall’altra parte, lo rimisi a terra dicendogli di aspettarmi in camera che andavo a giocare con lui. 
- Tony, lo so che è tardi, ma puoi rimanere con lui per qualche ora? Dovresti anche farlo mangiare se ci riesci, sul tavolo c’è il suo piatto.
- Tu hai mangiato?
- No, mi si è chiuso lo stomaco. - Stavo per dirle che doveva farlo anche lei, ma mi bloccò prima che aprissi bocca. - Per favore non dire nulla.
- Da quanto non mangi?
- Ho mangiato un gelato al parco.
- Dove devi andare?
- Tony, non ti riguarda. - Rispose secca
- Credo di sì, visto che porti dietro anche mia figlia - risposi sarcastico.
- Non è divertente Tony, per niente.
- Scusa ho esagerato
- Già a quanto pare ti capita spesso.
Uscì e rimasi a casa da solo con Nathan con molti discorsi da fargli e pochissima voglia di stressarlo ulteriormente. Così portai il piatto della sua cena in camera, per farlo mangiare mentre giocavano


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La porta come sempre era aperta. Entrai e scesi le scale per lo scantinato. Mi fermai dopo appena pochi scalini. L’odore di legno, colla e coppale aveva saturato tutta l’aria dell’ambiente che feci fatica ad abituarmi. Lui mi aveva sicuramente sentito ma fece finta di nulla, continuando a scartavetrare quello che sembrava il pezzo di un’asse dello scafo.
- Puoi anche scendere da lì, non penso che stanotte qualcuno voglia uccidermi, Ziva. - Mi parlò senza voltarsi
- Sono disarmata Gibbs, non potrei salvarti la vita oggi.
- Perchè sei qui? - Disse mentre buttava via la carta vetrata e pulendosi le mani con una pezza.
- Ti devo parlare - risposi scendendo le scale fino ad arrivare davanti a lui. Mi indicò uno sgabello in un angolo, lo presi e mi sedetti vicino a lui che ne aveva preso un altro.
- Di cosa? 
- Di me. 
Svuotò un barattolo e si versò del bourbon scusandosi perchè lì non aveva nulla di analcolico da darmi.
- La situazione con Tony è molto difficile Gibbs. Mi ha tradita. Non so se lo ha fatto letteralmente, non lo sa nemmeno lui a dire il vero, ma ha tradito la mia fiducia e si è baciato con una donna mentre eravamo a pranzo insieme. Avevamo appena rimesso insieme i pezzi del nostro rapporto, deciso di darci un’altra possibilità dopo che avevamo saputo della nostra bambina. Vado in bagno e quando esco lo trovo che si sta baciando con una di poco più di vent’anni che gli dice che lo vuole rivedere. Lo sai come mi sono sentita Gibbs? Mi sono sentita niente. - Non potei fermare le lacrime che uscivano incontrollate mentre lui scolò tutto d’un fiato il suo liquore e poi mi venne ad abbracciare. Avevo bisogno di quell’abbraccio.
- Andiamo su, l’aria qua sotto è troppo intrisa di robaccia, vi fa male.
Salimmo in casa e mi fece sedere sul divano. Aspetta che mi calmo e poi riprendiamo a parlare. Ora avevo ripreso il controllo di me stessa e conversammo senza che mi lasciassi vincere di nuovo dalle emozioni.
- Cosa ti aspetti che ti dica, Ziva?
- Non lo so, non mi aspettavo niente Gibbs.
- Sono deluso. Molto. Vi state comportando come due bambini e tra poco due bambini, invece li avrete. Non avrei mai pensato che voi due arrivaste a questo punto, nonostante conoscessi i vostri caratteri.
- Io lo amo Gibbs, ma mi sento ferita. Come donna e come moglie. Non riesco a fidarmi di lui.
- Questa cosa me l’hai già detta, anni fa. Poi lo sai come è andata.
- È diverso.
- No Ziva, è uguale. Tu hai tratto le tue conclusioni senza sapere e senza credere a quello che ti veniva detto. Hai dato più importanza ad un fatto che a lui. Come adesso.
- Non posso lavorare con lui Gibbs.
- Ziva, il lavoro, adesso, è l’ultimo dei tuoi problemi o almeno dovrebbe.
- Ma è uno dei problemi. Non posso farlo.
- Mi vuoi mettere nella condizione di scegliere?
- No, so già come sceglieresti e faresti bene. Per questo ti chiedo di trovarmi un’altra squadra e se nel frattempo posso rimanere a casa.
- Se è questo quello che vuoi.
- È quello che è meglio per tutti adesso.
- Il caso Rivkin rimarrà a noi.
- Ma…
- Niente “ma” Ziva. Allora? 
- D’accordo. 
Mi alzai per tornare a casa. Gibbs mi salutò con un bacio sulla fronte, come suo solito.
- Sai Gibbs, - gli dissi mentre uscivo - pensavo che mi avessi rinfacciato la regola numero 12.
- Voi non avete una storia, avete una famiglia. Se mi dici questo, evidentemente non hai capito la differenza e tutto quello che comporta.

 

 

NOTE: Iniziano anche i problemi con Nathan che ovviamente risente dell’atteggiamento altalenante dei genitori e per la prima volta è Ziva ad essere rifiutata da suo figlio che in più da la colpa anche alla sorellina che tanto voleva… Cambiamenti in vista anche al lavoro, saranno un bene o un male?

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Capitolo 9
*** Sacrifice ***


…  And it’s no sacrifice 
just a simple word 
It’s two hearts living 
in two separate worlds    …

 

Gibbs mi aveva mandato fuori città per qualche giorno, un'azione congiunta con la squadra di Los Angeles per una soffiafa su Rivkin dalle parti loro. Cinque giorni di ricerche ma lui era ancora un fantasma, avevamo però catturato uno dei suoi uomini di collegamento ma farlo parlare era impossibile. Avrei voluto che Ziva lo avesse potuto interrogare con i suoi metodi, magari avremmo ottenuto qualcosa. Rimase, invece, in custodia a Los Angeles ed io tornai a Washington con un pugno di mosche in mano e molta delusione su tutti i fronti.
Non l'avevo più sentita, quando chiamavo faceva rispondere direttamente Nathan così che potessi parlare con lui. Ogni volta era una pugnalata, perchè la sua voce era spenta e triste e la colpa era solo nostra.
Appena atterrato presi un taxi ed andai a casa da loro. 

- Tony cosa ci fai qui? - Ziva aprì la porta e mi guardò glaciale.
- Sono venuto per vedere mio figlio, posso? - Il tono della mia voce era gelido al pari del suo. Il dispiacere lasciava sempre più posto alla rabbia. Per le sue reazioni, per quella decisione netta, per quello che stavamo facendo passare a nostro figlio. Nathan arrivò correndo aveva sentito la mia voce dall'altra stanza. 
- Resti? - mi chiese speranzoso, ma prima che potessi rispondere Ziva intervenne dicendo che dovevo andare via per lavoro. Sentii una rabbia nei suoi confronti come forse mai l'avevo provata. Mi spaventavano questi sentimenti così estremi, non sapevo da dove venivano. Coscientemente avrei voluto tutt'altro per noi ma come la vedevo e sentivo quella barriera tra noi tutta la rabbia usciva fuori e dovevo contenermi per non esplodere. 
Così me ne andai dopo averlo salutato ed aver sentito il suo pianto fuori dalla porta. Capivo che la rabbia che provavo era tutta motivata al sapere che Nathan stava soffrendo per i nostri sbagli, dei quali mi prendevo la responsabilità ben sapendo, però, che non era tutta mia come Ziva voleva farmi pesare.
Ero convinto che avrei combattuto per far sì che le cose funzionassero, ma non vedevo appigli. Non sapevo nemmeno come avremmo fatto a continuare a lavorare insieme adesso.

Arrivai in ufficio la mattina seguente con un gran mal di testa dovuto al fuso orario e alla notte passata in bianco. Tim era ancora in luna di miele e c’era solo Bishop.
- Dove sono tutti? - Le chiesi mentre buttavo lo zaino a terra e accendevo il pc per controllare le mail
- Beh, Tim dovrebbe essere ancora in Europa con sua moglie e Gibbs è da Vance.
- E Ziva? - Non faceva mai ritardo, non sarebbe più andata in missione fuori. Se non era lì vuol dire che c’era stato qualche contrattempo. Ellie non mi rispondeva, era visibilmente a disagio.
- Ehm… Tony, non lo sai?
- Sapere cosa?
- Ziva non lavora più con noi. E’ in un’altra squadra, da tre giorni.
- Cosa?
- Lo ha chiesto lei a Gibbs, è in una nuova squadra che dipende direttamente da Vance.
Imprecai mentalmente. Ok, anche io non sapevo come avremmo fatto a lavorare insieme, ma non mi era mai passato per la mente di andarmene per non vederla o pensare che se ne dovesse andare lei. Eravamo adulti e professionisti entrambi, bravi nel nostro lavoro, avremmo trovato un modo per lavorare insieme. Oppure no.
Guardai la foto di Rivkin tra quelle dei ricercati e rividi suo fratello. Anche allora era scappata per non lavorare con me, aveva perso la fiducia, aveva detto. Evidentemente era di nuovo così, non si fidava di me e senza fiducia lei non poteva lavorare, me lo aveva detto. Era chiaro che però la storia non le aveva insegnato nulla, che ancora, nonostante tutto, non mi conosceva o voleva far finta di non farlo. Non l’avrei mai tradita, in nessun modo, ma lei non voleva capirlo.

La vidi passare poco dopo, usciva da un ufficio sul retro e saliva le scale per andare da Vance. Mi stavo per alzare quando arrivò Gibbs a bloccarmi.
- Non sono affari che ti riguardano, Tony. Se dovete parlare di altro lo fate fuori da qui.
Non replicai. Il messaggio era arrivato forte e chiaro per non essere compreso. 
Il resto di quella settimana la passai a logorarmi nella rabbia e nella finzione di far vedere a Nathan che andava tutto bene quando la sera lo passavo a prendere all’asilo per passare un po’ di tempo con lui. I rientri a casa però erano sempre più difficili e meno gestibili. 
- Siamo adulti, sarebbe il caso che ci comportassimo come tali. - Le dissi una sera dopo che come al solito Nathan era scappato in camera sua.
- Non è facile nemmeno per me Tony. Per nostro figlio ormai la cattiva sono io - Disse più triste che arrabbiata.
- Come stai, a parte questo, intendo. - Nonostante tutto non ce la facevo a vederla così. Il volto era tirato e lo vedevo che non era tranquilla, come poteva esserlo. Questo sicuramente non faceva bene nè a lei nè alla bambina.
- È tutto apposto. Stiamo bene tutte e due. 
- Bene, almeno questo. 
- Senti Tony, sto male per quello che pensa Nathan di me, ma al momento non importa, capirà. Però quando stai con lui, per favore, parlaci e fagli capire che non è colpa sua, lei non c’entra nulla in tutta questa storia. - Ziva chiuse entrambe le mani sul suo ventre come a voler proteggere la nostra bambina da quello che stava accadendo. Era improvvisamente fragile e vederla così era difficile e faceva sgretolare tutta la mia rabbia che diventava di nuovo dolore e tristezza.
- Te lo prometto, lo farò. Domani mattina vengo a prendere Nathan, lo porto allo zoo, gli era piaciuto. Non è un problema vero?
- No, va bene. 
- Dopo pranzo lo riporto.
- Certo, non ti preoccupare.
- Bene. 
- Bene. Buonanotte Tony
- Buonanotte Ziva.

C’erano solo conversazioni cariche di imbarazzo, ma non quello elettrizzante di quando non sapevamo ancora cosa eravamo, quando ci amavamo in silenzio solo nei nostri cuori. Queste erano imbarazzate per quello che eravamo diventati. C’era la vergogna nel parlarci a pochi mesi dal matrimonio come una coppia logorata da anni di menzogne e tradimenti. C’era da parte mia quel profondo disagio nel vedere la sua pancia che cresceva e non essere presente come avrei voluto e come sapevo che in fondo avrebbe voluto anche lei. Non erano parole finte quelle che mi aveva detto, erano vere come le sue paure, ma ora erano nascoste dietro i muri costruiti con i mattoni degli errori fatti da entrambi, solidificati con i silenzi e sorvegliati dalla paura di farci male o di perderci più di quanto non eravamo già persi.

La giornata allo zoo inizialmente fu un fallimento totale, su tutta la linea. Nathan non solo non si divertiva, era proprio triste. 
- La mamma non è nè gorilla nè leone. - Mi disse mentre passeggiavamo da una zona all’altra cercando qualcosa che lo interessasse, senza successo. Era la prima volta da quella mattina che parlava di sua spontanea volontà. Lo presi in braccio e ci andammo a sedere su una panchina vicino alla zona dei leoni, li osservavamo, quei cuccioli che pochi mesi prima erano molto piccoli erano già visibilmente cresciuti.
- Perchè Nathan dici questo? La mamma ti protegge sempre, proprio come la leonessa e ti coccola come il gorilla. Ti vuole un bene enorme.
- Non è vero.
- Certo che è vero! Tantissimo, me lo ha detto anche ieri sera, tanto così! - Dissi aprendo tutte e due le braccia.
- Perchè non sei a casa?
- Sto facendo una cosa molto complicata a lavoro e non posso essere a casa, ma vedi quando posso vengo da te. 
- Però mamma non c’è mai. Lei ha ruggito contro di te come la leonessa?
- Un po’ sì. Ma non è colpa sua.
- Tua?
- Sono cose che alcune volte capitano tra mamma e papà.
- È colpa della sorellina?
- Nathan, questo non lo devi mai dire, ok? La tua sorellina non c’entra nulla.
- Ma…
- Nathan, niente ma. Anzi, adesso mi devi promettere una cosa, ok?
- Ok
- Quando non ci sono sei tu l’ometto di casa. Quindi devi essere tu a controllare che mamma e la sorellina stiano sempre bene. E se ti sembra che c’è qualcosa che non va, che mamma non sta bene, tu prendi il suo telefono e mi chiami, lo sai come si fa, vero?

Annuì con la testa, tirò su le spalle sentendosi responsabilizzato. Era ormai quasi ora di pranzo, mangiammo un hot dog e poi tornammo a casa, anche perchè aveva cominciato a piovere.
Quando Ziva ci aprì la porta subito andò a cercare con lo sguardo Nathan che si nascondeva dietro le mie gambe. Lo spronai ad andare verso la mamma e quando lei si piegò verso di lui corse ad abbracciarla. Me ne andai salutandola in silenzio, lasciandoli abbracciati. Avevano bisogno di un po’ di tempo per loro, era una situazione che mi sembrava paradossale visto il rapporto che avevano sempre avuto e quella scena mi ricordò terribilmente quella di pochi mesi prima in aeroporto di ritorno da Tel Aviv. Anche lì rimasi indietro lasciando loro tutto il tempo di cui avevano bisogno. Ora era tutto diverso, tutto più difficile.

 

————————————————

 

Ci sono alcuni momenti che non si possono dimenticare. La prima volta che me lo appoggiarono sul petto appena nato, quando era fuori pericolo e potei portarlo a casa, l’abbraccio in aeroporto… Quello sicuramente era uno di quei momenti. Lo avevo visto fino a poche ore prima, non eravamo stati separati, lui non era in pericolo eppure c’era stata una divisione ancora più forte, quella emotiva. Per la prima volta da quando era nato Nathan era stato distante ed anche ostile. Non ero abituata. Fisicamente e mentalmente. Il contatto continuo con lui, i suoi abbracci le sue carezze erano la cosa che riusciva a calmarmi di più, che mi dava tranquillità. In questo era come suo padre, forse era una cosa genetica che avevano loro, qualcosa di chimico. Sarei dovuta essere io che calmavo lui le notti che non riusciva a dormire ed invece in quegli anni era spesso successo il contrario senza che lui lo sapesse. Era la mia forza mentale, quella che mi aveva sempre spinto, nonostante tutto ad andare avanti e non arrendermi. Forse era un carico troppo grande che un bambino così piccolo doveva sostenere. Mi sono trovata a pensare che lo avevo tenuto anche distante per leccarmi le ferite, per pensare al mio dolore. Era stato meschino e crudele e mi ero meritata la sua indifferenza ed il suo risentimento.
Andammo sul divano, come non avevamo più fatto da troppo tempo, e si sdraiò vicino a me, con la testa sul mio petto ed una mano ad accarezzare il mio ventre. Non era più arrabbiato nemmeno con lei, e questa era la cosa più importante.
- Sta crescendo la tua sorellina.
- Papà dice che devo essere io pensare a te e lei.
- Se lo dice papà allora va bene.
Aveva preso molto seriamente le parole di Tony a quanto pare.
- Ti sei divertito oggi?
- Così così
- Perchè?
- Non c’eri tu.
Mandai un messaggio a Tony, gli diedi appuntamento per la mattina successiva all’asilo, per parlare di nostro figlio. Dovevamo necessariamente parlare ed evitare di farlo in ufficio.

Quando la mattina successiva davanti all’entrata vide suo padre, Nathan fu felicissimo, soprattutto perchè decidemmo di accompagnarlo dentro insieme. Gli saltò subito in braccio e Tony si avvicinò salutandomi con un innocente bacio sulla guancia. Era il primo contatto da quel giorno al ristorante. Nathan ne fu felicissimo, per lui fu una sorta di ritorno alla normalità. Per noi lo fu molto meno. Sentivo bruciare la pelle dove aveva appoggiato le sue labbra, con un desiderio di allontanarlo e di averlo sempre di più che era impossibile da conciliare.

- Scusami per prima, l’ho fatto per Nathan - mi disse una volta rimasti soli
- Non ti devi scusare Tony, non penso che siamo al punto che non possiamo nemmeno salutarci
- Spero di no Ziva.
- Lo spero anche io. Grazie per quello che hai detto a Nathan.
- Figurati, voglio solo che sia felice e stia bene.
- Lo voglio anche io. Per questo ho voluto parlarti. Sta soffrendo per colpa nostra.
- Lo so, Ziva, lo so.
- Se per te va bene, penso che dovremmo cercare di avere un rapporto diverso. Riuscire almeno per lui ad avere un comportamento più maturo. Lui vorrebbe vederci insieme.
- Lo ha detto anche a me. Cosa vuoi fare?
- Pensavo che potremmo uscire insieme qualche volta, noi tre. Penso che sarebbe felice.
- Lo sarà sicuramente e lo sarei anche io.
- Perfetto allora Tony. Quando sei libero ci organizziamo allora.
- Certo Ziva.
Ci guardavamo imbarazzati, avremmo dovuto salutarci, ma nessuno lo faceva. Avremmo potuto andare in ufficio insieme ma nessuno si incamminava.
- Ziva… Perchè hai cambiato squadra?
- Non sono venuta per parlare di lavoro.
- Ti prego Ziva… Stai attenta.
- Non vado fuori. Lavoro in ufficio, come stabilito.
- Perchè lo hai fatto?
- Lo sai perchè Tony.
- Non ti fidi di me. Non puoi lavorare con chi non ti fidi.
- Esatto.
- Lo hai già fatto una volta. Sai com’è finita.
- Le cose non sempre si ripetono Tony.
- Eppure per te sembra che sia così. Perchè non ti fidi di quello che ti ho detto?
- Perchè ne dobbiamo riparlare Tony? Perchè adesso?
- Perchè tutto alcune volte mi sembra ancora fermo lì. Sono passati quanti anni Ziva? Eppure ancora non ti fidi di me. In nessun senso. Mi vedi come il partner inaffidabile, il marito traditore. Non sono questo. Speravo lo avessi capito.
- Non è così semplice Tony. Prova a metterti nei miei panni. Cosa avresti fatto al posto mio?
- A te nulla. A lui non so… 
- Gli avresti sparato, forse.
- Forse. Ma non puoi mettere in dubbio il fatto che io ti ami, veramente.
- Questo non l’ho mai fatto. Ma mi devo fidare di mio marito. Devo sapere che non si va ad ubriacare in giro e passa la notte con la prima donna che gli si struscia addosso.
- Non ho fatto nulla Ziva. Nulla. Parla con Derek fattelo dire anche da lui.
- Non funziona così Tony.
- E come funziona Ziva?
- Al momento non funziona.

Me ne stavo andando, incamminandomi verso il palazzo dell’NCIS. Tony era rimasto indietro fermo, inchiodato dalle mie parole. Mi mancava, ero arrabbiatissima e delusa ma mi mancava. Ma ogni volta che pensavo a lui in quel ristorante non riuscivo più ad essere obiettiva e tutto quel dolore che mi aveva attanagliato in quel momento, lo smarrimento ed il senso di disagio tornavano vividi nella mia mente ed offuscavano tutto il resto, nascondendolo nel luogo più lontano del mio cuore facendo vincere tutta la razionalità.
Sentii i suoi passi rapidi, raggiungermi, camminava qualche passo dietro di me, rallentando il suo ritmo per adeguarsi al mio. Mi prese un braccio facendomi girare.
Mi guardò negli occhi e mi persi in quegli occhi verdi da bambino impaurito. Appoggiai la fronte sulla sua spalla. 
- Mi dispiace Ziva. Cosa devo fare per fartelo capire? Stava andando tutto bene in quel giorno… Volevo veramente che tutto tornasse come prima credimi.
- Lo volevo anche io Tony, ma non ce la faccio ora. - Non riuscivo a guardarlo negli occhi, rimasi con la testa sulla sua spalla ed ispirare il suo profumo era come aver del fuoco nella gola della mia razionalità. Sapevo che se lo avessi fatto sarebbe stato impossibile in quel momento dirgli certe cose.
- Che ne dici di Sarah? - Mi chiese e mi prese alla sprovvista con quella domanda che non capivo chi fosse Sarah nè a cosa si riferisse.
- Chi è Sarah?
- Sarah è… un bel nome… vuol dire principessa, no?
- Sì Tony… vuol dire principessa.
- Ti piace?
- È perfetto.


NOTE: Innanzi tutto mi scuso per i tempi e vi avviso che probabilmente prossimamente non riuscirò ad aggiornare più di una volta a settimana. Come avevo già detto questa storia non è pronta, la sto scrivendo e vorrei cercare di non banalizzarla.
Un po' di annotazioni: 
- Il capitolo si chiama Sacrifice, ma come avete letto non c'è niente di tragico. E' solo il titolo di una canzone che parla della separazione di una famiglia. 
- Sì, Ziva ha cambiato squadra.
- No, la figlia non si chiamerà Tali. Lo avevo già deciso da prima del finale di stagione. Scelgo sempre dei nomi che abbiano un senso con la mia storia e Sarah lo aveva così com Nathan.
- Le cose non sempre sono come sembrano. Interpretatelo come volete questo.

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Capitolo 10
*** Precious ***


… Precious and fragile things
need special handling
My God what have we done to you?
Things get damaged
Things get broken
I thought we'd manage but words left unspoken
Left us so brittle
there was so little left to give   …

 

Rimasi tra le sue braccia pregando i miei ormoni di non farmi crollare proprio in quel momento. Quando avevo sentito quel nome tutto avrei pensato tranne che stesse parlando del nome che voleva dare a nostra figlia. Non ci avevo più pensato, o meglio non avevo più voluto pensarci. Invece lui alla prima occasione nella quale eravamo insieme da persone civili lo aveva tirato fuori così ed era stata un’ennesima esplosione di sentimenti contrastanti. 
Avevamo appena deciso il nome di nostra figlia nel parcheggio dell’asilo, quando stavamo per discutere ancora, facendo uno di quei discorsi da genitori divorziati che si organizzano per vedere i figli. E stavo per piangere sulla sua spalla per questo.
Tony era rimasto immobile, sorpreso probabilmente del mio gesto così in controtendenza con tutto quello che avevo fatto fino a poco prima. Chissà se lo aveva capito che stargli vicino era difficile proprio per questo. Minava continuamente le mie certezze e la mia volontà.
Poi ruppe gli indugi. Le sue braccia si strinsero a me facendomi stringere gli occhi ancora di più per ricacciare indietro le lacrime, inspirai profondamente il suo profumo, come a voler prendere una boccata d’ossigeno prima di andare in apnea. Sapevo cosa era l’apnea, era la sua assenza. Mi feci coccolare solo qualche istante dalle sue braccia poi mi ridestai e lo allontanai.
Eravamo di nuovo ad una distanza di sicurezza, non abbastanza per non cadere di nuovo, ma sufficiente per non lasciarmi andare.

- Non possiamo Tony.
- No, non vuoi, Ziva. È diverso.
- Forse è così.
- Però mi hai appena dato un motivo.
- Per cosa?
- Per provarci, fino alla fine.

Cambiò direzione. Non so che giro facesse per andare in ufficio, di sicuro uno che non prevedesse di camminare fino a lì fianco a fianco. Non sarebbe stato possibile adesso. Rimasi ferma vedendolo allontanare, poi lo chiamai.

- Tony! - Lui si fermò e si voltò - Sarah è perfetto. - Gli dissi ancora.
- È la nostra principessa. - Mi fece un sorriso forzato e riprese a camminare nella direzione opposta alla mia.

Quel giorno sarebbe tornato il mio nuovo caposquadra. Era stato via tutta la settimana precedente per un’azione congiunta con una squadra in Luisiana per controllare una nave cargo proveniente dal Corno d’Africa che sospettavano portasse materiale per dei gruppi terroristici. Riuscirono a bloccare il carico, non a catturare i destinatari. Un successo a metà.

Nicholas Glover, 45 anni. Marines fino a pochi anni fa, impegnato nelle guerre in Afghanistan e Iraq, pluridecorato. Uno da prima linea, sempre. A vederlo sembrava ancora un marines, con i capelli quasi rasati, il pizzetto curato, alto con muscoli fin troppo definiti. Che fosse un tipo che si piaceva mi parve evidente dal primo sguardo e da quella maglietta nera eccessivamente aderente che metteva in risalto la muscolatura. La pistola sul fianco era sempre in vista, così come si notava perfettamente il pugnale legato sulla caviglia di quei pantaloni troppo stretti che ne avrebbero reso difficile l’estrazione. Mossa azzardata, pensai, la sua vanità lo aveva portato a considerare prima l’estetica che la praticità nell’azione. Doveva essere un vezzo portarlo così, non una vera necessità, altrimenti lo avrebbe messo in modo da poterlo prendere facilmente. Voleva affascinare facendo il duro e mi venne da ridere.

Il mio sorriso solitario non gli sfuggì mentre entrò nella stanza della mia nuova squadra.
- Ziva David… Ma che piacere averti qui con noi.
- Non mi pare che ci conosciamo signore - tentai di mantenere un tono professionale e distaccato
- Qui non c’è nessun signore, se non quello che sta lassù. Nick o Glover, come ti pare. Ma non signore nè Nicholas. Nicholas è mio padre.
- Va bene allora, Glover.
- La tua fama ti precede Ziva David, anche se adesso da quello che vedo dovrò fare a meno delle tue abilità sul campo, purtroppo.
- Ho altre abilità - gli dissi senza alcun intento malizioso, ma per lui non fu così dal sorriso beffardo che mi riservò
- Oh non ne dubito, Ziva. Magari prima o poi me le mostrerai.
- Certamente e spero che le sue aspettative saranno soddisfatte
Voleva giocare e provocare? Non era certo un problema, non era nè i primo nè l’ultimo uomo che provava a mettermi a disagio con conversazioni del genere, probabilmente mi conosceva meno di quanto pensava o si sopravvalutava.
- Ti hanno già detto cosa devi fare?
- Sì, controllare i movimenti del gruppo di Zain Thaqan tra la Somalia e gli Stati Uniti.
- Bene… Bel posto la Somalia, vero Ziva? - Mi chiese sarcastico.
-  Sicuramente un posto dove non tutti sono in grado di sopravvivere. - Gli risposi tagliando corto
- Mi hanno raccontato che è stata una bella missione di recupero. Mi sarebbe piaciuto partecipare per far fuori un po’ di feccia.
- Chissà, forse con un’altra squadra non avrebbe avuto lo stesso successo - Era ancora un nervo scoperto la Somalia, per tutto quello che era successo prima, durante e dopo.
- Sarà meglio che cominci presto a fidarti della tua nuova squadra Ziva, potrebbe accadere di nuovo che debba venirti a salvare il culo e sarebbe sgradevole se non la ritenessi all’altezza - disse sprezzante prima di andarsene verso la sua scrivania, per fortuna lontana dalla mia. Sarebbe stato più difficile di quanto potessi pensare. L’ambiente familiare della mia, anzi di quella che era la mia squadra mi mancava. Quel non essere solo colleghi ma amici, una famiglia. Avevo scelto io di cambiare, non potevo recriminare. I rapporti nella squadra di Glover erano solo strettamente professionali. Saluto alla mattina, alla sera, comunicazioni di lavoro. 
A metà mattina dovetti uscire, mi sentivo oltremodo stanca e la conversazione su Glover sulla Somalia mi aveva tormentata molto più di quanto volessi ammettere. Ripercorrevo con la mente quei mesi nelle mani degli uomini di Saleem e pensavo a cosa mi aveva tenuto in vita e fatto resistere tutto quel tempo, ripensavo alla follia di Tony e McGee di farsi catturare solo per vendicarmi e le parole di Tony nonostante fossi stata così dura con lui.
Ed ora avevo fatto la stessa cosa, me ne ero andata perchè avevo detto che non potevo fidarmi di lui.

Andai nella zona relax. Mi girava la testa ed avevo bisogno di qualcosa di dolce.
- Tutto bene Ziva? 
Lisa Cooper era in tutta la squadra l’unica persona con la quale era possibile interagire a livello umano. Non mi era mai importato un gran che questo nel lavoro prima di arrivare nella squadra di Gibbs, ora mi sembrava di non poterne fare a meno. Era di qualche anno più giovane di me, una ragazza determinata e molto preparata sia sul campo che in ufficio ma da quello che avevo visto i colleghi maschi non le davano molto spazio e se potevano cercavano di sminuire sempre il suo lavoro. Lei non perdeva mai la pazienza e non rispondeva mai fuori dalle righe, la sua preparazione era sicuramente di tipo militare.
- Tutto bene grazie, credo solo un calo di zuccheri. - Le risposi mentre prendevo la tazza di tè.
- Forse è meglio se prendi anche qualcosa da mangiare - mi disse mentre dal distributore automatico cadeva una barretta di cioccolata che mi porse gentilmente.
- Grazie Lisa. 
- Maschio o femmina? 
- Femmina.
- Io ne ho due, gemelle, di quasi 10 anni.
- 10 anni! - esclamai stupita
- Sì, le ho avute che ero molto giovane, ma non rimpiango niente, sono la mia gioia. Solo quando sono stata alcuni mesi all’estero per delle missioni e loro erano molto piccole è stata dura. Per questo poi ho scelto di venire qui. - Sorseggiava il suo caffè mentre io bevevo il te e ci dividemmo la cioccolata.
- Tuo marito ti ha aiutato?
- Beh, veramente no. Il padre non ha voluto saperne nulla quando sono rimasta incinta. Mi hanno aiutato i miei genitori, stavano loro con le bambine quando io ero fuori. Anzi in un paio di missioni me lo sono ritrovato anche nello stesso gruppo.
- Mi dispiace. Non deve essere stato facile. 
- No. Non lo è stato. Ma non ho lasciato la marina per quello. L’ho fatto solo per stare più tempo con le mie bambine, anche se non è mai abbastanza. Per te però è diverso Ziva, no? Lo sanno tutti che nonostante tutto l’agente DiNozzo è un bravo ragazzo.
- Nonostante tutto?
- Beh sì, ha quella fama da donnaiolo incallito, però qui tutti scommettevano sul fatto che prima o poi sareste finiti insieme e quando te ne sei andata in molti pensavano di aver perso.
- Mi fa piacere sapere che si scommetteva su di noi… Se Tony lo sapesse farebbe la ruota come un pavone!
- Se sapessi cosa? - La sua voce mi colse all’improvviso alle spalle e per poco non rovesciai il contenuto del bicchiere.
- Che scommettevano sul fatto se prima o poi noi ci fossimo messi insieme. - Gli risposi sorridendo, cercando di nascondere l’imbarazzo
- Ah, ma certo che lo sapevo ho scommesso anche io! - Lo guardai truce
- E cosa avresti scommesso?
- Di sì, ovviamente.
- Torno di là - mi disse Lisa - Ciao Agente DiNozzo! - Lo salutò prima di rientrare nel nostro ufficio.
- Come stai? - Mi chiese premuroso come sempre
- Come questa mattina.
- No. Tè, cioccolata e sei pallida…
- Solo un calo di zuccheri, non ti preoccupare.
- Puoi cambiare squadra perchè non ti fidi di me, ma non puoi impedirmi di preoccuparmi per te.
- Tony, per favore, non ricominciamo. - Cercai di andarmene, ma mi fermò
- Non sto ricominciando Ziva. Non ho mai smesso di preoccuparmi per te. E non ho intenzione di farlo. Sei… 
- Di Nozzo, andiamo! - Gibbs aveva perentoriamente chiamato Tony che aveva immediatamente lasciato il mio braccio. Ci salutammo con un semplice cenno, mentre Gibbs mi guardava severo. Non avevamo più parlato da quel giorno a casa sua e non riuscivo a sostenere il suo sguardo carico di delusione. La sentivo arrivarmi dentro fino alle ossa raggelandomi. Avevo sempre fatto di tutto per non deluderlo, scelte difficili e rinunce quasi impossibili per essere coerente alla parola data ed avevo rovinato tutto.

Tony mi mandò un messaggio dicendo che non poteva venire a prendere Nathan perchè era sempre fuori con Gibbs. Mi incamminai da sola e presto Lisa mi raggiunse. La scuola delle sue bambine era nel palazzo vicino all’asilo di Nathan così facemmo un pezzo di strada insieme.
- Va tutto bene con Tony? - Di certo la ragazza non usava giri di parole
- Veramente ci stiamo separando - Mi fece effetto dirlo. Sembrava dannatamente più doloroso.
- Come lo guardavi e come ti guardava sembravano tutto tranne che gli sguardi di due che si stanno separado.
- Non è una situazione facile. Non lo so nemmeno io…
- Ziva, ti guarda come se fossi la cosa più preziosa al mondo, dove lo trovi uno così!
Ci venne incontro un ragazzo con un gran sorriso che corse ad abbracciare Lisa. Mi presentò quindi Aaron il suo fidanzato, definendolo un santo perchè si era preso tutto il pacchetto lei più le bambine.
- Agente David, è un piacere conoscerla. Ho lavorato per un breve periodo con suo padre, mi dispiace molto per quello che è successo. - Annuii ringraziandolo ma il volto perplesso lo spinse a parlare ancora - Ero anche io nel Mossad, mi occupavo dell’area informatica, niente azioni sul campo, come lei.
- Poi Aaron ha lasciato tutto ed è venuto a vivere qui per stare con me e le bambine.
- Già, ora mi occupo di sicurezza informatica in una multinazionale, basta roba militare o governativa.
Erano una bella coppia, aveva avuto il coraggio di fare un salto nel vuoto per stare con la donna che amava e le sue due figlie, Aaron era un ragazzo da ammirare.

Nathan fu deluso da non trovare Tony a prenderlo, gli mandai un messaggio e gli chiesi di chiamarci appena si fosse liberato, così da tranquillizzare nostro figlio.
Quando arrivammo a casa, trovai sotto la porta, una busta bianca senza mittente. La presi e, mentre Nathan si era precipitato a giocare in camera sua, la aprii preoccupata del contenuto, solitamente missive lasciate così non erano mai un buon segnale. Quando vidi la grafia, però, mi tranquillizzai.

Ziva, continui ad essere la mia sfida.
Ero convinto che avevamo finito la nostra corsa, che eravamo riusciti a trovarci. Evidentemente non era così, avevo sbagliato ancora una volta i tempi, tu stavi solo riprendendo fiato per correre via di nuovo.
Se per arrivare di nuovo a te devo rifare tutto da capo, io sono pronto a rifare tutto, per riaverti con me. Non c’è sofferenza, fatica e paura che non valga la pena vivere di nuovo la mia vita con te. Ti verrei a cercare e riprendere ovunque per poterti promettere che per te ci sarò sempre.
Sto solo riprendendo fiato anche io poi e ricomincio a correre per raggiungerti ancora.
Tony.

Presi il telefono e provai a chiamarlo. Era staccato, dovevano essere ancora fuori. Gli mandai un altro messaggio chiedendogli se potevamo vederci la sera successiva a cena. Aspettai per tutta la serata la sua risposta, così come Nathan la sua chiamata che non arrivò. A notte fonda mi svegliò il suono di un messaggio sul cellulare.
“Scusa se non ho potuto chiamare. Siamo ancora fuori e non so quando torneremo. Ti faccio sapere io.”
Gli risposi subito
“Tutto bene Tony? Non mi voglio preoccupare nemmeno io”
“Tranquilla, tutto bene”
Cancellai e riscrissi il messaggio molte volte, poi alla fine lo inviai. Non doveva essere nè troppo formale nè melenso.
“Ho ricevuto la tua lettera e volevo parlarne con te a voce è importante”
Aspettai fino a quando il sonno non vinse l’attesa. Tony non mi rispose quella notte e non trovai risposta nemmeno la mattina successiva. 

Quando andai in ufficio trovai una scusa per passare a vedere se era rientrato, ma c’era solo Bishop
- Sai dov’è Tony?
- Fuori, con Gibbs
- Dai ieri?
- Sì, stanno facendo un’operazione fuori città.
- Ellie, sai dove sono?
- Ziva, non posso dirtelo mi dispiace.
- Devo parlare con lui, è urgente.
- Mi dispiace. Se c’è qualche problema per Nathan o per la bambina glielo posso riferire io quando lo sento.
- No, lascia stare… 
Me ne andai furiosa. Non mi dicevano dove era e nemmeno avevano preso in considerazione che se dovevo parlargli potesse essere un problema mio. Corsi sulle scale e bussai all’ufficio di Vance ed entrai prima che mi rispondesse.
- Leon, dov’è mio marito?
- Ziva, non mi pare questo il modo.
- Dov’è Tony?
- Fuori per un’operazione, con Gibbs.
- Dove.
- Non posso dirtelo, riguarda solo la sua squadra.
- Lo state facendo apposta vero Leon? Lo state facendo per punirmi eh? Per farmi capire che mi sono comportata come una ragazzina.
- Ziva, calmati. Nessuno ha pensato a te, credimi - disse in tono sprezzante - Tony e Gibbs stanno semplicemente facendo una missione riservata della quale non possono essere informati membri esterni alla sua squadra, è già capitato no?
Annuii ed uscii senza dire altro.

Provai a mandare altri messaggi a Tony e a chiamarlo, ma il telefono era sempre spento e non rispose mai a nulla, nemmeno durante la notte. Ogni tanto mi svegliavo a controllare, ma non c’era niente. Possibile che il suo riprendere fiato volesse dire andarsene e tagliare tutti i contatti con noi per un po'? No, non poteva essere, non era da Tony, quello era un comportamento più da me, pensai amaramente, e poi non gli avrebbero tenuto il gioco anche Gibbs e Vance per una cosa del genere.
Erano passati tre giorni e Tony dopo l’ultimo sms non si era più fatto sentire in nessun modo.
Mandai quindi un messaggio a Lisa. Mi doveva far parlare con Aaron il più preso possibile.

 

NOTE: Capitolo interamente su Ziva che forse ha capito di aver preso qualche decisione avventata di troppo. In tutto ciò che fine avrà fatto Tony? Che ne pensate della coppia Lisa/Aaron? E del nuovo capo di Ziva?

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Capitolo 11
*** I'm a Mess ***


… I messed up this time, late last night
Drinking to suppress devotion, with fingers intertwined
I can't shake this feeling, now
We're going through the motions, hoping you'd stop …

Aaron mi chiamò presto la mattina successiva prima di andare in ufficio. Mi raggiunse fuori dall’asilo dopo che anche lui aveva accompagnato le bambine di Lisa a scuola. Gli chiesi quanti codici di accesso del Mossad aveva ancora. Lui non rispose, ma sorrise.
- Certe cose è sempre meglio conservarle, Ziva. Non si sa mai.
- Devi rintracciare il numero di un cellulare protetto e spento. 
- Non sarà facile.
- Non ti ho detto che lo è, ho detto che mi serve. - Gli diedi un foglietto con il numero - è di Tony.
- Non voglio sapere i problemi tra di voi. 
- Non te lo chiedo per i problemi tra di noi, ma perchè è in missione non so dove e sono tre giorni che non si fa sentire e nessuno mi vuole dire cosa sta facendo.
- E tu sei preoccupata. 
- È così strano esserlo?
- No, si è sempre preoccupati per le persone che si amano. Lo sarei anche io se Lisa sparisse senza dirmi nulla.
Lasciai cadere il discorso, lo salutai con la promessa che mi avrebbe fatto sapere appena avesse scoperto qualcosa.
Subito dopo pranzo mi arrivò un suo messaggio nel quale mi invitava a vederci dopo il lavoro da lui. Da Tony ancora nessun segnale, nessun messaggio e nessuna chiamata. Ovviamente non erano in ufficio nè lui nè Gibbs. 
Era tornato anche McGee ma oltre a non sapere realmente ancora nulla, mi disse che in ogni caso non mi avrebbe detto niente, visto come stavano le cose. Era visibilmente contrariato per le mie decisioni e non faceva niente per nasconderlo. Andai anche da Abby e le cose non cambiarono, anzi lei non mi nascose che non aveva nessuna voglia di parlare con me di nessun argomento visto che a detta sua ero io che li avevo traditi.
Aspettai con molta ansia e poca concentrazione a lavoro la fine di quella giornata dove l’unica nota positiva era che Glover era stato tutto il giorno fuori in azione, così non avevo dovuto sopportare anche le sue poco simpatiche battute.

La casa di Lisa e Aaron era una villetta fuori città con un grande giardino intorno, disseminato dei giochi delle bambine che si divertivano ad occuparsi di Nathan sotto l’occhio vigile della madre, mentre io ero in casa a parlare con Aaron.
Il ragazzo prima di cominciare a parlare accese un piccolo apparecchio che riconobbi subito come un disturbatore di frequenze. Aveva avuto un ottimo addestramento si riconosceva anche da queste cose. Mi chiese di spegnere il mio cellulare, poi aprì il suo portatile e cominciò ad illustrarmi i dati. Aveva tracciato gli spostamenti di Tony dell’ultima settimana. 
- Da quando è andato via da Washington è stato a Norfolk e da lì si è spostato. Abbiamo perso i segnali per un po’ di ore, ma quando è ripreso, la sua posizione era questa. - Mi mostrò un punto sulla mappa - Tel Aviv.
- Cosa?
- Ho fatto dei controlli incrociati c’era qualcuno ancora che mi doveva un favore in Israele e mi hanno confermato la loro presenza lì, ma secondo i loro dati sono ripartiti questa mattina all’alba ed infatti ho perso ogni segnalazione. Poi è riapparso qualche ora fa, ma non è a DC e nemmeno a Norfolk, è ad Atlanta.
- I tuoi contatti a Tel Aviv non ti hanno detto di più? 
- No, non è gente così in alto come le tue conoscenze Ziva!
- Non ho più conoscenze nel Mossad, sono fuori da tempo e quelli che conoscevo, beh o sono morti o era meglio che non li conoscessi. 
- C’è qualcuno ora nei piani alti di cui so ti puoi fidare.
- Come lo sai di chi mi posso fidare? Non lo so nemmeno io!
- Mi sono informato su di te e sul tuo passato, sai, tendo sempre a farlo con chi lavora con Lisa, soprattutto se poi è un ex Mossad, non è così frequente e non si sa mai…
- Hai ragione su questo. Chi sarebbe?
- Dani Degas. Dopo lo scossone di inizio estate è diventato il più giovane vice direttore. Avevi un buon rapporto con lui, vero?
- Sì, certo… Non sapevo nemmeno che fosse sempre dentro.
- E’ diventato un ottimo stratega e burocrate. Penso che di lui ti puoi fidare, no?
- Certo…
- Questo è il suo numero, chiamalo se lo credi opportuno.
Erano anni che non sentivo più parlare di Dani, era una parentesi chiusa della mia vita, una delle tante che volevo dimenticare. Ma Aaron avevo ragione, di lui potevo fidarmi.

La mattina successiva appena arrivata Vance mi mandò a chiamare.
- Ziva, sai dirmi perchè il Mossad ha intercettato un numero di telefono di un nostro agente?
- Leon, dovresti saperlo che i miei contatti con il Mossad negli ultimi tempi sono stati diciamo non proprio idilliaci, no? Perchè dovrei saperne qualcosa?
- Perchè è quantomeno singolare che viene intercettato proprio il numero di tuo marito, dopo che hai chiesto a tutta l’agenzia se qualcuno poteva darti notizie di lui, proprio quando si trovava a Tel Aviv.
- Quindi è a Tel Aviv, almeno adesso so qualcosa.
- Vuoi fare finta di non sapere nulla?
- Non voglio fare niente. Vorrei sapere dove è Tony e cosa sta facendo.
- Non sono cose che ti riguardano Ziva, non più. È una missione riservata, non penso sia difficile per te capirlo. Quando sarà il caso lo vedrai e ti contatterà se lo riterrà opportuno.
- Mio figlio cerca suo padre.
- Non credo avrai problemi ad inventarti qualcosa. Sarà successo anche a te di essere nella situazione sua, no?
- È scorretto questo da parte tua Leon. Molto scorretto.
- Non è momento di sentimentalismi Ziva.
Me ne andai sbattendo la porta furiosa. Le uniche cose che sapevo adesso è che Tony era realmente andato a Tel Aviv per una qualche missione e se c’era tutta questa segretezza voleva dire che sotto c’era qualcosa di importante. O pericoloso. O entrambe le cose. Era assurdo che se era una cosa che riguardava Israele e Tel Aviv nessuno mi avesse messo al corrente o avesse richiesto la mia collaborazione, di certo lì dentro ero la persona che ne sapeva di più e che era stata più coinvolta. Quindi questo voleva dire solo una cosa: era qualcosa che mi riguardava.
Pensai molto se chiamare o no Dani Degas. Tony ormai era negli Stati Uniti, Aaron mi aveva confermato che era sempre ad Atlanta, non avrebbe avuto molto senso chiamarlo in quel momento, per chiedergli cosa poi? Se due agenti dell’NCIS erano entrati in Israele? Già sapevo che c’erano andati non mi avrebbe detto certo perchè erano lì, sempre che lo sapesse.

Passarono un altro paio di giorni e nulla era cambiato, solo un messaggio di Aaron in tarda mattinata con una sola parola: Washington. Non c’era bisogno di dire altro, Tony era tornato ma in ufficio non c’era ed il suo telefono era sempre muto. Prima di uscire passai di nuovo a controllare se ci fosse traccia di lui o di Gibbs ma nulla.
Le serate a casa erano tutte dedicate a Nathan che cominciava a soffrire il fatto di non aver più sentito nè visto Tony. Potevo capire che dovesse andare via, che non potesse farsi sentire, ma avrebbe dovuto dirglielo prima. Sapevo bene cosa volesse dire stare nella sua situazione, aspettare di vedere un padre che non da notizie di se e non volevo che vivesse la stessa situazione. L’unica cosa positiva era l’aver ritrovato la nostra solita sintonia ed ormai mi aveva definitivamente perdonato e tutte le sere si addormentava sul divano appoggiato sul mio con la mano sul mio ventre ad accarezzare la sua sorellina. Da quando gli avevo detto che la poteva anche sentire, ogni sera si appoggiava vicino alla pancia e cominciava a raccontarle la sua giornata, adoravo vederlo così e mi faceva pensare a quando mia madre era incinta di Tali ed io facevo la stessa cosa non vedendo l’ora che nascesse: il loro ricordo ogni volta era ancora una ferita aperta, una nostalgia che non sfumava mai, la dolcezza di quei momenti così sereni contrapposta al dolore per una perdita dopo anni incolmabile. Non gli avevo ancora chiesto se gli piacesse il nome Sarah, aspettavo di farlo con Tony, quando fosse tornato.

Nathan si era già addormentato quando suonarono alla porta. Dormiva profondamente e non si accorse di nulla, nemmeno quando lo appoggiai sui cuscini del divano mentre nella tv scorrevano ancora le immagini di Arlo.
- Tony!
Stavo per abbracciarlo, ma con una mano mi bloccò. Non lo avevo nemmeno guardato. Aveva un tutore al braccio sinistro e varie escoriazioni sul volto, almeno da quello che potevo vedere. Lo feci entrare e notai che camminava anche male.
- Che ti è successo Tony? 
- Nulla di grave, abbiamo avuto un incidente in auto. 
- Come quello che abbiamo avuto noi tornando da Berlino?
- Lascia stare Ziva…
- Lo prendo per un sì Tony.
- Non sono qui per questo, voglio solo vedere Nathan.
Provai a prenderlo sottobraccio per accompagnarlo al divano, ma si scostò allontanandomi ancora. Parlava con una voce flebile, sembrava facesse fatica a respirare.
- Ehy ometto! - Tony svegliò Nathan arruffandogli i capelli e nostro figlio appena sentì la voce del padre si gettò su di lui. Tony contrasse il volto in una smorfia di dolore, ma non disse nulla, lo accarezzò e lo riempì di baci. Parlò un po’ con lui, che gli raccontò tutto quello che aveva fatto all’asilo in questi giorni, dell’amicizia con le figlie di Lisa e di come tutte le sere parlava con la sua sorellina. Tony alla fine lo convinse ad andare a dormire e fece un grande sforzo nel portarlo in braccio fino alla sua camera. Rimase con lui fino a quando non si addormentò, lo guardavo da fuori la porta cercare di sembrare il più normale possibile e raccontare una storia assurda sul perchè il suo braccio fosse bloccato nel tutore.
Tony uscì dalla stanza di Nathan, passandomi davanti come se fossi invisibile.
Lo fermai, come troppe volte era già successo. Non fu un compito difficile, visto il suo stato.
- Tony rimani.
- No, voglio solo andare a casa e riposarmi. Sono state giornate molto lunghe. 
- Sei a casa.
- No, Ziva.
Ci sono delle parole che ti tagliano le gambe e avresti la tentazione di cadere in ginocchio perchè è come se perdessi la stabilità e la forza di gravità vincesse e ti buttasse al suolo. Presi fiato e coraggio. 
- Ho avuto paura in questi giorni, Tony. 
- Anche io. 
Era vero, lo dicevano i suoi occhi, non era una frase detta tanto per dire. Era così. Aveva avuto paura.
- Non è necessario che corri Tony, non devi correre più.
- Sto ancora riprendendo fiato Ziva.
- Non è necessario.
- Per me lo è adesso.
- Perchè?
- Sono tanti motivi Ziva, ma sono stanco adesso, non mi va di parlarne. Devo andare.
- Resta. Non devi andare da nessuna parte.
Mi avvicinai a lui abbracciandolo delicatamente e si lasciò abbracciare, lo sentivo da come era teso che anche lui stava facendo quello che avevo fatto io, lottare contro se stesso. Appoggiai piano la testa sul suo petto, non volevo fargli male, non sapevo come stava realmente e cosa nascondevano i suoi vestiti. Sentii la sua mano accarezzarmi i capelli. Sentii il suo torace alzarsi ed abbassarsi ritmicamente, in un movimento sincopato che era rivelatore solo di una cosa, quelle lacrime che scendevano silenziose.
- Perchè finiamo sempre col farci del male?
Una domanda che non sapevo se avevo fatto a lui o a me stessa, una risposta non c’era. Sembrava che sapevamo vivere ed amarci solo dopo la tempesta, che non riuscivamo a vivere serenamente nei giorni di calma, incapaci di goderci il sereno per più di qualche giorno. 
La sua mano mi strinse un po’ di più senza rispondere. Le sue dita stringevano la stoffa della mia maglietta in modo quasi brutale, come se volesse riversare su quel tessuto la sua rabbia e frustrazione. Mi staccai da lui e lo presi per mano accompagnandolo nella nostra camera. Si lasciò guidare come un bambino che aveva perso la strada di casa e come un bambino si lasciò accudire, accarezzare il volto stanco e segnato, le mani sfregiate da tagli ancora non del tutto rimarginati. Poi Si fece spogliare come un guerriero che ritorna dalla battaglia, mostrando tutte le cicatrici subite nella guerra. Sul suo torace erano visibili i segni della cintura di sicurezza che attraversava trasversalmente il busto. Mi faceva fisicamente male vederlo così, era come se sentissi su di me ognuno di quei segni. 
- Sono stanco Ziva… Stanco di tutto… - disse sconsolato sdraiandosi senza nemmeno rivestirsi, lasciando il torso nudo pieno di lividi in mostra: ogni livido era un rimorso ed un rimpianto in mostra che mi colpiva come un pugnale.
- Di cosa sei stanco Tony?
- Di tutto, Ziva. Di combattere nemici invisibili, di combattere me stesso, di stare male, di soffrire.
- Anche di noi?
- Non lo so
Sospirò e questa volta fui io a lasciarmi andare alle lacrime sdraiandomi vicino a lui. Sentivo come se la corda si fosse spezzata senza poter fare nulla. L’avevo dato per scontato, tanto forse troppo.
- Non devi piangere adesso Ziva.
Il suo tono non era di rimprovero, non era nemmeno triste. Era calmo ed era la cosa che mi preoccupava di più. Era il tono di qualcuno che aveva lottato ed aveva accettato la sconfitta.
Si alzò e si avvicinò di più, tenendosi appoggiato sul braccio destro. Mi diede un bacio per catturare una lacrima e poi scendendo ne lasciò altri fino ad arrivare alle labbra, ma più lui mi baciava, più io piangevo. E il bacio diventava più che un atto d’amore una necessità, un rubarsi respiri a vicenda, perchè quell’ossigeno era ancora più necessario alla vita.
Poi in silenzio, senza dire nulla, senza guardarmi, scese lungo il mio corpo, alzò la maglia invitandomi a sfilarla e si appoggiò con la testa sul mio petto. Pelle su pelle per avvicinarsi un po’ di più all’anima ferita e provare a curarsi o almeno a sentire meno dolore e scaldare il freddo dentro.
Sentivo la sua barba incolta pizzicare la mia pelle ed il suo respiro profondo riscaldarla. Appoggiò la mano sul mio ventre accarezzandolo disegnando con le dita delle curve immaginarie. Nello stesso momento cominciai ad accarezzargli i capelli, come facevo con nostro figlio, come faceva sua madre con lui quando era bambino, ed ora vedevo il mio uomo bambino come non mai ad accarezzare la nostra bambina. Eravamo tutti totalmente indifesi, avremmo potuto ucciderci con una sola parola sbagliata, per questo non parlammo più, per riuscire a sopravvivere a quella notte. Gli sussurravo solo che sarebbe andato tutto bene, ma non lo sapevo nemmeno io se era vero. In quel momento però, dovevamo solo crederci. Era l’unica cosa che potevamo fare.

 

NOTA: Aggiornamento rapido questa volta, un capitolo non lungo e un po' strano, molto diverso tra prima e seconda parte. Altro capitolo solo dal punto di vista di Ziva. Dal prossimo tornerà anche Tony, anche se per il momento la storia sarà raccontata prevalentemente dal punto di vista di lei. Ci sarà anche spazio per lui in seguito.
Le domande di oggi sono: Cosa è andato a fare Tony in Israele e poi ad Atlanta? Un altro personaggio nuovo, chi è questo Dani Degas di cui Ziva sa che si può fidare? La vecchia squadra pare molto ostile a Ziva, pensate anche voi che li ha traditi realmente andandosene oppure no? Gibbs dov’è?

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Capitolo 12
*** You Should Be Here ***


… It’s one of those moments 
That’s got your name written all over it 
You know if I had just one wish 
It’d be that you didn’t have to miss this 
Ohh You should be here   …

Avevo fatto esattamente quello che mi ero riproposto di non fare, farmi vincere dai miei sentimenti, mettere da parte la razionalità e cedere a qualsiasi cosa mi avesse chiesto. Quello che stavo facendo mi faceva male, ma era la cosa più giusta per noi. Non fui abbastanza forte da vincere la mia voglia di lei, di sentire ancora il calore del suo corpo sul mio. Mi addormentai su di lei come un bambino e mi sembrò quasi di riuscire per qualche ora a non pensare a niente. Mi risvegliai che era ancora notte fonda e lei dormiva. Mi sollevai per guardarla e così mi sembrava ancora più bella. La pancia che adesso era ben visibile, i suoi seni più gonfi, i lineamenti più dolci non avevano nulla da invidiare al suo solito fisico perfetto ed atletico, anzi nel vederla così e sapere che quello che la stava trasformando era il frutto del nostro amore, mi sentii sopraffatto dall’emozione e dalla sua bellezza di donna, nel senso più profondo della parola.
Mi chinai cercando disperatamente le sue labbra. Non avrei voluto svegliarla ma non potei farne a meno. Fu stupita da quel risveglio. Provò a parlare, non le diedi nè tempo nè modo. Più la baciavo più avevo voglia di lei e lo capì e si lasciò amare totalmente. I nostri gemiti e sospiri si confondevano tra i baci e sentire il suo corpo fremere di piacere insieme al mio fu come essere in un altro mondo dove non esisteva niente se non noi nella perfezione di quel momento. La tenni stretta a me per quanto potessi fare nelle mie condizioni, fino a quando il suo respiro non tornò regolare ed il suo corpo fu di nuovo calmo. Sentivo la sua bocca socchiusa sul mio collo e dovetti trattenermi per non farmi vincere ancora dalla voglia di lei e dal piacere di godere del suo corpo.
Aspettai che si addormentasse e poi mi alzai. Andai in bagno e mi guardai allo specchio. Faticavo a riconoscere quello che vedevo riflesso come me stesso e non solo per i segni, ma per quello che avevo fatto e stavo per fare. Mi vestii e la guardai ancora dormire. Il volto rilassato sembrava quasi sorridente, i capelli arruffati e le labbra gonfie erano i segni ancora evidenti del piacere che ci eravamo concessi. La maglia copriva di nuovo le sue forme generose. Mi aveva ripetuto sussurrandomelo più volte che sarebbe stato tutto diverso, che avevamo sbagliato tutto ma non importava, che mi amava e lo aveva sempre fatto. Non riuscii a dirle nulla, non avrei potuto nè mentirle nè dirle la verità, preferii un vigliacco silenzio.
Andai in camera di Nathan e lo presi in braccio. Si svegliò e gli feci cenno di non parlare e gli diedi un bacio.
- Tranquillo ometto, papà ti porta in un bel posto adesso…

 

——————————————————

 

Mi svegliai con un senso di beatitudine che da tempo non provavo. Troppo facile sarebbe stato ammettere che era solo per l’appagamento fisico, era molto di più, era la sensazione che da quello che era successo quella notte potesse nascere un nuovo domani per noi. Non era stato solo un darsi piacere a vicenda, ma la dimostrazione del volersi, di amarsi, chiedersi scusa e accettarsi di nuovo.
Almeno questo era tutto quello che pensavo fino a quando non aprii gli occhi e mi accorsi che Tony non c’era. E non c’era più niente di lui, come se non fosse mai arrivato la sera prima, come se tutto quello che c’era stato lo avesse portato via senza lasciare una traccia del suo passaggio.
Vidi Nathan dormire vicino a me, gli accarezzai i capelli e baciai la fronte, si lamentò un po’ svegliandosi.
- Piccolo che ci fai qui?
- Mi ha portato papà, ha detto che ti dovevo fare compagnia io.
- Ti ha detto altro papà?
Scosse la testa. Guardai l’orologio. Era il momento di prepararsi per un’altra giornata che sarebbe stata molto peggio di quanto credessi fino a poco prima.

Passai a vedere se Tony era in ufficio, ma c’erano solo Tim e Ellie.
- Avete notizie? - Chiesi a loro due
- No Ziva, te lo abbiamo già detto, non possiamo dirti nulla, nè dove sono nè cosa stanno facendo. - Rispose Tim seccato.
- Tim, Tony era con me stanotte, ieri sera è venuto a casa e non stava di certo bene. Poi stamattina è andato via prima che mi svegliassi senza dirmi nulla. Mi ha detto che avevano avuto un incidente con l’auto, lasciandomi intendere che non era un incidente ma qualcosa di diverso. Cosa sta succedendo? - Tim mi prese per un braccio e mi portò fuori da lì.
- Ziva, io non ne so nulla di tutto questo. L’ultima volta che ci hanno dato la loro posizione erano all’estero…
- A Tel Aviv, lo so.
- Come lo sai? 
- Non ha importanza. Tony aveva il tutore ad un braccio, sicuramente danni alle costole oltre ad altre lesioni più o meno visibili. Non stava bene nè fisicamente nè moralmente.
- Beh, quello posso capirlo, visto quello che gli è successo…
- Tim, per favore. Le cose sono più complicate di come sembrano.
- Sicuramente lo sono Ziva, ma di questa storia non sappiamo molto. Solo che Gibbs e Tony sono fuori con altri due agenti di un’altra agenzia collegata alla CIA. Nulla di più.
- Tim, per favore, te lo chiedo come amica, se sai qualcosa di Tony fammelo sapere. Non mi interessa quello che sta facendo nè dell’operazione, voglio solo sapere di lui.
- Ziva… Io…
- Tim, per favore.
- Va bene Ziva, se sentirò Tony te lo dirò.
- Grazie Tim…
- Ziva, ma è una bambina?
- Sì… una bambina, Sarah
- Tony sarà felicissimo
- Molto.
- Vabbè, ciao Ziva.
- Ciao McGee.

Stavo tornando nel mio ufficio quando mi sentii chiamare.
- Ziva… - mi voltai e vidi Abby - … puoi venire con me?
- Che succede? - Le chiesi seguendola. 
- Seguimi.
Arrivammo davanti all’entrata della sala autopsie. Mi bloccai prima di entrare.
- Abby, cosa sta succedendo? - Sentii la mia voce tremante e faticai a tenermi in piedi.
- Ziva, no! Non è quello che pensi! - Abby si voltò abbracciandomi - Scusami scusami non volevo che tu pensassi quello…
- Ho bisogno di sedermi Abby - le dissi deglutendo a fatica.
- Ok Ok… 
Mi aiutò ad entrare e mi portò nell’altra stanza dove c’erano Ducky, Gibbs e Tony.
- Credo le serva una sedia… - disse la ragazza indicandomi
- Abby ma cosa hai fatto! - La rimproverò Gibbs
- Ecco io, l’ho portata qui senza dirle perchè e credo abbia interpretato male.
Tony si alzò e mi venne incontro, aiutandomi a sedermi su una sedia che aveva preso Ducky. Si mise al mio fianco passandomi una mano sulla fronte. Stavo sudando e non me ne rendevo nemmeno conto.
- Perchè l’hai portata qui? - La rimproverò Tony.
- Erano giorni che chiedeva a tutti di voi, non credo le facesse bene stare così in pensiero! - Rispose la scienziata
- Non le fa bene nemmeno crederci morti perchè non le dici nulla e la porti in obitorio! - Tony le ringhiò contro.
- Basta Tony! Non c’è motivo di prendersela con l’unica persona che mi ha voluto aiutare a farmi sapere qualcosa di voi. Cosa è questa una punizione per aver chiesto di cambiare squadra Gibbs? O per aver lasciato Tony? Spiegatemelo per favore - dissi loro appena ritrovai un po’ di lucidità.
- Ziva, non è niente di tutto questo. - Gibbs si alzò avvicinandosi e vidi che anche lui era in condizioni fisiche precarie. 
- Che vi è successo Gibbs? - Chiesi preoccupata
- Nulla di cui ti devi preoccupare - il suo tono era molto più morbido del solito, mi diede un bacio sulla fronte e poi uscì insieme agli altri - Devi parlare con tuo marito. - Ci disse lasciandoci soli. Mi alzai in piedi camminando nervosamente per la stanza.
- Allora Tony? Cosa succede? Cosa mi state tenendo nascosto? Perchè eri a Tel Aviv?
- Come lo sai?
- Ho ancora i miei contatti laggiù.
- Non è importante comunque. Non ti sto tenendo nascosto nulla. Stiamo lavorando ad una operazione piuttosto complessa, non siamo solo noi, ci sono altre agenzie coinvolte.
- Cosa c’entra questo con noi? Con come te ne sei andato questa mattina, dopo quello che c’è stato questa notte… io pensavo…
Tony non mi fece parlare, come la notte scorsa, mi baciò. Con passione e a lungo.
- Questa è la mia risposta a stanotte - mi disse.
- Che vuoi dire?
- Te lo devi ricordare.
- So quello che stai facendo. - Gli dissi allontanandolo. 
- Lo so. Lo hai fatto tu molte volte.
- È un modo per vendicarti?
- No. È una necessità adesso. È necessario per me.
- Almeno dimmelo guardandomi in faccia Tony.
- Non possiamo più stare insieme Ziva. Per il bene di tutti.
- Per il bene di chi?
- Nostro.
- Si tratta di Rivkin vero Tony? Lo stai facendo per lui? Cosa avete scoperto?
- No. - Disse guardando altrove.
- Non sei bravo a mentirmi.
- Eppure quando ti dicevo la verità, che non ti avevo mai tradito, non mi credevi. - Nelle sue parole c’era solo dolore e rabbia. 
- Lo fai per questo allora?
- No, Ziva. Lo faccio perchè è giusto così.
- Spero che lo prenderete presto - gli dissi senza coraggio di dirgli altro.
- Ziva, promettimi che non farai mai nulla per mettere in pericolo te e Sarah.
- Nemmeno tu Tony. Se non vuoi farlo per me, fallo per Nathan e Sarah.
Non mi rispose ed uscì velocemente da lì. Mi sedetti di nuovo rimasi sola per qualche minuto, poi sentii la porta aprirsi di nuovo. Riconobbi la camminata di Abby che rimase in piedi dietro di me senza dire nulla.
- Mi dispiace Ziva. Non sapevo che…
- Non è colpa tua.
Mi voltai e la vidi piangere.
- Abby… non fare così.
- Ti ho trattato male Ziva, non è stato giusto.
- Le cose sono complicate, Abby, tu non sapevi come stavano, hai fatto quello che avrebbe fatto chiunque volesse bene a Tony.
- Vuoi consolare tu a me?
- Le amiche servono a questo, no? So quello che sta facendo Tony anche se non vuole dirmelo. - Sorrisi amaramente e lei annuì.
- È una bambina… - disse indicandomi la pancia.
- Sì. È Sarah.
- È un bel nome.
- Lo ha scelto Tony. 

Probabilmente non avevo processato quello che stava accadendo e quello che aveva detto Tony. Ero assolutamente convinta che si trattasse di qualcosa di copertura per l’indagine che stavano facendo. Dietro a tutto questo c’era la questione di Rivkin ne ero convinta. 
Aspettai che Abby tornò in laboratorio e gli chiesi di darmi qualche minuto e lasciarmi sola. 

- Degas!
- Shalom Davi, sono Ziva. Ziva David.
- Ziva! È un piacere sentirti. A cosa devo la tua chiamata?
- Si tratta di mio marito, l’agente Anthony Di Nozzo.
- Capisco.
- Cosa sai Davi?
- Poco o nulla. Non è una cosa che ci riguarda. Ma non posso parlartene così.
- Non posso certo venire a Tel Aviv dopo quello che è accaduto nell’ultimo anno.
- Ziva, puoi tornare quando vuoi, nessuno ti farà nulla, hai la mia parola.
- Sai bene che non posso venire comunque adesso.
- Lo so. Sarò a Washington la prossima settimana, avevo già in programma questa visita per discutere di alcune cose anche con il tuo capo su quello che sta accadendo a causa di alcuni nostri fuoriusciti che sono fuoricontrollo. Potremmo vederci.
- Va bene Davi.
- È sempre un piacere Ziva.

 

————————————————————————

 

Entrai in casa ma non c’era nessuno. Scesi le scale.
- Capo non pensavo di trovarti qui anche stasera
- Cosa cambia stasera Tony?
- Non sei proprio in forma nemmeno tu.
- Non lo siamo nessuno.
- Perchè volevi vedermi?
Svuotò uno dei suoi barattoli e mi versò del bourbon. 
- Siediti. - Mi disse indicando uno degli sgabelli. - Ho parlato con Cooleman.
- Cosa vuole?
- Non crede che Ziva ti crederà.
- Se Ziva è più furba di noi non posso farci nulla. - sorrisi amaramente
- Sai che c’è una cosa che potresti fare.
- Sai quanto mi chiedi vero?
- E tu sai cosa c’è in palio. - Bevvi il bourbon tutto di un fiato, Gibbs me ne versò dell’altro. Bevvi ancora. - Che pensi di fare Tony?
- Non doveva essere una cosa così Gibbs. Dovevamo finirla subito. - Sbattei il bicchiere sul legno non ancora levigato.
- Lo avremmo voluto tutti. Anche Cooleman.
- Me ne frego di quello che vogliono tutti. Qualcuno pensa a quello che vorrei io?
- Ci pensiamo tutti Tony.
- Beh, non mi sembra. - Dissi versandomi ancora del liquore, ma Gibbs me lo tolse da davanti.
- Questo non è la risposta Tony. Decidi tu cosa vuoi fare, non ti può obbligare nessuno. Sai anche tu che non saresti dovuto andare da lei l’altra sera, ma ti capisco, forse lo avrei fatto anche io.
- Non riuscirò a farlo. - Mi sfilai la fede e la lasciai sul pezzo di legno - Fallo tu.
Mi alzai e me ne andai, ignorando Gibbs che mi richiamava. Arrivai fino a sotto casa e guardai le luci accese. Rimasi lì fino a quando non si spensero, poi andai alla mia vecchia, nuova casa.

 

 

NOTE: Questo capitolo è volutamente “asciutto”, con dialoghi scarni e poche descrizioni. Un capitolo freddo, di rottura. Ci introduce un nuovo personaggio che per ora è solo un nome: Coleman. Ziva ovviamente ha capito cosa sta accadendo ma sembra che a Coleman non basti la facciata e spinge tramite Gibbs Tony a fare altro e se lui accetta, evidentemente pensa che il rischio è alto. Quanto sosterrà questa situazione?
PS. Avevate pensato che Tony portava via Nathan? :D 

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Capitolo 13
*** Tallulah ***


… Remember when we used to look how sun set far away' 
And how you said: "this is never over" 
I believed your every word and I quess you did too 
But now you're saying : "hey, let's think this over"   …

- Gibbs! Cosa ci fai qui?
- Ti devo parlare Ziva.
Erano passati un paio di giorni dall’ultima volta che ci eravamo incontrati in obitorio e nè Gibbs nè Tony erano più tornati in ufficio, ma questo non mi aveva stupito. Lo ero molto di più dal vedere Gibbs a casa mia.
- Posso entrare? - Mi chiese risoluto. Mi spostai dalla porta e lo feci accomodare. Nathan appena sentita la sua voce gli corse incontro e Gibbs lo salutò affettuosamente. Dissi a mio figlio di andare a giocare in camera perchè dovevo parlare con il mio ex capo e lui accettò solo dopo la promessa di Gibbs che lo avrebbe portato di nuovo a costruire qualcosa con lui.
- Non so quando potrò mantenere la promessa - disse serio dopo che Nathan era andato in camera sua
- Lo sospettavo. 
- Ziva, devo darti una cosa da parte di Tony. Voglio solo che tu sappia che lui sta bene e che mi dispiace per quello che sta succedendo tra di voi. Non avrei mai immaginato o voluto che arrivaste a questo punto.
- Cosa vuoi dire Gibbs?
Mi prese la mano, l’aprì e ci poggiò la fede di Tony, poi la richiuse e strinse il mio pugno dentro la sua mano.
- Cosa significa? - Gli chiesi ancora. - Dov’è Tony
- Non ti agitare Ziva. Tony sta bene. È venuto da me due sere fa, dopo che vi eravate parlati da Ducky. Mi ha lasciato l’anello e mi ha detto di dartelo perchè così avresti capito quello che ti ha detto.
- Perchè non è venuto lui Gibbs?
- Perchè nonostante tutto gli fa male vederti così.
- Mi sembra una ripicca… - Dissi cercando di non lasciarmi andare.
- Tony è stato male in questo periodo, non te lo posso negare, ma lo sai anche tu. Ma non decide di porre fine al suo matrimonio per ripicca.
A quelle parole lasciai andare una lacrima. Pensarlo faceva male, sentirlo dire da altri era peggio. Rendeva tutto reale.
- Ho sbagliato tutto vero Gibbs?
- Hai sbagliato tanto, Ziva, ma non tutto. Alcune volte certe cosa accadono indipendentemente dai nostri sbagli. 
- Avrei voluto che tutto fosse diverso. Quando abbiamo saputo di Sarah eravamo così felici, Tony era così felice. Non doveva essere così questa volta, dovevamo viverla insieme.
- Tony ci sarà sempre per i suoi figli, di questo puoi stare sicura.
- Non sarà facile spiegarlo a Nathan adesso.
- Prenditi il tempo che serve. Ci parlerà anche Tony quando avremo risolto le questioni in sospeso e sarà più tranquillo.
- Gibbs, mi dispiace anche per come sono andate le cose a lavoro…
- Hai fatto la tua scelta.
- Dovevi fermarmi, sapevi che stavo sbagliando.
- Dovevi capirlo da sola, Ziva. Non l’avresti mai fatto in nessun altro modo, lo sai.

Gibbs se ne andò poco dopo, gli chiesi di rimanere ancora, ma mi disse che non poteva nemmeno lui fermarsi a lungo. Lo abbracciai stringendolo forte prima che uscisse e lui fece lo stesso. Avevo un tremendo bisogno di quell’abbraccio.
- Dimmi che andrà tutto bene Gibbs
- Farò il possibile perchè sia così. - Mi diede un bacio sulla fronte e mi accarezzò la guancia.  - Sarah è un bel nome.
Fu l’ultima cosa che disse prima che le porte dell’ascensore del palazzo si chiudessero. Ero rimasta sulla porta a guardarlo andare via, appoggiata allo stipite della porta. Sentivo che qualcosa quel giorno si era rotto, e non era solo il mio matrimonio.
Era stata una scollatura totale, c’erano loro e c’ero io. Non eravamo più noi, ero un corpo estraneo e l’avevo voluto io.
Mi chiesi se aveva ancora senso rimanere all’NCIS, rimanere anche a Washington, se forse non era meglio andarmene ancora, scappare, come sempre. Forse era l’unica cosa che sapevo fare, scappare, dalla mia vita e dal mio lavoro. Una vita in fuga, ma quali erano i motivi per rimanere ancora qui, se tutto quello per cui ero tornata non ce l’avevo più e non solo per colpa mia?

I passi veloci di Nathan mi risvegliarono dai miei pensieri peggiori. Non dovevo lavorare non era ancora ora di pranzo, dovevamo uscire, andare fuori, divertirci. Non potevo rimanere a casa a farmi invadere dalla negatività, non era giusto per lui. Lui era sempre stato la mia roccia, così piccolo e così indifeso, ma era così forte da tenermi ancorata sempre alla mia vita. Il senso di tutto.
- Amore mio, ti va di andare al Luna Park? - Realizzai dopo averglielo detto che non eravamo mai stati al Luna Park e non sapeva cosa fosse, mi guardò perplesso - Andiamo, è un posto dove ci sono tanti giochi da fare ci divertiremo tantissimo!
Ci preparammo e dopo poco eravamo già in macchina pronti per andare.
- Papà non viene? - Mi aspettavo quella domanda di Nathan e gli risposi la verità, papà era fuori per lavoro. Non era felice, piuttosto rassegnato, ma non fece storie. Rimase in silenzio per il resto del viaggio per arrivare al Six Flags America. Era uno di quei posti che avevamo programmato di visitare con Tony e andarci da soli sarebbe stato diverso, ma non dovevo assolutamente farlo pesare a Nathan.
Fortunatamente appena arrivati, vedendo le varie attrazioni, le luci ed i colori il suo umore cambiò subito e stargli dietro mentre correva da una parte all’altra non fu semplice. Mangiammo pollo fritto e zucchero filato sporcandoci tutti e divertendoci a impiastricciarci il viso e le mani sotto lo sguardo della gente che passava e ci lanciava occhiatacce ma non mi importava nulla. Nathan rideva e si divertiva e questo era tutto quello che era importante. Comprammo delle magliette del parco e ci cambiammo e lui era contento di essere vestito come me, anche se diceva che con quella maglietta un po’ troppo stretta si vedeva di più la sorellina. Così insistette per voler prendere anche una maglietta piccolina per lei, perchè così avrebbe avuto una maglia uguale alla nostra. Era la prima cosa che compravo per Sarah e ero entusiasta che l’avesse scelta lui.
Poi andammo insieme su varie attrazioni e sul trenino che faceva il giro di tutto il parco, ma quando in una giostra, potè andarci da solo, si sentì tutto orgoglioso. Lo guardavo ogni volta che passava e mi salutava con un gran sorriso e quando finì il suo giro scese venendomi incontro di corsa. 
Ci fu ancora tempo per un gelato e prima di andarcene passammo davanti ai banchi dei tiri a segno, Nathan rimase imbambolato a guardare bambini ed adulti tirare le palline ai barattoli e sparare ai bersagli tanto che insistette per farlo anche lui e mi prese alla sprovvista perchè tutto volevo tranne che giocasse con delle pistole. Non erano un gioco e doveva starci lontano il più possibile, però non volevo che diventasse triste, mi ero ripromessa di accontentarlo in tutto per farlo felice quel giorno e dovetti scendere a compromessi con me stessa, una cosa che non ero solita fare. 
Ci avvicinammo al primo banco del tiro a segno dei baratoli e qui constatai che quello era un mondo forse più maschilista di quello in cui ero abituata a vivere. Feci dare le tre palline a Nathan che provò a colpire il bersaglio più vicino, riuscendo infine a far cadere due barattoli. Non aveva vinto nulla, ma si sentì ugualmente felice perchè aveva fatto cadere ben due “nemici” e mi congratulai con lui. Poi mentre stavamo per andarcene e cambiare banco, vide che nella postazione vicina un papà aveva vinto un peluche per la figlia e Nathan cambiò subito espressione.
- Ne vuoi uno anche tu? 
Lui annuì e mi feci fare altre tre palline.
- Come funziona? chiesi all’uomo
- Una piramide peluche piccolo, due medio, tre quello grande. Ma visto il suo stato meglio che chiami suo marito. - Mi scappò un sorriso beffardo nel sentire le parole del gestore, un uomo sulla sessantina con una folta barba rossiccia.
Con ognuna delle tre palline tirai giù le piramidi di barattoli, sotto lo sguardo allibito dell’uomo e quello entusiasta di Nathan che potè scegliere uno tra i peluche più grandi, molto più grande di quello che aveva visto prendere alla bambina prima. Prese un leone e fui estremamente felice di aver dato una lezione al poco simpatico gestore, ma la cosa che mi riempì il cuore fu lo sguardo Nathan orgoglioso che mi trascinò, insieme al leone grande come lui, all’altra postazione dove c’era il tiro a segno con le pistole. Provai a dissuaderlo proponendogli di andare ancora a tirare ai barattoli ma fu irremovibile, voleva provare quello. 
- Ci sono i premi anche qui? - Mi chiese vedendo un dinosauro enorme sul fondo del banco.
- Sì. Ci sono i premi anche qui.
- E li possiamo prendere?
- Ci proviamo - gli risposi sorridendo
Si arrampicò sulla pedana per i bambini e fece capolino lo raggiunsi e chiesi all’uomo che gestiva il banco di preparare una delle pistole.
- Ehy piccolo, meglio se torni con papà così ti prende un premio lui. - Disse questo a Nathan che si voltò a guardarmi triste. In quel momento avrei tanto voluto avere la mia pistola.
- Ti fidi di me? - Gli sussurrai all’orecchio e lui fece di sì con la testa.
Stava dritto in piedi sullo sgabello, ancora un po’ troppo in basso rispetto al bancone. Gli diedi la pistola e fu un gesto che mi riportò alla mente tempi lontani, quando più grande di lui, anche mio padre fece la stessa cosa, ma non eravamo ad un Luna Park, non erano pistole finte e non stavamo giocando. Ebbi un brivido e la tentazione di togliergliela dalle mani, mentre vicino a noi altri genitori con altri bambini della sua età o poco più grandi giocavano con pistole e fucili come se fosse la cosa più normale del mondo. Forse lì ero l’unica che si faceva problemi per quello che stava mettendo in mano ad un bambino e probabilmente l’unica che aveva la reale coscienza di cosa era una pistola o un fucile e quali conseguenze portava, come un colpo poteva distruggere la vita di una persona e della sua famiglia, come ti può strappare l’anima dover decidere di sparare e togliere una vita per salvarne altre, come è il sapore della prima volta e come alla fine non lo senti nemmeno più. 
- Mamma?  - Nathan richiamò la mia attenzione
Gli feci vedere come doveva tenerla in mano e come prendere la mira, corressi la postura ed gli suggerii di tenerla ferma con due mani. L’uomo mi guardava ridacchiando, io lo guardai a mia volta con uno sguardo che se avessi potuto lo avrei incenerito, soprattutto quando si lasciò scappare un sorriso dopo il primo colpo di Nathan andato lontano dal bersaglio, il secondo andò meglio, ne sparò un terzo poi mi disse che non gli piaceva e preferiva le palline. Non sapevo se essere felice oppure no.
- Nathan, ma lo vuoi il dinosauro? - Mi rispose timidamente di sì, lo tirai su dalla pedana, mettendolo seduto sul bordo del bancone - Ok, adesso guarda. - Gli dissi sorridendo.
- Quanti punti servono per quel dinosauro lì? - Chiesi all’uomo
- 1000. Per ora ne avete fatto uno, ma si possono cumulare e potete ritornare.
Presi la pistola e scaricai i restanti sette colpi al centro. La feci ricaricare e di nuovo altri dieci colpi al centro del bersaglio. Nathan mi dava il cinque ogni volta che finivo i colpi. Alla terza volta che facevo tutti centri perfetti il gestore mi guardò male.
- Se vuole cambio postazione - gli dissi con aria di sfida e lui accettò, facendomi spostare da un’altra parte caricando un’altra pistola, ma il risultato fu identico e quello continuava a guardarmi odiandomi fortemente. Ormai avevamo fatto un capannello di bambini che mi guardavano colpire il bersaglio senza sbagliare un colpo.
- Se vuole cambio anche mano - gli dissi quando ormai mancavano pochi punti per arrivare ai fatidici mille e quello pensava che stessi scherzando. Il primo colpo volutamente presi un 9 e lui rise, poi con gli altri furono altri centri perfetti, per arrivare a 1000 punti precisi.
- Credo siano tutti. - Gli dissi posando la pistola per l’ultima volta. - Mio figlio vuole il dinosauro.
L’uomo lo prese e riluttante lo consegnò a Nathan che non riusciva a tenere entrambi i suoi trofei insieme, quindi mi lasciò il leone. 
- Mamma…
- Dimmi amore mio
- Ma papà è bravo come te?
- Un po’ meno, ma è bravo anche lui. - Gli dissi sorridendo mentre uscivamo dal Luna Park.
- Ti sei divertito oggi?
- Tantissimo!
Camminavamo nel parcheggio cercando la nostra auto e lui nonostante non lo desse a vedere era distrutto. Feci appena in tempo a metterlo nel seggiolino e legarlo e mettergli vicino i suoi trofei pelosi che si addormentò ancora prima di aver imboccato la strada per tornare a Washington.


Il fine settimana con Nathan era finito in modo nettamente migliore di come era cominciato con la visita di Gibbs ed il giorno dopo il Luna Park andammo al cinema e a cena fuori. Lo stavo viziando, ma in quei giorni ne aveva bisogno ed io più di lui. Eravamo tornati ad essere io e lui, come un anno prima ed in un contesto diverso, in una città diversa, dovevo ricreare quel legame totalitario che avevamo per fargli sentire meno la mancanza di Tony che spesso riaffiorava, soprattutto la sera. 
- Ziva, ti vuole vedere Vance. - Lisa tornata nella nostra stanza mi aveva portato il messaggio del direttore.Mentre stavo salendo le scale, mi chiama McGee e mi dice che non devo andare nel suo ufficio, ma nella sala riunioni vicino la stanza degli interrogatori.Appena aprii la porta rimasi sorpresa nel vedere chi era presente in quella stanza.

- Ciao Ziva
- Ciao Dani è bello rivederti. 
Dani Degas era al tavolo insieme a Vance, Gibbs, Glover e ad un paio dei suoi del Mossad, tra i quali non potei non notare l’ultima persona che mi immaginavo di vedere qui a Washington. Raphael Rivkin. Era il più piccolo dei tre fratelli, era ancora un bambino quando io e Michael avevamo cominciato l’addestramento ma lui aveva una vera e propria venerazione per il fratello. Voleva sempre seguire Michael in tutto quello che faceva ed imitarlo in qualsiasi. Ora che era cresciuto gli assomigliava, molto di più di quanto non assomigliasse a Gabriel. Raphael aveva lo stesso viso di Michael, con quella barba un po’ lunga che lo faceva sembrare più grande dell’età che aveva. Ci guardammo a lungo e lui mi sorrise timidamente, feci un respiro profondo cercando di camuffare la mia inquietudine.
Vance mi fece un cenno per farmi sedere, io cercai con lo sguardo Gibbs che annuì, quindi spostai la mettendomi nel punto del tavolo più lontano.
- Cosa significa questo?
- Vogliamo tutti la stessa cosa - mi disse Vance
- Non credo proprio Leon - risposi.
- Ziva, ha ragione il direttore. Vogliamo tutti la stessa cosa, anche io. - Raphael aveva preso la parola, aveva ancora la stessa voce dolce di quando era un ragazzino ed anche i modi erano gli stessi. Ma avevo imparato a non fidarmi delle apparenze, soprattutto quando c’erano i Rivkin di mezzo, anche Michael sembrava tutt’altro da quello che si era rivelato.
- Non credo che puoi volere la morte di Gabriel - gli dissi senza troppi giri di parole.
- Voglio fermare mio fratello Ziva, è pericoloso e si è schierato dalla parte sbagliata, cercando i nemici nelle fila sbagliate. Tu meglio di chiunque altro dovresti sapere cosa sto dicendo. Ho sperato fino alla fine che non fosse così, ma purtroppo Gabriel è fuori controllo. Tu mi puoi capire Ziva, lo so.
Guardai Gibbs che aveva lo sguardo fisso su di me. Sapevo che pensavamo entrambi alla stessa cosa, alla stessa scena. Sì, sapevo di cosa parlava Raphael e sapevo il suo conflitto interiore, ma non riuscivo comunque a fidarmi totalmente, non tanto delle sue parole, ma della sua forza di volontà. 
- So bene cosa stai dicendo, ma so anche quanta forza ci vuole. Non sono sicura che tu la abbia e che alla fine non ti tirerai indietro o peggio.
- Non posso convincerti delle mie intenzioni future Ziva, spero solo che crederai a chi mi ha portato qui e si fida di me. - Disse indicando Davi Degas.
- Ziva, noi vi lasciamo soli. - Disse Leo - Gibbs, tu vai che so che ti stanno aspettando per partire, Glover continua a seguire i movimenti del gruppo di Zain Thaqan, sono sicuro che quelle false piste che portavano in Turchia non erano così false, come ci hanno confermato anche a Tel Aviv - Davi annuì alle parole di Leon, quindi in tutta questa storia c’entravano anche loro - Hanno solo confermato dei miei sospetti con delle loro fonti, Ziva.
Leon ci tenne a rassicurarmi prima di uscire, se ne andò anche Raphael, lasciando me e Dani da soli.

- Perchè dovrei fidarmi Dani? - Gli chiesi quando la porta si chiuse alle loro spalle. Lui uscì dal tavolo spostando la sua sedia a rotelle e venne più vicino a dove ero io.
- Ho dato le mie gambe per te Ziva, penso di meritare un po' della tua fiducia anche se capisco che quanto accaduto nell'ultimo anno ti faccia dubitare un po' di tutti.
- Non ne avrei motivo di dubitare di tutti?
- Certo, quello che hanno fatto Tamar e Noah è stato vigliacco. Mettere in mezzo un bambino per un ricatto simili per assecondare le folli idee di Orli è stato meschino.
- Quindi sei vice direttore adesso… 
- Già, così pare. 
- Ad un passo dalla vetta.
- Passo che sai bene non farò mai. - Disse toccando le ruote della carrozzina - e non solo in senso fisico. Dicono che un direttore disabile non da un immagine forte e sicura dell’agenzia.
- Ti dispiace?
- No, sono arrivato più in alto di quanto pensassi, nonostante tutto.
- Nonostante me, vorrai dire.
- Non è stata colpa tua. È stata una mia scelta.
- Lo hai fatto per salvare me.
- Siamo vivi entrambi, vedo Ziva, no?
- Tu hai pagato un prezzo alto.
- Mai quanto sarebbe stato la tua vita. - Mi mise una mano sulla gamba e sospirò. - Ma non siamo qui per ricordare i bei vecchi tempi…
- Perchè sei qui allora?
- Innanzi tutto per dirti che quando vuoi tornare a casa tua, non c’è più nessun problema nè impedimento perchè tu possa farlo e ti assicuro che avrai tutta la protezione necessaria.
- Cosa vuoi dire Dani?
- Qui negli Stati Uniti non ti possiamo proteggere da Gabriel Rivkin, in Israele sì. E lo potremmo anche catturare più facilmente.
- Mi proponi di fare da esca tornando a Tel Aviv?
- No ti propongo di tenerti al sicuro fino a quando non prendiamo Gabriel. Non mi pare che sei nelle condizioni di rischiare troppo adesso.
- Poi cosa farai, mi proporrai di rientrare nel Mossad? Ricominciamo da capo Dani?
- No. Non te lo chiedo, perchè so che non lo vuoi. Non ti voglio forzare a fare niente, io non sono come loro. Voglio solo che tu stia al sicuro e sono venuto qui per assicurarmi che tu lo fossi. Che lo fossero anche i tuoi figli. 
- C’è Nathan, va all’asilo qui, si è ricostruito adesso il suo equilibrio…
- Nathan torna a casa Ziva, non può sconvolgerlo questo.
- Tony… 
- So tutto di Tony Ziva, ho parlato con Gibbs prima, in disparte ovviamente. So del tuo matrimonio e di quello che stai passando adesso, non credo si opporrà, magari sarà anche meglio per lui non averti vicino… Pensaci Ziva…

 

 

NOTE: Innanzi tutto mi scuso per il ritardo. Questi capitoli sono un po’ di raccordo per quello che accadrà e per me non sono facilissimi da scrivere cercando di evitare di farli noiosi, quindi mi sto prendendo un po’ più di tempo, sperando di riuscirci, quindi se avete consigli o opinioni in merito sono bene accette.

Altro capitolo tutto Ziva centrico. Prima il confronto con Gibbs che lascerà sicuramente delle scorie che troveremo più avanti, poi la giornata interamente madre/figlio, che porta Ziva anche a fare delle riflessioni sul suo ruolo di genitore e chiedersi in una cosa che potrebbe sembrare così insignificante come comportarsi, ma che per lei ha invece un senso molto più profondo per quello che è ed è stata. Però si riempie di orgoglio nel far felice suo figlio e prendersi la personale rivincita contro i gestori del tiro a segno che hanno evidentemente scelto la mamma sbagliata con cui fare gli sbruffoni e Nathan vede un lato della madre per lui inedito.
Dani Degas è arrivato a Washington con una proposta niente male...

Per quanto riguarda il titolo, è Tallulah
 una bella canzone dei Sonata Artica. vi lascio il link https://www.youtube.com/watch?v=zbQZkqzh9p8

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Capitolo 14
*** Fear of the Dark ***


… Have you ever been alone at night 
Thought you heard footsteps behind 
And turned around and no one's there? 
And as you quicken up your pace 
You find it hard to look again 
Because you're sure there's 
someone there  …

 

ATTENZIONE: Da questo capitolo ci sarà un POV diverso, misterioso, senza nome. Lo riconoscerete perché sarà in corsivo.

 

- Signore… Come dobbiamo comportarci con l’Agente Di Nozzo?
- Seguite quanto concordato.
Di decisioni controverse nella mia vita ne avevo prese molte. Questa però sarebbe stata una delle più particolari. “Stai abusando della tua posizione”, mi disse solo questo il mio vice, quando gli spiegai esattamente quello che dovevano fare.
Il telefono dell’ufficio squillò, riconobbi subito il numero.
- Shalom Davi, dimmi.
- Non credo ci sia modo di convincere Ziva a venire in Israele.
- Ne sei sicuro?
- La conosco, non è cambiata. Dovresti conoscere anche tu com’è. Non lascerà Washington, c’è suo marito è ancora innamorata di lui.
- Lo è da quando lo conosce. Per questo siamo in questa situazione.
- Lo so. Cosa intendi fare?
- Quello che ti avevo già detto.
- Non è rischioso?
- Tutto lo è. Ma questo non vuol dire che vada fatto.
- Come giustificherai questa mossa?
- Non lo farò, non per adesso, non ce ne sarà bisogno. Sai che ho libertà di movimento. Ampia libertà.
- Pensi che questo convincerà Ziva?
- Sarà un incentivo, Davi, non credi?
- Non lo so. Ziva è la persona più imprevedibile che conosco. Potrebbe fare di tutto.
- Non metterà a repentaglio la vita dei suoi figli, nè agendo lei in modo insensato, nè mettendo in pericolo Nathan.
- Puoi metterci la mano sul fuoco?
- Su questo sì, Davi. Assolutamente. Hai avuto modo di parlare con Glover?
- Ci aiuterà. C’è solo un problema, Signore: Raphael.
- Raphael Rivkin?
-Sì, ha voluto per forza accompagnarmi. Pensavo facesse il doppiogioco e invece non è così. Vuole realmente aiutare Ziva.
- È un ragazzo senza esperienza, tienilo a bada. 
- Ok. Gibbs e Vance sono fuori, sono troppo coinvolti con Ziva e Tony per pensare minimamente di renderli partecipi della cosa, soprattutto Gibbs, li considera come se fossero suoi figli, non li tradirebbe mai.
- Te lo avevo detto Davi, era inutile anche solo pensarlo, ma non ti preoccupare, farò in modo che un mio uomo controlli la squadra di Gibbs molto da vicino. 
- Bene. Allora fammi sapere quando gli ingranaggi cominceranno a muoversi. Poi agirò di conseguenza.
- Grazie dell’aiuto, Davi.
- Dovere. 
- Davi, un’ultima cosa. Solo tu conosci la mia identità. Se dovesse venir fuori anche solo mezza parola sul mio coinvolgimento, saprò chi cercare.
- Il tuo segreto con me è al sicuro, Signore.

Appena attaccai con Davi Degas, mandai un messaggio al mio vice. Era il momento.

 

——————————————————————————

 

- E tu chi sei? - Un ragazzo giovane, capelli scuri e occhi altrettanto scuri entrò con uno zainetto e di avvicinò alla mia scrivania.
- Salve, sono l’Agente J.D. Cooleman, sto cercando l’Agente speciale Gibbs
- Mi dispiace non c’è ti posso aiutare? Agente Speciale Anthony Di Nozzo. - Gli diedi la mano e lui la strinse con forza sorridendomi.
- Beh ecco… io sarei il nuovo della squadra.
- Come scusa? Il nuovo cosa?
- Il nuovo agente. Non lo sapevate?
- Ehm no… - Mi voltai a guardare Bishop e McGee che mi guardavano entrambi con gli occhi sbarrati scuotendo la testa. - No, decisamente no. Nessuno di noi.
- Mi posso mettere lì? - Disse indicando la scrivania vuota di Ziva e la mia tentazione era quella di dirgli di non provarci nemmeno, che se lo faceva lo avrei strozzato lì, all’istante ma non potevo, perchè a me di Ziva non doveva fregare più niente, questo era stato deciso. Così sfoderai il mio miglior sorriso 
- Ma certo, è tutta tutta, Nuovo Pivello! - Gli dissi sotto lo sguardo sempre più allibito di McGee - Sei nuovo no? Sei un pivello, quindi sei il Nuovo Pivello, o abbreviato anche NP. Benvenuto a bordo!
- Di Nozzo, con me! - La voce di Gibbs tuonò alle mie spalle
- Ehy Capo qui c’è il Nuovo Pivello che… 
- Lo so chi è, dopo ci presenteremo, ora vieni con me - disse secco scandendo bene le ultime parole e correndo lo seguii.
Seguii Gibbs in una delle sale riunioni al nostro piano. C’era Vance, Glover il nuovo capo di Ziva ed un ragazzo che non conoscevo. Ci sedemmo e Vance cominciò a parlare.
- Abbiamo motivo di credere che Rivkin sia collegato con un traffico di armi che va dalla Somalia agli Stati Uniti passando per la Turchia. E’ da lì che prende le armi per i suoi mercenari adesso.
- Come lo sapete Vance? - Chiesi, visto che sembrava fossi l’unico a non sapere nulla di quella storia.
- Le nostre intercettazioni, quelle che sta seguendo Ziva, ci hanno portato lì. - Intervenne Glover
- Ok… - dissi cercando di non lasciar trasparire nessuna emozione
- In più - aggiunse il ragazzo sconosciuto che solo ora mi rendevo conto essere su una sedia a rotelle - abbiamo avuto anche noi del Mossad le stesse informazioni da altre fonti.
- Mossad? - Mi feci scappare una mezza risata isterica che il tizio sembrò non gradire.
- Sì, Mossad. Qualcosa non va Agente Di Nozzo?
- Diciamo nell’ultimo anno non ho avuto ottimi rapporti con voi, dopo che avete tentato di uccidermi e rapito mio figlio. Credo posso permettermelo di avere qualcosa che non va con voi… - risposi gelido, beccandomi uno sguardo di disapprovazione da parte di Vance, ma l’israeliano non si scompose.
- Io sono Davi Degas, il nuovo vice direttore. Non ho niente a che vedere con quanto accaduto in precedenza, la mia agenzia e i miei colleghi si sono tutti dissociati da quanto è successo ed anzi, le porgo di nuovo le mie scuse. Come potrete aver visto, durante la vostra ultima visita nel nostro paese, benchè non annunciata nessuno ha interferito con i vostri piani, quindi non può considerarmi suo nemico, Agente Di Nozzo. Se non mi crede, può chiedere anche all’Agente David, che le confermerà le mie ottime intenzioni e tutto il sincero affetto ed amicizia che mi lega a lei da quando eravamo solo dei ragazzi a Tel Aviv.
Mi morsi la guancia per evitare di sproloquiare. Gibbs mi stava incenerendo solo con lo sguardo.
- Va bene, quindi? Che dobbiamo fare per prendere quel bastardo? Avete qualche idea voi del Mossad?
- Un contatto che lavora al porto commerciale di Antalya. E’ lì che transitano e vengono ripulite le casse con le armi, inseriti in container che trasportano prodotti tessili per le multinazionali che hanno le fabbriche lì e la destinazione finale è il porto di New York.
- Dobbiamo andare a New York quindi?
- Esatto Tony - intervenne Vance - Andrai tu, con Glover ed il nuovo arrivato l’agente Cooleman.
- Ma Vance, è un pivello, un ragazzino, per una missione così delicata non mi sembra il caso.
- L’Agente Cooleman è più che qualificato, altrimenti non sarebbe qui. Malgrado la sua giovane età ha un curriculum di tutto rispetto. Non sei tu Tony a decidere con chi andare. Lui sarà il tuo partner d’ora in poi.
- Sì direttore. È tutto? 
- Sì, potete andare.

Mentre uscivo fermai Gibbs
- Capo, ti devo parlare - E senza troppi complimenti lo costrinsi a seguirmi dove c’erano le macchinette per il caffè
- Gibbs cos’è questa storia? Tu sei d’accordo?
- Non posso decidere nulla Tony. Ha deciso Vance.
- Ma è un ragazzino, non sa niente di tutta la storia.
- È un ragazzino con un background molto interessante. Quando ho letto il suo profilo per certe cose mi ha ricordato proprio Ziva. 
- Nessuno è Ziva, Gibbs e lo sai, ma questo Cooleman chi è? È per caso…
- No, ho già controllato.
- È una coincidenza strana però Capo e tu non credi alle coincidenze.
- Tony, fai quello che devi fare. Prima finirà questa storia meglio sarà per tutti. Soprattutto per te e Ziva.
- L’hai vista? Come sta?
- Secondo te come può stare dopo quello che le ho detto? 

Come dice il detto “Parli del diavolo e spuntano le corna”, Ziva ci venne incontro nella zona relax. Si bloccò quando mi vide, io feci finta di nulla, continuando a parlare con Gibbs ma cambiando discorso. Alzavo lo sguardo per osservare le sue mosse, si stava prendendo il suo solito tè ben zuccherato. Finii il mio caffè e stavo per ritornare alla mia scrivania quando la vidi appoggiare entrambe le mani al distributore piegandosi in avanti. Me ne fregai di tutti i discorsi fatti da Gibbs e dagli altri ed andai da lei. Le portai un braccio intorno alle spalle e con l’altro la sostenni davanti.

- Ehy, che succede? - Gli chiesi preoccupato
- Niente, va tutto bene Tony, lasciami stare - Rispose scocciata. Dovevo capirla.
- Non stai bene Ziva, ti sei piegata in avanti dolorante
- Tony ti ho detto che va tutto bene. Non ti devi preoccupare per me. Non più. - Le sue parole erano piene di rabbia, eppure non si stava spostando da me.
- Ok, Ziva. Come vuoi. - La aiutai solo a mettersi seduta, poi mentre me ne stavo andando prese la mia mano.
- Senti… - La appoggiò sul suo ventre, sotto la maglia. Sentivo la sua pelle morbida e calda e poi mentre beveva un sorso di te sentii distintamente un movimento. La guardai, respirando profondamente, non dovevo cedere.
- Ti avevo detto che quello che accadeva tra noi, non avrebbe cambiato il tuo essere padre. - Mi disse con tono molto più tranquillo. - Da un paio di giorni ho cominciato a sentirla, adesso si vede che voleva farsi sentire anche da te.
- È lei che ti ha fatto male? - Le chiesi ingenuamente, speravo di sentirla ancora, ma non si mosse più. Tolsi la mano dal suo corpo come se ustionasse.
- No, ancora è troppo piccola. Sono delle fitte ad un legamento, una cosa normale in gravidanza, ma in questi giorni particolarmente fastidiose.
Sarei rimasto lì con lei tutto il giorno ed anche di più. 
- Ok, se stai bene io allora vado e grazie per…
- Per averti fatto sentire tua figlia.
- Sì, già… Stammi bene Ziva e dai una bacio a Nathan. Io devo ripartire, non so se posso passare a salutarlo prima. 
- Non sarà felice, gli manchi molto.
- Mi manca anche lui, diglielo.
- Lo farò. Stammi bene anche tu Tony.

L’incontro con Ziva della mattina mi aveva turbato, molto, anche di più del sapere che il Nuovo Pivello sarebbe stato il mio partner in una missione che poteva essere vitale per la risoluzione del caso e poteva condurci direttamente da Rivkin.
Aver sentito muovere Sarah era stata un’emozione immensa che dovetti reprimere per tutto il giorno.
Solo quando ero tornato a casa e mi ero chiuso la porta alle spalle, avevo lasciato fluire dentro di me tutto quello che avevo tenuto tutto il giorno in un angolo.
Maledivo me stesso per questa situazione, per averla accettata, per essermi fatto convincere, perchè il meglio che hanno prospettato loro non riusciva a tenere conto dei sentimenti e delle promesse. Stavo facendo decidere della mia vita a gente che non sapeva niente di me e di lei, di cosa ci eravamo detti, delle promesse che ci eravamo fatti. Sembrava tutto dannatamente perfetto e coerente. La nostra separazione per delle cazzate fatte da entrambi era stato secondo loro l’alibi perfetto per inserire questa messa in scena. Stai lontano da loro. Ma Ziva lo capì subito e allora il passo successivo. E ora guardavo la mia mano, la stessa con la quale avevo sentito mia figlia scalciare, senza la fede che avevo fatto riconsegnare a lei. Io che tutte le mattine controllavo che la indossasse ancora, ero proprio io a non averla più.
Non doveva andare così, non doveva essere così. Dovevo essere a casa mia, con loro, passare tutta la sera obbligando Ziva a stare immobile per farmi sentire ancora Sarah muoversi, obbligandola a mangiare dolci perchè così avrebbe stimolato i suoi movimenti, mi sarei addormentato su di lei, forse, insieme a Nathan, abbracciandoli tutti e due, anzi, tutti e tre.
Mi facevo solo del male a pensare a queste cose ed il mio telefono, suonando, mi corse in aiuto riportandomi alla realtà di una casa vuota e fredda.

- Di Nozzo. - Risposi ad un numero sconosciuto
- Agente Di Nozzo, sono J.D., volevo dire, l’Agente Cooleman.
- Dimmi J.D. 
- Domani mattina alle 8. Mi ha chiamato Glover. Domani mattina alle 8 andiamo partiamo per New York.
- Perchè ha chiamato te e non me?
- Non lo so Agente DiNozzo.
- JD?
- Sì Agente DiNozzo?
- Chiamami Tony. Ci vediamo domattina.

 

——————————————————————————

 

Tutto avrei voluto il giorno prima tranne che Tony mi vedesse in quel modo. Non volevo mostrarmi nè debole nè sofferente, ma quel dolore al legamento si era fatto negli ultimi giorni sempre più insistente, nulla di grave, lo aveva detto anche il medico, solo fastidioso.
Poi però Sarah si stava muovendo e non volevo che Tony si perdesse quel momento. Qualunque cosa stesse accadendo tra di noi era sua figlia e gli avevo promesso che certe cose le avremmo vissute insieme. Non immaginavo così, certo, però almeno anche lui adesso aveva la percezione reale di sua figlia, non un’immagine o un suono riprodotti da una macchina, ma lei che reclamava la sua presenza nel mondo ed aveva voluto richiamare la sua attenzione in quel modo improvviso.
Nathan rimase stupito ed incantato nel sentire la prima volta i movimenti di Sarah tempestandomi di domande su come faceva a muoversi lì dentro che era uno spazio piccolo, se stava stretta e poi sempre la solita, tra quanto sarebbe venuta fuori. Poi prendeva la magliettina che aveva comprato, che teneva in camera sua, perchè lei poi avrebbe dormito con lui, così aveva deciso, gli avrebbe fatto spazio vicino al box con le palline colorate, e l’appoggiava sulla mia pancia, e si chiedeva se le sarebbe andata bene. Era adorabile il mio piccolo uomo che cercava sempre di tirarmi su di morale e tornando ad essere il bimbo voglioso di coccole che era sempre stato. Non so se faceva finta, ma negli ultimi giorni aveva cominciato a chiedermi meno anche di dove fosse il papà, e se questa cosa da una parte mi faceva stare più tranquilla, perchè era più sereno, dall’altra mi dispiaceva perchè non avrei mai voluto che il suo rapporto con Tony si interrompesse.

Ascoltare intercettazioni, tracciare profili e rotte. Questo facevo fa qualche tempo e lo trovavo estremamente frustrante. Non ero questa, non ero un tecnico. Niente azioni, ok, ma non era nemmeno quella l’unica alternativa. Dovevo parlare con Glover,  dovevo fare altro, ma dalla mattina non si era visto. Trovavo alquanto strano che in quella squadra ognuno in pratica lavorasse per se stesso. Non c’era collaborazione, non c’erano scambi, sembravamo più una catena di montaggio. Ognuno svolgeva il suo compito e lo passava all’altro. Chiesi a Lisa se lo avesse visto, mi aveva detto che era andato fuori città per una missione insieme a due della squadra di Gibbs. Il suo essere così evasiva mi fece capire che uno di quei due era Tony, non mi disse di sì, ma ci avrei messo poco a capirlo. Lasciai lì tutto il mio lavoro ed andai nell’altra stanza, quella che nonostante tutto consideravo ancora stupidamente la mia.
Tim, Bishop e Gibbs erano tutti intorno allo schermo e lo osservavano attenti. Mancava solo Tony. Pensai che Lisa si fosse sbagliata, non erano due della squadra di Gibbs, Glover era fuori solo con Tony. Perchè doveva andare a fare una missione con Tony? Aveva tanti agenti nella sua, anzi nella nostra, squadra.
- Gibbs! - Nel sentire la mia voce tutti e tre distolsero lo sguardo dal monitor per guardarmi. Le loro facce erano tese, preoccupate ma c’era anche qualcosa di più. - Cosa sta succedendo?
Mi sporsi e vidi quella che era la mia scrivania non più vuota, c’era un nuovo portapenne, un paio di foto attaccate nella parete divisoria. Qualcuno era entrato nella squadra, qualcuno aveva preso il mio posto ed era con Tony.
- Che ci fai qui Ziva?
- Cercavo il mio capo, Gibbs. Mi hanno detto che è con due dei… vostri - dissi mordendomi la lingua.
- Non dovresti essere qui. - Mi ripetè Gibbs
- Gibbs. Cosa. Sta. Succedendo.
Mi si parò davanti senza troppa convinzione. Andai oltre e vidi il rapporto sullo schermo.
Erano stati attaccati. Era stato un agguato. Glover non aveva fatto in tempo ad avvisarli e Tony con il nuovo agente, Cooleman, erano finiti nel mirino dei turchi. L’agente Cooleman era stato recuperato, Tony era stato preso dal gruppo di contrabbandieri.
In quel momento potevo fare due cose: farmi prendere dalla disperazione e cedere o fare quello per il quale ero stata addestrata per anni: reagire con maggior forza, concentrarmi su un obiettivo. Scelsi la seconda. Feci un respiro profondo, svuotai la mente.
- Da quanto tempo lo sapete?
- Da poco prima di pranzo.
- Sono passate ore! Perchè non mi avete avvisato?
- Non è una cosa che riguarda la tua squadra.
- È una cosa che riguarda mio marito. Come parente più prossima dovevo essere informata Gibbs, magari anche interrogata, una volta funzionava così.
- È diverso, Ziva. No, lo vuoi rendere tu diverso. Ho il diritto di sapere.
- Non di indagare però David. Adesso sai. Vai a casa. - Vance ci aveva raggiunti.
- Direttore, posso esservi d’aiuto. Stavo seguendo io i movimenti dalla Somalia alla Turchia e da quello che scoperto non…
- David, te l’ho detto, non devi essere tu ad indagare su questo caso. Ho i tuoi rapporti. Va bene così.
- Non va bene così Leon. È Tony quello che in mano loro. Cosa ne sapete di quello che è successo eh? Cosa state facendo per lui? - Avevo già perso la calma che mi ero imposta di mantenere.
- Stiamo facendo tutto il possibile. Una squadra di New York è già sul posto, aspettiamo che tornino Glover e Cooleman per sapere cosa è successo di preciso. - Continuò Vance per nulla turbato dalla mia reazione.
- Da quando in qua se uno dei nostri scompare sono gli altri a fare le indagini Vance? Da quando? - Gli urlai in faccia senza nessun pudore e Gibbs mi prese per le spalle allontanandomi.
- Non è scomparso uno dei tuoi, Ziva. Glover sta tornando. Gibbs deciderà al meglio, come ha sempre fatto, per gli uomini della sua squadra. Ora vai a casa, non te lo ripeterò ancora una volta.

Me ne andai furiosa. Provai a chiamare Davi per sapere se aveva delle informazioni, ma non era raggiungibile, eppure sapevo che era ancora negli Stati Uniti. Decisi quindi di chiamare Aaron. Mi serviva ancora il suo aiuto e mi invitò ad andare da lui.
In poco tempo trovammo quello che mi serviva. Il fascicolo di J.D. Cooleman che mi stampò non prima di avermi messo in guardia da non mettermi in situazioni pericolose. Questo ormai sembrava il ritornello di tutti ogni volta che mi parlavano.

Passai tutto il pomeriggio a studiare quei fogli, cercando tutti gli appigli possibili. Non sapevo da dove cominciare per trovare qualcosa, ma quella situazione era anomale. Tony va in missione con un nuovo partner inesperto, lui ne esce illeso e Tony scompare. Non era normale ed anche se quel fascicolo non nascondeva nulla di strano la cosa era ancora più sospetta. Era tutto troppo perfetto.
Arrivai in casa di Gibbs come una furia, scesi più velocemente che potevo le scale e come sempre lo trovai lì, a levigare il legno della sua barca. Misi una mano sulla linea del suo lavoro per fermarlo.
- Gibbs, mi devi stare a sentire.
- Ciao Ziva, come stai?
- Saltiamo i convenevoli. Lo sai anche tu che c’è qualcosa che non va in tutta questa storia.
- Calmati Ziva, sei troppo agitata, non ti fa bene. Siediti.
- Gibbs, non mi dire che mi devo calmare. Non mi dire che sono troppo agitata - urlai - mio marito è stato rapito, non si sa da chi nè perchè. Non so come sta, se è sempre vivo, che cosa vogliono. Devo stare calma? 
- Ziva, stiamo facendo il possibile, lo sai!
- Sembra che non te ne importa niente di Tony! Lo hai mandato in una missione folle, da solo con un agente del quale non sappiamo nulla, un ragazzino che non so nemmeno che addestramento abbia e perchè sia nella tua squadra! Gli fanno un agguato e guarda caso, lui si salva senza nemmeno un graffio e Tony che è uno dei migliori agenti con i quali ho lavorato viene catturato e non si sa più niente di lui! Come puoi crederci Gibbs! - Ero stanca, fisicamente e mentalmente. Distrutta dai sensi di colpa e preoccupata per Tony. Tremavo mentre parlavo con Gibbs, i miei nervi stavano per cedere.
- Ziva, lo so che non vuoi sentirtelo dire, ma ti devi calmare veramente. Andiamo di sopra, non ti fa bene stare qua.
Salii le scale non con poca fatica. Gibbs mi fece sedere sul divano e mi portò un bicchiere d’acqua, poi si sedette vicino a me, cingendomi le spalle con un braccio. Istintivamente appoggiai la testa sul suo petto e mi lasciai andare ad un pianto liberatorio. Mi fece bene e riuscii a calmarmi. Bevvi l’acqua e feci un respiro profondo, ricominciai a parlare.
- Ho preso informazioni su J.D. Cooleman. Jeremy David Cooleman. 23 anni. Viene dalla CIA. Gibbs, a 23 anni? Ha già il curriculum per venire dalla CIA all’NCIS? Non ti sembra strano?
- Ziva, tu a 23 anni avevi un curriculum molto più ampio del suo, proprio tu ti fai venire certi dubbi?
- Non è stato nel Mossad e non aveva un padre come il mio. - Gibbs non raccolse la mia provocazione.
- Ho fatto anche io le mie indagini, Ziva. Me lo hanno imposto, non l’ho chiamato io. Ti posso dire che è indubbiamente in gamba, ma una cosa mi ha insospettito, Il suo cognome è uguale a quello di un nostro contatto alla CIA, quello che ci sta dando le informazioni su Rivkin, che lavora in contatto con il Mossad.
- Non può essere una coincidenza Gibbs, lo sai anche tu!
- Lui non ha i genitori, è cresciuto con i nonni materni nel Maryland, vicino Baltimora.
- Hai un’indirizzo? 
- Cosa vuoi fare?
- Ci voglio andare a parlare Gibbs.
- Con quale autorità pensi di farlo? E soprattutto pensi che non glielo riferiranno?
- Dirò che sono per fare delle valutazioni, qualcosa mi invento.
- Se è veramente un infiltrato ti metterai in pericolo Ziva! Non lo capisci? Devi pensare ai tuoi bambini adesso. A Nathan e a lei che deve ancora nascere! Non ti puoi mettere nei guai!
- Gibbs, devo fare qualcosa, non posso starmene con le mani in mano mentre non so che fine ha fatto mio marito. Perchè Gibbs, Tony è mio marito. E per me lo sarà fino a quando non sarà lui a dirmi il contrario. E se voi state tutti qui, con le mani in mano, ci vado da sola a riprenderlo, ovunque sia. E sai che non mi manca nè la capacità nè i mezzi per farlo.
- Ziva, non fare cose stupide. Tony non te lo perdonerebbe mai. Lo sai.
- Se non facessi niente per trovarlo, non me lo perdonerei mai io.

 

———————————————

 

- Signore
- Dimmi
- È andato tutto come previsto.

 

 

 

NOTE: Ancora una volta sono costretta a scusarmi per il ritardo. Però preferisco scrivere qualcosa di degno (spero) piuttosto che pubblicare qualcosa tanto per farlo. Come avete letto già dall’introduzione, abbiamo un nuovo personaggio misterioso, che avrà un suo POV. Spero che questa cosa vi abbia incuriosito almeno un po’. Per quanto riguarda il capitolo, giudicate voi, sono curiosa di sapere che ne pensate di questa svolta.

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Capitolo 15
*** I still haven't found what I'm looking for ***


… I have run 
I have crawled 
I have scaled these city walls 
These city walls 
Only to be with you 
But I still haven't found what I'm looking for   …

 

Quella sera nemmeno Nathan riuscì a sciogliere la mia preoccupazione per le sorti di suo padre. Pensai tutta la notte a cosa avrei dovuto fare, l’unica cosa certa era che mi sarei dovuta muovere da sola. Non avevo trovato in Gibbs l’appoggio sperato e Vance le era sembrato addirittura ostile. Odiava quel senso di immobilismo che avevano tutti. Era Tony quello che era sparito, era uno di loro.
Il mattino seguente appena arrivata all’NCIS andai subito da Gibbs a chiedere novità. Lui non c’era.
- Ziva, lo sai, non ti posso dire niente su questa indagine - Disse McGee sconsolato
- Tim non te lo chiedo come agente, te lo chiedo come moglie. Cosa sta succedendo a Tony?
- Agente David… - vi voltai verso la voce che mi chiamava - … Mi dispiace per quanto accaduto all’Agente DiNozzo. Siamo stati colti di sorpresa.
J.D. Cooleman era davanti a me. Era un ragazzino, forse sembrava anche più giovane della sua età se non avesse avuto quella barba che gli segnava il profilo del volto, estremamente curata, come i capelli neri ordinatamente pettinati lasciando solo qualche ciocca distrattamente sulla fronte. I suoi occhi scuri mi guardavano come se volesse scavarmi in profondità ed esaminare i miei pensieri. Forse era la stessa sensazione che stavo dando io a lui, perché era esattamente quello che facevo.
- Del suo dispiacere, Agente, non so cosa farmene adesso.
- Lo capisco. Ma sono comunque dispiaciuto.
Si andò a sere alla mia scrivania, posando diligentemente le sue cose sul tavolo, riponendo con cura lo zaino a terra. Era meticoloso. 
Uscii da lì per andare nella mia stanza, sentii qualcuno che mi seguiva, mi girai ed era Tim.
- Che vuoi McGee? - Chiesi seccata
- Ziva… Tony non era convinto di andare con il Nuovo Pivello, come lo aveva chiamato lui.
- Mi sarei sorpresa del contrario, Tony non è stupido.
- Lo so. Non so cosa è successo, veramente. Abbiamo avuto i rapporti di Glover e Cooleman, ma non c’è nulla di incongruente e di particolare in quello che hanno detto. I ragazzi di New York li stanno cercando, hanno trovato un’auto abbandonata dove probabilmente è stato tenuto fino a quando non hanno cambiato mezzo.
- Come fanno a sapere che era lì?
- Ziva…
- Parla Tim!
- Hanno trovato delle tracce di sangue e corrispondeva a quello di Tony, ma era in quantità esigue, una ferita superficiale, probabilmente.
Glover stava avvicinandosi a noi e Tim se ne stava per andare.
- Tim, mi serve un favore.
- Dimmi, se posso.
- Puoi andare a prendere Nathan e tenerlo con te fino a quando non torno?
- Che vuoi fare Ziva?
- Quello che qui non sta facendo nessuno. Trovare Tony.
- Stai a attenta per te e per… 
- Sarah, sì, starò attenta. Grazie Tim.

Tornai nel mio ufficio. Glover faceva finta di niente, come se non fosse accaduto nulla, come se la cosa non mi riguardasse. Andai davanti alla sua scrivania in cerca di risposte.
- Cosa è successo ieri Glover?
- Ho informato chi di dovere e scritto il mio rapporto, ma non è un’azione che ti vede coinvolta Ziva, mi dispiace, non sono tenuto ad informarti.

 

———————————————————————

 

La stanza era buia o forse era solo la benda troppo scura davanti agli occhi che mi faceva immaginare che fosse così. Avevo un gran male alla tempia. L’ultima cosa che ricordavo eravamo io e Cooleman al porto, la conversazione con Glover che mi diceva di stare attento perchè c’erano dei movimenti sospetti e ci avrebbe raggiunto. Poi il nulla, fino a quando non mi sono risvegliato qui. Avevo le braccia legate dietro la schiena ed ero adagiato su qualcosa di relativamente morbido. Un letto, probabilmente o qualcosa di simile. Provai a muovermi, molleggiandomi un po’ per saggiarne la consistenza e sì, pareva proprio un letto o qualcosa di simile. Le gambe erano libere, cercai di mettermi almeno seduto, ma la testa mi girava e non riuscii a fare nulla. Cercavo di studiare i rumori che sentivo, ma non c’era nulla, solo un ronzio continuo, come una ventola o un sistema di aria condizionata.
Sentii lo stridolio di una serratura aprirsi e passi pesanti venirmi incontro.
- Si rilassi, Agente Di Nozzo. Se farà quello che diciamo noi, nessuno si farà male. - La voce dell’uomo sembrava ovattata ma il tono era calmo, con un forte accento straniero, forse era uno dei turchi, ma non ne ero sicuro. - Adesso le toglierò la benda e le libererò le mani. Non provi a reagire in alcun modo, altrimenti non uscirà vivo da qui, mi sono spiegato?
- Va bene.
Mi slegò i polsi e sentii un gran formicolio alle mani. Sfilò la benda e vidi davanti a me un uomo interamente vestito di nero senza alcun segno distintivo, passamontagna che lasciava solo una fessura per occhi e naso. Indossava anche dei guanti, anche questi neri.
- Non è nostra intenzione farle del male, Agente. Appena avremo ottenuto quello che vogliamo, sarà liberato.
- Altrimenti?
- Altrimenti rimarrà qui fino a quando non lo otterremo.
Mi lasciò un vassoio dove c’erano due sandwich e una confezione di acqua nel tetrapack. Mi guardai finalmente intorno. C’era una luce fredda che illuminava debolmente l’ambiente. Io ero seduto su un materasso poggiato su una base rialzata in cemento. Non c’erano finestre, muri, pavimento e soffitto era tutto grigio cementato. Da un lato c’era una sorta di lavandino in acciaio con una fessura dalla quale presumevo sarebbe uscita dell’acqua premendo il pulsante nel muro e vicino wc sempre in acciaio che sembrava essere parte integrante del muro. Sembrava la prigione di qualche bunker, sicuramente non una cosa organizzata da un giorno all’altro. Per quel che ne sapevo potevo essere da qualsiasi parte del paese o del mondo. Non sapevo se era giorno o notte, quanto tempo era passato. Ma soprattutto non avevo idea nè cosa volessero, nè da chi in cambio della mia libertà

 

———————————————————————

 

Arrivai a Owing Mills e trovai facilmente la villetta dei Cooleman. Parcheggiai fuori dal vialetto e mi avvicinai all’entrata. Bussai con decisione alla porta e mi venne ad aprire un uomo molto anziano, dai modi gentili.
- Buonasera è lei il signor Elias Cooleman?
- Sì, cosa desidera?
- Sono l’Agente David, NCIS.
- Oh, è successo qualcosa a Jeremy?
- No, signor Cooleman, Jeremy sta bene, volevamo solo farle qualche domanda, per una nostra ricerca sui nuovi Agenti, in modo da stabilire un profilo più definito, posso rubarle qualche minuto?
- Ma certo, la prego, entri.
Entrai in quella casa ed osservai attentamente ogni cose. Tutto era disposto con particolare cura, ogni oggetto, ogni soprammobile, ogni fotografie. Ce ne erano molte di J.D., da quando era molto piccolo fino a qualcuna molto recente abbracciato ai suoi nonni, tutte le foto ritraevano solo lui, non c’era traccia dei suoi genitori. Mi avvicinai ad un mobile dove in una cornice di legno c’era una foto di lui da piccolo sorridente che giocava con una palla da football. Sentii arrivare a piccoli passi un’altra persona e la voce di Elias interruppe la mia osservazione.
- Agente, lei è Ruth, mia moglie. Prego si accomodi.
Ci sedemmo sulle poltrone del salotto, erano sicuramente molto vecchie, ma rivestite con stoffe floreali che le rendevano perfette per quell’ambiente così familiare che sembrava fermo nel tempo a molti anni prima. La donna poggiò sul tavolo una torta e me ne volle offrire una fetta.
- Prego, ne prenda pure un pezzo. L’ho appena fatta, sa per le feste di questi giorni… Rabarbaro e fragole.
Ormai non consideravo più il calendario ebraico delle feste, ma doveva essere il periodo del Sukkot, a quanto pare era una famiglia molto più osservante di quanto non lo fossi io. Presi un pezzo di torta e nell’assaporarla mi vennero alla mente ricordi di tanti anni prima.
- Le piace? - Mi chiese dolcemente l’anziana signora
- Molto, la faceva sempre anche mia madre. Erano molti anni che non la mangiavo più.
Mi sorrise dolcemente. Appena ricevuta la dose di zucchero sentii Sarah muoversi e feci un sussulto che non passò inosservato alla donna.
- Piace anche al suo bambino.
- Sì, le piacciono molto i dolci, a quanto pare. È femmina, si chiamerà Sarah.
- È un bellissimo nome, degno di una principessa.
Rabbrividii a quelle parole pensando a Tony. Mi ritrovai a parlare piacevolmente con quella coppia. Erano molto affezionati a quell’unico nipote, tutto ciò che rimaneva della loro famiglia, così mi disse Elias trattenendo a stento le lacrime. Mi raccontarono di come suo padre non l’aveva mai riconosciuto e sua madre era morta pochi anni dopo la sua nascita. Gli chiesi se poteva dirmi come rintracciare il padre di J.D., ma mi disse che era morto qualche anno fa ed anche lui non aveva più parenti. Jeremy era tutta la loro famiglia e loro erano tutto quello che rimaneva a Jeremy.
Li ringraziai, infine e la donna insistette per dammi un pezzo di torta da portare via e accettai grata.
Tornai a casa con le idee ancora più confuse di quanto ero andata lì.

 

———————————————————————


- Pronto
- Sono io, Elias.
- Dimmi.
- È stata qui.
- Ziva?
- Sì, oggi pomeriggio. Si è presentata con il suo nome. Non ha paura di essere scoperta, evidentemente. È molto determinata.
- Cosa ha fatto?
- Ha guardato un po’ in giro le foto di Jeremy, fatto qualche domanda sul suo passato e mangiato una fetta di torta, dicendo che ricordava quelle di sua madre.
Risi tra me e me al pensiero di Ziva che andava a fare un’indagine e finiva per mangiare una fetta di torta nel salotto di due sconosciuti. Elias però aveva ragione. Quella donna era straordinariamente determinata e sicura di se. Non aveva paura di nulla, ma questa non era una novità.
- Tutto qui?
- Sì, tutto qui.
- Grazie, papà


———————————————————————

 

Rientrai a casa dopo essere passata a prendere Nathan da Tim. Si era già addormentato. Prima di rientrare a Washington mi ero fermata per strada quando avevo visto l’ingresso di un parco poco fuori la città. C’ero stata una volta, con Tony, molti anni prima, prima di tornare a Tel Aviv, poco dopo che mio padre era morto, quando eravamo già tutto senza saperlo o volercelo dire. Avevamo passato tutto il giorno libero insieme, mangiando sull’erba del prato chiacchierando di nulla, divertendoci senza riuscire a rompere quella distanza che ci separava, allontanando le mani quando troppo vicine trasmettevano l’elettricità che c’era tra noi e poi trovandoci senza volerlo con le dita intrecciate mentre eravamo sdraiati a guardare il cielo. Rimasi lì fino a quando non fu buio tra la preoccupazione per il futuro e la nostalgia di quel passato che nonostante tutto sembrava molto più leggero.
Portai Nathan a casa e lo misi subito a letto. Rimasi in camera sua a guardarlo dormire, fino a quando non mi addormentai anche io nella poltrona vicino a lui.

La mattina seguente mi ero già preparata mentalmente al confronto che ci sarebbe stato con J.D., convinta che mi avrebbe chiesto almeno il perché di quella visita dai suoi nonni. Quando lo incrociai in corridoio, invece, non mi disse nulla, mi salutò solamente in modo cordiale, dicendomi anzi, che ancora non c’erano novità su Tony: era stata la prima persona che mi aveva fino ad ora informato spontaneamente di qualcosa che riguardava mio marito, non sapevo se la cosa dovesse farmi piacere o mettermi ancora di più in allerta. Portata a dubitare sempre su tutto e tutti, optai per la seconda scelta, così quando lo vidi nella zona relax approfittai per prendere qualcosa anche io, con la scusa di fare uno spuntino di metà mattina. Ci scambiammo poche parole e di nessuna rilevanza, era un ragazzo sicuramente molto ben educato, non solo dalla propria famiglia, era uno che era stato addestrato per tenere una conversazione di nessun conto facendola sembrare una cosa normale, tattica usata frequentemente soprattutto durante alcune missioni sotto copertura.
Aspettai che finì il suo caffè e mi trattenni ancora un po’. Recuperai il bicchiere, buttai il mio e poi andai direttamente da Abby.
- Ziva! Hai novità? Sai qualcosa su Tony?
- No Abby, nulla, mi serve un favore, è urgente e non lo deve sapere nessuno. - Gli diede il bicchiere
- Che stai facendo Ziva?
- Quello che non fa nessuno, capire dove è Tony, cosa gli è successo e perché hanno preso solo lui. - Abby era visibilmente preoccupata, ma ancora non mi aveva risposto - Allora mi puoi aiutare almeno tu? Mi posso fidare di te?
- Certo Ziva, certo! Cosa vuoi sapere.
- Controlla il dna che trovi su questo bicchiere, voglio sapere se c’è un riscontro anche non diretto, di parentela con chiunque faccia parte di qualsiasi agenzia federale, esercito, marines, tutto…
- Perché?
- Meno sai meglio è, per te dico.
- Sei tu ora che non ti fidi di me Ziva! - Disse la scienziata risentita.
- No, Abby, mi fido di te, ma non voglio metterti nei guai. Tu devi solo farmi sapere se c’è qualche corrispondenza con qualcuno. Chiunque, ok?
- Ok… - Ziva se ne stava andando quando Abby la richiamò - Tu come stai?
- Determinata. Voglio ritrovare solo mio marito e capire cosa c’è dietro questa storia, oltre Rivkin.
Il telefono di Abby squillò e fece solo in tempo a dire “Ok arrivo”
- Mi vogliono di sopra, dai andiamo su insieme. - Disse alla sua amica. Chiuse il laboratorio e si avviarono

 

———————————————————————

 

- Dimmi J.D.
- Sono riuscito a cambiare il campione che Ziva ha consegnato a Abby
- Bene. Sei sicuro che quel campione è pulito?
- Assolutamente sicuro. Non è in alcun modo riconducibile a me Signore.
- Bene, dovrai fare molta più attenzione, Ziva è molto più pericolosa di quanto immaginassi. Non ti darà mai tregua fino a quando non scoprirà la verità. Evitala il più possibile, ma senza dare nell’occhio, mi hai capito?
- Sì signore.

 


 

NOTE: Questo capitolo vi ha schiarito le idee o ve le ha confuse ancora di più? :D

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Capitolo 16
*** 16 Not Today ***


… There she goes in front of me
Take my life and set me free again
We’ll make a memory out of it
Holy road is at my back
Don’t look on, take me back again
We’ll make a memory out of it   …

 

- Ziva! 
Abby mi aveva chiamato poco prima per raggiungerla in laboratorio. Erano passate poco più di 24 ore da quando le avevo dato il campione da esaminare.
- Allora novità?
- Sì, cioè no.
- Abby! Sì o no? - Le chiesi indispettita dal suo prendere tempo quando io volevo arrivare subito al sodo. Era la cosa che più mi infastidiva del suo carattere ed io ero particolarmente suscettibile in quei giorno. Lei sbuffò notando la mia particolare poca propensione alle chiacchiere
- Sì ho finito i test. Li ho fatti due volte, per sicurezza, cercando fino alle parentele di terzo livello. No perchè non c’è niente. Nulla. Zero. Nessuno presente negli archivi di nessuna agenzia, esercito o altri corpi militari può essere ricondotto al tuo campione, fino a parenti di terzo grado.
Sbattei una mano sul tavolo per la frustrazione. Abby mi abbracciò comprensiva e ricambiai il gesto. Un po' di calore umano faceva era quello di cui avevo bisogno. Non avevo niente e la mia unica idea era stata un buco nell’acqua.

Risalii al mio piano e nel corridoio sentii le ruote della carrozzina di Dani seguirmi.
- Sei ancora qui?
- Il caso di Rivkin è molto importante per l’agenzia. - ci fermammo a parlare lì.
- Non siete nemmeno sicuri che sia qui, non ricordo poi che per prassi il vice direttore seguisse certi casi.
- Sono cambiate alcune cose, Ziva.
- Evidentemente. - feci per andarmene ma lui mi richiamò - Dobbiamo parlare.
- Non credo Dani.
- Sì Ziva, è importante. 
Lo conoscevo troppo bene. Non avrebbe desistito. Gli feci cenno di seguirmi, c’era una stanza vuota ed andammo lì. Presi una sedia e mi misi davanti a lui.
- Allora? - gli chiesi impaziente - Di cosa dovevi parlarmi?
- Torna in Israele.
- Ti ho già dato la mia risposta.
- Veramente no, Ziva. Con Tony catturato non sappiamo da chi e per cosa, anche tu sei un bersaglio. Anche Nathan lo è. Vuoi questo per lui? Vuoi che sia un bersaglio già alla sua età?
- No. Ma non voglio nemmeno obbligarlo ad un infanzia di continui spostamenti in nome della sicurezza. So cosa significa. Non voglio questo per il futuro di mio figlio.
- Vuoi un futuro per tuo figlio, Ziva?
- Dani come ti permetti?
- Di dirti la verità? Di farti guardare in faccia la realtà delle cose? Non sei solo tu, non più. Devi fare la scelta migliore Ziva.
- E sarebbe tornare in Israele secondo te? È lasciare qui mio marito rapito chissà da chi o perché?
- Ci stanno lavorando. E lui cosa pensi ti direbbe? Di mettere al sicuro come prima cosa Nathan e te. E vostra figlia. O no?
- Che ne sai tu di cosa mi direbbe Tony? Sicuramente non di tornare in Israele.
- Oh sì se è la cosa che ti farebbe essere al sicuro.
- Tu non conosci Tony.
- Ma sono un padre. E so cosa farei per volere mia figlia al sicuro, anche portarla nel posto che odio di più, se fossi certo che lì sarebbe ben protetta. 

Nathan dopo i dinosauri aveva una nuova passione da qualche giorno: i supereroi. 
- Proteggono i buoni - diceva lui - come te e papà
Ogni volta che lo diceva era una fitta al cuore. Nathan ormai non chiedeva quasi più di Tony, nè quando sarebbe tornato nè perchè non era lì. Eravamo tornati ad un anno prima, come se suo padre fosse stato solo una parentesi in quei mesi. Ero io che gli parlavo di lui, dicendogli che lo avevo sentito e che lo salutava ma stava facendo una missione super segreta, come i supereroi
Bussarono alla porta e quando andai ad aprire rimasi stupita dell’uomo che trovai davanti
- Cosa ci fai tu qui?
- Vorrei parlarti, Ziva, posso?
Raphael Rivkin era davanti a me e chiedeva di entrare a casa mia. Acconsentii, portai Nathan in camera sua a giocare e lo feci accomodare.
- Cosa vuoi Raphael?
- Parlarti, te l’ho detto. Da soli.
- Dimmi, allora. Ti ascolto. 
Raphael si alzò cominciando a camminare nervosamente davanti ai divani.
- Io non credo che dietro al rapimento di Tony ci sia Gabriel. - lo disse guardandomi negli occhi con preoccupazione e pura - Lui non lo avrebbe mai rapito, non per farsi consegnare i carichi sequestrati, non per fare affari con quella gente. Se lui avesse Tony fra le mani lo avrebbe ucciso, subito e ti avrebbe mandato il cadavere di tuo marito con i suoi saluti. Lo sai anche tu Ziva.
Il mio silenzio gli fece capire che ero d’accordo con lui. Quella storia non aveva senso, da nessun punto di vista.
- Ziva, c’è qualcun altro o qualcos’altro dietro tutto questo. Non so cosa, ma non è il modo di agire di Gabriel, io lo conosco.
- Perché dovrei fidarmi di te, Raphael?
- Perché quello che fanno i nostri fratelli non può essere una nostra colpa e tu lo dovresti sapere bene. Io voglio solo che tutto questo finisca. Michael è morto. Gabriel è destinato a fare la stessa fine e spero solo che venga fermato prima di fare altre vittime inutili. Lui è ossessionato da te e DiNozzo, da quando Michael è morto. Sai quanto amasse nostro fratello.
- Lo so. E tu sai quanto ancora mi dispiace per quello che è successo con Michael, non doveva finire così.
- Lo so. Ma quando Gabriel ha saputo di te e l’agente DiNozzo… - era imbarazzato a parlarmi e lo ero anche io.
- Non può essere questa una colpa. - provai a giustificarmi 
- Non lo è. Non sono qui per farti sentire in colpa. Voglio solo dirti di stare attenta. C’è qualcuno o qualcosa che sta manovrando tutto. Non so perchè.
- Il Mossad?
- Non lo so. Ma non siamo noi a gestire questa storia. 
- Degas mi ha detto che dovrei andare in Israele, sarei più al sicuro lì e sarebbe più facile prendere tuo fratello se provasse ad avvicinarmi.
- È vero. È giusto.
- Quindi anche tu pensi che dovrei farlo. 
- Non te lo posso dire io. Tu sei capace di decidere da sola cosa è meglio per te e per i tuoi figli. - usava le stesse parole di Degas. 
- Ti ha mandato Dani? Sii sincero Raphael. - gli chiesi infine
- No. Non sa che sono qui e non sapevo nemmeno che te lo avesse chiesto. Lui non sembra fidarsi molto di me.
- Dovrei farlo io?
- Lo spero Ziva. - la sua voce era amareggiata ed il suo sguardo sincero.
- Raphael, grazie.
- Di cosa?
- Di avermi detto quello che pensi. Dei tuoi dubbi. Sono gli stessi miei e non so più di chi devo fidarmi.
- Fidati di te stessa, Ziva. - fece una pausa - e del tuo capo.
- Di Glover?
- No, di Gibbs. Lui ti vuole bene, si vede da come parla di te. Ora devo andare. Ti prego non dire a nessuno che sono venuto da te.


————————————

 

- Signore?
- Dimmi agente Cooleman
- Raphael Rivkin è appena uscito da casa di Ziva.
- Era solo?
- Sì. Degas pensa che lui sospetti qualcosa.
- Fate in modo di accelerare le cose. 

 

————————————

 

Appena entrati in casa fu impossibile fermare Nathan. Scese le scale di corsa urlando mentre io lo aspettavo vicino alla porta che dava allo scantinato. Dopo poco vidi salire Gibbs con mio figlio in braccio ed una piccola barca di legno. Mi sorrise mentre lo rimetteva a terra e subito andava a buttarsi su uno dei suoi divani, senza fare troppi complimenti. Non mi piaceva che si comportasse così e lo stavo per riprendere ma prima di aprire bocca uno sguardo di Gibbs mi bloccò. Era fin troppo indulgente con lui, ogni volta, ma si piacevano, evidentemente da subito.
Andò a preparare una tazza di tè per me ed un caffè per lui, ci sedemmo anche noi sul divano davanti a dove Nathan navigava con la sua barchetta creando mondi immaginari.
- Scusa per l’invasione - gli dissi indicando mio figlio che aveva buttato le scarpe in giro e stava sdraiato a giocare sul sofà. 
- Non c’è bisogno che ti scusi, perché sei qui?
- Non lo immagini?
- Non c’è bisogno di immaginarlo, lo so.
- E allora perché me lo chiedi?
- Voglio sentirlo da te.
- Non so più di chi fidarmi. - Tirai fuori amaramente. Gibbs mi guardò, invitandomi ad andare avanti - Mi dispiace per come mi sono comportata, mi dispiace aver dubitato di Tony, non pensavo quello che ho detto.
Gibbs continuava a non parlare.
- Gibbs! Dì qualcosa! - Dissi a voce più alta, tanto che Nathan si voltò a guardarmi preoccupato 
- Cosa vuoi da me ora?
- Dimmi cosa devo fare. Non so di chi fidarmi, forse di nessuno a parte te. Questa storia Gibbs non mi convince, per niente. Prima tu e Tony andate in Israele e sparite per fare non so quale missione e tornate ridotti malissimo. Poi Tony prima va a fare non so quale missione da solo e non dice nulla, poi con Glover e il nuovo arrivato e guarda caso loro tornano senza nemmeno un graffio e Tony viene rapito. Nel frattempo arriva il Mossad e sembra che non aspettasse altro che questa cosa.
- Perché pensi che io ne sappia di più Ziva?
- Non lo penso, lo spero. Non può esserci Rivkin dietro tutto questo. Non sarebbe nel suo stile, non lavorerebbe con i somali, lo ucciderebbero solo per le sue origini, lo sai anche tu Gibbs.
- Vai avanti Ziva…
- Degas mi ha detto di andare in Israele, che per me è più sicuro, soprattutto adesso. 
- Cosa pensi di fare?
- Non lo so.
- Dovresti andare. - Mi disse infine molto calmo mentre sorseggiava il caffè ed io che avevo la tazza di tè alla bocca per poco non mi strozzai.
- Cosa?
- Dovresti andare. - Ripetè con altrettanta calma.
- Perché?
- Perché sarebbe giusto, è più sicuro.
- Ti fidi di Degas, Gibbs?
- Dovresti essere tu a dirmi se ti fidi di lui, visto quello che avete passato.
- Te lo ha detto lui?
- Certe cose si sanno, se si vogliono sapere.
- Era nella mia squadra. Ci avevano fatto un’imboscata. Lui si era accorto di quell’autobomba, urlò di allontanarci corremmo via il più velocemente possibile, riparandoci dietro un muro di fortuna. Lui si buttò letteralmente sopra di me, facendomi scudo, il pezzo di una lamiera si conficcò nella sua schiena, provocandogli una lesione spinale. Mi ha salvato la vita, probabilmente, ma è rimasto paralizzato.
- Ti senti in colpa?
- No, mi sento in imbarazzo. Perché lui lo ha fatto non perché ero il suo capo squadra o una sua compagna d’armi. Lo ha fatto perché era innamorato di me e credo non abbia mai accettato pienamente il fatto che non era ricambiato. Questo non c’era nei fascicoli, vero? - Sorrisi amaramente.
- No, questo no.
- È venuto Raphael Rivkin a casa mia. Anche lui è convinto che non ci sia suo fratello dietro questa storia e non lo ha detto per difenderlo.
- Ti fidi di lui, Ziva?
- Te l’ho detto, non mi fido di nessuno, ma tu meglio di chiunque altro puoi sapere quanto i fratelli posso essere diversi. Tu ti sei fidato di me, nonostante Ari.
- Credo anche io che non ci sia Rivkin dietro tutto questo. - Disse con estrema calma Gibbs. - Sicuramente c’è qualcuno che ci sta manovrando per altri scopi, ma non so nè chi nè cosa. - Bevve un altro sorso di caffè - E nemmeno perché, Ziva.
- Cosa sai, Gibbs. E’ importante per me saperlo.
- Dopo che hai catturato Arlan Gadi è stato preso in custodia direttamente dalla CIA, ci hanno chiesto di collaborare e di tenerti fuori. Per questo non mi sono opposto al tuo cambio di squadra, anche Vance era d’accorto e ci hanno suggerito la squadra di Glover, stava facendo delle missioni per le quali le tue capacità sarebbero state molto ben sfruttate.
- Sì, intercettare comunicazioni molto da me… - sputai fuori
- Non potendo andare sul campo, non c’è nessuno che abbia la tua conoscenza di lingue ed abitudini di quelle persone. - Sospirai guardando altrove, intanto Nathan si era quasi addormentato, mi faceva tenerezza vederlo così. Gibbs si accorse che non lo stavo più ascoltando presa da vedere mio figlio, l’unica cosa bella che al momento mi rimaneva. Poi tornai a prestare attenzione a lui
- Sono stati sempre loro a darci le informazioni su Rivkin. Alcune erano buone, abbiamo preso alcuni suoi uomini, ma non parlano, però abbiamo trovato molte informazioni durante alcune perquisizioni.
- Vere o costruite Gibbs? Il Mossad non è nuovo a fare queste cose.
- Non tutte vere a quanto pare, ma alcune sì.
- Perché allora dici che dovrei andare in Israele?
- Se vogliono tenerti lontana lì lo saresti. E saresti sicuramente al sicuro, soprattutto ora che non c’è nemmeno Tony. 
- Tony mi proteggeva?
- Più di quanto pensi, Ziva. Non so oltre Rivkin se ci sia altro dietro, ma di sicuro Rivkin vuole ucciderti e di sicuro c’è chi sta facendo qualcosa per proteggerti e tenerti lontano da questa storia. Il nostro contatto alla CIA era convinto che se DiNozzo ti fosse stato lontano, Rivkin sentiva di aver vinto, per questo mi ha detto di riportarti la sua fede.
Stavo faticando a tenere le lacrime. In quel momento avrei soltanto voluto muovermi, fare qualcosa cercarlo. Guardai Gibbs negli occhi, lui mi bloccò il braccio con una stretta forte.
- Vai Ziva. Non rendere vano tutto quello che DiNozzo stava facendo.
- E Tony Gibbs?
- Ti giuro Ziva, lo troveremo.

 

————

 

Erano passati altri giorni. Provavo a tenere i conti con i pasti che mi portavano. Ogni tre pasti contavo un giorno. Avevo capito che ero arrivato di pomeriggio perché il pasto successivo che mi portarono era una colazione, quindi se non avevo dormito per molto tempo prima di svegliarmi ero lì da 5 giorni. Stavo impazzendo, non avevo niente da fare. Quando uno degli uomini che mi tenevano prigioniero entrò provai  a parlare con lui, ma non disse una parola. Mi lasciò come sempre il pasto e della biancheria pulita. Erano in tre che si alternavano per venire da me. Vestiti identici, ma studiavo le loro andature. Solitamente non parlavano, lo aveva fatto solo quello del primo giorno. In quella che doveva essere la sera del quinto giorno, fu proprio lui a tornare e a parlare. Avevo la gola secca, quasi atrofizzata credevo, dopo giorni di assoluto silenzio.
- Non le vogliamo fare del male Agente DiNozzo.
- Quanto dovrò stare ancora qui?
- Non lo so, non dipende da noi. Dipende dai suoi amici.
- Non libereranno mai dei terroristi per salvarmi la vita.
- Chi le dice che noi vogliamo dei terroristi liberi, Agente DiNozzo?

 

—————

 

- Signore
- Dimmi Degas
- Mi ha appena chiamato Ziva.
- Ebbene?
- Ha parlato con Gibbs, senza saperlo ci è stato utile ed ha fatto il nostro gioco. Verrà a Tel Aviv.
- Perfetto. Date inizio alla fase due. Lui deve morire. Non c’è altra soluzione.

 

 

 

NOTE: Il ritardo è enorme, lo so. Non avrei voluto e mi dispiace. Spero che i prossimi capitoli riuscirò a farli più rapidamente, perché poi ho una grande parte di storia successiva già pronta.
So che è ancora tutto misterioso, ma deve essere così, anche se alcuni pezzi si stanno delineando, forse.
L’interrogativo ora è, chi è il lui che deve morire?

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Capitolo 17
*** Home Again ***


So I close my eyes
And the tears will clear
Then I feel no fear
Then I’d feel no way
My paths will remain straight
Home again
Home again

 

Un anno dopo Tel Aviv era sempre uguale. Ero io che ero completamente diversa e la percezione del mondo circostante era frastagliata. Eravamo usciti dall’aeroporto direttamente con una macchina che ci aveva caricato sulla pista, da un’uscita secondaria, senza alcun controllo. Ero un clandestina “approvata” dal Mossad nel mio paese, o almeno quello che doveva esserlo. Faticavo ancora a capire cosa era quel posto per me, ma alcune volte mi sembrava nonostante tutto un cordone troppo difficile da staccare, nonostante fosse nocivo per il mio organismo. 
La temperatura mite ed il vento ancora caldo di fine ottobre era erano l’unica cosa che mi sembrava piacevole.
Nathan, invece, sembrava molto più felice di me. Guardava fuori dal finestrino ritrovando ambienti familiari e poi si voltava verso di me indicandomi questo o quello col sorriso ed io gli sorridevo di rimando nascondendogli la mia preoccupazione. 
“Siamo a casa” mi aveva detto in ebraico appena aveva riconosciuto le familiari strade di Tel Aviv e dovetti spiegargli con molta calma che eravamo lì solo per poco tempo, perché casa nostra era a Washington e mi sforzai per parlargli in inglese, anche se lui si mostrava contrariato a questa cosa.
Non capivo dove stavamo andando nè perché ci eravamo fermati davanti ad una palazzina nella Città Bianca.
- Starete qui - Mi disse Davi aspettando che l’autista venisse ad aprirci lo sportello - È meglio per voi ed è più sicuro. Casa tua non è molto agibile
- Cosa vuoi dire?
- Se vuoi vai tu stessa a vedere. Dopo quanto è accaduto a giugno com quell’esplosione tutta la zona è stata abbandonata. 
Così varcai il portone di quella palazzo della prima metà del secolo scorso dalle linee squadrate e dai muri bianchi. Entrai con Nathan tenuto per mano per frenare la sua corsa. Lui sembrava entusiasta di essere lì, anche se poi mi guardò chiedendomi quando andavamo a casa “nostra nostra” come diceva lui. Spiegargli che non esisteva più non era stato facile e lui comunque non capì. Ma quel posto gli piaceva, forse perchè per lui casa era comunque Tel Aviv e forse lo sarebbe sempre stata. Fu una considerazione amara, molto, troppo. Perchè se mio figlio considerava solo quella come la sua casa e non il luogo dove avremmo sempre dovuto essere, a Washington insieme a suo padre era colpa mia e non potevo che sentire tutto il peso sopra. 
Varcammo la porta di quell’appartamento al primo piano era arredato in modo un po’ asettico, ma sembrava confortevole e dotato di ogni comodità: era solo vuoto di tutto, di noi, del calore e dell’affetto di una casa e di una famiglia, e soprattutto non era casa nostra. Mi sentivo come qualcuno sotto protezione costretto a vivere in appartamenti sfitti fuori mano ed in realtà un po’ lo ero realmente. Mi affacciai fuori dalla finestra e non ci misi molto ad individuare nel palazzo davanti alcuni militari, così come per strada quelli che passeggiavano erano chiaramente alcuni uomini e donne in borghese, ma ad un occhio attento non sfuggivano i rigonfiamenti delle armi sotto giacche non troppo larghe. 
- Non è un po’ troppa gente quella che hai mobilitato qui fuori? - Avevo sentito Davi entrare e fermarsi dietro di di me.
- Qui è sempre così, per questo sei qui. Io abito nell’appartamento davanti al tuo, ai piani superiori abbiamo alcuni uffici. È un posto sicuro.
- C’è qualcuno che può tenere Nathan? Devo fare dei giri… 
- Lo puoi lasciare con mia moglie, abbiamo un bambino della sua età, più o meno. Dimmi dove devi andare e ti farò accompagnare.
- Non c’è bisogno, dammi solo qualcosa per difendermi. 
- Tu lo sai, vero Ziva, che ufficialmente non sei qui e non sei mai entrata? - Mi disse facendomi consegnare da una delle guardie vicino a lui una pistola, che controllai e poi infilai dietro i pantaloni.
- Lo so. Non è una novità questa.

Bussai alla porta davanti a quella della mia nuova sistemazione. Non volevo chiamarla casa. Casa è una parola che implica un senso affettivo e lì non c’era nè ci sarebbe mai dovuto essere. Mi aprì una ragazza che sembrava molto più giovane di quello che doveva essere, occhi chiari, capelli cerulei. Era la moglie di Davi e subito tra le sue gambe appartve un piccolo biondissimo dell’età di Nathan ed i due cominciarono a guardarsi e studiarsi fino a quando il piccolo Yzak non gli porse una delle sue macchinine e lui mi guardò chiedendomi il permesso di prenderla e seguirlo. Fu più facile del previsto. Ruth sapeva già tutto, non fece altre domande. Mi disse di non preoccuparmi e di fare tutto quello che dovevo con tranquillità. Salutai Nathan ed uscii.
Fuori dal portone uno degli uomini di guardia mi diede un mazzo di chiavi e mi indicò una berlina dell’altro lato della strada. Mi misi al volante e guidai sicura vero la mia meta.

La porta di casa non era nemmeno chiusa e la polvere portata dal vento aveva ricoperto ogni cosa. C’erano i fogli di sparsi di quell’ultimo lavoro mai completato e chiudendo gli occhi rivivevo nitido il momento in cui quel mazzo di fiori cambiò il corso di quella che credevo sarebbe stata sempre la mia vita, la nuova vita scelta con fatica e non senza rinunce e senza snaturare il mio essere in nome di non so ancora ben quale bene supremo.
C’era ancora qualcuno di quei fiori secchi buttati qua e là dal vento, il segno alle pareti dei quadri che Tony aveva preso, le cornici che avevo svuotato frettolosamente solo un anno prima.
Entrai in camera e mi sedetti sul bordo del letto. Tony era stato lì a prendere le mie cose, forse si era seduto nello stesso punto. Frugai tra le poche cose di Nathan rimaste, presi solo un paio di pupazzi impolverati. Vidi tutti quei vestiti che non gli sarebbero più entrati ma scavando nell’armadio trovai quella scatola con le sue cose di quando era appena nato che non avevo fatto in tempo a prendere. Era sempre lì, nascosta tra le cose inutili. 

Tornai in quell’appartamento con un senso di nausea e di sbagliato addosso. Non dovevo essere lì, non dovevo essere in Israele, non avrei dovuto convincermi che fosse la cosa giusta. Giusta per chi poi? Per me no di certo, per Tony che non sapevo dove fosse e lo avevo praticamente abbandonato al suo destino nelle mani di altri? “Sei incinta” mi dicevano “devi pensare a te ed alla tua bambina” e mi maledicevo per quello, per non riuscire nemmeno ad essere felice per una cosa così importante che vedevo come un’impedimento per riprendermi attivamente la mia vita della quale ero diventata spettatrice impassibile. Poi lei si faceva sentire e reclamava il suo spazio, in tutti i sensi, ed io mi sentivo ancora più in colpa per quei pensieri e sapevo che Tony mi avrebbe odiato se li avesse saputi. Lui era stato il primo entusiasta per quella nuova vita, lui a gioire anche oltre le mie paure, lui che avrebbe voluto viverla come non aveva fatto con Nathan ed ora era di nuovo distante.
Bussai a casa di Davi e sua moglie mi venne ad aprire e in lontananza si sentivano le urla di Nathan e Yzak che giocavano ed il pianto di una bambina più piccola, che a mala pena camminava e gattonando andò verso la madre che la sollevò ed il pianto si trasformò in sorriso. Si chiamava Sarah, anche lei. Rimasi qualche minuti ad osservare i due giocare, Nathan era felice e forse quella era l’unica cosa che contava, anche se il suo sentirsi così a casa mi spaventava. 


—————————

 

Avevo perso il conto dei giorni. Avevo inizialmente provato a tenermi occupato contando i pasti che mi scandivano l’alternarsi giorno/notte, ma poi la mia mente si era rifiutata di continuare a seguire quella routine. Stavo diventando pazzo forse. Passavo le ore, i giorni o le notti, a guardare tutto il grigio che mi circondava e a cercare di capire cosa avrei fatto della mia vita uscito da lì, se fossi mai uscito. Ma il pensiero di Ziva, di Nathan e della piccola in arrivo, era l’unica cosa a cui aggrapparmi. Lei doveva stare al sicuro ma quella non era vita. Avevamo sprecato tempo e forse avremmo continuato a farlo. Era una vita che sprecavamo il nostro tempo, salvo qualche mese di tregua, gli unici che mi sembrava aver mai realmente vissuto nella mia vita, perché mi era chiaro, ormai, che per me vivere voleva dire solo stare con lei. Il resto era un riempitivo. Ma qui ora si presentava una scelta assurda, se mai fossi uscito vivo da questa storia: vivere o pensare alla sua sicurezza? Era chiaro che la sua sicurezza dipendeva anche da me dal mio starle lontano, lo dicevano tutti e me lo hanno detto talmente tante volte da convincermi. Ma ora non sapevo più nulla, cosa era giusto e cosa sbagliato.

- Agente DiNozzo! In ginocchio mani dietro la schiena. - La solita voce che annunciava i miei pasti mi parlò dallo spioncino della porta. Ubbidii ai suoi ordini ed attesi. Entrarono in tre, riconobbi i passi. Mi infilarono a forza un cappuccio e mi ammanettarono. Mi sentii alzare di peso e trascinare fuori da lì, lungo corridoi silenziosi dove l’unico rumore udibile era quello dei nostri passi e del loro parlare in una lingua incomprensibile. Ogni suono rimbombava rendendolo spettrale. Sentii dei rumori come di una grande serratura che veniva aperta, una porta cigolare e poi una sensazione di fresco sul corpo, dal cappuccio filtrava aria pura non condizionata ed il vento che lambiva i miei vestiti. Mi sentii spingere fuori senza troppo riguardo, attraversare quello spazio all’aperto e poi fermarmi davanti a qualcosa che poteva essere un muro. Sentii due mani spingermi contro e agganciare le manette ad una corda che proveniva da lì. Non mi potevo muovere che di qualche centimetro. Li sentii allontanarsi di qualche passo. La mia ora era giunta, pensai. Chiusi gli occhi, tanto vedere era impossibile e tutto quello che nella mia mente si palesò fu il sorriso imbarazzato di Ziva quelle volte che la coglievo a guardarmi di nascosto, quello sincero di Nathan quando la sera mi aspettava buttandomi le braccia al collo, ripensai a quei mesi, al nostro matrimonio, alla scoperta di Sarah e mi ritrovai a piangere perché ancora una volta non ci sarei stato, l’avrei lasciata solo quando le avevo promesso che sarebbe stato diverso. Ed invece tutto sarebbe finito lì, contro quel muro in un luogo imprecisato del mondo.

 

—————————

 

I giorni a Tel Aviv passavano portandosi con loro un senso di consuetudine che trovavo pericoloso. Stava diventando fin troppo facile abituarsi di nuovo a certi ritmi, a certe situazioni. Anche i sapori diventavano di nuovo troppo familiari ed il gusto delle spezie che si mescolava a quello della frutta candita che a Washington era solo un diversivo era di nuovo la quotidianità e la felicità di Nathan che a me spaventava. Lui si sentiva a casa, lo aveva detto e fatto capire più volte e da quando eravamo arrivati aveva anche smesso di chiedere di suo padre ed anche a mostrarsi meno interessato a sua sorella, anche se giorno dopo giorno la sua presenza diventava sempre più evidente ed ingombrante. Per lui era come se fossimo tornati ad un anno prima, soli io e lui e ne sembrava essere felice, come se quei mesi a Washington in cui avevamo vissuto come una famiglia fossero stati solo una parentesi, una parentesi troppo breve della quale non potevo non sentirmi in colpa.
I pomeriggi in spiaggia erano l’unico momento veramente di svago che riuscivo a concedermi. Veder Nathan giocare con la sua palla con gli altri bambini, correre felice saltellando. Lo vedeva libero come a Washington non riusciva ad essere per via degli spazi ma non solo, per quei piccoli rituali che lì ritrovava. 
Una sera mentre eravamo tornati a casa e gli stavo facendo il bagno, però, disse una frase che mi sorprese. Voleva che quando il suo papà lo veniva a trovare, gli portasse una maglia di Messi, perché non l’avevano portata. Era la prima volta che parlava di Tony da quando erano partiti e faticai non poco a trattenere la mia commozione e gli dissi solo di sì, che il suo papà gli avrebbe portato tutto quello che voleva ed ero certa che se avesse potuto, Tony lo avrebbe fatto.

 

—————————

 

Sentii dei passi avvicinarsi di nuovo ed una lama tagliare la corda che mi legava al muro. Ero rimasto lì qualche minuto o forse più, perso nei miei ricordi non ci avevo nemmeno fatto caso. Aspettavo solo di sentire il rumore dei colpi e la fine inevitabile che sarebbe seguita. Ma era solo silenzio e non successe nulla. Entrai in un altra porta lì vicino, furono altri corridoi che si susseguirono, questi però sembravano più animati, ma tutte le voci che sembravano essere lontane si fermavano quando ci avvicinavamo. Poi un’altra porta si aprì e si richiuse alle mie spalle. Sentii qualcosa vicino alle mie gambe e mi premettero sulle spalle obbligandomi a sedermi. Bloccarono le manette questa volta a quella sedia e quando furono sicuri che ero ben fermo, mi tolsero il cappuccio. Era una stanza simile a quella degli interrogatori, con una grande vetrata di lato, dietro la quale sicuramente mi stavano osservando, e davanti a me un muro bianco che fu presto illuminato.
Uno dei miei carcerieri tutto vestito di nero era davanti alla porta con l’arma in mano. Una voce metallica contraffatta si diffuse nella piccola stanza.
- Agente DiNozzo, abbiamo una cosa da mostrarle. Riguarda la sua famiglia.
Sentii il sangue gelarsi nelle vene. Mi aspettavo il peggio, una tortura visiva che mi avrebbe fatto preferire la morte lungo quel muro qualche minuto prima. Niente di tutto questo. Le immagini scorrevano e c’era Ziva in spiaggia con Nathan che giocava felice. Potevo vedere le sue forme ancora più arrotondate e lei che guardava il mare accarezzandosi la pancia dolcemente, sembrava serena anche se nei suoi occhi riuscivo a vedere anche un velo di malinconia. Nathan le correva poi intorno buttandosi tra le sue braccia e facendola finire a terra, e sulla sabbia continuavano a coccolarsi teneramente. Riconoscevo quella spiaggia, sapevo esattamente dove erano. Abbassai lo sguardo. Era tutto troppo chiaro.



NOTE: Eccomi tornata dopo essere stata un po' di tempo dall'altra parte del mondo. Spero che questo capitolo un po' diverso e più introspettivo vi piaccia.

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Capitolo 18
*** A Hard Rain's A Gonna Fall ***


I've walked and I've crawled on six crooked highways,
I've stepped in the middle of seven sad forests,
I've been out in front of a dozen dead oceans,
I've been ten thousand miles in the mouth of a graveyard,

 

 

Non ricordavo nulla di quello che era successo dopo aver visto quel video in quella stanza. Avevo solo la testa che mi faceva molto male e mi sentivo sobbalzare. Era tutto buio, respiravo a fatica con quel pesante cappuccio sulla testa, le mani ed i piedi legati. Provai ad ascoltare i rumori e a tastare per quel che potevo l’ambiente circostante appena fui più lucido. Ero su un furgone o qualcosa di simile e percorrevamo una strada sicuramente non asfaltata, isolata. Non stavamo procedendo molto velocemente e non si sentivano rumori di altre vetture. Potevamo essere in campagna, su una strada di montagna o non so dove. Mi sentii scivolare verso il retro del veicolo, segno che la strada cominciava a salire e continuammo così per un po’, ma ormai dopo giorni e giorni avevo cominciato a perdere la reale cognizione del tempo. Ci fermammo e dopo poco sentii una porta scorrevole aprirsi, due uomini salire e prendermi uno per braccio tirandomi fuori da lì con pochi riguardi. Mi trascinarono per qualche metro, poi mi lasciarono a terra. Sentii uno avvicinarsi a me ed un rumore difficile da dimenticare, il sibilo di un pugnale estratto dal suo fodero. Mi tolse il cappuccio, per guardarmi negli occhi che continuai a tenere chiusi temendo la luce che però non c’era. Era notte e c’era la luna piena. Eravamo sulla sommità di un bosco, in una radura che probabilmente nella bella stagione serviva per gli escursionisti per piantare le tede ed accamparsi. Era un bel posto, con gli alberi alti rischiarati dal bagliore della luna e si sentiva non troppo lontano lo scorrere di un ruscello. L’uomo aveva il pugnale in mano e mi fissava: cercai i suoi occhi, l’unica cosa visibile del suo volto e lo guardai anche io. Non pensavo più a niente. Non volevo pensare a niente, volevo solo che lo facesse il più velocemente possibile per non darmi modo di pensare più. Alzò il pugnale in aria e poi lo conficcò a terra a poca distanza da me.
Lo guardai perplesso, lui rise di gusto.
- Agente DiNozzo, gliel’ho detto. Non vogliamo farle del male.
Fece un cenno agli altri due che erano con lui e risalirono sul furgone lasciandomi lì. 

 

—————————

 

- Signore il prigioniero è stato liberato.
- Degas, eravamo d’accordo. Doveva morire.
- Non è stato possibile, signore. Non è dipeso dalla nostra volontà. È libero adesso.
- Questo è un problema e cambia tutti i nostri piani. È stato tutto inutile. Ti avevo detto che era l’unica soluzione, maledizione!
Sbattei i pugni sul tavolo. Frustrazione e senso di impotenza si impossessarono di me. Era un piano che credevo perfetto. Con il minimo sacrificio avrei risolto un problema molto più grande, ma non avevo valutato i fattori esterni che potevano intervenire. Avevo sbagliato ad aver lasciato tutto in mano ad altri, a mettere in mezzo altre organizzazioni. Queste erano cose che dovevano essere risolte rapidamente ed in silenzio. Avevamo perso la nostra occasione senza sapere quando se ne sarebbe presentata un’altra.

 

—————————

 

 

Tel Aviv - Due giorni dopo

 

Tre colpi alla porta interruppero la mia visione, per l’ennesima volta, di Arlo con Nathan. L’unica cosa che trovavo positiva in quella situazione era il tempo che potevo passare con lui. Come ai vecchi tempi, appunto. Lui ne sembrava altrettanto entusiasta, anche se non capiva ancora come mai non potessi giocare con lui come lui voleva e provavo a spiegargli che era perché dentro la mia pancia c’era la sua sorellina, ma lui non sembrava molto felice della spiegazione, si limitava a dire, allora, che doveva sbrigarsi ad uscire, così noi potevamo di nuovo giocare insieme come avevamo sempre fatto. Lo diceva così serio che mi strappava sempre una risata, però gli dicevo che non dovevamo avere fretta, perché la sua sorellina aveva bisogno di tempo per crescere e stare bene, ma lui comunque non era molto convinto.
Lo lasciai sul divano davanti alla tv mentre continuava a seguire le avventure del dinosauro e del suo amico ed andai ad aprire alla porta.
- Shalom Ziva…
- Ciao Davi, come mai sei qui a quest’ora? - Gli chiesi senza nascondere un certo fastidio poi gli lasciai spazio e lui spinse la sua carrozzina dentro casa.
- Dove possiamo parlare? - Non sembrava particolarmente preoccupato, ma di certo era serio. Guardai Nathan preso dalla tv e gli dissi di seguirmi in cucina.
Mi appoggiai al tavolo osservandolo dall’alto in basso. Non volevo metterlo a disagio ma non riuscivo a stare seduta a conversare come se nulla fosse, la sua non era una visita di cortesia e sicuramente doveva comunicarmi qualcosa di importante.
- Abbiamo catturato Rivkin due giorni fa.
La notizia doveva essere rassicurante, ma il suo sguardo diceva altro.
- Perché me lo dici solo adesso?
- Perché non tutto è andato come doveva. - Davi muoveva nervosamente le mani lungo le ruote della sua sedia e guardava verso il basso. Era a disagio, era palese.
- Cosa vuol dire questo Davi? Cosa è successo?
- Quando il governo ha saputo della sua cattura lo ha preso in custodia.
- Da quando il Mossad si fa sfilare prigionieri dalle mani? - Chiesi sarcastica
- Da quando è il Capo di Stato Maggiore Generale che lo chiede. Hanno fatto un accordo. Rivkin gli ha dato i nomi delle organizzazioni che stava aiutando con la compravendita delle armi ed in cambio lo hanno lasciato libero.
- Come fanno a sapere che non mentiva?
- Perché ieri mattina due gruppi speciali hanno seguito le sue indicazioni ed hanno annientato due gruppi che stavano progettando degli attentati contro Israele. Hanno ritenuto le sue informazioni valide. Abbiamo le mani legate Ziva. Non possiamo fare altro contro di lui a meno che non farà un’altra mossa. Sai questo cosa significa, vero?
- Che non ha più senso che io stia qui.
- No, che qui sei al sicuro. Perché Rivkin è già tornato negli USA.
- Allora lo seguirò. Non posso vivere così per sempre, prigioniera nel mio paese, senza sapere cosa ne è di mio marito. Organizza per il mio ritorno a Washington Davi, almeno questo lo puoi fare?
- Certo, Ziva, ma ne sei sicura?
- Sicurissima.
- Come vuoi. Dammi un paio di giorni.

 

—————————

 

Washington

 

- Non dovresti essere qui Di Nozzo.
- Stare in quella casa non mi fa stare meglio, ha detto anche il medico che sto bene, quindi non vedo perché non poter stare a lavoro.

Ed in effetti era così, stavo bene, almeno fisicamente, a parte qualche taglio sui polsi che mi ero fatto per cercare di tagliare le corde con quel pugnale. Non ci avevo messo molto a liberarmi e poi a correre via, per quel sentiero nemmeno troppo impervio. Raggiunta la strada principale camminai per un po’, fino a raggiungere una stazione di servizio dove convinsi un troppo reticente guardiano notturno a farmi telefonare a Gibbs. Gli spiegò la mia posizione e dopo qualche ora vennero a prendermi. Non ero lontano da Washington ma non potevo dire se ero stato nei paraggi tutto il tempo oppure solo nelle ultime ore. Guardai il calendario cercando di capire che giorno fosse e quanto tempo era passato da quando mi avevano rapito. 4 novembre. Chiesi se quel calendario era giusto e l’uomo mi disse che in realtà era indietro di un paio di giorni. Era il 6 novembre. Era più di quanto pensassi. 
Gibbs venne di persona, insieme a Vance e agli altri. Insistettero per portarmi in ospedale per farmi controllare le ferite, niente che non sarebbe guarito con qualche fasciatura e un paio di punti. Volevano tenermi in osservazione, ma firmai e mi feci accompagnare a casa da Gibbs, avevo bisogno di parlare da solo con lui, per un po’. Gli chiesi di Ziva e lui mi disse di quanto aveva fatto per cercare di scoprire qualcosa, fino a quando non si era lasciata convincere, per la sua sicurezza, ad andare in Israele. Gli raccontai del video che mi avevano fatto vedere e questo stupì molto Gibbs, così come il trattamento ricevuto ed il fatto che nessuno aveva fatto niente per arrivare alla mia liberazione, loro non avevano idea di dove fossi, quindi non erano state le loro indagini a favorire il mio rilascio. “È un bene che Ziva sia in Israele, adesso. Credo che per lei sia più sicuro così” Dissi a Gibbs prima che mi lasciasse davanti al portone. “Non le dire nulla, per adesso. È meglio se rimane lì”. Gibbs annuì, anche lui la pensava come me. Non potevo essere egoista, non adesso, non ancora.

Gibbs mi fece segno di seguirlo in un’altra stanza. Dopo tutto quello che era successo leggevo chiaramente nella sua faccia una mancanza di fiducia nelle persone che erano intorno a noi e sapevo quanto faceva male tutta quella situazione a Gibbs, per lui non potersi fidare dei suoi uomini era la peggiore delle cose possibili. C’erano state troppe novità in concomitanza con quanto accaduto e sapevo che lui non credeva alle coincidenze. Si assicurò che nessuno potesse sentirci, poi mi fece sedere da una parte del tavolo e si mise dall’altra parte.
- Se qualcuno entra, ti sto chiedendo del tuo rapimento.
- Ok Capo.
- Ho parlato con Fornell, nemmeno loro ne sanno nulla. Non gli risulta alcun tipo di indagine che possa in qualche modo condurre al tuo sequestro.
- Non ne dubitavo. Con Cooleman hai parlato?
- Dice che non ne sa niente, non si è accorto di quanto è accaduto, stessa versione di Glover.
- Non J.D. Cooleman. L’altra persona.
- Perché dici questo Tony? Hai qualche idea?
- Ho pensato molto capo in questi giorni, non che avessi molto altro da fare. E tutto è cominciato da lì. Le sue richieste, le sue indagini, i suoi suggerimenti.
- Ci ha manovrati! - Sbottò Gibbs sbattendo violentemente le mani sul tavolo facendolo tremare. - Perché non ci ho pensato prima
- Perché forse era troppo facile. Lo dici anche tu che le cose che sono sotto i nostri occhi sono quelle che notiamo di meno. Non sarebbe la prima volta che ci usano come burattini…
- Maledizione! - Imprecò ancora.
- Sai che se ho ragione non lo sapremo mai. Piuttosto capo, non ti pare strano che J.D. ha casualmente lo stesso cognome? Non potrebbe essere…
- Ho controllato Tony, e… ha controllato anche Ziva. Non ci sono riscontri di nessun tipo. Abby mi ha detto che Ziva gli ha segretamente portato anche un campione di DNA per vedere se avesse collegamenti con qualcuno, non si fidava di lui. Non ha trovato nessun legame, quindi no, lo escludo.
- Ok… però è una strana coincidenza…
- Lo è, ma a quanto pare è solo quello.

 

—————————

 

Fu difficile spiegare a Nathan di dover andare via di nuovo, cambiare ancora città. Tornare a casa. Non ne voleva sapere, casa era quella per lui, non Washington.
Non riuscii a fare molto per alleviare la sua disperazione nel dover fare un’altra traversata oceanica e ritornare in quella città che per lui era diventata fredda e ostile. Aveva urlato che non c’era niente che gli piaceva e in un momento di particolare frustrazione svelò anche il motivo per cui non gli piaceva più stare lì: non c’era più papà. Nathan aveva associato Washington a Tony, era stato quello, fin dall’inizio il motivo per il quale gli avevo spiegato che stavamo lì, perché eravamo una famiglia, io lui ed il suo papà e lui aveva accettato la cosa alla fine con relativa facilità e dopo un momento di iniziale difficoltà con Tony era andato tutto fin troppo bene: adorava suo padre e lui adorava Nathan. Poi tutto era precipitato così velocemente da non accorgermi fino in fondo quanto lui soffrisse la sua mancanza, quanto avesse perso i punti di riferimento e si sentisse sballottato da una parte all’altra del mondo, solo secondo le nostre necessità, pensando di fare il meglio per lui, ma in realtà ignorando il suo bisogno primario di stabilità che nell’ultimo anno non aveva mai avuto. Così man mano si era fatto una sorta di negazione, come se quell’anno non fosse mai esistito, come se fossimo sempre io e lui, come un anno prima ed ora tornare a Washington gli stava riportando alla mente tutto quello che aveva passato: la nostra separazione, la conoscenza e poi la separazione di nuovo dal padre, l’arrivo di una sorella prima voluta ed ora vista quasi come una nemica che gli toglie già da prima della sua nascita le mie attenzioni. Era troppo per un bambino così piccolo che era stato sovraesposto ad un carico emotivo troppo grande da sopportare. 
Lo abbracciai tenendolo stretto, avrei voluto promettergli tante cose, che non ci saremmo mai separati, che suo padre sarebbe tornato presto, che sarebbe stato felice. Non riuscii a dirgli nulla, perché non sapevo nemmeno io cosa sarebbe successo. Salimmo in aereo, quel volo privato, promisi a me stessa, sarebbe stato l’ultimo regalo che avrei mai accettato dal Mossad. Nathan si addormentò esausto per quanto aveva pianto e solo allora mi lasciai andare anche io.

Il freddo i Washington era pungente già in quei primi giorni di novembre e l’aria fredda appena scese le scalette dell’aereo mi investì risvegliando i sensi dopo il lungo volo. Nathan non disse una parola fino a quando non arrivammo a casa. Vidi la sua delusione nel trovarla ancora vuota e si trascinò fino alla sua camera mettendosi a giocare sul tappeto con le sue costruzioni, lì dove tante volte passava le serate con Tony, ma lo vidi entrare poco dopo nella mia stanza, mentre ancora stavo aprendo i nostri bagagli: aveva gli occhi lucidi e tirava dietro di se uno degli enormi peluche dei dinosauri che Tony gli aveva preso in quei mesi. Lasciai stare le valige, presi mio figlio e ci mettemmo nel mio letto insieme. Si addormentò non senza fatica, mentre io passai tutta la notte sveglia, colpa del jet lag, ma soprattutto della paura di non sapere, realmente, cosa fare. E intanto fuori la pioggia scendeva a coprire il rumore delle lacrime.

 

 

NOTA: Un altro capitolo un po’ interlocutorio. Però siamo ritornati ad una situazione quasi normale. Tony è stato rilasciato, anche se non si sa perché nè da chi era stato preso. Lo scopriremo più avanti? Chissà.
Ziva dopo gli sviluppi sul caso Rivkin decide di tornare a Washington ma nessuno le ha detto niente di Tony! Sarà definitiva la cosa? Chissà…
Intanto il piccolo Nathan comincia a risentire di tutto quello che gli è capitato ultimamente, e ne ha anche ragione, povero piccolo!
Piccolo Spoiler, nel prossimo Ziva e Tony si incontreranno di nuovo, era ora, no?

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Capitolo 19
*** All I Want ***


See you brought out the best of me
A part of me I've never seen
You took my soul and wiped it clean … 

 

Quella mattina mi svegliai con un’idea ben precisa, dovevo sapere quali progressi c’erano stati in merito alla vicenda di Tony. Erano giorni che nessuno mi aggiornava su nulla, che non sapevo più niente. Non mi avrebbero più tenuta lontana da quel caso, lo dovevo a me stessa e lo dovevo soprattutto a Nathan. Lasciarlo all’asilo fu meno difficile di quanto avessi immaginato.

Quando le porte dell’ascensore si aprirono non sapevo se quello che stavo vedendo doveva farmi essere felice o ancora più arrabbiata. Gibbs, McGee e Bishop erano in piedi davanti allo schermo a visualizzare la scheda di un marine ucciso e con loro c’era Tony. Feci qualche passo nella loro direzione e si accorsero della mia presenza. Tony mi guardò ed io guardai lui. Rimanemmo immobili alcuni istanti solo a guardarci, poi lui si avvicinò con passo veloce a me che ero rimasta allibita nel vederlo lì, apparentemente in buona forma, vestito di tutto punto come in una qualsiasi giornata di lavoro. Quando fu abbastanza vicino abbozzò un sorriso e mi abbracciò. Non ebbi nè la forza nè la voglia di ricambiare il suo abbraccio, appoggiai solo la testa sulla sua spalla pendendomi qualche istante per rielaborare la cosa. Era lì, stava bene, non c’era niente da indagare, niente da scoprire, niente da sperare.
Era lì.
Stava bene.
E non mi aveva detto nulla. Non aveva chiamato, non aveva avvisato. Da quanto era tornato? Per quanti giorni aveva fatto vivere me e Nathan nel dubbio di non sapere dove fosse, se stesse bene, ed anche se era sempre vivo e sarebbe tornato. Sentii un moto di rabbia salirmi dentro e le sue braccia che erano come una morsa di ferro ustionante. Lo allontanai senza troppi riguardi e senza dire nulla me ne andai nel mio ufficio.
Nessuno si aspettava di vedermi, ma nessuno se ne curò più di tanto, tranne Lisa che mi venne ad abbracciare, chiedendomi di raccontarle tutto quello che era accaduto e cosa era successo a Tel Aviv. Gli chiesi di Tony e mi disse che era tornato a lavoro da qualche giorno. Mi raccontò di come lo avevano trovato e di come si era stato lasciato libero a poca distanza da lì. Era tutto ancora più complicato.
Provai a ricostruire mentalmente quegli ultimi giorni ma non trovai in realtà nessun collegamento se non che Tony doveva essere stato liberato un giorno prima di Rivkin.
Glover mi salutò con freddezza, come sempre, mi diede solo un plico di fogli da analizzare e tradurre, tutte conversazioni senza alcun significato. Mi sembrava di essere tornata ai tempi di Tel Aviv quando Nathan era appena nato.

Quando arrivò l’ora di andare via fu una liberazione. Finalmente potevo andare a riprendere mio figlio e dargli, almeno a lui, una bella notizia ed una certezza: il suo papà stava bene.
Le porte dell’ascensore si stavano per chiudere quando la mano di Tony si mise tra di loro forzandole a riaprirsi ed entrando di prepotenza. Sapevo già cosa avrebbe fatto ed infatti l’ascensore si bloccò poco dopo aver cominciato la discesa.
- Dobbiamo parlare - Mi disse duramente come se fossi io quella in errore.
- Te lo ricordi adesso che dobbiamo parlare, Tony? - Risposi sarcastica
- Non potevo dirti nulla.
- Già. Cosa è una vendetta? Vuoi ripagarmi con la stessa moneta di quando io ti tenevo all’oscuro delle cose?
- Non è così Ziva.
- Sei stato realmente rapito Tony? O era una messinscena?
- Ziva come puoi pensare…
- Come posso? Da quando sei tornato Tony? Quattro o cinque giorni? Lo sai come siamo stati io e tuo figlio in tutto questo tempo? Lo sai cosa vuol dire non riuscire a calmare il suo pianto perché due giorni fa Tony, quando tu eri già tranquillamente qui in ufficio come se se nulla fosse, non voleva tornare a Washington perché tu non c’eri? Lo sai cosa vuol dire non sapere cosa dirgli, non potergli promettere che sarebbe andato tutto bene perché non lo sapevo?
- Ziva, calmati non ti fa bene agitarti… - Aveva cambiato il suo tono, ora era dispiaciuto e premuroso e mi fece arrabbiare ancora di più
- Calmarmi? Non mi fa bene agitarmi? Tu non sai quanto mi sono agitata io in questi giorni Tony, non sapendo che fine avevi fatto. Posso capire che non ti interessava nulla farlo sapere a me, però a tuo figlio Tony ci dovevi pensare. A Nathan lo dovevi. Questo non lo posso accettare. Non posso pensare che nostro figlio ha passato ore a piangere mentre venivamo a casa perché tu non c’eri ed invece tu eri qui e non ti sei degnato di dirci nulla.
- Mi dispiace Ziva. Mi dispiace molto.
- Ti dispiace Tony? Ti dispiace come quando ti sei buttato tra le braccia della prima che è capitata? Ti dispiace come quando mi hai lasciata sola nel letto con nostro figlio? Come quando mi hai fatto riportare la tua fede da Gibbs? Nathan è tuo figlio Tony. Non puoi dirmi “mi dispiace”. Tra poco avremo anche lei, dirai mi dispiace anche a lei se ti dimentichi di comunicarci che sei vivo e stai bene?
Sbloccai l’ascensore che riprese la corsa verso il piano terra mentre rimanevamo in silenzio senza averci più nulla da dire. Uscii e lo sentii seguirmi fino alla mia auto.
- Ziva! - Mi voltai - Vai a prendere Nathan?
- Andiamo - gli dissi facendogli segno di salire - Sarà felice di vederti.

 

—————————

 

- Papà!
Il volto stupito di Nathan e la sua voce squillante mi fecero fare il primo grande sorriso da tanto tempo. Era cresciuto e non era solo una mia impressione. Mi piegai sulle gambe per abbracciarlo mentre mi veniva incontro correndo e con vigore si mi si buttò addosso.
- Ciao ometto! Sei sempre più grande!
- Andiamo a casa?
- Sì piccolo, andiamo a casa…
Gli risposi senza pensare alla reazione di Ziva, ma credevo che non avrebbe avuto nulla in contrario. Mi alzai e lo portai in braccio fino all’auto di sua madre, mentre lui mi rimaneva aggrappato al collo nello stesso modo che avevo visto fare con lei, quando l’aveva riabbracciata appena tornati a Washington. Ero felice di quella sua dimostrazione d’amore sincera, Nathan non era uno che regalava il suo affetto facilmente, ma allo stesso tempo ripensavo alle parole di Ziva che mi aveva detto poco prima in ascensore e mi sentii tremendamente in colpa.
- Papà viene a casa. - Comunicò Nathan a sua madre e la sua non era una domanda ma un dato di fatto. Da quanto era diventato così autoritario?
- Certo Nathan, papà viene a casa. - Mi lanciò uno sguardo tagliente che non sapevo come interpretare.

Appena entrati Nathan mi trascinò nella sua stanza e come prima cosa mi fece vedere i suoi due pupazzi giganti, un leone ed un dinosauro. Ci sedemmo per terra sul tappeto per giocare con loro e lui mi raccontò come li avevano vinti, mimando il gesto di Ziva che sparava al bersaglio, mi disse che anche lui aveva sparato ma non era tanto bravo e che tutti dicevano che per vincere doveva portare il papà ma la mamma era stata brava ed aveva fatto tutti buchi al centro. Mi venne da ridere immaginandomi Ziva sparare a delle sagome in un parco giochi ma mi stupì ancora di più il fatto che aveva fatto fare un gioco simile a Nathan viste le sue riserve ad usare le armi in sua presenza.
- Ci andiamo insieme? - Mi chiese alla fine dei suoi racconti
- Se la mamma è d’accordo certo che ci andiamo! E prendiamo altri pupazzi grandi così! Gli risposi prendendo in mano il leone e buttandoglielo addosso tra le sue risate. Poi finimmo col rotolarci sul tappeto e lui mi salì sopra per poi stendersi sopra di me ed abbracciarmi. Lo strinsi forte e solo in quel momento capii quanto mi era mancato.
Guardai verso la porta e mi accorsi che Ziva era lì ferma a guardarci, le sorrisi e lei se ne andò.
- Tra poco è pronta la cena - Mi disse mentre era già sparita dalla mia vista.
Mi rialzai e tirai su Nathan. Gli dissi di continuare a giocare mentre io andavo a parlare con la mamma.

Mi sistemai la camicia e ripresi la giacca appoggiata sul suo lettino ed andai in cucina. Ziva stava finendo di preparare la cena.
- Beh, allora io vado… - Le dissi rivestendomi. Lei aprì il microonde tirando fuori un arrosto che controllò poi mise di nuovo a cuocere.
- Rimani a cena. A Nathan farà piacere se resti fino a quando non va a dormire.
- Certo. - Risposi a disagio. Avrei voluto sapere se faceva piacere anche a lei, ma non ebbi il coraggio di chiederglielo.
- Vuoi bere qualcosa? - Mi chiese aprendo il frigo
- Sì, grazie… quello che prendi tu.
- Oh non ti conviene e non credo ti piacerà! - Rise versandosi un succo di non so che cosa, poi aprì una bottiglia di birra e me la porse - Tieni, meglio questa
Le sorrisi e le nostre dita si sfiorarono per qualche istante mentre mi porgeva la bottiglia.
- Se vuoi puoi metterti qualcosa per stare più comodo, di là ci sono tutte le tue cose…
- No, non c’è problema, mi tolgo solo questa - dissi sciogliendo il nodo della cravatta e mettendola nella tasca della giacca poggiata su uno sgabello. Mi sbottonai un paio di bottoni della camicia ed arrotolai poi le maniche per stare un po’ più comodo. Ziva mi guardò e poi si avvicinò prendendomi le mani. Ebbi solo il tempo di appoggiare la bottiglia sul bancone.
- Cosa hai fatto Tony? - Mi chiese toccando le bende sui polsi.
- Nulla di grave, per liberarmi dalle corde con un pugnale, mi sono un po’ tagliato…
Mi accarezzò i polsi fasciati senza mai guardarmi negli occhi, fino a quando non le forzai sollevandole il mento. Aveva gli occhi lucidi e mi sentii morire.
- Ehy, occhioni belli, non piangere. - Le dissi cercando di sorridere.
- Tony, ti prego…
- Shh Ziva… Vieni qua… - La avvicinai a me e lascai che appoggiasse la testa sul mio petto, accarezzandole i capelli - Va tutto bene, sto bene…
Il suono del microonde che aveva ultimato la cottura fece ridestare Ziva e sciogliersi dal mio abbraccio. Maledissi quel coso in tutti i modi possibili.
- Vai tu a prendere Nathan? - Mi chiese mentre bevevo un altro sorso di birra. Annuii ed andai in camera da mio figlio.
La cena fu monopolizzata da nostro figlio che continuò a raccontarmi tutte le cose che aveva fatto da quando non ci eravamo più visti, dei suoi amici a Tel Aviv, di come la sorellina adesso si muovesse sempre più spesso facendo sussultare la mamma e tante altre avventure frutto della sua fantasia. Combatteva contro la stanchezza ed il sonno, una dura battaglia per non chiudere gli occhi che dopo aver mangiato anche il dolce cominciava a perdere inevitabilmente. Lo presi in braccio e lasciai che si addormentasse così, mentre gli accarezzavo i capelli. Io e Ziva ci scambiavamo occhiate che parlavano al posto nostro.
- Per fortuna gli avevi già fatto mettere il pigiama - mi disse dandogli un bacio sulla fronte.
- Lo porto in camera sua. - Sussurrai per non svegliarlo. Lo misi nel suo lettino rimboccandogli le coperte. Accesi la luce vicino al comodino e lasciai la porta accostata.

- Ora credo proprio che devo andare - le dissi quando ritornai da lei
- Devi o vuoi? - Mi venne incontro buttando via un panno che teneva in mano. Mi fissava dritto negli occhi con quello sguardo così profondo che mi sentii trafiggere.
- Devo. Non hai idea invece di cosa vorrei adesso… - distolsi lo sguardo dai suoi occhi, le accarezzai il volto con due dita facendo scivolare il dorso della mano sulla sua guancia, passando vicino alle labbra. - Ti amo Ziva. È l’unica cosa che non è mai cambiata e non cambierà mai. 

- Cosa ti è successo Tony? Almeno questo me lo devi, una spiegazione. - Mi supplicò. Volevo tremendamente rimanere lì, con lei anche se non potevo farlo. Però aveva ragione una spiegazione gliela dovevo. Ci sedemmo sul divano, cercando di mantenere le giuste distanze e le raccontai tutto. Degli uomini interamente vestiti di nero con accento straniero, il luogo dove ero tenuto, quando mi hanno fatto vedere i video di lei e Nathan. Ziva ascoltava attenta e pensierosa.
- Non ho mai sentito niente di questo tipo. - Mi disse mentre si torturava le mani
- Pensavi ci fosse dietro il Mossad? - Le chiesi stupito
- Sì, ho pensato anche questo. Ma le modalità, il luogo, non sono riconducibili a nessun gruppo terroristico che ho mai sentito. Sembra più qualcosa di paramilitare. - Continuò
- Già, l’ho pensato anche io. Però quando mi hanno fatto vedere le vostre immagini a Tel Aviv…
- Sai cosa vuol dire questo Tony? Che mi stavano seguendo. Nonostante la protezione del Mossad loro sapevano dove ero. Non riesco a capire cosa ci sia dietro… - Sentivo la sua inquietudine nelle parole e nel tono concitato. Le presi una mano, facendo smettere quella lunga tortura alla quale la stava sottoponendo.
- Ziva, stai tranquilla adesso. - Provai a rassicurarla
- Non ho paura per me Tony. Per Nathan e… - si portò l’altra mano sul ventre - per lei… Se dovesse succedermi adesso qualcosa, non me lo perdonerei mai e non lo faresti nemmeno tu.
Poggiai l’altra mano sulla sua e sentii in quel momento i movimenti di Sarah nella sua pancia. Sorrisi a Ziva, imbambolato da quella sensazione che non mi aspettavo, mentre per lei doveva essere del tutto naturale. Lei invertì la posizione delle nostre mani, per farmi sentire meglio e mi avvicinai a lei. Chiusi gli occhi per assaporare quel momento in modo diverso. Pensai che era così che doveva essere, che quella era la giusta conclusione di ogni serata. Non riuscii nè a rilassarmi nè a sentire Sarah come avrei voluto, ero solo arrabbiato e Ziva doveva aver avvertito il mio nervosismo.
- Cosa c’è Tony? - Mi chiese preoccupata
- Non volevo che le cose andassero così. Volevo qualcosa di diverso. Per me, per te, per noi. Per noi…
- Esiste sempre un noi?
Le presi il volto con entrambe le mani, accarezzandole gli zigomi con i pollici. Era più morbida nei lineamenti e sembrava esserlo anche nell’atteggiamento, quasi impaurita, delle situazione e del nostro futuro. Sarei dovuto andare via da lì, sarebbe stato più giusto, sarebbe forse stato meglio. Invece mi avvicinai di più a lei, appoggiai la fronte sulla sua, le punte dei nostri nasi si sfiorarono. Sentivo il suo respiro e lei sentiva il mio. Le labbra si toccarono appena, timorose, come nemmeno il primo bacio di un adolescente poteva essere. La sentivo immobile e temendo la sua reazione provai ad allontanarmi, ma sentii la sua mano dietro la mia nuca che mi teneva fermo. Non c’era motivo di indugiare oltre ed le labbra che si accarezzavano si schiusero in un bacio tenero e sospirato che diventò poi sempre più profondo ed intenso.
- Era questo quello che volevo - le sussurrai sulla sua bocca e lei sorrise con quel sorriso che mi faceva perdere il senso di ciò che era giusto e sbagliato. - Ora però devo proprio andare…
Era la terza volta che ci provavo, ma fu quella definitiva. Mi guardò come un bimbo può guardare un’onda che ha appena distrutto tutti i castelli di sabbia appena costruiti.
- Devo risolvere questa situazione, altrimenti sarà stato tutto inutile ed ho paura di aver già compromesso troppo.
Mi accompagnò alla porta e ci scambiammo un altro bacio.
- Ti amo Ziva. Qualunque cosa accada, qualunque cosa io debba fare, è solo perché ti amo.
Non mi rispose, chiuse la porta dopo aver annuito con un sorriso tirato. Scesi le scale di corsa e fermai il primo taxi per tornare nel luogo dove dormivo, lontano da casa.

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Capitolo 20
*** Crash! Boom! Bang! ***


… I still feel the heat 
Slowly fallin' from the sky 
And the taste of the kissing, 
shattered by rain  
Comin' tumblin' from behind 
And the wild holy war …

 

Una catena di errori. Non avrei potuta descriverla in nessun altro modo. Era una catena di errori quella che mi stava legando sempre più lontano da tutto. Errori miei, errori di chi mi aveva ordinato di distruggere la mia vita ed errori di non sapevo chi. 

Proteggere Ziva e la mia famiglia assomigliava sempre più a qualcosa che sembrava la stesse distruggendo o almeno distruggeva me. Ogni volta che mi avvicinavo e poi dovevo riandarmene, ogni volta che ero troppo debole per resistere e ricadevo tra le sue braccia, sulle sue labbra. Ogni volta c’era un pezzo di me che rimaneva lì. Mi stavo perdendo tutto quello che non avrei voluto perdermi. Perché quella sera dovevo essere lì, dovevo stare con mia moglie, nel nostro letto, stringerla, baciarla, sentire mia figlia scalciare e doveva essere solo un’emozionante consuetudine. Non c’era niente di tutto questo ed ero così arrabbiato con il mondo e con me stesso che non ero nemmeno riuscito a godermi quel momento che mi ero concesso per sembrare di essere quello che facevo finta di non essere: un marito, un padre. Le avevo detto che l’amavo ancora, certo. Come avrei potuto dirle altro? Come avrei potuto non darle anche quella piccola certezza di noi? Quando mi aveva chiesto se esisteva sempre un noi sarei voluto morire. Ecco cosa avevo creato, cosa mi avevano fatto creare. Mia moglie che non sapeva se eravamo più qualcosa, se mi avesse picchiato mi avrebbe fatto meno male.

- Signore, siamo arrivati. 

Il tassista mi aveva richiamato. Eravamo fermi già da un po’, il tassametro girava e lui aveva fatto finta di nulla, almeno fino a quel momento. Pagai ed uscii. Avrei voluto dirgli mi riporti indietro, mi riporti a casa, dalla mia famiglia, dalla mia vita ed invece salii le scale per quell’appartamento che odiavo. 

 

 

Tony era uscito e si era portato via l’illusione della nostra famiglia. Nathan sembrò sentire la sua mancanza, perché non appena chiuse la porta lo chiamò a gran voce, come se nel sonno avesse percepito la sua lontananza, come se mancasse veramente qualcosa senza di lui che non era solo un’idea immateriale, ma qualcosa di tangibile. Fu deluso nel vedermi, come se avesse capito che lui non c’era più.

- Papà? - Mi chiese speranzoso, attendendo magari che gli dicessi che era in bagno o impegnato.

- È dovuto andare a lavoro. Vuoi venire con me, Nathan?

Annuì con vigore mentre si stropicciava gli occhi assonati. Prenderlo in braccio diventava sempre più faticoso, ma tutto passava in secondo piano, quando le sue braccia si stringevano intorno al mio collo in quel suo modo silenzioso di richiedere affetto. Alcune volte pensavo che fosse molto più grande per tutto quello che aveva passato e come aveva reagito, ma quando si stringeva così, solo bisognoso di un abbraccio e di essere protetto e rassicurato, tornava ad essere quel fagottino troppo piccolo che avevo paura anche a prendere in braccio.

Lo portai in camera e lo misi nel mio letto e lui tutto solo tra i cuscini spariva nel bianco delle lenzuola. Mi spogliai e mi misi sotto le coperte vicino a lui e appena provai a rilassarmi Sarah decise che era ora di far sentire la sua presenza. Massaggiai la pancia allo stesso modo come avevo sempre fatto con Nathan, ma Sarah sembrava molto più intraprendente di suo fratello e non faceva molto effetto. Sentii Nathan agitarsi e lo avvicinai a me, accarezzandogli la schiena delicatamente: si calmò quasi subito, amava il contatto fisico e quando era triste o preoccupato sembrava averne sempre più bisogno. Per quanto le mie notti potevano essere difficili avevo sempre lui vicino e lei dentro di me e non ero sola. Non riuscivo a non pensare a Tony che invece non aveva nessuno da abbracciare o che lo abbracciasse. Ed avrei tanto voluto farlo io.

 

 

 

I giorni si ripetevano con una dilaniante ritualità. Pregavo che ci fosse qualche caso importante, di quelli che ti tenevano la mente impegnata tanto da non ricordarti nemmeno di mangiare, invece nulla. Sembrava che il mondo si fosse messo d’accordo per rimanere immobile e farmi impazzire. Così le giornate trascorrevano immerso in quella burocrazia che già odiavo normalmente, ora ancora di più, fatte di momenti in cui ci incrociavamo con Ziva nei corridoi e tutto si limitava alle solite domande di rito: come stai, come sta la bambina, come sta Nathan. Quei discorsi da vecchi parenti antipatici, insomma.

Solo con Nathan cercavo di mantenere i contatti più frequenti possibili, così quasi ogni sera ci vedevamo quando usciva dall’asilo. Alcuni giorni lo avevo portato fuori, quando Ziva aveva delle visite o era affaticata, ci eravamo ritagliati dei pomeriggi tutti nostri e vedevo che stava riuscendo a rientrare in quel nuovo concetto di normalità che avevamo fatto per lui. Ero anche tornato a cena a casa, un paio di volte ed era sempre finita nello stesso modo, con lo straziante rituale di doverci salutare quando era troppo tardi per rimanere e troppo rischioso stare lì oltre, quando le labbra faticavano a staccarsi e le mie braccia volevano rimanere strette su di lei, e le sue su di me.

 

Quella mattina stavo giocando seduto alla mia scrivania appallottolando fogli di carta da buttare e cercando di fare centro nel cestino di McGee che ogni volta che qualche pallina di carta rimbalzava fuori mi guardava male e si chinava lui a raccoglierla per buttarla. Rispondevo solo alzando le spalle preoccupandomi di tirare quella dopo.

- È in corso una rapina alla Capitol Bank ad Arlington. - La voce fin troppo seria e imperativa di Gibbs tuonò nella stanza ma il suo annuncio ci lasciò tutti stupefatti. Io, Tim ed Ellie ci guardammo perplessi e fui io a farmi portavoce dei pensieri di tutti.

- Da quando in qua ci occupiamo di rapine in banca, Gibbs? - Chiesi lanciando una nuova pallina a McGee beccandomi come risposta prima un’occhiata ferale che mi fece buttare tutti i fogli nel mio cestino e poi quelle parole che squarciarono la giornata.

- Da quando uno degli ostaggi è tua moglie. - Disse senza possibilità di replica.

- Cosa? Come fate a saperlo? - Balbettai scattando in piedi.

- Perchè era lì per interrogare il direttore della banca - Disse Vance scendendo le scale del suo ufficio - era un caso a cui stava lavorando.

- Ziva è incinta Vance! Per quale motivo l’hai mandata fuori? - Sbattei entrambi i pugni sulla scrivania facendo volare i pochi rimasti fogli a terra, indicando la porta ripetutamente mentre lanciavo le mie accuse, fregandomene che quello era il mio capo.

- Tony devi stare calmo. Una squadra di negoziatori è già sul posto ed anche la squadra di Ziva è lì. - Disse Vance tranquillo.

- Calmo? Come faccio a stare calmo Leon? Me lo dici tu come posso essere calmo? Vado anche io. - Dissi guardando tutti e prendendo il mio zaino

- Andiamo tutti - Disse Gibbs perentorio, facendo cenno agli altri di prepararsi.

 

La squadra dei negoziatori era su un camioncino vicino all’esterno, salii subito chiedendo spiegazioni e scontrandomi con il capo che voleva tenermi fuori. Le telecamere interne erano state messe fuori uso. Solo una sul retro era arriva ed una di emergenza dal quale c’era solo una visione parziale della sala blindata. Avevano ruotato una delle telecamere esterne, nella speranza di riuscire ad intravedere qualcosa dentro, ma era quasi impossibile. Solo con il microfono direzionale si riuscivano a sentire ogni tanto alcuni spari e urla. Il piccolo commando non aveva alcuna intenzione di collaborare né di negoziare.

- Non è una rapina. È terrorismo. - Disse il capo dell’unità togliendosi le cuffie - Ogni tentativo è inutile. Non resta che la SWATT e la speranza di salvare qualcuno.

- Salvare qualcuno? - Gli urlai - C’è mia moglie lì dentro!

- Sì, con altre 40 persone circa, tra dipendenti e clienti. - Rispose lui secco. Non me ne frega nulla in quel momento delle altre quaranta persone circa.

 

Si sentì una raffica di spari, urla in arabo e poi un boato fece tremare i vetri del camioncino dove stavamo seguendo le operazioni. Le telecamere smisero immediatamente di trasmettere. Uscii correndo andando verso l’ingresso della banca. I vetri non c’erano più, dentro c’era una coltre di fumo che rendeva difficile respirare e vedere qualsiasi cosa. Il fumo e i detriti erano così fitti che si faceva fatica a vedere.

- Signore, deve uscire, ci pensiamo noi - allontanai in malo modo uno dei vigili del fuoco che si erano avvicinati e continuai ad avanzare verso l’interno tra i detriti dei mobili della banca. Si sentivano molti lamenti di persone ferite, urlai più volte il nome di Ziva senza ottenere risposta. Purtroppo mi imbattevo anche in molti corpi e per ognuno, anche se mi rendevo conto di quanto fosse crudele dirlo, era un sospiro di sollievo quando mi accorgevo che non era lei. Più andavo dentro e meno vedevo, c’era solo la luce delle torce dei vigili a squarciare il buio e la polvere. Continuai a chiamarla con tutta l’aria che avevo nei polmoni, e tossii riprendendo fiato, mentre ancora qualche piccola esplosione causata dagli apparecchi elettronici presenti squarciava il silenzio di lamenti. 

Quando varcai la porta blindata che divideva la zona al pubblico della banca con l’area riservata, sentii una voce flebile chiamarmi e dietro un grande tavolo di marmo ribaltato la vidi. Saltai al di là per raggiungerla era accovacciata e si teneva l’addome, le presi le mani senza darle il tempo di parlare e fortunatamente non era ferita, almeno da quanto potevo vedere. Spostai il tavolo, chiamai a gran voce i paramedici e mi inginocchiai vicino a lei. Le presi il volto tra le mani, cercando di toglierle più sporcizia possibile dagli occhi e dal viso. 

- Ziva… come stai?

- Tony… io… - respirava a fatica 

- No, no non ti sforzare, non mi dire nulla. 

- La bambina Tony… 

- È tutto ok… Tranquilla… - non lo sapevo, ma non potevo dirle altro. Non mi interessava di nulla, di quello che era successo tra noi, dei nostri rapporti, la presi tra le mie braccia e la tenni sul mio petto fino a quando non arrivarono a prenderla con una barella.

 

L’accompagnarono nell’ospedale più vicino per accertamenti ed andai con lei. 

Il corridoio del pronto soccorso dove mi fecero aspettare era grigio e puzzava di medicina e dolore. Odiavo gli ospedali, odiavo stare fuori da una porta ed aspettare sue notizie. Odiavo e ripensavo a quando ero stato di nuovo lì e a quello che mi avevano detto e oddio no, non poteva ripetersi tutto. Non ancora. Camminavo nervosamente avanti e indietro fino a quando un’infermiera mi venne a chiamare.

- Può andare da sua moglie. - Mi disse e mi indicò la porta dietro alla quale c’era lei.

Mia moglie. Sembrava che lo fosse solo per le cose pratiche e legali. Ziva era seduta su un lettino e si stava sistemando. Andai davanti a lei, tutta quella naturalezza di gesti che avevo avuto nell’immediato era già sparita. Teneva la testa bassa ed in quel momento ebbi paura di cosa potesse dirmi.

- Cosa ti hanno detto? - Le chiesi preoccupato.

- La bambina sta bene. - Disse provando a mettersi a fatica la giacca.

- Lascia, faccio io. - Gliela presi dalle mani e la aiutai a indossarla. - Tu come stai?

- Solo qualche escoriazione. 

- E quel segno sullo zigomo? - Le dissi alzandole il volto. Aveva gli occhi lucidi ed il viso ancora sporco, tranne nell’area dove le avevano posizionato degli steril strip per chiudere la ferita.

- Differenze di vedute con uno dei rapinatori. - Provò ad abbozzare un sorriso.

- Ziva… - La mia voce era un misto di preoccupazione e rimprovero. Avrei voluto dirle molte cose, non le dissi nulla. - … Ti accompagno a casa.

- Grazie. - Era arrendevole, o forse solo stanca e preoccupata.

 

- Devo rimanere a riposo. - Mi disse in auto interrompendo il silenzio che c’era tra noi da quando eravamo usciti dall’ospedale.

- Che vuol dire? - Le chiesi preoccupato

- Non devo fare sforzi e rimanere il più possibile a letto o comunque a riposo per un po’ di giorni, poi devo fare una nuova visita di controllo e vedremo come procede la gravidanza. Visto che Nathan è nato prima del termine, a seguito del trauma potrebbe esserci il rischio di un parto prematuro.

- Ok… - dissi senza staccare gli occhi dalla strada per non tradire l’emozione.

- Solo ok Tony? - Mi chiese stupita della mia reazione.

- Cosa altro Ziva?

- No, nulla…

 

La aiutai ad andare a casa, accompagnandola fino alla porta di quello che era il nostro appartamento.

- Vado a prendere Nathan e te lo porto dopo cena, così non ti devi preoccupare di lui e ti puoi riposare. Ci vediamo dopo. - Fui sbrigativo. Più di quanto volessi essere, più di quanto dovevo essere. Volevo rimanere distaccato per non crollare.

- Tony aspetta. - Mi trattenne per un braccio facendo una lieve pressione per tirarmi dentro. - Ti devo parlare.

Entrai ed insistetti perchè si andasse subito a mettere a letto, poteva parlarmi da sdraiata, non era un problema. La vidi sdraiarsi indolenzita, tenendosi la pancia, faticando più di quanto volesse far vedere. Volevo aiutarla, avrei voluto farlo ma rimasi a distanza intimidito da quella situazione che mi sembrava più grande di me e mi sentivo inadeguato.

- Oggi potevo morire, veramente. Potevamo morire, io e lei. Sono scappata da Israele per evitare tutto questo e lo ritrovo qui.

- Non sei morta Ziva, nè tu nè lei. Non ci pensare. - Stavo per uscire quando la sua voce mi trattenne

- Sei arrabbiato Tony? Per questo sei così freddo?

- No. Non è colpa tua. - Evitai di guardarla.

- E allora cosa c’è?

Mi voltai e i nostri sguardi si legarono. Lei aveva paura ed era così strano vederla così, ma era la stessa paura che avevo io. Mi avvicinai a lei, sedendomi nel bordo del letto.

- Dio Ziva! C’è che ti amo, lo capisci? Ti amo ed ho avuto paura di averti perso!

Portai istintivamente una mano sul suo ventre. Tremavo e tremava lei quando mise la sua sulla mia. Mi portai l’altra mano sul volto ad asciugarmi le lacrime, coprendomi gli occhi e poi passandola tra i capelli.

- Devo andare ora. - Sfilai la mano da sotto la sua e sentii in quel momento Sarah muoversi e scalciare. Ziva fece una smorfia di dolore ma mi rassicurò.

- Vai. Non ti preoccupare. Vai da Nathan.

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